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PATRICIA CORNWELL POSTMORTEM (Postmortem, 1990) A Joe e Dianne 1 Venerdì 6 giugno a Richmond pioveva. L'acquazzone incessante, cominciato all'alba, aveva infierito sui gigli riducendoli a nudi steli e sparso foglie sull'asfalto e sui marciapiedi. Rivoli d'acqua correvano per le strade; nei campi da gioco e nei prati si allargavano grandi pozze. Andai a dormire con il sottofondo della pioggia che scrosciava sulle lastre di ardesia del tetto e, mentre la notte sfumava nella nebbia dell'aurora del sabato, feci un sogno orribile. Al di là dei vetri della finestra striati di pioggia apparve un volto livido, dai tratti informi e inumani come quelli delle bambole fatte con le calze di nailon. La finestra era buia quando la sagoma apparve, simile a uno spirito maligno, intenta a scrutare all'interno. Mi svegliai e fissai l'oscurità. Soltanto quando il telefono squillò di nuovo capii cosa mi aveva destato. Trovai la cornetta senza annaspare. «La dottoressa Scarpetta?» «Sì.» Allungai una mano verso l'interruttore dell'abat-jour e lo accesi. «Qui Pete Marino. Ne abbiamo trovata un altra al 5602 di Berkley Avenue. Mi sa che è meglio che venga.» Il nome della vittima, prosegui, era Lori Petersen, sesso femminile, razza bianca, trent'anni. Il marito aveva trovato il cadavere circa mezz'ora prima. Non servivano altri particolari. Avevo capito nell'istante in cui avevo sollevato il ricevitore e riconosciuto la voce del sergente Marino. Forse l'avevo realizzato già al primo squillo. Chi ha paura dei lupi mannari teme anche la luna piena. Io avevo cominciato a temere le ore tra la mezzanotte e le tre, quando il venerdì diventa sabato e la città sembra sprofondare nell'incoscienza. In circostanze normali, è il medico legale di turno a recarsi sul luogo di un omicidio. Questo però non era un omicidio come tanti altri. Avevo ribadito, dopo il secondo caso, che se ci fosse stato un altro delitto, a qualsiasi ora, avrebbero dovuto chiamare me. A Marino l'idea non era piaciuta. Fin da quando, meno di due anni prima, ero stata nominata direttrice del
Centro di medicina legale del Commonwealth della Virginia, mi aveva creato delle difficoltà. Non sapevo bene se non gli piacevano le donne, oppure se ero semplicemente io a non piacergli. «È a Berkley Downs, Southside» disse in tono condiscendente. «La sa la strada?» Confessai che non la sapevo e scribacchiai le indicazioni sul taccuino che tenevo sempre accanto al telefono. Un attimo dopo aver riappeso avevo già i piedi sul pavimento, con l'adrenalina che mi frustava i nervi come un caffè espresso. La casa era silenziosa. Afferrai la valigetta nera, acciaccata e consunta da anni e anni di usura. L'aria notturna mi fece l'effetto di una sauna fredda, le finestre delle case vicine erano buie. Mentre in retromarcia uscivo dal vialetto alla guida della mia station wagon blu alzai lo sguardo verso la luce accesa sopra il portico, verso la finestra del primo piano, quella della camera da letto degli ospiti. Lì dormiva Lucy, la mia nipotina di dieci anni. Ecco un altro giorno della sua vita che mi sarei persa. Ero andata a prenderla all'aeroporto il mercoledì sera e da allora ben poche volte eravamo riuscite a mangiare insieme. Trovai traffico solo quando mi immisi sulla Parkway. Pochi minuti dopo filavo verso il James River. Davanti a me i fanalini di coda delle auto brillavano come rubini, mentre nello specchietto retrovisore si stagliavano le forme spettrali del centro della città. Da entrambi i lati della strada filavano via pozze di tenebre orlate da festoni di luce fangosa. Là fuori, chissà dove, c'è un uomo, pensai. Può essere chiunque: cammina, dorme sotto un tetto, ha tutte le dita delle mani e dei piedi. Probabilmente è di razza bianca e ha molto meno dei miei quarant'anni. È un individuo come tanti, secondo quasi tutti gli standard e probabilmente non guida una Bmw, non frequenta i bar della Slip, non si veste nelle boutique di lusso di Main Street. D'altra parte, tutte queste cose potrebbe benissimo farle. Potrebbe essere chiunque e non è nessuno. Il signor Nessuno. Il tipo di uomo che si dimentica subito dopo aver fatto venti piani con lui in ascensore. Si era autonominato padrone notturno della città, era un'ossessione per migliaia di persone che non aveva mai visto, oltre ad esserlo per me. Il signor Nessuno. Siccome i delitti erano cominciati due mesi prima, poteva darsi che fosse uscito da poco da una prigione o da un ospedale psichiatrico. Questo almeno era ciò che si pensava la settimana precedente, ma le teorie cambiavano di continuo.
La mia, invece, era rimasta immutata fin dall'inizio. Sospettavo fortemente che non abitasse da molto in città, che avesse colpito anche altrove, che non avesse mai passato un giorno dietro le sbarre di un carcere o di un manicomio. Non era disorganizzato, non era un dilettante e, con estrema certezza, non era "pazzo". Wilshire era due semafori più giù, verso sinistra; ancora un semaforo e poi veniva Berkley. Vedevo le luci rosse e blu lampeggiare a un paio di isolati di distanza. La via di fronte al 5602 di Berkley era illuminata come la scena di una catastrofe. Un'ambulanza, il motore rombante, era ferma accanto a due macchine della polizia senza contrassegni con le luci sul tetto che lampeggiavano e a tre auto bianche con tutte le luminarie in funzione. La troupe del telegiornale di Channel 12 era appena arrivata. Lungo tutta la strada le finestre erano illuminate e sotto i portici delle case c'erano numerose persone in pigiama e vestaglia. Parcheggiai dietro al furgone del telegiornale, mentre un cameraman attraversava trotterellando la strada. Testa china in avanti, colletto dell'impermeabile cachi alzato fin sugli occhi, m'incamminai velocemente lungo il vialetto che conduceva alla porta d'ingresso. Mi ha sempre profondamente disgustato vedermi ripresa nel notiziario della sera. Da quando a Richmond erano cominciati i casi di strangolamento, il mio ufficio era stato subissato, sempre gli stessi reporter che non facevano altro che telefonarmi e pormi le stesse domande brutali. «Il fatto che si tratti di un serial killer, dottoressa Scarpetta, significa che molto probabilmente ci saranno altri delitti come questo?» Come se desiderassero che succedesse davvero. «È vero dottoressa che sull'ultima vittima ha scoperto segni di morsi?» Non era vero ma, comunque rispondessi alla domanda, erano loro ad avere la meglio. Un "niente da dichiarare" li portava a supporre che fosse vero. Con un "no", nella prima edizione si leggeva "La dottoressa Kay Scarpetta nega che sul corpo delle vittime siano stati trovati segni di morsi...". E all'assassino, che come chiunque legge i giornali, magari veniva una nuova idea. Recenti articoli apparsi sulla stampa erano prodighi di particolari orripilanti. Andavano ben al di là dello svolgere l'utile servizio di mettere in guardia i cittadini. Le donne, in particolare quelle che vivevano da sole, erano terrorizzate. Nella settimana dopo il terzo assassinio, la vendita di rivoltelle e di serrature di sicurezza era aumentata del cinquanta per cento e
il canile municipale era rimasto senza cani, fatto che, ovviamente, era finito in prima pagina. Il giorno prima, la famigerata cronista di nera Abby Turnbull, vincitrice di molti premi, aveva dato prova della sua sfacciataggine entrando nel mio ufficio e aggredendo i miei collaboratori a colpi di Freedom of Information Act, nel tentativo - fallito - di procurarsi una copia del referto dell'autopsia. I cronisti di nera erano molto aggressivi a Richmond, vecchia città della Virginia di 220 mila abitanti che secondo le statistiche dell'anno prima si era ritrovata al secondo posto negli Stati Uniti per il tasso di omicidi. Capitava di frequente che i medici legali del British Commonwealth passassero un mese nel mio ufficio per apprendere qualcosa di più sulle ferite d'arma da fuoco. E altrettanto di frequente capitava che i poliziotti di carriera come Pete Marino fuggissero l'insania di New York o di Chicago solo per scoprire che Richmond era peggio. Il dato insolito era che ci trovavamo di fronte a omicidi a sfondo sessuale. Il cittadino medio non si sente coinvolto in un omicidio per droga o per motivi familiari, o quando un ubriaco ne accoltella un altro per una bottiglia di Mad Dog. Le donne assassinate invece non erano diverse dalle colleghe di lavoro, dalle amiche con cui si va a fare lo shopping o che si vanno a trovare per un drink, dalle conoscenze con cui si chiacchiera a un party, dalla gente con cui si sta in coda alla cassa del supermercato. Erano le vicine di qualcuno, le sorelle di qualcuno, le figlie e le amanti di qualcuno. Erano a casa loro, dormivano nel loro letto, quando il signor Nessuno scavalcava una delle loro finestre. Due uomini in uniforme facevano la guardia alla porta d'ingresso, spalancata ma sbarrata da un nastro adesivo giallo con la scritta INDAGINI DI POLIZIA - LIMITE INVALICABILE. «Dottoressa.» Avrebbe potuto essere mio figlio, questo ragazzo in uniforme blu che, in cima ai gradini, si faceva da parte e sollevava il nastro per farmi passare sotto. Il soggiorno era immacolato, piacevolmente arredato in toni rosa caldo. In una bella vetrina di ciliegio posta in un angolo c'erano un piccolo televisore e un compact disc player; accanto, su un leggio, uno spartito e un violino. Davanti alla finestra schermata da un tendaggio che dava sul praticello anteriore erano disposti un divano componibile e un tavolino sul quale erano posate ordinatamente una dozzina di riviste, tra cui lo "Scientific American" e il "New England Journal of Medicine". Oltre il tappeto cinese decorato con un drago e con un medaglione rosa su fondo beige, c'era uno scaffale in noce. I due ripiani erano stipati di
manuali universitari di medicina. Da una porta aperta si passava in un corridoio che percorreva l'intera lunghezza della casa. Alla mia destra si apriva una fila di stanze, alla sinistra c'era la cucina dove Marino e un giovane poliziotto parlavano con un uomo che immaginai fosse il marito. Notai vagamente mobili immacolati, pavimenti di linoleum ed elettrodomestici di quel colore bianco spento che nei cataloghi è definito "color mandorla", oltre al giallo pallido della tappezzeria e delle tende. Fu però il tavolo ad attrarre la mia attenzione. Sopra c'era uno zaino di nailon rosso, il contenuto del quale era già stato esaminato dalla polizia: uno stetoscopio, una torcia, un Tupperware che una volta aveva contenuto del cibo o uno spuntino e numeri recenti di "Annals of Surgery" e del "Journal of Trauma". A questo punto ero piuttosto sconvolta. Marino mi guardò freddo mentre mi fermavo accanto al tavolo e mi presentò Matt Petersen, il marito. Petersen era accasciato su una sedia, i lineamenti sconvolti dallo shock. Era di una bellezza raffinata, lo si sarebbe potuto dire stupendo, con quelle fattezze perfettamente cesellate, i capelli nerissimi, la pelle liscia con una traccia di abbronzatura. Aveva spalle larghe su un corpo snello ma scolpito con eleganza; vestiva in modo informale: una camicia bianca marca Izod e un paio di bluejeans scoloriti. Teneva gli occhi bassi, le mani serrate sul ventre. «È roba di sua moglie?» volli sapere. Gli strumenti medici potevano appartenere al marito. Il «già» di Marino me lo confermò. Petersen alzò lentamente lo sguardo. Occhi color azzurro scuro, iniettati di sangue. Sembravano quasi sollevati, mentre mi fissavano. Il dottore era arrivato, un raggio di speranza dove i raggi di speranza erano assenti. Mormorò qualcosa, parlando a frasi smozzicate, con la mente scissa, sconvolta. «Le ho parlato al telefono. Ieri sera. Ha detto che sarebbe tornata verso mezzanotte e mezzo, tornata dal VMC, il Virginian Medical Center. Sono arrivato, ho trovato le luci spente e ho pensato che fosse già andata a letto. Poi sono entrato in casa.» La voce si fece acuta, tremante; lui respirò a fondo. «Sono entrato là, sono entrato là dentro, nella camera da letto.» Aveva un'espressione disperata negli occhi, quasi implorante. «La prego, non voglio che nessuno la guardi, che la veda così. La prego.» «Bisognerà fare degli esami, signor Petersen» dissi gentilmente. Picchiò all'improvviso un pugno sul tavolo, in un soprassalto di rabbia. «Lo so!» Aveva un'espressione feroce negli occhi. «Ma tutta quella gente, la polizia e tutti gli altri!» Gli tremava la voce. «Lo so cosa succede! Gior-
nalisti, tutti, accalcati intorno. Non voglio che quei figli di puttana la vedano!» Marino non batté ciglio. «Ehi. Ho una moglie anch'io, Matt. Lo so cosa vuol dire, capito? Hai la mia parola che la tratteranno con rispetto. Lo stesso rispetto che pretenderei se fossi seduto al tuo posto, se fossi io a essere seduto sulla tua sedia, capito?» Il dolce balsamo delle menzogne. I morti sono indifesi e la violazione di questa donna, come quella delle altre, era solo cominciata. Sapevo che non sarebbe terminata fino a quando Lori Petersen non fosse stata rivoltata, fotografato ogni centimetro del suo corpo, il tutto messo a disposizione degli esperti, della polizia, degli avvocati, dei giudici e dei membri della giuria. Ci sarebbero state riflessioni, osservazioni sui suoi attributi fisici o sulla loro mancanza. Ci sarebbero state battute goliardiche e ciniche, mentre la vittima, non l'assassino, finiva sotto processo e ogni aspetto della sua persona, del suo modo di vita, veniva esaminato, giudicato e, in alcuni casi, insozzato. Una morte violenta è un evento pubblico ed era proprio questo risvolto della mia professione che urtava duramente la mia sensibilità. Facevo quel che potevo per salvaguardare la dignità delle vittime, ma ben poco potevo fare quando una persona era ormai un numero di un fascicolo, un elemento di prova che passava di mano in mano. La privacy viene annientata, proprio come la vita. Marino mi scortò fuori dalla cucina, lasciando che fosse l'agente a proseguire l'interrogatorio di Petersen. «Avete già fatto le vostre foto?» chiesi. «Adesso c'è dentro la scientifica che sparge polvere dappertutto» rispose. Intendeva gli uomini della squadra di identificazione. «Gli ho detto di stare lontani dal corpo.» Ci fermammo nel corridoio. Sulle pareti c'erano alcuni piacevoli acquerelli e una serie di fotografie che ritraevano le classi in cui si erano diplomati il marito e la moglie, più una fotografia artistica a colori della giovane coppia, sullo sfondo di una spiaggia, appoggiata a un pilone consumato dagli elementi, i pantaloni arrotolati alla caviglia, il vento nei capelli, il viso arrossato dal sole. Era bella da viva, bionda, con lineamenti delicati e un sorriso attraente. Aveva frequentato il Brown College, poi la facoltà di medicina di Harvard. Anche il marito aveva passato ad Harvard gli anni di undergraduate. Lì probabilmente si erano incontrati ed evidentemente lui era più giovane di lei. Lei. Lori Petersen. Brown. Harvard. Brillante. Trentenne. Quasi sul pun-
to di veder realizzato il suo sogno. Dopo otto anni faticosi di pratica medica. Laureata in medicina. E tutto questo distrutto per i pochi minuti di piacere aberrante di uno sconosciuto. Marino mi toccò il gomito. Voltai la schiena alle fotografie mentre mi faceva notare la porta aperta subito dopo quella a sinistra. «È da qui che è entrato» spiegò. Era una stanzetta con il pavimento di mattonelle bianche e le pareti coperte da tappezzeria color carta da zucchero. C'erano il water, il lavabo e uno stendibiancheria. La finestra sopra il water era spalancata, un quadrato di tenebra da dove penetrava un'aria fredda e umida che faceva muovere le tende bianche inamidate. Fuori, tra gli alberi scuri e fitti, le cicale frinivano. «La rete è stata tagliata.» Il volto di Marino non esprimeva nulla mentre mi guardava. «Penzola dalla parete della casa. Giusto sotto la finestra c'è un tavolo da picnic. Si direbbe che l'ha spinto fin lì per poter salire.» Esaminavo il pavimento, il lavabo, il coperchio della tazza. Non vidi né terra né impronte, ma da dove mi trovavo non era facile capirlo e non volevo correre il rischio di rovinare le prove. «La finestra era chiusa da dentro?» chiesi. «Non sembra. Tutte le altre finestre sono chiuse: ho già controllato. Avrebbe dovuto darsi un bel po' da fare per accertarsi che questa lo fosse. Di tutte le finestre, è la più vulnerabile, la più bassa; sul retro, dove da fuori nessuno vede quel che succede. Meglio che entrare dalla finestra della camera da letto, perché se il tizio non fa rumore, lei non lo sente tagliare la rete e scavalcare. È lontano dall'ingresso.» «E le porte? Erano chiuse quando il marito è arrivato?» «Lui dice di sì.» «Allora l'assassino è uscito da dove è entrato» decisi. «Sembrerebbe. Un tipino pulito, non le pare?» Si teneva allo stipite, chinandosi in avanti senza però entrare. «Qui dentro non ci vedo niente, magari ha ripulito tutto dietro di sé per essere sicuro di non lasciare impronte sul cesso o sul pavimento. Ha piovuto tutto il giorno.» Mi fissava con uno sguardo vuoto. «Avrebbe dovuto avere le scarpe bagnate, magari sporche di fango.» Mi chiesi dove voleva arrivare. Marino era un uomo difficile da capire e non ero mai riuscita a decidere se era un buon giocatore di poker o se era semplicemente tardo. Era proprio il tipo di poliziotto che se appena pote-
vo, tendevo a evitare, un osso duro con cui comunicare era assolutamente impossibile. Andava verso i cinquanta, con un viso su cui la vita aveva infierito e lunghe ciocche di capelli grigi con la scriminatura bassa da una parte e il riporto dall'altra. Alto più di un metro e ottanta, aveva il ventre sporgente di chi da decine d'anni beve bourbon o birra. La cravatta larga, fuori moda, a strisce rosse e blu, dopo il sudore di molte estati era tutta unta intorno al collo. Sembrava il duro di un film, un uomo volgare e coriaceo che probabilmente aveva in casa un pappagallo cultore di oscenità e un tavolino coperto da copie di "Hustler". Percorsi tutto il corridoio e mi fermai davanti alla camera matrimoniale. Mi sentii come svuotare dentro. Un poliziotto della squadra di identificazione era impegnato a passare una polvere nera su tutte le superfici, un altro riprendeva ogni particolare su videotape. Lori Petersen era distesa sul letto, dai piedi del quale pendeva una sovraccoperta azzurra e bianca. Il lenzuolo sopra era stato scalciato verso il basso ed era appallottolato sotto i piedi; quello sotto, strappato dagli angoli del materasso in alto, ne rivelava il tessuto. I cuscini erano stati spinti contro il lato destro del viso. Il letto appariva come il vortice di un violento ciclone, circondato dalla civiltà intatta di una camera da letto middle class, dai mobili di quercia lucida. Era nuda. Alla destra del letto, sul tappeto di stracci dai colori vivaci c'era una camicia da notte di cotone giallo pallido. Era stata squarciata per tutta la lunghezza, il che concordava con i tre casi precedenti. Sul comodino accanto alla porta era posato il telefono, il filo strappato dalla parete. Anche le due lampade da notte erano state strappate e i cavi erano stati tagliati. Uno le serrava i polsi, legati alla vita da dietro, l'altro era stato annodato seguendo uno schema diabolicamente creativo: anche questo particolare concordava. Formava un cappio intorno al collo, scendeva intrecciato lungo la schiena infilandosi nel nodo ai polsi per finire stretto alle caviglie. Finché lei teneva le ginocchia piegate, il cappio intorno al collo non si serrava. Quando raddrizzava le gambe, sia per una contrazione dovuta alla sofferenza sia perché schiacciata dal peso del suo aggressore, si stringeva come un nodo scorsoio. Ci vogliono pochi minuti per morire di asfissia. Sono molti quando ogni cellula del corpo urla per la mancanza d'aria. «Può entrare, dottoressa» mi stava dicendo il poliziotto con la telecamera. «Abbiamo ripreso tutto.»
Facendo attenzione a dove mettevo i piedi mi accostai al letto, posai la borsa sul pavimento e tirai fuori un paio di guanti da chirurgo. Poi scattai diverse fotografie del cadavere in situ. I lineamenti erano alterati in modo grottesco, tanto da essere irriconoscibili, di un colore porpora dalle sfumature bluastre, provocato dall'affioramento del sangue, conseguenza del cappio al collo. Dal naso e dalla bocca usciva un fluido sanguigno che macchiava le lenzuola. I capelli biondo chiaro erano scompigliati. Era piuttosto alta, circa un metro e settantadue, e decisamente più pingue della versione giovane, ritratta nella fotografia che avevo visto nell'atrio. L'aspetto fisico della vittima era importante, in quanto l'assenza di uno schema preciso stava diventando una costante. Non c'era la minima rassomiglianza fisica tra le quattro donne morte strangolate. La terza era una negra molto snella, la prima una rossa florida, mentre la seconda era bruna e minuscola. Facevano lavori diversi: una insegnante, una scrittrice, una receptionist e ora un medico. Vivevano in quartieri diversi della città. Presi un lungo termometro chimico dalla borsa e misurai prima la temperatura della stanza, poi quella del corpo. L'aria era 21,7 gradi, il corpo 34,2. Determinare l'ora del decesso è più difficile di quanto non si pensi. La si può stabilire con precisione solo quando qualcuno assiste alla morte, oppure quando l'orologio della vittima si ferma proprio in quell'istante. Ma Lori Petersen non era morta da più di tre ore. Il corpo si era raffreddato da mezzo a un grado all'ora e il rigor mortis era già riscontrabile nei muscoli sottili. Cercai di rilevare indizi evidenti che avrebbero potuto andare distrutti durante il trasporto all'obitorio. Addosso non le trovai capelli, ma molte fibre senz'altro lasciate in gran parte dalle coperte. Con un paio di pinzette ne raccolsi un certo numero: alcune erano piccole e biancastre, altre sembravano provenienti da un tessuto blu scuro oppure nero. Le riposi in scatolette minuscole di metallo. Le prove materiali più evidenti erano però un odore muschioso e le chiazze lasciate da un fluido trasparente, secco e simile a colla sulla parte anteriore e posteriore delle cosce. In tutti e tre i casi era stato trovato del liquido seminale, però di scarso valore dal punto di vista sierologico. L'aggressore apparteneva a quel venti per cento della popolazione che si distingue per il fatto di essere non secretore. Ciò significava che non era possibile trovare gli antigeni del gruppo sanguigno nei suoi fluidi organici, come saliva, sperma o sudore. In altre parole, si poteva stabilire il gruppo sanguigno di appartenenza solo attraverso il sangue. Poteva essere di gruppo A, B, AB, O qualsiasi altro.
Non più di un paio d'anni prima, un assassino non secretore avrebbe messo fuori gioco le indagini basate su prove di tipo medico scientifico. Ora però c'era il profilo del Dna, introdotto da poco e potenzialmente significativo, almeno per identificare un criminale escludendo qualsiasi altro essere umano... purché la polizia riuscisse a prenderlo, a ottenerne dei campioni biologici e purché questa persona non avesse un gemello identico. Marino era entrato in camera da letto, alle mie spalle. «La finestra del bagnetto» disse guardando il cadavere. «Ecco, secondo il marito, là» disse indicando la cucina con il pollice «era aperta perché l'aveva aperta lui la settimana scorsa.» Mi limitai ad ascoltarlo. «Afferma che quel bagnetto non lo usavano quasi mai a meno che non avessero gente. Pare che l'ultimo weekend volesse sostituire la rete e dice che può darsi che abbia dimenticato di richiudere la finestra, quando ha finito. Poi il bagno non è stato usato per tutta la settimana. Lei» - guardò di nuovo il cadavere - «non aveva nessun motivo di pensarci, probabilmente avrà creduto che fosse sempre chiusa.» Una pausa. «Piuttosto interessante il fatto che l'unica finestra che l'assassino ha trovato è proprio quella. L'unica aperta. La rete delle altre non è stata tagliata.» «Quante finestre ci sono sul retro della casa?» chiesi. «Tre. In cucina, nel bagnetto e nella stanza da bagno.» «E tutte e tre sono a ghigliottina con il catenaccio in alto?» «Azzeccato.» «Voglio dire, puntando da fuori una torcia verso il catenaccio probabilmente si può vedere se è chiusa o no.» «Forse.» Di nuovo quegli occhi freddi, per niente amichevoli. «Ma solo montando su qualcosa per guardare. Da terra il catenaccio non si vede.» «Aveva parlato di un tavolo da picnic» gli ricordai. «Il guaio è che il terreno dietro casa è fradicio. Le gambe del tavolo avrebbero lasciato un segno nel prato se il tizio l'avesse appoggiato contro le altre finestre e poi ci fosse salito sopra per guardare. Ho mandato fuori un paio di uomini a controllare. Nessuna impronta nel terreno sotto le altre due finestre. E non sembra neanche che l'assassino ci si sia avvicinato. Sembra proprio che sia andato diritto alla finestra del bagnetto in fondo al corridoio.» «È possibile che fosse semiaperta e che per questo l'abbia vista subito?» «Sicuro» concesse Marino, «tutto è possibile. Ma se era semiaperta, ma-
gari lei la notava nel corso della settimana.» Magari. E magari no. È facile avere spirito di osservazione retrospettivamente. Ma quasi nessuno presta molta attenzione ai particolari di casa propria e specialmente a quelli dei locali poco usati. Davanti a una finestra chiusa da un tendaggio che dava sulla strada c'era una scrivania con altre sgradevoli cose a ricordare che Lori Petersen faceva la mia stessa professione. Sparse sul piano c'erano svariate riviste di medicina, il manuale Principles of Surgery e quello del Dorland. Accanto alla base della lampada d'ottone c'erano due dischetti. Sulle etichette, con il pennarello era stato scritto semplicemente "6/1", accompagnato rispettivamente da "I" e da "II". Due normalissimi dischetti a doppia densità, IBM compatibili. Probabilmente contenevano qualcosa a cui Lori Petersen stava lavorando al VMC, il policlinico universitario dove c'erano molti computer a disposizione dei medici e degli studenti. Non sembravano esserci PC in casa. Su una sedia di vimini nell'angolo tra la cassettiera e la finestra erano disposti ordinatamente dei vestiti: un paio di pantaloni di cotone bianco, una camicetta a maniche corte a strisce rosse e bianche e un reggiseno. I capi erano leggermente spiegazzati, come se fossero stati indossati per tutto il giorno e poi lasciati cadere sulla sedia, cosa che a volte faccio anch'io quando sono troppo stanca per appenderli. Esaminai rapidamente la cabina armadio e il bagno. Tutto sommato, eccettuato il letto, la camera matrimoniale appariva pulita e intatta. Non c'erano dubbi sul fatto che il modus operandi dell'assassino non prevedeva né furti né scasso. Marino osservava un poliziotto intento ad aprire l'uno dopo l'altro i cassetti. «Che cos'altro sa sul conto del marito?» gli chiesi. «Frequenta l'università a Charlottesville. Durante la settimana rimane là e il venerdì sera torna a casa. Rimane qui il weekend e ritorna a Charlottesville la domenica sera.» «Che facoltà frequenta?» «Lettere, ha detto» rispose Marino, guardandosi intorno e posando gli occhi su tutto, salvo che su di me. «Sta per prendere il dottorato.» «In che cosa?» «In letteratura» ripeté, enunciando lentamente ogni sillaba. «Che tipo di letteratura?» Gli occhi marroni finalmente mi fissarono. «Americana, mi ha detto, ma
l'impressione è che lo interessino di più i drammi. Pare che adesso reciti in uno. Di Shakespeare. Amleto, mi pare di aver capito. Dice che ha recitato molto, comprese alcune comparsate nei film girati da queste parti e anche in un paio di spot pubblicitari.» I due interruppero il loro lavoro. Uno si girò con il pennellino fermo a mezz'aria. Marino indicò i dischetti sulla scrivania e a voce sufficientemente alta per richiamare l'attenzione di tutti esclamò: «Mi sa che è il caso di dare una guardatina a quel che c'è su questi affari. Chissà, magari una commedia che sta scrivendo, no?». «Possiamo dargli un'occhiata nel mio ufficio. Abbiamo un paio di personal computer.» «Oh, i PC» disse strascicando la voce. «Come no. Danno la paga al mio SM-1, un Super Merdatron modello standard, nero, tasti che appiccicano, un cassone lungo otto metri.» Un poliziotto aveva tirato fuori qualcosa da sotto una pila di pullover: un coltello da sopravvivenza a lama lunga, con la bussola inserita nel manico e una minuscola pietra per affilare in una tasca della custodia. Toccandolo il meno possibile, lo infilò in una busta di plastica. Dallo stesso cassetto uscì una scatola di preservativi che, feci notare a Marino, mi lasciò piuttosto perplessa visto che, come avevo avuto modo di notare in bagno, Lori Petersen prendeva la pillola. Marino e gli altri poliziotti diedero il via alle consuete speculazioni ciniche. Mi tolsi i guanti e li infilai nella borsa. «Si può portarla via» dissi. Gli uomini si voltarono in sincronismo, come se si fossero improvvisamente ricordati della donna brutalizzata, assassinata, al centro del letto sconvolto. Le labbra scoprivano i denti in una smorfia di dolore, le palpebre gonfie erano ridotte a fessure, gli occhi fissavano verso l'alto, senza vedere. L'ambulanza venne contattata via radio e qualche minuto dopo due infermieri in tuta blu arrivarono con una barella che accostarono al letto e sulla quale posarono un lenzuolo bianco, pulito. Lori Petersen venne sollevata seguendo i miei ordini, con le lenzuola piegate sopra di lei, evitando di toccarle il corpo con i guanti di gomma. Venne posata delicatamente sulla barella, insieme alle lenzuola, per avere la certezza che non andassero perdute tracce, né che ne venissero aggiunte di spurie. Quando furono fissate intorno a quel bozzolo bianco, le cerniere
di velcro fecero un rumore simile a quello di un tessuto strappato. Marino uscì con me dalla camera da letto. Rimasi sorpresa quando annunciò: «La accompagno alla macchina». Matt Petersen si alzò mentre percorrevamo il corridoio. L'espressione vacua, gli occhi vitrei, mi fissò disperato, bisognoso di qualche cosa che solo io gli potevo dare. Una rassicurazione. Una parola di conforto. La rassicurazione che sua moglie era morta subito, senza soffrire. Che era stata legata e violentata dopo la morte. Non c'era nulla che gli potevo dire. Marino mi precedette nel soggiorno e poi all'esterno. Il giardino davanti alla casa era illuminato dai riflettori della televisione che fluttuavano su uno sfondo ipnotico di luci lampeggianti rosse e blu. Sentii parole pronunciate da corpi invisibili che si sovrapponevano al rombo dei motori, mentre una lieve pioggerella cominciava a cadere nella nebbia leggera. Dappertutto c'erano giornalisti muniti di taccuino e registratore che attendevano impazienti il momento in cui il corpo sarebbe sceso dai gradini della casa per venire infilato nell'ambulanza. Sulla strada c'era una troupe televisiva con una donna in un trench stretto in vita che parlava in un microfono, l'espressione seria: la telecamera la registrava "sul posto" per il notiziario del sabato sera. Bill Boltz, il procuratore del Commonwealth della Virginia, era appena arrivato e scendeva in quel momento dalla macchina. Aveva un'aria inebetita e semiaddormentata e sembrava deciso a eludere la stampa. Non aveva niente da dire perché non sapeva ancora nulla. Mi chiesi chi l'avesse informato. Forse Marino. Tutt'intorno era pieno di poliziotti, alcuni inutilmente intenti a esaminare l'erba con le loro potenti torce elettriche, altri stipati nelle auto bianche a chiacchierare. Boltz chiuse la cerniera della giacca a vento e mi rivolse un breve cenno del capo mentre i nostri sguardi si incrociavano, poi si affrettò lungo il vialetto. Il capo della polizia e il sindaco, pallidi in viso, sedevano in un'auto color crema priva di contrassegni con la luce interna accesa, annuendo periodicamente e raccontando qualcosa alla giornalista Abby Turnbull. La donna gli parlava attraverso il finestrino aperto. Attese che io e Marino fossimo sul marciapiede poi ci trotterellò dietro. Marino la deviò con un cenno della mano e un «No, niente commenti» detto con un tono che lo rendeva simile a un vaffanculo. Accelerò il passo. Era quasi un piacere averlo accanto. «Sembra proprio un circo» disse disgustato mentre si batteva sulle ta-
sche della giacca alla ricerca delle sigarette. «Un circo a tre piste fatto e finito. Gesù Cristo.» La pioggia fredda mi bagnò il viso mentre Marino mi teneva aperta la portiera della station wagon. Quando accesi il motore si chinò e con un ghigno disse: «Guidi prudente, dottoressa». 2 Il quadrante rotondo e bianco dell'orologio galleggiava, simile a una luna piena nel cielo scuro, sulla cupola della vecchia stazione ferroviaria, sui binari e sul sovrappasso della I-95. Le grandi lancette traforate si erano fermate molti anni prima, insieme all'ultimo treno passeggeri. Erano le 12 e 17 e sarebbero state sempre le 12 e 17 nella parte bassa della città, dove il Dipartimento sanità e servizi sociali aveva deciso di costruire il suo ospedale dei morti. Qui il tempo si è fermato. Gli edifici sono sbarrati da assi per poi venire abbattuti. Il rombo delle auto e il ruggito dei treni merci non trova pace, simile al mugghio di un mare inquieto, distante. La terra è una landa avvelenata chiazzata da erbacce e da macerie, dove nulla cresce e dove al calare del buio non si accendono luci. Non si vede anima viva in giro, salvo i camionisti e i viaggiatori e i treni che filano via lungo le loro piste d'acciaio e di cemento. Il volto bianco dell'orologio mi osservava mentre in macchina mi addentravo nell'oscurità, mi osservava come il volto bianco nei miei sogni. Infilai la station wagon in un'apertura della catena di recinzione e parcheggiai dietro il palazzo decorato a stucchi dove, da due anni, trascorrevo praticamente tutte le mie giornate. Nel parcheggio accanto alla mia macchina c'era una sola automobile di proprietà dello Stato, la Plymouth grigia assegnata a Neils Vander, lo specialista in impronte digitali. L'avevo chiamato subito dopo la telefonata di Marino. Dopo il secondo strangolamento era stata decisa una nuova strategia: se si fosse verificato un altro caso, Vander avrebbe dovuto venire all'obitorio con me, immediatamente. Lo trovai nel laboratorio di radiologia, intento a mettere a punto il laser. Dall'androne di accesso aperto la luce si riversava sull'asfalto, mentre due portantini scaricavano dall'ambulanza una barella su cui era disteso un sacco nero. Le consegne si susseguivano per tutta la notte, senza interruzione. Chiunque morisse di morte violenta, inaspettata o comunque sospetta, veniva inviato qui, a qualunque ora del giorno e della notte.
I giovanotti in tuta blu parvero sorpresi vedendomi entrare nell'androne e mi tennero aperta la porta. «Si alza presto, dottoressa.» «Suicidio da Mecklenburg» mi informò l'altro. «Si è buttato sotto il treno. Sparso su quindici metri di binari.» «Già, a tocchi e pezzetti...» Il carrello sussultò oltrepassando la porta ed entrò nel corridoio di piastrelle bianche. Evidentemente la sacca era difettosa o strappata. Dal fondo della barella il sangue gocciolava, lasciando sul pavimento una scia di macchioline rosse. L'obitorio aveva un odore caratteristico, il fetore stantio di morte che nessun deodorante riusciva a nascondere. Se mi avessero portata qui bendata, avrei saputo esattamente dove mi trovavo. A quest'ora del mattino l'odore era più avvertibile, più sgradevole del solito. La barella procedeva rumorosa nell'immobilità del corridoio vuoto, mentre i due portantini trasferivano il suicida nel frigorifero di acciaio inossidabile. Svoltai a destra nell'ufficio dell'obitorio dove Fred, il sorvegliante, beveva un caffè in una tazza di plastica attendendo che gli infermieri dell'ambulanza firmassero e se ne andassero. Sedeva sul bordo della scrivania, tenendosi in disparte, come faceva sempre quando consegnavano un cadavere. Neanche una pistola puntata alla tempia sarebbe stata un incentivo sufficiente per fargli scortare qualcuno nel frigorifero. I cartellini attaccati agli alluci dei piedi che spuntavano dai lenzuoli avevano un effetto particolare su di lui. Lanciò un'occhiata in tralice all'orologio da parete. Le dieci ore del suo turno di servizio stavano per finire. «Sta arrivando un altro caso di strangolamento» gli dissi brusca. «Dio, Dio! Oh, come mi dispiace.» Scosse la testa. «Sul serio. Difficile immaginare uno che fa una cosa del genere. Tutte quelle povere donne» disse sempre scuotendo la testa. «Arriverà da un minuto all'altro e, Fred, devi fare in modo che l'ingresso delle ambulanze venga chiuso e rimanga chiuso quando il corpo sarà arrivato. I giornalisti si precipiteranno qui in massa. Non voglio nessuno nel raggio di venti metri dal palazzo. Chiaro?» Il tono di voce era duro e secco, me ne rendevo conto. Sentivo i nervi vibrare come un cavo ad alta tensione. «Sì, dottoressa.» Un cenno vigoroso. «Me ne occupo io. Senz'altro.» Accesi una sigaretta, afferrai il telefono e formai con forza il numero di casa. Bertha rispose al secondo squillo. Sembrava drogata quando, con vo-
ce roca di sonno, rispose «Pronto?». «Solo un controllo.» «Sono qui. Lucy non si è neanche mossa, dottoressa Kay. Dorme della grossa, non mi ha neppure sentita arrivare.» «Grazie Bertha. Non so come ringraziarti e non so nemmeno quando tornerò a casa.» «Mi troverà qui, dottoressa Kay.» Di questi tempi Bertha era costantemente in allarme. Se chiamavano in servizio me nel pieno della notte, lo stesso capitava a lei. Le avevo dato la chiave della porta d'ingresso e spiegato come funzionava l'allarme. Probabilmente era arrivata a casa mia pochi minuti dopo che ero uscita. Avvilita, pensai che quando di lì a qualche ora Lucy si sarebbe alzata avrebbe trovato in cucina Bertha invece della zia Kay. Avevo promesso a Lucy di portarla a Monticello, quel giorno. Su un carrello dei ferri chirurgici vicino a noi c'era un generatore azzurro, più piccolo di un forno a microonde, con il pannello anteriore attraversato da una fila di segnalatori luminosi verdi. Era sospeso nel buio totale del laboratorio di radiologia come un satellite nello spazio vuoto, collegato attraverso un cavo a spirale a una provetta delle dimensioni di una matita piena d'acqua di mare. Il laser, che avevamo acquistato l'inverno precedente, era un apparecchio relativamente semplice. Nelle normali sorgenti luminose, i singoli atomi e le singole molecole emettono luce gli uni indipendentemente dagli altri e secondo varie lunghezze d'onda. Quando invece un atomo viene eccitato dal calore e contemporaneamente stimolato da una sorgente luminosa di una certa lunghezza d'onda, gli si può far emettere una luce in fase con altri atomi. «Dammi ancora un minuto.» Neils Vander mi voltava le spalle intento a trafficare con manopole e interruttori. «È lento a scaldarsi stamattina...» E con un borbottio cupo aggiunse: «E anch'io, se è per quello». In piedi all'altro lato del tavolo dei raggi x, osservavo la sua ombra attraverso un paio di occhiali di protezione color ambra. Davanti avevo la sagoma scura del cadavere di Lori Petersen, le lenzuola del suo letto dispiegate sotto di lei. In piedi nel buio, attesi per un tempo che mi parve lunghissimo, senza lasciar correre i pensieri, le mani perfettamente immobili, i sensi privi di stimoli. Il corpo era caldo, la sua vita, così da poco interrotta, sembrava aleggiarle intorno come un odore.
Vander annunciò che era pronto e fece scattare un interruttore. Immediatamente dalla provetta sgorgò un fascio di luce che lampeggiava rapidissimo, del colore di un crisoberillo liquido. Il fascio non disperdeva le tenebre, sembrava piuttosto assorbirle; non pareva emettere una luce propria quanto inondare una piccola superficie. Vander mi appariva come un camice lampeggiante all'altro lato del tavolo, mentre cominciava a puntare la sonda verso il capo. Esplorammo la pelle centimetro per centimetro. Minuscole fibre di tessuto si illuminavano come fili incandescenti. Mi apprestai a raccoglierle con le pinzette, con gesti che sembravano cadenzati sotto lo stroboscopio luminoso, creando l'illusione di movimenti al rallentatore, mentre facevo la spola dal cadavere al tavolo dei raggi x, dagli scatolini delle prove alle buste. Avanti e indietro. Ogni movimento era indipendente dagli altri. Il bombardamento laser illuminò l'angolo di un labbro, una minuscola emorragia su uno zigomo, su una pinna nasale, isolando ogni lineamento. Le dita coperte dai guanti che lavoravano con le pinzette sembravano non appartenere a me ma ad un'altra persona. Il rapido sfarfallio luminoso dava un senso di vertigine e l'unico modo per mantenere l'equilibrio era concentrarsi su una cosa per volta, come se anch'io, come il raggio laser, fossi in fase, come se ci fosse un sincronismo perfetto tra me e ciò che facevo, come se l'insieme della mia energia mentale si coagulasse in un'unica lunghezza d'onda. «Uno dei tipi che l'ha portata qui» osservò Vander, «mi ha detto che stava specializzandosi in chirurgia al VMC.» Quasi non gli risposi. «La conoscevi?» La domanda mi colse di sorpresa. Qualcosa dentro di me si irrigidì. Facevo parte della facoltà del VMC, dove tra studenti di medicina e residenti c'erano centinaia di persone. Non c'era nessun motivo per cui avrei dovuto conoscerla. Tacqui limitandomi a dare indicazioni come «un po' più a destra» o «fermo lì un attimo». Al pari di me, Vander era lento, guardingo e teso. Ci stava assalendo una sensazione di inutilità e di frustrazione. Fino a quel momento il laser aveva dimostrato di non essere meglio di un aspirapolvere Hoover, capace di raccogliere residui di vario genere. L'avevamo sperimentato in una ventina di casi almeno, anche se solo in alcuni sarebbe valsa la pena di usarlo. Oltre a essere utile per ritrovare fibre e altre tracce, il laser rivela vari componenti del sudore che, stimolati
dal raggio, si accendono come una lampada al neon. In linea teorica, un'impronta digitale lasciata sulla pelle umana può emettere luce e venire così identificata, nelle circostanze in cui i metodi chimici e fisici tradizionali falliscono. Ero a conoscenza di un solo caso in cui erano state trovate impronte digitali sulla pelle. Era successo nella Florida meridionale, dove una donna era stata assassinata in un centro terapico e l'aggressore aveva le mani sporche di olio abbronzante. Né io né Vander ci aspettavamo di avere più fortuna di quanta non ne avevamo avuta in passato. In un primo momento ci sfuggì quel che stavamo vedendo. La sonda esaminava alcuni centimetri della spalla destra di Lori Petersen quando, direttamente sopra la clavicola, notammo all'improvviso tre chiazze irregolari che sembravano dipinte con fosforo. Ci bloccammo e rimanemmo a fissarle. Poi Vander sibilò tra i denti mentre io avvertivo un brivido salirmi lungo la spina dorsale. Dopo aver preso un vasetto di polvere e un pennello Magna, Vander impolverò delicatamente quelle che sembravano essere tre impronte latenti rimaste sulla pelle di Lori Petersen. Mi permisi di sperare. «Qualcosa che può servire?» «Sono parziali» rispose distaccato mentre le fotografava con una Polaroid MP-4. «I dettagli del contorno sono piuttosto buoni. Sufficienti per la classificazione, direi. Faccio passare immediatamente al computer queste tre bellezze.» «Sembra lo stesso residuo» dissi pensando ad alta voce. «La stessa roba che ha sulle mani.» Il mostro aveva firmato ancora il lavoro. Troppo bello per essere vero. Le impronte digitali erano troppo belle per essere vere. «Sembrerebbe proprio la stessa. Questa volta però doveva averne un bel po', sulle mani.» L'assassino nei casi precedenti non aveva mai lasciato impronte digitali, ma quel residuo luminoso che evidentemente le rendeva fluorescenti ormai ci aspettavamo di trovarlo. Ce n'era dell'altro. Quando Vander passò ad esaminare il collo, una costellazione di stelline bianche si stagliò netta, simili a schegge di vetro colpite dalla luce dei fari in una strada buia. Bloccò la sonda mentre io prendevo un tampone di garza sterile. Avevamo trovato lo stesso luccichio sul cadavere delle prime tre donne strangolate, più nel terzo caso che nel secondo, mentre una quantità minore l'avevamo trovata nel primo. Alcuni campioni erano stati inviati ai laboratori. Fino a quel momento lo strano residuo non era ancora stato identificato: era stato semplicemente stabilito che si trattava di una sostanza inorga-
nica. Non eravamo più vicini a sapere che cosa fosse, sebbene ormai avessimo un lunghissimo elenco di sostanze che potevamo escludere. Nelle ultime settimane, Vander e io avevamo svolto svariati test, spargendoci sull'avambraccio le sostanze più diverse, dalla margarina alle body lotion, per vedere che cosa reagiva al laser e che cosa no. I campioni che si erano illuminati erano ancor meno di quel che avevamo supposto e in nessun caso il luccichio era intenso come nel caso della sostanza sconosciuta. Infilai delicatamente un dito sotto il laccio realizzato con un filo elettrico, stretto intorno al collo di Lori Petersen, e rivelai un solco rossastro. I margini del solco erano irregolari, lo strangolamento era avvenuto più lentamente di quanto sulle prime non avessi supposto. Notai le leggere abrasioni lasciate dal cavo che si era teso diverse volte. Era abbastanza lento da tenerla in vita per un po'. Poi, all'improvviso era stato stretto. Sul filo si notavano due o tre scintille di luce, nient'altro. «Prova con le legature alle caviglie» dissi a bassa voce. Ci spostammo verso i piedi. Anche qui trovammo le scintille bianche, ma anche qui erano poche. Nessuna traccia della sostanza, di qualunque cosa si trattasse, sul viso, nessuna sui capelli né sulle gambe. Ne trovammo alcune sugli avambracci e altre ancora sull'omero e sulle mammelle. Una costellazione di stelline bianche si aggrappava al cavo che le stringeva selvaggiamente i polsi sulla schiena; altre le trovammo sulla camicia da notte squarciata. Mi staccai dal tavolo, accesi una sigaretta e cominciai a mettere insieme i vari elementi. Sulle mani dell'aggressore c'era una sostanza che si depositava ogni qual volta lui toccava la vittima. Dopo aver strappato la camicia da notte a Lori Petersen, probabilmente le aveva afferrato la spalla destra, dove le dita avevano lasciato le macchie sulla clavicola. Di una cosa ero certa: che, se qui si trovava la massima concentrazione di sostanza, questo era il primo posto dove l'aveva toccata. Questo particolare era sconcertante: una tessera che sembrava combaciare nel mosaico, mentre in realtà non era così. Fin dall'inizio avevo immaginato che soggiogasse immediatamente le vittime, magari sotto la minaccia di un coltello, e che poi le legasse prima di tagliar loro gli abiti addosso o di fare il resto. Più le toccava, meno sostanza gli rimaneva sulle mani. Come mai ne era rimasta tanta sulla clavicola? Forse lì la pelle era scoperta all'inizio dell'aggressione? Non mi sem-
brava probabile. La camicia da notte era di maglia di cotone, morbida ed elastica, tagliata in modo da farla assomigliare a una T-shirt a maniche lunghe. Non aveva né bottoni né cerniere e la si poteva indossare solo infilandola dalla testa. Avrebbe dovuto coprirla fino al collo. Come aveva fatto l'assassino a toccarle la pelle nuda, se Lori Petersen aveva ancora la camicia da notte addosso? Come si spiegava una concentrazione così elevata di sostanza? Negli altri casi non ne avevamo mai trovata tanta. Uscii nel corridoio dove diversi uomini in uniforme se ne stavano in piedi, appoggiati alla parete, chiacchierando. Chiesi a uno di loro di chiamare Marino per radio e di riferirgli di telefonarmi immediatamente. Sentii la voce di Marino gracchiare un "dieci-quattro" di risposta. Camminai nel reparto delle autopsie, con il suo pavimento di piastrelle, i tavoli di acciaio inossidabile luccicanti, le vasche e i carrelli su cui erano allineati gli strumenti chirurgici. Da qualche parte un rubinetto perdeva. Si sentiva il puzzo dolciastro e rivoltante del disinfettante, che risultava gradevole solo quando serviva a coprire fetori ancora più intensi. Il telefono nero sulla scrivania mi beffava con il suo silenzio. Marino sapeva che ero in attesa della sua chiamata accanto all'apparecchio. E questa situazione lo divertiva. Era inutile cercare di risalire all'inizio per capire che cosa era andato storto. Ogni tanto ci pensavo lo stesso. Che cosa non gli andava in me? La prima volta che ci eravamo incontrati mi ero dimostrata educata con lui, gli avevo stretto forte e rispettosamente la mano, mentre i suoi occhi perdevano ogni espressione, come due monete consunte. Passarono venti minuti prima che il telefono squillasse. Era ancora a casa dei Petersen, mi disse, stava interrogando il marito che, per usare le sue parole, era "ridotto da buttare nel cesso". Gli raccontai della sostanza. Ripetei quello che gli avevo già spiegato in passato. Forse veniva da qualche prodotto domestico presente in tutti i casi sulla scena degli omicidi, qualche cosa di strano che l'assassino cercava e integrava nel rituale. Talco, lozioni, cosmetici, detersivi. Finora non avevamo scoperto di quale materia potesse trattarsi il che, in un certo senso, era stato utile. Se la sostanza non si trovava originariamente sul luogo del delitto, e dentro di me sentivo che così era, allora l'assassino la portava con sé, forse senza rendersene conto, particolare, questo, da non sottovalutare, perché alla fine avrebbe potuto svelarci dove lavorava o dove viveva. «Già» mi arrivò la voce di Marino. «Bene. Daremo un'occhiata negli armadi eccetera. Ma io una mia idea ce l'ho.»
«E sarebbe?» «Il marito in questione si occupa di teatro, giusto? Prova tutti i venerdì sera, il che spiega come mai arriva a casa tardi, giusto? Mi corregga se sbaglio, ma gli attori si mettono il cerone.» «Solo durante le prove in costume o per lo spettacolo.» «Già» disse. «Be', lui dice di aver avuto una prova proprio prima di venire a casa e a quanto pare di trovare la moglie morta. A me mi è suonato un campanellino. Una vocina mi sta dicendo...» Tagliai corto. «Gli ha preso le impronte?» «Oh, certo.» «Le metta dentro una busta di plastica e quando viene qui me le porti.» Non afferrò le implicazioni di quel che gli avevo detto. Non mi spiegai. Non ero dell'umore. L'ultima cosa che Marino disse prima di riappendere fu: «Non so quando verrò, dottoressa. Ho come l'idea che sarò legato qui quasi tutta la giornata. Senza doppi sensi». Difficilmente avrei visto lui e la scheda delle impronte digitali prima di lunedì. Marino aveva un sospetto. Galoppava sulla strada dove a tutti i poliziotti piace galoppare. Un marito può essere l'emulo di Sant'Antonio e trovarsi in Inghilterra mentre la moglie viene assassinata a Seattle, ma per i poliziotti è lui il primo che viene sospettato. Sparatorie tra le pareti di casa, avvelenamenti, botte e accoltellamenti sono una cosa, ma i delitti a sfondo sessuale sono un'altra. Non sono molti i mariti che hanno il pelo sullo stomaco sufficiente per legare, violentare e strangolare la moglie. Attribuii alla fatica la colpa dello stato di sconcerto in cui mi trovavo. Ero in piedi dalle 2 e 33 del mattino ed erano ormai le sei del pomeriggio. I funzionari di polizia che erano venuti all'obitorio se ne erano già andati da un bel pezzo. Vander era tornato a casa verso l'ora di pranzo. Wingo, uno dei miei tecnici, se ne era andato non molto tempo dopo e all'interno del palazzo ero rimasta solo io. Il silenzio, cui di solito ambivo, era snervante e non mi riusciva di scaldarmi. Avevo le mani irrigidite, sotto le unghie la carne aveva sfumature bluastre. Ogni volta che nell'ufficio di fronte il telefono squillava sussultavo. Dotare il mio ufficio di qualche essenziale misura di sicurezza non sembrava interessare a nessuno tranne che a me. Le richieste di fondi per in-
stallare un sistema di allarme adeguato erano state ripetutamente respinte. I direttori pensavano ai furti e difficilmente nell'obitorio sarebbe entrato un ladro, anche se avessimo steso per terra una passatoia per accoglierlo e lasciato le porte aperte giorno e notte. I cadaveri sono un deterrente migliore dei cani da guardia. I morti non mi hanno mai fatto paura. È dei vivi che ho paura. Dopo che, qualche mese prima, un pazzo armato di pistola era entrato nello studio di un medico per innaffiare di proiettili una sala d'attesa piena di pazienti, ero andata in un negozio di ferramenta e mi ero comprata una catena con lucchetto, che nelle ore non lavorative e durante i fine settimana serviva a bloccare la porta a vetri d'ingresso. All'improvviso, mentre lavoravo alla scrivania, qualcuno scosse con tale violenza i battenti che trovai la catena ancora oscillante quando mi costrinsi a percorrere l'atrio per controllare. Nessuno. A volte la gente per strada cercava di entrare per servirsi delle toilette, ma quando guardai fuori non vidi anima viva. Tornai in ufficio in una condizione di tensione tale che quando vidi le porte dell'ascensore aprirsi all'altro capo del corridoio afferrai un paio di grosse forbici, pronta a usarle. Era cambiato il turno di sorveglianza. «È stato lei che ha cercato di entrare dall'androne, poco fa?» chiesi. L'uomo guardò incuriosito le forbici che stringevo in mano e rispose che non era stato lui. Senz'altro la domanda gli era parsa insensata. Sapeva che l'ingresso anteriore era chiuso con una catena e aveva un mazzo di chiavi che gli permetteva di aprire qualsiasi altra porta dell'edificio. Non aveva nessun motivo per entrare dall'ingresso principale. In un silenzio raccapricciante sedevo davanti alla scrivania, cercando di dettare al registratore il referto dell'autopsia di Lori Petersen. Per qualche motivo, non riuscivo a dire nulla, non riuscivo a costringermi a pronunciare le parole. Mi venne in mente che nessuno avrebbe dovuto ascoltare questo referto, nemmeno Rose, la mia segretaria. Nessuno avrebbe dovuto sentir parlare della sostanza luminescente, del liquido seminale, delle impronte digitali, delle lesioni agli strati di tessuto profondi del collo e, peggio di tutto, delle tracce di tortura. L'assassino stava degenerando, stava diventando di una crudeltà spaventosa. Ormai stuprare e uccidere non gli bastava più. Solo quando avevo tolto i legacci dal corpo di Lori Petersen, per praticare delle piccole incisioni nelle zone sospette della pelle, dov'erano rimaste macchie rossastre, palpando per sentire se c'erano fratture, mi resi conto di che cosa le era capitato pri-
ma di morire. Le contusioni erano talmente recenti da risultare a malapena visibili a livello superficiale, ma le incisioni rivelarono i vasi sanguigni spezzati sotto la pelle; dalla forma delle lesioni si capiva che era stata picchiata con qualcosa di duro, come un ginocchio o un piede. Tre costole sul lato sinistro della gabbia toracica erano fratturate e lo stesso era avvenuto a quattro dita. C'erano delle fibre all'interno della bocca, principalmente sulla lingua, il che faceva pensare che a un certo punto era stata imbavagliata per impedirle di gridare. Rividi con gli occhi della mente il violino sul leggio da musica nel soggiorno, le riviste e i libri di chirurgia sulla scrivania nella camera da letto. Le sue mani, i suoi strumenti più preziosi, qualcosa con cui guariva e creava musica. Doveva averle deliberatamente spezzato le dita, una a una, dopo averla legata. Il magnetofono a microcassetta continuava a girare, registrando silenzio. Lo spensi e feci ruotare la mia sedia verso il terminale del computer. Lo schermo passò dal nero all'azzurro chiaro del sistema di elaborazione testi, poi cominciò a coprirsi di lettere nere mentre da sola mi scrivevo il referto dell'autopsia. Non guardai i numeri e le note che avevo scribacchiato su una busta mentre effettuavo i rilievi. Di lei sapevo tutto. Ricordavo tutto. La frase "nei limiti della norma" continuava a ritornarmi in testa. Non aveva nulla che non andasse bene. Cuore, polmoni, fegato: "nei limiti della norma". Era morta in perfetta salute. Continuai a scrivere senza fermarmi; sullo schermo, le pagine una volta completate scorrevano via, sostituite da pagine vuote. A un tratto sollevai all'improvviso lo sguardo. Fred, il sorvegliante, era fermo sulla porta dell'ufficio. Non avevo idea da quanto tempo fossi lì a lavorare. Doveva tornare in servizio alle otto di sera. Tutto ciò che era successo da quando l'avevo visto per l'ultima volta sembrava un sogno, un orrendo sogno. «Ancora qui?» disse. Poi, esitando: «Ah, c'è un impresario di pompe funebri qui sotto che deve portare via qualcuno, ma non riesce a trovarlo. Ha fatto tutta la strada da Mecklenburg. Non so dove è andato Wingo...». «A casa qualche ora fa» dissi. «Che corpo?» «Un certo Roberts. Finito sotto un treno.» Riflettei un attimo. Lori Petersen compresa, c'erano stati sei casi quel giorno. Ricordavo vagamente il morto sotto il treno. «È nel frigo.» «Dicono che non ce l'hanno trovato.»
Tolsi gli occhiali e mi strofinai gli occhi. «Hai controllato?» Ebbe un sorriso imbarazzato. Si allontanò camminando all'indietro e scuotendo il capo. «Sa una cosa, dottoressa Scarpetta, dentro a quell'armadio io non ci vado mai! No e no.» 3 Entrai nel vialetto, grata nel vedere che il transatlantico di Bertha, una Pontiac, c'era ancora. Non ebbi nemmeno il tempo di trovare la chiave giusta che la porta d'ingresso si aprì. «Che tempo fa in casa?» chiesi immediatamente. Eravamo una di fronte all'altra nell'atrio spazioso. Bertha sapeva che cosa intendevo. La conversazione si ripeteva identica ogni sera, quando Lucy veniva a stare da me. «Tempo pessimo, dottoressa Kay. La bambina è stata tutto il giorno nel suo ufficio a picchiare sui tasti di quel suo computer. Ma dico io! Sono entrata un attimino a portarle un sandwich e a chiederle come stava e lei giù che si mette a gridare e a fare i capricci. Ma la capisco.» Gli occhi scuri si addolcirono. «È arrabbiata perché lei ha dovuto lavorare, dottoressa.» Il senso di colpa riuscì a insinuarsi nella stanchezza. «Ho visto il giornale della sera, dottoressa Kay. Che Dio abbia pietà.» Stava infilandosi l'impermeabile, una manica per volta. «So perché ha dovuto star fuori e che cosa ha fatto tutta la giornata. Dio, Dio. Spero proprio che la polizia lo prenda, quel tipo. Malvagità. Pura malvagità e nient'altro.» Bertha sapeva quale era il mio lavoro e non mi faceva mai domande. Non mi chiedeva mai nulla nemmeno quando un caso affidato a me riguardava qualcuno del suo quartiere. «Il giornale della sera è lì.» Fece un cenno in direzione del soggiorno e raccolse il suo tascabile dal tavolo accanto alla porta. «L'ho infilato sotto il cuscino del divano per non farlo vedere a Lucy. Non sapevo se voleva farglielo leggere o no, dottoressa.» Uscendo mi diede una pacca sulla spalla. La osservai dirigersi verso la macchina e uscire lentamente a marcia indietro dal vialetto. Si meritava la benedizione di Dio. Non mi scusavo più per la mia famiglia. Bertha era stata insultata e maltrattata sia a faccia a faccia, sia al telefono, da mia nipote, da mia sorella, da mia madre. Ma sapeva come stavano le cose. Non si schierava mai, non faceva critiche e a volte sospettavo che mi compatisse, il che poteva solo farmi sentire peg-
gio. Chiusa la porta d'ingresso andai in cucina. Era la mia stanza preferita, con il soffitto alto e l'attrezzatura moderna ma essenziale, con pochi elettrodomestici: preferisco fare quasi tutto a mano, per esempio la pasta o gli gnocchi. Al centro della zona di cottura c'era un tagliere da macellaio di acero della giusta altezza per una persona che a piedi scalzi non arriva a un metro e sessantacinque di statura. L'angolo per la colazione era di fronte a una grande finestra che dava sul retro alberato del giardino e sulla mangiatoia degli uccelli. Per fare da contrasto al color biondo uniforme dei pensili di legno c'erano mazzi disordinati di rose rosse e gialle, colte nel giardino che curavo con passione. Non trovai Lucy in cucina. I piatti della cena erano già stati infilati nello scolapiatti per cui supposi che fosse tornata nello studio. Aprii il frigorifero e mi versai un bicchiere di Chablis. Mi appoggiai al banco, chiusi un attimo gli occhi e sorseggiai il vino. Non sapevo bene che atteggiamento tenere con mia nipote. Quella dell'estate scorsa era stata la sua prima visita da quando avevo lasciato il laboratorio di medicina legale della Dade County, allontanandomi dalla città dove ero nata e dove ero tornata dopo il divorzio. Lucy era la mia unica nipote. A dieci anni già studiava i libri di scienze e di matematica delle scuole superiori. Era un genio, una insopportabile peste di enigmatica discendenza latina. Suo padre era morto quando era ancora piccola. Le era rimasta solo mia sorella Dorothy, troppo presa dallo scrivere libri per l'infanzia per preoccuparsi della sua bambina in carne e ossa. Lucy mi adorava al di là di ogni spiegazione razionale e il suo attaccamento per me richiedeva un'energia che al momento mi mancava. Mentre tornavo a casa avevo valutato tra me se non era il caso di cambiare la prenotazione dell'aereo e di rimandarla in anticipo a Miami. Non ero però riuscita a decidermi a farlo. La cosa l'avrebbe prostrata. Non avrebbe capito. Sarebbe stato l'ultimo di una serie di rifiuti che l'avevano accompagnata per tutta la vita, un'ulteriore conferma del fatto che era d'impiccio e che non era desiderata. Era tutto l'anno che pregustava questa visita. E lo stesso si poteva dire per me. Buttai giù un altro sorso di vino e attesi che il silenzio assoluto cominciasse a distendere i miei nervi contratti e ad allontanare le preoccupazioni. La casa in cui abitavo era in un quartiere nuovo del West End, formato da ville piuttosto grandi costruite su appezzamenti di qualche migliaio di metri quadrati, una zona residenziale dove circolavano quasi esclusivamente station wagon e family car. I vicini erano talmente silenziosi e gli
atti di vandalismo talmente rari che non ricordavo quando per l'ultima volta avevo visto passare un'auto della polizia. Il silenzio, la sicurezza valevano qualsiasi prezzo ed erano per me una necessità, un bisogno assoluto. Tranquillizzava il mio spirito fare colazione la mattina presto da sola sapendo che al di là della finestra l'unica forma di violenza era rappresentata da uno scoiattolo e da una ghiandaia azzurra che litigavano sulla mangiatoia. Respirai a fondo e bevvi un altro sorso di vino. L'idea di andare a letto mi atterriva: temevo quei momenti nel buio che precedevano il sonno, immaginavo quello che sarebbe successo quando avrei permesso alla mia mente di fermarsi e dunque di lasciar cadere ogni difesa. La visione di Lori Petersen mi balenava davanti agli occhi. Una diga si era rotta e la mia fantasia dilagava, trasformando con ritmo sempre più rapido le immagini in altre ancora più terribili. Lo vidi insieme a lei, in quella camera da letto. Riuscivo quasi a distinguerne il volto, che mi sembrava privo di lineamenti, come illuminato da un flash, mentre lui si aggirava nella stanza. In un primo momento lei cercava di farlo ragionare, dopo il terrore paralizzante di risvegliarsi avvertendo la sensazione dell'acciaio freddo e piatto sulla gola, o al suono raggelante della sua voce. Gli aveva parlato, aveva cercato di convincerlo a lasciar perdere per Dio sa quanto tempo, mentre lui tagliava i cavi delle lampade e cominciava a legarla. Si era laureata ad Harvard, era specializzata in chirurgia. Aveva tentato di usare la mente contro una forza che di mente era priva. Poi le immagini si susseguirono sempre più rapide come in un film accelerato, mentre i suoi tentativi si disintegravano in un terrore incontrollato. Immagini indicibili, non volevo guardare. Non volevo costringermi a vedere altro. Dovevo tenere sotto controllo i miei pensieri. Il mio studio dà sui boschi dietro casa e normalmente gli scuri sono chiusi, perché ho sempre avuto delle difficoltà a concentrarmi se ho di fronte un panorama. Mi fermai sulla soglia, lasciando vagare la mia attenzione mentre Lucy batteva energicamente sulla tastiera posata sul piano della scrivania massiccia di quercia, voltandomi la schiena. Erano settimane che non facevo ordine nello studio ed era in uno stato pietoso. Negli scaffali si vedevano libri inclinati in tutte le direzioni, pile di "Law Reporter" accatastate sul pavimento, altre sparpagliate qua e là. Appoggiati a una parete c'erano tutti i miei diplomi e i miei certificati: Cornell, John Hopkins, Georgetown, e così via. Avevo intenzione di appenderli nell'uffi-
cio in città, ma in un modo o nell'altro non c'ero ancora riuscita. Accumulati disordinatamente in un angolo del tappeto T'ai-ming blu scuro c'erano articoli di giornali in attesa di venire letti e archiviati. Il successo professionale significava che non avevo più il tempo di essere impeccabilmente ordinata e tuttavia il disordine mi dava più fastidio che mai. «Com'è che mi stai spiando?» mormorò Lucy senza voltarsi. «Non ti sto spiando.» Con un mezzo sorriso posai un bacio sui suoi capelli rosso scuri. «Sì che mi stai spiando.» Continuò a scrivere. «Ti ho vista. Ho visto il tuo viso riflesso nel monitor. Stavi lì sulla porta a guardarmi.» L'abbracciai, le posai il mento sul capo e guardai lo schermo nero, pieno di lettere color verde chiaro. Non mi era mai venuto in mente prima d'ora che lo schermo riflettesse le immagini; ora mi era chiaro come mai Margaret, la mia programmatrice, era in grado di salutare per nome tutti quelli che passavano davanti al suo ufficio pur tenendo la schiena rivolta alla porta. Sul monitor il volto di Lucy appariva indistinto. Per lo più vedevo il riflesso degli occhiali montati in tartaruga. Di solito mi accoglieva con un abbraccio, stasera però aveva il broncio. «Mi spiace che non siamo andate a Monticello oggi, Lucy» azzardai. Scrollò le spalle. «Sono delusa come te» dissi. Un'altra scrollata di spalle. «Comunque, preferivo stare qui al computer.» Non era vero, ma l'osservazione andò a segno. «Avevo una vagonata di roba da fare» prosegui, dando un colpo secco al tasto Return. «Il tuo database aveva bisogno di una ripulitina. Scommetto che era un anno che non lo inizializzavi.» Fece ruotare la poltrona di pelle. Mi spostai di fianco e incrociai le braccia. «Così gli ho dato una sistemata.» «Tu cosa?» No, Lucy non poteva fare una cosa del genere. Inizializzare era come formattare, annullare, cancellare tutti i dati sul disco rigido. Sul disco rigido c'erano, o c'erano state, una mezza dozzina di tabelle statistiche che utilizzavo per certi articoli che avrei dovuto consegnare da lì a poco. Le copie di riserva erano vecchie di mesi. Puntò nei miei un paio di occhi verdi che, dietro le lenti, le davano un po' l'aria di un gufo. Il viso rotondo, da elfo, aveva un'espressione dura mentre diceva: «Ho guardato sui manuali per vedere come si faceva. Basta
scrivere IOR dalla riga comandi di C; poi, una volta che è finita l'inizializzazione, si danno i comandi Addall e Catalog.Ora. Facile. Qualsiasi testa di cazzo ci riuscirebbe». Non dissi nulla. Non la rimproverai per la parolaccia. Mi sentivo tremare le ginocchia. Ricordavo una telefonata di Dorothy, isterica, qualche anno prima. Mentre era fuori casa per fare la spesa, Lucy era entrata nel suo studio e aveva formattato tutti i suoi dischetti, dal primo all'ultimo, cancellando tutto. Su due dischetti c'era un libro che stava scrivendo, capitoli che non aveva stampato e di cui non aveva la copia di riserva. Roba da omicidio. «Lucy. Vero che non l'hai fatto?» «Ohhhh, non ti preoccupare» disse imbronciata. «Prima ho fatto la copia di riserva di tutti i tuoi dati. Il manuale dice di farlo. E poi li ho reimportati e ti ho ridato i privilegi. C'è tutto. Ma è ripulito. Occupa poco spazio, voglio dire.» Avvicinai uno sgabello imbottito e le sedetti accanto. Fu allora che notai che cosa c'era sotto lo strato di dischetti: il quotidiano della sera, piegato come di solito vengono piegati i giornali dopo averli letti. Lo tirai fuori e lo aprii alla prima pagina. Il titolo, su nove colonne, era l'ultima cosa che avrei voluto vedere: È UNA GIOVANE CHIRURGA LA QUARTA VITTIMA DELLO STRANGOLATORE. Una giovane donna trentenne, laureata in medicina e specializzata in chirurgia, è stata trovata assassinata brutalmente nella sua casa di Berkley Downs poco dopo la mezzanotte. Secondo la polizia, precisi indizi fanno pensare che la sua morte sia collegabile a quella di altre tre donne di Richmond, anch'esse strangolate nelle loro case nel corso degli ultimi due mesi. L'ultima vittima è stata identificata come Lori Anne Petersen, laureata presso la Harvard Medical School. È stata vista in vita per l'ultima volta ieri subito dopo mezzanotte, quando ha lasciato il pronto soccorso del VCM dove svolgeva il tirocinio in chirurgia traumatica. Si ritiene che si sia recata direttamente a casa e che sia stata assassinata in un orario compreso tra le dodici e trenta e le due di questa mattina. L'assassino evidentemente è entrato in casa tagliando la rete di protezione della finestra di uno stanzino da bagno, che era stata lasciata aperta...
L'articolo proseguiva. C'erano due fotografie, una in bianco e nero, sgranata, di due barellieri che trasportavano il corpo giù per i gradini d'ingresso, e un'altra, più piccola, di una figura in impermeabile cachi nella quale riconobbi me stessa. La didascalia diceva: "La dottoressa Kay Scarpetta, direttrice del laboratorio di medicina legale, arriva sul luogo del delitto". Lucy mi guardava a occhi spalancati. Bertha aveva saggiamente nascosto il giornale, ma Lucy era furba. Non sapevo che dire. Che cosa pensa una bambina di dieci anni quando legge una cosa del genere, specialmente se è accompagnata da una brutta fotografia della "zietta Kay"? Non avevo mai spiegato fino in fondo a Lucy i dettagli della mia professione. Mi ero impedita di farle delle prediche sul mondo violento in cui ci troviamo a vivere. Non volevo che diventasse come me, derubata di innocenza e di ideali, battezzata nelle acque sanguinose del caso e della crudeltà, con il tessuto della fiducia ormai per sempre logoro. «È come l'"Herald"» mi disse sorprendendomi. «Sull'"Herald" non fanno altro che parlare di gente ammazzata. La settimana scorsa hanno trovato in un canale un uomo al quale avevano tagliato la testa. Doveva essere cattivo, se qualcuno gli ha tagliato la testa.» «Forse lo sarà stato, Lucy. Ma questo non giustifica che un altro gli faccia una cosa del genere. E non tutti quelli che vengono feriti o ammazzati sono cattivi.» «La mamma dice che lo sono. Dice che la gente per bene non viene ammazzata. Solo i delinquenti, gli spacciatori di droga e gli scassinatori.» Una pausa di riflessione. «A volte anche i poliziotti, perché danno la caccia ai cattivi.» Dorothy era capacissima di dire una cosa del genere e, cosa ancora peggiore, di crederci. Provai un soprassalto della vecchia rabbia. «Ma questa donna che è stata strangolata» disse Lucy, gli occhi così spalancati che sembravano inghiottirmi, «era medico, zia Kay. Come faceva a essere cattiva? Anche tu fai il medico. Quindi lei era proprio come te.» All'improvviso mi resi conto di che ora era. Stava facendosi tardi. Spensi il computer, presi Lucy per mano e uscimmo insieme dallo studio per entrare in cucina. Quando mi voltai verso di lei per suggerirle uno spuntino prima di andare a letto, mi accorsi costernata che stava mordendosi il labbro inferiore, gli occhi lucidi. «Lucy! Perché piangi?» Mi abbracciò, singhiozzando. Stringendosi a me con disperazione, gridò:
«Non voglio che tu muoia! Non voglio che tu muoia!». «Lucy...» Ero annientata, stupefatta. I suoi capricci, i suoi soprassalti di arroganza e di rabbia li potevo tollerare. Ma questo! Sentivo le lacrime bagnarmi la camicetta. Sentivo la calda intensità di quel corpicino sofferente che si stringeva a me. «Va tutto bene, Lucy» fu tutto quello che riuscii a dire, abbracciandola. «Non voglio che tu muoia, zia Kay!» «Non morirò, Lucy.» «Il papà è morto.» «A me non succederà niente, Lucy.» Non era disposta a farsi consolare. L'articolo l'aveva colpita nel profondo e in modo nefasto. L'aveva letto con l'intelletto di un adulto che però non si era ancora liberato dalle fantasie terrorizzanti dei bambini. E questo si aggiungeva alle sue insicurezze e alle perdite che aveva subito. Oh, Signore. Cercai di pensare una risposta appropriata ma non venne fuori nulla. Le accuse di mia madre cominciarono a pulsare dolorosamente in qualche recesso profondo della mia psiche. Le mie mancanze. Non avevo avuto bambini. Sarei stata una madre terribile. «Avresti dovuto essere un uomo» aveva detto mia madre, durante uno dei meno produttivi tra i nostri incontri della storia recente. «Tutta lavoro e ambizione. Non è naturale in una donna. Ti seccherai come una crisalide, Kay.» E durante i momenti di maggiore desolazione, quando mi sentivo peggio, sempre mi capitava di vedere uno di quegli involucri vuoti, che di solito si trovavano sul prato della casa dove abitavo quando ero bambina. Traslucide, asciutte, secche. Morte. Non era una cosa che avrei potuto fare in circostanze normali, quella di versare un bicchiere di vino a una bambina di dieci anni. La portai in camera sua e bevemmo a letto. Mi fece delle domande cui era impossibile rispondere. «Perché gli uomini fanno male agli altri uomini?» e «Lo fa per gioco? Voglio dire, lo fa perché si diverte, un po' come alla televisione? Alla televisione si vedono delle cose così, ma è per finta. Non si fa male nessuno. Magari non aveva intenzione di farle male, zia Kay.» «Ci sono delle persone malvage» risposi tranquilla. «Come certi cani, Lucy. Alcuni cani mordono la gente senza motivo. Hanno qualcosa che non va dentro. Sono cattivi e lo saranno sempre.» «Ma questo perché prima ci sono stati degli uomini cattivi con loro. Ecco perché diventano così.»
«In qualche caso, sì» dissi. «Ma non sempre. A volte non c'è proprio un motivo. E in un certo senso non ha importanza. La gente fa delle scelte. Certi preferiscono essere cattivi, preferiscono essere crudeli. È solo una parte brutta e disgraziata della vita.» «Come Hitler» mormorò, buttando giù un sorso di vino. Le accarezzai i capelli. Continuò a parlare con la voce resa spessa dal sonno. «E anche come Jimmy Groome. Vive nella mia strada e spara agli uccelli con il fucile ad aria compressa e gli piace rubare le uova dai nidi e spiaccicarle per terra, per poi guardare i pulcini che si agitano. Lo odio. Odio Jimmy Groome. Una volta gli ho tirato un sasso e l'ho beccato, mentre mi passava davanti in bici. Ma non sa che sono stata io perché ero nascosta dietro i cespugli.» Sorseggiai il vino continuando ad accarezzarla. «Dio non permetterà che ti succeda qualcosa, vero?» chiese. «Non mi succederà niente, Lucy. Promesso.» «Se preghi Dio di prendersi cura di te, lo farà, vero?» «Si prende cura di tutti noi.» Ma non ero certa di credere una cosa simile. Aggrottò le sopracciglia. Non ero certa che nemmeno lei lo credesse. «Non hai mai paura?» Sorrisi. «Tutti hanno paura di quando in quando. Io sono perfettamente al sicuro. A me non succederà niente.» L'ultima cosa che mormorò prima di assopirsi fu: «Vorrei essere sempre qui, zia Kay. Vorrei essere proprio come te». Due ore dopo, al piano di sopra ero ancora completamente sveglia e fissavo la pagina di un libro senza vederla quando il telefono squillò. La mia reazione fu pavloviana, un riflesso condizionato. Afferrai la cornetta, con un sussulto al cuore. Aspettavo - temevo - la voce di Marino, come se stesse ripetendosi quel che era successo la notte prima. «Pronto?» Nulla. «Pronto?» Sullo sfondo sentivo la sommessa e inquietante musica che associavo con i film stranieri proiettati di prima mattina, con i film dell'orrore, o con un vecchio juke box dai dischi graffiati. Poi la comunicazione venne interrotta. «Caffè?»
