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JOSEPH FINDER POTERI STRAORDINARI (Extraordinary Powers, 1993) A Michele e alla nostra bimba in arrivo Ringraziamenti Ringrazio per la loro cortese assistenza Richard Davies e Samuel Etris del Gold Institute; Gerald H. Kiel e Bill Sapone dello studio McAulay Fisher Nissen Golberg & Kiel; Ed Gates dello studio Wolf Greenfield & Sacks; il dottor Leonard Atkins e il dottor Jonathan Finder; a Parigi, infine, Jean Rosenthal e gli amici del sistema dei trasporti sotterranei. Ringrazio inoltre Peter Dowd e Jay Gemma della Peter G. Dowd Firearms, Elisabeth Sinnott, Paul Joyal, Jack Stein e il grande amico Joe Teig. Il formidabile Jack McGeorge del Public Safety Group è stato, come al solito, al tempo stesso un'impagabile fonte di notizie e di straordinaria generosità con il proprio tempo. I miei ringraziamenti vanno altresì a Peter Gethers, Clare Ferraro e Linda Grey della Ballantine, oltre che al fantastico Danny Baror della Henry Morrison, Inc. Un grazie anche ai miei amici e alle mie fonti dell'ambiente dei servizi, che sono arrivati a capire il significato dell'antica maledizione cinese: «Possa tu vivere in tempi interessanti». Henry Morrison, è stato, come sempre, non soltanto un meraviglioso agente e lettore ma anche un prezioso consigliere sotto il profilo della realizzazione editoriale e dell'elaborazione della vicenda narrata. Continuo ad avere una grandissima ammirazione e un profondo debito nei confronti di.mio fratello Henry, brillante consulente editoriale e indispensabile suggeritore. A Michele Souda, infine, mia moglie - oltre che consulente editoriale, consigliera e critica letteraria, al mio fianco fin dall'inizio -, vanno i miei ringraziamenti e il mio affetto. Le armi della segretezza non hanno posto in un mondo ideale. Ma quello in cui viviamo è un mondo di ostilità non dichiarate, in cui simili armi vengono usate di continuo contro di noi e, se non contrastate, potrebbero trovarci impreparati, e questa volta nei confronti di un attacco di dimensioni tali da superare qualsiasi im-
maginazione. Può apparire superfluo sottolineare un concetto così evidente, ma sta di fatto che, eliminata la segretezza, le sue armi diventano inefficaci. Sir William Stephenson A Man Called Intrepid Ex agente segreto KGB cerca impiego net settore. Tel: Parigi 1-42.50.66.76. Inserzione apparsa sulla International Herald Tribune, gennaio 1992 Poteri straordinari Espressione del mondo dello spionaggio, utilizzata da alcuni servizi segreti del Patto di Varsavia. Indica la facoltà concessa a un agente di elevata affidabilità, in caso di necessità ma in circostanze estreme, di disattendere gli ordini del superiore diretto al fine di portare a compimento una missione d'importanza vitale. Nota per il lettore I fatti degli scorsi mesi di settembre e ottobre, che hanno creato tanto subbuglio in tutto il mondo, non verranno mai dimenticati. Eppure, di quanto è veramente accaduto nel corso di quelle straordinarie settimane ben poco, se non nulla, è stato svelato al pubblico. Fino a questo momento, perlomeno. Alcuni mesi fa, l'8 novembre, ho ricevuto a casa mia a Manhattan un pacco consegnato tramite la Federal Express del peso di quattro chili e duecento grammi: conteneva un testo, in parte dattiloscritto e in parte manoscritto. Successive indagini non hanno consentito di stabilire chi fosse stato a spedirlo. La Federal Express è stata unicamente in grado di accertare che il nome del mittente indicato sulla bolletta era falso (il luogo della spedizione era Boulder, Colorado) e che il porto era stato pagato in contanti. Tre diversi grafologi, in ogni caso, hanno potuto confermare una cosa che già sapevo, ovvero che la grafia era quella di Benjamin Ellison, già agente della CIA e successivamente avvocato presso un noto studio legale
di Boston, Massachusetts. Ellison aveva probabilmente attivato le procedure tese a garantire che il manoscritto in questione venisse spedito a qualcuno in caso di morte. Anche se non eravamo amici intimi, ai tempi dell'università, a Harvard, siamo stati compagni di camera per un semestre accademico. Era un bel ragazzo, di statura media e ben curato nella persona, con folti capelli castano scuro e occhi bruni. Ricordo un individuo molto simpatico, dotato di una risata contagiosa. Avevo incontrato anche sua moglie, Molly, che mi piaceva molto. Quando il padre di Molly, il defunto Harrison Sinclair, era direttore della CIA, lo avevo intervistato più volte, ma non avevo mai approfondito la conoscenza. Come ha recentemente documentato un'ottima serie di indagini giornalistiche pubblicate dal New York Times, sussistono pochi dubbi che la scomparsa di Ben e Molly nelle acque di Cape Cod, Massachusetts, avvenuta una settimana dopo i fatti dell'autunno 1994, sia perlomeno sospetta. Nel corso di una serie di incontri non ufficiali, diverse fonti attendibili dei servizi d'informazione mi hanno confermato ciò che era stato ipotizzato negli articoli del Times, ovvero che Ben e Molly erano stati assassinati, probabilmente da agenti collegati con la CIA, per le conoscenze di cui erano in possesso. Finché i loro corpi non verranno ritrovati, tuttavia, non sarà possibile sapere la verità. Ma perché a me? Perché Ben Ellison aveva deciso di spedire il suo manoscritto proprio a me? Forse a causa della mia fama di autore abbastanza equanime (o perlomeno così mi piace pensare) nell'ambito delle questioni riguardanti gli affari esteri e i servizi segreti. Forse a causa del successo del mio recente libro, Morte della CIA, che ha preso lo spunto da un servizio da me scritto per il New Yorker. Ma soprattutto, credo, in conseguenza del fatto che Ben mi conosceva, si fidava di me e sapeva che non avrei mai consegnato il suo manoscritto alla CIA o a qualche altro servizio governativo. (Dubito però che possa avere previsto il numero di minacce di morte che ho ricevuto negli ultimi mesi per telefono o per posta, la sottile e anche pesante campagna di intimidazione da parte dei contatti che ho nel mondo dei servizi segreti, nonché i grossi sforzi legali messi in atto dalla CIA per stroncare la possibilità che questo libro venisse pubblicato.) Inizialmente il racconto di Ben mi è apparso a dir poco sconvolgente, stravagante, persino incredibile. Di conseguenza, quando gli editori di que-
sto libro mi hanno chiesto di verificarne l'autenticità, ho intrapreso una lunga serie di incontri con coloro che avevano conosciuto Ellison negli ambienti degli avvocati e dei servizi segreti, oltre a vaste indagini in diverse capitali europee. È perciò con piena fiducia che affermo che la versione fornita da Ben di tali allarmanti fatti, per quanto possa apparire incredibile, è tuttavia esatta. Il manoscritto da me ricevuto è ovviamente stato scritto in gran fretta, per cui mi sono preso la libertà di sistemarlo per la pubblicazione e di correggere diversi errori del tutto marginali. Dove necessario, inoltre, onde accrescerne il ritmo narrativo, vi ho interpolato alcuni articoli e documenti apparsi sulla stampa. Per quanto discutibile possa apparire, questo documento è il primo resoconto completo che disponiamo di ciò che è veramente successo in quel periodo terribile, e sono molto soddisfatto di avere avuto la mia parte nel portarlo a conoscenza del pubblico. JAMES JAY MORRIS The New York Times Il direttore della CIA muore in un incidente stradale Harrison Sinclair, 67 anni, aveva partecipato all'attività di riorganizzazione dell'Agenzia del dopo-Guerra Fredda Non ancora nominato il successore DI SHELDON ROSS SERVIZIO ESCLUSIVO WASHINGTON, 2 MAGGIO - Harrison H. Sinclair, direttore della CIA, è rimasto ucciso ieri in un incidente stradale a seguito del quale la sua auto è precipitata in un burrone a 26 miglia da Langley, quartier generale della CIA. Secondo un portavoce dell'Agenzia, sarebbe morto sul colpo. Non ci sono state altre vittime. Sinclair, a capo della CIA da meno di un anno, è stato uno dei suoi fondatori negli anni immediatamente succèssivi alla seconda guerra mondiale. Lascia una figlia, Martha Hale Sinclair...
Prologo Questa storia comincia, come giusto, a un funerale. La bara di un vecchio viene calata nella terra. I parenti e gli amici che circondano la tomba sono tristi, come è proprio di chiunque vada a un funerale, ma straordinariamente ben vestiti, irradiano potere, ricchezza. È uno spettacolo singolare: in questo grigio, piovigginoso mattino di marzo, in un piccolo cimitero di campagna della Columbia County, nella parte settentrionale dello Stato di New York, si vedono senatori degli Stati Uniti, giudici della Corte Suprema e diversi esponenti dei centri di potere di New York e Washington raccogliere zolle umide di terreno per gettarle sulla bara. Sono circondati da limousine nere, BMW, Mercedes, Jaguar e dall'ulteriore assortimento di automobili tipico di coloro che sono ricchi e potenti. La maggior parte di loro è venuta da lontano per rendere omaggio al defunto, il cimitero dista chilometri e chilometri da ovunque. C'ero anch'io, ovviamente, ma non perché io sia famoso, grande, potente o eletto. Ai tempi ero semplicemente un avvocato di Boston - presso Putnam & Stearns, un ottimo studio, con uno stipendio rispettabile -, e di conseguenza, tra tutte quelle vedette, mi sentivo fuori posto. Ero, in ogni caso, il genero del morto. Mia moglie Molly - ovvero, più formalmente, Molly Hale Sinclair - era l'unica figlia di Harrison Sinclair, una leggenda dell'establishment americano, un enigma vivente, un maestro dello spionaggio. Era stato uno dei fondatori della CIA, quindi un famoso combattente della Guerra Fredda (mestiere poco pulito, ma qualcuno doveva pur farlo) e infine un direttore della CIA chiamato al salvataggio della pericolante Agenzia in seguito alla crisi d'identità verificatasi con il crollo del comunismo. Come già accaduto al suo predecessore, William Casey, anche Sinclair era morto mentre era ai vertici della carriera. Siamo tutti affascinati dallo spettro di un direttore della CIA che muore in servizio: quali segreti, ci si chiede, si sarà portato nella tomba? E in effetti, andandosene, Harrison H. Sinclair se n'era portato dietro uno straordinario. Ma il mattino freddo e uggioso del suo funerale non lo sapevamo né io né Molly né alcuno degli addolorati VIP lì riuniti. Senza dubbio le modalità della sua dipartita apparivano sospette: era morto una settimana prima in un incidente stradale verificatosi in Virginia. Mentre era diretto di sera tardi a una riunione straordinaria presso il quartier generale della CIA, a Langley, la sua auto era stata buttata fuori strada
da un veicolo non identificato, trasformandosi in una palla di fuoco. Un giorno prima dell'"incidente", la sua segretaria particolare, Sheila McAdams, era stata trovata assassinata in un vicolo di Georgetown. La polizia di Washington era arrivata alla conclusione che era stata vittima di un'aggressione a scopo di rapina: la borsetta e i gioielli erano scomparsi. Molly e io, però, a essere sinceri, avevamo sospettato fin dal principio che sia suo padre sia Sheila fossero stati uccisi, che non ci fosse stata alcuna rapina né alcun "incidente", e non eravamo gli unici a nutrire un simile sospetto. Il Washington Post, il New York Times e tutte le reti televisive lo avevano lasciato intendere nei loro servizi. Ma chi poteva essere il responsabile? Ai brutti tempi, certo, avremmo immediatamente dato tutti quanti la colpa al KGB o a qualche altro oscuro, misterioso braccio armato dell'Impero del Male, ma ormai l'Unione Sovietica non esisteva più. I servizi segreti americani continuavano senza dubbio ad avere i loro nemici, ma a chi poteva servire che venisse assassinato - se era giusto dire così -, il direttore della CIA? Molly era anche convinta che tra suo padre e Sheila ci fosse una relazione, fatto non scandaloso come potrebbe sembrare, visto che Sheila non era sposata e che la madre di mia moglie era morta sei anni prima. Sebbene Harrison Sinclair fosse una persona distante, misteriosa, io avevo sempre sentito un profondo attaccamento per lui, fin da quando la mia futura moglie ci aveva presentati. Molly e io eravamo compagni di college - lei era matricola quando io ero all'ultimo anno -, ma più che altro eravamo amici. Tra di noi esisteva già una certa attrazione, ma eravamo entrambi impegnati con un'altra persona. Io mi vedevo con Laura, che sposai subito dopo il college. Lei era impegolata con un fessacchiotto di cui si stancò dopo circa un anno. Ma Hal Sinclair mi aveva preso in simpatia, tanto che, subito dopo il diploma ad Harvard, mi aveva reclutato nell'Agenzia, avviandomi verso i servizi segreti, evidentemente convinto che fossi una spia migliore di quanto in realtà mi sarei poi rivelato. Mentre tutto ciò accadeva, questo tipo di professione si evolveva in una forma oscura e violenta tale da fare di me un ottimo agente anche se un po' avventato: molto temuto, anche da me stesso. Di conseguenza, prima di iscrivermi a legge presso la Harvard Law School, lavorai per un paio di anni come agente segreto per la CIA. E lo feci molto bene, anche, fino alla tragedia di Parigi. Fu allora che abbandonai l'Agenzia per dedicarmi alla professione legale, senza mai pentirmi nemmeno per un attimo della decisione presa.
Soltanto quando tornai da Parigi vedovo, dopo l'incidente di cui fatico tuttora a parlare, Molly e io cominciammo a vederci con intenzioni serie. La mia futura moglie, figlia dell'uomo che di lì a qualche tempo sarebbe diventato direttore della CIA, approvò calorosamente l'idea di lasciarmi alle spalle la professione di spia ricordando lo stato di continua tensione che essa aveva provocato alla sua famiglia. E non voleva più saperne. Anche dopo che fu diventato mio suocero non vidi molto Hal Sinclair, e non arrivai mai a conoscerlo bene. Ci incontravamo soltanto a qualche riunione di famiglia (era un maniaco del lavoro, un uomo dedito anima e corpo alla causa dell'Agenzia), dove sembrava trattarmi con un certo calore. Ma come ho già detto, questa storia comincia al suo funerale. Fu lì, mentre gli intervenuti cominciavano a disperdersi, stringendosi la mano sotto gli ombrelli neri e tornando rapidamente alle loro auto, che un uomo alto e dinoccolato sui sessanta, con una scarmigliata zazzera d'argento, mi si avvicinò furtivamente, presentandosi. Il soprabito era stazzonato, la cravatta storta, ma a dispetto di tanta sciatteria i vestiti erano in realtà costosi: un doppiopetto color antracite in lana, di taglio impeccabile, e una camicia a righe che sembrava fatta su misura in Savile Row. Anche se non lo avevo mai incontrato, riconobbi subito in lui Alexander Truslow, un vecchio agente della CIA piuttosto noto. Una colonna dell'establishment, come Hal Sinclair, con fama di rettitudine morale. Per alcune settimane durante lo scandalo del Watergate, nel 1973-74, aveva rivestito la carica di direttore dell'Agenzia. Ma a Nixon non piaceva, soprattutto perché pareva si fosse rifiutato di impegolarsi con la Casa Bianca e di coinvolgere la CIA nella copertura delle sue malefatte, per cui il presidente si era affrettato a sostituirlo con un personaggio più accondiscendente. Affabile ed elegante nel suo modo vagamente scarmigliato, Alex Truslow era uno di quei WASP Yankee beneducati e di buona famiglia alla Cyrus Vance o alla Elliot Richardson, che irradiano rispettabilità da tutti i pori. Dopo essere stato licenziato da Nixon si era ritirato in pensione, senza tuttavia lasciar circolare alcun pettegolezzo sul presidente: non sarebbe stato da gentiluomo. Certo, non ci avrebbe messo niente a indire una conferenza stampa per farlo, ma non sarebbe stato da lui. Dopo essersi guardato un po' attorno, percorrendo il solito circuito delle conferenze a pagamento, aveva creato una propria società di consulenze internazionali, con sede a Boston, nota come la "Corporation". Forniva "consigli" a grosse aziende e a studi legali di tutto il mondo su come agire
su un mercato internazionale in perenne mutazione, sempre capace di giocare qualche brutto scherzo. Né, data la fama di correttezza che si era guadagnato nel giro dei servizi segreti, poteva sorprendere il fatto che la sua Corporation operasse anche in stretto contatto con la CIA. Alexander Truslow era uno degli uomini più rispettati e stimati dell'ambiente dei servizi segreti. E dopo la morte di Hal Sinclair era noto che rientrava nel ristretto numero dei candidati a sostituirlo. Se fosse dipeso unicamente dai ranghi della CIA sarebbe di sicuro stato nominato, tanto era popolare presso i giovani agenti come tra i vecchi marpioni del mestiere. Certo, c'era qualcuno che dissentiva a causa della sua attività "in proprio". E c'era anche chi aveva validi motivi per non vedere di buon occhio l'arrivo di una "nuova ramazza". Ma, mentre si presentava a Molly e a me, scommisi con me stesso che stavo stringendo la mano al futuro direttore della CIA. «Mi spiace moltissimo» disse a Molly. Aveva gli occhi umidi. «Suo padre era un uomo meraviglioso. Se ne sentirà terribilmente la mancanza.» Lei si limitò a rispondere con un cenno del capo. Lo conosceva? Non riuscii a capire. «Ben Ellison, vero?» aggiunse poi lui, stringendomi la mano. «Lieto di conoscerla, Mr. Truslow» risposi. «Mi chiami pure Alex. È strano che non ci si sia mai incontrati, in giro per Boston» riprese lui. «Come forse sa, sono amico di Bill Stearns.» Ovvero William Caslin Stearns III, il socio anziano dello studio Putnam & Stearns, anche lui un vecchio uomo della CIA. E il mio capo. Questi erano gli ambienti in cui mi muovevo. «Infatti mi ha parlato di lei» risposi. Seguì qualche minuto di conversazione imbarazzata, mentre tornavamo verso le nostre auto parcheggiate, finché Truslow arrivò a quello che era chiaramente l'argomento che gli stava a cuore. «Sa, ho detto a Bill che mi interesserebbe che lei fornisse assistenza legale alla mia ditta.» Sorrisi. «Mi spiace, ma da quando ho lasciato l'Agenzia non ho più avuto nulla a che fare con la CIA, né con i servizi segreti o con qualsiasi altra organizzazione del genere. Non credo di fare al caso suo.» «Oh, il suo passato non c'entra niente» insistette. «Si tratta puramente e semplicemente di affari, e mi si dice che lei sarebbe il miglior esperto di Boston nel campo del diritto d'autore.» «L'hanno informata male» replicai con una risatina.«Ce ne sono tanti meglio di me.»
«Lei è troppo modesto» ribatté cortesemente. «Pranziamo insieme, uno di questi giorni.» E mi rivolse un sorriso storto. «D'accordo, Ben?» «Mi spiace, Alex. Sono lusingato... ma temo che la cosa non mi interessi. Peggio per me.» Truslow mi guardò fisso con i suoi occhi bruni, che mi fecero venire in mente quelli di un basset hound. Alzò le spalle e tornò a stringermi la mano. «No, Ben» ribatté. «Peggio per me.» Poi mi rivolse un sorriso sconsolato e scomparve sul sedile posteriore di una limousine Lincoln nera. Il fatto che la questione non finisse lì non avrebbe dovuto sorprendermi. In quel momento non potei fare a meno di considerare strano che volesse assumere proprio me, ma quando arrivai a capire perché era ormai troppo tardi. PRIMA PARTE La Corporation THE INDEPENDENT La Germania sull'orlo del disastro DI NIGEL GLEMONS BONN - Negli oscuri mesi trascorsi dopo il crollo del mercato borsistico che ha gettato la Germania nella peggior crisi economica e politica dagli anni Venti, molti, in loco, sono arrivati a pensare che questo Paese, un tempo motore dell'Europa, sia sull'orlo del disastro. Nel corso di una violenta manifestazione tenutasi ieri a Lipsia, più di centomila persone hanno espresso la loro protesta nei confronti delle difficoltà economiche, dell'abbassamento dei livelli di vita e dell'improvvisa perdita di migliaia di posti di lavoro. Si sono persino sentite invocazioni a un dittatore capace di riportare la Germania alla sua passata grandezza. A Berlino, negli ultimi giorni si sono verificati tumulti di dimostranti che chiedevano cibo, accompagnati da esplosioni di violenza da parte di neonazisti e di esponenti di estrema destra, oltre a uno straordinario aumento della criminalità comune, in
particolare in quella che un tempo era la Germania Est. Il Paese si sta avvicinando alla conclusione di una dura e contrastata campagna per l'elezione del cancelliere, e dieci giorni fa il presidente del partito democratico cristiano è stato assassinato. Fonti governative continuano a imputare la responsabilità della recente crisi tedesca alla recessione mondiale, oltre che alla fragilità della Borsa, la Deutsche Borse, creata in seguito all'unificazione nazionale. Alcuni esperti sottolineano che l'ultima crisi economica di una simile vastità, all'epoca della repubblica di Weimar, ha portato all'ascesa di Hitler. 1 Lo studio legale Putnam & Stearns ha sede nelle anguste stradine del quartiere finanziario di Boston, tra una serie di banche dalla facciata in granito: la versione bostoniana di Wall Street, insomma, anche se con un numero minore di bar. I nostri uffici occupano due piani di un bell'edificio antico in Federal Street, al primo piano del quale ha sede una rispettabile vecchia banca dell'elite bostoniana, famosa per il riciclaggio di denaro sporco della mafia. Lo studio Putnam & Stearns, è forse il caso di spiegare, è una delle società "esterne" della CIA. Una cosa perfettamente legittima, che non viola lo statuto dell'Agenzia (che vieta alla medesima organizzazione di ordire intrighi sul territorio nazionale, mentre evidentemente quelli internazionali vanno invece benissimo). Capita abbastanza spesso che la CIA abbia bisogno di assistenza legale per questioni riguardanti per esempio l'immigrazione e la naturalizzazione (nel caso stia cercando di introdurre clandestinamente nel Paese un transfuga dei servizi segreti stranieri) o la proprietà immobiliare (qualora abbia bisogno di acquistare una proprietà, una safe house, un ufficio o un'altra cosa qualsiasi che non debba in alcun modo essere collegata con Langley). Oppure ancora, ed è il particolare campo d'azione di Bill Stearns, di provvedere a uno spostamento di fondi tra i diversi conti cifrati di cui l'Agenzia dispone in Lussemburgo come a Zurigo o a Grand Cayman. L'attività dello studio Putnam & Stearns, però, va molto al di là del lavoro non del tutto pulito svolto per conto della CIA. Si tratta di una società affermata, composta di una trentina di avvocati, di cui dodici soci, esperti
di diritto che va dalle controversie tra le grandi aziende alla proprietà immobiliare, dal divorzio agli assi patrimoniali, dal fisco al diritto d'autore. Quest'ultimo campo, ovvero il diritto d'autore, è la mia specializzazione: brevetti e diritti, chi ha davvero inventato qualcosa, chi dei due ha rubato l'invenzione all'altro. Ricorderete certamente che qualche anno fa un famoso fabbricante di calzature sportive ha messo sul mercato un marchingegno che" consente a chi le indossa di pompare aria, e il tutto a un prezzo di soli centocinquanta dollari al paio. Ebbene, per quanto riguarda l'aspetto legale era opera mia. Voglio dire: sono stato io a elaborare la formulazione di un brevetto a prova di bomba, perlomeno nella misura in cui ciò sia realisticamente possibile. Sono diversi mesi che mi tengo in ufficio ventiquattro grosse bambole, destinate senza dubbio a riempire di sconcerto i miei clienti più conformisti. Ho dovuto aiutare un fabbricante di giocattoli del Massachusetts occidentale a proteggere la sua linea di prodotti Big Baby Dolls. Forse non ne avete mai sentito parlare... dipende dal fatto che il mio cliente ha perso. E io non ne sono affatto orgoglioso. Sono stato molto più bravo a impedire a un biscottificio di usare nei suoi spot una creaturina animata che assomigliava molto a Tiramolla. Ero uno dei due esperti di diritto d'autore presso lo studio Putnam & Stearns, il che bastava a fare di noi, unitamente ai nostri giovani di studio e alle segretarie, una "sezione". E questo, ancora, significava che lo studio poteva vantare di essere una società a tutto campo, disponibile per qualsiasi esigenza, fino ai diritti d'autore e ai brevetti. Provvediamo noi in un'unica sede. Ero considerato un buon avvocato, ma non perché amassi la professione o vi fossi particolarmente interessato. In definitiva, come dice un vecchio proverbio, gli avvocati sono le uniche persone per cui l'ignoranza della legge non è punibile. Dispongo, invece, di una rara dote neurologica, presente in meno dell'uno per mille della popolazione mondiale: una memoria eidetica (o fotografica, com'è nota). Caratteristica che non fa di me una persona più in gamba delle altre ma che mi ha di sicuro reso la vita più facile al college e poi presso la facoltà di legge, quando si trattava di imparare a memoria un brano o una sentenza. Vedo mentalmente la pagina come se fosse una fotografia. Si tratta di una facoltà che in genere non pubblicizzo: non è proprio una caratteristica capace di farti conquistare molti amici. Tuttavia, costituisce a tal punto una componente della mia personalità - e da sempre -, da costringermi a stare costantemente in guardia per evitare che induca gli
altri a tenermi alla larga. Bisogna riconoscere che i soci fondatori, Bill Stearns e il defunto James Putnam, hanno speso quasi tutti i loro primi guadagni per l'arredamento. Lo studio, tutto tappeti persiani e fragili oggetti di antiquariato in stile Reggenza, emana un'opprimente, silenziosa eleganza. Persino la suoneria del telefono è muta. La receptionist, che naturalmente è inglese, siede a un tavolo antico da biblioteca il cui ripiano è tanto lucido da potercisi specchiare. Ho visto clienti, magnati di proprietà immobiliari abituati nelle loro tane ad aggirarsi abbaiando ordini ai subordinati, entrare nella nostra zona ricevimento intimoriti e a disagio come studentelli chiamati in presidenza per una ramanzina. Era passato poco più di un mese dal funerale di Hal Sinclair e stavo precipitandomi a una riunione nel mio studio. Incontrai Ken McElvoy, uno dei soci giovani, alle prese da quasi sei mesi con una controversia d'incredibile barbosità tra due grosse aziende. Aveva con sé un enorme fascicolo di deposizioni e aveva un'aria disperata, sembrava un'anima in pena uscita da Casa desolata. Gli feci un sorriso, povero personaggio dickensiano, poi mi diressi verso l'ufficio. La mia segretaria, Darlene, mi fece un frettoloso cenno di richiamo, informandomi: «Sono già arrivati tutti». Darlene è il personaggio più funky di tutto l'ufficio, che è un bel record. Di norma veste TUTTO di nero: i capelli sono tinti in nero, l'ombretto è blu carico. Ma è di un'efficienza straordinaria, per cui non mi lamento mai. Avevo convocato quella riunione mattutina per risolvere una disputa che si protraeva da più di sei mesi per corrispondenza. Oggetto del contendere era una macchina per palestra denominata Alpine Ski, un'apparecchiatura di magnifica progettazione che simulava lo sci da discesa, non soltanto offrendo all'utente i benefici aerobici che si traggono da altre macchine analoghe ma imponendogli al tempo stesso un'intensa attività muscolare. Il mio cliente era l'inventore della macchina, Herb Schell. Già istruttore di ginnastica a Hollywood, con quell'invenzione aveva avuto un grosso successo economico. Finché di punto in bianco, un anno prima, sui programmi televisivi notturni avevano cominciato a comparire sgangherati annunci pubblicitari di un apparecchio denominato Scandinavian Skier, un inequivocabile plagio della sua invenzione. Molto meno costoso, oltre a tutto: centoventinove dollari e novantanove contro seicento. Herb Schell era già seduto nel mio studio in compagnia di Arthur Som-
mer, presidente e amministratore delegato della E-Z Fit, la ditta produttrice dello Scandinavian Skier, e del legale di quest'ultimo, un combattivo avvocato di nome Stephen Lyons, di cui avevo sentito parlare senza peraltro averlo mai incontrato. Trovai abbastanza buffo che sia Herb Schell sia Arthur Sommer avessero la pancia e fossero in pessima forma fisica. Il primo dei due, a pranzo, quando ci eravamo conosciuti, mi aveva rivelato che, smessa l'attività d'istruttore, si era stancato di fare ginnastica: preferiva di gran lunga la liposuzione. «Buongiorno signori» li salutai. Poi strinsi la mano a tutti e tre. «Vediamo di sistemare la faccenda.» «E amen» concluse Steve Lyons. A quanto pare i suoi nemici (che sono legioni) si divertono a giocare sul suo cognome, chiamando lui "Lyin' Lyons", ovvero "Lyons il bugiardo", e "la tana dei leoni" il suo piccolo, aggressivo studio. «Benissimo» replicai. «Il suo cliente ha plagiato in una maniera palese il progetto del mio cliente, fino ai minimi dettagli. Sembra un dannato clone realizzato in Cina, per cui, se non risolviamo la questione oggi, faremo ricorso alla Corte Federale chiedendo che venga emessa un'ingiunzione. Chiederemo anche il risarcimento dei danni, che, come lei ben sa, in caso di plagio consapevole vengono triplicati.» La legislazione sui brevetti tende a essere un modo molto pacifico e piuttosto noioso di guadagnarsi da vivere, per cui le poche occasioni che ho di fare il duro me le godo. Arthur Sommer si fece paonazzo, presumibilmente di rabbia, ma non replicò. Le sue labbra sottili si arricciarono in un sorrisetto teso. Il suo avvocato si allungò sulla poltrona: minaccioso linguaggio del corpo, se pure esiste. «Senta, Ben,» ribatté «visto che in realtà qui non siamo in presenza di nessun motivo valido per procedere in giudizio, il mio cliente è generosamente disposto a un'offerta compensativa di cinquecentomila dollari. Io l'ho sconsigliato, ma questo pasticcio sta costando a lui e a noi tutti...» «Cinquecentomila? Provi con una cifra almeno venti volte superiore.» «Mi spiace, Ben» replicò Lyons. «Questo brevetto non vale la carta su cui è stampato.» E congiunse le mani, serrandole. «Possiamo appellarci alla dottrina della "messa in vendita".» «Che cosa diavolo sta dicendo?» «Ho le prove che l'Alpine Ski è stato messo in vendita più di un anno prima della concessione del brevetto» ribatté Lyons, compiaciuto. «Sedici
mesi prima, per essere esatti. Quindi quel dannato brevetto non vale niente. Nullità per mancato rispetto della legge.» Era un modo nuovo di affrontare la questione, tale da rimescolare le carte. Fino a quel momento, ciò su cui avevamo cavillato, lettera dopo lettera, era se lo Scandinavian Skier assomigliasse materialmente all'Alpine Ski: se violasse un brevetto, per metterla in gergo avvocatesco. E adesso lui stava tirando fuori un cavillo definito dottrina della "messa in vendita", secondo cui un'invenzione non potrebbe essere brevettata se già "di pubblico uso o in vendita" più di un anno prima della richiesta di concessione del brevetto. Tuttavia non lasciai trapelare la mia sorpresa. Un bravo avvocato dev'essere un artista dell'aria fritta. «Bella mossa» ribattei. «Ma non serve a niente, Steve, e lei lo sa.» Mi parve un'ottima replica, qualsiasi cosa volesse dire. «Ben...» mi interruppe Herb. E Lyons mi porse un dossier. «Gli dia un'occhiata» disse. «Ecco lì una copia del bollettino del Big Apple Health Club di Manhattan che vanta l'ultima attrezzatura messa a disposizione dei clienti - l'Alpine Ski -, quasi un anno e mezzo prima che Mr. Schell abbia fatto domanda per ottenere il brevetto. Oltre a una fattura.» Presi il dossier, vi gettai un'occhiata priva di interesse e lo resi. «Ben» ripeté Herb. «Potremmo scambiare due parole?» Lasciai Lyons e Sommer nel mio ufficio, mentre lui e io andavamo a parlare in una vicina saletta, libera. «Che cosa diavolo è questa storia?» chiesi. «È vero. Hanno ragione.» «Lei ha cominciato a vendere quell'aggeggio più di un anno prima di chiedere il brevetto?» «Due, addirittura. A dodici istruttori personali presso diversi health club di tutto il Paese.» Lo fissai. «Perché?» «Cristo, Ben, non la conoscevo quella legge. Come diavolo si dovrebbe fare a collaudare queste apparecchiature se non sul campo? Lei non ha idea del cattivo uso che viene fatto di macchine simili nelle palestre e negli health club.» «E con il tempo è riuscito a introdurre qualche miglioramento?» «Be', certo.» «Ah. E quanto ci mette a farmi avere un documento dalla sede centrale
della sua azienda, a Chicago?» Quando rientrammo, Steve Lyons gongolava, trionfante. «Immagino» disse, rivolgendomi un'espressione che probabilmente secondo lui era di simpatia «che Mr. Schell l'abbia messa al corrente dei fatti fino in fondo.» «Sì, infatti» risposi. «Analisi preparatoria, Ben» continuò. «Bisogna starci attenti.» I tempi erano perfetti. In quel preciso istante il mio fax personale cominciò a suonare, mettendosi a stampare un documento. Mi avvicinai, guardai la macchina e intanto dissi: «Steve, sarebbe stato meglio se ci avesse evitato tutta questa perdita di tempo e queste spese studiandosi un po' di giurisprudenza relativa alla nostra questione». Lui mi guardò, perplesso, mentre il suo sorriso si appannava un po'. «Dunque, vediamo» ripresi. «Credo sia nel Repertorio Federale 917, Seconda, Circuito Federale, 1990.» «Che cosa sta dicendo?» chiese Sommer al suo avvocato, sottovoce ma in maniera perfettamente udibile. Lyons, non volendo farsi vedere scrollare le spalle in mia presenza, si limitò a fissarmi, senza capire. «È vero?» insistette Sommer. L'espressione del viso di Lyons non cambiò. «Dovrò dare un'occhiata.» Il fax tagliò la carta. «Ecco qui una lettera spedita a Herb Schell dal direttore del Big Apple Health Club, con alcune riflessioni sull'Alpine Ski, le osservazioni sul suo funzionamento e sulle modifiche eventualmente necessarie. Oltre ad alcuni suggerimenti in questo senso.» A quel punto entrò Darlene, che in silenzio mi consegnò un volume - il Repertorio Federale 917, 2a Serie -, e se ne andò. Senza nemmeno guardarlo, lo porsi a Lyons. «A che gioco sta giocando?» riuscì a balbettare. «Nessunissimo gioco» replicai. «Il mio cliente ha venduto alcuni prototipi per un periodo di collaudo, raccogliendo dati circa il loro funzionamento. Quindi la dottrina della "messa in vendita" per questo caso non vale, Steve.» «Non so nemmeno da dove lei tragga questa...» «Manville Sales Corp. contro Paramount System, Inc., Federale Seconda 544.» «Ma figurarsi» ribatté Lyons. «Non ne ho mai sentito parlare.» «Pagina 1314» replicai, tornando alla mia poltrona, mettendomi comodo e incrociando le gambe. «Vediamo.» E con voce monotona mi misi a recitare: «"I termini che definiscono gli annullamenti in base al concetto della
messa in vendita o dell'uso pubblico non determinano l'invalidità del brevetto anche se, più di un anno prima di presentare una domanda di brevetto, il detentore del medesimo brevetto ha istallato un'apparecchiatura presso una stazione di servizio ancora in costruzione su una strada statale. Un periodo di collaudo all'aperto era infatti indispensabile al fine di determinare se l'apparecchiatura in questione avrebbe..."». Intanto Lyons stava seduto con il volume aperto in grembo, seguendo la mia formulazione e pronunciando le parole a mezza voce. La frase la finì lui: «"funzionato come previsto"». Quindi alzò gli occhi a guardarmi, la bocca semiaperta. «Ci vediamo in tribunale?» chiesi. Quel mattino Herb Schell uscì dal mio ufficio più contento, oltre che più ricco di almeno dieci milioni di dollari. E io ebbi il piacere di uno scambio di battute di commiato con Steve Lyons. «Quel maledetto caso lo sapeva a memoria» disse. «Parola per parola. Come ha fatto?» «Analisi preparatoria» replicai, stringendogli la mano con vigore. «Bisogna starci attenti.» 2 Il mattino dopo, molto presto, feci la prima colazione allo Harvard Club con il mio capo, Bill Stearns. E fu allora che appresi di essere improvvisamente incappato in guai seri. Stearns faceva la prima colazione lì ogni mattino: sua moglie, una pallida casalinga di Wellesley, a quanto pareva non faceva altro se non lavorare come volontaria per il Museo di Belle Arti. Immaginavo che dormisse fino a tardi, con una mascherina sugli occhi, e che da quando i due figli avevano lasciato il nido materno per dedicarsi alla loro vita preordinata (Deerfield, Harvard, banche d'investimento, alcolismo), non fosse mai più capitato che il marito facesse la prima colazione a casa. Il suo tavolo allo Harvard Club era sempre lo stesso, a ridosso della vetrata che dà sulla città. Ordinava invariabilmente le uova cotte al forno con panna e crostini che erano una specialità del club (l'avversione nei confronti del colesterolo, così tipica della fine del nostro secolo, Bill la considerava una moda passeggera come gli anni Sessanta). A volte mangiava da solo, in compagnia del Wall Street Journal, altre con uno o più soci anziani, parlando di lavoro e di golf.
Capitava ogni tanto, sebbene di rado, che mi unissi a lui. Nel caso vi fosse venuto il sospetto che ci abbandonassimo a pettegolezzi da reduci sulla CIA, devo chiarire subito che Bill Stearns e io di solito chiacchieravamo di sport (di cui io so appena appena quanto basta per parlarne a vanvera) o di proprietà immobiliari. Ma succedeva ogni tanto - come per esempio quel mattino - che ci fosse qualcosa di serio di cui Bill voleva parlarmi. Stearns appartiene a quel tipo di persone che possono essere considerate devote, da chi non le conosce, alla stregua di uno zio. È vicino ai sessanta, ha i capelli grigi e una faccia rubiconda, porta il farfallino e ha un accenno di pancia. I suoi abiti da duemila dollari, tagliati su misura da Louis di Boston, addosso a lui sembrano fatti per un altro. Sta di fatto che dopo due anni violenti, da incubo, di lavoro clandestino per la CIA trovavo rassicurante la tranquillità della mia carriera legale presso lo studio Putnam & Stearns. Tuttavia, era stato proprio il servizio prestato presso la CIA a farmi assumere lì. Bill Stearns era stato ispettore generale dell'Agenzia sotto il leggendario Allen Dulles, direttore dal 1953 al 1961. Quando nove anni fa sono stato assunto, ho messo ben in chiaro che, nonostante il mio passato di agente segreto, mi rifiutavo di avere ancora a che fare con la CIA. La mia breve carriera in quell'ambito, ho detto a Bill Stearns, apparteneva al passato e stop. Bisogna riconoscere che lui ha scrollato le spalle, replicando: «Che cosa c'entra la CIA?». Sono tuttavia convinto di avere colto nei suoi occhi un cenno d'intesa. Immagino pensasse che con il tempo mi sarei ammorbidito, che mi sarebbe stato facile dedicarmi a simili attività. Sapeva perfettamente che l'Agenzia preferisce di gran lunga avere a che fare con persone che conosce bene, e quindi che avrei ricevuto pressioni di ogni genere perché svolgessi qualsiasi attività legale essa ritenesse di affidarmi, e che io avrei abbozzato. Altrimenti, perché mai un ex agente operativo come me sarebbe dovuto andare a lavorare per lo studio Putnam & Stearns, retto da una vecchia lenza del mestiere? Il motivo, naturalmente, risiedeva nei soldi, che erano molti di più di quanto mi offrisse qualsiasi altro studio. Non sapevo perché Bill Stearns mi avesse invitato a fare la prima colazione con lui, quel mattino, ma sospettavo che ci fosse sotto qualcosa. Quindi dedicavo moltissima attenzione alla mia focaccia ai mirtilli. Avevo già bevuto troppo caffè, per cui pensavo che qualcosa di solido nello stomaco mi avrebbe stabilizzato. Il rito della prima colazione l'ho sempre o-
diato. Secondo me Oscar Wilde aveva ragione nel sostenere che soltanto i fessi sono brillanti in una situazione del genere. Aspettando che ci servissero, Stearns aveva estratto dalla cartella una copia del Boston Globe. «Immagino che tu abbia letto questa storia della First Commonwealth» aveva detto. Il suo tono mi aveva messo in guardia. «No, questa mattina il Globe non l'ho ancora visto.» Lui me lo aveva passato sopra il tavolo. Avevo fatto scorrere la prima pagina. Ed ecco lì, subito sotto la piega, un titolo che mi aveva provocato un attacco di nausea. FINANZIARIA DI INVESTIMENTI CHIUSA DAL GOVERNO FEDERALE, diceva. E, sotto, in caratteri più piccoli: I BENI DELLA FIRST COMMONWEALTH CONGELATI DALLA SECURITY AND EXCHANGE COMMISSION. La First Commonwealth era una società di gestioni finanziarie, con sede a Boston, a cui erano affidati tutti i miei soldi. Nonostante la grandiosità del nome, si trattava di un buchetto, una ditta per pochi intimi diretta da un mio conoscente, con meno di una mezza dozzina di clienti. Era la First Commonwealth a pagare le rate mensili della mia ipoteca sulla casa, era lì dentro che erano chiusi praticamente tutti i miei soldi. Fino a quel mattino. Diversamente da Stearns, non sono ricco. Il padre di Molly le ha lasciato una cifra in contanti del tutto insignificante, un po' di certificati azionari e di titoli al portatore e la casa di Alexandria, peraltro ipotecata fino al tetto. Curiosamente, le ha lasciato anche un documento, firmato e autenticato da un notaio, che le conferisce il diritto assoluto di beneficiaria di tutti i conti intestati a suo nome all'estero e in patria in forza delle leggi su bla bla bla... I particolari vi confonderebbero il cervello, come del resto è tipico della legislazione sulle proprietà e sui fondi fiduciari. Dico "curiosamente" perché, in quanto unica erede vivente di Harrison Sinclair, Molly poteva godere di tali diritti. Non sarebbe occorso nessun documento. Be', non c'è dubbio che Sinclair apparteneva alla categoria delle persone ultraprudenti. A me aveva lasciato una cosa, una sola: una copia con autografo delle memorie dell'ex direttore della CIA Allen Dulles: Il mestiere di agente segreto. Un esemplare della prima edizione, con la dedica: «Ad Hal, con la più viva ammirazione, Allen». Un bel pensiero, da parte sua, ma in termini
economici non lo si poteva certamente definire una fortuna. Quando mio padre era morto qualche anno prima, avevo ereditato un po' più di un milione di dollari, che una volta dedotte le tasse sulla proprietà si erano ridotti a mezzo milione. Vista la buona reputazione di cui godeva, avevo trasferito il tutto alla First Commonwealth. Il responsabile della società, Frederick "Doc" Osborne, lo conoscevo per averci avuto a che fare in diverse occasioni per questioni di natura legale e mi era sempre sembrato uno che sapeva il fatto suo. Ma non è stato Nelson Algren a dire: «Mai mangiare in un locale che si chiama La cucina della mamma e mai giocare a carte con uno che si chiama Doc»? E ben prima che venissero i tempi delle gestioni finanziarie. Ci si può naturalmente chiedere perché mai una persona prudente come me avesse messo tutti i suoi soldi in un posto solo. A essere sinceri, me lo sono chiesto spesso anch'io, e continuo a farlo tuttora. La risposta credo che sia duplice. Prima di tutto Doc Osborne era un amico, in secondo luogo aveva una reputazione magnifica, per cui non mi era parso necessario diversificare. E d'altra parte la mia eredità l'avevo sempre considerata alla stregua di un gruzzoletto, un piccolo malloppo che non intendevo toccare, visto che avevo uno stipendio rispettabile. Immagino anche che fosse un po' come quel vecchio detto secondo cui i figli del calzolaio non avrebbero mai le scarpe: chi si occupa di soldi altrui presta spesso poca attenzione ai propri. Lasciai cadere la forchetta: avevo la nausea. Fatto qualche rapido calcolo mi resi subito conto che se non fossi riuscito in qualche modo a recuperare con la forza i miei soldi dalla First Commonwealth sarei stato rovinato. Il mio stipendio, per quanto elevato, non era sufficiente nemmeno per coprire l'ipoteca. Nell'attuale mercato immobiliare di Boston non sarei riuscito a vendere la mia casa se non con una perdita spaventosa. Mi pulsavano le vene delle tempie. Alzai lo sguardo su Stearns. «Aiutami a uscirne» balbettai. «Mi spiace, Ben...» replicò lui a bocca piena. «Che cosa significa questa storia? Io non me ne intendo, come sai bene.» Lui bevve un lungo sorso di caffè, posando rumorosamente la tazza sul piattino. «Lo sai che cosa significa?» rispose con un sospiro. «Che i tuoi soldi sono congelati insieme a quelli di tutti gli altri clienti della First Commonwealth.» «Da chi? Chi ha l'autorità di farlo? E perché?» chiesi, facendo scorrere lo sguardo su e giù per l'articolo del Globe, cercando di capirci qualcosa.
«La Securities and Exchange Commission. Più l'avvocatura degli Stati Uniti di Boston.» «Congelati» ripetei, senza credere alla mia voce. «All'avvocatura degli Stati Uniti non si sbilanciano. Dicono che è in corso un'indagine.» «Su che cosa?» «Accennano a violazioni della legislazione sui titoli a reddito fisso e alle norme statutarie del RICO. Dicono che per lo sblocco dei beni ci potrebbe volere almeno un anno, fatti salvi gli esiti dell'indagine della SEC.» «Congelati» ripetei ancora. «Mio Dio!» E mi passai una mano sul viso. «Che cosa posso fare?» «Niente» rispose lui. «Soltanto aspettare. Potrei chiedere a Todd Ricklin di parlarne con un amico che ha alla SEC,» - Ricklin era il genio finanziario dello studio Putnam & Stearns - «ma secondo me è meglio risparmiare il fiato.» Guardai fuori dalla vetrata le strade di Boston in miniatura, una trentina di piani sotto di noi, il verde dei giardini pubblici e del Common, che sembravano il percorso di un trenino elettrico, Commonwealth Avenue con i suoi magnifici filari di alberi e, parallela a essa, Marlborough Street, dove abitavo. Se avessi sofferto di tendenze suicide, quello sarebbe stato un posto perfetto per buttarsi di sotto. «Continua» lo esortai. «A quanto pare, sia la Securities and Exchange Commission sia il ministero della Giustizia, tramite l'avvocatura degli Stati Uniti di Boston, hanno chiuso la First Commonwealth per presunti legami con il mondo della droga.» «Droga?...» «Be', l'espressione esatta è che Doc Osborne sarebbe coinvolto in qualche tipo di riciclaggio di denaro sporco per conto di alcuni esponenti di quel mondo.» «Ma che cosa c'entro io con la merda in cui è andato a finire lui?» «Non serve fare così» replicò Stearns. «Ricordi quando la polizia federale ha chiuso quella grossa intermediaria di sconto di New York, la Drexel Burnham? Sono andati lì, hanno ammanettato chi c'era dentro e hanno appiccicato un cartellino alla porta. E basta.» «Ma i clienti della Drexel non hanno perso i loro soldi!» «Be', allora pensa ai filippini Marcos, o allo Scià di Persia... A volte si limitano a sequestrare tutti i soldi e a lasciare che continuino a produrre interessi... Per il buon vecchio Zio Sam, naturalmente.»
