Wilbur Smith
ORIZZONTE Blue Horizon - © 2003
Questo libro è dedicato a mia moglie, Mokhiniso. I nostri primi tre anni ...
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Wilbur Smith
ORIZZONTE Blue Horizon - © 2003
Questo libro è dedicato a mia moglie, Mokhiniso. I nostri primi tre anni insieme sono stati un incanto. Non vedo l'ora di vivere i prossimi trenta. FERMI sulla battigia, i tre guardavano la luna, che stendeva sulle acque scure un sentiero di riflessi baluginanti e iridescenti. «Mancano appena due giorni al plenilunio...» disse Jim Courteney in tono sicuro. «E gli steenbras rossi saranno famelici come leoni», aggiunse, riferendosi ai grandi pesci di profondità che appartenevano alla famiglia dei dentici. Spumeggiando, un'onda risalì la spiaggia fino a lambire le sue caviglie. «Spingiamola in acqua, invece di star qui a chiacchierare», suggerì il cugino, Mansur Courteney, coi capelli che splendevano al chiaro di luna come rame lustro e un sorriso altrettanto luminoso. Diede di gomito al giovane nero che gli stava vicino, vestito solo di un perizoma bianco. «Avanti, Zama.» Così i tre si chinarono per spingere la piccola imbarcazione, che scivolò in avanti quasi con riluttanza prima di arenarsi nella sabbia umida. «Aspettate la prossima onda grande», ordinò Jim, e tutti si concentrarono sullo sforzo da compiere. «Eccola che arriva!» Il cavallone s'inarcò, avanzando veloce verso di loro e crescendo ancora in altezza. Raggiunta la sommità, esplose in una cascata di schiuma, sollevando la prua della lancia. La sua potenza li fece vacillare, costringendoli ad aggrapparsi alla frisata, immersi nell'acqua fino alla vita. «Tutti insieme, adesso!» gridò, e i tre unirono le forze, facendo leva sulla barca con tutto il loro peso. «Correte con la barca!» Lo scafo si liberò, cavalcando le acque, e i giovani sfruttarono il riflusso dell'onda per spingerla verso il largo, finché l'acqua non arrivò all'altezza delle spalle. «Ai remi!» riuscì a gridare Jim, tossendo e sputando, mentre l'onda successiva lo sommergeva. Slanciandosi verso l'alto e aggrappandosi alla fiancata della barca, riuscirono a issarsi a bordo, grondando acqua e ridendo di eccitazione, poi afferrarono i lunghi remi disposti all'interno per infilarli negli scalmi. Wilbur Smith
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«Forza, allontaniamoci!» I remi affondarono nell'acqua e, descrivendo un arco, si risollevarono, sprizzando gocce d'argento al chiaro di luna e lasciando minuscoli vortici luminosi sulla superficie del mare. La lancia danzava sulla linea turbolenta dei frangenti, e i rematori adottarono una cadenza disinvolta, frutto di un lungo esercizio. «Da che parte si va?» chiese Mansur, rivolgendosi istintivamente a Jim per conoscere la sua decisione. Era sempre stato lui il capo. «Verso il Calderone», rispose Jim con sicurezza. «Lo immaginavo», esclamò Mansur, ridendo. «Ce l'hai ancora con Big Julie, eh?» Zama sputò fuori bordo senza perdere la cadenza della remata. «Fa' attenzione, Somoya. È Big Julie che ce l'ha ancora con te», ribatté, nel dialetto del popolo lozi, la sua lingua madre. Somoya significava «vento selvaggio», ed era il nome che Jim aveva ricevuto da bambino a causa del suo temperamento indocile. Jim si rannuvolò, ricordando l'episodio al quale alludevano i compagni. Nessuno di loro aveva mai visto il pesce soprannominato Big Julie; sapevano però che si trattava di un esemplare femmina - dato che i maschi non raggiungevano mai quella stazza - e avevano tutti sentito la forza che si ripercuoteva attraverso la lenza, tesa al punto che la sagola sprizzava acqua di mare per la torsione e fumava, scorrendo sul capo di banda così veloce da incidere un solco profondo nel legno duro e far sanguinare le mani lacerate. «Nel 1715, mio padre era a bordo della vecchia Maid of Oman quando si arenò a Danger Point», intervenne Mansur in arabo, la lingua della madre. «L'ufficiale in seconda tentò di raggiungere la riva a nuoto per portare una cima oltre la risacca. Quel grosso steenbras rosso emerse sotto di lui proprio quand'era a metà strada. L'acqua era così limpida che lo videro salire dalla profondità di tre braccia. Quella bestiaccia azzannò la gamba dell'uomo, sotto il ginocchio, e la divorò in un sol boccone, come fa un cane con un'ala di pollo. Lui urlava e si dimenava nell'acqua, rossa del suo sangue e spumeggiante, cercando di spaventarlo, ma quello girò in cerchio sotto di lui e gli staccò anche l'altra gamba, poi lo risucchiò sott'acqua e lo trascinò sul fondo. Nessuno lo ha più visto.» «Racconti questa storia ogni volta che voglio andare al Calderone», brontolò Jim. «E ogni volta ti viene la cacarella dalla paura», ribatté Zama in inglese. I Wilbur Smith
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tre avevano trascorso tanto tempo insieme che ciascuno parlava correntemente la lingua degli altri due - inglese, arabo e lozi -, passando indifferentemente dall'una all'altra. Jim scoppiò a ridere, più per dare sfogo alle sue emozioni che per vera allegria. «E dimmi, di grazia, dove hai imparato un'espressione così disgustosa, pagano che non sei altro?» «Dal tuo riverito padre», ribatté Zama con un sogghigno e, per una volta, Jim rimase senza parole. Cercando di darsi un contegno, scrutò l'orizzonte che cominciava a schiarirsi. «Tra due ore farà giorno. Voglio trovarmi oltre il Calderone prima dell'alba. È il momento ideale per fare un altro tentativo con Julie.» Continuarono a fare forza sui remi per puntare verso il cuore della baia, cavalcando le onde lunghe che arrivavano al Capo come alla spicciolata, dopo il lungo viaggio compiuto partendo dall'Atlantico meridionale. Con quel vento di prua non potevano issare l'unica vela della barca. Alle loro spalle sorgeva, maestosa al chiaro di luna, la montagna della Tavola, con la sua cima piatta e imponente. Ai suoi piedi si scorgeva un agglomerato scuro di navi all'ancora sottocosta, per lo più coi pennoni ammainati. Quell'ancoraggio era il caravanserraglio dei Mari del Sud. Le navi mercantili e le navi da guerra della VOC - la Verenigde Oostindische Compagnie, cioè la Compagnia Olandese delle Indie Orientali - e di un'altra mezza dozzina di nazioni utilizzavano il capo di Buona Speranza per rifornirsi di viveri e rimettere in sesto lo scafo dopo i lunghi passaggi oceanici. A quell'ora antelucana erano ben poche le luci a terra; si trattava soprattutto di lanterne fioche sulle mura del castello e sulle finestre delle taverne sulla spiaggia, dove gli equipaggi scesi dalle navi alla fonda stavano ancora gozzovigliando. Gli occhi di Jim corsero naturalmente verso un puntino luminoso, separato dagli altri da oltre un miglio di oscurità. Era l'edificio che serviva da magazzino e da ufficio alla Courteney Brothers Trading Company, la società commerciale dei fratelli Courteney, e lui sapeva che quella luce corrispondeva alla finestra dello studio paterno, al secondo piano del vasto magazzino. È ancora impegnato a contar monete, pensò Jim, ridendo tra sé. Tom Courteney, il padre, era uno dei mercanti più facoltosi del capo di Buona Speranza. «Ecco che si avvicina l'isola», mormorò Mansur, senza perdere il ritmo, Wilbur Smith
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e Jim tornò a concentrarsi sul compito che li attendeva, regolando la cima del timone, avvolta intorno all'alluce nudo del piede destro. Accostarono leggermente a sinistra, dirigendosi verso la punta settentrionale di Robben Island. Robben era il nome olandese delle foche che vivevano numerose su quell'affioramento roccioso. L'aria notturna portava l'odore degli animali; l'intensità del puzzo dei loro escrementi, derivati dal pesce, era quasi soffocante. Quando furono più vicini, Jim salì in piedi sul banco dei rematori per orientarsi rispetto alla riva, controllando i punti di riferimento a terra che gli avrebbero consentito di dirigere con precisione la barca sulla profonda fossa oceanica che avevano battezzato Calderone. D'un tratto lanciò un grido di allarme, ricadendo a sedere. «Ma guarda quel gigante! Finirà per speronarci, se prosegue così. Forza, dannazione, remate!» Un veliero imponente, con una grande massa di tela, aveva doppiato con rapidità la punta nord dell'isola, piombando in silenzio su di loro. Sospinto dal vento di nord-ovest, puntava verso la barchetta a una velocità spaventosa. «Dannato olandese testa di formaggio!» borbottò Jim, chinandosi sul remo lungo. «Fetentissimo marinaio d'acqua dolce, figlio di una baldracca di taverna! A bordo non c'è neanche una luce.» «E adesso dimmi tu, di grazia: dove hai imparato un'espressione così disgustosa?» grugnì Mansur tra un colpo di remo e l'altro, impegnandosi allo spasimo. «Sei un buffone al pari di quello stupido olandese», ribatté Jim, cupo. La nave troneggiava sopra di loro, sollevando un baffo di prua che scintillava come argento al chiaro di luna. «Lancia l'allarme!» Consapevole di quel pericolo incombente, Mansur assunse all'improvviso un piglio autoritario. «Non sprecare fiato», ribatté Zama. «Dormono della grossa, non ti sentiranno. Rema, piuttosto!» I tre si chinarono sui remi e la piccola imbarcazione sembrò volare sulle onde, ma la grossa nave proseguiva la corsa a velocità ancora maggiore. «Dobbiamo gettarci in acqua?» chiese Mansur, turbato. «Ma guarda un po'!» grugnì Jim, ignorando la domanda. «Siamo proprio sul Calderone! Ecco l'occasione per scoprire se la storia di tuo padre è vera. Quale gamba vuoi che Big Julie ti stacchi per prima?» Mansur non rispose. Remarono in un silenzio teso, mentre il sudore colava sui volti contratti, scintillando nella notte fresca. Erano lanciati Wilbur Smith
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proprio verso il ridosso delle rocce, dove il grande veliero non avrebbe potuto raggiungerli, ma ormai le grandi vele torreggiavano su di loro, cancellando le stelle, e si udivano il vento che sibilava attraverso la tela, lo scricchiolio del fasciame, il gorgoglio musicale del baffo di prua... I tre ragazzi, ammutoliti, si sforzavano di remare sempre più in fretta, lanciando occhiate di terrore alla massa imponente della nave. «Oh, buon Gesù, risparmiaci!» bisbigliò Jim. «In nome di Allah!» sussurrò Mansur. «Per tutti i padri della mia tribù!» Ciascuno dei tre fece appello alle proprie divinità. Zama non perdeva un colpo, ma i suoi occhi scintillavano, bianchi nel viso scuro, mentre osservava la morte piombare su di loro. L'onda di pressione che precedeva la prua della nave li sollevò, e all'improvviso si ritrovarono a scivolare su quel piano inclinato, scagliati all'indietro, precipitando con la poppa in avanti lungo il fianco dell'onda. Lo specchio di poppa finì sott'acqua e l'acqua gelida si riversò all'interno dello scafo, inondandolo. I tre giovani furono scaraventati fuori bordo, proprio mentre la carena massiccia investiva l'imbarcazione. In maniera confusa, Jim si rese conto che si era trattato soltanto di un colpo di striscio: la barca venne scaraventata lateralmente, ma non si udì lo schianto del fasciame squarciato. Scagliato verso il fondo, Jim tentò di spingersi ancora più in basso, consapevole che il contatto col fondo della carena gli sarebbe stato fatale: dopo il lungo viaggio oceanico, infatti, quel fondo era di sicuro incrostato da uno spesso strato di cirripedi e il loro guscio, tagliente come un rasoio, gli avrebbe staccato la carne dalle ossa. Tese i muscoli, in previsione di quel dolore straziante... ma non sentì nulla. I polmoni gli bruciavano, il petto sembrava chiuso in una morsa, eppure lottò per resistere sinché non fu sicuro che la nave era passata oltre; quindi, agitando freneticamente gambe e braccia, si diresse verso la superficie. Il contorno dorato e tremolante della luna, che si scorgeva attraverso l'acqua limpida, gli fece da guida: lui nuotò in quella direzione con tutte le sue forze e la sua volontà. Infine, con un ansito, riemerse e rotolò sulla schiena, tossendo, mentre aspirava con avidità l'aria balsamica che lo riportava alla vita. «Mansur! Zama!» gracchiò, nonostante la sofferenza che quelle parole causavano ai polmoni doloranti. «Dove siete? Forza, fatevi sentire, dannazione!» «Qui!» Wilbur Smith
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Era la voce di Mansur, e Jim girò lo sguardo in quella direzione: il cugino era aggrappato alla barca sommersa, coi lunghi riccioli rossi incollati al viso, come il manto di una foca. In quel preciso istante, un'altra testa emerse in superficie in mezzo a loro. «Zama!» Lo raggiunse con due bracciate, alzandogli la testa dall'acqua. L'altro tossì, sollevando un getto di acqua di mare e vomito. Poi tentò di gettare le braccia al collo di Jim, ma lui si divincolò, immergendosi di nuovo finché l'amico non allentò la presa; soltanto allora lo trascinò verso la fiancata della barca che rollava. «Ecco, aggrappati a questa», disse Jim, guidando la mano di Zama verso la frisata. Rimasero tutti e tre aggrappati alla lancia, cercando di riprendere fiato. Jim fu il primo a riaversi quanto bastava per andare in collera. «Bastardo, figlio di puttana!» ansimò, seguendo con gli occhi la maestosa nave che si allontanava. «Non sa neppure che ha rischiato di ucciderci.» «E poi puzza peggio di quella colonia di foche.» Mansur aveva ancora la voce roca, e lo sforzo di parlare gli provocò un accesso di tosse. Annusando l'aria, Jim colse il tanfo che ancora appestava l'aria notturna. «Un dannato mercante di schiavi», ringhiò. «L'odore è inconfondibile.» «Può essere anche una nave di forzati», replicò Mansur. «Probabilmente trasporta prigionieri da Amsterdam a Batavia.» Osservarono la nave che modificava la rotta, con le vele che cambiavano forma al chiaro di luna, mentre virava di bordo per entrare nella baia e unirsi alle altre imbarcazioni già all'ancora. «Mi piacerebbe trovare il comandante in una di quelle bettole del porto», mormorò Jim con aria truce. «Non pensarci neppure!» gli consigliò Mansur. «Ti pianterebbe un coltello tra le costole o peggio. Aggottiamo la barca, piuttosto.» Restavano appena poche dita di bordo Ubero, per cui dovette scivolare a bordo scavalcando lo specchio di poppa. Cercando tentoni sotto il banco dei rematori, trovò il bugliolo di legno che vi era ancora legato. Per fortuna, prima di affrontare il varo rischioso attraverso la risacca, avevano fissato saldamente tutte le attrezzature. Il ragazzo cominciò ad aggottare, rovesciando fuori bordo un getto costante d'acqua. Quando lo scafo fu pieno solo a metà, Zama, ripresosi a sufficienza per salire a bordo, sostituì l'amico in quel compito. Jim allora afferrò i remi, poi controllò il resto dell'attrezzatura. Wilbur Smith
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«Tutto il necessario per la pesca c'è ancora.» Aprì l'imboccatura del sacco per guardare dentro. «Anche l'esca.» «Vogliamo andare avanti?» chiese Mansur, dubbioso. «Ma certo! Perché no, in nome del demonio?» «Be'...» Mansur era incerto. «Abbiamo rischiato di annegare.» «Ma non siamo annegati», gli fece notare Jim con slancio. «Zama ha vuotato la barca, e il Calderone è a meno di una lunghezza di cavo da qui. Big Julie aspetta la colazione. Andiamo a servirgliela!» Ripresero posto sui banchi, sistemando di nuovo i lunghi remi. «Quel testa di formaggio c'è costato un'ora di pesca», borbottò Jim, amareggiato. «Sarebbe potuto costarti molto di più, Somoya», esclamò Zama, ridendo. «Se non ci fossi stato io a tirarti fuori...» Jim prese un pesce dal sacco dell'esca e fece finta di lanciarglielo contro. Stavano rapidamente ritrovando l'entusiasmo e il cameratismo. «Controllate la remata, ormai ci stiamo avvicinando ai punti di riferimento», li avvertì Jim, e i tre cominciarono la delicata manovra necessaria per tenere in posizione la barca sulla verticale della fossa nel grande abisso sotto di loro. Il loro intento era gettare l'ancora sulla sporgenza rocciosa a sud del Calderone, lasciando poi che la corrente spingesse la barca verso il canyon sotterraneo. Ma la corrente vorticosa complicava alquanto le cose. Per ben due volte mancarono il bersaglio: con grande fatica e molte imprecazioni, furono dunque costretti a recuperare il masso da cinquanta libbre che serviva loro da ancora. L'alba cominciava già a occhieggiare, furtiva come una ladra, quando finalmente Jim scandagliò l'abisso con un piombino appeso a una lenza a diciotto capi senza l'esca, per controllare che fossero nella giusta posizione. Tendendo le braccia, misurò la lenza che scorreva fuori bordo. «Trentatré braccia!» esclamò nel sentire il piombino che urtava contro il fondo. «Quasi duecento piedi. Siamo proprio sopra la sala da pranzo di Big Julie.» Con un movimento ritmico, ritirò velocemente il piombino. «Mettete l'esca, subito!» Si scatenò una gara a chi raggiungeva per primo il sacco delle esche. Con un tuffo in avanti, Jim riuscì a sottrarre alle dita di Mansur l'esca più prelibata in assoluto, un muggine grigio lungo quanto il suo avambraccio. Lo aveva preso con la rete il giorno prima, nella laguna sotto il magazzino della Compagnia. «È troppo, per te», spiegò in tono paziente al cugino. «Per catturare Julie Wilbur Smith
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ci vuole un pescatore in gamba.» Infilò nelle orbiera tondo, liscio e aveva il giusto peso. Inoltre lui si era esercitato a lungo con quell'arma, arrivando ad abbattere un'oca in volo ben quattro volte su cinque. Tese i muscoli per prepararsi al lancio, facendo roteare la fionda sinché non prese a ronzare, poi la fece scattare e il ciottolo volò via. Centrò il maschio di foca nel mezzo del cranio nero e rotondo: si udì il rumore dell'osso che si spezzava. L'animale, fremendo in modo convulso, ricadde in acqua e andò alla deriva. «Almeno lui ha finito di rubare pesci», osservò Jim, riponendo la fionda nel sacchetto. «E gli altri avranno imparato una lezione di buone maniere.» Il resto del branco di foche si allontanò dalla barca. Jim riprese il remo, e ricominciarono la conversazione interrotta. Appena una settimana prima, Mansur era tornato da un viaggio d'affari: su una delle navi della Courteney Company, aveva raggiunto la costa orientale dell'Africa, spingendosi fino a Hormuz. Stava descrivendo loro le meraviglie che aveva visto e le straordinarie avventure che aveva vissuto col padre, comandante della Gift of Allah, il «dono di Allah». Il padre di Mansur, Dorian Courteney, era l'altro socio della Compagnia. Ancora bambino, era stato catturato dai pirati arabi e venduto a un principe di Oman, che lo aveva adottato e convertito all'Islam. Quindi Tom Courteney, il suo fratellastro, era cristiano, mentre Dorian era musulmano. Quando Tom, dopo una lunga ricerca, aveva liberato il fratello minore dagli arabi, i due avevano unito le forze, creando una società nata sotto i migliori auspici, proprio perché i fratelli avevano accesso a entrambi i mondi religiosi. Quell'impresa aveva prosperato: negli ultimi vent'anni, aveva avviato commerci con l'India, l'Arabia e l'Africa, vendendo poi in Europa le sue merci esotiche. Mansur parlava e Jim, osservandolo, si rendeva conto di quanto invidiasse la bellezza e il fascino del cugino. Era davvero figlio di suo padre, dal quale aveva ereditato la corporatura snella e i capelli d'oro rosso che gli scendevano folti sulla schiena. Jim invece aveva preso dal padre, largo e forte. Una volta, il padre di Zama, Aboli, li aveva paragonati a una gazzella e a un toro. «Su, coraggio, cugino!» esclamò Mansur, interrompendo il racconto. «Zama e io riempiremo la barca fino all'orlo prima che tu riesca a svegliarti. Cattura un pesce anche tu!» aggiunse infine, per provocarlo. «Ho sempre preferito la qualità alla quantità», ribatté Jim in tono offeso. Wilbur Smith
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«Ebbene, se non hai niente di meglio da fare, puoi parlarci del tuo viaggio nella terra degli ottentotti.» Mansur gettò a bordo un altro pesce lucente che ancora si dibatteva. Al ricordo dell'avventura, il volto semplice e schietto di Jim s'illuminò di piacere. Istintivamente, guardò oltre la baia, verso nord, in direzione delle montagne frastagliate che il sole mattutino stava dipingendo d'oro scintillante. «Abbiamo viaggiato per trentotto giorni», esordì, in tono orgoglioso. «Spingendoci al nord, oltre le montagne e il grande deserto. Ben oltre le frontiere di questa colonia, quelle frontiere che il governatore e il consiglio della VOC di Amsterdam hanno proibito a chiunque di attraversare. Ci siamo avventurati in terre nelle quali nessun bianco è stato prima di noi...» Non aveva l'eloquenza o l'incisività del cugino, ma il suo entusiasmo era contagioso e Mansur e Zama risero con lui, mentre descriveva le tribù che avevano incontrato e gli enormi branchi di animali sparsi sulle pianure. Ogni tanto si rivolgeva a Zama. «Quello che dico è tutto vero, no, Zama? Tu eri con me. Di' a Mansur che è vero.» E Zama annuì con aria compresa. «E vero. Lo giuro sulla tomba di mio padre. È tutto vero, fino all'ultima parola.» «Un giorno tornerò...» Jim lo promise a se stesso, prima che agli altri. «Anzi andrò ancora più lontano e supererò l'orizzonte, i confini di questa terra.» «E io verrò con te, Somoya!» esclamò Zama, guardandolo con fiducia e affetto. Poi rammentò suo padre che, ormai morente, disteso sul kaross, la coperta di pelli che usava per dormire, gli aveva parlato proprio di Jim. Quel gigante nero, che un tempo sembrava capace di sorreggere il cielo stesso, si era girato verso il figlio e gli aveva mormorato: «Jim Courteney è tutto suo padre... Aggrappati a lui come ho sempre fatto io con Tom Courteney. Non te ne pentirai mai, figliolo». «Io verrò con te», ripeté allora Zama. L'altro ammiccò. «Ma certo, brigante, nessun altro ti vorrebbe», esclamò, assestando a Zama una pacca sulla schiena così forte da farlo quasi cadere. Avrebbe detto di più, ma in quel momento la lenza arrotolata sotto il suo piede diede un guizzo, e lui lanciò un grido di trionfo. «Julie bussa alla porta. Avanti, Big Julie!» Lasciando cadere il remo, afferrò la lenza e la strinse, tenendola però lenta, pronto a filarla in acqua. Non ebbe neppure bisogno di parlare: gli altri due cominciarono subito a recuperare le loro lenze, ritirandole un tratto dopo l'altro con rapidità Wilbur Smith
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febbrile. Sapevano che era decisivo fornire a Jim un ampio specchio d'acqua libera, che soltanto così lui avrebbe potuto aver ragione di un pesce tanto grosso. «Avanti, bella!» sussurrò Jim al pesce, tenendo con delicatezza la lenza tra il pollice e l'indice. Non sentiva niente, soltanto la lieve pressione della corrente. «Avanti, mia cara! Papà ti vuole bene...» mormorò in tono implorante. Poi sentì una nuova pressione sulla lenza, un movimento delicato, quasi furtivo. Ogni nervo del suo corpo si tese come la corda di un arco. «È lì. È ancora lì.» La lenza si allentò di nuovo, diventando lasca. «Non lasciarmi, tesoruccio. Ti prego, non lasciarmi...» Jim si protese oltre la frisata, sollevando la lenza in modo che corresse direttamente dalle sue dita fino ai gorghi d'acqua verde. Gli altri due stavano a guardare, immobili, senza avere neanche il coraggio di tirare il fiato. Poi d'un tratto videro la mano destra di Jim attirata irresistibilmente verso il basso da un peso massiccio; i muscoli del dorso e delle braccia del giovane si tesero, come una vipera del deserto che si prepara a colpire. Eppure nessuno dei due parlò né si mosse. «Sì!» mormorò Jim, con la mano che reggeva la lenza ormai vicina alla superficie dell'acqua. «Adesso!» gridò poi, e si protese all'indietro con tutto il peso del corpo. «Sì! E poi sì! E ancora sì!» A ogni esclamazione, impartiva uno strappo all'indietro alla lenza, con un movimento oscillatorio delle braccia: a destra, a sinistra, quindi ancora a destra. Ma non ottenne risultati. «Non può essere un pesce», borbottò Mansur. «Nessun pesce può essere tanto forte. Devi aver agganciato il fondo.» Jim non replicò, impegnato com'era nel tentativo di far forza con tutto il suo peso, le ginocchia puntate contro la murata di legno per avere un punto d'appoggio migliore. Teneva i denti serrati, e il suo viso divenne livido, mentre gli occhi sembrarono sporgere dalle orbite. «Aiutatemi a ritirare la lenza», riuscì infine a mormorare; gli altri due si mossero, rapidi, per aiutarlo, ma, prima che arrivassero a poppa, Jim si sentì improvvisamente sollevare di peso e finì lungo disteso contro la fiancata della barca. La lenza gli scivolò tra le dita. Nell'aria si avvertì l'odore della pelle bruciata sul palmo: il sentore era simile a quello delle costolette di maiale arrostite sulla brace. Wilbur Smith
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Lanciò un grido di dolore, però resistette; con uno sforzo poderoso, riuscì ad appoggiare la lenza sul bordo della frisata, tentando di bloccarla in quel punto. Ma le nocche sfregarono contro il legno e presero a sanguinare. Allora, mentre teneva la lenza tesa contro la murata, si tolse di testa il berretto, per usarlo come guanto. Ormai tutti e tre urlavano come demoni dell'inferno. «Dammi una mano! Afferra la sagola!» «Lasciala correre, altrimenti l'amo si raddrizzerà.» «Prendi il bugliolo e gettaci sopra dell'acqua! La sagola sta per prendere fuoco.» Zama riuscì ad afferrare la lenza a due mani, ma neppure unendo le loro forze i giovani riuscirono a fermare la corsa del grande pesce. La lenza sibilava per la tensione, filando fuori bordo, e, attraverso la cima, sentivano pulsare la curva della grande coda. «Acqua, per amor del cielo! Bagnatela!» urlò Jim, e Mansur attinse dal mare un bugliolo d'acqua, che rovesciò sulle loro mani e sulla lenza sfrigolante. Si levò subito uno sbuffo di vapore. «Perdio, la lenza è quasi finita», gridò Jim, gettando un'occhiata al mastello di legno che la conteneva. «Fa' più in fretta che puoi, Mansur! Unisci a questo un altro tratto di lenza.» Mansur obbedì velocemente, con la destrezza per cui era ben noto, ma fece appena in tempo: proprio mentre serrava il nodo, la lenza gli sfuggì di mano e cominciò a scorrere tra le dita degli altri due, lacerando ancora la loro pelle, prima di finire fuori bordo e sprofondare negli abissi verdi. «Ferma!» gridò Jim, rivolgendosi al pesce in tono implorante. «Stai cercando di farci morire, Julie? Non vuoi fermarti, bellezza?» «Se n'è già andata metà della seconda lenza», li avvertì Mansur. «Lascia che ti dia il cambio, Jim. Il ponte è tutto coperto di sangue.» «No, no», replicò Jim, scrollando il capo con veemenza. «Sta rallentando. Il cuore è quasi scoppiato.» «Il tuo o il suo?» chiese Mansur. «Dovresti fare l'attore, cugino», ribatté l'altro, cupo. «Qui la tua arguzia è sprecata.» La lenza cominciò a rallentare, scorrendo tra le dita lacerate, poi si fermò del tutto. «Lascia stare il bugliolo e prendi la lenza», ordinò allora Jim. Mansur si mise alle spalle di Zama e, con quel peso in più, Jim riuscì a concedersi qualche istante di tregua per succhiarsi le dita ferite. «E Wilbur Smith
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questo sarebbe un divertimento?» si chiese in tono stupito. Poi la sua voce ridivenne seria. «Ora tocca a noi, Julie.» Mantenendo la pressione sulla lenza, i tre cambiarono in fretta la loro posizione, disponendosi schiena contro schiena, piegati in due, con la lenza che passava tra le loro gambe. «Uno, due e tre!» gridò Jim, dando il tempo. Issarono a bordo la sagola, spostando il peso del corpo per oscillare all'unisono. Il nodo che univa i due tratti di lenza risalì e Mansur - che faceva da assistente - la riavvolse nel mastello di legno. Per altre quattro volte il gigantesco pesce cercò di spiccare un balzo, e i tre furono costretti a lasciargli dell'altra lenza. Ma ogni volta la corsa era più breve, e infine lo costrinsero a voltare la testa e lo riportarono indietro, mentre continuava a dibattersi e a sussultare. Era però chiaro che le sue forze si stavano indebolendo. D'un tratto, Jim, in testa alla lenza, lanciò un grido di gioia. «Eccola! La vedo laggiù.» Il pesce descrisse un ampio cerchio al di sotto dello scafo e, quando si rovesciò, il fianco di un rosso bronzeo intercettò la luce del sole, lampeggiando come uno specchio. «Oh, buon Gesù, ma è bellissima!» sussurrò con rispetto. Poteva vedere l'enorme occhio dorato del pesce che lo fissava dal basso, attraverso l'acqua di smeraldo. La bocca dello steenbras si apriva e si chiudeva in modo spasmodico, con le branchie che si dilatavano pompando acqua, in cerca di ossigeno. Quelle mascelle erano abbastanza grandi da accogliere la testa e le spalle di un uomo adulto e per di più erano orlate da ranghi serrati di lunghi denti, spessi come il suo indice. «Ora ci credo, alla storia di zio Dorry», disse Jim, ansimando per lo sforzo. «Quei denti potrebbero amputare davvero la gamba di un uomo.» Finalmente, quasi due ore dopo che Jim era riuscito a infilare l'amo tra quelle mascelle, affiancarono il pesce alla barca e, tutti insieme, sollevarono dall'acqua la testa gigantesca. Non appena ci riuscirono, il pesce cominciò a dibattersi con rinnovata energia. Era lungo quanto un bambino di dieci anni e, al centro, la sua circonferenza era pari a quella di un pony Shedand. Big Julie continuò ad agitarsi e a flettersi, col muso che toccava le ampie curve della coda, prima da una parte e poi dall'altra, sollevando cortine d'acqua che si riversarono sulla barca in getti compatti. I tre ragazzi si ritrovarono zuppi, come se fossero sotto una cascata, ma resistettero a denti stretti, finché gli scatti frenetici non scemarono d'intensità. Fu allora che Jim gridò: «Tenetela forte! È pronta per il prete!» Wilbur Smith
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Afferrò il mezzo marinaio sotto lo specchio di poppa. L'estremità della mazza era appesantita dal piombo, ben bilanciata nella sua mano destra. Sollevando la testa del pesce, mise nel colpo tutto il peso del corpo. Big Julie fu colpita sulla cresta ossea che passava al di sopra degli occhi gialli e ardenti, e il suo corpo massiccio s'irrigidì, mentre i fianchi lucenti, di un rosso acceso, erano percorsi da un tremito. Infine la vita la abbandonò; galleggiò in superficie, col ventre bianco rivolto in alto e con le branchie aperte, quasi fossero un parasole. Fradici di sudore e acqua di mare, ansimando con violenza, cercando di medicare le mani insanguinate, i ragazzi si appoggiarono allo specchio di poppa per ammirare la meravigliosa creatura che avevano ucciso. Non c'erano parole per esprimere in modo adeguato la varietà di emozioni che stavano provando: un misto di trionfo e rimorso, di giubilo e malinconia. La passione suprema del cacciatore in quel momento raggiunse l'apice. «In nome del Profeta, questo è davvero un leviatano», mormorò Mansur, esprimendo i sentimenti di tutti. «Mi fa sentire così piccolo...» «Tra poco arriveranno gli squali», disse infine Jim, rompendo l'incantesimo. «Aiutatemi a issarlo a bordo.» Gli passarono una cima tra le branchie e, facendo forza tutti e tre, mentre la barca s'inclinava di lato, rischiando di capovolgersi, riuscirono a issarlo a bordo. Lo scafo era appena sufficiente a contenerlo, e non avevano più spazio per sedersi sui banchi; dovettero appollaiarsi sulla murata. Mentre il pesce scivolava sul legno, una delle squame si era staccata: aveva le dimensioni di un doblone d'oro ed era altrettanto luminosa. Mansur la raccolse e la girò per fare in modo che cogliesse la luce del sole, fissandola, affascinato. «Dobbiamo portare questo pesce a casa, a High Weald», disse Mansur. «Perché?» chiese Jim, brusco. «Per farlo vedere alla famiglia, a mio padre e al tuo.» «E così prima che faccia notte avrà perso il colore, le scaglie saranno opache e aride, e la carne comincerà a puzzare e a marcire.» Jim scosse la testa. «Voglio ricordarlo com'è adesso, in tutto il suo splendore.» «E allora che ne faremo?» «Lo venderemo alla nave della VOC.» «Una creatura così bella, venduta come un sacco di patate? Mi sembra un sacrilegio», protestò Mansur. «'Riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo'», citò Jim. «Lo dice la Genesi. Sono le parole stesse di Wilbur Smith
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Dio. Come può essere un sacrilegio?» «Il tuo Dio, non il mio», lo contraddisse Mansur. «È lo stesso Dio, tuo e mio. È solo che lo chiamiamo con nomi diversi.» «E anche il mio Dio», aggiunse Zama, sentendosi escluso. «Kulu Kulu, il più Grande dei Grandi.» Jim scoppiò a ridere, avvolgendosi una fascia di tela intorno alla mano ferita. «E allora sia così in nome di Kulu Kulu. Questo steenbras è il mezzo per salire a bordo della nave olandese. Lo userò come lettera di presentazione per il cambusiere. Non è soltanto questo pesce che voglio vendergli, ma tutta la produzione di High Weald.» Con la brezza che soffiava di poppa dal nord a dieci nodi, sospingendoli in avanti, poterono issare l'unica vela della barca, attraversando veloci la baia. In quel momento c'erano otto navi all'ancora, sotto la protezione dei cannoni del castello di prua. Quasi tutte si trovavano lì da settimane ed erano ancora ben provviste. Jim indicò l'ultima arrivata. «Quelli non metteranno piede a terra per mesi e mesi. Saranno affamati di viveri freschi, e probabilmente già tormentati dallo scorbuto.» Jim manovrò il timone per passare tra le altre navi all'ancora. «Dopo quello che sono quasi riusciti a farci, che ci fruttino almeno un buon profitto.» Tutti i Courteney erano mercanti fino al midollo, e persino per i più giovani di loro la parola «profitto» aveva un significato quasi religioso. Puntò verso la nave olandese. Era un veliero alto, con tre ponti, venti cannoni per lato, vele quadre, tre alberi, grande e solido, chiaramente una nave mercantile armata. Esponeva il pennello della VOC e la bandiera della Repubblica Olandese. Quando si avvicinarono, scorse i danni inflitti dalla tempesta allo scafo e all'alberatura. Era evidente che aveva alle spalle una navigazione difficile. Avvicinandosi ancora, Jim riuscì a leggere il nome della nave, impresso a poppa in lettere dorate ormai un po' sbiadite: Het Gelukkige Meeuw, «il gabbiano fortunato». Osservando la nave malconcia e riflettendo su come quel nome fosse a dir poco inadeguato, sorrise. Ma i suoi occhi verdi si ridussero a due fessure per la sorpresa e l'interesse. «Donne, perdio!» gridò, puntando il dito. «Donne a centinaia.» Tanto Mansur quanto Zama si alzarono in fretta, aggrappandosi all'albero per sbirciare, facendosi ombra agli occhi con la mano. «Hai ragione», esclamò Mansur. «Donne!» A parte le mogli dei liberi cittadini della colonia, le loro stolide figlie protette da agguerrite dame di compagnia e le sgualdrine delle taverne sul fronte del porto, al capo di Wilbur Smith
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Buona Speranza le donne erano una rarità. «Ma guardatele...» mormorò Jim, quasi con reverenza. «Guardate che splendore.» A proravia dell'albero di trinchetto, il ponte di coperta era affollato di figure femminili. «Come fai a sapere che sono belle?» chiese Mansur. «La nave è ancora troppo lontana. Probabilmente sono vecchie baldracche.» «No, Dio non potrebbe essere così crudele con noi», esclamò Jim, ridendo, eccitato. «Sono tutte angeli del paradiso, lo so!» Sul cassero di poppa c'era un gruppetto di ufficiali, e alcuni marinai erano già al lavoro per riparare il sartiame danneggiato e ripitturare lo scafo, ma i tre giovani avevano occhi soltanto per le figure femminili sul castello. Poi una zaffata del fetore che aleggiava intorno al veliero li raggiunse di nuovo. «Sono in ceppi!» esclamò Jim, inorridito. Giacché aveva la vista più acuta di tutti, si era accorto che le donne camminavano lentamente sul ponte in fila per una, col passo impacciato delle prigioniere in catene. «Forzate!» ammise Mansur. «I tuoi angeli del cielo sono forzate, più brutte del peccato.» Ormai erano abbastanza vicini da distinguere i lineamenti di alcune di quelle creature malridotte, con le trecce di capelli grigie e unte, le bocche sdentate, il pallore rugoso del viso, gli occhi infossati e, sulla maggior parte di quelle facce miserande, le chiazze e i lividi dello scorbuto. Fissavano dall'alto l'imbarcazione che si avvicinava. Avevano occhi spenti, senza vita, senza interesse o emozione. Persino gli istinti lascivi di Jim furono raffreddati da quello spettacolo. Quelli che aveva di fronte non erano più esseri umani, bensì animali percossi e maltrattati. I camicioni di ruvida tela erano consunti e luridi. Era evidente che li indossavano da quando avevano lasciato Amsterdam, e non avevano avuto acqua per lavarsi, tantomeno per lavare i panni. C'erano guardie armate di moschetto che le sorvegliavano dalle bitte dell'albero di maestra e dal castello di prua che dominava il ponte di coperta. Non appena la barca arrivò a portata di udito, un sottufficiale in giaccotto blu da marinaio si precipitò verso la murata, portandosi alle labbra un megafono. «State alla larga», gridò in olandese. «Questa è una nave-prigione. State alla larga, altrimenti apriamo il fuoco.» «Dice sul serio, Jim», lo ammonì Mansur. «Allontaniamoci.» Ignorando il suggerimento, Jim sollevò uno dei pesci catturati. «Vars Wilbur Smith
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vis! Pesce fresco!» gridò di rimando. «Appena pescato. Preso un'ora fa.» L'uomo alla battagliola esitò, e lui colse l'occasione al volo. «Guardate questo», aggiunse, indicando l'enorme carcassa che riempiva quasi tutta l'imbarcazione. «Steenbras! Il pesce più gustoso che ci sia in mare. Ce n'è di che sfamare tutti gli uomini a bordo per una settimana.» «Aspettate!» gridò l'uomo, affrettandosi poi ad attraversare il ponte per raggiungere il gruppetto di ufficiali. Ci fu una breve discussione, poi l'uomo tornò verso la battagliola. «Bene, allora, venite! Ma state lontani dalla prua. Potete ormeggiare alle catene di poppa.» Mansur ammainò la minuscola vela e i tre giovani si misero ai remi per portarsi sotto la fiancata della nave. Tre marinai erano schierati lungo la battagliola, coi moschetti puntati contro la barca. «Non tentate qualche trucco se non volete ricevere una palla nel ventre», li ammonì il sottufficiale. Jim gli sorrise con aria accattivante, mostrandogli le mani vuote. «Non abbiamo cattive intenzioni, mjnheer. Siamo onesti pescatori.» Era ancora affascinato dalla fila di donne che, in catene, avanzavano meste lungo la battagliola. Dopo aver lanciato loro un'occhiata in cui si mescolavano repulsione e pietà, Jim rivolse la sua attenzione alla manovra necessaria per accostare alla nave. La eseguì con eleganza marinara; poi Zama lanciò la cima da ormeggio a un marinaio che attendeva dall'alto delle catene. Il cambusiere della nave, un uomo calvo e grassoccio, si affacciò alla murata, scrutando la barca per ispezionare le merci offerte, e parve impressionato dalla stazza dello steenbras. «Non ho voglia di gridare. Vieni quassù, così possiamo discutere», propose, ordinando a un marinaio di calare una biscaglina. Era proprio l'invito che Jim aspettava. Si arrampicò lungo l'alta murata rientrante con l'agilità di un acrobata, atterrando con uno schiocco dei piedi nudi sul ponte di coperta, proprio accanto al cambusiere. «Quanto vuoi per quello grosso?» La domanda dell'uomo era ambigua, e lo sguardo che lasciò scorrere sul corpo del giovane era calcolatore, acceso dall'interesse del pederasta. Un bel pezzo di ragazzo, pensò, studiando il petto muscoloso, le braccia e le gambe lunghe, tornite e abbronzate dal sole. «Quindici gulden d'argento per tutto il carico di pesce», rispose Jim, sottolineando l'ultima parola. Aveva colto benissimo l'interesse dell'uomo Wilbur Smith
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nei suoi confronti. «Sei scappato dal manicomio?» replicò l'altro. «Tu, tutto il tuo pesce e la tua sudicia barchetta non valete neanche la metà.» «La barca e io non siamo in vendita», gli assicurò Jim con un sorriso, godendosi la conversazione. Si sentiva sempre a suo agio, se si trattava di mercanteggiare. Il padre lo aveva addestrato bene e lui sapeva come approfittare delle tendenze sessuali di un acquirente per strappare il prezzo migliore. Alla fine si accordarono: otto gulden per l'intero carico. «Voglio tenermi i pesci più piccoli per la cena della mia famiglia», disse Jim. Il cambusiere ridacchiò. «Sei un osso duro, kerel.» Poi sputò sulla mano destra e gliela tese. Jim sputò a sua volta sul palmo e i due si strinsero la mano per suggellare il patto. L'altro trattenne la mano di Jim un po' più a lungo del necessario. «Che altro hai da vendere, giovane stallone?» chiese poi, strizzando l'occhio e passandosi la lingua sulle labbra tumide, screpolate dal sole. Jim non rispose subito, ma si diresse verso la battagliola per osservare l'equipaggio della Het Gelukkige Meeuw che calava una rete da carico verso la barca. A fatica, Mansur e Zama vi trasferirono l'enorme steenbras, quindi la rete fu sollevata e issata sul ponte. Jim tornò a voltarsi verso il cambusiere e disse: «Posso vendervi un carico di verdure fresche: patate, cipolle, zucche, frutta, tutto quello che volete, a metà del prezzo che vi faranno pagare se le acquistate dagli orti della Compagnia». «Sai benissimo che la VOC ha il monopolio», temporeggiò l'altro. «Non sono autorizzato ad acquistare da commercianti privati.» «Questo si può sistemare mettendo alcuni gulden nella tasca giusta.» Jim si sfiorò un lato del naso. Sapevano tutti com'era semplice accattivarsi i funzionari della Compagnia, al capo di Buona Speranza. Nelle colonie, la corruzione era una pratica del tutto normale. «Benissimo, allora. Portami un carico dei prodotti migliori che hai», accettò il cambusiere, e posò la mano sul braccio di Jim, neanche fosse un anziano zio benevolo. «Ma non farti prendere. Non vorrei che un bel ragazzo come te si facesse dilaniare dalla frusta.» Lui si sottrasse a quel contatto senza darlo a vedere. Mai irritare un cliente. In quel momento, sul castello di prua si scatenò un certo scompiglio, e Jim si voltò a guardare, sollevato per quel diversivo che lo Wilbur Smith
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metteva al riparo dalle attenzioni dell'uomo sudato e grassoccio. Il primo gruppo di prigioniere veniva scortato di nuovo sottocoperta, e un altro saliva all'aperto per fare un po' di moto. Fissando la ragazza che avanzava alla testa di quella nuova fila di prigioniere, Jim si sentì accelerare il respiro e pulsare il sangue nelle orecchie. Era alta, pallida e denutrita. Indossava un camicione di tela grezza e logora, con l'orlo così sbrindellato che le ginocchia trasparivano dai buchi. Le gambe, al pari delle braccia, erano sottili e ossute, con le carni consumate dall'inedia. Sotto quell'abito informe, il corpo sembrava quello di un ragazzo, privo com'era delle rotondità e delle curve femminili. Jim però non stava guardando il corpo della ragazza. Guardava il suo viso. La testa era piccola, ma eretta con grazia sul collo lungo, come la corolla ancora chiusa di un tulipano sullo stelo. La pelle era chiara e perfetta, di grana così fine che al di sotto gli parve di vedere le ossa degli zigomi. Persino in quelle terribili circostanze, era evidente che la giovane aveva fatto un enorme sforzo per non scivolare lungo la china della disperazione. I capelli erano ravviati all'indietro e raccolti in una spessa treccia che ricadeva su una spalla; chissà a quale prezzo, era riuscita a tenerli puliti e pettinati. Le scendevano fin quasi alla vita, fini come seta cinese e biondi, abbaglianti come una ghinea d'oro alla luce del sole. Ma furono gli occhi che per un lungo istante fermarono il respiro di Jim. Erano azzurri, del colore del cielo africano di mezz'estate. Posandosi su di lui per la prima volta, si spalancarono. Le labbra si schiusero leggermente, scoprendo i denti bianchi e regolari, senza spazi vuoti. La ragazza si fermò di colpo, e la donna in fila dietro di lei la urtò, cosicché entrambe persero l'equilibrio, rischiando di cadere. I ceppi di ferro tintinnarono, e l'altra donna la spinse rudemente in avanti, imprecando contro di lei con l'accento delle banchine di Anversa. «Forza, principessa, muovi quel bel culetto.» La ragazza parve non badarci. Uno dei carcerieri le si accostò alle spalle. «Muoviti, stupida vacca.» Col tratto di corda annodata che reggeva in mano la sferzò nella parte alta del braccio nudo e sottile, lasciando un rosso segno in rilievo. Jim dovette far forza su se stesso per non slanciarsi a proteggerla, ma la più vicina delle guardie captò quel movimento istintivo e puntò la canna del moschetto contro di lui. Il ragazzo fece un passo indietro. Sapeva che, a quella distanza, la rosa di pallini lo avrebbe sbudellato. Ma anche la ragazza aveva visto il suo gesto. Avanzò, incespicando, con gli occhi pieni Wilbur Smith
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di lacrime per il dolore della frustata, massaggiandosi il segno color cremisi con l'altra mano. Eppure continuava a tener puntati su Jim, rimasto immobile, quegli occhi ammalianti e non smise neppure quando gli passò davanti. Il giovane sapeva che parlare a quella donna era pericoloso e inutile, ma le parole gli uscirono di bocca prima che lui potesse trattenerle. «Ti hanno ridotta alla fame», mormorò, turbato. Sulle labbra della donna apparve una vaga ombra di sorriso, ma lei non diede altro segno di averlo udito. L'arpia che era dietro di lei la spinse in avanti. «Oggi niente galletti per te, altezza. Dovrai usare il dito. Continua a muoverti.» E la ragazza continuò ad avanzare, allontanandosi da lui. «Lascia che ti dia un consiglio, kerel», sibilò il cambusiere, al suo fianco. «Non andare con una di quelle puttane. È la scorciatoia più breve per l'inferno.» Jim riuscì a sorridere. «Sono un uomo coraggioso, ma non stupido.» Tese la mano, e il cambusiere gli mise sul palmo otto monete d'argento. Poi lui passò una gamba al di sopra della battagliola e disse: «Domani vi porterò un carico di verdure, e poi forse potremo scendere a terra e bere un grog in una delle taverne». Calandosi nella barca, aggiunse sottovoce: «Oppure potrei spezzarti il collo e quelle gambe grasse che ti ritrovi...» Prese posto al timone e, mettendo al vento la prua della barca, gridò a Zama: «Molla la cima e issa la vela!» Avviandosi, sfiorarono la fiancata della Meeuw. I portelli erano aperti per lasciar entrare luce e aria nei ponti dei cannoni. Jim guardò attraverso l'apertura più vicina che si presentò sulla sua rotta. Il ponte affollato e maleodorante era una visione d'inferno, il fetore pari a quello di una stia o di una latrina. Per mesi e mesi, centinaia di esseri umani erano stati stipati in quello spazio basso e ristretto, senza il minimo sollievo. Distolse lo sguardo da quella scena spaventosa per osservare la battagliola della nave, sopra di lui. Sperava di scorgere la ragazza, benché sapesse che era improbabile. Poi, vedendo quegli occhi di un azzurro incredibile che lo fissavano dall'alto, di nuovo il suo polso accelerò. Eccola là, nella fila di prigioniere: camminava trascinando i piedi lungo il parapetto, a prua. «Qual è tuo nome? Come ti chiami?» gridò in tono pressante. Per lui, in quel momento, nulla al mondo era più importante. La risposta fu fioca e quasi si perse nel vento, ma lui gliela lesse sulle labbra. «Louisa.» «Tornerò, Louisa. Sta' di buon animo», gridò con audacia, e lei lo fissò, Wilbur Smith
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senza espressione. Poi Jim fece un gesto ancora più audace. Sapeva che era una follia, ma sapeva anche che la ragazza era affamata. Afferrò una cernia, che pesava quasi dieci libbre, e gliela lanciò quasi fosse leggera come una piuma. Louisa si protese per afferrarla a due mani, con un'espressione famelica e disperata sul volto pallido. Il grottesco orco in fila dietro di lei si slanciò in avanti per strapparle di mano il pesce, e subito tre o quattro altre donne si unirono alla lotta, dibattendosi come un branco di lupe per accaparrarsi il pesce. I carcerieri si precipitarono a sedare la rissa, frustando e sferzando le donne che strillavano. Jim si voltò per non guardare, col cuore lacerato dalla pietà e da un'altra emozione che non riconobbe, perché non l'aveva mai provata prima di allora. I tre proseguirono la navigazione immersi in un silenzio tetro, ma ogni tanto Jim si voltava a guardare la nave-prigione. «Non puoi fare niente per lei», disse infine Mansur. «Dimenticala, cugino. E fuori della tua portata.» Il viso di Jim s'incupì per l'ira e la frustrazione. «Davvero? Pensi di sapere tutto, Mansur Courteney? Vedremo. Vedremo!» Sulla spiaggia davanti a loro uno degli stallieri guidava una fila di muli già bardati, pronti ad aiutarli per tirare in secca la barca. «Non state seduti lì come un paio di cormorani che si asciugano le ali su uno scoglio. Ammainate la vela», ringhiò Jim, ancora oppresso dall'ombra di una collera informe. Attendevano sulla prima linea della risacca, ingobbiti sui remi, in attesa dell'onda giusta. Quando Jim la vide arrivare, gridò: «Andiamo, spingete insieme. Forza!» L'onda s'insinuò sotto la poppa e poi, d'un tratto, i tre giovani scivolarono sulla sua cresta verde che si arricciolava, correndo verso la spiaggia. Salirono e ridiscesero, arrivando infine sulla sabbia. Balzarono fuori e, quando lo stalliere arrivò al galoppo con l'equipaggio di muli, incocciarono la barca alla catena da traino. Quindi corsero a fianco dei muli, ululando per incitarli, e trascinarono la barca ben al di sopra del segno dell'alta marea, prima di sganciarla. «Domattina presto mi servirà di nuovo la squadra di muli», spiegò Jim allo stalliere. «Tienili pronti.» «E così, andremo di nuovo su quella nave infernale, vero?» chiese Mansur con voce atona. «Per portare loro un carico di verdure», rispose il cugino con aria Wilbur Smith
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innocente. «Cosa vuoi in cambio?» chiese Mansur con pari indifferenza. Jim lo pizzicò leggermente sul braccio e insieme balzarono sul dorso dei muli, per montarli a pelo. Jim lanciò un'ultima occhiata all'indietro, in direzione della baia, verso la nave della VOC all'ancora, poi si voltò, costeggiando la laguna prima di risalire il pendio che portava agli edifici imbiancati a calce della tenuta - la residenza padronale e il magazzino - che Tom Courteney aveva chiamato High Weald, dal nome della grande dimora del Devon in cui lui e Dorian erano nati, e che nessuno dei due vedeva ormai da molti anni. Il nome, tuttavia, era l'unica cosa che i due edifici avessero in comune. L'High Weald del Capo era stata costruita nello stile locale, col tetto ricoperto da uno spesso strato di canne, mentre gli eleganti frontoni a timpano e l'arco che immetteva nel cortile centrale erano stati progettati da un celebre architetto di origine tedesca. Il nome della tenuta e lo stemma della famiglia erano incorporati nell'elaborato affresco di santi e cherubini al di sopra dell'arco. Lo stemma rappresentava un cannone a canna lunga sull'affusto con le ruote, al di sopra di un cartiglio con le lettere CBTC, una sigla che stava per Courteney Brothers Trading Company. Su un pannello separato c'era la dicitura: HIGH WEALD - 1711. La casa era stata costruita lo stesso anno in cui erano nati Jim e Mansur. Mentre superavano l'arco per entrare nel cortile lastricato, Tom Courteney uscì dalla porta principale del magazzino, pestando i piedi sul terreno. Era un uomo imponente, alto più di sei piedi, dalle spalle massicce. La fitta barba nera era brizzolata e, sulla sommità della testa, non c'era neanche una ciocca di capelli, eppure folti riccioli circondavano la cupola lucente del cranio, scendendo sulle spalle. Il ventre, un tempo piatto e sodo, aveva ormai assunto una circonferenza notevole. I lineamenti rudi erano solcati da ragnatele di piccole rughe impresse dalle frequenti risate, e gli occhi scintillavano di umorismo e della soddisfazione che può provare un uomo prospero e con una salda fiducia in se stesso. «James Courteney! Sei stato lontano tanto tempo che avevo dimenticato qual è il tuo aspetto. Sei gentile a farci visita. Detesto infastidirti, ma per caso qualcuno di voi intende lavorare, oggi?» Jim curvò le spalle con aria colpevole. «Per poco non siamo stati affondati da una nave olandese! Ci è mancato davvero poco. Poi abbiamo catturato uno steenbras rosso grande quanto un cavallo da tiro», spiegò. «Abbiamo impiegato due ore solo per issarlo a bordo, e poi siamo andati a Wilbur Smith
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venderlo a una delle navi nella baia.» «Perbacco, ragazzo, hai avuto una mattinata davvero faticosa. Non raccontarmi il resto delle tue tribolazioni, lasciami indovinare. Subito dopo siete stati attaccati da una nave di linea francese e caricati da un ippopotamo.» Tom esplose in una risata, entusiasta della sua battuta. «Comunque, quanto hai ricevuto in cambio di quello steenbras rosso grande quanto un cavallo da tiro?» «Otto gulden d'argento.» Tom lanciò un fischio. «Doveva essere un mostro.» Poi la sua espressione ridivenne seria. «Non ci sono scuse, ragazzo. Non ti ho dato la settimana libera. Saresti dovuto tornare qualche ora fa.» «Ho concluso un accordo col cambusiere della nave olandese», replicò Jim. «Acquisterà tutte le provviste che riusciremo a mandargli, e a un buon prezzo, papà.» Negli occhi di Tom il divertimento cedette il posto a un'espressione accorta. «A quanto pare non hai perso tempo. Ben fatto, ragazzo.» In quel momento una bella donna, alta quasi quanto Tom, uscì dalle cucine, all'altro capo del cortile. Portava i capelli raccolti in una pesante crocchia sulla testa e le maniche della camicetta erano rimboccate sulle braccia grassocce e colorite dal sole. «Tom Courteney, ti rendi conto che quel povero ragazzo è uscito stamattina senza mettere nulla sotto i denti? Lascialo almeno mangiare, prima di strapazzarlo.» «In caso non te ne fossi accorta, Sarah Courteney, questo povero ragazzo non ha più cinque anni», gridò Tom di rimando. «È diventato un uomo, sai?» «È ora di pranzo anche per te», replicò Sarah. «Yasmini, le ragazze e io abbiamo sfacchinato davanti al fuoco per tutta la mattina. Ora venite tutti quanti.» Tom alzò le mani al cielo in segno di resa. «Sarah Courteney, sei una vera tiranna... Però mi sentirei di mangiare un bufalo intero, corna comprese.» Scese dalla veranda, passò un braccio intorno alle spalle di Jim e l'altro intorno alle spalle di Mansur, e li guidò verso la porta della cucina, dove Sarah li aspettava con le braccia infarinate fino ai gomiti. Zama prese i muli per condurli fuori del cortile, nelle stalle, e Tom gli gridò dietro: «Zama, avverti mio fratello che le signore lo aspettano per pranzare». «Glielo dirò, Oubaas!» rispose l'altro, rivolgendosi al padrone di High Wilbur Smith
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Weald usando il termine più rispettoso che conosceva. «Non appena avrai finito di mangiare, torna qui con tutti gli uomini», gli ordinò Jim. «Dobbiamo raccogliere e caricare le verdure da portare domani alla Meeuw.» La cucina era affollata di donne, per lo più schiave affrancate, donne giavanesi di Batavia dalla bellezza leggiadra e dalla pelle dorata. Jim andò ad abbracciare la madre. Lei finse di essere seccata, esclamando: «Non fare il bambino, James», ma arrossì di piacere quando il figlio la sollevò di peso e la baciò sulle guance. «Mettimi subito giù e lasciami lavorare.» «Se non mi vuoi bene tu, c'è sempre zia Yassie che me ne vuole.» Jim si avvicinò alla donna bella e delicata che in quel momento era tra le braccia del figlio. «Avanti, Mansur! Ora tocca a me. Cedimi il posto.» Jim liberò dall'abbraccio di Mansur Yasmini, che indossava una camicia corta e attillata chiamata choli e una ghagra, un'ampia e lunga gonna di seta a colori vivaci. Abbracciandola, lui notò che era ancora snella e leggera come un'adolescente, con la pelle luminosa e ambrata, gli occhi a mandorla scuri come schegge di onice preziosa. La ciocca candida che spiccava sulla fronte in mezzo ai folti capelli neri non era un segno dell'età; l'aveva fin dalla nascita, come sua madre e sua nonna prima di lei. Gli uomini presero posto all'estremità del lungo tavolo di legno di podocarpo - chiamato yellow-wood - carico di piatti e vassoi, serviti con premura dalle donne. C'erano piatti di curry babootie, cucinato alla maniera malese, che sprigionavano una fragranza di montone e spezie, uova e yogurt; un enorme pasticcio di cacciagione fatto con le patate e la carne dell'antilope che Jim e Mansur avevano abbattuto nel veld; forme di pane appena sfornato e ancora rovente; vasetti di ceramica pieni di burro giallo; brocche di latte cagliato e birra leggera. «Dov'è Dorian?» chiese Tom, sedendosi a capotavola. «Di nuovo in ritardo!» «Qualcuno mi ha chiamato?» ribatté Dorian entrando in cucina con passo flemmatico. Era ancora snello e atletico, bello e allegro, e la sua massa di riccioli color rame rivaleggiava con quella del figlio. Portava gli stivali alti da equitazione, impolverati fino alle ginocchia, e un cappello di paglia a tesa larga. Fece volare il cappello attraverso la sala, e le donne lo salutarono con un coro entusiasta. «Silenzio, tutti quanti! Sembrate un branco di galline quando uno sciacallo entra nel pollaio», ruggì Tom, ma il frastuono non si spense Wilbur Smith
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affatto. Tom scosse la testa con aria afflitta. «Vieni, Dorry, siediti, prima di fare impazzire queste donne. Dobbiamo ascoltare la storia dello steenbras gigante catturato dai ragazzi, e l'affare che hanno concluso con la nave della VOC alla fonda nella baia.» Dorian prese posto vicino a Tom, affondando il coltello nella crosta del pasticcio di cacciagione. Tutti i presenti si lasciarono sfuggire un sospiro soddisfatto, mentre una nube di vapore fragrante saliva verso le travi alte del soffitto, in legno di ocotea. Dopo che Sarah ebbe disposto il cibo sui piatti decorati con un disegno di salici blu, la stanza si riempì di chiacchiere degli uomini, di risa e di slanci d'affetto da parte delle donne. «Che cosa c'è, Jim?» domandò Sarah dalla parte opposta del tavolo, alzando la voce per farsi sentire in quel pandemonio. «Niente», ribatté Tom, portandosi alla bocca un altro cucchiaio di cibo e lanciando un'occhiata penetrante al suo unico figlio. «Vero?» A poco a poco sulla tavola scese il silenzio e tutti fissarono Jim. «Perché non mangi?» chiese Sarah, allarmata. L'appetito del ragazzo era una delle leggende familiari. «Ti ci vuole una buona dose di zolfo e melassa.» «Sto benissimo, solo che non ho fame.» Abbassò gli occhi sul piatto di pasticcio che aveva appena toccato, poi si guardò intorno, osservando il cerchio di volti attenti. «Non mi guardate così. Non morirò per questo.» Sarah continuava a osservarlo. «Che cos'è successo oggi?» Jim sapeva che lei riusciva sempre a leggergli dentro come se fosse fatto di vetro. Balzò in piedi. «Vi prego di scusarmi», esclamò, spingendo lo sgabello all'indietro e uscendo in cortile. Tom si alzò per seguirlo, ma Sarah scosse bruscamente la testa. «Lascialo stare, marito mio», ordinò. Sarah era l'unica persona che poteva dare ordini a Tom Courteney, e lui, infatti, ricadde docilmente sullo sgabello. In contrasto con l'allegria di pochi istanti prima, sulla stanza calò un silenzio inquieto. Sarah guardò la parte opposta del tavolo. «Cos'è successo laggiù, oggi, Mansur?» «Jim è salito a bordo della nave dei forzati nella baia. Ha visto cose che lo hanno turbato.» «Quali cose?» «La nave era carica di prigioniere. Erano incatenate, ridotte alla fame e percosse. La nave puzza come un porcile», rispose Mansur, con la voce ancora carica di ripugnanza e di pietà. Mentre immaginavano la scena da Wilbur Smith
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lui descritta, tutti rimasero per qualche istante in silenzio. Poi Sarah disse a bassa voce: «E una delle donne a bordo era giovane e graziosa». «Come fai a saperlo?» chiese Mansur, fissandola con aria attonita. Jim uscì dall'arco della porta per scendere lungo il pendio, verso il recinto ai margini della laguna. Quando il sentiero uscì dal folto degli alberi si cacciò due dita in bocca e lanciò un fischio acuto. Lo stallone era un po' distante dal resto del branco e pascolava sull'erba verdissima in riva alle acque. Nell'udire quel fischio, tuttavia, alzò la testa, e la stella sulla sua fronte brillò al sole come un diadema. Inarcando il collo e dilatando le froge larghe, fissò Jim coi suoi occhi luminosi. Il ragazzo fischiò di nuovo. «Vieni, Drumfire», lo chiamò. «Vieni da me.» Drumfire cominciò a correre, passando in poche, rapide falcate dall'immobilità al galoppo. Per essere un animale così grande, si muoveva con la grazia di un'antilope selvatica. A Jim bastò guardarlo per sentir svanire il malumore. Il manto dell'animale scintillava come mogano lustro e la criniera gli scendeva sul collo come uno stendardo di guerra. Gli zoccoli d'acciaio sollevavano zolle dal terreno verde col rumore tuonante di una batteria di cannoni. Era proprio per quello che Jim lo aveva chiamato Drumfire, cioè «fuoco tambureggiante». Jim e Drumfire avevano vinto la Targa d'Oro del governatore proprio il giorno di Natale, correndo contro i liberi cittadini della colonia e gli ufficiali del reggimento di cavalleria. Drumfire si era quindi dimostrato il cavallo più veloce di tutta l'Africa, e il ragazzo aveva respinto la proposta del colonnello Stephanus Keyser, il comandante della guarnigione, che gli aveva offerto ben duemila gulden per diventare proprietario di Drumfire. In quel giorno, cavallo e cavaliere si erano fatti onore, ma non si erano certo conquistati delle amicizie. Drumfire si lanciò sulla pista, correndo verso Jim. Quel gioco - cercare di spingere il padrone a ritrarsi - gli piaceva moltissimo. Il ragazzo lo sapeva, e mantenne la sua posizione. All'ultimo momento, Drumfire deviò, passando così vicino da scompigliargli i capelli col vento della sua corsa. Poi si fermò di colpo, puntando le zampe a terra, abbassò la testa e lanciò un nitrito selvaggio. «Che esibizionista!» gridò Jim. «Comportati bene.» Drumfire, diventato d'un tratto docile come un gattino, tornò indietro ad accarezzargli il petto col muso e ad annusare le tasche della giacca finché non scovò la fetta di Wilbur Smith
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torta. «Goloso», lo rimproverò. Drumfire lo spinse con la fronte, all'inizio con grazia, poi in modo così imperioso che Jim perse l'equilibrio. «Non te lo meriti, comunque...» borbottò infine il ragazzo, porgendogli la fetta di torta. Drumfire lambì col muso il palmo aperto fino a leccare l'ultima briciola con le labbra vellutate. Jim gli passò la mano sul collo scintillante, poi accarezzò il garrese e balzò leggero in groppa al cavallo. Sentendosi sfiorare dai suoi talloni, Drumfire si lanciò in quella corsa prodigiosa che era la sua dote più caratteristica, e il vento asciugò le lacrime negli occhi di Jim. Costeggiarono la laguna, ma, quando lui lo sfiorò dietro la spalla con la punta dei piedi, lo stallone non esitò. Deviò dal suo cammino e s'immerse nelle acque basse, incontrando un branco di muggini e costringendoli a disperdersi come una manciata di monete d'argento sotto la superficie verde. Poi Drumfire si trovò nell'acqua alta, e Jim scivolò al suo fianco, cominciando a nuotare. Afferrò una manciata dei lunghi crini del cavallo e si lasciò trainare dallo stallone. Nuotare era un altro dei grandi piaceri di Drumfire, che lanciava infatti alti nitriti. Quando raggiunse il fondo della spiaggia, dalla parte opposta della laguna, Jim risalì in sella e ripresero a correre. Lo spinse verso la riva del mare e insieme superarono le alte dune, lasciando impronte profonde sulla sabbia bianca e scendendo dalla parte opposta, là dove la risacca s'infrangeva sulla spiaggia. Drumfire si lanciò in un galoppo sfrenato lungo la riva del mare, correndo prima sulla sabbia umida e poi nell'acqua salata fino all'altezza del ventre. Infine Jim lo mise al passo. Lo stallone lo aveva aiutato a liberarsi del cattivo umore, disperdendo nel vento collera e senso di colpa. Con un balzo, rimase in piedi sul dorso di Drumfire, in equilibrio, e il cavallo regolò il passo per aiutarlo. Era un altro dei trucchi che avevano imparato insieme. Jim guardò verso il largo. La Meeuw si era mossa all'ancora, e adesso era disposta di traverso rispetto alla spiaggia. Da quella distanza, aveva un aspetto onesto e rispettabile, come la moglie di un qualsiasi cittadino della colonia, e non lasciava intravedere gli orrori nascosti dietro quelle murate anonime. «Il vento è cambiato», disse il ragazzo a Drumfire, che rivolse le orecchie all'indietro per ascoltare la sua voce. «Nei prossimi giorni si scatenerà una tempesta.» Immaginò le condizioni sottocoperta della naveprigione, se fosse rimasta lì allorché la tempesta fosse arrivata. La baia era aperta verso ovest... Fu assalito di nuovo dal malumore e ricadde sulla Wilbur Smith
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groppa del cavallo, avviandosi a passo più tranquillo verso il castello. Quando arrivarono sotto le massicce mura di pietra, i suoi vestiti si erano asciugati, anche se le calzature in pelle di kudu - chiamate velskoen - erano ancora umide. Il capitano Hugo van Hoogen, furiere della guarnigione, stava nel suo ufficio, vicino alla santabarbara principale. Offrì a Jim un cordiale benvenuto, insieme con una pipa di tabacco turco e una tazza di caffè arabo. Jim rifiutò la pipa, ma bevve con gusto la bevanda scura e amara. Era stata la zia Yasmini a fargliela conoscere e apprezzare. Il ragazzo e il furiere erano vecchi amici e il loro legame era basato sul ruolo assunto da Jim come intermediario non ufficiale della famiglia Courteney. Se Hugo firmava un documento, dichiarando che la Compagnia non era in grado di fornire provviste o merci a una nave nella baia, allora il mercante indicato nel documento stesso era autorizzato a provvedere a quelle necessità. Hugo era anche un pescatore appassionato, e Jim gli raccontò la saga della cattura del grande steenbras, suscitando alte esclamazioni di: «Oh, nee!» cioè: «Oh, no!» e: «Dit kan nie wees me!» «Non può essere!» Quando il giovane gli strinse la mano per congedarsi, aveva in tasca una licenza in bianco per commerciare a nome della Courteney Brothers Trading Company. «Sabato verrò a bere di nuovo il caffè con voi», disse Jim strizzando l'occhio e Hugo, annuendo con aria cordiale, esclamò: «Sarete più che benvenuto, mio giovane amico». Per lunga esperienza, sapeva di poter contare sul fatto che gli avrebbe portato la commissione: un sacchetto pieno di monete d'oro e d'argento. Tornato nelle stalle di High Weald, Jim strigliò personalmente Drumfire, invece di affidarlo a uno stalliere, poi gli lasciò la mangiatoia piena di grano schiacciato, al quale aveva mescolato un po' di melassa, giacché Drumfire aveva un debole per il dolce. I campi e i frutteti dietro le stalle erano pieni di schiavi affrancati che raccoglievano gli ortaggi freschi destinati alla Meeuw. Gran parte dei cesti era già piena di patate, mele, zucche e rape. Suo padre e Mansur sovrintendevano al raccolto. Jim li lasciò fare, dirigendosi verso il mattatoio. In quel locale, fresco come una caverna, con le pareti spesse e senza finestre, decine di montoni macellati da poco erano appese ai ganci del soffitto. Dopo aver estratto il coltello dal fodero che portava sulla cintura e affilato la lama con gesti esperti sulla pietra ad acqua, si affiancò Wilbur Smith
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allo zio Dorian, ben sapendo che era necessaria la collaborazione di tutti per preparare la merce da fornire alla nave. Gli schiavi affrancati trascinavano fuori del recinto alcune pecore dalla coda grossa, originarie della Persia, e le stendevano a terra, rovesciando poi indietro la testa dell'animale per scoprire la gola al colpo del coltello. Altre mani volenterose, poi, appendevano le pecore ai ganci per scuoiarle. Qualche settimana prima, Carl Otto, il macellaio della tenuta, aveva riempito l'affumicatoio di prosciutti e salsicce proprio in vista di un'opportunità del genere. Nelle cucine, tutte le donne, dalle più giovani alle anziane, aiutavano Sarah e Yasmini a cucinare e preparare gli ortaggi e la frutta in conserva. Nonostante i loro sforzi, il convoglio di carri, trainati dai muli, fu carico e pronto a partire per la spiaggia soltanto verso la fine del pomeriggio. Il trasferimento delle provviste dai carri alle barche dei viveri tirate in secca richiese inoltre buona parte della notte: era quasi l'alba quando le barche furono pronte a salpare. In apparenza, Jim era stato troppo pessimista: il vento non era aumentato d'intensità e il mare e la risacca erano ancora sopportabili allorché i muli trascinarono sulla spiaggia le barche appesantite dal carico. Nel momento in cui il piccolo convoglio prese il mare, già si scorgeva il primo chiarore dell'alba. Nella barca di testa c'erano Jim, al timone, e Mansur, al remo. «Che cos'hai messo in quella sacca, Jim?» domandò tra una vogata e l'altra. «Non fare domande e non sentirai bugie.» Lui abbassò gli occhi sulla sacca di tela a prova d'acqua che teneva tra i piedi. Parlava a voce bassa, per non essere sentito dal padre, che stava a prua. Ma sapeva che Tom aveva sparato troppo col moschetto durante la sua lunga carriera di cacciatore e il suo udito ne aveva risentito. «È un regalo per la tua bella?» Mansur sogghignò nell'oscurità, e Jim lo ignorò. La freccia era andata troppo vicina al bersaglio. Aveva messo nella sacca un involto di cacciagione essiccata al sole, l'onnipresente biltong dei boeri del Capo, dieci libbre di gallette, avvolte in un lembo di stoffa, un coltello a serramanico e una lima triangolare che aveva trafugato dall'officina della tenuta, un pettine di tartaruga che apparteneva a sua madre e una lettera scritta in olandese. Quando raggiunsero la Meeuw, Tom Courteney gridò con voce stentorea: «Lancia carica di provviste. Chiediamo il permesso di Wilbur Smith
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attraccare». Dalla nave rispose un grido e, a forza di remi, la barca si avvicinò alla nave-prigione. Con le lunghe gambe ripiegate sotto il corpo, Louisa Leuven era seduta sul ponte, in mezzo al frastuono e nella semioscurità rischiarata appena dalla luce fioca delle lanterne. Aveva le spalle coperte soltanto da un telo di cotone, sottile e di pessima qualità. I boccaporti erano chiusi e inchiavardati. Le guardie non volevano correre rischi: con la spiaggia così vicina, qualche donna, sfidando il rischio di annegare, poteva buttarsi nella corrente gelida o essere divorata dai mostruosi squali attirati in quelle acque dalla popolosa colonia di foche su Robben Island. Quel pomeriggio, mentre le donne erano sul ponte, il cuoco aveva gettato fuori bordo un bugliolo di visceri ricavati dallo steenbras. E il capo dei carcerieri aveva indicato alle prigioniere le pinne triangolari degli squali che si affollavano intorno a quei bocconi sanguinolenti. «Che nessuna di voi sudice sgualdrine si faccia venire strane idee», le aveva ammonite. Fin dall'inizio del viaggio, Louisa si era scelta quel giaciglio, sotto uno degli enormi cannoni di bronzo. Era più forte delle altre forzate e, per necessità, aveva imparato a proteggersi. Vivere su quella nave era come trovarsi in mezzo a un branco di animali feroci; le donne intorno a lei erano pericolose e spietate come lupi, ma più intelligenti e astute. Louisa aveva capito subito che doveva procurarsi un'arma, ed era riuscita a staccare una striscia del rivestimento di bronzo sotto l'affusto del cannone. Lavorando di notte, l'aveva sfregato per ore e ore contro la bocca da fuoco, sino a ottenere un pugnale acuminato a doppio taglio. Poi, dopo avere strappato una striscia di tessuto dall'orlo del camicione, l'aveva avvolta intorno all'elsa per formare un'impugnatura. Portava il pugnale giorno e notte nella sacca fissata alla cintura, sotto il camicione di tela. Fino a quel momento, era stata costretta a usarlo soltanto una volta. Nedda era una frisone dalle cosce e dal sedere pesanti, con le braccia grasse e una faccia molliccia costellata di lentiggini. In passato, era stata una procacciatrice di prostitute per i nobili, ma poi si era specializzata nel procurare ai suoi ricchi clienti dei bambini molto piccoli. A un certo punto, però, era diventata troppo avida e aveva tentato di ricattare uno di loro. In una torrida notte tropicale, mentre la nave era bloccata dalla bonaccia Wilbur Smith
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alcuni gradi più a sud dell'equatore, la grossa Nedda si era avvicinata di soppiatto a Louisa, inchiodandola sotto il suo peso fin quasi a schiacciarla. Louisa strillava e si dibatteva, eppure nessuno dei carcerieri o delle donne era accorso in suo aiuto. Invece ridacchiavano, incitando Nedda con sordidi sussurri. «Daglielo, a quella sgualdrina presuntuosa.» «Senti come strilla. Le piace, eh?» «Avanti, Nedda. Ficcale il pugno nella poesje, smorfiosa principessina che non è altro.» Nel momento in cui si era sentita allargare le gambe da quel ginocchio grasso, Louisa era riuscita ad abbassare una mano, sfilando la lama dal fodero. Poi, con la forza dello sdegno, aveva trafitto Nedda sulla guancia rosea e grassoccia. Nedda aveva lanciato un urlo ed era rotolata via, premendo la mano sulla profonda ferita da cui sgorgava molto sangue. Poi si era allontanata, nel buio, singhiozzando e gemendo. Nelle settimane seguenti, la ferita si era infettata e Nedda se n'era rimasta accovacciata, come un orso gigantesco, nel recesso più buio del ponte dei cannoni, mentre il viso si gonfiava sino a raggiungere il doppio delle dimensioni normali e il pus scorreva dalle bende sporche, colando dal mento, giallo e denso come crema. Da allora, Nedda si era tenuta alla larga da Louisa. Quanto alle altre donne, avevano imparato la lezione e la lasciavano in pace. Lei aveva l'impressione che quel viaggio terribile fosse durato una vita intera. Anche in quella pausa della navigazione, mentre la Meeuw era all'ancora nella baia della Tavola, l'enormità delle prove che aveva dovuto superare continuava a ossessionarla. Si rifugiò ancor più all'interno della sua tana sotto il cannone, tremando: le pareva che ognuno dei suoi ricordi la ferisse di continuo, come se avesse innumerevoli spine piantate nella carne. La calca si stringeva intorno a lei. Erano così stipate su quel ponte che era quasi impossibile sfuggire al contatto degli altri corpi sudici e brulicanti di pidocchi. Col maltempo, poi, i buglioli traboccavano, e i liquami scorrevano sul ponte affollato, impregnando gli abiti delle donne e le coperte di cotone sulle quali dormivano. Durante gli occasionali momenti di bonaccia, l'equipaggio pompava acqua di mare attraverso i boccaporti e le donne s'inginocchiavano per sfregare le tavole del fasciame con la pietra pomice. Però era tutto inutile: alla prima tempesta, venivano di nuovo investite dal sudiciume. All'alba, quando si aprivano i portelli dei Wilbur Smith
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boccaporti, le donne a turno trasportavano i buglioli maleodoranti su per la scaletta fino in coperta e li vuotavano fuori bordo, accompagnate dai lazzi delle guardie. Ogni domenica, con qualsiasi tempo, le prigioniere venivano sospinte in coperta, sotto la sorveglianza delle guardie armate. Le donne, con le catene ai piedi e protette soltanto dal camicione di tela logora, rabbrividivano e si stringevano le braccia intorno al corpo, sfregando la pelle livida e irruvidita dal freddo, mentre un pastore della Chiesa olandese riformata le arringava, fustigandole per i loro peccati. Una volta finita la predica, gli uomini dell'equipaggio alzavano sul castello di prua alcuni schermi di tela e le prigioniere venivano sospinte a gruppi dietro quel riparo improvvisato, mentre fiumi di acqua di mare si riversavano su di loro dalle pompe della nave. Louisa e qualcun'altra delle donne più attente all'igiene si spogliavano, per cercare di lavarsi meglio che potevano. Le tende ondeggiavano al vento, non lasciando quasi nessuna intimità, e i marinai addetti alle pompe e quelli inerpicati sul sartiame fischiavano e lanciavano commenti salaci. «Guarda che tette ha, quella vacca!» «Su un porto peloso come quello si potrebbe varare un vascello di linea.» Louisa aveva imparato a usare il camicione bagnato per coprirsi, rannicchiandosi in modo da farsi schermo coi corpi delle altre donne. Quelle poche ore di pulizia valevano l'umiliazione che doveva subire, ma, non appena la camicia si asciugava e il calore del corpo faceva schiudere la successiva covata di pidocchi, lei ricominciava daccapo a grattarsi. Allora, usando la lama di bronzo che si era fabbricata, aveva intagliato una scheggia di legno per ricavarne un pettine fitto, e ogni giorno, al riparo dell'affusto di cannone, dedicava ore intere a pettinarsi i lunghi capelli d'oro e i peli pubici, nel tentativo di eliminare i lendini. Quei patetici tentativi di rimanere pulita mettevano però in risalto la trasandatezza delle altre donne, e quello le mandava in bestia. «Guardate sua altezza reale... Ricomincia a pettinarsi i peli della poesje.» «Si crede migliore di noi. Quando arriveremo, sposerà il governatore di Batavia, non lo sapevate?» «Di' un po', principessa, pensi d'invitarci alle nozze?» «Nedda ti farà da damigella... Non è vero, Nedda, liefling?» La cicatrice Wilbur Smith
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livida sulla guancia grassa di Nedda si contraeva in un sogghigno grottesco e gli occhi, nella luce fioca delle lanterne, si accendevano di odio. Louisa aveva imparato a ignorare quei commenti. Scaldando la punta della lama sulla fiamma fumosa della lanterna appesa sopra la sua testa, sbirciava attraverso la fenditura che si apriva tutt'intorno al portello. Aveva usato la punta della lama per allargare l'apertura, in modo da avere una visuale migliore. Il portello era chiuso da un lucchetto, ma lei aveva lavorato settimane intere per allentare i perni. Poi aveva usato la fuliggine della lanterna per scurire il legno raschiato, sfregandola col dito in modo da nascondere il suo lavoro alle ispezioni settimanali degli ufficiali della nave, che si svolgevano ogni domenica, mentre le forzate si trovavano in coperta per la preghiera e le abluzioni. Louisa tornava sempre alla sua cuccetta terrorizzata, temendo che avessero scoperto il suo lavoro e, quando capiva che non era così, il sollievo era tanto intenso che spesso scoppiava a piangere. La disperazione era sempre lì, in agguato come una bestia feroce, pronta a balzar fuori in qualsiasi momento per divorarla. Più di una volta, nel corso degli ultimi mesi, la ragazza aveva passato la piccola lama affilata sulla sottile peluria bionda del braccio, nascondendosi sotto l'affusto del cannone per tastare il polso, là dove l'arteria azzurrina pulsava, così vicina alla superficie. Una volta aveva addirittura accostato la lama alla pelle, facendosi forza per inciderla a fondo. Poi, alzando la testa, aveva visto un raggio di luce che penetrava dal portello. Sembrava una promessa. «No», aveva sussurrato allora. «Ce la farò a fuggire. Ce la farò a resistere.» Per rafforzare la sua determinazione, durante quei giorni terribili e interminabili in cui la nave era squassata dalle violente tempeste dell'Atlantico meridionale, Louisa trascorreva ore intere sognando a occhi aperti i giorni felici e luminosi della sua infanzia, benché avesse la sensazione che essi appartenessero a un'altra esistenza, avvolta in una fitta nebbia. Si rifugiava in quelle fantasie, fuggendo così dalla realtà nella quale era intrappolata. Indugiava nel ricordo del padre, Hendrik Leuven, un uomo alto e magro che indossava sempre un vestito nero abbottonato fino al collo. Rivedeva il collare di pizzo rigido, le calze logore che gli coprivano gli stinchi ossuti, rammendate con amore dalla madre di Louisa, e le fibbie di princisbecco sulle scarpe dalla punta quadra, lucidate finché Wilbur Smith
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non risplendevano come argento. Sotto la tesa ampia del cappello nero e alto, i lineamenti severi venivano smentiti dagli occhi azzurri, pieni di malizia. Era da lui che Louisa aveva ereditato gli occhi. E lei rammentava tutte le sue storie, divertenti, affascinanti e struggenti. Quand'era piccola, ogni sera il padre la portava in braccio lungo le scale fino al suo lettino, le rimboccava le coperte e le si sedeva vicino; poi, mentre lei cercava disperatamente di rimanere sveglia, le narrava bellissime storie. Una volta cresciuta, Louisa andava a passeggiare con lui dopo la scuola, tenendolo per mano attraverso i campi di tulipani della proprietà e ripetendo la lezione. La ragazza quasi sorrise, ricordando l'infinita pazienza del padre di fronte alle domande che lei gli rivolgeva, il suo sorriso malinconico e fiero se lei arrivava a trovare la soluzione di un problema matematico con un piccolo incoraggiamento da parte sua. Hendrik Leuven era stato il precettore dei van Ritters, una delle famiglie di mercanti più ricche e famose di Amsterdam. Mjnheer Koen van Ritters era uno degli Zeventien, i diciassette direttori della VOC. I suoi magazzini si estendevano per un quarto di miglio lungo le rive del canale interno, lui commerciava in tutto il mondo con la sua flotta di cinquantatré magnifiche navi e la sua residenza di campagna era una delle più splendide di tutta l'Olanda. Durante l'inverno, la sua numerosa famiglia viveva a Huis Brabant, un'enorme dimora che si affacciava sul canale. La famiglia di Louisa occupava tre stanze all'ultimo piano e lei, dalla finestra della sua minuscola camera da letto, poteva osservare le chiatte cariche e i pescherecci che arrivavano dal mare. La stagione che preferiva era la primavera. Allora la famiglia si trasferiva in campagna, in una tenuta chiamata Mooi Uitsig. In quei giorni magici, i Leuven vivevano in un cottage dalla parte opposta del lago rispetto alla casa padronale. Lei ricordava le lunghe file di oche in arrivo dal sud, quando il tempo diventava più mite. Ammaravano sul lago con un grande scroscio e il loro verso la svegliava all'alba. Lei si rannicchiava sotto il piumino e ascoltava il padre russare dalla stanza accanto. Non si era mai sentita così al caldo e al sicuro come allora. La madre di Louisa, Anne, era inglese. Il padre di Anne era un caporale nella guardia del corpo di Guglielmo d'Orange e, dopo che questi era diventato re d'Inghilterra, aveva portato la figlia, ancora piccola, in Olanda. A sedici anni, Anne era stata assunta come cuoca nella casa dei van Ritters Wilbur Smith
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e, meno di un anno dopo, aveva sposato Hendrik. Era una donna grassoccia e allegra, sempre circondata da un alone dei deliziosi aromi della cucina: spezie, vaniglia, zafferano, pane appena sfornato... Aveva insistito perché la figlia imparasse anche l'inglese e, quand'erano sole, lo parlavano sempre. Louisa aveva orecchio per le lingue. Anne le aveva insegnato anche a cucinare e fare il pane, ricamare e cucire, oltre a tutte le altre arti femminili. Per concessione speciale di mjnheer van Ritters, Louisa aveva il permesso di seguire le lezioni insieme coi suoi figli, anche se, da lei, ci si aspettava che rimanesse seduta in fondo all'aula, in assoluto silenzio. Soltanto quand'era sola col padre poteva finalmente formulare quelle domande che aveva avuto sulla punta della lingua per tutto il giorno. Ben presto aveva imparato a mostrarsi deferente. Soltanto due volte in quegli anni Louisa aveva visto la signora van Ritters, spiando dalla finestra della classe mentre la donna saliva sull'enorme carrozza con le tendine nere, assistita da mezza dozzina di servitori. Era una figura misteriosa, avvolta in strati e strati di broccato nero, con un velo nero che le nascondeva completamente il viso. Origliando le conversazioni della madre con le altre domestiche, Louisa aveva appreso che la donna soffriva di una malattia della pelle, così grave da rendere i suoi lineamenti mostruosi come una visione infernale. Perfino il marito e i figli non la vedevano mai senza velo. Mjnheer van Ritters, invece, talvolta si presentava in aula per controllare i progressi dei figli. Sorrideva spesso alla bambina timida e graziosa seduta in fondo alla stanza. Una volta si era persino fermato vicino al suo tavolo, osservandola mentre lei scriveva sulla lavagna con una scrittura ordinata e armoniosa. Poi, sorridendo, le aveva accarezzato la testa. «Che bei capelli hai, piccola...» Le sue figlie tendevano a essere grassocce e piuttosto banali. Louisa era arrossita e poi aveva fatto una riverenza, pensando a quanto quell'uomo fosse gentile e, nel contempo, remoto e potente come Dio. Somigliava perfino all'immagine di Dio nell'enorme quadro a olio appeso nel salone dei banchetti. Era stato dipinto dal celebre artista Rembrandt van Rijn, un protetto della famiglia van Ritters, e si diceva che il nonno di mjnheer avesse posato per l'artista. Il quadro rappresentava il giorno della Resurrezione, col Signore misericordioso che innalzava in paradiso le anime dei beati, mentre, sullo sfondo, i dannati venivano sospinti verso l'abisso ardente. Quel dipinto aveva affascinato Louisa, che Wilbur Smith
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passava ore intere a guardarlo. Nello scafo fetido della Meeuw, a Louisa sembrava proprio di essere una di quelle anime maledette, destinate all'inferno. Sentì le lacrime sul punto di sgorgare e cercò di cancellare dalla mente i pensieri malinconici, che continuavano a tormentarla. Aveva appena dieci anni quando un'epidemia si era abbattuta su Amsterdam, cominciando, come sempre, dalle banchine del porto infestate dai topi ed estendendosi poi a tutta la città. Van Ritters si rifugiò a Mooi Uitsig con tutta la famiglia, ordinando di chiudere a chiave gli accessi alla tenuta e di mettere alle porte sentinelle armate così da impedire l'ingresso agli estranei. Tuttavia, allorché i domestici avevano aperto uno dei bauli di cuoio portati da Amsterdam, ne era schizzato fuori un enorme ratto grigio, che si era subito lanciato lungo la scala. Nonostante quell'incidente, per alcune settimane si erano ritenuti al sicuro. Poi una delle cameriere, mentre serviva la cena ai padroni, si era accasciata a terra, svenuta. Due valletti portarono la ragazza in cucina, stendendola sul lungo tavolo. La madre di Louisa, dopo averle slacciato il colletto della camicetta, lanciò un gemito, riconoscendo la collana di macchie rosse intorno al collo della ragazza. Era il segno del contagio, quello che una filastrocca popolare chiamava «l'anello di rose». Era tanto sconvolta da non badare alla pulce nera che era saltata dai vestiti della ragazza sulle sue gonne. Prima del tramonto del giorno seguente, la ragazza era morta. La mattina dopo, quando il padre di Louisa fece l'appello, due dei piccoli van Ritters risultarono assenti. Una delle bambinaie entrò nella stanza per sussurrargli qualcosa all'orecchio e lui annuì, prima di rivolgersi agli allievi. «Kobus e Tinus oggi non ci raggiungeranno. Ora, miei piccoli cari, aprite il sillabario a pagina cinque. No, Petronella, quella è pagina dieci.» Petronella aveva la stessa età di Louisa ed era l'unica, tra i figli di van Ritters, a essere cordiale con lei. Dividevano il banco in fondo all'aula; spesso lei portava a Louisa piccoli doni, e talvolta la invitava a giocare con le bambole, nella stanza dei bambini. Per l'ultimo compleanno di Louisa le aveva regalato una delle sue bambole preferite, anche se, naturalmente, la bambinaia l'aveva costretta a restituirla. Quando camminavano lungo il lago, Petronella la prendeva per mano. «Tinus è stato tanto male, stanotte», sussurrò la piccola a Louisa. «Ha vomitato, e il vomito aveva un odore terribile.» Verso la metà della mattinata, Petronella si alzò improvvisamente, Wilbur Smith
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dirigendosi alla porta senza chiedere il permesso. «Dove vai, Petronella?» chiese in tono brusco Hendrik Leuven. Lei si girò a guardarlo, pallidissima in volto, poi, senza dire una parola, si afflosciò a terra. Quella sera stessa, Hendrik disse a Louisa: «Mjnheer van Ritters mi ha ordinato di chiudere la classe. Nessuno di noi potrà avvicinarsi alla casa padronale finché la malattia non sarà passata. Dobbiamo restare qui al cottage». «Che cosa mangeremo, papà?» Come la madre, Louisa era sempre pratica. «Tua madre ci porterà qualcosa dalla dispensa: formaggio, prosciutto, salsicce, mele e patate. Io ho il mio piccolo orto, più i conigli e i polli. Tu mi aiuterai nell'orto e continueremo le lezioni. Farai progressi più rapidamente, senza i bambini meno svegli che ti fanno perdere tempo. Sarà come una vacanza. Ci divertiremo, vedrai. Ma non puoi uscire dai confini del giardino, capito?» L'aveva fissata con aria seria, grattandosi il morso di pulce che spiccava rosso sul polso ossuto. E in realtà si divertirono, almeno per tre giorni. Poi, la mattina del quarto giorno, mentre Louisa aiutava la madre a preparare la colazione, Anne svenne, cadendo sulla stufa e rovesciandosi l'acqua bollente su una gamba. Louisa aiutò il padre a trasportarla al primo piano e a stenderla sul grande letto matrimoniale. Le fasciarono la gamba ustionata con bende imbevute di miele, poi Hendrik le slacciò il vestito, rimanendo inorridito nel vedere il rosso «anello di rose» intorno alla gola. La febbre la investì con la rapidità di un temporale estivo. In meno di un'ora, la pelle era costellata di chiazze rosse e scottava al punto che non si poteva quasi toccare. Louisa e Hendrik cercarono di tenere a bada la febbre con spugnature fredde, attingendo l'acqua dal lago. «Sii forte, mia liefling», sussurrava Hendrik alla moglie, mentre lei si rigirava sul letto, gemendo e inzuppando di sudore il materasso. «Che Dio ti protegga.» La vegliarono per tutta la notte, assistendola a turno, ma, all'alba, Louisa chiamò il padre con un urlo terribile. Una volta che lui l'ebbe raggiunta, la ragazzina gli indicò la parte inferiore del corpo nudo della madre. Ai lati dell'inguine, lungo la linea di congiunzione tra le cosce e il ventre, erano spuntati foruncoli grossi quanto il pugno chiuso di Louisa. Erano duri come pietre, di un color viola acceso, come prugne mature. «I bubboni!» Hendrik sfiorò uno di quei rigonfiamenti e, nonostante la Wilbur Smith
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leggerezza del tocco, Anne lanciò un grido di dolore e le sue viscere sprigionarono un getto esplosivo di gas e diarrea gialla che impregnò le lenzuola. Hendrik e Louisa la sollevarono di peso dal letto fetido, deponendola su un materasso pulito adagiato sul pavimento. Prima di sera, il dolore diventò così intenso e terribile che Hendrik non riusciva più a sopportare le grida della moglie. I suoi occhi scuri erano iniettati di sangue, allucinati. «Portami il rasoio», disse a Louisa. Lei era corsa verso il lavabo nell'angolo della stanza da letto e gli aveva passato la lama tagliente con una splendida impugnatura di madreperla. A Louisa era sempre piaciuto osservare il padre che prima s'insaponava le guance e poi cancellava la patina bianca con la lama dritta e lucente. «Che cosa vuoi fare, papà?» gli chiese, guardandolo affilare la lama sulla coramella. «Dobbiamo far uscire il veleno. Sta uccidendo tua madre. Tienila ferma!» Louisa afferrò i polsi della madre, stringendo forte. «Andrà tutto bene, mamma. Papà ti farà stare meglio.» Hendrik si tolse la giacca nera, avvicinandosi al letto in maniche di camicia. Quindi si mise a cavalcioni delle gambe di sua moglie, per immobilizzarla. Il sudore gli colava sulle guance e la mano gli tremava con violenza. Accostò la lama del rasoio all'enorme bubbone violaceo sull'inguine e, sussurrando: «Perdonami, Dio misericordioso», affondò la lama in senso trasversale, per inciderlo con un taglio profondo e pulito. Per un attimo non accadde nulla, poi dalla ferita profonda sgorgò una marea di sangue nero e pus giallo, denso come crema, schizzando la camicia bianca di Hendrik e macchiando anche il soffitto basso della camera da letto. Il dorso di Anne si inarcò e Louisa fu scaraventata contro la parete. Hendrik, rannicchiato in un angolo della stanza, aveva dipinta sul volto un'espressione di assoluto stupore per la violenza di quei movimenti. Anne si contorceva, rotolandosi e urlando, col viso contratto in un rictus così orribile che la piccola, terrorizzata, si portò le mani alla bocca nel tentativo di non gridare, mentre guardava il sangue sprizzare dalla ferita a getti potenti e regolari. Dopo qualche tempo, tuttavia, la sorgente scarlatta che sgorgava dal taglio si ridusse e i contorcimenti di Anne diminuirono d'intensità. Anche le sue grida si affievolirono, e alla fine rimase distesa, immobile e mortalmente pallida, in una pozza di sangue che si espandeva Wilbur Smith
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sempre più. Sfiorandole un braccio, Louisa si mise al suo fianco. «Mamma, ora va tutto bene. Papà ha fatto uscire tutto il veleno, e presto starai di nuovo bene.» Poi guardò il padre. Non lo aveva mai visto in quello stato. Piangeva, e aveva le labbra molli e tremanti, con un rivoletto di saliva che gli colava sul mento. «Non piangere, papà», gli sussurrò. «Ben presto si sveglierà.» Ma Anne non si sarebbe svegliata mai più. Dopo aver preso una vanga dalla rimessa degli attrezzi, Hendrik si diresse verso il fondo del frutteto, cominciando a scavare nel terreno sotto un grande melo. Era già metà pomeriggio quando decise che la fossa era abbastanza profonda. Allora, scosso dai brividi, rientrò in casa e, facendosi aiutare da Louisa, avvolse Anne nel lenzuolo inzuppato di sangue. Poi si avviarono in direzione del frutteto. Hendrik depose il fardello vicino alla tomba aperta e vi si calò, allungandosi per prendere il corpo di Anne e comporlo all'interno. Dopo averla adagiata sulla terra umida, che odorava di funghi, risalì e impugnò la vanga. Singhiozzando, Louisa seguì i movimenti del padre mentre lui riempiva la fossa e pressava il terreno; poi andò nel campo oltre la siepe a cogliere un fascio di fiori. Una volta tornata, però, vide che il padre non era più nel frutteto. Incapace di versare altre lacrime, scossa da singulti violenti e dolorosi, Louisa dispose i tulipani nel punto in cui doveva trovarsi la testa della madre, poi si avviò verso il cottage. Il padre era seduto al tavolo, con la camicia sporca di sangue e terriccio. Si teneva la testa fra le mani, le spalle parevano squassate dai brividi e batteva i denti. Alzò la testa per guardarla, mostrando così un viso pallido e chiazzato. «Papà, stai male anche tu?» Louisa fece un passo in avanti, ma fu subito costretta a indietreggiare: non appena lui aveva aperto la bocca, dalle labbra era sgorgato un fiotto di vomito scuro, che aveva inondato il piano di legno levigato del tavolo. Subito dopo, Hendrik si accasciò, scivolando sul pavimento di pietra. Era troppo pesante perché lei potesse sollevarlo, o anche soltanto trascinarlo lungo le scale. Gli rimase accanto lì, in cucina, cercando di ripulirlo dal vomito e dalle feci liquide, e facendogli spugnature con l'acqua gelida del lago per abbassare la febbre. Ma non ebbe il coraggio di usare il rasoio su di lui. Così, due giorni dopo, anche il padre era spirato, disteso sul pavimento della cucina. Wilbur Smith
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Ora devo essere coraggiosa. Non sono più una bambina, si disse Louisa. Non c'è nessuno che possa aiutarmi. Devo essere io a occuparmi di papà. Si avventurò nel frutteto, trovando la vanga vicino alla tomba della madre, là dove l'aveva lasciata cadere il padre, e si mise a scavare. Un compito duro e lento. A un certo punto, la fossa divenne troppo profonda e le sue braccia di bambina non ebbero più la forza di spalare all'esterno il terriccio umido; Louisa allora prese una cesta che si usava per le mele e la riempì di terra, issandola poi in superficie servendosi di una corda. Grazie a una lanterna, continuò il suo lavoro anche dopo che era scesa la sera. Una volta che la fossa era diventata profonda quanto la sua statura, lei tornò al cottage, cercando di trascinare il cadavere del padre verso la porta. Ma era esausta, aveva le mani arrossate e piene di vesciche lasciate dal manico della vanga. Non riuscì neppure a smuoverlo. Allora gli stese sopra una coperta per nascondere il volto cereo e chiazzato e gli occhi sbarrati, poi si distese al suo fianco, dormendo fino al mattino. Si svegliò quando il sole, entrando dalla finestra, la colpì in pieno viso coi suoi raggi. Louisa tagliò una fetta del prosciutto appeso nella dispensa e una porzione di formaggio, mangiando il tutto con un cantuccio di pane secco. Poi si spinse fino alle scuderie sul retro della grande casa. Le era stato proibito di andarci, lo rammentava bene, quindi sgusciò di soppiatto dietro la siepe. Ma le scuderie erano deserte: gli stallieri dovevano essere fuggiti con tutti gli altri servitori. Passando dal varco segreto nella siepe scoperto insieme con Petronella, vide poi che i cavalli erano ancora negli stalli, ed erano rimasti da giorni senza acqua e senza foraggio. Allora aprì le porte, facendoli uscire sul prato chiuso. Gli animali scesero subito al galoppo in riva al lago, schierandosi lungo la riva per abbeverarsi. Prendendo una cavezza dalla selleria, Louisa raggiunse il pony di Petronella mentre questi stava ancora bevendo. Petronella le aveva lasciato cavalcare il pony ogni volta che voleva, quindi la bestia la riconosceva e si fidava di lei. Non appena aveva alzato la testa, con l'acqua che gli grondava dal muso, Louisa ne aveva approfittato per passargli la cavezza sulle orecchie e condurlo al cottage. La porta sul retro era abbastanza ampia per consentire il passaggio del pony. Esitò a lungo, cercando di escogitare un modo più rispettoso per trasportare il padre fino alla tomba, ma alla fine si limitò a passargli una corda intorno ai piedi, e il pony lo trascinò nel frutteto, con la testa che sobbalzava sul terreno irregolare. Quando il cadavere scivolò oltre l'orlo Wilbur Smith
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della fossa poco profonda, Louisa versò le sue ultime lacrime. Sganciata la cavezza e tolta la corda, lasciò il pony Ubero nel recinto dei cavalli, poi si calò nella fossa per cercare di comporre la salma, scoprendo tuttavia che le membra si erano già irrigidite. Andò quindi a raccogliere un altro mazzo di fiori, li sparse sul corpo, s'inginocchiò vicino alla tomba e, con la sua voce dolce e potente, intonò Il Signore è il mio pastore in inglese, come le aveva insegnato la madre. Infine cominciò a spalare la terra nella fossa per ricoprirlo. Quando finì, era già calata la notte. Stremata fisicamente ed emotivamente, tornò al cottage. Non aveva né la forza né la voglia di mangiare, e neanche di salire le scale per andare a letto. Si stese vicino al focolare, scivolando quasi subito in un sonno simile alla morte. Si svegliò prima di giorno, assalita dalla sete e da un mal di testa così violento che le sembrava che il cranio dovesse scoppiarle. Quando tentò di alzarsi, però, avvertì un'intensa nausea e fu colta dalle vertigini. Inoltre si sentiva la vescica gonfia e dolente. A nulla valsero i suoi tentativi per uscire in giardino a svuotarla: un'altra ondata di nausea la travolse, costringendola a piegarsi lentamente in due e a vomitare sul pavimento della cucina. Raggiunte barcollando le pentole di rame, appese a una fila di ganci lungo la parete opposta, Louisa guardò la propria immagine riflessa nel fondo lucente di una delle pentole. Poi, con un gesto lento e riluttante, si sfiorò la gola, fissando l'anello di rose che le cingeva il collo di un candore latteo. Le gambe le cedettero e lei si lasciò cadere sulle pietre del pavimento. Sentiva le nubi oscure della disperazione raccogliersi nella sua mente, mentre la vista cominciava a offuscarsi. Poi, d'un tratto, scoprì una scintilla che ardeva ancora nel buio, una minuscola scintilla di forza e determinazione. Vi si aggrappò, difendendola come se fosse la fiamma di una lampada che tremolava nel vento, aiutandola a respingere l'oscurità. «Devo pensare», mormorò. «Devo alzarmi. Lo so che cosa succederà, com'è stato per mamma e papà. Devo tenermi pronta.» Con fare incerto, appoggiandosi alla parete, si rimise in piedi. «Devo fare presto. Sento che comincia ad avvenire tutto in fretta.» Rammentò la terribile sete che aveva tormentato i genitori moribondi. «Acqua!» esclamò allora, avviandosi, con le gambe molli, verso la pompa nel cortile e portando con sé il secchio per l'acqua rimasto vuoto. Ogni movimento che faceva per azionare quella lunga maniglia era una prova di forza e di coraggio. «Non tutti muoiono», si ripeté, mentre lavorava. «Ho sentito i grandi parlare tra loro. Hanno Wilbur Smith
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detto che alcuni dei giovani e forti sopravvivono. Non muoiono.» L'acqua cominciò a sprizzare nel secchio. «Io non morirò. Non voglio! Non voglio morire!» Quando il secchio fu pieno, si diresse barcollando verso la conigliera e il pollaio, lasciando liberi tutti gli animali. «Non potrò prendermi cura di voi», spiegò alle bestiole. Reggendo il secchio, tornò a passi malfermi in cucina, con l'acqua che traboccava e le bagnava le gambe. Posò il secchio vicino al focolare, con un ramaiolo agganciato all'orlo. Cibo! si disse poi, nonostante le vertigini che l'assalivano. Prese dalla dispensa i resti del formaggio e del prosciutto, insieme con un cestino di mele, mettendo il tutto dove poteva raggiungerlo facilmente. «Freddo... Di notte farà freddo...» Si trascinò verso la cassa della biancheria, dove la madre custodiva quel che restava del suo corredo. Tirò fuori un mucchio di coperte di lana e una pelle di pecora, disponendole poi sul pavimento vicino al camino; quindi prese una bracciata di legna da ardere e, non appena cominciarono i brividi, accese il fuoco. «La porta! Chiudi la porta!» Aveva sentito dire che in città i maiali e i cani ridotti alla fame avevano fatto irruzione nelle case i cui abitanti stavano troppo male per difendersi, e li avevano divorati vivi. Perciò chiuse la porta, inserendo il paletto nelle staffe. Si mise poi vicino alla pelle di pecora l'ascia e un coltello da scalco, appartenuti al padre. Nei tetti di paglia e nelle pareti del cottage c'erano i topi. Li aveva sentiti, di notte, e la madre si era lamentata delle scorrerie che facevano nella sua dispensa. Petronella aveva spiegato a Louisa che un giorno, mentre la nuova balia era ubriaca di gin, un ratto enorme si era introdotto nella stanza dei bambini della casa padronale. Il padre aveva trovato quella bestiaccia orribile nel letto della sorellina e aveva ordinato agli stallieri di frustare la balia ubriaca. Le urla della povera donna erano penetrate nell'aula dove si faceva lezione e i bambini, ascoltandole, si erano scambiati occhiate miste di orrore e delizia. Ma Louisa si sentiva accapponare la pelle al pensiero di essere esposta alle zanne dei ratti, affilate come rasoi. Con le ultime forze, tirò giù dal gancio la più grande delle pentole di rame della madre, sistemandola nell'angolo col coperchio sopra. Era una bambina schizzinosa, e l'idea di farsela addosso com'era accaduto ai genitori la faceva inorridire. Non posso fare altro, pensò, lasciandosi cadere sulla pelle di pecora. Wilbur Smith
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Nella testa le turbinavano nuvole scure e il sangue dava l'impressione di ribollire nelle sue vene. «Padre nostro che sei nei Cieli...» Si mise a recitare in inglese la preghiera che le aveva insegnato sua madre, ma l'oscurità che si gonfiava intorno a lei sembrava inghiottire quell'invocazione. Louisa perse conoscenza per un tempo lunghissimo. Poi, d'un tratto, come un nuotatore che risale da una grande profondità, la ragazzina si rese conto che il buio aveva ceduto il posto a una luce bianca e abbagliante; la stordiva e l'accecava, come il sole su un campo innevato. Da quella luce scaturì il freddo, gelandole il sangue nelle vene e ghiacciandole le ossa al punto di farla rabbrividire con violenza. Muovendosi a fatica, riuscì a coprirsi con la pelle di pecora, raggomitolandosi su se stessa e tirando le ginocchia contro il petto. Poi tastò con cautela le natiche, timorosa di scoprire l'umido delle feci liquide. Invece aveva la pelle asciutta, e, annusando le dita, si accorse che erano pulite. Fu allora che rammentò una frase detta dal padre alla madre: «Il segno peggiore è la diarrea. A quelli che sopravvivono non si sciolgono le viscere». «È un segno di Gesù», sussurrò Louisa, coi denti che battevano. «Non mi sono sporcata. Non morirò.» Poi il calore ardente riapparve, dissipando il freddo e la luce bianca. Lei si agitò, in preda al delirio, invocando a gran voce il padre, la madre e Gesù. La risvegliò la sete: era come un incendio nella gola, e la lingua, che le riempiva la bocca arida, sembrava una pietra arroventata al sole. Si sollevò su un gomito per raggiungere il ramaiolo. Al primo tentativo, si versò quasi tutta l'acqua sul petto, ansimando e tossendo per mandare giù pochi sorsi. Eppure quella minima quantità d'acqua, miracolosamente, parve rinnovare le sue forze. Al tentativo seguente, mandò giù tutto il contenuto del ramaiolo. E, dopo essersi riposata qualche istante, ne bevve un altro. Finalmente il fuoco che le ardeva nel sangue parve diminuire d'intensità. Si rannicchiò di nuovo sotto la pelle di pecora, col ventre gonfio dell'acqua bevuta. E il sonno che la sopraffece era profondo, ma naturale. A svegliarla fu il dolore. Non sapeva dove si trovava, o che cosa avesse causato quella sofferenza. Poi sentì un rumore vicino a lei, come uno strappo. Aprì gli occhi e, abbassando lo sguardo, si accorse che uno dei suoi piedi sporgeva dalla pelle di pecora. Curvo sul piede nudo, c'era un animale grosso come un gatto, grigio e peloso; per un attimo non capì che cosa fosse, ma poi sentì di nuovo lo strappo e il dolore. Avrebbe voluto Wilbur Smith
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affibbiargli un calcio, o urlare, ma era paralizzata. Il suo incubo peggiore stava diventando realtà. La creatura alzò la testa, scrutandola con gli occhietti scintillanti come perline nere; i baffi fremevano sul muso lungo e appuntito, le zanne sottili erano rosse di sangue. Quel ratto le stava addentando la caviglia! La ragazzina e il ratto si guardarono negli occhi, ma Louisa era ancora paralizzata dall'orrore. L'animale allora aveva abbassato la testa, azzannandola di nuovo. Muovendosi lentamente, Louisa allungò la mano verso il coltello da scalco, poi, con la prontezza di un gatto, si avventò contro la bestiaccia. Il ratto fu quasi altrettanto rapido, spiccando un balzo in aria, ma la punta del coltello gli squarciò il ventre e l'animale, con uno squittio, ricadde sul pavimento. Louisa mollò il coltello, rimanendo a guardare a occhi sbarrati il ratto che tentava di allontanarsi sul pavimento di pietra, trascinandosi dietro il viluppo viscido e purpureo delle viscere. Le ci volle molto tempo perché il suo cuore rallentasse i battiti e il respiro si placasse. Poi si accorse che quella violenta emozione l'aveva resa più forte. Sollevandosi a sedere, esaminò la ferita: i morsi erano profondi, ma lei strappò subito una striscia dalla sottoveste per fasciarsi la caviglia. D'un tratto capì di essere affamata. Strisciando fino al tavolo, vi si aggrappò per alzarsi. Il ratto aveva attaccato il prosciutto, ma lei scartò la parte rosicchiata prima di tagliarne una fetta spessa e posarla su un pezzo di pane. Il formaggio era ricoperto da una muffa verde, segno che era passato molto tempo da quand'era rimasta priva di sensi, ma, nonostante la muffa e il resto, aveva un sapore delizioso. Bevve anche l'ultimo ramaiolo d'acqua. Avrebbe voluto riempire di nuovo il secchio, ma sapeva di non essere abbastanza forte e aveva paura di aprire la porta. Si trascinò verso il pentolone di rame nell'angolo, accovacciandosi sopra. Mentre orinava, sollevò la gonna per esaminare la parte inferiore del ventre. Era liscia e intatta, con la fessurina innocente ancora glabra... ma c'erano due bubboni gonfi all'inguine, duri come ghiande e dolenti al tocco. Comunque non avevano né lo stesso colore spaventoso né le dimensioni di quelli che avevano ucciso la madre. Il pensiero di Louisa andò al rasoio, ma lei sapeva che non avrebbe avuto il coraggio d'inciderli da sola. «Non morirò!» Per la prima volta ci credeva davvero. Abbassando la gonna, tornò strisciando verso la pelle di pecora e si riaddormentò col coltello stretto nella mano. Da allora, i giorni e le notti parvero fondersi in Wilbur Smith
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una serie di sonni e brevi periodi di veglia che si susseguivano come in sogno. A poco a poco, tuttavia, i periodi di veglia divennero più lunghi di quelli che trascorreva dormendo. Ogni volta che si svegliava, si sentiva più forte, maggiormente in grado di badare a se stessa. Trovandosi a dover usare di nuovo il pentolone, scoprì anche che i bubboni si erano ridotti e avevano cambiato colore, passando dal rosso al rosa. Non erano più tanto dolenti quando li toccava. Si convinse che doveva bere molto. Facendo appello alle ultime stille di coraggio e di forza, uscì in cortile, con passo malfermo, per riempire il secchio, poi si chiuse di nuovo in cucina. Una volta che il prosciutto si fu ridotto all'osso e il cestino delle mele fu vuoto, Louisa scoprì che si sentiva abbastanza forte per uscire nell'orto e raccogliere un cesto di rape e patate. Riaccese il fuoco, usando l'acciarino del padre, e cucinò uno stufato di verdure, insaporito con l'osso del prosciutto. Il cibo era delizioso, e lei si accorse che stava davvero recuperando le forze. Ogni mattina, da allora in poi, s'impose un nuovo compito. Il primo giorno svuotò nella fossa della composta di suo padre la pentola di rame usata come vaso da notte, lavandola poi con la liscivia e l'acqua bollente. Poi la riappese al gancio. Sapeva che la madre avrebbe voluto così. Lo sforzo, tuttavia, la sfinì, costringendola a ridistendersi sulla pelle di pecora. La mattina seguente si sentì abbastanza forte da riempire il secchio con l'acqua della pompa, togliersi i vestiti sporchi e lavarsi dalla testa ai piedi con un mestolo del prezioso sapone che la madre preparava, facendo bollire insieme grasso di pecora e cenere di legna. Con gioia, vide che i bubboni all'inguine erano quasi scomparsi. Poteva addirittura premerli forte con la punta delle dita, ma il dolore restava sopportabile. Quindi si lavò i denti con un dito intinto nel sale e curò il morso del topo ricorrendo alla cassetta dei medicinali della madre. Poi, dalla cassa della biancheria, scelse alcuni vestiti puliti. Il giorno dopo, dato che era di nuovo affamata, catturò uno dei conigli che saltellavano fiduciosi nell'orto; prendendolo per le orecchie e facendosi forza, gli spezzò il collo col bastoncino che il padre teneva da parte per quello scopo. Poi sventrò il coniglio, lo spellò come le aveva insegnato la madre e lo tagliò in quarti che mise nella pentola, coprendoli con cipolle e patate. Mangiò tutto, fino all'ultimo boccone, succhiando gli ossi sinché non furono del tutto puliti. Wilbur Smith
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La mattina dopo ancora, andò nel frutteto, dedicandosi a risistemare le tombe dei genitori. Benché, fino a quel momento, non avesse mai lasciato il giardino, facendo appello al suo coraggio e passando attraverso il varco nella siepe, sgattaiolò nella serra e, dopo essersi accertata che nessuno dei giardinieri fosse in giro - anche se, in realtà, l'intera tenuta pareva deserta -, scelse alcuni dei fiori più belli dall'ampia esposizione sulle mensole e li trasferì su una carriola, piantandoli infine nel terriccio delle tombe, che aveva spianato. Lavorando, parlava coi genitori, raccontando loro ogni dettaglio della terribile prova che aveva superato, del topo, del coniglio e di come aveva cucinato lo stufato nella pentola nera a tre piedi. «Mi dispiace tanto di aver usato la tua pentola di rame migliore, mamma.» Abbassò la testa, sentendosi in colpa. «Ma l'ho lavata e appesa di nuovo alla parete.» Sistemate le tombe in modo soddisfacente, Louisa sgattaiolò ancora una volta attraverso la siepe e, facendo un giro vizioso attraverso gli abeti per avvicinarsi alla casa padronale dal lato sud, scoprì che la dimora era silenziosa e spoglia, con tutte le finestre sbarrate. Si avvicinò cautamente alla porta principale, ma anch'essa era chiusa e sprangata. Qualcuno, inoltre, vi aveva tracciato sopra una croce rossa, ma la vernice era colata sul pannello della porta, come una lacrima di sangue. Indicava che, in quella casa, si era diffuso il contagio. Louisa si sentì di colpo sola, completamente abbandonata. Seduta sui gradini della porta, mormorò: «Credo di essere l'unica persona rimasta al mondo. Tutti gli altri sono morti». La disperazione, però, la rese audace, spingendola a fare di corsa il giro della casa, fino alla cucina e alle stanze della servitù. Appoggiandosi alla porta della cucina, scoprì, con un certo stupore, che si poteva aprire. «Ehilà!» gridò allora. «C'è qualcuno, qui? Stals! Hans! Dove siete?» La cucina era deserta. Attraversando il locale, raggiunse il retrocucina. «Ehilà!» Nessuna risposta. Perlustrò quindi tutta la casa, frugando in ogni stanza, ma erano tutte deserte. Ovunque si vedevano i segni della frettolosa partenza della famiglia. Senza toccare nulla, Louisa uscì, chiudendosi con cautela la porta della cucina alle spalle. Lungo la via del ritorno, fu assalita da un pensiero improvviso, che la spinse a deviare dal sentiero per raggiungere la cappella in fondo al roseto. Alcune delle lapidi nel cimitero risalivano a duecento anni prima ed erano coperte di muschio. Vicino alla porta della cappella, tuttavia, c'era una fila Wilbur Smith
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di tombe nuove, sulle quali non erano state ancora disposte le lapidi. I mazzolini di fiori erano avvizziti. Nomi e messaggi di addio erano scritti su cartoncini dai bordi neri, posati su ogni tumulo di terra fresca. L'inchiostro era colato sotto la pioggia, però Louisa riuscì a leggere i nomi. Ne trovò uno che diceva: PETRONELLA KATRINA SUSANNA VAN RITTERS. La sua piccola amica era sepolta in mezzo a due dei fratelli minori. Tornò di corsa al cottage e, quella sera, prese sonno tra i singhiozzi. Quando si svegliò, si sentì di nuovo malata e debole, in preda alla tristezza e alla solitudine. Trascinandosi in cortile, si lavò sotto la pompa il viso e le mani, poi alzò di scatto la testa, con l'acqua che ancora le scorreva negli occhi e le gocciolava dal mento. Chinò il capo di lato e, sul suo viso, apparve un'espressione di gioia, mentre i suoi occhi scintillavano di luci azzurre. «Gente!» esclamò. «Voci!» Erano fioche e provenivano da un punto indefinito, nei pressi della casa padronale. «Sono tornati. Non sono più sola.» Col viso ancora rigato di lacrime, corse verso la siepe, balzando dalla parte opposta, e si diresse verso la grande casa. A mano a mano che si avvicinava, il suono delle voci umane diventava più forte. All'angolo della serra, sostò per riprendere fiato. Stava per mettersi a correre sui prati, allorché qualcosa - un'intuizione, forse - le consigliò di essere prudente. Affacciandosi con cautela dall'angolo del muro di mattoni rossi, si sentì pervadere da un brivido di orrore. Si era aspettata di vedere sul viale di ghiaia le carrozze con lo stemma dei van Ritters, da cui scendevano i componenti della famiglia, mentre i cocchieri, gli stallieri e i valletti si affaccendavano intorno a loro. Invece si trovò davanti a un'orda di sconosciuti che entravano in casa e ne uscivano con le braccia cariche di argenteria, vestiti e quadri. Le porte erano state sfondate e i battenti fracassati pendevano, sbilenchi, dai cardini. I saccheggiatori, gridando e ridendo, stavano ammassando i tesori su una fila di carriole. Louisa capì subito che si trattava della feccia cittadina: i malviventi dei magazzini del porto e dei quartieri malfamati, i disertori dell'esercito e i rifiuti delle prigioni e delle caserme, ritrovatisi liberi dopo che gli ufficiali e i carcerieri erano stati tolti di mezzo dall'epidemia. Erano vestiti coi cenci dei vicoli e dei bassifondi, divise militari spaiate e vestiti troppo grandi, presi dalle case dei ricchi che avevano saccheggiato. Un Wilbur Smith
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furfante, che portava un cappello alto con le piume, reggeva come un trofeo una bottiglia quadrata di gin, e scendeva la scala principale con un vassoio d'oro massiccio sotto il braccio. Il suo viso arrossato, segnato dall'alcol e dagli eccessi, si girò verso Louisa. Stupita dalla scena, la ragazzina era stata troppo lenta a rintanarsi al riparo del muro. Lui la vide e si lasciò sfuggire un urlo tonante. «Una donna, per Satana e tutti i diavoli dell'inferno, una donna in carne e ossa! Giovane e succosa come una mela rossa matura.» Lasciando cadere la bottiglia di gin, sguainò la spada. «Vieni qui, piccola giumenta dolce. Facci vedere cosa nascondi sotto quelle graziose gonnelline.» Scese la scala a lunghi balzi, mentre i suoi compagni lanciavano grida selvagge. «Una donna! Addosso, ragazzi! Chi la prende avrà la ciliegina!» Si slanciarono sul prato, verso di lei, come un branco schiamazzante. Giratasi di scatto, Louisa si mise a correre, dirigendosi istintivamente verso il cottage. Poi però si rese conto che le stavano alle calcagna e l'avrebbero intrappolata nell'edificio, come un coniglio nella tana inseguito da un gruppo di furetti. Deviando attraverso il recinto, si diresse quindi verso il bosco. Il terreno era fangoso e le sue gambe non avevano ancora ripreso forza dopo la malattia, perciò i bruti guadagnavano terreno, lanciando grida sonore e trionfanti. Raggiunse la linea degli alberi, precedendo di poco i primi inseguitori, ma conosceva a fondo quella zona, perché vi aveva giocato spesso. Seguendo un percorso tortuoso, imboccò sentieri che si distinguevano a stento, penetrando fra intrichi di more e ginestra spinosa. A intervalli si fermava per ascoltare, e ogni volta i suoni dell'inseguimento diventavano più fiochi. Poi, d'un tratto, cessarono. Louisa si tranquillizzò un poco, ma sapeva quanto fosse pericoloso lasciare il riparo della foresta. Individuato il tratto più fitto di rovi, vi strisciò attraverso, avanzando ventre a terra; poi si rintanò tra le foglie morte finché le rimasero allo scoperto soltanto la bocca e gli occhi, in modo da poter sorvegliare la radura. Distesa lì, ansimando e tremando, attese il momento in cui le ombre degli alberi si allungarono sul terreno. Poi, dato che non udiva più i rumori e le urla degli inseguitori, riprese a strisciare, tornando verso la radura tra gli alberi di faggio. Stava per alzarsi e uscire allo scoperto, quando, annusando l'aria, sentì una zaffata di fumo di tabacco e si gettò di nuovo a terra, di nuovo in preda Wilbur Smith
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al terrore. Dopo qualche minuto di silenzio teso, alzò lentamente la testa. All'estremità opposta della radura c'era un uomo, seduto a terra con la schiena addossata al tronco del faggio più alto. Fumava una pipa d'argilla col cannello lungo, ma non faceva che spostare lo sguardo da una parte all'altra. Lo riconobbe all'istante: era l'uomo col cappello piumato che l'aveva scorta per primo e aveva guidato la caccia. Era così vicino che lei poteva udire chiaramente ogni boccata che lui tirava dalla pipa. Louisa affondò il viso nel marciume delle foglie, tentando di placare il tremito che la scuoteva. Non sapeva che cosa avrebbe fatto lui se l'avesse scoperta, ma intuiva che sarebbe stata una cosa orribile, peggiore dei suoi peggiori incubi. Restando distesa, ascoltò il risucchio e il gorgoglio della saliva nel cannello della pipa; la sua paura aumentava. D'un tratto, lui si raschiò la gola e sputò un grumo di muco spesso e denso. Louisa lo sentì atterrare vicino alla sua testa, ed ebbe l'impressione che i suoi nervi si spezzassero. Fu solo ricorrendo a tutto il suo coraggio che riuscì a non balzare in piedi e fuggire. Il tempo sembrava essersi fermato... A un certo punto, lei sentì la fredda aria notturna sulle braccia nude, ma non sollevò la testa. Poi udì un fruscio tra le foglie e alcuni passi pesanti che venivano direttamente verso di lei, attraverso la radura. Si fermarono vicino alla sua testa. Fu allora che una voce ruggì così vicino a lei che le parve di sentire il cuore spezzarsi. «Eccoti là! Posso vederti! Aspettami che arrivo! Corri, faresti meglio a correre!» Il cuore ghiacciato di Louisa si ridestò alla vita e ricominciò a martellare contro le costole, però lei s'impose di non muoversi. Ci fu un altro lungo silenzio, quindi i passi si allontanarono dal punto in cui lei era distesa. Mentre se ne andava, lo sentì mormorare: «Sporca sgualdrinella... Bah, in ogni modo è probabile che sia impestata». Louisa rimase immobile finché non calò il buio e un gufo lanciò il suo richiamo in cima al faggio. Poi si alzò e si rimise a correre tra gli alberi, sussultando e tremando a ogni fruscio delle piccole creature notturne che la circondavano. Non uscì più dal cottage per alcuni giorni. Di giorno s'immergeva nella lettura dei libri del padre. Ce n'era uno, in particolare, che l'affascinava. Lo lesse dalla prima all'ultima pagina, e poi ricominciò dall'inizio. Era intitolato Nel cuore dell'Africa nera. Quei racconti di animali strani e di Wilbur Smith
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tribù selvagge la incantavano, aiutandola a trascorrere quelle lunghe giornate. Leggeva di grandi uomini pelosi che vivevano in cima agli alberi, di una tribù che mangiava le carni di altri uomini e di minuscoli pigmei con un occhio solo al centro della fronte. La lettura divenne una specie di oppiaceo, che riusciva a placare i suoi timori. Una sera, si addormentò seduta al tavolo della cucina, coi capelli d'oro che ricadevano sul libro aperto e la fiamma che fluttuava nella lampada. La luce tremolante filtrava dalla finestra senza tenda e, da lì, attraverso un varco nella siepe. Due figure scure che passavano lungo la strada si fermarono per scambiarsi poche parole con voce roca, poi sgusciarono in silenzio attraverso la siepe. Uno dei due si diresse alla porta d'ingresso del cottage, mentre l'altro faceva il giro sul retro. «Chi è là?» Quel grido aspro svegliò bruscamente Louisa, spingendola nel contempo ad alzarsi. «Sappiamo che sei lì! Vieni subito fuori!» Lei si precipitò verso la porta sul retro, sforzandosi di togliere il paletto, poi spalancò il battente per fuggire nella notte. In quel momento, una massiccia mano maschile cadde sulla sua nuca, e lei si sentì sollevare per la collottola, coi piedi penzoloni che scalciavano inutilmente. L'uomo che la teneva aprì lo sportello della lanterna cieca che teneva in mano, proiettando il raggio sul suo viso. «Chi sei?» le domandò. Alla luce della lampada, lei riconobbe il viso rosso e i favoriti folti. «Jan!» strillò. «Sono io, Louisa. Louisa Leuven.» Jan era il valletto dei van Ritters. L'espressione bellicosa sul suo viso scomparve, sostituita da un'aria di profondo stupore. «La piccola Louisa! Sei davvero tu? Credevamo che foste morti tutti quanti.» Qualche giorno dopo, Jan l'accompagnò ad Amsterdam col carro che trasportava una parte dei beni dei van Ritters sfuggiti al saccheggio. Quando la fece entrare nella cucina della residenza di città, i domestici scampati all'epidemia si strinsero intorno a lei, per darle il benvenuto. Il suo aspetto grazioso, i suoi modi cortesi e la sua natura solare l'avevano resa una beniamina negli alloggi della servitù, quindi la notizia che Anne e Hendrik erano morti aveva rattristato tutti. Quasi non riuscivano a credere che la piccola Louisa, a dieci anni appena, fosse sopravvissuta e l'avesse fatto senza neppure l'assistenza di un parente o di un amico, ma affidandosi soltanto alle sue risorse e alla sua volontà. E Louisa dovette ripetere la storia un'infinità di volte, dato che gli altri servitoli, gli operai e Wilbur Smith
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i marinai delle navi e dei magazzini dei van Ritters vollero tutti ascoltarla fin nei minimi dettagli. Elise, la cuoca, che era stata una buona amica della madre, la prese subito sotto la sua protezione. Ogni settimana, Stals, il maggiordomo, scriveva un rapporto a mjnheer van Ritters, rifugiatosi a Londra col resto della famiglia per sfuggire all'epidemia. Alla fine di uno di quei rapporti, Stals accennò al fatto che Louisa, la figlia del precettore, si era salvata. E mjnheer fu tanto generoso da rispondere: «Fate in modo che la bambina sia accolta in casa e messa al lavoro. Potete darle la paga di una sguattera. Quando tornerò ad Amsterdam, deciderò che cosa fare di lei». Ai primi di dicembre, allorché il freddo purificò la città dalle ultime tracce del morbo, mjnheer van Ritters riportò a casa la famiglia. La moglie era stata uccisa dal morbo, ma la sua scomparsa non avrebbe portato il minimo cambiamento nella loro vita. Dei dodici figli di van Ritters, soltanto cinque erano sopravvissuti all'epidemia. Mjnheer van Ritters era ad Amsterdam da oltre un mese, e aveva sbrigato già tutte le faccende che richiedevano la sua attenzione, quando, una mattina, disse a Stals che intendeva incontrare Louisa. Poco dopo, lei apparve sulla soglia della biblioteca di mjnheer van Ritters, troppo timorosa per entrare. Lui invece alzò la testa dal voluminoso registro rilegato in cuoio sul quale stava scrivendo e le ordinò: «Avanti, bambina mia. Vieni qui, dove posso vederti». Tenendola per mano, Stals la condusse davanti allo scrittoio. Louisa fece la riverenza e lui annuì con approvazione. «Tuo padre era un brav'uomo, e ti ha insegnato le buone maniere.» Si alzò, andando a mettersi davanti all'alto bovindo. Per almeno un minuto guardò oltre i pannelli romboidali di vetro, osservando una delle sue navi che scaricava balle di cotone delle Indie destinate al suo magazzino. Poi si girò a fissare Louisa. Era cresciuta, dall'ultima volta che l'aveva vista: il viso e le membra si erano riempiti e arrotondati. Sapeva che era stata malata e si era salvata, però si era ripresa bene. Sul suo viso non si scorgeva la minima traccia delle devastazioni prodotte dalla malattia. Era una ragazza graziosa... Anzi molto graziosa, decise. Non era una bellezza insipida, però: aveva un'espressione sveglia e intelligente. Gli occhi erano vivaci e luminosi, azzurri come uno zaffiro di pregio. La pelle era perfetta e vellutata, ma la sua maggiore attrattiva erano di certo i capelli, che portava raccolti in due lunghe trecce sulle spalle. Le rivolse alcune domande, e lei tentò di Wilbur Smith
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nascondere la paura e la soggezione che provava nei suoi confronti e di rispondere in modo sensato. «Frequenti le lezioni, piccola?» «Ho tutti i libri di mio padre, mjnheer. Leggo ogni sera prima di addormentarmi.» «Che lavoro fai?» «Lavo e sbuccio gli ortaggi, impasto il pane e aiuto Pieter a lavare e asciugare pentole e padelle, mjnheer.» «E sei felice?» «Oh, sì, mjnheer. Elise, la cuoca, è così gentile con me, come mia madre.» «Credo che potremmo trovare qualcosa di più utile da farti fare.» Van Ritters si sfregò la barba con aria pensierosa. Elise e Stals avevano istruito Louisa sul comportamento da tenere in sua presenza. «Ricorda sempre che è uno degli uomini più importanti del Paese. Chiamalo sempre 'eccellenza' oppure 'mjnheer'. Fa' la riverenza quando lo saluti e quando te ne vai.» «Fa' esattamente quello che ti dice. Se ti chiede qualcosa, rispondi, ma non rivolgergli mai la parola per prima.» «Sta' dritta e non insaccare le spalle. Tieni le mani intrecciate davanti a te, senza giocherellare e senza metterti le dita nel naso.» Le istruzioni erano tante che l'avevano confusa; adesso che gli stava di fronte, però, sentiva tornare il coraggio. Certo, lui era vestito con un panno della migliore qualità, e la gorgiera era di pizzo candido. Le fibbie delle scarpe sembravano d'argento, e l'impugnatura del pugnale infilato alla cintura era d'oro, tempestata di rubini scintillanti. Era alto, con le gambe tornite e ben fatte, come quelle di un uomo con la metà dei suoi anni, nonché disegnate dalle calze di seta nera. I capelli, nonostante qualche filo d'argento, erano folti e perfettamente arricciati e pettinati. La barbetta a punta era quasi tutta bianca, ma curata e ben tagliata secondo lo stile di moda. Intorno agli occhi aveva qualche rughetta, però il dorso delle mani, quando si accarezzava la barba, appariva liscio e privo delle macchie scure dell'età. All'indice portava un anello con un rubino enorme. Nonostante l'aria solenne e dignitosa, aveva uno sguardo mite. Louisa capì che poteva fidarsi di lui, proprio come poteva fare affidamento sul fatto che il buon Gesù avrebbe vegliato sempre su di lei. «Gertruda ha bisogno di qualcuno che si occupi di lei.» Van Ritters Wilbur Smith
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aveva preso una decisione. Gertruda, la minore delle figlie superstiti, aveva sette anni ed era una bambina scialba, poco intelligente e petulante. «Le farai compagnia e l'aiuterai a studiare. So che sei intelligente.» Lei si sentì avvilita. Era cresciuta vicino a Elise, la donna che aveva sostituito Anne a capo della cucina. Non aveva voglia di abbandonare quell'atmosfera di calore e sicurezza che regnava negli alloggi della servitù per andare al piano di sopra a occuparsi di quella piagnucolosa di Gertruda. Avrebbe voluto protestare, ma Elise l'aveva ammonita a non rispondere. Abbassò la testa e fece la riverenza. «Stals, provvedi a farla vestire in modo adeguato. Verrà pagata come bambinaia e dormirà nella stanza di Gertruda», disse van Ritters. Poi congedò entrambi per tornare allo scrittoio. Louisa sapeva di dover fare buon viso a cattivo gioco. Non c'erano alternative. Mjnheer era il signore del suo universo; se avesse tentato di opporsi ai suoi dettami, le sue sofferenze non avrebbero avuto fine. Decise così di accattivarsi le simpatie di Gertruda. Non era facile, perché la bambina, più piccola di età, era assai esigente e irragionevole. Non contenta di trattare Louisa come una schiava per tutto il giorno, di notte la chiamava, gridando, se si svegliava da un incubo o se voleva usare il vaso da notte. Louisa, però, riuscì a conquistarla, mostrandosi sempre allegra e non protestando mai. Le insegnava qualche gioco semplice, la proteggeva dalle prepotenze dei fratelli e delle sorelle, cantava seduta vicino al suo letto e leggeva per lei le favole. Quando Gertruda era assillata dagli incubi, s'infilava nel suo letto, la prendeva tra le braccia e la cullava per farla riaddormentare. A poco a poco, la bambina smise i panni della tiranna. Dato che sua madre era sempre stata per lei una figura remota e velata, della quale non rammentava neanche il viso, aveva trovato in Louisa una sostituta, e la seguiva ovunque con l'ingenua fiducia di un cucciolo. Ben presto la ragazza riuscì anche a controllare i violenti accessi di collera di Gertruda durante i quali lei si rotolava urlando sul pavimento, o scaraventava il cibo contro le pareti oppure tentava di gettarsi dalla finestra nel canale. Prima di lei non c'era mai riuscito nessuno; eppure bastava una parola della giovane bambinaia per calmarla e riportarla nella sua stanza. Nel giro di pochi minuti, la bambina rideva e batteva le mani, recitando il ritornello di una filastrocca. Sulle prime, Louisa considerava quell'incarico soltanto un dovere, ma a poco a poco il suo rapporto con Gertruda si Wilbur Smith
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colorò di affetto e infine assunse persino il carattere di un affetto materno. Mjnheer van Ritters si accorse del cambiamento avvenuto nella figlia e, durante le sue occasionali visite nella stanza dei bambini e nell'aula in cui studiavano, aveva spesso una parola gentile per Louisa. Alla festa organizzata per i bambini, a Natale, la osservò danzare con la sua protetta; era tanto agile ed elegante quanto Gertruda era goffa e impacciata. Van Ritters sorrise quando Gertruda le offrì come regalo di Natale un paio di minuscoli orecchini di perle, e Louisa la ringraziò, baciandola e abbracciandola. Qualche mese dopo, van Ritters convocò Louisa in biblioteca. Discusse per qualche minuto i progressi che stava facendo con Gertruda, e le spiegò che era molto contento di lei. Poi, mentre Louisa usciva, le accarezzò i capelli. «Stai crescendo, e diventi una fanciulla deliziosa. Devo fare attenzione: qualche giovane idiota potrebbe portarti via. Gertruda e io abbiamo bisogno di te.» Lei si sentì quasi sopraffatta dalla sua benevolenza. Per il tredicesimo compleanno di Louisa, Gertruda pregò il padre di offrirle un regalo speciale. Van Ritters intendeva accompagnare uno dei figli maggiori in Inghilterra - il ragazzo doveva entrare in uno dei grandi college universitari di Cambridge - e Gertruda gli chiese di concedere loro il permesso di unirsi alla compagnia. Van Ritters, indulgente come sempre, accolse la richiesta. Salparono a bordo di una delle sue navi e trascorsero buona parte dell'estate in visita alle grandi città inglesi. Louisa rimase incantata dalla patria di sua madre e approfittò di ogni occasione per fare esercizio con la lingua. Il gruppo si trattenne a Cambridge una settimana, perché van Ritters voleva vedere ben sistemato il suo figlio prediletto. Prese in affitto tutte le stanze al Red Boar, la taverna migliore della città universitaria. Come al solito, Louisa dormì in un lettino sistemato in un angolo della stanza di Gertruda. Una mattina si stava vestendo, mentre Gertruda chiacchierava con lei seduta sul letto. D'un tratto, lei tese la mano e pizzicò un seno di Louisa. «Guarda, Louisa, ti stanno crescendo le tette.» La ragazza allontanò con delicatezza la mano della bambina. Negli ultimi mesi avevano cominciato a formarsi sotto i capezzoli i rigonfiamenti turgidi che annunciavano l'arrivo della pubertà. I seni in boccio erano Wilbur Smith
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gonfi, molto teneri e sensibili. Il pizzicotto di Gertruda era stato rude. «Non devi farlo, Gertie, schat. Mi fa male, e poi quella che hai usato era una brutta parola.» «Scusami, Louisa», disse Gertruda con le lacrime agli occhi. «Non intendevo farti male.» «È tutto a posto», la consolò l'altra, baciandola. «Allora, che cosa vuoi per colazione?» «Dolci.» Le lacrime furono subito dimenticate. «Tanti dolci con la crema e la marmellata di fragole.» «Magari più tardi possiamo andare a vedere lo spettacolo di Punch e Judy», suggerì Louisa. «Oh, davvero, Louisa? Possiamo davvero?» Quando Louisa andò a chiedere il permesso a mjnheer van Ritters, lui decise d'impulso di accompagnarle. A bordo della carrozza, Gertruda, imprevedibile come sempre, tornò sull'argomento di quella mattina. «Louisa ha le tette. Le punte sporgono in fuori.» La ragazza abbassò gli occhi, sussurrando: «Ti ho già detto che quella è una brutta parola, Gertie. Mi avevi promesso di non usarla più». «Mi dispiace, Louisa, lo avevo dimenticato.» Gertruda parve turbata, e l'altra le strinse la mano. «Non sono contrariata, schat. Voglio soltanto che ti comporti come una signora.» Van Ritters sembrava aver ignorato lo scambio di battute, perché non alzò gli occhi dal libro che teneva aperto sulle ginocchia. Tuttavia, durante lo spettacolo delle marionette, mentre Punch, col naso a becco, picchiava con un bastone la moglie che strillava, Louisa si accorse che mjnheer stava osservando proprio i teneri rigonfiamenti sotto la sua camicetta. Stringendosi addosso lo scialle, sentì il rossore salirle alle guance. Era ormai autunno quando salparono per il viaggio di ritorno ad Amsterdam. La prima notte di navigazione, Gertruda fu colta da un violento attacco di mal di mare. Louisa l'assistette, tenendole la bacinella mentre lei vomitava. Alla fine, comunque, scivolò in un sonno profondo e Louisa uscì dalla cabina fetida per respirare una boccata d'aria fresca. Si affrettò lungo la scaletta per salire in coperta, ma si fermò sul boccaporto, scorgendo l'elegante figura di van Ritters, solo sul casseretto. Gli ufficiali e l'equipaggio gli avevano lasciato il lato esposto al vento, com'era suo diritto di proprietario. Lei sarebbe voluta ridiscendere subito, ma l'uomo si Wilbur Smith
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voltò e la vide, chiamandola presso di sé. «Come sta la mia Gertie?» «Dorme, mjnheer. Sono certa che domani si sentirà molto meglio.» In quel momento, un'onda sollevò lo scafo della nave, che rollò con violenza. Colta di sorpresa, Louisa perse l'equilibrio e gli finì addosso. Van Ritters le passò un braccio intorno alle spalle. «Vi chiedo scusa, mjnheer.» Aveva la voce roca. «Sono scivolata.» Tentò di ritrarsi, ma l'uomo la teneva saldamente. Lei, confusa, non sapeva cosa fare, tuttavia non osava ritirarsi di nuovo anche perché lui non sembrava affatto disposto a lasciarla andare. Stentò a credere ai propri sensi quando sentì l'altra mano di van Ritters chiudersi sul suo seno destro. Si lasciò sfuggire un ansito e cominciò a rabbrividire, sentendo che lui sfregava tra le dita il capezzolo tenero e turgido. A differenza della figlia, era delicato e non le faceva affatto male. Poi, con un soprassalto di vergogna ardente, Louisa si rese conto che godeva di quella carezza. «Ho freddo», mormorò allora. «Sì», ribatté lui. «Devi scendere sottocoperta prima di prendere un'infreddatura.» Lasciandola andare, si girò per appoggiarsi alla battagliola. Dalla punta del sigaro sprizzarono alcune scintille, che il vento si portò via. Quando tornarono a Huis Brabant, lei non lo rivide per alcune settimane. Sentì Stals dire a Elise che mjnheer era andato a Parigi per affari. Comunque il breve incidente a bordo della nave non si cancellò mai dalla sua memoria. Talvolta, di notte, Louisa si ridestava e rimaneva sveglia, bruciando di vergogna e rimorso. Ciò che era accaduto era colpa sua, lo sapeva. Non si poteva certo biasimare un grand'uomo come mjnheer van Ritters... Quando ci pensava, inoltre, i capezzoli cominciavano a formicolare in modo strano. Sentiva dentro di sé un gran male, e si alzava dal letto per inginocchiarsi a pregare sul pavimento di nudo legno, tremando di freddo. Spesso, però, capitava che Gertruda gridasse nel buio: «Louisa, ho bisogno del vaso da notte». E, con un senso di sollievo, lei si affrettava ad andare da lei, prima che bagnasse di nuovo il letto. Nelle settimane seguenti, il senso di colpa si attenuò, ma non scomparve mai del tutto. Poi, un pomeriggio, Stals si presentò nella stanza dei bambini. «Mjnheer van Ritters vuole vederti», le disse. «Devi andare subito da lui. Spero che tu non abbia fatto niente di male, ragazza.» Lei, Wilbur Smith
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spazzolandosi in fretta i capelli, spiegò a Gertruda dove stava andando. «Posso venire con te?» «Devi finire di dipingere il quadro con la barca per me. Cerca di restare dentro le linee, schat. Torno subito.» Col cuore che le batteva all'impazzata, Louisa bussò alla porta della biblioteca. Sapeva che mjnheer l'avrebbe punita per quello che era accaduto sulla nave. Avrebbe potuto farla picchiare dagli stallieri, come già era successo con la balia ubriaca. Peggio ancora, avrebbe potuto licenziarla, gettarla per strada. «Avanti!» La voce era severa. Lei, sulla soglia, accennò a una riverenza. «Mi avete mandato a chiamare, mjnheer?» «Sì. Vieni avanti, Louisa.» Si fermò davanti allo scrittoio, ma lui le fece cenno di girare intorno al tavolo per avvicinarsi a lui. «Voglio parlarti di mia figlia.» Invece della solita giacca nera col collare di pizzo, indossava una vestaglia di pesante seta cinese, allacciata davanti. Da quell'abbigliamento informale e dall'espressione calma e benevola, Louisa intuì che non era in collera con lei. Si sentì inondare dal sollievo. Non aveva intenzione di punirla... E le parole che disse subito dopo glielo confermarono. «Ho pensato... Sarebbe ora che Gertruda prendesse lezioni di equitazione. Tu sei una buona amazzone, ti ho vista aiutare gli stallieri a esercitare i cavalli. Voglio conoscere la tua opinione.» «Oh, sì, mjnheer. Sono certa che Gertie ne sarebbe felice. Il vecchio Bumble è un castrone così mite...» Felice, cominciò ad aiutarlo a preparare il piano. Era al suo fianco, e lui aveva davanti a sé un grosso libro con la copertina di cuoio verde. Sfogliandolo distrattamente, lo lasciò aperto in modo che lo sguardo di lei vi cadesse sopra. Louisa guardò quell'illustrazione a colori, a piena pagina, e la sua voce si spense; d'istinto, poi, si portò la mano alla bocca. Era evidente che si trattava dell'opera di un abile artista. L'uomo raffigurato era giovane e attraente, seduto su una poltrona di cuoio. Di fronte, c'era una fanciulla molto giovane e molto graziosa. Stava ridendo, e Louisa, osservandola, si rese conto che avrebbe potuto essere la sua gemella. I grandi occhi, piuttosto distanti, erano di un azzurro intenso. Teneva la gonna sollevata all'altezza della vita, in modo che l'uomo potesse vedere il nido di pelo dorato tra le sue cosce. L'artista aveva messo in risalto le labbra tumide che sporgevano tra i riccioli. Già quello sarebbe bastato a farle trattenere il fiato, ma c'era di peggio, molto peggio. Il lembo anteriore delle brache dell'uomo era slacciato e, Wilbur Smith
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attraverso l'apertura, sporgeva un'asta pallida dalla punta rosata. L'uomo la teneva leggermente tra le dita, come se volesse puntarla contro la rossa fessura della giovane. Louisa non aveva mai visto un uomo nudo e, benché avesse ascoltato le altre ragazze negli alloggi della servitù discuterne con gusto, non si aspettava neanche lontanamente una cosa simile. Rimase a fissarlo, affascinata e atterrita insieme, incapace di distogliere lo sguardo. Consumata dalla vergogna e dalla paura, sentiva ondate di sangue ardente salirle al volto e infiammarle le guance. «Mi pare che la ragazza ti somigli molto, anche se non è graziosa quanto te», disse van Ritters a bassa voce. «Non sei d'accordo, mia cara?» «Io... non so», sussurrò lei, e poi sentì le gambe piegarsi, mentre la mano di mjnheer van Ritters si posava su una delle sue natiche. Aveva l'impressione che quella mano le bruciasse le carni attraverso le sottovesti. Lui chiuse la mano a coppa sulla piccola natica rotonda, e Louisa pensò che avrebbe dovuto chiedergli di smettere. Oppure doveva essere lei a fare qualcosa, a fuggire da quella stanza. Ma non poteva. Stals ed Elise le avevano raccomandato più volte di obbedire sempre a mjnheer. Rimase come paralizzata. Apparteneva a lui, proprio come uno dei suoi cavalli o dei suoi cani. Era una piccola parte dei suoi beni mobili. Doveva sottomettersi senza protestare, sebbene non fosse sicura di quello che lui stava facendo, di quello che voleva da lei. «Naturalmente l'artista si è concesso qualche libertà, in fatto di dimensioni.» Lei non poteva credere che quell'immagine fosse opera di un artista, magari dello stesso che aveva tratteggiato la figura di Dio, eppure... Sì, era possibile. Forse anche un celebre artista doveva fare quello che gli chiedeva il grand'uomo. Perdonami, buon Gesù, pregò lei, chiudendo gli occhi in modo da non dover più vedere quell'immagine perversa. Udì un lieve fruscio di rigido broccato di seta, poi lui disse: «Ecco, Louisa, questo è l'aspetto che ha dal vero». Lei teneva le palpebre serrate, e van Ritters le fece scorrere la mano sulla natica, con dolcezza, ma anche con insistenza. «Ormai sei grande, Louisa. È ora che tu conosca queste cose. Apri gli occhi, mia cara.» Obbediente, lei li socchiuse. Lui aveva aperto la vestaglia, sotto la quale non indossava niente. Così Louisa vide la cosa che si ergeva tra le pieghe di seta. L'immagine del libro non era che una rappresentazione blanda e Wilbur Smith
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idealizzata dell'oggetto reale, che svettava, imperioso, in mezzo a un nido di peli ruvidi e scuri e le sembrava spesso quanto il suo polso. L'estremità superiore non era rosata, come nell'illustrazione, ma aveva il colore delle prugne mature. La fessura all'estremità pareva addirittura fissarla. Lei richiuse subito gli occhi. «Gertruda!» bisbigliò. «Ho promesso di portarla a fare una passeggiata...» «Sei molto buona con lei, Louisa.» La voce di lui aveva uno strano timbro roco, che lei non aveva mai sentito prima di allora. «Ma ora devi essere buona anche con me.» Allungando la mano sotto le sue gonne, fece scorrere le dita sulle sue gambe nude. Indugiò sulle morbide fossette dietro le ginocchia, facendola tremare ancora di più. Quel contatto era carezzevole e stranamente rassicurante, ma lei sapeva che era sbagliato. Si sentiva confusa da quelle emozioni contrastanti, le pareva di soffocare. Le dita dell'uomo lasciarono l'incavo tenero delle ginocchia per risalire lungo la coscia. Il tocco non era più né furtivo né esitante, ma autoritario, qualcosa che Louisa non poteva negare o rifiutare. «Devi essere buona anche con me», le aveva detto, e aveva tutti i diritti di chiederglielo, lei se ne rendeva conto. Gli doveva tutto. Se ciò significava essere buona con lui, allora non aveva scelta, eppure sapeva che era qualcosa di malvagio e che Gesù l'avrebbe punita. Forse avrebbe smesso di amarla per quello che stavano facendo. Sentì il fruscio della pagina che mjnheer stava girando con la mano libera. Poi lui le disse: «Guarda!» Lei cercò di resistergli almeno in quello, serrando di nuovo gli occhi, ma il tocco delle dita divenne più esigente. Lui spostò la mano in alto, verso la piega tra la natica e il retro della coscia. «Guarda!» Aprì gli occhi, appena appena, e sbirciò attraverso le ciglia la nuova pagina del libro. La ragazza che le somigliava tanto era inginocchiata di fronte all'innamorato. Le gonne erano sollevate sul dietro, lasciando scoperto il sedere tondo e burroso. Tanto lei quanto il ragazzo tenevano lo sguardo fisso sull'inguine di lui, e l'espressione della ragazza era tenera, come se stesse osservando un animale da compagnia molto amato, un gattino, forse. Lo teneva stretto tra le manine, senza riuscire a cingerlo per intero con le dita delicate. «Non è una bella immagine?» le chiese lui. Benché si trattasse di un'illustrazione perversa, Louisa provò una strana simpatia per la giovane coppia. Sorridevano entrambi, si aveva l'impressione che si amassero e Wilbur Smith
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trovassero piacevole quello che stavano facendo. Dimenticò di chiudere di nuovo gli occhi. «Vedi, Louisa, Dio ha fatto uomini e donne diversi. Da soli, sono incompleti; insieme, si integrano...» Lei non era sicura di cosa volesse dire esattamente; del resto, c'erano state volte in cui non aveva capito neppure i discorsi del padre, o i sermoni declamati dal pastore. «È per questo che la coppia del dipinto è così felice. Vedi bene che provano amore l'uno per l'altra.» Le dita dell'uomo si mossero con gentile autorità tra le sue gambe, arrivando sino alla fessura in alto, tra le cosce. E, in quel punto, lui fece qualcos'altro, un movimento che lei non capì bene. Eppure divaricò le gambe per permettergli di compierlo più facilmente. La sensazione che la pervase fu sconvolgente, diversa da qualsiasi altra avesse mai provato. Sentiva la felicità e l'amore di cui lui le aveva parlato espandersi e diffondersi in tutto il corpo. Abbassò di nuovo gli occhi verso l'apertura della vestaglia dell'uomo; il turbamento e il timore si dissolsero. Si rese conto che quella parte del corpo di lui era davvero molto piacevole a vedersi, proprio come nell'illustrazione. Non c'era da stupirsi se l'altra ragazza la guardava con quell'espressione. Lui la costrinse con delicatezza a muoversi, e Louisa non oppose la minima resistenza. Restando seduto sulla sedia, si girò verso di lei, attirandola a sé e posandole una mano sulla spalla. D'istinto, lei comprese che le stava chiedendo di imitare la ragazza dell'illustrazione. Sotto la pressione della mano di lui, Louisa si mise in ginocchio, trovandosi con quell'oggetto di singolare, terribile bellezza a un palmo dal viso. Come la ragazza del dipinto, si protese per stringerlo tra le mani, al che lui emise un leggero grugnito. Louisa sentì che quell'asta era calda e dura. Ne rimase affascinata. La serrò con delicatezza e sentì un fremito di vita, come se fosse dotata di esistenza propria. Apparteneva a lei, e quell'idea le diede uno strano senso di potere, come se tenesse tra le mani il nucleo del suo essere. Lui posò le proprie mani sulle sue, cominciando a muoverle avanti e indietro. Sulle prime, lei non capì cosa stesse facendo, poi si rese conto che le stava mostrando come fare. Provò un forte desiderio di compiacerlo, e imparò in fretta. Mentre muoveva rapidamente le mani, come una tessitrice al telaio, lui si abbandonò all'indietro sulla sedia, lanciando un gemito. Louisa credette di avergli fatto male e tentò di alzarsi, ma lui glielo Wilbur Smith
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impedì, posandole di nuovo la mano sulla spalla e dicendole in tono quasi disperato: «No, Louisa, continua così. Non smettere. Sei una ragazza così buona e sveglia». D'un tratto, si lasciò sfuggire un profondo sospiro ed estrasse dalla tasca un fazzoletto di seta scarlatta, usandolo per coprirsi il grembo e le mani. Lei non avrebbe voluto lasciarlo andare, benché avesse sentito un fluido viscoso inondarle le mani e inzuppare la seta. Lui però le strinse i polsi, bloccando le mani. «Basta così, mia cara. Mi hai reso molto felice.» Passò molto tempo prima che si riprendesse. Prese le manine di Louisa, asciugandole col fazzoletto di seta. Lei non provò nessuna repulsione. Poi lui le sorrise con gentilezza, dicendo: «Sono molto contento di te, però non devi dire a nessuno quello che abbiamo fatto oggi. Mi capisci, Louisa?» Lei annuì con energia. Il senso di colpa era scomparso del tutto; la ragazza provava invece gratitudine e una strana reverenza. «Ora puoi tornare da Gertruda. Domani le faremo cominciare le lezioni di equitazione. Naturalmente sarai tu ad accompagnarla all'accademia.» Nelle settimane seguenti, Louisa lo vide una sola volta, e da lontano. Era a metà della scala, diretta verso la stanza di Gertruda, quando un valletto aveva aperto le porte del salone dei banchetti, e mjnheer van Ritters ne era uscito, alla testa di un corteo di ospiti, dame e gentiluomini dall'aria prospera, vestiti in modo splendido. Louisa sapeva che almeno quattro degli uomini facevano parte degli Zeventien, il consiglio direttivo della VOC. Era evidente che avevano cenato bene ed erano di umore gioviale. Lei si nascose dietro le tende mentre le passavano davanti, ma lanciò a mjnheer van Ritters un'occhiata piena di nostalgia. Quella sera, lui portava una lunga parrucca a riccioli, una fusciacca e la stella dell'ordine del Toson d'Oro. Era magnifico. Louisa provò un'insolita fitta di odio per la donna sorridente ed elegante alla quale aveva offerto il braccio. Quando superarono il suo nascondiglio, raggiunse di corsa la stanza che divideva con Gertruda, gettandosi sul letto e mettendosi a piangere. Come mai non vuole vedermi? Ho fatto qualcosa che gli è dispiaciuto? Ripensava ogni giorno all'episodio avvenuto in biblioteca, specie quando la lanterna era spenta e lei era a letto. Poi, un giorno, mjnheer van Ritters si presentò inaspettatamente all'accademia di equitazione. Louisa aveva insegnato a Gertruda a fare la riverenza. Era goffa e impacciata - Louisa fu addirittura costretta a rimetterla in piedi dato che aveva perso l'equilibrio -, Wilbur Smith
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ma van Ritters salutò con un sorriso quel maldestro tentativo, e restituì la cortesia con un inchino scherzoso. «Il tuo devoto servitore», disse a Gertruda, che ridacchiò. Non si rivolse a Louisa, e lei sapeva bene che non doveva parlargli senza essere interpellata. Il padre osservò Gertruda mentre lei faceva un giro della pista, col cavallo che procedeva al passo, tenuto per la cavezza. Louisa doveva camminare accanto al pony, e il viso molle di Gertruda era contratto dal terrore. Poi, bruscamente com'era apparso, van Ritters se ne andò. Trascorse un'altra settimana. Louisa si sentiva lacerata da emozioni contrastanti. A tratti l'enormità del suo peccato si riaffacciava a tormentarla. Gli aveva permesso di toccarla e di giocare con lei, e lei aveva provato piacere a maneggiare quella cosa mostruosa. Aveva persino cominciato a sognarla in modo vivido, e si svegliava in preda alla confusione, coi seni e con le parti intime che ardevano e formicolavano. Quasi a punirla dei suoi peccati, i seni si erano gonfiati al punto di tendere l'abbottonatura della camicetta. Lei tentava di mascherarli in ogni modo, incrociando spesso le braccia sul petto per nasconderli, ma si era accorta che i mozzi di stalla e i valletti li fissavano. Un giorno, Stals le annunciò: «Devi trasferirti in una stanza tutta per te. È un ordine di mjnheer». Louisa lo fissò con stupore. «E Gertruda? Non può dormire da sola.» «Il padrone è convinto che dovrebbe cominciare a farlo. Anche lei avrà una nuova stanza, accanto alla tua, e disporrà di un campanello per chiamarti, in caso avesse bisogno di te durante la notte.» Le nuove stanze delle ragazze si trovavano al piano inferiore rispetto alla biblioteca e alla stanza di mjnheer. Louisa trasformò quel trasferimento in un gioco, placando le ansie di Gertruda. Presero tutte le sue bambole e organizzarono una festa, come se ci fosse bisogno di presentarle al loro nuovo alloggio. Louisa si divertiva a dare una voce diversa ai vari giocattoli, e quel trucco non mancava mai di far ridere Gertruda fino alle lacrime. Quando tutte le bambole, l'uria dopo l'altra, rivelarono a Gertruda che erano felici della loro nuova casa, lei si convinse. La stanza di Louisa era ampia e luminosa. I mobili erano splendidi, con le tende di velluto, le sedie e la testiera del letto dorate. Sul letto c'erano un materasso imbottito di piume e molte coperte pesanti. C'era persino un caminetto col frontale di marmo, anche se Stals l'ammonì che avrebbe dovuto limitarsi a un secchio di carbone la settimana. Inoltre, meraviglia Wilbur Smith
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delle meraviglie, c'era un cubicolo che ospitava una seggetta col coperchio; quest'ultimo, se sollevato, rivelava un sedile intagliato, sotto cui si trovava un vaso da notte di porcellana. La prima sera, scivolando nel letto, Louisa si sentì circondata da un alone di gioia. Le sembrava di non aver mai avuto caldo in vita sua, prima di quella sera. Riscuotendosi da un sonno profondo e senza sogni, rimase sveglia tentando di capire che cosa l'avesse destata. Doveva essere ormai ben oltre mezzanotte, perché la casa era immersa nel silenzio e nell'oscurità. Poi sentì di nuovo quei rumori, e il cuore cominciò a batterle all'impazzata. Erano passi, ma giungevano dalla parete ricoperta di pannelli di legno all'estremità opposta della stanza. Fu assalita da un timore superstizioso, tanto che non riuscì né a muoversi né a gridare. Poi percepì il cigolio di una porta che si apriva, mentre una luce spettrale appariva dal nulla. Lentamente, un pannello nella parete di fronte si mosse in avanti e, dall'apertura, uscì una figura spettrale. Era un uomo alto e barbuto, che indossava soltanto le brache e una camicia bianca, con le maniche a prosciutto e il colletto alto. «Louisa!» La voce dell'uomo era sorda e suscitava una strana eco. Era il tipo di voce che si sarebbe aspettata da uno spettro. Si tirò le coperte sopra la testa e rimase distesa, trattenendo il respiro. Sentì dei passi avvicinarsi al letto e vide la luce tremolante attraverso una fessura nelle coltri. I passi si fermarono accanto a lei, e d'un tratto le coperte furono scostate. Stavolta lei gridò, ma capì che era inutile. Gertruda, nella stanza accanto, era immersa in un sopore da cui nulla sarebbe riuscito a svegliarla, se non forse un terremoto, e, a quel piano della casa chiamata Huis Brabant, c'erano soltanto loro due. Fissò il volto che la sovrastava, ma era in preda a un terrore così intenso che non lo riconobbe nemmeno alla luce della lanterna. «Non temere, bambina. Non ti farò male.» «Oh, mjnheer!» esclamò Louisa, slanciandosi contro di lui e stringendosi al suo petto con tutta la forza del sollievo che provava. «Credevo fosse un fantasma.» «Su, piccola», replicò lui, accarezzandole i capelli. «È tutto finito. Non c'è niente da temere.» Poi, dopo qualche minuto, quando lei si fu calmata, le disse: «Non voglio lasciarti qui da sola. Vieni con me». La prese per mano, e lei lo seguì, fiduciosa, a piedi nudi, con addosso soltanto la camicia da notte di cotone. La guidò oltre il pannello aperto, Wilbur Smith
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dietro il quale c'era una scala a chiocciola. Salendola e superando un'altra porta segreta, si ritrovarono in una camera splendida, così spaziosa che, nonostante le cinquanta candele accese nei candelieri, gli angoli estremi della stanza e i soffitti restavano in ombra. Lui la condusse verso il caminetto, dove balzavano e si contorcevano fiamme alte e gialle. L'abbracciò, accarezzandole i capelli. «Credevi che ti avessi dimenticato?» Lei annuì. «Pensavo di avervi fatto andare in collera e che per questo non vi piacevo più.» Lui ridacchiò, sollevandole il viso verso la luce. «Che splendida creaturina sei. Ecco quanto sono in collera e quanto ti detesto.» La baciò sulla bocca, e lei sentì sulle sue labbra il gusto dei sigari, un sapore aromatico che, per quanto fosse strano, le ispirava sicurezza e protezione. Poi la fece sedere sul divano davanti al fuoco e si diresse verso un tavolo, sul quale erano disposti alcuni bicchieri e una caraffa di cristallo, piena di un liquore rosso rubino. Lui ne riempì un bicchiere, che le portò. «Bevi questo, caccerà i cattivi pensieri.» Lei tossì e si sentì soffocare, tanto il liquore era forte, ma poi un calore meraviglioso le si diffuse nel corpo. Mjnheer si sedette accanto a lei e le accarezzò i capelli, parlandole sommessamente, dicendole quanto era graziosa, come gli era mancata, che brava ragazza era... Cullata dal calore che avvertiva nel ventre e da quella voce ipnotica, Louisa gli appoggiò la testa sul petto. Lui sollevò l'orlo della camicia da notte al di sopra della testa e lei si dimenò per sfilarsela, restando nuda. Al lume di candela, il suo corpo ancora infantile era chiaro e vellutato come panna in una brocca. Non provò la minima vergogna quando lui l'accarezzò e la baciò di nuovo sulle labbra. Si muoveva da una parte e dall'altra, assecondando la pressione gentile delle sue mani. D'un tratto, van Ritters si alzò, e lei lo seguì con lo sguardo mentre si toglieva la camicia e le brache. Quando tornò verso il divano, fermandosi di fronte a lei, non ebbe bisogno di guidare le sue mani. Con aria seria, Louisa guardò il sesso di lui, poi fece scivolare indietro la pelle morbida così da portare allo scoperto la testa lucente color prugna, proprio come lui le aveva insegnato a fare. Quindi lui si abbassò, allontanando le mani della ragazza e cadendo sul pavimento di fronte a lei. La costrinse ad allargare le ginocchia e a stendersi sul sofà ricoperto di velluto. Poi abbassò la testa e lei sentì i suoi baffi solleticarle l'interno delle cosce, e poi salire più in alto. Wilbur Smith
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«Che cosa fate?» gridò, allarmata. Non aveva mai fatto una cosa del genere, prima di allora, e Louisa tentò di mettersi a sedere. Lui la spinse di nuovo giù. Improvvisamente lei gridò, affondandogli le unghie nelle spalle. La bocca di lui si era posata sulle sue parti più intime, e la sensazione era così intensa che, per un istante, Louisa ebbe paura di svenire. Non accadeva ogni notte che lui scendesse la scala a spirale per andare a prenderla. Molte notti, infatti, Louisa, sentendo il rumore delle carrozze sul selciato sotto la propria finestra, spegneva la candela e sbirciava tra le tende per osservare gli ospiti di mjnheer van Ritters che arrivavano per l'ennesimo banchetto. Rimaneva sveglia anche molto tempo dopo che se n'erano andati, nella speranza di sentire i suoi passi sulla scala, ma di solito restava delusa. Per settimane, o addirittura per mesi, lui restava lontano; a bordo delle sue navi, visitava luoghi dai nomi strani e suggestivi. Mentre era in viaggio, lei si sentiva irrequieta e annoiata, scontenta di sé. Arrivava persino a spazientirsi con Gertruda e a trattarla in modo brusco. Quando lui tornava, la sua presenza riempiva tutta la casa; anche gli altri servitori ne erano eccitati. Se lo sentiva scendere la scala, balzava dal letto per corrergli incontro non appena lui superava la porta segreta; in quei momenti, era come se l'attesa e lo struggimento non fossero mai esistiti. Dopo qualche tempo, van Ritters escogitò un segnale per convocarla nella sua stanza, in modo da non dover scendere a prenderla. All'ora di cena mandava un valletto a consegnare una rosa rossa a Gertruda. Nessuno dei servitori trovava strano quel gesto; sapevano tutti che mjnheer provava un affetto inspiegabile per quella figlia brutta e un po' tarda. Così, quella sera, la porta in cima alla scala a chiocciola rimaneva aperta e, quando Louisa entrava, lo trovava già in attesa. Quegli incontri erano sempre diversi. Ogni volta lui inventava un gioco nuovo: le faceva indossare costumi fantastici, le chiedeva di recitare il ruolo della lattaia, del mozzo di stalla o della principessa. Talvolta le faceva mettere delle maschere con teste di demoni o di animali selvaggi. Altre sere, invece, studiavano insieme le immagini del libro verde, e poi mettevano in scena le stesse situazioni. La prima volta in cui le mostrò l'immagine della ragazza distesa sotto il ragazzo, il quale affondava l'asta dentro di lei, Louisa pensò che fosse impossibile. Ma lui fu gentile, Wilbur Smith
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paziente e premuroso, cosicché, quando ciò avvenne, lei provò soltanto un lieve dolore e sparse qualche goccia di sangue verginale sulle coltri di velluto dell'ampio letto. Subito dopo provò un gran senso di soddisfazione e, con un vago sconcerto, si esaminò la parte inferiore del corpo: le avevano sempre detto che era impura e peccaminosa, invece era la sede di tante gioie... Si convinse che ormai non c'era più niente che lui potesse insegnarle. Si persuase di riuscire a compiacerlo, e a godere a sua volta, in tutti i modi possibili e immaginabili. Invece si sbagliava. Lui partì per un altro dei suoi viaggi apparentemente interminabili, diretto stavolta in una città che si chiamava San Pietroburgo, in Russia; doveva visitare la corte dello zar Pëtr Alekseevič, che certi chiamavano Pietro il Grande, ed espandere i suoi commerci di pellicce pregiate. Quando tornò, Louisa bruciava di eccitazione, e non dovette attendere a lungo per essere convocata. Quella sera stessa, un valletto consegnò a Gertruda una rosa rossa, mentre Louisa tagliava per lei il pollo arrosto. «Come mai sei tanto felice, Louisa?» le chiese Gertruda, vedendola danzare nella stanza da letto. «Perché ti voglio bene, Gertie, e voglio bene a tutto il mondo», cantò lei, e Gertruda batté le mani per la gioia. «Ti voglio bene anch'io, Louisa.» «Adesso è ora di andare a letto. Eccoti una bella tazza di latte caldo per farti dormire bene.» Quella sera, quando Louisa superò la porta segreta ed entrò nella stanza da letto di mjnheer van Ritters, rimase sbalordita. Quello era un gioco nuovo, che la confuse e la spaventò. Era troppo reale, troppo spaventoso. Mjnheer aveva la testa coperta da un cappuccio aderente di cuoio nero, nel quale erano stati ricavati dei fori rotondi per gli occhi e una fessura rudimentale per la bocca. Indossava un grembiule di cuoio nero e stivali neri e lucenti che arrivavano fino alla coscia. Teneva le braccia incrociate sul petto, con le mani coperte da guanti neri. Lei riuscì a stento a distogliere lo sguardo da lui per osservare la sinistra struttura al centro della stanza. Era identica al cavalletto per le fustigazioni sul quale i malfattori venivano puniti in pubblico, nella piazza davanti al tribunale; dalla sommità, però, invece delle solite catene, pendevano corde di seta. Lei gli sorrise con un tremito che smentiva il sorriso, ma lui la fissò, impassibile, attraverso i fori del cappuccio nero. Lei avrebbe voluto fuggire, ma lui sembrò intuire quell'impulso, avviandosi alla porta, chiudendola e infilando la chiave nella tasca anteriore del grembiule. Le Wilbur Smith
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gambe le cedettero, e lei scivolò sul pavimento. «Scusatemi», sussurrò. «Vi prego, non fatemi del male.» «Sei stata condannata come prostituta a ricevere venti colpi di frusta.» La sua voce era dura e inesorabile. «Vi prego, lasciatemi andare. Non voglio fare questo gioco.» «Questo non è un gioco.» Le si avvicinò e, benché lei invocasse pietà, la sollevò di peso, conducendola verso il cavalletto e legandole le mani con le corde di seta. Louisa cercò di guardare all'indietro, coi lunghi capelli biondi che le spiovevano sul viso, e chiese in tono supplichevole: «Che cosa volete farmi?» Lui si diresse verso la parete di fronte, dove le voltò le spalle e prese qualcosa. Poi si girò di nuovo, con lentezza deliberata. Nella sua mano era apparsa una frusta. Lei piagnucolò, cercando di liberarsi dalle corde di seta che le bloccavano i polsi, torcendosi e dibattendosi sul cavalletto al quale era appesa. Lui si avvicinò, infilando un dito nello scollo della camicia da notte di lei e strappandola poi fino all'orlo. Quindi le tolse di dosso i brandelli di stoffa, lasciandola nuda, e si mise di fronte a lei. Louisa vide una sporgenza sotto il grembiule di cuoio, prova evidente della sua eccitazione. «Venti colpi», ripeté con la voce dura e fredda di un estraneo. «E li conterai a uno a uno. Hai capito, piccola sgualdrina dissoluta?» Nel sentirsi chiamare così, lei fece una smorfia. Nessuno lo aveva mai fatto. «Non sapevo di aver agito male. Credevo di compiacervi.» Lui tagliò l'aria con la frusta, e la sferza sibilò, vicinissima al suo viso. Poi si spostò alle sue spalle, e lei chiuse gli occhi, irrigidendo i muscoli del dorso. Ciò nonostante il dolore fu superiore alle sue aspettative e le strappò un alto grido. «Conta!» le ordinò van Ritters, e lei obbedì, con le labbra livide e tremanti. «Uno!» strillò. E la tortura proseguì, senza pietà e senza tregua, finché lei non svenne. Allora van Ritters le mise sotto il naso una boccetta verde che la rianimò con le sue esalazioni pungenti. Poi ricominciò. «Conta!» ribadì. Alla fine, lei riuscì a stento a sussurrare: «Venti», al che lui andò a posare la frusta sul tavolo. Quando tornò indietro, si stava slacciando le stringhe del grembiule di cuoio. Lei rimase appesa alle corde di seta, incapace di sollevare la testa o di reggersi in piedi. Aveva Wilbur Smith
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l'impressione di avere la schiena, le natiche e la parte alta delle cosce in fiamme. Lui le si avvicinò, e lei sentì le sue mani posarsi sulla parte inferiore del corpo, allargando le natiche rosse e pulsanti. Poi sentì un dolore più terribile di qualunque altro avesse mai provato. La stava penetrando nel modo più innaturale, squarciandola. Il dolore le attanagliò le viscere, e Louisa trovò nuova forza per gridare e gridare ancora. Infine lui tagliò le corde che la tenevano legata al cavalletto e, senza dire una parola, l'avvolse in una coperta, trasportandola di peso lungo la scala e lasciandola sul letto, singhiozzante. La mattina dopo, quando lei si trascinò a fatica verso il cubicolo e sedette sulla seggetta, scoprì di sanguinare ancora. Sette giorni dopo non era ancora guarita, ma un'altra rosa rossa venne consegnata a Gertruda. Louisa salì la scala segreta tremando e piangendo sommessamente. Entrando, trovò di nuovo il cavalletto al centro della stanza, e van Ritters abbigliato ancora col cappuccio e col grembiule di cuoio del carnefice. Ci vollero mesi perché riuscisse a trovare il coraggio, ma alla fine si rivolse a Elise per spiegarle come la trattava mjnheer van Ritters. Sollevò addirittura il vestito per mostrarle i solchi e le strisce sulla schiena. Poi si chinò per farle vedere l'apertura dell'ano, lacerata e suppurata. «Copriti, sgualdrina svergognata», le gridò Elise, assestandole un manrovescio. «Come osi dire queste sudice bugie sul conto di un uomo così grande e buono? Dovrò fare rapporto a mjnheer, ma intanto dirò a Stals di chiuderti a chiave in cantina.» Louisa rimase rannicchiata per due giorni sul pavimento di pietra, in un angolo buio della cantina; e il dolore lancinante che provava al basso ventre era un fuoco che le consumava l'anima. Al terzo giorno, vennero a prenderla un sergente e tre uomini della guardia cittadina. Quando la condussero lungo le scale fino al cortile della cucina, lei cercò con gli occhi Gertruda o Elise oppure Stals, ma non c'era traccia di loro o degli altri domestici. «Grazie per essere venuti a liberarmi», mormorò al sergente. «Non avrei potuto sopportarlo un giorno di più.» Lui le lanciò una strana occhiata enigmatica. «Abbiamo perquisito la tua stanza e trovato i gioielli che hai rubato», le disse. «Che ingratitudine terribile, nei confronti di un gentiluomo che ti ha trattato con tanta gentilezza. Vedremo che cosa avrà da dire il giudice.» Wilbur Smith
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Il giudice risentiva degli eccessi della sera prima. Era stato uno dei cinquanta invitati a cena a Huis Brabant, che vantava una cantina e una tavola rinomate in tutti i Paesi Bassi. Koen van Ritters era un vecchio amico, e il magistrato fissò con ira la giovane prigioniera che gli fu portata davanti, rammentando che Koen gli aveva parlato di quella sgualdrinella proprio dopo cena, mentre fumavano un sigaro e finivano una bottiglia di cognac. Ascoltò spazientito il sergente che elencava le prove contro la giovane, deponendo infine sul tavolo l'involto di gioielli rubati che avevano trovato nella sua stanza. «La prigioniera dovrà essere trasferita nella colonia penale di Batavia, dove resterà per tutta la vita», decretò il giudice. La Het Gelukkige Meeuw era in porto, pronta a salpare. Louisa fu portata direttamente dal tribunale al molo. In cima alla passerella fu accolta dal capo dei carcerieri, che annotò il suo nome nel registro. Poi due uomini le chiusero i ferri alle caviglie e la condussero lungo la scaletta del boccaporto fino al ponte dei cannoni. A quasi un anno di distanza, la Meeuw era all'ancora nella baia della Tavola. Nonostante lo spessore del fasciame di quercia, Louisa udì il richiamo: «Lancia carica di provviste. Chiediamo il permesso di attraccare». Riscuotendosi dalla sua lunga fantasticheria, sbirciò dalla fenditura intorno alle giunture del portello. Vide la barca, sospinta a forza di remi verso la nave da un equipaggio misto, composto di una dozzina di uomini bianchi e neri. A prua c'era un tipo dalle spalle larghe, ma subito dopo lei trasalì, riconoscendo l'uomo al timone. Era il giovane che le aveva chiesto come si chiamava e le aveva lanciato un pesce. Lei si era battuta per impadronirsi di quel dono prezioso, e poi lo aveva tagliato con la sua piccola lama, dividendolo con altre tre donne. A bordo di quella nave non esistevano amicizie; però, all'inizio del viaggio, le quattro donne avevano stretto un patto di reciproca protezione, mirato a un unico scopo: sopravvivere. Così avevano divorato il pesce crudo, stando in guardia per difenderlo dalle altre detenute affamate, che si accalcavano intorno a loro, pronte ad arraffarne anche solo un brandello. Osservando l'imbarcazione carica attraccare alla murata della nave, Louisa ricordò con nostalgia il sapore di quel pesce crudo. Si sentiva un gran trambusto di colpi e grida, stridio di bozzelli e ordini lanciati con Wilbur Smith
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voce stentorea. Attraverso la fenditura, lei seguì con lo sguardo i cesti e le casse di prodotti freschi che venivano caricati a bordo. L'odore della frutta e dei pomodori appena raccolti le fece salire l'acquolina in bocca, benché sapesse che quel bottino era destinato anzitutto alla mensa ufficiali, poi al quadrato dei sottufficiali e infine alla cucina dei marinai. Neanche un frutto o un ortaggio avrebbe preso la strada del ponte delle prigioniere, destinate a mangiare soltanto gallette marce e carne di maiale salata, brulicante di larve. All'improvviso, però, sentì battere su uno degli altri portelli dei cannoni, più avanti, e una voce maschile chiamò dall'esterno, in tono sommesso ma incalzante: «Louisa! Louisa è qui?» Prima che lei potesse rispondere, altre donne gridarono di rimando: «Ja, dottie. Sono io Louisa. Vuoi assaggiare il mio vasetto di miele?» Si levò uno scroscio di risa isteriche. Louisa, che aveva riconosciuto la voce dell'uomo, tentò di farsi sentire al di sopra del coro di bestemmie e invettive, ma le sue nemiche la sopraffecero, gridando con gioia maligna, e lei capì che il giovane non l'avrebbe mai sentita. Con crescente disperazione, sbirciò attraverso lo spioncino, ma la visuale era ristretta. «Sono qui», gridò in olandese. «Sono Louisa.» E d'un tratto si trovò davanti il suo viso. Doveva essere salito su uno dei banchi della barca ormeggiata sotto il portello del cannone. «Louisa?» Lui accostò l'occhio allo spiraglio e si trovarono l'uno di fronte all'altra, a un palmo di distanza. «Sì», disse ancora lui, ridendo. «Occhi azzurri! Occhi azzurri e luminosi.» «Chi sei? Come ti chiami?» D'impulso lei parlò in inglese, e lui la guardò a bocca aperta. «Tu parli inglese?» «No, scemo. È cinese, quello che parlo», scattò Louisa. Lui rise di nuovo. Poteva forse sembrare prepotente e arrogante, ma la sua era l'unica voce cordiale che la ragazza sentiva da più di un anno. «Che lingua tagliente! Ho qualcos'altro per te. Puoi aprire questo portello?» «C'è qualcuna delle guardie che ci osserva dal ponte?» chiese lei. «Mi fustigheranno, se ci vedono parlare.» «No, siamo nascosti dalla sporgenza della murata.» «Aspetta!» disse allora Louisa, estraendo la lama dal sacchetto di cuoio. Svelta, fece leva sull'unico perno che reggeva ancora la serratura, poi Wilbur Smith
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puntò i piedi nudi contro il portello, facendo forza con tutto il suo peso. I cardini cigolarono, poi cedettero di qualche palmo. Lei vide le dita del giovane chiudersi intorno al bordo del portello e aiutarla ad aprirlo un po' di più. Poi lui infilò attraverso l'apertura un sacchetto di tela. «C'è una lettera per te», sussurrò, accostando il proprio viso a quello di lei. «Leggila.» E poi scomparve. «Aspetta!» lo pregò la ragazza, e il suo viso ricomparve nell'apertura. «Non me lo hai detto... Non mi hai detto come ti chiami.» «Jim. Jim Courteney.» «Grazie, Jim Courteney», disse Louisa, e il portello si richiuse con un tonfo. Le tre donne si affollarono intorno a lei, formando un cerchio per proteggerla mentre apriva il sacchetto. Si spartirono in fretta la carne secca e i pacchetti di gallette e divorarono quel cibo poco appetitoso. Louisa si sentì salire le lacrime agli occhi quando trovò il pettine. Era in tartaruga, di color miele, percorso da venature più scure. Quando lo passò tra i capelli, sentì che scivolava, senza strapparli dolorosamente come l'orribile strumento fabbricato alla bell'e meglio che si era ridotta a usare. Poi trovò anche la lima e il coltello, avvolti in uno straccio. Il coltello aveva l'impugnatura di corno e la lama affilata, come scoprì subito, provandola sul pollice: una bella arma. La lima piccola e robusta era a tre tagli. Avvertì un fremito di speranza, il primo in tutti quei lunghi mesi. Abbassò gli occhi per guardare i ferri che portava alle caviglie. La pelle al di sotto di quei ceppi era tutta coperta di tagli. Il coltello e la lima erano doni di valore incalcolabile, ma quello che la commuoveva di più era il pettine, la prova che quel ragazzo aveva visto in lei una donna, non la feccia dei quartieri malfamati e delle fogne. Infilò la mano sino in fondo al sacchetto in cerca della lettera di cui lui le aveva parlato. Era un foglio di carta scadente, ripiegato in modo ingegnoso per formare una busta. Era indirizzata a LOUISA con una calligrafia energica ma chiara. Lei spiegò il foglio, facendo attenzione a non strapparlo. Era scritto in un olandese non troppo corretto, però lei riuscì comunque a capirne il senso. Usa la lima per aprire le catene. Domani sera porterò una barca sotto la poppa. Quando sentirai la campana della nave suonare due tocchi del turno di mezzo, salta. Io sentirò lo Wilbur Smith
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scroscio. Abbi coraggio. Leggendo quelle parole, il cuore prese a batterle all'impazzata. Le possibilità di riuscita erano minime, lo sapeva fin troppo bene. Cento cose potevano andare storte, da una palla di moschetto a uno squalo. Ma nulla contava, se non il fatto di aver trovato un amico e, con lui, una nuova speranza di salvezza, per quanto remota. Strappò il biglietto in minuscoli pezzi, che lasciò cadere nel bugliolo della latrina. Nessuna delle guardie avrebbe mai cercato di recuperarlo da lì. Poi scivolò sotto il cannone, nell'angolino buio che era l'unico luogo in cui le era concesso un minimo di riservatezza, e si sedette a gambe incrociate per raggiungere le maglie delle catene che portava alle caviglie. Al primo colpo di lima riuscì a incidere una tacca, non troppo profonda ma lucente, e sul ponte caddero alcuni granelli di limatura di ferro. I ceppi erano stati forgiati con un acciaio non temperato, di qualità scadente; comunque, anche così, ci sarebbero voluti tempo e una perseveranza accanita per tagliare anche una sola maglia. «Ho un giorno e una notte. Fino ai due tocchi del turno di mezzo di domani notte.» Facendosi coraggio, posò nuovamente la lima sulla tacca che era riuscita a incidere. Al colpo successivo, altri granelli di limatura di ferro caddero sul ponte. La barca, liberata dal pesante carico, correva leggera sulle acque. Mansur stava al timone, mentre Jim remava, guardando oltre la poppa, e ogni tanto sorrideva tra sé, ripensando al breve incontro con Louisa. Lei parlava inglese - un buon inglese, con una vaga traccia di accento olandese -, era sveglia e piena di spirito. Aveva reagito con prontezza alle circostanze, dunque non era una ragazza ottusa, un avanzo di galera. Attraverso lo spiraglio del portello, quando lei lo aveva aiutato ad aprirlo, le aveva visto le gambe nude. Erano penosamente sottili per la fame e segnate dal peso delle catene, però lunghe e dritte, non storte o deformate dal rachitismo. È di buona razza! pensò, usando l'espressione che il padre avrebbe riservato a una giumenta purosangue. La mano che aveva afferrato il sacchetto di tela era sporca, con le unghie spezzate, ma aveva una forma elegante, con le dita lunghe e affusolate. Era la mano di una signora, non di una schiava o di una sguattera. Wilbur Smith
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Be', certo, non profuma come un mazzolino di lavanda, ma del resto è rinchiusa in quella sudicia tinozza Dio solo sa da quanto. Che cosa ti aspetti? Cercava delle scuse per lei. Poi pensò ai suoi occhi, quegli occhi azzurri e meravigliosi, e la sua espressione si raddolcì, diventando trasognata. In tutta la mia vita non ho mai visto occhi come quelli... E parla anche inglese! «Ehi, cugino!» gridò Mansur. «Mantieni il ritmo. Se non stai più attento, ci farai schiantare contro Robben Island.» Jim si riscosse dalle sue fantasticherie appena in tempo per andare incontro all'ondata successiva, che sollevò la poppa della barca. «Il mare comincia ad agitarsi», brontolò il padre. «È probabile che domani si scatenerà una tempesta. Dovremo trasportare l'ultimo carico prima che le acque siano troppo mosse.» Jim distolse lo sguardo dalla sagoma della nave che si allontanava per guardare più avanti, e si sentì scoraggiato. Nubi tempestose si stavano accumulando all'orizzonte, alte e pesanti come montagne. Quando porteranno a bordo il prossimo carico, dovrò escogitare una scusa per rimanere a terra, decise. Non ci saranno altre possibilità. Mentre i muli trainavano la barca sulla spiaggia, Jim si rivolse al padre: «Devo portare al capitano Hugo la parte che gli spetta. Potrebbe metterci i bastoni tra le ruote, se non si ritroverà qualche moneta in quel suo pugno grasso». «Lascialo pure aspettare, quel vecchio ladro. Ho bisogno del tuo aiuto per la prossima spedizione.» «Gliel'ho promesso. E comunque per il prossimo viaggio fino alla nave avrai un equipaggio completo.» Tom Courteney scrutò il figlio con uno sguardo penetrante. Aveva in mente qualcosa, era chiaro. Non era da Jim sottrarsi al lavoro; al contrario, era una roccia sulla quale poteva sempre contare. Dato che era stato lui a stringere i rapporti col cambusiere a bordo della nave, aveva ottenuto la licenza di commercio da Hugo e si era occupato del carico della prima spedizione. Poteva fidarsi di lui. «Mah, non so.» Tom si soffregò il mento, incerto, ma subito intervenne Mansur. «Lascialo andare, zio. Per il momento posso occuparmi io anche della sua parte.» Wilbur Smith
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«E va bene, Jim. Va' pure a trovare il tuo amico Hugo», concesse Tom. «Però fatti trovare sulla spiaggia per aiutarci con le barche quando torneremo.» Dall'alto delle dune, Jim osservò le barche tornare verso la Meeuw con l'ultimo carico. Ebbe l'impressione che le onde fossero più alte di quella mattina; il vento cominciava a sollevare le creste in una parata di cavalloni bianchi impennati. «Che Dio ci risparmi!» esclamò. «Se verrà la tempesta, non potrò far sbarcare la ragazza finché non sarà passata.» Poi rammentò le istruzioni che le aveva dato. Le aveva detto di saltare fuori bordo esattamente quando sentiva suonare i due rintocchi del turno di mezzo. Non poteva inviarle un altro messaggio per fermarla. Avrebbe avuto il buonsenso di rimanere a bordo in caso di tempesta, intuendo che lui non poteva rispettare l'appuntamento? Si sarebbe gettata lo stesso fuori bordo, scomparendo nell'oscurità? Il pensiero che Louisa annegasse nelle acque scure lo colpì come un pugno al ventre. Voltò Drumfire verso il castello, incitandolo coi talloni. Il capitano Hugo fu piacevolmente sorpreso di ricevere così presto la commissione. Jim lo lasciò senza tante cerimonie, rifiutando persino una tazza di caffè, e tornò indietro al galoppo lungo la spiaggia, cercando di riflettere. Gli restava poco tempo per mettere a punto un piano. Soltanto nelle ultime due ore aveva avuto la certezza che la ragazza possedeva ancora sufficiente spirito per tentare una fuga così rischiosa. Ammesso che fosse riuscito a portarla a terra, doveva anzitutto trovarle un nascondiglio sicuro. Non appena l'evasione fosse stata scoperta, infatti, avrebbero messo sulle tracce di Louisa tutta la guarnigione del castello, cento soldati di fanteria e uno squadrone di cavalleria. Le truppe della guarnigione non avevano molto da fare e una caccia all'uomo, o meglio ancora a una donna, sarebbe stata uno degli avvenimenti più eccitanti dell'anno. Il colonnello Keyser, comandante della Compagnia, avrebbe fatto qualsiasi cosa per potersi vantare di aver catturato una forzata evasa. Per la prima volta, Jim permise a se stesso di riflettere sulle possibili conseguenze derivanti dal fallimento del suo piano avventato. E subito gli vennero in mente le difficoltà alle quali la sua famiglia sarebbe andata incontro. La rigida legge imposta dai direttori della VOC, gli onnipotenti Zeventien di Amsterdam, vietava a qualsiasi straniero di risiedere nella Wilbur Smith
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colonia o di svolgervi attività commerciali. Tuttavia, come tante altre leggi emanate dai direttori di Amsterdam, in circostanze speciali quelle norme si potevano aggirare. Quelle circostanze speciali, ovviamente, comportavano sempre un pegno pecuniario da versare a sua eccellenza il governatore van de Witten. Procurarsi la licenza per risiedere e commerciare nella colonia di Buona Speranza era costato ventimila gulden ai fratelli Courteney, ed era improbabile che van de Witten revocasse la licenza. Lui e Tom Courteney erano in rapporti cordiali, e Tom contribuiva generosamente al fondo «ufficioso» per la pensione di van de Witten. Se lui e la ragazza fossero scomparsi dalla colonia, allora non ci sarebbero stati gli estremi per coinvolgere il resto della famiglia, rifletté Jim. Sì, forse qualcuno avrebbe avuto dei sospetti e, nel peggiore dei casi, suo padre sarebbe stato costretto a fare un altro regalo a van de Witten. Alla fine si sarebbe sistemato tutto, insomma. Purché lui non tornasse mai più. C'erano soltanto due vie di fuga dalla colonia. Quella migliore, e la più naturale, era il mare; ma richiedeva l'uso di una barca. I fratelli Courteney possedevano due navi mercantili armate di cannoni, velieri maneggevoli e veloci coi quali si spingevano fino all'Arabia e a Bombay. Tuttavia, in quel momento, le due navi erano in mare e il loro ritorno sarebbe coinciso col cambiamento dei monsoni, al quale mancavano ancora parecchi mesi. Jim aveva messo da parte un po' di denaro, forse una somma sufficiente per pagare il passaggio per sé e Louisa su una delle navi che erano all'ancora nella baia della Tavola... Ma il colonnello Keyser, non appena fosse arrivato l'annuncio che la ragazza era scomparsa, avrebbe subito inviato qualcuno a perquisire le navi. C'era la possibilità di rubare una piccola imbarcazione, magari una pinaccia, qualcosa che reggesse il mare e consentisse a lui e alla ragazza di raggiungere i porti sulla costa portoghese del Mozambico... Però tutti i comandanti della costa stavano in allerta, timorosi dei pirati, ed era molto probabile che, in cambio dei suoi sforzi, avrebbe ricevuto una palla di moschetto nel ventre. No, anche se l'evasione fosse riuscita, bisognava accettare il fatto che la via del mare era preclusa per loro. Quanto all'altra... Jim si voltò verso nord, verso le montagne lontane dalle quali il disgelo non aveva ancora cancellato l'ultima neve invernale. Poi fermò Drumfire per riflettere. Non si era mai avventurato per più di cinquanta leghe al di là di quelle vette, però aveva ascoltato i racconti di coloro che si erano spinti all'interno, Wilbur Smith
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tornando poi con una gran quantità di avorio. Correva addirittura voce che, lassù al nord, un anziano cacciatore avesse raccolto un ciottolo lucente da un banco di sabbia nei pressi di un fiume senza nome e l'avesse venduto ad Amsterdam per centomila gulden, giacché era un diamante. Si sentì percorrere da un brivido di eccitazione. Per notti interminabili aveva sognato ciò che si estendeva oltre l'orizzonte. Ne aveva parlato con Mansur e Zama, e i tre si erano ripromessi che, un giorno, quel viaggio lo avrebbero fatto davvero. Gli dei dell'avventura avevano forse ascoltato le sue vanterie, e adesso cospiravano per spingerlo verso quelle lande selvagge e deserte? Al suo fianco avrebbe forse cavalcato una ragazza coi capelli d'oro e con gli occhi azzurri? A quel pensiero, Jim scoppiò a ridere, incitando Drumfire a proseguire. Doveva agire in fretta, approfittando del fatto che il padre, Dorian e quasi tutti i servitori e gli schiavi affrancati sarebbero rimasti lontani per qualche ora. Sapeva dove il padre teneva le chiavi sia della cassaforte sia dell'armeria. Scelse sei muli robusti dal branco custodito nel kraal, applicò loro il basto e li condusse fuori per le briglie, passando dalla porta posteriore del magazzino. Poi esaminò le merci depositate per selezionare quelle che avrebbe messo nel carico. Una dozzina dei migliori moschetti Tower, con altrettanti sacchetti di tela pieni di proiettili e barilotti di polvere nera, lingotti di piombo e stampi per forgiare altri proiettili, asce e coltelli, coperte e perline da barattare con le tribù che potevano incontrare, medicine essenziali, recipienti e bottiglie d'acqua, ago e filo e tutto il necessario per sopravvivere nel deserto, ma niente lussi. Il caffè non è un lusso, pensò tuttavia, aggiungendone al resto un grosso sacchetto. Quando i muli furono carichi, li condusse verso un luogo tranquillo, vicino a un ruscello nella foresta, a quasi due miglia da High Weald. Liberò gli animali dal basto per farli riposare, lasciandoli impastoiati per consentire loro di brucare l'erba tenera sulla riva del ruscello fino al suo ritorno. Quando rientrò a casa, le barche erano appena tornate dalla Meeuw. Andò incontro al padre e a Mansur, che stavano rientrando a casa attraverso le dune, insieme con gli uomini dell'equipaggio. Cavalcando al loro fianco, ascoltò la loro conversazione frammentaria. Erano tutti fradici di acqua di mare e sfiniti, perché il ritorno dalla nave olandese era stato lungo a causa del Wilbur Smith
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mare agitato. Mansur glielo descrisse in modo succinto. «Sei stato fortunato a non venire. Le onde ci cadevano addosso come una cascata.» «Hai visto la ragazza?» bisbigliò Jim in modo che il padre non potesse sentirlo. «Quale ragazza?» esclamò Mansur con un'occhiata d'intesa. «Sai bene quale», ribatté Jim, assestandogli una pacca sul braccio. L'espressione di Mansur divenne seria. «Hanno rinchiuso tutte le prigioniere sottocoperta. Uno degli ufficiali ha spiegato allo zio che il comandante è ansioso di salpare, non appena avrà finito di raccogliere le provviste e riempire i serbatoi d'acqua. Domani al più tardi. Non vuole restare inchiodato dalla tempesta su questa costa sopravvento.» Cogliendo l'aria disperata di Jim, proseguì, in tono comprensivo: «Mi dispiace, cugino. È molto probabile che domani a mezzogiorno la nave sia già lontana. E comunque non sarebbe andata bene per te. Una forzata... Non sai niente di lei, ignori quali crimini abbia commesso. Chissà, forse si è macchiata persino di omicidio... Lasciala perdere, Jim. Scordati di lei. C'è più di un uccello nel cielo azzurro, più di un filo d'erba sulle pianure di Camdeboo». Jim si sentì avvampare di collera, mentre gli salivano alle labbra parole aspre; ma le respinse. Allontanandosi dagli altri, tornò con Drumfire verso la sommità delle dune, per osservare la baia. Sotto i suoi occhi, la tempesta continuava ad avanzare, portando con sé un'oscurità precoce. Il vento ululava, arruffandogli i capelli e sferzando la criniera di Drumfire. Dovette ripararsi gli occhi per proteggersi dalla sabbia e dalla spuma trasportate dal vento. La superficie del mare era tutta un gorgo di spruzzi bianchi; ondate alte e rigonfie si sollevavano prima di abbattersi sulla spiaggia. Era un miracolo che suo padre fosse riuscito a riportare a riva le barche in mezzo a quel tumulto di vento e di acqua; del resto Tom Courteney era un marinaio provetto. La Meeuw, quasi due miglia al largo, era una sagoma grigia e indistinta. Rollava e beccheggiava, con gli alberi spogli che oscillavano, scomparendo dietro le cortine di pioggia che investivano la baia. Jim rimase a guardare finché l'oscurità non la nascose completamente alla vista. Poi scese al galoppo dalla duna verso High Weald, dove trovò Zama che lavorava ancora nelle stalle per accudire i cavalli. Wilbur Smith
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«Vieni con me», gli ordinò, e Zama lo seguì docilmente nel frutteto, là dove non potevano essere visti dalla casa, e si accovacciò di fianco a lui. Rimasero in silenzio per qualche tempo, poi Jim cominciò a parlargli in lozi, il linguaggio della foresta, in modo che Zama capisse l'importanza della faccenda che si accingevano a discutere. «Io me ne vado», annunciò. Zama lo fissò, ma i suoi occhi erano nascosti dal buio. «E dove, Somoya?» L'altro alzò il mento verso il nord. «Quando tornerai?» «Non lo so, forse mai.» «Allora devo congedarmi da mio padre.» «Perché, vieni con me?» gli chiese Jim. Zama lo guardò con aria di commiserazione. Non c'era bisogno di rispondere a una domanda così assurda. «Abolì è stato un padre anche per me», disse Jim, alzandosi e passandogli un braccio intorno alle spalle. «Andiamo a visitare la sua tomba.» Salirono la collina sotto i lampi intermittenti dei fulmini, ma, come tutti i giovani, riuscivano benissimo a vedere anche nel buio e procedevano in fretta. La tomba si trovava sul pendio orientale, disposta in modo da essere rivolta verso il punto in cui sorgeva il sole. Jim ricordava ogni dettaglio del funerale di Abolì. Tom Courteney aveva ucciso un toro nero e le mogli di Abolì avevano cucito il corpo del vecchio dentro la pelle, ancora umida, dell'animale. Reggendolo tra le braccia come se fosse un bambino addormentato, Tom aveva quindi calato in un pozzo profondo quel corpo imponente e ormai rattrappito dall'età, e lo aveva disposto in piedi, sistemandogli intorno tutte le armi e gli oggetti più preziosi che possedeva. Infine avevano sigillato l'accesso al pozzo con un masso rotondo. C'erano volute due pariglie di buoi per trascinarlo fin lì e collocarlo al suo posto. Nell'oscurità, Jim e Zama s'inginocchiarono davanti al masso, pregando sia gli dei lozi sia Abolì che, morendo, era entrato a far parte di quel loro pantheon oscuro. Il rombo dei tuoni faceva da contrappunto alle loro preghiere. Zama chiese al padre di benedire il viaggio che li attendeva; Jim lo ringraziò per avergli insegnato a maneggiare il moschetto e la spada e gli rammentò la volta in cui lo aveva portato a caccia del suo primo leone. «Proteggi noi, che siamo i tuoi figli, come hai fatto quel giorno», pregò. Wilbur Smith
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«Stiamo per affrontare un viaggio che non sappiamo dove ci porterà.» Poi i due si sedettero con la schiena appoggiata alla pietra che chiudeva la tomba e Jim spiegò a Zama quello che doveva fare. «Ho caricato un equipaggio di muli. Sono impastoiati vicino al ruscello. Portali sulle montagne fino a Majuba, 'il posto delle tortore', e aspettami lassù.» Majuba era la rudimentale capanna, nascosta sulle pendici dei monti, usata dai pastori che guidavano le greggi dei Courteney verso i pascoli estivi nonché dagli uomini della famiglia quando andavano a caccia di quagga, di eland e di blaubok, tutte varietà locali di antilope. In quella stagione dell'anno il rifugio era deserto. Dopo aver dato l'ultimo addio all'anziano guerriero che sedeva per l'eternità nel buio dietro il macigno, scesero verso la radura nei pressi del ruscello che scorreva nella foresta. Jim prese una lanterna dal basto di un animale e, con la sua luce, aiutò Zama a caricare i muli, prima di avviarlo sul sentiero che portava a nord, tra le montagne. «Io verrò tra due giorni, qualunque cosa accada. Aspettami!» gli gridò dietro, mentre Zama proseguiva da solo. Quando Jim rientrò a High Weald, tutta la casa era immersa nel sonno, ma sua madre Sarah gli aveva tenuto in caldo la cena sul fornello. Sentendolo trafficare con le pentole, scese, in camicia da notte, e si sedette a guardarlo mangiare. Non parlò granché, ma i suoi occhi erano tristi, e gli angoli della bocca avevano una piega malinconica. «Che Dio ti benedica, figlio mio, mio unico figlio», sussurrò, augurandogli la buonanotte con un bacio. Qualche ora prima lo aveva visto condurre il convoglio di muli nella foresta e il suo istinto materno le aveva fatto capire che stava per andarsene. Prese la candela e salì le scale per tornare nella camera da letto dove Tom Courteney russava placidamente. Jim dormì ben poco, quella notte, mentre il vento sferzava la casa e faceva tremare gli infissi. Si alzò comunque molto prima degli altri. Sceso in cucina, riempì una grossa tazza di caffè nero e amaro dal bricco smaltato che era sempre in caldo sulla stufa. Il cielo era ancora buio quando raggiunse le scuderie, facendo uscire Drumfire. Scese alla spiaggia e, non appena superò le dune, il vento lo investì dal buio con tutta la sua forza, come un mostro affamato. Riportò Drumfire al riparo della duna, legandolo a un cespuglio basso, poi tornò a piedi sulla sommità. Avvolgendosi il mantello intorno alle spalle e calando sugli occhi il Wilbur Smith
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cappello a tesa larga, si rannicchiò, in attesa del primo chiarore dell'alba. Pensava alla ragazza. Aveva dimostrato di essere sveglia, ma sarebbe stata abbastanza giudiziosa da rendersi conto che nessuna imbarcazione di piccole dimensioni poteva dirigersi verso l'ancoraggio nella baia finché la tempesta non si placava? Avrebbe capito che lui non intendeva abbandonarla? Le nuvole basse che correvano nel cielo ritardarono l'alba. Quando il sole spuntò, riuscì a rischiarare soltanto a malapena la scena selvaggia che si offriva agli occhi del ragazzo. Alzandosi, Jim fu costretto a piegarsi in avanti per resistere al vento, come se dovesse guadare un fiume dalla corrente veloce. Tenendo fermo il cappello con entrambe le mani, frugò l'orizzonte con gli occhi, cercando di scorgere la nave olandese. Poi, al largo, intravide qualcosa di meno evanescente della schiuma e degli spruzzi di salsedine che parevano determinati a cancellare l'immagine. Mentre osservava avidamente quel barlume, l'immagine resistette, costante in mezzo all'infuriare della tempesta. «Una vela!» gridò, mentre il vento gli strappava le parole dalle labbra. Però non era nel punto dove lui si aspettava di trovare la Meeuw. Quella era una nave in navigazione, non all'ancora. Doveva capire se era la Meeuw che cercava di uscire dalla baia, oppure una delle altre navi all'ancora laggiù. Il piccolo cannocchiale che usava per la caccia era nella sacca della sella. Voltandosi, Jim camminò sulla sabbia soffice per tornare al riparo in cui aveva lasciato Drumfire. Non appena raggiunse di nuovo il crinale della duna, cercò la nave. Impiegò qualche minuto a individuarla, poi avvistò di nuovo le vele. Sedendosi sulla sabbia, usò le ginocchia e i gomiti a mo' di sostegno per resistere alle raffiche di vento e puntò il cannocchiale sulla nave lontana. Riuscì a scorgere le vele, ma i cavalloni nascondevano lo scafo, finché d'un tratto una strana combinazione di onde e di vento non la sollevò. «È lei!» Non c'erano più dubbi. «La Het Gelukkige Meeuw.» Si sentì sommergere da un senso snervante d'impotenza. Sotto i suoi occhi, Louisa stava per essere trascinata via, verso una fetida prigione all'altro capo del mondo, e non c'era niente che lui potesse fare per impedirlo. «Dio, ti prego, non portarmela via così presto», esclamò, disperato, ma la nave in lontananza continuò a battersi contro la tempesta, accostando più che poteva, mentre il comandante tentava di allontanarsi da quella micidiale costa sopravvento. Attraverso il cannocchiale, lui la studiò con Wilbur Smith
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l'occhio del marinaio. Tom era stato un buon maestro, e lui comprendeva tutte le forze e le controforze esercitate dal vento, dallo scafo e dalle vele. Stava andando incontro al disastro. La luce cominciò ad aumentare; ormai poteva distinguere anche a occhio nudo i dettagli della terribile lotta ingaggiata dalla nave contro la tempesta. Era trascorsa un'altra ora, e la nave si trovava ancora nella baia. Jim spostò il cannocchiale dalla nave alla sagoma nera di Robben Island che, simile a uno squalo, sorvegliava l'uscita dalla baia. A ogni minuto che passava appariva più evidente che la Meeuw non sarebbe riuscita a raggiungere il mare aperto seguendo quella rotta. Il comandante avrebbe dovuto virare di bordo. Non aveva alternative, perché il fondo era ormai troppo lontano per gettare di nuovo l'ancora, e la tempesta lo spingeva inesorabilmente verso le rocce dell'isola. Se si fosse accostato alla terra in quel punto, lo scafo sarebbe finito in mille pezzi nel giro di pochi minuti. «Vira di bordo!» gridò Jim, balzando in piedi. «Vira subito! Così le ucciderai, idiota!» aggiunse, intendendo sia la nave sia la ragazza. Immaginava che Louisa fosse ancora rinchiusa sottocoperta; anche se, per miracolo, fosse riuscita ad allontanarsi dal ponte dei cannoni, non appena si fosse lanciata fuori bordo le catene che le bloccavano le caviglie l'avrebbero trascinata sul fondo. La nave manteneva ostinatamente la rotta. In mezzo a una tempesta, la manovra necessaria per virare di bordo con una nave così poco manovrabile comportava un rischio terribile, ma ben presto il comandante dovette rendersi conto che non gli restava altra scelta. «È troppo tardi», gemette Jim. «È già troppo tardi.» Poi vide che la nave cominciava la manovra. Le vele si piegarono e la silhouette cambiò, mentre puntava la prua verso la tempesta. La osservò attraverso il cannocchiale, con la mano che tremava. Alla fine, la Meeuw rimase ferma in mezzo alla baia, ingovernabile, con tutte le vele flosce, senza riuscire a completare la virata per cambiare rotta. Jim scorse un'ondata di pioggia abbattersi sullo scafo. Il mare ribolliva sotto quella cortina di pioggia e di vento che avanzò furiosa, investendola, e inclinò lo scafo sino a mettere allo scoperto il fasciame del fondo, incrostato di alghe e cirripedi. Poi la cortina d'acqua cancellò ogni cosa. La nave era scomparsa, come se non fosse mai esistita. Angosciato, Jim rimase a guardare, in attesa che ricomparisse. Avrebbe potuto raddrizzarsi, oppure restare a galla capovolta, o anche finire sul fondo: non aveva modo di sapere come Wilbur Smith
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sarebbe andata a finire. Gli bruciavano gli occhi, e la vista gli si annebbiò per l'intensità dello sguardo concentrato attraverso il cannocchiale. Ebbe l'impressione che trascorresse un'eternità, prima che la cortina di pioggia passasse oltre. All'improvviso, la nave ricomparve. Ma non sembrava più la stessa, tanto la sua silhouette era cambiata. «Disalberata!» gemette lui. Sebbene le lacrime provocate dalla tensione e dal vento gli scorressero copiose sulle guance, non riusciva a staccare gli occhi dal cannocchiale. «L'albero di maestra e l'albero di trinchetto! Li ha persi tutti e due.» Dallo scafo che rollava con violenza spuntava soltanto l'albero di mezzana, e l'intrico di vele e di alberi che pendeva fuori bordo rallentava appena la corsa della nave, sospinta dal vento di poppa che la trascinava di nuovo nella baia, portandola al largo degli scogli di Robben Island, ma verso la risacca che martellava la spiaggia. Lui calcolò in fretta la distanza, le angolazioni e la velocità. «Raggiungerà la spiaggia tra meno di un'ora», sussurrò. «E quando verrà scaraventata sulla riva, che Dio aiuti tutti quelli che sono a bordo.» Abbassando il cannocchiale, si asciugò le lacrime col dorso della mano. «E, soprattutto, che Dio aiuti la ragazza.» Cercò d'immaginare le condizioni che dovevano regnare in quel momento sul ponte dei cannoni della Meeuw, ma la scena che si figurò era pressoché intollerabile. Louisa non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Un'ora dopo l'altra mentre la nave rollava e beccheggiava, tendendo il cavo dell'ancora, e la tempesta ululava senza tregua, sibilando tra il sartiame -, lei era rimasta rannicchiata sotto l'affusto del cannone, lavorando con la lima. Aveva imbottito le maglie della catena col sacchetto di tela, così da attutire il rumore del metallo che raschiava contro il metallo, ma l'impugnatura della lima le aveva provocato una vescica sul palmo della mano. Quando la vescica scoppiò, dovette usare il sacchetto per proteggere la carne viva. Il primo raggio di luce dell'alba apparve attraverso la fessura nel portello; a quel punto, restava soltanto un sottile filo metallico a trattenere la catena. Lei alzò la testa nell'udire i suoni inconfondibili del cavo dell'ancora che veniva ritirato e lo scalpiccio dei piedi nudi dei marinai che lavoravano all'argano sul ponte sopra di lei. Poi sentì gli ordini gridati dagli ufficiali in coperta, affievoliti dalla distanza, e la corsa verso gli alberi quando gli uomini salirono sul sartiame in mezzo alla tempesta. «Stiamo salpando!» La voce si diffuse lungo il ponte dei cannoni. Le Wilbur Smith
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donne maledissero la propria sfortuna, lanciarono insulti al comandante e all'equipaggio o si abbandonarono alle bestemmie, a seconda di ciò che il loro umore suggeriva. La tregua era finita: stavano per ricominciare tutte le tribolazioni del viaggio in quella nave infernale. Poi le marre dell'ancora si staccarono dal fondo fangoso: la nave riprese vita, ingaggiando la lotta contro gli elementi che infuriavano. Louisa si sentì invadere da una collera oscura e amara. La salvezza le era sembrata così vicina... Si avvicinò di soppiatto alla fessura nel portello. La luce era troppo fioca e la pioggia troppo fitta per consentirle di scorgere nitidamente la terra lontana. La terra è ancora vicina, si disse comunque. Per grazia di Dio, potrei raggiungerla. Ma sapeva che la riva, oltre quelle miglia di mare in tempesta, era al di fuori della sua portata. Anche se fosse riuscita a liberarsi dai ceppi alle caviglie, a uscire dal portello e a gettarsi fuori bordo, non sarebbe riuscita a sopravvivere più di qualche minuto prima di annegare. Sapeva che Jim Courteney non poteva essere lì per trarla in salvo. Meglio andarsene in fretta, annegando, che marcire in quest'inferno devastato dai pidocchi, pensò, segando freneticamente l'ultima scheggia di acciaio che teneva insieme la catena. Intorno a lei, le altre prigioniere gridavano e singhiozzavano, scaraventate qua e là dalla tempesta. La nave, accostando per resistere al vento, beccheggiava e rollava con violenza. Louisa s'impose di non distogliere l'attenzione dal lavoro. Dopo qualche colpo di lima, l'anello della catena si spezzò, lasciandola libera. Perse soltanto un minuto a massaggiarsi le caviglie gonfie e infiammate, poi strisciò di nuovo sotto il cannone per prendere il coltello con l'impugnatura di corno da dove l'aveva nascosto. «Nessuno deve tentare di fermarmi», sussurrò con aria cupa. Strisciò verso il portello del cannone e aprì rapidamente il perno della serratura, poi infilò il coltello nella sacca di pelle che portava sotto il camicione. Puntando la schiena contro il cannone, tentò di aprire il portello. La nave stava virando a dritta, e la pendenza del ponte era contro di lei. Con tutta la forza del peso della nave alle sue spalle, poteva aprire il portello soltanto di uno spiraglio e, quando ci riuscì, fu investita da un getto violento di acqua salata. Dovette lasciarlo sbattere di nuovo, richiudendosi. «Aiutatemi! Aiutatemi ad aprire il portello», gridò disperata alle sue tre alleate, ma quelle la fissarono con un'espressione ottusa. Si sarebbero Wilbur Smith
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decise ad aiutarla soltanto se la loro sopravvivenza fosse dipesa da quello. Tra un'onda e l'altra, Louisa riuscì a guardare di nuovo dallo spiraglio del portello, e intravide la sagoma scura dell'isola, ormai poco lontana. Ora dovremo virare di bordo, pensò. Altrimenti il mare ci spingerà contro la riva. Durante quei mesi di navigazione, aveva cominciato a capire come funzionavano le manovre della nave. Quando vireremo di bordo, la spinta sarà sufficiente per aprirlo. Si rannicchiò, preparandosi a spingere, e finalmente sentì la prua orientarsi verso il vento e lo scafo sotto di lei cambiare movimento. Anche al di sopra dell'ululare del vento sentiva le grida fioche che provenivano dal ponte e il tamburellare frenetico dei piedi dei marinai. Si fece forza, aspettando che il ponte s'inclinasse in direzione opposta, ma ciò non avvenne e la nave rollò, rallentando il movimento e restando inerte in mezzo alle acque in tempesta. Una delle prigioniere, il cui presunto marito era stato secondo ufficiale su una nave della VOC, gridò, in preda al panico: «Quello stupido porco del comandante ha aspettato troppo. Oh, buon Gesù, è in posizione di stallo!» Louisa sapeva che cosa significava. Con la prua al vento, la nave aveva perso l'abbrivo e ormai non poteva virare di bordo: era inchiodata, impotente di fronte alla tempesta. «Ascoltate!» gridò la donna. Poi, al di sopra del frastuono della tempesta, lo sentirono arrivare. «La tempesta! Ci capovolgeremo!» Non potendo fare nulla, si rannicchiarono, aggrappate alle catene, ascoltando il rumore che aumentava d'intensità. L'ululato le assordò e, proprio quando sembrava che non potesse più aumentare, investì la nave in pieno. Lo scafo tremò, barcollò e si rovesciò come un elefante colpito al cuore. Le prigioniere rimasero stordite dallo spaventoso rumore delle alberature che si spezzavano; poi l'albero di maestra cedette alla pressione del vento, con uno schiocco violento come un colpo di cannone. La nave si coricò sul fianco, cosicché il ponte dei cannoni si trovò in posizione verticale e tutte le attrezzature e gli esseri umani scivolarono sul fondo, ammucchiandosi contro le paratie laterali. Le palle di cannoni ormai libere urtarono contro il mucchio di prigioniere che si dibattevano, gridando di dolore e di spavento. Una delle palle di cannone rotolò sul ponte inclinato verso il punto in cui Louisa era aggrappata all'affusto del cannone. All'ultimo momento, lei riuscì a gettarsi di lato, e la pesante sfera colpì la donna rannicchiata accanto a lei. Louisa sentì le ossa delle gambe spezzarsi. La donna restò immobile, fissando il groviglio di membra con un'espressione Wilbur Smith
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sbalordita. Uno dei grandi cannoni - nove tonnellate di bronzo fuso - si staccò dall'affusto e cominciò a scivolare sul ponte, schiacciando le donne che trovava sul suo cammino, neanche fossero conigli sotto le ruote di un carro. Poi urtò contro lo scafo. Neppure il massiccio fasciame riuscì a bloccarne la corsa: il cannone sfondò la paratia e scomparve. Il mare si riversò all'interno da quell'apertura frastagliata, inondando il ponte dei cannoni di uno strato d'acqua gelida e verde. Louisa trattenne il fiato, aggrappandosi al cannone mentre veniva sommersa. Poi sentì che lo scafo cominciava a raddrizzarsi: la tempesta, che si andava smorzando, allentava la presa sulla nave. L'acqua si riversò di nuovo all'esterno attraverso la falla, risucchiando con sé un gruppetto di donne che urlavano, dibattendosi. Quando caddero in mare, furono trascinate subito a fondo dal peso delle catene. Ancora aggrappata all'affusto del cannone, Louisa riuscì a guardare fuori della ferita nella murata della nave, come se fosse una porta aperta. Vide l'albero spezzato e l'intreccio di cime e di tela che pendeva dalla coperta verso le acque ribollenti. Vide le teste dei marinai che erano stati gettati in mare insieme coi rottami. Poi, al di là, vide la costa dell'Africa, e la risacca che si abbatteva sulla spiaggia, quasi fosse una salva di colpi di cannone. Si rese conto che la nave ormai mutilata stava andando alla deriva, sospinta dalla tempesta verso la riva, e seguì quell'avanzata inesorabile con un moto di terrore misto a speranza. La costa si avvicinava sempre più, e il cannone le aveva aperto una via di fuga. Nonostante la pioggia battente e la schiuma, riusciva a distinguere alcuni particolari della spiaggia, gli alberi che si piegavano e danzavano al vento, e una manciata di edifici imbiancati a calce poco distanti dalla riva. La nave danneggiata continuava la sua corsa. Ormai lei riusciva a scorgere anche alcune minuscole figure umane. Venivano dalla città e si ammassavano lungo la spiaggia, agitando le braccia; forse gridavano, ma la loro voce non riusciva a superare la potenza di quel vento terribile. Improvvisamente la nave fu tanto vicina che Louisa riuscì a distinguere gli uomini, le donne e i bambini in mezzo alla folla che si stava radunando. Dovette compiere uno sforzo immane per riscuotersi e allontanarsi dal rifugio dietro l'affusto del cannone. Cominciò a strisciare lungo il ponte che sussultava, scavalcando corpi umani devastati e attrezzature fradice d'acqua. Le palle di cannone continuavano a rotolare all'impazzata avanti e Wilbur Smith
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indietro; rischiava di esserne travolta. Riuscì comunque a evitare quelle che si dirigevano dalla sua parte e a raggiungere il foro nello scafo. Era grande abbastanza da lasciar passare un cavallo. Aggrappandosi alle schegge di legno, sbirciò attraverso il velo della schiuma e della risacca per individuare la spiaggia. Suo padre le aveva insegnato a nuotare, nel lago di Mooi Uitsig. Una volta, col suo incoraggiamento, era riuscita ad attraversare il lago da una riva all'altra. Ma quella era una situazione del tutto diversa. Capì che in quel calderone ribollente di risacca impazzita sarebbe rimasta a galla soltanto pochi secondi. Ormai la riva era così vicina che riusciva a scorgere l'espressione degli spettatori in attesa dell'arrivo della nave. Alcuni ridevano, eccitati; qualche bambino danzava, agitando le braccia sopra la testa. Nessuno mostrava compassione o pietà per la lotta mortale di quella grande nave e per la situazione di coloro che erano a bordo. Per quella folla, il naufragio era come uno spettacolo circense, reso più allettante dalla prospettiva di trarre qualche profitto dai relitti spinti a riva. Dalla parte del castello, una fila di soldati scese fin sulla spiaggia al piccolo trotto, guidata da un ufficiale a cavallo con una bella divisa. Persino in quella luce fioca Louisa vide le insegne che scintillavano sulla giubba verde e gialla, e capì che, se anche fosse riuscita a raggiungere la spiaggia, avrebbe trovato ad attenderla i soldati. Si levò un nuovo coro di grida e lamenti così pietosi da spezzare il cuore: le donne intorno a lei avevano sentito che la nave toccava il fondo. La Meeuw si risollevò e riprese la corsa, ma soltanto per arenarsi di nuovo, e stavolta l'impatto fece tremare il fasciame della carena. Lo scafo rimase incagliato, arenato sul fondo sabbioso, mentre le onde lo investivano con l'impeto di una mostruosa carica di cavalleria, una fila dopo l'altra. Lo scafo non poteva resistere al loro assalto, e ogni onda lo aggrediva con uno schianto malvagio e un getto di schiuma. Poi la nave cominciò lentamente a piegarsi sul fianco, sollevando la murata di dritta. Carponi, Louisa uscì dall'apertura frastagliata, reggendosi in piedi sul lato più alto dello scafo, fortemente inclinato. Il vento fece svolazzare i lunghi capelli biondi, incollando al corpo esile la tela logora del camicione. La stoffa fradicia metteva in risalto la linea dei seni, pieni e rotondi nonostante la giovane età. Guardò verso la spiaggia. Vide le teste dei marinai che avevano abbandonato la nave oscillare Wilbur Smith
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sulle acque sconvolte; uno di loro raggiunse le secche e si alzò, ma venne abbattuto dall'ondata seguente. Attraverso il foro nella carena, altre tre condannate la seguirono all'aperto, ma si aggrapparono al fasciame, coi movimenti rallentati dai ceppi. Un'altra ondata investì la nave, e Louisa si aggrappò a una delle sartie che pendevano dall'albero di mezzana. Le acque la investirono, arrivandole all'altezza della vita, ma lei riuscì a restare aggrappata. Quando l'onda si ritirò, le tre donne erano scomparse, risucchiate all'istante sott'acqua dalle catene. Approfittando del sostegno del sartiame, Louisa si rimise in piedi. Gli spettatori erano eccitati dalla vista di quella donna che sembrava uscire come Afrodite dalle acque del mare. Era così giovane e bella, e correva un pericolo mortale. Era uno spettacolo molto più interessante di qualsiasi fustigazione o esecuzione capitale sulla spianata del castello. Tutti danzavano, agitando le braccia e gridando. Le loro voci erano fioche, ma negli intervalli in cui non soffiava il vento Louisa riusciva a distinguere le loro grida. «Salta, meisje!» «Nuota, vediamo un po' come nuoti!» «È meglio della galera, eh, poesje?» Poteva vedere sul loro volto un'eccitazione sadica, e percepiva la crudeltà nella loro voce. Capì che da loro non avrebbe ricevuto nessun aiuto. Levò il viso al cielo e, in quel momento, la sua attenzione fu attirata da un movimento improvviso. Sulla sommità della duna che sovrastava la nave arenata era comparso un uomo a cavallo. L'animale era uno splendido stallone baio, che il cavaliere montava a pelo. L'uomo si era spogliato degli abiti, tranne le brache, rimboccate all'altezza della vita. Il torace era pallido come porcellana, mentre le braccia giovani e forti apparivano abbronzate e avevano il colore del cuoio fine. I folti riccioli scuri danzavano al vento mentre la fissava al di là della spiaggia e della risacca rimbombante. Poi sollevò un braccio al di sopra della testa e le fece un cenno di saluto. Soltanto allora lei lo riconobbe. Rispose agitando una mano e gridò il suo nome: «Jim! Jim Courteney!» Jim assisteva con orrore crescente all'agonia della Meeuw. Un gruppo di marinai era rimasto aggrappato allo scafo capovolto, poi alcune delle prigioniere cominciarono a strisciare fuori dei portelli aperti e dei Wilbur Smith
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boccaporti fracassati. Mentre si affollavano sulla carena, spazzata dalle onde, gli spettatori sulla spiaggia le incitavano con grida di scherno. Una delle donne finì fuori bordo e le catene la trascinarono sott'acqua; a quella vista, la folla levò un coro ironico di risa e applausi. Poi la carena della nave urtò contro la sabbia e l'impatto scaraventò fuori bordo gran parte delle donne. Quando la nave fu sospinta sulla spiaggia dalle onde, l'equipaggio cominciò a balzare in mare dalla coperta fortemente inclinata e le acque ben presto travolsero la maggior parte degli uomini. Un paio di corpi esanimi furono spinti sulla riva e alcuni tra gli astanti li trascinarono al di sopra del segno lasciato dalle acque. Non appena fu chiaro che non davano più segni di vita, però, li gettarono da parte e tornarono indietro di corsa per unirsi al divertimento. Il primo superstite emerse dalla risacca e cadde subito in ginocchio, levando una preghiera di gratitudine per essere scampato alla morte. Poi arrivarono sulla spiaggia tre prigioniere, aggrappate a un frammento di alberatura che le aveva sostenute, nonostante il peso delle catene. I soldati giunti dal castello si precipitarono nella risacca spumeggiante, che arrivava all'altezza della vita, per afferrarle e trarle in arresto. Jim notò che una delle donne era una creatura obesa, dai capelli color lino. Dal camicione strappato spuntavano seni bianchi e grossi come un paio di ruote di formaggio olandese. Lottando coi soldati che l'avevano catturata, gridò un'oscenità al colonnello Keyser, che si stava avvicinando a cavallo. Keyser si protese dalla sella e, sollevando la spada ancora nel fodero, le assestò un colpo che la fece cadere in ginocchio. Eppure la donna continuò a gridare, guardando verso l'alto e rivelando così una cicatrice violacea sulla guancia paffuta. Un altro colpo assestato col fodero d'acciaio la fece cadere bocconi sulla sabbia, e i soldati la trascinarono via. Jim scrutava disperato il ponte superiore nel tentativo di scorgere Louisa, ma invano. Lo scafo si liberò dal fondo sabbioso e riprese a muoversi alla deriva, poi urtò di nuovo contro il fondo e cominciò a rovesciarsi. Le donne superstiti scivolarono sul tavolato inclinato e caddero fuori bordo, l'una dopo l'altra, precipitando con uno scroscio nelle acque verdi. Ormai la nave era coricata sul fianco e non c'era nessun essere vivente aggrappato al relitto. Jim individuò il foro attraverso il quale era caduto in mare il cannone e, d'un tratto, una snella figura femminile uscì a fatica da quel varco, alzandosi con movimenti incerti sullo scafo Wilbur Smith
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arrotondato. I lunghi capelli biondi grondavano acqua di mare, appesantiti nonostante il vento. Il camicione a brandelli copriva a stento le membra snelle da puledra. Fissò con aria implorante la folla sulla spiaggia, che rideva e la scherniva. «Salta, avanzo di forca», gridavano. «Nuota, nuota per noi, pesciolino.» Jim puntò il cannocchiale sul suo volto e non ebbe bisogno del lampo di zaffiro degli occhi azzurri nel viso pallido e scavato per riconoscerla. Balzò in piedi e scese di corsa il pendio sul versante opposto della duna, per raggiungere Drumfire che lo aspettava pazientemente. Vedendolo arrivare, alzò la testa e nitrì. Correndo, Jim si liberò dei vestiti, che lasciò sparsi sul terreno dietro di sé. Saltellando prima su una gamba e poi sull'altra, si tolse gli stivali, restando soltanto con le brache di cotone. Raggiunto lo stallone, sganciò rapidamente le cinghie della sella, poi si issò sul dorso di Drumfire, incitandolo a salire il pendio e fermandosi sulla sommità della duna. Guardò verso il largo, col terrore di scoprire che la ragazza era stata spazzata via dallo scafo che rollava. Improvvisamente si rincuorò, vedendo Louisa ancora in equilibrio sullo scafo; la nave, però, cominciava a sfasciarsi sotto i brutali colpi di maglio della risacca. Sollevando il braccio destro, lo agitò verso di lei. La ragazza alzò la testa di scatto, e lui si accorse che lo aveva riconosciuto. Rispose freneticamente ai suoi cenni e, benché il vento soffocasse il suono, gridò il suo nome. «Jim! Jim Courteney!» «Ah! Ah!» gridò lui per incitare Drumfire, e lo stallone si slanciò in avanti sul pendio di sabbia bianca, arretrando sulle zampe posteriori per mantenere l'equilibrio mentre slittavano lungo la duna. Raggiunsero la spiaggia al galoppo, e la folla di spettatori si disperse, fuggendo davanti agli zoccoli di Drumfire. Keyser spronò il cavallo in avanti come per intercettarli. Il suo viso grassoccio e ben rasato era severo e le piume di struzzo sul cappello ondeggiavano come la risacca. Jim sfiorò appena col piede il fianco di Drumfire, e l'animale deviò leggermente, superando l'altro cavallo e proseguendo verso il mare. Un'onda andò verso di loro, infrangendosi, ma ormai aveva perso slancio e Drumfire, senza esitare, raccolse le zampe anteriori contro il petto per balzare al di sopra della cresta di acqua bianca, come se dovesse saltare uno steccato. Quando ricadde dalla parte opposta, l'acqua era già troppo alta perché gli zoccoli toccassero il fondo. Cominciò a nuotare e Jim Wilbur Smith
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scivolò giù dal dorso, intrecciando le dita alla criniera del cavallo. Appoggiandogli sul collo la mano libera, lo guidò verso il relitto che ondeggiava. Drumfire nuotava come una foca, muovendo le zampe a ritmo sostenuto sotto la superficie. Percorse una ventina di iarde prima che l'onda successiva li investisse, sommergendoli. La ragazza a bordo del relitto rimase a guardare, inorridita e affascinata, e anche gli spettatori sulla spiaggia tacquero, cercando un segno del ragazzo e del cavallo nel ribollire delle acque che seguì il passaggio dell'onda. Poi le loro teste riapparvero nella schiuma, salutate da un grido di stupore degli astanti. Erano stati trascinati di nuovo all'indietro, coprendo metà del distacco che lo stallone aveva guadagnato, ma l'animale nuotava con energia, e la ragazza lo sentiva sbuffare per liberare le narici dall'acqua di mare. Jim aveva i lunghi capelli neri incollati al viso e alle spalle, e lei udiva le sue grida fioche oltre il rombo delle acque. «Vieni, Drumfire! Ah! Ah!» Continuarono a nuotare in quell'acqua gelida, recuperando ben presto la distanza perduta. Furono raggiunti da un'altra ondata, ma riuscirono a superare la cresta: ormai avevano percorso quasi metà del tragitto fra la spiaggia e la nave. La ragazza si alzò, mantenendosi in precario equilibrio sullo scafo inclinato e tendendosi per saltare fuori bordo. «No!» le gridò Jim. «Non ancora! Aspetta!» Aveva visto l'ondata seguente gonfiarsi all'orizzonte: era così alta da far apparire minuscole tutte quelle che l'avevano preceduta. La parete, simile a una scogliera, sembrava intagliata nella malachite verde, orlata di spuma bianca. Avvicinandosi con maestosa solennità, dava l'impressione di poter oscurare metà del cielo. «Reggiti forte, Louisa», urlò Jim allorché l'onda possente si abbatté sulla nave, sommergendola e lasciandola nella sua scia. Poi l'onda si raccolse, come un predatore che si avventa sulla preda. Per alcuni secondi interminabili, cavallo e cavaliere nuotarono in salita lungo la parte anteriore dell'onda che si ripiegava su se stessa; parevano due insetti intrappolati in una parete di vetro verde. Poi la parte anteriore dell'onda si ripiegò in avanti, abbattendosi su di loro come una valanga, con un peso e una potenza tale che gli uomini sulla spiaggia sentirono il terreno sussultare sotto i piedi. Il ragazzo e l'animale scomparvero, sospinti così in profondità che tutti dubitarono di vederli riemergere. Gli spettatori, che solo pochi istanti prima avevano gridato, esultando al Wilbur Smith
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pensiero di veder trionfare la tempesta e perire tutte le sue vittime, rimasero impietriti dal terrore, in attesa che accadesse l'impossibile, cioè che le teste di quel possente cavallo e del suo cavaliere riemergessero tra le acque agitate. Poi il mare intorno alla nave si calmò un poco e, mentre le acque rifluivano, videro la ragazza ancora distesa sullo scafo, aggrappata alle sartie che le impedivano di essere risucchiata fuori bordo. Alzò la testa e, con l'acqua che scorreva dai lunghi capelli, scrutò disperatamente il mare, in cerca di qualche traccia del cavallo e dell'uomo. I secondi trascorsero, e divennero minuti. Un'altra onda si abbatté sulla nave, seguita da un'altra, ma nessuna delle due era alta e potente come quella che aveva seppellito cavallo e cavaliere. Louisa si sentì invadere dalla disperazione. Tuttavia non temeva per sé, non pensava al fatto che era prossima a morire. Lo sapeva, era consapevole della sua situazione disperata, ma era come se ciò non contasse più. Soffriva invece per la morte del giovane sconosciuto che forse aveva sacrificato la vita nel tentativo di salvarla. «Jim! Ti prego, non morire», implorò. Come in risposta al suo grido, le teste dei due riemersero bruscamente. La corrente formata dalla grande onda prima li aveva inchiodati sott'acqua, poi li aveva riportati quasi nello stesso punto in cui erano scomparsi. «Jim!» Louisa lanciò un grido, balzando in piedi. Lui era così vicino che lei riusciva a scorgere la sofferenza sul suo viso, stravolto nel tentativo di prendere fiato, eppure alzò la testa, cercando di dirle qualcosa. Forse era un addio, ma in quell'istante Louisa capì che Jim era incapace di arrendersi, anche di fronte alla morte. Stava cercando di gridare un ordine, però il respiro gli rimase in gola, fischiando e gorgogliando. Il cavallo aveva ripreso a nuotare, ma cercava di tornare verso la riva, mentre Jim, con la mano intrecciata alla criniera, lo sospingeva ancora verso di lei. Il ragazzo non riusciva a ritrovare la voce, però fece un gesto con la mano libera, e lei scorse nei suoi occhi una ferma determinazione. «Saltare?» gridò Louisa controvento. «Devo saltare?» Lui annuì, scuotendo con enfasi i capelli fradici, e lei riuscì appena a interpretare il suo mormorio roco: «Vieni!» Lanciando un'occhiata all'indietro, vide che, nonostante lo sfinimento, lui aveva intuito che la turbolenza delle acque si era placata - almeno per il momento - e le stava ordinando di approfittarne. La ragazza mollò il tratto Wilbur Smith
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di cima che l'aveva salvata, fece tre passi di corsa attraverso il ponte semidistrutto, poi spiccò un salto e cadde fuori bordo, col camicione che si gonfiava, risalendo fino alla vita, e le braccia che mulinavano. Finì in acqua e andò sotto, ma riemerse quasi subito. Quindi si mosse come le aveva insegnato il padre e nuotò incontro ai due. Jim si protese per afferrarle il polso e glielo strinse in modo così vigoroso da farle temere che si spezzasse. Dopo ciò che aveva sofferto a Huis Brabant, era convinta che non avrebbe mai più permesso a un uomo di toccarla, ma in quel momento non poteva pensarci. L'ondata successiva s'infranse sopra la sua testa, però la stretta non si allentò. Riemersero, e lei dovette sputare e tossire per riprendere fiato, ma le parve di sentire la forza che affluiva in lei attraverso le dita di Jim. Lui guidò la sua mano verso la criniera del cavallo e, ritrovando un po' di voce, disse: «Non ostacolarlo». Louisa, conoscendo i cavalli, capì benissimo che cosa intendeva, e si sforzò di non pesare sullo stallone, bensì di nuotare al suo fianco. Dato che stavano tornando verso la spiaggia, ogni ondata che si abbatteva sulle loro spalle li trascinava in avanti. Louisa udì alcune voci, dapprima fioche, poi via via sempre più forti. Gli spettatori sulla spiaggia furono contagiati dall'eccitazione del salvataggio e, volubili come ogni massa, cominciarono ad applaudire. Conoscevano bene il cavallo; molti avevano assistito alla sua vittoria nella gara del giorno di Natale. Jim Courteney, poi, era una figura ben nota in città. Alcuni lo invidiavano perché era figlio di un uomo ricco, altri lo trovavano troppo sfacciato, ma nessuno osava mancargli di rispetto. Quella che Jim stava combattendo contro il mare era una battaglia epica, e gli uomini sulla spiaggia erano quasi tutti marinai. Il loro cuore era con lui. «Coraggio, Jim!» «Forza, ragazzo.» «Ben fatto! Nuota, Jim, nuota!» Drumfire sentì la spiaggia risalire sotto gli zoccoli e si slanciò in avanti con impeto. Ormai Jim aveva ripreso fiato e si era liberato i polmoni da quasi tutta l'acqua. Passò una gamba sul dorso dello stallone e, non appena fu in groppa, si protese per issare Louisa in sella dietro di sé. Lei gli passò le braccia intorno alla vita, stringendosi a lui con tutte le sue forze. Drumfire, al galoppo, superò le secche, mentre l'acqua sembrava esplodere davanti alle sue zampe nell'impeto della carica. D'un tratto, si ritrovarono sulla spiaggia. Ma Jim vide che il colonnello Keyser stava lanciando il suo cavallo al Wilbur Smith