«Sì grazie» dissi. Il tutto faceva le veci di un "Buon giorno". Ogni volta che entravo nel laboratorio di Neils Vander, il suo primo saluto era un "Caffè?" che accettavo sempre. Caffeina e nicotina sono due vizi che ho adottato con facilità. Non mi sognerei mai di acquistare un'auto che non sia solida come un carro armato e di avviare il motore senza aver allacciato la cintura. La casa è piena di allarmi antincendio e protetta da un costoso sistema antifurto. Non mi piace più volare e sempre quando posso preferisco il treno. Ma la caffeina, le sigarette e il colesterolo, i simboli di morte per l'uomo comune, Dio non voglia che mi vengano tolti. Vado a un raduno annuale e siedo a tavola con 300 altri esperti in patologia criminale, i migliori esperti del mondo in malattie e morte. Il 75% di noi non fanno né jogging né ginnastica, non camminano quando possono andare in macchina, non stanno in piedi quando possono stare seduti ed evitano assiduamente scale e pendenze, a meno che non siano dalla parte della discesa. Un terzo di noi fuma, quasi tutti bevono e tutti mangiamo come se non ci fosse un domani. Stress, depressione, forse un maggior bisogno di ridere e di godere a causa delle brutture che vediamo, chi sa bene quale può essere il motivo? Uno dei miei amici più cinici, un aiuto medico legale a Chicago, ama ripetere: «Chi se ne frega, si muore. Muoiono tutti. Qualcuno muore sano. E allora?». Vander andò alla macchinetta del caffè sul bancone dietro la scrivania e versò due tazze. Mi aveva servito il caffè un numero infinito di volte e non riusciva nemmeno a ricordare che mi piace nero. Non se lo ricordava neanche il mio ex marito. Avevo vissuto sei anni con Tony ma lui si dimenticava sempre che bevo il caffè nero, che mi piace la carne piuttosto cotta, non rossa come il costume di Babbo Natale. Solo un po' rosata. Per quanto riguarda la taglia dei vestiti, meglio lasciar perdere. Sono taglia 42, ho una figura su cui va bene tutto, ma non sopporto pizzi e ricami e roba del genere. E lui mi comprava sempre capi taglia 40, di solito con pizzi e trasparenze, da indossare a letto. Il colore favorito di sua madre era il verdino. Sua madre era taglia 48. Amava i plissé, odiava i pullover, preferiva le cerniere, era allergica alla lana, non voleva avere nulla a che fare con roba da mandare in tintoria o da stirare, provava un odio viscerale verso il viola, riteneva sporchevoli il bianco e il beige, non era disposta a indossare abiti a strisce orizzontali o fantasia, non si sarebbe fatta trovare neanche morta in un capo di pelle, credeva che il suo corpo
non fosse compatibile con i plaid e le piacevano moltissimo le tasche... quante più erano tanto meglio. E da lei Tony aveva raccolto tutti questi messaggi. Vander lasciò cadere nella mia tazza, come nella sua, lo stesso numero di cucchiaini da tè di latte in polvere e di zucchero. Come sempre, era trasandato, con i capelli grigi spettinati, il camice troppo grande sporco di polvere nera per le impronte, una fila di penne a sfera e di pennarelli che gli uscivano dal taschino macchiato d'inchiostro. Era un uomo alto, dalle membra lunghe e ossute, dal ventre sproporzionatamente rotondo. La testa aveva un'interessante forma a lampadina e gli occhi, perpetuamente corrucciati, un colore azzurro sbiadito. Durante il primo inverno che avevo passato qui, un pomeriggio sul tardi si era fermato nel mio ufficio per annunciare che nevicava. Avvolta al collo aveva una lunga sciarpa rossa e sulle orecchie un casco di cuoio da aviatore, probabilmente ordinato da un catalogo di Banana Republic, in assoluto il più ridicolo berretto da neve che avessi mai visto. Penso che sarebbe stato perfetto a bordo di un caccia Fokker. E infatti in ufficio, a ragione, era chiamato "Olandese volante". Era sempre di fretta, correva su e giù per le scale con il camice da laboratorio che gli sventolava intorno alle gambe. «Hai visto i giornali?» chiese, soffiando sul caffè. «Tutto il mondo li ha visti, i giornali» risposi. La prima pagina del quotidiano della domenica era peggiore di quella del sabato sera. Il titolo a tutta pagina era in caratteri alti almeno tre centimetri. C'era un occhiello su Lori Petersen e una fotografia che sembrava tolta da un annuario scolastico. Abby Turnbull con il suo comportamento aggressivo, ai limiti dell'indecenza, aveva tentato di intervistare la famiglia di Lori Petersen, che viveva a Filadelfia ed era "troppo addolorata per fare dichiarazioni". «Sicuro come il fuoco che non ci sta aiutando» disse Vander affermando l'ovvio. «Mi piacerebbe sapere da dove arrivano le informazioni che ha, così almeno potrei appendere qualcuno per i pollici.» «I piedipiatti non hanno imparato a tenere la bocca chiusa» gli dissi. «Quando impareranno a cucirsi una cerniera lampo sulle labbra forse le informazioni non trapeleranno più.» «Be', forse sono stati loro. Comunque siano andate le cose, questa faccenda sta facendo diventar matta mia moglie. Credo che se vivessimo qui in città, mi avrebbe obbligato a traslocare oggi stesso.» Andò alla scrivania, dove erano accatastati, in una gran confusione, ta-
bulati, fotografie, appunti e messaggi telefonici. C'era una bottiglia di birra da un litro e una piastrella da pavimento con l'impronta sanguinosa di una scarpa, ambedue chiuse in buste di plastica, con il cartellino che le contraddistingueva come prove. Sparsi qua e là c'erano dieci piccoli vasetti di formalina, ognuno contenente una falange umana tagliata anatomicamente alla seconda giuntura. Quando si ha a che fare con corpi non identificati', decomposti oppure consunti dal fuoco, non è sempre possibile ottenere le impronte digitali con i soliti metodi. Incongruo in mezzo a questa confusione macabra, si vedeva un vasetto di lozione Intensive Care. Strofinandosi un po' di lozione sulle mani, Vander indossò un paio di guanti di cotone bianco. L'acetone, l'oxilene e i continui lavaggi di mani a cui si sottoponeva avevano conseguenze nefaste sulla sua epidermide e capivo sempre quando dimenticava di indossare i guanti utilizzando la ninidrina, un prodotto chimico che fa apparire le impronte latenti, perché andava in giro per una settimana con le dita color viola. Completato il rituale mattutino, Vander mi fece segno di seguirlo nel corridoio del quarto piano. Qualche porta più avanti c'era la sala computer, immacolata, quasi sterile, riempita di armadi modulari argentei di tutte le forme e di tutte le dimensioni che la rendevano simile a una lavanderia automatica dell'era spaziale. L'apparecchiatura che più assomigliava a una batteria di lavatrici era quella per il confronto delle impronte digitali, la cui funzione era di paragonare un'impronta sconosciuta con uno schedario di milioni di impronte registrato su disco magnetico. La FMP com'era chiamata, grazie alle sue capacità avanzate di elaborazione seriale e parallela, era in grado di effettuare ottocento confronti al secondo. A Vander non piaceva starsene seduto ad aspettare i risultati. Aveva l'abitudine di programmare la ricerca durante la notte per avere subito qualche cosa da guardare quando tornava in ufficio il mattino. La parte del lavoro che richiedeva più tempo era già stata fatta sabato, quando Vander aveva fornito le impronte al computer. Bisognava fotografare quelle impronte latenti, ingrandirle cinque volte, coprire ogni fotografia con una pellicola trasparente e poi, con un pennarello, delineare le caratteristiche più significative. Fatto questo, il disegno andava riportato al formato originario, in modo da stabilire una correlazione precisa con la dimensione della foto. La foto veniva poi incollata al foglio della stampa latente che andava passato al computer. Poi bastava stampare i risultati. Vander sedette alla console con i gesti deliberati di un concertista. Mi aspettavo quasi che buttasse all'indietro le falde del camice e facesse
schioccare le dita. Il suo Steinway era la console dell'elaboratore, costituita da una tastiera, da un video, da uno scanner e un processore di impronte digitali, tra le altre cose. Lo scanner era in grado di leggere sia le schede con dieci impronte, sia le impronte latenti. Il processore delle impronte digitali invece ne riconosceva automaticamente le caratteristiche. Lo osservai immettere alcuni comandi. Poi premette il pulsante di stampa e un elenco di potenziali sospetti andò rapidamente accumulandosi sulla carta perforata a righe bianche e verdi. Mi presi una sedia mentre Vander strappava il tabulato e divideva la carta in dieci sezioni, separando i vari casi. Quello che ci interessava era l'88-01651, numero identificativo delle impronte latenti trovate sul corpo di Lori Petersen. Il confronto di immagini computerizzate assomiglia a un'elezione politica. Le possibili corrispondenze vengono dette candidati, i quali vengono poi messi in classifica secondo un certo punteggio. Quanto più alto è il punteggio, tanto maggiore è il numero di corrispondenze che un certo candidato ha in comune con le impronte latenti sconosciute immesse nel computer. Nel caso 88-01651 c'era un solo candidato, in testa con un ampio margine di più di mille punti. Questo significava una sola cosa. Confronto azzeccato. Ovvero, come diceva con scioltezza Vander, "un inchiodato". Il candidato prescelto aveva la sigla impersonale di NIC112. In realtà non me l'aspettavo. «Dunque, chiunque sia quello che ha lasciato le impronte le ha anche nel database?» chiesi. «Proprio così.» «Il che significa che è possibile che abbia dei precedenti?» «Possibile ma non necessario.» Vander si alzò e passò al terminale di verifica. Sfiorò la tastiera con le dita. «Potrebbero essere lì dentro per qualche altro motivo» aggiunse. «Per esempio, se è in polizia o se una volta ha chiesto la licenza per guidare un taxi.» Cominciò a richiamare alcune schede di impronte digitali dalle profondità del sistema di richiamo immagini. Istantaneamente, l'immagine cercata, un insieme ingrandito di curve e di mulinelli color blu turchese, si sovrappose a quella del candidato. Incolonnati a destra erano elencati il sesso, la razza, la data di nascita, più altre informazioni. Dopo aver prodotto una copia dell'immagine, me la porse.
La studiai e lessi e rilessi l'identità di NIC112. Marino avrebbe provato un brivido di piacere. Secondo il computer - e non c'era possibilità di errore - le immagini latenti che il laser aveva rilevato sulle spalle di Lori Petersen erano state lasciate da Matt Petersen, il marito. 4 Non mi sorprendeva più di tanto che Matt Petersen avesse toccato il corpo della moglie. Spesso, si tocca automaticamente una persona che sembra morta per sentire se il cuore batte o per scuotere delicatamente una spalla, come si fa quando si vuole svegliare qualcuno. Due cose lasciavano sconcertati. Primo, le impronte latenti erano state trovate perché chi le aveva lasciate aveva sulle dita un residuo di quelle scintille misteriose che erano state rilevate anche negli altri casi di strangolamento. Secondo, la scheda delle impronte digitali di Matt Petersen non era ancora arrivata in laboratorio. L'unica ragione per cui il computer aveva trovato la corrispondenza era perché era già schedato nel suo database. Stavo dicendo a Vander che occorreva scoprire come e quando la scheda era stata immessa e se Petersen aveva precedenti penali, quando entrò Marino. «La sua segretaria mi ha detto che era qui» annunciò a mo' di saluto. Stava mangiando un biscotto che riconobbi provenire dalla scatola vicino alla macchina del caffè del piano di sotto. Li portava Rose tutti i lunedì mattina. Guardandosi intorno e osservando le macchine, mi allungò con fare indifferente una busta beige. «Spiacente, Neils» mormorò. «Ma la dottoressa qui dice che vuole essere la prima a sapere.» Vander mi osservò incuriosito aprire la busta. Dentro trovai un'altra busta di plastica con la scheda delle impronte digitali di Petersen. Marino mi aveva messo in difficoltà e la cosa mi infastidiva. In circostanze normali, la scheda avrebbe dovuto venire inviata direttamente al laboratorio delle impronte digitali, non a me. Sono proprio le manovre di questo genere quelle che creano animosità nei colleghi, i quali suppongono che si stia arando nel loro campicello, che li si voglia scavalcare, mentre in realtà non è detto che sia così. «Non volevo che la lasciassero incustodita sulla tua scrivania» spiegai a Vander «dove qualcuno l'avrebbe potuta trovare. Si pensa che Matt Petersen abbia usato del cerone prima di tornare a casa. Se gliene era rimasto un
residuo sulle mani lo troveremo anche sulla sua scheda.» Vander spalancò gli occhi. L'idea gli piaceva. «Sicuro. La passiamo sotto il laser.» Marino mi fissava malevolo. «E il coltello da sopravvivenza?» chiesi. Estrasse un'altra busta dal fascio che teneva stretto tra il gomito e il torace. «Stavo per portarlo a Frank.» «Diamogli prima un'occhiata con il laser» suggerì Vander. Poi stampò un'altra copia di NIC112, le impronte latenti che Matt Petersen aveva lasciato sul corpo della moglie e la consegnò a Marino. Il sergente le studiò brevemente bofonchiando un «Cazzo» e poi mi guardò dritto negli occhi. Aveva un sorriso trionfante. Lo conoscevo bene quel suo sguardo che non mi giungeva nuovo. Diceva: "Ecco qui, cara la mia dottoressa. Magari tu hai imparato sui libri ma io conosco la gente". Vedevo le viti dell'indagine stringersi sul marito di una donna che, ne ero ancora convinta, era stata massacrata da un uomo che nessuno di noi conosceva. Quindici minuti dopo, Vander, Marino e io ci trovavamo dentro l'equivalente di una camera oscura, adiacente al laboratorio impronte digitali. Su un piano di lavoro accanto a una grande vasca erano stati posati la scheda delle impronte digitali e il coltello da sopravvivenza. Nella stanza c'era buio assoluto. Il pancione di Marino mi strofinava sgradevolmente il gomito, mentre gli impulsi del laser accendevano una cascata di scintille sulle macchie di inchiostro lasciate dalle impronte sulla scheda. Inoltre c'erano scintille anche sul manico del coltello, che era di gomma dura e troppo ruvido per trattenere le impronte. Sulla lama larga e liscia del coltello c'erano dei residui praticamente microscopici e diverse impronte parziali distinte, che Vander copri di polvere e asportò. Si avvicinò alla scheda. Ai suoi occhi esperti, un rapido esame visivo bastò per affermare: «In base a un confronto iniziale approssimativo, sono sue: le impronte sulla lama sono quelle di Petersen». Il laser si spense, lasciandoci nell'oscurità totale, poi socchiudemmo gli occhi al bagliore delle luci che all'improvviso ci avevano restituito a un mondo di lastre e di formica bianca. Togliendomi gli occhiali, iniziai la litania di osservazioni oggettive, mentre Vander si dava da fare con il laser e Marino accendeva una sigaretta. «Le impronte sul coltello non significano nulla. Se il coltello appartiene
a Petersen, è normale che ci siano le sue impronte. Per quanto riguarda il residuo riflettente, sì, è evidente che doveva avere qualcosa sulle mani quando ha toccato il cadavere della moglie e quando gli sono state prese le impronte. Ma non possiamo essere sicuri che la sostanza sia identica a quella trovata altrove, in particolare nei primi tre casi di strangolamento. La esamineremo al microscopio elettronico, sperando di determinare se la composizione elementare o lo spettro all'infrarosso sono identici a quelli dei residui trovati in altre zone del corpo e nei casi precedenti.» «Cosa?» ribadì Marino incredulo. «Lei pensa che Matt avesse una cosa sulle mani e che l'assassino ne avesse un'altra, che però non siano le stesse, ma sotto il laser sembrino le stesse?» «Quasi tutto ciò che reagisce fortemente al laser ha lo stesso aspetto» gli dissi con parole lente e misurate. «Brilla come una luce al neon bianca.» «Già, ma la maggior parte della gente non ha della porcheria al neon bianca sulle mani, per quel che ne so io.» Dovetti convenire. «La maggior parte della gente effettivamente non ce l'ha.» «Strana piccola coincidenza che Matt ce l'avesse sulle sue mani, qualunque cosa sia.» «Lei ha detto che tornava da una prova in costume» gli ricordai. «Questo è quello che dice lui.» «Non sarebbe una brutta idea prendere un campione del trucco che usava venerdì sera e farlo esaminare qui.» Marino mi fissò sdegnosamente. Nel mio ufficio c'era uno dei pochi PC del secondo piano. Era collegato al computer principale in fondo al corridoio, ma non era un terminale "stupido", cioè senza capacità di elaborazione. Anche quando l'elaboratore principale era fuori servizio, potevo perlomeno usare il mio PC per l'elaborazione testi. Marino mi porse i due dischetti trovati sulla scrivania nella camera da letto dei Petersen. Li infilai nel drive e impartii il comando per vedere l'indice di ciascuno. Trovai un indice di file, ovvero di capitoli, di quella che evidentemente era la dissertazione di Matt Petersen. L'argomento era Tennessee Williams, "le cui commedie più famose rivelano un mondo frustrante in cui sesso e violenza si nascondono sotto una patina di romantica raffinatezza" come si leggeva nel primo paragrafo dell'Introduzione.
Marino leggeva da sopra la mia spalla scuotendo il capo. «Cristo» sussurrò, «di bene in meglio. Non c'è da meravigliarsi che il tipetto si è preso fifa quando gli ho detto che ci prendevamo i dischetti. Guarda che roba.» Feci scorrere il testo. Mi balenarono davanti agli occhi osservazioni sull'atteggiamento controverso di Williams nei confronti dell'omosessualità e del cannibalismo. C'erano riferimenti al brutale Stanley Kowalski e al gigolo castrato di Sweet Bird of Youth. Non bisognava essere una chiaroveggente per leggere nei pensieri di Marino: erano scontati come la prima pagina di un giornale popolare. Per lui, non si trattava che di pornografia dozzinale, carburante per menti psicopatiche che si alimentano di fantasticherie basate sulle aberrazioni sessuali e sulla violenza. Marino non avrebbe colto la differenza tra la strada e il palcoscenico, neanche se l'avessero manganellato con i testi di un corso introduttivo al teatro. La gente come Williams, e anche come Matt Petersen, che crea scenari di questo tipo, raramente va in giro cercando di viverli. Guardai Marino dritto negli occhi. «Che cosa penserebbe se Petersen fosse uno studioso del Vecchio Testamento?» Scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo e tornando a fissare lo schermo. «Ehi. Non si può mica dire che questo è materiale da catechismo.» «E neanche gli stupri, le lapidazioni, le decapitazioni e le prostitute. E nella vita reale Truman Capote non era un massacratore, sergente.» Si allontanò dal computer dirigendosi verso una sedia. Feci girare la poltrona, fronteggiandolo, al di là del vasto piano della scrivania. Solitamente, quando si fermava nel mio ufficio preferiva stare in piedi per incombere su di me con la sua mole. Questa volta invece si era seduto e ci guardavamo negli occhi. Decisi che pensava di trattenersi un po'. «Proviamo a vedere se si può stampare questo affare. Le dispiace? Sembra un buon libro da leggere prima di addormentarsi.» Ebbe un sorriso allusivo. «Chissà? Magari questo patito di letteratura americana cita anche il marchese Sade, o come cavolo si chiama.» «Il marchese de Sade era francese.» «Qualunque cosa fosse.» Controllai l'irritazione. Mi stavo chiedendo che cosa sarebbe successo se fosse stata assassinata la moglie di uno dei patologhi che lavoravano con me. Marino avrebbe perquisito la loro biblioteca e pensato di aver fatto centro quando avesse trovato volumi su volumi di criminologia e resoconti di delitti perversi?
Il sergente socchiuse gli occhi, accese un'altra sigaretta e tirò una boccata. Attese di aver emesso un sottile filo di fumo prima di dire: «Evidentemente lei ha un'alta opinione di Petersen. Su che cosa si basa? Sul fatto che è un artista o è solo perché fa l'università?». «Non ho nessuna opinione su di lui» replicai. «Non so niente di lui, salvo che non corrisponde al profilo della persona che ha strangolato le donne.» Assunse un'aria meditabonda. «Be', io qualcosa su di lui la so, dottoressa. Vede, gli ho parlato per diverse ore.» Infilò una mano nella tasca interna della giacca sportiva a quadrettoni e spinse due microcassette sul piano di carta assorbente della scrivania, a portata delle mie mani. Tirai fuori le sigarette e ne accesi anch'io una. «Se permette le dico cosa è successo. Io e Becker eravamo in cucina con lui, okay? La squadra se ne è appena andata con il cadavere quando - centro! - la personalità di Petersen cambia da così a così. Si tira su sulla sedia, gli si schiarisce la mente e comincia a muovere le mani come se fosse sul palcoscenico. Da non credere. Ogni tanto gli vengono le lacrime agli occhi, gli si incrina la voce, diventa rosso e poi sbianca. Io tra me penso, questo non è un interrogatorio, questa è una recita del cavolo.» Rilassandosi sulla poltrona, allentò la cravatta. «Sto pensando dove ho visto succedere cose così. Per lo più quando ero a New York, con gente tipo Johnny Andretti, con i suoi completi di seta, le sigarette straniere e il fascino che gli esce anche dalle orecchie. È così gentile che cominci a farti in quattro per compiacerlo e a dimenticare il piccolo particolare che nella sua carriera ha fatto a pezzi più di venti persone. Poi c'è Phil il magnaccia. Picchia le sue ragazze con l'attaccapanni, due addirittura da ammazzarle. E lo trovi che piange come una fontana nel suo ristorante, che è solo una copertura per il suo servizio di squillo. Phil sembra a pezzi per le sue battone morte ed è lì sulla tavola che mi dice: "Ti prego, trova chi è stato, Pete. Deve essere un animale. Su, prendi un goccino di Chianti, Pete. È buono". «Il fatto è, dottoressa, che l'ho già sentita la solfa. E Petersen mi ha fatto scattare l'allarme, come Andretti e Phil. Mentre lui dà spettacolo, io me ne sto seduto e mi chiedo "Ma cosa crede questo cervellone di Harvard? Che sono fesso o cosa?"» Infilai il nastro nel registratore per microcassette, senza dire nulla. Marino mi fece cenno di premere il pulsante Play. «Atto primo» annunciò. «Scena: la cucina dei Petersen. Personaggio principale: Matt. Ruolo: tragico. È pallido e ha lo sguardo sofferto, okay? Fissa la parete. Io? A me
passa un film in testa. Mai stato a Boston e non capirei la differenza tra Harvard e un buco per terra, ma vedo vecchi mattoni e tanta edera.» Tacque mentre il nastro iniziava bruscamente registrando a metà una frase di Petersen. Parlava di Harvard, rispondendo a domande su quando aveva conosciuto Lori. Negli anni ne avevo sentiti un bel po' di interrogatori di polizia e questo mi lasciava perplessa. Come mai? In che modo il corteggiamento di Lori al tempo del college aveva a che fare con l'assassinio? E nello stesso tempo pensavo che una parte di me lo sapesse. Marino stava saggiando il terreno, cercando di mettere a nudo Petersen. Marino cercava qualsiasi cosa - qualsiasi - da cui si potesse arguire che Petersen aveva delle ossessioni, delle perversioni e che potenzialmente era capace di manifestazioni psicopatiche. Mi alzai per chiudere la porta, per evitare che ci interrompessero, mentre la voce registrata proseguiva tranquillamente. «... l'avevo già vista. Al campus, una bionda che se ne andava in giro con le braccia piene di libri senza guardare niente e nessuno, come se avesse fretta e stesse pensando a un sacco di cose.» Marino: «E che cosa ti ha colpito di lei, Matt?». «Difficile a dirsi. Ma da lontano mi aveva intrigato. Non saprei bene perché. Forse in parte può essere dovuto al fatto che di solito era da sola, andava di fretta, diretta chissà dove. Era, ecco, sicura di se stessa e sembrava avere uno scopo. È questo che mi ha incuriosito.» Marino: «È una cosa che ti succede spesso? Voglio dire, il fatto di vedere una donna attraente, che ti incuriosisce da lontano, intendo». «Ah, non credo. Voglio dire, la gente la noto, come tutti. Ma con lei, con Lori, è stata una cosa differente.» Marino: «Va' avanti. Così finalmente l'hai conosciuta. Dove?». «È stato a un party. In primavera, all'inizio di maggio. Il party era in un appartamento fuori dal campus, che era dell'amico del mio compagno di stanza, un tizio che si rivelò essere il compagno di laboratorio di Lori, il che spiegava come mai c'era anche lei. Arrivò verso le nove, più meno quando io stavo per andarmene. Il suo compagno di laboratorio, mi pare che si chiamasse Tim, le aprì una birra e cominciarono a parlare. Non avevo mai sentito la sua voce. Un registro da contralto, molto tranquillizzante, piacevolissimo da ascoltare. Quel tipo di voce che ti spinge a voltarti per capire da dove viene. Stava raccontando delle storielle su un certo professore e la gente intorno a lei rideva. Lori aveva un modo suo di attrarre l'attenzione generale, senza nemmeno provarci.»
Marino: «In altre parole, non te ne sei più andato dal party. L'hai vista e hai deciso di rimanere lì». «Sì.» «E che aspetto aveva all'epoca?» «Aveva i capelli più lunghi e li portava raccolti, come le ballerine. Era snella, molto attraente...» «Così ti piacciono le bionde snelle. Una donna con queste doti ti sembra attraente.» «Pensai semplicemente che era attraente, nient'altro. Ma non era solo questo. Era la sua intelligenza. Era questa che la faceva distinguere.» Marino: «E che altro?». «Non capisco, che cosa vuol dire?» Marino: «Mi sto chiedendo che cosa ti abbia attratto, in lei». Una pausa. «Mi sembra interessante.» «Non saprei proprio come rispondere. È misterioso, questo elemento. Come si può incontrare una persona e averne una percezione così netta. Come se qualcosa si risvegliasse dentro di te. Non so come mai... Dio... non lo so.» Un'altra pausa, più lunga questa volta. Marino: «Era il tipo di donna che la gente nota». «Senza dubbio. Sempre, ogni volta che andavamo in qualche posto insieme, o quando eravamo tra amici. Davvero mi rubava la scena. A me non importava. Anzi ero contento. Mi piaceva starmene dietro le quinte e vederla primeggiare. La analizzavo, cercavo di capire che cosa la rendeva attraente per gli altri. Il carisma è una cosa che c'è o non c'è. Non lo si può fabbricare. Non si può. Lei non ci provava neanche. Ce l'aveva e basta.» Marino: «Hai detto che quando la vedevi al campus, sembrava stare sulle sue. E le altre volte? Quel che mi chiedo è se aveva l'abitudine di mostrarsi amichevole con gli sconosciuti. Sai, per esempio quando era in un negozio o presso un distributore parlava a persone che non conosceva? Oppure se qualcuno veniva a casa, un fattorino per esempio, era il tipo da invitarlo a entrare, si dimostrava affabile?». «No. Parlava di rado agli sconosciuti e so che non invitava in casa persone che non conosceva. Mai. Specialmente quando non c'ero io. Aveva vissuto a Boston, era abituata ai pericoli della città. E lavorava al pronto soccorso, sapeva che cos'era la violenza, sapeva che cosa capita alla gente. Non avrebbe mai invitato uno sconosciuto in casa, né era, secondo me, particolarmente vulnerabile a quel tipo di cose. In realtà, si spaventò quan-
do cominciarono i delitti qui intorno. Quando tornavo a casa per il weekend, non le piaceva proprio che me ne tornassi via... meno che mai. Perché non le andava di vivere sola. La cosa la preoccupava più che in passato.» Marino: «Ma avrebbe dovuto badare a tenere tutte le finestre chiuse, se i delitti qui intorno l'avevano innervosita». «Gliel'ho già detto. Probabilmente pensava che la finestra fosse chiusa.» «Ma tu accidentalmente la finestra del bagno l'hai lasciata aperta lo scorso weekend, quando hai sostituito la rete.» «Non so bene. Ma è l'unica cosa che riesco a immaginare...» La voce di Becker: «Ha mai accennato a qualcuno che veniva in casa, a una persona incontrata in qualche posto, magari a qualcuno che la rendeva nervosa? Niente del genere? Forse un'auto sconosciuta che aveva notato nel quartiere, o il sospetto di venire seguita o osservata? Forse ha incontrato qualcuno che le ha messo gli occhi addosso». «Niente di simile.» Becker: «Pensa che probabilmente glielo avrebbe detto, se fosse successa una cosa del genere?». «Sicuramente. Mi diceva tutto. Una settimana, forse due settimane fa, pensava di aver sentito dei rumori nel giardino dietro casa. Aveva chiamato la polizia. Era arrivata una volante. Era solo un gatto che rovistava nell'immondizia. Questo per dire che mi raccontava tutto.» Marino: «Lavoro a parte, a che altre attività si dedicava?». «Aveva poche amiche, un paio di colleghe dell'ospedale. A volte usciva a cena con loro, oppure andava a fare lo shopping, magari al cinema. Tutto qui. Era molto impegnata. Principalmente, faceva il suo turno e tornava a casa. Studiava, a volte suonava il violino. Durante la settimana generalmente lavorava, rincasava e dormiva. I weekend li riservava a me. Erano le nostre giornate. Le passavamo insieme.» Marino: «Lo scorso weekend è stata l'ultima volta che l'hai vista?». «Domenica pomeriggio, verso le tre. Subito prima di tornare in macchina a Charlottesville. Quel giorno non siamo usciti. Pioveva forte. Siamo rimasti in casa, abbiamo bevuto del caffè, chiacchierato...» Marino: «Quante volte vi telefonavate durante la settimana?». «Diverse volte. Quando potevamo.» Marino: «L'ultima volta è stato ieri sera, giovedì sera?». «L'ho chiamata per dirle che sarei tornato a casa dopo le prove e che, siccome si trattava di una prova in costume, forse sarei arrivato qualche
minuto più tardi. Questo weekend non era di turno. Pensavamo di andare alla spiaggia, se avesse fatto bel tempo.» Silenzio. Petersen tentava di controllarsi. Lo sentii respirare a fondo, nel tentativo di ricomporsi. Marino: «Quando le hai parlato ieri sera, ti ha riferito qualcosa, qualche problema? Ha raccontato di qualcuno che si era avvicinato alla casa? Qualcuno che la scocciava sul lavoro, magari una telefonata anonima, qualsiasi cosa?». Silenzio. «Niente. Assolutamente niente del genere. Era di buon umore, rideva... pregustava, ehm, pregustava il weekend.» Marino: «Parlaci ancora un po' di lei, Matt. Ogni piccolo particolare che ti viene in mente può essere utile. Da dove proveniva, la sua personalità, che cosa contava per lei». Meccanicamente: «È di Filadelfia, suo padre vende assicurazioni, ha due fratelli, tutti e due più giovani. La cosa più importante per lei era la medicina. Era la sua storia.» Marino: «Che tipo di specializzazione intendeva prendere?». «Chirurgia plastica.» Becker: «Interessante. E come mai?». «Quando aveva dieci o undici anni, sua madre ebbe un cancro al seno e subì due mastectomie radicali. Sopravvisse ma non aveva più nessuna stima di se stessa. Penso che si sentisse deforme, inutile come donna, intoccabile. A volte Lori ne parlava. Credo che volesse essere utile alla gente cui potevano capitare cose del genere.» Marino: «E suonava il violino». «Sì.» Marino: «Non ha mai dato concerti, suonato nell'orchestra sinfonica... insomma in rappresentazioni pubbliche?». «Avrebbe potuto farlo, credo. Ma le mancava il tempo.» Marino: «Che altro? Per esempio, tu sai recitare bene, adesso stai per recitare in una commedia. La interessava questo tipo di lavoro?». «Moltissimo. È una delle cose che mi aveva affascinato di lei quando ci siamo conosciuti. Ce ne eravamo andati dal party, quello dove ci eravamo incontrati e avevamo camminato per ore nel campus. Quando le dissi di uno dei corsi che intendevo seguire, mi resi conto che sapeva molte cose di teatro e cominciammo a parlare di commedie e roba del genere. All'epoca
mi interessava Ibsen. Parlammo di lui, poi della realtà e dell'illusione, di ciò che c'è di genuino e di ciò che c'è di ributtante nella gente e nella società. Uno dei suoi temi più ricorrenti è la sensazione di distacco da casa. Ehm, di separazione. Parlammo di quello. «E mi sorprese. Non me lo dimenticherò mai. Scoppiò a ridere e disse: "Voi artisti credete di essere gli unici che capiscono queste cose. Molti di noi hanno gli stessi sentimenti, lo stesso senso di vuoto, di solitudine. Ma non abbiamo gli strumenti per esprimerli. Per cui tiriamo avanti, lottiamo. I sentimenti sono sentimenti. Credo che i sentimenti delle persone siano più o meno gli stessi dappertutto, in tutto il mondo". «Seguì una discussione, una discussione amichevole, io non ero d'accordo. Alcune persone hanno dei sentimenti più intensi di altri, e alcuni sentono delle cose che altri non percepiscono. È questo che provoca l'isolamento, la sensazione di essere separati dagli altri, differenti...» Marino: «Ti riconosci in questa descrizione?». «È una cosa che capisco. Forse non sento tutto quello che sentono gli altri, ma capisco i sentimenti. Niente mi sorprende. Se studi letteratura, teatro, vieni a contatto con un vasto spettro di emozioni umane, di esigenze e di impulsi, buoni e cattivi. Fa parte della mia natura cercare di entrare nel carattere degli altri, sentire quello che loro sentono, comportarmi come loro si comportano. Non vuole però dire che queste manifestazioni siano genuinamente mie. Credo che se c'è una cosa che mi differenzia dagli altri è il bisogno di analizzare e di capire il vasto spettro delle emozioni umane di cui ho appena detto.» Marino: «Puoi capire le emozioni della persona che ha fatto questa cosa a tua moglie?». Silenzio. Poi, con un filo di voce: «Cristo santo, no». Marino: «Ne sei sicuro?». «No. Voglio dire, sì. Ne sono sicuro! Non voglio neanche capirlo!» Marino: «Lo so che è brutto pensarci, Matt. Ma ci sarebbe molto utile se tu avessi qualche idea. Per esempio, se tu dovessi impostare la parte di un assassino come quello, come sarebbe...». «Non so! Quel lurido figlio di puttana!» La voce gli si era rotta. Esplodeva di rabbia. «Non so perché me lo domanda! I poliziotti del cazzo siete voi! Siete voi che dovete cercare di immaginarlo!» All'improvviso cadde il silenzio, come se da un disco fosse stata sollevata la puntina.
Il nastro continuò a girare a lungo senza che si sentisse nulla, salvo Marino che si schiariva la gola e il rumore di una sedia. Poi Marino chiese a Becker: «Per caso ti avanza un nastro, giù in macchina?». Fu Petersen che a bassa voce, e mi parve piangendo, disse: «Ne ho un paio io in camera da letto». «Ecco, be'» si senti la voce di Marino, fredda. «Questo è molto gentile da parte tua, Matt.» Venti minuti dopo, Matt Petersen cominciò a parlare del momento in cui aveva trovato il cadavere della moglie. Era tremendo sentirlo e non vederlo. Era impossibile non rimanere coinvolti. Mi lasciai prendere dal flusso delle sue immagini e dei suoi ricordi. Le parole mi trascinavano in una regione oscura dove non avrei mai voluto andare. Il nastro continuava a girare. «... Ah, sono sicuro. Non ho telefonato prima, non lo faccio mai, me ne sono semplicemente andato. Lì non sono rimasto, niente del genere. Come dicevo, ah, sono partito da Charlottesville subito dopo la fine della prova dopo aver messo via oggetti di scena e costumi. Sarà stata più o meno mezzanotte e mezzo. Avevo fretta di tornare a casa. Era una settimana che non vedevo Lori. «Erano circa le due quando parcheggiai davanti a casa e la mia prima reazione fu quella di notare le luci spente e di pensare che era già a letto. Aveva turni di lavoro molto pesanti. Dodici ore di servizio e ventiquattr'ore di riposo, orari non sincronizzati con i cicli biologici e comunque sempre diversi. «Il venerdì lavorava fino a mezzanotte, faceva riposo il sabato, eh, oggi. E il giorno dopo era di nuovo di turno da mezzanotte a mezzogiorno di lunedì. Libera il martedì e di nuovo di turno il mercoledì da mezzogiorno a mezzanotte. Ecco, così andavano le cose. «Ho aperto la porta e ho acceso la luce del soggiorno. Sembrava tutto normale. Retrospettivamente, posso dirlo, anche se non avevo nessun motivo di aspettarmi qualcosa fuori del comune. Ricordo che la luce del corridoio era spenta. L'ho notato perché di solito lei la lasciava accesa per me. Di regola, andavo dritto in camera da letto. Se lei non era troppo stanca, e non lo era quasi mai, ce ne stavamo seduti sul letto a bere un po' di vino e a parlare. Ehm, rimanevamo svegli e poi ci addormentavamo molto tardi.
«Ero confuso. Eh. C'era qualcosa che mi confondeva. La camera da letto. All'inizio non riuscii a vedere quasi niente perché le luci... le luci, ovviamente, erano spente. Ma avvertii immediatamente che c'era qualcosa di sbagliato. Come se l'avessi intuito prima di vederlo. Come sente le cose un animale. Pensavo di sentire un odore ma non ero ben sicuro e questo non faceva che aumentare la confusione.» Marino: «Che tipo di odore?». «Sto cercando di ricordare. Me ne rendevo conto solo vagamente. Abbastanza però da essere perplesso. Un odore sgradevole. Una specie di odore dolce ma putrido. Sgradevole». Marino: «Vuoi dire un odore come di persona non lavata?». «Simile. Ma non identico. Era dolciastro. Spiacevole. Pungente e sudaticcio.» Becker: «Un odore che ti era già capitato di sentire?». Una pausa. «No, mai sentito niente del genere, non credo. Era debole, ma forse lo sentivo di più perché non vedevo nulla e non potevo sentire nulla nel momento in cui sono entrato in camera da letto. C'era un tale silenzio, dentro. La prima cosa che mi ha colpito è stato proprio questo strano odore. E mi veniva in mente, stranamente, mi veniva in mente... che forse Lori aveva mangiato qualcosa a letto. Non so. Era, eh, era come odor di cialde, qualcosa di sciropposo. Frittelle con lo sciroppo. Ho pensato che forse aveva vomitato, che aveva mangiato qualche porcheria e si era sentita male. Certe volte le veniva fame. Eh, mangiava roba che la faceva ingrassare, quando era stressata o ansiosa. Aveva messo su un bel po' di peso da quando avevo cominciato ad andare avanti e indietro da Charlottesville...» Ora parlava con voce strozzata. «Ah, un puzzo nauseante, malsano, come se si fosse sentita male e fosse rimasta a letto tutto il giorno. Il che poteva spiegare come mai le luci erano spente e come mai non mi avesse aspettato.» Silenzio. Marino: «E poi che cosa è successo, Matt?». «E poi i miei occhi cominciarono a vedere nel buio e non capii quello che stavo vedendo. Il letto si materializzò. Non capivo le coperte, come pendevano. E lei. Sopra le coperte in questa strana posizione senza niente addosso. Dio. Mi è balzato il cuore nel petto ancora prima che registrassi quel che avevo notato. E quando ho acceso la luce e l'ho vista... urlavo, ma non sentivo la mia voce. Come se stessi urlando dentro la testa, come se il
cervello mi galleggiasse fuori dal cranio. Ho notato la macchia sul lenzuolo, il rosso, il sangue che le usciva dal naso e dalla bocca. La faccia. Non credevo che fosse lei. Non era lei. Non sembrava neanche una che le assomigliava. Era un'altra. Un imbroglio, un trucco terribile. Non era lei.» Marino: «E poi che cosa hai fatto, Matt? L'hai toccata, o hai spostato qualcosa in camera da letto?». Una lunga pausa in cui si sentiva solo il respiro accelerato e sibilante di Petersen: «No. Voglio dire, sì. L'ho toccata. Non ci credevo. L'ho solo toccata. La spalla, il braccio. Non ricordo. Era calda. Ma quando ho provato a sentire il polso non sono riuscito a trovarlo. Perché c'era appoggiata sopra, i polsi li aveva dietro la schiena, legati. Allora le ho toccato il collo e ho visto il cavo che le penetrava nella pelle. Credo di aver cercato di sentire se il cuore batteva, forse anche con l'orecchio, ma non me lo ricordo. Lo sapevo. Lo sapevo che era morta. Bastava vederla. Doveva essere morta. Sono corso in cucina. Non ricordo che cosa ho detto e neanche di aver usato il telefono. Ma so che ho telefonato alla polizia e poi mi sono messo a camminare avanti e indietro. Solo camminare avanti e indietro. Dentro e fuori dalla camera da letto. Mi sono appoggiato al muro, ho cominciato a piangere, le ho parlato. Le ho parlato. Le ho parlato finché è arrivata la polizia. Le ho detto che non volevo che fosse vero. Andavo da lei, poi tornavo sui miei passi e la pregavo di fare in modo che non fosse vero. Non vedevo l'ora che arrivasse qualcuno. Mi è sembrato che ci volesse un'eternità...». Marino: «I fili elettrici, il modo in cui era legata. Hai mosso qualcosa, hai toccato i cavi o qualcos'altro? Te ne ricordi?». «No, non mi ricordo se l'ho fatto o no. Ah, ma non credo. Qualcosa mi ha bloccato. Volevo coprirla. Ma qualcosa mi ha bloccato. Qualcosa mi diceva di non toccare niente.» Marino: «Tu hai un coltello?». Silenzio. Marino: «Un coltello, Matt. Abbiamo trovato un coltello, un coltello da sopravvivenza con la pietra per affilare nel fodero e una bussola nel manico». Confuso: «Oh. Ah sì. L'ho comprato tanti anni fa. Uno di quei coltelli che si ordinano per posta a cinque dollari e novantacinque o qualcosa del genere. Ah, me lo portavo dietro quando andavo in montagna. Dentro il manico ci sono degli ami per pescare e dei fiammiferi». Marino: «Dove l'hai visto per l'ultima volta?».
«Sulla scrivania. Di solito è sulla scrivania. Credo che Lori lo usasse per aprire le lettere. Non so. Era lì da mesi. Magari si sentiva più tranquilla ad averlo sotto gli occhi. Per il fatto di starsene sola la notte e roba del genere. Le avevo detto che potevamo prendere un cane. Ma è allergica.» Marino: «Se ho capito bene quello che hai detto, Matt, l'ultima volta che l'hai visto, il coltello era sulla scrivania. E questo quando sarebbe avvenuto? Sabato scorso, domenica scorsa quando eri a casa, nel weekend in cui hai cambiato la rete della finestra del bagno?». Nessuna risposta. Marino: «Sai se tua moglie aveva avuto motivo per spostare il coltello, magari per metterlo in un cassetto? Ha mai fatto qualcosa del genere in passato?». «Non credo. Erano mesi che era sulla scrivania, vicino alla lampada.» Marino: «Puoi spiegare come mai abbiamo trovato il coltello nell'ultimo cassetto dell'armadio, sotto dei pullover e accanto a una scatola di preservativi? Il tuo cassetto, immagino?». Silenzio. «No. Non me lo spiego. È lì che l'avete trovato?» Marino: «Sì». «I preservativi. Sono lì da un sacco di tempo.» Una risata vuota, quasi un ansito. «Da prima che Lori cominciasse a prendere la pillola.» Marino: «Ne sei sicuro? Dei preservativi?». «Certo che sono sicuro. Ha cominciato a prendere la pillola circa tre mesi dopo che ci siamo sposati. E ci siamo sposati appena prima di trasferirci qui. Meno di due anni fa.» Marino: «Adesso Matt devo farti un po' di domande di tipo personale e devi capire che non è che ce l'ho con te né che voglio metterti in imbarazzo. Ci sono dei motivi. Ci sono delle cose che dobbiamo sapere, anche per il tuo bene. D'accordo?». Silenzio. Sentii Marino accendere una sigaretta. «Bene, allora. I preservativi. Avevi delle relazioni extraconiugali, con un'altra donna, voglio dire?» «Assolutamente no.» Marino: «Passavi tutta la settimana fuori città. Ora io sarei stato tentato...». «Be', io non sono lei. Lori per me era tutto. Non avevo nessuna storia con nessun'altra.» Marino: «Nessuna che recitasse con te, magari?».
«No.» Marino: «Vedi, il punto è che queste cosette la gente le fa. Voglio dire, fanno parte della natura umana, no? Un bel ragazzo come te... ecco, le donne probabilmente ti saltano addosso. Non ti si può biasimare. Ma se tu vedevi una donna, dobbiamo saperlo. Ci potrebbe essere un rapporto». Con un filo di voce: «No. Gliel'ho detto. Non ci potrebbe essere nessun rapporto, a meno che non mi accusiate di qualcosa». Becker: «Nessuno ti sta accusando di niente, Matt». Si sentì il rumore di un oggetto che scivolava sul tavolo. Forse il portacenere. E Marino che chiedeva: «Quando è stata l'ultima volta che hai avuto rapporti sessuali con tua moglie?». Silenzio. Petersen aveva la voce scossa. «Gesù Cristo.» Marino: «Lo so che sono affari tuoi, sono cose personali. Ma devi dircelo. Abbiamo i nostri motivi». «Domenica mattina. Domenica scorsa.» Marino: «Sai che bisognerà fare degli esami, Matt. Ci sono degli scienziati che devono esaminare tutto, per cui dobbiamo sapere il tuo gruppo sanguigno e fare altri confronti. Abbiamo bisogno di tuoi campioni organici, proprio come delle tue impronte digitali. Così possiamo dare un senso alle cose e sapere che cosa è tuo, che cosa è suo e che cosa forse è del...». Il nastro s'interruppe improvvisamente. Ammiccai e rimisi a fuoco lo sguardo per la prima volta da ore, mi sembrava. Marino si chinò sul registratore, lo spense e riprese i suoi nastri. «E poi l'abbiamo portato giù al Richmond General e abbiamo fatto tutti gli esami che si fanno ai sospetti» concluse. «Betty sta analizzando il suo sangue anche adesso, per vedere se c'è qualche rapporto.» Annuii e lanciai un'occhiata all'orologio sulla parete. Era mezzogiorno. Stavo male. «Sentito che roba, eh?» Marino soffocò uno sbadiglio. «L'ha sentito, no? Glielo dico io, quel tipo è fuori. Voglio dire, deve essere fuori uno che dopo aver trovato sua moglie in quelle condizioni, riesce a starsene li seduto a dire quello che dice. Per la maggior parte non parlano mica tanto. Se lo lasciavo fare quello tirava avanti fino a Natale. Un sacco di belle parole, di poesie, se vuole sapere il mio parere. È fuori di testa. La mia opinione è questa, se le interessa. È così fuori di testa che mi fa venire i brividi.» Tolsi gli occhiali e mi strofinai le tempie. Avevo il cervello surriscaldato, i muscoli del collo in fiamme. La camicetta di seta sotto il camice era
bagnata. Avevo i circuiti talmente sovraccarichi che avrei voluto solo posare la testa sulle braccia e dormire. «Il suo mondo è nelle parole, Marino» mi sentii dire. «Un pittore le avrebbe fatto un quadro. Matt l'ha dipinta con le parole. È così che esiste, è così che si esprime, attraverso parole e ancora parole. Pensare una cosa ed esprimerla verbalmente viene naturale a quelli come lui.» Rimisi gli occhiali e lo guardai. Era perplesso, il viso rozzo e segnato era paonazzo. «Be', prenda la storia del coltello, dottoressa. Ci sono su le sue impronte, anche se lui dice che era sua moglie quella che l'ha usato per mesi. C'era quella merda che luccica, sul manico, come se l'avesse tenuto in mano. E il coltello era nel cassetto, come se qualcuno l'avesse voluto nascondere. Ora questo dà da pensare, non le pare?» «Credo che sia possibile che il coltello fosse sopra la scrivania di Lori, dove era sempre stato, credo che lei lo usasse raramente e che non aveva motivo di toccare la lama se se ne serviva solo per aprire una lettera di quando in quando.» Vedevo dentro di me il gesto in modo così vivido da credere quasi che fosse il ricordo di un evento verificatosi davvero. «Credo che sia possibile che il coltello l'abbia visto anche l'assassino. Forse l'ha estratto dal fodero per guardarlo. Forse l'ha usato...» «Perché?» «Perché no?» chiesi. Marino scrollò le spalle. «Per prendersi gioco di noi, forse» suggerii. «Perversione, se non altro. Non abbiamo la minima idea di quel che è successo, santo cielo. Può darsi che le abbia domandato del coltello, che l'abbia tormentata con quella stessa arma, sua o del marito. Se, come sospetto, lei gli ha parlato, forse è venuto a sapere che il coltello era del marito e ha pensato "Adesso lo uso, poi lo metto in un cassetto dove sono sicuro che i poliziotti lo troveranno". O forse non ci pensa molto a queste cose. Forse era spinto da una motivazione utilitaristica. In altre parole, magari il coltello era più grosso di quello che aveva portato con sé, l'ha notato, gli è piaciuto, se ne è servito, non ha voluto portarselo via e lo ha infilato in un cassetto sperando che non venissimo a sapere che lo aveva usato... potrebbe essere semplicemente così.» «O magari è stato Matt a farlo» disse Marino in tono neutro. «Matt? Ma ci pensi un po'. Crede che un marito potrebbe violentare e legare sua moglie? Crede che potrebbe fratturarle le costole e spezzarle le dita? Potrebbe strangolarla? Quella è una persona che ama o che una volta ha amato. Una persona con cui dorme, con cui mangia, con cui parla, con cui
vive. Una persona, sergente. Non una sconosciuta, né un oggetto spersonalizzato di lussuria e di violenza. Come fa a mettere in relazione un marito che ammazza la moglie con gli altri tre strangolamenti?» Era evidente che aveva già tratto le sue conclusioni. «Sono successi dopo mezzanotte, le prime ore del sabato. Giusto l'ora in cui Matt tornava a casa da Charlottesville. Forse sua moglie si è insospettita e lui ha deciso di farla fuori. Forse si è comportato come negli altri casi per far ricadere la colpa sul serial killer. O forse aveva in mente la moglie sin dall'inizio, e prima ha fatto fuori le altre tre per fare credere che sua moglie sia stata ammazzata da quest'altro assassino.» «Un bell'intreccio per Agatha Christie.» Spinsi indietro la seggiola alzandomi. «Però come lei sa nella vita vera gli omicidi sono faccende di una semplicità deprimente. Io credo che anche questi delitti siano una cosa semplice. Sono esattamente quello che sembrano essere, omicidi non mirati, commessi a caso da una persona che sorveglia le sue vittime quanto basta per sapere bene quando colpire.» Si alzò anche Marino. «Già, ecco, nella vita vera, dottoressa Scarpetta, i cadaveri non sono tutti coperti di puntini luminosi proprio uguali ai puntini luminosi trovati sulle mani del marito che scopre il corpo e lascia le sue impronte dappertutto. E le vittime non hanno un bell'attore per marito, un tipetto che scrive dissertazioni sul sesso e la violenza e i cannibali e i culattoni.» In tono tranquillo, gli chiesi: «L'odore di cui Petersen ha parlato. Lei, quando è arrivato sul posto, ha sentito un odore del genere?». «No. Non ho sentito un accidente. Per cui magari, se dice la verità, quello che ha sentito è odore di liquido seminale.» «Immagino che lo riconoscesse, quell'odore.» «Ma non si aspettava di sentirlo. Non c'è nessun motivo per cui in un primo momento debba venire in mente. Ora io quando sono entrato nella camera da letto non ho sentito niente di quello che lui diceva.» «Lei ricorda di avere sentito qualche odore strano negli altri casi?» «Nossignora. Il che non fa che corroborare il mio sospetto che Matt o se l'è immaginato o se l'è inventato per metterci fuori pista.» Ora toccava a me. «Nei tre casi precedenti, le donne sono state trovate solo il giorno dopo, quando erano morte da almeno dodici ore.» Marino si fermò sulla porta, con un'espressione incredula in viso. «Lei suggerisce che Matt è tornato a casa subito dopo che l'assassino se ne è andato e che l'assassino è uno che ha un odore pestilenziale?»
«Suggerisco che è possibile.» Il viso gli si indurì di rabbia. «Maledette donne...» lo sentii dire tra i denti mentre percorreva a grandi passi il corridoio. 5 Sixth Street Marketplace è una Bayside senza acqua, è uno di quegli shopping center ariosi e pieni di sole, costruiti in vetro e acciaio, che sorgono ai margini settentrionali del quartiere finanziario, che è il cuore del centro. Non mi capitava spesso di pranzare fuori e di sicuro non avevo tempo da perdere quel pomeriggio. Avevo un appuntamento di lì a meno di un'ora e c'erano due morti improvvise e un suicidio in arrivo, ma avevo bisogno di scaricarmi. Marino mi irritava. Il suo atteggiamento nei miei confronti mi riportava ai tempi della facoltà di medicina. Alla Hopkins eravamo solo quattro donne. All'inizio ero troppo ingenua per rendermi conto di come andavano le cose. L'improvviso cigolio delle sedie e il rumore di fogli quando un professore si rivolgeva a me non erano una coincidenza. E non era un caso che i vecchi esperimenti di laboratorio girassero tra gli studenti ma non arrivassero mai a me. Quando passavo da uno studente all'altro per farmi prestare gli appunti, nelle poche occasioni in cui mancavo una lezione, le scuse - "Non capiresti la mia scrittura" oppure "Li ho già prestati a un altro" - erano troppo vaghe. Ero un piccolo insetto davanti a una formidabile ragnatela maschile, nella quale avrei potuto venire imprigionata ma della quale non sarei mai entrata a far parte. L'isolamento è la più crudele delle punizioni e mai mi era venuto in mente di essere qualcosa di meno di un essere umano per il solo fatto di non essere maschio. Una delle mie compagne alla fine se ne andò, un'altra ebbe un esaurimento nervoso. Sopravvivere era la mia sola speranza, avere successo la mia unica vendetta. Avevo pensato di essermi lasciata alle spalle quei tempi, ma Marino me li richiamava alla memoria. Ora ero più vulnerabile perché questi omicidi influivano su di me in modo particolare. Non volevo essere sola in questa faccenda, ma Marino sembrava avere un'idea ben precisa non solo sul conto di Matt Petersen ma anche sul mio. La passeggiata di mezzogiorno mi tranquillizzò, il sole era luminoso e si rifletteva sui cristalli delle macchine che passavano. Le doppie porte di vetro del Marketplace erano aperte per fare entrare la brezza primaverile e,
come prevedevo, la corte dei ristoranti era affollata. Attendendo il mio turno al banco delle insalate, osservai la gente che passava, giovani coppie che ridevano e chiacchieravano e si rilassavano ai tavolini. Notavo in particolare le donne che sembravano sole, professioniste dall'aria preoccupata che indossavano abiti costosi, che bevevano Dietcoke, o sbocconcellavano sandwich fatti con pane arabo. Poteva essere in un posto come questo che l'assassino notava le sue vittime, in un grande locale pubblico dove l'unico elemento comune tra le quattro donne era il fatto che era stato lui a prendere le loro ordinazioni a uno dei banchi. Però il problema, schiacciante e apparentemente senza soluzione, era che le donne assassinate non lavoravano né vivevano nella stessa zona della città. Era improbabile che andassero negli stessi posti per lo shopping, a cena, in banca oppure a fare qualunque altra cosa. Richmond era una città molto estesa, con quartieri degli acquisti e zone commerciali nei quattro principali quadranti. La gente che vive a Northside si serve dai commercianti di Northside, quella a sud del fiume frequenta i negozi di Southside e lo stesso vale per il settore orientale della città. Anch'io, per esempio, mi limitavo quasi esclusivamente agli shopping center e ai ristoranti del West End, salvo quando ero in giro per lavoro. La donna al banco che prese il mio ordine - un'insalata greca - si bloccò un attimo, indugiando sul mio viso come se le sembrasse familiare. A disagio, mi chiesi se non avesse notato la mia foto sul quotidiano del sabato sera. O forse mi aveva vista in televisione e negli schizzi che le tv locali tiravano fuori dall'archivio quando un assassinio faceva notizia nella Virginia centrale. Avevo sempre desiderato passare inosservata, mescolarmi agli altri, ma ero sfavorita per svariati motivi. In tutto il paese, erano poche le donne che di professione facevano il medico legale, il che spingeva i giornalisti a mostrare una tenacia insolita quando si trattava di puntare una telecamera su di me, oppure cercare di ottenere una dichiarazione. Mi si riconosceva facilmente perché ho un aspetto "notevole", sono "bionda" e "attraente" e Dio sa quali altri appellativi mi sono stati dati sulla stampa. I miei antenati vengono dall'Italia settentrionale dove sono molte le persone bionde dagli occhi azzurri che discendono dai popoli della Savoia, della Svizzera e dell'Austria. Gli Scarpetta sono un gruppo tradizionalmente etnocentrico, italiani che negli Stati Uniti hanno sposato altri italiani per mantenere pura la stirpe. Il
più gran dispiacere di mia madre, e me lo aveva manifestato molte volte, è che non ho avuto bambini e che le sue due figlie, dal punto di vista genetico, si sono rivelate poco fertili. Dorothy ha fermato la stirpe con Lucy, che ha sangue latino solo per metà, mentre viste la mia età e la mia condizione di divorziata era improbabile che io producessi qualcosa. Mia madre ha il pianto facile quando si lamenta del fatto che i suoi diretti discendenti sono gli ultimi. «Tutto quel buon sangue» singhiozza, specialmente durante le vacanze, quando avrebbe dovuto essere circondata da uno sciame di nipotini adorabili e adoranti. «Che vergogna. Un sangue così buono! I nostri antenati! Architetti, pittori! Kay, Kay, lasciarlo andare a male, come dei buoni grappoli su una vigna.» Le tracce dei nostri antenati si ritrovano a Verona, la terra di Romeo Montecchi e di Giulietta Capuleti, di Dante, di Pisano, di Tiziano, di Bellini e del Veronese, secondo mia madre. Insiste nel credere che, chissà in che modo, siamo imparentati con questi geni, malgrado io le ricordi che Bellini, Tiziano e Pisano, sebbene abbiano influito sulla scuola veronese, in realtà erano nati a Venezia, che Dante era di Firenze da dove era stato esiliato dopo il trionfo dei Neri e costretto a vagare di città in città: a Verona si era fermato solo sulla strada per Ravenna. I nostri antenati diretti, in realtà, erano ferrovieri o contadini, gente umile immigrata negli Stati Uniti due generazioni fa. Con un sacchetto bianco in mano mi gettai di nuovo avidamente nel tepore del pomeriggio. I marciapiedi erano affollati di gente che andava a mangiare o che aveva appena finito. Mentre a un incrocio aspettavo che il semaforo diventasse verde, mi girai istintivamente verso le due figure che uscivano da un ristorante cinese sul lato opposto della strada. Ad attirare la mia attenzione erano stati i capelli biondi, a me familiari, di Bill Boltz, il pubblico ministero di Richmond City, che si stava infilando un paio di occhiali da sole e sembrava impegnato in una discussione accalorata con Norman Tanner, assessore all'ordine pubblico. Per un attimo, Boltz guardò dritto verso di me, ma non restituì il mio cenno. Forse non mi aveva vista. Non tentai di farmi notare. Poi i due scomparvero confluendo nella folla congestionata di volti anonimi. Quando dopo un'attesa interminabile il semaforo passò al verde, attraversai la strada e avvicinandomi a un negozio di software mi venne in mente Lucy. Entrai e trovai qualcosa che senz'altro le sarebbe piaciuto, non un videogame ma un programma di storia, completo di immagini, musica e quiz. Il giorno prima avevamo affittato un pedalò per fare un giro sul
laghetto del parco: Lucy l'aveva diretto contro una fontana per farmi prendere una doccia tiepida, e mi trovai fanciullescamente a renderle la pariglia. Avevamo dato da mangiare alle oche e leccato gelato fino ad avere la lingua blu. Giovedì mattina sarebbe ritornata in volo a Miami e non l'avrei rivista fino a Natale, se pure l'avrei rivista. Era un quarto all'una quando entrai nell'atrio della direzione dèi Centro di medicina legale. Benton Wesley era in anticipo di quindici minuti e se ne stava seduto su un divano intento a leggere il "Wall Street Journal". «Spero che tu abbia qualcosa da bere in quel sacchetto» disse furbesco piegando il giornale e prendendo la borsa. «Aceto di vino. Ti piacerà moltissimo.» «Diavolo. Lasciamo perdere... non mi interessa. Certi giorni sono così disperato che mi sogno che la macchinetta dell'acqua fuori dalla porta del mio ufficio dispensi gin.» «Mi sembra uno spreco di fantasia.» «Proprio no. È solo l'unica fantasia di cui sono disposto a parlare di fronte a una signora.» Il lavoro di Wesley consisteva nel tracciare il profilo dei sospetti assassini per l'Fbi. Lavorava nella sede di Richmond, dove in realtà passava pochissimo tempo. Quando non era fuori per servizio di solito si trovava alla National Academy di Quantico per insegnare le tecniche investigative nei casi di omicidio, concentrando tutti i suoi sforzi per far superare al VICAP una difficile adolescenza. VICAP sta per Violent Criminal Apprehension Program, programma per la cattura dei criminali violenti. Una delle innovazioni del VICAP consiste nelle squadre regionali, in cui lavorano affiancati un esperto di profili dell'Fbi con un investigatore, specializzato in casi di omicidio. Il Dipartimento di polizia di Richmond aveva chiamato il VICAP dopo il secondo caso di strangolamento. Marino, oltre a essere il sergente incaricato delle indagini, era il collaboratore della squadra regionale di Wesley. «Sono in anticipo» si scusò Wesley seguendomi nel corridoio. «Arrivo dritto dal dentista. Non mi importa se lei mangia mentre parliamo.» «Be', a me importa» dissi. Lo sguardo vacuo che mi rivolse fu seguito da un sorriso imbarazzato quando si rese conto della sua osservazione maldestra. «Lei non è il dottor Cagney. Sa, aveva l'abitudine di tenere i cheese cracker nella sua scrivania all'obitorio. Nel bel mezzo di un turno si prendeva un intervallo per uno spuntino. Era incredibile.»
Svoltammo ed entrammo in una stanzetta così minuscola che in realtà era più simile a un ripostiglio. C'erano un frigorifero, un distributore di Coca Cola e una macchinetta per il caffè. «È fortunato a non essersi preso l'epatite o l'Aids» dissi. «Aids» Wesley rise. «Quello sì che sarebbe stato un bel contrappasso.» Come molte persone del suo tipo che ho conosciuto, il dottor Cagney nutriva una vera e propria avversione nei confronti degli omosessuali. «Solo una lurida checca» diceva quando doveva esaminare persone di una certa tendenza. «Aids...» Wesley stava ancora sorridendo all'idea mentre io infilavo l'insalata nel frigorifero. «Mi piacerebbe proprio vedere che spiegazioni darebbe.» Un po' alla volta ero riuscita a trovare simpatico Wesley. Appena l'avevo incontrato avevo avuto delle riserve. Di primo acchito, avrebbe convinto chiunque della veridicità degli stereotipi. Era Fbi dalla punta dei capelli fino alle scarpe Florsheim; un uomo dai lineamenti affilati, con capelli prematuramente bianchi che potevano suggerire una dolcezza che non gli era propria. Secco e duro, sembrava un avvocato nel suo abito beige tagliato con precisione, e la cravatta azzurra a disegnini. Non ricordavo di averlo mai visto con una camicia che non fosse bianca e leggermente inamidata. Aveva un master in psicologia e prima di arruolarsi nell'Fbi era stato preside di una scuola di Dallas. Nell'Fbi aveva lavorato come agente operativo e poi come infiltrato per incastrare i mafiosi, prima di finire dove aveva cominciato, in un certo senso. Gli esperti di profili sono accademici, pensatori, analisti. A volte credo che siano dei maghi. Con le tazze di caffè in mano, girammo a sinistra ed entrammo nella sala riunioni. Seduto al lungo tavolo trovammo Marino intento a esaminare un fascicolo piuttosto voluminoso. Rimasi leggermente sorpresa. Chissà come mai avevo pensato che sarebbe arrivato in ritardo. Prima che avessi avuto il tempo di scostare la sedia, Marino annunciò laconico: «Mi sono fermato in sierologia un minuto fa. Pensavo che la interessasse sapere che Matt Petersen è di gruppo A positivo e non secretore». Wesley lo guardò interessato. «È il marito di cui mi parlavi?» «Già. Un non secretore. Proprio come il tipo che fa fuori le donne.» «Il venti per cento della popolazione è composta da non secretori» dissi in tono pratico. «Già» disse Marino. «Due su dieci.»
«Oppure approssimativamente 44 mila persone in una città come Richmond. 22 mila, se la metà sono di sesso maschile» aggiunsi. Accendendo una sigaretta, Marino mi fissò sopra la fiamma del Bic. «Sa una cosa, dottoressa?» La sigaretta si muoveva a ogni sillaba. «A me lei comincia a sembrarmi un maledetto avvocato difensore.» Mezz'ora dopo ero a capotavola, con i due uomini al mio fianco. Sparse davanti a noi c'erano le fotografie delle quattro donne assassinate. Questa era la parte più difficile e più lunga dell'indagine: il tentativo di stabilire la tipologia dell'assassino, la tipologia delle vittime e poi di nuovo quella dell'assassino. Wesley lo stava descrivendo. Era la cosa che sapeva fare meglio e molto spesso era incredibilmente preciso quando leggeva le emozioni in gioco sulla scena di un delitto, che in questi casi era una rabbia fredda, calcolata. «Scommetto che è di razza bianca» stava dicendo. «Ma non ci metterei in gioco la reputazione. Cecile Tyler era nera e il fatto che la scelta delle vittime sia di tipo interrazziale è insolito, a meno che l'assassino non si stia rapidamente scompensando.» Prese una fotografia di Cecile Tyler, dalla pelle scura, bellissima da viva, che faceva la receptionist in una società finanziaria di Northside. Come Lori Petersen, era stata legata, strangolata, con il corpo nudo disteso sopra il letto. «Però di questi tempi stanno aumentando. È la tendenza, un aumento dei delitti sessuali in cui l'aggressore è nero e la donna è bianca, raramente il contrario... un bianco che violenta e assassina una nera, in altre parole. Fanno eccezione le prostitute.» Lanciò un'occhiata blanda alla serie di fotografie. «Queste donne certamente non erano prostitute. Immagino che, se lo fossero state, il nostro lavoro sarebbe stato un po' più facile.» «Già, ma non lo sarebbe stato il loro» intervenne Marino. Wesley non sorrise. «Per lo meno ci sarebbe un collegamento che potrebbe avere un senso, Pete. La scelta.» Scosse il capo. «In questo caso è piuttosto peculiare.» «E Fortosis cosa ha da dire in proposito?» chiese Marino, riferendosi al criminologo che stava riesaminando i casi. «Praticamente un accidente» rispose Wesley. «Abbiamo scambiato due parole questa mattina. Non si vuole compromettere. Credo che l'omicidio di questa dottoressa gli stia facendo ripensare un paio di cose, ma è maledettamente sicuro che l'assassino è bianco.» Il volto del sogno violò la mia mente, quel volto bianco, senza lineamen-
ti. «È probabilmente tra i venticinque e i trentacinque anni» disse Wesley continuando a scrutare nella sua sfera di cristallo. «Siccome gli assassinii non sono concentrati in una località particolare, deve avere qualche mezzo di trasporto, un'auto, una moto, oppure un pick up o un furgone. La mia ipotesi è che parcheggia in un posto dove non viene notato e fa il resto della strada a piedi. L'auto è un modello un po' vecchio, probabilmente americano, scura o di un colore neutro, per esempio beige o grigio. In altre parole, non sarebbe strano se guidasse lo stesso tipo di macchina che utilizzano gli agenti in borghese.» Non stava scherzando. Questo tipo di assassino spesso viene affascinato dal lavoro di polizia e in certi casi emula i poliziotti. Il classico comportamento di uno psicopatico dopo aver commesso un crimine è quello di farsi coinvolgere nelle indagini. Vuole aiutare la polizia, offrire punti di vista e suggerimenti, assistere alle ricerche di un cadavere che lui stesso ha nascosto nei boschi. È il tipo di persona che non ci penserebbe due volte a frequentare il bar del club della polizia, bevendo in compagnia di agenti fuori servizio. È stata avanzata l'ipotesi che almeno l'uno per cento della popolazione sia composta da psicopatici. Geneticamente, questi individui sono privi di paura; sono strumentalizzatori e manipolatori supremi. Dalla parte giusta, diventano abilissime spie, eroi di guerra, generali a cinque stelle, miliardari a capo di grandi società e James Bond. Da quella sbagliata, sono dei geni del male, i Nerone, gli Hitler, i Richard Speck, i Ted Bundy... personalità antisociali ma clinicamente silenti che commettono atrocità verso le quali non provano rimorso e delle quali non si ritengono colpevoli. «È un solitario» prosegui Wesley, «e ha difficoltà nei rapporti stretti, sebbene i conoscenti lo possano ritenere piacevole o addirittura affascinante. Non ha rapporti di intimità con nessuno. È il tipo che scova una donna in un bar, fa del sesso con lei e trova l'esperienza frustrante e molto insoddisfacente.» «Come se non la conoscessi, la sensazione» disse Marino sbadigliando. Wesley approfondì il concetto: «Lo soddisfano molto di più la pornografia violenta, le riviste di cronaca nera, le attività sadomaso e probabilmente è preda di fantasie sessuali violente molto prima di tramutarle in realtà. La traduzione della fantasia in realtà può essere cominciata spiando dalle finestre delle case e degli appartamenti dove vivono donne sole. Così la faccenda diventa più concreta. Poi comincia con gli stupri. Gli stupri a loro
volta diventano più violenti e culminano in un assassinio. Questa escalation continuerà e lui diventerà sempre più violento e più sadico con ogni vittima. Ora il movente non è più la violenza carnale, ma l'assassinio. Ma l'assassinio non basta più. Deve avere delle componenti ancora più sadiche». Wesley allungò un braccio, rivelando un polsino bianco perfettamente inamidato e prese le fotografie di Lori Petersen. Le esaminò lentamente una a una, il volto impassibile. Poi scostando leggermente il mazzo si rivolse a me. «A me pare chiaro che nel suo caso, nel caso della dottoressa Petersen, l'assassino abbia introdotto elementi di tortura. È una valutazione esatta?» «Esatta» risposi. «Cos'ha fatto? Le ha spezzato le dita?» Marino pose la domanda come se intendesse polemizzare. «Queste sono porcate che fa la mafia. Di solito gli assassini sessuali non le fanno. Lei suonava il violino, giusto? Spezzarle le dita sembra una cosa personale. Come se il tipo che l'ha fatto la conoscesse.» Con la massima calma possibile risposi: «Il manuale di chirurgia sulla scrivania, il violino... l'assassino non doveva essere un genio per sapere dei particolari su di lei». «Un'altra possibilità» considerò Wesley, «è quella di vedere nelle dita spezzate e nelle costole fratturate delle ferite da difesa.» «Non lo sono.» Ne ero certa. «Non ho trovato nulla che lasci pensare che lei abbia lottato.» Marino puntò verso di me uno sguardo inespressivo, freddo. «Davvero? Cosa vuole dire con ferite da difesa? Stando alla sua relazione la Petersen era piena di escoriazioni». «Buoni esempi di ferite da difesa» - lo fissai a mia volta senza distogliere lo sguardo - «sono unghie rotte, graffi o ferite nella zona delle braccia e delle mani, che si trovano esposte quando la vittima tenta di proteggersi dai colpi. Le ferite della Petersen non rientrano in questo quadro.» Wesley riassunse: «Allora siamo tutti d'accordo. Questa volta si è dimostrato più violento». «Brutale è la parola giusta» disse Marino in fretta, come se quello fosse il suo punto favorito, che voleva affermare. «È proprio di questo che sto parlando. Il caso di Lori Petersen è diverso dagli altri tre.» Controllai la mia irritazione. Le prime tre vittime erano state legate, violentate e strangolate. Questa non era brutalità? Bisognava proprio che le
rompessero le ossa? Wesley, pessimisticamente, previde: «Se si verificherà un altro caso, i segni di violenza, di tortura saranno più pronunciati. Uccide perché prova un impulso irrefrenabile, in un tentativo di soddisfare una qualche esigenza. Quanto più lo fa tanto più forte diventa l'esigenza e tanto più aumenta la frustrazione, per cui l'impulso diventa ancora più forte. In sintesi, il livello di sensibilità si abbassa sempre più, per cui ogni delitto per saziarlo deve dargli di più. La sazietà è temporanea. Nei giorni successivi, o nelle settimane successive, la tensione sale nuovamente finché non trova un nuovo bersaglio, lo segue e ripete la cosa. Gli intervalli tra un assassinio e l'altro potrebbero abbreviarsi. Alla fine potrebbe trasformarsi in un omicida di massa, come nel caso di Bundy». Stavo pensando ai tempi. La prima donna era stata assassinata il 19 aprile, la seconda il 10 maggio, la terza il 31 maggio. Lori Petersen era stata uccisa una settimana dopo, il 7 giugno. Il resto del discorso di Wesley era piuttosto prevedibile. L'assassino proveniva da una famiglia "difficile" e avrebbe potuto essere stato maltrattato sia fisicamente, sia moralmente dalla madre. Quando si trovava con una vittima agiva spinto dalla rabbia, inestricabilmente collegata al desiderio sessuale. Di intelligenza superiore alla media, era di tipo ossessivo-compulsivo, molto organizzato e meticoloso. Poteva avere comportamenti di stampo ossessivo, fobie o rituali, come per esempio la pulizia, l'ordine, la dieta qualunque cosa che gli desse la sensazione di poter controllare l'ambiente circostante. Aveva un lavoro, probabilmente di basso livello: meccanico, operaio, muratore, o qualche altra occupazione manuale... Notai che il viso di Marino andava facendosi paonazzo. Continuava a guardarsi intorno inquieto. «Per lui» stava dicendo Wesley, «la parte più interessante è quella che precede l'atto, immaginare il piano, la suggestione ambientale che attiva la fantasticheria. Dov'era la vittima quando lui l'ha notata?» Non lo sapevamo. Forse la vittima non l'avrebbe saputo neanche se fosse stata viva per dirlo. Il punto di contatto poteva essere tenue e oscuro come un'ombra che attraversava il suo cammino. Forse l'aveva osservata per pochi istanti in qualche posto. Forse in uno shopping center, o magari mentre era ferma al semaforo in macchina. «Che cosa lo scatena?» prosegui Wesley. «Come mai proprio una certa
donna?» Anche in questo caso non lo sapevamo. Di una sola cosa eravamo certi. Ognuna delle donne era vulnerabile per il fatto di vivere da sola. Oppure si poteva pensare che vivesse da sola, come nel caso di Lori Petersen. «Sembra un perfetto americano.» L'acida osservazione di Marino ci bloccò. Spegnendo la cicca, si piegò aggressivamente in avanti. «Sentite un po'. Tutto molto bello e molto simpatico. Ma a me questa storia dei bambini bellini e bravini che non fanno le brutte cose non mi va proprio giù. Diciamo che fa l'idraulico o roba del genere, giusto? Ted Bundy studiava legge e un paio d'anni fa c'è stato quello stupratore di Washington che da quel che poi si è visto era un dentista. Diavolo, lo strangolatore della Green Valley, qui fuori nella terra della frutta e dell'abbondanza, per quel che ne sappiamo potrebbe essere un boy scout.» Marino stava tirando fuori quello che aveva in mente. Aspettavo solo che cominciasse. «Voglio dire, chi può dire che non è uno studente? Magari persino un attore, uno di quei tipi creativi che non tiene più sotto controllo le sue fantasie. Un assassinio per motivi sessuali non sembra molto diverso da un altro, chiunque lo commetta, a meno che l'omicida non abbia voglia di bere sangue, o di arrostire la gente sullo spiedo, e il tipino di cui stiamo parlando non è un santo. Il motivo per cui questi assassini sessuali hanno tutti più o meno lo stesso profilo, se volete il mio parere, è perché, con poche eccezioni, la gente è la gente. Medico, avvocato o capo indiano. La gente pensa e fa più o meno sempre le stesse maledette cose, su su fino all'epoca in cui gli uomini delle caverne trascinavano le donne per i capelli.» Wesley guardava lontano. Lentamente portò lo sguardo su Marino e chiese tranquillo: «Dove vuoi arrivare, Pete?». «Te lo dirò io dove cacchio voglio arrivare!» Aveva il mento in fuori, le vene del collo tese come corde. «Queste stronzate del cavolo su chi rientra nel profilo e chi no. Io me ne sbatto. Quello che abbiamo è un tizio che scrive una dissertazione del cavolo sul sesso, la violenza, i cannibali, le checche. Ha sulle mani una merda luccicante che sembra identica a quella rinvenuta su tutti i corpi. Troviamo le impronte sulla pelle della moglie morta, sul coltello infilato in uno dei cassetti, un coltello che ha anche lui la merda sul manico. Torna a casa tutti i fine settimana proprio nel momento in cui le donne vengono massacrate. Ma no. Cazzo, no. Mica può essere lui, vero? E perché? Perché non fa un lavoro manuale. Perché non è
un derelitto.» Wesley aveva ripreso a guardare lontano. Mi cadde l'occhio sulle fotografie sparse di fronte a noi, ingrandimenti a colori di donne che mai, neppure nei loro peggiori incubi, avrebbero creduto che potesse loro succedere qualcosa del genere. «Bene, adesso ve lo dico io come stanno le cose.» La tirata non era ancora finita. «Il nostro bravissimo Matt capita che non è immacolato come la neve. Mentre ero di sopra a controllare in sierologia ho fatto di nuovo un salto nell'ufficio di Vander per vedere se era saltato fuori qualcosa di nuovo. Le impronte di Petersen sono schedate, giusto? E lo sapete perché?» Mi fissò con uno sguardo duro. «Ve lo dico io perché. Vander ha fatto ricerche, ha fatto i suoi giochini con le sue macchinette, e non ti salta fuori che il nostro bravo Matt è stato arrestato sei anni fa a New Orleans? Era l'estate prima che andasse al college, molto tempo prima di incontrare la moglie, la chirurga. Lei probabilmente non ne ha mai saputo nulla.» «Saputo nulla di che cosa?» chiese Wesley. «Che il suo bellissimo attore era stato accusato di violenza carnale, ecco cosa.» Per un bel po' di tempo nessuno disse nulla. Wesley continuava a far girare la sua Mont Blanc sul piano del tavolo, la mascella serrata. Marino non rispettava le regole. Non comunicava le informazioni che aveva. Ci tendeva imboscate con le sue informazioni, come se questo fosse un tribunale e io e Wesley fossimo la controparte. «Se Petersen è stato davvero accusato di stupro» proposi alla fine, «deve essere stato scagionato. Oppure l'accusa è stata ritirata.» Gli occhi di Marino si fissarono su di me come due canne di pistola. «Lei lo sa, vero? Io non ho fatto ancora controlli.» «Un'università come Harvard, sergente Marino, non accetta di solito persone che hanno subito condanne.» «Se ne sono al corrente.» «Vero» acconsentii. «Se ne sono al corrente. Ma è difficile credere che non l'abbiano saputo se l'accusa è rimasta in piedi.» «È meglio che chiariamo la cosa» fu tutto ciò che Wesley ebbe da dire. E con questo Marino all'improvviso si scusò e se ne andò. Immaginai che fosse andato alla toilette. Wesley si comportava come se non ci fosse niente di insolito nell'esplosione di Marino e nel resto. Chiese casualmente: «Cosa si sa da New York, Kay? È arrivato qualcosa dal laboratorio?».