«Sequestrare tutti i soldi» gli feci eco. «Alla First Commonwealth hanno letteralmente messo un lucchetto sulla porta» continuò Stearns. «Gli agenti federali hanno requisito tutti i computer, tutti i registri e la documentazione, sequestrato...» «E allora i miei soldi quando li recupero?» «Forse potrai ottenerne il dissequestro nel giro di un anno e mezzo. Ma forse ci vorrà di più.» «E che cosa diavolo faccio, nel frattempo?» Stearns respirò rumorosamente. «Ieri sera ho bevuto un bicchiere con Alex Truslow» rispose. Poi, coprendosi la bocca con un tovagliolo di lino, buttò là: «Voglio che tu metta parte del tuo tempo a disposizione della Truslow Associates». «Sono molto preso, Bill» replicai. «Mi spiace.» «Alex potrebbe significare un incremento in ore lavorative addebitabili a clienti pari a duecentomila dollari soltanto quest'anno, Ben.» «Nello studio ci sono una mezza dozzina di avvocati qualificati come me. Persino di più.» Stearns si schiarì la voce. «Non sotto tutti i profili.» Ciò che intendeva era chiaro. «Come se fosse un pregio» obiettai. «Sembra che lui pensi di sì.» «Comunque sia, che cosa vuole?» La cameriera, una donna sui sessanta dal petto abbondante, tornò a riempirci le tazze di caffè, rivolgendo a Stearns un'occhiata. «Roba di semplice routine, di sicuro» rispose lui, spazzandosi via alcune briciole dal bavero. «E allora che cosa c'entro io? Perché non la Donovan Leisure?» Un altro celebre studio legale, con sede a New York, fondato da "Wild Bill" Donovan, capo dell'Office of Strategic Services e personaggio illustre nell'ambiente dei servizi segreti americani. Anche la Donovan Leisure era nota per avere legami con la CIA. Per un complesso di strutture segrete come i servizi, è singolare quanto "sia noto" e si "mormori". «Truslow lavora senza dubbio anche con loro, ma ha bisogno di essere assistito anche qui, e tra gli studi di Boston non ce ne sono molti nei cui confronti senta di poter stare tranquillo come con noi.» Non riuscii a trattenere un sorriso. «Tranquillo» ripetei, gustandomi tutta la delicatezza di Stearns. «Nel senso che gli occorre un po' di attività spionistica extra, continuando però a lavare i panni sporchi in casa.» «Senti, Ben. Quella che ti si offre è un'opportunità magnifica. Secondo
me potrebbe essere la tua salvezza. Qualsiasi cosa Alex voglia, sono sicuro che non ti chiederà di tornare all'attività clandestina.» «Che cosa ne ricavo?» «Penso che si possa combinare qualcosa... Un prestito d'emergenza, diciamo, un anticipo garantito dalla tua quota di proprietà della società. Da compensare sul tuo dividendo annuale.» «Una bustarella.» Stearns scrollò le spalle, tirando un respiro profondo. «Credi che tuo suocero sia morto in un vero incidente?» Sentirlo dare forma esplicita ai miei sospetti personali mi fece provare un senso di disagio. «Non ho motivo di dubitare della versione che mi è stata fornita. Ma che cosa c'entra questo con...» «Il linguaggio che usi ti tradisce» ribatté lui in tono irritato. «Sembri un qualsiasi burocrate del cazzo... Un addetto alle relazioni esterne dell'Agenzia. Alex Truslow è convinto che Hal Sinclair sia stato assassinato. Qualunque siano i tuoi sentimenti nei confronti della CIA, Ben, dargli una mano in tutti i modi possibili in questa vicenda è un obbligo che hai nei confronti suoi, di Molly e anche di te stesso.» Dopo un attimo di silenzio imbarazzato chiesi: «Che cosa c'entrano le mie qualità di avvocato con le teorie di Truslow circa la morte di Hal Sinclair?». «Va' a pranzo con lui. Ti piacerà.» «L'ho conosciuto» replicai. «Non ho dubbi che sia un gran signore. Ma ho fatto una promessa a Molly...» «A noi il rapporto di collaborazione con lui potrebbe tornare utile» ribatté Stearns, facendo scorrere lo sguardo sulla tovaglia, segno inequivocabile che aveva quasi esaurito la pazienza. Se fosse stato un cane, a questo punto avrebbe emesso un ringhio. «E a te potrebbero tornare utili i soldi.» «Mi spiace, Bill» replicai. «Preferirei di no. Devi capire.» «Capisco» concluse lui a bassa voce, mettendosi a fare cenni per chiedere il conto. Non sorrideva. «Oh, Ben, no» esclamò Molly quando quella sera tornai a casa. Di norma era effervescente e allegra, ma dopo la morte del padre si era trasformata, comprensibilmente, in una persona molto diversa. Non soltanto spenta, irritabile, sconfortata, amareggiata - la gamma di emozioni cui veniamo esposti tutti dalla morte di un genitore - ma anche incerta, esitante, introversa. In quelle ultime settimane mi trovavo davanti una Molly
molto diversa, e la cosa mi addolorava. «Com'è possibile?» Non sapevo cosa rispondere, per cui mi limitai a scuotere il capo. «Ma tu sei innocente» continuò lei, sul limite di una crisi isterica. «E sei avvocato. Non puoi fare niente?» «Se fossi stato tanto furbo da dividere i miei soldi tra diversi posti, questo non sarebbe successo. Ma del senno di poi son piene le fosse.» Molly stava preparando la cena, cosa che fa soltanto quando ha bisogno dei benefici terapeutici del cucinare. Indossava una delle mie felpe più logore dei tempi del college e un paio di jeans enormi, e stava rimestando in un tegame qualcosa che sapeva di pomodoro, olive e quintali di aglio. Non credo che a prima vista Molly Sinclair si possa definire bella. Ma con il tempo la sua immagine migliora, al punto che quando la si conosce da un po' sarebbe un'immensa sorpresa sentirsi dire che non è uno schianto. È un po' più alta di me, uno e settantasette circa, e ha una selvaggia criniera di capelli neri e ricci: occhi grigio azzurri e ciglia nere; inoltre, una carnagione colorita e sana, che secondo me è la sua caratteristica migliore. Io l'ho sempre considerata un po' misteriosa, distante, ora come quando ci siamo conosciuti al college, ma con la preziosa dote di un carattere sereno. Da un anno era interno di pediatria presso il Massachusetts General Hospital. Avendo ormai trentasei anni, era più anziana di tutti i colleghi pari grado, poiché aveva cominciato tardi. Il che è assolutamente tipico di lei: è bravissima a rimandare, soprattutto quando ha qualcosa di meglio da fare. Che nel suo caso aveva significato, dopo il college, andare a esplorare a piedi il Nepal per più di un anno. Ad Harvard, anche se sapeva benissimo che sarebbe finita a medicina, si era laureata in letteratura italiana con una tesi su Dante, di conseguenza conosceva molto bene quella lingua ma non altrettanto la chimica organica. Citava continuamente una massima di Cecov secondo cui medici e avvocati sono uguali ma, mentre i secondi si limitano a derubarci, i primi ci uccidono anche. Però la medicina l'amava, molto più di quanto le interessassero i beni materiali. Avevamo discusso spesso - in maniera semiseria l'opportunità di lasciare le nostre professioni, vendendo quella casa iperbolica e trasferendoci in campagna, dove avremmo aperto una clinica per bambini poveri. L'avremmo chiamata Clinica Ellison-Sinclair, denominazione che aveva un tono da istituzione psichiatrica. Abbassai il fuoco sotto il sugo e ci spostammo insieme nel salotto accanto alla cucina, che come ogni altro locale della casa era un gran pasticcio di
legname, tubature in rame e simili, il tutto coperto da un leggero strato di intonaco. Ci sedemmo nelle pesanti poltrone, temporaneamente riparate sotto teli di plastica. Quella bella, vecchia casa in Marlborough Street, nella Back Bay di Boston, Molly e io l'avevamo comprata cinque anni prima. Be', bella vista da fuori. L'interno era soltanto potenzialmente bello. Al momento dell'acquisto il mercato immobiliare era al massimo, pochi mesi prima del crollo. Qualcuno potrebbe pensare che avrei dovuto essere più furbo, ma io ero convinto come tutti che i prezzi degli immobili non avrebbero fatto che lievitare vertiginosamente, e la casa era quella che negli annunci talvolta viene definito «un sogno». «Rimboccati le maniche» dicevano tali annunci «e usa la fantasia!» Il nostro mediatore, peraltro, non l'aveva affatto definita così, ma non ci aveva nemmeno detto che le tubature avevano l'artrite, che c'erano le formiche lignicole e che l'intonaco esterno era marcio. Negli anni Ottanta si usava dire che la cocaina è lo strumento per il cui tramite Dio ci fa capire che abbiamo troppi soldi. Be', negli anni Novanta è stata sostituita dalle ipoteche. Mi ero beccato quello che mi meritavo. La ristrutturazione si era rivelata un problema senza fine. Ogni intoppo ne creava un altro. Se si vogliono riparare le scale pericolanti bisogna costruire un nuovo muro di sostegno, con la conseguenza che... Insomma, ci siamo capiti. Se non altro, però, non c'erano i topi. Nei loro confronti ho sempre avuto una vera e propria fobia, un terrore incontrollabile, ben al di là del senso di repulsione che provano tutti. Prima di questa avevo scartato diverse altre case, che a Molly invece piacevano moltissimo, semplicemente perché mi era parso di avere avvistato l'ombra di un topo. Di disinfestatori neanche parlare: sono convinto che, come gli scarafaggi, anche i topi non si possano eliminare. Sopravviveranno a tutti noi. Come se la tensione derivante da questo problema non bastasse, era qualche mese che discutevamo se fosse o meno il caso di avere un bambino. Diversamente dalla norma - secondo cui di solito è la donna a volerne, mentre il marito non ne vuole affatto - ero io a desiderarne uno se non addirittura diversi, mentre lei era contraria. Pensava che non fosse il momento giusto, visto che era soltanto agli inizi della carriera. E la cosa sfociava sempre in furibonde liti. Io sostenevo che avevo tutte le intenzioni di dividere equamente con lei le responsabilità, lei ribatteva che nella storia dell'umanità non è mai successo che un maschio abbia diviso alla pari con la donna la responsabilità di allevare i figli. In realtà io ero pronto ad averne -
al momento della morte, mia moglie era incinta - ma Molly no. Perciò le discussioni continuavano. «Potremmo vendere la casa di papà ad Alexandria» disse. «Con questa situazione di mercato non ne ricaveremmo quasi niente. E tuo padre non ti ha lasciato nulla. I soldi non gli sono mai interessati.» «Non potremmo farci fare un prestito?» «Offrendo che cosa come garanzia?» «Potrei cercarmi un secondo lavoro.» «Non servirà a niente» replicai «e ti beccherai un bell'esaurimento.» «Ma che cosa vuole da te Alexander Truslow?» Già, infatti, visto che il mondo brulicava di avvocati molto più qualificati. Ma non volevo metterla al corrente dei sospetti di Stearns secodo i quali suo padre potesse essere stato assassinato: non costituiva comunque una spiegazione dei motivi per cui Truslow voleva proprio me. E non c'era nessun motivo di farla agitare ancora di più. «Non mi piace indovinare quali possano essere i motivi per cui vuole proprio me» dissi in tono poco convinto. Sapevamo infatti benissimo entrambi che c'entrava il mio passato di agente della CIA, probabilmente insieme alla mia fama di duro, ma anche questo non spiegava fino in fondo il perché. «Come va al NICU?» chiesi, passando a parlare dell'unità neonatale intensiva del Massachusetts General Hospital dove lei stava facendo il suo turno dopo il funerale del padre. Scosse il capo, rifiutando di lasciarmi cambiare argomento. «Voglio andare avanti a parlare di questa faccenda di Truslow» replicò, attorcigliandosi nervosamente i ricci su un dito e continuando: «Mio padre e lui erano amici... colleghi fidati, voglio dire, non proprio amici intimi, ma a papà Truslow è sempre piaciuto». «Bene» dissi. «In effetti è una brava persona. Ma una spia è sempre una spia.» «Lo stesso si potrebbe dire di te.» «Ti ho fatto una promessa, Molly.» «Sei convinto che Truslow voglia affidarti del lavoro clandestino?» «Ne dubito. Visto quello che costo.» «Però c'entra la CIA.» «Su questo non c'è nessun dubbio. La CIA è l'unico gigantesco cliente della Corporation.» «Non voglio che tu lo faccia» ribatté. «Ne abbiamo già parlato quanto
basta. Questa storia appartiene al tuo passato. E tu hai tagliato i ponti. Stanne alla larga.» Sapeva quanto considerassi importante staccarmi dal mestiere di agente segreto, un mestiere che aveva fatto venire allo scoperto la gelida spietatezza che c'è dentro di me. «Istintivamente la penso cosi anch'io» dissi. «Ma Stearns mi renderà quanto più difficile possibile rispondere di no.» A questo punto lei si alzò, mettendosi sul pavimento davanti a me e posandomi le mani sui ginocchi. «Non voglio che tu riprenda a lavorare per loro» disse. E parlando mi strusciava le mani avanti e indietro sulle cosce, cercando di convincermi con la seduzione e fissandomi intanto in viso uno sguardo implorante, più imperscrutabile del solito. «Non c'è nessuno con cui tu possa parlarne?» Ci pensai su un attimo e finalmente risposi: «Ed Moore». Edmund Moore, andato in pensione dall'Agenzia dopo un po' più di trent'anni, conosceva le beghe interne della CIA più di chiunque altro al mondo. Nella mia breve carriera di agente segreto era stato il mio maestro, ed era e rimaneva un uomo di raro intuito. Viveva a Georgetown, in una meravigliosa vecchia casa e, seppure in pensione, sembrava ancora più indaffarato che ai tempi dell'Agenzia: leggeva qualsiasi biografia venisse pubblicata, presenziava a riunioni di ex agenti, pranzava con vecchi amici della CIA, rendeva testimonianza davanti a commissioni senatoriali e faceva un milione di altre cose di cui non potevo tenere il conto. «Telefonagli» mi spronò Molly. «Farò di meglio... Se domani pomeriggio o dopodomani riesco a liberarmi dagli impegni, volo a Washington e vado a trovarlo.» «Se avrà un po' di tempo da dedicare a te» ribatté lei. Aveva cominciato a eccitarmi, com'era senza dubbio nelle sue intenzioni, e mentre mi chinavo a baciarla sul collo esclamò improvvisamente: «Magnifico. Tanto ormai quel dannato sugo alla puttanesca sarà bruciato». La seguii in cucina, dove, non appena ebbe spento il fuoco - per il sugo non c'era più niente da fare - la abbracciai da dietro. Tra noi la situazione era tale che bastava una minima spinta in una direzione o nell'altra perché scoppiasse una lite interminabile oppure... La baciai sull'orecchio destro, scendendo lentamente verso il basso, finché ci mettemmo a fare l'amore sul pavimento del salotto, non curandoci della polvere e interrompendoci soltanto per consentirle di cercare il diaframma e metterselo. Quella sera stessa telefonai a Edmund Moore, che parve felicissimo di
invitarmi a cenare con lui e sua moglie a casa loro l'indomani. Il pomeriggio successivo, rimandate tre riunioni rimandabili, presi la navetta della Delta per il Washington National Airport. Mentre il crepuscolo cominciava a calare su Georgetown, il mio taxi attraversava il Key Bridge, sferragliando sul selciato della N Street e andando a fermarsi davanti al recinto in ferro battuto che protegge la casa di Edmund Moore. 3 La biblioteca di Edmund Moore, dove ci accomodammo dopo cena, era una magnifica struttura su due piani, letteralmente tappezzata di scaffali in quercia con modanature in ciliegio. Lungo tutto il secondo livello correva una passerella e appoggiate agli scaffali del primo piano c'erano diverse scalette da libreria. Moore aveva una delle più belle biblioteche private che io avessi mai visto, compresa un'impressionante collezione di libri sullo spionaggio e i servizi segreti. Alcuni di essi erano memorie di persone scappate dal blocco sovietico e orientale, che aveva pensato lui stesso, negli anni in cui la CIA si occupava di cose del genere (scopertamente, voglio dire), a piazzare presso vari editori americani e britannici. Interi scaffali erano poi dedicati alle opere di Trollope, Carlyle, Dickens, Ruskin. Avevano l'aria di quei libri che si possono comprare a metraggio dagli arredatori per simulare l'aspetto di una vecchia biblioteca gentilizia, ma sapevo che lui li aveva ostinatamente collezionati comprandoli a uno a uno presso aste e librerie di Parigi e Londra, oltre che in negozi e bancarelle di libri di seconda mano in tutti gli Stati Uniti. E prima o poi li aveva senza dubbio letti tutti. Un bel fuoco scoppiettava nel camino, illuminando la stanza con una confortevole luce dai toni gialli. Eravamo seduti in due consunte poltrone in pelle davanti alle fiamme. Lui sorseggiava un porto del 1963 di cui andava fiero. Io avevo il mio bicchiere di whisky di puro malto. Mi piaceva l'atmosfera che Moore si era costruito attorno con tanta cura. Nella sua casa non sembrava di essere nella Georgetown degli anni Novanta, straripante di videoteche, di centri UVA e di negozi Benetton, ma nell'Inghilterra edoardiana. Ed Moore era originario del Midwest, e precisamente dell'Oklahoma, ma nel corso degli anni passati presso la CIA si era trasformato in una persona raffinata e compassata alla stregua dei laureati di Yale e Princeton della sua generazione. Non si trattava di affettazione ma semplicemente di ciò che succede quando si è stati abbastanza tempo
in una struttura come la CIA. In effetti l'Agenzia si era trasformata sotto i suoi occhi. Negli anni Sessanta, quando i campus delle università appartenenti alla sofisticata cerchia della Ivy League erano lacerati dagli scioperi e dal dilagare della droga, l'Agenzia aveva cominciato a reclutare i propri uomini presso scuole più sicure del Midwest, legate a valori più fondamentali. Da ciò, secondo l'espressione di un amico della Compagnia, era derivata la "poliesterizzazione" della CIA. E invece ecco lì al mio fianco questo pittoresco uomo dell'Oklahoma che negli anni Quaranta avrebbe potuto tranquillamente entrare in una sala di conferenze dei circoli più esclusivi di Yale senza che nessuno battesse ciglio. «Il modo di fare del signore» mi aveva detto una volta «è ciò che viene lasciato in eredità dagli antenati ricchi quando i soldi non ci sono più.» In realtà lui si era sposato con una montagna di soldi: il nonno di sua moglie Elena aveva infatti inventato un componente essenziale della telefonia. «Non ne senti per niente la mancanza, eh?» mi chiese con un sorriso malizioso. Era un uomo di bassa statura, una specie di folletto, molto oltre i settanta, con una testolina calva a cupola e grossi occhiali montati di nero che gli ingrandivano enormemente gli occhi. L'abito di tweed marrone gli stava largo, facendolo apparire ancora più minuscolo. «Il fascino del mestiere, i viaggi, gli alberghi di prima categoria...» «Le belle donne» aggiunsi, prestandomi al gioco. «E i ristoranti tre stelle della guida Michelin.» «Eh, sì.» Moore, responsabile della divisione europea del Direttorato per le operazioni ai tempi in cui io ero di stanza a Parigi - il mio capo, in poche parole - sapeva bene che la vita dell'agente segreto significava in realtà interminabili e noiose "relazioni di idoneità", cablogrammi, bettole schifose, gelidi parcheggi sotto la pioggia. Dopo l'assassinio di Laura mi aveva praticamente buttato fuori dal quartier generale di Langley, combinando il mio incontro con Bill Stearns a Boston. Era convinto che, dopo quanto era successo, una mia permanenza nella CIA avrebbe costituito un grave errore. Per un po' avevo nutrito risentimento nei suoi confronti, ma nel giro di breve tempo ero arrivato a capire che lo aveva fatto per il mio bene. Moore era un uomo schivo, un teorico. Lo si sarebbe detto un analista, un tipo da intelligence, secondo la nomenclatura dell'Agenzia, e niente affatto il capo di una rete di spie. Prima di essere reclutato nei servizi d'informazione dell'esercito, durante la seconda guerra mondiale, insegnava storia alla University of Oklahoma di Norman, e nell'intimo continuava a
essere un accademico. Fuori il vento fischiava furiosamente, scagliando torrenti di pioggia contro le portefinestre in fondo alla biblioteca e facendo vibrare i vetri. Le porte davano su un giardino ben strutturato, al centro del quale c'era un laghetto per le anatre. Il temporale era cominciato durante la cena, costituita da un arrosto un po' troppo cotto servito da Elena, la minuta moglie di Moore. Avevamo parlato di argomenti innocui come la politica del presidente, il Medio Oriente, le imminenti elezioni tedesche, qualche pettegolezzo su amici comuni, e di un fatto doloroso, ovvero la morte di Hal Sinclair; sia Ed sia la moglie mi avevano espresso le loro sincere condoglianze. Subito dopo cena Elena si era scusata, salendo di sopra e lasciandoci lì a parlare da soli. Tutta la sua vita di moglie, immaginavo, era trascorsa a scusarsi in quel modo, salendo di sopra o comunque uscendo dalla stanza per consentire al marito di parlare di lavoro con lo spione momentaneamente di passaggio. Ma in realtà era una donna ben lungi dall'essere scolorita e schiva: aveva opinioni salde e rideva spesso, al tempo stesso gioiosa e stizzosa, come una vecchia caratterista del cinema hollywoodiano. «Mi sembra di dover dedurre che la vita sedentaria ti va a pennello.» «Mi piace la tranquillità della vita con Molly. Ho intenzione di avere dei figli, fare l'avvocato a Boston non è certamente il modo più eccitante per guadagnarsi da vivere.» Moore sorrise, bevve un sorso di porto e replicò: «Motivi per eccitarti ne hai avuti quanti potrebbero bastarne per diverse vite». Conosceva il mio passato, quella che la commissione di disciplina dell'Agenzia definiva la mia "avventatezza" sul campo. «Mettiamola pure in questi termini.» «Sì,» convenne «eri un po' una testa calda. Ma eri giovane. Ed eri un bravo agente, che è ciò che conta. Non avevi paura di niente. Temevamo di doverti mettere in riga. È vero che hai messo fuori combattimento quell'istruttore, a Camp Peary?» Scrollai le spalle. Era vero. Durante il mio addestramento presso Camp Peary della CIA, un istruttore di arti marziali mi teneva bloccato a terra davanti ai miei compagni e si era messo a prendermi in giro, a sfottermi. E di punto in bianco io ero stato preso da una lenta, fredda ondata di rabbia. Come se un liquido corrosivo mi fosse penetrato nel ventre estendendosi a tutto il corpo e dandomi una calma glaciale. Sembrava avere prevalso una parte primordiale del mio cervello: ero un animale primitivo, feroce. Ave-
vo allungato il taglio della mano destra per mollargli una gran botta in faccia, spaccandogli la mascella. L'incidente aveva fatto il giro del campo, divenendo leggenda, raccontato infinite volte, abbellito e ricamato, sopra una lunga serie di bicchieri della staffa. Da allora in poi ero stato guardato con sospetto, come una bomba a mano senza sicura. Una reputazione che mi era stata molto utile, facendomi assegnare missioni considerate troppo rischiose per altri. Ma al tempo stesso una caratteristica che mi faceva star male, in profondo contrasto con il mio lato caratteriale sobrio, analitico. Quell'uomo non ero io. Moore incrociò le gambe, allungandosi sulla poltrona. «Allora, raccontami perché sei qui. Immagino si tratti di una cosa di cui non era possibile parlare al telefono.» Non di certo senza un telefono sicuro, pensai. Sono privilegi che, quando si lascia il servizio, l'Agenzia toglie persino a istituzioni come Edmund Moore. «Parlami di Alexander Truslow» replicai. «Ah» commentò lui, inarcando i sopraccigli. «Mi pare di capire che stai facendo qualcosa per lui.» «Ci sto pensando. Purtroppo ho qualche guaio di natura economica, Ed.» «Ah.» «Può darsi che tu abbia sentito parlare di una piccola finanziaria di Boston denominata First Commonwealth.» «Mi pare di sì... Riciclaggio di denaro sporco proveniente dalla droga, o roba del genere.» «È stata chiusa. Con dentro tutti i miei liquidi.» «Mi spiace terribilmente.» «Quindi ecco che di punto in bianco la Truslow Associates mi appare molto più interessante. A Molly e a me quei soldi potrebbero tornare utili.» «Ma la tua specializzazione non è il diritto d'autore, o i brevetti, o come diavolo si dice?» «Esatto.» «Io pensavo che Alex potesse avere bisogno dell'assistenza di una persona...» Si interruppe un attimo per sorseggiare il suo porto e io conclusi per lui: «Una persona pratica di come si fa a nascondere soldi in inaccessibili casseforti internazionali?». Moore si concesse un vago sorriso, annuendo. «Invece, forse, ciò di cui ha bisogno sei proprio tu. Avevi la fama di essere uno dei migliori agenti
sul campo, uno dei più in gamba...» «Un cannone a piede libero, Ed, e tu lo sai benissimo.» Quella di "cannone a piede libero", credo, non era che una delle tante etichette appiccicatemi da colleghi e superiori dell'Agenzia. Ero considerato con timore, con meraviglia e con una buona dose di perplessità. Erano il lavoro sul campo, il pericolo, la violenza a far venire allo scoperto il mio lato oscuro. Alcuni mi consideravano un uomo senza paura, ma non era vero. Altri invece mi consideravano avventato, e questo era più vicino alla realtà. Sta di fatto che in certi momenti veniva allo scoperto un Ben Ellison spietato e terrificante. Una volta resomene conto, la cosa mi aveva turbato profondamente, inducendomi infine a lasciare la CIA. Prima di Parigi ero stato assegnato a Lipsia per fare pratica e come copertura usavo l'attività di agente di commercio. La mia prima missione era consistita nell'aggancio e nella protezione di un informatore piuttosto agitato, un militare dell'Armata Rossa di stanza nella zona. Ero stato scelto perché ad Harvard avevo studiato il russo e quindi lo parlavo abbastanza bene. Avevo portato a termine la missione in maniera impeccabile ed ero stato premiato - promosso, in un certo senso - con un compito molto più pericoloso. Mi era stato ordinato di scortare un transfuga della Germania Est, un fisico, da Lipsia al confine di Herleshauen, piuttosto lontano. La Mercedes che guidavo era munita di un doppiofondo, dietro il sedile, in cui era nascosto il fisico. Alla frontiera avevamo affrontato la solita routine, lo specchio su ruote fatto scorrere sotto l'auto per controllare che non ci fosse qualche tedesco che tentava di scappare da quel misero Paese, e così via. Un uomo della BND ci era stato mandato incontro dal quartier generale dall'altra parte del confine. Ma mentre passavo il controllo del passaporto e del visto, congratulandomi con me stesso per il lavoro ben fatto, costui aveva commesso l'errore di mettersi allo scoperto. Da un osservatorio della Germania Orientale qualcuno lo aveva riconosciuto, e immediatamente il sospetto era caduto su di me. Di punto in bianco dalla pensilina erano emersi prima tre e poi sette Vopo, che avevano circondato l'auto. Uno mi si era piazzato davanti, segnalandomi con la mano tesa di fermarmi. Secondo le direttive dell'Agenzia avrei dovuto simulare innocenza e stupore. Non era mai consentito togliere la vita... Non era così che il gioco
procedeva. Mentre me ne stavo lì seduto mi era venuto in niente il fisico, un omino tutto sudato, rannicchiato nell'angusto doppiofondo ricavato tra il sedile posteriore e il portabagagli. Il mio prezioso carico. Era coraggioso. Stava rischiando la vita, mentre sarebbe stato più facile non fare niente. Avevo sorriso, avevo guardato a destra e a sinistra e poi davanti a me. Il Vopo che mi bloccava il passo - un Kommandant della Stasi, come avrei appreso successivamente - mi rivolse un sorriso di sufficienza. Ero incastrato. Una tecnica da manuale che avevamo imparato a Camp Peary. Non c'era altro da fare che arrendersi. Non si toglie mai la vita. Le conseguenze sarebbero state gravi. Finché ero stato preso da qualcosa, dalla stessa furia glaciale di quando avevo rotto la mascella all'istruttore di arti marziali. Era come se fossi in un altro mondo: il battito del mio cuore non era accelerato, il mio viso non era arrossito; ero calmo, ma in preda al desiderio di uccidere. Rompi il blocco, mi ero detto. Rompi il blocco. Avevo schiacciato a tavoletta il pedale dell'acceleratore. Non riuscirò mai a scacciarmi dalla mente il ricordo della faccia del Kommandant che andava a sbattere contro il parabrezza. Una espressione di terrore, uno sguardo pieno di incredulità. Tranquillo, aleggiando in una calma serpentina, avevo tenuto lo sguardo fisso davanti a me. Gli occhi del Kommandant, inchiodati sui miei, erano due pozze di folle paura. Aveva visto la suprema indifferenza dei miei. Non furia, non disperazione, soltanto una gelida calma. Con un tonfo tremendo il suo corpo era stato scagliato in aria. Era seguita una pioggia di fuoco, ma ormai ero al di là del confine, avevo portato in salvo il mio carico. Più tardi, ovviamente, ero stato ripreso da Langley per avere adottato misure "non necessarie" e "avventate". Ma in privato i miei superiori mi avevano fatto sapere con sottili allusioni che personalmente erano contenti. In definitiva il fisico lo avevo portato fuori dal Paese. O no? Ma di tutto ciò non mi era rimasto il piacere di una missione felicemente compiuta, l'orgoglio di un gesto eroico, quanto piuttosto un senso di nausea. Per circa un minuto, al confine, ero diventato una specie di automa. Avrei potuto andare a sbattere diritto contro un muro di mattoni. Non avrebbe potuto farmi paura niente. E questo mi aveva fatto paura.
«No, Ben» riprese Moore. «Non eri affatto un cannone a piede libero. Eri una rara combinazione di prodigiosa intelligenza e... palle d'acciaio. Ciò che è successo a Laura non è stato colpa tua. Eri uno dei migliori. E con la tua memoria fotografica, o come che la si voglia chiamare, sei un elemento prezioso.» «La mia memoria... eidetica, come la definiscono i neurologi, può anche essere stata utilissima al college e a legge, ma ormai, con i sistemi elettronici di elaborazione dati, non è più niente di speciale.» «Hai conosciuto Truslow?» «Sì, al funerale di Hal... abbiamo parlato circa cinque minuti. Per il momento non so nemmeno che cosa voglia farmi fare.» Moore si alzò, attraversò la stanza e raggiunse le portefinestre. Una di esse vibrava più delle altre, per cui la sistemò, chiudendola a chiave ed eliminando il rumore. Mentre tornava indietro, mi chiese: «Ricordi la famosa causa per violazione dei diritti civili intentata alla CIA alla fine degli anni Settanta? Quel nero che aveva fatto domanda per un posto di analista presso l'Agenzia ed era stato scartato senza un motivo valido?». «Certo.» «Be', a risolvere il caso, alla fine, è stato proprio Alex Truslow. Il quale ha provveduto anche a fare in modo che per il futuro l'ufficio personale dell'Agenzia non procedesse più a discriminazioni in base alla razza o al sesso. Una cosa straordinaria! Aveva una visione della CIA nei termini di una pura meritocrazia, che non può consentire alla vecchia guardia di calpestare il diritto delle minoranze di entrare nei suoi ranghi. Ci sono ancora moltissimi anziani che nutrono risentimento nei suoi confronti per questo motivo, perché ha consentito a tutte queste minoranze di introdursi nel club dei vecchi gigli immacolati. Comunque, come avrai forse sentito dire, sta probabilmente per essere nominato a succedere a tuo suocero.» Annuii. «Che cosa ne sai della sua attività?» mi chiese Moore. «Praticamente nulla. "Attività di intelligence" per l'Agenzia, mi si dice. Operazioni di cui Langley non può o non vuole occuparsi.» «Lascia che ti mostri una cosa» replicò lui, tornando ad alzarsi, questa volta però facendomi cenno di seguirlo. Con un grugnito di protesta affrontò la scaletta circolare che portava al secondo piano della biblioteca. «Un giorno o l'altro non sarò più in grado di salire questi gradini. Ci manca poco, ormai» borbottò, con il fiato corto. «A quel punto tutti i miei Ruskin li trasferirò qui di sopra, dove non avrò più occasione di vederli. Robaccia.
Quel vecchio figlio di puttana non mi è mai piaciuto. Un fetente. Cose che capitano quando due cugini si sposano. Voilà. Ecco il mio bottino.» Eravamo avanzati di un paio di metri lungo la passerella, accanto a una sfilata di volumi in marocchino dall'aria consunta, finché Moore si era fermato all'altezza di una porzione di parete tra gli scaffali, ricoperta di legno ma libera. Spinse un pannello finché si aprì, rivelando un classificatore metallico dipinto nell'istituzionale grigio. «Bello» commentai. «Te lo sei fatto costruire dai ragazzi dei servizi tecnici?» In realtà si trattava di un nascondiglio banale per chiunque avesse avuto la benché minima conoscenza delle tecniche dello scasso, ma non avevo certamente intenzione di dirglielo. Aprì un cassetto, che cedette con un gemito basso, rugginoso. «No, se devo dire il vero, quando nel 1952 ho comperato la casa c'era già. Il vecchio ricco industriale che l'ha costruita - un bietolone degno di un romanzo di Edith Wharton - andava matto per i nascondigli segreti. Nella caminiera c'è un pannello scorrevole che non uso mai. Non aveva neanche la minima idea che un giorno la sua casa sarebbe finita nelle mani di uno spione patentato.» Il cassetto sembrava pieno di dossier relativi ad attività segrete, almeno a giudicare da quanto vedevo facendo scorrere lo sguardo sulle targhette. «Non sapevo che quando si va in pensione l'Agenzia consenta che ci si portino a casa un po' di pratiche» dissi. Si voltò a guardarmi, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Dubito che se ne siano accorti» ribatté. E sorrise. «Mi sto fidando della tua discrezione.» «Certo.» «Bene. Comunque non ho violato nessuna norma sulla sicurezza nazionale... Davvero.» «Questi dossier te li ha dati qualcuno?» «Ricordi Kent Atkins, della sede di Parigi?» «Oh sì. E un amico.» «Be', adesso è a Monaco. Viceresidente. Per procurarmi questa roba ha rischiato il collo. Quindi il minimo che posso fare è prendere la precauzione di tenerla nascosta qui in casa al riparo dalle irruzioni di possibili ficcanaso e personaggi del genere.» «Immagino dunque che la Compagnia non ne sappia niente.» «Dubito che se ne siano addirittura accorti» replicò, tirando fuori una cartelletta in cartoncino giallo. «Ecco di che cosa si sta occupando Alex Truslow. Lo sai quale era il problema che cercava di risolvere tuo suocero
prima di morire?» La pioggia stava cominciando a diminuire. Moore aveva sparso una sfilata di dossier su un tavolo da biblioteca in lucidissima quercia sistemato accanto alle portefinestre. Tutti riguardanti l'abolizione del KGB e dei servizi segreti del blocco orientale: il regolare flusso di segreti e persone da Mosca, da Berlino e da ovunque al di là di quella che un tempo veniva definita la Cortina di ferro. Verbali d'interrogatorio di esponenti del KGB che cercavano di vendere i loro segreti in cambio di protezione in Occidente, o che offrivano dossier in vendita alla CIA o agli altri servizi occidentali. Cablogrammi decodificati con brandelli di notizie filtrati da sedi del KGB in tutto il mondo, ciascuno (avevo capito già a prima vista) potenzialmente in grado di risultare esplosivo. «Come vedi,» disse Moore a bassa voce «qui dentro ci sono informazioni che sarebbe stato molto meglio rimanessero sepolte nella Lubianka.» «Cioè?» «Immagino tu sappia che cos'è il Club del Mercoledì» rispose con un sospiro. Annuii. Era un'associazione conviviale di ex esponenti della CIA, ex direttori, vicedirettori e via dicendo, che si trovavano tanto bene tra di loro da riunirsi a pranzo in un ristorante francese di Washington ogni mercoledì. Gli esponenti più giovani dell'Agenzia lo chiamavano il Club dei Fossili. «Be', negli ultimi mesi, in quella sede, abbiamo discusso moltissimo di ciò che vediamo uscire dalla ex Unione Sovietica.» «Roba utile?» «Utile?» E mi puntò addosso uno sguardo intento, da gufo, sopra gli occhiali. «Considereresti utile ricevere irrefutabili prove documentarie secondo le quali l'assassinio di John F. Kennedy è stato organizzato dall'Unione Sovietica?» Ebbi un breve momento di smarrimento, poi scossi il capo. «Non credo che farebbe molto felice Oliver Stone» considerai. Scoppiò a ridere. «Ma per un attimo ci crederesti, vero?» «Conosco molto bene il tuo senso dell'umorismo.» Continuò a ridere per qualche istante, poi si mise gli occhiali sul naso. «Sono diversi i generali del KGB e della Stasi che sono venuti qui cercando di venderci informazioni sulle proprietà del KGB sparse per il mondo. Nomi di persone che hanno lavorato per loro.» «Mi pare che sarebbe una manna.»
«Forse, in senso storico» replicò lui, togliendosi gli occhiali e massaggiandosi il naso. «Ma a chi interessa più niente di qualche vecchio rosso sbiadito che trent'anni fa collaborava con un governo che ormai è defunto?» «Secondo me a qualcuno interessa ancora.» «Non c'è dubbio. Ma non è questo che importa a me. Qualche mese fa, durante uno dei nostri pranzi del mercoledì, ho sentito raccontare una storia su Vladimir Orlov.» «L'ex presidente del KGB?» «Per la precisione, l'ultimo presidente del KGB, prima che gli uomini di Eltsin gli facessero chiudere la baracca. Dove pensi che possa andare a finire un personaggio del genere una volta che gli sia stata tirata via la poltrona da sotto il sedere?» «In Paraguay? In Brasile?» Moore si lasciò sfuggire una risatina. «Diciamo che ha preferito evitare di starsene con le mani in mano nella sua dacia fuori Mosca ad aspettare che il governo decidesse di processarlo per avere fatto il suo lavoro al meglio delle sue capacità. È andato in esilio.» «Dove?» «Ecco il problema.» E Moore prese dal tavolo un fascio di fogli fermati con una graffa, porgendomelo: era la fotocopia di un cablo di un funzionario della CIA a Zurigo in cui si riferiva la comparsa in un caffè della Sihlstrasse di tale Vladimir I. Orlov, ex presidente del KGB sovietico. Era in compagnia di Sheila McAdams, assistente di Harrison Sinclair, direttore della CIA. La data del cablo risaliva a meno di un mese prima. «Non sono sicuro di capire» dissi. «Tre giorni prima della morte di Hal Sinclair, la sua assistente, oltre che - confido di non rivelarti niente che tu non sappia già - sua amante, Sheila McAdams, si è incontrata a Zurigo con l'ex capo del KGB.» «E allora?» «L'appuntamento era evidentemente stato organizzato dallo stesso Sinclair.» «Forse stavano portando avanti una qualche trattativa.» «Ovvio» replicò Moore in tono impaziente. «Il giorno seguente, però, il nome di Vladimir Orlov è scomparso dalla maggior parte delle banche dati della CIA, escluse quelle disponibili unicamente ai cinque o sei dirigenti di massimo livello. Dopo di che lo stesso Orlov è scomparso da Zurigo e non sappiamo dove sia andato. È come se avesse dato all'assistente di Hal
qualcosa in cambio della cancellazione del suo nome dai nostri sonar, dalle nostre possibilità di localizzazione. Ma non lo sapremo mai. Due giorni più tardi Sheila è stata uccisa in quel vicolo di Georgetown. E il giorno dopo Hal è morto in quel tremendo "incidente".» «E chi sarebbe stato a farli fuori?» «È proprio ciò che Truslow vorrebbe scoprire, caro Ben.» Quindi, visto che il fuoco si stava spegnendo, si mise ad attizzarlo. «Nell'Agenzia c'è agitazione, un'agitazione tremenda. Una spaventosa lotta per il potere.» «Tra chi?» «Senti... L'Europa è incasinata in un modo da far paura. Gran Bretagna e Francia sono malmesse e la Germania è praticamente in preda a una crisi economica. Lo spettro degli elementi nazionalisti in lotta fra di loro...» «Sì, ma che cosa c'entra?» «Si dice - sono soltanto ipotesi, te lo assicuro, ma formulate da ex membri dell'Agenzia che godono ancora di ottime connessioni - che certi elementi della stessa Agenzia siano riusciti a infiltrarsi nel caos europeo.» «Un'ipotesi piuttosto vaga, Ed.» «Sì» replicò, tanto bruscamente da stupirmi. «Certi elementi... infiltrarsi... Espressioni di comodo di cui ci serviamo quando sappiamo perfettamente che si tratta di palle. Sta però di fatto che diversi uomini ormai anziani, che dovrebbero passare il tempo a giocare a golf e a godersi qualche buon Martini-dry, sono spaventati. Alcuni miei amici, ex dirigenti, parlano di cifre enormi che starebbero passando di mano, a Zurigo...» «Nel senso che avremmo comperato Vladimir Orlov?» lo interruppi. «O che ci avrebbe comperato lui per ottenere protezione?» «Quello che conta non sono i soldi!» esclamò, mettendo in mostra una sfilata di denti perfettamente dritti e innaturalmente gialli. «E che cosa, allora?» «Lasciami dire soltanto che gli scheletri non hanno ancora cominciato a uscire dagli armadi. E quando succederà, la CIA potrebbe benissimo finire nella pattumiera della storia insieme al KGB.» Rimanemmo seduti alcuni istanti in silenzio. Stavo per replicare: «E sarebbe questa gran disgrazia?», quando vidi la sua espressione. Un viso bianco come il gesso. «Che cosa ne pensa Kent Atkins?» Rimase in silenzio mezzo minuto. «A dire il vero non lo so, Ben. Ha una paura tremenda. Ha chiesto a me che cosa pensavo stesse succedendo.» «E tu che cosa gli hai risposto?»
«Che qualsiasi cosa questi rinnegati dell'Agenzia stiano cercando di combinare in Europa non coinvolgerà soltanto gli europei, ma tirerà dentro direttamente anche noi. Tutto il mondo. E se penso al tipo di conflagrazione che ci aspetta mi vengono i brividi.» «In che senso?» Ignorò la mia domanda, rivolgendomi un sorrisetto mesto e scuotendo il capo. «Mio padre è morto all'età di novantuno anni, mia madre a ottantanove. Siamo una famiglia di gente longeva. Ma nessuno di loro ha dovuto combattere la Guerra Fredda.» «Non capisco. A che tipo di conflagrazione alludi, Ed?» «Sai, negli ultimi mesi del suo incarico tuo suocero era letteralmente ossessionato dal problema di salvare la Russia. Era convinto che se la CIA non avesse preso serie misure, a Mosca sarebbero prevalse le forze della reazione. Dopo di che la Guerra Fredda sarebbe diventata un dolce ricordo. Forse aveva scoperto qualcosa.» Poi strinse i piccoli pugni coperti di chiazze da fegatosi, premendoseli sulle labbra sporte in una smorfia. «Tutti noi che lavoriamo per la Central Intelligence corriamo qualche rischio. Il tasso di suicidi è piuttosto elevato, come sai bene.» Annuii. «E sebbene accada effettivamente piuttosto di rado che uno di noi rimanga ucciso in servizio, nondimeno capita.» La sua voce si era abbassata un po'. «E anche questo lo sai.» «Hai paura di correre il rischio di essere ucciso?» Un altro sorriso, uno scuotimento del capo. «Mi sto avvicinando agli ottanta. E non ho nessuna intenzione di vivere gli anni che mi restano con una guardia armata accanto al letto... ammesso che me ne forniscano una. Non vedo motivo di vivere chiuso in gabbia.» «Ma hai ricevuto qualche minaccia?» «Nessuna. È soltanto il quadro generale a preoccuparmi.» «Il quadro generale?...» «Dimmi una cosa. Chi sapeva che saresti venuto a trovarmi?» «Soltanto Molly.» «Nessun altro?» «No.» «C'è sempre il telefono.» Lo scrutai attentamente, chiedendomi se fosse vittima della paranoia, come negli ultimi anni di vita era successo a James Angleton. Ma, quasi
fosse in grado di leggermi nel pensiero, lui riprese: «Non preoccuparti per me, Ben. Ho le mie fissazioni. E certi miei sospetti potrebbero essere sbagliati. Se è scritto che debba capitarmi qualcosa, succederà. Ma avrò diritto di avere paura, no?». Non mi risultava che soffrisse di crisi isteriche, per cui la sua tranquilla paura mi innervosì. Riuscii semplicemente a replicare: «Forse esageri». Sorrise, un sorriso lento, triste. «Può darsi. Può darsi.» Allungò una mano per prendere una grossa busta gialla, facendola scorrere verso di me sopra il tavolo. «Questa roba me l'ha mandata un amico... Ovvero, meglio, l'amico di un amico.» Aperta la busta, ne estrassi una foto a colori stampata su carta lucida. Ci misi qualche secondo a riconoscere il volto che vi era ritratto, ma non appena l'ebbi messo a fuoco mi sentii rivoltare lo stomaco. «Gesù Cristo» esclamai. Ero sconvolto dall'orrore. «Mi spiace, Ben. Ma dovevi sapere. Questa foto elimina ogni dubbio in merito all'ipotesi che Hal Sinclair sia stato assassinato.» Rimasi lì con lo sguardo fisso, la testa che girava vorticosamente. «Alex Truslow» continuò Moore «potrebbe essere l'ultima opportunità che resta alla Compagnia, la migliore. Ha coraggiosamente cercato di ripulire la CIA da questo cancro - non trovo espressione migliore - da cui è afflitta.» «La situazione è così grave?» Moore fissò lo sguardo sull'immagine della stanza riflessa dai vetri bui delle portefinestre. Il suo sguardo sembrava perso nel nulla. «Sai, molti anni fa, quando Alex e io eravamo assistenti analisti a Langley, avevamo un supervisore che era impegnato a falsificare un accertamento, esagerando grossolanamente il pericolo rappresentato da un gruppuscolo dell'estrema sinistra italiana al fine di poter raddoppiare il proprio budget operativo. E Alex lo ha preso di petto obbligandolo a venire allo scoperto, anche se quello aveva due coglioni di acciaio. Alex aveva un tipo d'integrità che appariva fuori luogo, quasi stravagante, in una struttura cinica come l'Agenzia. Se ricordo bene, suo nonno era un pastore presbiteriano del Connecticut, ed è probabilmente da lui che ha ereditato questo tipo di ostinazione etica. E sai una cosa? Per questo la gente è arrivata a rispettarlo.» E così detto si tolse gli occhiali, chiudendo gli occhi e massaggiandoseli. «L'unico problema è che non sono sicuro che ne siano rimasti altri così. E se lo eliminano come hanno fatto con Hal Sinclair... Mah, chi può sapere che cosa potrebbe succedere?»
4 Quando finalmente andai a letto era mezzanotte passata da un pezzo. Era ormai troppo tardi per prendere l'ultima navetta per Logan, e Moore non aveva voluto sentirmi parlare di un albergo, viste le molte camere rimaste libere in casa sua ora che i figli se ne erano andati tutti. Quindi passai la notte nella sua comoda stanza per gli ospiti, al secondo piano, puntando la sveglia digitale sulle sei in modo da poter arrivare in ufficio a un'ora decente. Un'ora più tardi mi tirai a sedere sul letto, con il cuore che batteva furiosamente, e accesi la lampada sul comodino. La fotografia era sempre lì. "Molly non deve mai vederla" mi dissi. Poi mi alzai e, all'intensa luce giallastra della lampada, la infilai nella busta gialla, che chiusi in una tasca laterale, con cerniera lampo, della mia cartella. Spensi la luce, mi agitai e rivoltai per un po', finché cedetti, tornando ad accendere la luce. Non riuscivo a dormire. Di norma evito i sedativi, in parte per effetto dell'addestramento ricevuto presso l'Agenzia (bisogna essere sempre pronti a saltar fuori dal letto non appena necessario) e in parte perché, come avvocato specialista in diritto d'autore, l'ultima cosa che posso permettermi di giorno è uno stato di stordimento da psicofarmaci. Accesi il televisore e cercai qualcosa di adeguatamente soporifero. Di solito lo trovo sulla C-SPAN. Ma finii per sintonizzarmi sulla CNN dove era in onda un programma con ospiti intitolato Germania in crisi. Tre giornalisti stavano dibattendo la situazione tedesca, il crollo della Borsa in quel Paese e le conseguenti manifestazioni neonaziste. Sembravano essere d'accordo sul fatto che la Germania correva il rischio di soccombere a un'altra dittatura, il che avrebbe rappresentato una tremenda prospettiva per il mondo intero. Ed essendo giornalisti ne sembravano piuttosto sicuri. Uno di loro lo riconobbi immediatamente. Era Miles Preston, corrispondente di un giornale britannico. Guance rubizze, humour finissimo e, diversamente dalla maggioranza dei britannici di mia conoscenza, una mania addirittura fanatica per la forma fisica. Lo conoscevo dai tempi in cui lavoravo per l'Agenzia. Era brillante, sempre ben informato e godeva di connessioni straordinariamente buone, per cui rimasi ad ascoltarlo con grande attenzione. «Chiamiamo le cose con il loro nome» stava dicendo dallo studio di Washington della CNN. «I cosiddetti neonazisti che stanno dietro a tutta que-
sta violenza non sono altro, puramente e semplicemente, che i nazisti di una volta. Secondo me, questo momento storico lo stavano soltanto aspettando. Guardate... finalmente, dopo tutti questi anni, la Germania riesce a costituire una Borsa unificata, la Deutsche Borse, ed ecco che cosa succede: traballa fino a crollare, giusto?» Lo avevo conosciuto quando ero di stanza a Lipsia, subito dopo avere concluso l'addestramento presso la Fattoria. Mi sentivo solo: Laura era rimasta a Reston, in Virginia, per cercare di vendere la nostra casa in modo da potermi raggiungere. Io ero seduto da solo nella Thüringer Hof, sulla Burgstrasse, una piacevole, affollatissima cantina-birreria dell'Altstadt, e avevo probabilmente un'aria piuttosto mesta, attaccato al mio immenso boccale di birra. Avevo visto una persona in piedi davanti a me, chiaramente un occidentale. «Ha l'aria di annoiarsi» aveva detto, con accento britannico. «Niente affatto» avevo replicato. «Dopo aver bevuto quanto basta di questa roba, qualsiasi persona può sembrare interessante.» «In questo caso,» aveva detto Miles Preston «posso unirmi a lei?» Avevo risposto con un'alzata di spalle. Sedutosi al mio tavolo, mi aveva chiesto: «Americano? Diplomatico, o roba del genere?». «Dipartimento di Stato» avevo risposto. La mia copertura era infatti l'attività di addetto commerciale. «Io lavoro per l'Economist. È qui da tanto?» «Circa un mese» avevo risposto. «E non vede il momento di andarsene.» «Mi sto un po' stancando dei tedeschi.» «Per quanta birra lei possa bere» aveva precisato. «E quanto rimarrà, ancora?» «Un paio di settimane. Poi vado a Parigi. Dove non ne posso più di arrivare. I francesi mi sono sempre piaciuti.» «Oh,» aveva ribattuto «sono semplicemente dei tedeschi che cucinano bene.» Avevamo simpatizzato, per cui, prima che io fossi trasferito a Parigi, ci eravamo visti diverse volte per bere qualcosa o cenare insieme. Sembrava prendere per buona la mia copertura di funzionario del Dipartimento di Stato, o in ogni caso non l'aveva mai messa in discussione. Forse sospettava che lavorassi per l'Agenzia, ma non saprei dire. In un paio di occasioni in cui mi ero trovato a cena con alcuni colleghi del servizio presso l'Auberbach Keller, uno dei pochi ristoranti rispettabili della città, molto noto
agli stranieri, l'avevo visto entrare, senza tuttavia avvicinarsi, pur avendomi notato, forse avvertendo che non avevo intenzione di presentarlo agli altri. Di lui mi piaceva proprio questa caratteristica, ovvero il fatto che, pur essendo un giornalista, non cercava mai di carpire qualche informazione o di fare domande imbarazzanti su quali fossero veramente i motivi che mi trattenevano a Lipsia. Poteva usare un linguaggio esplicito ai limiti della scurrilità - motivo di grande divertimento tra noi due -, ma al tempo stesso era capace di un tatto straordinario. Facevamo più o meno lo stesso lavoro, ed è probabilmente per questo che provavo simpatia per lui. Eravamo entrambi impegnati a scovare e raccogliere informazioni: l'unica differenza consisteva nel fatto che io agivo nell'ombra. Sollevai la cornetta del telefono. Era l'una e mezzo di notte, eppure qualcuno dagli studi di Washington della CNN rispose, senza dubbio un giovane dipendente di basso livello, fornendomi le informazioni di cui avevo bisogno. Ci incontrammo per una prima colazione anticipatissima al Mayflower. Miles Preston mi apparve cordiale e pieno di fascino come me lo ricordavo. «Ti sei risposato?» mi chiese alla seconda tazza di caffè. «Mio Dio! Mi domando come tu abbia fatto a sopravvivere a quello che è capitato a Laura a Parigi...» «Sì,» lo interruppi «mi sono sposato con una donna che si chiama Martha Sinclair. Una pediatra.» «Un medico, eh? Potrebbe essere un guaio, Ben. Una donna dev'essere tanto in gamba da capire quanto è in gamba il marito e tanto stupida da essere piena di ammirazione per lui.» «Per i miei gusti forse è persino troppo in gamba. E tu, Miles? Se non ricordo male, ai tempi avevi un giro regolare di donne.» «Mai compiuto il deplorevole passo. Oh, insomma, se si potesse cadere tra le braccia di una donna senza cadere nelle sue grinfie, eh?» Ridacchiò un attimo e fece cenno al cameriere che gli portasse una terza tazza di caffè. «Sinclair,» mormorò «Sinclair... Non avrai sposato la figlia del capocommesso della Compagnia, vero? Non sarà la figlia di Hal Sinclair?» «Proprio lei.» «Allora ti prego di accettare le mie condoglianze. Dì, è... è stato assassinato?» «Sottile come sempre, Miles. Perché me lo chiedi?»
«Mi spiace, perdonami... Ma, con il mestiere che faccio, non posso trascurare le voci.» «Be', io speravo proprio che potessi essere tu a fornirmi qualche lume in merito» replicai. «Non ho idea se sia stato ucciso o meno. Ma non sei il primo a farmi balenare la possibilità, però secondo me non ha senso. Per quanto ne so, mio suocero non aveva nemici personali.» «Ma questa vicenda non bisogna pensarla in termini di fatti personali quanto piuttosto di politica.» «Cioè?» «Hal Sinclair era notoriamente un caloroso sostenitore di aiuti alla Russia.» «E allora?» «C'è un sacco di gente contraria.» «Certo» convenni. «Moltissimi americani si oppongono all'idea di buttare soldi ai russi, soldi buoni per un fine cattivo, eccetera. Specialmente in un periodo di situazione economica piuttosto difficile.» «Non è questo che intendevo dire. Ci sono persone - no, Ben, definiamole forze - che vogliono un crollo totale della Russia.» «Che tipo di forze?» «Pensaci un attimo: l'Europa dell'Est è un disastro totale. È piena di risorse naturali ma messa in difficoltà dal dissenso. Molti europei dell'Est hanno già dimenticato lo stalinismo e anelano a una nuova dittatura. Quindi la situazione è matura per essere colta. Non è forse stato Voltaire a dire: "Il mondo è un vasto tempio dedicato alla discordia"?» «Non seguo fino in fondo la tua logica.» «La Germania, amico. La Germania. L'onda del futuro. Noi stiamo per assistere alla nascita di una nuova dittatura tedesca. E non arriverà per caso, Ben. E da un bel po' che la si sta progettando. .. e da parte di gente che non vuole affatto vedere una Russia rivitalizzata, rimessa in forze. Pensa al modo in cui la rivalità nazionale tra Germania e Russia ha portato alle due guerre mondiali di questo secolo. Una Russia forte garantisce una Germania debole. Forse - dico forse - tuo suocero, un forte sostenitore di una Russia forte e democratica, intralciava simili piani. A proposito, chi si pensa che gli succederà?» «Truslow.» «Uhm. Un bel rompiscatole, il nostro Alex, no? Non esattamente amato dalle vecchie lenze. Non mi sorprenderei se facesse un capitombolo anche lui. Be', ho una partita di squash. Poiché sono scapolo, devo tenermi in
forma, come puoi ben capire. Ultimamente le vostre dame americane sono diventate molto esigenti.» Un'ora più tardi, al National Airport, subito prima di imbarcarmi sulla navetta per Boston, lasciai un messaggio nell'ufficio di Alexander Truslow, dichiarandomi disposto a un incontro. 5 Il taxi, una sgangherata automobile senza la maniglia alla portiera di destra e guidata da un individuo al limite della psicosi, raggiunse il palazzo del mio ufficio alle nove e un quarto. Un altro taxi mi aveva portato dall'aeroporto a casa, dove mi ero cambiato senza incontrare Molly, ancora al lavoro. Ero in ritardo soltanto di un quarto d'ora. Darlene mi fissò con uno sguardo implacabile, dicendomi: «Lei aveva un appuntamento alle nove, o se n'è dimenticato?». «Sono stato trattenuto a Washington» risposi. «Per lavoro. Le spiace richiamare il cliente, con le mie scuse, e fissare un nuovo appuntamento?» «E Sachs? Ha aspettato circa mezz'ora.» «Merda! Le spiace darmi il suo numero? Lo chiamo di persona.» «E poi» aggiunse lei, porgendomi un memorandum rosa «ha telefonato Molly. Ha detto che è una cosa urgente.» Mi chiesi che cosa potesse esserci di così urgente perché Molly dovesse telefonarmi a quell'ora, in cui di norma è di turno all'ospedale. «Grazie» risposi, entrando nel mio ufficio, passando accanto alle ventiquattro Big Baby Doli alte poco meno di un metro e lasciandomi cadere nella poltrona in pelle. Rimasi lì un attimo immerso nei miei pensieri, valutando l'opportunità di chiedere a Darlene di rimandare l'appuntamento incombente, quindi feci il numero del cercapersone di Molly. Nessuna risposta. Lasciai un messaggio alla segreteria. Avevo da fare, e parecchio, e la situazione era ulteriormente aggravata dal mio ritardo, ma non ero in condizioni di concentrarmi. Sollevai la cornetta per chiamare l'ufficio di Bill Stearns, ma poi cambiai idea, rimettendola a posto. L'appuntamento con Truslow era fissato per il mattino dopo, ma lui probabilmente lo sapeva già. Posseggo una di quelle sculture componibili in aghi che è impossibile descrivere a chi non le abbia viste, "giochi per manager" vengono definiti. Impressi la sagoma del mio palmo su centinaia di capocchie, quindi ammi-
rai per un attimo la scultura tridimensionale che ne era sortita. L'altro gioco dello stesso genere è un canestro elettronico da basket su un tabellone in materiale acrilico di aspetto scivoloso, montato sulla parete di fronte. Vi tirai contro la palla bianca e nera in finto cuoio centrandolo alla perfezione, con il risultato di evocare una febbrile voce elettronica che annunciò «Splendido tiro!», seguita da un formidabile boato preregistrato di acclamazioni. Molto fuori posto, in quel severo studio. «De nada» risposi. Altri dieci minuti e ancora nessuna chiamata da parte di Molly. Sentii picchiettare sul montante della porta e vidi entrare Bill Stearns, con i suoi mezzi occhiali da lettura. «Devo vedermi con Truslow» gli dissi. Poi mi interruppi, guardandolo attentamente. «Alex ne sarà molto contento.» «Mi fa piacere. Ma non ho ancora deciso niente. Ho semplicemente accettato di parlare con lui.» Stearns inarcò i sopraccigli, perplesso. «Quanto renderebbe questo affare alla ditta?» chiesi. Lui me lo disse. «Però la mia parte la vedrei soltanto alla fine dell'anno, vero?» aggiunsi. «Una volta calcolati i profitti. No?» I sopraccigli di Stearns si arruffarono. «Dove vuoi arrivare, Ben?» «Be', Truslow vuole che io lo rappresenti legalmente... e succede che io abbia un bisogno piuttosto impellente di soldi freschi.» «E allora?» «Voglio che paghi me. Direttamente. In anticipo.» Stearns si tolse gli occhiali, piegandoli con una rapida torsione del polso e rimettendoseli nel taschino della giacca. «Questo, Ben, è...» «Si può fare. Vedrò Truslow, mi metterò d'accordo con lui, e per la mia parcella lui fa un bonifico di sei cifre direttamente sul mio conto. A quel punto l'affare è combinato.» Prima di stringermi la mano, Stearns ebbe una breve esitazione. «Sei un bel figlio di puttana. Ogni tanto me ne dimentico. D'accordo, Ben, affare fatto.» Fu sul punto di andarsene, poi tornò indietro. «Che cos'è stato a farti cambiare idea?» Ed entrò nel mio ufficio, mettendosi comodo in una delle tipiche poltrone in pelle "per i clienti" e incrociando le gambe. «Potrei leccare un po' e dirti che è stata la tua capacità di persuasione» risposi.
Sorrise. «Oppure?» «Mi va bene leccare» risposi, con un mezzo sorriso. Quindi premetti il palmo aperto sulla scultura in aghi, creando una replica tridimensionale da cyborg della mia mano. «Senti» continuai dopo un attimo, proprio mentre lui si accingeva di nuovo a lasciare il mio ufficio. «Ieri sera ho fatto una chiacchierata con un vecchio amico dell'Agenzia.» Lui annuì, fissando uno sguardo vacuo a mezza distanza. «Sta indagando sulla morte di Hal Sinclair.» «E allora?» replicò, dopo avere sbattuto ripetute volte le ciglia. «È convinto che c'entri in qualche modo il KGB.» Stearns si sfregò gli occhi con entrambe le mani, gemendo: «I vecchi leoni della Guerra Fredda non rinunciano molto facilmente alle loro idee visionarie, eh? Il KGB e l'Impero del Male, ai tempi, sono stati dei veri farabutti, di prim'ordine. Ma ormai il KGB non esiste più da alcuni anni. E anche quando c'era, non si sporcava le mani assassinando direttori della Central Intelligence». Valutai l'opportunità di mostrargli la foto che mi era stata consegnata da Ed Moore, ma proprio in quel momento il cicalino del telefono si mise a ronzare. «È Molly» mi disse dall'altro capo la voce di Darlene, metallica, piatta. «Molly...» attaccai. Stava piangendo, le sue parole erano impastate, quasi incomprensibili. «Ben... è successa una cosa tremenda...» Mi precipitai nel corridoio, verso l'ascensore, infilandomi il soprabito mentre correvo. Passai accanto a Bill Stearns, già ingobbito in una conversazione con Jacobsen, un nuovo associato. Alzò lo sguardo, gettandomi un'occhiata rapida, penetrante, acuta. Come... Quasi come se sapesse. 6 Mille anni fa pare che la CIA mi abbia sottoposto a un periodo di sei mesi di addestramento di base presso la cosiddetta "Fattoria" - ovvero Camp Peary, in Virginia -, nel cui corso avrei imparato tutto, da come si falsifica un passaporto a come si pilota un piccolo aereo a come si fa fuoco con una pistola da un'auto in movimento. Uno degli istruttori incaricati di insegnarci il mestiere aveva distrattamente buttato là che avremmo imparato le nere arti dello spionaggio così a fondo che a suo tempo ci sarebbero
tornate automatiche, quasi istintive. Per quanto potessimo essere colti di sorpresa, anche dopo anni, il nostro corpo avrebbe saputo come reagire un attimo esatto prima del nostro cervello. Non ci avevo creduto. E dopo tutto quel tempo, vissuto nei panni dell'avvocato, ero sicuro che il mio istinto doveva essersi ormai appannato. Non parcheggiai la Acura nel nostro posto auto dietro casa ma a un isolato e mezzo di distanza, in Commonwealth Avenue. Perché? Istinto, immagino, le abitudini radicate nel mio intimo dal tempo passato sul campo. Molly aveva scoperto qualcosa che l'aveva sconvolta terribilmente, qualcosa di cui non poteva parlare al telefono. Tutto lì, però... Mi precipitai nel vicolo che correva dietro il nostro complesso di case a schiera, raggiungendo l'ingresso posteriore della mia e fermandomi davanti alla porta prima di tirare fuori la chiave. Poi entrai, salendo furtivamente la scaletta in legno del retro, immersa nell'oscurità. Nient'altro se non i normali rumori della casa... l'acqua calda che correva nelle tubature, il frigo che ripartiva, il ronzìo delle innumerevoli apparecchiature meccaniche in funzione. Ansiosamente, il corpo teso, entrai nel locale lungo e basso che un giorno sarebbe diventata la nostra biblioteca, ma che per il momento era chiuso. Le scaffalature alte fino al soffitto erano vuote, la vernice a olio non era ancora asciugata del tutto essendo stata applicata soltanto il giorno prima da Frank, l'imbianchino. Stavo per avvicinarmi alla scala interna, per salire in camera da letto, quando, con la coda dell'occhio, notai qualcosa. Molly e io avevamo ammucchiato i libri divisi per argomento, pronti per essere sistemati negli scaffali non appena fossero stati agibili. Erano posati in pile ordinate a ridosso di una parete, coperti da un telo di plastica trasparente. E lì accanto, anch'essi coperti con un telo, c'erano i classificatori in quercia che avevo messo in ordine qualche anno prima, riempiendoli con i nostri dossier personali. Qualcuno li aveva fatti passare a uno a uno. Erano stati ispezionati, in maniera esperta ma non senza lasciare tracce. I teli erano stati sollevati e rimessi a posto malamente, tanto che adesso avevano la parte macchiata di vernice rivolta verso l'interno e non verso l'esterno. Mi avvicinai. I libri, anche se ancora in pile ordinate, erano sistemati in modo diverso.
Sembrava tuttavia che non fosse stato portato via niente; la copia firmata del libro di Allen Dulles era sempre lì. Ma a un esame più attento mi accorsi che i nostri dossier erano in un ordine completamente diverso, alcune targhette erano girate al contrario, i documenti universitari di Molly erano al posto dei miei. Comunque, a prima vista, non sembrava mancare niente. Qualcuno aveva semplicemente rovistato tra la nostra roba. Quel qualcuno voleva che me ne accorgessi. Erano entrati in casa e avevano frugato tra le nostre cose, risistemandole poi a casaccio, in modo che me ne accorgessi. A che scopo? Un avvertimento? Con il cuore che batteva più in fretta, mi precipitai su per la scala, trovando Molly in camera da letto, rannicchiata in posizione fetale al centro del nostro immenso lettone king size. Era ancora in tenuta da lavoro, gli indumenti che si mette sempre per andare in ospedale - gonna grigia pieghettata, golf in cashmere color salmone -, ma i capelli, di norma tirati indietro, erano scarmigliati. Vidi che aveva il vecchio medaglione con cammeo che le aveva regalato suo padre. Era appartenuto a sua madre dopo essere passato di mano in mano per diverse generazioni delle due famiglie. Credo fosse convinta che portava fortuna. «Tesoro?» Mi avvicinai. Il trucco degli occhi era tutto sbavato, piangeva da molto tempo. Le posai la mano sulla nuca, che era umida e caldissima. «Che cos'è successo?» chiesi. «Che cosa c'è?» Serrata al petto teneva la busta gialla. «Dove l'hai presa?» Sconvolta, la voce tremante, riusciva a stento a parlare. «La tua cartella» continuò. «Quella dove tieni i conti. Questa mattina, stavo cercando la bolletta del telefono...» Con un tremendo senso di orrore mi ricordai che quel mattino, tornato a casa, aveva proceduto a un cambio di borse. Molly aprì gli occhi, cerchiati di rosso. «Sono uscita dal lavoro un paio d'ore prima, grazie a Burton, e ho deciso di mettermi a riposare un po'» continuò lentamente. «Ma non riuscivo a dormire. Ero troppo agitata. Allora ho deciso... di provvedere a saldare qualche conto, ma non trovavo la bolletta del telefono. Così ho guardato nella tua cartella e...» La foto che adesso avevo in mano io era quella di suo padre, dopo la
morte. Una morte sui cui tremendi particolari avevo cercato di mantenerla il più possibile ignara. Il corpo di Harrison Sinclair era così terribilmente ustionato che non si era neanche parlato di tenere aperta la bara; oltre alle tremende mutilazioni provocate dall'esplosione del serbatoio, il collo si era quasi staccato (al momento dell'impatto, mi aveva spiegato il patologo del tribunale). Non ritenevo opportuno che la figlia lo vedesse in quelle condizioni, preferivamo entrambi che se lo ricordasse com'era l'ultima volta che ci eravamo incontrati tutti e tre insieme: sano, entusiasta e forte. Ricordo che, vedendo ciò che ne rimaneva all'obitorio di Washington, avevo pianto. Un'esperienza che non era certamente il caso di far affrontare a Molly. Ma lei aveva insistito. Era un medico, aveva detto, aveva visto tante mutilazioni. Ma un padre è un fatto completamente diverso. Lo spettacolo le aveva provocato, come ovvio, un profondo trauma. Per quanto il corpo di Hal potesse essere straziato, lo aveva riconosciuto, indicando il cuoricino azzurro sbiadito che portava tatuato sulla parte alta di una spalla (se l'era fatto fare a Honolulu in una notte di ubriachezza durante il servizio militare, nella seconda guerra mondiale), l'anello del suo corso di college, il neo sul mento. Dopo di che era crollata. Tuttavia la foto consegnatami da Ed Moore era stata scattata dopo la morte di Hal, ma prima dell'incidente automobilistico. Era la prova del suo assassinio. Una posa a mezzo busto, Hal Sinclair con gli occhi ben aperti e fissi, quasi ardenti d'indignazione. Le labbra, di norma pallide, erano un po' aperte, quasi fosse in procinto di dire qualcosa. Ma era inequivocabilmente morto. Sotto la linea della mascella, da orecchio a orecchio, si apriva una sorta di orrido sorriso, da cui sporgeva tessuto corporeo rosso e giallo. Il collo era stato squarciato da una carotide all'altra. Una procedura che conoscevo bene: ci era stato insegnato a riconoscerla a prima vista. La ferita inferta con un unico colpo rapido, provocando un improvviso abbassamento della pressione sanguigna nel cervello. Per la vittima era come se qualcuno avesse chiuso improvvisamente l'acqua. Crollava a terra quasi subito. E loro avevano fatto così. Avevano assassinato Hal Sinclair e poi, per qualche inesplicabile motivo, avevano scattato quella foto. Dopo di che lo avevano ficcato su un'auto e... Loro.