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galoppo per intercettarli e spronò Drumfire, puntando nella direzione opposta finché Keyser non si trovò venti passi dietro di lui. «Wag, jou donderen! E' una prigioniera evasa. Consegnatela alla legge.» «La riporterò io stesso al castello», gridò Jim senza voltarsi. «No! È mia. Riportate indietro quella puttana.» La voce di Keyser era arrochita dalla collera. Mentre spingeva Drumfire lungo la spiaggia, Jim pensava a un'unica cosa: ormai aveva rischiato troppo per consegnare la ragazza a chiunque facesse parte della guarnigione, e soprattutto a Keyser. Aveva visto troppe fustigazioni ed esecuzioni capitali sulla spianata del castello sul quale Keyser esercitava la sua autorità. Il bisnonno di Jim era stato torturato e giustiziato proprio su quella spianata, in seguito a una falsa accusa di pirateria. Non l'avranno, questa donna, si ripromise con aria truce. Le braccia sottili della ragazza erano strette intorno alla sua vita, e sentiva il corpo di lei incollato alla sua schiena nuda. Mezza morta di fame, bagnata e tremante per il freddo delle acque e il vento della corsa di Drumfire, possedeva ancora un coraggio e una determinazione pari alla sua, lo sentiva. È nata per combattere, questa donna. Non posso deluderla, decise, poi gridò, rivolto all'indietro: «Reggiti forte, Louisa, stiamo per farla in barba a quel grasso colonnello». Lei non rispose, e lui la sentì battere i denti, ma strinse la presa e si abbassò. Dal suo modo di stare in sella e di adattarsi al movimento di Drumfire, Jim capì che era un'amazzone esperta. Guardandosi alle spalle, si accorse che il loro vantaggio su Keyser era aumentato. Jim aveva già corso contro Trouwhart, e conosceva i pregi e i difetti della giumenta. Era veloce e coraggiosa come suggeriva il suo nome - che significava Trueheart, cioè «cuore sincero» -, ma Keyser pesava troppo per la sua stazza leggera. Sul terreno pianeggiante e senza ostacoli la giumenta si trovava nel suo elemento, e probabilmente aveva una velocità pari a quella di Drumfire, ma su quel terreno morbido, o sulla roccia e altri terreni difficili, la grande forza dello stallone era un sicuro vantaggio. Inoltre, benché Drumfire portasse un carico doppio, Louisa era leggera come un passerotto e Jim non era massiccio quanto il colonnello. Comunque sapeva di non dover sottovalutare quella giumenta dal cuore di leonessa; nell'ultimo mezzo miglio della corsa di Natale aveva quasi sconfitto Drumfire. Wilbur Smith
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Devo scegliere il percorso che fa per noi, pensò Jim, cupo. Aveva percorso a palmo a palmo il terreno che lo separava dalle pendici delle colline, e conosceva ogni altura, palude, lago salato e tratto di foresta in cui Trueheart si sarebbe trovata in svantaggio. «Fermo, jongen! Fermo, ragazzo, altrimenti sparo.» Jim sentì un altro grido e, voltandosi, scoprì che Keyser aveva estratto la pistola dalla fondina legata alla parte anteriore della sella, e si sporgeva in avanti per non colpire il proprio cavallo. Con quell'unica rapida occhiata, Jim capì che si trattava di un'arma con una sola canna e che, nella fondina, non c'era un'altra arma. Deviò di scatto verso sinistra, senza che Drumfire rallentasse il passo, tagliando bruscamente la strada alla giumenta. In un attimo aveva modificato il bersaglio di Keyser, costringendolo a passare da un tiro facile, in linea retta, a uno fortemente angolato. Anche un soldato esperto come il colonnello, sparando da un cavallo lanciato al galoppo, avrebbe avuto difficoltà a valutare la deviazione. Nel momento in cui sentì risuonare il colpo di pistola, Jim si protese all'indietro per afferrare Louisa alla vita e spostarla di lato, stringendola sotto il braccio e facendole scudo col proprio corpo. Sentì l'impatto del proiettile. Lo aveva colpito nella parte alta della schiena, tra le spalle, ma, dopo il primo istante di sorpresa, sentì che le braccia erano ancora forti e che i sensi non si erano ottenebrati. Era stato ferito in modo non grave. È solo un graffio, pensò. Poi, a voce alta, disse: «Questo è il suo unico colpo». Lo disse per incoraggiare Louisa, riportandola dietro di sé. «Misericordia! Sei stato colpito», esclamò lei, spaventata. Il sangue gli scorreva lungo la schiena. «Ci penseremo poi», replicò Jim. «Ora, Drumfire e io ti faremo vedere qualcuno dei nostri trucchi.» Quel ragazzo si stava divertendo! Aveva rischiato di annegare ed era stato ferito, eppure sembrava ancora pieno di vitalità. Louisa si era trovata un campione indomabile, e quella consapevolezza la rese euforica. La deviazione, però, aveva fatto perdere loro terreno: dietro di sé, Jim udì gli zoccoli di Trueheart che colpivano la sabbia e il rumore dell'acciaio che sfregava contro il fodero, mentre Keyser estraeva la sciabola. Si voltò e lo vide mettersi in piedi sulle staffe, con la sciabola sollevata. Ma il cambiamento di posizione spezzò l'andatura della giumenta, che prese a incespicare. Oscillando, Keyser dovette aggrapparsi al pomo della sella per ritrovare l'equilibrio. Drumfire si slanciò in avanti e Jim lo diresse verso il Wilbur Smith
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pendio della duna alta. Su quel terreno, tutta la sua potenza poteva dispiegarsi al massimo grado, e infatti lo stallone attaccò la salita con una serie di balzi violenti, facendo schizzare la sabbia con gli zoccoli. Trueheart, appesantita dal grosso colonnello, rimase indietro. Superata la sommità, scesero scivolando dalla parte opposta. Ai piedi della duna c'era soltanto un terreno aperto, che si consolidava sulla riva. Louisa guardò indietro. «Stanno riguadagnando terreno», segnalò a Jim. Trueheart avanzava con grazia. Per quanto portasse il peso del colonnello e di tutta la sua attrezzatura militare, sembrava amoreggiare con la terra. «Sta ricaricando la pistola.» Nella voce di Louisa c'era un'ombra di allarme. Keyser stava usando il calcatoio per comprimere bene la carica. «Vediamo se ci riesce di fargli bagnare la polvere», replicò lui. In quel momento raggiunsero la riva della laguna e vi si tuffarono senza esitare. «Nuota di nuovo», le ordinò Jim, e Louisa scivolò in acqua, dalla parte opposta di Drumfire. Entrambi si voltarono a guardare, mentre Trueheart raggiungeva la riva e Keyser la fermava. Balzando a terra, il colonnello si affrettò a caricare lo scodellino della pistola, poi armò il cane e prese la mira. Si vide uno sbuffo di fumo bianco, uno zampillo si alzò dalla superficie, un braccio più indietro, e il massiccio proiettile schizzò sibilando sopra la loro testa. «Ora potete lanciarci contro gli stivali», esclamò Jim, ridendo, e Keyser pestò i piedi per la rabbia. Il ragazzo sperava che, a quel punto, rinunciasse a inseguirli. Nonostante la collera, doveva pure tener conto del fatto che Trueheart era carica, mentre loro erano quasi nudi e Drumfire era senza sella. Keyser, però, risalì con decisione in sella alla giumenta e la spinse in acqua nel preciso istante in cui Drumfire raggiungeva la riva fangosa dalla parte opposta. Jim cambiò subito direzione, facendolo correre parallelamente alla riva e, restando sul terreno molle, lo condusse al trotto lungo la spiaggia. «Dobbiamo dargli la possibilità di riprendere fiato», spiegò a Louisa, che gli correva dietro. «Quella nuotata fino alla nave avrebbe stroncato qualsiasi altro cavallo.» Lanciando poi un'occhiata alla laguna, vide che Trueheart era appena a metà della traversata. «Keyser ha sprecato tempo a prendere la mira. Una cosa è certa: non lo farà più. Ormai la sua polvere da sparo dev'essere fradicia.» «L'acqua ha lavato il sangue dalla tua ferita», mormorò Louisa, sporgendosi per sfiorargli la schiena. «Sì, avevi ragione, è soltanto un Wilbur Smith
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graffio. Non è profondo, grazie a Dio.» «È di te che dobbiamo preoccuparci», ribatté lui. «Sei tutta pelle e ossa, senza un filo di carne addosso. Quanto puoi correre ancora, con quelle gambe secche che ti ritrovi?» «Quanto corri tu», replicò lei, irritata, mentre sulle guance pallide affioravano due chiazze rosse. Lui le rivolse un sorriso impertinente. «Temo che dovrai dimostrare queste tue vanterie prima che finisca la giornata. Keyser è riuscito ad attraversare la laguna.» Trueheart arrivò a riva, molto più indietro rispetto a loro, e Keyser, con l'acqua che colava dalla giubba, dalle brache e dagli stivali, risalì il pendio alle loro spalle. Incitò la giumenta al galoppo, ma ben presto gli zoccoli rimasero impantanati nel fango. Fu subito ovvio che l'animale stentava ad avanzare. Jim era rimasto sul terreno fangoso proprio per quel motivo, per mettere cioè alla prova la forza di Trueheart. «E ora sali.» Jim afferrò Louisa alla vita, issandola in groppa allo stallone, prima di lanciarsi in una corsa sfrenata. Si aggrappò saldamente alla criniera, tenendo Drumfire al piccolo galoppo così da non farlo stancare troppo. Non faceva che guardare indietro, per valutare la velocità dell'inseguitore, ma ormai poteva permettersi di lasciar guadagnare un po' di terreno a Keyser. Portando soltanto il peso di Louisa, Drumfire procedeva senza sforzo, mentre la giumenta stava bruciando le sue ultime energie in quell'inseguimento sfrenato. Meno di mezzo miglio più avanti, il peso di Keyser cominciò a farsi sentire davvero, e Trueheart rallentò, mettendosi al passo. Era sempre indietro, di una distanza pari a mezza gittata di pistola. Jim rallentò per adeguarsi alla sua velocità e per mantenere costante il distacco. «Ora scendete, se non vi dispiace, vostra signoria», disse a Louisa. «Concediamo a Drumfire un'altra pausa.» Lei scese con un balzo agile, ma gli intimò in tono secco: «Non chiamarmi così». Quell'appellativo le aveva rammentato le persecuzioni che aveva dovuto subire da parte delle altre prigioniere. «Forse dovrei chiamarti Istrice...» borbottò lui. «Che Dio mi fulmini se non è vero che hai aculei sufficienti per giustificare un tale soprannome.» Ormai Keyser dev'essere esausto, pensò Jim. Infatti rimaneva in sella, senza alleggerire il carico della giumenta. «Sono quasi alla fine», disse a Louisa. Sapeva che poco lontano, sempre all'interno della tenuta dei Wilbur Smith
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Courteney, si trovava uno stagno salato che si chiamava Groot Wit, ossia «grande bianco». Era lì che stava portando Keyser. «Si sta avvicinando di nuovo», lo avvertì Louisa, e lui si accorse che Keyser stava spingendo la giumenta al piccolo galoppo. Era una piccola giumenta coraggiosa, che rispondeva alla frusta. «Sali in sella!» le ordinò lui. «Posso correre quanto te.» Lei scrollò con aria di sfida l'intrico dei lunghi capelli incrostati di salsedine. «Per l'amor di Dio, donna! Devi sempre discutere?» «E tu devi imprecare sempre?» ribatté lei, ma si lasciò issare di nuovo in groppa allo stallone. Proseguirono la corsa. Meno di un miglio più avanti, Trueheart aveva rallentato, mettendosi di nuovo al passo, e anche loro fecero altrettanto. «Qui comincia il sale», spiegò Jim, puntando il dito in avanti: anche sotto le basse nubi temporalesche e nella luce fioca del crepuscolo, la distesa del lago mandava barlumi come un enorme specchio. «Ha l'aria di essere piatto e duro.» Louisa si protesse gli occhi dal riverbero. «Sì, sembra così, ma sotto la crosta è una poltiglia. Con quel grasso olandese e il suo equipaggiamento in groppa, la giumenta sprofonderà a intervalli di pochi passi. La traversata è lunga quasi tre miglia. Saranno esausti prima di arrivare dall'altra parte, e a quell'ora...» Si fermò, guardando il cielo, e concluse: «Sarà ormai calato il buio». Pur nascosto dalla coltre via via più bassa di nuvole, il sole doveva ormai essere vicino all'orizzonte e l'oscurità stava calando sempre più in fretta. Jim, seguito dalla ragazza che barcollava, guidò Trueheart lontano dalla pianura bianca e insidiosa. Giunto al limite della foresta, si fermò ed entrambi si guardarono alle spalle. Le impronte degli zoccoli di Drumfire, impresse sulla liscia superficie bianca, sembravano un lungo filo di perle nere. Anche per lui quella traversata aveva costituito una prova terribile. Dietro di loro si scorgeva appena la sagoma scura della giumenta. Due ore prima, con Keyser in groppa, Trueheart aveva sfondato la crosta di sale, sprofondando nelle sabbie mobili sottostanti. Jim si era fermato, guardando il colonnello che lottava per liberare Trueheart, e aveva avuto l'impulso di tornare indietro per aiutarli. La giumenta era un animale così bello e combattivo che lui non poteva sopportare di vederla in quello stato. Poi si rammentò di essere Wilbur Smith
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disarmato e seminudo, mentre Keyser aveva una sciabola ed era uno spadaccino temibile. Più di una volta lo aveva osservato guidare le truppe di cavalleria nelle loro evoluzioni sulla spianata del castello... Ma Keyser alla fine era riuscito a trascinare la giumenta lontano dal fango e aveva ripreso il faticoso inseguimento. Continuava dunque a stargli dietro, e Jim, accigliandosi, mormorò: «Il momento buono per attaccare Keyser verrà alla fine dello stagno salato. Lui sarà completamente esausto e io, al buio, potrò sfruttare il vantaggio della sorpresa. Però lui avrà una sciabola e io niente...» Louisa lo guardò per un attimo, poi gli voltò le spalle e infilò la mano sotto il camicione. Nella piccola sacca di cuoio che portava legata alla cintola c'era il coltello a serramanico con l'impugnatura di corno. Lei lo prese e glielo consegnò senza dire una parola. Lui la fissò, sbalordito, poi scoppiò a ridere, riconoscendolo. «Ritiro tutto ciò che ho detto sul tuo conto. Sembri una fanciulla vichinga e, perdio, ti comporti come tale.» «Tieni a freno quella lingua blasfema, Jim Courteney», gli disse lei, ma nella sua replica non c'era rabbia. Era troppo stanca per discutere, senza contare che, in fondo, quella frase poteva anche essere un complimento. Mentre distoglieva lo sguardo, sulle labbra le affiorò un sorrisetto stanco. Jim guidò Drumfire tra gli alberi, e lei li seguì. Dopo qualche centinaio di passi, lui legò lo stallone nel punto in cui la foresta era più fitta, dicendo a Louisa: «Adesso puoi riposare un po'». Stavolta lei non protestò; stendendosi sullo spesso strato di foglie marce, si raggomitolò, chiudendo gli occhi. Debole com'era, aveva l'impressione che non avrebbe mai più avuto la forza di alzarsi di nuovo, ma quel pensiero le era appena passato per la mente che si era già addormentata. Per qualche istante, Jim rimase ad ammirare il suo viso, diventato improvvisamente sereno. Fino a quel momento non si era reso conto di quanto fosse giovane: sembrava una bambina addormentata. Sempre guardandola, aprì la lama del coltello e ne saggiò la punta sul polpastrello del pollice. Alla fine si allontanò, tornando di corsa verso il margine della foresta. Restando ben nascosto, scrutò lo stagno salato che si stava oscurando. Keyser continuava ad avanzare ostinatamente, guidando la giumenta con la cavezza. Ma non si arrende mai? si chiese Jim, provando una punta di ammirazione per quell'uomo, mentre si guardava intorno, cercando il posto Wilbur Smith
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migliore per nascondersi vicino alle tracce lasciate da Drumfire. Scelse un tratto in cui i cespugli erano più fitti e vi strisciò in mezzo, accovacciandosi col coltello in mano. Keyser raggiunse barcollando l'estremità dello stagno salato e finalmente sentì che i piedi poggiavano su un terreno solido. Jim lo sentiva ansimare, ma il buio era ormai così fitto che gli appariva soltanto come una sagoma scura. Avanzava lentamente, conducendo la giumenta, e lui gli lasciò il tempo di passare oltre il nascondiglio, prima di uscire dai cespugli e raggiungerlo alle spalle. Qualunque rumore avesse fatto, era stato mascherato da quello degli zoccoli della giumenta. Poi serrò il braccio sinistro intorno alla gola di Keyser, premendo nel contempo la punta del coltello sulla pelle tenera sotto l'orecchio. «Vi ucciderò, se mi costringete», ringhiò, cercando di assumere un tono feroce. Keyser rimase paralizzato dallo stupore, poi ritrovò la voce. «Non potete sperare di farla franca, Courteney. Non troverete un posto che vi offra rifugio. Consegnatemi la donna e sistemerò la faccenda con vostro padre e il governatore van de Witten.» Jim allungò la mano per estrarre la sciabola dal fodero che Keyser portava alla cintola. Poi allentò la stretta intorno al collo e fece un passo indietro, ma puntando la sciabola al petto del colonnello. «Toglietevi i vestiti», gli ordinò. «Siete giovane e stupido, Courteney», replicò Keyser in tono gelido. «Cercherò di perdonarvi questo tiro mancino.» «Prima la giubba, poi le brache e gli stivali», ordinò Jim, senza scomporsi. Visto che Keyser non si muoveva, l'altro lo pungolò con la sciabola sul petto. Allora lui, con riluttanza, cominciò a sbottonarsi la giubba. «Cosa sperate di ottenere?» domandò, mentre se la sfilava dalle spalle. «Se questo è il vostro concetto di cavalleria, direi che è piuttosto infantile, non credete? Quella donna è una forzata che ha subito una regolare condanna. Probabilmente è una prostituta e un'assassina.» «Se lo dite ancora, colonnello, v'infilzerò allo spiedo come un maialino di latte.» Premendo leggermente la punta della sciabola, fece sgorgare un rivoletto di sangue. Keyser si sedette per togliersi gli stivali e le brache. Jim li ficcò nelle sacche della sella di Trueheart; poi, sempre puntandogli contro la sciabola, scortò di nuovo Keyser, scalzo e coperto soltanto dalla Wilbur Smith
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camicia, verso l'orlo dello stagno salato. «Se seguite le vostre tracce, colonnello, dovreste giungere al castello in tempo per la colazione.» «Statemi a sentite, jongen», replicò Keyser, con una voce tesa e acuta. «Io v'inseguirò. Vi vedrò pendere dalla forca sul piazzale del castello, e vi assicuro che la vostra sarà una morte lenta... molto lenta.» «Se restate qui a parlare, colonnello, arriverete in ritardo per la colazione.» Jim gli sorrise. «È meglio avviarsi, no?» Seguì con gli occhi Keyser, che si allontanava attraverso lo stagno salato. D'un tratto, le nubi grevi furono spazzate via dal vento e la luna piena venne allo scoperto, illuminando la superficie chiara della distesa di sale come se fosse giorno pieno e proiettando un'ombra ai piedi di Keyser. Jim lo osservò finché l'uomo non si ridusse a una chiazza scura in lontananza, e capì che non sarebbe tornato indietro. Non stanotte, almeno. Ma questo non è il nostro ultimo incontro col prode colonnello, si disse. Possiamo esserne certi. Poi tornò di corsa verso Trueheart, e la guidò nella foresta. Tornato accanto a Louisa, la riscosse. «Sveglia, Istrice. Ci aspetta un lungo viaggio. Domani a quest'ora avremo alle calcagna Keyser e uno squadrone di cavalleria in pieno assetto di guerra.» Non appena lei si mise a sedere, ancora insonnolita, lui si avvicinò a Trueheart. Sulle sacche di Keyser era posato un mantello di lana arrotolato. «Quando raggiungeremo le montagne farà freddo», spiegò alla ragazza, avvolgendole il mantello intorno alle spalle. Lei, ancora mezza addormentata, non protestò. Poi Jim trovò la sacca dei viveri del colonnello: conteneva una forma di pane, un grosso pezzo di formaggio, alcune mele e una fiasca piena di vino. «Al colonnello piace mangiare bene.» Le lanciò una mela, che Louisa divorò col torsolo e tutto. «Più dolce del miele», esclamò a bocca piena. «Non ho mai mangiato niente di più buono, prima d'ora.» «Piccola Istrice avida», disse lui per stuzzicarla, e stavolta Louisa gli rispose con un sorriso da monella. Come gli accadeva spesso, era difficile che qualcuno rimanesse in collera con lui per lungo tempo. Jim si accovacciò di fronte a lei e, col coltello a serramanico, tagliò un cantuccio di pane, sul quale sistemò una bella fetta di formaggio. Lei mangiò tutto Wilbur Smith
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con intensità feroce, mentre lui osservava il suo volto pallido; al chiaro di luna, sembrava un quadro. «E tu?» gli domandò Louisa. «Tu non mangi?» Lui scosse la testa. Aveva deciso che non ce n'era abbastanza per tutti e due, e la ragazza moriva di fame. «Come hai imparato a parlare così bene l'inglese?» «Mia madre veniva dalla Cornovaglia.» «Accidenti! È da lì che veniamo anche noi. Il mio bisnonno era un duca, o qualcosa del genere.» «Allora devo chiamarti duca?» «Finché non mi verrà in mente qualcosa di meglio, Istrice.» Lei stava masticando un altro boccone di pane e formaggio, quindi non poteva rispondergli. Lui allora esaminò il resto della roba di Keyser e s'infilò la giubba con gli alamari dorati, provando a chiudere i risvolti. «Ci staremmo in due, qui dentro, comunque tiene caldo.» I risvolti delle brache del colonnello arrivavano quasi alla cintola di Jim, ma lui le strinse alla vita con una delle cinghie delle sacche. Poi si provò gli stivali. «Questi almeno mi stanno bene», commentò. «In un teatro di Londra ho visto un dramma intitolato Il soldatino di latta», disse Louisa. «È quello che sembri adesso.» «Sei stata a Londra?» Suo malgrado, era impressionato. Londra era il centro del mondo. «Devi parlarmene, non appena ne avremo l'opportunità.» Poi condusse i cavalli verso il pozzo ai margini dello stagno di sale, dove gli animali finalmente poterono abbeverarsi. Quel pozzo lo aveva scavato lui due anni prima, con Mansur. L'acqua era potabile, e i cavalli bevvero avidamente. Quando li riportò indietro, scoprì che Louisa si era riaddormentata sotto il mantello. Si accovacciò accanto a lei, osservando di nuovo il suo viso al chiaro di luna, e provò una strana sensazione sotto le costole. Decise di lasciarla dormire ancora un po' e andò a sfamare i cavalli con la sacca di foraggio del colonnello. Poi studiò l'attrezzatura di Keyser per scegliere quello che poteva servirgli. Dalla fondina di cuoio, prese la pistola e il rotolino di tela che proteggeva il calcatoio e tutti gli accessori. La sciabola era di acciaio finissimo. Nelle tasche della giubba trovò un orologio d'oro e un sacchetto pieno di gulden d'argento, con qualche ducato d'oro. Nella tasca sul retro Wilbur Smith
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c'era una scatolina d'ottone che conteneva un acciarino con l'esca di cotone. Se gli rubo il cavallo, tanto vale prendergli anche il denaro, si disse. Comunque gli parve giusto limitarsi, evitando cioè di prendere gli oggetti personali di Keyser, quindi mise l'orologio d'oro e le monete in una delle sacche, lasciandola bene in vista al centro della radura. Sapeva che Keyser sarebbe tornato lì l'indomani coi suoi boscimani cercatori di tracce, e avrebbe trovato i suoi tesori personali. Chissà fino a che punto mi sarà grato della mia generosità, pensò con un sorriso sconsolato. Si sentiva trascinare da una corrente inarrestabile. Sapeva che ormai non poteva tornare indietro; si era compromesso. Andò a mettere di nuovo la sella a Trueheart, poi si accovacciò vicino a Louisa, raggomitolata sotto il mantello. Le accarezzò i capelli per svegliarla con delicatezza, e lei aprì gli occhi. «Non toccarmi in quel modo», sussurrò. «Non toccarmi mai più così.» La sua voce indicava una repulsione così aspra che lui si ritrasse. Anni prima, Jim aveva catturato un gattino inselvatichito. Nonostante tutta la sua amorevole pazienza, non era mai riuscito a domare la creatura, che soffiava, mordeva e graffiava. Alla fine l'aveva riportata nel veld per liberarla. Forse anche quella ragazza era così. «Dovevo svegliarti», le spiegò. «È ora di rimetterci in cammino.» Lei si alzò subito. «Prendi la giumenta», aggiunse Jim. «Ha la bocca tenera e un carattere mite, ma corre veloce come il vento. Si chiama Trueheart.» La sospinse in sella, e lei prese le redini, avvolgendosi il mantello intorno alle spalle. Poi Jim le diede l'ultima porzione di pane e formaggio. «Puoi mangiare mentre proseguiamo», spiegò. Louisa divorò tutto come se fosse ancora affamata, e lui si domandò quali terribili privazioni fosse stata costretta a subire, per trasformarsi in una creatura così selvaggia, famelica e scostante. Per un attimo, gli balenò il dubbio che non sarebbe riuscito ad aiutarla o a redimerla, ma subito accantonò le sue perplessità e le sorrise in modo che sperava fosse affabile, mentre a lei parve semplicemente sprezzante. «Quando arriveremo a Majuba, Zama avrà già preparato una pentola di stufato. Spero sia piena fino all'orlo. In una gara di avidità col nostro buon colonnello, punterei su di te.» Balzò sulla groppa di Drumfire. «Ma prima abbiamo qualcos'altro da fare, qui.» Partì al trotto in direzione di High Weald, descrivendo però un ampio Wilbur Smith
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cerchio, in modo da rimanere ben lontano dalla casa padronale. Era già mezzanotte passata, ma non voleva correre il rischio d'incontrare suo padre oppure lo zio Dorian. La notizia della bravata di Jim doveva essere giunta alle loro orecchie poco dopo che lui aveva ripescato Louisa dalle acque. Tra gli spettatori sulla spiaggia aveva visto molti degli schiavi affrancati e dei servitori di famiglia... Non se la sentiva di affrontare il padre in quel momento. Non troveremo appoggio, a casa. Papà farebbe di tutto per convincermi a consegnare Louisa al colonnello, pensò. Si diresse quindi verso un gruppo di casupole all'estremità orientale del recinto per i cavalli e smontò in un folto di alberi, porgendo a Louisa le redini di Drumfire. «Rimani qui. Non ci metterò molto.» Avvicinatosi con prudenza alla più grande delle capanne di fango, lanciò un fischio. Dopo qualche tempo, vide il bagliore di una lanterna dietro la pelle di pecora non conciata che copriva l'unica finestra, a mo' di tenda. La pelle maleodorante fu scostata, e apparve una testa scura e lanosa. «Chi è là?» chiese una voce dal tono guardingo. «Sono io, Bakkat.» «Somoya!» L'uomo uscì al chiaro di luna con una coperta unta stretta intorno alla vita. Era alto come un bambino, con la pelle ambrata, i lineamenti schiacciati e gli occhi dal curioso taglio asiatico. Era un boscimano, capace di seguire una bestia smarrita per cinquanta leghe attraverso deserti e montagne, anche in mezzo a bufere di neve e uragani. Sorrise a Jim, e i suoi occhi quasi scomparvero in una rete di piccole rughe. «Possa il Kulu Kulu sorriderti, Somoya.» «Anche a te, vecchio amico mio. Chiama tutti gli altri pastori, raduna tutte le greggi e spingile su ogni strada, in particolare su tutti i sentieri diretti a est e a nord. Voglio che battano il terreno finché non avrà l'aspetto di un campo arato. Nessuno dovrà essere in grado di seguire le mie tracce quando me ne andrò di qui, nemmeno tu. Mi capisci?» Bakkat fece una risatina. «Oh, ja, Somoya. Capisco benissimo. Noi tutti abbiamo visto il soldato grasso darti la caccia quando sei fuggito con quella graziosa ragazza. Non preoccuparti. Domani non sarà rimasta neanche una traccia che lui possa seguire.» «Bravo!» esclamò Jim, battendogli sulle spalle. «Io vado.» «So dove vai. Prendi la Via dei Banditi, vero?» La «via dei banditi» era la leggendaria via di fuga dalla colonia, percorsa soltanto dai fuggiaschi e dai fuorilegge. Wilbur Smith
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«Nessuno sa dove porta, perché nessuno è mai tornato indietro. Gli spiriti dei miei avi mi parlano sottovoce, di notte, e la mia anima si strugge per i luoghi selvaggi. C'è posto per me al tuo fianco?» Jim scoppiò a ridere. «Seguimi e sarai il benvenuto, Bakkat. Tanto so che riuscirai a trovarmi ovunque vada. Sapresti seguire le tracce di un fantasma sulle rocce ardenti dell'inferno. Ma prima fa' quello che devi fare qui. Di' a mio padre che sto bene, e a mia madre che le voglio bene», concluse, tornando di corsa nel punto in cui Louisa e i cavalli erano ancora in attesa. Ripresero il cammino. Quando raggiunsero le colline, la tempesta si era esaurita, il vento era calato e la luna era bassa a occidente. Jim si fermò vicino a un ruscello che scendeva dalle alture. «Ci fermeremo per riposare e abbeverare i cavalli», le disse. Non si offrì di aiutarla a smontare, ma Louisa balzò a terra con l'agilità di un gatto, portando Trueheart a bere alla pozza. Sembrava che lei e la giumenta avessero già trovato un'intesa. Poi la ragazza si addentrò tra i cespugli. Lui avrebbe voluto chiamarla e ammonirla a non allontanarsi troppo, ma si trattenne. La fiasca di vino del colonnello era piena solo a metà. Jim sorrise, scrollandola. Keyser deve aver bevuto qualche goccetto, ieri, dopo colazione, pensò, scendendo verso la pozza per diluire quello che restava con l'acqua pura che scorreva dalla montagna. Sentì la ragazza tornare indietro attraverso i cespugli e scendere verso l'acqua, ancora nascosta da un'alta pila di rocce. Poi si udì uno scroscio. «Che mi venga un colpo se quella pazza non sta facendo il bagno», borbottò lui. Scosse la testa, rabbrividendo alla sola idea. Le montagne erano ancora coperte di neve e l'aria notturna era gelida. Quando tornò, Louisa era seduta su una delle rocce ai margini della pozza, non troppo vicino né troppo lontano. Aveva i capelli bagnati e si stava pettinando. Lui riconobbe il pettine di tartaruga. Le passò la fiasca di vino, e lei fece una pausa per bere. «È buono», commentò la ragazza, come per fare un'offerta di pace, poi riprese a pettinarsi i capelli chiari, che le arrivavano quasi alla vita. Lui la osservò in silenzio, ma lei non volse più lo sguardo nella sua direzione. Un gufo pescatore sfrecciò sull'acqua in silenzio, come una falena gigante. Cacciando con l'unico aiuto degli ultimi raggi di luna, afferrò al volo un pesciolino giallo, portandolo su un ramo dell'albero morto sulla Wilbur Smith
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riva opposta. Il pesce si dibatté tra gli artigli, mentre il rapace gli strappava brandelli di carne dal dorso. Louisa distolse lo sguardo. Quando parlò di nuovo, la sua voce era sommessa e il lieve accento olandese la rendeva ancora più accattivante. «Non credere che non ti sia riconoscente per quello che hai fatto per me. So che hai rischiato la vita, e forse anche di più, per aiutarmi.» «Be', devi sapere che ho un piccolo serraglio», ribatté lui in tono scherzoso. «E una piccola Istrice era proprio l'animale che mi mancava.» «Forse hai diritto di chiamarmi così», rispose lei, bevendo un altro sorso dalla fiasca. «Non sai niente di me, di quello che mi è successo. Sono cose che non potresti mai capire.» «Qualcosa so. Ho visto il tuo coraggio e la tua determinazione. Ho visto com'era la nave e che puzza c'era a bordo della Meeuw. Forse qualcosa potrei capire... Almeno ci proverei.» Girandosi verso Louisa, si sentì spezzare il cuore nel vedere le lacrime che le rigavano le guance, argentee al chiaro di luna. Avrebbe voluto precipitarsi da lei e tenerla stretta, ma si rammentò di quello che gli aveva detto: «Non toccarmi mai più così». Allora si limitò a bisbigliare: «Che ti piaccia o no, sono tuo amico. Voglio capire». Lei si asciugò le guance col palmo della mano piccola e delicata, poi rimase rannicchiata sulla roccia, esile, pallida e sconsolata sotto le pieghe del mantello. «C'è una sola cosa che devo sapere», aggiunse Jim. «Ho un cugino che si chiama Mansur e mi è più vicino di quanto potrebbe esserlo un fratello. Mi ha detto che forse tu sei un'assassina. Questo mi brucia l'anima. Devo sapere. È vero? È per questo che eri sulla Meeuw?» Lei si voltò lentamente per guardarlo, scostando le cortine di capelli umidi in modo che lui potesse vederla in viso. «Mio padre e mia madre sono stati uccisi da un'epidemia. Ho scavato la loro fossa con le mie mani. Io ti giuro, Jim Courteney, sul mio amore per loro e sulle tombe in cui giacciono, che non sono un'assassina.» Lui trasse un gran sospiro di sollievo. «Ti credo. Non devi dirmi altro.» Lei bevve di nuovo dalla fiasca e gliela riconsegnò. «Non darmene dell'altro. M'intenerisce il cuore e invece ho bisogno di essere forte», gli disse. Rimasero seduti in silenzio, poi, proprio quando Jim stava per dirle che dovevano spingersi tra le montagne, lei riprese a parlare, ma in tono Wilbur Smith
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così sommesso che, sulle prime, lui non fu neppure sicuro che lei avesse parlato. «C'è stato un uomo», gli disse. «Un uomo ricco e potente nel quale riponevo la stessa fiducia che avevo avuto in mio padre, prima che morisse. Mi ha fatto cose che non voleva far sapere agli altri.» «No, Louisa», esclamò lui, alzando una mano per fermarla. «Non dirmi questo.» «Ti devo la vita e la libertà. Hai diritto di sapere.» «Smettila, ti prego.» Avrebbe voluto balzare in piedi e correre tra i cespugli per sfuggire alle sue parole, ma non riusciva a muoversi. Sembrava ipnotizzato, come un topo lo sarebbe stato dalla danza oscillante del cobra. Con quella sua voce dolce e infantile, lei continuò: «Non ho intenzione di rivelarti quello che mi ha fatto. Non lo dirò mai a nessuno. Ma non posso permettere che un altro uomo mi tocchi. Quando ho tentato di sfuggirgli, ha incaricato i suoi servitori di nascondere nella mia stanza un involto di gioielli, poi ha chiamato le guardie perché lo trovassero. Mi hanno trascinata davanti al giudice. Quando sono stata condannata alla deportazione a vita, il mio accusatore non era neanche in aula». Rimasero in silenzio a lungo. «Ora sai di me, Jim Courteney. Ora sai che sono stata una specie di trastullo per qualcuno, che mi ha insozzato soltanto per buttarmi via. Che vuoi fare, adesso?» «Voglio ucciderlo», rispose infine Jim. «Se mai dovessi incontrare quest'uomo, lo ucciderò.» «Ti ho parlato con franchezza. Ora devi fare altrettanto con me. Cerca di capire che cosa vuoi. Ti ho detto che non mi lascerò mai più toccare da un uomo. Ti ho spiegato che cosa sono. Vuoi riportarmi al capo di Buona Speranza e consegnarmi al colonnello Keyser? Sono pronta a tornare indietro con te.» Non voleva che lei lo vedesse in faccia. Da quand'era piccolo, nessuno lo aveva visto piangere. Si alzò di scatto e andò a sellare Trueheart. «Vieni, Istrice. Il viaggio fino a Majuba è lungo. Non abbiamo tempo da perdere in futili chiacchiere.» Lei si avvicinò docilmente, montando in sella. Lui la precedette nel profondo canalone tra i monti, risalendo poi la ripida gola rocciosa. A mano a mano che salivano e l'alba si avvicinava, l'aria diventava più fredda. Il sole illuminò le cime dei monti di una strana Wilbur Smith
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luce rosata. Fra le rocce scintillavano chiazze di neve non ancora sciolta. Era ormai mattina avanzata quando si fermarono sul crinale, al limite della linea degli alberi, guardando dall'alto una valle nascosta. Tra le rocce del ghiaione s'intravedeva un edificio diroccato. Se non fosse stato per la sottile colonna di fumo che si levava da un foro nel tetto di canne, e per il piccolo branco di muli chiusi nel kraal, recintato da un muretto di pietra, Louisa forse non lo avrebbe neppure notato. «Majuba», le spiegò Jim, tirando le redini. «'Il posto delle tortore'. E quello è Zama.» Un giovane alto, coperto soltanto da un perizoma, era uscito dalla casa e li stava fissando. «Siamo vissuti insieme fin dalla nascita. Credo che ti piacerà.» Zama lo salutò, agitando il braccio, e risalì a lunghi balzi il pendio per raggiungerli. Jim scivolò dal dorso di Drumfire e abbracciò l'amico. «Hai messo il caffè sul fuoco?» gli chiese poi. Ma Zama guardava la ragazza a cavallo. I due si studiarono per qualche istante. Lei pensò che quel giovane era alto e ben fatto, e aveva un viso largo e forte, coi denti candidi. «Ti vedo, Miss Louisa», le disse infine lui. «Ti vedo anch'io, Zama. Come fai a conoscere il mio nome?» «Me l'ha detto Somoya. E tu come conosci il mio?» «Me l'ha detto lui. E un gran chiacchierone, vero?» Scoppiarono a ridere insieme. «Ma perché lo chiami Somoya?» chiese poi. «È il nome che gli ha dato mio padre. Significa 'vento selvaggio'», rispose Zama. «Soffia come e dove gli pare, proprio come il vento.» «Chissà dove soffierà, adesso», borbottò lei, fissando Jim con un sorrisetto perplesso. «Lo vedremo», replicò Zama, ridendo. «Ma di certo la sua direzione ci sorprenderà.» Il colonnello Keyser e dieci soldati a cavallo entrarono nel cortile di High Weald. In testa ai cavalli, correva il suo cercatore di tracce boscimano. Keyser rimase eretto sulle staffe e, rivolto alla porta principale del magazzino, gridò: «Mjnheer Tom Courteney! Venite subito fuori!» A tutte le finestre e le porte si affacciarono teste bianche e nere; bambini e schiavi affrancati lo fissarono con occhi sgranati per lo stupore. «Sono qui per conto della Compagnia, e non si tratta di una faccenda piacevole», gridò di nuovo Keyser. «Non fate scherzi con me, Tom Wilbur Smith
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Courteney.» Tom uscì dalla porta del magazzino. «Stephanus Keyser, mio caro amico!» esclamò in tono gioviale, spingendo sopra la fronte gli occhiali con la montatura d'acciaio. «Siete il benvenuto.» I due avevano trascorso parecchie serate alla Mermaid Tavern e, nel corso degli anni, si erano scambiati molti favori. Appena un mese prima, Tom era riuscito a trovare un filo di perle a prezzo molto conveniente per l'amante di Keyser, mentre il colonnello aveva brigato per far cadere le accuse di ubriachezza molesta e rissa mosse a uno dei servitori di Tom. «Avanti, avanti!» disse Tom, allargando le braccia in un gesto d'invito. «Mia moglie ci porterà un bricco di caffè, oppure, se preferite, il frutto del vino.» Lanciò un richiamo verso la cucina, dalla parte opposta del cortile. «Sarah Courteney! Abbiamo un ospite d'onore.» Lei uscì sulla terrazza. «Oh, colonnello, che bella sorpresa.» «Una sorpresa, può darsi», replicò lui con severità. «Ma bella, ne dubito, mevrou. Vostro figlio James è in guai seri con la legge.» Sarah si slacciò il grembiule, andando a mettersi al fianco del marito, che le passò un braccio robusto intorno alla vita. In quel momento, Dorian Courteney, snello ed elegante, coi capelli rosso scuro coperti da un turbante verde, uscì dall'ombra del magazzino per mettersi dall'altra parte. Insieme, i tre costituivano un fronte compatto e pressoché inattaccabile. «Venite dentro, Stephanus», lo sollecitò Tom. «Non possiamo parlare qui.» Keyser scosse la testa con fermezza. «Dovete dirmi dove si nasconde vostro figlio, James Courteney.» «Credevo che poteste dirmelo voi. Ieri sera, il mondo intero vi ha visto rincorrere Jim oltre le dune. Vi ha battuto di nuovo, Stephanus?» Keyser arrossì e si dimenò sulla sella presa in prestito. La giubba di riserva gli tirava sotto le ascelle. Soltanto poche ore prima aveva recuperato le medaglie e la stella dell'Ordine di San Nicola dalle sacche che il cercatore di tracce boscimano aveva trovato ai margini dello stagno salato. Si era appuntato quelle decorazioni di traverso. Si sfiorò le tasche per controllare che l'orologio d'oro fosse ancora al suo posto. Le brache erano tese al punto che le cuciture rischiavano di scoppiare. Dopo la lunga marcia per tornare a casa, nelle tenebre, aveva i piedi indolenziti e coperti di vesciche e gli stivali nuovi gli pizzicavano i punti dolenti. Di solito andava molto fiero del suo aspetto, e quel suo stato, in cui si mescolavano Wilbur Smith
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sciatteria e imbarazzo, rendeva ancora più cocente l'umiliazione che aveva subito per mano di Jim Courteney. «Vostro figlio si è nascosto in compagnia di una forzata evasa. Ha rubato un cavallo e altri oggetti preziosi. Sono tutti reati passibili d'impiccagione, vi avverto. Ho motivo di credere che il fuggiasco si nasconda a High Weald. Abbiamo seguito le tracce dallo stagno salato fino a qui. Intendo perquisire ogni edificio.» «Bene!» commentò Tom, con un cenno di assenso. «E, quando avrete finito, mia moglie offrirà qualche rinfresco a voi e ai vostri uomini.» Poi, mentre Keyser ordinava ai soldati di smontare da cavallo e sguainare le sciabole, aggiunse: «Però vi avverto, Stephanus: dite ai vostri uomini di lasciare in pace le mie cameriere, altrimenti qualcuno commetterà davvero un reato passibile d'impiccagione». I tre Courteney si ritirarono nell'ombra fresca del magazzino, attraversando il vasto spazio a pianterreno per raggiungere i locali riservati alla contabilità, dalla parte opposta. Tom si lasciò cadere sulla poltrona di pelle, vicino al caminetto spento. Dorian sedette a gambe incrociate su un cuscino di cuoio all'altro capo della stanza; col turbante verde e col gilet ricamato, sembrava proprio il principe orientale che un tempo era stato. Sarah chiuse la porta, restando vicino al battente per evitare che qualcuno potesse origliare. Aspettando che il marito parlasse, osservava i due fratelli. Non avrebbero potuto essere più diversi di così, Dorian snello, elegante e straordinariamente bello, il suo Tom così alto, solido e schietto. La forza dei sentimenti che provava per lui, dopo tanti anni, la sorprendeva ancora. «Avrei tanta voglia di torcergli il collo, a quel cucciolo.» Il sorriso aperto di Tom aveva ceduto il posto a un cipiglio feroce. «Non sappiamo neppure esattamente in che razza di guaio ci ha cacciati.» «Sei stato giovane anche tu, Tom Courteney, ed eri sempre nei guai fino al collo.» Sarah gli rivolse il sorriso di una moglie premurosa. «Per quale motivo credi che mi sia innamorata di te? Non certo per la tua bellezza.» Tom si sforzò di non sorridere. «Era diverso», dichiarò. «Io non sono mai andato in cerca di guai.» «Sì, non sei mai andato a cercarli», ammise lei. «Li hai semplicemente afferrati a due mani.» Tom ammiccò, rivolgendosi a Dorian. «Dev'essere meraviglioso avere una moglie obbediente e rispettosa come Yasmini.» Poi ridivenne serio. Wilbur Smith
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«Bakkat è tornato?» Il mandriano aveva inviato uno dei propri figli da Tom per avvertirlo della visita notturna di Jim. E Tom aveva provato un fremito di ammirazione ascoltando la descrizione del trucco usato dal figlio per coprire le sue tracce. «È quel genere di espediente che avrei usato io. Forse sarà selvaggio come il vento, però non è un idiota», aveva detto a Sarah. «No», disse Dorian, rispondendo alla sua domanda. «Bakkat e gli altri mandriani stanno ancora spingendo tutte le mandrie e le greggi su ogni pista e sentiero di questo versante. Neppure i boscimani di Keyser riusciranno a ritrovare le tracce di Jim. Penso che possiamo stare tranquilli: Jim se l'è cavata. Ma dove sarà andato?» I due guardarono Sarah, in attesa di una risposta. «Ha fatto i suoi piani con cura», disse lei. «L'ho visto coi muli, il giorno prima. Il naufragio può anche essere stato un colpo di fortuna, tuttavia sono certa che aveva in mente di portar via la ragazza dalla nave comunque.» «Quella maledetta donna... Perché c'è sempre di mezzo una donna?» si lagnò Tom. «Proprio tu non dovresti fare questa domanda», lo rimbeccò Sarah. «Mi hai rapito, strappandomi alla mia famiglia mentre le palle di moschetto ci ronzavano intorno alla testa, quindi non atteggiarti a santo con me, Tom Courteney!» «E vero, perbacco! Me n'ero quasi dimenticato. È stato divertente, però, non è vero, bellezza?» Allungò una mano per pizzicarle il didietro. Lei gli schiaffeggiò la mano e lui proseguì, imperturbabile. «Ma chi è questa donna con Jim? Un avanzo di galera di sicuro. Un'avvelenatrice? Una borseggiatrice? Una prostituta che gestiva un bordello? Chissà che cosa si è scelto, quell'idiota.» Dorian aveva assistito a quello scambio di battute con un'aria indulgente, portandosi alla bocca la pipa ad acqua per tirare una buona boccata. Era un'abitudine che aveva preso in Arabia. Si tolse di bocca il cannello d'avorio e, in tono asciutto, osservò: «Ho parlato con almeno una dozzina dei nostri uomini che erano sulla spiaggia e l'hanno vista. Potrà essere tutto quello che suggerite voi, ma non è un avanzo di galera». Sbuffò un lungo pennacchio di fumo aromatico. «I pareri su di lei discordano. Kateng dice che è un angelo di bellezza, Litila sostiene che è una principessa d'oro, Bakkat afferma che è bella come lo spirito della dea della pioggia.» Wilbur Smith
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«Una dea della pioggia uscita da una puzzolente nave di forzati?» borbottò Tom, sarcastico. «È più probabile che una nettarina esca da un uovo di poiana. Ma dove l'ha portata Jim?» «Zama è scomparso da due giorni. Non l'ho visto andarsene, però la mia idea è che Jim lo abbia mandato via coi muli perché lo aspettasse da qualche parte», suggerì Sarah. «Zama fa tutto quello che tuo figlio gli chiede.» «E Jim ha parlato a Bakkat della Via dei Banditi», aggiunse Dorian. «Dicendogli di cancellare le tracce dalla strada a est e a nord di qui.» «La Via dei Banditi è una leggenda», ribatté Tom con fermezza. «Nel deserto non ci sono strade.» «Ma Jim ci crede. L'ho sentito discuterne con Mansur», disse Sarah. «È una follia», commentò allora Tom con aria preoccupata. «Un ragazzino e una forzata che partono a mani vuote per il deserto. Non resisteranno una settimana.» «Hanno Zama, e non sono certo partiti a mani vuote. Jim ha preso con sé sei muli carichi», gli fece notare Dorian. «Ho controllato quello che manca dai magazzini, e ha scelto bene. Hanno buone provviste per un lungo viaggio.» «Non ci ha neppure salutati.» Tom scosse la testa. «È mio figlio, il mio unico figlio, e non mi ha neppure salutato.» «Andava piuttosto di fretta, fratello», osservò Dorian. Sarah prese subito le parti del figlio. «Ci ha mandato un messaggio tramite Bakkat. Non ci ha dimenticati.» «Non è la stessa cosa», ribatté Tom in tono amaro. «Lo sai che potrebbe non tornare mai più. Si è chiuso la porta di casa alle spalle. Keyser lo arresterà e lo farà impiccare, se mai cercherà di rimettere piede nella colonia. No, dannazione, devo rivederlo. Almeno una volta. È così ostinato e selvaggio. Devo dargli qualche consiglio...» «Sono diciannove anni che gli dai consigli», osservò Dorian, malizioso. «E guarda com'è andata a finire.» «Dove ha fissato l'appuntamento con Zama?» chiese Sarah. «È là che saranno.» Tom rifletté, poi sorrise. «Il posto può essere uno soltanto», disse con decisione. Dorian annuì. «Lo so a che cosa stai pensando. Majuba è il posto più ovvio per nascondersi. Ma non possiamo seguirli laggiù. Keyser ci Wilbur Smith
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sorveglierà come un coccodrillo nascosto nel fango dell'abbeveratoio. Se uno di noi lascerà High Weald, lui gli metterà alle calcagna quel suo piccolo segugio giallo, e lo porteremmo direttamente a Majuba, quindi a Jim.» «Se vogliamo trovarlo, dobbiamo fare presto, altrimenti Jim se ne andrà da Majuba. Sono ben forniti, quanto a cavalli. Hanno Drumfire e la giumenta di Keyser. Jim sarà a mezza strada per Timbuktu, prima che riusciremo a raggiungerlo.» In quel momento si udì un trepestio di stivali e voci maschili che echeggiavano nel locale principale del magazzino. «Gli uomini di Keyser hanno perquisito la casa.» Sarah lanciò un'occhiata fuori della porta. «Ora stanno cominciando col magazzino e con le rimesse.» «Sarà meglio tenere d'occhio quei furfanti», suggerì Dorian, alzandosi. «Prima che comincino a servirsi da soli.» «Decideremo cosa fare per Jim quando avremo accompagnato alla porta Keyser», convenne Tom, mentre uscivano. Quattro soldati stavano frugando il magazzino senza troppa convinzione. Era evidente che cominciavano a stancarsi di quella caccia infruttuosa. D'altronde quel magazzino era pieno fino all'altezza delle travi in yellowwood che sostenevano il soffitto. Per ispezionarlo con cura, avrebbero dovuto sgombrare l'immane quantità di merci lì accumulate: pezze di seta della Cina e balle di cotone delle Indie; sacchi pieni di caffè e gomma arabica provenienti da Zanzibar e dagli altri porti oltre lo stretto di Hormuz; pile di assi di tek e legno di sandalo e di ebano; montagne di rame puro e lucente forgiato in enormi ruote, in modo che eserciti di schiavi potessero spingerle lungo i sentieri di montagna dell'Etiopia fino alla costa; mazzi di pelli conciate di animali selvaggi ed esotici, tigri, zebre, pellicce di scimmia e di foca e i lunghi corni ricurvi del rinoceronte, destinati a essere ridotti in polvere da vendere poi come afrodisiaco, e per quello famosi in tutta la Cina e l'Oriente. Il capo di Buona Speranza si trovava in una posizione ideale sulle rotte commerciali tra l'Europa e l'Oriente. In passato, le navi provenienti dal nord affrontavano il lungo viaggio nell'Atlantico e, sebbene potessero fare sosta nella baia della Tavola, dovevano percorrere ancora un altro tratto in apparenza interminabile - fino alle Indie e alla Cina, e ancora più a nord, se erano dirette in Giappone. Una nave poteva restare in mare per tre o Wilbur Smith
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quattro anni, prima di poter tornare ad Amsterdam, o sul Tamigi, a valle della City di Londra. Gradualmente, Tom e Dorian avevano sviluppato una diversa rete commerciale. Anzitutto avevano convinto un gruppo di armatori europei a inviare le navi soltanto fino al Capo. Lì, attingendo al magazzino dei Courteney, quegli armatori potevano riempire le stive di merci selezionate, invertire la rotta nella baia della Tavola e, col favore dei venti, tornare ai porti d'origine in meno di un anno. Il sovrapprezzo richiesto dai Courteney era comunque minore del costo da sostenere per gli anni aggiuntivi che le navi avrebbero dovuto trascorrere in mare se si fossero spinte oltre. Allo stesso modo, inoltre, le navi che provenivano da est scaricavano le loro merci nella baia della Tavola, approfittando del magazzino dei fratelli Courteney, e poi tornavano a Batavia, a Rangoon o a Bombay in meno della metà del tempo necessario per fare la traversata di due grandi oceani. Quell'innovazione era la base su cui i Courteney avevano costruito la loro fortuna. Senza contare che disponevano anche dei loro schooner mercantili, che facevano servizio lungo la costa africana ed erano agli ordini dei fedeli seguaci arabi di Dorian. In quanto musulmani, potevano navigare in acque interdette ai comandanti cristiani, avventurandosi fino a Muscat e a Medina, detta «la luminosa», la città in cui il Profeta era stato accolto durante l'esilio dalla Mecca. Anche se quelle navi non disponevano di una stiva ampia nella quale trasportare carichi voluminosi, commerciavano in prodotti di valore superiore: rame e gomma arabica, perle e madreperla pescate da uomini che s'immergevano sul fondo del mar Rosso, avorio dei mercati di Zanzibar, zaffiri delle miniere di Kandy e diamanti gialli che provenivano dal giacimento alluvionale lungo i grandi fiumi dell'impero moghul, nonché pani di oppio nero che giungevano dai monti su cui vivevano i pathan. C'era un'unica merce che i fratelli Courteney si rifiutavano di trattare: gli schiavi. Avevano entrambi esperienza diretta di quel traffico sinistro. Dorian aveva trascorso in schiavitù gran parte dell'infanzia, finché il suo proprietario, il sultano Abd Muhammad al-Malik, sovrano di Muscat, non lo aveva adottato. Da giovane, Tom aveva combattuto aspramente contro i mercanti arabi di schiavi della costa orientale dell'Africa, ed era stato testimone diretto della loro spietata crudeltà. Molti servitori e marinai dei Courteney erano stati schiavi, ma, una volta «entrati» nella famiglia, venivano subito affrancati. I mezzi grazie ai quali alcuni di quegli Wilbur Smith
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sventurati erano stati accolti sotto l'ala protettrice dei Courteney erano diversi: talvolta con la forza delle armi - dato che Tom non disdegnava mai una bella battaglia -, oppure in seguito a un naufragio, in pagamento di un debito, o semplicemente grazie a un regolare acquisto. Sarah Courteney non riusciva proprio a passare davanti a un bambino, magari in lacrime sul palco dell'asta, senza poi mettersi a tormentare il marito finché quest'ultimo non lo acquistava per affidarlo alle cure della moglie. La metà dei servitori della sua casa era stata cresciuta da lei sin dall'infanzia. Sarah Courteney uscì per andare in cucina e tornò quasi subito, seguita dalla cognata Yasmini e da un corteo di cameriere che ciarlavano e ridacchiavano, reggendo brocche di succo di limetta appena spremuto e vassoi carichi di pasticci di carne affumicata e verdure, pasticci di maiale e samosa ripiene di piccante agnello al curry. I soldati, annoiati e affamati, rinfoderarono la spada per gettarsi tutti insieme sul cibo e, tra un boccone e l'altro, sbirciavano le cameriere, amoreggiando con loro. I soldati che avrebbero dovuto perquisire la rimessa delle carrozze e le scuderie videro le donne uscire dalle cucine con tutto quel cibo e trovarono una buona scusa per unirsi ai compagni. Il colonnello Keyser voleva interrompere il festino e ordinare agli uomini di tornare al lavoro, ma Tom e Dorian lo rabbonirono, invitandolo a entrare nella stanza della contabilità. «Spero che ora accetterete la mia parola d'onore, colonnello, e vi sarete convinto che mio figlio Jim non si trova a High Weald», disse Tom, versando un bicchiere di jonge jenever da una bottiglia di pietra, mentre Sarah tagliava una grossa porzione di pasticcio di carne ancora fumante. «Ja, molto bene, ammetto che ora non è qui, Tom Courteney. Ha avuto tempo a sufficienza per filarsela, almeno per il momento. Ma sono convinto che sapete dove si nasconde.» Accettando il bicchiere a stelo lungo, lanciò un'occhiata di fuoco a Tom, che parve un chierichetto sul punto di ricevere il sacramento. «Potete fidarvi di me, Stephanus.» «Ne dubito.» Keyser mandò giù un boccone di pasticcio, annaffiandolo con un sorso di gin. «Comunque vi avverto: non permetterò a quel vostro cucciolo arrogante di cavarsela, dopo quello che ha fatto. Non cercate d'intenerirmi.» «Certo che no! Voi avete il vostro dovere da compiere», riconobbe Tom. «Vi offro soltanto ospitalità e vi assicuro che non sto cercando Wilbur Smith
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d'influenzarvi. Nel momento stesso in cui Jim tornerà a High Weald, lo porterò personalmente al castello, tenendolo per la collottola, così renderà conto delle sue azioni a voi e a sua eccellenza. Avete la mia parola di gentiluomo.» Un po' tranquillizzato, Keyser si lasciò accompagnare fuori, dove uno stalliere aveva in custodia il suo cavallo. Tom gli infilò nelle sacche della sella altre due bottiglie di gin olandese e gli fece un cenno di saluto mentre il colonnello si allontanava col suo squadrone di cavalleria. Sempre seguendoli con lo sguardo, Tom mormorò, rivolto al fratello: «Ho bisogno d'inviare un messaggio a Jim. Deve restare a Majuba finché non potrò raggiungerlo. Keyser mi farà sorvegliare, in attesa che io vada sulle montagne, in modo da mostrargli la strada... Invece io manderò Bakkat. Lui non lascia tracce». Dorian si gettò sulla spalla il lembo libero del turbante. «Stammi bene a sentire, Tom. Non prendere Keyser troppo alla leggera. Non è quel gran buffone che finge di essere. Se metterà le mani su Jim, quello sarà un giorno tragico per la nostra famiglia. Non dimenticare che nostro nonno è morto sulla forca della spianata del castello.» La strada segnata da solchi profondi che portava da High Weald fino in città passava attraverso una foresta di alberi di yellow-wood dai tronchi grossi come colonne di una cattedrale. Non appena si trovarono fuori della visuale della casa, Keyser fermò gli uomini e squadrò dall'alto il piccolo boscimano fermo all'altezza della staffa, che lo guardava a sua volta con l'espressione ansiosa di un cane da caccia. «Xhia!» Pronunciò il suo nome col suono esplosivo di uno starnuto. «Ben presto manderanno qualcuno con un messaggio al giovane furfante, ovunque si trovi. Tu devi individuare il messaggero e seguirlo, ma senza farti vedere. Non appena avrai trovato il nascondiglio, torna da me. Capito?» «Ho capito, Gwenyama.» Il boscimano si rivolse a Keyser con l'appellativo di massimo rispetto, che significava «colui che divora i suoi nemici». Sapeva che il colonnello meritava quel titolo. «So chi manderanno. Bakkat è un mio vecchio rivale e nemico. Mi farà piacere umiliarlo.» «Allora va', e tieni gli occhi aperti.» Silenzioso come un'ombra, Xhia si allontanò nella foresta di yellowwood, mentre Keyser riportava lo squadrone di cavalieri al castello. Wilbur Smith
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La capanna di Majuba comprendeva un unico locale di forma allungata. Il tetto basso era ricoperto da uno strato di canne, colte sulle rive del torrente che scorreva vicino all'ingresso. Le finestre erano strette fessure ricavate nel muro di pietra e davanti a esse erano state messe tende ricavate dalle pelli secche di eland e blaubok. Al centro del pavimento di terra battuta c'era un focolare aperto, con un foro nel tetto in corrispondenza, per lasciar uscire il fumo. L'angolo estremo della capanna era schermato da una tenda di cuoio grezzo. «Quando veniamo a caccia quassù, mettiamo mio padre dietro quella tenda. La nostra intenzione era quella di smorzare il rumore che fa russando», spiegò Jim a Louisa. «Naturalmente non ha funzionato. Niente potrebbe smorzare quel ronfo.» Scoppiò a ridere. «Ora invece ci metteremo te.» «Io non russo», protestò lei. «Anche se lo facessi, non sarà per molto. Ci rimetteremo in viaggio non appena avrò fatto riposare i cavalli, spostato i carichi e... ci saremo procurati un vestito decente per te.» «E quando sarà?» «Prima che possano mandare i soldati a inseguirci dal castello. Proseguiremo il viaggio...» «Per dove?» lo interruppe lei. «Non lo so», rispose Jim, sorridendo. «Ma quando ci arriveremo te lo dirò.» Le lanciò un'occhiata di apprezzamento. Il camicione a brandelli la lasciava seminuda, e lei si strinse addosso il mantello. «Be', non si può certo dire che tu sia vestita per una cena al castello.» Dirigendosi verso uno dei basti che Zama aveva accatastato contro la parete, vi frugò dentro e ne trasse una pezza di stoffa e un sacchetto di tela che conteneva forbici, aghi e filo. «Spero che tu sappia cucire», le disse, portandole il tutto. «Mia madre mi ha insegnato a cucirmi i vestiti da sola.» «Bene. Ma prima dobbiamo cenare. Io non mangio da quando ho fatto colazione, due giorni fa.» Zama servì loro uno stufato di cacciagione, che aveva cucinato nel pentolone a treppiede. Sopra ci mise un pezzo di focaccia di mais. Jim ne mangiò una cucchiaiata, poi, a bocca piena, domandò a Louisa: «Tua madre ti ha insegnato anche a cucinare?» Wilbur Smith
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Lei annuì. «Era una cuoca famosa. Ha cucinato per lo Stadholder di Amsterdam e per il principe del casato di Orange.» «Allora qui avrai molto da fare. Ti occuperai della cucina», replicò Jim. «Una volta Zama ha avvelenato un capo degli ottentotti, e senza neanche sforzarsi troppo. Forse non ti sembrerà una grande impresa, ma lascia che ti dica una cosa: gli ottentotti riescono a ingrassare persino col cibo che uccide le iene.» Lei lanciò un'occhiata incerta a Zama, restando col cucchiaio a mezz'aria. «È vero?» domandò. «Gli ottentotti sono i peggiori bugiardi di tutta l'Africa», rispose Zama. «Ma nessuno può reggere il confronto con Somoya.» «Allora è uno scherzo?» «Sì, è uno scherzo», disse Zama. «Uno stupido scherzo inglese. Ci vogliono molti anni per imparare a capire gli scherzi inglesi. E qualcuno non ci riesce mai.» Dopo mangiato, Louisa stese la pezza di stoffa, cominciando a misurare e tagliare. Jim e Zama disfecero i basti che Jim aveva messo insieme tanto in fretta, e ne annotarono il contenuto, ridisponendolo. Il ragazzo indossò con sollievo i suoi stivali e i suoi vestiti, cedendo a Zama la giubba e le brache di Keyser. «Se mai dovessimo combattere con le tribù selvagge del nord, potrai impressionarle con la divisa di colonnello della Compagnia», gli disse. Pulirono e oliarono i moschetti, sistemando la pietra focaia nel meccanismo d'innesco. Mettendo sul fuoco la pentola di piombo, fusero il metallo per ricavarne altri proiettili, destinati alla pistola che Jim aveva preso al colonnello Keyser. I sacchetti dei proiettili per i moschetti erano ancora pieni. «Avresti dovuto portare almeno altri cinque barilotti di polvere», disse Zama a Jim, mentre riempiva le fiasche per la polvere. «Se incontreremo tribù ostili, e quando cominceremo la caccia, questa non durerà molto.» «Ne avrei portati altri cinquanta, se soltanto avessi trovato altri venti muli per trasportarli», ribatté seccamente l'altro. Poi lanciò un richiamo a Louisa, che aveva steso sul pavimento la pezza di tessuto e vi stava inginocchiata sopra. Usava un bastoncello di carbone preso dal focolare per tracciare il disegno del modello, prima di tagliarlo. «Sai caricare un moschetto e sparare?» Lei scosse la testa con aria mortificata. «Allora dovrò insegnartelo.» Poi indicò la stoffa sulla quale Wilbur Smith
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stava lavorando. «Che cosa stai facendo?» «Una gonna.» «Un bel paio di pantaloni robusti sarebbero più utili, e richiederebbero meno stoffa.» Le sue guance si arrossarono, assumendo un affascinante colore rosato. «Le donne non portano i pantaloni.» «Se devono cavalcare come un uomo, camminare e correre, come te, forse dovrebbero portarli.» Indicò i suoi piedi nudi. «Per completare i pantaloni nuovi, Zama ti confezionerà un bel paio di velskoen con la pelle dell'antilope alcina.» Louisa tagliò un paio di pantaloni molto ampi, che finirono per sottolineare il suo aspetto da ragazzo. Rammendò l'orlo lacero del camicione da forzata per trasformarlo in una lunga camicia da indossare sopra i pantaloni, in modo che le arrivasse a mezza coscia, e la rimboccò alla cintola con una cintura di cuoio grezzo che le aveva confezionato Zama. Scoprì che era un esperto velaio, abile anche nella lavorazione del cuoio. Gli stivaletti in pelle di antilope alcina che confezionò per lei le stavano alla perfezione. Arrivavano a metà del polpaccio, e lui rovesciò la pelle all'esterno per conferire loro un aspetto elegante, esaltando così le lunghe gambe della ragazza. Infine lei realizzò una cuffietta di tela per coprire i capelli e ripararsi dal sole. Jim chiamò con un fischio Drumfire, che arrivò di slancio dalla riva del ruscello, dove stava brucando la tenera erba primaverile. Abbandonandosi alle solite manifestazioni di affetto, finse di voler travolgere il padrone, e Jim gli rivolse alcuni insulti scherzosi, passandogli la briglia sulla testa. Louisa si affacciò alla porta della capanna per chiedergli: «Dove vai?» «A spazzare la pista all'indietro.» «Che cosa significa?» «Ripercorro la strada che abbiamo fatto per controllare che nessuno ci segua.» «Mi piacerebbe venire con te, per fare una corsa.» Guardò Trueheart. «I cavalli sono freschi e riposati.» «Sellala!» la incitò Jim. Louisa aveva nascosto nella piccola sacca della cintura un grosso pezzo della focaccia di mais, ma Trueheart la fiutò non appena lei uscì dalla porta della capanna. La giumenta si diresse subito da lei e, mentre mangiava la focaccia, Louisa le sistemò la sacca sul dorso. Poi, sotto lo sguardo attento di Jim, lei strinse la cinghia del sottopancia e Wilbur Smith
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montò in sella. Con le nuove brache si muoveva con grande disinvoltura. «Dev'essere il cavallo più fortunato dell'Africa», commentò Jim. «Passare dal colonnello a te è come passare da un elefante a un istrice.» Lui sellò Drumfire; infilò nel fodero un moschetto lungo, mettendosi a tracolla un corno per la polvere prima di balzare in groppa al cavallo. «Fammi strada», disse alla ragazza. «Tornando dalla direzione da cui siamo venuti?» chiese Louisa, ma poi, senza attendere la risposta, si slanciò lungo il pendio. Aveva la mano leggera sulle redini e un portamento fiero, tutto naturale. La giumenta sembrava non sentire affatto il suo peso, e saliva il ripido pendio montuoso come se volasse. Stando alle sue spalle, Jim ne valutò lo stile. Se era abituata a montare all'amazzone, si era adattata in fretta a cavalcare come un uomo. Rammentò come aveva affrontato la lunga cavalcata notturna e si rese conto, con un certo stupore, che si era ripresa con impressionante rapidità. Capì che sarebbe stata in grado di reggere il ritmo del viaggio, anche se lui avesse dovuto imporle un passo massacrante. Quando arrivarono in vetta, lui passò in testa, ritrovando senza esitazione la strada nel labirinto di valli e canaloni che avevano percorso. Agli occhi di Louisa, tutte le pareti rocciose e le pendici delle colline sembravano identiche; Jim, invece, svoltava e deviava attraverso quel labirinto senza la minima incertezza. Ogni volta che davanti a loro si schiudeva un nuovo tratto aperto, il ragazzo smontava per raggiungere un punto di osservazione da cui scrutare il terreno attraverso la lente del cannocchiale. Quelle soste consentirono a Louisa di apprezzare il grandioso panorama che li circondava. Dopo il paesaggio pianeggiante della sua terra natia, quelle vette sembravano spingersi verso il cielo. Le pareti a strapiombo erano color ocra, rosso e viola. I ghiaioni erano ricoperti di cespugli fitti, che parevano enormi puntaspilli, in mezzo ai quali spuntavano fiori gialli e arancioni. Sopra di loro sciamavano stormi di uccelli dalla coda lunga, che immergevano nei fiori il becco ricurvo. «Suiker bekkies, 'uccelli dello zucchero'», le spiegò Jim quando lei glieli indicò. «Bevono il nettare dai cespugli di protea.» Era la prima volta, dopo il naufragio della nave, che aveva la possibilità di guardarsi intorno, e già si sentiva conquistata dalla bellezza di quella terra nuova e strana. Gli orrori del ponte dei cannoni della Meeuw Wilbur Smith
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cominciavano già a sbiadire nella sua mente, come se appartenessero a un vecchio incubo. Il sentiero che stavano seguendo risaliva un pendio ripido, e Jim si fermò al di sotto della linea dell'orizzonte, porgendole le redini di Drumfire, mentre saliva sulla cima per osservare l'altro versante della montagna. Di tanto in tanto lei lo guardava e, a un certo punto, lo vide sbirciare oltre la linea del crinale e cambiare di colpo atteggiamento. Si abbassò, piegandosi come per nascondersi, e tornò carponi verso il punto in cui lo aspettava. Allarmata, Louisa chiese con voce tremante: «Siamo seguiti? Sono gli uomini del colonnello?» «No, molto meglio. È carne.» «Non capisco.» «Sono eland. Branchi di venti capi o anche più. Vengono direttamente verso di noi dalla parte opposta.» «Eland?» ripeté lei. «È l'antilope alcina, la più grande che esista in Africa. Ha le dimensioni di un bue», spiegò Jim, controllando la carica nello scodellino del moschetto. «La carne è ricca di grasso e si avvicina al gusto del manzo più di quella delle altre antilopi. Salata ed essiccata, oppure affumicata, la carne di un unico eland ci basterà per molte settimane.» «Vuoi sparare a una di quelle bestie? E se il colonnello ci segue? Non sentirà il colpo?» «Fra questi monti, gli echi frammentano il suono e confondono la direzione. In ogni caso, non posso lasciarmi sfuggire una simile occasione. Siamo già a corto di carne. Se non vogliamo morire di fame, devo correre questo rischio.» Prendendo le briglie dei cavalli, li condusse lontani dal sentiero, fermandosi dietro un affioramento di roccia rossa. «Smonta! Tieni i cavalli per la briglia, ma cerca di non farti vedere e non muoverti finché non ti chiamo», ordinò a Louisa. Poi, portando con sé il moschetto, corse di nuovo verso la sommità del pendio. Poco prima di raggiungere il crinale, si lasciò cadere sull'erba. Guardando indietro, vide che lei aveva seguito le sue istruzioni. Si stava accovacciando in modo che soltanto la testa rimanesse visibile. I cavalli non allarmeranno gli eland, pensò Jim. Le antilopi li avrebbero scambiati per altri animali allo stato libero. Si asciugò il sudore dagli occhi col cappello, dimenandosi per trovare una posizione più comoda dietro una piccola roccia. Era seduto, non disteso. Se avesse sparato in posizione prona, il rinculo del pesante moschetto avrebbe potuto spezzargli la Wilbur Smith
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clavicola. Usò il cappello a mo' di cuscino, per posarci sopra il calcio del moschetto, mirando verso l'alto del pendio. Sulla valle scese il silenzio profondo dei monti, interrotto soltanto dal lieve ronzio degli insetti sui fiori di protea e dal fischio isolato e lamentoso di uno storno di montagna dalle ali rosse. I minuti trascorsero lentamente, come miele che goccia, e poi Jim alzò la testa. Aveva udito qualcosa che gli fece accelerare all'impazzata il battito del cuore. Era un ticchettio. Pareva che qualcuno stesse battendo tra loro due legnetti. Jim lo riconobbe all'istante. L'eland possedeva infatti una strana particolarità, unica nella fauna africana: i possenti tendini delle zampe di quell'animale producevano, a ogni passo, una sorta di ticchettio. Quando lui era ancora piccolo, Bakkat, il piccolo boscimano dalla pelle gialla, gli aveva spiegato il motivo di quello strano fenomeno. In quel tempo remoto in cui il sole era sorto per la prima volta e il mondo era tutto nuovo e ancora imperlato di rugiada, Xtog, padre dei khoi, gli ottentotti, e dei san, i boscimani, era riuscito a catturare col laccio Impisi, la iena. Come tutti sanno, Impisi era ed è un mago potente. Tuttavia, mentre Xtog affilava il coltello di selce per tagliargli la gola, Impisi gli aveva detto: «Xtog, se mi liberi, farò una magia per te. Invece della mia carne, che puzza delle carogne di cui mi nutro, avrai colline di grasso bianco e montagne di carne dolce di eland da arrostire sul fuoco ogni sera della tua vita». Xtog, che quasi soffocava nella saliva al pensiero della carne di eland, aveva chiesto: «Com'è possibile?» Sapeva infatti che l'antilope era un animale astuto, difficile da trovare. «Farò un incantesimo sull'eland», aveva risposto Impisi. «Ogni volta che vagherà per deserti e montagne produrrà un suono che ti guiderà da lui.» Così Xtog aveva liberato Impisi e, da quel giorno, l'eland aveva prodotto un ticchettio che avvertiva il cacciatore del suo avvicinarsi. Jim sorrise, ricordando la storia di Bakkat, e tirò delicatamente indietro il pesante cane del moschetto per armarlo, accostando alla spalla il calcio di ottone. Il ticchettio divenne più sonoro, interrompendosi quando gli animali che lo producevano si fermavano, e poi ricominciando daccapo. Jim osservò l'orizzonte proprio davanti a sé e di colpo vide un paio di corna massicce innalzarsi nel blu del cielo. Erano lunghe e spesse quanto il braccio di un uomo, a spirale come il corno del narvalo, di un nero levigato che scintillava al sole. Il ticchettio cessò, e le corna si girarono lentamente da una parte all'altra, Wilbur Smith
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come se l'animale si fosse fermato ad ascoltare. Jim sentì il sibilo del suo respiro, e i nervi gli si tesero come la corda di un arco. Poi il ticchettio riprese e le corna salirono più in alto, finché - al di sotto delle orecchie non comparvero due orecchie a forma di trombetta e due occhi enormi. Gli occhi scuri e gentili sembravano nuotare in un velo di lacrime. Velati da lunghe ciglia ricurve, fissavano Jim come se gli leggessero in fondo all'anima. Lui trattenne il fiato. L'animale era così vicino che lui poteva vederlo battere le ciglia, e non osava muoversi. Poi l'eland distolse lo sguardo, volgendo la grossa testa in basso, verso il pendio dal quale era venuto. Subito dopo avanzò verso Jim, e allora comparve anche il resto del suo corpo. Non avrebbe potuto cingere con le braccia quel collo, tanto era spesso, e al di sotto pendeva una grossa giogaia che oscillava a ogni passo. Il dorso e le spalle erano azzurrini per l'età, e la statura era pari a quella di Jim. A una dozzina di passi da lui, l'animale si fermò e abbassò la testa per brucare le foglioline novelle di un cripple wood. Oltre il crinale, alle spalle del maschio, comparve il resto del branco. Le femmine erano di un tenero color crema e, sebbene avessero anche loro le lunghe corna a spirale, la testa appariva più aggraziata. I piccoli erano di un color castagna rossiccio, e i più piccoli erano privi di corna. Uno di loro abbassò la testa per colpire scherzosamente il suo gemello, dopodiché s'impennarono e cominciarono a inseguirsi correndo in cerchio, sotto lo sguardo vagamente interessato della madre. L'istinto del cacciatore riportò lo sguardo di Jim verso il grande maschio. Stava ancora masticando le foglie del cripple wood, e lui dovette fare uno sforzo per non sparare a quel vecchio animale. Il trofeo di corna era di certo imponente, ma la carne sarebbe stata dura e tigliosa, povera di grasso. Gli tornò alla mente una frase di Bakkat: «Lascia che il vecchio maschio continui a figliare, e la femmina ad allattare i piccoli». Lentamente girò la testa per esaminare il resto del branco. In quel momento, la preda perfetta superò il crinale. Si trattava di un maschio molto più giovane: non poteva avere più di quattro anni. I quarti posteriori erano così grassocci e lucidi che sembravano esplodere dalla pelle di un marrone dorato. Si girò di fianco, attirato dal verde lucente delle foglie di un albero di gwarrie, carico di bacche mature di colore violaceo, e vi girò intorno, sino a trovarsi di fronte Wilbur Smith
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a Jim, poi si protese per piluccare le bacche, lasciando scoperta la curva color crema della gola. Jim puntò verso di essa la canna del moschetto. Si muoveva con estrema lentezza, proprio come un camaleonte si avvicina a una mosca. I piccoli che ruzzavano sollevavano la polvere, scalciando, e distraevano così lo sguardo solitamente vigile delle femmine del branco. Jim puntò con cura il mirino alla base della gola del maschio, sulla cresta di pelle che la circondava come una collana. Sapeva che, anche a distanza così ravvicinata, una delle massicce clavicole dell'animale rischiava di schiacciarsi, arrestando la palla di moschetto. Doveva trovare un varco nel petto per spingere in profondità la palla negli organi vitali, lacerando il cuore, i polmoni e le arterie pulsanti. Tirando il grilletto oltre il punto in cui era lasco, avvertì la resistenza del dente d'arresto e aumentò a poco a poco la pressione, fissando con intensità il punto della gola al quale stava mirando e resistendo all'impulso di tirare ancora il grilletto di scatto per superare l'ultimo tratto - sottile come un capello - che lo avrebbe portato in fondo. Il cane scattò con un suono secco e sonoro, la pietra focaia fece sprizzare una pioggia di scintille dall'esca, la polvere che era nel bacinetto esplose in uno sbuffo di fumo bianco e il calcio rinculò contro la sua spalla con un rombo. Prima che la violenza del rinculo e il lungo sprazzo di fumo gli guastassero la mira, Jim scorse l'eland ingobbirsi in uno spasmo possente e intuì che il proiettile gli aveva spaccato il cuore. Balzò in piedi per vedere oltre la nuvola di fumo. Il giovane maschio era ancora impietrito nell'agonia. Aveva la bocca spalancata, e Jim poté individuare il foro del proiettile, un foro scuro e senza sangue sulla pelle liscia della gola. Intorno a lui, il resto del branco si diede alla fuga a velocità fulminea, sparpagliandosi al galoppo lungo il pendio roccioso e facendo volare sassi e polvere. Il maschio colpito prese a indietreggiare, attanagliato da uno spasmo incontrollabile. Le zampe cominciarono a fremere, e l'animale ricadde sulle anche, levando il muso verso il cielo. Dai polmoni sprizzò un fiotto di sangue rosso vivo, che colò dalle mascelle. Poi l'eland si contorse e ricadde sul dorso, scalciando in modo spasmodico. Jim si alzò, osservando i momenti finali dell'agonia. A poco a poco l'esultanza cedette il posto alla malinconia del vero cacciatore, colpito dalla tragica bellezza dell'uccisione. Quando l'eland rimase immobile, lui depose il moschetto ed estrasse il coltello dal fodero Wilbur Smith
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che portava alla cintura. Usando come leva le corna, rovesciò all'indietro la testa dell'animale e, con due incisioni abili, aprì le arterie ai lati della gola, osservando il sangue rosso vivo che usciva dai tagli. Poi sollevò una delle massicce zampe posteriori e tagliò il sacco dello scroto. Louisa sopraggiunse a cavallo proprio mentre lui si rialzava, col sacchetto bianco e peloso, e si sentì in dovere di spiegare: «Se lo lasciassimo, rovinerebbe la carne». Lei distolse lo sguardo. «Che splendido animale. Così grande!» Sembrava intimorita dall'enormità di quello che lui aveva fatto. Poi si raddrizzò sulla sella. «Che posso fare per aiutarti?» «Per prima cosa, lega i cavalli», le suggerì, e lei scivolò dalla sella di Trueheart, conducendo i cavalli verso l'albero di gwarrie. Li legò al tronco e tornò da Jim. «Tieni una delle zampe posteriori», le disse lui. «Se lasciamo le interiora, andranno a male in poche ore.» Era un lavoro duro, ma lei non si sottrasse. Quando il ragazzo incise il ventre, dall'inguine alle costole, le viscere e le interiora fuoriuscirono dall'apertura, gonfiandosi come un sacco. «Adesso ci si sporca le mani», l'ammonì lui, ma, prima che potesse continuare, sentì una voce pigolante e infantile. «Ti ho insegnato bene, Somoya.» Jim si girò di scatto, tenendo istintivamente il coltello nella presa difensiva da sotto in su, e fissò l'ometto seduto su una roccia poco lontana, a osservarli. Più spaventato che incollerito, gli gridò: «Bakkat, piccolo shaitan! Non farlo mai più! Da dove sei sbucato fuori, in nome del tuo Kulu Kulu?» «Ti ho sorpreso, Somoya?» Bakkat sembrava a disagio, e Jim ricordò che avrebbe dovuto rispettare le buone maniere. Era arrivato a un soffio dall'offendere il boscimano. «No, certo che no. Ti ho visto da lontano.» Non bisognava mai dire a un boscimano che non lo si era visto, perché lui lo avrebbe interpretato come un'allusione offensiva alla sua bassa statura. «Sei più alto degli alberi.» A quel complimento, il viso di Bakkat s'illuminò. «Ti ho osservato dall'inizio della caccia. È stato un buon appostamento, e un'uccisione pulita, Somoya. Ma penso che ti occorra ben più di una ragazzina per aiutarti a lavorare la carne.» Con un balzo, scese dalla roccia. Si fermò davanti a Louisa e si accovacciò, battendo le mani in segno di saluto. «Che cosa dice?» chiese lei a Jim. Wilbur Smith
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«Dice che ti vede, e che i tuoi capelli sono come la luce del sole», spiegò lui. «Penso che ti abbia appena dato il tuo nome africano: Welanga, cioè 'fanciulla di sole'.» «Ti prego, digli che lo vedo anch'io, e che mi fa un grande onore.» Gli sorrise dall'alto, e Bakkat ridacchiò, deliziato. Il boscimano portava su una spalla un'ascia tipica dei nativi, e sull'altra l'arco da caccia. Mise da parte l'arco e la faretra, sollevando l'ascia per aiutare Jim con l'enorme carcassa. Louisa rimase stupita dalla rapidità con cui i due lavoravano. Ciascuno di loro sapeva cosa fare e lo faceva senza esitare e senza discutere. Con le braccia insanguinate fino ai gomiti, presero le viscere e il sacco rigonfio dello stomaco. Senza interrompere il lavoro, Bakkat tagliò una striscia di trippa cruda, la sbatté contro una roccia per liberarla dalla vegetazione semidigerita, poi se la ficcò in bocca e la masticò con gioia palese. Quando tirarono fuori il fegato fumante, anche Jim si unì al festino. Lei lo fissò, inorridita. «Ma è crudo!» protestò. «Perché, in Olanda non mangiate le aringhe crude?» ribatté lui, offrendole un pezzetto di fegato violaceo. Lei stava per rifiutare, quando intuì dalla sua espressione che quella era una sfida. Anche Bakkat la guardava con un sorrisetto malizioso, e i suoi occhi, nel viso grinzoso e coriaceo, erano diventati due fessure. Louisa prese la fettina di fegato, si fece coraggio e se la mise in bocca. Sentì la bile salirle in gola, ma s'impose di masticare. Dopo lo sconcerto iniziale del sapore forte, si accorse che non era sgradevole. Mangiò lentamente, masticando bene prima d'inghiottire. Poi, con profonda soddisfazione, vide che Jim era mortificato. Allora prese un'altra fettina dalla sua mano insanguinata, cominciando a masticarla. Bakkat si lasciò sfuggire una risatina acuta come uno squittio. Poi, dopo aver dato una gomitata a Jim, scosse la testa con aria entusiasta, cominciò a mimare il modo in cui Louisa aveva vinto quella gara silenziosa, barcollando in circolo mentre si ficcava in bocca pezzi immaginari di fegato, piegato in due dal gran ridere. «Se fossi divertente almeno la metà di quanto credi di essere, saresti il buffone di tutte le cinquanta tribù dei khoisan. Su, rimettiamoci al lavoro», borbottò Jim in tono acido. Divisero la carne per caricarla sui due cavalli, e Bakkat ricavò un sacco dalla pelle ancora umida per ficcarci dentro i bocconi prelibati, cioè i rognoni, la trippa e il fegato. Probabilmente quel sacco pesava quasi quanto lui, eppure il boscimano se lo mise in spalla e si allontanò al trotto. Wilbur Smith
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Jim trasportava una spalla dell'antilope abbattuta, che gli faceva quasi piegare le ginocchia, mentre Louisa conduceva i cavalli. Coprirono l'ultimo miglio fino alla gola di Majuba immersi nel buio. Xhia trotterellava con la rapida andatura a gambe piegate che i boscimani chiamavano «bere il vento». Avrebbe potuto continuare così dalle prime luci dell'alba fino al calar della notte. Correndo, parlava con se stesso, come se avesse un compagno, rispondendo alle proprie domande e ridacchiando delle sue battute. Senza smettere di correre, bevve dalla bottiglia che aveva ricavato da un corno e mangiò dal sacchetto di cuoio pieno di cibo che portava a tracolla. Rammentava a se stesso quanto era astuto e coraggioso. «Io sono Xhia, il possente cacciatore», diceva, facendo un saltello in aria. «Ho ucciso il grande maschio di elefante col veleno nel quale ho intinto la punta della mia freccia.» Ricordava come aveva seguito il maschio lungo le rive del grande fiume. Aveva ostinatamente continuato la caccia per tutto il tempo che la luna nuova aveva impiegato per diventare piena e poi per scomparire di nuovo. «Non una sola volta ho perso la traccia. Quale altro uomo saprebbe farlo?» Scosse la testa e si rispose da solo: «Nessuno! Bakkat sarebbe forse capace di un'impresa del genere? Mai! Bakkat avrebbe saputo lanciare la freccia nella vena dietro l'orecchio, in modo che il veleno arrivasse direttamente al cuore del maschio? No, lui non avrebbe saputo farlo». Una fragile freccia di canna poteva perforare a stento la pelle spessa del pachiderma, dunque non sarebbe mai penetrata nel cuore o nei polmoni; Bakkat aveva dovuto individuare uno dei grossi vasi sanguigni che correvano vicino alla superficie per trasportare il veleno. E c'erano voluti cinque giorni perché quel veleno avesse ragione dell'elefante. «Io però lo seguivo tutto il tempo e danzavo e cantavo il canto del cacciatore, e infine lui è crollato come una montagna, sollevando la polvere all'altezza delle cime degli alberi. Bakkat avrebbe saputo compiere un'impresa del genere?» chiese, rivolto alle alte cime intorno a lui. «Mai!» si rispose. «Mai!» Xhia e Bakkat erano membri della stessa tribù, ma non fratelli. «Non siamo fratelli!» gridò a voce alta, d'un tratto incollerito. Tanto tempo prima, c'era stata una ragazza con la pelle chiara come il piumaggio di un uccello tessitore, e il viso a forma di cuore. Aveva labbra piene come il frutto maturo della marula, le natiche sembravano uova di Wilbur Smith
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struzzo, e i seni erano rotondi come due meloni tsama gialli, che si scaldavano al sole del Kalahari. «Era nata per essere la mia donna», gridò. «Mentre dormivo, il Kulu Kulu mi ha preso un pezzo di cuore e lo ha foggiato nella forma di quella donna.» Non riusciva a pronunciarne il nome. L'aveva colpita con la minuscola freccia dell'amore, guarnita con le piume della tortora, per dimostrarle quanto la desiderava. «E invece lei se n'è andata. Non voleva dormire sul pagliericcio di Xhia il cacciatore. Se n'è andata con quell'odioso Bakkat e gli ha dato tre figli. Ma io sono astuto. E lei è morta a causa della bile del mamba.» Era stato Xhia a catturare il serpente. Dopo aver trovato il suo nascondiglio sotto una roccia piatta, aveva legato nelle vicinanze una colomba che facesse da esca e, quando il serpente era uscito, strisciando, dalla roccia, lo aveva afferrato dietro la testa. Non era un mamba grande, era lungo appena un braccio, ma il suo veleno era così efficace da uccidere un bufalo maschio. Mentre la ragazza e Bakkat dormivano, lui aveva sistemato il mamba nella sacca dove lei riponeva il raccolto. E la mattina dopo, quando lei aveva aperto l'imboccatura della sacca per metterci un tubero, il serpente l'aveva morsa tre volte, una volta sul dito e due volte sul polso. La sua morte, benché rapida, era stata terribile a vedersi. Bakkat aveva pianto, tenendola fra le braccia. Xhia, nascosto tra le rocce, aveva osservato tutta la scena. Il ricordo della sua morte e del dolore di Bakkat era così dolce che Xhia saltò a piedi uniti come una cavalletta. «Non c'è animale che possa sfuggirmi, non c'è uomo che possa prevalere sulla mia astuzia, perché io sono Xhia!» gridò, esultante, e l'eco gli rispose dalle pareti rocciose. Dopo che il colonnello Keyser lo aveva lasciato, lui aveva atteso sulle colline e nelle foreste di High Weald, spiando i movimenti di Bakkat. Il primo giorno l'aveva visto uscire dalla sua capanna all'alba, sbadigliare, grattarsi, scoreggiare e ridere del sibilo prodotto dal gas uscito dalle natiche, dato che, per i boscimani, una scoreggia fragorosa era sempre segno di buona salute. L'aveva guardato mentre conduceva la mandria fuori del kraal e fino all'acqua. Acquattato in mezzo all'erba come una pernice, Xhia aveva poi visto il grande uomo bianco con la barba nera che chiamavano Klebe, «il falco», scendere a cavallo dalla casa padronale. Era il padrone di Bakkat, e i due si erano accovacciati al centro del campo aperto, con le teste accostate, bisbigliando a lungo in modo che nessuno potesse origliare. Neppure Xhia era riuscito ad avvicinarsi abbastanza per Wilbur Smith
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distinguere le loro parole. Però, osservando quel conciliabolo, aveva sorriso. «Lo so che cosa stai dicendo, Klebe. So che stai mandando Bakkat a trovare tuo figlio. So che gli stai dicendo di fare attenzione a non essere seguito, ma io, Xhia, come lo spirito del vento, li osserverò quando s'incontreranno.» Al calar della sera, Bakkat aveva chiuso la porta della sua capanna e Xhia aveva scorto il riverbero del fuoco acceso per cucinare. «Stai cercando d'incantarmi, Bakkat. Ma sarà stasera o domani?» si era domandato Xhia, osservando dalla cima della collina. «La tua pazienza è forse più grande della mia? Vedremo.» Così aveva studiato Bakkat che girava intorno alla capanna, alle prime luci dell'alba, scrutando il terreno in cerca delle tracce di un nemico, di qualcuno che fosse andato a spiarlo. E lui si era stretto le braccia intorno al corpo per la gioia, sfregandosi la schiena. «Credi che sia tanto idiota da avvicinarmi, Bakkat?» Era quello il motivo per cui era rimasto tutta la notte in cima alla collina. «Io sono Xhia e non lascio segni. Neanche l'avvoltoio che vola alto può scoprire il mio nascondiglio.» Aveva spiato Bakkat, che andava in giro ad accudire le mandrie del padrone. Al calar della sera, Bakkat era rientrato nella capanna. Era stato allora che, nell'oscurità, Xhia aveva operato un incantesimo. Aveva preso un pizzico della polvere contenuta in una delle fiasche, ricavate da un corno di elafodo, che portava appese alla cintura di perline, e se l'era messo sulla lingua. Era cenere di baffi di leopardo, mescolata allo sterco secco e polverizzato di un leone e ad altri ingredienti segreti. Mentre si scioglieva sulla lingua, Xhia aveva mormorato una formula magica. Era l'incantesimo che serviva a superare in astuzia la preda. Poi aveva sputato tre volte in direzione della capanna dove viveva Bakkat. «Questo è un incantesimo di grande potere, Bakkat», lo aveva ammonito. «Nessun animale o uomo può resistere alla sua magia.» Non sempre era vero, ma ogni volta che falliva era per una buona ragione. Talvolta era perché il vento cambiava direzione, o perché un corvo nero volava in alto, o perché era in fiore il giglio dall'occhio nero. A parte queste e altre occasioni simili, era un incantesimo infallibile. Dopo averlo gettato, si predispose ad aspettare. Non mangiava dal giorno prima, così aveva masticato alcuni frammenti di carne affumicata presi dalla sacca per il cibo. Né la fame né il vento gelido che soffiava dalla montagna coperta di neve lo scoraggiavano. Come tutti i componenti Wilbur Smith
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della sua tribù era abituato alla sofferenza e alle privazioni. La notte, inoltre, era molto tranquilla, il che confermava l'efficacia dell'incantesimo. Anche una lieve brezza avrebbe coperto i suoni ai quali tendeva l'orecchio. Poco dopo il tramonto della luna, aveva sentito un uccello notturno lanciare il suo grido d'allarme nella foresta dietro la casa di Bakkat, e si era detto: Qui si sta muovendo qualcosa. Pochi minuti dopo, aveva sentito il compagno del caprimulgo levarsi con un frullo d'ali dal sottobosco della foresta e, collegando i due indizi, aveva intuito la direzione nella quale si muoveva la sua preda. Era quindi sceso lungo il pendio, silenzioso come un'ombra. Tastando il terreno a ogni passo col piede nudo, per individuare rametti o foglie secche che potevano scricchiolare e rivelare la sua presenza, era avanzato, fermandosi a intervalli di pochi passi, per ascoltare; infatti, vicino al ruscello, aveva sentito il fruscio secco di un porcospino che drizzava gli aculei, come avvertimento per un predatore che si era avvicinato troppo. Forse il porcospino aveva visto un leopardo, ma Xhia sapeva che non era così. Il leopardo avrebbe indugiato per cacciare la sua preda naturale, mentre l'uomo aveva proseguito subito. Neppure un saggio del popolo dei san, come Bakkat o lo stesso Xhia, avrebbe potuto evitare l'incontro col caprimulgo o il porcospino in cerca di preda nell'oscurità della foresta. Quei piccoli indizi erano tutto ciò che gli serviva per capire come si muoveva Bakkat e quale direzione stava prendendo. Non aveva neppure commesso l'errore di avvicinarsi troppo presto; era anzi rimasto indietro, sapendo che Bakkat sarebbe tornato sui suoi passi e avrebbe descritto alcuni giri viziosi per avere la certezza assoluta di non essere seguito. «È quasi altrettanto versato di me nell'arte di leggere gli indizi della natura, ma io sono Xhia, e non c'è nessun altro che possa starmi alla pari.» Ripetersi quelle parole lo faceva sentire forte e coraggioso. Trovò il punto in cui Bakkat aveva attraversato il ruscello e, grazie agli ultimi raggi della luna al tramonto, distinse un'impronta umida che scintillava su uno dei massi del fiume. Era piccola come quella di un bambino, ma più larga e non s'individuava l'arco plantare. «Bakkat!» esclamò, spiccando un saltello. «Ricorderò la forma del tuo piede per tutti i giorni della mia vita. Non l'ho forse vista cento volte, accanto alle orme della donna che avrebbe dovuto diventare mia moglie?» Rammentava come aveva seguito le loro orme nella boscaglia, per potersi Wilbur Smith
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avvicinare e poterli spiare mentre si accoppiavano, rotolandosi insieme sull'erba. Quel ricordo lo spinse a odiare Bakkat con rinnovato ardore. «Ma non potrai più assaporare quei seni grossi come meloni. A questo hanno provveduto Xhia e il serpente.» Ora che aveva accertato la direzione e il verso delle tracce, poteva restare indietro, per non cadere nelle trappole che Bakkat gli aveva senz'altro teso. «Muovendosi al buio, non potrà coprire del tutto le sue tracce come farebbe alla luce del giorno. Aspetterò che sorga il sole per leggere più chiaramente i segni che ha lasciato per me.» Al primo riverbero roseo dell'alba ritrovò la pista. L'orma umida si era asciugata senza lasciare tracce, però, a meno di un centinaio di passi, trovò un ciottolo spostato. Altri cento passi, ed ecco un filo d'erba spezzato, che pendeva, cominciando a seccarsi. Xhia non si soffermò a esaminare quegli indizi. Una rapida occhiata confermò la sua intuizione e gli consentì di precisare ancor meglio la direzione da prendere. Sorrise e scosse la testa quando scoprì il punto in cui Bakkat si era fermato in attesa vicino alle tracce. Era rimasto immobile così a lungo che i piedi nudi avevano lasciato due piccoli incavi nel terreno. Poi, molto più avanti, trovò il luogo in cui Bakkat aveva descritto un ampio cerchio prima di fermarsi di nuovo accanto alla pista, come fa un bufalo ferito aspettando il cacciatore che lo insegue. Xhia era così contento di se stesso che si concesse una piccola presa di polvere magica e starnutì piano, esclamando: «Lo sai, Bakkat, che è Xhia a seguirti, e che Xhia ti è maestro in tutto?» Cercò di non pensare alla ragazza dalla pelle color miele, l'unica cosa in cui Bakkat aveva avuto la meglio su di lui. A mano a mano che si addentrava fra le montagne, la pista diventava più elusiva. Percorrendo una valle stretta e lunga vide il punto in cui Bakkat era avanzato saltando da una roccia all'altra, senza mai toccare il terreno soffice o disturbare un filo d'erba o un'altra pianta, tranne il lichene grigio che cresceva a chiazze sulle rocce. Quella vegetazione era così arida e resistente, e Bakkat era così leggero, con la pianta del piede così piccola e flessibile, che vi passava sopra quasi con la stessa delicatezza della brezza di montagna. Xhia socchiuse gli occhi per distinguere la sfumatura leggermente diversa di lichene grigio nel punto in cui era stata toccata dal piede. Si tenne cautamente a fianco delle tracce dalla parte opposta al sole nascente, per mettere in rilievo la lieve impronta e non calpestarla, nel caso Wilbur Smith
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fosse stato costretto a tornare indietro e ricominciare il lavoro. Poi persino il grande Xhia si sentì confuso. Le tracce salivano lungo un ghiaione, passando di nuovo da una roccia all'altra. E, d'un tratto, a metà del ghiaione, la pista finiva. Era come se Bakkat fosse stato rapito in cielo dagli artigli di un'aquila. Xhia proseguì sulla linea tracciata dalla pista fino ad arrivare in testa alla valle, ma senza trovare altro. Tornò nel punto in cui finivano le orme e si accovacciò, girando la testa da una parte e dall'altra per osservare le lievi chiazze sul rivestimento di lichene delle rocce. Come ultima risorsa prese dal corno di elafodo un altro pizzico di polvere magica, lasciandolo sciogliere nella saliva. Chiuse gli occhi per farli riposare, mentre inghiottiva la miscela, poi li socchiuse e, attraverso il velo delle ciglia, intravide un lampo fuggevole di movimento, ombre inconsistenti simili al fremito delle ali di pipistrello all'imbrunire. Quando le guardò direttamente scomparvero, come se non fossero mai esistite. La saliva gli si asciugò nella bocca e la pelle delle braccia si accapponò. Capì che uno degli spiriti del deserto lo aveva sfiorato e quella che aveva visto era la memoria dei piedi di Bakkat che correvano tra le rocce. Non correvano verso l'alto bensì verso il basso, ridiscendendo il ghiaione. In quel momento di profonda consapevolezza, comprese anche, dal colore dei licheni, che i piedi di Bakkat li avevano calpestati due volte, in salita e in discesa. Scoppiò a ridere forte. «Bakkat, avresti ingannato chiunque altro, ma non Xhia.» Tornando indietro lungo il ghiaione, intuì come aveva fatto: era salito di corsa lungo il pendio, balzando da una roccia all'altra, e poi, a mezz'aria, aveva invertito la direzione per tornare indietro, posando i piedi minuscoli esattamente nello stesso punto. L'unico segno rivelatore era la lieve differenza di colore delle orme doppie. Quasi in fondo al pendio, la traccia passava sotto il ramo basso di un albero chiamato huilboerboom. Sul terreno, vicino alle tracce, c'era un frammento di corteccia secca non più grande dell'unghia del pollice: doveva essere caduto di recente oppure si era staccato dal ramo sovrastante. In quel punto, le tracce doppie sulle rocce rivestite di lichene ridiventavano improvvisamente uniche. Xhia scoppiò di nuovo a ridere. «Bakkat è salito sugli alberi, proprio come quella babbuina di sua madre!» Si fermò sotto il ramo proteso e, spiccando un salto, vi si aggrappò per issarsi fino a trovarsi in equilibrio sul ramo stretto, in piedi. Individuò i segni lasciati dai piedi di Bakkat sulla corteccia e, servendosi di quella traccia, corse lungo il tronco principale dell'albero, si calò a terra e ritrovò Wilbur Smith
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la pista, che seguì di corsa. Bakkat gli aveva lasciato altri due enigmi da risolvere. Il primo era alla base di una parete di roccia rossa e gli costò più tempo, ma, dopo l'esperienza con l'huilboerboom, Xhia aveva imparato a guardare verso l'alto, così trovò il punto in cui Bakkat aveva spiccato un salto e si era spostato in direzione trasversale, aggrappandosi a una cengia rocciosa in modo che i piedi non toccassero terra. Il sole era già sceso nel cielo quando raggiunse il secondo enigma, assai più difficile. Dopo avervi riflettuto per qualche tempo, fu sfiorato dall'idea superstiziosa che forse stavolta Bakkat si era fatto spuntare le ali, operando qualche magia contraria alla sua. Inghiottì un altro pizzico di polvere del cacciatore, ma gli spiriti dei padri non lo sfiorarono, anzi stavolta cominciò a dolergli la testa. Io sono Xhia. Nessun uomo può ingannarmi, pensò, ma, per quanto se lo ripetesse anche a voce alta, non riuscì a cancellare il senso di fallimento che a poco a poco lo sopraffece. Poi udì un rumore, attutito dalla distanza ma inconfondibile. Gli echi delle pareti rocciose lo confermavano, eppure, nel contempo, rendevano difficile individuarne la direzione. Xhia girò la testa da una parte all'altra per capire da dove veniva. «Un colpo di moschetto», sussurrò. «Gli spiriti non mi hanno abbandonato. Continuano a guidarmi.» Allontanandosi dalla pista, salì sulla vetta più vicina e si accovacciò per scrutare il cielo. Non impiegò molto tempo a individuare un minuscolo puntino nero sullo sfondo rosseggiante. «Dove c'è uno sparo, c'è morte. E la morte ha i suoi seguaci fedeli.» Vide apparire un altro puntino, e poi molti altri, che si coagularono in un lento movimento rotatorio nel cielo. Xhia balzò in piedi, trotterellando in quella direzione e, quando si avvicinò, i puntolini si trasformarono in avvoltoi, che si libravano nell'aria, girando la repellente testa nuda per scrutare un punto in mezzo alle montagne sottostanti. Xhia conosceva bene tutte le cinque varietà di quegli uccelli, dal comune avvoltoio bruno del Capo all'enorme avvoltoio barbuto, con la gola maculata e il ventaglio triangolare di penne caudali. «Grazie, vecchi amici», mormorò. Da tempo immemorabile quegli uccelli guidavano lui e la sua tribù verso i festini. Avvicinandosi al centro di quel cerchio che ruotava nel cielo, divenne più prudente, strisciando da una roccia all'altra e sbirciando all'intorno con gli occhi acuti. Poi udì alcune voci umane provenire dalla parte opposta del crinale davanti a lui. Wilbur Smith
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A quel punto, Xhia parve letteralmente dissolversi nell'aria, come una nuvoletta di fumo. Dal suo nascondiglio, osservò i tre caricare la carne sui cavalli. Conosceva bene Somoya; era un viso familiare nella colonia, e lui lo aveva visto vincere la gara del giorno di Natale, trionfando sul suo padrone. La donna invece era una sconosciuta. «Dev'essere quella che Gwenyama cerca. La donna fuggita dalla nave puzzolente.» Riconoscendo Trueheart, impastoiata a fianco di Drumfire, si lasciò sfuggire una risatina. «Ben presto tornerai dal tuo padrone», promise alla giumenta. Poi concentrò tutta la sua attenzione sulla figura minuscola di Bakkat, e i suoi occhi si ridussero a due fessure percorse dall'odio. Osservò il piccolo gruppo che, avendo finito di caricare i cavalli, scompariva lungo la pista tortuosa verso il fondo della valle. Non appena si furono allontanati, Xhia scese di corsa per contendere agli avvoltoi quello che restava dell'eland. Nel punto in cui Jim aveva tagliato la gola all'animale c'era una pozza di sangue che si era coagulato, formando una gelatina nera. Xhia la raccolse con le mani unite a coppa, facendola scivolare nella bocca aperta. Negli ultimi due giorni aveva potuto attingere ben poco alla sacca del cibo, ed era affamato. Si leccò dalle dita fino all'ultimo residuo appiccicoso. Ma non poteva permettersi d'indugiare vicino alla carcassa, perché, se Bakkat avesse guardato indietro, si sarebbe accorto che gli avvoltoi non si erano posati subito e avrebbe quindi capito che qualcosa o qualcuno li teneva in volo. I cacciatori non avevano lasciato molto per lui. C'era il lungo tubo gommoso dell'intestino tenue e Xhia lo raccolse, spremendolo tra le dita per farne uscire le feci liquide. Il sottile strato di escrementi che vi rimase appiccicato gli conferiva un gusto asprigno che lui apprezzò, masticandolo. Fu tentato di usare un sasso per spaccare le ossa massicce delle zampe e succhiare il ricco midollo giallo, ma sapeva che Bakkat sarebbe tornato lì, e un indizio così evidente non gli sarebbe sfuggito. Invece usò il coltello per grattare tutti i residui di carne che aderivano ancora alle ossa e alla gabbia toracica, riponendo quei frammenti nella sacca del cibo. Poi usò un fascio di erba secca per cancellare le orme, ben sapendo che ben presto gli uccelli avrebbero cancellato ogni traccia della sua presenza, anche quelle che lui poteva aver trascurato. Quando Bakkat fosse tornato per cancellare le proprie impronte, non ci sarebbe stato niente in grado di allarmarlo. Masticando allegramente strisce d'intestino maleodorante, si allontanò Wilbur Smith
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dalla carcassa per osservare Bakkat e la coppia di bianchi. Non seguiva direttamente le loro tracce, ma si teneva a distanza, sul pendio che sovrastava la valle. In tre punti prevenne le svolte tortuose delle valli che scorgeva davanti a sé, tagliando attraverso la zona superiore dove i cavalli non potevano passare, per ritrovare la pista dalla parte opposta. Da lontano scorse il fumo che si levava dalla capanna di Majuba e si affrettò a procedere, in modo da poter osservare il gruppetto dall'alto quando sopraggiunse coi cavalli. Sapeva di dover tornare subito indietro per riferire al padrone che era riuscito a scoprire il nascondiglio dei fuggiaschi, ma la tentazione di soffermarsi a osservare il suo vecchio nemico era troppo forte per resistervi. I tre uomini - il bianco, il nero e il giallo tagliarono la carne di antilope, ricavandone grosse strisce, e la donna vi spruzzò sopra del sale grosso, ricavato dall'acqua di mare che teneva in una sacca di cuoio, sfregandola poi tra le mani. Quindi dispose le strisce sulla roccia per farle seccare. Nel frattempo gli uomini gettarono i pezzi di grasso bianco, tolto dalla carne, in una pentola a treppiede che era già sul fuoco, facendolo sciogliere per cucinare o per preparare il sapone. Ogni volta che Bakkat si alzava o si allontanava dagli altri, gli occhi di Xhia lo seguivano con lo sguardo malevolo di un cobra. Tastando una delle frecce che teneva nella piccola faretra di corteccia, sognò il giorno in cui avrebbe conficcato nelle carni di Bakkat la punta avvelenata. Una volta completato quel lavoro da macellai, mentre gli uomini strigliavano i cavalli e i muli, la donna bianca mise a seccare le ultime strisce di carne; poi lasciò il campo e si allontanò lungo la riva del ruscello, fino a raggiungere una pozza di acqua verde nascosta alla vista del campo da una curva nel letto del ruscello. Si tolse la cuffia e scrollò i capelli, che formavano una nuvola luminosa. Xhia fu colto di sorpresa. Non aveva mai visto capelli di quel colore e di quella lunghezza; erano innaturali e repellenti. Il cuoio capelluto delle donne della sua tribù era coperto da un vello scuro e riccio, piacevole da toccare e da guardare. Soltanto una strega o una creatura disgustosa poteva avere capelli simili. Sputò per allontanare qualunque influenza maligna che quella donna potesse diffondere. Lei si guardò intorno con cautela, ma nessun occhio umano poteva scoprire Xhia, se voleva restare nascosto. Poi la donna si spogliò, liberandosi dei vestiti ampi che le coprivano il corpo, e rimase ai margini della pozza. Ancora una volta Xhia provò un moto di repulsione. Quella Wilbur Smith
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non era una donna, ma una creatura ermafrodita dal corpo deforme: le gambe erano allungate, i fianchi stretti, il ventre era concavo e le natiche sembravano quelle di un bambino affamato. Le donne san si gloriavano delle dimensioni monumentali del loro posteriore. Alla giuntura delle cosce si vedeva un altro ciuffo di peli, che avevano il colore delle sabbie del Kalahari ed erano così fini da non coprire neppure i genitali. La fessura sembrava una bocca serrata, che non lasciava intravedere le piccole labbra. Le madri della tribù di Xhia perforavano le labbra delle figlie quand'erano ancora bambine, appendendovi delle pietre per allungarle e farle sporgere in modo attraente. Agli occhi di Xhia, le natiche massicce e le labbra pendule erano i segni dell'autentica bellezza femminile. Nel caso di quella donna, invece, soltanto i seni indicavano il sesso, e anche quelli avevano una forma strana. Sporgevano in fuori, coi capezzoli pallidi puntati verso l'alto come le orecchie di una gazzella dik-dik spaventata. Xhia si coprì la bocca, ridacchiando al pensiero di quel paragone. «Quale uomo potrebbe desiderare una creatura come quella?» si domandò. La donna avanzò nella pozza, finché l'acqua non le arrivò all'altezza del mento. Xhia aveva visto abbastanza. Scendendo di nuovo al di sotto della linea dell'orizzonte, si diresse al trotto verso la montagna dalla cima piatta, resa azzurrina ed eterea dalla distanza, che si scorgeva all'orizzonte a sud. Per portare la notizia al suo padrone avrebbe dovuto viaggiare per tutta la notte. Erano seduti vicino al fuoco al centro della capanna, perché le notti erano ancora gelide. Banchettarono con bistecche spesse, tagliate dalle lunghe strisce ricavate dal dorso dell'antilope, e spiedini di rognone, fegato e grasso arrostiti sui carboni. Bakkat aveva il mento tutto unto. Quando Jim si tirò indietro con un sospiro soddisfatto, Louisa gli riempì una tazza di caffè, e lui annuì per ringraziarla. «Non ne vuoi un po'?» le propose, ma Louisa scosse la testa. «Il sapore non mi piace.» Non era vero, anzi, vivendo a Huis Brabant, aveva imparato ad apprezzare quella bevanda, ma sapeva quanto fosse rara e costosa. Aveva visto che Jim teneva in gran conto quel sacchetto di chicchi, che non sarebbe durato ancora molto. Il senso di gratitudine che provava per il suo salvatore e protettore era così forte che non voleva privarlo di qualcosa che gli procurava tanto piacere. «E forte e amaro», spiegò. Wilbur Smith
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Tornata al suo posto, dall'altra parte del focolare, osservò l'espressione di Jim e Bakkat mentre parlavano alla luce del fuoco. Non capiva quello che dicevano perché la lingua le era estranea, ma il suono era melodioso e la cullava. Era insonnolita e sazia, e non si era mai sentita così protetta e al sicuro da molto tempo, da ben prima di lasciare Amsterdam. «Ho trasmesso il messaggio a Klebe, tuo padre», stava dicendo Bakkat a Jim. Era la prima volta che sollevavano l'argomento che stava al primo posto nei loro pensieri. Era segno d'inesperienza e scortesia avviare la discussione di argomenti importanti finché non veniva il momento di parlare sul serio. «Qual è stata la sua risposta?» chiese Jim in tono ansioso. «Mi ha detto di salutarti a nome suo e di tua madre. Ha detto che, anche se lascerai nei loro cuori un vuoto impossibile da riempire, non devi tornare a High Weald. Ha detto che il soldato grasso del castello attende il tuo ritorno con la pazienza di un coccodrillo appostato nel fango dell'abbeveratoio.» Jim annuì con aria mesta. Sapeva quali sarebbero state le conseguenze cui andava incontro fin dal momento in cui aveva deciso che era suo dovere salvare la ragazza; però, ascoltando quella conferma da parte del padre, l'esilio dalla colonia gli sembrava una cosa enorme e gli pesava come un macigno. Era davvero un paria. Alla luce del fuoco, Louisa vide la sua espressione e capì istintivamente di essere lei la causa di tanto dolore. Abbassò gli occhi sulle fiamme tremolanti e il senso di colpa la trafisse come una pugnalata sotto le costole. «Che altro ha detto?» chiese Jim a bassa voce. «Ha detto che il dolore della separazione da suo figlio sarebbe troppo grande da sopportare, se non potesse guardarti ancora una volta negli occhi, prima della tua partenza.» Jim aprì la bocca per replicare, poi cambiò idea. «Sa che tu intendi seguire la Via dei Banditi verso nord, nel deserto», continuò Bakkat. «Ha detto che non potrai sopravvivere con una scorta di provviste così misera come quella che hai potuto prendere con te, e intende portartene altre. Ha detto che saranno la tua eredità.» «Com'è possibile? Io non posso andare da lui e lui non può venire da me. Il rischio è troppo grande.» «Ha già mandato Bomvu, tuo zio Dorian, e Mansur con due carri carichi di sacchi di sabbia e casse piene di sassi lungo la strada che segue la costa occidentale. Questo porterà Keyser lontano, così lui potrà incontrarti in un posto prestabilito. Avrà con sé altri carri che trasportano i suoi doni di Wilbur Smith
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addio.» «Qual è il luogo stabilito per l'incontro?» chiese Jim. Provava un intenso sollievo e una grande eccitazione al pensiero di rivedere il padre, perché aveva pensato che fossero ormai separati per sempre. «Non può venire qui a Majuba. La via tra le montagne è troppo ripida e insidiosa per consentire il passaggio dei carri.» «No, non verrà qui.» «E dove, allora?» gli chiese Jim. «Ricordi due anni fa, quando abbiamo raggiunto insieme le frontiere della colonia?» Jim annuì. «Abbiamo superato le montagne attraverso il passo segreto del fiume Gariep.» «Sì, ricordo», disse Jim. Quel viaggio era stato la grande avventura della sua vita. «Klebe porterà i carri attraverso quel passo per incontrarti ai margini delle terre sconosciute, vicino al kopje a forma di testa di babbuino.» «Sì. È stato lì che abbiamo cacciato e ucciso il vecchio maschio di gemsbuck. È stato l'ultimo accampamento prima di tornare alla colonia.» Gli tornò alla mente con intensità la delusione che aveva provato all'epoca, quando avevano fatto ritorno dal viaggio. «Avrei voluto proseguire verso il successivo orizzonte, e quello oltre ancora, fino a raggiungere l'ultimo.» Bakkat scoppiò a ridere. «Sei sempre stato un ragazzo impaziente, e lo sei ancora. Ma tuo padre t'incontrerà alla collina della Testa di Babbuino. Puoi trovarlo senza la mia guida, vero, Somoya?» Lo prese un po' in giro, ma per una volta non riuscì a distrarlo. «Tuo padre lascerà High Weald solo se avrà la certezza che Keyser sta seguendo Bomvu e Mansur, e quando sarò tornato con la tua risposta.» «Puoi dire a mio padre che lo incontrerò laggiù.» Bakkat si alzò per prendere l'arco e la faretra. «Non puoi andartene», gli disse Jim. «È ancora buio, e non riposi da quando hai lasciato High Weald.» «Ho le stelle che mi guidano», rispose Bakkat, avviandosi alla porta della capanna. «E Klebe mi ha detto di tornare subito. Ci ritroveremo alla Testa di Babbuino.» Si diresse verso la porta della capanna, voltandosi per sorridere a Jim. «Fino a quel giorno, va' in pace, Somoya. Tieni sempre accanto a te Welanga, perché sono convinto che, per quanto giovane, diventerà una donna in gamba come tua madre.» Poi scomparve nella notte.
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Al buio, Bakkat si muoveva con la stessa rapidità delle creature notturne, ma, quando lasciò Majuba, era già tardi e la luce dell'alba cominciava a rischiarare il cielo allorché raggiunse i resti della carcassa di eland e si accovacciò nei pressi, in cerca d'indizi sulle creature che erano passate di lì dopo la caccia. Gli avvoltoi erano appollaiati in cima alle pareti di roccia e ai kran, gli strapiombi che si aprivano tra i rilievi circostanti. Il terreno intorno alla carcassa era disseminato delle piume che avevano perso contendendosi gli avanzi, e striature biancastre di escrementi liquidi tingevano le rocce tutt'intorno. I loro artigli avevano lasciato vari solchi, ma lui riuscì a riconoscere lo stesso, sul terreno allentato, le orme di sciacalli e di altri piccoli felini e animali che si nutrono di carogne. Non c'erano tracce di iene, ma ciò non lo sorprese perché l'altitudine in quel punto era notevole e in quella stagione dell'anno faceva troppo freddo per loro. Lo scheletro dell'eland, sia pure completamente spolpato, era intatto; le iene avrebbero masticato le ossa, riducendole in frammenti. Se c'era stato un visitatore umano, ogni indizio della sua presenza era stato cancellato, e comunque Bakkat confidava nel fatto che nessuno lo avesse seguito. Ben pochi sarebbero stati capaci di dipanare la pista intricata che aveva lasciato. Poi gli cadde l'occhio sulla gabbia toracica dell'animale, notando che le ossa erano lisce e bianche. D'un tratto, però, si lasciò sfuggire un fischio sommesso di allarme, e la sua sicurezza s'incrinò. Toccò le costole nude, facendovi scorrere sopra il dito, l'una dopo l'altra. I segni erano così leggeri che avrebbero potuto essere naturali, oppure lasciati dai denti di uno degli animali che si cibavano di carogne, ma Bakkat sentì uno spasmo di dubbio contrargli i muscoli dello stomaco. I segni erano troppo costanti e regolari: non erano tracce di denti, ma di un arnese. Qualcuno aveva grattato la carne dall'osso con una lama. Se fosse stato un uomo, dovrebbe aver lasciato il segno degli stivali o dei sandali, pensò. Eseguì un rapido controllo intorno alla carcassa, a distanza sufficiente per evitare il caos creato dagli animali. Niente! Poi tornò verso lo scheletro per studiarlo ancora. Forse era a piedi nudi? Ma gli ottentotti portano i sandali, e poi che cosa ci farebbe sulle montagne uno di loro, in questa stagione? Dovrebbero essere in basso, sulle pianure, insieme con le mandrie. Forse qualcuno mi ha seguito, dopotutto? Ma solo un esperto avrebbe potuto leggere le mie tracce. Un esperto che cammina scalzo? Un san? Uno della mia specie? Più ci Wilbur Smith
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rifletteva, più si sentiva in ansia. Devo proseguire per High Weald, oppure tornare indietro per mettere in guardia Somoya? Esitò, poi prese una decisione. Non posso andare in due direzioni nel contempo. Devo proseguire. Il mio dovere è questo. Devo portare le notizie a Klebe. Alla luce del giorno ormai fatto, poteva spostarsi più in fretta: mentre avanzava, i suoi occhi scuri erano in perpetuo movimento e nessun suono o sentore, per quanto lieve, poteva sfuggirgli. Costeggiando un gruppo di cripple wood, coi rami carichi di barbe di muschio grigio, le sue narici si dilatarono, captando una zaffata di odore di feci. Deviò dal sentiero per rintracciarne la fonte, e la trovò a pochi passi. Gli bastò un'occhiata per capire che erano gli escrementi di un carnivoro che di recente si era ingozzato di carne e sangue, perché erano neri, molli e maleodoranti. Uno sciacallo? pensò, ma subito dopo capì che non era così. Doveva essere un uomo, perché lì vicino c'erano le foglie con le quali si era pulito, e soltanto i san usavano a quello scopo le foglie dell'arbusto chiamato wash-hand, «lavamano». Quelle foglie erano morbidissime e, quando venivano sfregate tra le mani, si disfacevano, secernendo un succo che odorava d'erba. Doveva essere lo stesso uomo che aveva mangiato presso la carcassa, e poi aveva defecato lì, vicino al sentiero che scendeva da Majuba tra le montagne... Un uomo che apparteneva al popolo dei san. A parte lui, quanti esperti cercatori di tracce dei san vivevano entro i confini della colonia? Il suo era un popolo che viveva nel deserto e nei luoghi inesplorati... Fu allora che l'istinto gli suggerì di chi si trattava. «Xhia!» sussurrò. «Xhia, che è mio nemico, mi ha seguito e ha appreso i miei segreti. Ora sta tornando in gran fretta dal suo padrone al castello. Ben presto partiranno per Majuba con molti cavalieri, per catturare Somoya e Welanga.» Si sentì riassalire da una terribile incertezza. «Devo tornare indietro per avvertire Somoya, o proseguire per High Weald? Che vantaggio avrà Xhia su di me?» Poi scosse la testa. «Somoya sarà già partito da Majuba, e Keyser coi suoi uomini si sposterà più lentamente di lui. Se riesco a bere il vento, potrei avvertire tanto Klebe quanto Somoya prima che Keyser li raggiunga.» Cominciò a correre come aveva fatto di rado in vita sua, come se inseguisse un gemsbuck ferito, o fosse inseguito da un leone affamato. Quando Xhia raggiunse la colonia era già notte. Le porte del castello erano chiuse e non si sarebbero riaperte fino alla sveglia, quando si Wilbur Smith
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sarebbe svolta la cerimonia dell'alzabandiera della VOC. Ma Xhia sapeva che in quei giorni Gwenyama, il suo padrone, dormiva di rado nel sontuoso alloggio all'interno di quelle alte mura di pietra. Per lui in città c'era un nuovo motivo di attrazione, assolutamente irresistibile. Un decreto del consiglio della VOC vietava ai liberi cittadini della colonia, e in particolare ai dipendenti della Compagnia, di avere rapporti coi nativi del Paese. Come la maggior parte degli altri decreti degli Zeventien, però, anche quello valeva soltanto sulla carta. Il colonnello Keyser aveva un piccolo cottage dalla parte opposta del parco della Compagnia, che sorgeva in fondo a un viottolo di terra battuta, schermato da un'alta siepe di lantana in fiore. Xhia sapeva che discutere con le sentinelle alle porte del castello gli avrebbe fatto solo perdere tempo, e andò direttamente al piccolo nido d'amore del colonnello, sgusciando attraverso un varco nella siepe di lantana. C'era una lampada accesa nella cucina, sul retro del cottage, e lui bussò alla finestra. Un'ombra passò tra la lampada e il pannello della finestra, e una voce femminile che lui riconobbe subito gridò: «Chi è?» Il tono della donna era brusco e nervoso. «Shala! Sono Xhia.» Le aveva parlato nella lingua degli ottentotti. Lei sollevò la sbarra che chiudeva la porta e la spalancò per sbirciare all'esterno. Era poco più alta di Xhia e sembrava una bambina, ma non lo era. «Gwenyama è in casa?» chiese Xhia. Lei scosse la testa, e lui la guardò con piacere. Gli ottentotti erano cugini dei san, i boscimani. Agli occhi di Xhia, Shala incarnava l'ideale della bellezza femminile. La sua pelle risplendeva come ambra alla luce della lampada, con gli occhi scuri dal taglio obliquo, gli zigomi alti e larghi e il mento così stretto che il suo viso aveva la forma di una punta di freccia rovesciata. La cupola della testa era perfettamente rotonda, coperta da un vello di riccioli scuri e lanosi. «È andato via», spiegò, tenendo la porta aperta come per invitarlo. Xhia esitò. Dai loro incontri precedenti aveva un ricordo nitido del suo sesso, che somigliava a uno dei succulenti fiori di cactus del deserto, coi petali carnosi e turgidi di colore violaceo. A quello si aggiungeva il piacere intenso che ricavava dal rimescolare la pentola di porridge del padrone. Una volta Shala gli aveva descritto il membro del colonnello. «È come il becco di un uccello dello zucchero, sottile e ricurvo. Assaggia appena il mio nettare e poi vola via.» Gli uomini san erano invece ben noti per il loro priapismo e per le Wilbur Smith
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dimensioni del pene che non era proporzionato alla loro statura minuscola. Shala, che in quel campo aveva una grande esperienza diretta, riteneva Xhia più dotato di tutti gli altri uomini della tribù. «Dov'è?» Xhia era diviso tra il dovere e la tentazione. «È partito ieri a cavallo con dieci uomini.» Lei prese per mano Xhia, attirandolo in cucina e chiudendo la porta dietro di lui. «Dove sono andati?» le domandò mentre lei si fermava di fronte a lui, togliendosi la veste. Keyser provava piacere nel vestirla con le sete variopinte delle Indie, ornandola di perle e altri vezzi che acquistava a caro prezzo nel magazzino dei fratelli Courteney. «Ha detto che dovevano seguire i carri di Bomvu, quello coi capelli rossi», gli spiegò, lasciando scivolare la veste dal corpo sul pavimento. Lui trattenne bruscamente il fiato. Per quanto vedesse spesso quei seni, era sempre con un sussulto di gioia. «E perché segue quei carri?» Tese la mano per prendere uno dei seni e stringerlo, e lei sorrise con aria trasognata, oscillando per accostarsi a lui. «Ha detto che lo avrebbero condotto dai fuggiaschi, da Somoya, il figlio dei Courteney, e dalla donna che lui ha salvato dal naufragio», rispose Shala con voce roca. Gli sollevò la parte anteriore del gonnellino, allungando la mano al di sotto. I suoi occhi avevano uno sguardo lascivo e il sorriso lasciava intravedere i denti piccoli e bianchi. «Non ho molto tempo», l'avvertì Xhia. «Allora facciamo presto», rispose Shala, inginocchiandosi davanti a lui. «Da che parte è andato?» «Li ho guardati dalla cima di Signal Hill», disse lei. «Seguivano la strada costiera verso occidente.» Lei puntò i gomiti sul pavimento per sostenersi e si protese in avanti, finché le sue straordinarie natiche dorate non furono rivolte verso il soffitto di paglia. Lui le andò dietro, divaricando leggermente le ginocchia della donna e mettendosi in ginocchio al centro, per attirarla all'indietro verso di sé, tenendo le mani sui fianchi. Lei si lasciò sfuggire un gridolino sommesso quando lui dischiuse i suoi petali carnosi, penetrandola profondamente. Alla fine lei gridò di nuovo, ma stavolta fu come se lanciasse un grido di agonia, poi si accasciò in avanti e restò distesa sul pavimento della cucina, dimenandosi leggermente. Xhia si alzò, sistemandosi il gonnellino di pelle. Poi prese l'arco e la Wilbur Smith
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faretra, mettendoli in spalla. «Quando tornerai?» chiese Shala con voce tremante, mettendosi a sedere. «Non appena potrò», le promise, uscendo nella notte. Una volta in cima alle colline che sovrastavano High Weald, Bakkat si rese conto che l'intera tenuta ferveva di un'attività insolita. Tutti i servitori sembravano impegnatissimi. I conducenti dei carri e i voorloper, che li precedevano per segnalare gli ostacoli lungo la strada, stavano portando i buoi da tiro dal kraal all'estremità opposta del recinto principale. Avevano aggiogato quattro tiri completi di dodici buoi ciascuno, che risalivano la strada verso la casa padronale. Un altro gruppo di mandriani aveva riunito piccoli branchi di pecore dalla coda grassa, vacche da latte coi vitelli non ancora svezzati e giovani buoi da tiro, che spingevano lentamente verso il nord. Erano già così distanti che le più lontane delle piccole mandrie erano ridotte a puntolini quasi oscurati dalla loro stessa polvere. Sono già diretti verso il fiume Gariep per andare a incontrare Somoya, pensò Bakkat, annuendo soddisfatto prima di scendere dalla collina verso la casa. Non appena entrò nel cortile, si rese conto che i preparativi per la partenza erano ben avviati. Sulla rampa di carico del magazzino c'era Tom Courteney in maniche di camicia: dava ordini agli uomini intenti a caricare le ultime casse di merce sul pianale dei carri. «Che cosa c'è in quella cassa?» domandò Tom a uno di loro. «Non la riconosco.» «La padrona mi ha detto di caricarla. Non so che cosa c'è dentro», rispose l'uomo, alzando le spalle. «Cose da donna, forse.» «Mettila sul secondo carro.» Voltandosi, Tom scorse Bakkat che entrava in cortile e lo chiamò. «Ti ho visto non appena sei arrivato in cima alla collina. Diventi ogni giorno più alto, Bakkat.» L'altro sorrise di piacere, raddrizzando le spalle e gonfiando leggermente il petto. «Mi sembra che il tuo piano abbia funzionato, Klebe.» Era più una domanda che un'affermazione. «Poche ore dopo che Bomvu ha portato i carri lungo la strada a ovest, Keyser e tutti i suoi uomini li hanno seguiti», confermò Tom, ridendo. «Ma non so quanto ci metterà a capire che sta seguendo la preda sbagliata e a tornare indietro di corsa. Dobbiamo andarcene al più presto.» Wilbur Smith
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«Porto cattive notizie, Klebe.» Di fronte all'espressione dell'ometto, il sorriso di Tom svanì. «Vieni! Andiamo dove si può parlare in privato.» Condusse Bakkat all'interno del magazzino, ascoltando con aria seria mentre il boscimano gli riferiva ciò che era accaduto durante la sua spedizione sulle montagne. Lanciò un'esclamazione di sollievo quando seppe che la loro ipotesi si era rivelata corretta: Bakkat aveva trovato Jim a Majuba. «E così, Somoya e Zama e la ragazza hanno già lasciato Majuba, e sono diretti al punto dell'incontro sulla frontiera, alla collina della Testa di Babbuino», continuò Bakkat. «Questa è una buona notizia», dichiarò Tom. «Ma allora come mai hai un'aria così tetra?» «Sono stato seguito», ammise Bakkat. «Qualcuno mi ha seguito a Majuba.» «Chi era?» Tom non riuscì a mascherare l'allarme. «Un san», rispose Bakkat. «Un uomo esperto della mia tribù, uno capace di seguire la mia pista. Uno che mi sorvegliava, aspettando che lasciassi High Weald.» «Il cane da caccia di Keyser!» esclamò Tom, furioso. «Xhia», confermò Bakkat. «Mi ha tratto in inganno, e in questo momento starà correndo dal suo padrone. Entro domani condurrà Keyser a Majuba.» «Somoya sa che Xhia ha scoperto il suo rifugio?» «Ho scoperto la traccia di Xhia solo al ritorno, quand'ero già a metà strada da Majuba. Sono venuto prima ad avvertire te. Ora devo tornare in cerca di Somoya per avvertire anche lui e condurlo in salvo.» «Sì, devi raggiungerlo prima che lo faccia Keyser.» I lineamenti rudi di Tom erano stravolti dall'ansia. «Xhia deve tornare di nuovo a Majuba per trovare le tracce di Somoya, e poi Keyser e i suoi uomini viaggeranno lentamente perché non sono abituati ai sentieri di montagna», spiegò Bakkat. «Keyser sarà costretto a fare un'ampia deviazione a sud. Io invece posso tagliare attraverso le montagne più a nord, per precederli e trovare Somoya prima di loro.» «Fa' presto, vecchio amico mio», mormorò Tom. «Metto nelle tue mani la vita di mio figlio.» Bakkat annuì e, congedandosi, disse: «Somoya e io ti aspetteremo alla collina della Testa di Babbuino». Poi si volse per andarsene, ma Tom lo Wilbur Smith
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richiamò. «La donna...» mormorò, poi s'interruppe, incapace di guardare in faccia l'ometto. Infine si riscosse. «Quella donna è ancora con lui, dunque?» chiese, impacciato, e Bakkat assentì. «Che cosa...» Tom s'interruppe di nuovo, quindi tentò di riformulare la frase. «Com'è?» Bakkat s'impietosì. «L'ho chiamata Welanga, perché i suoi capelli sono come la luce del sole.» «Non era questo che volevo sapere.» «Penso che Welanga camminerà al suo fianco per lungo tempo. Forse per tutta la vita. Era questo che volevi sapere?» «Sì, Bakkat, era esattamente quello che volevo sapere.» Dalla rampa di carico osservò Bakkat che usciva trotterellando dal cancello, riprendendo il sentiero che portava sulle montagne. Si chiese quando fosse stata l'ultima volta in cui l'ometto aveva riposato o dormito, ma la domanda era irrilevante. Bakkat avrebbe proseguito finché il dovere glielo avesse imposto. «Tom!» Sarah lo stava chiamando e lui, voltandosi, la vide uscire dalla cucina per avvicinarsi in fretta. Con una certa sorpresa, notò che indossava i calzoni, gli stivali da equitazione e, in testa, un cappello di paglia a tesa ampia, legato sotto il mento con una bandana rossa. «Che cosa faceva Bakkat, qui?» gli chiese. «Ha trovato Jim.» «E la ragazza?» «Sì», rispose lui con un cenno riluttante. «Anche la ragazza.» «Allora come mai non siamo ancora pronti a partire?» «Non siamo?» ribatté lui. «Noi non andremo da nessuna parte. Io sarò pronto a partire entro un'ora.» Sarah si piantò i pugni sui fianchi. Quel gesto equivaleva al primo brontolio di un vulcano sul punto di eruttare. «Thomas Courteney!» Il tono era gelido, ma negli occhi le scintillava il fuoco della battaglia. «James è mio figlio. Il mio unico figlio. Puoi pensare anche per un solo istante che me ne starò seduta in cucina mentre tu vai a dirgli addio, forse per sempre?» «Gli porterò i tuoi saluti materni», propose lui. «E al ritorno ti descriverò quella ragazza in ogni dettaglio.» Continuò a discutere, ma, quando uscì dai cancelli di High Weald, Sarah cavalcava al suo fianco. Teneva il mento puntato in alto e cercava di non Wilbur Smith
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sorridere di trionfo. Lanciandogli un'occhiata in tralice, mormorò con dolcezza: «Tom Courteney, sei ancora l'uomo più bello che abbia mai visto, tranne quando metti il broncio». «Non ho messo il broncio. Non lo faccio mai», ribatté lui, in tono cupo. «Ti sfido: vediamo chi raggiunge prima il guado», esclamò lei. «Chi vince avrà diritto a un bacio.» Solleticò il dorso della giumenta col frustino che teneva in mano, e l'animale scattò in avanti. Tom cercò di trattenere lo stallone, ma quello prese a danzare in circolo, ansioso di raccogliere la sfida. «Dannazione! E va bene...» Tom lo assecondò, ma aveva concesso troppo vantaggio alla giumenta, e Sarah era un'amazzone esperta. Lo aspettava già al guado, con le guance arrossate e gli occhi scintillanti. «Dov'è il bacio che mi spetta?» domandò Sarah. Lui si protese dalla sella per stringerla in un abbraccio da orso. «Questo è solo un anticipo», le promise, abbassandosi di nuovo sulla sella. «Il premio vero e proprio lo riceverai stanotte.» Jim aveva un senso dell'orientamento molto sviluppato, ma Bakkat sapeva che non era infallibile. Ricordava un'occasione in cui si era allontanato di soppiatto dall'accampamento mentre tutti gli altri dormivano, nell'ora più calda del giorno. Aveva visto all'orizzonte un piccolo branco di gemsbuck e, visto che erano a corto di carne, lo aveva inseguito. Bakkat lo aveva ritrovato tre giorni dopo: girava in cerchio sulle colline prive di piste segnate, quasi impazzito per la sete, conducendo per la cavezza il cavallo azzoppato. Jim detestava sentirsi ricordare quell'episodio. Tuttavia, prima che si separassero, a Majuba, aveva ascoltato con grande attenzione Bakkat che gli forniva istruzioni dettagliate sul modo di orientarsi tra le montagne, seguendo le piste ben definite usate nei secoli dai branchi di elefanti e di antilopi alcine. Una di quelle piste lo avrebbe condotto a un guado sul fiume Gariep, nel punto in cui scorreva tra le pianure, ai confini del territorio desertico e inesplorato. Da lì in poi, la collina della Testa di Babbuino spiccava nitida all'orizzonte, a est. Bakkat poteva contare sul fatto che Jim seguisse fedelmente quelle indicazioni, per cui aveva in mente un'immagine ben chiara del punto in cui poteva trovarsi in quel momento e del percorso che doveva compiere per intercettarlo. Tagliò attraverso le pendici delle colline, e si era già spinto a nord Wilbur Smith
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quando tornò indietro, addentrandosi in una delle rientranze della catena principale e salendo verso le vallate in mezzo ad alte pareti rocciose color terra bruciata. Cinque giorni dopo la sua partenza da High Weald, Bakkat s'imbatté nel loro segno. Con due cavalli ferrati e sei muli a pieno carico, avevano lasciato una traccia ben definita. Prima di mezzogiorno, raggiunse il gruppo di Jim, ma non si fece vedere. Preferì aggirarli e precederli, per aspettarli sul sentiero che dovevano seguire. Bakkat scorse Jim in testa al convoglio. Non appena Drumfire arrivò all'altezza del suo nascondiglio, lui saltò fuori come un jinn dal masso dietro cui si era nascosto e gridò con voce acuta: «Ti vedo, Somoya!» Drumfire ne fu tanto sorpreso che scartò bruscamente, impennandosi. Jim, colto anche lui di sorpresa, fu scaraventato all'indietro, e Bakkat rise allegramente di quello scherzo. Ma il ragazzo ritrovò subito l'equilibrio, e lo rincorse a cavallo, mentre Bakkat fuggiva lungo il sentiero, continuando a ridere. Jim gli strappò il cappello dalla testa e, sporgendosi dalla sella, lo usò per schiaffeggiarlo sulla testa e sulle spalle. «Ometto orribile! Sei così piccolo, così minuscolo e minuto che non ti ho neanche visto!» Questi insulti provocarono a Bakkat un tale parossismo di allegria che lui si gettò per terra, rotolandosi. Quando si fu ripreso abbastanza da rimettersi in piedi, Jim lo guardò con attenzione mentre si salutavano in modo più formale e gli apparve evidente quanto fosse minuta e delicata la costituzione di Bakkat. Sebbene gli uomini della sua tribù fossero famosi per la forza e la resistenza, nel corso dell'ultima settimana Bakkat aveva corso oltre cento leghe su terreno montagnoso, senza concedersi il tempo di mangiare e bere in modo adeguato, o di dormire più di qualche ora. La sua pelle, anziché lucida e dorata, appariva grigia e polverosa come le ceneri di un fuoco da campo. La testa sembrava un teschio: le ossa sporgevano vistosamente nelle guance scarne e gli occhi erano infossati nelle orbite. Jim inoltre sapeva che le natiche di un boscimano erano come la gobba del cammello: se lui era ben nutrito e riposato, apparivano maestose e oscillavano a ogni passo. In quel momento, invece, il posteriore di Bakkat era floscio, un ammasso di pieghe di pelle che pendeva oltre l'orlo del gonnellino. Le braccia e le gambe, poi, erano sottili come le zampe della mantide religiosa. «Zama!» Jim chiamò il ragazzo che stava conducendo la fila di muli. «Scarica una delle sacche di chagga.» Bakkat cominciò a raccontare che cos'era successo, ma Jim lo zittì. «Prima devi mangiare e bere», gli ordinò. «E poi dormire. Possiamo Wilbur Smith
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parlare dopo.» Zama trascinò vicino a lui una delle sacche di cuoio piene di chagga ricavata dalla carne di eland. Le strisce salate erano state seccate per metà al sole, e poi disposte nella sacca ben pressate, in modo che l'aria e le mosche non potessero deteriorarle. Probabilmente i primi viaggiatori africani avevano copiato quell'idea dal pemmican dei nativi dell'America settentrionale. Trattata in quel modo, la carne non si putrefaceva, anzi si conservava a tempo indefinito. Tratteneva gran parte dell'umidità e, anche se il gusto era forte, simile a quello della cacciagione, il sale mascherava il sentore della frollatura. Era un gusto che, in caso di necessità, si poteva acquisire facilmente. Bakkat sedette all'ombra, vicino al ruscello che scendeva dalle montagne, e cominciò a mangiare dal mucchio di bastoncini neri di chagga che aveva davanti. Dopo aver fatto il bagno in una delle pozze d'acqua che si trovavano più avanti, lungo il ruscello, Louisa andò a sedersi vicino a Jim, guardando Bakkat che mangiava. Poco dopo gli domandò: «Quanto ancora potrà mangiare?» «Sta appena cominciando a sentirne il gusto», rispose Jim. Molto tempo dopo, lei osservò: «Guardagli lo stomaco. Sta cominciando a gonfiarsi». Bakkat si alzò e si diresse verso la pozza, inginocchiandosi. «Ha finito!» esclamò Louisa. «Pensavo che avrebbe continuato fino a scoppiare.» «No», rispose Jim, scuotendo la testa. «Deve soltanto annaffiare quello che ha mangiato per fare spazio alla prossima portata.» Bakkat tornò dalla pozza con l'acqua che gli colava dal mento e si gettò sulla pila di chagga con appetito immutato. Louisa batté le mani, ridendo. «È così minuscolo che sembra impossibile! Non smetterà mai.» Ma alla fine smise. Spinse giù a fatica un ultimo boccone, poi si sedette a gambe incrociate, con gli occhi vitrei, e fu assalito da un singhiozzo sonoro. «Sembra una donna incinta di otto mesi», osservò Jim, indicando il ventre gonfio e sporgente, e Louisa arrossì nel sentire un'allusione così intima e impropria, ma non riuscì a trattenere un sorriso perché era una descrizione molto efficace. Bakkat ricambiò il sorriso, poi si lasciò cadere sul fianco, si raggomitolò e prese a russare. Il giorno dopo le sue guance si erano riempite come per incanto e le natiche, benché non fossero tornate all'imponenza iniziale, formavano un Wilbur Smith
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netto rigonfiamento sotto il gonnellino. Con rinnovato entusiasmo attaccò una colazione a base di chagga e, così fortificato, si sentì pronto a fare il suo rapporto a Jim. Lui lo ascoltò quasi sempre in silenzio. Quando Bakkat gli spiegò di aver scoperto che Xhia lo aveva seguito sulle montagne e che, senza dubbio, avrebbe condotto Keyser a Majuba, da dove avrebbero ripreso la loro pista, Jim assunse un'espressione preoccupata. Subito dopo, tuttavia, Bakkat gli trasmise il messaggio di amore e sostegno da parte del padre. Lui ebbe l'impressione che le nubi scure cominciassero a sollevarsi, e il suo viso fu illuminato dal sorriso familiare. Bakkat concluse il suo discorso e i due rimasero in silenzio per un po', quindi Jim si alzò per dirigersi verso la pozza. Seduto su un ceppo d'albero marcio, meditò intensamente. Staccato dal ceppo un frammento di corteccia altrettanto marcia, raccolse le larve bianche rimaste allo scoperto; le gettò nell'acqua e osservò un grosso pesce giallo che saliva in superficie e le ingoiava, suscitando un mulinello. Alla fine tornò nel punto dove Bakkat lo attendeva con pazienza e si accovacciò vicino a lui. «Non possiamo andare al Gariep con Keyser alle calcagna. Lo porteremmo dritto filato da mio padre e dai carri.» Bakkat annuì. «Quindi dobbiamo portarlo lontano e deviarlo dalla pista.» «Tu hai saggezza e intuito di gran lunga superiori alla tua tenera età, Somoya», disse Bakkat, ma Jim colse la nota di sarcasmo nella sua voce e, allungando la mano, gli assestò uno scapaccione affettuoso. «Allora dimmi, principe del clan della moffetta dei san, che cosa dobbiamo fare?» Bakkat li condusse in un ampio arco sinuoso, lontano dal Gariep, tornando indietro lungo la strada dalla quale erano venuti, seguendo le piste degli animali e passando da una valle all'altra finché non si ritrovarono al di sopra di Majuba. Non si avvicinarono a più di mezza lega dal rifugio di pietra e paglia, e si accamparono dietro lo spartiacque orientale della valle. Non accesero il fuoco, consumando il cibo freddo, e dormirono avvolti nei kaross di pelle di sciacallo. Durante il giorno, gli uomini salirono a turno sulla sommità per scrutare il campo di Majuba col cannocchiale di Jim, in attesa dell'arrivo di Xhia e Keyser con le sue truppe. Wilbur Smith
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«Non possono eguagliare la mia velocità tra le montagne», si vantò Bakkat. «Non arriveranno prima di dopodomani. Ma, fino a quel momento, dobbiamo restare ben nascosti, perché Xhia ha gli occhi di un avvoltoio e l'istinto di una iena.» Jim e Bakkat costruirono un rifugio di rami secchi di cripple wood ed erba appena al di sotto del crinale. Bakkat esaminò la struttura da tutte le angolazioni per essere sicuro che fosse invisibile. Una volta soddisfatto, ammonì Jim e Zama di non usare il cannocchiale quando il sole era a un'angolazione tale che la luce si riflettesse sulla lente. Jim si accollò il primo turno del mattino nella postazione di vedetta. Si era sistemato comodamente, scivolando a poco a poco in una piacevole fantasticheria, pensando alla promessa del padre di portare carri e provviste. Con quell'aiuto, il sogno di viaggiare sino ai confini di quella terra sconfinata poteva diventare realtà. Pensò alle avventure che lui e Louisa avrebbero vissuto e alle meraviglie che avrebbero scoperto in quel deserto inesplorato. Rammentava le leggende sul letto dei fiumi costellato di pepite d'oro, sui branchi immensi di animali dalle zanne d'avorio, sui deserti lastricati di diamanti che sfavillavano. D'un tratto fu riportato alla realtà dal suono di un sassolino che scendeva rotolando dal pendio alle sue spalle. Istintivamente portò la mano alla pistola che teneva infilata nella cintura, ma non poteva correre il rischio di sparare. Bakkat lo aveva sgridato a proposito del colpo di moschetto che aveva abbattuto l'eland e permesso a Xhia di risalire fino a loro. «Xhia non sarebbe riuscito a ritrovare la mia pista, se tu non lo avessi chiamato, Somoya. E stato quello sparo a rovinarci.» «Perdonami, Bakkat», si era scusato Jim in tono ironico. «So quanto detesti il gusto del chagga di antilope. Sarebbe stato molto meglio morire di fame.» Ritrasse la mano dalla pistola, afferrando l'impugnatura del coltello. La lama era lunga e affilata. Lui la tenne pronta per un colpo difensivo, ma in quel momento Louisa, all'esterno della parete di cuoio, sussurrò: «Jim... Jim?» Il senso di allarme provato sentendo il rumore che lei, avvicinandosi, aveva fatto fu sostituito da un moto di piacere nell'udire la sua voce. «Entra, presto, Istrice. Non farti vedere.» Superando l'ingresso basso, lei strisciò all'interno. Nella postazione di vedetta non c'era quasi spazio Wilbur Smith
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sufficiente per tutti e due. Si sedettero a fianco a fianco, alla distanza di un palmo appena. Il silenzio tra loro era greve e teso. Fu lui a romperlo. «Va tutto bene per gli altri?» «Sono addormentati.» Lei non lo guardava, ma era impossibile non sentire intensamente la presenza di Jim. Era così vicino, e odorava di sudore, cuoio e cavalli. Era così potente e mascolino che la faceva sentire confusa ed eccitata. Ricordi oscuri si mescolavano con emozioni nuove e contrastanti, e lei si allontanò per quanto le era possibile in quello spazio angusto. Lui fece subito altrettanto. «Si sta stretti, qui dentro», commentò. «Bakkat lo ha costruito sulla propria misura.» «Non intendevo...» disse lei, ma Jim la interruppe. «Capisco, Istrice. Me lo hai già spiegato», mormorò, sorridendo. Lei gli scoccò uno sguardo in tralice, ma vide, sollevata, che il sorriso non era falso. Inoltre, nei giorni precedenti, aveva capito che il termine «Istrice» non era un rabbuffo o un insulto, ma un semplice soprannome scherzoso. «Hai detto che una volta ne volevi uno, no?» disse poi, seguendo il filo dei propri pensieri. «Cosa?» Jim sembrava perplesso. «Un istrice. Perché non ne hai preso uno?» «Non è facile. In Africa non ce ne sono.» Sorrise. «Li ho visti soltanto sui libri. Tu sei il primo... anzi la prima in carne e ossa. Ti dispiace se ti chiamo così?» Lei ci pensò, intuendo che lui considerava quel soprannome addirittura come un vezzeggiativo. «All'inizio, sì, ma ormai ci sono abituata», rispose, aggiungendo a bassa voce: «Lascia che ti dica, comunque, che in realtà gli istrici sono creaturine dolci. No, non mi dispiace troppo». Scese di nuovo il silenzio, ma non era più teso e imbarazzato. Poco dopo, lei si protese in avanti, aprendo uno spioncino per sé nella parete d'erba. Lui le consegnò il cannocchiale, mostrandole in che modo andava messo a fuoco. «Mi hai detto che sei orfana. Parlami dei tuoi genitori», le disse a un certo punto. Quella richiesta la turbò visibilmente. Si sentì assalire dalla collera. Lui non aveva il diritto di farle certe domande. Si concentrò sull'immagine del cannocchiale, ma non vide niente. Poi la collera si spense e lei si rese conto che il suo bisogno di parlare era davvero pressante. Non era mai Wilbur Smith
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riuscita a farlo, nemmeno con Elise, al tempo in cui aveva ancora fiducia nella vecchia cuoca. «Mio padre era un insegnante, molto mite e gentile. Amava i libri e la cultura.» Da principio la sua voce era quasi impercettibile, poi a poco a poco divenne più forte e sicura, mentre ricordava tutte le cose meravigliose che riguardavano la madre e il padre, il loro amore e la profonda dolcezza che li caratterizzava. Lui restò in silenzio, intervenendo soltanto se la voce di Louisa si affievoliva, per incoraggiarla a proseguire. Era come se Jim avesse inciso un ascesso nella sua anima, lasciandone uscire il veleno e il dolore. Avvertiva una fiducia crescente, come se potesse dirgli tutto, sicura che lui avrebbe capito. Perse la nozione del tempo e venne bruscamente riportata alla realtà da un lieve sfregamento sulla parete di fondo del rifugio. La voce di Bakkat sussurrò una domanda. Jim rispose, e Bakkat se ne andò in silenzio così com'era venuto. «Che cos'ha detto?» gli domandò. «È venuto a darmi il cambio, ma l'ho mandato via.» «Ho parlato troppo. Che ore sono?» «Qui il tempo conta ben poco. Continua il tuo racconto. Mi piace ascoltarti.» Quando gli ebbe detto tutto ciò che ricordava dei genitori, parlò d'altro, di tutto quello che le passava per la testa, o dell'argomento verso il quale la portavano le domande di Jim. Era una tale gioia, per lei, poter di nuovo parlare liberamente con qualcuno. Dato che ormai si sentiva a proprio agio, e aveva abbassato le difese, Jim scoprì che Louisa possedeva un senso dell'umorismo caustico e personalissimo, che riusciva a essere spiritosa e nel contempo molto severa con se stessa, che era un'ottima osservatrice e non disdegnava, se necessario, di far ricorso a una pungente ironia. Parlava un ottimo inglese, di gran lunga superiore all'olandese di Jim, ma l'accento faceva apparire diverso anche quel suono familiare, e gli errori o i solecismi occasionali gli sembravano incantevoli. L'istruzione che aveva ricevuto dal padre le aveva permesso di acquisire un'ampia gamma di nozioni, permettendole di orientarsi in una rosa sorprendente di argomenti; inoltre aveva visitato luoghi che lo affascinavano da sempre. L'Inghilterra era la patria spirituale di Jim, la terra d'origine della sua famiglia, ma lui non l'aveva mai vista. Louisa invece sì, e gli descrisse scene e località che lui aveva sentito nominare Wilbur Smith
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soltanto dai genitori o visto unicamente sui libri. Le ore trascorsero veloci. Solo quando le lunghe ombre delle montagne investirono il piccolo rifugio lui si rese conto che il giorno era quasi finito. Con una fitta di colpa, scoprì di aver trascurato l'orologio e di non aver guardato dallo spioncino per ore. Si protese in avanti per sbirciare lungo il fianco della montagna. Poi Louisa trasalì sorpresa, sentendo la mano di Jim che si posava sulla sua spalla. «Sono qui!» Il tono era brusco e incalzante, ma per un attimo lei non capì. «Keyser e i suoi uomini», spiegò allora Jim. Lei sentì il cuore accelerare i battiti e fu percorsa da un brivido. Sbirciando con trepidazione, scorse un movimento in fondo alla valle, in lontananza. Una colonna di cavalieri stava attraversando il ruscello, ma a quella distanza non era possibile identificare i singoli uomini. Jim le strappò di mano il cannocchiale. Controllò con un'occhiata l'angolazione del sole, ma la capanna era già immersa nell'ombra, quindi non c'era pericolo che la luce si riflettesse sulla lente, e la rimise subito a fuoco. «Li guida Xhia, il boscimano. Conosco da molto tempo quel piccolo porco. È astuto come un babbuino e pericoloso come un leopardo ferito. Lui e Bakkat sono nemici mortali. Bakkat giura e spergiura che è stato lui a uccidere sua moglie con l'arte magica. Dice che Xhia ha stregato un mamba per farla mordere.» Puntando di traverso il cannocchiale, continuò a descrivere quello che vedeva. «Keyser sta alle spalle di Xhia. Monta il castrone grigio, che è un altro buon cavallo. Tra i soldi che ha accettato, lasciandosi corrompere, e quello che ha rubato alla VOC, Keyser è un uomo ricco. Ha una delle scuderie migliori di tutta l'Africa. E non è affatto uno smidollato, come farebbe pensare la sua pancia. Sono arrivati un giorno prima di quanto si aspettasse Bakkat.» Louisa gli si avvicinò, avvertendo il gelo della paura che le strisciava lungo la schiena. Sapeva che cosa le sarebbe successo se fosse caduta nelle mani di Keyser. Jim spostò ancora oltre il cannocchiale. «Quello che segue Keyser è il capitano Herminius Koots. Madre di Dio, che brutto soggetto! Sul conto di Koots si raccontano storie che ti farebbero arrossire o addirittura svenire. Quello dietro è il sergente Oudeman. È il compagno di scorribande di Koots: hanno gli stessi gusti. Entrambi sono irresistibilmente attratti Wilbur Smith
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dall'oro, dal sangue, e da quello che c'è sotto una gonna.» «Jim Courteney, ti sarei grata se la smettessi di usare un simile linguaggio. Ricordati che sono una donna.» «Allora non dovrò spiegarti proprio tutto, vero, Istrice?» Sorrise, e lei tentò di assumere un'aria severa, ma Jim ignorò la sua disapprovazione e continuò a snocciolare i nomi degli altri soldati che seguivano Keyser. «In retroguardia ci sono i caporali Richter e Le Riche, che conducono i cavalli di riserva.» Ne contò dieci, nel piccolo branco che seguiva le truppe. «Non c'è da stupirsi che abbiano fatto così presto. Con tutti quei cavalli di riserva, potranno braccarci da vicino.» Poi chiuse con uno scatto il cannocchiale. «Ora ti spiegherò che cosa dobbiamo fare. Anzitutto bisogna allontanare Keyser dal fiume Gariep, dove mio padre ci aspetterà coi carri e con le provviste. Mi dispiace, ma ciò significa che dovremo fuggire ancora per alcuni giorni, o forse per qualche settimana, vivendo in modo spartano, senza tende né ripari di pietra. Inoltre, a meno che non riusciamo a uccidere altre prede, saremo costretti a ridurre le razioni, una volta finita la carne di eland... In questa stagione, tuttavia, la maggior parte delle mandrie è giù in pianura e, con Keyser alle calcagna, non potremmo cacciare comunque. Non sarà facile, insomma.» Lei nascose i suoi timori dietro un sorriso e un tono allegro. «Dopo il ponte dei cannoni della Meeuw, mi sembrerà il paradiso.» A quel ricordo, si sfregò il segno lasciato dai ceppi sulle caviglie. Le ferite si stavano cicatrizzando: infatti le croste si erano quasi staccate e, sotto, si vedeva la pelle nuova e rosea. Bakkat le aveva preparato un unguento a base di grasso di eland ed erbe selvatiche, la cui efficacia si stava dimostrando quasi miracolosa. «All'inizio, avevo pensato di mandarti al Gariep, insieme con Zama, che ti avrebbe protetto, conducendoti inoltre a incontrare mio padre, mentre Bakkat e io avremmo cercato di allontanare Keyser. Invece, discutendo con Bakkat, abbiamo deciso che non potevamo assumerci un rischio simile. Il cercatore di tracce boscimano di Keyser è troppo abile. Tu e Zama non riuscireste mai a sfuggirgli, anche se Bakkat giocasse tutti i tiri che conosce. Xhia troverebbe la vostra pista nel punto da cui siamo partiti, e Keyser ti vuole quasi quanto vuole me.» Il suo viso si oscurò all'idea che Louisa cadesse nelle mani di Keyser, Koots e Oudeman. «No, resteremo insieme.» Lei si sentì enormemente sollevata al pensiero che lui non intendeva Wilbur Smith
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lasciarla. Rimasero a osservare gli uomini di Keyser che frugavano nella capanna deserta, poi rimontavano in sella e risalivano la valle, seguendo la pista ormai fredda che avevano lasciato. Infine scomparvero tra le montagne. «Torneranno presto», predisse Jim. Ci vollero altri tre giorni perché Xhia conducesse Keyser lungo l'ampio circuito della pista, tornando sulle colline che sovrastavano Majuba. Jim sfruttò quella tregua per far pascolare e riposare cavalli e muli. Nell'attesa, Bakkat recuperò le forze. Mentre teneva d'occhio la pista, il suo posteriore ridivenne pieno e grasso. Poco dopo mezzodì del terzo giorno, la colonna di Keyser ricomparve, seguendo ostinatamente la vecchia traccia. Non appena Bakkat li ebbe avvistati, il gruppetto di Jim si spostò verso la sommità delle montagne. Jim regolava il loro passo su quello degli inseguitori. Mantenevano un vantaggio sufficiente su Keyser per tenerlo d'occhio, così da anticipare ogni mossa, trucco o stratagemma che lui e Xhia potessero concepire per coglierli alla sprovvista. L'ordine di marcia prevedeva che Zama e Louisa procedessero in testa, coi muli e col bagaglio. Zama teneva il passo più veloce che gli animali erano in grado di sostenere. Dovevano poter pascolare e riposare, altrimenti ben presto si sarebbero indeboliti, rischiando di crollare. Per fortuna, le stesse limitazioni alla rapidità della marcia valevano anche per gli animali di Keyser, benché lui avesse cavalli di riserva. Persino così, in ogni caso, Zama e Louisa erano in grado di mantenere il vantaggio. Bakkat e Jim restavano vicino a Keyser, come se fossero la sua ombra, cercando di sapere con esattezza dove si trovava in ogni momento. Ogni volta che la pista conduceva oltre un crinale o superava uno spartiacque, aspettavano sul terreno elevato finché non apparivano le truppe del colonnello. Prima di riprendere il cammino, Jim, grazie al cannocchiale, contava cavalli e uomini, per accertarsi che nessuno di loro si fosse allontanato. Quando scendeva la notte, Bakkat tornava indietro di soppiatto e osservava il campo di Keyser, in caso meditasse qualche azione a sorpresa. Non poteva portare con sé Jim: Xhia era un pericolo costante e, sebbene il ragazzo fosse versato nell'arte di viaggiare nel bush, nelle tenebre notturne non era all'altezza di Xhia. Jim si faceva precedere da Louisa e Zama, mangiava da solo accanto al fuoco da campo e poi lo lasciava acceso, per Wilbur Smith
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trarre in inganno un eventuale osservatore e infine sgattaiolava via nella notte, seguendo gli altri due e sorvegliando le loro tracce per prevenire un attacco. Prima dell'alba, Bakkat interrompeva la veglia sul campo nemico per tornare da Jim. Poi, durante il giorno, riprendevano lo stesso ordine di marcia. Xhia riusciva a leggere tutti i movimenti quando, il giorno dopo, studiava i segni che i fuggiaschi avevano lasciato. La terza notte ordinò un attacco a sorpresa. Chiese che il campo venisse allestito al calar della sera. I suoi uomini legarono i cavalli, cenarono e disposero le sentinelle, poi gli altri si arrotolarono nella coperta e lasciarono spegnere i fuochi. Grazie a Xhia, sapevano che Bakkat li spiava. Non appena fece buio, Xhia guidò in segreto e in silenzio Koots e Oudeman fuori del campo. Descrissero un cerchio per aggirare Bakkat e sorprendere Jim vicino al fuoco. Ma i due bianchi, sebbene si fossero tolti gli speroni e avessero avvolto alcuni stracci intorno agli zoccoli dei cavalli per attutire il rumore, non erano all'altezza di Bakkat, capace di udire ogni passo che loro facevano nell'oscurità. Quando Xhia e i due bianchi raggiunsero il fuoco da campo, questo era stato abbandonato da tempo e le fiamme si erano ridotte a braci. Due notti più tardi, Koots e Oudeman tesero un agguato a Bakkat al di fuori del perimetro del loro campo, ma il boscimano, dotato di un istinto di sopravvivenza animalesco, fiutò Koots da venti passi, grazie all'aroma del suo sudore e del fumo stantio di sigaro. Dall'alto della collina, Bakkat gli fece rotolare addosso un piccolo masso. A quel rumore, Koots e Oudeman spararono coi moschetti. Il campo si svegliò in un tumulto di grida e spari, e né Keyser né i suoi uomini riuscirono a riposare granché, quella notte. La mattina seguente, Jim e Bakkat, di vedetta, osservarono il colonnello e i soldati che montavano in sella per riprendere l'inseguimento. «Chissà quando Keyser si darà per vinto e tornerà alla colonia», si chiese Jim, e Bakkat, che gli correva accanto, aggrappato alla staffa di Drumfire, ridacchiò. «Non avresti dovuto rubargli il cavallo, Somoya. Penso che tu lo abbia fatto andare in collera e, per lui, è diventata una questione di orgoglio. Dovremo ucciderlo o sfuggirgli una volta per tutte... Ma, prima di allora, non si darà mai per vinto.» «Niente uccisioni, piccolo demonio assetato di sangue. La liberazione di Wilbur Smith
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una forzata condannata dalla VOC e il furto di un cavallo sono già abbastanza gravi, e neanche il governatore van de Witten potrebbe passare sopra all'omicidio del suo comandante militare. La farebbe pagare alla mia famiglia. Mio padre...» Jim s'interruppe. Anche il semplice pensare alle conseguenze di quella eventualità gli risultava insopportabile. «Keyser non è stupido», commentò Bakkat. «Ormai sa che stiamo andando a un incontro con tuo padre. Se ignora dove, gli basta seguirci. Quindi, se non vuoi ucciderlo, avrai bisogno dell'aiuto di Kulu Kulu per distogliere Xhia dalla nostra pista. Non potrei avere la certezza di riuscirci neanche se viaggiassi da solo. Ma siamo in quattro, con una ragazza che prima d'ora non è mai stata nel deserto, due cavalli e sei muli carichi. Quale speranza possiamo avere contro gli occhi, il naso e la magia di Xhia?» Raggiunsero un altro crinale. Si fermarono per far riposare Drumfire, aspettando che gli inseguitori comparissero di nuovo alla loro vista. «Dove siamo, Bakkat?» Jim si alzò sulle staffe per guardare intorno a sé, osservando i monti e le valli che li circondavano. «Questo luogo non ha nome, perché qui non arrivano gli uomini comuni, a meno che non siano smarriti o impazziti.» «Allora da che parte si trovano il mare e la colonia?» A Jim riusciva difficile orientarsi nel labirinto delle montagne. Bakkat puntò il dito senza esitare, e Jim socchiuse gli occhi al sole per controllare i punti di riferimento, ma senza mettere in dubbio l'infallibilità di Bakkat. «A quale distanza?» «Non lontano, se voli con le ali di un'aquila.» Bakkat alzò le spalle. «Forse otto giorni, se conosci la strada e viaggi in fretta.» «A quest'ora Keyser dev'essere a corto di provviste. Anche noi siamo arrivati all'ultima sacca di chagga, anche se abbiamo ancora venti libbre di mais.» «Mangerà i cavalli di riserva, prima di darsi per vinto e lasciarti andare all'incontro con tuo padre», predisse Bakkat. Qualche ora dopo, quello stesso pomeriggio, sempre a distanza di sicurezza, osservarono il sergente Oudeman che sceglieva uno dei cavalli dal branco di riserva e lo conduceva in una scarpata vicino al punto in cui erano accampate le truppe di Keyser. Mentre Oudeman li precedeva, Richter e Le Riche affilarono i coltelli su una roccia, e Koots controllò la pietra focaia e l'innesco della pistola. Poi si avvicinò all'animale, Wilbur Smith
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puntandogli la canna contro la stella bianca sulla fronte. Lo sparo fu smorzato, ma il cavallo si accasciò all'istante, scalciando in modo convulso. «Bistecche di cavallo per cena», mormorò Jim. «E Keyser ha cibo per un'altra settimana almeno.» Abbassò il cannocchiale. «Bakkat, non possiamo continuare così ancora per molto. Mio padre non aspetterà per sempre sul Gariep.» «Quanti cavalli hanno ancora?» chiese il boscimano, mettendosi un dito nel naso con aria pensierosa ed esaminando quello che era riuscito a ricavarne. Jim sollevò di nuovo il cannocchiale, puntandolo sulla mandria lontana. «... sedici, diciassette, diciotto», contò. «Diciotto, compreso il grigio di Keyser.» Studiò il viso di Bakkat, ma l'altro aveva un'espressione innocente. «I cavalli? Ma sì, certo!» esclamò allora. L'espressione studiata di Bakkat s'incrinò e il suo viso si aprì in un sorriso malizioso. «Sì, i cavalli sono l'unico mezzo che abbiamo per attaccarli.» La fuga proseguì su un terreno irregolare dove neppure Bakkat si era mai avventurato prima di allora. Per due volte avvistarono la selvaggina; una volta un branco di quattro eland passò all'orizzonte, e poi fu la volta di cinquanta splendidi esemplari di blaubok, che facevano parte di un unico branco. Ma se si fossero dedicati a inseguire quegli animali, avrebbero perso terreno e gli spari avrebbero subito attirato Keyser e i suoi uomini. Sarebbero piombati su di loro prima che potessero macellare la preda. E anche se avessero sacrificato uno dei loro muli sarebbe stato lo stesso. Proseguirono il viaggio con le provviste ridotte quasi a zero. Jim faceva tesoro dell'ultima manciata di chicchi di caffè. A poco a poco il passo che Zama riusciva a mantenere con Louisa e i muli rallentò. Il distacco fra i due gruppi si ridusse e, a un certo punto, Jim e Bakkat li raggiunsero. Gli uomini di Keyser, invece, continuavano a tenere un passo regolare, e il piccolo gruppo di Jim incontrava sempre maggiori difficoltà a tenerli a bada. Le bistecche di cavallo macellato di fresco e arrostite sembravano aver restituito agli uomini di Keyser forza e determinazione. Louisa cominciava a deperire. Era già emaciata prima che la caccia cominciasse, e adesso, con poco cibo e riposo, si avvicinava al limite della resistenza. Wilbur Smith
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Per contribuire alle ansie di Jim, altri cacciatori si erano uniti all'inseguimento. Mentre dormivano di un sonno irrequieto nel buio, affamati e infreddoliti - dato che durante il giorno non avevano neppure il tempo di raccogliere legna da ardere -, aspettandosi da un momento all'altro che gli uomini di Keyser li raggiungessero, furono svegliati di colpo da un rumore terribile. Incapace di controllarsi, Louisa gridò: «Che cos'è?» Jim si alzò di scatto dal kaross per andare da lei. Le passò un braccio intorno alle spalle, e lei era così atterrita che non si ritrasse. Il rumore si ripeté. Una serie di profondi grugniti, ciascuno più sonoro del precedente, in un crescendo di tuoni che echeggiavano e rollavano, scendendo dalle montagne avvolte dall'oscurità. «Che cos'è?» ripeté Louisa, con voce tremante. «Sono leoni», rispose Jim. Non aveva senso negare l'evidenza, quindi tentò di distrarla. «Anche l'uomo più coraggioso ha paura del leone almeno tre volte. La prima volta che vede la sua pista. La prima volta che lo sente ruggire. La prima volta che lo incontra a faccia a faccia.» «A me basta una volta sola», ribatté Louisa, ma, anche se la voce era ancora incerta, riuscì a fare una risatina. Jim sentì un moto di orgoglio di fronte al suo coraggio, poi, avvertendo il disagio di lei, lasciò ricadere il braccio che le teneva intorno alle spalle. Evidentemente ancora non riusciva a sopportare il contatto con un uomo. «Seguono le tracce dei cavalli», le spiegò. «Se la sorte ci assiste, potrebbero attaccare gli animali di Keyser anziché i nostri.» Come per esaudire il suo desiderio, alcuni minuti dopo udirono una salva di colpi di moschetto che si allontanava ancora di più lungo la valle, là dove avevano visto accamparsi il nemico al calar del sole. «I leoni devono essere dalla nostra parte.» Louisa rise di nuovo, stavolta in modo un po' più convincente. Per il resto della notte, a intervalli, si udì lo schiocco dei colpi di moschetto in lontananza. «I leoni stanno ancora attaccando l'accampamento di Keyser», borbottò Jim a un certo punto. «Con un po' di fortuna, stanotte perderà alcuni cavalli.» All'alba, quando ripresero la fuga, prese il cannocchiale e, guardando, scoprì che Keyser non aveva perso nessun cavallo. «Sono riusciti a scacciare i leoni. Peccato», disse, rivolto a Louisa. «Speriamo che ci riprovino stanotte», replicò lei. Wilbur Smith
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Quella sarebbe stata, per loro, la giornata più difficile, almeno fino a quel momento. Nel pomeriggio scoppiò un temporale che arrivava da nord-ovest, e li investì con violenza. La pioggia gelida e sferzante cominciò a cadere proprio mentre tramontava il sole e, grazie agli ultimi barlumi di luce, videro che il nemico li tallonava a meno di una lega, avanzando ad andatura costante. Jim proseguì anche quando ormai il buio era calato. Era una marcia da incubo su terreni umidi e insidiosi, attraverso ruscelli ingrossati dalle piogge fino a diventare pericolosamente gonfi. Jim capì che non potevano continuare ancora per molto a quel ritmo. Quando infine si fermarono, Louisa rischiò di cadere dal dorso di Trueheart. Jim l'avvolse in un kaross fradicio e le diede uno degli ultimi bastoncini di chagga. «Prendilo tu. Io non ho fame», protestò Louisa. «Mangia», le ordinò lui. «Non è il momento adatto per i gesti eroici.» Lei si accasciò, addormentandosi dopo aver mangiato appena qualche boccone. Jim raggiunse Zama e Bakkat, seduti l'uno accanto all'altro. «Siamo quasi alla fine», osservò con aria tetra. «Dovremo farlo stanotte, oppure rinunciare. Dobbiamo attaccare i loro cavalli.» Lo avevano progettato per tutto il giorno, però sarebbe stato un tentativo disperato; benché cercasse di farsi animo, Jim sapeva che era destinato quasi certamente a fallire. Bakkat era l'unico che avesse qualche possibilità di sfuggire alla sorveglianza di Xhia e d'insinuarsi nell'accampamento nemico senza farsi scoprire, ma non poteva slegare tutti i diciotto cavalli e portarli via da solo. «Un paio, sì», disse a Jim. «Ma diciotto, no.» «Dobbiamo prenderli tutti.» Jim volse lo sguardo al cielo, dove una falce di luna fluttuava tra i lembi sfilacciati delle nubi temporalesche. «C'è luce appena sufficiente per fare il lavoro.» «Bakkat potrebbe insinuarsi tra le file di cavalli e mutilarli, tagliando i garretti», suggerì Zama. Jim si dimenò, a disagio di fronte a quella prospettiva. L'idea di mutilare un cavallo gli era odiosa. «Il primo lancerebbe un nitrito così sonoro che Bakkat si vedrebbe piombare addosso tutto il campo. No, così non va.» In quel momento, Bakkat balzò in piedi, fiutando sonoramente l'aria. «Tenete i cavalli!» gridò. «Presto, i leoni sono qui!» Zama corse verso Trueheart, afferrando la cavezza, mentre Bakkat si slanciava verso i muli per cercare di controllarli. Quegli animali erano più Wilbur Smith
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docili, rispetto ai due purosangue. Jim fece appena in tempo ad afferrare la testa di Drumfire: lo stallone si era già sollevato sulle zampe posteriori, lanciando nitriti acuti per il terrore. Il ragazzo fu sollevato di peso da terra, ma riuscì a passare un braccio intorno al collo di Drumfire, tenendolo giù. «Calma, mio caro. Calma, adesso. Buono, buono!» disse per placarlo. Ma lui continuava a scalpitare e impennarsi, cercando di fuggire. Allora Jim gridò a Bakkat: «Che cosa c'è? Che succede?» «È il leone», rispose Bakkat ansimando. «Che demonio maligno! Ha fatto il giro sopravvento, spargendo il suo fetido piscio per farlo sentire ai cavalli. Intanto la leonessa sarà in attesa sottovento per catturare quelli che riescono a fuggire.» «Cristo santo!» esclamò Jim. «Riesco a sentirlo persino io!» In fondo alla gola sentiva un odore rancido di felino, più repellente del getto di orina di un gatto. Drumfire s'impennò di nuovo. Quell'odore lo faceva impazzire: era diventato incontrollabile. Stavolta Jim capì che non sarebbe riuscito a trattenerlo. Era ancora aggrappato al collo di Drumfire, ma sfiorava appena il terreno coi piedi. D'un tratto il cavallo si lanciò al galoppo, trascinando con sé Jim. «La leonessa!» gli gridò dietro Bakkat. «Attento! La leonessa ti aspetta!» Gli zoccoli di Drumfire martellavano il terreno roccioso con un brontolio di tuono, e Jim ebbe l'impressione che le braccia stessero per uscire dall'articolazione delle spalle. «Lascialo andare, Somoya! Non puoi fermarlo», gli gridò dietro Bakkat. «La leonessa prenderà anche te!» Jim si piegò su se stesso come una molla e, non appena i suoi piedi incontrarono il terreno, sfruttò la forza delle gambe per issarsi e passare una gamba sulla groppa di Drumfire. Trovando facilmente l'equilibrio sullo stallone in corsa, sfilò dalla cintura la pistola di Keyser e armò il cane con un solo movimento. «Alla tua destra, Somoya!» La voce di Bakkat si affievolì alle sue spalle, ma l'avvertimento gli giunse, appena in tempo. Vide il movimento della leonessa che usciva dall'ombra per sfrecciare verso di lui. Sembrava uno spettro pallido al chiarore fioco della luna: era silenziosa, enorme e terribile. Lui alzò la pistola e si protese in avanti. Tentò di dirigere Drumfire con la pressione delle ginocchia, ma il cavallo ormai era insensibile a qualsiasi Wilbur Smith
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comando. Vide la leonessa precederli e accovacciarsi, raccogliendosi per il salto. Poi si slanciò, puntando direttamente su Jim. Non c'era il tempo di prendere la mira. Istintivamente, il ragazzo mirò al suo muso. Era così vicina che riuscì a vedere le zampe anteriori allungate verso di lui, coi grandi artigli ricurvi. Le mascelle aperte sembravano un pozzo nero. I denti scintillavano come porcellana al chiaro di luna, e il fetore da cimitero del suo fiato gli alitò, ardente, sul viso mentre ruggiva. Puntò la pistola a braccio teso, e la fiammata dello sparo lo accecò. Furono investiti entrambi dal peso del corpo della leonessa. Persino Drumfire barcollò, ma poi si fece forza e proseguì al galoppo. Jim sentì gli artigli della leonessa affondare nello stivale, ma senza fare presa. L'enorme bestia ricadde, accasciandosi mollemente sul terreno roccioso. Ci vollero alcuni istanti perché Jim si rendesse conto che era uscito illeso dallo scontro; il suo secondo pensiero fu per Drumfire. Proteso in avanti, gli strinse le braccia al collo, rivolgendogli parole affettuose. «E tutto finito, mio caro. Eh, ora sì che sei un bravo ragazzo.» Le orecchie di Drumfire si orientarono all'indietro al suono della voce di Jim. Rallentò, passando a un trotto agile, e poi mettendosi al passo. Jim lo ricondusse indietro, verso la sommità del pendio; ma, non appena sentì l'odore del sangue della leonessa, il cavallo ricominciò a innervosirsi, caracollando e gettando la testa all'indietro. Bakkat chiamò dal buio. «La leonessa è morta. Il colpo è entrato attraverso la bocca ed è uscito dalla parte posteriore del cranio.» «Il leone dov'è?» gridò Jim. Come in risposta, udì il leone ruggire dall'alto della montagna, a un buon miglio di distanza. «Ora che non gli serve più, ha abbandonato la moglie», disse Bakkat con un sogghigno. «Che bestia codarda e ladra.» Soltanto a fatica Jim riuscì a blandire Drumfire e, sebbene fosse ancora nervoso e irrequieto, lo condusse verso il punto in cui era rimasto Bakkat, accanto alla leonessa morta. «Non l'ho mai visto così terrorizzato», osservò il ragazzo. «Nessun animale può restare calmo e coraggioso quando sente l'odore del piscio o del sangue di leone», disse Bakkat. Poi i due esclamarono all'unisono: «È fatta! Ce l'abbiamo fatta!» La mezzanotte era passata da tempo quando raggiunsero il crinale che sovrastava il campo nemico. I fuochi del campo di Keyser si erano spenti, ma si accorsero che le sentinelle erano ancora sveglie. Wilbur Smith
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«Solo una lieve brezza dall'est.» Jim tenne ferma la testa di Drumfire per calmarlo. Lo stallone rabbrividiva e sudava ancora dal terrore. Neanche la mano e la voce di Jim riuscivano a placarlo. Ogni volta che la carcassa che stava trainando scivolava in avanti, lui roteava gli occhi fino a scoprire il bianco, che scintillava al chiaro di luna. «Dobbiamo restare sottovento», mormorò Bakkat. «Gli altri cavalli non devono sentire l'usta finché non siamo pronti.» Avevano attutito il suono degli zoccoli di Drumfire avvolgendoli in pezze di cuoio e proteggendo tutte le parti metalliche dei finimenti. Mentre percorrevano il lato occidentale del campo nemico, Bakkat li precedeva per assicurarsi che la via fosse libera. «Anche Xhia dovrà pure dormire, ogni tanto», sussurrò Jim a Bakkat, ma senza troppa convinzione. Si avvicinarono lentamente, trovandosi a mezzo tiro di pistola dal perimetro del campo prima di vedere le sentinelle nemiche in controluce contro il fioco riverbero del fuoco di guardia. «Dammi il tuo coltello, Somoya», bisbigliò Bakkat. «È più affilato del mio.» «Se lo perdi, mi prenderò in cambio le tue orecchie», brontolò Jim, porgendoglielo. «Aspetta il mio segnale.» Bakkat si allontanò nel suo tipico modo, sempre sconcertante per quanto era brusco: ogni volta pareva che svanisse nell'aria. Jim si fermò all'altezza della testa di Drumfire, tappandogli le narici per impedirgli di nitrire nel cogliere l'odore degli altri cavalli, così vicini nell'oscurità. Silenzioso come un fantasma, Bakkat si avvicinò ai fuochi, e poi si sentì balzare il cuore nel petto. Aveva visto Xhia, seduto alla parte opposta del secondo fuoco. Aveva una coperta sulle spalle, ma Bakkat si accorse che teneva gli occhi chiusi e la testa ciondolava: stava per scivolare nel sonno. «Somoya aveva ragione», disse Bakkat sorridendo tra sé. «Qualche volta dorme anche lui.» Ciò nonostante si tenne bene alla larga da Xhia, e sgattaiolò oltre, sfiorando quasi, con disprezzo, il caporale Richter, che era di guardia ai cavalli. Il castrone grigio di Keyser era il primo animale della fila. Avvicinandosi, Bakkat cominciò a canticchiare a bocca chiusa. Era un suono rasserenante, simile a una ninnananna. Il cavallo si mosse leggermente e drizzò le orecchie, ma senza produrre altri rumori. Bakkat Wilbur Smith
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impiegò appena qualche istante per recidere tre capi della corda che lo teneva legato; poi passò al cavallo successivo, sempre canticchiando la sua ninnananna, e fece scorrere con cautela la lama sulla corda che lo tratteneva. Era a metà della linea, quando sentì il caporale Richter, alle sue spalle, tossire, schiarirsi la gola e sputare. Si lasciò cadere a terra, restando immobile. Udì gli stivali di Richter che si avvicinavano lungo la fila e lo vide soffermarsi vicino alla testa del castrone grigio, per controllare la cavezza; nel buio, però, gli sfuggirono i trefoli della corda sfilacciata. Poi proseguì, rischiando d'inciampare su Bakkat. Quando giunse in fondo alla fila, si slacciò la patta dei calzoni e orinò rumorosamente sul terreno. Poi tornò indietro, ma Bakkat era scivolato sotto il ventre di uno dei cavalli e lui gli passò accanto senza neanche guardare nella sua direzione, tornando infine al suo posto vicino al fuoco. Lì Richter disse qualcosa a Xhia, che rispose con un grugnito. Bakkat concesse loro qualche minuto per scivolare di nuovo nel dormiveglia, poi proseguì furtivamente lungo la linea dei cavalli, tagliando, a una a una, le corde della loro cavezza. Jim udì il segnale. Era il dolce richiamo liquido di un uccello notturno, così convincente da spingere Jim ad augurarsi che fosse stato davvero il boscimano a emetterlo, e non un vero uccello. «Ormai non si torna indietro!» Balzò in groppa a Drumfire, che non ebbe bisogno di essere incitato. Aveva i nervi allo scoperto e, non appena sentì i talloni di Jim, cominciò ad avanzare. La carcassa della leonessa, sbudellata per metà e con le interiora puzzolenti che uscivano dalla ferita, continuava a scivolare dietro di lui, e Drumfire non riusciva più a sopportarla. Si lanciò al galoppo nel campo immerso nel sonno, mentre Jim ululava, sventolando il cappello sopra la testa. Con un balzo, Bakkat uscì dal buio all'estremità opposta, lanciando grugniti e ruggiti a un volume incredibile per una corporatura così piccola. La sua era un'imitazione perfetta. Il caporale Richter, mezzo addormentato, si alzò barcollando e sparò un colpo di moschetto mentre passava Drumfire, lanciato alla carica. Il proiettile mancò il cavallo di Jim, ma colpì uno degli animali legati, fracassandogli una zampa anteriore. Il cavallo lanciò un lamento e balzò in avanti, tranciando così la cavezza già sfilacciata, poi cadde a terra e rotolò Wilbur Smith
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sulla schiena, scalciando in aria. Gli altri soldati si svegliarono, afferrando i moschetti. Il panico fu contagioso: cominciarono a sparare all'impazzata contro leoni e aggressori immaginari, gridando sfide e ordini. «È quel bastardo di Courteney!» ruggì Keyser. «Eccolo! Sparategli! Non lasciatelo scappare!» I cavalli erano travolti da grida, urla, ruggiti, salve di colpi di moschetto e infine dall'odore terrificante del sangue e delle interiora della leonessa. La notte precedente erano stati attaccati più volte dal branco di leoni, e quel ricordo era ancora vivido. Non ressero più. Tesero la cavezza, scalciando, impennandosi e lanciando nitriti di terrore. Una dopo l'altra, le corde cedettero e i cavalli si ritrovarono liberi. Girando su se stessi, si slanciarono in massa fuori del campo, diretti sottovento. Alle loro calcagna correva Jim, in groppa a Drumfire. Bakkat uscì sfrecciando dall'ombra per afferrare una delle cinghie delle staffe. Mentre Drumfire lo trasportava con sé nella corsa, Bakkat continuava a ruggire come un leone affamato. Nella loro scia di polvere, Keyser e i suoi uomini correvano a piedi, lanciando grida di rabbia e sparando più in fretta che potevano, costretti a ricaricare ogni volta i moschetti. «Fermateli!» urlava Keyser. «Hanno preso i cavalli! Fermateli!» Inciampando su una roccia, finì in ginocchio, senza fiato, col cuore che gli batteva come se fosse sul punto di scoppiare. Seguì con lo sguardo il branco di cavalli che svaniva in lontananza, e la gravità della loro situazione lo colpì come uno schiaffo. Erano isolati, in un territorio montuoso e privo di sentieri, distante almeno dieci giorni di marcia dalla civiltà. Le provviste erano agli sgoccioli... D'altronde ormai non sarebbero stati in grado di trasportare neppure quelle. «Porco!» sibilò. «Ti prenderò, Jim Courteney! Non avrò riposo finché non ti vedrò penzolare dalla forca. Finché non vedrò le larve riempirti il cranio e uscire dalle orbite vuote. Lo giuro su tutto ciò che esiste di sacro, e possa Dio essermi testimone!» I cavalli in fuga rimasero compatti, e Jim riuscì a guidarli. Tagliando la corda con la quale si era trascinato dietro il corpo della leonessa, abbandonò la carcassa lungo il cammino. Lieto di essersi liberato di quel peso, Drumfire si placò all'istante. Meno di un miglio più avanti, il branco passò dal galoppo al piccolo galoppo. Jim proseguì ad andatura costante. Un'ora dopo, capì che nessuno dei soldati, ridotti a piedi e costretti a portare armi ed equipaggiamento, poteva raggiungerli. Rallentò per Wilbur Smith
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passare a un trotto regolare, un'andatura che potevano tenere per ore. Prima dell'attacco al campo di Keyser, Jim aveva mandato avanti Zama e Louisa, insieme con Trueheart e i muli. Avevano alcune ore di vantaggio, ma Jim li raggiunse un'ora dopo il levar del sole. L'incontro fu carico di emozione. «Abbiamo sentito gli spari stanotte», disse Louisa a Jim. «Temevamo il peggio, ma ho pregato per te. Non ho smesso fino a un minuto fa, quando ti ho sentito gridare alle nostre spalle.» «Ah, ecco allora di che cosa si è trattato, Istrice. Devi essere una campionessa di preghiera.» Sebbene continuasse a sorridere, Jim provò l'impulso quasi irresistibile di sollevarla di peso dalla groppa di Trueheart per abbracciarla stretta, proteggerla e coccolarla. Era così magra, pallida e sfinita. Invece smontò da cavallo. «Accendi il fuoco, Zama», ordinò. «Possiamo scaldarci e riposare. Che io sia dannato se non mangeremo fino all'ultimo boccone che ci resta e berremo l'ultima tazza di caffè, prima di dormire fino a quando non ci sveglieremo da soli.» Scoppiò a ridere forte. «Keyser sta tornando alla colonia a piedi e almeno per un po' non dovremo preoccuparci di lui.» Stavolta non permise a Louisa di rifiutare una tazza di caffè. Una volta assaggiato quel liquido amaro, lei non riuscì a resistere, e bevve il resto con gratitudine. La rianimò quasi subito. Smise di tremare di freddo e sulle guance le tornò un po' di colore; riuscì persino ad accennare un sorriso nel sentire alcune delle peggiori battute di Jim. Lui continuava a riempire di acqua bollita la borraccia ogni volta che veniva vuotata. Ogni sorso di caffè diventava più debole, ma gli restituì lo spirito, e lui si sentì di nuovo allegro ed eccitato. Descrisse a Louisa il modo in cui Keyser aveva reagito a quella mossa a sorpresa, e lo imitò mentre, nel buio, barcollava a piedi nudi, brandendo la spada e lanciando minacce. Louisa rise fino alle lacrime. Jim e Zama esaminarono i cavalli che avevano catturato. Erano in buone condizioni, considerato il lungo viaggio massacrante che avevano dovuto sostenere. Il castrone grigio di Keyser era l'esemplare migliore. Keyser lo aveva chiamato Zehn, ma Jim aveva tradotto il nome in inglese: Frost, cioè «gelo». Ora che avevano i cavalli di riserva, potevano dirigersi a tutta velocità verso l'incontro al Gariep, ma Jim, sapendo che Keyser non avrebbe più potuto dar loro fastidio, lasciò prima pascolare e riposare i cavalli. Louisa Wilbur Smith
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approfittò di quella tregua, rannicchiandosi sotto il kaross e addormentandosi. Nel sonno, rimase così immobile che Jim cominciò a preoccuparsi e sollevò in silenzio un lembo della coperta per controllare che respirasse ancora. Quella mattina, poco prima di raggiungere Zama e Louisa, aveva individuato un piccolo branco di quattro o cinque rhebok, antilopi di montagna simili al capriolo, che pascolavano tra le rocce sulle pendici superiori della valle. Salì in sella a Frost, seguito da Bakkat, che montava a pelo un altro dei cavalli catturati. Lasciando Louisa addormentata sotto la sorveglianza di Zama, Jim tornò verso il punto in cui aveva visto i rhebok. Il branco si era spostato e il pendio era deserto, ma lui sapeva che probabilmente non erano andati lontano. Così risalirono a piedi il pendio, lasciando impastoiati i cavalli in modo che potessero pascolare su un tratto di sweet grass, una graminacea dalle spighe piumose di colore rosa, che maturavano al sole primaverile. Bakkat ritrovò la pista delle antilopi poco più in basso del crinale, e la seguì in fretta, trotterellando sul terreno roccioso, mentre Jim lo tallonava, camminando a lunghe falcate. Sul versante opposto, trovarono il branco, disteso a riposare al riparo di un gruppo di massi, che li proteggevano dal vento freddo. Bakkat precedeva di poco Jim, strisciando come un leopardo, col moschetto tenuto nella piega del gomito. Arrivato a una settantina di passi di distanza, Jim comprese che non sarebbero riusciti ad avvicinarsi oltre senza mettere in fuga il branco. Così scelse una femmina grassa, dal manto color bruno grigiastro, distesa col muso rivolto dalla parte opposta, che ruminava soddisfatta. Il ragazzo sapeva che, a distanza di cento passi, il moschetto deviava tre dita sulla destra, quindi appoggiò i gomiti sulle ginocchia per avere una mira più ferma e spostò la canna di un pollice. Il proiettile colpì il cranio della femmina, producendo un suono simile a quello di un melone maturo che cade su un pavimento di pietra. La preda non si mosse neppure, a parte la testa, che si appiattì contro il terreno. Il resto del branco fuggì all'impazzata, agitando freneticamente la coda bianca a ciuffetto e lanciando sibili allarmati. Scuoiarono la femmina e asportarono le viscere, banchettando col fegato crudo mentre lavoravano. Era soltanto un'antilope di taglia media, però giovane e grassoccia. Lasciarono la pelle, la testa e le interiora, e insieme trasportarono il resto della carcassa fino ai cavalli. Una volta caricata la carcassa sul dorso di Frost, Bakkat riempì la sacca del cibo di strisce di carne cruda fresca e si allontanò. Munito del Wilbur Smith
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cannocchiale di Jim, si dedicò di nuovo a spiare Keyser e i suoi uomini. Jim voleva avere la certezza che, dopo aver perso i cavalli, avessero rinunciato alla caccia e intrapreso la lunga e aspra marcia di ritorno tra le montagne fino alla colonia lontana. Temeva che Keyser non facesse quello che ci si aspettava da lui; stava imparando a rispettare la tenacia del colonnello e la forza del suo odio. Quando Jim raggiunse il campo dove aveva lasciato Louisa, era già mezzogiorno passato, e lei dormiva ancora. La destò l'aroma delle bistecche di rhebok arrostite sul fuoco. Con gli ultimi chicchi, Jim riuscì a preparare ancora un bricco di caffè acquoso; Louisa mangiò e bevve con gusto evidente. Verso la fine del pomeriggio, proprio mentre il sole scendeva verso le cime, dipingendole di rosso sangue, Bakkat tornò al campo. «Li ho trovati a circa cinque miglia dal punto in cui li abbiamo attaccati ieri notte», riferì a Jim. «Hanno rinunciato alla caccia, abbandonando tutte le provviste e le attrezzature che non potevano portare sulle spalle, senza neanche prendersi la briga di bruciarle. Ho preso tutto quello che mi è sembrato utile.» Zama gli si affiancò, aiutandolo a scaricare il bottino. «Da che parte sono diretti?» chiese Jim al boscimano. «Come speravi, Xhia li sta riportando a ovest, direttamente verso la colonia, ma viaggiano lentamente. La maggior parte dei bianchi soffre. I loro stivali sono più adatti all'equitazione che alla marcia, e il colonnello grasso zoppica e cammina appoggiandosi a un bastone. Non credo che potrà continuare a lungo, non certo per i dieci giorni di marcia che ci vogliono per raggiungere la colonia.» Lo guardò. «Tu hai detto che non volevi ucciderlo, ma forse le montagne lo faranno per te.» Jim scosse la testa. «Stephanus Keyser non è un idiota. Manderà avanti Xhia, incaricandolo di andare al Capo a prendere cavalli freschi. Potrà perdere un po' di pancia, ma non morirà.» Lo dichiarò con una sicurezza che non sentiva, e pensò: Almeno lo spero. Non voleva che la morte di Keyser pesasse sulla coscienza della sua famiglia. Per la prima volta, da settimane intere, non erano costretti a fuggire per mantenere un vantaggio sugli inseguitori. In una delle sacche abbandonate da Keyser, Bakkat aveva trovato un sacchetto di farina e una bottiglia di vino. Louisa preparò alcune focacce non lievitate, cuocendole sulla brace, e spiedini di carne e fegato di rhebok, che annaffiarono col buon chiaretto invecchiato della riserva del colonnello. Per i san, l'alcol era un veleno e, Wilbur Smith
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quando tentò di alzarsi, Bakkat cominciò a barcollare ridacchiando, col rischio di cadere nel fuoco. I kaross si erano asciugati, dopo il temporale dei giorni precedenti, e i quattro riuscirono a raccogliere bracciate di legno di cedro per alimentare un fuoco da campo fragrante, in modo da godersi il primo sonno ininterrotto da qualche notte a quella parte. La mattina dopo partirono di buon'ora, ben nutriti, riposati e in sella a cavalli freschi, per dirigersi verso il luogo dell'appuntamento alla collina della Testa di Babbuino. Soltanto Bakkat risentiva ancora dei postumi dei tre sorsi di vino che aveva bevuto la sera prima. «Sono avvelenato», mormorò. «Sto per morire.» «No che non morirai», gli assicurò Jim. «Gli antenati non vorranno mai un furfante come te.» Il colonnello Keyser proseguì zoppicando per tre giorni, appoggiandosi da un lato al bastone che gli aveva intagliato il capitano Koots e, dall'altro, facendosi sorreggere da Goffel, uno dei soldati ottentotti. Il sentiero era interminabile: ripide discese seguite da tratti insidiosi in salita, dove la ghiaia scorreva sotto i piedi. Un'ora prima di mezzodì del terzo giorno di marcia, Keyser dovette arrendersi. Crollò con un gemito su un piccolo masso lungo la pista che stavano percorrendo. «Goffel, bastardo buono a nulla, sfilami gli stivali», gridò rivolto al soldato ottentotto, tendendo verso di lui un piede. Goffel dovette lottare col grande stivale graffiato e impolverato prima d'indietreggiare di colpo, barcollando, quando gli rimase in mano. Gli altri uomini gli si strinsero intorno, fissando sbigottiti il piede rimasto allo scoperto: la calza era ridotta a un ammasso di strisce sanguinolente, le vesciche erano esplose e, dalle ferite aperte, pendevano lembi di pelle. Il capitano Koots batté le palpebre sugli occhi chiari. Aveva le ciglia incolori, che conferivano al suo sguardo una certa fissità. «Signor colonnello, non potete proseguire, coi piedi ridotti in quello stato.» «È quello che vi sto ripetendo da venti miglia, idiota farfugliante», ruggì Keyser. «Fatemi costruire una portantina.» Gli uomini si scambiarono un'occhiata. Erano già sovraccarichi di tutto l'equipaggiamento che Keyser aveva insistito per fargli riportare alla colonia, compresa la sua sella inglese da caccia, la sedia e il letto pieghevoli da campo, la borraccia e il giaciglio arrotolato. E adesso avrebbero avuto l'«onore» di trasportare il colonnello in persona. Wilbur Smith
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«Avete sentito il colonnello, no?» reagì Koots, voltandosi verso di loro. «Richter! Tu e Le Riche dovete trovare due pali in legno di cedro. Usate la baionetta per sagomarli. Ci legheremo sopra la sella del colonnello con alcune strisce di corteccia.» Gli uomini si dispersero per svolgere il loro compito, mentre Keyser si dirigeva zoppicando sui piedi nudi e sanguinanti verso il ruscello e si sedeva sulla riva. Immergendo i piedi nell'acqua fredda e limpida, trasse un sospiro di sollievo. «Koots!» gridò poi, e il capitano si affrettò a raggiungerlo. «Colonnello! Agli ordini, signore!» Si mise sull'attenti. Era un uomo segaligno, coi fianchi stretti e con le spalle larghe e ossute sotto la giubba di panno verde. «Vi piacerebbe guadagnare diecimila gulden?» Keyser abbassò la voce, facendola diventare un sussurro confidenziale. Koots rifletté. Quel denaro rappresentava quasi cinque anni di paga al suo livello attuale, e lui non si faceva illusioni di poter ulteriormente salire nella gerarchia militare. «È davvero una grossa somma di denaro, signore», azzardò con cautela. «Voglio quel giovane bastardo di Courteney. Lo voglio più di qualsiasi altra cosa abbia mai voluto in vita mia.» «Capisco, colonnello», disse Koots con un cenno di assenso. «Anch'io vorrei mettere le mani su di lui.» Sorrise come un cobra a quell'idea, e serrò istintivamente i pugni lungo i fianchi. «Se la caverà, Koots», borbottò Keyser in tono amaro. «Prima che noi riusciamo a raggiungere il castello, lui avrà superato i confini della colonia e non lo rivedremo mai più. Ha messo alla berlina me e tutta la VOC.» Koots non si mostrò eccessivamente turbato da quelle colpe. Non riuscì a trattenere un sorrisetto maligno che gli stese le labbra sottili, pensando: Non è poi un'impresa così difficile. Non ci vuole un genio per mettere alla berlina il colonnello. Keyser colse lo scintillio di quel sorriso e aggiunse: «Ma ci ha messo anche voi, Koots. Diventerete lo zimbello di tutti i beoni e di tutte le baldracche di ogni taverna della colonia. Per anni e anni faranno battute su di voi e non troverete chi vi offrirà da bere». A quella prospettiva, il viso di Koots si oscurò, assumendo un'espressione che trasmetteva una rabbia omicida. Keyser batté il ferro finché era caldo. «A meno che voi e io non lo catturiamo, riportandolo indietro per offrire una pubblica rappresentazione Wilbur Smith
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della danza della corda sulla spianata del castello.» «Prenderà la Via dei Banditi, quella che porta al nord», protestò Koots. «La VOC non può mandargli dietro delle truppe, perché quel territorio non è sotto la sua sovranità. Il governatore van de Witten non lo permetterebbe mai. Non potrebbe violare gli ordini degli Zeventien.» «Potrei provvedere io, mio caro, a ottenere per voi un periodo indefinito di congedo dal servizio. Pagato, naturalmente. Inoltre vi procurerei un permesso di viaggio per farvi attraversare la frontiera, con la scusa di una spedizione di caccia. Vi assegnerei Xhia e un paio di altri uomini in gamba. Richter e Le Riche, magari? Vi fornirei anche tutte le provviste necessarie.» «E se riesco? Se catturo Courteney e lo riporto al castello?» «Farò in modo che il governatore van de Witten e la VOC mettano su di lui una taglia di diecimila gulden in oro. Quanto a me, mi accontenterei di ricevere la sua testa conservata in una botticella di brandy.» Koots spalancò gli occhi, riflettendo su quella prospettiva. Con diecimila gulden avrebbe potuto lasciare per sempre quella terra dimenticata da Dio. Naturalmente non poteva tornare in Olanda; in patria era noto con un altro nome, e aveva lasciato certe faccende in sospeso che potevano portarlo sulla forca. Comunque Batavia era un paradiso in confronto a quella colonia arretrata, all'estremità di un continente barbaro. Koots si concesse una fuggevole fantasia erotica. Le donne giavanesi erano famose per la loro bellezza, mentre lui non aveva mai imparato ad apprezzare le fattezze scimmiesche delle donne ottentotte della colonia. Inoltre in Oriente c'erano molte buone occasioni per un uomo abile con la spada e il moschetto, che non arretrava alla vista del sangue, tanto più se aveva appesa alla cintola una borsa piena di gulden d'oro. «Che ne dite, Koots?» Keyser interruppe le sue fantasticherie. «Dico quindicimila.» «Siete avido, Koots. Quindicimila sono una fortuna.» «E voi siete un uomo ricco, colonnello», gli fece notare Koots. «So che avete pagato duemila gulden l'uno Trueheart e Frost. Io vi riporterei i due cavalli, insieme con la testa di Courteney.» Al solo sentir nominare i cavalli rubati, l'indignazione che Keyser era riuscito a tenere a freno, sia pure a fatica, tornò a farsi sentire. Erano due tra i migliori animali che esistessero fuori d'Europa. Si guardò i piedi rovinati, che lo facevano soffrire almeno quanto la perdita dei cavalli. Eppure sborsare cinquemila gulden di tasca sua significava spendere una Wilbur Smith
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fortuna. Koots lo vide esitare. Aveva bisogno soltanto di una piccola spinta. «E poi c'è lo stallone», disse Koots. «Quale stallone?» Keyser distolse lo sguardo dai propri piedi. «Quello che vi ha battuto a Natale. Drumfire, lo stallone di Jim Courteney. Lo metterei sul piatto.» Keyser cominciava a cedere, ma pose un'ultima condizione. «La ragazza. La forzata. Voglio anche lei.» «Prima voglio divertirmi un po'.» Sebbene i suoi tratti duri e scavati restassero impassibili, Koots si godeva quella trattativa. «Ve la porterò... danneggiata, ma viva.» «Probabilmente è già 'danneggiata'», ribatté Keyser ridendo. «E lo sarà ancora di più quando quel giovane ariete di Courteney avrà finito con lei. La voglio soltanto per offrire uno spettacolo come si deve sul patibolo. La folla ama sempre veder penzolare dalla corda una ragazza. Quello che ne fate prima non mi riguarda.» «Affare fatto, allora?» chiese Koots. «L'uomo, la ragazza e i tre cavalli.» Keyser assentì. «Tremila ciascuno, o quindicimila per tutti quanti.» Furono in dieci a dividersi la fatica di trasportare il colonnello. Una squadra di quattro, che si alternavano a turni di un'ora, cronometrata con l'orologio d'oro di Keyser. La sella era in stile inglese, ma era opera di uno dei più abili sellai olandesi. La fissarono al centro dei pali, e Keyser si sedette comodamente coi piedi infilati nelle staffe, mentre due uomini per parte sollevavano i pali, appoggiandoli sulle spalle prima di mettersi in cammino. Impiegarono nove giorni per raggiungere la colonia, e gli ultimi due giorni rimasero senza viveri. Il peso era tale che le spalle degli uomini erano solcate dal segno dei pali, ma i piedi di Keyser erano quasi guariti, e la dieta forzata gli aveva ridimensionato la pancia; sembrava ringiovanito di dieci anni. Il primo dovere di Keyser era fare rapporto al governatore Paulus Pieterzoon van de Witten. Erano vecchi compagni e avevano molti segreti in comune. Van de Witten non aveva ancora quarant'anni ed era un uomo alto, dall'espressione perennemente irritata. Il padre e, prima di lui, il nonno avevano fatto parte degli Zeventien di Amsterdam: la sua ricchezza e la sua potenza erano considerevoli. Ben presto sarebbe potuto tornare in Olanda per occupare il seggio che gli spettava nel consiglio della VOC, Wilbur Smith
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purché non ci fossero ombre sulla sua carriera né sulla sua reputazione. Le attività di quel bandito inglese potevano lasciare macchie del genere sulla sua reputazione. Il colonnello Keyser descrisse con ampiezza di dettagli i crimini commessi dal giovane Courteney ai danni delle proprietà e della dignità della VOC. A poco a poco attizzò le fiamme dell'indignazione del governatore, lanciando ripetute allusioni alla responsabilità di van de Witten nella faccenda. La discussione durò alcune ore, e fu agevolata dal consumo d'ingenti quantità di gin olandese e chiaretto francese, ma alla fine van de Witten capitolò, accettando l'idea che la VOC offrisse una ricompensa di quindicimila gulden per la cattura di Louisa Leuven e James Archibald Courteney, o per la prova materiale della loro avvenuta esecuzione. L'idea di porre una taglia sulla testa dei criminali fuggiti dalla colonia era una pratica di antica data; molti dei cacciatori e dei mercanti che avevano la licenza per lasciare la colonia incrementavano i loro profitti con le taglie della VOC. Keyser era molto soddisfatto del risultato ottenuto. Significava che non era costretto a rischiare neppure un gulden del suo patrimonio, accumulato con tanta cura, per contribuire alla taglia che aveva concordato col capitano Koots. Quella sera stessa Koots andò a trovarlo nel piccolo cottage che sorgeva nel viottolo dietro il parco della Compagnia. Keyser gli anticipò quattrocento gulden, che sarebbero serviti a coprire i costi dell'approvvigionamento per la spedizione che doveva mettersi sulle tracce di Jim Courteney. Cinque giorni dopo, un piccolo gruppo di viaggiatori si riunì sulle rive del fiume Eerste, il primo che scorreva oltre i confini della colonia. Avevano raggiunto separatamente il luogo d'incontro. C'erano quattro bianchi: il capitano Koots, con gli occhi e i capelli chiari, la pelle arrossata dal sole; il sergente Oudeman, calvo, ma con un paio di folti baffi all'ingiù, braccio destro e complice di Koots; i caporali Richter e Le Riche, che andavano a caccia insieme come un paio di cani selvatici. Poi c'erano cinque soldati ottentotti, tra i quali il famigerato Goffel, che faceva da interprete, e Xhia, il boscimano che sapeva leggere le tracce. Nessuno di loro portava l'uniforme della VOC; erano vestiti con gli abiti di ruvido panno tessuto a mano e cuoio dei liberi cittadini della colonia. Il perizoma di Xhia era fatto di pelle di antilope saltante, conciata e decorata con granelli ricavati dal guscio di uova di struzzo e perline di vetro veneziano, Wilbur Smith
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usate come moneta di scambio nei commerci. Sulle spalle portava l'arco e la faretra di corteccia piena di frecce avvelenate e, alla cintola, aveva la cintura, da cui pendeva una serie di talismani e corni di antilope pieni di pozioni magiche e mediche, polveri e unguenti. Koots balzò in sella, guardando dall'alto Xhia, il boscimano. «Trova la pista, piccolo Tuono giallo, e bevi il vento.» Seguirono Xhia procedendo in fila indiana, portando ciascuno un cavallo di riserva con un basto. La pista di Courteney sarà vecchia di parecchie settimane prima che riusciamo a ritrovarla, pensò Koots, fissando la schiena nuda e la testa lanosa di Xhia che sussultava davanti al muso del suo cavallo. Ma questo cane da caccia è uno shaitan. Sarebbe capace di seguire una palla di neve nel fuoco dell'inferno. Poi si permise di assaporare il pensiero del mandato che teneva nella sacca della sella, firmato dal governatore van de Witten, e la prospettiva di quindicimila gulden in oro. Sorrise, ma il suo non era un bel sorriso. Bakkat era consapevole che si trattava soltanto di una breve tregua, e che Keyser non se li sarebbe lasciati sfuggire così facilmente. Prima o poi più prima che poi - Xhia avrebbe ripreso a seguire la loro pista. Ecco perché procedeva all'avanguardia, e il sesto giorno dopo la cattura dei cavalli di Keyser trovò il posto ideale per fare quello che aveva in mente. In quella zona, uno strato di roccia ignea nera tagliava in diagonale il fondo di una valle ampia, attraversando il letto di un fiume dal corso veloce e risalendo sul ripido versante opposto. Lo strato correva in linea retta e spiccava con chiarezza, come una strada romana pavimentata di basalto, perché non vi crescevano sopra né erba né altre forme di vegetazione. Nel punto in cui attraversava il fiume era così resistente all'erosione delle acque da formare uno sbarramento naturale. Il fiume ricadeva dalla parte opposta, formando una cascata dal rombo fragoroso che si gettava in un vortice di acque, cinquanta piedi più in basso. La roccia nera era così dura che neppure gli zoccoli coi ferri d'acciaio lasciavano il minimo graffio sulla sua superficie. «Keyser tornerà», fece presente Bakkat a Jim, quando si accovacciarono sul pavimento nero e lucente. «È un uomo ostinato: catturarti è diventata per lui una questione di orgoglio, una sfida al suo onore. Non si darà per vinto. Anche se non verrà di persona, manderà altri a seguirci, e li guiderà Wilbur Smith
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Xhia.» «Xhia impiegherà molti giorni, per non dire settimane, ad arrivare al Capo e tornare indietro», obiettò Jim. «A quel punto, ormai ci troveremo a qualche centinaio di leghe.» «Xhia è capace di seguire una pista vecchia di un anno, a meno che non sia stata ripulita con cura.» «E tu come farai a ripulire la nostra pista, Bakkat?» chiese Jim. «Abbiamo tanti cavalli», gli fece notare il boscimano, e lui annuì. «Forse troppi», insistette l'altro. Jim guardò il branco di muli e cavalli catturati. Erano una trentina. «Non ce ne servono tanti», ammise. «Quanti te ne servono?» gli chiese Bakkat. Jim rifletté. «Ho bisogno di Drumfire, Trueheart, Frost e Crow da montare, ma anche di Stag e Lemon come riserva e per portare il carico.» «Allora userò gli altri cavalli e i muli per cancellare la nostra pista. Fungeranno da diversivo per Xhia», dichiarò Bakkat. «Fammi vedere», ordinò Jim, e l'altro cominciò i preparativi. Mentre Zama abbeverava il branco al di sopra della diga di roccia nera, Louisa e Jim presero le selle catturate e la pelle delle antilopi alcine e dei rhebok abbattuti e ne ritagliarono involucri di pelle destinati a smorzare il suono prodotto dagli zoccoli dei sei cavalli che avrebbero portato con loro. Nel frattempo, Bakkat compì una ricognizione lungo il corso del ruscello, tenendosi però sul pendio, senza mai avvicinarsi alla riva. Quando tornò indietro, isolarono i sei cavalli prescelti e assicurarono agli zoccoli il rivestimento di cuoio. Non ci sarebbe voluto molto perché i ferri d'acciaio mordessero il cuoio, tagliandolo, ma del resto dovevano percorrere soltanto poche centinaia di iarde fino alla riva del fiume. Assicurarono l'equipaggiamento alla groppa dei sei cavalli, poi, quando fu tutto pronto, riunirono l'intero branco di cavalli e muli in un gruppo compatto e lo fecero passare sulla pietra nera. A metà del cammino, trattennero la cavezza dei sei cavalli scelti, lasciando proseguire gli altri, che cominciarono a brucare il pendio opposto della valle. Jim, Louisa e Zama si tolsero gli stivali, legandoli al dorso delle loro cavalcature e, a piedi nudi, le condussero lungo il sentiero di roccia nera. Bakkat li seguiva, esaminando a palmo a palmo il terreno che avevano coperto. Persino ai suoi occhi non lasciavano nessun segno. Gli involti di cuoio avevano imbottito gli zoccoli, i piedi umani nudi erano morbidi e Wilbur Smith
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flessibili, e avevano proceduto lentamente, senza aggiungere il loro peso a quello dei cavalli, cosicché gli zoccoli non avevano segnato né graffiato la roccia. Quando raggiunsero la riva del fiume, Jim disse a Zama: «Tu va' per primo. Una volta raggiunta l'acqua, i cavalli vorranno nuotare direttamente verso la riva. Il tuo compito sarà impedire loro di farlo». Rimasero a guardare con ansia, mentre Zama procedeva a guado lungo quell'arteria naturale, con l'acqua che arrivava prima alle ginocchia e poi alla cintola. Alla fine, non dovette neppure tuffarsi oltre lo sbarramento, perché le acque lo trascinarono semplicemente via. Affiorò alla superficie della pozza d'acqua venti piedi più in là e scomparve per quella che, agli osservatori, parve un'eternità. Poi la sua testa riemerse e lui sollevò un braccio per salutarli. Jim si rivolse a Louisa. «Sei pronta?» domandò, e lei sollevò il mento e annuì. Non aveva parlato, eppure lui scorse la paura nei suoi occhi. Si avviò con decisione verso la riva, ma Jim non riuscì a lasciarla andare da sola. La prese per il braccio e, una volta tanto, lei non cercò di sottrarsi al suo contatto. Si avviarono a guado finché l'acqua non arrivò all'altezza delle ginocchia. Allora si fermarono, un po' incetti, e Jim, facendosi forza per sorreggerla, le disse: «So che sai nuotare come un pesce. Ti ho vista». Lei alzò la testa per sorridergli, ma i suoi occhi erano enormi e blu, incupiti dal terrore. Il giovane lasciò la presa sul suo braccio, e lei si tuffò senza esitazione, scomparendo all'istante tra gli spruzzi e il rombo delle acque. Jim ebbe la sensazione che, con quella donna, se ne fosse andato anche il proprio cuore e rimase come paralizzato dalla paura. Infine si sporse per guardare in basso. La testa di Louisa riemerse dalla spuma delle acque. Si era infilata la cuffietta nella cintura, e i capelli si erano sciolti e le ricadevano sul viso come una cortina di seta lucente. Alzò la testa verso di lui, e Jim, incredulo, si accorse che stava ridendo. Il suono della cascata attutiva la sua voce, ma lui riuscì a leggerle le labbra: «Non aver paura. Ti prenderò al volo». Lui sbuffò di sollievo. «Che temperamento!» gridò di rimando, tornando verso la riva, dove Bakkat reggeva la cavezza dei cavalli. Li lasciò andare uno alla volta: Trueheart fu la prima, perché aveva il carattere più mite. La giumenta aveva visto Louisa tuffarsi e andò abbastanza volentieri. Arrivò ai piedi del salto con uno scroscio sonoro e, non appena riemerse, puntò Wilbur Smith
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subito verso la riva. Louisa nuotò verso la sua testa, cercando d'indirizzarla verso valle. Quando raggiunsero l'estremità inferiore della pozza, il fondo cominciò a risalire e poterono stare in piedi. Louisa fece un altro cenno a Jim per fargli capire che stavano bene. Si era già rimessa la cuffietta in testa. Jim condusse gli altri cavalli. Crow e Lemon, le due giumente, si mossero senza fare storie. I castroni Stag e Frost furono più riottosi, ma alla fine li costrinse a tuffarsi. Non appena giunsero ai piedi della cascata, Zama li raggiunse a nuoto e li sospinse verso valle, nel punto in cui Louisa stava in attesa, tenendoli immersi fino al ventre al centro del fiume. Drumfire aveva seguito con lo sguardo il salto degli altri cavalli, ma, quando venne il suo turno, decise che non voleva saperne di quella follia. Arrivato al centro della diga naturale di pietra, con le acque turbolente che rimbombavano intorno a loro, ingaggiò un duello di volontà con Jim. S'impennò e scalciò, perdendo l'equilibrio e poi ritrovandolo, indietreggiando e scuotendo la testa. Jim si aggrappò al suo collo, sbatacchiato qua e là, e snocciolò una sfilza d'insulti e di minacce in un tono di voce studiato per suonare rassicurante e affettuoso. «Bestia senza cervello, ti userò come esca per i leoni...» Alla fine riuscì a torcere la testa di Drumfire in modo da potergli saltare in groppa al volo. Una volta montato l'animale, poté controllarlo meglio, e infatti riuscì a spingerlo verso la riva, dove la corrente fece il resto. Andarono giù insieme e, durante il lungo salto, Jim si liberò con una torsione. Se Drumfire gli fosse caduto addosso, sarebbe stato schiacciato, invece il giovane riuscì ad allontanarsi e, non appena la testa dello stallone emerse in superficie, fu lesto ad afferrare una manciata di peli della criniera, guidandolo verso la zona della pozza dove c'erano Louisa e gli altri cavalli. Bakkat, però, era ancora in cima alla cascata. Rivolse a Jim un segnale con la mano, per invitarlo a scendere a valle, poi si avviò lungo lo strato di roccia nera, esaminandone la superficie per la seconda volta in cerca di qualche segno che poteva aver trascurato. Finalmente soddisfatto, raggiunse il punto in cui il resto del branco aveva attraversato, e lì mise in atto l'incantesimo per occultare le tracce e legare il nemico. Sollevò il gonnellino di cuoio e orinò, interrompendo a intervalli il getto di orina col pollice e l'indice mentre girava in cerchio. «Xhia, assassino di donne innocenti, con questo incantesimo ti sigillo le orecchie in modo che tu non possa udire il barrito degli elefanti selvaggi.» Wilbur Smith
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Scoreggiò nello sforzo di espellere lo spruzzo finale, e spiccò un balzo in aria, ridendo. «Xhia, straniero ai costumi e alle tradizioni della tua stessa tribù, con questo incantesimo sigillo le tue narici, in modo che tu non riesca a sentire neanche l'odore del tuo sterco.» Svuotata la vescica, tolse il tappo a uno dei corni di elafodo che portava infilati nella cintola, lo scrollò per farne uscire un pizzico di polvere grigia che lasciò spargere dalla brezza. «Xhia, tu che sei mio nemico fino alla morte, attutisco tutti i tuoi sensi cosicché passerai in questo punto senza intuire che le piste si sono divise.» Infine, col suo vasetto d'argilla per il fuoco, accese un ramoscello secco tratto dall'albero di tong, agitandolo al di sopra della pista. «Xhia, sozzura ed escremento innominabile, con questo fumo maschero la mia pista in modo che tu non possa seguirla.» Soltanto allora, terminato l'incantesimo, Bakkat guardò in fondo alla valle, scorgendo in lontananza Jim e gli altri che conducevano via i cavalli, sempre tenendosi al centro del ruscello che scorreva veloce. Non sarebbero usciti dall'acqua finché non avessero raggiunto il luogo che aveva scelto per loro, quasi una lega più a valle. Bakkat li osservò scomparire oltre la curva del fiume. I cavalli e i muli che intendevano lasciarsi dietro erano già disseminati in fondo alla valle, dove pascolavano in silenzio. Bakkat li seguì, scelse uno dei cavalli e salì in groppa. Senza fretta e senza allarmare il branco, lo radunò e prese ad allontanarlo dal fiume, superando il crinale che divideva la valle da quella confinante, dalle pareti assai ripide. Proseguì per cinque giorni, spostandosi in un andirivieni ininterrotto attraverso il terreno montagnoso, senza fare il minimo sforzo per nascondere la pista. La sera del quinto giorno si legò ai piedi gli zoccoli del rhebok ucciso, rivolti all'indietro. Poi abbandonò semplicemente il branco di cavalli e muli e si allontanò, caracollando e imitando l'andatura e la lunghezza del passo del rhebok vivo. Non appena fu lontano, gettò un altro incantesimo per accecare Xhia, nell'eventualità - comunque improbabile - che il nemico riuscisse a seguire la pista fino a quel punto. Ormai era sicuro che l'altro non sarebbe arrivato a scoprire in quale punto il gruppo si era separato, avrebbe seguito le tracce più numerose e non mascherate del branco e, una volta imboccata quella via, si sarebbe trovato in un vicolo cieco. Adesso poteva descrivere un cerchio per tornare verso la valle fluviale dove si era separato da Jim. Quando la raggiunse, non fu sorpreso nel Wilbur Smith
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constatare che il ragazzo aveva seguito con assoluta precisione le sue istruzioni, lasciando il fiume sul tratto roccioso della riva, scelto da Bakkat, per tornare a est. Bakkat lo seguì; cancellando con cura le lievi tracce lasciate dal gruppo con una scopa, fatta con un ramo del magico albero di tong. Quando fu ben lontano dal fiume, gettò un terzo incantesimo per confondere qualunque inseguitore e poi proseguì il cammino a un passo più veloce. Ormai aveva quasi dieci giorni di distacco da Jim, ma procedeva così in fretta che, sebbene fosse a piedi, li raggiunse quattro giorni dopo. Fiutò il fuoco del loro bivacco molto tempo prima di raggiungerlo, e fu lieto di scoprire che, una volta consumato il pasto serale, Jim aveva spento il fuoco con uno spesso strato di sabbia, prima di spostarsi per trascorrere la notte in un altro punto, più protetto. Annuì, approvando quella precauzione. Soltanto un idiota dorme vicino al fuoco, quando sa di poter essere seguito. Avvicinandosi di soppiatto al campo, scoprì che Zama era di guardia. Bakkat lo aggirò senza fatica e, quando Jim si svegliò, alle prime luci dell'alba, il boscimano era seduto vicino a lui. «Somoya, quando russi fai vergognare i leoni», disse, a mo' di saluto. Ripresosi dallo stupore, Jim lo abbracciò. «Giuro sul Kulu Kulu, Bakkat, che dall'ultima volta che ti ho visto sei diventato ancora più piccolo. Fra poco potrò portarti in tasca.» In sella a Frost, Bakkat li guidò direttamente verso la parete di roccia che sbarrava la testa della valle quasi fosse una possente fortezza. Jim spinse il cappello indietro, levando lo sguardo verso quel muro di pietra. «Da qui non si passa», mormorò, scuotendo la testa. Sopra di loro, gli avvoltoi si libravano davanti alla parete di roccia con le ali spiegate, andando a posarsi sulle cenge che ospitavano i loro nidi voluminosi, fatti di stecchi e ramoscelli. «Bakkat troverà la strada», lo contraddisse Louisa. Aveva già riposto tutta la sua fiducia nel piccolo boscimano. Non condividevano una sola parola di una sola lingua, ma di sera, presso il fuoco da campo, sedevano spesso vicini, comunicando coi gesti e con le espressioni del viso, ridendo di scherzi che sembravano capire perfettamente. Jim si chiedeva come poteva essere geloso di Bakkat, eppure Louisa, con lui, non era a suo agio come lo era col boscimano. Wilbur Smith
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Si arrampicarono, puntando direttamente verso la parete compatta di roccia. Louisa rimase indietro, cavalcando di fianco a Zama, che teneva serrato il branco di cavalli catturati alla retroguardia della colonna olandese. Durante i lunghi e faticosi giorni della fuga da Keyser, mentre si preoccupava di sorvegliare il sentiero alle loro spalle e di tenere a bada gli inseguitori, Zama era stato per Louisa non soltanto colui che la proteggeva, ma anche un buon compagno. Così anche tra loro si era stabilito un bel rapporto. Zama le stava insegnando il linguaggio della foresta e lei, che aveva orecchio per le lingue, apprendeva in fretta. Jim cominciava a capire che Louisa possedeva la qualità di attirare a sé gli altri. Tentò di definirla meglio, riandando col pensiero al loro primo incontro sul ponte della nave-prigione. Per lui, l'attrazione nei confronti della ragazza era stata immediata, insopprimibile. Tentò di esprimerla a parole. Era lei che emanava un senso di compassione e di bontà? Non ne era certo. Sembrava piuttosto che soltanto con lui Louisa si nascondesse dietro un'armatura - quella che Jim definiva «aculei da istrice» -, mentre con gli altri era aperta e cordiale. Era un fatto sconcertante, e talvolta lo amareggiava. Jim voleva che cavalcasse accanto a lui, non a Zama. Louisa dovette sentire lo sguardo di Jim su di sé, perché voltò la testa per fissarlo. Anche a quella distanza, i suoi occhi erano di un azzurro straordinario. Gli sorrise, attraverso il sottile velo di polvere sollevato dagli zoccoli dei cavalli. Bakkat si fermò a metà del ghiaione. «Aspettami qui, Somoya», gli disse. «Dove vai, vecchio mio?» «Vado a parlare ai miei padri e a portare loro un dono.» «Che dono?» «Qualcosa da mangiare o da bere, e qualcosa di grazioso.» Bakkat aprì la piccola sacca che portava alla cintola e tirò fuori un bastoncino di chagga di eland lungo metà del suo pollice, e un'ala secca di nettarina. Le piume iridescenti del volatile scintillavano come se fossero intarsiate di smeraldi e rubini. Smontò, consegnando a Jim le redini di Frost. «Devo chiedere il permesso di entrare nei luoghi sacri», spiegò, scomparendo tra i cespugli di protea e di sugar bush. Zama e Louisa si avvicinarono, togliendo la sella ai cavalli e fermandosi a riposare. Passò un po' di tempo. Stavano tutti sonnecchiando all'ombra delle piante, quando udirono il suono di una voce umana: era affievolita dalla distanza, ma gli echi riverberavano sommessi lungo la parete di roccia. Louisa si alzò, Wilbur Smith
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sollevando la testa per guardare la sommità del pendio. «Ve l'avevo detto che Bakkat conosceva la via», esclamò. Sopra di loro, sulla sommità della roccia, il boscimano stava facendo segno agli altri di seguirlo. Sellarono in fretta i cavalli, e salirono per andargli incontro. «Guardate! Oh, guardate!» Louisa indicò la fenditura verticale che si apriva nella parete di roccia dalla base della parete fino alla sommità. «È come una porta, è l'entrata di un castello.» Bakkat prese dalle mani di Jim le redini di Frost, salì in groppa e guidò il cavallo nel passaggio buio. Smontarono per condurre i cavalli a mano. La fenditura era così stretta che furono costretti ad avanzare in fila per uno, con le staffe di ferro che raschiavano quasi le pareti di roccia liscia e lucente: sembravano protendersi verso l'alto fino a raggiungere la sottile striscia di cielo azzurro, così remota da sembrare la lama di uno stiletto. Zama sospinse il branco di cavalli nella fenditura, e il rumore dei loro zoccoli fu subito attutito dal terreno di sabbia bianca. Le loro voci suscitavano echi bizzarri in quel passaggio che serpeggiava, tortuoso, nelle viscere della roccia. «Oh, guardate! Guardate!» Louisa lanciò grida entusiastiche, indicando i dipinti che coprivano le pareti fin all'altezza dei loro occhi. «E questi chi li ha fatti? Di sicuro non sono opera dell'uomo, ma delle fate.» I dipinti raffiguravano uomini e animali, branchi di antilopi che galoppavano sfrenati sulla pietra liscia, e ometti dall'aria fragile che li inseguivano con le frecce incoccate, pronti a lanciarle. C'erano branchi di giraffe, chiazzate di ocra e color crema, coi lunghi colli sinuosi intrecciati come serpenti. C'erano rinoceronti scuri e minacciosi dal corno più lungo dei piccoli cacciatori umani che li circondavano e scoccavano le frecce contro di loro, cosicché il sangue scorreva dalle ferite, formando pozze sotto i loro piedi. C'erano elefanti, uccelli e serpenti, e tutta la profusione di animali del creato. «Chi li ha fatti, Bakkat?» chiese di nuovo Louisa. Bakkat comprese il senso della domanda, anche se non conosceva la lingua che lei aveva usato. Si girò sulla groppa di Frost, rispondendole con un fiotto di parole schioccanti che somigliavano allo spezzarsi di un fascio di ramoscelli. «Che cosa dice?» Louisa si rivolse a Jim. «Sono stati dipinti dalla sua tribù, dai suoi padri e antenati. Sono i sogni di caccia della sua gente. Immagini che esaltano il coraggio e la bellezza della preda e l'astuzia dei cacciatori.» «E come una cattedrale.» La voce di Louisa si era abbassata a un Wilbur Smith
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mormorio di rispetto. «E infatti lo è», replicò Jim. «È uno dei luoghi sacri dei san.» I dipinti ricoprivano le pareti laterali. Alcuni dovevano essere molto antichi, perché i pigmenti apparivano sbiaditi e screpolati benché altri artisti li avessero poi ricoperti, e le immagini spettrali di ere ormai lontane si mescolassero così da formare un arazzo infinito. Alla fine rimasero in silenzio, perché in quel luogo il suono delle voci umane sembrava sacrilego. Proseguirono così verso la stretta lama verticale di luce in fondo al passaggio. Quando riemersero dalla fenditura, il sole li abbagliò. Si ritrovarono sulla cima del mondo, con una vista a volo d'uccello su una distesa di terra così ampia da lasciarli attoniti. Dinanzi ai loro occhi si stendevano grandi pianure, distese sconfinate color ocra, solcate da venature verdi là dove scorrevano i fiumi, e da chiazze più scure di foresta. Oltre le pianure, quasi a perdita d'occhio, sorgeva un'infinità di colline, schierate in ranghi serrati, come le file di denti di un enorme squalo, che sbiadivano in lontananza, diventando viola e blu, sino a fondersi con l'azzurro del cielo africano. Louisa non aveva mai immaginato un cielo così alto o un territorio così vasto, e lo contemplò in silenzio, con un'espressione rapita, finché Jim non riuscì più a trattenersi. Quella era la sua terra, e voleva che Louisa la condividesse con lui e l'amasse così come lui l'amava. «Non è uno spettacolo grandioso?» le chiese. «Se non avessi mai creduto in Dio, adesso ci crederei», rispose lei in un sussurro. Il giorno dopo raggiunsero il fiume Gariep, nel punto in cui esso usciva dalle montagne. C'era voluto un tempo lunghissimo perché le sue acque si aprissero quel solco tra le rocce. Il corso del fiume era ampio, e le acque che defluivano dal disgelo delle nevi avevano un colore verde mela. Scendendo dalle montagne, l'aria in quella regione era mite e carezzevole. Le sponde del Gariep erano fiancheggiate da folti gruppi di acacia karroo e salici selvatici, tappezzate di fiori primaverili. Gli uccelli tessitori dal piumaggio color zafferano stridevano, svolazzando, mentre intrecciavano i loro nidi a cesta tra i rami ricadenti dei salici. Cinque maschi di kudu, che si stavano abbeverando ai margini del corso d'acqua, sollevarono la testa dalle corna a spirale per fissare attoniti la carovana di Wilbur Smith
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cavalli che scendeva dalla riva opposta verso il guado. Poi si rifugiarono tra le piante di acacia karroo, col muso che grondava acqua. Jim fu il primo a traversare il fiume e lanciò un urlo di trionfo, esaminando i solchi profondi scavati dai cerchioni d'acciaio delle ruote sul terreno soffice della riva opposta. «I carri!» annunciò. «Sono passati da qui meno di un mese fa.» Proseguirono il viaggio a un'andatura più sostenuta. Jim era quasi incapace di trattenere l'impazienza. Da una distanza di molte miglia, scorse il kopje isolato che sorgeva dalla pianura di fronte a loro. Alla base della collina c'era una foresta di alberi di acacia delle giraffe, poi le pendici coniche s'innalzavano ripide verso un bastione di roccia grigia che serviva da piedistallo per la bizzarra scultura naturale incisa dal vento che la sormontava. Aveva la forma di un babbuino maschio accovacciato, con la sommità del cranio a cupola e l'arcata sopraccigliare bassa e sporgente, mentre il muso allungato puntava verso il nord, lo sguardo fisso oltre la pianura color manto di leone sulla quale i branchi di antilopi saltanti si spostavano, rapidi come sbuffi di fumo color cannella. Jim sfilò i piedi dalle staffe per salire in piedi sulla groppa di Drumfire. Attraverso il cannocchiale scrutò la base del kopje e rise di gioia, scorgendo un lampo bianco al sole, come la vela di una nave vista da lontano. «I carri! Ci stanno aspettando.» Ricadde sulla sella e, non appena il suo didietro fu di nuovo a contatto col cuoio, Drumfire spiccò un balzo in avanti e lo portò via al galoppo. Tom Courteney stava macellando la cacciagione che aveva ucciso quella mattina. Sotto la tenda del carro, uno dei servitori girava la manovella, mentre un altro inseriva le strisce di carne fresca nell'apparecchio per confezionare le salsicce. Sarah controllava il beccuccio dal quale usciva l'impasto, riempiendo i lunghi tubi ricavati dalle interiora di maiale. Tom si raddrizzò per scrutare il veld, e scorse in lontananza la nube di polvere sollevata dagli zoccoli. Togliendosi il cappello, lo usò per schermarsi gli occhi dal crudele riverbero bianco. «Un cavaliere!» gridò a Sarah. «Arriva veloce.» Lei alzò la testa, continuando però a far scorrere tra le dita le lunghe filze di salsicce. «Chi è?» domandò. Naturalmente, con l'istinto della madre, sapeva già chi era, ma non voleva attirare la malasorte Wilbur Smith
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pronunciando il nome del figlio finché non avesse potuto vederne il viso. «È lui», gridò Tom. «Se non lo è, mi taglio la barba. Quel piccolo demonio dev'essere riuscito a far perdere le sue tracce a Keyser.» Erano settimane che aspettavano, preoccupandosi e cercando di farsi animo a vicenda, continuando a ripetersi che Jim era al sicuro, mentre la speranza si affievoliva col passare dei giorni. Il sollievo e la gioia che provarono erano sconfinati. Dalla rastrelliera, addossata all'asse di fondo del carro, Tom prese le briglie e corse verso uno dei cavalli legati all'ombra. Facendogli scivolare il morso tra le mascelle, serrò la guardia, poi, disdegnando la sella, montò a pelo e partì al galoppo per andare incontro al figlio. Jim lo vide arrivare e si alzò sulle staffe, sventolando il cappello e lanciando grida e urrà come un pazzo evaso dal manicomio. Si corsero incontro e, quando furono vicinissimi, smontarono in corsa, lanciandosi l'uno nelle braccia dell'altro con l'impeto della corsa al galoppo. Si abbracciarono, battendosi pacche sulle spalle, e danzarono in circolo, cercando di farsi lo sgambetto a vicenda. Tom arruffò i lunghi capelli di Jim e glieli tirò, torcendogli le orecchie sino a fargli male. «Dovrei frustarti a morte, o quasi, piccolo furfante», disse in tono di rimprovero. «Hai fatto vivere a tua madre e a me i giorni peggiori della nostra vita.» Tenendolo davanti a sé a braccia tese, lo fissò con rabbia e insieme con affetto. «Non so proprio perché ci siamo preoccupati. Avremmo dovuto lasciare che Keyser ti catturasse, e tanti saluti.» Poi si sentì venir meno la voce e abbracciò di nuovo Jim. «Vieni, ragazzo! Tua madre ti aspetta. Spero che te le canti chiare.» L'incontro di Jim con Sarah fu meno scomposto, ma, se possibile, ancora più affettuoso di quello col padre. «Eravamo così in pena per te. Ringrazio Dio con tutto il cuore per la tua salvezza.» Subito dopo, il primo istinto della madre fu di sfamarlo. Tra un boccone e l'altro di rotolo alla marmellata e torta al latte, lui fornì ai genitori una versione colorita ma purgata delle sue imprese, a partire dall'ultima volta che lo avevano visto. Non fece mai cenno a Louisa, e loro notarono quell'omissione. Alla fine, però, Sarah non riuscì più a dominarsi e, sovrastandolo, si piantò i pugni sui fianchi. «Tutto questo va molto bene, James Archibald Courteney, ma che mi dici della ragazza?» Jim rischiò di strozzarsi con la torta, poi assunse un'espressione Wilbur Smith
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imbarazzata, non trovando le parole. «Vuota il sacco, ragazzo!» disse Tom, dando manforte alla moglie. «Che ci racconti della ragazza, o donna, o quello che è?» «La conoscerete. Sta per arrivare», rispose Jim a bassa voce, indicando il convoglio che stava avanzando verso di loro attraverso la pianura, circondato da una nube di polvere. Tom e Sarah si alzarono all'unisono e guardarono la carovana che si avvicinava. Tom fu il primo a parlare. «Non vedo nessuna ragazza», disse in tono sicuro. «Zama e Bakkat, sì, ma la ragazza non c'è.» Jim si alzò di scatto dal tavolo appoggiato sui cavalletti per raggiungerli. «Eppure ci dev'essere...» Poi si accorse che il padre aveva ragione e la sua voce si spense. Louisa non era con loro. Il ragazzo corse incontro a Zama e Bakkat non appena entrarono nel campo. «Dov'è Welanga? Cosa ne avete fatto?» Zama e Bakkat si scambiarono un'occhiata, ciascuno dei due aspettandosi che parlasse l'altro. In momenti come quello, Bakkat preferiva restare in silenzio. Zama alzò le spalle e si assunse la responsabilità di replicare a Jim. «Non vuole venire», disse semplicemente. «Perché no?» gridò Jim. «Ha paura.» «Paura?» Jim era perplesso. «Di che cosa deve avere paura?» Zama non rispose, lanciando un'occhiata significativa a Tom e Sarah. «Ha scelto un bel momento per cominciare a fare le bizze.» Il ragazzo si avviò a lunghe falcate verso il punto in cui Drumfire si stava godendo una bella sacchetta di avena. «Vado a prenderla io.» «No, Jim!» ribatté Sarah a bassa voce, ma in un tono che non ammetteva repliche. Lui fissò la madre. «Sellami Sugarbush», gli ordinò. «Ci vado io.» Dall'alto della sella, guardò Jim. «Come si chiama?» «Louisa», rispose lui. «Louisa Leuven. Parla bene l'inglese.» Sarah annuì. «Può darsi che resti lontana per qualche tempo», disse al marito. «Non venire a cercarmi, capito?» Conosceva Tom fin da quand'era bambina e lo amava più di quanto potessero esprimere le parole, ma sapeva che qualche volta aveva il tatto di un bufalo ferito. Diede uno scrollone alle redini e Sugarbush uscì dal campo al piccolo galoppo.