«I test con il Dna richiedono un po' di tempo» risposi distratta. «Non gli abbiamo fatto avere niente prima del secondo omicidio. I risultati dovrebbero arrivare presto. Per quanto riguarda gli ultimi due delitti, Cecile Tyler e Lori Petersen, se le cose vanno bene se ne parlerà il mese prossimo.» Insistette in quel suo atteggiamento "tutto normale". «In tutti e quattro i casi il tipo è un non secretore. Non sappiamo altro.» «Sì. Questo è ciò che sappiamo.» «Io non ho nessun dubbio che si tratti dello stesso assassino.» «E nemmeno io» concordai. Per un po' null'altro venne detto. Rimanemmo seduti, tesi, aspettando il ritorno di Marino, con le sue parole piene di rabbia che ancora ci ronzavano nelle orecchie. Sudavo e sentivo battermi il cuore. Penso che Wesley leggendo la mia espressione avesse capito che non volevo avere nulla a che fare con Marino, che lo avevo relegato in quel limbo che riservo alla gente insopportabile, sgradevole e pericolosa dal punto di vista professionale. «Devi capirlo, Kay» disse. «Be', non lo capisco.» «È un buon investigatore, ottimo davvero.» Non feci commenti. Rimanemmo seduti in silenzio. La mia rabbia cominciò a montare. Sapevo che era meglio tacere, ma non c'era modo di bloccare le mie parole. «Maledizione, Benton! Quelle donne meritano i nostri migliori sforzi. Se facciamo pasticci ne potrebbero morire altre. Non voglio che quello rovini tutto perché ha dei problemi personali!» «Non lo farà.» «Lo sta già facendo.» Abbassai la voce. «Ha messo il cappio intorno al collo di Matt Petersen. Vuole dire che non cerca nessun altro.» Marino, grazie al cielo, se la prendeva comoda. Wesley irrigidì i muscoli della mascella, evitando di incontrare il mio sguardo. «Neanch'io ho messo da parte Petersen. Lo so che il fatto di ammazzare sua moglie non concorda con gli altri tre casi. Ma anche lui è un tipo strano. Pensa a Gacy. Non abbiamo la minima idea di quante siano le persone che ha ammazzato. Trentatré bambini. Probabilmente sono stati centinaia. Sconosciuti, tutti sconosciuti per lui. E poi fa fuori la madre e la butta a pezzi giù per il tritarifiuti...»
Incredibile. Mi stava dando una delle sue lezioni per giovani agenti, parlando trafelato come un sedicenne dalle palme sudate al primo appuntamento. «Chapman stava leggendo Il giovane Holden quando ha steso John Lennon. Brady è stato colpito da un fuori di testa ossessionato da un'attrice. Gli schemi... cerchiamo di prevederli, ma non sempre ci riusciamo. Non sempre sono prevedibili.» Poi cominciò a recitare le statistiche. Dodici anni fa la percentuale di omicidi risolti era in media del novantacinque, novantasei per cento. Adesso era intorno al settantaquattro per cento ed era in calo. C'erano molti più casi di gente che assassinava sconosciuti, rispetto ai delitti passionali eccetera. Quasi non lo stavo a sentire. «... se ti devo dire la verità, Kay, Matt Petersen mi preoccupa.» Tacque. Aveva catturato la mia attenzione. «È un artista. Gli psicopatici sono i Rembrandt degli assassini. È un attore. Non sappiamo quali ruoli ha recitato nelle sue fantasie. Non sappiamo se non li sta trasformando in realtà. Non sappiamo se non è diabolicamente intelligente. L'assassinio di sua moglie potrebbe avere dei fini utilitaristici.» «Fini utilitaristici?» Lo fissai con occhi spalancati, increduli, guardando anche le fotografie di Lori Petersen, sul luogo del delitto. Il volto una maschera di sofferenza, le gambe piegate, il cavo elettrico, teso lungo la schiena come la corda di un arco, che le serrava le braccia e le penetrava nel collo. Vedevo tutto ciò che il mostro le aveva fatto. Fini utilitaristici? Non potevo credere alle mie orecchie. Wesley si spiegò: «Fini utilitaristici nel senso che poteva avere bisogno di sbarazzarsi di lei, Kay. Se per esempio qualcosa l'avesse portata a sospettare che fosse stato lui a uccidere le prime tre donne, potrebbe essere stato preso dal panico e aver deciso di ammazzarla. Ma come poteva farla franca? Far sembrare la sua morte come quella delle altre». «Ho già sentito variazioni di questo tema» dissi piatta. «Dal tuo socio.» Le sue parole erano lente e precise come il battito di un metronomo: «Tutti gli scenari possibili, Kay. Dobbiamo considerarli tutti». «Certo che dobbiamo. E questo va bene fino a che Marino considera tutti gli scenari possibili e non si mette i paraocchi perché ha delle ossessioni o dei problemi psicologici.» Wesley lanciò un'occhiata verso la porta aperta. Con un filo di voce disse: «Pete ha i suoi pregiudizi, non lo nego».
«Credo che sia meglio che tu mi dica esattamente di che cosa si tratta.» «Basti dire che quando l'Fbi ha deciso che era un buon candidato per entrare in una squadra VICAP, abbiamo fatto dei controlli nel suo passato. Sappiamo dove è cresciuto, com'è cresciuto. Certe cose non si superano mai. Mettono fuori squadra. Capita.» Non mi stava dicendo nulla che già non avessi immaginato. Marino era cresciuto povero, nei quartieri poveri della città. Era a disagio con il tipo di gente che lo aveva sempre messo in difficoltà. Le cheerleader e le reginette della scuola non lo guardavano mai una seconda volta perché era un emarginato, perché suo padre aveva le unghie nere, perché era "di bassa estrazione sociale". Avevo sentito queste tristi storie di poliziotti già migliaia di volte. L'unico vantaggio che il ragazzo ha nella vita è quello di essere corpulento e di razza bianca, per cui si rende ancora più corpulento e ancora più bianco portando la pistola e il distintivo. «Non dobbiamo cercare scuse per noi stessi, Benton» dissi asciutta. «Non scusiamo i criminali perché hanno avuto un'infanzia disgraziata. E non dobbiamo usare il potere che ci viene affidato per punire la gente che ci ricorda la nostra infanzia disgraziata.» Non stavo mostrandomi spietata. Capivo perfettamente le ragioni di Marino. La sua rabbia non mi era sconosciuta. L'avevo provata molte volte quando mi ero trovata di fronte a un avvocato difensore in tribunale. Per quanto convincenti potessero essere le prove, se il tizio è di bell'aspetto, ha i capelli corti e porta un abito da duecento dollari, dodici tra operai e operaie in cuor loro non giudicano che sia colpevole. Di questi tempi potevo credere più o meno qualsiasi cosa sul conto di chiunque. Ma solo se c'erano delle prove. Marino le prove le considerava? E c'era qualcosa che considerava? Wesley spinse all'indietro la sedia e si raddrizzò per stirarsi. «Pete ha i suoi momenti. Ci si fa l'abitudine. Lo conosco da anni.» Andò alla porta e guardò su e giù per il corridoio. «E comunque, dove diavolo è finito? È cascato nel cesso?» Wesley concluse le sue deprimenti faccende con il mio ufficio e scomparve nel pomeriggio di sole delle creature vive: altre imprese criminali richiedevano la sua attenzione. Marino l'avevamo lasciato perdere. Non avevo la minima idea di dove fosse andato, ma il viaggio alla toilette evidentemente l'aveva portato fuori
dall'edificio. Non ebbi nemmeno l'opportunità di pensarci su a lungo perché a un certo punto Rose si presentò sulla porta che divideva il suo ufficio dal mio proprio mentre stavo chiudendo a chiave nella scrivania le pratiche del caso. Dalla lunga pausa e dall'espressione seria della bocca capii istantaneamente che doveva dirmi qualcosa che non volevo sentire. «Dottoressa Scarpetta, Margaret l'ha cercata e mi ha chiesto di dirglielo immediatamente, non appena fosse finita la riunione.» Non riuscii a nascondere l'impazienza. C'erano delle autopsie da controllare al piano di sotto e innumerevoli telefonate a cui rispondere. Avevo abbastanza da fare da tenere impegnata mezza dozzina di persone e non volevo aggiungere nient'altro alla lista. Porgendomi una pila di lettere da firmare, mentre mi scrutava da sopra gli occhiali di lettura, Rose assomigliava a una temibile preside di scuola. «È nel suo ufficio» aggiunse, «e non credo sia una questione che può aspettare.» Rose non era disposta a dirmi di che cosa si trattava e sebbene non gliene potessi fare una colpa ne fui seccata. Credo che sapesse tutto ciò che succedeva nell'intera amministrazione dello Stato, ma il suo stile era quello di indirizzarmi alla fonte invece di informarmi direttamente. In una parola, evitava accuratamente di fare l'ambasciatrice di cattive nuove. Immagino che avesse imparato la dura lezione dopo aver lavorato per gran parte della sua vita per il mio predecessore Cagney. L'ufficio di Margaret era a metà del corridoio. Era una piccola stanza spartana dipinta in quella stessa tinta verdina insipida che caratterizzava il resto del palazzo. Il pavimento di mattonelle verde scuro aveva sempre un'aria polverosa per quanto lo si scopasse; sulla sua scrivania e su tutte le superfici orizzontali c'erano pile di tabulati. Lo scaffale era stipato di manuali di istruzioni, di cavi di stampanti, di nastri e di scatole di dischetti di ricambio. Non c'era nessun tocco personale, nessuna fotografia, nessun manifesto eccetera. Non so come facesse a vivere in quella confusione sterile, ma a dire la verità non mi è mai capitato di vedere l'ufficio di un analista di computer che non fosse così. Voltava le spalle alla porta e stava fissando il monitor, con un manuale aperto sulle ginocchia. Si girò sulla sedia e quando entrai la fece scivolare di lato. L'espressione era tesa, i capelli neri corti arruffati come se li avesse scompigliati con le mani, gli occhi scuri erano preoccupati. «Sono stata quasi tutta la mattinata a una riunione» attaccò. «Quando
sono arrivata qui dopo colazione ho trovato questo sullo schermo.» Mi porse uno stampato. Riportava diversi comandi SQL che servivano a consultare la base dati. All'inizio fissai il foglio senza pensare a nulla. Sulla tabella del caso era stato eseguito un Describe e la prima metà della pagina era piena di intestazioni di colonne. Sotto c'erano alcune semplici istruzioni Select. La prima chiedeva il numero di codice del caso il cui cognome corrispondeva a "Petersen", nome "Lori". Sotto c'era la risposta, "No records found". Un secondo comando chiedeva i numeri dei casi e il nome di tutte le persone decedute il cui record era contenuto nella nostra base dati e il cui cognome era "Petersen". Il nome di Lori Petersen non faceva parte dell'elenco perché la sua pratica era in un cassetto della mia scrivania. Non l'avevo ancora consegnata agli operatori perché la caricassero nel computer. «Cosa stai dicendo, Margaret? Non sei stata tu a dare questi comandi?» «Io proprio no» replicò calcando le parole. «E non è stato nessuno degli altri. Non c'era modo di farlo.» Riuscì a catturare la mia totale attenzione. «Quando me ne sono andata venerdì pomeriggio» spiegò, «ho fatto quello che faccio sempre alla fine della giornata. Ho messo il computer in modalità risposta per darti la possibilità di collegarti da casa, se ne avevi bisogno. Nessuno poteva usare il mio computer perché non si può farlo, quando è in modalità riposta, a meno di essere su un altro PC e di collegarsi via modem.» La cosa aveva senso. I terminali dell'ufficio erano collegati in rete a quello su cui lavorava Margaret, chiamato "server". Non eravamo allacciati all'elaboratore centrale del Dipartimento sanità e servizi sociali, dall'altra parte della strada, nonostante le pressioni del commissario perché lo facessimo. Avevo rifiutato e avrei continuato a farlo perché i dati in nostro possesso erano delicatissimi e molti dei casi erano oggetto di indagini criminali. Buttare tutto in un elaboratore centrale, ai cui dati potevano accedere decine di altre agenzie dei servizi di sanità e di assistenza era come concorrere a creare un colossale problema di sicurezza. «Io da casa non ho telefonato» le dissi. «Non ho mai pensato che tu l'avessi fatto» ribatté. «Non riesco a immaginare perché avresti dovuto dare questi comandi. Tra tutti, sei tu quella che sa che il caso di Lori Petersen non è stato ancora immesso. L'ha fatto qualcun altro e questo qualcuno non è né un impiegato né un altro dottore. Salvo per il tuo PC e per quello giù nell'obitorio, gli altri sono tutti terminali stupidi.»
I terminali "stupidi", mi ricordò, sono più o meno quel che l'aggettivo indica, unità senza "cervello" costituite da uno schermo e da una tastiera. I terminali stupidi del nostro ufficio erano collegati al server dell'ufficio di Margaret. Quando il server era fuori servizio o bloccato, cosa che succedeva quando era in modalità risposta, anche i terminali passivi erano fuori servizio o bloccati. In altre parole non erano funzionanti a partire dal pomeriggio di venerdì... prima cioè dell'assassinio di Lori Petersen. La violazione della base dati doveva essere avvenuta nel corso del fine settimana, oppure quel giorno stesso, poco prima. Qualcuno, un estraneo, era riuscito a entrare nel sistema. Questo qualcuno doveva conoscere la base dati relazionale che noi usavamo. Era di un tipo molto diffuso, ricordai a me stessa, e non era impossibile imparare come funzionava. Il numero di telefono era quello dell'interno di Margaret, che si trovava nell'elenco del dipartimento. Se si aveva un computer con un programma di comunicazione adatto, se si disponeva di un modem compatibile, e sapendo che Margaret era la programmatrice, facendo il suo numero ci si poteva collegare. Altro però non si poteva fare. Non si potevano né caricare le applicazioni né richiamare i dati dell'ufficio. Non si sarebbe neanche riusciti ad entrare nelle caselle elettroniche, a meno di conoscere i nomi degli utenti e le parole d'ordine. Margaret fissava lo schermo attraverso gli occhiali di protezione. Aveva la fronte leggermente aggrottata e si mordeva l'unghia di un pollice. Tirai vicina una sedia e sedetti. «In che modo? Nome utente e parola d'ordine. Come hanno fatto ad accedere?» «È questo che mi lascia perplessa. Solo pochi di noi li conoscono, dottoressa Scarpetta. Lei, io, gli altri medici e gli operatori che immettono i dati. Inoltre, i nostri nomi utente e le nostre parole d'ordine sono diversi da quelli che ho assegnato ai distretti.» Sebbene ciascuno degli altri distretti che dirigevo fosse dotato di una rete di computer esattamente identica alla nostra, ognuno conservava i propri dati e non aveva accesso diretto a quelli dell'ufficio centrale. Era improbabile - e in realtà non credevo che fosse possibile - che il responsabile fosse uno dei miei vice di un altro ufficio. Avanzai un'idea zoppicante. «Magari qualcuno ha tentato e ha avuto fortuna.» Margaret scosse il capo. «Pressoché impossibile. Lo so. Ho cercato di farlo anch'io una volta: avevo cambiato la parola d'ordine della posta elettronica di un utente e poi me l'ero dimenticata. Dopo circa tre tentativi a
vuoto, il computer non perdona più e interrompe la comunicazione. Inoltre, questa versione della base dati non ama gli accessi illegali. Se si cerca di entrare in SQL, il programma per l'interrogazione della base dati, oppure in una tabella, dopo qualche tentativo a vuoto si provoca un errore di contesto, si disallineano i puntatori e la base dati va a pezzi.» «E non c'è nessun posto dove si potrebbe trovare la parola d'ordine?» chiesi. «Nessun posto all'interno dell'elaboratore, per esempio, dove qualcuno potrebbe recuperarla? Se questo estraneo fosse un altro programmatore...?» «Non funzionerebbe.» Margaret era sicura. «Sono stata molto attenta. Esiste una tabella dove sono elencati i nomi degli utenti e le parole d'ordine, ma ci si può entrare solo se si sa bene che cosa si sta facendo. E comunque non importa, perché proprio per impedire che si verificassero questi problemi, l'ho annullata molto tempo fa.» Rimasi in silenzio. Margaret mi guardava incerta, cercando un segno di irritazione, un lampo dello sguardo che le dicesse che ero arrabbiata o che davo la colpa a lei. «È terribile» farfugliò. «Veramente. Non ho nessuna idea. Non so che cos'ha fatto questa persona. Per esempio, l'amministratore della base dati non funziona.» «Non funziona?» L'amministratore della base dati era una sorta di sistema di autorizzazione che dava a certe persone, come Margaret oppure me, l'autorità di accedere a tutte le tavole e di intervenire in qualsiasi modo. Sentirmi dire che l'amministratore della base dati non funzionava più era come sentirmi dire che la chiave di casa mia non entrava più nella toppa. «Cosa intendi con non funziona?» Era difficile mantenere la calma. «Esattamente quel che ho detto. L'ho richiamato e non sono riuscita a entrare in nessuna tavola. Non so per quale motivo la parola d'ordine non è più valida. Ho dovuto reinstallarlo.» «E questo come può essere successo?» «Non lo so.» Ora era agitata. «Forse dovrei cambiare tutte le autorizzazioni per ragioni di sicurezza e assegnare nuove parole d'ordine?» «Per il momento no» risposi automaticamente. «Ci limiteremo a non immettere nel computer i dati di Lori Petersen. Chiunque sia l'estraneo per lo meno non troverà quello che sta cercando.» Mi alzai in piedi. «Questa volta non li ha trovati.» Mi raggelai, fissandola.
Due chiazze di colore le avevano infiammato le guance. «Non lo so. Non ho modo di sapere se è successo altre volte perché la registrazione delle attività era disattivata. Questi comandi» indicò il tabulato «sono la registrazione dei comandi immessi sul computer che si è collegato al nostro. Io lascio sempre la registrazione inattiva, per cui, se lei chiama da casa, i comandi che immette non appaiono su questo schermo. Venerdì avevo fretta. Forse ho lasciato il registro delle attività in funzione, oppure l'ho attivato. Non ricordo, ma era attivo.» E frettolosamente aggiunse: «Direi che è stata un'ottima cosa...». Ci voltammo ambedue nello stesso istante. Rose era ferma sulla soglia. Quell'espressione sul viso... Oh no, adesso basta. Attese che fossi uscita nel corridoio, poi mi disse: «Sulla linea uno c'è il medico legale di Colonial Heights, sulla due un investigatore di Hashland. E ha appena chiamato la segretaria del commissario. ..» «Cosa?» la interruppi. L'ultima informazione era l'unica che avevo udito. «La segretaria di Amburgey?» Mi allungò alcuni foglietti rosa delle comunicazioni telefoniche e confermò: «Il commissario vuole vederla». «A proposito di che, per l'amor del cielo?» Se mi avesse detto una volta di più che dovevo scoprirlo da sola, avrei perso la calma. «Non lo so» rispose Rose. «La segretaria non me lo ha riferito.» 6 Non riuscivo a stare seduta alla scrivania. Dovevo muovermi, distrarmi per evitare di perdere il controllo di me stessa. Qualcuno era riuscito a penetrare nel computer del mio ufficio e Amburgey voleva vedermi nel giro di un'ora e tre quarti. Era poco probabile che desiderasse semplicemente invitarmi per un tè. Per questo stavo facendo un giro di ispezione. Di solito, si trattava di raccogliere relazioni nei vari laboratori al piano di sopra, o anche di fare soltanto una sosta per verificare come procedevano i miei casi come un medico coscienzioso che fa una visita di controllo ai propri pazienti. Al momento, la mia routine era una peregrinazione senza speranza. Il Centro di medicina legale era un alveare, una serie di cubicoli stipati di apparecchiature di laboratorio e di persone che indossavano camici bianchi e occhiali di protezione in plastica.
Alcuni degli scienziati mi rivolsero un cenno e sorrisero quando passai davanti alla loro porta. I più, però, non alzarono nemmeno lo sguardo, troppo assorti per prestare attenzione a un passante. Stavo pensando ad Abby Turnbull e ad altri cronisti che non mi erano simpatici. E se un giornalista ambizioso aveva pagato un hacker per entrare nei nostri dati? Da quanto tempo avvenivano le violazioni? Non mi resi neppure conto di essere arrivata nel laboratorio di sierologia fino a quando non misi a fuoco lo sguardo sugli scaffali carichi di provette, alambicchi e becchi di Bunsen. Stipati sui ripiani delle vetrinette c'erano buste contenenti reperti e vasetti di prodotti chimici, mentre nel mezzo del locale era disposto un lungo tavolo sul quale erano state stese la coperta e le lenzuola del letto di Lori Petersen. «Arrivi giusto in tempo» mi accolse Betty. «Se vuoi fare indigestione di acidi voglio dire.» «No, grazie.» «Be', io me la sto già facendo» aggiunse. «Tu perché dovresti essere immune?» Vicina alla pensione, Betty aveva capelli color grigio ferro, lineamenti pronunciati e due occhi nocciola che potevano essere inespressivi o velatamente teneri, se uno si prendeva la pena di conoscerla più a fondo. Mi era piaciuta fin dalla prima volta che l'avevo vista. Direttrice del laboratorio di sierologia, era una donna metodica, con un intuito affilato come un bisturi. Nella vita privata, era un'appassionata di bird watching e un'ottima pianista che non si era mai sposata e che non se ne era mai fatta un cruccio. Credo che mi ricordasse suor Martha, la mia suora preferita alla scuola parrocchiale di St. Gertrude. Portava le maniche del lungo camice arrotolate fino ai gomiti e le mani infilate in un paio di guanti. Sul piano da lavoro c'erano provette contenenti campioni su batuffoli di cotone e un PERK -un kit per la rilevazione dei reperti - costituito da una cartelletta con i vetrini e da buste con i campioni di capelli del caso di Lori Petersen. Vetrini, buste e provette erano identificati da etichette generate dal computer e firmate da me: il tutto era frutto di un programma realizzato da Margaret. Ricordai vagamente i pettegolezzi a un recente convegno. Nelle settimane seguite alla morte improvvisa del sindaco di Chicago, c'erano stati circa novanta tentativi di violare il computer del medico legale. Si pensava che i colpevoli fossero i giornalisti, a caccia dei risultati dell'autopsia e degli e-
sami tossicologici. Chi? Chi era stato a violare il mio computer? E perché? «Sta venendo bene» mi stava dicendo Betty. «Spiacente, non ti stavo a sentire...» Sorrisi per scusarmi. «Ho parlato stamattina con il dottor Glassman» ripeté, «ha avuto successo con i campioni dei primi due casi e dovrebbe farci avere i risultati entro un paio di giorni.» «Hai già mandato i campioni degli ultimi due omicidi?» «Sono appena partiti.» Stava svitando il tappo di una bottiglietta marrone. «Bo Friend li consegnerà personalmente.» «Bo Friend?» la interruppi. «Il vostro amico agente, come lo chiamano le truppe. Si chiama proprio così. Bo Friend. Parola di boy scout. Vediamo, New York è a circa sei ore di macchina da qui. Dovrebbe arrivare al laboratorio più o meno stasera. Credo che abbiano tirato a sorte.» La guardai senza capire. «A sorte?» Che cosa poteva volere Amburgey da me? Forse lo interessava sapere come procedevano i test del Dna. Di questi tempi erano di gran moda e tutti ne parlavano. «I poliziotti» mi stava dicendo Betty. «Per andare a New York eccetera. Qualcuno di loro non c'è mai stato.» «A quasi tutti una sola volta basterà» commentai distrattamente. «Devono solo provare a cambiare corsia oppure a cercare un parcheggio.» D'altra parte, se aveva qualche domanda da fare sul test Dna o su qualsiasi altra cosa, bastava che mi mandasse un promemoria con la posta elettronica. Era quello che faceva di solito. In realtà, era quello che aveva sempre fatto in passato. «Ah. Questo è il meno. Il nostro Bo è nato e cresciuto nel Tennessee e non è mai andato in nessun posto senza la sua artiglieria.» «Spero che a New York ci sia andato senza artiglieria.» Parlavo con la bocca. La parte restante di me stessa era altrove. «Ah» ripeté. «Anche il suo capitano gliel'ha detto, gli ha spiegato come funzionano le leggi sul porto d'armi su dagli Yankee. Bo sorrideva quando è venuto qui a prendere i campioni, sorrideva e si accarezzava quella che penso fosse la fondina sotto la giacca. Ha una di quelle pistole alla John Wayne con quindici centimetri di canna. Questi tipi e le loro pistole. È così
freudiano che non se ne può più...» In un cantuccio della mente ricordavo notizie, apparse sui giornali, di bambini che erano riusciti a penetrare nei computer di banche e di grosse aziende. Sulla mia scrivania a casa, sotto il telefono, c'era un modem che mi consentiva di mettermi in contatto telefonico con il computer dell'ufficio. Era off limits, rigorosamente verboten. Lucy si rendeva conto che anche il semplice tentativo di accedere ai dati del mio ufficio era un fatto molto grave. Qualunque altra cosa aveva il permesso di farla, malgrado la mia intima resistenza e quel forte senso di territorialità che viene quando si vive soli. Mi tornò in mente il quotidiano della sera che Lucy aveva trovato nascosto sotto il cuscino del divano. Ricordai la sua espressione mentre mi chiedeva dell'omicidio di Lori Petersen e poi l'elenco, appeso alla bacheca di sughero sopra la mia scrivania, dei numeri telefonici di casa e di lavoro del mio personale, compreso quello dell'interno di Margaret. Mi resi conto che Betty taceva da un bel po'. Mi fissava, perplessa. «Stai bene, Kay?» «Mi spiace» ripetei, questa volta con un sospiro. Tacque per un istante. «Ancora nessun sospetto. Rode anche a me» disse esprimendomi la sua solidarietà. «Immagino che sia difficile pensare ad altro.» E poiché nel corso dell'ultima ora quasi non avevo pensato a questo argomento, che invece avrebbe dovuto assorbire tutta la mia attenzione, mi rimproverai in silenzio. «Ecco, mi dispiace dirtelo, ma il Dna non serve a un piffero se non prendono qualcuno.» «Almeno non fino a quando non sarà giunta l'epoca illuminata in cui le impronte genetiche, come quelle digitali, verranno registrate in una banca dati centrale» mormorai. «Cosa che non succederà, fino a quando la American Civil Liberties Union avrà da obiettare.» Ma oggi proprio nessuno aveva qualcosa di positivo da dirmi? Un mal di testa cominciava a farsi strada partendo dalla base del cranio. «È strano.» Stava facendo gocciolare del fosfato di acido naftilico su due tamponi rotondi di carta da filtro bianca. «Si potrebbe ragionevolmente pensare che qualcuno, in qualche posto, l'abbia visto questo tipo. Non è invisibile. Non è che si materializzi nelle case delle donne; deve averle viste almeno qualche volta in passato, per averle scelte e seguite fino a casa. Se
gironzola nei parchi, negli shopping center e simili, qualcuno dovrebbe averlo notato, mi pare.» «Se qualcuno ha visto qualcosa, non ne sappiamo nulla. Non è che la gente non chiami» aggiunsi. «A quanto pare, i telefoni della polizia suonano mattino, mezzogiorno e sera. Ma fino ad ora da quel che mi è stato detto non è saltato fuori nulla.» «Una gran caccia ai fantasmi.» «Giusto. Un sacco di fantasmi.» Betty procedeva nel suo lavoro. Questa fase del test era relativamente semplice. Prese i reperti delle provette che le avevo mandato, li ammorbidi con acqua e ne sparse un po' sulla carta da filtro. Lavorando su un gruppo di questi, prima lasciò gocciolare il fosfato di acido naftilico quindi aggiunse delle gocce di blu di metilene che, nel giro di pochi secondi, in presenza di liquido seminale avrebbero colorato di viola i reperti. Guardai i cerchietti di carta. Quasi tutti diventavano viola. «Che bastardo» dissi. «Brutta storia.» Cominciò a descrivere quello che già vedevo. «Questi sono i reperti raccolti sulla parte posteriore delle cosce» disse, indicandoli. «Hanno reagito immediatamente. La reazione non è stata così rapida con i campioni anali e vaginali. Non deve sorprendere. I fluidi corporei della donna hanno interferito con il test. Inoltre, sono positivi anche i campioni orali.» «Che bastardo» ripetei a bassa voce. «Sono però negativi quelli che hai preso nell'esofago. Ovviamente, i residui più importanti di liquido seminale sono stati trovati fuori dal corpo. Anche in questo caso, incapacità di controllarsi. È uno schema pressoché identico a quello trovato sui corpi di Brenda, di Patty e di Cecile.» Brenda era il primo caso di strangolamento, Patty il secondo, Cecile il terzo. Mi colpì il tono di familiarità nella voce di Betty, parlando delle tre donne assassinate. In qualche strano modo erano entrate a fare parte della nostra famiglia. Non le avevamo mai incontrate da vive ma adesso eravamo arrivate a conoscerle bene. Mentre Betty riavvitava il tappo con il contagocce al boccettino marrone, mi avvicinai al microscopio posato su un tavolo vicino, guardai nella lente e cominciai a spostare il vetrino nel campo visivo. Nel fascio di luce polarizzata erano visibili diverse fibre multicolori, piatte e a forma di nastro, con pieghe a intervalli regolari. Non erano né peli né fibre artificiali. «Sono quelle che ho raccolto sul coltello?» Non volevo farle questa do-
manda. «Sì. Sono cotone. Non lasciarti ingannare dal rosa, dal verde e dal bianco. I tessuti tinti spesso sono fatti con una combinazione di colori che non risulta visibile a occhio nudo.» La camicia da notte squarciata addosso a Lori Petersen era di cotone, color giallo pallido. Misi bene a fuoco. «Immagino che non ci sia la minima possibilità che vengano da un pezzo di carta o da qualcosa del genere. Lori usava il coltello come tagliacarte.» «È da escludere, Kay. Ho già esaminato il campione di fibre della camicia da notte. Corrispondono a quelle che hai raccolto sulla lama.» Erano le parole di un esperto. Corrispondenza di qui e ragionevolezza di là. La camicia da notte era stata tagliata con il coltello del marito. Aspetta che Marino metta le mani sul rapporto, pensai. Maledizione. «Posso anche dirti che le fibre che stai guardando» proseguì Betty, «sono diverse da tutte quelle che ho trovato sul corpo e da quelle recuperate sul telaio della finestra da dove si pensa che sia entrato l'assassino. Quelle sono scure: nere e blu scure con un po' di rosso, un misto di poliestere e cotone.» La sera in cui avevo visto Matt Petersen indossava una camicia bianca che, sospettavo, era di cotone e sicuramente non conteneva fibre nere, rosse e blu scuro. Inoltre portava un paio di jeans, che di solito sono di puro cotone. Era molto improbabile che fosse stato lui a lasciare le fibre di cui Betty parlava, a meno che non si fosse cambiato prima dell'arrivo della polizia. «Già, ecco, Petersen non è mica stupido» mi pareva di sentir dire Marino. «Dal caso di Wayne Williams in poi, metà del mondo sa che ti possono incastrare con le fibre.» Uscii e seguii il corridoio fino alla fine, girando poi a sinistra nel laboratorio armi da fuoco, con scaffali e tavoli ingombri di carabine, pistole, machete, fucili da caccia e Uzi, tutti con un cartellino, in attesa del giorno in cui sarebbero stati mostrati in tribunale. Sui tavoli erano sparse cartucce di pistole e di fucili da caccia, mentre in un angolo c'era una vasca d'acciaio galvanizzato riempita d'acqua, che serviva per i tiri di prova. Un'anitra di gomma galleggiava placida in superficie. Frank, un uomo dai capelli bianchi, pensionato dell'esercito, era piegato su un microscopio. Quando entrai riaccese la pipa e non mi disse nulla di ciò che avrei voluto sentire. Non aveva fornito indizi utili la reticella tagliata della finestra di Lori
Petersen. La rete era di materiale sintetico, per cui non si poteva riconoscere il segno lasciato dallo strumento usato per reciderla e nemmeno la direzione del taglio. Non potevamo sapere se era stata tagliata dall'interno o dall'esterno della casa, in quanto la plastica, contrariamente al metallo, non rimane piegata. La differenza era importante: di questo particolare desideravo davvero venire a conoscenza. Se la rete era stata tagliata da dentro, allora non c'erano più dubbi, voleva dire che l'assassino non era entrato in casa Petersen ma ne era uscito. Voleva dire, con ogni probabilità, che i sospetti di Marino sul conto del marito erano fondati. «Tutto quello che ti posso dire» disse Frank, emettendo volute di fumo aromatico, «è che si tratta di un taglio netto, praticato con un oggetto affilato come un rasoio o un coltello.» «Potrebbe essere lo stesso strumento utilizzato per squarciarle la camicia da notte?» Frank distrattamente si tolse gli occhiali e li pulì con il fazzoletto. «Per tagliare la camicia da notte è stato usato qualcosa di affilato, ma non posso dirti se è lo stesso strumento con cui è stata tagliata la rete. Non posso nemmeno darti una classificazione, Kay. Potrebbe essere un pugnale come una spada o un paio di forbici.» I cavi elettrici recisi e il coltello da sopravvivenza raccontavano un'altra storia. In base al confronto effettuato al microscopio, Frank aveva buoni motivi per credere che i cavi fossero stati tranciati con il coltello di Matt Petersen. I segni lasciati sulla lama corrispondevano a quelli rimasti sul rivestimento dei cavi. Marino, pensai nuovamente a disagio. Tutte queste prove non avrebbero significato molto se il coltello fosse stato trovato fuori, vicino al letto, e non nascosto nel cassetto di Matt Petersen. Stavo ricostruendo il mio scenario. L'assassino aveva visto il coltello sulla scrivania di Lori e aveva deciso di usarlo. Ma perché nasconderlo, dopo? E poi, se il coltello era servito a tagliare la camicia da notte di Lori e anche i cavi, significava che dovevo rivedere la successione degli avvenimenti, così come io l'avevo immaginata. Avevo pensato che quando l'assassino era entrato nella camera da letto di Lori aveva in mano un'arma da taglio, il coltello o lo strumento acuminato utilizzato per recidere la rete. Se era così, perché non l'aveva usato anche per la camicia da notte e il cavo? Come mai si era ritrovato a usare il coltello? L'aveva visto immediatamente sulla scrivania quando era entrato
in camera da letto? Non avrebbe potuto vederlo. La scrivania era lontana dal letto e quando lui era entrato la camera era buia. Non poteva avere notato il coltello. Poteva averlo visto solo quando le luci si erano accese e a questo punto Lori doveva essere ormai immobilizzata con l'arma dell'assassino puntata alla gola. Perché lui avrebbe dovuto prendere in considerazione il pugnale sulla scrivania? Ciò non aveva senso. A meno che qualcosa non l'avesse interrotto. A meno che non fosse successo un fatto tale da distruggere e da alterare il rituale, a meno che non si fosse verificato un evento inaspettato che l'aveva costretto a cambiare modus operandi. Esaminai la questione insieme a Frank. «Questo vorrebbe dire che l'assassino non è il marito» disse lui. «Sì. Significa supporre che fosse sconosciuto a Lori. Segue un suo schema, ha un suo modus operandi. Ma la volta di Lori succede qualcosa che lo prende alla sprovvista.» «Qualcosa che lei fa...» «Oppure che lei dice» obiettai, quindi proposi: «Può aver detto qualcosa che l'ha bloccato per un attimo». «Forse.» Mi sembrava scettico. «Può darsi che sia riuscita a fermarlo quel tanto che bastava per permettergli di vedere il coltello, di farsi venire l'idea. Ma secondo me è più probabile che abbia trovato il coltello sulla scrivania già da prima, perché era in casa quando lei è rientrata.» «No. Penso proprio di no.» «Perché?» «Perché Lori quando è stata aggredita era arrivata a casa già da un po'.» Su questo avevo riflettuto varie volte. Lori era tornata a casa in macchina dall'ospedale e aveva aperto la porta chiudendola poi a chiave dall'interno. Era entrata in cucina dove aveva posato lo zainetto sulla tavola. Poi si era fatta uno spuntino. Il contenuto gastrico indicava che aveva mangiato diversi cheese cracker pochissimo tempo prima. Il cibo era praticamente indigerito. Il terrore al momento dell'aggressione doveva essere stato tale da bloccarle la digestione. Si tratta di un meccanismo di difesa dell'organismo. La digestione si interrompe per favorire il flusso sanguigno verso le estremità invece che verso lo stomaco, in preparazione alla lotta o alla fuga. Solo che lottare non le era stato possibile. E non era riuscita a scappare in nessun posto.
Dopo lo spuntino, era passata dalla cucina in camera. La polizia aveva scoperto che aveva l'abitudine di prendere il contraccettivo orale di sera, immediatamente prima di coricarsi. Nella confezione di lamina d'alluminio in camera da letto, la pillola del venerdì mancava. Lori aveva preso la pillola, forse si era lavata i denti, si era lavata il viso, aveva indossato la camicia da notte e disposto ordinatamente gli abiti su una sedia. Ero quindi convinta che fosse già a letto quando l'uomo, poco tempo dopo, l'aveva aggredita. Forse sorvegliava la casa nascosto tra gli alberi o tra i cespugli. Forse aveva aspettato che si spegnessero le luci fino a quando aveva pensato che si fosse addormentata. Oppure l'aveva spiata altre volte e sapeva esattamente a che ora tornava dal lavoro e quando si coricava. Ricordai le coperte. Erano rivoltate, come se Lori si fosse infilata sotto e nelle altre stanze non c'erano tracce di lotta. Qualcos'altro mi era venuto in mente. L'odore di cui Matt Petersen aveva parlato; quell'odore sudaticcio e dolciastro. Se l'assassino aveva un odore particolare e piuttosto avvertibile, questo lo seguiva ovunque. Se fosse già stato nascosto in casa quando Lori era tornata, il sentore avrebbe aleggiato in camera da letto. Era laureata in medicina. Gli odori sono spesso sintomi di malattie o veleni. I medici sono addestrati a farvi molta attenzione, a sviluppare una spiccata sensibilità al punto che spesso a me capita di capire dall'odore del sangue sulla scena di un delitto che la vittima aveva bevuto poco prima che le sparassero o l'accoltellassero. Sangue o contenuto gastrico che ricordano l'aroma di amaretti, o di mandorle, potrebbero indicare la presenza di cianuro. Un alito che sa di foglie bagnate potrebbe suggerire una tubercolosi... Lori Petersen era medico, come me. Se avesse notato un odore strano nel momento in cui era entrata in camera da letto non si sarebbe spogliata né avrebbe fatto nient'altro fino a quando non ne avesse scoperto la fonte. Cagney non aveva condiviso le mie preoccupazioni e a volte mi sentivo come perseguitata dallo spirito di quel mio predecessore che non avevo mai conosciuto, come se mi ricordasse una potenza e un'invulnerabilità che io non avrei mai raggiunto. In un mondo privo di cavalleria, era un cavaliere senza regole che utilizzava la sua posizione. Penso che una parte di me lo invidiasse. Era morto all'improvviso. Era letteralmente stramazzato al suolo mentre
attraversava il soggiorno per accendere la televisione sul canale che trasmetteva il Super Bowl. Nel silenzio che precedeva l'alba di un lunedì mattina senza sole, era diventato il soggetto delle sue stesse disposizioni, il volto coperto da un telo, la sala dell'autopsia vietata a chiunque salvo al patologo incaricato di esaminarlo. Per tre mesi nessuno aveva toccato il suo ufficio. Era esattamente come lui l'aveva lasciato, salvo per il fatto che, suppongo, Rose aveva tolto le cicche di sigaro dal portacenere. La prima cosa che feci quando mi trasferii a Richmond fu svuotare il suo sancta sanctorurn eliminando ogni traccia del precedente occupante, compreso un ritratto con l'aria da duro in tocco e toga, appeso dietro una lampada da museo alle spalle dell'enorme scrivania. Tutto il materiale venne relegato nel Dipartimento di patologia del VMC così come un intero scaffale pieno di quei macabri reperti che secondo le fantasie popolari tutti gli anatomopatologi collezionano, sebbene pochi di noi lo facciano davvero. Il suo ufficio - il mio, ormai - era ben illuminato, con il pavimento coperto da una moquette blu, le pareti decorate con stampe di paesaggi inglesi e altri scenari ameni. Io avevo pochi cimeli, e l'unico accenno di morbosità era dato dalla ricostruzione in creta della faccia di un ragazzo assassinato la cui identità era rimasta un mistero. Gli avevo messo un pullover intorno al collo e l'avevo sistemato su uno schedario da dove guardava la porta con occhi di plastica, attendendo in un silenzio pieno di tristezza che qualcuno lo chiamasse per nome. L'ambiente in cui lavoravo era poco caratterizzato, era confortevole ma funzionale, con oggetti personali deliberatamente insignificanti e niente affatto rivelatori. Sebbene io mi consolassi pensando che era meglio essere ritenuta una professionista piuttosto che una leggenda, in segreto ne dubitavo. Tra quelle mura avvertivo ancora la presenza di Cagney. La gente non faceva che ricordarmelo con racconti che quanto più a lungo sopravvivevano tanto più diventavano apocrifi. Raramente indossava i guanti quando faceva un'autopsia. Era famoso per arrivare sulla scena di un delitto mangiando. Andava a caccia con i poliziotti, andava ai barbecue con i giudici e il precedente commissario era con lui ossequioso e accomodante perché Cagney nei suoi confronti aveva atteggiamenti intimidatori. Io impallidivo al confronto e sapevo che il paragone era continuo. Le uniche cacce e gli unici barbecue a cui prendevo parte erano le aule dei tribunali e le conferenze dov'ero io la preda e dove la brace serviva ad arrostire i miei piedi. Se il primo anno del dottor Alvey Amburgey nell'ufficio
del commissario poteva fornire qualche indicazione, i tre anni successivi si preannunciavano duri. Il mio orticello era aperto alla sua invasione. Sorvegliava ogni mia mossa. Non passava una settimana senza che mi arrivasse un promemoria arrogante con richiesta di dati statistici, oppure la pretesa che spiegassi come mai il tasso degli omicidi continuava a salire, mentre gli altri reati erano leggermente in declino... come se fosse colpa mia se la gente in Virginia si ammazzava. Ma fino a questo momento non c'erano mai state convocazioni improvvise. In passato, quando aveva qualcosa da discutere, se non spediva un promemoria spediva un suo assistente. Dubitavo fortemente che oggi avesse in animo di darmi una pacca sulle spalle e dirmi che stavo facendo un ottimo lavoro. Stavo guardando distrattamente le pile di documenti sulla scrivania cercando qualcosa con cui armarmi: pratiche, un blocco, un portablocco con molla. Chissà come mai l'idea di andare da lui a mani vuote mi faceva sentire nuda. Tolsi dalle tasche del camice i residui vari che avevo l'abitudine di accumulare nel corso della giornata, decisi di prendere un pacchetto di sigarette - "l'occorrente per il cancro" le chiamava Amburgey - e uscii nella luce del tardo pomeriggio. Amburgey regnava dall'altra parte della strada, al ventiquattresimo piano del Monroe Building. Non c'era nessuno sopra di lui salvo, di quando in quando, un piccione sul tetto. La maggior parte dei suoi protégé lavoravano ai piani inferiori nelle varie divisioni del Dipartimento sanità e servizi sociali. Non avevo mai visto il suo ufficio. Non ero mai stata invitata. La porta dell'ascensore si aprì su un grande atrio dove la segretaria era nascosta dietro una scrivania a u che si ergeva in un grande campo di moquette color del grano. Era una rossa formosa, di neanche vent'anni e quando staccò gli occhi dal computer per accogliermi con un largo sorriso di circostanza, cordiale, quasi mi aspettavo di sentirmi domandare se avevo prenotato e se volevo un fattorino per i bagagli. Le spiegai chi ero, cosa che parve lasciarla del tutto indifferente. «Ho un appuntamento alle quattro con il commissario» aggiunsi. Controllò l'agenda elettronica e allegramente disse: «La prego si metta a suo agio, signora Scarpetta, il dottor Amburgey la riceverà tra poco». Mi accomodai su una poltrona di pelle beige, e mi guardai intorno cercando sul tavolino luccicante e sui tavoli appoggiati alla parete coperti di riviste e di fiori di stoffa. Non c'era un portacenere, neanche uno, mentre in
due punti diversi si notavano dei cartelli "Grazie per non fumare". I minuti passavano. La receptionist dai capelli rossi beveva Perrier con la cannuccia, assorta nella battitura. A un certo momento le venne in mente di offrirmi qualcosa da bere. Risposi con un «No, grazie» e con un sorriso. Le dita ripresero a volare rapide sui tasti e il computer protestò con un forte bip. La rossa sospirò, come se avesse ricevuto pessime notizie dal suo commercialista. Sentivo il volume del pacchetto di sigarette nella tasca ed ero tentata di andare alla toilette delle signore ad accenderne una. Alle quattro e mezzo il telefono ronzò. Mentre appendeva, e sempre con quel sorriso cordiale e vacuo, annunciò: «Può entrare, signora Scarpetta». Degradata e decisamente sconvolta, la "signora" Scarpetta la prese in parola. La porta dell'ufficio del commissario si aprì con un debole clic del pomello d'ottone e istantaneamente tre uomini si alzarono in piedi, uno solo dei quali mi aspettavo di vedere. Con Amburgey c'erano Norman Tanner e Bill Boltz e, quando fu il turno di Boltz di allungare la mano, lo fissai dritto negli occhi fino a quando non distolse lo sguardo a disagio. Ero offesa e un po' irritata. Perché non mi aveva detto che sarebbe stato presente anche lui? Perché da quando le nostre strade si erano brevemente incrociate a casa di Lori Petersen non avevo sentito una sola parola da lui? Amburgey mi rivolse un cenno che sembrava quasi di commiato, cui aggiunse un «Apprezzo che sia venuta» detto con l'entusiasmo di un magistrato incaricato di reati del traffico. Era un ometto dagli occhi sfuggenti che prima di venire a Richmond aveva lavorato a Sacramento, dove era riuscito ad assimilare quanto bastava dei modi della West Coast per nascondere la sua vera origine, il North Carolina. Era figlio di un agricoltore e non ne era orgoglioso. Gli piacevano le cravatte a farfalla con il fermaglio d'argento, che indossava quasi religiosamente con un gessato; sull'anulare della mano destra portava un pataccone d'argento con un turchese. Aveva occhi di un color grigio incerto, simile al ghiaccio; le ossa del cranio si vedevano chiaramente sotto la pelle sottile. Era praticamente calvo. Qualcuno prese dalla parete una poltrona con i braccioli che sembrava lì proprio per me. Si senti un cigolio di cuoio e Amburgey si sistemò dietro alla sua scrivania, di cui avevo molto sentito parlare. Era enorme, un capolavoro in legno di rosa scolpito, molto vecchia e molto cinese. Alle sue spalle c'era una grande finestra che gli regalava il panorama
della città, con il James River che si stagliava come un nastro lucente in lontananza e con il Southside come un patchwork. Con uno scatto rumoroso aprì una borsa di struzzo nera e ne estrasse un taccuino giallo coperto dalla sua scrittura, fitta e disordinata. Aveva già pronta la scaletta di quello che intendeva dire. Senza i suoi appunti non faceva mai nulla. «Sono sicuro che lei è consapevole del disagio della pubblica opinione verso questi casi di strangolamento» disse. «Ne sono molto consapevole.» «Bill, Norman e io abbiamo tenuto un vertice di emergenza, per così dire, ieri pomeriggio. C'erano diversi punti all'ordine del giorno, uno dei quali era la questione di quello che hanno pubblicato i giornali di sabato sera e di domenica mattina, dottoressa Scarpetta. Come lei saprà, a causa della quarta tragica morte, l'assassinio della giovane donna chirurgo, la notizia ha avuto diffusione nazionale.» Non lo sapevo. Però non ne ero sorpresa. «Indubbiamente tutti vogliono informazioni da lei» proseguì Amburgey in tono blando. «Dobbiamo bloccare questa storia immediatamente, altrimenti ci troveremo un pandemonio tra le mani. Questo è uno dei punti di cui noi tre abbiamo discusso.» «Se lei fosse in grado di bloccare gli assassinii da subito» dissi con lo stesso tono blando, «meriterebbe il premio Nobel.» «Naturalmente, questa è la nostra massima priorità» disse Boltz che aveva sbottonato la giacca scura del completo con panciotto, rilassandosi contro lo schienale della poltrona. «Abbiamo detto alla polizia di lavorarci giorno e notte, Kay. Ma tutti qui concordiamo nel dire che c'è una cosa che dobbiamo controllare, per il momento... le indiscrezioni alla stampa. Gli articoli sui giornali spaventano il pubblico e mettono al corrente l'assassino di tutte le nostre mosse.» «Sono assolutamente d'accordo.» Le mie difese stavano salendo come un ponte levatoio. «Lei può avere la certezza che dal mio ufficio non sono uscite dichiarazioni, eccetto le informazioni obbligatorie sulla causa e sul modo della morte» dissi, pentendomi immediatamente delle mie parole. Avevo risposto a un'accusa che non mi era ancora stata rivolta e il mio istinto da avvocato inorridiva di fronte alla stupidaggine che avevo commesso. Se ero venuta qui per sentirmi incolpare di indiscrezione, avrei dovuto costringere loro - costringere Amburgey, in ogni modo - a introdurre un argomento così offensivo. Invece, ero stata io a dare il segnale che ero in fuga, fornendo a loro la giustifi-
cazione per inseguirmi. «Ecco» commentò Amburgey, posando brevemente su di me gli occhi pallidi e freddi, «lei ha messo sul tavolo un argomento che credo dovremo esaminare attentamente.» «Non ho messo nulla sul tavolo» replicai senza enfasi. «Ho solo sottolineato un fatto.» La receptionist bussò piano entrando con il caffè e all'improvviso nella stanza piombò il silenzio. La cosa pareva non interessarla minimamente mentre, con estrema minuzia, si accertava che avessimo tutto ciò che ci serviva, lasciando però che la sua attenzione aleggiasse come una nebbiolina intorno a Boltz. Forse Boltz non era il miglior pubblico ministero che la città avesse mai avuto, ma era di gran lunga il più bello, uno di quei pochi uomini dai capelli biondi con i quali il trascorrere degli anni si rivela benevolo. Non aveva perduto né i capelli né la linea e le rughe sottili agli angoli degli occhi erano l'unica indicazione che si stava avvicinando ai quaranta. Quando fu uscita, Boltz senza rivolgersi a nessuno in particolare disse: «Lo sappiamo tutti che ogni tanto ai poliziotti piace sbottonarsi. Norman e io abbiamo avuto qualche scambio con i massimi livelli. Nessuno sembra sapere con precisione da dove partono le indiscrezioni». Mi controllai. Che cosa pretendevano? Che uno dei grandi capi, tutto pappa e ciccia con Abby Turnbull o con chiunque altro, si mettesse a confessare: «Già, mi spiace. Ho detto qualcosa che non dovevo?». Amburgey voltò una pagina del taccuino. «Fino a oggi le indiscrezioni sono trapelate da quella che viene indicata come "una fonte medica", che è stata citata diciassette volte a partire dal primo omicidio, dottoressa Scarpetta. La cosa mi mette un po' a disagio. Palesemente, i dettagli più sensazionali, come per esempio i legacci, le prove di aggressione sessuale, il modo in cui l'assassino è penetrato in casa, il luogo in cui sono stati trovati i corpi e il fatto che sia in corso un test del Dna sono stati tutti attribuiti a questa fonte medica.» Alzò lo sguardo. «Devo supporre che questi dettagli siano esatti?» «Non del tutto. Ci sono alcune piccole discrepanze.» «Del tipo?» Non volevo dirgliele. Non volevo assolutamente parlare con lui di questi casi, ma lui aveva il diritto di avere anche i mobili del mio ufficio, se li voleva. Io dovevo riferire a Amburgey. Lui non doveva riferire a nessun altro, se non al governatore.
«Per esempio» replicai, «i giornali hanno riportato che intorno al collo di Brenda Steppe era stata trovata una cintura di tessuto di colore marrone. In realtà, il collo era stretto in un paio di collant.» Amburgey stava scrivendo. «E che altro?» «Nel caso di Cecile Tyler è stato scritto che sanguinava dal viso, che la coperta del letto era inzuppata di sangue. Un'esagerazione, per non dire altro. La vittima non aveva lacerazioni, né ferite di questa natura. Un po' di fluido sanguigno le era uscito dal naso e dalla bocca. Un fenomeno postmortem.» «Questi particolari» chiese Amburgey continuando a scrivere, «erano stati menzionati nei referti preliminari?» Mi ci volle un momento per riprendere il controllo. Cominciava a essere chiaro dove intendeva arrivare. I referti preliminari sono il primo documento che il medico legale di turno prepara, limitandosi, in pratica, a trascrivere quel che ha visto sulla scena del delitto e quello che è venuto a sapere dalla polizia. I particolari non sempre sono del tutto precisi, in quanto si lavora in mezzo alla confusione e l'autopsia non è stata ancora eseguita. Inoltre, i medici legali di turno non sono esperti in patologia legale. Sono medici che esercitano l'attività privata, volontari che vengono pagati cinquanta dollari per chiamata solo per venir buttati fuori dal letto nel pieno della notte, o per vedersi rovinare il weekend a causa di un incidente d'auto, di un suicidio o di un omicidio. Sono uomini e donne che forniscono un servizio pubblico; sono la truppa. Il loro compito principale è quello di stabilire se il caso merita un'autopsia e di trascrivere ogni particolare, scattando molte fotografie. Anche se uno dei miei medici di turno aveva confuso un paio di collant con una cintura di colore marrone, non era molto importante. E i miei medici non parlavano con la stampa. «Il particolare sulla cintura di tessuto» insistette Amburgey, «la coperta intrisa di sangue... mi chiedo se anche questi dettagli erano menzionati nel rapporto preliminare.» «Nel modo in cui sono stati citati dalla stampa» risposi con fermezza, «no.» «Lo sappiamo tutti quello che fa la stampa» osservò in tono divertito Tanner. «Prendono una pagliuzza e la fanno diventare una trave.» «Ascoltate» dissi, guardando i tre uomini, «se volete sostenere che uno dei miei medici fa delle soffiate, vi dico in tutta sicurezza che siete fuori strada. Non sono stati loro. Conosco i due medici che si sono recati sulla scena dei primi due casi. Fanno questo lavoro a Richmond da anni e non
hanno mai dato adito a nessun sospetto. Sulla scena del terzo e del quarto delitto sono andata io personalmente. Non è dal mio ufficio che trapelano le informazioni. I particolari, tutti, potrebbero essere stati divulgati da chiunque era presente. Dal personale delle squadre di pronto intervento, per esempio.» Si udì il cigolio sommesso del cuoio mentre Amburgey cambiava posizione sulla poltrona. «Ho già controllato. Hanno risposto tre squadre diverse. In nessuno dei quattro casi era presente personale paramedico.» «Le fonti anonime» dissi secca, «sono spesso un insieme di fonti diverse. Sotto il termine fonte di ambiente medico potrebbero essere raccolte le confidenze di un membro della squadra, quelle di un funzionario di polizia e quel che il giornalista ha sentito o visto mentre aspettava davanti alla casa dove è stato trovato il cadavere.» «Vero» approvò Amburgey. «E sono convinto che nessuno di noi crede che le indiscrezioni provengano dall'ufficio del medico legale. Per lo meno non intenzionalmente...» «Intenzionalmente?» proruppi. «Lei vuole forse insinuare che le indiscrezioni provengono non intenzionalmente dal mio ufficio?» Proprio mentre stavo per obiettare che si trattava di un sacco di assurdità, tacqui all'improvviso. Sentii una vampa di calore salirmi lungo il collo mentre un pensiero mi balzava alla mente. Il database dell'ufficio. Era stato violato da un estraneo. Era a questo che Amburgey alludeva? E come faceva a saperlo? Amburgey prosegui come se non mi avesse sentito: «La gente parla, il personale parla. Raccontano le cose in famiglia, agli amici e nella maggior parte dei casi non hanno intenzioni maligne. Ma non si sa mai dove il telefono senza fili si ferma... magari sulla scrivania di un cronista. Queste cose succedono. Noi stiamo obiettivamente esaminando la questione, rivoltando ogni pietra. Dobbiamo farlo. E, come lei si renderà conto, alcune delle cose che sono trapelate potenzialmente possono creare grossi danni all'indagine.» Tanner aggiunse laconico: «Il sindaco e il capo degli assessori non sono per niente contenti del fatto che circolino queste informazioni. La percentuale di omicidi ha già dato a Richmond una brutta fama. L'ultima cosa di cui la città ha bisogno sono gli articoli sensazionalistici sulla stampa nazionale a proposito di un serial killer. Il destino di tutti questi nuovi hotel in fase di costruzione dipende da grandi convegni, dal turismo. La gente non vuole venire in una città dove deve temere per la propria vita».
«No, effettivamente non vuole» consentii freddamente. «Né la gente vuol pensare che la principale preoccupazione della città a proposito di questi assassinii è il fatto che sono un inconveniente, un imbarazzo, un potenziale ostacolo all'industria del turismo.» «Kay» disse Boltz senza alzare la voce, «nessuno vuole sottintendere niente del genere.» «Certo che no» fu rapido ad aggiungere Amburgey. «Ma dobbiamo fare fronte a certe sgradevoli realtà e il fatto è che sotto la superficie le cose si agitano. Se non gestiamo la questione con estrema cautela, temo che ci sarà una grossa esplosione.» «Esplosione? E a proposito di che?» chiesi sconcertata e automaticamente guardai Boltz. Aveva i lineamenti tesi, gli occhi induriti da un'emozione trattenuta. «Quest'ultimo assassinio è una polveriera» disse con riluttanza. «Ci sono certe cose nel caso di Lori Petersen di cui nessuno parla. Cose che, grazie a Dio, i giornalisti per il momento non sanno. Ma è solo questione di tempo. Qualcuno lo scoprirà e, se noi non abbiamo già risolto il problema con intelligenza e tenendoci dietro le quinte, ci sarà un'esplosione che arriverà fino in cielo.» Prese la parola Tanner, con un'espressione molto cupa sul viso lungo, cavallino. «Il municipio rischia di venire citato, ecco, in tribunale.» Lanciò un'occhiata ad Amburgey che con un cenno gli consentì di proseguire. «Sai, è successa una cosa piuttosto sgradevole. Pare che Lori Petersen abbia telefonato alla polizia poco dopo essere tornata a casa dall'ospedale, poco dopo la mezzanotte di sabato. Lo abbiamo saputo da uno del personale di servizio. Undici minuti prima dell'una, un centralinista del 911 ha ricevuto una chiamata. Sullo schermo è apparso l'indirizzo della casa dei Petersen, ma la comunicazione è stata troncata immediatamente.» «Come ricorderai dalla scena del delitto» intervenne Boltz, «c'era un telefono sul tavolo accanto al letto, con il cavo strappato dalla parete. La nostra ipotesi è che la dottoressa Petersen si sia svegliata quando il killer è entrato in casa, che abbia preso il telefono e sia riuscita a fare il 911 prima che l'uomo la bloccasse. Il suo indirizzo è comparso sullo schermo del computer. Tutto qui. Nessuno ha detto nulla. Le chiamate che arrivano al nove-uno-uno vengono comunicate alle volanti. Nove volte su dieci sono buchi nell'acqua... bambini che giocano con il telefono. Ma non si sa mai. Non si può escludere a priori che chi telefona non abbia un attacco di cuore, non sia in pericolo di morte. Di conseguenza, l'operatore deve dare alla
telefonata una priorità elevata. Poi lo smistamento la trasmette alle volanti senza perdere tempo, chiedendo a un agente di passare accanto alla casa in questione e per lo meno di controllare che tutto vada bene. Questo non è stato fatto. Un certo operatore del 911, che attualmente è sospeso dal servizio, ha dato alla telefonata una priorità quattro.» Intervenne Tanner. «Quella sera per le strade c'era un sacco di movimento. Molto traffico radio. Quante più chiamate ci sono, tanto più facilmente capita che a qualcuna venga data una priorità più bassa di quanto non avverrebbe in condizioni normali. Il problema è che una volta che a una certa telefonata è stato assegnato un numero, non c'è modo di tornare indietro. Lo smistatore guarda i numeri sul suo schermo. Non conosce la natura della chiamata fino a quando non decide di trattarla. E non cercherà di risolvere immediatamente una quattro, quando ha un arretrato di priorità uno e due e tre da comunicare agli uomini delle volanti.» «Non c'è dubbio che lo smistatore ha lasciato passare la palla» disse Amburgey neutro. «Ma credo che si possa capire come è potuta succedere una cosa del genere.» Sedevo così rigida che quasi non respiravo. Boltz riprese con lo stesso tono spento: «Solo circa quarantacinque minuti dopo la volante è passata davanti alla casa dei Petersen. L'agente dice di avere illuminato con il faro la facciata. Le luci erano spente, tutto sembrava, per usare le sue parole, "tranquillo". Poi lo informano che c'è un litigio domestico e lui fila via. E poco tempo dopo, a quanto pare, Petersen è arrivato a casa e ha trovato il cadavere della moglie». Continuarono a parlare, a spiegare. Venne citato il caso di Howard Beach, quello di un accoltellamento avvenuto a Brooklyn, dove la polizia aveva risposto con negligenza e c'erano stati dei morti. «I tribunali, sia nel Dipartimento di Columbia, sia a New York, hanno sentenziato che le autorità amministrative non possono essere ritenute responsabili per aver mancato di proteggere della gente da un delitto.» «Non fa differenza quello che la polizia fa o non fa.» «Non importa. Noi vinciamo il processo, se si fa, ma perdiamo lo stesso per la pubblicità che ne viene.» Sentivo a malapena le loro parole. Immagini orribili si accavallavano follemente nella mia mente. La telefonata al 911, il fatto che era stata interrotta, me le facevano vedere. Sapevo che cosa era successo. Lori Petersen era esausta dopo il turno di servizio e il marito le aveva
detto che quella sera sarebbe arrivato più tardi del solito. Per cui era andata a letto, magari pensando di dormire solo un pochino, fino a che lui non fosse arrivato a casa... proprio come facevo io quando lavoravo come interna all'ospedale e aspettavo che Tony tornasse dalla biblioteca di legge di Georgetown. Si era svegliata sentendo i rumori di una persona in casa, forse quello dei passi dell'uomo che camminava in corridoio, verso la camera da letto. Confusa aveva chiamato il nome del marito. Nessuna risposta. In quell'istante di buio e silenzio che deve essere durato un'eternità, si era resa conto che c'era qualcuno in casa e che quel qualcuno non era Matt. Presa dal panico, aveva acceso l'abat-jour per telefonare alla polizia. Però non appena fatto il numero l'assassino le era saltato addosso. Aveva strappato il cavo telefonico dalla parete prima che lei avesse la possibilità di gridare aiuto. Forse le aveva strappato il ricevitore di mano. Forse le aveva urlato qualcosa, oppure lei aveva cominciato a implorarlo. Era stato interrotto, preso momentaneamente alla sprovvista. Era infuriato. Doveva averla picchiata. Forse era stato allora che le aveva fratturato le costole e mentre lei si piegava stordita dal dolore, l'uomo si era guardato freneticamente intorno. La lampada era accesa. Poteva vedere tutto quello che c'era in camera da letto. Poteva vedere il coltello da sopravvivenza sulla scrivania. Si sarebbe potuto impedire l'assassinio. Lo si sarebbe potuto fermare! Se alla telefonata fosse stata data la massima priorità, se fosse stata passata immediatamente, un agente avrebbe risposto nel giro di qualche minuto. Avrebbe notato che la luce in camera da letto era accesa: al buio l'assassino non poteva tagliare il cavo elettrico e legare la vittima. L'agente sarebbe sceso dall'auto e avrebbe udito qualcosa. Anche se si fosse limitato a fare il minimo, avrebbe illuminato con la torcia la parte posteriore della casa, avrebbe visto la rete tagliata, il tavolo da pic-nic, avrebbe notato la finestra aperta. Il rituale dell'assassino richiedeva tempo. La polizia sarebbe riuscita a entrare in casa prima che lui la uccidesse! Avevo la bocca talmente secca che dovetti bere alcune sorsate di caffè prima di riuscire a chiedere: «Quante sono le persone al corrente di questo fatto?». «Nessuno ne parla, Kay» rispose Boltz. «Non lo sa neppure il sergente Marino. O per lo meno c'è da dubitare che lo sappia. Non era in servizio quando la chiamata è stata diffusa. È stato contattato a casa dopo che un
poliziotto in uniforme era già sul luogo del delitto. All'interno del Dipartimento è già stata passata parola. I poliziotti che sanno quello che è successo non devono discuterne con nessuno.» Sapevo che cosa significava. Una bocca scucita avrebbe mandato il proprietario a dirigere il traffico, oppure lo avrebbe fatto finire dietro a una scrivania nel magazzino vestiario. «L'unica ragione per cui la informiamo di questa incresciosa situazione» - Amburgey scelse accuratamente le parole - «è perché deve avere presente il contesto per capire i passi che ci sentiamo costretti a fare.» Sedetti tesa, fissandolo con durezza. Non eravamo ancora arrivati al nocciolo della questione. «Ieri sera ho avuto un colloquio con il dottor Spiro Fortosis, il professore di psichiatria criminale che ha avuto la gentilezza di comunicarci i suoi punti di vista. Ho discusso i casi con l'Fbi. La convinzione di chi è esperto nel delineare il profilo di questo tipo di assassino è che la pubblicità acuisca al massimo il problema. Lo fa scatenare. Si eccita, va fuori di sé quando legge quello che ha fatto. Lo manda in overdrive.» «Non possiamo limitare la libertà di stampa» gli ricordai brusca. «Non abbiamo nessun controllo su quello che scrivono i cronisti.» «Ce l'abbiamo.» Amburgey scrutava fuori dalla finestra. «Non possono stampare tanto se noi non gli diamo tanto. E sfortunatamente, gli abbiamo dato tanto.» Una pausa. «O per lo meno qualcuno l'ha fatto.» Non sapevo bene dove voleva andare a parare Amburgey, ma i segnali stradali puntavano decisamente nella mia direzione. «I particolari sensazionali e le indiscrezioni di cui abbiamo già parlato hanno dato libero sfogo ad articoli macabri, titoli a tutta pagina. L'opinione di un esperto, il professor Fortosis, è che può essere stato questo a stimolare l'assassino a colpire di nuovo, così presto. La pubblicità lo eccita, lo mette in una situazione di stress incredibile. Lo stimolo riaffiora e lui deve trovare un modo per scaricarlo scegliendo un'altra vittima. Come lei sa, è passata una sola settimana tra l'assassinio di Cecile Tyler e quello di Lori Petersen...» «Di questo lei ha parlato con Benton Wesley?» lo interruppi. «Non ero tenuto a farlo. Ho parlato con Susling, uno dei suoi colleghi dell'Unità di scienza del comportamento di Quantico. È ben conosciuto nel settore, ha pubblicato molti studi sull'argomento.» Grazie a Dio. Non avrei sopportato di sapere che Wesley, che poche ore prima sedeva nella mia sala riunioni, non aveva accennato a quel che mi
sentivo dire ora. Si sarebbe indignato proprio come me, pensai. Il commissario si intrometteva nell'indagine. Avrebbe scavalcato me, scavalcato Wesley, scavalcato Marino per prendere la faccenda nelle sue mani. «Tutta questa pubblicità clamorosa, che è stata scatenata da chiacchiere, da indiscrezioni» proseguiva Amburgey, «il fatto che il municipio possa essere ritenuto responsabile a causa dell'incidente del 911, significano che dobbiamo prendere misure gravi, dottoressa Scarpetta. D'ora in avanti, tutte le informazioni comunicate al pubblico dovranno passare attraverso Norman o attraverso Bill, per quanto riguarda la polizia. E nulla uscirà dal suo ufficio, a meno che non venga diffuso da me. Siamo stati chiari?» Non c'erano mai stati problemi con il mio ufficio prima di allora e lui lo sapeva bene. Non eravamo mai andati in cerca di pubblicità e io ero sempre stata circospetta quando si trattava di fornire informazioni alla stampa. Che cosa avrebbero pensato i giornalisti, che cosa avrebbe pensato chiunque, sentendosi dire di rivolgersi al commissario per avere le informazioni che, storicamente, venivano diffuse dal mio ufficio? Nei quarantadue anni di storia del Centro di medicina legale della Virginia, una cosa simile non era mai successa. Imponendomi il silenzio stampa si sarebbe fatto credere che ero stata sollevata dalla mia carica perché ero inaffidabile. Mi guardai intorno. Nessuno volle incontrare il mio sguardo. Boltz studiava distratto la tazzina del caffè, la mascella contratta. Rifiutò di rivolgermi anche un semplice sorriso di rassicurazione. Amburgey riprese a sfogliare i suoi appunti. «La prima dei responsabili è Abby Turnbull, il che non è una novità. Non vince i premi standosene buona e zitta.» Poi a me: «Vi conoscete?». «Riesce raramente a superare la mia segretaria.» «Capisco.» Fece passare distrattamente un'altra pagina dei suoi appunti. «È pericolosa» intervenne Tanner. «Il "Times" è di proprietà di uno dei più grandi editori del paese. Hanno una loro agenzia.» «Be', nessun dubbio che sia la signorina Turnbull a fare danni. Tutti gli altri giornalisti si limitano a ristampare i suoi scoop e a menare il can per l'aia» commentò Boltz, parlando lentamente. «Quel che dobbiamo sapere è chi diavolo la rifornisce.» E a me: «Sarà opportuno prendere in considerazione tutti i canali. Chi altri, per esempio, ha accesso alla tua documentazione, Kay?». «Viene mandata in copia alla procura e alla polizia» risposi in tono neutro... lui e Tanner erano la procura e la polizia.
«E le famiglie delle vittime?» «Per il momento non abbiamo ricevuto nessuna richiesta dalle famiglie e in casi del genere con ogni probabilità direi al parente di contattare il tuo ufficio.» «E le società di assicurazioni?» «Se la chiedono. Ma dopo il secondo omicidio ho dato ordine al personale di non diffondere nessun rapporto, salvo al tuo ufficio e alla polizia. I rapporti sono provvisori. Ho fatto dell'ostruzionismo per impedire che circolino.» «Qualcun altro?» chiese Tanner. «Il servizio demografico? In passato non tenevano i tuoi dati sul loro mainframe, non ti chiedevano di mandargli la copia di tutti i tuoi rapporti preliminari e di quelli delle autopsie?» Sconcertata, non risposi immediatamente. Senz'altro Tanner si era preparato, altrimenti difficilmente avrebbe potuto essere al corrente di questa procedura. «Abbiamo smesso di mandargli la documentazione su carta quando ci siamo computerizzati» gli spiegai. «I dati glieli diamo alla fine. Quando cominciano a preparare il rapporto annuale...» Tanner mi interruppe con un suggerimento che ebbe l'impatto di una pistola puntata. «Bene, questo mette in gioco il tuo computer.» Agitò pigramente il caffè nella tazzina di plastica. «Suppongo che l'accesso alla base dati sia molto limitato.» «Questa era la mia prossima domanda» bofonchiò Amburgey. La scelta dei tempi era pessima. Desiderai quasi che Margaret non mi avesse parlato della violazione del computer. Stavo disperatamente cercando di pensare a che cosa dire quando venni colta dal panico. Se non fossero trapelate le indiscrezioni, forse l'assassino avrebbe potuto essere catturato prima, forse la giovane e promettente donna chirurgo avrebbe potuto essere ancora in vita? Era possibile che "l'anonima fonte dell'ambiente medico" non fosse alla fine dei conti una persona, ma il computer del mio ufficio? Penso di aver passato uno dei peggiori momenti della mia vita quando fui costretta ad ammetterlo. «Malgrado tutte le precauzioni» dissi, «sembra che qualcuno sia riuscito a violare i nostri dati. Oggi abbiamo avuto le prove che qualcuno ha cercato di richiamare i dati di Lori Petersen. Il tentativo non ha avuto successo perché i dati non erano ancora stati immessi.» Per qualche istante nessuno parlò.
Accesi una sigaretta. Amburgey la fissò rabbioso. «Ma i primi tre casi ci sono» disse poi. «Sì.» «Lei è sicura che non sia stato qualcuno del suo personale, oppure uno dei suoi vice negli altri distretti?» «Ne sono ragionevolmente sicura.» Di nuovo silenzio. Poi chiese: «È concepibile che la persona che ha violato i dati sia riuscita a entrare anche in altre occasioni?». «Non so dire con sicurezza se la cosa si è verificata altre volte. Normalmente lasciamo il computer in modalità risposta per consentire a Margaret o a me di collegarci in orario non lavorativo. Non sappiamo in che modo un estraneo sia riuscito a trovare la parola d'ordine.» «Come avete fatto a scoprire la violazione?» Tanner sembrava confuso. «L'hai scoperta oggi. Parrebbe che avreste potuto scoprirle anche in passato, se ce ne fossero state altre.» «La mia programmatrice se n'è accorta perché per caso era rimasta operativa la registrazione dell'attività. I comandi erano tutti sullo schermo. Altrimenti non l'avremmo mai saputo.» Qualcosa baluginò negli occhi di Amburgey mentre il viso gli si faceva rosso di rabbia. Prese pigramente un tagliacarte doisonné e passò il pollice lungo tutto il contorno della lama smussata per quello che parve un lungo momento. «Bene» decise, «suppongo che sia meglio dare un'occhiata ai suoi monitor. Capire che genere di dati questo tipo può avere visto. Può darsi che non abbia nulla a che fare con quello che è uscito sui giornali. Sono sicuro che è andata proprio così. Voglio anche riesaminare i quattro casi di strangolamento, dottoressa Scarpetta. Mi fanno un sacco di domande. Voglio sapere esattamente di che cosa si tratta.» Rimasi seduta, nell'impossibilità di reagire. Non c'era nulla che potessi fare. Quella di Amburgey era un'usurpazione; stava sottoponendo a ispezione burocratica le pratiche riservate svolte dal mio ufficio. Il pensiero di lui intento a esaminare tutti quei casi, a osservare le fotografie delle donne brutalizzate e assassinate mi fece fremere di rabbia. «I casi potrà esaminarli solo nel palazzo di fronte. Non devono essere fotocopiati né devono uscire dal mio ufficio.» In tono gelido aggiunsi: «Per motivi di sicurezza, ovviamente». «Andremo a dargli un'occhiata subito.» Si guardò intorno. «Bill, Norm?» I tre uomini si alzarono. Mentre uscivamo uno dopo l'altro dall'ufficio,
Amburgey disse alla receptionist che non sarebbe tornato in ufficio. Lo sguardo sognante della ragazza seguì Boltz fino a quando non fu fuori dalla porta. 7 Sotto un sole splendente, attendemmo un varco nel traffico dell'ora di punta e ci affrettammo ad attraversare la strada. Nessuno parlava, io li precedevo di qualche passo guidandoli verso il retro del palazzo. A quell'ora le porte erano già chiuse. Li lasciai nella sala riunioni e andai a prendere i fascicoli, che tenevo in un cassetto chiuso a chiave della scrivania. Sentivo Rose trafficare con delle carte nella stanza accanto. Erano passate le cinque ed era ancora qui. La cosa mi confortò un poco. Indugiava perché avvertiva che mi stava succedendo qualcosa di sgradevole dopo la convocazione nell'ufficio di Amburgey. Quando tornai in sala riunioni, i tre uomini avevano avvicinato le sedie. Sedetti di fronte a loro, fumando in silenzio e sfidando in silenzio Amburgey a chiedermi di andare altrove. Non lo fece. Quindi rimasi lì seduta. Passò un'ora. Si sentivano solo il fruscio delle pagine voltate, dei documenti sfogliati, i loro commenti, le osservazioni a bassa voce. Sul tavolo, le fotografie erano aperte a ventaglio come mazzi di carte. Amburgey era impegnato a prendere appunti nella sua grafia disordinata. A un tratto, diversi fascicoli caddero dalle ginocchia di Boltz finendo sulla moquette. «Li raccolgo io.» Tanner tirò da parte senza entusiasmo la sedia. «Li ho già presi.» Con aria scocciata Boltz si mise a raccogliere i documenti sparsi sotto e attorno al tavolo. Lui e Tanner, mentre li osservavo, si preoccuparono di ordinare ogni foglio in base al numero del caso. Amburgey continuava a scrivere come se nulla fosse successo. I minuti sembravano durare ore, mentre me ne stavo lì seduta. Qualche volta mi rivolgevano una domanda. Per la maggior parte del tempo però i tre uomini si limitavano a guardare, a parlare tra loro, come se io non ci fossi. Alle sei e mezzo ci trasferimmo nell'ufficio di Margaret. Sedetti davanti al computer, disattivai la modalità risposta e in un attimo apparve la pagina video dei casi, una maschera arancione e blu piacevole all'occhio, una delle tante realizzazioni di Margaret. Amburgey consultò gli appunti e mi les-
se il numero del caso di Brenda Steppe, la prima vittima. Scrissi il numero e premetti il tasto di interrogazione. In un attimo, i dati del caso apparvero sullo schermo. La pagina che li conteneva era in realtà costituita da una mezza dozzina di finestre collegate le une alle altre. I tre cominciarono a studiare i dati riportati nei campi arancione, facendomi segno con gli occhi ogni volta che erano pronti a passare alla pagina successiva. Due pagine dopo, tutti guardammo la stessa cosa. Il campo chiamato "Abiti, effetti personali, ecc." conteneva ciò che era arrivato con il corpo di Brenda Steppe, legacci compresi. In lettere nere, che sembravano grandissime, era scritto "Cintura in tessuto di colore marrone intorno al collo". Amburgey si chinò su di me e in silenzio fece correre un dito sullo schermo. Aprii il fascicolo di Brenda Steppe e indicai che non era ciò che avevo dettato nel protocollo dell'autopsia, perché sul foglio c'era scritto "Collant trasparente intorno al collo". «Sì» obiettò Amburgey, «ma dia un'occhiata al rapporto della squadra di pronto intervento. Elenca una cintura marrone di tessuto, non è vero?» Trovai rapidamente il foglio della squadra di pronto intervento e lo esaminai. Aveva ragione. Il personale paramedico nel descrivere quello che aveva visto, aveva detto che la vittima aveva i polsi e le caviglie legati con cavo elettrico mentre intorno al collo c'era "un nastro di tessuto marrone simile a una cintura". Boltz suggerì, come se volesse rendersi utile: «Forse una delle tue impiegate mentre batteva ha letto questo rapporto e per errore ha scritto i dati sulla cintura... in altre parole, non ha notato che non concordava con quello che tu hai dettato nel rapporto dell'autopsia». «Improbabile» obiettai. «Le mie impiegate sanno che devono prendere i dati solo dai rapporti dell'autopsia, dai laboratori e dal certificato di morte.» «Ma possibile» disse Amburgey, «perché la cintura è menzionata. Si trova nel rapporto.» «Ovviamente è possibile.» «Quindi è anche possibile» decise Tanner, «che la fonte all'origine di questa cintura marrone, citata nell'articolo, sia il tuo computer. Può darsi che un giornalista sia riuscito a violare la tua base dati o che lo abbia fatto fare a qualcun altro. Ha stampato delle informazioni sbagliate perché ha trovato un'imprecisione nei tuoi dati.»
