SERGE BRUSSOLO PEGGY SUE E GLI INVISIBILI IL SONNO DEL DEMONIO (Peggy Sue Et Les Fantômes: Le Sommeil Du Démon, 2001) Pe...
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SERGE BRUSSOLO PEGGY SUE E GLI INVISIBILI IL SONNO DEL DEMONIO (Peggy Sue Et Les Fantômes: Le Sommeil Du Démon, 2001) Personaggi Peggy Sue Studentessa liceale di 14 anni, è l'unica persona a conoscenza del mistero degli Invisibili, che passano attraverso le pareti e se ne vanno in giro per le città tormentando i poveri esseri umani con scherzi spesso mortali. Nessuno le crede, ma grazie ai suoi occhiali magici riesce a bruciare la pelle dei fantasmi e a contrastare le loro macchinazioni. Una missione non facile, perché i fantasmi hanno più d'una freccia al proprio arco. I fantasmi Preferiscono essere chiamati 'Invisibili', perché non sono né spettri né tantomeno extraterrestri. Mollicci, trasparenti, possono assumere, a loro piacimento, qualsiasi forma, aspetto o colore. Sostengono di aver creato la Terra, i dinosauri e... gli uomini! Ma di loro non ci si può certo fidare! Per combattere la noia si dilettano a organizzare scherzi malvagi, che si concludono spesso con la morte delle loro vittime. Odiano Peggy Sue, ma non possono eliminarla direttamente perché è protetta da un incantesimo. Tuttavia, sono in grado di farla uccidere da qualcun altro, oppure di architettare un incidente mortale, senza così doverle mettere le mani addosso. Il cane blu In origine un povero cane randagio, ha sviluppato eccezionali poteri telepatici grazie all'influsso del sole blu, un astro magico creato dagli Invisibili. Inizialmente nemico di Peggy Sue, un tempo governava su una città e sui suoi abitanti. Guarito dalle sue manie di grandezza, ha fatto amicizia con la ragazza che lo ha raccolto dalla strada. Brontolone e testardo, ubbidisce solo quando ne ha voglia, ma è coraggioso come pochi e non ha eguali per fiutare i pericoli nascosti. La famiglia di Peggy Sue Barney, il padre, fa il carpentiere e si sposta di città in città per andare a lavorare dove si costruiscono nuovi palazzi. È dell'avviso che le ragazze
siano «troppo complicate». Avrebbe preferito un figlio con cui poter parlare di calcio. Maggy, la madre, è disperata per lo strano comportamento della figlia minore, Peggy Sue, che tutti considerano pazza perché scorge cose che nessun'altro è in grado di vedere. Aspira a un'esistenza più tranquilla, in cui non accada nulla di strano. Il suo desiderio è vivere in un piccolo ranch per allevare cavalli. Julia, 17 anni, la sorella maggiore. Cameriera in un fast-food, vorrebbe gestire un'azienda tutta sua con pugno di ferro. Ha davvero un pessimo carattere e si vergogna un po' della sorella più piccola. 1 Minacce invisibili Le cose andavano male. Un'oscura minaccia incombeva sulla famiglia Fairway come un avvoltoio che volteggia nel cielo fissando la sua preda. Una sera Barney - il padre di Peggy Sue -, che di mestiere faceva il carpentiere e lavorava in equilibrio su delle travi metalliche a cento metri d'altezza, ritornò a casa pallido come un lenzuolo. «Non capisco cos'è successo oggi,» farfugliò «a un certo punto ho avuto come la sensazione che qualcuno cercasse di spingermi nel vuoto. Ero in piedi su una putrella, osservando il marciapiede della 22a strada, quando ho sentito due mani che si poggiavano sulle mie scapole... Non ho mai avuto le vertigini in vita mia, ma stavolta - per la miseria! - ho davvero creduto di poter precipitare. Quando poi mi sono voltato, dietro di me non c'era nessuno. Non ci capisco un bel niente. Starò forse diventando troppo vecchio per questo mestiere?» Mentre la mamma e Julia lanciavano gridolini di stupore, Peggy Sue rifletteva. Aveva le idee molto chiare su ciò che per poco non era successo. Era semplice: gli Invisibili avevano tentato di uccidere suo padre. Me l'aspettavo, pensò. Non hanno digerito la disfatta subita nella vicenda del sole blu, stanno cercando di vendicarsi. Da quando la famiglia aveva abbandonato la vecchia roulotte per sistemarsi in città, Peggy non aveva notato alcuna traccia di attività 'invisibile' nelle vicinanze, il che era insolito; l'istinto le suggeriva che i suoi vecchi nemici dovevano per forza nascondersi nei dintorni. Hanno cambiato strategia, diceva tra sé. Devo stare in guardia.
Traumatizzato da quanto gli era capitato in cima al grattacielo, il padre confessò di non avere il coraggio di tornare al lavoro. Non si sentiva più al sicuro. «So che è da stupidi,» ripeteva «ma non riesco a togliermi dalla testa che c'è qualcosa che mi aspetta, lassù. Un fantasma che vuole gettarmi nel vuoto. Sto forse diventando pazzo?» Non stava diventando pazzo, no. Solo che, come tutti gli adulti, non era consapevole delle macchinazioni degli Invisibili. Anche il cane blu mostrava segni di nervosismo. Peggy Sue l'aveva raccolto per strada andando via da Point Bluff, dove un tempo, grazie ai sortilegi degli spettri, aveva regnato sulla città da autentico tiranno. Oggi, pur avendo perso il suo bel color indaco, conservava un certo talento per la telepatia... e la stupida mania di andarsene in giro con una cravatta nera al collo. Adesso usava i suoi poteri ipnotici per farsi portare in braccio come un bambino dalla sorella di Peggy Sue, Julia, quand'era stufo di camminare... oppure per costringere la mamma a cucinargli dei manicaretti, quando ne aveva abbastanza della zuppa in scatola del supermercato. Le due donne gli obbedivano senza neanche rendersene conto, come due sonnambule. Di tanto in tanto, la sua vocina da spiritello brontolone crepitava nella mente di Peggy Sue come un tocco di burro che frigge in padella. Non mi dice niente di buono, pensava Peggy. Sta per accadere qualcosa di molto inquietante. Bisogna fuggire lontano... molto lontano. Le cose non tardarono a peggiorare. Dal giorno in cui il padre si ritrovò senza lavoro, la cattiva sorte cominciò ad accanirsi sulla famiglia Fairway. Dovettero traslocare in una catapecchia con le pareti scrostate come la pelle di una lucertola che fa la muta. A Peggy Sue non piaceva il nuovo appartamento, al piano terra, dove la luce filtrava appena. Le dava la sensazione che l'oscurità incombesse là fuori, anche quando sorgeva il sole al mattino. «E soprattutto, evita di accendere la luce quando andiamo via» si raccomandavano i genitori, uscendo di casa per andare in città nella speranza di trovare lavoro. «Dobbiamo stringere la cinghia. Non abbiamo più molti soldi, lo sai.» Peggy Sue lo sapeva, ma l'oscurità la rendeva inquieta. Allora spingeva gli interruttori - uno, due, tre... - e le lampadine si accendevano, mentre nella sua testa risuonava la voce mentale del cane blu, che scandiva sempre lo stesso messaggio: «Dobbiamo andarcene. Gli Invisibili ci hanno localiz-
zato, saranno qui molto presto...» «Facile a dirsi» brontolava la ragazza. «Per andarsene ci vogliono i soldi, mentre noi tiriamo avanti solo grazie allo stipendio di Julia al fastfood.» «Lo so» sibilava tra i denti il cane blu. Fortunatamente, una sera papà Fairway rientrò annunciando di essere finalmente riuscito a procurarsi un lavoro. Non aveva nulla a che fare col suo mestiere, ma non se ne lamentava, anzi, era piuttosto sollevato all'idea di non doversi più arrampicare su una trave di ferro. «È un posto da guardiano» spiegò. «Lontano da qui, ai margini del deserto. Si tratta di sorvegliare un aeroporto in stato di abbandono. Sembra che gli hangar siano ancora pieni di vecchi aeroplani a elica. I proprietari temono che qualcuno possa rubarli. Vogliono trasformarlo in un museo dell'aviazione per turisti. Le cose cambieranno maledettamente, rispetto all'umidità di questa città. Fate i bagagli, si parte subito.» Peggy Sue si lasciò scappare un sospiro di sollievo. Non avrebbe tardato a rendersi conto di aver gioito troppo presto. 2 Il paese dei miraggi Il viaggio era stato interminabile. Faceva talmente caldo che Peggy si sentiva come un dolce alle carote in piena cottura dentro un forno a temperatura massima. «Mi sto trasformando in un cosciotto ambulante...» ansimò mentalmente il cane blu esibendo i suoi venti centimetri di lingua. «Altri dieci minuti e sarò cotto a puntino.» Non esagerava poi tanto. Dopo che la macchina aveva abbandonato la strada principale per imboccare la pista del deserto, il sole aveva cominciato a picchiare forte. L'impianto di climatizzazione ronzava come un'elica, senza però riuscire a rinfrescare l'aria. Papà Fairway decise di fermarsi nel parcheggio di un piccolo bar per far raffreddare il motore. «Che inferno!» si lamentava Julia. «La luce è così forte che i miei capelli stanno perdendo il loro colore naturale. Va a finire che stasera avrò degli spaghetti in testa! È terribile!» La famiglia corse a ripararsi all'ombra della veranda. Il bar, fatiscente,
sembrava potesse crollare su se stesso alla prima folata di vento. Sulla facciata avevano inchiodato delle teste di mucca dalle lunghe corna. Il cane blu sollevò la testa per fiutare l'aria. «Cosa c'è?» domandò Peggy Sue, insospettita dal suo atteggiamento. «Non saprei» le confessò l'animale. «Questo posto non mi piace... ci sono dei pericoli. Sento dei bambini che piangono... dei bambini invisibili. Sono dappertutto... sparpagliati qua e là.» La ragazza aggrottò le sopracciglia. Il cane blu - come tutti gli animali era spesso attraversato da lampi di percezione extrasensoriale, e lei prendeva sempre sul serio ogni suo minimo avvertimento. Scrutò il paesaggio desertico, senza però avvistare nessun fantasma. «Dei bambini?» insisté. «Sì» confermò il cane. «Sono infelici... dicono di tornare indietro, di non cadere nel tranello. Non riesco a sentirli bene, le loro voci si confondono. Sembra che ci circondino. Non vedi niente di strano?» «No.» Peggy Sue rabbrividì, malgrado il caldo terribile. Il deserto non aveva nulla d'eccitante. Si riduceva a una sterminata distesa di polvere gialla, che il calore faceva vibrare e rendeva sfocata. A un certo punto, l'attenzione della ragazza fu attratta da un cartello scrostato. Vi era scritto: ATTENTI AI MIRAGGI! «Che cosa vuol dire?» mormorò, senza rendersi conto che parlava ad alta voce. «Significa che nel deserto bisogna dubitare di ciò che si crede di vedere» disse una voce stridula dietro di lei. Peggy sussultò. Alle sue spalle un vecchio era appena uscito dall'ombra. Un pellerossa o un messicano, vestito di un semplice telo bianco e un grosso cappello scolorito. Sembrava molto anziano; la sua pelle, rosso mattone, era solcata da innumerevoli rughe. «Sai cos'è, un miraggio?» le chiese. «È una visione originata dal calore, qualcosa che non esiste. Riflettendosi sulla sabbia il sole genera delle immagini fantasma... delle oasi, il più delle volte. Quando guardi dritto davanti a te hai l'illusione di distinguere un mare, un lago. In genere nulla di tutto questo esiste davvero. Scompare appena ti avvicini.» «Grazie dell'avviso,» sussurrò Peggy Sue «ma lo sapevo già.»
Sul volto dell'uomo apparve un sorriso triste. I suoi occhi erano appena visibili all'ombra dell'ampio cappello. «È vero,» ghignò «i gringos sanno tutto! Ma qui le cose sono diverse. I miraggi non sono affatto inoffensivi. Sono pericolosi...» «Com'è possibile?» «Non svaniscono quando ti ci avvicini. Al contrario, diventano sempre più reali. Sono delle porte che si aprono su altri universi. Non bisogna entrarci. Mi capisci? Se vedi cose strane, nel deserto, non andarci incontro.» «Paco!» urlò improvvisamente il titolare del bar. «Ti ho detto cento volte di non dare fastidio ai clienti! Fuori dai piedi, prima che ti prenda a calci nel sedere!» Poi, girandosi verso Peggy, aggiunse: «Non gliene voglia, signorina, è solo un vecchio pazzo del pueblo, le continue insolazioni gli hanno danneggiato il cervello. Da giovane c'è mancato poco che morisse di sete nel deserto, e da allora ha perso il lume della ragione.» Peggy avrebbe voluto prendere le difese del messicano, ma questi era scomparso nel nulla. Dov'era finito? È volato via come un'ombra, pensò. Come un'ombra che si dissolve sotto il sole. Sentendosi a disagio, andò a raggiungere i genitori che si erano sistemati accanto a un vecchio ventilatore, il cui ronzio rendeva praticamente impossibile qualsiasi conversazione. Ordinarono delle bibite e una grossa scodella d'acqua fresca per il cane blu, che si manteneva ancora sul chi vive. «C'è qualcosa nel deserto» esclamò rivolgendosi mentalmente a Peggy Sue. «Il vecchio col sombrero non mentiva. Bisognerà stare in guardia.» A causa del caldo nessuno aveva molta fame. Julia sbuffava all'idea di ritrovarsi inchiodata in un posto simile. «È una cosa temporanea,» borbottò il papà «vedrai che troverò un altro lavoro. E poi, potrebbe anche essere divertente, con quei vecchi aerei dimenticati in fondo agli hangar. Io, da piccolo, sognavo di diventare un pilota da caccia.» «Tu, da piccolo» replicò Julia «eri già un maschio, io invece sono una ragazza, e quei vecchi rottami mi annoiano.» Decisero di rimettersi in marcia. Mentre si sistemava al volante, il padre scoprì la presenza del cartello stradale che metteva in guardia gli automobilisti dai miraggi del deserto. Si strinse nelle spalle. «È solo un trucco per far rabbrividire i turisti, adorano spaventare la gente!» sghignazzò. Aveva appena pronunciato quelle parole che un bambino vestito di un
telo bianco, con un cestino sotto il braccio, si avvicinò alla macchina. Un indiano, pensò Peggy. Ha un'aria misera e spaurita. Vide che il cestino conteneva degli occhiali da sole con lenti dai colori assai stravaganti. «Costano poco» mormorò il bambino allungandone un paio verso il signor Fairway. «Li facciamo noi... Sono magici, vi proteggeranno dai miraggi.» «E come?» esclamò il padre di Peggy Sue in tono di scherno. «Le lenti...» disse il ragazzino con voce appena udibile «vi impediranno di vedere le immagini cattive che escono dalla sabbia. Potrebbero salvarvi la vita. Un sacco di gente scompare lungo la pista, lo sapevate? Ritrovano le macchine vuote, con le valigie nel bagagliaio. Perché sono andati verso i miraggi.» «Ma cosa stai dicendo?» si spazientì Barney Fairway, a cui non piaceva sentirsi raccontare delle frottole. «Ti sembra forse che io abbia la faccia da babbeo?» «Ma è vero!» piagnucolò il piccolo indiano. «Non sono un bugiardo. Se non mi ascoltate, le immagini che escono dalla sabbia vi inghiottiranno.» Non poté aggiungere altro perché il titolare del bar cacciò via anche lui, come aveva fatto con Paco. Il ragazzino scappò via, con gli strani occhiali sotto un braccio. «Ehi!» mugugnò Barney Fairway «è vero quello che racconta il marmocchio, che la gente scompare sulla pista del deserto?» Il commerciante si contorse su se stesso, imbarazzato. «Sapete come vanno le cose,» si decise infine a farfugliare «i turisti sono imprudenti... c'è sempre chi abbandona la strada principale per andare a scattare delle foto. Col deserto non si scherza. È facile perdere l'orientamento.» «Io non sono un turista» tuonò il padre di Peggy. «Sono venuto qui per lavorare. Sono il nuovo guardiano dell'aeroporto di Vista Diablo.» A quella notizia, il titolare del bar sgranò gli occhi e sembrò ancora più a disagio. «Non ci sarà molto da scherzare, laggiù» borbottò. «Sono almeno trent'anni che l'aeroporto è abbandonato.» «Perché?» cercò d'informarsi Peggy Sue. «Troppi incidenti» sbuffò l'uomo. «A causa dei miraggi. I piloti si lasciano ingannare dalle figure che escono dalla sabbia. Credono di vedere delle... delle cose... e finiscono per conficcarsi nelle colline rocciose. Se
esplorate i dintorni, troverete decine di carcasse d'aereo sepolte sotto la polvere.» «Ma perché tutti questi miraggi, proprio in questa zona?» insisté Peggy. «Non saprei» bofonchiò il commerciante con un'alzata di spalle. «Forse a causa del calore, della luce... Ecco tutto.» Ne aveva abbastanza, era chiaro. Si raddrizzò, abbozzando un dietro front. «Comunque non fermatevi,» esclamò «qualunque cosa vediate. È un consiglio da amico.» E così dicendo girò sui tacchi. «È completamente fuso» sibilò tra i denti Julia. «Per la miseria! Siamo capitati di nuovo in un villaggio di gente suonata!» La mamma era tutta rossa e si passava incessantemente il fazzoletto sul viso. La sua pelle chiara da irlandese era molto sensibile al sole. «Non preoccupatevi, ragazze» proclamò il papà con un tono che voleva sembrare sereno. «In questi posti sperduti la gente è strana, a causa dell'isolamento. In realtà non sono cattivi.» Certo, pensò Peggy Sue suo malgrado. Cattivi sono i miraggi. Il cane blu tremava tutto, con le orecchie piegate all'ingiù in segno d'irrequietudine. La macchina lasciò il parcheggio per slanciarsi sulla pista di polvere giallastra che si estendeva fino all'orizzonte. Le rocce rosse, frantumate, erano belle a vedersi... ma non meno inquietanti. «Si direbbe che un mostro si sia divertito a sgranocchiarle» bofonchiò telepaticamente il cane. «Sì, guarda: è come se un enorme animale si fosse fatto i denti sul paesaggio. Io mi accontento di una vecchia scarpa, questo qui invece ha bisogno di un paese intero!» «Basta!» pensò Peggy Sue, che iniziava a innervosirsi. «Non aggiungere altro.» Nella macchina regnava il silenzio. La famiglia Fairway non aveva mai messo piede in un ambiente così ostile. «Ehi, laggiù!» disse a un tratto Julia, indicando qualcosa fuori del finestrino. «Guardate, una macchina abbandonata.» Era proprio così. Sul bordo della pista c'era una macchina ferma, con le portiere aperte. Una tempesta di sabbia era penetrata all'interno dell'abitacolo, ricoprendo i sedili. «Per la miseria,» borbottò il signor Fairway «non è neppure tanto vecchia. È un modello piuttosto recente.»
«Che fine hanno fatto i proprietari?» gemette la mamma. «Barney, cosa fai? Non vorrai fermarti, per caso?» Ma il marito aveva già frenato. Scesero tutti dalla macchina, tranne la madre, che rimase rannicchiata sul suo sedile supplicando le ragazze di tornare immediatamente indietro. Il papà girò attorno all'automobile coperta di sabbia. «I bagagli sono ancora sul sedile posteriore» fece la voce del cane blu nella mente di Peggy Sue. «Li vedi? Sporgono dalla sabbia. E sul cruscotto c'è una macchina fotografica molto costosa. Se ancora non è sparita, vuol dire che i ladri hanno troppa paura per avventurarsi da queste parti.» «Stavo facendo anch'io la stessa considerazione» gli rispose la ragazza. «Brutto segno. Senti sempre quelle voci?» «Sì, dei lamenti. E la sabbia ha uno strano odore. Un odore vivo.» «Vivo?» «Sì... come se non fosse veramente sabbia, ma qualcosa di diverso. Delle particelle di un animale, tutte sparpagliate.» Barney Fairway ritornò verso la sua macchina, le sopracciglia aggrottate. «È strano» osservò, mentre riaccendeva il motore. «Nessuno è mai venuto a riprendere questa automobile... eppure è nuova. Nessun ladro ha cercato di smontarne il motore. Piuttosto insolito.» Ripartì. Dieci chilometri più avanti, Peggy Sue avvistò un'altra macchina abbandonata. Questa volta era uscita dalla pista sprofondando nel deserto. Era quasi interamente ricoperta di sabbia. Il papà decise di non dire nulla, probabilmente per non spaventare la moglie, che aveva chiuso gli occhi e sonnecchiava, con la nuca distesa all'indietro sul poggiatesta. Il caldo era davvero atroce, e Peggy si stupì che i cactus non prendessero fuoco. Com'era da attendersi, il motore iniziò a surriscaldarsi. «Dobbiamo fermarci,» esclamò il papà «altrimenti rischiamo di rimanere in panne. Parcheggeremo laggiù, vicino a quello strapiombo. Almeno avremo un po' d'ombra.» «Ragazze, vi proibisco di uscire!» gridò la mamma. «Devono esserci un sacco di scorpioni sotto le pietre.» «Gli scorpioni escono solo di notte» disse Peggy Sue per rassicurarla. «Non amano il sole.» Barney Fairway sistemò la macchina accanto a una cresta rocciosa che faceva pensare a un dito gigante spuntato dal suolo a indicare il cielo. «E se ne approfittassimo per fare un sonnellino?» propose. «Siamo ap-
pena a metà strada. Dormire è sempre il modo migliore per passare il tempo.» Essendo difficilmente ipotizzabili altre proposte, aprirono le portiere e inclinarono i sedili per cercare di riposarsi. Il padre aveva alzato il cofano per far raffreddare il motore. Dopo un quarto d'ora dormivano tutti, tranne Peggy Sue e il cane blu. La ragazza era sul chi vive. Il papà, la mamma e Julia non avevano la più pallida idea di cosa si tramava da quelle parti... lei stessa ne aveva solo un vago presentimento; per questo doveva vegliare su di loro, senza però dare nell'occhio. Facendo attenzione a non svegliare i propri familiari, uscì dalla macchina avanzando di qualche passo nella polvere gialla, con il cane alle calcagna. «Lo senti?» sussurrò d'un tratto l'animale dal profondo della sua mente. «Vibra nell'aria... si sta costruendo...» «Ma cosa?» «Non lo so... si organizza, come i pezzi di un puzzle, esce dal terreno. Stai attenta!» Alla ragazza venne la pelle d'oca, mentre un brivido le percorreva la nuca. Non vedeva nulla, ma intuiva anche lei un'attività invisibile. Improvvisamente, nel bel mezzo della distesa sabbiosa, iniziò a disegnarsi un'immagine. Si elaborava, frammento dopo frammento. Il cielo era come una tela lacerata da un coltello. Lo squarcio, così originato, dischiudeva un altro mondo... assai diverso. Strabuzzando gli occhi, Peggy Sue vide dei bambini della sua età, in tenuta invernale con tanto di zuccotti e sciarpe di lana, che si inseguivano lanciandosi palle di neve! Fece qualche passo in avanti, ipnotizzata da quella apparizione. C'era... una baita in cima a un colle, un pupazzo di neve con una carota al posto del naso, e dei ragazzini che scendevano su uno slittino a tutta velocità lungo il pendio. Le loro risate fuoriuscivano dalla visione con un suono cristallino. «È un miraggio!» urlò mentalmente il cane blu. «Chiudi gli occhi! Non guardare!» La vocina dell'animale aveva un bel gracchiare nel cervello di Peggy Sue, ma lei non la sentiva. Com'è bello! pensò la ragazza. Sembra una cartolina di Natale. Faceva così caldo nel deserto... improvvisamente aveva un unico desiderio: raggiungere i bambini e giocare con loro sui pendii innevati. Accanto a lei il cane guaiva, col pelo ritto per la paura. Dimenticandosi
della sua presenza, Peggy Sue si allontanò dalla cresta rocciosa e attraversò la strada, avanzando nel deserto verso i bambini. Sentiva il gelo dell'inverno dall'immagine apertasi nel cielo; dei fiocchi di neve fuggivano da quell'improbabile finestra per sciogliersi sul suo viso. Com'erano buoni! Tirò fuori la lingua per inghiottirli. Erano all'altezza del miglior gelato del mondo! «Ehi!» gridò uno dei ragazzi vedendola. «Perché te ne stai laggiù a essiccarti come una vecchia lucertola? Vieni da noi. Sbrigati, la porta non rimarrà aperta in eterno. Un miraggio è come un treno, non si può più salire dopo che ha lasciato il binario.» Peggy Sue continuava ad avanzare. Il ragazzo era assai carino, con il naso pieno di lentiggini e un buffo berretto rosso un po' fuori moda. Anche lo slittino sembrava vecchio... come pure i vestiti degli altri bambini. È curioso, pensò, sembra un'immagine del passato. Ciononostante, si avvicinò a quell'immagine... alla 'porta', come la chiamava il ragazzo col berretto rosso. «Torna indietro» urlava in fondo alla sua testa una vocina, che doveva essere quella del cane blu. Peggy cominciava ad avere la pelle d'oca. Adesso era completamente avvolta dai fiocchi di neve. Non soffriva più il caldo, stava cominciando addirittura a tremare dal freddo. «Vieni,» disse il ragazzo con le lentiggini «ti presterò un maglione. Nella baita c'è tutto quello che ti occorre.» Indicò la casupola di legno che si ergeva in cima al colle bianco. «Ci aspetta una tazza piena di cioccolata bollente... e una torta appena uscita dal forno. Non lo senti il profumo?» Era vero! Un odore di pasticceria si confondeva con i fiocchi di neve sempre più fitti. Peggy Sue si guardò i piedi. C'era la sabbia del deserto... e immediatamente dopo, la neve! Poco più avanti si era formata una scala di ghiaccio. Non doveva far altro che arrampicarsi sui gradini trasparenti per arrivare fino al ragazzo col berretto. Si entrava nel miraggio come si sale sul palcoscenico di un teatro. «Vieni!» ripeté il giovane. «Starai molto meglio qui con noi. I miraggi sono l'unica possibilità di sopravvivenza per chi si smarrisce nel deserto. Ma non bisogna esitare, la porta non rimane aperta a lungo. Non devi aver paura. È così che sono sopravvissuto. Mi ero perso durante una gita. Se non fossi saltato dentro il miraggio sarei morto di sete. Vieni...» In cima alla scalinata di ghiaccio, tendeva verso di lei la mano foderata
di lana. «Ma io non mi sono persa,» farfugliò Peggy «i miei genitori mi aspettano, io...» «Vieni!» disse imperiosamente il ragazzo, e la sua voce risuonava come un ordine. Nell'istante in cui la ragazza mise il piede sul primo scalino, sentì un dolore atroce torturarle il polpaccio. Era il cane blu che la mordeva senza pietà. Cacciò un urlo, perse l'equilibrio e cadde all'indietro. Quasi immediatamente l'immagine nel cielo si chiuse e il paesaggio nevoso scomparve. Il cane mollò la presa. «Credevo davvero che finissi per farti convincere!» ringhiò. «Era una trappola. Voleva catturarti. Se fossi entrata nel miraggio non ne saresti uscita mai più.» Peggy si massaggiò il polpaccio. Guardò le minuscole macchioline umide sulla sua maglietta... quelle lasciate dai fiocchi di neve che si erano sciolti. Il calore del sole le avrebbe fatte scomparire in un attimo, ma in quel momento erano la prova di ciò che era appena accaduto. «Non era un'illusione» mormorò. «No» fece il cane blu. «Era reale... ma se n'è andato, come un treno nella notte. Non c'è più. Non sento più la sua presenza.» La ragazza si rialzò. Doveva ritornare alla macchina. «Grazie» disse col pensiero al cane blu. «Mi hai salvata... non so da quale pericolo, ma in ogni caso mi hai salvata.» 3 L'aeroporto infestato Appena sveglio, Barney Fairway si rimise al volante e guidò senza altre soste fino all'aeroporto. A prima vista non aveva nulla di eccitante; si riduceva a un'immensa pista piena di buchi, fiancheggiata da vari hangar e da una torre di controllo irta di antenne storte. Sulla piazzola di volo il vento generava dei mulinelli nei quali turbinavano dei cespugli di spine. Sono pronta a scommettere il mio piede sinistro che nessuna porta è chiusa a chiave, pensò Peggy Sue, ma che tuttavia non hanno rubato niente. I ladruncoli devono evitare questo posto come la peste. Non si sbagliava. All'interno degli edifici, Julia e i genitori scoprirono, con loro gran sorpresa, che non era stato portato via nulla. I mobili, gli ar-
madi pieni di fascicoli e di carte, i guardaroba con le tute di volo dei piloti... ogni cosa era ancora al proprio posto. «La gente che abitava qui se n'è andata via precipitosamente» borbottò il cane blu. «Suppongo che siano stati rapiti dai miraggi. Me li immagino, che scompaiono uno dopo l'altro finché l'aeroporto non rimane completamente vuoto.» Peggy Sue storse la bocca in una smorfia. Condivideva il punto di vista dell'amico a quattro zampe. Avrebbe dovuto restare vigile e proteggere la sua famiglia facendo in modo che nessuno se ne accorgesse. Sarebbe stato difficile spiegare alla sorella che era pericoloso rivolgere la parola ai miraggi! «Mi fa venire la pelle d'oca!» esclamò Julia attraversando la mensa dei dipendenti, i cui ripiani erano ancora ricolmi di bottiglie. Sui tavolini erano rimasti dei caschi da pilota e tazze da caffè sporche. «Su!» intervenne papà Fairway. «Dobbiamo considerarlo come una specie di museo. Tutto il piacere della nostalgia... i tempi eroici dei primi avventurieri del cielo, delle transvolate oceaniche. La posta via aerea!» Cercava di assumere un'aria entusiasta, ma Peggy sentiva che era disorientato, anche lui. «Quanta polvere!» disse con tono afflitto la mamma. «Sono almeno quarant'anni che nessuno passa la scopa, in questa baracca.» Finirono per scovare una serie di stanze abitabili, arredate con mobili un po' vecchiotti. Le riviste che giacevano sui comodini risalivano al 1960. Parlavano di cantanti rock ormai quasi tutti morti. Il tempo le aveva rese scricchiolanti; si sgretolarono tra le mani di Peggy Sue. «Andiamo a dare un'occhiata agli hangar» decise Barney Fairway per alleggerire l'atmosfera. Le due figlie lo seguirono mentre la moglie stabilì che non c'era tempo da perdere, visto lo sfacelo del posto e il lavoro di ripristino che si rendeva necessario. Gli hangar assomigliavano a grosse scatole da conserva adagiate sulla sabbia. Quando il papà fece scorrere il portone del primo, Julia e Peggy furono sferzate da una tale vampata di calore che ebbero la sensazione di trovarsi di fronte a un altoforno. «Non entrerò mai là dentro!» protestò Julia. «Finirò arrostita prima di aver fatto dieci passi!» Papà Fairway alzò le spalle e s'inoltrò da solo nella penombra arroventa-
ta. Vi riposava un vecchio aereo a elica, sbilenco, con le ali storte, vestigia di un'altra epoca. Aveva la vernice scrostata e non sprigionava più alcun odore, né d'olio né di benzina. Sembrava una carcassa... uno scheletro metallico che non avrebbe mai più ripreso il volo. Soffocando per il calore, il papà batté in ritirata. Nell'istante in cui richiudeva il portone dell'hangar, Peggy Sue vide muoversi qualcosa nella carlinga dell'aereo. La sagoma, indistinta, scomparve repentinamente. Il padre si allontanò, senza essersi reso conto di nulla. «Hai visto?» chiese mentalmente la ragazza all'amico a quattro zampe. «Sì» fece il cane blu. «Non era umano.» «Intendi dire che era un animale?» «No, non era terrestre, era una... creatura.» «Una creatura?» «Sì, assomigliava a un uomo, ma solo in apparenza. Eppure è un essere vivente. Sta lì tutto solo, da molto.» «È cattivo?» «Non credo» mormorò il cane. «È qualcosa che non ho mai visto.» I due amici posero fine ai loro scambi telepatici, ma rimasero all'erta. Peggy Sue non poté evitare di lanciare uno sguardo dietro di sé, in direzione dell'hangar. Che cosa vi si nascondeva? L'aeroporto abbandonato era infestato dai fantasmi? No, si convinse. Se si fosse trattato di un Invisibile l'avrei sentito. Barney Fairway volle visitare le altre rimesse. Regnava dappertutto la stessa atmosfera polverosa e rovente, lo stesso odore di metallo surriscaldato. Gli aerei appartenevano a un'epoca sconosciuta a Peggy Sue: Dakota, DC4... Spitfire, Comet... degli apparecchi che era possibile vedere solo nei vecchi film di guerra alla tivù. Non si riusciva a distinguere l'estremità della pista. Il calore era tale che il tremolio dell'aria deformava gli oggetti. A distanza di cinquanta metri, la pista d'atterraggio ondeggiava come un serpente. «Sembra viva, anche questa» bofonchiò mentalmente il cane blu. «Questo posto non mi piace. Va tutto di traverso.» Decisero di rientrare. Rimanere sotto il sole sarebbe equivalso a suicidarsi. «Cercherò di rimettere in sesto i condizionatori» annunciò il papà. «Quanto a voi, ragazze, aiuterete vostra madre a ripulire le stanze.» *
L'intero pomeriggio fu dedicato ai lavori domestici. Mentre faceva prendere aria ai letti e cambiava le lenzuola, Peggy Sue rimase sul chi vive. Il cane blu, inerpicatosi su una poltrona, guardava fuori dalla finestra. «La cosa nascosta nell'hangar» disse a un tratto «sta guardando da questa parte.» «La vedi?» chiese la ragazza, con le braccia cariche di vecchie coperte dell'aeronautica americana. «Vedo il suo occhio in una fessura delle lamiere» rispose l'animale. «Ti sta cercando. Sa che hai scoperto la sua presenza.» Peggy s'irrigidì. La creatura aveva forse intenzione di farla tacere? Nervosa, cercò di concentrarsi sulla sua attività. L'arrivo della sorella le impedì di proseguire la conversazione mentale con il cane. «Che ne dici?» sibilò tra i denti Julia. «Hai visto che orrore? Mi sembra di essere una comparsa di quei vecchi film in bianco e nero sulla seconda guerra mondiale. Spero di non svegliarmi con una di quelle orribili pettinature che avevano le donne a quell'epoca! E le calze cucite... sono tremende, le calze cucite, non riesci mai a infilartele dritte! Quanto tempo dovremo restare qui?» «Finché non scompariremo anche noi... inghiottiti da un miraggio» fu sul punto di risponderle Peggy, ma non lo fece. Al tramonto la calura si placò, e cominciò quasi a far freddo. Dovettero indossare degli indumenti di lana. Peggy Sue s'infilò un vecchio giubbotto da aviatore, scovato in fondo all'armadio della sua stanza. Lo trovava bello perché era costellato di stemmi. Dopo la cena, uscì per fare una passeggiata sulla pista di decollo. Il rumore dei tacchi risuonava nel silenzio. Fu tentata dall'idea di avvicinarsi all'hangar stregato, ma poi ci rinunciò. «Non andarci» le suggerì il cane blu. «La cosa ti spia, ma ha tanta paura di te, quanta tu ne hai di lei. Andremo a trovarla domani.» 4 Le porte dell'aldilà L'indomani venne il momento di occuparsi delle provviste. La mamma telefonò al titolare del bar-supermercato - quello dove si erano fermati all'andata - per ordinare diversi cartoni di generi alimentari. «Vi manderò il fattorino nel corso della giornata» biascicò il tipo. «Non
posso dirvi a che ora di preciso, perché mi toccherà trovare un povero incosciente che accetti di arrivare fin da voi... non sarà facile. Nessuna persona normale ha voglia di spingersi dalle parti di Vista Diablo.» A dispetto di quelle previsioni negative, un'ora dopo si sentì il ciuf-ciuf di un camioncino. Peggy Sue scese per andare a ricevere il fattorino. Rimase sorpresa scoprendo che si trattava di Paco, il vecchio col sombrero incontrato al bar. «Nessuno voleva mettersi al volante» disse il messicano con un sorriso. «Ho accettato per avere la possibilità di parlarti.» «Ho visto un miraggio» bisbigliò tutto d'un fiato Peggy. «C'era la neve, e dei bambini, e...» «Lo so» sbuffò Paco. «E hanno cercato di convincerti a raggiungerli...» «Sì, faceva così fresco all'interno, era tutto così bello...» «È quello il tranello» disse il vecchio con un sospiro. «Il miraggio ti mostra quello di cui tu hai voglia. Morivi di caldo, quindi ti ha offerto la possibilità di rinfrescarti. Se hai paura, ti fa vedere un posto rassicurante. È così che la zona ha finito per spopolarsi negli ultimi vent'anni. Molta gente è scomparsa nel nulla, senza lasciare traccia. Io vengo da Villa Verde, un villaggio più a nord. Oggi ci vivono appena quindici persone. La popolazione è stata inghiottita dai miraggi, specialmente i bambini.» «I bambini?» «I bambini si lasciano abbagliare facilmente. Dovrai stare attenta. Te lo ripeto: i miraggi sono astuti, capiscono subito ciò di cui hai voglia, e se ne servono contro di te. È difficile resistere. Sei come sotto ipnosi.» «Ma che cosa succede una volta dentro?» Il vecchio Paco si strinse nelle spalle. «Non lo so» ammise. «Nessuno è mai tornato indietro a raccontarlo. Anche mio fratello e mia sorella sono stati inghiottiti, è successo 55 anni fa. All'epoca mio fratello maggiore aveva 14 anni. Si chiamava Sébastian. Era furbo, molto furbo... ma il miraggio se l'è portato via lo stesso. Stai in guardia, piccola.» Peggy Sue deglutì a fatica. «La vita è dura, da queste parti» riprese l'uomo. «Per questo la gente si lascia portare via. I miraggi hanno buon gioco nel sedurli perché aprono la porta su una vita più felice. Non dimenticare mai che il miraggio è un inganno. Un imbroglio.» Come se avesse detto troppo, tornò verso il camioncino e iniziò a scaricare le casse. Peggy Sue gli diede una mano.
«Quelli che vivevano qui.» chiese a un tratto «anche loro sono entrati in un miraggio?» «Sì» confermò Paco. «E per le stesse ragioni. Col tempo, dato che la gente continuava a scomparire, nessuno è più voluto venire a lavorare qui. Fu così che l'aeroporto cessò di essere usato. In certe notti di luna piena, i miraggi si materializzavano sulla pista di decollo. Prendevano l'aspetto di un grosso aereo in partenza per le meravigliose isole del Pacifico. Allora la gente usciva dagli edifici, abbandonava la torre di controllo per salirci sopra. Correvano, si spingevano l'un l'altro per raggiungere la scaletta.» «Ma non era un vero aereo...» «No, solo un miraggio che si richiudeva come un buco nell'acqua portandoli chissà dove. Stai attenta. I tuoi genitori e tua sorella potrebbero facilmente rimanere vittime di una simile illusione. Gli adulti non reggono la solitudine del deserto. L'assenza di distrazioni li fa impazzire.» Si arrampicò sul camioncino sgangherato e abbozzò un gesto d'addio. «Ecco,» concluse «ho fatto il mio dovere. Adesso sei avvisata. Spero che avrai più fortuna di mio fratello Sébastian e di mia sorella Adelina. Addio, piccola.» Mise in moto e il camioncino scomparve in un nugolo di polvere secca. «È pazzo?» chiese Peggy al cane blu. «No» rispose l'animale in tono lugubre. «Tutto quello che dice è vero. Mi sono introdotto nella sua mente per frugargli nei ricordi. Ho visto le immagini che evocava. Era lì, nascosto dietro gli hangar, quando il personale dell'aeroporto è salito sull'aereo fantasma. Tutto ciò di cui parla, lo ha vissuto davvero. Siamo proprio in pericolo.» Si presentò Julia. Era venuta a vedere cosa succedeva con le provviste. Le due sorelle cominciarono a portare le casse di viveri all'interno della torre di controllo. Il papà aveva armeggiato per rimettere in sesto i vari apparecchi elettrici: condizionatori, frigoriferi. Ahimè, i televisori erano preistorici... in bianco e nero! «La cosa più importante è l'acqua» affermò Barney Fairway sedendosi a tavola davanti a un hamburger che pareva minuscolo tra le sue grosse mani. «Se le tubature fossero state difettose non avremmo potuto resistere più di quarantott'ore. In un posto come questo si bevono in media sette-otto litri d'acqua al giorno. È difficile avere delle scorte sufficienti, a meno di non disporre di una colonna di camion cisterna!» «In ogni caso mi sembra che i tuoi datori di lavoro siano stati davvero
imprudenti» osservò la mamma. «Ci hanno sbattuti quaggiù a sbrogliarcela da soli.» «L'acqua e il telefono erano a posto» si difese Barney. «Sono queste le due cose fondamentali. Per il resto ce la caveremo, non siamo dei buoni a nulla, vero ragazze?» Peggy Sue gli sorrise. Era commossa nel vedere suo padre mettercela tutta per mantenere un clima di buonumore, nonostante il disagio generale. Decise di fingersi spensierata anche lei, e di considerare il trasloco come una formidabile avventura. Lavati i piatti, Peggy attese che la famiglia andasse a dormire per sgusciare fuori dall'edificio. Adesso faceva freddo e la luna rischiarava il deserto con una luce bluastra. La ragazza sbatteva i denti. Anche il cane tremava, trotterellando al suo fianco. Tenevano entrambi gli occhi fissi sull'immensa pista danneggiata, fiancheggiata da cactus. Nell'oscurità facevano pensare a sagome umane con le braccia alzate. «Non sarà che si muovono quando non li guardiamo?» chiese. «No» rispose il cane. «Sono dei veri cactus. Ma la cosa nell'hangar comincia a spazientirsi. Vuole dell'acqua. Ha sete, molta sete.» «Vado a mettergli una bottiglia di soda davanti al portone,» propose Peggy «in segno di buon vicinato.» «Una bottiglia... non sarà sufficiente» intervenne l'animale. «Almeno venti litri.» «Venti litri!» esclamò Peggy con un singulto. Chi poteva avere uno stomaco così ampio da assorbire venti litri in una notte? «D'accordo» si arrese. «Vado a prendere dei secchi nell'officina.» Si recò nell'hangar dove, un tempo, si riparavano i motori degli aerei, e trovò tre recipienti adeguati che andò a riempire al rubinetto di servizio, a cinquanta metri di distanza. Le tubature tossirono, sputando fuori un liquido color caramello, poi si decisero a lasciar scorrere un'acqua torbida, ma comunque bevibile. Compiuta questa strana missione, Peggy e il cane ritornarono alla torre di controllo per trascorrere la loro seconda notte nell'aeroporto infestato. 5 I prigionieri del cassetto
Il giorno seguente, quando si risvegliò, Peggy Sue rimase sorpresa dall'incredibile silenzio che regnava nell'aeroporto. In città era abituata al sottofondo costituito dal frastuono del traffico e dagli ululati delle sirene della polizia. Qui non si sentiva niente... soltanto il sibilo del vento tra le antenne storte della torre di controllo. Scostò le coperte. Per il momento faceva ancora freddo ma appena il sole fosse salito un po' il caldo sarebbe diventato insopportabile. S'infilò il giubbotto da aviatore sopra il pigiama e scese in cucina - ampia come quella di un ristorante perché era a servizio della mensa. Spiluccò una frittella alla marmellata e bevve un bicchiere di latte freddo. Riempì distrattamente con del cibo la ciotola del cane blu. In realtà pensava alla creatura misteriosa nascosta nell'hangar. Aveva bevuto quei venti litri d'acqua nel corso della notte? «Forse dovremmo darle da mangiare?» suggerì al cane blu. «Così magari non le verrà in mente di sbranarci.» «Non so» confessò l'animale. Peggy cercò di osservare l'hangar misterioso dalla finestra. «I secchi sono scomparsi». Non ebbe il tempo di pensarci oltre, perché dalla scala risuonarono i passi della mamma. La famiglia si stava svegliando e subito dopo la colazione sarebbero ripresi i lavori. * Dovette infatti attendere fino all'ora del pisolino pomeridiano per avere un po' di libertà. Durante la mattinata non aveva pensato ad altro che alla creatura nascosta nell'hangar. Che cosa succederà se papà ci si ritrova a tu per tu? La cosa, irritata per essere stata scoperta, gli salterà alla gola? Bisognava stabilire un contatto, prima che si verificasse un incidente. Era abituata ai fantasmi, sarebbe riuscita probabilmente a instaurare un dialogo con quella creatura indescrivibile... «eppure umana», come affermava il cane blu. Uscì dalla torre di controllo. All'interno degli edifici i climatizzatori, benché in pessimo stato, riuscivano a mantenere la temperatura attorno ai 28 gradi, ma all'esterno regnava un caldo assoluto; veniva quasi da pensare che la pista di decollo fosse fatta di braci ardenti. La ragazza si sentì soffocare. Se provassi a raggiungere l'estremità dell'aeroporto diventerei più secca
di un biscotto, pensò. La lingua del cane blu sembrava sul punto di strusciare a terra, come la sua cravatta. I due amici s'incamminarono verso l'hangar. «Ho paura» trasmise Peggy. «Come pensi che mi accoglierà?» «Non so» rispose l'animale. «È agitato. È arrabbiato per il caldo... pensa all'acqua che evapora. Ha paura di morire, credo.» Peggy Sue non riusciva a decidersi a far scorrere il portone metallico. Sapeva come cavarsela con i fantasmi, ma di mostri non se ne intendeva per niente. Per darsi il tempo di trovare coraggio, decise di percorrere tutta la pista fino in fondo e tornare indietro. Al ritorno - promesso! - sarebbe entrata nell'hangar. «Dove vai?» protestò il cane. «Ci arrostiremo! Non so cosa darei per sguazzare in uno stagno.» «Anch'io» ammise la ragazza. E, d'un tratto, nei pressi si udì uno sciabordio. Un odore riconoscibile tra mille assalì le narici di Peggy nello stesso istante in cui delle goccioline la spruzzavano. «Il mare...» balbettò. Il cane blu si limitò a emettere un guaito. Un miraggio si stava formando tra gli hangar, sbocciava dispiegando i suoi petali come un fiore gigante. La porta magica si apriva su qualcosa che assomigliava a... a un gigantesco acquario! Era come se Peggy passeggiasse su un fondale oceanico. Dinanzi a lei si estendeva un paesaggio di alghe in cui guizzavano migliaia di pesci colorati. Dietro alle scogliere di corallo si ergeva il relitto di un antico galeone, un vascello pirata naufragato da secoli. Era strano e bello al tempo stesso. L'acquario era privo di vetri, la muraglia d'acqua magica non ne aveva bisogno. «È un'illusione» abbaiò il cane blu, col pelo ritto sul dorso. «No» osservò Peggy. «È reale. Lo puoi toccare.» Tese l'indice verso la parete verticale costituita da acqua di mare. Il suo dito penetrò senza difficoltà. Quando lo portò alla bocca, poté verificare che il liquido era salato. «È reale» ripeté. «I miraggi aprono ad altre dimensioni.» «Non avresti dovuto toccarlo!» balbettò il cane. «Stai indietro! Filiamocela!» Ma la ragazza non riusciva a distogliere lo sguardo dai pesci tropicali che le nuotavano incontro.
«Vengono verso di me!» gridò. «Guarda! Non hanno paura!» Incapace di resistere, immerse di nuovo la mano nella parete liquida e si mise ad accarezzare i pesci come se fossero animali domestici. Questi la lasciarono fare, persino urtandosi per avere ognuno la propria parte di coccole. Erano buffi con i loro occhi tondi, le chiazze dai colori incredibili. Senza farci caso, Peggy si era avvicinata alla superficie e aveva cominciato ad affondarci dentro dapprima le mani, poi gli avambracci... ben presto il suo viso sfiorò il muro liquido... Improvvisamente, una sagoma per metà umana fece capolino da dietro un banco di corallo, una mano tentò di richiudersi sul polso di Peggy Sue per farla scivolare completamente all'interno dell'universo liquido. Per fortuna il cane blu ebbe il riflesso di afferrare con i denti la maglietta della sua padrona per tirarla indietro. La ragazza si rese appena conto di ciò che stava per accadere. Il miraggio agiva sulla sua mente come un flusso ipnotico. Non pensava ad altro che a quei bei pesciolini... e al ragazzo sbucato dagli abissi. Nuotava di fronte a lei, con movimenti aggraziati. Aveva i capelli biondi, un sorriso affascinante... ma le sue gambe si erano trasformate in una coda di pesce argentata. «Ehi!» esclamò. «Perché rimani lì a cuocerti in quell'aeroporto putrefatto? Sai che ci abitavo con la mia famiglia? Mi annoiavo da morire... pensavo solo alla spiaggia, al surf. Odiavo il deserto. Il deserto è fatto per gli sciacalli, non per gli esseri umani.» Ogni parola usciva dalla sua bocca sotto forma di una bolla che scoppiava toccando la superficie. Una ragazza della stessa età di Peggy Sue scivolò fuori dal relitto del galeone per raggiungerlo. Era una sirena. La parte inferiore del suo corpo brillava di un bagliore metallico, come un abito da sera pieno di lustrini. «Ciao» disse con un sorriso gentile. «Sei stata fortunata ad averci incontrato, raggiungici. È facile, basta che vieni avanti verso la parete liquida. Appena entrerai nell'acqua il tuo corpo si adatterà immediatamente alla vita sottomarina.» «Non affogherò?» chiese sorpresa Peggy. «No» la tranquillizzò la giovane ninfa. «La trasformazione è graduale. Se lo desideri, potrai diventare una sirena come me, è molto più pratico per vivere sott'acqua. Altri invece preferiscono continuare a trasformarsi fino in fondo e scelgono di diventare dei pesci. Tutti quei pesci che accarezzavi... un tempo erano dei bambini. Sono molto più felici così.»
«Vieni» ripeté il ragazzo. «Cogli quest'occasione. Il miraggio sta per richiudersi e la porta non verrà riaperta per i prossimi dieci o vent'anni.» Allungò la mano fuori dall'acqua per afferrare quella di Peggy. Sembrano così belli, pensò la ragazza. Potrebbe essere un modo per dimenticare gli Invisibili e avere finalmente una vita divertente. Si avvicinò un delfino. Anche lui sorrideva. Emise degli strani versi. «Dice che nel tuo mondo era grasso e balbuziente» tradusse la sirena. «Qui è felice. Dài, vieni, con noi non avrai più bisogno di quegli orribili occhiali!» Ma il cane blu aveva afferrato Peggy Sue per la maglietta e la tirava forsennatamente indietro. «Sei una stupida!» sibilò la sirena arricciando le sopracciglia. «Il miraggio si richiuderà e tu lo rimpiangerai per tutta la vita. Se rimani con gli uomini crescerai, invecchierai... ti annoierai come tutti gli adulti. Se vieni con noi, resterai una bambina, per l'eternità.» La sua voce cinguettante si allontanava, la bocca produceva ormai soltanto un rumore di bollicine. «Troppo tardi!» urlò il ragazzo. «La porta si sta chiudendo.» D'un sol colpo, l'oceano si ritirò. La contrazione generò delle grandi turbolenze e Peggy Sue venne travolta dalla schiuma. Un grosso pesce giallo, vittima del risucchio, fu proiettato fuori dal miraggio e ricadde ai suoi piedi, sulla pista di decollo. Scomparve tutto: la sirena, il delfino, il relitto. «Stavi quasi per farti abbindolare» ringhiò il cane blu. «Se non ci fossi stato io...» Ma Peggy Sue non lo ascoltava. Si era inginocchiata per cercare di acciuffare il pesce giallo che si contorceva nella polvere. «È terribile!» gemette. «Morirà senza acqua di mare... forse mettendo un po' di sale in un secchio e...» «Smettila di agitarti» si spazientì il cane. «È un pesce magico, non ha bisogno d'acqua.» «Tu credi?» fece Peggy, incredula. «Ma certo» borbottò il cane con il tono cattivo che a volte lo caratterizzava. «Credo anche che riprenderà le sue vecchie sembianze da bambino. Sarà un'ottima maniera per capire cosa tramano laggiù, nel cuore dei miraggi. Dovrai rinchiuderlo in un cassetto, bisogna considerarlo come un prigioniero di guerra! Gli faremo dire quello che sa.» Peggy alzò gli occhi al cielo.
«A volte sei così stupido che mi domando come faccio a sopportarti!» sospirò. «Quando la smetterai di scimmiottare gli uomini nei loro aspetti più detestabili?» Il cane, offeso, mise il broncio. «Ti dico che lo devi nascondere, quel pesce» bofonchiò allontanandosi. «Mi fa venire fame e potrebbe anche venirmi in mente di divorarlo!» Peggy Sue decise di dargli retta. Il grosso pesce giallo continuava a dimenarsi tra le sue mani. Povero mio, pensò, non so davvero che cosa fare di te. Era fuori discussione farlo vedere a Julia, mamma e papà: come avrebbe giustificato la sua presenza? Lo sistemerò in un cassetto del mio comodino, disse tra sé Peggy Sue. Comunque non c'è altra soluzione. Un pesce di mare muore se uno lo mette in acqua dolce. Quanto a versare del sale nell'acqua del rubinetto, è assai complesso... bisogna sapere la proporzione esatta. Se ci si sbaglia, il pesce muore. Consultò l'orologio con preoccupazione. Nonostante il passare del tempo, il pesce giallo non dava alcun segno di malessere. Strano. Si affrettò a raggiungere la sua stanza per chiuderlo in un cassetto. L'inconveniente era che sferrava dei colpi di coda contro le pareti del comodino. Poteva attirare l'attenzione... «Quanto tempo ci metterà a trasformarsi di nuovo in un ragazzo?» si chiese. «Qualche ora? Giorni?» La porta della camera di Julia si aprì di volata; anche Peggy decise di uscire, come se si fosse appena svegliata dal pisolino. Chiuse con cura la porta della stanza. Dal corridoio, i colpi di coda del pesce giallo non si sentivano. La sfacchinata riprese. La signora Fairway aveva deciso di pulire a fondo un intero piano della torre di controllo, quello che serviva, un tempo, come dormitorio per i piloti, perché era l'unico luogo in cui l'impianto di condizionamento funzionava in maniera soddisfacente. Di tanto in tanto, Peggy Sue sgattaiolava via per andare a infilarsi nella sua stanza. Apriva uno spiraglio del cassetto del comodino per dare una rapida occhiata al pesce. Era ancora vivo... ma di pessimo umore. La sera, tuttavia, quando salì per andare a letto, ebbe la sgradevole sorpresa di constatare che era scomparso. Non c'era più traccia del pesce; in compenso, il cassetto era pieno di sabbia. Di sabbia gialla.
6 Il passeggero clandestino Peggy Sue rimase per un bel po' in contemplazione davanti al comodino. Dopo aver esitato a lungo, affondò le dita nella polvere gialla che tappezzava il fondo del cassetto. Il cane blu si arrampicò sul letto per annusarla. «Sa di pesce» fu la sua diagnosi. «È normale,» fece Peggy con un'alzata di spalle «visto che viene dal mare.» «Si lamenta» proseguì l'animale. «In parte è ancora vivo... ma ridotto in polvere.» «Lo dicevi già quando siamo arrivati al limitare del deserto.» «Sì, e lo ripeto. È ridotto in polvere... e piange.» La ragazza richiuse il cassetto. «Stanotte entreremo nell'hangar» decise. «Andremo a trovare la creatura misteriosa.» I due complici attesero che la luna sorgesse. Una volta che la famiglia si fu addormentata, Peggy indossò il giubbotto da aviatore e si mise in tasca una lampadina. Mentre il ronfare di Barney Fairway risuonava nel corridoio, la ragazza e il cane scesero furtivamente le scale e uscirono dalla torre di controllo. Attraversando gli uffici ancora ingombri di scartoffie, guardando i fogli abbandonati a metà nelle macchine da scrivere, la ragazza non poté fare a meno di pensare alle persone che avevano vissuto lì, e che se ne erano andate a causa di decisioni improvvise... perché un aereo fantasma, una notte, si era materializzato sulla pista. Sperava che Julia e i genitori non cedessero al potere ipnotico dei miraggi. Aveva l'obbligo di impedirlo, ecco perché doveva farsi coraggio e affrontare la cosa nascosta nell'hangar. Appena messo fuori il naso cominciarono a tremare per il freddo della notte. Il cane blu si diresse verso l'hangar digrignando i denti, già pronto a difendere la sua padrona. Peggy manovrò il pesante portone cercando di non farlo cigolare. Dopo aver aperto uno spiraglio, lanciò un'occhiata all'interno, ma ahimè, era troppo buio. Strinse i denti pensando: «Pazienza, bisogna andare! Di tornare indietro non se ne parla proprio.» Con i muscoli tesi, oltrepassò la soglia. Quando i suoi occhi si abituaro-
no all'oscurità, riuscì a distinguere i contorni del vecchio aeroplano sbilenco, accasciato in fondo alla rimessa come un dinosauro. È una carcassa metallica, disse tra sé. Il pericolo non arriverà da lì... Sentì qualcosa che strusciava sulla sua destra. Qualcosa che si spostava nelle tenebre producendo uno scricchiolio bizzarro. Istintivamente mise le mani sulla torcia. «No,» disse una voce giovanile «non accendere.» Peggy rimase stupefatta. Era pronta a incontrare un mostro, ed ecco invece un ragazzino della sua età che le parlava con una lieve inflessione messicana! «Non lasciarti abbindolare» sussurrò subito il cane blu nella sua testa. «Anche se ne ha tutta l'aria... non è umano.» Per il momento Peggy Sue non vedeva nulla, e questo la innervosiva. «Chi sei?» chiese. «Mi chiamo Sébastian... ho 14 anni.» «Sei messicano?» «Vengo da Villa Verde, un villaggio a tre chilometri da qui. Insomma... era lì che abitavo prima.» «Prima di cosa?» «Prima di entrare nel miraggio.» Peggy trattenne il respiro. «Sei uscito da un miraggio, è così?» chiese. «Sei fuggito e adesso ti nascondi qui?» «Sì, più o meno» bofonchiò il ragazzo. «In realtà è più complicato.» S'interruppe, come se avesse la gola secca. «Ho sete... hai portato dell'acqua? Ho bisogno d'acqua, di molta acqua.» «Non c'è un rubinetto qui?» «Sì, ma è rotto, o forse la tubatura è intasata. Sto morendo di sete.» La sua voce aveva curiosamente cambiato tonalità. Era stridente. Peggy non si risentì per il modo brusco con cui le parlava. Intuiva che era nervoso, impaurito. «Vado a prenderti da bere» disse. «Scusa, avrei dovuto pensarci. Credevo che ti restasse ancora un po' dei venti litri che ti avevamo portato ieri sera.» «I secchi sono lì» si limitò a rispondere la creatura che asseriva di chiamarsi Sébastian. «Vicino al portone. Fa' presto, ho troppa sete.» La sua voce era cambiata ancora, adesso le sue parole producevano lo stesso rumore di un mucchio di sassi smossi in un sacco.