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Avvistò la ragazza a mezzo miglio, seduta all'ombra di un'acacia delle giraffe, su uno dei rami secchi caduti sul terreno, con Trueheart legata accanto a lei. Quando la vide avvicinarsi a cavallo, Louisa si alzò. In quella pianura sconfinata, era una figura minuscola e sperduta. Sarah la raggiunse, poi tirò le redini di Sugarbush. «Siete voi Louisa? Louisa Leuven?» «Sì, Mistress Courteney.» Louisa si tolse la cuffietta e i capelli le ricaddero sulle spalle. Sarah batté le palpebre, fissando quella massa dorata. Poi la ragazza accennò una riverenza e attese che lei parlasse ancora. «Come fate a sapere chi sono?» domandò allora Sarah. «Vi somiglia molto, signora», spiegò Louisa. «Inoltre mi ha parlato di voi e di suo padre.» La voce era sommessa, dolce, e sul punto d'incrinarsi per il pianto. Sarah fu colta alla sprovvista. Non era affatto quello che si aspettava. Ma d'altronde che cosa si era aspettata da una forzata evasa? Un atteggiamento impudente, di sfida? Di stanco cinismo? Un'aria di corruzione e dissolutezza? Guardando quegli occhi azzurri, non riuscì a trovare neanche l'ombra del vizio. «Siete molto giovane, Louisa.» «Sì, signora.» La sua voce si spezzò. «Mi dispiace tanto. Non intendevo cacciare Jim nei guai. Non intendevo portarlo lontano da voi.» Piangeva in silenzio, lacrime lente che scintillavano al sole come diamanti. «Non abbiamo fatto niente di male insieme, ve lo assicuro.» Sarah smontò da cavallo per avvicinarsi a lei. Le passò un braccio intorno alle spalle e Louisa le si aggrappò, cercando di non abbandonarsi ai singhiozzi. Sarah sapeva che stava facendo una cosa pericolosa, ma il suo istinto materno era forte, e quella ragazza era così giovane... L'aura d'innocenza che la circondava era quasi palpabile, e Sarah si sentiva attratta da lei in modo irresistibile. «Vieni, bambina mia.» La guidò con delicatezza verso l'ombra dell'albero e sedettero a fianco a fianco sul ramo secco. Parlarono mentre il sole raggiungeva lo zenit e poi cominciava la lenta discesa nel cielo. Da principio le domande di Sarah furono indagatrici, e lei si ritrovò a lottare contro la propria inclinazione a lasciar cadere le difese e ammettere quella sconosciuta nel proprio rifugio interiore, nella sede della fiducia. Per amara esperienza, tuttavia, sapeva che spesso il diavolo nascondeva la sua vera natura dietro un'apparenza affascinante. Wilbur Smith
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Le risposte di Louisa furono aperte, istintive, oneste in modo quasi sconcertante. Non evitava mai lo sguardo penetrante di Sarah. La sua ansia di compiacerla era quasi commovente, e Sarah sentì dissolversi le sue riserve. Alla fine, le prese la mano. «Perché mi racconti tutto questo, Louisa?» le domandò. «Perché Jim ha rischiato la vita per salvarmi, e voi siete sua madre. Vi devo almeno questo.» Louisa si sentì salire le lacrime agli occhi, e tacque cercando di ritrovare il controllo. Poi riprese: «Lo so che cosa state pensando, Mistress Courteney. Vi domandate come mai ero a bordo di una nave che trasportava forzate. Volete sapere di quale delitto mi sono macchiata». Sarah scosse la testa, non potendo fidarsi della voce per negare quell'asserzione. Era naturale che desiderasse conoscere la risposta. Il suo unico figlio era innamorato di quella ragazza, e lei doveva sapere. «Ve lo dirò», disse Louisa. «Non l'ho detto a nessun altro, tranne Jim, ma ora lo dirò a voi.» E così fece. Alla fine, Sarah piangeva con lei. «È tardi», mormorò poi. Osservando il sole nel cielo, si alzò. «Vieni, Louisa, ora andiamo a casa.» Accorgendosi che la moglie aveva pianto, Tom Courteney rimase stupito. Eppure Sarah aveva gli occhi rossi e gonfi. Non riusciva neanche a ricordare l'ultima volta che era successo, perché non era facile alle lacrime. Non smontò di sella e non tentò neppure di presentargli la ragazza pallida che l'aveva accompagnata al campo. «Dovremo restare sole per un po', prima che Louisa sia pronta a conoscerti», gli disse in tono fermo, e la ragazza rimase a testa bassa, distogliendo lo sguardo, mentre proseguivano verso l'ultimo carro del convoglio. Le due donne sparirono dietro la tenda che chiudeva il retro del carro, e Sarah chiamò i servitori per farsi portare il semicupio di rame e alcuni secchi di acqua calda dal fuoco della cucina. La misteriosa cassa che Sarah aveva ordinato di caricare sul carro, e che avevano portato con sé fin da High Weald, conteneva tutto ciò che una ragazza poteva desiderare. I due uomini erano seduti vicino al fuoco sulle sedie da campo riempie, con lo schienale e la seduta confezionati con le strisce di cuoio grezzo intrecciate che davano il nome alla sedia. Stavano bevendo un caffè, e Tom l'aveva corretto con una dose generosa di gin olandese. Erano ancora Wilbur Smith
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impegnati a discutere tutto ciò che era accaduto alla famiglia dopo il loro ultimo incontro e a fare piani su come proseguire. Evitarono accortamente l'argomento di Louisa e il modo in cui la sua presenza poteva inserirsi in quei piani. L'unico momento in cui Tom sfiorò quel tema fu quando disse: «Quella è una faccenda tra donne. Dovremo lasciar decidere a tua madre». Era calata la notte, e sulla pianura gli sciacalli gemevano e ululavano. «Ma che cosa combina tua madre?» si lagnò Tom. «L'ora di cena è passata da un pezzo, e ho fame.» Come se lo avesse sentito, Sarah avanzò verso di loro dall'ultimo carro, reggendo una lanterna e tenendo per mano Louisa. Quando entrarono nel cerchio di luce del fuoco, i due fissarono sconcertati la ragazza. Jim era altrettanto stupito del padre. Sarah le aveva lavato i capelli col sapone alla lavanda importato dall'Inghilterra, asciugandoli e spazzolandoli prima di pareggiare le punte spezzate e legarli con un nastro di raso. Adesso le scendevano sulla schiena come un'onda lucente. La camicetta aveva una casta abbottonatura fino al collo e le maniche erano lunghe fino al polso. La gonna ampia lasciava appena intravedere le caviglie, e le calze bianche nascondevano le lievi cicatrici lasciate dai ceppi. Il riverbero delle fiamme metteva in risalto la levigata perfezione della pelle vellutata e il taglio degli occhi grandi. Tom la fissò, e Sarah prevenne qualsiasi commento spiritoso da parte sua, dicendo: «Questa è l'amica di Jim, Louisa Leuven. Forse resterà con noi per qualche tempo». Era una frase palesemente riduttiva e lei lo sapeva bene. «Louisa, questo è mio marito, Mr Thomas Courteney.» La ragazza fece una delle sue riverenze aggraziate. «È un vero piacere, Louisa», s'inchinò Tom di rimando. Sarah sorrise. Era da un pezzo che non lo vedeva fare un inchino... Suo marito non era mai stato un damerino. Come vedi, Tom Courteney, invece dell'avanzo di galera che ti aspettavi, ti offro un dorato narciso olandese, pensò, compiaciuta. Poi, lanciando un'occhiata al figlio, notò la sua espressione. Be', non ci sono dubbi neppure sulla posizione di Jim. A quanto pare, Louisa è stata adottata all'unanimità dal clan dei Courteney. Più tardi, quella sera, Sarah e Tom si coricarono in camicia sotto le coperte, perché anche laggiù sulle pianure le notti erano ancora gelide. Da vent'anni, ormai, dormivano come due cucchiai in un cassetto, col corpo dell'uno adattato alla curva dell'altro, cambiando posto se uno dei due si Wilbur Smith
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girava, ma senza neanche svegliarsi o perdere il contatto. Quella notte rimasero in silenzio, un silenzio carico di tensione, perché nessuno dei due voleva essere il primo a parlare. Infine Tom cedette. «È piuttosto graziosa», si azzardò a dire. «Già, proprio così», confermò Sarah. «Potresti anche spingerti a dire che non è un avanzo di galera.» «Non l'ho mai detto», insorse Tom, indignato, mettendosi a sedere, ma lei lo costrinse a stendersi di nuovo, annidandosi contro la sporgenza calda del ventre di lui. «Ebbene, se l'ho detto, ora lo ritiro.» Lei sapeva quanto gli costasse ammettere che si era sbagliato, e si sentì scaldare dall'affetto per lui. «Le ho parlato», spiegò. «È una brava ragazza.» «Se lo dici tu, va tutto bene.» Per lui l'argomento era chiuso. Cominciarono a scivolare nel sonno. «Ti amo, Tom Courteney», mormorò lei, insonnolita. «Ti amo, Sarah Courteney», rispose lui. «Il giovane Jim sarà un ragazzo fortunato, se lei lo renderà felice la metà di quanto tu hai reso me.» Di solito si mostrava sprezzante verso quello che definiva romanticume. Quella era una dichiarazione davvero insolita, per lui. «Ehi, Tom Courteney! Qualche volta riesci ancora a sorprendermi», sussurrò Sarah di rimando. Prima dell'alba erano già tutti in piedi. Louisa uscì dal carro situato accanto a quello di Tom e Sarah. Era stata Sarah a scegliere per lei quella sistemazione, isolando Jim sul carro più lontano. Se ci fosse stata qualche manovra sospetta durante la notte, lei avrebbe sentito fino all'ultimo sussurro. Povera bambina... Ha dovuto ascoltare tutta la notte il mio Tom che russava, pensò con un sorriso. Le precauzioni si erano rivelate superflue. Le uniche manifestazioni vocali erano state quelle di Tom e degli sciacalli. Dal carro di Louisa non si era sentito neanche un fruscio. Quando Louisa vide Sarah già al lavoro vicino al fuoco della cucina, corse ad aiutarla a preparare la prima colazione, e ben presto le due chiacchieravano come amiche. Mentre Louisa sistemava sulla griglia le file di salsicce che sputacchiavano e sibilavano, Sarah versò la miscela di farina sulla piastra di ferro e controllò le frittelle che assumevano un bel colorito bruno. Wilbur Smith
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Tom e Jim erano già al lavoro per controllare i carri che Tom aveva portato fin lì da High Weald. Erano veicoli possenti, costruiti secondo un disegno che veniva modificato di continuo per adattarlo alle dure condizioni di vita dell'Africa. Viaggiavano su quattro ruote, di cui la coppia anteriore serviva per modificare la direzione. L'asse anteriore che faceva da perno era collegato al disselboom, il lungo, robusto assale centrale. L'equipaggio formato da dodici buoi era aggiogato a coppie con un semplice sistema di gioghi, perni e funi di cuoio grezzo. La cinghia posteriore, detta trek-tow, era assicurata alla parte anteriore del disselboom, e le ruote posteriori, che svolgevano la funzione motrice, avevano un diametro molto superiore alla coppia frontale. Il corpo del veicolo era spazioso e capace, lungo diciotto piedi e largo quattro. Nella parte anteriore le sponde di legno erano alte due piedi, e salivano a tre nella parte posteriore. Ai lati del corpo centrale erano fissati rivetti di ferro per trattenere i rami arcuati di greenwood, che sorreggevano la tela della copertura. L'interno era alto circa cinque piedi, per cui un uomo alto era costretto a stare curvo. La tela della tenda era composta di due strati. Un robusto strato esterno di tela da vela la rendeva impermeabile, o almeno impediva che l'acqua piovana entrasse in gran quantità, mentre una stuoia di ruvida fibra vegetale, ricavata dal guscio delle noci di cocco e intrecciata, isolava l'interno dal calore del sole. Le lunghe tende da vela sul davanti e sul retro erano chiamate rispettivamente foreclap e afterclap. Il posto del conducente era una grande cassapanca che si estendeva per tutta l'ampiezza del corpo del carro, e sul retro ce n'era un'altra simile. Si chiamavano forechest e afterchest. All'esterno, lungo i fianchi del carro e sotto le assi del fondo, c'erano file di ganci di ferro ai quali si appendevano pentole e padelle, utensili e sacchi di tela, barilotti di polvere e altri oggetti pesanti. All'interno, un'altra fila di ganci sorreggeva le tasche laterali di tela, di forma quadrata, nelle quali si riponevano vestiti di ricambio, pettini, spazzole, sapone e salviette, tabacco e pipe, pistole e coltelli, e tutto ciò che poteva servire d'urgenza. C'erano anche caviglie regolabili che sorreggevano il cardell, un letto comodo e spazioso sul quale dormiva il viaggiatore. Per mezzo delle caviglie, il letto poteva essere sollevato o abbassato per fare posto alle sacche, alle scatole, alle casse e ai barilotti che venivano sistemati al di sotto. Come le sedie da campo, anche il letto era sostenuto da riempie di cuoio grezzo, intrecciate come le corde di Wilbur Smith
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minugia delle racchette usate per il gioco del tennis praticato dai membri della famiglia reale. Tom aveva portato con sé quattro di quei veicoli enormi, insieme coi buoi per trainarli. Ogni veicolo richiedeva un guidatore esperto e un voorloper, un ragazzo che conducesse la pariglia di buoi di testa per mezzo di una cavezza in pelle di kudu passata intorno alla base delle corna. Tutti e quattro i carri erano carichi fino all'orlo e, dopo colazione, Sarah e Louisa furono convocate per collaborare all'inventario del contenuto. A quello scopo era necessario scaricare i carri, e controllare tutte le merci. Tom, da vecchio capitano di mare, aveva steso un manifesto di carico e Jim doveva sapere esattamente dov'era riposto ogni articolo indicato nella lista. Sarebbe stata una fatica inutile e frustrante doversi fermare nel bel mezzo del deserto per scaricare e frugare in tutti e quattro i carri per trovare un acciarino, oppure i ferri da cavallo o una matassa di filo da velaio. Persino Jim rimase stupito da tutto quello che il padre aveva preparato. «Ragazzo mio, questa è la tua eredità, e non ne avrai altra, quindi usala con saggezza.» L'enorme cassa di yellow-wood che Sarah aveva preparato per Louisa era stata collocata sul davanti del carro che le avrebbe fatto da casa per i mesi - e forse per gli anni - a venire. Quella cassa conteneva pettini e spazzole, aghi e fili per cucire, un guardaroba completo di abiti e pezze di stoffa per confezionarne altri, guanti e cuffie per proteggere dal sole la pelle delicata, forbici e lime per le unghie, sapone profumato inglese e medicine. C'era un grosso libro di ricette e prescrizioni scritte di suo pugno, un patrimonio incalcolabile di conoscenze empiriche di prima mano, con indicazioni per cucinare di tutto, dalla proboscide di elefante ai funghi selvatici, ma anche per preparare il sapone e conciare il cuoio. C'erano inoltre liste di erbe selvatiche dai poteri medicinali e piante e tuberi commestibili, cure per colpi di sole e mal di stomaco e i problemi di dentizione dei neonati. Poi c'era una piccola biblioteca di altri libri, tra i quali un lessico medico pubblicato a Londra e un almanacco che partiva dall'anno 1731, la Bibbia, inchiostro, penne e carta da lettere, una scatola di acquerelli e pennelli, risme di carta da disegno di prima qualità, ferri e lana per lavorare a maglia, un rotolo di cuoio morbido conciato dal quale ricavare la tomaia delle calzature, mentre le suole si dovevano ritagliare dalla pelle di bufalo grezza. Poi c'erano lenzuola, coperte e guanciali Wilbur Smith
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imbottiti di piume d'oca, scialli e calze lavorate a maglia, uno splendido kaross in pelliccia di sciacallo, un mantello lungo di montone e una cappa impermeabile di tela cerata col cappuccio. E tutto ciò non rappresentava che metà del contenuto. La cassa di Tom era molto più piccola. Conteneva tutti i suoi vestiti vecchi e logori, il rasoio e la coramella, i suoi coltelli da caccia e per scuoiare gli animali, lenze e ami, una scatola di stagno con la pietra focaia e l'acciarino, una lente d'ingrandimento, un cannocchiale di riserva e altri articoli che non avrebbe mai pensato di doversi portare appresso. Riflettevano l'ansia della madre per il suo benessere, e comprendevano un lungo mantello impermeabile di tela cerata e un cappello a tesa larga dello stesso materiale, sciarpe, guanti, fazzoletti e calze di lana, una dozzina di bottiglie di sciroppo per la tosse a base di estratto di lattuga e un'altra dozzina del rimedio sovrano del dottor Chamberlain contro la diarrea. Quando arrivarono alla lista di provviste generali, temettero di non vederne mai la fine. In cima all'elenco c'erano cassette di caffè da ventotto libbre ciascuna, per un peso complessivo di seicento libbre, più trecento libbre di zucchero, una dotazione che scatenò l'entusiasmo di Jim. Poi c'erano duecento libbre di sale per conservare la cacciagione, dieci libbre di pepe, una grande cassetta di polvere di curry, riso a sacchetti, farina di grano e di mais, sacchetti di spezie e flaconi di essenze aromatiche per stufati e torte, barattoli di marmellata e vasetti di sottaceti che provenivano dalle cucine di High Weald. Dai ganci all'interno dei carri, pendevano formaggi e prosciutti. C'erano zucche e pannocchie di mais seccate al sole, pacchetti e scatole di semi di ortaggi da piantare ovunque si accampassero abbastanza a lungo da coltivarli e ricavarne un raccolto. Per cucinare e mangiare c'erano pentoloni a treppiede, pentole per cuocere, stufare e friggere, casseruole, graticole e bricchi, secchi per l'acqua, piatti e bicchieri, forchette, cucchiai e mestoli per la minestra. Ogni carro era equipaggiato con fagies, ovvero botti per l'acqua da cinquanta galloni, e poi c'erano borracce e bottiglie per l'acqua di tipo militare, da portare in sella al cavallo. Non mancavano cinquanta libbre di sapone giallo e, una volta consumato quello, Jim avrebbe potuto prepararne dell'altro con grasso d'ippopotamo e cenere di legna. Per la manutenzione dei carri c'erano due barili di pece, da mescolare con grasso di animale per lubrificare il mozzo delle ruote, grossi rotoli di corda ricavata dal cuoio grezzo intrecciato, strisce di cuoio flessibile e Wilbur Smith
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cinghie, gioghi e perni, acciarini per il mozzo delle ruote, rotoli di tela e stuoia per riparare le tende. Una delle afterchest conteneva una selezione di utensili come trivelle, tiranti e putrelle, pialle e raschietti per lavorare il legno, scalpelli, una pesante morsa, tenaglie e martelli da fabbro, più un enorme assortimento di altri attrezzi da falegname e da fabbro, compresi duecento ferri da cavallo e sacchetti di chiodi e strumenti per estrarli e ferrare gli animali. «Ecco, questi sono importanti, Jim.» Tom gli mostrò il pestello e il mortaio di ferro per triturare campioni di roccia e una pila di padelle per setacciare i detriti in cerca dell'oro, composte ciascuna di un ampio disco piatto, con un solco intorno alla circonferenza. Quando si setacciavano il minerale grezzo dei filoni o i depositi alluvionali nelle sabbie dei fiumi, quel solco catturava le pesanti particelle d'oro. «Il vecchio Humbert ti ha insegnato a usarli, vero?» Humbert era stato il cercatore d'oro di Tom finché il suo fegato non aveva ceduto a una dieta regolare di gin olandese e brandy scadente del Capo. «C'è anche un mastello di miccia lenta, più duecento iarde di miccia per far saltare il filone, quando troverai l'oro.» Come merci di scambio e doni da offrire ai capi e ai potentati africani, Tom aveva scelto oggetti che sapeva molto apprezzati da tutte le tribù che potevano incontrare nell'interno: duecento coltelli di qualità inferiore, teste d'ascia, sacchetti di perline di vetro veneziano di cinquanta tipi e colori diversi, specchietti a mano, scatole di latta, rotoli di filo sottile di rame e di ottone da cui le indigene potevano ricavare braccialetti per i polsi e le caviglie. C'erano due ottime selle inglesi con tutti i finimenti, selle comuni per i servitori, due basti per trasportare la cacciagione dal veld fino al campo, una grossa tenda a padiglione per accogliere la cucina e la sala da pranzo, e sedie e tavoli pieghevoli per arredarla. Alla caccia e alla difesa contro gli attacchi di tribù più bellicose, Tom aveva riservato venti sciabole corte, del tipo usato dai marinai, e trenta moschetti Brown Bess a canna liscia, che quasi tutti i servitori sapevano caricare e usare abbastanza bene, due pesanti fucili olandesi per la caccia agli elefanti, che sparavano proiettili da un quarto di libbra e potevano perforare il cuore di un elefante o di un rinoceronte, e un paio di fucili a doppia canna, realizzati a Londra, dal prezzo scandalosamente alto, così precisi che Jim sapeva per esperienza di poter abbattere, usando proiettili Wilbur Smith
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conici, un kudu dalla distanza di quattrocento passi. C'era anche un altro fucile, un delizioso piccolo fucile da signora prodotto in Francia; era di provenienza nobile, perché il meccanismo d'innesco era intarsiato in oro con lo stemma dei duchi d'Ademas. Tom lo aveva regalato a Sarah quand'era nato Jim. Era leggero ma preciso e, sul calcio di noce, era applicato un cuscinetto di velluto rosa per attutire il rinculo. Anche se ormai la madre cacciava di rado, una volta Jim l'aveva vista fermare un'antilope saltante in piena corsa con un colpo di quell'arma. E adesso lei lo cedeva a Louisa. «Può sempre tornare utile.» Sarah tagliò corto ai ringraziamenti di Louisa, ma lei d'impulso le gettò le braccia al collo, sussurrandole all'orecchio: «Terrò come un tesoro i vostri doni, e ricorderò sempre la gentilezza che mi avete dimostrato». Per servire quella batteria di armi, c'era un assortimento di mestoli di piombo, stampi per il piombo, calcatoi, fiasche per la polvere e cartucciere. Per produrre le munizioni c'erano cinquecento libbre di piombo in barre, cinquanta libbre di peltro per rendere più duri i proiettili da usare con la selvaggina di grossa taglia, ventimila proiettili di piombo per i moschetti, venti barilotti di polvere da sparo di prim'ordine per i fucili e cento barilotti di polvere nera grezza per i moschetti Brown Bess, duemila pietre focaie, stoppacci unti per assicurare che i proiettili facessero buona presa sulla rigatura interna della canna dei fucili, e tela di cotone sottile da cui ricavarne altri, e un grosso barilotto di grasso d'ippopotamo chiarificato per ingrassare le canne. Quella massa di articoli era così imponente che, al tramonto del secondo giorno, non avevano ancora finito di caricare di nuovo i carri. «Questo lavoro può aspettare fino a domani», disse Tom, in tono vivace. «Adesso le signore sono libere di prepararci la cena.» L'ultimo pasto che avrebbero consumato insieme fu sciupato da silenzi malinconici, destinati a calare sui commensali ogni volta che uno di loro pensava alla separazione imminente, seguiti da scoppi di allegria forzata. Tom lo concluse, dicendo, con la sua tipica franchezza: «Domani si parte presto». Si alzò, prendendo Sarah per mano. Mentre la guidava verso il loro alloggio nel primo carro, sussurrò: «Possiamo lasciarli soli? Non dovremmo fare da... guardiani?» Sarah rise allegramente. «Tom Courteney, che momento hai scelto per fare il moralista! Hanno già trascorso insieme settimane intere, da soli Wilbur Smith
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nella natura selvaggia, e pare che trascorreranno così parecchi anni. Che potresti fare, adesso?» Tom abbozzò un sorriso malinconico, prendendola tra le braccia e issandola a bordo del carro. Più tardi, mentre si stendevano sul cardell, Sarah mormorò: «Non preoccuparti per Louisa. Ti ho già detto che è una brava ragazza, e noi abbiamo insegnato a Jim a comportarsi da gentiluomo. Finora tra loro non è accaduto niente e niente accadrà finché i tempi non saranno maturi. A quel punto, neanche branchi di bufali selvatici potrebbero impedirlo. Se le cose saranno cambiate, al nostro prossimo incontro potremo pensare a un matrimonio. Se non ricordo male, Tom Courteney, quando ci siamo incontrati non ti sei mostrato tanto contegnoso, e le nozze sono state celebrate con un certo ritardo.» «Perlomeno in questo, tu sei più saggia di me», ammise Tom, attirandola più vicino. «Attenta, Mistress Courteney, qui stasera non ci sono mandrie di bufali selvatici per impedire che accada qualcosa fra te e me.» «Mr Courteney, siete davvero molto acuto», replicò lei, ridendo come una ragazzina. Prima che il sole disperdesse il rigore del freddo notturno, avevano già fatto colazione e completato il carico. Smallboy, il gigante che conduceva il carro di testa, diede il segnale di aggiogare i buoi schioccando un unico colpo della sua frusta, uno strumento formidabile formato da una canna di bambù lunga ventidue piedi e da una sferza ancora più lunga. Usando l'estremità sottile della sferza di kudu, Smallboy poteva uccidere una mosca sul dorso del bue di testa del suo tiro e farlo senza muoversi dal suo posto sulla forechest del carro, senza togliersi di bocca la pipa d'argilla e senza smuovere neppure un pelo del mantello dell'animale. Non appena fece schioccare la lunga frusta - producendo un suono simile a quello del colpo di una pistola a doppia canna e che quindi si poteva udire a un miglio di distanza -, i ragazzi che precedevano i carri si precipitarono ad aggiogare i buoi a coppie, riportandoli al campo dal veld dove stavano pascolando. Li spingevano, lanciando insulti e sassi ben mirati. «Forza, Scozia, serpente con ventidue padri e una sola madre!» «Ehi, Occhi Storti, guarda da questa parte o ti lancio un altro sasso.» «Sveglia, Lucertola, pigrone che non sei altro!» «Muoviti, Cuore Nero, e non tentare uno dei tuoi soliti scherzi, oggi!» Wilbur Smith
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Una coppia dopo l'altra, le bestie furono aggiogate. Poi furono condotti al loro posto i capi di ciascun equipaggio di buoi, che di solito erano gli animali più forti e più docili. Smallboy fece schioccare di nuovo la frusta e senza sforzo apparente i buoi si misero in marcia, seguiti dal carro pesante e carico fino all'inverosimile, che avanzava senza scosse. A intervalli di qualche centinaio di passi, anche gli altri tre carri si accodarono al primo, mantenendo un ampio spazio per evitare la polvere che veniva sollevata dagli zoccoli dei buoi di testa e dalle ruote cerchiate d'acciaio dei veicoli che trainavano. Dietro i carri veniva una mandria sparsa di cavalli e buoi di riserva e vacche da latte, più pecore e capre da macellare lungo la strada. Anche se quegli animali si disperdevano per pascolare, venivano mantenuti in formazione e sospinti a un'andatura tranquilla da quattro mandriani, tutti ragazzi che andavano dai dieci ai tredici anni di età. Erano alcuni degli orfani raccolti da Sarah nel corso degli anni, e che avevano pregato di essere ammessi a partecipare alla grande avventura con Somoya, ammirato da tutti. Ai loro piedi, correva un branco variegato di cani randagi, che si guadagnavano il cibo andando a caccia e ritrovando la selvaggina ferita o le bestie disperse. Ben presto, nell'accampamento ai piedi del kopje della Testa di Babbuino rimase soltanto un piccolo carro a due ruote con una sponda inclinata sul retro, carico anche quello; poco lontano pascolavano i cavalli, pronti a riportare Tom e Sarah a High Weald. La famiglia era riluttante a separarsi, e tutti cercarono di prolungare le ultime ore che trascorrevano insieme, bevendo ancora una tazza di caffè intorno al fuoco che fumava, ricordando tutto quello che avevano dimenticato di dire negli ultimi giorni e ripetendo tutto quello che si erano già detti tante volte. Tom aveva lasciato per ultima una delle questioni più serie. Dal carro a due ruote, prese un astuccio di tela impermeabilizzata e tornò a sedersi vicino a Jim. Aprendo l'astuccio piatto, ne estrasse una mappa, che spiegò davanti al figlio, dicendo: «Questa è la copia di una carta che ho disegnato nel corso degli ultimi quindici anni. È un documento prezioso». «La terrò al sicuro», gli promise Jim. L'altro allargò il pesante foglio di pergamena sul terreno di fronte a loro, collocando dei sassolini su ciascuno degli angoli per impedire che la lieve brezza del mattino li sollevasse. Jim esaminò la topografia finemente disegnata e colorata dell'estremità meridionale del continente. «Non avevo idea, padre, del fatto che tu fossi un artista di talento.» Jim Wilbur Smith
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era colpito, mentre il padre parve vagamente in imbarazzo e lanciò un'occhiata a Sarah. «Be', non ho fatto tutto da solo», replicò, esitante. «Sei troppo modesto, Tom», ribatté Sarah, sorridendo. «La supervisione è tutta opera tua.» «Ah, certo», ammise Tom con una risatina. «Quella era la parte difficile.» Poi ridivenne serio. «Il contorno della costa è accurato, più che in qualsiasi altra mappa che mi sia capitato di vedere. Tuo zio Dorian e io abbiamo compiuto queste osservazioni negli ultimi vent'anni, navigando e commerciando lungo la costa occidentale e orientale. Anche tu hai partecipato a uno dei viaggi, Jim, quindi ricorderai questi luoghi.» Li elencò, indicandoli. «Sulla costa occidentale, la baia delle Balene e il porto di New Devon, al quale ho dato il nome della nostra patria. Sulla costa orientale c'è la laguna di Frank, dove il tuo bisnonno seppellì il tesoro conquistato sul galeone olandese Standvastigheid. Si tratta di un ottimo ancoraggio, riparato dal mare aperto grazie a un ingresso protetto da promontori rocciosi. Qui, molto più a nord, c'è un'altra grande baia, che i portoghesi chiamano baia della Natività, o anche Natal.» «Ma in questi porti tu non hai magazzini, padre», osservò Jim. «Si tratta di luoghi deserti e desolati, no?» «Certo, Jim, hai ragione. Però uno dei nostri schooner vi fa scalo a intervalli di circa sei mesi, a seconda della stagione e dei venti. I nativi sanno che veniamo regolarmente, e ci aspettano con carichi di pelli, gomma arabica, avorio e altre merci da scambiare.» Jim annuì. «Dal momento che ci sei già stato, riconoscerai ognuno di quei luoghi sulla costa, quando li raggiungerai», proseguì Tom. «E saprai dove si trovano le pietre della posta.» Si riferiva alle grandi pietre piatte, dipinte a colori vivaci, che venivano messe in posti prestabiliti sulla spiaggia, in modo che i marinai potessero mettervi sotto la posta, all'interno di plichi protetti dalla tela cerata; altre navi, poi, recuperavano quei messaggi, recapitandoli ai destinatari. «Se lasci una lettera lì, sarai sicuro che io oppure tuo zio la troveremo, prima o poi. Inoltre anche noi potremmo lasciare un messaggio indirizzato a te, per ogni evenienza.» «Oppure potrei aspettare lì la visita successiva di una delle nostre navi.» «Sì, Jim, potresti anche fare così. Ma prima di fare qualsiasi cosa, accertati che non si tratti di una nave della VOC. Il governatore van de Wilbur Smith
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Witten avrà ormai messo una grossa taglia sulla tua testa e su quella di Louisa.» Riflettendo sulla situazione in cui si trovava la giovane coppia, il gruppetto assunse un'aria grave. Tom si affrettò a proseguire: «Prima di raggiungere la costa, comunque, dovrete attraversare centinaia, e forse migliaia, di leghe di territorio selvaggio, praticamente inesplorato». Allargò sulla mappa la grossa mano, segnata da molte cicatrici. «Guarda bene quello che c'è davanti ai tuoi carri. È un'opportunità che ho accarezzato per tutta la vita, ma il luogo in cui siamo seduti ora è il punto più lontano in cui mi sono spinto.» «Se è così, non devi biasimare altri che te stesso, Thomas Courteney», gli disse Sarah. «Io non ti ho mai trattenuto, ma tu eri troppo occupato ad accumulare denaro.» «E ormai è troppo tardi. Sto diventando vecchio e grasso.» Tom assunse un'espressione afflitta. «Però il nostro Jim andrà al mio posto.» Fissò con rimpianto la mappa, poi alzò la testa per guardare oltre la pianura, dove il convoglio di carri procedeva, avvolto da una nube di polvere gialla, e mormorò: «Demonio fortunato... Vedrai luoghi sui quali non si sono mai posati gli occhi di un individuo civilizzato...» Poi riportò la sua attenzione sulla mappa. «Nel corso degli anni, ho cercato di parlare con tutti gli uomini, bianchi, neri o gialli, dei quali si diceva che si fossero spinti oltre i confini della colonia del Capo, e li ho interrogati in modo esauriente. Quando Dorian e io scendevamo a terra, durante le nostre spedizioni commerciali, interrogavamo sempre i nativi coi quali stavamo commerciando. Su questa mappa ho scritto tutto ciò che ho appreso da quelle fonti, scrivendo i nomi come mi suonavano all'orecchio. Qui, lungo i margini e sul verso del foglio, ho annotato le storie e le leggende che mi hanno raccontato, i nomi delle varie tribù, dei villaggi, dei re e dei capi. Poi ho tentato di annotare i fiumi, i laghi e gli abbeveratoi, ma non avevo modo d'indicare le distanze tra i vari punti e i rilevamenti fatti con la bussola dall'uno all'altro. Tra Bakkat, Zama, Smallboy e te, conoscete circa una dozzina di dialetti indigeni. Potrete assumere guide e traduttori a mano a mano che entrerete in contatto con tribù nuove e sconosciute.» Ripiegò la mappa e la ripose con cura nell'astuccio di tela cerata, che quindi porse a Jim. «Tienila con cura, ragazzo mio. Ti farà da guida nel viaggio.» Poi tornò verso il carretto ed estrasse dai bagagli un astuccio di cuoio rigido, che aprì davanti a Jim. «Mi sarebbe piaciuto darti uno dei Wilbur Smith
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cronometri che John Harrison di Londra ha perfezionato negli ultimi tempi, in modo da poter determinare con precisione la latitudine e la longitudine durante il viaggio, però non ne ho mai visto uno. Inoltre dicono che, anche a trovarli, non costano meno di cinquecento ghinee... Lo stesso vale per l'ottante che ha realizzato John Hadley. A ogni buon conto, ecco la mia vecchia e fidata bussola e il sestante. Appartenevano a tuo nonno, ma tu sai bene come usarli e, con questa copia delle tavole dell'Ammiragliato, sarai sempre abbastanza sicuro almeno della latitudine, ogni volta che potrai vedere il sole. Dovresti essere in grado di navigare fino a uno qualsiasi dei luoghi che ho segnato sulla carta.» Jim prese dalle mani del padre l'astuccio di cuoio e sollevò il complesso, bellissimo strumento di fabbricazione italiana. In alto c'era il cerchio di ottone al quale poteva essere appeso in modo che trovasse il suo equilibrio. Gli anelli rotanti di ottone erano amorevolmente incisi con diagrammi di stelle e cerchi della latitudine nonché con un cerchio esterno con l'indicazione delle ore. L'alidada, che serviva da misuratore dell'altezza del sole, poteva rilevare l'ombra del sole e proiettarla attraverso i circoli coincidenti dell'ora e della latitudine. Jim lo sfiorò, poi si rivolse al padre. «Non potrò mai ripagarti di tutti questi doni meravigliosi e di tutto quello che hai fatto per me. Non merito tanto amore e generosità.» «Questo lascialo giudicare a tua madre e a me», borbottò Tom. «E ora dobbiamo ripartire per tornare a casa.» Chiamò i due servitori che sarebbero tornati alla colonia e loro corsero ad aggiogare al carretto i cavalli da tiro e a sellare il grosso castrone baio di Tom. In sella a Drumfire e Trueheart, Jim e Louisa accompagnarono il carretto per quasi una lega. Quando infine si accorsero che, se volevano raggiungere i loro carri prima del tramonto, non potevano spingersi oltre, si fermarono, seguendo con lo sguardo il piccolo carro che attraversava lentamente il veld polveroso. «Sta tornando indietro», esclamò Louisa d'un tratto, scorgendo Tom che si avvicinava al galoppo. Quando fu alla loro altezza, tirò di nuovo le redini. «Ascoltami, Jim, ragazzo mio: non dimenticare mai di tenere un diario. Voglio che tu prenda nota di tutti i dati per la navigazione. Inoltre non dimenticare i nomi dei capi indigeni e dei territori che controllano. Tieni gli occhi aperti per individuare qualsiasi tipo di merce che, in futuro, Wilbur Smith
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potrebbe diventare oggetto di commercio tra noi e loro.» «Sì, padre. Ne abbiamo già parlato», gli rammentò Jim. «E le padelle per l'oro», aggiunse Tom. «Setaccerò le sabbie di tutti i fiumi che traverserò», gli assicurò Jim, ridendo. «Non lo scorderò.» «Ricordaglielo tu, Louisa. È uno scervellato, questo mio figliolo. Non so da chi ha preso. Forse da sua madre.» «Ve lo prometto, Mr Courteney», disse Louisa annuendo con serietà. Tom si rivolse a Jim. «James Archibald, veglia su questa giovane donna. E chiaro che si tratta di una ragazza piena di buonsenso, fin troppo in gamba per te.» Alla fine Tom li lasciò, allontanandosi per tornare verso il carretto. Però continuava a girarsi sulla sella, facendo cenni di saluto. Quando raggiunse il carro lontano, Jim esclamò: «In nome del diavolo, ho dimenticato di mandare i miei omaggi e i miei saluti a Mansur e allo zio Dorian. Forza!» Si lanciarono al galoppo verso il carro. Quando gli arrivarono accanto, smontarono da cavallo e tutti si riabbracciarono. «Stavolta ce ne andiamo davvero», disse infine Jim, ma il padre li affiancò ancora per un miglio prima di convincersi finalmente a lasciarli andare, e li salutò con la mano finché non scomparvero. Benché i carri ormai non si vedessero più, le tracce delle ruote cerchiate d'acciaio erano impresse sul terreno, facili da seguire come una strada ben segnalata. Jim e Louisa le seguirono senza difficoltà, affiancati da branchi di antilopi saltanti che si muovevano come greggi di pecore, mescolandosi, finché la terra non parve brulicare e l'erba fu completamente nascosta sotto un mare di esseri viventi, nel quale, ben presto, confluirono anche altri animali selvatici, più grandi, raccoltisi in una mandria compatta. Schiere di gnu dal mantello scuro si sbizzarrivano in salti e capriole, scrollando la criniera irsuta, inarcando il collo come purosangue e scalciando con le zampe posteriori, mentre si rincorrevano in cerchio. Squadroni di quagga si allontanarono al galoppo, abbaiando come branchi di cani. Quei cavalli selvaggi del Capo, col corpo striato come le zebre, fatta eccezione per le zampe marroni, erano tanto numerosi che i cittadini della colonia li uccidevano a migliaia per ricavarne le pelli, le quali venivano poi cucite per confezionare sacchi per il grano, mentre il resto veniva lasciato agli avvoltoi e alle iene. Louisa guardò con stupore quella moltitudine di animali. «Non ho mai Wilbur Smith
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visto uno spettacolo così meraviglioso», esclamò. «In questa terra, la varietà di animali è tale che nessuno è costretto a porsi limiti o a deporre il fucile, a meno che non abbia le braccia troppo stanche per sollevarlo», riconobbe Jim. «Mi hanno raccontato di un grande cacciatore della colonia che, in un unico giorno, ha abbattuto trecento capi di selvaggina di grossa taglia, sfinendo quattro cavalli per inseguirli. Che impresa!» esclamò, scuotendo la testa in segno di ammirazione. Nell'ultimo miglio, percorso al buio, i fuochi da campo li guidarono verso i carri già disposti a formare un quadrato. Zama fece loro trovare il bollitore di ferro nero sul fuoco e il caffè pestato di fresco nel mortaio. Confidando nella mappa disegnata dal padre e negli strumenti di navigazione, Jim puntò coi carri verso nord, e le loro giornate si assestarono su un ritmo naturale, diventando prima settimane, poi mesi. Ogni mattina, Jim andava con Bakkat a perlustrare la terra che si stendeva davanti a loro per trovare la successiva pozza d'acqua o il fiume più vicino. Faceva colazione con lui, attingendo al contenitore del cibo che teneva appeso dietro la sella insieme col pagliericcio arrotolato; inoltre Bakkat conduceva con sé un cavallo da soma per riportare al campo tutta la selvaggina che cacciavano. Louisa badava ai carri, rammendava, puliva e dava istruzioni ai servi per tenere al meglio quella sua casa mobile, ma il più delle volte era libera di allontanarsi a cavallo con Jim in sella a Trueheart. Fin dall'inizio era rimasta incantata dagli animali e dagli uccelli che si affollavano in ogni direzione. Jim le insegnava i nomi, e insieme ne discutevano le abitudini; quindi Bakkat si univa al discorso, raccontando episodi e storie magiche. Sembrava conoscerne un numero infinito. A mezzogiorno, quando si fermavano per far pascolare e riposare i cavalli, Louisa tirava fuori dalla sacca della sella qualche foglio di carta da disegno che Sarah le aveva lasciato e faceva uno schizzo delle cose interessanti viste quel giorno. Jim indugiava vicino a lei, dandole consigli su come migliorare ogni ritratto; dentro di sé, tuttavia, era stupito dalle capacità artistiche della ragazza. Lui insisteva anche perché Louisa portasse sempre il piccolo fucile francese nel fodero sotto il ginocchio destro. «Quando ti serve un fucile, ti serve in fretta», le ripeteva. «Ed è bene saperlo usare.» Così l'addestrava a caricare, armare e sparare. La prima volta che Louisa si cimentò con Wilbur Smith
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l'arma, la detonazione e il rinculo le strapparono un grido di paura. Avrebbe addirittura lasciato cadere il fucile, se Jim non fosse stato pronto ad afferrarlo. Dopo molte rassicurazioni e incoraggiamenti, riuscì però a convincerla che non si era trattato di un'esperienza così terribile, e Louisa si disse pronta a fare un secondo tentativo. Per incoraggiarla, Jim appese il cappello a un basso cespuglio spinoso distante venti passi. «Te lo dico subito, Istrice; non riuscirai ad avvicinarti a meno di dieci passi», disse poi, lanciandole una sfida. Louisa socchiuse gli occhi, che si trasformarono in due schegge azzurrine piene di determinazione. Stavolta la sua mano era ferma e, quando il fumo si diradò, il cappello di Jim turbinava nell'aria. Era il suo cappello preferito, e lui lo rincorse. Quando infilò l'indice nel foro che si era aperto nella tesa, il volto del giovane tradì un'incredulità e una costernazione tali che Bakkat si sciolse in una risata fragorosa, prendendo a girare su se stesso, mimando il modo in cui il cappello aveva preso il volo. Poi le gambe gli cedettero e lui si accasciò nella polvere, battendosi il ventre con entrambe le mani e strillando dal gran ridere. La sua allegria era tanto contagiosa che anche Louisa si abbandonò a una lunga risata. Fino a quel momento, Jim non l'aveva mai sentita ridere in modo così spontaneo, di cuore. Si calcò in testa il cappello sforacchiato e si unì all'ilarità generale. Più tardi infilò una piuma d'aquila nel foro, continuando a portare quel copricapo con orgoglio. Seduti all'ombra di un albero di acacia karroo, consumarono il pasto a base di cacciagione fredda e sottaceti che Louisa aveva portato. Di tanto in tanto uno di loro ricominciava a ridere, scatenando l'ilarità degli altri. «Fa' sparare di nuovo Welanga contro il tuo cappello», pregava Bakkat. «È stato lo scherzo più divertente della mia vita.» Jim declinò l'invito, dedicandosi invece a scortecciare col coltello da caccia il tronco dell'albero di acacia karroo. La chiazza bianca costituiva un facile bersaglio. Cominciava a capire che, se Louisa si metteva in mente una cosa, diventava risoluta e tenace. In breve tempo, la ragazza imparò l'arte di caricare il fucile. Versare la carica di polvere dalla fiasca, calcarvi sopra lo stoppaccio, scegliere dal sacchetto che portava alla cintura un proiettile simmetrico, avvolgerlo nello stoppaccio unto e infilarlo nella canna, spingendolo sino in fondo col piccolo maglio di legno finché non premeva contro lo stoppaccio. Infine versare la polvere nel bacinetto e coprirla con l'esca per impedire che fuoriuscisse. Wilbur Smith
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Al secondo giorno, era già in grado di caricare e sparare senza aiuto, e ben presto riuscì a colpire quattro volte su cinque il bersaglio che trasudava linfa. «Sta diventando troppo facile per te, Istrice. È tempo di provare a cacciare sul serio.» E così, il giorno dopo, lei caricò il fucile come le aveva insegnato Jim e i due si allontanarono a cavallo. Quando si avvicinarono ai primi branchi di bestiame, Jim le spiegò in quale modo usare Trueheart per l'appostamento. Smontarono entrambi, e Jim condusse Drumfire, mentre lei lo seguiva, tenendo per le briglie la giumenta e restando al suo fianco. Schermati dal corpo dei cavalli, tagliarono in diagonale davanti a un piccolo branco di giovani maschi di antilope saltante. Quegli animali non avevano mai visto esseri umani o cavalli, e rimasero impietriti, fissando con schietto stupore le strane creature che passavano. Jim li raggiunse, senza tuttavia puntare direttamente verso di loro per evitare di allarmarli e d'indurii a fuggire. Arrivato al punto in cui gli animali più vicini si trovavano a meno di cento passi, Jim trattenne Drumfire e lanciò un fischio sommesso. Louisa lasciò cadere le redini di Trueheart e la docile giumenta si fermò, tremando appena in previsione dello sparo che sapeva imminente. La ragazza si abbassò e, stando seduta, prese di mira con calma un maschio disposto di traverso rispetto a lei e un po' separato dal resto del branco. Facendo ricorso a un disegno dell'animale e mostrandole le carcasse di quelli che aveva abbattuto e portato al campo, Jim le aveva pazientemente spiegato che il punto al quale mirare si trovava dietro la spalla; in quell'istante, però, Louisa si rese conto che mirare a un essere vivente era molto diverso dal mirare a un bersaglio inciso su un albero. Il cuore le batteva all'impazzata, le mani le tremavano in modo incontrollabile e la mira si spostava di continuo. Jim le rammentò a bassa voce: «Ricorda quello che ti ho detto». Nell'eccitazione della caccia, si era dimenticata di uno dei suoi consigli: «Tira un respiro profondo. Solleva il fucile con un movimento lento e continuo. Lascia uscire la metà del respiro. Non tenere il dito sospeso sul grilletto. Tiralo non appena hai preso la mira». Lei abbassò il fucile, si concentrò e seguì le sue raccomandazioni. Il piccolo fucile le parve leggero come la lanugine del cardo: ebbe l'impressione che si alzasse e sparasse quasi da sé, in modo così inatteso che rimase sorpresa dalla detonazione e dal lungo sbuffo di fumo. Wilbur Smith
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Si udì il rumore sordo del proiettile che colpisce il bersaglio, e il giovane maschio spiccò un salto, ricadendo con una piroetta aggraziata. Poi le zampe gli cedettero e si raggomitolò sulla terra riarsa dal sole, prima di stendersi e restare immobile. Jim lanciò un ululato di trionfo, correndo verso il punto in cui giaceva la preda, e Louisa lo rincorse col fucile fumante in mano. «Centrato al cuore», esclamò Jim. «Io stesso non avrei saputo fare di meglio.» Mentre lei arrivava di corsa, si girò per accoglierla: aveva le guance arrossate, i capelli che sfuggivano da ogni parte della cuffietta e gli occhi scintillanti. Nonostante gli sforzi che aveva fatto per evitare il sole, la sua pelle aveva assunto il colore di una pesca matura. La sua eccitazione era pari a quella di Jim, e lui pensò che non aveva mai visto niente di più bello. Tese le braccia per stringerla a sé, ma Louisa si fermò di colpo, appena fuori della sua portata, indietreggiando. Con uno sforzo di volontà possente, frenò l'impulso di abbracciarla. Si guardarono, e lui vide l'orrore cancellare lo scintillio nei suoi occhi, un orrore dettato dall'idea di essere toccata da un uomo. Fu soltanto un attimo, ma lui capì quanto fosse stato vicino al disastro. Tutti quei mesi dedicati a costruire la sua fiducia, dimostrandole che la rispettava, che si preoccupava per lei, che la voleva proteggere... Tutto ciò aveva rischiato di andare in fumo per uno stupido gesto impulsivo. Si affrettò a voltarsi, lasciandole il tempo di superare la paura. «E un maschio splendido, grasso come il burro», commentò. Quando l'animale si rilassò nella morte, la lunga piega di pelle che correva al centro del dorso si aprì, lasciando scoperta una striscia di peli bianchi come la neve. Jim si chinò per passarvi sopra un dito, e poi si portò il dito al naso. «È l'unico animale che profuma come un fiore», commentò. Il suo dito era rivestito da un velo sottile di cera giallo chiaro, secreta dalle ghiandole sebacee dell'antilope. Senza guardarla, le suggerì: «Prova». Lei distolse lo sguardo da lui, passando le dita su quella striscia bianca dell'animale prima di accostarle al naso. «Sì, è profumato!» esclamò sorpresa. Jim chiamò Bakkat e, col suo aiuto, eviscerò l'antilope prima di issare la carcassa sull'animale da soma. I carri erano puntini lontani in fondo alla pianura. Si avviarono in quella direzione, ma l'umore allegro di quella mattinata era svanito, e viaggiarono in silenzio. Jim era divorato da un senso di disperazione; gli sembrava che Wilbur Smith
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lui e Louisa avessero perso tutto il terreno guadagnato, tornando al punto di partenza del loro rapporto. Per fortuna, quando arrivarono ai carri, trovarono una distrazione. Smallboy aveva spinto il carro di testa sopra la cavità di un formicaio sotterraneo, e il terreno aveva ceduto. Il veicolo carico era precipitato nella buca fino alle assi del fondo. Un certo numero di raggi della ruota anteriore sinistra si era spezzato, e il carro era bloccato. Dovettero scaricarlo, prima che fosse abbastanza leggero per farlo issare fuori da due pariglie di buoi. Quando riuscirono a liberarlo, calava già il buio, ed era troppo tardi per riparare la ruota danneggiata. Era necessario sostituire i raggi spezzati: il lavoro necessario per piallare e raschiare i nuovi pezzi da inserire era minuzioso e avrebbe potuto richiedere giorni interi. Stanco e fradicio di sudore, Jim si ritirò nel suo carro. «Bagno! Acqua calda!» gridò a Zama. «Lo ha già ordinato Welanga», rispose lui in tono di disapprovazione. Be', almeno so da che parte stai, pensò Jim, amareggiato, ma il suo umore migliorò quando scoprì che lo aspettava la vasca piena di acqua calda, con una saponetta e un asciugamano pulito disposti vicino. Dopo il bagno, si diresse verso la tenda della cucina. Louisa era affaccendata vicino al fuoco, e lui si sentiva ancora troppo offeso dal suo rifiuto per ringraziarla o prendere atto del gesto conciliante che aveva compiuto preparandogli il bagno. Quando entrò nella tenda, lei alzò gli occhi e poi si affrettò subito ad abbassarli di nuovo. «Ho pensato che forse ti avrebbe fatto piacere un bicchierino di quel gin olandese che ti ha dato tuo padre.» La bottiglia era pronta per lui sul tavolo da campo. Era la prima volta che la vedeva, da quando si era separato dalla famiglia. Non sapeva come declinare l'offerta senza offenderla e farle capire che non amava ottundere i sensi con l'alcol. Si era ubriacato una sola volta in vita sua, e ricordava ancora quell'esperienza con rammarico. D'altra parte, non voleva peggiorare la situazione già delicata, quindi si versò mezzo bicchierino di liquore e lo bevve malvolentieri. Per cena, Louisa aveva preparato cotolette di antilope saltante, con contorno di cipolle caramellate ed erbe, secondo una ricetta che le aveva dato Sarah. Lui le divorò con grande appetito, e il suo umore migliorò al punto di spingerlo a complimentarsi con lei. «Non soltanto colpito alla perfezione, ma cucinato a regola d'arte», esclamò. La conversazione tuttavia fu incerta e inframmezzata da silenzi Wilbur Smith
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imbarazzati. E pensare che eravamo arrivati così vicino a fare amicizia... pensò Jim, bevendo una tazza di caffè. «Io me ne vado a letto», annunciò, alzandosi prima del solito. «E tu?» «Voglio scrivere il diario», rispose lei. «Per me è stata una giornata speciale. Ho ucciso la mia prima preda... Inoltre, ed è la cosa che conta di più, ho promesso a tuo padre di non saltare neppure un giorno. Andrò a letto più tardi.» Jim uscì, avviandosi verso il proprio carro. Ogni notte i carri venivano disposti in quadrato, e gli spazi tra l'uno e l'altro erano riempiti con rami di piante spinose, in modo da tenere chiusi gli animali domestici e respingere gli assalti dei predatori. Il carro di Louisa era sempre affiancato a quello di Jim, cosicché i due giovani erano separati soltanto dalle spesse tende dei due carri. In tal modo, Jim era sempre a portata di mano se lei ne aveva bisogno e, durante la notte, anche senza spostarsi dal proprio letto, potevano parlarsi. Quella sera, Jim rimase sveglio a letto finché non udì i passi di Louisa provenire dalla tenda della cucina e non vide il chiarore della sua lanterna passare lungo la fiancata del carro. Più tardi la sentì indossare la camicia da notte. Il fruscio dei suoi vestiti evocò immagini suggestive di lei, che Jim tentò inutilmente di bandire dalla mente. Poi la sentì spazzolarsi i capelli, e ogni colpo di spazzola era accompagnato da un fruscio lieve che somigliava al soffio del vento in un campo di grano maturo. Poteva immaginare il modo in cui s'increspavano e splendevano alla luce della lampada. Alla fine sentì il cigolio del cardell che accoglieva il suo peso. Seguì un lungo silenzio. «Jim.» La voce di lei era bassa, quasi un sussurro, che lo scosse e lo eccitò. «Jim, sei sveglio?» «Sì.» Aveva parlato piano, ma gli era sembrato di urlare. «Grazie», gli disse Louisa. «Non riesco a ricordare l'ultima volta che ho vissuto una giornata così bella.» «È stata bella anche per me.» Stava per aggiungere: «Tranne...» ma poi si rimangiò quella parola, e rimasero in silenzio così a lungo che la credette addormentata. Invece lei riprese a parlare sottovoce. «Ti ringrazio anche della tua gentilezza.» Lui non disse niente, perché non c'era niente da dire, ma rimase sveglio a lungo, e la ferita si trasformò lentamente in collera. Non merito di essere Wilbur Smith
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trattato così. Per lei ho rinunciato a tutto. Alla mia casa e alla mia famiglia. Per salvarla sono diventato un fuorilegge, e lei mi tratta come un rettile repellente e velenoso. Poi se ne va a dormire come se niente fosse. La odio. Vorrei non averla mai vista. Louisa restò irrigidita nel suo letto, senza riuscire a prendere sonno. Sapeva che lui poteva sentire ogni suo movimento e non voleva fargli capire che non poteva dormire. Era dilaniata dal senso di colpa e dal rimorso. Provava un profondo senso di riconoscenza verso Jim e sapeva fin troppo bene che cosa aveva sacrificato per lei. Oltretutto le piaceva. Era impossibile non provare attrazione per lui: era così espansivo e allegro, così forte, affidabile e pieno di risorse. Quando le era vicino, lei si sentiva al sicuro. Le piaceva il suo aspetto, così alto e forte, con un viso onesto e aperto. Sapeva farla ridere. Sorrise pensando a come aveva reagito quando lei gli aveva bucato il cappello. Aveva un curioso senso dell'umorismo, che finalmente lei stava cominciando a capire. Era capace di raccontare i fatti della giornata in un modo che la faceva ridere, sorpresa, come se ne fosse stata testimone anche lei. Sentiva che era suo amico, quando la chiamava Istrice e la prendeva in giro in quel modo rude e quasi incomprensibile che era tipico degli inglesi. Anche in quel momento, mentre era immusonito, era bello sapere che stava lì, a portata di mano. Di notte, se sentiva strani suoni selvaggi, come il riso delle iene o il ruggito di un branco di leoni, lei si sentiva assalire da un terrore mortale. Allora lui le parlava con calma attraverso la parete della tenda, rassicurandola con la sua voce e placando i suoi timori, cosicché poteva riaddormentarsi. Poi c'erano gli incubi. Spesso lei sognava di essere di nuovo a Huis Brabant, rivedeva il cavalletto, le corde di seta e la figura scura vestita da carnefice, coi guanti bianchi e con la maschera di cuoio nella quale si aprivano le fessure per gli occhi. Quando si sentiva assalire dagli incubi restava in trappola in quelle fantasie oscure, incapace di sottrarvisi, finché la voce di Jim non la svegliava, liberandola dal terrore. «Sveglia, Istrice! Va tutto bene. È soltanto un sogno. Ci sono io. Non lascerò che ti succeda niente.» Lei si svegliava sempre con un profondo senso di gratitudine. Jim le piaceva ogni giorno di più, e aveva fiducia in lui, ma non poteva permettergli di toccarla. Anche il contatto più casuale, se le sistemava la Wilbur Smith
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cinghia della staffa e le sfiorava la caviglia, oppure se le tendeva un oggetto banale come un cucchiaino o una tazza di caffè e le loro dita si sfioravano, suscitava in lei un moto di spavento e di repulsione. A distanza, però, lo trovava attraente. Quando cavalcava al suo fianco e lei sentiva il suo odore virile e ascoltava la sua voce e la sua risata, si sentiva felice. Una volta aveva sorpreso Jim mentre si lavava nel fiume. Aveva ancora le brache addosso, però aveva gettato sulla riva la camicia e la giacca di pelle, e raccoglieva l'acqua con le mani per versarla sulla testa. Le voltava le spalle, quindi non l'aveva vista. Per un lungo istante, prima di allontanarsi, lei aveva fissato la pelle intatta della schiena nuda, in contrasto netto con le braccia abbronzate dal sole. I muscoli erano ben definiti e cambiavano forma a seconda dei movimenti che lui faceva, sollevando le braccia. In quel momento lei aveva provato di nuovo quel perverso rimescolio dei sensi, quella sensazione di avere il fiato corto, dei lombi che si scioglievano... Quel desiderio indefinito ma lascivo che Koen van Ritters aveva destato in lei, prima di farla sprofondare negli orrori della sua fantasia perversa. Non voglio che si ripeta mai più, pensò Louisa, distesa nel buio. Non posso permettere che un altro uomo mi tocchi, neanche Jim. Voglio che mi sia amico, ma non voglio questo. Dovrei entrare in convento, ecco. Quella sarebbe l'unica via d'uscita, per me. Ma in quel territorio inesplorato non c'erano conventi, e alla fine Louisa si addormentò. Xhia ricondusse Koots e la sua banda di cacciatori di taglie fino al campo in cui Jim Courteney aveva disperso i loro cavalli e dal quale erano partiti per la lunga marcia di ritorno nella colonia. Da quella notte erano trascorse molte settimane e, nel frattempo, sulle montagne si erano abbattuti venti forti e piogge violente. Agli occhi di tutti, gli elementi avevano cancellato anche la più vaga ombra di tracce. Di tutti, ma non di Xhia. Il boscimano partì dal vecchio accampamento, seguendo la direzione del branco in fuga, e poi scegliendo, per istinto, la direzione in cui Jim doveva avere spinto il branco rubato dopo averne ripreso il controllo. A un quarto di lega dal vecchio accampamento ritrovò una traccia labilissima della pista, il segno lasciato da un ferro di cavallo d'acciaio sullo scisto. Vide Wilbur Smith
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subito che non poteva trattarsi del segno lasciato dallo zoccolo di un maschio di eland o da qualsiasi altro animale selvatico. Valutò l'età del segno: non era né troppo recente né troppo vecchio. Era il primo appiglio per cominciare a costruire il quadro della caccia. Continuò a cercare la pista setacciando i punti più riparati, tra due rocce, all'ombra di alberi caduti, nell'argilla malleabile sul fondo di un donga - il solco scavato nel terreno dall'erosione naturale dove s'incanalavano con violenza le acque piovane -, o sugli strati di scisto abbastanza molli da ricevere un'impronta e abbastanza resistenti da conservarla. Koots e i suoi uomini lo seguivano a distanza, facendo attenzione a non calpestare e cancellare i segni precedenti. Se la pista si rivelava così elusiva da risultare oscura persino alle stregonerie di Xhia, dissellavano i cavalli e attendevano, fumando, litigando e giocando a dadi, usando come posta la ricompensa che avrebbero ottenuto con la cattura dei fuggiaschi. Alla fine, Xhia, con infinita pazienza, risolveva quella parte del rompicapo, li chiamava, e loro risalivano in sella, seguendolo tra le montagne. A mano a mano che si riduceva la distanza tra loro e la preda, i segni diventavano più recenti, e Xhia si muoveva con maggiore sicurezza. Ciò nonostante, soltanto tre settimane dopo aver trovato quella prima e labile traccia d'impronta, Xhia riuscì a ritrovare il branco errante di muli e cavalli che Jim e Bakkat avevano usato come esca e poi abbandonato. Sulle prime, Koots non riuscì a capire come fossero stati gabbati. Lì c'erano i cavalli, ma neanche l'ombra di un essere umano. Fin dal primo giorno aveva incontrato grandi difficoltà nel comunicare con Xhia, perché l'olandese del boscimano era rudimentale, e i gesti non erano adeguati a spiegare la complicata natura dell'inganno che Bakkat aveva tessuto. Poi Koots sì rese conto che, dal branco di cavalli dispersi, mancavano i migliori; Frost, Crow, Lemon e Stag, oltre naturalmente a Drumfire e Trueheart. «Si sono divisi, e hanno lasciato questo branco di animali per sviarci!» Finalmente Koots comprese, e impallidì per la rabbia. «Per tutto questo tempo non abbiamo fatto altro che girare in circolo, mentre quei criminali se la battevano in un'altra direzione.» La sua collera aveva bisogno di un bersaglio, e lo trovò in Xhia. «Prendete quel ratto giallo!» gridò a Richter e Le Riche. «Voglio cavare un po' di pelle a quel piccolo swartze puzzolente.» I due afferrarono il Wilbur Smith
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boscimano prima che lui capisse quali fossero le loro intenzioni. «Legatelo a quell'albero», ordinò Koots, indicando un grande cripple wood. Gli uomini obbedirono, godendosi quel momento. La loro collera verso il boscimano era pari a quella di Koots, dato che Xhia era il diretto responsabile delle traversie e dei disagi che avevano dovuto affrontare negli ultimi mesi. Così, tutti soddisfatti, gli legarono polsi e caviglie con le cinghie di cuoio. Koots gli strappò di dosso il perizoma di cuoio, lasciandolo nudo. «Goffel!» gridò poi rivolto al soldato ottentotto. «Tagliami un fascio di rami spinosi. Spesso così», aggiunse, chiudendo il pollice e l'indice a cerchio. «E lascia le spine.» Si tolse la giubba di cuoio e fece ruotare il braccio destro per sciogliere i muscoli. Goffel tornò dalla riva del ruscello con una bracciata di rami spinosi, e Koots se la prese comoda, scegliendone uno con la giusta flessibilità e resistenza per essere usato come frusta. Xhia seguiva quei preparativi con gli occhi sgranati, tendendo i legacci. Koots tolse le spine dall'estremità inferiore del ramo, in modo da non pungersi le dita, ma il resto del ramo flessibile rimase irto di spine dalla punta rossa. Poi si avvicinò a Xhia, brandendo la sferza. «Piccolo rettile, mi hai fatto ballare un bel fandango, ma adesso è venuto il tuo turno di ballare.» Sferrò il primo colpo all'altezza delle scapole di Xhia. La sferza lasciò sulla pelle un cordone in rilievo, tempestato da una costellazione irregolare di punture di spine, da ognuna delle quali sgorgava una goccia di sangue. Xhia urlò di dolore e indignazione. «Canta pure, bastardo discendente di babbuini», gridò Koots, con truce soddisfazione. «Devi imparare che non puoi prendere per idiota Herminius Koots.» Colpì ancora. Il ramo verde cominciò a disintegrarsi sotto la violenza dei colpi, e le spine si staccarono, conficcandosi nelle carni di Xhia. Il boscimano si contorse e lottò per liberarsi dalle cinghie che lo tenevano legato finché i polsi non si coprirono di sangue, scorticati dal cuoio ruvido. Con una voce fin troppo stentorea per la sua corporatura così minuta, urlò la sua furia e i suoi propositi di vendetta nel linguaggio che il bianco non poteva capire. «Morirai per questo, iena bianca! Mangiatore di sterco! Ti accoppi coi cadaveri, ma io ti ucciderò col più lento dei veleni che conosco, bevitore di piscio di serpente e sperma di scimmia.» Koots scartò il ramo spezzato, scegliendone un altro. Si terse il sudore Wilbur Smith
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dal viso con la manica della camicia e ricominciò, continuando finché tanto lui quanto Xhia non furono esausti. Lui aveva la camicia fradicia e il respiro affannoso, mentre Xhia pendeva in silenzio dall'albero, sorretto soltanto dalle cinghie di cuoio, col sangue che gli scorreva dalla schiena e dalle natiche, formando rivoletti scuri che si raccoglievano nella polvere tra i suoi piedi. Soltanto allora Koots fece un passo indietro. «Lasciatelo appeso lì per tutta la notte», ordinò. «Domattina dovrebbe essere più disposto a collaborare. Non c'è niente di meglio di una bella fustigazione per convincere questi swartze a lavorare come si deve.» Xhia voltò lentamente la testa, guardandolo in faccia. A bassa voce gli disse: «Ti darò la morte dei venti giorni. Sarai tu a supplicarmi di ucciderti, alla fine». Koots non capì le parole, ma, quando vide l'odio negli occhi di Xhia, neri come perline, ne comprese benissimo il senso, e fece un passo indietro. «Caporale Richter», disse allora, «dovremo tenerlo legato finché non gli passeranno il dolore alla schiena e il malumore.» Raccogliendo la faretra piena di frecce avvelenate di Xhia, la gettò sul fuoco. «Non lasciategli addosso armi finché non ha imparato la lezione. Non voglio ritrovarmele piantate nella schiena. Sono bastardi insidiosi, questi scimmiotti.» La mattina dopo, Goffel usò la punta della baionetta per estrarre le spine dalle ferite che costellavano la schiena di Xhia, ma alcune erano penetrate troppo a fondo e, nei giorni seguenti, fecero infezione e suppurarono, prima di riaffiorare in superficie. Con l'energia di una creatura selvatica, però, Xhia recuperò in fretta la forza e l'agilità. La sua espressione rimase imperscrutabile; soltanto quando guardava Koots, l'odio scintillava nei suoi occhi color antracite. «Bevi il vento, Xhia», gli disse Koots, assestandogli un colpetto come avrebbe fatto con un cane recalcitrante. «E non guardarmi mai più così, altrimenti distruggerò un altro cripple wood su quella schiena puzzolente che ti ritrovi.» Si voltò per indicare la pista che li aveva condotti in quel punto. «Ora torna indietro e scopri dove Jim Courteney ha deviato.» Tornarono sui loro passi, ripercorrendo il tragitto degli ultimi dieci giorni sulle orme di Xhia. A poco a poco, la schiena lacerata e coperta di croste infette cominciò a guarire. Tuttavia sembrava che, in un certo senso, la fustigazione fosse stata benefica, visto che il boscimano lavorava intensamente. Sollevava di rado lo sguardo da terra, se non per studiare la Wilbur Smith
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configurazione del terreno. Procedevano in fretta perché lui usava come riferimento le proprie tracce, anche se talvolta seguiva una pista per un breve tratto finché non si rivelava falsa o illusoria, e allora tornava a quella principale. Raggiunsero infine lo strato di roccia ignea nera presso la cascata. Erano passati di lì anche all'andata, facendo soltanto una breve pausa. Anche se quello sembrava un posto ideale perché Bakkat inscenasse un inganno, i sospetti di Xhia non si erano destati. Aveva captato quasi subito la pista forte e chiara dalla parte opposta della roccia e l'aveva seguita senza esitare. Scosse la testa. Sono stato un idiota, pensò. Adesso sì che riesco a fiutare nell'aria l'inganno di Bakkat. Annusò l'aria come un cane che fiuta l'usta della caccia. Raggiunse il punto in cui l'altro aveva gettato l'incantesimo per mascherare il suo passaggio, e raccolse un frammento di cenere nera. Esaminandola con attenzione, vide che era cenere dell'albero di tong, l'albero magico. In questo punto ha bruciato il tong e ha gettato il suo incantesimo per ingannarmi. Sono passato oltre con gli occhi bendati. Era in collera perché si era lasciato ingannare con tanta facilità da un uomo che riteneva inferiore a sé per astuzia e abilità magica. Si mise carponi per annusare il terreno. È qui che deve aver pisciato per coprire il suo odore. Ma le tracce erano vecchie di alcuni mesi e neppure il suo naso riuscì a distinguere il residuo di ammoniaca dell'orina di Bakkat. Si alzò di nuovo per rivolgere a Koots il segno di separazione, unendo il palmo delle mani e poi allontanandole con un movimento. «Punto questo», disse col suo olandese atroce, indicando a destra e a sinistra. «Cavalli da quella parte, uomini da questa.» «Per il sangue del crocifisso! Stavolta farai bene ad avere ragione, altrimenti avrò le tue palle, capito?» «No capito.» Xhia scosse la testa. Koots si abbassò per afferrare i genitali di Xhia, e con l'altra mano estrasse il pugnale. Sollevò il boscimano in punta di piedi, tenendolo per lo scroto, poi fece il gesto di passare la lama di traverso sul sacco teso, sfiorando la pelle, ma passando a un soffio. «Ti taglio le palle», ripeté. «Verstaan? Ci siamo capiti?» Xhia annuì in silenzio e Koots lo spinse lontano. «Allora datti da fare.» Si accamparono sulla riva al di sopra della cascata, e Xhia lavorò su Wilbur Smith
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entrambe le rive del fiume per tre miglia a monte e a valle. Prima coprì la riva, ma negli ultimi giorni il fiume doveva essere salito in seguito a una piena e poi era calato di nuovo. A segnare il livello più elevato c'erano erba secca e detriti rimasti impigliati tra i rami degli alberi che crescevano sulle rive. Neanche la pista più battuta sarebbe potuta sopravvivere a quell'inondazione. Allora Xhia si spostò dalla riva, risalendo i pendii fino al punto più elevato raggiunto dall'inondazione. Esaminò il terreno con scrupolo, a palmo a palmo. Ma tutta la sua esperienza e le sue doti magiche non produssero il minimo risultato. La pista era scomparsa, dilavata dall'acqua. Non aveva modo di sapere se Bakkat era andato a monte o a valle. Si trovava di fronte a un muro impenetrabile. Koots aveva già i nervi scoperti e, quando si rese conto che Xhia aveva fallito di nuovo, fu assalito da una crisi di furore ancora più violenta della precedente. Fece legare di nuovo Xhia, ma stavolta lo appese per i piedi sopra un fuoco fumante che alimentò con foglie verdi. I capelli lanosi di Xhia si arricciarono, strinati dal calore, e lui tossì, soffocando e vomitando in mezzo al fumo mentre si dibatteva, contorcendosi all'estremità della corda. Il resto del gruppo abbandonò la partita a dadi per assistere alla scena. Ormai erano tutti annoiati e scoraggiati, e l'attrattiva della ricompensa cominciava ad affievolirsi proprio come la pista si raffreddava ogni giorno di più. Richter e Le Riche avevano già cominciato a minacciare sottovoce di ribellarsi, abbandonando l'inseguimento e fuggendo da quelle montagne scabre e spietate per tornare nella colonia. «Uccidete quella scimmietta», borbottò Le Riche in tono indifferente. «Fatela finita e torniamo a casa.» Invece Koots si alzò, estrasse il pugnale per tagliare la corda che teneva sospeso Xhia, e l'ometto cadde a capofitto tra le braci. Lanciò uno strillo e rotolò lontano dal fuoco, un po' più bruciacchiato di quanto già non fosse. Koots afferrò l'estremità della corda ancora legata alle caviglie e trascinò il boscimano verso l'albero più vicino. Lo legò lì e lo lasciò in quella posizione mentre andava a consumare il pasto di mezzogiorno. Xhia si rannicchiò contro il tronco dell'albero, mormorando tra sé ed esaminando le proprie ferite. Quando Koots ebbe finito di mangiare, rovesciò sul terreno i fondi di caffè rimasti nella tazza e chiamò a gran voce Goffel. Il soldato ottentotto tornò con lui verso l'albero e, insieme, Wilbur Smith
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guardarono Xhia. «Voglio che tu dica, nella sua lingua, a questo piccolo bastardo che lo terrò legato. Non riceverà né cibo né acqua e lo batterò ogni giorno, finché non farà il suo lavoro, ritrovando la pista.» Goffel tradusse quella minaccia e Xhia sibilò con rabbia e si coprì il viso, per dimostrare come la vista di Koots lo offendesse. «Digli anche che non ho fretta», ordinò Koots. «Digli che posso aspettare che si rinsecchisca al sole come la merda di babbuino che è.» La mattina dopo Xhia era ancora legato all'albero, ma, mentre Koots e i suoi soldati facevano colazione con frittelle e salsicce affumicate olandesi, Xhia, usando il linguaggio dei san, chiamò Goffel. Il soldato ottentotto andò ad accovacciarsi davanti a lui e i due parlarono insieme a lungo. Poi Goffel tornò da Koots. «Xhia dice che può trovare Somoya per voi.» «Ebbene, finora non ha concluso granché», replicò Koots, sputando un pezzo di pelle di salsiccia. «Dice che ormai l'unico modo per ritrovare la pista è operare una grande magia.» Le Riche e Richter scoppiarono in una risata sprezzante, e Le Riche disse: «Se ci siamo ridotti a contare sulla magia, io non intendo perdere altro tempo qui. Me ne torno al Capo, e Keyser può ficcarsi la ricompensa nel buco del culo». «Chiudi quella boccaccia», ribatté Koots e, rivolto a Goffel, domandò: «Che specie di magia?» «C'è un luogo sacro sulle montagne dove gli spiriti dei san hanno la loro dimora. Lassù il loro potere è più forte. Xhia dice che, se andremo in quel luogo e faremo un sacrificio agli spiriti, ci sarà rivelata la pista di Somoya.» Le Riche si alzò. «Ne ho abbastanza di tutti questi abracadabra. Li sento da quasi tre mesi e non ci siamo avvicinati neanche un po' ai gulden d'oro.» Prese la sella e si diresse verso il punto in cui stava pascolando il suo cavallo. «Dove vai?» chiese Koots. «Siete sordo o soltanto stupido?» ribatté Le Riche, bellicoso, posando la mano destra sull'elsa della sciabola. «Ve l'ho già detto una volta, e ora ve lo ripeto: io torno al Capo.» «Si chiama diserzione e abbandono del dovere, ma posso capire perché Wilbur Smith
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vuoi andartene», disse Koots in tono così mite che Le Riche parve sorpreso. Poi Koots continuò: «Se c'è qualcun altro che vuole andare con Le Riche, non intendo impedirglielo». Richter si alzò lentamente. «Forse io», annunciò. «Bene», disse Koots. «Ma, se ve ne andate, dovete lasciare tutto ciò che appartiene alla VOC.» «Che significa?» chiese Le Riche. «La sella, le briglie, il moschetto e la sciabola sono di proprietà della Compagnia», rispose Koots. «Anche il cavallo e, naturalmente, gli stivali e l'uniforme, per non parlare della borraccia e della coperta.» Sorrise. «Lasciate pure tutto qui, quindi potrete salutare e andarvene.» Richter, che non si era ancora compromesso, si affrettò a sedersi di nuovo. Le Riche rimase fermo, incerto, spostando lo sguardo da Koots al cavallo che pascolava. Poi s'irrigidì con uno sforzo notevole e sibilò: «Koots... La prima cosa che farò, una volta giunto al Capo, sarà scoparmi vostra moglie, anche se mi costerà cinque gulden». Koots aveva sposato di recente una bella e giovane ottentotta, che si chiamava Nella ed era stata una delle più celebri fille de joie della colonia. Lui l'aveva presa in moglie nel tentativo di assicurarsi i diritti esclusivi sulle sue abbondanti grazie, ma quell'espediente non era del tutto riuscito, e Koots aveva già ucciso un uomo che non aveva rispettato le prerogative del sacro vincolo. Koots guardò il sergente Oudeman, il suo vecchio compagno d'armi. Oudeman era calvo come un uovo di struzzo, ma aveva un bel paio di baffi scuri. Comprese gli ordini silenziosi del capitano, e ammiccò in segno d'intesa. Koots si alzò, stirandosi come un leopardo. Era alto e magro, e i suoi occhi chiari, dietro le ciglia incolori, avevano un'aria minacciosa. «Ah, c'è un altro particolare cui ho dimenticato di accennare», disse poi in tono cupo. «Puoi lasciare qui anche i testicoli. Ora vengo a prenderli.» Con un raschio metallico estrasse la sciabola e si diresse verso Le Riche, che lasciò cadere la sella e si girò di scatto per fronteggiarlo, estraendo la lama dal fodero con un lampo abbagliante. «Era molto tempo che aspettavo un'occasione del genere, Koots», esclamò. «E adesso è arrivata», ribatté lui, sollevando la punta dell'arma e facendosi sotto, mentre Le Riche sollevava la propria. L'acciaio picchiettò contro l'acciaio. Si conoscevano bene; nel corso degli anni, avevano spesso fatto pratica insieme. Si separarono e cominciarono a girare in cerchio. Wilbur Smith
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«Sei colpevole di diserzione», disse Koots. «È mio dovere arrestarti o ucciderti.» Sorrise. «E io preferisco la seconda opzione.» Le Riche si accigliò, abbassando la testa con aria aggressiva. Non era alto come Koots, ma aveva lunghe braccia da scimmia e spalle possenti. Attaccò con una serie di affondi, portando assalti rapidi e decisi, rivelando così il suo punto debole, cioè la mancanza di finezza. E Koots aveva aspettato proprio quel momento: si ritirò di fronte al suo attacco e, quando l'avversario raggiunse il limite del suo allungo, reagì con un affondo degno di una vipera. Le Riche si ritirò appena in tempo, ma aveva la manica tagliata e qualche goccia di sangue colava dal taglio all'avambraccio. S'impegnarono di nuovo, con l'acciaio che grattava e strideva sull'acciaio, ma erano ben abbinati. Separandosi, ricominciarono a girare l'uno intorno all'altro, mentre Koots tentava di portare l'avversario verso il punto in cui era appostato Oudeman, appoggiato al tronco di un'acacia spinosa. Nel corso degli anni, Koots e Oudeman avevano raggiunto un'intesa su come comportarsi in quelle occasioni. Per ben due volte Koots aveva quasi sospinto Le Riche nella posizione giusta perché Oudeman lo finisse, ma lui si era sottratto alla trappola. Oudeman si staccò dall'acacia spinosa per avvicinarsi al fuoco da campo, come se volesse riempire la tazza di caffè; invece tenne la mano destra dietro la schiena. Di solito mirava alle reni, in modo da paralizzare la vittima. Poi il capitano avrebbe finito Le Riche con un colpo alla gola. Koots cambiò la direzione e l'angolazione dell'attacco, spingendo di nuovo Le Riche verso Oudeman, rimasto in attesa. Le Riche fece un balzo all'indietro e si girò di scatto su se stesso, con l'agilità di una ballerina; nello stesso istante, vibrò un colpo di taglio alle nocche della mano in cui Oudeman stringeva il pugnale. Il coltello volò via dalle mani private di sensibilità, e Le Riche si girò di scatto per fronteggiare di nuovo Koots, Sorrideva ancora. «Perché non insegnate al vostro cane un trucco nuovo, Koots? Questo l'ho già visto troppe volte, e comincia a diventare noioso.» Oudeman imprecava, stringendosi la mano ferita, e Koots era rimasto chiaramente sconcertato da quella mossa inattesa di Le Riche. Lanciò un'occhiata al suo complice, staccando gli occhi dal viso di Le Riche, e lui attaccò en flèche, tentando l'assalto della freccia e puntando direttamente alla gola di Koots. Il capitano incespicò all'indietro, perdendo l'equilibrio. Posò un ginocchio a terra e Le Riche lo incalzò. All'ultimo momento, Wilbur Smith
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scorse il lampo di trionfo negli occhi slavati di Koots e tentò di voltarsi, ma aveva il piede destro proteso in avanti e Koots si abbassò, sferrando un colpo al di sotto della sua guardia. La lama d'acciaio affilata come un rasoio tagliò di netto il retro dello stivale destro di Le Riche, e si udì uno schiocco sonoro, mentre il tendine di Achille saltava. Koots si rialzò con prontezza fulminea, balzando all'indietro per sottrarsi al micidiale allungo di Le Riche. «Eccoti un trucco nuovo, caporale! Che te ne sembra?» gli domandò. «E adesso dimmi, di grazia, chi ha fottuto chi?» Dallo squarcio nello stivale di Le Riche sprizzava il sangue, e il caporale si ritrasse, saltellando sull'unica gamba buona e trascinandosi dietro il piede ormai inerte. La sua espressione divenne disperata quando Koots si fece di nuovo sotto, sferrando colpi di taglio e di punta verso il viso. Saltellando su una gamba, Le Riche non poteva sperare di tenerlo a bada, e cadde all'indietro. Approfittando del fatto che era disteso, Koots eseguì il secondo taglio con precisione chirurgica, incidendo il retro dello stivale sinistro dell'avversario e recidendo di netto l'altro tallone. Poi rinfoderò la sciabola e si allontanò con aria sprezzante. Le Riche si mise a sedere, sfilandosi gli stivali uno alla volta, con le mani tremanti e il viso pallido coperto di sudore. Fissò in silenzio quelle ferite terribili, che lo rendevano invalido. Poi si strappò Torlo della camicia per tentare di fasciarle, ma ben presto il sangue filtrò attraverso il tessuto sudicio. Rivolto a Oudeman, Koots gridò: «Togliamo il campo, sergente. Tutti in sella e pronti a partire tra cinque minuti. Il boscimano ci porterà a quel suo luogo sacro». I cavalieri si allontanarono dal campo in fila indiana, seguendo Xhia. Oudeman conduceva per le briglie il cavallo di Le Riche, col moschetto, la borraccia e tutto il suo equipaggiamento legato alla sella. Strisciando, Le Riche tentò di seguirli. «Aspettate! Non potete lasciarmi qui.» Fece per rialzarsi, ma non aveva più il controllo dei piedi, e ricadde. «Vi prego, capitano Koots, abbiate pietà. In nome di Cristo, lasciatemi almeno il moschetto e la borraccia.» Koots voltò il cavallo per guardarlo dall'alto della sella. «Perché dovrei sprecare un equipaggiamento prezioso? Tra poco non ne avrai più bisogno.» Le Riche strisciò verso di lui a quattro zampe, trascinandosi dietro i piedi inerti come pesci arenati sulla spiaggia. Koots arretrò col cavallo, Wilbur Smith
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tenendosi al di fuori della sua portata. «Non posso camminare, e voi mi avete preso il cavallo», implorò l'altro. «Non è vostro, caporale. Appartiene alla VOC», gli fece notare Koots. «Comunque vi ho lasciato gli stivali e i testicoli. Mi sembra di essere stato già abbastanza generoso, per oggi.» Voltò la testa del cavallo per seguire il resto dello squadrone. «Vi prego!» gli strillò dietro Le Riche. «Se mi lasciate qui, morirò.» «Già, è vero», convenne Koots, senza girarsi. «Ma probabilmente non prima che ti abbiano trovato gli avvoltoi e le iene.» Si allontanò. Il suono degli zoccoli dei cavalli si affievolì, e il silenzio delle montagne gravò su Le Riche con un peso tale che lui sentì svanire le ultime stille di coraggio e di determinazione che gli erano rimaste. Non ci volle molto perché il primo avvoltoio cominciasse a planare sulla sua testa, con le ali tese. Torse il capo sul lungo collo rosso e nudo, sbirciando dall'alto Le Riche. Poi, sicuro che era invalido e moribondo, incapace di proteggersi, volò in circolo per andare a posarsi su un pinnacolo di roccia sopra di lui. Allargando le ali massicce, estese gli artigli per fare presa sulla roccia, si posò, col dorso ingobbito, e ripiegò le lunghe ali, fissandolo impassibile. Era un uccello enorme, nero e barbuto. Le Riche strisciò verso l'albero di acacia spinosa più vicino, appoggiandosi con la schiena al tronco. Raccolse tutti i sassi che erano alla sua portata, ma il risultato fu una pila minuscola, penosa. Scagliò uno dei sassi contro l'avvoltoio accovacciato, ma la gittata era lunga e il lancio mancava di forza, dal momento che lui era seduto. Il grande uccello batté le palpebre, ma non si mosse nemmeno. Dall'albero era caduto un ramo, che si trovava alla portata di Le Riche. Era troppo pesante e aveva una forma che impediva d'impugnarlo in modo efficace; ciò nonostante lui se lo mise in grembo. Era l'arma di chi non aveva più risorse, ma, osservando il grosso avvoltoio, il caporale comprese che sarebbe stata del tutto inadeguata. L'uomo e l'uccello si studiarono per il resto del giorno. Una volta l'avvoltoio gonfiò le piume e se le lisciò con cura, ma poi tornò all'immobilità di prima. Quando scese il buio, Le Riche si rese conto di avere una gran sete; inoltre il dolore ai piedi era quasi insopportabile. La silhouette dell'avvoltoio, sullo sfondo delle stelle, aveva un che di diabolico. Le Riche pensò di piombargli addosso di sorpresa mentre dormiva e strangolarlo a mani nude, ma, quando tentò di muoversi, il Wilbur Smith
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dolore ai piedi lo immobilizzò: gli parve di avere i ceppi alle caviglie. Il gelo di mezzanotte gli risucchiò le forze vitali, facendolo scivolare nell'incoscienza del delirio. A svegliarlo furono il tepore del sole sul viso e il suo riverbero negli occhi. Per parecchi secondi non capì nemmeno dov'era, tuttavia, quando cercò di muoversi, il dolore ai piedi lo trattenne e gli riportò alla mente con intensità l'orrore della situazione in cui versava. Gemette e voltò la testa, poi, come impazzito, lanciò un urlo. L'avvoltoio era sceso dal suo posatoio sul pinnacolo di roccia e stava appollaiato a poca distanza da lui, appena fuori della sua portata. Fino a quel momento, il caporale non si era reso conto delle dimensioni di quella creatura, che sembrava torreggiare su di lui. Da vicino, era ancora più orribile. La testa nuda e il collo erano di un rosso vivido e scaglioso; inoltre emanava un fetore di carogna. Le Riche prese un sasso dalla pila al suo fianco e lo scagliò con tutta la sua forza. Il sasso sfiorò appena il lucente piumaggio funereo dell'avvoltoio, che allargò le grandi ali, più ampie della sua altezza, e spiccò un saltello all'indietro. Poi ripiegò di nuovo le ali. «Vattene, sudicia bestiaccia!» singhiozzò lui in preda al terrore. Al suono della sua voce, l'uccello gonfiò le piume e abbassò la testa mostruosa sulle spalle. Quella tuttavia fu la sua unica reazione. La giornata si trascinò e il calore del sole crebbe finché Le Riche non ebbe l'impressione di essere intrappolato in un forno. Ormai respirava a stento e la sete lo torturava. L'avvoltoio, immobile come il doccione di una cattedrale, lo fissava. D'un tratto, Le Riche si sentì mancare, come se fosse risucchiato nelle tenebre da una forza irresistibile. L'avvoltoio dovette intuirlo, perché spiegò le ali, quasi a formare un baldacchino nero, e, lanciando uno squittio gutturale, si slanciò verso di lui, saltellando sugli artigli allargati. Il becco acuminato si spalancò, e Le Riche lanciò un urlo di terrore, afferrando il ramo che teneva pronto sulle ginocchia per sferrare un colpo alla cieca. Riuscì a sfiorare il becco nudo, ma il colpo aveva appena la forza sufficiente per far perdere l'equilibrio all'avvoltoio, il quale tuttavia usò le ali per recuperare stabilità e sottrarsi di nuovo alla sua portata. Infine ripiegò le ali e riprese la sua veglia imperscrutabile. Fu proprio l'inesauribile pazienza dell'avvoltoio a spingerlo oltre i confini della sanità mentale. Continuò a delirare, farfugliando con le labbra gonfie dalla sete e screpolate dal sole ardente, finché il sangue non gli colò Wilbur Smith
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dal mento. L'avvoltoio non si mosse mai, se non per battere le palpebre sugli occhi scintillanti. Nella sua follia, Le Riche gli scagliò contro il prezioso bastone, l'arma che si era riservato di usare come ultima risorsa. E l'avvoltoio alzò le ali e lanciò un gracidio, mentre il bastone gli sfiorava il piumaggio coriaceo, poi si dispose nuovamente ad aspettare. Il sole raggiunse lo zenit, e Le Riche delirava, gridando e sfidando Dio e Satana, imprecando contro l'uccello paziente. Raccolse manciate di sabbia e polvere per gettargliele contro, spezzandosi le unghie fino alla carne viva. Si succhiò il sangue dalle dita per placare la sete con quel fluido, ma il terriccio gli impastò la lingua gonfia. Ripensò al ruscello che avevano attraversato lungo la strada, ma era più indietro di almeno mezzo miglio, all'imbocco della valle. L'immagine dell'acqua fredda che scendeva scrosciando eccitò la sua follia. Lasciando il rifugio illusorio dell'acacia spinosa, cominciò a strisciare lentamente indietro lungo il sentiero roccioso verso il fiume. I piedi strisciavano inerti sul terreno dietro di lui, e i tagli lasciati dalla sciabola, già chiusi dalle croste, si riaprirono e ripresero a sanguinare. L'avvoltoio fiutò il sangue e lanciò versi rochi, saltellando dietro di lui. Le Riche riuscì a coprire meno di cento passi, poi si disse: Ora mi riposo un po'. Appoggiando la testa sul braccio, scivolò nell'incoscienza. Lo svegliò il dolore. Era come se una dozzina di punte di lancia gli si fossero conficcate nella schiena. L'avvoltoio gli stava appollaiato tra le scapole, con gli artigli ricurvi affondati nelle carni. Sbatacchiava le ali per mantenere l'equilibrio mentre abbassava la testa e gli strappava la camicia con un fendente del becco, prima di affondare la punta aguzza e affilata, strappandogli una lunga striscia di carne. Le Riche lanciò un grido isterico, poi si rotolò nel tentativo di schiacciare l'avvoltoio sotto il peso del suo corpo, ma quello si alzò con uno stridio, posandosi di nuovo sul terreno a poca distanza da lui. Benché avesse ormai la vista offuscata, lo vide tendere il collo per deglutire e mandare giù il boccone. Poi alzò la testa per guardarlo di nuovo, sostenendo il suo sguardo senza incertezze. Sapeva che l'uccello aspettava di vederlo scivolare ancora una volta nell'incoscienza. Si mise a sedere e cercò di rimanere lucido, cantando e gridando contro l'avvoltoio, battendo le mani, ma a poco a poco la voce divenne un borbottio incoerente, le braccia gli ricaddero ai lati del corpo e gli occhi si chiusero. Wilbur Smith
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Stavolta, quando si ridestò, non riusciva a credere all'intensità del dolore che rischiava di sopraffarlo. Sentiva intorno alla testa un turbinio frenetico di ali e aveva l'impressione che gli avessero conficcato un gancio d'acciaio nell'orbita, cercando di estrargli il cervello dal cranio. Si dibatté debolmente, restando supino, ma non aveva più la forza di gridare. Tentò di aprire gli occhi, ma invano; sentiva rivoli di sangue caldo scendergli sul viso, inondando la bocca e le narici sino a farlo soffocare. Si protese con entrambe le mani, stringendo il collo squamoso del volatile, poi si rese conto che l'avvoltoio gli aveva conficcato il becco in una delle orbite e gli stava estraendo la pupilla, attaccata al lungo cordoncino gommoso del nervo ottico. Cominciano sempre dagli occhi, pensò infine, rassegnato e incapace di opporre ancora resistenza. Accecato e ormai troppo debole per alzare le mani, sentì l'avvoltoio che, a poca distanza da lui, inghiottiva la sua pupilla. Tentò di sbirciare con l'occhio che gli restava, ma era investito da un fiotto di sangue troppo copioso perché potesse respingerlo battendo le palpebre. Poi sentì di nuovo lo spostamento d'aria provocato dalle ali pesanti che sbattevano intorno alla sua testa. L'ultima cosa che percepì fu la punta del becco che penetrava in fondo all'altro occhio. Oudeman seguiva da vicino Xhia, tenendolo al guinzaglio come un cane da caccia. Sapevano tutti che, se il boscimano li avesse lasciati, magari sgattaiolando via nella notte, nessuno di loro avrebbe avuto la possibilità di tornare nella colonia, ormai lontana, finendo per perdersi in quel territorio inesplorato. Dopo il trattamento ricevuto da Koots, quell'eventualità era diventata più che probabile, quindi tutti sorvegliavano a turno Xhia, tenendolo legato alla corda giorno e notte. Attraversato un altro ruscello dalle acque limpide, superarono un angolo nella valle tra due pinnacoli di roccia, e si aprì davanti a loro una vista straordinaria. Si erano ormai abituati alla grandiosità selvaggia di quelle montagne, ma a quel punto tirarono le redini dei cavalli per osservare sbigottiti quel panorama. Con gli occhi fissi sulle pareti di roccia che svettavano davanti a loro, Xhia cominciò a cantare, un canto lamentoso e monotono, strisciando i piedi sul terreno e danzando. Persino Koots sembrava colpito. Le pareti frastagliate di roccia sembravano sfiorare il cielo, e le nubi si riversavano dalla sommità come latte versato. Wilbur Smith
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D'un tratto Xhia spiccò un balzo e lanciò un grido spaventoso, che fece trasalire Koots, il quale si sentì percorrere dai brividi. Il grido fu raccolto da quel grande bacino di roccia e riverberò in un glissando di echi discendenti. «Ascolta le voci dei miei progenitori che mi rispondono», gridò Xhia, spiccando un altro balzo. «Oh, santi, oh, saggi, concedetemi di entrare.» «Entrare! Entrare!» gli rispose l'eco, e il boscimano, continuando a danzare e cantare, guidò gli altri nella salita del ghiaione fino ai piedi delle rocce. Le pareti di pietra, ricoperte di licheni, parevano sospese, e le nubi che volavano sulle cime creavano l'illusione che la parete stesse per rovesciarsi su di loro. Il vento che sibilava fra le torrette e le torri di pietra sembrava un coro di voci dei trapassati. I soldati rimasero in silenzio, mentre i cavali1 scalpitavano, innervositi. Giunti a metà del ghiaione, trovarono un masso imponente che sbarrava loro la strada. Doveva essere precipitato in tempi remoti, staccandosi dalla parete e rotolando fino al luogo in cui aveva trovato finalmente riposo. Aveva le dimensioni di una casetta ed era quasi perfettamente rettangolare, tanto che pareva foggiato da mani umane. Koots si accorse che, nel lato più vicino del blocco di pietra, si apriva un piccolo santuario naturale, occupato da una strana collezione di oggetti. C'erano corna di blaubok e rhebok tanto antiche da essere ricoperte di bozzoli di coleotteri, un teschio di babbuino e le ali di un airone, disseccate e rese friabili dal tempo, una zucca svuotata e piena per metà di belle agate e frammenti di quarzo smussati e levigati dall'acqua, una collana di perline ritagliate dal guscio di un uovo di struzzo, punte di freccia di selce e una faretra ormai marcia e spaccata. «Qui dobbiamo lasciare doni per l'Antico Popolo», disse Xhia, e Goffel tradusse. Koots sembrò a disagio. «Che specie di doni?» «Qualcosa da mangiare e da bere, e qualcosa di grazioso», rispose Xhia. «La vostra bottiglia lucente.» «No!» ribatté Koots, ma senza convinzione. Aveva razionato le ultime dita di gin olandese, riducendosi a berne solo un sorso ogni tanto. «L'Antico Popolo andrà in collera», lo ammonì Xhia. «Nasconderà il segno.» Koots esitò, poi, a malincuore, slacciò il lembo della sacca per tirar fuori la fiasca d'argento. Xhia tese la mano per prenderla, ma Koots non lasciò Wilbur Smith
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la presa. «Se mi deludi ancora, non saprò che farmene di te, se non per ingrassare gli sciacalli», sibilò poi, consegnandogli la fiasca. Canticchiando sommessamente, Xhia si avvicinò al santuario e versò alcune gocce di gin lungo la parete di roccia. Quindi prese un sasso grosso come un pugno e ammaccò la fiasca d'argento. Koots fece una smorfia, ma rimase in silenzio. Xhia depose la fiasca nella nicchia insieme con le altre offerte e indietreggiò, continuando a cantare piano. «E ora che si fa?» chiese Koots. Quel posto lo innervosiva; avrebbe voluto andarsene. «E la pista?» «Se gli avi sono contenti del dono, ce lo riveleranno. Dobbiamo entrare nei luoghi sacri», spiegò Xhia a Goffel. «Prima dovete togliermi questa corda dal collo, altrimenti gli avi dell'Antico Popolo andranno in collera, vedendo che trattate in questo modo uno della loro tribù.» Koots aveva un'aria dubbiosa, ma la richiesta di Xhia sembrava dettata dal buonsenso. Allora estrasse il moschetto dal fodero e armò il cane. «Digli che non deve allontanarsi», ordinò a Goffel, aspettando che traducesse per il boscimano. «Se cercherà di fuggire, lo inseguirò a cavallo e gli sparerò come se fosse un cane rabbioso. Quest'arma è caricata a pallini e lui mi ha visto sparare. Sa che non fallisco il colpo.» Si voltò verso Oudeman, ordinando: «Liberalo». Xhia non tentò di fuggire, e gli uomini lo seguirono fino alla base della parete di roccia. Poi, di colpo, il boscimano svanì, come per effetto della magia dei suoi avi. Con un grido di allarme, Koots spronò il cavallo, tenendo il moschetto puntato, finché non tirò bruscamente le redini per fissare sbalordito lo stretto passaggio tra le rocce che si apriva davanti a lui. Xhia era scomparso nei recessi oscuri di quel passaggio, ma Koots esitava a seguirlo. Vide subito che, una volta lì dentro, il passaggio sarebbe stato troppo stretto per consentirgli di voltare il cavallo. Anche i suoi uomini, dietro di lui, titubavano. «Goffel!» gridò Koots. «Entra là dentro e tira fuori quel piccolo bastardo.» Il soldato guardò indietro, verso il pendio alle loro spalle, ma Koots gli puntò contro il moschetto col cane già alzato. «Perdio, se non posso avere Xhia, mi accontento di te», sibilò. In quel momento, sentirono la voce di Xhia uscire dall'imboccatura del Wilbur Smith
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passaggio: stava cantando. «Che dice?» chiese Koots. Goffel, enormemente sollevato, replicò: «È il suo canto di vittoria. Ringrazia le divinità per la benevolenza che gli hanno dimostrato, rivelandogli la pista». La diffidenza di Koots si dissolse. Scese da cavallo per addentrarsi a piedi nel passaggio. Oltre la prima curva trovò Xhia che cantava, batteva le mani e ridacchiava di trionfo. «Che hai scoperto?» «Guarda sotto i tuoi piedi, babbuino bianco», rispose Xhia, facendo in modo che l'altro non capisse l'insulto, ma indicando la sabbia bianca calpestata. Koots comprese il gesto, ma rimase incerto. Ogni definizione della pista era cancellata ormai da tempo, e la traccia appariva soltanto come un lieve incavo nella superficie. «Come può avere la certezza che questa sia la nostra preda?» chiese Koots a Goffel, non appena l'ottentotto si avvicinò. «Potrebbe essere qualsiasi cosa, anche un branco di quagga o di antilopi alcine.» Xhia respinse l'obiezione con una rapida sequela di dinieghi, e Goffel parlò per lui. «Xhia dice che questo è un luogo sacro. Nessun animale selvatico passa mai di qui.» «Non ci credo!» replicò sprezzante Koots. «Come può saperlo, un animale?» «Se non senti la magia neanche qui, vuol dire che i tuoi occhi sono ciechi e le tue orecchie sorde», sentenziò Xhia, che comunque si avvicinò alla parete più vicina per scrutarla con attenzione. Poi cominciò a raccogliere qualcosa dalla roccia, con movenze simili a quelle dei babbuini che vogliono spidocchiare il cranio dei compagni. Qualunque cosa fosse, la raccolse nel palmo della mano, poi tornò da Koots e, tenendola tra pollice e indice, gliela porse. Koots dovette guardare da vicino per capire che si trattava di un pelo. «Osserva, mangiatore di sterco, coi tuoi occhi slavati e disgustosi!» gli disse Xhia, in modo che lui non potesse capire. «Questo pelo bianco proviene dalla spalla del castrone, Frost. Questo marrone e serico è di Trueheart, che lo ha perso quando ha toccato la roccia, e questo giallo di Lemon, e questo scuro appartiene al cavallo di Somoya, Drumfire.» Si lasciò sfuggire un sibilo sprezzante. «E ora ammetti che Xhia è il cacciatore più possente di tutti i san, che ha operato una grande magia e che ti ha rivelato la pista?» «Di' a quella piccola scimmia gialla di smetterla, e di portarci sulle loro Wilbur Smith
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tracce», borbottò Koots a Goffel, cercando, senza riuscirci, di mascherare l'euforia che provava. «Che fiume è, quello?» domandò Koots. Erano fermi sulla vetta e guardavano le montagne, contemplando un panorama di pianure sconfinate e praterie ondulate che si estendevano fino a un'altra catena di colline, di un azzurro pallido sullo sfondo azzurro latteo del cielo africano a mezzogiorno. «Viene chiamato Gariep», tradusse Goffel. «O meglio, nel linguaggio dei san, Gariep Che Tabong, 'il fiume dove morì l'elefante'.» «Perché si chiama così?» volle sapere Koots. «Perché, in riva a quel fiume, Xhia, da giovane, ha ucciso il grande elefante che seguiva da molti giorni.» Koots grugnì. Da quando il boscimano aveva ritrovato la pista, era meglio disposto nei suoi confronti. Attingendo alla piccola farmacia da campo che trasportava sul cavallo da soma, gli aveva persino fatto curare le scottature e le altre ferite. Xhia era guarito in fretta, con la rapidità degli animali selvatici. «Digli che, se riesce a scoprire in che punto Somoya ha guadato questo fiume, gli darò una bella vacca tutta per lui, quando torneremo alla colonia. E se riuscirò, tramite lui, a catturare o a uccidere Somoya, gli darò altre cinque vacche belle grasse.» Koots si stava pentendo del trattamento brutale che aveva inflitto al boscimano. Sapeva che, se voleva raggiungere i fuggiaschi, doveva fare ammenda e riconquistarsi la lealtà di Xhia. Quella promessa di ricchezza fu accolta con gioia da Xhia. Erano ben pochi i san che possedevano una pecora, figurarsi un bovino. Come accade nei bambini, in lui il ricordo dei maltrattamenti subiti sbiadì di fronte all'offerta di una ricompensa. Si avviò in discesa verso le pianure e il fiume con tale zelo che Koots, anche procedendo a cavallo, faticava a non perderlo di vista. Una volta raggiunto il fiume, trovarono intorno a quelle acque un tal numero di animali selvatici che Koots stentava a crederci. Le mandrie all'interno del territorio della colonia erano state oggetto di una caccia intensa fin dall'epoca in cui i primi olandesi, sotto la guida del governatore van Riebeeck, avevano messo piede sul continente, quasi ottant'anni prima. I liberi cittadini della colonia erano tutti cacciatori entusiasti, che indulgevano a quel passatempo non soltanto per l'emozione della caccia, ma anche per la carne, le pelli e l'avorio che se ne potevano Wilbur Smith
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ricavare. Entro i confini della colonia, a qualsiasi ora del giorno, si poteva sentire il rombo dei lunghi roer e, nella stagione delle grandi migrazioni sulle pianure, si organizzavano imponenti spedizioni a cavallo per dare la caccia ai cavalli selvatici, ai quagga per la pelle e alle antilopi saltanti e alcine per la carne. Dopo una di quelle jag, gli avvoltoi oscuravano il cielo e il fetore della morte aleggiava nell'aria per mesi e mesi. Infine le ossa calcinate restavano sul terreno quasi fossero aiuole di gigli candidi come la neve e scintillanti al sole. Come conseguenza di quelle attività predatorie, il numero degli animali si era fortemente ridotto e, nelle immediate vicinanze della città e del castello, anche i quagga erano ormai una rarità. Gli ultimi branchi di elefanti erano stati respinti dalle frontiere della colonia quarant'anni prima, e soltanto qualche cacciatore tenace faceva occasionalmente un viaggio di mesi, e persino di anni, nei territori inesplorati per inseguirli. In realtà erano pochi i bianchi che si avventuravano così lontano dalla sicurezza della colonia, cosicché quell'incredibile adunanza di animali allo stato brado era un'autentica rivelazione per Koots. Sui monti, la selvaggina era stata scarsa, e tutti avevano fame di carne fresca. Koots e Oudeman spronarono i cavalli, precedendo il resto dello squadrone, e, accelerando la corsa, raggiunsero un branco di giraffe che stava brucando i rami alti di un gruppo isolato di acacie. Quelle creature gigantesche correvano con un poderoso movimento di oscillazione, schiaffeggiandosi le anche con la coda cespugliosa e spingendo in avanti il lungo collo sinuoso, come per controbilanciare il corpo massiccio. Koots e Oudeman isolarono una giovane femmina da un branco che comprendeva una dozzina di capi e, galoppando all'impazzata sulle sue tracce, in mezzo alla grandinata di sassi e ciottoli sollevati dai suoi zoccoli che sibilavano intorno alle loro orecchie, le spararono al dorso, tentando di conficcarle un proiettile nella cresta della spina dorsale, che spiccava nitida sotto la pelle maculata marrone e gialla. Alla fine, Koots la incalzò così da vicino da riuscire quasi a sfiorarla con la canna del moschetto, e stavolta il proiettile andò a segno. Le recise la spina dorsale, e la femmina si accasciò a terra in una nuvola di polvere e sassi. Il capitano smontò per ricaricare e, non appena poté sparare di nuovo, si avvicinò correndo alla preda che ancora si dibatteva debolmente. Evitando con agilità i movimenti convulsi delle lunghe zampe anteriori - che avrebbero potuto spezzare la spina dorsale di Wilbur Smith
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un leone lanciato all'attacco -, le sparò un altro colpo alla parte posteriore del cranio. Quella notte, mentre le iene lanciavano il loro verso stridulo, litigando con un branco di leoni per disputarsi il possesso di quel che restava della sua colossale carcassa, Koots e i suoi uomini banchettarono intorno al fuoco da campo col midollo dei lunghi femori della giraffa. Spezzando in mezzo a due rocce le ossa arrostite, estrassero i lunghi cilindri del ricco midollo giallo, che aveva il diametro del braccio di un uomo ed era lungo il doppio della sua statura. All'alba, svegliandosi, Koots trovò Goffel, che avrebbe dovuto montare la guardia, addormentato, e Xhia sparito. Furioso, prese l'ottentotto a calci nello stomaco e all'inguine, poi lo sferzò con una briglia, colpendolo, con l'estremità e le parti metalliche del morso, sulle spalle e sul cuoio capelluto rasato. Alla fine fece un passo indietro, ringhiando: «Ora trova la pista e cattura quella piccola scimmia gialla, altrimenti assaggerai ancora un po' di zenzero». Xhia non aveva neppure tentato di coprire le sue tracce, quindi Goffel non ebbe difficoltà a seguirle. Montarono in sella senza fare colazione per inseguire Xhia prima che riuscisse a dileguarsi. Koots sperava d'individuarlo anche a distanza, su quella pianura aperta. Senza contare che neppure un boscimano poteva sperare di distanziare un buon cavallo. La pista di Xhia li portò direttamente verso il nastro verde scuro della vegetazione fluviale che segnava il corso del fiume Gariep. Erano appena a metà strada, quando Koots vide davanti a sé i branchi di antilopi saltanti che si esibivano in evoluzioni frenetiche, spiccando balzi con le zampe riunite e il naso che sfiorava gli zoccoli anteriori, spiegando la lunga striscia di peli bianchi. «C'è qualcosa che li allarma», spiegò Goffel. «Forse è il boscimano.» Koots spronò il cavallo. Poi, in mezzo alla polvere sollevata dalle acrobazie delle antilopi saltanti, avvistò una minuscola figura familiare che trotterellava verso di loro. «Per il fiato di Satana!» imprecò Koots. «È lui. È Xhia, e sta tornando indietro!» E infatti il boscimano stava andando loro incontro a passo di danza. Poi intonò una litania di trionfo e soddisfazione: «Io sono Xhia, il più grande cacciatore di tutta la tribù. Io sono Xhia, il prediletto degli antenati. I miei occhi sono come la luna, perché vedono tutto, anche di notte. Le mie Wilbur Smith
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frecce sono veloci come rondini in volo, e nessun animale può sfuggire loro. La mia magia è così potente che nessun uomo può evitarla». Quello stesso giorno, Xhia li condusse verso il fiume Gariep, e mostrò a Koots i solchi delle ruote di molti carri incisi in profondità nel molle terreno alluvionale lungo le rive. «Da questa parte sono passati quattro carri grandi e uno piccolo.» Servendosi di Goffel come interprete, spiegò a Koots il significato di quei segni. «Insieme coi carri c'erano molti animali, cavalli, bovini e alcune pecore. Vedete qui? Il carro piccolo è tornato verso la colonia, ma i quattro carri grandi sono andati avanti, verso i territori inesplorati.» «Di chi sono questi carri?» gli chiese Koots. «In tutta la colonia, ci sono pochi burgher abbastanza ricchi da permettersi cinque carri. Uno di loro è Klebe, il padre di Somoya.» «Non capisco», disse Koots, scuotendo la testa. Goffel spiegò: «A quanto pare, mentre Bakkat e Somoya ci attiravano in un folle inseguimento attraverso le montagne, Klebe è venuto qui al Gariep con questi carri. Quando Somoya ci ha rubato i cavalli e ha capito che non potevamo più seguirlo, è tornato qui per incontrarsi col padre». «E il carro piccolo che è tornato verso la colonia?» volle sapere Koots. Xhia si strinse nelle spalle. «Forse, dopo aver lasciato al figlio i carri grandi, Klebe è tornato al Capo.» Toccò i solchi delle ruote con la punta del piede. «Vedete come sono profondi i segni delle ruote nel terreno? Sono molto carichi.» «Come fa Xhia a sapere tutto questo?» domandò Koots. «Perché sono Xhia e ho gli occhi come la luna, che vede tutto.» «Questo vuol dire che il piccolo bastardo tira a indovinare.» Koots sollevò il cappello per asciugarsi il sudore. «Se seguiremo i carri, Xhia ve ne darà la prova», suggerì Goffel. «In caso contrario, potrete sparargli e risparmiare il costo dei capi di bestiame che gli avete promesso.» Koots si rimise il cappello. Nonostante l'espressione arcigna, in quell'istante si sentiva più fiducioso nel successo finale. Anzi, da quando avevano lasciato la colonia, non si era mai sentito così sicuro. È evidente che trasportano un carico notevole. Può darsi che quei carri valgano quasi quanto il denaro della taglia, pensò, guardando verso l'orizzonte che tremolava per il caldo, nella direzione in cui puntavano le tracce. Quaggiù non valgono le leggi del mondo civile. O la taglia o il carico... In un modo Wilbur Smith
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o nell'altro, fiuto un bel profitto in questa storia. Smontò da cavallo per ispezionare con maggiore attenzione le tracce dei carri, concedendosi il tempo per riflettere. «Da quanto tempo sono passati di qui i carri?» chiese poi. Goffel riferì la domanda a Xhia. «Da alcuni mesi. È impossibile dire di più. Ma i carri viaggiano lentamente, mentre i cavalieri vanno in fretta.» Koots annuì, rivolto a Goffel. «Bene, molto bene! Digli di seguire la pista e trovare le prove circa l'identità del proprietario di questi carri.» Quelle prove le trovarono un centinaio di leghe più avanti, dodici giorni dopo. Raggiunsero un luogo in cui uno dei carri era finito nella cavità di un formicaio, rimanendo gravemente danneggiato. Alcuni raggi delle ruote anteriori si erano spezzati e i viaggiatori si erano accampati sul posto per alcuni giorni, in modo da eseguire le riparazioni. Avevano piallato e raschiato il legno per ricavarne raggi nuovi, scartando quelli danneggiati. Xhia recuperò alcuni dei frammenti che erano stati gettati in mezzo all'erba, ridacchiando di trionfo. «Xhia non ti ha forse detto questa verità e quell'altra? E voi gli avete creduto? No! Tu non gli hai creduto, stupida larva bianca.» Brandì il frammento di legno. «Sappi ora, una volta per tutte, uomo bianco, che Xhia vede tutto e sa tutto!» Portò a Koots il pezzo di legno e gli mostrò il disegno impresso a fuoco. «Conoscete questa figura?» domandò, e Koots gli rispose con un sorriso da lupo e un cenno di assenso, riconoscendolo. Era l'immagine stilizzata di un cannone, un pezzo da nove libbre a canna lunga con tutto l'affusto. Sul cartiglio sottostante c'erano le lettere CBTC. Koots aveva visto la stessa immagine sulla bandiera che sventolava sul magazzino di High Weald, nonché sul frontone dell'edificio principale, e sapeva che quella sigla stava per «Courteney Brothers Trading Company»; indicava cioè l'impresa commerciale dei fratelli Courteney. Convocò gli uomini per mostrare loro quel frammento di legno e tutti se lo passarono di mano in mano. Conoscevano fin troppo bene quel disegno. L'intera popolazione della colonia contava meno di tremila anime e, all'interno dei suoi confini, tutti sapevano tutto degli altri. Dopo il governatore van de Witten, i fratelli Courteney erano gli uomini più ricchi e influenti della colonia. Il loro emblema era quasi altrettanto noto di quello della VOC. I fratelli lo imprimevano su tutto ciò che apparteneva loro, dagli edifici alle navi e ai carri. Era il sigillo che usavano sui documenti, il marchio dei loro cavalli e del loro bestiame. Ormai non Wilbur Smith
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c'erano più dubbi su chi stesse guidando il convoglio di carri che stavano seguendo. Koots studiò il gruppo dei suoi uomini, poi scelse Richter. Gli gettò il frammento di legno e, mentre lo esaminava, domandò: «Caporale, sai cosa tieni in mano?» «Sì, capitano, signore. È il raggio di una ruota.» «No, caporale!» ribatté lui. «Quello che tieni in mano equivale a migliaia di gulden in monete d'oro.» Spostò lo sguardo dal viso dei due bianchi, Oudeman e Richter, alle facce gialle o color cioccolato di Goffel, Xhia e degli altri ottentotti. «C'è qualcuno di voi che vuole tornare a casa, adesso? Diversamente da quanto ho fatto con quel miserabile bastardo di Le Riche, stavolta vi lascerò prendere il cavallo, se ve ne andrete. Il denaro della ricompensa non è tutto. Ci sono anche quattro carri, e una mandria di animali domestici. Anche Xhia otterrà più dei sei capi di bestiame che gli ho promesso. E gli altri? Insomma, qualcuno vuole tornare a casa, sì o no?» Si scambiarono un sogghigno, come un branco di cani selvatici a caccia, con l'usta di una preda ferita nelle narici, poi scossero la testa. «E c'è anche la ragazza. Per caso qualcuno di voi neri bastardi vuole giocare un po' con una ragazza bianca dai capelli d'oro?» Il suggerimento scatenò un'altra risata, sonora e lasciva. «Devo chiedervi scusa, ma uno di noi non avrà questo piacere.» Li squadrò, riflettendo. C'era un soldato ottentotto del quale avrebbe fatto volentieri a meno. Si chiamava Minna ed era strabico. Ciò gli conferiva un'espressione subdola e maligna, che, secondo Koots, rifletteva esattamente la sua vera natura. Minna non faceva che lamentarsi e starsene imbronciato da quando avevano lasciato la colonia, ed era l'unico che non mostrasse il minimo entusiasmo al pensiero di seguire le tracce dei carri di Jim Courteney. «Minna, tu e io siamo fratelli di sangue guerriero», gli disse, passandogli un braccio intorno alle spalle. «Quindi mi dispiace molto che dobbiamo separarci. D'altra parte, ho bisogno di un uomo fedele e in gamba che porti un messaggio al colonnello Keyser, al castello. Devo informarlo del successo della nostra spedizione. Tu, mio caro e leale Minna, sei l'uomo perfetto per questo compito. Chiederò al colonnello di ricompensarti con generosità e, chissà, col lavoro di oggi potresti anche guadagnarti i galloni e qualche moneta d'oro da metterti in tasca.» Wilbur Smith
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Per comporre il messaggio, Koots meditò sul taccuino sudicio quasi un'ora. Sapeva che Minna era del tutto analfabeta e quindi, dopo aver esaltato i propri successi nello svolgimento della missione, aggiunse al suo rapporto per il colonnello Keyser un paragrafo finale che recitava così: «L'uomo che porta questo messaggio, il soldato semplice Johannes Minna, è privo di qualsiasi dote militaresca. Mi permetto rispettosamente di suggerire che venga privato del grado e dei privilegi e congedato dal servizio della Compagnia senza i benefici della pensione». E questo sgombra il campo da qualsiasi obbligo che io possa avere di dividere la taglia con Minna, quando riporterò alla colonia la testa di Jim Courteney, pensò con soddisfazione, ripiegando il messaggio. «Non devi fare altro che seguire le tracce dei carri, e ti ritroverai al capo di Buona Speranza», disse a Minna. «Xhia dice che ci vogliono meno di dieci giorni di viaggio.» Gli consegnò il messaggio e il frammento di legno. «Consegna tutto al colonnello Keyser in persona.» Minna si abbandonò a un sogghigno compiaciuto, dedicandosi con alacrità a sellare il cavallo. Non credeva alla sua fortuna: si poteva sottrarre a quel viaggio terribile e, per giunta, avrebbe ottenuto una bella ricompensa. I giorni correvano più veloci del lento girare delle ruote dei carri. Le ore sembravano troppo brevi per poter godere appieno di tutte le meraviglie che osservavano, o per assaporare le avventure grandi e piccole che vivevano ogni giorno. Se non fosse stato per il diario che Louisa teneva con tanto impegno, avrebbero perso ben presto il conto di quei giorni; anzi, lei era costretta a pungolare Jim per indurlo a mantenere la promessa fatta al padre. Lui eseguiva le osservazioni solari della loro posizione soltanto quando lei insisteva, e ne registrava i risultati. Jim era più affidabile per quanto riguardava la ricerca dell'oro, e setacciava scrupolosamente la sabbia di tutti i fiumi che attraversavano, alla ricerca del prezioso metallo. In molte occasioni, trovò un residuo di polvere metallica di un giallo luminoso lungo il bordo della padella, ma la sua eccitazione svaniva quando analizzava i residui con l'acido muriatico preso dalla cassa che conteneva il necessario per la ricerca dell'oro, e il metallo dorato si dissolveva, gorgogliando. «Pirite di ferro! L'oro dei farlocchi!» esclamava con amarezza, rivolto a Louisa. «Come si prenderebbe gioco di me il vecchio Humbert, scoprendo Wilbur Smith
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quanto sono idiota.» Tuttavia la delusione e l'amarezza di Jim non duravano a lungo e, nel giro di poche ore, lui ritrovava l'entusiasmo iniziale. Quell'ottimismo fanciullesco era una delle qualità che lo rendevano caro a Louisa. Jim cercò anche segni di altre presenze umane, ma ne trovò pochissime. Una volta scoprirono tracce di ruote di carri preservate dalla crosta di uno stagno salato, ma Bakkat dichiarò che erano molto antiche. Consapevole che la nozione del tempo di Bakkat era molto diversa da quella dei bianchi, Jim insistette. «Che cosa significa 'molto antiche', Bakkat?» «Queste tracce sono state fatte prima che tu nascessi, Somoya», spiegò il boscimano. «L'uomo che le ha lasciate col suo carro probabilmente è già morto di vecchiaia.» C'erano altri segni più recenti di passaggi umani, e appartenevano al popolo di Bakkat. Ogni volta che trovavano un riparo nella roccia o una caverna nel pendio di una collina o di un kopje, di solito scoprivano che le pareti di roccia erano decorate da dipinti bizzarri, dai colori vivaci. Spesso c'erano anche focolari piuttosto recenti, i cui frammenti di carbone rivelavano che il piccolo popolo aveva cucinato lì una preda, gettandone poi le ossa sul letamaio poco lontano. Grazie ai simboli e agli stili dei dipinti, Bakkat era anche in grado di riconoscere quali clan erano passati di lì. Mentre esaminavano quei tributi artistici a strane divinità e quelle usanze bizzarre, Louisa intuiva il sentimento d'invidia e di nostalgia profonda che Bakkat provava per la sua gente, che conduceva un'esistenza libera e spensierata secondo i ritmi della natura. A mano a mano che proseguivano il viaggio, il terreno cambiava, e le pianure cedevano il posto a foreste e colline, attraversate da fiumi che percorrevano valli verdeggianti e ampie, a fondo piatto. A tratti la vegetazione era così fitta e spinosa che non riuscivano a passare; persino i tentativi di aprirsi a forza una pista fallivano, giacché i rami intrecciati, duri come il ferro, sfidavano anche le asce più affilate. Per aggirare quei tratti di giungla, erano obbligati a compiere deviazioni di alcuni giorni. In altri punti il veld somigliava al terreno dei parchi inglesi, aperto e fertile, con grandi alberi alti come colonne di cattedrali e ampi baldacchini di foglie verdi. In cima agli alberi, uccelli e scimmie lanciavano versi striduli, contendendosi i frutti. Sembrava che ci fossero animali e uccelli ovunque volgevano lo Wilbur Smith
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sguardo. Il numero e la varietà delle specie non diminuivano mai. Variavano le dimensioni, quelle sì: si andava dai minuscoli uccelli del sole agli struzzi più alti di un uomo a cavallo, con le piume bianche delle ali e i ciuffetti caudali; dai toporagni, poco più grandi del pollice di Jim, agli ippopotami, imponenti come i loro buoi più grandi. Quei bestioni giganteschi sembravano popolare ogni stagno e corso d'acqua della regione, e i loro corpi enormi talvolta erano così fitti da formare massicce zattere sulle quali le egrette bianche si appollaiavano, quasi fossero affioramenti rocciosi. Una volta, Jim riuscì a conficcare un proiettile rinforzato tra gli occhi di un vecchio maschio. Anche se il corpo sprofondò negli spasimi dell'agonia, scomparendo alla loro vista, il secondo giorno i gas intestinali lo fecero affiorare in superficie, gonfio come un pallone, con le zampe tozze che sporgevano, dritte, in alto. Con una pariglia di buoi riuscirono a trainare la carcassa sulla riva. Il grasso bianco e puro che riempiva la sua cavità corporea, una volta chiarificato, riempì un barilotto per l'acqua da cinquanta galloni. Era l'ideale per la cucina e la preparazione di salsicce, per la fabbricazione del sapone, per lubrificare i mozzi delle ruote dei carri o per ingrassare gli stoppacci. Le varietà di antilope, ciascuna con carni di gusto o di consistenza diversa, erano così tante che Louisa poteva ordinare a Jim le provviste preferite, come una massaia col macellaio. Nella prateria, sotto gli alberi alti, vivevano branchi di antilopi dal manto di un bruno grigiastro, simili al kob, e zebre dalle striature fantastiche galoppavano insieme a branchi. S'imbatterono in altre antilopi che somigliavano ai cavalli, col dorso e le zampe neri come l'ebano, il ventre bianco ghiaccio ed enormi corna volte all'indietro, a forma di scimitarra. In ogni folto e foresta di rovi trovavano kudu nervosi dalle corna a spirale e branchi di bufali neri. Erano tanto numerosi che, quando si lanciavano alla carica, finivano per schiacciare e appiattire anche la vegetazione più intricata. Jim non faceva che sognare il primo avvistamento di elefanti, e la sera parlava di loro con un rispetto quasi religioso. Non aveva mai posato gli occhi su un esemplare vivente, ma le loro zanne erano accatastate nel magazzino della Compagnia, a High Weald. Da giovane, il padre di Jim aveva cacciato gli elefanti nelle regioni orientali dell'Africa, a mille miglia e più dal punto in cui si trovavano adesso lui e Louisa. Jim era cresciuto ascoltando i racconti del padre su quelle bestie leggendarie, e il pensiero Wilbur Smith
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del primo incontro con loro era diventato quasi un'ossessione per lui. «Abbiamo percorso quasi mille leghe, dopo aver superato il Gariep», diceva a Louisa. «Nessun altro uomo di certo si è allontanato di più dalla colonia. Tra poco dovremmo incontrare i branchi di elefanti.» Infine trovò qualcosa con cui alimentare i suoi sogni. S'imbatterono in una foresta intera i cui tronchi erano stati abbattuti come se fosse passato un uragano, e ridotti in schegge. Gli alberi rimasti in piedi erano stati spogliati della corteccia da quei pachidermi giganteschi. «Hai visto come hanno masticato la corteccia per ricavarne il succo?» disse Bakkat, indicando gli enormi grumi di corteccia essiccata sputati dagli animali. «Hai visto come hanno abbattuto quest'albero, che un tempo era più alto dell'albero di maestra della nave di tuo padre, e hanno consumato soltanto le foglie tenere all'estremità dei rami? Ah, sono bestie davvero prodigiose.» «Seguile, Bakkat!» lo pregò Jim. «Fammele vedere.» «Questi segni sono stati lasciati un'intera stagione fa. Non vedi che le orme dei cuscinetti delle zampe che hanno lasciato nel fango delle ultime piogge sono indurite come pietre?» «Quando li troveremo?» chiese Jim. «Riusciremo mai a trovarli?» «Li troveremo», gli promise Bakkat. «E, quando lo faremo, forse rimpiangerai di averli trovati.» Sporgendo il mento in fuori per indicare uno degli alberi caduti, aggiunse: «Se sono capaci di fare questo a un albero, che cosa possono fare a un uomo?» Ogni giorno partivano a cavallo per esplorare il territorio davanti a loro, in cerca di tracce più fresche degli elefanti, ma anche per aprire una strada a Smallboy e ai carri che lo seguivano. Dovevano sempre assicurarsi fonti di acqua potabile e foraggio di buona qualità, per sfamare la mandria di buoi e altri animali domestici e riempire le botti, così da evitare di trovarsi senza il prezioso liquido allorché la ricerca di sorgenti si fosse rivelata infruttuosa. Bakkat spiegò a Jim come seguire il volo degli stormi di tetraonidi e di altri uccelli, nonché la direzione dei branchi di selvaggina assetati che puntavano verso le sorgenti più vicine. Anche i cavalli erano buone guide, perché riuscivano a fiutare nel vento l'odore dell'acqua a molte miglia. Spesso si spingevano così avanti rispetto al convoglio di carri che non riuscivano a tornare prima del tramonto del sole alla sicurezza e alle comodità che esso offriva, ed erano quindi costretti ad accamparsi Wilbur Smith
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ovunque li sorprendessero l'oscurità e la stanchezza. Comunque, nelle sere in cui tornavano ai carri, era sempre con la sensazione gioiosa di tornare a casa che avvistavano in lontananza i fuochi o udivano il muggito dei buoi. Poi i cani accorrevano, abbaiando eccitati, e Smallboy e gli altri conducenti, riuniti intorno al fuoco, lanciavano un saluto. Louisa segnava il calendario con cura religiosa, e non mancava mai di rispettare il riposo del giorno del Signore, insistendo perché Jim restasse al campo. La domenica mattina dormivano fino a tardi, ascoltando ciascuno il risveglio dell'altro mentre il sole splendeva attraverso le fessure dell'afterclap, poi restavano distesi, ciascuno nel proprio letto, chiacchierando in tono sonnolento attraverso il doppio strato di tela delle tende, finché Louisa non insisteva che era ora di alzarsi, e l'aroma del caffè preparato da Zama sul fuoco da campo lo convinceva che aveva ragione lei. Louisa preparava sempre un pranzo speciale, di solito ricorrendo a qualche ricetta del libro di cucina che le aveva lasciato Sarah. Nel frattempo, Jim si dedicava ai numerosi, piccoli lavori che erano stati trascurati durante la settimana: ferrare un cavallo, riparare uno strappo nella tenda di un carro, ingrassare i mozzi delle ruote... Spesso, dopo mangiato, sistemavano le amache all'ombra degli alberi, e uno dei due leggeva ad alta voce un volume dalla loro piccola biblioteca, poi discutevano gli avvenimenti della settimana trascorsa e facevano progetti per la successiva. Per fare una sorpresa a Jim, in occasione del primo dei suoi compleanni che trascorrevano insieme, Louisa intagliò in gran segreto una serie di scacchi e una scacchiera, usando essenze di colori diversi. Per quanto si sforzasse di mostrarsi entusiasta, Jim non era del tutto contento di quel dono, perché non aveva mai giocato a scacchi prima di allora. Lei però gli lesse le regole, illustrate nelle ultime pagine dell'almanacco, poi sistemò la scacchiera sotto l'ampia chioma di un vigoroso albero di acacia delle giraffe. «Puoi prendere i bianchi», propose Louisa in tono magnanimo. «Il che significa che muoverai per primo.» «Ed è un bene?» «E il massimo vantaggio che si possa ottenere», gli assicurò lei, e Jim, con una risatina fiacca, fece avanzare una torre di tre caselle. Lei gli corresse la mossa e, in breve, gli inflisse una sonora sconfitta. «Scacco matto!» esclamò alla fine, e lui rimase sbalordito. Umiliato Wilbur Smith
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dalla facilità con la quale Louisa era riuscita nell'impresa, esaminò la scacchiera con estremo scrupolo, mettendo in dubbio la legittimità di ognuna delle mosse che avevano condotto alla sua disfatta. Quando fu evidente che lei non aveva barato, si tirò indietro e fissò per qualche minuto la scacchiera con aria imbronciata. Poi lentamente si accese nei suoi occhi la luce della battaglia e, drizzando le spalle, annunciò in tono minaccioso: «Giocheremo di nuovo». Il risultato della seconda partita non fu meno umiliante del primo. Proprio per quello, forse, Jim rimase attratto dal gioco, che presto divenne un forte elemento di coesione nella loro esistenza. Sotto la guida di Louisa, piena di tatto, Jim fece rapidi progressi, al punto che ben presto loro due furono quasi alla pari. Combatterono molte battaglie epiche e memorabili sulla scacchiera, eppure, stranamente, quegli scontri parvero unirli ancora di più. C'era un unico campo nel quale lei non riusciva a eguagliarlo, per quanto tentasse con la massima determinazione e a volte si avvicinasse molto a farlo: il tiro. La domenica pomeriggio, dopo mangiato, Jim fissava alcuni bersagli alla distanza di cinquanta, cento e centocinquanta passi. Louisa sparava col suo piccolo fucile francese, mentre lui usava una delle armi fabbricate a Londra, che erano più pesanti. Il premio in palio era la coda cespugliosa di una giraffa, e il vincitore di quella competizione settimanale aveva diritto ad appendere la coda alla parte anteriore del carro per il resto della settimana. Le rare volte in cui quell'onore toccava a Louisa, Smallboy, che era il conducente del suo carro, gongolava, facendo schioccare la frusta più spesso e con maggiore forza di quanto fosse necessario per incoraggiare l'equipaggio di buoi. A poco a poco, Louisa cominciò a provare un senso di orgoglio e di soddisfazione per l'attività che svolgeva nel gestire l'accampamento e ordinare la loro esistenza. Ricavò altresì un intenso piacere dalla compagnia di Jim, al punto che i ricordi oscuri della sua vita passata sbiadirono. Anche gli incubi diventavano meno frequenti e non troppo terrificanti. Lentamente, ritrovò il senso dell'umorismo e della gioia di vivere che si adattavano alla sua età e l'atteggiamento difensivo e sospettoso si smorzò alquanto. Un pomeriggio, cavalcando insieme nei dintorni del campo, s'imbatterono in una pianta di tsama carica di frutti. I meloni a strisce verdi e gialle avevano le dimensioni della testa di un uomo. Wilbur Smith
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Jim ne riempì le sacche della sella e, allorché tornarono ai carri, ne tagliò uno, ricavandone fette spesse. «È uno dei frutti più prelibati della regione», osservò, offrendole una di quelle fette, e lei l'assaggiò con una certa diffidenza. Era sugoso, però il gusto le sembrò dolciastro e piuttosto insipido. Louisa finse di gradirlo semplicemente per fargli piacere. «Mio padre dice che uno di questi gli ha salvato la vita. Era sperduto nel deserto da giorni e giorni, e sarebbe morto di sete, se non avesse trovato per caso una pianta carica di meloni tsama. Non è gustoso?» Louisa guardò la polpa giallina all'interno della buccia, poi alzò gli occhi su Jim. Inaspettatamente, si sentì assalire da una malizia infantile che l'aveva abbandonata dall'epoca in cui erano morti i suoi genitori. «Che c'è da ridere?» le chiese il ragazzo. «Questo!» esclamò lei, sporgendosi dal suo posto a tavola per schiacciargli sulla faccia il frutto molle e umido. Lui rimase sbalordito, fissandola a bocca aperta col succo e coi frammenti di polpa gialla che gli colavano dal naso e dal mento. «Non è gustoso?» chiese lei, scoppiando in una risata convulsa. «Hai un'aria così idiota!» «Lo vedremo, chi di noi ha un'aria idiota», ribatté Jim, riprendendosi, e raccolse i resti del melone. Lei lanciò un grido di allarme, alzandosi di scatto dal tavolo per fuggire. Jim la inseguì per tutto il campo, brandendo il melone, coi semi tra i capelli e col succo che gli colava sul davanti della camicia. I servitori erano sbalorditi, e fissavano Louisa che si spostava a zigzag tra i carri, cercando un riparo. Ma era ostacolata dal gran ridere e alla fine lui la catturò, inchiodandola con una mano contro la fiancata di un carro, mentre con l'altra prendeva la mira col melone. «Mi dispiace terribilmente», ansimò lei. «Ti prego di scusarmi, sono imperdonabile. Non succederà più.» «No, non succederà più», confermò lui. «Te lo faccio vedere io, che cosa succederà, in caso contrario.» Le restituì il trattamento subito e, quando ebbe finito, lei aveva la polpa del melone tra i capelli e sulle ciglia, e persino nelle orecchie. «Sei un bruto, James Archibald!» Ormai sapeva quanto lui odiasse sentirsi chiamare così. «Ti odio!» Cercò di fissarlo, ma scoppiò a ridere di nuovo. Alzò una mano per colpirlo, però lui le afferrò il polso e lei Wilbur Smith
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inciampò, rischiando di finirgli addosso. Di colpo, nessuno dei due rideva più. Le loro bocche erano così vicine che il loro fiato si mescolava. Negli occhi di Louisa c'era qualcosa che Jim non aveva mai visto prima di allora; poi Louisa cominciò a tremare e le sue labbra fremettero. L'emozione che Jim aveva visto in lei svanì, sostituita dal terrore. Sapeva che tutti i servitori li stavano osservando e, con uno sforzo, le lasciò libero il polso, facendo un passo indietro. Adesso, tuttavia, la sua risata era ansimante. «In guardia, ragazza mia», riuscì a dire. «La prossima volta ti toccherà una fetta fredda e viscida di melone lungo il collo.» Il momento era delicato, perché lei era sull'orlo delle lacrime. Li salvò Bakkat, improvvisando una pantomima della loro disputa e raccogliendo i resti del melone, che lanciò a Zama. I conducenti e i voorloper si unirono al divertimento, col risultato che le bucce di melone volavano in tutte le direzioni. In mezzo al trambusto Louisa sgattaiolò via, rifugiandosi nel suo carro. Quando uscì di nuovo, aveva un'aria composta, col grembiule pulito e coi capelli raccolti in lunghe trecce. «Vuoi fare una partita a scacchi?» propose, senza guardarlo negli occhi. Lui le diede scacco matto in meno di venti mosse, ma poi dubitò del merito della sua vittoria, chiedendosi se non fosse stata lei a farlo vincere di proposito, oppure se fosse stata semplicemente troppo turbata per concentrarsi. La mattina dopo, Jim, Louisa e Bakkat partirono a cavallo prima dell'alba, portandosi appresso la colazione nei contenitori appesi dietro la sella. Procedendo con una sola ora di vantaggio sui carri, si fermarono ad abbeverare i cavalli e a consumare la colazione vicino a un piccolo ruscello, che scendeva sinuoso dalla fila di colline ricoperte di foreste rade che si stendevano all'orizzonte. Presero posto l'uno di fronte all'altra, su due tronchi caduti. Erano entrambi intimiditi e taciturni, incapaci di guardarsi negli occhi. Il ricordo del giorno prima era ancora vivo nella loro mente, e la conversazione suonava stentata ed eccessivamente cortese. Dopo mangiato, Louisa portò i recipienti del cibo al ruscello, per lavarli, mentre Jim sellava di nuovo i cavalli. Quando lei tornò indietro, Jim esitò prima di porgerle la mano per aiutarla a salire in sella a Trueheart, e lei lo ringraziò con più calore di quanto richiedesse quel piccolo gesto di cortesia. Wilbur Smith
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Preceduti da Bakkat, che montava Frost, salirono il pendio della collina. Quando raggiunse la sommità, l'ometto fece voltare Frost proprio sulla linea dell'orizzonte, tornando al galoppo verso di loro col viso stravolto da una forte emozione e con la voce ridotta a uno squittio incomprensibile. «Che c'è?» gli gridò Jim. «Cos'hai visto?» Afferrandolo per il braccio, per poco non lo disarcionò. Finalmente Bakkat ritrovò la voce. «Dhlovu!» urlò, come se soffrisse. «Tanti, tanti!» Jim gettò le redini a Bakkat, estrasse dal fodero il piccolo fucile con la canna rigata e smontò da cavallo con un balzo. Sapeva di non doversi mostrare sulla linea dell'orizzonte, quindi si fermò al di sotto del crinale per ritrovare la calma. Si sentiva il petto serrato da un'emozione tale che poteva a stento respirare, e il cuore sembrava sul punto di schizzargli dalla bocca. Comunque aveva ancora buonsenso sufficiente a controllare dove soffiava la brezza: raccolse alcuni steli di erba secca, che sbriciolò tra le dita, poi studiò la direzione che prendevano i minuscoli frammenti, ricavandone un responso favorevole. D'un tratto sentì la presenza di Louisa vicino a sé. «Che c'è, Jim?» Non aveva capito la parola usata da Bakkat. «Elefanti!» Jim riusciva appena a pronunciare quella parola magica. Lei lo fissò per un istante, poi gli occhi parvero accendersi come raggi di sole filtrati da uno zaffiro azzurro. «Oh, Jim! Fammeli vedere!» Nonostante l'agitazione che quasi lo aveva sopraffatto, Jim ringraziò in cuor suo il destino perché Louisa era lì, al suo fianco, e avrebbe condiviso con lui un momento che, lo sapeva, gli sarebbe rimasto impresso per sempre. «Vieni!» le disse, e lei lo prese per mano con un gesto naturale. Nonostante ciò che era accaduto, in un certo senso quel gesto di fiducia non costituì una sorpresa per lui. Mano nella mano, si spinsero con cautela fino alla sommità della collina per guardare oltre. Ai loro piedi si stendeva una vasta depressione rotondeggiante, circondata dalle colline. Sembrava una coppa, tappezzata di erba novella, appena spuntata, dopo le piogge recenti, sul terreno bruciato dagli incendi spontanei della stagione secca. Era verde come un prato all'inglese, disseminata di gruppi di alberi di mahoba-hoba e acacie spinose. Sparsi sul fondo della conca, isolati o a piccoli branchi, c'erano centinaia di elefanti. Per Jim, che aveva immaginato quel primo incontro nei dettagli e in ogni situazione possibile, la realtà si rivelò di gran lunga superiore a Wilbur Smith
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ogni sua fantasia. «Oh, Maria!» sussurrò. «Oh, Dio mio! Oh, buon Dio!» Louisa sentì la mano di lui tremare nella sua e rafforzò la stretta. Si rese conto che quello era un momento chiave della sua vita, e di colpo si sentì fiera di essergli vicina, di condividere con lui una simile esperienza. Sentiva che quello era il suo posto, come se avesse finalmente scoperto a chi apparteneva. Jim capì subito che i branchi comprendevano soprattutto femmine coi loro piccoli, riuniti a formare agglomerati che somigliavano a pareti di granito. La forma dei branchi cambiava lentamente, a mano a mano che gli animali si riunivano e poi si scioglievano di nuovo. In tutta quella massa, i grandi maschi restavano isolati, in disparte, forme scure e massicce, dominando anche a distanza i branchi che li circondavano, inconfondibili nella loro maestà. Proprio ai piedi del punto in cui si trovavano Jim e Louisa, c'era un esemplare che, al confronto, faceva apparire tutti gli altri minuscoli. Forse era soltanto il modo in cui la luce del sole giocava su di lui, però sembrava davvero il più scuro di tutti. Le orecchie erano allargate ed estese come la vela di maestra di una nave, e lui le agitava con un movimento pigro, quasi fossero un ventaglio. A ogni movimento di quelle appendici, il sole scintillava sulla curva di una zanna enorme, e inviava verso di loro un raggio luminoso che sembrava il riflesso di uno specchio. Una volta il maschio protese la proboscide verso il basso e raccolse la polvere ai suoi piedi per gettarsela sulla testa e sulle spalle, producendo una nuvoletta chiara. «È così grande!» sussurrò Louisa. «Non avrei mai pensato che fossero così grandi.» La sua voce riscosse Jim dallo stato di trance in cui era caduto, spingendolo a voltarsi, in tempo per vedere Bakkat alle sue spalle. Ho portato con me soltanto questo piccolo fucile a canna rigata... Jim aveva lasciato sui carri i due grossi fucili olandesi che utilizzavano proiettili rinforzati, del peso di quattro once l'uno. Erano armi poco maneggevoli da trasportare e da usare e lui, che era rimasto deluso tante volte, non si era aspettato d'imbattersi negli elefanti proprio quel giorno, e di certo non in così tanti esemplari... Adesso se ne pentiva, ma sapeva che sarebbe stata una follia usare il piccolo fucile di fabbricazione londinese, che impugnava in quel momento, contro una creatura dotata di una simile Wilbur Smith
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mole di muscoli e tendini e di una struttura ossea tanto massiccia. Soltanto un colpo di fortuna poteva fargli sperare di conficcare un proiettile così leggero nelle parti vitali dell'elefante. «Torna indietro, Bakkat, più veloce che puoi, con Frost e portami i due fucili grandi, insieme con la fiasca della polvere e la cartucciera.» Jim non aveva ancora finito di parlare che già Bakkat era risalito in sella e ridiscendeva il pendio a velocità folle. Jim e Louisa non lo seguirono con lo sguardo, ma si avvicinarono furtivi, sfruttando il riparo di un piccolo cespuglio per evitare che la loro silhouette si stagliasse sulla linea dell'orizzonte. Sul versante opposto trovarono un folto di acacia spinosa che offriva loro una protezione. Così si accovacciarono tra i rami piumosi e i fiori gialli, sedendosi poi a fianco a fianco, mentre Jim puntava il cannocchiale sul grande maschio ai loro piedi. Vedendolo ingrandito attraverso la lente, lanciò un'esclamazione sommessa e fissò con rispetto la lunghezza e il diametro di quelle zanne d'avorio. Pur non essendo ancora sazio di quella vista, passò lo strumento a Louisa. Ormai aveva imparato anche lei a usarlo con abilità, e lo puntò sul grande animale, ma, dopo qualche minuto, la sua attenzione fu attirata dagli scherzi di un gruppo di elefantini che, poco più avanti, barrivano e si rincorrevano nella foresta. Quando Jim notò che la direzione del cannocchiale si allontanava dal vecchio patriarca, provò la forte tentazione di strapparlo dalle mani di Louisa per continuare lo studio del maschio. Poi vide il sorriso tenero sul viso della ragazza mentre lei guardava giocare i piccoli, e si trattenne. Quello era un chiaro segno dei sentimenti che nutriva per lei, dato che era quasi divorato dalla passione per la caccia e il suo cuore batteva all'impazzata per l'emozione. Poi, con sua grande gioia, il maschio lasciò l'ombra dell'albero di mahoba-hoba e cominciò a risalire il pendio direttamente verso di loro. Jim posò la mano sulla spalla di Louisa per metterla in guardia e, quando lei abbassò il cannocchiale, lui si portò un dito alle labbra, indicandole il maschio che si avvicinava. L'espressione di Louisa cambiò, assumendo un'aria di rispetto a mano a mano che l'animale si avvicinava e appariva sempre più grande. Anche alla luce del giorno c'era qualcosa di spettrale e inquietante nel silenzio assoluto del suo movimento. L'animale posava i piedi sul terreno con una precisione e una grazia sproporzionate alle sue dimensioni, e gli enormi cuscinetti spugnosi assorbivano ogni suono. La proboscide pendeva molle, Wilbur Smith
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quasi fino a terra, e soltanto la punta si svolgeva e toccava il terreno, raccogliendo una foglia o un baccello di semi con una destrezza straordinaria, pari a quella delle dita umane, prima per giocherellarci e poi per gettare via quello che aveva appena preso. In breve, furono in grado di scorgere chiaramente l'unico occhio visibile, infossato in una serie di profonde grinze grigie che formavano una sorta di ragnatela. Una macchia umida di lacrime scendeva da un angolo dell'occhio sulla guancia rugosa, ma l'occhio scintillava di sagacia e intelligenza. A ogni passo, la punta di una delle lunghe zanne sfiorava il terreno, lasciandovi un solco minuscolo. L'elefante si avvicinò ancora, finché i due giovani non ebbero l'impressione che riempisse il cielo sopra di loro, e trattennero il fiato, aspettandosi di essere calpestati o almeno trafitti dal colpo di una di quelle scintillanti zanne d'avorio. Louisa si agitò, pronta a scattare via, ma Jim rafforzò la presa sulla sua spalla per trattenerla. Il maschio emetteva dalla gola e dal ventre un brontolio profondo; si sarebbe detto un tuono lontano. Louisa cominciò a tremare per empatia: l'eccitazione si mescolava al terrore. Lentamente, per non allarmare il maschio, Jim si portò alla spalla il piccolo fucile, guardando attraverso il mirino la grossa testa grigia. Sentì Louisa al suo fianco irrigidirsi in previsione del colpo, poi rammentò tutto quello che gli aveva detto il padre riguardo al punto a cui si deve mirare per colpire il cervello. «Soltanto uno sciocco e uno spaccone tenterebbe un colpo del genere», gli aveva detto Tom. «È un punto così minuscolo da colpire nella massiccia cupola ossea del cranio... Il vero cacciatore vuole avere la certezza di uccidere. Usa un calibro massiccio, che spari un proiettile pesante, e mira alla spalla, al cuore e ai polmoni.» Jim abbassò il fucile e Louisa si rilassò. L'elefante superò il loro nascondiglio con la sua andatura pacata e solenne, e cinquanta passi più avanti raggiunse un albero di gwarrie, cominciando a spogliarlo delle bacche purpuree che si portò alla bocca con fare meticoloso. Quando voltò verso di loro il dorso rugoso e molle, Jim si alzò con cautela per riportare Louisa oltre il crinale. Scorse la sottile nube di polvere che avanzava verso di loro dalla direzione dei carri e la sagoma chiara di Frost, lanciato al galoppo. Non appena Bakkat lo raggiunse, Jim si complimentò con lui, dicendo: «Davvero un lavoro rapido e ben fatto!» Poi, prima ancora che potesse smontare, gli strappò dalle mani uno dei Wilbur Smith
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pesanti fucili, esaminando in fretta l'arma. Era scarica e coperta di grasso, ma la pietra focaia era nuova e ben formata. Si mise subito al lavoro per caricarla, spingendo nella canna l'enorme proiettile lucente. Pesante quattro once, era grosso quasi il doppio di un acino d'uva. Era stato rinforzato con l'aggiunta di peltro al piombo fuso. Dopo averlo ben calcato sullo stoppaccio e sulla pesante carica di polvere nera, controllò il meccanismo d'innesco, prima di passare al secondo della coppia di fucili che Bakkat gli porgeva. Quando furono carichi entrambi, disse a Bakkat: «C'è uno splendido maschio che pascola nelle vicinanze, appena oltre quel crinale. Lo attaccherò a piedi, ma tu, non appena sentirai lo sparo, sali a tutta velocità per portarmi Drumfire e il secondo fucile». «E io che devo fare?» intervenne Louisa, e lui esitò. L'istinto gli suggeriva di rimandarla ai carri, ma lui sapeva che non sarebbe stato giusto nei suoi confronti. Non doveva essere privata dell'eccitazione e dell'avventura di quella prima caccia all'elefante. Inoltre, con ogni probabilità, si sarebbe rifiutata di obbedire, e in quel momento lui non aveva tempo per una discussione dalla quale quasi certamente sarebbe uscito sconfitto. D'altra parte non poteva lasciarla lì; dai racconti vividi che gli aveva fatto il padre, sapeva che, una volta sparato il primo colpo, l'intero bush sarebbe stato invaso da bestie in preda al panico, che sarebbero corse in tutte le direzioni. Se uno di quegli animali l'avesse sorpresa mentre era allo scoperto, Louisa si sarebbe trovata esposta a un pericolo mortale. «Seguici, ma non avvicinarti troppo. Devi vedere sempre me o Bakkat, ma devi anche tenere gli occhi bene aperti per guardarti intorno. Gli elefanti potrebbero arrivare da qualunque direzione, anche alle tue spalle. Comunque puoi contare su Trueheart per toglierti dai guai.» Armò a mezza corsa il cane del grosso fucile, poi raggiunse di volata il crinale dell'altura per sbirciare più in là. Nulla era cambiato da quando aveva visto il maschio. L'elefante stava ancora mangiando con tutta calma i frutti dell'albero di gwarrie, con le spalle rivolte a Jim. Il branco ai loro piedi continuava a riposare o a brucare tranquillamente la vegetazione, mentre i piccoli giocavano tra le zampe delle madri. Jim si soffermò soltanto per controllare di nuovo la direzione della brezza. Sentiva il suo tocco fresco e lieve, ma perse ancora qualche istante per far volare via dalle dita una manciata di terriccio polveroso. La brezza era sempre costante e a suo favore. Sapeva che ormai non c'era motivo di Wilbur Smith
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nascondersi. La vista dell'elefante non è molto acuta, e gli impedisce di riconoscere la figura di un uomo alla distanza di cinquanta passi, purché l'uomo resti immobile. L'odorato, invece, è eccezionale. Con la brezza a suo favore, e camminando a passi leggeri, Jim si avvicinò alle spalle del maschio che mangiava. Gli tornarono alla mente le parole del padre. «Avvicinati. Devi sempre avvicinarti più che puoi. Ogni iarda in meno rende più sicura l'uccisione. Trenta passi sono troppi. Venti non valgono quanto dieci. Cinque passi è la distanza ideale. Da lì puoi ficcargli una palla nel cuore.» Avvicinandosi, Jim rallentava sempre più il passo. Gli sembrava di avere le gambe piene di piombo fuso. Il suo respiro divenne affannoso, e gli parve addirittura di soffocare. Il fucile cominciava a pesargli tra le mani. Non si era aspettato di avere paura. Finora non ho mai avuto paura, pensò. Poi si corresse. Be', forse un po', qualche volta. Continuava ad avvicinarsi, e poi si rammentò che aveva dimenticato di armare del tutto il cane del grosso fucile. Era così vicino che l'elefante avrebbe sentito lo scatto del meccanismo e si sarebbe spaventato. Esitò. Poi l'animale cominciò a muoversi. Con la sua andatura poderosa e determinata, prese a girare intorno all'albero di gwarrie. Jim, col cuore che sembrava urtare contro le costole, vide che l'elefante aveva scoperto il fianco, tanto che riusciva a distinguere il contorno dell'omero massiccio sotto la pelle rugosa e irregolare. Era proprio come glielo aveva descritto suo padre. Sapeva esattamente dove mirare. Cominciò a sollevare il fucile per portarlo alla spalla, ma l'elefante non smise di spostarsi, girando intorno all'albero, finché la spalla non fu nascosta dai rami contorti e dal fogliame verde, spesso e lucido. Il pachiderma si fermò dalla parte opposta, ricominciando a mangiare. Era così vicino che Jim riusciva a distinguere i singoli peli del padiglione auricolare e le ciglia folte e impastate di polvere che circondavano il piccolo occhio dallo sguardo saggio, così incongruo a vedersi in quella testa rocciosa e antica. Soltanto uno sciocco e uno spaccone mirerebbe al cervello, pensò, ricordando ancora una volta l'ammonimento del padre, ma la spalla era coperta e lui era così vicino... Non poteva certo mancare il colpo, da quella distanza. Prima, però, doveva armare il cane sino in fondo. Posò la mano sul meccanismo, per cercare di attutire il suono, e tirò indietro un po' alla volta il cane d'acciaio, inciso e lavorato. Captando il momento in cui il Wilbur Smith
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dente d'arresto stava per entrare in azione, si morse la lingua, concentrandosi per fargli superare quell'ultima frazione di arco. Teneva d'occhio l'elefante, quasi desiderasse impedirgli, soltanto con la forza della volontà, di reagire allo scatto metallico. L'animale masticava con evidente soddisfazione, ficcandosi in bocca le bacche mature: l'interno delle labbra era macchiato di viola. Clic! Alle orecchie di Jim il suono parve assordante, nel gran silenzio della distesa di vegetazione. L'elefante smise di masticare e rimase immobile come un monumento. Aveva udito quel suono estraneo, e Jim sapeva che era sul punto di fuggire. Fissando intensamente la fessura scura del padiglione auricolare, sollevò a poco a poco il fucile. Il mirino di ferro non incideva minimamente sulla sua vista, perché gli sembrava di guardare oltre. Tutto il suo essere era concentrato su quel punto, un dito più avanti dell'orecchio. Conosceva benissimo la sensazione trasmessa dalla tensione del grilletto, ma Jim era così teso che la detonazione sorprese anche lui. Il calcio dell'arma urtò contro la sua spalla, facendolo indietreggiare di due passi prima di ritrovare l'equilibrio. Il lungo filo di fumo azzurrino prodotto dalla polvere uscì dalla canna, come se volesse accarezzare la pelle grigia e corrugata sulla tempia dell'elefante. Jim, accecato dal rinculo e dalla nuvoletta di fumo, non vide l'impatto del proiettile, ma lo sentì urtare contro il cranio come un colpo d'ascia sul tronco di un albero di legno-ferro. Il maschio rovesciò all'indietro la testa enorme e si abbatté al suolo con una repentinità quasi prodigiosa, urtando il terreno con tale forza che lui lo sentì sussultare sotto i piedi. Il ragazzo recuperò l'equilibrio e rimase a bocca aperta, fissando sbalordito il risultato della caccia. Poi si sentì al settimo cielo e lanciò un ululato di trionfo. «È finito! L'ho abbattuto con un colpo solo.» Fece per avanzare, gloriandosi della preda, ma sentì alle sue spalle un tuono di zoccoli e, voltandosi, scorse Bakkat che arrivava al galoppo, in sella a Frost, porgendogli il secondo fucile e conducendo per la cavezza Drumfire. «Cambia fucile, Somoya!» gli gridò. «Attenzione! Ci sono dhlovu ovunque. Possiamo ucciderne altri dieci, se non perdiamo tempo.» «Devo vedere il maschio che ho ucciso!» protestò Jim. «Devo tagliargli la coda.» Era il trofeo che suo padre prendeva sempre a ogni bestia abbattuta, anche nell'ardore della caccia. Wilbur Smith
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«Se è morto, resterà morto.» Bakkat tirò le redini e gli strappò di mano il fucile scarico, consegnandogli l'altro. «Il resto del branco se ne andrà prima che tu possa tagliare la coda a quell'esemplare. Quando se ne saranno andati, non li rivedrai mai più.» Eppure Jim esitava ancora, guardando con desiderio il corpo dell'elefante abbattuto, nascosto dietro l'albero di gwarrie. «Vieni, Somoya! Guarda la polvere che sollevano correndo. Fra poco sarà troppo tardi.» Guardando ai piedi del pendio, Jim si accorse che lo sparo aveva spaventato i branchi. Nella depressione sottostante, gli elefanti fuggivano in tutte le direzioni, disperdendosi. Il padre gli aveva parlato di quell'orrore istintivo e del tutto particolare che gli elefanti provano nei confronti dell'uomo; anche se non avevano mai avuto occasione di sperimentare il suo comportamento crudele e sanguinario, erano capaci di fuggire a cento leghe dopo il primo contatto. Nonostante tutto, non si decideva e Bakkat dovette ricordargli in tono incalzante: «Somoya, il momento propizio sta per passare». Indicò altri due grandi maschi lanciati alla carica, a una distanza inferiore alla gittata di una pistola dal punto in cui si trovavano loro. Gli animali tenevano le orecchie ripiegate sulle spalle e correvano a tutta velocità. «Se ne andranno prima che tu possa tirare il fiato altre tre volte. Seguili! Seguili a tutta velocità!» I maschi stavano già per scomparire nella foresta, ma Jim sapeva di poterli raggiungere in meno di un miglio, lanciando il cavallo al galoppo, e si decise. Col fucile carico in mano, balzò in sella a Drumfire, pungolandogli i fianchi coi talloni. «Ah! Ah! Drumfire! Stagli dietro, mio caro!» Girando la testa dello stallone verso la discesa, si lanciò all'inseguimento. Drumfire fu contagiato dall'eccitazione del cavaliere; roteò gli occhi, scoprendo il bianco, abbassando la testa a ogni passo con la regolarità di un maglio, e si mise sulle tracce degli elefanti in fuga, guadagnando rapidamente terreno. Jim socchiuse gli occhi, per proteggersi dalla tempesta di polvere che gli animali sollevavano con gli enormi cuscinetti dei piedi e dai rami spinosi che gli sferzavano il viso. Tra i due, scelse l'esemplare più grosso. Persino standogli alle spalle poteva vedere la curva ampia delle zanne che sporgevano ai lati dei fianchi ansimanti. «Che io possa cenare col diavolo, se non è più grande del primo che ho abbattuto», mormorò, esultante, prima di spingere Drumfire di lato, nel tentativo di affiancarsi all'elefante e di piazzargli una pallottola nella spalla. Tenne il fucile di traverso sul corno della sella e riportò il cane del Wilbur Smith
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fucile a metà della corsa. Poi udì alle spalle il barrito selvaggio di un elefante furioso, seguito quasi subito dal grido di Louisa. Quei due suoni terribili erano quasi soffocati dalla distanza e dal tuono degli zoccoli di Drumfire, ma, nel grido di Louisa, risuonava una nota che gli fece vibrare tutti i nervi del corpo, colpendolo al cuore. Era il suono del terrore allo stato puro. Girandosi di scatto sulla sella, guardò indietro e si accorse che lei si trovava in un pericolo mortale. Obbedendo alle istruzioni di Jim, Louisa era rimasta indietro, mantenendo Trueheart alle spalle di Frost mentre superavano il crinale procedendo al passo. Vide Jim duecento passi più avanti, con le spalle rivolte verso di lei. Avanzava con decisione, piegato in due sull'arma che impugnava all'altezza della cintola. Per un attimo, lei non riuscì a vedere l'elefante. Grazie al colorito grigio, sembrava fondersi con la vegetazione che lo circondava come una nuvola di fumo. Poi ne scorse la forma e si lasciò sfuggire un'esclamazione di sorpresa. Pareva una montagna, e Jim gli stava così vicino che lei ebbe paura per la sua incolumità. Fermando Trueheart, rimase a guardare, inorridita e affascinata, mentre Jim si avvicinava ancora di più. Vide l'enorme maschio cambiare posizione e spostarsi dietro l'albero di gwarrie; per un istante, pensò che fosse sfuggito al paziente appostamento di Jim. Poi vide il giovane raddrizzarsi e sollevare il fucile dalla canna lunga. Quando prese la mira, la canna sembrò sfiorare la testa dell'elefante. Poi si udì il rombo fragoroso della detonazione, che somigliava allo schiocco della vela di maestra della Meeuw, gonfiata dal vento mentre virava in mezzo alla tempesta. Il fumo bluastro della polvere da sparo turbinò nella brezza, e l'elefante crollò a terra, come se fosse stato travolto da una valanga. Poi si scatenò un gran trambusto. Bakkat spronò il cavallo in avanti, correndo verso Jim e trascinandosi dietro Drumfire per la cavezza. Jim balzò in sella a Drumfire e, lasciando il maschio abbattuto, corse insieme con Bakkat lungo il pendio, inseguendo altri due elefanti enormi che lei non aveva notato. Louisa li lasciò fare. Senza che lei avesse deciso nulla, Trueheart, reagendo alla lieve pressione delle sue ginocchia, si stava dirigendo verso l'albero di gwarrie dietro il quale era caduto l'elefante. Lei non cercò di fermarlo, anzi, più si avvicinava, più la sua curiosità aumentava. Si alzò Wilbur Smith
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sulle staffe per vedere oltre il cespuglio, tentando di scorgere quella possente creatura che aveva visto accasciarsi al suolo. Aveva quasi raggiunto il cespuglio, quando vide un accenno di movimento, troppo insignificante per provenire da una bestia così grande. Si avvicinò, e si rese conto che aveva visto un guizzo della tozza coda dell'animale. Il ciuffo di peli all'estremità della coda sembrava logoro e sfilacciato come un vecchio pennello. Lei meditò di smontare e condurre più avanti Trueheart per vedere meglio la carcassa, con quelle zanne gialle, ricurve e magnifiche, che avevano attirato la sua attenzione. Poi, inorridita, Louisa vide l'elefante alzarsi. Il gigantesco pachiderma si rimise in piedi con un movimento rapido e agile, come se si fosse appena svegliato da un sonno leggero. Rimase immobile per un attimo, come in ascolto, e dalla ferita alla tempia cominciò a scorrere un rivoletto di sangue scarlatto, che colò sulla guancia grigia e grinzosa. Trueheart sbuffò di paura e s'impennò. Louisa, che stava per smontare, aveva un solo piede nella staffa e rischiò di farsi disarcionare, ma riuscì con uno sforzo a ritrovare l'equilibrio. L'elefante aveva sentito Trueheart, e girò la testa verso di loro. Allargò le orecchie enormi, come se considerasse la ragazza e la giumenta i suoi tormentatori. Nella testa dell'animale non c'era posto che per l'odore del cavallo e dell'essere umano, un odore alieno che non aveva mai sentito prima di allora, ma che sapeva di pericolo. L'elefante scosse la testa, con le orecchie enormi che schioccavano per la violenza del movimento, e lanciò un verso stridulo, di furore e di affronto. Il sangue schizzò dalla ferita e le goccioline tempestarono il viso di Louisa, calde come la pioggia del monsone. Lei gridò, con tutto il fiato che aveva e con tutta la forza dei suoi polmoni. «Jim! Salvami!» L'elefante arrotolò la proboscide contro il petto e piegò per metà le orecchie all'indietro, con le estremità arricciolate, nell'atteggiamento di aggressione finale, poi si lanciò alla carica. Trueheart ruotò su se stessa e partì al galoppo, con le orecchie schiacciate all'indietro. Pareva che volasse, sfiorando appena la superficie accidentata, ma l'elefante riuscì a non perdere terreno, lanciando barriti di furore, con un pennacchio roseo di sangue che sprizzava dalla ferita alla testa. Con uno slancio, Trueheart riuscì a distanziare l'inseguitore, ma d'un tratto si trovò di fronte una siepe spinosa e fu costretta a fermarsi per Wilbur Smith
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cambiare direzione, aggirando l'ostacolo. Invece l'elefante non esitò e investì a tutta velocità il cespuglio spinoso come se non esistesse, riguadagnando tutto il terreno perduto. Era ancora più vicino. Louisa si accorse, inorridita, che davanti a lei si stendeva un terreno roccioso, disseminato di siepi spinose ancora più fitte. L'elefante le stava spingendo in una trappola, là dove anche la velocità di Trueheart sarebbe servita ben poco. Si rammentò del piccolo fucile francese che teneva sotto la gamba destra. In preda al terrore l'aveva dimenticato, ma adesso sapeva che era la sua unica speranza d'impedire all'elefante di strapparla dalla sella. Guardando indietro, vide che la lunga proboscide si protendeva già verso di lei. Estrasse il fucile dal fodero di cuoio, si girò e armò il cane con un solo movimento. Lanciò ancora un grido involontario, vedendo la proboscide tendersi verso il suo viso, quindi sollevò il fucile. La testa enorme dell'animale riempiva tutto il suo campo visivo e lei non riuscì a prendere la mira. Sparò alla cieca verso la testa. Quel proiettile leggero non avrebbe mai potuto perforare la pelle spessa e le ossa del cranio, ma l'animale era vulnerabile in un unico punto e, per un ghiribizzo della sorte, il proiettile trovò proprio quel punto. Penetrò nell'orbita con un'inclinazione accentuata e fece esplodere la pupilla, accecando all'istante l'animale dallo stesso lato su cui era già stato ferito da Jim. L'elefante s'impennò e barcollò, perdendo terreno rispetto a Trueheart, ma quasi subito si riprese, lanciandosi di nuovo all'inseguimento. Louisa era tutta concentrata sul compito di ricaricare, ma non lo aveva mai fatto in sella a un cavallo lanciato al galoppo, e così la polvere uscì dalla fiasca, disperdendosi nel vento. Guardandosi alle spalle, si accorse che l'elefante teneva ancora fisso su di loro l'occhio destro e cercava di nuovo di raggiungerla. Capì che stavolta ci sarebbe riuscito. Era tanto ipnotizzata dal destino che l'attendeva da non vedere la siepe che si profilava davanti a lei. Trueheart deviò per non finire dritta tra le spine, e Louisa fu colta alla sprovvista, mentre era ancora incerta sulla sella. Lasciando cadere il fucile, si aggrappò al pomo della sella, e l'arma finì sul terreno roccioso. Sospesa per metà nel vuoto, fu trascinata lungo la siepe spinosa. Le spine ricurve terminavano con aculei sottili color cremisi, che affondarono nei suoi vestiti e nelle sue carni come una miriade di artigli felini. La loro Wilbur Smith
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presa combinata fu irresistibile e la strappò dalla groppa di Trueheart. La giumenta proseguì al galoppo, con la sella vuota, lasciando Louisa sospesa sulla presa tenace delle spine. L'elefante l'aveva persa di vista, perché si trovava sul suo lato cieco, ma l'odore del sangue fresco sprizzato dalle minuscole ferite inflitte dalle spine era forte e l'aiutò a ritrovarla. Lasciando proseguire Trueheart senza molestarla, tornò indietro. Cominciò a cercarla allungando la proboscide e frugando nella siepe, dove la spessa pelle grigia lo rendeva inattaccabile dalle spine. L'elefante si lasciò guidare dai rumori che Louisa produceva dibattendosi e dal suo odore. Si avvicinò in fretta, finché lei, comprendendo il pericolo, non rimase immobile. Adagiata in silenzio sulle spine, rimase a guardare, rassegnata, mentre la punta indagatrice della proboscide avanzava tentoni verso di lei, le sfiorava lo stivale e poi si stringeva intorno alla caviglia. Si sentì strappare dalla siepe con una forza inimmaginabile. Le spine si spezzarono tra le pieghe dei vestiti o nella sua pelle. Rimase sospesa a testa in giù, trattenuta per una gamba dalla proboscide dell'elefante. La presa sulla sua caviglia si stringeva sempre più: temette seriamente che l'osso si spezzasse. Jim le aveva raccontato che cosa sarebbe accaduto. L'elefante l'avrebbe sollevata in aria e poi, con la sua forza mostruosa, l'avrebbe scagliata a capofitto contro il terreno roccioso, scaraventandola a terra più volte sino a fracassarle quasi tutte le ossa del corpo. Infine si sarebbe inginocchiato su di lei per ridurla in poltiglia, conficcando più volte la punta delle zanne nel suo corpo. Jim si voltò non appena udì il primo grido di Louisa e il barrito acuto del maschio enorme. Interrompendo la caccia agli altri due elefanti, arrestò con violenza la corsa di Drumfire e si voltò, incredulo e inorridito. «L'ho ucciso!» ansimò. «L'ho lasciato a terra, morto.» Nello stesso istante, tuttavia, rammentò l'ammonimento del padre. «Il cervello è così piccolo, e non si trova dove ti aspetti che sia. Se lo manchi anche solo di un capello, l'animale cade al suolo come se fosse morto, ma in realtà è soltanto stordito. Quando si riprende è illeso, e molto spesso più pericoloso di prima. Ho visto più di un cacciatore in gamba finire così. Non azzardare mai quel colpo, ragazzo mio, se non vuoi pentirtene per tutta la vita.» «Bakkat!» gridò subito. «Seguimi col fucile!» Spronò Drumfire per Wilbur Smith
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lanciarlo al galoppo. Louisa e l'elefante correvano esattamente nella direzione opposta, e lui impiegò qualche tempo per raggiungerli. Si sentiva sopraffatto da una sensazione d'impotenza: capiva che Louisa sarebbe rimasta uccisa prima che lui potesse raggiungerla, ed era colpa sua, se l'animale furioso era rimasto in una posizione da cui poteva aggredirla. «Arrivo!» gridò. «Tieni duro!» Tentava d'infonderle coraggio, ma, in mezzo al fragore degli zoccoli e ai barriti assordanti dell'elefante, lei non dava segno di udire le sue grida. La guardò girarsi sulla sella e sparare un colpo con la sua piccola arma da signora, però l'animale, sebbene barcollasse leggermente, non rinunciò all'inseguimento. Poi, disperato, vide Louisa che finiva tra i cespugli e veniva strappata dalla sella. L'elefante tornò indietro per darle la caccia, e lei era lì, inerme, prigioniera delle spine. Tuttavia quel breve istante di tregua consentì a Jim di avvicinarsi, al punto che Drumfire esitò e s'impennò, spaventato dall'odore acuto dell'elefante e dalla sua presenza minacciosa. Usando senza pietà gli speroni, Jim lo costrinse a proseguire, aspettando il momento propizio per mettere a segno un colpo decisivo. Sapeva che, per atterrare l'animale, il proiettile doveva spezzare un osso o colpire un punto vitale, ma in quel momento tutto era movimento confuso, rumore e turbinio di polvere. L'elefante avanzava in mezzo alla siepe di spine, e i rami oscillanti proteggevano le sue parti vulnerabili, ostacolando il tentativo di Jim di prendere la mira. Drumfire caracollava sotto di lui, scuotendo la testa e cercando d'indietreggiare di fronte alla minaccia terribile dell'elefante. Vide Louisa impigliata tra le spine. Non dava segni di vita. Pensò che si fosse spezzata il collo nella caduta, oppure che avesse il cranio sfondato. La sola idea di perderla gli riusciva insopportabile, così costrinse Drumfire a proseguire con tutta la forza e la volontà che aveva. D'un tratto l'elefante trovò il corpo inerte di Louisa e lo sollevò di peso dalla siepe. Jim non osava mirare alla testa per paura di colpirla, e fu costretto ad attendere che l'elefante indietreggiasse e si girasse, scoprendo il fianco. Allora il ragazzo si protese dalla sella, sollevando la canna del pesante fucile fin quasi a toccare la pelle rugosa e molle, prima di sparare. Il proiettile colpì la punta della spalla, in corrispondenza dell'articolazione tra omero e scapola, fracassando l'osso. L'elefante arretrò, protendendo la proboscide per mantenere l'equilibrio su tre sole zampe. Allentò la presa sulla caviglia di Louisa, che ricadde sul cespuglio, Wilbur Smith
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dove i rami attutirono l'impatto. L'elefante si girò verso Jim, allargando le orecchie e lanciando un barrito acuto di dolore e di rabbia, poi allungò la proboscide per strapparlo dalla sella, ma fu bloccato dalla zampa anteriore spezzata, e Jim poté allontanare Drumfire, sottraendosi alla sua portata e tornando indietro verso Bakkat, che si stava avvicinando col fucile. Si scambiarono l'arma con la disinvoltura nata dalla lunga pratica. «Ricarica più in fretta che puoi!» gli gridò Jim. Poi, impugnando il fucile carico, tornò indietro per affrontare l'elefante, che si trascinava verso di lui su tre zampe, con quella anteriore ferita e ormai inutilizzabile. Vedendo che sulla guancia dell'animale colava un rivolo di sangue e liquido gelatinoso, il ragazzo si rese conto che il colpo di Louisa lo aveva centrato a un occhio, accecandolo. Allora cambiò direzione, avvicinandosi dal lato cieco, tanto che la punta di una zanna gli sfiorò la spalla, e gli si affiancò, sparando senza rallentare e mirando al petto. L'elefante barcollò. Stavolta il pesante proiettile da quattro once era penetrato a fondo, squarciando organi vitali e lacerando l'intrico di vene e arterie che correvano in profondità nel petto. Era una ferita mortale, ma ci sarebbe voluto del tempo prima che l'animale crollasse a terra. Jim rifletté che Louisa era fuori pericolo, purché restasse in mezzo al folto di rami spinosi, e tornò a tutta velocità verso il punto in cui Bakkat era smontato di sella per ricaricare più in fretta l'altro fucile. Ci voleva del coraggio per smontare di fronte a un elefante ferito. Il coraggio non gli manca di certo, pensò Jim, mentre aspettava che il boscimano completasse il procedimento necessario per ricaricare il pesante fucile. Drumfire danzava in cerchio, innervosito, e Jim lanciava continue occhiate all'indietro per sorvegliare l'elefante. Poi lanciò un grido di allarme, vedendo Louisa uscire dall'intrico di rami spinosi strisciando carponi e finire quasi sotto le zampe dell'elefante inferocito. Esposta com'era in quel momento, si trovava di nuovo in pericolo di morte. Jim lasciò cadere il fucile scarico e, senza attendere che Bakkat finisse di ricaricare, si lanciò di nuovo al galoppo, puntando ancora verso il lato cieco dell'animale in modo da potersi avvicinare di più. Louisa, evidentemente stordita, si alzò, evitando di appoggiare sul terreno la caviglia dolente. Vedendo Jim che le veniva incontro, si avviò saltellando da quella parte e alzò le braccia. Aveva un aspetto orribile: i vestiti erano laceri e rossi di sangue, il volto era coperto di graffi e di Wilbur Smith
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polvere, i capelli sembravano una massa inestricabile. Drumfire sfiorò il lato cieco dell'elefante, passandogli così vicino che il sangue della ferita alla spalla macchiò i pantaloni di Jim all'altezza del ginocchio; quando l'elefante sollevò la proboscide per colpirlo, lui si appiattì sul collo del cavallo per sfuggirgli. Proseguirono entrambi al galoppo verso Louisa, e Jim, senza interrompere la corsa, si protese in fuori, mantenendo la presa solo con le ginocchia, e raccolse la giovane. Non appena fu in sella, lei gli cinse la vita con le braccia, schiacciando il viso contro la camicia sudata, all'altezza delle scapole. Singhiozzava di dolore e di paura, incapace di pronunciare anche una sola parola. Jim la portò in cima alla collina prima di scivolare a terra e tenderle le braccia per aiutarla a smontare da Drumfire. Lei non era ancora in grado di parlare, ma le parole sarebbero comunque state superflue e inadeguate. Gli occhi, così vicini ai suoi, esprimevano tutta la sua gratitudine e gli facevano intuire le altre emozioni che provava, troppo complesse e confuse perché lei potesse esprimerle. Jim la depose con cautela sul terreno. «Dove ti sei fatta male?» domandò, con la voce strozzata dall'ansia. L'angoscia che quell'incontro ravvicinato con la morte aveva scatenato in lui si leggeva chiaramente sul suo viso, e ciò contribuì a rincuorarla. Gli gettò le braccia al collo, mentre s'inginocchiava su di lei. «Alla caviglia, ma è una sciocchezza», rispose con un filo di voce. «Fammi vedere», le disse, e Louisa lasciò ricadere le braccia. «Quale?» chiese Jim, e lei gliela indicò. Dopo avere sfilato lo stivale, le tastò con delicatezza la gamba. «Non è rotta», sentenziò. «No», confermò lei, mettendosi a sedere. «E non fa troppo male.» Cercò di sistemarsi i capelli d'oro, lasciando scoperto il viso impolverato, e si accorse di avere una spina conficcata nella guancia. Lui la estrasse, e Louisa fece una smorfia, ma sostenne il suo sguardo. «Jim...» sussurrò. «Sì, mia piccola Istrice?» «No, niente, ma...» S'interruppe, incapace di completare la frase che aveva in mente, e così proseguì in tono fiacco: «Mi piace quando mi chiami così». «Sono felice di riaverti con me», le disse Jim. «Per un attimo, laggiù, ho pensato che ci avessi lasciati.» Wilbur Smith
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«Devo essere uno spettacolo tale da far venire gli incubi ai bambini.» Louisa non riuscì più a sostenere il suo sguardo, e tentò di ripulirsi il viso dalla polvere. Soltanto una donna poteva pensare al proprio aspetto in un momento come quello, pensò lui, ma non lo disse. «Sei lo spettacolo che ho sempre sognato di vedere», le mormorò invece. Le guance di Louisa, sotto lo strato di polvere, diventarono rosse. Poi Bakkat si avvicinò in groppa a Frost, coi grandi fucili carichi e pronti a far fuoco. «Il maschio può ancora sfuggirci, Somoya, se non ti occupi di lui.» Jim si concentrò di nuovo su quello che stava accadendo intorno a loro. Scorse il vecchio maschio che scendeva lentamente dalla collina, trascinando una zampa e scuotendo la testa enorme per sfuggire al dolore terribile della pupilla esplosa, un dolore che senza dubbio gli dilaniava il cranio. «Oh, Jim, quella povera bestia è allo stremo», mormorò Louisa. «Non puoi lasciarla soffrire così.» «Non ci vorrà molto», le promise lui. Balzando in sella a Drumfire, prese il fucile che Bakkat gli porgeva. Poi scese lungo il pendio, descrivendo un cerchio in modo da trovarsi davanti all'animale, e arrestò Drumfire sul cammino dell'elefante. Infine armò il cane e attese. Il maschio sembrava indifferente alla loro presenza e avanzava in modo penoso. A dieci passi di distanza, Jim gli sparò in pieno petto, poi, mentre il proiettile penetrava a fondo nella pelle rugosa, voltò Drumfire, facendolo piroettare come una ballerina. L'elefante non diede segno di volerli seguire; rimase anzi immobile come un monumento, e il sangue sgorgò dal foro del proiettile, impetuoso come una sorgente che sprizza alla luce del sole. Jim scambiò il fucile con Bakkat, prima di ricondurre Drumfire verso il punto in cui era ancora fermo il maschio. Gli si accostò dal lato cieco, mantenendo un'andatura costante. L'elefante prese a oscillare leggermente sulle zampe, emettendo ancora una volta un brontolio sommesso dal fondo del petto. Jim sentì svanire tutti i suoi sentimenti bellicosi, sostituiti da una sensazione di malinconia e dolente rimorso. Di fronte a quella preda così nobile, sentiva più intensamente che mai l'eterna tragedia dell'uccisione. Dovette fare uno sforzo per sollevare il fucile e sparare di nuovo. Quando fu colpito, il maschio rabbrividì e cominciò a indietreggiare, ma i suoi movimenti erano lenti e instabili. Poi sospirò, emettendo un suono Wilbur Smith
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affaticato e sonoro. Infine cadde come cade un grande albero sotto i colpi dell'ascia o della sega, dapprima lentamente e poi sempre più in fretta, accasciandosi con uno schianto che echeggiò sulle colline in fondo alla valle. Bakkat scivolò a terra dalla groppa di Frost e si mosse in avanti. L'occhio sano dell'elefante era aperto, e lui sfiorò col dito la frangia delle ciglia. La palpebra non si mosse. «È finita, Somoya. Ora appartiene a te, per sempre», disse Bakkat, guardando Jim. Benché Louisa protestasse che le ferite non erano gravi, Jim non le permise di tornare a cavallo fino ai carri. Lui e Bakkat tagliarono due lunghi pali flessibili, li collegarono con una struttura di rami più leggeri e coprirono il tutto coi teli robusti, ricavati dalla parte inferiore dei pagliericci, fabbricando così un travois che Trueheart poteva trascinarsi dietro. Jim vi sistemò sopra Louisa con tenerezza, mettendola sul fianco e scegliendo il percorso meno accidentato per raggiungere il campo. Anche se Louisa rideva da quel giaciglio comodo, dichiarando che quello era il viaggio più facile che avesse mai fatto, una volta arrivata al campo e alzatasi dal travois, si avviò verso il proprio carro con un'andatura zoppicante, quasi da vecchia. Jim si diede da fare intorno a lei, ben consapevole che Louisa avrebbe rifiutato ogni aiuto non richiesto. Restò quindi sorpreso e felice allorché lei gli posò una mano sulla spalla per salire i gradini del carro. Poi la lasciò sola, perché si liberasse dei vestiti sporchi e strappati, mentre lui sovrintendeva alla preparazione del calderone di acqua calda per riempire il semicupio di rame. Zama e gli altri servitori smontarono la cassapanca sul retro del carro per mettere al suo posto la vasca, poi la riempirono con bricchi d'acqua fumante. Una volta che tutto fu pronto, Jim si ritirò e rimase ad ascoltare dietro la tenda, mentre lei sguazzava, facendo una smorfia di simpatia per i suoi gridolini e le esclamazioni di dolore quando l'acqua calda irritava le abrasioni e le punture delle spine. Poi, ritenendo che avesse finito, chiese il permesso di entrare nella tenda. «Sì, puoi entrare, perché sono vestita come una monaca.» Indossava la vestaglia che le aveva donato Sarah Courteney. Le andava dal mento alle caviglie e copriva le braccia fino ai polsi. «C'è qualcosa che posso fare per alleviare il tuo disagio?» le domandò. Wilbur Smith
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«Ho massaggiato la caviglia e quasi tutti gli altri punti con l'unguento di tua zia Yasmini.» Lei sollevò l'orlo della vestaglia di poche dita per mostrargli la caviglia strettamente fasciata. La moglie di Dorian Courteney era una seguace della medicina araba e orientale. Il suo famoso unguento era la panacea della famiglia, e Sarah ne aveva messo una dozzina di vasetti nella cassetta delle medicine che aveva preparato per loro. C'era un vasetto aperto vicino al cardell, e l'odore d'erba, forte ma piacevole, permeava l'interno della tenda. Jim non sapeva dove li avrebbero portati quelle osservazioni, ma assentì con aria saggia. Poi Louisa arrossì di nuovo e, senza guardarlo, mormorò: «Purtroppo ho certe spine conficcate in punti che non riesco a raggiungere». Jim non capì che gli stava chiedendo aiuto, e lei dovette farlo in modo più esplicito. Tendendo la mano all'indietro per toccarsi la schiena più in basso che poteva, gli disse: «Mi sembra di avere un'intera foresta di spine conficcata qui dietro». Dopo averlo guardato di nuovo, fu costretta ad abbandonare ogni pretesa di modestia. «Nella cassetta troverai un paio di pinzette e un assortimento di aghi da usare», gli disse, voltandogli le spalle e facendo scivolare la vestaglia dalla spalla. «C'è una spina in particolare, proprio qui, sotto la scapola... Sembra un chiodo del crocifisso, ma io non posso...» Lui deglutì, finalmente afferrando il significato delle sue parole, e tese la mano verso le pinzette. «Cercherò di non farti male, ma, se dovesse succedere, grida pure», mormorò. Invece era esperto nel curare gli animali malati e feriti, e Louisa scoprì che aveva un tocco fermo ma gentile. Si stese bocconi sul materasso di pelle di pecora, affidandosi alle sue cure. Anche se aveva la schiena costellata di graffi e punture, dalle quali colavano un liquido chiaro e un sangue acquoso, la pelle, là dove non era danneggiata, appariva levigata come il marmo, pallida e lucente. Quando l'aveva conosciuta, Louisa era poco più di uno spaventapasseri ossuto, ma, nei mesi successivi, l'abbondanza di cibo nutriente, unita a lunghe cavalcate e camminate, aveva consolidato e modellato i suoi muscoli. Per quanto ferito, il corpo della ragazza era la cosa più bella sulla quale lui avesse mai posato gli occhi. Lavorò in silenzio, non fidandosi della sua voce, e, a parte qualche lamento, anche Louisa non disse nulla. Quando sollevò l'orlo della vestaglia perché Jim potesse raggiungere Wilbur Smith
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un'altra spina nascosta, lei si spostò leggermente per facilitargli le cose. Ma alla fine, spingendo l'orlo ancora più su, lasciò scoperto l'inizio del solco delicato che separava le natiche, velato da una peluria così fine e chiara da risultare invisibile, finché la luce non vi cadeva sopra con una certa angolazione. Jim si tirò indietro e distolse lo sguardo, anche se lo sforzo necessario per compiere quel semplice gesto era quasi superiore alle sue forze. «Non posso andare oltre», mormorò. «E perché no?» chiese lei, senza alzare la testa dal cuscino. «Sento che ci sono ancora delle spine che richiedono la tua attenzione.» «Me lo vieta il pudore», rispose, imbarazzato. «Quindi le mie ferite s'infetteranno e io morirò di avvelenamento del sangue, ma almeno il tuo pudore ne uscirà intatto, eh?» «Non scherzare così», esclamò lui. L'idea della sua morte lo colpì a fondo. Lei l'aveva già sfiorata, quella mattina. «Io non scherzo, James Archibald.» Louisa alzò la testa dal cuscino, guardandolo con occhi gelidi. «Non ho nessun altro cui rivolgermi. Devi considerarti un cerusico, e io sono la tua paziente.» Le linee del sedere nudo erano pure e simmetriche più di qualsiasi diagramma di navigazione che avesse mai studiato. Sotto le sue dita, la pelle era calda e vellutata. Dopo aver estratto le spine e spalmato l'unguento sulle varie ferite, le somministrò una dose di laudano per alleviare le sofferenze. Alla fine fu libero di scendere dal carro, ma ebbe la sensazione che le sue gambe fossero troppo deboli per sorreggerlo. Jim cenò da solo, presso il fuoco da campo. Zama aveva arrostito una grossa fetta di proboscide di elefante, che suo padre e altri conoscitori reputavano una delle leccornie più rare del bush africano. Ma a Jim doleva la mascella per lo sforzo di masticarla e gli sembrava di avere in bocca una grossa scheggia di legno bollito. Quando le fiamme del fuoco si ridussero alla brace, la stanchezza lo sopraffece. Gli rimase appena energia sufficiente per sbirciare attraverso la fessura nell'afterclap del carro di Louisa. Lei era distesa a faccia in giù sotto il kaross di pelliccia, immersa in un sonno così profondo che lui dovette tendere l'orecchio per captare il suo respiro. Poi la lasciò, per avviarsi trotterellando al suo letto. Si tolse i vestiti e si lasciò cadere sul fondo del carro, abbandonandosi sulla pelle di pecora. Wilbur Smith
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Si svegliò, confuso, non sapendo se quello che sentiva fosse sogno o realtà. Era la voce di Louisa, acuta per il terrore. «Jim, Jim! Aiutami!» Lui scattò dal suo letto per raggiungerla, poi rammentò di essere nudo e si mise in cerca delle brache. Ma lei gridò di nuovo. Non ebbe il tempo d'indossare le brache, tuttavia andò in soccorso di Louisa tenendole davanti a sé. Si sbucciò il ginocchio sull'asse di fondo del carro mentre saltava giù, poi corse verso il carro della ragazza e si tuffò oltre le cortine dell'afterclap. «Louisa! Stai bene? Che cosa ti tormenta?» «Cavalca, oh, cavalca a perdifiato. Non lasciarmi catturare», gridava lei, e Jim si rese conto che era prigioniera di un incubo. Stavolta fu difficile svegliarla; dovette afferrarla per le spalle e scrollarla. «Jim, sei tu?» Finalmente lei tornò dalla terra delle ombre. «Oh, ho fatto un sogno così terribile. Era di nuovo l'elefante.» Gli si strinse addosso, e lui aspettò che si calmasse. Era accaldata e agitata, ma lui la fece di nuovo stendere e la coprì col kaross. «Ora dormi, piccola Istrice», sussurrò lui. «Io non sarò lontano.» «Non lasciarmi, Jim. Resta con me per un po'.» «Finché non ti addormenti», rispose lui, ma si addormentò prima di lei. Lo sentì rilassarsi lentamente e stendersi al suo fianco. Poi il suo respiro divenne calmo e regolare. Non la toccava nemmeno, ma la sua presenza era rassicurante. Lei si lasciò scivolare nel sonno, e stavolta non ci furono altre fantasie oscure a turbare il suo riposo. Quando si svegliò, all'alba, riscossa dal suono del campo che si destava intorno a lei, tese la mano per toccarlo, ma lui se n'era andato. Provò un senso acuto di perdita. Si vestì e scese dolorante dal carro. Jim e Bakkat erano occupati vicino ai picchetti dei cavalli e lavavano i graffi e le piccole ferite che Drumfire e Trueheart avevano riportato nella battaglia del giorno prima con l'elefante. Come ricompensa per il coraggio che avevano mostrato, offrivano loro anche qualche manciata di preziosa avena e crusca, inumidite con melassa scura. Quando alzò gli occhi e vide Louisa scendere a fatica dal carro, Jim lanciò un'esclamazione allarmata e corse da lei. «Dovresti restare a letto. Che ci fai, qui?» «Vado a preparare la colazione.» «È una pazzia. Per un giorno Zama potrà fare a meno delle tue Wilbur Smith
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istruzioni. Devi riposare.» «Non trattarmi come una bambina», gli disse, ma il rabbuffo non era troppo convinto, e lei gli sorrise, mentre si avviava zoppicando verso il fuoco della cucina. Lui non obiettò. Era una splendida mattina, fresca e luminosa, e ciò mise entrambi di ottimo umore. Il pasto, consumato sotto gli alberi al canto degli uccelli tra i rami, divenne un piccolo festeggiamento degli avvenimenti del giorno prima. Discussero con animazione ogni dettaglio della caccia e rivissero tutta l'eccitazione e il terrore che avevano provato, ma nessuno dei due fece cenno agli eventi della notte, anche se erano al primo posto nei loro pensieri. «Ora devo tornare alla carcassa dell'elefante, per rimuovere le zanne. È un lavoro che non posso lasciar fare a nessun altro. Basta che l'ascia scivoli appena per danneggiare l'avorio in modo irreparabile», le disse, mentre ripuliva il piatto degli ultimi residui di salsa con un pezzo di focaccia. «Oggi farò riposare Drumfire, perché ieri ha lavorato sodo, e prenderò Crow. Trueheart resterà al campo, perché è azzoppata come te.» «Allora monterò Stag», ribatté lei. «Non ci metterò molto a infilarmi gli stivali.» Stag era un castrone forte ma docile. «Dovresti restare al campo per rimetterti del tutto», borbottò Jim. «Devo venire con te per recuperare il mio fucile, che ho lasciato nel folto dei rovi.» «Questa non è una scusa valida. Posso farlo io per te.» «Non crederai veramente che io possa non assistere alla rimozione delle zanne per cui abbiamo rischiato la vita, vero?» Jim aprì la bocca per protestare, ma, dall'espressione di lei, capì che sarebbe stata fatica sprecata. «Dirò a Bakkat di sellare Stag», capitolò. I metodi tradizionali per asportare le zanne erano due. Si poteva lasciar decomporre la carcassa, così, una volta rammollite e disintegrate le cartilagini che trattenevano le zanne nell'alveolo, era possibile estirparle, esercitando una certa forza. Quello, però, era un procedimento lungo e maleodorante, mentre Jim era impaziente di vedere i suoi trofei in tutta la loro magnificenza, e Louisa non era da meno. Tornando verso la preda, scoprirono che il cielo al di sopra della carcassa era oscurato da uno stormo di uccelli che volavano in cerchio. Di quella vasta assemblea facevano parte avvoltoi e aquile di ogni specie, e persino la cicogna spazzino, col becco mostruoso e la testa rosea e calva che sembrava lessata nell'acqua bollente. I rami degli alberi circostanti Wilbur Smith
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scricchiolavano sotto il peso di quell'orda di pennuti. Al loro avvicinarsi, i branchi di iene si allontanarono furtivamente, mentre i piccoli sciacalli rossi, stando al riparo dei cespugli spinosi, spiavano le loro mosse, con le orecchie ritte e gli occhi scintillanti. Quegli animali abituati a cibarsi di carogne avevano già divorato gli occhi dell'elefante e si erano introdotti nell'ano, ma senza riuscire a scalfire la spessa pelle grigia per raggiungere le carni. Quando gli avvoltoi si erano posati sulla preda, i loro escrementi avevano chiazzato di bianco i fianchi, e Jim provò un senso d'indignazione nel vedere così insozzato un nobile animale come quello. Furioso, estrasse il fucile dal fodero e sparò a uno degli avvoltoi neri posati sui rami alti dell'albero più vicino. Colpito in pieno dal proiettile di piombo, la ripugnante creatura piombò a terra in un vortice di penne e ali che sbattevano. Il resto dello stormo si levò in volo, spalancando le ali per unirsi ai propri simili in cielo. Louisa recuperò il fucile, scoprendo che il calcio era appena graffiato, poi tornò indietro, scegliendosi un posto di osservazione all'ombra. Seduta su una coperta da sella, seguì il procedimento, disegnando alcuni schizzi e prendendo appunti sui margini della pagina. Il primo compito di Jim consisteva nello staccare dal corpo l'enorme testa dell'elefante, all'altezza del collo. Era un passo necessario per renderla più maneggevole, dal momento che ci sarebbero voluti cinquanta uomini e forse più per girare quel corpo enorme da un lato all'altro. La decapitazione in sé richiese metà della mattinata, e gli uomini, che lavoravano a torso nudo, si ritrovarono a sudare sotto il sole di mezzogiorno prima di riuscire a portarla a termine. Poi fu la volta del lavoro meticoloso necessario per rimuovere la pelle e scheggiare l'osso intorno alle radici delle zanne, usando l'ascia con precisione. Jim, Bakkat e Zama lavorarono a turno, non fidandosi della rude manualità dei conducenti di carri e dei servitori, che rischiavano di sciupare il prezioso avorio. Una alla volta, le zanne furono sfilate dal canale osseo e adagiate su uno strato soffice di erba appena tagliata. Con rapide pennellate, Louisa immortalò il momento in cui Jim si chinò sulle zanne e, con la punta del coltello, rimosse il lungo nervo conico dall'estremità cava alla base di ogni zanna. I nervi scivolarono fuori senza opporre resistenza, bianchi e molli come gelatina. Dopo aver avvolto le zanne in cuscini di erba fresca, le caricarono sui cavalli da soma e le portarono in trionfo all'accampamento. Jim liberò Wilbur Smith
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dall'involucro la bilancia che il padre gli aveva fornito a quello scopo, appendendola al ramo di un albero. Poi, circondato da tutti i componenti del convoglio, pesò le zanne una per volta. La zanna destra, quella più usata dall'elefante, era logorata, e pesava esattamente centoquarantatré libbre, mentre la più grande ne pesava centocinquanta. Entrambe presentavano macchie marroni dovute ai succhi vegetali ai quali erano state esposte, ma la parte basale - protetta dall'involucro di osso e cartilagine - era di uno splendido color crema, levigata e lucente come porcellana preziosa. «Fra tutte le centinaia di zanne che ho visto passare nel magazzino di High Weald, non ne ho mai vista una più grande», confidò con orgoglio Jim a Louisa. Quella sera rimasero seduti fino a tardi vicino al fuoco, perché sembrava che ci fossero ancora tante cose da dire. Bakkat, Zama e gli altri servitori si erano arrotolati tutti nelle coperte e dormivano già vicino agli altri fuochi, quando Jim accompagnò Louisa fino al suo carro. Poi si stese sul cardell, nudo, perché la notte era mite, ascoltando nel dormiveglia il suono sinistro dei singhiozzi e delle risate delle iene che pattugliavano la zona intorno all'accampamento, attirate dall'odore delle montagne di carne di elefante disposta negli affumicatoi. Prima di addormentarsi, si domandò se Smallboy e gli altri conducenti avessero pensato a tenere fuori della portata di quegli animali i finimenti di cuoio dei carri. Con le loro mascelle formidabili, le iene potevano masticare e inghiottire anche il cuoio conciato più resistente, con la stessa facilità con cui avrebbero ingurgitato un'ostrica sugosa. Poi si rammentò che il primo pensiero di Smallboy era sempre la sicurezza e lo stato di conservazione dei finimenti e delle cinghie dei carri, e scivolò in un sonno profondo. Si svegliò di colpo, accorgendosi che il carro oscillava leggermente sotto di lui. Il suo primo pensiero fu una continuazione dell'ultimo, fatto prima di addormentarsi: forse una iena stava razziando il campo. Si mise a sedere di scatto e allungò la mano verso il moschetto carico che teneva sempre vicino al letto. Prima che la mano si posasse sul calcio, però, rimase impietrito dallo stupore, fissando l'afterclap. Mancavano ancora due notti al plenilunio e, dall'angolazione della luce, Jim comprese che doveva essere mezzanotte passata. La luna proiettava un chiarore tenue attraverso la cortina di tela e, su quello sfondo, si profilava una figura eterea e bionda: Louisa. Lui non poteva vederle il viso, perché Wilbur Smith
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era in ombra, ma i capelli le scendevano sulle spalle come una cascata d'oro pallido. Lei avanzò di un passo, esitando, poi si fermò di nuovo. Dal modo in cui teneva la testa, intuiva che era intimidita o spaventata o entrambe le cose. «Louisa, cosa ti tormenta?» «Non riuscivo a dormire», sussurrò lei. «C'è qualcosa che posso fare?» Non rispose subito, ma avanzò lentamente e si stese al suo fianco. «Per favore, Jim, sii gentile con me. Sii paziente.» Rimasero zitti, senza toccarsi, col corpo rigido. Nessuno dei due sapeva che cosa fare. Louisa ruppe il silenzio. «Parlami, Jim. Vuoi che torni nel mio carro?» Quasi la irritava il fatto che lui, di solito così sfacciato, fosse tanto timido. «No. Oh, ti prego, no», proruppe lui. «Allora parlami.» «Non sono sicuro di ciò che vuoi, ma ti dirò tutto quello che ho nella mente e nel cuore», rispose Jim. Rifletté per qualche minuto, e la sua voce si ridusse a un sussurro. «La prima volta che ti ho vista, sulla coperta di quella nave, mi è sembrato di aver aspettato quel momento per tutta la vita.» Lei sospirò e Jim sentì che si stava rilassando accanto a lui, come una gatta che si allunga al caldo del sole. Incoraggiato, continuò: «Spesso, guardando mio padre e mia madre, ho pensato che per ogni uomo venuto al mondo Dio crea una donna». «La costola di Adamo», mormorò lei. «Io credo che la mia costola sia tu», continuò lui. «Senza di te non potrò mai trovare la felicità e l'appagamento.» «Avanti, Jim. Ti prego, non smettere.» «Credo che tutte le cose terribili che ti sono accadute prima del nostro incontro, e tutte le traversie e i pericoli che abbiamo affrontato da allora, non abbiano che uno scopo: metterci alla prova e temprarci, come l'acciaio nella fornace.» «Non ci avevo mai pensato, però ora mi rendo conto che è vero.» Lui si protese per sfiorarle la mano, ed ebbe l'impressione che tra le loro dita scoccasse una scintilla, come la carica crepitante di polvere da sparo nello scodellino di un fucile. Louisa ritirò di scatto la mano, e lui intuì che il momento, pur essendo vicino, non era ancora arrivato. Ritirò la mano, e lei si rilassò di nuovo. Wilbur Smith
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Una volta, lo zio Dorian gli aveva regalato una puledra alla quale nessun altro riusciva a far accettare il morso e la sella. Il rapporto tra lei e Jim aveva molte somiglianze con quello che stava accadendo tra lo stesso Jim e Louisa; settimane e mesi di lenti progressi, di avanzate e ritirate, ma alla fine quella puledra era diventata sua, la creatura più bella e straordinaria che riuscisse a immaginare. L'aveva chiamata Windsong, e le aveva tenuto la testa a lungo, quand'era morta di vaiolo equino. Come preso da un'ispirazione, parlò a Louisa di Windsong, di quanto l'aveva amata e di com'era morta. Lei rimase immobile nel buio, ascoltandolo in un silenzio affascinato. Quando arrivò alla fine della storia, Louisa piangeva come una bambina, ma erano lacrime buone, non amare e dolorose come quelle che aveva versato tante volte. Alla fine si addormentò, ancora distesa vicino a lui e sempre senza toccarlo. Jim ascoltò il dolce suono del suo respiro e, alla fine, scivolò nel sonno anche lui. Seguirono per circa un mese i branchi di elefanti diretti al nord. Era proprio come gli aveva raccontato suo padre: quand'erano disturbati dall'uomo, i pachidermi si spostavano in una nuova regione, percorrendo anche centinaia di leghe. Procedevano a lunghe falcate, tenendo un'andatura alla quale i cavalli non resistevano a lungo. La parte meridionale del continente era il loro regno; le matriarche dei branchi conoscevano ogni passo di montagna, ogni lago, fiume e abbeveratoio lungo il percorso, e sapevano come evitare i deserti e le terre desolate. Conoscevano le foreste ricche di frutti e di vegetazione lussureggiante, e sapevano dove potevano considerarsi al sicuro da eventuali attacchi, protette da fortezze naturali. Tuttavia lasciavano tracce che gli occhi di Bakkat leggevano facilmente, e lui riusciva a seguirle anche in territori inesplorati, dove nessuno si era mai avventurato. Quelle tracce li conducevano verso l'acqua e verso i passi più facili per valicare le montagne. Così raggiunsero infine un fiume che scorreva in un'ampia valle dal fondo piatto, ricoperta di veld erboso, dove le acque erano pure e limpide. Jim rilevò il passaggio del sole a mezzogiorno per cinque giorni consecutivi finché non ebbe la certezza di aver determinato con precisione la loro posizione rispetto alla carta tracciata dal padre, e tanto lui quanto Louisa rimasero stupiti, osservando la grande distanza che le ruote dei Wilbur Smith
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carri, girando con ingannevole lentezza, avevano coperto fino a quel momento, portandoli in quella regione. Ogni giorno lasciavano l'accampamento in riva al fiume per spingersi a cavallo in tutte le direzioni, esplorando il territorio. Il sesto giorno salirono sulla sommità di una collina tondeggiante che sovrastava le pianure oltre il fiume. «Da quando abbiamo superato il confine della colonia, non abbiamo visto segni della presenza umana», osservò Louisa. «A parte quella traccia del passaggio di un carro, quasi tre mesi fa, e i dipinti della tribù di Bakkat nelle caverne sui monti.» «E una terra spopolata», riconobbe Jim. «Però mi piace così, perché appartiene a me, con tutto quello che contiene. Mi fa sentire una divinità.» Lei sorrise di fronte al suo entusiasmo; ai suoi occhi sembrava davvero un giovane dio. Il sole gli aveva scurito la pelle, mentre i muscoli delle gambe e delle braccia sembravano scolpiti nel granito. Nonostante i tagli frequenti con le forbici da pastore, i capelli gli spiovevano sulle spalle. Abituato a fissare l'orizzonte lontano, aveva uno sguardo calmo e fermo, e tutto il suo portamento trasudava sicurezza e autorità. Non poteva più ingannare se stessa, o negare che i suoi sentimenti per lui, in quegli ultimi mesi, erano cambiati. Jim le aveva dimostrato il suo valore centinaia di volte, e ormai era al centro della sua esistenza. Prima, però, lei doveva liberarsi delle remore e del fardello del passato, perché, non appena chiudeva gli occhi, le sembrava ancora di rivedere la testa minacciosa con la maschera di cuoio nero e gli occhi gelidi dietro le fessure del cappuccio da carnefice. Van Ritters, il padrone di Huis Brabant, era ancora con lei. Jim si girò verso la giovane, che distolse lo sguardo, perché senza dubbio quei pensieri cupi dovevano essere ben leggibili nei suoi occhi. «Guarda!» gridò allora, indicando un punto oltre il fiume. «C'è un campo di margherite selvatiche, laggiù.» Lui si schermò gli occhi e seguì la direzione della sua mano tesa. «Dubito che siano fiori.» Scosse la testa. «Splendono troppo. Penso che sia una distesa di gesso o di ciottoli di quarzo bianco.» «Sono certa che sono margherite bianche, come quelle che crescono lungo il fiume Gariep.» Louisa spinse avanti Trueheart. «Vieni, andiamo a vedere. Vorrei coglierle.» Era già piuttosto avanti lungo la discesa, e non gli lasciava altra scelta se non seguirla, anche se Jim non aveva un Wilbur Smith
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particolare interesse per i fiori. Una pista della selvaggina molto battuta conduceva attraverso un boschetto di salici selvatici fino a un guado poco profondo. Avanzarono nell'acqua verde, immergendosi fin quasi alla vita, poi risalirono il pendio ripido della riva opposta. Non lontano, scorsero il misterioso campo bianco, che risplendeva al sole in modo abbacinante. S'incitarono a vicenda a raggiungerlo. Louisa era più avanti di alcune lunghezze, ma d'un tratto tirò le redini e la risata le morì sulle labbra. Fissava un punto sul terreno ai suoi piedi, ammutolita per l'orrore. Jim smontò e, conducendo Drumfire con la cavezza, avanzò lentamente. Il terreno ai suoi piedi era costellato di ossa umane. Lui si chinò a raccogliere un teschio. «Un bambino», osservò, rigirando tra le mani quel minuscolo resto umano. «La testa è fracassata.» «Che cos'è successo, qui, Jim?» «C'è stato un massacro. E non molto tempo fa, a giudicare dal fatto che gli avvoltoi hanno ripulito gli scheletri, ma le iene non li hanno ancora divorati.» «Com'è successo?» Quei tragici resti l'avevano commossa, e aveva le lacrime agli occhi. Lui le portò il teschio del bambino, tenendolo sollevato in modo che potesse esaminarlo più da vicino. «Vedi? È l'impronta di una mazza da guerra. Un colpo solo, da dietro. E così che gli nguni uccidono i nemici.» «Anche i bambini?» «Loro dicono che uccidono per l'emozione e il prestigio che questo procura.» «Quante persone saranno morte, qui?» Louisa distolse lo sguardo dal minuscolo teschio, guardando invece gli scheletri ammucchiati come cumuli di neve sospinta dal vento. «Quante?» ripeté in un sussurro. «Non lo sapremo mai. Ma doveva essere un'intera tribù.» Jim depose il piccolo teschio là dove lo aveva trovato. «Non c'è da stupirsi se non abbiamo incontrato nessun essere vivente durante il nostro lungo viaggio», mormorò lei. «Questi mostri hanno massacrato tutti, e portato la desolazione sulla terra.» Jim andò a prendere Bakkat, che era rimasto presso i carri, per fargli esaminare la scena del massacro. Confermando la prima valutazione di Wilbur Smith
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Jim, il boscimano riconobbe, in mezzo alle ossa, alcuni elementi che precisavano meglio il quadro della strage. Trovò una testa sfondata e l'asta di una mazza da combattimento, che chiamò kerrie. Era stata intagliata con abilità, ricavandola dal ramo nodoso di un cespuglio di acacia nera: la sezione della radice bulbosa formava una testa naturale per quella mazza crudele. L'arma doveva essersi spezzata nella mano del guerriero che la impugnava. Bakkat trovò anche, sparse tra l'erba, alcune perline di vetro, che un tempo forse avevano fatto parte di una collana. Erano di forma cilindrica, e di colore rosso e bianco. Jim le conosceva bene, perché erano identiche a quelle che anche lui portava sui carri. Le mostrò a Louisa. «Perline come queste sono di uso comune in Africa da cent'anni o più. Probabilmente furono portate qui dai portoghesi, che avevano traffici con le tribù del nord.» Bakkat ne sfregò una tra le dita. «Sono molto apprezzate dagli nguni. Forse ne hanno strappato un filo dal collo di uno dei guerrieri, o dalle dita di una vittima.» «Chi erano le vittime?» domandò Louisa, allargando le braccia per indicare le ossa sparse intorno a loro. Bakkat alzò le spalle. «In questa terra gli uomini vengono dal nulla e ripartono senza lasciare traccia del loro passaggio.» Infilò le perline nel sacchetto che portava alla cintura, ricavato dallo scroto di un bufalo. «Tranne la mia gente. Noi lasciamo le pitture sulla roccia in modo che gli spiriti si ricordino di noi.» «Vorrei davvero sapere chi erano», ribadì Louisa. «È terribile pensare ai bambini che sono stati uccisi senza che nessuno li seppellisse o piangesse la loro dipartita.» Non dovette attendere a lungo per avere una risposta. Il giorno dopo, mentre il convoglio di carri procedeva verso nord, videro in lontananza i branchi di antilopi selvatiche dividersi come l'onda di prua sollevata da un vascello. Jim riconobbe la reazione tipica degli animali alla presenza di esseri umani. Non poteva sapere che cosa c'era davanti a lui, quindi ordinò a Smallboy di disporre i carri in un quadrato difensivo e di distribuire un moschetto a ogni uomo. Poi, prendendo con sé Bakkat e Zama, lui e Louisa andarono in avanscoperta a perlustrare il terreno. La prateria era ondulata, come se fosse percorsa dalle onde dell'oceano Wilbur Smith
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e, quando raggiunsero il crinale successivo, che permetteva loro di guardare più avanti, tutti e quattro tirarono istintivamente le redini per fissare in silenzio lo strano spettacolo che si stava dispiegando sotto i loro occhi. Attraverso la pianura avanzava una colonna di figure umane, che apparivano minuscole per la distanza e si muovevano con tanta lentezza da non sollevare quasi polvere. Non avevano al seguito animali domestici e, quando si avvicinarono, Jim vide, grazie al cannocchiale, che portavano sulla testa i loro miseri averi, pentole e ciotole di terraglia, e involti di pelli animali. Nel loro aspetto non c'era nulla di ostile, e Jim si spinse verso di loro. A mano a mano che si avvicinava, riuscì a notare un maggior numero di dettagli. La fila rada era composta quasi per intero di donne e bambini. I neonati venivano trasportati in sacche di cuoio appese sulla schiena o sul fianco della madre. Erano tutti esausti e scheletrici, con le gambe simili a stecchi, e avanzavano con l'andatura molle e strascicata di chi ha superato i limiti della stanchezza. Sotto gli occhi di Jim e Louisa, una di quelle donne scheletriche si accasciò a terra. L'involto e i due bambini piccoli che portava sulle spalle erano un fardello troppo pesante per lei. Le compagne si fermarono per aiutarla a rimettersi in piedi, e una di loro le accostò una zucca alle labbra, per farla bere. Era un gesto commovente, e Louisa disse a bassa voce: «Quella gente morirà in piedi». Quando si avvicinarono, contò le teste. «Sono sessantotto, e posso aver tralasciato qualcuno dei bambini.» Allorché furono abbastanza vicini da poter fare un cenno ai primi di quella triste fila, fermarono i cavalli, e Jim si alzò sulle staffe, chiedendo: «Chi siete, e da dove venite?» A quanto pareva, erano così esausti che non avevano neppure visto i cavalieri, perché la voce di Jim suscitò un moto di confusione e sgomento. Molte donne lasciarono cadere i loro fardelli, afferrando i figli e disperdendosi nella direzione da cui erano venute; ma quei tentativi di fuga erano penosi e, una alla volta, le donne si fermarono, barcollando, e si gettarono sull'erba, incapaci di proseguire. Tentarono di sfuggire all'attenzione di quegli estranei appiattendosi e tirandosi sulla testa la cappa di cuoio che indossavano. Soltanto uno di loro non era fuggito: un vecchio. Anche lui appariva fragile, sottile come uno stecco, eppure si raddrizzò e rimase immobile, Wilbur Smith
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rivelando una grande dignità. Lasciò ricadere lo scialle che portava sulle spalle e lanciò un grido di guerra acuto e tremolante, brandendo un giavellotto contro Jim. Alla distanza di cinquanta passi, troppi per il suo braccio ormai vecchio, lanciò il giavellotto, che si conficcò nel terreno a metà strada fra lui e il ragazzo. Poi cadde in ginocchio. Jim si avvicinò con cautela, in guardia contro altri attacchi di quel vegliardo dai capelli d'argento. «Chi sei, vecchio padre?» gli domandò. Dovette rivolgergli la stessa domanda in tre dialetti diversi prima che l'uomo trasalisse, riconoscendo le parole, e rispondesse. «Lo so chi sei, tu che cavalchi animali selvaggi e parli le lingue. So che sei uno di quegli stregoni del coccodrillo bianco che sono usciti dalle grandi acque per divorare gli uomini. Altrimenti come potresti conoscere la lingua del mio popolo? Eppure io non ti temo, sporco demonio, perché sono vecchio e pronto a morire. Ma morirò lottando contro di te, che vorresti divorare le mie figlie e i miei nipoti.» Si rialzò barcollando ed estrasse l'ascia dalla cintura. «Fatti avanti, e vedremo se hai sangue nelle vene come gli altri uomini.» Il dialetto che parlava era quello dei lozi del nord, che il vecchio Abolì aveva insegnato a Jim. «Tu mi spaventi, vecchio guerriero», disse Jim al vegliardo in tono grave. «Ma deponiamo le armi e parliamo un po', prima di combattere.» «Sembra confuso e terrorizzato, povero vecchio», osservò Louisa. «Può darsi che io non sia abituato a discorrere con maghi e demoni», ribatté asciutto Bakkat. «Ma una cosa la so: se non mangia qualcosa, ben presto il vento se lo porterà via.» Infatti il vecchio vacillava sulle gambe ossute. «Quand'è stata l'ultima volta che hai mangiato, grande capo?» gli chiese Jim. «Io non parlamento coi maghi o con gli spiriti dei coccodrilli», replicò l'altro in tono altero. «Se non hai fame, dimmi, capo, quando hanno mangiato per l'ultima volta le tue figlie e i tuoi nipoti?» L'aria di sfida del vecchio s'incrinò. Voltandosi a guardare la sua gente, abbassò la voce per rispondere, con semplice dignità: «Stanno morendo di fame». «Lo vedo», convenne Jim con aria tetra. «Jim, dobbiamo mandare a prendere del cibo dai carri», proruppe Wilbur Smith
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Louisa. «Ci vorrà ben altro che i nostri pani e pesci per sfamare questa gente. E poi, quando avranno vuotato la nostra dispensa, moriremo di fame con loro», replicò Jim, girandosi sulla sella per osservare i branchi di selvaggina, sparsi sulle pianure in tutte le direzioni. «Muoiono di fame in mezzo all'abbondanza. La loro abilità di cacciatori e le loro armi primitive non riusciranno ad abbattere un solo capo di selvaggina in tutta questa moltitudine», commentò. Poi, rivolgendosi di nuovo al vecchio, gli disse: «Userò la mia stregoneria non per distruggere il tuo popolo, ma per sfamarlo». Lo lasciarono dov'era, spingendosi a cavallo nella pianura. Jim scelse un branco di gnu, animali simili ai bovini, dall'aspetto bizzarro, con una zazzera di peli scuri, le corna lunate e le zampe troppo sottili in rapporto al corpo robusto. Erano i buffoni del veld, e spiccavano salti acrobatici davanti a Bakkat e Zama, mentre questi ultimi correvano in cerchio per circondare il branco e sospingerlo verso Jim e Louisa. Quando furono quasi a portata di tiro, i capi del branco intuirono il pericolo e abbassarono la testa sgraziata, sbuffando e scalciando, cominciando poi a correre sul serio, ma Drumfire e Trueheart li raggiunsero senza fatica. Cavalcando vicino al branco e sparando dalla sella, Jim abbatté un capo con uno sparo di ciascuno dei suoi fucili, mentre Louisa ne colpiva un altro col piccolo fucile francese. Dopo aver legato le carcasse per le zampe, se le trascinarono dietro coi cavalli, tornando verso il vecchio che si era accovacciato sull'erba. Si alzò e, quando capì che cosa gli avevano portato, lanciò un richiamo alla sua gente, con voce tremolante: «Carne! I demoni ci hanno portato della carne! Presto, venite, e portate i bambini». Timidamente, si fece avanti una vecchia, mentre le altre restavano indietro. Quei due vegliardi cominciarono a lavorare sulle bestie, usando la lama del giavellotto come coltello per macellarle. Allorché il resto del gruppo si rese conto che non sarebbe stato molestato dai diavoli bianchi, accorse, sciamando, per partecipare al festino. Louisa rise forte, vedendo le madri staccare pezzi di carne cruda e masticarla per ridurla in poltiglia prima di sputarla nella bocca dei bambini, come facevano gli uccelli coi loro piccoli. Una volta placata la fame iniziale, accesero dei fuochi per arrostire e affumicare il resto della carne. Jim e Louisa andarono di nuovo a caccia, riportando altre prede per Wilbur Smith
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fornire carne affumicata sufficiente a sfamare anche un gruppo così numeroso per alcuni mesi. Ben presto la piccola tribù perse ogni timore e divenne così fiduciosa che non si ritraeva più se Louisa passava in mezzo al gruppo. Le permisero anche di prendere in braccio e vezzeggiare i piccoli, poi le donne si affollarono intorno a lei per toccarle i capelli e sfiorare la pelle chiara con timore reverenziale. Jim e Bakkat si sedettero invece a parlare col vecchio. «A quale popolo appartenete?» «Siamo lozi, ma il nostro totem è Bakwato.» «Come ti chiami, grande capo dei bakwato?» gli chiese Jim. «Mi chiamo Tegwane, e in verità sono soltanto un piccolo capo», rispose lui. Tegwane era il nome della piccola cicogna bruna con un ciuffo sulla testa che si nutriva di pesci e popolava tutti i fiumi e gli stagni. «Da dove vieni?» Il vecchio indicò il nord. «Dove sono i giovani guerrieri della tua tribù?» «Massacrati dagli nguni mentre si battevano per salvare le famiglie», rispose Tegwane. «Ora sto cercando un posto dove le donne e i bambini possano stare al sicuro, ma temo che gli assassini non siano lontani.» «Parlami di questi nguni», lo sollecitò Jim. «Ho sentito pronunciare il loro nome con terrore e rispetto, ma non li ho mai visti e non ho mai incontrato nessuno che li conoscesse.» «Sono demoni», borbottò Tegwane. «Arrivano rapidi come l'ombra delle nubi sulla pianura e non lasciano anima viva sul loro cammino.» «Dimmi tutto quello che sai su di loro. Che aspetto hanno?» «I guerrieri sono uomini alti e solidi come alberi di legno-ferro. Portano un copricapo con piume di avvoltoio nero e sonagliere ai polsi e alle caviglie, cosicché le loro schiere fanno il rumore del vento, quando arrivano.» «E le armi?» «Portano scudi neri di cuoio di bue essiccato, e disprezzano l'uso del giavellotto. Amano avvicinarsi alle vittime per usare l'assegai, che è un'arma corta, di punta. La ferita di quella lama è così ampia e profonda che risucchia il sangue della vittima come un fiume, non appena la ritirano.» «Da dove vengono?» «Nessuno lo sa, ma qualcuno dice da una terra lontana, al nord. Wilbur Smith
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Viaggiano con grandi branchi di bestiame rubato, e mandano avanti i loro eserciti per massacrare tutto ciò che incontrano sul loro cammino.» «Chi è il loro re?» «Non hanno un re, ma una regina. Si chiama Manatasee. Io non l'ho mai vista, però si dice che sia più crudele e bellicosa di qualsiasi guerriero.» Guardò l'orizzonte con aria timorosa. «Devo portare in salvo il mio popolo, lontano da lei. I suoi guerrieri ormai non possono essere molto lontani. Forse, se attraversiamo il fiume, non potranno seguirci.» Lasciarono Tegwane e le sue donne al lavoro intorno ai fuochi per affumicare il resto della carne, tornando verso i carri. Quella sera, mentre cenavano al riverbero del fuoco da campo, sotto un baldacchino di stelle lucenti, discussero la situazione della piccola tribù di profughi. Louisa propose di tornare dai bakwato il giorno dopo con la loro piccola riserva di medicine e sacchi di farina e di sale. «Se diamo loro tutto quello che abbiamo, che ne sarà di noi?» chiese Jim, cercando di farla ragionare. «Magari solo per i bambini...» insistette lei, pur sapendo che Jim aveva ragione e che ben difficilmente avrebbe accettato. «Bambini o adulti, non possiamo prendere sotto la nostra ala un'intera tribù. Abbiamo fornito loro cibo sufficiente per arrivare al fiume e oltre. Questa è una terra crudele. Come noi, anche loro dovranno provvedere a se stessi o perire.» Quella sera lei non andò nel suo carro, e lui sentì la sua mancanza. Anche se erano ancora casti come fratello e sorella, lui si era già abituato alla presenza di Louisa al suo fianco, la notte. Quando si svegliò, lei era già al lavoro vicino al fuoco da campo. Durante quella sosta in riva al fiume, le loro galline avevano potuto uscire dalle stie sul retro dei carri per razzolare sul terreno e, in segno di gratitudine, avevano fatto mezza dozzina di uova. Louisa preparò un'omelette per la colazione di Jim, ma gliela servì senza un sorriso, rendendo evidente la propria disapprovazione. «Stanotte ho fatto un sogno», gli disse. Lui represse un sospiro, perché stava imparando a fare spazio ai suoi sogni nella propria vita. «Racconta.» «Ho sognato che qualcosa di terribile era successo ai nostri amici, i bakwato.» «Tu non ti arrendi mai senza combattere, vero?» le domandò, ma lei non Wilbur Smith
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rispose. Tornò a sorridergli solo quando furono di nuovo in viaggio verso il punto in cui avevano lasciato la tribù dei fuggiaschi. Durante il tragitto, lui cercò di escogitare altre buone ragioni per dissuaderla dall'assumersi il ruolo di benefattrice e protettrice di quei settanta affamati, ma preferì prendere tempo prima di sostenere un nuovo duello di volontà. Il fumo che si levava dai fuochi sui quali veniva affumicata la carne li guidò nell'ultima lega verso l'accampamento di Tegwane. Non appena superato il crinale, però, si fermarono sbigottiti. La polvere mescolata al fumo dei fuochi oscurava in parte la scena, però c'erano molte figure minuscole che correvano qua e là in mezzo alla nuvola bassa. Jim estrasse il cannocchiale dall'astuccio, e gli bastò un'occhiata per esclamare: «Oh, buon Gesù, gli nguni li hanno già trovati!» «Lo sapevo!» gridò Louisa. «Te l'avevo detto che era successo qualcosa di terribile, no?» Spronò il cavallo in avanti, e lui dovette spingersi al galoppo per raggiungerla, afferrando le redini di Trueheart e fermando la sua corsa. «Aspetta! Dobbiamo andarci cauti. Non sappiamo in che situazione potremmo cacciarci.» «Stanno massacrando i nostri amici!» «Probabilmente il vecchio e la sua tribù sono già morti e non vorremo unirci a loro, spero.» In fretta, Jim spiegò a Bakkat e Zama qual era il suo piano. Per fortuna, i carri non erano molto lontani. Diede ordine a Zama di tornare indietro per avvertire Smallboy e i suoi uomini di stare in guardia e di radunare tutti i bovini, i cavalli di riserva e gli altri animali al centro dell'accampamento. «Quando avranno messo tutto al sicuro, porta qui con te Smallboy e altri due conducenti, più in fretta che puoi. Prendi due moschetti per ciascuno. Riempi i sacchetti delle munizioni di pallini e porta fiasche di polvere in più.» I fucili a canna liscia si potevano ricaricare più in fretta dei moschetti. Una manciata di pallini sparati a distanza ravvicinata produceva una rosa più ampia e abbatteva più di un nemico a ogni colpo. Sebbene Louisa smaniasse dal desiderio di accorrere in aiuto del gruppo di profughi, Jim la costrinse ad aspettare finché Zama non fosse tornato coi rinforzi e con le armi. «Saranno qui entro un'ora», le assicurò. «A quel punto, i bakwato saranno sterminati.» Lei avrebbe voluto prendergli di mano il cannocchiale, ma lui non glielo cedette. Wilbur Smith
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«È meglio che tu non veda.» Attraverso l'obiettivo poteva scorgere lo scintillio delle lame d'acciaio al sole, e gli scudi da guerra che venivano branditi, in mezzo ai copricapi piumati che danzavano. Persino lui si sentì accapponare la pelle quando vide una donna bakwato sbucare nuda dalle nubi di polvere, stringendosi al seno un neonato. Era inseguita da un guerriero alto e coronato di piume, che la raggiunse e la trafisse alle spalle. La punta dell'assegai le uscì sul davanti, in mezzo ai seni. Jim vide l'acciaio sprizzare un lampo rosa di sangue, simile allo scintillio del fianco di un salmone che si gira sotto il pelo dell'acqua, e la donna cadde in avanti sull'erba. Il guerriero si chinò su di lei e si rialzò, sollevando il neonato. Poi lo scaraventò in aria e, mentre ricadeva, lo infilzò sulla punta dell'assegai. Infine, brandendo il corpicino come uno stendardo, si affrettò a tornare in mezzo alla polvere e al fumo. Alla fine - mai troppo presto, per Louisa -, Zama tornò al galoppo con Smallboy, Klaas e Muntu, gli altri conducenti dei carri. Jim controllò in fretta che i moschetti fossero caricati e pronti a sparare. Tutti i componenti del gruppo erano abili nell'uso delle armi, ma non li aveva mai visti alla prova in uno scontro accanito. Li dispose in una linea estesa, poi, tenendo i cavalli al passo per risparmiare le forze, si avviò con loro verso l'accampamento attaccato. Jim teneva Louisa accanto a sé; avrebbe preferito saperla al sicuro sui carri, ma la conosceva troppo bene, ormai, per farle una proposta del genere. Avvicinandosi, udirono il clamore, le urla e i lamenti, ma soprattutto gli ululati di trionfo degli nguni che usavano l'assegai e la kerrie. Sotto la nuvola di polvere e di fumo, la prateria era costellata dei corpi dilaniati delle donne e dei bambini, che sembravano relitti approdati su una spiaggia dopo una furiosa tempesta. Sono morti tutti, pensò Jim, e la sua collera divenne omicida. Lanciò uno sguardo in tralice a Louisa, che era impallidita per l'orrore davanti a quella carneficina. Poi, incredibilmente, lui si accorse che almeno qualcuno dei bakwato era ancora vivo. Al centro dell'accampamento c'era un basso affioramento di granito che formava una roccaforte naturale, uno zareeba dalle mura di roccia. In quel punto, si ergeva la figura alta e scarna di Tegwane, con una mazza da guerra in una mano e una lancia nell'altra. Aveva il corpo chiazzato del sangue suo e dei nemici. Era circondato da guerrieri nguni che sembravano giocare con lui, divertiti dal suo coraggio, come gatti intorno al topo ormai Wilbur Smith
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condannato. Gli danzavano intorno, schernendolo e ridendo delle sue mosse guerresche. Tegwane aveva ritrovato almeno in parte la forza e la ferocia della gioventù perduta. Il suo grido di guerra acuto e le sue urla di sfida risuonavano sonori, e Jim vide uno degli aggressori ritrarsi, barcollando, colpito al volto dalla sua lancia. Si portò la mano alla ferita e il sangue gli sprizzò tra le dita. Quel successo segnò il destino dell'anziano capo, e gli nguni si fecero sotto con l'intenzione di finirlo. Ormai la linea sottile di cavalieri si trovava a un centinaio di passi dalla periferia del campo. Gli nguni erano così assorti nella strage che nessuno si era ancora accorto di loro. «Quanti sono?» gridò Jim a Louisa. «Non ne vedo più di una ventina», rispose lei. «Una piccola spedizione», calcolò Jim, che poi gridò ai suoi uomini: «All'attacco! Uccideteli! Finiteli come sciacalli furiosi!» Spingendo i cavalli al piccolo galoppo, si lanciarono alla carica sul campo. Poco più avanti, uno nguni stava pungolando con l'assegai una delle donne più giovani, cercando di portarla nella posizione ideale per vibrarle un colpo al ventre, ma lei si rotolava e si dimenava sul terreno come un'anguilla, sfuggendo alla punta d'acciaio lucente. Il guerriero era così preso da quel gioco crudele che Louisa gli fu quasi addosso prima che lui alzasse la testa. Jim non sapeva bene cosa intendesse fare, e fu colto di sorpresa quando la giovane sollevò il moschetto e sparò. La carica di pallini investì in pieno la testa lucida di sudore del guerriero, che fu sbalzato all'indietro dalla violenza del colpo. Louisa estrasse dal fodero il secondo moschetto e riprese il suo posto al fianco di Jim, lanciato alla carica del gruppo di guerrieri che circondava Tegwane. Sparò di nuovo, e un altro uomo cadde. Nonostante la frenesia del momento, Jim fu assai impressionato dalla sua spietatezza. Non era quella, la ragazza che credeva di conoscere. Aveva ucciso due uomini, a sangue freddo e con efficienza, senza lasciar trasparire le emozioni che infuriavano dentro di lei. I guerrieri che si stavano accanendo su Tegwane sentirono gli spari alle loro spalle. Non avevano mai sentito il rumore di una detonazione e, quando si voltarono a fronteggiare la fila di cavalieri, lo stupore e la perplessità apparivano evidenti dal loro volto, spruzzato dal sangue delle vittime. Jim sparò pochi secondi dopo Louisa. Il colpo squarciò il ventre nudo, abbattendo l'uomo all'istante, e spezzò il braccio del guerriero alle Wilbur Smith
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sue spalle. L'assegai gli cadde di mano e il braccio rimase inerte lungo il fianco, reciso all'altezza del gomito. Il ferito abbassò gli occhi sul braccio che pendeva, poi si abbassò per raccogliere con la sinistra l'assegai caduto, lanciandosi all'attacco. Jim rimase attonito di fronte a tanto coraggio. Entrambi i moschetti erano scarichi, e fu costretto a estrarre la pistola dalla parte anteriore della sella. Il proiettile colpì alla gola lo nguni lanciato alla carica. L'uomo emise un suono strozzato mentre il sangue gli sprizzava dalla trachea recisa, ma il suo esempio fu d'ispirazione ai compagni, che si riscossero dalla sorpresa. Lasciando Tegwane, si lanciarono sui cavalieri, frementi d'ansia, col volto acceso dalla brama di sangue, le sonagliere alle caviglie che vibravano a ogni passo dei piedi nudi e a ogni affondo delle armi. Zama e Bakkat spararono insieme, uccidendo un nemico a testa. Altri due furono abbattuti dalla raffica di colpi di Smallboy e degli altri conducenti dei carri, ma la loro mira non era precisa, e persino gli nguni feriti si fecero di nuovo sotto, arrivando quasi alla portata del loro corto assegai. «Indietro! Ritiratevi per ricaricare!» gridò Jim. La fila di cavalieri si divise, voltando i cavalli per allontanarsi al galoppo dall'accampamento, e gli nguni alla carica esitarono e si arrestarono, non riuscendo a superare i cavalli. Quando furono nel veld, a distanza di sicurezza, Jim ordinò agli uomini di fermarsi e li prese di nuovo sotto il suo controllo. «Smontare e ricaricare!» ordinò. «Tenete i cavalli per le redini. Non vorrete che si disperdano proprio adesso, vero?» Obbedirono tutti con prontezza. Con le redini assicurate alle spalle, versarono nella canna la polvere e i proiettili, calcandovi sopra una manciata di pallini. «Smallboy e i suoi ragazzi potranno anche sparare come conigli», mormorò Jim a Louisa, mentre versava la polvere nello scodellino del secondo moschetto, «almeno però mantengono ancora i nervi saldi.» Louisa lavorava con la stessa prontezza e il medesimo scrupolo di Jim, e finì di caricare le armi un attimo dopo di lui. Gli nguni ripresero coraggio, vedendoli fermi, e ricominciarono a correre, lanciando grida selvagge, coprendo in fretta la distanza sulla prateria aperta verso il gruppo di cavalieri appiedati. «Perlomeno li abbiamo distolti dall'infierire sulle loro vittime», commentò Louisa, montando in sella. Jim risalì su Drumfire, ma gli altri Wilbur Smith
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erano ancora impegnati a caricare. Si accorse che Louisa aveva ragione; tutti i guerrieri nemici si erano uniti alla caccia e stavano andando loro incontro attraverso la prateria. Sull'affioramento di granito era rimasto soltanto il vecchio Tegwane, evidentemente ferito, ma ancora vivo. Bakkat finì di caricare il moschetto e balzò in sella con l'agilità di una scimmia, affiancandosi a Jim, mentre gli altri erano ancora indaffarati. «Seguiteci non appena avrete caricato», gridò allora Jim. «Ma fate presto!» Poi, rivolto a Louisa e Bakkat, aggiunse: «Venite! Gli faremo assaggiare una zaffata di fumo di polvere per fargli passare l'appetito». I tre si avviarono incontro al gruppo di guerrieri che avanzava. «Non danno nessun segno di paura!» esclamò Louisa con riluttante ammirazione, quando gli nguni schiamazzarono come un branco di cani da caccia e si lanciarono in una carica sfrenata, puntando direttamente contro di loro. Ad appena un centinaio di passi di distanza, Jim si fermò. Senza smontare di sella, ordinò di mirare al bersaglio. Due degli aggressori crollarono a terra, e un altro cadde in ginocchio, serrandosi il ventre con le mani. Cambiarono moschetto per riprendere a sparare. Tanto Jim quanto Bakkat abbatterono un uomo a testa, ma ormai la tensione cominciava a logorare Louisa. I moschetti erano troppo pesanti per lei, che rifuggiva istintivamente dal rinculo doloroso. Il secondo colpo finì alto. L'altro nguni si avvicinò, ululando in modo selvaggio. Ormai erano rimasti in piedi in pochi, ma avevano il viso acceso dalla febbre del combattimento, e tenevano sollevato lo scudo nero da guerra. «Ripiegare!» ordinò Jim, e loro si ritirarono, quasi all'ombra degli scudi, per tornare al galoppo verso il punto in cui Zama, Smallboy e il resto della compagnia avevano finito di ricaricare e stavano montando a cavallo. Quando s'incrociarono, Jim gridò a Smallboy: «Non lasciateli avvicinare troppo. Alzatevi sulle staffe e sparate per abbatterli. Noi dobbiamo ricaricare, poi vi verremo dietro». Mentre il suo gruppo ricaricava, vide che Smallboy eseguiva gli ordini ricevuti. Lui e i suoi uomini precedevano a cavallo la carica degli nguni, provocandoli, e li incitavano a proseguire, fermandosi per sparare non appena si trovavano a distanza di tiro, e poi spronando di nuovo le cavalcature. La pratica cominciava a dare i suoi frutti, e altri due guerrieri nemici rimasero sull'erba, privi di vita. Quando i moschetti furono scarichi, Smallboy sospese l'attacco per riportare indietro gli uomini. Intanto il gruppo di Jim aveva ricaricato ed era di nuovo in sella. I due Wilbur Smith
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schieramenti di cavalieri si diedero il cambio, incrociandosi a metà strada mentre gli uni si ritiravano e gli altri avanzavano a tutta velocità. «Ben fatto!» disse Jim, anche per incoraggiare Smallboy. «Ora tocca a noi.» I guerrieri nguni li videro avanzare e si fermarono. Per qualche istante rimasero immobili, formando un piccolo gruppo incerto. Ormai si erano resi conto di quanto fosse futile affrontare quegli sconosciuti, in groppa a strani animali così veloci che nessun uomo a piedi poteva eguagliarli nella corsa. Avevano ormai compreso anche la pericolosità di quelle armi che sputavano fumo e abbattevano gli uomini a distanza col potere della magia. Uno di loro ruppe lo schieramento, allontanandosi, anche se Jim notò che non si liberava dello scudo e dell'assegai. Era chiaro che non intendeva arrendersi, ma battersi ancora. A ogni modo, i compagni furono contagiati dal suo esempio e si diedero alla fuga. «Calma!» ammonì Jim, rivolto ai suoi uomini. «Non lasciatevi trascinare.» Tegwane lo aveva avvertito che simulare la fuga, o addirittura la morte, per invitare il nemico a farsi avanti era una delle tattiche preferite degli nguni. Uno dei guerrieri, però, più lento degli altri nella corsa, era rimasto indietro. Jim puntò verso di lui e lo raggiunse in fretta. Quando sollevò il moschetto, il guerriero si voltò per tenerlo a bada, e Jim si accorse che non era un novellino, perché aveva fili bianchi tra i capelli e portava un copricapo di piume di struzzo, oltre alle code di vacca intorno al braccio che impugnava la lancia, segni di onore e di coraggio. Dando una dimostrazione inattesa di prontezza e velocità nella corsa, scattò verso Jim, e avrebbe potuto conficcare la lama dell'assegai nel fianco di Drumfire, se lui non lo avesse centrato al viso con una rosa di pallini. Quando si guardò intorno, scoprì che Louisa aveva obbedito agli ordini: non si era lanciata all'inseguimento, e anche Bakkat e Zama erano tornati indietro. Jim si rallegrò di quella prova di disciplina e buonsenso; ritrovarsi con le loro modeste forze sparpagliate nella distesa del veld poteva rivelarsi un errore fatale. Tornò verso Louisa, in attesa. Non appena la raggiunse, intuì dalla sua espressione che la fiamma dell'ira si era spenta con la stessa rapidità con la quale era divampata. La giovane stava fissando lo nguni ucciso, con uno sguardo pieno di mestizia e di rimorso. «Per ora li abbiamo respinti, ma torneranno alla carica, ne sono sicuro», Wilbur Smith