«Oppure ha ricevuto l'informazione dal medico di turno che ha parlato della cintura nel rapporto di polizia» obiettai. Amburgey si staccò dal computer. «Sono convinto che lei farà qualcosa per garantire la segretezza dei dati del suo ufficio» disse freddo. «Dica alla ragazza che si occupa del computer di cambiare parola d'ordine. Qualunque cosa sia necessaria, dottoressa Scarpetta. E aspetto da lei una dichiarazione riguardo la questione.» Si avvicinò alla porta indugiando quanto bastava per gettarmi addosso: «Saranno trasmesse delle copie alle parti interessate e poi rimarrà da vedere se saranno necessarie ulteriori misure». E con questo se ne andò, con Tanner alle calcagna. Quando tutto va storto mi dò alla cucina. Dopo una giornata terribile, alcuni escono dal lavoro e vanno a buttare qua e là una palla da tennis, oppure si massacrano le giunture con il jogging. Avevo un'amica a Coral Gables che fuggiva alla spiaggia portandosi dietro una sedia a sdraio e combatteva lo stress cuocendo al sole, leggendo qualche storia d'amore lieveniente pornografica, che nemmeno morta si sarebbe fatta trovare a leggere nell'ambiente in cui lavorava. Faceva il giudice in un tribunale distrettuale. Molti dei poliziotti che conosco lavano via le loro miserie con la birra nel bar del club della polizia. Io non sono mai stata particolarmente atletica e non avevo spiagge a distanza ragionevole. Ubriacarsi non ha mai risolto nulla. La cucina era un piacere per il quale non avevo quasi mai tempo e sebbene la cucina italiana non sia il mio unico amore è sempre stata quella che mi dà più soddisfazioni. «Usa il lato della grattugia con i buchi piccoli» stavo dicendo a Lucy, cercando di vincere il rumore dell'acqua che scendeva nel lavandino. «Ma è così duro» si lamentò, con uno sbuffo di frustrazione. «Il parmigiano invecchiato è duro. E attenta alle nocche, d'accordo?» Finii di risciacquare i peperoni verdi, i funghi e le cipolle, li asciugai e li disposi sul tagliere. Sul fornello sobbolliva la salsa che avevo preparato l'estate prima con pomodori freschi, basilico, origano e diversi spicchi di aglio schiacciati. Ne tenevo sempre una buona provvista nel freezer per occasioni come questa. Alcuni pezzi di salsiccia stavano asciugando su un foglio di carta, accanto ad altri tovaglioli su cui era posata della carne scottata. Sulla credenza c'era un impasto di farina di grano duro che stava lievitando sotto un asciugamano umido; in una terrina c'erano dei pezzettini di
mozzarella di latte intero, importata da New York, che avevo comprato ancora immersa nel liquido di governo nel mio negozio di gastronomia preferito, sulla West Avenue. A temperatura ambiente la mozzarella è morbida come burro, quando fonde fila che è una meraviglia. «La mamma compra sempre quello in scatola e ci aggiunge un sacco di porcherie» disse Lucy ansimando. «Oppure compra in drogheria quello già grattato.» «È deplorevole» ritorsi, convinta. «Come fai a mangiare una cosa del genere?» Mi misi a tagliare la verdura. «Tua nonna ci avrebbe lasciato morire di fame, piuttosto.» A mia sorella non era mai piaciuto cucinare. Non ho mai capito perché. Alcune delle ore più belle della nostra infanzia le abbiamo trascorse a tavola. Quando nostro padre stava bene, sedeva a capotavola e cerimoniosamente ci serviva nel piatto un monticello di spaghetti o di fettuccine fumanti, oppure, il venerdì, una frittata. Per quanto poveri potessimo essere c'erano sempre tanto cibo e tanto vino ed era sempre un piacere quando, tornando da scuola, venivo accolta dai profumi deliziosi e dai rumori promettenti che venivano dalla cucina. Era triste, un insulto alla tradizione di famiglia, che di tutto questo Lucy non sapesse nulla. Immaginavo che quasi ogni giorno di ritorno da scuola entrava in una casa silenziosa e indifferente dove la cena era una scocciatura da evitare fino all'ultimo minuto. Mia sorella non avrebbe mai dovuto diventare madre. Mia sorella non avrebbe mai dovuto essere di origine italiana. Unsi le mani con olio di oliva e cominciai a lavorare l'impasto, manipolandolo energicamente finché non mi fecero male i muscoli delle braccia. «Sei in grado di farla girare come fanno alla tv?» Lucy lasciò perdere quello che stava facendo, fissandomi a occhi spalancati. Le diedi una dimostrazione. «Uau!» «Non è così difficile.» Sorrisi mentre l'impasto lentamente si allargava sotto i pugni. «Il trucco è quello di tenere le dita chiuse per non fare dei buchi.» «Fammi provare.» «Non hai finito di grattare il formaggio» dissi con finta severità. «Per favore...» Scese dallo sgabellino e venne da me. Prendendole tra le mie, le bagnai le mani di olio di oliva e le strinsi a pugno. Mi sorprese che avesse mani
grandi quasi come le mie. Quando era piccola aveva dei pugni grossi come noci. Mi venne in mente il modo in cui li allungava verso di me quando andavo a trovare mia sorella, come afferrava l'indice e sorrideva mentre sentivo uno strano e meraviglioso tepore colmarmi il seno. Disposi la pasta sopra i pugni di Lucy e la aiutai a farla girare goffamente. «Diventa sempre più larga» esclamò. «Viene bene!» «La pasta si allarga per forza centrifuga... proprio come si fabbricava il vetro una volta. Le hai mai viste quelle vecchie finestre di vetro con tutte le increspature?» Un cenno di assenso. «Il vetro veniva fatto girare fino a formare un grosso disco piatto...» Alzammo ambedue lo sguardo sentendo nel vialetto la ghiaia scricchiolare sotto gli pneumatici. Una Audi bianca stava entrando e immediatamente Lucy cambiò umore. «Oh» disse in tono infelice. «È arrivato lui.» Bill Boltz scese dall'auto e raccolse due bottiglie di vino dal sedile del passeggero. «Ti piacerà moltissimo.» Con gesti rapidi disposi la pasta nella teglia. «Ha molta voglia di conoscerti, Lucy.» «E il tuo fidanzato?» Mi lavai le mani. «Facciamo solo delle cose insieme e lavoriamo insieme...» «Non è sposato?» Lo osservava risalire il vialetto fino alla porta di casa. «Sua moglie è morta l'anno scorso.» «Oh.» Una pausa. «E come?» La baciai sui capelli e uscii dalla cucina per andare ad aprire la porta. Non era il momento per rispondere a una domanda del genere. Non sapevo bene come Lucy l'avrebbe presa. «Ti stai riprendendo?» Bill sorrise e mi diede un bacio leggero. Chiusi la porta. «A malapena.» «Aspetto fino a quando non ti sarai fatta qualche bicchiere di questa pozione magica» disse sollevando le bottiglie come se fossero un bottino di caccia. «Dalla mia riserva privata... ti piaceranno moltissimo.» Gli toccai il braccio e mi segui in cucina. Lucy aveva ripreso a grattare il formaggio, in piedi sullo sgabellino, voltandoci la schiena. Quando entrammo non lanciò neppure un'occhiata in giro. «Lucy?»
Continuò a grattugiare. «Lucy?» Accompagnai Bill da lei: «Questo è il signor Boltz e, Bill, questa è mia nipote». Con riluttanza, lasciò perdere quel che stava facendo e mi guardò dritta negli occhi. «Mi sono grattata una nocca, zia Kay, vedi?» Sollevò la sinistra. Sanguinava appena. «Oh cara. Qui, ti prendo un cerotto...» «Un po' è andato a finire nel formaggio» proseguì, come se all'improvviso fosse sul punto di scoppiare in lacrime. «Mi sa che bisognerà chiamare un'ambulanza» annunciò Bill e lasciò Lucy stupefatta prelevandola dallo sgabello e reggendola con le braccia sotto le cosce. Lucy era seduta in una posizione buffa e ridicola. «Uuuuu. uuuu.» Ululava come una sirena portandola verso il lavandino: «Tre-unosei, caso di emergenza in arrivo... bella bambina con nocca sanguinante». Ora parlava allo smistatore. «Per favore, dire alla dottoressa Scarpetta di tenersi pronta con il cerotto...» Lucy rideva come una matta. La nocca venne dimenticata per un attimo mentre fissava con aperta adorazione Bill che stappava una bottiglia di vino. «Bisogna lasciarlo respirare» le spiegò gentilmente. «Sai, adesso è più aspro di quanto non sarà tra un'ora. Come tutto nella vita, si ammorbidisce con il tempo.» «Posso averne un po'?» «Ecco, insomma» rispose Bill con gravità esagerata, «per me va bene se zia Kay dice di sì. Però non vorremmo vederti fare delle sciocchezze.» Stavo silenziosamente preparando la pizza, versando la salsa sulla pasta e coprendola con salsiccia, verdura e parmigiano. In cima misi la mozzarella a pezzi, poi infilai il tutto nel forno. Di lì a poco un intenso profumo di aglio si diffuse per la cucina mentre io mi davo da fare a tagliare l'insalata e a preparare la tavola. Lucy e Bill chiacchieravano e ridevano. Non mangiammo fino a tardi e il bicchiere di vino di Lucy si rivelò una buona idea. Aveva gli occhi semichiusi mentre sparecchiavo ed era ormai pronta per andare a letto, nonostante non avesse la minima voglia di dare la buonanotte a Bill, che aveva fatto breccia nel suo cuore. «Piuttosto stupefacente» gli dissi dopo averla messa sotto le coperte, mentre sedevamo al tavolo di cucina. «Non so come ci sei riuscito... Ero preoccupata delle sue reazioni...»
«Hai pensato che mi vedesse come un concorrente.» Sorrise leggermente. «Mettiamola in questi termini. Sua madre praticamente ha rapporti con qualunque cosa abbia due gambe.» «Il che equivale a dire che non ha molto tempo per la figlia.» Riempi i bicchieri. «Per usare un eufemismo.» «Che peccato. È un bel tipo. Intelligentissima. Deve avere ereditato il tuo cervello.» Sorseggiò lentamente il vino e aggiunse: «Che cosa fa tutto il giorno, mentre tu lavori?». «C'è qui Bertha. Per la maggior parte del tempo Lucy sta nel mio ufficio a picchiare sul computer.» «Ci gioca?» «Quasi mai. Credo che lo conosca meglio di me, quel maledetto affare. L'ultima volta che ho dato un'occhiata stava programmando in Basic e riorganizzando il mio database.» Studiò il bicchiere, poi chiese: «Con il tuo computer, puoi collegarti con quello dell'ufficio?». «Non suggerirlo nemmeno!» «Ecco.» Mi guardò. «Staresti meglio. Forse lo speravo.» «Lucy non farebbe mai una cosa del genere» dissi caricando il tono. «E non sono sicura che starei meglio, se l'avesse fatto.» «Meglio una nipotina di dieci anni che un giornalista. Ti toglieresti Amburgey di dosso.» «Nulla me lo toglierebbe di dosso» scattai. «Vero» disse asciutto. «L'unico motivo per cui si sveglia al mattino è solo per strapazzarti.» «Francamente comincio a crederlo anch'io.» Amburgey era stato nominato proprio mentre la comunità nera della città protestava pubblicamente sostenendo che la polizia si interessava degli omicidii solo quando la vittima era di razza bianca. Poi un assessore nero era stato ucciso a colpi d'arma da fuoco in macchina. Amburgey e il sindaco pensarono che fosse positivo, dal punto di vista delle pubbliche relazioni, suppongo, presentarsi all'obitorio il mattino dopo senza preannunciare la visita. Forse le cose non sarebbero andate tanto male se Amburgey avesse pensato di farmi delle domande, mentre mi osservava fare l'autopsia e se poi avesse tenuto la bocca chiusa. Ma la combinazione tra medico e uomo po-
litico lo costrinse a informare confidenzialmente la stampa che aspettava fuori che la "rosa di ferite da pallettoni" nella parte alta del torace dell'assessore "indica che gli hanno sparato un colpo di arma da fuoco a distanza ravvicinata". Quando poi i giornalisti interrogarono me più tardi spiegai con la massima diplomazia che la "rosa" di fori sul torace erano in realtà le tracce della terapia fatta quando il personale della sala rianimazione aveva inserito aghi di grosso spessore nelle arterie succlavie per una trasfusione di sangue. La ferita mortale dell'assessore era dovuta a un proiettile di piccolo calibro alla nuca. I giornalisti ebbero una giornata campale, grazie all'errore di Amburgey. «Il problema è che è un medico» dissi a Bill. «Ne sa abbastanza da pensare di essere un anatomopatologo, da credere di poter mandare avanti l'ufficio meglio di me, mentre quasi tutte le sue opinioni sono pure e semplici stronzate.» «Cosa che tu hai sbagliato a fargli notare.» «E che cosa avrei dovuto fare? Abbozzare e passare anch'io per incompetente?» «Dunque è un semplice caso di gelosia professionale» disse scrollando le spalle. «Capita.» «Non so che cosa sia. Come diavolo fai a spiegarle, queste cose? La metà di quello che la gente fa e pensa non ha il minimo senso. Per quel che ne so, potrei anche ricordargli sua madre.» Mi stava di nuovo montando la rabbia e, dall'espressione che gli vidi in viso, capii che era a lui che stavo facendo gli occhiacci. «Ehi» obiettò alzando una mano, «non incazzarti con me. Io non ho fatto niente.» «Eri lì questo pomeriggio, o no?» «Che cosa pretendi? Avrei forse dovuto dire ad Amburgey e a Tanner che non potevo venire alla riunione perché io e te abbiamo una storia?» «Certo che non glielo dovevi dire» dissi sbagliando il tono. «Ma forse avrei voluto che tu lo facessi. Forse volevo che tu stendessi Amburgey con un pugno, o qualcosa di simile.» «Mica una brutta idea. Ma non credo che mi aiuterebbe molto al momento della rielezione. E poi, a parte questo, tu probabilmente mi lasceresti marcire in galera. Non mi pagheresti neanche la cauzione.» «Dipende da quant'è.» «Merda.» «Perché non me ne hai parlato?»
«Di che cosa?» «Della riunione. Dovevi saperlo già da ieri.» Magari lo sai anche da più tempo, fui sul punto di dire, ecco perché non mi hai chiamata durante il weekend! Mi trattenni e lo fissai tesa. Stava studiando di nuovo il bicchiere di vino. Dopo una pausa replicò: «Non mi pareva che fosse il caso di dirtelo. Sarei riuscito solo a preoccuparti e la mia impressione era che questa riunione fosse pro forma...». «Pro forma?» Lo guardai incredula. «Amburgey mi ha imposto il silenzio stampa, ha passato metà del pomeriggio a fare a brandelli il mio ufficio e questo sarebbe pro forma?» «Sono sicuro che in parte il suo comportamento è da attribuirsi al fatto che hai rivelato la violazione del computer, Kay. E questo io ieri non lo sapevo. Diavolo, non lo sapevi neanche tu, ieri.» «Capisco» dissi fredda. «Nessuno lo sapeva fino a che non gliel'ho detto.» «A che cosa stai alludendo?» «Solo che sembra una coincidenza incredibile che abbiamo scoperto la violazione poche ore prima che lui mi convocasse nel suo ufficio. Mi è venuta la strana idea che forse lui ne era al corrente...» «Forse è andata così.» «Questo non può che rassicurarmi.» «Comunque non è certo» proseguì spedito. «E anche se Amburgey sapeva della violazione, quando tu sei entrata nel suo ufficio oggi pomeriggio? Forse qualcuno ha parlato... la tua programmatrice, per esempio. E la voce è salita fino al ventiquattresimo piano.» Scrollò le spalle. «Gli hai dato solo una preoccupazione in più, giusto? E tu non ti sei messa in un pasticcio, se di pasticcio si tratta, perché sei stata abbastanza intelligente da dire la verità.» «Dico sempre la verità.» «Non sempre» osservò con aria astuta. «Tu di routine a noi menti... per omissione...» «Quindi forse era al corrente» tagliai corto. «Voglio solo sentirmi dire che non ne eri al corrente tu.» «Non lo sapevo.» Mi rivolse uno sguardo penetrante. «Lo giuro. Se avessi sentito qualcosa, ti avrei preavvertito, Kay. Sarei corso alla prima cabina telefonica...» «Per balzar fuori travestito da Superman.» «Diavolo» mormorò, «adesso mi prendi in giro.»
Aveva assunto la parte del ragazzo offeso. Bill aveva un sacco di personaggi in repertorio e li recitava tutti straordinariamente bene. A volte mi era difficile credere che fosse così innamorato di me. Anche questo era uno dei suoi personaggi? Sono convinta che avesse il ruolo di protagonista nelle fantasie di metà delle donne di Richmond, cosa che il responsabile della sua campagna politica era stato abbastanza astuto da sfruttare. Le sue fotografie erano state attaccate davanti ai ristoranti, ai negozi e su tutti i pali telefonici di tutti i quartieri della città. Chi poteva resistere a quel viso? Era incredibilmente bello, con i capelli biondi dalle striature più chiare e la perfetta abbronzatura grazie alle lunghe ore che ogni settimana trascorreva al suo tennis club. Era difficile non rimanere apertamente incantate a guardarlo. «Non ti sto prendendo in giro» dissi stanca. «Sul serio, Bill. Non litighiamo.» «Per me va bene.» «Sono solo nauseata. Non so assolutamente che cosa fare.» Evidentemente a questo aveva già pensato. «Sarebbe utile» disse, «se tu riuscissi a sapere chi ha violato il tuo computer.» Pausa. «O meglio, se tu riuscissi a provare chi è stato.» «Provare?» lo guardai sconcertata. «Mi stai suggerendo che hai un sospetto?» «Non è basato su nessun dato concreto.» «Chi?» Accesi una sigaretta. Trasferì l'attenzione in un punto generico della cucina. «La prima della lista è Abby Turnbull.» «Pensavo che mi avresti detto qualcosa che da sola non sarei riuscita a immaginare.» «Parlo assolutamente sul serio, Kay.» «È una giornalista ambiziosa» dissi irritata. «Francamente, comincio a stufarmi di sentirne parlare continuamente. Non è potente come generalmente si crede.» Posò il bicchiere sulla tavola con un colpo secco. «Col cazzo che non lo è» ritorse, fissandomi. «Quella donna è un maledetto serpente. Lo so che è ambiziosa e stronzate del genere. Ma è peggio di quanto chiunque immagini. È perfida, strumentalizza la gente, è estremamente pericolosa. Non si ferma davanti a niente, quella troia.» La sua veemenza mi lasciò stupefatta, ammutolita. Non era da lui usare delle parole così violente nel descrivere la gente. Specialmente una perso-
na che pensavo conoscesse appena. «Te lo ricordi quell'articolo che ha scritto su di me più o meno un mese fa?» Non molto tempo prima il "Times" finalmente aveva pubblicato il profilo del nuovo procuratore cittadino. Si trattava di un pezzo piuttosto lungo che era apparso sul giornale della domenica. Non ricordavo in dettaglio che cosa Abby Turnbull aveva scritto, salvo che l'articolo mi aveva colpito per essere insolitamente incolore, considerata l'autrice. «Per quel che mi pare di ricordare, era un articolo senza mordente. Non faceva né male né bene.» «C'è una ragione» ritorse. «Sospetto che non era particolarmente interessata a scriverlo.» Non stava certamente insinuando che per Abby il servizio era stato noioso. Stava per arrivare qualcos'altro e sentivo i nervi tendersi di nuovo. «L'incontro con lei è stato piuttosto terribile. Ha passato una giornata intera con me, siamo andati in giro con la mia macchina da una riunione all'altra, diavolo, persino in lavanderia. Lo sai come sono questi giornalisti. Ti seguirebbero anche al cesso, se glielo lasciassi fare. Be', diciamo solo che con il procedere della serata, le cose hanno preso una piega piuttosto sgradevole e decisamente inaspettata.» Indugiò per vedere se avevo capito l'allusione. L'avevo capita anche troppo bene. Fissandomi, duro in volto disse: «È stato un colpo anche per me. Siamo usciti dall'ultima riunione verso le otto. Ha insistito perché andassimo a cena. Sai, pagava il giornale e aveva ancora qualche domanda da completare. Appena siamo usciti dal parcheggio del ristorante mi ha detto che non si sentiva bene. Troppo vino o roba del genere. Mi ha chiesto di accompagnarla a casa, invece che al giornale, dove era parcheggiata la sua macchina. E così l'ho accompagnata. Quando mi sono fermato davanti a casa sua mi è saltata addosso. È stato tremendo». «E poi?» chiesi come se non mi importasse. «Credo di non aver gestito bene la cosa. Credo di averla umiliata senza avere l'intenzione di farlo. E da quel momento ha deciso di non farmela passare liscia.» «Cosa fa? Ti telefona, ti manda lettere minatorie?» Non dicevo sul serio. E non ero preparata a quello che mi sentii dire. «Queste stronzate che scrive. Il fatto che forse vengono fuori dal tuo computer. E per quanto possa sembrare folle, credo che le sue motivazioni
siano quasi esclusivamente personali...» «Le indiscrezioni? Stai dicendo che viola il mio computer e scrive dettagli efferati su quegli omicidii per dare fastidio a te?» «Se questi processi in tribunale finiscono male, chi diavolo ci va di mezzo?» Non risposi. Lo fissavo incredula. «Io. Sarò io a portare avanti l'accusa. Casi sensazionali e atroci come questi che vanno in fumo per tutte quelle stronzate che scrivono sui giornali e poi non ci sarà nessuno che mi manderà fiori e bigliettini di ringraziamento. Questo lei lo sa, sicuro come l'inferno, Kay. E mi sta incastrando, ecco cosa sta facendo.» «Bill» dissi, abbassando la voce, «fa parte del suo lavoro essere aggressiva, pubblicare tutto quello su cui riesce a mettere le mani. Cosa più importante, i processi in tribunale non andranno in fumo se come prova ci sarà solo una confessione. A questo punto, la difesa potrebbe fare cambiare idea all'imputato e fargli ritrattare tutto. La tesi è che il tizio è psicotico ed è al corrente dei particolari dei delitti perché li ha letti sui giornali. Si è immaginato di essere stato lui e scemenze del genere. Il mostro che ammazza queste donne non ha intenzione di costituirsi e non confesserà niente.» Vuotò il bicchiere e lo riempì di nuovo. «Forse per la polizia diventa un sospetto e riescono a farlo parlare. Forse è così che vanno le cose. È potrebbe essere l'unico fatto che lo collega ai delitti. Non c'è uno straccio di prova concreta...» «Non c'è uno straccio di prova concreta?» lo interruppi. Senz'altro non avevo capito bene. Il vino gli aveva annebbiato il cervello? «Lascia in giro un sacco di liquido seminale. Lo prenderanno e il Dna lo inchioderà a...» «Ah, sì, come no. Senz'altro. Le impronte del Dna sono finite in tribunale solo un paio di volte qui in Virginia. Ci sono pochissimi precedenti, pochissime vittorie in tutto il paese... e tutte devono ancora finire in appello. Prova a spiegare a una giuria di Richmond che il tipo è colpevole perché lo dice il Dna. Sarò fortunato se riesco a trovare un giurato che è in grado di scriverla, la parola Dna. Basta che ci sia qualcuno che ha un QI sopra i quaranta e la difesa trova il modo per escluderlo, ecco con che cosa ho a che fare settimana dopo settimana...» «Bill...» «Diavolo.» Prese a camminare avanti e indietro in cucina. «È abbastanza difficile fare condannare uno quando cinquanta persone giurano di averlo
visto premere il grilletto. La difesa fa arrivare una manica di testimoni esperti per intorbidare le acque e confondere tutti senza speranza. Tu prima di ogni altro devi sapere quanto sono complessi questi test del Dna.» «Bill, ho spiegato cose altrettanto difficili alle giurie.» Fece per dire qualcosa ma si trattenne. Senza fissare nulla in particolare buttò giù un altro sorso di vino. Il silenzio era teso e pesante. Se l'esito del processo dipendeva esclusivamente dai risultati del Dna, mi sarei trovata nella condizione di essere il principale testimone dell'accusa. Mi erano già capitate situazioni simili molte volte in passato e non mi pareva di avere mai preoccupato indebitamente Bill. Questa volta c'era qualcosa di diverso. «Che cosa c'è?» mi costrinsi a chiedere. «È la nostra relazione che ti mette a disagio? Pensi che qualcuno la scopra e ci accusi di andare professionalmente a letto insieme... cioè che incolpi me di manipolare i risultati per favorire l'accusa?» Mi lanciò un'occhiata, avvampando. «Non lo penso. È un dato di fatto che stiamo insieme, ma sai che roba... Siamo usciti a cena e qualche volta siamo andati a teatro...» Non aveva bisogno di finire la frase. Nessuno sapeva di noi. Di solito veniva a casa mia, oppure andavamo lontano, fuori città, per esempio a Williamsburg o nel Distretto di Columbia dove era difficile incontrare qualcuno che ci conoscesse. Ero io, più di lui, a temere di essere vista in pubblico. Oppure alludeva a qualcos'altro, a qualcosa di molto più seccante? Non eravamo amanti, non lo eravamo affatto, il che creava una tensione sottile ma sgradevole tra di noi. Penso che tutti e due ci rendessimo conto della forte attrazione reciproca, ma avevamo tassativamente evitato di pensarci fino a qualche settimana prima. Dopo un processo che era terminato solo di sera, in tono casuale Bill mi aveva invitato a bere qualcosa. Eravamo entrati in un ristorante vicino al tribunale e dopo due scotch eravamo già diretti a casa mia. Era stata una cosa così improvvisa. Una storia adolescenziale nella sua intensità, la nostra passione era tangibile come il calore. Il fatto che fosse anche una cosa proibita rendeva tutto più frenetico. Però a un certo punto, all'improvviso, mentre eravamo al buio, sul divano del soggiorno, fui presa dal panico. Il suo desiderio era incontrollato. Esplodeva da lui, lo sommergeva men-
tre mi schiacciava con forza sul divano. Fu in quell'attimo che ebbi l'immagine vivida di sua moglie accasciata sui cuscini di satin azzurro del letto, come una bambola a grandezza naturale, il davanti del négligé bianco macchiato di rosso scuro, l'automatica nove millimetri a pochi centimetri dalla mano destra, abbandonata. Ero andata sul posto sapendo soltanto che la moglie dell'uomo che concorreva alla carica di procuratore della Virginia apparentemente si era suicidata. All'epoca non conoscevo Bill. Avevo esaminato sua moglie. Avevo avuto il suo cuore tra le mani, alla lettera. Le immagini mi baluginavano davanti agli occhi nel soggiorno buio, tanti mesi dopo. Mi ero ritratta da lui. Non gli avevo mai detto perché, sebbene nei giorni successivi continuasse a starmi dietro, ancora più deciso. L'attrazione reciproca era rimasta ma era sorto un muro tra di noi. Mi pareva di non essere in grado né di abbatterlo né di scavalcarlo, per quanto lo desiderassi. Quasi non sentivo quello che stava dicendo. «E non capisco come potresti alterare i risultati del Dna, a meno che tu non sia coinvolta in una congiura comprendente il laboratorio privato che svolge i test e metà dell'ufficio di medicina legale, anche...» «Cosa?» chiesi, stupefatta. «Alterare i risultati del Dna?» «Non mi stavi ascoltando» sbottò impaziente. «Be', senz'altro ho perso qualche parola, questo è sicuro.» «Sto dicendo che nessuno potrebbe accusarti di manipolare alcunché... questo è il mio punto di vista. Così la nostra relazione non ha nulla a che fare con quello che sto pensando.» «D'accordo.» «È solo...» balbettò. «È solo cosa?» chiesi. Poi, mentre vuotava un altro bicchiere, aggiunsi: «Bill, devi guidare...». Fece un cenno con la mano come a dire: lascia perdere. «E allora che cos'è?» ripetei. «Cosa?» Strinse le labbra evitando di guardarmi. Lentamente là tirò fuori. «È solo che non so bene in che luce ti vedranno i giurati in quel momento.» Le sue parole ebbero su di me l'effetto di un manrovescio. «Mio Dio... allora sai qualcosa. Cosa? Cosa! Cosa sta complottando quel figlio di puttana? Vuole licenziarmi per quella maledetta violazione del computer, è questo che ti ha detto?» «Amburgey? Non sta complottando un bel niente. Diavolo, non ne ha bisogno. Se il tuo ufficio si assume la responsabilità delle indiscrezioni e
se il pubblico alla fine crede che è per colpa delle storie sui giornali che l'assassino colpisce più spesso, allora è la tua testa che finisce sul ceppo. La gente ha bisogno di un colpevole. Io non posso permettermi di avere una testimone chiave con problemi di credibilità o di popolarità.» «È questo che tu e Tanner stavate discutendo con tanta animazione dopo pranzo?» Ero sul punto di scoppiare in lacrime. «Ti ho visto sul marciapiede quando sei uscito dal Pecking...» Un lungo silenzio. Anche lui mi aveva visto ma aveva fatto finta di niente. Perché? Perché lui e Tanner probabilmente stavano parlando di me! «Stavamo discutendo i casi» rispose evasivo. «Stavamo discutendo un sacco di cose.» Ero infuriata, ferita. Avevo paura di dire anche una sola parola. «Stammi a sentire» disse stancamente sciogliendo la cravatta e slacciando il colletto. «Questa faccenda non è andata per il verso giusto. Non avevo intenzione che saltasse fuori questa storia. Lo giuro su Dio. Adesso tu sei tutta sconvolta e io sono tutto sconvolto.» Il mio silenzio era di pietra. Trasse un profondo respiro. «È solo che abbiamo cose concrete di cui preoccuparci e dovremmo collaborare. Io sto azzardando la peggiore delle ipotesi, per essere preparati, capito?» «E che cosa esattamente ti aspetti che faccia?» Misurai ogni parola per non fare incrinare la voce. «Pensa cinque volte a qualunque cosa fai. Come al tennis. Quando sei giù di tono o in una condizione psicologica sfavorevole devi giocare con attenzione. Concentrarti su ogni colpo, non togliere gli occhi dalla palla neanche un secondo.» Le sue analogie con il tennis a volte mi davano sui nervi. Come adesso, per esempio. «Io penso sempre a quello che faccio» dissi incollerita. «Non c'è bisogno che mi insegni tu il mio mestiere. Non sono famosa per i colpi sbagliati.» «E adesso è particolarmente importante. Il veleno di Abby Turnbull. Credo che ci stia mettendo l'uno contro l'altra. Tutti e due. Dietro le quinte. Usa te o i computer del tuo ufficio per arrivare a me e se ne frega se facendolo intralcia la giustizia. I processi vanno in fumo e tu e io veniamo buttati fuori. Semplicissimo.» Forse aveva ragione, ma era molto difficile accettare che Abby Turnbull fosse così malvagia. Senz'altro, anche se avesse avuto solo una goccia di sangue umano nelle vene, avrebbe voluto vedere punito l'assassino. Non
avrebbe strumentalizzato quattro giovani donne assassinate brutalmente usandole come pedine delle sue macchinazioni per vendicarsi, se davvero era colpevole di macchinazioni, cosa di cui peraltro non ero convinta. Stavo per dirgli che esagerava, che l'incontro finito male con Abby gli aveva oscurato la ragione. Qualcosa mi fermò. Non volevo più parlare di questa storia. Avevo paura di farlo. Ero turbata. Solo adesso aveva deciso di parlare. Perché? Abby l'aveva incontrata settimane prima. Se lei cercava di metterci l'uno contro l'altra, se era così pericolosa per tutti e due, perché non me l'aveva detto prima? «Credo che un buon sonno ti farà bene» dissi a bassa voce. «Credo che sarà saggio dimenticare questa conversazione, per lo meno certe parti, fare come se non ci fosse mai stata.» Si scostò dal tavolo. «Hai ragione. Brutta storia per me, brutta storia per te. Cristo, non avevo intenzione che finisse così» ripeté. «Sono venuto qui per tirarti su di morale. Mi dispiace molto...» Le scuse continuarono mentre attraversavamo l'anticamera. Prima che riuscissi ad aprire la porta, mi baciò; sentii il vino nell'alito e il calore del suo corpo. La mia risposta fisica era sempre immediata, un brivido di desiderio e di paura lungo la spina dorsale che mi percorreva tutta, come corrente elettrica. Involontariamente, lo scostai da me mormorando un buonanotte. Si diresse verso l'auto, simile a un'ombra nel buio. La luce interna delineò brevemente il suo profilo mentre apriva la portiera e saliva. Ero ancora lì sotto il portico, confusa, quando ormai da molto tempo il rosso dei fanali di coda era scomparso dietro gli alberi. 8 L'interno della Plymouth Reliant color argento di Marino era disordinato e pieno di schifezze come mi sarei aspettata che fosse, se mai mi fossi soffermata a pensarci. Dietro c'erano il contenitore di cartone di un pranzo a base di pollo, dei tovaglioli appallottolati e dei sacchetti di Burger King, oltre a varie tazze di plastica macchiate di caffè. Il portacenere traboccava e dallo specchietto retrovisore pendeva un air freshener a forma di pino, efficace in quella situazione come una spruzzatina di deodorante in un camion della spazzatura. Polvere e macchie e briciole erano dappertutto, il parabrezza era prati-
camente opaco per il fumo che vi si era depositato sopra. «Gli fa mai il bagno, a quest'arnese?» chiesi mentre allacciavo la cintura di sicurezza. «Ormai non più. Sicuro, l'hanno assegnata a me ma non è mica mia. Non me la fanno portare a casa di sera o il fine settimana, niente. Così io la lucido a cera come uno specchio, la pulisco tutta dentro e che cosa capita? Che qualche stronzo la usa mentre sono fuori servizio. E me la ridanno conciata così. Manco una volta che non succede. Dopo un po' ho cominciato a evitare agli altri la fatica. Mi sono messo a sporcarla io.» Alla radio si sentivano gracchiare le comunicazioni di polizia mentre la luce dello scanner passava di canale in canale. Marino usci dal parcheggio dietro il mio ufficio. Non lo avevo più sentito da quando se n'era andato improvvisamente dalla sala riunioni il lunedì precedente. Era mercoledì pomeriggio, sul tardi e qualche minuto prima mi aveva sorpresa presentandosi all'improvviso sulla porta e annunciandomi che voleva portarmi a fare un "giretto". Il giretto si rivelò essere una visita retrospettiva sul luogo dei vari delitti; lo scopo, a quel che mi parve di capire, fu quello di fissarmene una mappa in testa. Non c'era da discutere. L'idea era buona. Però era l'ultima cosa che mi aspettavo da lui. Da quando mi rendeva partecipe di qualche sua iniziativa, a meno che non avesse assolutamente altra scelta? «C'è una cosa che deve sapere» disse regolando il retrovisore esterno. «Capisco. Suppongo che l'implicazione sia che se non avessi accettato di fare il "giretto" lei non sarebbe mai venuto a dirmi queste poche cose che dovrei sapere.» «Se vuol metterla così...» Attesi paziente che ricollocasse l'accendino nella sua sede. Con tutta calma si accomodò al volante. «Forse le interesserà sapere» cominciò, «che ieri abbiamo sottoposto Petersen alla macchina della verità e che quell'intronato l'ha passata. Bella storia, ma non l'ho ancora mollato completamente. È possibile passare il test quando si è uno di quegli psicopatici che mentono con la stessa facilità con cui la gente normale respira. È un attore. Probabilmente potrebbe dire che è Cristo crocefisso e non gli suderebbero le mani e avrebbe il polso regolare come me e lei quando siamo in chiesa.» «Sarebbe molto insolito» dissi. «È piuttosto difficile, quasi impossibile, imbrogliare la macchina della verità. Chiunque uno sia.» «È già successo. È uno dei motivi per cui non è accettata in tribunale.»
«No, non arrivo a dire che è infallibile.» «Il punto è» prosegui, «che non abbiamo un movente plausibile per inchiodarlo e neanche per dirgli di non tagliare la corda dalla città. Per cui lo teniamo sotto controllo. E in particolare quelle che sorvegliamo sono le sue attività extra lavoro. Per esempio ciò che fa di sera. Magari, per fare un caso, sale in macchina e va in giro a battere i quartieri, a vedere il movimento.» «Non è più tornato a Charlottesville?» Marino buttò la cenere fuori dal finestrino. «Rimane qui un po', dice che è troppo sconvolto per tornare là. Ha traslocato, sta in un appartamento di Freemont Avenue, dice che non riesce a mettere più piede in casa, dopo quello che è successo. Credo che venderà la baracca. Non che gli servano i soldi.» Mi lanciò un'occhiata e per un istante mi trovai di fronte un'immagine distorta di me stessa riflessa negli occhiali da sole a specchio. «È saltato fuori che sulla vita la moglie aveva una polizza di assicurazione bella grossa. Adesso Petersen si ritrova più ricco di un paio di centoni. Scommetto che riuscirà a scrivere le sue commedie senza preoccuparsi di portare a casa la pagnotta.» Non dissi nulla. «E suppongo che abbiamo lasciato cadere il fatto che è stato accusato di violenza carnale l'estate dopo che si è diplomato.» «Ha controllato i particolari?» Ero sicura che l'avesse fatto, altrimenti non ne avrebbe parlato. «È venuto fuori che era in tournée estiva a New Orleans e ha fatto lo sbaglio di prendere troppo sul serio una groupie. Ho parlato con il tipo che ha svolto le indagini. A sentir lui, Petersen era il protagonista di una qualche commedia e questa ragazzina del pubblico si era fatta venire le scalmane, andava a vederlo tutte le sere, gli lasciava i bigliettini, insomma la solita solfa. Poi a un certo punto è andata a trovarlo nei camerini e sono finiti a fare il giro dei bar del quartiere francese. E poi la prima cosa che salta fuori è che questa chiama i piedipiatti alle quattro della mattina; è isterica e dice che è stata stuprata. E lui viene inchiodato perché le analisi che le fanno si rivelano positive e risulta che il liquido seminale è di un non secretore, proprio come lui.» «Questa storia è finita in tribunale?» «Il Gran giurì ha lasciato perdere. Petersen ha ammesso di avere avuto rapporti con lei nel suo appartamento. Ha detto che era una cosa consensuale, che era stata lei a fare gli approcci. La ragazza era un po' malconcia,
aveva anche qualche segno sul collo. Ma nessuno riuscì a dimostrare a quando risalivano i graffi e se era stato Petersen a farglieli mentre se la ripassava. Sa, al Gran giurì devono aver dato un'occhiata al tipo. Hanno tenuto conto del fatto che recitava in una commedia e che era stata la ragazza ad abbordarlo. In camerino lui aveva ancora i bigliettini dai quali era chiaro che lei si era presa una cotta per lui. Ed è stato molto bravo a convincerli che lei i graffi li aveva già, che gli aveva detto che qualche giorno prima aveva litigato con un tizio con cui stava per chiudere. Nessuno aveva intenzione di dare addosso a Petersen. La moralità della ragazza era quella di una battona e, o era fuori di testa, oppure aveva fatto una scemata, cioè per così dire aveva fatto di tutto per farsi fregare.» «I casi di questo genere» commentai a bassa voce «sono praticamente impossibili da provare.» «Be', non si può mai dire. C'è poi una coincidenza» aggiunse incidentalmente trovandomi del tutto impreparata, «ed è che Benton mi ha telefonato l'altra séra per dirmi che quel cervellone del computer giù a Quantico ha rilevato in altri casi analogie con il modus operandi del tizio che stende le donne qui a Richmond.» «Dove?» «A Waltham, Massachusetts, per la precisione» rispose, lanciandomi un'occhiata. «Due anni fa, proprio quando Petersen era senior ad Harvard, che è circa una trentina di chilometri a est di Waltham. Nei mesi di aprile e di maggio due donne sono state violentate e strangolate a casa loro. Tutte e due vivevano sole in appartamenti al primo piano, erano state legate con cinghie e cavi elettrici. L'assassino evidentemente era entrato da una finestra aperta. Tutte e due le volte la cosa è successa durante il fine settimana. I delitti erano la copia carbone di quelli avvenuti da queste parti.» «E sono cessati quando Petersen si è laureato e si è trasferito qui?» «Non esattamente» rispose, «ce n'è stato un altro, quella stessa estate più tardi, che Petersen non avrebbe potuto commettere perché viveva qui con la moglie che aveva appena cominciato a lavorare in ospedale. Ma il terzo caso presentava qualche differenza. La vittima era adolescente e abitava a circa venti chilometri da dove si erano verificati gli altri due omicidii. Non viveva sola. Stava con un tipo che in quel momento era fuori città. La polizia ha pensato che l'assassinio fosse un'imitazione... qualche mostro che si era fatto venire l'idea leggendo dei primi due sul giornale. La trovarono quasi una settimana dopo, era talmente decomposta che non c'era neanche da sperare di trovare il liquido seminale. Non è stato possibile determinare
il tipo dell'assassino.» «E il tipo dei primi due casi?» «Non secretore» disse lentamente, guardando dritto davanti a sé. Silenzio. Ricordai a me stessa che negli Stati Uniti ci sono milioni di uomini che sono non secretori e che di delitti a sfondo sessuale ne capitano tutti gli anni, in quasi tutte le grandi città. Ma i paralleli erano sconcertanti. Eravamo entrati in una stradina stretta e fiancheggiata da alberi, in un quartiere recente dove tutte le case in stile ranch erano simili e davano un'idea di spazi angusti e di materiali scadenti. Qua e là si vedevano i cartelli delle agenzie immobiliari e alcune delle case erano ancora in costruzione. La maggior parte dei prati erano stati seminati da poco e decorati con piccoli cespugli di corniolo e alberi da frutto. Due isolati più avanti sulla sinistra c'era la casetta grigia dove nemmeno due mesi prima era stata massacrata Brenda Steppe. Non era stata né affittata né venduta. Quasi nessuno tra chi è in cerca di casa ha voglia di traslocare in un posto dove una persona è stata brutalmente assassinata. Piantati nei giardini delle case accanto c'erano cartelli "In vendita". Parcheggiammo di fronte e rimanemmo seduti senza parlare, tenendo i finestrini abbassati. C'erano pochi lampioni, osservai. Doveva essere molto buio, di notte, e se l'assassino era stato attento e aveva indossato abiti scuri, nessuno avrebbe potuto notarlo. «È entrato dalla finestra della cucina, dietro» disse Marino. «A quanto pare, lei è tornata a casa alle nove, nove e mezzo. Abbiamo trovato la borsa della spesa in soggiorno. L'ora stampata sullo scontrino dell'ultimo articolo che ha comprato era 20.50. Torna a casa e si fa da mangiare. È un fine settimana piuttosto caldo e credo che abbia lasciato la finestra aperta per dare aria alla cucina. Soprattutto visto che sembra che abbia fatto friggere carne tritata e cipolle.» Annuii, ricordando il contenuto dello stomaco di Brenda Steppe. «A cuocere hamburger e cipolle di solito si fa fumo in cucina. Per lo meno lo fa in quel canile che è casa mia. E c'era la carta che avvolgeva la carne tritata, il vasetto di salsa di pomodoro vuoto, bucce di cipolla nel secchio sotto il lavandino, più una padella unta a bagno.» Tacque e aggiunse meditabondo: «Brutto pensare che proprio quello che ha deciso di mangiare per cena è stato quello che le ha fatto fare quella fine. Voglio dire, se magari si faceva un'insalata di tonno, un sandwich, o qualcosa di simile, non lasciava la finestra aperta.» Era una delle considerazioni favorite di chi indagava su un caso di mor-
te: e se...? E se la vittima non avesse deciso di comprare un pacchetto di sigarette dal tabaccaio mentre due rapinatori armati tenevano come ostaggio il commesso? E se qualcuno non avesse deciso di uscire e vuotare la cassettina del gatto proprio nel momento in cui un evaso si avvicinava a casa? E se qualcuno non avesse litigato con l'amante facendo sbandare la macchina proprio nel momento in cui un guidatore ubriaco prendeva la curva dal lato sbagliato? «Ha notato l'incrocio a neanche un chilometro da qui?» «Sì. C'è un Safeway all'angolo, subito prima di girare per arrivare qui» ricordai. «Può aver lasciato lì la macchina, supponendo che si sia fatto il resto della strada a piedi.» «Già, il Safeway. Chiude a mezzanotte» osservò enigmatico. Accese un'altra sigaretta e sfruttai l'adagio che afferma che un investigatore è bravo quando riesce a pensare come la persona che deve prendere. «Cosa avrebbe fatto» chiesi «se fosse stato in lui?» «Se fossi stato io?» «Se lei fosse stato l'assassino.» «Dipende dal fatto se sono un artista stravagante come Matt Petersen oppure un pazzo furioso che va in giro a caccia di donne per strangolarle.» «La seconda persona» dissi in tono neutro. «Supponiamo che sia la seconda.» Mi aveva gettato l'esca. Rise piuttosto rudemente. «Vede, dottoressa, non ha capito. Avrebbe dovuto chiedermi se le cose sarebbero cambiate. Quello che voglio dire è che se fossi stato un tipo oppure l'altro, avrei fatto le cose più o meno nello stesso modo... chi o cosa sono nella vita normale, quando lavoro e mi comporto come tutti, non ha importanza. Quando invece entro in questa storia, sono uguale a tutti gli altri mascalzoni che l'hanno fatto prima di me e che lo faranno dopo. Dottore, avvocato o capo indiano.» «Vada avanti.» Proseguì. «Tutto comincia con me che la vedo, che ho un qualche tipo di contatto con lei da qualche parte. Magari a casa sua, per vendere qualcosa o per consegnare dei fiori e quando lei viene alla porta una vocina dentro di me dice, "eccola qui". Forse faccio il muratore nel quartiere e la vedo che viene e che va tutta sola. La punto. Magari la seguo per una settimana imparando tutto quello che posso. Come per esempio che luci tiene accese quando è sveglia, quali sono spente quando dorme, che auto ha.»
«E perché proprio lei?» chiesi. «Tra tutte le donne del mondo, perché proprio questa?» Considerò brevemente la cosa. «Fa scattare qualcosa dentro.» «È il suo aspetto?» Stava ancora riflettendo. «Magari. Ma magari è l'atteggiamento. È una donna che lavora. Vive in una cuccia niente male, il che significa che è abbastanza intelligente da guadagnare bene. A volte le donne in carriera sono un po' snob. Forse non mi va come mi ha trattato. Forse ha offeso la mia virilità, come se io non fossi abbastanza buono per lei o roba del genere.» «Tutte le vittime sono donne in carriera» osservai. «D'altra parte quasi tutte le donne che vivono sole lavorano.» «Giusto. E così vengo a sapere che vive sola, me ne assicuro, o per lo meno penso di esserne sicuro. Le darò una bella ripassata, le faccio vedere io chi è che comanda. Arriva il weekend e sento che mi va di farlo. Così quando è tardi, passata la mezzanotte, mi metto in macchina. Ho già ispezionato la zona, ho pianificato tutta la scena. Posso lasciare la macchina nel parcheggio di Safeway, ma il guaio è che è passata l'ora di chiusura. Il parcheggio è vuoto e questo vuol dire che la macchina balza all'occhio. Ora capita che c'è un distributore Exxon sullo stesso angolo della drogheria. Io probabilmente la macchina la lascio lì. Perché? Perché la stazione di servizio chiude alle dieci ed è normale che ci siano delle macchine anche fuori orario, in attesa di venire riparate. Nessuno ci fa caso, neanche i poliziotti che sono quelli che mi preoccupano di più. Un poliziotto di pattuglia che vede l'automobile nel parcheggio vuoto e magari fa un controllo, o chiama un dieci-venti-otto per sapere a chi è intestata.» Descrisse ogni mossa con particolari raggelanti. Vestito di scuro, attraversava il quartiere tenendosi nell'ombra. Arrivato a destinazione, l'adrenalina cominciava a pompare quando si rendeva conto che la donna, della quale probabilmente non sapeva nemmeno il nome, era in casa. La macchina era nel vialetto. Tutte le luci, salvo quella del portico, erano spente. La donna dormiva. Senza fretta, restava nascosto, valutando la situazione. Si guardava in giro accertandosi di non essere stato visto, poi si portava sul retro della casa, dove acquistava maggiore fiducia. Dalla strada nessuno poteva vederlo e le case dell'altra fila erano un acro più in là, le luci spente, niente si muoveva. Alle sue spalle solo il buio pesto. In silenzio, si avvicinava alle finestre e immediatamente notava quella aperta. Si trattava semplicemente di infilare la lama di un coltello nel telaio
e di liberare i ganci all'interno. In pochi secondi la grata si staccava e cadeva nell'erba. Apriva la finestra, si sollevava e si trovava a fissare i contorni indistinti dei mobili di cucina. «Una volta dentro» stava dicendo Marino, «me ne sto fermo un minuto ad ascoltare. Soddisfatto perché non sento rumori, trovo l'anticamera e mi metto a cercare la stanza dove c'è lei. Con una baracca piccola come questa» scrollò le spalle e prosegui, «le possibilità non sono molte. Trovo subito la camera da letto e la sento che dorme. Adesso mi sono infilato qualcosa in testa, un passamontagna, per esempio...» «Perché darsi pensiero?» volli sapere. «Non vivrà per identificare te.» «I capelli. Ehi, mica sono scemo. Probabilmente la sera a letto leggo manuali di medicina legale, probabilmente so a memoria tutti i dieci codici della polizia. Non voglio assolutamente che qualcuno trovi i miei capelli su di lei o in qualche altro posto.» «Se sei così furbo» adesso ero io che lanciavo l'esca, «perché non ti preoccupi del Dna? Non li leggi i giornali?» «Be', neanche per sogno che mi metto un maledetto preservativo. E non finirò neanche tra i sospetti perché sono troppo furbo. Nessun sospetto, nessun confronto e i tuoi abracadabra con il Dna non valgono un soldo. I capelli sono più personali. Sai, magari non voglio far sapere se sono bianco o nero, biondo oppure rosso.» «E le impronte digitali?» Sorrise. «Guanti, piccola. Gli stessi che ti metti tu quando esamini le mie vittime.» «Matt Petersen non indossava i guanti. Altrimenti non avrebbe lasciato le impronte sul corpo della moglie.» «Se l'assassino fosse stato Matt» fu la facile obiezione, «non si sarebbe fatto un problema di lasciare impronte in casa sua. Sono sparse dappertutto comunque.» Una pausa. «Se. In realtà, noi stiamo cercando un tipo fuori di testa. In realtà, Matt è un tipo fuori di testa. In realtà non è l'unico al mondo: ce n'è uno dietro ogni cespuglio. In realtà io non so proprio chi diavolo ha macellato sua moglie.» Rividi il volto dei miei sogni, il volto bianco senza lineamenti. Il sole che riusciva a penetrare dal parabrezza era ardente, ma pareva non riuscisse a scaldarmi. «Il resto è più o meno come può immaginare» prosegui. «Non devo farla spaventare. Vado piano piano accanto al letto e la sveglio mettendole una mano sulla bocca, con il coltello alla gola. Probabilmente non ho la pistola
perché se lei si mette a lottare e parte un colpo magari mi ferisco, magari l'ammazzo prima di aver fatto le mie faccende. Questo è molto importante per me. Tutto deve andare secondo i miei piani perché altrimenti vado davvero fuori testa. E poi non posso correre il rischio che qualcuno senta degli spari e chiami la polizia.» «Le parli?» chiesi, schiarendomi la gola. «Parlo a bassa voce, le dico che se grida l'ammazzo. Glielo dico e glielo ripeto.» «E che altro? Che altro le dici?» «Probabilmente niente.» Innestò la marcia e voltò la macchina. Diedi una ultima occhiata alla casa dove era successo quel che Marino aveva raccontato. Per lo meno ero quasi convinta che fosse accaduto esattamente come aveva detto lui. Vedevo la scena come lui l'aveva descritta. Non sembrava una congettura ma il resoconto di un testimone. Una confessione senza emozioni, senza rimorso. Mi stavo facendo un'opinione diversa sul conto di Marino. Non era tardo. Non era stupido. Credo che mi piacesse meno che mai. Puntammo verso oriente. Il sole si rifletteva nelle foglie degli alberi e per il traffico era l'ora di punta. Rimanemmo intrappolati in mezzo alle macchine, occupate da uomini e donne anonimi di ritorno a casa dopo il lavoro. Mentre guardavo i volti che mi passavano accanto, mi sentivo fuori sincronismo, distaccata, come se non appartenessi al mondo dove gli altri vivevano. Pensavano alla cena, forse alle bistecche che avrebbero fatto cuocere sul barbecue, ai bambini, all'amante che avrebbero visto di lì a poco, oppure a qualche avvenimento capitato nel corso della giornata. Marino stava esaminando l'elenco. «Due settimane prima dell'assassinio, I'UPS consegna un pacco. Già controllato il fattorino. A posto» disse. «Prima ancora è venuto un tizio a riparare l'impianto idraulico. Anche lui a posto, per quel che possiamo dire. Per il momento non è saltato fuori nulla che suggerisca che un artigiano, un fattorino, quello che vuole lei, sia comparso in tutti e quattro i casi. Non c'è un denominatore comune. Nessuna sovrapposizione, nessuna somiglianza per quanto riguarda il lavoro.» Brenda Steppe faceva la maestra e insegnava alla Quinton Elementary, non lontano da casa sua. Si era trasferita a Richmond dieci anni prima e recentemente aveva rotto il fidanzamento con un allenatore di calcio. Era una rossa ben fatta, allegra e brillante. Secondo gli amici e secondo l'ex fi-
danzato, ogni giorno correva per svariati chilometri e non fumava né beveva. Probabilmente ne sapevo di più sulla sua vita di quanto non ne sapesse la sua famiglia in Georgia. Era una fervente battista che andava a messa tutte le domeniche e alla funzione il mercoledì sera. Musicista, suonava la chitarra ed era direttrice del coro durante i ritiri dei gruppi giovanili. Si era diplomata in inglese, la materia che insegnava. La sua attività preferita per rilassarsi, oltre al jogging, era la lettura e, quel venerdì sera, prima di spegnere la luce leggeva Doris Betts. «Quello che mi ha colpito» mi disse Marino «è qualcosa che ho scoperto di recente, un possibile rapporto tra lei e Lori Petersen. Brenda Steppe si è fatta curare al pronto soccorso del VMC circa sei settimane fa.» «Per che cosa?» chiesi sorpresa. «Un piccolo incidente d'auto. È stata urtata una sera mentre usciva a marcia indietro dal vialetto. Niente di grave. Ha chiamato lei la polizia, ha detto che aveva picchiato la testa, che era un po' intontita. Hanno mandato un'ambulanza. L'hanno trattenuta qualche ora in osservazione al pronto soccorso, le hanno fatto i raggi x. Non era niente.» «È stata curata quando Lori Petersen era di turno?» «Questa è la parte migliore, forse l'unico centro che abbiamo fatto finora. Ho controllato con il responsabile del reparto. Lori Petersen era di turno quella sera. Sto cercando di trovare tutti quelli che ci potevano essere in giro, infermieri, altri medici, tutti. Niente per il momento, salvo il brutto pensiero che le due donne si sarebbero potute incontrare, senza avere la minima idea che proprio in questo stesso minuto lei e il sottoscritto avrebbero discusso del loro assassinio.» Un pensiero mi percorse come una corrente a basso voltaggio. «E Matt Petersen? C'è qualche possibilità che quella sera potesse essere in ospedale, magari per vedere la moglie?» Marino rispose: «Dice che era a Charlottesville. Era mercoledì, verso le nove e mezzo, dieci di sera». L'ospedale era certamente un punto di contatto. Chiunque vi lavorasse e avesse accesso ai documenti avrebbe potuto conoscere Lori Petersen e magari anche avere visto Brenda Steppe, il cui indirizzo doveva essere stato scritto nella scheda di ricovero. Suggerii a Marino che bisognava indagare a fondo su tutte le persone di turno al VMC la sera in cui Brenda era stata curata. «Stiamo semplicemente parlando di cinquemila persone» rispose lui. «E
per quel che ne sappiamo, il tipo che l'ha fatta secca poteva essere anche lui al pronto soccorso, quella sera. Per cui mi sto occupando anche di questa faccenda senza cavarci un ragno dal buco. Metà dei ricoverati durante quel turno erano donne. L'altra metà erano o vecchi bacucchi con un attacco di cuore o dei giovani turchi ubriachi fradici che hanno avuto un grave incidente di macchina. Non credo ce l'abbiano fatta, o forse sono in coma ancora adesso. È entrata e uscita un sacco di gente e, rimanga tra noi, i registri in quel posto fanno schifo. Forse non saprò mai chi c'era. E non saprò mai di sicuro chi è entrato e chi è uscito. Il nostro tizio potrebbe anche essere un qualche avvoltoio che va e viene dagli ospedali alla ricerca di vittime: infermiere, dottoresse, donne giovani che hanno avuto piccoli incidenti.» Scrollò le spalle. «Potrebbe essere uno che consegna i fiori e che entra ed esce continuamente dagli ospedali.» «Ha parlato di questa cosa due volte» osservai. «La questione della consegna dei fiori.» Scrollò le spalle un'altra volta. «Come no. Prima di diventare poliziotto, per un po' ho consegnato fiori anch'io, capisce? Quasi sempre i fiori li mandano alle donne. Io, se avessi voglia di trovare donne da fare a pezzi, andrei a consegnare fiori.» Mi dispiaceva di avere fatto la domanda. «È così che ho conosciuto mia moglie, a dire la verità. Le ho consegnato il Mazzo degli Innamorati, un bel cesto di garofani rossi e bianchi con un paio di rose mandato da un qualche buono a nulla che le stava dietro. Alla fine è rimasta più impressionata da me che dai fiori. Così con il suo gesto il boy friend è finito fuori servizio. È successo nel New Jersey, un paio di anni prima di andare a New York a fare la firma in polizia.» Stavo seriamente considerando l'idea di non accettare mai più fiori. «È solo una cosa che mi è venuta in mente. Chiunque sia, deve avere messo in piedi qualche marchingegno che lo tiene a contatto con le donne. È così: chiaro e semplice.» Procedemmo a passo d'uomo davanti a East Land Mall e svoltammo a destra. Di lì a poco il traffico si diradò e ci trovammo a filare lungo Brookfield Heights, chiamato più semplicemente Heights. Il quartiere è situato su un pendio che passa quasi per una collina. È una delle parti più vecchie della città e i giovani professionisti hanno cominciato a impadronirsene negli ultimi dieci anni. Le strade sono rinserrate tra case a schiera, alcune malconce e con le finestre sbarrate da assi, ma per la maggior parte restaurate ma-
gnificamente, con balconi di ferro battuto e finestre di vetro piombato. Poco più a nord il quartiere va deteriorandosi e diventa una zona di ubriaconi; alcuni isolati più avanti sorgono le case popolari. «Qualcuna di queste catapecchie la vendono a un milione di dollari e più» disse Marino, rallentando. «Io non ne vorrei una neanche gratis. Ne ho viste certe, dentro. Incredibile. Ma in questo quartiere non ci starei neanche morto. Ci vivono un buon numero di donne sole. Roba da matti.» Avevo tenuto d'occhio il contachilometri. La casa di Patty Lewis era esattamente a dodici chilometri da quella di Brenda Steppe. I due quartieri erano talmente diversi, talmente distanti l'uno dall'altro che, per quanto riguardava la posizione, non riuscivo a immaginare nessun elemento di collegamento tra i due delitti. C'erano dei cantieri edili qui, proprio come c'erano nel quartiere di Brenda, ma era improbabile che si trattasse delle stesse imprese di costruzione o delle stesse squadre di operai. La casa di Patty Lewis, un bell'edificio di arenaria con una finestra di vetro colorato sopra la porta d'ingresso rossa, era schiacciata tra altre due. Il tetto era d'ardesia, il portico sul davanti della casa aveva una decorazione di ferro battuto dipinta di fresco. Dietro c'era un giardino cintato con alberi di magnolia grandi e fitti. Avevo visto le foto scattate dalla polizia. Osservando l'eleganza aggraziata di questa casa fine secolo era difficile credere che all'interno fosse accaduto un fatto talmente orribile. Patty proveniva da una vecchia e ricca famiglia della Shenandoah Valley, il che spiegava a mio avviso come mai poteva permettersi di vivere lì. Era una scrittrice che per molti anni aveva lottato sulla macchina da scrivere e stava per raggiungere la fase in cui le lettere di rifiuto erano acqua passata. La primavera precedente aveva pubblicato un racconto su "Harper's". Un suo romanzo avrebbe dovuto uscire in autunno. Un'opera postuma. Marino ricordò che l'assassino, di nuovo, era entrato dalla finestra. Questa volta da quella della camera da letto, che si apriva sul giardino posteriore. «È quella là in fondo, al primo piano» mi stava appunto dicendo. «La sua teoria è che è salito su quella magnolia vicino alla casa, è gassato sul tetto del portico ed è entrato dalla finestra?» «È più di una teoria» obiettò. «È una certezza. Senza una scala, non ce la poteva fare in nessun altro modo. È più che possibile arrampicarsi sull'albero, passare sul tetto del portico e allungare le braccia per tirare su la finestra. Lo so. Ci ho provato per vedere se si poteva. È andata liscia come
l'olio. Basta avere abbastanza forza nelle braccia per aggrapparsi alla grondaia da quel grosso ramo basso» disse indicandolo, «e poi tirarsi su.» Nella casa c'erano ventilatori al soffitto, ma niente aria condizionata. Secondo un amico che abitava fuori città e che veniva a trovarla varie volte all'anno, Patty dormiva spesso con la finestra della camera da letto aperta. In parole povere, si trattava di scegliere tra il comfort e la sicurezza. Aveva scelto il primo. Marino invertì pigramente la marcia e puntammo a nord est. Cecile Tyler viveva a Ginter Park, il più vecchio quartiere residenziale di Richmond, dove sorgono orribili case vittoriane a due piani, tutte circondate da porticati sufficientemente larghi per andare con i pattini a rotelle, con torrette e cornicioni a merletti. Nei giardini le magnolie, le querce e i rododendri crescono fitti. La vite vergine si aggrappa alle colonne del portico e agli alberi. Immaginavo salotti bui dietro alle finestre vuote, tappeti orientali stinti, mobili e cornici ornati e bric-à-brac in tutti gli angoli. Non mi sarebbe piaciuto vivere lì. Mi dava lo stesso senso di claustrofobia, gli stessi brividi che mi danno i ficus e la tillandsia. Quella di Cecile Tyler era una casa di mattoni a tre piani, modesta secondo gli standard del vicinato. Era esattamente a 9,4 chilometri dalla casa di Patty Lewis. Sotto i raggi del sole morente il tetto di ardesia riluceva come piombo. Le imposte e le porte erano nude, sverniciate, in attesa della pittura fresca che Cecile avrebbe dato, se fosse vissuta abbastanza. L'assassino era entrato da una finestra della cantina, dietro una siepe di bosso nell'ala nord della casa. La serratura era stata rotta e come tutto il resto attendeva di essere riparata. Cecile era una nera bellissima, di recente divorziata da un dentista che ora viveva a Tidewater. Lavorava come receptionist in un'agenzia di collocamento e frequentava un corso universitario serale per laurearsi in gestione aziendale. Era stata vista viva per l'ultima volta più o meno alle ventidue del venerdì precedente, circa tre ore prima di morire, secondo le mie valutazioni. Quella sera aveva cenato con un'amica in un ristorante messicano del quartiere, poi era tornata subito a casa. Il corpo era stato trovato il pomeriggio dopo, sabato. Avrebbe dovuto andare a fare shopping con l'amica. L'automobile era sul vialetto e quando Cecile non aveva risposto né al telefono né alla porta, l'amica, preoccupata, aveva scrutato attraverso le tende leggermente scostate della camera da letto. Lo spettacolo del corpo nudo e legato di Cecile sul letto in disordine era una cosa che probabilmente non avrebbe mai dimenticato.
«Bobbi» disse Marino. «È bianca, sa.» «L'amica di Cecile?» Avevo dimenticato come si chiamava. «Già. Bobbi. La riccona che ha trovato il corpo di Cecile. Erano sempre insieme, quelle due. Bobbi ha una Porsche rossa, è una bionda da schianto, fa la modella. Era sempre a casa di Cecile, certe volte stava lì fino al mattino dopo. Fa pensare che se la intendevano, se vuole la mia opinione. Roba da non credere, difficile immaginarselo. Tutte e due belle da fare uscire gli occhi dalle orbite. Si penserebbe che gli uomini corrono dietro a loro dalla mattina alla sera...» «Forse è proprio questa la risposta» osservai irritata. «Se i suoi sospetti sulle donne sono fondati.» Marino ebbe un sorriso furbo. Stava di nuovo gettando l'esca. «Be', quello che voglio dire è questo» proseguì «magari l'assassino andava in giro per il quartiere e ha visto Bobbi mentre la sera tardi saliva sulla Porsche rossa. Forse ha creduto che viveva qui. O forse l'ha seguita una sera quando lei stava andando a casa di Cecile.» «E ha ammazzato Cecile per sbaglio? Perché pensava che qui vivesse Bobbi?» «Sto solo azzardando un'ipotesi. Come dicevo, Bobbi è bianca. Le altre vittime sono bianche.» Tacemmo per un momento, fissando la casa. Il fatto che le donne fossero di razza diversa lasciava perplessa anche me. Tre donne bianche e una nera. Come mai? «E c'è un'altra ipotesi che vorrei considerare» disse Marino. «Mi domando se per ogni omicidio l'assassino aveva diverse candidate da scegliere, come in un menu, e se finiva per prendere quella che si poteva permettere. Mi sembra un po' strano che ogni volta che decide di ammazzarne una, succede che lei ha la finestra non bloccata o aperta oppure rotta. Forse è puro caso, con lui che se ne va a spasso a cercare una qualsiasi che pare vivere sola e che ha la casa accessibile, ma forse è in contatto con un certo numero di donne, sa il loro indirizzo, e magari fa il giro, magari controlla tante case in una sera fino a quando scopre quella che fa al caso suo.» L'ipotesi non mi piaceva. «Io invece credo che abbia dato la caccia a ognuna delle donne» dissi. «Credo che le donne fossero bersagli ben precisi. Credo che ne abbia controllato la casa anche in precedenza e che l'ha vista vuota oppure ha trovato le finestre chiuse. Può anche darsi che l'assassino visiti regolarmente il posto dove la sua prossima vittima abita e che colpisca quando si presenta
l'occasione.» Scrollò le spalle, trastullandosi con l'idea. «Patty Lewis è stata assassinata diverse settimane dopo Brenda Steppe. E anche Patty era fuori città a trovare un'amica la settimana prima di venire assassinata. Quindi è possibile che lui abbia tentato il week-end prima e che non l'abbia trovata in casa. Sicuro. Forse è andata proprio così. Chi può dirlo? Poi becca Cecile Tyler tre settimane dopo. Ma poi becca Lori Petersen una settimana esatta dopo... Chissà? Forse ha fatto centro al primo tiro. C'era una finestra aperta perché il marito si era dimenticato di chiuderla. L'assassino potrebbe avere avuto contatti con Lori Petersen, magari pochi giorni prima di ammazzarla e se lo scorso weekend la finestra non fosse stata chiusa ci avrebbe riprovato questo fine settimana.» «Colpire nel weekend sembra importante per lui» dissi. «Sembra che sia di fondamentale importanza agire il venerdì notte oppure le prime ore del sabato.» Marino annui. «Sì, certo. È calcolato. Ma io credo che sia perché lavora da lunedì a venerdì e ha tutto il weekend per scaricarsi, dopo quello che ha combinato. Forse questo schema gli piace anche per qualche altra ragione. È un modo per tenerci sulla corda. Arriva il venerdì e lui sa che la città, le persone come lei e come me sono nervose come un gatto in mezzo a un'autostrada.» Esitai poi affrontai l'argomento. «Crede che questo schema sia in fase di accelerazione? Che intercorra meno tempo tra un assassinio e l'altro perché lui è sottoposto a stress, forse a causa di tutta la pubblicità?» Non rispose subito. Poi in tono molto serio: «È un drogato, dottoressa. Una volta che ha cominciato non riesce più a fermarsi». «Vuole dire che la pubblicità non c'entra nulla con questo schema?» «No» rispose, «non intendo dire una cosa simile. Il suo schema è quello di starsene defilato e di tenere il becco chiuso e, magari, non se ne starebbe così tranquillo se i giornalisti non gli rendessero le cose tanto facili. Le storie sensazionali sono un gentile omaggio. Non deve fare sforzi. I giornalisti lo ricompensano, gli danno gratis quello di cui ha bisogno. Ora, se nessuno scrivesse un bel niente, lui si sentirebbe frustrato, forse più irrequieto. Dopo un po' forse comincerebbe a spedire bigliettini, a telefonare, a fare qualcosa per rimettere in movimento i giornalisti. E così si fregherebbe.» Rimanemmo per un po' in silenzio. A un tratto Marino mi colse alla sprovvista. «Sembra che lei abbia parlato con Fortosis.»
«Perché?» «La faccenda a proposito dell'escalation e dei giornali che lo mettono in agitazione, che intensificano i suoi impulsi.» «Le ha detto questo?» Si tolse con un gesto distratto gli occhiali da sole e li posò sul parabrezza. Quando guardò verso di me, notai un debole lampo di rabbia nello sguardo. «Affatto. Ma lo ha detto a un paio di persone con cui io sono pappa e ciccia. Boltz, tanto per dirne una. Tanner, tanto per dire l'altra.» «Come lo sa?» «Perché ho tanti confidenti dentro il Dipartimento quanti ne ho per strada. So esattamente cosa succede e come finirà... forse.» Rimanemmo seduti in silenzio. Il sole era calato dietro il tetto delle case e l'ombra si allungava sui praticelli e sulla strada. In un certo senso Marino aveva socchiuso la porta che ci avrebbe messo in confidenza reciproca. Mi chiesi se avrei avuto il coraggio di aprirla di più. «Boltz, Tanner, le autorità in genere sono sconvolti per quello che è trapelato alla stampa» dissi cauta. «Gli potrebbe anche venire l'esaurimento nervoso perché piove. Capita. Specialmente quando la "cara Abby" vive nella stessa città.» Sorrisi tristemente. Verissimo. Bastava confidare i segreti al la "cara Abby" Turnbull per vederli finire tutti dal primo all'ultimo sul giornale. «Quella è un grosso problema» prosegui. «Ha la corsia preferenziale, una linea diretta che arriva dritta al cuore del Dipartimento. Non credo che il capo faccia uno starnuto senza che lei lo venga a sapere.» «Chi glielo dice?» «Diciamo che ho i miei sospetti ma che non ho abbastanza materiale per procedere, d'accordo?» «Lo sa che qualcuno si è infiltrato nel computer del mio ufficio?» dissi, come se si trattasse di un fatto pubblico. Mi lanciò uno sguardo severo. «Da quando?» «Non lo so. Qualche giorno fa qualcuno è riuscito a violarlo e ha cercato di tirare fuori il caso di Lori Petersen. Per fortuna ce ne siamo accorti grazie a una distrazione della mia programmatrice. I comandi che il tizio aveva impartito sono rimasti sullo schermo.» «Mi sta dicendo che forse qualcuno entra nel suo computer da mesi senza che lei lo sappia?» «Sto dicendo proprio questo.» Rimase in silenzio, con un'espressione dura in viso.
«Questo cambia i suoi sospetti?» lo incalzai. «Eh» rispose. «Cioè?» chiesi esasperata. «Non ha niente da dire?» «No. Salvo che lei deve avere il culo vicino al fuoco, di questi tempi. Amburgey lo sa?» «Lo sa.» «Anche Tanner, scommetto.» «Sì.» «Eh» ripeté. «Mi sa che questo spiega un paio di cose.» «Per esempio?» Stavo andando in paranoia e mi rendevo conto che Marino vedeva che friggevo. «Quali cose?» Non rispose. «Quali cose?» insistetti. Portò lentamente lo sguardo su di me. «Vuole davvero saperlo?» «Credo che sia meglio.» La voce ferma nascondeva la paura che rapidamente stava sconfinando nel panico. «Be', mettiamola così. Se Tanner viene a sapere che lei e io oggi pomeriggio siamo andati a fare un giro insieme, probabilmente mi strappa via la patacca.» Lo fissai chiaramente sconcertata. «Cosa sta dicendo?» «Vede, l'ho incontrato stamattina alla centrale. Mi ha preso da parte per fare quattro chiacchiere, mi ha detto che lui e qualcuno dei capi stanno provando a tappare i buchi. Ha aggiunto di tenere il becco assolutamente chiuso riguardo all'indagine. Come se ci fosse bisogno di dirmelo. Diavolo. Mi ha detto anche qualche altra cosa che al momento non mi pareva che avesse senso. Il fatto è che io non dovrei riferire niente a nessuno del suo ufficio - vale a dire a lei - non dovrei dire più un cazzo di quello che succede.» «Cosa?» Prosegui: «Come procede l'indagine e quello che pensiamo, voglio dire. A lei non bisognerebbe farlo sapere. Gli ordini di Tanner sono di farsi dare da lei le informazioni mediche, ma di non dirle neanche che ora è. Ha affermato che è circolata troppa roba e che l'unico modo per darci un taglio è di non dire niente a nessuno, salvo a quelli di noi che devono sapere per poter lavorare...». «Giusto» scattai. «E questo comprende me. Questi casi cadono sotto la mia giurisdizione o magari all'improvviso tutti se ne sono dimenticati?» «Ehi» disse a bassa voce, fissandomi. «Io e lei siamo seduti qui, giu-
sto?» «Sì» risposi più calma. «Siamo seduti qui.» «Io me ne sbatto di quello che dice Tanner. Magari è sulle spine per il casino del computer. Non vuole che i poliziotti si prendano la colpa di avere passato informazioni delicate all'ufficio indiscrezioni del Centro di medicina legale.» «Per favore...» «Forse c'è anche un'altra ragione» borbottò tra sé. Qualunque fosse, non aveva intenzione di dirmela. Innestò bruscamente la marcia e partimmo verso il fiume, verso sud, a Berkley Down. Per i dieci, quindici minuti successivi - in realtà non mi rendevo conto del tempo - non scambiammo una parola. Venni lasciata in un silenzio miserando, ridotta a osservare il bordo della strada filarmi via accanto. Era come essere l'oggetto di uno scherzo crudele o di una trama che tutti conoscevano salvo me. L'isolamento stesso stava diventando insopportabile, i miei timori erano così ingigantiti che non ero più certa della mia capacità di giudizio, del mio acume, della mia stessa ragione. Credo che non fossi sicura di nulla. Tutto ciò che riuscivo a fare era raffigurarmi le macerie di quello che solo pochi giorni prima era un invidiabile futuro professionale. Il mio ufficio veniva biasimato per le indiscrezioni. I miei tentativi di modernizzazione avevano minato le rigide norme di riservatezza che io stessa avevo imposto. Anche Bill non era più sicuro della mia credibilità. Ora i poliziotti non avrebbero più dovuto parlare con me. Sarebbe finita solo quando fossi diventata il capro espiatorio di tutte le atrocità causate da questi delitti. Amburgey probabilmente non avrebbe avuto altra scelta che togliermi l'incarico o addirittura licenziarmi in tronco. Marino mi lanciò un'occhiata. Quasi non mi ero resa conto che aveva accostato e parcheggiato la macchina. «Quanto siamo lontani?» chiesi. «Da che cosa?» «Da dove eravamo, da dove viveva Cecile?» «Esattamente 12,2 chilometri» rispose asciutto, senza nemmeno guardare il contachilometri. Nella luce del giorno, quasi non riconobbi la casa di Lori Petersen.
Aveva un'aria disabitata, coperta da una patina di trascuratezza. I profili in legno verniciati di bianco apparivano sporchi nell'ombra, le persiane blu sembravano coperte di polvere. I gigli sotto le finestre anteriori erano stati schiacciati, probabilmente dai poliziotti che avevano rastrellato ogni centimetro della proprietà alla ricerca di prove. Un brandello di nastro giallo era rimasto attaccato al telaio della porta e nell'erba troppo lunga c'era una lattina di birra che qualcuno passando aveva gettato. Era la tipica abitazione decorosa e pulita dell'America middleclass, quel tipo di casa che si trova in tutte le cittadine, in tutti i quartieri. Era il posto in cui la gente cominciava a vivere e dove poi tornava durante la vecchiaia: giovani professionisti, giovani coppie e, alla fine, anziani in pensione con i figli ormai cresciuti e usciti di casa. Era quasi identica alla casa di legno bianca dei Johnson a Baltimora, dove avevo preso una stanza in affitto al tempo dell'università. Come Lori Petersen, avevo vissuto dimenticando ogni altra cosa, uscendo all'alba, spesso senza ritornare fino alla sera dopo. La sopravvivenza si limitava ai libri, ai laboratori, agli esami, ai turni e al disporre dell'energia fisica ed emotiva per reggere. Non mi sarebbe mai venuto in mente, come non era mai venuto in mente a Lori, che una persona che non conoscevo potesse decidere di prendersi la mia vita. «Ehi...» Mi resi conto all'improvviso che Marino mi stava parlando. Mi guardava incuriosito. «Va tutto bene, dottoressa?» «Mi spiace. Non ho sentito quello che mi ha detto.» «Le ho chiesto cosa pensava. Sa, una mappa in testa adesso ce l'ha. Che cosa ne pensa?» «Credo che tra la loro morte e il posto in cui vivevano non ci siano rapporti» risposi sintetica. Non disse se era d'accordo o no. Afferrò il microfono e comunicò al controllore che il suo turno era concluso. Il giro era finito. «Dieci-quattro, sette-dieci» gracchiò la voce impertinente del controllore, imitando Burt Reynolds. «Ore diciotto e quarantacinque, attento al sole negli occhi, domani alla stessa ora canteranno la nostra canzone...» Una canzone fatta di sirene, di spari e di automobilisti che si schiantano gli uni contro gli altri, pensai. Marino sbuffò. «Quando ero giovane io, bastava un "Certo" invece di un "Dieci-quattro" che l'ispettore ti scriveva subito una nota di demerito.» Chiusi per un attimo gli occhi e mi massaggiai le tempie.
«Certo che adesso le cose non vanno più come una volta» disse. «Diavolo, non c'è più niente che va come una volta.» 9 La luna appariva e scompariva tra gli alberi, simile a un globo di vetro smerigliato, mentre attraversavo il quartiere tranquillo in cui vivevo. I rami rigogliosi proiettavano ombre nere ai lati della strada e le schegge di mica dell'asfalto luccicavano, colpite dalla luce dei fari. L'aria era pulita e piacevolmente tiepida, l'ideale per andare in giro con un'auto decapottabile o con i vetri abbassati. E invece avevo messo la sicura alle porte, avevo chiuso i finestrini e tenevo il ventilatore al minimo. Una serata che in passato mi sarebbe sembrata incantevole ora mi procurava un senso di inquietudine. Sfilavano davanti a me, come la luna, le immagini della giornata; mi inseguivano, non mi volevano lasciare. Rividi a una a una le case, nei vari quartieri della città. Non c'era nessun punto di contatto tra di esse. Come mai le aveva scelte? E perché? Non era stato un caso. Ne ero decisamente convinta. Nei singoli delitti ci doveva essere un elemento comune e di continuo mi tornava in mente il residuo luccicante trovato sui cadaveri. Con zero prove cui appoggiarmi, ero profondamente convinta che il legame mancante tra l'assassino e ognuna delle sue vittime era quella sostanza luminescente. L'intuito mi consentiva di arrivare fino a questo punto. Quando tentavo di vedere oltre c'era il vuoto mentale. Il luccichio era l'indizio che ci avrebbe potuto condurre a casa sua? Aveva a che fare con una certa professione, o con una certa attività ricreativa, che gli permetteva il primo contatto con le donne che poi avrebbe ucciso? Oppure, cosa ancora più strana, la sostanza erano le donne stesse a lasciarla? Forse si trattava di un prodotto che tutte le vittime avevano in casa, o sul corpo, oppure trovavano sul posto di lavoro. Forse era qualcosa che ciascuna delle donne aveva acquistato da lui. Dio solo lo sapeva. Non potevamo sottoporre a test ogni oggetto trovato nell'abitazione o nell'ufficio di una persona, o in qualche altro posto visitato di frequente, specialmente se non avevamo la minima idea di che cosa cercare. Svoltai nel vialetto di casa mia. Stavo ancora parcheggiando quando Bertha aprì la porta d'ingresso. Si fermò sotto la luce del portico, le mani sui fianchi, la borsetta al braccio.