Peggy si allontanò cercando a tentoni il manico di un secchio. Moriva dalla voglia di accendere la lampada. Idee folli le attraversavano la mente. Si domandò se il mostro nascosto nelle tenebre non avesse deciso di imitare la voce di un ragazzo al solo scopo d'ingannarla... Si affrettò a riempire il recipiente all'esterno e ritornò indietro. «Poggialo a terra» le ordinò Sébastian. «Me la caverò da solo.» La ragazza obbedì. Le sue pupille, adesso assuefatte all'oscurità, distinguevano una figura molto vicina... troppo vicina. Il manico del secchio cigolò nell'attimo stesso in cui veniva afferrato, poi l'acqua si mise a scorrere. Peggy tese l'orecchio ma non avvertì alcun rumore di deglutizione. Non beve, osservò. Sta vuotando il secchio a terra. A che gioco sta giocando? Niente aveva senso e cominciava a perdere il suo sangue freddo. «Se non mi lasci accendere la torcia me ne vado» disse seccamente. «A te la scelta.» «Va bene,» mugugnò il 'bambino' «non t'arrabbiare. Accendi pure la tua maledetta torcia.» Peggy premette il pulsante, facendo scaturire un fascio di luce che colpì in pieno Sébastian. Era un giovane di pelle bruna, vestito molto banalmente con jeans e maglietta bianca. La ragazza lo giudicò piuttosto carino, malgrado il broncio e l'espressione testarda. Aveva l'aria di un apprendista torero, la carnagione olivastra, gli occhi lievemente a mandorla. Strano, pensò. Non ci sono schizzi sulla sua maglietta e neanche pozzanghere sul pavimento. Dove è finita dunque l'acqua che ha rovesciato in trenta secondi? «Mi hanno spiegato che nessuno è mai uscito da un miraggio» disse. «Lo so» fece il ragazzo. «Il vecchio Paco. Vi ho sentiti mentre scaricavate le casse. Si sbaglia. Un sacco di gente fugge di continuo dai miraggi. Il problema è che non riescono a riadattarsi al mondo reale.» «La vita è troppo triste?» «No, non è questo. C'è una ragione più... tecnica. Le leggi che governano il miraggio sono diverse. Primo, non s'invecchia. Si mantiene in eterno la stessa età, quella che uno ha quando varca la porta magica. Si diventa immortali.» Peggy Sue strabuzzò gli occhi. D'un tratto ebbe un'illuminazione. «Tu... tu ti chiami Sébastian» farfugliò. «Il vecchio Paco mi ha detto che suo fratello maggiore si chiamava proprio così. E tu vivevi a Villa Verde,
come lui... È così?...» Il giovane annuì scuotendo gravemente la testa. «Sono il fratello maggiore di Paco» confermò. «Ho varcato la soglia del miraggio 55 anni fa. Se contassimo come nel tuo mondo, adesso avrei 69 anni. Ma laggiù il tempo è immobile, nulla invecchia. Si può rimanere uguali in eterno. Le cose si complicano quando si cerca di tornare indietro.» «Perché? S'invecchia di colpo?» chiese Peggy con voce tremolante. «No» sospirò Sébastian. «Ma il corpo non può conservare a lungo la sua coesione. Si secca, si sgretola... e si trasforma in sabbia.» Peggy Sue soffocò un grido d'orrore. Le era appena tornato alla mente il pesce giallo rinchiuso nel cassetto del comodino. «So a cosa stai pensando» fece Sébastian. «Ti ho vista mentre raccoglievi il pesce caduto dal miraggio. Non deve restarne più granché a quest'ora, vero? Nient'altro che un mucchio di polvere. Per dirtela tutta, anch'io corro questo rischio tra poco. È la punizione del ritorno... lo spiacevole inconveniente che attende tutti i fuggiaschi. Ci essicchiamo.» «Vi essiccate?» ripeté Peggy, non sicura di avere capito bene. «Sì» mugugnò il ragazzo. «Non sono più umano. Adesso devo pagare il prezzo dell'immortalità. Sono fatto di sabbia...» «Cosa?» «Tutto ciò che esce dal miraggio assume la stessa consistenza del deserto. Appena i nostri corpi perdono umidità, cominciamo a sgretolarci. Hai presente un castello di sabbia su una spiaggia? Finché è bagnato è bellissimo, ma appena si secca le sue torri crollano. Alla fine, quando è ben asciutto, basta una ventata a sparpagliarlo. La sabbia del deserto è tutto ciò che rimane della gente che ha tentato di fuggire dai miraggi e si è trasformata in statue di sabbia secca... troppo secca. A tal punto che le raffiche di vento la disperdono a piacimento.» «D'accordo» disse Peggy con voce ansimante. «L'acqua... tu non la bevi, ti ci innaffi, è così?» «Sì, per mantenere la mia coesione interna. Fintanto che rimango umido non mi disgrego, ma appena comincio a essiccarmi, è un incubo... Posso sbriciolarmi al minimo gesto. Il guaio è che durante il giorno nell'hangar fa caldissimo, e l'acqua evapora rapidamente.» A rischio di apparire scortese, Peggy Sue non poté fare a meno di esaminare le braccia nude del ragazzo. Lui lo capì e si lasciò sfuggire una risata disincantata. «Oh!» esclamò. «Adesso non si vede. Ho appena assorbito il contenuto
del secchio e il calore è cessato. Ho un aspetto assolutamente umano. Puoi toccarmi la mano, non noterai alcuna differenza. Le cose cambiano quando inizio a essiccarmi. La mia pelle diventa ruvida, rugosa. La mia voce si trasforma. Se tu mi dessi una spinta, il mio braccio si sbriciolerebbe, si trasformerebbe in polvere... Vedi, non sono un nemico così pericoloso!» Peggy Sue sentì un nodo alla gola. Era tutto terribilmente triste. Avrebbe voluto aiutare Sébastian, ma non sapeva come porre rimedio alla situazione. «Puoi guarire?» chiese. «Sì,» rispose lui con un ghigno «se ritorno da dove sono venuto... dentro il miraggio. Laggiù ritornerei immortale, come gli altri.» «Perché te ne sei andato?» Sébastian fece una smorfia. In questa circostanza, Peggy notò quanto la sua pelle mancasse di elasticità; le rughe scavate sul suo viso impiegavano parecchio tempo a riassorbirsi. «È un discorso complicato» sospirò Sébastian. «Forse sei troppo giovane per capire.» «Ma abbiamo la stessa età!» ribatté Peggy. «Per modo di dire!» scoppiò a ridere il ragazzo, prima di proseguire in tono più basso: «Volevo rivedere la mia famiglia, all'inizio... e poi, da un po' di tempo c'è assai poco da divertirsi, laggiù. Le cose vanno male. Avevo intenzione di avvertire gli altri ragazzi. Dire loro di non entrare nei miraggi. Era un po' presuntuoso da parte mia. Ho agito per una decisione improvvisa. Nel paese dei sogni si perde l'abitudine a riflettere. Non ti accorgi degli anni che passano perché il tempo non esiste più. Hai l'impressione di essere lì soltanto da un mese, quando in realtà sulla Terra sono trascorsi vent'anni. È un altro mondo. I miraggi aprono la porta su universi grandi come luna park. Pensi solo a giocare, a divertirti... e ogni gioco è più divertente del precedente. Non ti stanchi mai. Puoi abbuffarti senza ingrassare, e le cose buone non mancano. Puoi correre rischi pazzeschi senza avere mai un incidente. È... è indescrivibile.» La sua voce cominciava a farsi tremante. «Ero molto povero» spiegò d'un tratto abbassando gli occhi. «Venivo da un villaggio dove si moriva di fame. Il futuro che avevo di fronte a me non era per nulla allettante. Non volevo fare quella vita. Non avevo la minima intenzione di massacrarmi di lavoro per una paga da miseria, e di morire prima del tempo logorato da una vita di privazioni. Un indio delle colline sacre mi ha parlato dei miraggi magici... delle porte che si aprivano qua e
là, a caso, sulle piste. Mi ha rivelato che una volta laggiù non sarei più potuto tornare indietro, e che la sabbia del deserto era composta dai resti di tutte le persone che avevano tentato di scappare dalla trappola dorata degli universi paralleli. Ma io me ne infischiavo. Nulla poteva essere peggio di ciò che stavo vivendo. Alla prima occasione, quindi, ho fatto il grande passo.» «E ora, eccoti di nuovo qui...» concluse Peggy. «Sì» ammise Sébastian. «La cosa peggiore è che ho l'impressione di essere entrato nel miraggio non più tardi di una settimana fa. Quando ho visto cos'era diventato il mio fratellino, Paco, stavo quasi per svenire.» Si sedette, appoggiando la schiena alla fusoliera dell'aereo. «Parlare mi prosciuga» fece con fiacchezza. «Se continuo, rischio che la lingua mi si polverizzi. Torna domani... e portami dell'acqua, tanta acqua. Adesso sono nelle tue mani. Sta a te decidere il mio destino.» «Ti aiuterò» disse con un sussurro la ragazza. «Vuoi che avvisi Paco? Forse saprà aiutarti meglio di me.» «Non subito» ansimò Sébastian. «Mi vergogno un po'. So di avergli procurato dolore... non pensavo che gli anni sarebbero passati così in fretta.» «Come vuoi» assentì Peggy Sue. «Rifletteremo insieme sul da farsi. Per il momento vado a prendere dell'acqua. Così potrai affrontare la giornata di domani senza problemi. Cerca di non farti vedere da mio padre, si chiederebbe che cosa stai facendo qui al buio.» «Non posso uscire alla luce del giorno» fece Sébastian. «L'acqua contenuta nel mio corpo evaporerebbe in dieci minuti, e mi ridurrei in polvere prima di aver percorso metà della pista.» «Ho capito» sussurrò Peggy Sue. «Faremo ciò che serve per evitarlo.» Avrebbe voluto continuare a parlare con Sébastian tutta la notte, ma temeva che la mamma o Julia potessero accorgersi della sua assenza. «Torna domani» concluse il ragazzo. «Ho altre cose da dirti... le cose vanno male all'interno dei miraggi. Siete tutti in pericolo. Per questo sono tornato, per dirvi di fuggire finché siete in tempo.» 7 Complotti invisibili Peggy Sue tremava al pensiero che suo padre si mettesse in testa di lustrare gli aerei dimenticati in fondo agli hangar. Era un asso del bricolage, in grado di riparare qualunque cosa. C'era chi non poteva fare a meno di
assistere tutti i gatti del quartiere... e chi, come Barney Fairway, appena si trovava di fronte una macchina fuori uso, si sentiva in obbligo di rimetterla in sesto. Un talento del genere si rivelava assai utile nell'aeroporto, dove cadeva tutto a pezzi, ma Peggy sapeva che una volta riparata la torre di controllo, sarebbe passato agli aeroplani... scoprendo Sébastian. Aveva una certa difficoltà a districarsi nei sentimenti che provava per quello strano ragazzo. Per certi versi era indisponente, troppo autoritario, ma sentiva che aveva paura, e questo lo rendeva commovente. «Si è cacciato in una brutta storia» borbottò il cane blu, al quale Peggy aveva chiesto consiglio. «Una cosa è certa: se non avrà acqua sufficiente per conservare il suo grado di umidità interna, farà la fine del pesce giallo. Tutto si spiega, adesso: ecco perché avevo l'impressione che la sabbia fosse viva e di sentire dei lamenti. Quando i fuggiaschi si sbriciolano, non muoiono. Si riducono in polvere mescolandosi a chi li ha preceduti.» «Il vecchio Paco potrebbe sicuramente aiutarlo» disse Peggy. «Porterebbe Sébastian a casa sua, lo nasconderebbe in una stanza buia e gli darebbe tutta l'acqua di cui ha bisogno.» Pronunciando quelle parole, si rese conto che non sarebbe stata un'esistenza piacevole. In effetti, Sébastian non poteva più vivere tra gli esseri umani; adesso che il suo corpo si era modificato, era condannato a far ritorno nel miraggio. Aveva creduto di potersi liberare dalla realtà immergendosi nell'illusione, ma l'illusione esercitava ora su di lui una tirannia ben più terribile di quella del mondo reale. * Peggy decise di telefonare al negozio di alimentari per ordinare una nuova consegna di viveri. Al termine della conversazione, pregò il commerciante di mandare Paco, come la volta precedente. Sperava che al vecchio potesse venire un'idea per sbloccare quella situazione. Quando il camioncino del messicano parcheggiò tra gli hangar, gli andò incontro, con un nodo alla gola. Quello che doveva annunciargli non era per niente facile. «Sébastian è tornato» mormorò. «È fuggito dal miraggio. Ma avrà una sorpresa... il... il suo stato fisico non è dei migliori.» La bocca del vecchio iniziò a tremare, e dovette fare uno sforzo per riprendersi.
S'intrufolarono nell'hangar. Faceva un caldo infernale perché il sole batteva sulle lamiere già da diverse ore. Sébastian si stava facendo una doccia, aiutandosi con un annaffiatoio. Curiosamente, l'acqua non scorreva sulla pelle o sui vestiti, penetrava nel corpo. È come una spugna, pensò la ragazza. Una spugna secca che ha sempre sete. Accorgendosi della presenza di Paco, il viso di Sébastian si contrasse in una smorfia. «L'hai fatto venire!» esclamò stizzito fissando Peggy. «Non volevo che mi vedesse in questo stato.» «Solo lui può aiutarci» si difese la ragazza. «Calmati.» Sébastian abbassò gli occhi, non osando guardare in faccia il fratello. Il vecchio accennò una mossa per prenderlo in braccio, ma Sébastian si scostò con un balzo. «No, non toccarmi. L'acqua rende il mio corpo malleabile. Mi deformeresti... il segno delle tue mani si imprimerebbe sulla mia carne e non si cancellerebbe più. È così. Bisogna aspettare che la mia coesione interna si ristabilisca.» «Non sei cambiato» mormorò il vecchio con voce tremante. «È vero» disse Sébastian ridacchiando. «Non volevo diventare adulto. Volevo divertirmi in eterno. Non posso davvero lamentarmi!» Poi sollevò gli occhi e fissò Paco. «Sono vecchio, eh?» sussurrò quest'ultimo. «Sì» riconobbe il ragazzo. «Ma dentro sei più saldo di me. Io non sono altro che un mucchio di sabbia che può sgretolarsi in qualsiasi momento... Peggy Sue ti ha messo al corrente?» «No.» Con voce stanca, cominciò a spiegare al vecchio quello che la ragazza già sapeva. Paco non parve affatto sorpreso. «Lo temevo» fece, quando il 'fratellino' terminò il suo racconto. «La bruja, la strega di Villa Verde, l'aveva predetto. Sappiamo già da tempo che la sabbia è viva. Come posso aiutarti?» «Non potete aiutarmi!» si spazientì Sébastian. «Sembra che non capiate. Sono venuto per voi, per avvisarvi. Siete tutti in pericolo, voi... umani. I miraggi estenderanno il loro raggio d'azione per cercare di catturare più gente possibile.» «Hanno già cercato di farlo con me, due volte» confermò Peggy. «A che scopo?» chiese Paco.
«Laggiù, dentro gli universi paralleli, c'è una guerra» disse Sébastian con un filo di voce. «Va tutto a rotoli. Chi oltrepassa la soglia di un miraggio crede di entrare in un universo meraviglioso, ma in realtà finisce per essere utilizzato come soldato in battaglie terribili... dei combattimenti magici che non potete neanche immaginarvi.» «Una guerra?» chiese stupita Peggy Sue. «Perché non ci dici qualcosa in più?» Sébastian fece un gesto di sconforto. «Okay. Da qualche parte c'è un demonio addormentato. Questo demonio sogna, e ogni suo sogno crea un nuovo mondo magico. Quando si apre la porta di un miraggio è possibile entrare in questi mondi... Ma ahimè, da qualche tempo il demonio ha cominciato a fare degli incubi, e gli universi che ha generato si sono trasformati in inferni in cui infuria una guerra. È per questa ragione che la gente tenta di scappare... per poi ridursi in polvere non appena fa ritorno nel mondo reale. Ed è sempre per questo motivo che i miraggi fanno la loro apparizione sempre più di frequente. Cercano di reclutare nuovi soldati, con ogni mezzo.» «È vero» disse Peggy. «Mi hanno promesso che sarei diventata una sirena.» «Menzogne! Nient'altro che menzogne!» grido Sébastian. «Se tu avessi varcato la soglia, ti avrebbero arruolata all'istante in un battaglione di nuotatori da combattimento. Per questo sono tornato. La gente deve sapere cosa succede.» «Non ci crederà nessuno» sospirò Paco. «So di cosa parlo. Predico invano sin dall'epoca della tua scomparsa. Sono riuscito soltanto a farmi passare per un vecchio pazzo.» «Come si può fare per mettere fine a questa guerra?» chiese Peggy. «Bisognerebbe risvegliare il demonio,» buttò lì Sébastian «farlo uscire dagli incubi. Tutto ritornerebbe alla normalità. Ma non è facile fargli aprire gli occhi. C'è un esercito che lo protegge. Ecco perché è scoppiata la guerra. I suoi soldati vegliano su di lui. Sono pronti a tutto perché nulla venga a disturbare il sonno del loro padrone.» «E non si rendono conto che le cose sono cambiate?» intervenne Peggy. «Che i mondi meravigliosi sono diventati degli inferni?» Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Non sono esseri umani» mormorò. «Sono creature... indescrivibili. Fanno ciò che è stato loro ordinato di fare, senza porsi domande. E nel frattempo il demonio continua a dormire... a fare incubi, a creare nuovi
mostri.» «Bisogna provare a ideare un piano di battaglia» decise Peggy. «Non possiamo lasciare che i miraggi catturino tutta la gente della zona. Nell'attesa, bisogna nasconderti in un posto più sicuro. Paco, perché non porti Sébastian a casa tua?» Il vecchio scosse la testa. «No,» disse «sarebbe troppo pericoloso per lui. Lo prenderebbero per un vampiro. Te l'ho già detto, c'è una bruja nel mio villaggio, una strega, intuirebbe subito che Sébastian non è più veramente umano. Ordinerebbe agli uomini di tenerlo legato al sole per far evaporare l'acqua dal suo organismo. Meglio che rimanga qui, per il momento.» «E... la nostra famiglia?» chiese timidamente il ragazzo. «Mamma, papà... Adelina, nostra sorella. Che ne è di loro?» Paco abbassò la testa. «Mamma e papà sono morti, come temevi» rispose. «Da tanti anni. Adelina e gli altri della tua combriccola ti hanno imitato... ragazzi, ragazze, tutti. Hanno scelto di tuffarsi nei miraggi. Solo io sono rimasto nel mondo reale. Ho passato la mia vita a mettere in guardia la gente da questo pericolo, ma i giovani sono facili prede, si lasciano incantare facilmente.» Sébastian si nascose il viso tra le mani. «È colpa mia» disse. «Non avrei dovuto... sono tornato per dire a tutti di non imitarmi. Non pensavo di arrivare così tardi.» Paco mise la mano sulla spalla del fratello per consolarlo. La ritrasse subito, sobbalzando per lo stupore. Sébastian gli lanciò uno sguardo pieno di tristezza. «Si sente, eh? Quando uno mi tocca capisce che sono fatto di sabbia... perché l'acqua sta già evaporando. Guarda, le tue dita hanno scavato dei solchi sulla mia 'pelle'.» Peggy afferrò l'annaffiatoio, era quasi vuoto. Uscì per riempirlo. Sulla soglia, andò a sbattere contro il cane blu che si era rifiutato di entrare nell'hangar. «Farai una stupidaggine» le disse mentalmente. «Ti stai facendo trascinare in un'avventura che non ti riguarda. Come se non avessi già abbastanza guai con gli Invisibili!» «Non possiamo restare con le mani in mano» replicò lei. «Riguarda tutti. C'eri anche tu quando i miraggi hanno cercato di catturarmi, o no?» «Sì» bofonchiò l'animale. «Ma è pericoloso. E queste storie di demoni mi fanno paura. Credo che Sébastian non ci stia dicendo tutto. Penso che le
cose vadano molto peggio di quanto sostiene.» «In ogni caso ha parlato di un inferno...» «Sì, ma credo proprio che sia ancora peggio dell'inferno.» * Dovettero separarsi. Paco risalì sul camioncino. Nonostante l'ombra proiettata sul suo volto rugoso dall'ampio cappello di paglia, Peggy Sue si accorse che stava piangendo. «Abbi cura di lui» sussurrò mettendo in moto. «So che non c'è più posto per Sébastian in questo mondo, ma non vorrei perderlo così presto.. un... un'altra volta.» Peggy gli strinse la mano con tenerezza. Anche lei si sentiva sul punto di scoppiare in lacrime. Appena la macchina si fu allontanata, dovette decidersi a ritornare alla torre di controllo, perché non poteva passare l'intera giornata fuori mentre la famiglia si sfiancava per rimettere tutto in ordine. * Mentre si accingevano a sedersi a tavola, la madre cacciò un grido di stizza. «Non c'è più acqua!» Papà Fairway si precipitò sul lavello per ispezionare rubinetti e tubature. Julia, che usciva dalla toilette della mensa, confermò che anche i lavandini avevano smesso di funzionare. «Per la miseria!» tuonò il padre. «È in panne il circuito generale.» «È grave?» chiese la mamma. «Credo proprio di sì» confermò il marito. «L'aeroporto è collegato alla città da una condotta lunga oltre 50 chilometri. Il guasto può essersi verificato in qualsiasi punto da qui fino alla stazione di distribuzione. Chiamerò lo sceriffo. Senz'acqua la situazione diventerà ben presto insostenibile. Bisogna ripararlo.» Mentre parlava aveva preso il telefono. Portando la cornetta all'orecchio fece una smorfia. «Non c'è segnale» annunciò. «La linea è interrotta. Non importa, prenderò la macchina e andrò in città.» «Sì, vabbè!» squittì Julia. «Così se ti succede qualcosa lungo la strada
noi resteremo qui a morire di sete!» «Basta!» intervenne la mamma. «Non serve a nulla vedere tutto nero. È solo un incidente. Appena tuo padre avrà avvisato lo sceriffo tutto ritornerà come prima.» Ma il suo sguardo tradiva inquietudine. Peggy si ricordò che la macchina non era in buono stato. Le tornò in mente che all'andata si erano dovuti fermare diverse volte per far raffreddare il motore. Il padre prese due bottiglie d'acqua minerale per il viaggio e si diresse verso il parcheggio. La mamma, Julia e Peggy Sue gli andarono dietro. Ma ahimè, quando Barney Fairway provò a mettere in moto, il motore non si accese. «Per la miseria!» grugnì. «Ma allora è un complotto!» Saltò giù dalla macchina per sollevare il cofano, e impallidì. Il motore non c'era più. Qualcuno l'aveva staccato: nella scocca metallica non rimaneva altro che un fascio di cavi e tubi spezzati da cui gocciolavano olio e benzina. Chi poteva essere così forte da portarsi dietro un motore sotto il braccio, come un sacco di patate? «È una macchinazione» gracchiò la voce del cane blu nella testa di Peggy. «L'acqua che non viene più, il telefono tagliato, adesso l'auto sabotata. Ci vogliono isolare, questo è certo. Ma perché?» Un notevole stupore s'impadronì degli adulti. In un primo momento, papà Fairway s'intestardì nel tentativo di ritrovare il motore - doveva pur essere da qualche parte, o no? - ma poi dovette arrendersi all'evidenza. Il ladro se l'era portato via, chissà dove. Inoltre, sulla polvere del parcheggio non c'era traccia di pneumatici... e nemmeno impronte di scarpe in direzione del deserto. «Sembrerebbe proprio che si sia volatilizzato» bofonchiò il papà, scoraggiato. Peggy serrò le mascelle. I suoi vecchi nemici, gli Invisibili, sarebbero stati capaci di immaginare un simile scherzo. Istintivamente, si guardò attorno e tese l'orecchio nella speranza di captare le loro risate di scherno, ma non sentì nulla... solo il silenzio del deserto. Immenso, pesante. * «Dobbiamo calcolare le nostre scorte d'acqua» stabilì la mamma. «E
cominciare a razionarla. Qui si beve molto. Se nessuno verrà in nostro soccorso, sarà un bel problema.» «Raggiungerò la città a piedi» decise Barney Fairway. «Da qui al bar ci sarà non più di una sessantina di chilometri.» «Ma nel deserto è una distanza enorme!» obiettò la mamma. «Sotto un sole del genere si va piano. Non riuscirai a fare più di tre chilometri in un'ora. Vuol dire venti ore di cammino. E poi dovrai portarti da bere... non meno di una decina di litri d'acqua, altrimenti finirai per disidratarti completamente.» «Passerò tutta la notte a controllare le tubature» disse il papà. «C'è una piccola possibilità che il guasto si sia verificato nelle vicinanze dell'aeroporto.» Peggy Sue non ci credeva. Ormai ne era certa: tutto era stato pianificato per isolarla dal resto del mondo. * Peggy Sue e Julia compilarono un elenco delle scorte di liquidi a disposizione della famiglia. Soda, acqua minerale, birra... non dimenticarono nulla, ma non era granché tenuto conto della temperatura e della sete insopportabile che scatenava. Anche restando nascosti all'ombra, senza muoversi, finivano ben presto con la lingua secca. «È un bel problema» borbottò Julia. «Non reggeremo più di tre o quattro giorni... anche tirando la cinghia. Il fatto è che meno si beve più si ha sete. Si finisce per non pensare ad altro.» Quanto a Peggy Sue, lei pensava soprattutto a Sébastian. Come avrebbe fatto a innaffiarlo d'acqua in quella situazione? Non sembrava un'impresa facile, e questo le procurava una fitta al cuore. Non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine del ragazzo che si sgretolava a causa delle correnti d'aria. «A cosa pensi, sciocchina?» la prese in giro Julia. «Sei proprio una scervellata!» * Papà Fairway cercò invano una perdita d'acqua nei pressi dell'aeroporto. Non individuò nessuna macchia d'umidità sulla sabbia. «Sta più lontano» si arrese. «Non c'è niente da fare, domattina dovrò
mettermi in marcia. Sessanta chilometri non sono poi un'eternità, ce la farò.» Peggy faceva fatica a nascondere la sua preoccupazione. Appena ebbe un momento di libertà, si recò all'hangar per comunicare a Sébastian la brutta notizia. «Me l'aspettavo» disse il ragazzo. «Ce l'hanno con me. Lo fanno per costringermi a rientrare.» «Di chi parli?» chiese Peggy Sue. «Dei generali che lottano contro il demonio» spiegò Sébastian. «Privandomi dell'acqua, mi lasciano solo due soluzioni: accettare di finire in polvere, o ritornare da dove vengo, per riprendere la guerra dal punto in cui l'ho lasciata.» «Ti darò la mia razione d'acqua» propose Peggy Sue. «Ti aiuterà.» «È gentile da parte tua,» fece Sébastian sorridendo «ma non sarà sufficiente, e poi non voglio che ti disidrati anche tu.» «Mio padre cercherà di arrivare a piedi fino in città» annunciò la ragazza. «È forte ed è un buon camminatore. Con un po' di fortuna...» «Assolutamente no!» sbraitò il ragazzo. «Non capisci che è una trappola? Ora ti dirò che cosa succederà se parte. Quando comincerà a stancarsi e ad avere molta sete, apparirà un miraggio che gli farà vedere mille meraviglie... e soffrirà a tal punto il caldo che non potrà fare a meno di entrarci. È grande e grosso, proprio il genere di soldato che il comando delle forze armate del paese dei sogni cerca di reclutare.» «E allora, che cosa bisogna fare?» chiese Peggy, allarmata. «La nostra unica possibilità è che Paco prenda il camioncino del supermercato e venga a farci visita, ma non ci credo affatto.» «E se mio padre andasse verso Villa Verde?» «Non troverebbe il villaggio, è troppo complicato. Si perderebbe nel deserto. Non ci sono cartelli, nulla...» I due ragazzi rimasero in silenzio, poi Sébastian sollevò di scatto la testa, come se gli fosse appena venuta un'idea. «Ora mi ricordo, c'è una fonte d'acqua!» disse tutto d'un fiato. «A nord della pista di decollo, a tre chilometri. Se le tempeste di sabbia non l'hanno tappata deve essere ancora là.» «Potremmo andarci quando scenderà la notte» propose Peggy. «Tu mi indicherai il cammino, e io porterò i secchi.» «D'accordo» esclamò Sébastian. «Torna da me quando la tua famiglia si sarà addormentata.»
Il cane blu disapprovò queste manovre... era forse geloso dell'amicizia nascente tra la sua padrona e il ragazzo evaso dal miraggio? «E cosa accadrà se vi perdete?» borbottò. «Verrai con noi» disse Peggy Sue. «Sei un cane, no? Hai fiuto, ritroverai la strada.» «Ho fiuto in condizioni normali» la corresse l'animale. «Ma qui va tutto di traverso. Sento che qualcuno sta tramando nell'ombra. Da due ore ho come la sensazione di essere accerchiato.» «Accerchiato?» «Sì, come se delle creature strisciassero tutt'intorno a noi... delle creature inverosimili, ma ho paura.» * La cena si svolse in un silenzio carico d'angoscia. Ognuno masticava evitando lo sguardo del vicino. Papà Fairway si sforzava di apparire fiducioso nel futuro, ma ahimè, il suo atteggiamento spavaldo non riusciva a convincere né la moglie né le figlie. «Con una buona notte di riposo rifarò il pieno d'energia» disse. «Non sarei potuto partire, in piena notte. Non conosco la zona, mi sarei perso. Domani avrò caldo ma almeno vedrò dove vado.» «Starai attento comunque, eh?» mormorò la mamma cercando di non tradire la sua preoccupazione. Al crepuscolo, Peggy Sue si mise ai piedi le scarpe da ginnastica e indossò il giubbotto. S'infilò anche dei guanti perché i secchi, una volta pieni, le avrebbero segato le dita. Inutile contare su Sébastian, pensò. Fa tanto lo sbruffone, ma non è abbastanza forte per aiutarmi. Quando sei fatto di sabbia umida non ti puoi permettere di atteggiarti a uomo duro. Il ragazzo l'aspettava sulla soglia dell'hangar. Appena la vide si mise in movimento. Avanzava con cautela, come un convalescente. «Ho paura del vento» confessò, quando Peggy lo raggiunse. «Se comincia a soffiare, può ridurmi in polvere... Non sono più abbastanza solido da affrontarlo. Una tormenta potrebbe cancellare i miei lineamenti, lo sai?» «Non dovrai far altro che nasconderti dietro di me» propose la ragazza. «Ti farò da scudo.» Sébastian la ringraziò, ma lei capì che non gli andava a genio l'idea di
essere salvato da una femmina. Tutti uguali, i ragazzi! S'incamminarono verso nord, con il cane blu che trotterellava dietro di loro. Sulla pista di decollo si sentiva solo il rumore delle suole di Peggy Sue, mentre Sébastian si spostava producendo una sorta di scricchiolio. Si sta già sbriciolando, pensò la ragazza. Chissà se la troveremo, questa sorgente. Addentrarsi nel deserto in piena notte equivaleva a immergersi a occhi chiusi in un barile di catrame. Nessuna luce illuminava il cammino. Peggy si sentiva a disagio. «Sai dove stiamo andando?» chiese dopo qualche minuto. «Sì» rispose il ragazzo. «È vero che il vento può sgretolarmi come un semplice castello di sabbia, ma in compenso dispongo di qualche modesto potere, come quello di vedere nell'oscurità. Siamo sulla strada giusta, riconosco il posto.» «Le creature» risuonò d'un tratto la voce del cane blu nella mente di Peggy. «Ci accerchiano... Sono qui. Sento le loro onde mentali che crepitano nel mio cervello.» «Sébastian» sussurrò Peggy avvicinandosi al ragazzo. «Il mio cane dice che siamo inseguiti da creature telepatiche. Sai di cosa si tratta?» «Sì» sussurrò il ragazzo. «Non volevo parlartene, per non spaventarti. Sono delle 'mangiatoci di speranza'.» «Che cosa?» «Una specie di grossi granchi che si confondono con le pietre. Non hanno tenaglie, ma le loro armi sono assai più temibili. Emettono onde capaci di distruggere ogni gioia, ogni speranza nel cuore delle persone. In genere le inviano in avanscoperta, per deprimere gli esseri umani e privarli di combattività. Dopo due giorni di questo trattamento perdi qualsiasi interesse, diventi triste, ti viene tutto a noia.» «Okay, capisco» completò Peggy. «È a quel punto che entrano in scena i miraggi.» «Sì» confermò Sébastian. «Quando sono tristi, scoraggiati, gli uomini cedono facilmente alla tentazione; non c'è bisogno di insistere più di tanto per vederli saltare a piè pari nel primo miraggio che si apre davanti a loro.» «Mangiatoci di speranza...» ripeté la ragazza. «Sì, ma sono soprannominate anche 'bestie grigie', perché riempiono la testa di pensieri cupi, foschi, che fanno venire voglia di cambiare vita, di fuggire non importa dove, purché sia un altro mondo.» «Le hanno inviate per noi?»
«Certo. Per te e per i tuoi genitori. Non sarà facile resistere, ma io ti aiuterò. Si metteranno all'opera tutta la notte, bombardando i tuoi di onde negative che contageranno il loro sonno. Domani mattina li troverai depressi, incapaci di prendere la minima decisione, indifferenti a tutto. A me non possono far nulla perché appartengo al mondo dei miraggi, ma tu e il tuo cane rappresentate dei bersagli meravigliosi.» «E come ci si può opporre?» «Non dormendo, mai. Da sveglio puoi respingere i loro tentativi di infiltrazione mentale, ma appena chiudi gli occhi è la fine, la tristezza si insedia nel tuo cuore. Adesso basta parlare, diamoci una mossa, il mio corpo è sempre più friabile. Faccio fatica a parlare.» Peggy Sue l'aveva notato. Da un po' le parole pronunciate da Sébastian erano difficili da capire. Continuarono a marciare in silenzio. «Vedi i granchi?» chiese mentalmente al cane blu. «Credo di sì» rispose l'animale. «Sono dei grossi sassi dotati di zampe. Sembrano di pietra grigia. Ce ne sono... un sacco! Per la miseria, come faremo a ucciderli?» «Non lo so ancora,» ammise Peggy «ma una cosa è certa: non ci faremo fregare così facilmente!» Giunti a metà strada, il vento si alzò e Sébastian emise un gemito di terrore. «Il mio viso!» ansimò. «Sento che mi si sta spostando il naso! Presto, proteggimi!» Peggy fece schermo col corpo per offrire riparo al suo compagno. La tormenta la mitragliava di polvere e sassolini in pieno volto; doveva chiudere gli occhi per non rimanere accecata. «Come va?» gridava, senza ottenere risposta. S'immaginava già Sébastian con i lineamenti deformati, il naso appiattito, le orecchie piallate. Il vento del deserto si placò con la stessa rapidità con cui si era alzato. Peggy prese la torcia e l'accese. «Sono un mostro?» chiese Sébastian con voce molto meno sicura del solito. Peggy lo illuminò. Il naso del ragazzo era lievemente deviato e l'orecchio destro rimpicciolito, tuttavia non aveva nulla di mostruoso. Anzi, quelle piccole imperfezioni gli conferivano un fascino un po' da 'mascalzone' di cui prima era sprovvisto.
«Tutto a posto» sospirò. «Credo che certe ragazze ti troverebbero ancora di loro gradimento, ma certo sarà meglio che non accada troppo spesso.» «Ho bisogno d'acqua» gemette Sébastian. «Sto iniziando a disgregarmi. Alla prossima tormenta, mi si polverizzerà tutta la testa.» * Finalmente raggiunsero l'oasi. Peggy Sue si era immaginata il posto come un gradevole boschetto di palme, ma si era sbagliata. Non c'era nient'altro che una cavità nel terreno, piena di acqua torbida, e tre cactus. Il luogo non aveva nulla di romantico. Ci mancò poco comunque che cadesse dentro la pozza nel tentativo di riempire i secchi, perché le pareti erano assai ripide. «Bagnami» la supplicò Sébastian quando risalì. «Non ho più la forza di sollevare niente.» Peggy dovette innaffiarlo come fosse una pianta. Il corpo del ragazzo assorbì il liquido senza lasciare neanche una goccia. «Va meglio» sospirò dopo diversi minuti di silenzio. «I granelli di sabbia si sono 'cementati' tra loro. Sto ritrovando la mia solidità. Grazie per avermi aiutato.» «Dobbiamo tornare» disse Peggy Sue. «Sarà meno facile con i secchi pieni, ma così, domani, avrai il necessario per affrontare la giornata.» «Sarai stanca dopo questo sforzo,» fece il ragazzo «e avrai voglia di dormire... è normale, ma cerca di resistere perché le bestie grigie approfitteranno del sonno per infiltrarsi nella tua testa.» «Il mio cane mi proteggerà» affermò Peggy per darsi coraggio. «È dotato di poteri telepatici.» «Lo so» disse Sébastian. «Non dimenticarti che non sono più veramente umano. Lo sento quando ti parla.» «Ah sì?» fece la ragazza, un po' dispiaciuta di non essere più la sola a poter dialogare con l'animale. «A ogni buon conto, il mio cane capterà i pensieri dei granchi mangiatori di speranza e li azzannerà per metterli in fuga.» «Lo spero per te» sospirò Sébastian. «Ahimè, dovrà pur dormire anche lui!» «Rientriamo» decise Peggy. «Qui si gela.» Tremava, in effetti, ma non sapeva più se per il freddo o per la paura.
8 Assediati! Eccitata da quelle formidabili avventure, per Peggy Sue non fu difficile resistere al sonno. Distesa sul letto, 'parlò' a lungo col cane blu, furioso per l'entrata in scena delle bestie grigie. «Hai poteri telepatici» gli ripeteva la ragazza. «Non dovrai far altro che sorvegliare l'ingresso della mia testa, nello stesso modo in cui si sorveglia una casa.» «Capisco cosa vuoi dire,» rispose l'animale «ma non sono sicuro di essere forte come i granchi, a questo gioco. Loro sono dei soldati addestrati, io no.» All'alba, Peggy dovette soffocare un primo sbadiglio. Si sentiva le palpebre sempre più pesanti. È arrivato il momento di bere un buon caffè forte, pensò. Poi andrò a trovare Sébastian per chiedergli come si può combattere contro le bestie grigie. Si avvicinò alla finestra per cercare di individuare gli assediami. Ai bordi della pista di decollo c'erano troppe pietre, dovette rinunciarci. «Tu li vedi?» chiese al cane blu. «Li fiuto. Ognuno ha una forma diversa dall'altro. Si mimetizzano alla perfezione. Se non li sorprendi in procinto di muoversi - proprio quando spostano le zampe - sei persuaso di trovarti di fronte una roccia.» «Sono grossi?» «Ce ne sono di ogni dimensione. Come i cannoni di un battaglione d'artiglieria.» «Non sei divertente!» «Cerco di metterti in guardia, tutto qui. Forse faremmo meglio ad andarcene.» Rifiutandosi di ascoltare quei pessimi propositi, Peggy Sue lasciò la sua stanza e scese nella mensa dei piloti, adibita ormai a sala da pranzo della famiglia. Preparò la colazione, sorpresa di non trovare sua madre ai fornelli. Per la mamma era sempre un punto d'onore alzarsi prima di chiunque altro. Avrebbe dovuto essere così anche oggi. Soprattutto oggi, dato che papà si accingeva ad attraversare a piedi il deserto!
La ragazza apparecchiò la tavola. Nella mensa deserta, si sentiva risuonare ogni minimo rumore. Il tempo passava... e nessuno faceva capolino. Stava cominciando a preoccuparsi quando il papà, la mamma e Julia scesero trascinando i piedi. Sembravano mezzi addormentati, stravolti. Si misero a tavola mugugnando. Il padre sbadigliava di continuo. «Sono a pezzi» biascicò. «Ho una fiacca tremenda. Non credo che partirò, oggi.» La mamma e Julia lo ascoltavano appena. Sembravano entrambe immerse in pensieri poco piacevoli. «Bah!» sospirò la sorella di Peggy. «In ogni caso non servirebbe a granché. Ti prenderesti un'insolazione...» «Oppure ti faresti pizzicare da uno scorpione» rincarò la dose la mamma. «È vero» riconobbe il papà. «Quel che deve accadere accadrà, non serve a niente dimenarsi come un ossesso.» «Ben detto!» mugolò la mamma. Peggy Sue, che stava versando il caffè nelle tazze, si fermò di botto. «Ehi!» esclamò. «Mi pare che vi stiate dimenticando che rimarremo ben presto a corto d'acqua, se non ci muoviamo.» «Non t'immischiare in queste cose» brontolò suo padre. «Sono problemi da adulti, tu sei troppo piccola per capire.» «Sono grande quanto basta per sapere che moriremo di sete» replicò lei. «Ora basta,» intervenne la mamma «non rispondere a tuo padre! Non ti sei accorta che siamo stanchi, stamattina? Va' a giocare fuori col tuo cane.» Peggy appoggiò la caffettiera al centro della tavola, in preda a un brutto presentimento. «Non sono nel loro solito stato» pensò. «Sembra che abbiano cent'anni! Anche Julia!» «È l'effetto delle bestie grigie» mormorò il cane blu. «Durante la notte li hanno bombardati di onde depressive. Sébastian non mentiva. È un veleno mentale che ti toglie ogni spirito combattivo.» * Con gran disappunto di Peggy, la mattinata trascorse senza che accadesse nulla. La mamma e Julia si rannicchiarono in una poltrona e passarono
il tempo a sfogliare vecchie riviste (alle quali prestavano, peraltro, ben poca attenzione); quanto a Barney Fairway, si aggirava sulla pista, gli occhi persi nel vuoto, una sigaretta spenta all'angolo delle labbra. Peggy Sue si affrettò a raggiungerlo. «Sai» gli disse. «Se non vuoi andare in città, c'è un'oasi a tre chilometri da qui. È una sorgente piccolissima e non sono certa che ci si possa rifornire a lungo, ma potrebbe aiutarci a tirare avanti per un po'.» «Uhm?» mugugnò il padre. «Sì, forse... perché no. Ma ne vale poi la pena? È questa la vera domanda. Vale veramente la pena continuare? Guarda dove siamo... Avevo un vero mestiere, adesso sono il guardiano di una topaia. No, forse è inutile affannarsi. E poi sento di non avere più le forze. Sto diventando vecchio. Va', lasciami stare, mi stanchi con le tue domande.» «Capisci adesso cosa ci aspetta?» gracchiò la voce mentale del cane blu. «Non potremo impedirci di dormire in eterno. Anch'io non mi tengo più sulle zampe. Se cediamo al sonno ci sveglieremo nelle loro stesse condizioni, con la voglia di lanciarci in fondo a un pozzo.» «Veglieremo l'uno sull'altra» decise Peggy. «Se dormiamo dandoci il cambio ogni ora, forse avremo una possibilità di sfuggire al lavaggio del cervello delle bestie grigie.» «Dormire dandoci il cambio?» «Sì, inizio io per prima e dopo un'ora tu mi svegli. Poi toccherà a te dormire e io ti chiamerò sessanta minuti più tardi.» «Credi che funzionerà?» «Vedremo. Ho trovato una vecchia sveglia nella mia stanza. La useremo per maggiore sicurezza.» Il cane annuì scuotendo la testa. La cravatta che gli pendeva dal collo adesso era gialla come la sabbia. «Okay,» sospirò «saliamo nella tua stanza. Non mi reggo più in piedi.» Peggy Sue si sentiva le palpebre sempre più pesanti ogni secondo che passava. Si domandava quante ore di sonno le sarebbero servite per non soccombere agli assalti delle mangiataci di speranza. Una volta a letto, caricò la grossa sveglia un tempo appartenuta a un pilota, e l'appoggiò sul comodino. Chissà se funzionerà, pensò. Si vedrà! «Ho cambiato idea, dormi tu per primo» ordinò al cane blu. «Voi animali avete meno bisogno di sonno rispetto a noi uomini. E poi, con i tuoi poteri telepatici, saprai difenderti meglio dalle incursioni mentali dei gran-
chi.» Il cane appoggiò il naso tra le zampe senza dire nulla. Dieci minuti dopo, già ronfava. Peggy Sue rimase a guardarlo. Aveva gli occhi rossi di sonno e i primi sbadigli cominciavano a formarsi nella sua gola. Ascoltava il tic-tac della sveglia chiedendosi se poteva farci affidamento. Nell'ora che seguì, il cane blu si agitò parecchio. A momenti sbatteva le mascelle, come se mordesse una bestia invisibile. Peggy fu sul punto di addormentarsi per tre volte di seguito. Alla fine la sveglia suonò, ponendo termine alla tortura. L'animale ebbe un sussulto e spalancò le fauci. Gli ci volle qualche secondo per ricordarsi dove si trovava. «Le bestie grigie sono entrate nella mia testa» annunciò. «Le ho respinte finché ho potuto, ma sono molto forti.» «Che cosa ti raccontavano?» «Che ero solo uno sporco bastardo, che finirò in un canile o sbranato da un coyote... e che tu non mi amavi.» Peggy strinse l'animale tra le sue braccia. «Ma certo che ti amo!» sussurrò. «Spesso sei insopportabile ma ti amo, non dubitarne mai.» Il cane blu la leccò sul viso. «Ho paura per te» le confessò. «Monterò di guardia sulla soglia del tuo cervello mentre dormi. Ti prometto che farò il possibile per metterle in fuga.» «Grazie» sussurrò Peggy Sue. Poi ricaricò la sveglia, regolò la suoneria... e chiuse gli occhi. Precipitò istantaneamente in uno stato d'incoscienza. * Furono le leccate del cane blu a risvegliarla. Non aveva sentito la suoneria (o forse non era scattata...) e non conservava alcun ricordo dei sogni che l'avevano visitata; tuttavia si sentiva di cattivo umore. «Smettila!» ordinò al cane. «Mi fa ribrezzo sentirmi leccata in faccia. È una cosa schifosa. Hai un alito cattivo!» «Le bestie grigie sono entrate nella tua testa» annunciò l'animale. «Ho azzannato quasi tutti i loro pensieri... ma qualcuno mi è sfuggito. Cercavano di persuaderti che eri brutta, stupida, e che nessun ragazzo si sarebbe mai interessato a te.»
«Probabilmente hanno ragione» sospirò Peggy. «Del resto, non ho bisogno di loro per pensarlo. Lo so benissimo da sola.» Il cane ringhiò d'impazienza. «Scuotiti!» esclamò. «Devi resistere. Dobbiamo resistere. Sai bene che si tratta di ipnosi. Se ti lasci fregare riusciranno a convincerti che sei una crostata di mele!» «D'accordo» sospirò la ragazza. «Tocca a te dormire.» Era demoralizzante constatare che la sua abituale energia l'aveva abbandonata. Dei brutti pensieri si stiracchiavano nella sua mente come serpenti pigri, e aveva paura di addormentarsi di nuovo... anche se moriva dalla voglia di farlo. Quando il cane blu si risvegliò, era di cattivo umore. «Ne ho abbastanza di vegliare su di te come una balia!» sbraitò. «Vado a sgranchirmi le zampe. Dovrai cavartela da sola con la tua stupida sveglia.» Saltò giù dal letto e sparì nel corridoio. Ecco, ci siamo..., pensò Peggy Sue. * Passò il resto della giornata in uno stato di semi-veglia. Appena commetteva l'errore di sedersi, il sonno le piombava addosso e si addormentava all'istante, come tramortita. Ognuno di questi brevi pisolini la lasciava sempre più di cattivo umore. La mamma, il papà e Julia giravano in tondo, inoperosi. Peggy si rese conto ben presto che non le interessava più nulla. Aprì diversi libri, vari fumetti, ma ebbe l'impressione che le pagine fossero grigie... e con i caratteri minuscoli. Le era tutto indifferente, e arrivò perfino a sorprendersi di essersi, un tempo, appassionata alle avventure del Dottor Scheletro, di cui si era portata in valigia l'intera raccolta. Anche Julia aveva abbandonato le sue amate riviste che raccontavano la vita segreta delle star del cinema. Si aggirava sulla pista, fissando l'orizzonte, come se sperasse di veder spuntare qualcosa che la strappasse dall'apatia dell'aeroporto. Anch'io vorrei che mi portassero da qualche parte, pensò Peggy. Non importa dove, purché ci sia qualcosa di nuovo. Quando arrivò l'ora di pranzo non c'era nulla di pronto in tavola, dato che a nessuno era balzato in mente di preparare qualcosa per gli altri. Del
resto, nessun membro della famiglia Fairway aveva fame. Peggy Sue si scolava una soda dopo l'altra, pur sapendo che era un errore poiché le scorte di liquidi si sarebbero presto esaurite. Se ne infischiava... anche Julia se ne infischiava. Tutti se ne infischiavano. Il papà, la mamma e Julia si piantarono sulla pista di decollo per scrutare il cielo attraverso i loro occhiali neri. Peggy non sapeva che fine avesse fatto il cane blu. Pensò che magari era stato sbranato da un coyote... Bah! Non aveva alcuna importanza. D'altra parte quell'orribile bastardino cominciava seriamente a darle sui nervi, con la sua mania di intrufolarsi nella testa della gente. Se si fosse fatto divorare da un predatore del deserto, finalmente sarebbe stata in pace! * Nel primo pomeriggio, tutto divenne grigio. I capelli di Julia, i vestiti dei genitori, i loro occhi, anche la loro pelle... Peggy Sue andò alla toilette per esaminarsi in uno degli specchi fissati sopra una fila di lavandini. Anche i suoi capelli erano grigi, come quelli di una vecchia... la sua maglietta adesso era color cenere. La sua bocca, la sua lingua... era tutto grigiastro. Era frutto della sua immaginazione... oppure ciò che la circondava assumeva davvero il colore dei suoi pensieri? Tutt'a un tratto, qualcuno spuntò alle sue spalle. Era Sébastian, avvolto in una coperta bagnata per sfuggire alla morsa del sole. «Ci siamo,» disse «le bestie grigie sono all'opera. Sono passato davanti ai tuoi genitori senza che si ponessero la minima domanda. Se ne infischiano, sono già altrove. Aspettano l'aereo fantasma, l'aereo della mezzanotte...» «Sì, può essere» bofonchiò Peggy. «Non posso dargli torto, qui ci si annoia a morte.» Sébastian la afferrò per le spalle e tentò di scuoterla, ma il suo corpo mancava di solidità, così fu costretto a rinunciare. «Agiscono nella tua testa» sibilò fissando la ragazza. «Ti sei addormentata, vero? Devi riprenderti. Il tuo cane potrebbe aiutarti, con i suoi poteri telepatici...» «Quel cagnaccio?» esclamò Peggy Sue. «Non voglio più vederlo. Non ne posso più di trovarmelo sempre tra i piedi a spiare nella mia testa.» «Non sei tu a dire queste cose» tuonò Sébastian. «Le bestie grigie ti
stanno rendendo cattiva. Hanno cambiato la tua personalità, devi lottare. Se non avessi il timore di ridurmi in polvere, ti mollerei un bel paio di ceffoni. Fa' quel che ti dico: vai dal tuo cane e chiedigli di ripulirti il cervello. È in grado di farlo. Può mostrarsi abbastanza feroce da scacciare i pensieri deprimenti che le mangiatrici di speranza hanno insediato dentro di te.» Poco convinta, la ragazza uscì trascinando i piedi. Non capiva la necessità di tutto questo. Quando emerse dalla torre di controllo, il paesaggio le apparve ancora più deprimente. Anche la sabbia del deserto le ricordava la cenere di una sigaretta. Quanto al cane blu, le sue chiazze, in genere nere, erano diventate grigie! S'incamminò verso di lui, ma appena la notò, l'animale si mise ad abbaiare e mostrò i denti per farle capire che non doveva avvicinarsi. «Bestiaccia!» sibilò Peggy Sue. «Sta' a vedere che adesso mi morde!» E, raccogliendo un sasso, lo lanciò contro il cane con l'intenzione di fargli del male. Il mugolio di dolore dell'animale la ricondusse alla realtà. D'un tratto, il bozzolo di cenere che avvolgeva la sua mente si squarciò; capì allora cosa stava succedendo. Mentre il bastardino si precipitava su di lei schiumante di rabbia, con la chiara intenzione di ridurla a brandelli, lei gli lanciò un pensiero pieno di tenerezza. Ci aveva messo tutta l'energia, e il cane ne rimase quasi folgorato. S'immobilizzò, la lingua penzoloni, le orecchie abbassate, malfermo sulle zampe tremanti. «Hai ragione» disse alla fine. «Stavamo per farci manipolare...» Peggy Sue s'inginocchiò per abbracciare l'animale. «Ti prometto che sarò più vigile» dichiarò mentalmente il cane blu. «Farò pulizia nelle nostre teste, vedrai. Mi comporterò come un vero dobermann e affonderò i miei denti nel sedere di tutti i pensieri grigi che ci hanno seminato dentro.» E si mise all'opera. La ragazza lo sentiva correre nella sua mente ululando come un lupo arrabbiato. Roteando, curvando, galoppando, rintuzzava la schiera di idee nere e ne faceva un branco che poi mordeva selvaggiamente, costringendole ad abbandonare la mente della sua padrona. Poco a poco, Peggy provò una sensazione d'intenso sollievo, come se le avessero tolto dalle spalle uno zaino pieno di sassi. «Ecco fatto» annunciò il cane col fiatone. «Possiamo stare tranquilli fino al termine della giornata.» «Dobbiamo organizzare la nostra reazione» decise la ragazza. «Non avendo altro a disposizione, prenderò un martello in officina e andrò incon-
tro alle bestie grigie per ridurle in poltiglia. Dovrai solo indicarmi dove si nascondono.» «D'accordo!» esclamò il cane blu. «Vedranno di che pasta siamo fatti!» Peggy prese un grosso martello dall'officina e attraversò la pista in direzione del deserto. Non le andava molto a genio l'idea di spappolare quelle bestiole ignobili, ma non poteva neanche restarsene con le mani in mano mentre quelle le avvelenavano il cervello! Nelle vicinanze della pista di decollo non vide altro che pietre, grosse o piccole. Se le bestie grigie si nascondevano lì, era difficile distinguerle. «Ti avevo avvertita» osservò il cane blu. «Quando ritraggono le zampe si confondono con le rocce. Le scandaglierò telepaticamente...» Si concentrò, il pelo ritto sul dorso. «Quella! E quell'altra, lì a sinistra...» Peggy Sue brandì il martello e ci si avventò contro. Curiosamente, più si avvicinava alle rocce viventi, più le cresceva dentro una strana voglia di piangere, che le serrava la gola. Quando arrivò a non più di tre metri dal suo primo bersaglio scoppiò in singhiozzi, sgominata dalla tristezza. Le lacrime le appannavano la vista, impedendole di vedere dove andava. Non sapeva nemmeno perché piangesse. Era più forte di lei. Improvvisamente, era sopraffatta da un dolore incredibile... «Torna qui!» urlava la voce di Sébastian alle sue spalle. «Non restare là o morirai di sconforto.» Il cane blu era avanzato per soccorrerla, ma si arrestò cammin facendo per ululare alla luna, preso anche lui da uno scoramento tanto repentino quanto inspiegabile. Sébastian dovette andare in soccorso dei due amici. Afferrando Peggy per la mano e il cane blu per la pelle del dorso, li riportò alla meno peggio sulla pista di decollo. «Pazzi che non siete altro!» ringhiò. «Cosa speravate? Le bestie grigie hanno un loro sistema di difesa, come ogni altro animale. Diffondono onde di intensa tristezza in un raggio di tre metri. È come una barriera mentale contro cui ci si rompe il naso se ci si avvicina. Se resti troppo a lungo in mezzo a queste onde rischi di morire di dolore.» Peggy Sue si asciugò le guance con la maglietta. Adesso che era lontana dalle rocce viventi, i suoi singulti cominciavano a farsi meno frequenti. Anche il cane blu aveva smesso di ululare come un lupo mannaro colpito da una forte depressione. «Allora dovremo combatterle da lontano» disse col fiatone la ragazza.
«Bisognerà costruire una catapulta, oppure una fionda gigante.» Girandosi verso Sébastian, gli domandò: «È possibile fargli del male, almeno?» «Sì» fece il ragazzo. «Assomigliano a delle pietre, ma la loro corazza non è più solida di quella di un granchio.» «Benissimo!» tuonò Peggy. «In questo caso andiamo nell'officina. Lì troveremo tutto l'occorrente per costruire una macchina da guerra.» «Pienamente d'accordo» sibilò Sébastian. «Sto cominciando a sbriciolarmi.» La coperta bagnata con cui si era avvolto fumava dal calore. I tre amici si affrettarono a raggiungere l'hangar. Una volta là, impiegarono tre ore per fabbricare un'enorme fionda provvista di rotelle, utilizzando dei pezzi di camera d'aria a mo' di elastico. Peggy Sue dovette cavarsela da sola perché né Sébastian né il cane blu erano in grado di aiutarla. Il primo perché le sue dita minacciavano di sbriciolarsi, il secondo perché per afferrare gli oggetti non disponeva d'altro che delle sue mascelle. Alla fine, dopo parecchi tentativi falliti, la macchina da guerra era pronta, alta come Peggy e fissata su un carrello metallico. «Andiamo» fece la ragazza asciugandosi le mani. «È arrivato il momento di vincere la nostra prima battaglia!» I tre compagni lasciarono l'hangar per avanzare verso l'esercito delle bestie grigie. Quando valutò di essere alla giusta distanza, Peggy raccolse una pietra, tese l'elastico... e scagliò il suo primo proiettile. Il sasso fece esplodere la corazza di un grosso granchio dalla schiena conica. Dalla cavità così creata, s'innalzò un fumo nero che si disperse subito nell'aria. «Meno uno!» esultò Sébastian. «È buono per la spazzatura, adesso. Continua!» Nella mezz'ora seguente, Peggy Sue si prodigò senza risparmiarsi. I proiettili sibilavano, le corazze esplodevano come gusci d'uovo. Lente a reagire, le bestie grigie ci misero un po' a capire cosa stava succedendo. Quando ebbero individuato il pericolo, concentrarono le loro onde mentali su Peggy per instillarle dentro un profondo scoraggiamento. «Non serve a nulla continuare» sospirò d'un tratto la ragazza. «Sono troppo numerose... quello che sto facendo è stupido.» «Ma no!» protestò Sébastian. «È quello che cercano di farti credere, non devi ascoltarle.» Anche il cane blu era entrato nella testa di Peggy per respingere i cattivi pensieri instillati dalle bestie grigie. Tuttavia, cominciava a sentirsi stanco e i suoi assalti erano sempre più fiacchi.