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le disse, e lei alzò la testa per guardare le figure dei superstiti che si allontanavano sulla prateria dorata, prima di scomparire del tutto oltre un avvallamento. «È bastato», replicò lei. «Sono contenta che tu li abbia lasciati andare.» «Dove hai imparato a batterti così?» le domandò. «Se tu avessi trascorso un anno sulla Meeuw, capiresti.» In quel momento Smallboy e gli altri conducenti dei carri tornarono verso di loro dopo avere ricaricato i moschetti. «Li seguiremo, Somoya», esclamò Smallboy in tono bellicoso. Era chiaro che si trovava ancora in preda all'esaltazione del combattimento. «No! Lasciateli andare!» ordinò brusco Jim. «Probabilmente Manatasee e tutto il suo esercito vi stanno aspettando oltre la prossima altura. Il vostro posto è sui carri. Tornate laggiù e proteggete il bestiame, tenendovi pronti ad affrontare un altro attacco.» Mentre Smallboy e gli altri conducenti dei carri si allontanavano, Jim ricondusse gli altri verso l'accampamento, dove regnava la morte. Il vecchio Tegwane, seduto su un blocco di granito, cercava di medicarsi le ferite, intonando un lamento sommesso per la sua famiglia, nonché per le donne e i bambini della tribù i cui cadaveri erano sparsi all'intorno. Mentre Louisa gli offriva dell'acqua dalla sua borraccia, gli lavava le ferite e le fasciava per arrestare l'emorragia, Jim si aggirò per l'accampamento, avvicinandosi con cautela agli nguni caduti, con la pistola sempre pronta. Erano tutti morti, però, e i pallini avevano inflitto loro terribili ferite. Per lo più erano uomini alti e ben fatti, giovani e robusti. Le loro armi erano opera di fabbri abili nella lavorazione del metallo. Impugnando uno degli assegai, Jim scoprì che era perfettamente bilanciato e aveva una lama a doppio taglio così affilata da recidere i peli del braccio. Tutti i guerrieri morti portavano collane e bracciali d'avorio intagliato. Jim tolse uno di quegli ornamenti dal collo dell'anziano nguni che aveva ucciso con l'ultimo colpo. A giudicare dal copricapo con le piume di struzzo e dalle code bianche di vacca che portava intorno alla parte superiore del braccio, doveva essere stato un anziano di un certo prestigio. La collana d'avorio era intagliata con grande abilità, e aveva minuscole figure umane infilate in un laccio di cuoio. Forse ogni figura rappresenta un uomo ucciso in battaglia, intuì Jim. Era evidente che gli nguni attribuivano un grande valore all'avorio. Ciò incuriosì Jim, che si mise in tasca la collana. Wilbur Smith
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Aggirandosi nel campo, scoprì che gli nguni avevano svolto il loro macabro lavoro con cura meticolosa. I bambini erano stati uccisi tutti con spietata efficienza; per la maggior parte di loro, era stato sufficiente un colpo solo con la mazza da guerra. A parte Tegwane, trovarono in vita soltanto un altro bakwato, la ragazza che Louisa aveva salvato sparando il primo colpo. Aveva una profonda ferita alla spalla, ma, quando Zama la sollevò, scoprì che era in grado di camminare. Louisa notò che era troppo giovane per aver già dato alla luce il primo figlio, dato che aveva il ventre liscio e piatto e i seni simili a frutti ancora acerbi. Quando vide che era ancora viva, Tegwane lanciò un grido di gioia e la raggiunse zoppicando per abbracciarla. «Questa è Intepe, il giglio del mio cuore, mia nipote», gridò. Louisa l'aveva già notata durante il loro primo incontro con la tribù, perché era la più graziosa di tutte. Intepe le si avvicinò con aria fiduciosa, aspettando con pazienza che lei le lavasse e medicasse la ferita. Quando finì di assistere Tegwane e sua nipote, Louisa si guardò intorno, osservando i morti che giacevano seminascosti in mezzo all'erba. «Che cosa faremo di tutti questi corpi?» chiese a Jim. «Il nostro compito qui è finito», rispose lui, lanciando un'occhiata al cielo senza nuvole, dove si stavano già radunando gli avvoltoi. «Lasceremo il resto a loro. Ora dobbiamo tornare in fretta verso i carri. C'è molto da fare, prima che tornino gli nguni.» Jim scelse la migliore posizione difensiva lungo la riva del fiume. In quel punto, un piccolo affluente scendeva dalle colline per gettarsi nel fiume, formando un angolo acuto, e delimitava uno stretto cuneo di terreno, circoscritto da un braccio secondario del fiume. Jim scandagliò le acque su quel lato e accertò che erano più profonde dell'altezza di un uomo. «Gli nguni non nuotano mai», gli assicurò Tegwane. «Forse l'acqua è l'unica cosa che temono. Non mangiano né pesce né carne d'ippopotamo, perché aborrono tutto ciò che proviene dall'acqua.» «Dunque questo specchio d'acqua proteggerà le nostre posizioni sul fianco e sul retro», commentò Jim, sollevato. Tegwane si stava rivelando un'utilissima fonte d'informazioni. Si vantava di parlare correntemente la lingua degli nguni e di conoscere le loro usanze. Se era vero, valeva tanto oro quanto pesava. Wilbur Smith
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Jim camminò lungo la sommità della riva ripida dell'affluente. C'era un salto dell'altezza di dieci piedi, una parete di argilla grassa che sarebbe stata difficile da superare senza una scala. «Questo ci proteggerà dall'altro lato. Dobbiamo soltanto disporre i carri in modo da sbarrare l'area tra il fiume e l'affluente.» Sospinsero i carri nella posizione desiderata e legarono le ruote tra loro con cinghie di cuoio grezzo, formando il cosiddetto laager, per evitare che gli nguni li spostassero, aprendo una breccia. Nei varchi tra un carro e l'altro, e al di sotto, crearono una barriera di rami spinosi, così che i guerrieri non potessero strisciare al di sotto dell'ostacolo. Lasciarono soltanto uno stretto passaggio al centro della linea di carri. Jim ordinò che i cavalli e gli altri animali domestici fossero custoditi rigorosamente e pascolassero poco lontano, in modo che fosse possibile condurli al riparo del laager nel giro di pochi minuti, prima di sbarrare l'accesso con fascine di rami spinosi già sistemate a portata di mano. «Credi veramente che gli nguni torneranno?» Facendo quella domanda, Louisa cercò di nascondere la paura che provava. «Non credi che possano aver capito la lezione e che ci lascino in pace?» «Il vecchio Tegwane li conosce bene e non ha dubbi», rispose Jim. «Dice che verranno, se non altro perché amano troppo combattere.» «Quanti ce ne sono ancora?» insistette lei. «Tegwane lo sa?» «Il vecchio non sa contare. Dice soltanto che sono molti.» Jim prese le misure con cura prima di scegliere un punto a una certa distanza dai carri, dove ordinò a Smallboy e agli altri conducenti di scavare una fossa poco profonda. In quel punto sistemò un barilotto da cinquanta libbre di polvere da sparo nera, di qualità scadente, introducendo nello zipolo una miccia a combustione lenta, con l'accensione posta fra le ruote del carro centrale. Poi mimetizzò il barilotto con sacchetti di ciottoli presi dal letto del fiume, che si augurava volassero in tutte le direzioni come proiettili di moschetto al momento dell'esplosione. Infine diede istruzioni agli uomini di aprire delle feritoie nella barriera di rami spinosi, in modo che i difensori potessero sparare d'infilata contro gli aggressori. Con la mola, Smallboy affilò la lama delle corte sciabole da marinaio, sistemando anche quelle a portata di mano; poi i moschetti carichi furono disposti vicino alle sciabole, insieme con barilotti di polvere, sacchetti di munizioni e calcatoi di riserva. Louisa istruì i voorloper e i mandriani nell'arte di caricare le armi e prepararle a sparare, Wilbur Smith
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anche se le riuscì difficile persuaderli che, se una manciata di polvere produceva un'esplosione soddisfacente, due manciate non avrebbero apportato miglioramenti, anzi potevano risolversi con l'esplosione della canna e addirittura la decapitazione dell'incauto che tirava il grilletto. Le botti per l'acqua furono riempite con l'acqua del fiume e preparate o per placare la sete dei combattenti o per spegnere le fiamme, in caso gli nguni ricorressero al vecchio trucco di appiccare il fuoco all'accampamento lanciando torce accese. Due dei mandriani furono messi di vedetta sulla cima della collinetta bassa dalla quale Louisa aveva scorto la scena del massacro. Jim fornì loro un vaso di coccio con un tizzone acceso all'interno, ordinando a entrambi di accendere un fuoco di foglie verdi se avessero visto avvicinarsi il grosso delle forze nguni. Il fumo sarebbe servito da allarme per il campo. Una volta acceso il fuoco, potevano scendere di corsa fino al laager per dare l'allarme. Inoltre Jim ordinò ai ragazzi di scendere dalla collina per mettersi al sicuro nell'accampamento ogni sera prima del calar delle tenebre. Sarebbe stato crudele lasciarli fuori al buio, alla mercé degli animali selvatici e degli esploratori nguni. «Gli nguni non attaccano mai di notte», gli spiegò Tegwane. «Dicono che l'oscurità è fatta per i codardi. Un vero guerriero deve morire alla luce del sole.» In ogni modo, al calar della sera, Jim dispose dei picchetti e piazzò sentinelle intorno al campo, controllandole regolarmente durante la notte per assicurarsi che restassero sveglie. «Arriveranno cantando e battendo sugli scudi», preannunciò Tegwane. «Desiderano preavvertire i nemici. Sanno che la loro fama li precede e che il suono delle loro voci e la vista stessa dei loro copricapi neri colmano di terrore il ventre dei nemici.» «Allora dobbiamo preparare un benvenuto degno di loro», replicò Jim. Sgombrarono il terreno dagli alberi e dal sottobosco per un centinaio di passi davanti ai carri, trascinando via gli alberi abbattuti con l'aiuto dei buoi, in modo che il terreno restasse aperto. Per raggiungere i carri, gli impi, i gruppi di guerrieri lanciati all'attacco, avrebbero dovuto attraversare una zona esposta al fuoco. Poi Jim calcolò le distanze di fronte alle postazioni difensive, disponendo una linea di bianchi ciottoli di fiume per indicare la distanza alla quale la rosa di pallini avrebbe raggiunto la massima efficacia e inculcò negli uomini il principio che non dovevano aprire il fuoco sinché la prima fila di nemici non avesse superato quella Wilbur Smith
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linea. Una volta completati i preparativi, si misero ad aspettare. Quello era il momento peggiore, giacché il lento trascorrere delle ore aveva un effetto corrosivo sul morale. Jim approfittò di quel ritardo per trascorrere del tempo con Tegwane, imparando da lui a conoscere meglio il nemico. «Dove tengono le donne e i bambini?» «Non li portano in guerra. Forse li lasciano al loro villaggio.» «Hanno grandi riserve di bottino e ricchezze?» «Hanno parecchio bestiame, e amano i denti d'avorio dell'elefante e dell'ippopotamo.» «Parlami del bestiame.» «Hanno mandrie enormi. Gli nguni amano le loro bestie alla pari dei figli. Non li uccidono per mangiare la carne, ma succhiano il loro sangue, mescolandolo al latte. Questo è il loro alimento principale.» Gli occhi di Jim mandarono un lampo. Nella colonia, un bue di prima qualità fruttava cento gulden. «Parlami del loro avorio», disse allora. «Amano molto l'avorio», spiegò Tegwane. «Forse ne hanno bisogno per il commercio con gli arabi del nord o i bulamatari.» Quel nome significava «spezzatori di roccia», un'allusione ai portoghesi che inviavano uomini per prelevare campioni in cerca di tracce d'oro. Apprendendo che Tegwane aveva sentito parlare di quelle nazioni, Jim rimase stupito e lo interrogò su quell'argomento. «Il padre di mio padre conosceva voi maghi discendenti dei coccodrilli, e anche suo padre prima di lui», replicò Tegwane, sorridendo. Jim assentì. Che ingenuo era stato! Gli arabi di Oman commerciavano con l'Africa e prendevano schiavi dalle sue terre da tempo immemorabile. Erano trascorsi più di duecento anni da quando Vasco da Gama era sbarcato nell'isola di Mozambico e i portoghesi avevano cominciato a costruire forti e stazioni di commercio sul continente. Naturalmente gli echi di quegli avvenimenti dovevano essere penetrati anche fra le tribù più primitive, negli angoli più remoti di quella vastissima terra. Jim mostrò allora al vecchio le zanne dell'elefante che aveva ucciso, e fu la volta di Tegwane a essere stupito. «Non ho mai visto zanne di queste dimensioni, prima d'ora.» «Dove trovano l'avorio, gli nguni? Vanno a caccia di elefanti?» L'altro scosse la testa. «L'elefante è una bestia possente, e neppure gli nguni possono ucciderlo con l'assegai.» Wilbur Smith
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«E allora da dove viene l'avorio?» «Ho sentito dire che ci sono tribù che scavano fosse per farli cadere in trappola, oppure appendono una lancia appesantita con le pietre sopra il sentiero che percorrono. Quando l'elefante tocca una corda che fa da leva, la lancia cade dall'alto e lo trafigge al cuore.» S'interruppe per lanciare un'occhiata a Bakkat, addormentato sotto uno dei carri. «Ho sentito dire che, talvolta, anche quelle piccole scimmie gialle dei san li uccidono con le frecce avvelenate. Ma con questi metodi se ne possono uccidere ben pochi.» «Allora dove prendono l'avorio, gli nguni?» insistette Jim. «In ogni stagione, soprattutto all'epoca delle piogge, uno di quei grandi animali muore di vecchiaia, o di malattia, o perché sprofonda nel fango o precipita da qualche passo di montagna. Le zanne d'avorio restano sul terreno e chiunque può prenderle. Durante la mia esistenza anche la mia tribù ne ha raccolte molte in questo modo.» «Che cosa ne è stato?» Jim si protese in avanti, ansioso. «Gli nguni ce le hanno rubate quando hanno ucciso i nostri giovani, come derubano ogni tribù che attaccano e massacrano.» «Devono avere una grande riserva di avorio», osservò il ragazzo. «Dove la tengono?» «La portano con sé», rispose Tegwane. «Quando si spostano, caricano le zanne sul dorso delle bestie. Hanno tanto avorio quanto bestiame per trasportarlo, e hanno molte mandrie.» Jim riferì la storia a Louisa. «Mi piacerebbe trovare una di quelle mandrie: ogni bestia con una fortuna in avorio fissata alla schiena...» «E spetterebbe a te?» chiese ingenuamente lei. «Sarebbe bottino di guerra!» ribatté lui con indignazione. «Ma certo che spetterebbe a me.» Volse lo sguardo verso le colline, dalle quali si aspettava di veder apparire gli impi degli nguni. Quando verranno? si domandava. Più l'attesa si protraeva, più il nervosismo aumentava. Jim e Louisa trascorrevano molte ore alla scacchiera, ma, quando anche quel passatempo le venne a noia, lei si dedicò a un ritratto di Jim. Mentre posava per lei, le leggeva a voce alta Le avventure di Robinson Crusoe, il suo libro preferito. In segreto, s'identificava volentieri con quell'eroe pieno di risorse e, sebbene avesse letto il romanzo parecchie volte, si appassionava ancora alle avventure di Robinson, rideva o s'intristiva alle Wilbur Smith
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sue traversie. Uscivano a cavallo un paio di volte al giorno, per controllare le vedette in cima alla collina e accertarsi che i mandriani fossero al loro posto, svegli e all'erta, invece di allontanarsi in cerca di miele o di qualche distrazione. Poi esploravano la natura del terreno intorno all'accampamento per controllare che i picchetti degli nguni non si avvicinassero di soppiatto, strisciando tra le forre e le foreste rade che si alternavano alle distese erbose del veld. Il dodicesimo giorno dopo il massacro dei bakwato, Jim e Louisa si allontanarono da soli a cavallo. I mandriani in cima alla collina erano annoiati e delusi, e Jim dovette rimbrottarli con severità per indurli a restare al loro posto. Poi scesero dalla collina per attraversare il fiume all'altezza del guado. Si spinsero fin quasi alla zona del massacro, ma tornarono indietro prima di raggiungerlo, perché Jim voleva risparmiare a Louisa i ricordi angosciosi che erano legati a quel luogo. Tornarono in vista del campo, e Jim si fermò per osservare le difese attraverso il cannocchiale, studiandole per capire se aveva trascurato qualcosa, se c'erano dei punti deboli. Mentre lui era occupato, Louisa smontò, guardandosi intorno in cerca di un posto dove rispondere al richiamo della natura. In quel punto, il terreno era aperto e l'erba, consumata dai branchi di selvaggina, le arrivava soltanto a mezza gamba. Comunque avvistò poco lontano un donga, un canale naturale scavato dalle acque piovane che defluivano verso il fiume, e consegnò a Jim le redini di Trueheart. «Non starò via per molto», gli disse, avviandosi verso il canale. Jim aprì la bocca per raccomandarle prudenza, poi ci ripensò e distolse lo sguardo. Avvicinandosi all'orlo del canalone, Louisa avvertì un suono strano: sembrava un sussurro, un brusio, una vibrazione dell'aria. Continuò a camminare, ma più lentamente, perplessa ma non allarmata, e il suono aumentò d'intensità, diventando simile allo scroscio dell'acqua corrente o a un ronzio d'insetti. Non riusciva davvero a capire da che direzione provenisse. Si voltò verso Jim, ma lui stava guardando attraverso il cannocchiale, non nella sua direzione. Era evidente che non aveva sentito nulla. Lei esitò, poi si diresse verso l'orlo del donga, per guardarvi dentro e, in quel momento, il suono si trasformò in un brusio furioso, come se avesse Wilbur Smith
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disturbato un nido di calabroni. Il canale ai suoi piedi era pieno di guerrieri nguni, schierati in file su file. Erano seduti sugli scudi, ma ciascuno di loro teneva nella mano destra l'assegai. Puntavano le armi proprio contro di lei, scuotendole nel contempo, con un lieve movimento sussultante che faceva vibrare le sonagliere da guerra ai polsi. Era quello a produrre il ronzio che l'aveva incuriosita. Quel lieve movimento, inoltre, faceva danzare le piume nere e lucenti dei copricapi. Il torso nudo dei guerrieri era unto col grasso, cosicché brillava come carbone bagnato. Il bianco degli occhi che la fissavano era l'unico elemento contrastante in quella distesa fremente di nero. Louisa aveva l'impressione di fissare un enorme drago raggomitolato nella tana, col dorso nero e lucente, irato e velenoso, pronto a colpire. Louisa girò di scatto su se stessa, gridando: «Jim, attento! Sono qui!» Lui la guardò, sorpreso da quel grido. Non vedeva nessun segno di pericolo, soltanto Louisa che correva verso di lui col viso stravolto dal terrore. «Che c'è?» gridò a sua volta. In quel preciso istante, ebbe l'impressione che il terreno si squarciasse alle spalle della ragazza che correva, eruttando una massa di guerrieri. I loro piedi nudi martellavano la terra compatta e i sonagli delle cavigliere vibravano all'unisono. Tamburellando con gli assegai sugli scudi da guerra neri, producevano un rombo assordante, gridando: «Bulala! Bulala amathagati! Uccidi! Uccidi gli stregoni!» Davanti a quella marea, Louisa correva come un levriero, agile e veloce. Ma uno dei suoi inseguitori lo era ancora di più. Era alto e snello, e il copricapo lo faceva sembrare ancora più alto. I muscoli del ventre e delle spalle risaltavano, fieri, mentre lui si lanciava all'inseguimento, gettando via lo scudo per essere più leggero. Sebbene Louisa avesse un vantaggio di una ventina di passi, l'avrebbe raggiunta in breve tempo. Teneva appoggiata sulla spalla l'asta dell'assegai, ma la lunga lama era puntata in avanti, pronta per assestarle un colpo tra le scapole. Alla mente di Jim si affacciò il ricordo della ragazza bakwato che lui aveva visto inseguire allo stesso modo, e della lama che era spuntata come per magia al centro del suo petto, macchiata di rosso per via del sangue sgorgato dal cuore. Lanciò Drumfire al galoppo e corse incontro a Louisa, tirandosi dietro Trueheart, ma vide che il guerriero di testa era già troppo vicino. Lei non avrebbe avuto il tempo di montare in sella prima che la raggiungesse, trafiggendola con la sua lama. Jim non rallentò, e non frenò lo slancio di Wilbur Smith
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Drumfire. Passarono così vicino a Louisa che i suoi capelli svolazzarono per lo spostamento d'aria, e lui le lanciò le redini di Trueheart. «Monta e vai!» le gridò, superandola. Aveva con sé solo un moschetto, perché non si era aspettato di dover combattere, e non poteva permettersi di sprecare quell'unico colpo. Il proiettile leggero della pistola poteva solo ferire, non uccidere, e in quel momento non c'erano margini di errore. Aveva visto il guerriero gettare via lo scudo, quindi decise di estrarre dal fodero la sciabola corta. Si era allenato con quell'arma sotto gli occhi di Aboli e di suo padre, finché non aveva imparato alla perfezione il manuale di scherma. Non brandì la lama in segno di avvertimento, ma caricò direttamente lo nguni, che si fermò per un attimo, cambiando la presa sull'assegai. I suoi occhi scuri fissarono Jim, e lui, dall'espressione altera, comprese che quel guerriero non si sarebbe accontentato di ferire la sua cavalcatura, ma lo avrebbe affrontato da uomo a uomo. Attese il colpo di assegai, anzi si protese in avanti per incontrarlo. Lo nguni colpì, e Jim abbassò la sciabola nella parata classica, spostando lateralmente la punta dell'assegai, poi invertì la presa e, passando oltre, sferrò un colpo di rovescio. Smallboy aveva affilato la lama d'acciaio sino a renderla tagliente come la mannaia di un macellaio. Jim colpì il guerriero alla nuca e sentì l'elsa vibrare nella sua mano, recidendo le vertebre. Il guerriero crollò come se si fosse aperta sotto i suoi piedi la botola della forca. Rispondendo alla pressione delle ginocchia, Drumfire girò su se stesso neanche fosse il gallo di una banderuola investita dal vento. Jim si accorse poi che Louisa aveva qualche difficoltà a montare in sella a Trueheart. La giumenta, che aveva fiutato gli nguni e visto le file di guerrieri che avanzavano correndo, scartava e scuoteva la testa come impazzita. La ragazza, aggrappata alle redini, stava per perdere l'equilibrio. Jim rinfoderò la sciabola insanguinata, voltando il cavallo alle sue spalle, quindi, sporgendosi dalla sella, afferrò un lembo di tessuto dei pantaloni ampi che lei indossava e la sollevò di peso. Poi, mentre galoppavano, sfiorandosi con le ginocchia, la rinsaldò sulla sella posandole una mano sul braccio. Non appena furono lontani, estrasse la pistola e sparò un colpo in aria per avvertire le sentinelle del campo. Quando si accorse che avevano sentito lo sparo, disse a Louisa: «Torna indietro! Avvertili di riportare gli animali nel laager! Manda Bakkat e Smallboy per aiutarmi a trattenerli». Con suo grande sollievo, lei ebbe il buonsenso di non obiettare e corse Wilbur Smith
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via, spingendo Trueheart al limite delle sue possibilità. Jim si voltò per fronteggiare l'orda di guerrieri lanciati alla carica. Estrasse il moschetto dal fodero e spinse Drumfire verso di loro, cercando nella prima fila l'induna che li guidava. Tegwane gli aveva spiegato come riconoscere quei capi. «Sono sempre uomini anziani, e portano piume di struzzo sul copricapo e code bianche di mucca alle braccia.» Sfiorò coi talloni Drumfire, che passò al trotto, puntando direttamente verso l'induna. Ormai gli nguni dovevano aver capito la minaccia terribile rappresentata dalle armi da fuoco, ma l'induna non rivelò la minima paura, anzi aumentò la velocità della carica, sollevando lo scudo per lasciare libero il braccio che impugnava la lancia, col viso stravolto dalla ferocia del grido di battaglia. «Bulala! Uccidi! Uccidi!» Gli uomini alle sue spalle si slanciarono in avanti. Jim lasciò che si avvicinassero, poi sparò. L'induna cadde in piena corsa, l'assegai gli volò via di mano e lui rotolò sull'erba. La rosa di pallini investì in pieno anche i due uomini dietro di lui, abbattendo pure loro. Quando vide cadere il capo e i compagni, la massa nera degli impi levò un ruggito di rabbia, ma Jim aveva già invertito la direzione e stava tornando indietro al galoppo per ricaricare. Gli nguni non potevano stargli dietro e rallentarono, continuando però ad avanzare. Col moschetto carico, Jim salì di nuovo in sella per affrontarli. Si chiedeva quanti fossero, in quella massa scura, ma non riusciva neppure a fare un calcolo approssimativo. Incrociandoli a meno di venti passi di distanza, sparò loro contro. Alcuni inciamparono e caddero, ma i compagni li scavalcarono, cosicché i corpi scomparvero quasi subito. Stavolta non ci fu nessun grido di collera a sottolineare il danno che lui aveva inflitto. Gli impi rallentarono, passando al trotto, e cominciarono a cantare. Le loro profonde voci africane erano bellissime. Quel suono fece accapponare la pelle di Jim, risuonando dentro di lui. Intanto i guerrieri avanzavano inesorabili verso le pareti fortificate del laager. Quando Jim finì di ricaricare, udì un suono di zoccoli e, alzando la testa, vide Bakkat e Louisa precedere Zama e gli altri conducenti che uscivano dal passaggio in mezzo ai carri. «Che il Signore mi dia la forza! Io volevo che restasse al sicuro nel laager», mormorò, ma poi decise di sfruttare la situazione. Quando lei si Wilbur Smith
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avvicinò al galoppo, tendendogli il secondo moschetto, le disse: «La stessa manovra di prima. Istrice, tu prendi il comando della seconda sezione, con Zama, Bakkat e Muntu. Smallboy e Klaas, con me». Lui guidò la sua sezione, spingendosi fin sotto gli assegai della prima fila di guerrieri; dopo avere sparato con la prima arma, invertirono la direzione e tornarono indietro, sparando la seconda salva di colpi prima di allontanarsi coi fucili scarichi. «Prendete di mira gli induna... Uccidete i capi!» gridò Jim, mentre Louisa conduceva avanti la seconda sezione. Lo scambio avvenne in modo fluido, e le salve di spari non conobbero intervalli. Con tetra soddisfazione, Jim si accorse che quasi tutti gli induna nella prima fila della schiera erano caduti sotto l'assalto. Di fronte a quell'attacco terribile e implacabile, gli nguni cominciavano a ripiegare. L'andatura rallentò, il canto si ridusse a un sibilo furioso e frustrato. Alla fine si fermarono a trecento passi dall'accampamento, mentre i cavalieri proseguivano l'attacco. Jim riprese il suo posto a capo della prima sezione e notò il cambiamento. Alcuni dei guerrieri in prima fila abbassarono gli scudi e si scambiarono un'occhiata. Jim e i suoi uomini spararono col primo fucile, poi invertirono la direzione e tornarono lungo il fronte, con la seconda arma pronta a sparare. I copricapi ondeggiarono, le piume fluttuarono come erba al vento. La salva successiva investì la schiera di guerrieri e i proiettili di piombo si conficcarono nella carne viva con un tonfo sordo. Gli uomini si accasciarono a terra. Gli echi degli spari rimbombavano ancora dalle colline quando Louisa si lanciò al galoppo con Zama, seguita a breve distanza da Bakkat e Muntu. La prima fila degli nguni li vide arrivare e ruppe lo schieramento, ripiegando e sollevando gli scudi mentre gli uomini gridavano: «Emuva! Indietro, indietro!» e le file alle loro spalle urlavano: «Shikelela! Avanti! Avanti!» Tutti gli impi ondeggiarono, oscillando avanti e indietro, mentre gli uomini lottavano per districarsi dagli scudi e si ostacolavano a vicenda. Louisa e gli altri caricarono da vicino, mettendo a segno una serie di colpi sulla massa che si agitava. Si levò un gemito disperato e anche la retroguardia cedette, voltando le spalle e ripiegando attraverso la prateria. Lasciarono i morti e i feriti là dov'erano caduti, in mezzo a scudi, lance e kerrie. Wilbur Smith
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Louisa e la sua sezione si lanciarono allora all'inseguimento al galoppo, sparando nel mucchio con la seconda arma. Intuendo il pericolo - potevano essere attirati in una trappola -, Jim li inseguì. Drumfire li raggiunse in fretta. «Fermi! Rinunciate all'inseguimento!» Louisa obbedì subito, richiamando gli uomini che tornarono tutti indietro. Non appena furono al sicuro, nell'accampamento, una pariglia di buoi trascinò le fascine di rami spinosi per chiudere il varco nelle difese. Sembrava impossibile che una simile massa umana scomparisse così in fretta, eppure, quando l'accesso all'accampamento fu sbarrato, gli impi sembrarono essersi volatilizzati e gli unici segni del combattimento erano i morti e l'erba insanguinata davanti al laager. «Abbiamo inflitto loro gravi perdite. Torneranno?» chiese Louisa in tono ansioso. «Certo, com'è certo che questo sole tramonterà e sorgerà di nuovo domani», rispose Jim, cupo, indicando il sole che stava già calando all'orizzonte. «Probabilmente quella era soltanto una pattuglia, un'avanguardia inviata da Manatasee per metterci alla prova.» Mandò a chiamare Tegwane, che arrivò subito. «Quegli impi erano in agguato vicino al laager. Se Welanga non li avesse scoperti per caso, avrebbero aspettato che calasse la notte per piombarci addosso. Eri in errore, vecchio. Combattono anche di notte, e come!» «Soltanto il Kulu Kulu non sbaglia mai», esclamò Tegwane, cercando di reagire a quell'accusa con un'indifferenza tutt'altro che convincente. «Puoi ancora riscattarti», gli disse Jim con severità. «Farò tutto quello che dici», ribatté Tegwane con un cenno di assenso. «Non tutti gli nguni sono morti. Mentre tornavamo indietro, ho visto almeno uno di loro che si muoveva ancora. Esci insieme con Bakkat, per farti guardare le spalle, e trova uno nguni ancora vivo. Voglio sapere dove si trova la loro regina. Voglio sapere anche dov'è il convoglio delle loro salmerie, col bestiame e con l'avorio.» Tegwane annuì, allentando il fodero del coltello per scuoiare. Jim stava per ordinargli di lasciare il coltello al campo, ma poi rammentò le donne e i bambini della tribù del vecchio, e il modo in cui erano morti. «Va' subito, grande capo, e torna prima che cali l'oscurità e prima che le iene trovino lo nguni ferito.» Poi si rivolse a Bakkat. «Tieni pronto il moschetto. Mai fidarsi di uno nguni, specie di uno nguni morto.» Wilbur Smith
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Mentre ispezionava le difese del laager, Jim alzò tre volte la testa nel sentire il suono del moschetto di Bakkat che risuonava sul campo di battaglia. Capì che il boscimano stava impartendo il colpo di grazia ai nemici feriti. Tegwane e Bakkat tornarono all'accampamento sul far della sera, portando alcuni assegai e vari ornamenti d'avorio razziati. Tegwane aveva anche le mani insanguinate. «Ho parlato con un induna ferito, prima che morisse. Avevi ragione, quella era solo una spedizione in avanscoperta. Comunque Manatasee è molto vicina, col resto degli impi e col bestiame. Sarà qui tra meno di due giorni...» «Che cos'hai fatto all'uomo che ti ha detto questo?» «Quell'uomo... L'ho riconosciuto», rispose Tegwane. «È stato lui a guidare il primo attacco al nostro villaggio. Quel giorno sono morti due dei miei figli maschi...» Rimase in silenzio per qualche istante, poi accennò un sorriso. «Sarebbe stato un gesto spietato lasciare un prode guerriero come lui in pasto alle iene, e io sono un uomo misericordioso.» Dopo cena, i conducenti dei carri e gli altri servitori si allontanarono dai loro fuochi per radunarsi intorno a Jim e Louisa, tenendosi a rispettosa distanza. I conducenti fumavano la pipa d'argilla col cannello lungo, e l'aroma forte del tabacco turco aleggiava rancido nell'aria mite della notte. Era una delle loro riunioni informali, definite indaba; col trascorrere dei mesi, erano diventate, per loro, una sorta di tradizione. Benché in genere ascoltassero, più che parlare, tutti i presenti, da Smallboy, il capo della carovana, a Izeze, il più giovane dei mandriani, sapevano di aver diritto a esporre le loro opinioni e che esse sarebbero state adeguatamente valutate. Erano tutti nervosi. Anche i suoni notturni più comuni li facevano sussultare, spingendoli a scrutare con preoccupazione l'oscurità oltre i confini del laager. L'uggiolio di uno sciacallo poteva essere il segnale che chiamava a raccolta i picchetti nguni. Il sussurro del vento notturno tra le acacie spinose, in riva al fiume, poteva essere la vibrazione delle loro cavigliere di guerra. Il tuono degli zoccoli di un branco di gnu, scatenati in una carica folle da un gruppo di leoni, poteva essere il suono degli assegai che tamburellavano sugli scudi di cuoio grezzo. Jim sapeva che gli uomini erano venuti da lui per sentirsi rassicurati. Pur essendo più giovane di tutti gli altri, a eccezione di Zama, parlò loro come un padre. Narrò le battaglie che avevano già combattuto e li citò a uno a uno, esaltando le loro imprese, il sangue freddo dimostrato nella Wilbur Smith
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foga dell'azione, e le perdite terribili che avevano inflitto al nemico. Non dimenticò neppure il ruolo svolto dai mandriani e dai voorloper, e i ragazzi sorrisero con orgoglio. «Mi avete dato prova del vostro coraggio, e avete dimostrato a voi stessi che gli nguni non possono prevalere contro i nostri cavalli e i nostri moschetti, finché manterremo la calma e terremo duro.» Alla fine, quando si allontanarono dal fuoco per tornare ai loro pagliericci, lo stato d'animo di quegli uomini era assai cambiato; chiacchieravano allegramente tra loro, e le risate non erano false. «Hanno fiducia in te», gli mormorò Louisa. «Ti seguiranno ovunque li guiderai.» Restò un attimo in silenzio, quindi aggiunse, a voce così bassa che lui riuscì a sentirla a stento: «E anch'io». Poi lo prese per mano e lo tirò in piedi. «Vieni!» disse in tono deciso. Prima di allora, era sempre andata da lui furtivamente, mentre il resto del campo era immerso nel sonno. Adesso invece si diresse con lui verso il suo carro, senza nascondersi. Udiva il mormorio di altre voci nel buio, e sapeva che i servitori li stavano osservando, ma quello non la scoraggiò. «Prendimi in braccio», gli mormorò quando raggiunsero gli scalini sul retro del carro. Lui si chinò per obbedirle, e Louisa gli gettò le braccia al collo. La faceva sentire piccola e leggera come una bambina. Gli affondò il viso nella curva del collo, e lui la portò su per la scaletta, scostando i lembi dell'afterclap. «Sono la tua donna», gli disse lei, una volta entrati. «Sì.» Jim la depose sul cardell con dolcezza, poi mormorò: «E io sono il tuo uomo.» Accanto al letto, si spogliò, scoprendo il corpo bianco e forte alla luce della lampada. Louisa si accorse che era eccitato, ma non provò la minima repulsione; anzi tese la mano senza vergogna per prendere il sesso di lui. Era duro come se fosse scolpito in un ramo di legno-ferro. Sentì la punta dei seni che cominciava a dolere per il desiderio e si mise a sedere, slacciandosi la veste. «Ho bisogno di te, Jim. Oh, quanto ne ho bisogno», gli disse, fissandolo. Mosso da un desiderio travolgente, Jim si sfilò con rapidità gli stivali, poi si fermò per fissare quasi con reverenza il nido di riccioli d'oro alla biforcazione tra le cosce della ragazza. «Toccami», lo invitò lei con voce roca. Per la prima volta, Jim posò la sua mano su quella porta d'accesso al suo corpo e alla sua anima. Louisa sentì che le sue cosce si schiudevano da sole, e lui ebbe la sensazione che Wilbur Smith
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le sue dita diventassero roventi. Scostò delicatamente le piccole labbra e sui polpastrelli gli rimasero alcune gocce di umore vischioso. «Presto, Jim», sussurrò lei, stringendo di nuovo il sesso di lui. «Non riesco più a resistere.» Lo attirò con insistenza, e lui cadde sopra di lei. «Oh, Dio mio, mia piccola Istrice, quanto ti amo.» Le parole gli sfuggirono di bocca soffocate. Tenendolo stretto fra le mani, tentò di guidarlo dentro di sé, ma ci fu un momento in cui pensò di essere troppo piccola per lui. «Aiutami!» gridò ancora, posandogli le mani sulle natiche e attirandolo disperatamente contro di sé. Sentì i muscoli sodi e rotondi dei glutei contrarsi sotto le sue mani, mentre lui si spingeva in avanti. Poi lanciò un grido incoerente, perché la stava aprendo: in quel momento, il piacere sconfinava nella sofferenza. Quindi, con una spinta improvvisa, lui superò ogni resistenza, e lei si sentì penetrare sino in fondo. Non poté trattenere un grido, eppure, quando lui tentò di ritrarsi, gli serrò le gambe intorno ai fianchi per trattenerlo. «Non lasciarmi», implorò. «Non lasciarmi mai. Resta con me per sempre.» Quando lui si svegliò, le prime luci dell'alba imperlavano la tela dell'afterclap. Lei era già sveglia e lo guardava, con la testa appoggiata al suo petto nudo. Lo vide aprire gli occhi e, con l'indice, disegnò il contorno della sua bocca. «Quando dormi sembri un bambino piccolo», gli sussurrò. «Ti dimostrerò che sono un ragazzo grande», mormorò lui di rimando. «Voglio che tu lo sappia, James Archibald: sono sempre aperta alle dimostrazioni.» Sorridendo, gli posò le mani sulle spalle per inchiodarlo al letto. Con un unico movimento agile, come se montasse in sella a Trueheart, si mise a cavalcioni sul corpo del suo amato. La loro gioia era così incandescente da illuminare l'accampamento e cambiò l'umore di tutti coloro che li circondavano. Persino i mandriani intuirono che era accaduto qualcosa di determinante; guardando Jim e Louisa insieme, ridacchiavano e si davano di gomito. Quel fatto inatteso dava a tutti loro un argomento su cui spettegolare, e persino la minaccia di Manatasee e dei suoi impi cominciò a impallidire, di fronte a quel nuovo elemento di attrazione. Jim captò l'atmosfera spensierata che si stava diffondendo Wilbur Smith
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nell'accampamento e fece il possibile per mantenere tutti all'erta e vigili. Ogni mattina guidava le esercitazioni degli uomini a cavallo, armati di moschetto, mirando ad affinare la tattica della ritirata combattiva che avevano adottato quasi per caso. Poi provvide a riorganizzare la difesa del laager vero e proprio, assegnando a ciascuno degli uomini armati di moschetto una postazione sul perimetro esterno e prendendo con sé due ragazzi che dovevano ricaricare per lui. Jim e Louisa allenarono insieme i voorloper e i mandriani a ricaricare i moschetti. A un certo punto, Jim inchiodò una moneta d'oro da un gulden alla sponda posteriore del suo carro. «Domenica, dopo che Welanga avrà letto la Bibbia, si terrà una gara per la squadra di tiro più veloce», promise agli uomini, estraendo dalla tasca il grosso orologio musicale, appeso a una catena d'oro, che Tom e Sarah gli avevano regalato per il suo ultimo compleanno. «Io prenderò il tempo con questo, e il gulden d'oro andrà ai campioni.» Una moneta d'oro era una fortuna superiore anche all'immaginazione di quei ragazzi, e la promessa li pungolò al punto che divennero rapidi quasi quanto Louisa. Sebbene alcuni fossero così piccoli che dovevano sollevarsi in punta di piedi per spingere la carica nella lunga canna, impararono a inclinare l'arma in modo da raggiungere più facilmente l'imboccatura. Pesavano la carica di polvere raccogliendone una manciata dal barilotto, anziché armeggiare con la fiasca, e si ficcavano i pallini in bocca, sputandoli poi direttamente nella canna. Entro pochi giorni, furono in grado di mantenere un ritmo costante di fuoco per tutta la lunghezza della barricata, porgendo i moschetti ricaricati agli uomini della prima fila quasi con la stessa rapidità con cui loro riuscivano a sparare. Jim era convinto che valesse senz'altro la pena di consumare tanta polvere da sparo e tante munizioni. Con l'avvicinarsi del giorno della gara, i ragazzi erano infiammati dall'eccitazione, e gli uomini puntavano forte sul risultato. La domenica, Jim si svegliò che era ancora buio e capì subito che qualcosa non andava. Sulle prime non riuscì a comprendere che cosa fosse, ma poi sentì i cavalli muoversi irrequieti e il bestiame agitarsi all'interno del laager. Leoni? si domandò, mettendosi a sedere. In quel momento, uno dei cani prese ad abbaiare, e quasi subito gli altri lo imitarono. Lui si alzò di scatto, Wilbur Smith
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tendendo la mano verso le brache. «Che cosa c'è, Jim?» chiese Louisa. Lui si accorse che era ancora mezza addormentata. «I cani... I cavalli... Non sono sicuro.» S'infilò gli stivali, scese con un balzo dal carro e si accorse che il campo era già in fermento. Smallboy stava gettando legna sul fuoco, mentre Bakkat e Zama si erano diretti verso i cavalli per calmare gli animali agitati con parole suadenti e carezze. Jim si avvicinò alla barricata per parlare piano coi due ragazzi che erano accovacciati al loro posto, rabbrividendo al gelo dell'alba. «Avete visto o sentito qualcosa, laggiù?» I due scossero la testa, scrutando le tenebre. Il buio era ancora troppo fitto per distinguere le cime degli alberi di acacia spinosa sullo sfondo del cielo. Jim tese l'orecchio, ma l'unico suono che udiva era la brezza dell'alba che soffiava tra l'erba. Comunque era irrequieto come i cavalli, e si sentì sollevato al pensiero che la sera prima, al tramonto, aveva ordinato di riportare tutto il bestiame dal veld. Il laager era isolato e barricato. Louisa gli si accostò. Era vestita, con le spalle protette da uno scialle, e si era coperta i capelli con una fascia di tessuto. A fianco a fianco, rimasero ad aspettare, in ascolto. Trueheart nitrì, mentre gli altri cavalli pestavano il terreno con gli zoccoli e facevano tintinnare le catene agganciate alla cavezza. Ormai tutti, nell'accampamento, erano svegli, ma le loro voci erano tese e sommesse. D'un tratto, Louisa afferrò la mano di Jim, stringendola forte. Aveva udito il canto prima di lui. Era fioco, ma profondo e sonoro nella lieve brezza mattutina. Ancora claudicante per le ferite, Tegwane si allontanò dal fuoco per raggiungerli. Si affiancò a Jim, e insieme ascoltarono il canto. «E il canto di morte», spiegò poi sottovoce Tegwane. «Gli nguni chiedono agli spiriti dei loro padri di preparare una festa per accoglierli nella terra delle ombre. Stanno cantando che oggi moriranno in battaglia oppure porteranno grande onore alla tribù.» Ascoltarono ancora per qualche minuto, in silenzio. «Ora dicono che stasera le loro donne piangeranno o gioiranno per loro, e i figli saranno orgogliosi.» «Allora stanno per attaccare?» chiese piano Louisa. «Non appena farà giorno», rispose Tegwane. Louisa, ancora aggrappata alla mano di Jim, alzò la testa per guardarlo Wilbur Smith
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negli occhi. «Non te l'ho mai detto, ma adesso devo dirlo. Ti amo.» «Io te l'ho già detto tante volte, ma devo ripeterlo», ribatté lui. «Ti amo, mia piccola Istrice.» «Baciami», disse Louisa, e il loro abbraccio fu lungo e intenso. Poi si separarono. Jim chiamò a raccolta gli uomini. «Andate ai vostri posti. Manatasee è arrivata.» I mandriani portarono loro la colazione dai fuochi accesi per cucinare, e consumarono il porridge salato al buio, in piedi presso le armi. La luce del giorno si diffuse in fretta. Per prima cosa si delinearono sul cielo chiaro le cime degli alberi, poi cominciarono a distinguere il contorno indistinto delle colline, più in là. D'un tratto, Jim inspirò bruscamente e Louisa gli si affiancò, trasalendo. «Le colline sono scure», sussurrò il giovane. La luce diventava più intensa e, con la luce, anche il canto aumentava d'intensità, trasformandosi in un coro solenne. Ormai potevano scorgere la massa dello schieramento che si stendeva come un'ombra fitta sullo sfondo chiaro della prateria. Jim lo esaminò attraverso il cannocchiale. «Quanti sono?» chiese piano Louisa. «Come ha detto Tegwane, sono molti. È impossibile contarli.» «E noi siamo soltanto otto.» La sua voce s'incrinò. «Non hai contato i ragazzi», ribatté lui con una risata. «Non dimenticare i ragazzi.» Jim tornò verso i ragazzi, in attesa accanto alle rastrelliere delle armi, per parlare con ciascuno di loro. Avevano le guance gonfie di pallini e tenevano il calcatoio già in mano, ma sorrisero e annuirono. I bambini sono ottimi soldati, pensò lui. Non hanno paura, perché pensano che sia un gioco, e obbediscono agli ordini. Si accostò quindi alla fila di uomini disposti dietro le barricate. Rivolto a Bakkat, disse: «Gli nguni ti avranno visto da lontano, perché sorgi sul loro cammino alto come una collina di granito e incuti terrore nei loro cuori». «Tenete pronte le fruste lunghe», disse a Smallboy e agli altri conducenti. «Dopo questa scaramuccia, avremo mille capi di bestiame da spingere verso la costa.» Serrò la spalla di Zama in una stretta affettuosa. «Sono felice che tu sia al mio fianco, come hai sempre fatto. Tu sei il mio braccio destro, vecchio amico mio.» Quando tornò al fianco di Louisa, il canto degli impi aumentò per poi Wilbur Smith
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essere sovrastato dal trepestio di centinaia di piedi nudi e callosi che risuonò come una salva di artiglieria. Il silenzio che seguì fu sconvolgente. «Ora si comincia», disse Jim, sollevando il cannocchiale. Le file di neri erano immobili come una foresta pietrificata. L'unico movimento era prodotto dalla brezza dell'alba, che arruffava le piume di avvoltoio dei loro copricapi. Jim vide che il centro dello schieramento si apriva come i petali di un'orchidea notturna, e una colonna di uomini avanzò, snodandosi come un serpente lungo il pendio erboso della collina e scendendo verso il laager. In netto contrasto con la massa degli impi, portavano un gonnellino fatto di strisce di pelle bovina bianca, e alti copricapi di piume di egretta, candide come la neve. In testa alla colonna c'erano venti uomini, che portavano a tracolla tamburi di legno, ricavati da tronchi scavati, appoggiandoli sull'anca. La fila dietro di loro era composta di uomini che soffiavano dentro corni di kudu. Al centro della colonna c'era una portantina imponente, chiusa da cortine di cuoio. La trasportavano a spalla venti uomini, che avanzavano strascicando i piedi sul terreno e oscillando, abbassandosi e girando su se stessi. Uno dei suonatori di tamburo cominciò a picchiare sul suo strumento; se l'universo avesse avuto un unico cuore, quello sarebbe stato il ritmo dei suoi battiti. Gli impi presero a ondeggiare a quel ritmo vibrante. Uno alla volta, gli altri suonatori si unirono al primo, e la musica si gonfiò come un'onda. Poi gli uomini sollevarono i corni di kudu per attaccare una fanfara di guerra. La colonna si aprì, schierandosi su un'unica fila con la grande portantina al centro, e si fermò appena oltre la gittata dei moschetti disposti lungo la barricata del laager. I corni intonarono un altro squillo, che echeggiò sulle colline. Poi scese un silenzio irreale. Ormai i primi raggi del sole investivano le schiere ammassate davanti all'accampamento, strappando scintille di luce alle lame degli assegai. «Dovremmo colpire adesso», disse Louisa. «Dovremmo fare una sortita a cavallo e attaccarli per primi.» «Sono già troppo vicini. Riusciremmo a mettere a segno soltanto due o tre salve di spari prima che ci respingano nel laager», le fece notare Jim con gentilezza. «Lasciamo che spendano le loro risorse attaccando le barricate. Voglio risparmiare i cavalli per quello che verrà dopo.» I corni suonarono ancora, e i portatori abbassarono la portantina, deponendola a terra. Si udì un altro squillo e, dall'interno della lettiga, apparve una figura scura. Pareva un calabrone che usciva dal nido. Wilbur Smith
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«Bayete!» tuonarono le schiere di guerrieri. «Bayete!» Il saluto alla regina sopraffece i tamburi e i corni. Jim si affrettò a puntare il cannocchiale su quella figura sinistra. Era una donna snella e sinuosa, più alta delle guardie del corpo col copricapo di egrette. Era nuda, ma il corpo intero era coperto da disegni fantastici dipinti direttamente sulla pelle. Intorno agli occhi aveva cerchi bianchi e abbaglianti. Una linea bianca dritta correva su per la gola, sul mento e sul naso, in mezzo agli occhi e sul cuoio capelluto completamente rasato, dividendo la testa in due emisferi. Una metà era dipinta di azzurro come il cielo e l'altra metà di rosso sangue. Nella mano destra stringeva un corto assegai cerimoniale, con l'asta coperta di un intricato disegno eseguito con perline e nappe di pelo ricavato dalla criniera dei leoni. Spirali e ghirigori di pittura bianca mettevano in risalto i seni e il monte di Venere, mentre losanghe e punte di freccia esaltavano la lunghezza delle braccia e delle gambe snelle. «Manatasee!» disse Tegwane a bassa voce. «La regina della morte.» Manatasee cominciò a danzare. Era un movimento lento, di un'intensità ipnotica, come quello di un cobra eretto. Scese danzando dalla collina verso l'accampamento, aggraziata e letale. Nessuno degli uomini del laager riuscì a muoversi o a parlare. La fissavano come affascinati. Gli impi avanzarono sulle orme della regina, come se lei fosse la testa di un drago e loro il corpo mostruoso. Le loro armi scintillavano come se fossero scaglie di rettili al sole ancora pallido. Manatasee si fermò poco prima del tratto di terreno che Jim aveva liberato dalla vegetazione di fronte ai carri, e rimase immobile, con le gambe divaricate e il dorso arcuato, spingendo i fianchi in avanti verso di loro. Alle sue spalle, i tamburi rullarono di nuovo e i corni lanciarono uno squillo acuto. «Ora imprimerà su di noi il suo marchio di morte.» Tegwane parlò a voce alta per farsi sentire da tutti, ma Jim non capì cosa volesse dire finché Manatasee non diresse verso di loro un getto potente di orina. «Piscia su di noi», spiegò Tegwane. Il flusso di orina di Manatasee si ridusse a poche gocce gialle. Allora lei lanciò un urlo selvaggio e spiccò un balzo. Ricadendo a terra, rivolse la punta della lancia corta contro il laager. «Bulala!» gridò. «Uccideteli tutti!» Mentre si slanciavano in avanti, dagli impi si levò un ruggito assordante. Wilbur Smith
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Jim afferrò uno dei suoi migliori fucili londinesi, tentando di prendere di mira la regina, ma aveva reagito troppo tardi. Come tutti gli altri, anche lui era rimasto ammaliato da Manatasee. Prima che potesse sparare, la muraglia dei guerrieri che avanzavano gli nascose il corpo della regina. Un induna ornato di piume si era messo davanti a Manatasee, e Jim, in preda alla frustrazione, stava già per sparargli, però all'ultimo momento si trattenne. Sapeva che, al suono del proprio sparo, avrebbe fatto eco quello dei suoi uomini, e la prima salva di spari calcolata con tanta cura sarebbe andata sprecata prima che il nemico arrivasse a una distanza efficace. Abbassando il fucile, si diresse verso le barricate, rivolgendosi agli uomini: «Calma, adesso! Lasciateli avvicinare. Non siate avidi. Ce n'è abbastanza per tutti». Soltanto Smallboy rise della sua battuta, ma quel riso suonò roco e forzato. Jim tornò al suo posto, vicino a Louisa, muovendosi con aria indolente per dare l'esempio agli uomini armati di moschetto e ai ragazzi. La prima fila degli impi si avvicinava come una marea alla linea di ciottoli bianchi. Arrivavano danzando e cantando, pestando sul terreno i piedi nudi, scuotendo le sonagliere di guerra e battendo sugli scudi con le lame scintillanti. Tra gli scudi neri non si vedevano spazi vuoti. Ho lasciato che si avvicinassero troppo, pensò Jim. Al suo sguardo febbrile sembravano già a portata di tiro, con quelle lame micidiali. Poi si accorse che non avevano ancora raggiunto la linea di ciottoli e, tenendo a freno i nervi, lanciò un ordine a tutta la linea: «Aspettate a sparare!» Scelse come bersaglio l'induna che avanzava in prima fila. Era sfregiato in modo orribile da una ferita inferta con l'ascia, che gli attraversava il cuoio capelluto e scendeva attraverso l'occhio fino alla guancia. La cicatrice era liscia e lucente e l'orbita vuota, al di sopra dello scudo nero, sembrava rivolta proprio verso Jim, con aria minacciosa. «Aspettate!» ripeté Jim. «Lasciateli avvicinare.» Ormai vedeva le gocce di sudore sulle guance dell'induna: sembravano grigie perle di fiume. I piedi nudi dell'uomo smossero uno dei piccoli cumuli di ciottoli bianchi levigati dal fiume. «E ora fuoco!» gridò Jim. La prima salva di spari fu come un tuono. Il fumo formò una nube grigia simile a una cortina di nebbia. A distanza così ravvicinata, gli scudi di cuoio non fornivano la minima difesa. I proiettili li trapassarono senza fatica, e il massacro che ne seguì fu terribile. Fu come se la prima fila si Wilbur Smith
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dissolvesse insieme col fumo. I pesanti pallini di piombo squarciarono carni e ossa, crepitando come una grandinata contro gli scudi e i corpi degli uomini che stavano dietro. La seconda fila inciampò sui morti e sui morenti. I guerrieri che avanzavano alle loro spalle erano impazienti di arrivare a una distanza utile per usare l'assegai e si spingevano avanti con gli scudi, urtando i superstiti storditi della prima fila e travolgendoli. Jim si sentì strappare di mano il fucile ancora fumante, che uno dei mandriani sostituì con un moschetto carico. La seconda salva di spari partì quasi con la stessa precisione della prima, ma ciascuna delle successive divenne più irregolare, perché alcuni tiratori, serviti più in fretta dai ragazzi addetti a caricare, riuscivano a sparare con maggiore rapidità. Di fronte alle barricate si formarono cumuli di morti e feriti, e i guerrieri delle ultime file erano costretti a scavalcarli. I cadaveri inerti formavano un terreno insidioso, rallentando la loro marcia. Nel frattempo, i moschetti passavano di mano con rapidità e lungo la linea dei carri il fuoco era ininterrotto e devastante. Quando gli nguni più determinati raggiunsero le barricate, tentarono di svellere i rami spinosi con le mani nude, ma il fuoco di moschetto non accennava a diminuire d'intensità. Nel tentativo di scalare le fiancate dei carri, i guerrieri si arrampicarono sui loro caduti, però il fuoco implacabile li prese d'infilata, ed essi ricaddero sui compagni rimasti in basso. Lo stretto cuneo di terra compreso tra il braccio stagnante del fiume e l'alta riva argillosa dell'affluente comprimeva gli impi in una massa sempre più compatta, e ogni salva di moschetto si abbatteva sugli uomini di Manatasee come la lama di una falce, aprendo dei varchi. Il vento che soffiava dal fiume, inoltre, spingeva il fumo in faccia agli aggressori, formando una fitta nebbia che li accecava e confondeva il loro attacco, mentre lo stesso vento liberava la visuale di tiro a beneficio degli uomini di Jim. Uno dei guerrieri, usando come scaletta i raggi di una ruota, riuscì a scavalcare la sponda posteriore del carro di centro. Jim era preso dall'attacco frontale degli nguni alla barricata. Fu il grido di Louisa a metterlo in allarme e, nell'attimo in cui lui si voltava, il guerriero tentò di colpirla, al di là della fiancata del carro. Lei si tirò indietro con un balzo, ma la punta d'acciaio le lacerò la veste sul davanti. Jim lasciò cadere il moschetto scarico per afferrare la sciabola della marina che teneva a portata di mano, appesa a un montante di legno del Wilbur Smith
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carro, e vibrò un colpo in profondità al torace dell'uomo, sotto il braccio destro già sollevato per colpire. L'avversario cadde all'indietro, morto, al che Jim liberò la lama e l'appese di nuovo al suo posto, prima di afferrare il moschetto carico dalla mano del ragazzo alle sue spalle. «Bravo!» borbottò, prima di abbattere un altro guerriero che tentava di arrampicarsi sul carro. Lanciando un'occhiata sulla destra, Jim notò che Louisa era tornata al suo fianco, ma lo strappo nella veste fatto dall'assegai lasciava intravedere la pelle candida e delicata. «Non sei ferita, vero?» le disse con un sorriso d'incoraggiamento. Lei aveva già il viso e le mani neri di fuliggine e, per contrasto, gli occhi apparivano di un azzurro velato. Rispose con un cenno di assenso, ma senza sorridere, prendendo l'arma che il ragazzo le porgeva. Si concesse un attimo di pausa, lasciando che un altro guerriero si protendesse per cominciare la scalata, poi sparò. Il rinculo la fece vacillare, ma l'uomo lanciò un grido, investito dai pallini al viso e alla gola, e ricadde sul compagno sotto di lui. Jim perse la nozione del tempo. La scena si ridusse a un turbine confuso di fumo, sudore e detonazioni. Il fumo li soffocava, il sudore colava negli occhi e gli spari li assordavano e li stordivano. Poi, d'un tratto, i guerrieri che, fino a un attimo prima, sciamavano come api sulle barricate scomparvero. I difensori si guardarono intorno, sbigottiti, in cerca di un altro bersaglio cui sparare. Il banco di fumo si dissolse, e tutti si accorsero con meraviglia che gli impi in rotta stavano risalendo a fatica il pendio, trascinandosi dietro i feriti. «Ai cavalli! Dobbiamo montare in sella e inseguirli», esclamò Louisa. Ancora una volta, Jim si meravigliò del suo spirito combattivo nonché della sua padronanza dei principi strategici. «Aspetta! Non sono ancora sconfitti», le fece notare, puntando il dito oltre gli impi che si stavano ritirando. «Guarda! Manatasee ha ancora metà delle truppe: le aveva lasciate di riserva!» Facendosi ombra agli occhi, Louisa vide, poco più in basso del crinale, le file ordinate di guerrieri seduti sugli scudi, in attesa dell'ordine di attaccare. I mandriani accorsero con le borracce dell'acqua, e loro bevvero avidamente, riprendendo fiato prima di bere ancora. Jim si spostò in fretta lungo la linea, interrogando con ansia ciascuno degli uomini. «Sei ferito? Va tutto bene?» Sembrava impossibile, ma erano tutti illesi. Wilbur Smith
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Louisa era quella che aveva rischiato di più, col colpo di assegai che le aveva lacerato la veste. Approfittando di quella tregua, si arrampicò all'interno del carro, e ne uscì poco dopo col viso e le braccia lavati di fresco e ancora rosei. Indossava una veste pulita e sui capelli portava una cuffietta stirata e inamidata. Si affrettò ad aiutare Zama ad accendere i fuochi per la cucina, preparando un pasto per i difensori, poi servì a Jim un piatto di peltro pieno di fette di pane, cacciagione arrostita alla griglia e sottaceti. «Siamo stati fortunati», osservò, mentre lo guardava divorare il cibo. «Più di una volta ho avuto la certezza che stessero per sopraffarci.» Jim scosse la testa e rispose a bocca piena: «Neppure gli uomini più coraggiosi possono avere la meglio sulle armi da fuoco. Non temere, Istrice, sarà dura, ma alla fine ce la caveremo». Lei si accorse che diceva così più per rincuorarla che per vera convinzione, e gli rivolse un sorriso. «Qualunque cosa accada, l'affronteremo a fianco a fianco.» In quel momento, dal pendio della collina si levò nuovamente il canto dei guerrieri. I difensori che si erano stesi a riposare all'ombra dei carri si rialzarono e tornarono al loro posto lungo la barricata. I nuovi impi stavano avanzando in mezzo ai superstiti feriti ed esausti che tornavano in ordine sparso dal campo di battaglia. Manatasee danzava ancora davanti all'esercito in marcia, circondata dai suonatori di tamburo. Jim prese dalla rastrelliera il fucile migliore che aveva e, sotto gli occhi di Louisa, ne controllò il meccanismo d'innesco. «Se riesco a uccidere la lupa, il suo branco si perderà d'animo», le disse. Spostandosi sul fianco del carro, valutò la distanza. La gittata era lunga, anche per il fucile. Inoltre si era levato il vento, che turbinava a raffiche, e poteva deviare anche il pesante proiettile di piombo. La polvere oscurava il campo e Manatasee, che continuava a contorcersi come un serpente. Jim porse il cannocchiale a Louisa. «Controlla il risultato del colpo», le disse, preparandosi a sparare, col fucile accostato alla spalla, in attesa del momento giusto. Il vento gli alitò sulla guancia sudata, poi cadde subito. Nella cortina di polvere si aprì un varco e Manatasee alzò le braccia, restando in quella posa drammatica. Jim sollevò il fucile, inquadrandola nel mirino. Non tentò di prendere la mira, ma lasciò che il mirino scorresse verso l'alto lungo il suo corpo dipinto. Nel contempo, l'indice saggiava la Wilbur Smith
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resistenza del grilletto, e lo sparo partì quando il mirino arrivò all'altezza degli occhi; un tiro piuttosto alto, per compensare la parabola del proiettile a quella distanza. Per un attimo, Jim fu accecato dal rinculo e dal fumo, poi mise di nuovo a fuoco l'immagine. Ci volle un attimo perché il pesante proiettile coprisse quella distanza, poi vide Manatasee girare su se stessa e cadere. «L'hai colpita!» gridò Louisa, eccitata. «È a terra.» Dagli impi si levò un brontolio, la voce della bestia furiosa. «Questo fiaccherà il loro morale», esultò Jim, ma subito dopo si lasciò sfuggire un grugnito sorpreso. «Oh, buon Gesù, non credo ai miei occhi!» Manatasee si era rialzata. Anche a quella distanza, Jim scorse la macchia color cremisi sulla pelle dipinta, un petalo rosso di sangue che le scorreva sul fianco. «È solo un graffio alle costole», commentò Louisa, guardandola attraverso il cannocchiale. «Una ferita leggera.» Manatasee piroettò davanti agli impi per farsi vedere bene, dimostrando di essere ancora viva, e loro risposero con un grido di gioia, sollevando gli scudi in segno di saluto. «Bayete!» ruggirono. «Zee!» gridò la regina con voce stridula. «Zee! Amadoda!» Poi cominciò a ululare. Quel suono ispirò agli impi un'autentica frenesia. «Zee!» s'incitarono a vicenda, riversandosi verso i carri come una colata di lava eruttata da un cratere. Manatasee continuava a danzare, sinuosa, alla testa della carica. Jim afferrò il secondo fucile della coppia e sparò di nuovo, cercando di centrare la figura snella che si muoveva in mezzo a quella marea nera.L'induna piumato al suo fianco alzò le braccia e cadde, colpito in pieno. Manatasee, invece, continuò a danzare, come se la rabbia le facesse da scudo o la rendesse più forte a ogni istante. Rivolto agli uomini, Jim gridò: «State calmi e aspettate il momento giusto». Le prime file di guerrieri invasero la zona di terreno aperto, scavalcando i cumuli di morti e feriti. «Ora!» gridò Jim. «Colpiteli, e colpite duro!» La salva di colpi fermò la prima ondata di guerrieri con l'efficacia di un muro di pietra, ma quelli che erano alle loro spalle allontanarono dalla pila i morti e i feriti e ripresero ad arrampicarsi sotto quell'inferno di fuoco. La canna dei moschetti era così Wilbur Smith
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incandescente che le dita si coprivano di vesciche non appena la sfioravano. L'acciaio scottava al punto di far detonare la polvere quando veniva versata nella canna. Allorché i ragazzi immergevano la canna dei fucili nei barilotti d'acqua, per raffreddarla, essa sibilava e sfrigolava. Nonostante la fretta, comunque, facevano bene attenzione a non immergere nell'acqua anche il meccanismo d'innesco, bagnando la pietra focaia. La necessità di raffreddare i fucili rallentava le operazioni per ricaricare, e il fuoco diminuì d'intensità, mentre i difensori presso le barricate invocavano disperatamente i moschetti carichi. Alcuni dei ragazzi più piccoli erano sfiniti da quel lavoro massacrante e cominciavano a essere assaliti dal panico. Louisa lasciò il suo posto alla barricata per correre a calmarli e incoraggiarli. «Ricordatevi l'addestramento! Calma, ora, non cercate di affrettarvi troppo!» Attraverso la foschia creata dal fumo e al di sopra della testa degli attaccanti, Jim scorse di nuovo Manatasee. Seguiva da vicino i suoi impi, incitandoli all'attacco. Le sue urla selvagge e i suoi ululati li spingevano a sforzi sempre più intensi. Molti altri guerrieri si avventavano sui cumuli di cadaveri, arrivando ai piedi della barricata. Avevano nelle narici l'odore del sangue, la loro espressione era quella di lupi rapaci, il loro ululare agghiacciava l'anima e fiaccava le braccia dei difensori. Non riuscendo a scalare le barricate, a causa delle salve incessanti di colpi, i guerrieri cominciarono a far leva sulle ruote del carro centrale. Cinquanta uomini unirono le loro forze, e il carro prese a ondeggiare pericolosamente. Jim capì che ben presto avrebbe raggiunto il punto critico e si sarebbe rovesciato, permettendo ai guerrieri di riversarsi nella breccia. Gli assegai avrebbero bevuto sangue, e il combattimento si sarebbe concluso in pochi minuti. Manatasee aveva intuito quell'opportunità, e sentiva che la vittoria era quasi a portata di mano. Continuò a danzare dietro l'ultima fila degli aggressori, salendo poi su un piccolo cumulo di rocce per vedere meglio la scena. «Zee!» gridava, e poi ancora: «Zee!» I guerrieri le risposero, facendo forza con le spalle contro il carro, ormai al limite della resistenza. A un certo momento, diede l'impressione di essere sul punto di rovesciarsi, poi ricadde sulle ruote. «Shilikela!» gridarono gli induna. «Ancora! Spingete ancora!» I Wilbur Smith
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guerrieri si concentrarono, tendendo i muscoli e chinandosi per afferrare gli assali e il telaio del carro. Jim si girò di nuovo verso Manatasee. Il cumulo di rocce su cui si trovava era quello che Jim aveva messo insieme per coprire il barilotto di polvere. Lui lanciò un'occhiata sotto le ruote anteriori del carro. L'estremità della miccia a combustione lenta era ancora fissata a uno dei raggi, e il resto correva al di sotto del telaio, passando altresì sotto cumuli di cadaveri nguni fino a raggiungere la collinetta sulla quale stava Manatasee. Lui aveva coperto la miccia con uno strato leggero di terra, ma si accorse che in certi punti era stata calpestata e messa allo scoperto dai piedi dei guerrieri... Forse l'altro capo della miccia si è sfilato dal foro dello zipolo del barilotto... pensò. Be', c'è un solo modo per scoprirlo, si disse poi con aria cupa. Afferrò il primo moschetto carico che uno dei ragazzi gli porgeva e armò il cane prima di sgattaiolare sotto il carro che ondeggiava. Se si rovescia adesso, finirò schiacciato sotto le ruote come un ranocchio, rifletté distrattamente, poi trovò l'estremità della miccia e la fece passare con rapidità sopra lo scodellino del moschetto. Tenendola ferma, tirò il grilletto e la pietra focaia, ricadendo, fece sprizzare una pioggia di scintille dall'esca, mentre la polvere nel bacinetto divampava, sprigionando uno sbuffo di fumo. Il moschetto sussultò tra le sue mani e lo sparo scavò un solco nel terreno ai suoi piedi, ma la scintilla aveva acceso la miccia. Sibilò e si annerì, poi la fiammella si avviò e scomparve sotto terra, come un serpente nella tana. Con un balzo, Jim risalì sul carro che oscillava violentemente, fissando Manatasee. Lungo il fianco le scorreva il rivoletto di sangue sgorgato dalla ferita che lui le aveva inflitto. La regina vide Jim e puntò l'assegai contro il suo viso. I lineamenti dipinti in modo grottesco furono stravolti dall'odio e la saliva le sprizzò dalle labbra come una nuvola, scintillando al sole, mentre lanciava contro di lui minacce di morte. Jim puntò gli occhi sul tratto di miccia rimasto scoperto: era lungo poco più di una iarda e correva sul terreno ai piedi del rilievo sul quale si trovava la regina. La fiammella corse lungo la miccia, bruciandola. Jim serrò le mascelle, preparandosi all'esplosione. Gli spari s'interruppero per un attimo terribile e, in quella pausa, il carro si rovesciò, aprendo un varco fatale nella barricata. Il ragazzo fu scagliato lontano dalla sua piattaforma e finì disteso per metà sotto il carro. I guerrieri all'attacco lanciarono un grido di trionfo precipitandosi in avanti. Wilbur Smith
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«Bulala!» ruggivano. «Uccidi!» In quel preciso istante il barilotto di polvere esplose sotto i piedi di Manatasee. Una colonna di terriccio e di pietre si alzò sopra le cime degli alberi. L'esplosione divise il corpo della regina in tre parti separate. Una delle gambe volteggiò nell'aria; l'altra, ancora attaccata al torso, fu scagliata contro le file dei guerrieri all'attacco, spruzzandoli di sangue; la testa schizzò come una palla di cannone, superando la barricata e rotolando nello spiazzo in mezzo al laager. L'esplosione investì gli nguni che avevano rovesciato il carro e si erano affollati nella breccia. Li dilaniò, uccidendoli, mutilandoli e facendo volare i loro corpi su quelli dei compagni già caduti. La massa del carro rovesciato aveva protetto Jim dall'impatto. Lui si rialzò, semistordito, e il suo primo pensiero fu per Louisa. Lei era rimasta indietro coi ragazzi e l'esplosione l'aveva fatta cadere in ginocchio, ma si rialzò di scatto per correre da lui. «Jim, sei ferito!» gridò, e lui sentì qualcosa di caldo e umido scorrergli dal naso alla bocca. Aveva un gusto metallico e salato. Una scheggia volante di roccia gli aveva inflitto un taglio sul ponte del naso. «Un graffio», esclamò, stringendola tra le braccia. «Ma tu, grazie a Dio, sei illesa.» Restando abbracciati, osservarono, attraverso la breccia nella barricata, il carnaio provocato dall'esplosione. Sul terreno era rimasto uno strato alto fino alla cintola di nguni morti, accatastati l'uno sull'altro. Gli impi di Manatasee erano in rotta, sparsi sul pendio erboso della collina. Quasi tutti i guerrieri avevano lasciato cadere scudi e armi, e le loro voci erano piene di terrore superstizioso, mentre si dicevano l'uri l'altro: «Gli stregoni sono immortali». «Manatasee è morta.» «È stata uccisa dal fulmine degli stregoni.» «La grande vacca nera viene divorata dalla stregoneria.» «Fuggiamo! Contro di loro non riusciremo a prevalere.» «Sono fantasmi e spiriti di coccodrilli.» Jim lanciò un'occhiata in direzione della parete del laager. Smallboy, affacciato alla barricata e inebetito dalla stanchezza, seguiva con lo sguardo il nemico in fuga. Gli altri uomini si erano accasciati a terra, alcuni in atteggiamento di preghiera, continuando a stringere il moschetto caldo e ancora fumante. Solo Bakkat era infaticabile. Si era arrampicato in cima a uno dei carri e gridava insulti agli impi in fuga. Wilbur Smith
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«Defeco sulle vostre teste, piscio sul vostro seme. Possano i vostri figli nascere con due teste. Possano le vostre mogli farsi spuntare la barba e le formiche guerriere divorarvi i testicoli.» «Che sta dicendo quel piccolo demonio?» domandò Louisa. «Augura loro buon viaggio e una vita lunga e felice», rispose Jim, e il suono della risata di lei lo rincuorò. «A cavallo!» gridò poi ai suoi uomini. «In sella! È venuta la nostra ora.» Lo fissarono con aria ottusa, e lui pensò che non lo avessero udito, dato che anche le sue orecchie ronzavano ancora, come se conservassero la memoria degli spari. «Vieni!» disse allora a Louisa. «Dobbiamo dare l'esempio.» Corsero insieme verso le linee dei cavalli, e Bakkat scese con un balzo dal carro per seguirli. I cavalli erano stati già sellati, in previsione di quel momento. Jim e Louisa montarono in sella, e gli altri arrivarono di corsa. Bakkat andò a recuperare la testa dipinta di Manatasee per infilzarla su un assegai degli nguni, reggendola come se fosse stata l'insegna con l'aquila di una legione romana. La lingua purpurea della regina penzolava all'angolo della bocca, e un occhio era chiuso, mentre l'altro scintillava, bianco e maligno. Quando il gruppo di cavalieri si mise in marcia, passando dal varco che gli nguni avevano aperto nella barriera del laager, ciascuno di loro portava due moschetti, uno in mano e l'altro nel fodero del fucile; avevano le cartucciere in spalla e le fiasche della polvere legate al corno della sella. Dietro di loro venivano i ragazzi, che montavano a pelo, conducendo ciascuno per la cavezza un cavallo di riserva carico di barilotti per la polvere e borracce d'acqua. «Restate uniti!» li incitava Jim. «Non sparpagliatevi. Gli nguni sono ancora pericolosi, come sciacalli in trappola.» Dovettero calpestare i cadaveri e gli scudi caduti, prima di raggiungere la prateria e di poter spronare le cavalcature, ma Jim li richiamò subito. «Calma! Restate al trotto. Abbiamo ancora molte ore di luce davanti a noi. Non sfinite i cavalli!» Si schierarono a fianco a fianco sul veld e, non appena raggiunsero i guerrieri in fuga, i loro moschetti cominciarono a tuonare. Quasi tutti gli nguni avevano gettato via le armi e si erano sbarazzati dei copricapi. Quando udirono alle loro spalle il ritmo regolare degli zoccoli dei cavalli, corsero sinché le forze li sorressero, poi s'inginocchiarono sull'erba, come Wilbur Smith
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bestie rassegnate, in attesa della scarica di pallini. «Non posso farlo», gridò Louisa, disperata. «Allora domani loro torneranno per farlo a te», l'ammonì Jim. Invece Smallboy e i suoi uomini godevano di quella strage. I ragazzi addetti a ricaricare dovettero rifornire le fiasche della polvere e riempire i sacchetti di munizioni. Bakkat sbandierava la testa di Manatasee come un vessillo, lanciando grida eccitate nell'abbattere l'uno dopo l'altro gruppetti di guerrieri sconfitti e demoralizzati. Quando gli nguni vedevano la testa della regina, lanciavano lamenti disperati e si gettavano a terra in atteggiamento di resa. «È un folletto maligno assetato di sangue», mormorò Louisa. Dinanzi alla fila di cavalieri lanciati a consumare la loro vendetta s'innalzava un'altra serie di dolci colline ondulate, ed era in quella direzione che i resti degli impi sconfitti tentavano di fuggire. Jim impedì ai suoi uomini di accelerare l'andatura e, mentre si dirigevano verso il crinale a un trotto costante, il fuoco dei moschetti cominciò a diminuire, perché gli impi si stavano disperdendo all'orizzonte e offrivano pochi bersagli. Jim e Louisa tirarono le redini, fermandosi sulla sommità, e si trovarono di fronte a un'ampia valle col fondo pianeggiante e coi fianchi in lieve pendenza, nella quale scorreva tortuoso un altro fiume. Le rive erano ricoperte di foreste fitte di alberi magnifici, ai piedi dei quali si stendevano folti prati. L'aria era velata d'azzurro dal fumo sprigionato dai fuochi di un vasto accampamento. Centinaia di piccole capanne col tetto di fronde erano disposte sul terreno erboso con precisione militare, ma apparivano deserte. Quel che restava degli impi si era dato alla fuga, e la retroguardia dell'esercito si stava dileguando oltre l'estremità opposta della valle. «L'accampamento di Manatasee!» esclamò Louisa. «È qui che ha schierato gli impi, prima di attaccarci.» «Sì, e per tutto ciò che esiste di sacro, quelle sono le sue mandrie!» esclamò Jim puntando il dito. Sotto gli alberi, lungo le due rive del fiume e sparse sul fondo erboso della valle, c'erano enormi mandrie di bovini pezzati. «Sono il tesoro di Manatasee, la ricchezza della sua nazione. Non dobbiamo far altro che scendere nella valle e radunarle.» Gli occhi di Jim scintillavano. Ogni mandria era composta di bovini dello stesso colore. Le bestie di colore nero formavano macchie scure sul fondo dorato del veld, ben separate dalle mandrie di un colore rosso bruno e dalle altre col manto Wilbur Smith
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pezzato. «Sono troppe», osservò Louisa, scuotendo la testa. «Non ce la faremo mai a governare un numero così elevato di bestie.» «Mia dolce Istrice, ci sono cose delle quali un uomo non ha mai abbastanza: amore, denaro e bestiame, tanto per citarne alcune.» Alzandosi sulle staffe, osservò col cannocchiale le masse multicolori di animali e gli ultimi nguni in fuga; poi abbassò lo strumento. «Gli impi sono sconfitti. Possiamo sospendere l'inseguimento, contare le perdite e prenderci il bottino.» I corpi degli nguni caduti erano disseminati ovunque sulla prateria, mentre neanche uno degli uomini di Jim era rimasto ferito, a parte il piccolo Izeze, che si era schiacciato un dito nel meccanismo d'innesco di un moschetto e aveva perso la prima falange. Louisa medicò la ferita e Jim disse che gli faceva onore. Izeze teneva il dito sollevato con grande orgoglio, mostrando il turbante di bende bianche a chiunque gli chiedesse di vederlo. Mentre cavalcava in mezzo alle mandrie conquistate al nemico, Jim valutò il bottino con l'occhio dell'allevatore nato. Erano animali forti e resistenti, con le spalle massicce e le corna ampie. Docili e fiduciosi, non mostravano il minimo segno di allarme, neppure quando Jim prese a cavalcare a poca distanza da loro. Erano tutti in ottime condizioni, con la pelle lucente e la groppa gonfia di grasso. A prima vista, Jim non vide traccia di ferite infestate dalle larve di calliforidi, né del leucoma propagato dalle mosche; notò invece con soddisfazione le cicatrici ormai guarite lasciate dalla febbre miliare sulle ghiandole della gola, che proclamavano la loro immunità da ulteriori infezioni. Per essere sopravvissute in così buone condizioni, di certo quelle bestie erano state trattate anche contro il morbo prodotto dalla mosca tse-tse. «Questi animali sono più preziosi di qualsiasi mandria importata dall'Europa, perché sono immuni da tutte le malattie diffuse in Africa, e sono stati allevati dagli nguni con cura amorevole», spiegò a Louisa. «È proprio vero che questo popolo ama le sue mandrie più dei figli, come ci ha detto Tegwane.» Zama si era allontanato dal gruppo di cavalieri per addentrarsi fra le capanne col tetto di paglia, ma d'un tratto tornò indietro con un'espressione agitata. Era senza parole per l'eccitazione, e fece segno a Jim di seguirlo. Wilbur Smith
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Lo condusse verso un magazzino fatto di tronchi appena tagliati. Sollevarono i paletti della porta d'ingresso e Jim si fermò non appena superata la soglia, guardandosi intorno con stupore. Davanti a lui c'era il tesoro di Manatasee, un deposito pieno d'avorio accatastato in pile più alte di un uomo. Le zanne erano state suddivise in base alla lunghezza e allo spessore. Quelle ancora immature, con un diametro in certi casi non più grande del polso di un uomo, erano state legate con strisce di corteccia, in modo da formare delle fascine, ciascuna delle quali costituiva un carico che un bue poteva portare tranquillamente. Anche le zanne più grandi erano legate con corde di corteccia, così da poter essere assicurate al basto per il trasporto. Alcune zanne erano enormi, ma Jim non ne vide nessuna che potesse competere con quelle che lui aveva preso al grande maschio abbattuto. Mentre Smallboy e un altro conducente di carri toglievano le selle ai cavalli e li portavano al fiume per farli abbeverare, Jim e Louisa si aggirarono nel deposito dell'avorio. Lei lo osservò. Jim era assolutamente rapito da quell'enorme tesoro. È come un bambino che apre i regali di Natale, pensò mentre lui si avvicinava, prendendola per mano. «Louisa Leuven... finalmente sono un uomo ricco», le disse Jim in tono solenne. «Sì, questo lo vedo», rispose lei, tentando di sopprimere un sorriso. «Ma, nonostante tutta la tua ricchezza, sei un ragazzo davvero adorabile.» «Mi fa piacere che tu lo abbia notato. Visto che siamo d'accordo su questo punto, vuoi sposarmi e dividere con me le mie ricchezze e le mie grandi qualità?» La risata si spense sulle labbra di Louisa. «Oh, Jim!» sussurrò. Poi la terribile tensione dello scontro e dell'inseguimento degli impi si fece sentire, e lei cominciò a piangere. Le lacrime scavarono solchi nello strato di fuliggine e di polvere che le copriva le guance. «Oh, sì, Jim! Non riesco a immaginare niente che mi renda più felice che diventare tua moglie.» Lui la strinse tra le braccia. «Allora questo è il giorno più bello della mia vita.» La baciò con passione. «Ora asciugati le lacrime, Istrice. Sono certo che troveremo un prete, da qualche parte. Se non sarà quest'anno, sarà il prossimo.» Prendendo a braccetto Louisa e posando l'altra mano sulle pile di zanne d'avorio, con un gesto possessivo, contemplò le mandrie appena acquisite che occupavano metà della valle. A poco a poco la sua espressione cambiò, mentre affrontava l'eterno dilemma dell'uomo ricco. «Per Belzebù, come faremo a non farci strappare quello che ci siamo Wilbur Smith
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conquistati? Scommetto che tutti gli abitanti dell'Africa, uomini o animali, saranno impazienti di sottrarci questo bottino!» Jim riuscì a strapparsi dall'accampamento del nemico sconfitto soltanto al tramonto. Lasciando Zama e metà delle sue forze a guardia dell'avorio e del bestiame, si allontanò con gli altri per tornare al laager. Il cammino era rischiarato da un'accecante panoplia di stelle. Quando passavano oltre i cadaveri degli nguni morti, le iene e gli sciacalli si disperdevano davanti ai cavalli. Una volta giunti quasi in vista del quadrato di carri, si fermarono a contemplare con rispetto il cielo notturno. A est aleggiava un chiarore mistico, che illuminava il mondo intero al punto che potevano scorgere i volti stupiti degli altri guardare in su. Era come se il sole stesse per sorgere dalla direzione sbagliata. Sotto i loro occhi sbigottiti, un'enorme sfera di fuoco spuntò all'orizzonte, descrivendo un arco silenzioso sulla volta celeste. Alcuni dei ragazzi piagnucolarono, spaventati, coprendosi la testa con la coperta della sella. «Non è altro che una stella cadente», disse Jim, prendendo la mano di Louisa per rassicurarla. «Sono visitatrici frequenti nei cieli africani. Questa è solo un po' più grande del normale.» «È lo spirito di Manatasee», esclamò Smallboy. «Comincia il suo viaggio nella terra delle ombre.» «La morte dei re», piagnucolò Bakkat. «La caduta delle tribù. Guerra e morte.» «Un presagio della peggiore specie», commentò Zama, scuotendo la testa. «Credevo di avervi resi individui civili», commentò Jim, ridendo, «ma vedo che in fondo al cuore siete ancora un branco di selvaggi superstiziosi.» Quel gigantesco corpo celeste completò la sua traiettoria scendendo verso occidente e lasciando dietro di sé una scia di fuoco, mentre scompariva all'orizzonte. Però il cielo rimase illuminato per il resto della notte, e per molte notti ancora. Grazie a quella luce spettrale raggiunsero i carri, e lì trovarono il vecchio Tegwane, con la lancia in pugno, e la sua bella nipote al fianco che sorvegliavano l'accampamento come un paio di fedeli cani da guardia. Sebbene fossero quasi allo stremo delle forze, anche il giorno dopo Jim Wilbur Smith
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destò tutti prima dell'alba. Con l'aiuto di una pariglia di buoi, e con molte grida e schiocchi di frusta, raddrizzarono il carro rovesciato. Il robusto veicolo comunque non aveva riportato molti danni, e bastarono poche ore per sistemare di nuovo il carico disperso. Jim sapeva che dovevano lasciare quanto prima il campo di battaglia. Sotto i raggi del sole, i cumuli di cadaveri avrebbero cominciato ben presto a decomporsi, e col fetore della putrefazione si sarebbero diffuse anche epidemie e infezioni. Diede ordine di aggiogare i buoi a tutti gli altri carri, poi Smallboy e gli altri fecero schioccare le lunghe fruste e i buoi trascinarono i veicoli lontano da quel luogo raccapricciante, avanzando nella prateria. Quella sera si accamparono in mezzo alle capanne degli nguni, fra le sterminate mandrie di bovini dal dorso gibboso, con le pile di zanne d'avorio al sicuro all'interno della formazione di carri. La mattina seguente, dopo colazione, Jim convocò tutti gli uomini per l'indaba. Voleva spiegare i suoi piani per il futuro rivelando dove li avrebbe condotti. Per prima cosa, pregò Tegwane di spiegare in quale modo gli nguni, quand'erano in marcia, usavano i bovini per trasportare l'avorio. «Spiegaci come sistemano il carico e lo assicurano al dorso degli animali», ordinò Jim. «Questo non lo so», ammise Tegwane. «Li ho visti soltanto da lontano.» «Smallboy riuscirà a trovare il sistema da solo», decise il giovane. «Anche se sarebbe stato meglio usare un metodo al quale gli animali sono abituati...» Poi si rivolse al piccolo gruppo di ragazzi che custodivano le mandrie, chiamandoli «uomini» - preferivano essere chiamati così, e si erano guadagnati sulle barricate il diritto a quell'appellativo -, e chiedendo loro: «Potete prendervi cura di tanti animali?» Tutti osservarono le mandrie disperse per l'intera lunghezza della valle. «Non sono poi tanti capi», rispose il più grande, che faceva da portavoce. «Possiamo guidarne molti di più», intervenne un altro. «Abbiamo sconfitto gli nguni in battaglia», pigolò Izeze, il più piccolo e il più sfacciato, che non aveva ancora cambiato voce. «Possiamo occuparci dei loro animali e anche delle loro donne, quando le cattureremo.» «Può darsi, Izeze.» Il nome che gli aveva dato Jim significava «piccola pulce». «Ma può anche darsi che né la tua frusta né il tuo zufolo siano già abbastanza grandi per questi compiti...» Wilbur Smith
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I suoi compagni risero fragorosamente. «Faccelo vedere», gridarono, tentando di acchiapparlo, ma lui, come l'insetto di cui portava il nome, era svelto e agile. «Mostraci l'arma che dovrebbe terrorizzare le donne degli nguni!» Tenendosi stretto addosso il perizoma per preservare la sua dignità, Izeze fuggì dall'accampamento, inseguito dai compagni. «Tutto ciò non ci porta più vicino alla soluzione del problema», osservò Jim, compiendo insieme con Louisa l'ispezione finale delle difese del campo, prima di ritirarsi per la notte. Anche se, a quanto pareva, gli impi degli nguni erano in rotta e non intendevano tornare all'attacco, il giovane non voleva correre rischi. Al calar della sera, dispose le sentinelle intorno all'accampamento, e il giorno dopo si alzarono all'alba per uscire coi fucili. «Santo cielo!» esclamò Jim, alle prime luci del giorno. «Sono tornati!» Afferrò per il braccio Louisa e le indicò la fila di figure indistinte accovacciate oltre le barricate del laager, appena oltre la gittata dei moschetti. «Chi sono?» bisbigliò lei, pur sapendo benissimo qual era la risposta. «E chi, se non gli nguni?» ribatté lui con aria tetra. «Credevo che la strage e la battaglia fossero finite... Lo sa Dio se non sono state abbastanza cruente...» «Lo vedremo subito», ribatté lui, mandando a chiamare Tegwane. «Salutali», ordinò al vecchio. «Avvertili che scaglierò su di loro il fulmine come ho fatto con Manatasee.» A fatica, Tegwane si arrampicò sulla sponda laterale del carro, facendo sentire la sua voce sulla pianura erbosa. Gli rispose un'altra voce, che proveniva da uno degli nguni lì radunati, e seguì una lunga conversazione. «Che cosa vogliono?» domandò Jim, spazientito. «Non sanno che la loro regina è morta e i loro impi distrutti?» «Lo sanno bene», rispose Tegwane. «Hanno visto la sua testa infilzata sulla lancia mentre fuggivano dal campo di battaglia, e il suo spirito di fuoco passare nel cielo notturno, iniziando il viaggio per raggiungere i suoi padri.» «E allora che cosa vogliono?» «Vogliono parlare con lo stregone che ha abbattuto col fulmine la loro regina.» «Una trattativa», spiegò Jim a Louisa. «A quanto pare, sono alcuni tra i superstiti della battaglia.» Wilbur Smith
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«Parla con loro, Jim», gli consigliò lei. «Forse potrai impedire altri spargimenti di sangue. Qualunque cosa sarebbe meglio di una simile prospettiva.» Jim si rivolse di nuovo a Tegwane. «Riferisci al loro induna che deve entrare nel laager solo e disarmato. Non gli farò del male.» E l'induna avanzò, vestito con un semplice gonnellino di strisce di cuoio, senza copricapo né armi. Era un uomo attraente, di mezza età, con la corporatura del guerriero e un bel viso tondo, con la pelle color cioccolato come il legno mabanga tagliato di fresco. Non appena entrò nell'accampamento, riconobbe Jim. Doveva averlo visto sul campo di battaglia, perché posò un ginocchio a terra in atteggiamento di rispetto, battendo le mani e cantando le sue lodi. «Oh, possente tra i guerrieri! Stregone invincibile che arriva dalle grandi acque! Divoratore di impi\ Uccisore di Manatasee! Grande più di tutti i suoi padri!» «Digli che lo vedo e che può avvicinarsi», ordinò Jim. Rendendosi conto del significato e dell'importanza di quella delegazione, assunse un atteggiamento dignitoso e un'espressione altera. L'induna si mise carponi per avanzare verso di lui, poi prese il piede destro di Jim e se lo posò sulla testa china. Colto di sorpresa, Jim rischiò di perdere l'equilibrio, ma si riprese in fretta. «Grande elefante bianco», intonò l'induna. «Giovane di anni, ma grande in potenza e saggezza, concedimi la tua misericordia.» Dal padre e dallo zio Dorian, Jim aveva appreso il protocollo africano quanto bastava per sapere in che modo comportarsi. «La tua indegna vita appartiene a me», gli disse. «Posso spegnerla o risparmiarla. Perché non dovrei inviarti lungo la stessa via del cielo sulla quale ho avviato Manatasee?» «Io sono un figlio senza padre né madre. Sono orfano. Tu mi hai privato dei figli.» «Di che parla?» chiese Jim a Tegwane, in tono rabbioso. «Non abbiamo ucciso bambini.» L'induna udì il tono della sua voce e si rese conto di averlo offeso. Schiacciò il viso a terra, rispondendo alle domande di Tegwane con la voce soffocata dalla polvere. Jim sfruttò quell'occasione per togliere il piede dalla testa dell'induna. Stare su un piede solo gli pareva scomodo e poco dignitoso. Wilbur Smith
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Infine Tegwane si rivolse di nuovo a Jim. «Era il custode delle mandrie reali di Manatasee. Lui chiama figli i suoi animali. Ti prega di ucciderlo o di concedergli l'onore di diventare custode delle tue mandrie.» Jim fissò l'uomo con aria sbigottita. «Vuole lavorare per me come capo mandriano?» «Vive col bestiame da quand'era bambino. Conosce per nome tutti gli animali. Sa quale toro ha montato le femmine. Conosce l'età e il carattere di ogni bestia. Conosce il rimedio e il trattamento per ognuna delle malattie alle quali sono soggetti gli animali. Ha ucciso col suo assegai cinque leoni che volevano attaccarli. E quel che più conta...» Tegwane fece una pausa per riprendere fiato. «Basta così», si affrettò a dirgli Jim. «Credo a quello che dice, ma gli altri?» Indicò le figure accovacciate fuori dell'accampamento. «Chi sono?» «Sono i suoi mandriani. Anche loro si dedicano alla cura del bestiame reale fin da bambini. Senza le mandrie, la loro vita è priva di scopo.» «Si offrono anche loro di lavorare per noi?» Jim stentava a credere alla sua fortuna. «Desiderano tutti entrare al tuo servizio.» «Che cosa si aspettano da me?» «Si aspettano che tu li uccida se sbagliano o falliscono nel loro compito», gli assicurò Tegwane. «Manatasee lo avrebbe fatto.» «Non era esattamente quello che intendevo», commentò Jim in inglese, e Tegwane parve perplesso. Si affrettò ad aggiungere: «Che cosa si aspettano in cambio del loro lavoro?» «Il sole del tuo piacere», rispose Tegwane. «Come me.» Jim si tirò l'orecchio con aria pensierosa, e l'induna girò la testa per guardarlo in faccia, preoccupato che la sua richiesta fosse respinta, e che lo stregone bianco lo colpisse col fulmine come aveva fatto con la regina. In realtà, Jim stava calcolando il costo che avrebbe comportato per lui l'aggiunta dell'induna e di cinquanta o sessanta dei suoi uomini al gruppo già numeroso che portava con sé. Tuttavia non gli sembrava che ci fossero veri costi aggiuntivi. Tegwane gli aveva spiegato che quei mandriani si sarebbero nutriti col sangue e col latte del bestiame, e la cacciagione che sarebbero riusciti ad abbattere. Ed era sicuro che, in cambio, poteva aspettarsi un livello eccezionale di lealtà e dedizione. Erano mandriani esperti e guerrieri senza paura; in tal modo, si sarebbe trovato a capo di una tribù di guerrieri. Con gli ottentotti armati di moschetto e i lancieri Wilbur Smith
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nguni non avrebbe avuto niente da temere in quella terra selvaggia. Sarebbe stato un re. «Come si chiama?» chiese a Tegwane. «Si chiama Inkunzi, perché è il toro di tutte le mandrie reali.» «Riferisci a Inkunzi che valuto con favore la sua richiesta. Lui e i suoi uomini ora sono i miei uomini. La loro vita è nelle mie mani.» «Bayete!» gridò felice Inkunzi quando sentì la risposta. «Tu sei il mio padrone e il mio sole.» Si mise di nuovo sulla testa il piede destro di Jim, e i suoi uomini, vedendolo, capirono che la loro richiesta era stata accolta. Alzandosi, batterono sugli scudi con l'assegai, e gridarono insieme: «Bayete! Siamo i tuoi uomini! Tu sei il nostro sole!» «Di' loro che il sole può scaldare un uomo, ma può anche bruciarlo a morte», lo ammonì Jim in tono solenne. Poi si girò verso Louisa per spiegarle che cos'era successo. Louisa guardò il gruppo temibile di guerrieri, pensando che, solo pochi giorni prima, quegli stessi uomini avevano marciato cantando verso il laager. «Puoi fidarti di loro, Jim? Non dovresti disarmarli?» «Conosco le tradizioni di questo popolo. Ora che mi hanno giurato fedeltà, posso affidare loro la mia vita.» «E anche la mia», gli fece notare lei, a bassa voce. Il giorno dopo, Jim rilevò il passaggio del sole a mezzogiorno, riportando la loro posizione sulla carta disegnata dal padre. «Se non sbaglio, ci troviamo a pochi gradi di latitudine sud dalla stazione commerciale della Compagnia nella baia della Natività. Stando ai miei calcoli, dovrebbe trovarsi a oriente, a una distanza inferiore a mille leghe, vale a dire due mesi di viaggio. È possibile che laggiù incontriamo una delle navi della Compagnia, o almeno troviamo un messaggio della mia famiglia sotto le pietre della posta.» «Sarà questa la nostra prossima meta, Jim?» gli domandò Louisa, e lui alzò la testa dalla pergamena, inarcando un sopracciglio. «A meno che tu non abbia un'idea migliore.» «No.» Lei scosse la testa. «Per me un posto vale l'altro.» La mattina dopo, levarono il campo. Inkunzi e i suoi mandriani portarono fino al laager le mandrie appartenute alla regina, e Jim li osservò con grande interesse mentre caricavano l'avorio. I finimenti di cuoio grezzo che usavano per aggiogare gli animali erano semplici, tuttavia appariva evidente che gli nguni li avevano Wilbur Smith
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perfezionati in modo che si adattassero alla gobba massiccia, assicurando il carico con una cinghia che passava dietro le zampe anteriori. Il carico d'avorio era controbilanciato, in modo da assumere una posizione comoda ma anche sicura ai lati del dorso degli animali, lasciando loro un'adeguata libertà di movimento. Inkunzi e i suoi uomini calcolavano il peso di ogni carico in base alla taglia e alla forza dell'animale che doveva trasportarlo, e i bovini sembravano indifferenti al fardello che portavano, mentre avanzavano al passo pacato e tranquillo fissato dai mandriani, brucando soddisfatti sulla distesa del veld. Prima che tutta la mandria si mettesse in movimento, i primi avevano già percorso parecchie leghe. Durante la marcia, Jim rilevò la posizione con la bussola e indicò a Inkunzi il punto di riferimento all'orizzonte verso il quale doveva dirigersi. Inkunzi in persona - avvolto nel mantello di cuoio, stringendo in pugno l'assegai e portando sulle spalle lo scudo nero da guerra - si era messo a capo delle mandrie. Lungo il cammino suonava, con un flauto di canna, una melodia dolce e monotona, e le bestie lo seguivano come un branco di cani fedeli. Il convoglio di carri chiudeva la marcia. Ogni giorno Jim e Louisa si spingevano avanti a cavallo, insieme con Bakkat, per aprire la pista e controllare eventuali segnali di pericolo o nuove tracce di elefanti. I branchi di animali selvaggi li lasciavano sbalorditi, ma scoprirono che gli nguni avevano cancellato ogni segno della presenza umana da quella regione. C'erano villaggi incendiati e rasi al suolo, di cui restavano soltanto i segni anneriti dal fumo delle fondamenta. A tratti, il veld era disseminato di campi bianchi di ossa umane. Non si vedeva anima viva. Tegwane aveva un termine preciso per quei massacri. «È il mefecane», spiegò. «La distruzione dei membri delle tribù, come chicchi di grano nella macina degli impi.» Dopo aver dimostrato il proprio valore e consolidato la sua posizione elevata nella gerarchia del gruppo, Inkunzi prese a partecipare con naturalezza agli indaba intorno al fuoco dell'accampamento. Era in grado di tracciare loro un quadro di quei terribili eventi, e spiegò che le origini del suo popolo erano legate al lontano nord, a una valle mitica che lui chiamava «il principio di tutte le cose». Alcune generazioni prima, la sua tribù era stata sopraffatta da un enorme cataclisma - una specie di mefecane - e dalla carestia che naturalmente ne era derivata. Insieme con le mandrie, avevano dunque cominciato una Wilbur Smith
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lunga migrazione verso sud, derubando e uccidendo le altre tribù che trovavano lungo il cammino. Come imponeva la loro natura di pastori nomadi, si spostavano senza posa, in cerca di pascoli per le loro mandrie, di bottino e di donne. La loro era una saga tragica. «Non sapremo mai quanti esseri umani hanno trovato la morte in questi bei campi selvaggi», disse sottovoce Louisa. Persino Jim rimase impressionato dalle dimensioni della tragedia che aveva investito l'intero continente, come un'epidemia di peste. «Questa è una terra selvaggia, che per fiorire ha bisogno di essere irrigata dal sangue degli uomini e degli animali», mormorò, assentendo. Quando si spingevano all'avanguardia, precedendo i carri, Jim era sempre all'erta, spiando i segni della presenza di nguni, e addestrò il suo piccolo esercito nelle tattiche difensive da adottare se fossero stati attaccati. Nel contempo, però, cercava le tracce dei branchi di elefanti, sempre elusivi. Ma le settimane passavano e, un miglio dopo l'altro, si lasciarono alle spalle una distesa sempre più vasta, senza incontrare né nguni né elefanti. Quasi tre mesi dopo che avevano preso la via dell'est, si trovarono bruscamente a ridosso di una scarpata ripida e accidentata, dove la terra scendeva quasi a precipizio. «Sembra la fine del mondo», sussurrò Louisa. Fermandosi l'uno a fianco dell'altra, rimasero sbigottiti. Nell'aria limpida e luminosa avevano davvero l'impressione di vedere la fine della terra. Attraverso la lente del cannocchiale, Jim vide che la terra si fondeva con l'orizzonte lontano, ombreggiato dal cielo, fino ad assumere un colore azzurro quasi soprannaturale, chiaro e traslucido come una distesa di lapislazzuli levigati. Impiegò qualche tempo a capire che cosa stava guardando. Poi, quando l'angolazione del sole cambiò leggermente, esclamò: «In nome di tutto ciò che esiste di sacro e di bello, Istrice, quello è l'oceano, finalmente». E, porgendole il cannocchiale, aggiunse: «Adesso puoi capire che straordinario viaggiatore sono, perché ti condurrò senza esitare fino alla baia della Natività, nella terra degli elefanti.» Tom e Dorian Courteney raggiunsero a cavallo la porta principale del castello. Erano attesi, e il sergente di guardia li salutò, lasciandoli entrare nel cortile. Non appena smontarono, gli stallieri accorsero per badare ai cavalli. Wilbur Smith
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I Courteney erano abituati a godere di quel rispetto. Essendo due tra i cittadini più in vista della colonia - nonché tra i mercanti più prosperi -, erano spesso ospiti del governatore van de Witten. Il segretario del governatore, che a sua volta era un funzionario importante della VOC, si affrettò a uscire dal suo ufficio per accoglierli e scortarli fino agli alloggi privati di van de Witten. Non dovettero fare anticamera; vennero fatti subito entrare nella spaziosa sala del consiglio. Il lungo tavolo centrale e le venti sedie disposte intorno erano di stinkwood, una delle essenze più belle di tutta l'Africa, intagliate con cura da abili ebanisti, tutti schiavi di origine malese. I pavimenti erano di lucide tavole di yellow-wood, levigate con la cera d'api fino a risplendere come specchi. I pannelli delle finestre a bovindo all'estremità opposta della sala erano di vetro colorato, inviato dall'Olanda attraverso l'Atlantico, e sembravano preziose come gioielli. Si affacciavano sulla baia della Tavola e, più in là, lasciavano intravedere anche la mole imponente della montagna Testa di Leone. La baia era affollata di navi e sferzata dal vento di sud-est, che sollevava una schiera di cavalloni bianchi spumeggianti. Alle pareti ricoperte di pannelli di legno erano appesi i ritratti dei diciassette membri del consiglio della VOC di Amsterdam: tutti uomini dall'aria severa, con la faccia da bulldog, il cappello nero e il collare di pizzo candido sopra la giubba nera abbottonata fino al collo. Dai loro posti al tavolo centrale, due uomini si alzarono per salutare i fratelli. Il colonnello Keyser indossava l'uniforme di gala che si era disegnato da solo, di broccato scarlatto, con una fascia su entrambe le spalle, una azzurra e l'altra d'oro. Il ventre ampio era circondato da una cintura, ornata con medaglioni d'oro, che sorreggeva il fodero della spada, e l'elsa del pugnale era intarsiata di pietre semipreziose. Sul petto erano appuntate tre grosse stelle di smalto e diamanti. La più grande era quella dell'Ordine di San Nicola. Gli stivali lucidissimi arrivavano sopra il ginocchio, il cappello aveva la tesa ampia ed era sormontato da un grande mazzo di piume di struzzo. Per contrasto, il governatore van de Witten indossava il semplice abito scuro che era quasi una divisa per la maggior parte degli alti funzionari della VOC, completato da un berretto di velluto nero, da una rigida gorgiera di pizzo fiammingo e dalla giacca nera abbottonata fino al collo. Le gambe sottili erano coperte da calze di seta nera, e le scarpe a punta Wilbur Smith
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quadra erano ornate da una fibbia di argento massiccio. «Mjnheeren, voi ci onorate con la vostra presenza», li salutò, con un'espressione arcigna. «L'onore è tutto nostro. Siamo venuti non appena abbiamo ricevuto il vostro invito», replicò Tom, mentre i due fratelli s'inchinavano insieme. Tom era vestito di panno scuro, ma di prima qualità e tagliato a Londra; Dorian indossava una giacca e un paio di pantaloni a sbuffo di seta verde. I sandali erano in pelle di cammello e il turbante in tinta con la giacca era fermato da uno spillo di smeraldo. La corta barba rossa era riccia e ben curata, in netto contrasto con quella più abbondante e spruzzata d'argento di Tom. Guardandoli, nessuno avrebbe capito che erano fratelli. Il colonnello Keyser si fece avanti per salutarli, e s'inchinarono di nuovo. «Servo vostro, colonnello, come sempre», disse Tom. «Salaam aleikum, colonnello», mormorò Dorian. Anche se spesso, quando si trovava a High Weald e in seno alla sua famiglia, se ne dimenticava, fuori casa - e soprattutto in quelle circostanze formali - gli piaceva ricordare al mondo intero che era il figlio adottivo del sultano Abd Muhammad al-Malik, califfo di Muscat. Poi, in arabo, aggiunse: «La pace sia con voi, colonnello» e, come se facesse parte del saluto, proseguì: «Non mi piace l'espressione di quello grasso. Così sorride lo squalo tigre». Quelle parole erano tutte a beneficio di Tom. Sapeva che gli altri due non avrebbero capito una parola. Il governatore van de Witten indicò le sedie di fronte alla sua, dalla parte opposta dell'enorme tavolo lucente. «Signori, vi prego di accomodarvi.» Batté le mani, e subito comparve un piccolo corteo di schiavi malesi che portavano vassoi d'argento con bocconcini scelti di cibo e caraffe di vino e liquori. Quando furono serviti, il governatore e i suoi ospiti continuarono il solito scambio di complimenti e chiacchiere. Tom e Dorian si guardarono bene dal lanciare più di una fuggevole occhiata al misterioso oggetto che si trovava al centro del tavolo. Era coperto con un riquadro di velluto, orlato di perline. Tom premette leggermente il ginocchio contro quello di Dorian, e questi non guardò il fratello, ma si sfiorò il lato del naso. Era il segnale che anche lui aveva notato quell'oggetto. Nel corso degli anni, erano diventati così affiatati che potevano leggere l'uno nel pensiero dell'altro. Alla fine gli schiavi uscirono indietreggiando dalla sala del consiglio, e il governatore si rivolse a Tom. «Mjnheer Courteney, so che avete già discusso, col colonnello Keyser, il comportamento sconveniente e Wilbur Smith
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riprovevole di vostro figlio, James Archibald Courteney.» Tom s'irrigidì. Benché se lo aspettasse, dovette farsi forza per affrontare il probabile sviluppo di quella conversazione. Chissà quale nuovo trucco si è inventato Keyser, adesso, rifletté. Come aveva notato Dorian, l'espressione di Keyser era gongolante. «Ricordo benissimo quella conversazione, governatore», rispose, cauto. «Mi avete assicurato di disapprovare il comportamento di vostro figlio, la sua interferenza col corso della giustizia, il rapimento di una prigioniera e il furto di beni appartenenti alla VOC.» «Lo ricordo bene», gli assicurò in fretta Tom, ansioso di tagliare corto alla lista delle trasgressioni di Jim. Tuttavia, van de Witten continuò, implacabile. «Mi avete dato la vostra assicurazione che mi avreste tenuto informato del luogo in cui si trovava vostro figlio, non appena saputo quali erano i suoi movimenti. Mi avete promesso che avreste fatto tutto ciò che era in vostro potere perché lui e quella criminale, Louisa Leuven, fossero portati qui al castello alla prima occasione, così da rispondere personalmente dei loro crimini. Non eravamo d'accordo su questo?» «Sì, eccellenza. Ricordo pure che, in segno della mia buona fede e delle mie intenzioni e per compensare la VOC delle perdite, vi ho versato ventimila gulden in oro.» Van de Witten ignorò quella mancanza di riguardo. Non aveva mai rilasciato una ricevuta ufficiale per quel pagamento, di cui il dieci per cento era finito nelle tasche del colonnello Keyser e il resto nella sua borsa. A mano a mano che parlava, la sua espressione diventava sempre più arcigna. «Ho motivo di credere, mjnheer Courteney, che non avete tenuto fede alla vostra parte dell'impegno.» Tom alzò le braccia al cielo, emettendo versi di stupore e diniego, ma non si spinse al punto di respingere l'accusa. «A quanto vedo, vorreste le prove di quello che ho appena detto, eh?» chiese van de Witten, e Tom annuì con aria diffidente. «Dal momento che l'ufficiale responsabile di questo caso è il colonnello Keyser, chiederò a lui di esporre i risultati delle sue ricerche.» Guardò il colonnello. «Vorreste essere così gentile da illuminare questi gentiluomini?» «Certo, eccellenza. È per me un dovere e un privilegio.» Keyser si protese sul tavolo, sfiorando il misterioso oggetto posto sotto il riquadro di velluto ricamato di perline. Gli occhi di tutti corsero immediatamente in quella direzione, ma Keyser, come per provocare la loro curiosità, ritirò la Wilbur Smith
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mano e si appoggiò nuovamente allo schienale della sedia. «Prima di tutto vorrei farvi una domanda, mjnheer Courteney. In qualche momento degli ultimi tre mesi uno dei carri che appartengono a voi e a vostro fratello» - e fece un cenno col capo in direzione di Dorian -, «ha lasciato la colonia?» Tom meditò per qualche istante, poi si rivolse al fratello. «Non ricordo che sia mai accaduto... E tu, Dorry?» «Nessuno dei nostri carri ha ricevuto dalla VOC il permesso di lasciare la colonia», rispose Dorian, eludendo la domanda. Ancora una volta, Keyser si protese in avanti, ma stavolta strappò con un gesto secco il riquadro di velluto, e tutti si ritrovarono a fissare il moncone spezzato del raggio di una ruota. «Quello inciso a fuoco sul legno non è il marchio della vostra Compagnia?» «Dove lo avete trovato?» chiese Tom con aria ingenua. «Un ufficiale della VOC lo ha rinvenuto vicino alle tracce di quattro carri che hanno lasciato la colonia nei pressi delle sorgenti del fiume Gariep e che erano diretti a nord verso i territori ancora inesplorati.» Tom scosse la testa. «Non so come spiegarlo.» Si tirò la barba. «E tu, Dorian?» «Nel marzo dell'anno scorso abbiamo venduto uno dei vecchi carri per il legname a un cacciatore ottentotto. Come si chiamava, Oompie? Ha detto che voleva andare in cerca di avorio nelle terre del deserto.» «Per tutti i fulmini», esclamò Tom. «Me n'ero dimenticato.» «E avete una ricevuta per questa vendita?» Keyser pareva frustrato. «Il vecchio Oompie non sa scrivere», mormorò Dorian. «Allora mettiamo in chiaro una cosa: voi non avete mai viaggiato con quattro carri carichi sino ai confini della colonia, non avete consegnato quei carri a James Courteney, un fuggiasco che si sottrae alla giustizia, e non avete incoraggiato e favorito questo fuggiasco nell'intento di superare le frontiere della colonia senza l'approvazione della VOC. È questo che mi state dicendo?» «Sì.» Dalla parte opposta del tavolo, Tom lo guardò negli occhi con fermezza. Keyser gli rivolse un sogghigno di trionfo, lanciando un'occhiata al governatore van de Witten per ottenere il permesso di continuare. L'altro annuì, e Keyser batté di nuovo le mani. La porta a due battenti si spalancò ed entrarono due caporali con la divisa della VOC, trascinando una figura Wilbur Smith
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umana. Per qualche istante, né Tom né Dorian lo riconobbero. Indossava soltanto un paio di brache sporche di sangue coagulato e di escrementi. Gli avevano strappato le unghie delle mani e dei piedi con le pinze da maniscalco, e lo avevano frustato finché la schiena non si era ridotta a una massa sanguinolenta. Il viso era gonfio in modo grottesco, con un occhio chiuso del tutto e l'altro ridotto a una fessura nella carne viola e gonfia. «Che spettacolo gradevole.» Keyser sorrideva, mentre il governatore van de Witten si portava al naso un sacchettino pieno di erbe e di petali di fiori secchi. «Vi chiedo scusa, eccellenza», disse Keyser, notando quel gesto. «Ma gli animali devono essere trattati così.» Si rivolse di nuovo a Tom. «Voi conoscete quest'uomo, naturalmente. È uno dei vostri conducenti di carri.» «Sonnie!» Tom fece per alzarsi, poi ci ripensò e ricadde sulla sedia. Dorian aveva l'aria turbata. Sonnie era uno dei loro uomini migliori, almeno quand'era sobrio. Da oltre una settimana era scomparso da High Weald, e tutti avevano pensato che, come al solito, si fosse allontanato per qualche stravizio, da cui comunque era sempre tornato, puzzando di bhang, una droga a buon mercato, brandy scadente e donne ancora più scadenti, ma mortificato, pentito e pronto a giurare sulla tomba di suo padre che non sarebbe accaduto mai più. «Ah, sì!» esclamò Keyser. «Lo conoscete, dunque. Ci ha raccontato alcuni dettagli interessanti sui vostri movimenti e su quelli della vostra famiglia. Ci ha detto che, la primavera scorsa, due dei vostri carri, guidati da Mansur, il figlio di mjnheer Dorian Courteney, sono partiti lungo la strada costiera per il nord. Questo posso confermarlo io stesso, perché ho guidato uno squadrone dei miei uomini all'inseguimento di quei carri. Ora so che si trattava di un modo per sviare la mia attenzione da altre questioni di maggiore importanza.» Keyser guardò Dorian. «Mi rattrista che un bravo ragazzo come Mansur sia stato coinvolto in questa sordida faccenda. Dovrà affrontare anche lui le conseguenze delle sue azioni.» Il tono era leggero, però la minaccia era tutt'altro che velata. I fratelli Courteney rimasero in silenzio. Tom evitava di guardare Sonnie, per non perdere la calma e il controllo. Sonnie era uno spirito libero che, nonostante le sue numerose manchevolezze, occupava un posto molto elevato nei suoi affetti; Tom sentiva di avere una responsabilità quasi paterna nei suoi confronti. Wilbur Smith
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Keyser tornò a dedicare la sua attenzione a Tom. «Quest'uomo ci ha detto inoltre che, poco dopo la partenza dei due carri da High Weald, non appena avete avuto la certezza che le mie truppe li seguivano, voi e mevrou Courteney siete sgattaiolati via con altri quattro carri carichi e un gran numero di cavalli e altri animali per raggiungere il fiume Gariep. Là siete rimasti ad aspettare molto a lungo e, alla fine, vostro figlio, James Courteney, e la forzata evasa sono scesi dalle montagne per raggiungervi. Avete consegnato a loro i carri e gli animali, aspettando che si allontanassero verso i territori inesplorati, quindi siete tornati alla colonia fingendovi all'oscuro di tutto.» Keyser si rilassò sulla sedia, incrociando le mani sulla fibbia della cintura. Nella sala regnò il silenzio, finché Sonnie non proruppe: «Mi dispiace, Klebe». La sua voce suonava indistinta, perché aveva le labbra spaccate e coperte di croste ancora recenti, e aveva perso due dei denti davanti. «Non volevo dirglielo, ma mi hanno picchiato. Hanno detto che mi avrebbero ucciso, e poi avrebbero fatto lo stesso coi miei figli.» «Non è colpa tua, Sonnie. Hai fatto soltanto quello che avrebbe fatto chiunque altro.» Keyser sorrise, piegando la testa verso Tom. «Siete magnanimo, mjnheer. Se fossi nei vostri panni, non sarei tanto comprensivo.» «Ora possiamo liberarci di questo individuo, colonnello?» intervenne il governatore van de Witten e aggiunse in tono irritato: «Puzza in modo atroce, e sta spargendo sangue e altri fluidi meno salubri sul mio pavimento». «Vi chiedo scusa, eccellenza. È servito al suo scopo.» Keyser congedò con un cenno i carcerieri in uniforme, che trascinarono Sonnie oltre la porta e se la chiusero alle spalle. «Se fisserete una cauzione per lui, la pagherò per riportare a High Weald quel povero disgraziato», disse Tom. «Questo presuppone che voi due possiate tornare a High Weald», gli fece notare Keyser. «Ma, purtroppo, se anche così fosse, non potrei permettervi di portare con voi un testimone. Dovrà restare nelle segrete del castello finché vostro figlio James e la prigioniera fuggita non saranno portati in giudizio di fronte al governatore.» Si protese in avanti. Il sorriso svanì, e la sua espressione divenne dura, mentre gli occhi erano gelidi e feroci. «E finché non sarà stata messa in chiaro la vostra partecipazione in queste faccende.» Wilbur Smith
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«Avete intenzione di arrestarci?» domandò Tom. «In base alla testimonianza non dimostrata di un conducente di carri ottentotto?» Tom guardò il governatore. «Eccellenza, in base all'articolo 152 del codice di procedura penale steso dai governatori di Amsterdam, nessuno schiavo o nativo può rendere testimonianza contro un libero cittadino della colonia.» «Avete sbagliato vocazione, mjnheer. La vostra padronanza della legge è impressionante.» Van de Witten annuì. «Grazie per avere richiamato la mia attenzione su questa disposizione di legge.» Alzandosi dal tavolo, si diresse verso le finestre dai vetri colorati, camminando con le gambe sottili strette nelle calze nere. Fissando la baia, incrociò le braccia sul torace da piccione. «Vedo che entrambe le vostre navi sono rientrate in porto.» Nessuno dei due rispose a quell'osservazione. Era superflua. I due velieri dei Courteney erano ben visibili dal punto in cui si trovava il governatore. Erano entrate in convoglio nella baia due giorni prima, e non erano state ancora scaricate. La Maid of York e la Gift of Allah erano splendidi schooner, costruiti nei cantieri navali di Trincomalee su disegno di Tom. Erano veloci e maneggevoli, con un pescaggio ridotto e un buon armamento, perfetti per la navigazione sottocosta, per entrare negli estuari e per affrontare le secche di una costa pericolosa e ostile. Giacché Sarah era nata a York, Tom aveva battezzato la prima nave con un nome che significava «Fanciulla di York», mentre Dorian e Yasmini avevano scelto il nome dell'altra. «Un viaggio lucroso», mormorò van de Witten. «Almeno così ho sentito dire.» Tom accennò un sorriso. «Ringraziamo il Signore per quello che abbiamo avuto, ma non saremmo dispiaciuti di avere un po' di più.» Van de Witten accolse quella battuta con un sorriso acido, tornando verso la sua sedia. «Voi chiedete se siete agli arresti. La risposta, mjnheer Courteney, è no.» Scosse la testa. «Voi siete un pilastro della nostra piccola società. Un gentiluomo illustre, industrioso e buon lavoratore. Pagate le tasse. Tecnicamente non siete un libero cittadino olandese, bensì il cittadino di una nazione straniera. Tuttavia versate le imposte per la residenza, quindi avete diritto a essere considerato alla stregua di un cittadino della colonia. Non prenderei neanche vagamente in considerazione l'idea di arrestarvi.» Dall'espressione del colonnello Keyser, era evidente che in realtà a quell'argomento erano state dedicate profonde riflessioni. Wilbur Smith
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«Grazie, eccellenza.» Tom si alzò e Dorian seguì il suo esempio. «La vostra buona opinione ha un grande valore per noi.» «Vi prego, mjnheeren!» Van de Witten alzò la mano per trattenerli. «Ci sono alcune piccole questioni che dovremmo discutere prima che ve ne andiate.» I due sedettero di nuovo. «Desidero che nessuno di voi, e nessun componente della vostra famiglia, lasci la colonia senza il mio permesso esplicito. Questa condizione si estende anche al figlio di mjnheer Dorian Courteney, Mansur, responsabile di aver deliberatamente indotto uno squadrone di cavalleria della VOC a compiere una spedizione infruttuosa ai confini settentrionali della colonia.» Fissò Dorian. «Sono stato chiaro?» Dorian annuì. «È tutto, eccellenza?» chiese Tom, con esagerata cortesia. «No, mjnheer. Niente affatto. Ho deciso d'imporvi una cauzione nominale per assicurarmi che voi e la vostra famiglia rispettiate le mie condizioni.» I«Nominale fino a che punto?» Tom si fece forza in attesa della risposta. «Centomila gulden», rispose van de Witten, prendendo la caraffa di madera e facendo il giro del tavolo per riempire i calici dallo stelo a spirale. Nella stanza scese un silenzio pesante. «Voglio tenere conto del fatto che siete uno straniero e potreste non capirmi», riprese van de Witten, tornando al suo posto. «Quindi ve lo ripeto: vi chiedo un deposito di centomila gulden.» «È una bella somma», borbottò infine Tom. «Sì, direi che dovrebbe essere sufficiente», convenne il governatore. «Ma è pur sempre una somma relativamente modesta, se si prendono in considerazione i profitti del vostro ultimo viaggio commerciale.» «Avrò bisogno di tempo per radunare una simile cifra in contanti», disse Tom. Il viso era rimasto impassibile, e solo un lieve fremito a una palpebra tradiva la sua agitazione. «Sì, me ne rendo conto», riconobbe van de Witten. «Tuttavia, mentre provvedete alla cauzione, dovreste tenere presente che, fra poche settimane, scade anche il rinnovo del vostro permesso di residenza. Sarebbe bene se pagaste entrambe le somme nel contempo.» «Il che vuol dire altri cinquantamila gulden», disse Tom, tentando di mascherare lo sgomento. «No, mjnheer. In seguito a queste circostanze impreviste, ho dovuto ritoccare la somma dovuta per il permesso di residenza, che è salita a Wilbur Smith
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centomila gulden.» «Ma questa è pirateria», scattò Tom, perdendo la calma. Poi, ritrovando subito l'autocontrollo, aggiunse: «Vi chiedo scusa, eccellenza. Ritiro l'osservazione». «Di pirati ve ne intendete più di me, mjnheer Courteney», replicò van de Witten con un sospiro. «Vostro nonno è stato giustiziato proprio per quel crimine, no?» Puntò il dito oltre le finestre a bovindo. «Proprio laggiù, sulla spianata, in vista di questa stessa stanza. Dobbiamo soltanto augurarci che nessun altro membro della famiglia incontri lo stesso tragico destino.» La minaccia era implicita, ma aleggiò nella stanza silenziosa come l'ombra della forca. A quel punto, Dorian si decise a intervenire. «Un pagamento di centomila gulden oltre a una cauzione equivalente significa ridurre in miseria la nostra Compagnia.» Van de Witten si girò verso di lui. «Ho l'impressione che continuiate a fraintendermi», replicò in tono mesto. «La somma richiesta per il permesso di residenza della famiglia di vostro fratello è di centomila gulden, ma, per la vostra famiglia, dovrete versarne altri centomila, oltre alla cauzione per buona condotta...» «Trecentomila gulden!» esclamò Tom. «Non è possibile.» «Sono sicuro di sì», lo contraddisse van de Witten. «Come ultima risorsa, potreste sempre vendere le navi e il contenuto del vostro magazzino. In tal modo, metterete senz'altro insieme la somma.» «Vendere le navi!» Tom balzò in piedi. «Che razza di follia è questa? Le navi sono le ossa e il sangue della nostra Compagnia.» «Vi assicuro che si tratta di una conclusione più che logica.» Van de Witten scosse la testa, sorridendo a Keyser. «Penso che dovreste spiegare la situazione a questi signori, colonnello.» «Senz'altro, eccellenza.» Keyser si alzò per dirigersi verso la finestra. «Ah, bene! Giusto in tempo!» esclamò. Sulla spiaggia, sotto i bastioni del castello, erano schierati due plotoni di soldati della VOC. Avevano le baionette inastate, ed erano in pieno assetto di marcia, con lo zaino completo. Le giubbe verdi spiccavano nettamente sulla sabbia bianca. Sotto gli occhi di Tom e Dorian, i soldati cominciarono a imbarcarsi su due bettoline rimaste a poca distanza dalla spiaggia, immergendosi nell'acqua fino al ginocchio per raggiungerle. «Prenderò la precauzione di disporre degli uomini di guardia a bordo Wilbur Smith
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delle vostre navi», annunciò Keyser. «Ciò, ovviamente, con l'unico scopo di assicurarmi che i dettami del governatore van de Witten siano rispettati.» Keyser si sedette di nuovo al suo posto. «Fino a nuovo avviso, tutti e due vi presenterete a rapporto nel mio alloggio ogni giorno, prima del colpo di cannone di mezzogiorno, per assicurarmi che non avete lasciato la colonia. Non appena potrete esibire una ricevuta per l'ammontare della somma dovuta, e un lasciapassare del governatore van de Witten, sarete liberi di lasciare la colonia. Temo, però, che per voi non sarebbe facile tornarvi.» «Ebbene, forse è venuto il momento di prendere congedo, visto che qui non siamo più bene accetti», disse Tom, guardandosi intorno con un sorriso. La famiglia al completo era radunata nella stanza della contabilità nel magazzino di High Weald. Sarah Courteney tentò di mostrare la sua disapprovazione, assumendo un'aria severa, ma in realtà le palpebre abbassate non riuscivano a nascondere la rassegnazione. Mio marito non finirà mai di sorprendermi, pensò. Riesce a restare allegro in situazioni che annienterebbero la maggior parte degli uomini. «Credo che Tom abbia ragione», dichiarò Dorian, tra una boccata e l'altra della pipa ad acqua. «Noi Courteney siamo sempre stati viaggiatori che attraversano gli oceani e vagano sui continenti. Vent'anni nello stesso posto, sulla terraferma, sono un periodo troppo lungo.» «Stai parlando della mia casa», protestò Yasmini. «Del posto in cui ho trascorso metà della mia vita, e dov'è nato il mio unico figlio.» «Troveremo un'altra casa per te e per Sarah, e vi daremo altri figli, se questo può rendervi felici», promise Dorian. «Tu sei insensibile come tuo fratello», esclamò Sarah, girandosi verso di lui. «Non sai capire il cuore di una donna.» «E neanche la sua mente», ridacchiò Tom. «Su, avanti, tesoro, non possiamo restare qui a farci ridurre in miseria da van de Witten. Ti è già capitato altre volte di raccogliere armi e bagagli e partire in gran fretta. Non ricordi come abbiamo dovuto abbandonare Fort Providence con soltanto cinque minuti di preavviso, quando sono arrivati gli uomini di Zayn al-Din?» «E come potrei dimenticarlo? Hai gettato fuori bordo il mio clavicembalo per alleggerire la nave in modo che potessimo superare le Wilbur Smith
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secche alla foce del fiume.» «Ah, però te ne ho comprato un altro», ribatté Tom, e tutti volsero lo sguardo verso la parete opposta, alla quale era appoggiato lo strumento. Sarah si alzò, sollevò il coperchio e prese posto sullo sgabello, accennando le note iniziali di Spanish Ladies, mentre Tom canticchiava il ritornello a bocca chiusa. Sarah richiuse bruscamente il coperchio e si alzò, con le lacrime agli occhi. «È successo tanto tempo fa, Tom Courteney. Allora ero giovane e stupida.» «Giovane? Sì. Stupida? Mai!» Tom si affrettò a raggiungerla per passarle un braccio intorno alle spalle. «Tom, sono troppo vecchia per ricominciare daccapo», gli sussurrò lei all'orecchio. «Sciocchezze, sei giovane e fotte come sempre.» «Saremo rovinati», gemette Sarah. «Mendicanti e vagabondi, senza un tetto sulla testa.» «Se la pensi così, non mi conosci bene come credi.» Continuando a tenerla stretta con affetto, lanciò un'occhiata al fratello. «Vogliamo fargliela vedere, Dorry?» «Se non lo facciamo, non avremo pace», rispose Dorian con un'alzata di spalle. «Sono due arpie bisbetiche, queste nostre donne.» Yasmini si protese per tirargli la barba rossa e riccioluta. «Io per te sono sempre stata una devota moglie musulmana, al-Salil.» Aveva usato il suo nome arabo, che significava «la spada sguainata». «Come osi accusarmi di averti mancato di rispetto? Ritratta subito, altrimenti sarai privato di ogni favore e privilegio fino al prossimo Ramadan.» «Tu sei così bella, luna piena che splendi sulla mia vita. Diventi sempre più dolce e docile ogni giorno che passa.» «Lo prenderò come una ritrattazione», replicò lei, sorridendo e guardandolo coi grandi occhi scuri pieni di luce. «Basta così!» esclamò Tom. «Questa discussione dilania la nostra famiglia e strazia i nostri cuori.» Scoppiarono tutti a ridere, anche le donne, e Tom sfruttò quel vantaggio. «Voi sapete che Dorian e io non siamo mai stati tanto idioti da fidarci di quella banda di briganti e tagliaborse che formano il consiglio della VOC...» Dorian continuò per lui, dicendo: «Abbiamo sempre saputo che in questa colonia eravamo tollerati e nient'altro. Gli olandesi ci hanno sempre Wilbur Smith
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considerati alla stregua di vacche da mungere. Sono vent'anni che ci succhiano il latte fino a lasciarci a secco». «Be', non del tutto», lo corresse Tom, dirigendosi verso lo scaffale dei libri all'altro capo della stanza, uno scaffale che andava dal pavimento al soffitto di graticci di canne. «Dammi una mano, fratello», sollecitò Dorian, che prontamente andò ad aiutarlo. Lo scaffale, pieno di pesanti tomi rilegati in pelle, era montato su cuscinetti d'acciaio, nascosti con abilità sotto lo zoccolo di legno scuro. Sotto la spinta dei due, scivolò di lato, cigolando sui cuscinetti, rivelando una porticina incassata nella parete di fondo, sbarrata con chiavistelli di ferro e chiusa da un enorme lucchetto di bronzo. Tom prese dallo scaffale un libro che recava sulla costa un'incisione d'oro in foglia e che s'intitolava: Mostri degli oceani meridionali. Aprì la copertina e, rivelando una cavità ricavata all'interno del blocco dei fogli, prese la chiave che apriva il lucchetto. «Porta la lanterna!» disse a Sarah, mentre girava la chiave nel lucchetto, tirava i chiavistelli e apriva la porticina. «Come hai fatto a tenerci nascosto tutto questo per tanti anni?» chiese Sarah, sbalordita. «Con grande difficoltà.» Tom la prese per mano, conducendola in una stanza minuscola, non più grande di un ripostiglio. Dorian e Yasmini li seguirono. C'era appena spazio sufficiente per loro e per la pila di cassette di legno accatastate ordinatamente contro la parete opposta. «Il patrimonio di famiglia», esclamò Tom. «I profitti di vent'anni. Non abbiamo mai avuto il coraggio assurdo o lo scarso buonsenso di affidarlo alla Banca di Batavia, che appartiene ai nostri vecchi amici di Amsterdam, la VOC.» Aprì la cassetta in alto, piena fino all'orlo di sacchetti di tela. Tom ne porse uno a ciascuna delle donne. «Come pesa!» disse Yasmini, rischiando di far cadere il suo. «Non c'è niente che pesi di più», riconobbe Tom. Quando Sarah aprì l'imboccatura del sacchetto che aveva in mano, quasi le mancò il respiro per la sorpresa. «Monete d'oro? Le tre cassette sono piene d'oro?» «Certo, mia cara. Noi paghiamo le spese in argento e ci teniamo i profitti in oro.» «Tom Courteney, tu sei un vero mistero. Perché non ci hai mai parlato di questo tesoro?» «Finora non ce n'era motivo.» Scoppiò a ridere. «Saperlo vi avrebbe reso inquiete, mentre ora vi toglie un peso dal cuore.» «Quanto avete Wilbur Smith
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accumulato qui dentro, tu e Dorry?» chiese Yasmini, attonita. Tom picchiettò con le nocche su ciascuna delle tre cassette. «Sì, pare proprio che siano ancora piene. Questo è il grosso dei nostri risparmi. Inoltre abbiamo un'ampia collezione di zaffiri di Ceylon e diamanti della leggendaria miniera di Kollur, sul fiume Krishna, in India. Sono tutte pietre grandi, della più bell'acqua. Forse non sono un riscatto da re, ma perlomeno sono un riscatto da rajah.» Ridacchiò, soddisfatto. «A essere sinceri, non è proprio tutto. Le due navi all'ancora nella baia hanno ancora il carico intatto.» «Per non parlare dei due plotoni di soldati della VOC a bordo», fece notare Sarah in tono pungente, uscendo dalla stanza segreta. «Ecco, questo è un problema interessante», ammise Tom, mentre chiudeva la porta e Dorian lo aiutava a spingere di nuovo lo scaffale al suo posto. «Ma non insolubile.» Tornò al suo posto, battendo la mano sulla sedia accanto alla sua. «Vieni a sederti vicino a me, Sarah Courteney, perché avrò bisogno della tua intelligenza acuta e della tua ben nota erudizione.» «Mi sembra che sia venuto il momento d'invitare Mansur a unirsi ai consigli di famiglia», suggerì Dorian. «Ormai è abbastanza adulto e, quel che più conta, quando salperemo dalla baia della Tavola anche la sua vita come la nostra - subirà un profondo cambiamento. Probabilmente resterà turbato, costretto ad allontanarsi dalla casa dove ha trascorso l'infanzia.» «Giustissimo», riconobbe Tom. «Ma in questo momento la prontezza è tutto. La nostra partenza deve cogliere di sorpresa van de Witten e Keyser. Di certo non si aspettano che abbandoniamo High Weald con tutto quello che contiene. Ci sono molte questioni da sistemare, però dobbiamo imporci un limite.» Guardò Dorian. «Tre giorni?» «I tempi saranno molto ridotti», osservò Dorian, accigliandosi. «Comunque, sì, potremo essere pronti a salpare fra tre giorni.» Quei tre giorni furono pieni di attività frenetiche, sebbene celate con cura al resto del mondo. Era essenziale che neanche i servitori più fidati avessero sentore delle loro vere intenzioni. La lealtà non presuppone la discrezione; le donne della servitù erano notoriamente chiacchierone, e le cameriere personali erano ancora peggio. Molte di loro avevano un innamorato in città, e alcune frequentavano i soldati e i sottufficiali della guarnigione del castello. Per stornare ogni sospetto, Sarah e Yasmini finsero che il lavoro necessario per fare la cernita di vestiti e oggetti, prima Wilbur Smith
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di riporli, non fosse che un aspetto della normale attività stagionale, necessaria per mettere ordine e fare pulizia in una casa così vasta. Tom e Dorian fecero l'inventario annuale con tre mesi di anticipo rispetto al consueto. C'era un East Indiaman inglese all'ancora nella baia, e il comandante Welles era un vecchio e fidato amico di Tom, anche perché i due avevano mantenuto rapporti d'affari nel corso degli ultimi vent'anni. Tom gli mandò un invito a cena e, durante il pasto, gli fece giurare di mantenere il segreto prima d'informarlo dei loro piani per lasciare il capo di Buona Speranza. Poi gli vendette l'intero contenuto del magazzino di High Weald per una frazione del suo valore reale. In cambio, Welles promise di non prenderne possesso prima che le due navi dei Courteney fossero salpate dalla baia e s'impegnò a pagare le merci direttamente sul conto della CBTC presso la banca del signor Coutts, a Piccadilly, non appena fosse tornato a Londra. Il terreno e gli edifici di High Weald erano stati concessi loro in affitto perpetuo dalla VOC. Mjnheer van de Velde, uno degli altri prosperi cittadini liberi della colonia, tormentava da anni Tom e Dorian chiedendo di poter acquistare la tenuta. Così una sera, dopo mezzanotte, i fratelli, vestiti di nero e col viso coperto dalla tesa del cappello e dal collo del soprabito, raggiunsero a cavallo la sua residenza, sulle rive del fiume Nero, bussando alla porta della camera da letto dello stesso van de Velde. Dopo la reazione iniziale di allarme, accompagnata da grida colleriche e minacce, il padrone di casa uscì in camicia da notte, brandendo uno schioppo a trombone e puntando loro in faccia la lanterna. «Corpo di un cane, siete voi!» esclamò, precedendoli nel suo ufficio. Mentre le prime luci dell'alba schiarivano il cielo e le tortore tubavano tra le querce sotto le finestre, si strinsero la mano per suggellare l'accordo. Tom e Dorian firmarono l'atto di trasferimento di High Weald e van de Velde consegnò loro, con aria trionfante, una lettera di credito irrevocabile e utilizzabile presso la Banca di Batavia per una somma inferiore alla metà di quello che era stato disposto a pagare appena pochi mesi prima. La sera prevista per la partenza, non appena tramontò il sole e la luce si affievolì, in modo che nessuno potesse vederli dalla spiaggia o dalle mura del castello, Mansur e alcuni uomini si diressero a forza di remi verso le navi all'ancora. A bordo di ogni nave, Keyser aveva lasciato di guardia sei soldati ottentotti, agli ordini di un caporale. Dopo cinque giorni all'ancora, Wilbur Smith
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coi velieri che rollavano e beccheggiavano sulle onde alte, sollevate dal vento di sud-est, i soldati che non erano prostrati dal mal di mare erano comunque profondamente annoiati da quel servizio di guardia. A peggiorare il loro stato d'animo, inoltre, potevano vedere dalle loro postazioni le luci delle taverne sul fronte del porto e udire i frammenti dei canti portati dal vento che increspava la superficie cupa delle acque. L'arrivo di Mansur a bordo fu una distrazione piacevole. Tutti si affollarono lungo la battagliola per scambiare battute e insulti scherzosi con lui e coi rematori. Mansur era uno dei beniamini della comunità ottentotta della colonia. Il soprannome che gli avevano affibbiato era Specht, «picchio», per via del ciuffo di capelli rosso fiamma. «Non puoi salire a bordo, Specht», gli disse in tono severo il caporale. «Ordine del colonnello Keyser. Non sono ammessi visitatori.» «Non agitarti, non voglio salire a bordo. Non ci tengo a farmi vedere in compagnia di un branco di furfanti e manigoldi come voi», gridò Mansur di rimando. «Lo dici tu, vecchio Specht, ma allora che ci fai, qui? Dovresti piuttosto dare lezioni di cucito alle ragazze del villaggio.» Il caporale rise sonoramente della propria battuta, perché la parola naai aveva un duplice significato: «cucire», ma anche «fornicare». I capelli rossi e l'eccezionale bellezza di Mansur lo rendevano quasi irresistibile per le donne. «È il mio compleanno», rispose Mansur. «Quindi vi ho portato un regalo.» Assestò un calcio al barilotto di brandwijn del Capo che si trovava sul fondo della barca. «Calate una rete da carico.» I soldati si affrettarono a obbedire, e il barilotto fu issato fino in coperta. Il comandante della Gift of Allah, che era musulmano, uscì dalla sua cabina per protestare contro la presenza a bordo di quella bevanda diabolica, proibita dal Profeta. «La pace sia con te, Batula», gli disse Mansur in arabo. «Questi uomini sono miei amici!» Batula era stato il portatore di lancia di Dorian nei primi anni da lui trascorsi nel deserto. Il loro legame - rafforzato da una lunga frequentazione - era indissolubile. Batula conosceva Mansur fin dal giorno che era nato e, sentendo la sua voce che proveniva dal battello, si calmò. Finì per consolarsi al pensiero che tutti i suoi uomini erano credenti e non si sarebbero lasciati tentare dal liquore di Satana, a differenza di quei soldati kaffir. Il caporale ottentotto tolse lo zipolo dal barilotto di brandy e riempì un Wilbur Smith
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boccale di peltro, ma, appena bevuto un sorso di quel liquore forte, sbuffò e ansimò, espirando rumorosamente i vapori dell'alcol. «Yis maar!» esclamò. «Dis lekker! Che buono!» I suoi uomini gli si affollarono intorno, col boccale in mano, per avere la loro parte. Il caporale allora abbandonò la severità iniziale per gridare a Mansur: «Ehi, Specht! Vieni a bordo a bere con noi». Mansur gli rispose con un gesto di scusa, allontanandosi per puntare verso l'altra nave. «Non ora, forse più tardi. Ho un altro regalo da consegnare agli uomini a bordo della Maid of York.» Sarah e Yasmini avevano ricevuto dai mariti rigorose istruzioni di ridurre il bagaglio a due bauli da viaggio ciascuna, e Tom in particolare aveva proibito nel modo più tassativo a Sarah di portare a bordo il clavicembalo. Non appena i due uomini furono impegnati altrove, però, le due donne fecero caricare su un carro in attesa dieci grosse casse e, in cima a quella montagna di bagagli, troneggiava lo strumento. Le ruote del carro rischiavano di divaricarsi sotto quel peso. «Sarah Courteney, mi stupisci. Non so che dire.» Al ritorno, Tom incenerì con lo sguardo lo strumento. «Allora non dire niente, Tom, sciocco che non sei altro. E non appena arriveremo nella nuova casa che tu mi farai costruire, ti suonerò la versione più dolce di Spanish Ladies che tu abbia mai sentito.» Quella era la sua ballata preferita, e lui si allontanò, sconfitto, per sovrintendere al carico degli altri carri. Ormai era impossibile che la notizia della loro partenza giungesse alle orecchie del colonnello Keyser in tempo perché lui potesse intervenire, quindi furono convocati tutti i servitori, ai quali Tom e Dorian annunciarono che la famiglia avrebbe lasciato High Weald per sempre. A bordo delle due navi, però, non c'era posto per tutti. A quelli che erano stati scelti per accompagnare la famiglia fu comunque offerta la possibilità di restare nella colonia, ma nessuno di loro ne approfittò. Ebbero un'ora di tempo per fare i bagagli e prepararsi alla partenza. Quelli destinati a rimanere, invece, si riunirono in fondo all'ampia veranda. Le donne piangevano sommessamente, e tutti i membri della famiglia Courteney passarono lungo quella fila di volti familiari e amati, parlando a ciascuno di loro e abbracciandoli. Tom e Dorian consegnarono a ognuno un sacchetto di tela insieme col documento di manomissione e col congedo Wilbur Smith
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dal servizio, più una calorosa lettera di referenze. «Dov'è Susie?» chiese Sarah quando arrivò in fondo alla fila, cercando con gli occhi una delle cameriere più anziane. Susie era la moglie di Sonnie, il conducente di carri ancora prigioniero nelle segrete del castello. Gli altri servitori si guardarono intorno, piuttosto sorpresi. «Susie era qui», rispose uno di loro. «L'ho vista in fondo alla veranda.» «Probabilmente è rimasta scossa dalla notizia della nostra partenza», suggerì Yasmini. «Quando si sarà ripresa, sono certa che tornerà per congedarsi.» C'era ancora molto da fare, e Sarah fu costretta ad accantonare il pensiero dell'assenza di Susie. «Sono convinta che non ci lascerebbe mai partire senza una parola di commiato», osservò, prima di affrettarsi a controllare che il carro ricolmo dei suoi tesori speciali fosse pronto a partire alla volta della spiaggia. Le operazioni coi carri si conclusero a sera inoltrata. Approfittando della luce della luna, Susie si mise a correre lungo la strada del castello. Aveva la testa coperta dallo scialle, col lembo avvolto intorno al mento. Le guance erano rigate di lacrime e lei parlottava tra sé. «Non pensano a me e Sonnie. No, lasciano mio marito nelle mani dei boeri, abbandonandolo al suo destino, lasciando che lo picchino o lo uccidano, addirittura. Mi lasciano qui, con tre bambini, a morire di fame, mentre loro se ne vanno.» I vent'anni di gentilezze che aveva ricevuto da Sarah Courteney erano stati spazzati via, e Susie scoppiò in singhiozzi pensando alla crudeltà della sua padrona. Accelerò ulteriormente il passo. «Ebbene, se a loro non importa di me, di Sonnie e dei bambini, per quale motivo dovrei preoccuparmi di loro?» La sua voce fu indurita dalla ferma determinazione. «Farò un patto coi boeri. Se loro rilasciano Sonnie, io dirò che cosa stanno combinando Klebe e sua moglie, stanotte.» Non perse tempo a raggiungere il castello per trovare il colonnello Keyser. Andò direttamente al piccolo cottage dietro i giardini della Compagnia. La comunità ottentotta era molto compatta e Shala, l'amante del colonnello Keyser, era figlia della sorella minore di Susie. Il suo legame col colonnello conferiva a Shala un grande prestigio in seno alla famiglia. Susie bussò alle imposte della stanza sul retro del cottage e, dopo qualche tramestio nella stanza buia, dietro le imposte si accese una Wilbur Smith
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lanterna. Insonnolita, Shala chiese: «Chi è?» «Shala, sono io, tannie Susie.» L'altra aprì le imposte. Era nuda alla luce della lanterna, e i seni color miele oscillarono, urtandosi, quando si affacciò al davanzale della finestra. «Zia, così tardi? Ma che vuoi a quest'ora?» «Lui è qui, bambina mia?» Era una domanda inutile, dato che Keyser russava così forte che sembrava di udire un tuono provenire dalla stanza buia. «Sveglialo.» «Mi picchierà, se lo sveglio», protestò Shala. «E picchierà anche te.» «Ho una notizia importante da dargli», ribatté Susie. «Darà una ricompensa a entrambe, quando la sentirà. La vita di tuo zio Sonnie dipende da lui. Sveglialo subito.» Quando la fila di carri partì da High Weald, diretta verso il mare, anche chi non doveva imbarcarsi insieme con la famiglia si mise in marcia a fianco del convoglio. Una volta raggiunta la spiaggia, aiutarono tutti a caricare le barche già in attesa appena oltre la linea dei frangenti. Prima che tutti i carri superassero le dune, i battelli erano già a pieno carico. «Con questa risacca rischieremo di capovolgerci, se li carichiamo ancora», decise Tom. «Dorian e io porteremo il carico fino alle navi e disporremo gli uomini di guardia.» Si rivolse a Sarah e Yasmini. «Se le guardie non saranno istupidite a sufficienza dal brandy di Mansur, a bordo ci sarà trambusto, e non voglio che siate coinvolte. Dovete aspettare qui. Vi porterò sulle navi al prossimo viaggio.» «Il carro coi nostri bagagli non è ancora arrivato», osservò Sarah, preoccupata, aguzzando lo sguardo verso l'oscurità che avvolgeva le dune. «Sarà qui tra poco», la rassicurò Tom. «Adesso aspetta qui, per favore, e non andartene Dio solo sa dove con Yassie.» L'abbracciò, sussurrandole all'orecchio: «E ti sarei enormemente grato se facessi quello che ti chiedo, almeno stavolta». «Come puoi avere così poca stima di tua moglie?» bisbigliò lei di rimando. «Va' pure. Quando tornerai io sarò qui, sicuro come l'oro.» «E due volte più bella», aggiunse lui. Gli uomini s'imbarcarono sui battelli da carico e si misero subito ai remi. Per raggiungere le navi dovettero impegnarsi allo spasimo, perché le imbarcazioni erano basse sull'acqua. La spruzzaglia superava la prua, infradiciandoli fino all'osso. Quando alla fine si ritrovarono in acque più Wilbur Smith
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calme, a ridosso della Gift of Allah, nessuno dalla nave li apostrofò. Tom risalì la biscaglina, seguito da Dorian e Mansur. Sguainarono la spada per fronteggiare un eventuale attacco da parte delle truppe della VOC; invece trovarono il comandante Batula ad attenderli al portello. «Che la pace di Allah sia su di voi», li salutò Batula, accogliendo i proprietari col massimo rispetto. Dorian lo abbracciò con calore. Avevano percorso insieme migliaia di leghe a cavallo, e ancora di più navigando per mare. Si erano battuti a fianco a fianco per conquistare un regno, avevano diviso il pane e il sale. La loro amicizia era salda come una roccia. «Dove sono le guardie, Batula?» chiese Tom, tagliando corto ai saluti. «Sul castello di prua», rispose lui. «Sono ubriache fradice.» Tom corse verso la scaletta di boccaporto aperta, scendendo con un balzo sul ponte inferiore. Nella cabina ristagnavano i vapori del brandy e altri odori meno gradevoli. I soldati della VOC erano istupiditi come il loro caporale e immersi nel loro stesso vomito. Tom sguainò la sua spada. «Questi gentiluomini resteranno in paradiso ancora per un po'. Legateli e lasciate che si godano il loro riposo, finché non saremo pronti per la partenza. Carichiamo a bordo le casse d'oro e il resto dei bagagli.» Una volta messe al sicuro le casse dell'oro nella cabina principale, Tom lasciò a Dorian e Mansur il compito di sovrintendere al resto del carico, mentre lui si occupava del secondo battello, dirigendosi a forza di remi verso la Maid of York. Anche lì trovarono le guardie della VOC in condizioni non migliori dei loro compagni a bordo della Gift of Allah. «Il sole sorgerà tra otto ore, e allora dovremo essere già al largo», spiegò Tom a Kumrah, il comandante arabo. «Carica tutto a bordo il più presto possibile.» L'equipaggio si precipitò a obbedire e, non appena l'ultima balla di merce fu a bordo, Tom guardò in direzione dell'altra nave, e vide che Dorian aveva issato una lanterna sulla coffa dell'albero di maestra della Gift of Allah. Era il segnale che il primo battello era stato scaricato e stava tornando alla spiaggia per prendere le donne e il resto dei bagagli. Una volta assicurate le balle di merce, Tom ordinò all'equipaggio di andare a prendere i soldati della VOC dal castello di prua e di scaricarli sul battello da carico ormeggiato lungo la murata, legati come polli al mercato. Ormai alcuni stavano riprendendo i sensi, ma bavagli e legacci impedivano loro di esprimere la propria indignazione, se non emettendo grugniti e roteando gli occhi. Wilbur Smith
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L'imbarcazione si allontanò dal fianco della nave, e Tom prese il timone per tornare verso la spiaggia, seguendo la barca di Dorian. Quando approdarono, Tom vide che il battello di Dorian era già sulla spiaggia, ma non c'era nessuno al lavoro. Notò tuttavia un gruppo agitato di servitori e marinai radunati ai piedi delle dune e scese con un salto nell'acqua bassa, raggiungendo a guado la riva, poi risalì la spiaggia. Dorian stava discutendo col capo del convoglio di carri. «Che cos'è successo?» chiese Tom. Poi si accorse che Sarah e Yasmini mancavano. «Dove sono le donne?» gridò. «Questo idiota le ha lasciate tornare indietro.» Il tono di Dorian era quasi disperato. «Tornare indietro!» Tom rimase impietrito, fissandolo. «Che significa, tornare indietro?» «Il carro coi bagagli si è fermato tra le dune, con l'assale spezzato. Così Sarah e Yasmini hanno riportato indietro uno dei carri vuoti per recuperare il carico.» «Quelle due sono impazzite!» esplose Tom, e soltanto con un grande sforzo riuscì a dominare la collera. «E va bene, dovremo fare buon viso a cattivo gioco. Mansur, conduci i prigionieri oltre la battigia, ma non slegarli. Lasciali così, in modo che Keyser li trovi, domattina. Porta queste merci sul primo battello da carico.» Indicò le casse e le scatole rimanenti, accatastate al di sopra della linea dell'alta marea. «Falle caricare a bordo insieme con l'equipaggio della Maid of York. Grazie a Dio, abbiamo già portato a bordo le casse dell'oro.» «E poi cosa devo fare?» chiese Mansur. «Tu sarai il responsabile dell'imbarco, qui. Aspetta con la seconda imbarcazione. Tieniti pronto a caricare e salpare non appena torneremo con le donne.» Mansur si affrettò a eseguire gli ordini, e Tom si rivolse a Dorian. «Forza, fratello, andiamo a prendere le nostre gallinelle fuggite dal pollaio.» Si precipitarono verso i cavalli. «Tieni aperto il fodero della spada, e controlla che le pistole siano cariche, Dorry. Questa svolta della strada non mi piace affatto», brontolò Tom, mentre montavano in sella. Provvide anche lui ad allentare il fodero della spada azzurra e a estrarre le pistole dalle fondine sulla parte anteriore della sella; le ripose soltanto dopo averle controllate. «Andiamo!» gridò infine, e i due partirono al galoppo lungo la pista Wilbur Smith
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sabbiosa. Tom si aspettava da un momento all'altro d'imbattersi nel carro in difficoltà, ma, quando uscirono dalle dune per risalire verso la casa padronale attraverso il recinto dei cavalli, non lo avevano ancora trovato. «Se il carro non è andato lontano non te la devi prendere col conducente», brontolò Dorian. «Dev'essere crollato sotto il peso di quella montagna di bagagli messi insieme dalle donne.» «Avremmo dovuto metterli sul carro più grande», sbottò Tom. «Sono state le signore a non volerlo», gli rammentò Dorian. «Così che i loro tesori non venissero contaminati dal contatto con le merci comuni.» «Fratello mio, non ci vedo nulla di divertente in tutto ciò. Il tempo vola.» Tom alzò la testa per scrutare il cielo a oriente, ma, per fortuna, non si vedeva ancora l'annuncio dell'alba. «Eccole, finalmente!» Più avanti scorsero il bagliore di una lanterna e la massiccia sagoma scura di un carro, accanto a quella, più piccola, del carretto rovesciato. Incitarono i cavalli e, proprio mentre stavano arrivando in quel punto, Sarah risalì sulla strada, tenendo sollevata la lanterna, con Yasmini al fianco. «Sei appena in tempo per arrivare in ritardo, marito mio», esclamò Sarah ridendo. «È tutto a posto a bordo del carro.» In quel momento, Tom vide il conducente dietro di lei brandire la lunga frusta, facendola volteggiare nell'aria prima di abbatterla sul dorso dei buoi. «Fermo, Henny, maledetto idiota. Sentiranno quella frusta sino al castello, e attirerai su di noi il colonnello e tutti i suoi uomini, come un branco di leoni!» Con aria colpevole, Henny abbassò la pesante frusta, mettendosi a correre insieme col suo voorloper, il ragazzo che precedeva il carro per segnalare eventuali ostacoli, a fianco dei buoi, per battere con la mano sul loro dorso e incitarli a mettersi in marcia. Il carro si avviò verso le dune, ondeggiando sotto il peso del carico, in cima al quale traballava e oscillava il clavicembalo. Tom gli scoccò un'occhiata amareggiata. «Che possa cadere e finire in mille pezzi!» grugnì. «Preferisco ignorare questa osservazione perché so che non dici sul serio», disse Sarah in tono altero. «Monta qui, dietro di me, dolcezza.» Tom si protese dalla sella per issarla a cavallo. «Ti riporto alla spiaggia e ti faccio imbarcare in un batter d'occhio.» Wilbur Smith
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«Grazie, tesoro, ma preferisco restare col carro, in modo da controllare che i bagagli non abbiano altri incidenti.» Deluso e irritato, Tom colpì il bue di testa col pesante fodero della spada. Avevano raggiunto il primo pendio delle dune, quando lui guardò indietro e sentì le prime avvisaglie di allarme. Intorno alla residenza padronale, fino a pochi minuti prima immersa nelle tenebre, si vedevano delle luci. «Da' un'occhiata, fratello», mormorò a Dorian. «Che ne pensi?» Dorian si voltò sulla sella. «Uomini a cavallo che portano torce accese e vengono dalla direzione della colonia. Un gruppo numeroso, che avanza in colonna. Dev'essere la cavalleria.» «Keyser!» convenne Tom. «Stephanus Keyser! Non può essere che lui. Chissà come, deve aver avuto sentore di quello che stiamo facendo.» «Quando scoprirà che abbiamo abbandonato la casa, si dirigerà subito verso l'approdo sulla spiaggia.» «Ci raggiungerà prima che possiamo caricare questi bagagli sulle barche», borbottò Tom. «Dobbiamo abbandonare il carro e correre verso la spiaggia.» Spronò il cavallo per tornare verso Sarah e Yasmini, che avanzavano a piedi, a fianco dei buoi. Avevano tagliato alcuni rami lungo la strada e li usavano per incitare la pariglia ad avanzare. «Spegnete quella lanterna. Sta per arrivare Keyser», gridò, rivolto a Sarah. «Ci sarà addosso in men che non si dica.» «Lasciate il carro, dobbiamo fuggire», le esortò Dorian, affiancandosi a Tom. Sarah circondò con la mano il tubo di vetro della lanterna e spense con un soffio la fiammella, poi si girò verso il marito. «Non puoi avere la certezza che sia Keyser», disse in tono di sfida. «Chi altri guiderebbe uno squadrone di cavalleria verso High Weald a quest'ora di notte?» «Non può sapere che siamo diretti verso la spiaggia.» «Sarà anche grasso, ma ciò non significa che sia cieco o stupido. Ci verrà dietro, è chiaro.» Sarah guardò in avanti. «Ormai non manca molto. Possiamo raggiungere la spiaggia prima di lui.» «Vuoi mettere un carro carico, trainato dai buoi, contro uno squadrone di cavalleria? Non essere sciocca.» Wilbur Smith
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«Allora dovrai farti venire qualche idea», replicò lei. E, con la semplicità della fede, aggiunse: «Lo fai sempre». «Sì, ho già pensato a una soluzione. Monta in sella dietro di me, e voleremo come se il diavolo ci alitasse sul collo.» «E infatti è proprio così!» esclamò Dorian, poi si rivolse a Yasmini: «Vieni, mia cara. Andiamocene in fretta». «Tu puoi andare, Yassie», replicò Sarah. «Io resto.» «Non posso lasciarti, Sarah, è troppo tempo che stiamo insieme. Resterò con te», dichiarò Yasmini, affiancandosi a lei. Insieme, offrivano agli uomini un fronte compatto e inattaccabile. Tom esitò appena un istante, prima di girarsi verso Dorian. «Se c'è una cosa che ho imparato in vita mia, è questa: non si smuoveranno.» Estrasse una delle pistole dalla fondina sul corno della sella. «Controlla il meccanismo d'innesco, Dorry.» Quindi si girò di nuovo verso Sarah per dirle con severità: «Ci farai uccidere tutti, e forse allora, chissà, sarai soddisfatta. In ogni modo, fa' presto. Arrivando sulla spiaggia, troverai Mansur che vi aspetta col battello da carico. Fallo caricare e tienilo pronto a salpare. La prossima volta che ci vedremo, Dorry e io potremmo avere una certa fretta». Stava per allontanarsi, quando fu assalito da un'idea improvvisa e si protese per afferrare la catena da traino di riserva dalla staffa fissata alla parte posteriore del carro. Tutti i carri erano dotati di quell'attrezzatura, che si poteva usare per aggiogare le pariglie di buoi. «Che intendi farne?» chiese Dorian. «Non farà che appesantire il cavallo.» «Chissà, forse niente», rispose Tom, fissando la catena al pomo della sella. «O forse molto.» Lasciarono le mogli vicino al carro, dopo averle esortate per l'ultima volta a raggiungere la spiaggia a tutta velocità, e risalirono al galoppo dalla spiaggia. Avvicinandosi alla casa, videro le luci delle torce aumentare d'intensità e la scena diventare più nitida. Tirarono le redini al limite del prato chiuso, poco più in basso della residenza, e spinsero i cavalli nell'oscurità più fitta, sotto le chiome ampie degli alberi. Capirono subito che quei visitatori erano soldati in uniforme. Molti di loro erano appiedati, e correvano dentro e fuori, con le sciabole sguainate, intenti a perquisire le stanze. Tom e Dorian distinguevano chiaramente i volti e i lineamenti. «Ecco Keyser», esclamò Dorian. «E con lui c'è Susie, per la barba del Profeta.» Wilbur Smith
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«Allora è lei il nostro giuda!» Il tono di Tom era cupo. «Talvolta non c'è una giustificazione razionale per il tradimento di coloro che abbiamo amato e nei quali abbiamo riposto maggiore fiducia», replicò Dorian. «Keyser non perderà troppo tempo a cercare in casa», borbottò Tom, mentre scioglieva la cinghia di cuoio intrecciato che assicurava la pesante catena da traino alla parte anteriore della sella. «Ecco che cosa devi fare, Dorry.» Espose in fretta il suo piano. E, non appena cominciò a parlare, Dorian comprese tutto. «Il cancello sul fondo del kraal principale!» esclamò. «Quando avrai finito, lascialo aperto», lo ammonì Tom. «Certo che hai una mente diabolica, Tom», osservò Dorian ridacchiando. «In momenti come questi mi fa piacere di essere schierato dalla tua parte, e non contro di te.» «Fa' presto», lo spronò Tom. «Keyser ha già scoperto che le stalle sono vuote e gli uccellini sono scappati», concluse, mescolando le metafore con pesante ironia. Dorian lo lasciò sotto gli alberi, imboccando la biforcazione della strada che scendeva verso i recinti principali del bestiame, sopra la laguna. Tom si accorse che si teneva sul margine della strada, in modo che l'erba attutisse il rumore degli zoccoli, e approvò quella mossa. Lo seguì con lo sguardo finché non scomparve nel buio, e poi dedicò la sua attenzione a quello che stava accadendo intorno agli edifici di High Weald. I soldati avevano infine rinunciato alla ricerca e stavano tornando in fretta ai cavalli. Sul gradino della porta c'era Susie, che tremava di terrore, investita dalle grida di Keyser. Il tono furioso dell'uomo arrivava fino a Tom, ma lui era troppo distante per afferrare le parole. Forse Susie ha avuto una crisi di coscienza, pensò, guardando Keyser che la sferzava in piena faccia col frustino da equitazione. Susie cadde in ginocchio, e Keyser la colpì alle spalle con tutta la forza che aveva. La donna lanciò un grido acuto, indicando la via che scendeva verso le dune. I soldati montarono subito a cavallo, accodandosi a Keyser, che guidava la colonna. Grazie alla luce delle loro torce, Tom li vide scendere verso il prato recintato. Il tintinnio dei finimenti e il clangore metallico delle carabine e delle sciabole ancora chiuse nel fodero divennero sempre più forti. Quando furono così vicini che lui poteva sentire persino il respiro dei loro cavalli, Tom spronò la sua cavalcatura allo scoperto, spingendosi Wilbur Smith
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verso di loro al centro della strada. «Keyser, fetente sacco di lardo di maiale! Che sia maledetto il vostro cuore nero e il mal francese appesti i vostri genitali rinsecchiti!» gli gridò. Il colonnello fu colto di sorpresa: arrestò bruscamente il cavallo e i soldati alle sue spalle urtarono l'uno contro l'altro. Per qualche istante, nella colonna regnò la confusione più completa, mentre i cavalli giravano su se stessi. «Non mi prenderete mai, Keyser, grossa forma di formaggio! Non in sella a quell'asino che vi ostinate a chiamare cavallo.» Estraendo la pistola a canna doppia, Tom mirò più vicino che poteva alle piume di struzzo del cappello di Keyser. Il colonnello abbassò di scatto la testa, mentre il proiettile gli ronzava vicino all'orecchio. Poi Tom spronò il cavallo, lanciandolo per la discesa verso il kraal. Udì alle sue spalle il tonfo sordo dei colpi di pistola che rispondevano al fuoco e i ruggiti furiosi di Keyser. «Catturate quell'uomo! All'inseguimento! Vivo, se possibile, ma anche morto, se necessario. In un modo o nell'altro, lo voglio!» Il gruppo di cavalieri si lanciò rumorosamente alla caccia di Tom, che si ritrovò inseguito da una grandinata di pallini simili a uno stormo di pernici che si alza in volo. Dovette abbassarsi sulla criniera del cavallo, passandogli sotto il collo l'estremità libera delle redini. Poi guardò indietro, tenendosi al di sotto del braccio, per valutare la distanza tra lui e gli inseguitori e, accorgendosi che cominciava a guadagnare terreno, rallentò, passando a un galoppo sostenuto, in modo da lasciar avvicinare Keyser. Le grida eccitate e i richiami dei soldati gli assicuravano che rimaneva bene in vista. A intervalli di alcuni secondi si sentiva il rumore di una pistola o di una carabina, e alcuni proiettili gli passavano tanto vicini che poté sentirne il sibilo. Uno colpì il corno della sella a un palmo appena dalle sue natiche, perdendosi nella notte con un suono lamentoso. Se lo avesse colpito, gli avrebbe inflitto certamente una ferita che avrebbe subito posto fine all'avventura. Anche se sapeva esattamente dov'era e stava aguzzando lo sguardo per trovarlo, il cancello lo colse di sorpresa, apparendo all'improvviso dal buio. Si accorse subito che Dorian aveva fatto come lui gli aveva chiesto, lasciandolo spalancato. La siepe ai lati dell'apertura arrivava all'altezza della spalla, fitta e scura di spine intricate. Tom disponeva di un tempo brevissimo per deviare dal cancello e puntare verso la siepe. Mentre Wilbur Smith
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preparava il cavallo al salto, aumentando la pressione delle ginocchia e la tensione delle mani sulle redini, con la coda dell'occhio scorse lo scintillio dell'acciaio. Dorian aveva avvolto ciascuna estremità della catena intorno ai massicci paletti di legno, e gli anelli chiudevano il varco all'altezza della cintola. Lasciò che fosse il cavallo a scegliere il momento adatto per saltare, ma spostò il peso in avanti, aiutandolo. I due sfiorarono la sommità della siepe, atterrando dalla parte opposta con un buon margine. Non appena ritrovò l'equilibrio e rinsaldò la presa del cavallo sul terreno, Tom si voltò a guardare indietro. Uno dei soldati si era spinto più avanti dei compagni, tentando di seguire Tom oltre la siepe, ma il suo cavallo si era impuntato, rifiutandosi di superare l'ostacolo e finendo così per disarcionare il cavaliere, che volò oltre la siepe e finì a terra come un sacco di patate in un groviglio di gambe, braccia e finimenti. Il colonnello Keyser, vedendo il suo uomo a terra, brandì la spada e gridò: «Seguitemi! Oltre il cancello!» Lo squadrone si riunì alle sue spalle, e lui si lanciò alla carica. Non appena il peso combinato di animali e uomini investì il cancello, la catena si tese con uno schianto metallico. In un attimo, l'intera colonna fu falciata, e i cavalli caddero, ammucchiandosi gli uni sugli altri. Nell'urto contro la catena, le ossa delle zampe si spezzarono come fascine secche, mentre i corpi dei cavalli divennero un'unica massa, agitata e urlante, che tentava di rialzarsi. Gli uomini, rimasti intrappolati al di sotto, contribuivano al tumulto. Persino Tom, che aveva ideato quella trappola, fu turbato dal suo esito così violento e, istintivamente, voltò il cavallo per tornare indietro e assistere le vittime. Ma si fermò subito. Dorian uscì dalla parete del kraal, dietro la quale si era nascosto, per fermarsi alle sue spalle, e i due fratelli rimasero a guardare la scena, sbigottiti. Poi Keyser riuscì a rimettersi in piedi quasi sotto il muso dei loro cavalli. Il suo cavallo, che era stato il primo a cadere nella trappola, aveva investito in pieno la catena e, nella caduta, Keyser era stato scagliato via dalla sella come un sasso dalla fionda. Schiantandosi a terra e rotolando su se stesso, era riuscito, chissà come, a mantenere la presa sulla sciabola. Si raddrizzò, vacillando, e fissò incredulo la montagna di uomini e cavalli che si dibattevano. Poi lanciò un grido di rabbia e disperazione insieme, sollevando la sciabola e lanciandosi contro Tom. «Fosse solo per questo, Wilbur Smith
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avrò la vostra pelle e il vostro cuore!» ruggì. Con un semplice guizzo della spada, Tom gli fece volare di mano la sciabola, che si conficcò nel terreno a dieci passi di distanza. «Non fate l'idiota. Per oggi abbiamo già fatto abbastanza danni. Occupatevi dei vostri uomini.» Poi si rivolse a Dorian. «Forza, Dorry, andiamo.» Voltarono il cavallo, e Keyser, ancora stordito, si diresse barcollando verso la sciabola per recuperarla e, mentre i due si allontanavano, gridò loro dietro: «Non finisce qui, Tom Courteney. Vi darò la caccia con tutta la potenza e l'autorità della VOC. Non sfuggirete alla mia collera!» Né Tom né Dorian si voltarono a guardarlo, e lui continuò a rincorrerli, gridando minacce, sinché non furono troppo lontani e lui rimase senza fiato. Allora si fermò, ansimante, e scagliò nella loro direzione la sciabola, gridando: «Vi darò la caccia e vi sniderò per distruggervi alla radice, voi e tutta la vostra discendenza!» Poi, proprio mentre Tom e Dorian scomparivano nella notte, Keyser lanciò la sua ultima provocazione. «Koots ha già catturato il bastardo che avete avuto dalla vostra puttana. Mi sta riportando la testa di Jim Courteney e quella della sua forzata, conservate in un barilotto di brandy.» Tom si fermò di colpo. «Sì, Koots lo ha catturato», strillò Keyser, lanciando una risata selvaggia. «Mente, fratello. Lo dice per provocarti.» Dorian posò una mano sul braccio di Tom. «Come può sapere quello che è successo laggiù?» «Certo, hai ragione», mormorò Tom. «Jim se l'è cavata.» «Dobbiamo tornare dalle donne e portarle in salvo a bordo», insistette Dorian. Proseguirono, lasciandosi dietro le minacce di Keyser, che si persero in lontananza. Col fiato corto, il colonnello tornò verso quel groviglio di uomini e animali. «Trovatemi un cavallo», gridò. «Mi serve un cavallo.» La cavalcatura di Keyser, come la maggior parte delle altre, si era spezzata le zampe nell'urto contro la catena, ma alcuni animali, quelli che si trovavano nelle ultime file della carica, erano riusciti a reggersi in piedi, anche se tremavano, impauriti. Keyser passò di corsa dall'uno all'altro, controllando le zampe, e scelse quello che gli sembrava più forte. Si issò in sella, chiamando a raccolta gli uomini che erano ancora in grado di camminare. «Avanti, trovatevi un cavallo e seguitemi. Possiamo ancora raggiungerli sulla spiaggia.» Wilbur Smith
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Tom e Dorian trovarono l'ultimo carro che scendeva l'ultimo pendio verso le dune. Le donne camminavano di fianco a esso e Sarah aveva riacceso la lanterna e la teneva alta. «Vuoi sbrigarti, donna?» Tom era così agitato che apostrofò Sarah gridando, mentre era ancora a una certa distanza da lei. «È quello che stiamo facendo», ribatté lei. «E il tuo rude linguaggio da marinaio non servirà a farci andare più in fretta.» «Per il momento abbiamo rallentato la marcia di Keyser, ma ben presto ci sarà di nuovo alle calcagna.» Tom si rese conto che rivolgersi alla moglie in modo così brusco era stato un errore e, nonostante l'agitazione, tentò di raddolcirsi. «Siamo in vista della spiaggia, e tutti i tuoi averi sono al sicuro», disse, puntando il dito in avanti. «Ora vuoi permettermi di portarti a bordo della barca, dolcezza?» Sarah lo guardò e, sebbene il riverbero della sua lanterna fosse fioco, notò la tensione e l'ansia sul suo viso. Allora anche lei si raddolcì. «Prendimi pure in sella, Tom.» Alzò le braccia, come una bambina che si rivolge al padre. Quando la sollevò e la sistemò dietro di sé, gli si strinse contro, sussurrando tra i riccioli folti che gli scendevano sulla nuca: «Sei il marito migliore che Dio abbia messo su questa terra, e io sono la più fortunata delle mogli». Dorian prese in sella Yasmini e seguì Tom lungo la discesa, verso il punto in cui Mansur li aspettava col battello. Caricarono a bordo le due donne, mentre il carro scendeva faticosamente il pendio delle dune. Il carro era affondato fino all'assale nella sabbia umida, ma questo facilitò il trasferimento a bordo degli ultimi bagagli. Una volta vuotato il carro, i buoi furono in grado di trasportarlo via. Intanto Tom e Dorian continuavano a tenere d'occhio il buio in cima alle dune, temendo che le minacce di Keyser si realizzassero; infine anche il clavicembalo venne assicurato a bordo e coperto con una tela cerata per proteggerlo dagli spruzzi. Mansur e i marinai che spingevano la barca erano ancora immersi nell'acqua fino alla cintola, quando, dalla riva, partì un grido collerico, accompagnato dal lampo e dallo schiocco improvviso di un colpo di carabina. Il proiettile si conficcò nello specchio di poppa della barca, e Mansur saltò a bordo. Si udì un altro sparo, e il proiettile colpì di nuovo lo scafo. Tom spinse Wilbur Smith
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le donne sul fondo della barca, immerse in qualche dito d'acqua della sentina ma protette dalla montagna del carico ammonticchiato in gran fretta. «Ora vi prego di tenere la testa bassa», disse poi. «In seguito, se vorrete, potremo discutere dei meriti di questo suggerimento. Comunque vi assicuro che si tratta di proiettili veri.» Voltandosi, riuscì a distinguere appena il profilo caratteristico di Keyser sullo sfondo della sabbia chiara: le sue grida stentoree, però, gli arrivavano chiaramente. «Non mi sfuggirai, Tom Courteney. Ti farò impiccare e squartare sullo stesso patibolo di quel maledetto pirata di tuo nonno. Tutti i porti olandesi di questo mondo saranno chiusi per te.» «Non badare a quello che dice», raccomandò Tom a Sarah, temendo che Keyser ripetesse la macabra descrizione della sorte di Jim, tormentandola oltre la sua capacità di sopportazione. «È ferito nell'orgoglio e dice soltanto bugie mostruose. Vieni, offriamogli una bella canzone di addio.» Per sopraffare le minacce di Keyser, si lanciò in un'esecuzione tanto entusiasta quanto stonata di Spanish Ladies, e gli altri si unirono al coro. La voce di Dorian era splendida come sempre e Mansur aveva ereditato il suo timbro squillante di tenore. La voce da soprano di Yasmini era addolcita da una pronuncia leggermente blesa. Sarah si addossò alla mole rassicurante di Tom per cantare con lui: Arrivederci e adieu, belle dame di Spagna, arrivederci e adieu, o dame spagnole, perché salpar dobbiamo verso la Gran Bretagna, ma speriamo di non lasciarvi sole. Che ognuno scelga la rotta migliore per entrare nel porto del suo amore, che ognuno possa trincare a sazietà e scacciare la noia a volontà. Yasmini scoppiò a ridere, battendo le mani. «Questa è la prima canzone scollacciata che Dorry mi ha insegnato. Ricordi la prima volta che te l'ho cantata, Tom?» «Puoi giurarci, ragazza mia. Non la scorderò mai», rispose lui, ridacchiando, mentre dirigeva verso la Maid of York. «È stato il giorno che mi hai restituito Dorry, dopo tanti anni di lontananza.» Arrampicandosi a bordo della Maid of York, Tom cominciò a impartire Wilbur Smith
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ordini al comandante. «Comandante Kumrah, in nome di Dio, issiamo a bordo quest'ultimo carico il più in fretta possibile.» Poi tornò verso la battagliola e si rivolse a Dorian, che era ancora a bordo del battello, gridandogli dall'alto: «Non appena sarai a bordo della Gift of Allah, spegni tutte le luci e leva l'ancora, perché dobbiamo arrivare al largo prima dell'alba. Non voglio che Keyser e le vedette olandesi al castello individuino la direzione che prenderemo. Lasciamogli indovinare se siamo diretti a est oppure a ovest, o magari addirittura al Polo Sud.» L'ultimo carico issato a bordo fu il clavicembalo di Sarah. Mentre penzolava lungo la murata, Tom gridò agli uomini che lavoravano al cavo del paranco: «Una ghinea per chi lascia cadere quel dannato aggeggio in fondo al mare». Sarah gli affibbiò una gomitata nelle costole, e gli uomini dell'equipaggio si fermarono, scambiandosi un'occhiata. Non sapevano mai che cosa pensare dell'umorismo di Tom. Allora lui cinse con le braccia Sarah e aggiunse: «Be', certo, una volta che avrete in mano la vostra ghinea, per rispetto ai sentimenti di mia moglie sarò costretto a farvi tuffare in mare per ripescarlo». Seppure in modo un po' titubante, gli uomini si misero a ridere. Quando il clavicembalo arrivò a bordo, Tom tornò verso la murata. «Adesso va' pure, fratello», gridò, rivolto a Dorian. L'equipaggio del battello da carico si allontanò, e Dorian ricambiò il saluto. «Se al buio dovessimo restare separati, il punto d'incontro è fissato al largo del capo Hangklip, come sempre?» «Come sempre, Dorry.» Le due navi salparono a distanza di pochi minuti e, per la prima ora, riuscirono a mantenere la formazione, poi il vento aumentò d'intensità fino a raggiungere quasi la violenza di un fortunale e l'ultima scheggia di luna scomparve dietro le nubi. Nell'oscurità che precedeva l'alba, persero contatto. Quando l'alba spuntò, la Maid of York si ritrovò sola, col vento di sudest che soffiava tra il sartiame. La terra era una chiazza azzurrina, bassa all'orizzonte settentrionale, quasi oscurato dai frangenti e dal mare mosso. «Voglio proprio vedere se gli olandesi riescono a trovarci, con questo tempo», disse Tom rivolto a Kumrah, mentre le falde del mantello di tela cerata gli svolazzavano intorno alle gambe. La nave s'ingavonò sotto la spinta della tempesta. «Prendiamo il largo e puntiamo verso capo Wilbur Smith
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Hangklip», ordinò poi. Navigando di bolina contro la tempesta, il giorno dopo lasciarono il Capo, scoprendo che la Gift of Allah li aveva preceduti, battendoli sul tempo. Rientrando in formazione, puntarono verso est per doppiare capo Agulhas, l'estremità meridionale dell'Africa. Il vento soffiava costante da est. Trascorsero parecchie giornate logoranti, bordeggiando per tenersi alla larga dalle secche insidiose che stavano a guardia del capo Agulhas e per inserirsi nelle rotte verso est. Infine riuscirono a doppiare il capo e virare a nord lungo quella costa frastagliata e inospitale. Infine, tre settimane dopo aver lasciato High Weald virarono tra i promontori di roccia grigia che proteggevano la grande laguna dell'Elefante e gettarono l'ancora in quelle acque, che per fortuna erano tranquille, limpide come un buon gin olandese e brulicanti di banchi di pesci. «È qui che mio nonno Frankie Courteney ha sostenuto l'ultima battaglia contro gli olandesi. Qui lo hanno fatto prigioniero, portandolo poi al capo di Buona Speranza per farlo morire sul patibolo», disse a Sarah. «Giuro su Dio, i miei antenati erano davvero dei demoni», aggiunse con orgoglio. Sarah gli sorrise. «Vorresti forse dire che, in confronto a loro, tu saresti un chierichetto?» Senza aspettare risposta, la donna si schermò gli occhi per osservare il pendio della collina che s'innalzava sopra la laguna. «Sarebbe quella la tua famosa pietra della posta?» A metà del pendio, si notava infatti un vistoso masso grigio, che aveva più o meno le dimensioni di un covone di fieno, sul quale era stata dipinta con la vernice rossa una grossa P piuttosto sghemba, in modo che fosse visibile a tutte le navi ancorate nella laguna. «Oh, portami subito a terra», disse Sarah. «Sono certa che c'è una lettera di Jim.» Benché fosse quasi certo che le sue speranze sarebbero andate deluse, Tom la condusse sulla spiaggia a bordo della lancia. Sarah fu la prima a sbarcare, con l'acqua che le arrivava all'altezza delle cosce, inzuppando il vestito. Tom stentò persino a starle dietro, quando sollevò fino alle ginocchia le gonne fradice per risalire il pendio. «Guarda!» esclamò lei. «Qualcuno ha sistemato in cima un monticello di sassi. È un segno sicuro che ci aspetta una lettera.» Sotto la pietra che fungeva da ufficio postale c'era uno spazio cavo, e l'accesso era bloccato da pietre più piccole. Sarah le scostò, trovando poco oltre un plico voluminoso. Era cucito in un involucro di pesante tela cerata Wilbur Smith
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e sigillato con la pece. «Lo sapevo! Oh, sì, lo sapevo», disse, estraendo il plico dal nascondiglio. Ma, quando lesse la scritta, fece una smorfia e, senza aggiungere una sola parola, lo consegnò a Tom, avviandosi lungo la discesa. Tom lesse il messaggio scritto sul plico in caratteri rozzi, da una mano poco allenata, con parecchi errori di ortografia: Salve, anima degnia e sinciera che troverai questa missiva. Portala con te nella città di Londra e consegniala al mr Nicolas Whatt, al numero 51 di Wacker Street, viccino all'East Hindia Dok. Ti darà un bicierino di ricompensa. Non aprire questo pachetto! Non venire meno alla mia fidducia! Se lo farrai, che ti marciscano le palle e ti si cechino gli occhi! Che non ti si drizzi più l'uccelo, maledetto imbrolione dimenticato da Dio! COM. NOAH CALDER, a bordo del Brig Larkspur diretto a Bombay. 21 magio dell'anno del Signore Nostro Gessù 1731 «Parole ben scelte, e sentimenti espressi con garbo», osservò Tom con un sorriso, riponendo il plico nella cavità e coprendolo con le pietre. «Non sono diretto verso la città di Londra, quindi non rischierò le terribili conseguenze della mancata consegna. Questo messaggio dovrà attendere un'anima più audace, che salpi nella direzione giusta.» Scendendo dalla collina, a metà strada dalla spiaggia trovò Sarah, seduta su una roccia con aria avvilita. Lui le si sedette accanto e cercò di calmare i suoi singhiozzi, ma lei si scostò. Infine, tuttavia, Tom riuscì a prendere il viso di lei tra le grosse mani e la costrinse a guardarlo. «No, no, amore mio, non devi prenderla così. Il nostro Jim è al sicuro», le mormorò. «Oh, Tom, ero così sicura che qui ci fosse una sua lettera per noi... E invece c'è il messaggio di un marinaio ignorante.» «Era molto improbabile che arrivasse fin qui. Certamente si sarà diretto più a nord. Credo che fosse deciso a raggiungere la baia della Natività. Lo troveremo là, insieme con la piccola Louisa. Dammi retta, al nostro Jim non può capitare niente di male. È un Courteney, alto dieci piedi e fatto di biglie di ghisa rivestite di pelle di elefante.» Wilbur Smith
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Lei scoppiò a ridere tra le lacrime. «Tom, sei un buffone. Dovresti calcare le scene.» «Neppure mastro Garrick potrebbe permettersi d'ingaggiarmi.» Scoppiò a ridere insieme con lei. «E ora vieni, dolcezza. Non serve a niente struggersi in lacrime, e abbiamo parecchio da fare, se vogliamo dormire a terra, stanotte.» Ridiscesero sulla spiaggia, e scoprirono che Dorian e il gruppo della Gift of Allah erano già scesi a terra. Mansur stava trasferendo sulla lancia le botti, con l'intento di riempirle con l'acqua del limpido ruscello che si gettava nella laguna. Dorian e i suoi uomini erano intenti a costruire dei ripari ai margini della foresta, intrecciando strutture di ramoscelli teneri che venivano poi rivestite di canne nuove, appena tagliate in riva al corso d'acqua. Nell'aria aleggiava la fragranza dolce della linfa. Dopo le settimane estenuanti trascorse in mare col maltempo, le donne avevano bisogno di un alloggio confortevole all'asciutto dove rimettersi in forze. I fratelli non visitavano la laguna dall'epoca della loro ultima spedizione commerciale compiuta lungo la costa, e le capanne che avevano costruito allora erano state distrutte col fuoco al momento della partenza, altrimenti in breve tempo sarebbero state infestate da scorpioni, calabroni e altri insetti volanti o creature striscianti tutt'altro che gradevoli. Ci fu un momento di allarme quando udirono una serie di colpi di moschetto risuonare dall'estremità superiore della laguna, ma Dorian li rassicurò subito. «Ho chiesto a Mansur di procurarci carne fresca. Deve aver trovato della selvaggina.» Quando Mansur tornò, con le botti piene d'acqua potabile, portava con sé anche la carcassa di un giovane bufalo. Nonostante la tenera età, era grande quanto un bue, e la carne, una volta salata e affumicata, li avrebbe sfamati per una settimana. Poi, dall'estremità del canale, tornò anche la lancia su cui Tom aveva mandato a pesca cinque uomini dell'equipaggio: i mastelli erano pieni di pesci argentei scintillanti, che ancora fremevano e si dibattevano. Sarah e Yasmini si misero subito al lavoro insieme coi servitori per preparare un banchetto adeguato a festeggiare l'arrivo nella laguna. Cenarono sotto le stelle, in mezzo alle scintille che, sprizzando dal fuoco da campo, s'innalzavano verso il cielo come zampilli di una fontana. Dopo aver mangiato a sazietà, Tom mandò a chiamare Batula e Kumrah. Sbarcando dalle navi all'ancora, i due comandanti presero posto nel Wilbur Smith
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cerchio intorno al fuoco, seduti a gambe incrociate sui tappeti da preghiera. «Vi chiedo scusa per la mancanza di rispetto», esordì Tom, salutandoli. «Avremmo dovuto sentire prima le notizie che voi portate, ma, data la necessità di salpare così in fretta dalla colonia di Buona Speranza e la tempesta che ci ha investiti in seguito, non ne abbiamo avuto l'opportunità.» «È come dite, effendi», rispose Batula, che era il più anziano dei due. «Noi siamo i vostri uomini, e non c'è mai stata nessuna mancanza di rispetto.» I servitori portarono il caffè appena fatto nei bricchi di ottone, mentre Dorian e gli arabi accendevano la pipa hookah e l'acqua nei recipienti cominciava a gorgogliare a ogni boccata del profumato tabacco turco che aspiravano. Anzitutto discussero del commercio e degli articoli che i comandanti avevano raccolto durante il loro primo viaggio lungo quella costa. Essendo arabi, potevano spingersi là dove nessuna nave cristiana aveva il permesso di andare. Avevano veleggiato persino nello stretto di Hormuz, spingendosi nel mar Rosso fino a Medina, «la luminosa». Al ritorno si erano divisi. Kumrah, a bordo della Maid, si era diretto a est per visitare i porti dell'impero dei moghul, dove aveva trattato i diamanti provenienti dalle miniere di Kollur e acquistato tappeti di seta nei suk di Bombay e Delhi; Batula aveva invece seguito la costa di Coromandel, caricando la nave di tè e spezie. Le due navi si erano ricongiunte nel porto di Trincomalee, a Ceylon, dove avevano caricato a bordo chiodi di garofano e zafferano, caffè in grani e pacchetti scelti di zaffiri a stella di un blu intenso. Poi, insieme, erano tornati al capo di Buona Speranza, per gettare l'ancora al largo della spiaggia di High Weald. Batula era in grado di recitare a memoria le quantità di ogni articolo acquistato, il loro prezzo e la situazione generale dei mercati visitati. Tom e Dorian interrogarono entrambi con attenzione, volendo sapere ogni cosa fin nei minimi dettagli, mentre Mansur annotava tutto nel diario della Compagnia. Quelle informazioni erano essenziali per la società: ogni cambiamento nella situazione dei mercati e nella fornitura di merci poteva significare un aumento dei profitti oppure una terribile perdita. «I guadagni maggiori sono ancora quelli della tratta di schiavi», concluse Kumrah. A quella frase, nessuno dei due comandanti osò Wilbur Smith
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guardare negli occhi Tom. Conoscevano le sue opinioni su quel commercio, che definiva «un abominio di fronte a Dio e all'uomo». E infatti, com'era prevedibile, Tom quasi aggredì Kumrah, dicendo: «L'unico tipo di carne umana che mai venderò saranno le tue natiche pelose, al primo uomo che pagherà le cinque rupie che chiederò». «Effendi!» esclamò Kumrah, con un'espressione che era un capolavoro di arte recitativa, un misto di contrizione e sensibilità ferita. «Preferirei radermi la barba e banchettare con carne di porco piuttosto che acquistare anche un unico essere umano sul palco dell'asta degli schiavi.» Tom stava per rammentargli che, prima di entrare al servizio dei fratelli Courteney, la tratta degli schiavi era stata la sua attività principale, quando intervenne Dorian, per fare da paciere. «Sono ansioso di avere notizie della mia patria di un tempo. Ditemi quello che avete appreso su Oman e Muscat, su Lamu e Zanzibar.» «Sapevamo che ce lo avreste chiesto, quindi abbiamo lasciato queste notizie per ultime. Quelle terre sono state oggetto di grandi eventi, alSalil.» Si rivolsero con vivacità a Dorian, grati per aver stornato l'ira di Tom. «Valenti comandanti, diteci tutto quello che avete appreso», li incitò Yasmini. Fino a quel momento, era rimasta seduta alle spalle del marito, in silenzio, da brava moglie musulmana. Adesso, però, non riuscì più a trattenersi, dato che stavano per parlare della sua patria e della sua famiglia. Sebbene lei e Dorian fossero fuggiti dalla costa di Zanzibar quasi vent'anni prima, i suoi pensieri tornavano spesso laggiù e il suo cuore agognava gli anni perduti dell'infanzia. Era pur vero che non tutti i suoi ricordi erano lieti... C'erano stati momenti di solitudine, nell'isolamento dello zenana - così si chiamavano gli appartamenti riservati alle donne -, anche se lei era nata principessa, figlia del sultano Abd Muhammad al-Malik, califfo di Muscat. Suo padre aveva più di cinquanta mogli, e mostrava interesse soltanto per i figli maschi; non sapeva neppure quante figlie avesse. Yasmini si rendeva conto che lui era a malapena al corrente della sua esistenza; non ricordava che le avesse mai rivolto la parola, e di certo non le aveva mai dato una carezza o aveva mai posato su di lei uno sguardo gentile. Lo aveva visto soltanto in occasione di cerimonie ufficiali, oppure quando andava a visitare le donne dello zenana. E, anche in quelle circostanze, lo aveva osservato da lontano, tremando, coprendosi il viso per il terrore di fronte Wilbur Smith
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alla sua magnificenza e alla sua presenza divina. Nonostante tutto ciò, aveva osservato il lutto e digiunato per i quaranta giorni e le quaranta notti decretate dal Profeta, allorché, nel territorio inesplorato dell'Africa dov'era fuggita con Dorian, le era giunta la notizia della sua morte. Sua madre era morta quando lei era ancora piccola, e Yasmini non riusciva a ricordare nulla di lei. Crescendo, aveva appreso di aver ereditato dalla madre quella sorprendente ciocca d'argento che spartiva le sue trecce nere come la notte. Yasmini aveva trascorso tutta l'infanzia nello zenana, sull'isola di Lamu, e l'unico amore materno che aveva conosciuto era quello generoso di Tahi, la vecchia schiava che aveva cresciuto lei e Dorian. Da principio, Dorian, figlio adottivo di al-Malik, era vissuto con lei nello zenana, fin quando non aveva raggiunto la pubertà e aveva dovuto affrontare la prova della circoncisione. Da buon fratello maggiore, sia pure adottivo, l'aveva spesso protetta, talvolta con pugni e calci, dalla prepotenza degli altri fratelli di sangue, soprattutto da Zayn al-Din. In tal modo, Dorian si era fatto un nemico mortale, perché il rancore di Zayn alDin nei loro confronti, nato allora, si era rivelato indelebile. Yasmini ricordava ancora nei minimi dettagli il terribile scontro tra i due ragazzi. Tanto Dorian quanto Zayn erano a pochi mesi dalla pubertà, e già si profilava al loro orizzonte la partenza dallo zenana e l'ingresso nel servizio militare. Quel giorno, Yasmini giocava da sola sulla terrazza della tomba di un sant'uomo dell'antichità, in fondo ai giardini dello zenana. Era uno dei suoi luoghi prediletti, un posto segreto in cui poteva sfuggire alla prepotenza dei coetanei e trovare conforto nei sogni a occhi aperti e nei giochi di fantasia. Con lei c'era Jinni, una scimmietta che le faceva compagnia. Era là che l'avevano sorpresa Zayn al-Din e Abubaker, entrambi suoi fratellastri. Zayn, grassoccio, astuto e crudele, si mostrava coraggioso soprattutto quando aveva accanto uno dei suoi lacchè. Strappando la scimmietta dalle braccia di Yasmini, l'aveva gettata nella cisterna a cielo aperto che conteneva l'acqua piovana e, per quanto Yasmini strillasse a perdifiato e gli saltasse addosso, prendendolo a pugni sulla testa e cercando di graffiarlo, lui l'aveva ignorata, tutto concentrato nell'intento di annegare Jinni, spingendole la testa sott'acqua ogni volta che risaliva a galla. Richiamato dalle urla di Yasmini, Dorian era arrivato di corsa dalla scala del giardino e, intuendo all'istante il dramma che si stava consumando, si Wilbur Smith
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era lanciato contro i due ragazzi più grandi. Prima che Dorian fosse catturato dagli arabi, il suo fratello maggiore, Tom, lo aveva allenato all'arte del pugilato. Zayn e Abubaker non si erano mai trovati di fronte a un avversario che reagisse coi pugni serrati, tempestandoli di colpi. Di fronte a quel terribile attacco, Abubaker si era dato alla fuga e il naso di Zayn era esploso al primo colpo, sprizzando un getto scarlatto, mentre il secondo pugno lo aveva fatto rotolare lungo la scala ripida. Quand'era arrivato in fondo, uno delle ossa del piede sinistro si era spezzato, e la frattura non si era saldata bene; avrebbe zoppicato per tutta la vita. Negli anni successivi, lasciandosi alle spalle l'infanzia e lo zenana, Dorian era diventato a sua volta un principe e un famoso guerriero. Yasmini, invece, era dovuta rimanere segregata, alla mercé di Kush, il capo degli eunuchi. Benché fossero passati molti anni, la mostruosa crudeltà di quell'individuo era ancora impressa in modo vivido nella sua mente. Yasmini era diventata una fanciulla adorabile, mentre Dorian combatteva contro i nemici del padre adottivo, nei deserti dell'Arabia. Alla fine, coperto di gloria, era tornato a Lamu, ma probabilmente non si sarebbe ricordato della sorellina adottiva se Tahi, la vecchia nutrice, non fosse andata da lui a palazzo per rammentargli che Yasmini languiva ancora nello zenana. Con l'aiuto di Tahi, che faceva da intermediaria, avevano intrecciato una tresca pericolosa. Diventando amanti, infatti, commettevano un duplice peccato: neppure il prestigio di Dorian sarebbe stato in grado di proteggerli dalle terribili conseguenze cui rischiavano di andare incontro. Erano fratello e sorella, sia pure per adozione, e, agli occhi di Allah e del califfo, oltre che per il consiglio dei mullah, il loro legame era nel contempo fornicazione e incesto. Kush aveva scoperto il loro segreto, progettando per Yasmini una punizione così crudele che lei rabbrividiva ancora al solo pensiero. Dorian era intervenuto per salvarla, uccidendo Kush e dandogli sepoltura nella tomba che l'eunuco aveva scavato per Yasmini. Poi Dorian l'aveva travestita da ragazzo per farla uscire di soppiatto dall'harem, e insieme erano fuggiti da Lamu. Molti anni più tardi, dopo che suo padre Abd Muhammad al-Malik era morto avvelenato, Zayn, ancora claudicante per la ferita che gli era stata inflitta da Dorian, era asceso al Trono dell'Elefante, che simboleggiava il potere sul sultanato di Oman. Uno dei suoi primi atti, non appena diventato Wilbur Smith
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califfo, era stato incaricare Abubaker di rintracciare e catturare Dorian e Yasmini. Quando Abubaker aveva raggiunto i due amanti, si era scatenato un combattimento terribile, nel corso del quale Dorian aveva ucciso Abubaker. Yasmini e Dorian erano quindi sfuggiti ancora una volta all'ira vendicativa di Zayn, ritrovando Tom. Tuttavia Zayn al-Din sedeva ancora sul potente Trono dell'Elefante ed era ancora califfo di Oman; e loro sapevano di non essere del tutto al sicuro dal suo odio terribile. Seduta vicino al fuoco su quella spiaggia deserta e selvaggia, Yasmini si protese per sfiorare Dorian. Fu come se lui le leggesse nel pensiero, perché le prese subito la mano e la strinse con forza. Lei sentì la determinazione e il coraggio fluire da lui nelle sue vene, come l'influenza mite del kusi, uno degli alisei dell'oceano Indiano. «Raccontate!» ordinò Dorian ai comandanti. «Ditemi quali notizie importanti portate da Muscat. Avete nuove del califfo Zayn al-Din?» «Le notizie che portiamo riguardano tutte Zayn al-Din. Allah ci è testimone che non è più califfo di Muscat.» «Che cosa dici?» esclamò Dorian, raddrizzandosi. «Zayn è morto, finalmente?» «No, mio principe. Uno shaitan, un demonio come lui, è difficile da uccidere. Zayn al-Din vive ancora.» «E dov'è, allora? Dobbiamo sapere tutto di questa faccenda.» «Perdonatemi, effendi.» Battila, facendo un gesto di profondo rispetto, si sfiorò le labbra e il cuore. «Tra noi c'è un uomo che conosce tutto questo meglio di me, perché proviene dal petto di Zayn al-Din, ed era uno dei suoi fidi seguaci e confidenti.» «Allora non può essere amico mio. Il suo padrone ha tentato in varie occasioni di uccidere me e mia moglie, ed è stato lui a mandarci in esilio. È un mio mortale nemico, e si è impegnato con un giuramento in una faida di sangue contro di noi.» «Tutto questo lo so bene», replicò Batula. «Sono con voi fin dal giorno felice in cui l'uomo che era allora califfo, il vostro venerabile padre adottivo al-Malik, mi ha nominato vostro portatore di lancia. Dimenticate forse che ero al vostro fianco quando avete catturato Zayn al-Din in occasione della battaglia di Muscat e lo avete legato dietro il vostro cammello, trascinandolo come un traditore al cospetto di al-Malik, perché ne subisse la giusta collera?» «Non lo dimenticherò mai, come non dimenticherò la tua lealtà e i Wilbur Smith
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servigi che mi hai prestato in tutti questi anni.» L'espressione di Dorian divenne mesta. «Peccato che la collera di mio padre sia durata così poco, e la sua giustizia sia stata intenerita dalla compassione. Infatti è stato lui a graziare Zayn al-Din e ad accoglierlo di nuovo nel suo seno.» «Vostro padre è morto proprio a causa della sua compassione!» proruppe Batula, con un'ira che eguagliava quella di Dorian. «È stata la mano effeminata di Zayn ad accostargli alle labbra la coppa col veleno.» «E sono state le natiche grasse di Zayn a posarsi sul Trono dell'Elefante non appena mio padre se n'è andato.» I bei lineamenti del viso di Dorian si contrassero in un'espressione feroce. «Come mi puoi dunque chiedere di accogliere nel mio accampamento un protetto di quel mostro?» «No, altezza, ho detto che l'uomo era un seguace e un confidente di Zayn al-Din. Ebbene, non lo è più. Come tutti coloro che lo conoscono bene, è rimasto profondamente disgustato dalla sua mostruosa crudeltà. Ha assistito, impotente, mentre Zayn riduceva a brandelli il cuore della nazione. Ha dovuto stare a guardare, mentre Zayn nutriva i suoi amati squali con le carni di uomini nobili e onesti, finché quegli animali non erano quasi troppo gonfi per poter nuotare. Ha tentato di protestare quando Zayn ha venduto i suoi diritti di nascita alla Sublime Porta, ai tiranni turchi di Istanbul. Alla fine è diventato uno dei capi della congiura che ha detronizzato Zayn, costringendolo a fuggire da Muscat.» «Zayn è stato detronizzato?» Dorian fissò Batula con stupore. «È stato califfo per vent'anni, e credevo che sarebbe rimasto al potere finché non fosse morto di vecchiaia.» «Alcuni uomini malvagi possiedono non soltanto la natura selvaggia del lupo, ma anche l'istinto della sopravvivenza. Quest'uomo, Kadem al-Jurf, vi racconterà il resto della storia, se vorrete ascoltarlo.» Dorian guardò Tom, che aveva seguito ogni parola con notevole interesse. «Tu che ne pensi, fratello?» «Sentiamo la storia di quest'uomo», rispose Tom. Kadem al-Jurf doveva essere rimasto in attesa della sua convocazione, perché giunse pochi minuti dopo dall'accampamento dell'equipaggio, ai margini della foresta. Tutti si resero conto di averlo visto spesso durante il viaggio tempestoso dal Capo. Pur senza sapere il suo nome, avevano compreso che era il nuovo scrivano e cambusiere assunto da Batula. «Kadem al-Jurf?» disse Tom, accogliendolo. «Sei ospite nel mio accampamento, sotto la mia protezione.» Wilbur Smith
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«La vostra benevolenza rischiara la mia vita come il sorgere del sole, principe al-Salil ibn al-Malik.» Kadem si prostrò davanti a Dorian. «Possano la pace di Allah e l'amore del suo vero Profeta seguirvi in tutti i giorni della vostra vita lunga e illustre.» «Sono molti anni che nessuno si rivolge a me con quel titolo.» Dorian annuì, compiaciuto. «Alzati, Kadem, e prendi posto nel nostro consesso.» Kadem scelse un posto vicino a Batula, che era il suo garante. I servitori gli portarono il caffè in una coppa d'argento e Batula gli passò il bocchino d'avorio della sua pipa. Tanto Dorian quanto Tom studiarono con attenzione il nuovo venuto, mentre lui godeva di quelle manifestazioni di ospitalità e di benevolenza. Kadem al-Jurf era giovane: doveva avere pochi anni più di Mansur, e aveva un volto nobile, che ricordava a Dorian quello del padre adottivo. Naturalmente non era impossibile che Kadem fosse uno dei bastardi reali. Il califfo era stato un uomo prodigo del suo seme. Arava e seminava in tutti i terreni che incontravano il suo favore. Dorian abbozzò un sorriso prima di liquidare quelle riflessioni, osservando ancora una volta Kadem. Aveva la pelle del colore del tek ben levigato. La fronte era alta e ampia, e gli occhi limpidi, scuri e penetranti. Ricambiò con calma l'esame di Dorian e, nonostante le sue proteste di lealtà e rispetto, lui ebbe l'impressione di scorgere nel suo sguardo lo scintillio sconcertante dello zelota. Questo è un uomo che vive unicamente in base ai dettami di Allab. Ecco un uomo che attribuisce scarso valore alla legge e all'opinione degli uomini, pensò. Sapeva bene quanto potessero rivelarsi pericolosi uomini del genere. Guardò le mani di Kadem. Sulle dita e sul palmo della mano destra c'erano dei calli rivelatori. Vi riconobbe le stimmate del guerriero, provocate dall'attrito con la corda dell'arco e l'elsa della spada. Fece poi correre lo sguardo sulle spalle e sulle braccia, notando lo sviluppo dei muscoli e dei tendini, risultato di lunghe ore di pratica impugnando l'arco e la spada. Dorian cercò di non lasciar trasparire quei pensieri e chiese invece: «Non eri anche tu al servizio del califfo Zayn al-Din?» «Sin dall'infanzia. Ero orfano, e il califfo Zayn al-Din mi ha preso sotto la sua protezione.» «Gli hai prestato giuramento di lealtà», insistette Dorian e, per la prima volta, lo sguardo di Kadem fremette leggermente. L'uomo non replicò. «Eppure hai rinnegato questo giuramento», lo incalzò allora Dorian. Wilbur Smith
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«Batula mi dice che non sei più l'uomo del califfo. E vero?» «Altezza, ho prestato quel giuramento quasi dodici anni fa, il giorno della mia circoncisione. A quei tempi ero uomo soltanto di nome; in realtà ero solo un bambino, estraneo alla verità.» «E ora posso vedere che sei diventato uomo», continuò Dorian, valutandolo. Kadem sarebbe dovuto essere uno scriba e un uomo di lettere, però non ne aveva l'aria. In lui c'era una fierezza latente, simile a quella di un falco. Dorian, incuriosito, continuò: «E questo, Kadem al-Jurf, ti libera da un giuramento di fedeltà prestato col sangue?» «Mio signore, credo che la fedeltà sia un pugnale a doppio taglio. Chi l'accetta ha una responsabilità verso chi la offre. Se trascura quel dovere e quella responsabilità, il suo debito verrà cancellato.» «Questa è un'affermazione tortuosa, Kadem, e la trovo troppo contorta per scandagliarla. Per me un giuramento è un giuramento.» «Mio signore, mi condannate?» La voce di Kadem era lieve come la seta, ma i suoi occhi erano gelidi come l'ossidiana. «No, Kadem al-Jurf. Lascio il giudizio e la condanna a Dio.» «Bismillahi!» intonò Kadem, mentre Batula e Kumrah si riscuotevano. «Non esiste altro Dio all'infuori di Allah», sentenziò Batula. «La saggezza di Dio supera ogni comprensione», disse Kumrah. Kadem bisbigliò: «Tuttavia so che Zayn al-Din è vostro nemico di sangue, ed è per questo che mi rivolgo a voi, al-Salil». «Sì, Zayn è mio fratello adottivo e mio nemico. Molti anni fa, ha giurato di uccidermi e più di una volta, da allora, ho sentito la sua influenza malevola sfiorare la mia vita», ammise Dorian. «Ho sentito dire ai suoi cortigiani che deve a voi la menomazione al piede che lo costringe a zoppicare», continuò Kadem. «Mi deve ben altro», replicò Dorian con un sorriso. «Ho avuto il grande piacere di passargli una corda intorno al collo e di trascinarlo davanti a nostro padre perché affrontasse l'ira del califfo.» «I posteri e Zayn al-Din ricordano bene questa vostra impresa», confermò Kadem con un cenno. «Questo è uno dei motivi per cui abbiamo deciso di venire da voi.» «Prima parlavi al singolare. Come mai ora dici 'abbiamo'?» «Ci sono altri che hanno abiurato il giuramento di fedeltà nei confronti di Zayn al-Din. Ci rivolgiamo a voi perché siete l'ultimo della dinastia di Abd Muhammad al-Malik.» Wilbur Smith
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«Com'è possibile?» chiese Dorian, improvvisamente in collera. «Mio padre aveva innumerevoli mogli che gli hanno dato figli maschi, e questi a loro volta hanno avuto figli e nipoti. Il seme di mio padre era fruttuoso.» «Ora non più. Zayn ha colto tutti i frutti del padre. Il primo giorno del Ramadan è avvenuta una strage da fare vergogna al cospetto di Allah e lasciare sbigottito l'Islam. Duecento dei vostri fratelli e nipoti sono stati radunati dai falciatori di Zayn al-Din. Sono morti di veleno, l'arma del codardo, e sono morti d'acciaio, di corda e d'acqua. Il loro sangue ha inzuppato le sabbie del deserto e ha tinto di rosso il mare. In quel sacro mese, chiunque avesse qualche diritto di sangue sul Trono dell'Elefante di Muscat ha trovato la morte, e l'assassinio è stato reso diecimila volte più grave dal sacrilegio.» Dorian lo fissò con incredulità inorridita, e Yasmini soffocò i singhiozzi, perché tra i morti dovevano esserci i suoi fratelli e vari consanguinei. Dorian dovette accantonare il proprio dolore per consolarla. Accarezzò la stria d'argento che splendeva come un diadema tra i capelli corvini e le parlò sottovoce prima di rivolgersi di nuovo a Kadem. «Questa è una notizia dolorosa e amara», gli disse. «La mente stenta a concepire una simile malvagità.» «Mio signore, nemmeno noi siamo stati capaci di affrontarla in tutto il suo orrore. Ecco perché abbiamo ripudiato il voto di fedeltà per ribellarci contro Zayn al-Din.» «C'è stata una sollevazione?» Anche se Batula lo aveva preavvertito, Dorian voleva la conferma da Kadem, perché tutto quello gli sembrava inconcepibile. «Si è scatenata una battaglia che ha infuriato entro le mura della città per molti giorni. Zayn al-Din e i suoi sostenitori sono stati respinti nel maschio della fortezza. Eravamo convinti che sarebbero periti al suo interno, ma, ahimè, sotto le mura c'era un tunnel segreto che conduceva al vecchio porto. Zayn è riuscito a fuggire per quella via, e le sue navi lo hanno portato in salvo.» «E dove si è rifugiato?» chiese Dorian. «Ha fatto vela verso il luogo in cui è nato, sull'isola di Lamu. Con l'aiuto dei portoghesi e l'accordo con coloro che appoggiano la John Company, cioè la Compagnia Inglese delle Indie Orientali, a Zanzibar, si è impadronito della grande fortezza e di tutti gli insediamenti e le colonie di Oman lungo la costa della Febbre. Sotto la minaccia dei cannoni inglesi, le Wilbur Smith
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forze di cui dispone in quei possedimenti gli sono rimaste fedeli, resistendo ai nostri tentativi di rovesciare il tiranno.» «In nome di Allah, tu e il consiglio di Muscat dovete preparare una flotta per attaccare Zayn a Zanzibar e Lamu, non è così?» chiese Dorian. «Mio signore e principe, tra le nostre file infuria il dissenso. A capo della giunta non c'è un successore di sangue reale, quindi non godiamo del favore della nazione di Oman. Soprattutto le tribù del deserto esitano a schierarsi contro Zayn e a marciare sotto la nostra bandiera.» Intuendo quale poteva essere il punto d'arrivo del racconto di Kadem, l'espressione di Dorian divenne impenetrabile e distante. «Senza un capo, la nostra causa s'indebolisce ogni giorno di più, mentre Zayn aumenta ogni giorno in statura e forza», riprese Kadem. «Lui controlla tutta la costa di Zanzibar. Abbiamo appreso che ha mandato dei messaggeri al Gran Moghul. Anche la Sublime Porta, sua antica alleata, si sta schierando a suo favore. Fra poco, l'Islam e la cristianità si uniranno contro di noi. La nostra vittoria si esaurirà, assorbita dalle sabbie, come il flusso della marea primaverile.» «Che cosa volete da me, Kadem al-Jurf?» chiese Dorian a bassa voce. «Abbiamo bisogno di un capo che possa vantare un giusto diritto sul Trono dell'Elefante», replicò Kadem. «Abbiamo bisogno di un guerriero che abbia già comandato in battaglia le tribù del deserto, i saar e i dahm e i karab, i bait kathir e gli awamir, ma soprattutto gli harasi, che tengono sotto controllo le pianure di Muscat. Senza di loro, non si può neanche pensare a una vittoria.» Dorian restò seduto in silenzio, ma il cuore gli batteva più forte, mentre Kadem recitava tutti quei nomi illustri, e lui rivedeva con la mente lo schieramento in battaglia, lo scintillio dell'acciaio in mezzo alle nubi di polvere e agli stendardi spiegati. Udiva di nuovo il grido di guerra dei cavalieri: «Allah Akbar! Allah è grande!» e il ruggito delle schiere di cammelli lanciati in corsa sulle sabbie di Oman. Yasmini avvertì il tremito del braccio del marito sotto la sua mano, e si sentì stringere il cuore. Ero convinta in cuor mio che i giorni oscuri fossero passati per sempre, che non avrei sentito mai più il rullo dei tamburi, pensò. Speravo che mio marito restasse sempre al mio fianco, senza allontanarsi per marciare di nuovo in guerra. La compagnia era ammutolita, e ciascuno era immerso nei propri pensieri. Kadem continuava a osservare Dorian con quello sguardo Wilbur Smith
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scintillante e imperioso. «Sai che tutto ciò è vero oppure si tratta soltanto di un sogno nato dal desiderio?» chiese Dorian, facendo uno sforzo per tornare al presente. Kadem rispose in modo diretto ed esplicito, senza abbassare gli occhi. «Ci siamo riuniti a consiglio con gli sceicchi del deserto, e loro, che tante volte sono stati divisi, hanno detto all'unisono: 'Che al-Salil prenda il posto che gli spetta a capo dei nostri eserciti, e noi lo seguiremo ovunque ci guiderà'.» Dorian si alzò bruscamente, abbandonando il circolo di persone riunite intorno al fuoco. Nessuno lo seguì, neppure Tom o Yasmini. Lui camminò avanti e indietro lungo la riva, una figura romantica avvolta nelle vesti lunghe, alta e luminosa al chiaro di luna. Tom e Sarah parlottavano. «Non devi lasciarlo andare», sussurrava Sarah a Tom. «Per il bene di Yasmini e il nostro. Lo hai già perso una volta. Non puoi lasciarlo andare di nuovo.» «E nel contempo non posso fermarlo. Questa è una faccenda tra Dorian e il suo Dio.» Batula mise del tabacco fresco nel fornello della pipa ad acqua, e lo fumò quasi tutto prima che Dorian tornasse presso il fuoco, dove si sedette a gambe incrociate, coi gomiti sulle ginocchia e col mento appoggiato alle mani, lo sguardo fisso sulle fiamme danzanti. «Mio signore, datemi la risposta», sussurrò Kadem. «Con gli alisei che soffiano costanti, se salperete subito potrete sedervi sul Trono dell'Elefante di Muscat al principio della Festa delle Luci. Non potrebbe esistere giorno più propizio per cominciare il vostro regno da califfo.» Dorian era ancora silenzioso, e Kadem continuò. Il suo tono era tutt'altro che supplichevole; suonava anzi risoluto, come se l'uomo non nutrisse dubbi sull'esito di quell'incontro. «Altezza, se tornerete a Muscat, i mullah dichiareranno la jihad contro il tiranno. Allah e tutto l'Oman saranno con voi. Non potete voltare le spalle al vostro destino.» Dorian alzò lentamente la testa. Yasmini tirò un respiro lungo e lento, trattenendo il fiato e affondando le unghie nei muscoli d'acciaio del braccio del marito. «Kadem al-Jurf... Questa è una decisione terribile, non posso prenderla da solo», replicò Dorian. «Devo pregare per ottenere una guida.» Kadem si gettò a terra, prostrandosi sulla sabbia davanti a Dorian, con le braccia e le gambe allargate. «Dio è grande!» convenne. «Non vi può Wilbur Smith
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essere vittoria senza la sua benevolenza. Attenderò la vostra risposta.» «Te la darò domani sera, alla stessa ora e in questo stesso luogo.» Yasmini espirò lentamente. Sapeva che quello era soltanto un rinvio, non la grazia. Nelle prime ore del giorno, Tom e Sarah si arrampicarono in cima ai promontori di roccia grigia che sorvegliavano l'accesso alla laguna, e trovarono un angolino riparato dal vento ma esposto al sole. Ai loro piedi si stendeva l'oceano delle Indie, increspato da solchi bianchi di schiuma. Un uccello marino, che sfruttava quel vento per librarsi sulle acque verdi come un aquilone, ripiegò di colpo le ali per tuffarsi dall'alto, urtando la superficie con un lieve scroscio e riemergendo poco dopo con un pesce argenteo, che si divincolava nel suo becco. Sulle rocce sovrastanti erano stese al sole le procavie delle rocce, pallottole di pelo marrone simili a conigli, che li osservavano con gli occhi enormi e pieni di curiosità. «Voglio fare un discorso serio con te», disse Sarah, e Tom si girò sul dorso, intrecciando le dita dietro la nuca e sorridendo. «E io, da quell'idiota che sono, credevo che mi avessi portato qui per abusare di me e soddisfare le tue voglie sulle mie tenere carni.» «Tom Courteney, quand'è che comincerai a fare sul serio?» «Ti prendo in parola, ragazza mia, e ti ringrazio per l'invito.» Tese la mano verso di lei, che lo colpì per respingerlo. «Ti avverto che comincerò a strillare.» «Allora desisterò, almeno per il momento. Di cosa volevi discutere con me?» «Di Dorry e Yassie.» «Chissà come mai questo discorso non mi sorprende...» «Yassie è sicura che lui salperà per Muscat, accogliendo l'offerta del trono.» «E io sono sicuro che non le dispiace l'idea di diventare regina. A quale donna non piacerebbe?» «Le rovinerà la vita. Mi ha spiegato tutto. Non puoi immaginare gli intrighi e le cospirazioni che circondano una corte orientale.» «Ah, no?» replicò lui, inarcando un sopracciglio. «Sono vent'anni che vivo con te, cuor mio, e questo mi sembra un buon allenamento.» Lei continuò come se lui non avesse aperto bocca. «Tu sei il fratello maggiore. Devi proibirgli di partire. Questa offerta del Trono dell'Elefante Wilbur Smith
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è un dono avvelenato, che distruggerà loro e anche noi.» «Sarah Courteney, non crederai davvero che voglia proibire qualcosa a Dorian? È una decisione che soltanto lui può prendere.» «Lo perderai di nuovo, Tom. Non ricordi quando lui è stato venduto in schiavitù? Quando pensavi che fosse morto, e una parte di te è morta con lui?» «Lo ricordo bene, però qui non si tratta di schiavitù e di morte. Si tratta di una corona e di un potere illimitato.» «Penso che l'idea di vederlo partire cominci a piacerti», lo accusò lei. Tom si mise a sedere di scatto. «Ehi, donna! Dorian è il sangue del mio sangue, e voglio soltanto quello che è meglio per lui.» «E pensi che questo sia il meglio?» «Si tratta della vita e del destino per cui è stato preparato. Con me è diventato un mercante, però ho sempre saputo che non ci metteva il cuore, nella nostra impresa. Per me, è la vita; Dorry invece aspira a qualcosa di più di quello che abbiamo. Non lo hai mai sentito parlare del padre adottivo e dei tempi in cui comandava l'esercito di Oman? Nei suoi occhi non cogli talvolta il rimpianto e la nostalgia?» «Tom, tu cerchi segni che non ci sono», protestò Sarah. «Mi conosci bene, amore mio. È nella mia natura dominare tutti quelli che mi stanno intorno, anche te.» Lei scoppiò a ridere, un suono gaio e musicale. «Perlomeno ci provi, questo te lo devo concedere.» «Ci provo anche con Dorry, e con lui ci riesco meglio che con te. È il mio fratellino obbediente e come tale l'ho trattato per tutti questi anni. Forse questa convocazione a Muscat è quello che Dorian aspettava.» «Lo perderai di nuovo», ripeté lei. «No, ci sarà soltanto un braccio di mare a separarci, e io ho una nave veloce.» Stendendosi sull'erba, si calò il cappello sugli occhi per ripararli dal sole. «E poi, non sarà un male per gli affari avere un fratello che può concedere licenze commerciali alle mie navi in tutti i porti proibiti dell'Oriente.» «Tom Courteney, mostro mercenario, ti odio!» Gli balzò addosso, tempestandolo di colpi coi pugni serrati, ma lui la rovesciò facilmente sull'erba, sollevando le gonne per scoprire le gambe, che erano ancora forti e ben tornite come quelle di una ragazza. Lei le incrociò con fermezza. «Sarah Courteney, fammi vedere quanto mi odi.» La tenne inchiodata a Wilbur Smith
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terra con una mano, mentre con l'altra si slacciava la fibbia della cintura. «Smettila subito, Ubertino. Ci stanno guardando.» Lei si dibatteva, ma senza troppa convinzione. «Chi?» «Loro!» rispose Sarah, indicando il circolo di procavie delle rocce che li fissavano. «Sciò!» gridò Tom, e quelle si dileguarono, rientrando nelle tane alla velocità del lampo. «Ora non ci guardano più!» Sarah sciolse le gambe che teneva incrociate. Quella sera, il gruppo riunito intorno al fuoco era serio, tormentato dall'incertezza e dall'ansia. Nessuno in famiglia sapeva quale decisione avesse preso Dorian. Yasmini, seduta vicino al marito, rispose alla domanda silenziosa che Sarah le rivolse al di là del cerchio illuminato dalle fiamme limitandosi ad alzare le spalle con aria rassegnata. Soltanto Tom era allegro. Mentre mangiavano il pesce arrostito sulla griglia, accompagnandolo con fette di pane appena sfornato, raccontò la storia del nonno Frankie Courteney e della cattura del galeone della Compagnia Olandese delle Indie Orientali al largo di capo Agulhas, quasi sessant'anni prima. Spiegò loro che il nonno aveva nascosto il bottino in una caverna presso le sorgenti del ruscello che si gettava nella laguna, proprio là dove Mansur, il giorno prima, aveva abbattuto un bufalo cafro. Poi scoppiò a ridere, indicando le trincee e gli scavi intorno al loro accampamento, opera degli olandesi che avevano fatto di tutto per ritrovare il tesoro. «Mentre loro sudavano e imprecavano, nostro padre, Hal Courteney, aveva già trafugato il bottino da un pezzo», concluse, ma gli altri avevano sentito raccontare quella storia tante di quelle volte che ormai non si meravigliavano più. Alla fine, anche Tom fu sconfitto dal silenzio e, invece d'intrattenere gli altri, si dedicò alla scodella di stufato di bufalo che le donne servirono dopo il pesce. Dorian mangiò pochissimo e, prima che fosse portata la caffettiera d'argento tenuta in caldo su una forcella sopra le braci, disse a Tom: «Se sei d'accordo, fratello, ora vorrei parlare a Kadem per comunicargli la mia decisione». «Sì, Dorry», convenne Tom. «È meglio chiudere questa faccenda. È da ieri che le signore sono sedute su un formicaio.» Gridò a Batula: «Di' a Kadem che può unirsi a noi, se lo desidera». Wilbur Smith
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Kadem arrivò a lunghe falcate dalla spiaggia, col portamento e l'andatura di un guerriero del deserto, snello, con le gambe e le braccia lunghe. Si prostrò davanti a Dorian. Mansur si protese in avanti con ansia. Lui e Dorian si erano allontanati dal campo alcune ore prima, trascorrendo molto tempo soli nella foresta. Nessuno sapeva di che avevano discusso e Yasmini, guardando il viso acceso del figlio, si sentì scoraggiata. È così giovane e bello, così vivace e forte. Certo, si strugge dal desiderio di vivere un'avventura come quella che gli si prospetta. Conosce soltanto la versione romantica delle battaglie, come l'ha sentita dai cantori di ballate. Sogna la gloria, il potere e un trono. Dipende dalla decisione che Dorian prenderà questa sera, se un giorno il Trono dell'Elefante di Oman sarà suo. Si coprì il volto col velo per nascondere i suoi timori. Mio figlio non capisce quali dolori e sofferenze gli procurerà la corona. Non sa nulla della coppa di veleno e della lama dell'assassino che un giorno potrebbero decretarne la fine. Non si rende conto che il trono di califfo è una schiavitù, più opprimente delle catene per gli schiavi o per un operaio nei pozzi mefitici delle miniere di rame a Monomotapa. Le sue riflessioni vennero interrotte dal saluto che Kadem tributò a Dorian. «Che la benedizione del Profeta scenda su di voi, maestà, insieme con la pace di Dio. Possa Egli benedire le nostre imprese.» «È presto per chiamarmi maestà, Kadem al-Jurf», lo ammonì Dorian. «Aspetta di sentire la mia decisione.» «La decisione è già stata presa per voi dal profeta e mullah al-Allama, morto a novantanove anni nella moschea dell'isola di Lamu, levando lodi a Dio fino all'ultimo respiro.» «Non sapevo che fosse morto», disse Dorian in tono triste. «Anche se, in tutta onestà, a quell'età venerabile non poteva essere altrimenti. Era un sant'uomo davvero. Lo conoscevo bene. È stata la sua mano a circoncidermi. È stato il mio saggio consigliere, nonché una sorta di secondo padre per me.» «Negli ultimi giorni anche lui pensava a voi, e ha pronunciato una profezia.» Dorian chinò la testa. «Puoi recitare le parole del mullah.» Kadem aveva il dono della retorica, e la sua voce era forte ma gradevole. «L'orfano venuto dal mare ha ottenuto l'elefante per il padre e, quando il padre sarà trapassato, vi siederà a sua volta e porterà una corona d'oro Wilbur Smith
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rosso.» Allargò le braccia. «Maestà, l'orfano della profezia non potete essere che voi. Poiché voi siete coronato d'oro rosso, e siete stato voi a vincere la battaglia che ha procurato il Trono dell'Elefante al vostro padre adottivo, il califfo Abd Muhammad al-Malik.» Il suo discorso vibrante fu seguito da un lungo silenzio, e Kadem rimase in piedi, con le braccia tese in fuori come il Profeta. Infine Dorian parlò. «Ho ascoltato le tue richieste, e ti darò la risposta che devi riferire agli sceicchi di Oman», disse a Kadem. «Prima, però, devo spiegare in che modo ho raggiunto questa decisione.» Posò una mano sulla spalla di Mansur. «Questo è mio figlio, il mio unico figlio. La mia decisione lo tocca in profondità. Lui e io ne abbiamo discusso in ogni dettaglio. Il suo cuore giovane e fiero arde dal desiderio di partecipare all'impresa, proprio come il mio alla sua età, e mi ha sollecitato ad accettare l'invito degli sceicchi.» «Vostro figlio è saggio più di quanto comporti la sua età», disse Kadem. «Se Allah lo vuole, regnerà a Muscat dopo di voi.» «Bismillahi!» gridarono all'unisono Batula e Kumrah. «Se Allah lo vuole!» gridò Mansur in arabo, con l'espressione accesa da una gioia estatica. Dorian alzò la mano destra, e tutti tacquero di nuovo. «C'è un'altra persona che sarà toccata in profondità dalla mia decisione», aggiunse, prendendo per mano Yasmini. «La principessa Yasmini è la mia compagna e la mia sposa da tanti anni, dall'infanzia sino a oggi. Molto tempo fa le ho fatto un giuramento, un giuramento di sangue.» Si girò verso di lei. «Rammenti i voti matrimoniali che ho pronunciato?» «Li rammento, mio signore e marito», disse lei a bassa voce. «Credevo che tu li avessi dimenticati.» «Ho pronunciato due voti. Il primo era che, anche se la legge e il Profeta lo consentono, non avrei preso altra moglie che te. E l'ho mantenuto.» Yasmini non era in grado di parlare, ma annuì e, a quel movimento, la lacrima che le tremava sulle lunghe ciglia si staccò e cadde sulla seta che le copriva il seno, lasciando una macchia umida. «Il secondo voto che ho pronunciato quel giorno era che non ti avrei mai causato dolore, se era in mio potere impedirlo.» Yasmini annuì di nuovo. «Tutti voi che siete qui presenti sapete che, se dovessi accogliere l'invito degli sceicchi a occupare il Trono dell'Elefante, questo causerebbe alla Wilbur Smith
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principessa Yasmini una sofferenza più acuta della morte stessa.» Il silenzio si prolungò nella notte, fremente come la minaccia di un tuono estivo. Dorian si alzò, allargando le braccia. «Questa è la mia risposta. Possa Allah udire le mie parole. Possano i santi profeti dell'Islam prestare testimonianza al mio giuramento.» Tom rimase colpito dalla trasformazione del fratello, che adesso sembrava davvero un re. Ma le parole successive di Dorian infransero quell'illusione. «Riferisci agli sceicchi che il mio affetto e la mia ammirazione sono ancora con loro, come al tempo della battaglia di Muscat e ogni giorno da allora. Nonostante questo, il fardello che vorrebbero impormi è troppo pesante per il mio cuore e le mie spalle. Devono trovare un altro per il Trono dell'Elefante. Non posso accettare il Trono dell'Elefante e nel contempo tenere fede al giuramento che ho pronunciato nei confronti della principessa Yasmini.» Mansur lanciò un grido di delusione, spontaneo e sommesso. Balzò in piedi e corse via nella notte. Tom si alzò di scatto e lo avrebbe rincorso, se Dorian non avesse scosso la testa. «Lascialo andare, fratello. La sua delusione è acuta, ma passerà.» Tornò a sedersi e si girò verso Yasmini per sorriderle. Il suo viso era illuminato da un'espressione adorante. «Ho mantenuto il giuramento che ti avevo fatto», le disse. «Mio signore», sussurrò lei. «Cuore mio.» Kadem si alzò di nuovo, col viso inespressivo, inchinandosi profondamente a Dorian. «Come comanda il mio principe», commentò a bassa voce. «Ah, se avessi potuto chiamarvi maestà! Mi rattrista, però è destino che non sia così. Sia fatta la volontà di Dio.» Si voltò per allontanarsi nelle tenebre, dirigendosi dalla parte opposta a quella presa da Mansur. Era l'ora della preghiera serale e l'uomo che si faceva chiamare Kadem al-Jurf compì le abluzioni rituali nelle acque salate della laguna. Poi raggiunse un luogo tra le rocce, dal quale si dominava l'oceano. Distese a terra il tappeto e recitò la prima preghiera, compiendo la prima prostrazione. Ma neppure quell'atto di sottomissione alla volontà di Dio riuscì a calmare la collera che gli ribolliva dentro. Dovette ricorrere a tutta la sua autodisciplina e dedizione per completare le preghiere senza lasciare che il Wilbur Smith
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suo stato d'animo turbato le contaminasse. Alla fine accese un piccolo fuoco con la fascina di legna che aveva raccolto salendo il pendio della collina. Quando cominciò a bruciare bene, Kadem si sedette a gambe incrociate sul tappeto da preghiera davanti alle fiamme, fissando le braci ardenti oltre la cortina tremolante di calore. Dondolandosi leggermente, come se fosse in groppa a un cammello che correva attraverso il deserto, recitò le dodici sure mistiche del Corano, attendendo le voci. Lo accompagnavano sin dall'infanzia, fin dal giorno della circoncisione, e si facevano sentire sempre chiaramente dopo la preghiera o il digiuno. Lui sapeva che erano le voci degli angeli e dei profeti. La prima voce a farsi sentire fu quella che temeva di più. «Hai fallito il tuo compito.» Riconobbe Gabriele, l'arcangelo vendicatore, e si fece piccolo piccolo di fronte a quelle accuse. «Sommo tra i sommi, era impossibile che al-Salil disprezzasse l'esca che era stata preparata per lui con tanta cura», mormorò. «Ascoltami, Kadem ibn Abubaker», disse l'angelo. «È stato il tuo orgoglio arrogante a condurti al fallimento. Eri troppo sicuro del tuo potere.» L'angelo usò il suo vero nome, dal momento che Kadem era il figlio del pascià Abubaker, il generale che Dorian aveva ucciso in battaglia sulle rive del fiume Lunga, vent'anni prima. Il pascià Abubaker era il fratellastro nonché il compagno di baldorie -di Zayn al-Din, il califfo di Oman; i due ragazzi erano cresciuti insieme nello zenana dell'isola di Lamu. Era stato là che il loro destino si era incrociato per la prima volta con quello di Dorian e Yasmini. Molto tempo dopo, nel palazzo di Muscat, quando il re loro padre era morto, Zayn al-Din, diventato califfo, aveva nominato Abubaker supremo comandante militare e pascià al servizio del califfato, prima d'inviarlo col suo esercito in Africa a rintracciare e catturare Dorian e Yasmini, la coppia incestuosa di fuggiaschi. Abubaker, alla testa dei suoi squadroni di cavalleria, aveva raggiunto Dorian e Yasmini mentre tentavano la fuga sulle acque del fiume Lunga per raggiungere il mare a bordo della minuscola nave di Tom, la Swallow. Abubaker li aveva attaccati quando erano ancora a terra, su un banco di sabbia alla foce del fiume, e il combattimento era stato accanito e cruento. Gli squadroni di cavalleria di Abubaker si erano lanciati alla carica Wilbur Smith
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attraverso le secche, ma la nave era armata di cannoni. Dorian aveva acceso di suo pugno la miccia per lanciare la scarica di mitraglia che aveva fatto esplodere la testa del pascià Abubaker, disperdendo le sue truppe in una fuga disordinata. Anche se al tempo della morte di suo padre Kadem era appena nato, Zayn al-Din lo aveva preso sotto la sua protezione, mostrando nei suoi confronti lo stesso favore e la stessa predilezione che avrebbe riservato a un figlio, anziché a un nipote. In questo modo, aveva creato con Kadem un vincolo di fedeltà di sangue, facendone il proprio vassallo e legandolo a sé con catene che non sarebbero mai state infrante. Nonostante ciò che Kadem aveva detto a Dorian presso il fuoco dell'accampamento, la forza del suo giuramento di fedeltà a Zayn al-Din era pari soltanto al desiderio di vendetta nei confronti dell'uomo che aveva ucciso suo padre. Quello era un dovere sacro, una faida di sangue che gli era imposta da Dio e dalla sua coscienza. Zayn al-Din, che amava ben poche persone al mondo, amava incondizionatamente il nipote Kadem. Lo aveva tenuto accanto a sé e, quand'era diventato un vero guerriero, lo aveva nominato comandante della guardia del corpo reale. Soltanto Kadem era sfuggito alla strage del Ramadan ordinata da Zayn. Tutti gli altri possibili eredi al califfato erano stati massacrati, proprio come lui aveva detto a Dorian. Durante la sollevazione seguita alla strage, Kadem si era battuto come un leone per proteggere il califfo e, alla fine, aveva guidato Zayn al-Din attraverso il labirinto di passaggi sotterranei scavati sotto le mura del palazzo fino a raggiungere la nave in attesa nel porto di Muscat. Ed era stato sempre lui a portare in salvo il suo padrone nel palazzo dell'isola di Lamu, sulla costa della Febbre. Era Kadem il generale che aveva sopraffatto i forti lungo la costa che tentavano di ribellarsi per sostenere i ribelli di Muscat. Era Kadem che aveva negoziato l'alleanza col console inglese di Zanzibar, ed era sempre lui che aveva sollecitato il suo padrone a inviare messaggeri a Istanbul e Delhi per ottenere l'appoggio di quei governi. Nel corso delle campagne lungo la costa della Febbre, Kadem aveva anche catturato gran parte dei comandanti delle fazioni contrarie a Zayn. In realtà i prigionieri venivano consegnati agli inquisitori, in modo che ne ricavassero tutte le informazioni e gli elementi utili. Così, con un'intelligente e giudiziosa applicazione del bastinado, della Wilbur Smith
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ruota e della garrotta, gli inquisitori avevano ricavato un'informazione preziosa come una gemma, e cioè l'indicazione del luogo in cui viveva alSalil, l'assassino del pascià Abubaker e il nemico giurato del califfo. Armato di questa conoscenza, Kadem aveva pregato Zayn al-Din di concedergli l'onore di essere il suo strumento di giustizia. Ottenuta l'approvazione di Zayn, Kadem aveva deciso di non affidare a nessuno dei suoi subordinati quel dovere sacro, escogitando da solo lo stratagemma destinato ad attirare al-Salil nel regno del califfo e sotto il suo potere: interpretare il ruolo di un inviato di quei ribelli che ancora detenevano il potere nella capitale Muscat. Quando aveva rivelato il suo piano a Zayn al-Din, il califfo se ne era subito entusiasmato, dando all'impresa la sua benedizione. Se fosse riuscito a riportare al-Salil e la sua incestuosa moglie Yasmini nell'isola di Lamu, ad affrontare la sua ira e il suo castigo, Kadem avrebbe avuto il titolo di pascià - lo stesso titolo che era stato del padre - e qualunque altra ricompensa desiderasse. Kadem chiese un'unica ricompensa: quando fosse venuto per al-Salil il momento di morire, sarebbe toccato a lui l'onore di strangolarlo. Aveva promesso a Zayn che la morte del traditore sarebbe stata lenta e straziante, e il califfo aveva sorriso, concedendogli anche quel premio. Dagli inquisitori, Kadem aveva appreso che la nave commerciale Gift of Allah, la quale attraccava spesso nei porti sulla costa della Febbre, apparteneva ad al-Salil; così, alla prima occasione, aveva raggiunto il porto di Zanzibar ed era riuscito a entrare in confidenza con Battila, il vecchio portatore di lancia di al-Salil. Il piano di Kadem si era svolto senza intoppi fino a quel momento; ma ora, proprio quando il premio finale era quasi a portata di mano, il rifiuto incomprensibile di al-Salil aveva mandato tutto all'aria. E Kadem doveva rispondere all'accusa dell'angelo di Dio. «Sommo tra i sommi, invero mi sono macchiato del peccato di orgoglio.» Passandosi sul volto le mani aperte, come per lavare il peccato, Kadem fece il gesto della penitenza. «Hai creduto di poter consegnare il peccatore alla giustizia con le tue sole forze, senza l'intervento divino. Questo è un segno di vanità e stoltezza.» L'accusa gli rimbombò nella mente finché non ebbe l'impressione che gli scoppiassero i timpani, ma lui sopportò il dolore con resistenza stoica. «O misericordioso, sembrava impossibile che un mortale rifiutasse l'offerta di Wilbur Smith
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un trono.» Si prosternò davanti al fuoco e all'angelo. «Dimmi che cosa devo fare per rimediare alla mia arroganza e stupidità. Rivelami i tuoi ordini, sommo tra i sommi.» Non ebbe risposta. Gli unici rumori che si udivano erano lo scroscio della risacca sulle rocce sottostanti e lo stridio dei gabbiani che volavano in cerchio nel cielo. «Parlami, santo Gabriele», implorò Kadem. «Non abbandonarmi proprio adesso, dopo tutti questi anni in cui ho fatto tutto ciò che tu mi ordinavi.» Estrasse dalla cintola il pugnale ricurvo. Era un'arma straordinaria: la lama era in acciaio di Damasco, l'elsa di corno di rinoceronte ricoperto di filigrana d'oro. Kadem premette la punta del pugnale contro il polpastrello del pollice, facendo sprizzare il sangue. «Allah! Allah!» gridò. «Con questo sangue ti supplico di concedermi la tua guida.» Soltanto allora, attraverso il dolore, udì l'altra voce, non quella tonante di Gabriele ma una voce calma, misurata e melodiosa. Kadem sapeva che quella era la voce stessa del Profeta, terribile nella sua quieta semplicità. Tremò nell'ascoltarla. «Tu sei fortunato, Kadem ibn Abubaker, perché ho ascoltato la tua confessione e sono stato commosso dalle tue grida», disse il Profeta. «Ti concederò ancora una possibilità di riscatto.» Kadem si gettò faccia a terra, non osando rispondere a quella voce. «Kadem ibn Abubaker! Devi lavarti le mani nel sangue che sprizza dal cuore dell'assassino di tuo padre, il traditore ed eretico, il peccatore che si rivoltola nell'incesto, al-Salil.» Kadem batté la fronte a terra, piangendo di gioia per la misericordia che il Profeta gli aveva mostrato, poi sedette sui talloni e sollevò la mano, con le dita allargate. Il sangue colava ancora dalla ferita che si era inflitto. «Dio è grande», bisbigliò. «Mostrami un segno del tuo favore, te ne supplico.» Tendendo la mano, la posò sopra le fiamme che sprizzavano alte, avvolgendola. «Allah!» intonò. «Il Solo e l'Unico!» Tra le fiamme, il flusso di sangue si ridusse e si disseccò. Poi, come per miracolo, la ferita si richiuse come la bocca di un anemone marino e le carni si risanarono sotto i suoi occhi. Ritirò la mano dalle fiamme continuando a cantare lodi a Dio, poi la tenne sollevata alla luce del fuoco. Nel punto in cui prima c'era la ferita non si vedevano segni; neppure un arrossamento o una vescica provocata Wilbur Smith