Avevo naturalmente capito subito chi fossero. Nel mestiere, una simile procedura veniva indicata come un omicidio "firmato", ovvero con le "impronte digitali", era il modo di ammazzare preferito da un gruppo preciso, od organizzazione. Lo squarcio da orecchio a orecchio era una specialità dell'ex servizio segreto della Germania Orientale, il Ministerium fùr Staatssichereit, anche noto come Staatssicherheitsdienst. La Stasi. Quel tipo di esecuzione era la loro firma, e la foto era il loro biglietto da visita. Ma il biglietto da visita di un servizio segreto che non esisteva più. 7 Molly piangeva in silenzio, le spalle scosse da tremiti, e io la tenevo stretta. La baciai sulla nuca, parlandole a bassa voce. «Oh, Molly. Mi spiace che tu l'abbia vista.» Lei afferrò il cuscino con entrambe le mani, premendoselo contro il viso fino a smorzare la propria voce. «È un incubo. Che cosa gli hanno fatto!» «Chiunque sia stato, Molly, li prenderanno, li prendono quasi sempre. Anche se so che non è una consolazione.» E non ci credevo nemmeno, ma mia moglie aveva bisogno di sentirsi dire queste poche parole. Tuttavia, non le parlai dei miei sospetti che la casa fosse stata perquisita. Poi si voltò, cercando il mio viso con lo sguardo. Mi sentii stringere il cuore. «Chi è stato, Ben? Chi?» «Chiunque occupi una carica pubblica è suscettibile di entrare nel mirino di qualche pazzo, specialmente se si tratta di una carica delicata come quella di direttore della CIA.» «Ma... quella foto significa che papà è stato ucciso prima, vero?» «Molly, il mattino del giorno in cui è stato ucciso gli hai parlato.» Tirò su con il naso, allungando una mano per prendere un fazzolettino di carta. «In mattinata» rispose. «E hai detto che nella vostra conversazione non c'era stato niente di insolito.» Scosse il capo. «Ricordo» rispose in tono distante «che si è lamentato di una lotta intestina per il potere nell'Agenzia, di cui però non poteva spiegarmi molto. Ma per lui era una cosa normale. È sempre stato convinto che la CIA fosse una struttura impossibile da tenere sotto controllo. Credo che
volesse soltanto informarmi del fatto, senza però aggiungere un particolare, come al solito.» «E poi?» «Be', direi che non c'è altro. Sospirava. E ha aggiunto... anzi, no, si è messo a canticchiare: "Gli stupidi si precipitano là dove i saggi non vanno mai". Con la sua vociacela.» «È una canzone di Sinatra, vero?» Annuì, serrando le labbra. «La sua preferita. Detestava l'uomo ma gli piaceva la sua musica. Un sentimento non esattamente profondo. Comunque, da piccola, me la cantava sempre quando mi metteva a dormire.» Mi alzai dal letto, portandomi davanti allo specchio e raddrizzandomi la cravatta. «Torni in studio, Ben?» «Sì, mi spiace.» «Ho paura.» «Lo so. E ce l'ho anch'io, un pochino. Telefonami di nuovo... quando vuoi.» «Hai intenzione di accettare l'incarico di Alex Truslow, vero?» Mi sistemai il bavero e mi feci scorrere un pettine tra i capelli, senza rispondere. «Ne parliamo dopo» dissi infine. Mi guardò con un'espressione strana, come se stesse cercando di decidere qualcosa, poi replicò: «Com'è che non parli mai di Laura?». «Io non...» feci per replicare. «No... senti... lo so che ti provoca un dolore intollerabile, lo so. Non voglio certamente stare a recriminare su una questione del genere, credimi. Ma, visto quello che è successo a papà... Insomma, Ben, voglio soltanto sapere se la decisione di metterti a lavorare con Truslow ha qualcosa a che vedere con la maniera in cui è stata uccisa Laura, se è una specie di tentativo di aggiustare le cose o...» «Molly» replicai a voce molto bassa, in tono di rimprovero. «Basta.» «Va bene» rispose. «Hai ragione.» Si era evidentemente messa in testa qualcosa, anche se in quel momento non sapevo che cosa potesse essere. Quel giorno mi scoprii a pensare parecchio a Harrison Sinclair. Uno dei ricordi più vecchi che avevo di lui era quando mi aveva raccontato una barzelletta sporca. Era un uomo di alta statura, snello, elegante, con un gran ciuffo di capel-
li bianchi, chiaramente un ex sportivo (aveva fatto canottaggio ad Amherst). Era un uomo piacevole, ricco di fascino, al tempo stesso pieno di dignità e capace di scherzare. A quei tempi ero al college, uno dei soli tre studenti di Harvard (oltre che l'unico non laureato) iscritti a un seminario del MIT sulle armi nucleari. Un lunedì, entrato nell'aula, avevo notato la presenza di un visitatore, un uomo anziano, alto, ben vestito. Stava seduto dietro la cattedra, in tutto simile a una bara, e ascoltava senza dire niente. Immaginai che fosse un amico del docente, e così infatti era. Soltanto più tardi appresi che Hal, allora numero tre della CIA nella sua veste di direttore per le operazioni, era a Boston per coordinare un'operazione di spionaggio, al di là di quella che veniva definita la Cortina di Ferro, che coinvolgeva alcuni membri del corpo accademico del MIT. Quel giorno dovevo presentare una mia ricerca sull'erroneità della politica nucleare americana basata sulla MAD (Mutual Assured Destruction), la distruzione reciproca assicurata. Una fatica molto scolastica, ricordo. L'elaborato si concludeva con la sciocca considerazione secondo cui la MAD, sarebbe stata «una vera MADness». Una vera follia. Anche se a dire il vero sono poco generoso con me stesso: in realtà, quello studio rappresentava un rispettabilissimo tentativo di perorare la destinazione di risorse pubbliche alla strategia nucleare di Unione Sovietica e Stati Uniti. Terminata l'esposizione, il visitatore dall'aspetto così distinto si era presentato, stringendomi la mano e dicendomi quanto fosse rimasto favorevolmente impressionato. Eravamo andati avanti a chiacchierare per un po', finché il vecchio non aveva pensato bene di tirare fuori nientemeno che una barzelletta sulle armi nucleari. Ed era stato a quel punto che dalla porta dell'aula avevo visto entrare la mia amica Molly Sinclair. Ci eravamo salutati, entrambi stupiti di incontrarci fuori dello Harvard Yard. Hal ci aveva portato a pranzo alla Maison Robert, in School Street, nell'Old City Hall (dopo di allora Molly e io vi abbiamo cenato esattamente una sola volta, quando le ho chiesto di sposarmi. La sua risposta è stata: «Devo pensarci»). Avevamo bevuto parecchio e riso altrettanto. Hal ci aveva raccontato un'altra storiella scollacciata e Molly era arrossita. «Voi due dovreste mettervi assieme» le aveva finalmente detto, sottovoce ma non abbastanza perché io non sentissi. «È un ragazzo magnifico.» Lei era arrossita ancora di più, facendosi quasi di porpora. Sentivamo un'evidente attrazione reciproca, ma il nostro rapporto non si sarebbe concretizzato se non diversi anni più tardi.
«È un piacere rivederla» disse Alexander Truslow. Il giorno seguente, lui, Bill Stearns e io eravamo convivialmente seduti al Ritz-Carlton. «Però devo confessare di essere un po' sorpreso. Quando ci siamo conosciuti, al funerale di Hal Sinclair, mi sembrava di avere avvertito una totale mancanza d'interesse da parte sua.» Indossava un altro elegante completo su misura, stazzonato come di consueto. L'unico elemento stravagante del suo abbigliamento era il farfallino, piccolo, distinto, blu scuro e annodato male. Io mi ero messo il mio vestito migliore, un completo grigio oliva spento a quadretti, comperato presso l'Andover Shop di Harvard Square. Credo che fosse nelle mie intenzioni fare colpo sul vecchio. Mi puntò addosso uno sguardo mesto, mentre imburrava un cornetto fresco di forno. «Immagino che lei sia al corrente della mia breve carriera nei servizi segreti» dissi. Annuì. «Bill mi ha informato. So che c'è stata una tragedia, e che lei è stato completamente scagionato.» «Così pare, già» mormorai. «Ma è stato un momento terribile, che ha lasciato un brutto segno.» «È stato un momento di cui non parlo molto» replicai. «Mi spiace. E per questo motivo che lei ha lasciato la Compagnia, vero?» «È per questo motivo» precisai «che ho abbandonato ogni tipo di attività in quell'ambito... per sempre. L'ho giurato solennemente a mia moglie.» Lui posò il cornetto imburrato senza prenderne nemmeno una briciola. «E anche a se stesso.» «Sì.» «Allora dobbiamo parlare con franchezza. È al corrente di che cosa si occupa la mia società?» «Vagamente» risposi. «Be', siamo una società di consulenze internazionali. Credo sia la definizione migliore. E uno dei nostri clienti, come lei certo sa, è... il suo precedente datore di lavoro.» «Che di consulenze ha un bisogno tremendo» commentai. Lui scrollò le spalle, con un sorriso. «Senza dubbio. Lei ovviamente capisce che ciò che le sto dicendo è soggetto ai vincoli del rapporto avvocato-cliente.»
Al mio cenno, proseguì. «Per diverse ragioni, capita che la CIA abbia bisogno dell'assistenza di un'organizzazione esterna, che abbia sede ben al di fuori della Beltway. E sembra che per vari motivi - forse connessi con il fatto che ho passato tanto tempo nell'Agenzia da diventare praticamente un componente dell'arredamento - quelli che comandano a Langley si siano fidati ad assegnare questo lavoro a me.» Presi un cornetto, ormai freddo, e ne staccai un morso. Mi ero accorto che Truslow evitava con cura di usare l'espressione «CIA». «Ah, sì, naturale» interloquì Stearns, mettendogli una mano sulla spalla. «Che falsa modestia.» Quindi, rivolto a me, aggiunse: «Lo sai che Alex è nella rosa dei candidati alla carica di direttore, vero?». «Certo» risposi. «Dev'esserci una notevole scarsità di candidati qualificati» replicò Truslow. «Staremo a vedere. Ma, come dicevo, la Truslow Associates è impegnata in una serie di progetti in cui, per questo o quel motivo, Langley preferisce non essere direttamente coinvolta.» «Sai bene come l'attività di controllo del Congresso e roba simile possano intralciare il lavoro dei servizi» interloquì di nuovo Stearns. «Specialmente adesso che la questione russa è fuori gioco.» Sorrisi cortesemente. Era un argomento di conversazione piuttosto comune nell'Agenzia, di norma tra coloro che avrebbero preteso che alla CIA fosse concessa la libertà di fare tutto ciò che voleva, tipo servirsi di sigari esplosivi per sistemare Fidel Castro e assassinare i dittatori del Terzo Mondo. «Esattamente» riprese Truslow, abbassando la voce. «La "questione russa", come ha detto Bill, ovvero il crollo dell'Unione Sovietica, ci ha creato una serie di problemi singolari.» «Certo» replicai. «In assenza di un nemico, la CIA a che cosa serve? E, di conseguenza, a che cosa servirebbe la stessa Corporation?» «Non è proprio così» ribatté Truslow. «Di nemici ce ne sono moltissimi, quindi, purtroppo, di una CIA ci sarà sempre bisogno. Una CIA riformata, certo, una CIA migliore. Può anche darsi che il Congresso in questo momento non se ne renda ancora conto, ma a tempo debito se ne accorgerà senz'altro. Come lei sa, l'Agenzia si sta riorganizzando, concentrando molto di più la propria attività sullo spionaggio economico e industriale. Per difendere le aziende americane da quei Paesi stranieri che cercano di carpire i loro segreti industriali. Ed è proprio in quell'ambito che si svolgeranno le vere battaglie del futuro. Lo sa che poco prima di morire Harrison Sin-
clair aveva stabilito un contatto con l'ultimo presidente dell'ex KGB?» «Tramite Sheila McAdams» risposi. Si interruppe un attimo, la bocca atteggiata a una smorfia, sorpreso. «Infatti... Ma pare che anche lui si trovasse in Svizzera. Con Orlov si sono incontrati sia Sheila sia Hal. Ripensi agli ultimi spasimi mortali dell'impero sovietico, il tentativo di colpo di Stato dell'agosto 1991. È stato a quel punto che la vecchia guardia ha capito che il gioco era chiuso. La burocrazia del partito comunista era già a pezzi, l'Armata Rossa aveva fatto il voltafaccia e si era schierata con Eltsin, in quel momento visto se non altro come l'unica speranza di salvare la Russia. E il KGB...» «Che aveva organizzato il colpo di Stato» interloquii. «Già. Ne è stato l'organizzatore, la mente, anche se non c'è di che esserne orgogliosi, visto com'è fallito. Comunque il KGB sapeva di essere destinato a venire chiuso nel giro di qualche settimana, di qualche mese, al massimo. «È stato in quel momento che la Compagnia ha cominciato a guardare con particolare attenzione alla Lubianka per vedere se avrebbe accettato la propria inevitabile condanna a morte...» «Oppure fatto fuoco e fiamme per evitare che le venisse tagliata la corrente» conclusi. «Ben detto» consentì Truslow. «In ogni caso, è stato a quel punto che l'Agenzia ha cominciato ad accorgersi che era in corso un invio particolarmente intenso di "valigie" diplomatiche. Cannonate di sacchi di posta e cartoni, per essere esatti, trasferiti da Mosca all'ambasciata sovietica di Ginevra. Destinatario e richiedente, il residente locale del KGB.» «Vi prego di scusarmi» lo interruppe Bill Stearns, alzandosi. «Devo tornare in studio.» E, stretta la mano a Truslow, se ne andò. Capii che stavamo venendo al dunque. «Sappiamo che cosa fosse la roba spedita?» «In realtà no» rispose Truslow. «Ma qualcosa di valore, immagino.» «Ed è per questo che le occorre il mio aiuto?» Lui annuì. E staccò un morso dal suo cornetto. «In che modo, esattamente?» «Indagini.» Tacqui un attimo, riflettendo. «Perché proprio io?» «Perché...» e Truslow abbassò la voce, continuando: «Perché dei ragazzi di Langley non mi posso fidare. Ho bisogno di un esterno... uno che conosca bene l'Agenzia ma che non abbia più alcun rapporto con essa». E così
detto fece una lunga pausa, come se si stesse chiedendo fino a che punto avrebbe potuto spingere la propria franchezza. Finché scrollò le spalle. «Sono nei pasticci. Non so più di chi mi posso fidare dentro l'Agenzia». «In che senso?» Ebbe un'esitazione. «A Langley la corruzione è dilagante, Ben. Ne avrà sentito parlare...» «Qualcosa, sì.» «Be', le cose stanno molto peggio di quanto lei possa immaginare. Siamo al livello della criminalità, dell'attività scopertamente delittuosa.» Mi venne in mente l'avvertimento di Ed Moore: «Nell'Agenzia c'è parecchia agitazione... Una tremenda lotta per il potere... Enormi somme di denaro che cambiano di mano...». Sul momento mi erano parse le previsioni esageratamente fosche, irrazionali, di un uomo che era del mestiere da troppo tempo. «Mi servono informazioni più specifiche» incalzai. «E le avrà» rispose Truslow: «Anche più di quante possano servirgliene. Esiste un'organizzazione... un gruppo di secondo livello, un consiglio di anziani... Ma sono cose di cui non si deve parlare qui.» Era arrossito. Scosse la testa. «Ma che cosa c'entra Hal Sinclair con queste spedizioni?» chiesi. «Il mistero è proprio lì. Nessuno sa perché si sia incontrato con Orlov, né perché abbia agito con tanta segretezza. E nemmeno, per l'esattezza, quale fosse l'oggetto dell'accordo. Finché qualche tempo fa non ha cominciato a circolare la notizia - voci - che Hal si sarebbe appropriato di un bel po' di soldi...» «Appropriato? Hal? E lei crede a voci del genere?» «Non ho detto che ci credo, Ben. E so per certo che non voglio crederci. Conoscendolo, sono sicuro che - qualsiasi fossero i motivi che lo hanno indotto a incontrarsi segretamente con Orlov in Svizzera - ciò non può essere avvenuto con intenti criminosi. Ma quali che fossero i suoi fini, ci sono buone ragioni di ritenere che sia stato ucciso proprio per quelli.» "Avrà visto la foto che mi ha dato Moore?" mi domandai. Ma prima che potessi chiederglielo riprese: «Eccoci al punto: di qui a qualche giorno il Senato degli Stati Uniti inizierà una serie di udienze sul dilagare della corruzione all'interno della CIA». «Pubbliche?» «Sì. Alcune saranno sicuramente vietate alla stampa. Ma la commissione senatoriale incaricata di controllare l'intelligence ha avuto sentore di queste
voci tanto da ritenere opportuno aprire un'inchiesta.» «E Hal risulterebbe implicato? È questo che mi sta dicendo?» «Non pubblicamente... non ancora. Non credo nemmeno che il Senato abbia avuto notizia di queste favole. Hanno solo sentito dire che sono spariti un bel po' di soldi e di conseguenza i responsabili degli affari interni di Langley mi hanno incaricato di dare un'occhiata... per cercare di capire di che cosa si stesse occupando Hal Sinclair negli ultimi giorni della sua vita. Di scoprire perché è stato ucciso. Di scoprire quanti soldi mancano, dove sono finiti e chi è coinvolto nella vicenda. Un'indagine che non può essere portata avanti all'interno. La corruzione è troppo radicata. Ecco perché entra in ballo la Truslow Associates.» «Quanti sarebbero i soldi spariti?» Scrollò le spalle. «Una fortuna. Ma mi consenta di non risponderle, per adesso.» «E lei ha bisogno che io...» «Ho bisogno che lei scopra che cosa aveva intenzione di fare Hal incontrandosi con Orlov.» E alzò su di me due occhi castani arrossati, umidi. «Lei ha ancora il diritto di dire di no, Ben. Capirò. In particolare visto ciò che lei ha vissuto. Ma stando a tutto ciò che mi hanno riferito, lei era il migliore sul campo.» Scrollai le spalle, lusingato e compiaciuto, ma non sapendo bene che cosa rispondere. Truslow aveva certo sentito parlare della mia "avventatezza". «Lei e io abbiamo molte cose in comune» riprese. «L'ho capito fin dal primo momento. Lei è uno che tira diritto. Si è dedicato anima e corpo all'Agenzia, ma è sempre stato convinto che là dentro le cose sarebbero potute andare meglio. Le dirò una cosa: in tutti gli anni che ci ho passato io, i suoi scopi istituzionali li ho visti mettere in discussione da ideologi e fanatici di sinistra come di destra. Angleton una volta mi ha detto una cosa: "Alex," ha sottolineato "tu sei uno degli elementi migliori di cui possiamo disporre, ma paradossalmente a renderti tanto bravo in questo mestiere è il fatto che a un certo livello lo disapprovi".» E scoppiò in una risata. «Allora ho negato l'ipotesi fino a diventare paonazzo, ma alla fine mi sono reso conto che era giusta. E sento nell'intimo che io e lei siamo molto simili, Ben. Siamo gente che fa quello che pensa di dover fare, ma c'è una parte di noi che si oppone, che disapprova.» E così detto bevve un lungo sorso d'acqua, sorridendo tra sé, quasi imbarazzato di essersi lasciato andare in quel modo.
Quindi fece scorrere verso di me sopra la tovaglia la lista dei vini, come se mi invitasse a scegliere. «Può darle un'occhiata, Ben? Scelga qualcosa di buono.» Aprii la copertina in cuoio e vi gettai una rapida occhiata. «A me piace moltissimo il Grand-Puy-Ducasse Pauillac» dissi. Lui sorrise, riprendendo la lista. «Sì, certo... Ma che cosa c'è in cima a pagina tre?» Ci pensai sopra un attimo, facendomene tornare in mente l'immagine. «Uno Stag Leap Merlot del 1982» risposi. Truslow annuì. «Guardi però che non mi va molto di essere considerato alla stregua di un fenomeno da baraccone» aggiunsi. «Lo so» replicò. «Mi scusi. È una facoltà molto rara. Come la invidio!» «Ad Harvard mi ha consentito di limitarmi a bordeggiare quei corsi per i quali imparare a memoria era fondamentale, come inglese, storia, storia dell'arte...» «Ecco, vede, Ben, in un lavoro come questo, una missione che potrebbe benissimo comportare diverse sequenze di codici e simili, la sua memoria... eidetica costituirebbe un autentico vantaggio. Sempreché, voglio dire, lei abbia intenzione di accettare. Per inciso, sono perfettamente d'accordo sui termini che ha fissato con Bill.» Termini che avevo estorto, intendeva, ma era troppo cortese per dirlo. «Ehm, Alex, quando ne ho discusso con Bill non avevo idea di che cosa lei volesse da me.» «Va benissimo comunque...» «No, mi lasci finire. Se ho capito bene - ovvero, se il succo della questione consiste nel liberare da ogni ombra il nome di Hal Sinclair -, non intendo certamente comportarmi da mercenario.» Truslow si accigliò, con espressione severa. «Mercenario? Santo cielo, Ben, sono al corrente del guaio finanziario in cui è incappato. E se non altro questa missione mi darebbe la scusa per aiutarla. Se vuole, potrei persino metterla sul foglio paga.» «Non è necessario, grazie.» «Benissimo» replicò. «Allora sono contento di averla a bordo.» Ci stringemmo la mano, quasi volessimo suggellare ritualmente l'accordo. «Senta, Ben, mia moglie Margaret e io questa sera ci trasferiamo nella casa che abbiamo nel New Hampshire. L'apriamo per la primavera. Ci farebbe molto piacere se lei e Molly voleste venire a pranzo da noi, una vol-
ta. Niente di speciale, un barbecue o qualcosa del genere... Ci piacerebbe farvi conoscere i nostri nipotini.» «Mi sembra una bell'idea» risposi. «Domani?» Il giorno dopo mi aspettava una giornata rovente, ma in qualche modo avrei potuto ritagliare un po' di tempo. «Sì, certo» fui d'accordo. «Domani.» Per il resto del pomeriggio non riuscii a concentrarmi su niente. Era mai possibile che il padre di Molly fosse davvero coinvolto in una congiura con l'ex capo del KGB? Che si fosse davvero appropriato indebitamente di una somma di denaro, addirittura di "una fortuna", come aveva detto Truslow? Non aveva senso. Eppure, come spiegazione del suo omicidio... un certo senso ce l'aveva. O no? Avevo un nodo allo stomaco che non aveva intenzione di sciogliersi. Suonò il telefono, Darlene mi annunciò che c'era in linea Molly. «A che ora ci troviamo con Ike e Wanda?» mi chiese. Chiamava da una rumorosa corsia di ospedale. «Alle otto. Ma se vuoi disdico. Viste le circostanze...» «No. Io... io voglio andare.» «Capiranno, Mol.» «No, non disdire. Uscire ci farà bene.» Grazie a Dio quel pomeriggio non mi rimase neanche un istante da dedicare alle mie elucubrazioni. Il cliente con cui avevo appuntamento alle quattro arrivò subito dopo. Mel Kornstein, un uomo tondeggiante, poco più che cinquantenne, in abiti italiani costosi e troppo eleganti accompagnati da occhiali colorati da aviatore, portati sempre un po' di sbieco. Aveva l'aria distratta, sempre perduta dietro i propri pensieri, del genio, cosa che, secondo me, era. Aveva messo insieme una bella fortuna inventando un gioco per computer denominato SpaceTron, di cui avrete senz'altro sentito parlare. In caso contrario, si tratta di un gioco basato su una battaglia aerea in cui il giocatore, ai comandi di un piccolo velivolo, deve opporsi alla malvagia intenzione di una nave spaziale di distruggere lui stesso e il pianeta Terra. Può sembrare stupido, ma si tratta di una meraviglia di tecnica informatica. È tridimensionale e così realistico che il giocatore si convince di essere davvero lì, minacciato da comete, meteore, navi spaziali nemiche e chi più ne ha più ne metta. Il tutto ottenuto tramite un ingegnoso
software brevettato da Kornstein, un vero colpo di genio. Ci si aggiunga il simulatore di voce - anch'esso brevettato -, che abbaia comandi al giocatore, tipo «Troppo a sinistra!» o «Ti stai avvicinando troppo!», ed ecco che sul computer di casa si ha un'esplosione di colori e suoni. Con il risultato che la ditta di Kornstein realizzava un profitto pari a cento milioni di dollari all'anno. Il mio cliente si lasciò cadere nella poltrona in pelle di fianco alla mia scrivania, irradiando la più cupa delle irritazioni. Conversammo per qualche istante, ma non era di umore espansivo; mi porse una scatoletta in cui era contenuto il gioco rivale, denominato SpaceTime. Lo introdussi nel mio computer, lo accesi e rimasi esterrefatto nel vedere fino a che punto fosse una copia del suo. «Questi tipi non cercano neanche di essere originali, eh?» commentai. Kornstein si tolse gli occhiali e li pulì su un lembo della camicia. «Bastardi! Voglio rovinarli» ribatté. «Piano, piano. Aspettiamo un attimo» replicai. «Prima devo procedere a un accertamento da parte di terzi circa il livello di violazione del brevetto.» «Voglio spaccargli il culo.» «A suo tempo. Per adesso cominciamo a esaminare gli articoli del loro brevetto, a uno a uno.» «È identico al mio» ribatté lui, rimettendosi gli occhiali, sempre di sbieco. «Andiamo in tribunale, una volta per tutte, o no?» «Be', i giochi per computer sono brevettabili secondo gli stessi princìpi che governano, diciamo, quelli da tavolo. In realtà l'oggetto del brevetto è la relazione messa in atto tra gli elementi fisici e i concetti sottesi, il modo in cui essi interagiscono.» «Voglio spaccargli il culo.» Annuii. «Faremo del nostro meglio» gli promisi. La Focaccia era uno di quei ristoranti della Back Bay, favolosamente di moda, vagamente trasgressivi, yuppie, tutti un trionfo di rucola e radicchio serviti a clienti giovani, belli, in abito scuro, esponenti del mondo della pubblicità. Un locale rumoroso, inoltre, tra il chiasso delle voci e il tambureggiare del rap bianco, fatto che sembra un'altra caratteristica saliente dei locali alla moda aperti nelle zone urbane di tutti gli Stati Uniti. Molly era in ritardo ma il mio più caro amico, Ike, e sua moglie Wanda erano già lì a urlarsi qualcosa da un capo all'altro del tavolo in quella che sembrava una violenta lite tra coniugi e che invece era semplicemente un
tentativo di comunicare. Isaac Cowan e io eravamo stati compagni di studio presso la facoltà di legge, dove lui si era specializzato nell'attività di battermi a tennis. In quel momento era impegnato in una questione di diritto aziendale talmente noiosa che non ne parlava mai, ma che mi pare vertesse sul problema delle riassicurazioni. Linda, invece, allora incinta di sette mesi, è una psicoanalista che cura soprattutto bambini. Sono entrambi alti, lentigginosi e rossi di capelli - persino fastidiosamente somiglianti, dal punto di vista fisico -, e nel complesso li trovo molto gradevoli. Stavano parlando di un'imminente visita della madre di lui. Ma al mio arrivo Ike aveva cambiato argomento, mettendosi a commentare con me una partita dei Celtics che eravamo andati a vedere insieme la settimana prima. Poi avevamo parlato un po' di lavoro, della gravidanza di Linda (voleva chiedere a Molly qualcosa a proposito di un esame che l'ostetricoginecologo stava cercando di imporle), del mio rovescio (praticamente inesistente) e infine del padre di Molly. Ike e Linda erano sempre un po' a disagio a parlare del mio celebre suocero, mai sicuri di non essere indiscreti, non volendo sembrare troppo curiosi. Ike sapeva qualcosa dell'attività che avevo svolto per la CIA, ma gli avevo fatto capire che preferivo non toccare l'argomento. Sapeva anche che ero già stato sposato e che la mia prima moglie era rimasta uccisa in un incidente, ma non molto di più. È ovvio che un simile stato di cose ogni tanto limitava un po' la nostra conversazione. Espressero le loro condoglianze, mi chiesero come stesse Molly. Dal canto mio non potevo dire loro nulla circa le mie più recenti preoccupazioni, né tanto meno circa la morte di Hal Sinclair. Mentre stavamo finendo gli stuzzichini (per principio nessuno ordinava mai la focaccia che dava il nome al locale), arrivò Molly, profondendosi in scuse. «Com'è andata, oggi?» chiese, baciandomi. Poi mi scoccò uno sguardo impercettibilmente troppo lungo, tale da farmi capire che voleva notizie di Truslow. «Bene» risposi. Baciati anche Ike e Linda si sedette. «Non so se ce la farò a tirare avanti» disse. «Con la medicina?» chiese Linda. «Con i preemy» rispose lei, espressione con cui nel gergo medico vengono indicati i bambini prematuri. «Oggi ho ricoverato due gemelli e un altro piccolo, che tutti assieme pesavano meno di quattro chili e mezzo. Ho
passato tutto il tempo a occuparmi di loro, povere cosine malate, a cercare di inserire cateteri ombelicali, a tenere a bada genitori sconvolti.» Ike e Linda scossero il capo per manifestare la loro comprensione. «Bambini con l'AIDS,» continuò lei «o affetti da infezioni batteriche al cervello. Ed essere di turno una notte su tre...» «Lasciamo perdere, per adesso, eh?» la interruppi. Lei si voltò a guardarmi con due occhi sbarrati. «Lasciamo perdere?» «Dai, Molly» replicai a bassa voce. Ike e Linda, evidentemente a disagio, finsero di concentrare l'attenzione sulle loro insalate alla Cesare. «Scusate» disse lei. E io le presi la mano sotto il tavolo. Capitava spesso che il lavoro la agitasse in quel modo, ma nella fattispecie sapevo che non si era ancora ripresa dallo shock di avere visto quella foto. Per tutta la cena apparve distaccata, limitandosi ad annuire e a sorridere cortesemente, ma era altrove con la testa. Un comportamento che Ike e Linda attribuirono alla recente scomparsa del padre, non sbagliando in fondo di molto. Sul taxi che ci riportava a casa litigammo, in toni di voce bassi ma furenti, su Truslow, la Corporation, la CIA e tutto ciò che lei mi aveva fatto promettere avrei abbandonato per sempre. «Dannazione,» esclamò a voce bassissima «una volta iniziato a lavorare con Truslow ti troverai di nuovo immerso fino al collo in quel gioco spaventoso.» «Molly...» attaccai, ma era impossibile interromperla. «Chi va con lo zoppo impara a zoppicare. Porca miseria, mi avevi promesso che non ti saresti mai più occupato di quella roba!» «Infatti non ho nessuna intenzione di farlo, Mol» replicai. Rimase un attimo zitta. Poi chiese: «Gli hai parlato dell'omicidio di papà, vero?». «No.» Piccola bugia imposta dal fatto che non volevo parlarle della presunta appropriazione indebita e delle previste udienze del Senato. «Comunque, qualsiasi cosa lui voglia da te, è collegata con quel fatto, no?» «Sì, in un certo senso.» Il tassista sterzò per evitare una buca, picchiando sul clacson e invadendo la corsia opposta. Rimanemmo zitti entrambi per un attimo, ma dopo un minuto circa quasi avesse cercato deliberatamente di creare un effetto drammatico - lei riprese: «Sai, ho telefonato all'ufficio referti medici della contea di Fairfax».
Rimasi un attimo confuso. «A Fairfax?...» «Dove papà è stato ucciso. Per farmi mandare una copia del certificato di autopsia. Lo stabilisce la legge, per i parenti stretti, nel caso lo vogliano.» «Risultato?» «È bloccato.» «Cioè?» «È un documento non più a disposizione del pubblico. Al certificato di autopsia possono accedere soltanto il procuratore distrettuale e il procuratore generale del Commonwealth della Virginia.» «Perché? Perché era... un esponente della CIA?» «No. Perché un responsabile delle indagini è arrivato alla nostra stessa conclusione... ovvero che si tratta di omicidio.» Il resto della strada lo facemmo in silenzio, ma poi, per chissà quale demenziale motivo, una volta arrivati a casa riprendemmo a litigare, andando a letto furibondi l'uno con l'altra. È strano, ma a questo punto quella serata me la ricordo con affetto. È stata una delle ultime che abbiamo passato insieme, soltanto due giorni prima che succedesse il fatto. 8 Quella notte, l'ultima normale che io abbia vissuto, feci un sogno. Sognai Parigi, un sogno vividamente inciso, come è tipico degli incubi del risveglio, che ho fatto forse migliaia di volte. Sempre secondo le seguenti modalità. Mi trovo in un negozio di abbigliamento per uomo del Faubourg-St. Honoré, una conigliera di stanzette illuminate, e ho perso l'orientamento, mi sposto di stanza in stanza in cerca del luogo dell'appuntamento che ho combinato con un certo agente, finché finalmente trovo uno spogliatoio. È il posto fissato per l'incontro, ed ecco che infatti, appeso a una gruccia, vedo un cardigan blu, che, secondo gli accordi, prendo. In tasca, sempre secondo gli accordi, trovo un pezzetto di carta con sopra scritto il messaggio in codice. Avendo passato troppo tempo a rifletterci sopra, sono in ritardo per la telefonata che devo fare, per cui mi precipito di corsa di stanza in stanza di quell'infame negozio cercando un telefono, invocandolo, incapace di trovarlo, finché finalmente, nel sotterraneo del palazzo, eccone uno. Un gof-
fo, pesante, antiquato apparecchio francese in due sfumature di bruno. Ma, chissà perché, non vuole funzionare. Provo e riprovo, finché, finalmente grazie a Dio! -, ecco sento squillare all'altro capo della linea. Qualcuno risponde. È Laura, mia moglie. Sta piangendo, mi prega di tornare a casa, in rue Jacob, è successa una cosa terribile. Mi assale la paura e mi metto a correre, tanto che in pochi secondi (in definitiva non è che un sogno) sono in rue Jacob, davanti all'ingresso del palazzo dove abito, già sapendo che cosa mi toccherà vedere. È la parte peggiore dell'incubo: il fatto di pensare che se non entrassi in casa tutto ciò non sarebbe vero, ma una sorta di orrendo fascino m'impone di andare avanti. Fluttuo nel vuoto, in preda a nausea. Un uomo sta uscendo dal mio palazzo, indossa una camicia da cacciatore di lana a scacchi e Nike da corsa. Lo vedo soltanto da dietro ma noto che ha un gran ciuffo incolto di capelli neri - il dettaglio è sempre lo stesso - e una lunga, brutta ferita rossa che gli taglia una guancia dall'orecchio al mento. Una ferita tremenda, che distinguo con assoluta chiarezza. Zoppica, come se sentisse un gran male. Non lo fermo - perché dovrei? -, ma, al contrario, mentre lui si allontana zoppicando, entro nel palazzo, dove si avverte un odore di sangue che si fa sempre più forte a mano a mano che salgo le scale verso il mio appartamento, fino a diventare intollerabile, tanto da farmi vomitare, finché arrivo al pianerottolo e vedo i due corpi grottescamente stesi in due pozze di sangue. Uno di essi - per quanto io mi dica, che non può essere - è Laura. A questo punto di solito mi sveglio. Le cose, ovviamente, non sono andate proprio così. Il mio sogno, sempre lo stesso, ne ha fatto una sorta di parabola. A Parigi mi era stato affidato il coordinamento di diversi agenti di massima copertura, oltre a quello di una schiera di altri meno importanti. Avevo ottenuto un grosso successo, sul posto, quando ero riuscito a smascherare una rete di spie del servizio segreto militare sovietico incaricate di tenere sotto controllo un reattore appena fuori città. Come copertura usavo la professione di architetto. L'appartamento che mi era stato assegnato in rue Jacob era piccolo ma pieno di sole e situato nel VI arrondissement, che secondo me è la zona più bella della città. Ero fortunato, i miei colleghi spioni stavano per lo più nello squallido VIII. Laura e io ci eravamo sposati da poco e lei non aveva espresso obiezioni nei confronti del trasferimento a Parigi: essendo pittrice, c'erano pochi posti che avrebbe preferito di-
pingere. Era minuta, irresistibilmente carina, con capelli biondi e lunghi che raccoglieva sul capo. Eravamo pazzi d'amore. Avevamo già parlato di avere figli e li volevamo, ma non sapevo che fosse incinta, fatto che mi avrebbe riempito di eccitazione. Non aveva mai avuto l'opportunità di dirmelo. Sono tuttora convinto che volesse dirmelo a modo suo, secondo un suo ritmo, una volta avuta la possibilità di adattarsi alle novità. In quel momento sapevo soltanto che non stava bene da diversi giorni. Un virus non pericoloso, pensavo. Più o meno nello stesso periodo ero stato contattato da un esponente di basso livello del KGB, un addetto all'archivio presso la residenza parigina, che voleva fare uno scambio con me. Aveva un'informazione da vendere, diceva, scovata per caso negli archivi di Mosca e in cambio voleva passare dalla nostra parte, ottenendo sicurezza economica, protezione e lavoro. Avevo seguito tutte le procedure di routine, informando del primo incontro il capo della sede CIA, James Tobias Thompson. Gli addetti ai lavori considerano sempre con sospetto quelli che vengono definiti "appuntamenti al buio", ovvero gli abboccamenti con un agente sconosciuto in un luogo di sua scelta perché c'è sempre il rischio che si tratti di una trappola. Ma, fatto confortante, questo agente, che aveva detto di chiamarsi Victor, aveva acconsentito a incontrarsi con me secondo le nostre modalità. Avevo dunque fissato un appuntamento, arrischiato ma di vitale importanza. Tre rapidi squilli di telefono in un appartamento del VI arrondissement mi avevano segnalato il posto e l'ora. Era seguito l'incontro "casuale" in un costoso negozio di abbigliamento maschile in rue du Faubourg-St. Honoré, che però, diversamente dal sogno, era andato liscio. Nello spogliatoio, secondo gli accordi, avevo trovato un golf blu appeso a una gruccia, lasciato lì da un cliente distratto che aveva rinunciato all'acquisto. Nella tasca sinistra avevo trovato un brandello di busta con il messaggio in codice che mi indicava l'ora e il posto definitivi. Il giorno dopo ci eravamo incontrati in una delle safe house a disposizione dell'Agenzia, nella fattispecie uno squallido appartamentino del XIV arrondissement. Sapevo che i "troppo disponibili" in genere erano dei bidoni, ma non si poteva nemmeno ignorarli: lo erano stati molti dei più importanti transfughi della storia dei servizi segreti. Victor portava un'evidentissima parrucca bionda, ma la sua carnagione olivastra era propria di un uomo nero di capelli. Sotto la mascella si vedeva una sottile cicatrice di un rosso violaceo.
Mi era parso pulito, almeno da quanto potevo giudicare. Per l'incontro successivo - sempre che fossimo riusciti a organizzarlo - mi aveva promesso una rivelazione importante, sensazionale. Un documento, aveva detto, in cui si era imbattuto per caso negli archivi del KGB. Per il momento mi aveva soltanto anticipato un nome in codice: GAZZA. Quando successivamente il mio capo e intimo amico Toby Thompson mi aveva chiamato a rapporto, quel piccolo particolare lo aveva molto interessato. Il caso sembrava non essere soltanto fumo. Di conseguenza, avevo combinato il secondo incontro. Da allora ci ho ripensato punto per punto almeno mille volte. Era stato Victor a contattare me, il che significava che conosceva già la mia copertura. Ma in quel momento tutte le safe house situate in località adatte erano impegnate. Quindi, con l'approvazione di Toby Thompson e persino con il suo incoraggiamento, avevo combinato un secondo incontro tra Victor, lo stesso Toby e me, a casa mia, in rue Jacob. Nonostante i suoi sporadici attacchi di nausea, Laura era fuori città, o perlomeno così credevo. La sera prima era andata a trovare alcuni amici vicino a Giverny, per visitare i giardini di Monet. Non sarebbe tornata che due giorni dopo, per cui l'appartamento era a nostra disposizione. Non avrei dovuto rischiare, ma quello di adesso è il senno di poi. L'incontro era previsto per mezzogiorno ma ero stato trattenuto al lavoro da una telefonata intercontinentale su una linea sicura con Langley, e precisamente con Emory St. Clair, vicedirettore per le operazioni. Di conseguenza, ero arrivato con venti minuti di ritardo, pensando di trovare già lì Toby e Victor. Ricordo di avere visto un uomo dai capelli scuri che usciva con passo deciso dal mio palazzo, con addosso una camicia a scacchi da cacciatore. Non ci avevo fatto caso, pensando che fosse un vicino o un visitatore. Avevo salito i gradini, sentendo nella tromba delle scale un odore strano, un odore che si era andato facendo più forte a mano a mano che mi avvicinavo al secondo piano. Sangue. Il cuore si era messo a battere all'impazzata. Arrivato al pianerottolo, mi ero visto davanti una scena di indimenticabile orrore. Disarticolati sul pavimento, in due pozze di sangue fresco, c'erano due corpi. Toby e... Laura. Credo di essermi messo a urlare, ma non posso esserne certo. Ogni cosa si era rallentata, divenendo stroboscopica. Di punto in bianco mi ero inginocchiato accanto a Laura, cullandone la testa, senza poterci credere. Non avrebbe dovuto essere a casa, non era lei, c'era un errore.
Le avevano sparato al petto, al cuore, la macchia di sangue si allargava su una vasta zona della sua camicia da notte di seta bianca. Era morta. Voltatomi, avevo visto che Toby era stato colpito al ventre, avevo visto che si muoveva in un lago di sangue, lo avevo sentito gemere. Dopo di che non ricordo più nulla. Era comparso qualcuno, credo. Probabilmente ero stato io a chiamare. Non riuscivo più a connettere, ero fuori di me. Avevano dovuto staccarmi a forza dalla mia povera Laura morta. Ero convinto che avrei potuto farla resuscitare. Se soltanto mi fossi impegnato quanto bastava... Toby Thompson era sopravvissuto, seppure per un pelo. Ma il midollo spinale era stato tranciato, per cui era rimasto paralizzato per sempre. Laura invece era morta. Più tardi alcune cose avevano trovato spiegazione. Laura era tornata a casa quel mattino presto perché si sentiva male. Mi aveva chiamato al lavoro per dirmelo, ma per qualche misterioso motivo il suo messaggio non mi era stato trasmesso. L'autopsia avrebbe rivelato che era incinta. Toby si era presentato a casa mia pochi minuti prima di mezzogiorno, armato, caso mai succedesse qualcosa di spiacevole. Aveva trovato la porta semiaperta, l'uomo del KGB era dentro e teneva in ostaggio Laura sotto la minaccia di una pistola. Pistola che aveva immediatamente puntato contro Toby, facendo fuoco. Poi si era voltato e aveva sparato anche a Laura. Toby aveva risposto al fuoco, cercando di ucciderlo prima di essere ottenebrato dal dolore, ma senza riuscirci. Si era evidentemente trattato di una rappresaglia sovietica contro di me. Ma perché? Perché avevo smascherato la rete di spie del reattore? O per uno qualsiasi dei diversi incidenti avvenuti in Germania Est, nel cui corso avevo ferito e in qualche caso anche ucciso agenti tedesco-orientali o sovietici? Ero stato individuato da Victor e condannato a essere eliminato nel corso di una sparatoria. Invece era rimasta uccisa Laura - che non avrebbe dovuto esserci -, mentre io, trattenuto da un capriccio del destino, mi ero salvato. Avevo mandato a monte tutto ed ero vivo, mentre Toby Thompson era stato condannato alla sedia a rotelle per tutta la vita e Laura era morta. Quanto all'uomo dai capelli scuri che avevo visto andarsene dal mio palazzo, chi poteva essere se non Victor senza la sua parrucca bionda? Molto più tardi era stato deciso che, sebbene non avessi colpe, non avevo tuttavia agito al meglio - soprattutto adottando una procedura approssimativa, e a tal proposito non avevo potuto obiettare nulla, anche se in ef-
fetti era stato Toby a darmi l'okay -, per cui in un certo senso la colpa effettiva dell'assassinio di mia moglie e della paralisi di Toby era mia. La mia carriera non era necessariamente conclusa: avrei potuto chiedere di essere trasferito a un settore amministrativo. E con il passare del tempo avrei superato il momento di crisi. Ma non avrei mai potuto sopportarlo. Sapevo che in sostanza era come se a premere il grilletto fossi stato io. L'inchiesta era durata parecchio. Chiunque fosse rimasto coinvolto nella vicenda a qualsiasi titolo, dalle segretarie agli addetti ai codici a Ed Moore, capo della divisione europea del Direttorato per le operazioni, era stato sottoposto a interminabili domande, alla prova del He detector. E tutto ciò si era abbattuto sulla mia vita in un momento in cui ero privo di risorse intime da cui attingere. Mia moglie e il mio futuro figlio erano stati uccisi. La mia vita sembrava non avere più scopo. Erano passate alcune settimane. Ero stato messo in purgatorio. Mi avevano sistemato in un albergo a pochi chilometri da Langley. Andavo al "lavoro" ogni mattino in auto: in una saletta bianca del secondo piano, priva di finestre, dove l'interrogante (cambiavano di continuo a intervalli di pochi giorni) mi sorrideva cordialmente, con una salda, burocratica stretta di mano, offrendomi una tazza di caffè con un piccolo bricco marrone di panna conservata e un bastoncino di legno. Dopo di che tirava fuori la trascrizione della seduta precedente. In apparenza eravamo soltanto due persone impegnate a cercare di capire che cosa fosse andato storto a Parigi. In realtà chi mi faceva domande era impegnato con ogni sistema a cercare di farmi cadere in qualche trabocchetto fino nei particolari più insignificanti, di scoprire la più infinitesima crepa nel mio comportamento, la benché minima contraddizione, di farmi crollare. Dopo sette settimane di un simile trattamento - il costo dell'energia umana impiegata dev'essere stato altissimo - l'indagine era stata chiusa. Senza aver raggiunto alcuna conclusione. Ero stato convocato nell'ufficio di Harrison Sinclair, tuttora il numero tre dell'Agenzia in quanto direttore per le operazioni. Avevamo avuto soltanto poche occasioni di parlare, ma si era comportato come se fossimo vecchi amici. Non dico che fosse insincero; più probabilmente stava cercando in ogni modo di mettermi il più possibile a mio agio. Era un uomo capace di autentico affetto. Mi aveva posato un braccio su una spalla e mi aveva gui-
dato a una poltrona in pelle, sedendosi sul divanetto sistemato lì accanto; quindi si era chinato su di me in atteggiamento confidenziale, come se avesse intenzione di fornirmi le coordinate di un'operazione segreta, e invece mi aveva raccontato la barzelletta di un vecchio e una vecchia che rimangono chiusi nell'ascensore di una comunità per anziani a Miami. Ricordo soltanto che la battuta finale era: «Allora, lei è single o no?». Anche se mi sembrava che in quei due mesi d'inferno i miei visceri fossero diventati di cuoio, mi ero scoperto a ridere di cuore, avevo sentito la tensione calare, anche se soltanto momentaneamente. Avevamo parlato un po' di Molly che viveva a Boston dopo avere passato due anni nei Peace Corps di stanza in Nigeria. Aveva rotto con il ragazzo del college, quello che lui chiamava lo "zuccone". Aveva aggiunto che Molly voleva le telefonassi, non appena mi fossi sentito in condizione di vedere gente. Avevo risposto che l'avrei fatto senz'altro. Poi aveva aggiunto che Ed Moore, capo della divisione europea, aveva deciso che dovevo lasciare la CIA perché sulla mia carriera ci sarebbe sempre stato qualche dubbio, anche se la mia innocenza era fuori questione, vi sarebbe sempre stato qualche sospetto. Era dunque meglio che me ne andassi. Su questo punto, aveva concluso, Moore era irremovibile. Non avevo nessuna intenzione di oppormi. Volevo solo rannicchiarmi a palla in un posto qualsiasi e dormire giorni e giorni, per svegliarmi finalmente e scoprire che era stato soltanto un brutto sogno. «Ed dice che secondo lui dovresti iscriverti a legge» aveva aggiunto Hal. Io lo avevo ascoltato passivamente. Che interesse avevo per gli studi di legge? La risposta, come avrei scoperto, era: non un granché, ma che importava? Si può fare bene anche una cosa che non ci sollecita più di tanto. Avrei voluto parlare con Hal di come erano andati i fatti, ma non voleva sapere nulla; riteneva fosse meglio mantenersi neutrale; non voleva rivangare il passato. «Diventerai un grande avvocato» aveva detto. E mi aveva raccontato una barzelletta molto divertente e sconcia sugli avvocati. Eravamo scoppiati a ridere entrambi. E quello stesso giorno me n'ero andato dal quartier generale della CIA, per quella che ritenevo fosse l'ultima volta. Ma ero destinato a essere ossessionato per tutta la vita dall'incubo parigino.
9 La casa dove Alex Truslow passava i weekend, nel sud del New Hampshire, era a meno di un'ora di auto da Boston. Molly, miracolosamente, era riuscita a trovare il tempo di venire con me, Credo volesse accertarsi che Truslow era una persona perbene, che impegnandomi a lavorare per la Corporation non stavo facendo un errore colossale. La casa, bella, vecchia, appollaiata su un promontorio sovrastante il lago, era molto più grande di quanto pensassimo. Con il suo rivestimento in assicelle bianche e le imposte nere, aveva un'aria al tempo stesso comoda ed elegante. La costruzione era evidentemente iniziata un centinaio di anni prima come piccolissima fattoria di due locali, ingrandendosi pian piano fino a estendersi, goffa e serpentina, lungo la cresta ondulata. Qua e là la vernice era scrostata. Quando arrivammo, Truslow era fuori, alle prese con il fuoco. Era in tenuta sportiva: camicia di lana a scacchi, pantalonacci di velluto color muschio a costa larga e scarpe da barca. Baciò Molly su una guancia, mi diede una manata su una spalla e ci mise davanti due vodka Martini. E io mi resi conto per la prima volta che cosa fosse a piacermi di lui. Mi ricordava in maniera impressionante - nel taglio malinconico della fronte, nell'onestà ostinata - mio padre, morto d'infarto quando avevo diciassette anni, l'estate prima che partissi per il college. Sua moglie Margaret, una donna snella dai capelli bruni, sui sessanta, uscì dalla casa asciugandosi le mani su un grembiule di un rosso vivace e facendosi scivolare alle spalle la zanzariera applicata alla porta. «Mi spiace per suo padre» disse a Molly. «Ne sentiamo molto la mancanza. E siamo in tanti.» Molly sorrise e la ringraziò. «Che posto magnifico» esclamò. «Oh» replicò Margaret, accostandosi al marito e accarezzandolo con affetto su una guancia con il dorso della mano. «A me non piace affatto venirci. Ma da quando ha lasciato la CIA, Alex mi fa passare qui praticamente tutti i weekend e le estati... Mi adeguo perché non ho altra possibilità.» La sua espressione, affettuosa e divertita, era quella che di norma si usa davanti a un bambino che ha fatto qualcosa di sbagliato ma che si adora. «Margaret preferisce di gran lunga la casa di Louisburg Square» disse Truslow. Louisburg Square: un piccolo quartiere residenziale esclusivo, in cima a Beacon Hill. «Voi due invece state in centro, vero?»
«A Back Bay» rispose Molly. «Avrà forse visto i cartelli dell'impresa e le montagne di rifiuti. Be', siamo noi.» «Stiamo ristrutturando, se ho ben capito, eh?» replicò Truslow con una risatina. Ma prima che potessimo rispondere, dalla casa arrivarono a precipizio due bimbi, una femminuccia di circa tre anni inseguita da un maschietto un po' più grande. «Elias!» gridò la signora Truslow. «Adesso basta» disse Alex, raccogliendo al volo la bambina tra le braccia. «Elias, smettila di tormentare tua sorella. Zoe, ti presento Ben e Molly.» La piccola ci rivolse l'espressione polemica di un visetto rigato di lacrime. Poi affondò la testa nel torace del nonno. «È timida» spiegò Truslow. «Elias, saluta bene Ben Ellison e Molly Sinclair.» E il bambino, tozzo, capelli color stoppa, porse prima a me e poi a Molly una manina grassoccia, tornando immediatamente a scappare via. «Mia figlia...» attaccò a dire Margaret Truslow. «La nostra stanchissima figlia» la corresse seccamente il marito «e quel martire del lavoro di suo marito sono a un concerto. Il che significa che ai loro poveri bambini tocca cenare con quei due matusa dei nonni. Vero, Zoe?» E le fece il solletico con una mano, reggendola con l'altra. La piccola esplose in una risatina riluttante, rimettendosi però subito a piangere. «Pare che la nostra piccola Zoe abbia male a un orecchio» spiegò Margaret. «Piange da quando è arrivata qui.» «Mi faccia dare un'occhiata» disse Molly. «Non ha per caso da qualche parte un po' di amoxicillina?» «Amoxi-che-cosa?» chiese Margaret. «Non importa. Credo di averne una fiala da 150 cc in auto.» «Caspita, che magnifico servizio a domicilio!» esclamò Margaret Truslow. «E gratis, per di più» rincarò Molly. La cena fu tipicamente americana: pollo alla griglia, patate al forno e insalata. Il pollo era squisito e Truslow ce ne fornì la ricetta. «C'è un proverbio...» disse, mentre divoravamo il gelato «quando il figlio maggiore ha finalmente imparato a tenere pulita la casa, i più piccoli sono pronti a farla a pezzi. Vero, Elias?» «No» rispose il bambino.
«Avete figli?» chiese Margaret Truslow. «Non ancora» risposi. «Vorrei tanto non vederne più e non sentirne nemmeno parlare» replicò Molly. «Mai più.» Per un attimo Margaret parve scandalizzata, finché si rese conto che mia moglie stava scherzando. «Sentirsi dire una cosa del genere da una pediatra!» esclamò, in tono di finto rimprovero. «Avere figli è la cosa migliore che io abbia mai fatto» interloquì suo marito. «Infatti mi pare che esista un libro» ribatté Molly «intitolato I figli sono così divertenti che avrei dovuto averli prima.» «C'è una certa verità» replicò Truslow, ridacchiando insieme alla moglie. «Se vi trasferite a Washington,» disse Molly «vi toccherà rinunciare a tutto questo.» «Lo so. E non creda che non mi pesi.» «Per adesso non ti è nemmeno stato proposto, Alex» lo rimproverò la moglie. «Hai ragione» replicò lui. «E, a essere sinceri, quella di sostituire suo padre è una prospettiva che mi preoccupa non poco.» Molly annuì. «Poche cose sono più difficili del peso di doversi confrontare con un buon esempio» intervenni. «E a questo punto» annunciò Truslow «spero che a voi belle signore non dia fastidio se Ben e io ce ne andiamo da qualche parte a parlare di lavoro.» «Per noi va benissimo» rispose sua moglie in tono aspro. «Molly può aiutarmi a mettere a letto i piccoli. Se può sopportare l'idea di doversi occupare ancora di bambini, voglio dire.» «Qualche settimana fa,» attaccò Truslow «l'Agenzia ha messo le mani su un probabile assassino... un rumeno... della Securitate.» Ci eravamo messi a sedere in un locale dal pavimento in pietra che sembrava usare come studio, davanti a un grande tavolo in rovere. Il mobilio era vecchio e molto consunto, l'unica nota stonata era rappresentata dall'apparecchio telefonico che vi era sistemato, munito di scrambler. Un criptotelefono. «Il tipo è stato sottoposto a interrogatorio. Si è rivelato un osso duro.» Non sapevo dove volesse arrivare, per cui aspettavo in silenzio, teso. «Dopo diverse difficili sedute, è finalmente crollato, ma sapeva pochis-
simo. Però ha detto che poteva offrirci una cosa. Informazioni sulla morte di Harrison Sinclair...» E la sua voce ebbe un tremito. «E poi?» «Prima che potesse spifferare qualcosa è morto.» «Uno degli zelantissimi personaggi a cui l'Agenzia affida gli interrogatori, immagino.» «No. Qualcuno è riuscito a infiltrarsi nel sistema, a individuarlo e a farlo fuori. È gente che dispone di entrature impressionanti.» «E chi sarebbe questa gente?» «Una o più persone...» rispose lentamente, in tono sinistro «all'interno della CIA.» «Avete qualche nome?» «Il problema è proprio lì. Sono molto ben protetti... senza volto. È un gruppo interno di cui si vocifera da molto tempo, Ben. Ha mai sentito parlare dei Saggi?» «Ieri lei ha accennato a un consiglio di anziani» risposi. «Ma chi sono? A che cosa mirano?» «Non sappiamo. Sono troppo ben nascosti, su una serie di fronti.» «E secondo lei dietro la morte di Hal Sinclair ci sarebbero questi... questi "Saggi"?» «È un'ipotesi» rispose. «Ma è possibile che fosse anche lui uno di loro.» Mi sentii girare un po' la testa. Fino a ora sembrava che Hal fosse stato ucciso da un uomo addestrato dal servizio segreto tedesco orientale, la Stasi, e adesso Truslow mi parlava di un rumeno. Come si combinavano i pezzi? Che cosa c'era sotto? «Ma dovrete pur sapere qualcosa circa la loro identità» insistetti. «Sappiamo soltanto che sono riusciti a drenare decine di milioni di dollari da diversi conti dell'Agenzia. Con un sistema molto sofisticato. E pare che Harrison Sinclair ne abbia intascato dodici milioni e mezzo.» «Ma lei non può crederci! Lo sa quanto modestamente viveva.» «Senta, Ben, io non voglio credere che Hal Sinclair si sia appropriato nemmeno di un centesimo.» «Non vuole crederlo? Che cosa diavolo dice?» Invece di rispondere, Truslow mi porse una cartelletta gialla. Sull'etichetta si leggeva una classificazione dell'Agenzia, Gamma Uno. Mai mi era stato consentito di ficcare il naso in qualcosa di così alto livello. Dentro c'era un assortimento di fotocopie di assegni, di stampate di computer, di foto sfocate. In una delle quali si vedeva un uomo con un pa-
nama, seduto in un atrio. Senza dubbio Hal Sinclair. «Che cosa sarebbe questa roba?» chiesi, anche se lo sapevo già. «Hal fotografato in una banca di Grand Cayman, evidentemente in attesa di incontrarsi con il direttore. Nelle altre compare sempre lui, ripreso in diverse banche del Liechtenstein, del Belize e di Anguilla.» «Ma non provano niente.» «Senta, Ben. Ero uno dei suoi amici più intimi e questa roba ha sconvolto anche me. Per diversi giorni, in un certo periodo, Hal non si è visto al lavoro... ammalato, si riteneva, o via per una breve vacanza. Ed era irraggiungibile, o comunque aveva combinato le cose in modo che era lui a chiamare l'ufficio. È stato evidentemente allora che ha proceduto ai depositi. È registrata agli atti una serie di viaggi che ha fatto servendosi di diversi passaporti falsi.»1 «Ma sono palle, Alex!» Sospirò. Evidentemente tutto ciò lo turbava. «Ecco qui la sua firma sui documenti di registrazione di un Anstalt, un'azienda a responsabilità limitata con sede in Liechtenstein. Una semplice facciata: l'identità del vero proprietario, come vedrà, è Harrison Sinclair. Ed ecco le copie delle intercettazioni di alcuni bonifici telegrafici con cui si trasferivano fondi su vari conti cifrati di Bermuda. Di proprietà liberiana, ovviamente. Registrazioni telefoniche, telex, autorizzazioni telegrafiche di trasferimento. Un vero labirinto, Ben. Sono prove, pure e semplici prove, e mi spezzano il cuore. Ma sono lì.» Non sapevo che cosa pensare; a prima vista sembrava tutta roba autentica. Ma non aveva senso. Il mio defunto suocero sarebbe stato un truffatore, un ladro? Bisognava conoscerlo come lo conoscevo io per capire quanto fosse difficile accettare una simile idea. Tuttavia rimaneva sempre un infinitesimo seme di dubbio. Gli altri non li si conosce mai fino in fondo. «La chiave di tutto sta nell'incontro di Sinclair con Orlov a Zurigo» continuò Truslow. «Ci pensi. Che cosa le dice la parola Zurigo?» «Gnomi.» «Già.» Gli gnomi di Zurigo. Espressione che credo sia stata coniata nei primi anni Sessanta da un giornalista britannico per indicare i banchieri svizzeri, tanto solleciti e discreti con i mafiosi e i pezzi da novanta della droga. «Eh, sì. Precisamente. È fuori di dubbio che quando lui e Orlov si sono incontrati a Zurigo avevano in mente una transazione. Non si trattava certo
di un'occasione mondana.» Quindi, fattosi pensoso, aggiunse: «Il capo della CIA e l'ultimo capo del KGB». «Un caso» dissi. «Può darsi. Voglia Dio che per tutto ciò ci sia una spiegazione. E personalmente sono convinto di sì. Quindi spero che lei capisca perché voglio eliminare ogni ombra dal suo nome. L'Agenzia mi ha affidato l'incarico di rintracciare un'enorme somma scomparsa, una fortuna al cui confronto i dodici milioni e mezzo di cui Hal si sarebbe appropriato non sono che una bazzecola. E io ho bisogno del suo aiuto. Insieme possiamo prendere due piccioni con una fava: trovare i soldi e dimostrare l'innocenza di Hal. Posso contare su lei?» «Sì» risposi. «Sì, certo.» «È una questione della massima segretezza, Ben, come lei può capire. Le toccherà affrontare la solita routine, il lie detector, gli esami medici e così via. Prima che se ne vada, questa sera le darò uno scrambler per il suo telefono di studio, compatibile con quello che ho in ufficio io. Ma devo essere sincero: ci sono molte persone che cercheranno di metterle i bastoni tra le ruote.» «Capisco» replicai. Mentre in realtà non capivo affatto, o perlomeno non fino in fondo, e non avevo certo la minima idea di che cosa avesse in mente. O perlomeno non l'ebbi fino al mattino dopo. 10 Ciò che successe il mattino dopo me lo ricordo con sorprendente chiarezza. Gli uffici della Truslow Associates occupavano tutti i quattro piani di un vecchio palazzo in mattoni a vista in Beacon Street (a poca distanza a piedi, mi resi conto, da Louisburg Square, dove Truslow abitava). Una targa in ottone sull'elaborata porta d'ingresso annunciava: TRUSLOW ASSOCIATES, INC., senza alcuna ulteriore spiegazione. Chi aveva bisogno di chiedere non era evidentemente il caso che sapesse. L'ufficio era lussuoso. Bisognava suonare il campanello per essere ammessi in una piccola anticamera e sottoposti all'esame di una receptionist fresca di parrucchiere, che provvedeva a trasferire il visitatore in una tranquilla saletta d'attesa, di sobria eleganza e mobilio molto costoso. Aspettai una decina di minuti, sprofondato in una comoda poltrona di pelle nera, sfogliando Vanity Fair.