«Ho voglia di sdraiarmi» sbadigliò. «Mi si chiudono gli occhi.» «Anche a me» balbettò la ragazza. «Ho la vista appannata. È normale, oggi abbiamo dormito appena due ore.» Continuò nondimeno a combattere finché fu in grado di distinguere i bersagli, poi si lasciò cadere ai piedi della fionda. «Non ce la faccio più,» farfugliò «devo dormire.» «Allora ritorniamo nell'hangar» ordinò Sébastian. «Qui siamo troppo vicini alle bestie, ci beccheremmo in pieno le loro emissioni.» I tre complici fecero dietro front. «Non importa,» disse il cane blu rivolto alla sua padrona «ti sei battuta bene. Ne avrai fracassate almeno una trentina.» «È fantastico» aggiunse Sébastian. «Non sono abituate a incontrare resistenza. In genere la gente capitola subito.» Una volta nell'officina, Peggy chiuse la porta. Le onde delle mangiatrici di speranza continuavano a gracchiare nella sua mente, togliendole qualsiasi volontà di ribellione. «Sébastian,» disse «veglia su di noi. Non lasciarci dormire troppo. Svegliaci ogni ora.» «D'accordo» fece il ragazzo. «Ma sono molto meno numerose, ora, quindi il pericolo è diminuito.» Peggy Sue lo sentì appena, si era accovacciata sul pavimento e scivolava già verso il sonno, col cane blu rannicchiato sul suo petto. 9 L'aereo fantasma Curiosamente, quella notte Peggy e il cane blu non fecero sogni tristi, come se le bestie grigie avessero deciso di lasciarli in pace. Verso mezzanotte, la ragazza ebbe la vaga impressione che all'esterno, sulla pista di decollo, stessero avvenendo cose strane; non ebbe tuttavia il coraggio di alzarsi per andare a vedere, e si riaddormentò. Al mattino si svegliò con il corpo dolorante per la nottata passata sul pavimento. Si rialzò con mille smorfie, rendendosi conto di avere fame. Anche Sébastian dormiva. Non essendo stato innaffiato da parecchio, il suo corpo assomigliava a una statua di sabbia. La sua pelle non aveva più niente d'umano e si potevano distinguere i granelli che la costituivano. Basterebbe una corrente d'aria per ridurlo in polvere, pensò Peggy. Devo
cercare dell'acqua per reidratarlo. Nell'officina trovò un annaffiatoio semipieno e lo utilizzò per bagnare il ragazzo. Sarebbe stata necessaria più acqua, ma in ogni caso questa prima dose solidificò la struttura interna del giovane fuggiasco. Dopo pochi minuti sembrava già meno fragile. Il cane blu rizzò il muso e fiutò l'aria. «Sta succedendo qualcosa di strano» annunciò mentalmente. «Che cosa?» lo interrogò Peggy. «Non so... sembra... sembra che siamo rimasti soli. Nell'aria c'è un odore insolito.» Preoccupata, la ragazza fece scorrere il portone dell'officina. Appena mise piede fuori, la luce l'accecò. Sin dal primo sguardo, capì che le bestie grigie se n'erano andate. La grossa fionda giaceva in mezzo alla pista di decollo, schiacciata, appiattita, come se ci fosse passata sopra un'enorme ruota. Peggy avanzò, incuriosita. Aveva visto bene, sulla polvere della pista c'erano delle grosse tracce di pneumatici. Un aereo, pensò sbalordita. Un aereo si è posato qui durante la notte e noi non abbiamo sentito niente. Com'è possibile? Il cane blu la raggiunse e si mise a fiutare le tracce. «È curioso» disse. «Non è un odore appartenente al nostro mondo. Sembrerebbe qualcosa che non esiste veramente... eppure lascia delle impronte.» «Se è un aereo,» osservò Peggy «è enorme.» «È un C47 Dakota» fece la voce di Sébastian alle sue spalle. «Utilizzano sempre lo stesso apparecchio, un aereo da trasporto della seconda guerra mondiale, disperso in un miraggio all'inizio della guerra del Pacifico.» «Lo conosci?» «Sì, è l'aereo fantasma di cui tutti parlano. Esce dal miraggio, atterra qui per prendere dei passeggeri, e riparte subito verso il luogo da cui proviene... altrimenti farebbe la mia stessa fine: rischierebbe di sgretolarsi.» Peggy Sue s'irrigidì. «Prendere dei passeggeri? Cosa vuoi dire?» «Non hai ancora capito?» sospirò Sébastian. «È venuto a prendere i tuoi genitori e tua sorella. Erano maturi per il grande viaggio. Le bestie grigie hanno corroso il loro cervello, non avevano più altra aspirazione se non quella di lasciare questo posto.» Senza curarsi più del ragazzo, Peggy si lanciò verso la torre di controllo. «Mamma! Papà! Julia!» urlò. Percorse invano le varie stanze. Non c'era nessuno. La sua famiglia se
n'era andata, abbandonando tutto alle proprie spalle. «Si sono persino dimenticati di me...» constatò, con le lacrime che le affioravano agli occhi. «Non erano più in sé» disse il cane blu per consolarla. «Ti ricordi come scrutavano il cielo nei giorni scorsi? Aspettavano l'aereo di mezzanotte.» Sébastian li raggiunse con passo stanco. «Mi sto disgregando» mormorò. «So bene che non è il momento, ma ho bisogno d'acqua...» «I miei genitori,» gemette Peggy Sue «come farò a ritrovarli?» «Non li ritroverai, a meno di un miracolo» sbuffò Sébastian. «Ci sono centinaia di universi-miraggio, te l'ho già detto. Non si sa in quale di questi li ha portati l'aereo fantasma. Ammesso che tu riesca a raggiungerli, non sono affatto certo che avrebbero voglia di tornarsene indietro.» «E allora, non li rivedrò mai più?» «Sei proprio in una bella trappola. Adesso sarai costretta anche tu a prendere l'aereo di mezzanotte, e di tua volontà. Non c'è più bisogno di mandarti contro le bestie grigie, visto che i tuoi sono trattenuti in ostaggio.» Peggy Sue si asciugò le lacrime con il dorso della mano. La tristezza stava lasciando posto alla rabbia. «Forse non tutti i mali vengono per nuocere, chissà?» azzardò Sébastian. «Se tu riuscissi a svegliare il demonio addormentato, potresti ottenere che tutti quelli che sono stufi del paese delle meraviglie vengano liberati senza condizioni. E che siano rilasciati in buono stato, su questa pista.» «Anche i miei genitori?» «I tuoi genitori e tutti gli altri.» Peggy Sue annuì. «Oh, no!» piagnucolò il cane blu. «Non vorrai mica andare?» «Sì, sono costretta.» Sébastian fece una smorfia. «Allora verrò con te» stabilì. «Senza qualcuno che ti aiuti non sopravviveresti a lungo da quelle parti.» Il cane blu emise un latrato rabbioso. Non apprezzava per niente l'idea di spiccare il volo verso un altro mondo. «Io, al tuo posto, li lascerei laggiù!» s'infuriò. «Non si occupano poi così bene di te... senza contare che Julia si comporta in modo ignobile! Ce la caveremo benissimo senza di loro. Bisogna lasciarli là dove sono, è una possibilità unica per starsene finalmente in pace!»
Peggy giudicò superfluo lanciarsi in una discussione. «Vado a prendere qualcosa per bagnarti» disse a Sébastian. «Se partiamo stasera, non ha più senso risparmiare sulle scorte d'acqua minerale.» Prese quattro bottiglie da un litro nel frigorifero e tornò indietro per svuotarle sulla testa del ragazzo. «Era ora» ansimò Sébastian. «Le mie mani cominciavano a sbriciolarsi. Guarda: non ho più il mignolo della mano sinistra, si è polverizzato.» «Ti fa male?» chiese Peggy. «No, per il momento, ma all'interno del miraggio sarà diverso.» «Com'è laggiù?» domandò la ragazza. «Devi dirmi tutto, adesso.» Sébastian fece una smorfia. Ma gli costò molto, perché i suoi lineamenti non avevano più la mobilità della carne, e la sua espressione impiegò un'eternità a scomparire dal viso. Sembra una statua che cerca di mutare aspetto, pensò Peggy distogliendo lo sguardo. «Laggiù» disse il ragazzo «c'è la guerra... una guerra senza pietà. Gli uomini si dividono in due clan: quelli che si rifiutano di vedere ciò che succede attorno a loro per continuare a divertirsi come stupidi... e quelli che sono decisi a risvegliare il demonio con ogni mezzo.» «E come si fa a risvegliare questo maledetto demonio?» «Finora nessuno c'è riuscito. Bisogna intrufolarsi nel giardino magico e localizzare il luogo in cui dorme. Ma prima, bisogna superare le trappole preparate dai suoi servitori. È un percorso mortale. Nessuno dei miei amici è mai tornato indietro.» Il cane blu cacciò un altro latrato. «Ragion di più per non metterci le zampe!» esclamò. Peggy Sue fece come se non l'avesse sentito. Con la punta delle dita, sfiorò la mano granulosa di Sébastian. «Grazie per volermi accompagnare» sussurrò. «Senza di te il vento mi avrebbe già sparpagliato ai quattro angoli del deserto» disse il ragazzo con evidente imbarazzo. «È normale che ti ricambi il favore, e poi... ti voglio bene.» Peggy Sue arrossì. Era la prima volta che un ragazzo le diceva una cosa del genere. Il cane blu, sconfitto, emise un gemito e nascose il muso tra le zampe. «Di cosa avremo bisogno?» chiese la ragazza. «Di niente... se non del nostro coraggio» sospirò Sébastian. «Le leggi che governano il miraggio hanno ben poco a che fare con quelle di questo
mondo. Te ne accorgerai una volta arrivati. Quando saremo nel paese dei sogni non allontanarti mai da me. Mi impegnerò a insegnarti le regole del gioco. Dopodiché, o sarai capace di cavartela da sola... o morirai.» «D'accordo,» fece Peggy «quando si parte?» «Questa notte» rispose in tono lugubre il ragazzo. «L'aereo tornerà a prenderci. È probabile che altre persone saranno dei nostri.» «Altre persone?» «Sì, ragazzini dei dintorni. L'aereo annuncia il prossimo passaggio attraverso sogni premonitori. Allora scappano da casa per recarsi all'appuntamento.» * La giornata sembrò più lunga del solito. Sébastian si era avvolto nella sua coperta bagnata e se ne stava in silenzio, il cane blu era imbronciato. Come sempre quand'era arrabbiato, le chiazze nere del suo pelo tendevano all'indaco. Peggy Sue non cessava di domandarsi dove fosse la sua famiglia. Alla fine si fece notte. La luna brillava con una luce insolita. Si sarebbe detto che si sforzasse di illuminare la pista come un enorme proiettore. «È un segnale» bofonchiò Sébastian. «L'aereo non tarderà ad arrivare, vedrai... È un Dakota. Un apparecchio dei tempi andati. Un C47 Dakota.» A Peggy Sue aveva sempre fatto effetto la passione dei ragazzi per i dettagli tecnici. Per lei, un aereo era grande o piccolo, blu o rosso... tanto bastava! Finalmente, un puntino argentato iniziò a pulsare nell'oscurità del cielo. «Eccolo» annunciò Sébastian con voce ansimante. «Se... sembra trasparente» farfugliò Peggy. «Guarda, pare di cristallo.» Il grosso bimotore a elica planava lentamente verso la pista con la grazia di una piuma portata dal vento. «È gigantesco,» disse con un filo di voce Peggy «eppure così fragile.» L'aereo aveva appena toccato terra. Era completamente trasparente, come se fosse di vetro. La fusoliera, le eliche, le ruote, ogni sua parte aveva l'aspetto del cristallo più sottile. Fu a quel punto che Peggy si accorse che degli sconosciuti si pressavano ai margini della pista. Dei bambini, ma anche degli adulti. Attendevano in silenzio. Il volto spento, lo sguardo allucinato, fissavano l'aereo fantasma spuntato dal nulla.
«Muoiono dalla voglia di salire a bordo» sibilò Sébastian. «Poveretti, se sapessero cosa li attende alla fine del viaggio.» Una porta si aprì sulla fusoliera dell'apparecchio. Ne uscì una rampa, spuntata fuori dal nulla. In cima agli scalini apparve una hostess sorridente. Con la mano guantata di bianco, salutò la folla dei passeggeri. Era molto bella. «Si parte» fece Sébastian raddrizzandosi. «In viaggio verso l'inferno.» 10 Il viaggio immobile Peggy Sue deglutì a fatica. Il cane blu aveva le orecchie appiattite sulla testa, in segno di grande spavento. La folla si precipitò verso la passerella travolgendo i tre compagni. Correvano tutti, terrorizzati all'idea che l'aereo potesse ripartire senza di loro. Le hostess, sorridenti, accoglievano i passeggeri con estrema gentilezza. «Andiamo» decise Peggy. «Montiamo su questo dannato apparecchio, prima che occupino tutti i posti.» «Oh! Non c'è nessun pericolo» rise amaramente Sébastian. «È un aereo come non ne hai mai visti.» Salirono a bordo e le hostess indicarono i loro posti. I sedili erano numerosissimi. Sembrava di essere in un cinema. Peggy lo trovò strano. In genere gli aerei non erano così grandi! Il corridoio centrale che separava le due file di poltrone sembrava estendersi all'infinito, come una strada nella prateria. «Stiamo per decollare» annunciò una delle hostess con voce vellutata. «Ci auguriamo che il viaggio sia di vostro gradimento. Se lo desiderate, delle sale da gioco sono a vostra disposizione nella parte posteriore del velivolo. Non esitate a utilizzarle.» «Delle sale da gioco?» chiese stupita Peggy Sue. Non le chiesero di allacciare la cintura. Di cinture non ce n'erano, del resto. Curiosamente, le parve che il grosso Dakota restasse immobile mentre la terra si allontanava. Non si percepiva nessuna vibrazione, nessun rombo di motore. «Non girano neanche le eliche!» si accorse d'un tratto la ragazza. Si guardò sotto i piedi, attraverso la fusoliera trasparente. La torre di controllo era già talmente piccola che sembrava potesse stare in piedi su una carta da gioco. Faceva uno strano effetto sentirsi così sospesi nell'aria come in un soprammobile di cristallo.
«Quanto dura il volo?» domandò a Sébastian rannicchiato nel sedile accanto al suo. Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Dipende» rispose sbadigliando. «Bisogna aspettare che si apra un miraggio. Di solito ci mette poco, ma talvolta possono volerci settimane, o addirittura mesi. Per questo l'aereo è così spazioso.» «Mesi?» squittì Peggy. «Non te ne renderai conto, qui il tempo trascorre in modo diverso.» «Non avremmo dovuto lanciarci in quest'avventura» brontolò il cane blu. «Ce ne pentiremo.» Peggy Sue si alzò dal sedile per andare a esplorare l'aereo. La maggior parte dei passeggeri aveva fatto altrettanto, e le hostess osservavano quella baraonda con un sorriso sulle labbra. Per quanto camminasse, Peggy non riusciva a raggiungere l'estremità del corridoio centrale. Più avanzava, più la porta in fondo si allontanava. Quando si guardò indietro, fece fatica a distinguere Sébastian e il cane blu tanto erano lontani. Sconcertata, finì per spingere il battente di vetro smerigliato. Fu accolta da schizzi e risate. Oltre la porta si apriva una piscina in cui già sguazzavano i giovani passeggeri. «Una piscina...» disse Peggy con un singulto. «In un aereo?» Ma le sorprese non erano terminate. Quando si avvicinò alla vasca, vide dei delfini che nuotavano tra i bambini. Dei delfini addomesticati. Arretrò d'un passo. Era qualcosa di magico... ma per nulla rassicurante. Desiderosa di saperne di più, superò la piscina e aprì un'altra porta. Le mancò il respiro. Si trovava adesso in una prateria azzurrognola dove i bambini cavalcavano dei pony. C'era l'erba, i fiori, le colline... e persino, in fondo, una vecchia casetta da cui emanava un profumo di crostata di mele appena sfornata. A occhio stimò che la pianura dovesse estendersi per almeno due chilometri. Si era mai sentito parlare di un aeroplano che dal muso alle ali misurasse oltre duemila metri? «Se vuoi, puoi prendere un pony» le disse gentilmente una hostess. «Sanno cantare... e quello lì profuma di vaniglia. Se gli strizzi l'orecchio destro ti racconterà delle storie.» Peggy batté in ritirata, giudicando di avere visto abbastanza. Ritornò al suo posto. Sébastian le lanciò un'occhiata canzonatoria. «Non spaventarti per così poco,» le disse «non è nulla al confronto di quello che ci attende all'arrivo.» Poco dopo, le hostess domandarono ai passeggeri che cosa desideravano
mangiare. Accolsero le richieste più strambe con lo stesso buonumore, come se nulla fosse impossibile. Un bambino reclamò tre chili di gelato al cioccolato, un altro una crostata di fragole grande un metro. Vennero tutti soddisfatti nel giro di un minuto. Lentamente, la fisionomia dell'aeroplano si modificò. Perse la sua bella trasparenza. Dal pavimento cominciò a spuntare dell'erba, e delle nuvole si disegnarono sul soffitto. «Stiamo arrivando» spiegò Sébastian. «Il velivolo sta diventando il paese verso cui siamo diretti. Il miraggio si trasforma. Quando la metamorfosi sarà completa, non dovremo neanche scendere dalla passerella per uscire, e i sedili su cui siamo seduti diventeranno delle panchine di un parco. L'aereo fantasma permette di viaggiare restando immobili.» Le cose si svolsero come annunciato. Il Dakota perse progressivamente le sue forme. Tutt'a un tratto, sparirono sia le ali sia le eliche. Peggy e i suoi compagni si ritrovarono seduti in un prato rosa che un giardiniere rastrellava servendosi di un curioso attrezzo: una mano di legno gigante fissata all'estremità di un lungo manico. «Che cosa sta facendo?» chiese stupita la ragazza. «Qui i prati sono vivi» le spiegò distrattamente Sébastian. «Adorano che gli si gratti la schiena. Venite, questa è solo una scenografia messa su per tranquillizzare i nuovi arrivati. Se volete essere realmente utili, dobbiamo raggiungere la zona di guerra.» 11 I Minuscoli Peggy aveva lo stomaco sottosopra. Non poteva fare a meno di guardarsi intorno nella speranza di vedere i genitori e la sorella. C'era tantissima gente: adulti, bambini, ragazzi, tutti sorridenti, che andavano avanti e indietro sui pattini o arrampicati in equilibrio sugli skate-board. L'atmosfera ricordava quella di una spiaggia; bandierine che sbattevano al vento, il rumore del mare e la musica di giostre invisibili. Sopra i tetti volteggiavano dei gabbiani. «Sono fosforescenti» commentò Sébastian. «Brillano al buio.» Poco lontano, altre persone facevano la fila a uno skilift, gli sci in spalla...
«Il mare in montagna?» chiese stupita la ragazza. «E l'inverno d'estate» completò Sébastian. «Qui ogni cosa è concepita per soddisfare il visitatore. Se avessimo tempo, ti farei vedere certe strade della città dove nevica di continuo e si festeggia il Natale tutte le sere. Cento metri dopo è estate piena, e la gente si abbronza in costume sul prato di casa. Ci sono quartieri dove si vive come ai tempi dei cow-boy... altri dove si indossano delle armature, e così via. Laggiù c'è una pista di decollo per aquiloni viventi. Ti aggrappi alle loro zampe e ti portano sulle nuvole.» «Sulle nuvole?» esclamò Peggy Sue con voce stridula. «Sì, molta gente va a sciare sulle nuvole, sostengono che si scivoli meglio che sulla neve. Ma non bisogna farsi abbindolare da quest'atmosfera vacanziera.» «Tu dici che c'è una guerra,» intervenne il cane blu «ma la gente non mi pare particolarmente agitata.» «È vero» riconobbe il ragazzo. «Dipende dal fatto che la memoria degli abitanti del miraggio è manipolata per far dimenticare le cose tristi.» «Ma tu invece le ricordi...» notò Peggy. «Sì, perché sono qui da troppo tempo» spiegò Sébastian. «Dopo qualche decina d'anni il filtro magico non funziona più, e vedi la realtà per quello che è.» (Si fermò per indicare le svariate pasticcerie lungo la strada.) «Quei negozi distribuiscono gratis dolci e caramelle che cancellano i ricordi sgradevoli. Se li mangiate non avrete più preoccupazioni. Peggy dimenticherà i suoi genitori, sua sorella, e penserà soltanto a divertirsi. Crederà di essere qui solo da una settimana, quando invece saranno trascorsi quindici anni terrestri.» «È una trappola» bofonchiò il cane blu. «Esatto» riconobbe Sébastian. «Ecco perché dovete essere prudenti e ascoltarmi. Da queste parti c'è un quartiere dove puoi diventare quello che vuoi: un bambino può trasformarsi in una locomotiva o in una tigre a strisce verdi, una ragazza in un ragazzo, un cane nel Presidente degli Stati Uniti. Per far questo è sufficiente ingerire delle pillole magiche. Qui siamo in quella che viene chiamata 'la zona dei sogni'. Gli effetti della guerra sono invisibili. Le cose peggiorano quando ci si addentra nel cuore del miraggio.» Il giovane accelerò il passo, come se avesse fretta di uscire da quel territorio in cui regnava l'illusione. Mentre Peggy Sue indugiava osservando le vetrine, Sébastian la rimproverò. «Non perdere tempo, sennò rischi di essere contagiata!» esclamò. «Ci si
abitua presto a questa felicità artefatta.» La ragazza si scosse, aveva appena letto un manifesto che recitava: DIVENTA IL TUO ANIMALE PREFERITO! NOLEGGIO COSTUMI ANIMATI La scritta solleticò la sua attenzione. Tentò di resistere. (Tutto questo non poteva essere una cosa seria, non c'era tempo da perdere, doveva...) Nulla da fare! Era più forte di lei, doveva andare a vedere di cosa si trattava. Quando lo disse a Sébastian, il ragazzo emise un sospiro. «È normale» fece. «Ero come te quando sono sbarcato la prima volta. È meglio andarci subito altrimenti finirà per diventare un'ossessione, e sarai incapace di concentrarti sulle cose importanti.» Costeggiando la spiaggia, presero la direzione della scogliera, dove si ergeva una casetta di legno, in mezzo a una landa di felci blu. All'interno, appesi a delle grucce, c'erano dei vestiti tutti fatti di peli, di piume o di squame. Sembrava uno di quei negozi d'abbigliamento che affittano costumi stravaganti per Halloween. Si avvicinò un uomo, con la barba dipinta di rosa e una corona sul capo. «Salve,» disse «sono Puff, il re del travestimento animato. Per chi è?» «Per la signorina» rispose Sébastian. «E cosa vuole diventare, la signorina?» chiese il rigattiere. «Un pesce, una sirena, una cerva?» Peggy Sue passò in rassegna i costumi giudicandoli assai miseri. Sembravano maschere a noleggio in pessimo stato. Di piume o di squame, i colori erano tutti sbiaditi. «Così non fanno molto effetto» riconobbe l'uomo. «Ma una volta infilati, cambia tutto. Non bisogna lasciarsi ingannare dall'apparenza.» La ragazza si sentiva un po' stupida. Prese in mano una gruccia alla quale era appeso un costume da uccello dalle piume variopinte. «Sembra un pigiama da neonato» scoppiò a ridere. «Ha anche una chiusura lampo sulla pancia.» «Infilala,» mormorò l'uomo con la barba rosa «e cambierai parere.» Desiderosa di farla finita, Peggy obbedì. Lo sguardo troppo serio di Sébastian la infastidiva. «Cosa c'è?» chiese. «Hai un'aria contrariata.» «Non è privo di rischi» rispose il ragazzo. «Mi avevi garantito che la morte non esisteva nel miraggio» esclamò
Peggy. «Non è così?» «Sì, è vero,» confermò Sébastian «ma il pericolo è un altro... questi abiti magici non sono eterni. Si consumano rapidamente, e quando esauriscono la loro energia si disgregano. Se dovesse accadere quando sei ancora in volo, cadresti giù come un sasso. Non lasciarti inebriare dalla sensazione di libertà. Cerca di restare abbastanza lucida da riuscire ad atterrare quando il costume darà i primi segnali di fatica.» La ragazza tirò su la cerniera lampo fin sotto il mento. Devo avere un'aria ridicola! pensò. Come una bambina di cinque anni che si maschera per Carnevale! «Perfetto, perfetto!» esclamò il robivecchi. «Sei splendida... bella come un gabbiano! Adesso corri verso la scogliera... e lanciati nel vuoto. Il costume farà il resto.» «Devo gettarmi nel vuoto?» esclamò Peggy con aria incredula. «Ma sì, ma sì...» ripeté l'uomo dalla barba rosa. «Vedrai, è fantastico! Non devi angosciarti, bellezza, il costume sa cosa occorre fare.» Non volendo passare per una paurosa, Peggy Sue uscì dal negozio e corse nella landa, verso il mare. Siamo in un miraggio, si ripeté per farsi forza. È tutto magico, non mi può succedere nulla. L'estremità della scogliera si avvicinava. Stringendo i denti, si tuffò nel precipizio. Per un secondo, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, pensò che sarebbe caduta in picchiata nel mare, poi le ali di tessuto si dispiegarono... e iniziò a volare, veramente, come un uccello. Era incredibile! Non aveva mai provato una sensazione così straordinaria. Non pesava più nulla, volteggiava nell'aria. Iniziò a descrivere figure sempre più complicate, giri della morte, serpentine. Salì, salì, come se volesse dare un calcio al sole... Nulla aveva più importanza, tranne il cielo e la luce, e l'azzurro in cui le sue ali sbracciavano con un sibilo di seta lacerata... D'un tratto, mentre iniziava un'ennesima picchiata, vide che le piume cominciavano a staccarsi. A blocchi! Il vento le trascinava via! Un istante dopo sentì cedere le cuciture della maschera. Il costume magico si stava disfacendo, andava in pezzi. Non è possibile, pensò. Ho lasciato la scogliera da appena cinque minuti! Si rese conto allora di avere perso la nozione del tempo. Era quello il
grande tranello del miraggio, l'illusione fatale: non ci si accorgeva del trascorrere delle ore. Gli orologi sembravano immobili. Guardò verso il basso e cacciò un urlo. Era a più di mille metri dal suolo! Che sarebbe successo se avesse iniziato a cadere giù come un sasso? Di colpo, una raffica di vento le strappò il costume. Era talmente usurato che cominciò a sfilacciarsi. Priva di qualsiasi sostegno, Peggy cominciò a scendere in picchiata verso terra con un urlo di terrore. Quand'era ormai convinta di sfracellarsi al suolo, andò a sbattere su una nuvoletta che si spostava tranquillamente a mezz'altezza. Bianca e vellutata, non era più grande di una scialuppa di salvataggio. Peggy ebbe così l'impressione di cadere su un materasso pieno di fumo. La nube si rivelò un po' appiccicosa, ma profumata alla vaniglia. Peggy Sue ci si ritrovò presto immersa fino ai capelli. Con le dita appiccicose, si avvicinò al bordo per gettare un'occhiata in basso. Era a cinquecento metri d'altezza sul mare. All'orizzonte si intravedeva la linea bianca della scogliera, assai distante, e se il vento avesse continuato a soffiare, si sarebbe allontanata dai suoi amici ogni minuto di più. E adesso, pensò amaramente, cosa dovrei fare? Non sarebbe morta di fame né di sete, certo, ma cosa sarebbe successo se la nuvola l'avesse portata all'altro capo di un universo di cui non sapeva nulla? Sono una naufraga, disse tra sé. L'unica differenza è che navigo su una nuvola addomesticata anziché su un gommone. Questo pensiero non la rassicurava per niente. Doveva forse farsi coraggio e saltare nel vuoto? D'accordo, rifletté, se lo faccio, precipiterò dritta in mare. E dopo, cosa succederà? Annegherò negli abissi? Galleggerò per anni prima di naufragare su una spiaggia? In un mondo in cui non si poteva morire, tutto diventava possibile, ma l'idea di nuotare senza meta per i prossimi cinque anni non la entusiasmava affatto! «Dovrei saltare adesso» disse con un filo di voce. «Prima che la costa si allontani troppo. Se aspetto ancora, non avrò più punti di riferimento e non saprò quale direzione prendere.» Malgrado ciò, non riusciva a decidersi. Era paralizzata dalle vertigini. E nel frattempo la nuvola continuava ad allontanarsi. A un certo punto avvistò un gruppo di 'bambini-uccello' in rapido avvi-
cinamento e credette di essere in salvo. Si raddrizzò e agitò le braccia cercando di mantenersi in equilibrio. «Ehilà!» gridò. «Aiuto! Sono bloccata, non so più come scendere...» I bambini le sfilarono accanto ridendo fragorosamente. Le lanciarono un'occhiata distratta e proseguirono senza fermarsi, come se nulla fosse. Se ne infischiano! pensò Peggy Sue. Sono a tal punto immersi nel loro gioco che nulla ha più importanza. Cominciava a perdere le speranze, quando la voce mentale del cane blu gracchiò nella sua testa. «Sei tu?» sbuffò. «Dov'eri finita? È da ore che ti cerco a caso su tutte le lunghezze d'onda! Eravamo preoccupatissimi.» Peggy si affrettò a raccontargli la sua disavventura. «Sébastian dice che hai aspettato troppo» le spiegò l'animale. «La maschera ha finito per decomporsi. È un incidente molto frequente, ahimè. Decine di bambini ogni settimana si perdono in questo modo. Cadono in mare e le correnti li trascinano via. Non annegano, ma vanno alla deriva in balia delle onde, per l'eternità. Alcuni vengono sballottati per dieci o venti anni prima di essere rigettati su una spiaggia. È di una noia mortale.» «Non vorrai dirmi che dovrò starmene inchiodata per vent'anni su questa nuvola appiccicosa!» si spaventò Peggy. «No» fece il cane blu. «Sébastian ha trovato una barca. In questo momento stiamo remando nella tua direzione. Verremo a salvarti.» «Ma non avrò mai il coraggio di saltare nel vuoto, è troppo alto!» «Non ce n'è bisogno. Basta che scavi dentro la nuvola. Sébastian dice che dovresti trovare una cassetta di sopravvivenza. Dentro c'è una scala di corda magica. Quando la lancerai nel vuoto si allungherà automaticamente quanto occorre per arrivare fino alla barca. Ma attenta! Non farla uscire troppo presto, il suo limite di utilizzo non supera i quindici minuti. Passato questo tempo, inizierà a sfilacciarsi, come il costume poco fa... e cadrai giù.» «Mi ferirò toccando l'acqua?» chiese preoccupata Peggy Sue. «No» borbottò il cane dopo essersi informato. «Ma Sébastian dice che rimbalzando sulle onde potresti deformarti... il che non sarebbe per niente bello.» «Deformarmi?» strepitò Peggy. «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che potresti ritrovarti con la faccia schiacciata come una pallina da ping-pong calpestata dalla zampa di un elefante, per esempio» rispose l'animale con tono infastidito. «Questo non ti impedirà di soprav-
vivere... ma soltanto di guardarti allo specchio. Un po' scocciante per una ragazza, certo.» «Fantastico!» imprecò Peggy. «Starò attenta a non sbagliare. Cerco di individuarvi.» «La nostra barca ha una vela gialla» disse cortesemente il cane blu. Peggy Sue si sforzò di prenderla con filosofia. Non aveva perso molto tempo per trovare la cassetta di sicurezza. Aveva sollevato per un attimo il coperchio per assicurarsi della presenza della scala di corda. Adesso se ne stava inginocchiata sul ciglio della nuvola, una mano sulla fronte a mo' di visiera per individuare l'imbarcazione dei soccorritori. Alla fine arrivarono. Quando gettarono l'ancora proprio sotto la nuvola, Peggy lanciò la scala nel vuoto. A dispetto del vento che si ostinava a sbatterle la maglietta sulla testa, andò tutto bene e raggiunse la scialuppa prima che la scala di corda scomparisse. «Allora?» fece Sébastian puntando la prua verso la scogliera. «Ti sei divertita?» Peggy Sue preferì non rispondere. Cominciava a capire che i divertimenti del paese delle meraviglie non erano necessariamente di tutto riposo. * Non appena toccarono terra, Sébastian si lanciò su una strada in salita. Camminava veloce, Peggy Sue faceva fatica a stargli dietro. All'orizzonte, distinse una sorta di staccionata gigantesca che si allungava da un estremo all'altro del paesaggio. Una staccionata bianca, di legno, munita di una porticina e di una graziosa cassetta delle lettere... ma di dimensioni colossali. «Sembra la staccionata del giardino di una villa» osservò il cane blu. «Il giardino di un gigante.» «È vero» balbettò Peggy. «La cassetta delle lettere pare sospesa a cento metri d'altezza, ed è grande come un palazzo di dieci piani.» La staccionata bianca non aveva nulla d'inquietante in sé, a parte le misure un po' anomale. Al suo cospetto, il resto della città sembrava minuscolo. Le abitazioni facevano la figura di case per bambole. «È il giardino del demonio addormentato» disse Sébastian con voce cupa. «È lì che andremo, quando ne saprete di più sui pericoli che nasconde.»
Al di là della staccionata si ergeva un castello, anch'esso bianco, sui cui lati s'innalzavano tantissime torri. «Curioso» notò Peggy. «Sembra un albero con i rami che crescono senza un ordine preciso, da tutte le parti...» «È vero» concordò il cane blu. «Nessun architetto può aver mai concepito un maniero del genere, a meno che non sia completamente pazzo. Guarda, dalle mura spuntano decine di torrette. E altre torri in cima alle torri. E le mura non sono neanche dritte.» Dato che Sébastian non diceva niente, i due amici dovettero limitarsi a formulare delle ipotesi. «Da adesso in poi attenti a dove mettete i piedi!» annunciò il ragazzo con un tono che non ammetteva repliche. «Entriamo nella zona di guerra. Scordatevi i sogni.» Peggy Sue stava per ribellarsi - detestava ricevere ordini dai ragazzi quando la sua attenzione fu attratta da un cartello sul marciapiede che riportava la seguente scritta: Attenti ai Minuscoli. Pericolo di calpestio! «Guarda» le suggerì mentalmente il cane blu. «Si sta restringendo tutto. Le case qui sono molto più piccole della zona dei sogni.» «Hai ragione» rispose Peggy. «Ed è sempre peggio man mano che ci si avvicina alla staccionata bianca. In fondo alla strada le costruzioni sono poco più grandi di scatole da scarpe.» Era piuttosto insolito. Anche le macchine parcheggiate lungo i marciapiedi assumevano a poco a poco le dimensioni di un giocattolo. «Che cosa significa?» domandò Peggy a Sébastian. «È un'altra illusione?» «No, ahimè!» sospirò il ragazzo. «È uno dei primi effetti della guerra. Vi presenterò il generale, ve lo saprà spiegare meglio di me. Ma non scherzate e prendete sul serio tutto ciò che vi dirà. Ne va della vostra sopravvivenza. Non siamo qui per divertirci.» Adesso le case si rimpicciolivano sempre più velocemente. I tetti non superavano la spalla di Peggy Sue. Giunti all'altezza di un casermone di aspetto ufficiale, Sébastian s'inginocchiò per bussare sulla facciata con l'indice ricurvo. La porta al pianterreno si aprì e apparve una nonnina dai capelli bianchi, con gli occhiali calati sul naso. Era alta appena venti centimetri. «Ecco» annunciò Sébastian. «Questi sono Peggy Sue e il cane blu. Immagino fosse impaziente di incontrarli, visto quanto si è affannata per por-
tarli qui.» «È vero, ragazzo mio» riconobbe la minuscola signora. Girandosi verso la ragazza e il cane, disse: «Buongiorno! Mi presento, sono Mamie Pickaboo, il capo supremo degli eserciti nella zona di guerra.» Per comprendere le sue parole era necessario tendere l'orecchio, perché la sua voce faceva pensare al mugolio di un topolino. Peggy Sue era talmente sorpresa che si limitò a farfugliare un saluto imbarazzato. «Non sono così da sempre» cominciò a raccontare la buffa donnina. «Quando mi ritrovai nel miraggio ero di dimensioni normali, ma poi le cose sono andate storte. Il demonio addormentato ha iniziato ad avere degli incubi, e questo ha finito per sconvolgere le regole del nostro mondo. Ho cominciato a rimpicciolirmi. Succede quando si rimane qui troppo a lungo: si diventa minuscoli.» «Ma perché?» balbettò Peggy. «Il demonio si alimenta della nostra sostanza» disse la generalessa. «Assorbe dall'altro lato della staccionata la materia di cui ha bisogno per il suo giardino. In sintesi: più il giardino s'ingrandisce, più la città e i suoi abitanti si rimpiccioliscono. Il mondo del miraggio dispone solo di una certa quantità di materia. Non può dilatarsi. Perché qualcosa si sviluppi è necessario che una massa di materiale equivalente si contragga. È la regola del 'né più né meno'.» Puntò la sua mano in miniatura verso il castello dalle mille torrette che si ergeva in lontananza, oltre la staccionata gigantesca. «Quella fortezza cresce come una pianta» disse. «Ogni giorno fa spuntare una nuova torre. E quella torre si sviluppa a nostre spese, sottraendoci un po' della nostra materia. Ecco perché ci restringiamo. Ciò che ci viene tolto va ad aggiungersi lassù. Così l'equilibrio del miraggio è conservato, però noi diventiamo sempre più piccoli.» «Ma perché il demonio ha bisogno di ingrandire il suo castello?» la interrogò Peggy. «Perché anche lui cresce» sospirò Mamie Pickaboo. «S'ingrandisce mentre dorme. Se il castello non seguisse lo stesso movimento, il demonio si ritroverebbe compresso tra le sue mura come in un guscio troppo stretto. Soffocherebbe, morirebbe... e questa sarebbe la fine dell'universo nato dai suoi sogni. Se lui muore, moriamo tutti. I nostri destini sono legati.» «È come un cavaliere che cresce dentro l'armatura» commentò Peggy. «Se l'armatura non facesse la stessa cosa sarebbe spacciato.» «Sì» bofonchiò il cane blu. «O come un cane che inizia a gonfiarsi den-
tro la cuccia, fino a diventare grosso come un bue...» «Il castello non può rompersi per la pressione dovuta alla crescita del gigante» continuò la generalessa. «È concepito per essere indistruttibile e proteggere il demonio contro qualsiasi aggressione. Per questo è costretto a ingrandirsi allo stesso ritmo del suo inquilino. Il problema...» «È che si rifornisce di materia a vostre spese» completò Peggy Sue. «Hai capito tutto» sospirò Mamie Pickabooo. «La dilatazione del giardino comporta la compressione della città. È una regola di base che bisogna imparare a memoria, come a scuola.» «Ma questo, come ci riguarda...» cominciò Peggy. «Avete già iniziato a restringervi» buttò là inesorabilmente la generalessa Pickaboo. «Nell'attimo stesso in cui siete usciti dalla zona dei sogni, le molecole del vostro corpo hanno avviato il processo di compressione. Sono certa che misuriate già uno o due millimetri in meno rispetto al mondo reale.» A questa notizia, Peggy provò un brivido sgradevole lungo la schiena. «Ecco perché non bisogna perdere tempo» li ammonì Mamie Pickabooo. «Più aspettate, più rimpicciolirete. Se diventate troppo piccoli, sarete totalmente disarmati una volta passati dall'altro lato della staccionata.» Peggy Sue sentì un nodo in gola. Volse lo sguardo verso il castello. Ebbe la sorpresa di vedere spuntare un'altra torretta sulla sommità di un bastione. Dapprima semplice protuberanza informe tra i blocchi di pietra del camminamento di ronda, la massa si sviluppò come un cactus che germoglia, assumendo l'aspetto di una torre sormontata da un tetto conico. «Per dimostrarvi che non mi sto inventando nulla,» riprese Mamie Pickabooo «vi presenterò l'ex generale del distretto, quello che comandava la zona dei combattimenti prima di me.» Entrando nella casa da bambola che fungeva da abitazione, aprì un comò, rovistò in un cassetto e tirò fuori una scatolina non più grande di un francobollo. Tornata sulla scalinata tolse il coperchio, scoprendo un oggetto non identificabile che si agitava sul fondo del cofanetto. «Ecco,» disse mestamente «vi presento Barnaby Selfridge. O almeno quel che ne resta. Tra qualche mese diventerò come lui... e voi, sarete già più piccoli di questa casetta. Abbiamo davvero bisogno di te, Peggy Sue. Sappiamo che ti batti da anni contro gli Invisibili, e che li hai messi in scacco più d'una volta. Oggi ti chiediamo di aiutarci. Sei abituata ai prodigi, sai come sventare i malefici... Tutti i soldati che abbiamo spedito laggiù erano privi d'esperienza. Nessuno è mai tornato indietro. Per questo ti ab-
biamo teso un tranello. Per costringerti a darci manforte.» «Ma dove sono i miei genitori e mia sorella?» sibilò la ragazza. «Da qualche parte in uno degli universi creati dai sogni del demonio» rispose la generalessa. «Ciascuno ha una porta che si apre su questo giardino. Il castello è la radice comune. Hai una sola possibilità di ritrovarli: risvegliare il demonio e riuscire a fargli mettere fine alla follia che dilaga attorno a noi. Se raggiungerai un accordo con lui, riavrai indietro la tua famiglia.» «Hanno già cominciato a restringersi?» insisté Peggy. «È probabile» sospirò Mamie Pickabooo. «La dilatazione del castello necessita di notevoli apporti di materia.» Fece una pausa prima di aggiungere: «Adesso Sébastian ti condurrà al campo d'addestramento dove ti insegneranno i primi rudimenti delle tecniche di sopravvivenza in territorio nemico.» Un po' frastornata, Peggy Sue si congedò dalla generalessa, che rientrò nella sua casa da bambola profondendosi in ringraziamenti. «State molto attenti a dove poggiate i piedi» ripeté Sébastian. «Ormai siamo nel territorio dei Minuscoli. È il nome della gente che vive ai margini della staccionata, al limitare del giardino, dove il fenomeno di compressione si fa sentire in maniera più pesante. Non gli va molto a genio vederci camminare nei paraggi, hanno paura che li possiamo schiacciare senza accorgercene. Sono i più anziani abitanti del miraggio. Quelli che non si sono accontentati di restare nella zona dei sogni, ma hanno voluto saperne di più su questo strano universo. Ormai non possono più tornare indietro, la gente della 'grande' città è troppo spensierata, troppo egoista per prendersi il disturbo di guardare dove mette i piedi, li schiaccerebbero senza neanche rendersene conto.» Peggy Sue osava appena mettere un piede davanti all'altro; quanto al cane blu, fiutava il terreno nella speranza di individuare quelle strane creature. «Laggiù» disse Sébastian indicando la staccionata gigante «le case sono appena più grandi di scatole di fiammiferi, e i loro abitanti sembrano formiche. La cosa più grave è che il fenomeno si estenderà progressivamente in tutta la città. Anche la zona dei sogni finirà per comprimersi. Tutti coloro che sono prigionieri dei miraggi saranno miniaturizzati mentre il castello diventerà sempre più gigantesco.» Peggy non disse nulla, era troppo attenta a scrutare il terreno. I tetti delle case arrivavano a malapena all'altezza del suo ginocchio.
«Il campo d'addestramento è da questa parte. Aprite bene le orecchie e non fate i furbi, avete molto da imparare se volete avere una possibilità di tornare indietro vivi.» Sul terreno, certe porzioni della pavimentazione, dipinte di giallo, erano separate dal resto della pubblica via da un muretto di mattoni alto una ventina di centimetri. «Sono i percorsi riservati ai Minuscoli» spiegò Sébastian. «Noi non dobbiamo passarci. Ma se osservi più da vicino, vedrai che sulla strada gialla ne è stata tracciata una blu... È destinata ai Minuscoli ancora più piccoli della generalessa Pickaboo. E se ti avvicini ancora, potrai distinguere una strada arancione dipinta all'interno di quella blu...» «È riservata ai Minuscoli più piccoli dei Minuscoli più piccoli dei Minuscoli?» «È così» confermò il ragazzo. «I Minuscoli si suddividono secondo il grado di rimpicciolimento. Ci sono i Minuscoli 1, i Minuscoli 2, e via di seguito...» Durante il cammino incontrarono diversi gruppi di adulti a vari stadi di miniaturizzazione. Alcuni erano alti cinquanta centimetri, altri trenta, altri ancora appena venti. I più piccoli guardavano di continuo verso l'alto, per paura che quelli più grandi potessero schiacciarli. «È quello che ci aspetta se rimaniamo troppo tempo così vicino alla staccionata» sospirò Sébastian. «Il guaio è che non te ne rendi conto, dato che i vestiti si restringono assieme al corpo.» Alla fine raggiunsero il campo d'addestramento dove si trovavano ammassati i bambini soldato. Peggy Sue si accorse subito che i ragazzi e le ragazze di sedici anni, a dispetto della loro età, erano molto più piccoli di lei. «È perché non si decidono ad andare in battaglia» fu il commento di Sébastian. «Sono qui da troppo tempo. Pagano il prezzo della loro esitazione.» Il campo era composto da tende militari. Alcune erano ancora sufficientemente grandi, ma la gran parte sembrava concepita a misura di bambola. «Ci si raggruppa in base all'altezza, senza mischiarsi» fece Sébastian. «È la regola.» Peggy Sue si sedette nell'erba dopo aver ispezionato ogni singolo filo per paura di pestare qualcuno. «Sembrano dei topolini» bofonchiò il cane blu. «Mi irrita il modo in cui
mi corrono sotto il naso, avrei quasi voglia di sgranocchiarne uno, giusto per sentire che sapore hanno.» «Non ci pensare nemmeno!» lo redarguì Peggy. «Sono esseri umani.» «Se lo dici tu...» sospirò l'animale, poco convinto. Un fischio interruppe la conversazione. «Silenzio!» gridò con voce in falsetto un omino in uniforme da caporale arrampicato su una pedana. «Il colonnello Baldwin vi spiegherà come è costruito il giardino e le creature che rischiate di incontrare.» «Uff!» brontolò un ragazzo vicino a Peggy «eccoci di nuovo a scuola!» Il caporale in piedi sulla pedana si frugò in tasca tirando fuori una scatola di fiammiferi. La poggiò su un tavolino, l'apri... qualcosa di molto piccolo apparve al centro della custodia. Era il colonnello Baldwin, il comandante delle operazioni in zona nemica. Cominciò a parlare, ma la sua voce assomigliava al ronzio di una mosca. Fu necessario collegare un amplificatore affinché l'assemblea potesse comprendere le sue parole. «C'è poco da scherzare, giovanotti» fece con un tono che non ammetteva repliche. «Se non andate in battaglia, diventerete piccoli come me nel giro di tre settimane... Io non mi faccio illusioni sulla sorte che mi attende. Quando sarò diventato microscopico, gli acari del primo tappeto che incontro mi divoreranno. Sono moralmente pronto. A voi scegliere se andare incontro alla stessa sorte.» Un brusio percorse l'assemblea. «Al di là della staccionata si estende il giardino» continuò il colonnello. «È difeso da servitori senza pietà che vi tratteranno come se foste delle talpe, dei topi, dei parassiti. Non disponiamo di nessuna mappa precisa dei luoghi, perché col passare dei mesi i cespugli si sono trasformati in una giungla inestricabile. I giardinieri sono ossessionati dall'acqua... ce ne vuole un'infinità per innaffiare una simile massa vegetale. La pompano dall'esterno. Dal mondo reale. È per questa ragione che i deserti si estendono sempre più. I miraggi utilizzano degli 'animali-serbatoio' per pompare acqua dalle pozze, dagli stagni, dai laghi... Presto sarà la volta degli oceani, e la Terra si ridurrà a una sfera di argilla secca. Questi animali-cisterna sono grandi come dinosauri, possono calpestarvi senza accorgersene...» Affascinante! pensò Peggy Sue. La voce del colonnello continuò a risuonare nell'altoparlante. Il poveretto, si disse la ragazza, in realtà non sa granché di cosa succede al di là della staccionata bianca. «Il pericolo può arrivare da ovunque,» ripeteva l'oratore «i 'giardinieri-
soldato' vi tratteranno alla stregua degli uccelli che vengono a becchettare i frutti.» «A che cosa servono questi frutti?» domandò Peggy alzando la mano. «Servono a nutrire il demonio addormentato» spiegò il colonnello per mezzo dell'amplificatore. «I giardinieri li raccolgono e lo alimentano durante il sonno. Ecco perché li sorvegliano gelosamente.» Peggy Sue abbassò la mano. «Avremo delle armi?» chiese un ragazzo. «Dei fucili, delle spade?» «No» rispose il colonnello dal fondo della sua scatola di fiammiferi. «Nessun'arma, non servirebbe a niente. Le sole armi di cui disporrete saranno l'astuzia e l'intelligenza.» Il ragazzo sbuffò, insoddisfatto. «In tal caso» sussurrò al suo vicino «laggiù non metterò piede, preferisco tornare nella zona dei sogni.» Dando seguito alle sue parole, si alzò e abbandonò l'adunata, subito imitato da altri sei ragazzi. «Non ci sono soldati senza fucile!» borbottavano. «Non ha senso.» «Ecco,» sospirò Sébastian «finisce spesso così. Vengono a giocare alla guerra senza una reale consapevolezza della posta in gioco. Quanto a quelli che oltrepassano la staccionata, fanno gli spavaldi, sicché i giardinierisentinella non hanno alcuna difficoltà a individuarli.» La seduta d'addestramento si concluse con la distribuzione di libretti informativi contenenti diverse mappe del giardino. «Questi documenti sono già vecchi» mormorò Sébastian. «Guarda: all'epoca il castello era più piccolo di adesso.» Per Peggy non fu difficile verificarlo. Le torri della fortezza che si ergeva all'orizzonte sembravano quasi lambire le nuvole. Sistemato il colonnello in fondo alla sua scatola, l'adunata si sciolse. «Dobbiamo andare a equipaggiarci per la notte» disse Sébastian. «È al termine del giorno che il giardino si lancia all'assalto della città.» «Come?» chiese Peggy. Sébastian indicò gli interstizi tra le assi della staccionata gigante. «Le piante...» disse «fanno passare le loro radici da lì, come i tentacoli di una piovra. Vengono a rubare delle cose... o delle persone.» «Perché?» «Perché sono impazienti e ritengono che il trasferimento di materia sia troppo lento.» «Vuoi dire che secondo loro non ci rimpiccioliamo abbastanza veloce-
mente?» «Sì... insomma, siccome hanno bisogno di materia per fare nascere nuovi frutti, rubano tutto ciò che riescono ad acciuffare con i tentacoli. Bambini, soprattutto.» «Che ne fanno?» «Li trasformano... in frutti. Gli adulti, invece, in ortaggi. Non sto scherzando. Le loro radici sono irte di pungiglioni, se ti pizzicano il veleno si infiltra dentro di te, il veleno della metamorfosi. Se un banano ti dà un morso alla caviglia diventi una banana nel giro di tre giorni, a meno che tu non sia provvista dell'antidoto.» «Una banana gigante?» «Una banana gigante che il demonio mangerà mentre dorme, non appena verrà colta dai giardinieri.» Nella baracca riservata all'equipaggiamento, un sergente sulla quarantina - ma molto più basso di loro - distribuiva delle falci. «Attenti!» si raccomandò. «Sono state affilate questa mattina. E ricordatevi gli astucci con il siero anti-veleno. Abbiamo aggiunto un antidoto contro i morsi d'ananas, i graffi da patata e le punture da ravanello.» I tre amici salutarono il sergente e raggiunsero la tenda che era stata loro assegnata. Il tappetino era di materiale metallico: Peggy Sue rimase sorpresa. «A causa delle radici...» spiegò Sébastian. «In questo modo non riescono a sbucare da sotto.» La ragazza, per nulla tranquillizzata, prese posto su una delle brande. «Dormi tenendo in mano la falce» si raccomandò Sébastian. «Se, durante la notte, dovessi sentire qualcosa che ti tira per i piedi, sappi che è un tentacolo vegetale. Non esitare a tagliarlo.» «D'accordo» fece Peggy Sue con voce strozzata. Si sdraiò senza togliersi i vestiti. Era decisamente preoccupata per quello che minacciava di accadere. Il cane blu venne ad accucciarsi accanto a lei. Non smetteva neppure per un istante di fiutare gli odori provenienti dal giardino. «Laggiù ogni cosa è viva» disse a un tratto. «Brulica, si spazientisce... Sento qualcosa che avanza sottoterra, scavando verso di noi, come decine di talpe.» «Sono le radici» confermò Sébastian che, con le mani intrecciate dietro la nuca, contemplava il palo della tenda. «Sono già all'opera, si sono accorte della nostra presenza. Adorano la gente delle nostre dimensioni. Con i
Minuscoli non ci fanno nulla, diventerebbero dei frutti troppo piccoli.» «Abbiamo cominciato veramente a rimpicciolirci?» chiese di nuovo Peggy. «Sì, probabilmente» sbadigliò il ragazzo. «Meglio non pensarci troppo.» Un gruppo di ragazzi passò davanti alla tenda, deciso ad abbandonare il campo. «Rinunciano?» chiese Peggy Sue. «Capita di frequente» rispose Sébastian. «Prendono coscienza di essere diventati più bassi dei nuovi arrivati e allora si terrorizzano, quindi tornano indietro nella speranza di recuperare le loro dimensioni originarie. Ma non serve a nulla. Nessuno può riprendersi i centimetri perduti.» «Ma almeno smettono di rimpicciolirsi» bofonchiò il cane blu. «Non mi entusiasma per niente l'idea di diventare poco più grande di un topolino.» «Quand'è che ci ordineranno di passare dall'altro lato della staccionata?» cercò d'informarsi Peggy. «Nessuno ci darà ordini di questo tipo» replicò il ragazzo. «Sta a noi prendere questa decisione. Qui nessuno costringe i soldati ad andare all'attacco. Ci si va quando si sente di averne il coraggio.» «Io il coraggio non ce l'ho, ma andrò lo stesso» disse Peggy. «Devo ritrovare la mia famiglia, prima che finisca in una scatola di fiammiferi.» L'idea non la faceva sorridere per niente. Non si era ancora abituata ai prodigi del miraggio e sentiva di non avere la stessa inesauribile energia di cui dava prova Sébastian. Appoggiò la testa sul cuscino grezzo della branda. La paura di rimpicciolire durante la notte continuava a ossessionarla. Avrebbe voluto prendere dei punti di riferimento, avere un metro con sé... ma era un'idea stupida, perché anche il metro si sarebbe accorciato mentre dormiva! Scivolò nel sonno, cullata dalla voce lontana di Sébastian che passava in rassegna i principi di sopravvivenza che andavano osservati dall'altro lato della staccionata. 12 Combattimento notturno Peggy Sue si risvegliò in piena notte, assieme al cane blu. «Sta per succedere qualcosa» la mise in guardia l'animale. «È imminente.»