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dal calore. La pelle era liscia e perfetta. Quello era il segno che aveva invocato. «Dio è grande!» gridò, euforico. «Non esiste altro Dio all'infuori di Allah, e Muhammad è il suo Profeta!» Dopo aver consumato il pasto serale insieme col resto della famiglia, Dorian e Yasmini si congedarono. Yasmini abbracciò prima Sarah e poi suo figlio, Mansur. Lo baciò sugli occhi e gli accarezzò i capelli, che alla luce del fuoco splendevano come rame fuso appena versato dal crogiuolo. Tom abbracciò Dorian con tanta forza da fargli scricchiolare le costole. «Che Dio mi accechi, Dorian Courteney, credevo proprio che ci fossimo liberati di te e potessimo spedirti a Oman.» Dorian ricambiò l'abbraccio. «Che peccato, vero, Thomas? Invece resterò ancora qui a tormentarti.» Anche Mansur abbracciò il padre, ma non gli rivolse la parola e non lo guardò negli occhi; la linea delle sue labbra era indurita dall'amarezza e dalla delusione. Dorian scosse la testa con aria afflitta. Sapeva che Mansur si era prefisso l'obiettivo della gloria, e che lui gliel'aveva sottratto. Il dolore era troppo intenso per essere placato a parole. Lo avrebbe consolato in seguito, decise. Dorian e Yasmini si allontanarono dal fuoco dell'accampamento, avviandosi insieme verso la spiaggia e, non appena furono usciti dal riverbero delle fiamme, Dorian le passò il braccio intorno alle spalle. Non parlarono, perché ormai si erano detti tutto. Il contatto fisico esprimeva il loro amore meglio di quanto potessero fare le parole. Nel punto in cui il banco di sabbia descriveva una curva e il canale più profondo correva vicino alla spiaggia, Dorian si tolse le vesti e sciolse il turbante, poi, porgendo gli abiti a Yasmini, avanzò nudo nell'acqua. La marea scorreva con intensità tra i promontori di roccia e l'acqua era raggelata dal ricordo dell'oceano aperto. Dorian si tuffò nel canale dalle acque profonde e riemerse ansimando e sbuffando per il freddo. Yasmini si sedette sul banco di sabbia a osservarlo, dato che non condivideva la sua passione per l'acqua fredda. Teneva tra le braccia l'involto coi suoi vestiti e, quasi furtivamente, vi affondò il viso. Aspirando l'odore virile del marito, si sentì invadere dalla gioia. Dopo tanti anni, non ne era mai sazia. L'odore di Dorian la faceva sentire sicura e protetta. Quando Yasmini raccoglieva la veste che si era tolto dopo averla portata Wilbur Smith
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per tutto il giorno e la indossava al posto della camicia da notte, lui si lasciava sempre sfuggire un sorriso. «Vorrei portare la tua pelle, se fosse possibile», replicava lei, seria, alle sue provocazioni scherzose. «Così potrei esserti davvero vicina, far parte del tuo abbigliamento, del tuo corpo.» Infine Dorian si diresse a guado verso la riva. Sul suo corpo risplendeva la fosforescenza del minuscolo plancton della laguna, e Yasmini esclamò con gioia: «Persino la natura ti ricopre di diamanti. Allah ti ama, al-Salil, ma non quanto me». Lui si chinò per baciarla, con le labbra che sapevano di sale, poi le prese di mano il turbante, usandolo per asciugarsi. Infine se lo avvolse intorno alla vita, come un perizoma, lasciando ricadere sulla schiena i lunghi capelli bagnati. «Questa brezza notturna finirà di asciugarmi prima che arriviamo alla nostra capanna», le disse, mentre si avviavano lungo la spiaggia verso l'accampamento. Quando passarono accanto al fuoco, la sentinella li salutò, invocando su di loro una benedizione. La loro capanna era separata da quella di Tom e Sarah, e Mansur preferiva dormire insieme con gli ufficiali e gli uomini della nave. Dorian accese le lanterne e Yasmini ne prese una da portare con sé, ritirandosi dietro il paravento in fondo alla stanza. Aveva arredato la capanna con tappeti persiani, tappezzerie di seta e cuscini imbottiti di piume d'oca selvatica. Dorian sentì il getto dell'acqua che fluiva dalla brocca nella bacinella, Yasmini che cantava sottovoce mentre si dedicava alle abluzioni e sentì ridestarsi un fremito nei lombi. Sapeva che quello era, per lei, il preludio abituale all'amore; allora, gettando da parte la veste e il turbante umido, si stese sul giaciglio. Contemplò la silhouette della donna, profilata in controluce sul disegno di uccelli e fiori che decorava il paravento cinese. Lei aveva disposto la lampada ad arte e sapeva che lui la stava guardando. Quando si alzò nella bacinella e si chinò per lavarsi le parti intime, si girò in modo che lui potesse seguire i movimenti della sua ombra, e vedere come si preparava e si profumava per lui. Infine uscì dalla protezione del paravento, avanzando a testa bassa e lasciando ricadere i capelli in avanti fino a coprirle il viso con una cortina nera striata d'argento. Si copriva pudicamente con le mani, ma poi inclinò la testa di lato per guardarlo con un occhio solo attraverso quel velo, e l'occhio apparve enorme e scintillante di passione. Wilbur Smith
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«Piccola urì procace e scaltra!» esclamò lui, assalito da un'eccitazione imperiosa, e lei, vedendo l'effetto che aveva ottenuto, scoppiò in una risata argentina. Lasciò ricadere le mani lungo i fianchi, per fargli vedere il sesso depilato con cura meticolosa. Sotto la curva liscia ed eburnea del ventre si apriva una fessura nuda e soffice, mentre i seni erano piccoli e sodi, cosicché il suo corpo sembrava quello di una fanciulla. «Vieni da me», le ordinò Dorian, e lei obbedì con gioia. Molte ore dopo, quella notte, Yasmini lo sentì agitarsi al suo fianco e si svegliò di colpo. Era sempre molto sensibile ai suoi cambiamenti di umore o alle sue esigenze. «Stai bene?» sussurrò. «Ti serve qualcosa?» «Continua a dormire, piccola», rispose Dorian, sempre sottovoce. «È solo il tuo amico e fervente ammiratore che chiede con urgenza di essere preso in mano.» Poi si sollevò dal giaciglio. «Ti prego di trasmettere al mio amico i miei rispettosi salaam e il mio rispetto di moglie», replicò lei. Ridendo, assonnato, lui la sfiorò con un bacio leggero prima di alzarsi. Dorian usava il vaso da notte soltanto nei casi di emergenza assoluta. La posizione accovacciata era fatta per le donne, quindi lui sgattaiolò dalla porta sul retro per raggiungere la fossa scavata come latrina, a una cinquantina di iarde dalla capanna, dietro lo schermo della foresta vergine. La sabbia sotto i suoi piedi era fresca e l'aria notturna era mite, fragrante per l'aroma dei fiori e della salsedine. Non appena svuotata la vescica, Dorian tornò indietro, ma si soffermò prima di raggiungere la porta sul retro della capanna. La notte era così bella e lo sfavillio delle stelle così accecante da ipnotizzarlo. Alzò la testa per fissarle e si sentì avvolgere lentamente da una profonda sensazione di pace. Fino a quel momento era stato assillato dai dubbi. La decisione di voltare le spalle al Trono dell'Elefante era stata forse egoista e sleale verso Mansur? Aveva mancato ai propri doveri nei confronti della popolazione di Oman, che soffriva sotto il crudele giogo di Zayn al-Din? In fondo al cuore sapeva che Zayn aveva assassinato il padre. Ciò non significava forse che le leggi umane e divine gli imponevano il dovere di punire un crimine così terribile come il parricidio? Tutti quei dubbi si dissolsero mentre lui stava sotto le stelle. Anche se la notte era fresca e lui era nudo come se fosse appena venuto al mondo, era ancora caldo dell'abbraccio dell'unica donna che aveva Wilbur Smith
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amato in vita sua. E sospirò di appagamento. «Anche se ho peccato, è stato un peccato di omissione. Il mio primo dovere è nei confronti dei vivi, non dei morti, e Yasmini ha bisogno di me quanto gli altri, se non di più.» Si avviò verso la capanna, e in quel momento sentì gridare Yasmini. Era un grido terrificante, in cui si mescolavano terrore e sofferenza mortale. Quando Dorian lasciò la capanna, Yasmini si mise a sedere e rabbrividì. La notte era diventata fredda, molto più di prima. Si domandò se fosse un freddo naturale o il freddo del male. Forse aleggiava su di loro qualche spirito maligno. Lei credeva nell'esistenza di un altro mondo che si sovrapponeva intimamente al suo, il regno nel quale esistevano gli angeli, i jinn e gli shaitan. Rabbrividì di nuovo, stavolta più per la paura che per il freddo, accennando un gesto di scongiuro contro il malocchio. Poi si alzò per allungare lo stoppino della lanterna, in modo che Dorian, al suo ritorno, avesse luce sufficiente. Si diresse verso la veste del marito appesa dietro il paravento, la indossò e, seduta sul materasso, si avvolse il suo turbante intorno alla testa. La stoffa si era asciugata, ma conservava ancora l'odore dei capelli di Dorian. Yasmini ne portò un lembo al naso, fiutando l'aroma del suo sudore che si sprigionava dal tessuto. Lo inalò con piacere, e quella sensazione scacciò dalla sua mente la premonizione del male in agguato. Restò soltanto una lievissima traccia di disagio. «Dov'è Dorry?» sussurrò. «Non dovrebbe metterci tanto.» Stava per chiamarlo, al di là della parete di fronte, quando udì alle sue spalle un suono furtivo e, voltandosi, si trovò davanti una figura alta, vestita di nero, con un copricapo pure nero che gli nascondeva quasi tutto il viso. Più che un essere umano, sembrava una manifestazione del male, un jinn o uno shaitan. Doveva essere entrato dall'altra porta, e la sua influenza spettrale pareva invadere la stanza, saturandola di un'emanazione maligna opprimente e nauseante. Nella sua mano destra scintillava una lunga lama ricurva che rifletteva la luce fioca della lanterna. Yasmini gridò con tutte le sue forze e tentò di alzarsi, ma la creatura scattò verso di lei. Non riuscì neppure a vedere il colpo di pugnale: fu troppo fulmineo perché l'occhio potesse percepirlo. Sentì la lama penetrare, così affilata che le sue tenere carni offrirono ben poca resistenza al suo ingresso. Provò soltanto una sensazione di bruciore, che le penetrò sino in fondo al petto. Wilbur Smith
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Mentre Yasmini si accasciava, con le gambe improvvisamente prive di forza, l'assassino rimase sopra di lei e non provò neppure a liberare la lunga lama. Invece piegò il polso e lo tenne rigido, in modo da inclinare la lama verso l'alto, poi lasciò che il filo tagliente come un rasoio si aprisse la strada verso l'esterno, allargando la ferita e tagliando muscoli, vene e arterie. Quando infine la lama uscì, Yasmini ricadde all'indietro sul giaciglio. La figura vestita di scuro si guardò intorno, in cerca dell'uomo che sarebbe dovuto essere lì. Si era reso conto che la vittima era una donna quando aveva sentito le sue urla, ma ormai era troppo tardi. Si chinò bruscamente, scostando il turbante dal viso di Yasmini, e contemplò il suo volto bellissimo, ormai pallido e immobile alla luce della lanterna: sembrava scolpito nell'avorio. «Per il santo nome di Allah, ho eseguito il mio compito solo a metà», sussurrò. «Ho ucciso soltanto la femmina della volpe e non la volpe maschio.» Girando di scatto su se stesso, uscì correndo dalla porta attraverso cui era entrato. Proprio in quel momento, Dorian entrò nella stanza. «Guardie!» gridò. «Aiuto! A me, subito!» Kadem ibn Abubaker riconobbe la voce e si girò all'istante per tornare indietro. Quella era la vittima che cercava, l'uomo e non la sua donna, vestita con gli abiti del marito. Si avventò su Dorian, che fu lento a reagire. Sollevò il braccio destro per parare il colpo, e la lama lo squarciò dalla spalla al gomito. Il sangue sprizzò, scuro nella luce fioca della lampada, e lui invocò aiuto di nuovo, cadendo in ginocchio. Le braccia gli penzolavano lungo i fianchi, mentre alzava la testa per guardare con un'espressione pietosa l'uomo che stava per ucciderlo. Kadem sapeva che la vittima aveva il doppio della sua età e, dalla sua reazione iniziale, aveva capito che gli anni avevano rallentato i suoi riflessi. Ormai era inerme. Era l'occasione per farla finita alla svelta, e lui scattò in avanti con impazienza. Ma avrebbero dovuto metterlo in guardia contro la reputazione di combattente di al-Salil. Mentre lui vibrava il colpo, mirando di nuovo al cuore, due braccia d'acciaio scattarono in fuori, fulminee come vipere che colpiscono la vittima. Kadem si trovò il braccio bloccato da una classica presa al polso. Sebbene perdesse sangue dalla ferita al braccio, Dorian si alzò e i due cominciarono a girare su se stessi. Kadem era tutto teso a liberarsi dalla presa per poter colpire di nuovo, mentre Dorian cercava ancor più Wilbur Smith
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freneticamente di trattenerlo, continuando a invocare aiuto. «Tom!» gridava. «Tom! A me! A me!» Kadem agganciò il piede di Dorian col suo, facendo leva col suo peso per rovesciarlo a terra, ma l'avversario spostò agilmente il peso sull'altra gamba, entrando nella guardia e torcendogli l'articolazione del polso armato di pugnale, in modo da tendere e forzare nervi e muscoli. Kadem lanciò un grugnito di dolore, indietreggiando di un passo sotto quella pressione intollerabile, e Dorian lo incalzò. «Tom!» gridò di nuovo. «Tom, in nome di Dio!» Kadem cedette alla pressione sul polso e quella flessione gli lasciò gioco sufficiente per spostare l'anca verso il corpo di Dorian, sbilanciandolo. Riuscì a spezzare la presa ferrea, facendolo rotolare sul pavimento della capanna e, con la prontezza di un furetto che bracca un coniglio, lo attaccò di nuovo. Dorian riuscì ad afferrargli il polso, ma poi ricadde all'indietro. Si ritrovarono di nuovo a corpo a corpo, ma adesso Kadem stava sopra, e la differenza di età e di preparazione alle arti del combattimento cominciava a farsi sentire. Implacabile, Kadem spinse a forza la punta della lama ricurva verso il petto di Dorian. L'assassino aveva ancora il volto coperto dal lembo del turbante: soltanto gli occhi scintillavano al di sopra delle pieghe di stoffa nera, ed erano a pochi centimetri da quelli di Dorian. «È in memoria di mio padre che compio il mio dovere», mormorò con voce aspra Kadem, ansimando per lo sforzo. Ormai tutto il peso del suo corpo muscoloso premeva sul braccio armato, e Dorian non avrebbe potuto resistere ancora per molto. Il braccio cominciò lentamente a cedere. La punta del pugnale punzecchiò la pelle nuda del petto e scivolò sempre più a fondo, fino all'elsa. «Giustizia è fatta!» esclamò Kadem, trionfante. Ma, prima ancora che quel grido gli morisse in gola, Tom si lanciò alla carica attraverso la porta alle sue spalle, furioso e possente come un leone dalla criniera nera. Gli bastò un unico sguardo per capire quello che era successo e, con la pesante pistola, che impugnava nella destra, sferrò un colpo, non osando sparare per paura di colpire il fratello. La canna d'acciaio colpì il cranio di Kadem, producendo uno scricchiolio, e lui si abbatté su Dorian senza neppure un gemito. Mentre Tom si chinava per spostare l'arabo dal corpo inerte del fratello, entrò a precipizio Mansur. Wilbur Smith
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«In nome di Dio, che succede?» «Questo porco ha assalito Dorry.» Mansur aiutò lo zio a sollevare Dorian, mettendolo a sedere. «Padre, sei ferito?» Fu allora che entrambi videro la terribile ferita da taglio sul petto nudo, e la fissarono, inorriditi. «Yassie!» ansimò Dorian, con voce fioca e sibilante. «Pensate a lei...» Tom e Mansur si voltarono verso la figuretta raggomitolata sul giaciglio. Fino a quel momento, nessuno le aveva prestato attenzione. «Yassie sta bene, Dorry. Dorme ancora», disse Tom. «No, Tom. E stata ferita mortalmente.» Dorian tentò di scrollarsi di dosso le mani che volevano trattenerlo. «Aiutatemi, devo assisterla.» «Penserò io alla mamma», gli assicurò Mansur, precipitandosi verso il giaciglio. «Madre!» gridò, tentando di sollevarla. Poi si ritirò di scatto, guardandosi le mani rosse di sangue. Dorian strisciò sul pavimento, trascinandosi fino al giaciglio e prendendo tra le braccia Yasmini. «Yassie, ti prego, non lasciarmi», mormorò, versando lacrime di profonda desolazione. «Non andartene, mia cara.» Ma le sue tenere suppliche furono vane, perché lo spirito da folletto di Yasmini si era già incamminato sulla via fatale. Sarah era stata destata dal frastuono, e si affrettò a raggiungere Tom. Un rapido esame le confermò che il cuore di Yasmini si era fermato: ogni aiuto che avrebbe potuto offrirle era ormai inutile. Quindi cercò di soffocare il profondo dolore che provava per dedicarsi a Dorian, che era ancora vivo, sia pure per un soffio. Obbedendo all'ordine brusco di Tom, Batula e Kumrah trascinarono Kadem fuori della capanna e, usando lacci di cuoio grezzo, gli legarono dietro la schiena i gomiti e i polsi. Quando la schiena fu arcuata in modo doloroso, gli fissarono al collo un collare d'acciaio da schiavo, incatenandolo poi a un albero al centro dell'accampamento. Non appena l'annuncio terribile dell'assassinio si sparse nel campo, le donne si riunirono intorno a Kadem per maledirlo e sputargli in faccia, mosse dalla collera e dall'orrore. Yasmini infatti era benvoluta da tutte. «Tienilo al sicuro, e non lasciarlo uccidere, non ancora, almeno. Finché non te lo ordino io», disse Tom a Batula, con aria minacciosa. «Sei stato tu Wilbur Smith
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a fare da garante per questo porco assassino. Ora il dovere di custodirlo è tuo, e ne risponderai con la vita.» Rientrò poi nella capanna, per cercare di rendersi utile. Sarah, però, aveva già preso in mano la situazione. Era molto abile nelle arti mediche e aveva dedicato gran parte della vita a rimettere in sesto uomini spesso in condizioni disperate. Aveva bisogno soltanto della forza di Tom per applicare le bende di compressione abbastanza strette da frenare l'emorragia. Per il resto del tempo, Tom non poté fare altro che aggirarsi sullo sfondo, maledicendo la propria stupidità per essersi lasciato ingannare e non aver preso le opportune precauzioni per fermare quel pericolo incombente. «Non sono un bambino. Avrei dovuto saperlo.» I suoi lamenti erano più d'intralcio che di aiuto, e Sarah gli ordinò di uscire. Dopo aver medicato e fasciato Dorian, e una volta che lui fu disteso in modo più confortevole, Sarah permise al marito di rientrare. Gli disse che, sebbene Dorry fosse ferito in modo grave, perlomeno era riuscita ad accertare che la lama non aveva toccato il cuore. Riteneva che avesse perforato il polmone sinistro, dal momento che, sulle labbra di Dorian, si formava una schiuma rossastra. «Ho visto uomini meno forti di Dorry riprendersi da ferite più gravi. Adesso, tutto dipende da Dio e dal tempo.» Non poteva dire altro per rassicurare Tom. Somministrò a Dorian due cucchiai di laudano e, non appena la droga fece effetto, lasciò con lui Tom e Mansur e lei si dedicò al penoso compito di preparare il corpo di Yasmini per la sepoltura. Si fece aiutare dalle serve malesi, anch'esse musulmane; insieme, trasportarono il corpo di Yasmini nella capanna di Sarah, all'estremità dell'accampamento, e lo deposero sul tavolo basso, sistemandovi intorno un paravento. Poi le tolsero la veste insanguinata, riducendola in cenere sul fuoco di guardia. Abbassarono le palpebre sui magnifici occhi scuri, dai quali era svanita ogni luminosità. Dopo aver lavato il corpo di Yasmini, lo spalmarono di oli profumati, fasciando l'unica, terribile ferita che l'aveva trafitta al cuore. Le spazzolarono e pettinarono i capelli, tra i quali la ciocca d'argento scintillava più che mai. Infine la vestirono con una tunica bianca fresca di bucato e la deposero sul catafalco. Sembrava una bambina addormentata. Mansur e Sarah, che, dopo Dorian, l'amavano più di chiunque altro, scelsero per la sepoltura un punto nella foresta. Con l'aiuto dell'equipaggio Wilbur Smith
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della Gift of Allah, Mansur si dedicò a scavare la fossa: secondo la legge islamica, infatti, Yasmini doveva essere sepolta prima del tramonto del giorno in cui era morta. Quando sollevarono il catafalco di Yasmini per portarlo fuori della capanna, i lamenti delle donne riscossero Dorian dal torpore del laudano, e lui chiamò con voce fioca Tom, che accorse subito. «Devi portarmi Yassie», gli sussurrò Dorian. «No, fratello, non devi muoverti. Qualunque movimento potrebbe esserti fatale.» «Se non vuoi portarmela, sarò io ad andare da lei.» Dorian tentò di mettersi a sedere, ma Tom lo costrinse delicatamente a ridistendersi, gridando a Mansur di trasportare il feretro al capezzale di Dorian. Dietro sua insistenza, Tom e Mansur lo sostennero in modo che potesse baciare per l'ultima volta le labbra della moglie. Poi Dorian si sfilò dal dito l'anello d'oro sul quale aveva pronunciato i voti nuziali. Venne via a fatica, perché lui non lo aveva mai tolto, e Mansur dovette guidare la mano del padre mentre lui lo infilava al dito sottile e affusolato di Yasmini. L'anello era troppo grande, ma Dorian vi ripiegò intorno le dita, in modo che non le scivolasse. «Va' in pace, amore mio. E possa Allah accoglierti nel suo seno.» Come Tom aveva previsto, lo sforzo e la sofferenza sfinirono Dorian, che ricadde sul giaciglio, stremato. Le bende intorno al petto si macchiarono di sangue fresco. Trasportarono il cadavere di Yassie fino alla tomba, calandolo con delicatezza nella fossa. Tom e Mansur non vollero cedere a nessun altro il compito doloroso di ricoprirla di terra. Prima Sarah le posò sul viso uno scialle di seta, poi si tirò in disparte e rimase a guardare mentre finivano. Alla fine prese per mano Tom da una parte e Mansur dall'altra, riportandoli al campo. Tom e Mansur si diressero subito verso l'albero al quale era incatenato Kadem. Tom assunse un'espressione truce, fissando dall'alto, coi pugni piantati sui fianchi, il condannato. Il colpo sferrato con la canna della pistola aveva lasciato un grosso rigonfiamento dietro la testa di Kadem; il cuoio capelluto era spaccato e il sangue si stava già coagulando, per formare una crosta nera sulla lacerazione, ma l'uomo aveva ripreso i sensi ed era di nuovo vigile. Fissò Tom con uno sguardo d'acciaio, pieno di Wilbur Smith
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fanatismo. Battila venne a prostrarsi davanti a Tom. «Nobile Klebe, merito tutta la vostra ira. La vostra accusa è fondata. Sono stato io a fare da garante per questa creatura e a portarla nel campo.» «Sì, Batula. La colpa è davvero tua. Ci vorrà il resto della tua vita per riscattarti, e alla fine potrebbe addirittura volerci la tua vita.» «Sia fatto come dice il mio signore! Sono pronto a ripagare il mio debito», replicò Batula in tono umile. «Devo uccidere subito questo mangiatore di carne di porco?» chiese poi. «No, Batula. Prima deve dirci chi è in realtà e chi lo ha mandato qui a compiere questo crimine così vile. Forse sarà difficile indurlo a parlare. Vedo dai suoi occhi che quest'uomo non vive su un piano terreno, come noi.» «E ossessionato dai demoni», riconobbe Batula. «Fallo parlare, ma accertati che non muoia prima di averlo fatto», insistette Tom. «Sarà fatto come dite, padrone.» «Portalo in un luogo dove le sue grida non possano spaventare le donne.» Mansur intervenne. «Voglio andare con Batula», dichiarò. «No, ragazzo. E un lavoro brutale. Non sarà piacevole assistervi.» «La principessa Yasmini era mia madre», replicò Mansur. «Non soltanto voglio assistere, ma gioirò anche di ogni grido che lancerà, e mi compiacerò di ogni goccia di sangue che dovrà versare.» Tom lo fissò, sbigottito. Quello non era più il ragazzo amabile che lui conosceva fin dalla nascita: era un uomo adulto, maturato nello spazio di un'ora. «Allora va' pure con Batula e Kumrah», concesse alla fine. «E ricorda bene le risposte di Kadem al-Jurf.» Kadem fu trasportato con la lancia fino alle sorgenti dei ruscelli, distanti circa un miglio dal campo. Trovarono un altro albero al quale incatenarlo, gli legarono una cinghia di cuoio attraverso la fronte, passandola poi intorno al tronco dell'albero e annodandola così stretta che l'assassino non poteva più muovere la testa. Mansur gli chiese qual era il suo vero nome, e Kadem gli sputò addosso. Il giovane guardò Batula e Kumrah e sibilò: «Il lavoro che ci accingiamo a svolgere è giusto. In nome di Allah, cominciamo!» «Bismillahi!» esclamò Batula. Wilbur Smith
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Mentre Mansur sorvegliava il prigioniero, Batula e Kumrah si addentrarono nella foresta. Sapevano dove cercare e, meno di un'ora dopo, avevano già scovato un nido di feroci formiche guerriere. Quegli insetti, di colore rosso vivo, non erano più grandi di un chicco di riso, però avevano la testa lucente munita di un paio di chele velenose. Facendo attenzione a non schiacciarle, e soprattutto a non farsi pungere, Batula prelevò le formiche dal nido, servendosi di un paio di pinzette di bambù. Quando tornarono indietro, Kumrah tagliò una canna vuota che cresceva in riva al ruscello, assottigliando un'estremità del tubo in modo che potesse entrare nell'orifizio dell'orecchio di Kadem. «Guarda questo insetto minuscolo», gli disse Batula, tenendo sollevata una formica con le pinzette. «Il veleno della sua puntura è in grado di far crollare a terra un leone, strappandogli ruggiti di dolore. Dimmi, tu che ti fai chiamare Kadem, chi sei, e chi ti ha mandato a compiere questo delitto?» Kadem guardò l'insetto che si contorceva. Tra le mandibole delle tenaglie serrate colava una goccia trasparente di veleno, che sprigionava un forte odore, capace di attirare altre formiche, spingendole in uno stato di frenesia aggressiva. «Io sono un vero seguace del Profeta», rispose Kadem. «Sono stato inviato da Allah a compiere la sua volontà.» Mansur rivolse un cenno a Batula. «Lasciamo che la formica sussurri più chiaramente la domanda all'orecchio di questo vero seguace del Profeta.» Kadem volse lo sguardo verso Mansur, tentando di sputare di nuovo, ma la bocca gli si era inaridita. Batula collocò la formica nell'apertura del tubo infilato nell'orecchio di Kadem e ne chiuse l'estremità con un tappo di legno appena intagliato. «Sentirai arrivare la formica lungo il tubo», gli disse. «I suoi passi suoneranno come gli zoccoli di un cavallo. Poi la sentirai camminare nel timpano, solleticando la membrana dell'orecchio interno con la punta aguzza delle antenne. Quindi ti pungerà.» Scrutarono il viso di Kadem. Le sue labbra cominciarono a fremere, quindi gli occhi rotearono nelle orbite fino a lasciare scoperto il bianco, e tutto il viso si contrasse in modo orribile. «Allah!» sussurrò. «Arma il mio braccio contro gli empi!» Il sudore cominciò a sgorgare dai pori della sua pelle, come le prime gocce di pioggia monsonica, e lui tentò di scrollare la testa, ascoltando i passi della formica amplificati mille volte dal timpano, ma il laccio di Wilbur Smith
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cuoio gli bloccava il capo in una stretta simile a una morsa. «Rispondi, Kadem», lo incalzò Batula. «Posso ancora liberarti della formica con l'acqua, prima che punga, ma devi rispondere in fretta.» Kadem chiuse gli occhi per non vedere il viso del suo torturatore. «Chi sei? Chi ti ha mandato?» Batula si avvicinò per sussurrargli all'orecchio: «Presto, Kadem, altrimenti il dolore sarà superiore anche alla tua immaginazione più folle». In fondo ai recessi del timpano, la formica inarcò il dorso e un globulo di veleno filtrò tra le mandibole ricurve. L'insetto affondò le estremità barbate nel tessuto molle, nel punto in cui il nervo auditivo era più vicino alla superficie. Kadem fu assalito da ondate di sofferenza atroce. Batula aveva ragione: era un dolore inimmaginabile. Lanciò un grido, un suono che non era più umano, ma sembrava uscito da un incubo. Poi il dolore gli paralizzò i muscoli della gola e le corde vocali, e le mascelle si serrarono in uno spasmo così rigido che uno dei denti marci in fondo alla bocca esplose, proiettando schegge e pus, mentre gli occhi roteavano verso l'alto come quelli di un cieco. Il suo dorso s'inarcò al punto che Mansur si convinse che la spina dorsale si sarebbe spezzata, e tutto il corpo fremette e vibrò con tanta violenza che i legacci penetrarono in profondità nella pelle, incidendola. «Morirà?» chiese Mansur con ansia. «E difficile uccidere uno shaitan», rispose Batula. Accovacciati a semicerchio davanti a Kadem, osservarono la sua sofferenza. Anche se era uno spettacolo orribile, nessuno di loro provava il minimo fremito di compassione. «Guardate!» disse Kumrah. «Il primo spasmo sta passando.» Era vero. L'arco della spina dorsale di Kadem si allentò lentamente e, benché lui fosse ancora scosso dalle convulsioni, ognuna era meno rabbiosa della precedente. «È finita», osservò Mansur. «No. Allah è giusto e ben presto la formica pungerà ancora», mormorò Batula. «Non finirà così in fretta.» E proprio in quel momento la sua previsione si avverò. Il minuscolo insetto colpì ancora. Stavolta la lingua di Kadem restò presa tra i denti, che si chiusero di scatto. Il sangue gli colò sul mento e lui rabbrividì e sussultò, tendendo la catena. Le sue viscere si svuotarono con uno spruzzo e, davanti a quello Wilbur Smith
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spettacolo, persino la sete di vendetta di Mansur si attenuò. Le cortine scure dell'odio e della sofferenza si dischiusero, lasciando filtrare il suo istinto umanitario. «Basta così, Batula. Smettila, adesso. Fa' uscire la formica.» Batula ritirò il tappo di legno dall'estremità della canna e si riempì la bocca d'acqua, poi schizzò un getto nell'orecchio di Kadem attraverso il tubo. Nel riflusso, il corpo rosso dell'insetto annegato fuoriuscì, scivolando sul collo teso dell'uomo imprigionato. A poco a poco il corpo torturato di Kadem si rilassò e lui ricadde, inerte, trattenuto soltanto dai legacci. Aveva il respiro rapido e superficiale e, a intervalli, si lasciava sfuggire un suono roco e prolungato, per metà sospiro e per metà gemito. I suoi carcerieri si accovacciarono di nuovo a semicerchio di fronte a lui, osservandolo con attenzione. Verso la fine del pomeriggio, mentre il sole sfiorava le cime degli alberi, Kadem gemette di nuovo e aprì gli occhi, mettendoli lentamente a fuoco su Mansur. «Batula, dagli dell'acqua», ordinò il giovane. La bocca di Kadem era nera e incrostata di sangue; la lingua sporgeva dalle labbra come un pezzo di fegato marcio. Batula gli accostò alla bocca l'otre dell'acqua, e Kadem rischiò di soffocarsi, tale era la sua sete. D'un tratto vomitò un getto di sangue nero e gelatinoso, poi bevve di nuovo. Mansur lo lasciò riposare fin dopo il tramonto, poi disse a Batula di farlo bere ancora. Kadem aveva ripreso in parte le forze e seguiva con gli occhi i loro movimenti. Il giovane ordinò poi agli altri due di allentargli i legacci, per consentire al sangue di circolare di nuovo, e di massaggiargli mani e piedi, prima che la cancrena divorasse la carne viva. Il dolore causato dal sangue che riprendeva a circolare doveva essere straziante, ma Kadem lo sopportò senza un lamento. Qualche tempo dopo, tuttavia, strinsero di nuovo i lacci di cuoio. Mansur si fermò davanti a lui, fissandolo dall'alto. «Sai benissimo che sono il figlio della principessa Yasmini che hai assassinato», gli disse. «Agli occhi di Dio e degli uomini la vendetta è mia. La tua vita mi appartiene.» Kadem lo fissò di rimando. «Se non mi risponderai, ordinerò a Battila d'infilarti un altro insetto nell'orecchio buono.» L'altro batté le palpebre, ma il suo viso rimase impassibile. Wilbur Smith
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«Rispondi, dunque: chi sei e chi ti ha mandato a casa nostra?» La lingua gonfia riempiva la bocca di Kadem, per cui la sua risposta risultò confusa e pressoché incomprensibile. «Io sono un vero seguace del Profeta e sono stato inviato da Allah a compiere la sua volontà.» «È la stessa risposta di prima, ma non è quella che aspetto», disse Mansur. «Battila, scegli un altro insetto. Kumrah, infila un'altra canna nell'orecchio di Kadem.» Poi si rivolse al prigioniero: «Stavolta il dolore ti ucciderà. Sei pronto a morire?» «Benedetto è il martirio», ribatté Kadem. «Desidero con tutto il cuore di essere accolto da Allah in paradiso.» Mansur trasse in disparte Battila. «Non cederà», gli sussurrò. L'altro assunse un'aria dubbiosa, ribattendo in tono incerto: «Ma... mio signore, non esiste altro modo». «Io invece penso di sì.» Mansur si rivolse a Kumrah. «Non abbiamo bisogno della canna.» Poi, rivolto a entrambi disse: «Restate con lui. Torno subito». Scese a forza di remi il ruscello e, quando tornò all'accampamento, era calato il buio, ma la luna piena, sorgendo al di sopra degli alberi, rischiarava il cielo a oriente con una straordinaria luminosità dorata. «Persino la luna si affretta per assistere alla nostra impresa», mormorò Mansur, approdando sulla spiaggia ai piedi del campo. Vide la luce della lampada filtrare attraverso le fessure della parete di fronde intrecciate della capanna dove giaceva il padre, e si diresse in fretta da quella parte. Tom e Sarah erano seduti presso il giaciglio sul quale era disteso Dorian. Mansur s'inginocchiò vicino al padre, baciandogli la fronte. Lui si riscosse, ma senza aprire gli occhi. Poi il ragazzo si chinò su Tom, bisbigliando: «Zio, l'assassino non intende cedere, quindi ho bisogno del tuo aiuto». Tom si alzò, facendo un cenno del capo a Mansur per invitarlo a seguirlo. Mansur gli spiegò in fretta quello che voleva, e alla fine disse con semplicità: «E qualcosa che vorrei fare io stesso, ma l'Islam lo vieta». «Capisco», mormorò Tom con un cenno di assenso, alzando poi gli occhi verso la luna. «È un vantaggio. Ho visto un posto nella foresta, non lontano da qui, dove ogni notte vanno a cibarsi dei tuberi della calla bianca. Spiega alla zia Sarah che cosa devo fare, e dille che non deve preoccuparsi. Non resterò lontano a lungo.» Wilbur Smith
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Si diresse verso l'armeria, e scelse il grande fucile olandese che sparava proiettili da quattro once l'uno. Estraendo la carica, ricaricò l'arma con una manciata di Big Looper, le formidabili munizioni per la caccia al leone. Poi controllò la pietra focaia e l'innesco, accertandosi di avere il coltello infilato nella cintola e allentando il fodero. Scelse dieci dei suoi uomini, raccomandando loro di aspettare il suo richiamo, ma si allontanò dal campo da solo, perché il silenzio e la capacità di mimetizzarsi con l'ambiente erano essenziali per il successo dell'impresa. Guadando il ruscello, si chinò a raccogliere una manciata di argilla nera per spalmarsela sul viso, dato che la sua pelle chiara splendeva al chiaro di luna, e la sua preda era astuta. Anche se quella cui dava la caccia era una creatura enorme, le sue abitudini erano notturne, e per quel motivo ben pochi l'avevano vista. Tom seguì per quasi un miglio la riva opposta del ruscello, però, a mano a mano che si avvicinava alla palude dove crescevano le calle bianche, rallentò, cominciando a fermarsi a intervalli di cinquanta passi per tendere l'orecchio. Giunto ai margini della palude, si accovacciò, posandosi di traverso sulle ginocchia il grosso fucile. Attese con pazienza, senza muoversi neanche per scacciare le zanzare che gli ronzavano intorno. La luna salì nel cielo e la sua luce divenne più intensa, cosicché le ombre proiettate da ogni albero e cespuglio acquistavano contorni nitidi. D'un tratto udì poco lontano un grugnito, accompagnato da uno squittio, e il suo polso accelerò. Continuò ad attendere, immobile come un ceppo d'albero, mentre tornava a regnare il silenzio. Poi sentì il lieve risucchio degli zoccoli nel fango, altri grugniti e infine il grufolio simile a quello di un maiale e il rumore delle zanne ricurve che masticavano. Tom avanzò verso la fonte di quei rumori. Senza preavviso e con la stessa repentinità con la quale erano cominciati, essi cessarono e lui rimase immobile. Sapeva che quello era il comportamento abituale dei cinghiali selvatici del bush. Tutto il branco restava immobile, tendendo l'orecchio per cogliere l'avvicinarsi dei predatori. Pur essendo appoggiato su una gamba sola, Tom rimase così, paralizzato nell'atteggiamento di una statua goffa, mentre il silenzio si prolungava. Quindi il grufolio e i rumori del pasto ripresero. Con un certo sollievo, dato che i muscoli della coscia cominciavano a bruciargli, posò a terra il piede e riprese ad avanzare a passi furtivi. Poi vide il branco di cinghiali proprio davanti a sé: erano parecchie dozzine, Wilbur Smith
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femmine scure col dorso gibboso e coi piccoli tra le zampe, intente a sradicare tuberi e inghiottirli. Nessuno degli animali era abbastanza grande per essere un maschio adulto. Tom si diresse con infinita prudenza verso un monticello di terra più compatta ai margini della palude e si accovacciò in quel punto, in attesa che uscissero dalla foresta i maschi adulti. Una nuvola oscurò la luna e, nel buio improvviso, lui avvertì una presenza molto vicina. Concentrandosi in quella direzione, riuscì a distinguere vagamente un movimento: qualcosa gli era passato così vicino che lui avrebbe potuto sfiorarlo con la canna del moschetto. Spostandosi poco alla volta, portò il calcio dell'arma alla spalla, ma senza azzardarsi ad armare il cane delle due canne. La bestia era troppo vicina. Non appena fosse scattato il dente d'arresto, avrebbe sentito il rumore. Tenne lo sguardo fisso nel buio, non sapendo se quella sensazione era reale o non piuttosto uno scherzo della sua mente; poi le nubi in alto si diradarono e il chiaro di luna tornò a risplendere. Di fronte a lui giganteggiava un enorme maschio di cinghiale. Sul dorso imponente svettava una criniera di peli ruvidi, neri e ispidi sotto la luce lunare. Le mascelle erano armate di zanne ricurve, tanto affilate che avrebbero potuto squarciare il ventre di un uomo o recidergli l'arteria femorale all'altezza dell'inguine, facendolo morire dissanguato nel giro di pochi minuti. L'uomo e il cinghiale si videro nello stesso momento. Tom tirò indietro il doppio cane del moschetto, armando le due canne, e il cinghiale si lanciò alla carica. Lui allora gli scaricò nel petto la prima canna, e i pesanti proiettili di piombo si conficcarono con un tonfo sordo nella carne e nell'osso. Il cinghiale barcollò e cadde in ginocchio, ma subito si rialzò con un balzo, tornando all'attacco. Tom fece fuoco con la seconda canna, e poi colpì l'animale sul muso col moschetto scarico, spiccando nel contempo un balzo di lato. Una delle zanne rimase agganciata alla falda della giacca, tagliandola come un rasoio, ma la punta sfiorò appena le sue carni. La spalla massiccia dell'animale lo colpì di sfuggita, ma con forza sufficiente a fargli perdere l'equilibrio e farlo rotolare nel fango. Tom lottò per rialzarsi, col coltello stretto nella mano destra, pronto ad affrontare l'attacco successivo. Intorno a lui si agitava una massa di corpi scuri e si sentivano squittii allarmati: il branco di cinghiali si stava disperdendo nella foresta. Subito dopo scese il silenzio, poi Tom udì un rumore molto più Wilbur Smith
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sommesso, un respiro affannoso, una serie di sbuffi e l'agitarsi convulso di zampe posteriori tra le canne della palude. Si diresse con cautela verso la fonte di quel rumore e vide il cinghiale che scalciava negli spasimi dell'agonia. Tornando in gran fretta al campo, trovò i dieci uomini scelti là dove li aveva lasciati, in attesa del suo richiamo. Nessuno di loro era musulmano, e non si facevano scrupoli a toccare un cinghiale, cioè una bestia che apparteneva alla famiglia dei suini. Tom li condusse nella palude, dove legarono a un palo l'enorme carcassa maleodorante per trasportarla. Sebbene fossero in dieci, il peso dell'animale li fece barcollare mentre tornavano indietro lungo la riva del fiume, verso il punto in cui Kadem era ancora legato all'albero e Mansur stava in attesa vicino a lui, insieme con Battila e Kumrah. Ormai stava per sorgere l'alba. Kadem fissò la carcassa del cinghiale che venne scaricata di fronte a lui. Non disse nulla, ma la sua espressione lasciava intuire chiaramente l'orrore e la ripugnanza. I portatori avevano con sé alcune vanghe, e Mansur li incaricò di scavare subito una fossa vicino alla carcassa. Nessuno di loro rivolse la parola a Kadem, anzi, lavorando, guardavano di rado nella sua direzione, tuttavia l'agitazione del prigioniero aumentava di minuto in minuto. Aveva ricominciato a tremare e sudare, ma quello non era soltanto l'effetto del trauma e del dolore causato dalle punture di formica. Aveva cominciato a capire quale sorte Mansur intendeva riservargli. Quando la fossa fu abbastanza profonda, gli uomini, su ordine di Tom, deposero le vanghe, radunandosi intorno alla carcassa del cinghiale. Due di loro affilarono sulla striscia di cuoio la lama dei coltelli per scuoiare, mentre gli altri facevano rotolare sul dorso la carogna, tenendo separate le quattro zampe in modo da facilitare il loro lavoro. Gli uomini erano esperti, e in breve tempo la pelle spessa e setolosa si staccò dallo strato di muscoli rosa e viola e dal grasso bianco del ventre. Alla fine, la pelle fu staccata interamente dal corpo e gli uomini la distesero sul terreno. Mansur e i due comandanti delle navi si tennero bene alla larga, facendo attenzione perché neppure una goccia di sangue di quell'animale impuro li contaminasse. La loro repulsione era evidente, al pari di quella del loro prigioniero. Il fetore rancido sprigionato dalle carni grasse del vecchio maschio si sparse nell'aria del mattino, e Mansur sputò per togliersi di bocca quel sapore cattivo prima di rivolgere la parola a Kadem, per la Wilbur Smith
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prima volta da quando Tom e gli altri avevano portato lì il cinghiale. «Oh, uomo senza nome che ti definisci vero seguace del Profeta e inviato da Allah a compiere la sua volontà. Non abbiamo più bisogno di te e della tua perfidia. La tua vita sulla terra è giunta al termine.» Kadem sembrò molto più turbato di quando gli era stata inflitta la tortura della formica guerriera. Prese a farfugliare come un idiota, roteando gli occhi da una parte all'altra. Mansur ignorò le sue proteste, continuando senza pietà: «Al mio ordine, verrai cucito all'interno di questa pelle di porco ancora umida e maleodorante, e sepolto vivo nella fossa che abbiamo preparato per te. Sopra il tuo corpo sistemeremo la carcassa scuoiata di questa bestia, in modo che, mentre soffocherai, il suo sangue e il suo grasso ti coleranno sul viso. Mentre tu e il porco marcirete insieme, i vostri fluidi corporei si mescoleranno e diventeranno tutt'uno. Tu sarai contaminato e diventerai harom per sempre. Dio e il suo Profeta ti negheranno la vista del loro volto per l'eternità». Mansur rivolse un gesto agli uomini in attesa, che si fecero subito avanti, mentre lui liberava Kadem dalle catene. Coi polsi ancora legati alle caviglie, lo trasportarono di peso fino alla pelle di cinghiale distesa sul terreno e ve lo deposero sopra. Il mastro velaio della nave infilò una gugliata di filo nell'ago e indossò il mezzo guanto di cuoio, apprestandosi a cucire il corpo di Kadem dentro quella specie di sudario. Quando si sentì avvolgere dalle pieghe umide e grasse, Kadem lanciò un urlo terribile, come un'anima dannata gettata nelle tenebre eterne. «Mi chiamo Kadem ibn Abubaker, e sono il figlio maggiore del pascià Suleiman Abubaker. Sono venuto qui per vendicare l'uccisione di mio padre e per compiere la volontà del mio signore, il califfo Zayn al-Din ibn al-Malik.» «E qual era la volontà del tuo signore?» insistette Mansur. «L'esecuzione della principessa Yasmini e del suo amante incestuoso, alSalil.» Mansur si rivolse a Tom, accovacciato poco lontano. «È tutto quello che volevamo sapere. Ora posso ucciderlo, zio?» Tom si alzò, scuotendo la testa. «La sua vita non appartiene a me, ma a tuo padre. Inoltre, se vogliamo vendicare tua madre, potremmo avere ancora bisogno di questo assassino.» Kadem, col timpano danneggiato, non riusciva a mantenere l'equilibrio e vacillò, rischiando di cadere, mentre lo sollevavano dalle pieghe della pelle Wilbur Smith
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di cinghiale, tagliavano i lacci di cuoio e lo rimettevano in piedi. Tom ordinò di legarlo allo stesso palo che era servito a trasportare la carcassa del cinghiale, e così i portatori lo trasferirono sulla spiaggia in riva alla laguna, neanche fosse una preda ormai morta. «Fuggire gli sarà più difficile, a bordo di una nave. Portalo sulla Gift of Allah», ordinò Tom a Batula. «Incatenalo sul ponte inferiore, e fallo sorvegliare giorno e notte dai tuoi uomini più fidati.» Trascorsero i quaranta giorni di lutto per Yasmini nell'accampamento sulla laguna. Nei primi dieci giorni Dorian rimase in bilico sull'abisso nero della morte, scivolando dal delirio nel coma, prima di riscuotersi. Tom, Sarah e Mansur si alternarono a turno al suo capezzale. La mattina del decimo giorno aprì gli occhi e guardò Mansur, parlando con voce debole ma limpida. «Tua madre è stata sepolta? Hai recitato le preghiere?» «È stata sepolta e ho pregato sulla sua tomba, per te e per me.» «Questo è bene, figlio mio.» Dorian scivolò ancora nell'incoscienza, ma, meno di un'ora dopo, si svegliò, chiedendo da mangiare e da bere. «Vivrai», gli disse Sarah, portandogli una scodella di brodo. «Te la sei cavata per un soffio, Dorian Courteney, però ora vivrai.» Sollevato dall'ansia terribile per le condizioni di Dorian, Tom lasciò a Sarah e alle altre donne il compito di vegliare al capezzale del fratello e, con Mansur, si dedicò ad altre faccende. Ordinò che ogni giorno Kadem fosse portato dal ponte inferiore in coperta, dove poteva fare un po' di moto e respirare una boccata d'aria. Si accertò che fosse ben nutrito e che la ferita al cuoio capelluto guarisse bene. Non provava la minima compassione per il prigioniero, ma voleva essere certo che restasse in buone condizioni, perché aveva un ruolo importante nei piani che lui stava delineando. Ordinò inoltre che la pelle di cinghiale selvatico fosse salata e appesa all'alberatura della Gift of Allah. Dal momento che parlava correntemente l'arabo, quasi ogni giorno interrogava Kadem, costringendolo a sedersi a gambe incrociate all'ombra di quella pelle che svolazzava sopra la sua testa, un memento costante della sorte che lo attendeva se si fosse rifiutato di rispondere. «Come hai scoperto che questa nave apparteneva a me e a mio fratello?» gli domandò, e Kadem citò il mercante di Zanzibar che gli aveva fornito quell'informazione, prima di morire strangolato dalla garrotta. Wilbur Smith
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Quando finalmente Dorian si sentì abbastanza in forze da mettersi a sedere senza aiuto, Tom gli comunicò la notizia, commentando: «Quindi ormai la nostra identità è nota alle spie di Zayn al-Din in ogni ancoraggio lungo la costa, dal capo di Buona Speranza a Hormuz e fino al mar Rosso». «Ci conoscono anche gli olandesi», gli rammentò Dorian. «Keyser ci ha promesso che tutti i porti della VOC in Oriente sarebbero stati chiusi per noi. Dobbiamo modificare l'aspetto esteriore delle nostre navi.» Tom si dedicò a quel compito. L'una dopo l'altra, la Maid of York e la Gift of Allah furono trainate in secca sulla spiaggia, e lui sfruttò il movimento della marea per lavorare sulla carena. Anzitutto raschiarono le pesanti incrostazioni di alghe e trattarono le teredini che si erano già insediate nella carena. Alcune di quelle creature repellenti erano spesse quanto il pollice di un uomo e lunghe un braccio. Potevano infestare il fasciame scavandovi vere gallerie, finché la nave non diventava marcia come un formaggio guasto e rischiava seriamente di sfasciarsi col maltempo. Dopo aver calafatato il fondo della nave e rinnovato la copertura in rame, l'unico rimedio efficace contro le teredini, Tom cambiò gli alberi e il sartiame e montò sulla Gift of Allah un albero di mezzana. Quella era una decisione che lui e Dorian avevano già discusso. L'inserimento di un albero alterava alquanto l'aspetto e le prestazioni della nave. Quando la portò in mare per metterla alla prova, scoprì che sfruttava meglio il vento e guadagnava due nodi di velocità in navigazione. Tom e Battila ne furono entusiasti e, trionfanti, riferirono quel successo a Dorian. Benché claudicante, lui insistette per scendere sulla spiaggia a guardarla. «In nome di Dio, è di nuovo fresca come una vergine», esclamò. «Deve avere anche un nome nuovo, fratello», osservò Tom, concordando con lui. «Quale sarà?» Dorian esitò solo un attimo. «Revenge, 'Vendetta'», dichiarò. Dalla sua espressione, l'altro capì a che cosa stava pensando, e non mosse obiezioni. «È un nome carico di gloria», disse invece, con un cenno di assenso. «Il nostro trisavolo salpò insieme con Sir Richard Grenville su una nave con quel nome.» Ripitturarono lo scafo di azzurro cielo, perché era l'unica pittura che si erano portati appresso in abbondanza, e decorarono i portelli dei cannoni con una cornice a scacchi blu, conferendo così alla Revenge un'aria quasi civettuola. Wilbur Smith
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Poi si misero al lavoro sulla Maid of York, che aveva sempre manifestato una certa tendenza a straorzare quando filava col vento in poppa. Tom colse l'occasione per aggiungere altri dieci piedi all'albero di maestra e aumentarne l'inclinazione di cinque gradi. Inoltre allungò il bompresso e spostò in avanti di un'inezia il fiocco e la trinchettina. Cambiò persino la disposizione delle gabbie di sostegno per le botti dell'acqua, nelle stive di poppa, così da modificare l'assetto dello scafo, e questo non solo ne cambiò il profilo, ma rese anche la nave più sensibile al timone, correggendo la sua tendenza a stare bassa di prua. Infine le assegnò uno schema di colori esattamente opposto a quello della Revenge: scafo blu e portelli dei cannoni azzurri. «Questa è stata battezzata Maid of York in tuo onore», rammentò a Sarah. «Quel che è giusto è giusto: ora sei tu che devi ribattezzarla.» «Water Sprite», rispose subito lei, e Tom batté le palpebre. «Come ti è venuto in mente? 'Spiritello dell'acqua'. È un nome bizzarro.» «Io sono una donna bizzarra», ribatté lei, ridendo. «Questo è vero», ammise, unendosi alla sua risata. «Ma forse andrebbe meglio soltanto Sprite.» «Sei tu che devi sceglierle il nome, oppure io?» ribatté Sarah in tono angelico. «Be', diciamo... noi.» La donna alzò le braccia al cielo, in segno di resa. Quando furono trascorsi i quaranta giorni di lutto per Yasmini, Dorian si era ripreso a sufficienza per poter raggiungere senza aiuto l'estremità della spiaggia e tornare indietro a nuoto attraverso il canale. Anche se si era rimesso in forze, sembrava profondamente segnato dalla solitudine e da un'insanabile malinconia. Ogni volta che Mansur riusciva a liberarsi dai suoi doveri, trascorreva qualche ora col padre, e i due parlavano a lungo, a bassa voce. Ogni sera la famiglia si riuniva intorno al fuoco per discutere i piani per il futuro. Ben presto fu evidente che nessuno di loro desiderava stabilirsi nella laguna. Dal momento che non avevano cavalli, le spedizioni di Tom e Mansur non potevano spingersi troppo all'interno, così non incontrarono nessuna delle tribù che un tempo avevano abitato quella regione. I villaggi erano tutti deserti o bruciati. «Non c'è commercio, se non c'è qualcuno con cui commerciare», fece notare Tom. Wilbur Smith
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«È un posto malsano. Abbiamo già perso uno dei nostri a causa della febbre», intervenne Sarah spalleggiandolo. «Avevo sperato tanto d'incontrare qui il nostro Jim, ma in tutto questo tempo non abbiamo ricevuto neanche un segno da parte sua. Deve aver proseguito verso nord.» C'erano altre cento ragioni per cui Jim poteva essere scomparso, ma lei rifiutò anche soltanto di pensarle. «Lo troveremo laggiù», dichiarò invece, con decisione. «Io, per dirne una, non posso restare qui», disse Mansur. Nelle ultime settimane aveva assunto con molta naturalezza il suo posto nei consigli di famiglia. «Mio padre e io abbiamo l'obbligo sacro di trovare l'uomo che ha ordinato la morte di mia madre. Io so chi è. Il mio destino è a nord, nel regno di Oman.» Tacque, guardando con aria interrogativa il padre. Dorian annuì. «L'uccisione di Yasmini ha cambiato tutto. Ora divido con te l'obbligo sacro della vendetta. Andremo insieme a nord.» «Allora è deciso.» Tom parlò a nome di tutti. «Quando raggiungeremo la baia della Natività, potremo rivedere le nostre decisioni.» «Quando salperemo?» chiese Sarah con ansia. «Dimmi un giorno!» «Le navi sono quasi pronte, e anche noi lo siamo. Tra dieci giorni. Il giorno dopo venerdì santo!» suggerì Tom. «Un giorno propizio.» Sarah compose una lettera per Jim. Comprendeva dodici fogli di pergamena pesante, fittamente ricoperti dalla sua scrittura elegante. La cucì in un sacchetto di tela, dipinto di azzurro cielo con la vernice delle navi e sigillato lungo le cuciture con la pece bollente. Vi scrisse sopra il nome con la vernice bianca in lettere maiuscole: MR JAMES ARCHIBALD COURTENEY. Poi la portò in cima alla collina e la nascose nella cavità sotto la pietra che fungeva da ufficio postale. Infine costruì una piramide di sassi in cima alla pietra per segnalare a Jim, quando fosse arrivato, che c'era una lettera per lui. Mansur andò a caccia verso la zona più elevata della valle e uccise altri cinque bufali cafro. Le donne salarono la carne, la essiccarono e prepararono salsicce speziate per il viaggio che li attendeva. Poi Mansur controllò l'equipaggio mentre riempiva tutte le botti dell'acqua a bordo delle navi. Tom e i comandanti arabi fecero in barca il giro delle navi per controllare la tenuta di ciascuna. Pur essendo molto cariche, si comportavano bene e avevano un aspetto straordinariamente elegante sotto le nuove mani di pittura.
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Kadem aveva il permesso di salire in coperta per qualche ora ogni giorno, sempre in catene e sotto stretta sorveglianza. Tom e Dorian lo interrogavano a turno e, con la pelle essiccata di cinghiale che gettava la sua ombra sul ponte, Kadem rispondeva alle loro domande, se non di buon grado, almeno con un certo rispetto. Tuttavia dai suoi occhi non scompariva mai quello sguardo sconcertante. Benché Tom e Dorian formulassero le stesse domande in modo diverso, le risposte di Kadem erano coerenti e lui evitava le trappole che gli tendevano. Doveva sapere quale sarebbe stato il suo destino. La legge non lasciava un gran margine di misericordia a Dorian e Mansur. Quando lo guardavano, Kadem leggeva la morte nei loro occhi, e l'unica cosa in cui poteva sperare era che, una volta giunto il momento, gli avrebbero concesso un'esecuzione rapida e dignitosa, senza l'orrore dello squartamento o il sacrilegio della pelle di cinghiale. Nel corso delle settimane, la prigionia di Kadem sul ponte inferiore cominciò ad assumere il ritmo di una routine. Tre marinai arabi si alternavano nel compito di carcerieri durante la notte, facendo ciascuno un turno di quattro ore. Erano stati scelti da Battila e, sulle prime, rispettarono i suoi ordini, riferendogli anche le osservazioni più casuali di Kadem, benché loro avessero la consegna del silenzio. Tuttavia le notti erano lunghe e il servizio di guardia era noioso, almeno quanto era pesante l'obbligo di restare svegli. Kadem era stato addestrato dai più famosi mullah della casa reale di Oman a sostenere dibattiti dialettici e religiosi. Le parole che sussurrava nel buio ai suoi carcerieri, mentre il resto dell'equipaggio era a terra o dormiva in coperta, avevano un valore enorme per quei giovani devoti. Le verità che enunciava erano troppo pregnanti e commoventi per essere riferite a Batula. Non potevano non porgere l'orecchio alle sue parole, e lo ascoltarono, dapprima con venerazione, quando parlava della verità e della bellezza della via di Dio; poi, loro malgrado, cominciarono a rispondere ai suoi sussurri con altri sussurri. Dal fuoco che gli ardeva negli occhi intuivano che Kadem era un sant'uomo. Si lasciarono convincere dal fervore della sua devozione e dalla logica inattaccabile delle sue parole. A poco a poco, caddero sotto l'incantesimo di Kadem ibn Abubaker. Intanto il resto della compagnia era sempre più contagiato dall'eccitazione della partenza imminente. Gli ultimi mobili e le ultime merci furono trasportati dalle capanne fino al margine della foresta e poi Wilbur Smith
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caricati a bordo. Il venerdì santo, Tom e Mansur gettarono torce accese sulle capanne vuote: la paglia si era inaridita, cosicché bruciarono come falò. Il giorno dopo, salparono di mattina presto, in modo che Tom avesse luce sufficiente per scorgere il canale. Al largo, il vento era costante, e lui guidò la piccola flotta oltre i promontori fino al mare aperto. Era mezzogiorno, e la terra appariva ormai bassa e azzurrina all'orizzonte occidentale, quando un uomo dell'equipaggio salì in coperta in preda a una terribile agitazione. Tom e Dorian erano insieme sul cassero, e Dorian era seduto sulla sedia che Tom gli aveva costruito e che somigliava alquanto a un'amaca. Sulle prime, nessuno dei due riuscì a interpretare le grida selvagge dell'uomo. Infine Tom comprese. «Kadem!» Scese di corsa la scaletta di boccaporto fino al ponte inferiore. Chiuso saldamente nella gabbia di legno costruita dai carpentieri, Kadem dormiva, raggomitolato sul pagliericcio. Le catene erano ancora assicurate agli anelli infissi nel ponte. Tom afferrò un angolo della coperta che era distesa sul prigioniero dalla testa ai piedi, poi la gettò di lato, prendendo a calci il fantoccio che c'era sotto. Era stato costruito con abilità, unendo due sacchi pieni di stoppa e legandoli con brevi tratti di corda vecchia per conferirgli la sagoma di un corpo umano, da mascherare poi sotto la coperta. L'equipaggio perquisì in fretta la nave da poppa a prua, guidato da Tom e Dorian, che, brandendo la spada, si calarono in tutte le stive e sondarono tutti gli angoli e i nascondigli possibili. «Mancano altri tre uomini», riferì Battila con espressione afflitta. «Chi sono?» chiese Dorian. Batula esitò prima di rispondere. «Rashood, Pinna e Habban», disse infine con voce tremante. «I tre uomini che avevo incaricato di sorvegliarlo.» Tom cambiò rotta per affiancarsi alla Revenge. Attraverso il megafono, chiamò Mansur, che aveva il comando dell'altra nave, e i due velieri virarono di bordo per tornare verso l'ingresso della laguna. Ma i venti che avevano permesso loro di lasciare la laguna con tanta facilità li costrinsero a restare al largo. Per giorni e giorni incrociarono davanti all'ingresso della laguna, e due volte rischiarono di finire sballottati dalla risacca quando Tom, frustrato, tentò di passare a tutti i costi. Sei giorni dopo la partenza, riuscirono finalmente a gettare di nuovo l'ancora presso la spiaggia. Dopo la loro partenza aveva piovuto abbondantemente e, una volta scesi a terra, scoprirono che tutte le tracce lasciate dai fuggiaschi erano state Wilbur Smith
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cancellate. «Comunque possono essere andati soltanto in una direzione», dichiarò Tom, puntando il dito verso la valle. «Hanno parecchi giorni di vantaggio su di noi. Se vogliamo raggiungerli, dobbiamo metterci subito in marcia.» Ordinò a Batula e Kumrah di controllare le armerie e il magazzino. Tornarono a riva con aria dispiaciuta, per riferire che mancavano quattro moschetti; erano scomparse altrettante sciabole, insieme con sacchetti di proiettili e fiasche per la polvere. Tom, però, si astenne dal rimproverare oltre i due comandanti, perché avevano già sofferto abbastanza. Dorian protestò con veemenza quando Tom gli disse che doveva restare per prendersi cura delle navi e di Sarah mentre loro inseguivano i fuggiaschi. Alla fine, Sarah si unì al marito per convincere Dorian che non era ancora abbastanza in forze per una spedizione del genere, caratterizzata da marce forzate e forse anche da combattimenti. Per farsi accompagnare, Tom scelse dieci dei suoi uomini migliori, quelli più abili con la spada, il moschetto e la pistola. Un'ora dopo essere approdati, era già tutto pronto. Tom baciò Sarah e si allontanò dalla spiaggia, diretto verso l'interno. Insieme con Mansur, prese il comando della fila di uomini armati. «Vorrei che ci fosse con noi il piccolo Bakkat», brontolò. «Lui riuscirebbe a seguirli anche se si facessero spuntare le ali e volassero a dieci piedi di altezza.» «Tu sei un famoso cacciatore di elefanti, zio. Lo sento dire da quand'ero bambino.» «Da allora è passato qualche anno», gli fece notare Tom con un sorriso malinconico. «E non devi ricordare tutto quello che ti dico. Le vanterie sono come i debiti e gli amori della gioventù: tornano spesso a tormentarti.» A mezzogiorno della terza giornata di marcia si fermarono sul crinale della catena montuosa che correva ininterrotta da nord a sud come un bastione. Le pendici ai loro piedi erano ricoperte da masse di erica purpurea. Quello era lo spartiacque tra il litorale e l'altopiano interno dello scudo continentale. Dietro di loro, le foreste si allungavano come un tappeto verde fino all'orlo dell'oceano; davanti, si stendevano a perdita d'occhio colline brulle e rocciose e pianure interminabili, che arrivavano fino all'orizzonte reso azzurrino dalla distanza. Le minuscole nuvole di polvere sollevate dai branchi di selvaggina in movimento si spostavano Wilbur Smith
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trasportate dalla brezza calda. «Una qualsiasi di quelle nuvolette potrebbe segnare il cammino degli uomini ai quali diamo la caccia, ma gli zoccoli degli animali ormai avranno cancellato le loro tracce», disse Tom a Mansur. «Tutto considerato, però, dubito che si siano diretti verso quel grande vuoto. Kadem deve aver avuto il buonsenso di cercare almeno qualche abitazione.» «La colonia del Capo?» disse Mansur, guardando a sud. «Più probabilmente le fortezze arabe lungo la costa della Febbre, o il territorio portoghese del Mozambico.» «La terra è così grande...» osservò Mansur, accigliato. «Potrebbero essere andati ovunque.» «Aspetteremo il ritorno degli esploratori prima di decidere la prossima mossa.» Tom aveva mandato gli uomini migliori in avanscoperta a nord e a sud, ordinando loro di ritrovare la pista di Kadem. Non intendeva dirlo a Mansur, perlomeno non ancora, ma sapeva che le loro speranze erano remote. Kadem aveva troppo vantaggio su di loro e, come aveva osservato il nipote, il territorio era molto grande. Il punto d'incontro fissato da Tom con gli esploratori era una vetta dalla forma caratteristica, simile a un cappello a tricorno, visibile da venti leghe in tutte le direzioni. Si accamparono sul versante meridionale, al limite degli alberi, e, durante la notte, giunsero alla spicciolata gli esploratori. Nessuno di loro era riuscito a trovare tracce di presenza umana. «Se la sono filata, ragazzo», disse Tom al nipote. «Penso che non ci resti altro da fare che lasciarli andare e tornare alle navi. Ma vorrei conoscere il tuo parere. È il tuo dovere nei confronti di tua madre che deve dettare le nostre mosse, d'ora in poi.» «Kadem era soltanto il messaggero», rispose Mansur. «La mia faida di sangue riguarda il suo signore a Lamu, Zayn al-Din. Sono d'accordo con te, zio. Questa caccia è inutile. È meglio spendere le nostre energie altrove.» «C'è anche un'altra riflessione da fare, ragazzo. Kadem volerà difilato dal suo signore, come il piccione torna alla piccionaia. Quando troveremo Zayn, Kadem sarà al suo fianco, se i leoni non lo avranno divorato prima.» Il viso di Mansur si rischiarò e le sue spalle si raddrizzarono. «A questo non avevo pensato. Hai ragione, zio. Quanto alla possibilità che Kadem Wilbur Smith
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trovi la morte mentre vaga in questo territorio selvaggio, a me sembra che lui abbia la tenacia animale e la fede fanatica necessarie per sopravvivere. Sono certo che lo incontreremo ancora. Non sfuggirà alla mia vendetta. Affrettiamoci a tornare verso le navi.» Prima dell'alba, Sarah lasciò la cuccetta che occupava sulla Sprite e, come faceva ogni mattina da quando Tom era partito, andò a terra per salire in cima alla collina che dominava la laguna. Da lì osservava l'orizzonte, in attesa del suo ritorno. Riconoscendo da lontano la sua figura alta ed eretta e l'andatura oscillante, mentre avanzava alla testa dei suoi uomini, si accorse di avere la vista appannata. Dai suoi occhi scendevano lacrime di gioia e di sollievo. «Ti ringrazio, mio Dio, di aver dato ascolto alle mie preghiere», esclamò, scendendo di corsa il pendio per gettarsi tra le sue braccia. «Ero preoccupata da morire al pensiero che senza il mio aiuto ti cacciassi di nuovo nei guai, Tom Courteney!» «Non ne ho avuto la possibilità, Sarah Courteney», rispose lui, abbracciandola con forza. «Peccato.» Lanciò un'occhiata a Mansur. «Tu sei più veloce di me, ragazzo. Va' avanti per avvertire tuo padre che stiamo tornando e far preparare le navi a salpare non appena metterò piede a bordo.» Mansur si allontanò subito e Sarah disse: «Sei davvero ingegnoso, eh, Thomas? Non volevi essere tu a comunicare a Dorry la triste notizia che l'assassinio di Yassie non è stato vendicato». «È dovere di Mansur, più che mio», replicò lui in tono disinvolto. «Dorry non vorrebbe che fosse altrimenti. L'unico aspetto positivo di questa dannata faccenda è che essa potrebbe avvicinare padre e figlio più di quanto sia mai avvenuto in passato. E tieni presente che erano già molto vicini.» Salparono con la bassa marea. Il vento era favorevole e raggiunsero il largo prima che calasse la sera. Le navi erano separate da una distanza inferiore a quella di due cavi, con un vento vivace al giardinetto, che era il loro punto di forza. La Revenge diede prova della sua maggiore velocità e cominciò a guadagnare sulla Sprite, quindi fu con una certa riluttanza che Tom diede ordine di ridurre la velatura per la notte. Sembrava un peccato non sfruttare appieno quel vento che li portava così in fretta verso la baia della Natività. Ma io sono un commerciante, non un guerriero, si disse per consolarsi e, mentre impartiva l'ordine di ridurre la velatura, vide Mansur, a bordo della Wilbur Smith
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Revenge, serrare il fiocco e terzarolare la vela di mezzana e la randa di maestra. Entrambe le navi issarono delle lanterne sulla coffa dell'albero di maestra, per tenersi meglio d'occhio a vicenda durante la notte. Tom stava per cedere il cassero a Kumrah e scendere nel piccolo salone sottocoperta a consumare la cena che Sarah gli stava preparando. Riconosceva l'aroma ricco di uno dei suoi famosi curry babootie, e si sentì venire l'acquolina in bocca, ma dedicò ancora qualche minuto a controllare la tenuta delle vele e il comportamento del timoniere. Finalmente soddisfatto, si diresse verso la scaletta di boccaporto, ma poi si fermò di colpo. Fissando l'orizzonte cupo a oriente, mormorò perplesso: «C'è un grande incendio, laggiù. Che sia una nave in fiamme? No, è qualcosa di più grande. L'eruzione di un vulcano, magari?» Anche gli uomini dell'equipaggio avevano visto quel chiarore e si affollavano lungo la battagliola, scrutando il cielo a bocca aperta e lanciando esclamazioni di stupore. Poi, con grande meraviglia di Tom, comparve all'orizzonte una sfera mostruosa di fuoco celeste, che si rifletté sulla superficie buia del mare. Oltre il tratto di mare che li separava, le vele della Revenge si accesero di un riverbero spettrale. «Una cometa, perdio!» gridò, in preda allo stupore, prima di correre sul ponte di coperta che sovrastava il salone. «Sarah Courteney, vieni subito qui. Non hai mai visto uno spettacolo del genere, e non lo vedrai mai più.» Sarah salì volando la scaletta, seguita a breve distanza da Dorian, e i due si fermarono di colpo, sbigottiti, senza parole di fronte all'incanto di quello spettacolo. Poi Sarah si avvicinò a Tom, stringendosi nel cerchio protettivo delle sue braccia. «È un segno», sussurrò. «Una benedizione dall'alto per la vecchia vita che ci siamo lasciati alle spalle nella colonia di Buona Speranza, e una promessa per la nuova vita che ci attende.» Dorian si allontanò da loro per avanzare lentamente sulla coperta della nave, finché, giunto a prua, non cadde in ginocchio, col viso rivolto al cielo. «Questi lunghi giorni di lutto sono passati», mormorò. «Il tuo tempo qui con me sulla terra è finito. Va', Yasmini, mio piccolo tesoro. Ti affido alle braccia di Allah, ma sappi che il mio cuore e tutto il mio amore se ne vanno con te.» Oltre le acque scure, anche Mansur Courteney vide la cometa, e corse Wilbur Smith
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verso le sartie, spiccando un balzo e arrampicandosi con agilità fino a raggiungere la formaggetta dell'albero di maestra. Passando un braccio intorno alla sommità dell'albero di velaccio e tenendosi in equilibrio per bilanciare il beccheggio e il rollio dello scafo, ingigantiti a quell'altezza dai sessanta piedi che lo separavano dalla superficie del mare, levò il viso al cielo, lasciando svolazzare al vento i capelli folti e lunghi. «La morte dei re!» gridò. «La distruzione dei tiranni! Tutti quegli eventi portentosi preannunciati dal dito di Allah che scrive nei cieli.» Poi si riempì i polmoni per gridare al vento: «Ascoltami, Zayn al-Din! Sono la tua nemesi, e sto per venire a prenderti!» Una notte dopo l'altra, mentre le due piccole navi procedevano verso nord, la cometa saliva nel cielo, come per illuminare il loro percorso, finché non scorsero una lingua di terra che sporgeva dalle acque buie davanti a loro, simile al dorso di una balena mostruosa. All'estremità settentrionale del promontorio si apriva la bocca della balena. Superando quell'ingresso, si ritrovarono in una baia enorme, circondata dalle terre emerse, molto più estesa della laguna dell'Elefante. Da un lato il terreno era in ripida pendenza, mentre dall'altro si stendevano fitte paludi di mangrovie, ma in mezzo si apriva una splendida insenatura, la foce di un fiume dalle acque dolci e limpide, fiancheggiato da sponde in lieve declivio che costituivano un ancoraggio naturale. «Non è la prima volta che veniamo qui. Dorian e io ci siamo stati già molte volte. I nativi di questa regione chiamano il fiume Umbilo», disse Tom a Sarah mentre dirigeva verso la spiaggia, gettando l'ancora alla profondità di tre braccia. Guardando fuori bordo, videro le marre d'acciaio dell'ancora sparire nel fondo di sabbia chiara e frotte di pesci luccicanti turbinare nell'acqua, banchettando coi piccoli granchi e i gamberetti scacciati dalle loro tane. Quando tutte le vele furono ammainate e le due navi oscillarono all'ancora, Tom e Sarah si affacciarono alla battagliola, osservando Mansur che si dirigeva dalla Revenge verso la spiaggia a forza di remi, ansioso di esplorare quel nuovo ambiente. «L'irrequietezza della gioventù», osservò Tom. «Se l'irrequietezza è il segno della gioventù, allora tu sei un poppante.» «Lo trovo del tutto ingiusto nei miei confronti», ribatté lui ridacchiando, «ma lascerò correre.» Lei si schermò gli occhi con la mano, studiando la linea costiera. «Dov'è Wilbur Smith
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la pietra della posta?» «Laggiù, ai piedi dell'altura, ma non sperarci troppo.» «No di certo!» scattò lei, ma poi si disse: Non deve cercare di proteggermi dalla delusione. Il mio istinto di madre mi dice che Jim è vicino. Anche se non ha ancora raggiunto questa baia, lo farà presto. Devo soltanto pazientare, e mio figlio verrà da me. Tom le porse un ideale ramoscello di ulivo, cambiando argomento in tono conciliante. «Che te ne pare di questo angolo di mondo, Sarah Courteney?» «Mi piace abbastanza, Tom Courteney, e forse mi piacerà ancora di più se mi lascerai stare qui più di un giorno e una notte», rispose lei, accettando l'offerta di pace con un sorriso. «Allora Dorian e io cominceremo subito a delimitare il sito del nuovo forte e posto di scambio che costruiremo qui.» Tom accostò all'occhio il cannocchiale. In realtà lui e Dorian avevano già svolto gran parte del lavoro preliminare durante la loro ultima visita alla baia della Natività, e lui fece scorrere il cannocchiale sul sito che avevano scelto allora. Era un promontorio su una curva del fiume, che in quel punto descriveva un arco; poiché le acque del fiume Umbilo lo circondavano su tre lati, era facile da difendere. Inoltre garantiva una riserva costante di acqua potabile, e anche un buon campo di tiro in tutte le direzioni. Infine era a portata di tiro dei cannoni installati sulle navi all'ancora, e avrebbe potuto beneficiare del loro appoggio in caso di un attacco da parte di tribù selvagge o altri nemici. «Sì!» esclamò, soddisfatto. «Sarà l'ideale per i nostri scopi. Daremo inizio ai lavori domani al più tardi, e tu dovrai progettare il nostro alloggio proprio come hai fatto a Fort Providence, vent'anni fa.» «Quella è stata la nostra luna di miele», osservò lei, sentendo ridestarsi l'entusiasmo. «Proprio così, ragazza mia», le disse Tom con un sorriso. «E questa sarà la seconda.» Il piccolo drappello di cavalieri si spostava lentamente attraverso il veld, rimpicciolito dall'immensità del paesaggio che li circondava. Conducevano a mano i cavalli da soma, lasciando che il piccolo branco di animali di riserva li seguisse scegliendo la propria andatura. Uomini e animali erano asciutti e temprati dal viaggio. I loro abiti apparivano laceri e rattoppati, gli Wilbur Smith
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stivali ormai consumati erano stati scartati e sostituiti da altri confezionati alla bell'e meglio con la pelle di kudu. I finimenti dei cavalli erano logorati dall'attrito contro le siepi di rovi, il cuoio delle selle levigato dal contatto col posteriore sudato dei cavalieri. I volti e le braccia dei tre olandesi erano bruniti dal sole come quelli dei soldati ottentotti. Procedevano in silenzio, seguendo in fila la minuscola figura trotterellante di Xhia, il boscimano. Avanti, sempre avanti, seguendo le tracce delle ruote di carro che proseguivano come un serpente interminabile attraverso pianure e colline. I soldati avevano abbandonato da tempo ogni idea di disertare, e non soltanto per la determinazione implacabile del loro capo, ma anche per le migliaia di leghe di territorio deserto e inesplorato che si erano lasciati alle spalle. Sapevano che un cavaliere da solo aveva ben poche speranze di raggiungere di nuovo la colonia. Erano come gli animali di un branco, costretti a restare uniti per sopravvivere. Erano prigionieri non soltanto dell'ossessione del capitano Herminius Koots, ma anche di quelle enormi distese disabitate. La giacca e i calzoni di pelle di Koots, ormai logori, erano tutti rattoppati e macchiati di sudore, di pioggia e di polvere rossa. I capelli lisci e unti gli spiovevano sulle spalle, sbiancati dal sole e spuntati alla bell'e meglio con un coltello da caccia. Col viso scavato, scurito dal sole, e gli occhi chiari dallo sguardo fisso, sembrava davvero un individuo posseduto dal demonio. Per Koots l'esca della ricompensa aveva perso da tempo le sue attrattive; a sospingerlo era la necessità di placare il suo odio col sangue della preda. Non si sarebbe lasciato defraudare di quell'appagamento da niente e da nessuno, né da uomini o animali né da quelle lande arroventate dal sole. Koots stava cavalcando col mento affondato nel petto, poi lo sollevò per guardare avanti, socchiudendo gli occhi dietro le ciglia incolori. All'orizzonte si stendeva una nuvola scura. La guardò salire sempre più in alto nel cielo e spostarsi verso di loro sulla pianura. Fermò il cavallo e chiamò Xhia. «Cos'è quell'ombra che riempie il cielo? Non è né polvere né fumo.» Xhia scoppiò a ridere, improvvisando una danza di gioia, trascinando i piedi sul terreno e pestandolo. Le distanze e le traversie del viaggio non lo avevano intaccato. Il boscimano era nato per quella vita. Stare rinchiuso tra quattro mura in compagnia di molti altri esseri umani lo avrebbe Wilbur Smith
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logorato, fiaccando il suo spirito; invece lo spazio aperto era il suo focolare e il cielo era il suo tetto. Si abbandonò a un'altra delle sue cantilene, in cui si mescolava il desiderio di esaltare se stesso e di sbeffeggiare il suo crudele e folle padrone, una sequela di vanterie e d'insulti che lui solo poteva capire. «Viscido verme bianco, creatura con la pelle del colore del pus e del latte cagliato, tu non sai niente di questa terra. E Xhia, il possente cacciatore e uccisore di elefanti, dovrebbe tenerti a balia come un neonato cieco e urlante?» Spiccò un salto da terra, scoreggiando di proposito, con tanta violenza che l'aria sollevò il lembo posteriore del suo gonnellino. Sapeva che quell'atto avrebbe mandato su tutte le furie Koots. «Xhia, che si erge così in alto che la sua ombra lunga terrorizza i nemici; Xhia, sotto il quale donne altere lanciano grida di gioia, Xhia dovrebbe condurti sempre per mano? Tu non capisci niente di quello che è scritto chiaramente sulla terra, non capisci niente di quello che è impresso nei cieli stessi.» «Smettila subito con quei versi da scimmia», gridò Koots. Non riusciva a capire le parole, ma riconosceva il tono canzonatorio, e sapeva che Xhia aveva scoreggiato solo per provocarlo. «Chiudi quella sudicia boccaccia e rispondimi in modo chiaro.» «Devo chiudere la bocca ma anche rispondere alle tue domande, grande maestro?» Xhia passò al dialetto che si usava nella colonia, un misto di tutte le lingue locali. «Sono forse un mago?» Nel corso di quei mesi di convivenza forzata avevano imparato a capirsi molto meglio che all'inizio, sul piano delle parole ma anche su quello degli intenti. Koots sfiorò l'impugnatura del lungo frustino in pelle d'ippopotamo, chiamato sjambok, che pendeva dalla cinghia appesa al corno della sella. Quello era un altro gesto che entrambi capivano bene. Xhia cambiò di nuovo tono ed espressione, sia pure continuando a danzare al di là della portata della frusta. «Mio signore, questo è un dono del Kulu Kulu. Stanotte dormiremo a pancia piena.» «Uccelli?» chiese Koots, guardando l'ombra della nuvola che investiva la pianura, avvicinandosi. Era rimasto stupito dagli stormi di minuscoli uccelli quelea, ma quella nube era molto più grande in altezza ed estensione di qualsiasi altra avesse mai visto. «Non sono uccelli», ribatté Xhia. «Queste sono cavallette.» Koots dimenticò la collera, spostandosi all'indietro sulla sella per valutare le dimensioni dello sciame che si avvicinava. Riempiva per metà Wilbur Smith
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la volta del cielo da un orizzonte all'altro. Il rumore delle ali sembrava quello di una lieve brezza tra i rami alti della foresta, ma aumentava rapidamente, diventando prima un mormorio, poi un rombo crescente, poi un tuono. Il grande sciame d'insetti formava una cortina in movimento, che spazzava il terreno col lembo inferiore. L'espressione affascinata di Koots divenne allarmata quando i primi insetti, ronzando bassi sul terreno, lo colpirono al petto e al viso. Si abbassò per evitarli, lanciando un grido, perché le zampe posteriori delle cavallette erano munite di uncini aguzzi di colore rosso. Una gli lasciò un segno in rilievo sulla guancia. Il cavallo s'impennò e scalciò sotto di lui, e Koots smontò di sella e afferrò le redini, costringendo l'animale a voltare le spalle allo sciame in arrivo e gridando ai suoi uomini di fare lo stesso. «Tenete per le briglie i cavalli da soma e impastoiate quelli di riserva, altrimenti corriamo il rischio che scappino di fronte a questo flagello.» Costrinsero gli animali a inginocchiarsi e, gridando e scrollando le redini, li spinsero loro malgrado a rotolarsi sul fianco e stendersi sull'erba. Koots si rintanò dietro il corpo del suo cavallo, calandosi il cappello sulle orecchie e sollevando il colletto della giacca di cuoio. Nonostante la parziale protezione offerta dal cavallo, le creature volanti urtavano contro tutte le parti esposte del suo corpo come una grandinata ininterrotta, ciascuna con violenza sufficiente a infliggere una puntura dolorosa attraverso le pieghe della giacca. Il resto del gruppo seguì il suo esempio, stendendosi al riparo delle cavalcature e cercando una copertura come se dovessero sfuggire al fuoco dei moschetti nemici. Soltanto Xhia sembrava indifferente a quella pioggia di corpi. Seduto allo scoperto, afferrava al volo le cavallette che lo colpivano, restando stordite dall'impatto, e spezzava loro le zampe e le antenne prima di ficcarsi in bocca tutto. Le corazze scricchiolavano mentre lui sgranocchiava, con un filo di liquido color tabacco che gli colava sul mento. «Mangiate!» gridò agli altri, masticando. «Dopo le cavallette viene la carestia.» Da mezzogiorno fino al tramonto, lo sciame di cavallette continuò a investirli, rombando come le acque di un grande fiume in piena. Il cielo era oscurato dalla loro massa, cosicché il crepuscolo calò su di loro assai prima del previsto. L'appetito di Xhia sembrava insaziabile. Continuò a ingoiare cavallette vive fino a gonfiarsi la pancia, e Koots, irato, pensò che Wilbur Smith
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sarebbe dovuto soccombere alla sua avidità. Invece Xhia possedeva lo stesso apparato digestivo di un animale selvatico. Quando ebbe il ventre teso e lucente come un pallone, si alzò traballando per allontanarsi di alcuni passi. Poi, ancora in piena vista di Koots, e col vento a suo favore, sollevò il lembo posteriore del gonnellino e si accovacciò di nuovo. A quanto pareva, tanta abbondanza di cibo serviva solo a lubrificare le funzioni delle sue viscere. E mentre defecava in modo abbondante e fragoroso, continuava a cogliere al volo gli insetti per ficcarseli in bocca. «Animale disgustoso!» gli gridò contro Koots, estraendo la pistola. Ma Xhia sapeva che, sebbene Koots lo picchiasse regolarmente, non poteva ucciderlo. Non lì, a tante migliaia di leghe dalla colonia e dalla civiltà. «Buono!» esclamò, sorridendo a Koots con aria beffarda e invitandolo con un gesto a unirsi al banchetto. Koots ripose l'arma nella fondina e affondò il naso nella piega del braccio. Non appena sarà servito al suo scopo, strangolerò quella piccola scimmia con le mie mani, si ripromise Koots, assalito dalla nausea per le zaffate di odori disgustosi che gli aleggiavano intorno. Al calar della sera, il possente sciame di cavallette si abbassò, posandosi sul terreno. Il ronzio assordante delle loro ali si attenuò, e Koots finalmente poté alzarsi e guardare intorno a sé. Nella luce del tramonto, gli apparve uno spettacolo incredibile: fin dove riusciva a spingersi con lo sguardo, la terra era coperta di uno strato di corpi bruno rossicci, uno strato che gli arrivava alla cintola. Gli alberi della foresta avevano cambiato forma quando gli sciami vi si erano posati, trasformandosi in covoni informi di cavallette vive che fremevano e aumentavano ancora di dimensioni quando altri insetti si sovrapponevano a quelli già posati. Con un crepitio simile a quello delle salve di moschetto, i rami principali dell'albero più vicino cedettero sotto il peso e si spezzarono, cadendo a terra, ma le cavallette continuavano ad accumularvisi sopra, divorando le foglie. Dalle tane e dalle gallerie in cui si erano rifugiati, i carnivori uscirono allo scoperto per banchettare con quella dovizia di cibo. Koots rimase a guardare sbalordito mentre iene, sciacalli e leopardi, imbaldanziti dall'avidità, si avventavano su quelle montagne d'insetti, divorandoli. Si unì al banchetto anche un branco di undici leoni, che passarono vicino al punto in cui si trovava Koots, ma senza prestare la minima attenzione agli uomini e ai cavalli, presi com'erano dal festino. Come mandrie al Wilbur Smith
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pascolo, si sparsero sulle pianure, col muso incollato al terreno per divorare i cumuli frementi di cavallette, masticandoli con le grosse mascelle. I cuccioli di leone, con la pancia piena, si alzavano sulle zampe per far volare in aria le creature, facendole saltellare per gioco. I soldati di Koots sgombrarono un tratto di terreno, sul quale accesero un fuoco. Usando la parte piatta delle vanghe come padelle, vi arrostirono sopra le cavallette finché non divennero marroni e croccanti, poi le masticarono con gusto quasi pari a quello di Xhia. Persino Koots si unì a quel pasto. Una volta scesa la notte, gli uomini tentarono di stendersi per riposare, ma gli insetti sciamarono sopra di loro: strisciavano sulla loro faccia, e le loro zampe uncinate raschiavano e graffiavano ogni lembo di pelle rimasto scoperto, impedendo loro di riposare. La mattina dopo, il sole, sorgendo, illuminò uno strano paesaggio: una coltre informe di marrone bruno rossiccio. Ben presto il sole scaldò le masse immobili di cavallette, che durante la notte, a causa del freddo, erano scivolate in uno stato di torpore, e gli insetti cominciarono a fremere, ondulando e ronzando come un alveare disturbato. D'un tratto, come in risposta a un segnale, l'intera orda si alzò in volo e si allontanò con un rombo sordo verso oriente, librandosi sulle ali della brezza mattutina. Per ore e ore i torrenti scuri continuarono a scorrere sopra di loro, ma, non appena il sole raggiunse lo zenit, anche l'ultima ondata passò oltre, e il cielo ridivenne di un azzurro brillante e perfetto. Tuttavia il paesaggio che le cavallette si lasciavano dietro era quasi irriconoscibile: soltanto terra e roccia. Gli alberi avevano perso il fogliame e i rami nudi si erano spezzati, formando una massa intricata ai piedi dei tronchi contorti. Era come se un'immane esplosione avesse consumato ogni foglia e ramoscello verde. L'erba, che prima ondulava nella brezza come un oceano dorato, era ormai svanita. Al suo posto, non si scorgeva altro che una pietraia desolata. I cavalli fiutarono la terra nuda e i sassi, poi si alzarono sconsolati, col ventre vuoto che rumoreggiava, già pieno di gas. Koots salì sulla cima della collinetta più vicina, puntando il cannocchiale verso il deserto di pietra. I branchi di antilopi e quagga che il giorno prima popolavano il terreno si erano dileguati. In lontananza, distinse una nebbiolina chiara di polvere trasportata dall'aria, forse lo strascico sollevato dall'esodo degli ultimi branchi in fuga da quel veld desolato. Si spostavano verso sud, in cerca di praterie che non fossero state devastate dalle cavallette. Wilbur Smith
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Ridiscese dalla collina e gli uomini, che stavano discutendo tra loro, tacquero non appena lui arrivò al campo. Koots studiò i loro volti mentre si riempiva il boccale di caffè attinto dal bricco nero. L'ultimo granello di zucchero era stato consumato alcune settimane prima. Lui bevve un sorso dal boccale e poi scattò. «Ja, Oudeman? Cos'è che ti preoccupa? Hai la stessa espressione afflitta di una vecchia con le emorroidi.» «Non c'è pascolo per i cavalli», sbottò Oudeman. Koots fece mostra di guardarsi intorno, come se fosse stupito da quella notizia. «Sergente Oudeman, ti sono riconoscente di avermelo fatto notare. Senza la tua osservazione così acuta, forse questo fatto mi sarebbe sfuggito.» Di fronte a quel pesante sarcasmo, Oudeman si accigliò, anche perché non era abbastanza scaltrito o istruito per tenere testa a Koots, giocando con le parole. «Xhia dice che i branchi di animali selvaggi sapranno da che parte andare per trovare dei pascoli. Se li seguiremo, porteranno laggiù anche noi...» «Ti prego, sergente, continua. Non mi stanco mai di spigolare questi granelli di saggezza.» «Xhia dice che, da ieri notte, i branchi di selvaggina hanno cominciato a spostarsi verso sud.» «Sì.» Koots annuì, soffiando rumorosamente sul boccale pieno di caffè bollente. «Xhia ha ragione. Li ho visti dalla cima di quella collina laggiù.» Indicò la direzione col boccale. «Dobbiamo andare a sud per trovare pascoli per i cavalli», insistette Oudeman, testardo. «Posso farti una domanda, sergente? Da che parte sono dirette le tracce del carro di Jim Courteney?» Usando di nuovo il boccale, indicò i solchi profondi che erano diventati ancor più evidenti, ora che l'erba non li mascherava più. Oudeman sollevò il cappello per grattarsi la testa pelata. «Verso nordest», rispose con un grugnito. «Dunque se andiamo a sud raggiungeremo Courteney?» chiese Koots in tono pacato. «No, ma...» La voce di Oudeman si spense. «Ma cosa?» «Capitano, signore, senza i cavalli non torneremo mai alla colonia.» Wilbur Smith
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Koots si alzò, versando sul terreno i fondi del caffè. «La ragione per cui siamo qui, Oudeman, è catturare Jim Courteney, non tornare alla colonia. In sella!» Guardò Xhia. «Allora, babbuino giallo, trova di nuovo la pista e bevi il vento.» Nei ruscelli e nei fiumi che attraversavano c'era acqua in abbondanza, ma nel veld non c'era erba. Percorsero cinquanta, e poi cento, leghe senza vedere un pascolo. Nei fiumi più grandi, trovarono erbe acquatiche e ninfee sotto la superficie dell'acqua e si spinsero a guado per raccoglierle con le baionette e offrirle ai cavalli come foraggio. In una valle, ripida e stretta, gli alberi di acacia dolce non erano stati del tutto spogliati del fogliame. Gli uomini si arrampicarono sugli alberi e tagliarono i rami che le cavallette non avevano spezzato col loro peso. I cavalli mangiarono avidamente quelle foglie verdi, ma quella non era la loro dieta normale e ne ricavarono ben pochi benefici. Ormai gli animali mostravano tutti i segni di una lenta morte per inedia. Ma Koots era incrollabile e continuò ad avanzare in mezzo alla desolazione. I cavalli s'indebolirono al punto che gli uomini furono costretti a smontare e condurli per la cavezza su ogni pendio ripido, così da risparmiare le loro forze. Anche gli uomini, tuttavia, erano affamati, perché, insieme con l'erba, era scomparsa la selvaggina. Il veld, che prima brulicava di vita, era deserto. Consumarono le ultime manciate di grano rimaste nei sacchi di cuoio, poi furono ridotti a sfruttare qualsiasi risorsa che quel terreno devastato poteva fornire. Xhia abbatté con la sua fionda le lucertole dalla testa azzurra e dall'aspetto preistorico che vivevano tra le rocce, mentre gli uomini scavavano le tane delle talpe e dei topi saltanti, che sopravvivevano nutrendosi di radici sotterranee. Arrostivano gli animali senza scuoiarli o pulire le carcasse, perché ciò avrebbe significato sprecare nutrimento prezioso. Si limitavano a gettarli tutti interi sul fuoco, lasciando che la pelliccia si consumasse e la pelle si annerisse e scoppiasse. Poi strappavano la carne non ancora cotta dalle ossa minuscole. Xhia sgranocchiava le ossa scartate come una iena. In un nido di struzzi abbandonato, il boscimano scoprì un vero tesoro. Nel rudimentale buco scavato nel terreno c'erano sette uova color avorio, ciascuno grande quasi quanto la sua testa. Xhia improvvisò un balletto intorno al nido, lanciando grida eccitate. Wilbur Smith
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«Questo è un altro dono che il saggio Xhia vi porta. Lo struzzo, che è il mio totem, ha lasciato questo per me.» Il boscimano cambiava totem con la stessa facilità con cui si sarebbe scelto una nuova donna. «Senza Xhia sareste morti da molto tempo.» Scegliendo un uovo di struzzo, ne posò uno sulla sabbia, poi avvolse la fionda intorno all'asta di una freccia e puntò l'estremità della freccia sulla sommità del guscio. Spostando l'arco rapidamente avanti e indietro, mosse la freccia e la punta praticò un foro netto nel guscio spesso. Quando la punta di freccia riuscì a penetrarlo, si sentì un sibilo sonoro, prodotto dal gas che ne usciva, e nell'aria si levò uno spruzzo giallo, come champagne che sgorga da una bottiglia scossa con violenza. Xhia applicò le labbra al foro e risucchiò il contenuto dell'uovo. Gli uomini intorno a lui indietreggiarono di scatto, lanciando esclamazioni disgustate nel sentire l'odore nauseabondo che si diffondeva nell'aria. «Per tutti i diavoli!» esclamò Koots. «Quella roba puzza di marcio.» Xhia roteò gli occhi al cielo, per dimostrare il suo entusiasmo, ma non staccò la bocca dal forellino; voleva evitare che il resto di quel liquido giallo sprizzasse fuori e finisse assorbito dalla terra arida. Continuò a succhiare avidamente. «Quelle uova sono state deposte nell'ultima stagione di cova, il che vuol dire che sono rimaste per sei mesi sotto 3 sole torrido. Sono così marce che potrebbero avvelenare una iena», commentò Oudeman, costretto a voltare la testa da un conato di vomito. Xhia si accovacciò sul terreno vicino al nido e bevve altre due uova senza interrompersi se non per ruttare o emettere una chioccia risatina di piacere. Poi ripose le uova rimanenti nella sacca di cuoio che portava in spalla e si mise di nuovo in cammino, seguendo i solchi lasciati dal convoglio di carri di Jim Courteney. Uomini e cavalli diventavano sempre più deboli ed emaciati. Soltanto Xhia era grassoccio, con la pelle lucente di salute e vigore. Le uova di struzzo marce, i residui di cibo rimasti negli escrementi dei rapaci notturni e nello sterco di leoni e sciacalli, le radici amare e le erbe, insieme con le larve di tafani, vespe e calabroni, erano tutti alimenti ai quali soltanto lui poteva ricorrere per sostentarsi. Esausti, i componenti della spedizione risalirono a fatica l'ennesimo pendio spoglio, imbattendosi nei resti di un altro bivacco lasciato da Jim Wilbur Smith
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Courteney. Quello, però, era diverso dalle centinaia che avevano già trovato, perché in quel punto i carri si erano fermati tanto a lungo da consentire la costruzione di capanne col tetto rivestito d'erba e di lunghi affumicatoi di legno grezzo su letti di brace ormai ridotta a cenere fredda e nera, in gran parte dispersa dal vento. «Qui Somoya ha ucciso il primo elefante», annunciò Xhia dopo un breve esame dell'accampamento abbandonato. «Come fai a saperlo?» chiese Koots, smontando con un movimento rigido. Restando accanto a lui, coi pugni stretti sulle reni doloranti, si guardò intorno. «Lo so perché sono intelligente mentre tu sei stupido», ribatté Xhia nella lingua del suo popolo. «Basta con quel linguaggio da scimmia», ringhiò Koots, troppo stanco per colpirlo. «Rispondimi come si deve!» «Hanno affumicato una montagna di carne, su queste rastrelliere; quelle sono le ossa delle nocche dell'elefante che hanno cotto per farne uno stufato.» Raccolse dall'erba un osso al quale erano ancora attaccati dei brandelli di tendine, e lo rosicchiò prima di aggiungere: «Qui vicino troverò il resto della carcassa». Scomparve come una minuscola nuvoletta di fumo giallo. Era un trucco che non mancava mai di cogliere alla sprovvista Koots. Un attimo era in piena vista, e un attimo dopo non c'era più. Koots si lasciò cadere nel fazzoletto d'ombra proiettato da un albero spoglio, ma non dovette attendere a lungo. Xhia ricomparve con la stessa repentinità con cui era scomparso, portandosi appresso l'enorme osso bianco del femore di un elefante maschio. «Un grande elefante!» confermò. «Somoya è diventato un potente cacciatore, come il padre prima di lui. Ha sfilato le zanne dal cranio. Dai fori lasciati nella mascella posso dire che ogni zanna era lunga quanto due uomini messi l'uno sulle spalle dell'altro. Erano grosse quanto il mio torace», aggiunse, gonfiando il petto per farsi capire meglio. Koots non era molto interessato all'argomento, e indicò le capanne abbandonate con un cenno spazientito. «Per quanto tempo è rimasto accampato qui Somoya?» Xhia controllò l'altezza dello strato di cenere, i mucchi di letame e i sentieri scavati dai passi umani tra le capanne, poi gli mostrò due volte le dita di entrambe le mani. «Venti giorni.» Wilbur Smith
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«Allora abbiamo guadagnato altrettanti giorni su di loro», osservò Koots con tetra soddisfazione. «Ora trovaci qualcosa da mettere sotto i denti prima di proseguire.» Seguendo le indicazioni di Xhia, i soldati scovarono una lepre e una dozzina di talpe cieche dal pelo dorato. Un paio di corvi dal collare bianco furono attirati da quell'attività, e Oudeman li abbatté con un solo colpo di moschetto. La carne di talpa somigliava al pollo, mentre quella dei corvi era disgustosa, contaminata dalla loro dieta a base di carogne. Soltanto Xhia la mangiò di gusto. Erano sfiniti e tormentati dalle piaghe per l'attrito continuo con la sella e, dopo aver consumato quel magro pasto, si avvolsero nelle coperte non appena il sole volse al tramonto. Li svegliò Xhia, coi suoi squittii eccitati, e Koots si alzò barcollando, impugnando con una mano la pistola e con l'altra la spada sguainata. «Alle armi! A me!» gridò, prima ancora di essere del tutto sveglio. «Inastare le baionette!» Poi s'interruppe di colpo, guardando il cielo a oriente. Era acceso da un bagliore irreale, e gli ottentotti si lasciarono sfuggire un piagnucolio superstizioso, avvolgendosi nei kaross. «È un avvertimento», dissero, ma parlando a voce bassa per non farsi sentire da Koots. «È l'avvertimento che dovremmo tornare alla colonia e abbandonare questa caccia folle.» «È l'occhio ardente del Kulu Kulu.» Xhia cominciò a cantare e danzare per onorare la grande divinità ardente che splendeva nel cielo. «Ci promette la pioggia e il ritorno dei branchi di animali. Ci saranno erba dolce e verdeggiante, carne rossa e ricca. Presto, molto presto.» Istintivamente, i tre olandesi si avvicinarono. «Questa è la stella che ha guidato i tre magi a Betlemme.» Koots era ateo, ma sapeva che gli altri due erano devoti, quindi fu pronto a interpretare il fenomeno a suo vantaggio. «C'invita a proseguire.» Oudeman si lasciò sfuggire un grugnito, ma non intendeva provocare il capitano mettendosi a discutere con lui. Richter si segnò con un gesto furtivo, perché nascondeva la sua fede cattolica ai compagni luterani o addirittura atei. Così, alcuni con spavento e altri con gioiosa anticipazione, seguirono tutti il percorso della cometa attraverso il cielo. Le stelle impallidirono e poi scomparvero, offuscate dal suo splendore. Wilbur Smith
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Prima dell'alba, la coda della cometa descrisse un arco da un orizzonte all'altro. Poi, bruscamente, fu oscurata da fitti banchi di nubi che arrivavano da oriente, sospinti dall'oceano caldo delle Indie. Mentre sorgeva una giornata torbida e opaca, i tuoni rombarono sulle colline e una lama di luce intensa squarciò il ventre delle nuvole. Cominciò a piovere. I cavalli voltarono la coda al vento e gli uomini si rannicchiarono sotto i mantelli di tela cerata, investiti dall'acqua gelida. Soltanto Xhia si tolse il perizoma per danzare nudo sotto la pioggia, rovesciando la testa all'indietro e lasciando che l'acqua gli riempisse la bocca aperta. Piovve senza interruzioni per un giorno e una notte. La terra si scioglieva sotto di loro: ogni gola rocciosa e ogni donga divennero un fiume in piena, ogni depressione e cavità del terreno divenne un lago. La pioggia li sferzava senza pietà, il tuono li scuoteva come un fuoco intenso di cannoni pesanti. Rabbrividivano per il freddo e l'umidità. Raggomitolati sotto le coperte, si sentivano lo stomaco rattrappito e sconvolto dai fluidi acidi dell'inedia. A tratti, la pioggia gelava prima di raggiungere il terreno, e chicchi di grandine grossi come sassi tempestavano i mantelli di tela e facevano imbizzarrire i cavalli. Alcuni di loro riuscirono a spezzare le corde e si lanciarono al galoppo davanti alle cortine di pioggia grigia che spazzavano il terreno. Poi, il secondo giorno, le nubi si aprirono e si dissolsero, lasciando soltanto brandelli di un grigio sporco, mentre il sole tornava a splendere, caldo e luminoso. Gli uomini si riscossero, montando a cavallo e partendo alla ricerca degli animali, che si erano sparsi per una distanza di alcune leghe sul veld. Uno di loro era stato ucciso da un paio di giovani leoni. I due grossi felini erano ancora intenti a divorarlo. Koots e Oudeman piombarono su di loro e, spinti da un furibondo istinto di vendetta, li uccisero entrambi. Persero altri tre giorni, prima che Koots potesse riprendere la caccia. Anche se la pioggia aveva eroso, e in certi punti cancellato del tutto, la pista dei carri, Xhia non esitò mai e li condusse avanti senza perdere tempo. Il veld rispose con gioia alla pioggia e al sole caldo che la seguì. Entro il primo giorno i contorni spogli delle colline si ricoprirono di una lieve peluria verde e gli alberi sollevarono i rami nudi che prima pendevano. Prima di percorrere altre cento leghe, i cavalli si riempirono la pancia di erba nuova e tenera, e gli uomini incontrarono le prime tracce degli animali selvaggi che tornavano nel loro territorio. Wilbur Smith
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Da lontano, Xhia scorse un branco di oltre cinquanta alcelafi, ciascuno grande come un pony, col mantello rosso che splendeva al sole e con le corna spesse e ritorte all'indietro, alte come la nutria di un vescovo. I tre olandesi spronarono le cavalcature per andare incontro al branco. L'erba fresca aveva restituito le forze ai cavalli, che si lanciarono a tutta velocità. Sulle pianure risuonarono i colpi di moschetto. Macellarono sul posto gli alcelafi, accendendo il fuoco vicino alle carcasse e gettando sulle braci pezzi di carne sanguinolenta. Poi, quasi impazziti dalla fame, divorarono la carne arrostita. Per quanto fosse ben nutrito, e piccolo la metà degli altri uomini, Xhia mangiò il doppio di loro. Per una volta, Koots non ebbe niente da ridire. Kadem s'inginocchiò dietro il ceppo di un albero caduto vicino a un corso d'acqua ingrossato dalle piogge. Aveva appoggiato il moschetto sul ceppo, ripiegandovi sotto il turbante come un cuscino. Senza quell'imbottitura, l'arma avrebbe potuto urtare con violenza il legno al momento della detonazione, e il colpo sarebbe finito lontano dal bersaglio. Il moschetto era uno di quelli che avevano preso dalla santabarbara della Revenge. Rashood era riuscito a rubare soltanto quattro piccole sacche per la polvere. Il violento temporale che li aveva investiti per un giorno e una notte aveva bagnato e impastato anche la maggior parte della polvere rimasta. Kadem ne aveva sbriciolato e filtrato tra le dita i resti danneggiati, ma alla fine era riuscito a recuperare soltanto un sacchetto di quel prezioso materiale. Per conservare quello che restava, usava soltanto la metà della dose necessaria per caricare il moschetto. Osservò un piccolo branco d'impala che pascolavano, spostandosi verso di lui in mezzo alla vegetazione pluviale. Erano i primi animali che vedeva da quand'erano passati gli sciami di cavallette. L'antilope stava brucando i germogli spuntati dopo la pioggia. Kadem scelse uno dei maschi del branco, una creatura dal manto marrone e vellutato, con le corna a forma di lira. Era un tiratore esperto, ma l'arma era carica solo a metà, e aveva potuto inserire soltanto alcuni pallini sopra la polvere: perché fossero efficaci, doveva fare in modo che l'animale si avvicinasse. Giunse il momento giusto, e Kadem sparò. Attraverso la nube di fumo, vide il giovane maschio barcollare e poi lanciare un belato pietoso mentre trotterellava in cerchio, con la zampa anteriore che penzolava dall'articolazione fratturata. Kadem lasciò cadere il moschetto e si slanciò Wilbur Smith
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in avanti con la spada in mano. Dopo aver stordito l'animale con un colpo del pesante pomo d'ottone, lo rovesciò rapidamente e gli tagliò la gola. «In nome di Dio!» lo benedisse, e la carne divenne ballai, non più empia, ma adatta per essere consumata dai credenti. Lanciò un fischio sommesso e i suoi tre seguaci si accostarono alla riva, dietro la quale si erano nascosti. Macellarono in fretta l'antilope e arrostirono alcune strisce del dorso sul piccolo fuoco che Kadem consentì loro di accendere. Non appena la carne fu cotta, ordinò di spegnere il fuoco. Anche in quella vasta regione disabitata e inesplorata, prestava sempre molta attenzione. Faceva parte del suo addestramento di vita nel deserto, dove quasi tutte le tribù erano impegnate in una faida sanguinosa con tutti i loro vicini. Mangiarono in fretta e con parsimonia, poi arrotolarono nel turbante la carne fredda che restava e si misero in spalla l'involto, legandolo per sicurezza intorno alla cintola. «In nome di Allah, andiamo.» Kadem si alzò, conducendo i suoi tre seguaci lungo la riva del ruscello, che attraversava una barriera ripida e accidentata di colline. Lungo la strada, i loro mantelli si sporcarono ulteriormente. D'altronde avevano gli orli così sbrindellati che sembravano rosicchiati dai ratti e coprivano appena le ginocchia. Si erano confezionati dei sandali con la pelle di alcuni animali catturati prima dell'arrivo delle cavallette. Il terreno sotto i piedi era accidentato e sassoso. C'erano tratti ricoperti da rovi con le spine a tre punte, che presentavano sempre uno degli aculei all'esterno. La punta poteva perforare anche la suola di cuoio più spessa, raggiungendo l'osso. Ormai le piogge avevano rimediato a gran parte dei danni provocati dall'invasione di cavallette. Tuttavia loro non avevano cavalli e si erano spinti a piedi a marce forzate, partendo prima dell'alba e proseguendo fino al tramonto ogni giorno. Kadem aveva deciso che dovevano andare verso nord, per tentare di raggiungere uno dei centri commerciali di Oman sotto il fiume Pongola, prima che la polvere da sparo si esaurisse. Alla meta mancavano ancora più di mille leghe. Si fermarono di nuovo a mezzogiorno, giacché anche quei viaggiatori instancabili dovevano fermarsi a pregare alle ore stabilite. Non avevano con sé un tappeto da preghiera, così Kadem valutò la direzione della Mecca in base alla posizione del sole a mezzogiorno e si prostrarono sulla nuda terra. Kadem guidava la preghiera. Affermarono che Dio era uno solo e Muhammad era il suo Profeta, Wilbur Smith
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senza chiedere ricompense o favori in cambio della loro fede. Dopo aver completato le devozioni essenziali, si accovacciarono all'ombra per consumare un pasto frugale a base di cacciagione arrostita ormai fredda. Kadem conduceva la conversazione e poi li istruiva nelle questioni religiose e filosofiche. Infine levò di nuovo lo sguardo verso il sole. «In nome di Dio, riprendiamo il viaggio.» Si erano appena alzati, quando rimasero impietriti nell'udire il suono, vago ma inconfondibile, di un colpo di moschetto. «Uomini! Uomini civili, con moschetti e polvere!» sussurrò Kadem. «Per essersi spinti nell'interno fin qui devono avere dei cavalli. Tutto quello che ci serve per non perire in questo luogo terribile.» La detonazione si ripeté, e lui piegò la testa, socchiudendo gli occhi, nello sforzo d'individuare la fonte del suono. Si girò in quella direzione. «Seguitemi. Muovetevi come il vento, rapidi e invisibili», ordinò. «Non devono sapere che siamo qui.» Verso la metà del pomeriggio, Kadem trovò una pista lasciata da numerosi cavalli diretti a nord-est. Gli zoccoli erano ferrati e avevano prodotto orme chiare sul terreno allentato dalla pioggia. Le seguirono al trotto, sulle pianure che danzavano e ondeggiavano nella foschia prodotta dal calore e, a un certo punto, videro davanti a loro la chiazza di fumo di un fuoco da campo. Proseguendo con maggiore cautela, nella luce fioca del crepuscolo riuscirono a scorgere sagome umane che si muovevano di fronte al fuoco. Poi il vento che aveva soffiato durante il giorno cadde, e si levò la brezza notturna, che proveniva da un'altra direzione. Kadem fiutò l'aria e captò l'inconfondibile sentore di ammoniaca. «Cavalli!» sussurrò, eccitato. Koots si appoggiò al tronco dell'albero di acacia nera, premendo con cura nella pipa d'argilla poche briciole di tabacco. Il sacchetto per il tabacco era ricavato dalla pelle dello scroto di un bufalo, chiusa all'imboccatura con una stringa; ormai era pieno solo per metà, e lui aveva cominciato a razionarlo, fumando soltanto mezza pipa al giorno. L'accese con un tizzone preso dal fuoco e tossì piano nel sentire il piacere della prima boccata potente che gli riempiva i polmoni. I soldati erano sparsi qua e là al riparo dei pochi alberi circostanti. Ciascuno di loro aveva scelto il posto in cui stendere il kaross di pelliccia. Avevano finalmente la pancia piena di carne di alcelafo, per la prima volta Wilbur Smith
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da oltre un mese. Mancava quasi un'ora al calar della sera; in condizioni normali, si sarebbero accampati soltanto quando l'oscurità avesse nascosto loro i solchi lasciati dalle ruote dei carri che stavano seguendo, ma la soddisfazione procurata dal cibo li aveva indotti a fermarsi. Scorgendo con la coda dell'occhio un movimento fulmineo, Koots si girò di scatto, poi si rilassò. Era soltanto Xhia, che si dileguò sotto i suoi occhi nel veld oscurato dal crepuscolo. Un boscimano avvezzo a essere trattato con ostilità non si sarebbe mai addormentato senza prima nascondere le sue tracce. Koots sapeva che avrebbe descritto un ampio circolo sul terreno che avevano già coperto. Se un nemico li avesse seguiti, Xhia avrebbe intercettato le sue tracce. Koots fumò la pipa fino all'ultima briciola, assaporando ogni boccata, poi rovesciò con rammarico la cenere sul terreno e si stese sotto il kaross, chiudendo gli occhi. Non sapeva quanto avesse dormito, quando fu svegliato da un tocco lieve sulla guancia. Si alzò di scatto, mentre Xhia lo invitava a calmarsi con un verso sommesso. «Che c'è?» Koots tenne istintivamente la voce bassa. «Sconosciuti», rispose Xhia. «Ci seguono.» «Uomini?» Koots era ancora annebbiato dal sonno, e Xhia non si degnò neppure di rispondere a una domanda così idiota. «Chi? Quanti?» insistette, mettendosi seduto. Xhia strappò una manciata di erba secca, ma, prima di appiccarvi il fuoco, sollevò un angolo della coperta di Koots per nasconderla agli occhi di eventuali osservatori, poi l'accostò alle braci morenti del fuoco e, quando la fiamma divampò, si affrettò a schermarla con la coperta e col proprio corpo. Teneva qualcosa nella mano libera e Koots, aguzzando gli occhi, si accorse che era un lembo di stoffa sudicia. «Strappato dalle spine alla veste di un uomo», spiegò Xhia, mostrandogli poi il secondo trofeo, un pelo nero. Persino Koots comprese subito che era un capello umano, ma era troppo nero e ruvido per provenire dalla testa di un abitante dell'Europa settentrionale, ed era troppo liscio e dritto per provenire dalla testa di un boscimano o di un uomo appartenente a una delle tribù africane. «Questo straccio proviene da una veste lunga, come quelle che portano i musulmani, e questo capello viene dalla sua testa.» «Musulmani?» chiese Koots, sorpreso, e Xhia fece schioccare la lingua in segno di assenso. Wilbur Smith
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L'altro ormai lo conosceva troppo bene per mettere in dubbio le sue parole. «Quanti?» «Quattro.» «Dove sono, adesso?» «Vicini. Ci stanno spiando.» Xhia lasciò cadere i frammenti d'erba in fiamme, schiacciando le ultime scintille nella polvere col palmo della mano. «Dove hanno lasciato i cavalli?» volle sapere Koots. «Se avessero fiutato i nostri, avrebbero nitrito.» «Niente cavalli. Sono venuti a piedi.» «Arabi a piedi? Allora, quali che siano, che cosa stanno cercando?» Koots calzò gli stivali. «Vogliono i nostri cavalli.» Facendo attenzione a non farsi vedere, si spostò strisciando verso il punto in cui Oudeman russava sonoramente, e lo scrollò. Appena sveglio, Oudeman afferrò subito la situazione e comprese gli ordini di Koots. «Non usate le armi da fuoco!» insistette Koots. «Nel buio c'è troppo rischio di colpire i cavalli. Attaccateli col gelido acciaio.» Koots e Oudeman si avvicinarono in silenzio a ciascuno dei soldati, bisbigliando gli ordini. Gli uomini uscirono rotolando dai kaross e sgattaiolarono furtivamente verso i cavalli. Con la sciabola sguainata, si appostarono tra i cespugli e la vegetazione bassa. Koots si appostò all'estremità del perimetro meridionale, dalla parte più lontana rispetto al fioco riverbero del fuoco da campo che si spegneva. Si stese a terra, appiattito in modo che qualunque uomo si avvicinasse ai picchetti sarebbe stato visibile in controluce sul cielo stellato e sulle tracce quasi scomparse della grande cometa, che ormai era soltanto uno spettro etereo nel cielo occidentale. Orione non era più oscurato dalla sua luce e, in quella stagione dell'anno, era visibile a testa in giù sotto il brillio della Via Lattea. Koots si coprì gli occhi per aumentare al massimo la sua capacità di vedere al buio. Ascoltava con la massima attenzione, aprendo gli occhi soltanto a tratti, per non farsi ingannare dalla luce. Il tempo passava lentamente. Lui lo misurava in base alle evoluzioni dei corpi celesti; per molti uomini sarebbe stato difficile mantenere quel livello di concentrazione, ma Koots era un guerriero e riusciva persino a estraniarsi dai rumori prodotti dai cavalli mentre spostavano il peso del corpo o abbassavano la testa per brucare una manciata d'erba. L'ultimo chiarore della grande cometa era basso all'orizzonte occidentale Wilbur Smith
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quando Koots udì il suono di due ciottoli che si urtavano. Tutti i nervi del suo corpo si tesero al massimo. Un minuto dopo, e molto più vicino, udì un sandalo di cuoio che sfregava il terreno soffice. Tenendo la testa bassa, vide una sagoma scura spostarsi contro il riverbero delle stelle. Si sta avvicinando, pensò. Meglio lasciarlo lavorare sulle corde. Raggiunte le corde che legavano i cavalli, l'intruso esitò. Koots lo vide girare lentamente la testa, mettendosi in ascolto. Portava un turbante e aveva una barba folta e riccia. Dopo un lungo istante, si chinò verso la corda alla quale erano assicurate con anelli d'acciaio le cavezze dei cavalli. Due degli animali liberarono la testa con uno scatto, mentre la corda scivolava attraverso l'anello. Non appena Koots intuì che l'intruso era tutto intento a sciogliere il nodo successivo, si alzò per raggiungerlo, ma lo perse di vista, rannicchiato contro la linea dell'orizzonte. Non si trovava più dove Koots si aspettava di trovarlo, e d'un tratto inciampò contro di lui nell'oscurità. Koots gridò per avvisare i suoi uomini, poi fu impegnato nella lotta a corpo a corpo, troppo vicino per poter usare la lama. Capì subito che l'uomo col quale stava lottando era un avversario formidabile. Si contorceva come un'anguilla nella sua presa, e lui non sentiva altro che muscoli e tendini resistenti. Koots mirava all'inguine, invece sentì la rotula urtare contro il muscolo sodo della coscia dell'uomo con tanta violenza che rischiò di saltare. Con una reazione istantanea, l'avversario colpì Koots sotto la mascella col taglio della mano destra, e lui sentì la testa scattare all'indietro come se il collo si fosse spezzato, e cadde all'indietro, finendo lungo disteso. Vide l'intruso torreggiare su di lui e scorse lo scintillio della sua lama che si abbassava per colpirlo alla testa. Sollevò la sciabola parando istintivamente, e l'acciaio tintinnò contro l'acciaio mentre le lame si scontravano. Poi l'intruso rinunciò all'attacco, dileguandosi nelle tenebre, mentre Koots si trascinava in ginocchio, ancora stordito. Intorno si udivano grida e rumori di colpi, e lui sentì Oudeman e Richter ruggire ordini e incoraggiamenti. Poi ci furono il rumore e il lampo di un colpo di pistola, e Koots si animò. «Non sparate, maledetti idioti. I cavalli! Occupatevi dei cavalli!» Si rimise in piedi e, in quel momento, sentì dietro di sé il suono degli zoccoli dei cavalli. Girandosi, scorse la sagoma scura di un cavaliere che gli piombava addosso al galoppo. Sotto le stelle, una spada sprigionò un Wilbur Smith
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lampo di luce e Koots si abbassò per schivare il colpo. La lama sibilò, passandogli vicino alla testa, e lui scorse il turbante e la barba del cavaliere che gli passava accanto. Si guardò intorno, ma il castrone baio era ormai diventato una chiazza chiara sullo sfondo buio. Era il più veloce e il più forte di tutto il branco. Koots rinfoderò la spada e controllò la pistola nella fondina che portava al fianco, correndogli dietro. Non appena fu in sella, tese l'orecchio per cogliere il rumore degli zoccoli, poi diresse la giumenta con le ginocchia, spingendola al galoppo. A intervalli di pochi minuti, nelle ore successive, fu costretto a fermarsi, cercando di captare l'eco dei suoni prodotti dal fuggiasco. Anche se si girava spesso e scartava per sfuggire all'inseguimento, alla fine l'arabo puntava sempre verso nord. Un'ora prima dell'alba, Koots non sentì più nessun suono. Forse l'arabo aveva deviato di nuovo, oppure aveva rallentato mettendosi al passo. Nord! È diretto a nord, decise Koots. Lasciandosi con decisione di fianco la Croce del Sud, puntò verso nord, mantenendo un trotto costante che non avrebbe sfinito la giumenta. L'alba sopraggiunse con la tipica, sorprendente rapidità. L'orizzonte si allargò, mentre il buio si ritirava, e lui trasalì, scorgendo la sagoma scura che si muoveva meno di un tiro di pistola davanti a lui. Intuì subito che non era un'antilope, perché la forma del cavaliere era ben visibile sullo sfondo del veld che si andava schiarendo. Koots spinse ancora di più la giumenta, riducendo rapidamente le distanze. Il cavaliere non si era ancora accorto di lui e manteneva il cavallo al passo. Koots riconobbe il castrone baio: una buona cavalcatura, forte quasi quanto la sua giumenta. «Figlio di una gran baldracca!» esclamò trionfante. «Il baio si è azzoppato. Non c'è da stupirsi, se ha dovuto rallentare l'andatura.» Anche nella luce incerta dell'alba, era facile vedere che il cavallo cercava di non appoggiare una delle zampe anteriori. Doveva avere una pietra aguzza o una spina nel fettone, e stentava a procedere. Koots si lanciò su di loro, e il fuggiasco si girò di scatto. Lui si accorse che era un arabo dal viso di falco, con la barba folta e arricciolata, che lanciò una rapida occhiata a lui e subito sferzò il castrone, costringendolo al galoppo. Koots era abbastanza vicino da arrischiarsi a sparare un colpo di pistola per farla finita alla svelta. Estraendo l'arma, mirò al centro dell'ampia schiena dell'arabo. Dovette arrivare vicino al bersaglio, perché l'arabo si Wilbur Smith
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voltò gridando: «Usa la spada, infedele! Da uomo a uomo». Quand'era sottotenente, Koots aveva trascorso alcuni anni con l'esercito della VOC in Oriente, e parlava correntemente l'arabo, quindi gli gridò di rimando: «Queste sì che sono parole dolci per le mie orecchie! Scendi da cavallo e lasciami la possibilità di tagliarti la gola». Meno di duecento iarde più avanti, il castrone si fermò. L'arabo smontò di sella e si fermò per fronteggiare Koots, descrivendo cerchi nell'aria con la sciabola corta da marinaio che impugnava con la destra. Koots si rese conto che non aveva armi da fuoco; se anche, quando si era introdotto nel campo, portava un moschetto, doveva averlo perso lungo la strada. Quindi disponeva soltanto della sciabola... oltre che del pugnale, naturalmente. Gli arabi portavano sempre un pugnale, Koots lo sapeva bene. Aveva un grande vantaggio su di lui e mai, in tutta la sua vita, aveva lasciato che le sue mosse fossero sciupate da considerazioni di lealtà; intendeva dunque sfruttare quel vantaggio sino in fondo. Caricò l'arabo, chinandosi per colpirlo con la sciabola. L'arabo fu più svelto di quanto avesse previsto; non appena intuì le intenzioni di Koots, si sottrasse alla carica con una finta e poi, all'ultimo momento, scattò per passare al di sotto del suo braccio, sfiorando il fianco della giumenta in corsa con la grazia di un torero che si avvicina alle corna del toro lanciato alla carica. Nello stesso istante, tese la mano verso l'alto, afferrando un lembo del soprabito di pelle di Koots e tirando con tutte le sue forze. Fu una mossa così improvvisa e inattesa che Koots fu colto alla sprovvista. Giacché si stava sporgendo dalla cavalcatura che montava a pelo, senza staffe o redini che gli fornissero un appoggio, fu letteralmente trascinato giù dalla giumenta. Ma era anche un combattente, e atterrò a quattro zampe come un gatto, senza perdere la presa sull'elsa della sciabola. L'arabo tentò di nuovo il colpo alla testa, poi invertì subito la direzione dell'arma e si lanciò in un fendente basso, mirando al tendine di Achille. Koots parò il primo colpo, deviando con una torsione del polso, ma il secondo fu così fulmineo che lui dovette saltare per sfuggire al colpo della sciabola. Quando toccò terra, era di nuovo in equilibrio, e si avventò verso gli occhi scuri e scintillanti dell'arabo. L'avversario girò la testa per lasciar scivolare il colpo oltre la spalla, ma la lama gli recise un ciuffo della barba sotto l'orecchio. Separandosi con un salto, si mossero in cerchio, cercando di sorprendersi a vicenda. Nessuno dei due accusava la minima stanchezza; erano due Wilbur Smith
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guerrieri al massimo della condizione fisica. «Qual è il tuo nome, figlio del falso profeta?» chiese con disinvoltura Koots. «Mi piace sapere chi sto per uccidere.» «Mi chiamo Kadem ibn Abubaker al-Jurf, infedele», rispose l'altro a bassa voce, ma i suoi occhi scintillarono nel sentire l'insulto. «E tu come ti chiami, oltre che mangiatore di sterco?» «Sono il capitano Herminius Koots, dell'esercito della VOC.» «Ah!» esclamò Kadem. «La tua fama ti precede. Sei sposato con Nella, quella graziosa, piccola puttana tanto popolare fra tutti gli uomini che hanno visitato il capo di Buona Speranza. Anch'io ho speso qualche gulden con lei dietro la siepe dei giardini della Compagnia, quando sono stato nella colonia, poco tempo fa. Te la raccomando. Conosce il suo mestiere e ama il suo lavoro.» L'insulto era così pungente e inatteso che Koots rimase a bocca aperta. L'arabo conosceva persino il nome di sua moglie, e il braccio del capitano esitò, restando immobile per un attimo. In quell'istante, Kadem lo aggredì di nuovo, e lui dovette indietreggiare in fretta per sfuggire all'attacco. Descrissero un cerchio, prima di scontrarsi di nuovo, e stavolta Koots riuscì a toccarlo sulla parte alta della spalla sinistra. Ma fu appena un graffio: sulla manica sottile di cotone sporco della veste di Kadem non comparvero che alcune gocce di sangue. Tentarono invano un'altra dozzina di mosse, e poi toccò a Kadem segnare un punto, con una ferita al fianco di Koots; ma anche quella era poco più che un'escoriazione, sebbene il sangue la facesse sembrare più grave di quello che era. Ciò nonostante Koots cedette terreno per la prima volta, e cominciò a sentire il braccio che gli pesava. Si rammaricò per quel colpo di pistola sprecato. Kadem sorrideva, un'increspatura da rettile delle labbra, e, come Koots si aspettava, nella sua mano sinistra comparve improvvisamente un pugnale dalla lama sottile e ricurva. Poi Kadem tornò all'attacco, molto in fretta, portando avanti il piede destro e facendo roteare la lama che rifletteva i raggi del sole. Koots precedette la sua mossa, indietreggiando. Incontrò con un tallone un folto di rovi spinosi e rischiò di cadere, ma si riprese con un balzo laterale che gli fece dolere la spina dorsale. Kadem interruppe di nuovo il contatto, girando sulla sinistra. Aveva interpretato bene le mosse di Koots: il lato sinistro era quello debole. L'arabo non poteva sapere che anni prima, durante il combattimento di fronte a Jaffna, Koots era stato colpito da un Wilbur Smith
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proiettile a quel ginocchio. Ora gli faceva male, e respirava affannosamente. L'arabo tornò all'attacco, feroce e implacabile. Ormai Koots aveva la mano incerta, non riusciva più a colpire in modo fermo e diretto. Sentiva lui stesso il respiro che sibilava e sapeva che non avrebbe resistito ancora per molto. Il sudore gli bruciava gli occhi, e il viso di Kadem gli apparve come avvolto nella nebbia. Poi improvvisamente l'arabo si tirò indietro e abbassò la sciabola. Guardava un punto alle spalle di Koots. Poteva essere un tranello, e lui si rifiutò di caderci. Tenne d'occhio il pugnale nella mano sinistra di Kadem, tentando di riprendere le forze e di prepararsi alla mossa successiva. Poi udì un suono di zoccoli alle sue spalle. Voltandosi lentamente, scorse Oudeman e Richter, a cavallo e armati di tutto punto, che seguivano Xhia. Kadem lasciò cadere il pugnale e la sciabola, ma rimase in piedi col mento sollevato e le spalle erette. «Devo uccidere quel porco, capitano?» chiese Oudeman, avvicinandosi. Portava la carabina di traverso sulla sella davanti a sé. Koots, scosso e infuriato, stava per dare l'ordine. Sapeva quanto fosse arrivato vicino alla fine; inoltre Kadem aveva definito Nella una prostituta. Era la verità, ma guai a chi la pronunciava alla portata delle orecchie di Koots. Poi si trattenne. Quell'uomo aveva parlato del capo di Buona Speranza. Poteva scoprire qualcosa da lui, e in seguito ucciderlo con le sue mani. Ciò gli avrebbe dato maggiore piacere che lasciarlo fare a Oudeman. «Voglio sapere qualcosa da lui. Legalo dietro il tuo cavallo e trascinalo fino al campo.» L'accampamento era distante quasi due leghe. Legarono insieme i polsi dell'arabo e assicurarono l'altro capo della corda all'anello della sella di Oudeman, che si trascinò dietro Kadem, procedendo al trotto. Quando l'uomo cadeva, Oudeman lo rimetteva in piedi, ma ogni volta Kadem perdeva un lembo di pelle dai gomiti o dalle ginocchia, che avevano urtato contro il terreno compatto. Quando infine Oudeman raggiunse il campo, l'arabo era coperto da un impasto di polvere, sudore e sangue. Con un balzo, Koots smontò dalla giumenta e andò a ispezionare gli altri tre prigionieri arabi catturati da Oudeman. «Nomi?» chiese ai due che sembravano illesi. «Rashood, effendi.» «Habban, effendi.» In segno di rispetto e sottomissione, si sfiorarono la fronte e il petto. Il capitano passò poi a interrogare il terzo prigioniero. Era Wilbur Smith
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ferito e giaceva a terra, gemendo, raggomitolato come un feto nel ventre della madre. «Nome?» disse Koots, assestandogli un calcio al ventre. Il ferito gemette ancora più forte, e il sangue gli colò tra le dita nel punto in cui si teneva forte lo stomaco. Koots lanciò un'occhiata interrogativa a Oudeman. «Quello stupido di Goffel si è lasciato trascinare dall'entusiasmo», spiegò Oudeman. «Ha dimenticato gli ordini e gli ha sparato. Ha una ferita al ventre. Non arriverà a domani.» «Meglio lui che uno dei cavalli.» Koots estrasse la pistola dalla fondina attaccata alla cintura, armò il cane e accostò la canna alla nuca del ferito. Non appena fu colpito, il prigioniero s'irrigidì e roteò gli occhi. Scalciò in modo spasmodico, poi rimase immobile. «Uno spreco di buona polvere», disse Oudeman. «Dovevate lasciarmi usare il coltello.» «Non ho ancora fatto colazione, e sai bene quanto sono schizzinoso.» Koots sorrise della propria battuta e ripose la pistola ancora fumante nella fondina. Agitò la mano verso gli altri prigionieri. «Assestate a ognuno dieci colpi con lo sjambok sulla pianta dei piedi per metterli di umore più cordiale, e subito dopo colazione parlerò di nuovo con loro.» Mangiò una terrina di stufato preparato con le zampe dell'alcelafo e guardò Oudeman e Richter usare lo sjambok sui piedi nudi dei prigionieri arabi. Sono dei duri, dovette ammettere, vedendo che l'unico suono che si lasciavano sfuggire era un lieve grugnito a ogni colpo. Sapeva bene quale sofferenza dovevano sopportare. Ripulì la terrina con un dito e se lo succhiò, mentre tornava verso Kadem, accovacciandosi di fronte a lui. A onta della veste impolverata e strappata, nonché dei tagli e delle abrasioni di cui era coperto, appariva evidente che lui era il capo. Koots infatti non perse tempo con gli altri due. Guardando Oudeman, indicò Rashood e Habban. «Porta via questi porci.» Oudeman capì che li voleva fuori della portata delle loro orecchie mentre interrogava Kadem, in modo che non udissero le sue risposte. Più tardi li avrebbe interrogati separatamente, per confrontarle. Koots attese finché i soldati ottentotti non li trascinarono via, zoppicanti sui piedi gonfi, verso il folto di alberi più vicino e li legarono al tronco. Poi tornò a voltarsi verso Kadem. «E così hai fatto visita al capo di Buona Speranza, prediletto di Allah?» Wilbur Smith
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Kadem lo fissò a sua volta con uno scintillio fanatico nel viso coperto di polvere. Tuttavia la semplice menzione di quel luogo suscitò una reazione nella mente torpida di Oudeman, che andò a prendere uno dei moschetti catturati agli arabi per porgerlo al capitano. La prima occhiata che Koots lanciò all'arma fu assai distratta. «Il calcio», gli fece allora notare Oudeman. «Guardate l'emblema sul legno.» Koots socchiuse gli occhi, e le sue labbra formarono una linea sottile e dura mentre seguiva col dito il disegno impresso sul legno con un ferro per marchiare. Rappresentava un cannone, un pezzo da nove libbre a canna lunga su un fusto a due ruote. Nel cartiglio sottostante c'era la sigla CBTC. «Bene!» Koots alzò la testa per fissare Kadem. «Allora tu sei uno degli uomini di Tom e Dorian Courteney?» Koots vide qualcosa scintillare nelle profondità degli occhi scuri, ma subito dopo quella scintilla sparì, così in fretta che non poté avere la certezza che fosse apparsa davvero. Il turbamento suscitato da quei nomi era stato comunque intenso. Poteva trattarsi di lealtà, dedizione oppure di tutt'altro. Si sedette a guardarlo. «Tu conosci mia moglie», gli rammentò, «e forse dovrei castrarti per il modo in cui hai parlato di lei. Ma conosci anche i fratelli Courteney, Tom e Dorian? Se è così, potresti salvarti le palle.» Kadem ricambiò l'occhiata, e Koots disse a Oudeman: «Sergente, sollevagli le gonne, in modo che possiamo giudicare quanto dev'essere grande il coltello da usare per il lavoro». Oudeman sogghignò, inginocchiandosi vicino a Kadem, ma l'arabo parlò prima che potesse toccarlo. «Conosco Dorian Courteney, però il suo nome arabo è al-Salil.» «Sì, l'ho sentito chiamare così», confermò Koots. «E il fratello, Tom Courteney? Quello che gli uomini chiamano anche Klebe?» «Li conosco tutti e due.» «Sei il loro uomo, una loro creatura, il loro lacchè, il loro leccapiedi?» Koots scelse con cura quelle parole per provocarlo. «Sono il loro nemico implacabile», dichiarò Kadem, attirato nella trappola dal suo orgoglio ferito. «Se Allah è misericordioso, un giorno diventerò il loro giustiziere.» Lo disse con tanta sincerità e intensità che Koots gli credette. Non ribatté, sapendo che, molte volte, il silenzio era la forma migliore Wilbur Smith
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d'interrogatorio, e ormai Kadem era così agitato che aggiunse: «Io sono il depositario della sacra fatwa che mi è stata affidata dal mio padrone, il sovrano di Oman, califfo Zayn al-Din ibn al-Malik». «Perché mai un monarca così nobile e potente dovrebbe affidare una missione del genere a una miserabile fetta di rancido grasso di porco come te?» Koots esplose in una risata di scherno, e Oudeman, anche se non aveva capito una parola di quel dialogo in arabo, gli fece eco. «Io sono un principe di sangue reale», replicò Kadem, furioso. «Mio padre era il fratello del califfo e io sono suo nipote. Il califfo ha fiducia in me, perché ho il comando delle sue legioni e gli ho dato prova del mio valore cento volte in guerra e in pace.» «Eppure non sei riuscito a compiere questa sacra fatwa», lo provocò Koots. «I tuoi nemici prosperano ancora, mentre tu sei vestito di stracci, legato a un albero e coperto di sudiciume. È questo l'ideale che hanno a Oman di un potente guerriero?» «Ho ucciso la sorella incestuosa del califfo, il che faceva parte del compito che mi è stato affidato, e ho pugnalato al-Salil in modo così grave che potrebbe anche essere morto per quella ferita. Se così non è stato, non avrò riposo finché il mio dovere non si sarà compiuto.» «Tutto questo non è che il delirio di un folle», sbottò Koots in tono sarcastico. «Se sei sospinto da questo dovere sacro, come mai ti ho sorpreso a vagare come un mendicante in mezzo alla natura, vestito di sudici stracci, armato di un moschetto con l'emblema di al-Salil, mentre tenti di rubare un cavallo per fuggire?» A poco a poco, ricorrendo all'astuzia, Koots riuscì a estorcere informazioni al suo prigioniero. Kadem si vantò di essersi introdotto a bordo della Gift of Allah e di aver atteso l'occasione giusta prima di colpire. Descrisse come aveva assassinato la principessa Yasmini ed era arrivato vicino a uccidere anche al-Salil. Poi raccontò che, con l'aiuto di tre seguaci, era fuggito dalla nave dei Courteney mentre stava all'ancora nella laguna, era sfuggito all'inseguimento e infine si era imbattuto nei soldati di Koots. In quel racconto c'erano molti elementi che per Koots erano del tutto nuovi, soprattutto la fuga dei Courteney dalla colonia di Buona Speranza, che doveva essere avvenuta molto tempo dopo la sua partenza all'inseguimento di Jim Courteney. Tuttavia il discorso filava e lui non riusciva a scorgere punti deboli nella storia di Kadem, né tentativi Wilbur Smith
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d'ingannarlo. Tutto sembrava combaciare perfettamente con quello che lui sapeva di Keyser e delle sue intenzioni. Inoltre era proprio quel genere d'impresa che Tom e Dorian Courteney potevano escogitare. Ci credeva, seppure con riserva. C'erano sempre delle riserve. Sì, questo è un colpo di fortuna straordinario, gongolò, senza tradirsi con l'espressione. Mi è stato mandato un alleato che posso vincolare a me con catene d'acciaio, una fatwa sacra e un odio ardente di fronte al quale anche la mia determinazione impallidisce. Fissò intensamente Kadem, cercando di prendere una decisione. Era vissuto tra i musulmani e aveva combattuto per loro e contro di loro quanto bastava per comprendere gli insegnamenti dell'Islam e i codici immutabili di onore che li vincolavano. «Anch'io sono nemico giurato dei Courteney», disse infine. Vide subito un velo opaco calare sugli occhi ardenti dell'arabo. Ho commesso un errore fatale? si chiese. Ho agito in modo troppo precipitoso, sorprendendo la mia preda? rifletté, osservando che i sospetti di Kadem si rafforzavano. In ogni modo, ormai mi sono compromesso e non posso tornare indietro. Rivolto a Oudeman, ordinò: «Allenta le corde, e portagli dell'acqua per lavarsi e per bere. Dagli da mangiare e lascialo pregare, ma sorveglialo attentamente. Non credo che tenterà di fuggire, però non offrirgliene la possibilità». Oudeman parve perplesso da quegli ordini. «E i suoi uomini?» chiese in tono incerto. «Tienili legati e sotto buona sorveglianza», rispose Koots. «Non permettere a Kadem di parlare con loro. Non lasciarlo avvicinare.» Koots attese finché l'arabo non ebbe fatto il bagno e mangiato, portando a termine il rito solenne delle preghiere di mezzogiorno. Soltanto allora lo mandò a chiamare per continuare la conversazione. Rispettò le forme cortesi del saluto e, così facendo, riconobbe che lo stato di Kadem, da prigioniero, era diventato quello di ospite, con tutte le responsabilità che un simile rapporto imponeva a entrambi. Poi riprese il discorso. «La ragione per cui mi trovi qui, in questo territorio così lontano dalle dimore civili degli uomini, è che sono impegnato nella tua stessa ricerca. Osserva queste tracce di carri.» Gliele indicò, e Kadem le guardò appena. Naturalmente le aveva già notate mentre faceva la posta ai cavalli e si avvicinava all'accampamento. Wilbur Smith
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«Le vedi?» insistette Koots, e Kadem grugnì, atteggiando il viso a un'espressione impassibile. Cominciava già a pentirsi delle sue rivelazioni precedenti. Non avrebbe dovuto abbandonarsi alle emozioni e rivelare tante cose agli infedeli. Ormai aveva capito che Koots era un uomo intelligente e pericoloso. «Queste tracce sono state lasciate da quattro carri guidati dall'unico figlio di Tom Courteney, l'uomo che tu conosci sotto il nome di Klebe.» Kadem batté le palpebre, senza tradire i suoi sentimenti. Koots lo lasciò riflettere per un po', poi continuò spiegando come mai Jim Courteney era stato costretto a lasciare la colonia. Anche se ascoltava in silenzio, e i suoi occhi non tradivano più emozione di quelli di un cobra, Kadem era teso in modo spasmodico. Mentre si fingeva un umile marinaio a bordo della Gift of Allah, aveva sentito discutere di quell'argomento dai suoi compagni e sapeva della fuga di Jim Courteney dal capo di Buona Speranza. «Seguendo le tracce dei carri, possiamo stare certi che ci condurranno al punto in cui padre e figlio si sono accordati per incontrarsi, lungo la costa.» Koots concluse la spiegazione e sui due cadde il silenzio. Kadem rifletteva su quello che l'altro gli aveva detto. Lo girò e lo rigirò nella sua mente, come un gioielliere esamina una pietra preziosa in cerca d'impurità. Ma non riusciva a trovare note false nella versione che Koots gli aveva dato degli avvenimenti. «Che cosa vuoi da me?» chiese alla fine. «Abbiamo lo stesso scopo», rispose Koots. «Propongo un patto, un'alleanza. Giuriamo insieme, di fronte ad Allah e al Profeta. Dedichiamoci alla distruzione totale dei nostri comuni nemici.» «Sono d'accordo», rispose infine Kadem, e lo scintillio folle che aveva mascherato con tanta cura riapparve nei suoi occhi. Koots lo trovava sconcertante, più minaccioso della sciabola e del pugnale contro cui si era scontrato quella mattina. Si scambiarono il giuramento sotto i rami altissimi di un albero di acacia nera sul quale erano già spuntati nuovi germogli, che rimediavano alle devastazioni operate dalle cavallette. Giurarono sulla lama e sull'impugnatura del pugnale di acciaio di Damasco di Kadem. Ciascuno dei due pose un pizzico di sale grezzo sulla lingua dell'altro e si divisero una fetta di carne di cervo, mangiando ciascuno un boccone dallo stesso punto. Con la lama di Damasco, affilata come un rasoio, si aprirono una vena nel polso e massaggiarono le braccia finché il sangue non cominciò a Wilbur Smith
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colare, rosso e caldo, nel palmo chiuso a coppa. Poi si strinsero la mano, in modo che il loro sangue si mescolasse e mantennero la presa mentre Kadem recitava i nomi prodigiosi di Allah. Alla fine si abbracciarono. «Tu sei il mio fratello di sangue», disse Kadem, con la voce che tremava leggermente per il rispetto che gli incuteva il potere del giuramento. «Tu sei il mio fratello di sangue», ripeté Koots. Anche se la sua voce era ferma e limpida e lo sguardo che fissava Kadem era sicuro, il giuramento non aveva un gran peso sulla sua coscienza. Koots non riconosceva nessun Dio, tantomeno la divinità straniera di una razza inferiore dalla pelle scura. In quel patto, il vantaggio era tutto suo, perché poteva rinnegarlo al momento opportuno, e anche uccidere impunemente il suo nuovo fratello di sangue, se necessario. Sapeva che Kadem, invece, era vincolato dalla speranza della salvezza e dalla collera del suo Dio. In fondo al cuore, Kadem riconosceva la fragilità del legame che li univa. Quella sera, mentre dividevano il fuoco del campo e mangiavano insieme, l'arabo diede prova della sua astuzia. Fornì a Koots un motivo più valido di qualsiasi giuramento religioso per mantenere l'impegno. «Ti ho detto che sono il favorito di mio zio, il califfo. Tu conosci anche quali siano il potere e la ricchezza dell'impero di Oman. Il suo dominio abbraccia un grande oceano, il mar Rosso e il golfo Persico. Mio zio mi ha promesso una grande ricompensa se porterò a buon fine la sua fatwa. Tu e io abbiamo giurato come fratelli di sangue di dedicarci a quella missione. Una volta concluso il mio compito, torneremo insieme al palazzo del califfo sull'isola di Lamu e godremo i frutti della sua gratitudine. Tu abbraccerai l'Islam. Chiederò a mio zio di affidarti il comando di tutti i suoi eserciti sul continente africano. Gli chiederò di nominarti governatore di Monomotapa, una terra da cui provengono oro e schiavi. Diventerai un uomo di potenza e ricchezza incalcolabili.» La vita di Herminius Koots stava per conoscere una nuova marea sigiziale. Da quel momento in poi ripresero a seguire la pista dei carri con rinnovata determinazione, e persino Xhia fu contagiato da quel nuovo stato d'animo. Incrociarono due volte la pista dei branchi di elefanti che scendevano dalle terre del nord. Forse, per qualche via misteriosa, gli elefanti erano al corrente della ricchezza che la pioggia aveva portato sulla terra. Da lontano, Koots osservò i branchi di quei giganti grigi attraverso il Wilbur Smith
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cannocchiale, ma mostrò per loro soltanto un interesse fuggevole. Non intendeva lasciarsi distrarre dal suo obiettivo principale soltanto per procurarsi qualche zanna d'avorio. Ordinò a Xhia di aggirare i branchi e proseguirono, lasciandoli indisturbati. Tanto a lui quanto a Kadem ogni ora di ritardo pesava; avanzavano a tappe forzate, sospingendo uomini e cavalli lungo la pista della loro preda. Uscirono dalla vasta scia di devastazione che le cavallette avevano lasciato sul terreno, abbandonando le grandi pianure per entrare in un territorio ricco di fiumi e foreste verdeggianti, dove l'aria aveva una fragranza dolce come il profumo dei fiori selvatici. Circondati da quei panorami di stupefacente bellezza, erano sospinti in avanti da una promessa di ricchezza e di gloria. «Ormai non siamo molto lontani dai carri», assicurava Xhia. «Ogni giorno ci avviciniamo di più.» Poi giunsero alla confluenza tra due corsi d'acqua, un fiume ampio e profondo e un affluente più piccolo. Xhia rimase stupito da quello che scoprì, e guidò Koots e Kadem attraverso il campo disseminato di resti umani decomposti o disseccati dal sole, che erano stati divorati e sparpagliati sul terreno dalle iene e da altri predatori. Non ci fu bisogno che indicasse loro gli assegai e gli scudi di cuoio grezzo, gran parte dei quali trapassati da colpi di moschetto. «Qui si è svolta una grande battaglia», spiegò. «Questi scudi e queste armi appartengono alle tribù bellicose degli nguni.» Koots annuì. Nessun uomo che avesse vissuto e viaggiato in Africa come lui poteva ignorare la leggenda delle tribù guerriere degli nguni. «Va bene», disse a Xhia. «Ma spiegaci che cos'altro vedi, qui.» «Gli nguni hanno attaccato i carri che Somoya aveva disposto in quadrato qui, alla confluenza tra i due fiumi. Era un buon posto per la difesa, perché aveva le spalle ed entrambi i lati protetti dalle acque. In tal modo, gli nguni sono stati costretti ad attaccare frontalmente, e lui li ha sterminati come pulcini.» Ridacchiò, scuotendo la testa con ammirazione. Koots si diresse verso il cratere scavato al centro del terreno devastato di fronte al quale erano stati disposti i carri. «E questo cos'è?» domandò. «Che cos'è successo in questo punto?» Xhia raccolse da terra un tratto carbonizzato di miccia a lenta combustione, sollevandolo per mostrarlo a tutti. Anche se aveva già visto Wilbur Smith
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usare micce ed esplosivi, non aveva un lessico adatto per descriverli, quindi si limitò a mimare l'atto di accendere la miccia e produsse una specie di sfrigolio, ricostruendo l'itinerario che la fiamma doveva aver seguito. Poi si gettò a terra supino, scalciando e ridendo in modo convulso. Era una pantomima così espressiva che persino Koots non poté fare a meno di ridere fragorosamente. «Per la vagina impestata di una baldracca», esclamò. «Il cucciolo Courteney ha fatto esplodere una mina sotto gli impi, quando hanno aggredito i carri. Dovremo fare attenzione, quando andremo a pestargli la coda. È diventato astuto come il padre.» A Xhia ci volle il resto della giornata per dipanare tutti i segreti del campo di battaglia, sparsi com'erano su un vasto tratto del veld. Indicò a Koots il percorso seguito dagli impi e il modo in cui Jim Courteney e i suoi uomini li avevano inseguiti a cavallo e sterminati mentre erano in rotta. Infine raggiunsero l'accampamento abbandonato dagli nguni, e il boscimano perse quasi la testa, quando si rese conto delle dimensioni delle mandrie di cui si era impadronito Jim. «Come l'erba! Come le cavallette!» squittì, indicando la pista lasciata dalle mandrie che venivano condotte a oriente. Mille? si chiese Koots. Cinquemila, o anche di più? Stava cercando di fare una stima approssimativa del valore del bestiame, in caso fosse riuscito a condurlo nella colonia di Buona Speranza. Non ci sono gulden sufficienti nella Banca di Batavia, concluse. Una cosa è certa. Quando li raggiungerò, Oudeman e questi ottentotti non vedranno un centesimo. Li ucciderò, prima di dare loro un gulden. Quando avrò finito qui, al mio confronto il governatore van de Witten sembrerà un poveraccio. Non era finita lì. Quando entrarono nell'accampamento, Xhia li condusse verso l'estremità opposta, dove sorgeva una palizzata di solidi pali di legno uniti con strisce di corteccia. Koots non aveva mai visto una costruzione così solida, nemmeno nei villaggi permanenti delle tribù. È un deposito di granaglie? si chiese, smontando. Quando scoprì che, almeno in apparenza, quella costruzione aveva ospitato essiccatoi o affumicatoi, la sua perplessità aumentò, anche perché, al di sotto, non si scorgevano tracce di cenere o bruciature. E poi il legname usato sembrava troppo massiccio per uno scopo così semplice. Era chiaro che era stato progettato per sostenere un peso molto maggiore delle strisce di carne da affumicare. Xhia stava cercando di dirgli qualcosa. Saltò sulle rastrelliere, ripetendo Wilbur Smith
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la parola «polli». Koots si accigliò, irritato. Quello non era un pollaio. «E neanche un recinto per gli struzzi.» Koots scosse la testa, e il boscimano cominciò un'altra pantomima, tenendo un braccio davanti al viso come se fosse un lungo naso e facendo sventolare l'altra mano di fianco alla testa come un orecchio. Koots si lambiccò il cervello per capirne il significato, prima di rammentare che, nel linguaggio dei san, la parola che voleva dire «polli» era quasi identica a quella che significava «elefanti». «Elefanti?» chiese allora, sfiorando la cintura in pelle di elefante che portava. «Sì, sì, uomo stupido», confermò Xhia, con un vigoroso cenno di assenso. «Sei matto?» Koots domandò in olandese. «Un elefante non passerebbe mai da quella porta.» Il boscimano scese con un balzo dalla struttura di legno per frugare nel terreno sottostante e, alla fine, mostrò a Koots quello che aveva trovato. Era una zanna immatura, strappata a un elefantino, lunga quanto l'avambraccio di Xhia e tanto sottile che lui poteva cingerne il punto di massimo spessore tra il pollice e l'indice. Dovevano averla trascurata nel vuotare il magazzino. La sventolò in faccia a Koots. «Avorio?» Koots cominciava a capire. Cinque anni prima, quando faceva da aiutante di campo al governatore di Batavia, il governatore aveva fatto una visita ufficiale al sultano di Zanzibar. Il sultano, molto fiero della sua collezione di zanne d'avorio, aveva invitato il governatore e il suo seguito a visitare le stanze del tesoro per ammirarne il contenuto. Anche lì l'avorio era stato disposto su rastrelliere molto simili a quelle, per preservarle dall'umidità del pavimento. «Avorio!» ripeté Koots, ritrovandosi col fiato mozzo. «Queste sono rastrelliere per custodire l'avorio!» Le immaginò cariche di zanne, e tentò di calcolare il prezzo di un simile tesoro. «In nome dell'angelo nero, questa è un'altra fortuna che regge il confronto con le mandrie catturate.» Si voltò e uscì. «Sergente!» tuonò. «Sergente Oudeman, fai montare in sella gli uomini e prendi a calci il culo nero dei nostri amici arabi: si parte subito. Dobbiamo raggiungere Jim Courteney prima che arrivi sulla costa e si metta sotto la protezione dei cannoni delle navi di suo padre.» Si spinsero a est sulla pista aperta dalle mandrie, una strada battuta della larghezza di quasi un miglio, lungo la quale il bestiame aveva brucato e Wilbur Smith
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calpestato l'erba. «Potrebbe seguirla anche un cieco in una notte senza luna», disse Koots rivolto a Kadem, che cavalcava al suo fianco. «Che bella esca sarà, questo porcellino, per la trappola destinata al grande porco», riconobbe Kadem, con truce determinazione. Ormai si aspettavano di raggiungere da un momento all'altro i carri e le mandrie saccheggiate, ma i giorni si susseguivano tutti uguali e, sebbene cavalcassero senza posa e Koots cogliesse ogni opportunità per osservare col cannocchiale il terreno davanti a loro, non scorsero tracce di bestiame o di carri. Ogni giorno Xhia assicurava che stavano guadagnando rapidamente terreno. In base ai segni, poteva dire a Koots che Jim Courteney andava a caccia di elefanti, mentre il suo convoglio di carri proseguiva la marcia. «E questo non lo rallenta?» domandò Koots. «No, no, precede i carri.» «Allora possiamo sorprendere la carovana mentre lui non è lì a difenderla.» «Prima dobbiamo raggiungerli», disse Kadem, e Xhia ammonì Koots che, se si fossero avvicinati troppo alla carovana di Jim Courteney prima di essere pronti ad attaccarla, Bakkat avrebbe scoperto subito la loro presenza. «Allo stesso modo in cui ho scoperto che questi babbuini scuri ci stavano seguendo», aggiunse, indicando con disprezzo Kadem e i suoi arabi. «Anche se Bakkat non è all'altezza di Xhia, il possente cacciatore, non è un novellino in fatto di doppiezza e arti magiche. Ho visto le sue orme e il suo segno, dove ogni sera cancellava le tracce prima che i carri si fermassero per accamparsi.» «E come sai che è il segno di Bakkat?» gli chiese Koots. «Bakkat è mio nemico, e riesco a distinguere le sue impronte da quelle di qualsiasi altro uomo che cammina su questa terra.» Poi Xhia gli fece notare altre circostanze che Koots non aveva ancora preso in considerazione. I segni indicavano chiaramente che Jim Courteney non aveva soltanto aggiunto mandrie di bovini sottratte al nemico a quelle che portava con sé. Aveva aggiunto anche uomini, molti uomini; Xhia pensava che fossero almeno cinquanta e che, al momento dell'attacco, avrebbero potuto trovarsi di fronte altri cento uomini. Aveva fatto ricorso a tutto il suo genio e alle sue arti magiche per stabilire il carattere e le condizioni di quei nuovi membri della carovana. Wilbur Smith
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«Sono uomini alti e fieri. Questo posso capirlo dal portamento, dalla misura dei loro piedi e dalla lunghezza del passo», spiegò a Koots. «Portano armi e sono uomini liberi, non prigionieri o schiavi. Seguono Somoya di loro volontà, custodiscono e curano le sue mandrie. Secondo me sono nguni, che si batteranno come guerrieri.» Koots sapeva per esperienza che era meglio accettare l'opinione del piccolo boscimano. Fino ad allora non si era mai sbagliato, almeno in quel campo. Con un simile rinforzo al suo nucleo originario di uomini a cavallo armati di moschetto, Jim Courteney poteva schierare in campo una forza formidabile, che Koots non si sentiva di sottovalutare. «Siamo di gran lunga inferiori di numero. Sarà una lotta dura.» Koots soppesò quelle nuove incognite. «Sorpresa», mormorò Kadem. «Abbiamo dalla nostra l'elemento sorpresa. Possiamo scegliere il tempo e il luogo giusti per attaccare.» «Sì», riconobbe Koots. Ormai la sua stima per l'arabo come guerriero era aumentata in misura notevole. «Non dobbiamo sciupare questo vantaggio.» Undici giorni dopo, giunsero sul ciglio di una profonda scarpata. A sud s'intravedevano montagne incappucciate di neve, mentre davanti a loro si stendeva una profusione di colline, valli e foreste che scendevano in ripida pendenza. Koots smontò da cavallo per appoggiare il cannocchiale sulla spalla di Xhia, poi d'un tratto lanciò un grido, scorgendo, in quella lontananza azzurrina, l'azzurro ancora più intenso dell'oceano. «Sì!» esclamò. «Avevo ragione fin dall'inizio. Jim Courteney è diretto verso la baia della Natività per raggiungere le navi del padre. Quella è la costa, che dista meno di cento leghe.» Prima che potesse esprimere appieno la sua soddisfazione per aver continuato l'inseguimento fin lì, senza darsi per vinto, la sua attenzione fu attirata da un altro indizio ancora più imperioso. Nella vasta estensione di terra e di foreste ai suoi piedi, scorse lievi sbuffi di polvere chiara, dispersi su una vasta area e, quando puntò il cannocchiale su quelle nuvole, vide al di sotto il movimento delle masse di bestiame, lente e scure come olio che si spandeva sul tappeto del veld. «Madre di Satana!» gridò. «Eccoli! Li vedo, finalmente.» Con uno sforzo notevole, tenne a freno l'istinto bellicoso che lo spingeva ad attaccarli subito. Si costrinse invece a considerare tutte le circostanze e le eventualità che lui e Kadem avevano discusso con molta attenzione nei Wilbur Smith
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giorni precedenti. «Si spostano lentamente, alla velocità delle mandrie che pascolano. Possiamo permetterci di far riposare uomini e cavalli e prepararci all'attacco. Nel frattempo, manderò Xhia in avanscoperta a controllare la disposizione del convoglio di Jim Courteney e a studiare il suo ordine di marcia, il carattere di questi suoi nuovi uomini e l'ordine di combattimento dei suoi cavalieri.» Kadem si disse d'accordo, mentre osservava il terreno ai loro piedi. «Potremmo aggirarli, precedendoli e tendendo loro un agguato. Forse in un passo angusto tra le colline, oppure a un guado. Ordinate a Xhia di tenere gli occhi aperti per trovare un posto del genere.» «Qualunque cosa accada, non dobbiamo permettere loro di unirsi alle navi che potrebbero essere già ad aspettarli nella baia della Natività», disse Koots. «Dobbiamo attaccarli prima, altrimenti dovremo affrontare cannoni e mitraglia, oltre che moschetti e lance.» Koots abbassò il cannocchiale e afferrò Xhia per la collottola per imprimergli bene in mente la serietà dei suoi ordini. Il boscimano ascoltò con aria seria e capì almeno una parola su due di quello che Koots gli ringhiava contro. «Vi troverò qui al mio ritorno», concluse Xhia quando Koots finì la sua arringa. Poi si allontanò al trotto senza voltarsi, scendendo lungo la ripida parete. Non aveva bisogno di preparativi per il lavoro che lo aspettava, perché portava con sé tutto quello che possedeva, contando soltanto sulla sua schiena robusta. Quando partì, mancava poco a mezzogiorno, e il pomeriggio volgeva alla fine allorché si ritrovò abbastanza vicino alle mandrie da udire i loro muggiti in lontananza. Stava molto attento a coprire i segni del suo passaggio e a non spingersi oltre; nonostante la sua spavalderia, teneva in gran conto i poteri di Bakkat. Girò intorno alle mandrie, tenendosi alla larga per scoprire la posizione esatta dei carri di Somoya. Il bestiame aveva calpestato le tracce e confuso i segni al punto che persino per lui era difficile leggerli come avrebbe voluto. Si trovava a livello dei carri, ma una lega più a nord della loro linea di marcia, quando si fermò di colpo, e il suo cuore cominciò a battere come gli zoccoli di un branco di zebre lanciate al galoppo. Abbassando gli occhi, fissò l'orma piccola e delicata che si notava nella polvere. Wilbur Smith
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«Bakkat», sussurrò. «Il mio nemico. Riconoscerei il tuo segno ovunque, perché è impresso nel mio cuore.» In un attimo, tutti gli ordini e gli incitamenti di Koots furono cancellati dalla sua mente, e lui concentrò i suoi poteri sulla pista. Cammina in fretta, con uno scopo preciso. In linea retta, senza pause né incertezze. Non mostra nessuna cautela. Se mai riuscirò a sorprenderlo, sarà oggi. Senza il minimo ripensamento, abbandonò il suo scopo iniziale e seguì le orme di Bakkat, che odiava più di ogni altro al mondo. Bakkat udì il gruccione nelle prime ore del mattino. Svolazzava tra le cime degli alberi, pigolando e lanciando quel particolare ronzio che poteva significare una cosa sola. Gli venne l'acquolina in bocca. «Ti saluto, mio dolce amico», esclamò, correndo sotto l'albero sul quale l'uccellino dalla livrea smorta stava eseguendo le sue evoluzioni seducenti. I movimenti dell'uccellino divennero ancora più frenetici quando vide che aveva attirato l'attenzione di qualcuno. Lasciò il ramo sul quale si esibiva per svolazzare verso l'albero più vicino. Bakkat esitò, voltandosi a guardare i carri disposti in quadrato ai margini della foresta, dalla parte opposta della radura, a un miglio di distanza. Se avesse perso tempo a tornare fin laggiù soltanto per dire a Somoya dove andava, l'uccellino avrebbe potuto scoraggiarsi e volar via prima del suo ritorno. Somoya, inoltre, poteva anche proibirgli di seguire l'uccellino. Bakkat si leccò le labbra: gli sembrava quasi di sentire sulla lingua il gusto del miele dolce e viscoso, tanto lo sognava. Non starò via per molto, si giustificò. Somoya non si accorgerà nemmeno che non ci sono. Probabilmente lui e Welanga stanno giocando con le bamboline di legno. Quella era l'opinione di Bakkat sugli scacchi intagliati nel legno che tenevano così spesso occupata la coppia, rendendola cieca e sorda a tutto quello che la circondava. Rincorse l'uccellino. Il gruccione lo vide arrivare e cantò per lui, svolazzando fino all'albero vicino, e poi su quello dopo ancora. Seguendolo, Bakkat gli rispose intonando una specie di canzone: «Tu mi guidi verso la dolcezza, e io ti amo per questo. Sei più bello della nettarina, più saggio del gufo, più grande dell'aquila. Sei il signore di tutti gli uccelli...» Non era vero, ma il gruccione si sarebbe sentito lusingato da quelle parole. Bakkat corse attraverso la foresta per il resto della mattinata e, a Wilbur Smith
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mezzogiorno, quando la natura languiva nell'afa, e tutti gli animali e gli uccelli erano silenziosi e sonnolenti, l'uccellino si fermò sui rami più alti di un albero di tambootie, un'euforbiacea dal legno dorato e fragrante, cambiando melodia. Bakkat capì che cosa gli diceva. «Siamo arrivati. Questo è il posto dell'alveare, e trabocca di miele dorato. Ora tu e io ne mangeremo a sazietà.» Si fermò sotto l'albero di tambootie, piegando la testa all'indietro per guardare in alto. Vide le api, investite dai raggi del sole, che le facevano sembrare particelle di polvere d'oro, mentre saettavano nella fenditura del tronco dell'albero. Si tolse dalla spalla l'arco e la faretra, l'ascia e la sacca di cuoio, deponendo tutto con cura alla base dell'albero. Il gruccione avrebbe capito che quella era la garanzia che sarebbe tornato. Comunque, per avere la certezza che non ci fossero malintesi, lo spiegò anche all'uccellino. «Aspettami qui, piccolo amico, non starò via per molto. Devo cercare la pianta per attirare le api.» Trovò la pianta di cui aveva bisogno sulla riva del ruscello vicino; era un rampicante che cresceva sul tronco di un albero di legno-ferro, un arbusto dal legno onerino, intorno al quale si avvolgeva come un serpente sottile. Le foglie avevano la forma di una lacrima, e i fiori minuscoli erano scarlatti. Bakkat fu cauto nel raccogliere le foglie che gli servivano, facendo attenzione a non danneggiare la pianta più del necessario, perché era preziosa. Ucciderla sarebbe stato un peccato contro la natura e contro il suo popolo, i san. Col fascio di foglie nel sacchetto di cuoio, andò in cerca di un boschetto di una varietà di acacia nota col nome di albero della febbre e ne scelse uno col tronco dal diametro giusto per le sue esigenze. Tracciò un solco sulla corteccia per delimitarne un anello, poi staccò quella sezione e la arrotolò fino a ricavarne un tubo che legò con una cordicella, sempre di corteccia. Infine tornò di corsa verso l'albero del miele e, quando il gruccione lo vide tornare, proruppe in un cinguettio isterico di sollievo. Bakkat si accovacciò ai piedi dell'albero, accendendo un fuoco minuscolo all'interno del tubo di corteccia. Soffiando da una parte per creare una corrente d'aria, attizzò la fiamma, poi sparse sulla brace alcuni fiori e foglie del rampicante, che produssero nuvole di fumo dall'odore pungente. Il boscimano si alzò e, mettendosi l'ascia in spalla, cominciò ad Wilbur Smith
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arrampicarsi lungo il tronco dell'albero. Salì svelto come un cercopiteco verde, poi, poco al di sotto della biforcazione del tronco, trovò un ramo comodo sul quale sedersi. Fiutando l'odore di cera del favo, tese l'orecchio per un attimo, ascoltando la voce profonda dello sciame che proveniva dall'interno del tronco cavo. Esaminò l'ingresso dell'alveare e contrassegnò il punto della prima apertura, poi inserì nell'apertura un'estremità del tubo di corteccia e soffiò delicatamente il fumo dentro l'alveare. Poco dopo, il ronzio dello sciame tacque, mentre l'alveare cedeva al torpore. Bakkat accantonò il tubo e si mise in equilibrio senza fatica sul ramo stretto per vibrare un colpo d'ascia. Quando il colpo si ripercosse sul tronco, alcune api uscirono, ronzandogli intorno alla testa, ma il fumo delle foglie del rampicante aveva attutito i loro istinti guerrieri. Una o due lo punsero, ma lui ignorò le punture. Con pochi colpi d'ascia, rapidi e potenti, creò un'apertura quadrangolare nel cavo del tronco, mettendo allo scoperto le file serrate di cellette piene di miele. Poi scese a terra e depose l'ascia, prima di risalire sul ramo, stavolta con la sacca di cuoio in spalla. Sparse altre foglie di rampicante sulle braci contenute nel tubo col fuoco, e soffiò altre nuvole di fumo pungente nell'apertura che aveva allargato. Quando lo sciame tacque di nuovo, introdusse il braccio in fondo all'alveare e, con le braccia e le spalle coperte di api, estrasse i favi, uno alla volta, sistemandoli con delicatezza nella sacca. Una volta che l'alveare fu vuoto, ringraziò le api per il bottino che gli avevano ceduto, e si scusò per il trattamento crudele che aveva inflitto loro. «Vi riprenderete presto dal fumo che vi ho soffiato addosso e potrete riparare l'alveare e riempirlo di nuovo di miele. Bakkat sarà sempre vostro amico, e prova solo grande rispetto e gratitudine per voi», disse alla tribù delle api. Scese a terra e tagliò un ricciolo di corteccia dal tronco del tambootie per ricavarne un vassoio sul quale disporre la parte del bottino che spettava al gruccione. Per il suo piccolo amico e complice scelse il favo più perfetto, pieno di larve gialle, perché sapeva che all'uccellino erano gradite quasi quanto lo erano a lui. Radunò tutti i suoi oggetti, mettendosi in spalla la sacca di cuoio gonfia di favi. Ringraziò per l'ultima volta l'uccellino, poi gli disse addio. Non appena si fu allontanato, l'uccellino scese dalla cima dell'albero per gettarsi sul favo ben pieno, beccando per prima cosa le larve succose. Bakkat Wilbur Smith
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sorrise e lo guardò per qualche istante con indulgenza. Sapeva che avrebbe mangiato tutto, persino la cera, perché era l'unica creatura in grado di digerire quella parte del bottino. Rammentò la leggenda del boscimano avido che aveva svuotato l'alveare senza lasciare niente all'uccellino. La volta successiva, l'uccellino lo aveva guidato verso il cavo di un albero nel quale era arrotolato un enorme mamba nero, e il serpente aveva morso il san ingrato. «La prossima volta che c'incontreremo, ricordati che ti ho trattato bene», disse Bakkat al gruccione. «Ti cercherò ancora. Possa il Kulu Kulu vegliare su di te», concluse, avviandosi verso i carri. Camminando, introduceva la mano nella sacca per staccare pezzetti di favo che si metteva in bocca, canticchiando con intenso piacere. A meno di mezzo miglio di distanza, si fermò bruscamente all'altezza di un guado nel ruscello e fissò, attonito, le impronte di esseri umani sull'argilla della riva. Chi era passato di lì non aveva fatto nessuno sforzo per nascondere le sue tracce. Erano san. Il cuore di Bakkat sussultò come una gazzella. Solo nel vedere le impronte fresche si rese conto di quanto avesse nostalgia della sua gente. Esaminò quelle tracce con avidità: erano in cinque, due uomini e tre donne. Un uomo era vecchio, l'altro molto più giovane; lo intuì dalla lunghezza dei loro passi. Una delle donne era molto vecchia, aveva piedi nodosi e contorti e camminava zoppicando. L'altra donna era nel fiore degli anni, con un passo forte e deciso. Era lei che guidava la famiglia in fila indiana. Poi gli occhi di Bakkat si posarono sulla quinta e ultima serie d'impronte, e lui si sentì stringere il cuore da una grande nostalgia. Erano delicate e incantevoli come i dipinti degli artisti della sua tribù. Sentì che avrebbe potuto piangere di fronte alla bellezza di quelle orme minuscole. Dovette sedersi per un attimo a fissarle, finché non riuscì a riprendersi dall'effetto che avevano su di lui. Con la fantasia, poteva vedere la fanciulla che aveva lasciato quei segni per lui. L'istinto gli diceva che era molto giovane, e aggraziata, flessuosa e nubile. Poi si alzò di nuovo, seguendo le impronte nella foresta. Sulla riva opposta del ruscello, raggiunse il punto in cui i due uomini si erano separati dalle donne per andare a caccia tra gli alberi. Da quel punto in poi, le donne avevano cominciato a raccogliere cibo nel veld. Bakkat vide dove avevano staccato i frutti dai rami e scavato dal terreno i tuberi e Wilbur Smith
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le radici commestibili coi bastoncini appuntiti che ognuna di loro portava. Seguì le tracce lasciate dalla fanciulla, e vide con quanta rapidità e sicurezza lavorava. Non scavava a vuoto, facendo sforzi inutili; lui comprese subito che conosceva tutte le piante e gli alberi nei quali s'imbatteva: trascurava le piante velenose o insipide, scegliendo quelle dolci e nutrienti. Bakkat ridacchiò di ammirazione. «Questa sì che è una ragazza sveglia. Con quello che ha raccolto da quando ha guadato il ruscello potrebbe sfamare tutta la famiglia. Che moglie sarebbe!» Poi, d'un tratto, udì alcune voci nella foresta davanti a sé. Voci femminili che si chiamavano a vicenda mentre lavoravano... E una di quelle voci era dolce e musicale come il canto del rigogolo, quel cantore dorato delle gallerie della foresta. Quella voce lo attirava in modo irresistibile, come aveva fatto il gruccione. Si avvicinò alla ragazza in silenzio e senza farsi vedere. Lei era intenta al suo lavoro in mezzo a un folto di cespugli, e lui poteva sentire il suo bastoncino che scavava nel terreno. Finalmente si ritrovò abbastanza vicino da scorgere i suoi movimenti, velati dallo schermo di rami e foglie. Poi, all'improvviso, lei uscì allo scoperto proprio di fronte a Bakkat. Tutti gli anni di solitudine e isolamento furono spazzati via dal fiotto nuovo e impetuoso delle sue emozioni. Lei era deliziosa, minuscola e perfetta. La sua pelle splendeva al sole di mezzogiorno. Il suo viso era un fiore d'oro. Le sue labbra erano turgide, a forma di petalo. Sollevò una mano aggraziata, tergendosi col pollice le gocce di sudore dal sopracciglio inarcato e scrollandole a terra. Volando nell'aria, scintillarono. Lui era così vicino che una di quelle gocce finì sulla sua pelle coperta di polvere. Ignara della sua presenza, cominciò ad allontanarsi, poi una delle altre donne la chiamò. «Hai sete, Letee? Vogliamo andare al ruscello?» La ragazza si fermò per guardare indietro. Portava soltanto un minuscolo grembiule di cuoio sul davanti, decorato da ricami di conchiglie di ciprea e perline ricavate dal guscio delle uova di struzzo. I disegni di perline proclamavano che era vergine e che nessun uomo l'aveva ancora chiesta in moglie. «Ho la bocca arida come una pietra nel deserto. Andiamo.» Letee scoppiò a ridere, rispondendo a sua madre. Aveva i denti piccoli e candidi. In quel momento, tutta l'esistenza di Bakkat cambiò. Mentre la ragazza si allontanava, i suoi seni piccoli saltellarono allegramente e le natiche nude Wilbur Smith
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e grassocce oscillarono, ondulando. Lui non tentò neppure di fermarla o di trattenerla; sapeva di poterla trovare dove e quando voleva. Quando lei scomparve, si alzò lentamente dal suo nascondiglio, poi spiccò un gran balzo di gioia e si allontanò in gran fretta per costruirsi una freccia dell'amore. In riva al ruscello scelse una canna perfetta e diede sfogo a tutta la sua abilità di artista, dipingendola con segni e motivi mistici. I colori che scelse, attingendo ai corni della pittura, erano il giallo, il bianco, il rosso e il nero. Per l'impennatura usò le penne purpuree del turaco, poi imbottì la punta con una pallottola di pelle di antilope saltante conciata, piena di piume di nettarina, in modo da non infliggere a Letee né dolore né ferite. «E bellissima!» esclamò alla fine, ammirando il suo capolavoro. «Ma non bella come Letee.» Quella notte stessa trovò l'accampamento della famiglia di Letee, situato in una caverna aperta nella parete di roccia sopra il ruscello. Lui si avvicinò di soppiatto nell'ombra per ascoltare la loro conversazione banale e slegata, ma in tal modo apprese che il vecchio e la vecchia erano i suoi nonni, mentre l'altra coppia era formata da madre e padre. La sorella maggiore si era trovata un buon marito e aveva lasciato il clan. Gli altri prendevano in giro Letee, che aveva visto la prima luna già da tre mesi, eppure era ancora vergine e senza marito. Letee chinò la testa, vergognandosi perché non era capace di trovarsi un uomo. Bakkat si allontanò dall'imboccatura della caverna per trovare un posto in cui dormire, più a monte del ruscello. Ma fu di ritorno prima dell'alba e, quando le donne uscirono dalla caverna per addentrarsi nella foresta, le seguì tenendosi a distanza. Quando cominciarono a raccogliere cibo, si tennero in contatto chiamando e fischiando, ma qualche tempo dopo Letee rimase isolata. Facendo ricorso a tutte le sue qualità di cacciatore, Bakkat le si avvicinò. Lei stava scavando per ricavare dal terreno il tubero ricco di nutrimento della pianta di tiski, una varietà di manioca selvatica. Chinandosi, teneva le gambe dritte, oscillando al ritmo del bastoncino per scavare e, guardandola da dietro, si vedevano le labbra sporgenti del suo sesso che facevano capolino tra le cosce, mentre il sederino rotondo era puntato verso il cielo. Bakkat si avvicinò di soppiatto, ma gli tremavano le mani quando sollevò il minuscolo arco cerimoniale e prese la mira con la freccia dell'amore. Comunque la sua mira era precisa come sempre, e Letee Wilbur Smith
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squittì, sorpresa, spiccando un balzo allorché la freccia la colpì sul didietro. Si girò di scatto, posando le mani sulle natiche con un'espressione sbigottita e indignata. Poi vide la freccia ai suoi piedi e si guardò intorno, scrutando il bush silenzioso. Bakkat era scomparso come una nuvola di fumo. Massaggiandosi, riuscì a placare la sensazione di bruciore, e si sentì sopraffare a poco a poco dalla timidezza. D'un tratto, Bakkat ricomparve, così vicino da farla sussultare. Lo fissò. Aveva il petto ampio, le gambe e le braccia robuste. Dal modo in cui portava le armi, lei capì che era un valido cacciatore, e avrebbe saputo provvedere bene alla sua famiglia. Portava appesi alla cintura i recipienti per i colori propri dell'artista, il che voleva dire che doveva godere di prestigio fra le tribù dei san. Letee abbassò gli occhi, sussurrando: «Sei così alto che ti ho visto da lontano». «Anch'io ti ho vista da lontano», replicò Bakkat, «perché la tua bellezza illumina la foresta come il sorgere del sole.» «Sapevo che saresti venuto, perché il tuo viso era dipinto sul mio cuore il giorno della mia nascita.» Letee si fece avanti con timidezza, lo prese per mano e lo condusse dalla madre. Nell'altra mano teneva la freccia dell'amore. «Questo è Bakkat», disse alla madre, mostrandole la freccia dell'amore. La madre strillò, e quel suono attirò la nonna, che prese a ridacchiare con un verso chioccio, da gallina. Le due donne più anziane li precedettero tornando verso la caverna, cantando, danzando e battendo le mani, seguite da Bakkat e Letee, che si tenevano ancora per mano. Bakkat consegnò al nonno di Letee la sacca piena di miele selvatico. Non avrebbe potuto portare un dono più gradito. Non soltanto erano tutti amanti del dolce, ma quel dono era la prova della sua capacità di provvedere alla moglie e ai figli. La famiglia fece onore al banchetto, ma Bakkat non ne mangiò, perché era stato lui a offrirlo. A ogni boccone, Letee si leccava le labbra e gli sorrideva. Parlarono fino a tardi, alla luce del fuoco. Bakkat raccontò chi era, disse loro qual era il totem della sua tribù e recitò l'elenco dei suoi antenati. Il nonno ne conosceva molti, e batté le mani nel riconoscere i loro nomi. Letee restò seduta vicino alle altre donne, che non si unirono ai discorsi degli uomini. Alla fine si alzò e si avvicinò a Bakkat, seduto in mezzo agli altri due, lo prese per mano e lo condusse verso il suo pagliericcio, disposto contro la parete di fondo della caverna. Wilbur Smith
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Partirono insieme di buon'ora. Tutti gli averi di Letee erano racchiusi nel rotolo formato dal suo pagliericcio, che portava in equilibrio sulla testa. Bakkat la precedeva. Si muovevano al trotto, un'andatura che erano in grado di tenere dalla mattina alla sera. Correndo, lui cantava i canti tradizionali della sua tribù per la caccia, e Letee si univa a lui con la sua voce dolce e infantile. Xhia era nascosto nel folto degli alberi oltre il ruscello, davanti all'ingresso della caverna, e vide la coppia uscire alle prime luci del giorno. Aveva spiato Bakkat durante tutto il corteggiamento; nonostante l'odio che provava per lui, era incuriosito dall'antico rituale del matrimonio e osservare l'uomo e la donna che recitavano il ruolo tradizionale gli procurava un'emozione lasciva. Voleva assistere all'atto finale dell'accoppiamento, prima d'intervenire per compiere la sua vendetta su Bakkat. «Si è scelto un altro bel fiorellino.» Il fatto che lei fosse la donna del suo nemico la rendeva ancor più desiderabile per Xhia. «Ma Bakkat non se la godrà a lungo.» Si strinse le braccia al corpo, con gioia maligna, lasciando trotterellare la coppia nella foresta. Non voleva seguirli troppo da vicino, perché sapeva che Bakkat, sebbene distratto dalla sua nuova compagna, era pur sempre un avversario formidabile. Lui non aveva fretta. Era un cacciatore, e la prima qualità del cacciatore era la pazienza. Sapeva che sarebbe venuto il momento in cui Bakkat e la ragazza si sarebbero separati, sia pure per poco, e quella sarebbe stata la sua occasione. Poco prima di mezzogiorno Bakkat s'imbatté in un piccolo branco di bufali. Xhia lo spiò mentre affidava la sacca e tutti i suoi utensili a Letee, prima di avanzare, furtivo. Scelse una giovane femmina, con le carni tenere e saporite, non dure e tigliose come quelle di una bestia più vecchia. Inoltre era molto più piccola, quindi il veleno avrebbe fatto effetto più in fretta. Tenendosi sempre sottovento, riuscì a mettersi direttamente alle spalle della femmina, in modo da poterle conficcare una freccia nella pelle tenera e sottile che circondava l'ano e i genitali, dato che la pelle più spessa nel resto del corpo avrebbe resistito alla fragile freccia dei san. Infine la rete di vene che circondava gli orifizi del corpo della femmina avrebbe fatto arrivare più rapidamente il veleno fino al cuore. Il colpo centrò il bersaglio, e l'animale allarmato si allontanò al galoppo, insieme col resto Wilbur Smith
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del branco. L'asta della freccia si spezzò, ma la punta, avvelenata e munita di barbe, rimase conficcata a fondo. La femmina proseguì la corsa solo per un breve tratto prima che il veleno cominciasse a fare effetto, poi rallentò, mettendosi al passo. Bakkat e Letee la seguirono con pazienza. Il sole si era mosso nel cielo di poche dita appena quando la femmina si fermò e cadde a terra. Il boscimano e la sua piccola donna si accovacciarono poco lontano. Infine la femmina gemette e si girò sul fianco. Bakkat e Letee improvvisarono un canto di lode e ringraziamento alla femmina per avere offerto loro la carne necessaria per sostentarsi, poi si avvicinarono di corsa per andare a macellare il corpo della bestia. Quella sera, mentre il cielo era ancora chiaro, si accamparono vicino alla carcassa. Anche se ben presto la carne si sarebbe guastata col caldo del sole, sarebbero rimasti lì fin quando non avessero consumato tutto l'animale, proteggendolo dagli avvoltoi e dai predatori. Letee accese il fuoco e arrostì strisce di fegato e di carne ricavata dal dorso. Dopo mangiato, Bakkat condusse Letee verso il pagliericcio, dove si unirono. Xhia si avvicinò furtivamente per spiare l'atto finale dell'accoppiamento. Alla fine, quando Bakkat e Letee fremettero insieme, gridando all'unisono, Xhia si piegò in due ed eiaculò, scosso da uno spasmo violento. Poi scivolò di nuovo tra i cespugli prima che Bakkat potesse riaversi. È fatta, si disse. E ora per Bakkat è venuto il momento di morire. È cullato e rammollito dall'amore. Non si presenterà mai un'occasione migliore di questa. All'alba, Xhia era già di vedetta quando Letee si alzò dal pagliericcio sul quale aveva dormito accanto al marito per inginocchiarsi davanti alle ceneri del fuoco e riattizzarle. Nel momento in cui le fiamme divamparono, lasciò l'accampamento per addentrarsi tra i cespugli, vicino al punto in cui era appostato Xhia. Guardandosi intorno con diffidenza, sciolse il laccio che chiudeva il grembiule ricamato di perline, lo posò da una parte e si accovacciò. Mentre lei era impegnata, Xhia le si avvicinò di soppiatto e, non appena Letee si alzò, le balzò addosso da dietro. Era svelto e forte, e lei non ebbe neanche la possibilità di gridare prima che le coprisse la bocca e il naso col grembiule. La tenne inchiodata a terra senza fatica mentre la imbavagliava e la legava con la cordicella di corteccia che aveva intrecciato la sera prima; poi se la caricò in spalla per portarla via, senza preoccuparsi affatto di coprire le sue tracce: la ragazza era l'esca. Bakkat l'avrebbe seguita e Xhia sarebbe stato pronto ad accoglierlo. Wilbur Smith
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Xhia aveva esplorato il terreno la sera prima e sapeva esattamente dove portare la ragazza. Aveva scelto un kopje isolato, non lontano dal campo, con le pendici brulle e rocciose, in modo da poter tenere d'occhio dall'alto chi si avvicinava. Xhia aveva scoperto un unico sentiero che portava fino in cima, esposto per tutta la sua lunghezza al tiro di un arciere appostato sulla sommità. La ragazza era piccola e leggera, quindi Xhia poteva trasportarla correndo senza fatica. Sulle prime scalciava e si dibatteva, e lui le disse, ridacchiando: «Ogni volta che lo farai ti punirò». Ma lei non tenne conto dell'avvertimento e scalciò freneticamente, gemendo e tentando di gridare nonostante il bavaglio. «Xhia ti aveva avvertito di stare calma», ribadì, poi le pizzicò un capezzolo usando le unghie, che erano dure e taglienti come lame di selce. Dalle ferite cominciò a scorrere il sangue, e lei tentò di urlare, col viso stravolto dallo sforzo. Allora lui le pizzicò l'altro capezzolo finché le unghie quasi non s'incontrarono. La ragazza rimase impietrita per il dolore e lui riprese a salire il ripido sentiero fino alla vetta del kopje. Poco prima di arrivare alla sommità, raggiunse una fenditura tra due rocce e vi depose dentro la ragazza, esaminando i legacci, dato che li aveva annodati in gran fretta. Controllò che i nodi delle caviglie e dei polsi fossero ben stretti, poi le sfilò dalla bocca i lembi del grembiule di cuoio, e lei gridò subito a pieni polmoni. «Sì!» rise lui. «Fallo di nuovo. Porterà da me Bakkat, come i lamenti di una gazzella ferita attirano il leopardo.» Lei sibilò, sputandogli addosso. «Mio marito è un grande cacciatore. Ti ucciderà per questo.» «Tuo marito è un codardo e uno spaccone. Prima del tramonto del sole ti renderò vedova. Stanotte dividerai il mio pagliericcio, e domani ti sposerai di nuovo.» Eseguì qualche passo di danza strascicando i piedi, poi sollevò il gonnellino per farle vedere la sua erezione. Xhia aveva nascosto tra le rocce l'ascia, l'arco e la faretra, che andò a recuperare. Saggiò la tensione dell'arco, tendendolo al massimo, poi sollevò la copertura di cuoio della faretra per prendere le frecce. Erano fragili, con l'asta di canna e l'impennatura di piume d'aquila, e la punta di ciascuna era avvolta con cura in una protezione di cuoio tenuta a posto con una cordicella sottile. Xhia tagliò la cordicella per sfilare la protezione, lavorando con grande cura. La punta delle frecce era intagliata nell'osso, Wilbur Smith
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uncinata e aguzza come un ago, e soprattutto annerita dal veleno ricavato dai fluidi corporei di un particolare coleottero, messi a bollire finché non diventavano densi e appiccicosi come il miele. Un graffio di una di quelle frecce avvelenate infliggeva una morte così dolorosa che Xhia le teneva coperte per evitare di graffiarsi accidentalmente. Letee conosceva quelle armi letali, perché le aveva viste usare dal padre e dal nonno per abbattere la selvaggina di grossa taglia. Fin da bambina era stata ammonita a non toccare neppure la faretra che le conteneva, e dunque le fissò con terrore. Xhia ne prese una per mettergliela sotto gli occhi. «Questa è la freccia che ho scelto per Bakkat.» Le agitò sul viso la punta mortale, fermandosi a un dito appena dai suoi occhi. Lei arretrò, terrorizzata, addossandosi alle rocce, e gridò di nuovo a perdifiato. «Bakkat, marito mio! Pericolo! Un nemico ti aspetta!» Xhia si alzò, con l'arco di traverso sulle spalle muscolose e le frecce senza protezione nella faretra, a portata di mano. «Mi chiamo Xhia», le disse. «Digli il mio nome, così saprà chi lo aspetta.» «Xhia!» gridò lei. «E Xhia!» E gli echi le riportarono indietro quel nome. «Xhia! Xhia!» «Xhia!» Bakkat udì quel nome, ma servì soltanto a confermare quello che aveva già letto nei segni. Fu il suono della voce di Letee a colpirlo al cuore, infondendogli insieme gioia e terrore: gioia perché era viva, e terrore perché era caduta nelle mani di un nemico così terribile. Alzò la testa verso il kopje dal quale provenivano le sue grida. Scelse l'unica via facile e sicura verso la vetta, spinto da un impulso quasi irresistibile di fare in fretta. Si affondò le unghie nel palmo della mano per fare in modo che il dolore lo calmasse, poi esaminò le rocce spoglie del piccolo rilievo. «Xhia ha scelto bene il terreno», disse a voce alta. Rifletté ancora una volta su quell'unica strada che portava fino alla vetta e si rese conto che era una trappola mortale. Xhia doveva essere appollaiato lassù, in attesa di scagliare contro di lui le sue frecce. Bakkat aggirò il kopje, scegliendo un percorso alternativo sul versante opposto. Era difficile, con alcuni tratti tanto ripidi e pericolosi da risultare quasi insuperabili; se avesse messo un piede in fallo sarebbe precipitato, finendo a sfracellarsi sulle rocce; in compenso, gran parte del percorso era protetto da una sporgenza rocciosa, che si trovava poco più in basso della sommità. Soltanto l'ultimo tratto della scalata sarebbe stato sotto il tiro di Wilbur Smith
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un osservatore appostato in cima al kopje. Bakkat tornò di corsa verso il campo, depositando l'arco e la faretra. In cima alla collina si sarebbe trovato a una distanza troppo ravvicinata per rendere efficace un tiro con l'arco prima che lui e Xhia s'incontrassero, quindi scelse soltanto il coltello e l'ascia, adatti per uno scontro a corpo a corpo. Poi distese sul terreno la pelle di bufalo ancora umida, ricavandone in fretta un mantello che gli avrebbe coperto la testa e le spalle. Il cuoio spesso aveva già cominciato a puzzare per il caldo, ma gli avrebbe fornito una sorta di armatura efficace contro le frecce di canna. Arrotolando il pesante mantello, se lo assicurò al dorso con una cinghia, poi tornò di corsa verso il kopje, ma aggirandolo per salire direttamente lungo il percorso protetto che aveva scelto in precedenza. Arrampicandosi furtivo attraverso il bush ai piedi della collina, raggiunse la parete rocciosa al riparo della sporgenza, quasi certo che Xhia non lo avesse individuato. Ma con Xhia non si poteva mai avere la certezza assoluta. Riposò per qualche istante, concentrandosi sulla scalata, ma, prima di cominciare, udì le grida di Letee, che risuonavano dall'alto. Poi gli giunse la voce di Xhia. «Guardami, Bakkat. Vedi che cosa sto facendo a questa tua donna? Ah, sì! Ecco che le mie dita affondano dentro di lei. È stretta e bagnata.» Bakkat si sforzò di non prestare ascolto alle provocazioni di Xhia, ma non ci riuscì. «Ascolta la tua donna, Bakkat. Queste sono soltanto le mie dita, ma tra poco sentirà qualcosa di molto più grosso. E come strillerà, allora!» Letee singhiozzava e strillava, mentre Xhia ridacchiava, e le pareti di roccia del kopje ingigantivano quei suoni terribili, riverberandone gli echi. Bakkat dovette imporsi il silenzio. Sapeva che Xhia voleva sentirgli esprimere la sua rabbia, in modo che tradisse la posizione in cui si trovava, dato che non poteva essere certo del sentiero che avrebbe usato per cercare di raggiungere la sommità. Bakkat si diresse verso la parete di roccia, cominciando a scalarla. Da principio salì in fretta, arrampicandosi sulla parete come un geco, poi raggiunse la sporgenza e rimase sospeso nel vuoto, sfruttando ogni appiglio per le dita delle mani e dei piedi, issandosi soprattutto a forza di braccia. L'ascia e il rotolo di pelle umida gli ostacolavano i movimenti e, a poco a poco, i suoi progressi rallentarono. Sotto i suoi piedi, rimasti penzoloni, si apriva il vuoto. Wilbur Smith
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Raggiunse un altro appiglio, ma, non appena si aggrappò con tutto il suo peso, la pietra si sgretolò sotto la sua mano e un blocco di roccia grande il doppio di lui si staccò dal tetto sovrastante, sfiorandogli la testa. La pietra cadde lungo la parete prima di schiantarsi più in basso e, mentre rimbalzava, sollevando una tempesta di polvere e schegge di roccia, gli echi risuonarono in tutta la valle. Per alcuni istanti terribili Bakkat rimase sospeso nel vuoto, reggendosi con le dita di una mano sola, poi, annaspando disperatamente con la mano libera, trovò finalmente un altro appiglio e rimase immobile per qualche istante, cercando di riprendersi. Non sentì altre provocazioni da parte di Xhia. Ormai sapeva esattamente dov'era Bakkat, e lo avrebbe atteso in cima alla parete, con una freccia avvelenata già incoccata sull'arco. Bakkat non aveva scelta. La lastra di roccia che si era staccata aveva modificato la conformazione della parete, tagliandogli la via della ritirata. Poteva soltanto continuare ad arrampicarsi, raggiungendo la sommità, là dove lo aspettava Xhia. Con lentezza penosa, affrontò l'ultimo tratto, superando la sporgenza della cengia rocciosa. Da un momento all'altro avrebbe avvistato la sommità, ma allora Xhia sarebbe riuscito a vederlo. Poi, con un moto di sollievo, trovò una cengia stretta al di sotto della sporgenza superiore; benché l'ampiezza fosse appena sufficiente, riuscì a rannicchiarsi in quello spazio, riposando per quella che gli parve un'eternità. A poco a poco sentì tornare la forza nelle braccia intorpidite e tremanti. Svolgendo con cura la cappa di pelle di bufalo, la usò per coprirsi la testa e le spalle, poi controllò di avere ancora il coltello e l'ascia infilati nella cintura. Si alzò con cautela su quella minuscola sporgenza di roccia, schiacciandosi contro la parete per mantenere l'equilibrio: era costretto a stare in punta di piedi, coi talloni che sporgevano nel vuoto. In quella posizione, tese le braccia verso l'alto, facendo scorrere le mani lungo il bordo sporgente di roccia, più in alto che poteva, e trovò una nicchia profonda quanto bastava per inserirvi le mani con una presa salda. Si issò e i suoi talloni si staccarono dalla pietra. Per un lungo e terribile istante i suoi piedi tastarono alla cieca la parete senza fare presa, poi lui riuscì a sollevarsi fino a gettare un braccio al di sopra della sporgenza. Non appena la sua testa superò il ciglio superiore della parete, sbirciò verso la sommità, poco più in alto, e vide Xhia che lo guardava. Sorrideva, con gli occhi ridotti a due fessure mentre prendeva la mira per scoccare la Wilbur Smith
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freccia. L'arco era tutto teso, e Bakkat vide la punta d'osso mirata contro il suo viso. Era così vicina che poteva distinguere gli uncini aguzzi come il dente canino del pesce tigre, e rendersi conto che il veleno color dello sterco si era seccato, formando un impasto denso tra un uncino e l'altro. Xhia fece partire la freccia, che volò sibilando nell'aria, veloce come una rondine che si tuffa dall'alto. Bakkat non poteva schivarla né spostarsi. Sembrava che la punta cercasse un varco nel mantello di cuoio per colpirlo alla gola, ma, proprio all'ultimo istante, deviò leggermente dalla sua traiettoria. Sentì la lieve pressione della punta che s'impigliava in una piega della spessa pelle di bufalo. L'asta si spezzò e cadde, ma la testa rimase conficcata nel mantello. Bakkat, atterrito dalla minaccia di una morte orribile, superò di slancio l'ultimo tratto, ma, proprio mentre era in bilico sul ciglio del precipizio, Xhia incoccò un'altra freccia e prese la mira da una distanza di pochi passi. Bakkat si scagliò in avanti, e Xhia lanciò la seconda freccia. Anche stavolta Bakkat riuscì a trattenerla tra le pieghe pesanti del mantello; la punta si conficcò nel cuoio spesso, ma l'asta si spezzò. Xhia allungò la mano verso la faretra per prendere un'altra freccia, ma Bakkat lo caricò, facendolo indietreggiare, barcollando. Allora Xhia, mollando la faretra, si aggrappò all'avversario, inchiodandogli le braccia prima che potesse estrarre il coltello dalla cintola. Lottarono a corpo a corpo, girando l'uno intorno all'altro nel tentativo di far perdere l'equilibrio all'avversario. Letee era distesa nel punto in cui l'aveva gettata Xhia dopo aver sentito la valanga di rocce che gli aveva rivelato la posizione di Bakkat. Era ancora legata mani e piedi, e perdeva sangue, perché Xhia aveva infilato le dita dentro di lei, lacerando con le unghie frastagliate i tessuti più delicati del suo corpo. Vide i due uomini lottare, e si rese conto di non poter aiutare il marito. Poi però, poco lontano, scorse l'ascia di Xhia, rimasta nel punto in cui lui l'aveva abbandonata. Rotolando in fretta su se stessa, la raggiunse, e usò i piedi nudi per inclinare la testa dell'ascia in modo che la lama fosse rivolta verso l'alto, quindi la tenne stretta tra i piedi, in modo da segare le corde di corteccia intorno ai polsi. Ogni tanto alzava la testa per sorvegliare la lotta tra i due; capì in tal modo che Xhia era riuscito a fare lo sgambetto a Bakkat, rovesciandolo all'indietro. Caddero insieme sulle rocce, ma Bakkat era inchiodato sotto il corpo snello e muscoloso di Xhia e non riusciva a levarselo di dosso. Senza poter intervenire, Letee vide che Xhia cercava di raggiungere il Wilbur Smith
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coltello che portava infilato nella cintola. Poi, all'improvviso, Xhia lanciò un urlo e allentò la presa. Allontanandosi da Bakkat, abbassò lo sguardo sul proprio petto. Occorse qualche istante a Bakkat per capire che cos'era successo. La punta della freccia che si era spezzata tra le pieghe del suo mantello era rimasta presa in mezzo ai loro due corpi mentre lottavano, e il peso di Xhia aveva spinto nelle sue carni gli uncini avvelenati. Xhia balzò in piedi, tentando di artigliare la punta di freccia e strapparsela dalle carni, ma gli uncini non mollavano la presa, e ogni tentativo faceva scorrere un rivoletto di sangue sul torace nudo. «Sei un uomo morto, Xhia», disse Bakkat con voce roca, inginocchiandosi sul terreno roccioso. L'altro si abbandonò a un urlo potente, ma stavolta di rabbia, non di terrore. «Ti porterò con me nella terra delle ombre!» Estrasse il coltello dal fodero alla cintura, si avventò su Bakkat, che era ancora in ginocchio, poi sollevò il coltello. Quando l'avversario tentò di schivare il colpo, le sue gambe rimasero intrappolate nelle pieghe del mantello e lui ricadde all'indietro. «Morirai con me», gridò Xhia, sferrandogli una pugnalata al petto. Bakkat si spostò di lato e il coltello gli graffiò la parte superiore del braccio. Xhia si preparò al secondo colpo, ma, alle sue spalle, Letee si tirò in piedi. Aveva ancora le caviglie legate, però le mani erano libere e impugnavano l'ascia. La ragazza spiccò un saltello in avanti, sferrando un colpo con l'ascia. La lama passò di lato alla testa di Xhia, ferendola, e tagliando un orecchio prima di affondare nell'articolazione tra la spalla e il braccio che impugnava il coltello. La lama gli cadde dalle dita paralizzate e il braccio penzolò, inerte, lungo il fianco. Lui si girò di scatto per fronteggiare la ragazza, portando alla testa la mano valida, col sangue che gli scorreva tra le dita. «Corri!» le gridò Bakkat, alzandosi. «Scappa, Letee!» Lei ignorò quel grido. Pur avendo le caviglie legate, balzò incontro a Xhia, col coraggio di un ratele, e gli si avventò contro il viso, vibrando un colpo d'ascia. Xhia barcollò, sollevando l'altro braccio per proteggersi, e la lama dell'ascia si abbatté sull'avambraccio, poco sotto il gomito, spezzando di netto l'osso. Xhia indietreggiò, barcollando, le braccia menomate e inutili. Letee fu svelta a chinarsi, recidendo con un colpo secco le corde che le legavano le Wilbur Smith
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caviglie e, prima che Bakkat potesse intervenire, si avventò di nuovo su Xhia. Lui la vide arrivare, una piccola furia gialla, nuda e furente. Ormai gravemente ferito, oscillò sul ciglio del precipizio e, mentre cercava di sfuggire al nuovo attacco, perse l'equilibrio e cadde all'indietro. Non potendo usare le braccia per salvarsi, rotolò lungo il pendio, chiazzando le rocce col suo sangue. Raggiunto l'abisso, precipitò e scomparve alla loro vista. Udirono soltanto il suo grido che si perdeva in lontananza. Si sentì un tonfo sordo, e il grido si spense. Bakkat corse da Letee, che lasciò cadere l'ascia per abbracciarlo. Rimasero stretti a lungo, finché lei non smise di tremare. Poi Bakkat le disse: «Vogliamo scendere, donna?» Lei annuì con energia, e il marito la precedette lungo il sentiero fino alla base della collina. Si soffermarono presso il corpo di Xhia, che giaceva supino, con gli occhi aperti e fissi. Dal petto gli sporgeva la punta della freccia, e il braccio amputato per metà era piegato sotto il corpo a un'angolazione impossibile. «Quest'uomo è un san, come noi. Perché ha tentato di ucciderci?» gli chiese Letee. «Un giorno ti racconterò la storia», promise Bakkat. «Ma per ora lasciamolo al suo totem, la iena.» Si allontanarono, e nessuno dei due si voltò, mentre si mettevano in marcia con quel loro trotto veloce che beveva il vento. Bakkat voleva portare la sua donna a conoscere Somoya e Welanga. Nell'oscurità che precedeva l'alba, Jim Courteney si svegliò lentamente, stiracchiandosi con voluttà sul cardell; poi l'istinto lo spinse a cercare Louisa. Lei era ancora addormentata, ma si rotolò, passandogli un braccio sul petto, e mormorò qualcosa che poteva essere una tenerezza o una protesta per essere stata svegliata. Jim le sorrise, tenendola stretta finché non aprì del tutto gli occhi; poi si rizzò a sedere. «Dove sei stato, in nome di Dio?» tuonò. Anche Louisa si mise seduta, fissando insieme con lui le due figure minuscole appollaiate ai piedi del letto, come due passeri su uno steccato. Bakkat rise allegramente. Era bello tornare e sentire di nuovo Somoya che ruggiva contro di lui. «Ho visto te e Welanga da lontano», disse, a mo' di saluto. L'espressione di Jim si raddolcì. «Credevo che i leoni ti avessero Wilbur Smith
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divorato. Ti ho cercato a cavallo, ma ho perso le tracce tra le colline.» «Non sono riuscito a insegnarti niente sul modo di seguire le tracce.» Bakkat scosse la testa, sconsolato, e tanto Jim quanto Louisa rivolsero la loro attenzione alla sua compagna. «E lei chi è?» chiese Jim. «Lei è Letee, ed è la mia donna», spiegò Bakkat. Letee, sentendo fare il proprio nome, rivolse ai due un sorriso solare. «E molto bella, e così alta!» esclamò Louisa. Da quando avevano lasciato la colonia, non soltanto aveva imparato a comunicare col boscimano, ma aveva anche appreso tutte le loro formule di cortesia. «No, Welanga», la contraddisse Bakkat. «In verità è molto piccola. Per il mio bene, è meglio che Letee non sia incoraggiata a sentirsi alta. Dove potrebbe portarci, un'idea del genere?» «Ma è bella, almeno?» insistette Louisa. Bakkat guardò la sua donna e annuì con aria solenne. «Sì, è bella come una nettarina. Temo il giorno in cui si guarderà allo specchio per la prima volta e scoprirà quanto è bella. Quel giorno potrebbe segnare l'inizio dei miei guai.» A quel punto Letee intervenne col suo pigolio. «Che cosa dice?» chiese Louisa. «Dice che non ha mai visto capelli così chiari o una pelle tanto bianca. Vuole sapere se sei un fantasma. Ma ora basta con le chiacchiere delle donne.» Bakkat si rivolse a Jim. «Somoya, è accaduta una cosa strana e terribile.» «Che cosa?» Anche Jim assunse un'espressione seria. «I nostri nemici sono qui. Ci hanno trovati.» «Spiegati», gli ordinò. «Noi abbiamo molti nemici. Quali sono questi?» «Xhia», rispose Bakkat. «Xhia ha dato la caccia a Letee e me. Ha tentato di ucciderci.» «Xhia!» Jim aveva un'aria severa. «Il cane da caccia di Keyser e Koots? È mai possibile? Abbiamo percorso tremila leghe dall'ultima volta che lo abbiamo visto. Possibile che ci abbia seguiti fin qui?» «Ci ha seguiti, e possiamo stare certi che ha guidato fino a noi Keyser e Koots.» «Li hai visti, quei due olandesi?» «No, Somoya, ma non possono essere lontani. Xhia non si sarebbe mai spinto così lontano, se fosse stato solo.» Wilbur Smith
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«E ora dov'è?» «È morto, Somoya. L'ho ucciso io.» Jim batté le palpebre per la sorpresa e commentò in inglese: «Così ora non risponderà a nessuna domanda». Poi tornò al dialetto della colonia del Capo. «Porta via con te la tua piccola donna bellissima, e lascia che Welanga e io ci vestiamo senza il beneficio dei tuoi occhi fissi su di noi. Ti parlerò di nuovo quando mi sarò messo i calzoni.» Bakkat era in attesa vicino al fuoco, quando Jim scese dal carro pochi minuti dopo. Il giovane lo chiamò e si addentrarono insieme nella foresta, in modo che nessuno potesse sentirli. «Raccontami tutto», ordinò Jim. «Dove e quando ti ha attaccato Xhia?» Ascoltò con attenzione il resoconto di Bakkat e, quando l'ometto finì, chiese, con aria cupa: «Bakkat, se gli uomini di Keyser ci sono alle calcagna, devi trovarli. Puoi seguire a ritroso le orme di Xhia per capire da dove veniva?» «Questo lo so già. Ieri, mentre Letee e io stavamo tornando da voi, mi sono imbattuto nella vecchia pista di Xhia. Mi seguiva da giorni e giorni. Da quando mi sono allontanato dai carri per seguire il gruccione.» «E prima?» volle sapere Jim. «Da dove veniva, quando ha cominciato a seguire te?» «Da quella parte.» Bakkat indicò la scarpata alle loro spalle, che ormai era soltanto una linea indistinta sullo sfondo del cielo. «È arrivato seguendo le tracce dei nostri carri, come se ci avesse seguiti per tutta la strada sin dal fiume Gariep.» «Torna indietro!» ordinò Jim. «Scopri se Keyser e Koots erano con Xhia. Se è così, voglio sapere dove sono adesso.» «Sono passati otto giorni da quando Xhia è partito», disse il capitano Herminius Koots in tono amareggiato. «Credo proprio che ci abbia abbandonati.» «Perché dovrebbe farlo?» gli fece notare Oudeman. «Perché proprio adesso, quando siamo alla vigilia del successo, dopo tanti mesi faticosi e amari? Quando sta per mettere le mani sulla ricompensa che gli avete promesso?» Negli occhi di Oudeman balenò uno sguardo scaltro. Era giunto il momento di ricordare a Koots la ricompensa. «Tutti noi ci siamo guadagnati una quota della ricompensa. Xhia non diserterebbe di certo a questo punto, perdendo il diritto alla sua quota.» Wilbur Smith
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Koots si accigliò. Non gli piaceva discutere della ricompensa. In quegli ultimi mesi aveva meditato su ogni possibile espediente per non tenere fede alle promesse che aveva fatto in quel senso. Si rivolse a Kadem. «Non possiamo aspettare qui. I fuggiaschi ci sfuggiranno. Dobbiamo cercare di catturarli senza Xhia. Siete d'accordo?» Dopo il loro primo incontro i due avevano stabilito rapidamente un accordo di reciproco vantaggio. Koots aveva fissa in mente la promessa di Kadem di spianargli la strada per entrare al servizio del califfo di Oman, e il potere e le ricchezze che sarebbero derivati da quella posizione. Kadem sapeva che Koots rappresentava la sua unica speranza di ritrovare Dorian Courteney. «Penso che abbiate ragione, capitano. Non abbiamo più bisogno di quel piccolo selvaggio. Abbiamo trovato il nemico. Andiamo all'attacco.» «Allora siamo d'accordo», disse Koots. «Viaggeremo veloci per precedere la carovana di Jim Courteney, e gli tenderemo un agguato su un terreno dove il vantaggio sia tutto nostro.» Per Koots era semplice seguire il percorso della carovana di Jim Courteney senza avvicinarsi troppo e rivelare la sua presenza. La polvere sollevata dalle mandrie di bovini si vedeva a qualche lega di distanza. Convinto di non avere più bisogno di Xhia, Koots guidò le sue truppe lungo il pendio, poi fece un'ampia e prudente deviazione verso sud per arrivare dieci leghe più avanti della carovana. A quel punto, cominciarono a tornare indietro per intercettarli frontalmente. In tal modo non ci sarebbero state tracce da individuare per il boscimano di Jim Courteney prima che avessero la possibilità di far scattare l'imboscata. Il terreno era favorevole a loro. Era evidente che Jim Courteney stava seguendo la valle di un fiume che scendeva verso l'oceano, ricca di pascoli e acqua da bere per le mandrie. Tuttavia c'era un punto in cui il fiume, superando una fila di colline brulle, restava serrato in una stretta gola rocciosa. Koots e Kadem studiarono dall'alto quel collo di bottiglia. «Dovranno passare per forza di qui, coi carri», disse Koots, soddisfatto. «L'unico altro passaggio tra queste colline si trova più a sud e dista quattro giorni di viaggio.» «Impiegheranno giorni e giorni per attraversare la gola, il che significa che dovranno accamparsi qui coi carri almeno per una notte», convenne Kadem. «Potremo attaccarli di notte. Non se lo aspetteranno, e i guerrieri nguni che sono con loro non si battono nell'oscurità. Arriveremo come le Wilbur Smith
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volpi nel pollaio, e sarà tutto finito prima dell'alba.» Per l'attesa, scelsero una posizione elevata da cui dominare il terreno. Finalmente scorsero la fila lenta di carri che entrava nella gola ai loro piedi e, seguendo la riva del fiume, si addentrava nella strettoia. Koots riconobbe Jim Courteney e la sua donna che cavalcavano in testa alla carovana, precedendo il primo carro, e sorrise con gioia selvaggia. Li spiò mentre si accampavano in ordine sparso nel cuore della gola e si sentì sollevato, vedendo che non si preoccupavano di disporre i carri in modo da formare un quadrato difensivo, ma si limitavano a sistemarli a caso in mezzo agli alberi della riva, ben separati l'uno dall'altro. Sulla scia dei carri, le mandrie di bestiame invasero l'imboccatura della gola, scendendo al fiume per abbeverarsi, e i mandriani nguni cominciarono a scaricare le zanne d'avorio che ogni bestia portava sul dorso. Era la prima volta che Koots si avvicinava abbastanza alla carovana per vedere la quantità di bottino raccolta. Cercò di contare i capi di bestiame, ma scoprì che la polvere e la confusione rendevano impossibile quel calcolo. Era come tentare di contare i pesci che formavano un banco di sardine. Puntò il cannocchiale sulla montagna d'avorio ammassata in riva al fiume. Era un tesoro superiore alla sua immaginazione. Seguì con lo sguardo le mandrie che si disponevano al riposo notturno, sotto la sorveglianza dei mandriani nguni. Poi, al calar del sole, quando la luce cominciò ad affievolirsi, Koots e Kadem abbandonarono il loro nascondiglio sul terreno elevato, indietreggiando dalla linea dell'orizzonte per raggiungere il punto in cui il sergente Oudeman sorvegliava i cavalli. «Bene così, Oudeman», gli disse Koots, montando in sella. «Si trovano in una posizione perfetta per l'attacco. Ora possiamo riunirci agli altri.» Superarono la cresta successiva prima di scendere, lungo una pista tracciata dalla selvaggina, verso il fondo della gola. Bakkat seguì i loro movimenti, ma continuò ad aspettare finché l'ultimo raggio di sole non sfiorò l'orizzonte. Soltanto allora uscì dal suo nascondiglio, sulla collina più alta che sorgeva dalla parte opposta della gola. Non voleva correre il rischio che Koots tornasse indietro. Al crepuscolo, scese rapido e silenzioso lungo la parete ripida della gola per fare rapporto a Jim, che lo ascoltò con attenzione. «Ormai è chiaro», disse questi, soddisfatto. «Koots attaccherà stanotte. Ora che ha visto il bestiame e l'avorio, non riuscirà a controllare la sua Wilbur Smith
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avidità. Seguili, Bakkat, e sorveglia ogni loro mossa. Io resterò in ascolto per sentire i tuoi segnali.» Non appena fu abbastanza buio per sfuggire agli occhi di qualsiasi osservatore appostato sulle colline, Jim aggiogò di nuovo i buoi ai carri per spostarli in una stretta rientranza ai piedi delle colline, protetta su tre lati da ripide pareti di roccia. Lavorarono nel massimo silenzio possibile, senza far schioccare le fruste o gridare. Poi, in quella posizione facile da difendere, disposero i carri in modo da formare il laager e li assicurarono, legando le ruote tra loro. Poi spinsero la mandria di cavalli di riserva al centro del quadrato di carri. I cavalli che avrebbero montato quella notte erano legati all'esterno del quadrato, già sellati e coi moschetti e le sciabole nel fodero, pronti a una sortita immediata. Poi Jim si diresse verso il punto dov'era in attesa Inkunzi, il capo dei mandriani, coi suoi nguni. Obbedendo agli ordini di Jim, radunarono il bestiame e si spostarono in silenzio di una distanza equivalente a tre lunghezze di cavo, risalendo la gola dal terreno stratificato che Koots aveva scelto come punto di osservazione. Jim si rivolse ai mandriani nguni per spiegare esattamente che cosa voleva da loro. Si levò qualche protesta da parte di quegli uomini, che accudivano le bestie con la stessa premura che avrebbero riservato ai loro figli, ma lui li rimbeccò, e le proteste cessarono. Gli animali, contagiati dall'umore dei mandriani, erano nervosi e irrequieti. Inkunzi passò in mezzo alle mandrie per tranquillizzarle, suonando una ninnananna sul suo flauto di canna. Allora le bestie cominciarono a calmarsi e molte si stesero a terra per riposare. In ogni modo rimasero unite, perché in quelle ore di nervosismo avevano bisogno della solidarietà del branco. Jim tornò verso i carri per accertarsi che tutti gli uomini avessero cenato e fossero calzati e pronti a mettersi in marcia, poi salì con Louisa verso un punto di osservazione situato sulla parete di roccia che dominava il laager. Da lì avrebbero potuto udire i segnali di Bakkat. Si sedettero vicini, dividendo un mantello di lana per difendersi dal gelo improvviso della notte e parlando tra loro a bassa voce. «Non arriveranno prima del sorgere della luna», predisse Jim. «Quando sarà?» chiese Louisa. Qualche ora prima avevano consultato insieme l'almanacco, ma glielo chiese di nuovo, più che altro per sentire la sua voce. Wilbur Smith
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«Pochi minuti prima delle dieci. Mancano sette giorni al plenilunio, e la luce sarà appena sufficiente.» Infine la luna spuntò all'orizzonte, rischiarando il cielo, e Jim s'irrigidì, liberandosi dal mantello. Sulle colline dalla parte opposta della gola un gufo reale fece sentire il suo verso due volte. Il gufo reale non ripeteva mai il suo verso. «Questo è Bakkat», mormorò Jim. «Stanno arrivando.». «Da quale lato del fiume?» chiese Louisa, alzandosi. «Scenderanno verso il punto in cui hanno visto i carri al tramonto, dunque su questo lato del fiume.» Il gufo reale fece sentire di nuovo il suo verso, da un punto molto più vicino. «Koots sta arrivando in fretta.» Jim imboccò il sentiero che scendeva verso il laager. «È ora di montare in sella.» Gli uomini erano in attesa vicino ai cavalli, ma si vedevano soltanto sagome scure. Jim rivolse poche parole a ciascuno di loro, parlando a bassa voce. Alcuni mandriani erano abbastanza grandi da poter cavalcare e maneggiare un moschetto. I più piccoli, sotto la guida di Izeze, la «piccola pulce», avrebbero condotto i cavalli da soma con la polvere da sparo, le munizioni di riserva e gli otri dell'acqua, in caso il combattimento si fosse fatto pesante. Tegwane aveva ai suoi ordini venti guerrieri nguni e sarebbe rimasto a guardia dei carri. Intepe, la nipote di Tegwane, era vicina a Zama e lo aiutava ad assicurare l'equipaggiamento sulla groppa di Crow. In quei giorni i due avevano trascorso molto tempo insieme. Jim si avvicinò all'uomo, dicendogli a bassa voce: «Zama, tu sei il mio braccio destro. Uno di noi dovrà cavalcare sempre al fianco di Welanga. Non separarti mai da lei». «Welanga dovrebbe restare nel laager insieme con le altre donne», replicò Zama. «Hai ragione, amico mio», rispose l'altro con un sorriso. «Dovrebbe fare come dico io, ma non sono mai riuscito a trovare le parole per convincerla.» Il gufo reale si fece sentire di nuovo, tre volte. «Ora sono vicini.» Jim alzò gli occhi verso la luna gibbosa, che veleggiava sopra le colline. «In sella!» ordinò. Tutti sapevano cosa dovevano fare, e montarono in silenzio sui loro cavalli. Jim e Louisa, in sella a Drumfire e Trueheart, rispettivamente, li condussero verso Inkunzi Wilbur Smith
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che aspettava coi suoi guerrieri, sorvegliando le mandrie che riposavano. «Siete pronti?» gli chiese Jim, avvicinandosi a cavallo. Inkunzi teneva lo scudo in spalla e il suo assegai scintillava ai raggi della luna. Gli uomini si accalcarono alle sue spalle. «Stanotte offrirò un banchetto alle vostre lame affamate. Lasciamole mangiare e bere a sazietà», disse loro Jim. «Ora sapete cosa fare. Cominciamo.» Rapidi e silenziosi, con un movimento fluido e ben disciplinato, i guerrieri si schierarono in una doppia fila che sbarrava la gola in larghezza, dalla riva del fiume alla parete di roccia. I cavalieri si disposero alle loro spalle. «Noi siamo pronti!» gridò Inkunzi. Jim estrasse la pistola dal fodero sul davanti della sella e sparò un colpo in aria. Nell'aria silenziosa della notte, si scatenò un pandemonio di suoni e di grida. Gli nguni martellavano gli scudi con la lama degli assegai, lanciando il loro grido di guerra, mentre i cavalieri sparavano coi moschetti e urlavano come anime dannate. Insieme si lanciarono nella gola, e gli animali si alzarono faticosamente. I tori muggirono, allarmati, perché erano in sintonia con l'umore e lo stato d'animo dei loro mandriani nguni. Le vacche invece lanciavano versi lamentosi, ma, quando le file di guerrieri puntarono su di loro, facendo rullare i tamburi, vennero colte dal panico e invertirono la direzione per darsi alla fuga. Erano tutte bestie pesanti, con grandi corna e giogaie penzolanti. L'ampiezza delle corna era pari al doppio dell'estensione delle braccia di un uomo. Nel corso dei secoli, gli nguni avevano selezionato la razza in modo da sviluppare quell'attributo, cosicché le bestie potessero difendersi meglio dai leoni e da altri predatori. Erano in grado di correre come antilopi selvagge, ma, quand'erano minacciate, sapevano difendersi benissimo con quelle grandi corna. In quel momento, erano lanciate all'impazzata verso il fondo della valle, formando una massa scura e compatta, incalzate da vicino dai guerrieri in corsa e dai cavalieri al galoppo. Koots era convinto che fossero riusciti ad avvicinarsi in silenzio, senza essere scoperti dai picchetti disposti da Jim Courteney. La luna era favorevole e, a parte i soliti suoni prodotti dagli uccelli e dai piccoli animali notturni, era tutto tranquillo e silenzioso. Wilbur Smith
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Koots e Kadem cavalcavano a fianco a fianco. Sapevano di avere ancora un miglio da percorrere, prima di raggiungere il punto in riva al fiume dove avevano visto staccare i buoi dai carri. I soldati ottentotti e i tre arabi sapevano esattamente che cosa fare. Prima che fosse dato l'allarme, dovevano sparpagliarsi tra i carri e sparare ai componenti del convoglio a mano a mano che uscivano; poi avrebbero potuto sistemare i mandriani nguni. Pur essendo superiori di numero, questi erano armati soltanto di lancia, quindi costituivano la minaccia minore. «Sterminateli tutti», aveva ordinato Koots. «E le donne?» aveva chiesto Oudeman. «Io non assaggio un po' di miele da quando abbiamo lasciato la colonia. Ci avevate assicurato che potevamo spassarcela con la ragazza bionda.» «Se riuscite a procurarvi un pezzo di poesje, tanto meglio, ma accertatevi che tutti gli uomini siano morti, prima di calarvi i calzoni, altrimenti potreste ritrovarvi una sciabola nel didietro proprio mentre vi sta uscendo la crema.» Erano scoppiati a ridere tutti. A volte Koots dimostrava di possedere quel giusto tocco di volgarità che gli permetteva di parlare loro nel linguaggio che capivano meglio. I soldati si stavano spingendo avanti, ansiosi di lanciarsi all'attacco. Quel giorno, dall'alto dello strapiombo che dominava la gola, molti di loro avevano scorto il bestiame, l'avorio e le donne. Lo avevano riferito ai compagni, e molti erano infiammati dalla promessa di saccheggio e di stupro. D'un tratto, un colpo isolato di moschetto risuonò nel buio sopra di loro, e la colonna si fermò, senza attendere ordini. Tutti scrutarono il terreno davanti a loro. «Figlio di una grandissima baldracca», imprecò Koots. «Che cos'è stato?» Non dovette attendere a lungo per avere la risposta. La notte si riempì bruscamente di grida e di frastuono. Nessuno di loro aveva mai sentito quel tamburellio sugli scudi da guerra, prima di allora, e quel rumore rendeva tutto ancora più allarmante. Pochi istanti dopo si scatenò una salva di colpi di moschetto e grida selvagge, mescolate ai muggiti e ai lamenti di centinaia di bovini, cui seguì il tuono sempre più fragoroso di zoccoli che piombavano su di loro dal buio. Alla luce incerta della luna, sembrava che fosse la terra stessa a muoversi, una massa fluida che somigliava a una colata di lava diretta Wilbur Smith
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verso di loro, che inondava la gola in tutta la sua ampiezza, da una parete all'altra. Il tuono degli zoccoli era assordante. Poi videro i dorsi gibbosi di quella mandria mostruosa avvicinarsi a velocità folle, con le corna scintillanti ai raggi della luna. «La mandria è impazzita!» gridò Oudeman terrorizzato, e gli altri ripresero il grido. «La mandria è impazzita!» Il gruppetto compatto di cavalieri girò all'unisono nella direzione opposta, disperdendosi di fronte all'avanzare di quella parete solida di grosse teste munite di corna e degli zoccoli che martellavano il terreno a una dozzina di passi di distanza. Il cavallo di Goffel finì con una zampa anteriore nella cavità di un formicaio e la zampa si spezzò, mentre il cavallo si abbatteva al suolo. Goffel fu scagliato in avanti, urtando il terreno con una spalla. In preda al terrore, si rimise in piedi, trascinandosi col braccio che pendeva inerte dalla spalla fracassata proprio mentre la prima linea della mandria lo investiva. Uno dei tori di testa lo agganciò al volo con un corno; la punta gli perforò la gabbia toracica, uscendo dalla schiena all'altezza delle reni. Il toro scrollò la testa e Goffel fu scaraventato in aria, ricadendo sotto gli zoccoli della mandria, che lo calpestò e scalciò fino a ridurlo a una poltiglia informe. Gli altri soldati rimasero in trappola, addossati a un angolo della parete e, quando tentarono di tornare indietro, la mandria li travolse e le loro cavalcature furono dilaniate dai tori inferociti. I cavalli, in preda alla frenesia, s'impennavano e scalciavano, disarcionando i cavalieri, e uomini e cavalli furono sopraffatti dalla carica irta di corna, finendo sotto gli zoccoli martellanti. Habban e Rashood correvano a fianco a fianco, ma quando il cavallo di Habban inciampò in una buca e finì a terra con una zampa spezzata, Rashood invertì la direzione e riuscì a trascinare via l'amico dietro la sella, sfilandolo da sotto le corna degli animali impazziti. Proseguirono la corsa, ma il cavallo, appesantito dal doppio carico, non riuscì a tenere testa alla velocità della carica e fu inghiottito da un'ondata di corna puntate in avanti e di bestie mugghianti. Habban fu ferito gravemente alla coscia e strappato dalla sella del compagno. «Prosegui!» gridò a Rashood, mentre finiva a terra. «Per me è finita. Salvati almeno tu!» Invece Rashood tentò di tornare indietro, e il suo cavallo fu incornato più volte, finché non cadde in un groviglio di zampe e di equipaggiamento. Rashood si trascinò carponi in mezzo alla polvere e agli zoccoli che volavano. Per quanto ricevesse molti calci e sentisse Wilbur Smith
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muscoli e tendini strapparsi nella schiena e sul petto, mentre le costole si spezzavano con uno schiocco secco, riuscì a raggiungere il compagno caduto, trascinandolo dietro il tronco di uno degli alberi più grandi. Restarono lì nascosti, mentre la mandria li superava con un rombo di tuono, e tossirono, soffocati dalle nuvole di polvere. Anche dopo il passaggio della mandria impazzita non poterono muoversi, perché la carica degli animali fu seguita da un'altra ondata di guerrieri nguni armati di lancia che ululavano. Proprio quando sembrava che stessero per trovare i due arabi, un soldato ottentotto uscì allo scoperto per tentare una sortita. Come cani all'inseguimento della volpe, gli nguni piombarono sull'uomo, allontanandosi dal nascondiglio di Rashood e Habban, e lo colpirono più volte, lavando le lame nel suo sangue. Koots e Kadem spronarono i cavalli al galoppo lungo la riva del fiume per tenere testa al bestiame impazzito, e Oudeman li seguì da vicino. Sapeva che Koots possedeva un istinto di sopravvivenza animalesco, ed era fiducioso che avrebbe trovato una via di scampo per entrambi. D'un tratto, i cavalli finirono in un tratto folto di rovi dalle spine a uncino e la loro corsa fu rallentata dai fitti cespugli. L'avanguardia della mandria, che li seguiva dappresso, si abbatté sui rovi senza la minima esitazione, e coprì rapidamente la distanza che li separava. «Nel fiume!» ruggì Koots. «Lì non ci seguiranno.» Gridando, diresse il suo cavallo verso la riva e lo sferzò per indurlo a tuffarsi. Compiendo un salto di dodici piedi, finirono in acqua con uno scroscio sonoro. Kadem e Oudeman lo seguirono e, riemergendo in superficie, videro che Koots era già in mezzo alla corrente. Nuotando a fianco dei cavalli, raggiunsero la sponda meridionale quando lui era già risalito sulla terraferma. Salirono il più possibile, prima di fermarsi, fradici ed esausti, per osservare la mandria che proseguiva la corsa sulla riva opposta. Poi, al chiaro di luna, scorsero i cavalieri di Jim Courteney galoppare dietro il branco, udirono i tonfi sordi e videro le vampate che sprizzavano dalla canna dei moschetti quando si scontrarono coi superstiti delle truppe di Koots e li bersagliarono di colpi. «La nostra polvere si è bagnata», disse Koots, ansimando. «Non possiamo restare qui e batterci.» «Io ho anche perso il moschetto», borbottò Oudeman. «È finita», ammise Kadem. «Ma ci saranno un altro giorno e un altro Wilbur Smith
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luogo, e là concluderemo questa faccenda.» Risalirono in sella e si allontanarono in fretta, puntando verso est, lontano dal fiume, dalla mandria impazzita e dai moschetti del nemico. «Dove andiamo?» chiese infine Oudeman, ma nessuno dei due gli rispose. I mandriani nguni impiegarono parecchi giorni per radunare le mandrie disperse e scoprirono che trentadue di quelle bestie imponenti, dal dorso gibboso, erano morte o presentavano mutilazioni irrimediabili. Nel corso della carica, alcune erano cadute dal ciglio di precipizi, oppure erano finite in qualche buca o annegate nelle rapide del fiume. Certe, rimaste isolate dalla mandria, avevano finito per essere sbranate dai leoni. Gli nguni le piansero, prima di ricondurre amorevolmente verso l'accampamento gli animali sopravvissuti a quella terribile notte. Si spostarono in mezzo a loro, calmandoli e rassicurandoli, poi curarono le ferite che avevano riportato, dai tagli prodotti dalle corna dei loro simili alle lacerazioni e alle contusioni riportate nell'urto con alberi o altri ostacoli. Inkunzi, il capo dei mandriani, era deciso a esprimere la sua disapprovazione a Jim nei termini più energici che gli era concesso usare. «Gli chiederò di sospendere la marcia e riposare in questo punto finché le bestie non si saranno riprese del tutto», assicurò ai suoi uomini, e tutti si dissero pronti a sostenerlo. Nonostante le minacce, le richieste che presentò a Jim erano espresse in termini molto più blandi, e lui le accolse senza battere ciglio. Non appena fece giorno, Jim e i suoi uomini si avviarono verso il campo di battaglia, dove trovarono quattro cavalli di Koots uccisi dalle cornate e altri due feriti così gravemente che fu necessario abbatterli. Tuttavia riuscirono a recuperarne altri undici illesi o feriti in modo così leggero che fu possibile curarli e aggiungerli al branco di animali di riserva. Trovarono anche i corpi di cinque uomini di Koots. Tre di loro erano irriconoscibili, tanto erano sfigurati, ma, dagli articoli di vestiario e di equipaggiamento, nonché dai libretti paga che Jim scoprì nelle tasche di due di loro, si convinse che dovevano appartenere alla cavalleria della VOC, anche se portavano il mufti invece della divisa militare. «Sono tutti uomini di Keyser. Li ha mandati lui, anche se non è venuto di persona a cercarci», assicurò Jim a Louisa. Smallboy e Muntu riconobbero alcuni dei cadaveri. La colonia del Capo Wilbur Smith
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era una piccola comunità, in cui ognuno conosceva i suoi vicini. «Goffel! Questo sì che era un kerel davvero cattivo», osservò Smallboy, pungolando uno dei corpi martoriati. La sua espressione era severa, mentre scuoteva la testa. Nemmeno lui era un angioletto e, se manifestava la sua disapprovazione, pensò Jim, Goffel doveva essere stato una vera sentina di vizi. «Ne mancano ancora cinque», disse Bakkat a Jim. «Non c'è nessuna traccia di Koots e del sergente calvo, e neppure dei tre strani arabi che abbiamo visto con loro. Devo controllare la riva opposta del fiume.» Guadò le acque e Jim lo osservò mentre si aggirava lungo la riva del fiume, scrutando il terreno per leggere i segni. D'un tratto si fermò, come un cane da punta che fiuta l'usta. «Bakkat! Che cos'hai trovato laggiù?» gli gridò. «Tre cavalli, che corrono al galoppo», rispose Bakkat. Jim, Louisa e Zama attraversarono il fiume per unirsi a Bakkat e studiare le tracce di cavalli al galoppo. «Riesci a capire chi erano i cavalieri, Bakkat?» domandò Jim. Sembrava impossibile, ma il boscimano rispose alla domanda come se fosse del tutto normale, accovacciandosi vicino alle tracce. «Questi sono i cavalli che Koots e quello calvo cavalcavano ieri. L'altro è uno degli arabi, quello col turbante verde», dichiarò con sicurezza. «Come può dirlo?» chiese Louisa, stupita. «Sono tutti cavalli ferrati. Le tracce non sono identiche?» «Non per Bakkat», le assicurò Jim. «Lui le distingue dalle irregolarità nella tenuta degli zoccoli e dalle tacche e ammaccature del metallo. Ai suoi occhi, ogni cavallo ha un'andatura caratteristica, e lui riesce a leggerla sulla pista.» «E così Koots e Oudeman se la sono cavata. E ora che cosa farai, Jim? Pensi d'inseguirli?» Il giovane non rispose subito. Per ritardare la decisione, ordinò a Bakkat di seguire la pista così da accertarsi della direzione che prendevano. Dopo un miglio, le tracce puntavano con decisione verso nord. Jim decretò una sosta e chiese il parere di Bakkat e Zama. La discussione fu lunga. «Cavalcano in fretta», gli fece notare Bakkat. «Hanno un vantaggio di mezza nottata e un giorno. Ci vorranno molti giorni per raggiungerli, ammesso che ce la facciamo. Lasciamoli andare, Somoya.» «Io penso che siano sconfitti», disse Zama. «Koots non tornerà. Ma, se Wilbur Smith
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lo raggiungerete, si batterà come un leopardo finito in trappola. Perderai degli uomini.» Louisa rifletté. Jim poteva restare ferito o ucciso. Pensò d'intervenire, ma sapeva che, così facendo, avrebbe potuto consolidare la sua volontà, giacché aveva scoperto in lui un forte spirito di contraddizione. Quindi si rimangiò gli inviti supplichevoli a restare, per dire invece con calma: «Se vai all'inseguimento, verrò con voi». Jim la guardò e il bagliore bellicoso nei suoi occhi scomparve; le sorrise, con aria sconfitta, ma aveva ancora una condizione da porre. «Ho l'impressione che Bakkat abbia ragione. Come al solito, Koots ha abbandonato le sue intenzioni ostili verso di noi, almeno per il momento. Ha perso molti uomini, però ha ancora con sé una forza temibile. Ci sono cinque uomini di cui non conosciamo ancora la sorte: Koots, Oudeman e i tre arabi. Se riuscissimo a stanarli, potrebbero renderci la vita difficile. Anche Zama ha ragione a dire che non possiamo sperare di uscire per la seconda volta senza danni: se li raggiungiamo, alcuni dei nostri uomini verranno uccisi o feriti. D'altra parte, quella che sembra una fuga potrebbe essere un trucco per attirarci lontano dai carri. Sappiamo che Koots è un animale astuto, quindi, se lo seguiamo, potrebbe aggirarci e attaccare i carri prima che noi possiamo tornare indietro per intervenire.» Prese fiato e concluse: «Ci terremo vicino alla costa e vedremo che cosa ci aspetta alla baia della Natività». Attraversarono il fiume, puntando di nuovo verso il basso, lungo la stretta gola percorsa dalla mandria impazzita. Forte della certezza che Jim non intendeva partire all'inseguimento di Koots, Louisa era felice e chiacchierava tutta allegra con lui mentre cavalcavano a fianco a fianco. Zama era ansioso di tornare ai carri e li precedette, fino a sparire quasi tra gli alberi. «Ha fretta di tornare dal suo giglio delicato», commentò Louisa ridendo. «Chi?» Jim era perplesso. «Intepe.» «La nipote di Tegwane? Zama è...» «Sì», confermò Louisa. «Ah, a volte gli uomini sono davvero ciechi. Come hai fatto a non capirlo?» «Tu sei l'unica cosa che conta per me, Istrice. Non vedo altro che te.» «Amore mio, che belle parole», esclamò Louisa, scendendo di sella con un balzo e porgendogli le labbra. «Avrai un bacio in premio.» Wilbur Smith
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Ma, prima che lui potesse reclamare il bacio, si udirono un grido selvaggio e la detonazione di un colpo di moschetto, poco più avanti. Videro Frost impennarsi e scartare sotto Zama, che si accasciò di lato sulla sella. «Zama è nei guai!» gridò Jim, spronando il cavallo. Già da lontano, si accorse che era ferito. Pendeva di lato dalla sella e aveva il dorso della giubba insanguinato. Prima che Jim potesse raggiungerlo, scivolò giù dalla sella e cadde a terra, restando inerte. «Zama!» urlò Jim, correndo verso di lui. Proprio in quel momento, però, vide con la coda dell'occhio un movimento fulmineo. C'era pericolo, da quella parte, e lui voltò Drumfire per andare ad affrontarlo. Uno degli arabi, vestito con una tunica lacera, macchiata di terriccio e sangue, era accovacciato dietro il tronco di un albero della febbre, intento a ricaricare freneticamente il moschetto a canna lunga, calcando un proiettile nell'imboccatura. Sentendo arrivare un cavallo lanciato alla carica, alzò la testa, e Jim lo riconobbe. «Rashood!» gridò. Era un uomo dell'equipaggio della Gift of Allah, lo schooner di famiglia. Jim aveva navigato con lui più di una volta e lo conosceva bene... Eppure adesso Rashood cavalcava insieme col nemico, attaccando a tradimento i carri dei Courteney, e aveva anche sparato a Zama. Rashood riconobbe Jim nello stesso istante. Lasciando cadere il moschetto, balzò in piedi e si diede alla fuga. Il giovane sfoderò la sciabola, lanciando Drumfire all'inseguimento. Quando si rese conto che non sarebbe riuscito a fuggire, Rashood si gettò in ginocchio, allargando le braccia in un gesto di resa. Jim si alzò sulle staffe, dominandolo dall'alto del cavallo. «Bastardo infido e assassino!» Era tanto in collera che avrebbe voluto sferrargli un colpo di taglio, spaccandogli il cranio in due, ma all'ultimo momento riuscì a controllarsi e assestò un colpo di piatto alla tempia di Rashood. L'acciaio urtò contro l'osso con tanta forza che Jim ebbe paura di averlo ucciso comunque. Rashood si accasciò, faccia a terra, nella polvere. «Non azzardarti a morire», lo minacciò Jim, smontando di sella. «Non prima di avere risposto alle mie domande. Allora ti offrirò un congedo degno di un re.» Louisa lo raggiunse, e Jim le gridò: «Pensa a Zama. Credo che sia ferito Wilbur Smith