Sapevo che cosa significava: aveva fretta di andarsene. Non mi andava di pensare a come si era comportata Lucy oggi. «Allora?» chiesi quando arrivai alla porta. Bertha scosse il capo. «Terribile, dottoressa Kay. Con la bambina. Ah! Non so proprio che cosa le ha preso. È stata cattiva, cattiva, cattiva.» Era la goccia che faceva traboccare il vaso di questa giornata logorante. Lucy era in fase di peggioramento. In primo luogo era colpa mia. Non l'avevo trattata bene. O forse semplicemente non l'avevo trattata e basta, e questo era un modo più chiaro di definire il problema. Non abituata a confrontarmi con i bambini con la stessa fermezza che utilizzavo piuttosto impunemente nei confronti degli adulti, non avevo fatto domande né allusioni sulla violazione del computer. Invece, il lunedì sera, dopo che Bill se ne era andato avevo staccato il modem nel mio ufficio e l'avevo riposto nel ripiano in alto del mio armadio. Speravo così di far credere a Lucy che l'avevo portato in città, a riparare o qualcosa del genere, quand'anche ne avesse notato l'assenza. La sera prima non aveva fatto il minimo accenno alla scomparsa del modem, ma aveva l'aria abbattuta, lo sguardo sfuggente e leggermente colpevole, come quando la sorpresi a osservare me, invece del film che avevo infilato nel videoregistratore. Il mio gesto era dettato dalla logica. Se c'era anche la minima possibilità che fosse stata Lucy a violare il computer in città, eliminare il modem le avrebbe impedito di rifarlo senza che fossi costretta ad accusarla o a farle una penosa scenata che avrebbe macchiato per entrambe il ricordo della sua visita. Se la violazione si fosse ripetuta, ciò avrebbe significato che non era stata Lucy, se mai il dubbio fosse sorto. E tutto questo quando so bene che i rapporti umani non si basano sui ragionamenti, proprio come le mie rose non vengono fertilizzate dalle polemiche. So che cercare rifugio nell'intelletto e nella razionalità è una ritirata egoista nella difesa del proprio io, a spese del benessere di un'altra persona. Quello che avevo fatto era così intelligente da diventare incredibilmente stupido. Ricordai quando ero bambina, come odiavo le commedie di mia madre che, seduta sul bordo del mio letto, rispondeva alle mie domande sul conto di papà. Prima aveva delle "bestioline", qualcosa che "finisce nel sangue" e che provoca ricadute una volta ogni tanto. Oppure diceva che stava lottando contro "qualcosa che una persona di colore" oppure un "cubano" aveva
portato nella sua drogheria. O anche "lavora troppo e si stanca, Kay". Menzogne. Mio padre aveva una leucemia linfatica cronica. Gli era stata diagnosticata prima che entrassi alle elementari. Fu solo quando avevo dodici anni e lui ormai era passato dalla linfocitosi fase zero all'anemia fase tre che mi venne detto che stava morendo. Mentiamo ai bambini anche se noi stessi non abbiamo creduto alle menzogne che ci sono state dette quando avevamo la loro età. Non so perché lo facciamo. Non sapevo perché l'avevo fatto con Lucy, che era sveglia come un adulto. Alle otto e mezzo Lucy e io eravamo sedute al tavolo di cucina. Lei stava cincischiando con un milkshake mentre io bevevo un bicchiere di scotch di cui sentivo un gran bisogno. Il suo cambiamento di umore mi metteva a disagio e stavo rapidamente perdendo il controllo dei nervi. Tutti i suoi atteggiamenti aggressivi erano scomparsi; tutta la petulanza e il risentimento per le mie assenze erano ormai svaniti. Non riuscivo né a riscaldarla né a rallegrarla, nemmeno quando le dissi che Bill avrebbe fatto un salto da noi, in tempo per darle la buonanotte. Non ci fu quasi il minimo lampo di interesse. Non si muoveva né rispondeva, evitava di guardarmi negli occhi. «Hai l'aria malata» mormorò finalmente. «Come fai a saperlo? Non mi hai neanche guardata da quando sono tornata a casa.» «Così. Comunque hai l'aria malata.» «Be', non sono affatto malata» le dissi. «Sono solo molto stanca.» «Quando la mamma si stanca non le viene l'aria malata» spiegò in tono accusatorio. «Ha l'aria malata solo quando litiga con Ralph. Lo odio, Ralph. È una testa di cazzo. Quando viene a casa, gli faccio fare i rebus sul giornale proprio perché so che non è capace. È una testa di cazzo, un deficiente.» Non la rimproverai per le parolacce. Non dissi nulla. «Così» insistette, «hai litigato con un Ralph?» «Non conosco nessun Ralph.» «Oh.» Aggrottò le sopracciglia. «Il signor Boltz è furioso con te, scommetto.» «Non credo.» «Ci scommetto. È furioso perché sono qui io...» «Lucy! Ma è ridicolo. A Bill sei molto simpatica.»
«Ah! È furioso perché non può farlo mentre ci sono io qui!» «Lucy...» la ammonii. «È vero. Ah! È furioso perché non si può tirar giù i pantaloni.» «Lucy» dissi severa. «Piantala subito!» Mi puntò finalmente gli occhi addosso e rimasi sconcertata dalla rabbia che vi vedevo. «Visto? Lo sapevo!» Fece una risata maligna. «E tu vorresti che io non fossi qui, così non starei tra i piedi. Allora lui non dovrebbe tornare a casa la sera. Bene, non m'importa niente. Cosa vuoi che sia. La mamma dorme sempre con i suoi boy friend e a me non me ne importa niente!» «Non sono la tua mamma!» Il labbro inferiore cominciò a tremarle, come se l'avessi schiaffeggiata. «Non ho mai detto che lo sei! E non ti vorrei come mamma, comunque! Ti odio!» Restammo tutt'e due immobili. Per un attimo rimasi come impietrita. Non ricordavo che nessuno m'avesse mai detto che mi odiava, anche se era vero. «Lucy» balbettai. Avevo lo stomaco serrato come un pugno. Mi era venuta la nausea. «Non mi sono spiegata bene. Quello che volevo dire era che non sono come tua madre. Capito? Siamo molto diverse. Lo siamo sempre state. Ma questo non vuole dire che io non ti sia molto affezionata.» Non rispose. «Sono sicura che non mi odi sul serio.» Si chiuse in un silenzio ostinato. Mi alzai intontita e andai a riempire di nuovo il bicchiere. Naturalmente non mi odiava sul serio. I bambini non fanno che dirlo, senza però che sia vero. Cercai di ricordare. Non avevo mai detto a mia madre che la odiavo. Credo che in segreto la odiassi, per lo meno da bambina, per via delle sue bugie e perché quando avevo perduto mio padre avevo perduto anche lei. La morte di lui l'aveva consumata, come lui era stato consumato dalla malattia. Non era rimasto più nessun calore per Dorothy e per me. Avevo mentito a Lucy. Anch'io ero stata consumata non dalla morte ma dai morti. Ogni giorno lottavo per la giustizia. Ma che giustizia c'era per una bambina viva che non si sentiva amata? Oh, mio Dio. Lucy non mi odiava, ma forse non avrei potuto biasimarla se l'avesse fatto. Tornata al tavolo, affrontai con la massima delicatezza possibile l'argomento tabù. «Immagino che ho un'aria preoccupata perché sono preoccupata, Lucy.
Sai, qualcuno è riuscito a penetrare nel computer, giù in ufficio.» Silenziosa, attese il resto. Sorseggiai il whisky. «Non sono sicura se chi l'ha fatto ha carpito delle informazioni importanti, ma se riuscissi a capire come è successo e chi è stato, mi toglierei un grosso peso dal cuore.» Continuò a tacere. Forzai la situazione. «Se non riesco ad arrivare in fondo a questa faccenda, Lucy, potrei trovarmi nei pasticci.» La cosa sembrò allarmarla. «E perché dovresti finire nei pasticci?» «Perché» spiegai con calma, «i dati che si trovano nel mio ufficio sono molto delicati e ci sono delle persone importanti qui in città e nel governo di questo Stato preoccupate per come queste informazioni finiscono sui giornali. Alcuni pensano che provengano dal computer del mio ufficio.» «Oh.» «Se in qualche modo un giornalista fosse riuscito a violarlo, per esempio...» «Informazioni su che cosa?» chiese. «Questi casi recenti.» «La dottoressa assassinata.» Annuii. Silenzio. «Ecco perché il modem è scomparso» disse imbronciata. «Vero, zia Kay? L'hai preso tu perché pensi che ho fatto qualche cosa di male.» «Non credo che tu abbia fatto qualcosa di male, Lucy. Se hai telefonato al computer del mio ufficio, lo so che non lo hai fatto per fare qualcosa di male. Non ti rimprovererei per essere stata curiosa.» Alzò lo sguardo su di me, con gli occhi inondati di lacrime. «Hai portato via il modem perché non ti fidi più di me.» A questo non seppi come rispondere. Non potevo mentirle, mentre dire la verità sarebbe stato ammettere che in realtà era così. Lucy aveva perso qualsiasi interesse per il milkshake e sedeva assolutamente immobile, mordendosi il labbro inferiore, fissando il tavolo. «Ho tolto effettivamente il modem perché mi chiedevo se fossi stata tu» confessai. «Non è stata la cosa giusta da fare. Avrei dovuto domandartelo. Ma forse ero offesa. Mi offendeva pensare che tu avessi potuto rompere la fiducia che c'è tra noi due.»
Mi guardò a lungo. Sembrava stranamente contenta, quasi felice quando mi chiese: «Vuoi dire che se faccio qualcosa di male tu ti senti dispiaciuta?». Come se questo le desse una qualche sorta di potere o di convalida che disperatamente desiderava. «Sì. Perché ti voglio molto bene, Lucy» dissi. E credo che quella fosse la prima volta in cui glielo dicevo in modo così esplicito. «Non intendevo ferire i tuoi sentimenti più di quanto tu non intendessi ferire i miei. Mi dispiace.» «Non è successo niente.» Il cucchiaio risuonò sulle pareti del bicchiere mentre agitava il milkshake esclamando allegramente: «E poi sapevo che l'avevi nascosto. Non puoi nascondere le cose a me, zia Kay. L'ho visto nel tuo armadio. Ho guardato mentre Bertha preparava da mangiare. L'ho trovato sullo scaffale accanto alla tua .38». «Come sai che è una .38?» balbettai senza pensare. «Perché Andy ha una .38. E quello che c'era prima di Ralph. Andy porta la .38 alla cintura, proprio qui» disse puntando un dito all'altezza della schiena, dietro. «Ha un banco di pegni, ecco perché ha sempre la .38. Me l'ha fatta vedere, mi ha fatto vedere come funziona. Ha tirato fuori tutte le pallottole e mi ha lasciato sparare alla tv. Bang! Bang! Bel colpo! Bang! Bang!» Sparò puntando il dito al frigorifero. «Mi piace di più di Ralph, ma la mamma si è stancata di lui, immagino.» Era verso questa realtà che l'avrei spedita l'indomani? Cominciai una lezione sulle pistole, sciorinando tutti gli argomenti a proposito del fatto che non sono giocattoli e che possono fare male alla gente, quando squillò il telefono. «Oh, già» ricordò Lucy scendendo dalla sedia. «La nonna ha telefonato prima che tu tornassi a casa. Due volte.» Era l'ultima persona con cui desideravo parlare. Per quanto potessi essere abile a nascondere i miei stati d'animo, riusciva sempre a percepirli e non era disposta a lasciarmi in pace. «Sembri depressa» disse mia madre alla seconda frase della conversazione. «Sono solo stanca.» Era ormai una frase fatta. La vedevo come se l'avessi di fronte. Senza dubbio era seduta sul letto, con la schiena appoggiata ad alcuni cuscini, la televisione a basso volume. Io ho i colori di mio padre. Mia madre è bruna, con i capelli scuri ormai bianchi che le inquadrano dolcemente il viso rotondo e pieno, gli occhi
marroni enormi dietro le lenti spesse. «Certo che sei stanca» attaccò. «Pensi solo al lavoro. E quei delitti orrendi lì a Richmond. C'era un articolo sullo "Herald" di ieri, Kay. La più grossa sorpresa della mia vita. L'ho visto solo questo pomeriggio, quando me l'ha portato la signora Martinez che ha fatto un salto qui. Ho smesso di leggere il giornale della domenica. Tutti quegli inserti, quei buoni e tutta quella pubblicità. È così voluminoso che dà fastidio. La signora Martinez l'ha portato perché c'era su la tua foto.» Mi uscì un gemito. «Non posso dire che ti avrei riconosciuta. Non è una bella foto, presa di notte, ma c'è sotto il tuo nome, questo è sicuro. E sei senza cappello, Kay. Sembra che stesse piovendo, o che fosse bagnato, o comunque che ci fosse brutto tempo e tu lì senza cappello. Con tutti quei berretti che ti ho fatto all'uncinetto e tu che non ti preoccupi neanche di metterne uno per evitare di prenderti la polmonite...» «Mamma...» Continuò imperterrita. «Mamma!» Non ero in grado di sopportarla, non quella sera. Avrei potuto anche essere Margaret Thatcher e mia madre avrebbe insistito nel trattarmi come una bambina di cinque anni che non ha abbastanza buon senso da evitare la pioggia. Poi venne la sfilza di domande sulla mia dieta e se dormivo abbastanza. Deviai bruscamente l'argomento. «Come sta Dorothy?» Esitò. «Ecco, proprio per questo ti sto chiamando.» Tirai verso di me una sedia e mi accomodai mentre la voce di mia madre saliva di un'ottava raccontando che Dorothy aveva preso un aereo per il Nevada per andare a sposarsi. «Perché il Nevada?» chiesi stupidamente. «Dimmelo tu! Dimmi tu perché la tua unica sorella incontra un tizio che ha a che fare con i libri, con cui in passato ha parlato solo al telefono, e all'improvviso chiama sua madre dall'aeroporto per dirle che sta andando in Nevada a sposarsi. Dimmi tu perché mia figlia può fare una cosa del genere. Penserai che ha dei maccheroni al posto del cervello...» «Quale tizio che ha a che fare con i libri?» Lanciai un'occhiata a Lucy. Mi stava osservando, l'espressione sconvolta. «Non so. Un illustratore ha detto, immagino che faccia i disegni per i suoi libri, era a Miami qualche giorno fa per un qualche congresso, ha in-
contrato Dorothy e si sono messi a discutere i suoi progetti attuali o roba del genere. Non chiederlo a me. Si chiama Jacob Blank. Ebreo, me lo sento. Anche se Dorothy certamente non potrebbe venire a raccontarmelo. Perché dovrebbe dire a sua madre che sposa un ebreo che io non ho mai conosciuto, che ha il doppio dei suoi anni e fa disegnini per i bambini, Cristo santo?» Non mi posi nemmeno la domanda. Spedire Lucy a casa nel pieno di un'altra crisi familiare era impensabile. Le sue assenze erano già state prolungate in passato, ogni volta che Dorothy doveva scappare dalla città per una riunione editoriale, per un viaggio di ricerca, o per una delle sue numerose "conversazioni sui libri" che richiedevano sempre più tempo di quanto chiunque immaginasse. Lucy rimaneva con la nonna finché la scrittrice vagabonda alla fine riusciva a ritrovare la via di casa. Forse avevamo imparato ad accettare queste ricadute come forme di palese irresponsabilità. Forse anche Lucy la pensava così. Ma scappare? Buon Dio. «Non ti ha detto quando sarebbe tornata?» Voltai le spalle a Lucy e abbassai il tono. «Che cosa?» disse mia madre alzando la voce. «Dire a me una cosa del genere? Perché dovrebbe dirlo a sua madre? Oh! Come ha fatto a ricascarci di nuovo, Kay! Ha il doppio dei suoi anni! Armando aveva il doppio dei suoi anni e guarda che cosa gli è successo! Rimasto lì secco sul bordo della piscina quando Lucy non era neanche capace di andare in bicicletta...» Mi ci volle un poco per calmarle l'attacco isterico. Quando riappesi, avvertii il contraccolpo di quella telefonata. Non mi riuscì di trovare nessun modo di attutire la notizia. «Tua madre è andata via per un po' di tempo, Lucy. Si è sposata con il signor Blank, che illustra i suoi libri...» Continuava a rimanere immobile come una statua. Allungai le braccia e la strinsi contro di me.. «Adesso sono in Nevada...» La sedia si rovesciò all'indietro e cadde contro la parete mentre Lucy si divincolava e scappava in camera sua. Come poteva mia sorella farle una cosa del genere? Ero sicura che non l'avrei mai perdonata, non questa volta. Era già stato abbastanza tragico quando aveva sposato Armando. Aveva diciotto anni compiuti da poco. La ammonimmo. Provammo tutti gli argomenti per dissuaderla. Non parlava quasi inglese, era abbastanza vecchio da essere suo padre e ci insospettiva-
no la sua ricchezza, la sua Mercedes, il Rolex d'oro e il lussuoso appartamento sul mare. Come un sacco di gente che appare misteriosamente a Miami, manteneva uno stile di vita elevato cui non si riusciva a dare una spiegazione logica. Maledetta Dorothy. Sapeva che lavoro facevo, sapeva quanto mi impegnava. Sapeva che avevo esitato ad accettare la visita di Lucy proprio perché c'erano questi delitti in ballo! Ma era stato già pianificato e Dorothy aveva insistito convincendomi con le sue moine. «Se ti dà troppo fastidio, Kay, basta che la rimandi indietro e stabiliremo un altro periodo» aveva detto con dolcezza. «Davvero. Lo desidera così tanto. In questo momento non parla d'altro. Semplicemente ti adora. Un autentico caso di venerazione per il proprio eroe, se mai ne ho visto uno.» Lucy sedeva rigida sul bordo del letto, fissando il pavimento. «Spero che l'aereo sia cascato e si siano ammazzati» fu il suo unico commento mentre la aiutavo a infilare il pigiama. «Non dirai sul serio, Lucy.» Le lisciai il collcttino a margherita sotto il mento. Puoi restare per un po' qui da me. Sarà bello, vero?» Chiuse gli occhi e si voltò verso la parete. Mi sentivo la lingua spessa, impedita. Non c'erano parole che potevano alleviarle la sofferenza e rimasi a guardarla, impotente. Con gesti esitanti mi avvicinai e cominciai ad accarezzarle la schiena. Un po' alla volta, la sua sofferenza parve affievolirsi e finalmente sentii il respiro profondo e regolare del sonno. Le diedi un bacio sulla testa e uscii piano dalla sua stanza. A metà strada verso la cucina, sentii arrivare Bill. Arrivai alla porta prima che suonasse il campanello. «Lucy dorme» bisbigliai. «Oh» rispose con un sussurro scherzoso. «Peccato... quindi non valeva la pena che aspettassi così tanto...» Si girò di colpo, seguendo il mio sguardo sconcertato che puntava fuori, sulla strada. Un paio di fari tagliarono la curva e si spensero nello stesso istante in cui un'auto che non riuscii a riconoscere si bloccava all'improvviso per poi accelerare a marcia indietro, con un'impennata del motore. Si sentirono i ciottoli e la ghiaia scrosciare mentre la macchina svoltava tra gli alberi e filava via. «Aspetti compagnia?» mormorò Bill, scrutando nel buio. Scossi lentamente la testa. Lanciò un'occhiata all'orologio e mi sospinse delicatamente nell'atrio.
Tutte le volte che Marino veniva al Centro, non perdeva mai l'occasione di punzecchiare Wingo, che probabilmente era il miglior tecnico con cui avevo mai lavorato e che era di gran lunga il più fragile. «... Già. Questo è quello che si chiama un incontro ravvicinato del tipo Ford» continuò Marino ad alta voce. Un pancione della polizia di Stato che era arrivato nello stesso momento di Marino ridacchiò di nuovo. Il volto di Wingo era color rosso acceso mentre infilava la presa della sega Stryker nell'avvolgicavo giallo sopra il tavolo di acciaio. Immersa fino ai gomiti nel sangue, mormorai sottovoce: «Ignoralo, Wingo». Marino lanciò un'occhiata di sbieco al poliziotto mentre io aspettavo l'inevitabile altra sconcezza. Wingo era troppo sensibile e a volte mi preoccupavo per lui. Si identificava talmente con le vittime che davanti a un caso particolarmente tragico capitava di frequente che scoppiasse a piangere. Quel mattino si era presentata una delle crudeli ironie della sorte. In una zona rurale di una contea vicina, una ragazza giovane era andata in un bar e verso le due di notte mentre tornava a casa era stata investita da un'auto che non si era fermata. L'agente della polizia di Stato, esaminando i suoi effetti personali, aveva scoperto nel portafoglio un bigliettino di quelli che si trovano nei cioccolatini sul quale era scritto "Presto avrai un incontro che cambierà il corso della tua vita". «O magari voleva una sbattuta, ma di altro genere...» Ero sul punto di urlare a Marino di piantarla quando la sua voce venne soffocata dalla sega Stryker, che ululava come il trapano di un dentista mentre Wingo cominciava a tagliare il cranio della vittima. La polvere d'osso cominciò sgradevolmente ad aleggiare nell'aria e Marino insieme all'agente si ritirarono all'altra estremità della sala dove, sul tavolo in fondo, era in corso l'autopsia dell'ultimo omicidio avvenuto a Richmond. Quando la sega tacque e la calotta cranica venne asportata, smisi di fare quello che stavo facendo per ispezionare rapidamente il cervello. Nessuna emorragia subdurale o subaracnoide... «Non è divertente» disse Wingo attaccando la sua litania indignata, «non è per niente divertente. Come si fa a ridere di una disgrazia come questa...» Il cuoio capelluto della donna era lacerato, ma nient'altro. Quello che l'aveva uccisa erano delle fratture pelviche multiple e l'urto che aveva ricevuto sulle natiche era stato talmente violento che sulla pelle era chiaramen-
te visibile il disegno della griglia anteriore dell'auto. Non era stata colpita da un veicolo basso, come per esempio una macchina sportiva. Probabilmente si era trattato di un camion. «L'aveva conservato perché per lei aveva un significato. Come se fosse stata una cosa in cui voleva credere. Forse proprio per questo era andata al bar ieri sera. Cercava una persona che aspettava da tutta la vita. Il suo incontro. E salta fuori che è un qualche guidatore ubriaco che le fa fare un volo di quindici metri in un fosso.» «Wingo» dissi esausta mettendomi a fotografare, «è meglio se non ti fai venire certe fantasie.» «Non riesco a impedirmelo.» «Devi imparare.» Lanciò uno sguardo ferito verso Marino, che non era soddisfatto fino a quando non riusciva a scatenare una reazione. Povero Wingo. La maggior parte degli appartenenti al duro mondo della legge erano piuttosto sconcertati da lui. Non rideva alle loro battute, né gli piacevano particolarmente i loro racconti di guerra e, cosa questa più significativa, Wingo era, ecco, diverso. Alto e di costituzione sottile, aveva capelli neri tagliati corti ai lati della testa, con un ciuffo da pappagallo sopra e una coda di topo che si arricciava all'altezza della nuca. Di una bellezza delicata, sembrava un modello nei pantaloni ampi e nelle scarpe europee di pelle morbida che indossava. Anche il suo camice azzurro, che aveva comprato personalmente e che lavava personalmente, era elegante. Non flirtava. Non lo seccava l'idea che una donna gli dicesse che cosa fare. Non sembrava mai nemmeno lontanamente interessato al mio aspetto sotto il camice da laboratorio, né ai vestiti da donna d'affari comprati da Britches of Georgetown. Mi trovavo così a mio agio con lui che nelle poche occasioni in cui per sbaglio era entrato nello spogliatoio mentre io mi stavo infilando il camice, non avevo fatto quasi caso alla sua presenza. Immagino che se avessi riflettuto sulle sue tendenze quando qualche mese prima aveva avuto con me il colloquio per l'assunzione forse sarei stata meno entusiasta all'idea di prenderlo. Era una cosa che mi seccava ammettere. Ma era persino troppo facile crearsi degli stereotipi perché dove lavoravo vedevo i peggiori esempi di ogni tipo. C'erano i travestiti con i seni finti e le anche imbottite, i gay che si lasciavano prendere da attacchi di furia e assassinavano l'amante, le checche che frequentavano i parchi e le video
arcade e venivano pestate a morte da fascisti omofobici. C'erano i carcerati con i tatuaggi osceni che si vantavano di sodomizzare qualsiasi cosa si muovesse su due gambe all'interno dei raggi e i ricchi frequentatori di bagni turchi e di bar che se ne fregavano di diffondere l'Aids. Wingo non rientrava in questo quadro. Wingo era semplicemente Wingo. «Può continuare lei da sola?» Stava risciacquando rabbiosamente i guanti insanguinati che gli coprivano le mani. «Finisco io» risposi distratta mentre riprendevo a misurare un largo squarcio del mesentere. Si diresse verso un armadietto e cominciò a raccogliere spruzzatori di disinfettante, stracci e altre cose che utilizzava per la pulizia. Infilò un paio di cuffie alle orecchie, accese il mangianastri appeso alla cintura del camice e si assentò momentaneamente dal mondo. Quindici minuti dopo stava ripulendo il piccolo frigorifero della sala autopsie dove venivano depositate le prove nel corso del weekend. Notai vagamente che tirava fuori qualcosa e rimaneva a osservarlo a lungo. Quando venne al mio tavolo, si era messo le cuffie intorno al collo, a mo' di collare, e aveva un'espressione perplessa e imbarazzata. In mano teneva la cartelletta dei vetrini di un PERK. «Ehm, dottoressa Scarpetta» disse, schiarendosi la gola, «c'era questo nel frigo.» Non spiegò di cosa si trattava. Non ce n'era bisogno. Posai il bisturi mentre mi si stringeva lo stomaco. Stampati sull'etichetta della cartella c'erano il numero del caso, il nome di Lori Petersen e la data dell'autopsia. Ma i reperti, tutti, erano già stati consegnati quattro giorni prima. «Hai trovato questa nel frigorifero?» Ci doveva essere un errore. «Dietro, sul ripiano in basso.» Esitando, aggiunse: «Oh, non ci sono le iniziali. Voglio dire, lei non l'ha siglata.» Ci doveva essere una spiegazione. «Certo che non l'ho siglata io» dissi secca. «Ho raccolto un solo PERK nel suo caso, Wingo.» Anche mentre dicevo queste parole sentivo un mare di dubbi agitarsi in me. Cercai di ricordare. Avevo depositato i reperti dell'autopsia di Lori Petersen nel frigorifero
prima del weekend, insieme a quelli di tutti i casi del sabato. Ricordavo bene di avere preparato personalmente la ricevuta per il laboratorio il lunedì mattina, accludendo una cartella di vetrini con reperti anali, orali e vaginali. Ero sicura di avere usato solo una cartella. Di cartoncino. Non spedivo mai una cartella da sola: di regola veniva rinchiusa in una busta di plastica contenente i reperti, le bustine con i capelli, le provette e il resto. «Non ho la minima idea da dove salti fuori» gli dissi in tono troppo sicuro. A disagio spostò il peso sull'altra gamba e distolse lo sguardo. Sapevo quello che stava pensando. Io avevo combinato un pasticcio e non gli andava affatto di essere quello che me lo aveva fatto rilevare. La possibilità che una cosa simile capitasse poteva presentarsi sempre. Wingo e io l'avevamo analizzata varie volte da quando Margaret aveva caricato il programma di generazione delle etichette nel computer della sala autopsie. Il perito settore prima di aprire un caso andava al PC e immetteva le informazioni sulla persona deceduta di cui stava per effettuare l'autopsia. Il computer generava una serie di etichette per tutti i reperti che il perito avrebbe potuto raccogliere, come sangue, bile, urina, contenuto dello stomaco e PERK. Questo metodo faceva risparmiare un sacco di tempo ed era del tutto accettabile, purché il perito settore facesse attenzione a mettere l'etichetta giusta sulle provette e ricordasse di sigiarle. C'era una particolarità di questo esempio di progresso automatizzato che mi rendeva nervosa. Inevitabilmente rimanevano alcune etichette inutilizzate perché di regola non si raccoglievano tutti i reperti possibili, specialmente quando i laboratori avevano troppo da fare e troppo poco personale. Per esempio, non inviavo al laboratorio frammenti di unghia su cui cercare indizi se il morto era un vecchio di ottant'anni stroncato da un infarto al miocardio mentre tagliava l'erba in giardino. Ma che cosa fare delle etichette che rimanevano? Senz'altro non bisognava lasciarle in giro con il rischio di farle finire sulle provette sbagliate. La maggior parte dei patologi le strappava. Io invece avevo l'abitudine di raccoglierle nella cartella della persona deceduta. Era un metodo rapido per sapere quali esami erano stati fatti, quali erano stati tralasciati e quante provette di questo e di quello erano state spedite al piano di sopra. Wingo era corso dall'altra parte e stava sfogliando le pagine del registro dell'obitorio. Sentivo lo sguardo di Marino fissarmi dal fondo della sala mentre attendeva di raccogliere i proiettili del suo caso di omicidio. Mi si
avvicinò proprio mentre Wingo tornava. «Quel giorno abbiamo avuto sei casi» mi ricordò Wingo come se Marino non ci fosse. «Sabato. Lo ricordo. C'erano un sacco di etichette là sul bancone. Magari una...» «No» dissi ad alta voce. «Non vedo come. Non ho lasciato in giro etichette non utilizzate di quel caso. Erano insieme alla mia documentazione, fissate al mio portablocco...» «Merda» disse Marino sorpreso. Mi stava guardando sopra la spalla. «Sta pensando quel che sto pensando io?» Mi tolsi freneticamente i guanti, presi la cartella dalle mani di Wingo e tagliai il nastro con l'unghia del pollice. Dentro c'erano quattro vetrini, tre dei quali senz'altro erano stati macchiati con qualcosa; però non erano siglati a mano con le lettere O, A, oppure V, che indicavano di che cosa si trattava. Non portavano contrassegni, eccettuata l'etichetta del computer sul frontespizio della cartella. «Dunque, forse ci ha messo l'etichetta pensando di usarle e poi ha cambiato idea?» suggerì Wingo. Non risposi immediatamente. Non me lo ricordavo! «Quando è stata l'ultima volta che hai aperto il frigorifero?» gli chiesi. Scrollò le spalle. «La settimana scorsa, forse lunedì della settimana scorsa quando ho tirato fuori la roba perché i dottori dovevano prelevarla. Non è stato l'ultimo lunedì. Questa settimana è la prima volta che guardo nel frigo.» Poi mi ricordai che Wingo il lunedì precedente aveva usato il computer. Ero stata io in persona a tirare fuori dal frigorifero i reperti di Lori Petersen prima di fare il giro dei laboratori. Era possibile che non avessi visto la cartelletta? Era possibile che fossi così stanca, così distratta, da confondere i reperti del suo caso con quelli di uno degli altri cinque casi di quel giorno? Se la risposta era sì, dove erano finiti i reperti? Nella cartelletta di cui avevo firmato la ricevuta al piano di sopra o in questa? Non riuscivo a credere che fosse successa una cosa del genere. Stavo sempre così attenta! Raramente indosso il camice fuori dalla sala operatoria. Quasi mai. Nemmeno quando c'è un'esercitazione antincendio. Qualche minuto dopo, il personale del laboratorio mi osservava incuriosito percorrere a passo spedito il corridoio del secondo piano nel camice verde macchiato di sangue. Betty si trovava nel suo ufficio stipato di materiale intenta a bere un caffè. Mi lanciò un'occhiata e lo sguardo le si raggelò. «Abbiamo un problema» dissi senza preamboli.
Fissò la cartelletta e l'etichetta incollata sopra. «Wingo stava ripulendo il frigorifero delle prove. L'ha trovata un minuto fa.» «Oh, Dio» fu tutto quello che disse. La seguii nel laboratorio di sierologia spiegandole che non ricordavo affatto di avere messo l'etichetta a due cartelle dei PERK nel caso di Lori. Non avevo la minima idea di che cosa fosse successo. Betty infilò le mani in un paio di guanti, prese dei boccettini da un armadietto tentando nel contempo di rassicurarmi. «Credo che quelli che mi hai fatto avere, Kay, siano i reperti giusti. I vetrini concordano con i tamponi e con tutte le altre cose che hai identificato. Da tutti è risultato che è un non secretore, tutti erano coerenti. Deve trattarsi di un extra che non ti ricordi di avere preso.» Un altro fremito di dubbio. Avevo davvero preso solo una cartella di vetrini? Avrei potuto giurarlo? Gli eventi del sabato precedente mi apparivano sfuocati. Non ricordavo con sicurezza ogni mia mossa. «Non è accompagnata da tamponi, vero?» chiese. «No» risposi. «C'è solo la cartelletta dei vetrini. Wingo ha trovato solo questa.» «Hmm.» Stava riflettendo. «Vediamo che cosa abbiamo qui.» Mise uno dopo l'altro i vetrini sotto il microscopio e dopo un lungo silenzio disse: «Abbiamo grosse cellule di sfaldamento, il che significa che potrebbero essere di origine orale o vaginale, ma non anale. E...» - alzò lo sguardo «non vedo sperma». «Oh, Signore» gemetti. «Riproviamo» rispose. Strappò l'involucro di un pacchetto di tamponi sterili, li inumidì con acqua e delicatamente li strofinò uno alla volta su una porzione del campione di ciascun vetrino: tre in tutto. Poi passò i tamponi su circoletti di carta da filtro bianca. Con il contagocce cominciò abilmente a lasciare cadere del fosfato di acido naftilico sulla carta da filtro. Poi passò al sale fastblue B. Rimanemmo a guardare in attesa della prima sfumatura violetta. I campioni non reagirono. Rimasero minuscole macchie umide, che mi tormentavano. Continuai a fissare, oltre il breve periodo di tempo necessario alla reazione, come se intendessi farli reagire positivamente al liquido seminale. Volevo credere che questa era una campionatura extra. Volevo credere di aver preso due PERK nel caso di Lori e di essermene semplicemente dimenticata.
Volevo credere a qualsiasi cosa, salvo a ciò che stava diventando evidente. I vetrini che Wingo aveva trovato non appartenevano al caso di Lori Petersen, non potevano appartenervi. Era impossibile. Il viso impassibile di Betty mi rivelò che anche lei era preoccupata e che faceva del suo meglio per nasconderlo. Scossi il capo. «Allora non sembra probabile che questi appartengano al caso di Lori Petersen» fu costretta a concludere. Una pausa. «Farò quello che potrò per raggrupparli, naturalmente. Vedrò se ci sono corpi di Barr e simili.» «Ti prego.» Trassi un profondo respiro. Tentando di farmi sentire meglio proseguì: «I fluidi che ho separato da quelli dell'assassino concordano con i campioni del sangue di Lori. Non credo che tu ti debba preoccupare. Non ho il minimo dubbio sulla prima campionatura che hai mandato...» «Qualcuno ha sollevato delle obiezioni» dissi disperata. Sarebbe piaciuto moltissimo agli avvocati. Buon Dio, quanto gli sarebbe piaciuto. Avrebbero indotto la giuria a dubitare che i reperti, comprese le provette di sangue, erano effettivamente quelli di Lori. Avrebbero convinto la giuria a domandarsi se i campioni inviati a New York per il test del Dna erano quelli giusti. Chi poteva affermare con certezza che non provenivano dal cadavere di un'altra persona? Avevo la voce incrinata quando le dissi: «Quel giorno, Betty, abbiamo avuto sei casi. Tre richiedevano un PERK, si trattava di potenziali aggressioni sessuali.» «Tutte donne?» «Sì» mormorai. «Tutte donne.» Avevo ancora stampato in mente quel che Bill mi aveva detto mercoledì sera, quando era stanco e il vino gli aveva sciolto la lingua. Che cosa sarebbe successo a questi casi se la mia credibilità fosse stata compromessa? Non solo sarebbe stato messo a repentaglio il caso di Lori, ma anche tutti gli altri. Ero incastrata, definitivamente e senza via d'uscita. Non potevo fingere che la cartelletta non esistesse. Esisteva, invece, e significava che non potevo onestamente giurare in tribunale che il complesso delle prove fosse intonso. Non avevo una seconda possibilità. Non potevo raccogliere nuovamente i reperti, ripartire da zero. I reperti di Lori erano già stati spediti al laboratorio di New York. Il suo corpo, imbalsamato, era stato sepolto il martedì precedente. Non era neanche il caso di pensare a un'esumazione. Non sa-
rebbe servita a nulla. D'altra parte, sarebbe stato un fatto sensazionale che avrebbe suscitato un'enorme curiosità nell'opinione pubblica. Tutti avrebbero voluto sapere il perché. Betty e io lanciammo contemporaneamente un'occhiata verso la porta, mentre Marino entrava con l'aria di uno che passava per caso. «Mi è appena venuto un brutto pensierino, dottoressa.» Tacque con un'espressione dura in viso, mentre gli occhi vagavano sui vetrini e sulla carta da filtro posata sul banco. Lo fissai confusa. «Io questo PERK qui lo porterei da Wander. Magari è stata lei a lasciarlo nel frigo ma magari no» Un brivido d'allarme mi passò nel sangue, prima di capire. «Cosa?» chiesi, come se fosse matto. «Ce l'ha messo qualcun altro?» Scrollò le spalle. «Sto solo suggerendole di considerare tutte le possibilità.» «Ma chi?» «Non ho idea.» «E in che modo? Come potrebbe essere successo? Qualcuno avrebbe dovuto entrare nella sala autopsie, arrivare fino al frigorifero. E la cartella ha l'etichetta...» Le etichette: adesso mi veniva in mente. Le etichette generate dal computer e rimaste dopo l'autopsia di Lori. Erano nella sua cartella. Nessuno aveva esaminato la cartella, salvo me... e Amburgey, Tanner e Bill. Quando i tre alla fine del pomeriggio di lunedì se ne erano usciti dal mio ufficio, le porte dell'ingresso erano chiuse. Tutti erano passati per l'obitorio. Amburgey e Tanner se ne erano andati per primi, io e Bill poco dopo. La sala delle autopsie era chiusa, ma la cella frigorifera no. Dovevamo lasciarla aperta per consentire alle imprese di pompe funebri e al personale delle squadre di intervento di prelevare e consegnare i cadaveri anche fuori orario. La cella frigorifera aveva due porte: una che dava nel corridoio, l'altra sulla sala delle autopsie. Uno dei tre aveva attraversato la cella ed era entrato nella sala? Su un ripiano accanto al primo tavolo erano impilati i corredi per la raccolta dei reperti, compresi decine di PERK. Wingo non lasciava mai che sugli scaffali il materiale mancasse. Presi il telefono e ordinai a Rose di aprire il cassetto della mia scrivania e di prendere la cartella di Lori Petersen. «Ci dovrebbero essere le etichette delle prove, dentro» le dissi. Mentre controllava, cercai di ricordare. Dovevano essere rimaste sei eti-
chette, forse sette, non perché avessi raccolto molti reperti ma proprio perché ne avevo raccolti tanti: forse il doppio del solito, il che mi aveva obbligata a stampare non una ma due serie di etichette. Dovevano essere rimaste quelle del cuore, dei polmoni, dei reni e degli altri organi, più una extra per il PERK. «Dottoressa Scarpetta?» Rose era tornata al telefono. «Le etichette ci sono.» «Quante?» «Vediamo. Cinque.» «Di che cosa?» «Cuore, fegato, polmoni, milza, più quella della bile e del fegato.» «E nient'altro?» «Nient'altro.» «Sei sicura che non ce n'è una del PERK?» Una pausa. «Sono sicura. Solo queste cinque.» «Se lei ha appiccicato l'etichetta su questo PERK» disse Marino, «ci dovrebbero essere su le sue impronte, direi.» «No, se portava i guanti» disse Betty, che era rimasta a guardare costernata. «Di solito non porto i guanti quando metto le etichette» mormorai. «Sono sporchi di sangue. I guanti sarebbero sporchi di sangue.» «Bene» prosegui Marino tranquillo. «Così lei non aveva i guanti e Dingo stava...» «Wingo» dissi irritata. «Si chiama Wingo!» «Comunque sia.» Marino si girò per andarsene. «Il punto è che lei ha toccato il PERK con le mani nude, il che significa che ci dovrebbero essere su le sue impronte.» Dal corridoio aggiunse: «Ma non ci dovrebbero essere quelle di nessun altro». 10 Non c'erano le impronte di nessun altro. Sulla cartella, le uniche identificabili erano le mie. Si notavano alcune macchie indistinte e qualcosa di così inaspettato che per un attimo mi scordai completamente il disgraziato motivo per cui ero andata da Vander. Vander bombardò il file con il laser e il cartoncino si accese, riempiendosi di punti luminosi come il cielo notturno. «Cose da matti» si meravigliò per la terza volta.
«Questa maledetta roba deve venire dalle mie mani» dissi incredula. «Wingo aveva i guanti e anche Betty...» Vander accese la lampada sopra le nostre teste e scosse il capo in un cenno di dissenso. «Se tu fossi maschio, suggerirei ai poliziotti di interrogarti.» «E non potrei biasimarti.» Aveva un'espressione concentrata. «Ripensa a quello che hai fatto questa mattina, Kay. Dobbiamo verificare se sei stata davvero tu a lasciare questo residuo. In caso positivo dovremmo riconsiderare le ipotesi sugli omicidi per strangolamento, sui punti luminosi che abbiamo trovato.» «No» lo interruppi. «Non è possibile che sia stata io a lasciare il residuo sui corpi, Neils. Ho indossato i guanti per tutto il tempo in cui ho lavorato su di loro. Me li sono tolti quando Wingo ha trovato il PERK. Il fascicolo l'ho toccato con le mani nude.» «Per caso una lacca per capelli, qualche cosmetico?» insistette. «Qualcosa che usi di solito?» «Da escludere» ripetei. «Il residuo non è apparso durante gli esami degli altri cadaveri. L'abbiamo visto solo nei casi di strangolamento.» «Ottima obiezione.» Riflettemmo per un minuto. «Betty e Wingo avevano i guanti, quando hanno preso in mano quest'affare?» Voleva essere assolutamente sicuro. «Sì, li avevano, motivo per cui non hanno lasciato impronte.» «Dunque è improbabile che il residuo venga dalle loro mani?» «Doveva venire dalle mie. A meno che il fascicolo non sia stato toccato da altri.» «Qualche persona che può averlo infilato nel frigorifero, stai pensando.» Vander aveva un'aria scettica. «Ci sono su solo le tue impronte, Kay.» «Ma le chiazze, Neils? Quelle potrebbe averle lasciate chiunque.» Ovviamente. Ma sapevo che non mi credeva. «Cosa stavi facendo esattamente prima di venire su?» «Stavo occupandomi di un investimento con omissione di soccorso.» «E poi?» «Poi Wingo è arrivato con la cartella e io l'ho portata direttamente da Betty.» Osservò tranquillo il camice macchiato di sangue e osservò: «Stavi lavorando con i guanti». «Naturale. E me li sono tolti quando Wingo mi ha portato la cartella,
come già ti ho spiegato...» «I guanti sono trattati con talco.» «Non credo si tratti di talco.» «Probabilmente no, ma è un punto da cui partire.» Tornai nella sala dell'autopsia per prendere un paio di guanti di lattice. Qualche minuto dopo, Vander lacerò l'involucro, rivoltò i guanti e li illuminò con il laser. Nemmeno un luccichio. Il talco, come pensavamo, non reagì. Avevamo già sottoposto a test talchi e ciprie trovati nelle case delle donne uccise, nella speranza di scoprire che cos'era la sostanza luminescente. Le polveri a base di talco non avevano reagito. Vennero accese di nuovo le luci. Presi una sigaretta e riflettei. Cercavo di ricostruire ogni mia singola mossa dal momento in cui Wingo mi aveva mostrato la cartella dei vetrini a quando ero finita nell'ufficio di Vander. Quando Wingo era arrivato con il PERK mi stavo dedicando alle arterie coronarie. Avevo posato il bisturi, mi ero tolta i guanti e avevo aperto la cartella per vedere i vetrini. Ero andata al lavabo, mi ero lavata frettolosamente le mani e avevo usato delle salviette di carta per asciugarle. Poi ero salita al piano di sopra per parlare con Betty. Avevo toccato qualcosa nel suo laboratorio? Se sì, non ricordavo di averlo fatto. Era l'unica cosa che mi riusciva di immaginare. «Il sapone che ho usato giù di sotto, quando mi sono lavata le mani. Potrebbe essere quello.» «Improbabile» disse Vander senza una pausa. «Specialmente se ti sei risciacquata le mani. Se il sapone che usi tutti i giorni reagisse anche dopo il risciacquo, troveremmo continuamente i luccichii sui cadaveri e sugli abiti. Sono piuttosto sicuro che questo residuo lo lascia un materiale granuloso, una polvere di qualche tipo. Il sapone che hai usato al piano di sotto è un disinfettante, è un sapone liquido, vero?» Di solito lo era, ma non quella volta. Avevo troppa fretta per tornare nello spogliatoio a lavarmi con il disinfettante rosa delle bottiglie accanto ai lavandini. Ero andata al lavabo più vicino, quello nella sala delle autopsie, dove c'era un dispenser di metallo riempito con lo stesso sapone granuloso grigio utilizzato in tutto il palazzo. Era un prodotto scadente che l'amministrazione statale comprava in gran quantità. Non sapevo assolutamente che cosa contenesse. Era praticamente inodore, non si scioglieva e non faceva schiuma. Era come lavarsi con sabbia bagnata. In fondo al corridoio c'era una toilette per le donne. Uscii per un attimo e tornai con una mano piena di polvere grigiastra. Spegnemmo le luci e
Vander accese di nuovo il laser. Il sapone impazzi, rilucendo come una lampada al neon bianca. «Che mi venga un accidente!» Vander era interessatissimo. I miei sentimenti non erano esattamente gli stessi. Desideravo disperatamente sapere da dove proveniva il residuo che avevamo trovato sui cadaveri ma mai, nemmeno nelle mie fantasie più sfrenate, avrei immaginato che si sarebbe rivelato essere qualcosa che si trovava in tutte le toilette del palazzo dove lavoravo. Non ne ero ancora convinta. Il residuo sulla cartella veniva dalle mie mani? E in caso contrario? Facemmo delle prove. Di routine, quando devono determinare distanze e traiettorie i tecnici balistici sparano una serie di colpi. Vander e io conducemmo una serie di test di lavaggio delle mani allo scopo di stabilire con quanta cura bisognava risciacquarle per eliminare completamente il residuo. Vander strofinò vigorosamente le mani con la polvere, le risciacquò bene e si asciugò con cura usando gli asciugamani di carta. Il laser rilevò un paio di punti luminosi e nient'altro. Provai a lavarmi le mani esattamente come avevo fatto al piano di sotto. Ne risultò una moltitudine di luccichii che passarono senza difficoltà sul bancone, sulla manica del camice di Vander, su tutto ciò che toccavo. Ovviamente, quanti più oggetti toccavo tante meno particelle rimanevano sulle mani. Tornai nella toilette delle donne e ne riportai una tazzina da caffè piena di sapone. Ci lavammo e rilavammo molte volte. Accendemmo e spegnemmo le luci, proiettammo il raggio laser fino a quando l'area attorno al lavandino sembrò una sorta di visione notturna di Richmond dall'alto. Si verificò un fenomeno interessante. Quanto più ci lavavamo e asciugavamo, tanto più le scintille si accumulavano. Finivano sotto le unghie, si raccoglievano intorno ai polsi e ai polsini delle camicie. Alla fine le trovammo sugli abiti, nei capelli sul viso, sul collo, dovunque ci fossimo toccati. Dopo circa tre quarti d'ora e dopo decine e decine di lavaggi sperimentali, Vander e io sotto la luce della lampada sembravamo perfettamente normali mentre sotto il laser sembravamo avvolti da decorazioni natalizie. «Merda» esclamò nel buio. Era un'interiezione che non gli avevo mai sentito usare. «Ma la vedi questa roba? Quel bastardo deve essere un maniaco della pulizia. Deve lavarsi le mani venti volte al giorno per lasciare tutto quel luccichio.»
«Se questo sapone in polvere è la risposta» gli ricordai. «Certo, certo.» Pregai che gli scienziati del piano di sopra riuscissero a fare le loro magie, ma - pensai - ciò che né loro né nessun altro avrebbe potuto stabilire era l'origine del residuo sulla cartelletta e come questa era finita nel frigorifero. La mia ansiosa vocina interiore mi stava di nuovo tormentando. Non sei capace di accettare la possibilità di avere fatto uno sbaglio, mi ammonii. Non riesci ad affrontare la verità. Hai sbagliato l'etichetta di questo PERK e il residuo trovato sopra l'hanno lasciato le tue mani. Ma, e se...? Se lo scenario fosse stato più pericoloso? mi chiesi in silenzio. Se qualcuno aveva malignamente messo la cartella nel frigorifero, se il residuo proveniva dalle mani di questo qualcuno, invece che dalle mie? Era un'idea bizzarra, il veleno di una fantasia impazzita. Fino a quel momento, un residuo simile era stato trovato sui corpi delle quattro donne assassinate. Sapevo che la cartelletta era stata toccata da Wingo, da Betty, da Vander e da me. Le sole altre persone che avrebbero potuto toccarla erano Tanner, Amburgey e Bill. Mi tornò in mente il viso di Bill. Qualcosa di sgradevole e di raggelante prese forma dentro di me mentre le immagini del lunedì pomeriggio mi scorrevano lentamente nella memoria. Nel corso della riunione con Amburgey e con Tanner, Bill era apparso così distante. Non era stato capace di guardarmi in faccia, né allora né quando i tre uomini avevano passato in rassegna le pratiche nella sala conferenze. Rividi i fascicoli scivolare dalle ginocchia di Bill e cadere in un'orribile confusione sul pavimento. Tanner si era subito offerto di raccoglierli. Era stato però Bill a raccattare i fogli, tra i quali ci dovevano essere le etichette non utilizzate. Poi lui e Tanner avevano rimesso tutto in ordine. Quanto sarebbe stato facile strappare un'etichetta e infilarsela in tasca... Dopo, Amburgey e Tanner se ne erano andati insieme, mentre Bill si era trattenuto con me. Eravamo rimasti a parlare nell'ufficio di Margaret per dieci o quindici minuti. Si era dimostrato affettuoso e mi aveva promesso che un paio di drink e una serata passata insieme mi avrebbero disteso i nervi. Era uscito molto prima di me e mentre se ne andava era solo, senza nessuno che lo sorvegliasse... Cancellai quelle immagini dalla mente, rifiutando di prenderle ulterior-
mente in considerazione. Avevo passato il segno. Stavo perdendo il controllo. Bill non sarebbe stato capace di tanto. In primo luogo non c'era nessun motivo per fare una cosa del genere. Non riuscivo a immaginare come potesse giovargli un simile atto di sabotaggio. Le etichette sbagliate sui vetrini potevano danneggiare solo i casi che poi era lui a dover portare in tribunale. Non sarebbe stato solo come spararsi in un piede, ma come spararsi in testa. Vuoi dare la colpa a qualcuno perché non riesci ad affrontare il fatto che probabilmente sei stata tu a incasinare tutto. Questi casi di strangolamento erano i più difficili della mia carriera e temevo di cominciare a esserne troppo coinvolta. Forse stavo perdendo le mie abitudini di lavoro razionali e metodiche. Forse stavo commettendo degli errori. «Dobbiamo riuscire a rintracciare la composizione di questa roba» stava dicendo Vander. Come consumatori attenti, dovevamo trovare la scatola del sapone e leggere gli ingredienti. «Faccio passare le toilette femminili» mi offrii. «Io quelle degli uomini.» La caccia si rivelò fruttuosa. Dopo essere entrata e uscita da tutte le toilette femminili del palazzo, mi feci furba e cercai Wingo. Una delle sue mansioni era quella di riempire tutti i dispenser di sapone dell'obitorio. Mi indirizzò all'armadio del portinaio al pianterreno, situato a svariate porte dal mio ufficio. Qui, su uno scaffale in alto, accanto a una pila di stracci per la polvere trovai una scatola grigia di sapone Borawash in confezione per comunità. La componente principale era borace. Un rapido controllo su uno dei miei manuali di chimica mi chiari come mai la polvere di sapone si accendeva come una luminaria del quattro luglio. Il borace è un composto del boro ed è una sostanza cristallina che conduce l'elettricità come un metallo alle alte temperature. Nell'industria, viene impiegata nella fabbricazione di ceramiche, di vetri speciali, di detersivi in polvere e disinfettanti, oltre che per la preparazione di abrasivi e di combustibili per missili. Per ironia della sorte una grossa percentuale della produzione mondiale di borace viene dalla Valle della Morte. Arrivò e passò il venerdì notte e Marino non telefonò. Alle sette del mattino seguente parcheggiai la macchina dietro il palazzo
e, a disagio, controllai il registro dell'ufficio dell'obitorio. Non avevo bisogno di convincermene. Lo sapevo già. Sarei stata una delle prime a essere avvertita. Non era stato registrato nessun cadavere che non aspettassi, ma questa tranquillità sembrava promettere male. Non potevo togliermi di dosso la sensazione che un'altra donna attendesse che mi occupassi di lei, che il delitto si fosse ripetuto. Rimasi in attesa di una telefonata di Marino. Vander mi telefonò da casa alle sette e mezza. «Novità?» chiese. «Se capita qualcosa ti chiamo immediatamente.» «Mi terrò vicino al telefono.» Il laser era nel suo laboratorio al piano di sopra, posato su un carrello, pronto per venire portato nel laboratorio di radiologia, se fosse servito. Avevo prenotato il primo tavolo delle autopsie e il giorno precedente, nel pomeriggio, Wingo lo aveva lucidato a specchio, preparando anche due carrelli con tutti gli strumenti chirurgici possibili e tutti gli apparecchi e le scatolette per la raccolta dei reperti. Tavolo e carrelli rimasero inutilizzati. Gli unici casi che capitarono furono un'overdose di cocaina proveniente da Fredericksburg e un annegamento accidentale dalla contea di James City. Poco prima di mezzogiorno Wingo e io eravamo soli e metodicamente terminavamo il lavoro della mattinata. Le sue scarpe da atletica producevano un cigolio acuto sul pavimento di piastrelle bagnato mentre, appoggiato lo spazzolone al muro, osservava rivolto a me: «Dicono in giro che ieri sera cento poliziotti hanno fatto lo straordinario». Continuai a compilare un certificato di morte. «Speriamo che sia servito a qualcosa.» «Servirebbe se io fossi in lui.» Con un getto d'acqua si mise a lavare un tavolo macchiato di sangue. «Quel tizio sarebbe stato matto a farsi vedere in giro. Un poliziotto mi ha detto che fermano tutti quelli che trovano per strada. Vedono uno che sta facendo un giretto a piedi la sera tardi e controllano. Prendono anche il numero di targa, se vedono una macchina parcheggiata in qualche posto dopo una certa ora.» «Che poliziotto?» Lo guardai. Non era arrivato nessun caso da Richmond quel mattino e non avevamo visto nessun poliziotto di Richmond. «Chi è il poliziotto che te lo ha detto?» «Uno di quelli che ha portato l'annegato.»
«Dalla contea di James City? E come fa a sapere quello che è successo a Richmond ieri notte?» Wingo mi lanciò un'occhiata curiosa. «Suo fratello fa il poliziotto qui in città.» Mi voltai per nascondere l'irritazione. Troppa gente parlava. Un poliziotto che aveva un fratello che faceva il poliziotto a Richmond aveva detto a Wingo, a uno sconosciuto, queste cose? E che altro si diceva? C'erano troppe chiacchiere. Troppe. Interpretavo in modo diverso anche le più innocenti osservazioni, cominciavo a sospettare di tutto e di tutti. «Secondo me il tipo si è dato una calmata» stava dicendo Wingo. «Si raffredda i piedi per un po', fino a che tutto è tornato tranquillo.» Tacque, mentre l'acqua scrosciava sul tavolo. «O è così, oppure ha colpito anche ieri notte e il corpo non è ancora stato trovato.» Non dissi nulla, mentre la mia irritazione cresceva sempre più. «D'altra parte, chissà.» La voce era soffocata dal rumore dell'acqua. «Un po' difficile pensare che ci abbia provato. Troppo rischioso, secondo me. Però le conosco alcune delle teorie. Dicono che a certi tipi dopo un po' le faccende di questo genere piacciono quando sono davvero pericolose. Come se volessero prendersi gioco di tutti, mentre in realtà vogliono essere catturati. Magari quello non ne può fare a meno e implora che qualcuno lo prenda...» «Wingo...» ammonii. Non sembrò udirmi e proseguì. «Deve essere un qualche tipo di malattia. Lo sa che è malato. Io ne sono piuttosto sicuro. Forse ha implorato qualcuno che lo salvi da se stesso...» «Wingo!» Alzai la voce e feci ruotare la sedia. Aveva chiuso l'acqua ma era troppo tardi. Le parole mi erano già uscite di bocca, a volume altissimo, nei locali silenziosi e vuoti... «Non vuole farsi prendere!» Aprì la bocca sorpreso, i lineamenti contratti dalla durezza del mio tono di voce. «Ehi! Non volevo farla arrabbiare, dottoressa Scarpetta. Io...» «Non sono arrabbiata» scattai. «Ma i tipi come quel bastardo non si vogliono far prendere, capito? Non è malato, capito? È antisociale, è malvagio e lo fa perché vuole farlo, capito?» Con le scarpe che ora cigolavano appena, prese con un gesto lento una spugna da un catino e la passò sulle fiancate del tavolo. Evitava di guardarmi. Rimasi a fissarlo, sconfitta.
Non alzò gli occhi dal suo lavoro. Mi sentivo a disagio. «Wingo?» Allontanai la sedia dalla scrivania. «Wingo?» Mi si avvicinò riluttante. Gli toccai leggermente un braccio. «Mi scuso. Non avevo nessun motivo per trattarti così.» «Nessun problema» disse e l'espressione di disagio nei suoi occhi mi innervosì «Lo so quello che sta passando. Con quello che è successo e tutto il resto. Mi fa diventare matto, sa. Me ne sto sempre qui seduto a cercare di pensare qualcosa da fare. Tutti che le danno contro di questi tempi e io che non riesco a farmi venire in mente niente. Io, ecco, bene, vorrei solo poter fare qualcosa...» Così stavano le cose! Non lo avevo offeso ma avevo rafforzato le sue preoccupazioni. Wingo era preoccupato per me, sapeva che non ero me stessa, di questi giorni, che ero tesa fino al punto di rottura. Forse la cosa stava diventando evidente anche agli altri. Le indiscrezioni, la violazione del computer, i vetrini con l'etichetta errata. Forse nessuno si sarebbe sorpreso se alla fine fossi stata accusata di incompetenza... «Ce ne siamo accorti anche noi» avrebbero detto. «Cominciava a dare i numeri.» Tanto per dirne una, non dormivo bene. Anche quando cercavo di rilassarmi, la mia mente sembrava una macchina senza l'interruttore per spegnerla. Continuava a girare, a girare, a girare finché il cervello si surriscaldava e i miei nervi vibravano come cavi dell'alta tensione. La sera prima avevo cercato di rallegrare un po' Lucy portandola a cena e al cinema. Per tutto il tempo che avevamo passato nel ristorante e in sala non avevo fatto altro che attendere che il cercapersone suonasse e ogni tanto lo controllavo per accertarmi che le batterie fossero cariche. Non mi fidavo del silenzio. Alle tre del pomeriggio dettai due autopsie e demolii una catasta di microcassette. Quando udii il telefono suonare mentre stavo entrando in ascensore mi precipitai in ufficio e afferrai la cornetta. Era Bill. «L'impegno vale ancora?» Non potevo rispondergli di no. «Certo, volentieri» risposi con un entusiasmo che non provavo. «Ma non credo che la mia compagnia sia esaltante di questi tempi.» «E allora non mi esalterò.» Uscii dall'ufficio. Era un altro giorno di sole, ma più caldo. La bordura d'erba che circondava l'edificio dove lavoravo cominciava ad apparire secca e dalla radio,
mentre tornavo a casa, venni a sapere che il raccolto di pomodori era in pericolo se non fosse sopraggiunta altra pioggia. Avevamo avuto una primavera strana, molto variabile. Lunghi periodi di vento e di sole e poi, come dal nulla, arrivava una feroce armata di nuvole nere. I fulmini facevano mancare la luce in tutti i quartieri della città e la pioggia cadeva a scrosci. Era come gettare un secchio d'acqua in faccia a un assetato: un gesto troppo improvviso che gli impediva di bere una sola goccia. A volte mi colpivano certi parallelismi nella vita. Il mio rapporto con Bill aveva seguito più o meno l'andamento meteorologico. Aveva fatto irruzione nella mia esistenza con la sua bellezza quasi prepotente, mentre io poi avevo scoperto che quel che desideravo era una pioggerella delicata, una parentesi di tranquillità per dissetare il desiderio del mio cuore. Desideravo vederlo quella sera e al tempo stesso paventavo la sua venuta. Puntuale come sempre, arrivò alle cinque esatte. «È un bene e un male» osservò quando fummo sul mio patio posteriore intenti ad accendere la griglia. «Un male?» chiesi. «Non credo che tu pensi una cosa del genere, Bill.» Sul sole, basso e ancora caldo, passavano a tratti nuvole ribollenti che gettavano sprazzi d'ombra e di luce candida. Il vento aveva preso forza e l'atmosfera era gravida di cambiamento. Si asciugò la fronte sulla manica della camicia e mi guardò socchiudendo gli occhi. Un colpo di vento piegò gli alberi e fece volare nel patio un fazzoletto di carta. «È un male, Kay, perché il fatto che se ne stia tranquillo può voler dire che ha lasciato questa zona.» Ci allontanammo dalle braci della carbonella e sorseggiammo birra direttamente dalle bottiglie. Mi riusciva insopportabile l'idea che l'assassino se ne fosse andato. Lo volevo qui. Per lo meno conoscevamo il suo modo di agire. Il mio timore era che cominciasse a colpire in altre città, dove i casi sarebbero stati presi in mano da investigatori e da medici legali che non erano al corrente di quel che noi ormai sapevamo. Non c'è nulla in grado di rovinare un'indagine quanto uno sforzo comune di più giurisdizioni. I poliziotti sono gelosi del proprio orticello. Ogni agente vuole arrivare all'arresto e pensa di poter trattare il caso meglio di chiunque altro. E alla fine si convince che il caso è di sua proprietà. Anch'io non ero immune da una certa dose di possessività. Le vittime erano diventate come delle mie protette e la loro unica speranza di giustizia era che l'assassino venisse preso e giudicato qui. Una persona può essere accusata solo di un certo numero di omicidii e una condanna altrove a-
vrebbe potuto impedire un processo a Richmond. Era un pensiero insopportabile. Sarebbe stato come se le morti delle donne di Richmond fossero, in pratica, delle prove di nessuna utilità. Forse sarebbe saltato fuori che era inutile anche tutto quel che stava succedendo a me. Bill stava spruzzando altro liquido infiammabile sulla carbonella. Si allontanò dalla griglia e mi guardò, il viso acceso dal calore. «E il tuo computer?» chiese. «Niente di nuovo?» Esitai. Non c'era motivo di essere evasiva. Bill sapeva benissimo che avevo ignorato gli ordini di Amburgey e che non avevo né cambiato la parola d'ordine né fatto nulla per - con le sue parole - "rendere sicuri" i miei dati. Il lunedì sera precedente, Bill era in piedi accanto a me quando avevo attivato la modalità risposta e l'eco, come per invitare il responsabile a riprovarci. Il che era esattamente quel che intendevo fare. «Non pare che nessun altro l'abbia violato, se è questo che intendi dire.» «Interessante» disse, buttando giù un'altra sorsata di birra. «Non c'è logica. Si penserebbe che quella persona tentasse di entrare nel caso di Lori Petersen.» «La Petersen non è nel computer» gli ricordai. «Nel computer non vengono immesse informazioni nuove fino al termine delle indagini attive.» «Quindi nel computer i dati dell'indagine non ci sono. Ma lei come fa a saperlo se non lo verifica direttamente?» «Lei?» «Lei, lui... chiunque sia.» «Ecco, lei, lui, chiunque sia, ha guardato una prima volta e non ce l'ha fatta a tirar fuori il caso di Lori Petersen.» «Continua a non esserci una logica, Kay» insistette. «E pensandoci bene, come prima cosa non ha molto senso che qualcuno ci abbia provato. Chiunque conosca bene le procedure di acquisizione dati si sarebbe reso conto che il risultato di un'autopsia fatta il sabato è poco probabile sia già nella base dati dell'ufficio il lunedì.» «Chi non risica non rosica» mormorai. Ero tesa. Mi riusciva impossibile rilassarmi e lasciarmi andare a godere quella che avrebbe dovuto essere una serata piacevole. In cucina stavano marinando delle braciole spesse due dita. Una bottiglia di rosso stava ossigenandosi sulla credenza. Lucy preparava l'insalata ed era di ottimo umore, considerando che non avevamo nessuna notizia da sua madre, che era andata chissà dove con il suo illustratore. Lucy sembrava perfettamente a proprio agio. Nella sua fantasia stava cominciando a
credere che non se ne sarebbe mai andata e mi preoccupava che avesse cominciato ad accennare a come sarebbe stato bello "quando il signor Boltz" e io "ci saremmo sposati". Lo osservavo come se lo avessi appena conosciuto. Fissava pensoso le braci fiammeggianti, tenendo distrattamente la birra con tutte e due le mani, i peli sulle braccia e sulle gambe dorati come il polline sotto il sole. Lo vedevo attraverso un velo di calore e di fumo che sembrava il simbolo della distanza che aumentava tra noi due. Perché la moglie aveva usato la rivoltella di Bill per ammazzarsi? Era per un motivo utilitaristico che l'aveva ritenuta lo strumento più comodo per togliersi istantaneamente di mezzo? Oppure l'aveva scelta per punirlo di peccati di cui io non sapevo nulla? Si era sparata al torace stando seduta nel letto... nel loro letto. Aveva premuto il grilletto quel lunedì mattina, poche ore dopo, magari pochi minuti dopo, aver fatto all'amore. Il PERK aveva dato reazione positiva allo sperma. Quando l'avevo esaminata brevemente in situ la pelle aveva ancora un leggero effluvio di profumo. Qual era l'ultima cosa che Bill le aveva detto prima di andare al lavoro? «Scendi dalle nuvole, Kay...» Rimisi a fuoco lo sguardo. Bill mi fissava. «Dove ti eri persa?» chiese, passandomi un braccio attorno alla vita, il respiro vicino alla mia guancia. «Posso venirci anch'io?» «Stavo solo pensando.» «A che cosa? Non dirmi che si tratta di lavoro...» Sputai il rospo. «Bill, mancano dei documenti da uno dei fascicoli che tu, Amburgey e Tanner stavate guardando l'altro giorno...» La mano che mi accarezzava all'altezza della vita, dietro, si bloccò. Avvertii la rabbia nella pressione delle dita. «Che documenti?» «Non ne sono proprio sicura» risposi nervosamente. Non avevo il coraggio di essere precisa, di citare l'etichetta del PERK mancante dalla pratica di Lori Petersen. «Mi chiedevo solo se per caso hai notato qualcuno prendere qualcosa...» Staccò bruscamente il braccio ed esplose. «Cazzo. Non puoi toglierti di testa questi maledetti casi neanche per una maledetta serata?» «Bill...» «Basta, d'accordo?» Ficcò le mani nelle tasche degli short, evitando di guardarmi. «Cristo, Kay. Mi vuoi far diventare matto. Sono morte. Quelle donne sono morte e sepolte. Morte. Morte! Tu e io siamo vivi. La vita pro-
segue. O perlomeno così si pensa. Questa faccenda ti fa del male, ci fa del male, se non la pianti di lasciarti ossessionare da questi casi.» Per il resto della serata, però, mentre Bill e Lucy parlavano a tavola di cose senza importanza, io stavo attenta a eventuali squilli del telefono. Mi aspettavo una telefonata. Di Marino. Quando effettivamente il mattino presto il telefono squillò, la pioggia sferzava la casa e io dormivo irrequieta, tra spezzoni di sogni, preoccupata. Cercai la cornetta. Nessuno all'altro capo. «Pronto?» ripetei mentre accendevo la lampada. Sentii come sottofondo il debole suono della televisione, un mormorio di voci lontane che recitavano frasi incomprensibili. Con il cuore che rimbombava contro le costole buttai giù disgustata il ricevitore. Era il primo pomeriggio del lunedì. Sfogliavo le relazioni preliminari dei test che gli specialisti stavano conducendo al piano di sopra. I casi di strangolamento avevano ricevuto la massima priorità. Ogni altra cosa - tasso di alcol nel sangue, droghe e barbiturici - era rimasta temporaneamente in sospeso. Avevo un pool di quattro insigni menti scientifiche concentrate sulle tracce di una sostanza luminescente che avrebbe potuto essere uno scadente sapone in polvere usato in tutte le toilette pubbliche della città. Non si poteva sostenere che le relazioni preliminari fossero esaltanti. Allo stato attuale, non c'era molto da dire nemmeno sul conto del campione che avevamo in mano, il sapone Borawash usato nel nostro edificio. Era costituito all'incirca da un venticinque per cento di "sostanza abrasiva inerte" e da un settantacinque per cento di borato di sodio. Lo sapevamo perché ce lo avevano detto i chimici della ditta produttrice. Ma per il nostro microscopio elettronico a scansione il borato di sodio, il carbonato di sodio e il nitrato di sodio risultano semplicemente sodio. Le tracce di sostanza rilucente avevano dato lo stesso risultato: sodio, appunto. A conti fatti era come dire che in una certa sostanza ci sono residui di piombo, metallo che si trova dappertutto, nell'aria, nel terreno, nella pioggia. Non cercavamo mai la presenza di piombo nei pallini da caccia perché un risultato positivo non aveva alcuna rilevanza. In altri termini, non è borace tutto quel che luccica. Le tracce trovate sul corpo delle donne massacrate avrebbero potuto appartenere a una sostanza diversa, per esempio nitrato di sodio, impiegato in
una gamma di prodotti che va dai fertilizzanti alla dinamite. Oppure avrebbe potuto trattarsi di un carbonato cristallino utilizzato nello sviluppo dei negativi. In linea teorica, l'assassino avrebbe potuto trascorrere le ore lavorative in una camera oscura, in una serra oppure in una fattoria. Quante sostanze contenenti sodio ci sono in giro? Dio solo lo sa. Vander stava testando con il laser una varietà di altri composti del sodio per vedere se rilucevano. Era un metodo rapido per eliminare voci dall'elenco. Nel frattempo mi ero fatta le mie idee. Volevo sapere chi altri nell'area metropolitana di Richmond aveva ordinato del Borawash, chi oltre al Dipartimento sanità e servizi sociali. Contattai un distributore del New Jersey. Mi trovai a parlare con una segretaria che mi passò le vendite che mi passarono la contabilità che mi passò l'elaborazione dati che mi passò le relazioni esterne che mi passarono di nuovo la contabilità. A questo punto ci fu un intoppo. «L'elenco dei nostri clienti è riservato. Non sono autorizzato a comunicarlo. Che tipo di esami ha detto che fa lei?» «Esami di tipo medico legale» dissi, misurando ogni parola. «Sono la dottoressa Scarpetta, direttrice del Centro di medicina legale della Virginia.» «Ah, quindi lei dà ai medici l'autorizzazione a esercitare la professione...» «No, svolgiamo indagini nei casi di morte.» «Vuole dire che lei è un coroner?» Inutile stare a spiegargli che, no, non ero un coroner. I coroner sono funzionari elettivi e di solito non sono specializzati in patologia legale. In America, uno può lavorare in un distributore di carburante e, in certi Stati, venire eletto coroner. Gli lasciai credere che aveva visto giusto e questo non fece che peggiorare le cose. «Non capisco. Lei vorrebbe sostenere che qualcuno afferma che il Borawash è fatale? È impossibile. Per quanto ne so io, non è tossico, non lo è assolutamente. Mai avuto problemi di questo genere. Forse qualcuno l'ha mangiato? Credo che dovrò farla parlare con il mio capo...» Spiegai che una sostanza che poteva essere Borawash era stata trovata nei luoghi in cui si erano verificati vari delitti, ma che il detergente non aveva nulla a che vedere con le morti in questione e che non mi interessava affatto la potenziale tossicità del sapone. Dissi che avrei potuto ottenere un'ingiunzione del tribunale, cosa che avrebbe semplicemente fatto perdere
altro tempo a me e a lui. Sentii il clic dei tasti mentre consultava un computer. «Credo che vorrà avere la lista, dottoressa. I nomi dei clienti di Richmond sono settantatré.» «Sì, le sarò molto grata se mi farà avere il tabulato il più in fretta possibile. Comunque, la pregherei di leggermi direttamente i nomi, se non le spiace.» Con palese mancanza di entusiasmo me li lesse, cosa che si rivelò molto utile. Non conoscevo la maggior parte dei clienti, salvo il Dipartimento della motorizzazione, i Servizi generali del municipio e, ovviamente, il Dipartimento sanità e servizi sociali. In totale si contavano probabilmente diecimila dipendenti, partendo dai giudici, dai difensori d'ufficio, dal pubblico ministero e dall'intera forza di polizia, per arrivare fino ai meccanici degli autoparchi dello Stato e del municipio. In questa grande marea di persone c'era un certo signor Nessuno maniaco della pulizia. Stavo tornando alla scrivania poco dopo le tre del pomeriggio con un'altra tazza di caffè quando Rose si mise in comunicazione con me e mi passò una telefonata. «È morta da un bel po' di tempo» mi stava dicendo Marino. Afferrai la valigetta e mi precipitai fuori dalla porta. 11 Secondo Marino, la polizia non aveva ancora trovato dei vicini che avessero visto Henna, la vittima, durante il fine settimana. Una sua collega aveva provato a telefonarle il sabato e la domenica ma non aveva ottenuto risposta. Quando non si era fatta vedere per la lezione che doveva tenere all'una, aveva chiamato la polizia. Un poliziotto si era recato sul posto ed era andato dietro la casa. Una finestra del terzo piano era spalancata. La vittima divideva l'appartamento con una amica che apparentemente non era in città. La casa era a circa un chilometro e mezzo dal centro, nelle vicinanze della Virginia Commonwealth University, un complesso di edifici con più di ventimila studenti. Molti degli istituti universitari avevano sede in case vittoriane restaurate e in ville di arenaria lungo la West Main. Si stavano svolgendo i corsi estivi e gli studenti passeggiavano e andavano in bicicletta per la strada. Indugiavano ai tavolini dei ristoranti, bevendo caffè, con pile di libri accanto, mentre parlavano con gli amici e si godevano il tepore
del sole di uno splendido pomeriggio di giugno. Henna Yarborough, mi aveva spiegato Marino, aveva trentun anni e insegnava giornalismo alla School of Broadcasting dell'università. Si era trasferita a Richmond dal North Carolina l'autunno precedente. Non sapevamo altro sul suo conto, salvo che era morta e che la morte risaliva a diversi giorni prima. Il posto pullulava di poliziotti e di giornalisti. Le macchine rallentavano passando davanti alla casa a tre piani di mattoni scuri, con una bandiera blu e verde cucita a mano che sventolava sopra l'ingresso. Alle finestre c'erano vasi di gerani rosa e bianchi e un tetto di tegole blu acciaio con un disegno Art Nouveau color giallo pallido. La strada era talmente congestionata che fui costretta a parcheggiare a mezzo isolato di distanza; non mancai di osservare che i giornalisti sembravano meno aggressivi del solito. Quando gli passai accanto non fecero quasi una piega. Non mi puntarono telecamere e microfoni in faccia. Avevano un atteggiamento quasi militaresco - rigidi, silenziosi, decisamente a disagio - come se avvertissero che questa era una faccenda diversa. Numero cinque. Cinque donne come loro, oppure come le loro mogli o amanti, che erano state brutalizzate e assassinate. Un poliziotto sollevò il nastro giallo che sbarrava la porta d'ingresso in cima ai gradini consunti di granito. Mi trovai in un atrio scuro e salii due piani di scale di legno. Sul ballatoio dell'ultimo piano trovai il capo della polizia, svariati funzionari di alto grado, investigatori e poliziotti in divisa. C'era anche Bill; era il più vicino a una porta aperta e stava guardando dentro. Per un attimo i nostri occhi si incontrarono; aveva il viso cereo. Mi dimenticai della sua presenza quando mi fermai sulla soglia e osservai nella piccola camera da letto pervasa dal fetore pungente della carne umana in decomposizione, diverso da qualsiasi altro odore sulla terra. Marino mi voltava le spalle. Accucciato sui talloni, apriva i cassetti passando abilmente in rassegna strati e strati di abiti riposti con ordine. Sul ripiano del comò erano disposte irregolarmente boccette di profumo e creme idratanti, una spazzola per capelli e dei ferri per arricciarli. Contro la parete a sinistra era accostata una scrivania. La macchina per scrivere elettrica al centro sembrava un'isola in mezzo a un mare di carte. Alcuni libri si trovavano su una mensola sopra la scrivania, altri erano impilati sul pavimento di tek. La porta della cabina armadio era semiaperta e all'interno la luce era spenta. Non c'erano né tappeti né oggetti, e neppure fotografie o quadri alle pareti: come se la donna non avesse vissuto lì molto
tempo, oppure come se la sua permanenza fosse solo temporanea. Alla mia destra, in fondo, c'era un letto matrimoniale. Da lontano notai solo le coperte in disordine e una chiazza di capelli scuri. Facendo attenzione a dove mettevo i piedi, mi avvicinai. Il viso era rivolto verso di me ed era talmente deformato, talmente gonfiato dalla decomposizione che non riuscii a ricostruire le sue sembianze da viva, salvo che era di razza bianca, con capelli castano scuro lunghi fino alle spalle. Era nuda, distesa sul fianco destro, le gambe raccolte, le mani dietro la schiena, legate strettamente. Pareva che l'assassino avesse usato i cordoni delle veneziane; i nodi, lo schema seguito, non mi erano nuovi. Una sopraccoperta blu le era stata gettata sui fianchi in un modo che suggeriva indifferenza e freddo disprezzo. Sul tappeto ai piedi del letto c'era un pigiama dai calzoni corti. La camicia, ancora abbottonata, era stata lacerata da cima a fondo. I calzoncini sembravano essere stati tagliati lungo i fianchi. Marino attraversò lentamente la stanza e si fermò accanto a me. «È salito per la scala esterna.» «Che scala esterna?» C'erano due finestre. Quella che lui guardava era aperta ed era la più vicina al letto. «C'è una vecchia scala antincendio sul muro di mattoni» spiegò. «È da lì che è entrato. I gradini sono tutti una ruggine. Qualche scaglia si è staccata ed è stata trovata sul davanzale, probabilmente lasciata dalle sue scarpe.» «Ed è sempre da lì che è uscito» dedussi ad alta voce. «Non è sicuro, ma sembrerebbe di sì. La porta sotto era chiusa a chiave. Abbiamo dovuto sfondarla. Ma fuori» aggiunse, guardando di nuovo verso là finestra, «sotto la scala c'è l'erba alta e non ci sono impronte di piedi. Sabato notte ha piovuto che Dio la mandava e questo non ci aiuta affatto.» «C'è l'aria condizionata qui?» Sentivo la pelle percorsa da brividi, la stanza calda e umida e pregna del fetore di decomposizione. «No. E neanche ventilatori. Neanche uno.» Si passò una mano sul viso arrossato. I capelli aderivano alla fronte simili a pezzi di spago grigi; gli occhi, cerchiati, erano iniettati di sangue. Aveva l'aria di uno che non andava a letto e non si cambiava da una settimana. «La finestra era chiusa?» «Né l'una né l'altra...» Un'espressione di sorpresa si dipinse sul suo volto mentre ci voltavamo all'unisono verso la porta. «Che diavolo...?» Dall'atrio due piani sotto arrivavano gli strilli di una donna. Si senti un
rumore di passi e delle voci maschili intente a discutere. «Fuori da casa mia! Oh, Dio... Fuori da casa mia, figlio di puttana!» strillò la donna. Marino mi passò bruscamente accanto, udii il tonfo dei suoi passi sulle scale di legno. Lo sentii dire qualcosa a qualcuno e quasi immediatamente le urla cessarono. Il volume delle voci si ridusse a un brusio. Cominciai l'esame esterno del corpo. Aveva la stessa temperatura della stanza e il rigor mortis era già finito. Subito dopo il decesso si era raffreddato e irrigidito e poi, quando la temperatura esterna era salita, lo stesso era avvenuto per quella del corpo. Alla fine la rigidità era cessata, come se lo shock iniziale della morte con il passare del tempo fosse svanito. Non dovetti scostare molto il copriletto per vedere che cosa c'era sotto. Per un attimo trattenni il respiro e mi parve che il cuore mi si bloccasse. Lo rimisi delicatamente a posto e mi tolsi i guanti. In quella stanza non c'era nulla che potessi fare per lei. Nulla. Quando udii Marino risalire le scale mi voltai per dirgli di accertarsi che il corpo venisse portato all'obitorio avvolto nel copriletto. Ma le parole mi si fermarono in gola e rimasi attonita, senza fiato. Sulla soglia, accanto a lui, c'era Abby Turnbull. Che cosa gli era venuto in mente, a Marino? Era diventato matto? Abby Turnbull, l'asso del giornalismo, lo squalo di fronte al quale quello di Jaws faceva la figura di un pesciolino rosso? Notai che la Turnbull indossava un paio di sandali, blue jeans e una camicia di cotone bianco fuori dai calzoni. Portava i capelli tirati indietro, era senza trucco. Non aveva con sé né taccuino né registratore, solo una borsa di tela grezza. Gli occhi spalancati erano inchiodati al letto, i lineamenti sconvolti dal terrore. «Dio, no!» esclamò posandosi una mano sulla bocca. «Allora è lei» disse Marino a voce bassa. La donna si avvicinò, sempre fissando il letto. «Mio Dio. Henna. Oh, mio Dio...» «Questa era la sua stanza?» «Sì. Sì. Oh, Dio, ti prego...» Marino voltò la testa facendo cenno a un uomo in divisa, che non vedevo, di salire e di accompagnare fuori Abby Turnbull. Sentii il rumore dei passi della donna sulle scale, sentii i suoi gemiti. «Ma lo sa che cosa sta facendo?» chiesi a bassa voce a Marino.