La ragazza cercò la falce, cadutale di mano durante il sonno. Con passo prudente, si avvicinò alla soglia della tenda. Il cielo notturno, nel miraggio, era davvero impressionante. Le stelle, appese alla volta celeste, non brillavano dello stesso colore. Alcune erano azzurre, altre rosse. Non lampeggiavano con lo stesso ritmo, e la maggior parte diffondeva una musica. Di tanto in tanto si accendevano formando delle scritte luminose, come un'insegna pubblicitaria: Divertiti!, oppure delle espressioni onomatopeiche del tipo: Bing! Clang! Splash! Da terra si aveva l'impressione di osservare un luna-park lontano. Peggy non ebbe il tempo di ammirarle perché all'improvviso risuonò un urlo. «Le radici!» gridò un ragazzo. «Allarme! Stanno arrivando! Stanno...» L'urlo fu troncato di netto, come se qualcosa l'avesse ghermito. Un'ondata di panico si propagò immediatamente nell'accampamento. I bambini cominciarono a darsela a gambe levate in ogni direzione. Peggy Sue strabuzzò gli occhi, cercando di raccapezzarsi in mezzo a quella baraonda. Riuscì a distinguere dei lunghi tubi che si agitavano nell'oscurità. Una specie di tentacoli che sferzavano l'aria esplorando a tentoni lo spazio circostante. I bambini fuggivano, alla vista di quelle braccia vegetali prive di occhi, che perlustravano le tende in cerca di una preda. Sébastian la raggiunse, con la falce in mano. «Sono venute a cercare materia prima per i loro nuovi frutti» mugugnò. «In genere prendono i ragazzi per fare delle banane o degli ananas, le ragazze per fabbricare albicocche o mango. Stai attenta a non farti pizzicare, hanno un pungiglione proprio sulla punta della radice, come la coda di uno scorpione.» «Ma abbiamo l'antidoto...» gli fece notare Peggy, per tranquillizzarsi. «Sì, ma se il veleno è veramente potente, non riesci a bloccare completamente la metamorfosi. Un mio amico si è ritrovato con la pelle trasformata in buccia di banana, potevi spellargli le dita. E ho conosciuto una ragazza con i capelli trasformati in foglie di lattuga. Ti assicuro che non è una cosa simpatica.» Tutt'a un tratto sentirono battere forte sotto i piedi. Una radice tentava di trapassare la lamiera metallica che fungeva da materassino. Peggy strinse i denti. Il cane blu perse la testa e si mise ad abbaiare come un forsennato e a correre in cerchio, cercando un nemico da mordere. Quando si trattava di battersi, era sempre il primo. Peggy Sue era terrorizzata all'idea che una liana potesse agganciarlo e trascinarlo via. Malgrado il suo brutto carattere, gli voleva sempre più be-
ne. Una radice fuoriuscì dal terreno in un vortice di polvere marrone, proprio di fronte alla ragazza. Sembrava il tentacolo di una piovra, ma con la pelle simile alla buccia di una patata. All'estremità della frusta vegetale si rizzava un aculeo osseo da cui sgorgava una linfa velenosa. Le mani contratte sul manico della falce, Peggy fendette l'aria con un movimento del braccio destro. La lama troncò il pungiglione un attimo prima che colpisse la ragazza. «Bel colpo!» la incitò Sébastian. «Sei più forte di quanto pensassi.» Nella mezz'ora seguente, i due ragazzi si batterono come ossessi per respingere gli assalti delle liane velenose. Intorno a loro si innalzavano grida di terrore. A varie riprese, Peggy vide dei bambini scomparire dall'altro lato della staccionata, avvinghiati e sollevati di peso dalle radici che si erano arrotolate sui loro corpi. I poveretti avevano un bel gridare, era impossibile soccorrerli. Una volta afferrata la preda, le liane si ritraevano verso il giardino trascinandosi dietro i prigionieri. All'improvviso tornò la quiete. «È finita» sbuffò Sébastian. «Non ritorneranno prima di domani sera. Tutto bene? Ti hanno punto? E il cane?» Il cane blu stava bene. Era alle prese con una radice che era riuscito a tagliare in due con un morso. «Puah!» ringhiò «sono anche cattive!» * L'assalto aveva devastato l'accampamento. Le tende, con i picchetti divelti, erano ridotte a brandelli. Diversi ragazzi gemevano toccandosi la gamba o il braccio. Erano stati punti dagli aculei. Le infermiere si affaccendavano attorno a loro per iniettare massicce dosi di antidoto. «Si sono fatti beccare» mormorò Sébastian asciugandosi la fronte. «Una volta, a un ragazzo il sangue si è trasformato in succo d'uva. Le vespe ne erano attratte e non smettevano di attaccarlo. In seguito il sangue ha iniziato a fermentargli nelle vene trasformandosi in vino, al punto che era sempre ubriaco!» «Smettila con queste storie orribili!» si spazientì Peggy. «È sempre così ogni sera?» «Più o meno. E sarà lo stesso anche nel giardino. L'unico modo d'ingannare le radici sarà strofinarsi sul corpo il succo dei frutti che crescono lag-
giù. Così, forse, ci scambieranno per ananas. È un camuffamento efficace. Sempre che riusciamo ad avvicinarci a un frutto e a spremercelo addosso. Laggiù ogni albero è sorvegliato, ogni cespuglio è protetto.» «Stavo riflettendo su una cosa» gli accennò Peggy Sue. «Più aspettiamo più ci rimpiccioliamo, giusto?» «Giusto.» «Dunque, più ci rimpiccioliamo, più i nostri passi saranno corti, e più tempo ci vorrà per raggiungere il castello.» «Giusto anche questo. E più tempo passeremo nel giardino, maggiori saranno le probabilità di essere catturati dai giardinieri-soldato.» La ragazza annuì. «Allora dobbiamo partire domani» decise. «Improvviseremo sul momento, lungo il cammino. Secondo me, tu ne sai almeno quanto quel colonnello minuscolo che se ne sta lì a ronzare nella sua scatola di fiammiferi.» «Sono d'accordo» fece Sébastian. «Credo che insieme faremo proprio una bella coppia.» Nell'ora che seguì, diedero manforte alle squadre che cercavano di rimettere in sesto l'accampamento. L'attacco delle radici velenose aveva provocato un'ondata di diserzioni, e parecchi ragazzi, risvegliati brutalmente dai loro sogni di guerra, si avviavano scompostamente verso la zona dove ci si poteva divertire in maniera meno pericolosa. «È proprio questo il problema,» sospirò Sébastian «molti vengono qui convinti di spassarsela. Credono di essere in un videogioco. Ai primi assalti abbassano la testa.» Peggy Sue si recò alla baracca dell'equipaggiamento per chiedere due zaini e del materiale di sopravvivenza. «Non avete ancora completato il ciclo di formazione» protestò il sergente. «Non sopravviverete più di un'ora dall'altro lato della staccionata.» «Ma su!» sghignazzò la ragazza. «Quelli che hanno seguito il vostro addestramento fino in fondo sono forse tornati indietro?» «No» dovette ammettere il sergente. «Vede!» concluse Peggy allontanandosi. Di ritorno alla tenda, diede uno dei due zaini a Sébastian. «Allora, è deciso?» chiese il ragazzo. «Sì, è tempo di scendere in campo prima di diventare dei nani. Mi sento già più piccola di quando siamo arrivati. Ogni volta che la guardo, la stac-
cionata mi sembra sempre più alta.» «Passeremo la frontiera all'alba» disse Sébastian. «Appena saremo dall'altra parte, dovremo strofinarci sulla pelle il succo dei primi frutti che incontreremo, così distoglieremo l'attenzione dei giardinieri.» «Non noteranno la differenza?» «No, non sono esseri umani. Si affidano unicamente al loro olfatto.» * Al sorgere dell'alba, le stelle cominciarono a gridare all'unisono: «Arrivederci, a stasera! Vi vogliamo bene!». Affievolite dalla distanza, le loro mille vocine si mescolavano dando vita a una sinfonia stonata ma stranamente cristallina. Poi si spensero tutte nello stesso istante, come se qualcuno avesse azionato un interruttore. «Si parte!» esclamò Peggy rialzandosi. Con un sol movimento, tutti e tre i compagni si avviarono alla volta della staccionata gigante che sbarrava l'orizzonte. Il cuore della ragazza cominciò a battere velocemente. Un brusio si diffuse nell'accampamento, e delle mani si sollevarono a indicare quei pazzi che, senza aspettare il consenso dei loro superiori, partivano alla ventura. «Ecco dei nuovi furbacchioni, non credo che li rivedremo tanto presto!» sussurrò qualcuno al passaggio di Peggy Sue. 13 Il territorio proibito La ragazza non poté trattenere un brivido nel momento in cui s'insinuò tra due assi della staccionata. Non appena oltrepassata questa linea di confine, si metteva piede in un mondo gigantesco dove tutto appariva di dimensioni centuplicate! Il più piccolo filo d'erba era grande come un albero, i prati si trasformavano in vere e proprie foreste. Non era per niente facile trovare il cammino. Il terreno tremava con un brontolio strano e continuo. «Che cos'è?» domandò Peggy. «È il rumore dell'erba che spunta,» spiegò Sébastian «delle foglie che si distendono per ricevere la luce, dei fiori che sbocciano.» «Sembra quasi una fabbrica che si mette in moto!» esclamò Peggy Sue. «Non avrei mai pensato che la natura potesse essere così rumorosa. Non è
per niente riposante.» «Il guaio» disse il ragazzo «è che le bussole sono inutili perché non esiste nessun polo magnetico. E siccome l'erba ci ostruisce la vista, presto si finisce per girare in tondo. Bisogna avanzare verso il castello, ma qui ci troviamo in una fossa e gli alberi ci nascondono l'orizzonte. Ogni tanto sarà necessario arrampicarsi su qualsiasi cosa per fare il punto e accertarsi che non stiamo procedendo nella direzione opposta alla nostra meta.» È proprio vero che è facile perdersi, si assomiglia tutto, pensò Peggy, i fili d'erba sono talmente fitti che è difficile passarci in mezzo. I profumi vegetali erano così intensi da far girare la testa. «Ho come l'impressione di essere finito in un minestrone!» bofonchiò il cane blu. «Mi passerà qualsiasi voglia di diventare un ruminante!» Il vento agitava le piante, il che si rivelava assai pericoloso; se si rimaneva bloccati tra due felci, era come finire in mezzo a una tenaglia col rischio di sentirsi rompere le ossa. Dovettero scalare un pendio ripido in cima al quale si trovarono di fronte una decina di pomodori; il più grosso aveva le dimensioni di una casa di tre piani. Sébastian tirò fuori il coltello per inciderlo. «Forza!» ordinò agli altri. «Strofinatevi con il succo. Se dovessimo incontrare un giardiniere basterà restare immobili, così ci scambierà per dei pomodori intenti a maturare al sole.» Peggy Sue e il cane blu obbedirono. «Basta così» sbuffò Sébastian, zuppo del liquido rossastro dalla testa ai piedi. «D'ora in poi dovremo essere prudenti. Siamo in un orto, ciò significa che presto o tardi finiremo per incrociare un giardiniere.» Peggy annuì; si sentiva lo stomaco in subbuglio per l'agitazione. Si erano da poco rimessi in marcia che Sébastian lanciò un grido d'allarme. «Un nemico avanti a destra!» ansimò. «Non muovetevi... state zitti. Immaginatevi di essere dei pomodori contenti di crogiolarsi al sole.» Facile a dirsi! pensò Peggy Sue che, fino a quel momento, non si era mai immaginata nei panni di un pomodoro... contento o meno. S'inginocchiò a terra cercando di restare immobile, con gli occhi spalancati per individuare da dove proveniva il pericolo. In un primo momento non vide niente, poiché il giardiniere si confondeva con la vegetazione circostante. Era una creatura mastodontica, ma curiosamente vestita di foglie di mais intrecciate. Aveva una testa minuscola e tonda. La pelle ricordava la buccia grinzosa di una mela rinsecchita. Non aveva mani nel senso abi-
tuale del termine: il polso destro terminava in strane cesoie ossee, quello sinistro in una pala forata, anch'essa di struttura cornea. Al posto dei piedi aveva due rastrelli. È una 'creatura-utensile', pensò Peggy Sue. Concepita per eseguire un determinato lavoro e nient'altro. Uno dei piedi-rastrello venne a poggiarsi di fronte a lei. Somigliava a una zampa munita di innumerevoli artigli. Sul viso ovale del giardiniere, le narici pulsavano analizzando gli odori. Gli occhi si riducevano a due semi. La mano-pala si abbassò a sfiorare i pomodori, cercando d'isolare quelli già maturi. A un tratto Peggy Sue ebbe paura che l'odore del succo con cui si era cosparsa potesse ingannare il giardiniere. Speriamo che non gli salti in mente di raccogliermi! pensò, già in preda al panico. Fortunatamente, la creatura si allontanò; rastrellando il viale, i suoi piedi disegnavano delle linee parallele nel ghiaietto. Non appena scomparve dietro un boschetto, Sébastian abbandonò la sua immobilità. «Ce ne sono altri» sussurrò. «Ognuno è specializzato in un determinato settore. 'Seminatori', 'Raccoglitori'... e in particolare quelli che cacciano i parassiti.» «Ti riferisci a noi?» fece Peggy. «Sì, i giardinieri ci considerano nocivi come i pidocchi, le talpe o le lumache.» Il cane blu aveva il pelo dritto. La vista del gigante con la mano a forma di cesoie l'aveva terrorizzato. «Ne incroceremo altri» ripeté Sébastian. «Non dovete mai mettervi a correre, né a urlare. Se volete sopravvivere, sforzatevi di imitare gli ortaggi.» Si rimisero in marcia attraverso l'erba alta. Giunti in cima alla collina, si sdraiarono pancia a terra per osservare il paesaggio. Peggy Sue ne rimase ammirata. Il giardino era così grande che pareva estendersi fino alla linea dell'orizzonte. Era formato da un susseguirsi di boschetti e prati vasti come paesi. Ebbe l'impressione di contemplare un globo terrestre, come in una lezione di geografia. I viali sabbiosi separavano ciascuno di quei 'continenti' come degli oceani. Era tutto bellissimo, ma allo stesso tempo... spaventoso.
«Siamo troppo piccoli,» sbuffò «ci metteremo un secolo ad attraversare una distesa del genere! Avrò trent'anni quando finalmente arriverò alla porta del castello!» «Forse no,» fece il cane blu «credo che sia un'illusione ottica creata apposta per scoraggiarci.» «Possibile» bofonchiò Sébastian. «Il giardino è pieno di trappole strambe.» Rimase in silenzio, perché un animale incredibile era appena apparso dalla curva di un viale. Dalle sue dimensioni, Peggy Sue pensò che si trattasse di un dinosauro. «È un animale-cisterna» spiegò Sébastian. «Quando il miraggio apre le porte sulla realtà, l'animale proietta la cisterna attraverso l'apertura e si mette a pompare acqua dagli stagni, dai fiumi... dagli oceani, addirittura! L'acqua qui è un problema enorme, perché man mano che si estende, il giardino necessita di un'annaffiatura sempre più cospicua.» Peggy Sue osservò la bestia gigantesca che si molleggiava nel viale. Non sembrava cattiva. Dall'alto del suo collo da brontosauro, ciondolava la testa, piccolissima. Aveva una proboscide, come gli elefanti, ma questa proboscide - per il momento arrotolata sul petto - era incredibilmente lunga e ricordava gli idranti utilizzati dai pompieri. «Vedi,» bisbigliò Sébastian «i fianchi sono rugosi e flaccidi perché ha il ventre vuoto. Aspetta con impazienza la prossima sosta nella realtà per riempirsi. Allora la sua pancia diventerà enorme, perché la bestia ingerirà tonnellate e tonnellate d'acqua. Può tracannare tutto, anche acqua di mare, il suo stomaco filtra il sale e la rende dolce.» «Che cosa fa quando è piena?» cercò d'informarsi Peggy. «Si trasforma in un annaffiatoio e spruzza il suo contenuto sul giardino, dove ce n'è bisogno. Bisogna fare attenzione alle gocce d'acqua. Cadono così dall'alto e sono talmente grosse che possono schiacciarti come un masso.» «La bestia non è cattiva» osservò il cane blu. «Non è neanche consapevole della nostra presenza. Si preoccupa soltanto della sete delle piante.» «In ogni caso dovremo stare attenti a non finirle tra le zampe» fece notare Peggy Sue. Il mostro si allontanò facendo vibrare il terreno. Sei paia di zampe muscolose sostenevano il suo enorme ventre. Peggy se l'immaginò che lanciava la proboscide nella realtà attraverso lo spiraglio del miraggio, pompando l'acqua delle oasi e delle sorgenti.
«Ce n'è un intero branco» aggiunse Sébastian. «Fortunatamente li senti quando si avvicinano. Non si allontanano mai dai viali per non rischiare di rovinare le piantagioni.» I tre compagni si rialzarono, intenzionati a spostarsi il più possibile al riparo dell'erba alta. Dovremo superare un prato dopo l'altro, pensò Peggy. Non sarà facile. Il castello bianco le sembrava terribilmente lontano, nascosto in parte da una foschia diffusa, ma bastava tenere lo sguardo fisso per tre o quattro minuti per accorgersi che il suo aspetto si modificava. S'ingrandisce continuamente..., osservò la ragazza. Non c'era dubbio, in breve tempo avrebbe raggiunto le dimensioni di una catena montuosa, ostruendo loro l'orizzonte dalla vista. A furia di aumentare d'altezza, sui suoi bastioni sarebbe apparsa la neve perenne... e in quel frattempo, tutto ciò che non faceva parte del giardino avrebbe continuato a restringersi. Il cane blu s'irrigidì. Di fronte a loro si ergeva una curiosa casetta, costruita con fili d'erba intrecciati e frammenti di corteccia d'albero. All'interno Peggy scoprì degli zaini simili al suo, nonché dei vestiti gettati alla rinfusa. «Un accampamento» disse tutto d'un fiato. «Probabilmente abbandonato.» «Sì» confermò Sébastian. «È possibile che questo rifugio sia stato costruito dai ragazzi e dalle ragazze che ci hanno preceduti. Dove saranno adesso?» Il cane blu annusò i sacchi a pelo appoggiati a terra. «È da molto tempo che nessuno dorme qui» annunciò. «Erano dei bambini della vostra età, ma stavano perdendo il lume della ragione... lo sento. Erano posseduti da un maleficio.» Peggy Sue fece un rapido sopralluogo. I loro coetanei erano fuggiti lasciandosi dietro gli oggetti più utili: coltelli, pale, torce. «Cos'è successo?» mormorò. «Credi che siano stati attaccati?» «No» fece il cane blu. «Non ci sono odori di battaglia, sento invece tanfo di stregoneria... Come una caramella acida ripiena di mostarda.» «C'era da aspettarselo,» sospirò Sébastian «molti ragazzi ci hanno preceduti e non li abbiamo mai visti tornare indietro.» Tutt'a un tratto, Peggy notò un taccuino caduto a terra. Le pagine erano interamente ricoperte da una scrittura infantile che usciva dalle righe. Lo
raccolse. Sul primo foglio, lesse: Mi chiamo Sarah, ho quindici anni, questo è il diario di viaggio che cercherò di scrivere per tutta la durata della nostra spedizione. Stamattina, all'alba, abbiamo varcato la staccionata e siamo entrati nel giardino. Con me ci sono Mike e Kevin. Non abbiamo la più pallida idea di quello che ci attende. Peggy Sue sfogliò rapidamente il taccuino. Notò che la calligrafia diventava via via illeggibile. Solo alcune parole, qua e là, erano decifrabili: paura... il giardiniere ha tagliato la testa a Mike con le sue cesoie... malefici... i frutti... Un brivido d'angoscia le fece drizzare i capelli. «Non hanno resistito a lungo» borbottò Sébastian, che aveva letto il diario alle sue spalle. «Appena quattro giorni in territorio nemico.» Peggy Sue proseguì nella lettura. La povera Sarah si era chiaramente ostinata a portare avanti la scrittura del diario, anche quando le mani le tremavano a tal punto da trasformare la sua calligrafia in geroglifici privi di significato. Non ci si rende conto subito... Ti coglie in modo subdolo... diffidare. Ma come fare, altrimenti? Nella penultima pagina c'era scritto: Attenzione! Pericolo! Non fate il nostro errore... L'ultimo foglio del diario recava solo una riga, tracciata però con una calligrafia regolare, che diceva: Adesso sono felice, non ho più paura, so che tutto andrà per il meglio. Era stupido lottare, così stupido! Quest'affermazione spaventò Peggy più di tutto quanto aveva letto in precedenza. Cos'era successo? Perché Sarah aveva improvvisamente smesso di provare paura? Si guardò attorno. Non bisognava essere provvisti di grande fantasia per immaginarsi le ore di terrore vissute da Sarah nella capanna, sentendo i passi delle sentinelle con i piedi a forma di rastrello sempre più vicini. (Il giardiniere ha tagliato la testa a Kevin con le sue cesoie...) «Non dobbiamo restare qui» decise Peggy Sue. «Non è un posto sicuro.» Sébastian si strinse nelle spalle. «Io so perché i giardinieri li hanno individuati,» disse «si sono semplicemente dimenticati di strofinarsi regolarmente sul corpo il succo di un frutto o di un ortaggio. Il loro camuffamento era incompleto. Gli odori ve-
getali evaporano rapidamente con questo caldo, perciò è necessario ripetere le applicazioni più volte al giorno.» E, tirando fuori il coltello dal fodero, avanzò verso una patata grossa quanto lui e ne tagliò un grosso spicchio. Dopo essersi strofinato l'ortaggio sul corpo, passò il frammento a Peggy. «Tieni,» le ordinò «fa come me.» «Ma puzza di terra» protestò il cane blu. «Certo,» bofonchiò il ragazzo «l'importante è che copra il nostro odore naturale.» Peggy obbedì. Il succo della patata emanava un olezzo insipido di muffa o di sottobosco. Se la passò addosso impiastricciandosi il viso, le mani e le gambe. L'amido depose un velo appiccicoso sulla sua pelle. Quando si accinse a sottoporre allo stesso trattamento il cane blu, l'animale protestò. «Ha un odore cattivo!» ringhiò. «E poi mi macchierà la cravatta!» Prima di allontanarsi dalla capanna, Peggy si fece scivolare il taccuino in tasca. Studiandolo più attentamente sarebbe forse riuscita a decifrarlo? Giudicò Sébastian troppo sicuro di sé - come tutti i ragazzi! - ed era convinta che sarebbe stato meglio mostrarsi prudenti. Studiare i dintorni, anziché proiettarsi alla cieca come se stessero partecipando a una corsa contro il tempo. (Il giardiniere ha tagliato la testa a Kevin con le sue cesoie...) Qua e là, nell'erba, notava altri oggetti abbandonati dai loro predecessori. Delle scarpe... dei maglioni... Tremava all'idea di ritrovarsi faccia a faccia con uno scheletro o qualcosa del genere. D'un tratto ebbe l'impressione di scorgere una forma umana nell'erba alta. Era una ragazza raggomitolata su se stessa. Sarah! fu il suo primo pensiero. Corse verso di lei con la speranza che fosse ancora viva. Quando si mise in ginocchio accanto alla sconosciuta, vide che questa si era parzialmente sotterrata, probabilmente per nascondersi. «Sarah?» provò a chiamarla. «Sarah, sei tu? Ho trovato il tuo diario... Mi senti?» «Respira» osservò Sébastian. «Ha l'aria di essere addormentata. Bisogna farla uscire da questa fossa.» «No!» guaì il cane blu. «Non toccatela, è stregata.» Ma né Peggy né Sébastian prestarono attenzione a quell'avvertimento. Cercarono di rianimare la ragazza dandole dei buffetti sul viso. La ragazza iniziò a gemere. «Lasciatemi» bofonchiò. «Proseguite il cammino, altrimenti chiamo il
giardiniere. Non avete il diritto di cogliermi...» «Sarah!» insisté Peggy. «L'hai scritto tu questo diario?» Finalmente la ragazza acconsentì a sollevare le palpebre. Aveva un'espressione imbronciata; era evidente che non apprezzava affatto che qualcuno la soccorresse. «Sarah?» mormorò. «Sì, era il mio nome, una volta... quand'ero umana. Adesso non ho più nulla a che fare con voi. Smettetela di perseguitarmi o chiamo il giardiniere, che vi taglierà la testa. Lasciatemi crescere in pace! Devo completare la mia trasformazione.» «È pazza» ansimò Sébastian. «Crede di essere un ortaggio!» «Se non sei più Sarah, chi sei?» le domandò Peggy, chinandosi verso la ragazza. «Ma non si vede?» sghignazzò quella per tutta risposta. «Sono una patata. Non sono ancora perfetta, questo è certo, ma faccio degli sforzi. Voglio diventare bella così mi raccoglieranno e mi metteranno a bollire. Il mio desiderio è finire nel passatutto con cui preparano il purè del demonio...» «Ma tu sei come noi!» esclamò Peggy scuotendola per le spalle. «Reagisci! Non sei una patata! Svegliati, ti hanno ipnotizzata!» «Ti sbagli,» sibilò tra i denti il cane blu «non è più umana.» «Andatevene!» urlò Sarah. «Non voglio essere mangiata da volgari esseri umani! Voglio riservarmi per il demonio!» «Bisogna farla tacere,» sbuffò Sébastian «sennò finirà per attirare le sentinelle.» «Tiriamola fuori da questa fossa!» decise Peggy. «Mettile la mano sotto il braccio destro, io le prendo l'altro e la trasciniamo insieme.» Ahimè, non appena iniziarono questa manovra, Sarah cominciò a cacciare grida spaventose. «Fermatevi!» esclamò il cane blu. «Guardatele le mani... e i piedi!» Peggy e Sébastian obbedirono lanciando un identico gemito di stupore. Le dita delle mani e dei piedi di Sarah si erano trasformate in lunghe radici conficcate in profondità nel terreno. Non aveva mentito: si stava davvero trasformando in una patata! «È impossibile toglierla dalla sua nicchia,» balbettò Sébastian «ogni dito misura certamente almeno un metro.» Peggy Sue strabuzzò gli occhi, inorridita dalla visione. All'altezza del terreno, la pelle di Sarah aveva assunto l'aspetto di una buccia di patata. Anche le sue gambe avevano cominciato a modificarsi in una massa ovoidale e deforme.
Sarah continuava incessantemente a gridare aiuto. «Giardiniere, giardiniere!» sbraitava. «Venga ad aiutarmi... due intrusi umani m'impediscono di crescere tranquillamente!» «Squagliamocela!» gridò Sébastian. «Non possiamo fare più niente per lei. Morirà, se le tagliamo le radici.» Nel fogliame riecheggiò un immenso fruscio mentre un raschio faceva vibrare il terreno. Un giardiniere, pensò Peggy in preda al panico. Viene a vedere che cosa sta succedendo. «Si salvi chi può!» latrò il cane blu. Le gigantesche lame delle cesoie si richiudevano sopra le loro teste, in cerca di una preda. «Per fortuna ci siamo spalmati di succo di patata,» mormorò mentalmente il cane «forse avrà difficoltà a individuarci.» Malgrado ciò, i tre compagni non si sentivano affatto tranquilli. Approfittando del riparo fornito dall'erba alta, si allontanarono il più rapidamente possibile dal giardiniere-sentinella, chino su Sarah. Mentre fuggivano, la voce della ragazza stregata continuava a risuonare alle loro spalle. Diceva: «Volevano raccogliermi, quegli sporchi esseri umani, ma io gli ho detto che non se ne parlava nemmeno, solo il demonio ha il diritto di mangiarmi... se riuscirò a esser degna della sua tavola, ovviamente.» 14 Il primo maleficio Corsero a perdifiato senza mai guardarsi indietro. Quando, alla fine, caddero in ginocchio sul muschio, non avevano più nemmeno la forza di parlare. Peggy Sue tirò fuori dallo zaino la sua borraccia e riempì la scodella del cane blu, che esibiva una lingua lunga quasi quanto la sua inseparabile cravatta. «Presto farà notte» osservò Sébastian. «Quando l'acqua scarseggia, i giardinieri accorciano le giornate.» «Possibile?» «Qui il sole è come una lampada. Per spegnerlo basta azionare un interruttore.» Peggy si chiese quali nuove insidie avrebbe riservato la notte. Sentiva il
rigonfiamento prodotto nella tasca dal diario di Sarah. Si domandava come la ragazza fosse potuta soccombere al maleficio che l'aveva indotta a credere di essere una patata. «Ci accamperemo qui» disse Sébastian. «Non dovremo accendere fuochi né lampade, inteso?» Di lì a poco, il sole si spense con uno scatto secco e sul giardino magico calarono le tenebre. L'aria si riempì del fruscio dei fiori che richiudevano i loro petali, simili a una squadra di marinai che sigilla i mille boccaporti di un sottomarino gigantesco. Peggy Sue si addossò a un filo d'erba, il cane blu venne a rannicchiarsi su di lei. Malgrado lo spavento, dormirono difilato fino all'alba. * Fu il crepitio del sole, di cui i giardinieri aumentavano gradualmente la luce, a risvegliare Peggy Sue. Memore delle raccomandazioni di Sébastian, prese il temperino e si mise in cerca di un frutto. Non aveva voglia di allontanarsi troppo perché non si sentiva al sicuro. Riuscì a scovare una decina di enormi pomodori rosso fuoco. Dopo aver inciso la buccia di quello più grosso, si bagnò del suo succo. Era tutt'altro che appetitoso, ma era il prezzo da pagare per la sicurezza. Si complimentò con se stessa per aver preso quelle precauzioni, perché proprio in quel momento un giardiniere fece capolino tra gli alberi. Aveva un aspetto da spaventapasseri vestito di vecchie foglie secche, e le sue mani ossee si libravano nell'aria abbracciando i raggi del sole. Peggy si fece piccola piccola e rimase immobile. Le narici pulsavano sulla faccia tonda della creatura. Sta analizzando gli odori, pensò la ragazza, speriamo che non individui Sébastian e il cane blu. Il gigante scheletrico non si decideva ad allontanarsi. Qualcosa lo irritava. Probabilmente percepiva attraverso l'erba l'odore emesso dal ragazzo e dall'animale. Peggy Sue non ne poteva più di restare accovacciata vicino all'enorme piede sinistro a forma di rastrello. Stringeva le mascelle per evitare di battere i denti. Alla fine la sentinella se ne andò. Non appena scomparve dietro agli alberi, Peggy s'affrettò a svegliare i suoi compagni invitandoli ad andare a bagnarsi di succo di pomodoro.
«Hanno fiutato la nostra presenza» disse Sébastian quando Peggy gli raccontò dell'incontro con il giardiniere. «Ci stanno cercando.» La ragazza si sorprese di non aver fame, ma il suo compagno d'avventura le ricordò che all'interno del miraggio gli esseri umani non sentivano il bisogno di mangiare, se non per pura golosità. «Solo il demonio ha bisogno di cibo,» affermò «perché è lui che genera il miraggio. Se morisse, quest'universo si restringerebbe di colpo, come un pallone di gomma che si sgonfia, e noi ne rimarremmo tutti quanti schiacciati.» Enunciata quell'inquietante verità, Sébastian si issò in cima a un filo d'erba per cercare di orientarsi; perché era di capitale importanza evitare il rischio di girare in tondo... come aveva sicuramente fatto la gran parte dei loro predecessori. «Di lì!» annunciò mentre ridiscendeva. «Usciremo dal primo boschetto. Poi dovremo attraversare un viale di ghiaia per affrontare il secondo prato. Per darvi un'idea, sarà altrettanto divertente che muoversi su un deserto di pietra. E inoltre non dovremo indugiare, il motivo lo sapete già...» «A causa degli animali-cisterna» completò il cane blu, con la cravatta che gli strusciava a terra. «Esatto, sono pesanti ma veloci. Sarebbe un errore pensare che siano impacciati nei movimenti. Fai appena in tempo a vederli che in tre falcate ti sono già addosso.» Quella notizia avrebbe dovuto preoccupare Peggy Sue, eppure la ragazza si mise a fischiettare mentre marciava. È strano, pensò. Non ho per niente paura. Che mi succede? Lanciò un'occhiata al cane blu. Folleggiava tra i fili d'erba, come un cucciolo. Strano davvero, disse tra sé... e non ci pensò più. Man mano che scendevano lungo il versante della collina avvicinandosi al viale in cui circolavano i dinosauri-serbatoio, Peggy si sentiva sempre più leggera. Faceva fatica a raccogliere i suoi pensieri... e addirittura a ricordarsi perché fosse lì. In realtà, non gliene importava granché del motivo di quella passeggiata, aveva un unico desiderio: strapparsi di dosso i vestiti, denudarsi completamente e offrire la sua pelle al sole per abbronzarsi in ogni angolo più recondito del suo corpo. L'aria era piena di profumi meravigliosi... l'odore
della terra sovrastava tutti gli altri, intensissimo, stordente. Peggy rimpiangeva di non avere polmoni più grandi per poterne respirare di più. Poco a poco accumulò ritardo, lasciandosi distanziare dal cane e dal ragazzo. Non capiva la ragione di tanta fretta. Non sarebbe stato più divertente abbandonarsi sull'erba, scaldarsi al sole? Le venne voglia di gettar via lo zaino che le segava le spalle. Cominciò a ridere da sola. Avrebbe tanto desiderato trasformarsi in una farfalla per svolazzare di fiore in fiore. Oppure in un uccello appollaiato su un ramo... No, meglio ancora: avrebbe voluto trasformarsi in un frutto che matura al sole. Un bel frutto immobile, ben assestato nel calore del mezzogiorno. Un frutto che si preoccupa solo di germogliare, di crescere, di diventare sempre più saporito, sempre più profumato... Oh! Quanto doveva essere piacevole poter restare là, attaccato a uno stelo, senza far altro che aspettare, come un micio che fa le fusa su una poltrona. Non capiva come mai le venissero in mente quelle strane idee, ma si abbandonava a esse con beatitudine. Raggiunse le pendici della collina in uno stato di sogno prossimo al sonnambulismo. Sébastian le gridò qualcosa, ma lei non lo ascoltò. Quant'era noioso quel ragazzo ad agitarsi così! Aspirava a un po' più di tranquillità... alla tranquillità assoluta dei... dei pomodori, per esempio! Come doveva essere gradevole arrossarsi lentamente, diventare a poco a poco il più grosso, il più luminoso pomodoro del giardino. E poi, le foglioline verdi bucherellate sui due lati del fusto erano così graziose! Avevano raggiunto il vialetto di ghiaia, lo imboccò distrattamente sulla scia degli altri, sempre immersa nel suo sogno a occhi aperti. Osservò i sassolini che scricchiolavano sotto le sue scarpe. Oh! Per un pomodoro non doveva essere molto comodo germogliare qui, no, ci voleva un terreno più soffice, morbido come un cuscino di velluto, una terra friabile su cui stendersi in tutta comodità. Essere un pomodoro significava scoprire la gioia dell'oziare, del fantasticare... non si faceva più nulla, se non sonnecchiare dando libero sfogo ai pensieri e... Una decina di metri davanti a lei, Sébastian agitava le braccia con veemenza gridando qualcosa che non riusciva a capire. Com'erano pesanti i ragazzi! Ma non riuscivano a starsene tranquilli neppure per un minuto? Con loro si finiva immancabilmente per bisticciare. Decise di non prestargli attenzione. Anche il cane saltellava abbaiando. Ah, erano davvero asfissianti tutti e due!
Abbassò la testa per non vederli e s'immerse nella contemplazione dei ciottoli tra i suoi piedi. Erano davvero puliti e bianchi, ma non le sarebbe piaciuto crescere lì... se fosse stata un pomodoro, il che - ahimè! - non era certo il caso. To', pensò a un tratto, la ghiaia si muove da sola. Sembra quasi che balli. Si mise in ginocchio per osservarla meglio. No, i ciottoli non ballavano, obbedivano semplicemente a una sorta di scossa che faceva vacillare il terreno. Tutto il vialetto risuonava come la pelle di un tamburo. Peggy Sue sollevò la testa. Dall'altro lato della strada, in piedi sul ciglio del secondo prato, Sébastian le indirizzava dei gesti disperati. Il cane saltava e abbaiava, con la ridicola cravatta che oscillava al ritmo dei suoi balzi. Forse balla anche lui, si domandò la ragazza, come i ciottoli? Doveva fare lo stesso? Si mise a studiare i loro movimenti: il ragazzo agitava le braccia, il cane saltava con la lingua di fuori. Se li avesse imitati avrebbe avuto un'aria piuttosto ridicola. Sébastian sembrava indicarle qualcosa alle sue spalle. Faceva delle smorfie stupide che lo imbruttivano. Che peccato, era così carino! Con un sospiro di rassegnazione si voltò per guardare dietro di sé. Una grossa bestia risaliva il vialetto dirigendosi dritta su di lei... una bestia molto grossa, ma non cattiva, era evidente. Aveva una testa minuscola e una proboscide smisurata. Sembrava un elefante disegnato dalla mano di un bambino. Era privo di orecchie... e aveva un collo enorme, e poi troppe zampe, e poi... Peggy si lasciò andare a una risata folle. No, era davvero troppo buffa! Una bestia del genere non poteva esistere. Si avvicinava sempre di più ma Peggy non aveva paura, no, sapeva che l'enorme animale aveva come consegna di non fare mai del male ai frutti e agli ortaggi... dunque non correva nessun rischio. Vorrei proprio che m'innaffiasse, disse tra sé, ho un po' caldo. Se continua così finirò per essiccarmi e perderò tutto il mio succo. Osservava le zampe del mostro alzarsi e abbassarsi in rapida successione. Il terreno tremava sempre di più e faceva fatica a mantenersi in equilibrio. Teneva il naso rivolto verso l'alto, nella speranza che la creatura fantastica srotolasse la sua proboscide per darle quell'acqua di cui cominciava a sentire la mancanza. A un tratto, il cane con la cravatta fece un balzo verso di lei, affondò i denti nei suoi pantaloni e tirò con tutte le forze, costringendola ad attraversare il vialetto.
Ah, com'era fastidioso! Le avrebbe fatto perdere l'annaffiatura. «Lasciami, idiota di un cane!» gli gridò. Ma l'animale si ostinava a trascinarla verso il prato, e fu costretta a seguirlo. Una delle zampe del mostro-cisterna la sfiorò, ma nemmeno se ne accorse tanto era delusa di essersi lasciata scappare in quel modo l'annaffiatura mattutina. Tutti i frutti, tutti gli ortaggi si sarebbero rinfrescati tranne lei. Ah, che cattiveria! Perse l'equilibrio e cadde nell'erba. «Sei completamente pazza!» urlava Sébastian. «Dove hai la testa? Non ti rendevi conto che l'animale-serbatoio ti stava per schiacciare? C'è mancato un soffio.» Sembrava fuori di sé, aveva il viso paonazzo dalla rabbia. Decisamente, non riusciva a capire le reazioni degli esseri umani. La vita degli ortaggi era molto più riposante. Il ragazzo l'afferrò per le spalle e la scosse, ma lei non l'ascoltò. Le sue parole erano prive di significato. Dalla sua bocca non proveniva nient'altro che un orribile rumore. Gli ortaggi, invece, comunicavano con gentilezza muovendo le loro foglie. Flip-flop... flip-flop..., non davano noia a nessuno. I due individui la squadravano preoccupati. Il ragazzo e il cane... si era dimenticata i loro nomi. D'altronde quant'era stupido, un nome! Gli ortaggi non ne avevano. La testa era molto più sgombra, senza. La obbligarono a rialzarsi e a riprendere il cammino. Di tanto in tanto, si giravano per accertarsi che lei li seguisse. Com'era stupido marciare di continuo senza mai fermarsi in un angolino, piantare le proprie radici e attendere crogiolandosi al sole. * Da quel momento, perse la nozione del tempo. Quando il ragazzo decise di concedersi una sosta, accolse la notizia con gioia e si sedette in disparte. Dato che nessuno si occupava di lei, si tolse scarpe e calze, e scavò un buco nel terreno per metterci dentro i piedi. Non sapeva perché agiva così, ma c'era qualcosa che la spingeva a farlo. Una forza che la sovrastava. Si ricoprì di terra i piedi nudi, fino all'altezza delle caviglie. Ah, com'era piacevole! Avrebbe dovuto farlo molto prima! Terminati i lavori di giardinaggio, sprofondò in uno stato di sonnolenza. Non pensava più a nulla se non a maturare, a offrirsi quanto più possibi-
le al sole. Ogni tanto sollevava le palpebre per vedere se la sua pelle era diventata di colore rosso... d'un bel rosso pomodoro. Fu il cane blu che la costrinse a riprendere coscienza. La leccava con foga, ricoprendole la faccia di saliva. Cercò di divincolarsi ma ormai non aveva più l'energia necessaria per respingerlo. Finì per cadere all'indietro. Adesso l'animale stava scavando nel terreno per liberarle i piedi. «Svegliati!» urlava la voce del cane nella sua mente. «Sei vittima di un sortilegio! Reagisci, per la miseria! Reagisci!» Nel frattempo, Peggy pensava: «Perché non mi lascia in pace? Sono un pomodoro, voglio starmene a maturare tranquillamente nel mio angolino, voglio diventare bello, rosso e succoso per il pranzo del demonio.» Il cane le morse il polpaccio. Il dolore la strappò all'ipnosi di cui era prigioniera. «Guardati i piedi!» le strillò il cane blu. «Se non fossi intervenuto io avresti fatto la stessa fine di Sarah.» Peggy Sue cacciò un grido d'orrore: all'estremità dei suoi piedi erano cominciate a spuntare delle piccole radici! «Bisogna tagliarle finché sono tenere» disse il cane. «Se avessimo aspettato sarebbero penetrate nel terreno, in profondità, e sarebbe stato impossibile cavarti fuori da questa buca.» «È terribile» balbettò la ragazza. «Che cosa mi è successo?» «Il succo...» rispose l'animale. «Il succo di pomodoro con cui ti sei spalmata stamattina è stregato. Penetrando nella pelle a poco a poco trasforma la gente in ortaggi, o in frutti... È quello che è capitato a Sarah.» «Ma tu» si stupì Peggy «non sei contagiato.» «No, perché sono un animale, mentre la trappola è stata concepita per gli esseri umani.» Peggy si stropicciò gli occhi. Stentava a riprendere contatto con la realtà. «Pensavi come un pomodoro» riprese il cane. «Alla fine ho capito che occorreva ripulirti dal succo di cui ti eri cosparsa. Guarda Sébastian... ha resistito più a lungo di te, ma il maleficio ha finito per avere la meglio anche su di lui.» Peggy diede un'occhiata alle sue spalle. Il ragazzo era intento a sotterrarsi i piedi, dopo essersi tolto scarpe e calzini. «Capisci come funziona?» bofonchiò il cane blu. «Prima spuntano le radici... poi, lentamente, tocca al resto del corpo. Credo che molti tra gli or-
taggi che ci circondano un tempo siano stati dei bambini. Sono sicuro che eri molto contenta di trasformarti in un pomodoro.» «Sì» dovette ammettere Peggy. «Lo trovavo fantastico. Servire da cibo al demonio mi pareva un grande onore... un onore di cui dovevo mostrarmi degna.» Aprendo il temperino, iniziò a recidere una a una le piccole radici che le spuntavano dalle dita dei piedi. Non era più doloroso che tagliarsi le unghie. Quando ebbe finito si rimise le scarpe e andò a occuparsi di Sébastian, pulendolo con l'acqua della borraccia. Non appena il ragazzo si riprese, gli spiegò cos'era successo. «Non ricordo granché» confessò Sébastian. «Ti vedo in mezzo alla strada che per poco non ti fai schiacciare dall'animale-cisterna, ma poi i miei ricordi si offuscano...» «Non dovremo più usare il succo degli ortaggi o dei frutti» disse Peggy Sue. «È uno stratagemma dei giardinieri per intrappolarci. Senza il cane blu ci saremmo cascati, sia tu che io.» I tre amici restarono per un po' in silenzio, consapevoli di aver sfiorato la catastrofe. «Era il maleficio del primo prato» brontolò il cane blu. «Chissà cosa ci attende al secondo!» 15 Il mondo delle talpe Stentarono parecchio a rimettersi in marcia perché gli effetti soporiferi del sortilegio non accennavano a scemare, invogliandoli al torpore. Peggy Sue continuava a sentire una vocina nella sua testa, una voce che diceva: «A che scopo continuare? È tutto inutile... goditi piuttosto la pace degli ortaggi.» Era ossessionata dalla voglia di scavare un'altra buca per sotterrarci i piedi; doveva fare uno sforzo enorme per non cedere alla tentazione. Fino a quel momento, il secondo prato somigliava in tutto e per tutto al primo. Adesso che il suo odore umano non era più camuffato da quello dei frutti magici, Peggy si sentiva vulnerabile. I giardinieri non avrebbero avuto alcuna difficoltà a localizzarla. Era immersa in quei sinistri pensieri quando vide il primo buco...
«È un cunicolo scavato dalle talpe» fu la diagnosi di Sébastian. «È vero» confermò il cane blu. «Le talpe sono morte da tempo... tuttavia i cunicoli sono abitati, lo sento.» «Da chi?» domandò Peggy Sue. «Da bambini come voi...» buttò lì l'animale. «State attenti, hanno paura.» Peggy avanzò verso la soglia della cavità. Nel terreno erano stati costruiti dei gradini rudimentali. Tirò fuori la lampada e imboccò la scala che si addentrava nell'oscurità. «C'è qualcuno?» gridò. «Siamo amici... abbiamo oltrepassato la staccionata bianca ieri mattina... Mi sentite?» Percepì nell'oscurità l'eco di un fuggifuggi, di un parlottio. Alla fine, nel volgere di un minuto, un ragazzo esclamò: «Siete ancora umani, suppergiù?» «Sì» rispose Peggy. «Spegnete quella lurida lampada,» ringhiò lo sconosciuto «e tenete le mani in alto.» Peggy Sue seguì l'ordine del ragazzo. Si sentì un rumore di passi in avvicinamento, poi una banda di monelli fece capolino dalla curva in fondo al tunnel. Erano spaventosamente sudici, vestiti perlopiù con cenci ricavati da foglie di mais. Alcuni portavano un guscio di noce a mo' di casco. Altri avevano scavato delle nocciole confezionandosi degli elmi da cavalieri medievali ed erano armati di clave spinose (in realtà degli steli di rosa temprati al fuoco). Il capo era un adolescente piuttosto grasso, ma le sue braccia massicce lasciavano intuire una forza erculea. «Mi chiamo Nasty» ringhiò. «Sono il capo dei sopravvissuti. Viviamo qui, nei cunicoli delle talpe, per sfuggire ai giardinieri. Se siete arrivati fin qua, vuol dire che avete superato indenni il maleficio del succo di pomodoro. La maggior parte della gente soccombe.» Peggy Sue si presentò. Capì subito che Sébastian non provava la minima simpatia per Nasty. Non si strinsero neanche la mano. «Venite,» ordinò il ragazzo con le spalle da lottatore «non restiamo sulla soglia del cunicolo, è pericoloso. Non abbiate paura, dentro è illuminato grazie a delle lucciole addomesticate. Noi le coccoliamo e loro ci danno la luce.» «Quanti siete?» chiese Peggy Sue. «Una trentina» rispose Nasty. «Siamo i sopravvissuti del secondo prato.
Io sono arrivato fino in fondo al terzo, poi ho fatto dietro front.» «Perché?» lo interrogò la ragazza. «È impossibile andare oltre» fece Nasty con una smorfia di disgusto. «Le trappole diventano sempre più complicate.» «Da quanto stai qui?» «Non so... dieci anni, forse. Qui si perde la nozione del tempo. Non si mangia, non si cresce. È tutto immobile.» Adesso si spostavano in un tunnel largo come un viale. Lungo le pareti, dei grossi bruchi appisolati diffondevano un bagliore verdognolo. I sopravvissuti avevano costruito dei capanni per mezzo di residui vegetali. C'erano molti bambini che giocavano a carte o ai dadi. «Bisogna pur passare il tempo, in un modo o nell'altro» borbottò Nasty cogliendo l'occhiata di Peggy Sue. «Perché non ripassate dall'altra parte della staccionata?» «Per ritornare nella zona dei sogni?» rise amaramente Nasty. «No, grazie! Chiunque viva laggiù è condannato a diventare minuscolo, è inevitabile. Noi preferiamo rimanere qui e conservare le nostre dimensioni reali. Non voglio trasformarmi in un microbo.» Aveva un'aria cupa e disillusa. Peggy ebbe l'impressione che la vita nella rete di cunicoli fosse tremendamente noiosa. Arrivati al centro del villaggio, Nasty li invitò a sedersi davanti alla sua capanna. A dispetto delle più elementari regole d'ospitalità, non offrì ai suoi ospiti né cibo né bevande. «Non bisogna mangiare nulla di quello che si trova fuori» spiegò. «Solo gli animali sono immuni. Tutti gli ortaggi, tutti i frutti sono portatori di malefici. Malgrado ciò, è difficile non cedere alla gola.» «Davvero?» fece Sébastian con aria scettica. «Davvero» ripeté Nasty con tono cupo. «Gli odori che ci giungono dall'esterno a volte sono così allettanti che alcuni dei miei ragazzi non riescono a resistere. Scappano dai cunicoli per andare a ingozzarsi di more o di ribes...» «E allora?» chiese Peggy. «Allora hanno un'idea fissa: diventare una mora o un ribes» sospirò Nasty. «Ne avete avuto la riprova quando vi siete spalmati con il succo dei frutti. Se li mangiate sono ancora più efficaci. Ci si trasforma nel giro di una giornata.» Sembrava stanco di ripetere sempre le stesse cose. Come se avesse letto nei pensieri di Peggy Sue, disse:
«Non faccio altro che ripeterlo a quelli che passano di qui, ma nessuno mi ascolta. Vogliono continuare, diventare degli eroi... e non li rivedi mai più.» Altri bambini vennero a sedersi. Esibivano tutti quanti la faccia immusonita di chi si annoia da morire. Si presentarono: Kathy, Olga, Ronan, Elodie, Dekker... «Una bella banda di scervellati, sì!» ringhiò Nasty. «Se non ci fossi io a vegliare su di loro, già da tempo sarebbero rimasti vittima delle trappole del giardino.» «Dicci cosa hai visto in fondo al secondo prato» gli chiese Peggy Sue. «Che cosa ti ha convinto a tornare indietro?» Nasty affondò la testa nelle spalle ed emise un sospiro di stanchezza. «In fondo,» mormorò infine, con lo sguardo fisso nel vuoto «oltre l'ultimo prato, c'è un sentiero di ciottoli bianchi, così bianchi che sembrano di gesso. È l'unico modo per raggiungere il castello perché, su entrambi i lati di questo cammino, si ergono dei grossi cespugli di fiori assassini o di cactus che starnutiscono.» «Cactus che starnutiscono?» chiese Peggy, stupita. «Sì» confermò Nasty. «Sono allergici ai bambini. Appena fiutano la presenza di un ragazzino si mettono a starnutire, spandendo in aria tutte le loro spine. Si finisce crivellati... e siccome sono avvelenate, stramazzi al suolo nel giro di un minuto. È molto difficile superare questo sbarramento. Qualcuno ci riesce facendo ricorso a non so quale stratagemma, ma non gli serve un granché, visto che in ogni caso alla fine bisogna decidersi a percorrere la stradina bianca, se si vuole accedere al ponte levatoio.» «E questa stradina è stregata?» «Esattamente. Appena ci metti piede cominci a rimpicciolirti, a tal punto che hai l'illusione che il cammino si allunghi e che il castello indietreggi. In realtà la strada non si muove, è chi cammina che diventa ogni giorno più piccolo. Nel giro di una settimana ti riduci alle dimensioni di un pidocchio, e il sentiero bianco ti sembra lungo come la distanza che separa la Terra dalla Luna. Quando l'ho visto, ho capito che era inutile correre dei rischi. Ho girato i tacchi e sono tornato qui. I cunicoli sono immensi, ci si può nascondere comodamente, e i giardinieri ci lasciano in pace.» «Credi sinceramente che non ci sia alcuna possibilità di raggiungere il castello?» insisté Sébastian. «Nessuna» bofonchiò Nasty. «Sono sopravvissuto a non poche trappole, non sono un fifone, ma qui la partita è truccata. Quando penso a tutti quei
poveri ragazzini che, in questo momento, si ostinano a percorrere il sentiero bianco senza rendersi conto che diventano sempre più piccoli e che gli ci vorranno cinque secoli per raggiungere il ponte levatoio, allora mi dico che ho fatto la scelta giusta.» Peggy Sue trattenne una smorfia. Non condivideva il disfattismo del ragazzo, ma si sentiva montare dentro una crescente preoccupazione al pensiero delle prove che l'attendevano. «Ho un solo consiglio da darvi,» fece Nasty «restate qui, mi occuperò io di voi. I miei ragazzi e le mie ragazze non stanno male. Mi invento continuamente nuovi giochi per tenerli occupati. I cunicoli sono una sorta di campo vacanze; io sono il sorvegliante. Ci si diverte un mondo, vedrete! Lasciate perdere questa stupida guerra.» Si era rialzato facendo d'un tratto dei grandi gesti verso le gallerie vicine. «Olga e Ronan vi faranno visitare le nostre installazioni» propose con un buonumore che suonava falso. «Abbiamo costruito tutto con le nostre mani. Andate... scoprirete il campo vacanze sotterraneo di Nasty il Sopravvissuto!» Peggy Sue, Sébastian e il cane blu non ebbero il coraggio di rifiutare. Mentre Nasty se ne andava a sorvegliare il cantiere di un nuovo scivolo, s'incamminarono dietro ai due ragazzini che dovevano far loro da guida. Olga era una bambina minuta e rossiccia, assai magra, con un viso incorniciato da lunghe trecce, Ronan un ragazzo vispo ma reso pallido come un cencio dalla permanenza nei cunicoli. Nessuno dei due pareva molto contento delle vacanze obbligate imposte da Nasty. Con svogliatezza, fecero scoprire ai tre amici le installazioni ricreative dei tunnel. C'erano dei maneggi, delle piscine, delle altalene, una pista dove ci si poteva abbandonare a delle corse su carri trainati da grilli addomesticati. Una cupola immensa in cui era possibile volare sospesi mediante un'imbracatura a una farfalla notturna. «Non avete l'aria di divertirvi molto, con tutte queste cose» osservò Peggy voltandosi verso Olga. La bambina dalle trecce rosse arricciò il naso. «Bah!» sospirò. «All'inizio sì, era spassoso, ma quando lo fai tutti i giorni finisci per stufarti.» «Nasty fa del suo meglio per tenerci occupati,» aggiunse Ronan «vuole che siamo felici, ma la realtà è che ci tiene prigionieri. Per cercare di proteggerci dall'esterno, è diventato il nostro carceriere.»
«È vero,» fece Olga «ci crede più piccoli di quanto siamo realmente. Ci prende per neonati. Ci impedisce di confrontarci con le insidie del mondo esterno.» «E voi?» domandò Peggy. «Che cosa desiderate realmente?» «Noi vorremmo uscire,» bisbigliò Olga «proseguire la missione, andare fino al castello.» «Anche se è pericoloso?» «Sì!» Peggy Sue fissò in volto i due bambini. Vide brillare nei loro occhi una sorta di disinganno. «Siete in tanti a pensarla così?» chiese. «Sì» mormorò Ronan guardandosi alle spalle per accertarsi che Nasty non fosse nei paraggi. «Ma nessuno osa dirlo. È triste, ma abbiamo finito per avere paura di Nasty, sebbene lui non voglia altro che il nostro bene.» Spaventati all'idea di aver detto troppo, i due bambini non affrontarono più l'argomento per tutto il resto della visita. Nasty aveva sistemato i sotterranei in modo magnifico, ma i ragazzini che frequentavano le attrazioni - autoscontri, montagne russe - avevano tutti un'aria triste. «Qui» spiegò Olga «si fabbricano dei confetti con i petali dei fiori secchi. Là, delle stelle filanti con erbe colorate tagliate a strisce.» Dovettero scostarsi più volte per lasciare spazio a degli stuoli d'insetti dai colori vivacissimi, montati da giovani cavalieri. «C'è anche un'orchestra» bofonchiò Ronan. «I flauti sono costruiti a mano con frammenti di steli; per i tamburi utilizziamo la pelle dei funghi incartapecorita, stesa su gusci di noci giganti.» A sentirlo, sembrava tutto di una noia mortale. Mentre facevano ritorno verso la capanna di Nasty, Olga mise la sua mano in quella di Peggy Sue. «Quando te ne andrai» le sussurrò «mi porterai con te, vero?» «Sì,» esclamò subito Ronan «anche io... anch'io voglio venire con voi! Non ne posso più di salire ogni giorno sulle stesse giostre!» Peggy non fece in tempo a rispondere, perché Nasty spuntò da dietro una capanna, con aria sospettosa. «Allora,» fece «vi è piaciuto? Immagino che resterete con noi, ovviamente.» *
Il pomeriggio parve interminabile ai tre amici, che dovettero far finta di divertirsi in quello strano parco dei divertimenti sotterraneo. Peggy Sue non era stupida: i bambini fingevano di ridere fragorosamente, ma gli occhi cupi tradivano tutta la loro noia. «Siamo finiti in una prigione» sussurrò a Sébastian. «Una prigione mascherata da luna park. Non sono sicura che Nasty sia intenzionato a lasciarci andar via.» «Credi che potrebbe tenerci prigionieri?» mormorò il ragazzo. «Sì, per il nostro bene...» Poco dopo, Nasty prese in disparte Peggy Sue col pretesto di mostrarle il progetto della sua nuova creazione: una grande ruota munita di una cinquantina di navicelle di vimini. «Non devi ascoltare quello che dicono i ragazzini» fece a un tratto, lanciando uno sguardo in tralice alla ragazza. «Sono troppo piccoli, non sanno cosa è bene per loro.» «E tu invece lo sai?» replicò lei. «Sì» tuonò Nasty. «Io sono un sopravvissuto. So cosa li attende laggiù. Perché credi che io sia così grasso? Prima ero snello come te, ma nel secondo prato trovi dei frutti tremendamente appetitosi che non puoi fare a meno di mangiare. Sono dei frutti malefici che ti fanno ingrassare nel giro di una notte! Ti addormenti magro e quando ti risvegli sei tre volte più pesante della sera prima.» «È capitato anche a te?» «Sì. I miei compagni di viaggio - che avevano fatto una bella scorpacciata - erano diventati così enormi che non riuscivano nemmeno a rialzarsi. Delle balene inchiodate a terra... era terribile. Ho cercato di trascinarli ma non avevo abbastanza forza. Sono stato costretto ad abbandonarli e a darmi alla fuga prima del passaggio dei raccoglitori.» «Dei raccoglitori?» «Ma certo! Ci sei o ci fai? Spero che non ti sia bevuta quella storia del demonio vegetariano che si nutre soltanto di frutta e ortaggi!» Peggy Sue si sentì impallidire. «Vuoi dire...» farfugliò. «Voglio dire che il demonio è un orco» disse Nasty scandendo le parole. «Un orco addormentato, certo, ma che si nutre di bambini come nelle fiabe che ci raccontavano i nostri genitori. È per questo motivo che i giardinieri
fanno crescere frutti stregati nel secondo prato, per fornire al loro padrone una selvaggina bella grassa. L'ho capito quando ho visto i raccoglitori ghermire i miei compagni. Ecco perché proteggo questi bambini contro la loro volontà. Sono così ingenui! Non hanno la più pallida idea di cosa li attende, laggiù. Credono che la traversata del giardino sia una gita divertente. Nient'affatto. La morte non esiste nella zona dei sogni, è vero, ma qui, nel giardino, le cose vanno diversamente! Il demonio cambia le regole quando gli fa comodo!» Mentre sbraitava aveva iniziato a sudare, e Peggy Sue si domandò se non fosse un po' toccato. Quando accennò ad allontanarsi con un pretesto qualsiasi, Nasty le afferrò il polso. «Se vuoi andartene» tuonò «io non ti tratterrò, ma non provare a portarti via nessuno dei miei bambini, sennò dovrai vedertela con me!» Non scherzava affatto, e Peggy Sue capì che non sarebbe stato facile tirarsi fuori da quell'impiccio. Mentre si affrettava a raggiungere Sébastian e il cane blu, risuonò un appello: «La notte! Sta calando la notte!» Era la sentinella appostata all'ingresso del tunnel a gridare così. Peggy Sue credette di percepire una nota di panico nella sua voce. Immediatamente, i ragazzini abbandonarono le giostre per raggiungere la galleria centrale. Correvano, si spintonavano l'un l'altro. Scorgendo Olga e Ronan, Peggy domandò ai due bambini dove fossero diretti. «Al dormitorio» rispose Olga. «È la regola. Venite, presto, la notte è pericolosa.» Peggy Sue, Sébastian e il cane si misero sulla scia del gruppo. Sboccarono in una sala col tetto a volta dove si trovavano allineati tanti letti quanti erano i rifugiati dei cunicoli. Nasty era già lì a sorvegliare che i bambini andassero a dormire. Ogni volta che uno si infilava sotto le coperte, gli afferrava il piede destro e con una corda agganciava la caviglia al montante del letto. «Che stai facendo?» chiese stupita Peggy. «Li proteggo contro i malefici notturni» spiegò il padrone dei cunicoli senza smettere di legare saldamente i ragazzini. «Questa è una corda magica che ho sottratto ai giardinieri. Obbedisce solo a me, nessuno può disfare i nodi. Non è possibile tagliarla con nessun coltello.» «Ma a cosa serve?» si spazientì Sébastian.
Nasty scoppiò in una risata sprezzante. «Voi non avete idea dei pericoli che vi attendono» sibilò tra i denti. «Durante la notte, i fiori emettono degli odori ipnotici che penetrano fino a qui. Dei profumi succulenti di pasticceria, di dolci... a volte di brioche al forno, oppure di crostata alle mele o al cioccolato. Sono così deliziosi che non puoi fare a meno di alzarti per cercare di cogliere queste meraviglie. Hai voglia a sapere che si tratta di una trappola, finisci per perdere la testa... e uscire dai cunicoli. Per questo li lego, tutti. Solo io posso sciogliere i nodi; quanto ai letti, sono fatti di una pietra troppo pesante perché uno possa trascinarseli dietro.» «Uscire sarebbe davvero così pericoloso?» cercò d'informarsi Peggy Sue. «Ma certo!» sbottò Nasty. «Pensa a quello che mi è successo! Sono stati quegli odori meravigliosi a rovinarci, a me e ai miei compagni. Quando ho affondato i denti in quel ribes stregato, aveva un sapore di marmellata, di crostata, di pasta di frutta, di... di... non lo so con esattezza, ma non era un semplice ribes, era il dolce più fantastico che abbia mai avuto occasione di mangiare in tutta la mia vita.» Peggy Sue indietreggiò d'un passo, perché il ragazzone sembrava veramente in collera. «Non resisterete!» profetizzò Nasty puntando l'indice in direzione di Peggy e di Sébastian. «Non crediate di essere furbi! Se non vi lego, a mezzanotte in punto sguscerete fuori dei cunicoli per lanciarvi all'inseguimento degli odori. Oh, non ci metterete molto a trovare i frutti in questione, ma domani, quando vi risveglierete, ognuno di voi peserà 250 chili, e i raccoglitori vi trasporteranno alla cucina del castello.» Forse dice la verità..., pensò Peggy con un brivido. «Non voglio costringervi,» riprese Nasty «ma ho preparato qualche letto in più, potete sdraiarvici. Dispongo ancora di corde a sufficienza per legarvi tutti. A voi la scelta. Però spicciatevi, i profumi non tarderanno ad arrivare, e adesso devo pensare alla mia protezione perché non posso legarmi da solo. Se lo facessi, non avrei alcuna difficoltà a ordinare alla corda di liberarmi.» «E quindi come fai?» chiese Sébastian. «Corro a nascondermi in fondo alle gallerie» sospirò Nasty. «Assai lontano dalla superficie, striscio dentro dei cunicoli minuscoli, dove nessuno avrebbe il coraggio di mettere piede, e mi riempio di fango le narici. A quelle profondità la terra ha un odore così cattivo che la puzza copre i pro-
fumi provenienti dall'esterno... ma non è per nulla gradevole, e ci vuole un certo coraggio per resistere.» «D'accordo, legaci» si arrese Peggy Sue. Prese posto su uno dei letti di pietra scolpiti da Nasty. La corda magica era fissata a uno dei montanti. Grigia, curiosamente flessibile, assomigliava più a un serpente che a un normale laccio di canapa intrecciata. Nasty non dovette far altro che sfiorarla con l'indice per farla annodare attorno alla caviglia destra di Peggy. «Ecco fatto. Avrai un bel tirare, ma non riuscirai a scioglierla. Quanto a tagliarla con un coltello, provaci se vuoi, la lama si spunterà!» Sébastian scelse un letto adatto alle sue dimensioni e ci si allungò sopra. Ancora una volta, la corda magica venne ad annodarsi attorno alla sua caviglia, come se fosse animata. Il cane blu, invece, fuggì via perché non aveva la minima voglia di essere legato al guinzaglio. «Non ho mai portato neanche il collare!» gridò, prima di scomparire dall'altra parte della galleria. «Non comincerò certo stasera.» Speriamo che i profumi malefici non lo attirino fuori..., pensò Peggy, un po' preoccupata. Poi le tornò in mente che il cane blu detestava i dolci, dunque non c'era rischio che gli odori di pasticceria stregati lo inducessero ad abbandonare la tana. «Buonanotte a tutti!» esclamò Nasty uscendo dal dormitorio «e non abbiate paura, il vostro amico Nasty veglia su di voi.» «Buonanotte!» risposero in coro i bambini. «Grazie-Nasty, sei-cosìbuono-con-noi...» Guardando il ragazzone che scompariva nelle tenebre dei cunicoli, Peggy Sue si sentì stringere il cuore. Si sdraiò. Un pagliericcio riempito d'erba secca la separava dal letto di pietra, ma il giaciglio non aveva nulla di confortevole. Ciò che le dava più fastidio, tuttavia, era la presenza della corda magica attorno alla caviglia. Aveva l'impressione che un serpente si fosse arrotolato sulla sua calza. Su, disse tra sé cercando una posizione accettabile. Cerchiamo di dormire. A ogni buon conto sono così stanca che nessun maleficio riuscirà a svegliarmi. Si sbagliava.