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in modo grave. Verrò da te non appena avrò legato ben bene questo porco». Louisa mandò Bakkat a chiedere aiuto agli uomini del laager, che trasportarono Zama al campo su una lettiga. Aveva ricevuto una pericolosa ferita al petto, con un'angolazione obliqua, e Louisa temeva per la sua vita. Ma nascose i suoi timori e, non appena raggiunsero l'accampamento, Intepe accorse per aiutarla ad assisterlo. «È ferito, ma si salverà», disse alla ragazza in lacrime, mentre adagiavano Zama sul cardell del carro di riserva. Con l'aiuto del libro e della cassetta di medicine che le aveva lasciato Sarah, e grazie alla grande pratica ed esperienza che aveva acquisito nel corso dei mesi trascorsi da quando aveva lasciato il Gariep, Louisa era diventata un'abile guaritrice. Dopo aver esaminato meglio la ferita, esclamò, sollevata: «Il proiettile è passato da parte a parte. Questo è un fatto molto positivo, perché non dovremo incidere per estrarlo, e il rischio d'infezione e di cancrena è molto ridotto». Jim lasciò Zama alle cure delle donne, per andare a sfogare su Rashood l'ansia e la collera che provava. Lo legarono ai raggi di una delle grandi ruote posteriori di un carro, con le braccia e le gambe allargate come una stella marina, e sollevarono la ruota da terra con un martinetto. Jim aspettò che riprendesse conoscenza. Nel frattempo, Smallboy riportò al campo il corpo di un altro arabo, che aveva trovato vicino al punto in cui Jim aveva catturato Rashood. Quello era morto dissanguato in seguito a una ferita all'inguine, provocata da un corno che doveva avere reciso la grande arteria in quel punto. Quando lo girarono a faccia in su, Jim riconobbe un altro marinaio della Gift of Allah. «Ma questo è Habban!» gridò. «È proprio lui», confermò Smallboy. «Qui c'è sotto qualcosa che puzza come pesce marcio», disse Jim. «Non so di che si tratta, ma abbiamo qualcuno che può darci le risposte.» Lanciò un'occhiata furiosa a Rashood, ancora svenuto e appeso alla ruota del carro. «Gettagli in faccia un secchio d'acqua.» Non ne bastò uno solo; per rianimarlo, dovettero gettargli in faccia ben tre secchi pieni d'acqua. «Salaam, Rashood», lo salutò Jim, non appena l'altro aprì gli occhi. «L'onestà della tua condotta mi allarga il cuore. Tu sei un servitore della mia famiglia. Perché hai attaccato i nostri carri e tentato di uccidere Zama, un uomo che conosci bene e che sai essermi amico?» Wilbur Smith
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Rashood scrollò la barba e i lunghi capelli lisci, fissando di rimando Jim. Non parlò, ma il suo sguardo era eloquente. «Dovremo scioglierti la lingua, prediletto dal Profeta.» Jim fece un passo indietro, rivolgendo un cenno a Smallboy. «Dategli cento giri di ruota.» Smallboy e Muntu si sputarono sulle mani, afferrando il bordo della ruota, che cominciò a girare. Smallboy contava i giri. La velocità aumentò in fretta, finché il corpo di Rashood, che girava vorticosamente, non divenne una macchia sfocata ai loro occhi. Dopo cinquanta giri Smallboy perse il conto e dovette ricominciare. Quando infine dichiarò che erano cento e la ruota fu arrestata, Rashood fremeva, tendendo debolmente i legacci, con la veste sporca inzuppata di sudore. Aveva gli occhi annebbiati e ansimava, in preda a un terribile attacco di vertigini. «Rashood, perché cavalcavi con Koots? Quando ti sei unito alla sua banda? Chi era lo strano arabo che stava con voi, l'uomo col turbante verde?» Nonostante il profondo malessere, Rashood volse la testa verso Jim, tentando di mettere a fuoco la sua immagine. «Infedele!» proruppe. «Kaffir! Io agisco in virtù della sacra fatwa proclamata dal califfo Zayn alDin di Muscat e agli ordini del suo pascià, il generale Kadem ibn Abubaker. Il pascià è un uomo grande e santo, un possente guerriero, prediletto da Allah e dal Profeta.» «Allora quello col turbante verde è un pascià? Quali sono i termini di questa fatwa?» chiese Jim. «Sono troppo sacri per essere uditi dalle orecchie di un profano.» «Rashood ha scoperto la religione...» Jim scosse la testa con aria triste. «Finora non lo avevo mai sentito pronunciare certe idiozie in tono così bigotto e velenoso.» Rivolto a Smallboy, ordinò: «Dategli altri cento giri di ruota per calmargli i bollori». La ruota girò nuovamente fino a diventare sfocata, ma, prima che arrivasse a cento, Rashood vomitò, con un getto lungo e sostenuto. Smallboy grugnì rivolto a Muntu: «Non fermarti!» e poco dopo le viscere di Rashood si allentarono, cosicché anche gli escrementi schizzarono fuori. Arrivati a cento, fermarono la ruota, ma i sensi ottenebrati di Rashood non riuscivano più a percepire la differenza. La sensazione di movimento violento, anzi, sembrava aumentare, e lui continuò a gemere e vomitare finché lo stomaco non fu vuoto, e anche allora fu tormentato da dolorosi Wilbur Smith
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conati a vuoto. «Quali erano i termini della fatwa?» insistette Jim. «Morte agli adulteri.» La voce di Rashood si udiva a stento, e dal mento gli colò un filo di bile che si perse nella barba. «Morte ad al-Salil e alla principessa Yasmini.» Jim si ritrasse di scatto, sentendo quei due nomi che gli erano cari. «Lo zio e la zia? Sono morti? Dimmi che sono ancora vivi. Dimmelo, altrimenti ti faccio schizzare fuori quell'anima nera.» Rashood si riprese e tentò ancora di resistere alle domande di Jim, ma a poco a poco la ruota vinse la sua resistenza, e rispose con maggiore loquacità. «La principessa Yasmini è stata giustiziata dal pascià ed è morta col cuore adultero trafitto da una lama.» Nonostante le condizioni pietose in cui era ridotto, Rashood pronunciò con gusto quelle parole. «E al-Salil è stato ferito gravemente, al punto di rischiare la morte.» Jim fu sopraffatto dall'ira e dalla sofferenza, al punto che non se la sentì di continuare a infliggere punizioni, per quel giorno. Rashood fu staccato dalla ruota, ma incatenato e sorvegliato per il resto della notte. «Lo interrogherò di nuovo domattina», ordinò, prima di andare a riferire a Louisa la terribile notizia. «Mia zia Yasmini era l'essenza della gentilezza e della bontà. Mi dispiace soltanto che tu non possa averla conosciuta», le disse quella notte, mentre dormivano abbracciati, e lei sentì le lacrime inzupparle la camicia da notte. «Ringrazio Dio che lo zio Dorian sia sopravvissuto al tentativo di assassinio di questo fanatico religioso, Kadem ibn Abubaker.» La mattina dopo, Jim ordinò che il carro fosse allontanato dal laager, per evitare che Louisa udisse Rashood sulla ruota. Lo assicurarono di nuovo ai raggi, ma Rashood crollò prima che Jim ordinasse anche un solo giro di ruota. «Pietà, effendi. Basta, Somoya! Ti dirò tutto quello che vuoi sapere, ma staccami da questa dannata ruota.» «Resterai sulla ruota finché non avrai risposto con sincerità a tutte le domande. Se esiti o menti, la ruota riprenderà a girare. Quando Kadem ha ucciso la principessa?» chiese Jim, cominciando l'interrogatorio. «Dov'è successo?» «E mio zio, si è ripreso?» Wilbur Smith
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«Dov'è ora la mia famiglia?» Rashood rispose a tutte le domande come se la sua vita dipendesse da quello. E in effetti è così, pensò Jim, rabbuiandosi. Quando sentì la storia di come l'intera famiglia fosse fuggita dal capo di Buona Speranza a bordo dei due schooner e avesse proseguito verso nord, dopo aver lasciato la laguna dell'Elefante, la pena di Jim per la morte di Yasmini venne mitigata dal sollievo e dall'ansia della riunione imminente coi suoi cari. Ora so che nella baia della Natività troverò i miei genitori e, con loro, mio zio Dorian e mio cugino Mansur. Conto i giorni che mi separano da loro. Dobbiamo riprendere il viaggio domani all'alba. Rinfocolate dall'ansia di raggiungere la baia della Natività, le speranze e le aspirazioni di Jim gli facevano apparire troppo lenta la lunga processione di carri e di mandrie al pascolo. Avrebbe voluto lasciare indietro la carovana per viaggiare più speditamente lungo la costa, e invitò Louisa ad accompagnarlo, ma la convalescenza di Zama procedeva con lentezza. Louisa insistette che il ferito aveva ancora bisogno delle sue cure e lei non poteva lasciarlo. «Va' pure avanti da solo», gli disse. Pur essendo sicuro che non diceva sul serio, e che si aspettava un rifiuto, Jim fu tentato di prenderla in parola; ma poi rammentò che Koots, Oudeman e l'assassino arabo, Kadem, erano ancora liberi e potevano tendere loro un agguato. Non poteva lasciare sola Louisa. Ciò nonostante, ogni giorno Bakkat e lui montavano in sella e precedevano la carovana per esplorare il percorso; in ogni caso, facevano in modo di tornare ogni sera prima del tramonto. Uscendo dall'estremità della stretta gola rocciosa, si trovarono in un territorio fertile e rigoglioso, ricco di pascoli e colline ondulate, alternate a tratti di foresta verdeggiante. Bakkat trovava ogni giorno tracce dei branchi di elefanti, ma nessuna abbastanza fresca da poterla seguire. Poi, la mattina del quinto giorno dopo che erano usciti dalla gola, successe qualcosa. Come al solito Bakkat cavalcava davanti a Jim, aprendo la pista e scrutando il terreno davanti a sé per leggere i segni, quando improvvisamente allontanò Crow e lo costrinse a fermarsi. Jim gli si affiancò, chiedendo: «Che cosa c'è?» Senza parlare, Bakkat puntò il dito verso la terra umida e le tracce profonde che vi erano impresse. Il ragazzo si sentì accelerare il polso per l'eccitazione. «Elefanti!» Wilbur Smith
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«Tre maschi grandi», confermò Bakkat. «E molto recenti. Sono passati da qui all'alba di questa mattina, dunque non molto tempo fa.» Fissando quelle tracce, Jim sentì attenuarsi l'ansia di raggiungere la baia della Natività. «Sono molto grandi», osservò. «Uno di loro dev'essere un re degli elefanti», ammise Bakkat. «Forse è maestoso come il primo che hai ucciso.» «Non possono avere un vantaggio troppo grande su di noi», ipotizzò Jim, speranzoso. Dopo la battaglia contro gli impi di Manatasee, in riva al fiume, aveva condotto molte fortunate battute di caccia e, ogni volta che raggiungevano i maschi dalle grandi zanne d'avorio, lui arricchiva il patrimonio delle sue esperienze e conoscenze delle loro abitudini. Ormai aveva affinato le sue capacità di cacciatore, e nel contempo aveva acquisito il gusto del rischio e subito il fascino della caccia a quella preda, la più nobile di tutte. «Quanto ci vorrà per raggiungerli?» domandò a Bakkat. «Avanzano pascolando, quindi si muovono lentamente.» Il boscimano gli indicò i rami strappati dagli alberi che i maschi avevano scelto per nutrirsi. «E si dirigono verso la costa, seguendo la nostra direzione di marcia, perciò non ci sarà bisogno di fare deviazioni per seguirli.» Sputò con aria pensierosa, scrutando il cielo, poi alzò la mano destra per misurare con le dita tese l'angolazione del sole. «Se gli dei della caccia saranno generosi, potremmo raggiungerli prima di mezzogiorno, e fare in tempo a tornare ai carri prima di notte.» In quel periodo, Bakkat si mostrava riluttante quanto Jim a trascorrere la notte lontano dai carri e dalle braccia dorate di Letee. Jim era incerto. Nonostante la passione per la caccia, l'amore che provava per Louisa era molto più intenso, e sapeva che i risvolti di una battuta di caccia potevano essere imprevedibili. Seguire i maschi poteva significare allungare di un giorno, o anche più, il viaggio fino alla costa. Forse non sarebbero riusciti a raggiungere di nuovo i carri prima di notte. D'altro canto, dopo l'esito disastroso dell'attacco di quella terribile notte, si erano perse le tracce di Koots e del suo alleato arabo. Bakkat aveva seguito a ritroso la pista della carovana per molte leghe, senza trovare segni. Pareva che non ci fossero più minacce da quella direzione. Eppure... poteva azzardarsi a lasciare sola Louisa per tanto tempo? Desiderava disperatamente seguire quelle tracce. In quei mesi di caccia Wilbur Smith
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aveva imparato a leggere la pista con tanta intensità che riusciva a vedere gli animali con la forza dell'immaginazione e sapeva che quelli erano maschi splendidi. Esitò a lungo, mentre Bakkat restava accovacciato con pazienza vicino agli enormi segni, aspettando che lui prendesse una decisione. Poi Jim pensò al piccolo esercito di uomini che accompagnava i carri, in grado di difendere e proteggere Louisa. Le truppe di Koots erano state sconfitte e decimate, e certamente lui non sarebbe tornato all'attacco tanto presto. Alla fine, si convinse che Koots era diretto verso il territorio portoghese oppure verso Oman, e non sarebbe tornato indietro per attaccarli di nuovo. Ogni minuto che perdo nell'incertezza è un minuto che li allontana da me. Si decise. «Bakkat, segui la pista e bevi il vento.» Cavalcando a spron battuto, ridussero ben presto le distanze. La pista puntava senza incertezze verso la costa, attraverso le colline basse e la foresta. In certi punti, i tronchi degli alberi che gli elefanti avevano spogliato della corteccia splendevano come specchi, a una tesa di distanza, e loro potevano spingere Drumfire e Crow al piccolo galoppo. Poco prima di mezzogiorno s'imbatterono in un altro enorme mucchio di sterco giallo e spugnoso, composto in gran parte di corteccia d'albero semidigerita. Era immerso in una pozza di orina che non era stata ancora assorbita dal terreno. Lo sterco era coperto da uno sciame di farfalle dalle ali splendide, di colore bianco, giallo e arancione. Bakkat smontò, ficcando il piede nudo nella massa molle per saggiarne la temperatura, e le farfalle si alzarono in volo intorno a lui, formando una nuvola. «Lo sterco è ancora caldo del suo corpo», disse sorridendo a Jim. «Se lo chiami per nome, il maschio è così vicino che sentirà la tua voce.» Quelle parole gli erano appena uscite di bocca, che i due rimasero come paralizzati, voltando la testa all'unisono. «Ah!» esclamò Jim. «Ti ha sentito parlare.» Nella foresta, poco più avanti, l'elefante barrì di nuovo, con un suono alto e chiaro come uno squillo di tromba. Agile come un grillo, Bakkat montò in sella. «Che cosa può averli allarmati?» chiese Jim, estraendo dal fodero sotto il ginocchio il pesante fucile olandese che sparava proiettili da quattro once. «Perché ha barrito? Ha sentito il nostro odore?» «Abbiamo il vento in faccia», replicò Bakkat. «Non hanno sentito il Wilbur Smith
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nostro odore, ma c'è qualcos'altro che li ha spaventati.» «Santa Maria!» gridò Jim sbigottito. «Questo è un colpo di arma da fuoco!» Risuonarono altre detonazioni, e gli echi furono rilanciati dalle colline circostanti. «Può essere Koots?» chiese Jim, e poi si diede la risposta da solo. «No, è impossibile. Koots non rischierebbe mai di rivelare la sua posizione mentre siamo così vicini. Questi sono sconosciuti, e stanno attaccando il nostro branco.» Fu assalito dalla collera. Quelli erano i suoi elefanti. Gli intrusi non avevano nessun diritto d'interferire con la sua caccia. Provò il forte impulso di precipitarsi in avanti, ma soffocò quell'inclinazione pericolosa. Non sapeva chi fossero quegli altri cacciatori. A giudicare dal fuoco, decise inoltre che dovevano essere più d'uno. In quella regione selvaggia, qualsiasi incontro con uno sconosciuto poteva trasformarsi in una minaccia letale. D'un tratto si sentì un altro rumore: uno scricchiolio di rami nudi e il fruscio di un corpo enorme che piombava su di loro in mezzo alla fitta vegetazione. «Tieniti pronto, Somoya!» strillò Bakkat. «Hanno spinto verso di noi uno dei maschi. Potrebbe essere ferito e pericoloso.» Jim ebbe appena il tempo di voltare Drumfire nella direzione del rumore, quando la grande parete verde della foresta si squarciò e un maschio di elefante, lanciato alla carica, piombò su di loro. In quel momento di pericolo improvviso, il tempo parve rallentare, come se fosse impigliato nelle spire di un incubo. Jim vide sopra di sé due zanne ricurve che sembravano massicce come le travi portanti del tetto di una cattedrale, mentre le orecchie erano spalancate come la randa di maestra di un veliero da guerra, sbrindellata dai colpi dopo una battaglia ravvicinata. Il fianco dell'elefante era chiazzato di sangue fresco e i suoi occhi minuscoli e scintillanti sprizzavano collera, appuntandosi sulla figura di Jim. Bakkat aveva visto giusto: il gigantesco animale era ferito e iroso. Nello spazio di quell'istante, Jim si rese conto che la fuga sarebbe stata un errore fatale, perché Drumfire non poteva sfruttare la propria velocità entro i confini ristretti del sottobosco spinoso, mentre l'elefante avrebbe travolto gli ostacoli senza esitazioni. Non poteva sparare al pachiderma stando in sella, perché Drumfire danzava in cerchio sotto di lui, gettando la testa all'indietro, e le sue acrobazie avrebbero deviato il colpo. Tenendo sopra la testa il pesante fucile, in modo che non lo colpisse in faccia al momento Wilbur Smith
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dell'impatto, Jim portò una gamba al di sopra della paletta della sella e si lasciò cadere a terra, atterrando a quattro zampe come un gatto per fronteggiare la carica. Non appena i suoi piedi toccarono terra, armò il cane del fucile. In quel momento, la paura si dissolse per essere sostituita da una strana sensazione di distacco, come se lui fosse al di fuori del proprio corpo e osservasse il fucile che si sollevava da solo. Pur avendolo stabilito in maniera cosciente, sapeva che, se fosse riuscito a conficcare una pallottola nel cuore della bestia, l'elefante non avrebbe neppure rallentato il passo. Avrebbe continuato a dilaniarlo con la stessa facilità di un macellaio che disossa un pollo, per allontanarsi di un altro miglio prima di crollare. Dopo la prima esperienza quasi fatale col colpo alla testa, Jim aveva dedicato ore e giorni interi a sezionare e studiare con cura il cranio degli elefanti uccisi in seguito, e ormai riusciva a visualizzare perfettamente la posizione del cervello nella massiccia scatola cranica, come se non fosse fatta d'osso, bensì di vetro trasparente. Mentre appoggiava il calcio del fucile alla spalla, gli parve di non vedere neppure il mirino dell'arma, ma di guardare oltre, verso il bersaglio minuscolo e nascosto. La detonazione risuonò, assordante, e lui rimase accecato per un attimo dal fumo denso sprigionato dalla polvere, mentre il rinculo lo spingeva all'indietro. Poi, dalla nube di fumo, sbucò una valanga grigia che lo travolse, e lui si sentì investire da un peso enorme e inerte. Il pesante fucile gli volò via di mano, mentre Jim veniva scagliato all'indietro. Rotolò su se stesso, descrivendo due capriole, finché non urtò contro un cespuglio basso che arrestò la sua corsa. Si sforzò di rimettersi in piedi proprio mentre una brezza leggera disperdeva la cortina di fumo argenteo. In quello squarcio, scorse l'elefante in ginocchio davanti a lui sulle zampe anteriori, con la curva delle zanne enormi appoggiata sul terreno e le punte rivolte in alto, verso il cielo. Sembrava un atteggiamento di sottomissione, come un elefante ammaestrato in attesa di essere montato dal mahout. Era immobile: pareva un masso di granito. Aveva un forellino scuro e rotondo proprio in mezzo agli occhi, ed era così vicino che lui poté allungare la mano e infilare l'indice nel foro del proiettile. La palla rinforzata col peltro, del peso di quattro once, aveva sfondato le massicce ossa frontali del cranio, penetrando nel cervello. Quando ritirò il dito, scoprì che era macchiato dalla poltiglia gialla dei tessuti cerebrali. Alzatosi, Jim si appoggiò a una delle zanne. Ora che il pericolo era Wilbur Smith
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passato, aveva il respiro irregolare, e le gambe gli tremavano al punto che non riuscivano a reggere il suo peso. Mentre lui si aggrappava alla grande curva d'avorio, vacillando, Bakkat si avvicinò per afferrare le redini di Drumfire prima che potesse allontanarsi al galoppo e lo condusse da Jim, porgendogli le redini. «I miei insegnamenti cominciano a dare frutti», osservò, ridacchiando. «Ora devi rendere grazie e mostrare il tuo rispetto alla preda.» Passò qualche minuto prima che Jim si riprendesse abbastanza per completare l'antico rito della caccia. Sotto l'occhio benevolo di Bakkat, spezzò un rametto fronzuto di acacia dolce e lo infilò tra le labbra dell'elefante. «Consuma il tuo ultimo pasto per sostentarti nel viaggio verso la terra delle ombre. Porta con te il mio rispetto», mormorò. Poi tagliò la coda dell'animale, come aveva fatto il padre sotto i suoi occhi. Jim non aveva dimenticato i colpi d'arma da fuoco sentiti in precedenza, ma, chinandosi per raccogliere il moschetto caduto, notò di nuovo il denso strato di sangue che copriva il fianco dell'animale e vide che nella parte alta della spalla era conficcato un proiettile. «Bakkat, questo animale è stato ferito da qualcun altro prima di me», gridò in tono brusco. Prima che il boscimano potesse rispondere, un'altra voce umana, poco lontana da loro, gridò per lanciare una sfida o fare una domanda. Il suono di quella voce era così inatteso, eppure così familiare, che Jim rimase immobile, col fucile scarico in mano, fissando la figura alta e atletica che gli veniva incontro a lunghe falcate attraverso il sottobosco. Un bianco, vestito all'europea con giacca e pantaloni, stivali e un cappello di paglia a tesa larga. «Ehilà, amico! Cosa diavolo credi di fare? Il primo sangue è mio. La preda è mia.» Quella voce, alle orecchie di Jim, suonò gioiosa come le campane di una chiesa. Sotto la tesa del cappello, l'intruso aveva una barba riccia di un rosso ardente come un incendio nel bush. Jim si riprese subito, gridando a sua volta in tono bellicoso: «Perdio, che ragazzo insolente!» Dovette fare uno sforzo per non lasciar trapelare la risata dal tono di voce. «Dovrai batterti contro di me per averla, e ti spaccherò la testa come ho già fatto cinquanta volte.» Il ragazzo insolente rimase di sasso, con lo sguardo fisso su Jim, poi si lasciò sfuggire un urrà selvaggio e si precipitò contro di lui. Jim lasciò cadere il moschetto, caricando a testa bassa per andargli incontro, e si Wilbur Smith
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urtarono con una violenza tale da far vibrare i denti. «Che gioia, Jim! Credevo che non ti avremmo mai ritrovato.» «Mansur! Quasi non ti riconoscevo, con tutta quella boscaglia rossa che ti è spuntata sulla faccia. Ma dove ti eri cacciato, in nome del diavolo?» Si scambiarono parole incoerenti, abbracciandosi e assestandosi pacche sulla schiena, tentando di strapparsi a vicenda manciate di peli dalla testa e dal viso. Bakkat li guardava, scuotendo la testa e battendosi i fianchi per il divertimento. «Anche tu, piccolo bandito!» Mansur lo afferrò e lo sollevò di peso da terra, ficcandoselo sotto il braccio, poi abbracciò di nuovo Jim. Ci volle del tempo prima che cominciassero a comportarsi da persone razionali, ma, a poco a poco, ritrovarono una parvenza di controllo. Mansur rimise in piedi Bakkat, e Jim liberò il cugino dalla presa con la quale lo aveva inchiodato. Si sedettero a fianco a fianco all'ombra dell'elefante, appoggiati di lato alla massiccia carcassa, e parlarono, interrompendosi a vicenda, troppo impazienti per attendere la risposta a una domanda prima di farne un'altra. Di tanto in tanto, Mansur tirava la barba a Jim, e lui gli assestava una pacca affettuosa sul petto o sulla guancia barbuta. Benché nessuno dei due facesse cenno alla cosa, erano entrambi sbalorditi dai cambiamenti avvenuti in loro durante la separazione. Erano diventati uomini. Poi il seguito che aveva accompagnato Mansur venne a cercarlo. Erano tutti servitori di High Weald o marinai dei due schooner e rimasero esterrefatti, trovando Jim insieme col loro padrone. Dopo averli salutati uno per uno con molto affetto, li mise al lavoro, sotto la supervisione di Bakkat, per estirpare le zanne dalla carcassa dell'elefante. Dopodiché lui e Mansur poterono dedicarsi ancora allo scambio di notizie, cercando di esaurire in pochi minuti tutti gli avvenimenti che avevano interessato loro e la famiglia dall'ultima volta che si erano incontrati, quasi due anni prima. «Dov'è Louisa, la ragazza con cui sei fuggito? Ha avuto il buonsenso di mandarti a spasso?» gli chiese Mansur. «Perdio, cugino, posso garantirti che è una perla di ragazza. Tra poco ti porterò alla carovana per presentarvi come si deve. Quando la vedrai, non crederai ai tuoi occhi, tanto è diventata bella.» Jim s'interruppe, cambiando espressione. «Non so in che modo dirtelo, cugino, ma appena poche settimane fa mi sono imbattuto in un disertore della Wilbur Smith
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nostra nave, la Gift of Allah. Ricordi di certo quel furfante: si chiama Rashood. Quando sono riuscito a farlo parlare, mi ha raccontato una storia strana e terribile...» Il viso di Mansur si svuotò di ogni colore; per un minuto intero, lui non riuscì a parlare. Poi esclamò: «Doveva essere in compagnia di altri due dei nostri marinai, tutti disertori, e con loro c'era anche uno strano arabo». «Uno che si chiama Kadem ibn Abubaker al-Jurf», confermò Jim. Mansur si alzò di scatto. «Dov'è? Ha assassinato mia madre, e quasi ucciso mio padre.» «Lo so, perché ho costretto Rashood a raccontarmi tutto», replicò Jim, tentando di calmarlo. «Il mio cuore soffre per te. Amavo zia Yassie quasi quanto l'amavi tu, ma l'assassino è fuggito.» «Dimmi tutto e senza tralasciare neppure un dettaglio», gli ordinò Mansur. C'erano tante cose da dire, e i due rimasero a parlare così a lungo che il sole era basso sull'orizzonte quando Jim si alzò. «Dobbiamo tornare ai carri prima di notte. Louisa sarà fuori di sé.» Louisa aveva appeso agli alberi alcune lanterne per guidare Jim sulla via del ritorno, e si precipitò fuori del carro dove lei e Intepe erano intente ad assistere Zama non appena sentì i cavalli. Alla fine lei si sciolse dall'abbraccio di Jim, accorgendosi che con lui c'era un estraneo, che stava assistendo al loro scambio appassionato di manifestazioni d'affetto. «C'è qualcuno con te...» Infilò nella cuffietta le ciocche di capelli serici che le spiovevano sul viso, lisciando i vestiti che Jim aveva gualcito. «Nessuno che conti», le assicurò Jim. «È soltanto mio cugino Mansur, di cui ti ho tanto parlato e che hai già visto una volta. Mansur, ti presento Louisa Leuven. Lei e io siamo fidanzati.» «Credevo che avessi esagerato nel dipingere le sue virtù», disse Mansur, inchinandosi a Louisa, prima di guardarla in viso alla luce della lanterna. «Invece è ancora più bella di come l'avevi descritta.» «Jim mi ha parlato molto di te», mormorò Louisa, intimidita. «Ti ama più di un fratello. Quando ci siamo visti sul ponte della Het Gelukkige Meeuw, il momento non era adatto per fare conoscenza, ma spero che in futuro potremo rimediare a questa lacuna.» Louisa servì da mangiare ai due uomini, ma subito dopo li lasciò liberi di parlare senza interruzioni fino a notte alta. Era già passata mezzanotte Wilbur Smith
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quando Jim la raggiunse nell'ampio cardell. «Perdonami, Istrice, se questa sera ti ho trascurato.» «Non avrei voluto che fosse diverso, perché so che cosa significa per te, e quanto siete vicini», sussurrò lei, tendendogli le braccia. «Ma ora tocca a me starti ancora più vicino.» Prima dell'alba erano già tutti in piedi. Mentre Louisa sovrintendeva ai preparativi della colazione che doveva dare il benvenuto a Mansur, lui trascorreva il suo tempo al capezzale di Zama. Si unì a loro anche Jim, e tutti insieme chiacchierarono, scambiandosi storie e ricordi. Zama fu tanto rincuorato dall'arrivo di Mansur che dichiarò di essere pronto ad alzarsi dal letto in cui trascorreva la convalescenza. Smallboy e Muntu aggiogarono i buoi ai carri, dopodiché la carovana si avviò lungo il fondo sinuoso della gola. Louisa affidò Zama alle cure di Intepe e sellò Trueheart per la prima volta da quando Zama era stato ferito, uscendo a cavallo insieme con Jim e Mansur. Quando passarono accanto alle mandrie di bovini, Mansur rimase sbigottito dal loro numero e dal peso dell'avorio che trasportavano sul basto fissato al dorso. «Anche se lo zio e mio padre sono riusciti a portare via dalla colonia gran parte del patrimonio di famiglia, tu lo hai moltiplicato parecchie volte col bottino strappato al nemico. Raccontami com'è andata. Parlami della battaglia contro quella regina degli nguni, Manatasee, e le sue legioni.» «Te ne ho già parlato ieri sera», protestò Jim. «È una storia troppo bella per raccontarla una volta sola», insistette Mansur. «Raccontamela di nuovo.» Stavolta Jim esaltò il ruolo di Louisa nel combattimento, benché lei protestasse che quelle erano esagerazioni belle e buone. «Ti avverto, cugino: non devi mandare in collera questa signora, perché, se viene provocata, diventa un'autentica valchiria. Non per nulla è famosa, anzi famigerata, col nome di Istrice Temibile.» Superata la cresta di una collina, guardò in basso, verso l'oceano. Era così vicino che riuscivano addirittura a distinguere i cavalloni bianchi sollevati dal vento che danzavano all'orizzonte. «Quanto siamo lontani dalla baia della Natività?» chiese Jim. «A piedi ho impiegato meno di tre giorni», rispose Mansur. «Ora che ho un cavallo veloce come questo potrei essere laggiù prima di notte.» Jim guardò Louisa con aria malinconica, e lei sorrise. «Lo so a che cosa Wilbur Smith
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stai pensando, James Archibald.» «E che ne pensi di quello che sto pensando, Istrice?» «Penso che dovremmo lasciare Zama e i carri e il bestiame per andare più in fretta che si può e che dovremmo bere il vento.» Jim lanciò un grido di felicità. «Seguimi, amore mio. Da questa parte per la baia della Natività.» Ci volle meno di quanto aveva previsto Mansur, e il sole era ancora sopra l'orizzonte quando tirarono le redini sulle colline che sovrastavano l'ampia baia scintillante. I due schooner erano ancorati al largo della foce del fiume Umbilo, e Jim si ombreggiò gli occhi col cappello per proteggersi dal riflesso del sole sull'acqua. «Fort Auspice», disse Mansur, indicando gli edifici appena costruiti sulle rive del fiume. «È stata tua madre a scegliere il nome. Veramente voleva chiamarlo Fort Good Auspice, cioè 'buon auspicio', ma lo zio ha detto: 'È troppo lungo, e poi lo sappiamo tutti che non è un cattivo auspicio, comunque tu lo voglia considerare'. Così è rimasto Fort Auspice.» Avvicinandosi, scorsero il recinto di paletti acuminati che circondava il terreno rialzato sul quale sorgeva il forte. Il terreno era ancora smosso di fresco intorno alle postazioni dei cannoni che tenevano sotto tiro tutte le vie d'accesso alle fortificazioni. «I nostri padri hanno preso tutte le precauzioni contro eventuali attacchi da parte di Keyser o altri nemici. Abbiamo trasportato a terra quasi tutti i cannoni delle navi», spiegò Mansur. Al di sopra della palizzata si scorgevano i tetti delle costruzioni che essa racchiudeva. «Ci sono alloggi per la servitù e le nostre famiglie hanno ciascuna una casa tutta per sé.» Mansur glieli indicò, mentre scendevano al trotto dalla collina. «Quelle sono le stalle. Quello è il deposito, e poi ci sono il magazzino e la stanza della contabilità.» I tetti erano ancora nuovi di zecca, coperti di fronde appena tagliate che non avevano subito l'effetto delle intemperie. «Mio padre coltiva illusioni degne di Nerone», osservò ridacchiando Jim. «Ha costruito una città, non una stazione commerciale.» «Zia Sarah non ha fatto granché per dissuaderlo», disse Mansur. «Anzi si potrebbe dire che è stata una sua complice attiva.» Si tolse il cappello per sbandierarlo sopra la testa. «Eccola lì!» All'ingresso del forte era apparsa una figura che fissava il piccolo gruppo di cavalieri in arrivo. Non Wilbur Smith
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appena Jim agitò la mano per salutarla, lei gettò al vento ogni dignità e si mise a correre lungo il sentiero, come una scolaretta che esce dall'aula alla fine delle lezioni. «Jim! Oh, Jim caro!» Le sue grida di gioia echeggiarono sulle pareti di roccia. Per andarle incontro, Jim lanciò Drumfire in un galoppo sfrenato e smontò di sella mentre lo stallone era ancora lanciato, stringendo la madre tra le braccia. Quando udirono gli zoccoli di Drumfire, Dorian e Tom Courteney uscirono di corsa dal forte; Mansur e Louisa rimasero indietro, in attesa che la prima frenesia dei saluti si calmasse. Ci vollero altri cinque giorni perché i carri e il bestiame raggiungessero Fort Auspice. Tutta la famiglia si schierò sulla piazzola di tiro della palizzata per assistere alla sfilata, che si aprì col branco dei cavalli di riserva. Tom e Dorian li accolsero con grida di gioia mentre passavano al galoppo. «Sarà bello sentire di nuovo un cavallo sotto di me», esclamò Tom con esultanza. «Senza un buon cavallo mi sentivo come dimezzato. Ora potremo spostarci in questo territorio e rivendicarlo per noi.» Rimase a guardare in rispettoso silenzio la massa scura delle mandrie che si riversava dalle colline verso di loro. Quando poi Inkunzi e i suoi mandriani nguni cominciarono a scaricare l'avorio nello spiazzo davanti all'ingresso del forte, Tom Courteney scese la scaletta dalla piattaforma per aggirarsi in mezzo a quelle alte pile di zanne, meravigliandosi della quantità e delle dimensioni di alcune di esse. Infine tornò indietro e guardò Jim con un'espressione truce. «Per tutti i diavoli, ragazzo mio, non hai il senso della misura? Hai provato a pensare a come potremmo immagazzinare tutto questo? Dovremo costruire un altro deposito, e la colpa è tutta tua.» Il suo cipiglio svanì e lui rise della sua battuta, stringendo il figlio in un abbraccio poderoso. «Dopo questa impresa, penso che non avremo altra scelta che dichiararti socio a pieno titolo della Compagnia.» Nel corso dei mesi seguenti ci fu lavoro per tutti, senza contare i progetti e gli accordi da prendere. Il grosso dei lavori per la costruzione del forte era stato completato, compreso l'ampliamento del deposito necessario per accogliere la gran quantità di avorio conquistato agli nguni. Sarah era finalmente riuscita a far trasportare a terra i mobili. Sistemò il clavicembalo nel salone che doveva servire come sala da pranzo e luogo di Wilbur Smith
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ritrovo di entrambe le famiglie, e quella sera suonò tutte le sue melodie preferite, mentre gli altri si univano al coro. Tom, privo di orecchio musicale, compensò col volume quello che gli mancava in intonazione, finché Sarah non lo distolse con tatto da quell'impegno, chiedendogli di voltare le pagine dello spartito. Per mancanza di pascoli, un gran numero di bovini dovette essere allontanato dalle immediate vicinanze del forte. Jim suddivise gli animali in sette mandrie più piccole, ordinando a Inkunzi di trasferirli nel territorio circostante, fino a una distanza di venti leghe da Fort Auspice, dove si potevano trovare acqua e cibo. I mandriani nguni costruirono i loro villaggi vicino a quei terreni da pascolo. «Faranno da cuscinetto intorno al forte», fece notare Jim a Tom e Dorian. «Inoltre potranno darci un buon preavviso dell'avvicinarsi dei nemici entro un raggio di venti leghe.» Poi aggiunse, come per un ripensamento: «Naturalmente dovrò andare a ispezionarli a intervalli regolari». «E questo ti fornirà un'ottima scusa per andartene a caccia di elefanti.» Tom annuì con aria compunta. «La tua devozione al servizio della Compagnia è commovente, ragazzo.» Tuttavia, dopo appena poche spedizioni del genere, gli elefanti reagirono alle attenzioni di Jim, allontanandosi dalla regione e dileguandosi nella vastità dell'interno. Meno di un mese dopo il loro arrivo a Fort Auspice, Jim e Louisa invitarono Sarah nella loro cucina e, dopo una conversazione lunga e carica di emozione, che lasciò le donne in lacrime, Sarah andò subito a parlare con Tom. «Parola mia, Sarah Courteney, non so che dire», replicò Tom, ricorrendo a quella che, come Sarah ben sapeva, era la sua espressione di stupore più vigorosa. «Non può essere un errore?» «Louisa ne è sicura, e le donne sbagliano di rado in certe faccende», rispose Sarah. «Ci serve qualcuno per stringere il nodo, e per fare in modo che sia tutto corretto e legale.» Tom appariva preoccupato. «In fondo tu sei comandante di una nave», gli fece notare Sarah in tono acido. «Quindi sei investito di quel potere.» Più ci pensava, più Tom trovava piacevole l'idea di avere un nipotino. «Ebbene, a quanto pare, Louisa ha superato abbastanza bene le sue Wilbur Smith
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traversie», riconobbe con un'aria sufficientemente disinvolta. Sarah si piantò i pugni sui fianchi, lanciando un avvertimento di tempesta. «Se voleva essere una battuta, Thomas Courteney, non era affatto appropriata. Per quanto riguarda te o chiunque altro al mondo, Louisa Leuven sarà una sposa vergine», decretò. Lui cedette subito. «Ne sono convinto, e mi batterò contro chiunque osi sostenere il contrario. Come tu e io ben sappiamo, entrambi i lati della nostra famiglia hanno una spiccata tendenza alle nascite premature. Inoltre Louisa è una ragazza molto attraente. Oserei dire che il nostro Jim dovrebbe navigare a lungo per trovarne una migliore.» «Questo significa che lo farai?» «Ho il sospetto che non avrò pace finché non accetterò.» «Una volta tanto, il tuo sospetto è fondato», replicò lei. Tom la sollevò di peso e la baciò sulle guance. Celebrò le nozze di Jim e Louisa sul casseretto della Sprite. A bordo non c'era spazio sufficiente per tutta la compagnia e chi non trovò posto seguì la cerimonia dall'alberatura della Revenge o dalle mura del forte. Jim e Louisa pronunciarono i voti nuziali, poi firmarono il giornale di bordo della nave. Quando Jim portò a terra la sposa, Mansur e i suoi uomini li salutarono con una salva di ventuno cannonate che indusse i guerrieri nguni a disperdersi, in preda alla confusione, e ridusse la piccola Letee in uno stato isterico finché Bakkat non riuscì a rassicurarla, convincendola che il cielo non stava cadendo sulla loro testa. «Bene! Questo dovrebbe bastare, finché non riusciranno a trovare un vero prete che faccia il lavoro come si deve», esclamò Tom, soddisfatto, e si tolse il cappello a tricorno da comandante, abbandonando l'incarico ufficiale per convertirsi in taverniere, togliendo lo zipolo da una botte di brandy del Capo. Smallboy macellò un bue, che fu arrostito tutto intero allo spiedo, sulla spiaggia ai piedi del forte. I festeggiamenti proseguirono fin quando il bue non fu consumato per intero e la botte di brandy non rimase all'asciutto. Jim e Louisa cominciarono i lavori per la costruzione del loro alloggio all'interno delle mura del forte; vennero aiutati da un tal numero di volontari che, in meno di una settimana, furono in grado di vuotare il carro che aveva fatto loro da casa per tanto tempo e trasferirsi sotto un tetto di paglia, tra solide pareti di mattoni cotti al sole. C'erano, però, anche questioni meno liete da affrontare. Rashood fu Wilbur Smith
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trascinato fuori in catene dalla cella del forte, progettata in origine per servire da cantina. Furono Dorian e Mansur, che in base alla legge islamica erano i giudici e i giustizieri, a portarlo nella foresta, lontano dagli occhi e dalle orecchie degli abitanti del forte. Rimasero lontani solo per qualche ora, ma al ritorno avevano un'espressione tetra e Rashood non era più con loro. Il giorno dopo, Tom convocò una seduta del consiglio di famiglia, al quale partecipò per la prima volta Louisa, l'ultima recluta del clan familiare. Tom, che era il più anziano, espose le decisioni da prendere. «Grazie a Jim e Louisa abbiamo una riserva notevole di avorio. I mercati migliori sono ancora Zanzibar o le stazioni commerciali sulla costa di Coromandel o a Bombay, nel regno del Gran Moghul. Zanzibar si trova nelle mani del califfo Zayn al-Din, dunque quel porto ci è precluso. Io resterò qui, a Fort Auspice, per occuparmi degli affari della Compagnia, e avrò bisogno dell'aiuto di Jim. Dorian porterà le navi al nord, con tutto il carico di avorio che esse riusciranno a trasportare, benché dubito che arriverà anche solo a un quarto delle nostre riserve complessive. Quando l'avorio sarà stato venduto, avrà altre faccende ancora più pressanti da sbrigare a Muscat.» Lanciando un'occhiata al fratello minore, aggiunse: «Chiederò a Dorian di spiegarvelo lui stesso». Dorian si tolse il bocchino d'avorio della pipa ad acqua che teneva tra i denti, ancora bianchi, regolari e senza vuoti, e guardò il cerchio di volti amati che vedeva intorno a sé. «Come tutti sappiamo, Zayn al-Din è stato detronizzato da un gruppo di rivoltosi a Muscat. Batula e Kumrah sono riusciti ad averne conferma durante il loro ultimo viaggio a Oman. Kadem ibn Abubaker», aggiunse Dorian, mentre il suo viso attraente si oscurava nel pronunciare il nome dell'assassino di Yasmini, «ha finto di portarmi un invito da parte dei ribelli a prendere il posto di Zayn al-Din sul Trono dell'Elefante e a guidare la lotta contro di lui. Non sappiamo se i rivoltosi abbiano tentato davvero di mettersi in contatto con me o se non si trattasse piuttosto di un'altra menzogna per farmi cadere nelle grinfie di Zayn alDin. In ogni caso, ho rifiutato l'offerta per amore di Yasmini, ma, tentando di proteggerla, l'ho condannata a morte.» La voce di Dorian s'incrinò, e Tom intervenne in tono burbero. «Sei troppo severo con te stesso, fratello. Nessuno avrebbe potuto prevedere le conseguenze...» «Comunque Yasmini è morta per ordine di Zayn e per mano di Kadem», Wilbur Smith
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lo interruppe Dorian. «Per me non esiste modo più sicuro di vendicare la sua morte che fare vela verso Oman per unirmi ai rivoltosi di Muscat.» Mansur si alzò dallo sgabello che occupava in fondo al lungo tavolo per andare a mettersi vicino alla spalla del padre. «Se me lo consenti, padre mio, verrò con te, per occupare il posto alla tua destra.» «Non soltanto te lo concedo, ma ti do il benvenuto con tutto il cuore.» «Allora è deciso», concluse Tom in tono vivace. «Qui resteranno Jim e la sua sposa per aiutare Sarah e me, quindi non saremo a corto di braccia e potremo fare a meno di Mansur. Quando pensi di salpare, fratello?» «Gli alisei cederanno il passo al monsone tra sei settimane, e i venti dovrebbero restare costanti fin verso la fine del mese prossimo», rispose Dorian. «Questo dovrebbe lasciarci tempo sufficiente per i preparativi.» «Spoglieremo le navi di tutti i cannoni rimanenti per fare spazio all'avorio, tanto più che potremo usarli qui al forte per rafforzare le nostre difese», si affrettò a rispondere Tom. «Non possiamo avere la certezza che Keyser non ci abbia individuati. Poi ci sono le scorrerie di questi impi degli nguni che spaziano in tutto il territorio. Jim ha eliminato molti di quelli agli ordini di Manatasee, però, dai fuggiaschi che si sono rifugiati qui, sappiamo che ci sono altri impi altrettanto selvaggi che impazzano là fuori. Quando avrete venduto l'avorio, potrete acquistare nuovi cannoni, in India. Nel Punjab ci sono armaioli abbastanza accessibili. Ho visto il loro lavoro, e producono ottimi pezzi da nove libbre, proprio il peso e la canna giusti per i nostri velieri.» I cannoni smontati dagli schooner furono trasportati a terra con tutta la polvere e i proietti a bordo delle lance e poi trascinati su per la collina con l'aiuto di equipaggi di buoi da tiro. Lì vennero collocati sulle postazioni costruite con la terra di riporto intorno al forte. «Bene, così dovrebbe andare», concluse Tom, osservando soddisfatto le nuove difese. «Per sopraffarci sarebbe necessario un esercito fornito di macchine da assedio. Penso che siamo al sicuro dalle scorrerie delle tribù indigene, o da qualsiasi altra forza militare che Keyser possa schierare contro di noi, quando avrà sentore della nostra posizione.» Alleggeriti del peso dei cannoni, gli schooner danzavano leggeri all'ancora nella baia, mostrando gran parte del rivestimento di rame che proteggeva la carena. «Troveremo presto la zavorra giusta per ristabilire il loro assetto», promise Dorian, ordinando di caricare l'avorio e riempire le Wilbur Smith
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botti con la riserva d'acqua. Dopo l'assassinio di Yasmini, Dorian era soggetto a improvvisi accessi di malinconia profonda e sembrava che la sofferenza l'avesse precocemente invecchiato. Tra i suoi capelli d'oro rosso c'erano fili d'argento e sulla fronte erano incise rughe nuove. Ma adesso che aveva un obiettivo ben definito e Mansur al suo fianco, sembrava ringiovanito, di nuovo traboccante di vigore e determinazione. Cominciarono a caricare l'avorio a bordo degli schooner, predisponendo provviste fresche e riempiendo d'acqua le botti in previsione del viaggio. I barili di salamoia furono riempiti con quarti di bue ricavati dalle mandrie catturate, e il pescaggio dei due scafi aumentò nuovamente. Dorian e i suoi comandanti, Battila e Kumrah, si lambiccarono il cervello per mettere a punto l'assetto in modo da ottenere il massimo della velocità e della manovrabilità. «Finché non avremo i nuovi cannoni per difenderci, dovremo fare affidamento sulla velocità per sfuggire ai nemici che potremmo incontrare. Nonostante le migliori intenzioni e gli sforzi di nostro padre e di Tom, vent'anni fa, nell'oceano Indiano ci sono ancora pirati in azione.» «Tenetevi al largo della costa africana. È là che hanno i loro nidi», suggerì Tom. «E, col monsone nelle vele, potrete superare in velocità qualsiasi dhow pirata.» Erano tutti indaffarati: le donne a mettere in ordine le nuove case; Tom e Jim a organizzare le mandrie; Dorian e Mansur ad armare le navi. I giorni scorrevano veloci. «Non mi sembra che siano passate sei settimane», disse Jim a Mansur, mentre stavano insieme sulla spiaggia, osservando i due piccoli schooner. I pennoni erano issati e gli equipaggi si trovavano già a bordo. Tutto era pronto per salpare con la marea del giorno dopo. «Di questi tempi, pare che, non appena ci vediamo, sia già ora di ripartire», ammise Mansur. «Ho l'impressione che stavolta ne avremo per molto, cugino», disse Jim in tono mesto. «Credo che oltre l'orizzonte ti aspettino l'avventura e una nuova vita.» «Questo vale anche per te, Jim. Hai una donna, ben presto avrai un figlio, e hai preso possesso di questa terra. Io sono solo e sto ancora cercando il Paese del mio cuore.» «Ci separeranno molte leghe di mare o di terra, eppure mi sentirò Wilbur Smith
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sempre molto vicino a te in spirito», disse Jim, e Mansur capì quale sforzo gli era costato fare una dichiarazione così sentimentale. Abbracciò il cugino, stringendolo forte, e Jim ricambiò l'abbraccio. I due schooner salparono all'alba, con la marea e, quando superarono l'imboccatura della baia, a bordo della Revenge c'era tutta la famiglia. A un miglio da terra, Dorian accostò, mentre Tom e Sarah, Jim e Louisa si calavano nella lancia, osservando le due navi che si allontanavano, diventando minuscole in lontananza. Infine scomparvero oltre l'orizzonte, e Jim riportò la lancia nella baia. Il forte sembrava stranamente vuoto senza Dorian e Mansur, e ogni sera sentivano la mancanza delle loro voci meravigliose nel coro che accompagnava il suono del clavicembalo di Sarah. La navigazione attraverso l'oceano Indiano fu veloce e quasi priva d'incidenti. Con Mansur al comando della Sprite e Dorian sulla Revenge, i due schooner navigavano di conserva, sospinti da un monsone gentile. Si tennero al largo dall'isola di Ceylon, ricordando che Keyser li aveva minacciati di comunicare al governatore olandese di Trincomalee i misfatti da loro compiuti nella colonia di Buona Speranza. Puntarono invece verso la costa di Coromandel, nell'India sudorientale, e la raggiunsero prima del cambiamento delle stagioni. Fecero visita alle stazioni commerciali concorrenti fondate da inglesi, francesi e portoghesi, senza rivelare la loro vera identità. Tanto Dorian quanto Mansur avevano adottato l'abbigliamento arabo e, in pubblico, parlavano soltanto quella lingua. In ogni porto, Dorian valutava con precisione la domanda di avorio e si preoccupava di non saturare il mercato. Se la cavarono molto meglio di quanto Dorian e Tom avessero calcolato; coi forzieri delle navi pieni di rupie d'argento e mohur d'oro e più di un quarto dell'avorio ancora invenduto, puntarono verso sud e doppiarono l'estremità meridionale del continente indiano, navigando attraverso lo stretto di Palk, tra Ceylon e la terraferma, poi puntarono di nuovo a nord, lungo la costa occidentale, fino a raggiungere l'impero del Gran Moghul. Là vendettero il resto dell'avorio, a Bombay, dove la Compagnia Inglese delle Indie Orientali aveva il suo quartier generale, e negli altri mercati dei porti occidentali dell'impero moghul. Un tempo potentissimo, il più ricco e glorioso che fosse mai fiorito nel grande continente, l'impero moghul si trovava ormai in uno stato di Wilbur Smith
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decadimento e dissoluzione, e uomini di statura politica assai inferiore a quella di Babur e di Akbar se ne contendevano il dominio. Nonostante i sommovimenti politici, la nuova influenza persiana alla corte di Delhi creava un clima più favorevole ai commerci. I persiani erano commercianti fino al midollo, e i prezzi dell'avorio erano superiori a quelli che avevano riscontrato nelle stazioni commerciali della regione carnatica. Ormai Dorian era in grado di armare nuovamente i due schooner, riempire le stive vuote di polvere e proietti e trasformarli da bastimenti commerciali in navi da guerra. Salparono alla volta del nord, e poi raggiunsero Hyderabad, attraverso la quale passava il fiume Indo. Dorian e Mansur radunarono un gruppo di uomini armati, agli ordini di Batula e, raggiunto il suk principale, presero in affitto una carrozza e un interprete che li conducesse in una delle aree periferiche di quella città vasta e animata. Lì, nel mezzo di una pianura alluvionale, sorgeva la fonderia di uno dei principali produttori di cannoni di tutto il Punjab e del bacino dell'Indo, vale a dire dell'India intera. Il proprietario era un sikh dal portamento regale, un certo Pandit Singh. Nelle settimane seguenti, Dorian e Mansur scelsero dal suo assortimento un'intera batteria di cannoni, dodici per ogni nave. Erano tutti a canna lunga, con un calibro di quattro pollici e la canna lunga undici piedi, che sparavano un proietto di ferro del peso di nove libbre. Con un calibro così ridotto, in rapporto alla lunghezza della canna, si trattava di armi precise e a lunga gittata. Dorian misurò e calibrò ciascuna delle canne, in modo da avere la certezza che la stessa misura di proietti si adattasse a tutte e che non ci fossero discrepanze nella fusione. Poi, con grande indignazione di Pandit Singh, che lo ritenne un affronto alla sua reputazione professionale, insistette per sparare coi cannoni scelti, per assicurarsi che non ci fossero falle nel metallo. Due delle canne esplosero alla prima prova. Pandit Singh spiegò che ciò non aveva niente a che vedere con la qualità della sua produzione, ma era causato senz'altro dall'influenza maligna di un goppa, la varietà più perniciosa di shaitan. Dorian ordinò che l'affusto dei cannoni fosse costruito dai carpentieri locali in base al suo progetto. Poi i cannoni vennero caricati sui loro carri, trainati da squadre di buoi fino al porto, e di lì trasferiti alle navi a bordo di battelli da carico. Pandit Singh fuse per i nuovi cannoni alcune centinaia di palle di ferro, oltre a grandi quantità di proietti e scatole di mitraglia. Wilbur Smith
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Inoltre fu in grado di fornire grandi quantità di polvere, di cui garantiva personalmente la qualità. Dorian aprì e saggiò tutti i barili, scartandone più della metà prima d'inviare il resto a bordo degli schooner. Ma Dorian dedicò la sua attenzione anche all'aspetto della sua flotta, un fattore importante almeno quanto l'armamento, se non altro in quei mari. Spedì Mansur nei suk di Hyderabad per contrattare l'acquisto di pezze della tela più fine, rossa e verde. I mastri velai prepararono due serie di vele nuove di zecca, per sostituire quelle sbiadite e logorate dalle intemperie. I sarti del suk furono incaricati anche di fornire agli equipaggi degli schooner pantaloni ampi di cotone e giubbe intonate alle vele nuove. I risultati furono impressionanti. Essendo così vicina a Oman, Hyderabad era un crogiuolo di voci politiche e militari. Contrattando coi venditori, Dorian e Mansur bevevano il caffè e ascoltavano le chiacchiere degli uomini. Dorian apprese che i rivoltosi erano ancora al potere a Muscat, benché il califfo Zayn al-Din avesse consolidato la sua autorità su Lamu, Zanzibar e su tutti gli altri porti dell'impero di Oman. Ovunque sentì dire che Zayn al-Din progettava un attacco a Muscat per annientare i ribelli e riconquistare il trono perduto. Per compiere quell'impresa, poteva contare sull'assistenza della Compagnia Inglese delle Indie Orientali e sulla Sublime Porta di Istanbul, sede dell'impero dei turchi ottomani. Dorian era riuscito anche a scoprire l'identità dei nuovi sovrani di Muscat. Formavano un consiglio di dieci uomini, che Dorian conosceva quasi tutti di fama. Erano uomini coi quali aveva diviso pane e sale e cavalcato in battaglia, anni prima. Quando fu finalmente pronto a prendere il mare, si sentiva sollevato. Una volta salpato, non fece rotta subito per Muscat, che distava meno di settecento miglia a ovest lungo il Tropico del Cancro, nel golfo di Oman. Preferì invece incrociare in quelle acque, appena fuori della visuale di chi stava a terra, mentre allenava gli uomini di entrambe le navi a fare da serventi ai nuovi cannoni. Non lesinò né polvere né proietti, e li tenne sotto pressione finché non divennero quasi altrettanto esperti e veloci degli artiglieri di una fregata della Royal Navy. Quando entrò nel porto di Muscat, con le vele nuove e gli uomini dell'equipaggio, nelle loro uniformi fiammanti, schierati sui pennoni, la piccola flotta offriva uno spettacolo davvero notevole. Lo schooner inalberava i colori blu e oro del sultanato di Oman. Dorian ordinò che le Wilbur Smith
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vele fossero ammainate e le nuove batterie sparassero una salva di colpi, in segno di saluto per il palazzo e la fortezza. I serventi avevano cominciato ad affezionarsi al rumore dei loro cannoni e, una volta cominciato, continuarono con entusiasmo, e soltanto la sferza riuscì a dissuaderli dallo sprecare altra polvere e proietti. Quell'ingresso scatenò una grande agitazione sulla spiaggia. Attraverso il cannocchiale, Dorian osservò il viavai di messaggeri lungo le banchine del porto e gli artiglieri che si precipitavano verso le batterie sui parapetti della fortezza. Sapeva che ci sarebbe voluto un po' di tempo prima che il consiglio decidesse come reagire all'arrivo di quella strana flottiglia di navi da guerra, quindi si predispose ad aspettare. Mansur calò in mare la lancia, remando per raggiungere il padre. Insieme si affacciarono alla battagliola, dedicando la loro attenzione agli altri navigli all'ancora nel porto interno. Osservarono in particolare un tre alberi elegante e ben equipaggiato che batteva bandiera inglese, oltre ad alzare lo stendardo del console generale di sua maestà britannica in testa all'albero di maestra. Sulle prime, Dorian pensò che una nave così bella doveva appartenere alla Compagnia Inglese delle Indie Orientali, ma la sbiadita bandiera azzurra indicava che era un veliero di proprietà privata, come il suo. «Ha un proprietario ricco, questo è certo. Quel giocattolo dev'essere costato come minimo cinquemila sterline.» Lesse il nome a poppa. «Arcturus. Naturalmente qui a Muscat non potremmo trovare una nave appartenente alla John Company, visto che la Compagnia si è schierata apertamente con Zayn al-Din a Zanzibar», fece notare a Mansur. Gli ufficiali in giacca blu sulla coperta dell'Arcturus puntarono i cannocchiali su di loro con altrettanto interesse. Sembravano per lo più indiani o arabi, perché avevano la pelle scura, e molti sfoggiavano la barba. Dorian individuò il comandante grazie al tricorno e ai galloni d'oro sulle maniche: rappresentava un'eccezione, dato che era palesemente un europeo, dal volto roseo e ben rasato. Mansur fece scorrere il cannocchiale dal cassero di poppa fino a prua, arrestandosi con una certa sorpresa. «A bordo ci sono donne bianche», esclamò. Infatti c'erano due donne che passeggiavano in coperta, accompagnate da un gentiluomo vestito alla moda, con una marsina, il colletto bianco alto e un cappello nero. L'uomo reggeva un bastone col pomo dorato, che usava per illustrare alcuni aspetti del discorso che stava facendo alle signore. Wilbur Smith
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«Ecco il tuo ricco proprietario», disse subito Mansur. «Vestito come un dandy e molto soddisfatto di se stesso.» «E riesci a capirlo stando a questa distanza?» gli chiese Dorian con un sorriso, ma a sua volta studiò l'uomo con attenzione. Era estremamente improbabile che lo avesse visto prima, eppure in lui c'era qualcosa di così familiare che lo inquietò. Mansur scoppiò in una risata leggera, ribattendo: «Non vedi come si pavoneggia? Non ti sembra un pinguino con una candela accesa infilata nel culo? Sono certo che quel budino che cammina ondeggiando al suo fianco, tutta trine e falpalà, è la moglie. Formano una splendida coppia...» Mansur s'interruppe bruscamente e Dorian abbassò il cannocchiale per guardarlo. Il ragazzo aveva socchiuso gli occhi e il suo viso colorito dal sole era diventato improvvisamente di un cupo color bronzo. Ben di rado Dorian aveva visto il figlio arrossire, ma era proprio quello che stava accadendo. Allora, sollevando di nuovo il cannocchiale, scrutò la seconda donna, che era chiaramente la causa di quel cambiamento di umore nel figlio. Più una ragazza che una donna, per quanto abbastanza alta, pensò. Una figura a clessidra, ma del resto probabilmente può permettersi un costoso busto francese. Portamento aggraziato e passo sciolto... Poi, a voce alta, chiese a Mansur: «Che te ne pare dell'altra?» «Quale?» rispose il figlio, fingendosi indifferente. «Quella ossuta col vestito verde cavolo.» «Non è ossuta, e il vestito è verde smeraldo», ribatté Mansur, furioso. Poi si rese conto di essersi tradito. «Non che m'interessi, comunque...» L'uomo col cappello alto parve offeso da quell'esame sfacciato, perché lanciò loro un'occhiataccia e, prendendo sottobraccio la sua pingue compagna, la guidò verso la battagliola di dritta dell'Arcturus. La ragazza vestita di verde esitò, girandosi a guardare indietro. Mansur la scrutava con avidità. Il cappellino di paglia a tesa larga doveva aver protetto la sua carnagione dal sole tropicale, ma anche così la pelle aveva assunto il colore di una pesca vellutata. Anche se era troppo lontano per distinguere i dettagli, poteva vedere che aveva lineamenti regolari e ben proporzionati. I capelli castani, folti e lucidi, erano raccolti in una reticella di seta che le sfiorava le spalle. La fronte era alta e spaziosa, l'espressione serena e intelligente. Mansur provò una strana sensazione, come se gli mancasse l'aria, e rimpianse di non poter vedere il Wilbur Smith
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colore dei suoi occhi. Ma poi lei gettò la testa all'indietro con un gesto spazientito e raccolse la gonna del vestito verde per seguire la coppia più anziana dalla parte opposta della coperta, scomparendo così alla vista di Mansur. Lui depose il cannocchiale, con la strana sensazione di essere stato defraudato di qualcosa. «Bene, per ora lo spettacolo è finito», concluse Dorian. «Io scendo sottocoperta. Chiamami, se ci sono novità.» Trascorse un'ora, poi un'altra, prima che Mansur chiamasse il padre attraverso l'osteriggio del camerino di poppa. «Una barca si sta allontanando dalla banchina del palazzo.» Era una piccola feluca con la vela latina e un equipaggio di appena sei persone, ma a poppa c'era un passeggero. I suoi abiti e il turbante erano candidi come la neve e, infilata nella cintola, portava una scimitarra chiusa in un fodero dorato. Mentre si avvicinavano, Dorian scorse sul suo turbante lo scintillio di un grosso rubino. Quella era una persona di riguardo, senza dubbio. La feluca si affiancò alla nave e uno dell'equipaggio ormeggiò alla catena dell'ancora della Revenge. Dopo un breve intervallo, il visitatore salì attraverso il barcarizzo. Probabilmente era un po' più vecchio di Dorian. Aveva lo sguardo franco e diretto di una persona che guarda orizzonti lontani. Puntò verso Dorian con una lunga falcata familiare. «La pace sia con te, bin Shibam», disse Dorian, adottando con lui la formula familiare, quella che potrebbe usare un compagno d'armi per accoglierne un altro. «Sono passati molti anni da quando ti sei fermato alle mie spalle sul passo della Gazzella Leggiadra, sbarrando l'accesso al nemico.» Il guerriero alto si fermò all'istante, puntando su Dorian uno sguardo di stupore assoluto, e l'altro aggiunse: «Vedo che Allah ti ha favorito. Sei forte come quand'eravamo giovani. Porti ancora la lancia contro il tiranno parricida?» Il guerriero lanciò un grido e scattò in avanti per gettarsi ai piedi di Dorian. «Al-Salil, vero principe della casa reale del califfo Abd Muhammad al-Malik! Allah ha dato ascolto alle nostre fervide preghiere. La profezia del mullah al-Allama si compie. Sei tornato dal tuo popolo nel momento di grande sofferenza, quando esso ha più bisogno di te.» Dorian aiutò bin Shibam ad alzarsi, abbracciandolo. «Che cosa ci fai tu, Wilbur Smith
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vecchio falco del deserto, nei carnai della città?» Lo tenne davanti a sé a braccia tese. «Sei vestito come un pascià. Tu che un tempo eri uno sceicco guerriero dei saar, la più battagliera di tutte le tribù di Oman.» «Il mio cuore si strugge di nostalgia per gli spazi incontaminati, alSalil», confessò bin Shibam. «E io perdo il mio tempo qui, mentre dovrei cavalcare libero e impugnare la lunga lancia.» «Vieni, amico mio», disse Dorian, conducendolo verso la sua cabina. «Andiamo in un posto dove si possa parlare liberamente.» Nella cabina poterono adagiarsi su una pila di tappeti, mentre un servitore portava loro minuscole tazze di caffè denso come la melassa. «Con mio grande rammarico e disagio, ora faccio parte del consiglio di guerra dei rivoltosi. Siamo in dieci, ciascuno dei quali eletto da una delle dieci tribù di Oman. Da quando abbiamo scacciato quel mostro assassino, Zayn al-Din, dal Trono dell'Elefante, non faccio altro che stare qui a Muscat a parlare finché non mi dolgono le mascelle e mi s'intorpidisce il ventre.» «Dimmi qual è l'argomento di questi colloqui», ordinò Dorian e, nel corso delle ore successive, bin Shibam confermò quasi tutto quello che lui già sapeva. Disse che Zayn al-Din aveva assassinato tutti gli eredi e i discendenti del padre adottivo di Dorian, il califfo al-Malik, e riferì molte altre atrocità e sofferenze da lui inflitte al suo popolo. «Nel nome di Allah, le tribù si sono ribellate alla sua tirannia. Abbiamo incontrato i suoi seguaci in battaglia e abbiamo trionfato su di loro. Zayn al-Din è fuggito dalla città, trovando riparo sulla costa della Febbre. Avremmo dovuto continuare la campagna contro di lui fino alle estreme conseguenze, ma siamo rimasti divisi dalla controversia su chi debba guidarci, visto che il califfo non aveva lasciato eredi viventi.» A quel punto bin Shibam s'inchinò a Dorian. «Che Allah ci perdoni, al-Salil, ma ignoravamo dove ti trovassi. Solo negli ultimi anni abbiamo sentito dire che eri ancora vivo. Abbiamo inviato messaggeri in tutti i porti dell'oceano Indiano per cercarti.» «E io ho udito le vostre invocazioni, sia pure fioche e da lontano, e sono venuto per unirmi alla vostra causa.» «La benevolenza di Allah sia con te, perché abbiamo attraversato momenti difficili. Ciascuna delle dieci tribù vuole che sia il proprio sceicco a occupare il califfato. Zayn, fuggendo, ha portato con sé quasi tutta la flotta, per cui non abbiamo potuto seguirlo a Zanzibar. Mentre noi, Wilbur Smith
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parlando senza posa, non facevamo che indebolirci, Zayn al-Din diventava sempre più forte. I suoi sostenitori, che noi avevamo disperso, vedendoci indugiare sono tornati alla riscossa, assicurandogli il loro appoggio. Ha conquistato i porti sul continente africano e massacrato coloro che ci avevano sostenuto laggiù.» «Il primo principio della guerra impone di non concedere mai al nemico la possibilità di raccogliere le forze», gli rammentò Dorian. «Hai ragione, al-Salil. Zayn ha conquistato alla sua causa alleati potenti.» Bin Shibam si alzò per dirigersi verso la finestrella della cabina, scostando la tenda. «C'è n'è uno, in particolare, che si è presentato da noi con grande arroganza, fingendo di fare da paciere, ma in realtà portando un ultimatum e una minaccia mortale.» Indicò l'Arcturus, all'ancora nella darsena. «Dimmi, chi c'è a bordo di quella nave? Vedo che espone la bandiera del console generale.» «È il rappresentante del sovrano inglese, il console generale in Oriente, uno degli uomini più potenti di questi mari. Sostiene di voler fare da mediatore tra noi e Zayn al-Din, però noi conosciamo bene la reputazione di quest'uomo. Come alcuni mercanti commerciano in tappeti, lui tratta nazioni, eserciti e armi. Passa in segreto dalle riunioni della Compagnia Inglese delle Indie Orientali, a Bombay, alla corte del Gran Moghul di Delhi, dalla Sublime Porta al gabinetto dell'imperatore a Pechino. La sua ricchezza è pari alla loro, e l'ha ammassata speculando sul potere, sulla guerra e sulla vita degli uomini.» Bin Shibam allargò le braccia in un gesto espressivo. «Come possiamo noi, figli delle sabbie, competere con un uomo del genere?» «Avete ascoltato le condizioni che propone? Sapete quale messaggio porta?» «Non lo abbiamo ancora incontrato. Abbiamo promesso di farlo nel primo giorno del Ramadan, ma abbiamo paura. Sappiamo che ci proporrà il trattato peggiore di tutti quelli stipulati con lui.» Tornò a inginocchiarsi di fronte a Dorian. «Forse in fondo al cuore aspettavamo che tu venissi da noi per guidarci in battaglia, come hai fatto tante volte in passato. Autorizzami a tornare dal consiglio e riferire chi sei e perché sei venuto.» «Va' pure, vecchio mio. Riferisci che al-Salil desidera essere ascoltato dal consiglio.» Bin Shibam tornò da lui dopo il calar della sera e, appena entrato nella Wilbur Smith
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cabina, si prosternò davanti a Dorian. «Sarei venuto prima, però i membri del consiglio preferiscono che il console inglese non ti veda scendere a terra. Mi hanno pregato di esprimerti il loro più profondo rispetto e, in nome di tuo padre, professano la loro lealtà alla tua famiglia. Ora ti aspettano nella sala del trono del palazzo. Ti prego, vieni con me. Ti porterò da loro, e da loro avrai altre notizie, con grande profitto per te e per noi.» Lasciato il comando della piccola flotta a Mansur, si gettò sulla testa e sulle spalle una cappa di cammello e seguì bin Shibam a bordo della feluca. Per raggiungere il pontile del palazzo passarono vicino all'Arcturus, notando che il comandante era in coperta. Dorian intravide il suo viso alla luce della chiesuola della bussola, mentre impartiva ordini all'ufficiale di guardia. Aveva un accento pastoso dell'ovest, che suonò curiosamente estraneo al suo orecchio. Sto già tornando ai legami e ai rapporti di fedeltà della mia infanzia, pensò; poi la sua mente prese un'altra direzione. Se solo Yasmini fosse qui al mio fianco, adesso, per condividere con me questo ritorno a casa... Quando raggiunsero la banchina di pietra, furono ricevuti dalle guardie in attesa, che condussero Dorian oltre una massiccia grata di ferro, salendo una scala a chiocciola che dava accesso a un labirinto di passaggi stretti. Le pareti erano fatte di blocchi di pietra e illuminate da torce fissate alle pareti, che spandevano una luce fumosa. Si sentiva odore di muffa e topi. Infine raggiunsero una porta sbarrata da un chiavistello massiccio. Gli uomini della scorta vi batterono sopra con l'impugnatura delle lance e, quando la porta si spalancò, proseguirono il cammino lungo corridoi più alti, col soffitto a volta. Ora i pavimenti erano coperti di uno strato di giunchi e, dalle pareti, pendevano arazzi di seta e lana fine. Giunsero a un'altra porta, presidiata da quattro sentinelle in armatura, che incrociarono le lance per impedire loro l'accesso. «Chi chiede di essere ammesso al consiglio di guerra di Oman?» «Il principe al-Salil ibn al-Malik.» Le guardie si scostarono con un profondo inchino. «Entrate, altezza. Il consiglio attende il vostro arrivo.» I battenti si aprirono lentamente, cigolando sui cardini, e Dorian entrò nella sala. Era illuminata da centinaia di piccole lampade di ceramica, col lucignolo che galleggiava nell'olio profumato, ma la luce che diffondevano non era sufficiente a disperdere l'oscurità che si annidava nei recessi più Wilbur Smith
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remoti, e lasciava nell'ombra il soffitto alto. Scorse un cerchio di uomini, vestiti con lunghe tuniche e seduti sui cuscini intorno a un tavolo basso, dal piano d'argento purissimo, inciso a disegni geometrici propri dell'arte religiosa islamica. Gli uomini si alzarono non appena Dorian li raggiunse e uno di loro, che era chiaramente il più anziano e autorevole del consiglio, si fece avanti. Aveva la barba candida e incedeva col passo prudente di chi ha raggiunto un'età venerabile. Fissò in volto il nuovo arrivato. «Le benedizioni di Allah siano con te, Mustafa Zindara, consigliere fidato di mio padre», disse Dorian. «E lui. In nome di Allah, è proprio lui», esclamò il vecchio, gettandosi faccia a terra prima di baciare l'orlo della veste di Dorian, che lo aiutò a rialzarsi per abbracciarlo. Uno alla volta si fecero avanti anche gli altri, e Dorian salutò quasi tutti per nome. Chiese notizie delle loro famiglie e rievocò molte traversate del deserto che avevano compiuto insieme nonché le battaglie combattute come fratelli in armi. Poi ciascuno di loro prese una lampada e si riunirono intorno a lui, guidandolo per tutta la lunghezza del salone. Avvicinandosi al fondo, scorsero un oggetto alto e massiccio che, alla luce delle lampade, risplendeva di un chiarore perlaceo. Dorian sapeva che cos'era: l'ultima volta che lo aveva visto, vi era seduto il suo padre adottivo. Gli uomini del consiglio guidarono Dorian su per gli scalini e lo collocarono sulla pila di pelli di tigre e cuscini di seta ricamata con fili d'oro e d'argento che copriva la piattaforma in cima a quell'alta struttura, scolpita trecento anni prima con centocinquanta massicce zanne d'avorio: il Trono dell'Elefante del califfato di Oman. Nel corso dei giorni e delle settimane seguenti, dall'alba fino a dopo mezzanotte, Dorian si riunì insieme coi suoi consiglieri e i suoi ministri. Gli riferirono su ogni aspetto degli affari del regno, dall'umore della gente comune a quello delle tribù del deserto, ai forzieri del tesoro, alle condizioni della flotta e alla forza dell'esercito. Gli parlarono del virtuale blocco del commercio ed esposero i problemi diplomatici e politici che dovevano affrontare. Dorian afferrò subito la situazione disperata in cui si trovava la loro causa. Le ultime navi della flotta che aveva fatto di Oman una grande Wilbur Smith
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potenza dei mari erano salpate insieme con Zayn al-Din per la costa della Febbre. Molte tribù, di fronte agli interminabili rinvii del consiglio, si erano perse d'animo e quasi tutte le loro truppe si erano dileguate come nebbia nell'aridità del deserto. Le casse del tesoro erano quasi vuote, perché Zayn le aveva saccheggiate prima di fuggire. Dopo aver ascoltato, Dorian impartì gli ordini, che erano semplici e diretti. Sembrava tutto così naturale e familiare, come se non avesse mai lasciato il comando. La sua reputazione di genio politico e militare venne moltiplicata per dieci nelle chiacchiere che echeggiavano tra le strade e i suk della città. Era di aspetto nobile e attraente, aveva l'aria del dominatore e i suoi modi sicuri ispiravano fiducia assoluta. Bloccando quel che restava del tesoro, emise mandati di pagamento garantiti dalla propria autorità per fronteggiare una lunga serie di spese superiori alla norma. Si assunse inoltre l'onere di custodire i granai e razionare le riserve di cibo, preparando la città all'assedio. Servendosi di cammelli veloci inviò messaggi agli sceicchi delle tribù del deserto e andò loro incontro, quando vennero a rendergli omaggio, giurando obbedienza. Poi li rimandò nell'interno a preparare lo schieramento di battaglia. Esaltati dal suo esempio, i comandanti militari si dedicarono con rinnovato vigore a progettare le difese della città, e lui sostituì quelli che erano chiaramente incompetenti con uomini di cui sapeva, per esperienza, che avrebbe potuto fidarsi. Quando fece il giro delle difese e ordinò riparazioni immediate, il popolino si strinse intorno a lui. I cittadini sollevavano i figli da terra perché potessero vedere il leggendario al-Salil e, mentre passava vicino a loro, gli sfioravano le vesti. Per ben tre volte Dorian inviò messaggi all'Arcturus, facendo appello all'indulgenza del console generale. Accampando la scusa che era diventato califfo da poco tempo, e che quindi doveva prima familiarizzare con gli affari di Stato, cercò di procrastinare il più possibile quell'incontro, che peraltro sapeva inevitabile. E ogni giorno di rinvio rafforzava la sua posizione. Infine giunse a palazzo una barca inviata dall'Arcturus, portando una lettera del console generale inglese vergata in una bella scrittura araba fluente. Mansur ebbe l'impressione di riconoscervi l'opera di una mano femminile e anche di sapere chi l'aveva scritta. Non era indirizzata al califfo, bensì al capo pro tempore del consiglio rivoluzionario di Oman, e non riconosceva né l'esistenza di Dorian né il suo titolo di califfo al-Salil Wilbur Smith
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ibn al-Malik, sebbene ormai le spie del console inglese dovessero averlo messo al corrente di quello che era avvenuto. Il tono della lettera era brusco, privo di ogni accenno di diplomazia. Il console generale di sua maestà britannica in Oriente si rammaricava che il consiglio non avesse potuto concedergli udienza, anche perché, nel prossimo futuro, questioni più urgenti rendevano necessaria la sua partenza da Muscat alla volta di Zanzibar. Ignorava altresì quando sarebbe potuto tornare a Muscat. Dorian non si lasciò turbare dalla velata minaccia contenuta nella lettera, ma rimase sbalordito nel leggere la firma in calce. Senza dire una parola, restituì la lettera a Mansur, indicando il nome e la firma, che era stata apposta in inglese. «Ha il nostro stesso cognome.» Il ragazzo era perplesso. «Sir Guy Courteney.» «Lo stesso cognome, sì.» Dorian era pallido e teso. «E anche lo stesso sangue. Fin da quando ho posato gli occhi su di lui ho pensato che aveva qualcosa di familiare. È il fratello gemello di tuo zio Tom, e quindi mio fratellastro. Il che tra l'altro vuol dire che è tuo zio.» «Non ho mai sentito parlare di lui prima d'oggi», protestò Mansur. «Quindi non ci capisco niente.» «Se non hai mai sentito parlare di Guy Courteney ci sono ottimi motivi. Cattive azioni e un rancore profondo.» «Potrei sapere di che si tratta, adesso?» chiese Mansur. Dorian rimase in silenzio per qualche istante, prima di sospirare. «E una triste vicenda di tradimento e inganno, gelosia e odio accanito.» «Dimmi, padre», insistette Mansur a bassa voce. «Sì, devo farlo», ammise Dorian. «Anche se non mi procura nessun piacere rievocare quelle storie sordide, è giusto che tu sappia.» Tese la mano verso la pipa ad acqua e non parlò finché il fuoco non divampò nella bacinella e il fumo azzurrino passò gorgogliando nell'acqua profumata del contenitore di vetro. «Sono passati ormai più di trent'anni da quando Tom, Guy e io, tutti insieme, salpammo da Plymouth diretti al capo di Buona Speranza. Eravamo con tuo nonno Hal, a bordo della vecchia Seraph. Io ero il minore, avevo appena dieci anni, mentre Tom e Guy erano quasi adulti. A bordo c'era anche la famiglia Beatty, alla quale dovevamo dare un passaggio fino a Bombay, dove Mr Beatty doveva assumere una carica importante nella John Company. Lui aveva con sé due figlie. La maggiore Wilbur Smith
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era Caroline, che aveva sedici anni ed era una ragazza bella e precoce.» «Non starai parlando di quel budino tremolante che abbiamo visto sul ponte di coperta dell'Arcturus?» esclamò Mansur. «Pare proprio di sì», ammise Dorian. «Ti assicuro che allora era bella. Il tempo cambia ogni cosa.» «Perdonami, padre. Non avrei dovuto interromperti. Stavi per parlare dell'altra figlia.» «La minore era Sarah, dolce e adorabile.» «Sarah?» Mansur pareva sconcertato. «Lo so che cosa stai pensando, e hai ragione. Sì, adesso è tua zia Sarah, ma abbi pazienza. Arriverò a quella parte della storia, se mi lasci almeno mezza possibilità di parlare.» Mansur assunse un'aria pentita, e Dorian riprese il racconto. «La Seraph era appena uscita dal porto di Plymouth che Guy già si era innamorato perdutamente di Caroline, mentre lei aveva occhi solo per Tom. Tuo zio, essendo quello che è, l'accontentò. Caricò il suo delicato cannone, accese il suo camino, la varò e infine mise a cuocere nel suo piccolo forno una grossa torta alla frutta.» Mansur sorrise, nonostante la serietà dell'argomento. «Sono sbigottito al pensiero che mio padre abbia familiarità con temi così volgari.» «Perdonami se ferisco la tua sensibilità», replicò Dorian. «Comunque, per continuare, Guy era infuriato al pensiero che suo fratello Tom avesse trattato in quel modo l'oggetto del suo amore e della sua devozione, e lo sfidò a duello. Già a quei tempi, Tom era un ottimo spadaccino. Non voleva uccidere il fratello, ma d'altra parte non voleva avere più nulla a che fare con la torta che Caroline aveva in forno. Per Tom non era stato altro che uno svago. Io all'epoca ero ancora un bambino, e non capivo che cosa stesse accadendo, però ricordo ancora la tempesta che finì per spezzare la famiglia. Fortunatamente per Guy, nostro padre proibì il duello.» Mansur si rese conto che Dorian soffriva ancora di quel ricordo, anche se tentava di mascherare il disagio con quell'atteggiamento spavaldo, e rimase in silenzio, rispettando i sentimenti del padre. «Alla fine, Guy ruppe i rapporti con noi. Quando arrivammo al capo di Buona Speranza, Guy sposò Caroline, riconoscendo anche il figlio bastardo di Tom. Poi ci lasciò, per accompagnare la famiglia Beatty in India. Io non l'ho più rivisto fino a qualche tempo fa, a bordo dell'Arcturus, insieme con Caroline.» Tacque di nuovo, immerso nella sua nuvola azzurrina di fumo. Poi riprese. «La storia, però, non è ancora finita. Wilbur Smith
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A Bombay, col patrocinio del suocero, Guy fece rapidamente carriera nei ranghi consolari. Quando, a dodici anni, fui rapito e caddi nelle mani dei trafficanti di schiavi, Tom si rivolse a Guy per chiedergli di aiutarlo a ritrovarmi e trarmi in salvo, ma lui rifiutò, anzi tentò di farlo arrestare per omicidio e altri crimini che non aveva commesso. Tom riuscì a fuggire, ma non prima di aver conquistato Sarah, che portò via con sé. Questo non ha fatto che rinfocolare l'odio di Guy. Sir Guy Courteney, console generale di sua maestà britannica in Oriente, è un uomo che sa odiare. Può anche essere mio fratello, ma lo è soltanto di nome. Di fatto è amico e alleato di Zayn al-Din. E adesso ho bisogno del tuo aiuto per comporre una lettera destinata a lui.» Dedicarono molta cura alla stesura della lettera, che era in puro stile arabo, piena di complimenti fioriti e assicurazioni di buona volontà, seguiti da una profusione di scuse per qualsiasi offesa involontariamente arrecata. Esprimeva il massimo rispetto per il potere e la dignità della carica di console generale, e infine pregava il console di partecipare a un'udienza col califfo, scegliendo lui stesso la data e l'ora, ma preferibilmente alla prima occasione utile. «Andrei di persona a bordo dell'Arcturus, ma va da sé che non sarebbe opportuno, dal punto di vista diplomatico. Devi essere tu a consegnare il messaggio. In ogni caso, non fargli sospettare che siamo parenti di sangue o che parli inglese. Voglio che tu valuti il suo stato d'animo e le sue intenzioni. Chiedigli se possiamo rifornire la sua nave di acqua, carne o prodotti freschi, offri a lui e al suo equipaggio ospitalità e libertà di circolare in città. Se scendono a terra, le nostre spie potranno ricavarne informazioni. Dobbiamo cercare di trattenerlo qui il più a lungo possibile, finché non saremo pronti ad affrontare Zayn al-Din.» Mansur si vestì per quella visita con molta cura, nello stile che si addiceva al figlio del califfo di Oman. Portava il turbante verde del credente, sul quale appuntò una spilla di smeraldo, una delle poche gemme rimaste nel tesoro del palazzo dopo la razzia di Zayn al-Din. Il gilet che indossava sopra la tunica bianca era in pelle di cammello, ricamata con fili d'oro, i sandali e la cintura col fodero della spada erano tutti in filigrana d'oro, opera degli orafi più abili della città. Quando Mansur salì la biscaglina per raggiungere la coperta dell'Arcturus, con la barba rossa che ardeva al sole, era una figura così Wilbur Smith
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magnifica che il comandante e gli ufficiali lo fissarono a bocca aperta e impiegarono almeno un minuto a riprendersi. «Vi porgo i miei omaggi, signore. Sono William Cornish, comandante di questa nave.» L'arabo del comandante inglese era stentato, con un forte accento straniero. «Posso chiedervi con chi ho l'onore di parlare?» Il faccione rubizzo, che gli aveva procurato il nomignolo di «Ruby» Cornish nella flotta della John Company, splendeva al sole. «Sono il principe Mansur ibn al-Salil al-Malik», rispose l'altro in arabo, sfiorandosi il cuore e le labbra in segno di saluto. «Vengo da parte di mio padre, il califfo al-Salil ibn al-Malik, e ho l'onore di portare un messaggio per sua eccellenza il console generale di sua maestà britannica.» Ruby Cornish parve un po' a disagio. Riusciva a fatica a seguire le parole di Mansur e aveva ricevuto ordini severi di non riconoscere nessun titolo regale che i ribelli di Oman potevano rivendicare. «Vi prego d'invitare il vostro seguito a restare a bordo del battello», borbottò, inquieto. Mansur lo accontentò, congedandoli con un gesto, e Cornish aggiunse: «Se volete seguirmi da questa parte, signore». Lo condusse verso la sezione a mezza-nave della coperta, sopra la quale era stata stesa una vela per riparare i passeggeri dal sole. Sir Guy Courteney era seduto su una comoda poltrona rivestita di pelle di leopardo, col cappello a tricorno sul tavolo vicino e la spada tra le ginocchia. Vedendo avvicinarsi Mansur, non accennò neppure ad alzarsi. Indossava una giacca di panno fine color borgogna, coi bottoni d'oro massiccio e il colletto alto. Le scarpe a punta quadra erano ornate da fibbie d'argento e le calze di seta bianca arrivavano al ginocchio, trattenute da giarrettiere dello stesso colore della giacca. Erano bianchi anche i calzoni aderenti, con una brachetta fatta per esaltare la sua mascolinità. Portava le insegne dell'ordine della Giarrettiera, insieme con alcune decorazioni orientali. Mansur gli rivolse un gesto cortese di saluto, dicendo: «Eccellenza, sono onorato dal vostro favore». Guy Courteney scosse la testa con aria irritata. Ormai Mansur sapeva che era il gemello di Tom, e quindi doveva essere prossimo alla cinquantina, ma sembrava più giovane. Nonostante i capelli radi e la stempiatura, aveva una figura snella, dal ventre piatto; sotto gli occhi, però, c'erano borse scure, con le macchie tipiche dell'età, e uno degli incisivi era guasto e annerito. La sua espressione sembrava acida e ostile. «Mia figlia farà da interprete», disse in inglese, indicando la ragazza in Wilbur Smith
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piedi dietro la sua sedia. Mansur finse di non capire. Era stato acutamente consapevole della sua presenza fin da quand'era salito a bordo dello yacht, ma adesso la guardò direttamente per la prima volta. Gli riuscì molto difficile mantenere il viso inespressivo. La prima cosa che notò furono gli occhi: grandi e verdi, vivaci e indagatori. La sclera appariva bianca e limpida, le ciglia erano lunghe e ricurve. Mansur distolse lo sguardo a fatica per rivolgersi di nuovo a Sir Guy. «Perdonate la mia ignoranza, ma non parlo inglese», disse in tono di scusa. «Non ho compreso quello che vostra eccellenza ha appena detto.» «Mio padre non parla arabo. Se non vi dispiace, sarò io a tradurre per lui», disse la ragazza. Il suo era un ottimo arabo classico, dalla musicalità straordinaria. «Devo farvi i complimenti, milady», replicò Mansur inchinandosi di nuovo. «Avete una padronanza perfetta della nostra lingua. Io sono il principe Mansur ibn al-Salil al-Malik, e vengo a portare un messaggio da parte di mio padre, il califfo.» «Io sono Verity Courteney, la figlia del console generale. Mio padre vi dà il benvenuto a bordo dell'Arcturus.» «Siamo onorati dalla presenza dell'emissario di un sovrano così potente e di una nazione tanto illustre.» Per qualche minuto si scambiarono complimenti ed espressioni di stima e rispetto, ma Verity Courteney riuscì a non riconoscere mai titoli od onori regali. Lo stava soppesando con la stessa attenzione che lui dedicava a lei. Vista da vicino, Verity era molto più attraente che attraverso la lente del cannocchiale. La carnagione era leggermente dorata dal sole, ma per il resto di una perfezione inglese, e i tratti del viso apparivano fermi e decisi senza per questo essere grevi. Il collo era lungo ed elegante, la testa in equilibrio perfetto. Quando gli sorrise cortesemente, lui notò che la bocca era grande, con le labbra tumide. I due incisivi superiori erano leggermente storti, ma quell'imperfezione le donava. Mansur domandò se c'era qualcosa di cui avevano bisogno, e Sir Guy disse a Verity: «Siamo a corto d'acqua, ma non farglielo capire». Lei riferì la richiesta. «Una nave ha sempre bisogno d'acqua, effendi. Non è una necessità pressante, tuttavia mio padre vi sarebbe grato della vostra generosità.» Poi riferì al padre la risposta di Mansur. «Il principe dice che manderà subito un battello di rifornimento.» «Non chiamarlo principe. È uno sporco piccolo ribelle, e Zayn lo getterà Wilbur Smith
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in pasto agli squali. Probabilmente l'acqua che ci manderà sarà per metà piscio di cammello.» Nel sentire quelle parole, Verity non batté ciglio. Evidentemente era abituata a quel suo modo di esprimersi, perché si girò di nuovo verso Mansur, chiedendo: «Naturalmente, effendi, l'acqua sarà pura e potabile, vero? Non ci mandereste mai del piscio di cammello, eh?» Non lo disse in arabo, ma in inglese. Fu una mossa così spontanea, compiuta con un tono così calmo e con gli occhi verdi così innocenti, che Mansur sarebbe potuto cadere nella trappola, se non fosse stato preparato. Comunque fu colto alla sprovvista, sentendo uscire quelle parole da labbra femminili, e riuscì a stento a mantenere un'espressione cortese e neutra. Inclinò la testa di lato, con un'aria vagamente incuriosita. «Mio padre vi è molto riconoscente della vostra generosità», spiegò lei, tornando all'arabo, dopo aver messo alla prova le conoscenze linguistiche di Mansur. «Siete ospiti d'onore», ribatté lui. «Non conosce l'inglese», disse Verity al padre. «Cerca di capire cosa vuole. Sono viscidi come anguille, questi WOG.» Solo qualche tempo prima, un segretario del governo aveva coniato quella sigla per indicare i Worthy Orientai Gentleman, ovvero i «personaggi orientali di riguardo», e il termine era stato adottato da tutta la Compagnia con un valore vagamente dispregiativo. «Mio padre chiede notizie sulla salute di vostro padre.» Verity evitò di pronunciare la parola proibita, califfo. «Il califfo gode di una forza e di un vigore pari a quelli di dieci uomini normali.» Mansur mise l'accento sul titolo del padre, godendosi quel duello di astuzia. «È una dote innata nella stirpe reale di Oman.» «Che cosa dice?» domandò Sir Guy. «Sta cercando d'indurmi a riconoscere che suo padre è il nuovo sovrano.» Verity sorrise e annuì. «Rispondi nel modo corretto.» «Mio padre spera che vostro padre possa godere ancora di cento estati di altrettanto vigore, sotto il sole luminoso del favore divino, e che la coscienza lo guidi sempre sul sentiero della lealtà e dell'onore.» «Il califfo, mio padre, si augura che vostro padre abbia cento figli maschi forti e nobili, e che tutte le sue figlie siano belle e intelligenti al pari di quella che ora ho di fronte.» Era un'espressione grossolana, che Wilbur Smith
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sconfinava quasi nell'insolenza, però lui era un principe e poteva prendersi quelle libertà. Scorse in fondo agli occhi verdi un lampo scuro d'irritazione. Ah, ah! pensò, ma senza esultanza. Il primo sangue è mio. La reazione di lei fu fulminea e pungente. «Possano tutti i figli di vostro padre essere dotati di buone maniere e mostrare rispetto e cortesia verso tutte le donne, anche se questo non rientra nella loro vera natura», replicò infatti Verity. «Di che state parlando?» domandò Sir Guy. «S'informa sulla vostra salute.» «Scopri quando quel furfante di suo padre è disposto a vedermi. Avvertilo che non intendo tollerare altre scuse idiote da parte loro.» «Mio padre vuole sapere quando potrà presentare di persona i suoi doverosi omaggi al vostro illustre padre.» «Il califfo accoglierebbe con favore un'occasione del genere. Sarebbe anche un'occasione per scoprire come mai la figlia del console generale parla la lingua del Profeta in modo tanto soave.» Per poco Verity non sorrise. Era un uomo così bello che anche i suoi insulti erano eccitanti; i suoi modi, poi, erano così seducenti che lei non riusciva a offendersi davvero. Quella domanda implicita aveva una risposta molto semplice: fin dalla sua infanzia sull'isola di Zanzibar, dov'era di stanza il padre, aveva subito il fascino di tutto ciò che era orientale, imparando soprattutto ad amare la lingua araba, col suo vocabolario poetico ed espressivo. Tuttavia era la prima volta che si sentiva attratta, sia pure vagamente, da un uomo orientale. «Se il vostro onorato padre ricevesse me e mio padre, sarei lieta di rispondere a qualunque domanda di persona, piuttosto che inviare le risposte tramite uno dei suoi figli», disse. Mansur s'inchinò, per ammettere che l'assalto spettava a lei. Non le sorrise, ma i suoi occhi scintillavano quando prese la lettera dalla manica per consegnarla. «Leggila», ordinò Sir Guy. Verity la tradusse in inglese, ascoltò la risposta del padre e poi si rivolse di nuovo a Mansur, senza ulteriori manifestazioni di riservatezza femminile, ma guardandolo dritto negli occhi. «Il console generale desidera che tutti i membri del consiglio siano presenti all'incontro», gli disse. Wilbur Smith
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«Il califfo sarà felice e onorato di soddisfare questa richiesta, dal momento che apprezza il parere dei suoi consiglieri.» «Quanto ci vorrà per organizzare l'incontro?» chiese Verity. Mansur rifletté un istante, poi rispose: «Tre giorni. Il califfo sarebbe ancor più onorato se voleste unirvi a lui in una spedizione nel deserto per una caccia alle ottarde coi suoi falconi». Verity si rivolse a Sir Guy. «Il capo dei ribelli vuole invitarvi alla caccia col falcone nel deserto. Non sono certa che sia prudente.» «Sarebbe pazzo a tentare atti di violenza contro di me», replicò Sir Guy, scuotendo la testa. «Quello che cerca è una possibilità di parlare in privato, per vedere di ottenere il mio appoggio. Puoi stare sicura che il palazzo è un covo d'intrighi e un nido di spie, mentre laggiù nel deserto potrei apprendere da lui qualcosa che torni a mio vantaggio. Digli che accettiamo.» Come se non avesse capito una parola di quello che Sir Guy aveva detto, Mansur ascoltò la cortese traduzione di Verity, poi si sfiorò le labbra in segno di saluto. «Organizzerò tutto di persona con la solennità richiesta dall'importanza dell'occasione. Manderò un grande battello per accogliere i vostri bagagli. Saranno inviati nella zona della spedizione di caccia in tempo utile per aspettare il vostro arrivo.» «Sembra una soluzione accettabile.» Verity tradusse il consenso di Sir Guy. «Non faccio che agognare il giorno in cui poserò di nuovo gli occhi su di voi, proprio come il cervo stanco brama le acque alle quali dissetarsi.» Mansur indietreggiò con un gesto aggraziato di congedo. «Sei tutta rossa», disse Sir Guy, mostrando una punta di ansia per la figlia. «Dev'essere il caldo. Anche tua madre è assai prostrata.» «Sto benissimo, comunque grazie per la premura, padre», rispose lei con disinvoltura. Era sempre stata molto orgogliosa della sua capacità di mantenere i nervi saldi anche nelle circostanze più difficili, eppure, in quel momento, si sentiva emotivamente confusa. Mentre il principe scendeva a bordo della chiatta reale, lei non voleva seguirlo con lo sguardo, tuttavia non poteva certo lasciare il padre solo vicino alla battagliola della nave. Mansur alzò la testa verso di lei così repentinamente che Verity si rese conto di non poter abbassare gli occhi senza apparire colpevole. Allora sostenne il suo sguardo con aria di sfida, però, quando la vela della feluca prese il vento e si gonfiò, Verity scoprì di essere quasi senza fiato, furiosa Wilbur Smith
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ma nel contempo stranamente euforica. Non sono una di quelle piccole urì senza cervello che ridacchiano stupidamente, o un trastullo col quale gingillarsi. Sono una donna inglese e intendo essere trattata come tale, decise, poi si rivolse al padre, cercando di calmarsi prima di parlare. «Forse dovrei restare con la mamma, mentre tu vai a parlamentare coi ribelli. Si sente davvero male. Potrà farvi da interprete il comandante Cornish», suggerì. Non voleva farsi schernire di nuovo da quegli occhi verdi e danzanti e da quel sorriso enigmatico. «Non essere idiota, bambina mia. Cornish non sa neppure chiedere che ore sono. Ho bisogno di te, quindi verrai, e senza discutere.» Verity era contemporaneamente infastidita e sollevata dall'insistenza del padre. Perlomeno avrò l'occasione d'incrociare di nuovo le armi col bel principe. Stavolta vedremo chi sarà più svelto con la lingua. Prima dell'alba del terzo giorno, la chiatta del califfo trasportò gli ospiti fino al molo del palazzo, dove Mansur era in loro attesa con un'imponente scorta di guardie del corpo a cavallo e stallieri. Dopo un altro scambio di complimenti piuttosto lungo, Mansur guidò Sir Guy verso uno stallone arabo dal manto nero e lucente, e gli stallieri portarono una giumenta saura per Verity. Sembrava una bestia mite e docile, anche se aveva il petto possente e le zampe nervose, segno tanto di velocità quanto di vigore. Disdegnando di cavalcare all'amazzone, Verity montò in sella con agilità e grazia. Quando uscirono dalle porte della città era ancora buio, e alcuni cavalieri muniti di torce li precedettero per illuminare la strada. Mansur cavalcava accanto a Sir Guy, elegante in un completo da caccia all'inglese, mentre Verity stava alla sinistra del padre. Indossava una curiosa e affascinante mescolanza di abiti da caccia inglesi e orientali. Il cappellino alto di seta era tenuto fermo da una lunga sciarpa azzurra, con le estremità libere gettate sulla spalla. La marsina blu le arrivava sotto le ginocchia, ma aveva le falde pieghettate, in modo da consentirle libertà di movimento e nel contempo preservare la decenza. Sotto, portava pantaloni ampi di cotone e stivali morbidi alti fino al ginocchio. Per lei, Mansur aveva scelto una sella tempestata di gemme, col pomo e la paletta alti. Sul molo, lei lo aveva accolto con aria gelida, degnandolo appena di un'occhiata mentre chiacchierava amabilmente col padre. Escluso dalla conversazione, Mansur aveva potuto studiarla apertamente. Verity era una di quelle rare donne inglesi che sbocciavano Wilbur Smith
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nel clima caldo dei tropici. Invece di sudare e soccombere al caldo intenso, era fresca e padrona di sé. Persino quell'abbigliamento, che su un'altra sarebbe potuto apparire scandaloso o trasandato, a lei conferiva eleganza e originalità. Da principio attraversarono distese di palme da datteri e campi coltivati intorno alle mura cittadine; lì, alle prime luci dell'alba, donne velate attingevano acqua dai pozzi profondi, trasportandola poi negli orci tenuti in equilibrio sopra la testa, e branchi di cammelli e splendidi cavalli bevevano insieme dai canali d'irrigazione. Ai margini del deserto s'imbatterono negli accampamenti delle tribù giunte in risposta alla chiamata alle armi del califfo. Gli uomini uscirono dalle tende per gridare saluti all'indirizzo del principe, confermandogli la loro lealtà e sparando in aria in segno di giubilo al suo passaggio. Ma ben presto si trovarono nel deserto vero e proprio. Quando sorse l'alba sulle dune, rimasero soggiogati dalla sua maestà. Le nubi di polvere fine, sospese nell'aria, rifletterono i raggi del sole, incendiando il cielo a oriente. Verity, per quanto cavalcasse con la testa protesa all'indietro per osservare quello splendore celeste, sentiva intensamente lo sguardo del principe fisso su di sé, e la sua mancanza di rispetto non la irritava più tanto. Suo malgrado, cominciava a trovare piacevoli le sue attenzioni, anche se era decisa a non offrirgli il minimo incoraggiamento. Più avanti, un folto gruppo di cavalieri, superando le dune, si avvicinò al capo della spedizione. Tenevano sul polso i falconi incappucciati e apparivano maestosi sui loro cavalli, che portavano orgogliosamente i colori del califfato, blu e oro. Dietro venivano i suonatori, con liuti, corni e grandi tamburi appesi ai lati della sella, seguiti da una folla di stallieri, che conducevano i cavalli di riserva, di portatori d'acqua e altri servitori. Tutti accolsero il console generale con grida, colpi di moschetto, squilli di fanfara e un rullio incalzante di tamburi. Infine si accodarono al gruppo del principe. Dopo alcune ore di cavalcata, si ritrovarono su una vasta zona arida, con una ripida valle che scendeva verso il letto di un fiume in secca, molto più in basso. In cima a quelle pareti scoscese sorgeva uno strano gruppo d'imponenti monoliti di roccia. Una volta che si fu avvicinata, Verity comprese che erano le rovine di un'antica città, appollaiata in cima alla valle, a guardia di una via commerciale dimenticata ormai da tempo. «Che rovine sono queste?» chiese a Mansur. In tutta la mattina, quelle Wilbur Smith
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erano le prime parole che gli rivolgeva direttamente. «Noi la chiamiamo Iskandarbad, la città di Alessandro'. Si narra che il grande macedone abbia attraversato questi luoghi duemila anni or sono, che il suo esercito abbia costruito questa fortezza.» Passarono a cavallo tra le mura diroccate e i monumenti presso i quali, un tempo, eserciti imponenti avevano celebrato il loro trionfo. Ormai quel luogo era abitato soltanto da lucertole e scorpioni. Tuttavia, nei giorni precedenti, si era recata lì un'orda di servitori e, nello stesso cortile in cui forse il conquistatore aveva la sua corte, era stato disposto l'accampamento per la caccia: cento padiglioni colorati e arredati con tutti i lussi e le comodità di un palazzo reale. I servitori si fecero avanti per accogliere gli ospiti, versando, da brocche d'oro, acqua profumata, in modo che potessero togliersi di dosso almeno una parte della polvere del deserto e ristorarsi. Subito dopo, Mansur li condusse verso la più grande delle enormi tende. Quando entrarono, Verity notò che era arredata con tendaggi di seta blu e oro, e i pavimenti erano coperti di tappeti e cuscini preziosi. Il califfo e i suoi consiglieri si alzarono per salutarli. L'abilità di Verity come interprete fu messa alla prova dagli scambi di complimenti e auguri. Eppure lei colse quell'occasione per osservare il califfo, al-Salil. Come il figlio, era anche lui rosso di capelli e attraente, ma sul suo volto erano incisi i segni dell'ansia e della sofferenza; nella barba, inoltre, aveva alcuni fili d'argento, che lui non aveva coperto con l'henné. Però c'era qualcos'altro, qualcosa che le riusciva impossibile definire, una sensazione di déjà-vu che avvertiva guardandolo negli occhi. Era semplicemente il fatto che il principe Mansur gli somigliava tanto? Lei pensava di no. Era qualcosa di più. E poi, oltre a quell'idea sconcertante, fra suo padre e alSalil stava accadendo una cosa assai strana. Non si guardavano come fanno di solito due estranei che si sono appena incontrati; tra loro c'era piuttosto una tensione fortissima, che rischiava di esplodere da un momento all'altro. Pareva che si stessero addensando le nubi di un temporale estivo e l'aria fosse greve di umidità e di quella particolare sensazione che, di lì a poco, si sarebbero scatenati tuoni e fulmini. Al-Salil condusse Sir Guy al centro della tenda, facendolo sedere su una pila di cuscini. I servitori portarono loro coppe d'oro che contenevano un sorbetto all'anice, mentre i presenti mangiucchiavano datteri canditi e melagrane. Wilbur Smith
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I drappi di seta impedivano al caldo intenso del deserto di entrare nella tenda, e la conversazione era cortese. I cuochi del califfo servirono il pasto di mezzogiorno, e Dorian offrì a Sir Guy bocconcini scelti attinti da enormi vassoi che traboccavano di riso allo zafferano, tenere carni di agnello e pesce arrosto; poi ordinò di portare gli avanzi al suo seguito, seduto all'esterno del padiglione. A quel punto la conversazione divenne più seria. Sir Guy fece segno a Verity di andare a sedersi tra lui e al-Salil, e poi, mentre il sole raggiungeva lo zenit e tutti all'esterno sonnecchiavano nella calura, proseguirono il discorso a bassa voce. Sir Guy ammonì al-Salil, facendogli notare quanto fosse fragile l'alleanza fra le tribù del deserto che lui stava costruendo. «Zayn al-Din ha ottenuto l'appoggio della Sublime Porta. A Zanzibar ci sono già ventimila soldati turchi, più le navi per trasportarli qui non appena cambierà il monsone.» «E la Compagnia inglese? Si schiererà dalla parte di Zayn?» chiese alSalil. «Non ha ancora preso posizione», replicò Sir Guy. «Come probabilmente saprete, il governatore di Bombay attende le mie raccomandazioni prima di decidere.» Avrebbe potuto benissimo usare la parola «ordini», anziché «raccomandazioni». Al-Salil e tutti i membri del suo consiglio non potevano nutrire dubbi su quale fosse la vera sede del potere, in quella situazione. Verity era tanto presa dal suo lavoro d'interprete, che Mansur poté osservarla di nuovo con attenzione, accorgendosi per la prima volta dell'esistenza di strane correnti nascoste che scorrevano tra lei e il padre. Era mai possibile che avesse paura di lui? si domandò. Non poteva averne la certezza, però intuiva la presenza di qualcosa di oscuro e raggelante per lo spirito. Mentre parlavano nell'afa pomeridiana, Dorian ascoltava, annuiva e dava l'impressione di essere colpito dalla logica di Sir Guy; in realtà prestava orecchio alle verità nascoste e ai significati che si annidavano dietro le frasi fiorite tradotte per lui da Verity. A poco a poco si rese conto di come il fratellastro avesse potuto raggiungere un simile livello di potere e influenza. È come un serpente, subdolo e strisciante, e si avverte sempre la sua carica di veleno, pensò. Wilbur Smith
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Alla fine, al-Salil annuì con aria compunta e disse: «Tutto ciò che dite è vero. Posso soltanto pregare Allah che la vostra saggezza e il benevolo interesse che portate a questa difficile situazione ci conducano a una soluzione equa e duratura. Prima di procedere, vorrei assicurare a vostra eccellenza la profonda gratitudine che provo per voi a titolo personale e in nome del mio popolo. Spero di potervi dimostrare il calore di questi sentimenti in modo più efficace che con le semplici parole.» Dorian colse lo scintillio avido negli occhi del fratellastro. «Non sono venuto qui in cerca di ricompense materiali», replicò Sir Guy. «Nel mio Paese, tuttavia, diciamo che chi lavora ha diritto alla sua mercede.» «È un detto che conosciamo bene anche in questo Paese», osservò Dorian. «Ma ora il caldo comincia a diminuire. Avremo tempo di parlare ancora domani. Possiamo uscire a cavallo per lanciare i falconi.» La spedizione di caccia, forte di cento cavalieri, lasciò Iskandarbad avviandosi lungo il crinale della parete rocciosa che dominava il letto del fiume in secca, alcune centinaia di piedi più in basso. Il sole calante proiettava ombre azzurrine e misteriose su quello splendido caos di mura diroccate, rocce e uadi dal percorso serpentino. «Perché mai Alessandro Magno avrà scelto un posto così selvaggio e desolato per costruire una città?» si chiese Verity a voce alta. «Tremila anni fa quello era un fiume ricco di acque, e il fondo della valle doveva essere un giardino verdeggiante», le rispose Mansur. «Rattrista vedere che di un'impresa così grande è rimasto così poco. Alessandro ha costruito tanto, eppure, nel giro di una sola generazione, il suo impero è stato distrutto da uomini inferiori a lui, da coloro che lo avevano ereditato.» «Persino la tomba di Iskandar è andata perduta...» Mansur riuscì ad attirarla in una conversazione; un po' alla volta, lei abbassò la guardia e cominciò a rispondere con maggiore prontezza. Il giovane fu entusiasta di trovare in lei una compagna che condivideva il suo amore per la storia, ma, quando il dialogo si fece più serrato, scoprì che Verity era un'autentica studiosa e possedeva una cultura superiore alla sua. Allora si accontentò di ascoltare le sue opinioni, anziché esprimere le proprie. Godeva del suono della sua voce e' del modo in cui usava la lingua araba. Da alcuni giorni i cacciatori esploravano il deserto, quindi erano in Wilbur Smith
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grado di condurre il califfo nell'area in cui era più probabile che si trovasse la selvaggina. Era una pianura ampia, punteggiata da gruppi di bassi cespugli aridi, tipici del deserto, e si stendeva a perdita d'occhio. Nella frescura del tardo pomeriggio, era dolce e limpida come un ruscello di montagna, e Verity si sentiva viva e vitale. Tuttavia era in preda a una certa irrequietezza, come se stesse per accadere qualcosa di straordinario, qualcosa che poteva cambiare la sua vita per sempre. D'un tratto al-Salil invitò tutti al galoppo, e si udì il suono dei corni. Tutti spronarono i cavalli all'unisono, come uno squadrone di cavalleria. Gli zoccoli tamburellavano con un rumore sordo sulla sabbia indurita dal calore, e il vento cantava nelle orecchie di Verity. La giumenta correva leggera sotto di lei, sfiorando la terra come una rondine in volo, e lei rise forte. Lanciò un'occhiata a Mansur, che galoppava al suo fianco, e i due scoppiarono a ridere insieme senza nessuna ragione particolare, soltanto perché erano giovani e pieni di gioia di vivere. Improvvisamente risuonò un altro squillo di corno, e i cacciatori lanciarono un grido eccitato. Davanti a loro, una coppia di ottarde si era alzata dal riparo dei cespugli, stanata dal suono tonante degli zoccoli, e correva sul terreno col collo proteso in fuori e la testa bassa. Erano uccelli enormi, più grandi delle oche selvatiche e, pur avendo il piumaggio color cannella, blu e rosso, le varie sfumature erano mescolate in modo così accorto, per mimetizzarsi col terreno del deserto, che sembravano eteree e inconsistenti come fantasmi. Al suono del corno, i cavalieri tirarono le redini e i cavalli caracollarono, muovendosi in circolo e mordendo il filetto del morso, ansiosi di lanciarsi di nuovo al galoppo, ma restando docilmente al loro posto, mentre al-Salil avanzava con un falcone sul polso. Era un saker del deserto, il più bello e fiero di tutti. Nel periodo trascorso a Oman, Dorian aveva imparato a prediligere quella specie in particolare. Era un astore maschio, quindi il più bello del suo genere; a tre anni di età, si trovava all'apice della forza e della velocità. Dorian lo aveva chiamato Khamsin, dal nome del vento furioso del deserto. Dal momento che la fila di cavalieri si era fermata, le ottarde non si erano levate in volo, tornando al riparo tra i cespugli. Dovevano essersi appiattite al suolo, col lungo collo proteso in fuori, e restavano immobili come le rocce del deserto che le circondavano, nascoste agli occhi dei Wilbur Smith
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cacciatori dal loro piumaggio mimetico. Al-Salil spinse lentamente la sua cavalcatura verso il tratto di vegetazione dove le aveva scorte per l'ultima volta e, lungo la fila di osservatori, passò un fremito. Pur senza condividere la passione dei veri falconieri, Verity si accorse di avere il fiato corto; la mano che teneva le redini era scossa da un lieve tremore. Lanciando un'occhiata in tralice a Mansur, si accorse che aveva un'espressione rapita e, per la prima volta, si sentì in perfetta sintonia con lui. D'un tratto si udì un gracidio roco, e un corpo enorme si alzò in volo tra gli zoccoli anteriori dello stallone di al-Salil. Verity rimase sorpresa dalla velocità e dall'energia con cui l'ottarda si alzò in volo. Il fruscio ritmato delle ali risuonava nitido nel silenzio e l'apertura delle ali dalla punta smussata era pari all'estensione massima delle braccia di un uomo. Gli osservatori intonarono un canto sommesso non appena il califfo fece scivolare il cappuccio dalla magnifica, selvaggia testa del falcone, che batté le palpebre sugli occhi gialli, guardando il cielo. Il tamburo cominciò a scandire un ritmo lento, che echeggiò sulla pianura, eccitando tanto gli spettatori quanto il falcone. «Khamsin! Khamsin!» cantavano. Il falcone vide l'ottarda profilarsi sullo sfondo azzurro intenso del cielo e batté le ali, tendendo i geti che lo trattenevano e restando per un istante a testa in giù mentre lottava per liberarsi. Il califfo lo sollevò, sciolse i geti e lo lanciò in aria. Volando con le ali affilate come lame, il falcone salì sempre più in alto, volando in circolo e voltando la testa da un lato all'altro mentre spiava l'enorme uccello che sfrecciava sulla pianura sotto di lui. Il tamburo accelerò il ritmo e gli astanti alzarono la voce. «Khamsin! Khamsin!» Il falcone raggiunse l'apice del volo, diventando soltanto una forma minuscola dalle ali a forma di falce, nera sullo sfondo azzurro acciaio, sulla verticale della sua massiccia preda. Poi bruscamente chiuse le ali, spingendole all'indietro e piombando dall'alto come un giavellotto scagliato verso il terreno. Il suonatore di tamburo accelerò il ritmo in un frenetico crescendo, poi lo interruppe di colpo. Nel silenzio, sentirono il vento cantare sulle ali: il volo del falcone era così fulmineo che l'occhio non riusciva a seguirlo. Colpì la preda con uno schianto simile a quello delle corna di due cervi maschi che si scontrano in duello, e l'ottarda parve esplodere in una nuvola di penne, prima di Wilbur Smith
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ricadere inerte nella brezza. Da cento gole scaturì un grido di trionfo, e Verity si accorse di essere rimasta senza fiato, come se fosse appena riemersa da un tuffo in fondo al mare. Al-Salil recuperò il falcone, offrendogli in premio il fegato dell'ottarda, accarezzandolo e coccolandolo mentre lui lo inghiottiva. Poi si fece portare un altro falcone e, tenendolo sul polso, si avviò in testa al gruppo insieme con Sir Guy e la maggior parte dei suoi consiglieri. La passione della caccia li aveva conquistati tutti. Non c'era bisogno che Verity facesse da interprete, e lei rimase indietro con Mansur. Senza darlo a vedere, il giovane rallentò l'andatura del cavallo per restare al passo con lei, tanto assorta nella conversazione che non si accorse di quanto fossero rimasti indietro rispetto al gruppo del califfo. Parlando, l'antagonismo tra loro si attenuava. Ciascuno dei due percepiva che la vicinanza dell'altro aveva un effetto esaltante. Quando Verity rideva, la sua risata era seducente, e animava il suo viso attraente ma piuttosto austero, facendolo diventare bello. Poco alla volta dimenticarono il gruppo numeroso e colorato del quale facevano parte, restando isolati in mezzo alla folla. Li riportarono alla realtà un grido in lontananza e il rullo del tamburo di guerra. Mansur si alzò sulle staffe, lanciando un grido eccitato. «Guardate! Non vedete?» Gli uomini intorno a loro urlavano, e i corni lanciarono uno squillo, mentre il rullo dei tamburi raggiungeva un ritmo frenetico. «Che cosa c'è? Che cos'è successo?» Il cambiamento di umore di Mansur era contagioso, e Verity gli si accostò. Allora scoprì che cosa aveva scatenato quel pandemonio: sul versante opposto della valle, il piccolo gruppo di cavalieri guidato da al-Salil era lanciato al galoppo. Mentre andavano a caccia di ottarde, avevano stanato una preda molto più pericolosa. «I leoni!» gridò Mansur. «Una decina, e forse anche di più. Venite, seguitemi. Non dobbiamo perderci questo spettacolo.» Verity spronò la giumenta per restare al passo con lui mentre scendevano il versante della valle. Il branco che al-Salil e i suoi cacciatori stavano spingendo in avanti era veloce, e i corpi bruni dei leoni sfrecciavano tra le chiazze di cespugli aridi, entrando e uscendo dallo uadi che solcava la terra torturata del deserto con le sue pareti ripide. Wilbur Smith
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Al-Salil aveva affidato il falcone a uno dei cacciatori, mentre tutti gli altri avevano strappato di mano ai portatori le lunghe lance ed erano lanciati all'inseguimento del branco, emettendo grida affievolite dalla lontananza. Si udì un ruggito terribile di dolore e di paura quando il califfo, sporgendosi dalla sella, infilzò una di quelle sagome veloci. Verity vide il leone che, con una serie di ruggiti sonori, rotolava in una nuvola di polvere dopo l'impatto della lancia. Poi, con un'abile torsione all'indietro, liberò la punta della lancia per partire all'inseguimento della vittima successiva, lasciando il leone abbattuto che gemeva, con un fiotto di sangue che sgorgava dai polmoni attraverso le mascelle. I cavalieri del seguito trafissero a loro volta la bestia morente. Poi un altro dei cacciatori abbatté una preda con la lancia, e un altro ancora... Tutto divenne un pandemonio di cavalli in corsa e felini gialli in fuga. I cacciatori gridavano a ogni colpo che mettevano a segno, i cavalli lanciavano nitriti acuti, impazziti per l'odore pungente del sangue dei leoni che si mescolava al ruggito delle bestie ferite. I corni suonavano, i tamburi rullavano e la polvere avvolgeva ogni cosa. Strappando una lancia dalla mano del portatore che cavalcava dietro di lui, Mansur si lanciò al galoppo sulle orme del padre. Verity rimase al passo con lui, ma il gruppo superò la sommità della collina prima che potessero raggiungerlo. Oltrepassarono i due leoni morti, stesi in mezzo ai cespugli aridi. Le carcasse erano crivellate di colpi di lancia, e i cavalli scartarono nel captare quell'odore spaventoso. Quando raggiunsero il crinale e guardarono oltre, la caccia si era già allontanata e il gruppo era disperso sulla pianura. A un miglio quasi di distanza, si scorgeva la figura inconfondibile di al-Salil che guidava il gruppo, con la veste bianca che svolazzava al vento, ma il branco di leoni non si vedeva più. Era scomparso come una nube di fumo bruno nella vastità del deserto. «Troppo tardi», si lagnò Mansur, tirando le redini della sua cavalcatura. «Ormai si sono allontanati. Se cerchiamo di raggiungerli non faremo altro che sfinire i cavalli.» «Altezza!» In preda all'agitazione, Verity non sembrò neppure accorgersi di averlo chiamato col suo titolo. «Mi è sembrato d'intravedere uno dei leoni allontanarsi dal gruppo lungo il crinale.» Indicò la direzione, verso sinistra. «Pareva deciso a tornare indietro verso il fiume.» «Allora venite, milady.» Mansur voltò lo stallone. «Indicatemi dove lo Wilbur Smith
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avete visto.» Verity lo guidò su quel terreno elevato, e poi si allontanò dalla linea dell'orizzonte. A meno di un quarto di miglio, si trovarono fuori della visuale del resto del gruppo, lanciati al piccolo galoppo nel deserto. Erano ancora eccitati e ridevano insieme. Il cappellino di Verity volò via e, quando Mansur si mosse per recuperarlo, lei lo richiamò. «Lasciate stare! Lo ritroveremo poi.» Lanciò in aria la sciarpa di seta blu. «Questa ci aiuterà a ritrovare il posto esatto quando torneremo indietro», esclamò. Proseguendo al galoppo, lasciò liberi i capelli, che fino a quel momento aveva coperto con una reticella di seta. Mansur rimase sbalordito dalla loro lunghezza: ricadevano sulle sue spalle come una nuvola fitta di miele scuro, folti e lucidi nella luce morbida del crepuscolo. Coi capelli sciolti, lei cambiava completamente aspetto, trasformandosi in una creatura selvaggia, libera e indipendente dai vincoli imposti dalla società e dalle convenzioni. Mansur era rimasto poco più indietro, ma si accontentava di seguirla e osservarla, mentre sentiva nascere dentro di sé un'emozione profonda. Questa è la mia donna. È lei che aspettavo e sognavo. In quell'istante intravide un movimento fulmineo davanti al suo cavallo lanciato in corsa. Poteva essere il frullo delle ali di uno dei piccoli tordi sasselli, ma lui sapeva che non era così. Si concentrò, e all'improvviso gli apparve l'immagine completa. Era il leone. Quello che lo aveva messo sull'avviso era lo scatto della coda. L'animale stava in agguato in una depressione poco profonda del terreno, proprio sul percorso di Verity. Era schiacciato contro il terreno, dello stesso marrone chiaro dei suoi fianchi snelli, e teneva le orecchie appiattite contro il cranio, tanto da somigliare a un mostruoso serpente pronto a colpire. Gli occhi d'oro erano implacabili e le sottili labbra nere erano coperte da un velo di schiuma rosa; sulla parte alta della spalla si notava una ferita prodotta da una lancia che, penetrando in direzione angolata, gli aveva trapassato il polmone. «Verity!» gridò Mansur. «È lassù, proprio sulla tua strada. Torna indietro! Per amor di Dio, torna indietro!» Lei si girò, con gli occhi verdi spalancati per la sorpresa. Lui non si era reso conto di aver gridato in inglese e forse lei ne era rimasta così colpita che non comprese l'avvertimento. A ogni modo, non fece il minimo sforzo per controllare la giumenta e proseguì al galoppo verso il leone in agguato. Wilbur Smith
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Mansur spronò lo stallone al massimo della velocità che poteva sostenere, ma era rimasto troppo indietro per poterla raggiungere. All'ultimo momento, la giumenta intuì la presenza del leone e scartò di lato con violenza. Verity rischiò di essere disarcionata, ma si aggrappò al pomo della sella, riuscendo a non finire a terra. Aveva tuttavia perso l'equilibrio e un piede si era sfilato dalla staffa. Proiettata in avanti, verso il collo della giumenta, lo cinse con le braccia, ma la sua cavalcatura fece scattare la testa nel sentire l'odore forte del leone e le strappò di mano le redini. Verity non era più in grado di controllarla. Il leone caricò la giumenta di lato, lasciandosi sfuggire profondi grugniti insieme con fiotti di schiuma sanguigna. La giumenta girò su se stessa per allontanarsi e Verity fu scagliata di lato, restando appesa al fianco dell'animale con un piede intrappolato nella staffa. Allora il leone scattò in avanti con le zampe anteriori protese, gli artigli sguainati come grandi uncini gialli che potevano squarciare la pelle e i muscoli, arrivando fino all'osso. Colpì la giumenta con violenza tale da farla barcollare all'indietro, alzandosi sulle zampe posteriori, ma ormai le aveva affondato gli artigli nei quarti posteriori. La giumenta lanciò strida di paura e di sofferenza, scalciando con le zampe posteriori. Verity rimase in trappola tra i due corpi allacciati. A Mansur parve che quelle grida gli lacerassero i nervi o gli stessero infliggendo ferite mortali. Il suo stallone era già lanciato al galoppo. Mansur abbassò la lancia e guidò il cavallo coi talloni per modificare l'angolazione dell'attacco, proteso in avanti con la punta della lancia che brillava, danzando davanti a lui come un insetto d'argento. Il leone balzò sulla groppa della giumenta, restandovi aggrappato con la forza delle massicce zampe anteriori, mentre lei s'impennava e scalciava. Continuava a ruggire, emettendo un verso continuo e profondo. Aveva i muscoli sporgenti come cordoni lungo i fianchi, col contorno della gabbia toracica ben visibile sotto la pelle. Mansur puntò la lancia poco più in basso della spalla, e colpì esattamente nel punto che intendeva trafiggere, sfruttando il peso del cavallo per conficcare l'acciaio sino in fondo. Trafisse il leone da spalla a spalla, eppure non sentì quasi lo sforzo, percependo soltanto la vibrazione quando l'acciaio urtò contro l'osso. Attanagliato dal dolore, il leone inarcò all'indietro la spina dorsale, e l'asta della lancia si spezzò come una canna. La giumenta si liberò dagli artigli ricurvi, allontanandosi, mentre il sangue Wilbur Smith
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scorreva dalle ferite, inondando i quarti posteriori. Il leone, che fremeva tutto e si contorceva negli spasmi dell'agonia, rotolò in mezzo alla sterpaglia. Verity era scivolata per metà sotto il corpo della giumenta, aggrappata a un lato del collo, con un piede ancora in trappola nella staffa. Se avesse mollato la presa, sarebbe stata scagliata a terra e trascinata per il piede, rimbalzando con la testa sul terreno sassoso finché il cranio non si fosse spaccato come un guscio d'uovo. Non aveva più fiato per gridare, quindi rimase aggrappata con tutte le sue forze, mentre la giumenta scattava di nuovo in avanti. Nonostante gli squarci sanguinanti, correva veloce, impazzita dal terrore, con le pupille rovesciate fino a scoprire la mucosa rossa dell'orbita e le bave che colavano dalla bocca aperta. Verity cercò di tornare in sella, ma i suoi sforzi non facevano che incitare la giumenta ad aumentare la velocità. Nello spasimo del terrore, sembrava rinvigorita. Mansur lasciò cadere a terra il moncone di lancia e cominciò a incitare lo stallone gridando, martellandogli coi talloni i fianchi ansimanti e sferzandolo alle spalle con l'estremità libera delle redini, ma non riuscì a raggiungere la giumenta. Scesero così lungo il pendio e, una volta in fondo, la giumenta deviò verso il letto del fiume in secca, mentre Mansur le lanciava dietro lo stallone. Proseguirono per mezzo miglio, e il distacco tra i due cavalli non cambiò finché la giumenta non cominciò a sentire il peso delle terribili ferite. La sua andatura rallentò in modo quasi impercettibile e gli zoccoli posteriori persero l'allineamento. «Tieni duro, Verity!» le gridò Mansur. «Ora comincio a guadagnare terreno. Non mollare!» Poi vide l'orlo del precipizio aprirsi proprio davanti alla testa della giumenta e, dall'alto dello strapiombo di roccia, guardò la valle del fiume, duecento piedi più in basso. Il suo cuore fu invaso da una cupa disperazione, mentre immaginava la giumenta e la ragazza scaraventate oltre il ciglio e sfracellate sulle rocce sottostanti. Spingeva lo stallone con tutta la forza delle braccia e delle gambe, nonché con la ferma risoluzione che provava dentro di sé. La giumenta s'indeboliva a vista d'occhio e il distacco tra i due diminuiva, ma molto lentamente. All'ultimo momento, la giumenta vide la terra aprirsi davanti a sé e tentò di deviare ma, quando gli zoccoli anteriori si posarono sul Wilbur Smith
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terriccio, l'orlo del precipizio si sgretolò sotto di lei. S'impennò e rimase in bilico per un attimo, in preda al panico, poi precipitò. Mentre la giumenta cadeva, Mansur si slanciò in avanti, smontando con un balzo dallo stallone, e proprio sul ciglio del precipizio riuscì ad afferrare al volo una caviglia di Verity. Rischiò di finire anche lui nel vuoto, tuttavia poi il cuoio della staffa si spezzò e la gamba rimase libera. Il peso del corpo della ragazza lo trascinò in discesa lungo il costone di roccia, ma lui resistette con tutte le sue forze. La giumenta scivolò, allontanandosi da loro e slittando per circa cinquanta piedi sul pendio, nitrendo di terrore quando finì nel vuoto. Verity oscillava come un pendolo, appesa a testa in giù alla mano destra di Mansur, che stringeva la caviglia. Le falde della marsina le ricadevano sulla testa, ma lei non aveva il coraggio di muoversi, sapendo che ogni spostamento poteva compromettere la presa precaria di lui sulla propria caviglia. Udiva il respiro affannoso del giovane sopra di lei, ma non osava alzare la testa. Poi le giunse la sua voce. «Resta così. Ora cerco di tirarti su.» La voce era tesa dallo sforzo, eppure, anche in quella situazione terribile, Verity notò che aveva parlato in inglese, con un timbro musicale e senza accenti che suonava dolce alle orecchie. Era la voce familiare del suo Paese di origine. Se devo morire, fa' che sia l'ultimo suono che sento, si disse, benché non potesse fidarsi della propria voce per rispondere. Spostando lo sguardo, vide il fondo della valle sotto di sé, a una distanza tale da dare le vertigini, ma rimase in silenzio mentre le dita forti di Mansur le affondavano nella caviglia attraverso il cuoio morbido dello stivaletto. Sopra di lei, il ragazzo grugnì per lo sforzo, e lei sentì la roccia irregolare della parete graffiarle il fianco mentre veniva trascinata qualche palmo più su. Mansur tastò il terreno alla cieca con una gamba, trovando una stretta fenditura nella roccia e inserendovi a fondo la coscia e il piede. Usandoli come ancora, poté liberare la mano sinistra, con la quale, fino a quel momento, si era tenuto aggrappato in modo precario. Quindi si protese verso il basso sul costone, e Verity sentì entrambe le mani di lui chiudersi sulla propria caviglia. «Ora ti tengo con le due mani.» La sua voce era arrochita dallo sforzo. «Coraggio, ragazza!» E lei si spinse in alto con maggiore decisione. Lui fece una pausa per raccogliere le forze. «E uno, e due, e tigre», sussurrò Mansur, recitando quella vecchia Wilbur Smith
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filastrocca marinara per farsi coraggio. Lei avrebbe voluto gridargli di chiudere la bocca e risparmiarsi quelle idiozie infantili, per fare appello invece a tutta la sua forza e sollevarla di peso. Sapeva bene che il difficile doveva ancora venire: sarebbe riuscito a issarla al di sopra del costone roccioso? Lui ritentò, e lei risalì di un altro breve tratto. Poi ci fu una pausa, e sentì che Mansur cambiava leggermente posizione per consolidarsi, usando i fianchi per spostarsi all'indietro, nel tentativo d'incastrare l'altra gamba nella fenditura della roccia. Da quella posizione, la tirò verso l'alto con maggiore energia. «Che Dio ti aiuti», mormorò lei, con voce appena percettibile, e Mansur le diede una spinta tale che lei si sentì quasi strappare le gambe dall'articolazione. «Ci siamo quasi, Verity», le disse, tra una spinta e l'altra, ma stavolta lei non si mosse. I rami di un piccolo cespuglio che affondava le radici in una crepa della parete rocciosa si erano impigliati nel tessuto dei suoi calzoni. Per quanto lui tirasse ancora, non riuscì a smuoverla: era praticamente bloccata dai rami elastici del cespuglio. «Non riesco a spostarti», grugnì Mansur. «C'è qualcosa che ti trattiene.» «È un cespuglio. Mi trattiene per le gambe», sussurrò lei di rimando. «Cerca di raggiungerlo», le ordinò. «Tienimi forte!» replicò lei, tentando di piegarsi per allungare le mani verso il basso. Riuscì a sfiorare i rami, azzardando uno strappo fulmineo. «Ci siamo?» domandò. «Sì!» Ma la presa di Verity, con una sola mano, era fragile. E poi il cuore le divenne un blocco di ghiaccio nel petto, quando sentì lo stivale che scivolava lentamente dal piede. «Mi si stanno sfilando gli stivali!» singhiozzò. «Dammi l'altra mano», le ordinò lui, ansimando. Prima che lei potesse rifiutarsi, lo sentì lasciare con una mano la presa sulla caviglia, facendola scorrere poi lungo la gamba. Il piede di Verity scivolò ancora di più dallo stivale di cuoio morbido. «La mano!» implorò Mansur, mentre le sue dita fremevano, incalzanti, lungo la coscia, verso il punto in cui il cespuglio si era impigliato nei pantaloni, bloccando la sua ascesa. Sentiva ormai il retro dello stivale scorrere sotto il tallone. «Gli stivali se ne vanno! Sto per cadere!» «La mano! Per amor di Dio, dammi la mano.» La giovane riuscì a spingersi verso l'alto, e le loro dita s'intrecciarono. Wilbur Smith
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Lei era rimasta con l'altra mano stretta sul cespuglio e Mansur continuava a tenerla per la caviglia dello stivale, ma ora la mano destra era stretta alla sua. In pratica, Verity era piegata in due, sospesa per le braccia e una gamba. Le falde della marsina cominciarono a ricadere in basso, permettendole di vedere di nuovo. Il viso di Mansur, sopra di lei, era gonfio e arrossato, con la barba scurita dal sudore, che gocciolava sul viso di Verity, rivolto in su. A quel punto, nessuno dei due osava muoversi. «Che cosa devo fare?» chiese la giovane, ma, prima che lui potesse rispondere, la situazione volse al peggio: lo stivale si sfilò dal piede. La parte inferiore del corpo ricadde in basso, poi si girò. Adesso Verity era tesa con le braccia verso l'alto e i piedi in basso. Anche se quello scrollone l'aveva costretta ad allentare la presa, era ancora aggrappata con la mano destra al ramo del cespuglio. Entrambi erano fradici di sudore, e le dita di Mansur cominciarono a scivolare. «Non riesco a reggermi», ansimò lei. «Il cespuglio», disse lui. «Non lasciare il cespuglio.» Anche se Verity aveva l'impressione che le stritolasse le ossa delle dita, la presa cedette, come una catena che si spezza. La caduta venne arrestata dal cespuglio, ma esso scricchiolò, piegandosi sotto il peso del suo corpo. «Non reggerà», gridò lei. «Non riesco a raggiungerti.» Lui brancolava, e Verity si protese con la mano libera, ma rimase al di fuori della sua portata. «Tirati su! Devi tirarti più su, in modo che possa raggiungerti», le mormorò con voce roca. Lei si sentì gelare il cuore e intorpidire i muscoli. Sapeva che era finita. Mansur lesse la disperazione nei suoi occhi, vide che la sua presa sul cespuglio cominciava ad allentarsi. Stava per arrendersi. Le ringhiò contro con furia selvaggia, cercando di scuoterla per indurla a compiere quell'ultimo sforzo «Tirati su, debole creatura! Tirati su, dannazione alla tua vigliaccheria!» Gli insulti la irritarono e la rabbia le diede la forza per fare un altro tentativo, pur sapendo che era inutile. Anche se fosse riuscita a raggiungerlo, le loro mani viscide non sarebbero riuscite a mantenere la presa. Si protese di slancio verso il ramo, trovando un doppio appiglio, ma il cespuglio non era più in grado di sostenere il suo peso e cedette, spezzandosi con uno schiocco secco. «Sto per andarmene», singhiozzò lei. Wilbur Smith
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«No, dannazione, no!» gridò Mansur, ma il cespuglio cedette. Verity cominciò a cadere, poi di colpo si sentì afferrare per i polsi e trattenere. La sua caduta fu arrestata con una forza che le fece schioccare l'articolazione delle spalle. Mansur aveva compiuto uno sforzo disperato. Liberando le gambe dalla fenditura in cui le aveva incuneate, si era spinto in avanti sul ciglio del precipizio. Tendendosi al massimo, era riuscito ad afferrarla appena in tempo, e adesso era sospeso a testa in giù, trattenuto soltanto dall'estremità dei piedi incastrati nella spaccatura della roccia. Adesso doveva sollevarla, prima che gli scivolasse di nuovo dalle dita. Puntando i gomiti sulla parete di roccia, piegò lentamente le braccia, sollevandola finché non si trovarono a faccia a faccia. Aveva il viso gonfio e stravolto per la sofferenza dei muscoli tesi e l'afflusso del sangue alla testa. «Non posso fare di più», sussurrò, mentre le loro labbra si sfioravano. «Sali sul mio corpo. Usalo come una scala.» Lei intrecciò il braccio al suo, alla piega del gomito, in modo da avere l'altra mano libera, mentre Mansur allungava una mano verso il basso, afferrando la sua cintura di cuoio e sfruttandola per issarsi un po' più in alto. Lei gli afferrò a sua volta la fibbia della cintura, e così tirarono all'unisono. Poi Mansur si protese per afferrare un lembo di stoffa sul didietro dei calzoni da equitazione di Verity, e lei incastrò l'altro braccio tra le gambe di lui, prima di fare l'ennesimo sforzo per sollevarsi. Ormai aveva il viso all'altezza della cintola di lui e riusciva a vedere oltre la sommità del precipizio. Mansur, allungandosi in basso, intrecciò le dita, formando una staffa per il suo piede rimasto nudo e, con quella spinta, lei riuscì finalmente ad arrivare sopra il costone. Per un attimo soltanto rimase stesa sulla roccia, poi si girò di scatto. «Ce la fai a risalire?» Rimase sbigottita, vedendolo teso al massimo, incapace di tirarsi su per riguadagnare la sommità. Era quasi troppo esausto per esprimersi in modo intelligibile. «Prendi il cavallo», ansimò lui. «C'è una corda agganciata alla sella. Tirami su col cavallo.» Guardandosi intorno, Verity scorse lo stallone trottare a un quarto di miglio di distanza, risalendo la valle. «Il tuo cavallo se n'è andato.» Mansur si protese all'indietro, tentando di fare presa sulla roccia, ma era troppo liscia. Si udì un lieve suono raschiante: era il tallone dello stivale che cominciava a scivolare nella fenditura, e lui si mosse di un paio di dita Wilbur Smith
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verso il ciglio dello strapiombo, prima di rinsaldare la presa. Verity era inorridita. Quel piede era l'unico aggancio che gli impediva di precipitare. Gli afferrò la caviglia con entrambe le mani, ma sapeva che si trattava di un'impresa disperata. Non avrebbe mai potuto reggere il peso di un uomo così grosso. Tentò di farsi forza, ma vide il piede scivolare di nuovo e infine perdere la presa. Mansur cominciò a slittare in modo irrefrenabile e la presa sulla sua caviglia le sfuggì. Lui lanciò un grido, superando l'orlo del precipizio, e Verity si slanciò in avanti, aspettandosi di vederlo cadere con le vesti gonfiate dal vento, invece restò impietrita, non credendo ai suoi occhi. L'orlo della tunica bianca era rimasto impigliato in una scheggia di granito sul ciglio dello strapiombo, arrestando la caduta. Adesso però Mansur oscillava come un pendolo sotto di lei, sospeso su quel vuoto che dava il capogiro. «Dammi la mano!» ansimò. Era indebolita dallo sforzo sostenuto per salvarsi, e la mano le tremava in modo incontrollabile. «Non ce la farai mai.» Lui la guardò. Verity non lesse il minimo timore nei suoi occhi, e quel fatto la colpì profondamente. «Lasciami tentare», lo pregò. «No. Sarà uno solo di noi ad andarsene, non tutti e due.» «Te ne prego!» sussurrò lei, e in quel momento l'orlo della veste si lacerò con uno strappo sonoro. «Non posso sopportare l'idea che tu muoia per aver salvato me.» «Ne è valsa la pena», disse lui a bassa voce. Verity si sentì spezzare il cuore. Singhiozzando, si guardò alle spalle e, improvvisamente, la fiammella della speranza si riaccese. Allungando le mani all'indietro, separò in due manciate i suoi folti capelli castani e li spinse in avanti, unendoli poi in una treccia molle che le arrivava sotto la vita. Poi si stese sul costone di roccia, lasciando ricadere in fuori la corda di capelli. Riusciva a stento a vedere oltre il bordo. «Afferra i miei capelli», gli gridò. Lui girò la testa all'indietro per fissarla, mentre la corda di capelli gli sbatteva sul viso, solleticandolo. «Hai un appiglio sufficiente? Riesci a sostenere il mio peso?» «Sì, sono incastrata nella fenditura della roccia.» Lei tentava di apparire fiduciosa, ma pensava: Se non dovessi farcela, almeno ce ne andremo insieme. Vide le sue dita chiudersi intorno alla treccia, poi avvolgerla intorno al polso. Wilbur Smith
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Con uno strappo finale, l'orlo della veste di Mansur cedette. Lei fece appena in tempo a puntare i piedi, poi rimase quasi stordita dalla trazione esercitata dal peso di Mansur sui suoi capelli. Sentì uno strappo alla testa, e la guancia urtò contro la roccia con una forza che le fece digrignare i denti. Era inchiodata a terra, e sentì le vertebre del collo schioccare come se fosse appesa alla forca. Mansur rimase appeso alla corda di capelli soltanto per i secondi necessari a ritrovare l'orientamento, poi cominciò a salire mettendo una mano sopra l'altra, con la rapidità di un marinaio che si arrampica sulle sartie di maestra. Lei lanciò un grido involontario, sentendosi quasi strappare lo scalpo dal cuoio capelluto, ma poi Mansur risalì ancora, trovò un appiglio nella fenditura e si issò oltre il ciglio del burrone. Voltandosi subito verso di lei, la prese tra le braccia e la trascinò in salvo, poi la strinse al petto e appoggiò il viso sulla sommità della sua testa, intuendo l'intensità del dolore che lei stava provando. Verity rimase tra le sue braccia, singhiozzando piano come se fosse in preda a una sofferenza profonda. Lui cominciò a cullarla con delicatezza, quasi fosse una neonata, mormorando parole incoerenti di conforto e di gratitudine. Poco dopo, lei si mosse, e Mansur pensò che volesse liberarsi da quella stretta. Aprì le braccia per lasciarla libera; invece lei si alzò in punta di piedi per passargli le braccia intorno al collo. Aderì al suo petto e i loro corpi diedero l'impressione di fondersi come cera bollente attraverso i vestiti impregnati di sudore. I singhiozzi di Verity cessarono e poi, senza allontanarsi da lui, la giovane alzò il viso per guardarlo negli occhi. «Mi hai salvato la vita», sussurrò. «E tu hai salvato la mia», disse lui. Le lacrime continuavano a scorrere sul viso di lei come una cascata. Lui la baciò, e le labbra di Verity si schiusero senza resistere. Le lacrime sapevano di salsedine, la bocca profumava di erbe fragranti. I capelli ricaddero intorno a loro come una tenda. Fu un bacio lento e tenace, che finì solo quando furono costretti a riprendere fiato. «Tu non sei arabo», mormorò Verity. «Sei un inglese.» «Mi hai smascherato», ribatté lui, prima di baciarla ancora. Quando si separarono, lei disse: «Sono così confusa. Chi sei?» «Te lo dirò», le promise Mansur. «Ma in un altro momento.» Cercò di nuovo le sue labbra, e lei cedette volentieri. Qualche istante dopo, gli posò le mani sulle spalle, respingendolo con delicatezza. Wilbur Smith
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«Ti prego, Mansur. Dobbiamo smettere, altrimenti succederà qualcosa che rovinerà tutto prima ancora che cominci.» «E già cominciato, Verity.» «Sì, lo so.» «È cominciato quando ti ho vista per la prima volta, sul ponte dell'Arcturus.» «Lo so.» Lei si alzò in fretta, scostando dal viso, con entrambe le mani, quella splendida massa di capelli. «Arrivano», gli disse poi, indicando il gruppo di cavalieri che giungevano al galoppo dal fondo della valle. Durante il ritorno a Iskandarbad, al-Salil e Sir Guy ascoltarono il resoconto che Verity diede della tragedia sfiorata per un soffio. Quando alSalil chiese a Mansur la sua versione dei fatti, lui naturalmente rispose in arabo, e Verity fu costretta ad assecondare quella finzione. Tradusse a beneficio del padre gli elogi che lui tributava al suo coraggio e alla sua prontezza di spirito, e non poté omettere nessuna delle sue lodi iperboliche, giacché ormai sapeva che Mansur capiva ogni parola. Alla fine Sir Guy sorrise a denti stretti, rivolgendo un cenno a Mansur. «Digli per favore che siamo in debito con lui.» Poi la sua espressione divenne severa. «Comunque eri in difetto. Non avresti dovuto stare sola in sua compagnia, figliola. Il tuo comportamento è stato scandaloso, e non si ripeterà.» Di nuovo il giovane vide affiorare la paura negli occhi di Verity. Quando tornarono all'accampamento, il sole era tramontato ed era quasi buio. Entrando nella sua tenda, Verity la trovò illuminata da lampade con lo stoppino immerso in olio profumato. Tutti gli abiti che aveva portato dalla nave erano stati estratti dai bagagli e disposti in ordine, e c'erano tre cameriere pronte a servirla. Quando fu pronta per il bagno, le versarono addosso brocche piene d'acqua calda e profumata, ammirando tra un risolino e l'altro il candore e la bellezza del suo corpo nudo. Il pasto della sera fu servito sotto un cielo sfavillante di stelle. L'aria del deserto era fresca, e sedettero a gambe incrociate sui cuscini, mentre i suonatori eseguivano una melodia sommessa. Dopo mangiato, i servi offrirono la pipa ad acqua al califfo e a Sir Guy. Solo al-Salil accettò, mentre Guy preferì accendere un lungo sigaro nero preso dalla scatola d'oro che Verity aveva portato per lui. In segno di cortesia, lei ne offrì uno anche a Mansur. Wilbur Smith
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«Grazie, milady, ma non ho mai trovato di mio gusto il tabacco.» «Sono d'accordo, anzi trovo l'odore del fumo estremamente sgradevole.» Lei aveva abbassato istintivamente la voce, pur sapendo che il padre non parlava l'arabo. Soltanto in quel momento Mansur ebbe la certezza che aveva paura di lui. Non si trattava solo del fatto che Sir Guy era una figura così dubbia, dura e inflessibile. Sapendo che, per attuare il piano che aveva in mente, doveva comportarsi in modo assai cauto, parlò sullo stesso tono. «In fondo a questa strada c'è un antico tempio dedicato ad Afrodite. Dopo mezzanotte, la luna si alzerà un poco nel cielo. Benché sia dedicato a una divinità pagana, al chiaro di luna il tempio è molto bello.» Verity non lo aveva sentito, o almeno così pareva dalla sua assenza di reazioni. Si voltò per tradurre un'osservazione che Sir Guy aveva rivolto ad al-Salil, e poi i due continuarono la loro trattativa. Stavano discutendo l'entità della riconoscenza del califfo a Sir Guy per il suo intervento presso la Compagnia e il governo inglese. Dorian chiese qual era il modo migliore per dimostrarla e Sir Guy suggerì con tatto che una somma pari a cinque lakh di rupie d'oro poteva essere appropriata, magari seguita da un versamento di un lakh ogni anno. Al-Salil cominciava a capire in quale modo il fratello aveva accumulato tante ricchezze. Ci sarebbero voluti due carri trainati da buoi soltanto per trasportare quella quantità d'oro. Il tesoro di Muscat ormai non conteneva più neanche un decimo di quella somma, però lui non lo rivelò a Sir Guy; al contrario, cambiò argomento quasi subito. «Queste sono faccende delle quali discuteremo ancora, perché spero che potremo godere della vostra compagnia per molti altri giorni. Adesso, però, se domani vogliamo alzarci di nuovo prima che sorga il sole, sarà bene ritirarci per la notte. Che molti sogni piacevoli possano visitare il vostro sonno.» Verity accettò il braccio del padre, che l'accompagnò fino alla tenda, con la scorta di portatori di torcia che li guidavano attraverso l'accampamento. Mansur la guardò allontanarsi con un particolare tumulto nel cuore, dato che non aveva avuto modo di capire se lei intendeva presentarsi all'appuntamento. Più tardi, avvolto in un mantello nero, l'attese nel tempio di Afrodite, dove il chiaro di luna, penetrando da un foro nel soffitto, rischiarava la statua della dea. Il marmo, di un candore perlaceo, sembrava animato da Wilbur Smith
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una vita interna: le braccia mancavano, perché il tempo aveva imposto il suo pedaggio, ma la figura era aggraziata e il volto, per quanto danneggiato, sorrideva con un'espressione di estasi perpetua. Mansur aveva lasciato di guardia sul tetto Istaph, il fidato nostromo della Sprite. In quel momento, l'uomo lanciò un fischio sommesso. Il giovane trattenne il fiato, mentre il polso gli batteva più in fretta. Alzandosi dai blocchi di pietra sui quali era seduto, si spostò al centro dell'edificio, in modo che lei potesse individuarlo subito e non si spaventasse, vedendolo apparire improvvisamente dall'ombra. Scorse la luce fioca della lampada che lei reggeva, camminando lungo il viale stretto, scavalcando i detriti e le rovine di una città che risaliva a duemila anni prima. All'entrata del tempio, Verity si fermò a guardarlo, quindi posò la lampada in una nicchia vicino alla porta e gettò all'indietro il cappuccio del mantello. Aveva raccolto i capelli in un'unica treccia che le scendeva su una spalla e, al chiaro di luna, il suo viso era pallido come quello della dea. Anche lui aprì il mantello, lasciandolo appoggiato sulle spalle prima di andarle incontro. Si accorse che aveva un'espressione seria e distaccata. Quando lui fu alla distanza di un braccio teso, alzò una mano per indicargli di fermarsi. «Se mi tocchi, me ne andrò subito», gli disse. «Hai sentito il rimprovero di mio padre. Non dovrò più restare sola con te.» «Sì, ho sentito, e comprendo la tua situazione», le assicurò. «Ti sono grato di essere venuta.» «Quello che è successo oggi era sbagliato.» «La colpa è mia.» «Non è colpa di nessuno. Avevamo visto la morte in faccia, e le nostre manifestazioni di sollievo e gratitudine reciproca erano naturali, date le circostanze. Comunque ho detto una serie di sciocchezze. Devi dimenticare le mie parole. È l'ultima volta che c'incontriamo in questo modo.» «Mi adeguerò ai tuoi desideri.» «Grazie, altezza.» Mansur passò all'inglese. «Vuoi almeno trattarmi da amico e chiamarmi Mansur, invece di usare quel titolo che suona così incongruo sulle tue labbra?» Lei sorrise, rispondendo nella stessa lingua: «Ammesso che questo sia il tuo vero nome... Ho l'impressione che tu sappia molto di più di quanto Wilbur Smith
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sembra, Mansur». «Ho promesso di darti delle spiegazioni, Verity.» «Sì, è vero, ed è questo il motivo per cui sono venuta.» Poi, dando quasi l'impressione di voler convincere se stessa, aggiunse: «E per nessun'altra ragione». Si allontanò da lui per sedersi su un blocco di pietra abbastanza grande, poi gliene indicò un altro, a distanza di sicurezza. «Perché non ti siedi comodamente e ti metti a tuo agio? Se non sbaglio, la tua storia dev'essere piuttosto lunga.» Mansur si sedette di fronte a lei, mentre Verity si protendeva in avanti, col gomito sul ginocchio e il mento appoggiato sul palmo della mano. «Hai tutta la mia attenzione.» Lui rise, scuotendo la testa. «Da dove cominciare? Come riuscirò a far sì che tu mi creda?» Fece una pausa per riordinare i pensieri. «Ebbene, cominciamo dalla cosa più inverosimile. Se potrò convincerti di questa, poi non sarà così difficile mandare giù il resto della medicina.» Lei chinò la testa di lato, come per invitarlo a parlare. Mansur prese fiato e disse: «Mi chiamo Courteney come te e sono tuo cugino». Verity scoppiò a ridere. «Devo ammettere che mi avevi avvertito, ma quella che stai cercando di propinarmi è una medicina davvero troppo amara.» Fece per alzarsi. «Ho capito che questa è soltanto una burla. Vuoi prenderti gioco di me.» «Aspetta!» la supplicò lui. «Lasciami almeno parlare.» Lei si risedette sulla pietra. «Hai mai sentito nominare Thomas e Dorian Courteney?» Il sorriso svanì dalle sue labbra. Verity annuì in silenzio. «Che cos'hai sentito dire?» Lei rifletté per un attimo, con un'espressione turbata. «Tom Courteney, il fratello gemello di mio padre, era un temibile criminale. Ha assassinato l'altro fratello, William, ed è dovuto fuggire dall'Inghilterra. È morto non so dove, in una regione desolata dell'Africa. La sua tomba è rimasta senza nome e la sua morte non è stata pianta da nessuno.» «È tutto quello che sai di lui?» «No, c'è dell'altro», ammise Verity. «È colpevole di qualche atto ancora più ripugnante, se possibile.» «Cosa c'è di peggio che assassinare il proprio fratello?» Verity scosse la testa. «Non conosco i dettagli... So soltanto che si è Wilbur Smith
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trattato di un atto così disgustoso che il suo nome e il suo ricordo sono stati cancellati per sempre. Non so fino a che punto arrivasse la sua malvagità, ma fin da quando noi eravamo piccoli ci è stato proibito di menzionare il suo nome.» «Quando dici 'noi' a chi ti riferisci, Verity?» «A me e a mio fratello maggiore, Christopher.» «Mi addolora essere io a dirtelo, ma quello che ti è stato raccontato di Tom Courteney non è che una triste parodia della verità», le disse Mansur. «Tuttavia, prima di parlarne, ti prego di spiegarmi che cosa sai di Dorian Courteney.» Verity alzò le spalle. «Ben poco, perché non c'è molto da sapere. Era il fratello minore di mio padre... No, anzi, il fratellastro. In seguito a una tragica serie di avvenimenti, all'età di dieci o dodici anni è caduto nelle mani dei pirati arabi. Il responsabile del suo rapimento è quel furfante di Tom Courteney, che non ha fatto niente per impedirlo o per tentare di salvarlo. Dorian è morto di febbre e di solitudine, col cuore spezzato, mentre era prigioniero nel covo dei pirati.» «Come sai tutto questo?» «Me lo ha detto mio padre, e ho visto coi miei occhi la tomba di Dorian nel vecchio cimitero dell'isola di Lamu. Ho deposto alcuni fiori sulla sua tomba e ho recitato una preghiera per l'anima di quel povero bambino. Mi conforta il pensiero che Cristo abbia detto: 'Lasciate che questi piccoli vengano a me'. So che riposa in seno a Gesù.» Al chiaro di luna, Mansur vide una lacrima tremare sulle sue ciglia. «Ti prego, non piangere per il piccolo Dorian», le disse a bassa voce. «Oggi sei andata a caccia col falcone in sua compagnia e stasera hai cenato alla sua tavola.» Lei sussultò con tanta violenza che la lacrima cadde dalle ciglia, scivolando lungo la guancia. Lo fissò a occhi sgranati. «Non capisco.» «Dorian è il califfo.» «Se questo fosse vero, il che è impossibile, noi saremmo cugini.» «Esatto, cugina! Lo vedi? Sei arrivata al punto da cui abbiamo cominciato il discorso.» Lei scosse la testa. «Non è possibile. Eppure c'è qualcosa in te...» S'interruppe, poi ricominciò daccapo. «Al nostro primo incontro, ho sentito qualcosa... un'affinità, un legame che non riuscivo a spiegarmi.» Sembrava sconvolta. «Se tutto questo è uno scherzo, è uno scherzo crudele.» Wilbur Smith
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«Non è uno scherzo, te lo giuro.» «Ci vuole ben altro per convincermi.» «E infatti c'è dell'altro, e molto. Saprai tutto. Cosa posso dirti come prima cosa? Che Dorian è stato venduto dai pirati al califfo al-Malik, e il califfo ha finito per amarlo al punto di adottarlo come figlio? Devo raccontarti che Dorian si è innamorato della principessa Yasmini, sua sorella adottiva, e che sono fuggiti insieme? Che lei gli ha dato un figlio chiamato Mansur? Che il fratellastro di Yasmini, Zayn al-Din, è diventato califfo dopo la morte di al-Malik? Che meno di un anno fa Zayn al-Din ha mandato un assassino a uccidere mia madre Yasmini?» «Mansur!» Il viso di Verity era bianco come quello dell'Afrodite di marmo. «Tua madre? Zayn al-Din ha assassinato tua madre?» «Questi sono i motivi principali per cui siamo tornati a Oman, mio padre e io: vendicare la morte di mia madre e liberare il nostro popolo dalla tirannia. Ma ora devo dirti la verità sul conto dello zio, Tom Courteney. Non è il mostro che tu credi.» «Mio padre ci ha detto...» «L'ultima volta che ho visto mio zio, meno di un anno fa, era vivo e vegeto in Africa. È una persona gentile, coraggiosa e leale. È sposato con tua zia Sarah, la sorella minore di tua madre Caroline.» «Ma Sarah è morta!» ribatté Verity. «È viva e vegeta, invece. Se la conoscessi, la ameresti come l'amo io. È proprio come te, forte e orgogliosa. Ti somiglia persino. È alta e molto bella.» Sorrise, aggiungendo a bassa voce: «Ha un naso come il tuo». Verity si toccò il naso, accennando a sua volta un sorriso. «Con un naso come il mio non può essere tanto bella.» Il vago sorriso scomparve. «Mi hanno detto... Mia madre e mio padre mi hanno detto che erano tutti morti, Dorian e Tom e Sarah...» Si coprì gli occhi con una mano, cercando di assimilare tutto quello che Mansur le aveva detto. «Tom Courteney ha commesso due soli errori in vita sua. Ha ucciso il fratello William in duello, difendendosi quando lui ha tentato di ucciderlo.» «A me è stato detto che ha pugnalato William mentre dormiva.» Lei lasciò ricadere la mano, fissandolo. «L'altro errore di Tom è stato tuo fratello Christopher. È questo il motivo per cui tua madre e tuo padre lo odiano tanto.» «No.» Verity si alzò di scatto. «Mio fratello non è un bastardo. Mia Wilbur Smith
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madre non è una sgualdrina!» «Tua madre ha concepito un figlio per amore. Ciò non vuol dire che sia una sgualdrina», esclamò Mansur. Lei si lasciò ricadere sul masso, posandogli la mano sul braccio per superare il varco che li divideva. «Oh, Mansur! Questo è troppo per me. Tu hai distrutto il mio mondo.» «Non ti ho raccontato tutto ciò per tormentarti, Verity. Al contrario, te l'ho raccontato per il nostro bene.» «Non capisco.» «Mi sono innamorato di te», disse Mansur. «Tu mi hai chiesto chi sono e io ho dovuto dirtelo, perché ti amo.» «Non fai che illudere te stesso e me», sussurrò lei. «L'amore non è qualcosa che cade dal cielo come la manna, già perfetto e completo. Cresce tra due persone...» «Vorresti sostenere che non provi niente per me, Verity?» Lei non rispose, ma balzò in piedi per guardare il cielo stellato come se fosse una via di fuga. «Sta per sorgere l'alba. Mio padre non deve sapere che sono stata con te. Devo tornare subito nella mia tenda.» «Rispondi alla mia domanda, prima di andare», insistette lui. «Dimmi che non senti niente e non ti darò più fastidio.» «Come posso dirtelo, se non so che cosa provo? Ti devo la vita, ma, a parte questo, non so che dirti.» «Verity, dammi almeno un briciolo di speranza.» «No, Mansur, devo andare! Non aggiungere altro.» «Vuoi tornare qui domani sera per incontrarmi?» «Tu non conosci mio padre...» Lei s'interruppe subito. «Non posso prometterti niente.» «Ci sono tante altre cose che devo raccontarti.» Lei scoppiò a ridere, poi smise bruscamente. «Non mi hai già detto quanto basta per una vita intera?» «Verrai?» «Ci proverò. Ma solo per ascoltare il resto della tua storia.» Afferrò la lampada e si coprì la testa col mantello per nascondere il viso, fuggendo di corsa dal tempio. All'alba, il califfo uscì di nuovo con gli ospiti e il suo seguito per far volare i falconi. Uccisero tre prede prima che il caldo diventasse soffocante, poi cercarono riparo sotto le tende. Wilbur Smith
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Durante la pausa di mezzogiorno, Sir Guy si rivolse al consiglio per spiegare in quale modo poteva salvare Oman dal tiranno e dalle grinfie dei turchi e dei moghul. «Dovete riconoscere la sovranità del monarca inglese e della Compagnia», disse. Gli sceicchi del deserto ascoltarono, discutendo poi tra loro da quegli uomini liberi e fieri che erano. Alla fine della discussione, Mustafa Zindara riassunse gli interrogativi di tutti. «Abbiamo scacciato lo sciacallo dal nostro ovile, e ora dovremmo lasciar prendere il suo posto dal leopardo? Se questo monarca inglese ci vuole come sudditi, verrà da noi, in modo che possiamo vederlo cavalcare e brandire la lancia? Ci guiderà in battaglia come ha fatto al-Salil?» «Il sovrano inglese vi proteggerà col proprio scudo, difendendovi dai nemici», replicò Guy, eludendo la domanda. «E quale sarà il prezzo in oro di questa sua protezione?» domandò Mustafa Zindara. Al-Salil si accorse che l'ira di Mustafa stava per divampare come il caldo all'esterno della tenda. Guardando Verity, le disse in tono gentile: «Chiedo l'indulgenza di vostro padre. Dobbiamo discutere di tutto quello che ci ha detto e devo spiegare al mio popolo che cosa significa, per placare i loro timori». Si rivolse poi ai consiglieri. «L'ora più calda è ormai passata e i cacciatori hanno trovato ricche prede sul terreno elevato oltre il fiume. Potremo riprendere la discussione domani.» Mansur scoprì che Verity lo evitava accuratamente; non guardava neppure nella sua direzione. Ogni volta che lui si avvicinava, dedicava la sua attenzione al padre o al califfo. Il giovane si accorse anche che guardava Dorian sotto una luce diversa, da quando sapeva che era suo zio; lo fissava in volto e studiava i suoi occhi quando lui le parlava. Seguiva con attenzione ogni suo gesto, ma non volgeva affatto lo sguardo verso Mansur. Durante la battuta di caccia del pomeriggio non si allontanò dal padre, cavalcando accanto a lui. Mansur fu costretto a controllarsi fino al pasto serale, che gli parve interminabile. Non aveva appetito e riuscì una sola volta a cogliere lo sguardo di Verity, rivolgendole con un cenno una domanda silenziosa. Lei inarcò un sopracciglio con aria enigmatica, senza rispondere. Quando finalmente il califfo congedò la compagnia, Mansur si rifugiò nella sua tenda con una sensazione di sollievo. Attese che tutto fosse tranquillo, perché sapeva che Verity, in caso avesse deciso di presentarsi Wilbur Smith
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all'appuntamento, si sarebbe mossa soltanto se non avesse avvertito la minima sensazione di pericolo. Quella notte nell'accampamento regnava tuttavia una certa irrequietezza, con gli uomini che camminavano avanti e indietro e le voci che risuonavano. Mezzanotte era passata da tempo quando Mansur poté lasciare la tenda per avviarsi al tempio. Istaph lo attendeva vicino alla porta di pietra. «Va tutto bene?» gli chiese Mansur. L'altro si avvicinò per sussurrargli: «Stanotte c'è qualcun altro in giro». «Chi sono?» «Due uomini sono arrivati dal deserto mentre il califfo e i suoi ospiti erano a cena. Si sono nascosti tra le linee dei cavalli. Quando l'effendi inglese e sua figlia hanno lasciato la compagnia, la ragazza non è andata nella sua tenda come ieri notte, ma ha accompagnato il padre nella sua. Poi questi due sconosciuti sono andati da loro in segreto.» «Hanno cattive intenzioni?» chiese Mansur, inorridito al pensiero che Verity morisse, come Yasmini, sotto la lama di un assassino. «No!» gli assicurò subito Istaph. «Ho sentito l'effendi inglese salutarli quando sono entrati nella tenda, e sono ancora insieme.» «Sei sicuro di non aver mai visto quei due uomini prima di stanotte?» «Sono estranei, non li conosco.» «Com'erano vestiti?» «Indossavano abiti arabi, ma uno soltanto di loro era di Oman.» «E l'altro che aspetto aveva?» Istaph alzò le spalle. «L'ho visto solo per un attimo. Non si può capire molto soltanto dal viso, comunque era un ferengi.» «Un europeo?» esclamò Mansur sorpreso. «Ne sei sicuro?» Istaph alzò di nuovo le spalle. «Non ne sono sicuro, però mi è sembrato europeo.» «Sono ancora nella tenda del console? E la ragazza è con loro?» «C'erano ancora quando sono venuto qui per incontrarti.» «Vieni con me, ma non farti vedere da nessuno», disse Mansur in tono deciso. «Ci sono uomini di guardia soltanto lungo il perimetro esterno del campo», ribatté Istaph. «Sappiamo dove sono e possiamo evitarli.» Tornò indietro percorrendo in silenzio l'angusto passaggio che aveva seguito all'andata, come se volesse rientrare nella sua tenda. Invece si nascose dietro un mucchio di Wilbur Smith
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rovine, aspettando finché non ebbe la certezza che nessuno li aveva visti o seguiti. Poi, sempre con Istaph, si avvicinò di soppiatto al padiglione di Sir Guy. Si vedeva filtrare la luce, e Mansur udì le voci. Riconobbe quella di Verity che si rivolgeva al padre, chiaramente traducendo le parole di qualcun altro: «Dice che gli altri arriveranno entro la settimana». «Una settimana!» Sir Guy aveva una voce più sonora. «Dovevano essere pronti all'inizio del mese.» «Padre, abbassate la voce, altrimenti vi sentiranno in tutto il campo.» Per qualche minuto le voci si abbassarono, riducendosi a un mormorio sommesso ma concitato. Poi intervenne un'altra voce che parlava in arabo. Benché fosse così bassa da impedirgli di distinguere le parole, Mansur ebbe la certezza di averla già sentita, però non ricordava dove e quando. Sussurrando, Verity tradusse per Sir Guy, e lui alzò di nuovo il tono. «A questo non deve pensare, per ora. Digli che potrebbe mandare a monte tutti i nostri piani. Le sue faccende private dovranno aspettare sino alla fine. Deve tenere a freno i suoi istinti bellicosi finché non sarà stata risolta la questione principale.» Mansur aguzzò le orecchie, ma riuscì a captare soltanto qualche frammento del seguito. A un certo punto, Sir Guy disse: «Dobbiamo prendere nella rete tutto il banco di pesci. Non deve sfuggirne neanche uno». Poi, all'improvviso, Mansur sentì gli sconosciuti congedarsi da Sir Guy e ancora una volta la voce araba che gli era familiare solleticò la sua memoria, sussurrando le parole formali di congedo. Lo conosco. Mansur ne era certo, ma non riusciva ancora a individuarlo. Il secondo sconosciuto parlò per la prima volta e lui capì che Istaph aveva ragione. Era un europeo, che parlava arabo con un accento gutturale, tedesco oppure olandese. Non ricordava di aver mai sentito quella voce prima di allora. La ignorò, cercando di concentrarsi invece sull'arabo, sperando che parlasse di nuovo. Ma non sentì nulla, e si rese conto che gli sconosciuti avevano lasciato la tenda di Sir Guy, in silenzio com'erano venuti. Balzando fuori dal suo nascondiglio, corse verso l'angolo del padiglione, ma poi dovette ritirarsi nell'ombra perché, a meno di dieci passi di distanza, c'erano Sir Guy e Verity, fermi all'entrata della tenda, che parlavano sottovoce, guardando nella direzione presa dai visitatori. Se Mansur e Istaph avessero tentato di seguirli, Sir Guy li avrebbe individuati. Wilbur Smith
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Padre e figlia rimasero sulla soglia della tenda ancora per qualche minuto prima di rientrare. Ormai gli strani visitatori si erano dileguati tra le file serrate dell'accampamento. Mansur si rivolse a Istaph, che lo seguiva da vicino. «Non dobbiamo lasciarceli scappare. Tu cerca dalla parte opposta del campo, scendendo sino al fiume, e vedi se sono andati da quella parte. Io prenderò il perimetro settentrionale.» Si mise a correre. Nella voce dello sconosciuto c'era qualcosa che gli ispirava una cupa premonizione. Devo scoprire chi è quell'arabo, si disse. Quando raggiunse le rovine, vide due sentinelle, l'una accanto all'altra, appoggiate ai jezail. Stavano parlottando. «Sono passati di qui due uomini?» chiese. Riconoscendo la sua voce, corsero da lui. «No, altezza. Di qui non è passato nessuno.» Sembravano svegli e all'erta, quindi si fidò della loro parola. «Dobbiamo dare l'allarme?» chiese uno di loro. «No», rispose Mansur. «Non è niente. Tornate ai vostri posti.» Gli sconosciuti dovevano essere scesi verso il fiume. Tornò indietro attraverso l'accampamento immerso nel buio e, al chiaro di luna, vide Istaph corrergli incontro lungo la pista più in alto. Scattando in avanti per raggiungerlo, gli gridò, ancora da lontano: «Li hai trovati?» «Da questa parte, altezza.» La voce di Istaph era roca per lo sforzo. Insieme si precipitarono lungo il pendio, poi Istaph deviò dal sentiero per condurre Mansur verso un gruppo di alberi spinosi. «Hanno dei cammelli», spiegò, ansimando. Proprio in quel momento i due uomini uscirono dal folto degli alberi. Mansur era troppo lontano e si fermò, ansimando e seguendoli con lo sguardo mentre tagliavano in diagonale il fianco della collina sotto di lui. Passarono a non più di un tiro di pistola dal punto in cui si trovava. Le loro cavalcature erano splendidi cammelli da corsa, con le sacche della sella piene di provviste e otri d'acqua per la traversata del deserto. Al chiaro di luna avevano un aspetto spettrale, mentre si allontanavano in silenzio verso la distesa di sabbia. Disperato, Mansur gridò loro: «Fermi! In nome del califfo, vi ordino di fermarvi!» Al suono della sua voce, entrambi i cavalieri si voltarono di scatto sulla sella alta per fissarlo, e Mansur li riconobbe. L'uomo coi lineamenti Wilbur Smith
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europei, quello che Istaph aveva definito ferengi, non lo vedeva da alcuni anni. Ma fu l'arabo ad attirare la sua attenzione. Aveva gettato indietro il cappuccio del mantello e, per un attimo, i raggi obliqui della luna lo investirono in pieno viso. Lui e Mansur si studiarono per qualche istante, poi l'arabo si protese in avanti, chino sul collo del cammello, e, col lungo bastoncino che impugnava, lo incitò ad assumere quella falcata lunga ed elegante che permette di coprire lunghe distanze a una velocità incredibile. Il mantello scuro si gonfiò dietro di lui mentre si dileguava nella valle, seguito dal compagno di viaggio ferengi. Lo sconcerto generato dal riconoscimento e dall'incredulità paralizzò le gambe di Mansur, che rimase fermo a guardare. Poi gli turbinarono nella mente pensieri oscuri, che offuscarono i suoi sensi come il battito delle ali di un avvoltoio, finché non riuscì a dominarsi. Devo tornare da mio padre per avvertirlo di quello che si sta tramando, decise. Ma attese finché i cammelli non furono lontani, eterei come falene sulla distesa illuminata dal chiaro di luna, e infine scomparvero alla sua vista. Mansur tornò indietro di corsa, e dovette fermarsi all'ombra delle rovine per riprendere fiato. Poi sgattaiolò in silenzio tra le tende in modo da non suscitare allarme. All'ingresso della tenda del califfo c'erano due uomini di guardia, ma una parola sussurrata da Mansur li indusse a rinfoderare la spada e a scostarsi per farlo passare. Il giovane passò nella camera interna del padiglione, dove, su un treppiede di metallo, ardeva una lampada a olio che diffondeva una luce tenue. «Padre!» chiamò. Dorian si mise a sedere sul giaciglio. Indossava soltanto un perizoma leggero, e la luce della lampada rivelò che il corpo nudo era snello e muscoloso come quello di un atleta. «Chi è?» «Sono io, Mansur.» «Che cosa ti tormenta a quest'ora di notte?» Dorian aveva riconosciuto la nota ansiosa del suo tono di voce. «Stanotte nel campo c'erano due estranei. Sono andati a trovare Sir Guy.» «Chi erano?» «Li ho riconosciuti entrambi. Uno era il capitano Koots, della guarnigione di Buona Speranza. Quello che ha inseguito Jim nei territori inesplorati oltre i confini della colonia.» «Qui a Oman?» Dorian si svegliò del tutto. «Sembra impossibile. Ne sei Wilbur Smith
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sicuro?» «Sono ancora più sicuro dell'identità dell'altro uomo, perché il suo viso resterà impresso nella mia mente fino al giorno della morte.» «Dimmi chi è!» gli ordinò il padre. «Era l'assassino, Kadem ibn Abubaker. Il porco che ha ucciso mia madre.» «E ora dove sono?» La voce di Dorian era aspra. «Sono fuggiti nel deserto prima che potessi affrontarli.» «Dobbiamo inseguirli subito. Ci siamo lasciati sfuggire di nuovo Kadem.» La cicatrice rosea della ferita di coltello sul petto di Dorian rifletté la luce della lampada mentre lui cercava i vestiti. «Cavalcano cammelli da corsa», spiegò Mansur. «Noi non ne abbiamo, ed erano diretti verso le dune. Non potremmo mai raggiungerli sulla sabbia.» «Comunque dobbiamo tentare», insisté Dorian, e poi alzò la voce per chiamare le guardie. L'alba aveva già diffuso un chiarore color limone e arancio nel cielo orientale prima che bin Shibam riuscisse a mettere insieme una spedizione punitiva composta di guerrieri del deserto e che tutti fossero in sella, pronti a partire. Percorsero la pista che si allontanava dal campo, sulla quale Mansur aveva visto scomparire i fuggiaschi. Il terreno, indurito dal sole fino ad assumere la consistenza della pietra, non recava traccia del passaggio dei cammelli, e non c'era tempo per inviare cacciatori esperti a esaminarlo a palmo a palmo. Guidati da Mansur, seguirono la direzione presa da Kadem per raggiungere il deserto e, meno di due ore dopo, videro davanti a loro le dune, forme fluide e fantastiche da cui scorrevano cascate di sabbia che, sotto la luce del giorno, assumevano un colore azzurro, viola e ametista. Le dorsali erano aguzze e sinuose come la cresta d'iguane gigantesche. Lì trovarono finalmente le tracce di due cammelli, disegnate profondamente nelle depressioni della sabbia fluida nel tratto in cui avevano superato la prima duna, prima di scomparire sul versante opposto. Tentarono di seguire la pista, ma i cavalli sprofondavano fino al garrese a ogni passo, e alla fine persino Dorian dovette ammettere la sconfitta. «Basta così, bin Shibam!» disse rivolto al vecchio guerriero. «Non possiamo proseguire. Aspettatemi qui.» Wilbur Smith
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Non permise neppure a Mansur di accompagnarlo mentre risaliva la parete della duna successiva. Il suo cavallo, ormai sfinito, doveva slanciarsi in avanti a ogni passo, e raggiunse la sommità con grande sforzo. Una volta lì, Dorian smontò di sella. Dalla valle di sabbia sottostante, Mansur osservava il padre, una figura alta e solitaria che fissava il deserto in lontananza, con la veste svolazzante alla brezza del primo mattino. Rimase così a lungo, poi s'inginocchiò a pregare. Mansur sapeva che pregava per Yasmini, e il dolore per la perdita della madre minacciò di soffocarlo. Infine Dorian risalì in sella, scendendo dalla duna con lo stallone che sdrucciolava sulla sabbia in lento movimento, tenendo piegate le zampe posteriori e irrigidendo quelle anteriori. Passando davanti agli altri non disse una parola, ma proseguì a testa bassa, col mento appoggiato sul petto. Seguendolo, tornarono a Iskandarbad. Dorian smontò all'altezza dei picchetti dei cavalli, affidando lo stallone a un mozzo di stalla, poi si diresse a lunghe falcate verso la tenda di Sir Guy, seguito da Mansur. La sua intenzione era di affrontare il fratello a viso aperto, rivelando la sua vera identità ed evocando i ricordi del trattamento crudele che aveva riservato a Tom, a Sarah e a lui stesso, ancora bambino. Avrebbe anche preteso una spiegazione esauriente della presenza clandestina di Kadem ibn Abubaker nel campo durante la notte. Prima di raggiungere la tenda, però, si accorse che, in sua assenza, la situazione era cambiata. Dinanzi all'ingresso del campo era riunito un gruppo di sconosciuti, vestiti da marinai e armati fino ai denti. Li guidava il comandante William Cornish dell'Arcturus. Dorian era così furioso che per poco non lo apostrofò in inglese; con uno sforzo notevole riuscì a impedire che la collera gli prendesse la mano, ma sentì che continuava a ribollire pericolosamente sotto la superficie. Mansur lo seguì da vicino, facendo irruzione nella tenda. Sir Guy e Verity erano al centro, vestiti entrambi con abiti da equitazione e immersi in una conversazione seria. Entrambi alzarono la testa di scatto, sorpresi dall'irruzione dei due e dalla loro espressione tetra. «Chiedigli che cosa vogliono», disse Guy alla figlia. «E fagli capire che questo comportamento è offensivo.» «Mio padre vi dà il benvenuto e spera che non siano sorte questioni gravi.» Verity era pallida e sembrava stravolta. Wilbur Smith
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Dorian compì un gesto puramente formale di saluto, prima di guardarsi intorno. Le donne della servitù stavano preparando i bagagli di Sir Guy. «Siete in partenza?» chiese. «Mio padre ha ricevuto notizie della massima importanza. Deve tornare subito a bordo dell'Arcturus e salpare. Mi prega di porgervi le sue più sentite scuse. Ha cercato d'informarvi di questo cambiamento di piani, ma gli è stato detto che voi e vostro figlio avevate lasciato Iskandarbad.» «Dovevamo inseguire alcuni banditi», spiegò Dorian. «Comunque siamo desolati per il fatto che il vostro onorevole padre debba lasciarci prima di poter raggiungere un accordo con lui.» «Anche mio padre è turbato e vi prega di accettare i suoi ringraziamenti per l'ospitalità e la generosità che gli avete dimostrato.» «Prima che parta, gli sarei molto grato se volesse assisterci. Abbiamo appreso che ieri notte si sono introdotti nell'accampamento due pericolosi banditi, un arabo e un europeo, forse un olandese. Vostro padre ha parlato con questi uomini? Mi è giunta voce che sono stati visti lasciare questa tenda...» Sir Guy sorrise della domanda, ma il sorriso toccava soltanto le labbra, mentre gli occhi restavano gelidi. «Mio padre desidera rassicurarvi: i due uomini venuti al campo stanotte non sono banditi, bensì messaggeri. Sono stati loro a portare le notizie che lo hanno costretto a rivedere i suoi piani. Lavorano per lui soltanto da poco tempo.» «E vostro padre li conosce bene?» insistette Dorian. La reazione di Sir Guy non tradì nessuna emozione. «Mio padre non li aveva mai visti prima d'ora», spiegò Verity. «Come si chiamano?» «Non hanno detto il loro nome... E comunque non avrebbe avuto importanza. Erano semplici messaggeri.» Mansur scrutava con attenzione il viso di Verity mentre lei rispondeva a quelle domande. Aveva un'espressione calma, però nella sua voce risuonava una tensione latente, e nei suoi occhi si annidavano ombre, come se vi fossero in agguato pensieri oscuri. Evitava di guardare Mansur, e lui intuì che mentiva, forse per amore del padre e forse anche per il suo stesso bene. «Posso chiedere a sua eccellenza la natura del messaggio che gli hanno portato?» Sir Guy scosse la testa con aria di rammarico, poi estrasse dalla tasca interna un plico di pergamena che recava, impresso a secco, lo stemma Wilbur Smith
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reale col motto Honi Soit Qui Mal y Pense e due sigilli di ceralacca rossa. «Sua eccellenza si rammarica del fatto che si tratta di un documento ufficiale e riservato. Qualunque potenza straniera che tentasse d'impadronirsene compirebbe un atto di guerra.» «Vi prego di assicurare a sua eccellenza che nessuno contempla l'ipotesi di un atto di guerra.» Dorian non osò insistere. «Mi rammarico profondamente della partenza improvvisa di sua eccellenza, e gli auguro un viaggio sicuro e un rapido ritorno a Oman. Mi auguro di poter accompagnare a cavallo sua eccellenza per il primo miglio di questo viaggio, se a lui non dispiace.» «Mio padre ne sarebbe molto onorato.» «Ora vi lascio ai preparativi finali, e vi attenderò sul perimetro del campo, in compagnia di una guardia d'onore.» I due uomini si salutarono con un inchino, poi il califfo si ritirò. Mentre usciva dalla tenda, Verity lanciò un'occhiata sgomenta a Mansur, e lui capì. La ragazza aveva un disperato bisogno di parlargli. Sir Guy e Verity, scortati dal comandante Cornish e dai suoi marinai armati, raggiunsero a cavallo Dorian e Mansur, che attendevano di accompagnarli, fermi presso la pista che portava a oriente. Dorian aveva ritrovato il controllo, e si avviarono insieme. Sebbene Mansur si affiancasse al suo cavallo, Verity rimase vicina al padre, traducendo la conversazione cortese ma poco significativa tra lui e Dorian. Tuttavia, non appena superato il primo tratto in salita, furono investiti dal vento di mare, fresco e tonificante, e Verity, dando l'impressione di voler annodare meglio la fascia di seta che tratteneva il cappellino alto, in realtà l'allentò; poi mollò la presa, e la brezza glielo carpì. Il cappellino volò via sulla discesa, ruzzolando come una ruota sulla piccola tesa rigida. Mansur voltò il cavallo per rincorrerlo e, sporgendosi dalla sella, lo afferrò al volo senza neanche rallentare la corsa dello stallone. Poi tornò indietro per porgere il cappellino a Verity, che gli andò incontro, lo ringraziò con un cenno e, mentre si rimetteva il cappellino, nascose per un attimo il viso nella fascia di seta. Con quello stratagemma era riuscita ad allontanarsi dal resto della compagnia di almeno cento passi. «Abbiamo solo un istante prima che mio padre s'insospettisca. Stanotte non sei venuto», gli disse. «Ti ho aspettato inutilmente.» «Non ho potuto», rispose lui e le avrebbe dato tutte le spiegazioni necessarie, se lei non lo avesse interrotto bruscamente. «Ti ho lasciato una lettera, sotto il piedistallo della statua di Afrodite.» Wilbur Smith
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«Verity!» esclamò Sir Guy in tono brusco. «Vieni qui, figlia mia! Ho bisogno del tuo aiuto come interprete.» Una volta fissato di nuovo saldamente il cappello, con la tesa inclinata in modo sbarazzino, Verity incitò la giumenta e, in breve, si affiancò al cavallo del padre. Non guardò più Mansur, neanche quando i due gruppi si separarono, poco dopo, con uno scambio di omaggi. Sir Guy proseguì verso Muscat, mentre il califfo e la sua scorta tornavano a Iskandarbad. Alla luce spietata del giorno pieno, l'espressione di Afrodite era malinconica e la sua bellezza appariva sciupata dalle devastazioni inflitte dal tempo. Dopo aver lanciato ancora un'occhiata intorno al tempio, per accertarsi di non essere osservato, Mansur s'inginocchiò davanti alla statua. Su un lato della base del piedistallo c'era un po' di sabbia accumulata dal vento. Qualcuno aveva disposto cinque piccole schegge di marmo bianco per formare il disegno di una freccia, che indicava il punto in cui la sabbia era stata smossa di recente e poi levigata di nuovo con cura. Lui spazzò via la sabbia, mettendo allo scoperto una fessura sottile tra la base di marmo della statua e le lastre di pietra del pavimento. Quando abbassò il viso, scorse un foglio di pergamena, piegato e introdotto in profondità nello spazio vuoto. Dovette usare il pugnale per estrarlo, e si accorse che le due facciate erano ricoperte da un'elegante calligrafia femminile. Ripiegò il foglio, nascondendolo nella manica, poi si ritirò nella sua tenda. Lì stese il foglio sul pagliericcio, esaminandolo con attenzione. Non c'erano formule di saluto. Spero che stanotte verrai all'appuntamento, ma, per ogni evenienza, ti lascerò questa lettera. Poco fa ho sentito dare l'allarme e ho visto alcuni cavalieri che si allontanavano; devo quindi ritenere che tu sia andato con loro. Ho il sospetto che darete la caccia ai due uomini che stanotte sono venuti a trovare mio padre. Si tratta di generali dell'esercito di Zayn al-Din. Uno si chiama Kadem ibn Abubaker, l'altro è un rinnegato olandese del quale ignoro il nome. Sono al comando della fanteria turca che guiderà l'assalto a Muscat. La notizia ricevuta da mio padre è che, in questo stesso momento, la flotta e le navi da trasporto sulle quali viaggia l'esercito di Zayn non incrociano più nelle acque di Zanzibar. Sono salpate due settimane or sono e si Wilbur Smith
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trovano già al largo dell'isola di Boomi. Mio padre e io torneremo al più presto a bordo dell'Arcturus per non restare intrappolati in città quando i turchi lanceranno l'attacco. Mio padre intende raggiungere la flotta di Zayn, in modo da poter essere presente allorché lui entrerà a Muscat. Mansur si sentì un blocco di ghiaccio sul cuore. L'isola di Boomi si trovava a sole dieci miglia nautiche dall'ingresso al porto di Muscat. Il nemico li aveva colti alla sprovvista, e la città era sotto il peso di una minaccia terribile. Riprese a leggere in fretta. Zayn in persona è a bordo della nave ammiraglia; dispone di cinquanta grandi dhow e settemila soldati turchi. Hanno intenzione di sbarcare sulla penisola e marciare verso la città dal lato di terra, per cogliere di sorpresa le difese ed evitare le batterie di cannoni sulle mura rivolte verso il mare. Quando leggerai questa lettera, forse avranno già sferrato l'attacco. Zayn ha altri cinquanta dhow carichi di truppe e munizioni al seguito dei primi. Saranno a Muscat entro la settimana prossima. Mansur era tanto scosso che gli costò fatica non precipitarsi ad avvertire il padre. Si trattenne e proseguì nella lettura. È con profonda tristezza e con un opprimente senso di colpa che devo confessarti una cosa: l'offerta di assistenza ai ribelli da parte di mio padre era soltanto un espediente per tenerli buoni e costringere gli sceicchi del deserto a rimanere a Muscat fino all'arrivo di Zayn, in modo che lui possa catturarne la maggior parte, se non tutti. Non avrà nessuna pietà, neppure verso di te o nei confronti di tuo padre. Sino a un'orafa ero completamente all'oscuro di queste mosse. Ero sinceramente convinta che l'offerta di protezione ai ribelli formulata da mio padre fosse autentica. Mi vergogno di quello che ha fatto nel corso degli anni ai suoi fratelli, Tom e Dorian. Di tutto ciò non sapevo niente finché non me ne hai parlato tu. Ho sempre saputo che mio padre era un uomo ambizioso, però non avevo idea di quali fossero le reali proporzioni di questa ambizione, e vorrei che ci fosse un Wilbur Smith
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modo per fare ammenda. Oh, sì che c'è, Verity! pensò Mansur, leggendo. E adesso devo riferirti qualcosa di ancor più doloroso. Stanotte ho appreso che Kadem ibn Abubaker è il perfido individuo che ha assassinato tua madre, la principessa Yasmini. Si è addirittura vantato di questo delitto orribile, e avrebbe voluto subito uccidere tuo padre e anche te. Glielo ha impedito mio padre, e non per misericordia nei vostri confronti, bensì per evitare che il piano concertato con Zayn al-Din per riconquistare la città venisse compromesso. Se mio padre non glielo avesse proibito, ti giuro sulla mia speranza di salvezza eterna che sarei riuscita in qualche modo a informarti. Non puoi capire quanto sia profonda la mia ripugnanza per le azioni commesse da mio padre. Nel giro di un'ora ho imparato a odiarlo, ma lo temo anche di più. Ti prego di perdonarmi, Mansur, per il male che ti abbiamo fatto. «Non è te che biasimo», sussurrò lui, girando il foglio di pergamena per leggere le ultime righe. Ieri notte mi hai chiesto se provavo qualcosa per te. Allora non ti ho voluto rispondere, ma lo faccio adesso. Sì. Se non dovessimo incontrarci mai più, spero che crederai sempre alla mia buonafede. Non avrei mai voluto farti del male. La tua affezionata cugina Verity Courteney Spronarono i cavalli senza pietà, galoppando in forze verso Muscat, ma era già troppo tardi. Non appena giunsero in vista delle torri e dei minareti della città, udirono il fuoco dei cannoni e videro il fumo chiazzare il cielo al di sopra del porto. Il drappello guidato da al-Salil spinse i cavalli esausti attraverso i palmizi, dove si udivano i colpi di moschetto, le grida e il clamore che si levava ai piedi delle mura cittadine. Proseguirono a spron battuto, sulla strada già affollata di donne, bambini e vecchi che fuggivano dalla città. Allontanandosi dal tracciato della strada, si lanciarono attraverso i palmizi, Wilbur Smith
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mentre il frastuono del combattimento diventava più intenso, e infine videro lo scintillio di lance, scimitarre ed elmi turchi di bronzo lanciati all'assalto delle porte della cinta muraria. Sferzarono i cavalli per spremere loro fino all'ultima oncia di velocità, avanzando in formazione compatta verso le porte. I turchi attraversarono i palmizi per fermarli, e i battenti delle porte cominciarono a chiudersi. «Le porte si chiuderanno prima che riusciamo a raggiungerli!» gridò Mansur al padre. Dorian si strappò il turbante dalla testa e gridò: «Fagli vedere chi siamo!» Il ragazzo seguì il suo esempio, strappandosi dalla testa il turbante, ed entrambi proseguirono la corsa coi capelli rossi che ondeggiavano al vento come stendardi. Dalle mura si levò un grido: «Al-Salil! È il califfo!» Gli uomini addetti ad azionare gli argani si chinarono sul meccanismo e le porte cominciarono lentamente a riaprirsi. I turchi, che erano soldati di fanteria, si resero conto che non sarebbero riusciti a intercettarli: la loro cavalleria non era ancora arrivata, perché navigava a bordo della seconda flotta. I soldati turchi ricorsero ai loro corti archi ricurvi, e il primo nugolo di frecce s'innalzò nel cielo azzurro, oscurandolo. Si levò un sibilo, come se una fossa di serpenti fosse stata scoperchiata, poi le frecce ricaddero sui cavalli lanciati al galoppo. Uno fu colpito, e cadde come se avesse inciampato in una corda tesa. Mansur si voltò per afferrare al volo Istaph, strappandolo dalla sella del cavallo agonizzante e issandolo sul proprio senza interrompere la corsa. Le porte cominciarono a richiudersi non appena fu passato il califfo, lanciato al galoppo. Mentre galoppava in mezzo alla grandinata di frecce turche, Mansur lanciò un richiamo agli uomini, ma ebbe l'impressione che non lo sentissero, e le porte continuarono inesorabilmente a chiudersi davanti a lui. Poi, d'un tratto, Dorian tornò indietro, passando nel varco e fermando il cavallo al centro dei grandi battenti di mogano, che si fermarono, cigolando. Mansur passò al galoppo, col margine di una spanna. Le porte si richiusero proprio mentre l'ondata di turchi le raggiungeva, e i difensori li bersagliarono di colpi di moschetto e di frecce dall'alto dei parapetti, costringendoli a rifugiarsi tra i palmizi. Dorian si lanciò subito al galoppo attraverso i vicoli per raggiungere la moschea e salire la scala a spirale che portava al balcone superiore del Wilbur Smith
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minareto più alto, da cui poteva godere di una visuale completa del porto e della penisola da un lato, dei campi coltivati e dei palmizi dall'altro. Aveva escogitato un sistema di bandierine di segnalazione per comunicare con gli artiglieri sui parapetti e con le due navi nella baia, in modo da poter coordinare le loro azioni. Da lassù, grazie al cannocchiale, poteva scorgere i numerosi alberi della flotta di Zayn al-Din, che spuntavano al di sopra del terreno elevato della penisola. Abbassando il cannocchiale, si rivolse a Mansur. «Le nostre navi sono ancora al sicuro», gli disse, indicando la Sprite e la Revenge all'ancora. «Tuttavia, non appena Zayn farà entrare nella baia i dhow da guerra, doppiando la penisola, saranno esposte e vulnerabili. Dobbiamo portarle al riparo, sotto la protezione della batteria sulla diga foranea.» «Per quanto tempo riusciremo a resistere, padre?» Mansur abbassò la voce, parlando in inglese per evitare che bin Shibam e Mustafa Zindara, che li avevano seguiti, comprendessero la domanda. «Non abbiamo avuto il tempo di completare il lavoro sulle mura meridionali», rispose Dorian. «Scopriranno abbastanza presto i nostri punti deboli.» «Zayn quasi certamente ne conosce già molti. La città pullula delle sue spie. Guarda!» esclamò Mansur, indicando i cadaveri appesi al parapetto come capi di bucato. «Anche se Mustafa Zindara si sta occupando di tutti quelli sui cui è riuscito a mettere le mani, senza dubbio ne ha trascurati almeno un paio.» Dorian controllò i varchi nelle difese, tamponati in fretta con travi di legno e gabbioni riempiti di sabbia. Erano riparazioni temporanee, che non avrebbero resistito a un attacco sferrato con decisione da truppe agguerrite. Poi sollevò di nuovo il cannocchiale per puntare la lente sui palmizi a sud della città, e s'irrigidì improvvisamente, passando lo strumento a Mansur e mormorando: «Si preparano già al primo attacco...» Si distingueva infatti lo scintillio del sole sugli elmi dei turchi, che si stavano ammassando al riparo dei palmizi. «Mansur, voglio che tu salga a bordo della Sprite per assumere il comando generale delle navi. Portale il più vicino possibile alla riva. Voglio che i tuoi cannoni coprano le vie d'accesso alle mura meridionali.» Più tardi seguì con lo sguardo il figlio, che raggiungeva la Sprite a bordo di una barca a remi. Non appena fu salito a bordo, le navi eseguirono una virata, salpando il capo dell'ancora, e, con la velatura ridotta al minimo, si Wilbur Smith
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addentrarono nella baia, con Mansur sulla Sprite, che precedeva Battila sulla Revenge. Con quella brezza leggera procedevano alla via, scivolando sull'acqua scintillante, con lo scafo punteggiato di un verde turchese dal riflesso del sole sulla sabbia bianca in fondo alla laguna. Poi Dorian guardò a sud e vide la prima ondata dell'assalto turco investire i campi aperti, sciamando verso le mura. Fece issare sul pinnacolo del minareto uno stendardo rosso, il segnale prestabilito con la flotta per indicare che un attacco era imminente. Dorian vide Mansur guardare il segnale e, agitando la mano, gli indicò il sud. Mansur rispose con un altro cenno e proseguì tranquillamente la navigazione. Poi le navi virarono l'una dopo l'altra, accostando alla diga del porto. Dorian guardò i portelli che si spalancavano per far uscire i cannoni, simili alle zanne di un mostro inferocito. Distingueva chiaramente la figura alta di Mansur che camminava sul ponte dei cannoni, soffermandosi a parlare coi marinai innervositi che si aggiravano intorno agli affusti dei cannoni. Le mura meridionali e le vie d'accesso erano ancora nascoste dall'angolazione degli alti bastioni di pietra, però, mentre la Sprite sgombrava il campo di tiro e puntava verso la spiaggia, agli occhi di Mansur si presentò la visuale completa del campo di battaglia. I turchi erano schierati in formazione compatta, intenti a trasportare le lunghe scale da assedio, eppure alcuni di loro guardarono le due piccole navi che apparivano dietro le mura della cittadella, oltre uno stretto braccio di mare. La fanteria turca non aveva mai visto l'effetto dei colpi di un cannone navale da nove libbre. Molti salutarono addirittura con la mano, e Mansur ordinò ai suoi uomini di ricambiare il saluto per placare i loro timori. Tutto accadde con la pacata lentezza propria di certi sogni. Mansur ebbe il tempo di percorrere tutto il ponte e di preparare personalmente ogni cannone, azionando il meccanismo dell'alzo; gli riusciva difficile convincere il suo equipaggio che la potenza dei pezzi non aumentava se la vite veniva girata sino in fondo. Erano sempre più vicini alla spiaggia, e lui ascoltava con un orecchio l'addetto allo scandaglio che, in equilibrio sulla catena, indicava le letture del fondo. «Marca cinque.» Wilbur Smith
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«Siamo abbastanza vicini», mormorò Mansur, poi, rivolto a Kumrah, disse: «Accosta di un punto». La Sprite si adagiò sulla nuova rotta, parallela alla riva. «E ora serviremo loro un assaggio dei piatti migliori di Pandit Singh», sibilò il giovane, senza abbassare il cannocchiale. I cannoni della Sprite cominciarono a prendere la mira da prua, ma lui continuava ad aspettare, sapendo che il danno maggiore sarebbe stato quello inflitto dalla prima bordata, dopodiché il nemico si sarebbe disperso, mettendosi al riparo. Ormai erano così vicini che, attraverso lo strumento, poteva vedere le singole maglie della cotta di ferro dei turchi più prossimi alla loro posizione, e ognuna delle piume sugli elmi degli ufficiali. Abbassò il cannocchiale, tornando verso la batteria. Tutti i cannoni erano puntati sul bersaglio, e gli uomini lo guardavano, in attesa del suo ordine. Sollevò con la mano destra il drappo di seta scarlatta e lo tenne in alto. «Fuoco!» gridò poi, abbassandolo di scatto. Kadem ibn Abubaker e Herminius Koots - una coppia davvero male assortita - erano di vedetta su una sporgenza rocciosa, da cui dominavano il terreno aperto a ridosso dei bastioni meridionali della città. Intorno a loro era riunito il loro stato maggiore, compresi gli ufficiali turchi ai quali avevano usurpato ogni autorità grazie alla promozione concessa da Zayn al-Din. Osservarono avanzare le truppe d'assalto, disposte in tre colonne di duecento uomini ciascuna. Portavano le scale da assedio e, sulle spalle, avevano fissato con le cinghie le targhe rotonde di bronzo con cui si sarebbero difesi dai proietti che li avrebbero bersagliati dalle mura non appena fossero arrivati a tiro. Dietro di loro, riuniti in massicce colonne per quattro, avanzavano i battaglioni destinati a lanciarsi all'assalto per sfruttare ogni appiglio sui parapetti. «Vale la pena di rischiare alcune centinaia di uomini, se c'è la possibilità di aprire una breccia in fretta», osservò Koots. «Possiamo permetterci queste perdite», ammise Kadem. «Il resto della flotta arriverà entro pochi giorni. Si tratta di altri diecimila uomini. Se oggi dovessimo fallire, potremmo comunque avviare un assedio classico.» «Dovete imporvi sul vostro stimato zio, il califfo, convincendolo a portare qui le navi da guerra per cominciare il blocco della baia e del Wilbur Smith
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porto.» «Darà l'ordine non appena avrà visto l'esito del primo assalto», assicurò Kadem all'olandese. «Abbiate fede, generale. Mio zio è un comandante militare di grande esperienza. Da quand'è salito sul Trono dell'Elefante, non fa che combattere i suoi nemici. La perfida rivoluzione di questi porci che si alimentano di porci che vedete davanti a noi», aggiunse, indicando le linee di difensori sulle mura cittadine, «è stata la sua unica sconfitta, dovuta solo al tradimento e alla slealtà della sua stessa corte. Non accadrà mai più.» «Il califfo è un grand'uomo, non l'ho mai negato», si affrettò ad assicurargli Koots. «Impiccheremo quei traditori con le loro budella sopra le mura della città.» «Col favore di Allah. Sia resa lode ad Allah», intonò Kadem. Il primo, tenue legame fra loro si era temprato, raggiungendo la resistenza dell'acciaio, nel corso degli oltre due anni che avevano trascorso insieme. Dopo la sconfitta subita per mano di Jim Courteney nel disastroso attacco notturno, erano stati costretti a compiere un terribile viaggio, che avrebbe certamente distrutto uomini meno validi di loro. Avevano resistito a malattie e privazioni, sino a patire la fame, percorrendo migliaia di leghe in un territorio selvaggio e inesplorato. I loro cavalli erano morti di malattia e di sfinimento oppure erano stati uccisi dalle tribù ostili. Le ultime tappe le avevano percorse a piedi, attraversando foreste e paludi di mangrovie, prima di raggiungere di nuovo la costa. Là si erano imbattuti in un villaggio di pescatori. Lo avevano attaccato di notte, massacrando tutti gli uomini e i bambini, ma le cinque donne e le tre bambine erano state uccise soltanto dopo che Koots e Oudeman avevano sfogato su di loro gli istinti repressi così a lungo. Kadem ibn Abubaker si era tenuto in disparte da quell'orgia, e aveva pregato sulla spiaggia, mentre le donne gridavano e singhiozzavano, lanciando un agghiacciante urlo finale quando Koots e Oudeman tagliarono loro la gola. Si erano imbarcati sui pescherecci catturati, poco più che canoe vecchie e malandate e, dopo un altro viaggio disseminato di pericoli, avevano finalmente raggiunto il porto di Lamu, dove si erano prostrati ai piedi di Zayn al-Din nella sala del trono del suo palazzo. Zayn al-Din accolse con calore il nipote che aveva creduto morto e si mostrò entusiasta alla notizia dell'esecuzione di Yasmini. Come aveva promesso Kadem, il califfo guardò con favore al suo nuovo compagno, Wilbur Smith
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ascoltando con attenzione i resoconti delle sue spietate imprese militari. Per mettere alla prova il valore di Koots lo inviò, a capo di un piccolo contingente, a domare le ultime roccaforti dei ribelli sul continente africano. Si aspettava che fallisse, come tutti gli altri prima di lui, invece, tenendo fede alla sua reputazione, entro due mesi Koots riportò a Lamu in catene tutti i capi della rivolta. Poi li squartò vivi, con le sue mani e alla presenza di Zayn. Come ricompensa, il califfo gli donò mezzo lakh di rupie d'oro attinte al bottino e la prima scelta tra le schiave catturate, dopodiché lo promosse al grado di generale, assegnandogli il comando di quattro battaglioni dell'esercito che stava radunando per attaccare Muscat. «Il califfo verrà tra poco e, non appena sarà qui, potrete incominciare l'assalto.» Kadem andò incontro al palanchino trasportato da otto schiavi e coperto da una tenda blu e oro per proteggere il passeggero dal sole. Quando fu deposto a terra, Zayn al-Din scese con aria maestosa. Zayn al-Din non era più il bambino grassoccio che Dorian aveva picchiato nello zenana, il quartiere delle donne della reggia di Lamu, menomandogli il piede nel tentativo di difendere Yasmini dalle torture che le infliggeva. Una vita intera d'intrighi e di lotte incessanti aveva temprato i suoi tratti e stimolato la sua intelligenza. Gli occhi erano pronti e penetranti, l'atteggiamento regale; se non fosse stato per le linee crudeli della bocca e l'astuzia che trapelava dagli occhi scuri, sarebbe stato un uomo attraente. Kadem e Koots si prostrarono davanti a lui. Da principio Koots aveva trovato ripugnante quella manifestazione di rispetto, ma poi, come le altre abitudini orientali che aveva adottato, anch'esse erano entrate a far parte della sua esistenza. Zayn fece segno ai suoi generali di alzarsi e seguirlo sul ciglio della collina, da cui guardò il terreno aperto sul quale erano schierate le truppe pronte all'attacco. Studiò con occhio allenato la disposizione dei soldati, poi annuì. «Procedete!» La voce era acuta, quasi infantile. La prima volta che l'aveva sentita, Koots si era fatto una certa idea su Zayn, però si era dovuto ricredere. Quella voce era l'unico aspetto effeminato di Zayn, che aveva generato centoventitré figli, di cui soltanto sedici femmine. Inoltre aveva massacrato i suoi nemici a migliaia, e molti di essi erano morti di sua mano. «Un razzo rosso», ordinò Koots al suo aiutante di campo, e subito l'ordine fu passato ai segnalatori lungo il versante opposto della collina. Il Wilbur Smith
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razzo scintillò come una cascata di rubini, lasciando nel cielo sereno una lunga scia d'argento. Dalla base della collina giunse il suono attutito delle grida di esultanza, e le truppe si slanciarono in massa verso le mura. Uno schiavo si fermò davanti a Zayn e lui, usandolo come sostegno vivente, gli appoggiò sulla spalla il lungo cannocchiale di ottone. L'avanguardia delle truppe turche aveva raggiunto il fossato ai piedi delle mura, quando d'un tratto apparve la Sprite, emergendo dalla protezione dei bastioni di pietra, seguita quasi subito dalla Revenge. Zayn e gli ufficiali puntarono subito il cannocchiale sulle due navi. «Quelle sono le navi sulle quali il traditore al-Salil è arrivato a Muscat», scattò Kadem. «Le nostre spie ci hanno avvertito della loro presenza.» Zayn non parlò, ma i suoi lineamenti si alterarono alla semplice menzione di quel nome. Avvertì una fitta istintiva di dolore al piede menomato, e sentì affiorare in gola il gusto acido dell'odio. «I loro cannoni sono puntati e pronti al fuoco», osservò Koots, guardandoli attraverso il cannocchiale. «Prenderanno d'infilata i nostri battaglioni.» Rivolto all'aiutante di campo, ringhiò: «Manda un uomo al galoppo per avvertirli». «Non abbiamo cavalli», gli rammentò l'uomo. «Va' di persona!» gridò Koots, afferrandolo per le spalle e spingendolo giù dal pendio. «Corri, cane infingardo, corri, altrimenti faccio sparare te, dalla bocca di un cannone.» La sua padronanza dell'arabo migliorava di giorno in giorno. L'aiutante corse giù dalla collina, gridando e sbracciandosi per indicare la piccola squadra navale, ma i turchi erano già lanciati all'attacco e non furono in molti a guardare indietro. «Ordiniamo la ritirata?» suggerì Kadem. Ma tutti sapevano che era troppo tardi e rimasero a guardare in silenzio. D'un tratto, dalla nave di testa, eruppe una nuvola di fumo bianco, sprigionato dalla polvere da sparo; la nave rollò leggermente, per il contraccolpo della bordata sparata dai lunghi cannoni neri, poi ritrovò l'equilibrio, anche se lo scafo rimase avvolto dalla nube di fumo che si gonfiava. Erano rimasti visibili soltanto gli alberi. Il suono fragoroso prodotto dagli spari giunse alle orecchie soltanto alcuni secondi dopo la detonazione, poi si disperse in una cascata di echi sempre più fiochi tra le colline lontane. Gli osservatori sulla collina puntarono di nuovo i cannocchiali sulla densa massa umana concentrata nella pianura sottostante. La scena di devastazione che si presentò ai loro occhi scosse persino quei veterani Wilbur Smith
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ormai incalliti, abituati al carnaio dei campi di battaglia. La mitraglia si era dispersa in modo tale che ogni colpo aveva aperto una scia di caduti larga venti passi nei battaglioni schierati, come la lama della falce che passa in un campo di grano maturo e non lascia in piedi neppure una sola spiga. Contro munizioni di quel genere, cotte di maglia e armature di bronzo offrivano la stessa protezione di un fragile foglio di pergamena. Volarono in aria teste recise, con la barba e l'elmo a scodella ancora in testa, mentre torsi privi di braccia e di gambe finirono accumulati l'uno sull'altro. Le grida dei morenti e dei feriti giungevano nitide fino agli uomini in cima alla collina. La Sprite si mosse, virando nelle acque aperte della baia, e la Revenge prese subito il suo posto, navigando senza affanno. A terra, i superstiti rimasero sbigottiti, incapaci di valutare la portata del disastro che si era abbattuto su di loro. Quando la Revenge puntò a sua volta i cannoni contro di loro, i gemiti degli agonizzanti furono sopraffatti dalle grida disperate dei sopravvissuti. Furono in pochi ad avere la presenza di spirito di appiattirsi al suolo. Quasi tutti deposero le scale da assedio, voltarono le spalle alla minaccia dei cannoni e si diedero alla fuga. La Revenge sparò la sua bordata contro di loro, spazzando il campo, quindi virò di bordo, seguendo la nave gemella. La Sprite completò la virata per tornare sul bordo opposto, presentando ai battaglioni di turchi in fuga la batteria di sinistra. Nel frattempo la batteria di dritta aveva ricaricato con scatole di mitraglia e i serventi ai pezzi erano pronti al loro turno. Come danzatori che eseguono un pacato minuetto, le due navi descrissero una serie di elaborate figure a otto e, ogni volta, i cannoni sparavano un'altra bordata tonante di fumo, fiamme e mitraglia oltre la striscia stretta di acque aperte. Dopo che la Sprite ebbe completato il secondo passaggio, Mansur Courteney chiuse con uno scatto il cannocchiale e disse a Kumrah: «Non c'è più niente cui sparare. Ritira i cannoni e portala nella baia». Così le due navi tornarono tranquillamente al loro ancoraggio, protetto dai cannoni montati sui parapetti delle mura cittadine. Zayn e i suoi due generali contemplarono il campo di battaglia. Il terreno era costellato di cadaveri. Pareva che fosse improvvisamente giunto l'autunno e un albero gigantesco avesse perso tutte le sue foglie, spargendole al suolo. Wilbur Smith
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«Quanti?» chiese Zayn, con la sua voce acuta da fanciulla. «Non più di trecento», azzardò Kadem. «No, no! Di meno.» Koots scosse la testa. «Centocinquanta, duecento al massimo.» «In fondo sono soltanto turchi, e altri cento dhow a pieno carico arriveranno entro la fine della settimana.» Zayn annuì con aria distaccata. «Dobbiamo cominciare a scavare le trincee di avvicinamento e innalzare una parete di gabbioni pieni di sabbia lungo la baia, per proteggere i nostri uomini dalle navi.» «Vostra maestà si degnerà di ordinare alla flotta il blocco della baia?» chiese Kadem in tono rispettoso. «Dobbiamo imbottigliare le due navi di al-Salil e, nel contempo, impedire che le provviste alimentari raggiungano la città dal mare.» «Gli ordini sono stati già impartiti», ribatté Zayn in tono altezzoso. «Il console inglese disporrà la sua nave in testa alla flotta, giacché è l'unica che possa eguagliare in velocità quelle del nemico. Sir Guy impedirà loro di forzare il blocco e fuggire in mare aperto.» «Al-Salil e il suo bastardo non devono sfuggirci.» Quando pronunciava quel nome, gli occhi di Kadem si accendevano di un bagliore cupo e ipnotico. «Il mio odio per lui è superiore al tuo. Abubaker era mio fratello e alSalil lo ha assassinato. E ci sono altri vecchi conti aperti con lui che devo ancora saldare», gli rammentò Zayn. «Nonostante questo contrattempo, gli teniamo il cappio intorno al collo. E adesso lo tenderemo.» Nel corso delle settimane successive, Dorian, dal suo posto di comando sul minareto, assistette all'evolversi dell'assedio. La flotta nemica doppiò la penisola per schierarsi all'ingresso della baia, appena oltre la portata delle batterie sulle mura o anche dei pezzi a canna lunga da nove libbre a bordo dei due schooner. Alcuni dei dhow meno manovrabili gettarono l'ancora lungo la linea delle venti braccia, dove il fondo marino assumeva un andamento convesso, mentre i velieri più agili incrociavano nelle acque più profonde, pronte a intercettare ogni nave da rifornimento che tentasse di entrare nella baia oppure a bloccare i due schooner se avessero tentato di forzare lo schieramento. Lo scafo aggraziato e gli alberi dall'inclinazione audace dell'Arcturus occhieggiavano in lontananza, nascosti talvolta dalle rocce, talaltra dalla Wilbur Smith
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linea dell'orizzonte. Quando si avventava contro qualche piccola imbarcazione che tentava di portare rifornimenti a Muscat, Dorian udiva il brontolio distante dei suoi cannoni. Poi il veliero ricompariva da un'altra direzione. Mansur e Dorian ne discutevano pregi e difetti, osservandolo attraverso i cannocchiali. «Prende bene il vento quando accosta, a differenza dei dhow. Può issare una superficie di tela pari quasi a una volta e mezzo quella delle nostre navi, e monta diciotto cannoni contro i nostri dodici», mormorava Dorian. «È una bella nave, no?» Mansur si sorprendeva a chiedersi se a bordo c'era Verity, poi si diceva: Se a bordo c'è Sir Guy, è naturale che ci sia anche lei. È la sua voce, non potrebbe farne a meno. Pensò quindi all'eventualità di dover puntare i cannoni sull'Arcturus: come avrebbe fatto, se ci fosse stata Verity in coperta? Ci penserò quando verrà il momento, decise, prima di rispondere al padre. «La Sprite e la Revenge possono puntare più in alto. Insieme hanno ventiquattro cannoni, contro i diciotto di Sir Guy. Inoltre Kumrah e Battila conoscono queste acque come conoscono le loro donne. In confronto a loro, Ruby Cornisti è un lattante.» Sorrise con l'audacia tipica della gioventù. «Manterremo le nostre posizioni qui, e faremo scappare Zayn e i suoi turchi come cani randagi con la coda tra le gambe.» «Vorrei essere altrettanto fiducioso», sospirò Dorian, puntando il cannocchiale verso l'interno per seguire l'esercito che si avvicinava inesorabilmente alle mura. «Zayn ha già seguito questa tattica molte volte e commetterà ben pochi errori. Guarda come ha cominciato a scavare: quelle trincee e le linee di gabbioni proteggeranno le sue forze d'assalto finché non saranno proprio sotto le mura.» Ogni giorno forniva a Mansur nuove indicazioni sull'antica arte degli assedi. «Vedi, laggiù? Stanno sistemando i grandi cannoni, per piazzarli nelle postazioni di tiro che hanno preparato. Quando cominceranno a sparare sul serio, potranno sfondare i punti deboli delle nostre difese e spazzare via tutte le riparazioni più in fretta di quanto noi riusciamo a costruirle. Una volta aperte le brecce, si precipiteranno ad aggredirle partendo dalla testa delle trincee d'assalto.» Osservarono i cannoni che venivano fatti avanzare per mezzo di carri trainati da buoi. Alcune settimane prima era arrivato da Lamu il resto della flotta di Zayn, che aveva sbarcato i cavalli, gli animali da tiro e gli uomini Wilbur Smith
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sul lato opposto della penisola. Adesso la sua cavalleria pattugliava i palmizi e le pendici delle colline all'interno, e le nuvolette di polvere che sollevava si scorgevano ovunque. «Che cosa possiamo fare?» Mansur sembrava già meno sicuro dell'esito di quell'assedio. «Ben poco», rispose Dorian. «Potremmo lanciarci in qualche sortita, intralciando i lavori di scavo, ma loro se lo aspettano e subiremmo gravi perdite. Potremmo far saltare qualcuno dei gabbioni, ma loro riparerebbero qualunque danno nel giro di poche ore.» «Sembri scoraggiato», disse Mansur in tono di accusa. «Non sono abituato a vederti così, padre.» «Scoraggiato?» ribatté Dorian. «No, per quanto riguarda l'esito finale, no. Tuttavia non avrei mai dovuto permettere a Zayn di chiuderci in trappola nella città. I nostri uomini non si battono bene, restando dietro le mura. Amano attaccare. Sono loro che si stanno perdendo d'animo. Mustafa Zindara e bin Shibam faticano a tenerli qui. Anche loro, del resto, vorrebbero trovarsi nel deserto, combattendo nel modo che conoscono meglio.» Quella notte, cento uomini di bin Shibam spalancarono le porte della città e, in gruppo compatto, cavalcarono oltre le linee turche, fuggendo nel deserto. Le guardie riuscirono soltanto a chiudere di nuovo le porte prima che gli assediami mettessero a frutto quell'insperata opportunità. «Non avresti potuto impedirlo?» chiese Mansur la mattina dopo. Di fronte all'incapacità del giovane di afferrare il vero motivo dell'accaduto, bin Shibam si limitò a scrollare le spalle. Toccò a Dorian rispondere. «I saar non accettano ordini, Mansur. Seguono uno sceicco finché sono d'accordo con quello che lui chiede loro di fare. Se non sono più d'accordo, se ne vanno a casa.» «Ora che hanno cominciato, saranno in molti ad andarsene.» «Anche i dahm e gli awamir sono irrequieti», ammonì Mustafa Zindara. All'alba del giorno seguente, le batterie nemiche, disposte nelle postazioni di tiro ben fortificate, cominciarono a colpire le mura meridionali. Contando i lampi e le nuvole di fumo di ogni detonazione, Dorian e Mansur calcolarono un totale di undici cannoni. Erano di calibro enorme, e le palle di pietra che sparavano dovevano pesare oltre cento libbre l'una. Era possibile seguire a occhio nudo la traiettoria di quei pesanti proietti. Mansur calcolò i tempi, accertando che ci volevano quasi Wilbur Smith
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venti minuti per inserire gli stoppacci, caricare e innescare ogni pezzo, che poi doveva essere svuotato e ricaricato prima di poter sparare di nuovo. Una volta che il nemico ebbe stabilito la gittata, i massicci proietti cominciarono a colpire il bersaglio con inquietante precisione. Ogni colpo finiva a pochi piedi dal precedente: se una palla poteva incrinare un blocco delle mura, la seconda, arrivando nello stesso punto, lo scalzava del tutto; inoltre, se colpiva le travi usate per riparare le sezioni deboli, le riduceva in schegge di legno sottili come stuzzicadenti. La sera del primo giorno, nelle mura c'erano già due brecce. Non appena fece buio, squadre di operai agli ordini di Mansur si precipitarono a eseguire le riparazioni. All'alba, il cannoneggiamento riprese, e a mezzogiorno le riparazioni erano state già spazzate via. Le palle di pietra cominciarono ad allargare le brecce. Gli artiglieri di Dorian trascinarono la metà dei cannoni disposti dalla parte del porto per rinforzare la batteria sul lato meridionale, rispondendo al fuoco. Tuttavia i pezzi di Zayn erano ben arroccati sulle loro postazioni, protetti da file profonde di gabbioni pieni di sabbia. Si vedevano soltanto le bocche di bronzo delle canne, che offrivano un bersaglio minuscolo, a quella distanza. Quando un colpo sparato dai difensori colpiva i gabbioni, quei cesti di canne intrecciate pieni di sabbia assorbivano l'impatto in modo così totale che non produceva quasi nessun effetto. Verso la metà del pomeriggio, comunque, misero a segno il primo colpo diretto. Uno dei loro proietti di ferro da venti libbre colpì la canna dell'ultimo pezzo di sinistra proprio alla bocca. Il bronzo risuonò come la campana di una chiesa e, nonostante il peso, fu scaraventato all'indietro sull'affusto, riducendo in poltiglia i serventi. La canna rimase puntata verso l'alto, in verticale, e gli artiglieri sulle mura persero la voce a furia di lanciare grida entusiaste e raddoppiarono gli sforzi. Ma al crepuscolo non avevano ottenuto altri successi, e le brecce nelle mura rimasero aperte. Al sorgere della luna, bin Shibam e Mansur guidarono una sortita contro le linee nemiche. Portando con loro venti uomini, si avvicinarono di soppiatto alla postazione di una batteria. Anche se i turchi si aspettavano sortite del genere, il gruppo di Mansur riuscì quasi a raggiungere la parete della postazione prima di essere individuato. Uno degli uomini di guardia sparò un colpo di moschetto, che sfiorò la testa di Mansur. Lui allora gridò: «Seguitemi!» e si arrampicò attraverso l'apertura a feritoia, saltando sulla canna del pezzo e correndovi sopra. Pugnalò alla gola l'uomo che gli Wilbur Smith
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aveva sparato, e lui abbandonò il moschetto che stava cercando di ricaricare, per tentare invece di afferrare con le mani la lama nuda. Quando Mansur la ritirò di scatto, l'acciaio recise fino all'osso carni e tendini sulle dita dell'uomo. Mansur scavalcò il suo corpo scosso dagli spasmi per avventarsi sui serventi turchi, ancora storditi dal sonno, che si sforzavano di liberarsi dalle coperte. Ne uccise uno e ne ferì un terzo prima che fuggissero nella notte, urlando di terrore. I suoi uomini lo seguirono all'attacco e, mentre loro erano impegnati, Mansur spinse nel focone del pezzo una delle punte di ferro che portava nel sacchetto appeso alla cintura, e un altro dei suoi uomini la conficcò per bene sino in fondo con una dozzina di energici colpi di martello. Poi corsero nella postazione vicina, collegata alla precedente da una trincea scavata nel terreno, ma lì i serventi erano ben svegli e li aspettavano al varco, armati di picche e asce da combattimento. In pochi secondi si scatenò un a corpo a corpo di massa, e Mansur capì che non sarebbero mai riusciti a raggiungere il secondo cannone. Anzi, altri nemici stavano affluendo dalle retrovie nella trincea di comunicazione per respingere il loro assalto. «Indietro!» gridò Mansur, e tutti insieme risalirono la parete anteriore della postazione di tiro, proprio mentre Istaph e gli altri mozzi di stalla arrivavano coi cavalli, per rientrare al galoppo dalle porte della città, seguiti a breve distanza da bin Shibam. Cinque uomini erano rimasti uccisi e una dozzina erano feriti. All'alba, videro che i turchi avevano spogliato i cadaveri dei dispersi, lasciandoli esposti sulla parete anteriore della postazione. Mansur e bin Shibam erano riusciti a mettere fuori uso soltanto due dei pezzi, e gli altri otto cannoni aprirono di nuovo il fuoco. In poche ore, i giganteschi proietti di pietra avevano distrutto tutte le riparazioni compiute durante la notte. Verso la metà del pomeriggio, un unico colpo fortunato abbatté un tratto di mura lungo venti piedi, riducendolo a un ammasso di detriti. Esaminando i danni dall'alto del minareto, Dorian calcolò: «Un'altra settimana al massimo, e Zayn sarà pronto a sferrare l'attacco finale». Quella notte, duecento uomini delle tribù awamir e dahm sellarono i cavalli e uscirono dalla città. Il giorno dopo, come al solito, il muezzin lanciò dal minareto della moschea principale il richiamo lamentoso che invitava i fedeli alla preghiera. Entrambe le parti risposero. I cannoni interruppero il fuoco e i turchi si tolsero l'elmo per inginocchiarsi tra i Wilbur Smith
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palmizi, mentre i difensori facevano lo stesso sui parapetti. Prima di unirsi alla preghiera, Dorian sorrise, pensando all'ironia della situazione: entrambe le parti pregavano lo stesso Dio per ottenere la vittoria. Quella volta, però, il rituale ebbe un nuovo sviluppo. Dopo la preghiera, gli araldi di Zayn corsero intorno al perimetro delle mura per ammonire i difensori allineati sui parapetti. «Ascoltate le parole del vero califfo. Quelli di voi che desiderano lasciare questa città condannata possono farlo senz'altro. Potete portare con voi il vostro cavallo e le vostre armi, per tornare alle vostre tende e alle vostre mogli. Chiunque mi porti la testa dell'usurpatore incestuoso, al-Salil, sarà da me ricompensato con un lakh di rupie d'oro.» I difensori li schernirono, eppure quella notte altri duecento guerrieri uscirono dalle porte della città. Prima di allontanarsi, due sceicchi di minore importanza vennero a congedarsi da Dorian. «Non siamo né traditori né codardi», gli dissero, «ma questo non è un genere di lotta che vada bene per un uomo. Laggiù nel deserto cavalcheremo con te incontro alla morte. Ti amiamo come abbiamo amato nostro padre, ma non vogliamo morire qui, come cani in gabbia.» «Andate pure con la mia benedizione», replicò Dorian. «E possiate sempre trovare favore agli occhi di Dio. Sappiate che tornerò da voi.» «Ti aspetteremo, al-Salil.» Il giorno dopo, all'ora della preghiera, quando i cannoni tacquero, gli araldi fecero di nuovo il giro delle mura. «Il vero califfo Zayn al-Din ha dichiarato il sacco della città. Chiunque, uomo o donna, si troverà all'interno delle mura quando il califfo entrerà, verrà torturato e poi messo a morte.» Stavolta soltanto poche voci risposero in tono di scherno e, quella notte, metà dei difensori si allontanò. I turchi si schierarono lungo la strada mentre passavano, senza tentare di fermarli. «Ti vedo turbata, mia cara», disse Caroline Courteney osservando, perplessa, il volto della figlia. «Che cosa ti affligge tanto?» A parte un vago saluto, Verity non rivolgeva la parola alla madre da quand'era salita sul ponte di coperta dell'Arcturus, uscendo dalla grande cabina del padre. L'incontro col comandante militare del califfo, Kadem ibn Abubaker, si era prolungato per quasi tutta la mattina e Verity, affacciata alla battagliola, osservava la feluca veloce che riportava a terra il Wilbur Smith
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generale. Aveva tradotto il rapporto di Abubaker a suo padre, e gli aveva riferito l'ordine del califfo di rafforzare il blocco navale della baia per impedire che le navi del nemico si mettessero in salvo, quando la città fosse stata strappata dalle mani dell'usurpatore. Con un sospiro, si voltò verso la donna. «L'assedio sta per entrare nella fase finale, madre», rispose per dovere. Madre e figlia non erano mai state molto vicine. Caroline era una donna nervosa e isterica, soggiogata dal marito, che le lasciava ben poco tempo ed energia per il ruolo di madre. Come una bambina, sembrava incapace di concentrarsi su una questione per un certo periodo di tempo, e la sua mente svolazzava da un argomento all'altro come una farfalla in un giardino primaverile. «Mi sentirò molto sollevata quando questa faccenda orribile sarà finita, una volta che tuo padre avrà sistemato quel furfante di al-Salil. Allora potremo chiudere questa vicenda spaventosa e tornare a casa.» Per Caroline, «casa» significava il consolato di Delhi. Dietro le pareti di pietra, tra i giardini curati alla perfezione e i freschi cortili con le fontane gorgoglianti, si sentiva al sicuro, protetta dal mondo dell'Oriente, per lei crudele e alieno. Si grattò la gola e lanciò un gemito sommesso. L'aria umida dei tropici e la vita sedentaria nella cabina troppo calda avevano aggravato l'irritazione della pelle di cui soffriva. «Volete che vi porti un po' di quell'unguento rinfrescante?» le chiese Verity, domandandosi come mai la madre riuscisse così facilmente a farla sentire in colpa. Si avvicinò a Caroline, distesa sull'ampia amaca che il comandante Cornish aveva fatto installare per lei in un angolo del casseretto. Una tenda parasole la riparava dal caldo, consentendo alla frescura degli alisei di offrire sollievo al suo corpo molle e sudaticcio. Inginocchiandosi accanto a lei, Verity tamponò le chiazze arrossate e dolenti con l'unguento. Caroline agitò una mano in un gesto languido. Gli anelli di diamanti che portava erano affondati profondamente nella pelle bianca come il gesso. La snella cameriera indiana, dalla pelle scura, vestita con uno splendido sari di seta, s'inginocchiò dalla parte opposta dell'amaca per offrire un piatto di dolci. Caroline scelse un turkish delight - così gli inglesi chiamavano quei gommosi cubetti rosa farciti con pistacchi e ricoperti di zucchero a velo -, ma, quando la cameriera fece per alzarsi, lei la fermò con uno schiocco perentorio delle dita, scegliendo altri due cubetti profumati per ficcarseli in bocca. Assaporò i dolci con un piacere immenso e le sue labbra si coprirono di un velo bianco di zucchero. Wilbur Smith
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«Che cosa pensate che accadrà ad al-Salil e a suo figlio Mansur, se saranno catturati da Kadem ibn Abubaker?» chiese Verity in tono mite. «Senza dubbio sarà qualcosa di disgustoso», rispose Caroline senza il minimo interesse. «Di solito il califfo fa cose orribili ai suoi nemici. Li fa calpestare dagli elefanti, gli spara dai cannoni...» Rabbrividì, tendendo la mano verso il bicchiere di sorbetto al miele che le offriva la cameriera. «Non ho proprio voglia di parlarne.» Bevve un sorso di sorbetto, poi si rischiarò in volto. «Se questa faccenda va in porto per la fine del mese, potremmo tornare a Delhi in tempo per il tuo compleanno. Voglio organizzare un ballo per te con tutti gli scapoli appetibili della Compagnia. È ora di trovarti un marito, mia cara. Alla tua età ero sposata da quattro anni e avevo due figli.» D'un tratto, Verity si sentì assalire da una collera furiosa, mai provata prima di allora, contro quella donna fatua e volubile. Aveva sempre trattato la madre con stanca deferenza, trovando ampie giustificazioni per la sua golosità e per le altre debolezze, però, fino all'incontro con Mansur, non aveva compreso sino in fondo la portata della soggezione di sua madre nei confronti del marito. Era stato il senso di colpa a offrirgli quella posizione di potere. Tuttavia, in quel momento, Verity si sentì offesa dalla vuota compiacenza della madre, e la collera divampò prima che potesse trattenerla. «Sì, madre», ribatté con amarezza. «E il primo di quei figli era il bastardo di Tom Courteney.» Quelle parole le erano appena uscite di bocca che già se n'era pentita. Caroline la fissò. I suoi occhi parevano enormi, annegati com'erano nelle lacrime. «Oh, cattiva, cattiva, cattiva. Tu non mi hai mai voluto bene», piagnucolò, lasciando colare sul pizzo della camicetta un filo di sorbetto misto al turkish delight masticato. Anche le ultime stille di rispetto che Verity provava per lei si dileguarono. «Vi ricordate di Tom Courteney, madre?» le domandò. «E dei giochetti che avete fatto insieme mentre eravate sulla nave del nonno, la vecchia Seraph?» «Tu non mi hai mai... Chi te lo ha detto? Che cos'hai sentito dire, eh? Non è vero!» farfugliò Caroline, singhiozzando in modo isterico. «E Dorian Courteney? Ricordate come voi e vostro marito lo avete lasciato in schiavitù quand'era piccolo? Come avete mentito allo zio Tom? Come avete detto a Tom che Dorian era morto per la febbre? Mi avete raccontato la stessa bugia, mostrandomi la tomba nella quale era sepolto, a Wilbur Smith
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Lamu.» «Smettila!» Caroline si portò le mani alle orecchie. «Non intendo ascoltare simili porcherie.» «Queste sarebbero porcherie, madre?» incalzò Verity, gelida. «Allora chi credete che sia quell'al-Salil che vorreste vedere calpestato dagli elefanti o ucciso da un cannone? Non sapete che è Dorian Courteney?» Caroline la fissò, col viso pallido come latte cagliato; le eruzioni cutanee spiccavano ancor più nette di prima. «Bugie!» sussurrò. «Tutte bugie terribili.» «Inoltre, madre, il figlio di al-Salil è mio cugino, Mansur Courteney. Volete un marito per me? Non preoccupatevi di cercarlo. Se mai Mansur mi farà l'onore di chiedermi in moglie, non esiterò a correre da lui.» Caroline lanciò un urlo strozzato e cadde dall'amaca sul ponte. La cameriera e due ufficiali della nave accorsero per aiutarla a rialzarsi. Non appena fu in piedi, si liberò dalle loro mani premurose e, con le pieghe di grasso che sussultavano sotto il pizzo e i ricami di perle del vestito, si calò per la scaletta di boccaporto che conduceva alla grande cabina del marito. Sir Guy sentì le sue urla stridule e si affrettò a uscire dalla porta in maniche di camicia, poi prese la moglie per un braccio e la portò in cabina. Verity attese, sola vicino alla battagliola, il castigo che stava certamente per abbattersi su di lei. Guardava oltre la flotta di dhow da guerra che bloccavano l'accesso alla baia di Muscat, verso le guglie e i minareti della città. Continuava a pensare alla terribile notizia che Kadem ibn Abubaker aveva portato a suo padre, e che lei gli aveva tradotto. Muscat sarebbe caduta nelle mani di Zayn al-Din entro la fine del mese. Mansur correva un pericolo terribile, e non c'era niente che lei potesse fare per aiutarlo. La paura e la frustrazione l'avevano spinta a commettere il grossolano errore di poco prima. «Mio Dio, ti prego!» sussurrò. «Fa' che non accada niente a Mansur.» Meno di un'ora dopo, venne a chiamarla l'inserviente del padre. Nella cabina c'era la madre, seduta come al solito sotto la galleria di poppa, con un fazzoletto umido e appallottolato tra le mani. Si asciugò gli occhi, soffiandosi fragorosamente il naso non appena Verity entrò. Al centro della cabina c'era il padre, in maniche di camicia, con un'espressione dura e arcigna. «Quali menzogne velenose hai detto a tua madre?» le domandò. Wilbur Smith
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«Non sono menzogne, padre», rispose lei in tono di sfida. Poteva intuire quali sarebbero state le conseguenze di quelle parole, eppure avvertiva anche una specie di euforia che le rendeva del tutto indifferenti. «Ripetimele», ordinò Sir Guy. In toni tranquilli e misurati, lei riferì tutto quello che le aveva detto Mansur. Alla fine lui rimase in silenzio, raggiungendo la galleria di poppa e studiando le onde basse del mare azzurro. Non guardò mai la moglie. Il silenzio si protrasse. Verity sapeva che quel silenzio era uno dei suoi trucchi per intimorirla, costringendola ad abbassare le difese e ad abbandonare ogni resistenza. «Me lo hai tenuto nascosto?» disse infine Sir Guy. «Perché non mi hai riferito subito quello che avevi saputo? Qual era il tuo dovere nei miei confronti?» «Non lo negate, padre?» ribatté lei. «Non sono io che devo negare o affermare qualcosa di fronte a te. Qui non ci sono io sotto processo. Ci sei tu.» Un altro silenzio. L'aria nella cabina era calda e soffocante, e la nave aveva cominciato a rollare in modo sgradevole, assecondando le lente ondulazioni della corrente. Lei si sentiva senza fiato e nauseata, ma anche decisa a non farlo capire. Sir Guy ruppe il silenzio. «Hai turbato molto tua madre con queste storie assurde.» Caroline singhiozzò in modo drammatico, soffiandosi di nuovo il naso. «C'è una lancia veloce, arrivata da Bombay questa mattina con un corriere diplomatico. Intendo rimandarla al consolato.» «Non voglio andare», disse Verity con calma. «No, infatti», confermò Sir Guy. «Tua madre partirà, mentre tu resterai qui con me. Assistere all'esecuzione di quei ribelli per i quali hai espresso un interesse così malsano dovrebbe essere una lezione esemplare.» Poi gli venne in mente che Verity conosceva troppi aspetti delle sue attività, e che quelle sue conoscenze così approfondite avrebbero potuto rivelarsi pericolose, se avesse deciso di usarle contro di lui. Non poteva assolutamente perderla di vista. «Padre, i ribelli di cui parlate sono vostro fratello e suo figlio», disse Verity, interrompendo le sue riflessioni. Sir Guy non tradì la minima reazione. In tono pacato, riprese: «Stando a ciò che mi ha detto tua madre, ti sei comportata in modo sconveniente col giovane arabo. Hai forse dimenticato di essere una donna inglese?» Wilbur Smith
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«Umiliate voi stesso, formulando una simile accusa.» «E tu umili me e la tua famiglia col tuo comportamento inconcepibile. Fosse anche solo per questo, devi essere punita.» Si avvicinò allo scrittoio per prendere il frustino da equitazione di stecche di balena che vi era posato sopra, poi si girò di nuovo verso di lei. «Spogliati!» le ordinò. Lei rimase immobile, col volto inespressivo. «Obbedisci a tuo padre», esclamò Caroline. «Sgualdrinella arrogante che non sei altro...» Aveva smesso di piangere, e la sua voce aveva assunto un tono vendicativo e compiaciuto. «Spogliati subito», ripeté Guy. «Altrimenti chiamo due marinai e ti faccio spogliare da loro.» Verity portò le mani alla gola, sciogliendo il nastro che teneva chiusa la camicetta. Quando infine rimase nuda davanti a loro, alzò il mento con aria di sfida e si sciolse i capelli, lasciandoli ricadere sulle spalle per velare i seni giovani e fieri e coprire le parti intime. «Stenditi a faccia in giù sul divano», ordinò Sir Guy, e lei obbedì, camminando a testa alta, poi si stese sul divano di cuoio verde trapunto, che faceva risaltare le linee dolci e purissime del suo corpo, simile a un marmo di Michelangelo. Non voglio gridare, si disse, anche se i muscoli si contrassero istintivamente quando il frustino sibilò sulle natiche. Non voglio concedergli questo piacere, si ripromise, chiudendo gli occhi, mentre il colpo successivo si abbatteva sulla parte posteriore delle cosce. Pungeva come il morso di uno scorpione. Si morse il labbro fino a sentire il gusto salmastro e metallico del sangue. Alla fine, Sir Guy si tirò indietro, col respiro affannoso per lo sforzo. «Puoi rivestirti, sgualdrina svergognata», le disse, ansimando. Lei si mise lentamente a sedere, tentando d'ignorare il fuoco che le consumava il dorso e le gambe. Il cavallo dei pantaloni del padre era all'altezza dei suoi occhi, e lei sorrise con gelido disprezzo nel vedere la prova tumescente della sua eccitazione. Lui si affrettò a voltarsi, gettando il frustino sullo scrittoio. «Sei stata sleale e scorretta nei miei confronti, quindi non posso più fidarmi di te. Ti terrò segregata nella tua cabina finché non avrò deciso quale altra punizione sia più appropriata», l'ammonì.