Con dieci minuti esatti di ritardo sull'orario fissato la segretaria di Truslow comparve da chissà quale altro impegno importante (caffè e brioche, immagino) per scortarmi su per una serie di scricchiolanti scale rivestite di moquette che portavano all'ufficio del capo. Una classica segretaria di direzione, tra i trenta e i quaranta, carina, efficiente, abito Chanel e grossa collana d'oro sempre Chanel. Si presentò come Donna e mi chiese se volevo un po' di acqua di Evian, un caffè o un succo fresco d'arancia. Chiesi una tazza di caffè. Al mio ingresso, Alexander Truslow si alzò da dietro la scrivania. Nel suo ufficio la luce era talmente forte che avrei voluto avere con me gli occhiali da sole: entrava a fiotti dai finestroni e veniva riflessa dalle pareti in bianco marmorizzato. Seduto in una poltrona accanto alla sua scrivania c'era un uomo dalle spalle tonde e dai capelli bruni, corpulento, poco più che cinquantenne. «Ben» disse Truslow. «Voglio presentarle Charles Rossi.» L'altro si alzò, stringendomi la mano in una presa tale da fracassarmi le ossa, e disse: «Piacere di conoscerla, Mr. Ellison». «Piacere mio» risposi, anche se dubitavo che ciò si sarebbe rivelato vero. E una volta che ci fummo seduti entrambi aggiunsi: «Mi chiami pure Ben». Lui annuì, sorridendo. La segretaria mi mise davanti un caffè appena preparato e servito in una tazzina di ceramica italiana. Era molto buono. Tolsi dalla cartella un taccuino giallo e la mia Mont Blanc. Quando la segretaria se ne fu andata, Truslow prese a digitare qualcosa sulla tastiera Amtel che aveva davanti, lo strumento che gli consentiva di comunicare in maniera riservata con lei durante le riunioni o le telefonate. «La questione che stiamo per discutere deve rimanere della massima segretezza.» Annuii, bevendo un sorso di caffè. «Ti prego di scusarci un attimo, Charles» aggiunse Truslow. E Rossi si alzò e uscì, chiudendosi dietro la porta. «È il nostro collegamento con la CIA,» spiegò Truslow «venuto da Langley apposta per occuparsi di lei per quanto concerne questa storia.» «In che senso?» replicai. «Mi ha telefonato ieri sera. Data la delicatezza del progetto del quale siamo stati incaricati, l'Agenzia si preoccupa per la segretezza... ed è comprensibile. Perciò pretendono di mettere in atto le loro procedure di auto-
rizzazione.» Annuii. «A me sembra un po' esagerato» continuò Truslow. «Lei è già stato sottoposto a tutti gli esami e alle solite fesserie del caso. Ma per l'autorizzazione definitiva, Rossi vuole farle qualche esame preliminare... per contratto con la Central Intelligence Agency noi siamo tenuti a "passare" al poligrafo tutti i collaboratori esterni.» «Capisco» risposi. Si riferiva al lie detector, lo strumento a cui tutti i dipendenti dell'Agenzia sono tenuti a sottoporsi diverse volte nel corso della loro carriera, anzitutto all'inizio, poi periodicamente e a volte anche dopo un'operazione d'importanza cruciale o mentre si stanno occupando di un caso particolare. «Ben,» continuò Truslow «come punto centrale della nostra indagine noi vorremmo che lei si mettesse sulle tracce di Vladimir Orlov, cercando di scoprire tutto quello che può sui motivi e sul contenuto dell'incontro che ha avuto con suo suocero. Può anche darsi che Orlov abbia fatto il doppio gioco, e io voglio saperlo.» «Mettermi sulle tracce di Orlov?» chiesi. «È tutto ciò che posso dirle finché non avrà ricevuto l'autorizzazione. Una volta che sarà stato passato al poligrafo potremo procedere oltre.» E premette un pulsante sulla scrivania, facendo rientrare Rossi. Quindi uscì da dietro la sua massiccia scrivania per battergli una manata su una spalla. «Adesso la affido a Charles» mi disse, serrandomi la mano in una stretta ferma. «Benvenuto, amico.» Lo vidi rivolgersi nuovamente all'Amtel e premere un tasto sul telefono. Mentre lasciavo il suo ufficio ebbi un'ultima fugace visione della sua persona, meditabonda, stagliata di profilo sullo sfondo della sfolgorante luce del mattino. Charles Rossi mi portò con la sua auto, una berlina blu governativa, dall'altra parte del fiume, in un edificio ultramoderno nella zona di Cambridge attorno a Kendall Square, vicino al Massachusetts Institute of Technology e alle grosse aziende produttrici di alta tecnologia che hanno sede lì. Usciti dall'ascensore al quinto piano entrammo in una zona di ricevimento dall'aria molto funzionale, tutta cromo, acciaio, moquette grigia e legni chiari. Sulla parete di fronte a noi era affissa una targa su cui si leggeva DEVELOPMENTAL RESEARCH LABORATORIES: INGRESSO CONSENTITO SOLTANTO ALLE PERSONE AUTORIZZATE. Capii subito che si trattava di una facciata della Central Intelligence A-
gency. Tutto lo gridava: la denominazione criptica, l'anonimato, il silenzio ostile. Sapevo che l'Agenzia disponeva di laboratori e di strutture di analisi nei sobborghi di Washington e in un palazzo di Water Street, a New York, ma non mi ero mai accorto che avesse una sede anche a Cambridge, nel territorio del Massachusetts Institute of Technology. Tuttavia era logico. Senza dire praticamente nulla, Rossi mi guidò attraverso grosse porte metalliche che sbloccò inserendo una tessera magnetica in una fessura verticale. Si aprirono sullo spettacolo di un immenso locale pieno di file e file di terminali di computer, quasi tutti con seduto davanti qualcuno impegnato a digitare sulla tastiera. «Non un grande spettacolo, eh?» osservò Rossi mentre eravamo lì fermi sull'ingresso. «Una barba.» «Dovrebbe vedere il nostro studio» replicai. Rise cortesemente. «In realtà qui viene portata avanti una serie di progetti. Apparecchiature miniaturizzate, crittografia automatizzata, visione computerizzata e roba del genere. Se ne intende?» «Mica tanto» risposi. «Be', prendiamo per esempio la crittografia automatizzata. È stata creata dalla DARPA, la Defense Advanced Research Projects Agency, una branca del ministero della Difesa.» Annuii, mentre mi guidava verso un terminal, una work station SPARC2 con cui un giovane segaligno e barbuto sembrava furiosamente in polemica. «Questo terminal è prodotto dalla Sun Microsystems, e "parla" con un supercomputer CM-3 della Thinking Machines Corporation.» «Ah...» «Comunque, il nostro Keith, qui, sta elaborando alcuni algoritmi crittografici plain-text... ovvero codici teoricamente indecifrabili dall'esterno. In parole semplici, ciò ci consentirà di tradurre, di mettere in codice informazioni di massima segretezza in maniera da farle apparire un innocuo documento in inglese, non una serie di parole senza senso ma vera e propria prosa. E tramite il riconoscimento del parlato i nostri computer saranno in grado di decrittarlo. Codici trabocchetto e roba del genere, insomma.» Non avevo capito niente, ma annuii comunque. Rossi invece si rivelò un profondo conoscitore della materia. «Sto parlando in gergo» si scusò. «Mi consenta di spiegarmi con altre parole. Un agente sul campo sarà in grado di mettere in codice un documento riservato trasformandolo nel testo di una comune trasmissione radiofonica via Voice of America. All'ascoltatore comune non sembrerà nulla di fuori dall'ordinario, ma il computer giusto
sarà in grado di decrittarlo.» «Bello.» «Oh, in ogni caso le cose a cui stiamo lavorando sono moltissime. Diversi apparecchi miniaturizzati, per esempio, vengono progettati qui. Però poi li facciamo produrre altrove, da un laboratorio di nanotecnologia.» «E a che cosa servono?» Scrollò un attimo il capo, come se fosse indeciso, quindi rispose: «Sono microstrumenti fatti con silicone e xeno, della dimensione di pochi ångstrom, che possono essere piazzati sotto un computer, per esempio, e fungere da trasmittente. Servono anche per impieghi molto più utili, ma è un campo in cui non posso addentrarmi. Quindi, se non le spiace...». Tornammo nel corridoio bianco, introducendoci in un'altra zona riservata, cui Rossi ebbe accesso inserendo un'altra tessera magnetica in un'altra fessura verticale. «Sicurezza» si limitò a dire, voltandosi. Ora eravamo in un corridoio completamente bianco, senza finestre. Su una targa davanti a noi si leggeva: SOLTANTO PERSONALE AUTORIZZATO. Rossi mi guidò per questo corridoio, oltre un altro complesso di porte e infine in un locale in cemento armato dall'aspetto particolare. Al centro c'era un ambiente più piccolo, chiuso sotto vetro, in cui era contenuta una grossa apparecchiatura bianca, alta più o meno cinque metri e larga tre. Tutto attorno alle pareti di vetro c'era una batteria di monitor di computer. «Un tomografo a risonanza magnetica» dissi. «Ne ho visti negli ospedali. Però questo mi sembra molto più grosso.» «Bravo. Un TRM. Quelli che si vedono negli ospedali possono avere una gamma operativa variabile dal mezzo tesla al tesla e mezzo, che è un'unità di misura dell'energia del magnete interno. Può capitare eccezionalmente di vedere un due tesla utilizzato per impieghi di alta specializzazione... Questo è un quattro tesla.» «Una potenza tremenda!» «Ma accompagnata da una sicurezza assoluta. Inoltre, è stato sottoposto a qualche modifica. Sotto la mia direzione.» E lo sguardo di Rossi si perse per il locale in cemento armato, come distratto. «In che senso, sicurezza?» «Lei sta vedendo un sostituto del vecchio poligrafo. Un TMR modificato verrà presto impiegato dall'Agenzia per procedere all'analisi di uomini dei servizi, transfughi, agenti e così via, in modo da fornire un'"impronta digitale" della mente che possa risultare affidabile.»
«Le spiacerebbe spiegarmi meglio?» «Lei è senz'altro al corrente dei molti inconvenienti del vecchio sistema basato sul lie detector.» Lo ero, ma ascoltai lo stesso la sua spiegazione. «La vecchia tecnica del lie detector si basa sugli strumenti di verifica della pressione sanguigna e sugli elettrodi che misurano le reazioni galvaniche della pelle, sudore, cambiamenti della temperatura eccetera. È un sistema rozzo, affidabile soltanto per il sessanta per cento. Se pure ci arriva.» «Già» confermai, in tono impaziente. Ma lui continuò imperturbabile. «I sovietici non lo hanno impiegato, come forse lei sa. Hanno tenuto dei corsi sui modi per mandarlo a puttane. Mio Dio, ricorda quando ventisette agenti doppiogiochisti della DGI cubana che lavoravano contro di noi hanno superato senza danni l'esame del lie detector cui li ha sottoposti la CIA?» «Certo» risposi. A quei tempi facevo parte anch'io del mondo dell'Agenzia. «Quel maledetto aggeggio registra soltanto le reazioni emotive, come lei sa, che variano di molto a seconda del carattere. Eppure l'esame del lie detector è la pietra angolare di moltissime nostre operazioni d'intelligence. Non soltanto della CIA ma anche della DIA, della NSA e di una serie di altri servizi e strutture di spionaggio. La loro sicurezza operativa si basa completamente su questo sistema per stabilire credibilità e affidabilità del prodotto, persino per sottoporre al vaglio aspiranti e transfughi.» «Ed è facile da fregare» aggiunsi. «In un modo imbarazzante» rincarò. «E non soltanto per quanto concerne gli asociali e gli individui non suscettibili alla normale gamma delle emozioni umane, come senso di colpa e ansia, problemi di coscienza e roba del genere. Qualsiasi professionista ben addestrato può fottere quella macchina servendosi di una serie di droghe. Persino un accorgimento semplice come provocarsi dolore fisico durante l'esame può mandare a puttane i risultati. Cristo, si va a inciampare in una puntina da disegno.» «Già, già» lo pungolai. «Quindi, se non le spiace, vorrei cominciare, in modo da poterla rispedire a Mr. Truslow.» 11
«Mezz'ora,» disse Rossi «e lei dovrebbe essere fuori di qui. Diretto alla sua destinazione.» Eravamo fuori dell'ambiente del TRM, e stavamo osservando una ricostruzione computerizzata del cervello umano presentata su un monitor a colori. Sullo schermo davanti a me un'immagine al naturale di un cervello ruotò e poi si aprì, strato dopo strato, come un pompelmo. Seduta davanti al monitor, impegnata a far scorrere le diverse immagini, c'era una degli assistenti di laboratorio di Rossi, una laureata del MIT, bruna, minuta, di nome Ann. La corteccia cerebrale, mi spiegò con una voce bassa, da bambina, è composta di sei strati. «Abbiamo scoperto che esiste una differenza perfettamente distinguibile del suo aspetto se una persona sta mentendo oppure dice la verità» disse. E in tono confidenziale aggiunse: «Naturalmente continuo a non avere la più vaga idea se ciò abbia origine dai neuroni o dalle cellule gliali, ma ci stiamo lavorando». E fece comparire l'immagine computerizzata del cervello di un bugiardo, che sembrava avere delle ombreggiature diverse da quelle del cervello di un non bugiardo. «Se vuole togliersi la giacca,» intervenne Rossi «starà più comodo.» Accettai il consiglio e mi tolsi anche la cravatta, sistemandole entrambe sullo schienale. Intanto Ann era entrata nell'ambiente interno, mettendosi a sistemare l'apparecchio. «Adesso tolga tutti gli oggetti metallici» continuò Rossi. «Chiavi, fibbia della cintura, bretelle, monete, anche l'orologio. Visto che in sostanza si tratta di un grosso magnete, qualsiasi oggetto di ferro o di acciaio rischia di volarle fuori dalle tasche. Il magnete è in grado di farle fermare l'orologio, o perlomeno di mandarlo in vacca.» E ridacchiò con aria divertita. «Anche il portafoglio.» «Il portafoglio?» «Quell'aggeggio può smagnetizzare carte di credito, strisce magnetiche e simili. Non ha per caso una calotta d'acciaio in testa o qualcosa del genere, vero?» «No.» E finii di svuotarmi le tasche, sistemando tutto su un tavolo del laboratorio. «Va bene» disse Rossi, guidandomi nell'ambiente interno. «Potrebbe soffrire di claustrofobia. Le dà noia?» «Non in particolare.» «Benissimo. Lì dentro c'è anche uno specchio, in modo che lei possa guardarsi, anche se a molti non piace vedersi stesi lunghi e tirati nell'appa-
recchio. Secondo me ad alcuni fa venire in mente come saranno nella bara.» E riprese a ridacchiare. Mi stesi sulla piattaforma bianca, a cui Ann mi assicurò con alcune cinghie. Quelle per la testa erano perfettamente su misura e protette da materiale spugnoso. Il tutto però era tale da mettere un po' a disagio. Ann fece rientrare lentamente la piattaforma nell'apparecchio. Al centro della ciambella, come mi era stato detto, c'era uno specchio che mi consentiva di vedere una mia immagine riflessa a mezzo busto. Da dentro l'ambiente sentii la voce di Ann dire: «... ad attivare il magnete». Poi, da un altoparlante interno all'apparecchio sentii quella di Rossi chiedere: «Tutto bene, lì dentro?». «Benissimo» risposi. «Quanto dura?» «Sei ore» rispose la voce. «Sto scherzando. Dieci minuti. Un quarto d'ora al massimo.» «Ah ah.» «Tutto a posto?» «Forza» li esortai. «Sentirà un rumore battente,» disse la rediviva voce di Rossi «ma sopra di esso lei continuerà a sentire anche me. Okay?» «Okay» risposi, impaziente. La protezione per la testa mi impediva di muoverla, dandomi una sensazione di disagio. «Procediamo.» E di punto in bianco attaccò un rumore tipo martello pneumatico, un tambureggiare ritmico a intervalli di meno di un secondo. «Ben, adesso le farò una serie di domande» continuò la voce di Rossi, metallica. «Risponda semplicemente sì o no.» «Non è la prima volta che vengo sottoposto al lie detector» replicai. «Capisco» ribatté la voce metallica. «Lei si chiama Benjamin Ellison?» «Sì» risposi. «Lei si chiama John Doe?» Il tipico nome del poveraccio medio americano? No di certo. «No.» «È medico?» «No.» «Ha avuto una relazione extraconiugale?» «Che cosa c'entra?» gridai, seccato. «La prego, abbia pazienza. Risponda soltanto sì o no.»
Ebbi un'esitazione. Alla stessa stregua di Jimmy Carter, mi è capitato di albergare lussuria nell'animo. «No» risposi. «È stato impiegato presso la Central Intelligence Agency?» «Sì.» «Abita a Boston?» «Sì.» Le voci erano due, una femminile, quella di Ann, e una maschile, quella di Rossi. Quest'ultima, amplificata, chiese: «È stato agente dell'intelligence sovietica?». Reagii sbuffando. «Risponda sì o no, Ben. Come lei può ben capire si tratta di domande destinate a calcolare i parametri dei suoi livelli di ansia. È stato agente dell'intelligence sovietica?» «No» risposi. «È sposato con Martha Sinclair?» «Sì.» «Tutto bene, lì dentro, Ben?» «Ottimamente. Andiamo avanti.» «È nato a New York?» «No.» «È nato a Philadelphia?» «Sì.» «Ha trentotto anni?» «No.» «Ne ha trentanove?» «Sì.» «Lei si chiama Benjamin Ellison?» «Sì.» «Adesso, Ben, voglio che alle prossime due domande lei menta. La sua specializzazione professionale è il diritto immobiliare?» «Sì» risposi. «Si è mai masturbato?» «No.» «Adesso la verità. Quando lavorava per i servizi segreti americani, ha operato anche per quelli di un qualsiasi altro Paese?» «No.» «Dopo la conclusione del suo rapporto di lavoro con la Central Intelligence Agency, è entrato in contatto in qualsiasi momento con qual-
che agente segreto connesso con quelli che erano allora l'Unione Sovietica o il Blocco sovietico?» «No.» Vi fu una lunga pausa, finché la voce di Rossi tornò a farsi sentire. «Grazie, Ben. Basta così.» «Allora si spicci a farmi uscire da qui.» «Ci pensa Ann, fra un attimo.» Il martellìo pneumatico cessò di punto in bianco come era cominciato, e il silenzio che seguì costituì un immenso sollievo. Mi sentivo le orecchie gonfie. Tornai a sentire voci, lontane: sicuramente i tecnici del laboratorio. «Abbiamo finito» disse Ann, che intanto tornava a far scorrere fuori la piattaforma. «Auguriamoci che stia bene.» «Prego?» chiesi. «Ho detto che abbiamo finito.» Si chinò a sciogliere la protezione della testa, passando poi alle cinghie in velcro che mi stringevano alle caviglie e alle cosce. «Sto benissimo» risposi. «Salvo l'udito, che penso andrà a posto in un paio di giorni.» Ann mi rivolse uno sguardo intenso, inarcò i sopraccigli e replicò: «Non avrà nessunissimo problema». Poi mi aiutò a smontare dalla piattaforma. «Non è poi stata questa gran fatica, no?» continuò, mentre mi mettevo in piedi, aggiungendo in tono irritato: «Non ha funzionato, non ha funzionato». «Che cosa?» Lei mi rivolse un altro sguardo perplesso. Ebbe una breve esitazione, e rispose: «È andato tutto bene». La seguii nel locale esterno, dove Rossi ci aspettava in piedi, mani affondate nelle tasche del soprabito, atteggiamento rilassato. «Grazie, Ben» disse. «Lei è pulito. E non c'è da sorprendersi. Le immagini evidenziate dal computer - tante istantanee della sua attività cerebrale, in sostanza - indicano che lei è stato totalmente sincero, tranne quando le ho chiesto di mentire.» Quindi si voltò per prendere un fascio di pratiche. Mentre mi avvicinavo per recuperare le mie cose, lo sentii borbottare qualcosa a proposito di Truslow. «Che cosa sta dicendo di Truslow?» chiesi. Lui si girò e mi sorrise. «Scusi?» «Non stava parlando con me?» domandai ancora.
Mi fissò per cinque secondi buoni, poi scosse la testa scrutandomi freddamente. «Non importa» dissi, ma ero sicuro di averlo sentito. Eravamo a non più di un metro di distanza, non c'era alcuna possibilità che avessi capito male: aveva detto qualcosa a proposito di Truslow. Forse non si era reso conto di aver parlato ad alta voce. Rivolsi la mia attenzione alla sfilata di oggetti depositati sul tavolo accanto a noi, l'orologio, la cintura, le monete e così via. E Rossi tornò a dire, chiaramente come prima: «È possibile?». Lo guardai, senza ribattere. «Ha funzionato?» disse ancora la voce di Rossi, vagamente indistinta, un po' distante. Ma... ... e questa volta ne ero certo... ... la sua bocca non si era mossa. Non aveva detto una sola parola. La consapevolezza del fatto mi affondò nell'intimo, raggelandomi. SECONDA PARTE La facoltà Secondo tre relazioni appena rese di pubblico dominio, il Pentagono avrebbe speso milioni di dollari in progetti segreti nel campo dell'indagine sui fenomeni extrasensoriali e per verificare se il potere della mente umana in sé possa essere sfruttato ai fini dell'espletamento di azioni di spionaggio... THE NEW YORK TIMES, 10 gennaio 1984 FINANCIAL TIMES L'Europa teme una dominazione nazista in una Germania in crisi DA BONN, ELIZABETH WILSON Nella corsa a tre alla carica di cancelliere di Germania, Jurgen Krauss, leader del rinato partito nazionalsocialista, sembra destinato ad avere la meglio su entrambi i candidati moderati, il leader del partito democratico cristiano, Wilhelm Vogel, e l'uscente...
Sulla scia del crollo del mercato borsistico tedesco e della conseguente crisi economica, sono diffusi i timori, in Germania come in tutta Europa, di una recrudescenza del nazismo sotto nuova forma. 12 Rossi e io ci squadrammo per un attimo. E nei lunghi mesi trascorsi da quell'istante non sono mai riuscito a spiegare il fatto in una maniera che potesse apparire soddisfacente, e meno che mai a me stesso. La sua voce l'avevo sentita chiaramente, distintamente, come se mi avesse davvero detto qualcosa. Non proprio a voce alta, però. Il timbro era diverso da quello del suo abituale modo di parlare, così come una telefonata interurbana appare diversa da una locale, chiara. Un po' meno distinto, un po' distante, vagamente smorzato, come quello di una voce sentita attraverso un muro di cartone di un alberghetto da quattro soldi. Tra il normale tono di Rossi e questa - come posso chiamarla? - questa sua voce "mentale", pensata, c'era una differenza inequivocabile. La voce vera e propria era un po' più incisa, quella mentale era più bassa, morbida, arrotondata. Ero in grado di sentire i suoi pensieri. La mia testa prese a pulsare, un dolore palpitante, maligno, localizzato nella tempia destra. Tutto ciò che c'era in quel locale - Rossi, la sua assistente che mi guardava a bocca aperta, i macchinari, i grembiuli gommati da laboratorio appesi ai ganci accanto alla porta - appariva circondato da un alone baluginante. Cominciai ad avvertire uno sgradevole formicolìo su tutta la pelle, caldissimo e poi freddo, mi sentii prendere allo stomaco da un'ondata di nausea. Sull'argomento della percezione extrasensoriale, dei fenomeni psichici e "psi" sono stati scritti volumi e volumi, per lo più zeppi di sciocchezze - lo so di persona, li ho probabilmente letti tutti da cima a fondo - ma nessun teorico ha mai avanzato l'ipotesi che potesse essere una cosa così. Io sentivo i pensieri di quell'uomo. Non tutti, grazie a Dio, altrimenti sarei già diventato pazzo da molto tempo. Soltanto alcuni, ciò che gli veniva in mente con un certo livello di ansia, con una sufficiente intensità.
O perlomeno così sono arrivato a capire molto più tardi. In quel momento, però, nell'attimo della presa di coscienza, non ero giunto all'attuale livello di analisi. Sapevo soltanto - lo sapevo - che avevo sentito qualcosa che Rossi non aveva detto a voce alta, e la cosa mi riempiva di un orrore senza fine. Ero sull'orlo di un precipizio, da ora in avanti avrei dovuto lottare per non uscire di senno. In quel momento mi convinsi che qualcosa dentro di me si era spezzato, un filo della mia salute mentale si era rotto; le forze magnetiche di quel TRM mi avevano fatto qualcosa di terribile, mi avevano precipitato in una crisi nervosa; stavo perdendo il contatto con la realtà. Reagii nell'unico modo che mi era possibile: la negazione assoluta. Mi piacerebbe potermi vantare di essere stato scaltro, o furbo, poter dire che già allora sapevo di dover tenere soltanto per me questa strana e orrenda circostanza, ma la prima cosa che mi venne in mente non fu affatto quella. L'istinto mi ordinò di mantenere una parvenza di equilibrio mentale, di non lasciar capire a Rossi che sentivo. Fu lui il primo a parlare, a bassa voce. «Non ho detto proprio niente di Truslow» borbottò, scrutandomi attentamente, guardandomi fisso negli occhi da una distanza tanto ridotta da mettermi a disagio. «Mi era sembrato, Charlie» replicai. «Devo avere sentito male.» Quindi, voltatomi verso il tavolo da laboratorio, mi misi a raccogliere portafoglio, chiavi, monete e penne, cominciando a sistemarli nelle tasche. E mentre lo facevo arretrai, con aria disinvolta, allontanandomi da lui. Il mal di testa e la sensazione di freddo erano aumentati, un'emicrania bella e buona. «Non ho detto niente» ripeté Rossi in tono neutro. Sorrisi con aria conciliante, annuendo. Avrei voluto sedermi da qualche parte e legarmi qualcosa attorno alla testa per strizzarne fuori il dolore. Con giovialità forzata replicai: «Allora, se per oggi abbiamo finito...». Rossi mi scoccò un'occhiata sospettosa. Sbatté le palpebre una volta, una seconda, e poi disse: «Fra un attimo. Adesso dobbiamo sederci qualche minuto e fare quattro chiacchiere». E mi rivolse un altro lungo sguardo intenso e... ... e io sentii un mormorio: Ce l'avrà? «No, senta,» ribattei «ho un mal di testa tremendo. Un'emicrania.» Ormai ero a un paio di metri da lui e mi stavo rimettendo la giacca. Rossi continuava a guardarmi come se fossi un boa constrictor che stesse at-
torcigliando e svolgendo le spire nel bel mezzo della sua camera da letto. Nel silenzio mi sforzai di sentire ancora uno di questi mormorii, di queste voci vaghe. Niente. Che quegli ultimi istanti me li fossi soltanto immaginati? Erano forse stati soltanto una serie di allucinazioni, come l'alone baluginante che circondava tutto ciò che c'era in quel locale? Sarei tornato in me da un momento all'altro dopo una momentanea fuga dalla salute mentale? «Ne soffre abitualmente?» chiese Rossi. «Non ne ho mai avuta neanche una in vita mia. Dev'essere stata provocata dal test.» «È impossibile. Con il TRM non è mai successo, neanche una volta.» «Be',» replicai «comunque sia bisogna che torni in studio.» «Non abbiamo ancora finito» ribatté, voltandosi verso di me. «Temo che...» «Facciamo in un attimo. Torno subito.» E se ne andò verso il locale adiacente, dove venivano monitorizzate le batterie di computer. Lo vidi avvicinarsi a uno dei tecnici per dirgli qualcosa furtivamente e quello gli porse un piccolo fascio di stampate. Poi Rossi tornò da me, portando con sé il fascio di immagini computerizzate realizzate attraverso il TRM. Prese posto a un lungo tavolo da laboratorio, dal ripiano nero, e mi fece cenno di sedermi di fronte a lui. Esitai un attimo, ci pensai su e poi obbedii. Rossi sparse le immagini sul ripiano e le scrutò con attenzione, a testa china, apparentemente consultandole. Eravamo seduti a poco meno di un metro l'uno dall'altro. Sentii la sua voce, attutita ma sbalorditivamente chiara, dire: Secondo me, tu la facoltà ce l'hai. «Ecco qui» spiegò «il suo cervello all'inizio del test.» E indicò la prima immagine, che spostai verso di me per osservarla attentamente. «Rimane identica per quasi tutto lo svolgimento del test, dal momento che lei ha quasi sempre detto la verità.» Devi fidarti di me, sentii dire. Devi fidarti. Indicò un'ultima serie di immagini, che persino a me apparvero colorate lungo la corteccia cerebrale in un modo un po' diverso, in giallo e magenta invece che in ruggine e in una gamma di beige. Mi indicò con le dita le zone dove il cambiamento era più evidente. «Ecco, lì lei sta mentendo.» E si affrettò a sorridere, aggiungendo con
cortesia superflua: «Come d'altra parte le avevo chiesto di fare». «Vedo.» «Ma mi preoccupa il suo mal di testa.» «Passerà» replicai. «Mi preoccupa la possibilità che a procurarglielo possa essere stato questo apparecchio.» «Il rumore» dissi. «Forse è stato il rumore. Passerà.» Rossi annuì, sempre a testa china. E io sentii dire: Sarà tutto più facile se ci fideremo l'uno dell'altro. La voce parve svanire un attimo, ma poi ricomparve, aggiungendo: ... a dirmi. Ma davanti a me Rossi non stava parlando, tanto che fui io a interloquire: «Se non c'è altro...». Alle tue spalle, riprese la voce, ora agitata e alta. Ti sta venendo addosso da dietro. Ha una pistola carica. Sei in pericolo. Te la punta alla testa. Ma in realtà Rossi non stava dicendo niente. Stava pensando. Io non tradii alcuna reazione. Continuai a guardarlo con aria interrogativa ma al tempo stesso il più possibile disinvolta. Adesso, adesso, adesso. Speriamo che non senta i passi alle sue spalle. Mi stava sottoponendo a un test. Ne fui sicuro. "Non devo reagire," pensai "non devo mostrare alcun timore, è ciò che vuole, vuole vedere sul mio viso un minimo segno, un barlume di spavento, vuole che mi giri di scatto, che trasalisca, che gli faccia capire che sento." «A questo punto dovrei veramente andare» dissi con calma. Ma sentii dire: Chissà. «Bene» fece. «Possiamo parlare la prossima volta.» Ma sentii dire: O mente o... Lo stavo guardando in faccia e avevo osservato che la sua bocca non si muoveva. Mi sentii pervadere dall'orrore, simile a un formicolìo su tutta la pelle, il battito del cuore accelerò furiosamente. Rossi mi stava a sua volta osservando, e fui sicuro di cogliere nel suo sguardo un accenno di rassegnazione. Almeno per il momento lo avevo fottuto. Ma qualcosa di lui mi diceva che questo stato di cose non sarebbe durato a lungo. 13 Rimasi a sedere, stordito, sul sedile posteriore di un taxi che si apriva un varco verso il mio ufficio nelle vaste ma intasate strade attorno al Gover-
nment Center. La testa mi pulsava peggio che mai, ero sull'orlo di un attacco di vomito. Il minimo che possa dire è che rischiavo di cedere a una profonda, tremenda crisi di nervi. Il mondo mi era stato capovolto. Nulla aveva più senso. Avevo una gran paura di essere in procinto di uscire di senno. Sentivo voci, voci non espresse. Sentivo, in altri termini, i pensieri degli altri con la stessa chiarezza come se fossero stati espressi ad alta voce. Ed ero convinto di essere in procinto d'impazzire. Non sono in grado di stabilire con esattezza che cosa sapessi già allora e che cosa sia arrivato a concludere più avanti. Tutto ciò lo avevo veramente "sentito"? Com'era possibile? E, per venire al punto, che cosa intendevano dire Rossi e la sua assistente quando si erano chiesti: «Avrà funzionato?». Mi sembrava che la spiegazione potesse essere una sola: sapevano. Per qualche motivo, Rossi e Ann non erano meravigliati che il TRM avesse provocato in me quell'effetto. Non avevo infatti alcun dubbio che fosse stato quell'apparecchio a modificare chissà come i miei circuiti cerebrali. Ma Truslow era al corrente dell'accaduto? E un attimo dopo aver proceduto con lucidità a questa serie di riflessioni mi trovai a chiedermi con spavento se non fossi per caso precipitato in una spirale di follia. Mentre il taxi procedeva lentissimo nel traffico, i miei pensieri si andavano facendo sempre più sospettosi. Forse il test con il lie detector non era stato altro che un espediente per sottopormi con la forza a quella procedura. In altre parole: forse quella gente sapeva in anticipo che cosa mi sarebbe successo. Quindi, di nuovo: lo sapeva anche Truslow? Ed ero riuscito davvero a imbrogliare Rossi? Oppure aveva capito che disponevo di questa strana e terribile facoltà? Temevo che la seconda ipotesi fosse quella esatta. Di norma, quando qualcuno dice una cosa che echeggia ciò che stavamo pensando - capita a tutti - reagiamo con la sorpresa, e spesso con grande piacere. È senza dubbio abbastanza gradevole scoprire di avere un altro essere umano in simile sintonia con noi. Invece Rossi non era parso affatto sorpreso. Caso mai - come dire? - in guardia, allarmato, sospettoso. Come se si aspettasse fin da prima che le cose sarebbero andate così. Riflettendo sulla scena, mi chiedevo se lo avessi convinto al cento per
cento che nella mia reazione non c'era niente di inusuale, che ero semplicemente sembrato in sintonia con i suoi pensieri, ma che in realtà si trattava di una coincidenza. Quando il taxi entrò nel quartiere finanziario mi sporsi in avanti per dare le indicazioni necessarie all'autista. Un nero di mezza età, con una barbetta rada, che guidava standosene distrattamente stravaccato, come immerso in una sua fantasticheria privata. Eravamo separati da una lastra di plexiglas piena di graffi. Mentre parlavo rivolto ai forellini di comunicazione, di punto in bianco mi resi conto di una cosa molto singolare: l'autista non lo "sentivo". A questo punto la mia confusione divenne totale. La mia nuova facoltà si era interrotta, o era cessata del tutto? Oppure dipendeva dal plexiglas, o dalla distanza, o da qualcos'altro? Ancora una volta: forse mi ero immaginato tutto. «Svolti a destra» dissi. «È quel grande palazzo grigio sulla sinistra.» Niente. Il rumore della radio, un talk show che blaterava a tutto volume e di quando in quando un'esplosione di elettricità statica dal CB, ma... nient'altro. Forse il TRM mi aveva provocato qualcosa al cervello che era scomparso rapidamente com'era comparso. Ormai totalmente confuso, pagai l'autista ed entrai nell'atrio del palazzo, che era affollato di persone di ritorno dal pranzo, invaso dal chiasso delle loro chiacchiere. Mi strizzai con loro nell'ascensore, premetti il pulsante del mio piano e - lo ammetto - cercai di "sentire" (o "leggere", come preferite), ma le diverse conversazioni ad alta voce lo rendevano impossibile. La testa mi pulsava. Mi sentivo claustrofobico, pieno di nausea. Il sudore mi colava sul collo. Finché la porta si chiuse zittendo tutti, come spesso capita in ascensore, e finalmente: ecco! Sentivo, caleidoscopicamente, brandelli di parole - o meglio, come mi parve in quel momento -, chiazze di parole e frasi, come quando si fa girare all'indietro un disco o un nastro (o perlomeno come succedeva prima dell'era della registrazione digitale, quando la tecnologia consentiva effettivamente simili trucchi). La donna accanto a me - la folla me la schiacciava addosso -, una signora sui quaranta, aveva un'aria serena; era paffuta, rossa di capelli, espressione gradevole, leggero sorriso. Ma al tempo stesso sentivo una voce - non poteva che venire da lei - che compariva a ondate, distante e poi chiara, svanendo e poi ricomparendo, tipo quelle che si sentono in un centro di ascolto di una stazione di spionaggio elettronico. Sop-
portarlo non posso sopportarlo, diceva. Farmi una cosa del genere non può farmi una cosa del genere non può. Stupito dal contrasto tra il suo atteggiamento placido e questi pensieri tendenti all'isterico, voltai la testa verso l'uomo che avevo sulla sinistra, presumibilmente un avvocato, in gessato serio e occhiali di corno, sui cinquanta, un'espressione di blanda noia. Ed ecco il distante tono alto di una voce maschile: minuti di ritardo e hanno cominciato senza di me i bastardi... Mi stavo "sintonizzando", seppur inconsapevolmente, allo stesso modo in cui si può tentare di distinguere una voce nota in mezzo a una folla di persone andando in cerca di un certo timbro, di una certa tonalità. Nel silenzio dell'ascensore era facile. Suonò il campanello e le porte si aprirono sulla zona ricevimento della Putnam & Stearns. Incrociai diversi miei colleghi, salutandoli appena con un cenno del capo e raggiungendo il mio studio. Sentendomi arrivare, Darlene alzò lo sguardo. Vestiva di nero, come di consueto, ma quel giorno aveva una maglia a collo alto, con gale, che evidentemente secondo lei era molto femminile. Sembrava che fosse andata a farsela regalare dall'Esercito della Salvezza. Mentre mi avvicinavo, sentii dire: questo qui non sta affatto bene. Darlene fece per aggiungere qualcosa, ma la zittii con un cenno della mano. Entrai nel mio ufficio, accolto dalle Big Baby Doll che montavano la guardia appoggiate a una parete, e mi misi a sedere dietro la scrivania. Poi, alzatomi di nuovo, ordinai alla segretaria di non passarmi nessuna telefonata e, chiusa la porta, mi rimisi a sedere, finalmente solo e al sicuro. Rimasi così a lungo, in un silenzio assoluto, con lo sguardo perduto nel vuoto, stringendomi tra le mani le tempie che continuavano a pulsare, cullando la testa e ascoltando soltanto il martellare del mio cuore. Qualche minuto più tardi, comunque, feci capolino dallo studio per chiedere a Darlene se ci fosse qualche messaggio. Lei mi guardò con curiosità, domandandosi se stessi bene. Dopo avermi dato un fascio di foglietti rosa, rispose: «Ha chiamato Truslow». «Grazie.» «Sta meglio?» «In che senso?» «Le fa male la testa, no?» «Sì, ho un'emicrania pazzesca.» «Lo sa che tengo sempre qui qualche antidolorifico» replicò, aprendo un
cassetto ed esponendo la sua scorta di medicine. «Prenda un paio di pillole. L'emicrania viene anche a me, una volta al mese, ed è la cosa peggiore.» «Davvero» convenni, prendendo le pillole. «Ah, poi c'è Allen Hyde, della Textronics, che vuole parlarle il più presto possibile.» L'agitato inventore delle Big Baby Doll, in procinto di ricevere un'offerta di compromesso. Ringraziai e mi misi a sfogliare i messaggi. Intanto Darlene aveva acceso la sua IBM Selectric - sì, nello studio Putnam & Stearns si usano ancora le macchine per scrivere: vi sono occasioni per le quali la legge prescrive la battitura a macchina e non la stampa laser - e si era rimessa a pestare freneticamente sui tasti. Non potei trattenermi dall'avvicinarmi alla sua scrivania, chinandomi e sforzandomi di sentire. Ed ecco la voce, con la solita dannata chiarezza. Sembra che stia per avere un crollo, sentii dire da Darlene. Poi, silenzio. «Sto benissimo» ribattei a bassa voce. Darlene si girò su se stessa, con gli occhi sbarrati. «Eh?» «Non si preoccupi per me. Questa mattina ho avuto una riunione difficile.» Lei mi rivolse un lungo sguardo turbato, poi si ricompose. «Chi è che si preoccupa?» chiese, tornando a voltarsi verso la macchina per scrivere, ma subito dopo, nello stesso tono colloquiale, la sentii dire: Ho detto qualcosa? «Vuole che le chiami Truslow?» «Non ancora» risposi. «Prima che arrivi Kornstein, con cui sarò occupato fino all'arrivo di Lewin, mi rimangono tre quarti d'ora, e ho bisogno di un po' di aria fresca, altrimenti mi scoppia la testa.» Avrei voluto stendermi in un locale buio, con le coperte sopra la testa, ma pensavo che una camminata sarebbe ugualmente servita ad alleviare il dolore. Mentre tornavo ad avviarmi verso il mio studio per prendere il soprabito, il telefono di Darlene si mise a suonare. «Studio Ellison» rispose. «Un momento, per favore, Mr. Truslow». E premette il pulsante per tenerlo in linea. «Gli dico che c'è?» «Sì, lo prendo.» «Ben» disse Truslow, non appena ebbi sollevato il ricevitore nel mio studio. «Pensavo che sarebbe tornato per fare quattro chiacchiere.» «Mi scusi» risposi. «Il test è andato molto più per le lunghe di quanto pensassi. E oggi, qui, ho una giornata folle. Se non le spiace, bisogna che ci aggiorniamo.»
Seguì una lunga pausa. «Bene» continuò finalmente Truslow. «Che cosa ne pensa di questo Rossi? A me sembra un po' un furfante, ma forse mi preoccupo troppo.» «Non ho avuto molto l'opportunità di valutarlo.» «Comunque, Ben, mi hanno detto che è stato sottoposto al lie detector con i colori che cambiano.» «Immagino che per lei non sia stata una sorpresa.» «No, certo. Ma dobbiamo parlare. Ho bisogno di fornirle tutte le istruzioni del caso... per il momento si è presentato un piccolo intoppo.» Nella sua voce c'era un tono sorridente, e capii subito perché. «Il presidente mi ha chiesto di andarlo a trovare a Camp David» disse. «Congratulazioni.» «È troppo presto. Il capo dello staff mi ha detto che vuole parlare con me.» «A quanto pare ce l'ha fatta.» «Be'...» replicò. Parve esitare un attimo, ma poi concluse: «Mi faccio vivo prestissimo» e chiuse la telefonata. Risalii Milk Street fino a Washington Street, lungo il centro pedonale talvolta indicato come Downtown Crossing. Quindi, in Summer Street, il piazzale formato dai due importanti grandi magazzini rivali del centro, Filene's e Jordan Marsh, presi ad aggirarmi senza meta tra i carrettini degli ambulanti che vendevano popcorn, pretzel, sciarpe beduine, T-shirt ricordo e rozzi golf sudamericani fatti a mano. Il mal di testa sembrava essere diminuito. Come al solito la strada brulicava di compratori, musicisti di strada, impiegati. E l'aria era piena di rumori, un bailamme di grida e borbottìi, sospiri ed esclamazioni, mormorii e grida. Pensieri. In Devonshire Street entrai in un negozio di apparecchiature elettroniche, mettendomi a esaminare distrattamente un'esposizione di televisori a colori con schermo da venti pollici ma tenendo alla larga il commesso. Diversi apparecchi erano sintonizzati su varie soap opera, uno sulla CNN, uno sulla ripresa di uno spettacolo televisivo in bianco e nero degli anni Cinquanta. Sulla CNN la bionda annunciatrice stava dicendo qualcosa a proposito di un senatore morto. Riconobbi il viso che scorse rapidamente sullo schermo: il senatore Mark Sutton, del Colorado, trovato nella sua casa di Washington ucciso da un'arma da fuoco. Secondo la polizia non si trattava di un omicidio con motivazioni politiche ma avvenuto nel corso di una rapina a mano armata.
Il commesso tornò ad avvicinarsi, dicendo: «Sa, questa settimana c'è uno sconto su tutti i modelli Mitsubishi». Gli rivolsi un sorriso cordiale, ringraziandolo, e tornai all'aperto. La testa continuava a pulsare. Ai semafori mi accorsi che mi piazzavo a ridosso di questo o quel passante, continuando a stargli vicino per tutto l'attraversamento, nel tentativo di ascoltare. Al rosso di Tremont Street mi trovai accanto una giovane molto carina, dai capelli biondi tagliati corti, in abito rosa chiaro e scarpe da corsa. In condizioni normali manteniamo tutti una distanza educata dagli estranei; la donna era a meno di un metro da me, immersa nei propri pensieri. Chinai il capo verso di lei nel tentativo di cogliere qualcuno dei suoi pensieri, ma mi gettò un'occhiataccia, come se fossi un pervertito, scostandosi di parecchio. La gente mi passava accanto troppo in fretta per i miei deboli sforzi di apprendista. Rimasi lì, con il collo teso ora in questa ora in quella direzione, cercando di dare il meno possibile nell'occhio, ma senza risultato. Forse la facoltà era svanita. Forse mi ero semplicemente immaginato tutto. Niente. Forse si era attenuata. Tornato in Washington Street vidi un'edicola circondata da un capannello di persone che comperavano il Globe, il Wall Street Journal e il New York Times. Non appena il semaforo diventò verde mi avvicinai. Un giovanotto stava guardando la prima pagina del Boston Herald. PRESO BANDITO diceva il titolo sopra la foto di un esponente della mafia arrestato a Providence. Mi avvicinai di più, fingendo di esaminare le pile di copie dello Herald sistemate davanti a lui. Niente. Una donna sui trenta, dall'aria professionale, stava esaminando i tascabili in cerca di qualcosa. Mi avvicinai quanto più possibile senza allarmarla. Niente neppure da quella parte. Forse era scomparsa davvero. Oppure, mi chiesi, dipendeva dal fatto che nessuna di queste persone era abbastanza agitata, irritata, spaventata da emettere onde cerebrali - se era così che funzionava il meccanismo - di una frequenza tale da poter essere colte da me? Finché vidi un uomo di poco più di quarant'anni, vestito con la ricercatezza tipica del banchiere, fermo accanto alla pila del Women's Wear Daily, che osservava distrattamente la sfilata delle riviste patinate. Qualcosa nel suo sguardo mi diceva che per qualche motivo era turbato.
Mi accostai di più, fingendo di voler esaminare la copertina dell'ultimo numero di The Atlantic, e provai. ... devo buttarla fuori perché quella ha intenzione di spifferare tutta la storia della mia relazione e sa Dio come reagirà è una scassacazzo infernale telefonerà a Gloria e le dirà Gesù non so che cosa fare non ho altra scelta non puoi essere così dannatamente imbecille da metterti a scopare la tua segretaria. .. Lo osservai di sottecchi, ma il suo viso accigliato rimase impassibile. A quel punto avevo formulato una serie di quelle che penso si possano definire interpretazioni, se non teorie, circa l'accaduto e il da farsi. Primo: Quel potente TRM mi aveva provocato qualcosa al cervello, per cui adesso ero in grado di "sentire" i pensieri degli altri. Non di tutti, forse neanche della maggioranza, ma se non altro di alcuni. Secondo: Non ero in grado di "sentire" tutti i pensieri ma soltanto quelli "espressi" con un determinato livello di enfasi. In altre parole, "sentivo" soltanto ciò che veniva pensato con grande veemenza, paura, rabbia. Inoltre, ero in grado di "sentire" soltanto cose pensate nell'immediata vicinanza fisica, a non più di mezzo metro da me. Terzo: Charles Rossi e la sua assistente non soltanto non si erano sorpresi di fronte a una simile manifestazione, ma se l'aspettavano. Il che significava che il TRM lo usavano specificamente a quel fine prima ancora che comparissi in scena io. Quarto: La loro incertezza indicava che in precedenza le cose non avevano funzionato come previsto, o che era successo di rado. Quinto: Rossi non era sicuro che su di me l'esperimento avesse avuto un esito positivo. Di conseguenza, sarei potuto stare tranquillo soltanto finché non avessi fatto capire a nessuno che disponevo di quella facoltà. Sesto: Come ulteriore conseguenza, era soltanto questione di aspettare e prima o poi li avrei avuti addosso, quali che fossero le loro intenzioni. Settimo: Con ogni probabilità la mia vita non sarebbe più stata la stessa. Non potevo più stare tranquillo. Gettata un'occhiata all'orologio da polso mi resi conto che ero stato in giro troppo a lungo, quindi feci dietrofront per tornare in studio. Dieci minuti dopo ero di nuovo da Putnam & Stearns, con qualche minuto di anticipo sull'appuntamento. Non so perché, mi balenò improvvisamente in testa il viso del senatore che avevo visto nel notiziario della CNN. Il senatore Mark Sutton, del Colorado, ucciso da un'arma da fuoco. E il perché lo capii subito: era il presidente della commissione senatoriale
formata per l'indagine sull'intelligence. Inoltre - quindici anni prima? - era stato vicedirettore della CIA, prima di essere chiamato a occupare un posto rimasto libero al Senato e poi direttamente eletto, un paio di anni più tardi. E poi... era uno dei più vecchi amici di Hal Sinclair. Suo compagno di stanza a Princeton. Erano entrati nella CIA insieme. A questo punto i personaggi dell'Agenzia morti erano tre. Hal Sinclair e due suoi fidati confidenti. E secondo me le coincidenze sono cose che si verificano dappertutto tranne che nel lavoro di intelligence. Chiamai Darlene con l'interfono e le dissi di fare accomodare il cliente con cui avevo appuntamento alle quattro. 14 Entrò Mel Kornstein, con un Armani che non sembrava nemmeno autentico e che comunque faceva pochissimo per nascondergli la pancia. Sulla sua cravatta color argento spiccava una patacca gialla, presumibilmente uovo. «Dov'è quel rotto in culo?» chiese, porgendomi una mano molliccia, umida e guardandosi attorno. «Frank O'Leary sarà qui tra un quarto d'ora circa. Ma avevo bisogno di un po' di tempo per mettere in chiaro qualche cosetta tra noi.» Frank O'Leary era l'inventore di SpaceTime, il gioco per computer che era un plagio totale dello straordinario SpaceTron. Lui e il suo avvocato, Bruce Kantor, avevano acconsentito a una riunione per avviare i primi contatti in vista di un possibile compromesso. Di norma un simile atteggiamento significa che si erano resi conto che era meglio accordarsi, perché se fossero andati in tribunale avrebbero perso alla grande. Una causa, come amano dire gli avvocati, è una macchina in cui si entra in forma di maiale e da cui si esce in forma di salsiccia. Tuttavia, poteva anche darsi che venissero da noi soltanto come gesto di cortesia, anche se la cortesia non è una delle connotazioni fondamentali dell'attività legale. Era anche possibile che volessero esibire le loro qualità di lottatori, cercando di innervosirci un po'. Quel pomeriggio non ero al meglio di me stesso. Anche se il mal di testa era ormai quasi scomparso, mi reggevo in piedi a stento, tanto che Mel Kornstein se ne accorse. «Mi segue, avvocato?» chiese infatti con voce lamentosa a un certo punto, essendosi accorto che avevo perso il filo.
«La seguo, Mel» replicai, cercando di concentrarmi. Avevo scoperto che se non volevo sentire i pensieri di qualcuno, in genere ci riuscivo. Insomma, stando lì seduto in compagnia di Kornstein avevo scoperto che non venivo bombardato dai pensieri anche sopra una conversazione, fatto che sarebbe stato intollerabile. Potevo ascoltarlo normalmente ma, per "leggerlo", dovevo concentrarmi e ritirarmi in me stesso. Si trattava ovviamente di una situazione che non sono in grado di spiegare, ma diciamo che era quella della madre che riesce a distinguere tra quelle di dozzine di altri la voce del suo bambino che gioca su una spiaggia. Un po' come sentire l'accozzaglia di voci che arrivano in una stazione d'ascolto di una struttura di intelligence elettronica, alcune delle quali sono più udibili di altre. O, forse, meglio, come quando si parla in un telefono senza filo e si sentono sovrapporre alla nostra i frammenti di conversazioni altrui. Stando molto attenti si capisce tutto con chiarezza. Quindi eccomi lì ad ascoltare la voce di Kornstein che si levava in toni irritati e calava in altri accorati, scoprendo che se volevo potevo sentire soltanto la sua voce parlata. Per fortuna, quando finalmente comparvero O'Leary e Kantor, trasudando cordialità, mi ero rimesso un po'. Entrambi - il primo alto, capelli rossi, sui trenta; il secondo basso, tarchiato, verso i cinquanta - si misero a loro agio, stravaccandosi in poltrona come se fossero miei cordiali amiconi. «Caro Ben» attaccò Kantor. «Mi fa piacere vederti, Bruce.» Bla bla disinvolto da vecchi amici Nel corso di simili riunioni è d'uso che parlino soltanto gli avvocati. I clienti, se intervengono, lo fanno soltanto perché richiesto dal loro legale, altrimenti è meglio che rimangano in silenzio. Mel Kornstein, invece, se ne stava lì seduto, furente, rifiutandosi di stringere la mano a chiunque, così che non potei esimermi dall'esordire dicendo: «Nel giro di sei mesi lei laverà i piatti in un McDonald's, O'Leary. Spero che l'odore dell'unto le piaccia». Lui aprì il viso in un sorriso pacifico e gettò a Kantor un'occhiata che significava: Lo sistema lei questo matto? Il mio collega fece da sponda, girando lo sguardo a me, e io continuai: «Mel, lasci che questa storia la sistemiamo Bruce e io». Il mio cliente incrociò le braccia, cercando di far sbollire i fumi. Il vero scopo di quell'incontro era stabilire una cosa semplice: ovvero se Frank O'Leary avesse o meno visto un prototipo di SpaceTron mentre stava "sviluppando" il suo SpaceTime. Kornstein era convinto che fosse in qualche modo riuscito a mettere le mani su un prototipo del gioco tramite
uno dei suoi tecnici del software, ma naturalmente si trattava di un sospetto non provabile. Perciò eccomi lì a cercare di risolvere il problema con il dottor Bruce Kantor. Dopo una mezz'oretta Kantor era ancora impegnato a enunciare una sequela di luoghi comuni su limitazioni al commercio e attività scorrette. E io trovavo difficile concentrarmi su una simile linea di ragionamento, visto lo stato di stordimento in cui mi trovavo fin dal mattino, ma la seguivo quanto bastava per capire che stava resistendo a muso duro. Né lui né il suo cliente avevano intenzione di arretrare di un solo centimetro. Chiesi per la terza volta: «Puoi dare per assolutamente certo che il tuo cliente o uno dei suoi dipendenti non abbia mai potuto accedere a un qualsiasi stadio della ricerca e del lavoro di progettazione in atto presso la ditta di Mr. Kornstein?». Frank O'Leary continuava a starsene lì a sedere con le braccia incrociate e con un'espressione annoiata, lasciando il difficile al suo avvocato. Kantor si chinò in avanti, rivolgendomi il suo sorrisetto viscido e rispondendo: «Mi pare che tu stia raschiando il fondo del barile, Ben. Se non hai altre argomentazioni...». Ma subito dopo, nel tono flebile e vagamente sfocato che avevo ormai imparato a riconoscere, la voce di O'Leary borbottò qualcosa. Riuscivo a stento a distinguerla, per cui chinai la testa in avanti, fingendo di consultare il mio taccuino e concentrandomi sul tentativo di separarla dalle chiacchiere di Kantor. Ira Hovanian, stava dicendo O'Leary. Gesù, se Hovanian si lascia sfuggire... «Ah, a proposito, Bruce» dissi. «Il tuo cliente potrebbe magari parlarci un po' di Ira Hovanian.» Kantor si accigliò, con un'espressione seccata, replicando: «Non capisco bene...». Ma O'Leary lo afferrò per un braccio, mormorandogli qualcosa all'orecchio sinistro. Kantor mi rivolse un breve sguardo perplesso, quindi si girò rapidamente sulla poltrona, rispondendo qualcosa anche lui a voce bassa. Mi misi a consultare il mio taccuino degli appunti, sporgendo la testa e cercando di ascoltare, ma proprio in quel momento Kornstein mi picchiettò su un braccio. «Che cosa c'entra Ira Hovanian?» chiese sottovoce. «Come fa a conoscerlo?» «Chi è?» chiesi io. «Come? Lei non...»