Nel pieno della notte, un incredibile odore di cornetti caldi arrivò a solleticarle le narici. Si sedette sul letto, con l'acquolina in bocca. Il suo stomaco gorgogliava come un lavandino; in tutta la sua vita, non aveva mai avuto una fame simile. Cornetti... cornetti... cornetti..., mormorava una vocina nella sua mente. Presto... presto... presto... Non ce n'è per tutti! Dei mormorii s'innalzarono nel dormitorio immerso nell'oscurità. Altri bambini si erano svegliati. Olga gridò loro di riaddormentarsi. «È un'illusione» mormorò Ronan rivolto a Peggy. «Devi resistere. Con l'abitudine diventa meno faticoso.» La ragazza non l'ascoltò. Saltando giù dal letto, provò a muoversi a tentoni nel buio. Dov'era l'uscita? Come si faceva ad accendere la luce? «Calmati» le consigliò Olga. «Datti un pizzico sul naso. Puoi anche masticare un po' di terra, ha un gusto orribile ma almeno ti farà venire voglia di vomitare e così non penserai più a nient'altro.» Cornetti... cornetti... cornetti..., continuava a sussurrare la vocina nella mente di Peggy Sue. Presto... presto... presto... Non ce n'è per tutti! Allora la ragazza si mise a tirare con tutte le sue forze la corda che le straziava la caviglia. Era sopraffatta da una golosità folle, fin quasi al punto di credere che avrebbe potuto trascinarsi il letto lungo i tunnel. Si accasciò. Sotto la calza, la pelle, irritata dallo sfregamento, le bruciava in modo atroce. Attraverso le nebbie del delirio, intuì che anche Sébastian era in preda agli stessi tormenti. Lo sentiva balbettare: «cioccolata, cioccolata...» con una voce resa irriconoscibile dall'ipnosi. Quella tortura andò avanti per due lunghe ore, poi i profumi misteriosi diminuirono d'intensità. «I fiori si stancano» spiegò Olga. «Non ce la fanno a diffondere i loro odori tutta la notte. Arriva sempre il momento in cui devono recuperare le forze. Adesso potremo dormire in pace.» * L'indomani, all'alba, Nasty riapparve, ricoperto di terra, col viso imbrattato di melma putrida. Spostandosi di letto in letto, sciolse le corde magiche sfiorandole con l'indice. Mentre i bambini abbandonavano il dormitorio per raggiungere le aree
da gioco, Olga si avvicinò a Peggy Sue e le sussurrò all'orecchio: «Se vuoi evadere, devi farlo durante il giorno. Ne ho parlato in giro, siamo in molti a volerti accompagnare.» Non disse altro, perché Nasty si avvicinò, le sopracciglia aggrottate. «Chi vuole salire sulle giostre?» gridò con voce piena di un entusiasmo forzato. «Chi vuole volare sulle farfalle ammaestrate?» 16 Golosità diabolica Era fuori questione indugiare oltre nei cunicoli. Peggy Sue prese la decisione di fuggire entro mezzogiorno. Intuiva di dover agire all'insaputa di Nasty, perché il ragazzone - nel desiderio di proteggerli - avrebbe fatto di tutto per impedire loro la fuga. Il gruppetto di amici approfittò dunque dell'assenza di Nasty, impegnato in uno dei numerosi cantieri, per portarsi verso l'uscita della tana. Olga e Ronan li seguirono, insieme ad altri bambini di cui Peggy non conosceva i nomi. «Ehi!» gridò la sentinella nascosta sotto un fungo all'ingresso del sotterraneo. «Dove ve ne state andando?» «A raccogliere della legna» buttò lì Olga. «Ci servono delle tavole per i nuovi maneggi.» «Nessuno ha il diritto di avventurarsi fuori senza essere accompagnato da Nasty!» protestò il ragazzo. «Ritornate immediatamente nel tunnel, altrimenti...» Ma nessuno gli dava più ascolto. Peggy Sue correva già tra gli alti fili d'erba, seguita a breve distanza dai giovani fuggitivi. «Non posso crederci!» esclamò Olga. «Siamo riusciti a scappare! Ero convinta che avrei passato il resto della mia vita a girare sui cavalli di legno delle giostre sotterranee.» A corto di fiato, si accasciarono in ordine sparso sotto un fungo. Tutt'a un tratto, in lontananza risuonò la voce di Nasty, smorzata dalla massa d'erba gigante. «Piccoli cretini!» sbraitava. «Fate conto di essere già morti! Non avete la più pallida idea di cosa vi attende... Ingrati! Dopo tutto quello che ho fatto per voi... è così che mi ringraziate? Tornate indietro, prima che sia troppo tardi. Non vi punirò... Rientrate in casa, vi supplico: ascoltatemi!» Aveva un'aria sinceramente affranta, e la tristezza rendeva tremule le sue
parole. Sembrava quasi sul punto di mettersi a piangere. Tra i bambini, qualcuno fu preso dal panico e abbozzò un movimento per tornare indietro. «No!» sibilò Olga. «Non fatelo! Non ci si può nascondere in eterno. Un giorno o l'altro bisognava trovare il coraggio di uscire dal rifugio. Quel giorno è arrivato.» Nasty gridò ancora a lungo. «Vi auguro buona fortuna» disse infine, con voce stanca. «Se qualcuno si dovesse salvare, potrà tornare alla tana senza timore.» Furono le sue ultime parole. Peggy si riaggiustò il cinturino dello zaino. Bisognava andare avanti. Di lì a poco avrebbero dovuto affrontare i terribili profumi ipnotici di cui aveva parlato Nasty, e l'idea non la rallegrava affatto. Mise Olga a parte delle sue preoccupazioni. «C'è un modo per proteggersi» spiegò la bambina dalle trecce rosse. «Ahimè, pochi hanno il coraggio di utilizzarlo. È... è davvero orribile.» «Ah sì?» esclamò stupito Sébastian. «E che cosa bisogna fare?» «Bisogna raccogliere gli escrementi di un certo insetto e strofinarseli sul naso. L'odore è così forte che poi non senti più niente. In questo modo è possibile superare lo sbarramento dei profumi pericolosi in tutta sicurezza. Il problema è che è dura sopportare a lungo il tanfo degli escrementi.» Peggy Sue e Sébastian si guardarono. «D'accordo» sospirò Peggy. «Se non c'è altro modo per superare l'ostacolo.» Olga e Ronan spiegarono allora che bisognava mettersi alla ricerca di un grosso cespuglio di fiori gialli a strisce rosa, perché gli insetti in questione vivevano esclusivamente all'ombra di quella specie vegetale. «Non sono cattivi» continuò la bambina. «Sono delle bestione timide, fuggiranno quando ci avvicineremo. Così potremo raccogliere il loro sterco in tutta tranquillità.» Si adoperarono dunque a localizzare il più rapidamente possibile un cespuglio di fiori gialli dalle strisce rosa. Non fu difficile, dato che erano grandi come palme. Degli scarabei dal carapace blu frugavano il terreno nelle immediate vicinanze. Vedendo comparire l'orda di bambini, si dileguarono tra gli steli agitando le antenne. Peggy Sue ne fu assai sollevata perché erano più grossi di un elefante. Il terreno era cosparso di escrementi sotto forma di palline secche e lucenti. «Non puzzano» si sorprese Sébastian.
«No,» riconobbe Olga «bisogna schiacciarli perché sprigionino l'odore. Basta portarseli dietro, li sbricioleremo all'ultimo istante. Vi avverto: emanano un tanfo atroce. Alcuni cascano giù come patate dopo averli annusati.» I bambini erano titubanti. Peggy decise di dare il buon esempio e si ficcò in tasca diverse palline. Sembra liquirizia, pensò pulendosi le mani su un ciuffo d'erba. Non è così disgustoso come immaginavo. «Mi dispiace,» si scusò Olga «ma è la nostra unica possibilità di superare lo sbarramento dei profumi ipnotici. Mi raccomando, non esitate a utilizzarli. Nasty ripeteva sempre che nessuno è in grado di resistere agli odori malefici dei fiori.» «Quando arriveremo alla zona pericolosa?» domandò Sébastian. «Oh!» sospirò mestamente Ronan «lo sentirai... Non appena i fiori ci avranno individuati, cominceranno a emettere dei profumi appetitosi che si dirigeranno verso di noi. Questi odori risveglieranno la nostra golosità. Avremo una tale fame che quando appariranno i frutti maledetti non potremo fare a meno di saltarci sopra per divorarli.» «È organizzato tutto così bene» osservò Olga. «Pochi riescono a superare questa prova. Ricordatevelo: se date un morso alla polpa dei frutti, siete fregati... a ogni boccone prenderete dieci chili.» Peggy Sue serrò le mascelle. Sapeva quant'era golosa e temeva di non avere la volontà necessaria per resistere a questa trappola. L'ansia s'impadronì del gruppo, e ben presto smisero di parlare. Il cane blu procedeva in testa, annusando l'aria. Grazie al suo fiuto, avrebbe individuato gli odori malefici prima di chiunque altro. «Comincia a delinearsi» disse a un tratto. «Davanti a noi... ci viene incontro, come un'onda invisibile.» «Ti fa venire fame?» gli chiese Peggy. «No,» fece l'animale «ma io sono un cane. Non ho gli stessi gusti degli esseri umani. Non c'è nulla che mi piaccia più di un bell'osso un po' putrido. Questi odori sono prodotti specialmente per i bambini... sanno di zucchero, di cioccolato, di cornetti appena sfornati... per me non sono particolarmente appetitosi, ma a voi verrà l'acquolina in bocca.» Non aveva ancora finito di pronunciare quelle parole che Peggy ebbe l'impressione che qualcuno avesse aperto la porta di una pasticceria. Il suo stomaco cominciò a gorgogliare e la saliva le riempì la bocca. Era... era incredibilmente appetitoso... I profumi impregnavano a tal punto l'aria, che
non ci sarebbe stato da stupirsi nel vedere i dolci materializzarsi sul terreno. «Attenzione, ci siamo!» gridò Olga. «Sta cominciando, presto! Prendete gli escrementi degli insetti! Non aspettate, sennò sarà troppo tardi!» La bambina dalle trecce rosse aveva ragione, ma i profumi erano così deliziosi che Peggy Sue non aveva nessuna voglia di sottrarvisi. Sentiva la fame crescere nella pancia, lo stomaco che urlava. In un riflesso difensivo, affondò la mano nella tasca alla ricerca di una pallina resinosa. Attorno a lei, il gruppo si stava smembrando. Due bambini, cedendo alla golosità, si erano già tuffati nell'erba, a bocca aperta, le braccia tese, pronti a mangiare qualsiasi cosa. «No, tornate indietro!» gridò Peggy. «È una trappola!» Ma lei stessa aveva voglia di raggiungerli. «Lo sterco!» urlava Olga. «Sbriciolatelo e strofinatevelo sul naso.» Le obbedirono. Immediatamente risuonarono grida d'orrore. Peggy, che si era affrettata a seguire le istruzioni impartite dalla bambina dalle trecce rosse, credette di essere sul punto di vomitare tutto il cibo ingerito sin dalla sua nascita. Era abominevole! «Correte!» singhiozzò Olga. «Dobbiamo allontanarci dai fiori, prima che il fetore diminuisca. Correte! È la nostra unica possibilità!» Peggy si diede alla fuga. Non capiva più da che cosa stesse scappando, se dai fiori malefici o dal tanfo immondo che regnava nel suo naso. Attorno a lei, i bambini se la davano a gambe levate urlando come ossessi. Alcuni vomitavano, altri erano caduti in ginocchio e cercavano di ripulirsi il naso con un ciuffo d'erba, incapaci di sopportare oltre le emanazioni putride degli escrementi d'insetto. «Non vi fermate!» ansimava Ronan. «Continuate! Continuate!» Ma nessuno lo stava più a sentire. Era un fuggifuggi generale. Peggy Sue pensò quasi di gettare via lo zaino per correre più veloce. Di passata, intravide i fiori pericolosi. Allo scopo di attivare la propagazione degli odori-trappola, i loro petali sbracciavano in aria come le ali di un pipistrello. Sembrano vivi, disse tra sé. In quel preciso istante, inciampò su una radice perdendo l'equilibrio. Cominciò allora a rotolare lungo un pendio ripido, procurandosi diverse contusioni alle costole a causa delle asperità del terreno. Quando alla fine riuscì a frenare la caduta aggrappandosi allo stelo di un fiore, si ritrovò ricoperta di lividi.
Distinse vagamente, nell'erba, diversi bambini che divoravano a quattro palmenti dei ribes giganti. Fu per lanciarsi in loro aiuto, ma la mano di Sébastian l'afferrò per la spalla nel tentativo di dissuaderla. «No» disse il ragazzo. «Non c'è niente da fare. Ne hanno mangiati troppi. Tra un quarto d'ora peseranno duecento chili. Se Nasty ha detto la verità i raccoglitori passeranno a prenderli, dobbiamo filarcela al più presto.» «Ma non possiamo lasciarli qui!» protestò Peggy dibattendosi. Sébastian l'afferrò per il braccio scuotendola con violenza. «Basta!» gridò. «Non c'è tempo... e non possiamo fare più nulla per loro. Diventeranno talmente grassi che non saranno in grado di marciare. So che è triste, ma se lo fai ci lascerai la pelle anche tu.» Peggy Sue lasciò che le lacrime le inondassero il viso. Sébastian aveva ragione, il fetore dello sterco stava già svanendo, e cominciava a percepire di nuovo il profumo di cornetti caldi. «Rialzati e corri più che puoi» sussurrò Sébastian sbriciolandosi nel palmo della mano un'altra pallina di sterco. «Corri senza guardarti indietro.» Le spalmò sul naso il terribile materiale scuro e la spinse in avanti. La corsa riprese. Un quarto d'ora dopo, Peggy Sue si accasciò a terra, madida di sudore, con una fitta ai fianchi. Ci mise un po' a recuperare le forze, nonostante il cane blu si sforzasse di leccarle la faccia. «Abbiamo subito parecchie perdite» le annunciò mentalmente. «Non so dove siano finiti Olga e Sébastian.» Peggy si rialzò a fatica. Aveva diverse sbucciature sulle ginocchia. Era tormentata dalla voglia di tornare indietro. «Non pensarci neanche» le intimò il cane blu. «Non puoi permetterti di correre il minimo rischio. Qualsiasi cosa dovesse accadere, solo tu puoi portare avanti la missione. Bisogna procedere spediti.» «Ma i raccoglitori?» protestò la ragazza. «Credi che esistano veramente?» «Nasty ha detto che il demonio è un orco» le rammentò l'animale. «E gli orchi non si nutrono di verdure lesse. Se vuoi salvare quei ragazzini dalla sorte che li attende, la cosa migliore, secondo me, è raggiungere il castello il più in fretta possibile e scuotere il demonio dal suo sonno.» «Forse hai ragione» dovette riconoscere la ragazza. Rimase lì impietrita, perché un'ombra aveva appena oscurato il cielo. Un personaggio, il cui aspetto ricordava quello dei giardinieri, si avvicinava
con passo rapido. Aveva delle mani a forma di pala, una bisaccia a tracolla e un enorme cappello di paglia sfrangiata calato su una testa minuscola. Un raccoglitore! pensò Peggy con un brivido. Viene a prendere il suo raccolto. Il piede della creatura gigantesca la sfiorò. Qualche minuto dopo, sentì le grida dei bambini che erano finiti nella bisaccia. Strinse così forte i pugni che le unghie si conficcarono nei palmi delle mani. Nasty diceva la verità, dunque, pensò. Ci avevano raccontato che il demonio era vegetariano per persuaderci a oltrepassare la staccionata bianca. La generalessa Pickaboo ce l'ha data a bere proprio bene! Oramai non aveva più scelta, doveva introdursi al più presto nel castello. Era iniziata una terribile corsa contro il tempo. Bisognava risvegliare a tutti i costi il demonio, prima che i suoi servitori iniziassero a cucinargli il prossimo pasto. «Sai per caso se mangia tutti i giorni?» domandò al cane blu. «No» rispose l'animale. «Dormendo continuamente non consuma molte energie. Lo alimentano una volta a settimana, perlomeno è quanto mi ha detto Sébastian. Ciò significa che abbiamo poco tempo.» Peggy Sue si pulì le ferite e riprese la marcia; non c'era più da perdersi in chiacchiere. Mezz'ora dopo rivide Olga e Ronan, anch'essi ricoperti di ferite, il naso pieno di escrementi. La ragazza aveva pianto e le lacrime avevano scavato delle scie bianche nella sporcizia che le imbrattava le guance. «Sébastian è andato in avanscoperta» annunciò la bambina. «Voleva accertarsi che il raccoglitore avesse davvero ripreso la via del castello. Siete... siete soli?» «Sì» sospirò Peggy. «Gli altri non ce l'hanno fatta a superare lo sbarramento degli odori.» «È terribile» gemette Ronan. «Forse avremmo dovuto dare retta a Nasty.» «No, certo che no!» protestò Olga. «Nasty cercava di essere gentile, ma eravamo suoi prigionieri.» Sébastian fece capolino, ponendo fine alla disputa. Sul suo viso era disegnata una maschera di preoccupazione. «Non è ancora finita» sibilò tra i denti. «Credo che dovremo affrontare altre trappole piene di odori. Ho scovato degli alveari un po' più in basso... e chi dice alveari dice miele. È come una cintura attorno alle pendici della collina, saremo costretti ad attraversarla. Spero che a nessuno di voi piac-
cia il miele!» Ahimè, piaceva a tutti. Si svuotarono le tasche per verificare quante palline di escrementi avevano ancora a disposizione, ma le riserve di tanfo salvifico si erano esaurite. «Troveremo sicuramente altro sterco d'insetto» buttò lì Olga con tono speranzoso. Sébastian fece una smorfia e gettò un'occhiata in giro nei dintorni. Non c'erano fiori gialli nelle vicinanze... e gli scarabei dagli escrementi benefici si trovavano soltanto in prossimità di quella specie vegetale. Peggy si lasciò sfuggire un sospiro, erano tutti in preda allo sconforto. La ragazza cominciava a capire la ragione del dietro front di Nasty. Avevi voglia a dimostrarti coraggioso, arrivava il momento in cui ti rendevi conto di aver esaurito la tua dotazione di fortuna. Decisero di concedersi una pausa per raccogliere le energie. «Mi dispiace di averti trascinato in quest'avventura» mormorò Sébastian sedendosi accanto a Peggy. «Credevo fosse più facile. Ho quasi cinque volte la tua età, ma continuo a ragionare come un bambino... Finisco sempre per convincermi che la vita è solo un gioco, e che tutto deve andare bene per forza, come nelle favole che si raccontano ai ragazzini.» Peggy Sue gli strinse la mano. Apprezzava le confidenze di Sébastian, perché, in genere, non era per nulla facile capire cosa avessero nella testa i ragazzi. Il più delle volte si atteggiavano a fare i duri e si sforzavano di nascondere i loro sentimenti, come se ne avessero vergogna. Ciò non agevolava il dialogo. «La vita è passata così in fretta» gemette Sébastian. «Mi rendo conto che se ritornassi nel mondo reale farei fatica a reinserirmi. Sono talmente assuefatto alla magia che mi sembrerebbe tutto di una noia mortale. Non sono più abituato ai doveri... andare a scuola, lavorare... tutte queste cose non esistono nei miraggi. È tutto finto e facile.» «A patto che non si oltrepassi la staccionata del giardino» lo corresse Peggy Sue. «È vero» riconobbe Sébastian. «Ma ho sbagliato a venire a prenderti.» «Non serve a nulla lamentarsi» tagliò corto la ragazza. «Cerchiamo piuttosto di prepararci alle prossime trappole.» Rimasero a lungo in silenzio. Peggy sentì che Ronan e Olga erano terrorizzati all'idea di scendere verso gli alveari. «Nasty vi ha parlato delle api?» domandò alla bambina. «Sono pericolo-
se?» «No» rispose Olga. «A quanto pare, sono addirittura molto timide e fuggono via appena ci si avvicina agli alveari. Secondo Nasty il pericolo non veniva da lì.» «E da dove?» cercò d'informarsi Peggy. «Non lo sapeva» ammise Olga. «Non si è mai spinto così lontano.» Peggy Sue scosse la testa. Pazienza! Se ne sarebbero accorti sul posto. Nessuno apriva più bocca. Sopra le loro teste si sentiva il ronzìo delle api che volavano di fiore in fiore. Sono grosse come elicotteri, pensò Peggy. E fanno altrettanto rumore! In un primo momento aveva temuto che gli insetti si abbattessero su di loro per trafiggerli con il pungiglione; ma si era chiaramente preoccupata per nulla, perché le api non li degnarono della minima attenzione. Il pendio si faceva sempre più scosceso, ed era necessario aggrapparsi agli steli delle piante per mantenersi in equilibrio. In basso, oltre la cintura degli alveari, s'intravedevano i ciottoli bianchi del sentiero magico, quello su cui non ci si poteva incamminare senza rimpicciolire a ogni passo. Sébastian s'immobilizzò, gli occhi fissi sugli alveari. Le api eseguivano un balletto incessante e le loro ali producevano un frastuono come di motore a pieni giri che faceva venire voglia di tapparsi le orecchie. Sembrava di trovarsi sulla pista di un aeroporto nell'ora di massimo traffico. «Che si fa?» domandò il ragazzo. «Si scende?» Peggy osservò gli alveari. Quant'erano grandi! Sembravano dei piccoli castelli appollaiati su trespoli. Esitava ancora a lanciarsi allo scoperto. Nel cielo, le api ronzavano come una squadriglia in assetto da combattimento. «Dov'è la trappola?» chiese mentalmente al cane blu. «Non lo so» fece l'animale. «Le api non vi faranno male... Vi hanno individuato, sono spaventate; il loro capo sta per trasmettere un ordine di dispersione generale. Eviteranno lo scontro.» Ciò non diminuiva la stranezza della situazione. Peggy misurò con lo sguardo la distanza da percorrere. Due... forse tre chilometri, stimò. Ne potevano succedere di cose, in tre chilometri! «Andiamo» sospirò. «In ogni caso non possiamo rimanere qua a ciondolarci.» Appena il gruppetto uscì dal riparo dell'erba alta per avanzare nella radura, le api fuggirono via. Lo sciame si disperse nel cielo con un rombo da
aereo da caccia, abbandonando gli alveari. Peggy Sue giudicò questa strategia assai curiosa. Era certa che facesse parte di una trappola. E poi sentiva l'odore del miele... Era un profumo buonissimo. Tutta l'aria ne era impregnata. «Ci risiamo» gemette. «Sbrigatevi... Trattenete il respiro e camminate il più veloce possibile.» Ci provò, ma l'odore del miele era così denso che le impiastricciava le labbra, la lingua. Sentiva il sapore in bocca. Lanciò una rapida occhiata ai suoi amici. Ronan aveva già lasciato il gruppo per dirigersi verso gli alveari. Olga si apprestava manifestamente a seguirlo. «Ehi!» sibilò Peggy «tornate indietro!» Poiché i bambini continuavano ad allontanarsi, ordinò al cane blu di andarli a riprendere. L'animale obbedì, ma quando affondò i denti nei calzini dei ragazzini per cercare di farli tornare indietro, questi lo cacciarono via a pedate. «Lasciaci in pace, brutto cagnaccio!» ringhiò Olga. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e sembrava ipnotizzata dalle gocce di miele che sgorgavano dagli alveari formando una pozza cremosa sul terreno. Ronan cadde in ginocchio e vi affondò le mani, quindi iniziò a leccarsi le dita. Accompagnava quel gesto con risatine di gioia. Peggy si precipitò su Olga e l'afferrò per le spalle per tirarla indietro, nel preciso istante in cui si accingeva a imitare il suo compagno. La ragazzina la graffiò come una furia, tentando addirittura di morderla. Vicino alla pozza, il profumo di miele sembrava denso come quelle nebbie di cui si dice 'che si potrebbero tagliare con un coltello'. Peggy si sentiva soffocare, il cervello ottenebrato dalla golosità. Riuscì a ritrarsi trascinando via Olga per il polso. Sébastian arrivò per occuparsi di Ronan. Il cane blu correva in cerchio, annusando col muso nell'erba alta. Tutt'a un tratto, pensò di aver scovato degli escrementi d'insetto ma, dando un morso a una delle palline marroni per accertarsi della loro composizione, si rese conto che si trattava di chicchi di cacao. La polvere di cioccolato gli impiastricciò i baffi, e faticò parecchio per ripulirsene. «Non avresti dovuto toccarle!» lo sgridò Peggy. «La loro presenza non è normale; a mio avviso si tratta di un'altra trappola... Spero che non ti succeda niente.» «Volevo solo aiutarti» si scusò l'animale. «Hai ragione, credo proprio di
essermi avvelenato. Sono stato un idiota, ma erano davvero simili alle palline puzzolenti di cui ci siamo serviti per sventare i malefici dei fiori.» «Come ti senti?» «Bene, per il momento» rispose il cane. «A parte quest'orribile sapore di cioccolato di cui non riesco a liberarmi.» I bambini ripiegarono verso un gruppo di funghi disposti a cerchio. Speravano che l'odore insipido dei vegetali mascherasse quello del miele. La notte stava scendendo, l'idea di proseguire alla cieca era da escludere. Ronan si dibatteva come un ossesso, fu necessario legarlo mani e piedi per impedirgli di ritornare all'assalto degli alveari. Peggy faceva dei tremendi sforzi di volontà per dimenticare la golosità che le attanagliava lo stomaco. L'idea di passare la notte nei pressi degli alveari la riempiva d'angoscia. Sarebbe stata in grado di resistere alla tentazione? Osservò il cielo. Aveva già assunto una tinta nero inchiostro. Non è normale, pensò. Un giardiniere deve aver spento il sole in anticipo, allo scopo di bloccarci qui. Ronan grugniva cercando di divincolarsi. «Liberatemi!» urlava. «Non avete il diritto di tenermi prigioniero. Voglio il miele...» Peggy Sue, per precauzione, fabbricò delle palline di muschio ficcandosele nelle narici. Respirare così era abbastanza scomodo, ma perlomeno avrebbe attenuato il profumo degli alveari. «Cerchiamo di dormire» disse tirando a sé il cane blu. «Ce la squaglieremo appena sorgerà il sole.» Con la notte la temperatura si abbassò e l'odore di miele si fece meno forte, permettendo ai bambini di prendere sonno senza troppa difficoltà. 17 L'ora delle metamorfosi Peggy Sue dormì un sonno anormalmente profondo, popolato da sogni assurdi. Si risvegliò sentendo lo scatto dell'interruttore azionato dai giardinieri per riaccendere il sole. Il suo istinto le segnalò subito la presenza di un pericolo. Si sedette sull'erba umida di rugiada con un brivido. Ronan era lì sdraiato, a un metro da lei... ma aveva l'aspetto di una statua di panpepato! Una statua di panpepato della stazza di un bambino di dieci anni. Dal suo corpo soffice si sprigionava un forte odore di miele.
«Hai visto?» chiese mentalmente al cane blu. Non ricevendo risposta, si voltò verso l'animale per scuoterlo... anche il cane blu si era trasformato in una statua, con l'unica differenza che era di cioccolato, dalla punta del muso all'estremità della coda. Di cioccolato al latte. Questa volta non riuscì a dominare la paura e cacciò un urlo. Sébastian sobbalzò, stropicciandosi gli occhi. Allungò la mano e appoggiò le dita prima sul bambino, poi sull'animale. «Santo cielo!» esclamò. «È proprio panpepato... e quest'altro, del vero cioccolato.» «È colpa del miele e delle palline al cacao» balbettò Peggy lottando per non sciogliersi in lacrime. «Lo temevo.» «Tranquillizzati, è una cosa temporanea» fece Sébastian. «Il sergente ne parlava al campo d'addestramento... Sul momento avevo pensato che farneticasse.» «Che cosa diceva?» si spazientì Peggy, senza osare accarezzare il cane blu per paura che gli si sciogliesse tra le dita. «Non me lo ricordo più con precisione» si scusò Sébastian. «Mi pare che parlasse di un maleficio che non durava più di ventiquattr'ore... Sì, dovrebbe essere così. Se uno tiene al riparo le vittime di una qualunque stregoneria per un giorno intero, riprendono il loro aspetto normale allo scoccare della ventiquattresima ora.» «Ne sei sicuro?» «Sì... o almeno credo. Non lo stavo a sentire. La scuola non è mai stata il mio forte, mi sono sempre annoiato da morire.» Peggy strinse i denti. Osservando la statua di cioccolato sdraiata nell'erba, ebbe l'esatta percezione di quanto teneva al cane blu. Le grida avevano risvegliato Olga. Anche la ragazzina faticò a persuadersi di non sognare. Appoggiò la mano sul viso di Ronan, la ritrasse precipitosamente... e si leccò le dita. «Ha un buon sapore» mormorò. A quelle parole, Peggy si sentì la pelle d'oca sulle braccia. Dentro la prima trappola ce n'è un'altra, pensò. Come le bambole russe. Non osò formulare i suoi timori a voce alta, ma nello sguardo di Sébastian colse una scintilla che la diceva lunga. «Dobbiamo andarcene» decise. «Con il caldo, l'odore del miele diventerà più intenso, e saremo incapaci di resistere. Faremo la fine di Ronan.»
«Non possono più camminare» osservò Sébastian indicando le due 'statue' di dolciumi sdraiate sull'erba. «Dovremo caricarcele sulle spalle.» «Tu ti occuperai di Ronan,» disse Peggy Sue «io prenderò in braccio il cane.» «Si scioglierà» le fece notare il ragazzo. «È di cioccolato al latte. È molle.» Peggy Sue ci rifletté sopra. «So io come fare! Prenderò quelle foglie e ce lo avvolgerò dentro, così le mie mani non saranno a contatto con la sua... 'pelle'.» Si rese conto che farfugliava e preferì rimanere in silenzio. Con il coltello, tagliò diverse grosse foglie verdi per impacchettare il cane blu. Sembrava fragile e aveva paura di romperlo accidentalmente mentre lo maneggiava. Terminata l'opera, si strinse al petto il prezioso pacco e si mise in marcia. Tremava all'idea di mettere il piede in fallo, di perdere l'equilibrio. Se il cane blu fosse caduto a terra si sarebbe rotto... Peggy sentì che il sudore le imperlava la fronte. In quel preciso istante, ebbe la certezza che la luce del sole era aumentata di una tacca. Faceva molto più caldo. Ecco dunque come funziona questa trappola, disse tra sé. Appena qualcuno si trasforma in cioccolato i giardinieri fanno salire la temperatura, così comincia a liquefarsi... quando poi si è completamente sciolto, non ha più alcuna possibilità di raggiungere il castello. Era davvero diabolico. Misurò con lo sguardo la distanza che li separava dal sentiero di ciottoli bianchi. «Andiamo» decise. «Cerchiamo di camminare il più possibile all'ombra dei fiori.» Sébastian si era assicurato Ronan sulla schiena, avendo cura tuttavia di non stringere troppo le corde, perché la statua di panpepato era abbastanza fragile e bisognava evitare che si spaccasse in due! Le felci ostacolavano la loro marcia. Un boschetto di rovi li obbligò a una deviazione di diversi chilometri. Peggy Sue soffriva per il caldo e per il peso del cane blu che le segnava le braccia. Stava ben attenta a non schiacciarlo troppo contro il petto per paura che si sciogliesse, ma, a causa del terreno in pendenza, era comunque costretta a tenerlo saldamente, per-
ché se le fosse sfuggito si sarebbe frantumato in mille pezzi. Il caldo si fece così intenso che dovettero fermarsi; grondavano di sudore. Deposero le due 'statue' all'ombra di un albero. A dispetto della calura, Peggy Sue aveva fame. È strano, rifletté, Sébastian mi aveva assicurato che all'interno del miraggio non si sentiva il bisogno di mangiare. Cercò di pensare ad altro, ma il suo stomaco iniziò a emettere dei gorgoglii. Capì all'improvviso che il secondo prato era in realtà un autentico inferno della golosità. Tutto era studiato perché i bambini cedessero alla tentazione. Si asciugò la fronte col rovescio della manica. Il profumo di panpepato stava diventando irresistibile. Olga, inginocchiata accanto a Ronan, abbozzò un gesto in direzione del ragazzo trasformato in dolce. «E se...» si arrischiò «e se ne assaggiassimo appena un pezzetto?» In un'altra occasione, Peggy Sue sarebbe insorta contro un'idea così rivoltante, ma oggi... in quel momento... in quell'istante, la proposta della bambina dalle trecce rosse non le pareva così mostruosa come avrebbe dovuto. «Guardate!» cercò di convincerli Olga «ha avuto sempre le orecchie a sventola, troppo grandi... non gli stanno bene. Direi che sono addirittura orribili. Se gliene tagliassimo un po' gli faremmo un bel servizio. Quando riassumerà sembianze umane sarà molto più bello... potrebbe addirittura ringraziarci.» «In effetti è abbastanza bruttino» osservò Sébastian. «Anche il naso è troppo lungo. Se gliene tagliassimo metà starebbe molto meglio. Ma guardatelo, sembra una proboscide!» «Giusto,» insisté Olga «con un nasino ridotto alla metà sarebbe davvero più carino.» Lanciando un'occhiata famelica a Sébastian, aggiunse: «Siamo d'accordo?» Avevano già, sia l'uno sia l'altro, estratto i loro temperini. Peggy Sue era come paralizzata, incapace di intervenire. Capiva che stavano cadendo tutti quanti nel tranello teso dai giardinieri, ma non aveva la forza di resistere. Riteneva anche lei che il naso di Ronan fosse troppo lungo. Olga aprì la lama del coltello e tranciò con delicatezza metà dell'appendice nasale del ragazzo. «Sì!» sbuffò. «Vedete? È davvero più aggraziato, così!»
Ma Sébastian e Peggy Sue non degnavano Ronan della minima attenzione; con l'acquolina in bocca, fissavano entrambi il pezzetto di panpepato che Olga stava dividendo in tre. Siccome uno dei tre pezzi sembrava più grosso degli altri, ci mancò poco che venissero alle mani. Sébastian pretese che le porzioni venissero misurate con precisione e si lamentò del fatto che non avessero a disposizione una bilancia. Quando Peggy si portò alla bocca la scaglietta di dolce profumato pensò di essere sul punto di svenire, tanto era squisito il suo sapore! Il guaio era che quella piccola leccornia aveva centuplicato il suo appetito. Non sognava altro che proseguire quel banchetto diabolico e concedersi una fetta più grande del 'dolce' sdraiato sull'erba. «Le orecchie...» balbettò Olga leccandosi le dita. «Adesso occupiamoci delle orecchie... sono brutte, no? Delle vere orecchie da elefante.» «Sì, sì» farfugliò Sébastian. «Mai visto nulla di così brutto... Taglia, taglia! È per il suo bene.» Peggy Sue avrebbe voluto gridare «Fermatevi!», ma ahimè, dalla sua bocca non usciva alcun suono. È terribile, disse tra sé, più ne mangeremo più avremo fame. Presto finiremo col convincerci che ha troppe dita, oppure che una gamba in meno non gli creerebbe il minimo problema! Non ebbe tuttavia il coraggio di rifiutare la sua porzione di scaglie di panpepato prelevate dalle orecchie di Ronan. Era ancora meglio del pezzettino di naso che aveva assaggiato poco prima! Il terrore s'impadronì di lei. Raddrizzandosi, urlò: «Fermatevi! Non vedete che cosa stiamo facendo? Se continuiamo così ce lo mangeremo tutto. È proprio quello che vogliono i giardinieri! Riprendiamo il cammino senza indugio e cerchiamo di pensare ad altro. Appena saremo usciti da questa zona il maleficio della golosità cesserà di tormentarci.» Sébastian e Olga la squadrarono, indecisi. Non sembravano in sé. Peggy Sue dovette alzare il tono e ordinare loro di mettere a posto i temperini. Obbedirono mugugnando. «È da scemi,» piagnucolò Olga «lo stavamo migliorando. Rifilando ancora un po' qua e un po' la, ne avremmo fatto un gran bel ragazzo.» «Ora basta!» s'inalberò Peggy. «Si riparte.» A malincuore, Sébastian si caricò sulle spalle la statua di panpepato. Peggy prese sottobraccio il cane blu e si portò alla testa della colonna. Sen-
tiva dei borbottii alle sue spalle ma cercava di non farci caso. Una fame da lupo le torceva le budella. Nel giro di un quarto d'ora, la vocina di Olga squarciò il silenzio. «Per Ronan lo capisco» diceva. «Saremmo cattivi a mangiarne un po' troppo... ma il cane, è diverso.» «Cosa?» singhiozzò Peggy stringendosi al fianco l'animale. «È solo un cane» cercò di convincerla Sébastian. «E nemmeno troppo simpatico, bisogna ammetterlo. Sempre a ringhiare, a mordere.» «Vi ricordo che ci ha salvato la vita più di una volta!» sibilò tra i denti Peggy Sue, in preda a un misto di rabbia e panico. «Ammettiamolo pure» si difese Sébastian. «Ma è bruttissimo.» «È vero» rincarò la dose Olga. «Non faremmo che migliorarlo, anche lui. A... Accorciandogli le orecchie, per esempio.» «E la coda...» aggiunse Sébastian. «E le zampe» proseguì l'elenco Olga. «Ha le zampe troppo lunghe. Sarebbe più grazioso con delle zampette... delle zampettine molto carine.» Terrorizzata, Peggy Sue affrettò il passo. Ma guarda un po' quei due rincitrulliti che volevano mangiarsi il suo cane! «Non è carino da parte tua» piagnucolò Olga. «Potresti pensare ai tuoi compagni. Non ti chiediamo mica la luna! Gli taglieremo qualche pezzettino d'orecchio, tutto qui. Non sentirà niente.» «Tanto finirà per sciogliersi» affermò Sébastian in tono perentorio. «Sai che bel guadagno quando diventerà tutto molle!» «Non è buono il cioccolato, quando diventa molle» brontolò Olga. «Sarà uno spreco. Faremmo meglio a dividercelo adesso.» Senza più ascoltarli, Peggy si mise a correre. Aveva paura di ciò che poteva passare per le loro teste. Non se ne parlava neppure di lasciarli ridurre a pezzetti il cane blu come una qualunque tavoletta di cioccolato al latte! E poi cos'altro ancora avrebbero escogitato? «Ingrata!» le gridò alle spalle Sébastian. «Che egoista!» si lamentò Olga. «Vuole mangiarselo tutto lei! Non ce ne lascerà nemmeno un pezzo!» Peggy scappò via, andando a sbattere sugli steli giganti. Era terrorizzata al pensiero che i suoi compagni potessero darle la caccia. Si procurò una storta alla caviglia e per due volte ci mancò poco che il cane blu le cadesse dalle braccia. Faceva ancora più caldo di prima e l'animale stava diventando sempre più molle. Continuando così correva il rischio di deformarlo in modo orrendo.
Scovato un pertugio d'ombra tra i cespugli, ci si sistemò come in una caverna, poi aprì le foglie che avvolgevano il cane blu e le utilizzò a mo' di ventagli per fargli aria. Si accorse che aveva cominciato a 'colare'. Le sue zampe erano più alte, il muso più lungo. Ammorbidendosi il corpo si era stiracchiato in tutte le direzioni. Non era orribile, ma sembrava che fosse diventato di un'altra razza. Decise di non toccarlo più e di attendere il suo risveglio. Da qualche parte nella giungla erbosa, Sébastian e Olga la supplicavano di tornare indietro. «Su!» gridavano «smettila di tenere il broncio. Non lo toccheremo, il tuo cane... o appena un po', non devi farne un dramma. Potrai fare un favore a dei compagni affamati, o no?» Peggy si guardò bene dal segnalare la sua posizione. Attendeva con impazienza l'arrivo della notte. Passò le ore seguenti a perfezionare il suo nascondiglio. Era preoccupata anche per Ronan, e sperava con tutto il cuore che Sébastian e Olga resistessero alla tentazione di mangiucchiarselo boccone dopo boccone. Faceva talmente caldo che sprofondò in uno stato di sonnolenza. Alla fine il sole si spense e arrivò una piacevole frescura. Il cioccolato di cui era ormai composto il cane blu cominciò a indurirsi. Peggy Sue passò una brutta nottata. Si risvegliava di soprassalto a ogni ora e allungava la mano per accertarsi che l'animale non si fosse sciolto. Alla fine si fece giorno e l'incantesimo svanì. Quando la ragazza si risvegliò, il cane blu le dormiva accanto. Era un po' più alto e più magro del solito e il suo muso affusolato lo rendeva simile a una volpe. Si scosse, ridestandosi con un guaito strozzato. «Che cos'è successo?» grugnì. «Non mi ricordo niente. Avevo quel sapore di cioccolato sulla lingua e poi...» S'interruppe per osservarsi le zampe. «Che cos'è?» guaì. «Non ero così prima d'addormentarmi... Sembro un levriero!» «Ti sei un po' fuso» gli spiegò Peggy. E iniziò a raccontargli le disavventure della vigilia. «Un levriero» fece il cane blu con tono sognante. «In un certo senso è più elegante... non mi dispiace.» «Tanto meglio,» sospirò Peggy Sue «perché non saprei davvero come fare per restituirti il tuo vecchio aspetto.» Si alzò.
«Vieni,» disse «dobbiamo raggiungere gli altri... Spero che Olga non si sia mangiata Ronan; ieri sembrava così affamata.» La ragazza e il cane uscirono dalla boscaglia. Dovettero buttare giù i cespugli per ritrovare i loro amici. Fortunatamente, Ronan era ancora intero. Un po' sbalordito, probabilmente, ma vivo... e integro. Curiosamente, le piccole orecchie e il naso accorciato lo rendevano più carino. «Che follia» sospirò Sébastian grattandosi la testa. «Non so cosa ci sia successo ieri, ma stavamo per combinarla davvero grossa.» «Eravamo nel bel mezzo dell'inferno della golosità» disse Peggy Sue. «Siamo sfuggiti per un soffio alla trappola dei giardinieri. Dovrà servirci di lezione. Oggi non toccheremo niente. In ogni caso abbiamo raggiunto le pendici della collina. Il sentiero bianco è dall'altro lato di questa siepe.» «Ti ricordi cosa diceva Nasty?» le obiettò Sébastian. «Se lo percorriamo cominceremo a rimpicciolirci... fino a diventare microscopici. Non possiamo passare di là.» «Andiamo a vedere di che si tratta» decise Peggy. Raccolto l'equipaggiamento, oltrepassarono la siepe che delimitava il secondo prato e si fermarono sul ciglio della stradina, stando bene attenti a non mettervi piede. Il sentiero era pulito, ben delineato, costituito da bei ciottoli bianchi. S'insinuava attraverso il giardino in direzione del castello, circondato da cespugli e boschetti, come le sponde di un fiume. «È davvero grazioso» osservò Olga. «Una stradina tutta bianca che si distende in mezzo ai fiori.» Aveva ragione. Il paesaggio faceva pensare a una cartolina, o a un'illustrazione in un libro di fiabe. Peggy Sue frugò nel suo zaino, ne estrasse una pala da campeggio pieghevole, e la gettò sul sentiero immacolato. «Non succede nulla» osservò Olga. «E se Nasty avesse mentito?» «Aspetta,» fece Sébastian «forse l'effetto non è immediato.» Si sedettero sull'erba, gli occhi fissi sul selciato bianco luccicante. Peggy socchiuse gli occhi perché era abbagliata dal riverbero. D'un tratto ebbe l'illusione che i contorni della pala si offuscassero. Per la frazione di un secondo, l'attrezzo divenne sfumato. «Hai visto?» domandò a Sébastian. «No» confessò il ragazzo. «È così rapido che non te ne rendi conto se non lo sai prima. Aspettiamo ancora un istante, poi confronteremo la mia pala con quella che sta nel tuo
zaino.» Poiché Olga si annoiava, dovettero porre fine all'esperimento. Con l'aiuto di un ramo, Peggy riportò la pala sul prato. Apparentemente non aveva subito nessun'alterazione, ma quando la sovrapposero a quella di Sébastian, si resero conto che era più piccola di tre centimetri. «Ecco qua» annunciò Peggy. «Si perdono tre centimetri ogni quindici minuti. Considerata la distanza che ci separa dal castello, saremo appena più alti di una formica quando arriveremo davanti al ponte levatoio!» «Siamo fregati» sospirò amaramente Olga. «E se tagliassimo per i cespugli di fiori, scateneremmo la loro collera. Nasty era solito dire che sono più feroci dei coccodrilli.» «Non so che fare» dovette ammettere Peggy Sue. «Se volete, posso darvi il mio aiuto» fece una voce profonda alle loro spalle. I bambini si voltarono tutti insieme. Era un albero, quello che aveva appena rivolto loro la parola. 18 Civetteria mortale A confronto degli alberi giganti che popolavano il giardino, questo era davvero piccolo: misurava appena quattro metri d'altezza. Pareva il prodotto di un curioso incrocio tra la specie umana e il mondo vegetale. Sembra un uomo mascherato da pianta, pensò Peggy. Meglio ancora, una pianta mascherata da uomo. Per farla breve, era piuttosto strambo. L'albero avanzò verso di loro, e poterono rendersi conto che al posto delle radici aveva dei piedi. «Non abbiate paura,» disse «malgrado il mio aspetto non sono una quercia, è solo un travestimento per camuffarmi, in realtà sono l'ultimo vero giardiniere del posto. Per questo mi nascondo. Tutti i miei colleghi sono stati sterminati quando le cose hanno cominciato a volgere al peggio. Io sono sopravvissuto perché sono stato abbastanza furbo da camuffarmi... ma non restiamo qua, venite nel mio laboratorio, lì potremo discutere con calma.» Molleggiandosi s'inoltrò in un sentiero infossato. I bambini decisero di seguirlo perché era più grottesco che spaventoso... e del resto non avevano
altra scelta. L'albero li condusse all'ingresso di una caverna nascosta nell'edera. Dietro questo sipario vegetale, si apriva una grotta stracolma di flaconi, pentole e strani ortaggi. Era un laboratorio; fluidi dai colori inverosimili gorgogliavano dentro alambicchi e serpentine di vetro. «È qui che ho fabbricato, durante tutta la mia vita, i semi delle piante magiche del giardino» spiegò malinconicamente l'albero. «Lavoravo serenamente assieme ai miei amici, facendo a gara a chi inventava il fiore più stupefacente, il profumo più impensato.» Si lasciò sfuggire un sospiro. Peggy Sue ne approfittò per osservarlo meglio. Sulla testa, al posto dei capelli aveva dei ramoscelli fronzuti. Anche le braccia avevano l'aspetto di grossi rami, e il corpo era ricoperto di scaglie di legno che cigolavano a ogni suo movimento. Quella corazza sembrava dargli fastidio perché si muoveva con un certo impaccio. «Mi chiamo Bézelius,» disse «Zorn Bézelius, ed ero primo giardiniere alla corte del genio addormentato.» «Quale genio?» domandò Peggy Sue. «Quello che oggi chiamano il 'demonio'» spiegò l'albero cercando di mettersi seduto. «Un tempo, quand'ero giovane, era ancora un bambino, e il castello era poco più grande di una casa di bambole.» «Il genio dormiva già?» si stupì Olga. «Sì» fece Bézelius. «Dorme sempre. La sua occupazione consiste nel sognare e creare universi meravigliosi che fanno dimenticare alla gente le amarezze della vita. Questi sogni sono come bolle trascinate dal vento; quando escono dal miraggio irrompono nel mondo reale ed entrano nella testa delle persone addormentate. Nel momento in cui ciò accade, gli esseri umani si mettono a sognare cose straordinarie che li riempiono di felicità. È così che nascono le opere d'arte... in particolare i romanzi.» Intuendo che Bézelius stava per imbarcarsi in un discorso tanto melanconico quanto interminabile, Peggy Sue gli chiese: «Ma un giorno è andato tutto a rotoli, vero?» «Sì» fece il vecchio giardiniere. «Nessuno sa il perché. Le piante sono diventate cattive, pericolose. I miei compagni e io stesso siamo stati rimpiazzati da quegli orribili scheletri con le mani a forma di rastrello. Gli incantesimi del giardino sono diventati dei malefici. E il genio si è trasformato in un demonio.» Allungò la 'mano' con le dita coronate da foglioline verdi in direzione di una coppa piena di semi multicolori.
«Sono sopravvissuto mangiando queste sementi magiche» spiegò. «Hanno il potere di farti assumere l'aspetto di un albero per alcune ore. Ahimè! A furia di prenderle, finisci per trasformarti realmente in un albero! È quello che mi sta succedendo. Le mangio da così tanto che mi sono intossicato. Presto i miei pensieri umani si cancelleranno e non avrò più neanche la consapevolezza di essere stato un uomo.» «E se la smettesse?» propose Peggy. Bézelius si strinse nelle spalle, e la corteccia emise un orribile cigolio. «Troppo tardi» disse in un sussurro. «E a ogni modo è un'ipotesi che non posso nemmeno prendere in considerazione, perché gli scheletri con le mani a rastrello mi eliminerebbero. Avete avuto un bel coraggio, ma siete stati anche molto fortunati. Pensavo che non ce l'avreste fatta a superare le trappole della golosità. So di cosa parlo, quando un bambino si trasforma in una statua di panpepato o di cioccolato in genere finisce per essere sbranato dai suoi compagni. Ho visto persino un ragazzo con la mano destra trasformata in un pezzo di torrone... non è riuscito a resistere alla tentazione di sgranocchiarsela da solo, un dito dopo l'altro! Hai voglia a sapere che si tratta della tua stessa mano, non puoi farci nulla!» «Che orrore!» esclamò Peggy con un singulto. «Conosco il vostro obiettivo» riprese Bézelius. «Volete penetrare nel castello e risvegliare il demonio addormentato. Il problema è che molti dei vostri compagni hanno già tentato la stessa cosa, ma sono rimasti tutti quanti vittima del sentiero di ciottoli bianchi. Quelli che ci si sono incamminati erano convinti che, correndo, avrebbero raggiunto il castello prima di diventare troppo piccoli... ma si sbagliavano. La strada è molto più lunga di quanto si pensi. Giunti appena a metà percorso si è già ridotti alle dimensioni di una coccinella.» «Quindi è impossibile?» chiese Sébastian con rabbia. «Per la strada, sì» confermò Bézelius. «Non esiste alcuna contromisura. Solo i giardinieri-scheletro sono immuni dai malefici del giardino e possono andare dove gli aggrada senza subire danni. Ma ciò è dovuto anche al fatto che non sono veri esseri viventi.» «Ha detto 'per la strada',» intervenne Peggy Sue «questo significa che esiste un'altra possibilità?» L'albero si agitò producendo un concerto di cigolii. «Sì» disse alla fine. «Ne ho parlato con i vostri predecessori, ma non mi hanno voluto credere. Mi hanno trattato come un vecchio pazzo. L'unico modo per raggiungere il castello è tagliare per i cespugli di fiori.»