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Dorian e Mansur erano riuniti con gli sceicchi sulla balconata del minareto, e guardavano i pennacchi e i fastigi degli elmi di bronzo delle truppe d'assalto turche, visibili al di sopra dei parapetti, mentre risalivano le trincee di avvicinamento scavate nel terreno. Quando si ammassarono ai piedi delle mura, le potenti batterie di Zayn al-Din raddoppiarono l'intensità del fuoco. Avevano cambiato tipo di munizioni: anziché lanciare palle di pietra, spazzavano i parapetti e le brecce con cariche di mitraglia e frammenti di ghisa. I cannoni tacquero e i trombettieri turchi suonarono la carica, mentre i tamburi scandivano un ritmo incalzante. Dalla testa delle trincee eruppe una massa di turchi urlanti. Mentre coprivano di corsa le ultime iarde che li separavano dalle brecce, le armi dei difensori sui parapetti aprirono il fuoco, e gli arcieri scagliarono nubi di frecce. Gli assedianti che guidavano la carica riuscirono a superare il tratto allo scoperto prima che gli artiglieri potessero ricaricare e, sebbene lasciassero sul terreno morti e feriti, altre truppe fresche avanzavano a ondate per prendere il posto dei caduti. Si arrampicarono sulle macerie dei blocchi di pietra, assaltando le brecce e, non appena superate le mura, si trovarono in un dedalo di vicoli stretti e strade sbarrate. Dorian aveva ordinato di costruire barricate ovunque. I turchi dovettero prenderne d'assalto molte, lanciandosi alla carica sotto un fitto fuoco di moschetto a distanza ravvicinata. Quando riuscivano a scalare l'ostacolo, i difensori si ritiravano dietro la linea successiva e i turchi dovevano attaccare di nuovo. Erano incursioni faticose e cruente, ma, un po' alla volta, le truppe ormai decimate di Mansur e bin Shibam furono respinte verso il suk principale, e i turchi riuscirono ad aggirarle per raggiungere la porta della città. Massacrarono gli uomini che tentavano di difendere gli argani e spalancarono i battenti della porta. Fuori, erano in attesa Kadem e Koots, alla testa di duemila turchi, che dilagarono subito all'interno. Dall'alto del minareto, Dorian li vide invadere le strade strette come un'inondazione. Si sentì sollevato al pensiero che, negli ultimi mesi, era riuscito a far uscire di nascosto dalla città quasi tutte le donne e i bambini, inviandoli nel deserto, perché in quel momento sarebbero stati come agnelli per i lupi. Non appena la porta principale fu aperta, fece issare la bandierina col segnale previsto per la Sprite e la Revenge. Poi si rivolse a consiglieri e comandanti. Wilbur Smith
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«È finita», disse loro. «Vi ringrazio per il vostro coraggio e la vostra lealtà. Prendete i vostri uomini e fuggite, se potete. Ci batteremo di nuovo in un'altra occasione.» Uno alla volta, si fecero avanti per abbracciarlo. Bin Shibam era coperto di polvere e fumo, e aveva la veste macchiata dal sangue ormai secco sgorgato da una mezza dozzina di ferite superficiali, mescolato al sangue dei turchi che aveva ucciso. «Attenderemo il tuo ritorno», gli sussurrò. «Sai bene dove trovarmi. Mandami un messaggero, quando sarà tutto pronto, e tornerò subito da voi», gli disse Dorian. «Se Allah vorrà. Sia lodato Allah.» «Allah è grande», risposero gli altri. I cavalli erano in attesa nei vicoli dietro la piccola porta settentrionale. Quando la porta fu aperta, Mustafa Zindara, bin Shibam e il resto del consiglio partirono alla testa dei loro uomini, combattendo per farsi largo tra gli aggressori che accorrevano per tagliare loro la strada e allontanandosi al galoppo tra i palmizi e i campi irrigati. Dorian li seguì con lo sguardo dall'alto del minareto, poi udì un suono di passi sulla scala di marmo e si voltò, con la spada in mano. Per un attimo stentò a riconoscere il figlio, coperto da uno strato di sporco e di fuliggine. «Vieni», disse Mansur. «Dobbiamo affrettarci.» Insieme scesero di corsa le scale, trovando Istaph e dieci uomini che li attendevano nella navata della moschea. «Da questa parte.» Un imam uscì dall'ombra, gesticolando. Si affrettarono a seguirlo, mentre li conduceva attraverso un labirinto di passaggi fino a una piccola porta di ferro tempestata di borchie. L'imam aprì la serratura e Mansur spalancò il battente con un calcio. «Resta, con la benedizione di Allah», disse Dorian all'imam. «E voi andate, con la benedizione di Allah», replicò lui. «E possa Egli riportarvi presto a Oman.» Superando la porta di corsa, si trovarono in un vicolo buio, così stretto che le balconate chiuse dai graticci ai piani superiori degli edifici abbandonati rischiavano di toccarsi. «Da questa parte, maestà!» Istaph era nato in città, e quei vicoli erano stati il suo terreno di gioco, quand'era bambino. Gli corsero dietro, sbucando di nuovo al sole. Davanti a loro si aprivano le acque del porto, e la lancia della Sprite attendeva nella baia per portarli al largo. Mansur lanciò un grido, agitando il braccio in direzione di Kumrah, che era alla Wilbur Smith
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barra. I rematori si chinarono sui remi all'unisono e la barca partì veloce verso di loro. In quel momento, si udì un vociare furioso alle loro spalle. Una folla di soldati turchi e del califfato di Oman si riversò sul molo dall'imboccatura di uno dei vicoli. Erano lanciati alla carica contro di loro, e la prima fila era irta di lunghe picche e armi dalla lama affilata e scintillante. Dorian lanciò un'occhiata al di sopra della spalla e si accorse che la barca era ancora lontana di una distanza pari alla gittata di una pistola. «State uniti!» gridò, e tutti formarono un cerchio compatto in cima ai gradini dell'approdo, a spalla a spalla, rivolti verso l'esterno. «Al-Salil!» gridò l'arabo che guidava l'attacco. Era alto e snello, e si muoveva come un leopardo. I lunghi capelli gli spiovevano lisci sulle spalle, sferzati dal vento, mentre la barba lunga fino al petto era riccia. «Al-Salil!» ripeté. «Sono venuto per te.» Dorian riconobbe lo sguardo feroce del fanatico. «Kadem...» Mansur lo riconobbe nello stesso istante, e nella sua voce risuonò la forza dell'odio. «Sono venuto anche per te, cucciolo bastardo di un cane e di una cagna in calore!» gridò ancora Kadem. «Dovrai prendere prima me.» Dorian fece un passo avanti, e Kadem gli si lanciò addosso. Le loro lame si scontrarono con un suono deciso quando Dorian parò il colpo di taglio alla testa e tentò a sua volta una risposta puntando alla gola di Kadem. L'acciaio tintinnò e graffiò l'acciaio. Era la prima volta che incrociavano le lame, ma Dorian capì subito che Kadem era un avversario pericoloso. Aveva un braccio destro rapido e potente e, nella mano sinistra, stringeva un pugnale ricurvo, pronto a colpire alla minima apertura. «Tu hai assassinato mia moglie!» ringhiò Dorian, lanciandosi in un nuovo affondo. «Ringrazio il cielo di aver potuto compiere quel dovere. Avrei dovuto uccidere anche te», rispose Kadem. «Per conto di mio padre.» Mansur si batteva alla destra di Dorian, e Istaph a sinistra, per proteggerlo ai fianchi, ma stando anche ben attento a non ostacolargli la visuale o impedirgli di usare il braccio armato di spada. Un passo alla volta cedettero terreno, ritirandosi verso l'estremità dell'approdo, mentre gli aggressori li incalzavano da vicino. Dorian sentì l'urto della prua della lancia contro il muro di pietra ai loro Wilbur Smith
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piedi, e Kumrah gridò: «Venite, al-Salil!» I gradini, ricoperti di alghe verdi, erano viscidi e Kadem, vedendo che Dorian stava per sfuggire di nuovo alla sua vendetta, si slanciò in avanti, furibondo. Dorian fu respinto di un altro passo sull'ultimo gradino e perse l'equilibrio sulla superficie scivolosa. Posò un ginocchio a terra e, per recuperare il controllo, dovette abbassare per un attimo la punta. Kadem intuì che quella era la sua occasione e si slanciò in avanti, portando tutto il peso sul piede destro e puntando al cuore. Nell'attimo in cui suo padre posò un ginocchio sul gradino, Mansur anticipò la reazione di Kadem e si girò, tenendosi pronto. Kadem spinse il corpo in avanti e per un istante, lanciandosi all'attacco, lasciò scoperto il fianco sinistro. Mansur lo colpì, avventandosi al di sotto del braccio sollevato. Nel colpo mise tutta la collera, l'odio e il dolore per la morte della madre. Si aspettava di sentire la punta scivolare in profondità, avvertendo la riluttanza delle carni vive ad aprirsi di fronte all'acciaio; invece percepì la vibrazione intensa causata dall'urto dell'acciaio contro una vertebra di Kadem. Il polso si torse leggermente e la punta deviò. In ogni modo, la ferita seguì tutto l'arco esterno della gabbia toracica di Kadem, risalendo verso la scapola. Non toccò nessun organo vitale, tuttavia la violenza del colpo spinse Kadem di lato, sviando l'assalto che intendeva portare a Dorian. Kadem girò su se stesso, allontanandosi; Mansur liberò la lama e colpì ancora. Ma Kadem riuscì, con uno sforzo violento, a parare il secondo colpo, e Dorian balzò di nuovo in piedi. Padre e figlio attaccarono insieme Kadem, ansiosi di ucciderlo. Il sangue che sprizzava dalla ferita sotto il braccio gli colava come una cascata lungo il fianco. Il trauma del colpo e la consapevolezza che si trovava in pericolo mortale, braccato da due spadaccini esperti, fecero sbiancare il viso di Kadem, che divenne di un pallore malsano. «Effendi!» gridò Kumrah dalla barca. «Venite, altrimenti finiremo in trappola. Stanno arrivando altri turchi.» I nemici si affollavano all'imbocco del vicolo, precipitandosi verso di loro. Rendendosi conto della loro situazione, Dorian esitò per un attimo, e tanto bastò a Kadem per spiccare un balzo e disimpegnarsi. All'istante due turchi con la corazza subentrarono al suo posto, avventandosi contro Dorian. Quando lui tentò di colpirli, la lama della spada rimbalzò sulla cotta di maglia. «Basta così!» grugnì. «Ripiegate verso la barca!» Mansur fece una finta Wilbur Smith
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verso il viso barbuto di uno dei turchi e, quando l'avversario schivò, avanzò per coprire il padre. «Corri!» urlò. In quel momento, Dorian prese a scendere di corsa la scaletta. Istaph e gli altri erano già a bordo, quindi Mansur era rimasto solo all'inizio del molo. Una fila di picche e scimitarre lo sospingeva indietro. Lui scorse per un attimo Kadem ibn Abubaker che ancora lo fissava con odio dalle retrovie degli aggressori: la ferita non aveva intaccato la sua collera. «A morte!» gridò. «Non lasciatevi scappare quel porco!» «Mansur!» sentì gridare dal padre, a prua della lancia. Eppure sapeva che, se avesse tentato di scendere di corsa la scala, uno degli uomini con le picche gli avrebbe conficcato l'arma nella schiena. Si voltò, ululando e lanciandosi oltre il ciglio di pietra del molo. Dopo un salto di dieci piedi, finì semidisteso su uno dei banchi per i rematori, con le gambe in avanti. Il fasciame pesante scricchiolò sotto il suo peso, e lui ricadde in avanti. La barca rollò con violenza e Mansur rischiò di finire fuori bordo, ma Dorian lo afferrò e lo trattenne. I rematori fecero forza all'unisono e la barca scattò in avanti. Da poppa, Dorian lanciò uno sguardo all'indietro, proprio mentre Kadem raggiungeva barcollando l'estremità del molo. Aveva abbandonato la spada e si stringeva la ferita sotto il braccio. Tra le dita gli colava il sangue. «Non sfuggirai alla mia vendetta!» gridava. «Hai le mani e la coscienza sporche del sangue di mio padre. Ho giurato al cospetto di Allah di ucciderti. Ti seguirò sino alle porte dell'inferno.» «Non capisce il vero significato della parola odio», sussurrò Dorian. «Un giorno spero d'insegnarglielo.» «Condivido le tue intenzioni», disse Mansur. «Ma ora dobbiamo raggiungere le navi nella baia e prendere il largo, superando tutta la flotta di Zayn.» Dorian si riscosse, accantonando la sofferenza angosciosa causata dal dolore e dall'odio, per voltarsi a guardare l'imboccatura della baia. C'erano quattro grandi dhow da guerra all'ancora in vista e altri due in navigazione. «Nessun avvistamento dell'Arcturus?» chiese a Mansur. «Negli ultimi tre giorni, no, ma possiamo stare certi che non è lontana; forse si tiene semplicemente al di sotto della linea dell'orizzonte.» Dorian salì a bordo della Revenge e di lì gridò a Mansur, rimasto sulla lancia: «Dobbiamo cercare di tenerci sempre in contatto visivo, ma ci sarà Wilbur Smith
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sicuramente da combattere. Se dovessimo restare separati, conosci il punto fissato per l'incontro». «Isola di Sawda, punta nord», replicò Mansur con un cenno di saluto. «Ti aspetterò laggiù.» S'interruppe nel sentire il rombo improvviso di un colpo di cannone e si voltò verso le mura della città, al di sopra del porto. Sul parapetto era sbocciata una nuvola di fumo, sollevata dall'esplosione della polvere, che fu subito dispersa dal vento. Pochi istanti dopo, una fontana di spruzzi si alzò dalla superficie del mare lungo la murata della Sprite. «Il nemico si è impadronito delle batterie», gridò Dorian. «Dobbiamo salpare subito.» Un altro colpo di cannone risuonò prima che Mansur raggiungesse la Sprite. Sebbene il tiro fosse di gran lunga troppo corto, Mansur sapeva che ben presto gli artiglieri avrebbero regolato la gittata dei pezzi. «Remate!» gridò agli uomini. «Forza, altrimenti sarete costretti a nuotare!» L'equipaggio della Sprite, incalzato dalla pioggia di cannonate, aveva già ritirato il cavo dell'ancora e si teneva pronto a recuperare la lancia con le cime che pendevano dalle gru. Non appena salito a bordo, Mansur fece issare il fiocco per puntare verso l'ingresso della baia e, mentre la Sprite virava al vento, Kumrah spiegò tutta la velatura. La brezza di terra della sera si era già alzata e soffiava costante da ponente. Era la loro andatura migliore e volarono verso l'imboccatura della baia. Quando furono all'altezza della Revenge, quest'ultima prese accollo la randa di maestra per consentire alla Sprite di passare in testa. L'ingresso era insidioso, disseminato di secche, ma Kumrah conosceva quelle acque ancora meglio di Batula, il comandante della Revenge, e quindi avrebbe fatto da guida. Fino a quel momento, Mansur non si era reso conto di come fosse passata in fretta la giornata. Il sole era già basso sulle cime montuose alle loro spalle, mentre la luce era dorata e intensa. Le batterie sui parapetti di Muscat li bersagliavano ancora di cannonate. Un colpo fortunato aprì un foro netto nella vela di straglio di gabbia, ma, proseguendo a velocità costante, uscirono dalla portata dei cannoni per affrontare lo schieramento di navi che bloccava l'entrata. Due dei dhow da guerra avevano salpato l'ancora e issato l'enorme vela latina per attraversare il canale e intercettarli. La loro navigazione era lenta, in confronto alla velocità dei Wilbur Smith
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due schooner molto più piccoli, e rimasero molto più indietro, anche se non sfruttavano al massimo la brezza tesa della sera. Al contrario, gli schooner avevano spiegato tutte le vele e puntavano verso l'uscita della baia. Osservando il ponte della sua nave, Mansur vide che i serventi dei pezzi erano tutti ai loro posti, anche se non avevano ancora puntato i cannoni caricati con proietti rotondi, che la miccia a lenta combustione ardeva già nei mastelli di sabbia e gli uomini ridevano e parlavano con eccitazione. I giorni interi di esercitazioni, oltre al successo dell'attacco iniziale alla fanteria turca, li avevano rassicurati sulle proprie capacità. La forzata inattività delle ultime settimane, che erano stati costretti a trascorrere all'ancora nella baia, li aveva logorati, ma adesso che Mansur e al-Salil si trovavano di nuovo al comando della piccola flotta erano ansiosi di attaccare battaglia. Kumrah apportò una piccola correzione alla rotta e Mansur, sebbene si fidasse di lui, provò una fitta di disagio: la direzione scelta da Kumrah li avrebbe portati in mezzo alla risacca spumeggiante, a ridosso delle pareti di roccia che sorvegliavano l'accesso alla baia. Non appena la deviazione impressa da Kumrah apparve evidente, il dhow da guerra più vicino modificò la rotta per dirigere dalla loro parte, e cominciarono rapidamente a convergere. Mansur puntò il cannocchiale per studiare il dhow, carico di uomini, schierati lungo la battagliola, che brandivano le armi. La nave aveva già puntato contro di loro i grossi cannoni. «È armata con gli Ostra a canna corta», gli disse Kumrah. «Non li conosco.» «Non mi sorprende. Devono essere più antichi di vostro nonno e molto meno potenti», esclamò Kumrah, ridendo. «Allora mi pare che il pericolo di finire contro la barriera di rocce sia molto più immediato che quello di ricevere una cannonata da quelle armi vetuste», replicò Mansur con intenzione. Erano ancora lanciati a tutta velocità verso le pareti di roccia. «Altezza, dovete avere fede in Allah.» «In Allah ho fede; è il comandante della mia nave a preoccuparmi.» Kumrah sorrise, mantenendo la rotta. Il dhow sparò la prima bordata irregolare con tutti i quindici cannoni di dritta, benché la gittata non raggiungesse ancora la metà della distanza che li separava. Mansur riuscì a Wilbur Smith
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scorgere un solo proietto, e anche quello aveva una portata inferiore alla metà di quella di un moschetto. Eppure giunsero fino a loro, affievolite dalla distanza, le grida di giubilo dell'equipaggio. L'enorme dhow e le due piccole navi continuavano a convergere e, a poco a poco, mentre si avvicinavano tra le acque bianche di spuma, il clamore degli uomini del dhow si spense e, con esso, anche le esibizioni di spirito bellicoso. «Sei riuscito benissimo a terrorizzare il nemico, e anche me», disse Mansur. «Intendi davvero condurci verso la barriera e ridurci in pezzi, Kumrah?» «Da bambino venivo a pescare in queste acque, come mio padre e mio nonno prima di me», gli disse l'altro, a mo' di rassicurazione. La barriera si stagliava ancora davanti a loro, chiudendo rapidamente l'orizzonte. Il dhow sparò un'altra bordata, ma era evidente che gli uomini ai pezzi erano distratti dalla minaccia del corallo. Una sola palla di pietra passò ululando sulla Sprite e recise una sartia dell'albero di mezzana, ma Kumrah mandò subito due uomini a sostituirla. Poi, senza ridurre la velatura, imboccò uno stretto canale nella barriera che Mansur non aveva notato prima di allora. Era largo appena quanto bastava per accogliere lo scafo dello schooner. Mentre filavano nel passaggio a tutta velocità, Mansur guardò, affascinato e atterrito, e vide enormi teste di corallo a forma di fungo che sfioravano lo scafo, a meno di un braccio dal pelo dell'acqua che ribolliva. Uno qualsiasi di quegli ostacoli avrebbe squarciato la carena della Sprite. Per i nervi del comandante del dhow, quello era davvero troppo. Mansur lo vide ritto a poppa della sua nave, mentre gridava e gesticolava. I suoi uomini abbandonarono le postazioni dei cannoni per affrettarsi ad ammainare la vela latina, gonfia di vento, e virare di bordo. Dopo aver ammainato la vela, dovevano passare il boma dalla parte opposta dell'albero e poi riportarlo sul lato di sinistra. Era una manovra laboriosa e, mentre l'equipaggio era così impegnato, il dhow rollava senza pietà. «Pronti alla virata!» ordinò Kumrah, e gli uomini corsero agli stralli. Il comandante guardava fisso in avanti, ombreggiandosi gli occhi con una mano per valutare il momento giusto. «Vira!» gridò poi al timoniere, e lui girò la ruota così in fretta che i raggi si confusero in una sola immagine. La Sprite piroettò, seguendo la svolta a zigzag del canale nella barriera. Uscirono a tutta velocità, ritrovandosi in acque più profonde, mentre alle Wilbur Smith
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loro spalle il dhow continuava a rollare, con la vela fileggiante e i cannoni privi di serventi. «Armare i cannoni di dritta!» ordinò Mansur, e i portelli dei boccaporti si aprirono con uno schianto. Incrociarono di poppa il dhow così da vicino che Mansur avrebbe potuto lanciare il turbante sul ponte di coperta. «Fuoco a volontà!» I cannoni spararono in rapida successione, e ogni proietto colpì la poppa del dhow. Mansur vide il fasciame schiantarsi ed esplodere, sollevando nuvole di schegge di legno. Una di queste, lunga quanto il suo braccio, si conficcò nell'albero vicino al suo orecchio, come una freccia. A distanza così ravvicinata, neppure un colpo fallì il bersaglio, e le palle di ferro devastarono il dhow da poppa a prua. Dall'equipaggio si levarono grida di terrore e sofferenza, mentre la Sprite filava oltre, verso il mare aperto. Seguendola da vicino attraverso il canale nella barriera di corallo, la Revenge piombò a sua volta sulla nave già malconcia. Passandole accanto, la colpì ancora, e l'unico albero del dhow si spezzò e cadde fuori bordo. Mansur guardò davanti a sé: la via era libera. Nessuno degli altri dhow era in posizione tale da poter intercettare la loro rotta. La manovra - in apparenza suicida - di Kumrah li aveva colti di sorpresa. «Ritirate i cannoni!» ordinò. «Chiudete i portelli e rizzate gli affusti.» Voltandosi, vide la Revenge a mezzo cavo di distanza da loro, mentre il dhow disalberato era rimasto molto più indietro e andava alla deriva, sospinto dal vento verso la barriera. La investì e sussultò con violenza. Attraverso il cannocchiale, vide l'equipaggio che cominciava ad abbandonare la nave. Gli uomini si gettavano fuori bordo, finivano in acqua lungo la murata con minuscoli spruzzi bianchi e poi puntavano verso la riva. Mansur si domandò quanti di loro sarebbero sopravvissuti alla corrente intensa ai piedi delle rocce e alle zanne acuminate della barriera corallina. Prendendo qualche mano di terzaroli dalla randa di maestra, lasciò che la Revenge si affiancasse alla nave, avvicinandosi a sufficienza perché gli fosse possibile parlare col padre attraverso il megafono. «Di' a Kumrah di non farci mai più uno scherzo del genere! Ci hai fatto passare attraverso le porte dell'inferno.» Kumrah si mostrò profondamente pentito e Dorian abbassò il megafono, rendendo omaggio ai suoi nervi saldi e alla sua astuzia, poi sollevò di nuovo lo strumento. Wilbur Smith
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«Tra un'ora sarà buio. Terrò accesa una sola lanterna sul boccaporto di poppa perché possiate mantenere la posizione. Se durante la notte dovessimo separarci, il punto d'incontro resta lo stesso di sempre, l'isola di Sawda.» La Revenge passò in testa e la Sprite si mise nella sua scia. Dorian aveva deciso già da alcune settimane la loro destinazione finale. Ormai c'era un unico porto in tutto l'oceano Indiano che fosse aperto per loro. Zayn teneva sotto controllo tutta la costa della Febbre e i porti di Oman, gli olandesi avevano Ceylon e Batavia, la Compagnia Inglese delle Indie Orientali controllava tutta la costa dell'India, e Sir Guy avrebbe provveduto a interdire loro anche quella. Restava soltanto il rifugio sicuro di Fon Auspice, nella baia della Natività. Laggiù avrebbero potuto rinnovare le loro riserve e fare progetti per il futuro. Dorian aveva contrassegnato la carta e fornito a Mustafa Zindara e bin Shibam le indicazioni per raggiungere via mare Fort Auspice. Non appena fosse stata raggiunta un'alleanza fra le tribù del deserto e avessero ultimato i preparativi per il suo ritorno, avrebbero mandato una nave a cercarlo laggiù. Avrebbero però avuto bisogno di molte rupie d'oro e di alleati forti, e lui non sapeva ancora dove trovare le une e gli altri, ma in seguito ci sarebbe stato tempo per riflettere anche su quei problemi. Si dedicò quindi a compiti più immediati, come la rotta, che tracciò per lasciare il golfo di Oman, est via est. Una volta raggiunto il mare aperto, avrebbero puntato direttamente verso il Madagascar, riprendendo poi la corrente del Mozambico per farsi trasportare a sud. Mansur tenne dietro alla Revenge e proseguirono la navigazione in un tramonto la cui grandiosità suscitava un moto di rispetto. Imponenti cumuli temporaleschi marciavano lungo l'orizzonte occidentale al ritmo di tuoni lontani e il sole calante li rivestiva di un rosa dorato e di un azzurro cobalto scintillante. Eppure, nonostante tutta quella bellezza, Mansur non riusciva a scrollarsi di dosso il fardello improvviso della malinconia che lo opprimeva. Stava lasciando una terra e un popolo che aveva imparato ad amare, e si era visto strappare la promessa di un regno e del Trono dell'Elefante; ma tutto ciò passava in secondo piano se pensava alla fanciulla che aveva perduto prima ancora di conquistarla. Prese dalla tasca interna della tunica la lettera che teneva vicina al cuore per rileggere ancora una volta le sue parole.
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Ieri notte mi hai chiesto se provavo qualcosa per te. Allora non ti ho voluto rispondere, ma lo faccio adesso. Sì. Gli sembravano le parole più belle che fossero mai state scritte. La notte scese con la drammatica repentinità caratteristica dei tropici, benché le stelle occhieggiassero ancora dagli squarci aperti nell'alto baldacchino formato dalle nubi temporalesche: entro breve tempo, quegli squarci sarebbero stati chiusi dal sopraggiungere della tempesta e l'oscurità sarebbe stata completa, fatta eccezione per la minuscola lucciola della lanterna a poppa della Revenge. Senza neanche cercarsi un posto per dormire, Mansur si appoggiò alla chiesuola della bussola, scivolando in una serie di romantiche fantasticherie e sognando per almeno metà della notte. D'un tratto si sentì scuotere dal bagliore di un fulmine che andava dal soffitto di nuvole fino alla superficie del mare, seguito immediatamente da un tuono fragoroso. Per un attimo la Revenge gli apparve davanti nell'oscurità, circondata da un alone di un blu intenso che faceva risaltare tutti i dettagli dell'alberatura e delle vele, poi ripiombò in un buio ancora più fitto di prima. Mansur si raddrizzò, correndo alla battagliola di dritta. Nel lampo accecante del fulmine gli era sembrato di vedere qualcos'altro, come un lampo evanescente di luce riflessa, quasi all'orizzonte. «L'hai vista?» gridò a Kumrah, che era al suo fianco. «La Revenge?» rispose l'altro dall'oscurità, in tono perplesso. «Sì, altezza. Non dista da noi più della lunghezza di un cavo. Laggiù si vede ancora la lanterna di poppa.» «No, no!» gridò ancora Mansur. «Non a poppa. A prua. Qualcos'altro.» «No, padrone, non ho visto niente.» Scrutarono entrambi l'oscurità della notte, poi il fulmine apparve di nuovo, come un gigantesco colpo di frusta, e subito dopo il tuono li assordò, facendo rabbrividire la superficie buia del mare con la mostruosa potenza della sua scarica. In quell'attimo fuggente di visuale nitida come un diamante, Mansur la vide di nuovo. «Laggiù!» esclamò, afferrando Kumrah per la spalla e scrollandolo con violenza. «Laggiù! L'hai vista, stavolta?» «Una nave, un'altra nave! L'ho vista bene!» «A quale distanza?» Wilbur Smith
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«A due miglia nautiche, non di più. Una nave alta, con la velatura quadra, non un dhow.» «E l'Arcturus! Ci aspetta per tenderci un'imboscata.» Mansur guardò disperato la nave del padre, notando che la lanterna rivelatrice ardeva ancora a poppa. «La Revenge non ha visto il pericolo.» «Dobbiamo raggiungerla per avvertirla», esclamò Kumrah. «Anche se dovessimo issare tutte le vele non riusciremmo a raggiungere la Revenge e arrivare a portata di voce entro un'ora... A quel punto potrebbe essere troppo tardi.» Esitò solo un istante, poi prese una decisione. «Fa' suonare il segnale per chiamare gli uomini ai posti di combattimento e spara un colpo di cannone per avvertire la Revenge. Poi vira e fila a intercettare il nemico. Non accendere le lanterne di combattimento finché non darò l'ordine. Che Allah ci conceda di cogliere il nemico di sorpresa.» I tamburi di guerra risuonarono nell'oscurità e, mentre gli uomini dell'equipaggio si affrettavano ai posti di combattimento, risuonò un colpo di cannone perentorio. Non appena la Sprite completò la virata, Mansur scrutò l'altra nave, aspettandosi che spegnesse la lanterna o desse qualche segno di aver udito il colpo di avvertimento, ma, proprio in quell'istante, le nubi si squarciarono e la pioggia cominciò a cadere a dirotto. Tutto andò perduto in quella cascata d'acqua tiepida che sembrava riempire l'aria stessa, saturandola e soffocando ogni fievole bagliore di luce e ogni altro suono che non fosse il rombo dei goccioloni sulla tenda di tela e sul tavolato del ponte. Mansur tornò di corsa verso la chiesuola per prendere un rilevamento frettoloso, ma sapeva bene che non poteva essere preciso; in ogni caso, anche la nave nemica poteva aver individuato la loro posizione, cambiando di conseguenza rotta e direzione. Le possibilità di rintracciarla in quel diluvio erano molto remote: avrebbero potuto incrociarsi alla distanza di mezza gittata di pistola senza neanche accorgersi l'una della presenza dell'altra. «Volta la clessidra e traccia un segno sulla tavola della timoneria», ordinò al timoniere. Forse sarebbe riuscito a intercettarla ricorrendo alla navigazione stimata. Poi scattò, rivolto a Kumrah: «Metti alla ruota due uomini in gamba». Precipitandosi a prua, aguzzò lo sguardo per scorgere - in mezzo alle cortine di pioggia accecante - la lanterna a poppa della Revenge, e ricavò Wilbur Smith
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ben scarso conforto dal fatto che non riusciva a vedere né sentire niente. Dio voglia che mio padre si sia accorto del pericolo e abbia spento la lanterna. Altrimenti potrebbe condurre Sir Guy fino a sé, e verrebbe colto di sorpresa. Meditò persino di sparare un altro colpo di cannone per sottolineare la gravità del pericolo, ma scartò l'idea quasi subito. Un secondo colpo avrebbe soltanto complicato la situazione: il padre avrebbe potuto credere che la Sprite fosse già impegnata in combattimento con un nemico, e ciò avrebbe messo sull'avviso l'Arcturus, attirandola verso la preda. Invece continuò a navigare nel buio più assoluto, sotto quei torrenti di pioggia calda come sangue. «Manda in coffa gli uomini con la vista più acuta», ordinò a Kumrah, in tono cupo. «E avverti gli artiglieri di tenersi pronti a caricare i pezzi da un momento all'altro. Se c'imbatteremo nel nemico, non avremo molto tempo.» La clessidra fu girata due volte, e ancora navigavano al buio, e tutti gli uomini a bordo avevano acuito al massimo la loro sensibilità per captare qualunque segnale della nave nemica, mentre la pioggia continuava a cadere, incessante. Il nemico potrebbe aver tirato dritto senza individuarci, rifletté Mansur, meditando sulle possibilità e sulle scelte che gli si prospettavano. Tuttavia può anche aver virato per intercettarci, lasciandoci passare a breve distanza. In questo momento potrebbe essere sul punto di piombare addosso alla Revenge, che è del tutto ignara del pericolo. «Ammaina le vele, e avverti tutti gli uomini di tenere gli occhi e le orecchie bene aperti», ordinò a Kumrah. Rimasero appostati in silenzio, immersi nell'oscurità, e trascorse un'altra ora, misurata dal lieve scorrere della sabbia nella clessidra. La pioggia diminuì e si alzò la brezza tonificante che soffiava verso nord, carica degli aromi speziati del deserto, non troppo lontano. Quando la pioggia cessò, Mansur stava per impartire l'ordine di issare di nuovo le vele, allorché un riverbero intermittente rischiarò l'oscurità verso poppa. Sembrava il riflesso della luce di una candela sul ventre gonfio dei minacciosi cumuli di nuvole basse. Trattenne il fiato, contando lentamente fino a cinque, poi gli giunse il suono: il rombo inconfondibile dei cannoni. «L'Arcturus ci ha persi, ma ha trovato la Revenge, e hanno ingaggiato un combattimento», gridò, ordinando poi al comandante: «Vira!» Con la brezza notturna al giardinetto, la Sprite volò nel buio della notte, Wilbur Smith
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mentre Mansur e Kumrah si sforzavano di spremerle fino all'ultimo nodo di velocità. Davanti a loro, il riflesso tremolante e il rombo delle salve di cannone erano quasi ininterrotti, e diventavano sempre più vistosi e sonori a mano a mano che loro si avvicinavano. Che Allah ci conceda di arrivare in tempo, pregava Mansur. Mentre guardava fisso in avanti, il vento - o forse un moto dell'animo, benché non sapesse identificarlo - gli fece salire le lacrime agli occhi. In quel vortice di spari e di fiamme che si profilava in lontananza erano coinvolte le due persone che amava di più, e lui non era in grado d'intervenire. Per quanto la Sprite tenesse bene il mare e corresse sospinta dalla brezza con la velocità di una cerbiatta incalzata da una muta di cani, era sempre troppo lenta per il cuore di Mansur. Tuttavia la distanza diminuiva a ritmo costante e Mansur, stando a prua e bilanciandosi per compensare il movimento incalzante dello scafo, riuscì finalmente a distinguere le sagome delle due navi. Erano impegnate in uno scontro terribile, illuminato dal bagliore della bocca dei cannoni. Si avvide che erano sul bordo opposto rispetto all'Arcturus e si sarebbero incrociati di prua ad angolo acuto, quindi poté gridare a Kumrah di virare al punto giusto per portare la Sprite sulla rotta di collisione. Ormai la distanza si riduceva rapidamente, e lui riusciva a distinguere anche i dettagli del combattimento. Dorian, a bordo della Revenge, era riuscito chissà come a prendere il sopravvento sul comandante Cornisti, e ora lo teneva a distanza, frustrando i suoi tentativi di affiancarglisi con l'Arcturus e abbordarlo. Cornish, a sua volta, bloccava ogni tentativo da parte di Dorian di portare la Revenge col vento in poppa, l'andatura che preferiva, per sfuggire a un avversario superiore. In quella formazione, le due navi erano quasi perfettamente alla pari per quanto riguardava la velocità, e la Revenge non sarebbe riuscita ancora per molto a evitare la nave più grande. In un duello di logoramento come quello, l'esito finale dipendeva dalla potenza dei cannoni. In ogni modo la Sprite si stava avvicinando in fretta, e tra poco avrebbe potuto far valere anche il proprio peso in quello scontro impari. Allora la bilancia si sarebbe inclinata dalla loro parte. Se soltanto fosse riuscito ad arrivare prima che l'Arcturus potesse uncinare e abbordare la nave più piccola! Mansur si avvicinò sempre più con la Sprite alle altre due navi. Anche se il suo impulso era di entrare in scena con audacia, scagliandosi contro l'Arcturus, tenne a freno i suoi istinti bellicosi e manovrò nel vento. Wilbur Smith
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Sapeva di essere ancora avvolto dall'oscurità, invisibile ai comandanti e agli equipaggi delle due navi, quindi doveva sfruttare al massimo il vantaggio dato dalla sorpresa. Sarebbero trascorsi parecchi minuti prima che fosse in condizione di manovrare il timone e andare alla carica uscendo dalla notte, incrociando la poppa dell'Arcturus per poi uncinarla e abbordarla dal lato di sinistra... Non gli rimase che seguire le fasi dello scontro attraverso il cannocchiale. Benché i cannoni sparassero senza posa, la distanza era ancora troppo grande perché le navi s'infliggessero dei danni. Vide che un certo numero di colpi della Revenge aveva aperto falle nella murata dell'avversario, al di sopra della linea di galleggiamento. Le tavole del fasciame danneggiate erano segnalate da schegge recenti. C'erano vele che mostravano fori e lacerazioni, e alcuni alberetti erano stati abbattuti, ma tutti i cannoni sparavano a ritmo costante. La Revenge non era in condizioni migliori. Alla luce dei cannoni, Mansur poteva scorgere la figura del padre, avvolto nella veste verde che lo rendeva ben riconoscibile, mentre impartiva ordini ai serventi. Vicino a lui c'era Batula, impegnato a ricavare dalla nave la massima velocità possibile. Poi Mansur puntò di nuovo il cannocchiale sul casseretto dell'Arcturus, cercando d'intravedere la figura alta e snella di Verity, ma nel contempo avendo paura di trovarla. Non riuscendo a scorgerla, provò un sollievo passeggero, immaginando che Sir Guy l'avesse confinata in uno dei ponti inferiori, dove avrebbe trovato riparo dalla pioggia di proietti che sibilavano nell'aria. Scorse il viso del comandante Cornisti, rosso e furioso al riverbero del fuoco dei cannoni. Camminava avanti e indietro sul ponte con dignità, lanciando ogni tanto un'occhiata alla nave avversaria, ma voltandosi di tanto in tanto ad arringare i suoi artiglieri attraverso il megafono. Proprio sotto gli occhi di Mansur, un colpo fortunato della Revenge stroncò un alberetto dell'Arcturus, e la randa di maestra si abbatté sul cassero di poppa, sommergendo il gruppo di ufficiali e il timoniere con un mare di pieghe di tela pesante. Per qualche minuto si scatenò un pandemonio, mentre gli uomini dell'equipaggio si affrettavano a sollevare e ripiegare la tela che schioccava al vento. Il fuoco delle sue batterie diminuì d'intensità e il timoniere, mentre tentava di liberarsi dalla vela, la lasciò scarrocciare. Poi Mansur Wilbur Smith
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vide Sir Guy Courteney arrivare di corsa dalla parte opposta del cassero per prendere il posto di Cornish e assumere il comando. Sentì le sue grida imperiose, sia pure affievolite dalla distanza; poco dopo, l'ordine era stato ristabilito. Doveva agire in fretta per approfittare del momento. Impartì un ordine a Kumrah, che era già pronto a intervenire, e la Sprite si girò con l'agilità e la prontezza di un cavallo da polo, lanciandosi alla carica dall'oscurità. Quando passò sotto la poppa della Revenge, Mansur si arrampicò agilmente sulle sartie per lanciare un richiamo a Dorian, al di là dello stretto braccio di mare che li separava. «Padre!» Dorian si voltò con un'espressione sbigottita, vedendo la Sprite sbucare come per miracolo così vicina a lui, dall'oscurità della notte. «Io passerò di prua, speronandola, poi l'abborderò da sinistra. Tu chiudila dalla parte opposta, per dividere le loro forze.» Il viso di Dorian fu illuminato dall'antica passione guerresca, e lui sorrise al figlio, rivolgendogli un cenno d'intesa. Mentre puntava decisamente verso l'Arcturus, deciso a tagliarle la strada di prua, Mansur ordinò di aprire i portelli dei cannoni. Per quasi cinque minuti, che gli parvero eterni, si trovò esposto al fuoco diretto dei suoi cannoni, ma i serventi erano ancora disorientati, e quindi furono soltanto tre i proietti che si schiantarono sulla coperta della Sprite. Anche se aprirono squarci nel tavolato del ponte, scagliando all'intorno una pioggia di schegge che ronzavano come uno sciame di vespe, neppure un marinaio della Sprite fu colpito e, un istante dopo, lo schooner si trovò sotto la prua dell'Arcturus, ridossato dal fuoco grazie alla mole del suo stesso scafo. Mansur corse avanti, mentre i cannoni cominciavano a prendere la mira, e si spostò dall'uno all'altro dei pezzi della sua batteria, accertandosi che ogni cannone fosse puntato a dovere prima di dare l'ordine di aprire il fuoco. Uno dopo l'altro, gli enormi pezzi di bronzo sputarono fiamme e proietti, ricadendo poi sull'affusto. Tutti i colpi arrivarono a segno. Mansur aveva ideato un attacco un po' troppo audace; quando passò sotto la prua dell'Arcturus, il bompresso della nave più grande s'impigliò nelle sartie dell'albero di mezzana della Sprite, spezzandosi, ma tra i due scafi rimase una distanza di un braccio appena, prima che la Sprite passasse oltre. Non appena si fu disimpegnato, Mansur virò di bordo, in modo da riportare indietro la Sprite e accostarla alla murata dell'Arcturus. I portelli Wilbur Smith
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dei cannoni sul lato di sinistra erano ancora chiusi, perché l'Arcturus era impreparata a un attacco da quella parte e, mentre i grappini da arrembaggio venivano scagliati oltre il parapetto della nave nemica e i due scafi si ritrovavano allacciati, Mansur sparò un'altra salva a distanza ravvicinata con la batteria di dritta, prima di guidare i suoi uomini in un assalto fragoroso e spericolato. Gli artiglieri dell'Arcturus si voltarono per affrontarli, ma avevano appena ingaggiato un disperato a corpo a corpo, quando la Revenge approfittò del vantaggio che le offriva la posizione sopravvento e si lanciò all'abbordaggio sulla murata di dritta. Le batterie dell'Arcturus su quel lato non avevano ricaricato dopo la prima salva e l'equipaggio le aveva abbandonate per fronteggiare l'attacco di Mansur. L'Arcturus era in trappola nelle fauci del barracuda. Il combattimento infuriò in coperta, ma gli equipaggi dei due schooner, riuniti, erano superiori di numero a quello della nave più grande, e a poco a poco presero il sopravvento. Mansur andò in cerca di Cornish, e i due incrociarono le lame. Il giovane cercò di sospingerlo all'indietro attraverso la coperta, inchiodandolo contro le sartie, ma Ruby Cornish era un vecchio lupo di mare e rispose con vigore e prontezza all'assalto di Mansur. I due cominciarono a girare l'uno intorno all'altro. Dorian uccise un uomo con un colpo veloce, poi si guardò intorno, cercando Sir Guy, benché non sapesse bene che cosa avrebbe fatto, se lo avesse trovato. Forse, in fondo al cuore, aspirava a una riconciliazione sul campo di battaglia. Non riuscì a vederlo in mezzo alla calca di uomini che si battevano, però si rese conto che il combattimento volgeva a loro favore. L'equipaggio dell'Arcturus stava rinunciando alla lotta. Lui stesso scorse due marinai gettare le armi e sgattaiolare come conigli spaventati oltre il boccaporto più vicino. Quando un equipaggio si rintana sottocoperta, è segno che si dà per vinto. «Nel nome di Allah, la battaglia è nostra.» Incitò gli uomini che aveva intorno, gridando: «Dategli addosso!» La sua voce infuse loro nuova forza, inducendoli a scagliarsi contro il nemico. Cercando con gli occhi Mansur, Dorian lo vide dalla parte opposta del ponte, impegnato in uno scontro accanito con Cornish. Aveva del sangue sulla tunica, e Dorian si augurò che non fosse il suo. Poi vide Ruby Cornish rinunciare al duello e tornare indietro di corsa per tentare di rincuorare gli uomini in fuga, mentre Mansur, troppo esausto per seguirlo, si riposava, appoggiato alla spada. Wilbur Smith
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Alla luce delle lanterne da combattimento, il suo viso luccicava di sudore e il petto si alzava e si abbassava a un ritmo quasi innaturale. Dalla parte opposta del ponte, Dorian gli gridò: «Che ne è di Guy? Dov'è mio fratello? Lo hai visto?» «No, padre», gridò di rimando Mansur, con la voce arrochita dallo sforzo. «Si dev'essere rintanato sottocoperta col resto dell'equipaggio.» «Li abbiamo sconfitti», esultò Dorian. «Basterà ancora una carica, e l'Arcturus sarà nostra. All'attacco!» Gli uomini intorno a lui si lanciarono in avanti con un coro di urrà, ma subito dopo tacquero, sentendo risuonare la voce di Guy Courteney, che riusciva a sopraffare persino il frastuono del combattimento. Guy si trovava presso la balaustra del cassero di poppa; in una mano reggeva un tratto di miccia a combustione lenta, mentre sulla spalla teneva in equilibrio un barilotto di polvere nera. Il barilotto era privo di zipolo e, dal foro, usciva una spessa scia di polvere che proseguiva lungo il ponte ai suoi piedi. «Questa scia di polvere porta alla santabarbara della nave», gridò. Benché parlasse in inglese, il significato delle sue parole fu chiaro anche per tutti i marinai arabi a bordo. Il combattimento cessò e tutti lo fissarono, inorriditi. Sul ponte di coperta dell'Arcturus cadde un silenzio di tomba. «Distruggerò questa nave e farò saltare in aria tutti voi», urlò Guy, sollevando più in alto la miccia a combustione lenta. «Dio mi è testimone che lo farò.» «Guy!» gli gridò Dorian. «Io sono tuo fratello, Dorian Courteney!» «Lo so bene!» gridò di rimando Guy, con una nota di amarezza nella voce. «Verity mi ha confessato il suo inganno e la sua complicità. Questo non può salvarti.» «No, Guy!» esclamò Dorian. «Non devi farlo.» «Non c'è niente che tu possa fare per dissuadermi», replicò l'altro, rovesciando il barilotto di polvere sul ponte ai suoi piedi. Lui accostò lentamente un fiammifero e un coro di gemiti si levò dal ponte affollato di uomini. Uno dei marinai della Revenge si volse per correre verso la murata, superando con un balzo lo stretto varco che separava le due navi per raggiungere la salvezza illusoria del ponte dello schooner. Il suo esempio fu contagioso. Gli uomini volsero le spalle per rifugiarsi sugli schooner e, non appena saliti a bordo, attaccarono a colpi di spada le cime dei grappini da arrembaggio che li tenevano uniti alla nave Wilbur Smith
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condannata. Soltanto Kumrah, Battila e una manciata di marinai coraggiosi rimasero a fianco di Dorian e Mansur. «È un trucco! Non lo farà», sibilò Dorian. «Seguitemi!» Tuttavia, mentre correva verso la base della scaletta che saliva verso il cassero di poppa, Guy Courteney lanciò l'estremità accesa della miccia a lenta combustione sulla scia di polvere, ed essa prese fuoco. Si levò un denso, sibilante filo di fumo, che parve correre all'indietro, lungo il ponte, fino a raggiungere il boccaporto aperto e proseguire poi all'interno della nave. Anche il coraggio dei comandanti e degli ufficiali più coriacei cedette, spingendoli alla fuga. Le ultime cime da arrembaggio si stavano staccando dalla nave, spezzandosi come fili di cotone. Un attimo ancora, e le due navi più piccole si sarebbero staccate dall'Arcturus, andando alla deriva nella notte. «Anche ammesso che sia un trucco, resteremo isolati qui», esclamò Mansur rivolto al padre. «Non c'è un momento da perdere», gridò di rimando Dorian. «Corri, Mansur.» Si voltarono entrambi, tornando indietro di corsa per spiccare un balzo verso il ponte delle loro navi, proprio mentre le ultime cime venivano recise e gli scafi cominciavano ad allontanarsi. Guy Courteney rimase solo sul ponte di poppa, circondato da volute di fumo che gli conferivano un aspetto satanico. Le scintille scaturite dalla polvere e dai detriti in fiamme si estesero all'alberatura e risalirono le sartie. La prima salva di cannonate aveva fatto vibrare il fasciame dello scafo, svegliando di colpo Verity. L'Arcturus aveva assunto la posizione di combattimento in modo così silenzioso che lei, rinchiusa in cabina con la porta sbarrata, non si era resa conto di quello che stava accadendo in coperta. Alzandosi dalla cuccetta, sollevò il lucignolo della lanterna appesa al tavolato del ponte superiore. Poi cercò i suoi vestiti, infilando una camicia di cotone e i pantaloni, che preferiva alle gonne e alle sottovesti quando aveva bisogno di libertà di movimento. Era occupata ad allacciarsi gli stivaletti quando lo scafo si piegò bruscamente di fianco in seguito alla bordata di cannonate. Allora, correndo verso la porta della cabina, la tempestò di pugni. Wilbur Smith
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«Fatemi uscire! Aprite questa porta!» Ma nessuno poteva sentirla. Prese dal tavolo il massiccio candelabro d'argento, tentando di sfondare i pannelli della porta per raggiungere il chiavistello all'esterno, ma quelle travi solide resistevano ai suoi sforzi, e lei fu costretta a darsi per vinta, spostandosi dalla parte opposta della cabina. Spalancò la piccola apertura circolare del finestrino per sbirciare fuori. Sapeva che tentare la fuga da quella parte era un'impresa disperata: durante quelle settimane di prigionia ci aveva riflettuto spesso. La superficie del mare spumeggiava poco più in basso del suo viso e ben sei piedi la separavano dalla battagliola del ponte superiore. Aguzzando lo sguardo nella notte, tentò di seguire le sorti del combattimento basandosi sul riverbero e sul bagliore luminoso delle fiamme sprigionate dai cannoni. Riuscì a scorgere la nave che li attaccava, e riconobbe subito la Revenge, mentre non vide traccia della nave di Mansur. Ogni volta che le salve di cannone tuonavano dal ponte sopra la sua cabina, o quando un proietto nemico si schiantava sulla murata, lei faceva una smorfia. La battaglia sembrava estendersi all'infinito, e i suoi sensi erano attutiti dal frastuono. Il puzzo della polvere bruciata permeava la cabina, simile a un unguento terribile bruciato in onore del dio Marte, e lei cominciò a tossire, soffocata dai vapori acri. Poi, all'improvviso, un'apparizione si profilò, silenziosa, dall'oscurità. Un'altra nave. «La Sprite!» sussurrò Verity, col cuore che le rimbalzava in petto. La nave di Mansur! Era convinta che non lo avrebbe più rivisto. Lo schooner aprì il fuoco su di loro, ma lei era così eccitata che non aveva paura. I proietti di ferro si schiantarono l'uno dopo l'altro sull'Arcturus, facendola trasalire ogni volta. Poi una palla di cannone squarciò la paratia vicino alla porta della cabina, riempiendola di fumo e polvere di legna, e Verity fu scaraventata sul tavolato che faceva da pavimento. Quando il fumo si diradò, vide che la porta era saltata e balzò in piedi per scavalcare i detriti, aprendosi la strada lungo il corridoio esterno. Sentì i rumori del combattimento che infuriava in coperta, dopo che l'equipaggio della Sprite aveva arrembato la nave dal lato di sinistra. Le urla si mescolavano al clangore metallico delle lame d'acciaio e alle detonazioni di pistole e moschetti. Guardandosi intorno in cerca di un'arma, non ne trovò, ma poi si accorse che la porta della cabina del padre era aperta. Sapeva che lui teneva le pistole nel Wilbur Smith
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cassetto dello scrittoio, e si diresse da quella parte. Si trovava proprio al di sotto del lucernario e, attraverso l'apertura, lei sentì distintamente la voce del padre. «Questa scia di polvere porta alla santabarbara della nave», gridava. Sul ponte dell'Arcturus calò un silenzio mortale, e Verity rimase impietrita dall'orrore. «Distruggerò questa nave e farò saltare in aria tutti voi», gridò di nuovo Guy. «Dio mi è testimone che lo farò.» «Guy!» Verity riconobbe la nuova voce. «Io sono tuo fratello, Dorian Courteney!» «Lo so bene!» fu la replica del padre. «Verity mi ha confessato il suo inganno e la sua complicità. Questo non può salvarti.» «No, Guy!» riprese Dorian. «Non devi farlo.» «Non c'è niente che tu possa fare per dissuadermi», ribatté Guy. Verity si precipitò nel corridoio, e vide subito la spessa scia di polvere nera che scendeva lungo i gradini della scaletta di boccaporto e seguiva il passaggio che conduceva al ponte inferiore e alla santabarbara. «Dice sul serio», gridò con tutta la voce che aveva. «Vuole davvero far saltare la nave.» Agì senza esitare, afferrando uno dei buglioli che si trovavano ai piedi della scaletta di boccaporto e che servivano a spegnere le fiamme di eventuali incendi. Lo scafo di legno della nave comportava il rischio continuo d'incendi, e quei buglioli pieni di acqua di mare venivano sistemati a intervalli regolari: era una delle precauzioni adottate ogni volta che la nave andava in battaglia. Verity versò il contenuto del bugliolo sulla scia di polvere, aprendo un ampio varco. Era arrivata appena in tempo. Le fiamme si propagarono con uno sfrigolio lungo la scaletta di boccaporto, ma si spensero in una nuvoletta di fumo azzurro non appena raggiunsero l'acqua. Poi Verity vi saltò sopra, schiacciando coi piedi i granelli fumanti di polvere, prese un altro bugliolo e lo vuotò nello stesso punto. Spense con cura fino all'ultima scintilla, prima di salire la scaletta fino al cassero di poppa. «Padre! Questa è una follia!» gridò, uscendo dalla nuvola di fumo alle spalle di Sir Guy. «Ti avevo ordinato di restare nella tua cabina», la redarguì lui, girandosi di scatto. «Mi hai disobbedito.» «Se non lo avessi fatto, mi avreste fatto saltare fino in cielo», reagì lei, quasi impazzita per il terrore al pensiero di quanto fossero arrivati vicino Wilbur Smith
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alla morte. Guy vide che aveva i vestiti strappati, anneriti e fradici di acqua di mare. «Ragazza infida e malvagia», le gridò. «Sei passata armi e bagagli al nemico, eh?» Poi la colpì in pieno viso con un pugno, scaraventandola oltre il ponte, dove finì contro la battagliola. Verity lo fissò, in preda all'orrore e all'indignazione. Sin dall'infanzia si era abituata a subire le percosse che le infliggeva sulle gambe e sulle natiche col frustino da equitazione ogni volta che lei faceva qualcosa di sbagliato, almeno secondo i parametri del genitore. Tuttavia l'aveva colpita col pugno soltanto due volte, e in quel momento lei capì che quella sarebbe stata la terza e ultima volta. Si pulì la bocca col dorso della mano, guardando la grossa macchia di sangue lasciata dal labbro spaccato. Dopodiché volse la testa per guardare in basso verso il ponte della Sprite. Le ultime cime che trattenevano le due navi furono recise, e le vele della Sprite si gonfiarono alla brezza notturna. Lei cominciò a orientarsi. La coperta della sua nave era un caos di oggetti e detriti; alcuni uomini dell'equipaggio erano feriti, altri stavano tornando in fretta alle postazioni dei cannoni, altri ancora saltavano dalla murata alta dell'Arcturus a mano a mano che la distanza fra le navi si allargava. Infine vide Mansur Courteney sul ponte della Sprite e, nonostante le ferite e la collera del padre, si sentì il cuore sussultare nel petto. Durante il periodo trascorso da quando si erano separati, lei aveva tentato di soffocare i sentimenti che provava per quel giovane. Non sperava di rivederlo e, a un certo punto, si era addirittura convinta di averlo cancellato dalla sua mente. In quell'istante, però, rivedendolo, così bello e alto alla luce proiettata dall'alberatura in fiamme, rammentò i segreti che le aveva confidato e i sentimenti che aveva detto di nutrire per lei, e non poté più negare quello che provava. Mansur alzò la testa e la riconobbe. Il suo stupore tuttavia durò pochissimo, lasciando il posto a una ferma determinazione. Attraversando la coperta della Sprite, Mansur si slanciò verso la ruota, scostando il timoniere, e afferrò i raggi per farla girare nella direzione opposta a una velocità tale che l'occhio non riusciva a seguirla. L'abbrivo della Sprite, diretta a sinistra, frenò l'effetto della virata, poi la nave rispose al timone e tornò lentamente indietro. La prua urtò ancora una volta con violenza contro lo scafo dell'Arcturus a mezzanave, ma non si scostò subito dopo, perché Mansur continuò a tenere saldamente la ruota del timone. Lo Wilbur Smith
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schooner prese a trascinare in basso lo scafo del vascello più grande. Poi Mansur gridò: «Salta, Verity! Vieni da me!» Per un lungo istante lei rimase impietrita, e poi fu quasi troppo tardi. «Verity, in nome di Dio, non puoi respingermi. Ti amo! Salta!» Lei non esitò più. Alzandosi con la rapidità di un felino, spiccò un balzo verso la battagliola, restando sospesa lì per qualche istante, con le braccia tese in fuori. Guy Courteney capì che cosa stava per fare, e attraversò di corsa il casseretto per raggiungerla. «Te lo proibisco», le urlò, afferrandola per la gamba, ma lei, scalciando, si liberò dalla sua mano. Il padre le abbrancò allora un lembo della camicia, resistendo ostinatamente ai suoi tentativi di liberarsi. Mentre i due lottavano, Mansur lasciò la ruota per correre verso la murata della Sprite. Era proprio sotto di lei, con le braccia spalancate, come per un invito. «Salta!» le gridò. «Ti prenderò al volo.» Lei si lanciò dalla murata. Il padre non mollò la presa, la camicia si strappò e lui rimase con un brandello di stoffa in mano. Verity cadde tra le braccia di Mansur, e il suo peso lo fece finire in ginocchio, ma subito dopo si raddrizzò e la tenne stretta al petto. Poi la rimise in piedi, portandola in salvo. Le brande dell'equipaggio erano state ammucchiate contro la battagliola perché fornissero un riparo contro le schegge e i proiettili di moschetto, e lui la spinse dietro quella barricata, prima di tornare di corsa verso la ruota e girarla dalla parte opposta. Le due navi si allontanarono in fretta. Anche la Revenge si era disimpegnata e aveva issato le vele. L'Arcturus era ancora in fiamme, ma Mansur vide Ruby Cornish camminare a lunghe falcate sulla coperta per occuparsi delle operazioni di recupero. Pochi minuti dopo, i suoi uomini uscivano di nuovo dai boccaporti per spegnere la tela in fiamme, inondandola con l'acqua di mare delle pompe. Poi l'Arcturus, coi cannoni ricaricati e puntati, si lanciò di nuovo all'inseguimento della Sprite, ma l'alberatura era gravemente danneggiata e Cornish non aveva tempo per mettere vele nuove dagli stipetti e inferirle sui pennoni nudi e bruciacchiati. L'Arcturus avanzava lentamente sull'acqua, e tanto la Sprite quanto la Revenge cominciarono a distanziarla. Con la stessa rapidità con cui si era alzata, la brezza notturna cadde. Come se volessero anticipare l'alba, le nubi si aprirono, lasciando brillare le stelle ormai pallide. Sull'oceano calò un silenzio improvviso e la superficie ribollente parve raggelarsi in uno strato di ghiaccio levigato. Le navi, tutt'e tre danneggiate, rallentarono e a poco a poco si fermarono. Wilbur Smith
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Anche se il chiarore delle stelle era fioco, si vedevano l'un l'altra, mentre oscillavano lentamente sulle correnti silenziose che scorrevano tra loro, bloccate dalla bonaccia. Tuttavia la Sprite e la Revenge non erano a portata di voce, quindi Dorian e Mansur non potevano consultarsi sulla linea d'azione. «Lascia che gli uomini facciano colazione mentre lavorano, ma dobbiamo riparare in fretta i danni. Questa calma non durerà a lungo.» Mansur organizzò il lavoro, poi andò in cerca di Verity. La trovò presso la battagliola, con lo sguardo fisso sulla sagoma indistinta dell'Arcturus, ma si girò subito verso di lui. «Sei venuta», le disse. «Perché tu mi hai chiamato», rispose lei a bassa voce, tendendogli la mano. Nel prenderla, lui restò sorpreso, scoprendo com'era fresca e liscia la sua pelle, com'era sottile e morbida la sua mano. «Ci sono tante cose che voglio dirti.» «Avremo una vita intera per farlo... Adesso lasciami assaporare sino in fondo questo primo istante.» Si guardarono negli occhi. «Sei bellissima.» «Non è vero, ma il mio cuore canta nel sentirtelo dire.» «Vorrei baciarti.» «Ma non puoi», ribatté lei. «Non sotto gli occhi del tuo equipaggio. Non approverebbe.» «Per fortuna, avremo una vita intera anche per questo.» «E potrò gioire di ogni minuto di quella vita.» All'alba, i primi raggi di sole che filtrarono tra gli squarci delle nubi temporalesche tinsero d'ametista le acque dell'oceano, investendo i tre velieri, immobili come giocattoli sullo stagno di un villaggio. Il mare sembrava una lastra di vetro, con la superficie incrinata soltanto dal movimento dei pesci volanti e dalle evoluzioni dei grandi tonni color argento e oro che li seguivano. Le vele squarciate dai colpi di cannone pendevano, molli e sgonfie. Su ciascuna delle navi si sentiva risuonare il fragore dei martelli e delle seghe che provvedevano a riparare in fretta i danni del combattimento. I mastri velai stendevano sul ponte le vele danneggiate, accovacciandosi coi lunghi aghi che volavano tra le loro mani per ricucire strappi e fori. Tutti Wilbur Smith
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sapevano che quella breve tregua non sarebbe durata. Ben presto si sarebbe levata la brezza del mattino, dando inizio alla fase successiva del combattimento. Col cannocchiale, Mansur osservò l'equipaggio dell'Arcturus che spegneva le ultime fiamme, prima di montare pennoni nuovi, sostituire il bompresso spezzato e gli alberetti che erano stati bruciati o spezzati. «Tua madre è ancora a bordo dell'Arcturus?» chiese poi a Verity. «Mio padre l'ha rimandata al sicuro nel consolato di Bombay», rispose lei. In quel momento non aveva voglia di parlare della madre, né delle circostanze in cui l'aveva vista l'ultima volta. Per cambiare argomento gli chiese: «Combatterete ancora?» «Hai paura?» chiese lui di rimando. Verity lo guardò. I suoi occhi erano di un verde intenso e il suo sguardo era diretto. «È una domanda scortese.» «Perdonami», le disse subito lui. «Non dubito del tuo coraggio, perché me lo hai dimostrato stanotte. Volevo soltanto conoscere i tuoi sentimenti.» «Non ho paura per me, però mio padre è a bordo dell'altra nave, e tu di questa.» «Ho visto che ti colpiva.» «Mi ha colpito molte altre volte, ma è pur sempre mio padre.» Abbassò gli occhi. «Quello che conta di più è che adesso tu sei il mio uomo. Temo per tutti e due, ma non mi tirerò indietro.» Lui tese la mano per sfiorarle il braccio. «Farò del mio meglio per evitare altri combattimenti», le assicurò. «Lo avrei fatto anche stanotte, tuttavia mio padre era in pericolo e non avevo altra scelta che accorrere in suo aiuto. Comunque dubito che Sir Guy ci lascerà andare senza fare tutto quello che è in suo potere per impedirlo», concluse in tono cupo, indicando la lontana Arcturus. «Ecco che si alza la brezza della mattina», esclamò lei. «Ora sapremo che intenzioni ha mio padre.» Il vento disegnò graffi leggeri sulla superficie azzurra e levigata. Le vele dell'Arcturus si gonfiarono e la nave riprese a scivolare sulle acque. Tutti gli alberetti erano al loro posto e vele nuove di zecca avevano sostituito gran parte di quelle bruciate e annerite dalle fiamme. Il vento se la lasciò dietro, e la nave rallentò gradualmente prima di fermarsi del tutto. La randa di maestra fileggiò e poi rimase sgonfia. La folata di vento investì Wilbur Smith
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subito dopo le due navi più piccole, trasportandole avanti per un breve tratto prima di cadere di nuovo. Le tre navi si ritrovarono avvolte da una cappa d'immobilità e di silenzio. Tutte le vele erano state issate e i gabbieri erano pronti ad apportare gli ultimi ritocchi non appena si fosse levato di nuovo il vento. Stavolta soffiava da est, intenso e costante. Investì per prima l'Arcturus, trasportandola in avanti. Raggiunto l'abbrivo sufficiente, virò per lanciarsi alla carica contro le due navi più piccole. I cannoni erano ancora puntati e le sue intenzioni erano evidenti. «Ho paura che tuo padre non veda l'ora di attaccare battaglia.» «E tu non sei da meno!» lo accusò Verity. «Mi giudichi male», ribatté lui, scuotendo la testa. «Ho già conquistato il mio premio. Sir Guy non ha più nulla che io desideri.» «Allora speriamo che il vento ci raggiunga prima di lui.» Mentre Verity diceva così, il vento investì la sua gota, soffiandole davanti agli occhi una lunga ciocca di capelli, che lei infilò di nuovo nella reticella di seta. «Ecco che arriva.» Il vento investì per prima la Sprite, che rollò. La tela schioccò e la nave cominciò a fremere tutta, mentre le vele si riempivano e si gonfiavano. Ne avvertirono la forza nel tremito impaziente del ponte sotto i loro piedi e, nonostante la tensione del momento, Verity scoppiò a ridere forte, eccitata. «Si va!» gridò, aggrappandosi per un attimo al suo braccio. Poi vide l'aria di disapprovazione di Kumrah e fece un passo indietro. «Non avrò bisogno di uno chaperon a bordo di questa nave, perché ne ho già cento.» La Sprite si slanciò verso la Revenge, che era ancora immobile, ma poi fu raggiunta a sua volta dal vento. Le due navi si allontanarono insieme, con la Revenge al comando, in vantaggio di due lunghezze di cavo. Mansur sorvegliava da poppa la nave inseguitrice. «Col vento che soffia da questa direzione, tuo padre non potrà mai raggiungerci», disse con esultanza a Verity. «Lo vedremo sotto l'orizzonte prima di notte.» La prese per un braccio e la guidò gentilmente verso la scaletta di boccaporto. «Ora posso affidare il comando a Kumrah, mentre scendiamo sottocoperta a cercare una sistemazione comoda per te.» «Qui ci sono troppi occhi», riconobbe la giovane, seguendolo di buon grado. Arrivato in fondo alla scaletta, Mansur si girò verso di lei. Era più bassa solo di poche dita, e la massa di capelli folti e lucenti rendeva la differenza Wilbur Smith
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di statura ancor meno evidente. «Qui non ci sono altri occhi», le disse. «Temo di essere stata ingenua.» Le guance di Verity si colorirono di rosa come petali di fiore. «Ma vostra altezza non approfitterebbe mai della mia innocenza, vero?» «Temo proprio che abbiate sopravvalutato il mio senso della cavalleria, Miss Courteney, visto che è esattamente quello che ho intenzione di fare.» «Suppongo che non servirebbe a niente se gridassi, vero?» «Temo proprio di no», rispose. Verity si abbandonò tra le sue braccia e sussurrò: «Allora risparmierò il fiato. Chissà, forse più tardi troverò un modo migliore di usarlo». «Hai il labbro gonfio», osservò Mansur, sfiorandolo con dolcezza. «Non ti farò male?» «Noi Courteney siamo gente dura.» La baciò, ma con delicatezza. Fu Verity ad attirarlo più vicino, a schiudere le labbra gonfie. «Non fa male», gli disse, e lui la prese in braccio per portarla nella sua cabina. Kumrah bussò tre volte sul ponte al di sopra del giaciglio di Mansur, che si mise subito a sedere. «È richiesta la mia presenza sul ponte», spiegò. «Mai quanto è richiesta qui», mormorò lei, insonnolita e appagata. «Comunque so che, quando il dovere chiama, devo lasciarti andare, almeno per il momento.» Mansur si alzò, e lei lo guardò, sgranando gli occhi e sentendo ridestarsi il suo interesse. «Non avevo mai visto un uomo... nel suo stato naturale, finora», commentò. «Soltanto ora capisco che cosa ho perso, perché è senz'altro uno spettacolo di mio gusto.» «Potrei citarne uno assai migliore», si schermì lui, chinandosi a baciarla sul ventre. Era liscio e vellutato, con l'ombelico che formava un incavo perfetto nei muscoli tesi del ventre piatto. Provò a infilarvi la punta della lingua, e lei sospirò, dimenandosi in modo voluttuoso. «Devi smetterla subito, altrimenti non ti lascerò mai andare.» Lui si raddrizzò, ma subito dopo spalancò gli occhi, allarmato. «C'è del sangue sul lenzuolo. Ti ho ferito, forse?» Sollevandosi su un gomito, Verity guardò la macchia di un rosso acceso con un sorriso indulgente. «E il fiore della mia verginità, che ti porto come prova del fatto che appartengo da sempre a te, e a nessun altro.» Wilbur Smith
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«Oh, mia cara.» Mansur si sedette di nuovo sulla sponda del letto, coprendole il viso di baci. Fu lei a respingerlo. «Va' a fare il tuo dovere; però, non appena avrai finito, torna da me.» Mansur salì di corsa la scaletta di boccaporto, come se avesse le ali ai piedi; tuttavia, arrivato in cima, si fermò, allarmato. Si aspettava di vedere la Revenge precedere la propria nave, dato che aveva una velocità superiore alla Sprite, invece i due schooner erano quasi affiancati. Dopo aver afferrato il cannocchiale dal suo contenitore vicino alla chiesuola, puntò verso la murata. Si accorse subito che la Revenge era bassa sull'acqua e stava azionando tutte le pompe: l'acqua del mare era bianca di schiuma dalla parte in cui scendevano le condutture di scarico. Sotto i suoi occhi costernati, apparve in coperta Dorian, che usciva dal boccaporto sopra la stiva principale. Vedendolo, Mansur prese il megafono per salutarlo, e il padre lo guardò prima di dirigersi verso la battagliola. «Cosa c'è che non va?» chiese Mansur. «Siamo stati colpiti da un proietto al di sotto della linea di galleggiamento e imbarchiamo acqua più in fretta di quanto sia possibile eliminarne con le pompe», rispose la voce del padre alle sue spalle. La differenza di velocità tra le due navi era così grande che, nel breve tempo trascorso da Mansur sul ponte, la Sprite aveva guadagnato alcune iarde sulla Revenge. Già la voce del padre gli giungeva più chiara attraverso il varco. Guardando indietro oltre la poppa, stimò che l'Arcturus aveva accumulato ben poco distacco nelle ore trascorse sottocoperta da lui e Verity: era molto più veloce della Revenge, ormai menomata. «Che posso fare per assistervi?» chiese al padre. Seguì una lunga pausa, poi Dorian rispose. «Ho sparato un tiro angolato ogni ora contro l'albero di maestra dell'Arcturus. Di questo passo, sarà a portata di tiro prima di notte, e anche al buio non possiamo sperare di sfuggirle.» «È possibile riparare il danno?» «La falla aperta dal cannone è in una posizione scomoda.» Dorian scosse la testa. «Se accosteremo, l'Arcturus ci piomberà addosso prima che riusciamo a turare la falla.» «Che si fa, allora?» «A meno che non accada qualcosa d'imprevisto, saremo costretti a Wilbur Smith
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batterci di nuovo.» Mansur pensò a Verity nella cabina sotto il ponte, e gli balenò alla mente l'immagine di quel corpo pallido e perfetto dilaniato da un colpo di cannone. Respinse subito quel pensiero. «Aspetta!» gridò, rivolto a Dorian, poi chiamò con un cenno Kumrah. «Che cosa possiamo fare, amico mio?» Parlarono in fretta e in tono serio, ma in quei pochi minuti la Revenge rimase ancora più indietro e Mansur fu costretto a far prendere una mano di terzaroli sulla randa di maestra per rallentare la corsa della Sprite quanto bastava per mantenere la posizione rispetto alla Revenge. Infine gridò al padre: «Kumrah ha un piano. Cerca di seguirmi per quanto puoi, ma, se dovessi restare troppo indietro, ridurrò la velocità». Kumrah si diresse a ovest di altri tre punti con la Sprite, finché la loro prua non puntò direttamente verso Ra's al-Hadd, il promontorio dove il golfo si apriva nell'oceano vero e proprio. Per il resto della mattina, Mansur tenne occupato l'equipaggio con le riparazioni dei danni subiti durante il combattimento e le operazioni necessarie per pulire e rimettere a punto i cannoni, trasportare altri proietti dal ponte inferiore e riempire sacchetti di polvere per rimpiazzare quelli che erano stati consumati. Poi, servendosi dei paranchi, issarono un cannone dal ponte di batteria al cassero di poppa, dove i carpentieri avevano aperto un portello temporaneo per alloggiarlo. Il cannone, puntato oltre la poppa, poteva essere usato per tenere sotto tiro l'Arcturus non appena fosse arrivata alla loro portata. La Revenge si abbassava nell'acqua e perdeva velocità in modo quasi impercettibile, mentre gli uomini addetti ad azionare le pompe si battevano strenuamente per tenere a bada l'afflusso dell'acqua attraverso la falla nello scafo. Mansur accostò, passando una cima da una nave all'altra, in modo da poter inviare una ventina di marinai ancora freschi a dare il cambio agli uomini della Revenge, sfiniti dal lavoro ininterrotto alle pompe. Con loro, fece trasbordare Baris, uno degli ufficiali giovani di Kumrah, un ragazzo di Oman che era anche nativo di quella costa e conosceva ogni scoglio e ogni barriera quasi quanto lo stesso Kumrah. Poi, mentre le due navi procedevano di concerto, Mansur spiegò al padre il piano escogitato da lui e Kumrah. Dorian comprese subito che quella era forse la sua unica possibilità, e lo sottoscrisse senza esitazioni. Wilbur Smith
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«Fa' pure, ragazzo», gli gridò attraverso il megafono. Meno di un'ora dopo, Mansur fu costretto a prendere un'altra mano di terzaroli per non lasciare indietro la Revenge durante la notte. Al calar della sera, Mansur guardò l'Arcturus che continuava a seguirli e calcolò che aveva ridotto il distacco a poco più di due miglia. Era quasi mezzanotte quando si ritirarono nella cabina, ma anche allora Mansur e Verity non riuscirono a dormire. Fecero l'amore come se fosse l'ultima volta, poi rimasero nudi e abbracciati, sudando nel caldo della notte tropicale e parlando sottovoce. A volte ridevano, e più di una volta Verity pianse. C'erano tante cose da dirsi, una vita intera da raccontarsi. Alla fine, però, neanche l'amore appena sbocciato tra loro riuscì a tenerli svegli; si addormentarono stretti l'uno all'altra. Un'ora prima dell'alba, Mansur si alzò senza fare rumore, lasciandola dormire per salire in coperta, ma, pochi minuti dopo, anche Verity salì la scaletta di boccaporto per trovarsi un posto in un angolo del cassero di poppa, dove poteva stargli vicino senza essergli d'impaccio. Mansur ordinò ai cuochi di servire la colazione agli uomini e, mentre loro mangiavano, fece il giro del ponte per parlare e rincuorarli, facendone ridere molti e sorridere altri, benché sapessero che l'Arcturus li braccava nel buio e che ben presto sarebbero stati costretti a battersi di nuovo. Non appena il cielo dell'alba cominciò a impallidire, Mansur e Kumrah si affacciarono alla battagliola di poppa del casseretto, vicino al cannone di poppa. La lanterna sull'albero di maestra della Revenge appariva vicina di poppa, ma, quando il loro campo visivo si aprì, guardarono tutti più in là per avvistare k0Arcturus, e non rimasero delusi. Una volta che la luce fu più intensa, scorsero la sua sagoma profilarsi all'orizzonte ancora buio, e Mansur dovette controllarsi per non esprimere a voce alta la sua delusione. In quelle ore di oscurità aveva guadagnato quasi un miglio su di loro, e ormai era alla portata di un tiro lungo. Proprio in quel momento, osservandola col cannocchiale, Mansur vide un lampo scaturire dalla prua, insieme con una nuvoletta di fumo bianco. «Tuo padre ci sta sparando addosso coi cannoni di prua, anche se penso che la distanza sia un po' troppo lunga per infliggerci dei danni, almeno per ora», spiegò a Verity. In quel momento si udì un richiamo dalla coffa, al grido di: «Terra in vista!» Si spostarono da poppa a prua. «Hai superato te stesso», disse Mansur a Wilbur Smith
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Kumrah, guardando attraverso il cannocchiale. «Se non mi sbaglio di grosso, quello laggiù è Ra's al-Hadd.» Tornarono verso il tavolo da carteggio, vicino alla tavola del timone, e meditarono su quel capolavoro di arte cartografica che era stato disegnato da Kumrah: l'opera di una vita intera trascorsa in mare. «Dov'è questo Kos al-Heem?» chiese Mansur. Nel dialetto della costa di Oman, quel nome significava «ingannatore». «Non l'ho segnato sulla carta.» Kumrah punzecchiò il cuoio incerato con la punta del compasso. «Certe cose è meglio tenerle nascoste agli occhi del mondo. Comunque è qui.» «Quanto manca ancora?» «Se questo vento tiene, saremo lì un'ora dopo mezzogiorno.» «A quel punto, l'Arcturus avrà raggiunto la Revenge.» Mansur lanciò un'occhiata alla nave del padre. «Se questa è la volontà di Allah», replicò Kumrah con fatalismo. «Poiché Allah è grande.» «Dobbiamo cercare di proteggere la Revenge dal fuoco dell'Arcturus almeno finché non raggiungeremo l'Ingannatore.» Mansur diede gli ordini necessari a Kumrah, poi si trasferì di nuovo a poppa, dove gli artiglieri erano riuniti intorno al pezzo da nove libbre. Kumrah ridusse ancora la velatura, restando indietro per poter frapporre la Sprite tra le altre due navi. Durante quel periodo l'Arcturus sparò due colpi col cannone di prua, ma entrambi risultarono troppo corti; viceversa il colpo successivo sollevò una colonna d'acqua lungo la murata della Revenge. «Molto bene», commentò Mansur. «Ora possiamo provare anche noi a regolare il tiro.» Scelse dallo stipo un proietto rotondo, facendolo rotolare sotto il piede per controllarne la simmetria, poi misurò la carica di polvere e ordinò agli uomini di ripulire con cura la canna, per eliminare il più possibile i residui di polvere. Una volta caricato e puntato il cannone, rimase in piedi poco più indietro e notò che la poppa della Sprite si sollevava e si spostava, descrivendo un arco nel superare le onde. Calcolò gli aggiustamenti necessari per compensare quei movimenti, poi, con la miccia in mano, si fermò a distanza di sicurezza dalla culatta del pezzo, in attesa dell'onda successiva. Quando la Sprite si sollevò, spostando la poppa come una ragazza Wilbur Smith
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civettuola che fa roteare le gonne, accostò l'estremità ardente della miccia alla polvere contenuta nel focone. L'alzo del pezzo avrebbe fornito al proietto di ferro la gittata supplementare di cui aveva bisogno. Il lungo cannone ruggì, rinculando, mentre Verity e Kumrah attendevano l'esito del tiro. Pochi istanti dopo, scorsero il minuscolo pennacchio bianco che si levava dalla superficie del mare, e Verity gridò: «Corto di cento iarde e a sinistra di circa tre gradi». Mansur si lasciò sfuggire un grugnito, poi spostò l'alzo al massimo e spararono un altro colpo. «Ancora corto, ma in linea.» Continuarono a sparare in modo regolare. La Revenge si era unita al cannoneggiamento. L'Arcturus manovrò in modo da portare lentamente la prua verso il nemico, sempre sparando coi cannoni di prua; tuttavia, a metà mattina, nessuna delle navi aveva messo a segno un colpo, anche se alcuni erano arrivati molto vicino al bersaglio. Mansur e i suoi artiglieri erano rimasti a torso nudo nel caldo sempre più intenso, e avevano il corpo lucente di sudore e il viso annerito dal nerofumo. La canna del pezzo era troppo incandescente per poterla toccare. Lo stoppaccio umido sfrigolava e fumava, quando veniva introdotto nell'imboccatura. Per la ventitreesima volta nel corso della mattina, caricarono il lungo pezzo da nove libbre e Mansur lo predispose con cura. Quando socchiuse gli occhi, scrutandola attraverso il cannocchiale, l'Arcturus gli apparve molto più alta. Poi si tirò indietro e attese il consueto movimento di beccheggio e rollio prima di far partire il colpo. Il pezzo rinculò con violenza. Stavolta, per quanto aguzzassero gli occhi, passandosi il cannocchiale, non si vide lo spruzzo sollevato dal proietto. Invece Verity scorse un'esplosione di schegge di legno levarsi dalla prua dell'Arcturus, mentre uno dei loro cannoni anteriori saltava dall'affusto e restava sospeso in posizione capovolta. «Centro! Un autentico centro!» gridò. «Proprio come dicono Shakespeare nell'Amleto e Miss Verity!» Mansur scoppiò a ridere, concedendosi un sorso d'acqua prima di mettere a punto il tiro seguente. Quasi per rappresaglia, l'Arcturus sparò con l'altro cannone di prua un proietto che arrivò così vicino alla poppa della Sprite da sollevare un altissimo zampillo d'acqua e schiuma che ricadde su di loro, inzuppandoli fino all'osso. Wilbur Smith
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Per tutto quel tempo, il promontorio roccioso di Ra's al-Hadd era diventato sempre più alto sulle acque e visibile, mentre l'Arcturus li stava lentamente sopravanzando da poppa. «Dov'è Kos al-Heem?» chiese bruscamente Mansur. «Non lo si vede finché non ci si è quasi sopra. È per questo che lo hanno battezzato così, ma ecco i punti di riferimento: la striatura bianca sulla parete di roccia, laggiù, e la punta dello scoglio a forma di uovo che si trova sulla sinistra, da quell'altra parte.» «Desidero che sia tu a prendere il timone, Kumrah. Rallenta un po' la corsa, non sfruttare il vento al massimo. L'Arcturus deve avvicinarsi, ma non bisogna far capire ai nemici che siamo noi a volerlo.» Il duello tra le navi continuò. Mansur sperava di distrarre l'attenzione di Cornish dal rischio che lo attendeva, facendo inoltre avvicinare la Revenge. L'Arcturus avanzava, impaziente e, meno di un'ora dopo, era così vicina che Mansur e Verity riconobbero attraverso il cannocchiale la figura corpulenta e i tratti caratteristici di Ruby Cornish. «Ed ecco Sir Guy!» Mansur stava per dire: «Tuo padre», ma cambiò idea all'ultimo momento, perché non voleva sottolineare il rapporto di parentela tra il suo nemico e la sua donna. In confronto a Ruby Cornish, Guy Courteney aveva una figura snella ed elegante; si era cambiato d'abito e, nonostante il caldo, portava un cappello a tricorno, una marsina blu coi risvolti scarlatti, calzoni bianchi aderenti e stivali neri. La sua espressione era dura e severa, anzi dal suo atteggiamento traspariva una cupa determinazione che raggelò Verity fino al midollo, perché conosceva bene quel suo stato d'animo e lo temeva quanto la collera. «Kumrah!» chiamò Mansur. «Insomma, dov'è questo Ingannatore? Dov'è Kos al-Heem? Non sarà qualcosa che hai sognato dopo una pipa di hashish, eh?» Kumrah lanciò un'occhiata alla Revenge, che era passata lentamente in testa e ora li precedeva di un quarto di miglio. «In questo momento il califfo, il vostro riverito padre, c'è quasi sopra.» «Io non riesco a vedere nessun segnale.» Mansur studiò con attenzione le acque dinanzi alla prua dell'altra nave, ma le onde avanzavano inesorabili, senza fratture o interruzioni; non c'era un vortice o un movimento dell'acqua che lui fosse in grado d'individuare. «È per questo che si chiama Ingannatore», gli rammentò Kumrah. «Custodisce bene il segreto. Ha già distrutto cento e più navi, compresa la Wilbur Smith
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galea di Tolomeo, il generale e favorito del potente Iskandar, quello che voi chiamate Alessandro Magno. Soltanto col favore di Allah lui riuscì a sopravvivere al naufragio.» «Allah è grande», mormorò automaticamente Mansur. «Sia lodato Allah», gli fece eco Kumrah e, mentre parlava, la Revenge deviò bruscamente con la prua al vento. Poi, con tutte le vele che schioccavano, virò di bordo. «Ah!» esclamò Kumrah. «Baris ha trovato l'Ingannatore per noi e lo ha segnato.» «Preparate al fuoco la batteria di sinistra e tenetevi pronti a virare di bordo», ordinò Mansur. Mentre l'equipaggio correva ai posti di combattimento, si dedicò a osservare l'Arcturus che sopraggiungeva. Si stava avventando su di loro con impeto, spiegando al vento tutte le sue vele. Sotto gli occhi di Mansur, i portelli dei cannoni si spalancarono e le bocche da fuoco spuntarono minacciose lungo le murate. Lui si voltò per spingersi più avanti e avere una visuale completa della Revenge, che a sua volta aveva cambiato rotta e scoperto i cannoni, pronta ad attaccare battaglia. Mansur tornò al timone. Era consapevole del fatto che Verity, dal suo angolino sotto la poppa, lo fissava intensamente. Aveva un'espressione calma, che non lasciava trapelare la paura. «Amore, vorrei che tu scendessi sottocoperta», le disse a bassa voce. «Fra poco saremo sotto tiro.» Lei scosse la testa. «Il fasciame della nave non offre protezione dai proietti di ferro da nove libbre, questo ormai lo so per esperienza», ribatté, con uno scintillio malizioso negli occhi. «L'ho scoperto quando mi hai sparato addosso.» «Non mi sono ancora scusato per averlo fatto», rispose lui, sorridendole di rimando. «È stato imperdonabile, ma ti giuro che farò mille volte ammenda.» «A parte ogni altra cosa, d'ora in poi il mio posto è al tuo fianco, non sotto il letto.» «Avrò sempre cara la tua presenza», rispose lui, arrendendosi e voltandosi a guardare l'Arcturus. Ormai era a portata di tiro, e lui doveva attirare la sua attenzione, spingendola a raggiungere la massima velocità. Kumrah lo guardava, in attesa dell'ordine. «Vira», disse allora Mansur in tono secco, e la Sprite si voltò come una Wilbur Smith
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ballerina. D'un tratto presentava l'Arcturus la murata pronta a scaricare una bordata. «State calmi!» gridò Mansur agli uomini attraverso il megafono. «Prendete bene la mira!» Uno dopo l'altro, i responsabili delle postazioni alzarono il braccio destro per indicare che i pezzi erano pronti. «Fuoco!» urlò Mansur, e la bordata partì come un tuono. Il fumo della polvere da sparo invase tutto il ponte, avvolgendolo in una nube grigia e spessa, ma fu quasi subito disperso dal vento. Videro un solo zampillo d'acqua levarsi dalla superficie del mare, sotto la prua dell'Arcturus; il resto della bordata la investì in pieno, aprendo squarci nel fasciame. Sotto quei colpi terribili, la nave fu scossa da un tremito, ma proseguì la corsa senza rallentare. «Riportala sulla rotta di prima», ordinò Mansur, e la Sprite rispose subito al timone. Si allontanarono a tutta velocità verso la Revenge, rimasta in attesa. L'Arcturus, con la prua rivolta verso di loro, non aveva ancora potuto sparare la sua bordata, però la manovra era costata alla Sprite quasi tutto il suo vantaggio, e il nemico era a meno della lunghezza di un cavo. Sparò un colpo col cannone di prua, e la Sprite rabbrividì quando il proietto colpì la poppa, straziando lo scafo. Kumrah era rimasto con lo sguardo fisso in avanti e gli occhi socchiusi, ma Mansur non riusciva a vedere nessun segno dell'Ingannatore. Poi Kumrah ordinò una correzione al timone e l'uomo alla ruota virò di un'inezia, liberando il campo di tiro per la Revenge, che ora poteva sparare senza timore di colpire la Sprite. Offriva ancora il fianco al nemico, e scomparve per un attimo dietro la cortina di fumo dei suoi cannoni, sparando la bordata. La distanza era lunga, ma almeno qualcuno dei colpi andò a segno. Ormai l'Arcturus era così vicina che Mansur poteva sentire il rumore dei proietti rotondi di ferro che urtavano contro il fasciame con la violenza di colpi di maglio. «Questo richiederà tutta l'attenzione di Cornish», disse Verity. La sua voce risuonò chiara nel silenzio improvviso che seguì la bordata. Mansur non rispose, perché guardava ancora in avanti, con un'espressione preoccupata. «Dov'è quello stramaledetto Ingannatore...» S'interruppe di colpo, vedendo uno scintillio di pagliuzze che sembravano fiocchi di neve sospesi in fondo alle acque azzurre sotto la sua prua. Erano così inattese che, per un attimo, rimase perplesso. Poi la verità si fece strada nella sua Wilbur Smith
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mente. «Pesci fucilieri!» esclamò. Quei minuscoli pesci scintillanti come gioielli si aggiravano sempre intorno alle barriere sommerse, e persino lì, nelle acque di media profondità ai margini dello scudo continentale. I banchi di pesciolini si dispersero allorché la carena della Sprite li attraversò, e soltanto allora Mansur vide le ombre scure e terribili che svettavano dagli abissi come zanne annerite, proprio sulla rotta della nave. Kumrah fece un passo avanti, allontanando il timoniere per prendere la ruota e guidare la sua nave oltre quel difficile passo con la delicatezza del tocco di un amante. Passandovi sopra, Mansur vide le ombre scure farsi ancora più minacciose. Erano tre corni di granito che si protendevano dalle acque scure verso la superficie illuminata dal sole, arrivando a un braccio appena dal pelo dell'acqua. Le punte erano così acuminate da offrire scarsa resistenza al flusso delle correnti e delle onde, e ciò spiegava la mancanza di turbolenza in superficie. Quando Kumrah virò al centro di quella crudele corona di pietra, istintivamente trattenne il fiato. Mansur sentì la mano di Verity posarsi sul suo braccio; la ragazza prima si aggrappò a lui, poi gli conficcò addirittura le unghie nella carne. La Sprite sfiorò la roccia. Fu come se la camicia di un cavaliere, lanciato al galoppo nella foresta, finisse improvvisamente impigliata in un cespuglio di rovi, lacerandosi. Così almeno pensò Mansur. La coperta tremò leggermente sotto i suoi piedi, e lui sentì la punta di granito raschiare la carena. Poi la Sprite scivolò via, e passò oltre l'ostacolo. Si lasciò sfuggire un gran sospiro. Verity, al suo fianco, lanciò invece un grido di sollievo. «Mi auguro di non passarci mai più così vicino.» Mansur la prese per mano e corsero insieme verso la battagliola di poppa, dalla quale videro l'Arcturus finire in pieno nella trappola. Nonostante i danni subiti nel combattimento e l'alberatura annerita dalla fuliggine, offriva ancora uno spettacolo magnifico, con tutte le vele spiegate e il baffo di prua che s'inarcava, scintillante, rovesciandosi all'indietro. La nave urtò in pieno contro i pinnacoli di granito e rimase immobile nell'acqua: nel giro di un istante, quella nave elegante e veloce si tramutò in un relitto. L'albero di trinchetto si spezzò all'altezza della coperta e metà dei pennoni cadde. La carena scricchiolò, sprigionando un rombo sinistro Wilbur Smith
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mentre si fracassava, e le schegge finirono in mare, andando a far parte della barriera. I corni di granito dell'Ingannatore si conficcarono in profondità nel suo ventre. I gabbieri, sorpresi dall'impatto sull'alberatura, furono scagliati via come proiettili da una fionda e finirono in mare a una distanza pari a mezza gittata di pistola. Gli altri uomini dell'equipaggio slittarono lungo il ponte fino a urtare contro gli alberi e i parapetti, mentre i cannoni puntavano contro di loro, catapultati verso le rigide parti metalliche con tutta la forza d'inerzia della nave. Braccia, gambe e costole si spezzarono come ramoscelli, e i crani esplosero come uova lasciate cadere su un pavimento di pietra. Gli equipaggi dei due schooner si assieparono lungo le murate per assistere alla distruzione che loro stessi avevano causato, troppo impressionati per esultare della disfatta del nemico. Mansur virò per affiancarsi alla nave di Dorian. «E ora, padre?» «Non possiamo lasciare Guy in una situazione del genere», gridò lui di rimando. «Dobbiamo prestargli tutto l'aiuto possibile. Andrò laggiù con la lancia.» «No, padre!» ribatté Mansur. «Non puoi restare ancora qui a perdere tempo. Anche la tua nave è ridotta allo stremo. Devi andare nel porto dell'isola di Sawda, dove potremo riparare i danni al di sotto della linea di galleggiamento prima che la nave affondi.» «Ma come faremo con Guy e i suoi uomini?» si chiese Dorian, incerto. «Che ne sarà di loro?» «A questo posso provvedere io», promise Mansur. «Puoi star sicuro che non lascerò perire qui tuo fratello, tanto più che è anche il padre di Verity.» Dorian e Batula si consultarono in fretta, poi Dorian tornò verso la murata della Revenge. «E va bene! Anche Batula è del parere che dobbiamo raggiungere un ancoraggio sicuro al più presto, prima che scoppi un'altra tempesta. Nella situazione attuale non possiamo affrontare un mare agitato.» «Io prenderò a bordo i superstiti dell'Arcturus e ti seguirò a tutta velocità.» Dorian mise ancora una volta la Revenge col vento in poppa e puntò verso la terraferma. Mansur cedette il comando a Kumrah prima di trasferirsi a bordo della lancia e rimase a poppa, mentre gli uomini remavano verso l'Arcturus, immobilizzata e già fortemente inclinata. Non Wilbur Smith
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appena furono a portata di voce, ordinò ai rematori di sollevare i remi dall'acqua. «Ehi, voi dell'Arcturus! Ho con me un medico. Avete bisogno di aiuto?» Il viso rosso di Cornish comparve al di sopra del parapetto inclinato. «Parecchi uomini hanno riportato fratture. I feriti andrebbero trasportati all'infermeria sull'isola di Bombay, altrimenti moriranno.» «Salgo a bordo!» replicò Mansur. Allora risuonò un'altra voce, alterata dalla collera. «Sta' alla larga, sudicio ribelle!» Sir Guy Courteney si teneva aggrappato con una mano alle sartie dell'albero di maestra, tenendo l'altro braccio infilato nell'allacciatura della giubba, che usava come sostegno improvvisato. Aveva perso il tricorno; i capelli e un lato del viso erano incrostati di sangue, sgorgato da una profonda lacerazione al cuoio capelluto. «Se cerchi di salire a bordo di questa nave, ti sparo addosso.» «Zio Guy!» rispose Mansur. «Sono figlio di tuo fratello Dorian. Devi permettermi di aiutare te e i tuoi uomini.» «Tu non hai nessuna parentela con me. Sei un pagano bastardo, rapitore e stupratore d'innocenti donne inglesi.» «I tuoi uomini hanno bisogno di aiuto. Tu stesso sei ferito. Lascia che trasporti te e i tuoi uomini fino al porto di Bombay.» Guy non rispose neppure, avviandosi a passi malfermi verso il cannone più vicino, sul ponte di coperta fortemente inclinato. Afferrò una miccia a lenta combustione dal mastello di sabbia. Il cannone spuntava ancora dal portello aperto con la canna di bronzo lucente, ma Mansur non si allarmò, perché l'arma era innocua. L'angolazione del ponte faceva sì che la canna puntasse contro le acque a fianco della nave. «Ascolta la voce della ragione, zio. Mio padre e io non ti vogliamo male. Nelle nostre vene scorre lo stesso sangue. Vedi? Sono disarmato.» Allargò le braccia per dimostrarlo, ma in quel momento si sentì gelare il sangue, rendendosi conto che Guy non aveva intenzione di sparare col grande cannone. Afferrò invece la lunga impugnatura che permetteva di brandeggiare l'«assassino», un pezzo tozzo e minaccioso fissato al parapetto della nave. L'«assassino» era un cannone a mano, progettato per respingere i nemici che arrembavano la nave, ed era caricato con una manciata di letali pallini di piombo. A breve distanza meritava pienamente il nome sinistro che gli era stato affibbiato. La lancia era affiancata alla murata dell'Arcturus. Guy brandeggiò Wilbur Smith
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l'«assassino» per puntarlo contro l'equipaggio e si servì del rudimentale mirino per puntare Mansur. L'imboccatura svasata della canna, simile a un ghigno osceno, era rivolta verso di loro. «Ti ho dato un avvertimento leale, porco lussurioso», esclamò Guy, accostando la miccia al focone. «State giù!» gridò Mansur, gettandosi lungo disteso sul ponte. Gli uomini dell'equipaggio non furono pronti a obbedire e la scarica di pallini ne fece scempio. Mansur, rialzandosi tra le urla dei feriti, si trovò la camicia imbrattata di poltiglia gialla: era il cervello del suo timoniere, e c'erano altri tre morti, riversi contro le fiancate della barca. Due uomini cercavano di tamponare le ferite con le mani, in mezzo a pozze di sangue. L'acqua di mare penetrava attraverso i fori aperti dai pallini nel fasciame. Il giovane si rivolse ai marinai illesi. «Tornate verso la Sprite!» ordinò, e loro si piegarono con energia sui remi. Poi, da poppa, gridò all'indirizzo della figura che era rimasta aggrappata all'impugnatura del cannone fumante. «Che la tua anima nera possa marcire, Guy Courteney, dannato macellaio. Quelli erano uomini inermi intenti a compiere un'opera di misericordia.» Col volto teso e pallido di collera, Mansur risalì poco dopo sul ponte della Sprite. «Kumrah! Riporta a bordo i morti e i feriti, poi carica tutti i nostri cannoni a mitraglia», ringhiò. «Voglio dare a quel maledetto assassino un assaggio della sua stessa merda.» Kumrah virò di bordo per riportare indietro la Sprite e, seguendo le istruzioni di Mansur, passò accanto al relitto immobile dell'Arcturus a distanza di cento passi, la gittata ideale per produrre il massimo dei danni caricando le armi a mitraglia. «Fuoco a volontà!» gridò Mansur ai suoi artiglieri. «Fate piazza pulita del ponte. Uccideteli tutti. Quando avrete finito, le appiccheremo il fuoco per distruggerla fino alla linea di galleggiamento.» Stava ancora tremando di rabbia. Gli uomini dell'Arcturus, vedendo arrivare la morte, si sparpagliarono sul ponte. Alcuni corsero sottocoperta, altri si gettarono fuori bordo, annaspando goffamente nell'acqua. Soltanto il comandante Ruby Cornish e il suo padrone, Sir Guy Courteney, rimasero in piedi, fronteggiando le bocche spalancate dei cannoni della Sprite. Mansur si sentì sfiorare il braccio e abbassò gli occhi. Al suo fianco c'era Verity, col viso pallido e inespressivo. «Questo è un assassinio», sussurrò. Wilbur Smith
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«Qui l'assassino è tuo padre.» «Sì, è mio padre, ma, se agisci così, non ti laverai mai la coscienza dal suo sangue, e lo stesso varrà per me, dovessimo vivere cent'anni. Questo potrebbe essere il gesto che mette fine al nostro amore.» Quelle parole lo ferirono come la lama di un pugnale. Alzando la testa, vide il primo artigliere sul punto di fare fuoco, la miccia lenta a poche dita dal focone. «Aspetta a sparare!» gli disse e l'uomo scostò la mano. Tutti i responsabili delle postazioni di tiro si voltarono a guardare Mansur. Lui prese per mano Verity e la condusse verso la battagliola, portandosi il megafono alle labbra. «Guy Courteney! Ti sei salvato soltanto per l'intervento di tua figlia», gridò. «Quella sgualdrina traditrice non è mia figlia. Non è altro che una prostituta di strada.» Il viso di Guy era livido, il sangue coagulato sembrava cremisi per contrasto. «Il simile va col proprio simile, e voi vi siete incontrati nella latrina. Prenditela pure, e che la peste nera vi porti entrambi.» Mansur tenne a freno la collera con uno sforzo che andava contro tutti i suoi istinti. «Vi ringrazio, signore, per avermi concesso la mano di vostra figlia. Il tesoro che mi avete affidato con tanta grazia mi è così caro che lo difenderò a costo della vita.» Poi, rivolto a Kumrah, aggiunse: «Li lasceremo qui a marcire. Stabilisci la rotta per l'isola di Sawda». Mentre si allontanavano, Ruby Cornish si portò la mano alla fronte in segno di saluto, riconoscendo in silenzio la propria sconfitta e rendendo omaggio alla compassione di Mansur nel decidere di non aprire il fuoco. Trovarono la Revenge all'ancora nella minuscola baia racchiusa tra le scogliere dell'isola di Sawda. Quella tetra fortezza di rocce nere s'innalzava a picco sul mare con una parete alta trecento piedi che sovrastava le acque profonde al limite dello scudo continentale, sei miglia al largo della penisola araba. Kumrah l'aveva scelta per validi motivi. L'isola era disabitata e lontana dalla terraferma, sicura dal rischio che il nemico la scoprisse per caso. La baia era ridossata dai venti di tempesta che soffiavano da oriente. Le acque interne erano tranquille e la stretta fascia di sabbia nera di origine vulcanica creava una base adatta per tirare in secca la carena di una nave. C'era persino una vena segreta di acqua potabile che filtrava da una fenditura nella roccia alla base della scogliera. Wilbur Smith
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Non appena gettata l'ancora, Mansur si fece portare a bordo della Revenge insieme con Verity. Dorian gli diede il benvenuto a bordo, sostando sul boccaporto d'accesso alla nave. «Padre, non c'è bisogno che ti presenti tua nipote Verity. Vi conoscete già abbastanza bene.» «I miei omaggi e i miei rispetti, maestà.» Lei gli fece una riverenza. «Finalmente possiamo conversare in inglese, e posso salutarti come uno zio», disse lui, abbracciandola. «Benvenuta in famiglia, Verity. So che avremo tante occasioni per conoscerci meglio.» «Lo spero, zio, però mi rendo conto che ora tu e Mansur avete molte altre cose da fare.» Stando sulla coperta della Revenge, i due concertarono in breve un piano d'azione, passando subito a metterlo in pratica. Mansur affiancò la Sprite alla nave del padre, in modo che i due scafi fossero uniti dalle cime per tutta la loro lunghezza. A quel punto, fu possibile utilizzare le pompe di entrambe le navi per liberare dall'acqua la sentina allagata. Nel contempo passarono sotto la carena della Revenge un telo pesante, in modo che la pressione dell'acqua lo tenesse saldamente al suo posto, tappando il foro al di sotto della linea di galleggiamento. Una volta bloccato l'afflusso di acqua, furono in grado di prosciugare lo scafo in poche ore. Subito dopo la alleggerirono di tutto il carico pesante. Cannoni, polvere e proietti, vele, alberi e alberetti di riserva furono trasferiti sulla coperta della Sprite. Alleggerita di tutto quel peso, la Revenge risalì, leggera come un turacciolo; rimorchiandola con le barche, fu possibile trasportarla verso la spiaggia e poi, con l'aiuto della marea, coricarla sul fianco per lasciare scoperto il danno inflitto dal colpo di cannone. I carpentieri si misero al lavoro coi loro aiutanti. Per completare le riparazioni ci vollero due giorni e due notti di lavoro, alla luce delle lanterne da combattimento. Quando ebbero finito, le sezioni di fasciame sostituite erano più solide di quelle originali. Inoltre colsero l'occasione per raschiare dalla carena lo strato di alghe, calafatare di nuovo le commessure con la pece e rinnovare il rivestimento di rame che serviva a proteggere il fasciame immerso nell'acqua dall'attacco delle teredini. Quando la misero di nuovo in mare, era asciutta e perfettamente stagna. La rimorchiarono di nuovo nella baia per caricarla e rimontare le armi a bordo. Verso sera avevano riempito tutte le botti dell'acqua attingendo alla sorgente ed erano pronti a salpare. Tuttavia Dorian decise che l'equipaggio aveva diritto a due giorni di riposo Wilbur Smith
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per celebrare l'importante festività islamica di Id Kabir, un'occasione gioiosa nel corso della quale si sacrificava una pecora, dividendo poi la carne tra i fedeli in festa. Quella sera si riunirono sulla spiaggia, e Dorian sacrificò una delle pecore che venivano tenute in gabbia a bordo della Revenge. Le sue carni magre bastarono appena per distribuirne un boccone a testa, ma furono arricchite col pesce fresco arrostito alla brace, mentre gli uomini dotati di talento musicale cantavano, danzavano e alzavano lodi ad Allah per la fuga da Muscat e la vittoria riportata sull'Arcturus. Verity era seduta tra Dorian e Mansur, su uno strato di tappeti da preghiera in seta stesi sulla sabbia nera della spiaggia. Come quasi tutti quelli che conoscevano Dorian, anche Verity non riuscì a resistere al suo calore e al pacato senso dell'umorismo che lo caratterizzavano. Inoltre lei partecipava istintivamente al suo dolore per la tragica perdita della moglie e percepiva la malinconia che lo aveva segnato da allora. Dorian era altrettanto affascinato dall'intelligenza vivace di Verity, dal coraggio che aveva dimostrato e dai suoi modi schietti e garbati. Studiandola al chiarore del fuoco, pensava: Ha ereditato tutte le qualità dei genitori, la bellezza della madre prima che venisse offuscata dalla gola, e la vivacità di spirito di Guy. Per fortuna non ha preso i loro difetti, cioè la personalità fatua e superficiale di Caroline e gli istinti avidi e perversi di Guy, insieme con la sua mancanza di umanità. Ben presto, tuttavia, accantonò quelle riflessioni, e si lasciò contagiare dall'allegria generale. Risero e cantarono insieme, battendo le mani e oscillando a tempo con la musica. Quando infine i suonatori furono vinti dalla stanchezza, Dorian li congedò con molti ringraziamenti e una moneta d'oro per il loro disturbo; ma i tre erano troppo eccitati per andare a dormire. L'indomani sarebbero salpati alla volta di Fort Auspice, e Mansur cominciò a descrivere a Verity la vita che avrebbero condotto in Africa e i parenti che avrebbe conosciuto. «Sarah e Tom ti piaceranno senz'altro.» «Tom è il migliore dei fratelli», confermò Dorian. «È sempre stato lui il capo, mentre Guy e io...» S'interruppe subito, accorgendosi che il nome di Guy aveva gettato un'ombra sui loro cuori. Il silenzio impacciato che seguì si prolungò, perché nessuno di loro sapeva come romperlo. Fu Verity a prendere la parola. «Sì, zio Dorian, mio padre non è un Wilbur Smith
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uomo buono. So che è spietato. Non posso sperare di scusare il suo comportamento omicida quando ha sparato sulla lancia, ma forse posso spiegare per quale motivo è accaduto.» I due uomini rimasero in silenzio, in preda all'imbarazzo. Tenevano lo sguardo fisso sulle braci del fuoco, senza guardarla. Poco dopo lei aggiunse: «Doveva impedire a tutti i costi che qualcuno scoprisse il carico segreto che trasporta nella stiva principale dell'Arcturus». «Di che carico si tratta, mia cara?» chiese Dorian, alzando la testa. «Prima di rispondere, credo di dovervi spiegare in che modo mio padre ha messo insieme un patrimonio tale da far impallidire qualsiasi grande potentato orientale, salvo forse il Gran Moghul e la Sublime Porta. È un mediatore ad alto livello e sfrutta la sua posizione di console generale per fare e disfare regni. La corona inglese e la Compagnia Inglese delle Indie Orientali gli hanno delegato il potere di trattare in eserciti e nazioni proprio come certi uomini trattano in bovini e ovini.» «Le potenze di cui parli, la corona inglese e la John Company, non sono nelle sue mani», obiettò Dorian. «Mio padre è un prestigiatore, un illusionista provetto. Può indurre gli altri a credere quello che lui vuol fargli credere, anche se non sa neppure parlare la lingua dei re e degli imperatori che sono suoi clienti.» «Per questo si serviva di te», intervenne Mansur. Lei confermò con un cenno. «Sì, io ero la sua lingua, ma il dono di un'eccezionale perspicacia politica è suo e soltanto suo.» Si rivolse a Dorian. «Tu, zio, che lo hai ascoltato, devi aver capito come sappia essere persuasivo e quanto sia astuto.» Dorian annuì, e lei continuò: «Se non foste stati preavvertiti, sareste stati ansiosi di provare le sue merci, anche se il loro costo sarebbe stato davvero esorbitante... Ebbene, Zayn al-Din ha pagato molto di più. Da quell'autentico genio che è, non soltanto mio padre è riuscito a mungere Zayn, ma tanto la Sublime Porta quanto la Compagnia Inglese delle Indie Orientali gli hanno pagato quasi altrettanto perché facesse loro da emissario. Per il lavoro svolto in Arabia durante gli ultimi tre anni, mio padre ha ricevuto quindici lakh in oro». Mansur lanciò un fischio sommesso e Dorian assunse un'aria grave. «È quasi un quarto di milione di ghinee», mormorò. «Un riscatto degno di un imperatore.» «Sì.» Verity abbassò la voce fino al livello di un sussurro. «Ed è tutto Wilbur Smith
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depositato nella stiva principale dell'Arcturus. Ecco perché mio padre avrebbe preferito morire piuttosto che lasciarvi salire a bordo della nave. Ed ecco perché era disposto a far saltare la santabarbara quando ha capito che quel carico era minacciato.» «Per gli angeli del paradiso, amore mio, perché non ce lo hai detto prima?» bisbigliò Mansur. Lei lo guardò negli occhi. «Il motivo è uno solo», rispose. «Da quando sono nell'età della ragione ho capito di aver accanto un uomo la cui anima è consumata dall'avidità, dunque conosco bene gli effetti di quell'afflizione corrosiva. Non volevo infettare con la stessa malattia l'uomo che amo.» «Questo non accadrebbe mai», ribatté Mansur con calore. «Mi fai torto.» «Tesoro... Se tu potessi vedere il tuo viso in questo momento...» Mansur abbassò gli occhi con aria vergognosa. Sapeva che la freccia della ragazza aveva colto nel segno, perché sentiva agitarsi nelle viscere le stesse emozioni contro le quali lei lo aveva messo in guardia. «Verity, mia cara, ascolta», intervenne Dorian. «Se potessimo usare l'oro macchiato di sangue di Zayn al-Din per cacciarlo dal Trono dell'Elefante e liberare il suo popolo, non ti sembrerebbe questo un modo di fare giustizia?» «È a questo che penso senza posa, da quando ho legato il mio destino al tuo e a quello di Mansur in modo così irrevocabile. Il motivo per cui vi ho parlato dell'oro a bordo dell'Arcturus è che sono giunta alle vostre stesse conclusioni. A Dio piacendo, se metteremo le mani su quel denaro maledetto, allora lo useremo per una nobile causa.» Si accorsero da lontano che gran parte dell'alberatura danneggiata dell'Arcturus era stata riparata o sostituita, ma, quando si avvicinarono, apparve chiaro che la nave era ancora impalata sulle punte di granito dell'Ingannatore come una vittima sacrificale sull'altare di Mammona. Ancor più da vicino, scorsero un piccolo gruppo di uomini dall'aria smarrita, raccolto intorno al piede dell'albero di maestra sul ponte fortemente inclinato. Attraverso il cannocchiale, Dorian distinse la figura corpulenta e il viso acceso di Ruby Cornish. Era chiaro che l'Arcturus non costituiva più una minaccia. Era immobilizzata, e la forte inclinazione del ponte rendeva inutilizzabili le batterie. I cannoni lungo il lato di sinistra erano puntati verso l'acqua e Wilbur Smith
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quelli sul lato di dritta verso il cielo. Comunque Dorian non volle correre rischi, e ordinò che la Revenge e la Sprite si tenessero pronte all'azione, coi cannoni carichi e puntati. Avvicinandosi, incrociarono nelle acque circostanti da ciascun lato dell'Arcturus, tenendola di mira con le loro bordate. Non appena fu a portata di udito, Dorian lanciò un richiamo a Cornish. «Volete consegnarci la nave, signore?» Ruby Cornish rimase sbalordito, sentendosi apostrofare dal califfo ribelle in un inglese perfetto, con l'accento dolce e musicale del Devon, ma si riprese in fretta e si tolse il cappello per avvicinarsi alla murata, aggrappandosi poi alla battagliola per mantenere l'equilibrio. «Non mi lasciate scelta, maestà. Volete anche la mia spada?» «No, comandante. Vi siete battuto coraggiosamente, difendendovi con onore, quindi vi prego di tenere la spada», disse Dorian, che sperava nella collaborazione di Cornish. «Siete generoso, maestà», rispose il comandante, raddolcito da quei complimenti. Piazzandosi di nuovo il cappello in testa, strinse la cintura della spada. «Attendo istruzioni.» «Dov'è Sir Guy Courteney? Si trova sottocoperta?» «Nove giorni fa Sir Guy si è allontanato, portando con sé le lance della nave e un gruppo dei miei uomini. È salpato per Muscat, dove si propone di trovare assistenza. Non appena possibile, tornerà per trarre in salvo l'Arcturus. Nel frattempo mi ha lasciato qui di guardia alla nave per proteggere il carico.» Era un messaggio lungo da gridare, e alla fine il viso di Cornish era davvero rosso come un rubino. «Sto per mandare a bordo degli uomini e intendo trarre in salvo la nave, rimorchiandola lontano dalla barriera. Siete disposto a collaborare coi miei ufficiali?» Cornish esitò un attimo, poi si decise. «Maestà, mi sono consegnato a voi ed eseguirò i vostri ordini.» Dopo aver disposto la Sprite e la Revenge ai lati dell'Arcturus, la scaricarono, trasbordando tutti i cannoni, i proietti e l'acqua, poi fecero scorrere sotto la carena le cime più grosse, per usarle come cinghie. Sfruttando gli argani installati a bordo della Revenge e della Sprite, tesero le cime finché non divennero rigide come sbarre di ferro. L'Arcturus si sollevò a poco a poco e udirono le tavole schioccare e spezzarsi mentre i corni di granito lasciavano la presa sui loro punti vitali. Mancavano appena Wilbur Smith
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due giorni all'alta marea sigiziale e, in quelle acque, la variazione del livello del mare sfiorava l'altezza di tre braccia. Prima dello sforzo finale, Dorian attese che l'acqua sciabordasse in fondo alla sentina, poi mise tutti gli uomini abili alle pompe. Al suo segnale, si gettarono sulle lunghe impugnature. L'acqua che si era raccolta nella sentina scorse a fiumi lungo le murate, più in fretta di quanto entrasse dagli squarci nella carena dell'Arcturus. La nave, così alleggerita, si sforzò di liberarsi dalla roccia. Poi la marea che saliva aggiunse la sua spinta irresistibile al galleggiamento della nave e, con un ultimo rumore lacerante e terribile che saliva dalle sue viscere, l'Arcturus si raddrizzò lentamente e prese a galleggiare. Subito i tre velieri issarono la randa di maestra e, sempre uniti, si allontanarono dalle grinfie dell'Ingannatore con cinquanta braccia d'acqua sotto la carena. Dorian eseguì lentamente la virata necessaria per portare le tre navi - ancora unite - su una rotta che puntava verso l'isola di Sawda compiendo una deviazione. Poi mise una guardia armata a sorvegliare i portelli della stiva principale dell'Arcturus col divieto rigoroso di accesso per tutti. La rotta che seguivano era faticosa e tutt'altro che diretta. Le tre navi avanzavano barcollando, neanche fossero compagni di bevute che tornavano a casa dopo una notte di baldoria. Comunque, allo spuntar dell'alba, potevano già scorgere all'orizzonte il massiccio di rocce nere di Sawda e, prima di mezzogiorno, gettarono l'ancora nella baia. Il loro primo compito era tendere sotto la carena un telo pesante per coprire i terribili squarci nelle tavole del fondo; soltanto allora avrebbero potuto estrarre l'acqua, azionando le pompe delle tre navi per asciugarla. Prima di rimorchiare l'Arcturus sulla spiaggia per portarla in secca e completare le riparazioni, Dorian, Mansur e Verity salirono a bordo. Verity andò direttamente nella sua cabina, dove restò sbigottita dalla devastazione prodotta dalla battaglia. I vestiti erano tagliuzzati dalle schegge di legno e macchiati e danneggiati dall'acqua di mare; le bottiglie di profumo si erano frantumate e i vasetti di cipria si erano spaccati, rovesciando il contenuto sulle sottovesti e sulle calze. Comunque quelli erano tutti oggetti che si potevano rimpiazzare. La sua vera preoccupazione era per i libri e i manoscritti che lei possedeva. Al primo posto veniva una serie di splendidi e rari volumi illustrati del Ramayana che avevano qualche secolo di vita. Erano un dono personale di Nasir-uddin Muhammad Shah, il Gran Moghul, in riconoscimento dei servigi da lei Wilbur Smith
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resi come interprete nei negoziati con Sir Guy. Lei aveva già tradotto in inglese i primi cinque volumi di quel ponderoso poema epico indù. Fra gli altri suoi tesori c'era una copia del Qur'an, il Corano, che le era stata donata dal sultano Mahmud I, in occasione dell'ultima visita che gli aveva reso, insieme col padre, nel palazzo del Topkapi Saray, a Istanbul. Il dono era legato alla clausola che lei lo traducesse in inglese. Si diceva che quella fosse una delle copie originali della prima redazione ufficiale scritta del testo, commissionata dal califfo Othman circa dodici anni dopo la morte del Profeta e nota con l'appellativo di «versione othmanica». Rispettando la promessa fatta al sultano, Verity aveva quasi completato la traduzione di quell'opera fondamentale. I manoscritti rappresentavano molti anni di paziente lavoro; col cuore in gola, da sotto una pila di travi cadute e altri detriti, lei estrasse la cassetta nella quale li custodiva, poi lanciò un'esclamazione di sollievo, aprendo il coperchio e scoprendo che non erano stati danneggiati. Nel frattempo Dorian e Mansur stavano frugando nella grande cabina attigua, quella di Sir Guy. Ruby Cornish aveva consegnato loro la chiave, dicendo: «Non ho toccato niente». Era la verità. Dorian prese in consegna i giornali di bordo e tutti gli altri documenti dell'Arcturus. Nei cassetti chiusi a chiave di Guy trovarono le sue carte private e i suoi diari. «Questi ci offriranno molte prove preziose sulle attività di mio fratello», esclamò con cupa soddisfazione. «Inoltre ci riveleranno le sue trattative con Zayn al-Din e la Compagnia Inglese delle Indie Orientali.» Poi tornarono sul ponte, aprirono i sigilli che chiudevano i boccaporti della stiva principale, sollevarono i portelli e si calarono all'interno. La trovarono piena di moschetti, spade e lance. Tutte le armi erano nuove, ancora coperte dal grasso usato dai fabbricanti per proteggerle. C'erano anche polvere e munizioni a tonnellate e venti pezzi leggeri di artiglieria da campo. «C'è di che scatenare una guerra o una rivoluzione», commentò Dorian in tono asciutto. «E infatti era questo lo scopo dello zio Guy», convenne Mansur. Gran parte di quel materiale era stato danneggiato dall'acqua di mare e liberare la stiva dal carico fu un lavoro lungo, ma alla fine raggiunsero il fasciame del fondo. Tuttavia non si vedeva ancora traccia dell'oro descritto Wilbur Smith
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da Verity. Riemergendo dalla stiva calda e sudicia, Mansur risalì sul ponte per andare a cercare Verity. La trovò nella sua cabina e si fermò a guardarla dalla soglia. Nel breve tempo trascorso a bordo, era riuscita a riportare un notevole ordine in quel pandemonio e a fare pulizia. In quel momento era seduta allo scrittoio di mogano, sotto il lucernario. Non era più vestita di stracci smessi come un'orfanella; indossava un abito pulito di organza azzurra con le maniche a prosciutto, guarnito di pizzo finissimo, e portava al collo un filo di perle lucenti. Stava leggendo un libro con la legatura in argento cesellato e impreziosito di gemme, e prendeva appunti su un altro libro rilegato in pelle. Mansur si accorse che le pagine erano ricoperte dalla sua scrittura piccola ed elegante. Alzando gli occhi, lei gli rivolse un sorriso soave. «Ah, vostra altezza, finalmente ho l'onore della vostra attenzione? Ne sono molto onorata.» Dimenticando per qualche istante la delusione per non aver trovato l'oro, lui la fissò a bocca aperta per l'ammirazione. «Non c'è il minimo dubbio che sei la donna più bella sulla quale abbia mai posato gli occhi», mormorò in tono di rispetto. In quell'ambiente, Verity gli sembrava una gemma perfetta. «Mentre voi, signore, siete piuttosto sudato e sporco», ribatté lei, ridendo. «Comunque, chissà perché, penso che non siate venuto qui per farmi un complimento.» «Laggiù non c'è neanche un soldo bucato», borbottò lui, a disagio. «Vi siete presi il disturbo di guardare sotto le assi del pavimento... o dovrei dire tavolato? Sono un po' in alto mare con questi termini nautici, se volete scusare il gioco di parole.» «Ti amo ogni giorno di più, mio sagace tesoro», esclamò lui, prima di tornare di corsa nella stiva, chiamando a gran voce i carpentieri. Verity attese che i colpi di martello e di maglio nella stiva cessassero del tutto e si udisse il cigolio delle assi sollevate coi piedi di porco. Allora depose il Ramayana per salire sul ponte e avvicinarsi al portello aperto della stiva. Arrivò giusto in tempo per vedere la prima cassetta che veniva estratta, con rispetto reverenziale, dal nascondiglio sotto il tavolato. Era così pesante che Mansur e cinque robusti marinai dovettero unire le loro forze per sollevarla. Non appena uno dei carpentieri liberò il coperchio Wilbur Smith
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inchiodato, l'acqua si riversò fuori dalle commessure, perché la cassetta era rimasta immersa nell'acqua da quando la nave si era incagliata sui corni di granito dell'Ingannatore. Quando Mansur sollevò il coperchio, si levarono esclamazioni di stupore e ammirazione. Dall'alto, Verity scorse lo scintillio dell'oro puro, prima che gli uomini si affollassero intorno alla cassetta, impedendole di vedere. Lei, invece, fissava la schiena nuda di Mansur. I muscoli erano lucidi di sudore e, allorché lui si chinò a prendere uno dei lingotti lucenti, lei scorse il ciuffo di peli ramati sotto l'ascella. La vista dell'oro non l'aveva toccata affatto, ma quella del suo corpo sì. Avvertì quella strana ma piacevole sensazione per cui le pareva che i suoi lombi si sciogliessero, e dovette tornare ai suoi libri per alleviarla, ma invano. Quel calore divenne addirittura più intenso. «Verity Courteney, sei diventata una donna svergognata e lasciva», sussurrò in tono severo, ma il sorrisetto compiaciuto che affiorava sulle sue labbra smentiva il rimprovero. Mansur e Dorian recuperarono dalla sentina dell'Arcturus quindici casse d'oro e, pesandole, scoprirono che, come aveva assicurato Verity, ogni cassetta conteneva un lakh del prezioso metallo. «Mio padre è un uomo ordinato e pignolo», spiegò lei, «In origine il tesoro gli era stato consegnato com'era arrivato dalle casse del tesoro di Oman e Istanbul, in una profusione di monete di vario conio, data, origine e denominazione, ma anche in lingotti e rotoli di filo. Mio padre lo ha fatto fondere e consolidare nuovamente in lingotti del peso di dieci libbre ciascuno, col suo stemma e il tasso di purezza stampigliati sopra.» «Questa è una fortuna enorme», mormorò Dorian, mentre le quindici cassette venivano calate nella stiva della Revenge, dove sarebbero rimaste sotto la sua diretta responsabilità. «Mio fratello era davvero un uomo ricco.» «Non dispiacerti per lui», ribatté Verity. «È ancora un uomo ricco. Questa non è che una piccola parte della sua ricchezza. C'è molto di più nella camera blindata del consolato di Bombay, sotto la gelosa sorveglianza di mio fratello Christopher, che attribuisce a quel patrimonio ancor più valore di mio padre.» «Tutto quello che non useremo nella lotta per liberare Muscat dal dominio tirannico di Zayn sarà restituito al tesoro di Muscat, da cui Wilbur Smith
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proviene in gran parte. Verrà usato a beneficio del mio popolo. Hai la mia parola, Verity.» «Mi fido, zio, ma la verità è che sono nauseata da tanto oro, perché ho contribuito alla sua acquisizione da parte di un uomo che apprezza i beni materiali più dell'umanità stessa.» Una volta alleggerita dell'oro, l'Arcturus fu issata in secca sulla spiaggia e sottoposta alle necessarie riparazioni alla carena. I lavori procedettero in fretta, grazie all'esperienza acquisita con la Revenge. Stavolta, poi, potevano attingere anche alle competenze del comandante Cornish. Amava la sua nave come una bellissima amante: i suoi consigli furono innumerevoli e la sua assistenza si rivelò infaticabile. Benché, a rigor di termini, fosse un prigioniero di guerra, Dorian fece sempre più affidamento su di lui. Nel suo modo rude e goffo, Ruby Cornish era un ardente ammiratore di Verity e attese con ansia un'occasione per parlare a quattr'occhi con lei. Accadde mentre lei, seduta sulla sabbia nera della spiaggia, stava disegnando uno schizzo dei marinai intenti al lavoro sulla carena dell'Arcturus. Gli intrecci di cime tese sullo scafo aggraziato le ricordavano i fili di una ragnatela, ed era affascinata dal contrasto fra le tavole bianche appena piallate e le rocce nere e frastagliate. «Posso rubarvi qualche minuto di tempo, Miss Courteney?» Davanti a lei, Cornish si tolse il cappello, tenendolo sul petto. Verity alzò gli occhi dal cavalletto e gli sorrise, deponendo le matite. «Comandante Cornish, che piacevole sorpresa. Credevo che vi foste dimenticato di me.» Il volto di lui assunse una sfumatura scarlatta che non poteva esistere in natura. «Sono venuto a chiedervi un favore.» «Dovete solo chiedere, comandante, e io farò del mio meglio per accontentarvi.» «Miss Courteney, in questo momento sono disoccupato, dato che la mia nave è stata confiscata dal califfo al-Salil, il quale, se non sbaglio, è un inglese imparentato con voi, vero?» «È tutto molto sconcertante, lo ammetto. Comunque, sì, al-Salil è mio zio.» «Vostro zio ha espresso l'intenzione di rimandarmi a Bombay o a Muscat. Io ho perduto la nave di vostro padre, che era affidata alla mia responsabilità. Perdonate la mia franchezza, ma non si può dire che vostro Wilbur Smith
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padre sia un uomo facile al perdono», borbottò Cornish in tono ostinato. «Mi riterrà direttamente responsabile di questa perdita.» «Sì, ho il sospetto che possa farlo.» «Ecco... Io invece non vorrei essere costretto a renderne conto a vostro padre.» «In effetti, potrebbe essere pregiudiziale per la vostra salute.» «Miss Verity, voi mi conoscete da quand'eravate bambina. Ve la sentireste di raccomandarmi a vostro zio, il califfo, perché mi lasci al mio posto di comandante dell'Arcturus? Penso che sappiate che, date le circostanze, sarei leale verso il mio nuovo datore di lavoro. Senza contare che mi farebbe un enorme piacere pensare che la nostra lunga conoscenza non debba finire qui.» In effetti si conoscevano da molti anni, e lui era un ottimo marinaio nonché un fedele servitore. Inoltre Verity nutriva un affetto particolare per lui: in molte occasioni, Cornish si era rivelato un alleato tanto solido quanto discreto. Ogni volta che gli era stato possibile, l'aveva protetta dalla malizia perversa del padre. «Vedrò che cosa si può fare, comandante Cornish.» «Siete molto gentile», farfugliò lui. Poi si rimise il cappello in testa e la salutò prima di allontanarsi sulla sabbia nera. Dorian non ebbe bisogno di riflettere a lungo sulla richiesta. Non appena l'Arcturus ebbe completato le riparazioni e venne messa di nuovo in mare, Cornish ne riassunse il comando. Soltanto dieci dei suoi marinai si rifiutarono di seguirne l'esempio. Salpando dalla baia di Sawda, la piccola flotta si diresse a sud-ovest per immettersi nelle acque calde e benevole della corrente del Mozambico. I venti di monsone e la corrente la sospinsero rapidamente a sud, lungo la costa della Febbre. Qualche settimana dopo, fermarono un grande dhow commerciale in navigazione verso oriente. Dorian parlò col comandante e l'uomo spiegò che era impegnato in una spedizione commerciale verso i lontani porti del Catai, e fu entusiasta di aggiungere al suo equipaggio i dieci marinai dell'Arcturus, per la verità piuttosto restii ad accettare. Dorian, invece, era soddisfatto: forse sarebbero passati anni prima che gli uomini potessero fare rapporto a Muscat o al consolato inglese di Bombay. Poi issarono tutte le vele che i venti di monsone consentivano, e fecero vela verso il sud, percorrendo il canale tra la lunga isola di Madagascar e il continente africano. La regione costiera selvaggia e inesplorata si dispiegò Wilbur Smith
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lentamente alla loro destra, finché non scorsero all'orizzonte il rilievo a forma di schiena di balena che dominava l'accesso alla baia della Natività, ed entrarono a vele spiegate in quel passaggio stretto. Era mezzogiorno, ma al forte non c'era traccia di presenza umana. Non si vedeva uscire fumo dai camini, non c'erano panni appesi ad asciugare, né bambini che giocavano sulla spiaggia. Dorian era profondamente preoccupato per la sua famiglia. Era salpato di lì quasi tre anni prima, e in quel tempo potevano essere accadute tante cose. In sua assenza, il forte poteva essere stato sopraffatto dall'assalto dell'uomo o della carestia o della pestilenza. Mentre scivolavano verso la spiaggia, Dorian sparò un colpo di cannone, e fu sollevato nel vedere un certo movimento intorno al forte. Lungo il parapetto si affacciò una fila di teste, le porte si spalancarono e una folla disordinata di bambini e servitori si precipitò all'esterno. Lui sollevò il cannocchiale per puntarlo sulla porta e, in quel momento, il suo cuore diede un balzo di gioia nello scorgere la figura da orso del fratello Tom che veniva avanti, imboccando il sentiero verso la spiaggia e agitando il cappello in segno di saluto. Non era ancora arrivato in riva al mare che Sarah lo seguì. Uscendo di corsa dal forte, raggiunse Tom e lo prese sottobraccio. Le sue grida di gioia arrivarono fino alla nave mentre gettavano l'ancora. «Anche in questo avevi ragione», disse Verity a Mansur. «Se quella è la zia Sarah, mi piace già un mondo.» «Possiamo fidarci di quest'uomo?» chiese Zayn al-Din con la sua voce acuta e femminea. «Maestà, è uno dei miei migliori comandanti. Garantisco per lui con la mia stessa vita», rispose muri Kadem ibn Abubaker. Zayn gli aveva concesso il titolo di muri, ossia ammiraglio supremo, dopo la conquista di Muscat. «Potresti essere preso in parola.» Zayn si accarezzò la barba, osservando l'uomo del quale stavano discutendo. Era prostrato ai piedi del trono, con la fronte premuta sul pavimento di pietra. Zayn fece un cenno col dito ossuto e Kadem tradusse subito quel gesto. «Alza la testa. Fa' vedere il viso al califfo», disse al comandante, e l'uomo si sedette sui talloni. Tuttavia continuò a guardare in basso, non avendo il coraggio di guardare negli occhi Zayn al-Din. Zayn studiò attentamente il suo viso. Era abbastanza giovane da avere ancora il vigore Wilbur Smith
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e lo slancio del guerriero, ma abbastanza adulto da temperarli con l'esperienza e il giudizio. «Come ti chiami?» «Laleh, maestà.» «Molto bene, Laleh», disse Zayn. «Sentiamo il tuo rapporto.» «Parla», ordinò Kadem. «Maestà, per ordine del muri Kadem, sei mesi fa sono salpato per il sud costeggiando il continente africano, fino a raggiungere la baia che i portoghesi chiamano 'Natività'. Ero stato incaricato dal muri di accertare se, come ci avevano detto le nostre spie, quello era davvero il nascondiglio di al-Salil, il traditore e nemico del califfo e del popolo di Oman. Sono stato sempre molto attento a evitare che il mio dhow fosse avvistato dalla riva. Durante il giorno incrociavo al di sotto dell'orizzonte, e soltanto di notte mi avvicinavo all'entrata della baia, se così piace a vostra maestà.» Laleh si prosternò di nuovo, posando la fronte sul pavimento di pietra. Gli uomini seduti sui cuscini davanti al trono ascoltavano con grande attenzione. Sir Guy Courteney era quello più vicino al califfo. Nonostante la perdita della nave e dell'enorme fortuna in oro che essa conteneva, il suo potere e la sua influenza erano rimasti intatti. Era sempre l'emissario della Compagnia Inglese delle Indie Orientali e del re Giorgio II d'Inghilterra. Sir Guy aveva trovato un nuovo interprete per sostituire Verity, uno scrivano che era da lungo tempo alle dipendenze della Compagnia, a Bombay. Era uno spilungone stempiato, con la pelle deturpata dalle cicatrici del vaiolo, e si chiamava Peter Peters. Sebbene avesse un'ottima padronanza di mezza dozzina di lingue, Sir Guy non poteva riporre in lui la stessa fiducia che aveva riposto nella figlia. Ai piedi di Sir Guy era seduto il pascià Herminius Koots. Anche lui era stato promosso dopo che aveva strappato la città ad al-Salil, e aveva abbracciato l'Islam, perché sapeva bene che senza Allah e il suo Profeta non sarebbe mai stato ammesso a godere in pieno dei favori del califfo e adesso era il comandante supremo del suo esercito. Tutti e tre - Kadem, Koots e Sir Guy - avevano fondati motivi personali per partecipare a quel consiglio di guerra. Zayn al-Din fece un gesto spazientito, e muri Kadem pungolò il comandante Laleh con la punta del piede. «Continua, in nome del califfo.» «Possa Allah arridergli sempre e dispensargli la buona sorte», salmodiò Laleh, mettendosi di nuovo a sedere sui talloni. «Durante la notte sono Wilbur Smith
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sceso a terra e mi sono nascosto in un posto segreto sulle alture che dominano la baia. Ho allontanato la nave in modo che non fosse visibile dai seguaci di al-Salil. Da quella posizione, ho osservato la roccaforte del nemico, se non vi dispiace, maestà.» «Continua!» Stavolta Kadem non attese l'invito del califfo per incalzare Laleh, sferrandogli un calcio alle costole. L'uomo soffocò un lamento e si affrettò a continuare. «Ho visto tre navi all'ancora nella baia. Una era la nave alta che è stata sottratta all'effendi inglese.» Laleh voltò la testa per indicare il console, e Sir Guy si accigliò nel sentirsi ricordare quella perdita. «Le altre erano quelle su cui è fuggito al-Salil dopo la sconfitta subita per mano dell'illustre califfo Zayn al-Din, Prediletto dal Profeta.» Laleh si prosternò di nuovo, e stavolta Kadem gli fece assaggiare con violenza la punta dei sandali chiodati. L'altro si raddrizzò di scatto, riprendendo a parlare in tono lamentoso per il dolore alle costole. «Verso sera, ho visto una piccola barca da pesca uscire dalla baia per gettare l'ancora sulla barriera esterna. Al calare dell'oscurità, i tre uomini a bordo della barca hanno cominciato a pescare con la lampara e io, non appena tornato a bordo del mio dhow, ho mandato alcuni uomini a catturare l'equipaggio. Uno dei pescatori è rimasto ucciso perché ha opposto resistenza, ma gli altri due sono stati presi prigionieri. Ho rimorchiato la barca al largo per molte leghe prima di riempirla di zavorra e affondarla. L'ho fatto per indurre al-Salil a credere che la barca fosse stata inghiottita dal mare durante la notte e gli uomini fossero annegati.» «Dove sono questi prigionieri?» chiese Zayn. «Portateli qui.» Muri Kadem batté le mani e i due uomini furono introdotti dalle guardie: erano coperti soltanto dal perizoma sporco e i loro corpi emaciati portavano i segni delle gravi percosse ricevute. Uno aveva perso un occhio, e l'orbita vuota e nera era scoperta, a parte lo sciame di mosconi bluastri che l'aveva invasa. Le guardie li scaraventarono lunghi distesi sul pavimento ai piedi del trono. «Umiliatevi davanti al favorito dal Profeta, il sovrano di Oman e di tutte le isole dell'oceano Indiano, califfo Zayn al-Din.» I prigionieri strisciarono ai suoi piedi, protestando con un filo di voce la loro lealtà. «Maestà, questi sono gli uomini che ho catturato», spiegò Laleh. «Sfortunatamente il furfante guercio ha perso la ragione, ma l'altro, che si chiama Omar, è fatto di stoffa più robusta e potrà rispondere a qualunque Wilbur Smith
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domanda vi degnerete di fargli.» Laleh si sfilò dalla cintola una lunga frusta in pelle d'ippopotamo, svolgendola con uno schiocco. Non appena la fece schioccare, il prigioniero impazzito prese a piagnucolare e sbavare dal terrore. «Ho appreso che questi due uomini erano marinai a bordo della nave comandata da al-Salil. Sono al suo servizio da molti anni e conoscono molti degli affari del traditore.» «Dov'è al-Salil?» domandò Zayn al-Din. Laleh fece schioccare la frusta, e quello con un occhio solo finì per farsela addosso per il terrore. Zayn distolse il viso con disgusto e ordinò alle guardie: «Portatelo via e uccidetelo». Le guardie lo trascinarono via dalla sala del trono, e Zayn dedicò tutta la sua attenzione a Omar, ripetendo la domanda. «Dov'è alSalil?» «Maestà, l'ultima volta che l'ho visto, al-Salil si trovava nella baia della Natività, in quello che loro chiamano Fort Auspice. Aveva con sé il figlio e il fratello maggiore, e le loro donne.» «Quali sono le sue intenzioni? Quanto tempo resterà in quel forte?» «Maestà, io sono un umile pescatore. Al-Salil non discuteva con me di questi argomenti.» «Eri con al-Salil quand'è stata catturata la nave chiamata Arcturus? Hai visto le casse d'oro che facevano parte del carico?» «Maestà, ero con al-Salil quando ha indotto l'Arcturus a finire sullo scoglio sommerso chiamato Ingannatore. Sono stato uno di quelli che hanno tirato fuori le casse d'oro dalla stiva dell'Arcturus e le hanno trasportate a bordo della Revenge.» «Revenge?» ripeté Zayn, e Omar si affrettò a spiegare: «È il nome della nave ammiraglia di al-Salil». «E ora dove sono queste casse d'oro?» «Maestà, sono state portate a terra non appena le navi hanno gettato l'ancora nella baia della Natività. Anche quella volta ho aiutato a trasportarle. Le abbiamo messe in una camera blindata che è stata scavata sotto le fondamenta del forte.» «Quanti uomini ha a sua disposizione al-Salil? Quanti di loro sono combattenti addestrati all'uso della spada e del moschetto? Quanti cannoni ha? Ci sono soltanto le tre navi che hai già nominato, oppure il traditore ne ha delle altre?» Zayn interrogò con pazienza Omar con la sua vocina stridula, spesso ripetendo le domande e, ogni volta che lui si confondeva o Wilbur Smith
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esitava, Laleh lo colpiva alle costole con la frusta. Quando finalmente Zayn si ritenne soddisfatto, la schiena di Omar era coperta da una rete di ferite appena aperte che sanguinavano. Zayn distolse l'attenzione dal prigioniero per riportarla sui tre uomini seduti sui cuscini di seta ai piedi del trono. Con le labbra contratte in un sorrisetto ironico, studiò i loro volti. Sembravano un cerchio di iene affamate che osservavano un grande leone dalla criniera nera mentre si nutriva, aspettando di avvicinarsi in gran fretta per divorare gli avanzi una volta che lui si fosse saziato. «È possibile che abbia trascurato di rivolgere a questo furfante qualche domanda la cui risposta sia importante per le nostre decisioni?» chiese poi, guardando Sir Guy. Peters tradusse, e Sir Guy accennò un inchino prima di rispondere: «Le domande di vostra maestà hanno dimostrato la sua profondità di percezione e intelletto. Tuttavia esistono alcuni piccoli dettagli, questioni personali, di cui questo disgustoso individuo potrebbe essere al corrente. Posso avere il vostro grazioso permesso?» Nel dire così, s'inchinò di nuovo. Zayn acconsentì con un cenno, e Peters si rivolse a Omar, rivolgendogli la prima domanda. Fu una questione piuttosto laboriosa, ma alla fine Sir Guy riuscì a estorcergli tutti i dettagli sul tesoro e sulla camera blindata in cui era custodito. Perlomeno sapeva che tutto l'oro perduto era a Fort Auspice, e non era stato trasferito in parte in altri nascondigli segreti. L'unica preoccupazione era come rientrarne in possesso senza doverne cedere una parte troppo generosa agli alleati che sedevano con lui davanti al trono di Zayn al-Din. Ma a quel problema avrebbe trovato una soluzione in seguito. Per il momento l'accantonò, dedicandosi invece a interrogare minuziosamente Omar sull'identità di tutti i ferengi che vivevano tra le mura di Fort Auspice. La pronuncia di Omar rendeva i nomi a stento riconoscibili, ma Guy capì quanto bastava per avere la certezza che, insieme con Dorian e Mansur, c'erano Tom e Sarah. Gli anni avevano fatto ben poco per attenuare l'odio che nutriva verso il fratello gemello. Rammentava ancora in modo vivido l'adorazione adolescenziale che aveva provato per Caroline e lo strazio che aveva sperimentato spiando i loro amplessi notturni nella santabarbara della Seraph. Naturalmente alla fine era stato lui a sposare Caroline, ma lei lo aveva accettato come ripiego, portando in grembo il bastardo di Tom, e dunque, negli anni seguenti al matrimonio, la donna aveva dovuto subire Wilbur Smith
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una serie di sottili torture psicologiche dettate dalla volontà di Guy di sfogare l'odio per Tom. Il tempo aveva forse raggelato quel sentimento, eppure l'odio persisteva ancora, duro e gelido come l'ossidiana di un vulcano spento. Poi le sue domande si concentrarono su Mansur Courteney e Verity. Verity era stato l'altro grande amore della sua vita, un amore oscuro e contorto. Lui anelava a possederla in ogni modo, anche sfidando la legge e la natura. La sua voce e la sua bellezza appagavano una brama sepolta in profondità nella sua anima. Tuttavia non aveva mai provato un trasporto così intenso come quando faceva schioccare la frusta su quelle carni pallide e vedeva formarsi sulla sua pelle perfetta i solchi color cremisi. Allora il suo amore per lei era stato così intenso da consumare ogni altra cosa. E Mansur Courteney gli aveva sottratto quella pietra di paragone del suo desiderio. «Che ne è della donna ferengi catturata da al-Salil durante il combattimento con la mia nave?» La voce di Guy tremava per il dolore che gli causava quella domanda. «L'effendi si riferisce a sua figlia?» chiese Omar con ingenuità infantile. Sir Guy non riuscì a parlare, limitandosi ad annuire con un cenno brusco. «È diventata la donna del figlio di al-Salil, Mansur», rispose Omar. «Dividono lo stesso alloggio e passano molto tempo insieme, ridendo e parlando.» Esitò prima di decidersi a riferire per intero una notizia così poco delicata, ma poi proseguì. «Lui la tratta alla pari, anche se è una donna. Le permette di precederlo e d'interromperlo quando parla, l'abbraccia e l'accarezza anche sotto gli occhi degli altri. Anche se professa la fede dell'Islam, si comporta con lei come un kaffir e un infedele.» Sir Guy si sentì bruciare lo stomaco, sconvolto dal sapore acre dell'indignazione e della rabbia. Pensò al corpo di Verity così candido e perfetto, e l'immaginazione cominciò a galoppare, sfuggendo al suo controllo. Era incapace di distogliere la mente dalle immagini vivide che lo assalivano, dagli atti sudici e osceni che Verity e Mansur compivano insieme. Rabbrividì, assalito dal disgusto e insieme da un'eccitazione perversa che gli serrava i lombi in una morsa tormentosa. Quando la farò prigioniera, la fustigherò finché quella sua pelle bianca non le penderà dal corpo a brandelli, si ripromise. E costringerò quel porco che l'ha traviata a strillare, implorando il conforto della morte. Quelle fantasie Wilbur Smith
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erano così vivide da fargli temere che gli altri intorno a lui potessero captarle con la sua stessa intensità. Non resisteva più. «Ho finito con questo ammasso di escrementi, maestà.» Si sciacquò le mani nella ciotola di acqua calda e profumata con petali di fiori posta vicino a lui, come se dovesse purificarsi da un contatto così repellente. Zayn al-Din guardò il pascià Koots. «C'è qualcosa che volete chiedere al prigioniero?» «Se vostra maestà graziosamente lo consente...» rispose lui con un inchino. Sulle prime, le sue domande a Omar furono quelle tipiche di un soldato. Voleva sapere quanti marinai c'erano a bordo delle navi, quanti stavano nel forte, fino a che punto fossero leali e preparati a combattere. S'informò sugli armamenti e sulla disposizione dei cannoni e sull'artiglieria da campo che era stata ritrovata nelle stive dell'Arcturus. Quanta polvere aveva al-Salil nella santabarbara, e quanti moschetti? Poi le domande cambiarono. «Quello che tu chiami Klebe, 'il falco', e nella lingua dei ferengi si chiama Tom... Tu dici di conoscerlo?» «Sì, lo conosco bene.» «Ha un figlio.» Omar annuì. «Conosco anche lui. Lo chiamiamo Somoya, perché è come il vento di tempesta.» «Dov'è?» chiese Koots con la faccia di pietra, anche se, dietro la maschera, l'ira ardeva, implacabile. «Al forte ho sentito dire che è andato a fare un viaggio nell'interno.» «È andato a caccia di avorio?» s'informò Koots. «Dicono che Somoya sia un grande cacciatore. Ha grandi riserve di avorio nel forte.» «Hai visto queste riserve coi tuoi occhi?» «Ho visto i cinque grandi magazzini del forte pieni fino al soffitto, tanto sono abbondanti.» Koots assentì, soddisfatto. «Per il momento non voglio sapere altro, ma in futuro ci saranno molte altre domande.» Kadem s'inchinò allo zio. «Maestà, chiedo che questo prigioniero venga affidato alla mia personale custodia e responsabilità.» «Portatelo via e fate in modo che non muoia, non per adesso, almeno. Non prima di essere servito allo scopo.» Le guardie rimisero in piedi Omar e lo trascinarono fuori, oltre le grandi porte di bronzo. Zayn al-Din guardò Laleh, che si era allontanato in silenzio, tentando di confondersi con le Wilbur Smith
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ombre sul fondo della sala del trono. «Hai fatto un buon lavoro. Ora va' a preparare la tua nave. Avrò bisogno dei tuoi servigi come esploratore, quando guiderai la flotta in quella baia della Natività.» Laleh si ritirò, camminando a ritroso, inchinandosi e compiendo una serie di gesti di obbedienza e ossequio. Allorché le guardie e tutti i personaggi di secondo piano si furono allontanati, sulla sala calò il silenzio. Tutti aspettavano che Zayn si pronunciasse, ma lui sembrava immerso in un sogno a occhi aperti, come quelli ispirati dal fumo del bhang. Alla fine si riscosse e guardò Kadem ibn Abubaker. «Tu sei vincolato da un giuramento di sangue a vendicare la morte di tuo padre per mano di al-Salil.» Kadem s'inchinò profondamente. «Quel giuramento mi è più caro della mia stessa vita.» «La tua anima è stata contaminata dal fratello di al-Salil, Tom Courteney. Ti ha avvolto nella pelle di un maiale selvatico, minacciando di seppellirti vivo nella stessa tomba di un animale impuro.» Rammentando quella scena, Kadem digrignò i denti: l'umiliazione subita gli risultava ancora insostenibile, tanto che non tollerava neppure l'idea di ammetterla a parole. Si gettò in ginocchio. «Vi prego, mio califfo e fratello di mio padre, concedetemi di ottenere soddisfazione per i torti terribili che sono stati perpetrati contro di me da questi due diabolici fratelli.» Zayn annuì con aria pensierosa, rivolgendosi poi a Sir Guy. «Console generale... Vostra figlia è stata rapita dal figlio di al-Salil. La vostra splendida nave è stata abbordata e vi è stato rubato un grande patrimonio.» «Tutto questo è vero, maestà.» Infine Zayn si rivolse al pascià Herminius Koots. «Questa stessa famiglia vi ha umiliato, insozzando il vostro onore.» «Sì, ho subito queste sventure, maestà.» «Quanto a me, la lista delle lagnanze contro al-Salil risale all'infanzia», confessò Zayn al-Din. «È troppo lunga e dolorosa perché possa recitarla qui. Tutti noi abbiamo uno scopo comune: annientare quel nido di rettili velenosi e divoratori di carne di porco. Sappiamo che hanno accumulato una notevole scorta di oro e avorio... Facciamo sì che questa sia soltanto la salsa piccante che stuzzica la nostra sete di vendetta.» Fece un'altra pausa, spostando lo sguardo dall'uno all'altro dei suoi generali. «Quanto tempo vi occorre per stendere un piano di battaglia?» chiese loro. «Potente califfo, davanti al quale tutti i nemici sono ridotti in polvere e Wilbur Smith
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cenere, il pascià Koots e io non dormiremo e non mangeremo finché non saremo in grado di sottoporre alla vostra approvazione l'ordine di battaglia», promise Kadem. Zayn sorrise. «Da te non mi aspettavo niente di meno. Ci ritroveremo qui domani, dopo la preghiera della sera, per sentire il vostro piano.» «Per quell'ora saremo pronti», garantì Kadem. Il consiglio di guerra proseguì alla luce di cinquecento lampade, il cui stoppino galleggiava nell'olio profumato per scacciare le nuvole di zanzare che, non appena il sole toccò l'orizzonte, sciamarono dalle paludi e dalle latrine intorno alle mura della città. Peter Peters si accodò come al solito a Sir Guy Courteney, camminando un passo più indietro attraverso il labirinto di passaggi che conducevano verso l'harem reale, sul retro dell'enorme palazzo. Le pareti odoravano di muffa, rivelando duecento anni d'incuria. I topi scorrazzavano nei corridoi, precedendo i portatori di torcia che scortavano il califfo sino alla sua camera da letto, mentre il passo pesante delle guardie del corpo suscitava un'eco nelle volte e negli anfratti cavernosi delle sale che attraversavano. Il califfo, con la sua voce acuta, parlava e parlava, e Peters traduceva quasi all'istante. Poi, quando Zayn fece una breve pausa, lui tradusse la risposta di Sir Guy quasi con la stessa rapidità. Infine raggiunsero l'ingresso dell'harem e, a quel punto, si trovarono davanti un gruppo di eunuchi armati che dovevano subentrare alla scorta, dato che nessun uomo, a parte il califfo, poteva superare quel punto. Oltre gli schermi di avorio intagliato aleggiava un aroma d'incenso, misto all'afrore del desiderio di tante giovani donne. Tendendo l'orecchio, Peters ebbe l'impressione di udire un fruscio di piedini nudi sulle lastre di pietra del pavimento e un suono argentino di risa che faceva pensare al tintinnio di minuscoli campanelli d'oro. La stanchezza si dissolse, mentre la sua virilità veniva ridestata dalla vampata del desiderio. Il califfo poteva entrare nell'harem a deliziarsi, ma Peters non lo invidiava, perché quella notte il visir del palazzo gli aveva promesso qualcosa di speciale. «È una figlia dei saar, la più fiera di tutte le tribù di Oman. Pur avendo soltanto quindici estati, è dotata di un talento particolare. È una creatura del deserto, una gazzella coi seni da adolescente e le gambe lunghe e snelle. Ha il viso di una bambina e l'istinto di una prostituta esperta. Adora Wilbur Smith
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le malizie e i prodigi dell'amore. Vi aprirà tutti i passaggi che portano alla beatitudine», aveva concluso il visir con una risatina oscena. Essere al corrente delle caratteristiche e delle inclinazioni di ogni occupante del palazzo faceva parte dei suoi doveri e sapeva bene in quale direzione andassero i gusti di Peter Peters. «Vi accoglierà anche nel passaggio proibito, quello posteriore. Vi tratterà da quel grande signore che veramente siete, effendi.» Sapeva anche che quel piccolo impiegato insignificante ci teneva moltissimo a sentirsi chiamare con quel titolo. Quando infine Sir Guy lo congedò, Peters si affrettò a raggiungere il suo alloggio. A Bombay abitava in tre stanzette minuscole e infestate dagli scarafaggi, sul retro del complesso della Compagnia. Le uniche frequentazioni femminili che poteva permettersi col suo misero stipendio erano le donne della notte, coi loro sari scadenti e sgargianti e i braccialetti di ottone, che avevano le labbra e le gengive macchiate di rosso, come ferite di spada, dalla noce di betel che masticavano in continuazione, e puzzavano di cardamomo, aglio e curry, oltre che del sentore di muschio dei genitali non lavati. Lì nel palazzo di Muscat veniva trattato con tutti gli onori. Lo chiamavano effendi. In casa aveva due schiavi che esaudivano ogni suo capriccio. L'alloggio era sontuoso, e le ragazze che il visir mandava a tenergli compagnia erano giovani, dolci e docili. Ce n'era sempre una nuova a disposizione, quando si stancava della precedente. Entrando in camera da letto, Peters si sentì serpeggiare lungo la schiena un brivido di profonda delusione, perché la stanza era vuota. Poi sentì il suo odore, simile alla fragranza dei cedri al momento della fioritura. Fermo al centro della stanza, la frugò con gli occhi, in attesa che lei si mostrasse. Per qualche istante non notò nessun movimento e nessun suono, tranne il fruscio delle foglie del tamarindo che cresceva sotto il suo balcone. Peters citò sottovoce i versi di un poeta persiano: «Il suo seno splende come le pendici innevate del monte Tabora, le sue natiche sono tonde e luminose come lune nascenti. L'occhio scuro che vi si annida fissa implacabile l'abisso della mia anima». Le tende che schermavano il balcone fremettero e la ragazza ridacchiò. Era un suono infantile e, prima ancora di vederla, lui capì che il visir non aveva mentito sull'età. Quando uscì dal nascondiglio delle tende, la luce della luna trasparì dal tessuto della sua tunica, rivelando un corpo dai Wilbur Smith
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contorni eterei. Gli si avvicinò, strofinandosi contro di lui come una gattina e, quando le accarezzò il culetto rotondo attraverso il tessuto sottile, gli fece le fusa. «Come ti chiami, bella bambina?» «Mi chiamo Nazeen, effendi.» Il visir l'aveva istruita bene sui gusti di Peters, e le sue arti erano di gran lunga superiori alla sua giovanissima età. Più di una volta, nelle ore che restavano di quella notte, fece ululare e gemere di piacere Peters come un vitello appena svezzato. All'alba, Nazeen si rannicchiò in grembo a Peters, seduto al centro del materasso di piume d'oca. Scelse un loquat maturo da quelli disposti sul piatto d'argento vicino al letto e lo divise in due coi dentini bianchi. Sputando il seme marrone e lucente, infilò tra le labbra di Peters la polpa dolce del frutto. «Ieri sera mi hai fatto aspettare tanto, prima di venire da me. Pensavo che il mio cuore si sarebbe spezzato», gli disse mettendo il broncio. «Sono rimasto col califfo e coi suoi generali fin dopo mezzanotte.» Peters non seppe resistere al desiderio d'impressionarla. «Il califfo in persona?» Lo fissò con rispetto. Aveva gli occhi scuri, enormi. «E lui ti ha parlato?» «Certo.» «Al tuo Paese devi essere un gran signore. Che cosa voleva da te il califfo?» «Il califfo voleva il mio parere su questioni della massima segretezza e importanza.» Si dimenò, eccitata, sul suo grembo, e cominciò a ridacchiare, sentendolo crescere e irrigidirsi sotto di sé. Inginocchiandosi, protese all'indietro le mani per allargare le natiche scure e strette, poi ricadde sopra di lui. «Adoro i segreti», sussurrò, insinuandogli nell'orecchio la lingua rosa. Nazeen trascorse altre cinque notti con Peters e, quando non erano impegnati in altre attività, parlavano molto o, meglio, Peters parlava e la ragazza ascoltava. La mattina del sesto giorno, quando venne a prenderla mentre era ancora buio, il visir promise a Peters: «Tornerà da voi stanotte». Poi, tenendola per mano, la accompagnò a una porta secondaria del palazzo, presso la Wilbur Smith
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quale era in attesa un vecchio della tribù dei saar, inginocchiato pazientemente vicino a un cammello altrettanto vecchio. Il visir avvolse Nazeen in uno scialle scuro in pelo di cammello prima di issarla sulla sella malridotta. Al levar del sole, le porte della città si aprirono, dando l'avvio al solito afflusso di persone. Gente del deserto che era giunta fin lì a vendere le proprie merci o che tornava nelle enormi distese desolate, pellegrini e piccoli funzionari, mercanti e viaggiatori. Tra loro c'erano anche i due viandanti col vecchio cammello. In loro non c'era nulla che suscitasse interesse o invidia. Nazeen sembrava il nipote del vecchio, perché non era facile intuire il suo sesso sotto la tunica trasandata che la ricopriva da capo a piedi. Si allontanarono tra i palmizi e, mentre uscivano, nessuna delle guardie alla porta li degnò anche solo di uno sguardo. Poco prima di mezzogiorno, i viandanti avvistarono un capraio su una balza rocciosa delle colline brulle. Il gregge, che comprendeva una dozzina di bestie raccogliticce, brucava gli arboscelli secchi della vegetazione desertica. Il pastore stava suonando sul flauto di canne una melodia malinconica. Il vecchio arrestò il cammello e gli pungolò il collo finché non sibilò e protestò rumorosamente, inginocchiandosi. Nazeen scivolò giù dal suo dorso e corse leggera verso la balza rocciosa, gettando all'indietro il cappuccio della tunica mentre saliva verso il pastore. Si prosternò davanti a lui, baciandogli l'orlo della veste. «Potente sceicco bin Shibam, padre di tutta la mia tribù, possa Allah addolcire ogni giorno della vostra vita col profumo dei fiori di gelsomino.» «Suvvia, Nazeen, siediti, bambina mia. Persino qui nel deserto possono esserci occhi che ci sorvegliano.» «Mio signore, ho molte cose da riferire», proruppe Nazeen, con gli occhi scuri che scintillavano di eccitazione. «Zayn sta per inviare nientemeno che quindici dhow da guerra!» «Piano, Nazeen. Tira un respiro profondo, poi parla lentamente, ma senza tralasciare nulla, neanche una parola di quello che ti ha detto il ferengi Peters.» A mano a mano che lei parlava, il viso di bin Shibam si oscurava sempre più per l'ansia. La piccola Nazeen aveva una memoria straordinaria ed era riuscita a estorcere a Peters anche i dettagli di quella spedizione. Senza sforzo apparente, la ragazza snocciolò il numero degli uomini e il nome dei comandanti dei dhow che li avrebbero portati al sud. Era in grado Wilbur Smith
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d'indicare la data esatta e lo stato della marea in cui la flotta avrebbe preso il mare nonché la data prevista per l'arrivo nella baia della Natività. Quando finì, il sole era a metà strada del suo cammino nel cielo. Tuttavia bin Shibam aveva ancora una domanda da farle. «Dimmi, Nazeen, Zayn al-Din ha annunciato chi dovrà comandare la spedizione? Sarà Kadem ibn Abubaker o il ferengi Koots?» «Grande sceicco, Kadem ibn Abubaker comanderà le navi, mentre il ferengi Koots sarà alla testa dei guerrieri che scenderanno a terra. Ma sarà Zayn al-Din in persona a guidare la flotta e ad assumere il comando supremo.» «Ne sei sicura, bambina mia?» insistette lui. Gli sembrava un colpo di fortuna troppo grande. «Sì, che ne sono sicura. Lo ha dichiarato al consiglio di guerra, e queste sono le parole esatte che mi ha ripetuto Peters: 'Finché vivrà al-Salil, il mio regno non sarà mai sicuro. Voglio essere presente il giorno della sua morte, e lavarmi le mani nel sangue del suo cuore. Soltanto allora sarò convinto che è morto'.» «Come ha detto tua madre, Nazeen, tu vali una dozzina di guerrieri nella lotta contro il tiranno.» Nazeen chinò la testa con modestia. «Come sta mia madre, grande sceicco?» «E ben assistita, come ti ho promesso. Mi ha pregato di dirti quanto ti ama e quanto è fiera di te per quello che stai facendo.» Gli occhi scuri di Nazeen scintillarono di piacere. «Dite a mia madre che prego per lei ogni giorno.» La madre della ragazza era cieca, perché le mosche le avevano deposto le uova sotto le palpebre e le larve avevano divorato le pupille. Se non fosse stato per Nazeen, sarebbe stata abbandonata al suo destino da tempo, perché la vita nel deserto era spietata. Adesso, invece, viveva sotto la protezione personale di bin Shibam. Lo sceicco seguì con lo sguardo la fanciulla che scendeva lungo il pendio e risaliva sul cammello dietro il vecchio cammelliere. I due ripartirono in direzione della città. Non provava sensi di colpa o rimorsi per quello che aveva chiesto di fare a Nazeen. Una volta che tutto fosse finito, quando al-Salil si fosse insediato sul Trono dell'Elefante, le avrebbe trovato un buon marito. Ammesso che lei lo desiderasse. Bin Shibam sorrise e scosse la testa, perché aveva l'impressione che Wilbur Smith
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Nazeen fosse una di quelle donne nate con un talento naturale e col gusto del sesso. In fondo, sapeva che lei non avrebbe mai rinunciato all'eccitazione della città per abbracciare la vita austera e ascetica della tribù. Non era una donna capace di sottomettersi al dominio di un marito. «Quella piccola saprebbe tenere in riga un centinaio di uomini. Forse potrei fare di meglio per lei, prendendomi cura della madre cieca e lasciandola al suo destino. Va' in pace, piccola Nazeen, e sii felice», sussurrò rivolto alla sagoma distante del cammello, che svaniva lentamente nella foschia violacea del sole al tramonto. Poi lanciò un fischio e, poco dopo, il vero capraio uscì dal suo nascondiglio tra le rocce, s'inginocchiò davanti a bin Shibam e gli baciò i piedi chiusi nei sandali. L'altro si tolse di dosso la tunica logora e sbiadita per restituirgliela. «Tu non hai udito niente e non hai visto niente», gli disse. «Sono sordo, cieco e muto», confermò il capraio. Bin Shibam gli diede una moneta, e l'uomo pianse di gratitudine. Bin Shibam superò il crinale roccioso, ridiscendendo sul versante opposto verso il punto in cui aveva lasciato impastoiato il cammello. Montato in sella, puntò verso sud e viaggiò per tutta la notte e il giorno seguente, senza fare soste, mangiando solo una manciata di datteri e bevendo latte di cammella cagliato dall'otre di pelle che teneva appeso dietro la sacca. Recitò persino le preghiere senza interrompere il viaggio. Verso sera, sentì la fragranza della salsedine, ma proseguì senza interruzione per tutta la notte. All'alba si trovò davanti l'oceano, che si stendeva dinanzi a lui come un enorme scudo d'argento. Dall'alto delle colline, scorse la feluca veloce ancorata poco distante dalla spiaggia. Il comandante, Tasuz, era un uomo che gli aveva dato prova della sua lealtà centinaia di volte. Inviò a terra una piccola barca per trasferire a bordo bin Shibam. Aveva portato con sé l'occorrente per scrivere, così si sedette sul ponte a gambe incrociate col rotolo di pergamena davanti a sé, mettendo per iscritto tutto quello che Nazeen era riuscita a riferirgli. Concluse la lettera con queste parole: Maestà, possa Allah concedervi la vittoria e la gloria. Io attenderò insieme con tutte le tribù per darvi il benvenuto quando tornerete da noi. Poi, accorgendosi che ormai era calata la notte, diede il rotolo a Tasuz. «Consegna questo nelle mani del califfo al-Salil. Piuttosto che darlo a un altro, dovrai sacrificare la vita», gli ordinò. Wilbur Smith
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Tasuz non sapeva né leggere né scrivere, quindi nelle sue mani il rapporto era al sicuro; inoltre aveva già istruzioni precise per raggiungere la baia della Natività. Come molti analfabeti, Tasuz aveva una memoria infallibile e non dimenticava un solo dettaglio. «Va' con Dio, e possa Egli gonfiare la tua vela col suo sacro alito», lo congedò bin Shibam. «Restate con Dio, e possano gli angeli allargare le ali sopra di voi, grande sceicco», replicò Tasuz. Fu soltanto dopo centotré giorni di navigazione che Tasuz scorse l'altura imponente descritta nelle sue istruzioni di navigazione, simile al dorso di una balena e, virando per entrare nella laguna, riconobbe le navi alte a tre alberi che aveva visto l'ultima volta ancorate nel porto di Muscat. Tutta la famiglia Courteney era riunita nel salone del corpo principale di Fort Auspice, dove trascorreva quasi tutto il suo tempo libero. Sarah aveva impiegato quattro anni per arredarlo in modo così accogliente. Il pavimento e tutti i mobili erano stati realizzati amorevolmente dai carpentieri usando essenze locali, stinkwood, tambootie e blackwood, dalla grana splendida e lucidati con la cera d'api fino a raggiungere una calda lucentezza. Le donne avevano ricamato i cuscini, dopo averli imbottiti col kapok delle piante selvatiche. I pavimenti erano ricoperti di pelli di animali conciate, e le pareti decorate con dipinti in cornice eseguiti quasi tutti da Sarah e Louisa, benché anche Verity, da quando era giunta al forte, avesse dato un contributo sostanziale alla galleria d'arte di famiglia. Il clavicembalo di Sarah occupava il posto d'onore e, dopo il ritorno di Dorian e Mansur, si poteva dire che il coro di famiglia era di nuovo al completo. Quella sera, tuttavia, nessuno cantava, perché erano tutti presi da affari ben più seri. Seduti in silenzio, ascoltavano con attenzione Verity, che traduceva in inglese il lungo e dettagliato rapporto che Tasuz aveva portato loro da parte di bin Shibam, al nord. C'era un solo componente della famiglia che non era affascinato da quella lettura a voce alta. George Courteney aveva quasi tre anni, ormai, ed era un bambino molto vivace e comunicativo, che non nutriva il minimo dubbio a proposito delle sue esigenze e dei suoi desideri e non esitava a renderli noti. Girava intorno al tavolo, con le natiche grassocce che spuntavano dall'orlo della corta tunica, il suo unico indumento. Sul davanti, il piccolo pene penzolava Wilbur Smith
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come un piccolo verme bianco. George era abituato a godere della piena attenzione di tutti, dall'ultimo servitore nero a quello che per lui era poco meno che una divinità, ovvero suo nonno Tom. «Uepity!» esclamò, con uno strattone imperioso alle gonne di Verity; aveva ancora qualche problema a pronunciare il suo nome. «Parla anche con me!» Lei esitò. Non era facile tenere a bada George. Interruppe la recita dell'elenco di uomini, navi e cannoni per guardarlo. Il bambino aveva i capelli d'oro della madre e gli occhi verdi del padre, e un aspetto così angelico che le si strinse il cuore, mentre in lei si ridestavano istinti così profondi che soltanto di recente si era accorta di possedere. «Più tardi ti racconto una storia», propose. «No! Adesso!» «Non fare la peste», borbottò Jim. «Georgie caro, vieni dalla mamma», disse Louisa. George ignorò entrambi i genitori. «Adesso, Uepity, adesso!» insistette, alzando la voce. Sarah frugò nella tasca del grembiule, tirando fuori un biscotto che gli mostrò al di sotto del tavolo. Per un attimo, George perse ogni interesse per Verity e si mise carponi, sgattaiolando tra i piedi per strappare quell'esca dalla mano della nonna. «Ci sai fare davvero coi bambini, Sarah Courteney», le disse Tom con un sorriso malizioso. «Basta viziarli spudoratamente, no?» «Ho imparato vivendo con te, Tom Courteney, perché tu sei più bambino di tutti», ribatté lei. «Volete piantarla di bisticciare, almeno adesso? Siete molto peggio di George», intervenne Dorian. «C'è un impero in gioco e la vita di tutti noi è a rischio, e voi continuate a giocare ai nonni premurosi.» Verity alzò la voce per riprendere la lettura dal punto in cui si era interrotta, e tutti ridivennero seri. Alla fine lesse il saluto di bin Shibam al califfo. «Maestà, possa Allah concedervi la vittoria e la gloria. Io attenderò insieme con tutte le tribù per darvi il benvenuto quando tornerete da noi.» Tom ruppe finalmente il silenzio. «Possiamo fidarci di quest'uomo? Come ha fatto a scoprire tante cose?» «Sì, fratello, possiamo fidarci di lui», rispose Dorian. «Anche se ignoro come abbia fatto a scoprire tante cose. So soltanto che, se bin Shibam dice Wilbur Smith
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che è così, dev'essere vero.» «In tal caso, non possiamo starcene qui ad aspettare di essere attaccati da una flotta di dhow da guerra carichi fino all'orlo di guerrieri di Oman temprati dalle battaglie. Dovremo trasferirci.» «Non pensarci nemmeno, Tom Courteney», replicò Sarah. «Da quando siamo sposati, ho trascorso tutta la mia vita a trasferirmi da un posto all'altro. Questa è casa mia, e questo Zayn al-Din non m'indurrà ad andarmene. Io resto qui.» «Donna, non vuoi intendere ragione almeno una volta in vita tua?» «Detesto intervenire in una disputa domestica.» Dorian si tolse di bocca la pipa ad acqua, sorridendo con affetto. «Ma ha ragione Sarah. Non arriveremo mai abbastanza lontano da sfuggire all'ira di Zayn e dei suoi seguaci. La loro ostilità abbraccia oceani e continenti.» Tom si accigliò, tormentandosi una delle grosse orecchie, poi si arrese con un sospiro. «Forse hai ragione, Dorry. L'odio che portano a questa famiglia è troppo antico. Prima o poi dovremo fermarci e affrontarli.» «Non si presenterà mai più un'altra occasione come questa», continuò Dorian. «Bin Shibam ci ha fornito il piano di battaglia completo di Zayn al-Din. Zayn intende venire a battersi sul nostro terreno. Quando sbarcherà il suo esercito, sarà alla fine di un viaggio di duemila leghe. Avrà a disposizione soltanto i cavalli sopravvissuti alle traversie di quel viaggio, mentre noi ci saremo preparati e i nostri uomini, ben riposati e armati, potranno stare in sella a cavalli freschi.» Posò la mano sulla spalla del fratello. «Credimi, Tom, questa per noi non è soltanto l'occasione migliore, ma forse l'unica.» «Tu pensi da guerriero; invece la mia è una mentalità da mercante», ammise Tom. «Lascio il comando a te. Jim e Louisa, Mansur e Verity e io stesso eseguiremo tutti i tuoi ordini. Vorrei poter dire altrettanto della mia diletta consorte, ma obbedire agli ordini non è mai stato il suo forte.» «Molto bene, Tom, accetto l'incarico, ma abbiamo ancora un po' di tempo per preparare i nostri piani», replicò Dorian. «Dovremo sfruttare ogni minuto di questo vantaggio. Il mio primo impegno consisterà nel compiere una ricognizione del terreno, per scegliere i settori nei quali siamo più forti ed evitare quelli in cui siamo più deboli.» Tom annuì. Gli piaceva la prontezza con la quale Dorian aveva preso le redini. «Continua pure, fratello. Ti ascoltiamo tutti.» Dorian parlava tra una boccata di fumo e l'altra. «Grazie a bin Shibam, Wilbur Smith
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sappiamo che, quando Zayn porterà le navi nella laguna e bombarderà il forte, si tratterà di un'azione diversiva. Il grosso delle sue forze, al comando di Koots, sbarcherà sulla costa per marciare via terra e accerchiarci, così da impedirci di rompere l'assedio ritirandoci all'interno. Quello che dobbiamo fare, anzitutto, è individuare il punto più probabile per lo sbarco di Koots, e poi sorvegliare il percorso che sarà costretto a seguire per raggiungere il forte.» Il giorno dopo, Dorian e Tom salirono a bordo della Revenge e salparono diretti al nord, navigando sottocosta. Sedettero insieme al tavolo delle carte nautiche, studiando la linea costiera che scorreva sotto i loro occhi e rinfrescandosi la memoria sui punti salienti della sua configurazione. «Koots deve sbarcare il più vicino possibile al forte. Ogni miglio in più che sarà costretto a percorrere moltiplicherà le difficoltà», mormorò Dorian. Quella era una costa pericolosa e infida, dove le spiagge in ripida pendenza e i promontori rocciosi erano esposti a una risacca impetuosa e aperti a improvvisi colpi di vento. La baia della Natività era l'unico porto sicuro nel raggio di cento miglia. L'unico approdo possibile, a parte quello, era la foce di un grande fiume, che si gettava in mare appena poche miglia più a nord dell'accesso alla baia della Natività. Le tribù locali chiamavano quel fiume Umgeni. I grandi dhow da guerra non avrebbero potuto superare il basso fondale all'entrata della foce, ma le barche più piccole si sarebbero ben disimpegnate. «È qui che sbarcherà Koots», disse Dorian a Tom in tono deciso. «Con le lance potrebbe sbarcare cinquecento uomini in poche ore.» Tom assentì. «Comunque, una volta sbarcati, devono pur sempre affrontare una marcia di parecchie miglia attraverso un terreno accidentato, per raggiungere il forte.» «Faremo bene ad accertare fino a che punto è realmente accidentato, quel terreno», ribatté Dorian. Virò di bordo per invertire la rotta della Revenge e si diressero a sud, sempre tenendosi il più possibile sottocosta, per quanto lo consentivano il vento e la marea. Affacciati alla battagliola di dritta, studiavano la costa attraverso il cannocchiale. Sotto i loro occhi si stendeva una serie ininterrotta di spiagge sinuose, dalla sabbia scura come zucchero di canna, martellate da una risacca implacabile. Wilbur Smith
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«Se restassero sulla spiaggia, uomini con tanto di armatura, armi e provviste avrebbero i loro problemi a marciare su quella sabbia alta», osservò Tom. «E soprattutto sarebbero molto vulnerabili alle cannonate delle nostre navi.» «Aggiungi a questo il fatto che, se vuole tentare di sorprenderci, Koots non li farà mai passare lungo la spiaggia aperta. Sa che avvisteremmo subito un esercito di quelle proporzioni. Dovrà necessariamente spingersi all'interno», decise Dorian. «Dimmi, fratello, la boscaglia al di sopra della spiaggia sembra impenetrabile, ma lo è davvero?» «È molto fitta, ma non impenetrabile», gli rispose Tom. «E anche vero che ci sono zone acquitrinose e paludose. La boscaglia è infestata da bufali e rinoceronti, e le paludi sono piene di coccodrilli. D'altra parte, ci sono alcune piste battute dagli animali lungo un crinale leggermente in rilievo che corre in direzione parallela alla spiaggia, a circa due cavi di distanza. Quella cresta rimane all'asciutto e offre un terreno solido in tutte le stagioni e con tutte le condizioni della marea.» «Allora dovremo esaminare il terreno con attenzione e fare una ricognizione della pista», decise Dorian, prima di rientrare nella baia. Il giorno dopo, lui e Tom, in compagnia di Jim e Mansur, si avviarono a cavallo lungo la spiaggia per raggiungere la foce del fiume Umgeni. «Non è stato difficile», osservò Mansur, controllando l'orologio da tasca. «Abbiamo coperto la distanza in meno di tre ore.» «Può darsi, ma i nemici marceranno a piedi, non a cavallo», gli fece notare Jim. «E noi li avremo sotto tiro dalle navi e potremo bersagliarli con colpi di mitraglia.» «Sì», confermò Dorian. «Tom e io abbiamo già accertato che dovranno spingersi nell'interno, e adesso vogliamo fare una ricognizione di quel percorso.» Risalirono per circa un miglio la riva meridionale dell'Umgeni, fino al punto in cui il corso del fiume si addentrava fra le alture e le rive diventavano molto ripide e scoscese, rendendo difficile il cammino anche a un gruppo ridotto di numero come il loro. «No, non si addentreranno fino a questo punto. Cercheranno di attaccare il forte prima possibile, quindi dovranno tagliare attraverso gli acquitrini del litorale», sentenziò Dorian. Ridiscesero verso valle, e Jim indicò l'inizio della pista rialzata, sia pure di poco, che attraversava gli acquitrini. Gli alberi lungo il percorso erano Wilbur Smith
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più alti della foresta circostante. Allontanandosi dal fiume, puntarono in quella direzione, e quasi subito i cavalli sprofondarono nella melma nera delle paludi di mangrovie. Furono costretti a smontare per condurli con la cavezza finché non raggiunsero il crinale, dove il terreno era più solido. Anche lì c'erano buche di fango insidioso, nascosto sotto uno strato apparentemente innocuo di schiuma verdastra. La boscaglia cresceva così fitta che i cavalli non riuscivano ad aprirsi un varco. I tronchi contorti degli alberi di legno-ferro, venerabili per la loro età, formavano ranghi serrati come guerrieri protetti dall'armatura, e i loro rami penduli s'intrecciavano coi cespugli di amatimgoola, che, con le lunghe spine robuste, potevano perforare persino il cuoio spesso degli stivali, infliggendo ferite profonde e dolorose. Erano costretti a seguire le piste aperte dagli animali attraverso la foresta, che spesso erano poco più che stretti tunnel aperti a forza nella vegetazione da bufali e rinoceronti. La volta spinosa di quelle gallerie era così bassa che furono costretti di nuovo a smontare e condurre a mano i cavalli, e anche così dovevano chinarsi, mentre le spine raschiavano le selle vuote, graffiando il cuoio. Le zanzare e i moscerini si alzavano dagli acquitrini in formazioni compatte, simili a nuvole nere, sciamando sulle facce sudate degli uomini e insinuandosi nelle orecchie e nelle narici. «Quando Kadem e Koots hanno ideato il loro piano di battaglia, nessuno dei due aveva mai tentato di marciare attraverso un terreno del genere», osservò Tom, togliendosi il cappello per asciugarsi il viso e la pelata luccicante di sudore. «Possiamo costringerli a pagare un prezzo molto salato per ogni iarda di marcia.» Jim era rimasto in silenzio da quando avevano lasciato la spiaggia, ma ora espresse la sua opinione. «Lungo questo percorso ci si dovrà battere a distanza ravvicinata, a corpo a corpo. Archi e lance saranno in vantaggio su moschetti e cannoni.» «Archi e lance?» ripeté Dorian, con rinnovato interesse. «E chi li userà?» «Il mio buon amico nonché fratello di sangue e d'armi, il re Beshwayo coi suoi selvaggi assetati di sangue», rispose Jim con orgoglio. «Parlami di lui.» «È una storia lunga, zio. Per ascoltarla dovrete aspettare che torniamo al forte. Ammesso che riusciamo a trovare la via per tornare a casa, in questo intrico infernale.» Wilbur Smith
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Quella sera, dopo cena, tutta la famiglia rimase nel salone. Sarah stava dietro la sedia di Tom, e gli teneva un braccio sulle spalle, massaggiandogli ogni tanto le punture di zanzara sul cranio pelato; in quei momenti, lui chiudeva gli occhi, godendosi in silenzio le sue attenzioni. All'altro capo del tavolo, Dorian era seduto a fianco di Mansur, con la pipa ad acqua; al suo fianco c'era Verity, che non si era mai considerata una «donna di casa», ma, da quand'era arrivata a Fort Auspice, provava una profonda soddisfazione nell'occuparsi di Mansur. Lei e Louisa, pur essendo molto diverse sotto tutti gli aspetti, avevano trovato una buona intesa fin dal primo momento, e ora si spostavano in silenzio da un capo all'altro della grande sala, sparecchiando i piatti della cena, servendo agli uomini innumerevoli tazze di caffè o sedendosi vicino a loro per ascoltare i discorsi e offrire ogni tanto alla conversazione il proprio parere. Louisa era molto indaffarata col piccolo George. Quella era l'ora del giorno che tutti loro apprezzavano di più. «Parlami di Beshwayo», ordinò Dorian a Jim, che scoppiò a ridere. «Ah, non hai dimenticato!» Prendendo in braccio il figlio, lo mise comodamente a sedere sulle sue ginocchia. «Hai fatto già abbastanza danni, per oggi. Ora ti racconto una storia.» «Storia!» ripeté George, calmandosi subito. Appoggiò i riccioli d'oro alla spalla di Jim e si ficcò il dito in bocca. «Dopo che tu e Mansur eravate salpati a bordo della Revenge e della Sprite, Louisa e io abbiamo caricato i carri e ci siamo avventurati nel territorio inesplorato in cerca di elefanti, oltre che per provare a stabilire contatti con le tribù, in modo da poter avviare un commercio con loro.» «Jim dà l'impressione che lo abbia accompagnato di mia spontanea volontà», protestò Louisa. «Andiamo, Istrice, sii onesta. Sei stata contagiata anche tu dal nomadismo, come me», ribatté lui con un sorriso. «Comunque lasciami continuare. Sapevo che, insieme con le mandrie, giungevano dal nord molte spedizioni di guerra degli nguni.» «Come hai fatto a scoprirlo?» gli chiese Dorian. «Me lo ha detto Inkunzi, e ho mandato Bakkat al nord per fargli leggere i segni.» «Bakkat lo conosco bene, naturalmente. Ma Inkunzi chi è? Ricordo vagamente questo nome...» Wilbur Smith
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«Allora lascia che ti rinfreschi la memoria, zio. Inkunzi era il custode delle mandrie della regina Manatasee. Quando ho catturato il suo bestiame, lui ha preferito venire con me piuttosto che separarsi dai suoi amati animali.» «Ma certo! Come ho fatto a dimenticarlo, Jim caro? Una storia splendida.» «Inkunzi e Bakkat ci hanno guidati nell'interno, in visita alle tribù aggressive di nguni. Alcune erano ostili e pericolose come tane di cobra velenosi o leoni mangiatori di uomini, e abbiamo avuto qualche scontro con loro, ve lo assicuro. Poi abbiamo fatto conoscenza con Beshwayo.» «Dove lo hai trovato?» «Circa duecento leghe a nord-ovest di qui», spiegò Jim. «Stava guidando la sua tribù e tutto il bestiame lungo il versante della cresta montuosa. Il nostro incontro è cominciato sotto i migliori auspici. Io mi ero appena imbattuto in tre grossi elefanti maschi, e non sapevo che Beshwayo ci stava spiando dalla cima di una collinetta vicina. Lui non aveva mai visto uomini a cavallo, prima di allora, e neppure un moschetto. Per me è stata una battuta di caccia molto fortunata, perché sono riuscito a spingere gli elefanti dal folto della foresta verso la prateria aperta, e poi li ho braccati l'uno dopo l'altro, con l'aiuto di Bakkat, che caricava i fucili e me li passava. Sono riuscito a uccidere tutti e tre i maschi nel raggio di due miglia, al galoppo su Drumfire, e, dal suo osservatorio, Beshwayo ha visto tutto. In seguito mi ha confidato che la sua intenzione iniziale era attaccare i carri e massacrarci tutti, però, quando ha visto il modo in cui sparavo e cavalcavo, ha cambiato idea. È un autentico furfante, re Beshwayo.» «È un mostro umano terrificante», lo corresse Louisa. «Ecco perché lui e Jim vanno tanto d'accordo.» «Non è vero», replicò Jim con una risatina. «Non sono stato io a conquistarlo, ma Louisa. Non aveva mai visto capelli come i suoi, e neppure un bambino come quello che aveva appena avuto. Beshwayo adora le sue mandrie e i suoi figli.» Contemplarono entrambi con tenerezza il bambino che lui teneva tra le braccia. George non era riuscito a resistere. Il calore rassicurante del corpo del padre e il suono della sua voce avevano sempre un potente effetto soporifero su di lui, che era scivolato in un sonno profondo. «Ormai, grazie a Inkunzi, avevo imparato il linguaggio nguni quanto bastava per poter conversare con Beshwayo», riprese Jim. «Una volta Wilbur Smith
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abbandonate le sue intenzioni bellicose e impedito ai suoi guerrieri di attaccare i carri, ha disposto il kraal vicino a noi e siamo rimasti accampati a breve distanza l'uno dall'altro per alcune settimane. Io gli ho mostrato le delizie delle stoffe, delle perline di vetro, degli specchietti e dei soliti ninnoli che si usano per commerciare, e lui li ha apprezzati; tuttavia era molto diffidente nei confronti dei nostri cavalli. Per quanto abbia tentato, non sono mai riuscito a farlo montare in sella. Beshwayo non ha paura di niente, tranne quando viene invitato a partecipare a una qualsiasi attività che riguardi i cavalli. Viceversa è rimasto affascinato dalla potenza della polvere da sparo, e mi chiedeva di dargliene dimostrazione ogni volta che era possibile, come se avesse bisogno di altre prove, dopo avermi visto dare la caccia agli elefanti.» Louisa tentò di prendere George dalle braccia del padre per metterlo a letto, ma, non appena lo sfiorò, il bambino si svegliò del tutto, lanciando un ruggito di protesta. Ci volle qualche minuto, e l'intervento di tutta la famiglia, per calmarlo di nuovo in modo che Jim potesse riprendere il racconto. «Quando abbiamo incominciato a conoscerci meglio, Beshwayo mi ha confidato di avere delle divergenze di opinione con un'altra tribù nguni, chiamata amahin. Si trattava di un branco di furfanti astuti e privi di scrupoli che si erano macchiati del peccato imperdonabile di rubare svariate centinaia di capi del bestiame di Beshwayo. La colpa era aggravata dal fatto che, per compiere il furto, avevano ucciso una dozzina di mandriani, tra i quali due suoi figli. Beshwayo non era ancora riuscito a vendicare i figli e a recuperare il bestiame, perché gli amahin si erano asserragliati in una fortezza naturale nella parete a strapiombo della cresta rocciosa. Beshwayo mi ha offerto duecento capi di bestiame di prima qualità, se lo avessi aiutato ad attaccare la fortezza degli amahin, e io gli ho risposto che ormai lo consideravo un amico, e sarei stato lieto di combattere al suo fianco senza ricevere nessun compenso.» «Nessun compenso, tranne i diritti esclusivi sul commercio con la sua tribù», aggiunse Louisa con un sorriso soave. «Più il diritto di cacciare l'avorio in tutto il suo territorio e un trattato di alleanza perpetuo.» «Forse avrei dovuto dire con un compenso minimo, anziché senza compenso», ammise Jim. «Ma non c'è bisogno di essere troppo pedanti. Ho preso con me Smallboy e Muntu e il resto dei miei uomini, poi mi sono diretto con Beshwayo verso la tana degli amahin. Ho scoperto che la loro Wilbur Smith
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fortezza era una formazione massiccia di roccia che si staccava dalla parete di fondo, protetta su tutti i lati da strapiombi. L'unica via di approccio era un ponte di roccia così stretto da consentire il passaggio soltanto a quattro uomini per volta. Il ponte era sorvegliato dagli amahin grazie a un rilievo del terreno dalla parte opposta, da cui potevano riversare rocce, sassi e frecce avvelenate su chiunque tentasse di forzare il passaggio. Alcune centinaia di uomini di Beshwayo avevano già trovato la morte, colpiti dalle frecce avvelenate o col cranio sfracellato dai massi gettati dall'alto. Io sono riuscito a trovare un punto della parete dal quale i miei uomini potevano sparare sui difensori, ma gli amahin si sono rivelati un osso duro. Anche se le nostre palle di moschetto servivano a mitigare un po' i loro ardori, non erano sufficienti a impedire del tutto che ci colpissero, spazzandoci via da quel ponte esposto non appena ci avventuravamo sul passaggio.» «Sono certo che, a questo punto, sei riuscito a concepire la soluzione di un problema insolubile, da quel grande genio militare che sei», esclamò Mansur, ridendo. Jim gli rispose con un ampio sorriso. «Non è andata proprio così, cugino. Ero allo stremo delle risorse, e quindi naturalmente ho fatto quello che facciamo tutti in questi casi: ho mandato a chiamare mia moglie!» Le tre donne plaudirono a quella perla di saggezza con una risata così allegra che George si svegliò di colpo, aggiungendo la sua voce a quel clamore. Louisa lo prese in braccio, aiutandolo a ritrovare il pollice, e lui scivolò di nuovo nel sonno. «Non avevo mai sentito parlare di uno schieramento militare usato dagli antichi romani e chiamato testudo, cioè testuggine, finché non me lo ha spiegato Louisa, che lo aveva trovato nelle Storie di Tito Livio. Anche se molti degli uomini di Beshwayo portavano uno scudo di cuoio grezzo, il re ne disprezzava l'uso, considerandolo poco virile. I guerrieri di Beshwayo sono abituati a battersi in modo individuale, non in formazione: nei momenti di maggiore pericolo tendono a gettare via lo scudo per scagliarsi senza protezione contro il nemico, facendo affidamento sulla veemenza della carica e sul proprio aspetto temibile per mettere in fuga l'avversario e cavarsela senza troppi danni. Sulle prime, Beshwayo è rimasto inorridito da una tattica 'vile' come quella che gli avevamo suggerito; a suo parere, soltanto le donne si nascondevano dietro gli scudi. D'altra parte voleva a tutti i costi vendicare i figli e recuperare il bestiame perduto. I suoi uomini hanno imparato in fretta a sovrapporre gli scudi e a tenerli sopra la testa, Wilbur Smith
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per formare il 'guscio di testuggine' protettivo. I miei uomini hanno continuato a bersagliare gli amahin con un fuoco intenso e, al riparo della testuggine, gli impi di Beshwayo si sono lanciati alla carica sul ponte. Non appena sono riusciti a mettere piede dalla parte opposta, siamo arrivati noi al galoppo, sparando dalla sella. Gli amahin non avevano mai visto un cavallo, per non parlare di una carica di cavalleria, ma ormai avevano scoperto la potenza delle nostre armi da fuoco, e si sono dati alla fuga al primo assalto. I guerrieri amahin che non si erano lanciati nel vuoto spontaneamente sono stati incoraggiati da Beshwayo.» «Sarete liete di apprendere che le donne non si sono gettate nel vuoto, rimanendo invece vicino ai figli; inoltre, poco dopo la fine del combattimento, quasi tutte hanno trovato marito tra gli uomini di Beshwayo», assicurò Louisa a Sarah e Verity. «Creature ragionevoli», commentò Sarah, accarezzando la testa di Tom. «Io avrei fatto altrettanto.» Tom strizzò l'occhio a Jim. «Non far caso a tua madre. Ha buon cuore; il suo unico difetto è che non sa tenere a freno la lingua. Continua la storia, ragazzo mio. Anche se l'ho già sentita, è sempre avvincente.» «È stata una giornata ricca di soddisfazioni per tutti... tranne naturalmente per i guerrieri amahin», riprese Jim. «A parte una ventina di bestie che gli amahin avevano ucciso per banchettare, abbiamo recuperato il resto del bestiame rubato, e il re ne è stato entusiasta. Lui e io abbiamo bevuto birra di miglio dallo stesso boccale, ma non prima di averla diluita col nostro sangue, mescolandolo. Ora siamo fratelli di sangue. I miei nemici sono i suoi nemici.» «Dopo avere sentito questo resoconto, non ho il minimo dubbio sul fatto che dovrò lasciare la difesa delle paludi da qui al fiume Umgeni a te e al tuo fratello di sangue Beshwayo», gli disse Dorian. «E che Dio aiuti Herminius Koots quando cercherà di aprirsi la strada.» «Non appena i carri saranno pronti, partirò per andare in cerca di Beshwayo e gli chiederò il suo appoggio e quello dei suoi guerrieri», decise Jim. «Spero, marito mio, che tu non intenda lasciarmi qui mentre te ne vai di nuovo a zonzo, vero?» chiese Louisa in tono soave. «Come puoi avere così poca stima di me? Senza contare che riceverei un'accoglienza gelida se mi presentassi al kraal di Beshwayo senza portare te e Georgie.» Wilbur Smith
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Bakkat si spinse sulle colline per convocare Inkunzi. Il capo dei mandriani si spostava al seguito delle mandrie, e nessuno riusciva a trovarlo così in fretta quanto il boscimano. Intanto Smallboy ingrassava il mozzo delle ruote dei carri e sceglieva i buoi da tiro. Dopo cinque giorni, Inkunzi si presentò al forte con due dozzine di guerrieri e furono pronti a muoversi. Il resto della famiglia si schierò lungo il recinto del forte per assistere alla partenza del convoglio di carri diretti verso le colline. Louisa e Jim cavalcavano in testa, su Trueheart e Drumfire. George, infilato in una sacca di cuoio assicurata con le cinghie alle spalle del padre, salutò tutti agitando il braccino paffuto. «Ciao, nonno! Ciao, nonna! Ciao, zio Dowy. Ciao, Manie e Uepity!» canterellava, mentre i suoi riccioli danzavano scintillando al sole, al ritmo del piccolo galoppo di Drumfire. «Non piangere, nonna. Georgie torna presto.» «Hai sentito tuo nipote, no?» disse Tom in tono burbero. «Smettila di frignare, donna!» «Non sto frignando», scattò Sarah. «Mi è finito un moscerino nell'occhio, tutto qui.» Nel suo rapporto, bin Shibam aveva avvertito Dorian che Zayn intendeva salpare da Muscat non appena il kusi, il vento che soffiava da sud-est, avesse invertito la direzione, trasformandosi nel kaskazi, che soffiava costante da nord-est e che quindi avrebbe sospinto la sua flotta lungo la costa. Mancavano poche settimane a quel momento, eppure già si cominciavano a notare segnali preoccupanti. I gabbiani dalla testa nera, arrivati a frotte per insediare le loro colonie di nidi sulle rocce più alte, erano infatti i messaggeri di un cambiamento precoce della stagione: per quanto ne sapevano, la flotta di Zayn poteva essere già in mare. Dorian e Mansur mandarono a chiamare i comandanti delle navi per studiare insieme la carta. Pur essendo analfabeta, Tasuz sapeva riconoscere la forma di isole e continenti e i simboli usati per indicare sulla carta i venti e le correnti, poiché quelli erano gli elementi che guidavano la sua stessa esistenza. «All'inizio della navigazione, quando il nemico lascerà Oman, si terrà bene al largo, per sfruttare il vento kaskazi e il flusso principale della corrente del Mozambico», disse Dorian con sicurezza. «Per trovarli in Wilbur Smith
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quella immensa distesa d'acqua ci vorrebbe una grande flotta.» Allargò la mano sulla carta. «L'unico punto in cui potrete tendere loro un agguato è questo», aggiunse, spostando la mano a sud, sull'isola di Madagascar. «La flotta di Zayn sarà costretta a passare nel canale fra la terraferma e l'isola, come sabbia in una clessidra. Voi sorveglierete la strettoia. Le vostre tre navi potranno coprire il passaggio dalla parte della terra, perché un numero così elevato di dhow da guerra si estenderà per parecchie miglia. Potrete anche ottenere l'aiuto dei pescatori locali perché vi aiutino a fare la guardia.» «Quando scopriremo la flotta, dovremo attaccarla?» chiese Battila. Dorian scoppiò a ridere. «So che ti piacerebbe, vecchio shaitan. Invece dovrete tenere le navi al di sotto dell'orizzonte, senza mai farvi vedere dal nemico. Non dovete far capire a Zayn che la sua avanzata è stata scoperta. Non appena avvisterete la sua flotta, potrete interrompere il contatto e tornare qui alla massima velocità che vi permetteranno il vento e la corrente.» «E l'Arcturus?» chiese Ruby Cornisti in tono irritato. «Devo fare anch'io il cane da guardia?» «Non vi ho dimenticato, comandante Cornish. La vostra nave è la più potente, ma non è veloce come la Sprite o la Revenge, e neppure come la piccola feluca di Tasuz. Vi voglio sempre qui, nella baia della Natività, e potete stare sicuro che, quando verrà il momento, avrò molto da fare per voi.» Cornish si mostrò debitamente raddolcito e Dorian continuò: «Ora voglio riesaminare i piani per ingaggiare battaglia col nemico non appena si farà vedere». Trascorsero il resto della giornata e quasi tutta la notte a esaminare ogni possibile eventualità. «La nostra flotta è così piccola, e il nemico così numeroso, che il nostro successo dipende da quanto ogni nave saprà lavorare di concerto con le altre. Di notte adotterò lanterne di segnalazione; durante il giorno, segnali di fumo e razzi cinesi. Ho steso una lista dei codici che useremo per i segnali. Ci servono copie per Batula e Kumrah... Mistress Verity le scriverà in arabo per loro.» All'alba, le tre navi - la Sprite, la Revenge e la feluca di Tasuz approfittarono della bassa marea e del vento al largo per salpare dalla baia, lasciando soltanto l'Arcturus all'ancora sotto i cannoni del forte. Beshwayo aveva spostato il suo kraal cinquanta miglia più a valle. Wilbur Smith
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Bakkat non ebbe problemi a condurli direttamente laggiù, perché tutti i sentieri e le piste del bestiame s'irradiavano dal centro come i fili di una ragnatela e il re Beshwayo era il ragno al centro della rete. Le terre fertili e ondulate che stavano attraversando erano disseminate delle sue mandrie. A guardia delle bestie c'erano reggimenti di guerrieri del re. Molti avevano combattuto con Jim contro gli amahin e tutti sapevano che Beshwayo era diventato suo fratello di sangue. I loro saluti furono entusiastici: l'induna di ogni reggimento distaccò cinquanta uomini per far parte della scorta che condusse i carri verso il kraal reale. I più veloci nella corsa li precedettero per avvertire il re del loro arrivo imminente. Il seguito di Jim comprendeva dunque alcune centinaia di persone, quando superò l'ultimo crinale e avvistò finalmente la depressione tra le colline dove sorgeva il nuovo kraal di Beshwayo. Il kraal formava un enorme cerchio, suddiviso in tanti anelli concentrici come il bersaglio di un arciere. Jim calcolò che persino Drumfire avrebbe impiegato quasi mezz'ora per coprire al galoppo la circonferenza esterna. Il kraal era circondato da uno steccato alto, e il suo cuore era costituito da un immenso recinto per il bestiame, che poteva contenere tutte le mandrie del re. Beshwayo amava vivere vicino alle sue bestie; aveva spiegato a Jim che il recinto interno serviva anche come trappola per le mosche: gli insetti deponevano le uova sul letame fresco, venivano calpestate dagli zoccoli del bestiame e quindi non potevano schiudersi. Gli anelli esterni del kraal erano occupati da capanne fitte come celle di un alveare, che ospitavano la corte di Beshwayo. Nelle capanne più piccole vivevano le guardie del corpo del re, mentre un recinto con le pareti fatte di rami spinosi intrecciati accoglieva le capanne più grandi, destinate alle numerose mogli del sovrano. In un recinto più piccolo sorgevano cinquanta costruzioni grandi ed elaborate che servivano da abitazione agli induna, ai consiglieri e ai capi anziani di Beshwayo e alle loro famiglie. Tutte quelle costruzioni scomparivano a confronto col palazzo del re, che non si poteva in nessun modo definire una capanna. Tanto per cominciare, raggiungeva l'altezza di una chiesa di campagna inglese. Sembrava impossibile che una struttura fatta di ramoscelli e canne potesse essere così imponente senza crollare. Ma ogni canna era stata scelta da maestri provetti nell'arte d'innalzare costruzioni di paglia. Formava un emisfero perfetto. Wilbur Smith
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«Sembra l'uovo del roc!» esclamò Louisa. «Vedi come cattura la luce del sole?» «Che cos'è un roc, mamma?» chiese George dalla sua postazione sulle spalle del padre. «Il roc è un enorme uccello leggendario», rispose Louisa. «Posso averne uno, per favore?» «Chiedilo a tuo padre.» Lei sorrise con dolcezza a Jim, che fece una smorfia. «Grazie, Istrice. Ora non mi darà pace per un mese.» Per distrarre George, lui sfiorò Drumfire coi talloni e scesero al trotto l'ultima collina. I guerrieri della scorta proruppero in un inno di lode al loro re intonato a squarciagola; le voci profonde e melodiose rimescolavano il sangue, tanto erano intense. La lunga colonna di uomini, cavalli e carri si snodava serpeggiando attraverso la prateria dorata, coi guerrieri che procedevano tenendo il passo alla perfezione. I copricapi ondeggiavano e sussultavano all'unisono: ogni reparto aveva il suo totem airone, avvoltoio, aquila o gufo - e indossava le piume del proprio clan. Intorno alla parte superiore del braccio, gli uomini portavano code di mucca, come segno di onore concesso da Beshwayo per l'uccisione di un nemico in combattimento. Gli scudi erano abbinati in modo studiato, alcuni punteggiati e altri neri o rossi, mentre pochi gruppi scelti potevano fregiarsi di scudi candidi. Cominciarono a battervi sopra con gli assegai mentre si avvicinavano al kraal attraverso uno spiazzo riservato alle parate. All'altro capo di quella vasta fascia di terreno aperto, li attendeva la figura imponente di Beshwayo, seduto su uno sgabello di ebano intagliato. Era nudo come un verme, dimostrando così a tutti che le dimensioni del suo membro virile superavano quelle di qualsiasi suddito. Aveva la pelle unta col grasso dei bovini, e scintillava al sole come un faro. Alle sue spalle, erano schierati i capi dei suoi reparti, gli induna incoronati coi cerchi dell'autorità sulla testa rasata, gli stregoni e le mogli. Jim tirò le redini e sparò in aria un colpo di moschetto. Beshwayo, che amava essere salutato in quel modo, si lasciò sfuggire una risata tonante. «Ti vedo, Somoya, fratello mio!» gridò, facendo sentire la sua voce fino a trecento iarde di distanza attraverso il terreno della parata. «Ti vedo, Grande Toro Nero!» gridò Jim di rimando, spingendo Drumfire al galoppo. Louisa incitò a sua volta Trueheart, e Beshwayo Wilbur Smith
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batté le mani dalla gioia nel veder correre i cavalli. George, sulle spalle del padre, scalciava e lottava, tutto eccitato, per liberarsi dalle cinghie. «Beshie!» gridò. «Il mio Beshie!» «È meglio farlo scendere, prima che si faccia male o ne faccia a te», suggerì Louisa a Jim. Jim arrestò lo stallone inchiodandolo sulle zampe posteriori, che slittarono, e sollevò con un braccio il bambino, sporgendosi dalla sella per deporlo sul terreno. George corse subito verso il Grande Toro della Terra, Fulmine Nero del Cielo. Il re Beshwayo gli andò incontro, sollevandolo e lanciandolo in aria. Louisa sussultò e chiuse gli occhi per l'ansia, mentre George lanciava strilli di gioia ogni volta che il re lo prendeva al volo prima che cadesse a terra, deponendolo saldamente sulla spalla muscolosa e luccicante. Quella sera, Beshwayo macellò cinquanta buoi grassi e banchettarono bevendo enormi boccali di birra spumeggiante, ridendo e raccontandosi storie incredibili sulle loro imprese e avventure. «Manatasee!» esclamava Beshwayo, incoraggiando Jim. «Ripetimi ancora in che modo l'hai uccisa. Raccontami come la sua testa è volata in aria come un uccello.» Per spiegarsi, eseguì una pantomima stravagante con le braccia. Louisa aveva sentito tante volte quella storia, la preferita di Beshwayo, che accampò come scusa i suoi doveri di madre per allontanarsi, portando con sé George, che protestava insonnolito, fino al loro giaciglio sul carro. Beshwayo ascoltò il racconto di Jim con piacere ancora maggiore della prima volta. «Vorrei aver conosciuto quella potente vacca nera», disse alla fine. «Le avrei messo un figlio nel ventre. Puoi immaginarti che guerriero possente sarebbe stato, con un padre e una madre così?» «Ma poi saresti stato costretto a vivere con Manatasee, quella leonessa furiosa.» «No, Somoya. Dopo la nascita del figlio, le avrei fatto volare la testa nel cielo ancora più in alto di quanto hai fatto tu.» Con una risata fragorosa, ficcò in mano a Jim un boccale di birra. Quando infine Jim andò a raggiungerla sul letto del carro, Louisa dovette aiutarlo a superare l'afterclap. Si abbatté sul materasso e lei gli sfilò gli stivali. La mattina dopo ci vollero due tazze di caffè forte prima che Jim annunciasse, in tono incerto, che, se lo avesse curato bene, forse sarebbe riuscito a superare la giornata. Wilbur Smith
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«Lo spero, mio caro marito, perché, come ricorderai, oggi il re ti ha invitato a presenziare alla Festa dei Primi Fiori», ribatte lei. Jim si lasciò sfuggire un gemito. «Beshwayo ha bevuto almeno il doppio di quella bevanda infernale rispetto a me. Non pensi che avrà il buonsenso di annullare la festa?» «No», replicò Louisa con un sorriso angelico. «Non credo proprio che lo farà, perché sono già arrivati gli induna a farci da scorta.» Gli induna ricondussero Louisa e Jim sullo spiazzo riservato alle parate, occupato da file su file di giovani guerrieri bardati a festa, con tutti gli ornamenti di piume e i gonnellini in pelle di animali. Erano seduti sugli scudi, silenziosi e immobili come statue di antracite. All'ingresso del grande kraal, c'erano alcuni sgabelli, intagliati nel legno, disposti per loro accanto a quello del re, ancora vuoto. Alle spalle di quest'ultimo erano disposte le mogli di Beshwayo, accovacciate per terra su due file. Molte erano donne giovani e bellissime, e quasi tutte erano gravide, seppure in vari stadi - da un lieve rigonfiamento al classico pancione -, coi seni nudi che sembravano sul punto di esplodere e l'ombelico simile a un bottone prossimo a saltar via. Scambiarono sorrisi d'intesa con Louisa, osservando le prodezze del biondo George, con gli occhi scuri carichi di tenerezza materna. Louisa sospirò, appoggiandosi a Jim che era seduto sull'altro sgabello. «Non si dice che una donna ha un particolare tipo di bellezza, quando sta per avere un bambino?» chiese. Jim lanciò un gemito. «Tu scegli sempre i momenti più strani per fare insinuazioni», sussurrò di rimando. «Non ti pare che un George sia il massimo che il mondo può sopportare?» «Potrebbe essere una femmina», gli fece notare Louisa. «E somiglierebbe a te?» Nonostante il riverbero potente, lui aprì gli occhi un po' di più. «Forse sì e forse no.» «Bisogna pensarci», ammise, ma in quel momento risuonò tra le pareti del kraal un suono fragoroso, in cui si fondevano gli squilli dei corni di kudu e il rullo dei tamburi. I guerrieri balzarono in piedi all'istante, mentre le voci echeggiavano sulle colline, ripetendo il saluto dovuto al re: «Bayete! Bayete!» I suonatori del re entrarono dal cancello, abbassandosi e oscillando, muovendo i copricapi come nella danza di corteggiamento delle gru Wilbur Smith
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coronate, battendo i piedi sul terreno finché la polvere non incipriò le loro gambe fino al ginocchio. Poi rimasero impietriti a mezz'aria, e l'unico movimento fu l'oscillare delle piume sui loro copricapi. Il re Beshwayo entrava dal cancello, vestito con un semplice gonnellino di code di mucca bianche, più le sonagliere ai polsi e alle caviglie. Aveva la testa rasata e la pelle unta con un misto di grasso e ocra rossa. Il suo passo era solenne e, camminando, scintillava come una divinità. Raggiunto il suo posto, scrutò i sudditi con un cipiglio così terribile che essi si rimpicciolirono davanti al suo sguardo. Poi, all'improvviso, scagliò in aria la lancia che impugnava: spinta dalle sue spalle massicce a un'altezza inverosimile, raggiunse lo zenit e poi, descrivendo una parabola aggraziata, ricadde, conficcandosi con la punta scintillante sul terreno riarso dal sole. Non si sentiva ancora neanche un suono; né un uomo né una donna si mossero. Quindi una voce isolata ruppe il silenzio, alzandosi, dolce e musicale, dal letto del fiume all'estremità dello spiazzo. Dalla gola dei guerrieri si levò un sospiro, e le loro piume danzarono, mentre essi voltavano la testa verso la fonte di quel suono. Una fila di fanciulle avanzò dalla riva del fiume, trascinando i piedi sul terreno. Ciascuna di loro teneva le mani sui fianchi della ragazza che la precedeva e imitava i suoi movimenti con la fedeltà di uno specchio. Indossavano solo un cortissimo gonnellino d'erba e una coroncina di fiori selvatici, mentre i seni, coperti soltanto da una patina d'olio, luccicavano. La fila di ragazze continuò ad avanzare dal letto del fiume; la loro camminata dava l'impressione che quella fila non fosse composta di singole persone bensì di un'unica, ondeggiante creatura. «Ecco i primi fiori della tribù», mormorò Louisa. «Ognuna di loro ha visto appena la prima luna, e ora sono già pronte per le nozze.» La ragazza che guidava la fila raggiunse la fine del primo verso del canto, e tutte le altre si unirono al coro nel ritornello. Le loro voci s'innalzavano, poi si abbassavano, languide, prima di risuonare di nuovo squillanti, con una purezza che faceva quasi male, lacerando il cuore degli ascoltatori. La fila di vergini danzanti si fermò davanti alle file di giovani guerrieri. Si girarono verso gli uomini, e il canto cambiò. Il ritmo divenne incalzante come l'atto d'amore, e le parole insinuanti o addirittura sboccate. «Quanto sono affilate le vostre lance?» chiedevano ai guerrieri. «Quanto sono lunghe le vostre aste? Fin dove affondano? Sapete colpire al cuore? Wilbur Smith