«Ehi, io lo so sempre che cosa sto facendo.» «Quando gridava, giù di sotto» proseguii senza capire. «Ce l'aveva con la polizia?» «No. Era appena andato giù Boltz. Era con lui che urlava.» «Boltz?» Non riuscivo a capire. «Non posso dire che avesse torto» rispose in tono neutro. «È casa sua. Non posso condannarla se non le va di vederci in casa sua a dirle che non può entrare...» «Boltz?» chiesi ottusamente. «Boltz le ha detto che non poteva entrare?» «Anche un paio dei ragazzi.» Scrollò le spalle. «Non sarà facile da trattare. Incazzata come una iena.» Portò l'attenzione alla donna sul letto e qualcosa gli lampeggiò negli occhi. «Questa signora qui era sua sorella.» Il soggiorno era pieno di luce e di piante in vaso. Era al primo piano ed era stato restaurato da poco, con rifiniture di lusso. Il pavimento di tek lucido era quasi completamente coperto da un dhurrie indiano a motivi geometrici azzurri e verdi su sfondo bianco; il divano era bianco e dalla forma squadrata, con piccoli cuscini a colori pastello. Sulle pareti bianche c'era una pregevole collezione di monotipi astratti del pittore Gregg Carbo. Era una stanza dove la praticità era assente; avevo il sospetto che Abby l'avesse progettata pensando solo a se stessa. Gelida e tutta esteriorità, comunicava successo e assenza di sentimenti e pareva in ottima sintonia con la mia opinione su chi l'aveva ideata. Accoccolata in un angolo del divano di pelle bianca, Abby fumava nervosamente una sigaretta lunga e sottile. Non l'avevo mai vista da vicino e il suo aspetto era molto particolare, tanto da lasciare sorpresi. Gli occhi erano irregolari, uno leggermente più verde dell'altro e le labbra piene non sembravano intonate al viso di cui faceva parte anche il naso, sottile e importante. Aveva i capelli castani, che cominciavano a ingrigire, lunghi fino alle spalle, gli zigomi alti, piccole rughe attorno agli occhi e alla bocca. Snella e con gambe lunghe, aveva probabilmente i miei anni, forse qualcuno di meno. Ci guardò con lo sguardo intento e vitreo di un cerbiatto terrorizzato. Un poliziotto in uniforme se ne andò e Marino chiuse senza far rumore la porta. «Mi dispiace davvero. So quanto sia dura per lei...» attaccò Marino, come di routine. Spiegò con calma quanto fosse importante che lei rispondesse a tutte le domande, che ricordasse ogni particolare sul conto della so-
rella - abitudini, amici, orari - nel modo più dettagliato possibile. Abby sedeva irrigidita senza parlare. Io le ero di fronte. «So che è stata fuori città» disse Marino. «Sì.» La voce le tremò; rabbrividì come se avesse freddo. «Sono partita venerdì pomeriggio. Avevo un appuntamento a New York.» «Che genere di appuntamento?» «Un libro. Ho in ballo un contratto per scrivere un libro. Dovevo incontrarmi con il mio agente. Sono rimasta per il fine settimana da un'amica.» Il registratore a microcassette posato sul tavolino di vetro davanti al divano girava silenzioso. Abby lo fissava senza vederlo. «Dunque non ha avuto contatti con sua sorella mentre era a New York?» «Ho provato a telefonarle ieri sera per dirle a che ora arrivava il mio treno.» Respirò a fondo. «Quando non mi ha risposto sono rimasta piuttosto perplessa. Poi ho pensato che fosse uscita. Ho riprovato solo quando sono arrivata alla stazione. Alla stazione ferroviaria. Sapevo che aveva delle lezioni oggi pomeriggio. Ho preso un taxi. Non avevo la minima idea. È stato solo quando sono arrivata qui e ho visto tutte le auto, la polizia...» «Da quanto tempo sua sorella abitava con lei?» «Si è separata l'anno scorso. Voleva cambiare, voleva aver tempo per riflettere. Le ho detto di venire da me. Le ho detto che poteva stare qui fino a quando non si fosse sistemata, o non avesse deciso di tornare dal marito. È successo verso l'autunno scorso. Alla fine di agosto. Si è trasferita da me l'anno passato in agosto e ha cominciato a lavorare all'università.» «Quando l'ha vista per l'ultima volta?» «Venerdì pomeriggio.» La voce salì di tono e divenne ferma. «Mi ha accompagnato alla stazione.» Aveva gli occhi gonfi. Da una tasca posteriore Marino tirò fuori un fazzoletto appallottolato e glielo porse. «Ha idea di che progetti avesse per il fine settimana?» «Lavorare. Mi ha detto che sarebbe rimasta in casa a preparare le lezioni. Per quel che ne so non aveva progetti. Henna non usciva molto, aveva un paio di buoni amici, anche loro insegnanti. Aveva molto da fare per preparare le lezioni, mi ha detto che avrebbe fatto la spesa il sabato. Niente altro.» «E dov'è che faceva la spesa?» «Non ne ho idea. Non ha alcuna importanza. So che non c'è andata. Il poliziotto che c'era qui un minuto fa mi ha fatto controllare la cucina. Non era andata a fare la spesa. Il frigorifero era vuoto come quando sono partita. Deve essere successo venerdì notte. Come negli altri casi. Io sono rima-
sta a New York tutto il fine settimana e lei è rimasta qui. Qui in quelle condizioni.» Per qualche istante nessuno disse nulla. Marino si guardava in giro, l'espressione indecifrabile. Abby accese tremando una sigaretta e si rivolse a me. Sapevo quel che intendeva chiedermi ancora prima che le parole le uscissero di bocca. «È come negli altri casi? So che l'ha esaminata.» Esitò, cercando di ricomporsi. Fu come un violento temporale sul punto di quietarsi, quando mi chiese sommessa: «Che cosa le ha fatto?». Mi trovai a recitare la solita solfa: «Potrò dirle qualcosa di preciso solo quando l'avrò esaminata più a fondo». «Ma Cristo santo, è mia sorella!» esclamò. «Voglio sapere che cosa le ha fatto quell'animale! Oh, Dio! Ha sofferto? La prego, mi dica che non ha sofferto...» La lasciammo piangere, con singhiozzi profondi colmi di vera angoscia. Il dolore la portava ben oltre l'ambito in cui qualunque creatura mortale potesse raggiungerla. Rimanemmo seduti. Marino la osservava con quel suo sguardo saldo, indecifrabile. In circostanze come queste odiavo in me stessa la freddezza, il cinismo, la professionista consumata che non si lasciava commuovere dal dolore altrui. Che cosa avrei dovuto dire? Certo che aveva sofferto! Quando se l'era trovato nella sua stanza, quando aveva cominciato a rendersi conto di che cosa stava per succedere, il suo terrore era ancor più grande per quel che aveva appreso dai giornali a proposito delle altre donne assassinate, per le cronache raggelanti scritte proprio da sua sorella. E poi c'era il dolore, il dolore fisico. «Bene. Ovviamente non ha intenzione di dirmelo» attaccò Abby, parlando a frasi brevi, spezzate. «Lo so che è così. Lei non me lo dirà. È mia sorella. E lei non me lo dice. Si vuol tenere tutte le carte in mano. Lo so come vanno queste faccende. E per che cosa? Quante altre ne deve ammazzare, quel bastardo? Sei? Dieci? Cinquanta? E dopo magari i poliziotti capiranno chi è stato?» Marino continuò a fissarla inespressivo. «Non dia la colpa alla polizia, Miss Turnbull» disse. «Noi siamo dalla sua parte. Cerchiamo di aiutare...» «Come no!» lo interruppe. «Voi e il vostro aiuto! Siete stati di grande aiuto la settimana scorsa! Dove eravate allora?» «La settimana scorsa? Di che cosa sta parlando, esattamente?»
«Sto parlando di quel bullo che mi ha pedinato per tutta la strada dal giornale a casa» esclamò. «Mi stava addosso, girava dovunque girassi. Mi sono persino fermata in un negozio per liberarmi di lui. Poi venti minuti dopo esco ed eccolo lì di nuovo! La stessa maledetta auto. Mi seguiva! Torno a casa e chiamo immediatamente la polizia. E quelli cosa fanno? Niente. Arriva qualcuno due ore dopo per accertarsi che tutto vada bene. Gli do la descrizione, anche il numero di targa. È successo qualcosa? Un accidenti è successo, non ho sentito neanche una parola. Per quel che ne so io, potrebbe essere stato quel porco in quella macchina! Mia sorella è morta. Assassinata. Perché non si poteva scocciare qualche poliziotto!» Marino la studiava con una luce di interesse negli occhi. «Quando è successo, esattamente?» Abby incespicò. «Martedì, mi pare. Martedì della settimana scorsa. Tardi, le dieci, forse le dieci e mezzo di sera. Ero rimasta fino a tardi in redazione, avevo un articolo da sistemare...» Marino sembrava disorientato. «Ehm, mi corregga se sbaglio, ma pensavo che lei facesse il turno di sera, dalle sei alle due, o roba del genere...» «Quel martedì mi aveva sostituito uno dei reporter. Dovevo tornare a lavorare presto il giorno dopo per finire una cosa che la redazione voleva per la prossima edizione.» «Ecco» disse Marino. «D'accordo. Torniamo alla macchina. Quando ha cominciato a seguirla?» «Difficile dirlo. L'ho notata qualche minuto dopo essere uscita dal parcheggio. Avrebbe anche potuto essere lì ad aspettarmi. Forse mi ha vista per strada. Non so. Ma mi stava appiccicata al paraurti posteriore, con gli abbaglianti accesi. Ho rallentato, sperando che mi superasse. Ha rallentato anche lui. Ho accelerato. E lui anche. Seminarlo non potevo. Ho deciso di andare da Farm Fresh. Non volevo che mi seguisse fino a casa. Comunque ce l'ha fatta. Deve essere proseguito e poi tornato indietro ad aspettarmi nel parcheggio o nelle vicinanze. Ha aspettato fino a quando non sono ripartita.» «È certa che fosse la stessa macchina?» «Una Cougar nuova, nera. Ne sono assolutamente sicura. Ho contattato la motorizzazione per sapere a chi corrispondeva la targa, dato che non si poteva scocciare la polizia. È un'auto a nolo. Ho l'indirizzo di chi l'ha noleggiata e il numero di targa, se le interessa.» «Sì che mi interessa» le disse Marino. Abby frugò nella borsa e trovò un foglio di taccuino piegato. Glielo por-
se con la mano tremante. Marino gli diede un'occhiata e se lo infilò in tasca. «E poi che cos'è successo? L'auto ha continuato a seguirla? L'ha seguita fino a casa?» «Non avevo altra scelta. Non potevo andarmene in giro tutta notte. Non potevo fare un accidenti. Ha scoperto dove abito. Sono entrata in casa e sono andata dritta al telefono. Immagino che la macchina abbia proseguito. Non l'ho più vista quando ho guardato fuori dalla finestra.» «L'aveva già notata, quella macchina?» «Non lo so. Di Cougar nere ne ho viste altre. Ma non posso dire che si trattasse proprio di quella.» «È riuscita a scorgere la persona che la guidava?» «Era troppo buio e ce l'avevo dietro. Ma nella macchina c'era senz'altro una persona sola. Lui, quello al volante.» «Lui? È sicura che fosse un uomo?» «Quel che ho visto è stata una sagoma robusta, qualcuno con i capelli corti. Certo che era un lui. Era orribile. Se ne stava seduto rigido, gli occhi puntati sulla mia nuca. Solo quella sagoma che mi fissava. Appiccicato al paraurti. L'ho detto a Henna. Gliene ho parlato. Le ho detto di stare attenta a una Cougar nera e, se la vedeva vicino a casa, di telefonare al 911. Sapeva che cosa sta succedendo qui in città. Gli assassinii. Ne avevamo parlato. Dio buono! Non ci posso credere! Lei lo sapeva! Le avevo detto di non lasciare le finestre aperte! Di stare attenta!» «Dunque per sua sorella era normale non chiudere una o due finestre, magari lasciarle spalancate.» Abby annuì e si asciugò gli occhi. «Dormiva sempre con le finestre aperte. In questa casa a volte fa caldo. Intendevo mettere l'aria condizionata, farla installare prima di luglio. Mi ero trasferita qui poco prima del suo arrivo. In agosto. C'erano molte altre cose da fare e poi non mancava tanto all'autunno, all'inverno. Oh Dio. Gliel'avrò detto mille volte. Era sempre tra le nuvole, in un mondo tutto suo. Era semplicemente distratta. Non riuscivo a farglielo entrare in testa. Proprio come non sono mai riuscita a convincerla ad allacciare la cintura, in macchina. Era minore di me. Non le piaceva che le dicessi che cosa fare. Le cose le scivolavano addosso, come se non le avesse nemmeno sentite. Io glielo dicevo, le dicevo di quel che succede, dei crimini. Non solo gli omicidii, ma gli stupri, le rapine, tutto. Perdeva la pazienza. Non voleva stare ad ascoltare. "Oh, Abby" mi diceva, "tu vedi solo le cose orribili. Non possiamo parlare di qualcos'altro?" Ho una rivoltella. Le avevo detto di tenerla vicino al letto quando non ero a
casa. Non voleva neanche toccarla. Niente da fare. Mi offrii di insegnarle a sparare, così avrebbe potuto prenderne una per sé. Niente da fare. Niente da fare! E adesso questo! È andata! Oh, Dio! Tutte queste cose che devo dirle su di lei, sulle sue abitudini eccetera non hanno più nessuna importanza!» «Hanno importanza. Ogni cosa ha importanza...» «Non ha importanza perché lo so che non era lei che cercava! Non sapeva nemmeno chi era! Era me che voleva!» Silenzio. «Che cosa glielo fa pensare?» chiese calmo Marino. «Se era lui, quello nell'auto nera, allora sono sicura che voleva me. Chiunque sia, quello, sono io che scrivo gli articoli su di lui. Ha letto la mia firma. Sa chi sono.» «Forse.» «Me! Voleva me!» «Forse era effettivamente lei il suo obiettivo» disse Marino asciutto. «Ma non può esserne sicura, signorina Turnbull. Io, per quel che mi riguarda, devo considerare tutte le possibilità, per esempio che lui abbia visto sua sorella da qualche parte, forse nel campus o in un ristorante, in un negozio. Forse non sapeva che viveva con un'altra persona, specialmente se l'ha seguita mentre lei era al lavoro... voglio dire, se l'ha seguita di notte e l'ha vista arrivare quando lei, Miss Turnbull, era fuori. Forse non aveva la minima idea che lei fosse sua sorella. Può essere una coincidenza. C'erano dei posti che aveva l'abitudine di frequentare... un ristorante, un bar o simili?» Asciugandosi di nuovo gli occhi cercò di ricordare. «C'è un delicatessen in Ferguson a pochi passi dall'università. Poi la School of Broadcasting. Ci faceva colazione un paio di volte alla settimana, credo. Non frequentava i bar. Ogni tanto andavamo a mangiare fuori - da "Angela" nel Southside ma in quelle occasioni eravamo sempre insieme, non era sola. Può darsi che andasse anche in altri posti, altri negozi, intendo. Non saprei. Non so che cosa faceva, minuto per minuto.» «Ha detto che si era trasferita da lei l'anno scorso in agosto. Si è mai allontanata, magari per il fine settimana, ha mai fatto viaggi, roba del genere?» «Perché?» Era sconcertata. «Pensa che qualcuno possa averla seguita, qualcuno non di questa città?» «Sto solo cercando di sapere quando era in città e quando no.»
«Giovedì scorso» rispose con un tremito nella voce, «era tornata a Chapel Hill per incontrare il marito e passare un po' di tempo con un'amica. È stata via quasi tutta la settimana, è tornata solo mercoledì. Oggi iniziavano i corsi, era il primo giorno di lezioni della sessione estiva.» «È mai venuto qui, il marito?» «No» rispose dopo aver riflettuto. «Ci sono precedenti di botte, di violenze da parte del marito...» «No!» scattò. «Jeff non faceva queste cose! Volevano tutti e due la separazione consensuale! Non c'era animosità tra loro! Il porco che ha fatto questo è lo stesso degli altri casi!» Marino fissò il registratore sul tavolino. Una minuscola luce rossa lampeggiava. Controllò nelle tasche del giubbotto, irritato. «Devo andare un attimo alla macchina.» Lasciò me e Abby nel luminoso soggiorno bianco. Ci fu un lungo, difficile silenzio, poi Abby mi guardò. Aveva gli occhi arrossati, il viso gonfio. Amaramente, in tono di sofferenza, disse: «Quante volte avrei voluto parlare con lei, dottoressa. E adesso eccoci qui. In questa situazione. Lei in segreto probabilmente è contenta. So che opinione ha di me. Probabilmente pensa che me la sono meritata. Così adesso so quel che devono provare le persone di cui scrivo. La legge del contrappasso». L'osservazione mi colpì a fondo. «Abby» dissi con forza, «non se lo merita. A nessuno augurerei una cosa simile.» Fissandosi le mani serrate, proseguì dolorosamente: «La prego di prendersi cura di lei. La prego. Mia sorella. Oh, Dio. La prego di prendersi cura di Henna...». «Prometto che mi prenderò cura di lei...» «Non può permettere che la faccia franca! Non può!» Non sapevo che cosa dire. Sollevò lo sguardo verso di me e rimasi sconcertata dal terrore che le lessi negli occhi. «Non capisco più niente. Tutte le storie che ho sentito. E poi succede questa cosa. Ho provato. Ho provato a farmi dare le informazioni da lei. E adesso questa tragedia. Non so più chi siamo noi e chi sono loro!» «Non credo di capire, Abby» dissi in tono calmo. «Che cos'ha cercato di sapere da me?» Parlò frettolosamente. «Quella sera. All'inizio della settimana. Ho cercato di parlargliene. Ma c'era lui...»
Cominciavo a capire. «Quale sera?» chiesi ottusamente. Sembrò confusa, come se non ricordasse. «Mercoledì» disse. «Mercoledì sera.» «Era lei che era venuta a casa mia la sera tardi e poi è filata via? Come mai?» «Lei era... era in compagnia» balbettò. Bill. Ricordai che eravamo sotto la luce del portico. Eravamo visibilissimi e la sua auto era parcheggiata nel mio vialetto. Era lei. Era stata Abby che era arrivata in macchina quella sera e mi aveva vista con Bill. Questo però non spiegava il suo comportamento. Perché si era fatta prendere dal panico? Mi era parsa una reazione viscerale quel suo spegnere i fari e ripartire a marcia indietro. «Queste indagini» mi stava dicendo. «Ho sentito delle storie. Voci. I poliziotti non possono parlare con lei. È andato storto qualcosa ed ecco perché tutti i contatti devono essere con Amburgey. Dovevo chiederglielo! E adesso dicono che lei ha rovinato gli esami sierologici... il caso di Lori Petersen. Che l'intera indagine è andata a puttane per colpa del suo ufficio e che se non era per quello i poliziotti ormai avrebbero preso l'assassino...» Appariva rabbiosa e incerta, mi fissava con uno sguardo selvaggio. «Devo sapere se è vero. Devo saperlo! Devo sapere che cosa sta per succedere a mia sorella!» Come aveva fatto a sapere del PERK con l'etichetta sbagliata? Senz'altro non gliel'aveva detto Betty. Ma Betty aveva concluso i test sierologici sui vetrini e le copie - tutte le copie di tutte le relazioni di laboratorio - erano state inviate direttamente ad Amburgey. L'aveva detto lui ad Abby? Gliel'aveva detto qualcuno del suo ufficio? Lui l'aveva detto a Tanner? O a Bill? «Dove ha sentito questa storia?» «Sento un sacco di storie.» Le tremò la voce. Guardai l'espressione disperata, il corpo contratto dal dolore, dall'orrore. «Abby» dissi con grande calma. «Sono convintissima che lei senta un sacco di cose. Sono anche convintissima che molte non sono vere. Oppure, se c'è un grano di verità, l'interpretazione è sbagliata e forse dovrebbe chiedersi perché qualcuno gliele riferisce, che interesse ha a dirgliele.» Esitò. «Voglio solo sapere se è vero quello che ho sentito. Se la colpa è del suo ufficio.» Non riuscii a pensare una risposta. «Lo scoprirò comunque, glielo dico subito. Non mi sottovaluti, dottores-
sa Scarpetta. La polizia ha fatto un bel po' di cazzate. Non creda che non lo sappia. Hanno fatto una cazzata con me quando quel bullo mi è venuto dietro fino a casa. E ne hanno fatto un'altra con Lori Petersen quando lei ha telefonato al 911 e loro sono intervenuti solo dopo un'ora. Quando era già morta!» La mia sorpresa era evidente. «Quando queste storie salteranno fuori» prosegui, gli occhi lucidi di lacrime, di rabbia, «la città rimpiangerà il giorno in cui sono nata! Qualcuno pagherà! Mi assicurerò che certa gente paghi e vuol sapere perché?» La fissavo ottusamente. «Perché a nessuno di quelli che contano gliene frega un accidente quando le donne vengono stuprate, ammazzate! Gli stessi bastardi che si occupano delle indagini escono e vanno a vedere i film dove le donne vengono violentate e massacrate. Per loro è eccitante. Gli piace guardare le stesse cose nelle riviste. I poliziotti. Ci fanno su le battute. Le ho sentite. Li sento quando ridono sul posto, li sento quando sghignazzano nella sala del pronto intervento!» «Non fanno sul serio.» Avevo la bocca secca. «È solo un modo per rendere queste cose sopportabili.» Udimmo un rumore di passi lungo le scale. Con un'occhiata furtiva in direzione della porta, Abby afferrò la borsa da viaggio e ne tirò fuori goffamente un biglietto da visita sul quale scarabocchiò un numero. «La prego. Se ha qualcosa da dirmi dopo che ha... che ha finito...» Respirò a fondo. «Mi telefona?» Mi porse il biglietto. «C'è su il numero del cercapersone. Non so dove sarò. Non in questa casa. Per un po', almeno. Forse per sempre.» Marino rientrò. Abby lo fissò rabbiosa. «Lo so che cosa mi vuole chiedere» gli disse mentre chiudeva la porta. «E la risposta è no. Non c'erano uomini nella vita di Henna, non c'era nessuno qui a Richmond. Non vedeva nessuno, non andava a letto con nessuno.» Senza una parola, Marino inserì un nuovo nastro e premette il pulsante di registrazione. Sollevò lentamente lo sguardo su di lei. «E lei, signorina Turnbull?» Il respiro le si strozzò in gola. «Ho una relazione, una relazione con una persona di New York. Qui non frequento nessuno. Solo molti contatti di lavoro.» «Capisco. E che cos'è esattamente per lei un contatto di lavoro?»
«Che cosa intende dire?» Aveva gli occhi spalancati dalla paura. Marino la guardò intento per qualche istante poi in tono neutro rispose: «Mi sto chiedendo se sa che quel "bullo" che l'ha seguita l'altra sera in realtà la sorveglia ormai da diverse settimane. Il tipo nella Cougar nera. Ecco, è un poliziotto. In borghese. Della Buoncostume.» Abby lo fissò incredula. «Adesso capisce, signorina Turnbull» prosegui in tono asciutto, «come mai nessuno si è preoccupato quando lei ha segnalato la cosa? Io sì che mi sarei preoccupato, se l'avessi saputo allora, perché quel tizio è tenuto a lavorare meglio. Voglio dire, se la pedina, lei non dovrebbe accorgersene.» Diventava a ogni istante più gelido e ora le sue parole cominciavano a mordere. «Ma questo particolare poliziotto ce l'ha con lei. In realtà, quando sono andato alla mia macchina un minuto fa, l'ho chiamato per radio e l'ho fatto cantare. Ha ammesso che la stava scocciando deliberatamente. Ha perduto un pochino il controllo quella sera, mentre la stava seguendo.» «Ma di che cosa si tratta?» esclamò Abby in uno spasmo di panico. «Stava rompendomi le scatole perché faccio la giornalista?» «Ecco, si tratta di una questione un po' più personale, Miss Turnbull.» Marino accese una sigaretta. «Ricorderà che un paio di anni fa, lei ha rivelato quella storia del poliziotto della Buoncostume che era coinvolto nello spaccio e che era diventato cocainomane? Certamente l'avrà presente. È finita che si è infilato in bocca la pistola di ordinanza e si è fatto saltare il cervello. Senz'altro se lo ricorda bene. Quel poliziotto della Buoncostume lavorava in coppia con il tipo che seguiva lei. Avevo pensato che l'interesse diretto che aveva per lei lo avrebbe spinto a fare un buon lavoro. A quel che pare ha esagerato un tantino...» «Lei!» esclamò incredula. «Lei gli ha ordinato di seguirmi? Perché?» «Adesso glielo dico. Dato che pare che evidentemente il nostro amico ha rovinato la mano, la storia è finita. Alla fine avrebbe scoperto comunque che era un poliziotto. Tanto vale mettere le carte in tavola, qui davanti alla dottoressa, dato che in un certo senso la faccenda riguarda anche lei.» Abby mi lanciò un'occhiata allarmata. Marino prese tempo a far cadere la cenere della sigaretta. Tirò un'altra boccata e disse: «Capita che il laboratorio di medicina legale è sotto tiro di questi tempi a causa di queste presunte indiscrezioni passate alla stampa, il che, tradotto, vuol dire a lei, signorina Turnbull. Qualcuno ha violato il computer della dottoressa e Amburgey sta rigirando il
coltello nella piaga creando un sacco di problemi e muovendo un sacco di accuse. Io, per quel che mi riguarda, sono di un'altra idea. Credo che le indiscrezioni non c'entrino con il computer. Penso che qualcuno sia penetrato nel computer per far credere che era da lì che le informazioni venivano, allo scopo di nascondere il fatto che l'unica base dati che viene violata è quella che c'è tra le orecchie di Bill Boltz». «Ma è roba da matti!» Marino la fissava, continuando a fumare. Si divertiva a vederla contorcersi. «Io non c'entro assolutamente con nessuna violazione di nessun computer!» esplose. «Anche se avessi saputo come si fa, non l'avrei mai, mai fatto! Incredibile! Mia sorella è morta... Cristo...» nei suoi occhi, colmi di lacrime, baluginava uno sguardo furente. «Oh, Dio! Ma che cosa c'entra tutto questo con Henna?» Marino rispose freddo: «A questo punto non ho la minima idea di chi o che cosa c'entri, o non c'entri. So però che alcune delle cose che lei stampa non sono di pubblico dominio. Qualcuno che le sa canta, e canta con lei. Qualcuno dietro le quinte sta mandando a puttane le indagini. Sarei curioso di sapere perché questo qualcuno vuol fare una cosa del genere, a meno che non abbia qualcosa da nascondere o qualcosa da guadagnarci». «Non capisco dove vuole arrivare...» «Vede» la interruppe. «Credo solo che sia un po' strano che circa cinque settimane fa, giusto dopo il secondo strangolamento, lei abbia fatto un grosso pezzo su Boltz, un-giorno-tipico-nella-sua-vita. Un grande profilo del bel ragazzo che la città ama. Avete passato la giornata insieme, giusto? Capita che quella sera io ero in giro e vi ho visti andarvene via da "Franco" verso le dieci di sera. Ai poliziotti piace ficcare il naso, specie se non hanno nient'altro da fare, sapete, se per strada non succede niente. E così accade che mi metto a seguirvi...» «Smetta qui» sussurrò Abby, scuotendo il capo da una parte all'altra. «Smetta qui!» Marino la ignorò. «E Boltz non l'accompagna al giornale. No, la porta a casa e quando io sfilo lì davanti qualche ora dopo... centro! L'Audi bianca, così di moda, è ancora lì e in casa tutte le luci sono spente. E guarda caso subito dopo nei suoi articoli cominciano ad apparire tutti questi bei particolari succosi. Immagino che è questa la sua definizione di contatti professionali.» Abby tremava tutta, il viso tra le mani. Non riuscivo a guardarla. Non
riuscivo a guardare Marino. Il colpo mi aveva talmente sbilanciata che quasi non mi rendevo conto della sua crudeltà, della crudeltà che dimostrava colpendola proprio in questo momento, dopo tutto quel che era successo. «Non sono stata a letto con lui.» Aveva la voce così scossa che riusciva a malapena a parlare. «Non ci sono stata. Non volevo. Lui... lui si è approfittato di me.» «Come no» sbuffò Marino. Abby alzò gli occhi e li chiuse un attimo. «Sono stata tutto il giorno con lui. L'ultima riunione a cui siamo andati è finita solo alle sette di sera. L'ho invitato a cena, gli ho detto che il giornale lo invitava a cena. Siamo andati da Franco. Io ho bevuto solo un bicchiere di vino, nient'altro. Un bicchiere. Poi ho cominciato a sentirmi intorpidita, incredibilmente intorpidita. Non mi ricordo quasi di essere uscita dal ristorante. L'ultima cosa che ricordo è di essere salita nella sua macchina. Lui che mi prendeva la mano e che diceva qualcosa come che non l'aveva mai fatto con una giornalista di nera. Di quel che è successo quella sera non ricordo proprio niente. Mi sono svegliata presto il mattino dopo. Era lì...» «Il che mi fa venire in mente una cosa.» Marino spense il mozzicone della sigaretta. «Dov'era sua sorella in quella circostanza?» «Qui. Era in camera sua, immagino. Non me lo ricordo. Non ha importanza. Noi eravamo al piano di sotto. Qui in soggiorno. Sul divano, sul pavimento, non ricordo... non so nemmeno se lei se ne è accorta!» Marino assunse un'espressione disgustata. «Non ci potevo credere» prosegui Abby in tono isterico. «Ero terrorizzata, avevo la nausea come se mi avessero avvelenata. Tutto quel che riesco a immaginare è che quando a un certo punto a cena mi sono alzata per andare alla toilette lui abbia messo qualcosa nel vino. Sapeva che poteva farlo. Sapeva che non l'avrei detto alla polizia. Chi mi avrebbe creduto se avessi telefonato per dire che il procuratore della Virginia... aveva fatto una cosa del genere? Nessuno! Nessuno mi avrebbe creduto!» «Questo è sicuro» la interruppe Marino. «Ehi, ma quello è un fusto. Mica ha bisogno di dar la polverina alle ragazze per convincerle a mollargliela.» «È lurido dentro!» urlò Abby. «Probabilmente l'ha fatto mille volte e l'ha sempre fatta franca! Mi ha minacciata, mi ha detto che se dicevo una sola parola mi faceva far la figura della troia, mi rovinava!» «E poi?» volle sapere Marino. «Poi ha provato dei sensi di colpa e si è
messo a passarle informazioni?» «No! Io non ho niente a che fare con quel bastardo! Se mi trovassi a meno di tre metri da lui avrei paura di fargli saltare il cervello! Non è lui che mi passa le informazioni.» Non poteva essere vero. Quel che Abby diceva non poteva essere vero. Cercavo di respingere le sue affermazioni. Erano terribili, ma sensate, malgrado i dinieghi disperati dentro di me. Doveva aver riconosciuto immediatamente l'Audi bianca di Bill. Ecco perché era stata presa dal panico quando l'aveva vista nel mio vialetto. Prima aveva trovato Bill in casa sua e gli aveva urlato di andarsene perché le faceva schifo anche solo vederlo. Bill mi aveva avvertita che non si sarebbe fermata davanti a nulla, che era vendicativa, opportunista e pericolosa. Perché mi aveva detto queste cose? Che motivo aveva? Stava ponendo le basi della sua difesa, se per caso Abby lo avesse accusato? Mi aveva mentito. Non aveva rifiutato le sue presunte avances quando l'aveva accompagnata a casa dopo l'intervista. La sua auto era ancora parcheggiata là il mattino dopo... Nella mente mi passavano flash delle rare occasioni in cui io e Bill ci eravamo trovati sul divano del soggiorno. Mi nauseò il ricordo della sua aggressione improvvisa, della forza bruta, animalesca che avevo attribuito al whisky. Era questo il suo lato oscuro? Era vero che provava piacere solo nella sopraffazione? Nel prendere con la forza? Si trovava lì, in quella casa, sulla scena del delitto quando io ero arrivata. Non c'era da meravigliarsi che fosse stato così pronto a reagire. Non era un interesse puramente professionale, il suo. Non stava facendo semplicemente il suo lavoro. Doveva aver riconosciuto l'indirizzo di Abby. Probabilmente aveva capito di che casa si trattava prima di chiunque altro. Voleva vedere, accertarsi. Forse aveva persino sperato che la vittima fosse Abby. Così non avrebbe più dovuto preoccuparsi che succedesse quel che era appena successo, che lei parlasse. Seduta lì, immobile, avrei voluto che la mia faccia diventasse di sasso. Non potevo rivelare quel che provavo dentro. L'incredulità lacerante. La devastazione. Oh, Dio, fa che non trapeli. Un telefono cominciò a squillare in un'altra stanza. Gli squilli si susseguirono senza che nessuno rispondesse.
Si udì un rumor di passi che salivano le scale, il clangore soffocato del metallo che urtava il legno, le scariche inintelligibili delle radio portatili. Abby trafficò con una sigaretta e poi all'improvviso la gettò nel posacenere assieme al fiammifero acceso. «Se è vero che lei mi ha fatta seguire» - abbassò la voce, riempiendo la stanza con il suo sarcasmo - «e se è vero che era per vedere se lo incontravo, se andavo a letto con lui per procurarmi delle informazioni, dovrebbe sapere che quel che dico corrisponde a verità. Dopo quella sera non mi sono mai neanche avvicinata a quel figlio di puttana.» Marino non disse parola. Il silenzio era la risposta. Abby da allora non aveva più visto Bill. In seguito, mentre gli infermieri portavano giù la barella, Abby si appoggiò allo stipite, afferrandosi ad esso, stringendolo fino ad avere le nocche bianche. Osservò la sagoma bianca del corpo della sorella passarle davanti, rimase a fissare gli uomini che si allontanavano, il viso ridotto a una pallida maschera di sofferenza. Le strinsi un braccio in un gesto di muta simpatia e me ne andai lasciandomi alle spalle quella sua perdita incomprensibile. L'odore aleggiava ancora sulle scale e quando emersi nella luce abbagliante del sole rimasi per un attimo accecata. 12 La carne di Henna Yarborough, ancora bagnata dopo i ripetuti risciacqui, riluceva come marmo bianco sotto la lampada. Mi trovavo sola con lei nell'obitorio, intenta a suturare gli ultimi centimetri dell'incisione a Y che correva dal pube allo sterno biforcandosi sul torace. Prima di smontare, Wingo si era occupato della testa. La calotta cranica era stata rimessa esattamente al suo posto, con l'incisione intorno alla parte posteriore del cuoio capelluto ricucita con precisione e completamente nascosta dai capelli. Il segno, simile a una bruciatura, lasciato dal nodo scorsoio intorno al collo era però ancora visibile. Il volto era gonfio e violaceo, cosa a cui né i miei sforzi, né quelli dell'impresa di pompe funebri sarebbero riusciti a porre rimedio. Udii il suono violento del campanello dell'ingresso. Diedi un'occhiata all'orologio. Erano da poco passate le nove di sera. Dopo avere tagliato il filo da sutura con un bisturi, la coprii con un len-
zuolo e tolsi i guanti. Udivo Fred, il sorvegliante, dire qualcosa a qualcuno in fondo al corridoio, mentre spingevo il corpo su un carrello e lo infilavo nella cella frigorifera. Una volta riemersa, e dopo aver chiuso lo sportellone d'acciaio, trovai Marino che stava fumandosi una sigaretta appoggiato alla scrivania dell'obitorio. Mi osservò in silenzio mentre raccoglievo campioni e provette di sangue e li sigiavo. «Ha scoperto qualcosa che devo sapere?» «La causa della morte è asfissia dovuta a strangolamento provocato dal cappio stretto al collo» dissi meccanicamente. «Ha trovato delle tracce?» Lasciò cadere la cenere sul pavimento. «Alcune fibre...» «Bene» mi interruppe, «io invece ho trovato un paio di cosette.» «Bene» ripetei con lo stesso tono, «io invece voglio battermela da questo posto.» «Certo, dottoressa. Proprio quello che pensavo io. A me è venuto in mente di fare un giretto in macchina.» Smisi di fare quello che stavo facendo e lo fissai. Il riporto umidiccio era appiccicato al cranio, il nodo della cravatta era aperto, la camicia bianca a maniche corte era tutta spiegazzata sulla schiena, come se fosse rimasto seduto a lungo in automobile. A sinistra, allacciata sotto il braccio portava la fondina marrone con la pistola a canna lunga. Sotto la luce cruda della lampada, gli occhi in ombra, i muscoli delle mascelle contratti, aveva un'aria quasi minacciosa. «Credo che farebbe bene a venirci anche lei» aggiunse senza enfasi. «Aspetto che si sia data una lavata e abbia telefonato a casa.» Telefonare a casa? Come faceva a sapere che a casa c'era una persona cui dovevo telefonare? Non gli avevo mai parlato di mia nipote. Non gli avevo mai parlato di Bertha. Per quello che mi riguardava, non era affar suo neanche il fatto che avevo una casa. Stavo per dirgli che non avevo la minima intenzione di andare in giro con lui ma fui bloccata dalla durezza del suo sguardo. «D'accordo» mormorai. «D'accordo.» Se ne stava ancora appoggiato alla scrivania fumando quando attraversai la sala e andai nello spogliatoio. Mi lavai la faccia al lavabo, tolsi il camice e indossai gonna e camicetta. Ero talmente distratta che aprii l'armadietto e presi la giacca da laboratorio prima di rendermi conto di quello che stavo
facendo. Non mi serviva. L'agenda, il portadocumenti e la borsetta erano al piano di sopra, nel mio ufficio. In un modo o nell'altro, riuscii a raccogliere tutto e seguii Marino verso la sua automobile. Aprii la portiera del passeggero e la luce interna non si accese. Mi infilai dentro, afferrai la cintura di sicurezza e spazzolai dal sedile briciole e un tovagliolo di carta appallottolato. Uscì a marcia indietro dal parcheggio senza pronunciare una sola parola. La luce dello scanner saltava di canale in canale a mano a mano che la centrale trasmetteva messaggi cui Marino non sembrava interessato e che io spesso non capivo. I poliziotti farfugliavano nel microfono. Pareva addirittura che alcuni lo mangiassero. «Tre-quaranta-cinque, dieci-cinque, uno-sessanta-nove sul canale tre.» «Uno-sessanta-nove, passo e chiudo.» «Sei libero?» «Dieci-dieci. Dieci-diciassette per test alcol. Con soggetto.» «Avvertire quando dieci-ventiquattro.» «Dieci-quattro.» «Quattro-cinquanta-uno.» «Quattro-cinquanta-uno X.» «Dieci-venti-otto su Adam Ida Lincoln uno-sette-zero...» Le chiamate cessarono e i segnali d'allarme incominciarono a tambureggiare come le note basse di un organo elettrico. Marino guidava in silenzio, attraversando il centro con le vetrine dei negozi ormai sbarrate dalle saracinesche d'acciaio calate alla fine della giornata. Sopra le vetrine, insegne al neon rosse e verdi pubblicizzavano banchi di pegni, calzolai e ristoranti da poco prezzo. Gli hotel Sheraton e Mariot erano illuminati come transatlantici, ma in giro le auto e i pedoni erano pochi: si vedevano solo gruppi indistinti di prostitute ferme agli incroci. Il bianco dei loro occhi ci seguiva mentre passavamo. Fu solo diversi minuti dopo che mi resi conto dove stavamo andando. A Winchester Piace rallentammo procedendo a passo d'uomo fino al numero 498, l'indirizzo di Abby Turnbull. La casa di arenaria era una sagoma scura, la bandiera un'ombra che si proiettava floscia sull'ingresso. Non c'erano automobili davanti a casa. Abby era fuori. Mi chiesi dove fosse andata a stare. Marino svoltò lentamente ed entrò nello stretto vicolo tra la casa di Abby e quella accanto. L'auto sobbalzò, i fasci di luce dei fari sciabolarono illuminando i muri di mattoni nudi degli edifici e rivelando bidoni delle
immondizie legati con catene ai pali, bottiglie rotte e macerie. A sei metri circa all'interno di quel vicolo claustrofobico fermò e spense motore e luci. Alla nostra sinistra si stendeva il giardino sul retro della casa di Abby, un fazzoletto d'erba cintato da una rete metallica con un cartello che avvertiva il mondo di fare attenzione a un cane che, da quel che mi risultava, non era mai esistito. Marino illuminò con il proiettore della macchina la rugginosa scala antincendio che saliva lungo la parete posteriore della casa. Tutte le finestre erano chiuse, i vetri rilucevano cupi. Il sedile dell'auto cigolò mentre un pezzo alla volta illuminava il cortile vuoto. «Avanti» disse. «Vorrei sapere se lei sta pensando quello che penso anch'io.» Rilevai ciò che appariva ovvio. «Il cartello. Il cartello sulla rete. Se l'assassino sapeva che c'era un cane avrebbe dovuto pensarci due volte. Nessuna delle sue vittime aveva un cane. In caso contrario sarebbero probabilmente ancora vive.» «Centro.» «Inoltre» proseguii, «sospetto che lei stia concludendo che l'assassino doveva essere informato che quel cartello non voleva dire nulla, che Abby - oppure Henna - non avevano il cane. E come faceva a saperlo?» «Ecco. Come faceva a saperlo» ripeté lentamente, «a meno che non avesse un motivo per saperlo?» Tacqui. Con un gesto brusco infilò l'accendino della macchina al suo posto. «Diciamo per esempio che in casa c'era già stato prima.» «Non credo.» «Non finga di non capire, dottoressa» disse a bassa voce. Tirai fuori anch'io le mie sigarette. Mi tremavano le mani. «Io cerco di raffigurarmi la cosa. Credo che anche lei se la stia immaginando. Un tipo che è stato in casa di Abby Turnbull. Non sa che c'è anche la sorella, ma sa che non c'è nessun cane del piffero. E la signorina Turnbull è una tipa che non gli va mica tanto a fagiolo perché sa qualcosa che lui non vuole che nessuno a questo maledetto mondo conosca.» Tacque. Sentivo che mi stava guardando, ma rifiutai di restituirgli lo sguardo o di parlare. «Vede, qualcosina con lei l'aveva già fatta, giusto? E magari quando ha fatto quel numero non è riuscito a trattenersi, perché gli è venuto un impulso, gli si è svitata una rotella, diciamo così. È preoccupato. È preoccupato
che quella parli. Merda. È una stramaledetta giornalista. La pagano per raccontare i segreti sporchi della gente. Salterà fuori quello che ha fatto lui.» Un'altra occhiata verso di me, mentre io rimanevo muta. «Così che cosa combina? Decide di massacrarla e di fare assomigliare la cosa agli altri casi. L'unico problemino è che non è al corrente di Henna. Non sa neanche dov'è la camera da letto di Abby, perché quando in passato è stato lì è arrivato al massimo al soggiorno. E così quando venerdì notte penetra in casa finisce nella camera da letto sbagliata - quella di Henna. Come mai? Perché è quella dove c'è la luce accesa, dato che Abby è fuori città. Bene, troppo tardi. Ormai ci è dentro. Deve andare fino in fondo. La ammazza...» «Non avrebbe potuto farlo.» Cercavo di controllare il tremito della mia voce. «Boltz una cosa del genere non la farebbe mai. Non è un assassino, per l'amor del cielo.» Silenzio. Marino posò lentamente lo sguardo su di me e fece volare fuori la cenere della sigaretta. «Interessante. Io non ho fatto nomi. Ma siccome lei uno l'ha fatto, magari dovremmo discutere la questione, andare un po' più a fondo.» Tacque nuovamente. Mi aveva colpita e sentivo un nodo alla gola. Mi costrinsi a non scoppiare in lacrime. Maledizione! Marino non mi avrebbe vista piangere! «Senta, dottoressa» disse in tono decisamente più tranquillo, «non ho nessuna intenzione di metterla in mezzo, capisce? Voglio dire, quello che lei fa in privato non mi riguarda, d'accordo? Siete tutti e due adulti consenzienti, senza legami. Però lo so. Ho visto la macchina di Boltz a casa sua...» «A casa mia?» chiesi, sconcertata. «Che cosa...» «Ehi. Io la giro sempre tutta questa città del cacchio e la conosco quell'Audi bianca. E so che quando l'ho vista a casa sua svariate volte nei mesi scorsi lui non era mica venuto a raccogliere una deposizione...» «Vero, magari non era venuto per una deposizione. Ed è vero anche che la cosa non la riguarda.» «Invece sì.» Fece volare il mozzicone fuori dal finestrino e accese un'altra sigaretta. «Adesso mi riguarda, visto quello che ha fatto alla Turnbull. Mi porta a domandarmi che altro può avere fatto.» «Il caso di Henna è in tutto e per tutto identico agli altri» gli ricordai ge-
lida. «Non ho il minimo dubbio che sia stata assassinata dallo stesso uomo.» «E i campioni vaginali?» «Betty li analizzerà domani mattina. Non so...» «Bene, le risparmio la fatica, dottoressa. Boltz è non secretore. Credo che lo sappia anche lei e che lo sappia da mesi.» «In questa città ci sono migliaia di uomini che sono non secretori. Anche lei potrebbe essere uno di loro, per quel che ne so io.» «Già» disse secco. «Magari potrei anche esserlo, per quel che ne sa lei. Ma il fatto è che non lo sa. Il fatto è che sa che Boltz lo è. Quando ha esaminato sua moglie l'anno scorso, ha fatto un PERK e ha trovato dello sperma, quello del marito. E sulla relazione di laboratorio c'è scritto che il tipo con cui lei aveva avuto rapporti sessuali prima di farla finita è un non secretore. Diavolo, me lo ricordo persino io. Ero sul posto, si ricorda?» Non risposi. «Non ero disposto a escludere nulla, quando sono entrato in quella camera da letto e l'ho trovata seduta in quella graziosa carnicina da notte, con un buco grande così nel torace. Io come prima cosa penso sempre a un omicidio. Il suicidio lo metto all'ultimo posto, perché se non si pensa come prima cosa a un omicidio poi è troppo tardi. L'unica cazzata che ho fatto quella volta è stata quella di non fare a Boltz il kit per sospetti. Il suicidio sembrava così evidente dopo il suo esame, dottoressa, che eccezionalmente ho chiuso subito l'indagine. Magari non avrei dovuto. Allora avevo una buona ragione per prendergli un campione di sangue, per essere sicuro che lo sperma che lei aveva dentro fosse suo. Lui ha detto che era suo, che la mattina presto avevano avuto rapporti sessuali. Gliel'ho data per buona. Ma non me l'ha contata giusta. Adesso non posso neanche chiedere. Non ho dei buoni motivi.» «Non basta avere semplicemente il sangue» dissi stupidamente. «Se è A negativo, B negativo secondo il sistema Lewis, non si può affermare che è non secretore... bisogna avere la saliva...» «Già. So come si prendono i campioni a un sospetto, no? Non ci servirà. Lo sappiamo che tipo è, giusto?» Non dissi nulla. «Sappiamo che il tipo che massacra queste donne è non secretare. E sappiamo che Boltz conosce i particolari dei delitti, li conosce tanto bene che potrebbe uccidere Henna e dare a intendere che abbia fatto la stessa fine delle altre.»
«Bene, prenda il suo kit e noi troveremo il suo Dna» dissi irritata. «Vada avanti. Così avrà la risposta definitiva.» «Ehi. Magari lo farò. Magari lo farò passare sotto quel laser dell'accidenti, per vedere se luccica.» Mi balzò in mente il residuo luminoso sul PERK con l'etichetta sbagliata. Il residuo veniva davvero dalle mie mani? Bill si lavava normalmente le mani con il sapone Borawash? «Ha trovato le scintille anche sul corpo di Henna?» «Sul pigiama. E sulle coperte.» Per un po' nessuno dei due parlò. Poi dissi: «È lo stesso uomo. Li conosco i risultati dei miei esami. È lo stesso uomo». «Già. Forse sì. Ma non è che mi sento meglio per questo.» «Lei è sicuro che quello che dice Abby è vero?» «Sono andato a ronzare dalle parti dell'ufficio del suo amico questo pomeriggio.» «È andato a vederlo, a vedere Boltz?» balbettai. «Oh, certo.» «E ha avuto una conferma?» Il mio tono di voce stava salendo. «Già.» Mi guardò. «Più o meno l'ho avuta.» Non dissi nulla. Avevo paura di aprire bocca. «Naturalmente ha negato tutto e si è scaldato. Ha minacciato di denunciarla per calunnia, di andare fino in fondo. Però non lo farà. Non può neanche dire be' perché conta balle e io lo so e lui sa che lo so.» Vidi la mano di Marino appoggiarsi alla coscia sinistra in alto e all'improvviso fui presa dal panico. Il registratore a microcassette! «Se sta facendo quello che penso...» «Cosa?» chiese, sorpreso. «Se sta facendo andare quel registratore del cazzo...» «Ehi!» protestò. «Mi stavo grattando, no? Diavolo, mi perquisisca. Mi spogli pure se la fa sentire meglio.» «Neanche per tutto l'oro del mondo.» Rise. Era sinceramente divertito. «Vuol sapere la verità?» proseguì. «Tutto ciò mi porta a chiedermi che cosa è successo in realtà a sua moglie.» Inghiottii con difficoltà e dissi: «Gli esami non hanno mostrato nulla di sospetto. Lei aveva dei residui di polvere da sparo sulla mano destra...». Mi interruppe, sicuro. «Ha tirato il grilletto. Non ne dubito, ma magari
adesso sappiamo perché, eh! Magari queste cose le faceva da anni. Magari lei l'aveva scoperto.» Avviò il motore e accese i fari. Per qualche istante ci muovemmo sobbalzando tra le case poi emergemmo nella via. «Guardi.» Non era disposto a lasciar perdere. «Non ho intenzione di spiare. Per dirla in altre parole, non è così che mi diverto, okay? Ma lei lo conosce, dottoressa, lei lo vede, giusto?» Un travestito stava procedendo lungo il marciapiede, la gonna gialla ondeggiante intorno alle gambe ben fatte, i seni al silicone alti e sodi, i capezzoli finti eretti sotto un body bianco aderente. Due occhi lucidi e inespressivi puntarono per un attimo nella nostra direzione. «Lei lo vede, giusto?» chiese di nuovo. «Sì.» La mia voce non si udiva quasi. «E che cosa mi dice dello scorso venerdì sera?» Per un attimo non mi riuscì di ricordare. Non ero in grado di pensare. Il travestito roteò languidamente su se stesso e proseguì nell'altra direzione. «Ho portato mia nipote a cena e al cinema.» «Lui era con voi?» «No.» «Lo sa dov'era venerdì notte scorso?» Scossi il capo. «Ha telefonato o qualcosa del genere?» «No.» Silenzio. «Merda» mormorò frustrato. «Se allora avessi saputo di lui quello che so adesso. Sarei passato davanti alla sua baracca. Sa, avrei controllato dove diavolo era. Merda.» Silenzio. Buttò il mozzicone fuori dal finestrino e accese un'altra sigaretta. Ne fumava una via l'altra. «Dunque, da quanto lo vede?» «Da qualche mese. Da aprile.» «Vede qualche altra donna o solo lei?» «Non credo che veda nessun'altra. Non lo so. Ovviamente ci sono tante cose di lui che non so.» Prosegui implacabile come una trebbiatrice: «Lei ha mai notato qualche cosa? Voglio dire, qualcosa di un po' fuori?». «Non capisco cosa vuol dire.» Mi si stava inspessendo la lingua. Strascicavo le parole come se stessi per addormentarmi.
«Fuori» ripeté. «Dal punto di vista sessuale.» Non risposi. «È mai stato rude? L'ha costretta a fare qualcosa?» Una pausa. «Com'è? È un animale, come dice Abby Turnbull? Può immaginarlo a fare qualcosa di simile a quello che ha fatto a lei?» Lo sentivo e nello stesso tempo non lo sentivo. I miei pensieri andavano e venivano come se perdessi e riprendessi conoscenza. «... un'aggressione, intendevo dire. Era aggressivo? Ha notato qualcosa di strano...?» Le immagini. Bill. Le sue mani che mi stritolavano, che mi laceravano i vestiti, che mi schiacciavano sul divano. «...i tipi come lui hanno uno schema. Non è il sesso che cercano. È il dominio. Sa, la conquista...» Era così rude. Mi faceva male. Mi infilava la lingua in bocca, non riuscivo a respirare. Non era più lui. Sembrava diventato un'altra persona. «Non importa un accidente che sia bello. Che potrebbe farlo quando vuole. Lo capisce? I tipi come lui sono fuori. FUORI...» Come faceva Tony quand'era ubriaco e arrabbiato con me. «... voglio dire, è uno stupratore, dottoressa. Lo so che non le piace sentirlo dire. Ma, Cristo, lo è. Dovrebbe essersene accorta...» Beveva troppo, Bill. Era peggio quando aveva bevuto troppo. «Succede di continuo. Lei non crederebbe quanti sono i rapporti che mi arrivano, queste ragazzine che mi telefonano due mesi dopo il fatto. Finalmente trovano il coraggio di dirlo a qualcuno. Magari un'amica le convince a farsi avanti. Banchieri, uomini d'affari, politici. Incontrano una in un bar, le offrono da bere e ci mettono dentro un po' di idrato di cloralio. Bum. E così lei quando si sveglia si trova con questa bestia nel letto e si sente come se l'avesse investita un camion...» Con me non avrebbe mai provato a fare una cosa del genere. Non ero un oggetto, una sconosciuta... o forse si era semplicemente mostrato prudente. So troppe cose. Con me non se la sarebbe mai cavata. «... e quei rospi la fanno franca per anni. Certi addirittura per tutta la vita. Vanno nella tomba con tante tacche alla cintura quanto il Sarto Ammazzasette...» Eravamo fermi a un semaforo. Non avevo idea da quanto tempo fossi seduta lì, immobile. «È il paragone giusto, non è vero? Il tipo che ammazzava le mosche, si era fatto un segno alla cintura per ogni...»
Il semaforo era come un occhio rosso luminoso. «L'ha mai fatto con lei, dottoressa? Boltz l'ha mai violentata?» «Cosa?» Mi voltai lentamente verso di lui. Guardava davanti a sé, il viso pallido sotto il riflesso rosso del semaforo. «Cosa?» chiesi di nuovo. Mi batteva il cuore. La luce passò dal rosso al verde e ripartimmo. «L'ha mai violentata?» chiese Marino, come se fossi una sconosciuta, come se fossi una delle "ragazzine" che gli avevano telefonato in passato. Sentivo il sangue montarmi alla testa. «Le ha mai fatto del male, ha mai cercato di strozzarla, o qualcosa del genere...» La rabbia mi esplose dentro. Vedevo scintille davanti a me come se qualcosa stesse scoppiando. Accecata, con il sangue alla testa, urlai: «No! Le ho detto quel cazzo che so su di lui! Ed è tutto quello che intendo dire! PUNTO E BASTA!». Marino rimase come impietrito. In un primo momento non capii bene dove eravamo. Il grande quadrante bianco dell'orologio era sospeso davanti a noi mentre ombre e forme si materializzavano nel piccolo parcheggio delle unità mobili dietro il palazzo. Non c'era nessuno in giro intanto che la macchina di Marino si fermava accanto alla mia auto di servizio. Slacciai la cintura di sicurezza. Tremavo tutta. Martedì pioveva. Rovesci d'acqua scendevano da un cielo grigio tanto che il tergicristallo non ce la faceva a tenere sgombro il parabrezza. Ero intrappolata in una colonna di auto che si muoveva lentissima lungo l'interstatale. Il tempo rifletteva il mio umore. L'incontro con Marino mi aveva lasciata fisicamente nauseata, prosciugata. Da quando sapeva? Quante volte aveva visto l'Audi bianca parcheggiata nel mio vialetto? C'era qualcos'altro, oltre alla curiosità, che l'aveva spinto a passare davanti a casa mia? Voleva vedere come viveva il medico legale capo. Probabilmente sapeva quanto mi pagava lo Stato e quanto pagavo di mutuo ogni mese. Alcune luci di emergenza mi costrinsero a infilarmi nella corsia di sinistra e mentre passavo accanto a un'ambulanza, con la polizia che faceva scorrere il traffico intorno a un furgone schiantato, i miei pensieri cupi vennero interrotti dalla radio. «... Henna Yarborough è stata vittima di un'aggressione sessuale e poi
strangolata. Si crede che sia stata assassinata dallo stesso uomo che ha ucciso altre quattro donne di Richmond nei due mesi scorsi...» Alzai il volume per ascoltare una notizia che avevo già sentito più volte da quando ero uscita di casa. Il delitto sembrava l'unica novità di Richmond in questi giorni. «... i più recenti sviluppi. Secondo una fonte vicina agli ambienti di polizia, sembra che la dottoressa Lori Petersen abbia tentato di contattare il 911 poco prima di venire assassinata...» La succosa rivelazione era finita sulla prima pagina del giornale del mattino. «... il responsabile dell'ordine pubblico Norman Tanner è stato interpellato presso la sua abitazione...» Tanner lesse un comunicato evidentemente preparato. «Le autorità di polizia sono al corrente della situazione. Poiché si tratta di una questione estremamente delicata, non sono in grado di rilasciare dichiarazioni...» «Lei ha un'idea di chi possa essere la fonte di questa informazione, signor Tanner?» chiese il giornalista. «Non sono autorizzato a fare commenti al riguardo...» Non poteva fare commenti perché non lo sapeva. Io invece sì. La cosiddetta fonte vicina agli ambienti di polizia doveva essere Abby stessa. La sua firma non appariva sul giornale. Ovviamente, il redattore capo non le aveva assegnato quel caso. Non scriveva più le notizie, adesso era lei a fare notizia e ricordai la sua minaccia: "Qualcuno pagherà...". Voleva che Bill pagasse, che pagassero la polizia, il municipio, Dio stesso. Attendevo notizie sulla violazione del computer e sull'etichetta sbagliata del PERK. Sarei stata io a pagare. Andai in ufficio solo verso le otto e mezzo. I telefoni stavano già squillando per tutto il corridoio. «Giornalisti» si lamentò Rose entrando e depositando sul rettangolo di carta assorbente un pacchetto di foglietti rosa con i messaggi telefonici. «Agenzie, riviste e un attimo fa un tipo del New Jersey che dice di star scrivendo un libro.» Accesi una sigaretta. «Il pezzo su Lori Petersen che chiama la polizia» aggiunse, con il viso segnato dall'angoscia. «Una cosa orrenda, se è vero...» «Limitati a spedire tutti qui di fronte» la interruppi. «Chiunque telefoni per sapere di questi casi va dirottato verso Amburgey.»
Amburgey mi aveva già inviato svariati promemoria via posta elettronica chiedendomi di fargli avere una copia del referto dell'autopsia di Henna Yarborough sulla scrivania "immediatamente". Nell'ultimo, "immediatamente" era sottolineato ed era stata aggiunta la nota offensiva "mi aspetto spiegazioni sulle indiscrezioni passate al 'Times'". Stava insinuando che in qualche modo ero responsabile dell'ultima "indiscrezione" fatta trapelare alla stampa? Mi accusava di avere parlato a un giornalista della telefonata senza esito al 911? Da me Amburgey non avrebbe avuto spiegazioni. Oggi da me non avrebbe ricevuto un accidente, nemmeno se avesse spedito venti promemoria e fosse comparso di persona. «C'è il sergente Marino» aggiunse Rose, che mi innervosì ulteriormente chiedendomi: «Desidera vederlo?». Sapevo quello che voleva. In realtà avevo già preparato una copia della relazione per lui. La mia speranza, immagino, era che si facesse vivo più tardi, quando io ormai me ne fossi andata. Stavo sigiando una pila di relazioni tossicologiche quando sentii il suo passo pesante in fondo al corridoio. Entrò indossando un giaccone impermeabile blu scuro gocciolante. I capelli radi erano incollati al cranio e aveva un'aria stravolta. «A proposito di ieri sera...» azzardò avvicinandosi alla scrivania. L'espressione del mio sguardo lo zittì. A disagio, si guardò in giro mentre faceva scattare i ganci del giaccone e si frugava in tasca cercando le sigarette. «Piove a catinelle, là fuori» bofonchiò. «Qualunque cosa voglia dire. Non ha senso, se ci si pensa.» Una pausa. «Dicono che smette prima di mezzogiorno.» Senza una parola gli porsi una fotocopia del referto dell'autopsia di Henna Yarborough, comprendente anche i risultati preliminari delle analisi sierologiche di Betty. Non prese la sedia davanti alla scrivania, ma rimase in piedi, facendo gocciolare acqua sul mio tappeto e si mise a leggere. Arrivò al pezzo sgradevole della descrizione. Notai che aveva gli occhi incollati al fondo della pagina. Sollevò lo sguardo e, con espressione indurita, chiese: «Chi ne è al corrente?». «Quasi nessuno.» «Il commissario l'ha vista?» «No.» «Tanner?» «Ha telefonato poco fa. Gli ho parlato solo della causa della morte. Non
ho parlato delle ferite.» Fece scorrere la relazione ancora un po'. «Nessun altro?» chiese senza alzare gli occhi. «Nessun altro l'ha vista.» Silenzio. «Non c'è niente sui giornali» disse. «Non hanno detto niente alla radio e alla televisione. In altri termini, chi fa le soffiate questi dettagli non li conosce.» Lo fissai attonita. «Merda.» Piegò la relazione e la infilò in tasca. «Questo tipo è un maledetto Jack lo squartatore.» Guardandomi, aggiunse: «Mi pare di capire che da Boltz non le è arrivata neanche una mezza parola. Se lo sente, lo scansi, sparisca». «E questo cosa vorrebbe dire?» Bastava citare il nome di Bill per farmi provare una sofferenza fisica. «Non prenda la telefonata, non lo veda. Quello che lei fa di solito in casi del genere. Voglio che per il momento non abbia copie di niente. Non voglio che veda questa relazione o che sappia qualcosa di più di quello che già sa.» «Lo considera ancora un sospetto?» chiesi con la massima calma possibile. «Diavolo, non sono più sicuro di niente» ritorse. «La realtà è che lui è il procuratore e ha il diritto di avere tutto quello che vuole, no? La realtà è che me ne sbatterei le balle anche se fosse il maledetto governatore. Non lo voglio tra i piedi. Per cui le chiedo semplicemente di fare il possibile per evitarlo, per dargli il benservito.» Bill non si sarebbe fatto vedere. Sapevo che non l'avrei sentito. Era al corrente di quello che Abby aveva raccontato sul suo conto e anche che io ero presente quando l'aveva raccontato. «E un'altra cosa» proseguì, chiudendo i ganci del giaccone e rialzando il bavero sulle orecchie, «se sente di avercela con me, faccia pure. Ma ieri sera stavo solo facendo il mio lavoro e se lei pensa che mi sia divertito, si sbaglia di grosso.» Si voltò sentendo qualcuno che si schiariva la gola. Wingo esitava sulla soglia, le mani nelle tasche di un paio di calzoni di lino di ottimo taglio. Un'espressione di disgusto si disegnò sul volto di Marino che passò bruscamente accanto a Wingo e scomparve. Facendo nervosamente risuonare delle monetine in tasca, Wingo si avvi-
cinò alla scrivania e disse: «Ehm, dottoressa, c'è un'altra troupe...». «Dov'è Rose?» chiesi togliendomi gli occhiali. Mi sentivo le palpebre come foderate di carta vetrata. «Alla toilette, credo. Ehm, vuole che dica a quei tipi di andarsene o cosa?» «Mandali dall'altra parte della strada» dissi e aggiunsi irritata, «proprio come abbiamo fatto con l'ultima troupe e con quella ancora prima.» «Sicuro» mormorò, senza però muoversi. Continuò a fare risuonare nervosamente le monetine. «Nient'altro?» chiesi costringendomi a essere paziente. «Ecco» disse, «c'è una cosa che mi incuriosisce. Riguarda lui, uh, riguarda Amburgey. Ehm, non è uno di quelli che fanno le crociate antifumo, oppure lo confondo con qualcun altro?» Lo osservai: aveva un'espressione grave in viso. Non riuscii a immaginare che importanza avesse e risposi: «È decisamente contrario al fumo e spesso prende pubblicamente posizione su questo argomento». «L'avevo pensato. Mi pareva di aver letto qualcosa a questo proposito sull'editoriale e anche di averlo sentito alla tv. Da quel che ho capito, vorrebbe entro l'anno prossimo proibire il fumo in tutte le sedi della Sanità e servizi sociali.» «Proprio così» risposi, ormai palesemente irritata. «Tra un anno, la qui presente direttrice dovrà starsene fuori a fumare al freddo e sotto la pioggia, come una qualsiasi adolescente in colpa.» Poi lo guardai interrogativa e gli chiesi: «Perché?». Scrollò le spalle. «Semplice curiosità.» Un'altra scrollata. «Mi pare di capire che una volta fumava poi si è convcrtito o roba del genere.» «Per quel che ne so io non ha mai fumato» gli dissi. Il telefono suonò di nuovo e quando sollevai lo sguardo dal registro delle telefonate Wingo era scomparso. Se non altro, Marino aveva ragione a proposito del tempo. Il pomeriggio andai a Charlottesville sotto un ciclo di un azzurro intenso. L'unico segno lasciato dal temporale del mattino era la nebbiolina che saliva dai prati ai lati della strada. Le accuse di Amburgey mi pesavano sul cuore, per cui intendevo scoprire di che cosa aveva parlato con il professor Spiro Fortosis. Perlomeno era questa la mia idea quando avevo preso un appuntamento con il criminologo. Non era l'unico motivo, in realtà. Ci conoscevamo fin dagli inizi della
mia carriera e non avevo mai dimenticato che mi era stato amico durante le difficili giornate in cui frequentavo i congressi nazionali di medicina legale senza conoscere praticamente un'anima. Parlare con lui era il miglior modo per scaricarmi, senza ricorrere a uno strizzacervelli. Lo trovai nel corridoio del terzo piano debolmente illuminato dell'edificio di mattoni in cui era situato il suo Dipartimento. Ebbe un sorriso, mi strinse in un abbraccio paterno e mi posò un bacio leggero sulla sommità del capo. Professore di medicina e di psichiatria all'Università della Virginia, aveva quindici anni più di me, due ali di capelli bianchi sopra le orecchie, lo sguardo gentile dietro un paio di occhiali senza montatura. Come sempre, indossava un completo scuro con camicia bianca e una cravatta sottile a righine, fuori moda da così tanti anni da essere di nuovo in voga. Avevo sempre pensato che avrebbe potuto assomigliare al soggetto di un quadro di Norman Rockwell intitolato Il medico condotto. «Mi stanno imbiancando l'ufficio» spiegò, aprendo una porta di legno scuro a metà del corridoio. «Quindi, se non ti dà fastidio farti trattare come una paziente, andremo qui.» «In questo momento sento di essere una delle tue pazienti» dissi mentre chiudeva la porta alle nostre spalle. La stanza spaziosa aveva tutti i comfort di un soggiorno, sebbene fosse arredata in uno stile in un certo senso neutro, idoneo a non suscitare emozioni. Mi sistemai su un divano di pelle. Intorno c'erano acquerelli astratti dai colori pallidi e diverse piante d'appartamento. Non si vedevano né riviste, né libri, né il telefono. Le lampade da tavolo erano spente, le tende bianche chiuse quanto bastava per fare entrare la pacifica luce del sole. «Come sta tua madre, Kay?» volle sapere mentre tirava a sé una poltrona beige con braccioli. «Sopravvive. Credo che ci seppellirà tutti.» Sorrise. «È sempre quello che pensiamo delle nostre madri e purtroppo è vero solo raramente.» «Tua moglie e le figlie?» «Tutte bene.» Mi osservava attentamente. «Hai un'aria molto stanca.» «Immagino di essere molto stanca.» Tacque per qualche istante. «Fai parte della facoltà del VMC» cominciò, con quel suo tono privo di aggressività. «Mi chiedevo se hai avuto occasione di conoscere Lori Peter-
sen da viva.» Senza ulteriori sollecitazioni mi trovai a raccontargli ciò di cui non avevo mai parlato con nessuno. La voglia di sfogarmi era incontrollabile. «L'ho incontrata una volta» dissi. «O perlomeno ne sono abbastanza sicura.» Avevo sondato a fondo la memoria, specialmente durante quei periodi di silenzio e di introspezione in cui mi recavo dal lavoro a casa o viceversa, oppure quando in giardino curavo le rose. Vedevo il volto di Lori Petersen e cercavo di sovrapporlo alla vaga immagine di una delle innumerevoli studentesse del VMC che mi si raccoglievano intorno nei laboratori, oppure nell'aula dove tenevo lezione. Mi ero ormai convinta che, quando avevo studiato le sue fotografie, in casa, qualcosa era scattato. Aveva un'aria familiare. Il mese prima avevo tenuto una prolusione intitolata Donne in medicina. Ricordavo di essere stata in piedi dietro la cattedra di fronte a un mare di volti giovani che salivano di livello in livello fino alla parete di fondo dell'auditorium della facoltà. Erano venuti portandosi la colazione e sedevano comodamente nelle poltrone rosse imbottite, mangiando e bevendo bibite gassate. Era un'occasione come tante, niente di straordinario né di particolarmente memorabile, salvo retrospettivamente. Non ne avevo la certezza ma ero convinta che Lori fosse una delle donne che alla fine si erano fatte avanti per farmi delle domande. Vedevo l'immagine confusa di una bionda attraente in camice da laboratorio. L'unica cosa che ricordavo con chiarezza erano gli occhi, color verde scuro e interrogativi, mentre mi domandava se ero davvero convinta che una donna potesse conciliare la famiglia con una carriera difficile come la medicina. La domanda mi era rimasta in mente perché per un attimo avevo esitato. Io una cosa ero riuscita a gestirla, l'altra certamente no. Riandavo ossessivamente alla scena, ricreandola di continuo nella mente come se, sforzandomi a sufficienza, il volto potesse andare a fuoco. Era lei oppure no? Ogni volta che mi fossi trovata tra i muri del VMC avrei cercato quella dottoressa bionda. Non credevo che l'avrei trovata. Penso proprio che fosse Lori, apparsa brevemente davanti a me come lo spettro di un orrore futuro che l'avrebbe relegata al passato. «Interessante» osservò Fortosis, riflessivo. «Perché pensi che sia importante l'averla incontrata, allora o in un'altra occasione?» Fissai il fumo che saliva dalla mia sigaretta. «Non lo so bene, salvo che rende la sua morte più reale.»
«Se tu potessi ritornare a quel giorno, ci ritorneresti?» «Sì.» «E che cosa faresti?» «In qualche modo la avvertirei» risposi. «In qualche modo impedirei quel che lui ha fatto.» «Quel che l'assassino ha fatto?» «Sì.» «A lui ci pensi?» «Non voglio pensarci. Voglio solo fare tutto il possibile per far sì che venga preso.» «E punito?» «Non c'è punizione che equivalga al delitto. Nessuna punizione potrebbe bastare.» «Se venisse giustiziato, non sarebbe una pena sufficiente, Kay?» «Può morire una sola volta.» «Allora vuoi che soffra.» Teneva gli occhi fissi su di me. «Sì» dissi. «Come? Dolore fisico?» «Paura» dissi. «Voglio che provi il terrore che quelle donne hanno provato quando hanno capito che sarebbero morte.» Non sapevo per quanto tempo avevo continuato a parlare, ma c'era meno luce nella stanza quando finalmente mi fermai. «Suppongo che mi stia prendendo fisicamente, come non mi è mai capitato con altri casi» ammisi. «È come nei sogni.» Si rilassò contro lo schienale e batté leggermente i polpastrelli gli uni contro gli altri. «La gente spesso sostiene di non sognare, mentre sarebbe più preciso dire che non ricorda di aver sognato. Ci va sotto la pelle, Kay. Tutto finisce lì. Noi riusciamo semplicemente a ingabbiare la maggior parte delle emozioni per impedire che ci divorino.» «Ovviamente, non è una faccenda che riesco a tenere sotto controllo molto bene di questi tempi, Spiro.» «Perché?» Sospettavo che lo sapesse benissimo ma volesse che fossi io a dirlo. «Forse perché Lori Petersen era laureata in medicina. Mi sono messa nei suoi panni. Forse sto proiettando. Un tempo ho avuto la sua età.» «In un certo senso, tu eri lei.» «In un certo senso.»
«E quel che è successo a lei... avrebbe potuto capitare a te?» «Non so se mi sono spinta fino a quel punto.» «Penso di sì.» Accennò un sorriso. «Penso che tu abbia spinto molte cose piuttosto avanti. Che altro?» Amburgey. Che cosa gli aveva detto Fortosis? «Ci sono molte pressioni periferiche.» «Del tipo?» «Politiche.» Esposi la questione. «Oh, certo.» Stava ancora battendo lievemente uno contro l'altro i polpastrelli. «Ci sono sempre.» «Le informazioni alla stampa. Amburgey teme che escano dal mio ufficio.» Esitai, cercando il segno che mi confermasse che già lo sapeva. Il viso impassibile non rivelò nulla. «Secondo lui, è una tua teoria che gli articoli sui giornali intensificano gli impulsi omicidi dell'assassino, per cui le indiscrezioni potrebbero essere indirettamente responsabili della morte di Lori e adesso anche quella di Henna Yarborough. Sono sicura che me lo sentirò dire.» «È possibile che queste indiscrezioni escano dal tuo ufficio?» «Qualcuno - un estraneo - è riuscito a violare la base dati del nostro computer. Ciò lo rende possibile. Per dirlo più chiaramente, mi mette in una posizione in un certo senso indifendibile.» «A meno che tu non trovi il responsabile» disse in tono positivo. «Non vedo come.» Lo sollecitai: «Tu hai parlato ad Amburgey». Mi fissò negli occhi. «Gli ho parlato. Ma credo che abbia dato troppa enfasi a quel che ho detto, Kay. Non arriverei mai a sostenere che la responsabilità degli ultimi due delitti vada attribuita alle informazioni che pare siano trapelate dal tuo ufficio. Che le due donne, in altri termini, sarebbero ancora vive se non fosse per le notizie apparse sui giornali. Questo non lo posso dire. E non l'ho detto.» Ero certa che il mio sollievo era visibile. «Tuttavia, se Amburgey, o chiunque altro, intende fare una questione sulle cosiddette indiscrezioni che potrebbero venire fuori dal computer del tuo ufficio, temo di poter fare ben poco. A dire il vero, ho la netta sensazione che ci sia un legame significativo tra la pubblicità e le gesta dell'assassino. Se grazie a informazioni delicate si possono costruire articoli sensazionalistici con titoli cubitali, allora sì, Amburgey - o chiunque altro può prendere quello che io dico obiettivamente e utilizzarlo contro il tuo ufficio.» Mi guardò per un lungo attimo. «Capisci quello che sto dicendo?»