«I fiori assassini?» chiese Ronan con un singulto. «Non erano così, una volta» sospirò Bézelius. «Certo, erano già civettuoli, ma non al punto da essere gelosi gli uni degli altri e farsi la guerra reciprocamente.» «Si odiano?» chiese Peggy, stupita. «Sì» confermò il vegliardo. «Sono vanitosi, ossessionati dalla bellezza. Hanno un'idea fissa: essere più affascinanti dei loro vicini, diventare i principi del giardino. Se penetrate nel loro territorio non avranno pietà. Vi pungeranno con le loro spine avvelenate e, quando sarete morti, vi seppelliranno nel terreno per utilizzarvi come concime. Sono sempre a caccia di novità che possano renderli più belli. Vedranno in voi una riserva di vitamine fresche. Oppure, sempre per mezzo delle loro spine, vi vampirizzeranno. Aspireranno i vostri liquidi vitali e utilizzeranno la vostra carne per conferire ai loro petali la tessitura della pelle umana. Un tempo erano semplicemente belli, oggi sono diventati anche carnivori. Ogni cosa può contribuire a renderli più affascinanti. Non pensano ad altro.» «Non capisco come sia possibile camminarci in mezzo» osservò Peggy Sue, in preda allo sconforto. «E invece esiste un modo» obiettò Bézelius. «Un'arma di mia invenzione. Finora nessuno l'ha voluta utilizzare, ma credo che sia l'unica maniera di abbindolarli.» Con le mani a forma di ramoscelli aprì una cassapanca. Dentro vi giaceva una specie di fucile, in mezzo a un cumulo di cartucce. Ogni proiettile in realtà era un flaconcino pieno di un liquido bluastro. «Vedete,» cominciò «non è possibile uccidere i fiori. Sono troppo numerosi. Anche se riusciste a tagliarne uno, gli altri avrebbero gioco facile a neutralizzarvi. È impossibile combatterli. Bisogna agire d'astuzia... farsi furbi. Molto furbi. Credo di aver trovato l'arma ideale.» Peggy Sue e Sébastian si scambiarono una rapida occhiata. Si poteva fare affidamento su quello strano vegliardo per metà trasformato in albero? «I fiori comunicano tra loro attraverso i profumi» riprese Bézelius. «Muovono i petali diffondendo nell'aria degli odori che sono come parole, frasi... Il tale profumo vuol dire: 'Ho caldo, vorrei proprio essere innaffiato', un altro significa: 'Pidocchi in arrivo, uccidiamoli!' e così via. Afferrato il principio?» I bambini annuirono. «Per comunicare con loro,» disse Peggy Sue «bisogna emettere odori
che siano in grado di decifrare?» «Proprio così» fece Bézelius. «Detestano gli odori umani perché gli uomini sono i loro nemici. Li tagliano, li raccolgono, e li immergono nell'acqua torbida di un vaso in cui non tardano a morire. Ecco perché conducono una guerra spietata nei confronti degli uomini. Ne hanno abbastanza di essere massacrati proprio al colmo della loro bellezza. Tuttavia, è possibile approfittare della loro vanità per raggirarli...» «E come?» lo interrogò Peggy. «Questo fucile spara delle cartucce contenenti un profumo che significa: 'Siete molto belli, i vostri colori sono stupendi, ecc.'. Sono parole che i fiori non si stancano mai di sentire. Quando si è prodighi di complimenti nei loro confronti, s'illuminano di contentezza e abbandonano ogni intento omicida. Sono felici e impiegano tutte le loro energie per allargare i petali, raddrizzare lo stelo, e per apparire ancora più belli. In quel frattempo non vi presteranno alcuna attenzione, e potrete camminare in mezzo a loro senza correre il rischio di essere crivellati di spine.» «Sembra troppo facile» bofonchiò Sébastian, diffidente. «No, ragazzo,» fece Bézelius «non lo è, perché il profumo delle cartucce, una volta sparsosi nell'aria, non dura in eterno. Appena svanito il suo effetto, i fiori riemergeranno dal loro stato di beatitudine e si accorgeranno della vostra presenza... allora dovrete premere di nuovo il grilletto del fucile. Non vi nascondo che il pericolo è grande. Non so se disporrete di munizioni profumate a sufficienza per raggiungere il castello. Ciascuna palla di vetro elargisce un complimento oltraggiosamente adulatorio, ma non è un problema perché i fiori sono privi di spirito critico.» Prese una delle cinture di cuoio. Gli strani proiettili di cristallo erano allineati l'uno accanto all'altro, ognuno infilato in un passante. «Questo significa: 'sono affascinato dalla bellezza del suo colore',» spiegò «quest'altro: 'il suo profumo non ha eguali'... Ho utilizzato odori che tutti i fiori possono comprendere. Il fucile è una sorta di nebulizzatore, spedisce l'odore sopra i fiori, di modo che lo percepiscono più in fretta e dura più a lungo. Fate attenzione: se cadete, le cartucce si spaccheranno, e la terra si berrà tutto il profumo.» Peggy Sue aggrottò le sopracciglia. Non era una decisione facile da prendere. «Che cosa ne pensi?» domandò mentalmente al cane blu. L'animale non rispose perché era intento ad ammirarsi in un vecchio specchio. Da quando somigliava a un levriero non si stancava mai della
sua immagine. «Secondo me non abbiamo scelta» bofonchiò Sébastian. «Tutto sta a sapere se avremo cartucce a sufficienza per coprire la nostra avanzata.» «Questo, poveri ragazzi miei,» sospirò Bézelius «non sono in grado di dirvelo. Fino a oggi nessuno ha voluto correre questo rischio. Hanno scelto tutti quanti il sentiero bianco. Come avrete notato, sembra che adesso nessuno ci stia camminando, eppure posso assicurarvi che è pieno di gente. Semplicemente, quelli che lo stanno percorrendo sono più piccoli di un microbo!» Peggy Sue ebbe un pensiero per i bambini portati via dai raccoglitori. In quel momento erano prigionieri del castello in uno dei tanti locali della cucina, in attesa che uno scheletro-sguattero li introducesse nel prossimo pasto del demonio. «D'accordo,» annunciò «faremo come dice. Ci mostri come funziona il fucile.» Bézelius l'assecondò. In realtà non era complicato, la lezione fu di breve durata. Osservando il cane blu che continuava a rimirarsi nello specchio, Peggy Sue ebbe un'idea. «Ci sono altri specchi come quello?» domandò. «Sì,» fece il vegliardo «dovrebbero essere nel magazzino in cui ammucchiavamo i mobili usati del castello. Ma sono tutti incrinati o pieni di macchie d'umidità.» «Non ha importanza. Ci serviranno da scudi. Se i fiori sono vanitosi come dice, non resisteranno al piacere di contemplare il loro riflesso in uno specchio... questo potrebbe salvarci la vita, se rimanessimo a corto di cartucce.» «Che idea formidabile!» si entusiasmò Bézelius. «Ma perché non ci ho pensato io stesso? Forse perché ragiono sempre di più come un albero. Si avvicina il giorno in cui finirò per dimenticare di essere stato un uomo.» «E se provassimo ad attraversare i cespugli di notte, quando i fiori dormono?» propose Sébastian. «No,» rispose il giardiniere «non ve lo consiglio. Primo, perché finireste ben presto per smarrirvi nell'oscurità. Inoltre, il ponte levatoio rimane sollevato fino al mattino e ammesso che, per miracolo, riusciate a localizzarlo, sarete costretti ad aspettare il sorgere dell'alba in mezzo ai fiori. Ma questi, al risveglio, sono estremamente imbronciati. Hanno i petali tutti spiegazzati, il che li mette di cattivo umore. Il momento migliore per tenta-
re la traversata è il primo pomeriggio, quando si sono rimpinzati di sole. Sono satolli, pesanti, in fase di 'digestione'. Ciondolano sugli steli, in preda alla sonnolenza... è a quel punto che bisogna andare. Il loro torpore vi proteggerà. Se li bombardate di complimenti profumati, si lasceranno cullare e non vi degneranno della minima attenzione.» * Passarono il resto della giornata a fabbricare degli scudi utilizzando gli specchi recuperati dal magazzino del castello. Alcuni erano in uno stato davvero pietoso, ma cercarono di ripulirli il meglio possibile. «Appena un fiore si chinerà verso di noi, basterà rannicchiarsi dietro lo specchio» spiegò Peggy. «Così non vedrà altro che la propria immagine. Con un po' di fortuna, questo lo terrà impegnato quanto basta perché si dimentichi della nostra presenza.» Terminata l'opera, i bambini si radunarono attorno al vecchio giardiniere per attendere il momento in cui i servitori del demonio addormentato avrebbero spento il sole. Bézelius sgranava i ricordi del tempo che fu, quando tutto andava bene, quando il giardino era ancora un luogo di meraviglie. Parlava con un tono così basso che era difficile capire le sue parole. Peggy Sue si sentiva vinta da una malinconia che le faceva quasi venir voglia di piangere. Bézelius finì per assopirsi. Con gli occhi chiusi, assomigliava a tal punto agli altri alberi che sarebbe stato difficile immaginare la presenza di un essere umano sotto quella corazza in forma di corteccia. I bambini si ritirarono in punta di piedi per andare a dormire nella caverna. Volevano approfittare di un po' di riposo perché l'indomani si preannunciava una giornata tremenda. Peggy si assopì con il cane blu rannicchiato vicino a sé. Fuori, qualcuno azionò l'interruttore del sole, e sul giardino stregato calarono le tenebre. 19 Le regine della morte Bézelius li svegliò all'alba. «Dovete andare a prendere dell'acqua per lavarvi» spiegò. «È importante. I fiori hanno ribrezzo dell'odore umano o animale. Bisognerà insaponarsi, e soprattutto tirare a lucido quel cane. Dovrete evitare di correre per non sudare. I fiori percepiscono subito le zaffate di sudore; si offendono e
reagiscono violentemente. Lì c'è un sapone magico che ritarda la formazione dei cattivi odori, ma oggi farà caldo ed è molto probabile che suderete.» «Dove si trova l'acqua?» chiese Peggy. «Da quella parte» fece Bézelius. «Nascondetevi sul ciglio del prato e attendete il passaggio di un animale-cisterna. Quando allungherà la sua proboscide per innaffiare le piante, dovrete essere sufficientemente abili da raccogliere l'acqua.» Detto ciò, affidò ai bambini dei grossi secchi di lamiera ammaccata. I ragazzi cominciarono a brontolare perché a nessuno piaceva lavarsi. «Il bello all'interno dei miraggi,» bofonchiò Ronan «è che non c'era la scuola e non eravamo obbligati ad andare in bagno. Mi domando se riuscirò a riabituarmi a queste due cose, quando torneremo nella realtà.» Peggy Sue dovette soffocare un brivido quando la sagoma del dinosauro-serbatoio si stagliò in fondo al viale. Era ancora più grosso che nei suoi ricordi. Il mostro aveva dispiegato la sua proboscide e inzuppava i cespugli come se dovesse spegnere un incendio. «Speriamo di non finire annegati!» sussurrò a Sébastian. «Hai visto quant'è potente il getto?» Rannicchiati in fondo a una fratta, si abbarbicarono alle radici per paura che la massa liquida li trascinasse via. Buon per loro, perché furono travolti in pieno da un'ondata d'acqua e credettero di soffocare. Quando l'incredibile animale si allontanò, recuperarono i secchi pieni e fecero ritorno alla caverna. Durante la loro assenza, Bézelius aveva improvvisato un bagno a cielo aperto posizionando delle grosse tinozze di legno e dei paraventi. Peggy Sue trovò divertente lavarsi col sapone magico che produceva una schiuma dorata. Le dava l'illusione di avere tra le mani un lingotto d'oro che si scioglieva. Dopo essersi asciugati e rivestiti, i bambini dovettero convincere il cane blu a imitarli; non fu affare da poco perché si rifiutava di saltare nella tinozza. Riuscirono a insaponarlo solo a forza di coccole, ma il cane rimase scioccato da quell'esperienza, e per tutta la durata dell'operazione si ostinò a mordere le bolle che svolazzavano nell'aria. Venne il momento di separarsi. «Vi auguro buona fortuna, ragazzi miei» sospirò Bézelius, consegnando
loro i fucili a profumo. «Non dimenticatevi i miei consigli e cercate di non soccombere al fascino dei fiori, faranno di tutto per uccidervi e utilizzarvi come concime. Ricordatevi sempre che la loro bellezza si nutre di cadaveri.» Peggy lo ringraziò per la sua cortesia. «Mi sistemerò sul ciglio del prato per guardarvi partire» disse il vecchio. «Forse non ci rivedremo mai più, perché tra poco concluderò la mia metamorfosi; quando ripasserete da queste parti mi sarò trasformato completamente in albero, e forse non vi riconoscerò neanche.» «È molto triste» disse Peggy Sue. «No,» fece il giardiniere «arriva un momento in cui bisogna riuscire a staccarsi dalle cose terrene, e sono sicuro che possa essere piacevole diventare una pianta. Lo saprò presto, in ogni caso.» I bambini si allontanarono rivolgendogli dei cenni di saluto. Peggy e Sébastian si erano allacciati al petto le cartucciere. Prima di mettersi in marcia, la ragazza aveva introdotto due proiettili di cristallo nella doppia canna del fucile a profumi. Giunsero finalmente al limitare dei cespugli. I colori dei fiori vibravano nella luce con una tale intensità che Peggy Sue dovette socchiudere le palpebre per non restare abbagliata. C'erano moltissime rose, blu, gialle, violette, rosse... persino dorate! Ondeggiavano pigramente nell'aria calda, con la corolla rivolta al sole per rimpinzarsi di quanta più luce possibile. Peggy e Sébastian, alla testa del gruppetto, s'immobilizzarono, soffocati dalla violenza dei profumi che fluttuavano nei pressi dei fiori. Erano così densi che davano la sensazione di sbattere contro un muro invisibile. «È impossibile,» sbuffò il ragazzo «finiremo asfissiati se entriamo là dentro!» A Peggy Sue tornò in mente un aneddoto raccontato da Bézelius la sera prima. Il giardiniere sosteneva che i fiori si servivano dei profumi per addormentare gli uccelli che commettevano l'imprudenza di volare sopra di loro. «In questo modo» aveva concluso «si schiantano al suolo e i fiori li utilizzano subito come concime.» «Cerchiamo di trattenere il respiro» suggerì Peggy Sue. Erano preoccupati perché la distanza da percorrere sembrava immensa. Più di tutto, Peggy temeva che una volta entrati nella fitta massa vegetale potessero smarrirsi.
Se cominciamo a girare in tondo, pensò, finiremo per sprecare tutte le munizioni. I fiori erano troppo alti per essere un riferimento ai loro occhi. Una volta addentrati tra gli steli, sia il cielo sia il castello sarebbero scomparsi alla vista. «Andiamo» si convinse. «Dobbiamo arrivare laggiù prima che i giardinieri comincino a pensare al pranzo del demonio.» Con le dita strette sul fucile, la ragazza si diresse risoluta verso la muraglia di steli spinosi che ostruiva l'orizzonte. Era pienamente cosciente del pericolo che correva. Alle rose sarebbe bastato stringersi le une contro le altre per dilaniare gli intrusi. I loro aculei ci avrebbero messo poco a infilzare quei giovani imprudenti che si erano creduti abbastanza furbi da attraversare la zona proibita. «Hai visto quanto sono grosse le spine?» mormorò Sébastian. «Sembrano zanne di dinosauro.» «Stai zitto!» lo rimproverò Peggy «Non c'è bisogno di spaventare i bambini.» Pensava a Olga e Ronan, con gli occhi già sgranati dal terrore. Forse sarebbe stato meglio lasciarli in compagnia di Bézelius, osservò, poi si rammentò che Olga e Ronan avevano manifestato più di una volta l'intenzione di andare fino in fondo. Del resto, non conosceva la loro vera età, poteva darsi benissimo che i due 'bambini' fossero in realtà molto più vecchi di lei. A denti stretti, entrarono nella giungla di rose. Sembra un ballo di società, pensò Peggy. Con le nobildonne gelose della loro bellezza, pronte ad assassinare le rivali pur di essere le sole a indossare l'abito più elegante. Le piante erano così fitte che dovevano stare costantemente in guardia. Gli steli ondeggiavano senza posa, e le spine, ricurve come sciabole, sfioravano la schiena dei bambini. Per ben tre volte Peggy dovette saltare di lato per evitare che la squartassero. «Non hanno ancora capito che siamo qui» le sussurrò mentalmente il cane blu. «Non so ancora per quanto. Sono come intorpidite dal calore.» Faceva terribilmente caldo a livello del terreno, e l'umidità era così intensa che i bambini avevano l'impressione di spostarsi in un bagno di vapore. Cominciarono a sudare. Peggy si rese conto che li avevano scoperti quando una prima rosa si abbassò verso di lei per esaminarla. Gli enormi petali smuovevano l'aria co-
me le orecchie di un elefante. La corolla emanava un profumo così violento che la ragazza pensò di essere sul punto di svenire. Se si mettono tutte assieme a guardarci da vicino, è la fine..., pensò imbracciando il fucile. Sentiva che il cervello le si stava paralizzando, gli occhi si chiudevano da soli come se stesse respirando un sonnifero. L'arma fece 'pluf', e la cartuccia di cristallo esplose proprio all'altezza della corolla. Un profumo che significava: Sei bellissima, non avrai mai rivali, torna ad abbuffarti di luce... si diffuse tra gli steli. Per i giovani avventurieri era solo un odore tra gli altri, ma i fiori parvero soddisfatti e distolsero l'attenzione dai minuscoli intrusi. «Presto,» ansimò Peggy «Bézelius ha detto che l'effetto non dura molto.» Cominciò allora una pericolosa corsa tra le spine. Dovevano avanzare il più in fretta possibile senza deviare dalla direzione iniziale. Adesso erano tutti quanti in un bagno di sudore ed emanavano un intenso olezzo che urtava la suscettibilità olfattiva delle rose. Erano sempre più numerose a sporgere la testa per vedere cosa succedeva... e qual era l'origine di un simile tanfo! Peggy Sue continuava a ricaricare senza sosta il fucile e a sparare nuove scariche protettrici. Che distanza abbiamo percorso? continuava a ripetersi. Siamo ancora nella direzione giusta? Non era più sicura di nulla e tremava al pensiero di girare in tondo. Ben presto la sua cartucciera si esaurì, dovette passare il fucile a Sébastian. Il viso del ragazzo era grondante di sudore ma cercava di non dare a vedere il panico che lo attanagliava. «Siamo sulla buona strada?» domandò Peggy al cane blu. «Non so,» confessò l'animale «il profumo delle rose è talmente potente che neutralizza il mio fiuto. Ho come l'impressione di essere immerso in una bottiglia d'acqua di colonia!» Peggy serrava le mascelle a ogni detonazione del fucile. Anche la cartucciera di Sébastian si stava per svuotare. A quel ritmo sarebbero rimasti presto senza munizioni. «Proviamo con gli scudi! Sollevate gli specchi sopra la vostra testa. Con un po' di fortuna, i fiori si troveranno così belli che si dimenticheranno di noi!» I bambini obbedirono e si affrettarono ad afferrare gli specchi incrinati
che finora avevano portato a tracolla. Li brandirono verso il cielo, a braccia tese, come per proteggersi da un acquazzone. Le rose s'immobilizzarono, sorprese dalla propria immagine. Agitavano la corolla, con civetteria, tentando di esaminarsi da ogni angolo. Approfittando di questo momento di tregua, i bambini ripresero a correre attraverso la giungla di spine. Ahimè, i fiori, insoddisfatti per non potersi esaminare a loro piacimento, sbarrarono il passaggio. Per continuare ad avanzare dovettero abbandonare gli specchi. «Mi restano solo una decina di cartucce» ansimò Sébastian. «Spero che diffondano complimenti convincenti, perché le rose stanno cominciando a innervosirsi.» «Credo che siano ancora più vanitose di quanto immaginasse Bézelius» sospirò Peggy Sue. «I profumi nelle pallottole di cristallo non sono abbastanza adulatori. Più ci avviciniamo al castello, più si farà difficile. Noi glielo diciamo che sono belle... ma il problema è che lo sanno già. Vogliono di più!» La ragazza dovette saltare da un lato per evitare di essere graffiata da uno stelo irto di spine. «Coraggio» incitò Ronan e Olga. «Non dovrebbe mancare molto all'ingresso!» Tremava al pensiero che i giardinieri - intuendo che i bambini stavano per farcela - decidessero di sollevare il ponte levatoio. Sarebbe il colmo! disse tra sé. Ci troveremmo abbandonati alla furia delle rose, e appena sparate le ultime cartucce... Preferì non pensare a cosa sarebbe successo in quel caso; afferrando Olga e Ronan per la mano, se li trascinò dietro. Un gran pandemonio agitava adesso le rose, ed era già tanto se prestavano più di tre secondi d'attenzione ai profumi spruzzati dai proiettili di cristallo. I complimenti olfattivi elaborati da Bézelius non erano abbastanza adulatori per i fiori, suscitavano in loro persino un certo fastidio. Ma come! Per chi le prendevano? Le ritenevano così sciocche da accontentarsi di lusinghe talmente volgari? Meritavano di più! Molto di più! Esigevano dei veri e propri poemi odorosi, opere d'arte, dichiarazioni appassionate... Non erano forse le principesse del giardino? I miseri profumi spruzzati da quei bambini erano oltraggiosi! Lusinghe di basso livello di cui poteva ritenersi soddisfatta una contadinella, una domestica... ma loro! Loro! Quando ci si rivolgeva a nobildonne del loro lignaggio era opportuno darsi un po' più
d'affanno! Oh, com'erano irritanti quei bambini! Maleducati! E insolenti! Non avevano la minima idea dei riguardi che bisogna portare a una testa coronata! Meritavano una bella lezione: li avrebbero graffiati fino a spellarli vivi. Poi, li avrebbero seppelliti per rigenerare la terra del giardino, a beneficio di tutte. «Stavolta siamo fregati!» ansimò Sébastian ricaricando per l'ennesima volta la sua arma. «Mi restano solo sei cartucce.» «Di là!» gridò all'improvviso il cane blu. «Dobbiamo andare da quella parte... fiuto odore di pietre. Il castello dev'essere vicinissimo.» Scattarono, mentre le rose continuavano a contorcersi in ogni direzione per cercare di scuoiarli vivi. I vestiti di Peggy Sue erano ridotti a brandelli. Sébastian svuotò l'arma senza risultato; i fiori non si davano neppure più la briga di raddrizzare le corolle per decifrare i complimenti nebulizzati nell'aria. Quando credeva che fosse ormai suonata la sua ultima ora, Peggy cozzò contro un enorme muro di pietra bianca. Le asperità dei blocchi erano talmente grandi che ci si poteva arrampicare senza difficoltà. Prese in braccio il cane blu e, con una sola mano, cominciò a scalare la parete. Fortunatamente le sporgenze della roccia offrivano prese facili, e riuscì a issarsi rapidamente sopra il livello dei fiori. Giunti in salvo, abbastanza in alto da sfuggire alla collera delle rose, furiose per la fuga delle loro prede, i bambini capirono che stavano scalando una delle quattro muraglie del castello. Avevano raggiunto la loro meta. 20 Il labirinto di pietra bianca Peggy Sue ebbe l'idea di spostarsi lungo la muraglia utilizzando gli interstizi tra le pietre. In effetti, il cemento che sigillava gli spazi tra i giganteschi blocchi formava una sorta di cornice su cui ci si poteva muovere a quattro zampe. Il passaggio in ogni caso era assai stretto, e in certi punti il cemento si sfarinava, sicché c'era il rischio di perdere l'equilibrio e precipitare nel vuoto... nel bel mezzo delle rose infuriate. Peggy avanzava evitando di guardare in basso. I profumi emanati dai fiori le facevano girare la testa e temeva di svenire. «Cerca di trattenere il respiro!» la esortava mentalmente il cane blu. «Il
ponte levatoio sta proprio dritto davanti a te.» La ragazza cercò di muoversi più rapidamente. Il cemento ruvido le graffiava le mani e le ginocchia. I petali che si aprivano e si richiudevano ricordavano il gracchiare penetrante di uno stormo di corvi. Finalmente il cane blu saltò giù dal cornicione atterrando sul ponte levatoio. La manovra si rivelò più difficoltosa per i bambini. Ronan per poco non precipitò nel vuoto. Peggy e Sébastian lo riafferrarono per un pelo. Olga, colta dalle vertigini, si rifiutò di saltare. Fu necessario confabulare per una buona mezz'ora per convincerla a lanciarsi nel baratro. Quando alla fine si ritrovarono riuniti sull'immenso ponte levatoio, si resero conto fino a che punto la traversata dei cespugli li avesse sfiancati. Rimasero seduti per un bel po' sulle tavole di legno tarlate. Peggy sollevò la testa per cercare di scorgere la sommità del torrione, ma dovette rinunciarci. Il castello era imponente come una montagna. Il camminamento di ronda si perdeva tra le nuvole, i tetti conici delle torri più alte erano ricoperti di neve. «Entriamo?» propose Sébastian. I cinque compagni si scambiarono un'occhiata. Bisognava pur decidersi ad andare avanti. Non potevano restare lì fino a notte. «D'accordo» disse d'un fiato Peggy. «Andiamo, ma con prudenza.» Il cane blu prese la testa del gruppo. Il portone d'ingresso era immenso. Sotto la volta della prima sala si sarebbe potuto costruire un palazzo di quindici piani. Peggy Sue e i suoi amici si sentivano minuscoli. Era tutto di pietra bianca. I giovani esploratori percorsero una stanza dopo l'altra, senza scoprire da nessuna parte la minima traccia di suppellettili. D'un tratto, Peggy avvertì una strana vibrazione sotto le scarpe, come se il pavimento si stesse muovendo. S'inginocchiò per toccarlo: non se l'era sognato, le lastre di pietra sussultavano veramente. «Crescono» le spiegò Sébastian. «Ti eri forse dimenticata che il castello s'ingrandisce ogni giorno che passa?» «Crescono?» ripeté Peggy, sbalordita. «Hai ragione... Guarda! Le dimensioni di quella pietra stanno cambiando! Diventa sempre più grande!» «Tutto diventa più grande, continuamente» mormorò il ragazzo. «Ogni pietra si sviluppa e s'ingrandisce, come un frutto che matura. È così che il castello invade a poco a poco lo spazio interno del miraggio. In origine questa era una costruzione di dimensioni assolutamente normali. Oggi è diventata un'autentica montagna. Una montagna che continua a emergere
dalla terra.» Peggy Sue si mordicchiò il labbro inferiore, gesto che in lei era segno di profonda riflessione. «Ma allora,» disse «se tutto continua a ingrandirsi incessantemente... ciò significa che i corridoi non smettono mai di allungarsi, che le stanze aumentano continuamente di volume... anche se ci mettessimo a correre saremmo condannati a rimanere sul posto!» «Non è improbabile» ammise Sébastian. «Ma a quanto pare, la crescita del castello è irregolare, il che ci lascia una possibilità.» «Irregolare?» chiese Olga, stupita. «Sì,» le spiegò Sébastian «quando la torre di sinistra, per esempio, si mette a crescere, quella di destra magari rimane immutata. Stessa cosa per i corridoi. È per questa ragione che il maniero ha quest'aspetto così bizzarro, storto.» Peggy Sue fissò il pesante portone dai battenti chiodati, in fondo alla sala. Non si stava forse allontanando? Sbatté le palpebre per vedere se si trattava di un'illusione ottica. Guardandosi intorno, si rese conto che non c'era cosa che fosse costruita dritta. Le feritoie erano tutte differenti l'una dall'altra e posizionate a diverse altezze. Alcuni gradini della scala erano più alti degli altri. «Cresce senza un criterio preciso» ribadì Sébastian. «Pare che ci siano delle porte che non servono a nulla, delle scale che non conducono da nessuna parte, delle stanze senza porte né finestre in cui non può entrare nessuno. Bisogna stare attenti, è facile perdersi in un labirinto del genere, specie se durante la notte spunta fuori un nuovo corridoio!» «D'accordo,» fece Peggy Sue «staremo in guardia. Ma adesso dobbiamo prendere una decisione. In quale corridoio ci avviamo? Ne hai la minima idea?» «No» dovette riconoscere Sébastian. «Credo che siamo i primi a entrare qui.» Ciò non facilitava le cose. «Faremo dei segni sulle pietre» stabilì Peggy. «Così non rischieremo di girare a vuoto.» «Posso guidarvi io» intervenne il cane blu. «Sento degli odori. C'è qualcosa di vivo nel cuore del castello. Qualcosa di enorme.» «Il demonio addormentato?» suggerì Sébastian. «Forse» rispose il cane. «Ma non è solo. Sento altri odori... che però non riconosco. Delle cose che non sono né umane né buone... Vagano per i
corridoi.» «Penso proprio che si tratti dei servitori» prospettò Olga con un brivido di preoccupazione. «Dobbiamo andare» li ammonì Peggy. «Mentre noi ce ne stiamo qui a perdere tempo, la porta continua a indietreggiare. Se aspettiamo ancora, per raggiungerla dovremo fare il doppio della strada rispetto a quando siamo arrivati.» Si lanciarono in avanti. Non ci volle molto per rendersi conto che le varie stanze si somigliavano tutte. L'assenza di mobili, di armature, di quadri, privava il visitatore di qualsiasi punto di riferimento. Ogni cosa era costruita a dispetto del più elementare buon senso. «Avete visto?» sbottò Ronan. «C'è una porta sul soffitto!» «Il sole sta per spegnersi» fece notare Peggy. «Bisogna prepararsi per la notte. Tirate fuori le vostre torce e tenetele a portata di mano.» Appoggiarono a terra gli zaini. Il rumore più impalpabile destava strani echi lungo i corridoi. Schioccando le dita si originava un rullio di tamburi. Pronunciando una parola, quell'unica parola, sdoppiata all'infinito dall'effetto della risonanza, finiva per tramutarsi nel brusio di una folla in delirio. All'inizio la cosa era divertente, ma poi cominciava a farsi inquietante. «Fermatevi!» ordinò Peggy Sue. «Non c'è bisogno di segnalare la nostra presenza. I camerieri del demonio se ne accorgeranno presto.» Attesero dunque in silenzio lo scatto dell'interruttore che annunciava il calare della notte. Quando giunse quell'istante, le tenebre invasero il castello. Peggy Sue dovette trattenere l'istinto di accendere la lampada. Sforzandosi di mantenere la calma, si sdraiò sulla schiena e appoggiò la nuca sullo zaino, subito imitata dagli altri. «Riposati» le sussurrò mentalmente il cane blu. «Starò io di guardia.» Avevano da poco chiuso gli occhi che qualcosa li svegliò di soprassalto. Il pavimento tremava, l'intero castello rollava come una nave sballottata dalle onde. Peggy Sue fu scaraventata addosso a Sébastian, che, a sua volta, andò a sbattere contro Ronan. Quel pandemonio finì per terrorizzare Olga, che cacciò un urlo d'angoscia. Le torce si sparpagliarono alla rinfusa sul pavimento. L'intera struttura del maniero gemeva. Se non fosse stato costruito con l'aiuto della magia, si sarebbe polverizzato in un baleno, perché un edificio normale non avrebbe potuto resistere a un trattamento simile.
Peggy Sue si rialzò a tentoni. Si sentiva mancare il pavimento sotto i piedi. Percepiva i movimenti del castello sulle sue caviglie. Oscilla prima da un lato, poi dall'altro, e dopo ricomincia, pensò. Che cosa significa? Aggrappandosi alle asperità delle pareti, riuscì a sollevarsi fino all'altezza di una finestra. Il cane blu afferrò una lampada tra i denti e gliela portò. Grazie alle sue quattro zampe, godeva di maggiore stabilità rispetto ai bambini. Peggy accese la torcia e guardò all'esterno attraverso la feritoia. Ciò che vide le strappò un urlo di stupore. «Il... il castello ha le gambe!» balbettò. «Cosa?» gridò Sébastian. «Ha le gambe...» confermò Peggy. «Tre da questo lato, e probabilmente lo stesso numero dall'altro. Se ne serve per bilanciarsi. Sembrano come delle cosce di una rana gigante... ma di metallo. È... incredibile.» «E perché si agita così?» si lamentò Ronan. «Ma è evidente!» esclamò Olga. «Sta cullando il demonio... Ogni volta che il demonio minaccia di svegliarsi, il castello si comporta come una culla che fa la ninna nanna. Siccome siamo piccoli, questi movimenti ci sembrano violenti ma in realtà non lo sono affatto.» «Hai ragione!» sbuffò Peggy Sue. «È così! Ecco perché il genio non si sveglia mai, è prigioniero del castello come un neonato lo sarebbe di una culla stregata.» «Oh, è terribile!» gemette Sébastian. «Ho il mal di mare. Sto per vomitare!» Neppure Peggy stava benissimo. A ogni scossone del maniero si sentiva rivoltare lo stomaco. Si allontanò dalla finestra per paura di finire proiettata all'esterno. Le gigantesche gambe a tribordo continuavano a piegarsi e a distendersi cigolando. Ogni volta che l'edificio sembrava sul punto di rovesciarsi sul fianco destro, le gambe a babordo entravano in azione riportandolo in senso contrario. Un odore di grasso da macchina cominciava a pervadere l'aria man mano che gli ingranaggi si surriscaldavano. «Oooh!» frignò Olga «sto per sentirmi male! Spostatevi!» Peggy Sue la sentì vomitare. Qualcun altro la imitò poco dopo. * Trascorsero una nottata terribile perché i movimenti da bilanciere anda-
rono avanti per diverse ore e si arrestarono solo quando il demonio ripiombò nel suo sonno profondo, lasciando i bambini in uno stato di nausea comatosa. Ho come l'impressione di avere navigato in un mare in burrasca, pensò Peggy. Adesso capisco perché non ci sono mobili nelle stanze. Il dondolio li fracasserebbe. Quando il sole si riaccese, cercò di ripulirsi il meglio possibile. Questa disavventura la riempiva comunque di una certa soddisfazione, poiché cominciava finalmente a intravedere in che modo avrebbe potuto risvegliare il genio. Bisogna sabotare quelle gambe mostruose, disse tra sé. Impedire al castello di trasformarsi in culla. In questo modo il genio riemergerà dal sonno. Sì! Non male come avvio di controffensiva! Quando gli altri la raggiunsero, illustrò il suo piano. «Dobbiamo esplorare il maniero, scoprire dove si trovano quelle gambe meccaniche e chi le fa muovere. Distruggerle, se possibile.» «Ci saranno sicuramente delle sentinelle» osservò Sébastian. «Quelle gambe non sono certo arrivate qui da sole. Un tempo non c'erano, quando il genio conduceva un'esistenza normale. Dovremo stare in guardia.» Camminando rasente alle pareti, il gruppetto si lanciò alla scoperta dei luoghi. L'esperienza della notte precedente li aveva lasciati pallidi e con lo stomaco in subbuglio, ma cercavano di far buon viso a cattiva sorte. Peggy Sue si sentiva piena di una strana esaltazione. Era più felice qui, con i suoi compagni e il suo cane, che non fuori, nel mondo reale. All'esterno era una studentessa occhialuta, continuamente bersaglio delle prese in giro dei ragazzi; qui affrontava i giganti e dormiva dentro castelli magici. Era una vita veramente fantastica! Dopo aver errato a lungo, alla fine udirono russare in lontananza. Sotto i loro piedi c'era qualcuno che dormiva alla grande, di un sonno immenso che faceva tremare l'intera struttura dell'edificio. «È lui» disse Peggy Sue. «Il gigante. L'abbiamo trovato.» I bambini rimasero pietrificati, improvvisamente terrorizzati al pensiero di ciò che stavano per scoprire. Avevano superato più di un pericolo per arrivare fin qui ma adesso, sulla soglia dell'ultima tappa, il coraggio co-
minciava a venir meno. Peggy dovette scuoterli per convincerli a riprendere l'esplorazione. Il tempo stringeva. «Dobbiamo scendere» osservò. «Prenderemo la prima scala che ci consentirà di accedere ai piani inferiori.» Detta così, sembrava facile... Ahimè! Nell'ora che seguì constatarono amaramente che le serie di rampe che si trovarono di fronte a loro conducevano o ai piani superiori o... da nessuna parte, perché alcune terminavano semplicemente in un vicolo cieco. Inoltre, i corridoi avevano la sgradevolissima manìa di trasformarsi in labirinti. Viene quasi da pensare che mutino di forma alle nostre spalle, osservò Peggy. Come dei serpenti che strisciano ondeggiando. È mai possibile? Si guardò alle spalle, sperando di sorprendere i movimenti delle pareti in procinto di cambiare assetto. «Forse c'è soltanto un corridoio, un unico corridoio che si trasforma di continuo» mugugnò il cane blu. «Abbiamo l'illusione di avanzare mentre in realtà giriamo in tondo. Guarda: siamo già passati di qui, ecco il segno che avevi tracciato col gesso... eppure l'arredamento è diverso, non ho mai visto questa volta, né quelle finestre a ogiva. È un corridoio animato, si camuffa per ingannarci.» «Forse faremmo meglio a separarci» azzardò Peggy. «Avremmo maggiori probabilità di trovare il gigante. Io resto col cane, Sébastian prenderà il comando dell'altra squadra.» «Hai ragione» fece il ragazzo. «Al prossimo bivio ognuno andrà dalla sua parte.» Si separarono con una stretta al cuore. Peggy Sue e il cane blu svoltarono a destra, Sébastian, Ronan, e Olga girarono a sinistra. «Senti qualcosa?» domandò la ragazza. «No» ammise l'animale. «Il mio fiuto si è come intorpidito. Non capisco nulla degli odori che aleggiano da queste parti. Sono troppo diversi da quelli a cui sono abituato.» Pareva disorientato. Peggy scendeva i gradini uno a uno. La scala le dava le vertigini. Sembra quasi che si inabissi fino al centro della terra, pensò. Non riesco nemmeno a vederne il fondo. Trovava particolarmente sgradevole scendere così nell'oscurità, come un sommozzatore costretto a immergersi in un pozzo pieno d'inchiostro! Ebbe un giramento di testa e, per un secondo, pensò di essere sul punto
di perdere l'equilibrio e ruzzolare giù per le scale... col rischio di spiaccicarsi trenta chilometri più in basso. Tutt'a un tratto, provò la sgradevolissima impressione che la scala cedesse sotto i suoi piedi. Agitò le braccia, cacciò un urlo strozzato, poi cadde in avanti. Tentò di frenare la caduta aggrappandosi alla muraglia, ma rimediò soltanto delle sbucciature sulle dita. Rotolò, rotolò... Il latrato del cane blu le giungeva sempre più lontano, poi sbatté la testa contro la parete e perse i sensi. * Quando riprese conoscenza, si ritrovò distesa sulle lastre di pietra di una cripta deserta, con un grosso bernoccolo in testa. Si rialzò, sorpresa di non vedere al suo fianco il cane blu. Dove s'era cacciato? Provò una viva inquietudine. Corse verso le scale per controllare che non fosse in cima ai gradini... deserti. Il piccolo animale era scomparso. Deve essersi aperta un'altra falla, disse tra sé. Ci è finito dentro senza rendersi conto che si trattava di una trappola fatta apposta per separarci. Si sentì di colpo terribilmente sola. S'immaginava la scala malleabile che si apriva, come una bocca, per inghiottire il cane. Il pavimento cominciò a tremare. Tutta presa dalle sue angosce, non si era resa conto che un ronfare immane faceva vibrare i muri. Ci siamo, pensò, sono arrivata dal demonio. Deve dormire da qualche parte in fondo a questo corridoio. Si rifece coraggio e cominciò ad avanzare spalle alla parete verso la luce bluastra che oscillava all'estremità del corridoio. I sussulti delle pietre le davano l'impressione che le sue ossa potessero spaccarsi in qualsiasi momento. Dovette stringere le mascelle per impedire ai denti di sbattere. Raggiunse la soglia di una cripta gigantesca, abbastanza vasta da poter ospitare una collezione di balene giganti. Il pavimento era cosparso di migliaia di cuscini multicolori, sui quali riposava un bambino addormentato. Un bambino di stazza paragonabile a quella di un palazzo di dieci piani, ma che, in quel momento, dormiva a pugni chiusi. Aveva un viso paffuto, i capelli biondi. I vestiti gli si erano lacerati addosso man mano che cresceva, e i suoi servitori avevano provato a rattopparglieli alla bell'e meglio, per mezzo di stoffe variopinte cucite malamente. Peggy Sue rimase sbalordita dalle dimensioni del bambino addormentato, il cui corpo occupava quasi per intero il volume della cripta. Non essendo stata esposta al sole per secoli, la sua pelle era pallida, lattiginosa.
Pareva tutt'altro che cattivo. In effetti, non si rendeva assolutamente conto di ciò che gli succedeva intorno. Dimenticando ogni elementare prudenza, tant'era il suo stupore, Peggy Sue si avvicinò al bambino. Ciò rischiò di esserle fatale, perché da una cripta vicina apparve un personaggio funebre, interamente vestito di nero. La ragazza fece appena in tempo a riportarsi nell'ombra per sfuggire al suo sguardo. Il nuovo arrivato fu ben presto raggiunto da altri individui, conciati in modo simile. Avevano lo stesso volto anonimo, dai lineamenti appena tratteggiati. Portavano tutti quanti lo stesso abito fuori moda, la stessa cravatta. Avevano in mano lo stesso ago nero... Peggy Sue trattenne il respiro. Si trattava dei servitori del bambino gigante? No, era improbabile, c'era qualcosa in loro di troppo minaccioso. Che cosa facevano lì? Cos'è che attendevano con tanta impazienza? Li osservò mentre si sistemavano in cerchio attorno al viso del genio addormentato, come dei cacciatori appostati nei pressi della preda. D'un tratto, la bocca del bambino si dischiuse lasciando passare una bolla rosa che iniziò a volteggiare nella sala, in cerca di un'apertura da cui uscire. Subito gli uomini in nero si lanciarono in avanti, brandendo l'ago, per cercare di raggiungere la bolla che andava alla deriva nella cripta in balia delle correnti d'aria. Peggy strizzò le palpebre per cercare di vederci meglio. Dentro la bolla c'è qualcosa! disse tra sé mentre l'eccitazione le cresceva dentro. Un oggetto... anzi... un paesaggio! Dalla sua posizione non riusciva a distinguere bene la strana perla volante, ma era certa che dentro ci fosse rinchiuso un universo in miniatura. Vedeva delle case... degli alberelli... un lago non più grande di un fazzoletto. Ebbe un'illuminazione. È un miraggio, pensò. Un miraggio neonato sfuggito dai sogni del genio. Se riuscisse a uscire dal castello volerebbe via verso la realtà, verso il deserto, dove inizierebbe a crescere. Ma per quale motivo gli uomini in nero si accanivano a inseguirlo? E soprattutto, perché brandivano quegli orribili aghi? Per paura di essere scoperta, Peggy si appiattì ancor più contro la muraglia. Alla fine, uno di quei curiosi individui dal volto mal disegnato riuscì a perforare la bolla rosa col suo pungiglione. Compiuta quell'azione, si lasciò sfuggire una risata cattiva che i suoi compagni ripresero in coro. Contrariamente a quello che pensava Peggy Sue la bolla non scoppiò, ma i suoi
colori si alterarono. Il minuscolo paesaggio contenuto all'interno perse grazia e lucentezza. Le foglie caddero dagli alberelli, l'acqua dei laghi s'intorbidi, dei pesci morti si ritrovarono a galleggiare pancia all'aria sulla superficie degli stagni. Le casette da bambola assunsero improvvisamente un'aria da manieri infestati... Hanno rovinato tutto, constatò Peggy. Con un solo colpo di pungiglione hanno avvelenato l'universo creato dal genio. È così che procedono? Ecco come trasformano i miraggi in incubi. Una volta iniettato il veleno nella bolla, tutto comincia ad andare di traverso. Adesso gli uomini in nero si divertivano a palleggiarsi la bolla velenosa come un pallone da spiaggia. Uno di loro andò a prendere un retino da farfalle per catturarla. Ora la porterà sui bastioni e la lascerà libera, pensò Peggy. A quel punto uscirà dal miraggio per andarsene a fluttuare sopra il deserto, nel mondo reale. Era tutto chiaro. Il genio non era diventato 'cattivo', come supponeva la gente che viveva dall'altro lato della staccionata bianca. Al contrario, dei personaggi sinistri si erano introdotti nel castello, di nascosto. Dopo essersi assicurati che il genio bambino non si sarebbe mai risvegliato, avevano cominciato ad avvelenare i suoi sogni, alterando gli universi nati dalla sua immaginazione. Con gli aghi neri in pugno, si erano messi a camminare nel giardino pungendo tutto ciò che si muoveva a loro portata. Le leggi del miraggio ne erano rimaste sconvolte... il seguito era ormai noto. Ecco quindi chi è il nemico, disse tra sé Peggy Sue. Gli eventi stavano prendendo una piega inattesa, perché gli uomini dal viso tondo sembravano numerosi. Ne aveva contati una decina che correvano appresso alla bolla-universo. E per di più erano grossi, animati da una cattiveria rabbiosa che non preannunciava nulla di buono. In breve, Peggy aveva paura. Rimase a lungo addossata al muro, in attesa che i sinistri personaggi uscissero dalla cripta. Adesso doveva raggiungere i suoi amici per metterli al corrente della sua scoperta. Spostandosi rasente alle pareti, ritornò sui suoi passi. Ahimè, la scala da cui proveniva era scomparsa. Dovette decidersi a imboccare un corridoio che un quarto d'ora prima non c'era... e che, forse, di lì a dieci minuti si sarebbe richiuso! Tremava al
pensiero di ritrovarsi murata viva, all'interno delle pietre magiche. Speriamo che il cane blu non sia scomparso in questo modo, si ripeteva affrettando il passo. Di tanto in tanto, le risate malefiche degli uomini in nero la facevano sobbalzare. Le venne il sospetto che potessero averla individuata e che magari si stessero divertendo a sue spese. Si guardava continuamente alle spalle. Camminando alla cieca, finì per ritrovarsi in una stanza occupata da un macchinario complicato, pieno di ingranaggi e bielle intrecciate che formavano un ammasso meccanico in cui serpeggiavano dei tubi variopinti. Peggy ci mise un po' per capire che aveva sotto gli occhi il meccanismo che faceva muovere le 'gambe' del castello. Era da qui, da questa sala motori, che nasceva il lento dondolio grazie al quale il genio veniva mantenuto in uno stato di sonno profondo. «Ecco la soluzione!» sibilò a denti stretti. «Se riuscissi a sabotare questo maledetto macchinario il maniero la smetterebbe di agitarsi come una culla. Il genio si risveglierebbe... e gli uomini in nero si darebbero alla fuga.» Si avvicinò all'enorme motore ed emise un sospiro perplesso. Non aveva la più pallida idea da dove cominciare. Sébastian forse avrebbe potuto aiutarla? Era un ragazzo, i ragazzi avevano la passione per la meccanica... Dov'era in quel momento? Non poteva mettersi a gridare il suo nome, col rischio di mettere in allarme le creature dalla faccia tonda. Tuttavia doveva trovarlo, e in fretta! Mi sa tanto che è stata una pessima idea separarsi! disse tra sé, cercando un modo per uscire dalla sala macchine. 21 Tradimento Il cane blu non aveva capito nulla di quello che era successo. Quando Peggy Sue aveva perso l'equilibrio sulla scala cedevole, si era precipitato su di lei addentandole i pantaloni per cercare di trattenerla, ma... ma le sue mascelle si erano richiuse nel vuoto. Peggy era scomparsa, la scala stessa era scomparsa... e... E all'improvviso si era ritrovato in un corridoio in cui non aveva mai messo le zampe fino a quel momento! Era un'altra di quelle diavolerie di cui il castello pareva prodigo. Avevano ordito un tranello per separarlo da Peggy, ma non si sarebbe arreso! Di
lui si diceva che era tignoso, brontolone, attaccabrighe, impaziente... Lo ammetteva senza problemi, però la sua qualità principale era di andare sempre fino in fondo in tutto ciò che faceva. Stava risalendo il corridoio sconosciuto, annusando le lastre di pietra, quando sentì la voce. Non riusciva a capire da dove provenisse, se dalle pareti o dal soffitto... Diceva: «Ma non ne hai ancora abbastanza di essere un cane?» Il cane blu sollevò la testa, digrignando già i denti. Era piccolo ma non aveva mai avuto paura di mettersi contro quelli più grossi di lui. «D'accordo!» ringhiò. «Esci fuori dal tuo buco e battiti!» «Smettila di comportarti come un bastardo qualsiasi» disse la voce. «Vali di più. Sei troppo intelligente per continuare a camminare a quattro zampe. E parecchio più intelligente anche di molti esseri umani, del resto. Lo sai, vero?» Il cagnolino annuì con la testa. La voce soprannaturale gli ronzava nelle orecchie come una vespa pronta a pungergli il cervello. La cosa non gli piaceva per niente, tuttavia le parole che risuonavano nel suo cranio lo solleticavano curiosamente nell'orgoglio. «Per quale motivo segui quella Peggy Sue come un cagnetto affettuoso?» squittì di nuovo la voce. «Ma ti piace davvero recitare la parte del servo fedele? Di riportare la palla quando te lo ordinano? Stai perdendo il tuo tempo con quei mocciosi. Peggio ancora! Perdi il tuo onore! Ricordati di quando comandavi una città intera! Di quando eri il padrone di Point Bluff... Ti allenavi a camminare sulle zampe di dietro per essere come gli uomini. Volevi che la cravatta ti cadesse ben dritta sulla pancia... Hai rinunciato alle tue ambizioni. Trotterelli di nuovo a quattro zampe, e la tua cravatta struscia nella polvere. Provo vergogna per te.» Non devo ascoltare, si ripeteva disperato il cane blu. Stanno cercando di ipnotizzarmi... Lo sento. Ho il cervello come intorpidito. Devo resistere, resistere... «Peggy Sue si prende gioco di te quando le volti le spalle» fece la voce con un'intonazione melliflua. «Ne dubiti, eh? Ti disprezza, perché ha avuto la meglio su di te all'epoca della storia del sole blu. Ti usa per i tuoi poteri telepatici e perché a volte le sei utile, ma per lei sei solo uno strumento... Quando sarai vecchio ti sbolognerà al canile.» Il cane blu si rotolò sul pavimento. La voce strisciava come una lumaca nera nella sua mente. Avrebbe voluto liberarsene, ma non ci riusciva. «Lo dico per il tuo bene,» sospirò lo sconosciuto «se avessi del fegato reagiresti, prima che sia troppo tardi.»
L'animale proruppe in un lungo guaito. Era tutto così complicato! «So quello che desideri più d'ogni altra cosa» sussurrò la voce. «Posso leggere in fondo ai tuoi pensieri più segreti. Vorresti diventare un uomo. Io ho questo potere. Se accetti di aiutarmi, ti darò ciò che ti servirà per trasformarti in un ragazzo.» Il cane blu si raddrizzò sulle zampe tremanti. Si sentiva scoppiare la testa per l'emicrania; avrebbe dato qualsiasi cosa perché finisse. Davanti al suo muso si materializzò una palla, spuntata dal nulla. Una palla di gommapiuma blu. «È un giocattolo stregato» annunciò la voce. «Se la mordi forte forte, sentirai spezzarsi fra i denti un'ampolla di vetro. Contiene un fluido magico che ti trasformerà in un ragazzo. Sarà la prima parte del patto...» «E quale sarebbe la seconda?» domandò il cane blu con voce sommessa. «Dovrai ritrovare Peggy Sue, farla prigioniera e rinchiuderla in una segreta. Se eseguirai questa missione rimarrai umano. Diventerai un uomo. Se fallisci, o se rinunci, riprenderai immediatamente la tua miserabile apparenza di cane... Rifletti, è un'occasione che non ti si ripresenterà mai più.» Il cane blu si contorceva sul pavimento, in preda a una terribile indecisione. Qualcosa gli suggeriva che era una partita truccata, che stavano manipolando i suoi pensieri, ma non era più in grado di ribellarsi. La palla di gomma blu aspettava, giudiziosamente appoggiata su una lastra, a pochi centimetri dal suo naso. «Peggy Sue è stupida, brutta e cattiva» riprese la voce. «Si serve di te. Si serve degli altri per diventare un'eroina. Vi sottrae la vostra parte di trionfo. Quando scriveranno le sue avventure, il tuo nome non figurerà neppure sulla copertina del libro, puoi starne certo!» 22 Pazza da legare! Sébastian e Peggy Sue si rincontrarono svoltando un corridoio. Il ragazzo non aveva visto nulla d'interessante. Olga e Ronan neppure. Si mostrarono un po' invidiosi quando Peggy riferì quello che aveva scoperto. Intuì che Sébastian avrebbe voluto trovarsi al suo posto. Era risentito con lei, velatamente, per averlo relegato in secondo piano. Peggy ci rimase male. Aveva semplicemente cercato di rendersi utile, per il bene di tutti. Si era dimenticata fino a che punto i ragazzi sono portati alla competizione.
«Degli uomini vestiti di nero con la faccia tonda...» ripeté Sébastian con tono dubbioso. «Non ne ho mai sentito parlare. Stai dicendo che pungono i sogni del genio con un ago nero trasformandoli in incubi?» Aveva assunto quell'atteggiamento di superiorità che Peggy Sue trovava irritante. Era sul punto di rispondergli aspramente, quando ebbe l'intuizione che le cose stavano per prendere una brutta piega... In quel preciso istante fece la sua apparizione il cane blu, che spingeva col muso una palla di gommapiuma, anch'essa blu. Peggy gli si precipitò incontro, ma l'animale si ritrasse per continuare a giocare con la palla. «Dove ti eri cacciato?» gli chiese mentalmente. «Ero preoccupata, lo sai?» L'animale non rispose. Peggy Sue aspettò invano una reazione. Non distinse nient'altro che un brusio confuso di pensieri incomprensibili e pungenti, che le fecero lo stesso effetto di un mazzo di ortiche tra le mani. Non è normale, pensò. Ha un'aria strana. Sembra quasi che mi stia voltando telepaticamente le spalle, come se volesse proibirmi di comunicare. Cercò di riprendersi d'animo, ma continuava a sentirsi a disagio. «Dov'è che si nasconderebbero, i tuoi uomini con la faccia tonda?» buttò lì Sébastian. «Ci piacerebbe davvero vederli, anche a noi.» «D'accordo» sospirò Peggy. «Ma restate incollati al muro, in modo da non farvi vedere. Se vi dovessero pungere con il loro ago nero, non so in cosa vi trasformereste. In ogni caso dobbiamo scendere, per andare nella cripta del genio.» Cercò di orientarsi, una vera e propria impresa in un edificio che modificava continuamente la sua topografia. Alla fine, dopo una mezz'ora di camminata silenziosa, sentì le sinistre risate degli individui misteriosi. «Sono qui,» sussurrò «di fronte a noi.» «Io non ho sentito niente» biascicò Olga. «Nemmeno io» fece Ronan. «Fate silenzio» li ammonì Peggy con voce ansimante. «Vengono verso di noi. Nascondetevi dietro quelle colonne, presto!» I bambini fecero appena in tempo a obbedire che i funerei personaggi invasero la galleria. Avanzavano in processione, con gli occhi fissi come sonnambuli. Peggy Sue ne contò una dozzina, tutti con lo stesso vestito e lo stesso cravattino nero. Come si furono allontanati, abbandonò il suo nascondiglio per andare incontro a Sébastian.
«Allora,» disse «che ne pensi?» «Di che parli?» si stupì il ragazzo. «Non è successo niente. La galleria era vuota.» «Cosa?» esclamò Peggy con voce strozzata. «Mi stai prendendo in giro?» «Nient'affatto» confermò Olga. «Ti giuro che non c'era nessuno. Hai avuto un'allucinazione. Non c'era nessun uomo vestito di nero. Nulla. Non ho sentito neanche un rumore di passi.» «E tu?» reagì Peggy Sue girandosi verso il cane blu. «Nemmeno tu hai visto niente?» Ma l'animale continuava a giocare con la sua palla, completamente indifferente ai problemi dei ragazzi. Sébastian fece un passo indietro. Osservava Peggy con un lampo di diffidenza negli occhi. «Sei stregata» fu la sua diagnosi. «Ti hanno fatto un sortilegio. Credi di vedere delle cose che non esistono. È un tranello. Gli uomini in nero sono uno stratagemma per spaventarci. Un miraggio all'interno del miraggio.» «Nient'affatto» protestò Peggy Sue. «Sono sicura che esistono. C'è anche una macchina, serve ad assicurare il dondolio del castello. Si mette in movimento appena il genio minaccia di svegliarsi, bisogna distruggerla.» «D'accordo, d'accordo!» acconsentì Sébastian afferrandola per le spalle. «Andrò in perlustrazione con Ronan. Tu resterai qui con Olga e il cane.» «Tu non mi credi!» si lagnò Peggy Sue. «Calmati!» le ordinò Sébastian. «Ti sto dicendo che andrò a vedere.» Si allontanò insieme a Ronan. Indispettita, Peggy Sue si mise seduta appoggiando la schiena a una colonna. Olga teneva gli occhi bassi; quanto al cane blu, si ostinava a correre dietro alla sua stupida palla di gommapiuma. I due ragazzi ci misero parecchio a tornare, perché dovettero fare i conti con le continue trasformazioni dei corridoi. Tuttavia, non avendo timore che qualcuno li sentisse, lanciavano delle grida per farsi guidare da Olga. Si faranno beccare, pensava Peggy. Gli uomini in nero dalla faccia tonda li pungeranno e... Alla fine Sébastian ricomparve, con Ronan alle calcagna. Era scuro in volto. «Mi dispiace» disse inginocchiandosi accanto a Peggy Sue. «Non abbiamo incontrato nessun individuo dalla faccia tonda. Il genio è proprio come dicevi tu, ma i suoi sogni diventano neri da soli, senza che qualcuno li punga... Nessun uomo in abito scuro, nessun ago magico, nessuna mac-
china mostruosa. Ti sei inventata tutto.» «No!» gemette Peggy. «Sì» insisté Sébastian. «Sei stata stregata. Non possiamo più fare affidamento su di te. D'altra parte anche il cane blu se n'è reso conto. Guarda: ti sfugge, gli fai paura.» «Ti legheremo, per precauzione» annunciò Ronan. «Rimarrai prigioniera fino a quando non avremo trovato il modo di guarirti!» «No!» urlò Peggy saltando in piedi. «Non se ne parla! Voi siete stregati, non io! Siete voi che rifiutate di vedere la verità!» E fuggì di gran carriera. I suoi compagni non cercarono di riacciuffarla. * Quando rimase senza fiato, si accasciò contro una colonna e iniziò a piangere. Non sopportava l'idea che i suoi amici l'avessero respinta in modo così ingiusto! Non era pazza, non era vittima di un sortilegio, era certa di avere detto la verità, e nient'altro... Che cosa stava succedendo, dunque? Quale brutto scherzo le stava giocando il castello? Purché non vadano a cacciarsi a testa bassa nelle fauci del lupo, pensò asciugandosi le lacrime. Non se ne rendono conto, ma magari sono proprio loro a essere stati stregati. Era inutile provare a convincerli, se fosse tornata indietro l'avrebbero legata senza pensarci due volte. Si raddrizzò. Visto che era andata così, avrebbe continuato a combattere da sola! Gli uomini in nero avevano ordito proprio una bella macchinazione, bisognava ammetterlo. Ormai né Sébastian né Olga avrebbero avuto più fiducia in lei; tutto ciò che avrebbe detto sarebbe apparso subito sospetto. Una brutta situazione. Smarrita, provò a recuperare l'orientamento. Cominciava a ritrovarsi nella topografia dei corridoi, poiché non si spostavano come le era parso in un primo momento. In realtà disponevano di un certo numero di configurazioni prefissate. Facendo caso alla sequenza, era possibile prevedere in che momento il corridoio avrebbe ripreso quella che si desiderava utilizzare. Ciò richiedeva comunque una spiccata capacità d'osservazione e una notevole memoria. Un adulto ci si sarebbe perso - di sicuro! - ma per un adolescente abituato alla logica dei videogiochi, orientarsi non era impossibile. Adesso doveva ritornare nella sala macchine, evitando di farsi individua-
re dalle creature con la faccia tonda, per sabotare il motore che azionava il 'dondolio' del castello. Sfidando i trabocchetti dei corridoi mobili, cominciò a dirigersi verso la sala motori. Ciò richiese del tempo. All'uscita di una galleria, si ritrovò tra i piedi la palla di gommapiuma del cane blu. Era tutta lacerata, come se l'animale, in preda a una strana frenesia, avesse deciso di farla a pezzi. Dov'è finito? si domandò. Sta diventando tutto sempre più strano, non c'è che dire. Mi sa che sono rimasta l'unica con la testa sulle spalle, sempre che duri! Era immersa in quelle riflessioni quando le parve di udire un'eco di passi esitanti alle sue spalle. In un primo momento pensò che si trattasse di Sébastian. Ha capito di essersi sbagliato, disse tra sé, vuole scusarsi. Si girò col cuore in tumulto, perché aveva un debole per Sébastian e non le piaceva essere in collera con lui. Rimase sorpresa nel trovarsi di fronte un ragazzino sui dieci anni, che avanzava nella galleria con andatura impacciata, come se non sapesse servirsi correttamente delle gambe. Pensò che fosse ferito o sul punto di svenire, e gli andò incontro. Portava una camicia abbottonata un po' a casaccio e le scarpe slacciate. Dava l'impressione di spostarsi in stato di sonnambulismo. Aveva un visetto adorabile, con il naso arricciato in maniera curiosa, come se fiutasse un cattivo odore. «Chi sei?» cercò d'informarsi Peggy Sue. «Come ti chiami?» Il bambino non rispose. Deve trattarsi sicuramente di uno dei ragazzini che ci hanno preceduti, quelli di cui parlava Nasty, pensò Peggy. I raccoglitori l'avranno fatto prigioniero ma è riuscito a fuggire dalla cella; da allora gira in tondo senza trovare una via d'uscita. Sembra quasi che abbia perso la memoria. Tese la mano verso il piccolo sconosciuto che però si mise curiosamente a ringhiare mostrandole i denti. Sembrava non sapesse cosa farsene delle mani, e pareva impacciato nel corpo. «Ehi!» fece Peggy Sue «non voglio farti del male. Devi soltanto seguirmi, con un po' di fortuna riusciremo sicuramente a scovare il ponte levatoio. Va bene? Capisco che non vedi l'ora di filartela da questo posto, ma ti chiedo solo un po' di pazienza. Ho un lavoro da portare a termine.» Il ragazzino la squadrava con un'espressione bizzarra negli occhi. È uscito di senno, pensò Peggy. Capita a chi rimane troppo tempo all'interno di questo maledetto maniero.
«Vieni» disse. «Se non puoi aiutarmi, cerca almeno di non complicarmi le cose. Capito?» Il bambino rimase chiuso nel suo mutismo. Non aveva tempo di occuparsene, bisognava aiutare gli altri prigionieri. C'era da sperare che non si trovassero nello stesso stato mentale dello strano ragazzino che in quel momento camminava dietro di lei. Ogni dieci passi dava un'occhiata alle sue spalle per vedere che cosa faceva. Si mostrava in chiara difficoltà nel mantenersi in equilibrio. Sembrava quasi un bambino ai primi passi, che cosa curiosa... Peggy si rese conto che non era gradevole sentirselo alle spalle. Provava fastidio... se non addirittura una certa ansia. Che stupida! Cosa mai avrebbe potuto farle quel povero ragazzino? Si stava agitando troppo, doveva riprendere il controllo dei nervi. Ma per quanto si sforzasse, la sensazione di disagio non diminuiva. È come se mi spiasse, pensò. E se avesse una maschera... una maschera dietro la quale si nasconde qualcosa di veramente repellente. Si girò un'altra volta e allungò la mano per toccare la guancia del ragazzino. Il contatto della pelle tiepida la tranquillizzò. Sono proprio un'idiota, disse tra sé. Per un attimo ho pensato che la sua faccia fosse di gomma! No, stava farneticando. Era proprio un ragazzino, muto, disorientato, ma comunque un ragazzino... Fece uno sforzo per concentrarsi sull'itinerario da seguire. Tutt'a un tratto, mentre esitava davanti a una biforcazione, il bambino la prese per mano guidandola verso il corridoio di sinistra. Pare che sappia dove va, pensò Peggy. Sembra che si sia ripreso. Seguiamolo. La mano del ragazzino era caldissima, come se avesse la febbre. Camminava guardandosi i piedi. A tratti sembrava non sapesse bene quale doveva muovere in avanti. Strano..., disse tra sé la ragazza. Il bambino la condusse verso una scala che s'inabissava nelle profondità del castello. Ottimo, pensò Peggy, ecco che ci porta alla sala macchine. Raggiunto il primo pianerottolo, sentì provenire dal basso delle grida d'aiuto, dei lamenti. Mi ha portato alle celle, formidabile! Potrò liberare i prigionieri prima dell'arrivo dei cuochi!
Cercò di affrettare il passo abbandonando il ragazzino, che faceva fatica a scendere gli scalini. Non ne ebbe il tempo. Le mani del bambino la colpirono all'altezza delle scapole, scaraventandola in avanti. Cominciò a ruzzolare giù per le scale, senza riuscire a frenare la caduta. Giunse in fondo alla scala mezza tramortita, con i reni e la nuca martoriati dagli spigoli dei gradini. «Ma... ma sei pazzo!» protestò. «Cosa ti ha preso?» Avrebbe voluto sollevarsi ma le girava la testa. Sentì che il ragazzino avanzava zoppicando verso di lei. D'un tratto le saltò sulla schiena e, afferrandola per i capelli, iniziò a sbatterle il cranio contro il pavimento. Peggy Sue cercò di dibattersi goffamente. La forza del ragazzino aveva qualcosa d'insolito, così come il suo odore. Non puzzava di sudore, come un essere umano, ma di... di cane! Peggy rotolò su un fianco e allungò le mani alla cieca cercando di afferrare il suo avversario per disarcionarlo. Non sapendo chi fosse realmente, non voleva fargli troppo male. Il ragazzino, al contrario, non si faceva troppi problemi. Abbrancò la camicia del bambino tirandola con tutte le sue forze. Il tessuto si strappò, svelando un petto livido disseminato di chiazze blu... Un lampo attraversò la mente di Peggy Sue. «Sei... sei tu?» balbettò. «Sei il cane blu? Cosa ti è successo?» Ma, senza proferire parola, lo spaventoso ometto le rifilò una nuova scarica di colpi. Sembrava che la metamorfosi l'avesse privato delle sue facoltà telepatiche e che, per non tradirsi coi latrati, preferisse restare in silenzio. Che cosa gli era successo? Di quale sortilegio era vittima? Evidentemente non riconosceva più Peggy... oppure la detestava a tal punto da cercare di far di tutto pur di fracassarle la testa, come una zucca troppo matura! La ragazza non era più in grado di difendersi. Stordita dai colpi, sentì che la stava trascinando sul pavimento. Una chiave aprì una serratura, una porta cigolò... Capì che la stava abbandonando nell'oscurità di una segreta. Chiuse gli occhi e si lasciò sprofondare nell'incoscienza. * «Sta riprendendo conoscenza» disse una voce infantile sopra di lei. «Le è andata bene, a un certo punto ho creduto che il muto le avrebbe spaccato la testa.»