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Quando ritirate la lama dalla ferita, scorre il sangue?» Poi ripresero a danzare, prima oscillando come steli d'erba nel vento, poi rovesciando la testa all'indietro e ridendo, con un lampeggiare di denti candidi e occhi lucenti. Tendevano i seni nudi, sollevandoli con le mani a coppa e offrendoli ai giovani, poi si ritiravano e piroettavano, facendo volare il gonnellino fino alla cintola. Sotto non portavano nulla, e si erano rasate le parti intime in modo da lasciare del tutto esposta la fessura. Subito dopo, voltarono le spalle agli uomini e s'inchinarono in avanti fino a toccare le ginocchia con la fronte, ancheggiando e facendo roteare i fianchi. I guerrieri danzavano a tempo con le ragazze, spinti da un desiderio parossistico. Batterono i piedi sul terreno sino a farlo sussultare, scrollarono le spalle, rotearono gli occhi, con la bava alla bocca. Si spinsero coi fianchi in alto come cani impegnati nell'accoppiamento, e il sesso congestionato cominciò a sporgere rigido tra le strisce di cuoio dei gonnellini. D'un tratto, Beshwayo si alzò dallo sgabello, fece un balzo e ricadde a terra sulle gambe dritte e possenti come due tronchi d'albero di legno-ferro. «Basta così!» tuonò. I guerrieri, le vergini e tutti gli altri che si trovavano sullo spiazzo si gettarono a terra e rimasero immobili, senza il minimo suono o movimento, tranne il fremito dei copricapi di piume e dei gonnellini d'erba delle fanciulle, e il loro respiro affannoso. Beshwayo passò lungo le file di ragazze. «Queste sono le mie giovenche di prim'ordine! Questi sono i tesori di Beshwayo», ruggì, guardandole con orgoglio fiero e possessivo. «Sono belle e forti, sono donne fatte, sono figlie mie. Dal loro grembo ardente verranno al mondo guerrieri capaci di conquistare tutto il mondo, e i loro figli grideranno il mio nome fino al cielo. Attraverso di loro, il mio nome vivrà per sempre.» Si fermò, rovesciando la testa all'indietro e sprigionando dal petto a barile un suono talmente potente da risuonare ed echeggiare sulle colline. «Beshwayo!» Nessun altro si mosse, e gli echi si spensero in un silenzio terribile. Poi il re si voltò e prese a camminare a lunghe falcate lungo le file di guerrieri prostrati. «Chi sono questi?» disse in tono sprezzante. «Sono uomini, questi che strisciano davanti a me nella polvere?» tuonò con una risata di scherno. «No!» rispose a se stesso. «Gli uomini stanno in piedi e sono pieni di orgoglio. Questi sono bambini.» Poi si rivolse al cielo, chiedendo: Wilbur Smith
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«Sono guerrieri, questi?» e rise dell'assurdità della domanda. «No, questi non sono guerrieri. I guerrieri hanno spento la sete delle loro lance nel sangue dei nemici. Questi sono mocciosi.» Camminando lungo la fila, li pungolò col piede. «Alzatevi, bambini!» gridò, e loro obbedirono con l'agilità di acrobati, i giovani corpi forgiati alla perfezione da una vita intera di allenamento rigoroso. Beshwayo scosse la testa con disprezzo, allontanandosi, poi d'un tratto spiccò un balzo in aria prima di ricadere a terra con l'eleganza di una pantera. «Alzatevi, figlie mie», gridò allora, e le fanciulle obbedirono, ondeggiando davanti a lui come un campo di gigli neri. «Vedete come la loro bellezza oscura il sole? Può il re permettere che questi vitelli non ancora svezzati montino le sue splendide giovenche?» apostrofò i giovani. «No, perché tra le gambe non hanno nulla che conti. Queste vacche magnifiche hanno bisogno della potenza del toro. Il loro grembo ha fame del seme di grandi guerrieri.» Tornò indietro nel passaggio tra i due gruppi. «La vista di questi vitelli mi disgusta, quindi li manderò via. Non guarderanno più le mie giovenche finché non saranno diventati tori. Andate!» ruggì. «Andate, e non tornate finché non avrete lavato la vostra lancia nel sangue dei nemici del re. Andate, e tornate soltanto quando avrete ucciso un uomo e potrete portare il bracciale di coda di vacca sul braccio destro.» Facendo una pausa, li guardò dall'alto in basso con alterigia. «La vostra vista mi disgusta. Sparite!» «Bayete!» gridarono all'unisono. Poi ripeterono: «Bayete! Abbiamo udito la voce del Fulmine Nero del Cielo, e obbediamo». Si allontanarono in formazione compatta, tenendo il passo alla perfezione e cantando le lodi di Beshwayo. Come un serpente scuro, risalirono il pendio e scomparvero oltre il crinale. Beshwayo tornò a sedersi sullo sgabello scolpito. Ostentava un cipiglio terribile e, senza cambiare espressione, disse, rivolto a Jim: «Li hai visti, Somoya? Sono giovani leoni dal sangue ardente. Sono i frutti migliori di qualsiasi anno della circoncisione in tutto il mio regno. Nessun nemico potrà resistere a loro». Si giro sullo sgabello per rivolgersi a Louisa: «Li hai visti, Welanga? C e una fanciulla in tutto il mio regno che possa resistere a loro?» «Sono giovani splendidi», convenne lei. «Però ora mi manca un nemico contro il quale mandarli a combattere.» Wilbur Smith
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Il cipiglio di Beshwayo divenne ancora più terrificante. «Ho esplorato tutto il terreno per venti giorni di marcia in ogni direzione, senza trovare foraggio per le mie lance.» «Io sono tuo fratello e non posso lasciarti soffrire per questo», disse Jim. «Io ho un nemico. Poiché sei mio fratello, dividerò con te questo nemico.» Beshwayo lo fissò a lungo, poi esplose in un tale parossismo di risa che tutti gli induna e le mogli incinte si sentirono in dovere di ridacchiare, in una imitazione servile del re. «Fammi vedere chi è il tuo nemico, Somoya. Come due leoni dalla criniera nera che si avventano su una gazzella, tu e io lo divoreremo.» Tre giorni dopo, quando i carri ripartirono verso la costa, Beshwayo li accompagnava, cantando inni di guerra in testa ai suoi nuovi guerrieri e ai loro induna temprati dalle battaglie. Fedeli agli ordini di Dorian, una volta entrate nel canale di Mozambico, la Sprite e la Revenge si separarono. Kumrah si spinse lungo la costa occidentale dell'isola di Madagascar, mentre Batula seguiva la costa orientale del continente africano. Si fermavano in tutti i villaggi di pescatori lungo la strada e acquistavano dal capo del villaggio - in cambio di perline e rotoli di filo di rame, o di altri articoli come lenze per pescare e chiodi di bronzo - una flottiglia eterogenea di feluche e dhow da pesca. Quando si ritrovarono al punto d'incontro prestabilito, al largo dell'estremità settentrionale della lunga isola, sembravano due anatre accompagnate da una covata di anatroccoli che le seguivano in ordine sparso. Quelle imbarcazioni erano per lo più vecchie e decrepite, e molte si tenevano a galla soltanto aggottando di continuo. Battila e Kumrah le disposero in modo da formare un filtro non troppo stretto tra l'isola e la terraferma, prima di portare a sud le loro navi, in modo da poter mantenere il contatto visivo con le altre. Speravano così d'impedire la diserzione di qualcuno di quei fragili legni e di poter ricevere i loro segnali allorché fosse apparso all'orizzonte settentrionale il convoglio di dhow da guerra di Zayn, senza essere costretti a rivelare la loro presenza. Si auguravano che, se le vedette di Zayn avessero scorto un paio di quelle minuscole imbarcazioni, non le avrebbero considerate altro che innocenti battelli da pesca, come d'altronde se ne vedevano tanti in quelle acque. Mentre erano impegnati in quelle attività così poco gratificanti, le Wilbur Smith
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settimane scorrevano lente. A bordo delle imbarcazioni in servizio di ricognizione, gli attriti erano continui, giacché quelle barche non erano adatte a restare in mare per lunghi periodi, e gli equipaggi si ammutinavano contro i pericoli, i disagi e la noia. Succedeva persino che le imbarcazioni colassero a picco o che le acque, agitate dal kaskazi, le sospingessero in porto. Il filtro preparato con tanta cura si sfilacciò, allentandosi pericolosamente. Col mare agitato o nell'oscurità, anche una flotta grande come quella di Zayn sarebbe potuta passare inosservata attraverso le sue maglie. Batula aveva lasciato a Tasuz la posizione che aveva maggiori probabilità di dare frutti, in vista del profilo azzurrino del continente africano. Intuiva che Zayn sarebbe rimasto a poca distanza dagli insediamenti commerciali di Oman, che per secoli erano stati collocati in corrispondenza di ogni foce, baia ridossata e laguna lungo la costa. In quelle basi, Zayn avrebbe potuto rifornire le navi di acqua potabile e viveri. In quelle lunghe giornate prive di avvenimenti, Batula era consumato dall'ansia. Alle prime luci dell'alba saliva sulla coffa della Revenge e fissava l'oscurità che si andava disperdendo, in cerca della feluca di Tasuz. Non restava mai deluso. Anche col tempo peggiore, quando gli altri battelli cercavano riparo, Tasuz manteneva ostinatamente la posizione; sebbene talvolta la sua feluca sembrasse sepolta sotto le onde grigie della corrente del Mozambico, prima o poi la sudicia vela latina ricompariva sempre nella luce incerta. Quella mattina, il vento si era ridotto a uno zefiro gentile. Un banco di caligine velava l'orizzonte, e la corrente si era trasformata in lunghe onde pigre che provenivano dal nord. Batula cercò ansiosamente il primo avvistamento della feluca, ma non era preparato a quello che vide allorché la sagoma spettrale della vela latina uscì dalla nebbia alla distanza di un miglio marino. «Alzare la bandiera azzurra!» ordinò, eccitato. Il lungo vessillo in testa all'albero di maestra sventolava nell'aria mite come un serpente volante. Era l'azzurro cielo di al-Salil. «E il segnale. Tasuz ha scoperto che la flotta nemica si avvicina.» Si rese conto immediatamente del pericolo. Non appena fosse sorto il sole, disperdendo la caligine, la giornata sarebbe volta al bello, con la visibilità completa fino all'orizzonte. Non poteva sapere quale fosse la Wilbur Smith
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distanza della flotta nemica dalla feluca. Scese lungo le sartie, scivolando così in fretta che la cima gli bruciò il palmo delle mani e, quando posò i piedi sul ponte, cominciò a lanciare ordini per invertire la direzione e puntare a sud. Tasuz lo seguì, ma ben presto la velocità della feluca ridusse il distacco: in meno di un'ora, le due navi furono vicinissime, e Tasuz fece rapporto a Batula. «Ci sono almeno cinque navi grandi che arrivano lungo il canale. Forse ce ne sono altre che le seguono. Non posso dirlo con certezza, però mi è sembrato di scorgere, dietro di loro, le cime di altre vele che si avvicinavano all'orizzonte.» «Quando le hai avvistate l'ultima volta?» domandò Batula. «Ieri sera, alle ultime luci del giorno.» «Ti hanno lanciato un richiamo, o hanno cercato d'intercettarti?» «No, non mi hanno prestato attenzione. Credo che mi abbiano preso per un battello mercantile costiero o per un peschereccio. Non ho cambiato rotta finché l'oscurità non mi ha nascosto alla loro vista.» Tasuz era un uomo in gamba. Senza destare i sospetti del nemico, era riuscito a sgattaiolare lontano per avvertire le due navi più grandi. «La nebbia comincia a sollevarsi, effendi», segnalò la vedetta, e Batula si accorse che in effetti si stava diradando. Afferrato il cannocchiale, risalì sulla coffa; si era appena sistemato quando la caligine si aprì come una tenda trasparente, lasciando filtrare il sole del mattino. Controllò rapidamente l'orizzonte settentrionale. Oltre la feluca, il canale sembrava deserto, un'ampia distesa di acqua azzurra. L'isola di Madagascar, a est, era invisibile; l'Africa pareva un'ombra azzurrina ed eterea a ovest... Su quello sfondo, avvistò le vele più alte della Sprite, che manteneva la posizione. C'erano soltanto le loro due navi in vista. Siamo riusciti a sfuggire al nemico durante la notte, pensò, e il suo cuore intonò un canto di sollievo. Poi volse lo sguardo a nord con maggiore attenzione per studiare la linea nitida dell'orizzonte ed esclamò prima un: «Ah!» e quindi un: «Ah, sì!» vedendo le minuscole pagliuzze bianche apparire per un attimo, simili alle ali di un gabbiano, e poi sparire. Le navi di testa della flotta di Zayn erano lì: per il momento, soltanto la sommità delle vele era individuabile, mentre lo scafo si trovava al di sotto della linea dell'orizzonte. Diede di nuovo una voce alla feluca. «Tasuz, raggiungi a tutta velocità la Sprite e richiamala. Spara un colpo di cannone, se necessario, per attirare Wilbur Smith
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la sua attenzione.» Poi s'interruppe, fissando lo schooner lontano. «No! Non ce n'è bisogno. Kumrah ha già visto che cosa stiamo facendo e si affretta a raggiungerci.» Forse Kumrah aveva già visto le vele nemiche al nord, o forse si era insospettito a causa del comportamento insolito della Sprite; quale che fosse la ragione, aveva virato di bordo e puntava verso sud con tutte le vele spiegate. Per il resto della giornata, il kaskazi aumentò d'intensità, finché non ricominciò a soffiare col consueto vigore e le navi tornarono a volare sulla rotta per la baia della Natività. A mezzogiorno, le navi di Zayn non si vedevano più sul mare alle loro spalle. Verso la fine del pomeriggio, Kumrah aveva virato per assumere una rotta convergente e i due schooner si facevano buona compagnia, mentre Tasuz, a bordo della feluca, era invisibile in testa al piccolo convoglio. Batula osservò la vela latina che diventava minuscola e infine scompariva nel crepuscolo. Chinandosi sulla carta, rifece i calcoli per l'ennesima volta. «Con questo vento, Tasuz dovrebbe raggiungere la baia della Natività tra altri sette giorni», borbottò. «Noi ne impiegheremo dieci, e Zayn sarà in ritardo su di noi di altri tre o quattro. Faremo in tempo a dare il preavviso ad al-Salil.» Zayn al-Din era seduto a gambe incrociate su un letto di cuscini e tappeti da preghiera di seta, disposti sul ponte della sua nave ammiraglia, sotto una tenda montata per ripararlo dal sole, dal vento e dagli spruzzi che si alzavano ogni volta che la Sufi fendeva le onde verdi. Il nome della nave ammiraglia si riferiva al misticismo, che era il nucleo centrale del vero pensiero islamico: la parola sufi, infatti, significava proprio «mistico». Era una nave possente, la più formidabile dell'intera flotta di Oman, e Rahmad, il suo comandante, era stato scelto per quell'incarico dal califfo in persona. Rahmad si prosternò. «Maestà, abbiamo avvistato il dorso di balena che domina la baia ove sorge la roccaforte del traditore.» Zayn annuì, soddisfatto, congedandolo prima di rivolgersi a Sir Guy Courteney, seduto di fronte a lui. «Se Rahmad ci ha condotti direttamente alla meta senza aver avvistato terra già da venti giorni, si è comportato bene. Vediamo se è davvero così.» I due si alzarono, dirigendosi verso la battagliola sopravvento. Vedendoli avvicinarsi, Rahmad e Laleh s'inchinarono con rispetto. Wilbur Smith
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«Che te ne pare della linea costiera?» domandò Zayn a Laleh. «È la stessa baia dove hai scoperto le navi di al-Salil?» «E la stessa, grande califfo. Questo è proprio il covo di al-Salil. Dall'alto di quel promontorio, ho guardato la baia dove ha costruito il forte e tiene all'ancora le navi.» Con un profondo inchino, Rahmad porse a Zayn il suo cannocchiale di ottone, e Zayn al-Din riuscì a bilanciare senza fatica il movimento della nave. Negli ultimi mesi aveva acquistato un buon «piede marino». Puntò il cannocchiale verso la spiaggia lontana, studiandola con cura, poi richiuse lo strumento e sorrise. «Possiamo stare certi che il nostro arrivo ha seminato il terrore nel cuore di colui che è vostro fratello e mio traditore. Non siamo stati neppure costretti ad avvicinarci in vista della spiaggia per compiere i rilevamenti sulla nostra posizione, e non abbiamo dato nessun preavviso della nostra presenza finché non siamo apparsi all'improvviso dinanzi a loro, con tutta la nostra superiorità numerica e la nostra potenza. Ormai deve sapere in cuor suo che la giustizia seguirà finalmente il suo corso.» «Non ha avuto il tempo di nascondere il bottino rubato», riconobbe Sir Guy, soddisfatto. «Le sue navi saranno all'ancora nella baia, e questo vento le terrà bloccate fino al nostro attacco.» «Quello che dice l'effendi inglese è giusto. Il vento soffia costante da est, potente califfo.» Rahmad alzò la testa verso l'enorme vela. «Ci porterà a destinazione con un solo bordo. Potremo superare l'ingresso della laguna prima di mezzogiorno.» «Dov'è questo fiume Umgeni presso il quale dovrebbe sbarcare il grosso delle forze del pascià Koots?» «Maestà, non è facile vederlo, a questa distanza. Si trova laggiù, leggermente a nord dell'entrata della baia.» Di colpo Rahmad s'interruppe, cambiando espressione. «C'è una nave!» Puntò il dito, ma Zayn impiegò qualche istante per scorgere la pagliuzza della vela sullo sfondo della terra ormai vicina. «Che tipo di nave è?» «Non riesco a vederla bene. Una feluca, mi pare. È piccola, ma quel tipo d'imbarcazione è veloce col vento in poppa. Vedete? Sta dirigendo al largo, per fuggire in mare aperto.» «Potete mandare una delle nostre navi a catturarla?» chiese Zayn. Rahmad assunse un'espressione incerta. «Maestà, nella flotta non Wilbur Smith
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abbiamo una nave abbastanza veloce da raggiungerla in un inseguimento col vento in poppa. Ha già un vantaggio di molte miglia e tra un'ora avrà superato la linea dell'orizzonte.» Zayn rifletté per qualche istante, poi scosse la testa. «Non può farci danno. Le vedette sul promontorio avranno già dato l'allarme al nemico, e la feluca non può rappresentare una minaccia neppure per la più piccola delle nostre navi. Lasciamola andare.» Distolse lo sguardo dalla feluca per osservare di nuovo le sue navi. «Lancia il segnale al muri Kadem ibn Abubaker», ordinò. Zayn aveva diviso la flotta in due squadre, prendendo personalmente il comando della prima, che comprendeva i cinque più grandi dhow da guerra, molti dei quali armati con batterie di cannoni pesanti. Da quando avevano lasciato Oman, Kadem ibn Abubaker e Koots erano saliti più volte a bordo della Sufi per partecipare ai consigli di guerra. Zayn era riuscito ad architettare i suoi piani in modo da tenere conto di ogni nuova informazione raccolta in tutti gli scali lungo il percorso. Adesso che il combattimento era imminente, non c'era bisogno che Zayn convocasse i suoi comandanti per un'altra riunione: tutti sapevano benissimo che cosa voleva da loro. Come la maggior parte dei piani validi, anche quello era semplice. La prima squadra di Zayn sarebbe entrata direttamente nella baia della Natività, piombando sulle navi all'ancora nella baia. Anche trascurando il fattore sorpresa, la netta superiorità numerica e la potenza di fuoco sarebbero state decisive: avrebbero impegnato le navi nemiche in un combattimento a distanza ravvicinata, sopraffacendole in breve tempo. Poi tutti i loro cannoni sarebbero stati puntati contro il forte. Nel frattempo, Kadem avrebbe fatto sbarcare la fanteria alla foce del fiume, e Koots avrebbe marciato a tappe forzate verso il forte, per attaccarlo alle spalle. Non appena Koots avesse sferrato l'attacco, Sir Guy avrebbe guidato un secondo gruppo, che sarebbe partito dalle navi della baia per sostenerlo. Guy si era offerto volontario per quel compito, perché voleva essere presente quando gli assalitori avrebbero fatto irruzione nella stanza del tesoro, sotto il forte, dov'erano custodite le quindici casse di lingotti d'oro che gli appartenevano. Doveva essere lì per proteggere la sua proprietà da eventuali furti. In quel piano c'era un unico punto debole. Le navi del ribelle si sarebbero trovate nella baia? Zayn non era saltato a conclusioni affrettate. Wilbur Smith
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Aveva raccolto informazioni dalle spie in ogni ancoraggio e porto da Ceylon al mar Rosso. Nessuno aveva segnalato un avvistamento delle navi di al-Salil nei molti mesi trascorsi dalla cattura dell'Arcturus. Era come se si fossero dileguate senza lasciare tracce. Non possono essere scomparse alla vista di tanti occhi, aveva riflettuto Zayn. Si nascondono, ed esiste un solo posto in cui possano nascondersi. Avrebbe voluto crederci, ma il dubbio lo assillava come una pulce sotto la camicia. «Fate venire il mullah. Lo inviteremo a pregare per avere una guida, e poi chiederò un segno a Kadem ibn Abubaker.» Il mullah Khaliq era un'autorità religiosa di enorme potere. Le sue preghiere erano servite da scudo a Zayn nel corso degli anni, e la sua fede gli aveva indicato la via della vittoria in alcuni dei suoi momenti più oscuri. Quanto a Kadem ibn Abubaker, aveva il dono della profezia. Uno dei motivi per cui Zayn al-Din gli attribuiva un valore così elevato era quel suo potere e le rivelazioni che ne scaturivano. Nella grande cabina della Sufi, i tre - califfo, mullah e ammiraglio avevano pregato insieme per una notte intera. Khaliq, con un'espressione rapita e l'unico occhio scintillante, recitava i testi più sacri con la sua voce nasale e cantilenante. Mentre ascoltava e rispondeva, Kadem ibn Abubaker si era accorto di scivolare in quello stato di dormiveglia che ormai gli era familiare. Sapeva che l'angelo di Dio era vicino. Poco prima dell'alba, cadde all'improvviso in un sonno profondo, e l'angelo andò da lui. Gabriele lo fece uscire dal proprio corpo per trasportarlo su ali bianche e fruscianti in un luogo elevato, una montagna che aveva la forma del dorso di una balena. L'angelo gli indicò la scena che si svolgeva in basso, e la sua voce terribile echeggiò in modo singolare nella testa di Kadem. «Guarda le navi nella baia!» Galleggiavano in un cerchio di acque luminose e, sul ponte della nave più grande, c'era una figura alta e familiare. Quando riconobbe al-Salil, Kadem sentì l'odio scorrergli in corpo come veleno. Al-Salil alzò gli occhi per guardarlo. Era a testa scoperta, e si vedevano i capelli e la barba d'oro rosso. «Ti distruggerò!» gridò Kadem dall'alto e, mentre pronunciava quelle parole, la testa di al-Salil prese fuoco e bruciò come una torcia. Le fiamme si propagarono all'alberatura e si diffusero in fretta, distruggendo tutto, uomo e navi. Le acque della baia cominciarono a bollire e si sprigionò una Wilbur Smith
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grande nuvola di vapore, che cancellò il sogno. Kadem si svegliò con un senso di profonda gioia religiosa, ritrovandosi nella grande cabina della nave insieme con Zayn al-Din e Khaliq, che lo guardavano in attesa del segno. «Zio, ho visto le navi», disse al califfo. «Me le ha mostrate l'angelo. Si trovano nella baia e saranno distrutte dal fuoco.» Da quel momento, Zayn non aveva più avuto dubbi: l'angelo gli avrebbe consegnato il nemico. E adesso guardava la montagna lontana, oltre il mare punteggiato di creste bianche. «Al-Salil è qui. Sento il suo odore nel vento, e il suo sapore nella bocca», mormorò. «E una vita che aspetto questo momento.» Peter Peters tradusse le sue parole e Sir Guy si disse subito d'accordo. «Nutro la stessa convinzione. Prima che la giornata sia finita, sarò di nuovo sul ponte della mia amata Arcturus.» Mentre Peters traduceva, Sir Guy ebbe un'altra idea: avrebbe recuperato non soltanto la sua nave, ma anche sua figlia. Verity sarebbe andata da lui. Non era più vergine, ed era stata contaminata e insozzata, ma che importava? Cominciò ad ansimare, immaginando in quale modo l'avrebbe punita, e come sarebbe stata dolce la riconciliazione. Sarebbero tornati alla situazione precedente di felice intimità. Lei lo avrebbe amato di nuovo, come lui l'amava ancora. «Maestà, la squadra navale del muri Kadem sta virando di bordo», riferì Rahmad, e Zayn si riscosse, dirigendosi a poppa. Tutto andava come previsto. Kadem aveva ai suoi ordini i cinque dhow da guerra più piccoli e le quindici navi da trasporto per le truppe e i rifornimenti. Erano navi mercantili requisite da Zayn per quella spedizione, piene di soldati. Kadem sarebbe rimasto al largo finché la prima squadra non fosse entrata nella baia, attaccando il forte ribelle. L'inizio del cannoneggiamento sarebbe stato il segnale per Kadem di far scendere in campo la seconda squadra, sbarcando Koots e le sue truppe alla foce del fiume Umgeni. Una volta consolidato lo sbarco, avrebbero potuto far approdare le imbarcazioni di rifornimento che trasportavano i cavalli, guidandole oltre la risacca. La cavalleria avrebbe seguito la fanteria e rastrellato gli eventuali superstiti che tentavano di fuggire dal forte condannato. Tuttavia il lungo viaggio sulle acque agitate dal kaskazi aveva inciso in modo terribile sui cavalli. Ne avevano persi due su cinque, e anche quelli Wilbur Smith
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sopravvissuti erano in cattive condizioni. Deboli ed emaciati, si potevano ancora usare per inseguire i fuggiaschi, ma ci sarebbero volute settimane perché si riprendessero del tutto. Molti uomini della fanteria, poi, non erano in condizioni migliori. Le navi erano sovraffollate, e gli uomini erano tormentati dal mal di mare, disgustati dalle razioni - per metà marce - e dall'acqua putrida che erano costretti a bere. Tuttavia, una volta a terra, Koots sarebbe riuscito a rimetterli in sesto. Era capace di costringere un cadavere ad alzarsi e combattere ancora finché non veniva ucciso di nuovo. Quel pensiero strappò a Zayn un sorriso da lupo. Lasciarono la seconda squadra intenta a virare di bordo, mentre quella di Zayn si spingeva in testa, puntando decisamente verso l'entrata della baia. Non appena videro la mole imponente del promontorio, Zayn scorse anche le acque più calme del canale. Ai lati, la risacca s'infrangeva in una distesa di schiuma bianca, sferzata dal vento che soffiava dal mare. «Non possono sfuggirci», gongolò Zayn. «Anche se ora dovessero individuarci, sarà troppo tardi per loro.» «Sono impaziente di avvistare l'Arcturus», disse Sir Guy, con lo sguardo fisso davanti a sé. Forse Verity era ancora a bordo. La immaginò distesa sul letto della sua cabina arredata in modo splendido, coi lunghi capelli sciolti sulle spalle e il seno bianco e morbido. «Posso dare l'ordine di far rullare i tamburi, mio califfo?» chiese rispettosamente Rahmad. «Fa' pure!» rispose Zayn. «Punta i cannoni. Ormai i nemici devono averci avvistati. Ci staranno aspettando a bordo delle navi oppure saranno affacciati ai parapetti del forte.» Con tutti i grandi cannoni carichi e gli artiglieri pronti a sparare, la Sufi guidò la fila di navi da guerra al centro del canale. Laleh faceva da pilota, perché era l'unico di loro che conoscesse bene il canale. Si mise vicino al timoniere che manovrava la ruota, ascoltando la cantilena dell'uomo a prua che indicava i valori dello scandaglio. La mole del promontorio torreggiava alla loro sinistra, mentre a destra si stendevano la giungla e le mangrovie del litorale. Laleh valutò la svolta del canale e impartì gli ordini al timoniere. Le vele della Sufi fileggiarono, poi si gonfiarono di nuovo con un rombo sommesso, e la nave si ritrovò oltre la gobba del promontorio, ma la velocità era diminuita di un'inezia. Zayn guardava in avanti con Wilbur Smith
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impazienza; dava l'impressione di annusare l'aria come un cane da caccia sulla pista della preda. Davanti a loro, si aprì la vasta distesa interna della baia, e a poco a poco lo scintillio bellicoso degli occhi di Zayn si spense, sostituito da un'espressione incredula. La visione che l'angelo aveva mostrato a Kadem non poteva essere falsa. «Se ne sono andate!» sussurrò Sir Guy. Le acque della baia erano deserte. In tutta quella vasta distesa non si vedeva neppure un peschereccio all'ancora. Il silenzio, poi, era davvero sinistro. La fila di cinque navi continuò ad avanzare, puntando direttamente verso le mura del forte, sul quale le bocche dei cannoni nemici le fissavano dalla distanza di un miglio. Zayn dovette lottare contro una premonizione che minava la sua fermezza. L'angelo aveva mostrato una visione a Kadem, eppure le navi erano scomparse. Chiuse gli occhi e pregò: «Ascoltami, Santo dei Santi. Io ti prego, grande Gabriele, rispondimi...» Tanto Sir Guy quanto Rahmad gli lanciarono un'occhiata strana. «Dove sono le navi?» chiese poi. Nella baia! Sentì la voce echeggiare nella sua testa, ma con un tono sarcastico. Le navi che bruceranno sono già nella baia. Guardando indietro, Zayn vide che anche il quinto e ultimo dei suoi dhow da guerra stava entrando nella baia attraverso il canale di acque profonde. «Tu non sei Gabriele», proruppe Zayn. «Tu sei lo shaitan Iblis, l'angelo caduto. Ci hai mentito!» Rahmad lo guardò con profondo stupore. «Ci hai mostrato la nostra stessa flotta!» gridò Zayn. «Ci hai fatti cadere in una trappola. Tu non sei Gabriele. Tu sei l'angelo nero.» «No, grande califfo», protestò Rahmad. «Io sono il più leale di tutti i vostri sudditi. Non mi sognerei mai di farvi cadere in una trappola.» Quando Zayn lo fissò, la costernazione di Rahmad era così comica che lui non poté fare a meno di ridere, ma la sua era una risata amara. «Non tu, povero idiota, ma un altro, ben più astuto dite!» Un colpo di cannone isolato risuonò sulle acque della baia, costringendo Zayn a riportare la sua attenzione al presente. Il fumo sprigionato dalla polvere da sparo proveniva dal parapetto del forte, e il proietto colpì l'acqua, rimbalzando sulla superficie della baia. Si abbatté sullo scafo della Sufi e, dai ponti inferiori, si levò il lamento di un agonizzante. Wilbur Smith
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«Ancorate la flotta in linea e aprite il fuoco sul forte», ordinò Zayn. Al pensiero che finalmente la battaglia era cominciata provò comunque un senso di sollievo. Ciascuno dei dhow da guerra, dopo aver calato l'ancora e ammainato le vele, si girava al vento e puntava sul forte la batteria di dritta. Uno dopo l'altro, aprirono il fuoco, e i pesanti proietti di pietra sollevarono zampilli di polvere e terriccio dal terrapieno, o si conficcarono nelle pareti di tronchi. Apparve subito evidente che le difese non avrebbero resistito a lungo a un fuoco tanto intenso. Le tavole di legno vibravano ed esplodevano a ciascun impatto. «Mi avevano dato a intendere che si trattava di una fortezza inespugnabile», osservò Sir Guy, che controllava con cupa soddisfazione gli effetti del cannoneggiamento, «ma quelle mura crolleranno prima di notte. Peters, di' al califfo che devo riunire subito le truppe d'assalto, per essere pronto a sbarcare non appena apriremo una breccia nel forte.» «Le difese del traditore sono inadeguate in modo quasi patetico», dovette gridare Zayn per farsi sentire in mezzo al tuono dei cannoni. «Vedo soltanto due bocche da fuoco che rispondono al nostro attacco.» «Ecco!» gridò di rimando Guy. «Uno dei loro cannoni è stato colpito.» Puntarono entrambi il cannocchiale sul foro che si era aperto nel parapetto fatto di lunghi tronchi di legno. Notarono che l'affusto del cannone si era rovesciato, e il corpo dilaniato di un artigliere nemico pendeva dai monconi scheggiati dell'arma come un bue al gancio del macellaio. «Nel dolce nome di Allah!» gridò Rahmad. «Stanno abbandonando il forte. Si sono arresi. Fuggono per salvarsi la vita.» I battenti della fortezza si aprirono faticosamente per lasciar uscire una folla in preda al panico, che si disperse in direzione della giungla, lasciando la porta aperta e i parapetti deserti. I cannoni nemici tacquero, mentre gli ultimi artiglieri abbandonavano i loro posti. «Presto!» Zayn si rivolse a Sir Guy. «Portate a riva il vostro battaglione e occupate il forte!» La capitolazione del nemico li aveva colti tutti di sorpresa. Zayn si era aspettato una resistenza più decisa. Persero tempo prezioso per calare in mare le lance e imbarcarvi le truppe d'assalto. Guy stava in cima alla passerella, impaziente, lanciando ordini al distaccamento di uomini che aveva scelto per quell'impresa. Erano tutti Wilbur Smith
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individui duri e spietati; li aveva visti al lavoro, e sapeva che erano come una muta di cani da caccia. A ciò si aggiungeva il fatto che molti di loro capivano e persino parlavano almeno un po' d'inglese. «Andiamo, non perdete altro tempo. Il nemico vi sta sfuggendo di mano. Ancora un minuto, e il vostro bottino se ne va.» Il messaggio era stato chiaro, comunque Peters lo ripeté, traducendolo in arabo. Aveva scovato chissà dove una spada e una pistola, che ora portava appese alla cintola. Gli pendevano dalla cintura al punto che l'estremità del fodero urtava contro il ponte, e la giacca veniva deformata dal peso delle armi. Nell'insieme, era davvero una figura patetica. Il combattimento infuriava senza posa, e i grandi proietti di pietra bersagliavano in modo spietato le mura già devastate. Gli ultimi difensori si rintanarono nella foresta, e l'edificio del forte rimase completamente deserto. Infine tutte le imbarcazioni completarono il carico, e Sir Guy e Peters si calarono a bordo della più grande. «Remate!» gridò Guy. «Puntate dritto verso la spiaggia.» Non vedeva l'ora di raggiungere il suo tesoro. Quando le barche furono a metà strada, le navi cessarono il fuoco per non colpirle. Un silenzio greve scese sulla baia, mentre le piccole imbarcazioni sciamavano verso la spiaggia. La lancia di Guy fu la prima a raggiungerla. Non appena la prua urtò contro la sabbia, lui scese con un balzo, guadando le acque verso la riva. «Avanti!» gridò. «Seguitemi!» Grazie alle informazioni estorte a Omar, il prigioniero catturato da Laleh, era riuscito a disegnare una mappa dettagliata dell'interno del forte, e sapeva esattamente dove andare. Una volta superata la porta, Guy mandò alcuni uomini sui parapetti, per assicurarsi il controllo delle mura, e altri a perquisire gli edifici per verificare che non fosse rimasto qualche nemico. Quindi si affrettò a raggiungere la santabarbara. I difensori potevano aver collocato una miccia a tempo per farla esplodere. Quattro dei suoi uomini portavano con loro massicci piedi di porco, che usarono per svellere la porta dai cardini. Il magazzino era vuoto. Quel dettaglio avrebbe dovuto suonare come un avvertimento per Guy, ma lui non riusciva a pensare ad altro che all'oro. Corse verso l'edificio principale. La scala che portava alle camere blindate era dissimulata dietro il focolare delle cucine. Era costruita in modo ingegnoso, e persino lui capì di che si trattava soltanto dopo qualche tentativo. Alla fine abbatté la porta e scese lungo la scala a chiocciola. Una grata di ferro nel soffitto a volta lasciava Wilbur Smith
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trapelare un po' di luce, e lui rimase sbigottito, fermo in fondo alla scala: il locale lungo e basso che gli si apriva davanti era pieno fino al soffitto di avorio, accatastato in bell'ordine. «Che il diavolo mi porti, ma Koots aveva ragione! Qui ci sono tonnellate di zanne. Se hanno abbandonato un simile patrimonio in avorio, avranno lasciato anche il mio oro?» Omar aveva spiegato in quale modo Tom Courteney aveva usato l'avorio per mascherare l'accesso alla camera blindata interna. Guy non intendeva procedere alla cieca e, prima di andare avanti, aspettò che uno dei suoi capitani scendesse la scala e si presentasse da lui a rapporto. L'uomo ansimava per lo sforzo e l'eccitazione, ma non aveva sangue né sui vestiti né sulla lama della spada. «Chiedigli se hanno preso possesso del forte», ordinò Guy a Peters, ma l'uomo conosceva a sufficienza l'inglese per afferrare il senso della domanda. «Sono andati via tutti, effendi. Niente! All'interno delle mura non è rimasto neanche un uomo. E neppure un cane, se è per quello.» «Bene!» replicò Guy. «Ora porta quaggiù venti uomini per spostare l'avorio dalla parete destra di questa camera.» Come ostacolo all'accesso alla camera blindata interna erano state usate le zanne più massicce, e ci vollero quasi due ore di lavoro serrato per mettere allo scoperto la porticina di ferro. Un'altra ora fu poi necessaria per aprirla. Quando la porta della camera blindata fu divelta dall'intelaiatura e si abbatté sul pavimento di pietra in una fitta nube di polvere, Guy fece un passo avanti per sbirciare dall'apertura, ma, non appena la polvere si posò, lui si rese conto, con una fitta di rabbia e delusione, che la stanza era spoglia. Ma non del tutto. C'era un foglio di pergamena inchiodato alla parete opposta. La scrittura era inconfondibile, vigorosa, e lui la riconobbe subito, anche dopo vent'anni. Strappato il foglio dalla parete, Guy lo scorse in fretta, e il suo viso fu oscurato e stravolto dalla collera: RICEVUTA Il sottoscritto rilascia riconoscente la debita ricevuta dei seguenti beni da parte di Sir Guy Courteney: 15 casse di lingotti d'oro fino. Wilbur Smith
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Firmata per conto della Courteney Brothers Trading Company nella baia della Natività, addì 15 novembre dell'anno 1738. THOMAS COURTENEY Guy stritolò il foglio nel pugno, scagliandolo poi contro la parete. «Che Dio faccia imputridire la tua anima disonesta, Tom Courteney!» esclamò poi, tremando di rabbia. «Osi anche prenderti gioco di me? Scoprirai presto che interesse pretenderò da te, e perderai la voglia di scherzare.» Risalì la scala come una furia per raggiungere il parapetto che dominava la baia. La flotta di dhow era sempre all'ancora. Vide che ora stavano scaricando i cavalli, i quali venivano prelevati di peso dalle stive e, sorretti dalle imbracature, restavano sospesi fuori bordo prima di essere calati in acqua e lasciati liberi di raggiungere a nuoto la spiaggia. Sulla riva si era già raccolto un branco di dimensioni considerevoli, accudito dagli stallieri. Scorse anche Zayn al-Din, fermo presso la battagliola della Sufi. Guy sapeva che sarebbe dovuto risalire a bordo per fargli rapporto, ma prima doveva riuscire a dominare la collera e la frustrazione. Niente Arcturus, niente Verity e, quel che è peggio, niente oro. Dove hai nascosto il mio oro, Tom Courteney, furfante figlio di una puttana? Non ti è bastato spassartela con mia moglie e costringermi ad accollarmi il tuo bastardo? Ora mi derubi anche di quello che è mio di diritto? Guardando in basso, individuò la pista dei carri che usciva dalla porta aperta. Una serie di solchi scendeva verso la spiaggia, mentre l'altra deviava verso l'interno, passando attraverso tratti di foresta fitta e di acquitrini, prima di salire sulle colline lontane, con un percorso tortuoso come un serpente arrotolato, e svanire infine oltre la cresta. «Carri!» sussurrò. «Ci vogliono dei carri per trasportare quindici lakh d'oro.» Si girò di scatto verso Peters. «Ordinate a questi uomini di seguirmi.» Li condusse di corsa fuori del forte, scendendo verso la zona della spiaggia dov'erano riuniti i cavalli. Gli stallieri stavano scaricando le sellerie dalle barche. «Spiegate che mi servono venti cavalli», disse Guy a Peters. «Io vado a scegliere gli uomini da portare con me.» Si precipitò verso di loro, battendo una pacca sulla spalla a quelli che sceglieva. Erano tutti armati e carichi di fiasche di polvere supplementare. «Ordinate loro di andare a prendere le selle dalle barche.» Quando il capo degli stallieri capì che Sir Guy intendeva requisire i Wilbur Smith
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cavalli migliori, corse da lui per protestare. Guy cercò di tenerlo a bada gridando a sua volta in inglese, ma l'altro lo afferrò per il braccio e lo scrollò con violenza, sempre protestando. «Non ho tempo per discutere», sbottò Guy, ed estrasse la pistola dalla cintola, armando nel contempo il cane. Puntò la canna in faccia all'uomo sbigottito e gli sparò nella bocca ancora aperta. Lo stalliere si abbatté al suolo e Guy passò sopra il suo corpo ancora fremente per correre verso il cavallo che uno dei suoi uomini teneva fermo per lui. «In sella!» gridò, imitato subito da Peters e da venti arabi. Li guidò lontano dalla spiaggia, seguendo la pista dei carri e dirigendosi tra le colline dell'interno. «Ascoltami, Tom Courteney», disse a voce alta. «E ascoltami bene! Vengo a recuperare l'oro che mi hai rubato. E non c'è niente che tu possa fare per impedirmelo.» Dal cassero di poppa della Sufi, Zayn al-Din osservò con ansia Sir Guy che guidava gli uomini nel forte deserto. Non si udivano rumori di scontri e non si vedevano tracce dei fuggiaschi. Attendeva con impazienza il rapporto di Sir Guy sulla situazione all'interno delle mura. Un'ora dopo, inviò un uomo a terra per informarsi, e l'uomo tornò con un messaggio. «Potente califfo, l'effendi inglese ha scoperto che il forte è stato spogliato di tutta la mobilia e delle provviste, ma ha trovato una gran quantità di avorio e una porta segreta nella cantina sotto l'edificio. I suoi uomini la stanno forzando, ma la porta è di ferro e molto solida.» Trascorse un'ora, durante la quale Zayn ordinò che i cavalli fossero trasferiti a riva. All'improvviso, Sir Guy si affacciò al parapetto del forte e, dal suo comportamento, Zayn comprese subito che non aveva avuto successo. Poi, bruscamente, Sir Guy si precipitò fuori del forte, seguito da quasi tutto il suo distaccamento. Zayn si aspettava che tornasse a bordo per fargli rapporto, e rimase sconcertato quando non lo fece. Gli uomini di Guy cominciarono a sellare i cavalli. Ci fu una specie di disputa sulla spiaggia e risuonò un colpo di pistola. Zayn vide un corpo disteso sulla sabbia. Con suo grande stupore, Sir Guy e la maggior parte dei suoi uomini salirono in sella e si allontanarono a cavallo, risalendo dalla spiaggia lungo la pista lasciata dai carri. «Fermali!» ordinò imperioso a Rahmad. «Mandate subito a terra un messaggero che ordini a quegli uomini di tornare indietro.» Rahmad si rivolse al suo nostromo, ma, prima che potesse impartirgli le Wilbur Smith
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opportune istruzioni, la diserzione di Sir Guy divenne un fatto irrilevante. Un colpo di cannone li colse tutti alla sprovvista. Gli echi si moltiplicarono lungo le pareti di roccia che cingevano la baia. Zayn si girò di scatto per guardare oltre le acque e vide il fumo aleggiare ancora nell'aria. Un cannone nascosto li aveva presi di mira dal folto della vegetazione che copriva le pendici del promontorio. Sulle prime, non riuscì a vedere l'arma, neanche perlustrando la zona col cannocchiale. Era nascosta con troppa astuzia, probabilmente in qualche piazzola di tiro tra le colline. Poi la sua visuale fu oscurata per un attimo da una colonna d'acqua che si alzò proprio davanti a lui. Abbassando il cannocchiale, si accorse che una palla di cannone era finita nell'acqua lungo la murata della Sufi, all'ancora nella baia. Sotto i suoi occhi avvenne uno strano fenomeno. Al centro dei cerchi concentrici formati dall'acqua nel punto in cui la palla nemica era affondata, le acque poco profonde cominciarono a sfrigolare e poi a bollire come in una pentola, mentre una nuvola densa di fumo si alzava dalla superficie. Per un lungo istante, Zayn non seppe come spiegarselo, poi di colpo comprese la terribile verità. «Proietti incandescenti! I mangiatori di carne di porco stanno sparando proietti incandescenti!» Puntando il cannocchiale sul pendio dove il fumo aleggiava ancora, notò - adesso che sapeva cosa cercare - una colonna tremolante di aria surriscaldata che si levava verso il cielo, come un miraggio nel deserto. Non si vedeva traccia di fumo, e lui sapeva di che cosa si trattava. «Fornaci a carbone», esclamò. «Rahmad, dobbiamo riportare subito le navi in mare. Siamo caduti in una trappola terribile. Se non lasciamo subito la baia, l'intera flotta sarà in fiamme tra meno di un'ora.» Per una nave di legno, il fuoco era ovviamente il nemico più terribile. Rahmad impartì subito gli ordini, ma, prima che riuscissero a salpare l'ancora, un altro proietto incandescente piombò su di loro dall'alto della parete di roccia. Lasciandosi dietro una scia di scintille sfrigolanti, colpì l'ultimo dhow nella fila di navi all'ancora e sfondò il ponte di coperta, piombando all'interno dello scafo. Il proietto scagliò lungo il cammino schegge di ferro incandescente, che affondarono nelle tavole asciutte e cominciarono quasi subito a fumare. Poi, quando l'aria le raggiunse, si accesero con incredibile rapidità decine di focolai isolati, che si estesero Wilbur Smith
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nel giro di poco tempo. A bordo della Sufi si scatenò il pandemonio, mentre gli uomini si precipitavano ad azionare le pompe e l'argano dell'ancora, e altri ancora si arrampicavano sulle sartie per issare le vele. L'ancora si sollevò dal fondale sabbioso e Rahmad issò la vela latina, dirigendo lentamente la nave verso l'uscita della baia. Poi si alzò un grido dalla vedetta sulla coffa della Sufi. Era un messaggio concitato e incoerente. «Ehi voi, in coperta! In nome di Allah! Guardatevi dalla maledizione dello shaitan.» Zayn alzò la testa, gridando con una voce acuta e incollerita: «Che cos'hai visto? Parla chiaro, idiota!» Ma l'uomo continuava a farfugliare, puntando il dito oltre il canale di uscita dalla baia. Tutti quelli che erano in coperta seguirono la direzione del suo braccio teso, e si lasciarono sfuggire un gemito di terrore superstizioso. «Un mostro marino! Il gran serpente degli abissi, che divora navi e uomini», strillò una voce, e gli uomini s'inginocchiarono a pregare o rimasero impietriti dal terrore di fronte alla creatura serpentina che si snodava su un lato del canale. Il suo corpo massiccio sembrava muoversi, ondulando e formando gobbe interminabili mentre nuotava nell'acqua verso la riva opposta. «Ci attaccherà!» gridò Rahmad in preda al terrore. «Uccidetelo! Sparate! Aprite il fuoco!» Gli artiglieri si precipitarono ai cannoni, e tutte le navi della squadra aprirono il fuoco. Tra le vele sprizzarono fumo e fiamme, mentre alte colonne d'acqua s'innalzavano sin quasi a formare una foresta intorno al mostro che nuotava. In una simile tempesta di colpi, alcuni proietti colpirono il bersaglio e si udì nettamente lo schiocco dell'impatto, tuttavia la creatura continuò a nuotare senza dar segno di essere ferita. La testa raggiungeva la riva opposta, mentre il lungo corpo serpentino si stendeva da un lato all'altro del canale, oscillando e rollando nella spinta alternata della corrente. I proietti lo bersagliavano come una grandinata, alcuni rimbalzando dalla superficie per finire in mare. Zayn fu il primo a riprendersi dallo sconcerto. Correndo verso la battagliola più vicina, fissò la creatura mostruosa attraverso il cannocchiale, poi lanciò un grido con la sua voce acuta e penetrante. «Cessate il fuoco! Basta con questa follia!» Il cannoneggiamento s'interruppe e Rahmad accorse al fianco del califfo. «Che cos'è, maestà?» Wilbur Smith
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«Il nemico ha teso una barriera mobile che chiude l'imboccatura della baia. Siamo intrappolati qui dentro come pesci in un barile.» Mentre lui parlava, un altro proietto incandescente piombò su di loro dall'alto delle rocce, spargendo scintille infuocate che schioccavano nella sua scia. Cadde in acqua a pochi piedi dalla poppa. Zayn si guardò intorno. La prima nave colpita era già in preda a un incendio furioso; sotto i suoi occhi, la grande vela latina prese fuoco. La tela si abbatté sul ponte di coperta, intrappolando col suo peso gli uomini che urlavano e riducendoli in cenere come insetti imprigionati nella campana di vetro di una lampada a olio. Senza la propulsione della vela, la nave cominciò a spostarsi alla deriva nella baia, girando su se stessa finché non urtò contro la riva e s'incagliò, inclinandosi di lato. I marinai superstiti si gettarono in mare da quella parte, raggiungendo a nuoto la riva. Un altro proietto incandescente piombò su di loro, tracciando una parabola di fumo. Passò a pochi piedi dalla vela, per abbattersi invece su un altro dhow da guerra al loro fianco. Quasi subito il ponte di coperta si squarciò e le fiamme sbocciarono alte dal fasciame. Gli uomini dell'equipaggio erano già alle pompe, ma i fiotti d'acqua che rovesciavano sulle fiamme sembravano inutili, giacché esse divamparono, ancora più alte. «Avvicinati a quella nave! Voglio parlare al comandante», ordinò Zayn a Rahmad. La Sufi, virò per raggiungere il dhow e, quando i due scafi furono accostati, Zayn gridò: «La tua nave è stata colpita ed è condannata. Devi utilizzarla per aprire una via di scampo alle altre navi della squadra. Usala come un ariete contro la barriera mobile tesa dal nemico, per sfondarla». «Agli ordini, maestà!» Il comandante corse alla ruota, spingendo da parte il timoniere. Mentre le altre tre navi ammainavano le vele per lasciarlo passare in testa, lui puntò direttamente contro la massa di tronchi fissati a una cima pesante che sbarrava il canale. Dallo scafo incendiato si sprigionavano fumo e fiamme. Gli ufficiali sul ponte della Sufi lanciarono un grido di giubilo al momento dell'impatto, quando la pesante barriera di tronchi venne risucchiata sotto la superficie. Il dhow s'inclinò di lato, la sommità dell'albero di maestra si spezzò e la vela in fiamme ricadde sul ponte, gonfia d'aria. La nave si era bloccata, eppure, anche con la vela e l'alberatura distrutte, tornò lentamente in equilibrio. Poi la massa di pesanti Wilbur Smith
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tronchi che formava la barriera riemerse. Era intatta. Aveva resistito alla carica del dhow, mentre la nave girava su se stessa, ormai ingovernabile. Non rispondeva più al timone. «Ha subito una ferita mortale sotto la linea di galleggiamento», osservò Rahmad a bassa voce. «Vedete? Sta già affondando di prua. La barriera le ha squarciato il ventre, e ora le fiamme divoreranno lo scafo.» L'equipaggio del dhow condannato era riuscito a lanciare in mare due lance. Gli uomini si calarono nelle barche per raggiungere la riva a forza di remi. Zayn si volse a guardare il resto della sua squadra di navi. Un'altra stava bruciando furiosamente e puntava verso la riva, arenandosi sulla sabbia con le vele e l'alberatura in fiamme come una pira funebre. Poi fu colpito anche un altro dhow. Si levò una colonna di fumo nero, mentre le fiamme sospingevano la maggiore parte dell'equipaggio verso la prua. Alcuni degli uomini rimasero asfissiati dal fumo e persero i sensi sul ponte, dove furono raggiunti dalle fiamme, mentre gli altri si gettarono fuori bordo. Quelli che erano in grado di nuotare puntarono verso la spiaggia, ma gli altri andarono a fondo quasi subito. Dagli ufficiali riuniti intorno a Zayn si levò un grido di paura, e tutti guardarono in alto, verso la sommità dell'altura. Un altro proietto incandescente stava piombando su di loro come una meteora, lasciando una scia di scintille. Stavolta non poteva mancarli. Il rombo dei cannoni echeggiò dalle pareti di roccia dell'altura, diffondendosi sulle acque dove Kadem ibn Abubaker attendeva, un miglio al largo della foce del fiume Umgeni. «Il califfo ha lanciato l'attacco al forte. Bene! Ora dovete sbarcare i vostri uomini», disse Kadem a Koots, poi si voltò a gridare un ordine al timoniere: «Riportala col vento in poppa». Docile, il dhow accostò, sospinto dalla grande vela latina, e gli uomini si diressero verso la spiaggia, seguiti dal resto del convoglio. Le navi da trasporto portavano a rimorchio le barche, già cariche di uomini armati. Altri, sul ponte delle navi, aspettavano che venisse il loro turno d'imbarcarsi sulle lance che tornavano vuote dalla spiaggia. Navigavano sulla chiazza di colore giallo-bruno delle acque del fiume, che si spandeva dalla foce per miglia e miglia lungo la costa, insudiciando l'azzurro del mare. Tanto Kadem quanto Koots osservarono la spiaggia attraverso il cannocchiale, mentre si avvicinavano alla riva. Wilbur Smith
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«Deserta!» grugnì Koots. «Non c'è motivo perché sia altrimenti», gli fece notare Kadem. «Non incontrerete resistenza finché non arriverete al forte. Secondo Laleh, i cannoni nemici sono tutti puntati verso la parte opposta della baia, per coprire l'accesso al canale. Non sono disposti per fronteggiare un attacco da terra.» «Un rapido assalto mentre il nemico è occupato a respingere l'attacco dei dhow, e saremo oltre le mura, all'interno del forte.» «Inshallah!» rispose Kadem. «Ma dovete agire in fretta. Mio zio, il califfo, è già impegnato nel combattimento. Dovete spingere i vostri uomini a tutta velocità per accerchiare il forte prima che qualcuno dei difensori possa fuggire col bottino...» I marinai ammainarono la vela e gettarono l'ancora. Alla distanza di un cavo dalla prima linea di frangenti, il dhow cominciò a oscillare tranquillamente, sollevato dalle onde lunghe che correvano verso la spiaggia. «E ora, mio vecchio compagno d'armi, è venuto il momento di separarci», disse Kadem. «Però rammentate la promessa che mi avete fatto, se dovesse toccarvi la fortuna di catturare al-Salil o il suo cucciolo.» «Sì, la ricordo bene», ribatté Koots, ghignando. «Lo volete per voi. Vi giuro che, se dipenderà da me, ve li consegnerò. Io voglio soltanto Jim Courteney e la sua graziosa sgualdrinella.» «Andate con Dio!» esclamò Kadem, osservando Koots che si calava nella barca diretta verso la riva. Lo seguiva uno sciame di barche più piccole. Quando furono vicini alla foce del fiume, le onde li sospinsero oltre il banco di sabbia che riparava la foce stessa e, non appena furono giunte in acque protette, le barche puntarono verso la riva. Ciascuna sbarcò venti uomini, che raggiunsero a guado la spiaggia nell'acqua alta fino alla cintola, tenendo sopra la testa le armi e l'equipaggiamento. Superata la battigia, si schierarono in plotoni e si accovacciarono, pazienti, sulla sabbia. Le barche vuote tornarono verso le navi all'ancora, sospinte dai rematori oltre la linea dei frangenti che lambivano, spumeggiando, la foce. A mano a mano che le barche traghettavano gli uomini e questi sbarcavano sulla spiaggia, il tratto di costa sabbiosa divenne affollato, ma nessuno di loro osava ancora avventurarsi nella fitta giungla. Kadem, che li osservava col cannocchiale, cominciò a spazientirsi. Che Wilbur Smith
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cosa fa Koots? Ormai da un minuto all'altro il nemico radunerà le forze. Così non fa che gettare al vento le sue possibilità. Poi volse la testa per mettersi in ascolto. Il rumore distante del cannoneggiamento era cessato e adesso, dalla parte della baia, regnava il silenzio. Che ne è stato dell'attacco del califfo? Non può avere sopraffatto così presto le difese del forte, pensò. Guardò di nuovo gli uomini sulla spiaggia. Quanto a Koots, deve proprio mettersi in marcia, subito. Non può permettersi di sprecare altro tempo. Da quand'era sbarcato, Koots aveva potuto fare una valutazione più accurata del terreno che lo attendeva, rimanendo sgradevolmente sorpreso. Aveva inviato alcuni gruppi di ricognizione nel bush per trovare l'itinerario più facile, ma gli uomini non erano ancora tornati. Era lì, bloccato ai margini della giungla, attendendo con ansia e picchiando col pugno chiuso sul palmo dell'altra mano per la frustrazione. Sapeva bene quanto Kadem che era pericoloso lasciar dissolvere l'impeto dell'assalto, ma d'altra parte non osava avventurarsi nell'ignoto. Chissà se è meglio avviarsi lungo la spiaggia, si domandava, guardando l'ampia curva di sabbia color miele scuro. Poi però si guardò i piedi. Erano affondati fino alle caviglie in quel terreno soffice: fare pochi passi richiedeva già uno sforzo notevole. Una marcia così lunga, con uno zaino pesante sulle spalle, avrebbe sfinito anche i più resistenti tra i suoi uomini. È passata un'ora dalla bassa marea, calcolò. Tra poco la marea raggiungerà la massima altezza. Sommergerà la sabbia e ci costringerà a entrare nella boscaglia. Mentre ancora esitava, una delle pattuglie inviate in ricognizione si fece largo tra la fitta parete di vegetazione, uscendo allo scoperto. «Dove siete stati?» tuonò Koots, rivolto al capo. «C'è possibilità di passare?» «Il terreno è molto difficile per trecento iarde. C'è una palude proprio alle nostre spalle. Uno dei miei uomini è stato agguantato da un coccodrillo e abbiamo tentato di salvarlo.» «Idiota!» Col fodero della spada, Koots colpì l'uomo alla tempia, e quello cadde in ginocchio sulla sabbia. «È così che avete sprecato tutto questo tempo, cercando di salvare un altro inutile bastardo come voi? Avreste dovuto lasciarlo al coccodrillo. Hai trovato un sentiero?» L'uomo si rialzò, barcollando leggermente e portandosi la mano al viso ferito. «Non abbiate timore, pascià effendi», mormorò. «Oltre la palude c'è Wilbur Smith
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una fascia di terreno asciutto che porta verso il sud. C'è anche una pista che corre lungo quella fascia, ma è stretta. Ci passeranno al massimo tre uomini schierati a fianco a fianco.» «Qualche segno del nemico?» «No, grande pascià, però ci sono molte belve.» «Portaci subito al sentiero, se non vuoi che trovi un coccodrillo anche per te.» «Se li attacchiamo adesso, con una sola carica li spazzeremo via, respingendoli nel mare da cui sono arrivati», propose Beshwayo. «No, grande re. Non è questo il nostro scopo. Ce ne sono molti altri in attesa di sbarcare, e noi li vogliamo tutti», ribatté Jim in tono persuasivo. «Perché ucciderne solo qualcuno, dal momento che, aspettando ancora un po', li potremo uccidere tutti?» Beshwayo ridacchiò e scosse la testa, facendo tintinnare gli orecchini che gli aveva regalato Louisa. «Hai ragione, Somoya. Ho molti giovani guerrieri ansiosi di conquistarsi il diritto alle nozze. Non voglio privarli di questo onore.» Jim e Beshwayo avevano atteso sulle colline sopra la costa, dalle quali si godeva di una visuale priva di ostacoli, e avevano osservato Zayn che guidava sin lì la sua flotta e la divideva poi in due squadre. Le cinque navi più grandi avevano proseguito verso la baia e, quando avevano cominciato a prendere di mira il forte, si era subito levata una nuvola di fumo. Pareva che quello fosse il segnale atteso dalla seconda squadra, che era anche la più numerosa, perché le altre navi si erano dirette immediatamente verso la foce del fiume Umgeni. Jim attese che gettassero l'ancora vicino alla costa, e le vide calare in mare le lance cariche di uomini, che avanzavano verso la spiaggia. «Ecco la carne che ti avevo promesso, possente Leone Nero», disse a Beshwayo. «Allora scendiamo a banchettare, Somoya, perché il mio ventre brontola per la fame.» Gli impi di giovani guerrieri sciamarono sulle terre piatte del litorale, silenziosi come pantere mentre si spingevano avanti, verso la posizione prestabilita. Jim e Beshwayo precedettero correndo l'impi di testa per raggiungere il punto di osservazione, poi si arrampicarono sui rami di un alto fico selvatico che avevano scelto alcuni giorni prima. Le radici aeree e Wilbur Smith
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i rami contorti formavano una scala naturale, mentre le fronde cariche di frutti gialli e di foglie che spuntavano direttamente dal tronco offrivano una protezione efficace. Dal loro osservatorio, su una delle biforcazioni principali del tronco, godevano di una visuale completa della curva formata dalla riva meridionale della foce. Jim aveva con sé il cannocchiale, e d'un tratto lanciò un'esclamazione stupita. «Santa Madre di Dio, ma quello è Koots in persona, tutto vestito da dignitario musulmano. Comunque sia conciato, riconoscerei quel furfante ovunque.» Aveva parlato in inglese, e Beshwayo si accigliò. «Somoya, non capisco quello che dici», lo rimproverò. «Ti ho insegnato il linguaggio del cielo, quindi non c'è motivo che tu continui a farfugliare come una scimmia in quella tua lingua strana.» «Vedi quell'uomo sulla spiaggia, laggiù, col copricapo che ha una fascia colorata e scintillante? Quello più vicino a noi? Sta parlando con gli altri due. Ecco! Ha appena colpito l'altro al viso.» «Lo vedo», rispose Beshwayo. «Non era un gran colpo, visto che la vittima si rialza. Chi è, Somoya?» «Si chiama Koots», rispose Jim in tono cupo. «È un mio nemico mortale.» «Allora lo lascerò a te», gli promise Beshwayo. «Ah, finalmente sembra che abbiano sbarcato tutte le truppe, e Koots abbia deciso di mettersi in marcia.» Nonostante il rombo della risacca che s'infrangeva sul banco di sabbia, udirono le voci dei comandanti arabi che lanciavano ordini, seppure affievolite dalla distanza. I soldati accovacciati a terra si alzarono, sollevando le armi e l'equipaggiamento. Formarono rapidamente alcune colonne e cominciarono a addentrarsi nel bush e nella palude. Jim tentò di contarli, ma non riuscì a fare un calcolo preciso. «Sono più di duecento», decise. Beshwayo lanciò un fischio e due dei suoi induna si arrampicarono agilmente sull'albero per raggiungerlo. Portavano l'anello intorno alla testa, segno del loro rango, avevano la barba corta brizzolata e sul petto nudo e sulle braccia si scorgevano le cicatrici di molte battaglie. Beshwayo diede loro una sfilza di ordini, a ciascuno dei quali rispondevano all'unisono: «Yehbo, Nkozi Nkulu! Sì, grande re!» «Mi avete sentito», concluse lui. «Ora obbedite!» Li congedò, e loro scesero scivolando lungo il tronco del fico selvatico, Wilbur Smith
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scomparendo nel sottobosco. Pochi minuti dopo, Jim vide un movimento furtivo nel bush ai loro piedi, mentre i reggimenti dei guerrieri di Beshwayo cominciavano ad avanzare, strisciando. Erano ben distanziati; anche dall'alto si vedeva soltanto il breve lampo della luce riflessa dalla pelle scura e unta, o lo scintillio dell'acciaio nudo mentre chiudevano in una morsa le colonne di nemici in movimento. Un distaccamento di soldati turchi, con l'elmo di bronzo, passò quasi ai piedi del fico sul quale erano appollaiati, ma gli uomini erano così intenti a trovare la strada in mezzo alla vegetazione intricata del bush che nessuno alzò la testa. D'un tratto si udì un trambusto, un rumore di grugniti, rami spezzati e acqua smossa. Era un piccolo branco di bufali che, disturbati mentre oziavano nel fango, uscirono alla carica dalla palude e si allontanarono in una massa compatta di corpi neri coperti di melma e corna lucide e ricurve, aprendosi una strada nella foresta. Si levò un grido, e Jim vide il corpo di uno degli arabi scagliato in aria e dilaniato dal vecchio maschio che guidava il branco. Alcuni si riunirono intorno al corpo straziato del compagno, ma i comandanti li dispersero, gridando in tono collerico, e gli altri lo lasciarono dov'era caduto, riprendendo la marcia. Ormai i plotoni di testa erano scomparsi nella giungla, mentre gli scaglioni della retroguardia stavano appena per lasciare la spiaggia, addentrandosi nella palude. Una volta nel bush, nessuno di loro era in grado di vedere oltre l'uomo che aveva di fronte, e proseguivano l'uno dietro l'altro alla cieca. Cominciavano già a cadere nelle buche di fango dell'acquitrino, e in generale a perdere il senso dell'orientamento, dato che erano costretti ad aggirare i tratti più fitti di cespugli spinosi. Gli insetti si alzavano a sciami dalle pozze verdi che fumavano nella calura. I turchi sudavano sotto la cotta di maglia, e l'elmo di bronzo mandava lampi di luce. Gli ufficiali, poi, dovevano alzare la voce per mantenere i contatti col loro plotone. A poco a poco tutti abbandonarono ogni tentativo di procedere furtivamente. Quello, viceversa, era il genere di terreno sul quale gli uomini di Beshwayo erano più abili nella caccia e nel combattimento. Erano invisibili per le colonne di uomini di Koots, che accompagnavano come ombre, procedendo a fianco a fianco. Gli induna non pronunciavano neanche una parola, per lanciare gli ordini. Nel guidare l'impi a uccidere il nemico, ricorrevano soltanto ai richiami degli uccelli o al verso delle rane arboricole, che suonava così naturale da rendere difficile credere che fosse Wilbur Smith
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stato emesso da una gola umana. Beshwayo ascoltava quei suoni con attenzione. Piegando l'enorme testa rasata prima da una parte e poi dall'altra, capiva quello che dicevano, come se parlassero apertamente. «È venuto il momento, Somoya», disse infine. Rovesciò la testa all'indietro e si riempì i polmoni, gonfiando il torace, quindi emise il richiamo acuto e sonoro dell'aquila pescatrice. Quasi subito, da lontano e da vicino, il suo grido fu ripetuto da una dozzina di punti nel folto della giungla. Gli induna avevano risposto al re, che ordinava loro di attaccare. «Vieni, Somoya!» disse Beshwayo a bassa voce. «Se non facciamo presto, ci perderemo tutto il divertimento.» Quando Jim raggiunse il terreno ai piedi dell'albero, trovò Bakkat ancora accovacciato vicino al tronco. Il boscimano lo salutò con un sorriso luminoso. «Ho sentito il richiamo dell'aquila pescatrice. Quindi ora c'è un lavoro da sbrigare, Somoya.» Gli porse la cintura col fodero della spada, e Jim se l'allacciò alla vita, prima d'infilare la coppia di pistole a canna doppia nelle cinghie di cuoio destinate a sorreggerle. Come un'ombra scura, Beshwayo era già scomparso in un folto canneto. Jim si girò verso il boscimano. «Koots è qui. È lui che guida la brigata nemica. Trovalo per me, Bakkat.» «Sarà in testa alle sue truppe», rispose lui con un cenno d'intesa. «Dobbiamo aggirare la mischia, in modo da non restare intrappolati come un elefante maschio nelle sabbie mobili.» D'un tratto la giungla intorno a loro riecheggiò del clamore di un combattimento: i tonfi sordi degli spari di moschetto e di pistola, il tuono degli assegai e delle kerrie che battevano sugli scudi di cuoio grezzo, gli scrosci delle acque nella palude e il crepitio dei rami spezzati dagli uomini lanciati alla carica. Al canto di guerra di Beshwayo risposero grida di sfida in arabo e in turco. Bakkat si allontanò in fretta, evitando il combattimento e descrivendo un ampio cerchio verso il fiume per precedere i nemici. Jim dovette correre al massimo delle sue possibilità per tenere il passo con lui; un paio di volte, nei tratti di giungla più fitta, lo perse di vista, ma Bakkat lanciò un fischio sommesso per aiutarlo a ritrovare la direzione. Raggiunsero la fascia di terreno asciutto all'estremità opposta della palude e il boscimano, trovando un sentiero stretto usato dagli animali Wilbur Smith
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selvatici, lo percorse al trotto. Dopo qualche centinaio di passi tornò a fermarsi, ed entrambi tesero le orecchie, in ascolto. Jim ansimava come un cane e aveva la camicia fradicia di sudore, incollata al corpo come una seconda pelle. Il combattimento era così vicino che, al di là del frastuono generale, riuscivano a distinguere i suoni più intimi della morte: lo scricchiolio di un cranio spaccato dal colpo di una kerrie, il grugnito lanciato da un uomo armato di lancia quando mette a segno un colpo, il sibilo della lama di una scimitarra nell'aria, il fiotto di sangue che si riversa a terra, il tonfo di un corpo che cade, i gemiti e il respiro affannoso del mutilato e dell'agonizzante. Bakkat guardò Jim, facendo il gesto di unirsi alla battaglia, ma lui alzò una mano per impedirglielo, poi piegò la testa di lato. Stava riprendendo fiato alla svelta. Allentò le cinghie che trattenevano le pistole e sguainò la spada. D'un tratto dal folto della vegetazione vicino a lui esplose un ruggito belluino. «Venite, figli miei! Venite, figli del cielo! Divoriamoli!» Jim sogghignò. Non poteva che essere Beshwayo. Gli rispose un'altra voce, che, parlando un arabo dal forte accento straniero, gridava: «Calma! Calma! Aspettate a sparare! Lasciateli avvicinare!» «È lui!» disse Jim, con un cenno rivolto a Bakkat. «Koots!» Abbandonando la pista degli animali, s'immersero nel sottobosco. Jim si aprì la strada a forza attraverso una parete di spine e, di fronte a lui, si aprì una distesa di erba palustre di un verde acceso. Al centro c'era un'isoletta minuscola, che misurava non più di venti passi in ampiezza. Su quell'ultimo rifugio si era attestato Koots con una dozzina di uomini, arabi vestiti con una tunica infangata e turchi con la mezza armatura imbrattata di melma. Avevano formato uno schieramento irregolare, alcuni inginocchiati e altri in piedi alle loro spalle, col moschetto appoggiato alla spalla. Koots camminava avanti e indietro alle spalle della seconda linea, trascinandosi appresso il moschetto. Aveva una benda insanguinata intorno alla fronte, ma sogghignava come un teschio, con un rictus pauroso che gli lasciava scoperti i denti serrati. Dalla parte opposta della palude c'era una massa di guerrieri col Grande Toro in testa. Beshwayo rovesciò la testa all'indietro, lanciando un ultimo ruggito. «Venite, figli miei. Passa di qui la via della gloria!» Si slanciò in avanti nella palude, coperta da folti ciuffi di alghe verdi e maleodoranti. I suoi Wilbur Smith
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guerrieri lo seguirono correndo, e la palude esplose sotto la loro carica in una raffica di spruzzi. «Sangue freddo!» gridava Koots. «Un solo colpo, e poi ci saranno addosso.» Beshwayo non ebbe la minima esitazione. Continuò a galoppare in avanti, sotto la minaccia dei moschetti spianati, come un bufalo lanciato alla carica. «Quel pazzo scatenato...» si lamentò Jim. «Eppure conosce la potenza delle armi da fuoco.» «Aspettate!» ordinò Koots, a voce bassa. «Aspettate il momento giusto!» Jim si accorse che aveva scelto come bersaglio il re, e mirava al petto. Estraendo una delle pistole dalla cintura, sparò d'istinto, senza prendere la mira. Fatica sprecata. Koots non batté neanche ciglio mentre il proietto gli sfiorava la testa. Anzi in quel momento la sua voce risuonò, brusca: «Fuoco!» La salva esplose, e nel fumo Jim vide cadere almeno quattro dei guerrieri lanciati alla carica, due uccisi sul colpo e gli altri ridotti a dibattersi nel fango, calpestati dai compagni. Cercò disperatamente d'intravedere Beshwayo, poi, quando il fumo si diradò, lo scorse, illeso e imperterrito, ancora alla testa della carica. Avanzando, gridava con gioia selvaggia: «Io sono la morte nera! Guardatemi, e saprete che cos'è la paura!» Scagliandosi contro gli arabi della prima fila, ne abbatté due, sferrando un colpo ampio con lo scudo, poi si chinò su di loro, trafiggendoli con la lancia in modo così fulmineo che l'occhio non riuscì a seguire il movimento. Ogni volta che estraeva la lama, l'acciaio era seguito da una marea scarlatta. Koots gettò da parte il moschetto scarico, girando di scatto su se stesso. Attraversata l'isoletta con la sua falcata lunga, si tuffò nella palude, puntando proprio nella direzione di Jim. Lui uscì allo scoperto dal folto di rovi, estrasse la spada e lo attese ai margini del terreno spugnoso dell'acquitrino. Riconoscendolo, si fermò, col fango che gli arrivava alle caviglie. «Il cucciolo di Courteney!» Sorrideva ancora. «Ho atteso a lungo questo momento. Keyser pagherà una bella somma in gulden d'oro per la tua testa.» «Dovrai prima staccarla dal collo.» Wilbur Smith
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«Dov'è la tua sgualdrina bionda? Ho qualcosa anche per lei.» Koots strinse la mano sull'inguine, dimenando il bacino in modo osceno. «Lo taglierò per portarglielo», ribatté Jim con serietà. Koots lanciò un'occhiata all'indietro. I suoi uomini erano tutti morti, uccisi dagli assegai, e ora i guerrieri di Beshwayo stavano sventrando i cadaveri, per lasciar uscire lo spirito: un estremo tributo a uomini che si erano battuti con onore. Alcuni però si lanciavano già all'inseguimento di Koots, sguazzando nella palude. Koots non esitò più. Puntò direttamente verso Jim, alzando le ginocchia per non impantanarsi nel fango e continuando a sorridere con quegli occhi incolori fissi sul viso dell'altro, cercando di decifrarne le intenzioni. Il primo colpo lo sferrò senza preavviso, mirando subito alla gola. Jim toccò la lama con la sua, quanto bastava per deviare la punta oltre la spalla. In quel momento, quando Koots era tutto proteso, scattò con la lama in avanti e l'acciaio, stridendo contro l'acciaio, guidò la punta di Jim verso il bersaglio. Sentì il colpo andare a segno, tagliando la stoffa e la carne, e poi lo schiocco dell'osso. Koots indietreggiò di scatto. «Liefde tot God!» Il sorriso era stato sostituito da un'espressione sorpresa. Un fiotto di sangue vivo sprizzò sulla camicia sporca di fango. «Il cucciolo è diventato cane.» Poi la sorpresa cedette il posto all'ira, e Koots si avventò di nuovo contro l'avversario. Le loro lame si urtarono e stridettero quando l'olandese tentò di respingere Jim, in modo da poter raggiungere un terreno più solido. Ma Jim mantenne la posizione, tenendolo inchiodato sul fango molle, che gli aderiva agli stivali e lo risucchiava a ogni passo. «Arrivo, Somoya», gridò Beshwayo, superando con un salto lo stretto braccio di acqua paludosa. «Io non ti tolgo di bocca il cibo», gli gridò Jim. «Lascia questo boccone a me.» Beshwayo si fermò e alzò la mano, per trattenere gli uomini che si accalcavano impazienti alle sue spalle. «Somoya ha fame», spiegò. «Lasciatelo mangiare in pace.» E scoppiò a ridere. Koots indietreggiò di un passo, tentando d'invitare Jim ad avanzare nel fango. Lui sorrise, declinando l'invito con un cenno sprezzante della testa. Koots tentò di aggirarlo sulla sinistra e poi, non appena Jim si volse per andargli incontro, ruppe dalla parte opposta, ma il fango rallentava i suoi Wilbur Smith
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movimenti. Il suo avversario lo colpì di nuovo, di striscio al fianco, e i guerrieri di Beshwayo che assistevano allo scontro lanciarono un ruggito di approvazione. «Sanguini in abbondanza, da quel grande porco che sei», lo provocò Jim. Il sangue che scorreva lungo la gamba di Koots gocciolava sul fango. Quando abbassò gli occhi per guardarlo, aveva un'aria tetra. Entrambe le ferite erano superficiali; però, messe insieme, lo avrebbero privato ben presto di ogni energia. Jim gli balzò addosso e lui, indietreggiando, sentì la debolezza delle gambe. Capì che doveva tentare una soluzione rapida. Guardò l'avversario che aveva di fronte e fu una delle poche volte in vita sua che provò una fitta di paura. Quello non era più il giovane puledro focoso che aveva inseguito attraverso mezzo continente africano; era un uomo fatto, alto, con le spalle larghe, temprato come l'acciaio nella fornace della vita. Koots chiamò a raccolta il coraggio e le ultime forze che gli restavano per avventarsi su Jim, tentando di spingerlo indietro col peso e la forza dell'azione. Jim gli tenne testa. Si aveva l'impressione che a separarli fosse soltanto una barriera evanescente di metallo saettante. Il clangore e lo stridio delle lame raggiunsero un crescendo micidiale. Gli uomini della tribù di Beshwayo rimasero affascinati da quella forma di combattimento, del tutto nuova per loro; si rendevano conto dell'abilità e della forza che richiedeva, e intonarono un canto d'incoraggiamento, tamburellando con gli assegai sullo scudo, danzando e agitandosi ritmicamente per l'eccitazione. Non poteva durare ancora per molto. Gli occhi di Koots erano coperti da un velo opaco di disperazione. Il sudore diluiva il sangue che gli scorreva lungo il fianco. Quando tentava d'incalzare l'avversario, cominciava ad avvertire la stanchezza del polso, e il cedimento dei muscoli. Jim bloccò il suo nuovo assalto disperato sulla linea naturale d'attacco, legando le lame all'altezza degli occhi. I due si fissarono attraverso la croce argentea formata dalle lame d'acciaio che fremevano. Formavano un gruppo statuario che sembrava scolpito nel marmo. I guerrieri tacquero, intuendo che il momento era drammatico. Tanto Koots quanto Jim sapevano che chi avesse tentato di disimpegnarsi si sarebbe esposto al colpo mortale. Poi Jim sentì l'altro cedere. Koots spostò i piedi e subito dopo, con una spinta possente delle spalle, tentò di rovesciare l'avversario e disimpegnarsi. Jim era preparato a Wilbur Smith
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quella mossa e, non appena l'altro cedette, scattò in avanti con la velocità di una vipera del deserto. Koots spalancò gli occhi, ormai ciechi e del tutto incolori. Le sue dita si aprirono, e la spada cadde nel fango. Jim rimase immobile, col polso bloccato e la punta d'acciaio conficcata nel petto di Koots. Sentì l'elsa pulsare leggermente nella sua mano e, per un attimo, credette che fosse il battito del suo cuore, poi si accorse che la lama aveva trafitto il cuore di Koots, e quello che sentiva era il cuore dell'altro, le cui ultime pulsazioni si trasmettevano alla spada. Koots aveva un'espressione sconcertata. Aprì la bocca per parlare, poi la richiuse. Le ginocchia gli cedettero lentamente e, mentre il suo corpo si afflosciava, Jim lo lasciò scivolare via dalla lama. Cadde a faccia avanti sul fango. Il ruggito che si levò da Beshwayo pareva quello di un intero branco di leoni dopo la morte della preda. Alcune settimane prima, la Revenge, la Sprite e l'Arcturus erano salpate dalla baia della Natività con la marea dell'alba. Avevano lasciato in vista del promontorio Tasuz, a bordo della sua piccola feluca, col compito di attendere l'arrivo della flotta di Zayn, mentre loro andavano ad appostarsi al di sotto dell'orizzonte orientale, in modo da non essere visibili. I giorni erano stati caratterizzati da una monotonia insostenibile, aggravata dall'incertezza, mentre incrociavano lungo la linea dello scudo continentale, spiando il segnale di Tasuz che li avrebbe invitati a combattere. Ruby Cornish, a bordo dell'Arcturus, rilevava la posizione del sole ogni giorno a mezzogiorno, mentre Kumrah sulla Sprite e Batula sulla Revenge riuscivano a mantenere la posizione altrettanto bene affidandosi all'istinto, anziché agli strumenti di navigazione. Mansur trascorreva buona parte del giorno sulla coffa dell'albero di maestra dell'Arcturus, osservando l'orizzonte attraverso la lente del cannocchiale, e finì per avere l'occhio destro iniettato di sangue a causa della tensione e del riverbero del sole sull'acqua. Ogni sera, dopo aver cenato presto in compagnia di Cornish, si ritirava nella cabina di Verity e restava sveglio fino a tardi, seduto allo scrittoio. Lei gli aveva consegnato la chiave del cassetto quando si erano salutati, sulla spiaggia della baia della Natività. «Nessun altro ha mai letto i miei diari. Ne ho scritti dieci in arabo, in modo che mio padre e mia madre non potessero decifrarli. Come vedi, mio Wilbur Smith
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caro, non ho mai avuto molta fiducia in nessuno dei due.» Era scoppiata a ridere. «Voglio che tu sia il primo a leggerli. In tal modo potrai condividere la mia vita, i miei pensieri e i miei segreti più intimi.» «Mi sento indegno di un onore tanto grande», aveva risposto lui, con la voce incrinata dall'emozione. «Non si tratta di onore, ma di amore», aveva risposto lei. «D'ora in poi, non avrò segreti per te.» Mansur scoprì che i diari abbracciavano gli ultimi dieci anni della sua vita, da quando lei ne aveva compiuti nove. Erano la registrazione completa delle emozioni di una fanciulla che, a poco a poco, si avviava a diventare donna. Restava sveglio a leggerli ogni notte e, alla luce della lampada a olio, condivideva i suoi desideri e lo sconcerto che Verity provava di fronte alla vita, i piccoli disastri infantili e le grandi gioie. C'erano espressioni ingenue di felicità e altre di una malinconia tale che si sentiva stringere il cuore per lei. Ogni tanto incontrava passaggi enigmatici, nei quali Verity meditava sui suoi rapporti coi genitori. Mansur si sentiva accapponare la pelle quando lei alludeva con timidezza all'indicibile, scrivendo del padre. Non lesinava dettagli, nel descrivere le punizioni che le aveva inflitto, e a lui tremavano le mani per la rabbia, mentre sfogliava quelle pagine profumate. C'erano anche passi in cui lei lo colpiva per l'acume delle sue osservazioni, e in ogni caso la sua scelta delle parole, sempre originale e ispirata, lo riempiva di stupore. Talvolta lo faceva ridere forte, talaltra gli faceva salire le lacrime agli occhi. Le ultime pagine del penultimo volume coprivano il periodo che andava dal loro primo incontro sul ponte dell'Arcturus, nel porto di Muscat, alla loro separazione sulla strada che partiva da Iskandarbad. A un certo punto, Verity aveva scritto di lui: Anche se non lo sa ancora, possiede già una parte di me. D'ora in poi, le nostre orme saranno impresse le une accanto alle altre sulla sabbia del tempo. Quando finalmente sentiva che le parole di Verity avevano consumato le sue emozioni, spegneva la lampada e si stendeva sul suo letto, come stordito. Sul cuscino aleggiava ancora la ricca fragranza dei suoi capelli e le lenzuola erano impregnate del profumo della sua pelle. Di notte lui si svegliava, tendendo la mano in cerca di lei e, quando scopriva che non era lì, la sofferenza lo faceva gemere. Allora odiava suo padre che non le aveva permesso di accompagnarlo, ma l'aveva invece mandata via sui carri, insieme con Sarah, Louisa e il piccolo Georgie, sulle colline Wilbur Smith
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inesplorate dell'interno. Per quanto dormisse poco, si trovava sempre sul ponte dell'Arcturus quando suonavano gli otto rintocchi di campana del turno di mezzo e, prima dell'alba, era già sulla coffa, a guardare e aspettare. L'Arcturus, che era la nave più potente ma più lenta della loro piccola flotta, manteneva la posizione sopravvento, e Mansur aveva la vista più acuta di chiunque altro, a bordo. Fu lui, quindi, ad avvistare la minuscola pagliuzza chiara della vela della feluca che appariva all'orizzonte. Non appena furono certi della sua identità, Ruby Cornish virò di bordo con l'Arcturus e si precipitarono a intercettarla. Tasuz rispose al richiamo, comunicando: «Zayn al-Din è qui, con venti dhow grandi», poi virò per riportare la squadra verso il continente africano che appariva basso all'orizzonte, blu e minaccioso come un mostro degli abissi. Anche stavolta fu Mansur il primo a distinguere le sagome delle navi nemiche all'ancora presso la foce del fiume Umgeni. Avevano le vele ammainate e lo scafo scuro, che si fondeva con lo sfondo di colline e foreste. «Si trovano esattamente dove si aspettava tuo padre.» Cornish le studiò con molta attenzione mentre le raggiungevano a tutta velocità. «Stanno già inviando le barche sulla spiaggia. L'attacco è cominciato.» Ridussero in breve le distanze, mentre il nemico sembrava così preso dallo sbarco imminente da trascurare la necessità di sorvegliare il mare aperto alle sue spalle. «Quelli sono i cinque dhow da guerra della scorta», spiegò Mansur, indicandoli. «Gli altri sono da trasporto.» «Abbiamo il vantaggio di essere sopravvento», osservò sorridendo Cornish, col faccione che splendeva di contentezza. «Lo stesso vento che soffia a nostro vantaggio li tiene inchiodati su quella costa sottovento. Se levano l'ancora, finiranno incagliati quasi subito. Kadem ibn Abubaker è nelle nostre mani. Come dovremo procedere, altezza?» domandò poi, guardando Mansur, visto che Dorian aveva affidato al figlio il comando generale della flotta anche perché, dato il rango di Mansur, i comandanti arabi non avrebbero compreso né accettato un altro al posto suo. «L'istinto mi suggerisce di attaccare subito i dhow da guerra, finché li abbiamo in pugno. Se riuscissimo a distruggerli, i trasporti ci cadrebbero tra le braccia come frutti maturi. Non siete d'accordo, comandante Cornish?» Wilbur Smith
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«Con tutto il cuore, altezza.» Cornish dimostrò il proprio apprezzamento per il tatto di Mansur portandosi la mano alla tesa del cappello. «Allora, se siete d'accordo, avviciniamoci alle altre navi, in modo che possa trasmettere l'ordine anche a loro. Assegnerò una nave nemica a ciascuno. Noi dell'Arcturus ingaggeremo battaglia con la più grande», spiegò il giovane, indicando il dhow al centro della fila di navi all'ancora. «Quasi certamente è quella al comando di Kadem ibn Abubaker. Io l'abborderò subito per catturarla, mentre voi farete altrettanto con la successiva.» La Sprite e la Revenge navigavano poco più avanti, con la velatura ridotta per non sopravanzare di troppo l'Arcturus. Mansur le richiamò, indicando loro quale dhow sarebbe stato il loro bersaglio. Non appena ebbero compreso che cosa voleva, i comandanti si slanciarono in avanti, caricando la fila di navi all'ancora. Alla fine, il nemico li vide arrivare e la confusione dilagò ben presto nella flotta. Tre dei trasporti erano impegnati a sbarcare i cavalli che avevano a bordo. Passando delle cinghie sotto il ventre degli animali, li issavano fuori della stiva, calandoli lungo le murate; una volta in acqua, i cavalli venivano lasciati liberi di nuotare senza aiuto. I marinai che li aspettavano a bordo delle barche li guidavano oltre la risacca e, da lì in poi, dovevano sforzarsi di raggiungere la spiaggia come meglio potevano. In acqua c'erano già più di cento animali malati e sfiniti, che lottavano per restare a galla. Quando si videro piombare addosso quelle navi alte, con tutti i cannoni puntati, i comandanti dei trasporti dei cavalli furono presi dal panico e, con pochi colpi d'ascia, recisero il cavo dell'ancora, tentando di darsi alla fuga. Due di loro si scontrarono, e dopo la collisione andarono alla deriva oltre la linea spumeggiante della risacca. Ancora incastrate, le due navi furono sommerse dalle onde, e una si capovolse, trascinando l'altra con sé. La superficie del mare si coprì di relitti, uomini e cavalli che si dibattevano tra le onde. Intanto un paio di navi cariche di soldati riuscirono a tagliare il cavo dell'ancora e issare le vele. Sia pure per il rotto della cuffia, si allontanarono dalla riva alla chetichella. «Sono disarmate e per noi non rappresentano un pericolo», disse Mansur a Cornish. «Lasciamole andare. Potremo sempre raggiungerle in seguito. Prima dobbiamo sistemare il dhow da guerra.» Lasciando Cornish, andò a prendere il comando del gruppo che avrebbe compiuto l'arrembaggio. I Wilbur Smith
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cinque dhow da guerra erano rimasti all'ancora. Erano troppo grandi e poco maneggevoli per tentare la rischiosa manovra di allontanarsi dalla riva sottovento di fronte a un nemico tanto potente. Non avevano altra possibilità che restare e battersi. L'Arcturus puntò senza esitare verso il più grande. A prua c'era Mansur, che scrutava il ponte dell'altra nave, mentre il distacco tra le due si riduceva. «Eccolo!» gridò all'improvviso, puntando la spada in avanti. «Sapevo che era qui!» Le navi erano così vicine che Kadem udì la sua voce e lo fulminò con lo sguardo. La corrente di odio puro che passò tra loro in quel momento era quasi tangibile. «Una bordata, comandante Cornish.» Mansur lanciò un'occhiata all'indietro, verso il cassero di poppa. «L'abborderemo di prua, in mezzo al fumo dei cannoni.» Cornish rispose con un cenno della mano, dedicandosi alla manovra di avvicinamento. La direzione del vento mantenne il dhow di Kadem con la prua verso il mare e la poppa verso la spiaggia. Sebbene avessero caricato i cannoni con aria di sfida, i marinai non riuscirono neppure a puntarli. Cornish passò davanti alla prua del dhow di Kadem ibn Abubaker così vicino da investirla con una bordata a distanza ravvicinata. L'Arcturus era più alta sull'acqua rispetto al dhow, quindi i suoi cannoni potevano sparare dall'alto in basso sulla nave nemica. Cornish aveva caricato a mitraglia, e la bordata si abbatté con violenza, sprigionando una nuvola densa di fumo grigio, costellata di fiocchi di stoppaccio in fiamme, che si gonfiò nell'aria fino a oscurare la visuale del ponte. Quando il vento la diradò, comparve una scena di totale devastazione. Il fasciame del ponte di coperta del dhow sembrava dilaniato dagli artigli di un gatto mostruoso. I corpi insanguinati degli artiglieri erano riversi sui pezzi che non avevano fatto in tempo a sparare, e negli ombrinali scheggiati scorreva un fiume di sangue. In mezzo a quel carnaio, Mansur cercava Kadem e, con un lieve sussulto d'incredulità, si accorse che era illeso, ancora in piedi e intento a rianimare i superstiti storditi di quella terribile grandinata di fuoco. Con un delicato gioco del timone, Cornish riuscì a fare in modo che i due scafi rimanessero accostati. Mansur lanciò i suoi uomini all'arrembaggio, e subito dopo Cornish manovrò la ruota per disimpegnarsi. Lasciando Mansur e i suoi uomini alle prese col dhow, proseguì verso la nave successiva, per attaccarla prima che riuscisse a darsi alla fuga. Gli rimase qualche minuto Wilbur Smith
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di respiro per guardarsi intorno e vedere come se la cavavano le altre due navi. Dopo aver investito la flotta nemica con una serie implacabile di bordate a breve distanza, gli equipaggi della Revenge e della Sprite avevano abbordato l'avversaria prescelta. Altri tre trasporti erano finiti alla deriva nella zona della risacca e si erano capovolti, mentre altri ancora erano rimasti all'ancora. Cornish ne contò altri sei che erano sfuggiti agli attacchi e puntavano disperatamente verso il mare aperto. Poi si girò e vide che, a bordo del dhow di Kadem, sempre all'ancora, si era scatenato un combattimento accanito. Gli parve di vedere Mansur in prima linea, ma lo scontro era così fluido e confuso che non poté averne la certezza. Il principe avrebbe potuto lasciarmi sparare qualche altra dose di mitraglia, prima di arrembare, pensò. Comunque ha del sangue nelle vene. Kadem ibn Abubaker ha assassinato sua madre. L'onore non gli lascia altra scelta che affrontarlo, da uomo a uomo, concluse, con riluttante ammirazione. L'Arcturus stava per raggiungere il dhow successivo, e Cornish dovette dedicargli tutta la sua attenzione. «La stessa medicina, ragazzi», gridò agli artiglieri. «Una buona dose di mitraglia, e poi l'arrembiamo.» Sebbene la mitraglia avesse ferito o ucciso metà degli uomini sul ponte della nave di Kadem ibn Abubaker, non appena gli uomini di Mansur si lanciarono all'arrembaggio dell'Arcturus, Kadem lanciò l'ordine di attaccare, e il resto dell'equipaggio si riversò in coperta dai ponti inferiori attraverso le scalette di boccaporto, lanciandosi nel combattimento. Aggressori e difensori si equivalevano di numero, o quasi, e comunque erano così stipati che lo spazio era appena sufficiente per vibrare fendenti di taglio con la sciabola o colpi di punta con la picca. Si spostavano avanti e indietro, scivolando sui ponti insanguinati, gridando e scambiandosi colpi. Mansur si spostava in mezzo alla mischia cercando Kadem, ma fu affrontato quasi subito da tre uomini che gli si avventarono addosso. Ne colpì uno alla parte bassa del petto, conficcando la punta della spada sotto le costole, e sentì il sibilo dell'aria che usciva dai polmoni perforati. L'uomo si accasciò sul ponte e Mansur ebbe appena il tempo di ritirare la spada insanguinata e rimettersi in guardia prima che sopraggiungessero gli altri due. Wilbur Smith
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Uno era un tipo segaligno, con le braccia lunghe e gonfie di muscoli. Sul petto nudo era tatuato il testo di una sura del Corano. Mansur lo riconobbe: aveva combattuto al suo fianco sui bastioni di Muscat. Tentò una finta, poi un fendente di rovescio alla testa di Mansur, che bloccò la sua lama con un legamento e lo costrinse a voltarsi per usarlo come scudo contro il compagno che tentava d'intervenire. «Allora, Zaufar, non hai saputo aspettare il ritorno di al-Salil, il tuo vero califfo?» gli rinfacciò Mansur in tono sarcastico. «L'ultima volta ti ho salvato la vita, ma stavolta te la toglierò.» Zaufar indietreggiò di scatto, costernato. «Principe Mansur, siete voi?» Per tutta risposta, l'altro si tolse il turbante, scuotendo i capelli color rame. «È il principe!» gridò Zaufar, e i suoi compagni si fermarono, tirandosi indietro e fissando a loro volta Mansur. «È il figlio di al-Salil», gridò un altro. «Arrendetevi a lui» «È la progenie del traditore! A morte!» tuonò un furfante panciuto, che si fece avanti tra i ranghi dei marinai. Zaufar si voltò e gli conficcò la spada nel ventre sporgente. Nel breve volgere di qualche istante, tra i nemici si era creata una spaccatura, e gli uomini di Mansur si affrettarono ad approfittare della confusione. «Al-Salil!» gridarono, e alcuni marinai del dhow ripresero quel grido di battaglia, mentre gli altri replicarono in tono di sfida: «Zayn al-Din!» Furono molti, gli uomini di Kadem che cambiarono bandiera; quelli ancora fedeli a lui si trovarono ben presto in condizioni d'inferiorità numerica e furono spazzati via dal ponte. Mansur guidò la carica, col viso e la tunica macchiati del sangue delle vittime e gli occhi ardenti di ferocia. Cercò Kadem ibn Abubaker in mezzo alla marmaglia. A mano a mano che avanzava combattendo, diventavano sempre più numerosi i nemici che lo riconoscevano, deponevano le armi e si prosternavano sul ponte. «Pietà, in nome di al-Salil!» invocavano. Alla fine, Kadem rimase solo presso la battagliola di poppa del dhow, con lo sguardo fisso su Mansur. «Sono venuto per infliggerti il giusto castigo», gli gridò Mansur. «Devo purificare con l'acciaio la tua anima malvagia.» Riprese ad avanzare, e gli uomini che ancora si frapponevano tra loro si fecero da parte. «Avanti, Kadem ibn Abubaker, ora vieni ad affrontarmi.» Kadem indietreggiò, poi si slanciò in avanti, mulinando sulla testa di Wilbur Smith
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Mansur la scimitarra, che roteava con un ronzio crudele e aveva la lama ricurva macchiata del sangue delle vittime. Il giovane si abbassò per schivare il colpo, che finì contro la base dell'albero con un tonfo sordo. «Non ora, cucciolo. Prima devo uccidere quel cane di tuo padre, e soltanto allora avrò il tempo di occuparmi di te.» Prima che lui potesse capire che cosa aveva in mente, Kadem si sfilò dalla testa la tunica, gettandola sul ponte. Indossava soltanto un perizoma. Il torace era snello e teso e, sotto il braccio, si notava la cicatrice scarlatta in rilievo lasciata dal colpo di spada che Mansur gli aveva inflitto nel porto di Muscat. Dirigendosi verso la battagliola, Kadem spiccò un salto e finì in acqua, sprofondando sotto la superficie, poi riemerse e si diresse a nuoto verso la spiaggia. Mansur attraversò di corsa il ponte verso poppa, spogliandosi mentre correva. Abbandonò anche la spada, ma s'infilò il pugnale ricurvo, ancora chiuso nel fodero in oro e argento, nella parte posteriore del perizoma, in modo che non gli ostacolasse i movimenti nel nuoto, e lo annodò per maggior sicurezza. Poi, senza neanche rallentare la corsa, si lanciò fuori bordo con un tuffo a capofitto. Jim e lui avevano imparato a nuotare nelle acque turbolente della corrente del Benguela, che sfiorava le coste della colonia di Buona Speranza, e da ragazzi avevano rifornito la dispensa di High Weald con le orecchie di mare e le aragoste pescate, ma non con le nasse o le reti. Si spingevano al largo per immergersi nelle acque profonde della barriera corallina e, dopo lunghe ore d'immersione nell'acqua gelida, gareggiavano in velocità per tornare a riva, trascinandosi dietro sacchetti gonfi di prede. Mansur riemerse in superficie, scostandosi dagli occhi i capelli fradici con uno scrollone, e vide Kadem, cinquanta iarde più avanti. Sapeva per esperienza che gli arabi, pur essendo marinai provetti, ben di rado padroneggiavano l'arte del nuoto, quindi fu sorpreso dalla potenza della bracciata dell'avversario e si lanciò all'inseguimento, raggiungendo un ritmo sostenuto. Udì le grida d'incoraggiamento dei suoi uomini a bordo del dhow, ma preferì ignorarle per concentrare nello sforzo tutte le risorse del cuore, dei tendini e dei muscoli del suo corpo. Ogni dozzina di bracciate si concedeva un'occhiata in avanti, e si accorse che stava guadagnando lentamente terreno su Kadem. Quando si avvicinarono alla spiaggia, le onde cominciarono a gonfiarsi Wilbur Smith
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sotto di loro. Kadem fu il primo a superare la linea dei frangenti. La risacca spumeggiante lo inghiottì, sommergendolo completamente, poi lo risputò, lasciandolo disorientato. Tossiva e, invece di assecondare la corrente, si mise a lottare per contrastarla. Guardando indietro, Mansur si accorse che la serie successiva di onde s'inarcava col dorso verso l'azzurro del cielo. Smise di nuotare e si tenne a galla, muovendosi appena. Vide la prima ondata piombargli addosso, e si lasciò trasportare. La massa d'acqua lo sollevò così in alto che lui vide chiaramente Kadem, trenta iarde più avanti. Quindi l'onda proseguì. La seconda era più alta e più potente. «La prima è una pisciatina, la seconda una fontana, la terza ti porta in cima alla montagna.» Gli pareva quasi di sentire Jim recitare quella filastrocca, come aveva fatto tante volte in passato quando giocavano insieme nella risacca. «Aspetta la terza onda!» Dalla seconda ondata, Mansur si lasciò trasportare ancora più in alto. Scorse Kadem travolto dal ribollire della prima onda, mentre dimenava gambe e braccia in mezzo alla schiuma bianca. L'onda aumentò di velocità, lasciandolo a dibattersi nella sua scia. Mansur guardò indietro e vide arrivare la terza ondata, che lo sovrastava. S'inarcava fino a raggiungere quasi le porte del cielo, con la cresta tremolante di un verde traslucido. Assecondandone il movimento, riprese a nuotare, scalciando con forza e fendendo l'acqua con le mani per acquistare slancio. L'onda lo sollevò e lui si ritrovò imprigionato nella parte frontale, trascinato in avanti con la testa, mentre la parte superiore del corpo rimaneva fuori dell'acqua. Kadem si dibatteva ancora tra i frangenti, e lui si diresse da quella parte, tagliando in diagonale la facciata dell'onda. All'ultimo momento, Kadem lo vide e spalancò gli occhi per lo stupore. Mansur si riempì i polmoni d'aria e si lanciò su di lui, avvinghiandosi con le braccia e con le gambe al corpo di Kadem, cosicché entrambi furono inghiottiti dall'onda e trascinati a fondo. Mansur sentì la pressione sui timpani aumentare rapidamente, causando un dolore simile a quello di un trapano infilato nel cranio. Non allentò la presa su Kadem, ma bevve molta acqua e, quando la pressione si attenuò, i timpani produssero una specie di schiocco. I due furono sospinti ancora più in basso, tanto che lui toccò il fondo con un piede. Nel contempo, tuttavia, serrò le braccia intorno al petto di Kadem, come se fossero le spire di un pitone. Wilbur Smith
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Finirono a rotolare sul fondo sabbioso. Mansur aprì gli occhi per guardare in su. Aveva la vista annebbiata, e la superficie gli sembrava remota come le stelle. Facendo appello a tutte le sue forze, strinse ancora e sentì le costole di Kadem scricchiolare e piegarsi nella stretta delle sue braccia. Poi, all'improvviso, Kadem aprì la bocca per il dolore, e dalla gola gli sfuggì un fiotto d'aria esplosivo. Annega, porco! pensò Mansur, guardando le bollicine d'argento salire verso la superficie. Ma avrebbe dovuto conoscere le convulsioni estreme di un animale agonizzante. Chissà come, Kadem riuscì a puntare i piedi sul fondale sabbioso e a spingere con tutta la forza che aveva nelle gambe. Sempre allacciati, i due risalirono, e la velocità dell'ascesa aumentò a mano a mano che si avvicinavano alla superficie. Quando riemersero, Kadem inspirò avidamente. L'aria gli restituì le forze, tanto che si contorse nella stretta di Mansur e gli artigliò il viso. Aveva le unghie dure come pinze, che lasciarono solchi rossi sulla fronte e sulle guance di Mansur, benché il suo bersaglio primario fossero gli occhi. Mansur sentì uno di quei polpastrelli duri aprirgli a forza la palpebra serrata per insinuarsi in fondo all'orbita. Quando l'unghia graffiò la cornea e Kadem tentò di estirpare il globo oculare, il dolore fu quasi indescrivibile. Lui mollò la presa e ritrasse la testa di scatto, appena in tempo per evitare che l'occhio fosse strappato dall'orbita, ma rimase comunque accecato dal sangue che sgorgava dalla ferita. Svuotò i polmoni dell'aria con un urlo di dolore. Kadem, con rinnovata energia, cercò di sopraffarlo, passandogli un braccio intorno al collo e spingendolo sott'acqua. Scalciando, tentava di colpire Mansur con una serie di ginocchiate al basso ventre, tempestandolo di pugni e tenendogli la testa sott'acqua. Il giovane aveva i polmoni vuoti, e l'urgenza di respirare era altrettanto impellente della volontà di vivere, ma il braccio di Kadem sembrava una fascia di ferro stretta intorno al collo. Mansur capì che avrebbe finito per esaurire le forze, se avesse continuato a lottare con lui in quel modo. Allungando una mano dietro la schiena, estrasse dal fodero il pugnale. Con la sinistra, tastò l'estremità della gabbia toracica di Kadem alla ricerca del punto letale, poi, con tutte le forze che gli restavano, conficcò la lama nell'incavo al di sotto dello sterno. L'artigiano che aveva lavorato il pugnale aveva incurvato la punta d'acciaio proprio per facilitare quel tipo di colpo, che preludeva allo sventramento dell'avversario, e la lama era Wilbur Smith
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così affilata che i muscoli tesi del ventre di Kadem non offrirono quasi resistenza. L'acciaio penetrò per tutta la sua lunghezza, finché Mansur non sentì l'elsa urtare contro una costola dell'avversario. Poi rivolse in basso la lama, tagliente come un rasoio, e aprì il ventre di Kadem, dalle costole fino all'osso pelvico, con la stessa facilità con cui avrebbe lacerato un sacchetto di cuoio. Con uno spasmo terribile, che lo percorse per intero, Kadem allentò la presa che rischiava di strangolare Mansur e si allontanò, in posizione supina. Galleggiando in superficie, tentò di comprimere di nuovo le viscere nello squarcio della ferita, ma gli intestini continuavano a scivolare fuori, snodandosi in una serie di cordoni bluastri e viscidi, e, dato che lui scalciava per restare a galla, finirono per impigliarsi nelle gambe. Col viso rivolto al cielo, Kadem spalancò la bocca in un grido silenzioso di rabbia e disperazione. Mansur si guardò intorno, ma la vista dell'occhio ferito era annebbiata e l'immagine del viso di Kadem era sfaccettata, come i riflessi multipli di uno specchio incrinato. Il dolore si diffuse nel cranio di Mansur con violenza tale da fargli credere che stesse per esplodere. Si toccò il viso, temendo quello che avrebbe potuto trovare, e provò un sollievo immenso scoprendo che l'occhio era ancora nell'orbita, e non pendeva sulla guancia. Vide però qualcos'altro, qualcosa di ancor più terribile. La foce dei fiumi africani che riversavano in mare rifiuti di ogni genere costituivano il terreno naturale di caccia degli squali dello Zambesi. Mansur li conosceva bene, e riconobbe istintivamente la caratteristica pinna dorsale smussata che puntava verso di lui, attirata dal sentore di sangue e viscere lacerate. L'ondata successiva sollevò la bestia e, per un attimo, Mansur vide la sagoma completa dell'animale delinearsi chiaramente nella finestra di acque verdi. Sembrava quasi che lo stesse fissando con un occhio scuro e implacabile. Nelle linee dure e scultoree del suo corpo e nella sua pelle lucente, ramata, c'era una sorta di oscena bellezza. La coda e le pinne laterali avevano la forma di giganteschi coltelli, e la bocca era fissa in un ghigno crudele. Gli passò accanto con un guizzo di coda, sfiorandogli leggermente le gambe, poi scomparve. Il giovane, però, non si fece illusioni. Sapeva che lo squalo stava nuotando in circolo sotto di lui. Quello era il preludio a un attacco. Mansur aveva parlato con alcuni uomini scampati all'incontro con quelle creature feroci. Erano tutti vittima di qualche orribile mutilazione, e Wilbur Smith
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gli avevano detto tutti la stessa cosa: «Prima ti toccano, e poi colpiscono». Ignorando il dolore all'occhio, Mansur si girò sul ventre. Per fortuna un'altra onda lo avvolse e lo trascinò lontano; assecondandola, si sentì sollevare e nuotò finché non sentì che lo sollevava, portandolo verso la spiaggia. Sentì la sabbia sotto i piedi e risalì barcollando verso la terra, con le ondate che si susseguivano alle sue spalle. Si teneva una mano a coppa sull'occhio ferito, lamentandosi per il dolore pulsante e, non appena superò la linea dell'alta marea, cadde in ginocchio, si strappò dal perizoma una striscia di stoffa e la usò per fasciarsi la testa, annodandola strettamente sopra l'occhio per cercare di attenuare il dolore. Poi scrutò con un occhio solo la superficie ribollente della risacca. A cinquanta iarde di distanza, vide qualcosa di pallido affiorare in superficie e si accorse che era un braccio. Al di sotto, si notava una perturbazione dell'acqua, un movimento possente. Il braccio scomparve di nuovo, come se fosse stato risucchiato in basso. Mansur si alzò a fatica e si accorse che ben due squali si stavano cibando del corpo di Kadem. Se lo contendevano come fanno due cani con un osso: divorandolo, lo trascinavano nelle acque basse, dimenando la coda. Alla fine un'onda più grande delle altre spinse sulla spiaggia quell'ammasso di carni dilaniate, tutto ciò che restava di Kadem ibn Abubaker. Gli squali pattugliarono per qualche tempo la zona esterna della risacca, poi s'immersero in profondità e scomparvero di nuovo. Mansur andò a osservare i resti del nemico. Dal suo corpo erano state asportate grandi mezzelune di carne. L'acqua di mare aveva lavato il cadavere, e la cavità del ventre appariva come una sacca rosea e pulita, con le viscere che penzolavano, chiare e lucenti, dall'apertura. Eppure anche da morto Kadem aveva gli occhi fissi in uno sguardo malevolo e la bocca serrata in un ghigno di odio. «Ho compiuto il mio dovere», mormorò Mansur. «Forse ora l'ombra di mia madre potrà trovare la pace.» Smosse col piede il corpo mutilato. «Quanto a te, Kadem ibn Abubaker, metà delle tue carni si trova nel ventre della bestia, e non potrai mai trovare pace. Possa la tua sofferenza durare per l'eternità.» Voltandosi, guardò il mare e si rese conto che la battaglia era quasi conclusa. Tre dei dhow da guerra erano stati conquistati e, sugli alberi, garrivano ormai gli stendardi azzurri di al-Salil. I resti di un altro erano mescolati ai relitti dei mezzi di trasporto, che il martellare della risacca Wilbur Smith
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aveva ridotto a legna da ardere. L'Arcturus continuava l'inseguimento degli altri dhow da guerra in mare aperto, e i suoi cannoni rombavano, facendo da contrappunto all'abbordaggio. La Revenge inseguiva i trasporti in fuga, ma ormai quelle navi si erano disperse in una vasta zona dell'oceano. Poi vide la Sprite incrociare davanti alla foce del fiume e la chiamò con un cenno. Sapeva che il fedele Kumrah lo stava cercando e che anche a quella distanza avrebbe riconosciuto il colore dei suoi capelli. Quasi subito ebbe la prova che non sbagliava, vedendo la Sprite calare in mare una barca che doveva superare la zona della risacca per prenderlo a bordo. Aveva ancora la vista annebbiata, ma gli parve di riconoscere proprio Kumrah a prua della lancia. Mansur riportò lo sguardo sulla spiaggia. Gettate a riva dalle onde, e sparse per un raggio di oltre un miglio, c'erano le carcasse di uomini e cavalli annegati, provenienti dai dhow distrutti. Tuttavia una parte delle truppe nemiche era scampata al disastro. C'erano uomini accovacciati sulla spiaggia, da soli o riuniti in piccoli gruppi sconsolati, ma era chiaro che avevano perso ogni velleità. Ai margini della giungla si aggiravano cavalli senza cavaliere. Aveva perso in mare il pugnale, e si sentiva profondamente vulnerabile, mezzo cieco, nudo e disarmato. Tentando d'ignorare il dolore all'occhio, corse verso uno dei cadaveri più vicini. Era vestito con una tunica corta e aveva una spada fissata alla cintura. Mansur lo spogliò, s'infilò la tunica dalla testa, poi estrasse la scimitarra dal fodero per saggiarne la lama. Era di acciaio di Damasco finemente lavorato. Per provare il filo, si rasò qualche pelo dal polso e poi ripose di nuovo la lama nel fodero. Soltanto allora si accorse di un clamore lontano, che proveniva dal folto della giungla verde al di sopra della spiaggia. Non è ancora finita, capì. Proprio in quel momento sbucò dalla giungla un gruppo raccogliticcio di uomini. Si trovavano a circa duecento iarde di distanza, tra lui e la foce del fiume, ma erano un misto di arabi e turchi, sospinti verso la riva da un branco di guerrieri di Beshwayo. Le lance lampeggiarono alla luce del sole, affondando nella carne viva, e le grida di trionfo dei guerrieri si mescolarono alle urla e ai pianti disperati dei nemici. «Ngi dhla! Ho mangiato!» Mansur comprese allora di essere esposto a un nuovo pericolo. Quegli uomini erano in preda alla frenesia della caccia, e ben pochi erano in grado Wilbur Smith
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di riconoscere in Mansur un amico. Per loro era soltanto una delle tante facce pallide con la barba, e lo avrebbero trafitto con la stessa gioia che provavano a uccidere uno qualsiasi degli avversari. La sabbia umida lungo la riva era dura e compatta. Corse da quella parte, verso la foce del fiume. Gli arabi sopravvissuti alla battaglia, rendendosi conto che stavano per essere sospinti in mare e usati come un trastullo, in un soprassalto di orgoglio decisero di affrontare a faccia a faccia i loro nemici. Alle loro spalle c'era soltanto un varco stretto, eppure Mansur riuscì a superarlo, anche se il dolore all'occhio gli strappava un grugnito a ogni passo. Aveva quasi oltrepassato il punto critico, e la barca della Sprite aveva ormai superato la risacca per raggiungere acque calme, quindi avrebbe raggiunto la spiaggia prima di lui. In quel momento, udì un grido alle sue spalle e guardò indietro. Tre dei guerrieri neri lo avevano avvistato e, lasciando ai compagni gli arabi ormai circondati, si disponevano all'inseguimento, lanciando uggiolii eccitati come cani da punta che avvertono l'usta della lepre. Dalla lancia si levarono grida d'incoraggiamento. «Siamo qui, altezza! Correte, in nome di Dio!» Riconoscendo la voce, Mansur capì che a prua della barca c'era davvero Kumrah. Si mise a correre, ma la dura prova subita nella lotta in mezzo alla risacca e il dolore all'occhio lo avevano indebolito, e cominciò a udire il rumore dei piedi nudi dei guerrieri che risuonavano elastici sulla sabbia umida alle sue spalle. Gli pareva quasi di sentire l'acciaio di un assegai che gli perforava la pelle, conficcandosi tra le scapole. Kumrah, a bordo della barca, distava appena una trentina di passi, ma era come se fossero trenta leghe. Poteva udire il respiro roco di un uomo alle sue spalle. Doveva voltarsi a fronteggiarli e difendersi. Estrasse la scimitarra dal fodero e si girò di scatto. Il primo gli era così vicino che aveva già estratto l'assegai, tenendolo basso in vista del colpo micidiale. Tuttavia, vedendo che Mansur era di nuovo vigile, frenò la corsa e chiamò sottovoce i due compagni. Le corna del toro! Quella era la loro tattica preferita. Si disponevano a ventaglio ai lati e, in quel momento, Mansur era circondato. Da qualunque parte si fosse voltato, la sua schiena sarebbe stata esposta a una lama lunga. Prima che potesse incrociare le lame con gli avversari, sentì Kumrah gridare alle sue spalle. «Giù, altezza!» Senza esitare, Mansur si scaraventò lungo disteso sulla Wilbur Smith
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sabbia, mentre l'avversario lo dominava dall'alto, sollevando l'assegai. «Ngi dhla!» gridò. Quei guerrieri selvaggi non avevano ancora compreso del tutto l'efficacia di un colpo di moschetto a distanza ravvicinata. Prima che uno di loro potesse vibrare il colpo, un proietto lo colpì al gomito e il braccio si spezzò come un ramoscello. L'assegai gli volò via di mano e l'uomo indietreggiò, girando su se stesso, mentre un altro proietto si conficcava nel suo petto. Mansur rotolò subito per affrontare gli altri due guerrieri, ma uno era in ginocchio e si stringeva le mani sul ventre, mentre l'altro era supino e scalciava in modo frenetico, con mezza testa maciullata da un colpo di moschetto. «Venite, principe Mansur!» gridò Kumrah attraverso il velo di fumo che aveva circondato la barca. Quando si diradò, Mansur vide che la salva di colpi era partita da tutti gli uomini che si trovavano a bordo. Si rimise in piedi a fatica e, vacillando, raggiunse la barca. Tuttavia, dato che il pericolo mortale era passato, si accorse di non avere neppure la forza necessaria per scavalcare la falchetta. Allora molte mani forti si tesero per aiutarlo. Tom e Dorian erano inginocchiati a fianco a fianco sulla postazione dei cannoni, coi cannocchiali appoggiati sul parapetto, intenti a studiare la squadra navale di Zayn. I suoi bastimenti erano all'ancora sotto le mura del forte, dalla parte opposta della baia, e stavano sottoponendo le mura a un cannoneggiamento furioso. Dorian aveva meditato a lungo sulla sistemazione migliore dei lunghi cannoni da nove libbre. Dall'alto della piazzola potevano tenere sotto tiro tutta la baia e nessuna nave, una volta entrata, era al sicuro dalla loro minaccia. Certo, trascinare i cannoni fino a quel nido di aquile era stata una fatica degna di Ercole. Le pareti di roccia erano troppo alte e ripide, e i cannoni troppo pesanti, perché fosse possibile issarli direttamente dalla riva. Tom aveva aperto un sentiero nel folto della foresta, lungo la dorsale della cresta, e, usandola come una rampa, era riuscito a far trainare i cannoni da pariglie di buoi, finché non si erano trovati direttamente sopra A punto prescelto. Poi, legandoli saldamente col massiccio cavo usato per le ancore, li aveva calati fino alle postazioni nascoste. Una volta sistemati, i cannoni erano stati puntati verso i bersagli individuati intorno alla baia, ma i primi colpi erano finiti molto più in là, perdendosi nella foresta. Wilbur Smith
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Quand'erano stati soddisfatti della posizione scelta per i pezzi, avevano costruito la fornace a carbone, a cinquanta passi dalla santabarbara, per ridurre il rischio che le scintille dell'una si propagassero all'altra, e avevano rivestito la fornace con l'argilla del fiume. Per fabbricare i mantici avevano dovuto usare cinquanta pelli di bovino ben conciate, e ne avevano sigillato le cuciture con la pece. Era stata reclutata un'intera squadra di cuochi, uomini di fatica e garzoni per azionare i mantici e pompare aria nella fornace. Una volta raggiunta la temperatura massima, l'interno della fornace era così incandescente che era impossibile guardarla a occhio nudo. Dorian aveva affumicato una lastra di vetro con la fiamma di una lampada a olio per proteggersi gli occhi in modo da valutare quando il piombo usato per i proietti era abbastanza caldo. Ogni palla di cannone veniva poi estratta dalla fornace con una sorta di lunghe tenaglie. Gli uomini che facevano quel lavoro dovevano portare guanti e grembiuli di cuoio spesso per proteggersi dal calore, e deponevano ogni proietto, ancora incandescente, su un'apposita intelaiatura fornita di lunghi manici. Quei carrelli venivano poi trasportati da due uomini fino al cannone in attesa, con la canna sollevata fino al massimo dell'alzo. Una volta inserito in canna il proietto, non ci voleva molto perché asciugasse gli stoppacci umidi e accendesse spontaneamente la carica di polvere che c'era dietro. Una detonazione prematura, mentre la canna era puntata verso il cielo, avrebbe squarciato l'affusto, devastato la postazione di tiro e ucciso o mutilato i serventi del pezzo. Questo faceva sì che l'arco di tempo utile per puntare il cannone sul bersaglio e fare fuoco fosse molto ridotto. Poi si doveva ripetere daccapo tutto il procedimento, che era pericoloso e piuttosto lungo. Dopo alcuni colpi, la canna si surriscaldava fin quasi al punto di esplodere e il rinculo era mostruoso. Prima di poter inserire una nuova carica di polvere, occorreva bagnare la canna e versare secchi di acqua di mare nella bocca sfrigolante. Nel corso delle settimane precedenti, mentre attendevano l'arrivo della flotta di Zayn al-Din, Dorian aveva istruito gli artiglieri, allenandoli alla manovra e all'uso di quei proietti. Loro stessi avevano già incontrato e superato tutte quelle complicazioni, imparando a loro spese. Quella fase di preparazione era culminata nell'esplosione di uno dei cannoni: due uomini erano rimasti uccisi da schegge volanti della canna di bronzo. Da allora, i componenti della squadra di artiglieri provavano un profondo rispetto per Wilbur Smith
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le palle di cannone incandescenti, e nessuno di loro era troppo ansioso di usare davvero i tre pezzi rimasti. Il capo della squadra uscì dalla fornace per fare rapporto a Dorian con un'espressione seria, anzi timorosa. «Abbiamo dodici proietti pronti, potente califfo.» «Hai lavorato molto bene, Farmat, ma non sono ancora pronto ad aprire il fuoco. Mantieni calde le fornaci.» Lui e Tom si voltarono di nuovo per osservare l'azione che si stava svolgendo ai loro piedi. Il cannoneggiamento da parte delle navi di Zayn aveva steso su tutta la baia e sui margini della foresta una coltre di fumo, ma, nonostante quell'ostacolo, scorsero i difensori abbandonare il forte, fuggendo attraverso le porte principali. «Bene!» esclamò Dorian, soddisfatto. «Hanno eseguito gli ordini a puntino.» Era stato lui a ordinare una difesa formale del forte, unicamente per attirare la flotta di Zayn all'interno della baia. «Spero che si siano ricordati d'inchiodare i pezzi ai parapetti, prima di andarsene», brontolò Tom. «Non vorrei proprio che fossero rivoltati contro di noi.» Il fuoco si spense, e insieme osservarono le imbarcazioni cariche di truppe staccarsi dai dhow da guerra per puntare verso la spiaggia e occupare il forte ormai abbandonato. Tom e Dorian riconobbero Guy Courteney a prua della barca di testa. «L'onorevole console generale di sua maestà britannica in carne e ossa!» esclamò Dorian. «L'odore dell'oro era troppo forte perché potesse ignorarlo. È venuto a prenderlo di persona.» «Il mio caro gemello!» borbottò Tom. «Mi fa bene al cuore rivederlo dopo tanti anni. L'ultima volta che ci siamo visti stava tentando di uccidermi. A quanto pare, il tempo non ha operato molti cambiamenti, dopotutto.» «Non ci metterà molto a scoprire che la dispensa è vuota», osservò Dorian. «Quindi è ora di sbattere la porta alle loro spalle.» Chiamò il messaggero che attendeva con impazienza quella convocazione. Era uno degli orfani di Sarah, e si affrettò a raggiungerlo con un gran sorriso, fremendo dal desiderio di rendersi utile. «Scendi da Smallboy, e digli che è venuto il momento di chiudere la porta.» Dorian aveva appena finito di parlare, che già il ragazzo spiccava un balzo per scavalcare il muro e correre giù lungo il sentiero ripido. Lui Wilbur Smith
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ebbe appena il tempo di gridargli dietro: «Non farti vedere!» Smallboy e Muntu erano in attesa, con gli equipaggi di buoi già aggiogati al pesante cavo dell'ancora che passava attraverso l'entrata della baia, fino alle pile massicce di tronchi sulla riva opposta. Il cavo ancora lasco era posato sul fondo del canale, invisibile finché non fosse stato teso. I dhow da guerra vi erano passati sopra senza rendersene conto. La barriera mobile era composta di settanta tronchi enormi. Molti di essi erano stati tagliati l'anno precedente e accatastati nel cortile della segheria sul retro del forte, pronti per ricavarne assi, eppure, anche con quella riserva, mancavano venti tronchi per poter chiudere l'accesso al canale. Jim e Mansur avevano condotto nella foresta tutti gli uomini disponibili per tagliare altri alberi giganteschi, mentre i buoi di Smallboy li trascinavano giù fino alla spiaggia. Una volta laggiù, li fissavano per lungo al cavo dell'ancora che avevano preso dal ponte inferiore dell'Arcturus. Era un cavo di riserva per l'ancora del diametro di quasi venti pollici, che poteva resistere a una tensione di oltre trenta tonnellate. I tronchi, alcuni dei quali misuravano tre piedi di diametro e quaranta di lunghezza, erano stati infilati su quel cavo massiccio come perle sul filo di una collana. In questo modo avrebbero formato una barricata che, secondo i calcoli di Tom e Dorian, avrebbe resistito anche all'assalto del dhow più grande di Zayn. La possente collana di tronchi avrebbe squarciato la carena della nave prima che quest'ultima fosse riuscita a superarla. Non appena la flotta di Zayn fu avvistata dall'alto del promontorio roccioso, Smallboy e Muntu aggiogarono i buoi e li guidarono verso la riva meridionale dell'accesso al canale, tenendo gli equipaggi nascosti in mezzo al folto del bush e seguendo l'ingresso nella baia dei cinque grandi dhow a meno di un tiro di pistola dalla loro posizione. Giunto di corsa dalla postazione dei cannoni con l'ordine di Dorian, il giovanissimo messaggero ansimava ed era tanto eccitato da non riuscire a esprimersi in modo comprensibile. Smallboy dovette afferrarlo per le spalle e scrollarlo. «Mastro Klebe dice di chiudere la porta!» squittì alla fine il ragazzino. Smallboy fece schioccare la lunga frusta e le pariglie di buoi tesero i finimenti prima di avanzare, tirando l'estremità del cavo della barriera mobile. Non appena fu teso, il cavo affiorò alla superficie del canale e i buoi dovettero far forza contro le tirelle. La fila di tronchi rispose alla trazione, scivolando dalla riva opposta, dov'erano accatastati, per Wilbur Smith
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serpeggiare attraverso il canale. L'estremità della barriera raggiunse la riva settentrionale del canale, e Smallboy l'assicurò in gran fretta al fusto di un enorme albero di tambootie dal legno resistente come il ferro. L'imboccatura della baia era tappata, come se fosse chiusa da un turacciolo. Tom e Dorian rimasero a osservare Guy che guidava la spedizione sulla spiaggia, entrando nel forte ormai conquistato e scomparendo subito alla vista, poi puntarono i cannocchiali sull'entrata della baia e videro il massiccio cavo salire alla superficie del canale, teso grazie all'intervento dei buoi da tiro. «Possiamo caricare il primo cannone», ordinò Dorian agli artiglieri, che risposero senza eccessivo entusiasmo. Il comandante della postazione trasmise l'ordine al caposquadra della fornace. Ripescare dalla fornace il primo proietto era una faccenda piuttosto lunga e, nell'attesa, Tom teneva d'occhio il nemico. D'un tratto chiamò Dorian. «Guy è tornato ad affacciarsi al parapetto del forte. Deve avere scoperto il messaggio che gli ho lasciato nella stanza del tesoro», osservò, ridacchiando. «Persino a questa distanza vedo che sta per scoppiare di rabbia.» Poi la sua espressione cambiò. «E adesso che cosa frulla per la testa di quel piccolo porco ingegnoso? Sta tornando sulla spiaggia. Sella i cavalli che sono approdati. C'è una specie di discussione. Perdio, non ci crederai mai, Dorry! Guy ha appena sparato a uno dei suoi uomini.» Lo schiocco distante del colpo di pistola arrivò fin lassù, e Dorian lasciò il cannone per correre verso Tom. «È salito in sella.» «Prende con sé almeno venti uomini.» «Dove va, in nome del diavolo?» Seguirono con gli occhi il drappello di cavalieri guidati da Guy incamminarsi lungo la pista dei carri, e ci arrivarono entrambi nello stesso momento. «Ha visto le tracce dei carri.» «Sta inseguendo i carri e l'oro.» «Le donne e il piccolo Georgie! Sono insieme coi carri. Se Guy riesce a rintracciarli...» Tom s'interruppe bruscamente, perché l'idea era troppo dolorosa anche soltanto per formularla a voce alta. Poi aggiunse con amarezza: «È colpa mia. Avrei dovuto tener conto del fatto che Guy non si Wilbur Smith
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dà facilmente per vinto». «I carri avevano un vantaggio di molti giorni, e ormai saranno distanti alcune leghe.» «Soltanto venti miglia», lo smentì Tom, amareggiato. «Sono stato io a dir loro di arrivare soltanto alla gola del fiume, e formare lì il laager.» «È più colpa mia che tua», replicò Dorian. «La sicurezza delle donne doveva essere il mio primo pensiero. Che razza d'idiota sono stato!» «Bisogna che le raggiunga», disse Tom, balzando in piedi. «Devo impedire che cadano nelle grinfie di Guy.» «Vengo con te», esclamò Dorian, alzandosi. «No, no!» Tom lo respinse. «Le sorti dell'intera battaglia sono nelle tue mani. Non puoi lasciare il tuo posto di comando. Questo vale anche per Jim e Mansur. Non devono venirmi dietro. Posso sistemare il caro fratellino Guy senza il loro aiuto. Tu devi tenere i ragazzi qui con te finché il lavoro non sarà concluso. Dammi la tua parola, Dorry.» «Molto bene, Tom, ma devi prendere con te Smallboy e i suoi moschetti. Quando arriverai da loro, avranno già concluso il lavoro con la barriera mobile.» Gli diede un'affettuosa pacca sulla spalla. «Dovrai mettercela tutta per raggiungerli, e che Dio sia con te a ogni passo.» Tom superò con un salto la sponda del terrapieno, correndo verso il punto in cui erano legati i cavalli. Mentre Tom scendeva al galoppo lungo il sentiero, due uomini uscirono barcollando dalla fornace. Trasportavano, tenendola per le lunghe impugnature, l'intelaiatura metallica sulla quale era sospeso, come una mela matura, il proietto incandescente. Dorian poté lanciare soltanto un'occhiata al fratello maggiore che si allontanava, perché dovette affrettarsi a dirigere gli artiglieri mentre cominciavano il pericoloso procedimento necessario per introdurre il proietto nella bocca del cannone. Quando scivolò all'interno, lungo la canna liscia, due serventi lo calcarono contro lo stoppaccio umido, che cominciò a sfrigolare e sibilare. Dalla bocca del cannone, una volta riabbassata, si sprigionarono nuvole di vapore. Dorian azionò personalmente il meccanismo dell'alzo, non fidandosi di nessun altro per regolarlo, mentre altri due uomini spostavano la canna, orientandola secondo le sue indicazioni, mentre lui gridava: «A sinistra, un filo più a sinistra!» Infine, soddisfatto di avere esattamente al centro del Wilbur Smith
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mirino il più grande dei dhow nemici, gridò: «Allontanatevi!» e afferrò la leva del meccanismo d'innesco. Gli uomini obbedirono prontamente all'ordine. Dorian fece scattare l'innesco, e l'enorme cannone sussultò come un animale selvatico che scrolla le sbarre della sua gabbia. Seguirono tutti il volo del proietto incandescente che s'inarcava sulle acque della baia prima di ricadere verso il dhow all'ancora. Quando pensarono che avrebbe colpito il bersaglio, si levò un grido di trionfo, che tuttavia si trasformò subito in un gemito di delusione. Un alto zampillo di schiuma bianca si levò dall'acqua lungo lo scafo del dhow intatto. «Dovete inumidirlo a dovere!» ordinò Dorian. «Avete visto che cosa succede, se non lo fate.» Lasciando il riparo della piazzola di tiro, Dorian corse verso il secondo cannone. Il proietto successivo era stato già trasportato dalla fornace e i serventi attendevano soltanto lui. Prima che potessero caricare e puntare il pezzo, le cinque navi avevano salpato l'ancora e si erano dirette attraverso la baia in direzione del canale. Dorian meditò sulla mira da prendere. Aveva contrassegnato con la vernice bianca i vari angoli di elevazione sul meccanismo a vite, e gli uomini addetti ai martinetti regolarono la posizione della lunga canna. Poi lui fece fuoco. Stavolta tutti gli uomini sulla collina lanciarono un ruggito di trionfo, perché, anche a quella distanza, si vide benissimo la pioggia di scintille ardenti che segnalavano come il colpo fosse andato a segno. Poi apparve uno dei dhow, col fasciame squarciato. Dorian si precipitò verso il terzo cannone, lasciando i serventi degli altri due impegnati a ripulire la canna. Quando finirono di ricaricare, il dhow colpito ardeva come un falò. «Stanno cercando di sfondare la barriera!» gridò uno degli uomini, quando scorsero la nave in fiamme virare verso l'entrata del canale e lanciarsi contro la linea di tronchi galleggianti senza ridurre la velocità. Esultarono di nuovo nel vederla urtare contro la barriera. L'albero si spezzò, peggiorando il disastro e alimentando l'incendio, mentre gli uomini dell'equipaggio si gettavano in acqua. Dorian lavorava ai cannoni, caricando e puntando, immerso in un bagno di sudore. Per quanto i serventi raffreddassero i pezzi rovesciandovi sopra secchi d'acqua, il metallo continuava a crepitare come una padella rovente e, a ogni colpo, i cannoni rinculavano con violenza maggiore. In ogni modo, nell'arco di un'ora riuscirono a sparare altri venti colpi coi proietti incandescenti, e quattro dhow finirono in fiamme. La nave che aveva Wilbur Smith
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cercato di sfondare la barriera era stata completamente distrutta dall'incendio fino alla linea di galleggiamento, e un'altra vagava alla deriva nella baia, abbandonata dall'equipaggio che aveva raggiunto la riva. Altre due si erano arenate e gli uomini dell'equipaggio le avevano abbandonate alle fiamme per cercare riparo nella foresta, ben sapendo che la santabarbara delle navi era piena di barilotti di polvere nera. Finora soltanto il dhow più grande era sfuggito al fuoco che Dorian dirigeva da quella parte, però rimaneva bloccato nella baia e poteva incrociare soltanto nello specchio d'acqua rimasto libero. «Non potrai sfuggirmi per sempre», mormorò Dorian. Quando gli portarono il proietto successivo, ci sputò sopra per buon augurio. Lo schizzo di saliva, a contatto col metallo rovente, si dissolse in uno sbuffo di vapore e, nello stesso istante, sulla collina si abbatté una spaventosa onda d'urto di aria bollente. Colpì dolorosamente i loro timpani, e tutti guardarono sbigottiti verso la baia. Nel dhow alla deriva, la polvere immagazzinata nella santabarbara era esplosa, e una nuvola alta di fumo a forma di fungo ribolliva nel cielo, arrivando a un'altezza superiore alla cima della collina. Poi, come per empatia, uno dei dhow arenati esplose, con violenza ancora maggiore. L'esplosione si ripercosse attraverso la baia, sollevando onde spumeggianti e investendo la foresta al di sopra della spiaggia, schiacciando al suolo gli alberi più piccoli e spogliando dei rami i più grandi, oltre ad alzare un turbine di polvere, foglie e ramoscelli. Gli uomini che assistevano alla scena ammutolirono di fronte alla portata del danno che avevano causato. Non se la sentivano più di esultare. Rimasero a bocca aperta, sbigottiti. «Di navi ne resta ancora una», osservò Dorian, rompendo l'incantesimo. «Eccola lì, bella come una sposa il giorno delle nozze.» Puntò il dito contro il grande dhow che stava virando per tornare verso la spiaggia ai piedi del forte. I serventi sollevarono l'intelaiatura col proietto rovente, che fumava e sfrigolava, per lasciarlo scivolare nella bocca del cannone, ma, prima che potessero farlo, tutti gli uomini lanciarono un altro grido. «Si sta arenando! Sia lode a Dio e agli angeli, il nemico ne ha abbastanza.» Il comandante dell'ultimo dhow rimasto a galla aveva assistito alla sorte del resto della squadra e, senza tentare nuovamente la virata, si era diretto verso la spiaggia. All'ultimo momento, però, il dhow ammainò la vela e Wilbur Smith
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toccò la riva con una violenza tale da sfondare il fasciame del fondo. Lo scafo dalle linee aggraziate s'inclinò decisamente e rimase immobile, trasformandosi nell'arco di un istante in un relitto. L'equipaggio si allontanò in massa, abbandonando la nave al suo destino. «Basta così!» gridò Dorian, rivolto ai serventi. «Non ne abbiamo più bisogno.» Con evidente sollievo, gli uomini rovesciarono sul terreno il proietto arroventato. Da uno dei secchi pieni d'acqua potabile Dorian attinse un ramaiolo pieno che si rovesciò sulla testa, asciugandosi poi il viso con la piega del braccio. «Guardate!» gridò il caposquadra della fornace, puntando il dito verso il basso. Subito si levò un gran clamore tra i serventi dei cannoni. Avevano riconosciuto la figura alta, vestita di bianco, che scendeva dal dhow arenato sulla spiaggia e seguiva i suoi uomini verso il forte, con la sua caratteristica andatura claudicante. «Zayn al-Din!» strillarono. «Morte e dannazione al tiranno!» «Il potere e la gloria ad al-Salil.» «Allah ci ha dato la vittoria! Allah è grande!» «No», esclamò Dorian, salendo con un balzo sulla sommità del terrapieno, dove tutti potevano vederlo. «La vittoria non è ancora nostra. Come uno sciacallo ferito che si rifugia nella tana, Zayn al-Din ha trovato rifugio nel forte.» Si avvidero che i marinai nemici scampati alla distruzione delle altre navi uscivano furtivamente dalla foresta e poi, con maggiore baldanza, si affrettavano a seguire Zayn al-Din, riversandosi nel forte abbandonato. «Dobbiamo stanarlo col fumo», disse Dorian, scendendo con un balzo dal muro per dare in fretta gli ordini ai comandanti delle postazioni di tiro. «Non c'è più bisogno dei proietti roventi. Usate proietti normali, ma continuate a bersagliare le mura del forte a ritmo costante, senza dare tregua agli occupanti. Intanto io scendo a radunare tutti gli uomini per assediare il forte. Non hanno cibo né acqua. Non abbiamo lasciato polvere nella santabarbara e ai pezzi sui parapetti sono stati messi fuori uso. Zayn non potrà resistere più di un giorno o due.» Uno stalliere gli aveva già sellato il cavallo e Dorian scese verso la baia insieme con tutti gli uomini che non erano indispensabili per servire i pezzi. Quelli che avevano rinunciato alla difesa puramente formale del Wilbur Smith
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forte li aspettavano in fondo alla discesa per ingrossare i ranghi. Dorian li mandò a circondare l'edificio, per evitare che qualche nemico potesse fuggire. Vedendo arrivare Muntu dalla parte della foresta, in direzione del canale di accesso, gli andò incontro. «Dov'è Smallboy?» «Ha preso con sé dieci uomini per andare con Klebe a seguire la pista dei carri.» «Hai aperto la barriera galleggiante, in modo che le nostre navi possano rientrare nella baia?» «Sì, padrone. Il canale è libero.» Dorian sollevò il cannocchiale per controllare l'accesso e vide che Muntu aveva reciso il cavo, permettendo alla corrente di spingere di lato la barriera di tronchi. «Ben fatto, Muntu. Ora va' a prendere i buoi», aggiunse, indicando la spiaggia sulla quale si era arenato il dhow di Zayn. «Smonta i cannoni da quella nave e trascinali intorno al forte, in modo da prenderlo di mira. Martelleremo il nemico da tutti i lati. Apri una breccia nelle mura, così, quando arriverà Jim con gli impi di Beshwayo, potranno assaltare il forte e chiudere la faccenda.» Verso la fine del pomeriggio, i cannoni smontati dal dhow arenato erano stati trainati in posizione dai buoi e i primi colpi cominciavano a staccare dalle mura del forte zolle di terra e assi in frantumi. Il cannoneggiamento proseguì tutta la notte, senza concedere tregua al nemico assediato. All'alba, la Sprite entrò nella baia attraverso il canale, seguita dall'Arcturus e dalla Revenge, che guidavano la flotta di dhow e di trasporti requisiti a Zayn. Le navi da guerra gettarono l'ancora e puntarono subito tutti i cannoni sul forte. I pezzi da nove libbre a canna lunga in cima al promontorio e i cannoni ricavati dalle navi di Zayn lo stavano già bersagliando. Tutte insieme, sottoponevano le mura a un cannoneggiamento spaventoso. La Revenge aveva appena gettato l'ancora, quando Mansur scese a terra. Dorian lo aspettava sulla spiaggia per salutarlo e, vedendo il figlio con la testa bendata, si precipitò verso di lui per chiedergli con ansia: «Sei ferito. È grave?» «Un semplice graffio sull'occhio», minimizzò lui. «È quasi guarito», gli assicurò. «Ma Kadem, che mi ha inflitto questa ferita, è morto.» «E com'è morto?» chiese Dorian, tenendolo davanti a sé a braccia tese e Wilbur Smith
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fissandolo negli occhi. «Di coltello, come ha assassinato mia madre.» «Lo hai ucciso tu?» «Sì, padre. L'ho ucciso io, e non è stata una morte facile. Mia madre è vendicata.» «No, figlio mio. Ce n'è ancora uno. Zayn al-Din resiste, asserragliato nel forte.» «Possiamo avere la certezza che sia lì? L'hai visto coi tuoi occhi?» Fissarono entrambi le difese ormai semidistrutte del forte, lungo la spiaggia. Si potevano quasi distinguere le teste dei pochi difensori dietro i parapetti, anche se Zayn non aveva artiglieria e quasi tutti i suoi uomini erano rannicchiati al riparo delle mura. Il suono sordo dei loro moschetti era una risposta del tutto inadeguata al rombo dei cannoni. «Sì, Mansur, l'ho visto. Non me ne andrò di qui senza che anche lui abbia pagato sino in fondo il suo delitto, andando a raggiungere il suo servo Kadem ibn Abubaker all'inferno.» Sentirono entrambi un rumore nuovo, dapprima fioco, ma via via sempre più forte. Dalla foresta, a circa mezzo miglio dalla baia, giungeva al trotto una colonna di uomini piuttosto nutrita, che marciava in formazione militare. Come la schiuma bianca sulla cresta di un'onda scura, le piume dei copricapi oscillavano al ritmo del passo. Il sole del primo mattino scintillava sugli assegai e sul petto unto dei guerrieri. Avanzavano intonando un canto di guerra con le loro voci profonde che rimescolavano il sangue e si facevano sentire al di sopra del tetto di vegetazione della foresta. In testa all'avanguardia della colonna c'era un cavaliere isolato, che montava uno stallone scuro, con la lunga criniera e la coda di colore nero che ondeggiavano al vento del piccolo galoppo. «Jim in sella a Drumfire», esclamò Mansur con una risata. «Grazie a Dio è sano e salvo.» All'altezza della staffa di Jim trotterellava una figura minuscola, mentre dall'altra parte correva un gigante nero. «Bakkat e Beshwayo!» disse Dorian. Mansur corse incontro a Jim, che si protese dalla sella per abbracciarlo con calore. «Cos'è questo straccio che porti, cugino? Hai lanciato una nuova moda? Non ti dona affatto, lascia che te lo dica.» Poi si girò verso Dorian, che teneva ancora un braccio intorno alle spalle di Mansur. «Zio Dorry, dov'è mio padre?» Dalla sua espressione trasparì la paura. «Non sarà ferito o morto, vero? Ditemi la verità, vi prego.» Wilbur Smith
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«No, Jim caro, sta' tranquillo. Il nostro Tom è indistruttibile. Non appena ha concluso il suo lavoro, qui, è andato a occuparsi delle donne e del piccolo George.» Dorian sapeva che, se avesse detto loro la verità sull'intervento di Guy, non avrebbe potuto mantenere la promessa fatta a Tom di tenere i ragazzi con sé: si sarebbero precipitati subito a difendere le loro donne. Per coprire quel piccolo inganno, si affrettò a domandargli: «Ma com'è andata la battaglia, dalla vostra parte?» «È finita, zio Dorry. Herminius Koots, che comandava le truppe nemiche, è morto. Ho provveduto io stesso, e Beshwayo ha ripulito la foresta dei suoi uomini. L'inseguimento ha richiesto tutta la giornata di ieri e gran parte della notte. Hanno seguito alcuni turchi per una lega intera fino alla spiaggia, prima di raggiungerli.» «Dove sono i prigionieri?» chiese Dorian. «Beshwayo non comprende il significato di questa parola, e io non sono riuscito a educarlo», rispose Jim, ridendo. Ma Dorian non rise con lui. Poteva immaginare quale massacro fosse avvenuto nella foresta, e gli rimordeva la coscienza. Gli uomini morti sotto i colpi di assegai erano suoi sudditi, e lui non poteva gioire della loro morte. La collera che provava nei confronti di Zayn al-Din divampò: quello era un altro tributo di sangue pagato a causa dell'usurpatore. E lui doveva farglielo ripagare con gli interessi. Ancora euforico per la selvaggia emozione del combattimento e inebriato da quell'assaggio di vittoria, Jim non badò all'espressione dello zio. «Guardatelo», disse, indicando Beshwayo che stava già schierando gli impi davanti alle mura del forte. I cannoni avevano aperto una grossa breccia e il re camminava avanti e indietro davanti ai guerrieri schierati, dimenando l'assegai in direzione della breccia e arringando i guerrieri. «Figli miei, alcuni di voi non si sono ancora guadagnati il diritto alle nozze. Non vi ho già offerto opportunità sufficienti? Siete stati troppo lenti o sfortunati?» Fece una pausa, fissandoli con aria truce. «Oppure avete avuto paura? Vi siete pisciati addosso quando avete visto il banchetto che ho preparato per voi?» Gli impi negarono con rabbia. «Abbiamo ancora sete. Abbiamo ancora fame.» «Dacci da mangiare e da bere, Grande Toro Nero.» «Siamo i tuoi fedeli cani da caccia. Facci correre, grande re!»
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«Prima che Beshwayo possa mandare i suoi impi all'assalto della breccia, devi ordinare alle batterie di cessare il fuoco, per non mettere in pericolo i suoi uomini», suggerì Jim a Dorian. Dorian inviò i messaggeri ai comandanti delle postazioni, con l'ordine di cessare il fuoco, e le batterie obbedirono. Il messaggio impiegò di più ad arrivare ai cannoni in cima al promontorio, ma alla fine li raggiunse e sulla baia calò un silenzio teso. L'unico movimento era l'ondeggiare dei copricapi di piuma dei guerrieri di Beshwayo. I difensori arabi sui parapetti guardarono dall'alto quello schieramento minaccioso davanti alle mura. Persino i colpi sporadici di moschetto cessarono e gli uomini rimasero a guardare la morte che li attendeva, immersi in un silenzio smarrito. Poi, bruscamente, un corno risuonò dalle mura del forte. Le schiere di guerrieri si agitarono, irrequiete. Dorian puntò il cannocchiale sul parapetto, dove una bandiera garriva al vento. «Un segno di resa?» Jim sorrise. «Beshwayo non capisce neanche questa parola. La bandiera bianca non salverà nessuno degli uomini che si trovano tra quelle mura.» «Non è un segno di resa.» Dorian richiuse il cannocchiale. «Conosco l'uomo che agita quella bandiera. Si chiama Rahmad, ed è uno degli ammiragli di Oman, un buon marinaio e un uomo coraggioso. Non poteva scegliersi il padrone da servire. Non vuole arrendersi; vuole parlamentare.» Jim scosse la testa, spazientito. «Non potrò tenere a freno Beshwayo ancora per molto. Che cosa c'è da parlamentare?» «Ho intenzione di scoprirlo», disse Dorian. «Diamine, zio, non puoi fidarti di Zayn al-Din. Potrebbe essere una trappola.» «Ha ragione Jim, padre», esclamò Mansur. «Non metterti nelle mani di Zayn.» «Devo parlare con Rahmad. Se ci fosse anche solo una probabilità di mettere fine subito a questo spargimento di sangue, e salvare la vita di quei poveri disgraziati intrappolati nel forte...» «Allora devo venire con te», disse Jim. «Anch'io.» Mansur gli si affiancò. L'espressione di Dorian si addolcì, mentre posava una mano sulla spalla di ciascuno. «Restate qui, tutti e due. Avrò bisogno di qualcuno che mi Wilbur Smith
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vendichi, se le cose dovessero andare male.» Abbassando le braccia, si slacciò la cintura della spada, consegnando l'arma a Mansur. «Tienila per me.» Poi guardò Jim. «Sei in grado di trattenere ancora per qualche tempo il tuo amico Beshwayo e i suoi cani da caccia?» «Fa' presto, zio. Beshwayo non è famoso per la sua capacità di sopportazione. Non so per quanto ancora potrò trattenerlo.» Jim si diresse con Dorian verso Beshwayo, fermo davanti ai suoi impi, e gli rivolse la parola in tono serio. Infine il re assentì e Jim disse a Dorian: «Beshwayo accetta di aspettare il tuo ritorno». Dorian passò tra le colonne di impi di Beshwayo, e gli uomini gli fecero ala, riconoscendo il suo valore. Dorian si diresse verso le mura con un incedere calmo e solenne, fermandosi entro la portata di un colpo di pistola e alzando gli occhi verso la figura affacciata al parapetto. «Parla, Rahmad!» ordinò. «Vi ricordate di me?» Rahmad sembrava stupito. «Ti conosco bene, altrimenti non mi sarei fidato. Sei un uomo d'onore.» «Maestà!» Rahmad s'inchinò profondamente. «Potente califfo.» «Se mi chiami così, perché combatti contro di me?» Per un istante, Rahmad parve sopraffatto dalla vergogna, poi alzò la testa. «Non parlo soltanto per me, bensì a nome di tutti gli uomini che si trovano entro queste mura.» Dorian alzò la mano per interromperlo. «Questo è strano, Rahmad. Tu parli a nome degli uomini? Non parli per conto di Zayn al-Din? Spiegami.» «Potente al-Salil, Zayn al-Din è...» Rahmad cercò le parole giuste. «Abbiamo chiesto a Zayn al-Din di dimostrare a noi e a tutto il mondo che è lui, e non voi, il vero califfo di Oman.» «E in quale modo può dimostrarlo?» «Alla maniera tradizionale, quando due uomini accampano uguali diritti al trono. Al cospetto di Dio, e di fronte a questa schiera di uomini armati, abbiamo chiesto a Zayn al-Din di affrontarvi a duello per dimostrare la legittimità del suo diritto.» «Proponete un duello tra noi?» «Noi abbiamo prestato giuramento di fedeltà a Zayn al-Din e non possiamo consegnarvi la sua persona. Ci siamo impegnati a difenderlo a prezzo della vita. Tuttavia, se fosse sconfitto in un duello tradizionale, Wilbur Smith
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saremmo sciolti dal giuramento, e diventeremmo volentieri vostri sudditi.» Dorian capiva il loro dilemma. Tenevano prigioniero Zayn al-Din, ma non potevano giustiziarlo o consegnarlo. Era lui che doveva uccidere Zayn, confrontandosi col suo nemico in un duello. L'unica alternativa sarebbe stata permettere a Beshwayo di massacrare Rahmad e tutti gli uomini di Oman. «Perché dovrei espormi a un simile pericolo? Tu e Zayn al-Din siete in mio potere», replicò, indicando i ranghi serrati dei guerrieri neri di Beshwayo. «Per quale motivo non dovrei ordinare loro di massacrarvi tutti qui e subito?» «Un uomo meno nobile di voi potrebbe farlo. Io so che non lo farete, perché siete figlio del sultano Abd Muhammad al-Malik. Non vorrete infangare il nostro onore o il vostro.» «Quello che dici è vero, Rahmad. È mio destino unire il regno di Oman, non dividerlo. Devo affrontare quel destino con onore. Mi batterò contro Zayn al-Din per il califfato.» Gli anziani e i capi di Oman delimitarono con cenere bianca il teatro del duello, sul terreno compatto e indurito dal sole della spianata sotto le mura del forte. Era un circolo del diametro di venti passi. Tutti gli arabi che avevano combattuto agli ordini di Zayn al-Din ed erano in trappola nel forte si affacciarono ai parapetti. Le forze di Dorian, compresi gli equipaggi dei dhow catturati che gli avevano giurato fedeltà, erano schierate dalla parte opposta. Jim aveva spiegato le regole e lo scopo del duello a Beshwayo, che ne era entusiasta. Non si sentiva più defraudato del diritto di attaccare il forte e spazzare via i difensori, perché quello scontro era un avvenimento ancor più avvincente. «È un bel modo di risolvere una disputa, Somoya. Rispecchia in pieno lo spirito del guerriero. Lo adotterò anch'io, in futuro.» L'intero esercito si era accovacciato in bell'ordine dietro le legioni di Dorian. Il parapetto delle mura e la pendenza del terreno consentivano a tutti i presenti di avere una buona visuale del terreno del duello. Dorian, fiancheggiato da Jim e Mansur, era davanti a quello schieramento, rivolto verso la porta chiusa del forte. Indossava una semplice tunica bianca ed era a piedi nudi. In base alle regole della prova, era disarmato. Il corno fece sentire la sua voce e le porte si aprirono. Ne uscirono quattro uomini, che scesero lungo il pendio. Indossavano la mezza Wilbur Smith
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armatura, l'elmo di bronzo e la cotta di maglia, con gli schinieri per proteggere le gambe. Erano tutti uomini massicci, con gli occhi gelidi e il viso brutale. Erano i carnefici della corte di Oman; torture e morte erano la loro vocazione. Presero posto intorno al cerchio, in corrispondenza dei quattro punti cardinali, appoggiandosi all'elsa delle spade sguainate. Ci fu una pausa, seguita da un altro richiamo del corno, e dal pendio scese un secondo corteo, guidato dal mullah Khaliq. Dietro di lui venivano Rahmad e altri quattro capi delle tribù del deserto. Infine apparve la figura alta e claudicante di Zayn al-Din, scortato da cinque uomini armati, che si fermarono tutti dalla parte opposta del campo, di fronte a Dorian. Rahmad avanzò al centro del terreno. «Nel nome dell'unico Dio e del suo vero Profeta siamo qui riuniti oggi per decidere il destino della nostra nazione. Al-Salil», disse, inchinandosi a Dorian, «e Zayn al-Din!» Si girò, inchinandosi anche a lui. «Quest'oggi uno di voi morirà e l'altro salirà sul Trono dell'Elefante di Oman.» Tese le mani in fuori e i due capi che lo affiancavano gli porsero una coppia di scimitarre. Rahmad conficcò la punta di una delle due armi nel terreno appena oltre la linea bianca che lo delimitava, poi attraversò il terreno per conficcare l'altra scimitarra esattamente di fronte. «Soltanto uno di voi potrà uscire vivo dal campo. I quattro arbitri», aggiunse, indicando i carnefici in attesa, «hanno l'ordine tassativo di uccidere chiunque si allontani o sia gettato fuori di questa linea di cenere», spiegò, toccando la linea con la punta del sandalo. «E ora, mullah Khaliq, vogliate guidare la preghiera per invocare l'aiuto divino in questa intricata questione.» La voce del mullah risuonò nel silenzio, mentre lui raccomandava i combattenti ad Allah e al loro destino. Dorian e Zayn si fissavano. I volti erano inespressivi, ma gli occhi ardevano di odio e di rabbia. Il mullah concluse la preghiera dicendo: «In nome di Allah, cominciamo!» «In nome di Allah, preparatevi!» gridò Rahmad. Jim e Mansur sollevarono la tunica di Dorian, aiutandolo a sfilarsela dalla testa. Indossava soltanto un perizoma bianco e la pelle, dove non era stata sfiorata dal sole, era liscia e bianca come latte appena munto. Contemporaneamente la scorta aiutò Zayn a spogliarsi. Era coperto anche lui da un perizoma, e aveva la pelle del colore dell'avorio antico. Era più vecchio di lui di due anni soltanto - Dorian lo sapeva bene -, dunque erano entrambi sui quarantacinque anni, e gli effetti del tempo cominciavano a notarsi sui loro corpi. Avevano qualche filo bianco nella barba e nei Wilbur Smith
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capelli, oltre allo stomaco appesantito. In ogni caso, le membra erano snelle e sode, e i loro movimenti erano agili, mentre entravano sul terreno dello scontro. Anche l'impedimento al piede di Zayn sembrava più un elemento sinistro che una vera menomazione. Avevano più o meno la stessa altezza, ma Zayn era più robusto, con l'ossatura più massiccia e le spalle più larghe. Sin dall'infanzia, erano stati addestrati entrambi alle arti del combattimento, ma, fino ad allora, si erano scontrati una sola volta. Tuttavia, a quell'epoca, erano bambini, e il mondo intorno a loro era assai cambiato. Rimasero immobili, l'uno fuori della portata dell'altro. Nessuno dei due parlò, anche se si studiavano con attenzione. Rahmad si avvicinò, portando con sé un tratto di cordicella di seta, leggera come la garza ma forte come l'acciaio. Ne aveva misurato la lunghezza, tagliandola esattamente più corta di cinque passi rispetto al diametro del terreno dello scontro. Si rivolse prima a Zayn e, pur sapendo benissimo che era mancino, gli chiese in tono formale: «Quale mano?» Rifiutandosi di rispondere, Zayn tese la mano destra, e Rahmad gli legò intorno al polso un capo della cordicella. Era un marinaio, e il nodo non avrebbe mai ceduto, né si sarebbe irrigidito, resistendo invece come una catenella d'acciaio. Rahmad si avvicinò a Dorian reggendo l'altro capo della cordicella, e Dorian gli porse la mano sinistra, che lui legò con lo stesso nodo. I duellanti erano legati e soltanto la morte di uno dei due poteva separarli, ormai. «Osservate le spade!» ordinò Rahmad, e ciascuno dei due lanciò un'occhiata alla scimitarra che si trovava alle sue spalle, sul perimetro del terreno. La cordicella di seta era troppo corta perché potessero afferrare l'arma nel contempo. «Uno squillo del corno darà inizio alla contesa, ma soltanto la morte vi porrà fine», cantilenò Rahmad, lasciando il campo insieme coi quattro capitribù. Allora scese un silenzio terribile. Anche la brezza parve fermarsi e lo stridio dei gabbiani s'interruppe. Rahmad guardò il suonatore di corno sul parapetto, alzando la mano. L'uomo accostò lo strumento alla bocca e Rahmad abbassò la mano. Lo squillo echeggiò come un singhiozzo sulle pareti di roccia del promontorio e, quando tutti gli spettatori gridarono all'unisono, un'onda gigantesca di suono investì il terreno dello scontro. Nessuno dei due contendenti si mosse. Continuavano a fronteggiarsi, tendendo la cordicella ciascuno dalla propria parte, valutando la resistenza, Wilbur Smith
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giudicando il peso e la forza dell'avversario come fa un pescatore quando soppesa un pesce appena catturato. Nessuno dei due poteva raggiungere la scimitarra senza costringere l'altro a cedere terreno. Tendevano entrambi la corda, in silenzio. D'un tratto Dorian scattò in avanti, e Zayn arretrò, sentendo la corda allentarsi. Poi girò su se stesso per correre verso l'arma. Dorian notò con tetra soddisfazione il lieve impaccio dell'avversario quando appoggiava il peso sul piede menomato, e lo rincorse, approfittando del fatto che la cordicella si allentava per guadagnarne un tratto. Riuscì a raggiungere il centro dell'arena, accorciando la cordicella che li separava quasi della metà. Dalla posizione che occupava, dominava la scena del duello, ma per ottenere quel risultato aveva sacrificato terreno prezioso. Infatti Zayn si era già proteso verso l'elsa della sua scimitarra; Dorian, però, avvolse un tratto di cordicella intorno al polso e piantò saldamente i piedi sul terreno, ancorando la corda. L'altro rimbalzò verso di lui con tanta forza da appoggiarsi sul lato meno solido, perdendo l'equilibrio per un attimo. Dorian ne approfittò per strattonarlo all'indietro e guadagnare un altro braccio di cordicella. A quel punto, cambiò bruscamente l'angolo di trazione, trasformandosi nel fulcro intorno al quale ruotava Zayn. Come la pietra all'estremità di una fionda, sfruttò la forza d'inerzia della rotazione per lanciare l'avversario verso la linea bianca, direttamente contro uno dei giustizieri che era appostato con la spada sguainata, pronto a colpirlo. Ma, proprio quando sembrava che dovesse uscire dai confini dell'arena, Zayn riuscì a fare presa sul terreno con la gamba più forte e a controllare l'effetto fionda. Si fermò proprio sulla linea, sollevando uno sbuffo di cenere, ma riuscì a non superarla, mentre il giustiziere era fermo alle sue spalle, con la spada sollevata per colpire. Ormai la corda si era allentata e l'effetto impressole da Dorian si era smorzato. Allora lui si scagliò in avanti per urtare Zayn con la spalla e spingerlo ancora di una iarda più indietro, oltre la linea, ma l'avversario lo vide arrivare e si preparò per accoglierlo, puntando le gambe e abbassando le spalle. L'urto fu così violento da lasciarli entrambi scossi, immobili come statue di marmo, sebbene ansimassero e grugnissero. Dorian spinse il taglio della mano destra sotto il mento di Zayn, forzandogli la testa all'indietro. L'altro inarcò lentamente la spina dorsale, oltre la linea, e il giustiziere avanzò di un passo, apprestandosi a colpirlo. Ma Zayn emise un sibilo, facendo appello all'ultimo residuo di forza che gli restava. Il suo viso si oscurò e si Wilbur Smith
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gonfiò per lo sforzo, eppure, a poco a poco, riuscì a raddrizzarsi e spinse indietro Dorian di un passo. Il frastuono era assordante. Mille voci parlavano contemporaneamente e i guerrieri di Beshwayo danzavano, tamburellando sugli scudi. L'arena fu sommersa da un uragano di suoni. Zayn fece valere il suo peso maggiore, forzando a poco a poco l'ascella di Dorian con la spalla, e poi, scattando all'improvviso verso l'alto, lo sollevò di peso, privandolo della possibilità di esercitare presa e trazione. Le piante dei piedi nudi scivolarono nella polvere e Dorian fu sospinto indietro prima di una iarda, poi di due, costretto a mettere in gioco tutta la sua forza contro la spinta di Zayn. Di scatto quest'ultimo si tirò indietro, e Dorian barcollò in avanti, perdendo l'equilibrio. Scattando fulmineo come una lucertola sul piede menomato, Zayn si allontanò, puntando verso la scimitarra conficcata al suolo. Dorian tentò di recuperare la corda per bloccarlo di nuovo, ma, prima che riuscisse a far presa, Zayn aveva già raggiunto l'arma e afferrato saldamente l'elsa. Dorian lo tirò indietro di scatto, tuttavia Zayn assecondò il suo movimento, avventandosi contro di lui con la lama puntata alla gola. Dorian riuscì a schivare il colpo di un soffio, abbassandosi. Erano ancora legati da quella specie di cordone ombelicale di seta. Zayn rideva silenziosamente, ma il suo era un riso privo di gioia. Caricò per burla Dorian, costringendolo a piegarsi all'indietro per schivare e, non appena ebbe ottenuto che la corda si allentasse, scattò verso il punto in cui era conficcata la spada dell'avversario, all'altro capo dell'arena. Prima che Dorian riuscisse a tendere di nuovo la cordicella, Zayn aveva afferrato anche la seconda arma, strappandola dal terreno e voltandosi ad affrontarlo con una scimitarra in ogni mano. La folla rimase in silenzio, osservando affascinata e inorridita Zayn che cominciava a braccare Dorian lungo il perimetro dell'arena, mentre i giustizieri lo seguivano alle spalle, aspettando che mettesse un piede all'esterno della linea. Osservandolo con attenzione, Dorian si accorse che, sebbene preferisse usare la sinistra, Zayn era quasi ambidestro. Quasi a darne una dimostrazione, infatti, eseguì un affondo dalla parte destra, puntando alla testa di Dorian. Lui schivò il colpo, spostandosi di lato, e l'avversario lo colpì d'incontro con la sinistra. Dorian non riuscì a evitarlo e, per quanto si torcesse di lato, la punta gli ferì le costole e la folla vide sprizzare il sangue. Mansur si aggrappò al braccio di Jim con tanta forza da conficcargli le Wilbur Smith
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unghie nella pelle. «È ferito. Dobbiamo smettere.» «No, cugino», ribatté Jim a bassa voce. «Non possiamo intervenire.» I duellanti nell'arena continuavano a girare l'uno intorno all'altro, come se la cordicella che li univa fosse il raggio di una ruota. Dorian teneva ancora tra le mani un tratto di corda lenta, mentre Zayn fremeva per l'ansia di uccidere, con la bocca tremante e gli occhi accesi da una luce fosca. «Sanguina, maiale, e quando avrai versato fino all'ultima goccia di sangue, taglierò il tuo cadavere in cinquanta pezzi e ne manderò uno in tutti gli angoli più remoti del mio impero, in modo che tutti sappiano qual è la pena per il tradimento.» Dorian non replicò. Continuando a tenere la sua estremità della cordicella sospesa tra le dita della mano destra, spiava gli occhi di Zayn, cercando d'intuire il momento del nuovo attacco. Zayn eseguì una finta con la gamba claudicante, poi scattò in avanti dal lato sano. Era esattamente quello che Dorian aveva previsto. Raccogliendo la cordicella in modo da formare un anello con la parte lenta, lo scagliò in avanti con una torsione fulminea del polso, come una frusta. La cordicella di seta colpì Zayn all'occhio destro con tale violenza che i vasi sanguigni esplosero, la pupilla e la cornea si squarciarono e, in un attimo, il globo oculare si trasformò in un tremolante sacchetto roseo. Zayn lanciò un urlo stridulo come quello di una bambina, poi lasciò cadere le scimitarre per portarsi all'occhio ferito le mani e rimase così, immobile al centro dell'arena, gridando di dolore. Dorian si chinò per raccogliere una delle scimitarre e, rialzandosi con la grazia di un danzatore, la conficcò nel ventre di Zayn. Sulle labbra di Zayn, l'urlo si spense. Una mano rimase serrata sull'occhio, mentre l'altra scendeva alla cieca in cerca dello squarcio aperto nel ventre, da cui uscivano gorgogliando sangue, gas intestinali ed escrementi. Cadendo in ginocchio, chinò la testa. Il collo era curvo in avanti, e Dorian alzò la scimitarra prima di calarla con un gesto secco. L'aria vibrò sulla lama, con la tenerezza del richiamo di una tortora, e l'acciaio trovò quasi senza esitare la giuntura tra le vertebre, recidendola di netto. La testa di Zayn si staccò dal collo, cadendo sul terreno indurito dal sole, mentre il corpo rimase inginocchiato ancora per un attimo, con le arterie recise che zampillavano, poi si accasciò in avanti. Dorian si piegò su di lui, afferrandolo per un ciuffo dei capelli e sollevando poi la testa recisa. Gli occhi erano spalancati e guardavano in Wilbur Smith
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tralice, con un'espressione sinistra. «Così vendico la principessa Yasmini. Così rivendico il Trono dell'Elefante di Oman», gridò Dorian, trionfante, e mille voci si unirono al grido. «Viva al-Salil! Viva il califfo!» Gli impi di Beshwayo balzarono in piedi e, guidati dal re in persona, pronunciarono con voce tonante il saluto riservato ai sovrani: «Bayete, Inkhosi! Bayete!» Dorian abbassò la testa, indebolito dalla ferita, che gli procurava le vertigini. Il sangue continuava a scorrere dal fianco e lui sarebbe caduto, se Mansur e Jim non fossero entrati nell'arena per sorreggerlo, uno per parte. Lo trasportarono quasi di peso al forte. Le stanze erano state spogliate dei mobili, ma lo portarono comunque nella sua camera, deponendolo sul pavimento. Mansur ordinò a Rahmad di chiamare il medico personale di Zayn al-Din, che si era preparato a essere convocato e accorse subito. Mentre ripuliva la ferita e la cuciva con un filo di minugia, Dorian continuò a parlare a bassa voce con Mansur e Jim. «Tom mi ha fatto promettere che non vi avrei parlato di questo finché lo scontro non fosse concluso. Ora mi ritengo sciolto da quella promessa. Non appena i nostri difensori hanno abbandonato il forte, nostro fratello Guy è sceso a terra con un plotone di uomini armati. Sono entrati nel forte, ma, quando Guy ha scoperto che avevamo svuotato la camera del tesoro, si è affacciato al parapetto e ha visto le tracce dei carri. In quel momento deve aver capito in quale modo avevamo portato via l'oro. Zayn aveva già sbarcato i cavalli sulla spiaggia e Guy, dopo aver requisito delle cavalcature per sé e per venti uomini, è partito per seguire la pista. Senza dubbio ha intenzione d'impadronirsi dei carri.» I due giovani si scambiarono un'occhiata sbigottita. Jim fu il primo a ritrovare la voce. «Le donne! Il piccolo Georgie!» «Non appena ci siamo accorti dell'accaduto, Tom ha preso Smallboy e i suoi uomini armati di moschetto per dare la caccia a Guy.» «Oh, mio Dio!» gemette Mansur. «Questo è successo ieri, ma chissà che cos'è accaduto da allora. Perché non ce lo hai detto prima?» «Te l'ho spiegato... Però ormai mi ritengo sciolto dalla promessa fatta a Tom.» Quando si rivolse a Mansur, Jim aveva la voce incrinata dall'ansia per Sarah, Louisa e George: «Sei con me, cugino?» Wilbur Smith
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«Posso andare, padre?» «Ma certo, figlio mio. Tutte le mie benedizioni sono con te», rispose Dorian. Mansur si alzò di scatto. «Sono con te, cugino!» Corsero verso la porta, mentre Jim chiamava a gran voce Bakkat. «Sella Drumfire. Partiamo subito.» Oltre a trovarsi a distanza di sicurezza dalla costa, la gola tra le colline era un posto delizioso, e questo era il motivo per cui Sarah lo aveva scelto. Il fiume che scendeva dalle montagne formava una serie di cascate e cascatelle, ai piedi delle quali si formavano pozze di acqua chiara e limpida, popolate da pesci gialli. Il posto riservato al laager era ombreggiato da alberi alti, e i frutti sospesi nella chioma rigogliosa attiravano uccellini e piccoli cercopitechi. Sebbene Tom avesse imposto la sua volontà, ordinando a Sarah di nascondere la maggior parte dei mobili e dei loro averi entro un raggio di poche miglia dal forte, nello stesso nascondiglio in cui si trovavano le zanne d'avorio, Sarah aveva insistito per caricare sui carri tutti i suoi veri tesori. Viceversa non aveva degnato di un'occhiata le cassette di lingotti d'oro che Tom le aveva affidato con mille raccomandazioni, sottolineando la loro importanza. Quand'erano arrivati sul posto, non si era neppure curata di farle scaricare dai carri. Quando Louisa e Verity avevano messo in dubbio con tatto la saggezza di quella decisione, Sarah era scoppiata a ridere, dicendo: «Fatica sprecata. Dovremo comunque caricarle di nuovo quando sarà il momento di tornare a casa». D'altronde non aveva risparmiato sforzi per fornire all'accampamento tutte le comodità di una vera casa. Al primo posto venivano una bella cucina con le pareti di argilla e un refettorio. Il tetto era un autentico capolavoro dell'arte d'intrecciare paglia e fronde, mentre le pareti erano intonacate con argilla e sterco di mucca. Il clavicembalo di Sarah occupava il posto d'onore, al centro della sala, dove ogni sera si riunivano a cantare mentre Sarah suonava. Di giorno, facevano merende vicino al laghetto, guardando George che nuotava, nudo come un pesciolino, e applaudendolo quando si tuffava dalla sponda più alta, producendo lo scroscio più sonoro che poteva. In alternativa, dipingevano e cucivano, mentre Louisa dava lezioni di equitazione a George, appollaiato sulla groppa di Trueheart come una Wilbur Smith
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pulce. Verity lavorava alle sue traduzioni dal Corano e dal Ramayana. Sarah portava con sé George a raccogliere fiori selvatici e, appena tornata al laager, disegnava schizzi delle piante e compilava note descrittive da aggiungere alla sua collezione. Dalla cabina dell'Arcturus, Verity aveva preso alcuni dei suoi libri preferiti e li leggeva a voce alta alle altre donne. Le Seasons di James Thomson vennero molto apprezzate, mentre Rage on Rage le fece ridere come scolarette. A volte, di mattina, Louisa affidava George a Sarah e Intepe, mentre lei e Verity andavano a cavallo insieme. Era una soluzione che George apprezzava molto. Nonna Sarah era una fonte inesauribile di biscotti e altre delizie, ma soprattutto sapeva raccontare in modo avvincente. La dolce Intepe era completamente in balia di George e obbediva alle sue istruzioni senza discutere. Era diventata la moglie di Zama e gli aveva già dato tre figli vivaci. Il più piccolo era ancora un poppante, mentre il maggiore faceva da scudiero a George. Zama aveva fabbricato per ciascuno di loro un arco in miniatura, più un bastoncino appuntito da usare come lancia, e passavano molto tempo insieme, andando a caccia intorno al perimetro del campo. Fino a quel momento avevano fatto una sola vittima, quando un topolino di campagna aveva commesso l'errore di finire tra i piedi di George e lui, nel tentativo di evitarlo, gli aveva schiacciato la testa. I tre avevano cucinato la minuscola carcassa sulle fiamme di un gran fuoco acceso a quello scopo, divorandone con gusto le carni annerite e bruciacchiate. Sembravano giorni idilliaci, ma non lo erano, perché sul campo aleggiava un'ombra cupa. Anche nei momenti di allegria le donne talvolta tacevano di colpo, voltandosi a guardare la pista per i carri che scendeva verso la costa. Quando nominavano i loro uomini, come avveniva spesso, gli occhi si velavano. Di notte sussultavano nel sentire il nitrito di uno dei cavalli o un rumore di zoccoli nell'oscurità. Si lanciavano richiami da un carro all'altro. «Hai sentito niente, madre?» «Era solo uno dei nostri cavalli, Louisa. Dormi, adesso. Jim verrà presto.» «Stai bene, Verity?» «Bene quanto te, ma sento la mancanza di Mansur quanto tu la senti di Jim.» «Non vi agitate, ragazze», diceva Sarah per tranquillizzarle. «Sono dei Wilbur Smith
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Courteney, e sono coriacei. Torneranno presto.» A intervalli di quattro o cinque giorni arrivava un messaggero da Fort Auspice, portando a tracolla un sacco di cuoio pieno di lettere per loro. Il suo arrivo era il momento saliente della loro esistenza. Ciascuna delle donne afferrava la busta a lei indirizzata e si precipitava sul proprio carro per leggerla in solitudine. Molto tempo dopo uscivano di nuovo, sorridenti, col viso arrossato e l'umore alle stelle, pronte a discutere le notizie che avevano appena ricevuto. Dopodiché ricominciava la lunga e solitaria attesa del messaggero. Di notte era il nonno di Intepe, Tegwane, a fare la guardia. Alla sua età dormiva poco, ormai, e prendeva molto sul serio i suoi doveri. Si aggirava di continuo intorno ai carri, con le sue gambe sottili da airone e le lance in spalla. Zama era il sovrintendente dell'accampamento e aveva alle sue dipendenze otto uomini, compresi i conducenti dei carri e gli uomini armati. Izeze, crescendo, era diventato un giovanotto robusto e un ottimo tiratore col moschetto, e ora fungeva da sergente di guardia. Per ordine di Jim, Inkunzi aveva trasferito tutte le mandrie dalla costa alle colline, dove sarebbero state al sicuro da ogni razzia delle truppe di Zayn al-Din. Lui e tutti i suoi mandriani nguni erano sempre disponibili ad accorrere se si presentava un'emergenza. Dopo ventotto giorni di vita nell'accampamento sul fiume, le donne avrebbero dovuto sentirsi tranquille, invece non lo erano. Avrebbero potuto dormire senza problemi, e invece non era così. Su di loro sembrava aleggiare una premonizione maligna. Quella particolare notte, Louisa non era riuscita a dormire affatto e, dopo aver appeso una coperta sopra il lettino di George, per ripararlo dalla luce, si era distesa sul cardell per leggere un romanzo di Henry Fielding al chiarore della lampada a olio. D'un tratto mise da parte il libro e si precipitò verso l'afterclap, scostandola e restando in ascolto finché non si sentì assolutamente sicura. Allora lanciò un richiamo alle altre. «Arriva qualcuno a cavallo. Dev'essere la posta.» Anche sugli altri carri si accesero le luci, mentre le donne alzavano lo stoppino della lampada prima di balzare a terra e riunirsi davanti alla cucina. Si erano messe uno scialle sopra la camicia da notte e chiacchieravano in tono eccitato, mentre Zama e Tegwane alimentavano il fuoco, sollevando una pioggia di scintille. Sarah fu la prima a sentirsi a disagio. «Non è una persona sola, quella Wilbur Smith
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che arriva a cavallo.» Piegò la testa di lato per ascoltare meglio. «Credi che possano essere gli uomini?» chiese Louisa in tono ansioso. «Non lo so», rispose Sarah. «Forse dovremmo prendere qualche precauzione», suggerì Verity. «Non dobbiamo dare per scontato che siano amici solo perché arrivano a cavallo senza nascondersi.» «Verity ha ragione. Louisa, va' a prendere Georgie! Tutti gli altri nel refettorio! Ci chiuderemo dentro finché non sapremo chi sono.» Louisa raccolse la camicia da notte per tornare al carro, coi lunghi capelli sciolti al vento. Intepe uscì di corsa dalla sua capanna insieme coi bambini, che Sarah e Verity sospinsero nel refettorio. Sarah afferrò un moschetto dalla rastrelliera all'interno della porta, fermandosi sulla soglia. «Fa' presto, Louisa!» gridò in tono incalzante. Il suono degli zoccoli divenne più forte e, dal buio della notte, sbucò un gruppo numeroso di cavalieri, che si lanciarono alla carica nell'accampamento, fermando i cavalli e facendoli caracollare, senza preoccuparsi di rovesciare secchi e sedie, e sollevando altresì un gran polverone alla luce del fuoco. «Chi siete?» domandò brusca Sarah, restando piantata sulla soglia del refettorio. «Che volete da noi?» Il capo della banda spinse il cavallo verso di lei, spostando all'indietro il cappello per farle vedere che era un bianco. «Metti via quel fucile, donna, e porta qui fuori tutta la tua gente. Ora sono io che comando, qui.» Verity si affiancò a Sarah. «È mio padre», le disse sottovoce. «Guy Courteney.» «Verity, figlia traditrice, vieni fuori. Hai molte colpe di cui rispondere.» «Lasciala stare, Guy Courteney. Verity è sotto la mia protezione.» Nel riconoscerla, Guy si lasciò sfuggire una risata amara. «Sarah Beatty, mia diletta cognata. Sono molti anni che non ci vediamo.» «Mai abbastanza per i miei gusti», ribatté Sarah in tono cupo. «Ti comunico che non sono più Sarah Beatty, ma la moglie di Tom Courteney. Ora vattene e lasciaci in pace.» «Non dovresti vantarti del matrimonio con un simile furfante e truffatore, Sarah. Comunque non posso andarmene così presto, perché tu hai alcune cose che mi sono state rubate: il mio oro e mia figlia. Sono venuto a reclamarli.» «Dovrai uccidermi, prima di metterci le mani sopra.» Wilbur Smith
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«Questo non mi turberebbe affatto, te lo assicuro.» Scoppiò di nuovo a ridere, guardando Peters. «Ordinate agli uomini di frugare nei carri.» «Fermi!» ammonì Sarah, sollevando il moschetto. «Spara pure!» la invitò Guy. «Ma ti giuro che sarà l'ultima cosa che farai.» Mentre Sarah esitava, gli uomini di Guy smontarono di sella per dirigersi verso i carri. Si sentì un grido, e Peters disse a Guy: «Hanno trovato le cassette dell'oro!» Poi si udì uno strillo, e due arabi trascinarono Louisa giù dal carro. Teneva tra le braccia George e si divincolava con energia per liberarsi. «Lasciatemi! Lasciate il mio bambino!» «Chi è questo moccioso?» Guy si chinò, prendendo il piccolo per un braccio e strappandolo dalla stretta di Louisa. Lanciò un'occhiata a Sarah, dalla parte opposta del fuoco. «Sai qualcosa di questo piccolo bastardo?» Senza farsi vedere, Verity tirò Sarah per la camicia da notte, sussurrandole in tono incalzante: «Non bisogna fargli capire quanto George sia importante per noi, altrimenti sfrutterà la situazione in modo spietato». «E così, la mia cara figliola è in combutta coi nemici del padre, eh? Vergognati, figlia mia.» I suoi occhi tornarono ad appuntarsi sul viso di Sarah. Si accorse che era diventata di un pallore mortale e le rivolse un sorriso gelido. «Non sarà un tuo parente, Sarah, eh? Non intendi reclamarlo, vero? Allora liberiamoci di lui.» Sporgendosi dalla sella, fece penzolare George sopra il fuoco dell'accampamento. Il piccolo, sentendo il calore delle fiamme sulle gambe nude, cominciò a piangere. Louisa lanciò un urlo, e Verity gridò: «No, papà, ti prego, lascialo andare». «No, Guy, no.» La reazione di Sarah fu la più intensa di tutte. Si slanciò in avanti, implorando: «È mio nipote. Ti prego, non fargli del male. Faremo come vuoi tu, ma lascia stare George». «Questo mi sembra molto più ragionevole», osservò Guy, sollevando il bambino e allontanandolo dalle fiamme. «Dallo a me, Guy.» Sarah tese le braccia verso di lui. «Per favore, Guy.» «Per favore, Guy!» ripeté lui, scimmiottandola. «Ah, sì, così è molto più civile. Ma temo che dovrò tenere con me il piccolo George, per essere certo che non vi venga la tentazione di cambiare idea. Ora voglio che tutti i vostri servitori gettino a terra le armi ed escano dal loro nascondiglio con Wilbur Smith
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le mani in alto. Da' l'ordine tu stessa!» «Zama! Tegwane! Izeze! Fate tutti come dice lui», ordinò Sarah. I servitori uscirono dal riparo dei carri e degli alberi circostanti. Gli uomini di Guy s'impadronirono dei moschetti e legarono agli uomini le mani dietro la schiena prima di portarli via. «Ora, Sarah, tu e Verity e quell'altra sgualdrina», disse, indicando Louisa, «entrate tutte nella capanna. Ricordatevi che ho con me questo simpatico giovanotto.» Pizzicò la guancia di George, stringendola tra le unghie finché la tenera pelle del bambino non si lacerò e lui prese a strillare per il dolore. Le donne si divincolarono inutilmente tra le braccia degli uomini che le tenevano immobilizzate, ma furono trascinate verso il refettorio e spinte nella cucina. La porta si richiuse con un tonfo, e due uomini montarono di guardia. Guy scese di sella, gettando le redini a uno degli uomini, e trascinò George con sé. Quando il bambino recalcitrò, si chinò su di lui e lo scrollò con violenza sino a fargli battere i denti, lasciandolo senza fiato. «Chiudi la bocca, maialetto, altrimenti te la chiudo io.» Raddrizzandosi, chiamò Peters. «Ordina agli uomini di scaricare le casse d'oro. Voglio controllare il contenuto.» Ci volle più del previsto perché gli uomini scaricassero le pesanti cassette e ne aprissero il coperchio, ma alla fine, quando furono tutte ai suoi piedi e lui poté osservare quei lingotti d'oro scintillante, il suo viso assunse un'espressione quasi mistica. «È tutto qui», sussurrò, trasognato. «Fino all'ultima oncia.» Poi si riscosse. «Ormai resta soltanto il problema di riportarlo intatto alle navi. Ci vorranno almeno due carri.» Ficcandosi George sotto un braccio, si diresse verso i servitori, riuniti sotto la minaccia delle armi. «Quali di voi sono i conducenti dei carri?» Dopo averli isolati dagli altri, ordinò: «Andate a prendere i buoi insieme coi miei uomini e aggiogateli a questi due carri. Fate presto. Se tenterete di fuggire, sarete uccisi». Non appena la porta della cucina si chiuse alle loro spalle, Sarah si rivolse alle ragazze. Verity era pallida ma calma, mentre Louisa tremava e piangeva sommessamente. «Verity, tu resta vicino alla porta e avvertici se qualcuno tenta di aprirla.» Poi passò un braccio intorno alle spalle di Louisa. «Su, cara, sii coraggiosa. Questo non sarà di aiuto a George...» Wilbur Smith
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L'altra raddrizzò le spalle, tirando su col naso. «Cosa dovrei fare?» «Aiutarmi.» Sarah si diresse verso una cassetta dell'esercito, addossata alla parete laterale. Frugando nel cassetto sul fondo, tirò fuori un astuccio di cuoio azzurro e, quando lo aprì, apparve una coppia di pistole da duello in argento cesellato, disposte negli incavi rivestiti di velluto. «Tom mi ha insegnato a usarle.» Ne porse una a Louisa. «Aiutami a caricare.» Ora che aveva un compito da svolgere, Louisa si riprese in fretta, caricando l'arma con mani rapide e sicure. Sarah l'aveva vista esercitarsi e sapeva che Jim aveva fatto di lei una tiratrice esperta. «Nascondila nel corpetto», le ordinò, infilando l'altra sotto il grembiule. Poi Sarah tornò alla porta, mettendosi in ascolto. «Avete sentito niente?» «Le due sentinelle arabe parlano tra loro», rispose Verity sottovoce. «Che cosa dicono?» «Che nella baia si combatte. Sono molto preoccupati. Mentre venivano qui hanno sentito la battaglia infuriare alle loro spalle... Ci sono stati colpi di cannone e alcune esplosioni che potrebbero essere stati provocati dalle navi di Zayn che saltavano in aria. Stanno discutendo se non sia il caso di disertare, tornando indietro verso la costa. Non vogliono essere abbandonati qui, se Zayn viene sconfitto.» «Quindi non tutto è perduto. Tom e Dorian stanno ancora combattendo.» «Pare di sì», ammise Verity. «Continua ad ascoltare, Verity. Voglio provare con la finestra.» Sarah la lasciò alla porta, mentre andava a mettere una sedia sotto l'unica finestra, piuttosto alta. Sorretta da Louisa, si sporse all'esterno e scostò l'orlo della tenda in pelle di kudu per sbirciare fuori. «Riesci a vedere George?» chiese Louisa, con la voce tremante. «Sì, lo tiene ancora Guy. Lui sembra spaventato, ma non ferito.» «Il mio povero bambino...» singhiozzò Louisa. «Ora non ricominciare», scattò Sarah. Poi, per distogliere le due ragazze dal pensiero del bambino, cominciò a fare la cronaca di quello che riusciva a vedere. «Stanno scaricando le cassette d'oro dai carri e aprendo il coperchio di ognuna. Guy le sta controllando.» Descrisse come, una volta sigillate le casse, che erano state caricate di nuovo a bordo di due carri pesanti in buone condizioni, i conducenti avessero portato le pariglie di buoi, aggiogandoli sotto gli occhi attenti degli uomini di Guy. Wilbur Smith
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«Sono pronti a partire», annunciò Sarah, sollevata. «Guy ha tutto quello che voleva. Senz'altro adesso ti restituirà George e ci lascerà in pace.» «Non credo proprio che lo farà, zietta», la contraddisse Verity a malincuore. «Penso piuttosto che noi saremo il suo lasciapassare per la costa. Stando a quello che ho sentito dalle guardie, i nostri uomini stanno ancora combattendo. Mio padre sa benissimo che, fin quando avrà noi tre e George in ostaggio, non potranno attaccarlo.» Pochi minuti dopo ne ebbero la conferma. Fuori si sentì un gran trepestio, poi la porta si spalancò. Cinque arabi entrarono nella stanza e uno di loro si rivolse in tono brusco a Verity. Lei tradusse a beneficio delle altre. «Dice che dobbiamo indossare in fretta abiti più pesanti e prepararci a partire subito.» Gli uomini di guardia le accompagnarono ai carri e rimasero a controllare mentre loro indossavano abiti pesanti sopra la camicia da notte e mettevano in fretta nelle borse qualche oggetto di prima necessità. Poi le tre donne furono condotte fuori, verso i cavalli sellati per loro. I due carri carichi d'oro erano disposti dietro un terzo carro già orientato sulla via del ritorno, e Guy era alla testa dei suoi uomini. «Lasciami George», lo supplicò Sarah. «Una volta mi hai fatto passare per idiota, Sarah Beatty, ma non succederà più. Terrò saldamente con me il tuo nipotino.» Estraendo il pugnale dal fodero che portava alla cintola, lo puntò alla gola di George. Il piccolo era troppo terrorizzato anche soltanto per gridare. «Non devi dubitare neanche per un attimo che esiterei a tagliargli la gola, se tu me ne offrissi il motivo. Se incontreremo Tom o Dorian o qualcun altro di quella razza degenere, glielo dirò io stesso. Tieni la lingua a freno, quindi.» Montarono sui cavalli che Zama, Izeze e Tegwane tenevano fermi per loro. Louisa, salendo in sella a Trueheart, si protese per sussurrare a Zama: «Dove sono Intepe e i bambini?» «Li ho mandati nella foresta», rispose lui a bassa voce. «Nessuno ha cercato di fermarli.» «Sia ringraziato Dio, almeno per questo.» Guy lanciò l'ordine di mettersi in marcia, e Peters lo ripeté a voce alta. Le lunghe fruste schioccarono e i carri si avviarono. Guy guidava il convoglio, tenendo George sulla spalla, in una posizione scomoda. La scorta di arabi costringeva le donne a seguire da vicino Guy, al punto che Wilbur Smith
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le loro ginocchia si toccavano. Il frastuono delle ruote, il cigolio e il tintinnio dell'equipaggiamento coprirono la voce di Sarah quando bisbigliò alle ragazze: «Louisa, hai la pistola a portata di mano?» «Sì, madre. La tengo stretta.» «Bene, allora senti che cosa dobbiamo fare.» Proseguì sottovoce, e le due ragazze risposero allo stesso modo. «Aspettate il mio ordine», le ammonì Sarah. «La nostra unica speranza sta nel prenderli alla sprovvista. Dobbiamo agire di concerto per avere qualche possibilità di farcela.» La carovana scendeva dalle colline verso il litorale seguendo una pista tortuosa, sulla quale i cavalli erano costretti a mantenere l'andatura pacata imposta dai buoi. Per qualche tempo nessuno parlò. Carcerieri e prigioniere erano immersi in un silenzio letargico, che a poco a poco divenne torpore. George era sprofondato da tempo nel sonno dello sfinimento, e la sua testolina oscillava sulla spalla di Guy. Ogni volta che lo guardava, Sarah si sentiva agghiacciare dal terrore. Ogni tanto allungava la mano per sfiorare una delle ragazze, tenendole sveglie. Aveva studiato i cavalli degli arabi, accorgendosi che erano magri e in cattive condizioni; intuì che avevano alle spalle un viaggio lungo e spossante nella stiva di navi piccole. Non avrebbero potuto reggere all'andatura dei cavalli montati da lei e dalle ragazze. Dei tre, Trueheart era la più veloce: Louisa era leggera e Trueheart avrebbe distanziato tutti, anche portando in groppa George. L'arabo che cavalcava vicino a Sarah lasciò ciondolare la testa sul petto, cominciando a scivolare di lato dalla sella. Sarah capì che si era addormentato, ma, un istante prima di cadere di sella, l'uomo raddrizzò di scatto la testa. Sono tutti esausti, si disse Sarah. Si vede che non riposano da quando hanno lasciato la costa. I loro cavalli non sono in condizioni migliori. È quasi arrivato il momento di tentare la sorte. Il chiaro di luna le permise di riconoscere quel tratto di strada. Si stavano avvicinando a un guado su uno degli affluenti del fiume principale della regione. Durante il viaggio di andata da Fort Auspice, Zama e i suoi uomini avevano dedicato giorni interi a scavare le rive, perché si trattava di un passaggio stretto e ripido che i carri potevano affrontare solo con grande fatica. Non avrebbero trovato un posto migliore per tentare la fuga. Valutò che c'era ancora qualche ora di oscurità utile a coprire le loro tracce, dopodiché sperava che sarebbero riuscite a distanziare i cavalli Wilbur Smith
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deboli ed esausti degli inseguitori. Senza farsi notare, avvertì l'una dopo l'altra le ragazze, stringendo loro la mano e scrollandole leggermente per ridestare la loro attenzione. Tutt'e tre incitarono delicatamente i cavalli ad avanzare sino a sfiorare il posteriore del cavallo di Guy. Sarah infilò la mano sotto la giacca, estraendo dal corsetto la pistola da duello, e sfruttò le pieghe del mantello di montone per attutire lo scatto del cane, che armò solo fino a mezza corsa. Il grilletto dell'arma era molto sensibile, e lei non osava armarlo del tutto fino al momento del colpo. Cinquanta iarde più avanti, vide apparire nell'oscurità il varco aperto nella riva del fiume, con la strada che scendeva per superare il guado. Attese che Guy tirasse le redini, preparandosi ad arrestare il convoglio per dare inizio alla traversata. Prima che Guy potesse aprire bocca, Sarah urtò deliberatamente il suo cavallo. Le ragazze ai lati si fecero subito avanti e, per qualche istante, regnò una gran confusione, mentre i cavalli si urtavano e caracollavano. Guy esclamò irritato: «Tenete sotto controllo quei dannati cavalli». Poi un'altra voce ruggì dall'oscurità davanti al convoglio: «State fermi dove siete! Ho cinquanta moschetti caricati a pallini e puntati su di voi». «Tom!» esultò Sarah. «È Tom!» Naturalmente lui aveva sentito arrivare i carri da un miglio di distanza e aveva scelto il guado per tendere loro un'imboscata. «Tom Courteney!» gridò di rimando Guy. «Io ho il tuo nipotino George, col mio pugnale puntato alla gola. I miei uomini hanno tua moglie Sarah e le altre donne della tua famiglia. Fatti da parte e lasciaci passare, se vuoi che restino in vita.» Per confermare la minaccia, sollevò dalla spalla George, tenendolo con entrambe le mani. «C'è il nonno, Georgie. Parlagli, digli che stai bene.» Guy punzecchiò col coltello il braccio del bambino e, guardando oltre la spalla dell'uomo, Sarah vide il sangue sgorgare dalla pelle bianca, nero e lucido al chiaro di luna. «Nonno!» strillò George a squarciagola. «C'è un uomo orribile che mi fa male!» «Perdio, Guy, se torci un solo capello a quel bambino, ti ucciderò con le mie mani», ruggì Tom. «Senti come strilla, il maialetto», gridò di rimando Guy, punzecchiando di nuovo George. «Getta le armi e fatti vedere, altrimenti ti mando le Wilbur Smith
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budella di tuo nipote sopra un vassoio d'argento.» Sarah estrasse la pistola e armò il cane, poi si protese in avanti e premette la canna sulle reni di Guy. Quando sparò, il colpo fu soffocato dai vestiti e dal corpo dell'uomo, che s'inarcò all'indietro, agonizzando, mentre il proiettile frantumava le vertebre. Poi allentò la presa su George, che gli scivolò via dalle mani. «Ora, Louisa!» gridò Sarah. Ma la giovane non aveva bisogno di ordini. Si sporse dalla sella, prese George al volo, lo strinse al petto e incitò Trueheart coi talloni. «Ah! Ah!» gridò alla giumenta. «Corri, tesoro! Corri!» Trueheart balzò in avanti. Uno degli arabi cercò d'intercettarla, ma Louisa gli sparò sulla faccia barbuta con la seconda pistola, e l'uomo cadde all'indietro dalla sella. Verity si accodò a Trueheart col suo cavallo per fare da schermo a George e a Louisa, proteggendoli dai colpi di moschetto della scorta. Fece appena in tempo, perché uno degli arabi, più sveglio dei compagni, sollevò il lungo jezail e, nel buio, sbocciò la fiammata della detonazione. Sarah sentì il proiettile colpire qualcosa di solido. Il cavallo di Verity cadde sotto di lei, che si trovò catapultata in avanti. Non appena Guy si rovesciò all'indietro e cadde inerte dalla sella, Sarah spronò il cavallo in avanti. La bestia di Sarah tentò di scavalcare l'uomo, ma uno degli zoccoli ferrati colpì Guy alla tempia, e lei sentì l'osso spezzarsi come si spezza uno strato di ghiaccio. La sua cavalcatura ritrovò l'equilibrio e Sarah la spinse in direzione di Verity, che cercava di alzarsi. «Arrivo, Verity!» le gridò, tendendo un braccio. La ragazza si aggrappò al volo, mentre il cavallo le passava accanto. Sarah non aveva la forza d'issare Verity in sella, e nemmeno quest'ultima ce la fece a salire in groppa, tuttavia riuscì a passare un braccio intorno al collo del cavallo, aggrappandosi disperatamente alla sua criniera mentre seguivano Trueheart verso il guado. «Tom!» gridò Sarah. «Siamo noi, non sparare!» Il resto della scorta araba aveva ritrovato la presenza di spirito e inseguiva Sarah al galoppo, in formazione serrata, ma all'improvviso una salva di colpi di moschetto partì dalla riva del fiume, dov'erano appostati Smallboy e gli altri uomini di Tom. Tre cavalli finirono a terra; gli altri arabi tirarono le redini e invertirono la direzione, correndo verso la protezione offerta dai carri, dietro i quali si nascosero. Tom scese d'un balzo dalla riva e, non appena Sarah ebbe tirato le redini, Wilbur Smith
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abbracciò lei e Verity, trascinandole a terra e portandole al riparo dietro la riva. «Verity!» ansimò Sarah. «Rincorri Louisa e George.» «Nessuno può aver ragione di Trueheart quando ha il morso tra i denti. Ma saranno al sicuro, fin quando terremo inchiodati qui gli arabi.» Tom abbracciò Sarah. «Dio, quanto sono felice di vederti, donna.» Sarah lo respinse. «Più tardi avremo tutto il tempo che vuoi per queste smancerie, Tom Courteney. Qui hai ancora del lavoro da fare.» «Hai ragione!» Lui corse di nuovo verso la sommità della riva per lanciare un richiamo in direzione dei carri dietro i quali si riparavano gli arabi. «Guy! Mi senti?» «È morto, Tom», lo interruppe Sarah. «Gli ho sparato io.» «Allora mi hai preceduto», ribatté lui con amarezza. «Non vedevo l'ora di farlo io.» Poi si rese conto che accanto a lui c'era Verity. «Mi spiace, mia cara. Era pur sempre tuo padre.» «Se avessi avuto una pistola in mano, lo avrei fatto io», replicò Verity con calma. «Quello che ha fatto a me in tanti anni non conta, ma, quando ha cominciato a torturare il piccolo Georgie... No, zio, meritava questo e altro.» «Sei una ragazza coraggiosa, Verity», le disse Tom, abbracciandola con calore. «Noi Courteney siamo coriacei», ribatté lei, ricambiando l'abbraccio, e Tom ridacchiò, lasciandola andare. «Ora, comunque, ti sarei molto grato se facessi uscire quelle guardie. Puoi dire loro che non faremo del male a nessuno e li lasceremo tornare tranquillamente fino alla costa, purché abbandonino i carri. Spiega loro che ho con me cento uomini, anche se non è vero. Se non si arrendono, attaccheremo e li massacreremo tutti.» Verity trasmise il messaggio, traducendolo in arabo. Ci fu una pausa, mentre gli uomini discutevano la proposta. Lei udì le loro voci eccitate e afferrò qualche parola. C'era chi sosteneva che l'effendi era morto, e quindi non c'era motivo di restare lì, mentre altri parlavano dell'oro e di quello che avrebbe detto Zayn al-Din, scoprendo che se lo erano lasciato soffiare. Una voce sonora rammentò loro i rumori della battaglia che avevano sentito provenire dalla baia. «Forse anche Zayn al-Din è morto», disse la voce. Wilbur Smith
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Il corpo di Guy Courteney era rimasto disteso nel punto in cui era caduto, e la luce dell'alba cominciava ad avere ragione del buio, così Verity poté vedere il viso del padre. Nonostante le parole ferme che aveva pronunciato, la giovane donna dovette distogliere lo sguardo. Alla fine uno degli arabi gridò la risposta. «Lasciateci andare in pace e vi consegneremo le armi e i carri.» Jim e Mansur spinsero i cavalli al galoppo, cavalcando nella notte. Avevano con sé animali di riserva e, quando le loro cavalcature cominciarono a stancarsi, cambiarono rapidamente la sella per continuare la corsa. Per lo più procedevano in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri, che erano più cupi della notte. Quando parlavano, era solo per scambiarsi monosillabi o frasi secche e brevi, tenendo sempre gli occhi fissi davanti a sé. «Mancano meno di sei miglia al laager nella gola», disse Jim, mentre superavano un ripido pendio. Nella luce incerta del primo mattino, riconobbe l'albero che si stagliava all'orizzonte. «Saremo lì tra un'ora.» «Preghiamo Dio!» ribatté Mansur, mentre superavano di slancio il crinale. Videro il nastro del fiume snodarsi in basso, ma poi i primi raggi di sole sfiorarono il ventre della nuvola, illuminando la valle con un effetto repentino e drammatico. Entrambi scorsero la nube di polvere nello stesso istante. «Un cavaliere che arriva al galoppo!» esclamò Jim. «Soltanto un messaggero cavalca in quel modo», commentò Mansur. «Speriamo che siano belle notizie.» Afferrarono contemporaneamente i cannocchiali, e per un attimo, scorgendo il cavaliere, rimasero senza parole. «Trueheart!» gridò Jim. «In nome di Dio! È Louisa che lo monta. Guarda come brillano i suoi capelli al sole», confermò Mansur. «Porta qualcosa tra le braccia. È George!» Jim non attese oltre. Lasciando libero il cavallo di riserva che portava con sé gridò a Drumfire: «Corri, mio caro! Corri con tutto il cuore». Quando si lanciarono sulla pista, Mansur non riuscì più a tenere il loro passo. George, vedendoli arrivare, cominciò a fremere e dimenarsi come un'anguilla tra le braccia di Louisa. «Papà!» gridava. «Papà!» Wilbur Smith
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Jim scese con un balzo dalla groppa di Drumfire nello stesso istante in cui il cavallo si fermava, slittando, e sollevò di peso Louisa e George dalla sella di Trueheart per stringerseli al petto con tale slancio che fu sul punto di stritolarli. Mansur li raggiunse, gridando: «E Verity, dov'è? È al sicuro?» «Al guado sul fiume, coi carri. È al sicuro con Tom e Sarah.» «Che Dio ti protegga, Louisa.» Mansur spronò il suo cavallo e lasciò Louisa e Jim abbracciati, che piangevano di felicità, mentre George tirava a due mani la barba di Jim. Scavarono una tomba per Guy Courteney vicino alla pista dei carri, avvolgendo il suo corpo in una coperta prima di calarlo nella fossa. «Era uno sporco bastardo», mormorò Tom all'orecchio di Sarah. «Meritava di essere lasciato in balia delle iene, però era mio fratello.» «E anche mio cognato da entrambi i lati della famiglia, e sono stata io a ucciderlo. Avrò sulla coscienza questa colpa per il resto della vita.» «No, tu non hai nessuna colpa e col tempo te ne farai una ragione», replicò Tom. Entrambi lanciarono un'occhiata in direzione di Verity e Mansur, che si tenevano per mano, fermi sull'orlo della fossa aperta. «Stiamo facendo la cosa giusta, Tom», aggiunse Sarah. «Non mi sembra proprio», brontolò lui. «Anzi facciamola finita e torniamo a Fort Auspice. Dorian è ferito e, anche se adesso è un sovrano, ha bisogno di noi.» Lasciarono a Zama e Muntu il compito di riempire la fossa e ricoprirla di sassi, per evitare che le iene si accanissero sul cadavere. Mansur e Verity li seguirono poi lungo il pendio, in direzione del punto in cui Smallboy teneva pronti i due carri con l'oro, già aggiogati. I giovani camminavano tenendosi per mano e Verity, benché fosse pallidissima, aveva gli occhi asciutti. Jim e Louisa li aspettavano presso i carri. Si erano rifiutati entrambi di partecipare alla sepoltura. «Dopo quello che ha fatto a Louisa e a Georgie?» aveva esclamato Jim, aspro, quando Tom glielo aveva proposto. Guardò il padre con aria interrogativa e Tom disse semplicemente: «È fatto». Poi montarono sui cavalli e si diressero verso Fort Auspice. Ci vollero parecchie settimane per riparare la Sufi e rimetterla in grado di prendere il mare. Rahmad e i suoi uomini l'ancorarono nel mezzo della Wilbur Smith
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baia. Nel frattempo, le capienti stive dei dhow da trasporto erano state riempite d'avorio e le imbarcazioni erano pronte a intraprendere il lungo viaggio verso Muscat. Appoggiandosi alla spalla di Tom, Dorian raggiunse zoppicando la spiaggia. La ferita che Zayn al-Din gli aveva inferto non era ancora guarita del tutto e Sarah non risparmiava cure e attenzioni al suo reale paziente. Una volta sistemati sulla lancia, Jim e Mansur si misero ai remi e si avviarono verso l'Arcturus. A bordo, li attendevano Verity e Louisa, la quale teneva in braccio George, cinguettante come sempre. Sul cassero, Verity aveva allestito un banchetto d'addio, disponendo i piatti sopra tavole sorrette da cavalletti. Risero, mangiarono e bevvero insieme per l'ultima volta, ma Ruby Cornish non perse mai di vista l'andamento della marea. E infatti, a un certo punto si alzò e, con aria di rammarico, disse: «Scusate, maestà... La marea e il vento sono costanti...» «Tom, fratello mio... Un ultimo brindisi!» esclamò allora Dorian. Un po' incerto sulle gambe, Tom si alzò. «Che il vostro sia un viaggio rapido e senza ostacoli. E che possiamo incontrarci di nuovo, tra breve tempo!» Tutti si unirono al brindisi, poi si abbracciarono. Infine, coloro che erano destinati a rimanere a Fort Auspice risalirono sulla lancia e, una volta raggiunta la spiaggia, rimasero a osservare l'Arcturus che levava l'ancora. Dorian, sorretto da Mansur e Verity, era alla battagliola e, improvvisamente, intonò una canzone che volò nell'aria sull'onda della sua forte, limpida voce: Arrivederci e adieu, belle dame di Spagna, arrivederci e adieu, o dame spagnole, perché salpar dobbiamo verso la Gran Bretagna, ma speriamo di non lasciarvi sole. L'Arcturus guidò la flotta di dhow verso l'imboccatura del canale. Allorché la terraferma non fu altro che una linea blu all'orizzonte, Ruby Cornish si affiancò a Dorian per annunciargli: «Maestà, siamo ormai al largo». «Grazie, comandante Cornish. Vorreste essere così cortese da mettere le navi sulla rotta per Muscat? Abbiamo alcuni affari in sospeso, laggiù.»
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Dato che i carri erano stati caricati, Smallboy e Muntu radunarono i buoi che stavano pascolando. «Dove andate?» chiese Sarah. Louisa scosse la testa. «Madre, sai bene che devi chiederlo a Jim. Io non saprei come risponderti.» Le due donne guardarono Jim e lui, ridendo, esclamò: «Oltre il prossimo orizzonte!» Poi sollevò George e se lo mise sulle spalle. «Ma non temete, saremo ben presto di ritorno, e i carri traboccheranno d'avorio e di diamanti fin quasi a schiantarsi sotto il loro peso.» Tom e Sarah, dal parapetto di Fort Auspice, osservarono il convoglio che s'inerpicava sulle colline, diretto all'interno. In testa c'erano Jim e Louisa, mentre Bakkat e Zama cavalcavano a breve distanza da loro. Quanto a Intepe e Letee, camminavano a fianco del carro principale, coi figli accanto. Giunto sulla sommità della collina, Jim si girò sulla sella e fece un cenno di saluto. Sarah si levò il cappello e prese ad agitarlo con energia. Smise soltanto quando il convoglio sparì alla vista. «Be', Thomas Courteney, siamo rimasti di nuovo soli, tu e io», mormorò. «A me va benissimo così», ribatté lui, passandole un braccio intorno alla vita. Con gli occhi accesi di speranza e di sogni, Jim guardava davanti a sé. A cavalluccio sulle sue spalle, George strillava: «Cavallino! Trotta, cavallino!» «Istrice, hai messo al mondo un mostro», esclamò Jim. Louisa gli strinse forte il braccio, con un sorriso enigmatico. «La prossima volta spero di far meglio.» Lui si fermò di colpo, fissandola. «No, non è possibile. È vero?» «Oh, sì, che è vero!» rispose lei. «Ma perché non me l'hai detto prima?» «Perché mi avresti lasciata indietro.» «Mai e poi mai!» gridò Jim con convinzione. FINE
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