«Stai dicendo che non posso disinnescare la bomba» risposi con il morale che precipitava fino a terra. Chinandosi in avanti, mi comunicò piatto: «Ti sto dicendo che non posso disinnescare una bomba che non riesco a vedere. Che bomba? Intendi dire che qualcuno cerca di incastrarti?». «Non lo so» risposi cauta. «Tutto quello che posso dirti è che le autorità cittadine riceveranno un bel po' di uova in faccia a causa di quella telefonata al 911 che Lori Petersen ha fatto prima di essere assassinata. Hai letto?» Annuì, con un'espressione di interesse negli occhi. «Amburgey mi ha convocato per discutere la questione molto prima che l'articolo venisse pubblicato. C'era anche Tanner. E anche Boltz. Hanno detto che sarebbe scoppiato uno scandalo, che ci sarebbe stata una querela. A questo punto, Amburgey ha stabilito che tutte le informazioni alla stampa avrebbero dovuto passare attraverso di lui. Io non avrei dovuto fare nessun commento. Ha detto che tu sei convinto che le soffiate alla stampa e i conseguenti articoli spingono l'assassino a intensificare la sua attività. Sono stata interrogata a fondo sulle indiscrezioni e sulla possibilità che trapelassero dal mio ufficio. Sono stata costretta ad ammettere che qualcuno aveva violato la nostra base dati.» «Capisco.» «Man mano che tutta questa storia andava avanti» continuai, «ho cominciato ad avere la sgradevole impressione che, se ci sarà uno scandalo, riguarderà quel che si presume sia avvenuto nel mio ufficio. L'implicazione: ho danneggiato l'indagine e forse sono stata la causa indiretta della morte di altre donne...» Tacqui. Il mio tono di voce cominciava a farsi acuto. «In altre parole, mi pare di prevedere che la gente lascerà perdere il pasticcio della telefonata al 911 perché tutti daranno addosso al Centro di medicina legale, cioè a me.» Non fece commenti. «Forse mi preoccupo per nulla» aggiunsi incerta. «Forse no.» Non era quel che avrei voluto sentire. «Teoricamente» spiegò, «le cose potrebbero andare esattamente come hai detto tu, se certe autorità vogliono che succeda in questo modo, è perché intendono salvare la loro pelle. Il medico legale è un ottimo capro espiatorio. La gran massa del pubblico non capisce quel che fa e ha di lui solo impressioni e supposizioni sgradevoli e non vere. La gente tende a
opporsi all'idea di qualcuno che taglia a pezzi il corpo di una persona amata. La vedono come una mutilazione, l'ultima offesa...» «Ti prego» sbottai. Proseguì in tono dolce: «Hai capito cosa intendo dire». «Anche troppo bene.» «È una maledetta scocciatura, questa violazione del computer.» «Oh, Signore. Mi fa venire voglia di tornare all'epoca delle macchine per scrivere.» Fissò pensieroso la finestra. «Vediamo un po' le cose dal punto di vista legale, Kay.» Portò lo sguardo su di me, l'espressione seria. «Ti propongo di fare moltissima attenzione. Ma ti consiglio fortemente di non lasciarti coinvolgere da questa faccenda, tanto da distrarti dalle indagini. Le azioni politiche scorrette o la paura che ti incutono, possono impensierirti al punto da farti commettere errori, cosa che risparmierebbe ai tuoi nemici la seccatura di fabbricarli.» Mi vennero in mente le etichette scambiate. Avvertii un nodo allo stomaco. «Sono come le persone su una nave che affonda» aggiunse. «Possono trasformarsi in belve. Ciascuno per sé. Non devi trovarti sulla loro strada. Non devi metterti in una posizione vulnerabile quando la gente si fa prendere dal panico. E la gente di Richmond si sta facendo prendere dal panico.» «Certa gente sì» concordai. «È comprensibile. Si poteva impedire la morte di Lori Petersen. La polizia ha fatto un errore imperdonabile quando non ha dato una priorità elevata alla sua chiamata. L'assassino non è stato preso. Ci sono donne che continuano a morire. L'opinione pubblica dà la colpa alle autorità cittadine, che a loro volta devono scaricarla su altri. È la natura della bestia. Se polizia e politici possono mollare a qualcun altro la patata bollente, lo fanno.» «Depositandola sulla porta di casa mia» dissi aspra e pensando automaticamente a Cagney. A lui sarebbe successa una cosa simile? Sapevo qual era la risposta e la dissi ad alta voce. «Non posso fare a meno di pensare che sono un bersaglio facile perché sono una donna.» «Sei una donna in un mondo di maschi» rispose Fortosis. «Sarai sempre ritenuta un bersaglio facile, finché i ragazzi scopriranno che hai le zanne. E tu le zanne le hai.» Sorrise. «Fai in modo che se ne accorgano.» «Come?»
«C'è qualcuno nel tuo ufficio di cui ti fidi assolutamente?» «Il mio personale mi è molto leale...» Allontanò la dichiarazione con un cenno della mano. «Fiducia, Kay, quella che ti farebbe affidare loro la tua vita. La tua programmatrice, per esempio?» «Margaret mi è sempre stata fedele» risposi esitando. «Ma mettere la mia vita nelle sue mani? Non credo. La conosco superficialmente, non di persona.» «Quello che voglio dire è che la tua sicurezza - la tua miglior linea di difesa, se vuoi vederla in questo modo - sarebbe quella di riuscire a capire chi è penetrato nel computer. Forse non si potrà. Ma se c'è solo una possibilità, allora sospetto che per scoprirlo ci vuole qualcuno che conosce bene i computer. Un investigatore tecnicamente competente, qualcuno di cui ti fidi. Credo che non sarebbe saggio coinvolgere una persona che conosci poco, qualcuno che potrebbe parlare.» «Non mi viene in mente nessuno» dissi. «E anche se la trovassi, questa persona, non è detto che otterrebbe un risultato positivo. Se è stato un giornalista a violare il computer, non vedo come potrei risolvere il mio problema, scoprendolo.» «Forse no. Ma se io fossi al tuo posto correrei il rischio.» Mi chiesi dove stesse andando a parare. Avevo la sensazione che nutrisse già dei sospetti. «Terrò a mente tutte queste cose» promise, «se e quando qualcuno mi contatterà a proposito delle indagini, Kay. Se qualcuno eserciterà pressioni su di me, per esempio, sulla questione degli articoli che stimolano l'assassino e cose del genere.» Una pausa. «Non intendo farmi strumentalizzare. Ma non posso neppure mentire. Il fatto è che la reazione di questo assassino alla pubblicità, il suo modus operandi in altre parole, è un po' insolito.» Mi limitai ad ascoltarlo. «A essere sinceri, non a tutti i serial killer piace leggere delle loro imprese. L'opinione pubblica tende a credere che la maggior parte di coloro che commettono delitti sensazionali vuole la fama, vuole sentirsi importante. Come Hinckley. Spari al presidente e ti ritrovi in un attimo protagonista. Un individuo dalla personalità inadeguata con problemi di integrazione sociale, che non riesce a conservare un lavoro e ad avere relazioni normali, ottiene di colpo fama internazionale. Questi personaggi sono l'eccezione, secondo me. Rappresentano un estremo. «All'altro estremo ci sono i tuoi Lucas e i tuoi Toole. Fanno quello che
fanno e spesso non rimangono nemmeno in una città abbastanza a lungo da leggere il resoconto delle loro gesta. Vogliono che non lo sappia nessuno. Nascondono i cadaveri e coprono le loro tracce. Sono quasi sempre in movimento, si trasferiscono da un posto all'altro, cercando in viaggio il prossimo bersaglio. La mia impressione, basata su un attento esame del modus operandi dell'assassino di Richmond, è che è una miscela di ambedue gli estremi: lo fa perché spinto da un impulso irrefrenabile ma nel contempo non vuole assolutamente essere catturato. Però cerca anche l'attenzione del pubblico. Desidera che tutti sappiano quello che ha fatto.» «È questo che hai detto ad Amburgey?» «Credo che quando la settimana scorsa ne ho parlato con lui, o con altri, le mie idee non erano così chiare. Per convincermi c'è voluto l'assassinio di Henna Yarborough.» «A causa di Abby Turnbull.» «Sì.» «Se era lei la vittima designata» proseguii, «non c'era modo migliore per scioccare l'intera città e farsi conoscere a livello nazionale che quello di ammazzare la premiata giornalista, autrice della cronaca dei delitti.» «Se Abby Turnbull era la vittima designata, mi pare di vedere un elemento personale nella scelta. Le prime quattro donne, a quanto pare, erano scelte casuali, assassinii di sconosciute. Lui non le conosceva, le seguiva. Erano bersagli scelti per ragioni di opportunità.» «I test sul Dna confermeranno se è la stessa persona» dissi, anticipando quella che secondo me era la direzione dei suoi pensieri. «Io però ne sono convinta. Non potrei credere neanche per un attimo che Henna sia stata assassinata da un altro, da un'altra persona che invece puntava alla sorella.» «Abby Turnbull è una celebrità» osservò Fortosis. «Da un lato, mi sono chiesto, se era lei la vittima designata, è pensabile che l'assassino abbia fatto un errore e abbia invece ucciso la sorella? Dall'altro, se la vittima designata era Henna Yarborough, la coincidenza che fosse la sorella di Abby non è in una certa misura eccessiva?» «Sono successe cose ancora più strane.» «Sicuramente. Non c'è nulla di certo. Potremmo ragionarci su per tutta la vita senza arrivare a nessun risultato. Come mai questo o come mai quello? Il movente, per esempio. È stato maltrattato dalla madre, ha subito molestie sessuali eccetera eccetera? Intende farla pagare alla società, mostrare il suo disprezzo per il mondo? Quanto più faccio questo lavoro, tanto più mi convinco di quel che la maggioranza degli psichiatri non vuole sentire e
cioè che molte di queste persone uccidono perché si divertono.» «Ho raggiunto la stessa conclusione molto tempo fa» dissi rabbiosa. «Penso che l'assassino di Richmond si diverta» prosegui tranquillo. «È molto astuto, molto deciso. Di rado commette errori. Non abbiamo a che fare con una persona mentalmente disturbata, con lesioni al lobo frontale destro. E non è nemmeno uno psicotico. Affatto. È uno psicopatico con tendenze sadiche di intelligenza superiore alla media e in grado di integrarsi sufficientemente bene nella società in modo da conservare un'immagine pubblica accettabile. Penso che abbia un lavoro economicamente redditizio qui a Richmond. Non mi sorprenderebbe minimamente se avesse un'occupazione, un hobby che lo mette a contatto con persone in difficoltà o ferite, oppure con persone che può facilmente controllare.» «Che tipo di lavoro, per la precisione?» chiesi a disagio. «Potrebbe fare praticamente qualsiasi cosa. Sono disposto a scommettere che è abbastanza sveglio, abbastanza competente da poter fare quello che gli piace.» "Dottore, avvocato, capo indiano" sentii dentro di me la voce di Marino. «Hai cambiato idea» ricordai a Fortosis. «Originariamente hai avanzato l'ipotesi che potesse avere precedenti penali oppure malattie mentali, o entrambe le cose. Un individuo appena uscito da un istituto psichiatrico o da un carcere...» Mi interruppe: «Alla luce degli ultimi due omicidii, e in particolare dell'ipotetico obiettivo rappresentato da Abby Turnbull, non credo che sia più vero. I criminali affetti da psicosi raramente, o addirittura mai, hanno le qualità per sfuggire più volte alla polizia. Sono dell'opinione che l'assassino di Richmond sia esperto, probabilmente ha agito per anni e anni in altri posti e ha evitato con successo la cattura in passato, proprio come adesso». «Pensi che si sposti in una località, uccida per diversi mesi e poi cambi aria?» «Non necessariamente» rispose. «Può avere un autocontrollo tale da consentirgli di trasferirsi in un nuovo posto e di sistemarsi. Può darsi che sia capace di un comportamento normale, prima di mettersi all'opera. Quando poi comincia, non è più in grado di smettere. E in ciascun nuovo territorio gli ci vuole ancor di più per soddisfarlo. Diventa sempre più audace, sempre meno controllato. Si beffa della polizia e si diverte a essere la principale preoccupazione della città, vale a dire mediante la stampa... e probabilmente mediante la scelta delle vittime.» «Abby» mormorai. «Se era davvero lei che voleva.»
Annuì «Si tratta di un fatto nuovo, il gesto più audace e più spericolato che abbia compiuto... se davvero aveva l'intenzione di uccidere una famosa cronista di nera. Sarebbe stata la sua più importante performance. Potrebbero essere in gioco anche altri fattori: idee di riferimento, proiezioni. Abby scrive su di lui e lui pensa di avere un conto in sospeso con lei. Intrattiene un rapporto con quella donna. La sua rabbia, le sue fantasie, si concentrano su di lei.» «Ma ha sbagliato tutto» ritorsi con ira. «La sua cosiddetta più importante performance l'ha sbagliata completamente.» «Esattamente. Può darsi che non conoscesse abbastanza bene Abby da sapere che aspetto ha, da sapere che la sorella era andata ad abitare con lei l'autunno scorso.» Con lo sguardo fermo, aggiunse: «È del tutto credibile che abbia saputo solo dal notiziario tv o dai giornali che la donna assassinata non era Abby». L'idea mi lasciò sconcertata. Era una cosa alla quale non avevo pensato. «E questo mi preoccupa notevolmente.» Si lasciò andare contro lo schienale. «Che cosa? Potrebbe puntare di nuovo su di lei?» Ne dubitavo. «Mi preoccupa.» Sembrava pensare ad alta voce. «Le cose non sono andate secondo i suoi piani. Nella sua mente, ha fatto la figura dello stupido. Questo servirà solo a renderlo ancora più crudele.» «Fino a che punto di violenza deve arrivare per venire classificato come "più crudele"?» sbottai ad alta voce. «Lo sai che cosa ha fatto a Lori. E adesso a Henna...» L'espressione del suo volto mi impedì di continuare. «Ho telefonato a Marino poco prima che tu venissi qui, Kay.» Fortosis sapeva. Sapeva che i tamponi vaginali di Henna Yarborough erano negativi. L'assassino probabilmente aveva eiaculato fuori. La maggior parte del liquido seminale era stato raccolto sulle coperte e tra le gambe della vittima. In altre parole l'unico strumento inserito con successo era stato il coltello. Le lenzuola su cui Henna giaceva erano rigide per il sangue coagulato. Se non l'avesse strangolata probabilmente sarebbe morta di emorragia. Rimanemmo seduti in un silenzio opprimente, con l'immagine tremenda di un individuo che provava piacere a infliggere sofferenze così orrende a un'altra creatura umana. Quando osservai Fortosis, notai lo sguardo spento, il viso contratto. Per la prima volta mi parve dimostrare più degli anni che aveva. Percepiva,
vedeva quello che era successo a Henna. Aveva dimestichezza con scene simili, immagini più vivide delle mie. Le ombre della stanza si allungarono su di noi. Ci alzammo ambedue nello stesso istante. Per tornare alla macchina, invece di percorrere il vialetto che portava direttamente al parcheggio presi la strada lunga che passava attraverso il campus. Le Blue Ridge Mountains sembravano un oceano indistinto e ghiacciato in lontananza, il bianco luminoso della cupola del rettorato si stagliava contro il cielo e le lunghe dita dell'ombra si allungavano sul prato. Sentivo il profumo degli alberi e dell'erba ancora calda di sole. Gruppi di studenti mi camminavano accanto, ridendo e chiacchierando senza badare a me. Mentre passavo sotto le braccia aperte di una quercia enorme, mi balzò il cuore in gola sentendo all'improvviso dei passi di corsa alle mie spalle. Mi girai di colpo e un giovane jogger mi guardò sconcertato negli occhi, le labbra socchiuse per la sorpresa. Per un attimo scorsi un paio di calzoncini rossi e due gambe abbronzate poi il ragazzo attraversò il marciapiede e scomparve. 13 Il mattino dopo ero in ufficio alle sei. Ero sola, il centralino era ancora programmato per smistare le telefonate a quello dell'amministrazione statale. Mentre la macchinetta scaldava il caffè entrai nell'ufficio di Margaret. Il computer, in modalità risposta, era lì ad allettare l'intruso a provarci ancora. Non ci aveva provato. La cosa non aveva senso. Sapeva che eravamo al corrente della violazione dopo che la settimana prima aveva cercato di tirar fuori il caso di Lori Petersen? Si era spaventato? Sospettava che non fosse stato caricato nulla di nuovo? Oppure c'era un altro motivo? Fissai lo schermo scuro. Chi sei? mi chiesi. Che cosa vuoi da me? In fondo al corridoio suonò il telefono. Tre squilli e un silenzio improvviso quando intervenne il centralino dello Stato. «È molto astuto, molto deciso...» Non c'era bisogno che me lo dicesse Fortosis. «Non abbiamo a che fare con una persona mentalmente disturbata.» Non mi aspettavo che fosse una persona simile a noi. Ma poteva esserlo.
Forse lo era. «... in grado di integrarsi sufficientemente bene nella società in modo da conservare un'immagine pubblica accettabile...» Poteva avere competenze che gli consentivano di svolgere qualsiasi professione. Poteva utilizzare un computer sul lavoro, oppure averne uno a casa. Voleva entrare nella mia mente. Voleva entrare nella mia mente nella stessa misura in cui io volevo entrare nella sua. Ero l'unico legame concreto tra lui e le sue vittime. Ero l'unico testimone vivente. Quando esaminavo le contusioni, le fratture, i tagli profondi, solo io mi rendevo conto della forza, della violenza selvaggia necessaria per infliggere queste ferite. Nelle persone giovani e in buona salute, le costole sono flessibili. Aveva fratturato quelle di Lori lasciandosi cadere con le ginocchia su di lei con tutto il suo peso. Lori era distesa sulla schiena. Aveva fatto questo dopo aver strappato il cavo del telefono dalla parete. Le fratture delle dita erano causate da torsione, le ossa erano state disarticolate con violenza. L'aveva imbavagliata e legata, poi le aveva spezzato le dita a una a una. Non aveva nessun motivo per farlo, salvo quello di provocarle un dolore terribile e di darle l'idea di quel che doveva ancora arrivare. E durante tutto questo tempo, lei era sempre sul punto di soffocare. In preda al panico, mentre il flusso del sangue bloccato provocava la rottura dei vasi sanguigni come se fossero palloncini, facendola sentire come se la testa stesse per esplodere. Poi era penetrato dentro di lei, praticamente in ogni orifizio. Quanto più si dibatteva, tanto più il filo elettrico le si stringeva intorno al collo, fino a quando aveva perso conoscenza per l'ultima volta ed era morta. Avevo ricostruito ogni dettaglio. Avevo ricostruito ciò che aveva fatto a ciascuna delle vittime. Si domandava che cosa sapevo. Era arrogante. Era paranoico. Nel computer c'era tutto, tutto ciò che aveva fatto a Patty, a Brenda, a Cecile... la descrizione di ogni ferita, di ogni straccio di prova che avevamo trovato, di ogni test di laboratorio sollecitato. Mi stava leggendo nella mente? Le mie scarpe dai tacchi bassi echeggiavano nel corridoio vuoto mentre tornavo di corsa in ufficio. In un soprassalto di energia, vuotai il contenuto del portafoglio fino a quando trovai il biglietto da visita color bianco spen-
to con la parola "Times" stampata in rilievo a caratteri gotici neri, al centro. Dietro c'era un numero scritto con una penna a sfera da una mano incerta. Composi il numero del cercapersone di Abby Turnbull. Presi l'appuntamento per il pomeriggio perché nel momento in cui parlavo ad Abby il cadavere della sorella non era ancora stato consegnato alle pompe funebri. Non volevo che Abby entrasse nel palazzo mentre Henna era ancora lì. Arrivò puntuale. Rose l'accompagnò in silenzio nel mio ufficio e altrettanto in silenzio chiuse la porta. Aveva un aspetto orribile. Il volto era profondamente solcato, il colorito quasi grigio, i capelli le cadevano in ciocche disordinate sulle spalle. Indossava una camicia bianca spiegazzata e una gonna color cachi. Quando accese una sigaretta, notai che era scossa da un tremito. In profondità, dentro l'espressione assente dello sguardo c'era un bagliore di sofferenza per il lutto e la rabbia. Cominciai a dirle quel che raccontavo alle persone care di ciascuna delle vittime cui mi dedicavo. «La causa della morte di sua sorella, Abby, è strangolamento causato dalla legatura intorno al collo.» «Quanto ci ha messo?» Buttò fuori uno sbuffo tremulo di fumo. «Quanto è vissuta dopo che quello le è saltato addosso?» «Non posso dirlo con precisione, ma gli esami fisici mi portano a sospettare che la morte sia stata rapida.» Non dissi che non lo era stata abbastanza. Avevo trovato delle fibre nella bocca di Henna. Era stata imbavagliata. Il mostro la voleva viva almeno per un po' e la voleva in silenzio. In base alla quantità di sangue perduto, avevo classificato le ferite da taglio di tipo perimortem, il che significava che potevo dire con certezza solo che erano state inflitte più o meno nel momento della morte. Dopo l'assalto con il coltello, i tessuti circostanti avevano ceduto pochissimo sangue. Forse era già morta. Forse era solo svenuta. Più probabilmente la realtà era stata ancora peggiore. Sospettavo che la corda delle veneziane le avesse stretto violentemente il collo quando aveva raddrizzato le gambe in un riflesso violento di dolore. «Aveva delle emorragie petecchiali alle congiuntive e alla pelle del viso e del collo» dissi ad Abby. «In altre parole, rottura dei capillari superficiali
degli occhi e del viso. Questo è provocato dalla pressione, dall'occlusione cervicale delle giugulari causata dal cappio stretto intorno al collo.» «Per quanto è vissuta?» chiese di nuovo con voce spenta. «Minuti» ripetei. Non intendevo spingermi oltre. Abby parve leggermente sollevata. Cercava sollievo nella speranza che le sofferenze della sorella fossero state lievi. Un giorno, quando l'indagine fosse stata chiusa e Abby fosse stata più forte, avrebbe saputo. Che Dio volesse assisterla, avrebbe saputo del coltello. «È tutto?» chiese con voce tremante. «È tutto quello che posso dire per il momento» le dissi. «Mi dispiace. Mi dispiace terribilmente per Henna.» Fumò per un poco tirando boccate nervose, a strappi, come se non sapesse che cosa fare delle mani. Si mordeva il labbro inferiore, cercando di trattenere il tremito. Quando finalmente incontrò i miei occhi, notai uno sguardo incerto, sospettoso. Sapeva che non l'avevo chiamata per dirle questo. Avvertiva che sotto c'era qualcos'altro. «Non è per questo che mi ha chiamata, vero?» «Non solo per questo» risposi franca. Silenzio. Vedevo il risentimento, l'ira che bolliva. «Cosa?» domandò. «Che cos'è che vuole da me?» «Voglio sapere che cosa intende fare.» Gli occhi ebbero un lampo. «Oh, adesso capisco. È preoccupata per la sua maledetta personcina. Gesù Cristo. È proprio come tutti gli altri?» «Non mi preoccupo per me stessa» dissi con la massima calma. «Questa cosa l'ho superata, Abby. Lei ha abbastanza materiale in mano per farmi passare dei guai. Se vuole radere al suolo il mio ufficio, avanti. Sta a lei decidere.» Sembrava incerta, evitava di guardarmi. «Comprendo la sua rabbia.» «È impossibile che la capisca.» «La capisco meglio di quanto creda.» L'immagine di Bill lampeggiò nella mente. Intuivo benissimo la rabbia di Abby. «Non può. Nessuno può!» esclamò. «Mi ha rubato mia sorella. Ha ruba-
to una parte della mia vita. Non ne posso più di essere derubata! Che razza di mondo è questo» disse strozzando la voce, «dove qualcuno può fare una cosa del genere? Oh Gesù! Non lo so che cosa farò...» «So che intende indagare sulla morte di sua sorella, Abby. Non lo faccia» dissi in tono fermo. «Qualcuno deve pur farlo!» esclamò. «Cosa? Dovrei lasciare tutto in mano ai piedipiatti?» «Certe cose deve lasciarle fare alla polizia. Però può essere di aiuto. Può, se lo vuole.» «Non mi faccia la predica!» «Non sto facendo nessuna predica.» «Farò a modo mio...» «No. Lei non farà a modo suo, Abby. Lo farà per sua sorella.» Mi fissò inespressiva, gli occhi cerchiati di rosso. «Le ho chiesto di venire perché intendo correre un rischio e mi serve il suo aiuto.» «Come no! E potrò aiutarla andandomene da qui e standomene lontana...» Scossi molto lentamente il capo. Parve sorpresa. «Lo conosce Benton Wesley?» «Lo specialista in profili criminali» rispose con esitazione. «So chi è.» Lanciai un'occhiata all'orologio da parete. «Sarà qui tra dieci minuti.» Mi fissò a lungo. «Cosa? Che cosa vuole che faccia, esattamente?» «Utilizzare i suoi contatti giornalistici per aiutarci a trovarlo.» «Lui?» Spalancò gli occhi. Mi alzai per andare a vedere se era rimasto del caffè. Wesley si era mostrato riluttante quando gli avevo illustrato il piano al telefono, ma ora che eravamo tutti e tre riuniti nel mio ufficio mi sembrò chiaro che l'aveva accettato. «La sua collaborazione completa non è negoziabile» disse enfatico ad Abby. «Deve assicurarmi che farà esattamente quello che concordiamo di fare. Qualsiasi improvvisazione o qualsiasi colpo di mano da parte sua potrebbe fare esplodere l'indagine. La sua discrezione è un imperativo categorico.» Abby annuì, quindi osservò: «Se è l'assassino che viola il computer, come mai l'ha fatto una volta sola?». «Una volta sola è quanto ci risulta» le ricordai.
«Comunque, non si è più verificato dopo che lei se ne è accorta.» Wesley suggerì: «Ha avuto il suo bel daffare. Ha assassinato due donne in due settimane e probabilmente sulla stampa sono apparse informazioni sufficienti a soddisfare la sua curiosità. Potrebbe starsene tranquillo, tutto compiaciuto perché, stando a quel che risulta dai giornali, non abbiamo nessun indizio su di lui». «Dobbiamo scaldarlo» aggiunsi. «Fare qualcosa per stimolare la sua paranoia e metterlo in agitazione. Un modo è quello di fargli credere che il mio ufficio ha raccolto delle prove che potrebbero rappresentare l'opportunità che attendevamo.» «Se è lui quello che viola il computer» riassunse Wesley, «questo potrebbe essere un incentivo sufficiente per spingerlo a riprovarci allo scopo di scoprire quel che si presume che sappiamo.» Guardò nella mia direzione. Il fatto era che di indizi precisi non ne avevamo. Avrei proibito a Margaret di entrare fino a nuovo ordine nel suo ufficio e il computer sarebbe stato lasciato in modalità risposta. Wesley aveva impostato un sistema per risalire a tutte le telefonate fatte con l'interno di Margaret. Intendevamo servirci del computer per attirare l'assassino pubblicando sul giornale di Abby un articolo dove si affermava che le indagini di anatomia patologica avevano consentito di trovare "collegamenti significativi". «Gli verrà un attacco di paranoia, lo sconvolgerà quanto basta per farglielo credere» fu la mia previsione. «Se per esempio è già stato curato in un ospedale dei dintorni, si preoccuperà della possibilità che lo rintraccino attraverso le cartelle cllniche. È lo stesso se compra farmaci speciali in farmacia.» Tutto ciò faceva leva sullo strano odore di cui Matt Petersen aveva parlato. Non c'era nessuna altra "prova" alla quale potevamo alludere con sicurezza. L'unico test che avrebbe potuto mettere in difficoltà l'assassino era il Dna. Con quello potevo bluffare fino in fondo e in definitiva avrebbe anche potuto non essere un bluff. Alcuni giorni prima avevo ottenuto una copia delle relazioni riguardanti i primi due casi. Studiai il gruppo di bande verticali di intensità e di larghezza diverse, molto simili ai codici a barre stampigliati sulle confezioni dei supermercati. Erano state fatte tre analisi con traccianti radioattivi per ciascun caso e la posizione delle bande di ciascun reperto del caso di Patty Lewis non era distinguibile da quella delle bande dei tre campioni di Brenda Steppe.
«Naturalmente questo non ci svela la sua identità» spiegai ad Abby e a Wesley. «Tutto quello che possiamo affermare è che se è di razza nera, allora solo una persona su centotrentacinque milioni di individui di sesso maschile può presentare uno schema identico. Se è di razza bianca solo uno su cinquecento milioni di maschi.» Il Dna è il microcosmo dell'individuo, il suo codice vitale. Alcuni specialisti in ingegneria genetica di un laboratorio di New York avevano estratto il Dna dai campioni di liquido seminale da me raccolto. Li avevano tagliati in determinate posizioni e i frammenti avevano migrato su regioni ben precise di una superficie caricata elettricamente, coperta da uno spesso gel. A un estremo della superficie c'era un polo positivo, all'altro uno negativo. «Il Dna ha una carica negativa» proseguii. «Gli opposti si attraggono.» I frammenti più corti percorrono una distanza maggiore, e più rapidamente, in direzione del polo positivo rispetto a quelli più lunghi, per cui si dispongono nel gel formando il cosiddetto pattern a bande. Questo poi viene trasferito su una membrana di nailon ed esposto a un reagente. «Non ho capito» mi interruppe Abby. «Che reagente?» Spiegai. «I frammenti di Dna a doppio nastro dell'assassino sono stati spezzati, ovvero denaturati, in due nastri singoli. Detto più semplicemente, i frammenti sono stati separati come se fossero le due parti di una cerniera lampo. Il reagente è una soluzione di Dna a nastro singolo che rispetta una sequenza specifica di riferimento identificata da un marcatore radioattivo. La soluzione, cioè il reagente, quando viene versata sulla membrana di nailon, cerca i singoli nastri complementari e si lega a essi, cioè si lega alle fasce singole complementari dell'assassino.» «Quindi la cerniera è stata richiusa?» chiese Abby. «E adesso è radioattiva?» «Il punto è che ora la sequenza può venire fotografata su una pellicola radiografica» dissi. «Già, il codice a barre. Peccato che non possiamo farlo passare su un lettore e tirare fuori il suo nome» aggiunse asciutto Wesley. «Lì c'è tutto sul suo conto» proseguii. «Il problema è che la tecnologia non è ancora sufficientemente avanzata per consentire di leggere i particolari, come per esempio i difetti genetici, il colore degli occhi e dei capelli, questi dettagli. Ci sono così tante bande che coprono così tanti elementi della struttura genetica dell'individuo che è semplicemente troppo complicato ottenere un risultato che non sia un semplice riconoscimento di corri-
spondenza o di non corrispondenza.» «Ma questo l'assassino non lo sa.» Wesley mi guardò con aria interrogativa. «Proprio così.» «A meno che non sia uno scienziato o qualcosa del genere» intervenne Abby. «Supporremo che non lo sia» dissi loro. «Sospetto che non abbia mai neanche pensato al profilo del Dna, fino a quando non ne ha trovato cenni sui giornali. Dubito che capisca bene di che cosa si tratta.» «Spiegherò la procedura nel mio articolo» disse Abby pensando ad alta voce. «Gliela illustrerò quanto basta per spaventarlo.» «Quanto basta per fargli credere che siamo al corrente del suo difetto» approvò Wesley. «Se ha un difetto... è questo che mi preoccupa, Kay.» Mi guardò dritto negli occhi. «E se non ce l'ha?» Ripetei pazientemente tutto. «Quel che non riesco a togliermi dalla testa è il riferimento di Matt Petersen alle frittelle, all'odore in camera da letto che gli ricordava le frittelle, qualcosa di dolciastro ma anche di sudaticcio.» «Sciroppo d'acero» ricordò Wesley. «Sì. Se l'assassino ha un odore corporeo che ricorda lo sciroppo d'acero, può darsi che abbia qualche anomalia, un qualche disordine metabolico. È specificatamente la "malattia dell'urina a sciroppo d'acero".» «È di tipo genetico?» Wesley l'aveva chiesto due volte. «Questo è il bello, Benton. Se ce l'ha, si trova nel suo Dna.» «Non avevo mai sentito parlare di questa malattia» disse Abby. «Be', non è esattamente un comune raffreddore.» «E allora che cos'è esattamente?» Mi alzai e mi avvicinai a uno scaffale. Tirai fuori il corposo Manuale di medicina, lo aprii alla pagina giusta e lo posai di fronte a loro. «È un difetto enzimatico» spiegai rimettendomi a sedere. «Provoca un'accumulazione di aminoacidi nell'organismo come se fossero un veleno. Nella forma classica o in quella acuta, il soggetto soffre di un grave ritardo mentale e/o muore nel corso dell'infanzia, la qual cosa spiega come mai è difficile trovare adulti sani con normali capacità mentali affetti dalla malattia. Però è possibile. Nella forma moderata, che dovrebbe essere quella di cui soffre l'assassino - se ha proprio questo disturbo - lo sviluppo postnatale è normale, i sintomi sono intermittenti e il disturbo può venire trattato con una dieta a basso tenore proteico e probabilmente con supplementi
dietetici, più precisamente con tiamina, ovvero vitamina B1, a dosaggi dieci volte superiori alla normale quantità giornaliera.» «In altre parole» disse Wesley, chinandosi in avanti e aggrottando le sopracciglia mentre leggeva, «potrebbe soffrire della forma moderata, condurre una vita piuttosto normale, essere intelligentissimo... ma puzzare?» Annuii. «Il più comune sintomo di questo disturbo è un odore caratteristico, un odore avvertibile di sciroppo d'acero nell'urina e nel sudore. I sintomi si acutizzano in condizioni di stress, l'odore è più pronunciato quando fa ciò che lo stressa di più, cioè mentre commette i delitti. L'odore si fissa negli abiti. Da molto tempo questo problema deve creargli non poco imbarazzo.» «Lo si sente anche nel liquido seminale?» chiese Wesley. «Non necessariamente.» «Bene» disse Abby. «Se ha questa puzza, allora dovrà farsi un sacco di docce. Se lavora in mezzo alla gente lo noterebbero, l'odore.» Non risposi. Non era al corrente della sostanza luccicante e non avevo intenzione di dirglielo. Se l'assassino aveva questo odore cronico, era normale che sentisse continuamente, per tutta la giornata, l'impulso di lavarsi le ascelle, il volto e le mani, quando era tra gente che avrebbe potuto notare il problema. E forse si lavava sul posto di lavoro, dove poteva esserci un dispenser di sapone con borace. «È un gioco d'azzardo.» Wesley si rilassò nella poltrona. «Gesù.» Scrollò il capo. «Se Petersen se l'è immaginato, l'odore di cui ha parlato, se l'ha confuso con un altro odore - magari un'acqua di colonia che l'assassino si era messo - faremo la figura dei fessi. Il tizio avrà allora la matematica certezza che non sappiamo dove andare a parare.» «Non credo che Petersen si sia immaginato quell'odore» dissi con sicurezza. «Sotto shock com'era quando ha scoperto il cadavere della moglie, se ha notato il sentore e l'ha ricordato, doveva trattarsi di un odore insolito e potente. E non mi riesce di farmi venire in mente un'acqua di colonia che abbia l'odore di sciroppo d'acero e di sudore. Ho fatto l'ipotesi che l'assassino sudasse molto e che se ne fosse andato forse pochi minuti prima del ritorno di Petersen.» «La malattia provoca un ritardo...» Abby stava sfogliando le pagine del libro. «Se non viene curata subito dopo la nascita» ripetei. «Bene, questo bastardo non è un ritardato.» Mi fissò, con lo sguardo du-
ro. «Certo che non lo è» consenti Wesley. «Gli psicopatici sono tutto fuorché stupidi. Quello che vogliamo fare è convincerlo che crediamo che sia stupido. Colpirlo nel suo punto debole, nel suo maledetto orgoglio, che fa leva sulla sua convinzione megalomaniaca di avere un quoziente di intelligenza superiore alla norma.» «Il suo disturbo» spiegai loro «potrebbe determinare appunto una reazione di questo tipo. Se lui ne soffre, ne è di certo al corrente. Probabilmente è una malattia che ricorre nella sua famiglia. Probabilmente avrà sviluppato una certa ipersensibilità, non solo verso l'odore, ma anche verso le deficienze mentali che notoriamente il disturbo provoca.» Abby stava prendendo appunti. Wesley, teso in volto, fissava la parete. Non sembrava per nulla soddisfatto. Sbuffò per la frustrazione, poi disse: «Non saprei, Kay. Se il tipo non dovesse soffrire di questo disturbo dello sciroppo d'acero...». Scosse il capo. «Capirà in un lampo che cosa abbiamo in mano. Potrebbe fare arretrare le indagini.» «Non puoi fare arretrare chi è già stretto in un angolo» dissi asciutta. «Non ho la minima intenzione di indicare il nome del disturbo nell'articolo.» Mi rivolsi ad Abby. «Lo definiremo un disturbo metabolico. Il che può voler dire molte cose. Si preoccuperà. Potrebbe trattarsi di qualcosa che non sa di avere. Ritiene di essere in perfetta salute. E come fa a esserne sicuro? Non c'è mai stata una squadra di genetisti che ha studiato le sue secrezioni corporee. Anche se è medico, non può escludere la possibilità di avere un'anomalia che è rimasta latente per quasi tutta la vita e che è lì come una bomba pronta per esplodere. Gli istilleremo un po' di angosce in quella sua testa. Lasciamo che le rumini. Diavolo, facciamogli credere che ha un disturbo grave. Magari correrà alla clinica più vicina per farsi fare delle analisi. O forse in una biblioteca medica. La polizia potrà controllare, vedere chi cerca un dottore, oppure chi consulta freneticamente manuali di medicina in una delle biblioteche. Se è lui il responsabile della violazione del computer, probabilmente ci riproverà. Comunque vada, l'istinto mi dice che qualche cosa succederà. Daremo un bello scossone alla sua gabbia.» Passammo l'ora successiva a rifinire il linguaggio dell'articolo di Abby. «Non possiamo citare le fonti» insisteva Abby. «Assolutamente. Se le citazioni vengono attribuite alla direttrice del Centro di medicina legale, la cosa sembrerà sospetta perché lei in passato ha sempre rifiutato di parlare. E adesso le è stato ordinato di non parlare. Deve sembrare che ci sia stata
una fuga di notizie.» «Bene» commentai secca, «immagino che potrà tirare fuori dal cappello la sua famosa "fonte dell'ambiente medico".» Abby lesse la bozza ad alta voce. Non mi parve buona. Troppo vaga. Piena di "presunto" di qui e di "possibile" di là. Se solo avessimo avuto un campione di sangue. Il difetto enzimatico, se esisteva effettivamente, si sarebbe potuto trovare nei leucociti, le cellule bianche del sangue. Se solo avessimo avuto qualche cosa. Proprio in quel momento il mio telefono ronzò. Era Rose. «Dottoressa Scarpetta, c'è qui il sergente Marino. Dice che è urgente.» Lo incontrai giù nell'atrio. Aveva con sé una borsa. Quel tipo di borsa di plastica grigia che mi era familiare, perché serviva per raccogliere i capi di vestiario legati a casi criminali. «Questa le sembrerà incredibile.» Rideva scoprendo i denti, con il volto arrossato. «La conosce La Gazza?» Chiaramente sconcertata, fissavo la borsa. «Sa, La Gazza. Gira la città con tutti i suoi beni terreni in un carrello di supermercato che ha preso chissà dove. Passa le ore a rovistare nei bidoni delle immondizie e nei cassonetti.» «Un barbone?» Di chi stava parlando Marino? «Già, il gran mandarino dei barboni. Bene, durante il week-end sta pescando in un cassonetto a meno di un isolato da dove è stata massacrata Henna Yarborough e, dottoressa provi a indovinare - trova una bella tuta blu. La nota subito perché è macchiata di sangue. Sa, è un mio informatore. È abbastanza furbo da infilarla in un sacco della spazzatura e poi se ne va in giro giorni e giorni con quell'affare, cercandomi. Mi ha fatto segno per strada poco tempo fa, si è fatto pagare il solito deca sull'unghia e Buon Natale.» Stava sciogliendo il legaccio che chiudeva il sacchetto. «Dia un'annusata.» Quasi mi fece svenire. Non solo il puzzo della tuta intrisa di sangue vecchio di giorni, ma il potente odore dolciastro e sudaticcio. Un brivido gelido mi percorse la spina dorsale. «Ehi» prosegui Marino, «ho fatto un salto a casa di Petersen prima di venire qui. Gli ho fatto dare un'annusata anche a lui.» «È l'odore che aveva notato?» Mi puntò contro un dito e ammiccò. «Centro.»
Per due ore io e Wander ci dedicammo alla tuta blu. Betty ci avrebbe messo un bel po' di tempo per analizzare le macchie di sangue, ma eravamo quasi certi che la tuta fosse stata usata dall'assassino. Sotto il laser riluceva come un manto di asfalto coperto di quarzo. Sospettavamo che quando aveva ferito Henna con il coltello si fosse imbrattato di sangue e si fosse ripulito le mani sulle cosce. Anche i polsi delle maniche erano induriti a causa del sangue secco. Molto probabilmente aveva l'abitudine di indossare qualcosa di simile a una tuta sopra gli abiti quando colpiva. Forse ogni volta dopo il delitto la buttava via in un cassonetto. Ne dubitavo. Aveva buttato via la tuta perché aveva fatto sanguinare questa vittima. Ero pronta a scommettere che era abbastanza furbo da sapere che le macchie di sangue sono indelebili. Non voleva, in caso di arresto, farsi trovare nell'armadio un capo macchiato di sangue secco. E voleva escludere che si risalisse a lui attraverso la tuta. L'etichetta era stata asportata. Il tessuto sembrava un misto di cotone e di materiale sintetico, color blu cupo, taglia Large o forse Extra Large. Ricordai le fibre scure trovate sul davanzale e sul corpo di Lori Petersen. Ce ne erano alcune scure anche sul corpo di Henna. Nessuno di noi tre aveva detto a Marino che cosa intendevamo fare. Era in giro chissà dove, oppure a casa a bere birra davanti alla tv. Quando la notizia si sarebbe diffusa, avrebbe pensato che non c'era niente di strano, che l'informazione era trapelata e che dipendeva dalla tuta che mi aveva consegnato e dalla relazione sul Dna ricevuta da poco. Volevamo che tutti credessero che la notizia fosse motivata. In realtà, probabilmente lo era. Non mi veniva in mente nessun altro motivo per cui l'assassino avesse un odore così particolare, a meno che Petersen non avesse le allucinazioni e che sulla tuta nel cassonetto si fosse rovesciata una bottiglia di sciroppo d'acero. «È perfetto» stava dicendo Wesley. «Non ha mai pensato che l'avremmo trovata. Il tizio aveva già programmato tutto, forse sapeva persino dove era situato il cassonetto prima di uscire quella sera. Non ha mai creduto che potessimo trovarla.» Lanciai un'occhiata ad Abby. Aveva un autocontrollo stupefacente. «È abbastanza per partire» aggiunse Wesley. Immaginavo già il titolo: TEST DNA: IL SERIAL KILLER
HA UN DISTURBO METABOLICO Se davvero aveva la sindrome dell'urina a sciroppo d'acero, l'articolo in prima pagina gli avrebbe fatto fare un salto. «Se l'obiettivo che si propone è quello di attirarlo al computer» disse Abby, «dobbiamo fargli credere che c'entri il computer. Sai che c'è un rapporto tra i dati.» Riflettei per un minuto. «D'accordo. Possiamo dire che il computer ha trovato una corrispondenza con informazioni immesse recentemente, riguardanti un odore particolare notato sulla scena di uno dei delitti e associato con una prova recentemente scoperta. Una ricerca ha portato a ritrovare un disturbo enzimatico raro che potrebbe provocare un odore simile. Alcune fonti dell'ambiente di polizia preferiscono non rivelare né quale sia questo disturbo, né se la sua esistenza è stata confermata dai risultati dei test sul Dna recentemente completati.» A Wesley l'idea piacque. «Splendido. Facciamolo sudare.» Non colse il doppio senso. «Lasciamo che si chieda se abbiamo trovato la tuta» proseguì. «Non dobbiamo fornire particolari. Magari puoi semplicemente dire che la polizia ha rifiutato di rivelare di che prova si trattasse.» Abby continuava a scrivere. «Tornando alla tua "fonte dell'ambiente medico"» dissi, «potrebbe essere una buona idea inserire alcune citazioni tra virgolette come se fossero state letteralmente trascritte.» Alzò lo sguardo su di me. «Per esempio?» Lanciai un'occhiata a Wesley e risposi: «Supponiamo che la fonte medica rifiuti, come abbiamo detto, di rivelare il tipo di disturbo metabolico. Ma facciamole anche dire che la malattia può provocare a sua volta disturbi mentali e, in fase acuta, addirittura dei deficit. Quindi aggiungiamo, ehm...». Recitai ad alta voce: «Un esperto di genetica umana ha affermato che certi tipi di malattie metaboliche possono provocare gravi ritardi mentali. Sebbene la polizia sia convinta che il serial killer non possa essere un individuo afflitto da deficit mentali gravi, vi è motivo per affermare che potrebbe soffrire di una certa deficienza, che si manifesta con disorganizzazione e confusione intermittenti». Wesley mormorò: «Lo farà saltare per aria. Lo manderà su tutte le furie».
«È importante che non venga messa in discussione la sua salute mentale» proseguii. «Altrimenti ce la ritroviamo in tribunale.» Abby suggerì: «Lo faremo semplicemente sostenere dalla fonte. Le faremo fare una distinzione tra ritardo e malattia mentale». Abby aveva ormai riempito una mezza dozzina di pagine del taccuino. Continuando a scrivere volle sapere: «Questa faccenda dello sciroppo d'acero. Dobbiamo essere precisi per quanto riguarda l'odorare in pubblico o anche avere dei colleghi. Qualcuno potrebbe farsi avanti». «Si» dissi subito. «Il tizio potrebbe lavarsi?» Wesley considerò: «Una cosa è sicura come l'oro, lo scatenerà ancora di più. Dovrebbe mandarlo in paranoia». «A meno che il problema del puzzare non sia così accentuato» osservò Abby. «Come fa a sapere che non puzza?» chiesi. Ambedue apparvero stupiti. «Avete mai sentito il detto "Il naso non sente che odore ha"?» aggiunsi. «Vuoi dire che potrebbe puzzare e non saperlo?» domandò Abby. «Lasciamo che sia lui a chiederselo» risposi. Annui e si chinò di nuovo sul taccuino. Wesley si sistemò nella poltrona. «Che altro sai a proposito di questo disturbo, Kay? Dovremmo controllare nelle farmacie, vedere se qualcuno compra un sacco di vitamine o di farmaci?» «Puoi verificare se qualcuno compra regolarmente medicine con grosse dosi di B1» dissi. «Esiste in commercio anche una polvere specifica, un integratore dietetico. Credo che lo diano senza ricetta perché è un integratore proteico. Forse controlla la malattia con la dieta, limitando i cibi ad alto contenuto proteico. Ma credo che sia troppo attento per lasciare tracce di questo tipo e sinceramente non penso che la malattia sia sufficientemente acuta da imporgli una dieta rigorosa. Ho il sospetto che conduca una vita piuttosto normale. L'unico problema che ha è questo odore strano che si fa notare di più quando è sotto stress.» «Stress emotivo?» «Stress fisico» risposi. «Questo disturbo tende ad accentuarsi in situazioni di stress fisico, come per esempio quando il soggetto è affetto da un'infezione delle vie respiratorie, da un'influenza. È fisiologico. Probabilmente non dorme abbastanza. Spende un sacco di energie per seguire le vittime, penetrare in casa, fare quello che fa. Lo stress emotivo e quello fisico sono legati. Si sommano. Quanto più aumenta lo stress emotivo, tanto
più aumenta quello fisico e viceversa.» «E poi cosa?» Lo guardai impassibile. «E poi cosa succede» ripeté, «se il disturbo salta fuori?» «Dipende dal fatto se diventa acuto o no.» «Supponiamo che lo diventi.» «Gli crea un grosso problema.» «Vale a dire?» «Vale a dire che gli aminoacidi si accumulano nell'organismo. Diventa sonnolento, irritabile, atassico. I sintomi sono simili a quelli di una forma grave di iperglicemia. Potrebbe essere necessario un ricovero ospedaliero.» «Parla una lingua che si capisca» disse Wesley. «Cosa diavolo vuole dire atassico?» «Instabile. Si muove e cammina come se fosse ubriaco. Perde le capacità che servono per saltare recinti ed entrare dalle finestre. Se il disturbo si acutizza, se il livello di stress continua a salire e se lui non viene curato, potrebbe diventare incontrollabile.» «Incontrollabile?» insistette. «Noi lo stressiamo... è quello che vogliamo, giusto? E la sua malattia diventa incontrollabile?» «Probabilmente.» «D'accordo.» Esitò. «E poi?» «Iperglicemia grave e l'angoscia aumenta. Se non viene controllata, entra in stato confusionale. La capacità di giudizio potrebbe venire meno. Sarà soggetto a cambiamenti di umore.» Mi fermai. Ma Wesley non intendeva lasciare perdere. Si piegò in avanti, fissandomi. «Tu non è solo da adesso che pensi a questa sindrome dello sciroppo d'acero, vero?» «Era una delle cose che avevo in mente.» «E non hai detto nulla.» «Non ne ero del tutto sicura» risposi. «Non c'era motivo di avanzare l'ipotesi fino a questo momento.» «Giusto. D'accordo. Dici che vuoi scuotere la gabbia, stressarlo fino a fargli perdere la ragione. Facciamolo pure. Qual è la conseguenza? Voglio dire, cosa succede se il disturbo arriva fino alle estreme conseguenze?» «Potrebbe perdere coscienza, avere delle convulsioni. Se la cosa si prolunga potrebbe condurre a un severo deficit organico.» Mi fissò incredulo, mentre negli occhi appariva una luce di comprensio-
ne. «Gesù. Stai cercando di ucciderlo, quel figlio di puttana.» La penna di Abby si fermò. Mi guardò sconcertata. «Tutto questo è puramente teorico» risposi. «Se ha questa malattia, ce l'ha in forma leggera. Ci ha convissuto per tutta la vita. È altamente improbabile che lo conduca alla morte.» Wesley continuò a fissarmi. Non mi credeva. 14 Non riuscii a dormire per tutta la notte. La mia mente era in subbuglio e vagava inquieta tra realtà sgradevoli e sogni orribili. Avevo sparato a qualcuno e Bill era il medico legale chiamato sulla scena del crimine. Arrivava con la valigetta nera, accompagnato da una bella donna che non conoscevo... Spalancai gli occhi nel buio, sentendomi il cuore stretto da quella che sembrava una mano gelida. Uscii dal letto molto prima che la sveglia suonasse e andai al lavoro schiacciata dal peso della mia depressione. Mi pareva di non essermi mai sentita così sola e sconsolata in tutta la mia vita. In ufficio non rivolsi quasi la parola a nessuno e il personale cominciò a lanciarmi occhiate nervose, perplesse. Per diverse volte fui sul punto di telefonare a Bill, con una risoluzione che vacillava come un albero sul punto di abbattersi al suolo. Finalmente, poco prima di mezzogiorno, l'albero cadde. La segretaria mi annunciò allegramente che il signor Boltz era in vacanza e che sarebbe tornato solo il primo luglio. Non lasciai messaggi. Sapevo che la vacanza non era stata pianificata. E sapevo anche perché non me ne aveva parlato. In precedenza l'avrebbe fatto. Ma il passato era passato. Non ci sarebbero state spiegazioni, né scuse zoppicanti, né menzogne palesi. Mi aveva escluso per sempre perché non poteva affrontare le sue malefatte. Dopo pranzo salii al piano di sopra, in sierologia, e fui sorpresa nel trovare Betty e Wingo con la schiena rivolta alla porta, le teste vicine, concentrati su qualcosa di bianco, chiuso in una bustina di plastica. Dissi un «Salve» ed entrai. Wingo infilò con un gesto nervoso la bustina nel taschino del camice di Betty, come se le stesse passando dei soldi. «Hai finito giù di sotto?» Finsi di essere troppo preoccupata per avere notato la strana transazione.
«Ah, sì. Certo, dottoressa Scarpetta» rispose in fretta uscendo. «McFee, quello cui hanno sparato ieri notte, è stato messo a disposizione poco fa. E le vittime dell'incendio che vengono da Albemarle non saranno qui prima delle quattro.» «Ottimo. Le tratterremo fino al mattino.» «Ti ho beccato» lo sentii dire nel corridoio. Stesa sul tavolo da laboratorio al centro della stanza c'era la ragione della mia visita. La tuta blu. Una tuta come tante, dall'aria innocua: era stata lisciata e riabbottonata fino al collo. Poteva appartenere a chiunque. C'erano molte tasche che credo di aver controllato una per una almeno cinque volte, nella speranza di trovare qualcosa che potesse illuminarmi sul proprietario, ma erano vuote. Sulle gambe e sulle maniche erano rimasti grossi buchi nei punti in cui Betty aveva asportato pezzi di tessuto macchiati di sangue. «Hai avuto fortuna con il gruppo sanguigno?» chiesi, cercando di non fissare la bustina di plastica che spuntava dal taschino del camice. «Qualcosa ho trovato.» Mi fece cenno di seguirla nell'ufficio. Sulla scrivania c'era un taccuino sul quale erano scribacchiati appunti e numeri che a una persona non iniziata avrebbero potuto dare l'idea di geroglifici. «Il sangue di Henna Yarborough è di tipo B» cominciò. «Sotto questo aspetto siamo fortunati perché non è molto comune. In Virginia, è di tipo B circa il dodici per cento della popolazione. Il PGM è uno-più, uno-meno. Il PEP è A uno, I'EAP è CB, ADA uno e AK uno. I sottosistemi disgraziatamente sono comunissimi: corrispondono all'ottantanove per cento e più della popolazione della Virginia.» «Quanto è comune la configurazione in oggetto?» La bustina che spuntava dal taschino cominciava a mettermi in agitazione. Si mise a battere sui tasti di un calcolatore, moltiplicando le percentuali e dividendo per il numero di sottosistemi di cui disponeva. «Circa il diciassette per cento. Diciassette persone su cento potrebbero avere questa configurazione.» «Non si può dire che sia rara» mormorai. «No, a meno che non siano rari i passeri.» «E le macchie di sangue sulla tuta?» «Siamo stati fortunati. La tuta doveva essere già asciutta quando quel vagabondo l'ha trovata. È in condizioni incredibilmente buone. Ho rilevato tutti i sottosistemi salvo uno, un EAP. Corrispondono al sangue di Henna Yarborough. Il Dna dovrebbe potercelo dire con certezza. Ma ci vorranno
da un mese a sei settimane.» «Dovremmo ordinare delle scorte per il laboratorio» osservai distrattamente. Mi guardò per qualche istante, poi gli occhi le si addolcirono. «Hai l'aria di una assolutamente a terra, Kay.» «È evidente, vero?» «Per me è evidente.» Tacqui. «Non lasciarti prendere da queste storie. Dopo trent'anni di disgrazie io ho imparato la dura lezione...» «Di che cosa si sta interessando Wingo?» interloquii scioccamente. Sorpresa, esitò. «Wingo? Ecco...» Stavo fissando il taschino del camice. Rise a disagio e diede un buffetto sul taschino. «Oh, questo. Un lavoretto privato che mi ha chiesto di fare.» Non era disposta a dire di più. Forse Wingo aveva altre preoccupazioni concrete nella sua vita. Forse si voleva fare un test Hiv al volo. Buon Dio, speriamo che non abbia l'Aids. Raccogliendo i pensieri sparsi chiesi: «A proposito delle fibre, trovato qualcosa?». Betty aveva confrontato le fibre della tuta con quelle rilevate sulla scena del delitto di Lori Petersen e con le poche fibre trovate sul corpo di Henna Yarborough. «Le fibre trovate sul davanzale di casa Petersen potrebbero provenire dalla tuta» mi disse, «così come da qualsiasi tessuto diagonale color blu scuro di un misto cotone e poliestere.» In tribunale, pensai depressa, questo paragone non avrebbe significato nulla, in quanto il diagonale è un tessuto comune come la carta per macchina da scrivere che tutte le cartolerie vendono: quando ci si mette a cercarla la si trova dappertutto. Le fibre potevano provenire dai pantaloni da lavoro di qualcuno. Potevano persino essere state lasciate dall'uniforme di un infermiere o di un poliziotto. Ebbi un'altra disillusione. Betty era sicura che le fibre trovate sul cadavere di Henna Yarborough non provenissero dalla tuta. «Sono di cotone» mi stava dicendo. «Probabilmente sono state lasciate da qualcosa che aveva indossato quel giorno, o anche da un asciugamano. Chissà? La gente si mette addosso fibre di tutti i tipi. Ma non mi sorprende che la tuta non ne abbia lasciate.»
«Come mai?» «Perché il diagonale, come il tessuto della nostra tuta, è molto morbido. Raramente perde fibre, a meno che non venga a contatto con una superficie abrasiva.» «Per esempio un davanzale di mattoni oppure di legno ruvido, come nel caso di Lori.» «È possibile. Le fibre scure che abbiamo trovato nel suo caso, dovrebbero essere state lasciate da una tuta. Magari anche da questa. Ma non credo che lo sapremo mai.» Tornai al piano di sotto nel mio ufficio e rimasi per po' alla scrivania, riflettendo. Aprii un cassetto e tirai fuori i fascicoli delle cinque donne assassinate. Cominciai a cercare qualche dettaglio che potevo avere trascurato. Di nuovo volevo trovare un punto di contatto. Che cosa accomunava le cinque donne? Perché le aveva scelte, l'assassino? Come era entrato in contatto con loro? Un nesso ci doveva essere. Dentro di me, non credevo che fossero state scelte a caso, che l'assassino se ne andasse semplicemente in giro a cercare una candidata. Ero convinta che ci fosse un motivo, dietro la scelta. Prima ci doveva essere un qualche tipo di contatto con loro, poi forse le seguiva a casa. Luogo, lavoro, aspetto fisico. Non c'era nessun denominatore comune. Cercai di rovesciare la prospettiva e rintracciare il denominatore meno comune: continuavo a ritornare al caso di Cecile Tyler. Era nera. Le altre quattro vittime erano bianche. Quel particolare fin dall'inizio non mi aveva convinto e tuttora non mi convinceva. L'assassino aveva fatto un errore? Forse non si era reso conto del colore della sua pelle. Cercava un'altra, in realtà? L'amica Bobby, per esempio? Sfogliai le pagine esaminando il referto dell'autopsia che avevo dettato. Esaminai i cartellini dei reperti, i tabulati delle telefonate e un vecchio certificato del St. Luke, dove era stata ricoverata cinque anni prima per una gravidanza extrauterina. Quando arrivai al rapporto di polizia, cercai il numero dell'unica parente, una sorella residente a Madras, Oregon. Era da lei che Marino aveva ottenuto le informazioni sulla vita di Cecile, sul matrimonio fallito con il dentista che attualmente viveva a Tidewater. Le radiografie fecero un rumore simile a quello della lama d'acciaio di una sega quando le estrassi dalla busta marrone per osservarle una a una in trasparenza contro la lampada della scrivania. Cecile non presentava ferite allo scheletro, salvo il segno di una frattura guarita al gomito sinistro. Era
impossibile determinare l'epoca a cui risaliva, ma sapevo che non era recente. Poteva risalire a tanti anni prima da risultare irrilevante. Analizzai, una volta ancora, i contatti con il VMC. Sia Lori Petersen sia Brenda Steppe recentemente erano passate per il pronto soccorso dell'ospedale. Lori come tirocinante in chirurgia traumatica, Brenda come paziente, in seguito all'incidente automobilistico. Forse era spingersi troppo oltre pensare che al VMC avessero curato anche il gomito fratturato di Cecile. A questo punto ero disposta a considerare qualsiasi possibilità. Composi il numero della sorella di Cecile, che trovai nel rapporto di Marino. Dopo cinque squilli all'altro capo venne sollevato il ricevitore. «Pronto?» La linea era disturbata e chiaramente avevo fatto il numero sbagliato. «Spiacente, devo avere sbagliato numero» dissi in fretta. «Pardon?» Ripetei, a voce più alta. «Che numero ha fatto?» La voce era educata, l'accento era quello della Virginia; sembrava appartenere a una donna tra i venti e i trent'anni. Ripetei il numero. «È questo. Con chi desidera parlare?» «Con Fran O'Connor» lessi sulla relazione. La voce, giovane, da persona di ottima istruzione, rispose: «Sono io». Le dissi chi ero e sentii un leggero ansito strozzato. «Lei dovrebbe essere la sorella di Cecile Tyler.» «Sì. Oh, Signore. Preferirei non parlare di questa cosa. La prego.» «Signora O'Connor, mi dispiace moltissimo per Cecile. Sono il medico legale che si interessa del suo caso e le telefono per sapere se lei sa in che modo sua sorella si era fratturata il gomito sinistro. Aveva una frattura guarita al gomito sinistro. In questo momento sto esaminando la radiografia.» Un'esitazione. Stava pensando. «È stato un incidente di jogging. Stava correndo sul marciapiede e ha inciampato atterrando sulle mani. L'impatto le ha provocato la frattura del gomito. Lo ricordo perché rimase ingessata tre mesi, durante una delle estati più calde mai registrate. Stava proprio male.» «Quale estate? È successo nell'Oregon?» «No, Cecile non ha mai vissuto nell'Oregon. È accaduto a Fredericksburg, dove siamo cresciute.» «A quanto risale l'incidente di jogging?»
Un'altra pausa. «A nove, forse dieci anni fa.» «Dove è stata curata?» «Non lo so. Un ospedale di Fredericksburg. Non ne ricordo il nome.» La frattura di Cecile non era stata curata al VMC e risaliva a troppo tempo prima per poter avere qualche importanza. Comunque ormai la cosa non mi interessava più. Non avevo mai incontrato Cecile Tyler da viva. Non le avevo mai parlato. Avevo semplicemente pensato che il suo accento fosse quello tipico dei neri. «Signora O'Connor, lei è nera?» «Certo che sono nera.» Dal tono di voce si sentiva che la domanda l'aveva turbata. «Sua sorella parlava come lei?» «Parlava come me?» chiese con voce che diventava più stridula. «Lo so che può sembrare una domanda strana...» «Intende dire se aveva un modo di parlare da bianca, come me?» prosegui infuriata. «Certo! Parlava come me! Non è questo forse il senso dell'istruzione? Per lei i neri non possono parlare come i bianchi?» «Per favore» dissi con sentimento, «non intendevo certo offenderla. Ma è importante...» Mi stavo scusando con il segnale di centrale. Lucy era al corrente del quinto caso di strangolamento. Sapeva più o meno tutto sulle donne strangolate. Sapeva anche che tenevo una .38 in camera da letto e quella sera per due volte mi aveva fatto delle domande a riguardo. «Lucy» dissi mentre risciacquavo i piatti e caricavo la lavastoviglie, «non voglio che tu pensi alla rivoltella. Ne farei a meno, se non vivessi da sola.» Avevo avuto la forte tentazione di nasconderla in un posto dove non avrebbe mai pensato di cercare. Ma dopo l'episodio del modem, che, in balia dei sensi di colpa, avevo ricollegato al computer di casa pochi giorni prima, mi ero decisa a impostare un rapporto chiaro con lei. La .38 quando Lucy era in città veniva riposta, scarica, in uno scaffale alto del mio armadio, dentro una scatola da scarpe. Di questi tempi, la scaricavo al mattino e la caricavo prima di andare a letto. Per quanto riguardava le cartucce Silvertype, queste le nascondevo dove non avrebbe mai pensato di guardare.
Quando l'affrontai, aveva gli occhi spalancati, enormi. «Lo sai perché ho la rivoltella, Lucy. Credo che tu sappia quanto sono pericolose...» «Uccidono la gente.» «Sì» risposi mentre entravamo in soggiorno. «Possono ammazzarla, questo è assolutamente certo.» «Ce l'hai perché così puoi uccidere qualcuno.» «Non mi piace pensare a una eventualità del genere» le dissi seria. «Be', è vero» insistette. «Ecco perché la tieni. Perché c'è gente cattiva. Ecco perché.» Presi il telecomando e accesi il televisore. Lucy tirò su le maniche della felpa rosa lamentandosi. «Fa caldo qui, zia Kay. Perché fa sempre così caldo?» «Vuoi che accenda l'aria condizionata?» chiesi passando distrattamente da un programma all'altro. «No. Odio l'aria condizionata.» Accesi una sigaretta e la sentii lamentarsi anche di quella. «Il tuo studio è caldo e puzza sempre di cicche. Apro la finestra ma la puzza non se ne va. La mamma dice che non dovresti fumare. Sei medico e fumi. La mamma dice che dovresti saperlo.» Dorothy l'aveva chiamata la sera prima. Era da qualche parte in California, non ricordo dove, con il marito illustratore. Il massimo che potevo fare era mostrarmi civile con lei. Avrei voluto ricordarle: «Hai una figlia, carne della tua carne, sangue del tuo sangue. Ti ricordi di Lucy? Ti ricordi di lei?». Invece mi controllai e mi dimostrai quasi gentile pensando in primo luogo a Lucy, che sedeva al tavolo, le labbra serrate. Lucy parlò con la madre per circa dieci minuti e dopo non disse più nulla. Da quel momento, aveva cominciato a darmi addosso, a criticarmi, sgarbata e prepotente. Aveva tenuto lo stesso comportamento nel corso della giornata, secondo Bertha, che la sera l'aveva definita "una rogna". Mi aveva detto che la bambina non era quasi mai uscita dal mio studio. Era rimasta seduta davanti al computer dal momento in cui ero andata al lavoro fino a quando ero tornata. Bertha aveva smesso di dirle di venire in cucina a mangiare. Lucy mangiava alla mia scrivania. La situation comedy che davano alla televisione sembrava ancora più assurda perché Lucy e io avevamo in corso una nostra situation comedy in soggiorno. «Andy dice che è più pericoloso avere la rivoltella e non saperla usare che non averla» annunciò ad alta voce.
«Andy?» dissi distratta. «Quello prima di Ralph. Aveva l'abitudine di andare alla discarica delle immondizie a sparare alle bottiglie. Riusciva a prenderle da lontano. Scommetto che tu non sei capace.» Mi guardò in tono accusatorio. «Hai ragione. Probabilmente non so sparare bene come Andy.» «Visto!» Non le dissi che in realtà le armi da fuoco le conoscevo molto bene. Prima di acquistare la mia Ruger .38 in acciaio inossidabile ero andata nel nostro poligono interno, nelle cantine del palazzo, e avevo provato un assortimento di pistole del laboratorio armi da fuoco, il tutto sotto la supervisione professionale di uno dei periti. Ogni tanto facevo un po' di esercizio e non avevo una pessima mira. Pensavo che non avrei esitato in caso di necessità. Inoltre non avevo la minima intenzione di discutere ulteriormente la questione con mia nipote. Con voce molto calma le chiesi: «Lucy, perché sei così aggressiva con me?». «Perché sei una stupida!» Le si riempirono gli occhi di lacrime. «Sei solo una vecchia stupida e se ci provassi ti faresti male, oppure lui se la caverebbe! E così te ne andresti anche tu! Se tu ci provassi, lui ti sparerebbe con quella, proprio come capita alla tv!» «Se io ci provassi...» ripetei perplessa. «Se provassi a fare cosa, Lucy?» «Se tu provassi a sparare a qualcuno per prima.» Asciugò con rabbia le lacrime, respirando a singulti. Rimasi a fissare, senza vederla, la saga familiare alla tv, senza sapere cosa dire. Provavo l'impulso di ritirarmi nel mio studio e di chiudere la porta lasciandomi assorbire per un po' dal lavoro. Invece, con un filo di esitazione, mi avvicinai a lei e la strinsi a me. Rimanemmo sedute così per un tempo molto lungo, senza dire nulla. Mi chiesi con chi parlasse, a casa. Non me la immaginavo a fare conversazioni profonde con mia sorella. I libri per l'infanzia di Dorothy erano stati lodati da diversi critici, che li avevano definiti "straordinariamente lucidi" e "profondi" e "pieni di sentimento". Che ironia. Il meglio di sé Dorothy lo dava a personaggi infantili inesistenti. Li nutriva. Trascorreva lunghe ore contemplando ogni loro dettaglio, dal modo in cui erano pettinati agli abiti che indossavano, alle prove e ai riti di passaggio che affrontavano. E intanto sua figlia era affamata di attenzioni. Pensai alle occasioni che Lucy e io avevamo passato insieme quando vivevamo a Miami, alle vacanze con lei, mia madre e Dorothy. Ripensai alla
sua visita precedente. Non ricordavo che avesse fatto il nome di un amico. Ero convinta che non ne avesse. Parlava degli insegnanti e dell'assortimento variopinto di "boy-friend" della madre, della signora Spooner della casa di fronte, di Jack il giardiniere e della fila interminabile di cameriere. Lucy era una piccola saccente con gli occhiali, antipatica ai bambini più grandi e incomprensibile per i suoi coetanei. Era fuori sincronismo. Ero convinta che alla sua età ero stata esattamente come lei. Un piacevole calore si era stabilito tra di noi. «Qualcuno mi ha domandato una cosa l'altro giorno» le sussurrai tra i capelli. «A proposito di che?» «A proposito della fiducia. Qualcuno mi ha chiesto chi era la persona in cui avevo più fiducia al mondo. E sai una cosa?» Rovesciò la testa all'indietro guardando in su, verso di me. «Penso che quella persona sei tu.» «Davvero lo pensi?» mi chiese incredula. «Più di chiunque altro?» Annuii e proseguii in tono tranquillo: «Poiché è così, intendo chiederti di aiutarmi a fare una cosa». Si tirò su a sedere e mi fissò, gli occhi vigili e colmi di attenzione. «Oh, certo! Basta che me lo chiedi! Ti aiuto io, zia Kay!» «Devo riuscire a scoprire in che modo un estraneo è riuscito a violare il computer, giù all'istituto...» «Non sono stata io» sbottò immediatamente, con un'espressione ferita in viso. «Te l'ho già detto che non sono stata io.» «Ti credo. Ma qualcuno l'ha fatto, Lucy. Forse tu puoi aiutarmi a scoprire chi è stato.» Non pensavo che ne fosse capace ma per istinto avevo deciso di darle la possibilità di provarci. Ricaricata di nuovo ed eccitatissima, disse sicura: «Lo potrebbe fare chiunque perché è facile». «Facile?» Sorrisi. «A causa del System/Manager.» La fissai attonita. «Come fai a sapere del System/Manager?» «C'è sul manuale. Il System/Manager è Dio.» Nelle occasioni come questa mi tornava in mente, per non dire che mi innervosiva, il quoziente di intelligenza di Lucy. La prima volta che le era stato fatto il test, aveva ottenuto un punteggio talmente elevato che l'operatore aveva insistito per ripeterlo, pensando che doveva esserci "qualche errore". C'era. La seconda volta Lucy aveva ottenuto dieci punti di più.
«Bisogna saper entrare in SQL tanto per cominciare» attaccò. «Vedi, non puoi assegnare privilegi se non ne hai uno con cui partire. Ecco perché bisogna avere il System/Manager. Dio. Si entra in SQL con lui e poi si può creare tutto quel che si vuole.» Tutto quel che si vuole, mi venne in mente. Per esempio tutti i nomi utente e tutte le parole d'ordine assegnate ai miei uffici. Era una rivelazione spaventosa, di una tale semplicità che non mi era mai venuta in mente. Supposi che non fosse mai venuta in mente nemmeno a Margaret. «Tutto quello che bisogna fare è entrare» prosegui Lucy in tono pratico e sicuro. «E se si è al corrente dell'esistenza di Dio, si può creare qualsiasi privilegio, farlo diventare il responsabile della base dati e poi entrare nella tua base dati.» Nel mio ufficio, l'amministratore della base dati aveva come parola d'ordine "GOLA PROFONDA". Di tanto in tanto Margaret aveva un po' di senso dell'umorismo. «Così entri in SQL collegandoti al System/Manager e poi battendo: GRANT CONNECT, RESOURCE, DBA TO AUNTIE IDENTIFIED BY KAY.» «Forse è proprio quello che è successo» pensai ad alta voce. «E in qualità di amministratore, qualcuno ha potuto non solo vedere ma anche alterare i dati.» «Sicuro! Può fare qualsiasi cosa perché Dio gli ha detto che può. L'amministratore è Gesù.» Il parallelo teologico era talmente spinto che mio malgrado risi. «Ecco come sono entrata in SQL tanto per cominciare» confessò. «Dato che tu non mi avevi parlato né di parole d'ordine, né d'altro, volevo entrare in SQL per provare certi comandi che avevo visto sul manuale. Non ho dovuto fare altro che assegnare al nome utente dell'amministratore una parola d'ordine inventata da me per poter entrare.» «Un attimo» la bloccai. «Aspetta un attimo! Cosa significa che hai assegnato una parola d'ordine inventata da te al mio nome utente di amministratore? Come facevi a sapere qual è il mio nome utente? Non te l'avevo detto.» «È riportato nel tuo file dei privilegi» spiegò. «L'ho trovato nella directory principale, dove hai tutti gli INP delle tavole che hai creato. Hai un file chiamato "Privi SQL" dove hai creato tutti i sinonimi pubblici delle tue tavole.» In realtà, le tavole non le avevo create io. Le aveva fatte Margaret l'anno
prima e io avevo copiato nel computer di casa le scatole di dischetti di riserva che lei mi aveva dato. Era possibile che ci fosse un file "Privi" anche nel computer dell'ufficio? Presi la mano di Lucy e ci alzammo. Mi seguì animata nello studio. La feci sedere di fronte al computer e tirai vicino lo sgabello. Richiamammo il programma di comunicazione e scrivemmo il numero dell'ufficio di Margaret. Mentre il computer lo componeva, osservammo il conteggio alla rovescia in fondo allo schermo. Quasi immediatamente un messaggio ci informò che eravamo collegate e, dopo qualche altro comando, sullo schermo apparve la richiesta di istruzioni C. Improvvisamente il mio computer era diventato un binocolo. Dall'altra parte c'erano i segreti del mio ufficio, a diciotto chilometri da casa. Ero un po' a disagio all'idea che la nostra chiamata fosse controllata. Dovevo ricordarmi di dire a Wesley che non perdesse tempo a cercare di capire chi era penetrato nel computer, dato che in questo caso ero io. «Fai una ricerca file» dissi «per qualsiasi file che potrebbe chiamarsi "Privi" o simili.» Lucy esegui. Sulla riga dei comandi apparve il messaggio "File non trovato". Riprovammo. Cercammo un file chiamato "Sinonimi", sempre senza fortuna. Poi a Lucy venne l'idea di cercare qualsiasi file con suffisso "SQL", perché di solito questo era il suffisso dei file contenenti i comandi SQL, come appunto quelli utilizzati per creare i sinonimi pubblici delle tavole dei dati dell'ufficio. Sullo schermo passarono decine e decine di nomi. La nostra attenzione si concentrò su uno in particolare. Si chiamava "Pubblici.SQL". Lucy lo aprì e lo vedemmo scorrere sullo schermo. In me l'eccitazione era pari alla delusione. Conteneva dei comandi che Margaret aveva impartito molto tempo prima, quando aveva creato i sinonimi pubblici di tutte le tabelle create nella base dati dell'ufficio, comandi come CREATE PUBLIC SYNONYM CASE FOR DEEP CASE. Non ero una programmatrice. Avevo già sentito parlare dei sinonimi pubblici ma non sapevo bene che cosa fossero. Lucy stava sfogliando un manuale. Trovò la parte riguardante i sinonimi pubblici e sicura di sé azzardò: «Vedi, è chiaro. Quando si crea una tavola, bisogna crearla sotto un nome utente o sotto una parola d'ordine precisa». Alzò lo sguardo su di me con gli occhi che le brillavano dietro le lenti spesse. «D'accordo» dissi. «Mi sembra sensato.»
«Per cui se il tuo nome utente è "zia" e la parola d'ordine è "Kay" allora quando tu crei una tavola chiamata "giochi" o roba del genere, il nome che il computer gli dà in realtà è "zia.giochi". Cioè attacca il nome della tavola al nome utente sotto cui è stato creato. Se non si ha voglia di stare ogni volta a scrivere "zia.giochi" si crea un sinonimo pubblico. Cioè si impartisce il comando CREATE PUBLIC SYNONYM GIOCHI FOR ZIA.GIOCHI. In un certo senso si cambia nome alla tavola, che così si chiama semplicemente "giochi".» Fissai il lungo elenco di comandi sullo schermo, che rivelava tutte le tavole del computer dell'ufficio e il nome utente sotto cui ciascuna era stata creata. «Ma anche se qualcuno ha visto questo file, Lucy» dissi, «non poteva conoscere la parola d'ordine. C'è solamente il nome utente dell'amministratore e senza conoscere la parola d'ordine non si può entrare nella tavola, come per esempio la nostra tavola dei casi.» «Ci scommettiamo?» Teneva le dita pronte sui tasti. «Se vuoi sapere il nome utente dell'amministratore, devi cambiare parola d'ordine scegliendone una qualsiasi e dopo puoi entrare. Al computer non importa. Ti lascia cambiare la parola d'ordine in qualsiasi momento senza rovinare né programmi né niente. La gente vuole cambiare la parola d'ordine per sicurezza.» «Quindi si potrebbe prendere il nome utente "gola", assegnargli una nuova parola d'ordine e poi richiamare i dati?» Annui. «Fammi vedere.» Mi guardò, incerta. «Ma tu mi avevi detto di non entrare nella base dati del tuo ufficio.» «Per questa volta faccio un'eccezione.» «E se assegno una nuova parola d'ordine a "gola", zia Kay, quella vecchia va perduta. Scompare. Non funziona più.» Con un sussulto ricordai ciò che Margaret aveva detto quando avevamo scoperto che qualcuno aveva cercato di richiamare il caso di Lori Petersen: qualcosa a proposito della parola d'ordine dell'amministratore che non funzionava, costringendola ad assegnare di nuovo i privilegi. «La vecchia parola d'ordine non funziona più perché è stata sostituita da quella che ho indicato io. Ecco perché non si può più entrare con quella vecchia.» Mi lanciò un'occhiata furtiva. «Ma io te la stavo aggiustando.» «Aggiustando?» Quasi non l'ascoltavo.
«Il tuo computer, qui, la tua vecchia parola d'ordine non funziona più perché l'ho cambiata per entrare in SQL. Ma la rimetto a posto, sai. L'ho promesso.» «Dopo» dissi in fretta. «La rimetti a posto dopo. Voglio che tu mi faccia vedere esattamente come hanno fatto a entrare.» Cercavo di dare un senso razionale al tutto. Sembrava probabile, decisi, che chi era penetrato nella base dati avesse delle conoscenze tali da sapere di poter creare una nuova parola d'ordine associata al nome utente trovato nel file Pubblici.SQL. Non sapeva però che così facendo avrebbe invalidato la vecchia parola d'ordine, impedendoci poi di entrare a nostra volta. Ovviamente ce ne saremmo accorti. Ovviamente ci saremmo chiesti il perché e l'idea che l'eco potesse essere attivo e che inviasse i comandi allo schermo evidentemente non gli era venuta. Quindi l'effrazione del computer doveva essere un fatto isolato! Se l'estraneo avesse violato anche in precedenza la base dati, anche se l'eco era inattivo, l'avremmo saputo perché Margaret avrebbe scoperto che come parola d'ordine "gola" non funzionava più. Come mai? Come mai lo sconosciuto era penetrato nel computer e aveva cercato di tirare fuori il caso Lori Petersen? Lucy faceva volare le dita sulla tastiera. «Vedi» stava dicendo, «adesso fingo di essere il cattivo che tenta di introdursi. Ecco come faccio.» Richiamò SQL immettendo System/Manager ed eseguì il comando CONNECT/RESOURCE/DBA sul nome utente "gola" e una parola d'ordine inventata al momento: "pasticcio". Il privilegio venne assegnato. A questo punto era il nuovo amministratore della base dati. E grazie a questo privilegio poteva inserirsi in qualsiasi tabella dell'ufficio. Aveva i poteri che le consentivano di fare qualsiasi cosa volesse. Aveva la possibilità di alterare i dati. Aveva lo stesso potere, per esempio, che avrebbe potuto consentire di alterare la scheda del caso di Brenda Steppe e di inserire "Cintura in tessuto di colore marrone" nel campo Effetti e oggetti personali. Era stato lui a farlo? Lui indubbiamente conosceva i particolari degli assassinii che aveva commesso. Leggeva i giornali. Era ossessionato da ogni singola parola scritta sul suo conto. Avrebbe riconosciuto una notizia imprecisa prima di chiunque altro. Era arrogante. Voleva mettere alla prova la propria intelligenza. Aveva alterato i dati del mio ufficio per prendermi in giro, per sfidarmi?