«Risponda.» «Uno che ha lasciato la mia ditta un paio di mesi prima che uscisse lo SpaceTron. Una shlemazzel.» «Una che cosa?» «Una coglionata! Mi è spiaciuto molto, povero diavolo. Ha perso un casino in opzioni azionarie. Credo che abbia trovato un lavoro migliore da un'altra parte, ma se fosse rimasto con noi adesso sarebbe ricco.» «Potrebbe avere venduto qualche segreto della ditta?» «Ira? Macché. Era l'ultima ruota del carro.» «Senta» insistetti. «Per qualche motivo è un nome che O'Leary conosce. Per lui significa qualcosa.» «Ma è stato lei a nominare...» «È una cosa che mi è arrivata all'orecchio ultimamente» replicai. «D'accordo. Mi ci lasci pensare un attimo.» E mi girai da un'altra parte, fingendo di essere tutto preso con gli appunti che avevo scarabocchiato sul mio taccuino. A un paio di metri di distanza O'Leary e Kantor erano immersi in una fitta conversazione a bassa voce. ... ha rubato dalla cassaforte un prototipo funzionante. Aveva anche la combinazione. Me li ha venduti per venticinquemila dollari e la promessa di altri centomila non appena avesse cominciato a rendere in termini di profitto. Prendevo appunti il più rapidamente possibile, continuando ad ascoltare, ma la voce svanì. O'Leary stava sorridendo, visibilmente rilassato: i suoi pensieri erano pacifici e di conseguenza non udibili. Stavo per rivolgermi nuovamente a Kornstein per chiedergli lumi in proposito, quando udii un altro brandello. ... bruciato. Che cosa diavolo avrebbe potuto fare? A commettere l'illegalità è stato lui, no? Quindi, a chi può fare ricorso? A questo punto Kantor tornò a voltarsi verso di me: «Vediamoci fra un paio di giorni. Oggi abbiamo già fatto abbastanza strada». Dopo avere riflettuto qualche istante, replicai: «Se è ciò che volete tu e il tuo cliente, d'accordo. Se non altro ci darà il tempo per raccogliere un'ulteriore deposizione di Hovanian, che ci ha già fornito qualche notizia interessante circa un prototipo di SpaceTron e una certa cassaforte della ditta». Kantor sembrava molto a disagio. Districò le gambe, poi tornò a incrociarle, pizzicandosi nervosamente il mento con il pollice e l'indice. «Senti,» ribatté, con un tono di voce di qualche nota più alto «continua pure a bluffare. Ma vediamo di non perdere tempo, né tu né io. Se quello
che vuoi è un compromesso di minima, credo che la cosa potrebbe interessare al mio cliente, se non altro per chiudere questa storia, quindi saremmo pronti a offrire...» «Quattro milioni e mezzo di dollari» conclusi per lui. «Che cosa?» ansimò. Mi alzai e tesi la mano. «Bene, signori, devo raccogliere una deposizione. Data la parte consapevolmente attiva che avete avuto nell'occultamento di un crimine, in quanto legale della parte lesa credo che avremo un processo interessante. Grazie per essere venuti.» «Un attimo, un attimo» sbottò Kantor. «Possiamo aderire a un compromesso sulla base di...» «Quattro milioni e mezzo» ripetei. «Tu sei fuori di testa!» «Calma, signori!» I due clienti, O'Leary e Kornstein, mi fissavano esterrefatti, come se mi fossi di punto in bianco calato i pantaloni e mi fossi messo a ballare una giga sulla scrivania. «Gesù» mi disse Kornstein. «Pa... parliamone un attimo» gli fece eco Kantor. «D'accordo» risposi, tornando a sedermi. «Parliamone.» L'incontro si concluse tre quarti d'ora più tardi. Frank O'Leary aveva accettato di versare un risarcimento di quattro milioni e duecentocinquantamila dollari in un'unica soluzione, pagabili nel giro di novanta giorni, con l'ulteriore clausola che il suo TimeSpace sarebbe stato subito tolto dal mercato. Poco prima di pranzo, lui e il suo avvocato uscirono dal mio studio in fila indiana, molto abbattuti. Mel Kornstein mi strinse in un abbraccio da orso, ringraziandomi calorosamente, e se ne andò invece con un sorriso radioso, il primo da diversi mesi a quella parte. Quanto a me, rimasi a sedere tutto solo nel mio studio, ignorando il telefono che suonava e infilando la palla con un gancio perfetto nel mio cesto elettronico. Che rispose con un'acclamazione frenetica, gridando con vocetta metallica: «Punti!». Aprii il viso in un largo sorriso, chiedendomi quanto sarebbe durata una simile fortuna. Esattamente un giorno, come avrei scoperto. 15 Il mio errore, come scoprii, fu quello tipico del pivellino dei servizi se-
greti: trascurare la possibilità che qualcuno mi stesse tenendo sotto controllo. Ma avevo perso la trebisonda, il mio mondo era andato sottosopra. La normale logica del mio concreto, ordinato mondo di avvocato non valeva più. Le nostre vite, credo, le viviamo per routine, facendo ciò che dobbiamo fare e adempiendo ai nostri doveri come se avessimo i paraocchi. Paraocchi che adesso, di punto in bianco, erano caduti. Non era assolutamente possibile che agissi con circospezione e cautela come avrei fatto un tempo. Riuscii ad andarmene dall'ufficio abbastanza presto e feci una sosta in un posto prima di tornare a casa. Quando l'ascensore arrivò era vuoto come al solito l'ora di punta era passata da un bel po' - e vi salii. Avevo un disperato bisogno di parlare con qualcuno, ma con chi? Con Molly? Avrebbe pensato che ero impazzito. Come è tipico dei medici, il suo mondo era tutto fatto di razionalità. Be', prima o poi avrei dovuto raccontarle quanto era accaduto, ma quando? E il mio amico Ike? Sì, certo, ma per il momento non potevo rischiare di parlarne con nessuno. Due piani più sotto l'ascensore si fermò per lasciar salire una giovane. Alta, capelli ramati, occhi un po' troppo truccati, ma con una bella figura e una camicetta che accentuava le dimensioni del seno. Mantenemmo il consueto silenzio dei passeggeri di un ascensore che non si conoscono ma che devono rimanere chiusi in quella scatola metallica a brevissima distanza gli uni dagli altri. Mi sembrava assorta. Tenevamo entrambi lo sguardo alto, fisso sullo scorrere dei numeri. Grazie a Dio il tremendo soprassalto di dolore del mio mal di testa era scomparso. Stavo pensando a Molly, quando "sentii"... come sarà quello lì a letto. Gettai istintivamente un'occhiata alla ragazza, per accertarmi ancora una volta che non avesse parlato a voce alta. I suoi occhi parvero incrociare i miei per il lampo di un attimo, ma tornarono immediatamente a fissarsi sul pannello sopra la porta dove scorrevano i numeri rossi dei piani. Concentrandomi, riuscii a sentire ancora qualcosa. ... un bel sederotto. Probabilmente è un tipo piuttosto robusto. Ha l'aria dell'avvocato, il che probabilmente significa che è un barboso tradizionalista, ma per una notte chi se ne frega. Tornai a voltarmi, e questa volta i suoi occhi si incrociarono con i miei per un attimo, un secondo di troppo. Se era mai esistita una donna disponibile, eccola lì. Provai subito un singolare soprassalto di senso di colpa. Stavo ingerendomi nelle sue fantasie
più private, nei suoi calcoli personali, nelle sue fantasticherie a occhi aperti. Una violazione terribile. Metteva in discussione tutte le regole che noi umani ci siamo imposti per ciò che concerne il corteggiamento, quel gioco di allusioni e sottintesi che funziona tanto bene perché mai nulla viene direttamente detto, nulla è mai certo. Sapevo che a quella ragazza non sarebbe dispiaciuto venire a letto con me. Mentre di norma non si può mai esserne certi, qualunque possa essere il linguaggio del corpo. Ad alcune donne piace civettare, portare le cose al limite estremo soltanto per vedere se sono desiderabili quanto basta per spingere un uomo fino a quel punto. Dopo di che si ritraggono, tirando in ballo le convenzioni sociali, fingendo di non averne voglia, accampando il bisogno di essere corteggiate. È un gioco che tiene in scacco entrambi i sessi da quando abbiamo imparato a stare eretti (e forse anche da prima) e che si basa totalmente sulla nostra incapacità di capire ciò che hanno in testa gli altri. Che gioca sull'incertezza. Mentre io sapevo. Sapevo con assoluta certezza ciò che quella donna stava pensando. E la trovavo una cosa profondamente imbarazzante, come se fossi diventato estraneo alle normali regole del comportamento umano. Qualsiasi altro uomo avrebbe tratto immediato vantaggio dalla situazione. Perché non io, allora? Sapevo che quella donna era disponibile, e la trovavo abbastanza attraente. Anche se fingeva una totale mancanza d'interesse, io arrivavo a vedere - o a "sentire" - sotto la superficie, in modo da sapere quando e come parlare. Era un potere immenso. Insomma, non sono certamente più virtuoso degli altri uomini. Ma ero innamorato di Molly. E fu in quel momento che mi resi conto che il mio rapporto con lei non avrebbe mai più potuto essere lo stesso. A quell'ora della prima sera la biblioteca pubblica di Boston non era particolarmente affollata, per cui la pila di libri che avevo chiesto riuscii ad averla nel giro di una ventina di minuti. I testi sulla percezione extrasensoriale sono moltissimi. Alcuni di essi avevano (giustamente) un titolo dall'aria seriosa, tipo Scoperte psichiche d'oltrecortina o Le basi scientifiche della telepatia. Altri invece ne avevano di anodini come Sviluppate il vostro potenziale mentale! o Chiunque può avere un'ESP. Questi ultimi li misi da parte dopo averli appena sfogliati. Alcuni di quelli dall'aria seria, d'altro canto, dopo pochi minuti di lettura si rivelarono niente affatto seri. Un garbuglio di ipotesi fantasiose accompagnate da pochissimi fatti provati, in pagine zeppe di dati statistici
e citazioni dotte. E finalmente mi ridussi a tre volumi che sembravano offrire qualche speranza: PSI (che scoprii essere un'abbreviazione in gergo dell'espressione psichico), Recenti scoperte sui fenomeni parapsicologici e La frontiera della mente. Data la loro assoluta teoricità, consultandoli mi sentivo un po' strano. Era come se un malato di emicrania fosse lì a ponzare su volumi che si limitavano a ipotizzare la possibilità che l'emicrania esistesse. Avrei voluto mettermi a gridare in quell'interno di biblioteca silenzioso e cavernoso: «Non si tratta affatto di teoria, maledizione! Io ce l'ho!». Invece andai avanti a studiare. Evidentemente, tra tanti imbroglioni e mattoidi c'erano anche alcuni studiosi attendibili, credibili, convinti che certi specifici esseri umani possiedano in un modo o nell'altro la facoltà di leggere nel pensiero. Tra di essi alcuni premi Nobel e diversi eminenti ricercatori di varie università come Duke, UCLA, Princeton, Stanford, Oxford e Friburgo in Germania. Persone impegnate in sottospecializzazioni di studio denominate "psicometria" e "psicocinesi". Pur avendo ottenuto risultati notevoli in campi più tradizionali di ricerca, per il lavoro che portavano avanti nell'ambito della parapsicologia raccoglievano poca o nessuna attenzione al di là di qualche articolo pubblicato ogni tanto su rispettate riviste scientifiche come la britannica Nature. Da tutte le loro elucubrazioni si poteva trarre la conclusione che un quarto circa degli esseri umani prima o poi sperimenta una qualche forma di telepatia. Però la maggior parte di noi si rifiuta di ammetterlo. Lessi di diversi casi che sembravano attendibili. Una donna sta cenando con amici a New York, quando si sente certa della morte del padre, si precipita al telefono e scopre che è effettivamente morto d'infarto nel momento in cui lei lo sentiva. Uno studente di college avverte un improvviso, inesplicabile impulso a telefonare a casa e scopre che suo fratello minore è morto in un terribile incidente d'auto. Nella maggior parte dei casi, appresi ancora, tali "segnali" o "sensazioni" compaiono durante il sonno o il sogno, perché in quel momento siamo se non altro meno inibiti dallo scetticismo. Nulla di quanto sopra, però, valeva per ciò che era capitato a me. Non stavo sperimentando "sensazioni ", "segnali" o "impulsi". Io "sentivo" non esiste altra espressione - i pensieri degli altri. Però non a distanza. In realtà bastavano poche decine di centimetri perché non "sentissi" più niente. Il che significava che ricevevo un segnale trasmissibile dal cervello umano. Nessuno di quei libri ne trattava. Finché arrivai a un capitolo interessante di La frontiera della mente, in
cui l'autore parlava dell'impiego della parapsicologia da parte di diverse polizie degli Stati Uniti, nonché del Pentagono, nel corso delle ricerche di militari dispersi in Vietnam. Come era avvenuto anche nel gennaio del 1982, nel corso delle battute effettuate per trovare il generale americano Dozier, rapito in Italia dalle Brigate Rosse. Trovai pure citato un articolo apparso nel 1980 sulla Military Review, pubblicazione dell'esercito degli Stati Uniti, e relativo ai "nuovi campi di battaglia mentali". Vi si discutevano le "grandi possibilità potenziali" dell'uso "dell'ipnosi telepatica" in tempo di guerra. Guerra psichica, veniva definita! Si accennava alle armi "psicotroniche" sovietiche - ovvero all'uso della parapsicologia per affondare i sottomarini nucleari americani - e all'uso di un parapsicologo da parte della National Security Agency per decifrare alcuni codici. Il libro continuava parlando di una presunta "forza d'intervento psichico" che avrebbe operato nascosta nei sotterranei del Pentagono, nella più alta segretezza, agli ordini di un responsabile dello staff per l'intelligence. E sulla pagina successiva trovai il riferimento a un progetto di massima segretezza della CIA riguardo le possibilità di applicazione della percezione extrasensoriale all'intelligence. Progetto che, secondo quanto riferito dal libro, sarebbe stato annullato nel 1977 dall'allora nuovo direttore dell'Agenzia, ammiraglio Stansfield Turner. Perlomeno ufficialmente, lasciava intendere l'autore. Se ne sapeva molto poco, continuava lo studioso, al di là di un nome che a lui sarebbe stato rivelato da un transfuga della CIA. Il nome del responsabile del progetto. Charles Rossi Ormai agitatissimo e disorientato, sentivo il bisogno di fare un po' di esercizio fisico per schiarirmi le idee e riflettere con razionalità. Ero iscritto da un paio di anni a un club sportivo di Boylston Street, che mi piaceva soprattutto per la sua vicinanza al tempo stesso allo studio e a casa mia. I frequentatori erano di una tipologia molto mista, avvocati e professionisti, rappresentanti di commercio e dirigenti di medio livello, atleti veri e finti; le attrezzature per la ginnastica erano di prima qualità. Non ero però mai riuscito a persuadere Molly a venirci con me. Era convinta che tutti noi disponiamo di un numero determinato di battiti del cuore, e i suoi non intendeva sprecarli su un apparecchio Nautilus (e si definiva medico).
Mi misi in calzoncini corti e maglietta e lavorai al vogatore per una ventina di minuti, sempre con il pensiero fisso su ciò che avevo letto in biblioteca. Arrivai alla conclusione che nel senso più stretto del termine io non leggevo i pensieri altrui; ero soltanto in grado di percepire le onde cerebrali a bassa frequenza emesse da una sola parte del cervello, il centro che presiede al linguaggio, nella corteccia. In altre parole, captavo parole e frasi nel momento in cui esse venivano convertite da idee e pensieri astratti in parole, nel momento, cioè, in cui venivano articolate in forma di linguaggio, un attimo prima di essere pronunciate ad alta voce. Se la mia teoria era esatta, evidentemente, quando certi pensieri ci vengono con adeguata forza, passionalità o emotività, noi li prearticoliamo, li prepariamo per essere pronunciati, anche se in realtà non li pronunceremo mai a parole. È in quel momento che il cervello emette segnali percepibili... be', per esempio da me. Se soltanto avessi saputo qualcosa di più circa il funzionamento del cervello! Ma a questo punto non potevo rischiare di consultare un neurologo: non potevo veramente fidarmi che qualcuno a cui avessi rivelato la mia condizione la mantenesse segreta. Pensieri che mi turbinavano in testa mentre smontavo dal vogatore, la Tshirt grigia già chiazzata di sudore, per passare sullo Stairmaster, un particolare strumento di tortura che impone di pompare su e giù sopra una coppia di pedali mentre ci si regge a una sbarra, il tutto mantenendosi in posizione verticale, mentre un display computerizzato a luce rossa segnala il faticoso procedere dell'esercizio. Sullo Stairmaster accanto al mio c'era un uomo di taglia robusta, sui cinquanta, in maglietta azzurra e pantaloncini bianchi, che spandeva gocce di sudore sulla base metallica dell'apparecchio, mentre rivoletti gli scorrevano giù per le orecchie, il naso, le mascelle e la fronte. Gli occhiali, dalla sottile montatura metallica, erano velati di vapore. Una volta, lì al club, avevamo scambiato quattro chiacchiere - non ricordo su quale argomento e mi sembrava di ricordare che si chiamasse Alan, Alvin, o qualcosa del genere, e che fosse vicepresidente di una pasticciata banca di Boston, la Beacon Guaranty Trust. Un'istituzione che, a causa di una vicenda di cattiva gestione in aggiunta ai guai economici nazionali, stava andando a fondo. Ricordo infatti che Alan, o Alvin che fosse, era perennemente depresso, e come non capirlo? Impegnato com'era a pompare con i polpacci sullo Stairmaster, non si
era accorto di me. Teneva gli occhi fissi nel vuoto e la bocca semiaperta, il respiro era affannoso. Pur senza averne nessuna intenzione, visto che volevo stare solo in compagnia dei miei pensieri, non potei fare a meno di sentire i suoi. Lo zio di Catherine, magari? No. La SEC gli sarebbe subito addosso. A quei bastardi non sfugge niente. È illegale, come se io vendessi la mia quota. Eppure una soluzione deve esserci. Non distinguevo tutto ciò che stava dicendo. I suoi pensieri oscillavano, a volte forti e altre volte fievoli, prima chiari e poi indistinti, come una radio a onde corte sintonizzata su una lontana stazione estera. Ma tutte quelle riflessioni sulla SEC e sull'illegalità attirarono la mia attenzione. Chinai leggermente la testa in direzione dell'ansante, sgocciolante corpo del mio vicino. Le azioni andranno alle stelle. E perché mai non dev'essermi consentito comperare azioni della mia azienda? Non mi sembra giusto. E mi chiedo se non ci sia qualcun altro, nel consiglio di amministrazione, che la pensa come me. Altroché se ce n'è. Stanno cercando tutti quanti di escogitare il modo di approfittare della situazione per arricchirsi. Il monologo si stava facendo sempre più interessante, per cui mi sforzai di rimanere in "ascolto" senza dare troppo nell'occhio. Perso nelle sue avide, meschine riflessioni, Al sembrava non accorgersi di me. Dunque, vediamo. L'annuncio verrà dato domani alle due. Ogni analista finanziario del Paese, oltre a centinaia di migliaia di azionisti, verrà a sapere che la povera Beacon Trust, nei pasticci com'è, viene acquistata da una roccia come la Saxon Bankcorp, per cui si metteranno tutti a comperare le nostre sottovalutatissime azioni, persino le nonne. Passeremo da undici e mezzo a cinquanta o sessanta in due giorni. Gesù. E io dovrei stare con le mani in mano? Una via d'uscita deve pur esserci. Magari una delle amiche ricche di Catherine. O forse suo zio è in grado di escogitare qualcosa che non possa essere collegabile con me... comprare un po' di Beacon domani mattina utilizzando un prestanome... Sentii il mio cuore accelerare rapidamente. Avevo appena appreso quella che si poteva definire in un modo solo: un'informazione riservata all'ultimo stadio di un'operazione finanziaria. Tale da consentire un vero e proprio atto di insider trading. La Beacon Trust stava per essere acquistata dalla Saxon. E l'accordo sarebbe stato annunciato il giorno dopo. Alan, o Alvin che
fosse, apparteneva a un manipolo, probabilmente ristretto, di insider, dirigenti e avvocati a conoscenza dell'affare. Le azioni della Beacon sarebbero di sicuro andate alle stelle, e chiunque ne fosse stato a conoscenza in anticipo sarebbe diventato ricco. Quindi Al stava cercando di escogitare il modo per arricchirsi anche lui. Sarebbe bastato che riuscisse a trovare una possibilità d'azione tale da non attirare l'attenzione dei mastini della SEC. Dubitavo che potesse farcela. Mentre avrei potuto benissimo farcela io. Il giorno dopo, nel giro di poche ore, avrei potuto ramazzare una quantità di azioni della Beacon Trust tale da far sembrare ridicola la scomparsa del mio gruzzoletto di mezzo milione di dollari. Non c'era nessunissima possibilità che qualcuno riuscisse a collegarmi con la Beacon Trust. Il mio studio non aveva rapporti professionali con loro (non ci saremmo mai degnati). Avrei dovuto stare ben attento a non salutare nemmeno Al. Di più: non dovevamo scambiare neanche una parola. Che cos'avrebbe potuto fare la Securities and Exchange Commission? Portarmi in tribunale, di fronte a una giuria di miei pari, accusandomi di lettura del pensiero al fine di realizzare un profitto illegale? Il presidente della commissione sarebbe stato chiuso nella gabbia dei matti prima ancora che venisse presentata la denuncia. Smontai dallo Stairmaster in un bagno di sudore. Ero stato su quello strumento di tortura tre quarti d'ora senza nemmeno accorgermene. 16 Una ventina di minuti più tardi sentii la chiave girare in entrambe le serrature di casa e poi la voce di Molly che chiamava: «Ben?». «Sei in ritardo» risposi, fingendo irritazione. «Spiegami un po'? Che cos'è più importante, la vita di un neonato o la mia cena?» Ma, sollevato lo sguardo per sorriderle, vidi che aveva un'aria esausta. «Ehi» dissi, alzandomi per abbracciarla. «Che cosa succede?» Scosse lentamente la testa, stanca. «Giornata dura.» «Ah» ribattei. «Adesso sei a casa.» La strinsi tra le braccia e la baciai. Un bel bacio, intenso, prolungato. Le diedi una palpata al sedere e mi premetti contro di lei. Lei mi fece scorrere la mano, fredda, asciutta, lungo la schiena, sotto l'elastico delle mutande. «Mmm» mormorò. Sentii rovente sul collo il suo alito.
Le feci scorrere a mia volta una mano sotto la camicetta, risalendo fino al cotone bianco del reggiseno, trovando i capezzoli caldi, eretti, e accarezzandoli. «Mmmph» esplose. «Di sopra?» chiesi. Si lasciò sfuggire un lieve gemito, poi fu scossa da un rapido brivido. ... la cucina... sentii. Mi chinai su di lei, continuando a farle scorrere le dita sul seno destro e strizzando il capezzolo indurito. ... lo facciamo in cucina. In piedi. Sì... lì... Mi raddrizzai, la presi per le spalle e la guidai con dolcezza fuori dal salottino e poi in cucina, dove la spinsi contro il ripiano in quercia, verniciato e pieno di graffi, del tavolo. I suoi pensieri. Sbagliavo, era male, una vergogna ma, accecato dalla pulsione erotica, non riuscivo a trattenermi... Oh, sì... Mentre le toglievo la camicetta, Molly si lasciò sfuggire un altro lieve gemito. ... l'altro seno. Non fermarti. Tutt'e due... Disciplinatamente li accarezzai entrambi con i palmi delle mani, quindi mi chinai a succhiarle prima un capezzolo e poi l'altro. Non muoverti... Andai avanti a succhiare e a leccare, continuando intanto a premermi contro di lei finché fu completamente stesa sul tavolo, per quanto a sufficiente distanza di sicurezza dalle stoviglie. Non avevo mai visto Il postino suona sempre due volte, ma ne ricordavo l'iconografia. Non l'avevano forse fatto sul tavolo anche Lana Turner e John Garfield? A quel punto, continuando a trafficare con la bocca sul suo seno, le premetti il membro eretto contro la coscia, strofinandolo lentamente su e giù, ma mentre cominciavo a slacciare il cordoncino dei calzoni della tuta sportiva che indossava, sentii: No. Non ancora. Obbedendo ai suoi non espressi desideri, tornai a rivolgere tutta la mia attenzione al suo seno, indugiando in quella posizione molto più di quanto avrei normalmente fatto. Facemmo l'amore lì sul tavolo, mandando in frantumi per il trambusto una tazza di porcellana da poco prezzo, ma senza accorgerci più di tanto del fragore. Devo ammettere che fu l'esperienza erotica più intensa che io
abbia mai avuto. Molly era talmente perduta che si era dimenticata di mettersi il diaframma. Continuava a venire, le guance bagnate di lacrime. Rimanemmo lì, abbracciandoci, madidi di sudore e pervasi dall'acre sentore dei fluidi e dell'amore fisico, sul divano del salottino accanto alla cucina. Ma quando fu finito venni preso da un tremendo senso di colpa. Pare che tutti gli esseri umani, dopo un'esperienza sessuale, cedano alla malinconia. Ma io sono convinto che da una simile sensazione vengano presi soltanto i maschi. Molly sembrava infatti al tempo stesso beata e perplessa. Continuava ad accarezzarmi il pene ormai flaccido, arrossato, drenato di ogni sua potenza. «Non avevi la protezione» dissi. «Significa che hai cambiato idea circa i bambini?» «No» rispose in tono sognante. «In questo momento non sono nella fase fertile del ciclo. Non ho corso un gran rischio. Ma è stato fantastico.» Sentii ulteriormente aumentare il senso di colpa, la sensazione di essermi comportato da predatore, male in ogni senso. L'avevo violata in un modo fondamentale, l'avevo manipolata in una maniera terribile, avevo ceduto a un atto di una disonestà deplorevole. Mi sentivo di merda. «Sì» convenni. «È stato fantastico.» Il nostro matrimonio era stato celebrato nel giardino di una bella proprietà antica, fuori Boston. Una giornata che rimane tuttora confusa nella mia mente. Ricordo di essermi sbattuto qua e là alla cieca, in cerca della fascia per l'abito scuro, dei gemelli e di un paio di calze nere decenti da mettermi. Poco prima che cominciasse la cerimonia, Hal Sinclair mi aveva preso per il gomito. In smoking era ancora più distinto di quando lo avevo conosciuto: i capelli bianchi riverberavano luce sul bel viso allungato, affilato, abbronzato. Aveva il mento con la fossetta, labbra carnose; quando rideva, attorno agli occhi e alla bocca gli si formava un reticolo di sottili rughe. Sembrava irritato, ma mi resi subito conto che intendeva esibire un atteggiamento solenne, che in lui non avevo mai visto. «Proteggi mia figlia» aveva detto. L'avevo guardato, aspettandomi che tirasse fuori una barzelletta, ma la sua espressione continuava a essere grave. «Mi hai sentito?» Gli avevo risposto di sì. Certo, l'avrei protetta. «Proteggila come si deve.»
E di punto in bianco mi ero sentito colpito, una sorta di pugno allo stomaco. Certo! La mia ex moglie era stata uccisa. Hal non lo avrebbe mai detto ma, se avessi agito seguendo attentamente tutte le procedure previste, ora sarebbe stata viva. Se non fosse stato per la mia approssimazione. La tua prima moglie l'hai uccisa, Ben, sembrava voler dire. Non uccidere anche la seconda. Mi ero sentito avvampare in viso. Avrei voluto ribattergli di andare a farsi fottere. Ma non potevo farlo. Era mio suocero. Ed era il giorno del mio matrimonio. Quindi, con il massimo di calore che ero riuscito a metterci, avevo risposto: «Non si preoccupi, Hal. Lo farò». «Sai, Mol» le dissi, mentre prendevamo un vodka tonic al tavolo della cucina. «È venuto a trovarmi un cliente. Una persona normale, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali...» «E allora che cosa ci faceva da Putnam & Stearns?» ribatté lei, bevendo un sorso dal suo bicchiere ghiacciato. «Ottimo. Tantissimo lime, come piace a me.» Mi misi a ridacchiare. «Allora, come stavo dicendo, questo cliente, che sembra una persona totalmente a posto di testa, mi ha chiesto se credo nella possibilità che esista la percezione extrasensoriale.» «La cosiddetta ESP.» «Insomma, questo tale pretende di essere, più o meno, in grado di percepire i pensieri degli altri. Di "leggerli", per così dire.» «Okay, Ben. Qual è il punto?» «Be', ha provato questa sua facoltà su di me e mi ha convinto. Quindi, il punto è: credi che sia possibile?» «Boh. Come diavolo faccio a saperlo? Dove vuoi arrivare?» «Hai mai sentito parlare di qualcosa del genere?» «Certo. In Ai confini della realtà mi pare che ci fosse un episodio del genere. E anche un bambino di un libro di Stephen King. Però, senti, Ben... noi dobbiamo parlare.» «Va bene» replicai, sulla difensiva. «Oggi all'ospedale sono stata avvicinata da un tale.» «Chi?» «Chi?» mi fece sardonicamente eco. «Lo sai benissimo chi.» «Spiegati, Molly.» «Oggi pomeriggio. All'ospedale. Ha detto che glielo avevi detto tu dove
trovarmi.» Posai il bicchiere. «Che cosa?» «Non gli hai parlato?» «Non ho idea di che cosa tu stia dicendo, Molly. Te lo giuro. Qualcuno ti ha "abbordato"?» «Non "abbordato", non intendo una cosa del genere. L'ho trovato lì, seduto fuori dal reparto, nella zona di attesa, e credo che mi avesse mandato a cercare da qualcuno. Io non l'ho riconosciuto... aveva un'aria ufficiale. Sai che cosa intendo. Completo grigio, cravatta blu eccetera.» «Chi era?» «È proprio questo il punto. Non lo so.» «Tu non?...» «Senti» ribatté lei bruscamente. «Ascoltami. Mi ha chiesto se ero Martha Sinclair, figlia di Hal. Io ho risposto di sì e gli ho chiesto chi era lui, ma ha replicato domandandomi se poteva parlare con me un attimo, e io ho risposto di sì.» E Molly mi piantò in viso due occhi cerchiati e venati di rosso, continuando: «Ha detto che aveva appena parlato con te e che era un amico di mio padre. Ho immaginato che ciò significasse che era un uomo dell'Agenzia, visto che ne aveva tutta l'aria, che voleva parlare un attimo con me. Quindi gli ho detto di sì». «Che cosa voleva?» «Mi ha chiesto se sapevo niente di un conto che mio padre aveva aperto prima di morire. Qualcosa come un codice di accesso, o roba del genere. Non ho capito di che cosa diavolo stesse parlando.» «Eh?» «Allora non aveva affatto parlato con te» continuò, non riuscendo a trattenere un singhiozzo. «È una bugia, Ben. Deve esserlo.» «Non ti sei fatta dare il suo nome?» «Ero sotto shock! Non riuscivo neanche a parlare.» «Com'era fatto?» «Alto, pelle molto chiara, quasi albino, capelli biondo chiaro. Aria robusta ma, non so bene, un po' femmineo. Asessuato. Ha detto che stava facendo un'operazione di sicurezza per conto della Central Intelligence Agency» rispose con una vocetta sottile. «Che stavano indagando su quella che ha definito "la presunta appropriazione indebita" di papà. E ha voluto sapere se mi avesse lasciato qualche documento, fornito qualche informazione o se non mi avesse consegnato un codice di accesso. Qualsiasi co-
sa.» «Spero che tu gli abbia replicato che hanno la testa al posto del culo.» «Gli ho detto che doveva esserci un tremendo equivoco, e quali prove avessero, eccetera. Al che lui ha risposto dicendo qualcosa tipo: "Mi rifarò vivo, ma nel frattempo lei pensi bene a tutto ciò che suo padre potrebbe averle detto". E ha aggiunto...» La voce le si spezzò, si coprì gli occhi con le mani. «Continua, Molly.» «Ha detto che con ogni probabilità l'assassinio di mio padre va ricollegato a questa appropriazione indebita. Sapeva di quella foto...» E chiuse gli occhi. «Continua.» «Ha aggiunto che l'Agenzia sta facendo molte pressioni perché queste accuse vengano rese pubbliche, rivelate ai mass media; io ho ribattuto che non possono, che è una bugia, che rovinerebbero la sua reputazione. Ma lui ha replicato: "Ci spiace moltissimo, signora. Noi vogliamo semplicemente la sua collaborazione".» «Oh, mio Dio» gemetti. «Tutta questa storia c'entra qualcosa con la Corporation, Ben? Con ciò che devi fare per Alex Truslow, qualsiasi cosa sia?» «Sì» risposi. «Sì, credo proprio di sì.» 17 Il mattino dopo - capii che era molto presto perché Molly non si era ancora alzata per andare al lavoro - aprii gli occhi, mi guardai attorno, come faccio abitualmente, e sull'orologio digitale vidi che non erano ancora le sei. Molly dormiva accanto a me, rannicchiata nella posizione fetale, le mani strette al petto. Mi piace guardarla addormentata, vulnerabile come una bambina, i capelli in disordine, senza trucco. Riesce a dormire molto più profondamente di me: a volte penso che le piaccia più il sonno del sesso. Sta di fatto che si sveglia infallibilmente di un umore sfavillante, contenta e riposata come se fosse di ritorno da una breve vacanza. Mentre io mi sveglio in preda a dispepsia, intontito, irritabile. Uscii dal letto, attraversai il parquet freddo e andai in bagno, sperando che il rumore la svegliasse. Ma non c'era verso di distrarla dai suoi sogni, qualsiasi cosa riguardassero. Mi accostai al letto dalla sua parte, mi sedetti sul bordo e
chinai la testa verso la sua. Ed ebbi la sorpresa di "sentire" qualcosa. Qualcosa di sconnesso, nulla a che vedere con i brandelli di pensieri logici che ero riuscito a cogliere il giorno prima. Sentivo frammenti e brandelli di suoni quasi musicali, che non sembravano appartenere ad alcuna lingua che io avessi mai sentito parlare: era come girare la sintonia di una radio in un Paese straniero. Finché mi arrivò un insieme di parole perfettamente logiche. Computer, sentii, quindi qualcosa come volpe, poi monitor - stava chiaramente sognando qualcosa circa l'ospedale -, poi ancora, di punto in bianco, Ben e infine altre espressioni musicalmente sconnesse. A quel punto si svegliò. Aveva forse avvertito il mio alito sul viso. I suoi occhi si aprirono piano piano, mettendosi a fuoco su di me. Si tirò a sedere di scatto. «Che cosa succede, Ben?» chiese con ansia. «Niente» risposi. «Che ora è? Sono già le sette?» «Sono le sei». E, dopo una breve pausa: «Voglio parlare con te». «E io invece voglio dormire» grugnì, chiudendo gli occhi. «Parleremo dopo.» E si girò di fianco, abbracciando il cuscino. La toccai su una spalla. «No, tesoro. Dobbiamo parlare subito.» «D'accordo» borbottò, sempre a occhi chiusi. Tornai a toccarla sulla spalla e lei li riaprì. «Che cosa c'è?» E si tirò lentamente a sedere. Mi sistemai sul letto e lei mi fece posto. «Molly...» attaccai, ma mi interruppi subito. Come si racconta una faccenda del genere? Come si spiega una cosa che non ha senso nemmeno per noi? «Sì?» «Molly, è una cosa molto difficile da spiegare. Penso che tu debba semplicemente starmi ad ascoltare. Immagino che non mi crederai - io certamente non ci crederei -, ma per adesso ascoltami. D'accordo?» Lei mi guardò un attimo con un'espressione sospettosa. «C'entra quel tipo dell'ospedale, vero?» «Ti prego di ascoltarmi, senza dire niente. Sai che è venuto questo tizio della CIA a chiedermi di sottopormi a un esame con il TRM, vero?» «E allora?» «Penso che questo apparecchio mi abbia fatto qualcosa... al cervello.» Sbarrò gli occhi, poi inarcò i sopraccigli, preoccupata. «Che cos'è suc-
cesso, Ben?» «No, ascoltami... È una cosa difficile da spiegare. Credi almeno alla possibilità che un essere umano disponga di una percezione extrasensoriale?» «Questo cliente di cui mi hai parlato ieri sera, eh?» replicò. «Non esiste, vero?» E si lasciò sfuggire un gemito. «Oh, Ben.» «Senti, Molly...» «Ho qualche amico che puoi consultare, Ben. All'ospedale...» «Molly...» «Si tratta di ottima gente, molto in gamba. Il responsabile del reparto psichiatria adulti è specificamente...» «Per l'amor di Dio, non sono diventato matto.» «Allora...» «Senti, tu sai certamente che negli ultimi decenni sono stati pubblicati diversi studi che dimostrano - non in termini definitivi ma perlomeno in maniera convincente, per chi abbia una mente aperta - la possibilità che alcuni di noi riescano a percepire i pensieri degli altri. «Ascolta» continuai. «Nel febbraio 1993 uno psicologo della Cornell University ha presentato una relazione alla riunione annuale dell'American Association for the Advancement of Science, è un fatto pubblico. Ha presentato fondate prove statistiche secondo le quali l'ESP esiste, e alcuni esseri umani sono in grado di leggere i pensieri di altri. La sua relazione è stata accettata per la pubblicazione dalla più prestigiosa rivista di psicologia. E il preside della facoltà di psicologia di Harvard ha dichiarato di esserne rimasto "completamente convinto".» Molly ora sembrava fare il broncio, senza nemmeno guardarmi più, ma io proseguii imperterrito: «Fino a poco tempo fa non avevo prestato alcuna attenzione a roba del genere. Il mondo è pieno di imbroglioni e ciarlatani, e comunque si tratta di gente che ho sempre considerato ingenua, se non peggio». Ormai saltavo di palo in frasca, nel disperato tentativo di apparire razionale e concreto, da avvocato qual ero. «Consentimi di venire al punto. La CIA, il vecchio KGB e diversi altri servizi segreti del mondo - anche il Mossad israeliano, credo - mostrano da molto tempo interesse per la possibilità di utilizzare a fini di spionaggio le persone che dispongano anche in quantità minima di qualche - per il momento non saprei come definirla meglio - facoltà "psichica". Sta comunque di fatto che esistono programmi articolati per rintracciarle e cercare di utilizzarle a fini di intelligence. Quando ero nella CIA, ricordo di aver sentito parlare di un programma
speciale. E a questo punto ho anche effettuato parecchie letture in materia.» Molly stava scuotendo la testa, anche se non capivo se per incredulità o dispiacere. Mi toccò il ginocchio con una mano e disse: «Credi che in tutto ciò c'entri Alex Truslow, Ben?». «Lasciami finire» risposi. «Quando io...» Ma mi mancò la voce, mentre mi veniva in mente una cosa. «Be'?» Alzai una mano a zittirla. Poi cercai di liberarmi del tutto la mente e mi concentrai. Sicuramente, se era turbata come appariva. .. Rosenberg, sentii, più chiaramente che mai. Mi morsi il labbro inferiore e continuai a concentrarmi. ... lo hanno convinto a occuparsi di questo cazzo di lavoro per Truslow. Per lui dev'essere difficilissimo tornare a mescolarsi con questa gente dello spionaggio dopo essersene tirato fuori, dopo quello che gli è successo, farà una gran fatica. Se glielo chiedo come un favore particolare, Stan Rosenberg troverà un po' di tempo, oggi... «Molly» continuai. «Hai intenzione di telefonare a Stan Rosenberg, vero? Si chiama così, eh?» Lei mi rivolse uno sguardo triste. «È il nuovo responsabile di psichiatria. Te ne ho parlato, no?» «No, Molly, mai. È una cosa che stavi pensando.» Annuì, distogliendo lo sguardo. «Fa' un attimo come ti dico, Molly. Voglio che pensi qualcosa. Qualcosa che io non possa sapere.» «Dài, Ben» ribatté, un sorriso smorto dipinto in viso. «Pensa... pensa il nome della tua maestra di prima elementare. Fallo, Molly.» «Okay» rispose lei pazientemente. Quindi chiuse gli occhi, come se stesse pensando con grande intensità, e io mi liberai la mente, finché sentii... Mrs. Nocito. «Era Mrs. Nocito, vero?» Annuì. Quindi alzò gli occhi a guardarmi, con aria esasperata, ribattendo: «Che senso ha tutto ciò, Ben? Ti stai divertendo?». «Dammi retta, maledizione! Nel laboratorio del TRM di Rossi mi è successo qualcosa. Mi hanno in qualche maniera modificato il cervello, mi hanno fatto qualcosa. Ne sono uscito con la facoltà - come posso spiegarlo? - di sentire, o leggere, o qualcosa del genere, di ascoltare i pensieri altrui, insomma. Soltanto le cose che gli altri pensano mentre sono irritati, o
spaventati, o eccitati. Ma sono in grado di farlo. Evidentemente qualcuno ha scoperto che un apparato di risonanza magnetica molto potente può modificare il cervello, o perlomeno certi cervelli...» Cinque cinque cinque zero sette due zero. Quando va in bagno o scende da basso telefono a Maureen. Lei sa sicuramente che cos'è il caso di fare... «Molly. Ascoltami. Hai intenzione di chiamare una certa Maureen. Il numero è il 555.0720.» Mi rivolse uno sguardo spento. «Non c'è modo che io potessi saperlo, Molly. Assolutamente. Credimi.» Lei continuò a guardarmi, gli occhi lucidi di lacrime, la bocca leggermente aperta. «Come hai fatto?» mormorò. Oh, grazie a Dio. Grazie a Dio. «Molly, voglio che pensi qualcosa... qualcosa che io non possa sapere che stai pensando. Per favore.» Lei raccolse i ginocchi contro il petto, stringendoseli al corpo, e strinse le labbra. Trollope. Non ho mai letto Le torri di Barchester. Voglio leggerlo al più presto. Alla prima vacanza. «Stai pensando che non hai mai letto Le torri di Barchester di Trollope» dissi con grande decisione. Lei inspirò lentamente. «Oh, no. Oh, no.» Annuii. «Oh no» ripeté, e io fui preso alla sprovvista nel vedere che sul suo viso si dipingeva un'espressione non di agitazione ma di immensa paura. «Oh, Ben» esclamò. «Ti prego, no.» Si strinse il mento tra le dita in un inconsapevole atteggiamento d'intensa riflessione. Poi scese letto e si mise a camminare avanti e indietro. «Acconsentiresti a farti vedere da qualcuno all'ospedale?» chiese. «Un neurologo, per esempio, qualcuno con cui possiamo parlare di questo problema?» «No, non credo» risposi, dopo averci pensato un attimo. «Perché?» «Chi mi crederà?» «Se facessi con loro come hai fatto con me... se lo dimostrassi... come potrebbero non crederti?» «È vero. Ma che senso avrebbe? Che cosa scopriremmo?» Sventolò entrambe le mani in aria, quindi se le lasciò ricadere lungo i fianchi. «Per esempio com'è successo» rispose, con la voce venata da un
tono stridulo di tensione. «Come diavolo possa essere successo!» «Molly,» replicai, voltandomi ad affrontarla mentre giocherellava con una conchiglia posata sul comò «è successo e basta. Nessuno può dirmi qualcosa che io non sappia già.» Lei mi guardò. «Fino a che punto credi che Alex Truslow ne sia al corrente?» chiese. «Di me? Probabilmente non sa nulla. E a Rossi non ho fatto capire niente... perlomeno credo...» «Ne hai parlato con Alex?» «Non ancora.» «Perché?» «Mah... non so.» «Chiamalo subito.» «È a Camp David.» Mi scoccò uno sguardo interrogativo. «Dev'essere ricevuto dal presidente» spiegai. «La carica di direttore della CIA. Capisco. L'hai detto a Bill Stearns?» «No di certo.» «Perché?» chiese lei, dopo un attimo di silenzio. «In che senso?» «Voglio dire, di che cosa hai paura?» «Dài, Molly...» «No, Ben. Pensaci un attimo.» Tornò al fianco del letto, sedendosi accanto a me, sempre giocherellando con le labbra rosate della conchiglia. «Alla Truslow Associates è stato affidato il compito di rintracciare una fortuna scomparsa. Si tratta di un'operazione di massima segretezza, per cui un tizio della CIA viene fino a qui e, con la scusa di sottoporti al lie detector, ti impone questo tipo di procedura. Un poligrafo di qualità superiore. Così perlomeno ti è stato detto. E può anche darsi che sia vero. D'accordo. Ma che cosa ti fa pensare che quella gente sappia che quello stesso ultrapotente TRM ha anche, come dire... be', definiamolo l'effetto secondario di riconfigurare il cervello umano o perlomeno una minuscola parte di esso? In modo che le persone esposte alla sua azione vengano dotate della facoltà di intercettare le onde cerebrali degli altri. Voglio dire, come fai a sapere che quella gente sa che cosa ti ha fatto quell'impianto, che cosa può fare a una persona?» «Dopo quello che ti è capitato ieri - con quel tizio, all'ospedale - come puoi pensare altrimenti?»
«Ben» ribatté dopo un attimo, con una vocetta esile. «Sì?» Si voltò verso di me, tanto vicina da baciarmi, con un'espressione preoccupata in viso. «Quando... quando abbiamo fatto l'amore, ieri sera. In cucina.» Mi staccai involontariamente da lei, pieno di sensi di colpa. «E... eh?» «Lo hai fatto, vero?» «Fatto che...» «Mi hai letto nella mente, eh?» incalzò, di nuovo con quel tono brusco nella voce. Sorrisi, teso. «Che cosa te lo fa...» «Ben.» «Tra noi la percezione extrasensoriale non serve» attaccai con falsa gaiezza. Si sottrasse al mio abbraccio. «Lo hai fatto, vero?» Era seccata. «Hai ascoltato i miei pensieri, le mie fantasie, vero?» «Bastardo» sbottò, prima ancora che potessi rispondere. Si rimise in piedi, con le mani sui fianchi, squadrandomi. «Figlio di puttana» sibilò a bassa voce. «Non farmi mai più una cosa del genere.» 18 La reazione di Molly mi sembra comprensibile. C'è qualcosa di raccapricciante e tremendo nel fatto di sapere che nei propri pensieri più intimi, che noi consideriamo inaccessibili, qualcuno possa invece ficcare il naso. Molly e io avevamo goduto la più bella esperienza erotica che avessimo mai avuto, ma adesso a lei appariva una cosa squallida, falsa. Perché? In termini logici, quella facoltà mi metteva in grado di sapere ciò che di norma ci è impossibile sapere, ovvero che cosa desidera un'altra persona, e darglielo. Giusto? Una delle caratteristiche che fanno di noi degli esseri intelligenti, pensanti, è proprio la capacità di non rendere partecipi gli altri dei nostri pensieri, di decidere che cosa propalare e che cosa invece tenere segreto. Adesso, invece ecco lì me, in grado di violare quel confine. Quando un'ora più tardi ci salutammo con un bacio, Molly mi parve particolarmente distaccata. Ma come non capirla, dopo ciò che aveva appena scoperto? Immagino che a un certo livello io sperassi di svegliarmi quel mattino
scoprendo che mi ero sognato tutto, che ora sarei tornato alla mia tranquilla e rassicurante vita di avvocato specializzato in legislazione sui brevetti, dedicandomi come il solito alla mia routine di riunioni e incontri con i clienti. Potrà sembrarvi un po' strano. In definitiva la facoltà di leggere i pensieri altrui è una di quelle fantasie di base, di quei sogni a occhi aperti che molti di noi albergano segretamente nell'intimo. C'è persino gente così mattoide da comperare libri o cassette che promettono di insegnare la percezione extrasensoriale. Una volta o l'altra è capitato a tutti noi di auspicare di esserne in possesso. Ma non è veramente il caso di averla. Potete credermi sulla parola. Non appena fui arrivato in sede ed ebbi scambiato quattro chiacchiere con Darlene, chiusi la porta del mio studio e chiamai il mio agente di Borsa, John Matera della Shearson, sui cui conti di gestione titoli avevo spostato qualche migliaio di dollari. Che uniti a qualche piccola quota di blue chip mi consentivano una sufficiente possibilità di azione. Stavo in realtà giocando con i soldi che mi aveva anticipato Bill Stearns per evitare la bancarotta, la miseria, la rovina. Ma si trattava o no di una cosa sicura? «John,» chiesi, dopo qualche convenevole «quanto costano le Beacon Trust?» «Niente» rispose immediatamente John, che è un tipo spiccio, di poche parole. «Vengono via gratis. Le danno a chiunque sia tanto stupido da manifestare un interesse nei loro confronti. Perché diavolo vuoi merda simile, John?» «Quanto quotano?» Esplose un lungo sospiro accorato. Si sentì un ticchettare di tasti di computer. «Lettera undici e mezzo, denaro undici.» «Vediamo» considerai. «Per trentamila dollari, significa che potrei prendere... che cosa?» «Un'ulcera. Non dire scemenze.» «Provvedi, John.» «Non mi è consentito consigliarti» replicò lui. «Ma perché non ci pensi su un po' e non mi richiami quando sarai tornato in te?» Nonostante le sue vivaci proteste, feci un ordine di 2.800 azioni della Beacon Trust a valere fino al prezzo di undici dollari e venticinque. E dieci minuti più tardi John mi telefonò per informarmi che ne ero "l'orgoglioso proprietario" a dieci dollari l'una, non resistendo alla tentazione di aggiun-
gere: «Testone». Sorrisi tra me per qualche istante, quindi mi sforzai di trovare il coraggio di telefonare a Truslow. Ma all'improvviso, ricordando che aveva detto che stava partendo per Camp David, mi sentii prendere dal panico. Era indispensabile che lo trovassi, che scoprissi se ciò che mi era capitato era stato fatto intenzionalmente, se sapeva... Ma come raggiungerlo? Prima chiamai la Truslow Associates, dove la sua segretaria mi informò che era fuori città e irraggiungibile. Sì, disse, sapeva chi ero, che ero un amico, ma non sapeva nemmeno lei come mettersi in contatto con lui. Decisi di chiamare la sua casa di Louisburg Square. Rispose una donna (presumibilmente una governante), la quale mi informò che Mr. Truslow era fuori città - «a Washington, credo» - e che la signora era nel New Hampshire. Di quest'ultima località mi diede il numero, e così finalmente riuscii a raggiungere Margaret Truslow. Mi congratulai con lei per la scelta presidenziale caduta sul marito, poi le dissi che avevo bisogno di raggiungerlo. Ebbe un attimo di incertezza. «Non è possibile aspettare, Ben?» «È urgente» risposi. «E la sua segretaria? Non può provvedere lei?» «Ho bisogno di parlare con lui» insistetti. «Subito.» «Lo sa che è nel Maryland, Ben, a Camp David» replicò con delicatezza. «Non so come raggiungerlo e ho la sensazione che non sia il momento giusto per disturbarlo.» «Deve esserci un modo per arrivare a lui» ribattei. «E credo che non gli darà fastidio essere disturbato. Se è con il presidente o con qualche altro personaggio importante, bene. Altrimenti...» Con un tono vagamente seccato Margaret acconsentì a chiamare la persona della Casa Bianca che aveva contattato pet prima suo marito, per verificare se Alex era raggiungibile. Acconsentì anche a riferire la mia richiesta che, se e quando mi avesse chiamato, Truslow avrebbe dovuto farlo soltanto tramite un criptotelefono portatile. Le riunioni dei soci della Putnam & Stearns sono noiose come tutte le altre, tranne forse quelle che si vedono negli sceneggiati televisivi basati su storie di avvocati. Ci incontriamo una volta alla settimana, alle dieci di mattino del venerdì, per dibattere gli argomenti su cui Bill Stearns vuole che si discuta e si decida.
Nel corso di quella specifica riunione, in compagnia di buon caffè e cornetti dolci portatici dal fornitore abituale, ci occupammo di una serie di problemi qualificabili come noiosi (quanti nuovi associati avremmo dovuto assumere nel corso dell'anno a venire?) e di medio interesse (lo studio doveva accettare di difendere un noto mammasantissima della criminalità di Boston - anzi meglio, un mammasantissima accusato di un certo crimine presunto - che vedi caso era fratello di uno dei politici più potenti dello Stato e che era specificamente stato accusato di frode dalla commissione d'inchiesta sulle lotterie?). Risposte: no al mammasantissima, sei associati. Se non fosse stato per l'unico argomento che mi riguardava - ovvero l'interrogativo se sarei riuscito a ottenere un risultato talmente favorevole, in un processo riguardante una gigantesca conglomerata degli alimentari, da convincerla ad affidarmi un procedimento legale contro una seconda conglomerata al fine di stabilire chi delle due avesse rubato all'altra la formula di un grasso artificiale - non sarei riuscito a prestare nessunissima attenzione. Ero agitato e decisamente fuori dallo spirito della professione, avevo la sensazione di poter esplodere da un momento all'altro. Bill Stearns, a capo del tavolo delle nostre riunioni - in tutto e per tutto simile a una bara -, sembrava gettarmi troppe occhiate. Era una mia fissazione? Oppure sapeva? No, la vera domanda era: fino a che punto sapeva? Sarei anche stato tentato di cercare di sintonizzarmi sui pensieri dei miei soci mentre scarabocchiavano appunti o prendevano la parola, ma, a dire il vero, mi risultava difficile. Molti erano tesi, nervosi, irritati o addirittura arrabbiati, e il chiasso, il trambusto si levava a formare una solida parete di rumore, una specie di spessa moquette di chiacchiericcio, attraverso cui non riuscivo assolutamente a distinguere i pensieri di uno di essi dalle parole pronunciate da un altro. Certo, ho accennato alla differenza qualitativa - la differenza di timbro - tra i pensieri che ero in grado di percepire e la normale voce parlata. Ma si trattava di una differenza sottile, per cui, quando c'era troppa carne al fuoco, finivo per ritrovarmi confuso e frustrato. Non potevo però evitare di ricevere qualche pensiero sparso. Mi capitava quindi magari di sentire Todd Richlin, il mago finanziario dello studio, che parlava di complessi problemi di Borsa, e contemporaneamente, sottesi, i suoi pensieri galoppanti, preoccupati: Stearns ha inarcato i sopraccigli, che cosa vorrà dire? Oppure: Quella testa di cazzo di Kinney sta cer-
cando di intervenire per mettermi in difficoltà. Ed ecco che di punto in bianco a tutto ciò si sovrapponeva qualche opinione buttata là da Thorne o da Quigley a proposito dell'opportunità o meno di incaricare un consulente esterno di insegnare ai nostri associati, persone fondamentalmente incolte, a scrivere e a parlare, e sopra a questo, ancora, i loro pensieri. Finii dunque per trovarmi sommerso da una marea di voci, una specie di incubo che a poco a poco mi mandò nel pallone. Ogni volta che guardavo verso il capotavola, Bill Stearns sembrava avere lo sguardo fisso su di me. Ben presto la riunione assunse il tipico ritmo accelerato dal quale si deduce che ormai si ha a disposizione meno di mezz'ora. Richlin e Kinney erano impegnati in una specie di scontro gladiatorio sull'andamento di una contesa aziendale riguardante un immenso parco di divertimenti di Boston e io stavo ancora cercando di liberarmi la mente da tutte quelle chiacchiere, quando sentii Stearns aggiornare la seduta, alzarsi di scatto dalla poltrona e uscire a grandi passi dalla sala. Mi precipitai a raggiungerlo, ma lui continuò per il corridoio con passo svelto. «Bill» lo chiamai. Si voltò a guardarmi, con occhi d'acciaio, ma non rallentò. Sembrava che volesse deliberatamente mantenere una buona distanza fisica tra di noi. Il gioviale Bill Stearns non esisteva più, sostituito da un uomo dall'atteggiamento severo, tanto assorto da incutere timore. Sa anche lui? mi chiesi. «Adesso non posso parlare con te, Ben» disse con uno strano tono perentorio che prima di allora non gli avevo mai sentito usare. Pochi minuti dopo il mio ritorno in ufficio mi venne passata una telefonata di Alex Truslow. «Cristo, Ben, è una cosa così importante?» sbottò nel tipico, singolare tono piatto di voce provocato dallo scrambler. «Sì, Alex, lo è» risposi. «Siamo su una linea pulita?» «Sì. Meno male che ho pensato di portarmi dietro l'apparecchio.» «Spero di non averla tirata fuori da un incontro con il presidente, o roba del genere.» «No, no. È in riunione con un paio di ministri per consultazioni sulla crisi tedesca. Quindi sono in zona di attesa. Che cos'è successo?» Gli fornii una cronaca succinta di ciò che era capitato nei Development Research Laboratories, e, per quanto mi era possibile, gli spiegai la nuova
facoltà di cui ero entrato in possesso. Seguì una pausa, molto lunga. Un silenzio che mi parve interminabile. Pensava che fossi uscito di testa? Avrebbe riagganciato? Quando finalmente fece sentire la voce, lo fece in un modo quasi inintelligibile. «Il Progetto Oracolo» sussurrò. «Che cosa?» «Mio Dio, ne avevo sentito parlare vagamente... ma pensare...» «Lei ne è al corrente?» «Dio del cielo, Ben. Sapevo che questo Rossi un tempo si occupava di quell'iniziativa, ma ero convinto... Gesù, avevo sentito dire che avevano raggiunto qualche risultato, che su una persona l'esperimento aveva funzionato, ma l'ultima notizia che ne avevo avuto era che Stan Turner aveva smantellato tutto il progetto, parecchio tempo fa. Dunque era a questo che mirava. Avrei dovuto capirlo che nella storia di Rossi c'era qualcosa di poco pulito.» «Non ne era informato?» «Informato? Mi avevano detto che si trattava di un normale controllo con il lie detector. Adesso capisce che cosa intendevo quando le ho detto che c'è per aria qualcosa? La Compagnia sta andando a ruota libera. Maledizione, non so più di chi diavolo ci si possa fidare...» «Alex» replicai. «Dovrò interrompere ogni rapporto con la sua ditta.» «Ne è sicuro, Ben?» protestò. «Mi spiace. Per la mia sicurezza e per quella di Molly - e anche per la sua - dovrò stare alla larga per un po' di tempo. Fuori dalla circolazione. Tagliare ogni contatto con lei e con chiunque abbia rapporti con la CIA.» «Mi ascolti, Ben. Mi sento responsabile... sono io che l'ho coinvolta in questa storia. Qualsiasi cosa deciderà di fare, rispetterò la sua volontà. Da un lato vorrei che lei tenesse duro, per vedere che cosa pretendono da lei questi cowboy dell'Agenzia. Ma dall'altro vorrei anche dirle di andare nella nostra casa di campagna e stare lì nascosto per un po'. Non so che alternativa scegliere.» «E io non so che cosa diavolo mi sia successo. Non sono ancora arrivato a capirlo. Né so se ci riuscirò mai. Ma...» «Non ho nessun diritto di dirle che cosa fare. Spetta a lei. Può darsi sia il caso che lei parli con Rossi, per capire che cosa vuole da noi. Forse si tratta soltanto di eccesso di zelo. Usi il buon senso, Ben. È l'unica cosa che mi sento di dirle.» «D'accordo» replicai. «Ci penserò.»
«Nel frattempo, se c'è qualcosa che posso fare...» «No, Alex. Niente. Per adesso non c'è nessuno che possa fare qualcosa.» Non appena ebbi appeso arrivò un'altra chiamata. «Un certo Charles Rossi» mi annunciò Darlene nell'interfono. Sollevai la cornetta. «Buongiorno, Rossi» dissi. «Ellison, ho bisogno che lei venga qui il più presto possibile e...» «No,» risposi «io non ho nessun impegno con la CIA. Ce l'ho soltanto con Alex Truslow e in questo momento è superato anche quello.» «No, aspetti un attimo...» Ma avevo riagganciato. 19 John Matera, il broker della Shearson, era talmente agitato da riuscire a stento a spiccicare parola. «Gesù» esclamò. «Hai sentito?» Stava parlando sulla normale linea della ditta, per cui con un tono innocente chiesi: «Che cosa?». «La Beacon... quello che è successo alla Beacon... c'è un acquisto in blocco della Saxon...» «Fantastico» replicai, fingendo grande eccitazione. «Che cosa significa per le azioni?» «Che cosa significa? Che cosa significa? Sono già salite di trenta punti, Ben. Hai... hai praticamente triplicato il tuo investimento, e la giornata non è ancora finita! Hai già rastrellato oltre sessantamila dollari, che non è niente male per un lavoro di un paio d'ore.» «Vendile, John.» «Che cosa cazzo...» «Vendile, John. Subito. E basta.» Chissà perché, non provavo alcun entusiasmo. Al contrario mi sentivo invaso da una sorda, acida ondata di paura. Tutto ciò che mi era capitato nelle ultime ore potevo considerare di averlo semplicemente immaginato, alla stregua di un tremendo abbaglio. Ma avevo letto il pensiero di un essere umano, venendo a conoscenza d'informazioni finanziarie riservate, e ora ne avevo la prova concreta. Non soltanto per me, ma per chiunque mi stesse eventualmente tenendo sotto controllo. Sapevo che c'erano seri rischi che la SEC si insospettisse per un cambio tanto rapido di proprietà, ma di quei contanti avevo bisogno, per cui era meglio far prevalere il buon senso.
Gli fornii rapide istruzioni circa il da farsi con il ricavato, su quale conto accreditarlo. Poi telefonai a Ed Moore a Washington. Il telefono suonò un numero incredibile di volte - non esisteva segreteria telefonica: simili marchingegni Ed li aveva sempre considerati degli impiastri -, ma quando stavo ormai per desistere mi sentii rispondere da una voce maschile. «Sì?» La voce di un giovane, non quella di Ed. La voce di una persona abituata al comando. «Ed Moore, per favore» dissi. Pausa. «Chi parla?» «Un amico.» «Il nome, per favore?» «Non la riguarda. Mi faccia parlare con Elena.» Sullo sfondo sentii una voce femminile, acuta, lamentosa, alzarsi in grida isteriche e spegnersi ritmicamente. «Chi è?» gridò. «Non è in condizione di venire al telefono, signore. Mi dispiace.» Sullo sfondo le grida si fecero più forti, finché divennero parole comprensibili. «Oh, signore!» e «Il mio bambino. Il mio bambino». Infine, un forte ansito carico di angoscia. «Che cosa diavolo sta succedendo?» chiesi. L'uomo coprì il telefono con una mano, si consultò con qualcuno e poi tornò in linea. «Mr. Moore è morto. Sua moglie lo ha scoperto soltanto qualche minuto fa. Suicidio. Mi spiace. Non posso dirle altro.» Ero esterrefatto, quasi senza parole. Ed Moore... suicida? Il mio caro amico e protettore, quel vecchino minuto, allegro e dal cuore immenso? Ero troppo sbalordito, troppo sconvolto persino per versare le lacrime che avrei voluto. Non era possibile. Suicida? Mi aveva detto di avere ricevuto vaghe minacce, di temere per la propria vita. Non poteva trattarsi di suicidio. Quando mi aveva parlato mi era parso molto disorientato, per non dire confuso. No, non si trattava di suicidio. Chiamai l'ospedale e chiesi che mi trovassero Molly attraverso il cercapersone. Fidavo nel suo buon senso, nei suoi consigli concreti, e ne avevo bisogno più che mai.