Peggy riaprì gli occhi. Aveva un'emicrania talmente forte che si sentiva scoppiare il cervello. Si tastò il cranio con le dita e rimase terrorizzata dalla gran quantità di bernoccoli. Si raddrizzò appoggiandosi su un gomito. Era circondata da volti preoccupati. Tra questi, riconobbe diversi adolescenti rimasti vittime delle trappole della golosità. Erano ancora assai grassi. In tutto c'erano una dozzina di detenuti. «Dove ci troviamo?» domandò. «Nella dispensa del demonio» le rispose uno dei prigionieri. «Da qui non si esce, se non per finire come carne macinata in una pentola. Per fortuna il genio si nutre solo una volta la settimana, altrimenti ti troveresti da sola in questa cella.» Peggy Sue si rialzò. Con passo incerto, avanzò verso la porta per guardare oltre le sbarre. Il ragazzino muto era ancora lì, seduto sul primo gradino della scala. La camicia lacerata lasciava intravedere la pelle maculata di chiazze blu. «È qui da poco» le spiegò un ragazzo. «Ha un'aria da vero idiota. Non so chi sia, non l'avevamo mai visto prima d'oggi.» Peggy Sue stava quasi per rispondere: «È il mio cane...», ma giudicò che fosse inutile confondere ancora di più i poveri prigionieri. Il cane blu... o piuttosto quello che era diventato, fissava la porta della cella. C'era tristezza nei suoi occhi, anche smarrimento, e un bel po' di altri sentimenti difficili da decifrare, ma che rivelavano al tempo stesso dispiacere ed estrema soddisfazione per ciò che aveva fatto. Aveva sempre sognato di diventare un uomo, si rammentò Peggy. È così che le creature dalla faccia tonda lo hanno convinto a tradirmi... facendo leva sul suo punto debole. «Sono stati gli uomini in nero a gettarmi nella cella?» chiese ai suoi compagni. «Non abbiamo visto niente» bofonchiò un ragazzo. «Si è aperta la porta e sei stata scaraventata a terra. Quando la porta si apre in genere tendiamo ad allontanarci, per paura che siano i cuochi che vengono a prendere... capisci?» «Ma conoscete gli uomini in nero?» insisté Peggy Sue. Scrollarono il capo in segno di diniego. «No» fecero quasi in coro. «Non abbiamo mai visto nessun uomo in abito scuro nel castello. Soltanto i cuochi, che assomigliano ai giardinieri. Una specie di scheletri con la faccia da pomodoro e gli occhi a forma di semi. Solo che al posto delle cesoie e della pala, hanno le mani a forma di
coltello e forchetta...» Peggy Sue aggrottò le sopracciglia. Il mistero s'infittiva. Era davvero vittima di un sortilegio? Pareva che nessuno capisse di cosa parlava. Né Sébastian, né i suoi compagni di prigione... Cedendo alla rabbia, si avvinghiò alle sbarre della cella e scosse la porta. «Non serve a niente» sospirò uno dei prigionieri. «Ci vuole la chiave. Come potrai immaginare, abbiamo già provato a sfondarla. Grossi come siamo adesso, pensavamo che avrebbe ceduto di schianto sotto il nostro peso: niente da fare.» Peggy si placò. Dove non serviva la forza, bisognava utilizzare l'astuzia, provare a far uscire il 'cane blu' dal suo stato di ipnosi. Raccogliendo tutta la sua energia mentale, gli trasmise un richiamo d'aiuto telepatico. Non diede il minimo segno di reazione. Gli uomini in nero devono averlo abbindolato, pensò. Trasformandolo in un essere umano lo hanno fatto diventare un deficiente. Ha perso i suoi poteri. È già tanto se si ricorda chi sono. Avvinghiata alle sbarre, cominciò a parlargli con voce calma, sforzandosi di risvegliare nella sua memoria i bei ricordi di un tempo. Per quanto l'avesse tradita, provava una gran pena nel vederlo ridotto così, prigioniero in un corpo di cui non sapeva chiaramente cosa fare. «Sono io, Peggy Sue» ripeteva instancabilmente. «Ti ricordi Point Bluff? Il sole blu? Gli animali che volevano comandare sugli uomini?» Ma il 'cane blu' restava inerte, con gli occhi nel vuoto. «È inutile» ridacchiò una vocina che sembrava provenire dal soffitto. Peggy Sue sollevò gli occhi. Qualcuno stava scendendo le scale. Un uomo in nero! Un enorme sorriso mellifluo riempiva la faccia tonda color rapa. «Siete stati voi a trasformarlo, vero?» sibilò tra i denti Peggy. «Avete letto nei suoi pensieri, avete scoperto il suo desiderio più segreto...» «Esatto» disse l'uomo in nero. «Siamo abbastanza bravi in questo giochetto.» «Siete davvero dei gran farabutti!» sbottò la ragazza. Dietro di lei, uno dei prigionieri mormorò: «Ma con chi sta parlando? Non c'è nessuno là fuori, a parte il muto...» Peggy s'irrigidì. L'uomo col cravattino nero era lì, ai piedi della scala, eppure non lo vedeva nessuno... tranne lei. «Santo cielo!» esclamò sbalordita. «Ma certo... avrei dovuto pensarci subito! Che cretina che sono!»
Rimettendosi gli occhiali sul naso, concentrò lo sguardo sulla creatura dal volto tondo. Fino a quel momento, impegnata com'era stata a nascondersi negli angoli più bui, non aveva mai scrutato veramente quegli strani personaggi. Oh, che errore! Se avesse preso quella precauzione avrebbe sentito, come in quell'istante, diffondersi nell'aria un odore di caramello bruciato. L'uomo in nero si contorse con una smorfia, poi balzò di lato per sfuggire allo sguardo di Peggy Sue. «Adesso ho capito tutto!» ruggì lei. «Sei un Invisibile!» «Esatto!» rispose con un ghigno la creatura con la faccia da rapa, che adesso si nascondeva dietro una colonna. «Ce ne hai messo di tempo!» Ecco perché nessuno li vede! pensò la ragazza. Non sono pazza né tantomeno stregata! Sono sempre stata l'unica a poter individuare gli Invisibili... «Hai visto che progressi abbiamo fatto?» fece la creatura molleggiandosi. «Ormai padroneggiamo benissimo i colori, le tessiture... Siamo in grado di diversificare il nostro travestimento. Ci sei cascata, confessa!» «È vero» riconobbe Peggy Sue. «Ma cosa ci fate qui?» «Che stupida che sei!» scoppiò a ridere il fantasma. «Ma è stato tutto architettato per te, mia povera cara! Siamo stati noi a dare a tuo padre quel lavoro di guardiano dell'aeroporto abbandonato. Abbiamo manipolato un funzionario dell'ufficio di collocamento ipnotizzandolo. Lo scopo della manovra era attirarti nel deserto... poi, da lì, costringerti a entrare in un miraggio. Abbiamo isolato l'aeroporto tagliando l'acqua e il telefono, poi vi abbiamo rubato il motore della macchina. Dovevamo impedirvi di comunicare con il resto del mondo. Era una trappola! Una trappola per condurti lontano dalla realtà! Adesso che sei prigioniera del miraggio, non potrai più tornare nel mondo reale... Abbiamo finalmente campo libero, non ci starai più tra i piedi - mai più - perché i cuochi del genio tra poco verranno a occuparsi di te.» Gongolava di felicità. Peggy Sue si sentiva impotente. L'avevano chiusa in trappola. Mai, in nessun momento, aveva sospettato che ci fosse lo zampino dei fantasmi. «È da tempo che lavoriamo a sabotare i miraggi,» ridacchiò l'Invisibile «ma non è divertente, è troppo facile, la gente qui non è diffidente. In un batter d'occhio il loro universo da sogno marcisce, come una mela vecchia.» «Siete stati voi a provocare l'arrivo delle bestie grigie mangiatrici di spe-
ranza, vero?» chiese Peggy con tono d'accusa. «Certo» confermò l'Invisibile. «Non ti decidevi. Era necessario obbligarti a salire su quell'aereo, in un modo o nell'altro. Oggi è un gran giorno per tutti noi. Finalmente siamo riusciti a mettere le mani su di te. Non possiamo ucciderti, lo sai bene, poiché un incantesimo ti protegge dai nostri attacchi fisici, ma abbiamo la possibilità di organizzare la tua morte affidandola a qualcun altro... ai cuochi del genio addormentato, per esempio.» Il fantasma scoppiò in una risata stridula che solo Peggy Sue poté udire. «Ci davi fastidio da troppo tempo» riprese. «Dato che lo scontro diretto non portava a nulla, c'è venuta l'idea di agire d'astuzia. Bastava semplicemente evitare di farci vedere... o, per lo meno, farlo il più tardi possibile, una volta che tu fossi finita in trappola.» Si risistemò il cravattino nero, e concluse: «Adesso ti lascio. I cuochi non tarderanno. Nessun incantesimo potrà proteggerti dai loro coltelli e forchette.» Questa volta scomparve attraversando una parete, senza darsi pena di salire per le scale. «Con chi parlavi?» le chiese uno dei prigionieri. Peggy Sue gli spiegò in poche parole di cosa si trattava: esistevano delle creature, chiamate gli Invisibili, che solo lei era in grado di vedere e sentire. Nessuno poteva far nulla contro quei mostri di gomma, capaci di trasformarsi a piacimento. Nessuno, tranne lei... «Posso carbonizzarli con lo sguardo» disse. «A patto che riesca a fissarli abbastanza a lungo.» Il suo interlocutore annuì, ma non sembrava per nulla convinto. Probabilmente, pensava che le prove patite avessero finito per farla uscire di senno, quella ragazza dai grossi occhiali. Peggy Sue si mise seduta accanto alla porta. Non sapeva come fare a fuggire. Il battente, di ferro, avrebbe resistito a qualsiasi tentativo di sfondamento. In aggiunta, non aveva a disposizione né una leva né un piede di porco... No, non c'erano speranze. «Quando i cuochi verranno a prenderci,» mormorò «dovremo filarcela passandogli sotto le gambe.» «Facile a dirsi!» ridacchiò uno dei prigionieri. «Siamo troppo grassi per correre. E oltre tutto i cuochi sono molto più furbi di quanto pensi! Si limitano ad aprire appena la porta e infilano un braccio all'interno della cella per prendere quello di cui hanno bisogno. È il caso che decide... il primo che ha la sventura di capitargli sotto mano è buono per la pentola. Hai vo-
glia a indietreggiare il più lontano possibile dalla porta, finisci con le spalle al muro.» Il viso di Peggy si contrasse in una smorfia. Non era difficile immaginarsi il parapiglia che doveva seguirne, con ciascuno che cercava di nascondersi dietro al vicino. In una situazione del genere, non c'era più spazio per il cameratismo! Calò il silenzio. La ragazza si mordicchiava le unghie e si lambiccava il cervello, in cerca di un'idea. Attorno a lei, i ragazzi tendevano l'orecchio per percepire l'avvicinarsi del cuoco. Erano tutti nervosi. «Tu sei troppo magra,» la aggredì un ragazzino «non sei adatta per un buon arrosto. Puoi star sicura che il cuoco ti scarterà. Per noi sarà diverso.» «Sì,» osservò un altro bambino nascosto nell'oscurità «ma è una ragazza, e pare che la carne delle femmine abbia un sapore più buono. Forse la prenderà lo stesso. Questo ci darebbe un po' di respiro.» La paura li rendeva cattivi, e Peggy Sue decise di non arrabbiarsi; d'altra parte non poteva sprecare tempo in un inutile attacco d'ira... Da qualche minuto anche lei si era messa a spiare l'eco di passi nella galleria. Cedendo a un principio di panico, si affacciò dalle sbarre e gridò al ragazzino muto: «Va' a cercare Sébastian, portalo qui. Forse gli verrà un'idea. Mi senti? Sé-ba-stian! Trovalo, usa il tuo fiuto.» Si rese conto che stava dicendo delle stupidaggini. Il povero cane blu, ormai diventato umano, aveva perso il suo formidabile odorato. Tuttavia, si sentì sollevata vedendolo allontanarsi. Avrà capito cosa gli ho chiesto? pensò, oppure se ne va perché ne ha abbastanza di sentirmi gridare? «Presto sarà l'ora del pasto» mormorò un ragazzo. «Faresti meglio a non restare vicino alla porta...» Peggy indietreggiò prudentemente verso la parete opposta, dove si erano già accalcati gli altri prigionieri. Dal loro sudore emanava un odore di paura. Trascorsero lunghi istanti. Nessuno apriva bocca. «Eccolo!» gemette all'improvviso un ragazzo, con voce irriconoscibile. Qualcuno in effetti stava camminando nella galleria... ma l'eco dei suoi passi era troppo tenue perché fossero quelli di un cuoco. D'altra parte si trattava di una corsa, più che della camminata di una creatura solitaria. Peggy si fiondò verso la porta. Sébastian, Olga, Ronan... e il 'cane blu' sta-
vano giusto sbucando nella rotonda. «Per la miseria!» esclamò Sébastian. «Sei tu? Allora abbiamo fatto bene a seguire questo ragazzino.» «Facci uscire di qui» lo implorò Peggy con voce ansimante. «Tra poco arriveranno i cuochi. Dobbiamo filarcela.» Sébastian si inginocchiò davanti alla serratura. «Un attimo» sbuffò. «Quando vivevo nel mondo reale ero un piccolo scassinatore niente male, ne ho manomessi parecchi di chiavistelli. Avrò la meglio anche su questo, anche se ha un aspetto coriaceo.» Frugando nello zaino, tirò fuori diversi attrezzi tra cui un rullo di fil di ferro. Peggy Sue lo sentì mugugnare. Si udirono rumori metallici, punteggiati dalle imprecazioni di Sébastian. Adesso che intravedevano un barlume di libertà, i detenuti cominciavano ad agitarsi febbrilmente spintonandosi nei pressi della porta. «Calma!» ordinò Peggy Sue. «Se riusciamo a uscire dovremo fuggire con criterio. Toglietevi dalla testa l'idea di mettervi a correre disordinatamente nei corridoi, sarebbe il modo migliore per girare in tondo senza riuscire a trovare l'uscita, e i cuochi prima o poi finirebbero per riacciuffarci. L'unico mezzo per farla finita con tutta questa follia è provocare il risveglio del genio. Quindi dobbiamo scendere alla sala macchine e sabotare i motori che trasformano il maniero in una culla...» Si azzittì perché nessuno la stava più a sentire. «Ci siamo!» annunciò Sébastian. In quel preciso istante la serratura cigolò e la porta ruotò sui cardini. I prigionieri si riversarono all'esterno travolgendo Peggy Sue. Per quanto li supplicasse di tornare indietro, non le diedero ascolto e si precipitarono nel primo corridoio che si parò di fronte a loro. Sébastian prese Peggy per il polso. «Scusami per prima» disse. «Quando parlavi degli Uomini in Nero non ti ho creduto, avevo torto. Mi sono mostrato stupidamente diffidente.» «Lascia stare» tagliò corto Peggy Sue. * Un quarto d'ora dopo, la malignità dei corridoi ricondusse Peggy Sue verso i suoi vecchi compagni di galera. Ilari, ebbri di libertà, facevano un gran baccano senza curarsi del rischio di essere individuati dalle sentinelle del castello.
La ragazza stava per supplicarli di fare silenzio, quando uno di loro le prese la mano. «Ehi!» le gridò «la sai l'ultima? Abbiamo trovato la cucina! Quella stramaledetta cucina! Adesso la sistemeremo per le feste, puoi crederci!» Peggy si affacciò alla porta. I ragazzini, scatenati, stavano saccheggiando di buona lena le suppellettili. Erano una dozzina, intenti a rovesciare le mensole, a svuotare nei lavelli i barattoli di farina, di mostarda o di spezie. Davvero un grande spreco! Le piastrelle del pavimento erano ricoperte da una melma fatta di pangrattato, cetriolini sottaceto e purè di patate. I bambini sguazzavano in quell'acquitrino culinario urlando come indiani sul sentiero di guerra. Utilizzando le casseruole a mo' di randelli, fracassavano le stoviglie impilate nelle credenze. Peggy Sue poteva comprendere benissimo il loro desiderio di vendetta, ma quella condotta dissennata rischiava di compromettere il suo piano d'evasione, e questo per lei era inaccettabile. Con l'aiuto di Sébastian si diede da fare per tirarli fuori dal caos e spingerli nel corridoio. Si ribellavano, in preda all'eccitazione, ed essendo tutti molto grassi era impossibile portarli via di peso. «Ora basta!» ansimò. «Vi siete sfogati, va bene! Avevate dei conti da regolare, l'avete fatto... ma qui si tratta della nostra vita.» I ragazzini accettarono di seguirla mugugnando, delusi per aver dovuto rinunciare a un così bel saccheggio. Dopotutto, proprio lì molti di loro erano finiti in pentola per opera dei servitori del demonio. In fila indiana, il plotone cominciò a percorrere la galleria. Dopo appena pochi metri alcuni iniziarono a protestare dicendosi già annoiati. Quanto tempo ci voleva per raggiungere la zona dei sogni? Ma ben presto si azzittirono, sbalorditi. Il corridoio li aveva condotti sulla soglia di un'immensa sala pavimentata di piastrelle blu, con al centro una piscina gigantesca. Delle sedie a sdraio, disposte ai lati della vasca, sembravano pronte ad accoglierli. Lampade abbronzanti, installate sul soffitto, permettevano di prendere la tintarella senza dover mettere naso fuori del castello. A chi era destinata tutta quell'attrezzatura? Al genio? Peggy Sue non se ne capacitava. «Wow!» esclamarono i bambini. «Fantastico! Un bel bagno, è proprio quello che ci serviva! Così potremo toglierci di dosso la farina.» «Aspettate!» protestò Peggy. «Abbiamo già perso troppo tempo. Toglietevi dalla testa l'idea di fare una nuotatina!» Ma nessuno le diede ascolto. I bambini si stavano già strappando di dos-
so i vestiti per gettarsi in piscina. Nell'acqua galleggiavano dei grossi palloni da spiaggia tutti colorati, un vero invito al gioco. Tubetti di creme solari e occhiali scuri erano sparsi un po' ovunque. «Ehi!» strillò uno dei bambini «le cabine sono piene di costumi da sballo.» Peggy Sue si guardò attorno, sopraffatta dagli eventi. Per essere una piscina coperta, era davvero bella! Improvvisamente si sentì invadere da un'immensa stanchezza. Le lampade del soffitto diffondevano un calore secco che faceva venir voglia di cercare refrigerio nell'acqua fresca. Si rese conto che stava sudando. Ho bisogno di una pausa, pensò. So che non è serio né prudente, ma credo proprio che imiterò quei piccoli idioti schiamazzanti. Si sorprendeva di ragionare così, ma all'improvviso, e senza capirne il perché, provava un irresistibile bisogno di andare a infilarsi un costume e fare due vasche. Senza più badare a Sébastian, si diresse verso le cabine bianche a strisce blu allineate in fondo alla sala. I ragazzini avevano detto la verità: c'erano decine di costumi da bagno sparsi alla rinfusa, di ogni taglia e colore. Se fosse stata meno stanca, Peggy Sue l'avrebbe giudicato quantomeno curioso, ma adesso provava uno strano torpore, come se fosse sul punto di cedere alla sonnolenza. Scelse un costume giallo. Magnifico. Toccandolo rimase sorpresa dalla consistenza del tessuto, apparentemente costituito di fili d'erba intrecciati. Assai curioso. Il genio era forse allergico al nylon e tollerava solo materiali naturali? Poi si rese conto della sua stupidità: quei costumi erano troppo piccoli per un gigante! Senza pensarci oltre, entrò in una cabina e si cambiò. Sébastian fece lo stesso, poco più avanti. Si rincontrarono dopo qualche minuto. Sébastian prese un paio d'occhiali da sole accanto a un tavolino da giardino e se li mise sul naso. Così acconciato, con lo slip maculato, aveva l'aria di un playboy da spiaggia. Peggy Sue fu tentata di fargli notare il suo abbigliamento un po' eccessivo, ma poi ci rinunciò perché la piscina la ipnotizzava; non desiderava altro che crogiolarsi, dimenticando tutto il resto! Me lo meritavo davvero! disse tra sé. Da quando sono entrata in questo maledetto giardino, non ho avuto un solo attimo di riposo. Aggrappandosi alla scaletta si calò in un'acqua che si rivelò tiepida, meravigliosamente rilassante.
Non ci penso proprio a nuotare, pensò. Mi metterò in un angolino a farmi cullare. La piscina era sufficientemente grande per non essere disturbata dalle increspature provocate dai bambini che giocavano col pallone. Chiuse gli occhi e si mise a fare il morto a galla. È incredibile quanto sono stanca, constatò, quasi quasi mi addormenterei... Si chiese se non fosse più prudente ritornare verso il bordo piscina. Niente da fare, il torpore stava avendo la meglio non solo sul suo corpo, ma anche sulla sua mente. Si lasciava andare alla deriva senza riuscire a muovere neppure un dito. Era una sensazione deliziosa... Avrebbe potuto restarci un secolo. Anche due. Se non tre e mezzo... Al centro della piscina, i bambini esagitati avevano smesso di litigare. Un attimo prima avevano cominciato a sbadigliare; adesso facevano tutti il morto a galla, imitando Peggy Sue. Che tranquillità! pensò lei. Non aveva più nemmeno la forza di sollevare le palpebre... ma andava benissimo così. Non desiderava altro che essere lasciata in pace. Una pace sovrana. * «Scuotiti!» le bisbigliò d'un tratto la voce della ragione. «Quello che sta succedendo non è affatto normale... Sei caduta in un tranello. Questa piscina, la tua stanchezza, quest'irrefrenabile voglia di nuotare... non lo trovi strano? Sembra che tu abbia smarrito di punto in bianco il tuo senso critico. Credi davvero che sia prudente mettersi a fare il bagno mentre gli Invisibili ti stanno dando la caccia?» Quant'era fastidiosa quella vocina! Peggio di una zanzara... (Per la miseria! Dov'era l'insetticida?) Non potevano lasciarla stare a mollo in acqua in santa pace, almeno per una volta? Eppure... sentiva caldo. Troppo caldo. Da dove veniva? Le lampade solari erano mal regolate? Ebbe la netta sensazione che l'acqua della piscina stesse diventando bollente. Nella sala regnava un gran silenzio. I bambini non schiamazzavano più. Erano tutti impegnati a fare il morto a galla, con gli occhi chiusi.
La ragazza girò la testa verso destra. Una sagoma si molleggiava sul bordo della piscina. Era il 'cane blu'... o piuttosto il ragazzino muto, che non si era unito agli altri e si agitava nel suo vestito sbottonato, facendo strane smorfie. Che cosa vuole da me? si domandò Peggy. Avrà paura dell'acqua? Vuole forse che gli insegni a nuotare? Che stupido! I cani sanno nuotare, per istinto. Se lo sarà dimenticato? Stava quasi per chiudere gli occhi perché sentiva che le palpebre pesavano tonnellate, tenerle aperte le costava troppa fatica. Poi, in un sussulto di lucidità, si rese conto che l'acqua della piscina fumava... Non era normale! A prezzo di un grosso sforzo, riuscì a muovere il braccio sinistro... aveva il corpo ricoperto da qualcosa d'appiccicoso. Con la punta delle dita si esaminò il ventre. Il suo costume da bagno era diventato tutto... friabile, come se fosse fatto di alghe. In effetti si stava decomponendo. Curioso, disse tra sé. Sa di brodo... Tutta la piscina puzza di brodo. Il costume da bagno si stava disfacendo, abbandonava il suo corpo per trasformarsi in un miscuglio di erbe che diffondevano un profumo di timo, di alloro... l'acqua della piscina diventava sempre più torbida, agitata da gorgoglii provenienti dal fondo. Il panico s'impossessò di Peggy. Ahimè, ormai era troppo intorpidita per reagire. Come se qualcosa anestetizzasse le sue terminazioni nervose, impedendole di soffrire il calore dell'acqua. «Sono diventata tutta rossa!» si allarmò, osservandosi la mano. «Deve essersi guastato il termostato, oppure...» In quell'istante il suo sguardo fu attirato dai grossi palloni da spiaggia che galleggiavano in mezzo alla vasca, quei palloni con i quali i ragazzini avevano giocato come indemoniati. Avevano perso i loro bei colori... adesso, in effetti, assomigliavano più a delle patate o delle cipolle. Patate e cipolle enormi, come quelle che crescevano nel giardino magico. Che idiota! pensò Peggy Sue. Sto perdendo la testa. «Ma no!» urlò la voce interiore. «Quello che vedi è reale! Vi siete fatti intrappolare! Non siete in una piscina, vi stanno cuocendo in un pentolone!» La ragazza ebbe un sussulto. E se fosse vero? pensò. La cucina che i ragazzini hanno saccheggiato era finta, un tranello... La vera cucina è questa piscina coperta. Il pentolone in
cui preparano il pasto del genio... è questa vasca! I costumi erano fatti con gli odori che servono a insaporire il sugo. Agli ortaggi hanno dato l'aspetto di palloni. Appena abbiamo varcato la soglia di questa sala siamo finiti vittime di un incantesimo, abbiamo provato subito il bisogno di nuotare... è così dunque che funzionano le cose? I cuochi aprono le porte della cella, liberano i bambini... che a quel punto si precipitano verso l'uscita nella speranza di fuggire; ma i corridoi truccati li riconducono qui, invariabilmente... S'irrigidì, terrorizzata dalla realtà della situazione. No, non stava facendo il bagno, stava cuocendo in una zuppa! C'era qualcosa nell'acqua che la costringeva a dormire. Se non avesse resistito, sarebbe sprofondata nel sonno trasformandosi in un bollito di carne senza neppure accorgersene. Qualcuno la toccò sulla spalla. Si girò e vide il 'cane blu' che cercava di ghermirla con gli artigli. In modo goffo, si sforzava di trascinarla verso il bordo della vasca per poi ripescarla. Provò un'immensa gratitudine per quella povera creatura impacciata dalle sue identità multiple e dal suo corpo di ricambio, ma che, dopo averla tradita, s'intestardiva a salvarle la vita per l'ennesima volta. Come fu alla sua portata, la afferrò sotto le ascelle tirandola fuori dall'acqua bollente in cui stava cuocendo a fuoco lento. Peggy Sue voleva ringraziarlo, ma dalla bocca non le uscì alcun suono. Si allontanò dalla vasca strisciando sulle piastrelle. Ora che si trovava all'asciutto, si rendeva conto di quanto fosse elevata la temperatura dell'acqua. Gli altri! pensò all'improvviso. Bisogna ripescarli! Presto! Il 'cane blu' era andato a prenderle un accappatoio. Peggy se lo infilò alla bell'e meglio. «Gli... gli altri...» riuscì a stento ad articolare, abbozzando un gesto in direzione della vasca. «Falli uscire... anche loro... prima che siano cotti...» Faceva fatica a esprimersi. Si sentiva la lingua di legno. Il ragazzo muto aveva capito il senso dei suoi farfugliamenti. Aiutandosi con gli artigli trascinò i ragazzi assopiti verso il bordo della piscina. Peggy Sue li issò sul pavimento. Appena Sébastian riemerse dall'acqua, si mise a scuoterlo. Per farlo rinvenire fu sufficiente un bel paio di schiaffi. In due parole la ragazza gli spiegò l'accaduto. «Aiutami...» gli sussurrò. «Serviamo tutti e tre. Alcuni ragazzini sono molto pesanti, da sola non ce la faccio.»
Sébastian si raddrizzò barcollando. Aveva la pelle color rosso fuoco in tutti i punti in cui era stato immerso nel brodo. Rimase tremendamente imbarazzato quando scoprì che il suo slip di erbe si era fuso nella zuppa. Si affrettò a infilare i vestiti ancor prima di dare manforte a Peggy Sue. Aiutati dal ragazzo muto, riuscirono a ripescare alla bell'e meglio tutti quanti. Nella sala faceva un caldo atroce perché l'acqua nella vasca cominciava a bollire ferocemente. «Ci siamo salvati per un soffio» sussurrò Peggy. «Mi sarei cotta, senza il cane blu.» Fortunatamente, non si erano bruciati troppo né l'uno né l'altra. La ragazza cominciò a scuotere i bambini per farli uscire dallo stato di ebetudine in cui li aveva sprofondati il maleficio dei cuochi. «Dobbiamo andarcene di qui» ripeteva. «Sennò il vapore ci ustionerà.» Sébastian lanciò un'ultima occhiata alla piscina maledetta. «Immagino che quando il sugo è cotto a puntino,» disse «in fondo alla vasca si apre una valvola. Il cibo poi si riversa in una tubazione che termina in prossimità della bocca del genio. A quel punto per alimentarlo basta collegare un banale tubicino.» I ragazzini si risvegliarono mugugnando. Alcuni si lamentavano per le bruciature. «Vi cureremo fuori,» li esortò Peggy Sue «quando avremo finalmente abbandonato il castello. Adesso basta correre a caso. Mi seguirete in silenzio. Ci resta un ultimo lavoro da compiere, poi, con un po' di fortuna, saremo tutti liberi.» E, voltandosi verso Sébastian, gli bisbigliò: «L'importante è risvegliare il genio il più in fretta possibile, solo lui può rimettere ordine in questo caos. Scendiamo nella sala macchine, è ora di farla finita.» Cercò di orientarsi tenendo conto della continua metamorfosi dei corridoi. Quando scompariva una porta, attendeva pazientemente che si completasse il ciclo delle trasformazioni e che l'apertura riapparisse. Alla fine localizzò la scala che conduceva al piano della sala motori. «Vedi niente?» le chiese ansiosamente Sébastian. «Per me questa cripta è vuota.» Peggy Sue aggrottò le sopracciglia. Dinanzi a lei si ergeva un mostruoso intreccio di bielle e ingranaggi. Se Sébastian non lo vedeva, non poteva si-
gnificare che una cosa... «Non sono veri ingranaggi» mormorò. «Non sono di metallo... sono fantasmi, fantasmi che hanno assunto la forma di un motore. Uniscono le loro forze per muovere le gambe di ferro del castello.» «Non ci capisco nulla» farfugliò Sébastian, ormai in preda al panico. «Il motore è proprio qui» gli spiegò Peggy. «Ma è invisibile perché è fatto di creature invisibili. Ciascuna ha la sua funzione, come in un vero motore, sommano le loro energie e il castello si muove al momento opportuno.» «Che cosa posso fare per aiutarti?» le chiese il ragazzo. «Nulla» sospirò Peggy Sue. «Devo sbrogliarmela da sola. Cercherò di sabotare la macchina distruggendo alcuni ingranaggi. Preparati al peggio, perché non ho la più pallida idea di cosa potrà accadere a quel punto.» Rimettendosi gli occhiali, strabuzzò gli occhi per concentrare lo sguardo. Sperava che le lenti magiche, filtrando il fascio che sarebbe scaturito dalle sue pupille, non la tradissero. Non sapeva da che parte attaccare. Gli ingranaggi si assomigliavano tutti, la disposizione delle bielle era priva di significato, per lei. Decise di colpire a caso. Un odore di caramello carbonizzato si diffuse nella cripta. «C'è puzza di caramello bruciato...» osservò Olga. Peggy contrasse le mascelle. I suoi occhi percorrevano il motore dall'alto verso il basso, da destra a sinistra, per cercare di provocare la maggior quantità di danni possibile. Gli ingranaggi si incurvavano e fondevano, generando delle bolle. Sorpresi dall'attacco, perdevano il loro aspetto metallico e il bel colore acciaio per ritornare biancastri, lasciando intuire la loro vera natura. «Peggy Sue! È Peggy Sue!» gemevano contorcendosi. «Quella piccola peste dunque non si è ancora trasformata in timballo di carne? Ah, chi ci libererà da Peggy Sue?» Lentamente, la macchina si decomponeva. Il dolore scatenava negli Invisibili delle reazioni bizzarre. Si agitavano in tutte le direzioni, azionando involontariamente il meccanismo delle gambe articolate che sostenevano il castello. L'edificio si dimenava e sussultava come se stesse per smembrarsi. Peggy finì scaraventata a terra con i suoi compagni. Presi dal panico, gli Invisibili si spintonavano sabotando senza volerlo il motore di cui loro stessi erano i componenti. Quella frenesia aveva ridestato le gambe metalliche che, non limitandosi più a cullare il castello, si erano messe a trotterellare, sicché adesso il mostruoso edificio correva in mezzo al giardino,
simile a una testuggine gigantesca che ha smarrito l'orientamento. «Filiamocela!» urlò Sébastian. «Sta per crollare tutto. Il castello non è stato concepito per galoppare come un cavallo imbizzarrito!» Peggy era dello stesso avviso. In diversi punti della muratura cominciavano già ad apparire delle crepe. «Cerchiamo di trovare il ponte levatoio...» esclamò. «Forse riusciremo ancora a saltare in corsa.» Uscirono dalla cripta vacillando, perché le scosse del maniero non cessavano di sbilanciarli. Un vento di follia soffiava sul castello che ora correva, ora saltava come una ranocchia gigantesca. Ogni volta che le gambe di ferro riprendevano contatto con il terreno, franavano muri, crollavano scale. Peggy Sue e i suoi amici galoppavano in mezzo a quella baraonda sforzandosi di localizzare l'uscita. Fortunatamente, il crollo delle pareti rendeva più agevole il compito. Raggiunsero finalmente il ponte levatoio, ma la visione che ebbero a quel punto fece loro drizzare i capelli. Il castello, impazzito, calpestava allegramente il giardino, buttando all'aria i cespugli di fiori, sfondando i vialetti, schiacciando gli alberi. Le gambe d'acciaio articolate si piegavano e si distendevano a ritmo sempre più rapido, dissodando il terreno in tutte le direzioni. «Se saltiamo ci stritolerà!» gridò Peggy Sue. Non poté aggiungere altro, perché una seconda scossa la proiettò dieci metri più avanti, separandola dagli altri. Il caos più totale regnava sia all'interno sia all'esterno. Le torri si staccavano dai bastioni e si schiantavano nel giardino conficcandosi in profondità come delle granate piombate dalle nuvole. «Non sopravviveremo!» gemette Peggy vedendo la volta incrinarsi sopra la sua testa. Tutt'a un tratto, le gambe del fianco sinistro cedettero e il castello iniziò a inclinarsi pericolosamente. Putrelle e bielle si torsero con un pauroso rumore di ferraglia per poi fermarsi. Solo le gambe del lato destro continuavano a muoversi, ma non avevano più forza sufficiente per spostare da sole l'edificio. Si udì un ultimo frastuono metallico, poi il castello s'immobilizzò di traverso in mezzo al giardino, trasformato in un campo di battaglia. Allora, dal fondo del casermone, si udì uno sbadiglio. Era il genio, che, con tutto quel trambusto, aveva finito per svegliarsi. 23
Naufragio in pieno cielo Poco dopo che il castello si fu immobilizzato, gli Invisibili fuggirono. Peggy Sue li vide spiccare il volo in formazione compatta. Avevano assunto di nuovo il loro aspetto consueto. Presero quota fino a confondersi con le nuvole. I bambini si arrampicarono sul ponte levatoio. Dall'altro lato della staccionata bianca si andava accalcando una folla di curiosi. Tutti gli abitanti della zona dei sogni avevano assistito all'inverosimile sarabanda del maniero. Abbandonando le loro rispettive occupazioni, erano accorsi in massa nella speranza di ricavare delle informazioni. Peggy Sue ordinò ai suoi amici di lasciare l'edificio, nel timore che il genio, rialzandosi, facesse scoppiare il guscio che lo avvolgeva. Dovette prendere per mano il 'cane blu' perché, impacciato com'era nel suo nuovo corpo, pareva incapace di saltare senza spezzarsi le gambe. La ragazza non sapeva come comportarsi. Le faceva pena e si rammaricava di non poter stabilire la comunicazione mentale, come in passato. Mi manca, diceva tra sé. È diventato un altro... che strano. Riflettendo, capì che non poteva più chiamarlo 'il cane blu', e che avrebbe dovuto trovargli un nome da uomo. «Non vorrai mica portarti dietro quel rimbambito?» mugugnò Sébastian. «Ma guardalo! Non è capace nemmeno di mettere un piede davanti all'altro.» Il risveglio del genio risparmiò a Peggy di rispondere. Il castello - meno solido di quanto riteneva la generalessa Pickaboo - si spaccò sotto la spinta del suo inquilino. Quel che rimaneva dei bastioni e delle torri franò nel giardino, facendo apparire il bambino gigante, insonnolito e imbronciato, nei suoi vestiti rattoppati. Come chiunque abbia dormito diversi secoli difilato, stentava a riprendere contatto con la realtà. «Gli ci vorrebbe un buon caffè» mormorò Olga. * Nell'ora che seguì, le autorità del miraggio presero in mano le redini della situazione. Peggy Sue e i suoi amici furono pregati di sgombrare il campo perché la generalessa Pickaboo aveva intenzione di intrattenersi col ge-
nio sui problemi sopraggiunti in sua assenza. «Che palloni gonfiati!» brontolò Sébastian. «È tutto merito nostro e ci mettono alla porta come gli ultimi arrivati!» Ma il popolo dei Minuscoli stava perdendo la pazienza. Esigevano di essere restituiti alle loro dimensioni normali. Bisognava accertare chi fosse il responsabile del caos per punirlo! Parlavano tutti contemporaneamente. Peggy Sue prese per mano il bambino muto e si allontanò da quella sgradevole sinfonia. Non si aspettava di essere trattata da eroina, desiderava soltanto che fosse ristabilita l'armonia per poter fare ritorno a casa... in compagnia della sua famiglia. La folla che si pressava lungo la sterminata staccionata bianca, curiosa di scoprire che faccia avesse il genio, cominciò a ondeggiare. «È un bambino!» gridarono sorpresi. «Un bambino gigante, ma comunque un bambino.» La sua smorfia imbronciata, tipica di chi si è svegliato male, non era affatto rassicurante. Per il momento se ne stava seduto tra le rovine del castello, gli occhi semichiusi, come se esitasse sul comportamento da tenere. La generalessa Pickaboo, assai seccata, annunciò che la sua voce era troppo debole perché un simile colosso la potesse sentire. I responsabili si riunirono per decidere l'invio di un'ambasceria. Alla fine venne selezionata una delegazione formata dagli abitanti più anziani del mondo dei sogni. Né Peggy Sue né i suoi amici furono invitati a partecipare. L'incontro non andò bene, perché il bambino gigante stentava a capire quello che gli ambasciatori cercavano di spiegargli. Continuava a stropicciarsi gli occhi e a sbadigliare, e sembrava in grossa difficoltà a interessarsi ai problemi del mondo che lui stesso aveva creato. «Bisogna rimettere tutto in ordine» gracchiava con voce nasale la generalessa Pickaboo da dietro il megafono. «Il miraggio deve ritornare al più presto un luogo d'armonia, dove ognuno possa divertirsi a piacimento.» Mentre la generalessa parlava, Peggy Sue esaminava il giardino. Non ne restava granché. Gli stessi giardinieri-sentinella erano stati calpestati dalle gambe metalliche del maniero. I roseti non esistevano più. Nasty e le sue 'talpe' erano usciti dai cunicoli; Peggy li riconobbe tra la folla. Quando finalmente il gracidio della generalessa cessò, il genio prese la parola, con tono annoiato. Le sue frasi erano intervallate da lunghi sbadigli. «Capisco il senso delle vostre lamentele» borbottò. «Mi basta guardarmi attorno per rendermi conto che durante il mio sonno è andato tutto a roto-
li... Mi dispiace, ma francamente non sono in grado di dirvi cosa sia successo, perché ho fatto sempre sogni piacevoli. Non ho avuto nessun incubo, ragion per cui non riesco a spiegarmi il disordine che oggi vengo a scoprire.» Si capisce, pensò Peggy. Non sa che gli Invisibili trasformavano i sogni a sua insaputa. «Non è un problema,» intervenne la generalessa «adesso rimetterete tutto in ordine, e presto dimenticheremo questi brutti ricordi.» Sembrava aspettarsi che il genio potesse risolvere le cose con un semplice schioccare di dita, ma il bambino gigante scosse il capo. «Da sveglio non ho alcun potere magico» spiegò con aria mogia. «Divento identico a chiunque di voi. Per compiere i prodigi che invocate, devo riaddormentarmi. Soltanto nel sonno sono un mago.» La notizia gettò l'assemblea nella più profonda costernazione. Un brusio preoccupato attraversò la folla. Nessuno l'aveva previsto! Avevano sempre pensato che il genio, una volta svegliatosi, potesse porre rimedio alle catastrofi dei mesi passati con una semplice formula magica. «Sono davvero spiacente,» ripeté il bambino «capisco la vostra delusione, ma le cose non funzionano in questo modo. Posso dormire due o tre secoli difilato, e in questo lasso di tempo dispongo di poteri straordinari, ma se mi sveglio divento inerme come un qualunque mortale. Per fare ciò che mi chiedete, per prima cosa è necessario che mi riaddormenti.» «Non lo sapevo» farfugliò la generalessa, tutt'a un tratto meno sicura di sé. «Avete intenzione di ricoricarvi presto?» Il bambino gigante si strinse nelle spalle. Peggy capì che cominciava ad averne abbastanza di tutte quelle domande. «Non so cosa rispondervi» brontolò. «Mi sono appena svegliato da un sonno di parecchi secoli. Mi verrebbe da dire che mi sento sufficientemente riposato; potrebbe anche darsi, malauguratamente, che non provi il bisogno di riaddormentarmi prima di cinquecento anni.» «Cosa?» disse con un singulto la generalessa. «Cinque secoli? State scherzando?» «Sfortunatamente no» sospirò il genio. «È già successo in passato. È una cosa molto grave, perché i mondi da me creati non esistono che durante il mio sonno. Appena mi risveglio cominciano a disfarsi, a disgregarsi... È una legge magica contro la quale sono impotente. Se dovessi soffrire d'insonnia, l'universo in cui ci troviamo in questo momento inizierebbe a marcire e a smembrarsi, giorno dopo giorno, come un frutto dimenticato su un
tavolo sotto il sole. Lo stesso dicasi per gli altri universi nati dai miei sogni. Scoppieranno tutti, senza eccezioni, come una bolla di sapone... e coloro che vi abitano si ritroveranno catapultati nella realtà. Sapete che cosa significa?» «Sì» confessò la generalessa con voce strozzata. «Nel giro di pochi giorni si trasformerebbero in statue di sabbia, e il vento del deserto finirebbe per sparpagliarli.» «Esattamente» confermò il genio. «Sarebbe una sciagura, lo ammetto. Per impedire questa catastrofe devo riaddormentarmi, ve lo ripeto. Se ci riesco, mi metterò a riparare i miraggi uno a uno, dal fondo dei miei sogni, e tutto ritornerà come prima.» «Ma per far questo, dovete perdere conoscenza...» balbettò la generalessa Pickaboo con tono desolato. La folla era inchiodata dallo stupore. La stessa Peggy Sue si sentiva invadere dalla preoccupazione. Contemplando il bambino gigante, non riusciva in alcun modo a convincersi che fosse completamente sprovvisto di poteri magici. È come se gli avessero giocato un brutto tiro, pensò. Dovettero ritirarsi perché il genio dava segni di stanchezza. Aveva dormito così a lungo che aveva perso l'abitudine di chiacchierare. Dalla sua espressione era evidente che trovasse il mondo piuttosto brutto; e che preferiva senza la minima esitazione gli universi che visitava in sogno. «Questo significa che siamo ben lontani dall'aver risolto i nostri problemi» si lamentò la generalessa Pickaboo riattraversando la staccionata. «Non ho la più pallida idea di come sia possibile aiutare un gigante a riaddormentarsi. Propongo che il consiglio municipale si riunisca in seduta straordinaria per trovare una soluzione a questo problema imprevisto.» La folla si sciolse brontolando. Erano assai delusi. Peggy Sue rimase nascosta con i suoi amici dietro il fossato per osservare il comportamento del genio. In quel momento cercava di togliere di mezzo i detriti del castello per creare una nicchia in cui accovacciarsi al riparo da sguardi indiscreti. «Deve sentirsi a disagio» fece Olga. «Anche a me non piacerebbe sentirmi addosso tutti questi sguardi.» «Forse dovremmo lasciarlo tranquillo» suggerì Ronan. Sébastian si strinse nelle spalle. Era di umore nerissimo. «Che iella!» mugugnò. «Proprio quando pensavamo di aver portato a termine la missione: questa è proprio sfortuna!»
«È davvero così grave?» cercò d'informarsi Peggy. «Sì» sospirò il ragazzo. «Se il mondo del miraggio si disgrega, andrà tutto a rotoli. Immaginati di volare in un aereo di carta. Tutt'a un tratto arriva una tormenta, la fusoliera si squarcia, e i passeggeri cominciano a precipitare in picchiata verso terra. È esattamente ciò che accadrà. Se non si riaddormenta, siamo spacciati.» Non essendo possibile restarsene piantati lì, decisero di far ritorno al campo d'addestramento. Le tende erano vuote: adesso che la guerra contro i giardinieri era terminata, non si trovava più nessuno così desideroso d'avventura da volersi lanciare in territorio nemico. Gli adolescenti radunarono qualche sacco a pelo e si prepararono per la notte. Peggy Sue si prese cura del 'cane blu'... o piuttosto del piccolo ragazzo muto che, solo soletto in un cantuccio, era impegnato a lacerare una lunga fascia di tessuto per fabbricarsi una cravatta. Malauguratamente, le sue dita non erano abbastanza agili da riuscire a realizzare un nodo accettabile, perciò Peggy dovette andargli in aiuto. «Ecco, così stai bene» disse dopo aver terminato. «Non so che cosa accadrà, ma tu rimani sempre accanto a me, qualsiasi cosa succeda, chiaro?» Dopo tutte quelle emozioni, i ragazzini erano talmente stanchi che si addormentarono all'istante. * Quando si risvegliarono, era evidente che l'ordine delle cose si stava già guastando. «Ho fame» si lamentò Sébastian mettendosi seduto. «Erano quasi quarantacinque anni che non provavo questo bisogno. Per la miseria, mi sembra di avere un buco nello stomaco!» Peggy Sue provava la stessa sensazione. Questa volta non si trattava di semplice golosità, era una fame davvero reale quella che le faceva gorgogliare lo stomaco come una tubazione intasata. «Credevo che nel miraggio uno non avesse bisogno di mangiare!» frignò Olga. «Finora era vero,» fece Sébastian «ma le regole stanno cambiando.» «Ma ci sarà cibo a sufficienza per sfamare tutta la gente che vive qui?» si preoccupò Peggy Sue. «Non mi sembra che sia stato previsto.» «Certo che no» s'innervosì Sébastian. «Mangiavamo solo per il piacere del palato. Tutti i dolci che hai potuto vedere nelle vetrine dei negozi, in-
fatti, non hanno alcun potere nutritivo, sono semplici veli profumati, illusioni squisite e nient'altro. Ci si può rimpinzare tutto il giorno e rimanere con lo stomaco vuoto.» «Vuoi dire che se ci ritrovassimo improvvisamente nella necessità di dover mangiare, non ci salverebbero?» domandò Peggy. «Esattamente» rispose il ragazzo. Imbronciati, ripiegarono verso la città con l'intenzione di fare una passeggiata sulla spiaggia. Non ci misero molto a capire che le cose si stavano guastando, anche là. Il mare aveva mutato consistenza; le onde non si formavano più come prima, avevano l'aspetto di una crema verdastra che si andava addensando. Nuotatori e surfisti si staccavano di dosso i flutti appiccicosi con smorfie disgustate. «È come fare il bagno in un brodo vegetale!» gridò uno. «Guarda,» sussurrò Peggy Sue afferrando il gomito di Sébastian «le nuvole stanno scendendo.» Cumuli e nembi zigzagavano nel cielo come aerei senza pilota. Peggy non aveva mai visto una nuvola comportarsi in quel modo. «Stanno precipitando» li avvisò un nuotatore gridando. «Ne ho viste cadere in mare già tre, un'ora fa. Si sono disciolte nelle onde... È a causa loro che il mare ha assunto questa consistenza gelatinosa. Si sta staccando tutto. Dopo le nuvole, saranno le stelle a sganciarsi dalla volta celeste.» «Ha ragione» mormorò Sébastian. «Quanto più il genio tarderà a riaddormentarsi, tanto più il miraggio si sfalderà.» Un'ora dopo, nei pressi della staccionata bianca s'innalzarono dei canti. La generalessa Pickaboo aveva riunito in gran fretta un coro, la cui missione consisteva nel ripetere all'infinito delle ninne nanne per il mago bambino, fino a farlo piombare in un sonno profondo. Erano almeno mille i cantori che avevano preso posto al limitare del giardino devastato, con lo spartito in mano, per passare in rassegna tutte le ninne nanne che erano in grado di ricordarsi. Quanto al genio, accovacciato tra le rovine del suo castello, rimaneva invisibile. Peggy Sue sapeva che il modo migliore per restare insonne era proprio quello di sentirsi ripetere che bisogna dormire. Se fosse stata al posto del gigante, aveva la sensazione che le nenie della generalessa Pickaboo le avrebbero dato terribilmente sui nervi.
I ragazzi batterono in ritirata per paura che le autorità locali decidessero di reclutarli. Passarono l'intera giornata a vagabondare nelle strade della cittadina balneare. La gente, tormentata dai morsi della fame, faceva la coda davanti alle panetterie. Ne usciva stracarica di dolci che poi ingurgitava frettolosamente impiastricciandosi di panna. «Chi le fa queste paste?» chiese Peggy Sue. «Nessuno» sospirò Sébastian. «Escono da un forno magico che era inesauribile, fino a oggi. Ma rimpinzarsene non serve a niente. Te lo ripeto: non hanno alcun potere nutritivo, è come mangiare aria profumata di cioccolato. Con l'aria non si è mai sfamato nessuno.» «In ogni caso devono essere buone» fantasticò Olga, già con l'acquolina in bocca. «È solo un miraggio» biascicò Sébastian. «Il sapore è squisito ma lo stomaco resta vuoto.» La ragazzina non sembrava convinta. Poco dopo, infatti, abbandonò i compagni per andare a mettersi in fila all'entrata di un forno. Ronan la raggiunse quasi subito. «È inutile impedirglielo» osservò Sébastian con un gesto stanco. «Impareranno a loro spese che non ho mentito.» Peggy Sue si rese conto che moriva dalla voglia di imitarli, ma non ebbe il coraggio di confessarlo al suo compagno. «Tanto i forni magici si romperanno molto presto» fece il ragazzo. «È solo questione di ore.» * Verso sera, il terreno cominciò a farsi molliccio. Benché non avesse piovuto, la terra si stava trasformando in una melma che rimaneva incollata alle suole delle scarpe. Olga e Ronan non erano ancora ricomparsi. Peggy Sue si sentiva sopraffatta dalla stanchezza. Non aveva mollato neppure per un istante la mano del ragazzino muto, per paura che corresse anche lui all'assalto di una pasticceria. Stavano morendo tutti di fame. Stremati, si sedettero su una panchina al centro di una piazza deserta. Peggy sollevò la testa per scrutare il cielo. Chi avrebbe provveduto a spegnere la lampada del sole, adesso che i giardinieri-scheletri erano stati travolti dal castello impazzito? Sarebbero stati costretti a vivere sotto una luce implacabile? A meno che non si stacchi anche il finto sole, pensò la ragazza con un
brivido. E che non si schianti sulla città... «Che dimensioni ha la lampadina che svolge le funzioni del sole?» domandò a Sébastian. «Non lo so» confessò il ragazzo sollevando il naso verso la volta celeste. «Ma non preoccuparti, il pericolo non verrà dall'alto. Piuttosto, sarà il terreno a ritirarsi sotto i nostri piedi. Guarda! La panchina su cui siamo seduti sta sprofondando sotto il nostro peso...» Peggy gettò una breve occhiata attorno a sé, soffocando un grido di sorpresa. «Non è solo la panchina!» ansimò. «Anche le case stanno sprofondando. S'inclinano su un lato.» «Da domani, i più pesanti tra noi saranno risucchiati nel terreno» profetizzò Sébastian. «Attraverseranno il guscio che avvolge il miraggio e cadranno nella realtà. Se il genio non si addormenta nel giro di due ore, quest'universo finirà per schiantarsi nel deserto come un vecchio aereo sgangherato!» «Anche gli altri miraggi faranno la stessa fine?» chiese Peggy. «Sì» confermò il ragazzo. «Tutti gli universi usciti dalla testa del genio marciranno allo stesso modo e nello stesso istante. I loro abitanti ruzzoleranno giù nello stesso luogo. E questo riguarda anche te. Avendo vissuto all'interno di un miraggio sei sottoposta alle stesse leggi. Se non riesci a mantenere inalterato il tuo tasso d'umidità, ti trasformerai in una statua di sabbia, ti sbriciolerai.» «Lo so» sibilò tra i denti Peggy Sue. «Non aggiungere altro, sono già abbastanza spaventata!» Si sentiva impazzire dall'impotenza. Avrebbe desiderato poter costringere il mago bambino a riaddormentarsi; ahimè, non ne aveva i mezzi. Rimasero in silenzio. I colori cominciavano a ritirarsi dagli oggetti. Colavano sul terreno impregnandolo e formando delle pozzanghere gialle, azzurre, che finivano per mescolarsi in una fanghiglia grigiastra. I fiori diventavano bianchi, le case diventavano bianche, gli alberi, gli... «È solo l'inizio,» bofonchiò Sébastian «ben presto ogni cosa diventerà trasparente. I fiori, le case, tutto sembra fatto di vetro.» Il sole continuò a brillare ininterrottamente. Peggy Sue temeva che, surriscaldandosi, finisse per fulminarsi, come una lampadina che rimane accesa per troppo tempo. Le nuvole, dal canto loro, ruzzolavano nell'oceano una dopo l'altra. Sembravano dei grossi mucchi di panna montata che si
staccavano dalla volta celeste. Diluendosi nel mare modificavano il colore delle onde, facendolo passare dal turchino a un celeste da neonati. Era uno spettacolo estremamente curioso. Scontenti, i pesci uscirono dall'acqua per andare a strisciare sulla sabbia. Stabilirono che le loro condizioni di lavoro si erano troppo degradate e che non potevano nuotare in una zuppa così densa. Neanche il colore era più di loro gradimento. «Non è serio!» affermarono. Peggy Sue sapeva che non doveva sorprendersi di nulla; erano in un miraggio, non nella realtà. «E poi le nuvole sono dolci,» si lamentò il portavoce del Sindacato dei Pesci «sciolte nell'acqua salata del mare esce fuori una miscela orribile che ci fa venire la nausea.» Pretesero di incontrarsi con la generalessa Pickaboo, ma questa, alla testa del coro, aveva ben altre gatte da pelare. «La massa delle nubi naufragate sta facendo innalzare il livello del mare» osservò Sébastian. «Finiremo sommersi. Dobbiamo allontanarci dalla spiaggia.» Peggy Sue annuì distrattamente. Stava morendo di fame, avrebbe volentieri rinunciato a una mano per un vassoio di cornetti caldi! Avanzava barcollando, con le gambe di pastafrolla. Sébastian era più allenato; quanto al 'cane blu', guaiva ogni volta che passavano davanti a una panetteria. D'altra parte i forni magici non avevano più molto da offrire. Come previsto da Sébastian, avevano finito per guastarsi, e i clienti se ne andavano via a mani vuote. Peggy si guardava attorno per cercare di scorgere Olga e Ronan. Non era facile, perché le strade si andavano riempiendo di una folla allucinata che correva in tutte le direzioni. In lontananza, i cantori, stanchi di tubare, cominciavano a esser traditi dalle loro corde vocali. Le ninne nanne si andavano trasformando in un concerto stonato. Facevano venir voglia di tapparsi le orecchie, non di addormentarsi! I ragazzi incontravano sempre maggiore difficoltà ad avanzare, perché i marciapiedi avevano ormai assunto la consistenza di un chewing-gum masticato. S'incollavano alle suole. «Sto sprofondando!» gemette all'improvviso Peggy Sue. «Guarda! Non vedo più le mie caviglie...» «Ci siamo,» mormorò Sébastian «il miraggio si sta liquefacendo, tra poco ci sgancerà nella realtà.» «E se ci arrampicassimo su un tetto?» propose la ragazza.
«Sarebbe ancora peggio. Gli oggetti più pesanti saranno i primi a bucare il 'pavimento'. Guarda i palazzi! Alcuni sono già sprofondati fino al primo piano.» «Non è che moriremo, cadendo così dall'alto?» si preoccupò Peggy. «No,» le spiegò Sébastian «perché non siamo più del tutto umani, te l'ho già detto. Il vero pericolo verrà dopo, quando cominceremo a essiccarci.» Questa spiegazione non tranquillizzò più di tanto Peggy Sue, che s'immaginava già a volteggiare in aria come un aviatore che non riesce ad aprire il suo paracadute. * Nell'ora che seguì, le case si inabissarono una dopo l'altra. Sprofondavano di botto nel terreno cedevole, con un 'plop' da tappo di champagne. La cavità originata dalla loro scomparsa si richiudeva immediatamente e la strada tornava di nuovo liscia, come se in quel punto non fosse mai sorto alcun edificio. La città si diradava. Là dove appena un'ora prima sorgevano fitte schiere di casette adorne di fiori, adesso si estendevano delle pianure. Il miraggio si trasformerà in un deserto, pensò Peggy Sue. Presto non resterà più nulla della zona dei sogni. Se ne andarono via anche gli alberi. Poi le statue delle piazze, i baracconi della fiera, le automobiline da scontro viventi piene di ferite e bernoccoli... Sparì tutto. Plop, plop, plop... ogni scomparsa generava interminabili echi sotto la volta celeste. Il panico si impossessò della folla che cominciò a defluire scompostamente verso la staccionata bianca. Vedendo sbucare quei fuggiaschi sgomenti, i cantori di ninne nanne si ammutolirono. I Minuscoli cacciarono grida di terrore perché temevano i parapiglia più d'ogni altra cosa. Peggy Sue si ritrovò separata da Sébastian e dal ragazzino muto. Il genio si era drizzato tra le rovine del castello. Col capo sollevato, ispezionava il cielo già incrinato da grosse fenditure. «Mi dispiace,» disse ad alta voce «ma è la fine. Il miraggio si sta sciogliendo... preparatevi ad abbandonarlo. Mi auguro che atterriate nei pressi di un punto d'acqua.» L'annuncio venne accolto da lamenti. Facendosi largo coi gomiti, Peggy Sue cercava di liberarsi dalla ressa per ritrovare i suoi compagni. Attorno a lei, la gente sembrava come impantanata nelle sabbie mobili.