Il computer era stato violato quasi due mesi dopo la pubblicazione del particolare nell'articolo di Abby sulla morte di Brenda Steppe. Tuttavia la base dati era stata violata una sola volta e solo di recente. Il dettaglio riportato nell'articolo di Abby non poteva provenire dal computer del mio ufficio. Era possibile che, al contrario, quel particolare inserito nel computer fosse stato preso dall'articolo? Forse la persona che aveva violato il computer aveva esaminato i nostri dati sui casi di strangolamento, cercando qualcosa che non concordasse con ciò che scriveva Abby. Forse quando era arrivato al caso di Brenda Steppe aveva trovato un'imprecisione. A questo punto, aveva alterato i dati scrivendo "Cintura in tessuto di colore marrone" sopra "Collant trasparente". Forse l'ultima cosa che aveva fatto prima di uscire era stato cercare di richiamare il caso di Lori Petersen, per pura curiosità, se non altro. Questo poteva spiegare i comandi che Margaret aveva trovato sullo schermo. La paranoia mi stava facendo sragionare? Ci poteva essere un collegamento tra questa storia e l'etichetta scambiata sul PERK? La custodia di cartoncino era cosparsa con il residuo brillante. E se questo non fosse stato lasciato dalle mie mani? «Lucy» chiesi, «ci sarebbe un modo per sapere se qualcuno ha alterato i dati nel computer dell'ufficio?» «Voi le fate le copie di riserva dei dati, vero?» disse, senza bisogno di pensarci. «Qualcuno prepara una copia di riserva, non è vero?» «Sì.» «Allora basta prendere una copia di riserva vecchia, caricarla di nuovo nel computer e vedere se i dati vecchi sono diversi.» «Il problema» considerai, «è che anche se scoprissi un'alterazione, non potrei dire con certezza se è stato uno dei miei dipendenti ad alterare il record. I casi sono in uno stato di continuo aggiornamento perché i rapporti arrivano un po' alla volta, per settimane, per mesi, dopo l'apertura del fascicolo.» «Allora penso che dovrai chiedere, zia Kay. Chiedi se sono stati loro ad alterare il record. Se dicono di no e se trovi una copia di riserva diversa dalla roba che c'è nel computer adesso, non ti potrebbe servire?» «Potrebbe» ammisi. Lucy rimise la vecchia parola d'ordine. Uscimmo e ripulimmo lo schermo per fare si che il mattino dopo in ufficio nessuno vedesse i comandi. Erano quasi le undici. Telefonai a Margaret a casa. Mi ascoltò intontita mentre le chiedevo se avevamo delle copie di riserva dei dati risalenti a
prima della violazione. La delusione era prevista. «No, dottoressa Scarpetta. In ufficio non c'è niente di così vecchio. Facciamo una copia di riserva ogni sera e formattiamo quella prima per riutilizzarla poi.» «Maledizione. Devo riuscire a procurarmi in qualche modo una copia della base dati che non sia stata aggiornata nelle ultime settimane.» Silenzio. «Un minuto» mormorò. «Forse ho un file sequenziale...» «Di che cosa?» «Non lo so...» Esitò. «Immagino che siano più o meno gli ultimi sei mesi di dati. Il Dipartimento statistiche demografiche vuole avere i nostri dati e un paio di settimane fa ho provato a importare in una partizione i dati del distretto e a inviare tutti i dati dei casi in un file per vedere come si presentavano. Alla fine, dovrei inviarli via telefono direttamente nel loro mainframe...» «Quante settimane fa?» la interruppi. «Quante settimane fa hai copiato i dati?» «Il primo del mese... vediamo, credo che sia stato proprio verso il primo di giugno.» Sentivo un ronzio alla testa. Dovevo sapere. Come minimo, la colpa delle indiscrezioni non avrebbe potuto venire attribuita al mio ufficio, se fossi riuscita a dimostrare che i dati nel computer erano stati alterati dopo la comparsa degli articoli sui giornali. «Ho bisogno immediatamente di uno stampato del file sequenziale» le dissi. Ci fu un lungo silenzio. Avvertii la sua incertezza quando rispose: «Ho avuto alcuni problemi con la procedura». Un'altra pausa. «Ma le posso dare quello che ho, domani mattina al più presto.» Diedi un'occhiata all'orologio e feci il numero del cercapersone di Abby. Cinque minuti dopo l'avevo in linea. «Abby, lo so che le sue fonti sono sacre, ma c'è una cosa che devo sapere.» Non rispose. «Nel suo articolo sull'assassinio di Brenda Steppe ha scritto che è stata strangolata con una cintura di tessuto marrone. Da chi ha ottenuto questo particolare?» «Non posso...» «Per favore. È importantissimo. Non voglio sapere di chi si tratta, ma
devo conoscere la fonte.» Dopo una lunga pausa rispose: «Niente nomi. Un poliziotto. Di quelli intervenuti sulla scena del delitto. Conosco tanti poliziotti...». «Quindi può escludere con assoluta certezza che l'informazione sia uscita dal mio ufficio?» «Con assoluta certezza» disse con enfasi. «Lei si sta preoccupando dell'effrazione del computer di cui ha parlato il sergente Marino... giuro, niente di quello che ho scritto viene da lì, dal suo ufficio.» Mi uscì di bocca prima che riuscissi a reprimermi. «La persona che ha violato il computer, chiunque sia, potrebbe avere inserito nel record del caso il particolare della cintura di tessuto marrone per far sembrare che la notizia sia trapelata dal mio ufficio, che sia lì che si deve cercare il responsabile. Questo particolare è errato. Non credo che sia mai stato registrato nel nostro computer. Credo che la persona che ha violato il computer abbia tratto il dettaglio dal suo articolo, Abby.» «Buon Dio» fu tutto quello che disse. 15 Marino sbatté il giornale del mattino sul tavolo delle riunioni con un forte colpo che fece sventolare le pagine e uscire gli inserti. «Che diavolo è questa roba?» aveva il viso rosso di rabbia e bisognoso di una rasatura. «Cristo santo!» La risposta di Wesley fu quella di tirar fuori una sedia allungando un piede e invitarlo ad accomodarsi. L'articolo di giovedì era in prima pagina in alto. Il titolo era: TEST DNA: LO STRANGOLATORE AVREBBE UN DIFETTO GENETICO La firma di Abby non compariva. Era stato scritto dal reporter che si occupava di solito dei processi. C'era inoltre un riquadro sui profili che si ottenevano con il test del Dna, comprendente anche uno schizzo delle "impronte digitali" del Dna. Provai a immaginarmi il killer intento a leggere e a rileggere infuriato il giornale. Avrei scommesso che, dovunque lavorasse, oggi si sarebbe messo in malattia. «Quello che voglio sapere è come mai non sono stato informato di que-
sta storia» disse Marino fissandomi con occhi di fuoco. «Io consegno la tuta, la mia parte la faccio e poi mi ritrovo a leggere queste merdate! Che difetto? Sono arrivate le relazioni del Dna e c'è già stata la soffiata, o cosa?» Non dissi nulla. Fu Wesley a rispondere. «Non importa, Pete. Non ci dobbiamo preoccupare dell'articolo. Consideralo come una benedizione. Sappiamo che l'assassino ha un odore strano; o per lo meno sembra probabile che ce l'abbia. Se si convince che l'ufficio di Kay sta seguendo una traccia, magari fa una mossa stupida.» Guardò me. «Novità?» Scossi il capo. Fino a quel momento non c'era stato nessun tentativo di violare il computer dell'ufficio. Se uno dei due fosse entrato venti minuti prima nella sala riunioni mi avrebbe trovata immersa nei tabulati fino alle caviglie. Nulla da meravigliarsi se Margaret la sera prima aveva esitato quando le avevo chiesto di stampare il file sequenziale. Comprendeva circa tremila casi, avvenuti in tutto lo Stato nel mese di maggio, vale a dire era una passatoia di carta a striscioline verdi che si allungava praticamente per l'intero palazzo. Ma il peggio era che i dati erano stati compressi in un formato così ridotto da risultare pressoché illeggibili. Era come cercare delle frasi complete in una zuppiera piena di lettere dell'alfabeto. Mi ci volle più di un'ora per trovare il numero del caso di Brenda Steppe. Non lo so se provai emozione oppure orrore - forse ambedue - quando alla voce Effetti e oggetti personali scoprii la trascrizione "Collant trasparente intorno al collo". Da nessuna parte era citata la cintura in tessuto di colore marrone. Nessuno dei miei dipendenti ricordava di avere modificato la voce o di avere aggiornato il caso dopo l'immissione dei dati che di conseguenza erano stati alterati. Erano stati alterati da una persona non appartenente al mio staff. «Che cos'è questa storia dell'incapacità mentale?» Marino agitò rudemente il giornale nella mia direzione. «Ha trovato qualcosa in questo abracadabra del Dna che le fa pensare che il tizio vada a tre cilindri?» «No» risposi sincera. «Credo che nell'articolo si sostenga che certi disturbi metabolici potrebbero determinare problemi del genere. Ma non ho riscontrato prove che lo suggeriscano.» «Be', sicuro come l'oro che quel tizio non ha il cervello andato. Mi tocca di nuovo sentire le solite puttanate. È uno stupido, è un essere inferiore. Probabilmente fa il lavamacchine, pulisce le fogne o roba del genere...»
Wesley cominciava a spazientirsi. «Datti una calmata, Pete.» «Dovrei essere io il responsabile delle indagini e mi tocca leggere uno stramaledetto giornale per sapere cosa diavolo succede...» «Abbiamo un problema più serio, lo vuoi capire?» scattò Wesley. «E che cos'è?» Glielo esponemmo. Gli parlammo della conversazione telefonica con la sorella di Cecile Tyler. Ci ascoltò, con l'ira negli occhi che si acquietava gradualmente. Aveva un'aria confusa. Gli spiegammo che tutte e cinque le donne avevano chiaramente un elemento in comune. La voce. Gli ricordai l'interrogatorio di Matt Petersen. «Da quel che ricordo, ha detto qualcosa sulla prima volta che ha incontrato Lori. A un party, mi pare. Ha parlato della sua voce. Ha detto che era il tipo di voce che rimaneva impressa, un contralto molto piacevole. Stiamo prendendo in esame l'ipotesi che il punto di contatto tra i cinque casi sia la voce. Forse l'assassino le donne non le aveva viste. Le aveva udite.» «Una cosa come questa non ci era mai capitata» aggiunse Wesley. «Quando pensiamo a un assassino che cerca le sue vittime, pensiamo a uno psicopatico che le vede. In uno shopping center, mentre fanno jogging, nella cornice di una finestra della loro casa. Di regola, il telefono, nei casi in cui gioca un ruolo, viene dopo il primo contatto. L'uomo la vede. Forse le telefona in un secondo tempo, fa il suo numero per sentire la voce e fantasticare. L'ipotesi che stiamo considerando è molto più spaventosa, Pete. L'assassino potrebbe fare un lavoro per cui usa il telefono e parla a donne sconosciute. Ha il loro telefono e l'indirizzo. Chiama. Se la voce lo stimola, sceglie la vittima.» «Come se questo riducesse il numero» si lamentò Marino. «Per prima cosa dobbiamo accertarci se tutte quelle donne erano sull'elenco telefonico. Poi dobbiamo considerare il tipo di lavoro. Voglio dire, non passa settimana senza che una signora non riceva una telefonata. Qualche fesso che vende spazzole, lampadine, appartamenti. Poi ci sono le inchieste demoscopiche, tipo "È disposta a rispondere a cinquanta domande?". Vogliono sapere se una è sposata, se è single, quanto guadagna. Se si infila le mutande una gamba per volta, se usa il filo interdentale dopo essersi lavata i denti.» «Cominci a farti un'idea» borbottò Wesley.
Marino prosegui senza fermarsi: «Così abbiamo un tizio che si dedica a stupri e assassinii. Potrebbe essere uno pagato otto dollari l'ora per starsene seduto a casa a passare in rassegna l'elenco telefonico. Una donna gli dice che è single e che guadagna ventimila dollari all'anno. Una settimana dopo» - questo rivolto a me - «si introduce nella sua baracca. Quindi ho una cosa da chiedervi. Come diavolo facciamo a trovarlo?» Non lo sapevamo. La voce delle vittime come possibile filo conduttore non permetteva di fare delle indagini mirate. Marino aveva ragione. In realtà, complicava il nostro lavoro, invece di facilitarlo. Avremmo potuto risalire alle persone che una delle vittime aveva visto in un certo giorno. Era però improbabile che saremmo riusciti a scovare tutta la gente con cui aveva parlato al telefono. La vittima avrebbe potuto perfino non saperlo. Anche se fosse stata viva per dirlo. Chi vende prodotti per telefono, chi fa un'indagine di mercato, chi sbaglia numero, raramente dichiara la propria identità. Tutti noi riceviamo giorno e notte telefonate che non hanno esito e che non ci rimangono in mente. «Lo schema dei delitti» dissi, «mi porta a chiedermi se lavora fuori casa, se da lunedì a venerdì si reca al suo posto di lavoro. Nel corso della settimana il suo stress aumenta. La sera del venerdì, o le prime ore del sabato, colpisce. Il sapone al borace, se lo usa venti volte giorno, è altamente improbabile che si trovi nel bagno della sua abitazione. Per quel che ne so, il sapone da toilette che si compra in drogheria non contiene borace. Se lui si lava con il sapone al borace, sospetto che lo faccia sul posto di lavoro.» «Siamo sicuri che sia borace?» chiese Wesley. «Il laboratorio lo ha stabilito mediante cromatografia ionica. Il residuo luccicante che abbiamo trovato sui cadaveri contiene borace. Senza possibilità di dubbio.» Wesley rifletté per qualche istante. «Se usa sapone al borace sul lavoro e torna a casa alle cinque, non è probabile che all'una del mattino gli sia rimasta addosso una quantità tale di residuo. Forse lavora di sera. C'è del sapone al borace nella toilette maschile, lui smonta poco prima di mezzanotte, magari all'una del mattino e va diritto a casa della vittima.» Lo scenario era più che plausibile, spiegai. Se l'assassino lavorava di sera, aveva ampie possibilità nel corso della giornata, mentre il resto della gente è al lavoro, di esplorare il quartiere della vittima designata. Poteva poi passare di nuovo in macchina, sul tardi, magari dopo mezzanotte, per dare un'altra occhiata. Le vittime o erano fuori casa o dormivano, come la
maggior parte dei vicini. Nessuno l'avrebbe visto. Chi usa per lavoro il telefono, di sera? Discutemmo le varie possibilità. «Di solito i venditori telefonano all'ora di cena» disse Wesley. «Mi sembrerebbe strano che chiamassero dopo le nove.» Ne convenimmo tutti. «Quelli che consegnano la pizza» propose Marino. «Sono fuori a tutte le ore. Potrebbe essere il fesso che prende gli ordini. Tu chiami e la prima cosa che il centralinista chiede è il numero di telefono. Se hai telefonato altre volte, l'indirizzo appare sullo schermo del computer. Trenta minuti dopo arriva qualcuno alla porta con una peperoni-con-poche-cipolle. Potrebbe essere il fattorino che decide in fretta se si tratta di una donna che vive sola. O forse il centralinista. Gli piace la voce della donna, conosce l'indirizzo.» «Controlliamo» disse Wesley. «Manda in giro un paio di tizi a controllare i vari pronto pizza.» Il giorno dopo era venerdì! «Vedi se trovi un pronto pizza al quale le cinque donne si rivolgevano di tanto in tanto. Dovrebbe essere nel computer, facile da rintracciare.» Marino uscì per qualche istante e tornò con le pagine gialle. Trovò la sezione pizze e cominciò a scribacchiare nomi e indirizzi. Continuavano a venirci in mente nuove possibili occupazioni. I centralinisti degli ospedali e delle società telefoniche rispondevano a tutte le ore alle telefonate. Quelli che sollecitavano contributi benefici o politici non esitavano a distogliere una persona dal proprio programma televisivo preferito anche alle dieci di sera. È poi c'era sempre la possibilità dell'individuo che giocava alla roulette con la guida del telefono: un guardiano notturno seduto nell'atrio della Federal Reserve senza niente di meglio da fare, un benzinaio annoiato a tarda sera, durante le ore di stanca. Mi sentivo sempre più confusa. Non riuscivo a dare un ordine alle ipotesi. C'era però qualcosa che mi preoccupava. Complichi troppo la vicenda, mi diceva una voce interna. Ti stai allontanando sempre di più dagli elementi in tuo possesso. Scrutai il viso sudato, grassoccio di Marino, l'espressione di incertezza nello sguardo. Era stanco, stressato. Era ancora in preda a una rabbia profonda. Come mai era così suscettibile? Che cosa aveva detto su come la pensava l'assassino, qualcosa sul fatto che non gli piacevano le donne in
carriera perché erano boriose? Ogni volta che cercavo di rintracciarlo era "fuori, per strada". Era stato su tutte le scene dei delitti. Su quella di Lori Petersen era sveglissimo. Forse quella sera stessa non era neanche andato a letto? Non era un po' strano quel suo accanimento contro Matt Petersen, quel volere a tutti i costi scaricare su di lui la responsabilità degli assassinili? Marino non rientra nel profilo a causa dell'età, mi dissi. Passa la maggior parte del tempo in auto e per lavoro non risponde al telefono, per cui non vedo alcun nesso tra lui e le donne. Cosa più importante, non ha un odore corporeo peculiare e se fosse stata sua la tuta trovata nel cassonetto perché avrebbe dovuto portarla al laboratorio? A meno che, pensai, non stesse rovesciando il meccanismo, giocando la partita contro di esso proprio perché conosceva tante cose. Dopotutto era un esperto, era il responsabile dell'indagine, aveva un'esperienza sufficiente per renderlo un salvatore o un demonio. Mi resi conto che da sempre avevo nutrito il dubbio che l'assassino potesse essere un poliziotto. Marino non rientrava nello schema. Ma l'assassino poteva essere una persona con cui lui aveva lavorato per mesi, qualcuno che comprava tute blu nei vari negozi di abiti per lavoro della città, qualcuno che si lavava le mani con il Borawash della toilette maschile, qualcuno con conoscenze tali di medicina legale e di indagini criminali da poter beffare i colleghi. Un poliziotto bacato. Oppure qualcuno attratto dalla professione, perché spesso questa è molto affascinante per gli psicopatici. Avevamo preso in esame le squadre che si recavano sulla scena dei delitti. Quello che non avevamo mai pensato di fare era rintracciare gli uomini in uniforme che rispondevano alle chiamate quando venivano scoperti i cadaveri. Magari qualche poliziotto passava in rassegna l'elenco telefonico durante il servizio, oppure fuori servizio. Forse era la voce il primo contatto con la vittima. La voce faceva scattare l'impulso. Uccideva, poi faceva in modo di essere in strada o vicino a una radio della polizia quando il cadavere veniva scoperto. «La nostra carta migliore è Matt Petersen» stava dicendo Wesley a Marino. «È ancora in città?» «Sì. L'ultima volta che l'ho sentito.» «Credo che sia meglio che tu vada a trovarlo e che scopra se sua moglie ha mai parlato di sollecitazioni telefoniche, di qualcuno che aveva chiama-
to per dirle che aveva vinto un premio o che stava svolgendo un'indagine di mercato. Qualunque cosa in cui entra in gioco il telefono.» Marino spinse all'indietro la sedia. Mi trattenni, preferendo non dire subito quel che mi era venuto in mente. Invece, chiesi: «Sarebbe molto difficile procurarsi i tabulati o le registrazioni delle telefonate fatte alla polizia quando sono state trovate le vittime? Vorrei controllare a che ora esattamente sono avvenute, a che ora è arrivata la polizia, specialmente nel caso di Lori Petersen. L'ora della morte può essere importantissima per consentirci di determinare quando l'assassino finisce di lavorare, supponendo che lavori di sera.» «Nessun problema» rispose Marino distratto. «Può venire con me. Prima passiamo da Petersen, poi andiamo alla sala radio.» Non trovammo Matt Petersen in casa. Marino lasciò il suo biglietto da visita sotto il battente d'ottone dell'appartamento. «Non credo che mi chiamerà» borbottò mentre si infilava nel traffico. «Perché no?» «Quando ho fatto un salto da lui l'altro giorno, non mi ha invitato a entrare. Se n'è rimasto lì a far barricata sulla porta. È stato tanto generoso da annusare la tuta e poi in pratica mi ha detto di menare le tolle, mi ha praticamente sbattuto la porta in faccia e mi ha consigliato in futuro di parlare con il suo avvocato. Ha detto che la macchina della verità l'aveva assolto e che la mia era una vessazione.» «Non ha tutti i torti» commentai asciutta. Mi lanciò un'occhiata e quasi sorrise. Lasciammo il West End e puntammo verso il centro. «Lei ha detto che il test ionico ha identificato l'origine del borace» disse saltando a un altro argomento. «Vuol dire che non ce n'è nel cerone?» «Niente borace nel cerone» risposi. «Un prodotto chiamato "Sun Blush" ha reagito al laser, ma non contiene borace e sembra molto probabile che Petersen abbia lasciato le impronte sul corpo della moglie toccandola quando aveva un residuo Sun Blush sulle mani.» «E la roba luccicante sul coltello?» «Non è stato possibile sottoporre al test le tracce. Non credo però che quel residuo fosse Sun Blush.» «Perché no?» «Perché non è granuloso. È una crema... ricorda quel vasetto bianco di crema rosa che ha portato in laboratorio?»
Annui. «Quello era Sun Blush. Qualunque sia l'ingrediente che lo fa luccicare sotto il laser, non si accumula come invece succede con il borace. La base cremosa di questo cosmetico con ogni probabilità determina concentrazioni elevate di riflessi luminosi sotto forma di chiazze discrete, lasciate quando i polpastrelli esercitano una certa pressione su una superficie.» «Come sulla clavicola di Lori» osservò. «Sì. E sulla scheda delle impronte digitali di Petersen, la zona su cui ha premuto i polpastrelli. Non c'erano tracce sparse sulla scheda, solo ai margini della zona inchiostrata. Le scintille sul manico del coltello da sopravvivenza non erano disposte secondo uno schema analogo. Erano sparse a caso, proprio come quelle sui cadaveri delle donne.» «Vuole dire che se Petersen aveva questo Sun Blush sulle mani, prendendo in mano il coltello avrebbe lasciato delle chiazze e non dei puntolini luminosi qua e là?» «Proprio quello che sto dicendo.» «Bene, e i puntini luminosi trovati sui cadaveri, sui legacci eccetera?» «La concentrazione sui polsi di Lori era sufficiente per un test. Era borace.» Volse verso di me gli occhiali a specchio. «Due tipi di sostanza luccicante, quindi.» «Proprio così.» «Hmm.» Come la maggior parte degli edifici pubblici di Richmond, la centrale di polizia era costruita con un intonaco praticamente indistinguibile dal cemento dei marciapiedi. Pallida e scialba, la sua sgradevole banalità è spezzata solo dai colori accesi delle bandiere dello Stato e dell'Unione che sventolano contro il cielo azzurro, sul tetto. Marino girò intorno al palazzo e si incuneò in una fila di auto della polizia senza contrassegni. Entrammo nell'atrio e superammo la gabbia di vetro dell'ufficio informazioni. Poliziotti in divisa blu sorrisero a Marino e salutarono me con un «Salve, dottore». Mi guardai la giacca e con sollievo vidi che mi ero ricordata di togliermi il camice. Ero così abituata a indossarlo che a volte me ne dimenticavo. Quando accidentalmente lo portavo fuori dal Centro, mi sembrava di essere in pigiama. Passammo davanti a bacheche con foto di pedofili, di truffatori, di malfattori vari. C'erano anche le istantanee dei dieci rapinatori, stupratori e assassini più ricercati di Richmond. Alcuni sorridevano alla macchina foto-
grafica. Ormai erano entrati a far parte dei personaggi eminenti della città. Seguii Marino giù per una scala debolmente illuminata. I nostri piedi producevano un'eco vuota sui gradini di metallo. Ci fermammo davanti a una porta. Marino scrutò attraverso un finestrino di vetro e comunicò a qualcuno il segnale giusto. La porta si aprì elettronicamente. Era la sala radio, un locale sotterraneo pieno di tavoli e di terminali collegati a centralini telefonici. Al di là di una parete di vetro c'era un'altra sala di controllori per i quali la città era una sorta di videogame; gli operatori del 911 ci lanciarono occhiate incuriosite. Alcuni erano impegnati al telefono, altri, momentaneamente inoperosi, chiacchieravano e fumavano, con le cuffie intorno al collo. Marino mi portò dietro l'angolo, dove c'erano degli scaffali pieni di scatole di bobine. Su ciascuna scatola c'era una data. Fece scorrere le dita su quelle pile e tirò fuori una dopo l'altra cinque scatole, ciascuna delle quali copriva un'intera settimana. Me le caricò sulle braccia e disse: «Tanti auguri». «Cosa?» Lo guardai come se fosse uscito di cervello. «Ehi.» Tirò fuori le sigarette. «A me toccano i pronto pizza. Là c'è un registratore.» Indicò con il pollice la sala degli smistatori, oltre il vetro. «O li ascolta qui o se li porta in ufficio. Ora, io al suo posto li porterei fuori da questa gabbia di matti, ma questo non gliel'ho detto, ci siamo capiti? Non dovrebbero uscire da qui. Basta però che quando ha finito li riconsegni a me personalmente.» Stava venendomi il mal di testa. Mi portò poi in una stanzetta dove una stampante laser stava vomitando chilometri di carta a strisce verdi. La pila sul pavimento era già alta una sessantina di centimetri. «Ho dato un colpo di telefono ai ragazzi qui prima di uscire dal suo ufficio» spiegò laconico. «Gli ho detto di stampare tutto quello che il computer aveva registrato negli ultimi due mesi.» Oh, Dio. «Quindi qui ci sono gli indirizzi e tutto il resto.» Mi guardò con quei suoi occhi castani, inespressivi. «Bisogna guardare la copia su carta per sapere che cos'è apparso sullo schermo al momento della telefonata. Senza indirizzo, non si riesce a capire chi ha chiamato.» «Ma non si poteva tirare fuori dal computer esattamente quello che si voleva sapere?» lo interruppi esasperata. «Lei sa qualcosa sul conto dei mainframe?»
Ovviamente non ne sapevo nulla. Si guardò in giro. «Nessuno in questa baracca sa un accidente di mainframe. Abbiamo uno specialista al piano di sopra. Solo che capita che in questo momento è andato al mare. L'unico modo per fare venire un esperto è quando c'è un guasto. Allora chiamano l'assistenza e il Dipartimento si becca una stangata di settanta dollari l'ora. Anche se il Dipartimento volesse collaborare, i cervelloni dell'assistenza sono lenti a venire come il giorno di paga. In questo caso, probabilmente arriverebbero domani sul tardi, o lunedì, o chissà quando la settimana prossima e questo se la signora fortuna ci assiste, dottoressa. In realtà, lei è stata fortunata che sono riuscito a trovare qualcuno abbastanza sgamato da premere il tasto Print.» Rimanemmo nel locale una trentina di minuti. Finalmente, la stampante si arrestò e Marino strappò la carta. Era una pila alta una novantina di centimetri circa. La infilò in uno scatolone di carta vuoto che aveva trovato da qualche parte e lo sollevò con un grugnito. Mentre io uscivo dietro di lui dalla sala radio, Marino disse, rivolto a un giovane poliziotto nero di bell'aspetto: «Se vedi Cork, ho un messaggio per lui». «Spara» disse il poliziotto sbadigliando. «Digli che lui non li guida più, gli autoarticolati, e che qui non siamo mica in Il bandito e la madama.» Il poliziotto rise. Una perfetta imitazione della risata di Eddie Murphy. Per un giorno e mezzo non ebbi neanche il tempo di vestirmi, ma rimasi reclusa in casa con addosso una tuta e un paio di cuffie. Bertha si dimostrò un angelo e portò Lucy in gita tutto il giorno. Evitai di andare in ufficio, dove ero sicura di venire interrotta ogni cinque minuti. Stavo correndo contro il tempo, pregando di trovare qualcosa prima che il venerdì diventasse sabato. Ero convinta che lui si sarebbe messo di nuovo in caccia. Avevo già controllato due volte con Rose. Mi aveva detto che l'ufficio di Amburgey aveva tentato di contattarmi quattro volte, da quando mi ero allontanata con Marino. Il commissario esigeva che mi recassi da lui immediatamente, che gli spiegassi l'articolo in prima pagina del giorno prima, "quest'ultima imperdonabile indiscrezione", per usare le sue parole. Voleva la relazione sul test Dna. Voleva la relazione su "quest'ultimissima prova". Era talmente incuriosito che era addirittura arrivato a minacciare Rose, la quale però sapeva come difendersi.
«Che cosa gli hai detto?» le domandai stupita. «Gli ho detto che avrei lasciato un messaggio sulla tua scrivania. Quando ha minacciato di farmi licenziare se non lo mettevo in contatto con te immediatamente, gli ho detto che era libero di farlo. Non avevo mai querelato nessuno prima...» «Non gli avrai detto una cosa del genere.» «Sì che gliel'ho detta. Se aveva un altro cervello, quel malnato, gliel'avrei sentito sbatacchiare dentro il cranio.» Avevo attaccato la segreteria telefonica. Se Amburgey avesse provato a telefonarmi a casa sarebbe riuscito a parlare solo con il mio orecchio meccanico. Era un incubo. Ogni bobina copriva sette giornate di ventiquattro ore. Ovviamente, i nastri duravano molto meno perché spesso in un'ora c'erano solo tre o quattro telefonate di due minuti. Dipendeva semplicemente dal daffare che la sala del 911 aveva per ciascun turno. Il mio problema era quello di trovare il momento esatto in cui pensavo che fosse arrivata la comunicazione di uno dei delitti. Se perdevo la pazienza rischiavo di farlo passare senza accorgermi e poi di dover tornare indietro. Altre volte mi distraevo. Era un lavoro orrendo. E oltretutto era estremamente deprimente. Le telefonate di emergenza spaziavano da individui mentalmente disturbati che dicevano di sentirsi invasi da creature aliene, a ubriachi, a poveracci, di sesso maschile o femminile, il cui compagno o la cui compagna erano appena morti di attacco cardiaco o di un colpo. C'erano un sacco di incidenti automobilistici, di tentati suicidi, di rapinatori, di cani che abbaiavano, di stereo a volume troppo alto, di mortaretti e di troppi tubi di scappamento scambiati per colpi d'arma da fuoco. Saltavo di chiamata in chiamata. Fino a quel momento ero riuscita a trovare tre delle telefonate che cercavo. Quelle di Brenda, di Henna e da poco, quella di Lori. Riavvolsi il nastro fino a quando non trovai la telefonata vana al 911 che Lori aveva evidentemente fatto poco prima di essere assassinata. La comunicazione era stata presa esattamente alle 24.49 di sabato sette giugno e sul nastro si sentiva solo l'operatore che prendeva la linea e diceva: «911». Feci scorrere all'indietro i fogli fino a quando trovai il tabulato corrispondente. L'indirizzo di Lori era apparso sullo schermo del 911 sotto il nome di L.A. Petersen. Dando alla telefonata priorità quattro, l'operatore
l'aveva passata al coordinamento, dall'altra parte della vetrata. Trentanove minuti dopo, la pattuglia 211 era stata finalmente allertata. Tre minuti dopo era passata davanti alla casa di Lori, per poi filarsene via perché chiamata altrove. L'indirizzo di Petersen si era presentato di nuovo esattamente sessantotto minuti dopo la prima telefonata al 911, cioè alla 1.57, quando Matt Petersen aveva trovato il cadavere della moglie. Se solo quella sera non avesse avuto la prova in costume, pensai. Se solo fosse tornato a casa un'ora e mezza prima... Ci fu un clic sul nastro. «911.» Un ansito pesante. «Mia moglie!» Panico. «Qualcuno ha assassinato mia moglie! Venite subito, vi prego!» Un urlo. «Oh, Dio! Qualcuno l'ha uccisa! Vi prego, correte qui subito!» Il tono isterico mi lasciò paralizzata. Petersen non era capace di parlare coerentemente, né ricordava il proprio indirizzo quando l'operatore gli aveva chiesto se quello che appariva sullo schermo era corretto. Fermai il nastro e feci alcuni rapidi calcoli. Petersen era entrato in casa ventinove minuti dopo che il poliziotto aveva illuminato con il faro orientabile la facciata della casa e riferito che tutto sembrava "a posto". La telefonata al 911 era giunta alle 24.49, il poliziotto era arrivato finalmente alla 1.34. Erano passati quarantacinque minuti. L'assassino era rimasto in casa di Lori solo quel tempo. Alla 1.34 era già scappato e la luce della camera da letto era spenta. Se fosse stato ancora lì sarebbe stata accesa. Ne ero certa. Non potevo credere che a luce spenta sarebbe riuscito a trovare i cavi elettrici e a stringere quei nodi elaborati. Era un sadico. Senz'altro voleva che la vittima lo vedesse in viso, specialmente se era mascherato. Voleva che lei vedesse tutto quello che faceva, che anticipasse in preda a un terrore indicibile ogni orrendo atto che lui pensava di fare... mentre si guardava in giro, mentre tagliava i cavi e si metteva a legarla... Quando tutto era finito, aveva spento tranquillamente la luce della camera da letto ed era uscito dalla finestra del bagno, probabilmente pochi minuti prima che l'auto di pattuglia passasse davanti a casa e meno di mezz'ora prima che entrasse Petersen. Quel suo strano odore aleggiava in casa, simile al fetore della spazzatura.
Fino a quel momento avevo scoperto che sulla scena dei delitti di Brenda, di Lori e di Henna si erano recate sempre pattuglie diverse. La delusione mi stava togliendo l'energia per proseguire. Staccai quando sentii aprirsi la porta d'ingresso. Bertha e Lucy erano tornate. Mi fecero la relazione completa di quello che avevano fatto e io feci del mio meglio per sorridere e per ascoltarle. Lucy era esausta. «Mi fa male lo stomaco» si lamentò. «Non c'è da meravigliarsi» attaccò Bertha. «Le ho detto di non mangiare tutte quelle schifezze. Zucchero filato, pannocchie...» Scosse la testa. Diedi a Lucy un brodo di pollo e la ficcai a letto. Tornata nel mio studio, mi infilai di nuovo con riluttanza le cuffie. Avevo perso il conto del tempo, come se fossi in trance. «911.» «911.» Il numero continuava a risuonarmi in testa. Poco dopo le dieci mi ritrovai così esausta da non riuscire quasi a pensare. Riavvolsi il nastro cercando di trovare la chiamata fatta quando era stato scoperto il cadavere di Patty Lewis. Mentre ascoltavo, scorrevo le pagine del tabulato che tenevo sulle ginocchia. Quello che vidi non aveva senso. A metà pagina c'era stampato l'indirizzo di Cecile Tyler, in data 12 maggio, alle 21.23. Ci doveva essere un errore. Era stata assassinata solo il 31 maggio. L'indirizzo non avrebbe dovuto trovarsi in quella posizione dello stampato. Non doveva essere sul nastro! Feci avanzare rapidamente la bobina, fermandomi ogni pochi secondi. Mi ci vollero venti minuti per trovarlo. Lo ascoltai tre volte, cercando di capire che significato potesse avere. Esattamente alle 21.23 una voce maschile rispose: «911». Una voce femminile morbida, educata, disse sorpresa, dopo un attimo di esitazione: «Oh, povera me. Mi dispiace». «C'è qualche problema, signora?» Una risata imbarazzata. «Volevo chiamare le informazioni. Mi dispiace.» Un'altra risata. «Credo di aver premuto un nove invece di un quattro.» «Nessun problema, molto bene, sono sempre contento quando non ci sono guai.» Aggiungendo allegramente: «Le auguro una buona serata».
Silenzio. Un clic e il nastro proseguì. Sullo stampato l'indirizzo della donna nera massacrata appariva sotto il nome: Cecile Tyler. All'improvviso capii. «Gesù. Oh, Gesù» mormorai avvertendo un momentaneo conato di nausea. Brenda Steppe aveva chiamato la polizia quando aveva avuto l'incidente. Lori Petersen aveva chiamato la polizia, secondo il marito, quando aveva pensato di udire un ladro che si era poi rivelato essere un gatto che rovistava nei bidoni della spazzatura. Abby Turnbull aveva telefonato alla polizia quando l'aveva seguita l'uomo nella Cougar nera. Cecile Tyler aveva chiamato la polizia per errore... aveva fatto il numero sbagliato. Aveva formato il 911 invece del 411. Sbagliato numero! Quattro delle cinque donne. Tutte le telefonate erano state fatte da casa. L'indirizzo di ognuna era apparso immediatamente sullo schermo del computer del 911. Se la residenza era a nome loro, l'operatore sapeva che con ogni probabilità vivevano sole. Corsi in cucina. Non so perché. Avevo un telefono in studio. Formai freneticamente il numero della squadra omicidi. Marino non c'era. «Mi serve il suo numero di casa.» «Mi dispiace, signora, non siamo autorizzati a comunicarlo.» «Maledizione! Sono la dottoressa Scarpetta, il medico legale capo! Mi dia quel maledetto numero di casa.» Una pausa di sconcerto. Il poliziotto, chiunque fosse, si scusò profusamente. Mi diede il numero. Chiamai Marino. «Grazie al cielo» sbottai quando rispose. «Dice sul serio?» furono le sue parole al termine della mia convulsa spiegazione. «Sicuro, che do una controllata, dottoressa.» «Non crede che farebbe meglio ad andare giù alla sala radio per vedere se quel bastardo è là?» dissi quasi urlando. «Allora, che cosa ha detto il tizio? Ha riconosciuto la voce?» «No che non ho riconosciuto la voce.» «Ma che cosa ha detto esattamente alla Tyler?» «Glielo faccio sentire.» Corsi in ufficio e sollevai la derivazione. Riavvolsi il nastro, tolsi le cuffie e alzai il volume. «La riconosce?» chiesi riprendendo il ricevitore.
Marino non rispose. «È ancora li?» esclamai. «Ehi, si metta un pochino tranquilla, dottoressa. È stata una brutta giornata, no? Lasci fare al sottoscritto. Prometto che controllo io.» Riappese. Rimasi seduta a fissare il vuoto con la cornetta in mano. Non mi mossi fino a quando il segnale di centrale si interruppe e una voce meccanica cominciò a lagnarsi: «Se volete telefonare, vi preghiamo di riappendere e di riprovare...». Controllai la porta d'ingresso, mi accertai che l'antifurto fosse inserito e salii al piano di sopra. La mia camera da letto era in fondo al corridoio e dava sui boschi dietro casa. Nell'oscurità del colore dell'inchiostro, oltre i vetri, ammiccavano le lucciole. Con un gesto nervoso chiusi gli scuri. Bertha aveva l'idea irrazionale che la luce del sole dovesse inondare le stanze, fossero o non fossero occupate. «Ammazza i germi, dottoressa Scarpetta» diceva. «Fa scolorire tappeti e fodere» obiettavo. Ma lei era testarda nelle sue abitudini. A me dava fastidio andare di sopra quando il buio era sceso e trovare gli scuri aperti. Li chiudevo prima di accendere la luce, per essere sicura che nessuno mi vedesse, posto che fuori ci fosse qualcuno. Quella sera però me n'ero dimenticata. Non mi preoccupai di togliere la tuta da ginnastica. Mi avrebbe fatto da pigiama. Salii su uno sgabello che tenevo nell'armadio, tirai fuori la scatola da scarpe Rockport e tolsi il coperchio. Infilai la .38 sotto il cuscino. Stavo male per la preoccupazione che squillasse il telefono, mi chiedessero di uscire nella notte e fossi costretta a dire a Marino: «Glielo avevo detto, stupido bastardo! Glielo avevo detto!». Chissà che cosa stava facendo adesso, il cafone. Spensi la lampada e mi tirai le coperte sulle orecchie. Probabilmente beveva birra guardando la televisione. Mi rizzai a sedere sul letto e riaccesi la lampada. Il telefono sul comodino mi tentava. Non potevo chiamare nessun altro. Se avessi contattato Wesley, lui avrebbe a sua volta telefonato a Marino. Se chiamavo la divisione investigativa, chiunque avesse ascoltato quello che avevo da dire - posto che mi prendessero sul serio - avrebbe telefonato a Marino. Marino. Era sua la responsabilità di questa maledetta indagine. Tutte le strade portano a Roma. Spensi di nuovo la lampada e rimasi a fissare le te-
nebre. «911» «911» Continuavo a sentire la voce mentre mi rivoltavo nel letto. Era mezzanotte passata quando scivolai giù per le scale e trovai nel bar una bottiglia di cognac. Lucy da quando ore prima l'avevo infilata a letto non si era nemmeno mossa. Era inerte. Avrei voluto poter dire lo stesso di me. Buttai giù due sorsi come se fosse sciroppo per la tosse e miserevolmente tornai in camera da letto, dove spensi di nuovo la lampada. Sentivo scorrere i minuti sull'orologio digitale. Clic. Clic. A tratti sveglia e a tratti addormentata, continuavo a rigirarmi nel letto. «... così che cosa ha detto esattamente alla Tyler?» Clic. Il nastro continuava a girare. «Mi spiace.» Una risata di imbarazzo. «Credo di aver premuto un nove invece di un quattro...» «Nessun problema... le auguro una buona serata.» Clic. «... premuto un nove invece di un quattro...» «911» «Ehi, ma quello è un fusto. Mica ha bisogno di dar la polverina alle ragazze per convincerle a mollargliela...» «È lurido dentro!» «... perché in questo momento non è in città, Lucy. Il signor Boltz è andato in vacanza.» «Oh.» Gli occhi pieni di una tristezza infinita. «Quando ritorna?» «Non prima di luglio.» «Oh, ma perché non potevamo andare con lui, zia Kay? Andava al mare?» «... Tu di routine a noi menti... per omissione...» Il viso tremolava dietro il velo di calore e di fumo, i capelli dorati sotto il sole. «911» Ero in casa di mia madre, che mi stava dicendo qualcosa. Un uccello descriveva pigri cerchi nel cielo mentre viaggiavo a bordo di un furgone con una persona che né conoscevo né vedevo. Alberi di palma sfilavano accanto a noi. Fenicotteri bianchi dal collo lungo uscivano dall'acqua come periscopi di porcellana nelle Everglades, girando il capo
bianco mentre passavamo. Ci osservavano. Mi osservavano. Mio padre, seduto nel letto, mi guardava mentre gli raccontavo la giornata a scuola. Aveva il volto cereo. Non batteva le palpebre e non sentiva quello che gli dicevo. Non rispondeva ma continuava a fissarmi. Il terrore mi stringeva il cuore. Il suo viso bianco mi fissava. Gli occhi vacui mi fissavano. Era morto. «Papààà!» Le mie narici inalarono un odore di sudore stantio, malato, mentre seppellivo il viso nel suo collo... Il mio cervello si annebbiò. Riaffiorai alla coscienza come una bolla che saliva dal profondo. Ero conscia. Avvertivo il cuore pulsare. L'odore. Era vero o stavo sognando? Quell'odore putrido! Stavo sognando? Un allarme mi era scattato in testa, facendomi battere il cuore contro la gabbia toracica. L'aria fetida si agitò e qualcosa sfiorò il letto. 16 La distanza tra la mia mano destra e la .38 sotto il cuscino era di una trentina di centimetri, non di più. Era la distanza più lunga che avessi mai conosciuto. Sembrava eterna. Era incolmabile. Non pensavo, avvertivo solo quella distanza, mentre il cuore impazziva, picchiando contro le costole come un uccello contro le sbarre della gabbia. Il sangue mi ronzava nelle orecchie. Avevo il corpo irrigidito, ogni muscolo e ogni tendine teso, rigido e vibrante di paura. C'era buio pesto nella stanza. Lentamente accennai un sì con il capo, mentre le parole metalliche ronzavano, e la mano mi schiacciava le labbra contro i denti. Annuii. Accennai un si per dirgli che non avrei urlato. Il coltello contro la gola era così grande che mi dava l'impressione di essere un machete. Il letto si abbassò verso destra, ci fu un clic e per un attimo rimasi accecata. Quando gli occhi si abituarono alla luce, lo guardai e mi mancò il fiato. Non potevo né respirare né muovermi. Sentivo la lama affilata come un
rasoio premermi gelida contro la pelle. Il volto era bianco, i lineamenti appiattiti sotto la calza bianca di nailon. Gli occhi erano ridotti a due fessure. Sembravano non vedere, solo proiettare un odio gelido. La calza si fletteva verso l'interno e verso l'esterno in sintonia con il respiro. Un volto malvagio e inumano, a pochi centimetri dal mio. «Un rumore e ti stacco la testa.» I miei pensieri erano come scintille dalle traiettorie veloci che andavano in tante direzioni. Lucy. Sentivo la bocca perdere sensibilità e avvertivo il sapore salato del sangue. Lucy, non svegliarti. Avvertivo la forza corrergli nel braccio, nella mano, come l'energia attraverso una linea ad alta tensione. Sto per morire. No. Non vuoi. Non devi. Sono un essere umano, come tua madre, come tua sorella. Non vorrai fare una cosa del genere. Sono un essere umano come te. Ti posso raccontare qualcosa. Sui casi. Su ciò che la polizia sa. Ti interesserà sapere quel che so io. Non farlo. Sono una persona. Una persona! Ti posso parlare! Devi lasciare che ti parli! Frasi rotte. Non dette. Inutili. Ero imprigionata dal silenzio. Ti prego non toccarmi. Oh Dio, non toccarmi. Dovevo riuscire a fargli spostare la mano, a farlo parlare. Provai a obbligare il corpo ad afflosciarsi, a rilassarsi. Funzionò un poco. Diminuii la resistenza e lui se ne rese conto. La stretta della mano sulla mia bocca si allentò e molto lentamente riuscii a deglutire. Indossava una tuta blu. Il colletto era chiazzato di sudore e sotto le ascelle si notavano due ampie mezzelune di tessuto bagnato. La mano che impugnava il coltello puntato contro la mia gola era coperta dalla pelle traslucida di un guanto chirurgico. Sentivo l'odore della gomma. Sentivo il suo odore. Rividi la tuta nel laboratorio di Betty, ne avvertii il putrido odore dolciastro mentre Marino apriva la borsa di plastica... «È l'odore che aveva notato?» Le parole mi echeggiavano nella mente come una nuova proiezione di un vecchio film. E Marino che ammiccando puntava il dito verso di me: «Centro...». La tuta stesa sul tavolo del laboratorio, taglia Large o Extra Large con i buchi nei punti in cui erano state tagliate delle pezze intrise di sangue...
Respirava forte. «Ti prego» riuscii appena a dire senza muovermi. «Zitta!» «Ti posso dire...» «Zitta!» La stretta aumentò selvaggiamente. La mia mascella stava per andare in frantumi come un guscio d'uovo. Faceva balenare qua e là lo sguardo, si guardava in giro, osservava ogni particolare della stanza. Gli occhi si fissarono sulle tende, sui cordoni che ne pendevano. Lo vedevo osservarli. Sapevo che cosa stava pensando. Sapevo come intendeva usarli. Poi gli occhi si portarono frenetici sul cavo della lampada da comodino. In un attimo tirò fuori qualcosa di bianco da una tasca e me lo infilò in bocca, allontanando il coltello. Avevo il collo così irrigidito che mi sembrava bruciare. Non sentivo più i muscoli del viso. Cercai di spingere il tessuto asciutto verso la parte anteriore della bocca, facendolo girare con la lingua senza farmi notare. La saliva mi scendeva in gola. In casa il silenzio era assoluto. Nelle orecchie sentivo il pulsare del sangue. Lucy. Dio, ti prego. Le altre donne avevano fatto quello che lui aveva detto. Avevo visto i loro volti paonazzi, i loro volti di cadaveri... Cercavo di ricordare quello che sapevo di lui, di dare un senso a ciò che sapevo sul suo conto. Il coltello brillava sotto la luce della lampada a pochi centimetri da me. Salta addosso alla lampada e spaccala sul pavimento. Avevo braccia e gambe sotto le coperte. Non potevo né scalciare, né afferrarlo, né muovermi. Se la lampada si fosse infranta sul pavimento, nella stanza sarebbe caduto il buio. Non avrei potuto vedere. Lui aveva il coltello. Potevo fargli cambiare idea parlandogli. Se solo fossi riuscita, avrei potuto farlo ragionare. I volti paonazzi, i cordoni che serravano il collo delle vittime. Trenta centimetri, non di più. La distanza più lunga che avessi mai conosciuto. Non sapeva della pistola. Era nervoso, si muoveva a scatti, sembrava confuso. Il collo era arrossato e gocciolante di sudore, il respiro rapido e faticoso. Osservava tutti i particolari della stanza ma non guardava il cuscino. «Prova solo a muoverti...» Mi toccò leggermente la gola con la punta del coltello aguzza come un ago.
Lo fissavo a occhi spalancati. «Vedrai che ti piacerà, troia.» Era una voce bassa e gelida che pareva uscire dritta dall'inferno. «Il meglio te lo tengo per ultimo.» La calza si fletteva dentro e fuori dalla bocca. «Vuoi sapere come ho fatto. Te lo faccio vedere piano piano.» La voce. Era familiare. La mano destra. Dov'era la pistola? A destra o a sinistra? Era proprio sotto il cuscino? Non riuscivo a pensare! Doveva andare a prendere i cordoni. Non poteva tagliare il cavo della lampada. Era l'unica luce accesa. L'interruttore del lampadario del soffitto era accanto alla porta. Lo stava fissando, stava fissando il rettangolo scuro dell'interruttore. Spostai la mano destra di un paio di centimetri. Gli occhi guizzarono nella mia direzione, poi di nuovo verso le tende. Avevo la mano destra sul petto, quasi all'altezza della mano sinistra, sotto il lenzuolo. Sentii il bordo del materasso rialzarsi mentre scendeva dal letto. Le chiazze sotto le ascelle erano più grandi. Era letteralmente fradicio di sudore. Guardò l'interruttore vicino alla porta buia, poi di nuovo la stanza e le tende. Sembrava indeciso. Accadde in un attimo. Toccai con la mano la sagoma fredda e dura della pistola, le dita l'afferrarono e in un lampo rotolai giù dal letto tirandomi dietro le coperte, urtando con un tonfo il pavimento. Il cane scattò all'indietro e mi ritrovai seduta, diritta, il lenzuolo arrotolato intorno ai fianchi, tutto in un attimo. Non ricordo di averlo fatto. Non ricordo di avere fatto nulla. Era istinto, non ero io. Avevo il dito premuto sul grilletto. Le mani tremavano talmente da fare oscillare la rivoltella. Non ricordo di essermi tolta il bavaglio. Sentivo solo la mia voce. Stavo urlando. «Figlio di puttana! Maledetto figlio di puttana!» La pistola ondeggiava qua e là mentre urlavo, mentre il terrore, la furia esplodevano in oscenità che parevano pronunciate da un'altra persona. Gridavo, gli gridavo di togliersi la maschera. Rimase raggelato all'altro capo del letto. Vedevo le cose con una sorta di strano distacco. Il coltello, nella mano guantata, notai, era solo un coltello a serramanico. Aveva gli occhi inchiodati alla pistola.
«TOGLITELA!» Un gesto lento del braccio e la calza bianca scese fluttuando sul pavimento... All'improvviso roteò su se stesso... Urlai mentre le esplosioni partivano una dopo l'altra, con fiammate e vetri in frantumi, così rapide che non mi resi conto di quel che stava succedendo. Era pura follia. Istanti che si susseguivano sconnessi; il coltello che gli sfuggiva di mano mentre sbatteva contro il tavolino accanto al letto, scagliando l'abat-jour sul pavimento; una voce che diceva qualcosa. La stanza divenne buia. Dalla parete accanto alla porta veniva come un rumore di graffi... «Dove cazzo è la luce in questa baracca?» L'avrei fatto anch'io. So che l'avrei fatto anch'io. Non avevo mai desiderato nulla con tanta forza in tutta la mia vita come premere quel grilletto. Volevo fargli nel cuore un buco grande come la luna. Era la quinta volta che riesaminavamo gli avvenimenti. Marino voleva discutere. Non era convinto che le cose fossero andate così com'erano andate. «Ehi, nel momento in cui l'ho visto entrare dalla finestra, dottoressa, l'ho seguito. Non poteva già essere nella sua camera da letto da più di trenta secondi prima che arrivassi io. E lei non aveva tirato fuori nessuna pistola del cavolo. Lei ha fatto per prenderla e si è buttata giù dal letto quando io mi sono scaraventato dentro e l'ho fatto saltar fuori da quel suo paio di scarpe da jogging numero quarantacinque.» Eravamo seduti nel mio ufficio, il lunedì mattina. Quasi non ricordavo gli ultimi due giorni. Mi pareva di averli trascorsi sott'acqua o in un altro pianeta. Qualunque cosa Marino dicesse ero convinta di avere avuto l'omicida sotto tiro quando lui era apparso all'improvviso sulla soglia e, nello stesso istante, la sua .357 aveva pompato cinque proiettili nel tronco dell'assassino. Non avevo controllato se il cuore gli batteva. Non avevo fatto nessuno sforzo per fermare l'emorragia. Ero semplicemente rimasta seduta sul pavimento, nel lenzuolo arrotolato, con la pistola in grembo, le guance bagnate di lacrime mentre una cosa mi tornava alla mente. La .38 era scarica.
Quella sera, quando ero salita al piano di sopra per andare a letto, ero talmente sconvolta, talmente fuori di me che avevo dimenticato di caricare la rivoltella. Le cartucce erano ancora nella loro scatoletta nascosta sotto una pila di pullover in uno dei cassetti del guardaroba, dove Lucy non avrebbe mai pensato di guardare. Era morto. Era già morto quando aveva toccato il tappeto. «E non si era neanche tolto la maschera» stava dicendo Marino. «La memoria fa brutti scherzi, vero? Gli ho tirato via quella maledetta calza dalla faccia quando sono arrivati Snead e Ridge. A quel punto era già morto stecchito.» Era solo un ragazzo. Era solo un ragazzo dai lineamenti morbidi e dai capelli color biondo sporco. I baffi erano poco più che peluria. Non avrei mai dimenticato quegli occhi. Erano delle finestre attraverso le quali non si vedeva nessun'anima. Erano finestre vuote che si aprivano nel buio, come quelle da cui entrava quando assassinava delle donne la cui voce aveva sentito al telefono. «Mi pareva che avesse detto qualcosa» mormorai a Marino. «Mi è sembrato di sentirlo dire qualcosa mentre cadeva. Ma non ricordo.» Esitando, chiesi: «È vero?». «Ah, certo, ha detto una cosa.» «Cosa?» Tremando, presi la sigaretta che avevo posato sul portacenere. Marino sorrise. «Le stesse ultime parole che registrano nella scatola nera degli aerei che cadono. Le stesse ultime parole di un sacco di poveri bastardi. Ha detto: "Oh, merda".» Una pallottola gli aveva tranciato l'aorta. Un'altra aveva sfondato il ventricolo sinistro. Una terza aveva attraversato un polmone e si era fermata nella colonna vertebrale. La quarta era penetrata nei tessuti molli mancando tutti gli organi vitali e aveva mandato in frantumi la mia finestra. Non fui io a fargli l'autopsia. Uno dei miei vice della Virginia settentrionale lasciò il referto sulla mia scrivania. Non ricordo di averlo chiamato per chiedergli di farlo, ma deve essere andata così. Non avevo letto i giornali. Non avevo lo stomaco per guardarli. Era bastato il titolo nell'edizione della sera. Gli avevo dato un'occhiata di sfuggita mentre infilavo frettolosamente il giornale nella spazzatura pochi secondi dopo che era atterrato sui gradini di casa: POLIZIOTTO UCCIDE LO STRANGOLATORE
NELLA CAMERA DA LETTO DEL MEDICO LEGALE Splendido. Mi domandai se i lettori si sarebbero chiesti se in camera mia alle due del mattino c'era l'assassino oppure Marino. Splendido. Lo psicopatico ammazzato era un addetto alle comunicazioni telefoniche assunto dal municipio circa un anno prima. Gli addetti alle comunicazioni telefoniche di Richmond sono civili, non poliziotti. Faceva il turno dalle sei a mezzanotte e si chiamava Roy McCorkle. A volte lavorava al 911, a volte al coordinamento delle volanti, il che spiegava come mai Marino avesse riconosciuto la sua voce sul nastro del 911 che gli avevo fatto sentire al telefono. Non mi aveva detto che aveva riconosciuto la voce. Ma sapeva a chi apparteneva. McCorkle non era di servizio il venerdì sera. Si era dato malato. Non era andato a lavorare da giovedì quando era apparso in prima pagina l'articolo di Abby. I suoi colleghi non avevano particolari opinioni su di lui, salvo che trovavano divertenti i suoi atteggiamenti e le sue battute da fanatico dei CB. Lo prendevano in giro sui suoi frequenti viaggi al bagno, anche una dozzina per turno. Si lavava le mani, il viso, il collo. Un addetto al coordinamento era entrato nel gabinetto una volta e l'aveva trovato praticamente intento a farsi una spugnatura. Nella toilette della sala comunicazioni c'era un dispenser di sapone Borawash. Era un ragazzo "a posto". Nessuno di quelli che lavoravano con lui lo conosceva bene. Pensavano che fuori orario vedesse una donna, "una bella bionda" di nome "Christie". Non c'era nessuna Christie. Le uniche donne che vedeva in orario non di lavoro erano quelle che macellava. Nessuno dei suoi colleghi riusciva a credere che fosse lui lo strangolatore. McCorkle, stavamo considerando, poteva essere responsabile dell'assassinio delle tre donne nella zona di Boston anni prima. All'epoca guidava un autoarticolato. Una delle sue destinazioni era proprio Boston, dove consegnava polli a una ditta che li confezionava. Ma non ne avevamo la certezza. Non avremmo mai potuto sapere quante donne avesse assassinato in tutti gli Stati Uniti. Potevano essere decine e decine. Probabilmente aveva cominciato come voyeur, poi era passato agli stupri. Non aveva precedenti. L'infrazione più grave era un eccesso di velocità. Aveva solo ventisette anni. Secondo le informazioni raccolte nel fascicolo presso il Dipartimento di
polizia, aveva fatto diversi lavori: camionista, addetto allo smistamento per una fabbrica di cemento di Cleveland, postino e poi fattorino di un fiorista di Filadelfia. Marino non era riuscito a trovarlo quel venerdì sera, ma non era stato troppo a cercarlo. A partire dalle undici e mezzo si era piazzato nel mio giardino, nascosto dietro i cespugli, in attesa. Indossava una tuta blu della polizia per mimetizzarsi nel buio. Quando aveva acceso il lampadario in camera da letto e me l'ero visto lì in piedi nella tuta, con la pistola in mano, per un attimo raggelante non avevo saputo distinguere tra l'assassino e il poliziotto. «Vede» mi stava dicendo, «avevo pensato alla questione di Abby Turnbull, alla possibilità che il tizio puntasse a lei e fosse finito con la sorella per sbaglio. La cosa mi preoccupava. Mi ha portato a domandarmi quale altra donna in città poteva attirarlo.» Mi guardò, con espressione assorta. La volta in cui Abby era stata pedinata dal giornale a casa e aveva telefonato al 911, era stato McCorkle a rispondere alla chiamata. Ecco come aveva saputo dove abitava. Forse aveva già pensato di ucciderla o forse gli era venuto in mente solo quando ne aveva sentito la voce e aveva capito chi era. Non lo avremmo mai scoperto. Sapevamo però che tutte e cinque le donne avevano telefonato al 911. Patty Lewis l'aveva fatto meno di due settimane prima di venire assassinata. Aveva chiamato alle 20.23 di un giovedì sera subito dopo un forte temporale per riferire che era saltato un semaforo a un chilometro e mezzo da casa sua. Era una brava cittadina. Cercava di impedire incidenti. Non voleva che nessuno si facesse male. Cecile Tyler aveva premuto un nove invece di un quattro. Numero sbagliato. Io non avevo mai telefonato al 911. Non ce n'era bisogno. Il mio numero e il mio indirizzo erano nell'elenco telefonico perché i medici legali di servizio dovevano potermi contattare anche fuori dell'orario di lavoro. Inoltre, in varie occasioni nelle ultime settimane, quando cercavo di trovare Marino, avevo parlato con alcuni degli addetti allo smistamento. Uno poteva essere McCorkle. Non l'avrei mai saputo. E non pensavo di volerlo sapere. «Ha visto la sua foto sui giornali e alla tv» proseguì Marino. «Lei si è dedicata a tutti i suoi casi e lui si domandava che cosa lei sapeva. Deve avere pensato di continuo a lei. Per conto mio era preoccupato. E poi tutte
quelle cagate sui disordini metabolici e sul fatto che il suo ufficio aveva qualche informazione sul suo conto.» Camminava avanti e indietro mentre parlava. «Così ha cominciato a scaldarsi. A vederla come una questione personale. La dottoressa ficcanaso, qui presente, magari offendeva la sua intelligenza, la sua virilità.» Le telefonate che ricevevo di notte... «La cosa l'ha fatto scattare. Non gli va che nessuna tipa lo tratti da idiota. Pensa: "Quella troia crede di essere intelligente, più di me. Gliela faccio vedere io. L'aggiusto io".» Sotto il camice da laboratorio indossavo un giacchino di maglia. L'uno e l'altro erano abbottonati fino al collo. Non riuscivo a scaldarmi. Le due notti precedenti avevo dormito nella stanza di Lucy. Dovevo fare ridipingere la mia camera da letto. Stavo pensando di vendere la casa. «Così immagino che quell'articolo sul giornale dell'altro giorno abbia dato una bella scossa. Benton dice che è stato una benedizione. Che magari l'ha scatenato o roba del genere. Io ero incazzato. Se lo ricorda?» Annuii appena. «Vuole sapere come mai ero incazzato?» Lo fissai. Era come un ragazzino. Orgoglioso di se stesso. Avrei dovuto lodarlo, essere emozionata, perché aveva ammazzato un uomo a dieci passi di distanza, perché l'aveva falciato dentro la mia camera da letto. Il tizio aveva un coltello da macellaio. Questo era bastato. Che cosa aveva intenzione di farne, tirarlo? «Bene, glielo dico io. Primo, un po' di tempo fa mi avevano dato una dritta.» «Una dritta?» Misi a fuoco lo sguardo. «Che dritta?» «Boltz, il ragazzo d'oro» rispose asciutto lasciando cadere la cenere dalla sigaretta. «È successo che si è dimostrato abbastanza cresciuto da passarmi un'informazione subito prima di menare le tolle. Mi ha detto che era preoccupato per lei...» «Per me?» «Ha detto che aveva fatto un giro dalle sue parti una sera tardi e aveva visto una macchina sconosciuta che era passata davanti alla casa, aveva spento i fari e poi era filata via. Aveva paura che qualcuno la tenesse sotto sorveglianza, magari l'assassino...» «Ma quella era Abby!» sbottai. «Era venuta a trovarmi, a farmi delle domande, poi ha visto la macchina di Bill e si è fatta prendere dal panico...»
Marino sembrò sorpreso, ma solo per un attimo. Poi scrollò le spalle. «Qualunque cosa. Comunque è bastato per attirare le nostra attenzione, no?» Non dissi nulla. Stavo per scoppiare a piangere. «È bastato per farmi sentire freddo. Il fatto è che tenevo d'occhio la sua casa già da un po'. Molte volte, la sera tardi. E poi arriva questa maledetta storia del Dna. Già pensavo che il tizio forse stava sulla pista della dottoressa. A questo punto doveva andare fuori di testa. Quella storia non l'avrebbe tirato dentro nel computer, l'avrebbe fatto andare da lei.» «Aveva ragione» dissi, schiarendomi la gola. «Ha proprio ragione a dire che avevo ragione.» Marino non era stato costretto a ucciderlo. Nessuno l'avrebbe mai saputo, salvo me e lui. Io non ne avrei mai parlato. Non mi dispiaceva. L'avrei fatto io stessa. Forse adesso stavo male perché se ci avessi provato avrei fallito. La .38 era scarica. Clic. Questo era tutto quello che sarei riuscita a fare. Ero convinta che stavo male perché non sarei riuscita a salvarmi la vita e non volevo ringraziare Marino per averlo fatto. Marino continuava a parlare. Sentivo la rabbia montarmi in gola come bile. In quel momento all'improvviso entrò Wingo. «Ah.» Con le mani in tasca, aveva un'aria incerta mentre Marino lo fissava scocciato. «Ah, dottoressa, lo so che non è il momento giusto. Voglio dire, lo so che è ancora sconvolta...» «Non sono sconvolta!» Spalancò gli occhi. Impallidì. Abbassando la voce dissi: «Mi spiace, Wingo. Sì. Sono sconvolta. Sono a pezzi. Non sono più me stessa. Cos'hai in testa?». Infilò una mano in una tasca dei calzoni di seta color azzurro aviazione e tirò fuori una busta di plastica che conteneva un mozzicone di sigaretta Benson & Hedges 100. Posò delicatamente la busta sulla mia scrivania. Lo guardai senza capire, aspettando. «Ah, ecco, si ricorda di quella volta che le ho chiesto del commissario, se era contrario al fumo?» Annuii. Marino cominciava a diventare irrequieto. Si guardava in giro come se fosse annoiato.
«Sa, il mio amico Patrick. Lavora in contabilità dall'altra parte della strada, nello stesso palazzo dove c'è Amburgey. Ecco.» Arrossì. «Patrick e io certe volte ci diamo appuntamento alla sua macchina e andiamo fuori a mangiare. Il suo posto nel parcheggio è a due file da quello di Amburgey. L'abbiamo visto altre volte.» «Visto altre volte?» chiesi, sconcertata. «Visto Amburgey altre volte? A fare cosa?» Wingo si chinò e disse a bassa voce: «Visto fumare, dottoressa Scarpetta». Si raddrizzò. «Lo giuro. A fine mattinata e subito dopo pranzo, Patrick e io eravamo lì seduti in macchina, nella macchina di Patrick, a parlare, ad ascoltare un po' di musica. Abbiamo visto Amburgey entrare nella sua New Yorker nera e accendere una sigaretta. Non usa neanche il suo portacenere perché vuole che nessuno lo sappia. Non faceva che guardarsi intorno. E poi ha buttato la cicca dal finestrino, si è guardato in giro ancora un po' ed è tornato dentro, spruzzandosi un po' di deodorante in bocca...» Mi fissò, sconcertato. Ridevo così forte che mi scendevano le lacrime. Doveva essere un attacco isterico. Non riuscivo a smettere. Picchiavo i pugni sul piano della scrivania e mi asciugavo gli occhi. Ero sicura che mi sentivano in tutto il corridoio. Wingo attaccò a ridere, prima a disagio, poi anche lui senza più riuscire a smettere. Marino ci lanciò un'occhiataccia come se fossimo degli idioti. Poi lottò a sua volta per non sorridere. Un attimo dopo soffocava le risate sulla sua sigaretta. Finalmente Wingo proseguì: «Il fatto è...» respirò a fondo. «Il fatto è, dottoressa Scarpetta, che ho aspettato fino a quando ha finito la sigaretta e poi quando se n'è andato sono corso li a raccogliere il mozzicone. L'ho portato su subito in sierologia, da Betty per farle fare il test». Ansimai. «Hai fatto cosa? Hai portato il mozzicone da Betty? Era quello che portavi l'altro giorno? Per fare cosa? Fare il test della saliva? A che scopo?» «Il gruppo sanguigno. E AB, dottoressa Scarpetta.» «Mio Dio.» Il collegamento fu fulmineo. Il gruppo sanguigno del PERK con l'etichetta sbagliata che Wingo aveva trovato nel frigorifero delle prove era AB. Il gruppo AB è estremamente raro. Corrisponde solo al quattro per cento
della popolazione. «Continuavo a pensare a lui» spiegò Wingo. «So quanto la, ehm, odia. Mi ha sempre dato fastidio vedere che la trattava così male. Così ho chiesto a Fred...» «Il sorvegliante?» «Proprio. Ho chiesto a Fred se aveva visto qualcuno. Sa, se aveva visto qualcuno andare nel nostro obitorio e qualcuno che non aveva motivo per andarci. Ha detto che aveva visto un tizio il lunedì pomeriggio. Fred stava cominciando il suo giro ed era andato un attimo al cesso giù di sotto. Mentre viene fuori vede questo tizio bianco che entra, che entra nel cesso, voglio dire. Fred mi ha detto che il tizio aveva qualcosa in mano, un pacchettino di carta. Fred si è limitato a uscire, e ha continuato con le sue faccende.» «Amburgey? Era Amburgey?» «Fred non lo sapeva. Ha detto che quasi tutti i bianchi per lui sono uguali. Ma ricordava questo tizio perché aveva un bellissimo anello d'argento con una pietra blu. Un tizio un po' vecchio, magro, quasi calvo.» Fu Marino a fare l'ipotesi. «Quindi magari Amburgey è andato alla toilette e si è preparato un tampone...» «Sono orali.» Ricordai. «Le cellule trovate sui vetrini. E niente corpi di Barr. Cromosoma Y, in altre parole maschio.» «Mi piace moltissimo quando parla sporco.» Marino sorrise rivolto a me e prosegui: «Così si fa un tampone in mezzo alle guance, non sotto i pantaloni, speriamo. Sporca dei vetrini di un PERK, ci schiaffa su un'etichetta...». «Un'etichetta presa dal fascicolo di Lori Petersen» lo interruppi nuovamente, questa volta incredula. «E poi lo infila nel frigo per fare credere che lei ha combinato il casino. Diavolo, magari è stato lui anche a violare il computer. Incredibile.» Rise di nuovo. «Ma non è una meraviglia? Lo inchiodiamo!» Il computer era stato violato durante il fine settimana. Wesley aveva notato i comandi sullo schermo il sabato mattina quando era venuto a prendere i risultati dell'autopsia di McCorkle. Qualcuno aveva cercato di richiamare il caso Henna Yarborough. Ovviamente era possibile rintracciare chi aveva fatto la telefonata. Aspettavamo che la società telefonica informasse Wesley dell'esito della ricerca. Avevo pensato che fosse stato McCorkle a farlo il venerdì sera, prima di venire da me. «Se è stato il commissario a violare il computer» ricordai loro, «non va
nei pasticci. Ha diritto ex officio a vedere i dati del mio ufficio e qualsiasi cosa gli interessi. Non potremo mai dimostrare che ha alterato un record.» Tutti gli occhi caddero sul mozzicone di sigaretta nella bustina di plastica. Alterazione delle prove, falso, nemmeno il governatore avrebbe potuto prendersi libertà del genere. Un crimine è un crimine. Dubitavo però che si riuscisse a provarlo. Mi alzai e appesi il camice da laboratorio dietro la porta. Mi infilai la giacca, presi un grosso fascicolo da una sedia. Dovevo trovarmi in tribunale di lì a venti minuti per testimoniare in un processo per omicidio. Wingo e Marino mi accompagnarono all'ascensore. Li lasciai ed entrai. Mentre le porte si chiudevano lanciai un bacio prima all'uno poi all'altro. Tre giorni dopo, Lucy e io sedevamo sui sedili posteriori di una Ford Tempo diretta all'aeroporto. Lei tornava a Miami e io la seguivo per due ottimi motivi. Intendevo vedere qual era la situazione con sua madre e con l'illustratore che aveva sposato e avevo un bisogno disperato di una vacanza. Pensavo di portare Lucy alla spiaggia, sulle Keys, nelle Everglades, a Monkey Jungle e al Seaquarium. Avremmo guardato i Seminoie lottare con gli alligatori. Avremmo visto il sole calare su Biscaine Bay e saremmo andate a vedere i fenicotteri rosa a Hialeah. Avremmo noleggiato la cassetta dell'Ammutinamento del Bounty e poi visitato la famosa nave a Bayside e immaginato Marlon Brando sul ponte. Saremmo andate a fare lo shopping lungo Coconut Grove e avremmo mangiato cernie e orate e torte di lime fino a stare male. Avremmo fatto tutto quello che io avrei desiderato fare quando avevo la sua età. E avremmo anche parlato dello shock che aveva subito. Miracolosamente non si era svegliata fino a quando Marino aveva aperto il fuoco. Sapeva però che c'era mancato poco che sua zia finisse assassinata. Sapeva che l'assassino era entrato dalla finestra del mio studio, che era chiusa ma non bloccata perché lei si era dimenticata di farlo dopo averla aperta alcuni giorni prima. McCorkle aveva tagliato i fili dell'allarme fuori casa. Era entrato dalla finestra del primo piano, era passato accanto alla stanza di Lucy e silenziosamente aveva salito le scale. Come faceva a sapere che la mia camera da letto era al secondo piano? Non credo che potesse esserne al corrente, a meno che non avesse già
sorvegliato la mia casa in precedenza. Lucy e io avevamo molte cose di cui parlare. Io avevo bisogno di parlare a lei tanto quanto lei aveva bisogno di parlare a me. Pensavo di farle avere un colloquio con un buon esperto di psicologia infantile. Forse avremmo dovuto andarci tutte e due. La nostra autista era Abby. Aveva avuto la gentilezza di insistere per accompagnarci all'aeroporto. Fermò la macchina di fronte alla porta della compagnia aerea, si girò e sorrise. «Mi piacerebbe venire con voi.» «Sei la benvenuta» risposi sincera. «Davvero. Sarebbe bellissimo, Abby. Io rimarrò là tre settimane. Hai il numero di telefono di mia madre. Se riesci a staccare, salta su un aereo e andremo alla spiaggia tutte e tre insieme.» La radio emise un segnale di avviso. Distrattamente allungò una mano per alzare il volume e regolare la sintonia. Sapevo che non avrei avuto sue notizie. Né domani, né il giorno dopo, né quello dopo ancora. Appena partito il nostro aereo, sarebbe andata a caccia di ambulanze e di auto della polizia. Era la sua vita. Aveva bisogno di raccogliere notizie come altri avevano bisogno di respirare. Le dovevo molto. Era grazie a un suo trucco se avevamo scoperto che era stato Amburgey a violare il computer. Si era appurato che la telefonata era partita da casa sua. Era un patito di computer e a casa aveva un PC con un modem. Credo che avesse violato il computer la prima volta semplicemente perché, come al solito, teneva sotto controllo il mio lavoro. Penso che stesse esaminando i casi di strangolamento quando aveva notato un particolare del record di Brenda Steppe che differiva da quanto Abby aveva scritto sul giornale. Si era reso conto che l'indiscrezione non poteva venire dal mio ufficio. Ma desiderava tanto disperatamente che così fosse che aveva alterato il record. Poi aveva deliberatamente attivato l'eco e cercato di richiamare il caso di Lori Petersen. Voleva che scoprissimo i comandi sullo schermo il lunedì dopo, poche ore prima di convocarmi nel suo ufficio davanti a Tanner e a Bill. Un peccato tira l'altro. L'odio accecava il raziocinio e quando aveva visto le etichette del computer del fascicolo di Lori non era riuscito a trattenersi. Avevo ripensato a lungo alla riunione nella sala delle conferenze,
quando i tre uomini stavano consultando i fascicoli. Avevo pensato che l'etichetta del PERK fosse stata rubata quando diversi fogli dalle ginocchia di Bill erano scivolati sul pavimento. Ma ricordavo anche che Bill e Tanner avevano riordinato la documentazione in base ai numeri dei casi. Non avevano il fascicolo di Lori perché lo stava consultando Amburgey. Lui aveva approfittato della confusione e aveva strappato rapidamente l'etichetta del PERK. In seguito, era uscito dalla sala computer con Tanner, ma era rimasto indietro, da solo, nell'obitorio per andare alla toilette. Poi aveva messo a posto i vetrini. Fu questo il suo primo errore. Il secondo era stato quello di sottovalutare Abby, che era diventata livida di rabbia quando si era resa conto che qualcuno sfruttava il suo lavoro per mettere a repentaglio la mia carriera. Sospettavo che la carriera non contasse. Abby semplicemente non tollerava di venire strumentalizzata. Era una crociata: verità, giustizia e American way. Ribolliva di rabbia e non sapeva come sfogarla. Quando l'articolo venne pubblicato andò a trovare Amburgey. Sospettava già di lui, mi aveva confessato, perché era stato lui che subdolamente le aveva permesso di procurarsi le informazioni sul PERK con l'etichetta sbagliata. Aveva il rapporto sierologico davanti e accanto degli appunti personali sulla "catena delle prove distrutta," e sulla "incoerenza dei risultati rispetto a quelli dei test precedenti". Mentre Abby era seduta a un capo della sua famosa scrivania cinese, era uscito, lasciandola sola per un minuto, quanto bastava per consentirle di vedere che cosa c'era sopra. Quello che aveva fatto era chiaro. Il suo astio nei miei confronti non era un segreto per nessuno. Abby non era stupida. Fu lei a trasformarsi nell'aggressore. Il venerdì precedente era tornata a vederlo e gli aveva parlato della violazione del computer. Amburgey finse di provare orrore all'idea che lei potesse pubblicare una cosa del genere, ma in realtà non ne vedeva l'ora. Assaporava già la mia fine. Abby gettò l'esca e ammise che non aveva sufficienti elementi per andare avanti. «La violazione del computer si è verificata una sola volta» gli disse. «Se dovesse succedere di nuovo, dottor Amburgey, non avrò scelta: dovrò pubblicare sia questa notizia sia le altre che ho sentito, perché l'opinione pubblica deve essere informata che qualcosa non va nel laboratorio di medicina legale.» Era successo di nuovo. La seconda violazione del computer non aveva nulla a che fare con la
notizia esca, perché non era l'assassino che bisognava attirare, era il commissario. «A proposito» mi disse Abby mentre tiravamo fuori le valige dal bagagliaio, «non credo che Amburgey sarà più un problema.» «Il lupo perde il pelo ma non il vizio» osservai, guardando l'orologio. Sorrise come se pensasse a un segreto che non intendeva divulgare. «Non sorprenderti se quando torni scopri che non è più a Richmond.» Non feci domande. Sapeva molte cose sul conto di Amburgey. Qualcuno doveva pagare. Bill non poteva toccarlo. Mi aveva telefonato il giorno prima per dirmi che era contento che stessi bene, che era stato messo al corrente di quello che era successo. Non aveva fatto nessun riferimento alle proprie malefatte, e neanch'io avevo fatto la minima allusione quando lui mi aveva detto che non credeva che fosse una buona idea che continuassimo a incontrarci. «Ci ho pensato a lungo e semplicemente penso che non funzionerebbe, Kay.» «Hai ragione» consentii, sorpresa dal sollievo che provavo. «Non funzionerebbe, Bill.» Abbracciai stretta Abby. Lucy aggrottò le sopracciglia mentre lottava con un'enorme valigia rosa. «Maledizione» si lamentò. «Il computer della mamma ha solo l'elaborazione testi. Accidenti. Niente base dati, niente di niente.» «Andremo alla spiaggia.» Mi caricai due borsoni sulle spalle e la seguii attraverso le porte a vetri ad apertura automatica. «Ci divertiremo, Lucy. Puoi lasciare perdere il computer per un po'. Ti fa male agli occhi.» «C'è un negozio di software a un chilometro da casa...» «La spiaggia, Lucy. Devi fare una vacanza. Dobbiamo fare una vacanza tutte e due. Aria fresca e sole ti faranno bene. Sei rimasta chiusa due settimane nel mio studio.» Continuammo a beccarci alla biglietteria. Gettai le valige sulla bilancia, le raddrizzai il colletto e le chiesi perché non aveva portato il giubbotto. «L'aria condizionata negli aerei è sempre troppo alta.» «Zia Kay...» «Avrai freddo.» «Zia Kay!»
«Abbiamo tempo per mangiare un sandwich.» «Non ho fame!» «Devi mangiare. Dopo rimaniamo fermi a Dallas per un'ora e poi sull'aereo non ci danno la colazione. Devi metterti qualcosa nello stomaco.» «Zia, parli proprio come la nonna!» FINE