Ero profondamente spaventato. Tra i pivellini dei servizi segreti è diffuso l'atteggiamento del macho, la tendenza a non tenere in nessun conto se non addirittura a irridere la paura, come se in qualche modo sminuisse la loro professionalità, la loro virilità. Gli agenti esperti, invece, sanno che può essere la migliore alleata. Bisogna sempre ascoltarla e fidarsi dell'istinto. E in quel momento l'istinto mi diceva che la mia nuova facoltà aveva messo in grande pericolo Molly e me. Dopo una lunga attesa la centralinista si rifece viva, dicendomi con una voce resa rauca dalla sigarette: «Mi spiace, signore, non mi risponde. Vuole che le passi il reparto?». «Sì, grazie.» La donna che mi rispose aveva un leggero accento latino americano. «No, Mr. Ellison, mi spiace, è già andata via.» «Come?» «È andata a casa. Una decina di minuti fa.» «Eh?» «Ha dovuto andarsene improvvisamente. Ha detto che si trattava di una situazione di emergenza, che riguardava lei. Credevo che lei fosse al corrente.» Appesi e mi precipitai verso l'ascensore, con il cuore in tumulto. Cadeva una pioggia torrenziale, tra raffiche di vento quasi di burrasca. Il cielo era di un grigio metallico, striato di giallo. I passanti si proteggevano con incerate gialle e impermeabili cachi, il furibondo soffiare del vento rovesciava le cupole nere degli ombrelli. Quando finalmente salii i gradini di casa mia, fradicio soltanto per avere percorso a piedi il breve tragitto dal taxi a lì, era ormai il crepuscolo, ma tutte le luci di casa sembravano spente. Strano. Mi precipitai nell'atrio esterno. Perché Molly era tornata a casa? Avrebbe dovuto fare la notte in ospedale. La prima stranezza che notai fu che l'allarme era staccato. Significava che era a casa? Quel mattino era uscita dopo di me, e per quanto concerneva la messa in funzione dell'allarme era sempre precisissima, al limite della mania, anche se in casa c'era poco o niente da rubare. Fatta girare la serratura della porta d'ingresso notai la seconda stranezza: la borsa che Molly si portava dietro dovunque andasse era lì, nell'atrio. Doveva essere a casa.
Accesi qualche luce e salii silenziosamente le scale che portavano alla nostra camera da letto. La trovai immersa nel buio, non c'era traccia di Molly. Salii un'altra rampa di scale verso il locale che usava come studio, anche se in quel momento si trovava in uno sconfortante stato di ristrutturazione. Niente. «Mo?» chiamai. Nessuna risposta. L'adrenalina cominciò a scorrermi nel sangue. Feci una serie di calcoli mentali. Che fosse ancora per strada? E, in tal caso, chi o che cosa era stato a imporle di venire a casa? E perché non aveva cercato di telefonarmi? «Molly?» chiamai, un po' più forte. Silenzio. Discesi rapidamente la scala con il cuore in tumulto, accendendo le luci al mio passaggio. No. In salotto non c'era. E nemmeno in cucina. «Molly?» chiamai ad alta voce. Silenzio totale, assoluto, in tutta la casa. Ma in quel preciso momento lo squillo del telefono mi fece trasalire. Lo raggiunsi con un balzo, sollevai la cornetta e dissi: «Molly». Ma non era lei. Sentii una voce maschile, sconosciuta. «Mr. Ellison?» Un leggero accento, ma di dove? «Sì?» «Dobbiamo parlarle. È urgente.» «Che cosa cazzo le avete fatto?» esplosi. «Che cosa...» «La prego, Mr. Ellison. Non per telefono. E non a casa sua.» Inspirai lentamente, cercando di rallentare il battito del cuore. «Chi parla?» «Fuori. Dobbiamo incontrarci subito. È una questione di sicurezza per sua moglie e per lei. Per tutti noi.» «Dove diavolo...» cercai di ribattere. «Le verrà spiegata ogni cosa» riprese la voce. «Parleremo...» «No» replicai. «Voglio sapere immediatamente...» «Senta» sibilò la voce attraverso il ricevitore, con il suo accento. «All'incrocio c'è un taxi. Sua moglie è lì che l'aspetta. Esca e giri a sinistra...» Non lo lasciai finire. Gettata la cornetta sul pavimento, feci un velocissimo dietrofront precipitandomi alla porta d'ingresso.
20 La strada era buia, silenziosa, fradicia di pioggia. Cadeva un'acquerugiola fitta, quasi una nebbiolina. Ed ecco lì, all'incrocio, un taxi giallo, a poche centinaia di metri. Perché all'incrocio? Perché proprio lì? mi chiesi. E mentre mi avviavo, accelerando, mettendomi a correre, distinsi nell'interno del taxi il profilo della testa di una donna, con la massa dei capelli scuri, immobile. Era veramente Molly? A quella distanza non potevo esserne sicuro, ma doveva esserlo, per forza. Perché era lì? Pensai con angoscia, camminando velocissimo. Che cos'era successo? Però avvertii che qualcosa non andava. Rallentai istintivamente fino a mettermi a un passo rapido, tenendo d'occhio entrambi i lati della strada, all'erta. Che cos'era? Qualcosa. Su quella strada, a quell'ora di sera, sotto la pioggia, si vedevano un po' troppi passanti, che camminavano con aria un po' troppo disinvolta. Di solito, sotto la pioggia, la gente va in fretta... Ma forse era una mia fissazione. Si trattava certamente di comuni passanti. Per un istante, un secondo spaccato, ne avvistai uno: alto, scarno, con un impermeabile nero o blu, un berretto di lana fatto a mano. Parve lanciarmi uno sguardo. I nostri occhi si incrociarono per un millisecondo. Il suo viso era straordinariamente pallido, come se fosse stato sbiancato. Le labbra erano sottili e altrettanto pallide. Sotto gli occhi si vedevano due profondi cerchi giallastri che arrivavano fino agli zigomi. I capelli, o perlomeno ciò che ne vedevo sotto il berretto, erano di un color stoppa chiaro e tirati all'indietro. Altrettanto in fretta distolse lo sguardo, come se niente fosse. Quasi albino, aveva detto Molly. L'uomo che l'aveva "abbordata" all'ospedale, che voleva avere notizia di qualsiasi conto, di qualsiasi somma potesse averle lasciato suo padre. Tutto ciò non mi piaceva per niente. La telefonata, Molly seduta in quel taxi: aveva un odore che non mi piaceva, e gli anni di addestramento pres-
so l'Agenzia mi avevano insegnato ad avvertire i cattivi odori a distanza, a vedere al di là delle apparenze, finché... ... finché qualcosa attirò il mio sguardo, un infinitesimale lampo di qualcosa, un vago riverbero - metallo? - sotto la luce del lampione, sul lato opposto della stradina. Poi sentii qualcosa. Un leggero sciusc di stoffa contro stoffa, o di stoffa contro cuoio, un suono ben noto, perfettamente distinto dai rumori d'ambiente della strada: lo strusciare di una fondina. Possibile? Mi gettai sul marciapiede proprio nel momento in cui una voce maschile, profonda, gridava: «A terra!». E di punto in bianco il silenzio venne infranto da uno spaventoso frastuono. Seguì il terrore, un infernale caos di esplosioni e urla - il fut-fut delle pistole automatiche munite di silenziatore, gli stridori metallici delle pallottole che andavano a sbattere contro i cofani delle auto parcheggiate davanti a me. Da chissà dove arrivò un fischiare di freni e poi l'esplosione di un vetro. Da qualche parte un finestrino era andato in frantumi. Un proiettile vagante? Mi alzai, tenendomi ingobbito e cercando di capire da dove arrivassero gli spari. Mi mossi con la velocità del fulmine, mentre il cervello vorticava furiosamente in un milione di calcoli. Da dove venivano i colpi? Impossibile dirlo. Dall'altro lato della strada. Sulla sinistra? Sì, sulla sinistra, dalla direzione... dalla direzione del taxi. Una figura scura stava correndo verso di me, un altro grido, che non riuscii a capire, e infine, mentre tornavo a gettarmi a terra, un'altra raffica di spari. Questa volta i colpi erano pericolosamente vicini. Sentii un frammento di qualcosa pungermi una guancia, la fronte, sentii il dolore del marciapiede che mi escoriava la mascella. Qualcosa mi perforò una coscia. Poi il parabrezza dell'auto dietro cui ero accucciato esplose in un reticolo latteo. Ero in trappola, i miei ignoti assalitori mi erano addosso e io ero disarmato. Mi gettai sotto l'auto, sentii un'altra raffica di spari, un guaito di dolore, uno stridere di pneumatici... ... e il silenzio. Un silenzio assoluto. Per il momento la sparatoria era cessata. Da sotto lo chassis dell'auto riuscivo a distinguere soltanto un cerchio di luce sul lato opposto della
strada. Dentro cui si vedeva steso il corpo di un uomo, ammantato di scuro, il viso girato dall'altra parte, la nuca ridotta a un orribile ammasso di sangue e tessuto. L'uomo pallido a cui avevo gettato un'occhiata pochi secondi prima? Capii subito che non era così. Il cadavere era più tarchiato, più basso di statura. Nel silenzio continuavo a sentirmi ronzare negli orecchi l'eco degli spari e delle esplosioni. Rimasi lì steso un attimo, immobile per la paura, terrorizzato che il minimo movimento potesse rivelare la mia posizione. Finché mi sentii chiamare. «Ben!» Una voce in qualche modo nota. Che si andava facendo più vicina. Veniva dal finestrino di un veicolo in accostamento. «Tutto in ordine, Ben?» Per un attimo non riuscii a rispondere. «Oh, Cristo» sentii dire dalla voce. «Oh, Dio, speriamo che non sia stato colpito.» «Qui» riuscii a rispondere. «Sono qui.» 21 Pochi minuti più tardi, stordito, ero nel retro di un furgone bianco blindato. Seduto nella parte frontale, dietro l'autista in uniforme e separato da me da uno spesso pannello di vetro c'era Charles Rossi. L'interno del furgone era "addobbato" con eleganza: un piccolo schermo televisivo incassato, una macchina per il caffè, persino un fax. «Sono contento che stia bene» sentii dire dalla voce amplificata di Rossi, che arrivava da un intercom. Il vetro che ci divideva impediva evidentemente il passaggio dei suoni. «Dobbiamo parlare.» «Che cosa diavolo significa questa storia?» «Ellison...» rispose stancamente «la sua vita è in pericolo. Non stiamo giocando.» Stranamente, non provai nessuna rabbia. Forse ero istupidito dall'esperienza che avevo appena vissuto, dallo shock della scomparsa di Molly. Provavo, caso mai, un remoto, distaccato senso d'indignazione, la consapevolezza che c'era qualcosa che non andava... Ma, stranamente, nessuna rabbia.
«Dov'è Molly?» chiesi stupidamente. Dall'intercom Rossi sospirò. «Sta benissimo. Vogliamo che lei lo sappia.» «L'avete presa voi?» «Sì» rispose Rossi, come se fosse lontanissimo. «L'abbiamo presa noi.» «Che cosa le avete fatto?» «La vedrà presto» replicò. «Glielo giuro. Deve capire che abbiamo agito così per la sicurezza di sua moglie. Glielo giuro.» Parlava in un tono pacato, ragionevole, convincente. «È al sicuro» continuò. «La vedrà quanto prima. È sotto la nostra protezione. Potrà parlarle nel giro di qualche ora, e vedrà.» «Allora, chi è che ha cercato di uccidermi?» «Non lo sappiamo.» «Non sapete mai niente, eh?» «Non siamo ancora in grado di dire se sia stato uno dei nostri o altra gente.» Uno dei nostri. Nel senso di CIA? O altra gente nell'ambito dei servizi americani? Quanto erano dunque diffuse le notizie circa la mia persona? Allungai la mano verso la maniglia dello sportello e tirai per aprirlo, ma era bloccato dall'interno. «Lasci stare» disse Rossi. «La prego. Lei per noi è troppo prezioso... Non è il caso che si faccia male.» Ora il furgone era in movimento. Non sapevo dove stessimo andando, non capivo bene. Però sapevo una cosa. «Sono stato colpito» dissi. «Eh? A me sembra in forma perfetta, Ben.» «Invece no. Sono stato colpito.» Allungai una mano per tastare il punto sopra la coscia che mi faceva male. Slacciata la cintura, mi calai i pantaloni: trovai il segno dell'ago, una macchiolina nera circondata da un alone rosso. Ma non avevo visto alcun dardo, per cui non si trattava di un ago ipodermico. «Come avete fatto?» chiesi. «Che cosa?» In quel momento eravamo in Storrow Drive, una bretella diretta verso la tangenziale. Chetamina, pensai. «Eh?» chiese la voce di Rossi, metallica. Dovevo aver parlato ad alta voce, quindi mi sforzai di tenere per me i
miei pensieri. Mi avevano somministrato un composto a base di benzodiazepina? No. Secondo me si trattava di idroclorato di chetamina. Ovvero di "Special K", come era comunemente noto: un tranquillante per animali. Se viene somministrato in dose esatta si rimane svegli, ma si diventa straordinariamente accomodanti, acquiescenti, anche se la parte del cervello preposto all'istinto di sopravvivenza avverte di non esserlo affatto. Se si vuole che una persona faccia qualcosa che altrimenti non farebbe mai, è lo stupefacente perfetto. Guardai la strada, la seguii mentre ci avvicinavamo all'aeroporto. Mi chiesi oziosamente che cos'avessero intenzione di farmi. E conclusi che in definitiva non poteva poi essere un granché. Niente di terribile. Una parte di me, remota, debole, che si esprimeva con una vocina flebile, avrebbe voluto aprire lo sportello di quel furgone, saltarne fuori e scappare. "Ma, no, tutto sommato non c'è nessun problema" mi rassicurava l'altra parte di me, più forte, più vicina, con una voce ben udibile. "Vengo sottoposto a una specie di test" pensai. "Da parte di Charles Rossi. Tutto lì. "Comunque, da me non possono venire a sapere niente, niente che abbia qualche valore. Se avessero avuto intenzione di uccidermi lo avrebbero già fatto da un pezzo. "Ma simili pensieri di pericolo sono stupidi. Maniacali. Inutili. "Tutto sommato non c'è nessun problema." Sentivo Rossi che mi parlava in tono tranquillo da enorme distanza. «Se fossi nei suoi panni, visto quello che le è successo, proverei senza dubbio anch'io quello che prova lei. È convinto che nessuno sappia ciò che è accaduto, non ci crede nemmeno lei. A volte si esalta per quello che si scopre di punto in bianco in grado di fare; altre, invece, ha una paura tremenda.» «Non ho la più vaga idea di che cosa stia dicendo» replicai, ma le parole mi uscirono in un tono piatto, poco convincente, forzato. «Sarebbe molto più semplice, molto meglio per tutti noi se lei collaborasse.» Non risposi. Seguì un attimo di silenzio, quindi riprese: «Noi siamo in condizione di proteggerla, ma, purtroppo, vi sono altre persone al corrente del fatto che
lei è stato sottoposto a quell'esperimento». «Quale esperimento?» chiesi. «Intende parlare del TRM?» «Sapevamo che c'era una possibilità su mille - al massimo una su cento che su di lei avesse l'effetto desiderato. Inoltre, vista la valutazione medica riportata sulla sua scheda conservata presso l'Agenzia, avevamo buoni motivi per ritenere che lei avesse tutti gli attributi necessari... il quoziente d'intelligenza, il profilo psicologico, la memoria particolarmente eidetica. Proprio il profilo che ci serviva. Non potevamo ovviamente esserne sicuri ma avevamo numerosi motivi per essere ottimisti.» Io stavo distrattamente tracciando un disegno sul sedile in pelle rosso borgogna. «Lei non è stato abbastanza attento, sa» continuò Rossi. «Capita che anche una persona con il suo addestramento, con le sue qualità, agisca in maniera approssimativa.» Tutti i miei campanelli d'allarme si misero a suonare. Sentii la pelle della nuca prudere in maniera sgradevole. Ma la mia mente, pigra, serena, sembrava dissociata dagli impulsi fisici. Mi accorsi che stavo annuendo lentamente. «... non la sorprenderà più di tanto sapere» stava continuando Rossi «che i telefoni di casa sua e del suo studio erano stati messi sotto controllo, naturalmente con la massima legalità, tra parentesi, visto un suo possibile coinvolgimento nel disastro della First Commonwealth. Inoltre, nei locali di casa sua sono state piazzate diverse apparecchiature elettroniche... Abbiamo lasciato molto poco al caso.» Mi limitai a scuotere il capo. «È ovvio che abbiamo potuto monitorizzare tutto ciò che lei ha detto ad alta voce, e devo dire che si è comportato più volte con mancanza di discrezione, prima nel corso del suo incontro con Mr. Mel Kornstein, qualche giorno fa, e ancora di più durante le conversazioni con sua moglie. Non intendo affatto rivolgerle una critica, visto che lei non aveva alcun motivo di sospettare che ci fosse sotto qualcosa. In altre parole, non c'era motivo perché lei si attenesse alle precauzioni che le sono state insegnate durante l'addestramento presso l'Agenzia.» Abbassai la testa per aumentare l'afflusso di sangue al cervello, ma con il solo risultato di accrescere lo stato di confusione mentale. Mi girava la testa, i fari delle auto che incrociavamo sembravano troppo forti, mi sentivo pesante. Con voce venata di preoccupazione Rossi proseguì: «E possiamo dire
che è stata anche una fortuna. Se non l'avessimo tenuta sotto una così stretta sorveglianza non saremmo forse arrivati in tempo». Repressi uno sbadiglio, tendendo i tendini del collo. «Alex...» attaccai. «Mi spiace di aver dovuto procedere in questo modo» continuò lui. «Ma deve capire. Si trattava di proteggerla da lei stesso. Quando l'effetto della chetamina sarà terminato, capirà che siamo stati costretti. Noi stiamo dalla sua parte, e non vogliamo che le capiti qualcosa di male. Abbiamo soltanto bisogno che lei collabori con noi. E una volta che ci avrà ascoltato, penso che lo farà. Non possiamo imporle di fare niente che lei non voglia.» «Penso che una buona assistenza legale... poco...» borbottai. «Per tante brave persone lei rappresenta una grossa speranza.» «Rossi...» replicai. Ma non riuscivo ad articolare, la bocca e la lingua sembravano essersi intorpidite. «Lei era... il responsabile del progetto... del progetto della CIA circa le ricerche sulla parapsicologia... il Progetto Oracolo... il suo nome...» «Per noi lei è molto, molto prezioso» continuò lui. «Non voglio che le capiti nulla di male.» «Perché...» chiesi «sta così in guardia... che cos'ha da nascondere?» «Suddivisione in compartimenti stagni» rispose. «Lei conosce la regola aurea dei servizi segreti. Data la facoltà di cui dispone, sarebbe pericoloso se sapesse troppo. Rappresenterebbe una minaccia per tutti noi. Meglio tenerla all'oscuro il più possibile.» Ci eravamo fermati davanti a un terminal del Logan Airport, su cui non si leggeva alcuna indicazione. «Tra qualche minuto un aereo militare decollerà per la Andrews Air Force Base. Fra un attimo le verrà una gran voglia di dormire. Lo faccia senz'altro.» «Perché...» attaccai, ma non riuscii a finire la frase. Con un istante di ritardo Rossi replicò: «Ogni cosa troverà spiegazione nel giro di breve tempo. Ogni cosa». 22 L'ultima cosa che ricordo è che stavo parlando con Rossi nel furgone, dopo di che mi sono trovato sveglio, completamente suonato, in una disadorna cabina che era senza dubbio quella di un aereo militare. Mi accorsi che mi avevano legato con alcune cinghie in posizione orizzontale, su un sedile, una barella o qualcosa del genere.
Se su quell'aereo c'era anche Rossi, non mi era possibile vederlo da nessuna parte, soprattutto considerata la posizione in cui mi trovavo. Seduti accanto a me c'erano alcuni uomini in un'imprecisata uniforme militare. Incaricati della mia sorveglianza, probabilmente. Pensavano che potessi tentare la fuga a tremila metri di altezza? Non si rendevano conto che non potevo fare proprio niente? La chetamina che mi era stata iniettata per strada doveva essere di estrema potenza, visto che non riuscivo a pensare con lucidità. Nondimeno provai. La nostra destinazione era la Andrews Air Force Base. Ero dunque probabilmente diretto al quartier generale della CIA. No, non aveva senso. Rossi sapeva che avevo la facoltà di leggere nel pensiero, per cui l'ultimo posto dove mi poteva portare era Langley. Sembrava anche sapere ciò che non ero in grado di fare, ovvero che non potevo percepire le onde cerebrali attraverso il vetro o a distanza superiore a poche decine di centimetri, il che significava che questa straordinaria esperienza l'aveva già vissuta. Ma la facoltà funzionava ancora? Non ne avevo idea. Che durata poteva avere? Forse era già scomparsa, in fretta come si era presentata. Mi agitai sul sedile, dando alcuni strattoni alle cinghie, finché vidi che i miei guardiani giravano il capo, tesi. Era Molly la donna seduta in quel taxi, o no? Rossi aveva detto che l'avevano con loro, sana e salva. In un taxi? E per di più fermo per strada? Doveva essere uno specchietto per le allodole, una persona molto somigliante a Molly messa lì al fine di attirarmi a quell'incrocio. Ma erano stati gli uomini di Rossi? O gli innominati, imprecisati "altri"? E chi erano questi "altri"? «Ehi!» riuscii a gracchiare. Una delle guardie si alzò, avvicinandosi (ma, notai, non troppo). «Che cosa posso fare per lei?» chiese in tono cordiale. Poco più di vent'anni, capelli a spazzola, struttura massiccia. Voltai la testa verso di lui, guardandolo direttamente in faccia. «Sto male» risposi. Inarcò i sopraccigli. «Le mie istruzioni...» «Sto per vomitare» insistetti. «Gli stupefacenti. Voglio soltanto che tu lo sappia. E poi fa' quel cazzo che ti hanno detto di fare.» Si guardò attorno. Una delle altre guardie si accigliò e scosse il capo. «Mi spiace» disse. «Vuole che le porti un bicchiere d'acqua o qualcosa del genere?»
«Acqua» gemetti. «Gesù! Che cosa mi farebbe? Ci sarà pure un cesso, qui attorno.» La guardia tornò a rivolgersi all'altra, mormorandogli qualcosa. Quella si mise a gesticolare, come indecisa. Poi la prima tornò a rivolgersi a me, dicendo: «Mi spiace, vecchio mio. Il massimo che posso fare è darti una bacinella». Scrollai le spalle, o meglio, cercai di farlo, impedito com'ero dalle cinghie. «Fa' come credi» replicai. Il sorvegliante si spostò nella parte anteriore della cabina, tornando di lì a poco con quella che sembrava una padella da ospedale in alluminio, che mi sistemò accanto alla testa. Feci del mio meglio per simulare i rumori di un attacco di nausea, tossendo e ruttando mentre lui mi reggeva la bacinella davanti alla bocca, con la testa a non più di mezzo metro e con un'espressione di profondo disgusto che gli torceva la bocca in una smorfia. «Spero che ti paghino bene per questo servizio» dissi. Non rispose. Cercai di ridare lucidità al cervello annebbiato dalla chetamina. ... niente affatto colpito... sentii. Sorrisi, sapendo che cosa significava. Ripresi a tossire. Poi: per che cosa... E, qualche secondo dopo: ... ci penserà la Compagnia a non farci mai sapere che cosa abbia fatto probabilmente qualche operazione di spionaggio questo tipo non ha proprio l'aria di un avvocato. «A me pare che non stai affatto male» disse la guardia, ritirando la padella dopo qualche secondo. «Che sollievo» replicai. «Ma non metterlo troppo lontano, quell'aggeggio.» Sapevo, primo, che la mia facoltà funzionava ancora e, secondo, che da quel giovanotto, tenuto all'oscuro di chi io fossi e dove stessi andando, non avrei mai potuto scoprire niente. Un attimo dopo tornai a scivolare in un sonno privo di sogni. Quando mi svegliai di nuovo mi trovai seduto sul sedile posteriore di un altro veicolo, questa volta una Chrysler di serie dell'amministrazione pubblica. Ero pieno di dolori in tutto il corpo. L'autista era un uomo alto, sui quaranta, con capelli a spazzola color sale e pepe, in giaccone blu scuro.
Stavamo entrando in una zona agricola della Virginia, dalle parti di Reston, lasciandoci alle spalle una selva di stazioni di servizio e di piccoli centri commerciali e affrontando una serie di anguste strade a due corsie tra i boschi. All'inizio mi chiesi se fossimo diretti a Langley facendo un giro vizioso, poi capii che puntavamo in una direzione completamente diversa. Era la zona delle safe house, la parte della Virginia dove la CIA tiene una serie di case private a disposizione delle sue attività: incontri con agenti, interrogatori prolungati di transfughi e roba simile. A volte si tratta di appartamenti in grossi palazzi anonimi di periferia, ma più spesso di comuni case di campagna, ammobiliate in maniera dozzinale e affittate a mese, specchi trasparenti in cornici volgari, vodka nel freezer e vermut nel frigo. Dopo una decina di minuti ci fermammo davanti a un'elaborata cancellata in ferro battuto aperta in un recinto anch'esso in ferro battuto, alto circa cinque metri. Erano entrambi rinforzati con lance e sembravano molto robusti. Forse elettrificati. Dopo un attimo, comandata elettricamente, la cancellata cominciò ad aprirsi permettendoci di entrare in una lunga e oscura estensione di bosco che terminava di colpo dopo alcune centinaia di metri, cedendo il posto a un lungo viale circolare davanti a una grossa dimora georgiana in mattoni, che nell'oscurità della sera aveva un'aria quasi premonitrice. Al secondo piano si vedeva una stanza illuminata, altre al secondo e ancora una al pianoterra, ampia, con le tende tirate. Era illuminato anche l'androne. Mi chiesi che cosa potesse costare all'Agenzia mantenere quell'imponente residenza, e per quanto tempo l'avesse presa in affitto. «Ecco, signore» disse l'autista. «Siamo arrivati.» Parlava con il tono un po' strascicato che si può riscontrare in moltissimi dipendenti statali emigrati a Washington dall'ambiente della Virginia. «Bene» dissi. «Grazie per il passaggio.» Scrollò il capo. «Buona fortuna, signore.» Smontai e attraversai pian piano il viale in ghiaia e l'androne lastricato. Mentre mi avvicinavo, la porta si aprì automaticamente. TERZA PARTE La safe house THE WALL STREET JOURNAL
La CIA in crisi Il presidente forse prossimo alla nomina del nuovo direttore Basterà una nuova ramazza per fare piazza pulita? Il servizio segreto è ormai incontrollabile? DI MICHAEL ALPERN NOSTRO INVIATO SPECIALE Tra ricorrenti voci che circolano con insistenza a Washington a proposito di attività illegali all'interno della Central Intelligence Agency, sembrerebbe che il presidente sia prossimo alla nomina del nuovo direttore. Le ultime indiscrezioni puntano sulla figura di un funzionario di carriera dell'Agenzia, Alexander Truslow, un personaggio che gode generalmente di una buona considerazione sia presso il Congresso sia presso gli ambienti dei servizi segreti. Molti esperti manifestano tuttavia qualche preoccupazione circa la possibilità che Truslow sia in grado di affrontare la difficile, per non dire insormontabile, sfida di tentare di governare una CIA che si ritiene ormai largamente fuori di ogni possibilità di controllo. 23 Non avrei dovuto sorprendermi di vedere l'uomo seduto su una sedia a rotelle che, con un'espressione di calma dipinta in viso, mi osservava mentre entravo nel vasto salotto decorato. Dall'ultima volta che lo avevo incontrato, ai tempi dell'incidente che aveva posto termine alla mia carriera presso l'Agenzia ma che, molto più tragicamente, aveva posto fine all'esistenza di una magnifica donna e paralizzato un uomo dalla vita in giù, James Tobias Thompson III era terribilmente invecchiato. «Ciao, Ben» mi disse. La sua voce, rauca, bassa, mi risultò appena udibile. Era un uomo molto curato nella persona, sui settant'anni, con un completo di taglio antiquato, in serge blu. Le scarpe - destinate a non toccare quasi mai il suolo - erano due brogue nere, lucidate fino a scintillare. La zazzera, un po' lunga per un uomo della sua età e in particolare per un veterano dell'Agenzia, era candi-
da. Ma l'ultima volta che l'avevo visto, a Parigi, era nerissima, con qualche striatura di grigio alle tempie. Gli occhi erano color nocciola. Nel complesso Toby aveva un'aria al tempo stesso dignitosa e abbattuta. La sua sedia a rotelle era sistemata davanti a un immenso camino in cui, stranamente, ardeva un grosso fuoco artificiale. Stranamente, dico, perché la sala in cui ci trovavamo, che doveva essere lunga una quindicina di metri e larga il doppio, oltre che alta quasi sei metri, era mantenuta a una temperatura piuttosto fredda dall'impianto di condizionamento. E in definitiva era soltanto maggio. Chissà perché, mi venne in mente che a Richard Nixon piaceva che nello Studio Ovale, perfettamente condizionato, fosse tenuto acceso un fuoco scoppiettante anche nel cuore dell'estate. «Salve, Toby» risposi, avvicinandomi lentamente per stringergli la mano. Ma lui mi indicò una poltrona a una decina di metri dalla sua persona. Seduto in un'altra, a schienale alto, su un lato del camino, c'era Charles Rossi. E non lontano da lui, su un piccolo divano in damasco, c'erano due giovanotti nel dozzinale completo blu che ho sempre mentalmente associato con gli addetti alla sicurezza dell'Agenzia. «Grazie per essere venuto» disse Toby. «Oh, non ringraziare me» replicai, mascherando l'irritazione. «Ringrazia gli uomini di Rossi. O i chimici dell'Agenzia.» «Mi spiace» riprese Toby. «Conoscendo te e il tuo temperamento, ho ritenuto che non saremmo riusciti a farti venire qui con altri mezzi.» «D'altra parte,» intervenne Rossi «lei si è espresso in termini inequivocabili circa la sua indisponibilità a collaborare.» «Bel lavoro» dissi. «Quello stupefacente cancella davvero la volontà. Avete intenzione di mettermi una flebo, per assicurarvi la mia complicità?» «Secondo me, una volta che ci avrai ascoltato fino in fondo sarai più disposto a collaborare. Se invece decidessi di no, potremmo fare molto poco. Un uomo costretto è un agente di scarsissimo valore.» «Allora continua» lo esortai. La poltrona nera a schienale diritto in cui ero seduto sembrava essere stata sistemata in quel posto proprio per me, in modo che potessi rivolgermi sia a Rossi sia a Thompson. Eppure notai che era a grande distanza da tutti e due. «Questa volta l'Agenzia vi ha trovato una gran bella sqfe house» commentai. «In realtà appartiene a un agente in pensione» replicò Toby, con un sor-
riso. «Come va la vita?» «Io sto bene, Toby. E anche tu, mi sembra.» «Nei limiti del possibile.» «Mi spiace che non abbiamo mai avuto occasione di parlare tra noi» dissi. Scrollò le spalle e tornò a sorridere, come se avessi buttato là un'idea fuori luogo, sciocca. «Regole dell'Agenzia,» replicò «non mie. Sarebbe piaciuto anche a me.» Rossi mi stava osservando in silenzio. «Non so dirti quanto mi sia dispiaciuto...» continuai. «Ben,» mi interruppe Toby «lascia perdere, ti prego. Non ho mai pensato che sia stata colpa tua. Sono cose che capitano. A me è successa una cosa tremenda, ma quello che è toccato a te, e a Laura...» Rimanemmo in silenzio per qualche istante. Sentivo il sibilo delle finte fiamme color arancione scuro che lambivano le pigne di ceramica. «Molly...» attaccai. Toby mi zittì con un cenno della mano. «Sta bene» disse. «E per fortuna - grazie a Charles - stai bene anche tu.» «Credo che mi sia dovuta qualche piccola spiegazione» replicai blandamente. «Certo, Ben» convenne lui. «Ti renderai conto che questa conversazione è come se non stesse avendo luogo. Non esiste alcuna registrazione del tuo volo a Washington, e la polizia di Boston ha già fatto sparire la denuncia di una sparatoria in Marlborough Street.» Annuii. «Mi scuso se ti ho fatto sistemare a una simile distanza da noi» riprese lui. «Ma capirai le nostre esigenze di prudenza.» «No, se non avete niente da nascondere» ribattei. Sull'altro lato della sala Rossi sorrise tra sé, dicendo: «Si tratta di una situazione molto fuori dall'ordinario, che non rientrava esattamente nei nostri piani. Come le ho spiegato, impedirle la vicinanza fisica è l'unico modo che io conosca per assicurare il tipo di suddivisione in compartimenti stagni necessario per i livelli di conoscenza imposti da questa operazione». «Di che operazione si tratta?» chiesi a bassa voce. Mi rispose un leggero ronzìo metallico, come se Toby avesse sistemato la sua sedia a rotelle in modo da trovarsi proprio di fronte a me. Poi parlò lentamente, quasi con difficoltà. «Alex Truslow ti ha assunto per fare un lavoro. Io avrei preferito che
Charles non mettesse in atto quel suo trucchetto, ma Charles - e sarà il primo ad ammetterlo - non è certamente una mammola.» Rossi sorrise. «È un gioco basato sul principio secondo il quale il fine giustifica i mezzi, Ben» continuò Toby. «E noi abbiamo lo stesso fine di Alex; solo che ci serviamo di mezzi diversi. Non perdiamo tuttavia di vista il fatto che ci troviamo di fronte a una delle più eccitanti e importanti svolte nella storia mondiale. Secondo me, dopo averci ascoltato sceglierai di rimanere. Altrimenti va bene lo stesso.» «Continua» lo esortai. «Ti abbiamo selezionato già da diverso tempo come nostro soggetto più probabile. Tutto il tuo profilo personale appariva perfetto per le nostre esigenze... la memoria fotografica, l'intelligenza e così via.» «Quindi voi sapevate quello che sarebbe successo» esclamai. «No,» rispose Rossi «abbiamo fallito più volte.» «Un attimo!» lo interruppi. «Un attimo. Fino a che punto sapete, esattamente?» «Parecchio» rispose Toby con calma. «Tu hai la facoltà di ricevere quelle che vengono definite ELF (Extremely Low Frequency), ovvero le onde radio a frequenza estremamente bassa che vengono prodotte dal cervello umano. Ti spiace se fumo?» E tirò fuori un pacchetto di Rothmans - l'unica marca che fumava ai tempi di Parigi, mi venne in mente -, che prese a picchiettare contro la sedia a rotelle finché non ne uscì una. «Anche se mi spiacesse,» replicai «dubito che a questa distanza il fumo arriverebbe a darmi fastidio.» Scrollò le spalle e accese la sigaretta. Quindi, esalando il fumo con profondo gusto attraverso le narici, continuò: «Sappiamo che questa... facoltà - in mancanza di una definizione migliore la chiamerò così - non si è attenuata da quando si è manifestata. Sappiamo che sei sensibile soltanto ai pensieri generati in presenza di emozioni forti. Non tue, ma di chiunque tu stia cercando di "sentire". E ciò corrisponde quasi perfettamente con la teoria del dottor Rossi - una teoria ormai di vecchia data - circa il fatto che l'intensità delle onde del pensiero sarebbe proporzionale all'intensità delle reazioni emotive. Che l'emozione modificherebbe la forza degli impulsi elettrici emessi». E Toby fece una pausa chiedendo con voce rauca attraverso il fumo esalato: «Sono stato abbastanza chiaro?». Mi limitai a rispondere con un sorriso. «Però a noi interesserebbe molto di più sentire te parlare delle tue espe-
rienze, Ben, che continuare a esporci in questo modo.» «Com'è che siete arrivati a pensare al TRM?» «Ah» rispose Toby. «Su questo punto cedo la parola al mio collega Charles. Come forse sai - ma forse no -, sono alcuni anni che faccio parte dello staff del DDO in patria.» Intendeva dire che faceva parte dello staff del direttore per le operazioni presso il quartier generale della CIA, i ragazzi che si occupano delle operazioni sotto copertura, in parole semplici. «Il mio ambito di responsabilità è quello che viene definito dei progetti speciali.» «Bene» incalzai, avvertendo uno strano senso di vertigini. «Forse qualcuno di lorsignori potrà spiegarmi la portata e l'essenza di questo... progetto, come mi pare lo vogliate definire.» Toby Thompson espirò con determinazione, quindi spense il mozzicone in un portacenere di cristallo posato sul tavolo scolpito, in noce, che aveva accanto. Osservò per un attimo la voluta di fumo alzarsi e arricciarsi nell'aria, quindi tornò a rivolgersi a me. «L'argomento di questa conversazione» disse «è classificato della massima sicurezza. E, come puoi ben immaginare,» continuò dopo una breve pausa «si tratta di una storia lunga e piuttosto complessa.» 24 «È parecchio tempo» disse Toby, con lo sguardo fisso nel vuoto «che la Central Intelligence Agency è interessata alle... diciamo... tecniche più esotiche di spionaggio e controspionaggio. E non intendo soltanto la magnifica invenzione definita ombrello bulgaro, il cui puntale inietta un veleno mortale. «Non so quanto di tutto ciò ti sia noto dai tempi del tuo servizio presso l'Agenzia...» «Non molto» risposi. Toby alzò bruscamente gli occhi per guardarmi, come se fosse sorpreso di essere stato interrotto. «Una nostra squadra ti ha tenuto sotto osservazione mentre facevi le tue ricerche presso la biblioteca pubblica di Boston. Ma la storia vera è di gran lunga più interessante. «Devi tenere a mente una cosa importante: il motivo per cui le iniziative di quasi tutti i governi in questo ambito sono circondate dalla più profonda segretezza è la paura del ridicolo. Semplice. E in una società come la nostra, in un Paese come gli Stati Uniti, che si vanta di possedere un pragma-
tismo testardo... be', credo che i fondatori della CIA abbiano scoperto che il rischio più grosso nei confronti della loro esistenza non veniva tanto dal pubblico oltraggio quanto dalla pubblica irrisione.» Sorrisi, completamente d'accordo, e annuii. Toby e io eravamo ottimi amici, prima dell'incidente, e il suo asciutto senso dell'umorismo mi era sempre piaciuto. «Quindi,» continuò «soltanto una ristrettissima cerchia di funzionari di alto livello è storicamente a conoscenza del lavoro dell'Agenzia in questo settore. Ho voluto essere sicuro che su questo punto fossimo della massima chiarezza.» E mi guardò fisso, piegando poi la testa di lato. «I test nell'ambito della parapsicologia, come senza dubbio sai già, risalgono almeno agli anni Venti, presso la Harvard e la Duke... Si trattava di esperimenti concreti, portati avanti da studiosi seri, ma ovviamente mai presi sul serio dalla comunità scientifica nel suo complesso.» E mi scoccò un sorriso d'intesa, aggiungendo: «Tale è la realtà delle rivoluzioni scientifiche. Il mondo, infatti, è piatto: come potrebbe essere altrimenti?». «Il lavoro di preparazione del terreno è stato compiuto da un certo Joseph Banks Rhine, presso la Duke, a cavallo degli anni Venti e Trenta. Sono sicuro che avrai visto le carte di Zener». «Eh?» mormorai. «Le famose carte extrasensoriali con cinque simboli, quadrati, triangoli, cerchi, linee ondulate e linee rette. Comunque sia, Rhine e i suoi seguaci hanno scoperto che alcuni individui hanno questa facoltà - molto pochi, in realtà - e in varia misura. Mentre la stragrande maggioranza non ne dispone affatto. Ovvero, come postulano diversi studiosi, a poterla evolvere in potenza sarebbero molti di più di quanti ne prendano coscienza, ma la mente consapevole lo esclude. «Sta di fatto che nei decenni trascorsi dagli anni Trenta a oggi sono diversi i laboratori che si sono impegnati in ricerche sulla parapsicologia nelle sue molte forme, non soltanto in quanto percezione extrasensoriale. La Fondazione per le Ricerche sulla Natura dell'Uomo, creata dal dottor Rhine, ma anche il Laboratorio del Sogno presso il Maimonides Medical Center di Brooklyn, che ha svolto un lavoro interessante nell'ambito della telepatia da sogno. Alcuni di questi laboratori sono stati fondati dall'Istituto Nazionale per l'Igiene Mentale, che è una facciata della CIA.» «Ma la CIA non fu fondata che... quando è stato? Nel 1949» replicai. «Be', ci siamo arrivati in ritardo. Comunque, secondo gli archivi dell'Agenzia, già nel 1952 veniva manifestato un serio interesse per le potenziali-
tà offerte da simili ricerche. Il che significava soprattutto l'esigenza d'individuare persone dotate di qualità parapsicologiche. Ma i responsabili di allora sembravano preoccuparsi molto più di circondare di segretezza questa attività...» «Per paura del ridicolo» lo interruppi. «Ma come diavolo faceva l'Agenzia a trattare con questa gente dotata di facoltà parapsicologiche? Voglio dire, o erano sinceri o non lo erano. Quindi, nella prima ipotesi, dovevano scoprire per forza di essere alle prese con esponenti di un servizio segreto.» Il viso di Toby si aprì lentamente in un sorriso sbilenco. «È vero. Da quanto ho letto, pare che ciò abbia rappresentato un autentico problema. Impiegavano un sistema a doppio sbarramento, servendosi di due intermediari. Ma, come ho detto, ci siamo arrivati in ritardo. Sotto la spinta dei sovietici.» Rossi si raschiò la gola, osservando: «La Guerra Fredda è pur servita a qualcosa». «Davvero» riattaccò Toby. «A partire più o meno dagli anni Sessanta, all'Agenzia sono cominciate ad affluire informazioni stupefacenti circa l'impegno profuso dai sovietici nel campo della parapsicologia. Credo sia stato attorno a quel periodo che una piccola cellula di nostri esponenti ha deciso di stanziare fondi per uno studio interno delle possibili applicazioni dell'ESP a fini spionistici. Ma che impresa ingarbugliata! Per ogni persona che può effettivamente avere qualche barlume di simile facoltà ci sono centinaia di impostori, mestatori e vecchie signore armate di sfera di cristallo. In ogni caso, può darsi che tu abbia sentito parlare del volo sulla luna di Apollo 14, nel 1971, nel cui corso l'astronauta Ed Mitchell ha compiuto il primo esperimento di parapsicologia nello spazio., che, tra parentesi non ha avuto alcun risultato. In quegli anni - li considero quelli degli inizi - noi, i laboratori medici delle forze armate e la NASA spendevamo quasi un milione di dollari all'anno per le ricerche nel campo della parapsicologia. Spiccioli, certo, ma comunque brancolavamo nel buio. «Finché, nei primi anni Settanta, dalla Defense Intelligence Agency arrivò una serie di informative riservate in cui si formulava la previsione che nel giro di breve tempo saremmo stati messi in pericolo dalle ricerche sovietiche nel campo della parapsicologia, ricerche che stavano per permettere a KGB, GRU ed esercito sovietico di fare qualche giochetto come accertare la dislocazione di truppe, navi e persino istallazioni militari. Ai vertici dell'Agenzia qualcuno se ne preoccupò. Immagino di non svelare un segre-
to se ti dico che Richard Nixon si è interessato con molto impegno al programma. «A metà degli anni Settanta la nostra intelligence confermò che i sovietici disponevano di diversi laboratori segreti di parapsicologia a fini militari, il più importante dei quali a Novosibirsk. Finché, nel 1977, un giornalista del Los Angeles Times venne arrestato a Mosca dal KGB mentre stava cercando di farsi consegnare alcuni documenti della massima segretezza da un istituto di parapsicologia. E questo mise veramente le ali ai piedi alla CIA, perché ora entrambe le parti sapevano che l'altra sapeva... «Comunque sia, nell'ambito dell'Agenzia il programma rimase di massima segretezza, al punto che il termine ESP non è mai comparso da nessuna parte, in alcun documento. Venivano definiti "nuovi sistemi di trasferimento delle informazioni"! E pochi anni più tardi, dopo il mio... incidente, sono stato chiamato a dirigere il progetto, al fine di accelerarlo... o di chiuderlo. "Caga o butta via il vaso" mi è stato ingiunto.» Annuii. «E tu hai deciso di cagare.» «Per modo di dire. Ero certamente scettico come chiunque. Del tutto contrario a simili sciocchezze. Tanto da essere convinto che mi fosse stato affidato un lavoro finto, una puttanata di riabilitazione a tempo perso, la tipica roba di cui si incarica un agente esperto che è stato rimesso in pista ma le cui gambe non funzionano più.» «Finché» e indicò con entrambe le mani nella direzione di Rossi. «Finché, dicevo, un giorno ho conosciuto il dottor Charles Rossi e ho appreso una cosa che, ho capito subito, avrebbe cambiato il mondo.» «Vuoi bere qualcosa?» chiese Toby, proprio nel momento in cui la mia curiosità era al massimo. «Ti piace lo scotch, vero?» «Perché no?» risposi. «È stata una giornata lunga.» «Già. E l'effetto della chetamina sembra finito, per cui un po' di alcol non dovrebbe farti male. Scotch per tutti, Wally... Anzi, no, tu Charles preferisci la vodka, vero?» «Con ghiaccio» rispose Rossi. «E con un po' di pepe macinato sopra, se non ti dispiace.» Uno degli addetti alla sicurezza si alzò - vidi che portava senza ombra di dubbio una fondina ascellare - e uscì dalla stanza con passo caracollante. Dopo qualche istante, nel cui corso rimanemmo tutti quanti chissà perché seduti in silenzio, tornò con un vassoio di bibite. Evidentemente non era stato addestrato nell'arte del maggiordomo, ma riuscì comunque a servirci
senza versare nemmeno una goccia. «Spiegatemi una cosa, però» dissi. «Come mai non riesco a "leggere" voi?» «A questa distanza...» rispose Rossi. «No, non sono riuscito nemmeno a leggere quel tipo, l'addetto alla sicurezza, quando mi ha dato da bere. Non percepisco niente. Che cosa succede?» Toby mi scrutò un attimo, pensieroso. La forte luce faceva dei suoi occhi due cavità scure. «Inceppamento» rispose. «Non capisco.» «Le ELF. Le onde radio di frequenza estremamente bassa.» E fece un gesto con la mano a indicare tutta la sala. «In questo momento una serie di altoparlanti sistemati nel locale sta emettendo l'equivalente in radiofrequenza di un rumore bianco non udibile, trasmesso sulle stesse frequenze su cui "trasmette" il cervello umano. Ecco perché non percepisci nulla.» «Allora perché non sederci un po' più vicini?» Toby sorrise. «Non ci piace correre rischi.» Annuii e decisi di lasciar perdere. «Tutto questo lavoro della CIA sulla ESP... Credevo fosse stato sbaraccato da Stan Turner nel 1977.» «Sì, ufficialmente» rispose Rossi. «Ma in realtà è stato sepolto nella burocrazia, sotto una pesante copertura, al punto che quasi nessuno, dentro l'Agenzia, era più al corrente della sua esistenza.» E Toby riprese la sua esposizione: «Fino ad allora i nostri sforzi si erano concentrati soprattutto sull'individuazione di queste persone dotate della facoltà... che sono poche e sparpagliate. Per cui nel giro di breve tempo il problema è diventato se non fosse possibile istillarla. Lo è? Sembrava una possibilità remota, per non dire assolutamente irreale. Finché Charles... Be', Charles, puoi spiegarglielo tu stesso». Rossi si agitò sulla poltrona, fece un respiro profondo ed espirò lentamente. «Nei primi anni Ottanta» attaccò «lavoravo in una piccola ditta californiana impegnata nella progettazione di qualcosa verso cui il Pentagono mostrava un grandissimo interesse. In parole semplici, un apparecchio capace di indurre ossessione... "neurodisruttore psichico", veniva definito. Uno strumento capace di inceppare i collegamenti sinaptici tra le cellule nervose cerebrali. Tale, insomma, da indurre elettronicamente gli effetti talvolta prodotti dall'LSD. Robaccia, in realtà, ma d'altra parte quella del Pentagono è la stessa gente che ci ha gratificato del napalm, per gentile concessione della Dow Chemical. In ogni caso, per fortuna, quel progetto
non approdò a nulla, ma un giorno ricevetti una telefonata da Toby che mi offriva il doppio di stipendio, attirandomi dagli assolati climi della California del sud a questa bella metropoli, dove ho portato avanti il suo lavoro sugli effetti degli stimoli elettromagnetici sul cervello umano. All'inizio eravamo attratti dall'idea del controllo della mente. Io concentravo la mia attenzione sulle ELF, le frequenze radio estremamente basse, come ha detto Toby. Vede, Ben, il cervello genera segnali elettrici. Di conseguenza, stavo tentando di capire se avremmo potuto trasmettere dei segnali forti sulle stesse frequenze su cui trasmette il cervello, per indurre confusione mentale, se non addirittura morte.» «Che bello» commentai. Ma lui mi ignorò. «Nessun risultato neanche lì, però avevamo scoperto le possibilità delle ELF. Finché mi sono imbattuto nelle ricerche sull'ipnosi del dottor Milan Ryzl, dell'università di Praga. Questo studioso aveva scoperto che alcuni individui, sotto ipnosi, sono in grado di rilassarsi, ovvero, meglio, di rilassare le proprie inibizioni a un punto tale da poter ricevere immagini per via telepatica. La cosa mi ha fatto pensare. «E poi, per pura coincidenza, è saltato fuori che nel 1983, in un ospedale in Olanda, un uomo di mezza età, sottoposto a un esame di routine in un tomografo a risonanza magnetica ne era uscito con una percezione extrasensoriale documentata, misurabile. I medici erano allibiti. Sia gli uni sia l'altro avevano immediatamente ricevuto la visita di squadre di agenti dell'intelligence olandese, francese e americana, che avevano confermato la notizia. Quell'individuo aveva effettivamente la capacità di sentire i pensieri degli altri nell'ambito di un raggio ristretto. Un fatto che i neurologi attribuivano all'intenso effetto magnetizzante esercitato dal TRM sulla sua corteccia cerebrale.» «Ed è durata, questa capacità?» chiesi. «Non esattamente...» rispose Rossi «in realtà quell'uomo è impazzito. Ha cominciato a lamentare tremendi mal di testa, affermava di sentire orribili rumori, finché un giorno ha sbattuto la testa contro un muro, uccidendosi.» E bevve un lungo sorso di vodka. «E come mai il TRM non ha lo stesso effetto su tutti?» chiesi. «È proprio quello che mi sono chiesto anch'io» rispose Rossi. «Il TRM è in uso in tutto il mondo dal 1982, ed era la prima volta che si riscontrava la notizia di un evento così sbalorditivo. Dopo avere sottoposto a esame questo signore olandese, la commissione congiunta olandese-franco-americana era arrivata alla conclusione che aveva caratteristiche personali tali da do-
ver essere considerate dei prerequisiti. Tanto per cominciare era una persona estremamente brillante, con un quoziente d'intelligenza superiore a 170 in base al test Stanford-Binet. Secondo, disponeva di una memoria eidetica.» Feci un solo cenno affermativo con il capo. «Ma c'erano altre caratteristiche distintive particolari. Quell'uomo disponeva di una capacità di eloquio altamente sviluppata e di una capacità matematica e quantitativa altrettanto sviluppata. Volai ad Amsterdam e riuscii a incontrarlo prima che decidesse di togliersi la vita. Quindi, tornato a Langley, cercai di riprodurre quel singolare effetto. «Reclutammo persone di entrambi i sessi che sembravano avere tutte le caratteristiche giuste... l'intelligenza, la memoria, la capacità di eloquio e di calcolo eccetera. E, senza rivelare loro l'esatta natura dell'esperimento, li sottoponemmo al TRM più potente che eravamo riusciti a trovare. Un modello prodotto dalla tedesca Siemens e fatto modificare da noi. Ma senza ottenere nessun risultato... prima di lei.» «Come mai?» chiesi, finendo il mio scotch e posando il bicchiere vuoto sul tavolo vicino. «Non sappiamo» rispose Rossi, nel tono di dire: Così è. «Magari lo sapessimo» continuò. «Lei aveva di sicuro tutte le caratteristiche giuste. L'intelligenza, ovviamente, ma anche la capacità di eloquio e la memoria eidetica, che si riscontra in meno dell'un per cento della popolazione. Lei gioca a scacchi, vero, Ben?» «Non malissimo.» «Molto bene, piuttosto. Inoltre, lei è un mago in cose come le parole incrociate. E credo che un tempo si sia anche abbandonato alla meditazione Zen.» «Sì, è vero, mi ci sono "abbandonato"» convenni. «Abbiamo studiato con molta attenzione le schede del tuo addestramento a Camp Peary» intervenne Toby Thompson. «Eri straordinariamente adatto ai nostri scopi... ma non avevamo la minima idea se con te avremmo ottenuto un qualsiasi risultato.» «Sembrate singolarmente privi d'interesse nei confronti di una dimostrazione della mia capacità» replicai, rivolto a entrambi. «È il contrario» ribatté Rossi. «Ci interessa moltissimo. Estremamente, direi. Con il suo permesso, ci piacerebbe sottoporla a una serie di esami domani mattina. Niente di troppo complicato.» «Non mi sembra affatto necessario» replicai. «Sarei contento di fornirvi
una dimostrazione sui due piedi.» Seguì un attimo di silenzio imbarazzato, finché Toby grugnì: «Possiamo aspettare». «Sembra che sappiate un sacco di cose sullo stato in cui mi trovo. Quindi siete forse in grado di dirmi quanto durerà.» Prima di rispondere, Rossi ebbe un altro attimo di incertezza. «Anche questo non lo sappiamo. Quanto basta, spero.» «Quanto basta?» esclamai. «Per che cosa?» «Ben,» intervenne Toby a bassa voce «come avrai capito, se ti abbiamo portato qui c'è un motivo. Abbiamo bisogno di sottoporti a una serie di esami. Ma abbiamo anche bisogno del tuo aiuto.» «Del mio aiuto» gli feci eco, non curandomi di dissimulare la mia contrarietà. «Che tipo di aiuto intendi?» Una lunga pausa di silenzio nella sala cavernosa, interrotto finalmente da Toby. «Roba da spie, credo la definiresti.» Rimasi lì a sedere, immobile, per quelli che mi parvero cinque minuti, mentre tutti mi osservavano. «Mi dispiace, signori» esclamai alzandomi. Poi mi voltai verso la porta, e avanzai. I due addetti alla sicurezza si alzarono e uno di essi raggiunse a grandi passi la soglia, bloccandomi il passo, mentre l'altro mi si piazzava alle spalle. «Ben!» gridò Toby. «Davvero, Ben» gli fece eco quasi simultaneamente Rossi. «Siediti, ti prego» continuò Toby, in tono calmo, alle mie spalle. «Vedi, temo che tu non abbia molte possibilità di scelta.» 25 Una delle cose che ho imparato ai tempi dell'Agenzia è quando è il caso di insistere e quando invece è meglio lasciar perdere. Ero decisamente in minoranza, non soltanto per via delle due guardie, ma per tutta l'altra gente che doveva per forza esserci in quella casa. Avevo calcolato le possibilità di una fuga: diecimila a uno a mio sfavore, centomila a uno. «Ci stai mettendo in una posizione difficile» disse Toby alle mie spalle. Mi girai lentamente. «Sono in gabbia, dunque.» Mi stava guardando con una leggerissima traccia di ansia. «Noi... io... non vogliamo ricorrere alla costrizione. Preferiamo di gran lunga fare appello alla ragione, al senso del dovere, alla tua rettitudine di fondo, che co-
nosco bene.» «Oltre che al mio desiderio di rivedere mia moglie.» «Anche quello, certo» convenne. Con un gesto nervoso chiuse le mani a pugno, tornando ad aprirle, a chiuderle, ad aprirle... «E poi, naturalmente, mi avete già raccontato un bel po' di cose» continuai. «Io "so troppo", vero? Non si dice così? Di conseguenza, ho tutto il diritto di uscire da qui, ma con ogni probabilità non arriverei nemmeno al cancello.» «Non essere ridicolo» ribatté Toby, esasperato. «Dopo tutto quello che ti abbiamo detto, perché diavolo dovremmo volerti fare del male in qualsiasi maniera? Se non per ragioni scientifiche...» «È stato combinato dall'Agenzia anche il congelamento dei miei soldi?» chiesi con voce carica di rabbia. Sentivo i muscoli delle gambe tesi, al limite dei crampi. Lo stomaco era in preda alla nausea, rivoli di sudore mi colavano sulla fronte. «Questa maledetta faccenda della First Commonwealth, eh?» «Ben,» rispose Toby dopo una lunga pausa di silenzio «preferiremmo di gran lunga vedere la situazione sotto un profilo positivo, appellarci alla ragione. Sono convinto che una volta che ci avrai ascoltato fino in fondo potremo arrivare a una qualche forma di accordo.» «Va bene» acconsentii finalmente. «Fino a quel punto sono disponibile. Sentiamo.» «È tardi, Ben» rispose Toby. «Sei stanco. E, quel che più conta, sono stanco anch'io. Ormai non ho più la resistenza di un tempo. Domani mattina, prima che ti portino a Langley per gli esami, parleremo ancora un po'. Charles?» Rossi mormorò il suo assenso, mi scoccò un rapido sguardo penetrante e uscì dalla sala. «Dunque, Ben» riprese Toby quando rimanemmo soli. «Credo che il personale di servizio ti abbia preparato tutto ciò di cui puoi avere bisogno per questa notte... cambio di biancheria, asciugamani e tutto il resto.» Sorrise con gentilezza. «E uno spazzolino, ovviamente.» «No, Toby. Hai dimenticato un particolare. Io voglio vedere Molly.» «Non posso ancora» replicò. «Non è fisicamente possibile.» «E allora temo che non potremo arrivare a nessun tipo di accordo.» «Non è in zona.» «Allora voglio parlarle al telefono. Subito.» Lui mi scrutò un attimo, poi fece un altro segnale con la mano agli ad-
detti alla sicurezza, uno dei quali uscì dalla sala tornando con un telefono nero, del tipo a tastiera, che inserì in una presa vicino a me, sistemando l'apparecchio sul tavolo a fianco. Sollevò la cornetta, premendo una lunga serie di tasti. Contai: undici cifre, che potevano essere un numero più il prefisso interurbano, e poi un'altra serie di tre. Un codice di accesso, probabilmente. Rimase in ascolto qualche istante, impassibile, poi disse: «Novantatré». Dopo avere ascoltato ancora un attimo, mi passò la cornetta. Prima che potessi dire alcunché, sentii la voce di Molly, acuta, carica di ansia. «Ben? Oh, Dio, sei tu?» «Sono qui, Molly» risposi, nel tono più rassicurante che riuscii a mettere nella voce. «Oh, Dio, stai bene?» «Io... io sì, Molly. E tu?» «Bene, sto bene. Dove ti hanno portato?» «In una safe house in Virginia» risposi, guardando Toby, che annuì come per confermare. «E tu, dove diavolo sei?» «Non lo so, Ben. Qualcosa... un albergo, o un appartamento, credo. Fuori Boston, non molto lontano.» Sentii montare di nuovo la rabbia. «Dov'è?» chiesi, rivolto a Toby. «Sotto custodia protettiva alla periferia di Boston» rispose lui dopo un attimo di incertezza. «Ben!» esplose dalla cornetta la voce di Molly, carica di ansia. «Dimmi soltanto chi è questa gente.» «Va tutto bene, Mol. Almeno per quanto ne so. Ne saprò di più domani.» «Dipende tutto» mormorò «da quel... da quel...» «Sanno» risposi. «Ti prego, Ben. Qualsiasi cosa stia succedendo, che cosa c'entro io? Non possono farlo. È legale? Possono...» «Ben» intervenne Toby. «Temo che a questo punto dovremo chiudere il collegamento. «Ti voglio bene, Mol» dissi. «Non preoccuparti.» «Non devo preoccuparmi di questa storia?» chiese in tono incredulo. «Tutto si sistemerà nel giro di breve tempo» risposi, senza crederci affatto. «Ti amo, Ben.»