Sprofondati fino alla cintola nel terreno molliccio, si dibattevano senza riuscire a sottrarsi alla trappola che si richiudeva su di loro. Plop, plop, plop... I paletti della staccionata bianca s'inabissarono. Poi fu la volta delle rovine del castello. Di tutti i presenti, il primo a essere inghiottito fu il genio stesso, perché era quello che pesava di più. Peggy Sue non ebbe nemmeno il tempo di lamentarsi: capì a un tratto che stava sprofondando anche lei. Lottando contro il panico, si riempì d'aria i polmoni, come se dovesse immergersi in una piscina. Passò un brutto momento quando attraversò lo spessore gommoso che costituiva l'involucro del miraggio, poi si ritrovò dall'altra parte... Cominciò a turbinare nel vuoto, a mille metri da terra, con le braccia e le gambe completamente divaricate per la pressione dell'aria. Pensò che il vento le avrebbe strappato via i vestiti. Si mise a gridare senza però che questo rallentasse minimamente la caduta. Attorno a lei decine di persone stavano precipitando, anche loro in caduta libera, con una smorfia di terrore stampata sul viso. Molto più in basso distinse le case, gli alberi, tutti i pezzi staccatisi dal miraggio che ruzzolavano giù come pacchi paracadutati da un cargo. Sentiva freddo, il vento le tirava i capelli all'indietro e le modellava il viso come se fosse di plastilina. Mi sfracellerò! pensò con orrore in un primo momento, poi si ricordò quello che le aveva detto Sébastian: non era più umana. Il soggiorno nell'universo del miraggio l'aveva trasformata. Passò attraverso diverse nuvole, con la sensazione di essere immersa in una nebbia bagnata. Alla fine intravide la terra, lontano, in basso... La terra, o piuttosto la sabbia gialla del deserto. Cercò di approfittarne per orientarsi. Dove si trovava l'aeroporto abbandonato? Era lì che avrebbe dovuto cercare riparo dal sole. Gli hangar erano abbastanza grandi da ospitare centinaia di persone. A un certo punto ebbe la sensazione di precipitare più rapidamente, e strinse i denti. Il terreno si avvicinava a velocità allucinante. Quanto avrebbe desiderato disporre di un paracadute! L'impatto fu tremendo. Ruzzolò sulla sabbia, convinta di essersi spezzata le ossa. Stavolta non ci sono dubbi, pensò, mi sono spappolata... Rimase distesa senza trovare il coraggio di muoversi. Aveva la testa che rimbombava come una campana. Dappertutto attorno a lei il suolo tremava per l'impatto degli oggetti che arrivavano al capolinea del loro viaggio.
Bum... bum... bum... Era come un curioso bombardamento che lasciava la gente, le case, gli alberi conficcati di traverso, talvolta a testa in giù! Curiosamente non si ruppe nulla, nessuno rimase ferito. Peggy Sue si rialzò. Era intatta, senza neppure una sbucciatura, soltanto un po' stordita. Con lo sguardo, cercò Sébastian e il 'cane blu', ma il deserto era vasto e i naufraghi si erano sparpagliati in un'area di parecchi chilometri quadrati. Sperò che avessero avuto entrambi l'idea di raggiungere l'aeroporto. La gente si risollevava toccandosi il corpo, per accertarsi che non mancasse nulla. «Dobbiamo andare da questa parte!» li esortò Peggy Sue. «C'è un aeroporto abbandonato. Mi sentite? Non bisogna restare al sole. Si essiccherà tutto, anche le case. Capite quello che dico?» Dato che nessuno le rispondeva, decise di dare l'esempio. Cercò di orientarsi e si mise in cammino. Calcolò che ci sarebbe voluta almeno un'ora per raggiungere la vecchia pista d'atterraggio. Avrebbe fatto in tempo... oppure si sarebbe ridotta in polvere strada facendo? 24 I compagni della polvere Lungo il cammino si guardò attorno. Sconosciuti, palazzi e foreste continuavano a cadere a decine dall'alto delle nuvole. Tutti i miraggi generati dalle fantasticherie del genio scoppiavano uno dopo l'altro, sganciando nel vuoto le loro città, i loro abitanti. A questo ritmo, pensò Peggy, il deserto diventerà ben presto sovraffollato! Era costretta ad avanzare col naso all'insù per evitare di beccarsi un palazzo tra capo e collo. La cosa più curiosa erano gli alberi che si conficcavano nella sabbia, con un rumore sordo, in così gran numero che tra le dune si stava già formando una foresta. Ma la ragazza non si lasciava distrarre da quello spettacolo inconsueto, procedeva con passo deciso ispezionandosi la pelle delle braccia a intervalli regolari. Tremava al pensiero di vederla sbriciolarsi, poiché cominciava a soffrire la sete. Un rombo di motore attirò la sua attenzione. Un camioncino sgangherato si stava dirigendo verso di lei. Al volante c'era un vecchio. Peggy Sue riconobbe Paco il messicano, il fratello minore di Sébastian!
Il vegliardo arrestò il veicolo e aprì la portiera. «Quando ho visto delle cose cadere dal cielo ho capito immediatamente» esordì. «Non ti sei fatta niente, grazie a Dio! Vieni all'ombra. Dietro ci sono delle taniche d'acqua, potrai dissetarti.» La ragazza non si fece pregare due volte. Non appena ebbe finito di bere, Paco iniziò a tempestarla di domande. Che cosa aveva visto lassù? Dove si trovava Sébastian? Dovette chiedergli di tacere per riuscire a spiegare che cosa stava accadendo. «Centinaia di persone stanno ruzzolando giù dal cielo» mormorò. «Dovremo trovare un riparo, ma soprattutto abbastanza acqua per impedire che il loro corpo si sgretoli.» «Mi sono fermato all'aeroporto,» disse Paco «ho aggiustato le tubature. Adesso funzionano tutti i rubinetti. È già qualcosa.» * Dopo aver accompagnato la ragazza all'aeroporto, Paco ripartì subito verso il deserto, con la ferma intenzione di ritrovare Sébastian. Ne avrebbe approfittato, annunciò, per guidare la gente. Peggy Sue, invece, corse sotto la doccia e poi si cambiò i vestiti. Ormai aveva paura del sole e si spostava con prudenza all'ombra dei fabbricati. Mentre attraversava la mensa degli aviatori, si chiese con angoscia come fare per sfamare i rifugiati che, entro poche ore, avrebbero invaso la vecchia pista di decollo. Lei stessa stava già morendo di fame e si era preparata un panino alla spicciolata. Decise di arrampicarsi sulla torre di controllo per sorvegliare il deserto. Da lassù avrebbe visto avvicinarsi i naufraghi del miraggio. Con un po' di fortuna, tra loro ci sarebbero stati anche i suoi genitori. Nella sala panoramica regnava un caldo micidiale, e le tormente di polvere secca, infiltrandosi tra i vetri infranti, avevano a poco a poco ricoperto le apparecchiature con uno spesso strato di sabbia. Sul coperchio di una ricetrasmittente fuori uso giaceva un potente binocolo. Se ne impossessò. Ciò che vide le tolse il fiato. Il deserto pullulava di case e alberi a perdita d'occhio. Le città cadute dalle nuvole si erano riformate senza un ordine preciso. Certi palazzi giacevano impilati gli uni sugli altri, le statue e le panchine delle piazze troneggiavano sui tetti. Alcune case presentavano addirittura la particolarità di un albero conficcato nel comignolo! Curio-
samente, grazie ai poteri magici del miraggio, non si era fotto nulla. Abbandonando quello spettacolo bizzarro, Peggy Sue si sforzò di identificare la gente in marcia. Emise un sospiro di sollievo quando riconobbe Sébastian e il ragazzino muto. Per fortuna andavano nella direzione giusta! Col binocolo incollato agli occhi, rimase il più a lungo possibile nella sala controllo nella speranza di riuscire ad avvistare i genitori. Faceva un caldo davvero insopportabile e le sembrava che la pelle scricchiolasse per effetto dell'evaporazione. Si toccò il viso diverse volte per accertarsi che il naso non si stesse trasformando in una scultura di sabbia. Sarebbe stato terribile, se a un tratto si fosse staccato! Quando non fu più in grado di sopportare quell'atmosfera da serra tropicale, si precipitò giù per le scale per rincantucciarsi al piano terra dove faceva più fresco, e tracannò uno dopo l'altro tre bei bicchieri d'acqua ghiacciata. * I primi naufraghi riportati da Paco affermarono di non ritenersi per nulla soddisfatti del posto in cui si trovavano. «Ma è orribile!» protestarono. «Dove sono gli impianti da gioco? E il mare? Dov'è il mare?» «Sì, è vero!» s'indignò un ragazzo. «Io partecipavo alle gare dei delfini... Domani doveva esserci il Gran Premio e io sono il favorito, come pensate di riuscire a installare un oceano in così poco tempo?» Accerchiavano Peggy gesticolando e asfissiandola con stupide rivendicazioni. La vita all'interno dei miraggi li aveva abituati a vedere esauditi all'istante i desideri più folli. Si comportavano come bambini capricciosi. Peggy fu a un pelo dall'ordinare loro di tacere. Sempre più gente affollava la pista. Alcuni portavano sotto il braccio una tavola da surf, altri indossavano abiti stravaganti. Certi avevano le ali sulla schiena o il corpo coperto di scaglie, a seconda se avevano scelto di vivere in aria o negli abissi marini. «Ascoltatemi!» urlò Peggy. «Non siamo più in un miraggio. Siete atterrati nella realtà... una realtà che alcuni di voi hanno abbandonato da tantissimo tempo. La magia che ancora c'impregna a poco a poco si attenuerà. Di qui a qualche giorno non ci proteggerà più. Pagheremo il prezzo delle stravaganze alle quali ci eravamo abituati nel mondo delle meraviglie.» La folla cominciò a sbadigliare platealmente. Molti si voltarono. Non e-
rano più abituati ad accettare la benché minima costrizione. Quella ragazza occhialuta annunciava soltanto cattive notizie, non avevano voglia di ascoltarla. «Potrebbe essere una pista di decollo per uccelli giganti» borbottò un ragazzo esaminando il terreno. «In ogni caso, questi edifici sono di una bruttezza oscena» decretò la madre curiosando tra gli hangar. «Non ci metterò mai piede! Esigo una casa vivente, con delle pareti che cantino... e una moquette fatta di veri fiori di campo!» Un uomo alzò la testa per osservare il sole e dichiarò con voce stentorea: «La luce del cielo non è ben regolata, è troppo forte. Qualcuno dovrebbe pensare a diminuirne l'intensità. Dov'è il termostato?» «È vero!» approvò la donna. «È troppo bianca. La vorrei rosa. Vado a dirlo al responsabile. Dov'è? Chi si occupa di regolare il paesaggio, qui? Questa sabbia è troppo gialla, è monotona. Non potremmo fare in modo di avere un deserto a pallini blu?» Nonostante i suoi sforzi, Peggy Sue non riuscì a farsi ascoltare. Nessuno voleva ammettere che l'epoca delle vacanze magiche era finita. Ben presto, i naufraghi decisero di tornare ad abitare nelle case conficcate nel deserto. D'altra parte nel suo stato attuale, ricoperto da una città e da una foresta, non era più un vero deserto! * Finalmente arrivarono anche Sébastian e il cane blu. Peggy si affrettò a condurli nello spogliatoio del pianterreno. «Almeno qui c'è acqua!» sospirò il ragazzo. «Ma il cibo?» si preoccupò Peggy Sue. «Ho già fame. Come faremo a saziare tutta questa gente?» «Non abbiamo ancora una reale necessità di mangiare» rispose Sébastian. «È solo una prima avvisaglia. Significa che la nostra natura magica sta cominciando ad attenuarsi. Nel giro di tre giorni avremo una sete paurosa; dovremo stare alla larga dal sole, acquattandoci negli angoli d'ombra... e bagnarci spesso. Le case diventeranno di sabbia, come pure gli alberi. Il vento li sparpaglierà. Questa città e questa foresta si trasformeranno in una polvere gialla che andrà a ingrossare le dune dei dintorni.» «Ho cercato di metterli in guardia» sussurrò Peggy indicando i naufraghi
che raggiungevano le loro case con passo deciso. «Non hanno voluto ascoltarmi.» «È normale» fece Sébastian. «Si sono assuefatti a vedere l'universo piegarsi a ogni loro minimo capriccio. Non vogliono ammettere che le cose siano cambiate.» * Al calare della sera, Paco portò alla pista di decollo la generalessa Pickaboo e il suo stato maggiore. Poi il genio fece capolino dalle dune e iniziò a dirigersi verso l'aeroporto. Sembrava costernato dalla piega presa dagli eventi. «Bisogna riorganizzare il coro!» strepitava con voce nasale la generalessa dal fondo della scatola da scarpe in cui l'aveva sistemata Paco. «È la prima cosa da fare!» Il genio camminava in mezzo alla pista di decollo. La sua testa sfiorava il tetto degli hangar. Benché impressionata dalle sue dimensioni, Peggy Sue gli andò incontro. Non sapeva come rivolgergli la parola. Fino a quel momento non aveva mai avvicinato personaggi del genere. Occorreva parlargli come a un'altezza reale? Optò per la forma più semplice, e disse: «Hai intenzione di riaddormentarti, prima che si verifichi una catastrofe?» Il volto del bambino gigante si contrasse in una smorfia. «Non so che dire, purtroppo» buttò lì con voce desolata. «Ho dormito così a lungo! Mi viene da pensare che non avrò mai più bisogno di dormire. È terribile, perché sento che comincio già ad annoiarmi. Non so far altro che sognare... È il mio lavoro, sono fatto per questo. Nella vita reale non valgo nulla, sono un mostro da baraccone, una specie di balena di forme umane, buona soltanto per essere esibita al circo.» Sembrava sul punto di piangere. «Le ninne nanne della generalessa non ti aiutano?» cercò d'informarsi Peggy. «No» confessò il genio. «Mi danno sui nervi, è incredibile quanto sia stonata quella gente! Se tu riuscissi a convincerli di smetterla, sarebbe un bene.» Si chinò per ispezionare l'interno di un hangar. «Mi sistemerò qui al buio» annunciò. «Forse mi faciliterà il sonno.»
«Ma fa un caldo terribile!» esclamò Peggy Sue. «Non ha importanza. Sono un genio, non sono sensibile alle condizioni climatiche di questo mondo.» Presa quella decisione, s'intrufolò carponi nell'hangar e si rannicchiò accanto a un vecchio aereo che, al suo cospetto, aveva l'aria di un giocattolo di latta tutto rotto. Stava facendo notte. Peggy Sue approfittò dell'ultima luce del giorno per aiutare i rifugiati che lo desideravano a raggiungere l'ex dormitorio degli aviatori. Si rivelarono purtroppo assai poco numerosi, dato che la gran parte dei naufraghi aveva preferito far ritorno alle vecchie dimore. «Non c'è verso di fargli intendere ragione» si lamentò la ragazza tornando dai suoi amici. «Hai visto Olga e Ronan, per caso?» «No,» fece Sébastian «adesso c'è troppa gente nel deserto. Non pensavo che ce ne fosse così tanta nei miraggi. Potrebbero nascere dei problemi se un aereo passasse da queste parti.» «Hai ragione!» esclamò Peggy. «Il pilota si chiederebbe sicuramente dov'è andato a cacciarsi il deserto e da dove è spuntata fuori questa città dalla sera alla mattina!» Prima di andare a dormire, Peggy Sue cercò di convincere la generalessa Pickaboo a porre fine al coro, che adesso si era piazzato davanti all'hangar del genio. Ahimè, la vecchia non volle sentire ragione. Restava convinta che la soavità dei canti intonati dai coristi sarebbe venuta a capo dell'insonnia del bambino gigante. Peggy dovette battere in ritirata, inseguita dal ronzio furioso della generalessa intrappolata come una vespa nella scatola da scarpe. * L'indomani, la famiglia di Peggy apparve in fondo alla pista. Papà Fairway indossava un'inverosimile camicia rosa a fiori gialli e portava sotto il braccio una tavola da surf. La mamma aveva un costume di scaglie argentate che le conferiva un'aria da sirena. Quanto a Julia, portava un tailleur nero molto aderente, calzava scarpe a tacco alto e teneva in mano una valigetta da donna in carriera. Avanzava con un telefonino incollato all'orecchio, gridando ordini secchi a un interlocutore invisibile. Peggy Sue corse verso di loro, ma non parvero sorpresi né particolarmente contenti di rivederla.
«Ah, sei qui?» borbottò il padre. «Che fine ha fatto l'oceano? Per la miseria! Oggi ho una gara importantissima. Lo sai che sono diventato ammaestratore di onde? Eseguono figure molto complesse: vortici, giravolte... Sono un campione, ho già vinto tre coppe! Quando uno è veramente bravo riesce a realizzare qualcosa di molto simile a vere e proprie sculture di forme viventi... si chiamano sculture d'acqua. Se arrivi a quel livello, sei veramente il campione dei campioni!» Parlava senza nemmeno riprendere fiato, con una mano sulla fronte a mo' di visiera per cercare di individuare il mare. «Sabbia!» bofonchiò. «Nient'altro che sabbia...» Peggy Sue strabuzzò gli occhi. Si era appena resa conto che la mamma non indossava un costume da bagno. Le scaglie disseminate sul suo corpo erano autentiche. «Ti... ti stai trasformando in una sirena?» farfugliò la ragazza. «Ma certo» fece la madre con tono distratto. «È molto più divertente che stare in cucina. Lassù, nel miraggio, ero la regina di una tribù di sirene, cantavamo per attirare i marinai verso gli scogli. Quando naufragavano, noi li portavamo in salvo e s'innamoravano di noi, era incredibilmente divertente! Anch'io ho bisogno d'acqua. Non resterò neanche un minuto di più in questo mondo di sabbia, è orrendo! Dov'è il responsabile?» «Io, invece,» fece Julia con voce tagliente «dirigevo trenta fabbriche, avevo ventimila lavoratori alle mie dipendenze. Costruivamo arcobaleni smontabili, che potevano essere usati come ponti. Erano molto più belli delle travi d'acciaio o di cemento. Da quando sono atterrata qui non riesco più a mettermi in contatto con il mio direttore commerciale! Ah, è una cosa intollerabile!» Si sono bevuti il cervello! pensò Peggy Sue, sconvolta. Penò parecchio a catturare la loro attenzione per istruirli sulle precauzioni da osservare: il sole, la disidratazione, le docce obbligatorie due volte al giorno... l'ascoltavano con orecchio distratto. «D'accordo, d'accordo,» la interruppe suo padre «ma a me interessa soltanto sapere quand'è che installeranno l'oceano. C'è abbastanza spazio, santo cielo! Il genio non deve far altro che scavare una grossa fossa, lì in mezzo. L'importante è che ci dia delle belle onde, tutto qui. Delle belle onde selvagge che ammaestrerò con vero piacere!» Più tardi, dopo essere riuscita a spingerli all'ombra di un fabbricato, Peggy Sue raccontò subito a Sébastian la sua disavventura. «È normale» le disse. «Sono come intossicati. Ci si abitua in fretta ai mi-
racoli, sai?» «Credi che ritorneranno normali?» s'impensierì Peggy. «Di solito i bambini considerano noiosi i propri genitori, vorrebbero che avessero un po' più di fantasia, ma questo è davvero troppo!» * A un certo punto fecero la loro comparsa gli animali-cisterna. Neanche loro erano rimasti vittima dell'impatto. Si aggiravano tra le dune alla ricerca delle oasi da cui poter pompare acqua. Poi la utilizzavano per innaffiare gli alberi caduti dal cielo. «Se qualcuno li vede,» sospirò Peggy Sue «racconterà in giro che il deserto pullula di dinosauri. Che faremo quando sbarcheranno centinaia di turisti con la macchina fotografica al collo?» «Non lo so» ammise Sébastian. «So solo che se il genio non si sbriga a riaddormentarsi, andremo dritti verso la catastrofe.» Peggy tornò dai suoi genitori. Trovò il padre nella stanza da bagno del secondo piano. Aveva riempito la vasca e lanciava ordini alle poche decine di litri d'acqua stagnante tra le sponde smaltate del recipiente. Gridava: «Op là! Salta! Salta!» come se stesse ammaestrando un leone. Ma la superficie liquida restava immobile. «Non funziona!» s'indispettì a un tratto. «L'acqua qui è idiota, sciaborda stupidamente anziché contorcersi per fare delle prodezze. Dov'ero prima riuscivo a far compiere alle onde dei salti mortali. Balzavano in alto, assumevano la forma di un cavallo o di un uccello e poi ricadevano in scioltezza, senza mai opporre resistenza.» Parlava con voce sognante, lo sguardo perso nel vuoto, un sorriso malinconico sulle labbra. Peggy Sue capì fino a che punto fosse stato bene, lassù nel miraggio. Uscendo dalla stanza da bagno andò a sbattere contro la mamma, che si molleggiava da un piede all'altro con un'espressione adirata sul volto. «Tuo padre sta monopolizzando il bagno!» sibilò tra i denti. «È intollerabile. Sono una sirena, anch'io ho bisogno d'acqua. Devo immergermi almeno tre ore al giorno, altrimenti le mie scaglie perderanno la loro lucentezza.» Mentre si accingeva a rispondere, Peggy si accorse che sua madre teneva in mano una boccetta di sciroppo alla menta. Quando le chiese che cosa
contava di farci, la mamma rispose: «Nel posto da cui vengo l'oceano non è salato, profuma di menta, i laghi di granatina e i fiumi di limone. L'acqua piovana invece è frizzante. Tutto è concepito molto meglio che sulla Terra.» Non sapendo come replicare, Peggy Sue se ne andò a raggiungere il ragazzino muto che, tornato alle abitudini canine, si era acciambellato ai piedi del suo letto. Gli diede una grattata in testa, per vezzeggiarlo. «Quanto mi piacerebbe che tu ritornassi quello di prima» sospirò mentalmente. «Mi manchi, sai? E poi, sono certa che avresti un sacco d'idee per aiutarmi. Non so più che fare, stanno diventando tutti matti!» Ahimè, nessun pensiero amico visitò la sua mente. Trasformandosi, il cane blu pareva aver perso in una sola volta la sua intelligenza e i suoi poteri telepatici. * L'indomani mattina, Peggy fu risvegliata dalle eco di un litigio: i genitori si contendevano il possesso della vasca. «Per le tue sculture puoi usare il lavandino, è più che sufficiente!» gridava la mamma. «Io devo immergermi fino al collo, sennò mi cadranno le scaglie e non potrò portare a termine la metamorfosi.» Non desiderando immischiarsi nella disputa, Peggy Sue scese al pianterreno per fare la doccia nei vecchi impianti sanitari dell'aeroporto. Si esaminò con cura la pelle. Quando apriva e richiudeva le mani, le sue articolazioni producevano uno sgradevole scricchiolio. Si toccò il ventre, preoccupata; ebbe come l'impressione di sfiorare un sacco pieno di sabbia. Spaventata, si precipitò sotto il getto d'acqua. Quando uscì, col ragazzino muto alle costole, incontrò Sébastian sul ciglio della pista. Con le sopracciglia aggrottate, osservava la città caduta dalle nuvole. «Hai visto?» mormorò. «I muri delle case sembrano già molto meno solidi rispetto a ieri. Alcuni comignoli si stanno sgretolando al vento. Le foglie degli alberi scompaiono. Sono troppo esili per resistere alle tormente.» Peggy Sue portò lo sguardo sulla città inverosimile. Rimase colpita dall'aspetto bizzarro della vegetazione. Gli alberi e i cespugli di fiori avevano adesso una curiosa tinta giallastra, lo stesso aspetto grumoso. Sembra quasi... pensò, sembra quasi che siano fatte di sabbia umida. Come quei castelli che i bambini costruiscono d'estate in riva al mare.
Qui e lì, si stagliava l'interminabile collo di un animale-cisterna impegnato nella sua opera di annaffiatura. «Presto prosciugheranno tutte le oasi dei dintorni» sospirò Sébastian. «Non è una soluzione, questa. Mio fratello, Paco, dice che la gente del suo villaggio non è contenta della piega che hanno preso gli avvenimenti. Pensano che sia tutto inutile, che a forza di svuotare i pozzi li condanneremo a morire di sete.» «E il genio?» gli domandò Peggy. «Sempre insonne» fece Sébastian. «Il coro alla fine si è azzittito. Avevano la gola troppo secca per continuare a cantare.» Peggy Sue osservava le mosse della gente della città, oltre la pista di decollo. Quando i dinosauri-serbatoio innaffiavano le loro case, uscivano sulla soglia per approfittare della doccia e si scrollavano ridendo. «Non sembrano in ansia» si sorprese. «La loro unica preoccupazione» buttò lì il ragazzo «è far sì che il genio scavi un'immensa piscina in mezzo al deserto e la riempia d'acqua di mare... con le onde. Ci tengono molto, alle onde!» 25 Il vento della distruzione Le cose non fecero che peggiorare. La foresta cominciò a diradarsi. Il vento sgretolò prima le foglie, poi i tronchi che diventarono sempre più sottili. Alla fine gli alberi scomparvero completamente, trasformandosi in una ventata di polvere gialla. I tetti delle case subirono identica sorte. Le tormente li erosero cancellando progressivamente il profilo delle tegole e delle persiane. Gli animali-cisterna si davano un gran daffare, ma non erano più in grado di innaffiare la città quanto occorreva per preservarla dall'essiccamento. Essendosi ormai prosciugati tutti i pozzi delle vicinanze, erano costretti a spostarsi sempre più lontano per rifornirsi d'acqua. Uno di questi fu avvistato da alcuni turisti che ne segnalarono la presenza alle autorità. La notizia, subito diffusa alla radio, provocò un notevole afflusso di curiosi all'estremità meridionale del deserto. Fortunatamente la bestia, vittima del calore troppo intenso, si trasformò in un'immensa statua di sabbia prima che la folla la scoprisse. «Bah, è solo una scultura!» brontolavano i turisti rimettendo a posto le macchine fotografiche, «ci siamo cascati un'altra volta!»
La delusione tolse loro la voglia di spingersi oltre, perdendo così la possibilità di scoprire la strana città caduta dall'alto dei cieli, e i suoi abitanti, non meno bizzarri. * Peggy Sue cercava di tenere il conto esatto delle case del vicinato. Ogni mattina notava nuove sparizioni. Il vento notturno le aveva portate via insieme ai loro abitanti. La progressione dell'essiccamento s'intuiva dal modo in cui si smussavano gli spigoli dei muri. Persino i volti delle persone si cancellavano... i lineamenti diventavano anonimi, si assomigliavano tutti. La tormenta appiattiva loro il naso, il cranio, il mento. «Lo sgretolamento non è doloroso» le spiegò Sébastian. «E poi sono talmente occupati nelle loro attività sportive che non se ne rendono nemmeno conto.» Un giorno, Paco arrivò accompagnato da altri anziani: il consiglio dei saggi del villaggio. «Così non può più andare avanti» annunciò. «Gli animali-cisterna stanno prosciugando la contrada. Il genio deve riaddormentarsi a tutti i costi. C'è venuta un'idea... Da noi vive una bruja, una strega, se preferite. Pensa di poter realizzare una pozione che farà piombare il bambino gigante in un sonno profondo. A mio avviso bisogna provarci. Tra una settimana, di questa città non resterà più nulla... Quanto a voi, Sébastian, Peggy, farete la stessa fine. È fondamentale agire in fretta. Pensate che il genio accetterà l'aiuto di una semplice strega?» «Vado a chiederglielo» disse Peggy Sue. «Non credo che abbia altra scelta.» Senza indugio, si lanciò di corsa verso l'hangar in cui la strana creatura viveva rannicchiata sin dal suo arrivo sulla Terra. Di notte la si sentiva rigirarsi su se stessa, alla ricerca della posizione migliore per prendere sonno. Il suo continuo agitarsi faceva cigolare le lamiere della costruzione. «D'accordo» sospirò, quando Peggy gli comunicò la proposta dei saggi. «Mi sto annoiando troppo. Questo pianeta per me è privo di qualunque interesse.» La ragazza si affrettò a riferire a Paco la buona notizia. «Bene» fece il vecchio. «Torneremo domani con la pozione.» Il consiglio degli anziani si ritirò.
«Che farai se funziona?» chiese Peggy Sue voltandosi verso Sébastian. «Non avrai molta scelta. O decidi di rientrare nel miraggio, oppure chiedi al genio di liberarti dalla maledizione dell'essiccamento, ma in tal caso dovrai ritornare nella realtà... e così riacquisterai la tua vera età.» Il volto del ragazzo si contrasse in una smorfia. «Ci ho già pensato» fece. «Non ho una gran voglia di passare in una notte da quattordici a sessantanove anni... No, davvero. Quanto a tornare nel miraggio, nemmeno questo mi va. Ci sono rimasto troppo a lungo, ne ho abbastanza. Non riesco più a divertirmi come un tempo. Non so come mai, forse perché sono invecchiato.» «Che cosa pensi di fare, allora?» disse Peggy Sue con voce strozzata. «Mi mancherai... Ti... ti voglio bene, lo sai?» Sébastian arrossì e abbassò gli occhi. «Non è possibile una storia tra noi» farfugliò. «Ho un'aria da adolescente ma in realtà sono un vecchio... un ragazzino intrappolato in un'eterna fanciullezza. Mi sono rifiutato di crescere, puoi vedere con quali conseguenze... Potrei essere tuo nonno. Non può funzionare.» «Lo so» sussurrò Peggy trattenendo le lacrime. «Ma dovrai prendere una decisione.» «Non voglio pensarci» gemette Sébastian correndo via. «Vedremo quando verrà il momento.» * Il camioncino di Paco spuntò dal deserto alle prime luci dell'alba. Portava la strega, una donna spaventosamente brutta vestita di pelle di lucertola e con una collana di denti di crotalo. Paco la aiutò a tirare fuori una pentola tutta ammaccata piena di un liquido verdognolo, il cui semplice odore faceva già venire voglia di dormire. «Ecco la pozione» annunciò. «Attenti a non respirarne l'effluvio, è molto concentrata.» «Va bene» osservò Peggy. «Ma funzionerà su una creatura non terrestre?» «Non lo so» ammise il vecchio. «In ogni modo non abbiamo altra scelta, hai visto la città? Ho fatto il giro venendo qui. Gli animali-cisterna si sono trasformati in statue di sabbia, della foresta rimane solo il ricordo, e metà delle case è scomparsa.» Peggy Sue condusse i nuovi arrivati verso l'hangar. Il genio si mise se-
duto per salutarli. Aveva il viso imbronciato come un bambino che si annoia. Si mostrò peraltro assai cortese e non fece la minima difficoltà per vuotare in un sorso la pentola che gli veniva presentata. Sotto la sua pelle di serpente, la strega era impallidita. Probabilmente era la prima volta che si trovava al cospetto di una creatura simile. «Vi ringrazio» disse il bambino gigante. «Non aveva un buon sapore, ma spero che serva a qualcosa.» Detto questo, si rimise disteso, con le mani incrociate dietro la nuca. «Scusatemi,» disse «ma non sono in grado di sostenere una conversazione. Gli esseri umani mi annoiano, li trovo privi di fantasia. Ho davvero fretta di riaddormentarmi per potermene sbarazzare.» Peggy Sue, Paco e la strega se ne andarono portandosi dietro il paiolo vuoto. «Tra quanto tempo farà effetto?» cercò d'informarsi la ragazza. «Addormenterebbe un cavallo in dieci minuti,» fece Paco «ma su un genio, non ne ho la più pallida idea.» «Male che vada potremo dire di averci provato» sospirò Peggy. «Se funziona» riprese Paco «Sébastian dovrà far ritorno a casa... e riprendere la sua età reale. So che ne ha paura. Digli che mi occuperò io di tutto.» «Credo che non abbia molta voglia di invecchiare» sussurrò Peggy Sue. «Tutti diventano vecchi, un giorno o l'altro» disse sentenziosamente Paco. «Non abbiamo scelta. Solo i ragazzi credono che sia possibile sfuggire a questa legge.» «Sì, lo so,» gemette Peggy «ma invecchiare così, dalla sera al mattino, è terribile!» «Deve accettare di pagare il prezzo della sua fuga» bofonchiò il vegliardo. «In una certa misura, sarà la giusta punizione per essersi rifiutato di crescere.» La ragazza fece una smorfia. Pensava che Paco esagerasse un po'. Guardò il camioncino che si allontanava senza riuscire a decifrare ciò che provava realmente. Di una cosa era comunque sicura: la 'scomparsa' di Sébastian le avrebbe causato una sofferenza infinita. Si recò alla torre di controllo per verificare che i genitori e la sorella non avessero commesso l'errore di andare a esporsi al sole. Aveva cercato di sensibilizzarli sui rischi che correvano, ma l'avevano ascoltata con orec-
chie assai distratte. Julia non si staccava mai dal suo cellulare. Aveva spiegato a Peggy che si trattava di un nuovo modello, vivo, che s'incrostava nell'orecchio come una sanguisuga, a tal punto che non c'era più il timore di smarrirlo. Al posto dell'elettricità utilizzava il sangue del proprietario. Sembrava lo trovasse formidabile, ma a Peggy procurava soltanto dei brividi di disgusto! Quando uscì dall'edificio, vide Sébastian appostato come una sentinella davanti all'hangar del genio. Lo raggiunse e gli prese la mano. I loro palmi a contatto scricchiolarono. Si stavano disidratando. Se il genio non si riaddormenta, pensò Peggy Sue, ci ridurremo in polvere e alla prossima tormenta il vento ci mescolerà l'una con l'altro... Sarebbe stata una fine follemente romantica. «Che cosa fa il mago bambino?» domandò. «Si agita e sospira» mormorò Sébastian. «Per ora la pozione non ha fatto effetto.» «Non bisogna perdere la speranza» fece Peggy Sue sforzandosi di conservare un tono fermo. «È un genio, non un cavallo... e nemmeno un elefante.» I due giovani si misero a sedere sulle taniche di benzina vuote e rimasero immobili, a contemplare la città che si sgretolava lentamente al vento. L'erosione folgorante aveva smussato il profilo delle case, rendendole simili a piccole dune. Qualche rara persona aveva avuto sufficiente prontezza di spirito per cercare rifugio all'ombra degli hangar. Tutti gli altri si erano trasformati in statue di sabbia gialla. Se ne stavano lì impalati in mezzo alla strada, dove li aveva sorpresi l'essiccazione. Ai vampiri serve la notte e il sangue, pensò Peggy Sue, noi avremo bisogno dell'ombra e dell'acqua... di acqua in abbondanza. Quanto tempo potremo sopravvivere in queste condizioni? Cercò d'immaginarsi la vita che l'attendeva e fu terrorizzata dalla prospettiva che la maledizione della disidratazione lasciava intravedere. No, doveva tornare umana a tutti i costi. Non aveva altra scelta! Non voleva far parte della moltitudine della gente di sabbia, quelle statue viventi costantemente in balia del vento. Voleva essere di nuovo una ragazza normale, qualunque... anche con gli occhialoni. E desiderava la stessa cosa per tutti quelli che amava. *
Verso metà pomeriggio, il genio finalmente cessò di agitarsi. Borbottava e russava a scatti, come chi si incammina lentamente sulla via del sonno. «Funziona!» esultò Sébastian abbracciando Peggy Sue. La stretta provocò un terribile scricchiolio sabbioso, ma la ragazza credette che il suo cuore fosse sul punto di scoppiare tanto era l'entusiasmo. «Funziona» ripeté il ragazzo. «Allontaniamoci in punta di piedi. Non bisogna fare il minimo rumore. Appena si sarà addormentato profondamente comincerà a sognare. A quel punto bisognerà chiedergli di porre rimedio alle degenerazioni che si sono prodotte all'interno dei miraggi.» «Credi che ci sentirà?» si allarmò Peggy. «Penso di sì, se non aspettiamo troppo» affermò Sébastian. «Gli chiederò di restituirti la tua natura umana, a te ma anche alla tua famiglia... Gli dirò di rendere il tuo cane di nuovo un vero cane, perché è evidente che non è felice così com'è.» «E tu?» balbettò Peggy Sue. «Se gli chiedessi di renderti umano, ma conservando i tuoi quattordici anni?» «È troppo» sospirò Sébastian. «Non credo che accetterà.» «Allora glielo chiederò io al posto tuo!» si ostinò Peggy Sue. * Due ore dopo, divenne evidente che il genio stava scivolando dolcemente lungo la china del sonno. Si agitava ancora e borbottava tra un ronfo e l'altro, certo, ma l'impulso era scattato. Peggy non riusciva più a star ferma. Corse in città ad avvisare i naufraghi che stava per scoccare l'ora della liberazione. Li supplicò di non commettere imprudenze e di evitare di esporsi al sole. In quell'occasione si rese conto fino a che punto le case si fossero essiccate. Quando cercava di aprire una porta, capitava di frequente che si sbriciolasse appena sfiorava la maniglia. Se cercava di salire su una scala, i piedi sprofondavano nei gradini. Molta gente non si era data la briga di idratarsi, e adesso giaceva sul letto, trasformata in statua di sabbia, con un sorriso beato stampato sul viso. Il caldo del deserto stava diventando insopportabile, Peggy Sue dovette battere in ritirata. Tornando verso la torre di controllo, iniziò a costruirsi mentalmente il discorso che avrebbe rivolto al genio affinché Sébastian fosse reintegrato nella realtà sotto forma di adolescente. Era peggio che dover scrivere un compito di matematica. Cercava di essere convincente
senza però diventare troppo complicata: insomma, era un vero rompicapo! Mentre attraversava la pista, Sébastian si precipitò verso di lei. «Ci siamo!» esultò. «Dorme! Ha smesso di muoversi ma per adesso non sta ancora sognando. Quando comincerà a generare il suo primo universo, cercherò di entrarci dentro per dialogare con lui. Sperò che mi sentirà.» «Formidabile!» esclamò Peggy. «Purché accetti di rimettere tutto a posto. Ha l'aria di essere parecchio capriccioso. Temo che non gli suscitiamo più il benché minimo interesse.» «È un bambino» fece Sébastian alzando le spalle. «Un bambino dotato di un incredibile potere magico, ma con la sciagurata tendenza a considerare gli altri come dei giocattoli. La trattativa non sarà facile.» Aveva appena finito di pronunciare quelle parole che da un hangar si alzò un tremendo rumore di ferraglia. Sbalorditi, i due ragazzi videro all'improvviso un vecchio aereo a elica uscire dall'ombra del deposito per mettersi a rullare sulla pista screpolata. Era un C47 Dakota, tutto ammaccato, con un'ala piegata. L'apparecchio iniziò a prendere velocità come se si accingesse a decollare. «Che sta succedendo?» balbettò Sébastian. «È impossibile! Quei pezzi d'antiquariato non hanno più nemmeno il motore! Come possono volare? E... e poi... hai visto? Nella carlinga... non c'è il pilota ai comandi!» Peggy Sue non ebbe il tempo di rispondere. Altri aerei uscivano già dagli hangar. Prendevano il volo uno dopo l'altro, come se decollassero per una missione di guerra. «Santo cielo!» urlò Sébastian. «Ma questa è una stregoneria! Le eliche non girano neanche!» «No» sospirò Peggy. «Non si tratta di una stregoneria. È un altro colpo degli Invisibili... Si sono intrufolati nelle carcasse degli aeroplani, li sollevano grazie ai loro poteri magici.» Si morse rabbiosamente le labbra. Com'era stata stupida a credere che i 'fantasmi' avessero rinunciato così facilmente! Quando li aveva cacciati via dal castello si era convinta di averla fatta finita con loro, che errore! Adesso ritornavano all'assalto nel momento cruciale. Se non avesse trovato il modo di neutralizzarli rapidamente, sarebbe stata una catastrofe. «Che cosa fanno?» chiese stupito Sébastian. «Una parata aerea?» «No» rispose Peggy. «Credo che abbiano l'intenzione di prendere quota per scagliare gli aerei sull'hangar in cui dorme il genio. Vogliono fare rumore... più rumore possibile, per svegliarlo! È l'unico mezzo a loro disposizione per farla finita con me.»
Si guardò attorno, cercando un modo per contrastare i piani dei suoi vecchi nemici. «La torre di controllo! Devo salire lassù. Ci sono dei binocoli molto potenti al posto di comando, se me ne servissi per guardare gli aerei decuplicherei il potere dei miei occhiali... Sarà come una raffica di mitragliatrice, riuscirò a carbonizzare i fantasmi nonostante la distanza! Mi segui?» «Non moltissimo,» farfugliò Sébastian «ma ti credo. Andiamo!» Si misero a correre. Sopra di loro, gli aeroplani sgangherati descrivevano incredibili figure acrobatiche. Adesso uscivano da tutti gli hangar. Alcuni erano privi di motore o persino delle eliche. Ad altri mancava un'ala... Ciò non impediva loro di decollare e volare rasentando i tetti. Lo spostamento d'aria faceva sgretolare le case di sabbia ai bordi della pista. Peggy Sue e Sébastian arrivarono finalmente all'ultimo piano, nella sala panoramica dai vetri crepati. La ragazza si avventò sul binocolo e se lo portò al viso, incollandosi sugli occhiali la gomma che cerchiava gli oculari. Gli aerei si spostavano a gran velocità, ed era difficile seguirli per più di una frazione di secondo. Prima che avesse il tempo di muovere la testa, erano già usciti dal suo campo visivo. Ciononostante, riuscì a individuare gli Invisibili... Erano appesi alle ali, sotto il ventre degli apparecchi che tenevano sollevati di peso. Adesso, gli aerei eseguivano un balletto sempre più complesso sopra l'aeroporto. Alcuni si urtavano in volo, esplodendo in una pioggia di frammenti metallici. «Cercano di prendere quota» ansimò Peggy. «Poi cominceranno a scagliarsi sull'hangar del genio. Se ci riescono lo sveglieranno, poco ma sicuro!» «Fa' qualcosa!» la supplicò Sébastian. «Se il genio si sveglia è finita! Gli ci vorrà un'eternità per riaddormentarsi, e nel frattempo saremo ridotti in polvere!» Peggy Sue si piantò sulle gambe. Occorreva mantenersi mobile con i fianchi e la nuca, per tentare di seguire il ritmo degli aerei. Ne scelse uno e concentrò lo sguardo sul fantasma che lo portava. Aveva un bel rannicchiarsi sotto il ventre del vecchio trabiccolo, lei lo vedeva abbastanza da fargli male. Gli sferrò uno sguardo carico di rabbia. A causa della distanza non percepì l'odore di caramello bruciato che accompagnava sempre le ferite degli Invisibili ma, dal gesticolare della creatura, capì che l'aveva colpita. Doveva fare lo stesso con le altre. Bruciandole, le avrebbe obbligate
ad allontanarsi dall'aeroporto e a schiantarsi nel deserto, dove la sabbia avrebbe attutito il rumore dell'impatto. I serbatoi degli aerei sono vuoti, pensò, quindi non esploderanno. Sì, era questo il modo di condurre la battaglia. Disperdendo la squadriglia folle che piroettava sopra la torre di controllo. Nei minuti seguenti sferrò un centinaio di sguardi mortali. Aveva l'impressione di essersi trasformata in una batteria antiaerea vivente! Crudelmente abbrustoliti, i fantasmi prendevano il largo. Finivano per abbandonare gli aerei sulle dune, lontano dalla pista, e il frastuono degli schianti si sentiva a malapena. Sfortunatamente, ce n'erano troppi... davvero troppi, e Peggy non riusciva a controllarli tutti. Il grosso Dakota le stava dando un bel grattacapo. Manovrato da un esperto, sfuggiva a ogni suo attacco. Sentiva avvicinarsi il momento in cui si sarebbe fracassato sull'hangar con un frastuono spaventoso. Il genio non sarebbe rimasto ferito, certo, poiché era una creatura soprannaturale, ma sarebbe riemerso dalle macerie ben sveglio... e a lungo! «Attenta!» urlò Sébastian. «Il C-47 scende in picchiata! Sta mirando l'hangar! Cerca di intercettarlo!» «Che cosa credi che stia facendo?» fu quasi per replicargli Peggy. «Che stia sparando agli uccelli?» L'enorme apparecchio scendeva dalle nuvole con un sibilo minaccioso. Peggy Sue lo vedeva ingrandirsi nel binocolo. Erano due i fantasmi che lo sorreggevano, uno sotto ciascuna ala, nascosti dal rigonfiamento dei motori. Si sottraevano così agli sguardi della loro giovane nemica. Storcendosi la nuca, Peggy riuscì finalmente a colpire quello a sinistra. La bruciatura lo fece ritrarre e perdere le forze. L'aereo iniziò subito a deviare in planata verso il deserto. Sfiorando per un pelo il tetto dell'hangar in cui dormiva il bambino gigante, si poggiò sul ventre e andò a piantarsi in una duna, che gli franò addosso ricoprendolo. «È finita!» esultò Sébastian col fiatone. «Li hai sgominati tutti! C'è mancato un soffio.» Peggy Sue allontanò il binocolo dal viso. Aveva dolore alla testa, come sempre quando affrontava gli Invisibili in singolar tenzone. Tutto d'un tratto, dall'altoparlante della radio uscì una voce nasale. Era impossibile, lo sapeva, poiché nessuna di quelle apparecchiature antidiluviane era in sesto. «Va bene» gracchiò uno dei fantasmi. «Hai vinto... per questa volta. Ma non è detta l'ultima. A presto, Peggy Sue. Anzi, a prestissimo...»
26 Il verdetto Avanzando a zigzag tra i detriti metallici che ingombravano la pista, Peggy Sue e Sébastian raggiunsero l'hangar per accertarsi che il bambino non si fosse svegliato a causa della battaglia aerea. Non appena varcata la soglia, videro che accanto alla testa del genio si stava formando una grossa bolla rosa. Al suo interno conteneva un universo in miniatura: una montagna ricoperta di abeti, una cascata, delle baite, dei pupazzi di neve... Si lasciarono andare a un sospiro di sollievo. «Funziona» sussurrò Sébastian. «Adesso lasciami, tocca a me passare all'azione. Cercherò di entrare nel miraggio, prima che il genio si addormenti profondamente. Se aspetto troppo non potrò più comunicare con lui, la mia voce non gli arriverà.» «Che cosa gli chiederai?» farfugliò Peggy. «Lo sai» mormorò il ragazzo. «Cercherò di ottenere il massimo. Tutto dipenderà dal suo umore. Può accettare o rifiutare in blocco. Se è vero, come sostieni, che non è più interessato a noi, non mi starà nemmeno a sentire.» Aveva poggiato le mani sulle spalle di Peggy. «Devo andare,» disse «il tempo stringe.» «D'accordo,» fece la ragazza «ma non dimenticarti di tornare. Ci tengo a te.» E, sollevandosi sulla punta dei piedi, accostò le sue labbra a quelle di Sébastian. Il ragazzo indietreggiò imbarazzato. «Vado» disse con voce roca. L'istante successivo si avvicinò alla bolla, con le braccia tese. Le sue mani penetrarono lentamente nella parete elastica dell'universo in formazione. Peggy Sue intuì che doveva agire con molta cautela per evitare che il sogno nascente scoppiasse come un pallone di gomma. Man mano che entrava nella bolla, il suo corpo si rimpiccioliva. Quando si trovò completamente dall'altra parte, aveva le dimensioni di una figurina. Peggy gli rivolse un cenno, ma lui non diede segno di accorgersene. All'interno di un miraggio non si distingue la realtà, disse Peggy tra sé. È come contemplarsi in uno specchio, si vede solo la propria immagine. Lo guardò allontanarsi in direzione della montagna innevata. Era così
piccolo che avrebbe potuto tenerlo nel palmo di una mano. In cima a una vetta si stagliava una grande baita. È sicuramente l'equivalente del castello bianco, pensò Peggy Sue. Il genio ci si sistemerà non appena l'universo avrà assunto la consistenza necessaria. Indietreggiò, con un nodo in gola. Sébastian sembrava di colpo terribilmente fragile; ebbe paura per lui. Uscì dall'hangar barcollando, con le lacrime agli occhi. La luce del sole le fece male. * Sébastian rimase via a lungo. Peggy cominciava a temere che avesse perso ancora una volta la nozione del tempo, quando finalmente lo vide uscire dall'hangar. Era pallido e affaticato. La ragazza gli si lanciò incontro. «Allora?» chiese con un filo di voce. «C'è del buono e del cattivo» buttò lì il ragazzo con tono stanco. «Il genio accetta che i naufraghi si imbarchino nel nuovo miraggio che sta plasmando. Poiché lo hai salvato dalle macchinazioni degli Invisibili, ha acconsentito a liberarvi dalla maledizione dell'essiccamento, te, i tuoi genitori e... il tuo cane. Gli restituirà le sue sembianze originarie.» «E tu?» fece Peggy con voce supplichevole. «Che cosa ha deciso per te?» Sébastian si voltò dall'altra parte. Con gli occhi fissi sulla linea dell'orizzonte, disse lentamente: «Per me è più complicato. Ho trascorso troppo tempo all'interno del miraggio. Una vita intera, in effetti. Il genio vuole liberarmi dalla maledizione dello sgretolamento, a patto però che io accetti di riprendere la mia età reale. Sessantanove anni. Ho rifiutato.» «Non... non farà niente?» balbettò Peggy. «Ma anche tu mi hai aiutato a liberarlo... non è giusto!» Sébastian si strinse nelle spalle. «Sostiene che se mi accordasse un salvacondotto avrebbe delle grane con la Commissione di controllo dei Geni» fece. «Persone poco tolleranti, pare.» «Allora non hai davvero scelta» sospirò Peggy Sue. «O ritorni nel miraggio, o resti qui... e diventi un vecchio...»
«No» mormorò il ragazzo. «Ho... ho ottenuto qualcosa... forse non ti piacerà, ma non ho altro da proporti. Il genio ha accettato di fare qualcosa per me. Oh, niente di che! Un favore minimo. Mi ha offerto una terza possibilità. E ho accettato.» «Una terza possi...» farfugliò Peggy. «Solo a vedere la tua faccia mi viene la pelle d'oca!» «Resto qui,» spiegò lentamente Sébastian «conservo la mia età attuale, ma mi ridurrò in polvere non appena l'acqua contenuta nel mio corpo sarà evaporata.» «Cosa?» urlò Peggy. «Ma è un imbroglio!» «Aspetta!» cercò di difendersi il ragazzo. «Non ho finito. Se tu riesci a impedire che il mio corpo si sparpagli al vento, a conservare ben al riparo in una scatola tutta la sabbia di cui è costituito, potrò rinascere alla vita ogni volta che m'innaffierai d'acqua pura.» Peggy Sue strabuzzò gli occhi, esterrefatta. «Mi dispiace» ammise Sébastian con aria mogia. «So che è contorto, ma è l'unico modo che ho trovato per restare con te. E... e ci tengo molto a restare con te.» Peggy si gettò tra le sue braccia. Rimasero così stretti a lungo, senza dire nulla, con le lacrime che colavano sulle loro guance subito assorbite dalla carne essiccata. * Quella sera stessa, la bolla-universo era divenuta così grande che sollevava verso l'alto il tetto dell'hangar. Avvicinandosi, si potevano vedere le montagne che spuntavano da terra come ortaggi, l'erba che germogliava e i fiumi che scavavano il loro letto. Era uno spettacolo affascinante seguire la costruzione di quel mondo ancora disabitato. Un fiore spuntava da terra e dischiudeva la sua corolla nel giro di due secondi, un albero e mi ci impiegava un minuto per diventare adulto e sviluppare dei rami ricoperti quasi interamente da foglie. I naufraghi lasciarono i loro nascondigli per andare ad assistere al fenomeno. La maggior parte - quelli che per un istante avevano accarezzato l'idea di abbandonare i miraggi per tornare a stabilirsi sulla Terra - si confessava nauseata dall'esperienza vissuta nel deserto. «Avevamo dimenticato fino a che punto è noiosa la vita reale» farneticavano. «E poi, c'è questo problema dell'età. Sébastian dice che bisogne-
rebbe accettare di diventare vecchi. Chi mai avrebbe voglia di una cosa simile?» Insomma, messi alle strette, facevano tutti marcia indietro. Si infervoravano già al pensiero del nuovo mondo in germinazione. Quali sarebbero state le sue caratteristiche? La neve sarebbe stata dolce? Che sapore avrebbe avuto? Alla menta? Al cioccolato bianco? Si eccitavano, parlavano con voce sempre più forte, ognuno voleva imporre i suoi desideri personali. Peggy Sue li lasciò al loro cicaleccio. «Sarà tutto sistemato al mattino» disse Sébastian. «A mezzanotte la bolla sarà abbastanza solida da accogliere chi vorrà imbarcarsi. Ho ottenuto che i tuoi genitori non vengano ammessi. Quando si sveglieranno, crederanno di avere fatto un sogno fuori del comune, tutto qui. Per qualche tempo rimarranno un po'... strani, ma poi passerà. Anche il genio s'introdurrà nella bolla e la renderà invisibile. Il miraggio si richiuderà per andare a vagabondare nel deserto. Tornerà tutto come prima.» «E tu?» domandò Peggy Sue. «Io andrò a isolarmi in un hangar, al riparo dalle correnti d'aria» rispose il ragazzo. «Stenderò un telo a terra e mi sdraierò. Quando sarò completamente essiccato, il mio corpo si sbriciolerà... non dovrai far altro che recuperare la sabbia e metterla in un recipiente ermetico. Stai attenta a non perderne neanche un po', altrimenti quando mi bagnerai mi ricostituirò in modo imperfetto.» «D'accordo» fece Peggy con una vocina sottile. «Spero che i miei non si sorprenderanno nel vedermi armeggiare con una scatola piena di sabbia... sarà un po' complicato, specie con Julia, che non la smette mai di ficcare il naso nei miei affari.» «Puoi mettermi in una busta» propose Sébastian. «Una busta di plastica, di quelle che non si rompono. Poi la nascondi in una valigia pigiandola ben bene. Forse sarà più pratico.» «Sì, è una buona idea!» accettò con entusiasmo Peggy. «Una valigia con la serratura.» Cercava di mostrarsi positiva e di sorridere, quando in realtà aveva il cuore infranto, ma non voleva fare la figura della ragazzina piagnucolosa. «Non te lo dimenticare» mormorò Sébastian. «Dell'acqua pura... Forse non sarà così facile trovarla. Può darsi che il genio mi abbia giocato un brutto tiro. Con quel genere di individui non si è mai sicuri di niente.» *
Attesero con tristezza il tramonto, seduti sul ciglio della pista, tenendosi per mano. «Non è che un arrivederci» ripeteva Sébastian. «Non me ne vado sul serio. Sarò sempre qui, vicino a te.» «Sì,» riconobbe Peggy «ma in una valigia...» Quando scese la notte dovettero separarsi, perché il ragazzo sentiva che la disidratazione del suo corpo stava accelerando. Dopo un ultimo bacio a Peggy, entrò in un hangar richiudendo con cura la porta. La ragazza sentì che non sarebbe riuscita a prendere sonno. Restò in mezzo alla pista, a contemplare le trasformazioni della bolla-universo. Dopo aver sollevato il tetto dell'hangar, il miraggio in formazione era andato a posarsi davanti alla torre di controllo. I naufraghi si spintonavano per entrarci dentro, come se temessero di vederlo partire senza di loro. Era uno spettacolo un po' penoso. Appena attraversata la parete della bolla diventavano microscopici, a misura del paesaggio in miniatura in cui si spostavano. S'imbarcarono senza rivolgere nemmeno un cenno a Peggy. Una volta dall'altra parte, tornavano a sorridere e si affrettavano ad assaporare la neve per verificare che il sapore fosse di loro gradimento. Il genio s'imbarcò per ultimo. In realtà non si alzò. Non aprì neanche gli occhi. La bolla si spostò verso di lui e lo inghiottì con un 'plop' sonoro. I passeggeri del miraggio si diedero da fare per caricarlo e trasportarlo fino alla baita in cima alla montagna di abeti scuri. Effettuato quel trasferimento, il miraggio cessò di essere trasparente. Le sue pareti diventarono vitree, opache... poi, all'improvviso, tutto scomparve, e Peggy Sue si ritrovò sola in mezzo alla pista di decollo deserta. È la fine dell'avventura..., pensò con un leggero brivido. Sapeva che Sébastian preferiva non essere visto mentre si riduceva in polvere, così passò davanti all'hangar in cui s'era appartato senza fermarsi. Una volta nella torre di controllo, verificò che i suoi genitori si trovassero ancora lì. Stavano dormendo. Il genio li aveva ipnotizzati per impedire che s'imbarcassero con gli altri. Anche il ragazzino muto se ne stava lì a ronfare, rannicchiato ai piedi del letto. Peggy Sue si allontanò in punta di piedi e andò a distendersi nella sua camera. Rimase con gli occhi fissi sul soffitto per un'eternità. Dalla finestra aperta entrava il rumore del vento che si accaniva a disperdere le ultime case di sabbia piovute dal cielo.
27 Amici fedeli Peggy si alzò all'alba. Prese una valigia robusta nel guardaroba, poi scese alla mensa per cercare uno di quei sacchi di plastica resistenti per il trasporto del riso. Dopo averne verificato la tenuta, si munì di paletta e scopino, e s'incamminò verso l'hangar. Ebbe una stretta al cuore scoprendo Sébastian trasformato in statua di sabbia. S'inginocchiò al suo capezzale e cominciò a tagliarlo a fette, come un dolce di semolino. Versava ciascuna di quelle 'porzioni' in fondo al sacco, stando bene attenta a non perderne neanche un po'. Procedeva con metodo, cercando di non lasciarsi sopraffare dal dolore. Non se n'è andato veramente, si ripeteva. Tornerà ogni volta che lo desidererò. Sì, ma sarebbero stati sempre incontri di breve durata, a causa dell'essiccamento. Bisognava trovare una soluzione, un modo di aggirare la maledizione... Ci avrebbe pensato dopo. Quando il sacco fu pieno, lo richiuse saldamente e se lo issò in spalla. Si rivelò abbastanza pesante, ma meno del previsto. Evaporata l'acqua del corpo, Sébastian pesava appena un terzo rispetto a prima. Peggy lo riportò alla torre di controllo e lo stipò nella valigia, richiudendola a chiave. Solo a quel punto pensò a esaminarsi. La sua pelle aveva ripreso un aspetto normale. Non scricchiolava più quando la sfiorava. Il genio aveva mantenuto la parola. Anche il ragazzino era scomparso. Al suo posto c'era di nuovo il cane blu. Peggy Sue lo svegliò. «Mi senti?» gli chiese mentalmente. «Ci sei? Sei tornato?» «Sì, ma non pensare così forte!» si lamentò l'animale. «Mi comprimi il cervello! Che cos'è successo? Ho l'impressione di essermi perso un pezzo di storia...» «Non ti ricordi nulla?» insisté Peggy Sue. «Non so» bofonchiò il cane raddrizzandosi. «Ho come la vaga sensazione d'aver fatto una bella quantità di stupidaggini.» Ancora guidato dai suoi riflessi umani, provò a sollevarsi sulle zampe posteriori ma perse subito l'equilibrio. «Ehilà!» singhiozzò. «È peggio di quanto credevo...» «Non è nulla» disse Peggy Sue grattandogli le orecchie. «Vieni qui, ti racconterò i particolari che ti sei perso.»
FINE