«Lo so» risposi, un attimo prima di sentire il tu-tu della linea interrotta. Posai la cornetta. «Non c'era bisogno di spaventare Molly in questo modo» dissi a Toby. «Abbiamo dovuto farlo per proteggerla, Ben.» «Capisco. Come state proteggendo me.» «Esatto» replicò, ignorando il mio sarcasmo. «Massima sicurezza» insistetti. «Siamo al sicuro come due carcerati.» «Dài, Ben. Domani, quando avremo parlato, sarai libero di andartene.» «E adesso? Eh?» «Domani» rispose. «Domani ci ascolterai fino in fondo. Dopo di che, se vorrai andartene, ti giuro che non te lo impedirò.» Quindi, con un ronzìo elettrico, guidò la sua sedia a rotelle lungo la vasta distesa del tappeto persiano verso la porta. «Buonanotte, Ben. Ti mostreranno la tua camera.» Fu a quel punto che mi venne in mente una cosa, e fu pensando a essa che seguii le due guardie fuori dalla sala, verso lo scalone. 26 La camera che mi avevano assegnato era spaziosa, arredata nello stile di una locanda del Vermont, con eleganza. A ridosso di una parete c'era un morbido letto king-size con una coperta bianca di ciniglia. Dopo quella giornata lunga, estenuante, appariva piuttosto invitante, ma non potevo mettermi a dormire. Nella stanza c'erano anche un armadio in noce scuro e due tavolinetti; a un breve esame mi accorsi che non si potevano spostare, inchiavardati in qualche modo al pavimento. Il bagno adiacente era spazioso ed elegante, pavimento in marmo italiano verde, pareti in piastrelle bianche e nere, sanitari originali anni Trenta. Il pavimento, che scricchiolava in un modo confortante sotto i miei passi, era coperto di moquette chiara. Qua e là era appeso con gusto qualche quadro, marine a olio, di stile imprecisato. Anch'esse fissate alla parete. Sembrava quasi che si aspettassero di dover ospitare lì un individuo violento a cui sarebbe potuto venire inopinatamente in testa di mettersi a scagliare gli oggetti qua e là per la stanza. Una serie di tende lunghe fino a terra, a larghe strisce marrone e oro, nascondeva una doppia finestra finemente piombata. Vidi subito che era rinforzata con una sottile rete metallica, quasi invisibile, che la rendeva al tempo stesso resistente alle infrazioni e munita di allarme elettronico.
Ero in prigione. Conclusi che quella specifica stanza di quella safe house veniva usata per ospitare i transfughi dei servizi segreti o altri agenti con cui bisognava andare molto cauti. Categoria che evidentemente comprendeva anche me. Ero in tutto e per tutto tenuto in ostaggio, nonostante la dorata retorica di Toby. Mi avevano messo in gabbia lì dentro come un esemplare esotico da laboratorio al fine di sottopormi a una serie di accurati esami e poi scaraventarmi in servizio con le buone o con le cattive. Ma tutto, in quella sistemazione, puzzava di improvvisato. Di norma, quando un'operazione è pianificata per tempo, ogni angolo è coperto, ogni dettaglio pensato e ripensato infinite volte, addirittura al limite del ridicolo. Può anche capitare che qualcosa vada male, ma certo non per colpa di una preparazione sommaria. Mentre io avvertivo che in quel posto tutto era stato allestito in quattro e quattr'otto, specificamente per l'occasione, alla bell'e meglio, e la cosa mi dava qualche speranza. Avevano nelle loro mani Molly, ma la sua liberazione avrei potuto negoziarla molto meglio se fossi stato libero io stesso. Dovevo muovermi subito. In quel momento, mentre mi cambiavo, togliendomi l'abito strappato e sudicio (vittima della sparatoria di Marlborough Street), mi resi conto che Molly non avrebbe avuto alcun problema. Era possibile che la stessero davvero proteggendo... a parte, ovviamente, il fatto che volevano tenerla separata da me come strumento di persuasione. Sapete com'è, si lega la ragazza ai binari in modo da far cambiare idea all'innamorato, no? Be', in ogni caso non stava arrivando nessun rapido, e la conseguenza più grave di tutto ciò sarebbe stata che Molly avrebbe sommerso i suoi carcerieri sotto una montagna di improperi. Quanto a me, invece... be', era tutta un'altra faccenda. La mia vita era sempre stata in pericolo, fino dal momento in cui ero entrato in possesso di quella straordinaria facoltà. E adesso mi si offriva la semplice alternativa di collaborare o... O che cosa? Forse Toby non aveva detto la verità. Ma era realistico pensare che avessero bisogno di eliminare l'unico soggetto vivente su cui il loro progetto di massima segretezza era stato applicato con successo? Non sarebbe stato come accoppare la gallina dalle uova d'oro? Oppure le esigenze di segretezza sarebbero prevalse su tutto? Forse, però... forse sarei riuscito a prendere in mano la situazione.
Godevo infatti di un indiscutibile vantaggio sugli altri esseri umani, perlomeno finché fosse durato, e per il momento non dava cenni di volersi affievolire. Inoltre - come potevo dedurre dalla carcerazione allestita in quel modo frettoloso, persino trascurato - ero riuscito a carpire qualche informazione utile ai miei guardiani. Toby, o chiunque fosse il responsabile dell'operazione, aveva preso la precauzione di procurarsi delle guardie che non sapevano assolutamente nulla di me, oltre che del progetto in sé. Naturalmente erano state istruite a fondo sui particolari della loro attività di sicurezza. Mentre una delle due - di nome Chet - mi accompagnava di sopra, a quella stanza del secondo piano, mi ero piazzato al suo fianco, il più vicino possibile. Gli era evidentemente stato ordinato di non attaccare discorso con me e di tenersi a una buona distanza dalla mia persona. Ma non gli era stato detto di non pensare, e il pensiero è una delle poche attività umane su cui non possiamo esercitare alcun controllo. «Sono preoccupato» gli avevo detto, mentre salivamo la prima rampa di gradini. «In quanti siete, qui dentro?» «Mi spiace, signore» aveva risposto, abbassando la testa. «Non mi è consentito parlare con lei.» Avevo alzato la voce, fingendo irritazione. «E come diavolo faccio a sapere se sono davvero al sicuro? In quanti siete a proteggermi? Può almeno dirmi questo?» «Mi spiace, signore. La prego, stia indietro.» Quando mi aveva finalmente spinto dentro quella stanza avevo comunque appreso che fuori della porta sarebbero stati piazzati per tutta la notte due uomini, che Chet rientrava nel primo turno, che la cosa gli faceva piacere e che aveva una curiosità insaziabile di sapere chi io fossi e che cosa diavolo avessi fatto. Passai la prima ora circa a ispezionare con cura la stanza, in cerca di apparecchiature trasmittenti (non potevano non esserci, ma non riuscii a individuarle) e simili. Accanto al letto c'era una radiosveglia, probabilissima candidata a nascondere una cimice. Ma metterla lì era stato uno sbaglio. Verso l'una e mezzo di notte bussai alla porta della mia camera per chiamare la guardia. Dopo qualche istante si aprì, facendo comparire Chet. «Sì?» «Mi spiace disturbarla» risposi. «Ma ho la gola secca, e mi chiedo se non potrebbe farmi avere un bicchiere di acqua gassata.»
«Dovrebbe esserci un frigobar, lì dentro» disse in tono incerto, ma era teso come una molla d'orologio, teneva le mani sui fianchi come gli era stato insegnato. Sorrisi remissivamente. «Tutto finito.» Parve seccato. «Un momento» rispose, e chiuse la porta. Ero convinto che avrebbe chiamato qualcuno da sotto con il walkie-talkie, visto che aveva ricevuto l'ordine di non abbandonare mai il suo posto. Cinque minuti dopo sentii un colpetto alla porta. Avevo messo la radio al massimo, su una stazione a onde medie di musica rap, fragorosa e ritmica. Intanto la doccia scorreva, riempiendo il bagno di vapore. La porta del bagno era aperta, e il vapore si stava diffondendo nella stanza. «Sono sotto la doccia» gridai. «Lo metta da qualche parte, grazie.» Ma vidi entrare una guardia con un'uniforme diversa, che reggeva un vassoio con una bottiglia di acqua minerale francese - bel tocco di classe, pensai - e si guardò attorno per qualche istante con aria incerta, chiedendosi dove dovesse posarlo. Fu allora che scattai. Era un professionista ben addestrato, ma lo ero anch'io, e i due o tre secondi di vantaggio che avevo su di lui bastarono per coglierlo di sorpresa. Lo stesi, facendo rotolare senza rumore sul tappeto vassoio e acqua. Si riprese con impressionante velocità, rizzandosi di scatto e buttandomi di lato per un attimo, colpendomi con il braccio sinistro alla mascella, un colpo doloroso, tale da lasciare il segno. Mi sentii prendere dalla mia ben nota calma glaciale. La radio berciava istericamente un motivo rap e il rumore di fondo della doccia tambureggiava, con il risultato che sopra tanto frastuono si poteva intendere ben poco, finché... Il vassoio era un'arma magnifica, mi affrettai ad afferrarlo con la destra e menai un fendente verso la guardia, all'altezza della gola, della vulnerabile zona cartilaginosa che protegge la giugulare, facendogli penetrare con forza il bordo di legno nel pomo d'Adamo, con il risultato di togliergli il fiato. Emise un gemito ma aprì le gambe in una forbice per intrappolarmi. E di punto in bianco sentii: non posso... sparare... non devo sparargli... pezzo di merda... E capii che era alla mia mercé, che cosa non poteva fare. Era questo il suo vero punto debole, il motivo per cui non portava la mano alla pistola. Mentre chiudeva i pugni a formare due clave riuscii a unire le braccia, colpendolo con forza al ventre e mandandolo a sbattere all'indietro contro il
massiccio bracciolo in quercia della poltrona ultraimbottita. La sua nuca sbatté rumorosamente contro il legno, l'aria gli sfuggì dai polmoni con un uff, di punto in bianco si afflosciò e scivolò sul pavimento, con la bocca aperta. Privo di conoscenza, ferito, anche se non in maniera grave. Comunque sarebbe rimasto fuori combattimento per dieci, forse venti minuti. Intanto la musica continuava a imperversare, a infuriare. Sapevo che mi rimaneva soltanto qualche secondo prima che la guardia di riserva entrasse, insospettita dal ritardo. L'uomo privo di conoscenza aveva una pistola nella fondina ascellare, un'ottima Ruger P90, una semiautomatica calibro 9mm con cui avevo fatto addestramento, anche se avevo avuto poche occasioni di usarla in azione. La afferrai, mettendo il colpo in canna, togliendo la sicura e... Sopra di me vidi torreggiare un'altra guardia, non Chet ma una ancora diversa, evidentemente del primo turno del mattino, che mi puntava contro una pistola. «Buttala» mi ordinò. Eravamo uno di fronte all'altro, entrambi immobili. «Calma» continuò. «Se la butti, nessuno ti farà niente. Abbassala lentamente verso il pavimento, mollala e...» Non avevo scelta. Gli fissai in viso uno sguardo privo di espressione e premetti il grilletto. Avevo puntato l'arma in modo da ferirlo soltanto, da non fargli niente di grave. Un'esplosione lacerante, improvvisa, un lampo di luce, il ben noto odore acre. Lo avevo colpito alla coscia, e fece ciò che gli venne naturale: cadde in avanti a corpo morto. Non era addestrato a uccidere: lo avevo appreso prima, leggendolo nel pensiero del suo collega, ed era stata un'informazione preziosa. Ero in piedi sopra di lui, gli puntavo la Ruger alla testa. L'espressione dei suoi occhi era una combinazione di forte dolore, per effetto del colpo di pistola, e di tremenda paura. Sentii un gran flusso di parole angosciate... ... no Mio Dio no non lo lasciarglielo fare ti prego Dio... ... e a voce bassissima dissi: «Se ti muovi, mi toccherà accopparti. Mi spiace». I suoi occhi si sbarrarono ancora di più, il labbro inferiore prese involontariamente a tremare. Lo disarmai e mi ficcai in tasca la sua pistola.
«Adesso stattene lì tranquillo» gli ordinai. «Conta fino a cento. Se ti muovi prima... se fai un qualsiasi rumore, cazzo... vengo a farti fuori.» Uscii dalla stanza, chiusi la porta, sentendo la serratura che scattava automaticamente, e mi trovai nel corridoio buio. 27 Tenendomi basso strisciai lungo i pannelli di quercia delle pareti del corridoio, valutando rapidamente la situazione. A un'estremità ardeva una luce che sembrava provenire da una porta aperta; forse lì dentro c'era qualcuno, ma era altrettanto probabile che non ci fosse nessuno. Immaginai fosse il locale usato dalle guardie per farsi un caffè in attesa d'iniziare il loro turno. "Potrà esserci niente che possa servirmi?" mi chiesi. No. Era del tutto improbabile e comunque non valeva la pena di correre il rischio. Proseguii tenendomi sul margine del corridoio, nella zona d'ombra. Finché improvvisamente sentii un crepitìo di energia statica, forte e metallico. Veniva dal walkie-talkie che la seconda guardia aveva lasciato nel corridoio quando era entrata in camera mia. Un segnale che richiedeva una risposta di conferma. Non conoscevo i codici, non potevo falsificarla. Non era nemmeno il caso di provare. Ciò significava che mi rimaneva forse un minuto prima che qualcuno arrivasse da qualche recesso della casa per verificare come mai nessuno rispondesse al suo segnale. Buio ovunque, una lunga serie di porte chiuse. Di quell'edificio conoscevo soltanto la disposizione della zona che ero riuscito a sbirciare mentre vi venivo guidato. Ora mi stavo allontanando dallo scalone, che per me era territorio pericoloso, troppo centrale. Ma ero convinto che ci fosse una scala posteriore, per la servitù. E infatti c'era. Buia e angusta, con consunti gradini di legno, all'estremità di quell'ala della casa. La discesi, camminando il più piano possibile ma facendo comunque echeggiare di scricchiolii la cavità. Arrivato al primo piano sentii un rumore di passi al secondo. Gente che correva, voci gridate. La mia fuga era stata scoperta molto più in fretta di quanto sperassi.
Sapevano che ero ancora nella casa, da qualche parte, e non avevo il minimo dubbio che tutti gli ingressi fossero tenuti sotto controllo. Ormai erano sicuramente stati allertati. Ero in trappola. Guardando prima in su e poi in giù, capii che non sarei mai potuto arrivare al pianoterra. Ma che cosa c'era lì al primo? Non avevo scampo, dovevo correre il rischio. Scattai fuori dalla buia tromba delle scale portandomi nel corridoio del primo piano, che però non aveva la moquette come quello di sopra, per cui i miei passi produssero un rumore allarmante. Le voci si stavano facendo più forti, più vicine. L'unica luce veniva dalla luna, filtrando tenue attraverso una finestra in fondo al corridoio. Feci un rapidissimo dietrofront, precipitandomi da quella parte e spalancandola con la forza di tutto il corpo. Stavo per saltare giù quando, dannazione, mi resi conto che la finestra non dava su un morbido prato spugnoso ma sul duro. Una zona di parcheggio in asfalto o macadam, più bassa del livello del suolo, un buon otto metri sotto di me, un salto suicida. Né c'era qualcosa che potesse interrompere il mio volo. Non potevo farcela. In quel momento scattò l'allarme, uno strepitìo di centinaia di campanelli, assordante, per tutta la casa, da ogni angolo. Tutte le luci si accesero, il corridoio venne inondato da una gran luminaria alogena che rischiarava ogni cosa lampeggiando, mentre l'allarme continuava a suonare. "Per amor di Dio, muoviti!" gridai tra me e me. Muoversi, certo, ma per andare dove? Correndo disperatamente lungo il corridoio, lontano dalla finestra, verso lo scalone centrale, saggiai ogni porta finché dopo quattro, cinque, sei, una finalmente si aprì. Un bagno angusto e buio con la finestra aperta di una fessura attraverso cui entrava un fresco alito d'aria. La tendina della doccia, in vinile, frusciava e ondeggiava, ma non c'era nulla di più consistente. La strappai dai ganci, cadde a terra. Lo scampanellare dell'allarme sembrava ancora più forte, insistente. Da qualche parte si sentì un forte tonfo, uno sbattere di porte, grida. E adesso? Taglia la corda! Non disponevo di altro che una maledetta tendina da doccia. Se avessi pensato a portarmi dietro un lenzuolo! "Legala a qualcosa" pensai freneticamente. "Legala. Fissala da qualche
parte. A qualcosa di stabile." Ma non c'era niente. Niente che potesse sostenere la tendina per reggermi mentre mi calavo dalla finestra, e non c'era tempo di mettersi a frugare qua e là, il rumore dei passi era sempre più vicino. Mi avevano sicuramente seguito al primo piano e infatti, mentre mi guardavo disperatamente attorno, con il cuore che martellava all'impazzata, a non più di una ventina di metri da me, nel corridoio, sentii gridare: «A destra! Muovetevi!». Spalancata la finestra, trovai una reticella; bestemmiai, l'afferrai, cercando i ganci che la tenevano ferma alla base, ma era bloccata, non c'era verso di smuoverla. Fatti un paio di passi indietro, mi tuffai... E mi scaraventai attraverso finestra e reticella, piombando nel buio della notte, il corpo piegato in una posizione goffa, cercando in qualche modo di interrompere la mia caduta. Finché andai a urtare il suolo, che era in terra battuta. Non terreno molle, ma freddo, duro, che mi vidi venire addosso fino a sbattermi contro le spalle e la nuca. Comunque scattai immediatamente in piedi, avvertendo qualcosa di storto alla caviglia, gemendo di dolore. Alberi, davanti a me, una piccola macchia, appena visibile nel buio ma ora illuminata dai fari che lampeggiavano dalle grondaie. Un alternarsi di buio e di luce. Una raffica di spari. Alle mie spalle, sulla sinistra. Quindi un ronzìo di qualcosa tremendamente vicino, una puntura accanto all'orecchio, caddi in avanti. La sparatoria continuava tutto attorno a me, seppure a casaccio, ma corsi sull'erba, raggiungendo finalmente gli alberi, grazie a Dio. Una copertura naturale, un riparo. A meno di un metro di distanza da me un tronco si scheggiò, poi un altro, e mi produssi in un ultimo scatto disperato, nonostante il dolore atroce che sentivo alla caviglia e alle spalle, e raggiunsi la rete. Elettrificata? Sicuramente. Una rete alta circa cinque metri appoggiata a grosse sbarre di ferro a prova di scasso, di alta sicurezza e... alta tensione. Ormai non potevo più deviare, né tornare indietro né fermarmi. Avevo solo pochi secondi di vantaggio, li sentivo venire verso di me, apparentemente in molti. E in quel momento ripresero gli spari: mi avevano individuato anche se, impediti com'erano dagli alberi, non riuscivano a prendere la mira. Inspirai a fondo e valutai la situazione. La casa era in aperta campagna, tra gli ondulati boschi della Virginia, il che significava alberi e animali,
scoiattoli e chipmunk che schizzavano qua e là correndo su e giù per le reti, per cui... Mi scagliai contro quella che avevo davanti a me, afferrandone una sezione orizzontale per reggermi e issandomi verso la cima rinforzata, finché, dopo una breve esitazione, mi attaccai a una delle minacciose lance protese verso l'alto... Non sentii che il ferro. Freddo, duro. No. Non era elettrificata. Naturale. Altrimenti i piccoli animali, saltandoci sopra, avrebbero provocato un putiferio. Vi feci ruotare attorno con cautela le gambe, graffiandole appena contro le punte acuminate, e fui dall'altra parte. Mi lasciai cadere sull'umida erba spugnosa. Ero fuori. Dietro di me la casa era un fulgore di luci, i fari lampeggiavano, il fragore frantumava il silenzio della notte. Mi misi a correre, sentendo spari e passi di corsa alle mie spalle, ma erano dall'altra parte della rete, capii di averli fregati. Corsi con tutte le mie forze, il viso contorto in una smorfia di dolore e forse lasciandomi sfuggire forti gemiti, ma riuscendo comunque a mantenere il ritmo veloce, finché, a una curva, raggiunsi un incrocio che avevo notato arrivando. Quando con un ultimo scatto raggiunsi la stradina buia, vidi un paio di fari in avvicinamento. Un'auto che procedeva a buona andatura, non troppo veloce né troppo lenta, una Honda Accord. La osservai avvicinarsi, valutai l'opportunità di farle cenno che si fermasse, ma non potevo fidarmi. Veniva sicuramente dalla strada maestra, ma dovevo stare attento. Comunque, mentre mi appiattavo, accese improvvisamente gli abbaglianti, accecandomi. E in quello stesso momento un altro paio me lo trovai dietro le spalle. Mi trovai chiuso tra le due auto, la Honda che avevo davanti e un'altra più grossa, di costruzione americana. Girai su me stesso, ma ormai le due auto mi avevano bloccato. Oltre a tutto dall'ombra ne emersero altre due, facendo stridere i freni e fermandosi accanto alle altre. Accecato da quattro coppie di fari feci un ultimo dietrofront, in cerca di una possibilità di fuga anche se sapevo di non averne. E in quel momento, da una delle due auto sentii arrivare una voce. Echeggiò alta nella notte. «Brillante tentativo, Ben.» Era quella di Toby. «Sei sempre in gamba. Adesso però monta, per favore.» Ero circondato da uomini con la pistola puntata. Abbassai lentamente la Ruger. Toby era seduto nel retro di un furgone, uno degli ultimi veicoli arrivati.
«Mi spiace terribilmente» disse. «Ma è stato comunque un tentativo brillante.» 28 Venni caricato su una normale auto governativa, una berlina Chrysler blu, e portato a Crystal City, Virginia. Entrammo in un palazzo per uffici con parcheggio sotterraneo. Sapevo che la CIA possedeva diversi edifici in città e nei dintorni, e quello era sicuramente uno di essi. L'autista mi scortò verso un ascensore che ci portò al settimo piano, dove percorremmo un corridoio dall'aspetto anonimo, tipicamente governativo. Su un vetro smerigliato lessi la scritta STANZA 706. Dentro, venni accolto da una receptionist che mi introdusse in un ufficio interno, dove venni presentato a un neurologo indiano, barbuto, sui quaranta: il dottor Sanjay Mehta. Vi chiederete senza dubbio se nel frattempo avessi tentato di leggere i pensieri dell'autista che mi trasportava, delle persone che avevo incontrato nel corridoio, del neurologo e così via. E ovviamente la risposta è sì. L'autista era anche lui un dipendente dell'Agenzia, indossava la stessa uniforme del collega che lo aveva preceduto. Ma non ero approdato a niente. Il massimo che avevo scoperto, nel corridoio, era che si trattava veramente di un palazzo della CIA, dove ci si occupava di varie questioni scientifiche e tecniche. Con il dottor Mehta, invece, le cose andarono in modo diverso. Mentre gli stringevo la mano sentii: Sente i miei pensieri? Ebbi un attimo di esitazione, ma decisi di non fare il furbo, per cui risposi ad alta voce: «Sì». Indicandomi una poltrona, pensò: Sente quelli di tutti? «No» risposi. «Soltanto quelli che...» Soltanto se sono di un particolare rilievo, per esempio quelli che si accompagnano a forti emozioni, vero? sentii. Sorrisi e annuii. Quindi sentii una frase in chissà quale lingua che non conoscevo e che immaginai fosse hindi. E finalmente il dottore fece udire la sua voce. «Lei non parla l'hindi, Mr. Ellison, vero?» Parlava inglese con accento britannico. «No.» «Io invece sono bilingue, il che significa che posso pensare in-
differentemente in hindi o in inglese. Quindi lei in sostanza mi sta dicendo che i miei pensieri, quando sono in hindi, non li capisce. Li sente e basta. È così?» «Esatto.» «E comunque, naturalmente, non tutti i miei pensieri» continuò. «Negli ultimi due minuti ho pensato molte cose, parte in hindi e parte in inglese. Centinaia di "pensieri", forse, se è possibile classificare così il flusso dell'elaborazione delle idee. Ma lei è stato in grado di sentire soltanto quelli che ho pensato con grande impegno.» «Credo sia così.» «Potrebbe sedersi un attimo, per favore?» Tornai ad annuire. Mehta si alzò dalla scrivania e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta dietro le spalle. Rimasi lì a sedere un attimo, passando in rassegna la sua collezione di fermacarte ricordo, di quelli in plastica, che rovesciandoli fanno cadere la neve, finché dopo un po' colsi un altro pensiero. Questa volta un timbro di voce femminile, alto, angosciato. Hanno ucciso mio marito. Hanno ucciso Jack. Oh, Dio. Hanno ucciso Jack. Un attimo dopo il dottor Mehta tornò nella stanza. «Allora?» chiese. «L'ho sentito» risposi. «Che cosa?» «Una donna che pensava che suo marito è stato ucciso» risposi disciplinatamente. «Un uomo di nome Jack.» Il dottore si lasciò sfuggire un udibilissimo sospiro, annuendo. Dopo una lunga pausa di silenzio chiese: «E poi?». «E poi che cosa?» «Prima e dopo non ha sentito niente, vero?» E all'espressione "sentito" diede la stessa connotazione che mentalmente le davo io. «Nient'altro che silenzio» risposi. «Ah. Però ha sentito una donna. E vero. Molto interessante. Pensavo che avrebbe avvertito solo il fatto che c'era una persona sofferente. Ma lei non percepisce i sentimenti; sembra effettivamente "sentire" le cose. Giusto?» «Sì.» «Può dirmi esattamente che cos'ha sentito?» Glielo ripetei.
«Ah» commentò. «Ottimo. Sa distinguere tra ciò che sente e ciò che "sente"?» «Il... credo che sia diverso il timbro, le caratteristiche della voce» tentai di spiegare. «Come la differenza che c'è tra una frase mormorata e una parlata. O... o il modo in cui certe volte ci si ricorda una conversazione, con le sue inflessioni, le intonazioni eccetera. Io percepisco una voce parlata, ma molto diversa da quella udibile.» «Interessante» commentò. Si alzò, prese una delle sue palle con la neve una veduta del Niagara - con cui si mise a giocherellare mentre camminava avanti e indietro in un ristretto spazio dietro la scrivania. «Però la prima voce non l'ha sentita.» «Non mi sono reso conto che ce ne fosse un'altra.» «Dall'altra parte di questa parete c'era una seconda persona. Un uomo. Ma era stato istruito a pensare serenamente, per così dire. La seconda, nella stessa stanza, era una donna cui è stato detto di inventare un pensiero terribile e di pensarlo con una certa intensità. Tra parentesi, il locale è insonorizzato. Il terzo tentativo, che di nuovo lei dice di non avere sentito, veniva ancora da questa donna, spostata però a un centinaio di metri da qui, sullo stesso corridoio ma in un'altra stanza.» «Lei ha detto che stava "inventando"» lo interruppi. «Nel senso che suo marito non è stato veramente ucciso?» «Esatto.» «Il che significa che non sono riuscito a distinguere tra i suoi pensieri reali e quelli simulati?» «Si potrebbe dire così» convenne Mehta. «Interessante, non le pare?» «Dire interessante mi sembra poco.» Dopo di che, per un'ora circa, il dottore mi sottopose a una lunga serie di esami, intesi a stabilire il livello di sensibilità del mio "dono", quanto dovessero essere forti le emozioni a cui si accompagnavano i pensieri, a quale distanza dovesse trovarsi il soggetto pensante, è così via. Alla fine azzardò una spiegazione. «Come lei ha già immaginato,» disse «questo particolare risultato è stato prodotto dall'effetto magnetizzante del TRM sul suo cervello.» E si accese una Camel senza filtro. Il portacenere era un ricordo di un posto denominato Wall Drug, nel Dakota del sud. Esalò una nuvola di fumo, che parve metterlo in grado di pensare intensamente. «Non so molto di lei, se non che fa l'avvocato e che ha lavorato per l'Agenzia... comunque preferisco non saperne di più. Io invece sono il
responsabile della divisione psichiatrica della CIA.» «Si occupa di test psichici, analisi approfondite e cose del genere?» «In sostanza. Sono sicuro che i miei collaboratori l'hanno sottoposta a una serie di esami prima che lei venisse mandato alla Fattoria, e poi alla conclusione del servizio. Ma il suo dossier è stato eliminato, per cui, anche se volessi, su di lei non potrei saperne di più. E poi non voglio.» Altra nuvola di fumo, poi continuò: «Ma se crede che io possa fornirle lumi su questa sua facoltà di leggere nel pensiero, mi spiace deluderla. Quando Toby Thompson è venuto a cercarmi, qualche anno fa, ho pensato che fosse diventato matto». Sorrisi. «In tutta franchezza, non appartenevo alla schiera di quelli che credono all'esistenza della percezione extrasensoriale. Non che nel fatto in sé vi sia qualcosa di risibile. Sono ormai molte le prove che certe specie animali disporrebbero della capacità di comunicare tra loro in quel modo, come per esempio delfini e cani. Ma non avevo mai visto alcuna prova, al di là di qualche informativa altamente inaffidabile, che dicesse che siamo in grado di farlo anche noi esseri umani.» «Immagino che nel frattempo lei abbia cambiato idea» replicai. Si mise a ridere. «I pensieri vengono generati nel cervello umano, nell'ippocampo, nella corteccia del lobo frontale e nella neocorteccia. Un mio collega, Robert Galambos, ha teorizzato che l'atto del pensare sarebbe "realizzato" dalle cellule gliali e non dai neuroni. Non ha mai sentito parlare dell'area di Broca?» Risposi che avevo soltanto sentito nominare l'espressione, ma che non sapevo che cosa significasse. «Il chirurgo francese Pierre-Paul Broca ha scoperto l'area del cervello umano dove si produce il linguaggio, nel lobo frontale sinistro. L'area di Broca è la sede del meccanismo del linguaggio. Un altro settore, noto come l'area di Wernicke, è invece quello in cui il linguaggio viene da noi riconosciuto ed elaborato. Si trova nei lobi temporale e parietale sinistri. E io sostengo che quando una di tali due aree, probabilmente quella di Wernicke, subisce una qualsiasi sottile alterazione per effetto del forte magnetismo del TRM, i neutroni si riallineano. E questo metterebbe il soggetto in grado di "sentire" l'emissione, le onde radio di bassissima frequenza provenienti dall'area di Broca di altre persone. Sappiamo ormai da molto tempo che il cervello umano emette questi segnali elettrici. E sospetto che lei non faccia altro se non riceverli. Lo sa che ogni tanto ci capita di "sentirci"
pensare, con la nostra voce parlata?» «Si, certo, ogni tanto.» «Be', la mia teoria è che a un certo stadio della formazione di tali pensieri esiste una contemporanea attività nei centri del linguaggio. Ed è a quel punto che vengono generati i segnali elettrici. Benissimo. Fino a qui ci siamo. Ma, successivamente, due recenti scoperte scientifiche ci hanno indotto, per così dire, a pensare. «Il primo è uno studio pubblicato sulla rivista Science un paio di anni fa, realizzato da un gruppo di lavoro della Johns Hopkins, che ha scoperto di essere effettivamente in grado di produrre un'immagine computerizzata del procedimento del pensare da parte del cervello. Hanno applicato una serie di elettrodi al cervello di una scimmia e si sono serviti della grafica computerizzata per seguire l'attività elettrica della corteccia motoria, la zona del cervello che controlla l'attività motoria. Con il risultato che un attimo prima che questa scimmia reso facesse un qualsiasi gesto, un millesimo di secondo prima, erano stati in grado di vedere sullo schermo del computer l'attività elettrica in atto nel suo cervello. Incredibile! Era veramente possibile vedere il cervello nell'atto di pensare! «Poco dopo, una coppia di ricercatori del California Institute of Technology ha scoperto che il cervello umano contiene qualcosa come sette miliardi di microscopici cristalli magnetici. Delle calamite, in sostanza, fatte di cristalli di magnetite, un minerale del ferro. Concludevano chiedendosi se potesse esserci un legame tra il cancro e i campi elettromagnetici, anche se non esiste ancora alcuna prova che i cristalli magnetici c'entrino qualcosa con il male. Ma i miei colleghi e io abbiamo pensato: e se potessimo usare il tomografo a risonanza magnetica per modificare in qualche modo i piccoli magneti del cervello umano, per allinearli? Ora, lei è un avvocato specializzato in brevetti, per cui immagino si tenga al corrente dei progressi della tecnica.» «Di norma sì.» «Agli inizi del 1993, una scoperta sensazionale è stata annunciata contemporaneamente dal gigante giapponese dei computer Fujitsu, dalla Società Nipponica per i Telefoni e i Telegrafi e dall'Università di Tecnologia di Graz, in Austria. Usando diverse tecniche di biocibernetica, ovvero l'insieme degli impulsi elettrici emessi dal cervello per mezzo dell'elettroencefalografia, gli esseri umani sarebbero in grado di controllare certi computer di speciale configurazione semplicemente pensando un comando! Usando la mente potrebbero far spostare un cursore sullo schermo di un computer,
persino comporre lettere. Be', non ci occorreva altro. A quel punto sapevamo che era possibile.» «Ma allora, perché è un effetto che non potete indurre in chiunque?» «Domanda da dieci miliardi di dollari» rispose. «Può darsi che c'entri il modo in cui è situata l'area di Wernicke. Oppure, forse, il numero o la densità delle cellule neuronali da cui essa è composta. Ciò che conferisce a lei una memoria eidetica, qualsiasi cosa sia. Per essere sinceri, non ne ho neanche la più vaga idea. Ma qualunque sia il motivo, o l'insieme di motivi, sta di fatto che questa cosa è capitata a lei. E questo la rende senza dubbio molto, molto prezioso.» «Per chi?» chiesi. Ma lui aveva già fatto dietrofront e se n'era andato. 29 «Sono molto contento» disse Toby Thompson, e appariva effettivamente piuttosto soddisfatto. Ero seduto in un'asettica, illuminatissima saletta per interrogatori, bianca, e lo vedevo attraverso un'ampia, spessa lastra di vetro coperta di ditate. Il locale era talmente illuminato che non facevo fatica a dimenticare che erano le otto del mattino e che non avevo dormito tutta la notte. Ci trovavamo in uno dei piani sotterranei dello stesso sgraziato palazzo per uffici anni Sessanta. «Dimmi una cosa» gli chiesi. «Perché questa barriera di vetro? Perché non avete inzeppato questa stanza di ELF, come avete fatto alla safe house?» Sorrise quasi con malinconia. «Oh, altroché se lo abbiamo fatto! Meglio non correre rischi. Non mi fido troppo della tecnologia. E tu?» Ma io, dopo più di un'ora di esami del dottor Mehta, non ero dell'umore giusto per le chiacchiere inutili. «Se fossi riuscito a scappare...» replicai. «Non ci saremmo fermati davanti a niente per trovarti, Ben. Sei troppo prezioso. In realtà il tuo profilo psicologico ci aveva segnalato che avresti tentato di farlo. Per cui non mi sono sorpreso. Devi ricordare che, essendo uscito dall'Agenzia, non hai più l'odore della colonia.» «Eh?» «Entomologia, Ben. Formiche. Ricordi l'interesse che ho per loro?» In effetti, prima che la seconda guerra mondiale lo portasse molto lontano, fino all'intelligence militare, l'OSS, e poi alla CIA, Toby aveva studiato entomologia. E aveva mantenuto un vivo interesse per le formiche, leg-
gendo voracemente gli articoli pubblicati in merito dalle riviste specializzate e rimanendo in contatto con un vecchio amico di Harvard, E. O. Wilson, uno dei più importanti studiosi a livello mondiale di questi insetti. In tutta la sua vita, comunque, non era riuscito a utilizzare tale passione in senso pratico. «Certo che me ne ricordo, Toby. Ma che cosa c'entra l'odore della colonia?» «Quando una formica ne incontra un'altra, le fa scorrere le antenne su tutto il corpo. Se è un'intrusa di un'altra specie, verrà aggredita. Se invece è della stessa specie e soltanto, diciamo, di un'altra colonia, verrà accettata. Tuttavia le verrà offerto meno cibo finché non avrà acquisito lo stesso odore - lo stesso feromone - delle altre appartenenti a quella specifica colonia. Dopo di che diventa una di loro.» «Quindi io apparterrei a una colonia diversa?» chiesi in tono impaziente. «Hai mai visto una formica offrire il proprio cibo? È una cosa molto intima, molto toccante. Mentre al contrario l'aggressione è un fatto piuttosto sgradevole. Una muore sicuramente, se non tutt'e due.» Feci scorrere il dito sul ripiano in finto legno del tavolo da riunioni a cui ero stato accompagnato. «D'accordo» dissi. «Adesso spiegami una cosa: chi mi ha teso quell'agguato, l'altra sera?» «A Boston?» «Sì. E non mi accontento di un "non sappiamo".» «Però non esiste espressione più precisa. Non lo sappiamo davvero. Sappiamo soltanto che c'era stata una fuga di notizie...» «Maledizione, Toby» esplosi. «Dobbiamo essere sinceri l'uno con l'altro.» Alzò la voce fino a gridare, sorprendendomi. «È quello che sto facendo, Ben! Come ti ho detto, è da dopo l'incidente di Parigi che mi è stata affidata la responsabilità di questo progetto. Lo chiamano Progetto Oracolo - lo sai che i ragazzi delle operazioni coperte ci tengono maledettamente ai loro melodrammatici nomi in codice -, che viene dal latino oraculum, da orare, parlare. E la mente parla, no?» Scrollai le spalle. «Il Progetto Oracolo è l'equivalente del Progetto Manhattan per la telepatia: costoso, impegnativo e ultrasegreto, oltre che considerato una causa disperata praticamente da chiunque sia al corrente della sua esistenza. Dall'epoca delle esperienze extrasensoriali fatte da quel signore olandese centotrentatré giorni, per la precisione, prima che si suicidasse - abbiamo
esaminato più di ottomila soggetti sperimentali.» «Ottomila?» esclamai. «La stragrande maggioranza dei quali, ovviamente, sapeva di essere sottoposta a esami medici, per i quali peraltro riceveva un lauto compenso. Da tutti loro sono emersi soltanto due soggetti con qualche vaga manifestazione di ESP, destinata tuttavia a svanire in un paio di giorni. Nel tuo caso, invece...» «I due giorni sono passati e non è successo niente.» «Ottimo. Ottimo.» «Ma a che cosa diavolo serve tutto questo? La Guerra Fredda è finita, Toby, la maledetta...» «Ah» ribatté. «Ti sbagli di grosso. Sì, certo, il mondo è cambiato, ma è rimasto un posto pericoloso esattamente come prima. La minaccia russa è ancora lì, in attesa di un altro colpo di Stato o di un crollo definitivo del sistema, così come la Germania di Weimar è stata lì ad aspettare che Hitler rimettesse in piedi il suo impero distrutto. Il Medio Oriente rimane un gran calderone. Il terrorismo è dilagante, sotto questo profilo stiamo entrando in un'epoca mai vista. Quindi abbiamo un bisogno disperato di coltivare la facoltà di cui disponi. Ci saranno sempre un Saddam Hussein o un Muhammar Gheddafi, o chi diavolo altro.» «Allora spiegami un'altra cosa. Come mai c'è stata quella sparatoria, a Boston? Il Progetto Oracolo è in piedi da... da quanto? Cinque anni?» «Più o meno.» «Ed ecco che di punto in bianco qualcuno si mette a sparare a me. Qualcuno che vuole disperatamente qualcosa e molto in fretta. Che senso ha?» Toby sospirò, appoggiando le dita al vetro che ci separava. «La minaccia sovietica non esiste più,» rispose lentamente «grazie a Dio. Ma adesso ci troviamo di fronte una minaccia molto più complessa e diffusa: centinaia di spie del blocco orientale disoccupate - specialisti in eliminazioni fisiche - una massa di gente veramente brutta, tra cui numerosi...» «Non è una spiegazione» ribattei. «Sono uomini. Ma per chi diavolo lavorano? E perché?» «Maledizione!» tuonò Toby. «Chi credi che sia stato a far fuori Ed Moore?» Lo guardai con gli occhi sbarrati. E anche i suoi erano spalancati, spaventati, pieni di lacrime. «Dimmelo tu» risposi a voce bassissima. «Chi è stato?» «Oh, per amor di Dio, la versione ufficiale è che si sarebbe ficcato in
bocca la canna della pistola, una Smith & Wesson Modello 1939 del 1957, un'arma d'ordinanza dell'Agenzia.» «E invece?» «Il Modello 39 è basato sulla Parabellum calibro 9, no? È la prima calibro 9 prodotta da un costruttore americano.» «Dove diavolo vuoi arrivare?» «La pallottola penetrata nel cervello di Ed Moore veniva da un bossolo 9 millimetri per 18... quello che viene usato per la Makarov calibro 9. Mi segui?» «Un'arma sovietica» risposi. «Fine anni Cinquanta. Oppure...» «Oppure tedesca dell'Est. Una cartuccia costruita per la Pistole M, un'arma tedesca dell'Est. E io non credo che Ed Moore avrebbe mai usato nella sua vecchia pistola d'ordinanza una cartuccia messa in circolazione dalla polizia della Germania dell'Est. Tu lo credi possibile?» «Ma la dannata Stasi non esiste più, Toby!» «La Germania dell'Est non esiste più. La Stasi non esiste più. Ma i suoi uomini esistono eccome! E qualcuno li sta ingaggiando. Qualcuno li sta usando. Abbiamo bisogno di te, Ben.» «Sì» risposi, alzando la voce. «Questo mi sembra ovvio. Ma per fare che cosa, maledizione?» Toby si produsse nel rito di tirar fuori il suo pacchetto di Rothmans e di picchiettarlo contro il fianco della sedia a rotelle fino a farne sporgere una, accendendosela e poi riprendendo a parlare confusamente attraverso il fumo. «Vogliamo che tu rintracci l'ultimo capo del KGB.» «Vladimir Orlov?» Annuì. «Ma saprete sicuramente dov'è, no? Con tutte le risorse dell'Agenzia...» «Sappiamo soltanto che è nell'Italia centrale, chissà dove. In Toscana. Nient'altro.» «E come diavolo fate a saperlo?» «Non divulgo mai fonti e metodi» rispose con un sorriso malizioso. «In realtà Orlov è malato ed è in cura presso un cardiologo di Roma. Questo se non altro lo sappiamo. Sono anni che si fa visitare da lui, da quando è andato a Roma per la prima volta alla fine degli anni Settanta. È uno specialista che ha in cura molti capi politici di tutto il mondo, con grande discrezione. Orlov si fida di lui. «Sappiamo anche che dopo le visite dal cardiologo viene riportato in au-
to in una località imprecisata della Toscana. E fino a ora i suoi autisti si sono rivelati maledettamente in gamba nel seminare i pedinatori.» «Fategli un saltafosso. Corrompete qualcuno.» «Presso il cardiologo italiano? Abbiamo cercato, nel suo studio romano. Nessun risultato. Le schede di Orlov deve tenerle ben nascoste.» «E dovrei trovarvelo io?» «Sei il genero di Harrison Sinclair, il marito di sua figlia. Non è poi tanto illogico che tu abbia bisogno di incontrarti con lui. Sarà sospettoso, ma puoi farcela. Una volta in sua presenza, vogliamo soltanto che tu scopra di che cosa diavolo hanno discusso lui e Hal. Se è vero che Sinclair ha fatto sparire una fortuna. E che cosa c'entra lui. Il russo lo parli, e con la tua "facoltà"...» «Non è necessario che Orlov dica una sola parola.» «Potresti prendere due piccioni con una fava: rintracciare la fortuna sparita ed eliminare ogni ombra dal nome di Hal Sinclair. Anche se è del tutto possibile che ciò che verrai a sapere di lui non ti piaccia affatto.» «Poco probabile.» «No, Ben. Non devi credere che fosse disonesto, come non è il caso che lo creda Alex Truslow, né io. Ma preparati alla possibilità di scoprire qualcosa del genere, per quanto possa ripugnarti. Non è una missione priva di rischi.» «Da parte di chi?» Si allungò sulla sedia a rotelle. «Le persone più insidiose dell'ambiente dell'intelligence sono i propri colleghi. Sai, un grande entomologo del XIX secolo, Auguste Forel, una volta ha detto che i più grossi nemici delle formiche sono... le altre formiche. E alla stessa stregua i più grossi nemici delle spie sono le altre spie.» Intrecciò le dita come se volesse pregare. «Qualunque sia l'accordo che ha preso con Hal Sinclair, sono sicuro che Orlov non vuole che venga rivelato.» «Non fare il furbo con me, Toby» replicai. «Tu non credi che Hal fosse innocente.» Si lasciò sfuggire un sospiro, quasi con sentimento. «No» ammise. «È vero. Vorrei poter credere diversamente. Ma se non altro tu potresti riuscire a scoprire che cosa avesse intenzione di fare quando è morto. E perché è morto.» «Che cosa avesse intenzione di fare?» tuonai. «Ma è morto!» Sorpreso, Toby alzò lo sguardo. Sembrava spaventato, anche se non a-
vrei saputo dire se a causa della mia esplosione d'ira o per un altro motivo. «Chi è stato a ucciderlo?» chiesi. «Chi è stato?» «Ex appartenenti alla Stasi, direi.» «Non intendo il lavoro materiale. Chi è stato a ordinare la sua morte?» «Non lo sappiamo.» «Questi rinnegati della CIA... Questi "Saggi" di cui mi ha parlato Alex Truslow?» «Può essere. Anche se forse - lo so che non ti piacerà affatto sentirtelo dire, ma valuta comunque la possibilità - Sinclair era uno di loro, uno dei cosiddetti Saggi... E forse c'è stata una lite.» «È una teoria» ribattei gelidamente. «Ma devono essercene altre.» «Certo. Forse Sinclair ha stretto una sorta di patto con Orlov, avente come oggetto una gran quantità di soldi. E quello - per avidità o per paura lo ha fatto uccidere. In definitiva, non sarebbe logico che qualcuno di questi ex criminali tedeschi dell'Est o rumeni avesse fatto un lavoretto da libero professionista per il suo ex capo?» «Ho bisogno di parlare con Alex Truslow.» «È irraggiungibile.» «No» ribattei. «È a Camp David. Raggiungibilissimo.» «È in fase di trasferimento, Ben. Se devi proprio parlare con lui, prova domani. Ma non c'è tempo da perdere. È una questione della massima urgenza.» «Avete intenzione di tenere Molly con voi, vero? Finché non ottengo un risultato.» «Non possiamo farne a meno, Ben. Si tratta di una faccenda di importanza troppo vitale.» E inspirò profondamente. «Tra parentesi, non è stata un'idea mia. Ne ho discusso con Charles Rossi fino a sfiatarmi.» «Però alla fine ti sei adeguato.» «Viene trattata magnificamente, te lo assicuro. E te lo confermerà lei stessa. All'ospedale abbiamo detto che è stata chiamata altrove da un problema familiare urgente. Potrà riposare in pace per qualche giorno, e ne ha un grande bisogno.» Sentii un soprassalto di adrenalina e dovetti mettercela tutta per non perdere la calma. «Toby, credo sia stato tu a dirmi, una volta, che quando un formicaio rischia un attacco le formiche non mandano allo sbaraglio i giovani maschi come soldati, come guardie. Mandano le vecchie femmine. Perché anche se rimangono uccise non c'è nessun problema. Si chiama altruismo, è per il bene della colonia. Giusto?»
«Faremo tutto il possibile per proteggerti.» «A due condizioni» tagliai corto. «Quali?» «Primo, questa è l'unica missione che compirò, per conto di chiunque. Non voglio fungere da cavia, né da galoppino o roba del genere. Intesi?» «Intesi» rispose lui in tono sereno. «Anche se spero che a un certo punto tu possa convincerti a cambiare idea.» Lo ignorai, continuando: «Secondo, tu avrai le informazioni soltanto dopo che Molly sarà stata liberata. I termini e le procedure esatte li stabilirò io. Ma dobbiamo giocare secondo le mie regole». «È una condizione irragionevole» esclamò lui, alzando la voce. «Forse. Ma altrimenti l'affare non si fa.» «Non posso consentirlo. È contro ogni procedura stabilita.» «Accetta, Toby.» Un'altra pausa, molto lunga. «Maledizione, Ben. D'accordo. Accetto.» «Va bene» conclusi. «Allora, affare fatto.» Toby appoggiò sul tavolo entrambi i palmi delle mani, di piatto. «Tra qualche ora ti spediamo a Roma in aereo» concluse. «Non c'è un solo minuto da perdere.» QUARTA PARTE Toscana International Herald-Tribune Assassinato leader del partito nazionalsocialista tedesco ISAAC WOOD SERVIZIO PER THE NEW YORK TIMES BONN - Jurgen Krauss, il focoso presidente del rinato partito nazista che era il più accreditato concorrente nella corsa alla carica di cancelliere, è stato ucciso questa mattina a colpi di arma da fuoco nel corso di un attentato. Nessuno ha ancora rivendicato il gesto. I candidati alla guida della Germania si riducono pertanto a due, entrambi considerati centristi. Pur esprimendo rammarico per la fine violenta di Krauss, gli ambienti diplomatici hanno ma-
nifestato sollievo... 30 Ero già stato a Roma diverse volte, e non mi era mai piaciuta un granché. L'Italia è senza dubbio uno dei Paesi che preferisco al mondo, forse il preferito in assoluto, ma Roma l'ho sempre trovata sudicia, congestionata e deprimente. Bella, certo, il Campidoglio, San Pietro, Villa Borghese, via Veneto, tutte cose straordinarie a modo loro, antiche, lussureggianti, opulente, ma anche opprimenti, sinistre. Il giorno del mio arrivo, anche se si era agli inizi dell'estate, cadeva una pioggia sferzante e il clima era sgradevolmente freddo. Sotto il diluvio, i taxi in attesa davanti all'uscita dei voli internazionali, a Fiumicino, mi parvero un po' troppo sgangherati per affrontare subito la fila. Andai al bar e ordinai un caffè, assaporandolo a lungo e sentendo la caffeina combattere contro il jet lag. Ero entrato in Italia con un passaporto falso fornito dai maghi della sezione servizi tecnici della CIA. Il mio nome di copertura era Bernard Mason, uomo d'affari americano venuto a Roma per provvedere a un'imprecisata incombenza presso la filiale italiana della sua ditta. Il passaporto fornitomi era mirabilmente pieno di orecchie; avrei potuto io stesso prenderlo per un documento già usato per molte trasferte internazionali. E da una persona disordinata, per di più. Mentre invece era stato confezionato appositamente per l'occasione. Spazzati un secondo caffè e un cornetto, mi diressi verso la toilette. Una struttura semplice, in bianco e nero, pulita. A ridosso di una parete, sotto un grande specchio, c'era una fila di lavandini e di fronte a essi quattro gabinetti chiusi, con porte verniciate in nero lucido e alte dal pavimento al soffitto, senza spazi vuoti. L'ultimo a sinistra era occupato ma, sebbene quello centrale fosse vuoto, attesi un attimo in piedi davanti a un lavabo, sciacquandomi le mani e il viso e pettinandomi, finché la sua porta si aprì. Ne uscì un arabo di mezza età, bene in carne, stringendosi la cintura sull'ampio ventre. Se ne andò senza lavarsi le mani e io entrai immediatamente nel gabinetto lasciato libero. Abbassato il sedile della tazza vi montai in piedi, sollevando le braccia verso il divisorio in plastica stampata sospeso a ridosso del soffitto. Si aprì con facilità, come mi era stato assicurato, ed ecco lì un robusto pacchetto: una busta bruna imbottita che conteneva, avvolti in stracci di cotone, una scatoletta con cinquanta cartucce 45 A.C.P. e una pistola calibro 45, sfavil-
lante, color nero opaco, una Sig-Sauer 220 nuova di zecca. La pistola migliore, credo, che sia mai stata prodotta. Mirino in tritio per il puntamento al buio, dodici centimetri di canna e sei rigature per sette etti e mezzo circa di peso. Mi augurai di non avere bisogno di usarla. Ero di pessimo umore. Avevo giurato che non mi sarei mai più lasciato invischiare in questo terribile gioco, invece eccomi lì. E ancora una volta avrei dovuto affidarmi al lato oscuro, violento del mio carattere, che pensavo di avere sepolto per sempre. Tornai ad avvolgere l'arma, la feci scivolare nel bagaglio a mano e lasciai la busta nello scomparto del soffitto, che chiusi a pressione. In ogni caso, non appena fui uscito dalla toilette avviandomi verso la fermata dei taxi, avvertii che qualcosa non andava. Una presenza, una persona, un fremito. Gli aeroporti sono luoghi caotici, isterici, pieni di trambusto, e di conseguenza risultano perfetti per la sorveglianza. Ero tenuto sotto osservazione. Lo avvertivo. Non posso dire che sentissi o leggessi qualcosa, troppa gente raccolta in troppi capannelli, una Babele di lingue straniere, mentre il mio italiano è ai limiti della sopravvivenza. Ma lo avvertivo. Il mio istinto, una volta tanto finemente sintonizzato ma ora in disuso da molto tempo, stava pian piano tornando ai livelli di prima. C'era qualcuno. Un uomo robusto, corpulento, tra i trenta e i quaranta, in giacca sportiva verde, appoggiato a una parete della farmacia, il viso quasi completamente nascosto dietro il Corriere della Sera. Affrettai un po' il passo finché fui fuori. Mi seguì: un comportamento molto grossolano. E la cosa mi diede da pensare. Non sembrava affatto preoccupato di farsi notare, il che probabilmente significava che con lui c'erano altre persone. E probabilmente significava anche che volevano me ne accorgessi. Montai sul primo taxi disponibile, una Mercedes, e all'autista ordinai: «Al Grand Hotel, per favore». Vidi subito che il pedinatore montava sul taxi subito dietro al mio. Probabilmente, a quella fase dell'operazione partecipava una terza auto, se non addirittura altre due o tre. Dopo una quarantina di minuti di faticoso slalom nel traffico dell'ora di punta mattutina l'autopubblica affrontò la stretta via Vittorio Emanuele Orlando, fermandosi davanti al Grand Hotel. Quattro facchini in livrea si precipitarono a recuperare il mio bagaglio, scortandomi nel tranquillo, elegante atrio dell'albergo. Diedi a ciascuno di essi una mancia più che generosa e mi presentai al
banco del ricevimento con il nome di copertura. L'impiegato sorrise, mi augurò il buongiorno e fece scorrere rapidamente le sue schede di prenotazione. «Il signor... ehm... Mr. Mason?» chiese, alzando su di me un'espressione di scusa. «C'è qualche problema?» «Sembrerebbe di sì, signore. Non c'è nessuna prenotazione...» «Forse sotto il nome della ditta, allora» dissi. «TransAtlantic.» Dopo un attimo tornò a scuotere la testa. «Sa quando è stata fatta?» Sbattei la mano a palmo aperto sul ripiano in marmo del banco. «Non mi interessa, maledizione!» esclamai. «Questo maledetto albergo ha fatto una gran confusione.» «Se ha bisogno di una camera, signore, sono certo che...» Feci cenno al capo dei facchini. «No, non qui. Sono sicuro che all'Excelsior errori di questo genere non avvengono.» E al capo dei facchini ordinai: «Porti il mio bagaglio all'ingresso di servizio. Non a quello principale. Di dietro. E mi chiami un taxi per l'Excelsior, in via Veneto. Subito». L'uomo si inchinò facendo cenno a uno dei facchini, che fece fare dietrofront al carrello dei miei bagagli mettendosi a spingerlo verso il fondo dell'atrio. «Signore, se c'è stato un errore, sono sicuro che possiamo sistemarlo subito» insistette l'addetto al ricevimento. «Abbiamo una singola libera. Anzi, abbiamo libere diverse suite piccole.» «Non si disturbi» ribattei in tono arrogante, seguendo il carrello dei bagagli verso il fondo dell'atrio e l'ingresso di servizio. Nel giro di qualche minuto arrivò un taxi, una Opel, nel cui bagagliaio il facchino caricò le valigie. Gli diedi una bella mancia e montai. «L'Excelsior, signore?» chiese l'autista. «No» risposi. «Lo Hassler. In piazza Trinità dei Monti.» Lo Hassler dà sulla scalinata di piazza di Spagna, uno dei posti più belli di Roma. Ci ero già sceso altre volte e l'Agenzia mi aveva fissato lì una camera su mia richiesta. L'episodio del Grand Hotel era naturalmente un trucco, e sembrava aver funzionato: avevo seminato gli inseguitori. Non sapevo per quanto tempo avrei potuto continuare a sottrarmi al controllo, ma per il momento tutto sembrava andar bene. Ormai esausto mi feci una doccia e crollai sul letto king-size, infilandomi con voluttà tra le lenzuola di lino, crepitanti, fresche di stiratura, almeno temporaneamente in pace, sprofondando in un sonno di cui avevo un gran bisogno ma che fu turbato da sogni carichi di apprensione riguardo
Molly. Poche ore più tardi fui svegliato dal un lontano suono di clacson, giù verso piazza di Spagna. Era ormai pomeriggio avanzato e la suite era inondata dalla luce. Mi girai su me stesso, sollevai la cornetta e ordinai un caffè con qualcosa da mangiare. Avevo lo stomaco che gorgogliava. Data un'occhiata all'orologio che avevo al polso, ne dedussi che a Boston la giornata lavorativa era agli inizi. Quindi feci una telefonata a una banca di Washington dove conservavo attivo un vecchio conto aperto anni prima. Il mio broker, John Matera, vi aveva trasferito con un bonifico telegrafico i "guadagni" da me fatti con l'operazione sulla Beacon Trust (anche se in realtà si trattava di tutto fuorché "guadagni"). Comunque, a mio modo di vedere, non aveva senso facilitare alla CIA l'impresa di fare i furbi con i miei soldi. Conoscevo bene i loro trucchi ed ero determinato a non fidarmi di loro fino in fondo. Il caffè arrivò dopo un quarto d'ora, servito in una tazza larga con il bordo dorato, in compagnia di alcuni sandwich molto ben presentati: spesse fette di pane bianco intramezzate da sottilissime strisce di prosciutto con rucola e mozzarella fresca, con contorno di bei pezzi color rosso scuro di pomodoro, lucenti di fragrante olio d'oliva. Mi sentivo più che mai solo. Molly, ne ero sicuro, stava bene, anzi, veniva protetta tanto quanto era tenuta in ostaggio. Eppure ero preoccupato per lei, per ciò che le stavano dicendo di me, per la paura che doveva avere, per il modo come avrebbe saputo reggere la situazione. Ma sapevo benissimo che non sarebbe crollata: al contrario, avrebbe trasformato in un inferno la vita dei suoi carcerieri. Sorrisi, rivolto a me stesso, e in quel momento squillò il telefono. «Mr. Ellison?» chiese una voce con accento americano. «Sì.» «Benvenuto a Roma. Ha scelto un bel momento per venirci.» «Grazie» risposi. «In questa stagione il tempo è molto più bello qui che negli Stati Uniti.» «Inoltre c'è molta più roba da vedere» replicò il mio contatto della CIA, completando lo scambio di frasi in codice. Un quarto d'ora più tardi, nella luce morbida di un fine pomeriggio a Roma, uscii dallo Hassler. La scalinata di piazza di Spagna era invasa dalla gente, in piedi, seduta, che fumava, che scattava foto, che si mandava richiami o si scambiava battute ridendo. Feci scorrere lo sguardo su tanto
trambusto, e mi sentii tremendamente fuori posto in mezzo a tutta quella vitale agitazione. Con lo stomaco già stretto in una morsa di tensione, montai su un taxi. 31 In piazza della Repubblica, non lontano dalla principale stazione ferroviaria di Roma, noleggiai un'auto presso un'agenzia Maggiore usando la mia patente intestata a Bernard Mason e la Gold Card Visa della Citibank, entrambe false (in realtà la carta di credito in sé era buona, ma i conti del fittizio Mr. Mason venivano saldati dalla CIA attraverso uno studio legale di Fairfax, Virginia). Mi venne consegnata una sfavillante Lancia nera, grossa come un transatlantico: esattamente il tipo di auto che avrebbe noleggiato Bernard Mason, nuovo ricco americano. Lo studio del cardiologo era a poca distanza da lì, in corso Rinascimento, una rumorosa arteria intasata di traffico nei pressi di piazza Navona. Lasciai l'auto in un parcheggio sotterraneo a un paio di incroci di distanza e individuai il palazzo dove aveva lo studio il medico. Sul portone faceva bella mostra di sé una targa in ottone con inciso il nome: DOTTOR ALDO PASQUALUCCI. Ero in anticipo di quasi tre quarti d'ora sull'appuntamento fissato, per cui decisi di raggiungere la piazza a piedi. Per una serie di motivi sapevo che era meglio attenersi al programma che mi era stato predisposto. L'appuntamento con il cardiologo era stato fissato alle otto di sera, che è piuttosto tardi, ma volutamente. Un'imposizione, credo, intesa a rafforzare la leggenda del mio personaggio: soltanto a quell'ora il tycoon americano di nome Bernard Mason, persona riservatissima, poteva farsi visitare dal medico. Una volta che avesse accettato di adeguarsi a una simile scomodità, il dottor Pasqualucci si sarebbe presumibilmente mostrato più incline alla collaborazione. E in effetti aveva accettato. Veniva considerato uno dei migliori cardiologi d'Europa ed era per questo che l'ex capo del KGB si era rivolto a lui. Era dunque normale che Mason, abituato a passare a Roma diversi mesi all'anno, volesse valersi dei suoi servigi. Pasqualucci sapeva soltanto che il suo nome era stato consigliato da un altro medico, un internista a lui poco noto, e che si richiedeva una buona dose di riservatezza, dal momento che il vasto impero industriale di Mason avrebbe sofferto un incalcolabile danno economico se si fosse diffusa la notizia che il titolare era in cura per problemi di cuore. Il cardiologo ovviamente non sapeva che
il medico che aveva fatto il suo nome era in realtà una persona legata alla CIA. A quell'ora della sera gli edifici color ocra di piazza Navona erano illuminati da riflettori capaci di evocare effetti drammatici, uno spettacolo straordinario. La piazza era piena di gente che affollava i caffè, vociante, agitata, carica di elettricità. Coppie che passeggiavano, tutte prese da se stesse od occhieggiando gli altri. La piazza è costruita sulle antiche rovine dello stadio dell'imperatore Domiziano. (Non dimenticherò mai che è stato lui ad affermare: «Gli imperatori sono uomini veramente disgraziati. Soltanto il loro assassinio, infatti, può convincere la gente che le precedenti congiure ai loro danni erano autentiche».) Le luci della sera evocavano bagliori e scintille dall'acqua gettata dalle due fontane del Bernini, da cui la gente sembrava calamitata, quella dei Quattro Fiumi, al centro della piazza, e quella del Moro, all'estremità meridionale. Singolare posto, piazza Navona. Secoli fa veniva usata per le corse dei carri, ma in tempi più recenti i papi la facevano allagare perché vi si potessero svolgere finte battaglie navali. Mi facevo strada tra la folla sentendomi in qualche modo estraneo agli altri, il cui spirito effervescente contrastava nettamente con la mia ansia. Avevo trascorso diverse serate come quella, tutto solo in una città straniera, e avevo sempre considerato tranquillizzante il fatto di trovarmi circondato da un chiacchiericcio di voci straniere. Ma quella sera, in grazia (o per colpa?) della mia singolare facoltà, mi sentivo sempre più confuso, mi sembrava che i pensieri si mescolassero con le chiacchiere e le grida a formare un unico, indistinguibile trambusto. Sentii, ad alta voce: «Non ho mai avuto una settimana peggiore!». E poi, nella ben nota voce pensata: avessimo potuto salvarlo! Poi, di nuovo ad alta voce: «È uscito con la sua ragazza». E nell'altra voce, più bassa: poverino! Quindi un'altra confusa voce pensata: maledetto mi ha piantato qui tutta sola! In inglese. Mi voltai. Era evidentemente un'americana, di poco più di trent'anni, con una maglietta dell'università di Stanford sotto una giacca jeans; camminava tutta sola a poca distanza da me. Il suo viso rotondo, ordinario, era preoccupato. Accortasi che la fissavo, mi scoccò un'occhiata carica di irritazione. Distolsi lo sguardo, ma proprio in quel momento sentii alcune parole, in inglese con accento americano, e il cuore mi balzò in gola. Benjamin Ellison.
Da dove veniva? Da vicino, evidentemente, nel raggio di non più di un paio di metri. E doveva provenire da una delle dozzine di persone da cui ero circondato. Ma quale? Mi toccò fare un formidabile sforzo di volontà per non mettermi a girare la testa di qua e di là per cercare di individuare qualcuno che avesse un'aria appena appena fuori posto, un uomo dell'Agenzia che mi stesse pedinando. Voltatomi a caso, sentii... ... devo assolutamente fare in modo che non se ne accorga. ... quindi accelerai il passo, spostandomi rapidamente verso la chiesa di Sant'Agnese ma continuando peraltro a distinguere tra la folla la persona che mi seguiva, finché di punto in bianco svoltai sulla sinistra, rovesciando un tavolino da caffè in plastica bianca, facendo perdere l'equilibrio a un uomo anziano e piombando nel buio di un vicolo invaso da un fetore di urina. Alle mie spalle sentii gridare, le voci di un uomo e di una donna, rumori di trambusto. Mi misi a correre, sentendo dei passi che mi seguivano, e scartai dentro una porta, apparentemente un ingresso di servizio. Mi appiattai contro i battenti di legno, sentendomi pungere il collo e la testa dalla vernice scrostata, e piegai le ginocchia, abbassandomi verso il freddo pavimento in piastrelle. Riuscivo a intravedere qualcosa attraverso un vetro rotto al centro della porta esterna. Pensavo che buio e ombre bastassero a nascondermi. Sì: un controllo. Una figura enorme, muscolosa, stava imboccando il vicolo, con le mani larghe come per tenersi in equilibrio. Quell'uomo lo avevo visto nella piazza, sulla mia destra, ma mi era parso un italiano qualsiasi, identico a tutti gli altri per il mio occhio inesperto. Mi passò davanti, procedendo lentamente; vidi i suoi occhi sbirciare con attenzione nell'angusto atrio dov'ero rannicchiato. Mi aveva visto? Sentii: correre a... I suoi occhi continuarono a guardare davanti, non di sbieco. Tastai nella tasca dei pantaloni il freddo acciaio della pistola, la tirai fuori. Tolta la sicura, appoggiai un dito incerto sul grilletto. L'uomo si allontanò, inoltrandosi nella stradina e sbirciando dentro le porte su entrambi i lati. Mi feci cautamente avanti e lo seguii con lo sguardo finché raggiunse l'estremità del vicolo, fermandosi un attimo e svoltando a destra. A quel punto, messomi a sedere, mi appoggiai contro la parete, lasciandomi sfuggire un lungo respiro. Chiusi gli occhi un attimo, mi chinai in
avanti e tornai a guardare fuori. Se n'era andato. Per il momento lo avevo seminato. Diversi, interminabili minuti più tardi uscii dal mio nascondiglio e mi inoltrai nel vicolo, nella stessa direzione del controllo, allontanandomi dalla piazza e raggiungendo via del Corso attraverso un labirinto di stradine malamente illuminate. Alle otto in punto il dottor Aldo Pasqualucci mi aprì la porta del suo studio e mi strinse la mano con un lieve inchino. Era di statura sorprendentemente bassa, tondeggiante ma non grasso, e indossava un completo di tweed marrone, frusto, su un pullover di cammello senza maniche. I capelli erano neri, appena spruzzati di grigio, e sembravano pettinati da poco. Nella sinistra stringeva una pipa di schiuma, l'aria che lo circondava era fragrante di fumo. «La prego, Mr. Mason, si accomodi» disse. Parlava un inglese del tutto esente da inflessioni italiane, britannico, di classe, correttissimo. Mi indicò con la pipa la stanza delle visite. «La ringrazio per avere accettato di visitarmi a un'ora così scomoda» dissi. Lui tornò a piegare di scatto il capo in avanti, senza manifestare né assenso né contrarietà, limitandosi a rispondere con un sorriso: «È un piacere. Ho sentito parlare molto di lei». «E io di lei. Ma prima devo chiederle...» Mi interruppi un attimo... ma non sentii nulla di udibile. «Sì? Le spiace sedersi lì e togliersi la camicia?» Mentre mi sedevo sul lettino protetto da un lenzuolino di carta, togliendomi giacca e camicia, continuai: «Devo essere sicuro di poter contare sulla sua discrezione». Il medico prese dal tavolo alle sue spalle un apparecchio per misurare la pressione e, dopo averlo avvolto attorno al braccio, premette le chiusure in velcro fino a farle aderire perfettamente: «Tutti i miei pazienti possono contare sulla mia assoluta riservatezza. Non potrei agire diversamente». Al che io, ad alta voce, in tono provocatorio, chiesi: «Ma me lo può garantire?». E un attimo prima che rispondesse, mentre pompava sul bulbo fino a strizzarmi la parte superiore del braccio in una stretta sgradevole, sentii, in italiano: ... borioso... arrogante... Mi era talmente vicino che sentivo addosso, caldo, l'odore di tabacco del
suo alito; avvertii in lui una tensione tale da farmi capire che ormai ero in grado di leggere i suoi pensieri. In italiano. Era bilingue, come mi era stato detto: nato in Italia ma cresciuto in Northumbria, Gran Bretagna, studi a Harrow e poi a Oxford. Cioè, che cosa significava? Ovvero, che cosa significava il fatto che fosse bilingue? Che parlava in inglese e pensava in italiano? Funzionava così il bilinguismo? «Mr. Mason,» replicò, e questa volta con molto meno calore «come lei ben sa, io curo diversi eminenti personaggi che amano la riservatezza. Non ne rivelerò i nomi. Se non si fida della mia discrezione, la prego di andarsene.» Aveva lasciato lo strumento al massimo di pressione un po' troppo a lungo, tanto che il braccio mi pulsava. Non senza intenzionalità, sospettai. Ma in quel momento, come a mettere un punto fermo alla propria affermazione, aprì la valvola della pressione, che sfuggì con un forte sibilo. «Basta intendersi» ribattei. «Bene. Dunque, il dottor Corsini mi ha detto che lei soffre di svenimenti, e che di quando in quando il suo cuore si mette a correre furiosamente, senza ragione apparente.» «Esatto.» «La sottoporrò a un esame completo. Ma prima voglio che lei mi dica con parole sue i motivi che l'hanno portata qui.» Mi volsi a guardarlo francamente in viso: «Dottor Pasqualucci, secondo le informazioni di cui dispongo lei avrebbe in cura un certo Vladimir Orlov, ex cittadino sovietico, e questo mi preoccupa». «Come ho già detto e ripeto...» balbettò «... lei è libero di rivolgersi a un altro cardiologo. Potrei persino consigliargliene uno...» «Dottore, io intendo semplicemente dire che mi preoccupa il fatto che qui nel suo studio ci siano le schede cliniche, o i referti, o comunque si chiamino, di Mr. Orlov. Se dovesse avvenire un'effrazione a causa... diciamo di un eventuale interessamento alla sua persona da parte di un qualsiasi servizio segreto, non correrebbero un grave rischio anche le mie schede cliniche? Voglio sapere quali misure precauzionali prende.» Il dottor Pasqualucci mi scoccò uno sguardo da gufo, carico di irritazione, paonazzo in viso, e io cominciai a percepire i suoi pensieri con stupefacente chiarezza.
Circa un'ora più tardi pilotavo audacemente la Lancia nel traffico frenetico in direzione della periferia di Roma, verso via del Trullo, finché svoltai a destra per via San Giuliano, in una zona moderna e abbastanza squallida della città. Dopo pochi metri, sulla destra, vidi il bar e accostai. Un locale multiuso, un piccolo edificio in stucco bianco con un tendone giallo a strisce e, davanti, un'ordinata distesa di tavolini bianchi. Su un'insegna del caffè Lavazza si leggeva la scritta: ROSTICCERIA - PIZZERIA - PANINOTECA - SPAGHETTERIA. Erano le dieci meno venti di sera e il locale era pieno di adolescenti in giaccone di pelle, gomito a gomito con uomini dai capelli grigi seduti a bere qualcosa al bar. Un juke-box sbraitava una canzone americana che conoscevo. Whitney Houston, decisi. Il mio contatto della CIA, Charles Van Aver - l'uomo che mi aveva telefonato nel pomeriggio - non c'era. Era troppo presto: se ne stava probabilmente seduto ad aspettare in auto, nel parcheggio. Preso posto al bar su uno sgabello di plastica ordinai un amaro Averna e rimasi lì a osservare la folla. Uno degli adolescenti era impegnato in un gioco di carte che sembrava consistere unicamente nello sbatterle con forza sul banco. Una famiglia numerosa se ne stava ammassata attorno a un unico tavolino, scambiandosi brindisi. Nessuna traccia di Van Aver, e per il resto - escluso me nessuno degli avventori aveva l'aria del forestiero. Nello studio del cardiologo avevo potuto confermarmi nell'opinione che mi ero fatto fin dall'inizio con il dottor Mehta, ovvero che una persona bilingue pensa in una sorta di miscuglio delle due lingue. I pensieri del dottor Pasqualucci costituivano infatti una strana, contorta commistione di italiano e inglese. Quindi il mio misero italiano bastava a mettermi in grado di intendere il senso di ciò che diceva. Nascosta nel pavimento del ripostiglio, un angusto locale dove evidentemente teneva detersivi, stracci, scope, carta per fotocopie, dischetti per computer, nastri per macchina da scrivere e simili, c'era una cassaforte fissata nel cemento armato. Lì dentro erano chiusi i campioni dei medicinali soggetti a controllo, la cartelletta dei documenti relativi a un caso di diagnosi sbagliata di cui era stato accusato in tribunale più di dieci anni prima e i dossier di alcuni pazienti. Diversi esponenti di partiti degli opposti schieramenti politici italiani, il presidente di uno dei più grossi imperi industriali europei dell'automobile e Vladimir Orlov. Mentre il dottor Pasqualucci mi appoggiava uno stetoscopio freddo sul
torace, auscultandomi molto a lungo, mi ero sforzato disperatamente di escogitare il modo per indurlo a pensare la combinazione della cassaforte come fare? come fare? -, quando di punto in bianco avevo sentito qualcosa, un ronzìo quasi distinto ma non del tutto, come una radio a onde corte che entrasse in sintonia e la perdesse di nuovo. Le parole: Volte Basse... ... e Castelbianco. E di nuovo: Volte Basse... Castelbianco... ... e Orlov... Non mi occorreva altro. Van Aver non era ancora comparso. Avevo memorizzato la sua foto: un uomo corpulento, rosso in viso, forte bevitore, un sessantottenne originario del sud degli Stati Uniti. I folti capelli bianchi li portava talmente lunghi che gli si arricciavano sul colletto, almeno a giudicare dalle più recenti foto dell'Agenzia. Aveva un bel nasone pieno delle tipiche venuzze scoppiate dell'alcolizzato. In fondo, come diceva Hal Sinclair, un alcolizzato è una persona che beve come noi ma non ci piace. Alle dieci e un quarto pagai e me la svignai alla chetichella dall'ingresso principale del locale. Il parcheggio era buio, ma vi distinsi il consueto assortimento di Panda, Ritmo, Fiesta, Peugeot. Più una Porsche nera. Dopo il frastuono del bar mi godetti il silenzio, respirando l'aria fresca che in quella zona di Roma sembrava più pulita e pungente. Si sentiva il ronzìo, monotono, lacerante, di un ciclomotore. Nell'ultima fila di auto c'era una sfavillante Mercedes verde oliva targata ROMA A17017. Infatti eccolo lì, addormentato sul sedile di guida, stravaccato nel modo tipico di una persona vecchia. Pensavo di trovarlo con il motore acceso, impaziente di affrontare il viaggio di tre ore verso il nord e la Toscana, invece l'auto era completamente buia. Non era accesa nemmeno la luce interna. Immaginai che Van Aver stesse smaltendo con il sonno le imponenti quantità di alcol che, stando alla sua scheda personale, era solito scolarsi. Un alcolizzato, certo, ma che era nel giro da un bel po', che conosceva tutti, per cui i suoi peccatucci venivano tollerati. Il parabrezza era parzialmente velato di vapore. Mentre mi avvicinavo, valutai l'opportunità di pretendere di mettermi io alla guida, chiedendomi se non avrei offeso la delicata suscettibilità di Van Aver. Introdottomi nell'auto, mi trovai automaticamente teso a cercar di sentire i suoi pensieri, o se non altro i frammenti. Invece non sentii niente. Silenzio totale. Lo trovai strano, illogico...
... ma in un lampo mi sentii pervadere da un flusso vertiginoso di adrenalina, tale da farmi girare la testa. Vidi i lunghi capelli di Van Aver arricciati sulla nuca, sopra il maglioncino blu a girocollo, la bocca apparentemente aperta a russare. Ma più sotto la sua gola era squarciata. Una terribile chiazza color rosso scuro gli colava sul bavero, scendendo sul maglioncino, un luccicante lago di sangue che continuava a scorrere ininterrottamente sul collo bianco, grinzoso, e che sulle prime i miei occhi si rifiutarono di riconoscere per ciò che erano. Ma capii subito che era morto. Schizzai fuori dall'auto come un fulmine. 32 Tornai di corsa, con il cuore in tumulto, in via del Trullo, dove trovai l'auto a noleggio. Dovetti trafficare un attimo con le chiavi, a fatica aprii la portiera e mi accasciai sul sedile di guida. Poi, inspirando ed espirando lentamente, in maniera controllata, riuscii a riprendere il dominio di me stesso. Mi ero ritrovato di punto in bianco sprofondato nell'incubo di Parigi. Ero a Roma, ma il mio ricordo era puntato in maniera quasi caleidoscopica su quel corridoio di rue Jacob, sulla vista di quei due corpi, uno dei quali era quello della mia amata Laura. Qualunque possa essere la mistica del lavoro clandestino, di norma essa non comprende l'assassinio e la mutilazione. Essi costituiscono di gran lunga l'eccezione, non la norma, e sebbene fossimo stati addestrati tutti ad affrontare l'eventualità di uno spargimento di sangue sul teatro della Guerra Fredda, in effetti un evento del genere faceva raramente sentire i propri effetti sulla nostra vita. In realtà la maggior parte degli operatori clandestini nel corso della loro carriera assistono a poche manifestazioni di violenza; tensione e ansia in grande quantità, certo, ma pochissima violenza vera e propria. E quando si trovano di fronte a una carneficina, di solito reagiscono come chiunque altro: con ripugnanza e nausea; prevale l'istinto di ribellarsi e togliersi di mezzo. Di solito, un agente che sia tanto sfortunato da incappare in molti spargimenti di sangue si brucia presto e si ritira dall'attività. A me, invece, succedeva una cosa diversa. La vista del sangue e delle mutilazioni mi stordiva, soffocava qualcosa nel mio intimo. Era come se mettessi a tacere qualcosa: l'orrore di fondo dell'uomo nei confronti della violenza. Al contrario, io mi infiammavo, diventavo lucido, tranquillo.
Come se mi fosse stato iniettato un sedativo. Sforzandomi di dare un senso all'accaduto, facevo scorrere nella mente una serie di possibilità. Chi altri sapeva che avrei dovuto incontrarmi con Van Aver? A chi lo aveva detto, lo stesso Van Aver? Meglio, a chi lo aveva detto che potesse dare l'ordine di ucciderlo? E per quale motivo? Avrei voluto poter credere che era stato ucciso dalla stessa persona o dalle stesse persone che mi stavano seguendo fin dal mio arrivo a Roma. Il che però implicava una domanda, ovvero perché non ero stato eliminato io. Evidentemente chi aveva tagliato la gola a Van Aver mi aveva preceduto di un bel po', per cui era improbabile che il mio contatto fosse stato ucciso da qualcuno che mi avesse pedinato fino al luogo dell'appuntamento (e, in ogni caso, recandomi da Pasqualucci avevo preso complesse precauzioni per evitare di essere seguito). Di conseguenza, si poteva supporre che a far uccidere Van Aver doveva essere stato qualcuno - persona o gruppo - all'interno della CIA. Qualcuno al corrente del fatto che doveva incontrarsi con me, qualcuno che aveva intercettato la comunicazione, qualunque fosse stata, tra Toby Thompson a Washington e lui a Roma. Eppure, più ci pensavo e più dovevo ammettere la possibilità che i colpevoli non appartenessero affatto alla CIA ma che al contrario fossero ex uomini della Stasi. Pertanto, una simile concatenazione di riflessioni non mi era di nessun aiuto. Quale era il possibile motivo, allora? Quello che volevano eliminare non potevo essere io. Van Aver e io eravamo diversissimi, nessuno avrebbe potuto commettere un simile errore. E ci sarebbero presumibilmente state altre occasioni per beccarmi, se il loro obiettivo era quello. Né Van Aver era in possesso di fondi o informazioni di cui non si voleva che entrassi in possesso. Il suo compito, mi era stato detto da Toby, era portarmi in Toscana, una volta che avessi scoperto il luogo di residenza di Orlov, e... Portarmi da Orlov. Io non conoscevo il protocollo, non sapevo quale formula o azione in codice avrebbe potuto farmi arrivare al cospetto dell'ex presidente del KGB in pensione. Non potevo di certo limitarmi a bussare alla porta di casa sua. Che fosse per questo? Che il motivo per uccidere Van Aver consistesse semplicemente nell'impedirmi di raggiungere Orlov? "Scoraggiarmi", fru-
strarmi, rendermelo il più difficile possibile? Impedirmi di scoprire qualcosa sui "Saggi"? Mi raddrizzai di scatto. Avevo fatto un calcolo sbagliato. All'appuntamento con l'uomo della CIA ero arrivato in ritardo. Deliberatamente, per motivi tattici, ma comunque in ritardo. Come la maggior parte degli agenti sul campo, invece, Van Aver era di una precisione inappuntabile per quanto concerneva gli orari. Chiunque fosse stato a sorprenderlo, con il pugnale in mano... ... era convinto che lo avrebbe trovato nel corso dell'incontro con qualcuno. Con me. Probabilmente non era necessario sapessero che doveva incontrarsi con me... Ma sapevano che doveva incontrarsi con qualcuno. Se fossi arrivato in orario, forse in quel momento sarei stato anch'io stravaccato sul sedile anteriore di quell'auto, accanto a Van Aver, con la carotide tranciata. Mi lasciai scivolare sul sedile di cuoio e respirai lentamente. Possibile? Come no. Tutto era possibile. Quando finalmente lasciai la camera dello Hassler e caricai le valigie nel bagagliaio della Lancia era mezzanotte passata da un pezzo. Sull'autostrada A-1 il traffico era abbastanza scarso, se si eccettuava il solito trambusto dei camion. Dal concierge dello Hassler mi ero fatto procurare un'ottima mappa della Toscana, del Touring Club Italiano, dall'aria al tempo stesso comprensibile e precisa. Mi era bastato impararla a memoria. Vi avevo individuato una località denominata Volte Basse, non lontana da Siena, a tre ore da Roma in direzione nord. Mi ci volle un po' per abituarmi al modo di guidare degli italiani, che non sono avventati - in confronto ai guidatori di Boston il resto del mondo è un sogno - quanto piuttosto elegantemente aggressivi. Per qualche tempo il fatto di concentrarmi sull'illuminazione ambrata della strada mi calmò, rendendomi possibile riflettere con lucidità. Tenevo lo sguardo fisso sulla strada e pensavo. Procedevo sulla corsia di sorpasso, a circa centotrenta chilometri all'ora. Due volte mi fermai in una piazzola, con luci e motore spenti, per assicurarmi che nessuno mi stesse
seguendo. È una tecnica elementare, ma funziona. Apparentemente non mi tallonava nessuno, ma non potevo esserne certo. Finché a un certo punto un'auto mi si accostò da dietro, facendosi sotto e lampeggiando. Lo stomaco mi si torse per la tensione. Quando mi fu quasi addosso mollai di colpo l'acceleratore e scartai sulla destra. Voleva soltanto passare. Avevo i nervi a pezzi. "È così che si fanno i sorpassi in Italia" mi dissi. "Stai dando fuori. Datti una regolata." Mi scoprii a parlare da solo ad alta voce. Cose tipo: «Tieni duro, Ben». Oppure: «Ci sei». E: «Ce la farai». Con il possesso di quella... facoltà... ero diventato una specie di mostro. Non avevo idea di quanto sarebbe durata ancora, ma aveva già cambiato la mia vita per sempre, rischiando diverse volte di farmi uccidere. Inoltre, la cosa più fastidiosa era che, con tutti i suoi connessi, mi aveva trasformato in ciò che non avrei mai più voluto tornare a essere: lo spietato automa senza paura creato dal mio lavoro per la CIA. Questa mia forma di ESP, non avevo ormai più dubbi, era una cosa terribile. Niente affatto fantastica e meravigliosa ma autenticamente orribile. A nessuno dev'essere consentito penetrare oltre le pareti protettive di cui gli altri si circondano. Ero stato scaraventato in qualcosa che mi aveva sottratto la vita, facendomi ridiventare l'uomo di ghiaccio di un tempo e minacciando di uccidere anche me. Ma chi erano i cattivi? Una fazione della CIA? Lo avrei scoperto presto. Nella località di Volte Basse, in Toscana. Come ebbi modo di scoprire ben presto, era il più minuscolo dei villaggi, un semplice puntino sulla carta geografica. Un gruppetto di vecchie case raccolte sui due lati di una strada angusta, la Numero 73, che portava direttamente a Siena. Un bar, un negozietto di alimentari con macelleria e poco altro. Alle tre e mezzo di notte, inoltre, la tranquillità era totale. Tutto era immerso nel silenzio e nel buio. La mappa che avevo imparato a memoria, per quanto potesse essere dettagliata, non indicava nessun Castelbianco, né a quell'ora di notte c'era in giro qualcuno a cui chiedere informazioni. Ero esausto, avevo un bisogno terribile di riposare, ma la strada era troppo esposta. L'istinto m'imponeva di andarmi a rifugiare in un luogo nascosto. Quindi mi avviai sulla 73 nella direzione opposta a Siena, attraver-
sando Rosia, una località moderna, e inoltrandomi per le alture boscose che ci sono più oltre. Subito dopo una cava di pietre avvistai una deviazione verso una proprietà privata, un immenso tratto di bosco toscano con piantato nel bel mezzo un castello. La strada era strettissima e buia, coperta di un pericoloso misto di ghiaia e pietre su cui la Lancia procedeva a sobbalzi e sbandate. Vidi un boschetto dentro cui mi inoltrai con l'auto fino a rendermi invisibile, almeno finché fosse rimasto buio. Spensi il motore, recuperai dal bagagliaio una delle coperte che avevo disonestamente rubato allo Hassler e me la gettai addosso. Ribaltato al massimo il sedile anteriore, rimasi lì qualche istante ad ascoltare il ticchettìo del motore che si raffreddava, in preda a una profonda sensazione di solitudine, finché mi addormentai. 33 Pieno di lividi e intontito, ebbi un attimo di disorientamento. Dov'ero? Non a casa, nel mio comodo letto, rannicchiato addosso a Molly, ricordai finalmente, sentendomi sprofondare il cuore, ma sul sedile anteriore di un'auto a noleggio, perso chissà dove in un fitto bosco della Toscana. Raddrizzato il sedile avviai l'auto, uscendo a marcia indietro dalla macchia di alberi e percorrendo i pochi chilometri che mi separavano da Rosia. L'aria era pungente e il sole, che stava proprio allora facendo capolino sopra l'orizzonte, gettava raggi dorati sulle case color terracotta. Tutto era immobile, immerso in un silenzio totale, finché incrociai il frastuono di uno sgangherato camion che tirò via levando alti gemiti e strepiti mentre l'autista scalava le marce per affrontare la tortuosa salita verso la cava sotto cui ero passato quella notte. Rosia sembrava essere formata da due strade principali e da alcune file di case basse con il tetto rosso, evidentemente costruite attorno alla metà di questo secolo. Nella maggior parte di esse si apriva qualche botteguccia: una panetteria, un ferramenta, un fruttivendolo, un'edicola. A quell'ora del mattino erano però tutte chiuse, tranne un Bar-Alimentari Jolly da cui sentivo arrivare delle voci maschili. Lo raggiunsi a piedi. C'erano diversi operai che stavano bevendo il caffè, leggendo giornali sportivi e discutendo animatamente. Quando entrai alzarono lo sguardo, zittendosi di botto e osservandomi con curiosità. Colsi qua e là qualche brandello di pensiero in italiano, di nessuna importanza. Vestito com'ero, con un paio di pantaloni spiegazzati e un pesante golf
di lana, non riuscivano a capire chi potessi essere. Probabilmente uno degli stranieri (soprattutto inglesi) proprietari o affittuari a prezzo esorbitante delle circostanti ville toscane. Come mai non mi avevano mai visto prima? E che cosa ci faceva questo matto di forestiero in piedi alle sei del mattino? Ordinai un espresso e presi posto a uno dei tavolini rotondi in plastica, mentre la conversazione dei presenti a poco a poco riprendeva. Quando arrivò il mio caffè, in una tazzina della Illy piena di fumante liquido scuro, ne bevvi di gusto un lungo sorso, sentendo la caffeina fare il suo effetto nel mio flusso sanguigno. Così ristorato mi alzai e mi accostai a quello che sembrava il più anziano degli operai, un uomo panciuto, dal viso tondo, tendente alla calvizie, il viso coperto di stoppia grigia; indossava un sudicio grembiule bianco sopra una tuta blu da lavoro. «Buongiorno» dissi. «Buongiorno» rispose, osservandomi con sospetto. Parlava con il dolce accento toscano che aspira tutte le "c". Nel mio rudimentale italiano riuscii a dire: «Sto cercando Castelbianco, dalle parti di Volte Basse». Lui scrollò le spalle, rivolgendosi agli altri. «Che cosa pensate?» chiese in italiano. «Questo qui avrà intenzione di vendere un'assicurazione al tedesco, o che cosa?» Il tedesco. Era questo che pensavano Orlov fosse? Era la leggenda che aveva diffuso in quel posto come copertura? Un emigrato tedesco? Si levò un uragano di risate. Il più giovane, uno smilzo ventenne di pelle scura, simile a un arabo, incalzò: «Digli che vogliamo una parte della sua percentuale». E un altro aggiunse: «Oppure pensi che stia cercando lavoro come scalpellino?». Altre risate. Mi unii di buon grado all'allegria generale. «Lavorate la pietra?» chiesi. «No» rispose il giovane. «Questo qui è il sindaco di Rosia» e diede una manata sulla schiena al più anziano. «E io sono il vicesindaco.» «È un vero piacere, vostra eccellenza» replicai, rivolto all'altro. Quindi gli chiesi se lavoravano pietre per questo tedesco. Lui agitò la mano, come a dire «magari!», e tutti si rimisero a ridere. «Se fosse così, crede che staremmo qui a perdere tempo in questo modo? Il tedesco gli scalpellini li paga tredicimila lire all'ora!» «Se vuole delle buone fettine, venga pure da me» gli fece eco un altro degli anziani, alzandosi, sfregandosi le mani sul grembiule (le cui macchie,
mi resi conto in quel momento, erano di sangue animale) e avviandosi verso l'uscita, seguito dal giovane che aveva appena parlato. Dopo che il macellaio e il suo aiutante se ne furono andati, chiesi all'omone: «Allora, dov'è questo Castelbianco?». «A Volte Basse» rispose. «Pochi chilometri più su, verso Siena.» «È una città?» «Una città?» rispose, con una risata incredula. «Certo, è grande come una città, però è una tenuta. Anni fa noi ragazzini ci andavamo quasi tutti a giocare, prima che la vendessero.» «Che la vendessero?» «Da un po' di tempo ci è andato a vivere un tedesco. O perlomeno, dicono che è tedesco... io non so. Magari è svizzero, o qualcos'altro. È una persona riservatissima. Sta molto sulle sue.» E mi spiegò dov'era Castelbianco. Lo ringraziai e me ne andai. Un'ora più tardi trovai la proprietà dov'era andato a nascondersi Vladimir Orlov. Sempre che, naturalmente, l'informazione che avevo "avuto" dal cardiologo si rivelasse esatta. Non ne ero ancora sicuro. Ma quelle chiacchiere da bar a proposito di un "tedesco" molto riservato sembravano confermarla. Gli abitanti del luogo erano probabilmente convinti che fosse un ex potente della Germania dell'Est che aveva trovato rifugio lì dopo la caduta del Muro. Le migliori coperture sono sempre quelle che seguono i contorni della realtà. Situato su un'altura sovrastante Siena, Castelbianco era una splendida villa in stile rinascimentale, molto grande e parecchio malridotta: vi si stavano effettuando degli evidenti lavori di restauro. La dimora in sé era circondata da un parco che un tempo doveva essere stato molto bello ma che ormai era ridotto a un disordinato intrico di vegetazione abbandonata a se stessa. La scoprii in cima alla tortuosa strada che portava lì da Volte Basse. Era sicuramente stata la dimora di una famiglia gentilizia toscana, forse costruita sui contrafforti di una delle tante Città-Stato etnische. Il fitto bosco che circondava il disordinato parco era lussureggiante di argentei oliveti, di campi di enormi girasole, di vigne, di grandi cipressi. I motivi per cui Orlov l'aveva scelta mi apparvero chiari. La sua dislocazione, in cima a un'altura, la rendeva facile da difendere. La proprietà era circondata da un alto muro in pietra, sormontato, vidi subito, da filo spinato elettrificato. Non impenetrabile - virtualmente nulla è impenetrabile per chi sia bravo a
far girare le ruote ungendole -, ma di certo un ottimo mezzo per tenere alla larga le persone indesiderate. Da una minuscola garitta in pietra di recente costruzione, di fianco all'unico ingresso, un guardiano armato controllava tutti i visitatori. Che peraltro sembravano unicamente, come del resto avevo appreso quel mattino, operai di Rosia e della zona, scalpellini e carpentieri trasportati lì da impolverati camion, che venivano controllati con la massima cura prima di poter procedere al loro lavoro quotidiano. Probabilmente Orlov si era portato dietro quel guardiano da Mosca. E una volta superato il primo, dentro ce n'erano di sicuro degli altri. Quindi l'idea di forzare l'ingresso appariva del tutto impraticabile. Dopo qualche minuto di sopralluogo, in auto e a piedi, elaborai un piano. A pochi minuti di auto da lì si stendeva la cittadina di Sovicille, principale località della zona ma al tempo stesso il luogo più dimesso che io avessi mai visto. Parcheggiai in centro, in piazza Marconi, davanti alla chiesa, accanto a un camion della San Pellegrino. Una piazza immersa in una profonda quiete, disturbata unicamente dallo sfrenato fischiare di alcuni uccelli chiusi in gabbia davanti a un bar e dalle chiacchiere di alcune donne di mezza età. Sulla facciata del bar vidi l'insegna gialla di un telefono pubblico e, mentre mi dirigevo da quella parte, il silenzio venne rotto dal suono delle campane. Entrato, ordinai un caffè e un panino. Non so per quale ragione non esista al mondo un caffè buono come quello italiano. Gli italiani non lo coltivano, ma sanno tostarlo, con il risultato che in qualsiasi osteria per camionisti o bettola di paese si trova anche un cappuccino di gran lunga migliore di quello servito nei cosiddetti ristoranti "italiani" dell'Upper East Side di Manhattan. Mi misi a sorseggiarlo immerso nei miei pensieri, come mi era ormai capitato di fare parecchie volte da quando ero partito da Washington. Eppure, per quanto mi scervellassi, non ero ancora riuscito a farmi un quadro della situazione. Disponevo della più straordinaria delle facoltà, ma che cosa ero riuscito a trarne fino a quel momento? Avevo rintracciato un ex capo dell'intelligence sovietica, avevo portato a termine una bella operazione di spionaggio che in ogni caso, con un po' più di tempo e di furbizia, la CIA avrebbe potuto benissimo mettere in atto anche senza di me. Ma adesso?
Adesso, se tutto fosse proceduto secondo le previsioni sarei entrato in contatto con il vecchio capo della rete spionistica del KGB. Avrei forse scoperto perché si era incontrato con il mio defunto suocero. Ma forse no. I fatti mi erano noti - o almeno così credevo - nella seguente misura: i timori di Ed Moore si erano avverati. Me lo aveva confermato Toby. Stava succedendo qualcosa, qualcosa che riguardava la CIA, qualcosa di fondamentale e spaventoso. Qualcosa, sospettavo, d'importanza essenziale. E le cose procedevano sempre più precipitosamente. Prima Sheila McAdams, poi il padre di Molly. Poi, ancora, il senatore Mark Sutton. E adesso Van Aver, a Roma. Ma qual era il disegno complessivo? Toby mi aveva mandato lì per scoprire quanto più possibile da Vladimir Orlov. E strada facendo ero quasi stato ucciso. Perché? Perché avevo appreso qualcosa che Harrison Sinclair sapeva? E a causa di cui era stato ucciso? L'appropriazione indebita, una rozza avidità non costituivano una spiegazione sufficiente. L'istinto mi diceva che c'era qualcosa di più, di molto più grosso, qualcosa di enorme e di capitale importanza per i congiurati, chiunque essi fossero. Se avessi avuto fortuna, l'avrei saputo da Orlov. Se avessi avuto fortuna. Si trattava di un segreto che certe persone dotate d'immenso potere intendevano mantenere tale a tutti i costi. Ma era del tutto possibile che non scoprissi un bel niente. Confidavo che Molly sarebbe comunque stata liberata, ma io sarei tornato a casa a mani vuote. Nel qual caso? Non sarei mai più stato al sicuro, e neanche Molly. Perlomeno finché avessi continuato a disporre di quella facoltà, finché Rossi e i suoi accoliti avessero saputo dove trovarmi. Depresso, uscii dal caffè e, in via Roma, la tortuosa strada principale del paese, trovai una botteguccia sulla cui insegna lessi il nome Boero e nella cui vetrina vidi una distesa di munizioni e attrezzature per la caccia messe in bella vista per gli appassionati dello sport venatorio, che in quella zona sono moltissimi. Su scatole e scatolette esposte alla rinfusa si leggevano denominazioni come Rottweil, Browning, Caccia Extra eccetera. Ciò che non trovai lì me lo procurai più tardi presso un armaiolo di Siena ben più rifornito, la bottega Maffei, nell'angusta via Rinaldi. Più tardi procedetti al trasferimento di una grossa somma di denaro dal mio vecchio conto di
Washington a un ufficio londinese dell'American Express e da lì a Siena, dove mi venne versata in dollari. E finalmente ebbi tempo per respirare - dopo avere avuto quello di riordinare a sufficienza i pensieri - e per telefonare. In via dei Termini, a Siena, trovai un ufficio della Sip e feci una chiamata internazionale. Dopo la solita trafila di clic, ronzii e scariche di energia statica, il telefono all'altro capo della linea rispose al terzo squillo, come previsto. «Trentadue cento» disse una voce femminile. «Mi passi l'interno nove otto sette, per favore» chiesi. Un altro clic e il timbro del collegamento cambiò impercettibilmente, come se la chiamata fosse stata istradata attraverso un particolare cavo a fibre ottiche isolato. Probabilmente da un centralino vicino a Bethesda a un centro di smistamento in Canada (a Toronto, credo) e di nuovo a Langley. Finalmente sentii in linea una ben nota voce maschile. Toby Thompson. «La formica Cataglyphis» disse «è in grado di uscire dal formicaio anche sotto il sole di mezzogiorno.» Era la formula in codice che aveva escogitato, una frase sulla formica color argento del Sahara, capace di sostenere temperature più alte di qualsiasi altro animale al mondo, fino a 55 gradi centigradi. «Ed è anche più veloce nello scatto di qualsiasi altro animale» risposi. «Ben!» esclamò. «Che cosa diavolo stai... Dove diavolo...» Potevo fidarmi di lui? Sì e no, ma era meglio correre il minor numero possibile di rischi. In definitiva, forse Alex Truslow aveva ragione e nell'Agenzia c'erano state delle infiltrazioni. Sapevo che le precauzioni per motivi di sicurezza nel collegamento telefonico, i molteplici smistamenti e così via, mi concedevano almeno ottanta secondi prima che si potesse risalire alla mia posizione, per cui dovevo parlare in fretta. «Che cosa succede, Ben?» «Forse è il caso che sia tu a informare me, Toby. Charles Van Aver è morto e sono sicuro che tu sai...» «Van Aver...!» Stando a quanto potevo dedurre dal miracolo delle telecomunicazioni moderne, Toby sembrava sinceramente turbato. Gettata un'occhiata all'orologio da polso, continuai: «Da' un'occhiata. Chiedi in giro». «Ma dove sei? Non ti sei mosso come previsto. Eravamo d'accordo...» «Volevo soltanto farti sapere che non seguirò il programma che hai predisposto tu... non è sicuro. Mi farò vivo. Richiamerò questa sera tra le dieci e le undici italiane, e voglio essere collegato immediatamente con Molly.
Potete farlo, siete dei maghi. Se non me la passate nel giro di venti secondi metto giù.» «Senti, Ben...» «Un'altra cosa. Sono arrivato alla conclusione che il tuo apparato è soggetto a fughe di notizie. Ti consiglio di tappare i buchi, altrimenti perderai ogni contatto con me. E non è certo il caso.» Appesi. Settantadue secondi: non potevano rintracciarmi. Uscii a passeggiare tra la folla di via dei Termini, preoccupato, e trovai un'edicola ben rifornita di giornali stranieri. Presa una copia dell'Herald Tribune, feci scorrere la prima pagina mentre continuavo la mia passeggiata. Il titolo di testa, naturalmente, era per le imminenti elezioni in Germania. Mentre un titoletto nella parte inferiore della pagina, sulla sinistra, diceva: COMMISSIONE SENATORIALE USA INCARICATA DI INDAGARE SUI CASI DI CORRUZIONE NELLA CIA. Totalmente immerso nella lettura, andai a sbattere contro una coppia di giovani italiani, entrambi in verde oliva. Il ragazzo, che portava i Ray Ban da aviatore, mi gridò un'imprecazione nella sua lingua che non capii assolutamente. «Scusi» risposi, nel tono più sinistro possibile. Fu a quel punto che mi accorsi del titolo in alto a sinistra: ALEXANDER TRUSLOW NOMINATO CAPO DELLA CIA. Secondo fonti della Casa Bianca, sarà Alex Truslow, esperto funzionario della CIA e già direttore nel 1973, l'uomo nominato a ricoprire la prestigiosa carica. Truslow, che attualmente dirige una società di consulenze internazionali con sede a Boston, ha assicurato che procederà a un grosso repulisti all'interno della CIA, che in questi giorni è agitata da una serie di presunti casi di corruzione. Le cose cominciavano ad assumere una logica. Non c'era da meravigliarsi se Toby aveva parlato di "grande urgenza". Truslow rappresentava una minaccia per diverse persone molto potenti. E ora, essendo appena stato nominato a sostituire Harrison Sinclair, era in condizione di fare qualcosa per il "cancro", come lo aveva definito lui stesso, che si stava impossessando dell'Agenzia.
Hal Sinclair era stato ucciso, come Edmund Moore, Sheila McAdams, Mark Sutton e forse - con ogni probabilità - altri ancora. Il bersaglio successivo era evidente. Lo stesso Alex Truslow. Toby aveva ragione: non c'era tempo da perdere. 34 Pochi minuti dopo le tre del pomeriggio salii con l'auto alla cava di pietra vicino a cui avevo trascorso la notte prima. Un'ora e un quarto più tardi ero seduto sul sedile anteriore di destra di uno sgangherato camion Fiat fermo davanti all'ingresso principale di Castelbianco. Indossavo indumenti da lavoro, pantaloni blu di tela e camicia azzurra, adeguatamente logori e impolverati. Al volante del camion c'era il giovane smilzo e di pelle scura che avevo conosciuto quel mattino al bar di Rosia. Si chiamava Ruggero e avevo scoperto che era figlio di un italiano e di un'immigrata marocchina. Avendolo valutato disponibile, malleabile e molto suscettibile a una bella mancia, ero salito a cercarlo alla cava e, chiamatolo in disparte, gli avevo chiesto qualche informazione. Ovvero, meglio, gliel'avevo comprata. Gli avevo spiegato che ero un uomo d'affari canadese, disposto a pagare profumatamente per avere qualche dritta. Quindi, fattegli scivolare in mano cinque banconote da diecimila lire gli avevo detto che avevo bisogno di contattare in qualche modo il "tedesco" per parlare con lui di affari; per la precisione, per fargli una generosa (anche se non del tutto legale) offerta in contanti per Castelbianco. Avevo un potenziale acquirente; il "tedesco" avrebbe potuto ricavarne un facile e rapido guadagno. «Ehi, aspetti un attimo» aveva replicato il giovane. «Non voglio perdere il posto.» «Non c'è niente da preoccuparsi» avevo replicato. «Se agiamo bene non succederà niente.» Poi Ruggero mi aveva fornito le informazioni di cui avevo bisogno circa i lavori di restauro che si stavano effettuando a Castelbianco. Mi aveva spiegato che a trattare direttamente con la cava era un dipendente della proprietà, incaricato di fare gli ordini di lastre di granito e marmo. Evidentemente il "tedesco" stava procedendo a una ristrutturazione totale, l'ala in rovina veniva restaurata con lastre di marmo fiorentino verde scuro per
quanto concerneva il pavimento e di granito per il terrazzo. Per effettuare il lavoro erano stati assunti diversi esperti scalpellini di Siena, veri e propri artigiani di un tempo. Ruggero sapeva fare bene i suoi affari. Per poche ore del suo tempo mi era costato settecentomila lire italiane. Dopo aver chiamato al telefono il suo corrispondente di Castelbianco lo aveva informato che in seguito a un controllo si era scoperto che la consegna di marmo fiorentino fatta qualche giorno prima era scarsa. Un dipendente licenziato sui due piedi aveva commesso un tremendo sbaglio e il saldo sarebbe stato consegnato immediatamente. Era improbabile che qualcuno, a Castelbianco, si desse la pena di discutere questa urgenza della cava di rimediare a un errore, e infatti nessuno lo fece. Nel peggiore dei casi, comunque, se Orlov avesse avuto qualche sospetto, facendo sottoporre a verifica il marmo effettivamente consegnato e scoprendo che in realtà non c'era stato nessun errore, Ruggero avrebbe detto che era stato informato male. E non gli sarebbe successo niente. Pochi minuti più tardi eravamo davanti all'ingresso di Castelbianco. Il guardiano uscì dalla sua garitta di pietra, con un lungo foglio fissato a una tavoletta con fermaglio a molla, e si avvicinò al camion strizzando gli occhi nel sole. «Sì?» L'intonazione e l'accento erano tali che, se fossimo stati qualche centinaio di chilometri più a nord, avrei potuto con la massima facilità immaginare di averlo sentito dire «Da?» con lo stesso tono brusco. Con i suoi capelli color paglia e la carnagione sana, rubiconda, era inequivocabilmente di origine contadina russa, il tipo di criminale ben in carne, di aspetto pacioso, tanto spesso usato dalla Lubianka. «Ciao» gli rispose Ruggero. La guardia, riconosciutolo, annuì, spuntando la lista dei visitatori ammessi e gettando un'occhiata al carico di lastre di marmo, quando si accorse della mia presenza. E tornò ad annuire. Io lo salutai con la più svelta delle alzate di spalle, sbuffando come se non ne potessi più che quel turno di lavoro finisse. Ruggero riaccese il motore e fece procedere lentamente il camion oltre i due massicci pilastri in pietra. La strada in terra battuta si snodava tra alcune casette anch'esse in pietra dal tetto spiovente, che immaginai appartenessero ai dipendenti della proprietà. Polli e anatre razzolavano nei corti-
letti, chiocciando e starnazzando. Un paio di operai stavano spargendo una polvere bianca da un grosso sacco di fertilizzante su una distesa di prato. «La sua gente vive qui.» Replicai con un grugnito, non volendo chiedere chi fosse questa "sua gente", sempre ammesso che il giovane lo sapesse. Sull'altura alla nostra sinistra c'era un piccolo gregge di pecore dal muso roseo, molto diverse da quelle che mi era capitato di vedere in America. Al nostro passaggio si misero a belare in tono sospettoso. La dimora sovrastava ogni cosa, lassù in alto. «Com'è fatta dentro?» chiesi. «Non ci sono mai stato. Ho sentito dire che è bella, ma un po' malandata. Ha bisogno di essere sistemata. Credo che il tedesco l'abbia presa per pochi soldi.» «Beato lui.» Superammo una curva su uno stretto burrone e un altro edificio basso in pietra. Totalmente privo di finestre. «La casa dei topi.» «Eh?» «Sto scherzando. Anche se non del tutto. È il posto dove una volta tenevano la spazzatura. Brulica di topi, per cui me ne tengo alla larga. Adesso la usano come magazzino.» L'idea mi fece rabbrividire. «Come fai a sapere così tante cose su questo posto?» «Castelbianco? Da bambini, con i miei amici, venivamo sempre qui a giocare.» E mise in folle, accostando il camion a un terrazzo dove diversi uomini di mezza età, ingobbiti e abbronzati, stavano tagliando e inserendo lastre di calcare in un elaborato disegno a cerchi concentrici. «A quei tempi, quando Castelbianco era dei Peruzzi-Mancini, ai bambini di Rosia era permesso venire qui a giocare. I proprietari non dicevano niente. Ogni tanto aiutavamo per qualche lavoretto.» E allungata una mano sul sedile posteriore recuperò due paia di rozzi guanti in tela, porgendomene uno. Poi, manovrando la leva che scaricava meccanicamente il marmo, aggiunse: «Se trova qualcuno che la compera dal tedesco, veda di fare in modo che elimini il filo spinato. Una volta questo posto apparteneva a tutta la comunità». Così detto saltò giù dalla cabina e io lo seguii sul retro, dove cominciò a sollevare lastre di marmo e a sistemarle con delicatezza in un'ordinata pila accanto al terrazzo.
«Che cosa diavolo stai facendo, Ruggero?» gridò uno degli scalpellini, voltandosi verso di noi e agitando una mano. «Calmati» gli rispose il giovane, continuando la sua opera. «Sto facendo quello che mi è stato ordinato di fare. È per l'interno, credo. Che cosa ne so?» Intanto mi misi ad aiutarlo a scaricare il marmo. Le sottili lastre, ruvide su un lato e lisce sull'altro, non erano pesanti ma fragili, per cui dovevano essere posate con cautela. «Nessuno mi ha detto niente di una consegna di marmo» continuò l'altro, evidentemente un capomastro, gesticolando. «Doveva arrivare la settimana scorsa. Avete fatto confusione?» «Io faccio quello che mi dicono» replicò il giovane, indicando la casa. «L'ultima consegna era scarsa, per cui Aldo si è offerto di mandare il saldo. Comunque, che cosa cazzo c'entri tu?» Preso uno straccio, lo scalpellino lisciò una striscia di cemento, replicando un «vaffanculo» carico di rassegnazione. Continuammo per un po' a lavorare in silenzio, trasportando e posando le lastre sulla pila, finché gli chiesi a bassa voce: «Quello lì ti conosce, eh?». «Sì, certo. Mio fratello ha lavorato un paio di anni per lui. È una vera testa di cazzo. Vuole che la scarichiamo tutta questa roba?» «Quasi» risposi. «Quasi?» Mentre lavoravamo in silenzio esaminai la casa e il parco. Visto da vicino, Castelbianco non era affatto un palazzo: grande e a suo modo splendido, ma al tempo stesso sgangherato e molto mal tenuto. Per restituirlo ai fasti che non conosceva ormai da secoli sarebbe forse stato necessario più di un miliardo e mezzo di lire italiane, ma Orlov non ne stava spendendo che una parte. Mi chiesi dove fosse andato, oltre a tutto, a prendere i soldi, ma non c'era certamente da meravigliarsi che l'ex capo dell'intelligence sovietica avesse trovato il modo di mettersi in tasca una parte delle somme senza limite che controllava, spostandole su qualche conto svizzero. E quanto pagava i suoi guardiani, che erano sicuramente almeno una mezza dozzina? Non molto, sospettavo, ma comunque forniva loro rifugio e protezione dall'arresto e dalla carcerazione che li aspettavano in Russia per avere servito con tanta fedeltà l'ormai screditato KGB. Come avevano fatto in fretta a ribaltarsi le cose: i temuti, potenti funzionari della sicurezza di Stato, spada e scudo del partito, erano ora messi al bando come cani rabbiosi.
Ma il fatto di essere riuscito a penetrare così facilmente nel parco di Castelbianco mi preoccupava. Come mai una sicurezza così approssimativa per un uomo che temeva per la propria vita, costretto a stringere un patto con il capo della CIA perché gli offrisse protezione, come un qualsiasi bottegaio di Chicago che pagasse gli scagnozzi di Al Capone? L'apparato di sicurezza appariva davvero modesto: non sembrava vi fosse nessun cecchino, nessun circuito chiuso di telecamere. Eppure tutto ciò aveva una sua logica. Il vero sistema di sicurezza era il suo anonimato, apparentemente tanto ben mantenuto che persino i miei datori di lavoro non sapevano dove si trovasse. Un apparato di sicurezza eccessivo sarebbe stato una... be', non potei fare a meno di pensare "bandiera rossa". Un sistema troppo visibile avrebbe richiamato un'attenzione sgradita. Un ricco tedesco eccentrico poteva servirsi di pochi guardiani, ma un sistema troppo sofisticato sarebbe stato rischioso. Comunque io ero dentro, e stando alle informazioni di cui disponevo c'era anche Orlov. Il problema era: come fare per entrare in casa? E, ancora di più, una volta dentro, come ne sarei uscito? Ripassai mentalmente, forse per la ventesima volta, il mio piano, quindi feci segno al mio complice italiano di lasciar perdere le lastre di marmo e di seguirmi. «Aiuto!» Bussando con furia sulla pesante porta in legno che dava sulla cucina, Ruggero urlava: «Per l'amor di Dio, c'è qualcuno che può aiutarmi?». Il suo avambraccio destro era uno spaventevole disastro, un lungo squarcio che sanguinava abbondantemente. Acquattato nei cespugli lì accanto, dietro una fila di bidoni per la spazzatura arrugginiti, tenevo d'occhio la situazione. Un rumore dall'interno segnalò che qualcuno aveva sentito i suoi colpi disperati. Pian piano, cigolando sui cardini, la porta si aprì, facendo comparire un'anziana donna tondeggiante con un grembiule verde di tela sopra a un informe abito a fiori. Gli occhi bruni, due forellini dentro una vasta massa di rughe sotto un'incolta zazzera di capelli grigi, quando videro la ferita del giovane si spalancarono immediatamente. «Shto eto takoye?» chiese la donna con voce stridula, spaventata. «Bozhe moi! Pridi, maodoi chelovek! Bystro!» Che cosa succede? stava chiedendo in russo. Mio Dio, entra, giovanotto. «Il marmo...» rispose Ruggero in italiano «è affilato...» Immagino fosse la governante russa della casa, forse una domestica che lavorava già per Orlov quando era potente. Come avevo previsto, si stava
comportando con la materna sollecitudine tipica di una donna della sua generazione. Non avrebbe mai potuto capire che la ferita del giovane non era stata provocata da un incidente ma prodotta da me servendomi di un po' di trucco da palcoscenico che mi ero procurato a Siena. Né la povera donna poteva sospettare che, nel momento stesso in cui avrebbe voltato la schiena per fare strada a quel giovane italiano verso la cucina e un primo soccorso, un altro uomo sarebbe balzato fuori dai cespugli per aggredirla alle spalle. Ficcatale sulla bocca e sul naso una garza imbevuta di cloroformio smorzai le sue grida, sorreggendo il suo grosso corpo quando perse conoscenza. Ruggero chiuse silenziosamente la porta della cucina. Poi mi gettò un'occhiata, preoccupato, chiedendosi forse che razza di "speculatore canadese" potessi essere. Ma il suo aiuto era stato comperato e pagato, e non mi avrebbe deluso. Fino dai giorni dell'infanzia, quando veniva a giocare lì, sapeva dove fosse l'ingresso della cucina. Ed era stato in grado di fornirmi a parole una rapida pianta dell'interno. Per quanto mi riguardava, a quel punto si era già guadagnato i suoi soldi. Quando estrassi dalla tuta il rotolo di sottile filo di nylon mi aiutò a legare la governante, badando bene che la funicella non le tagliasse la pelle e ficcandole in bocca un tampone, sempre fermato dal nylon, per quando sarebbe rinvenuta. Dopo di che mi aiutò, senza fare rumore, a spostare il corpo privo di sensi dalla cucina odorosa di cipolla alla grande dispensa. E finalmente mi strinse la mano. Gli consegnai il saldo delle sue spettanze e, dopo un rapido sorriso inquieto e un «Ciao» lo vidi sparire. Una buia scaletta in pietra portava dalla cucina a un corridoio altrettanto buio, sul quale sembravano dare alcune stanze libere. Mi ci introdussi furtivamente senza fare rumore, orientandomi più che altro a tentoni. Da chissà dove, dentro la casa, sentii arrivare un fievole ronzìo, che tuttavia sembrava lontanissimo, a chilometri e chilometri di distanza. Invece non si udiva nessuno dei rumori di solito prodotti da una casa, persino da un castello di quel tipo. Arrivai all'incrocio di due corridoi, un pianerottolo spoglio in cui c'erano soltanto due sgangherate seggioline di legno. Il ronzìo insistente adesso era più vicino, più forte. Veniva da sotto? Lo seguii scendendo per una scala e svoltando a sinistra, quindi procedendo diritto per qualche metro e poi svoltando di nuovo a sinistra. Infilata la mano nel tascone anteriore della tuta tastai la Sig-Sauer, av-
vertendo sulla pelle il rassicurante freddo dell'acciaio. Giunsi davanti a un'alta doppia porta in quercia. Il ronzìo arrivava da lì dentro, a intervalli regolari. Impugnai la pistola e, accucciatomi il più possibile, aprii lentamente uno dei due battenti tirandolo verso di me, senza sapere che cosa o chi avrei visto al di là di esso. Mi trovai davanti una vasta sala da pranzo vuota, con pareti e pavimento spogli e un tavolo in quercia di notevole lunghezza ma apparecchiato per una sola persona. Il pranzo, comunque, con ogni evidenza, era già stato consumato. L'unico commensale, seduto a un capo del tavolo e impegnato a suonare disperatamente un campanello per chiamare una governante impossibilitata a rispondere, era un omino calvo dall'aria innocua, che portava un paio di occhiali dalla grossa montatura nera. Lo avevo visto centinaia di volte in fotografia, ma non avevo idea di quanto Vladimir Orlov fosse effettivamente di bassa statura. Per quanto strano, era in completo e cravatta: chi doveva mai venirlo a trovare, così nascosto in Toscana? Non indossava un elegante completo di tipo inglese, però, come sembravano preferire tanti moderni esponenti del potere russo, ma un abito antiquato, squadrato, di fattura sovietica o europeo orientale, vecchio di svariati decenni. Vladimir Orlov: l'ultimo capo del KGB, le cui fattezze, rigide e prive di sorriso, avevo visto innumerevoli volte in qualche dossier dell'Agenzia o su foto pubblicate dalla stampa. Michail Gorbaciov lo aveva nominato a sostituire il capo del KGB che aveva complottato per rovesciare il suo governo durante le ultime convulsioni del potere sovietico. Di lui sapevamo poco, a parte il fatto che era considerato "affidabile" e "gorbacioviano", oltre a qualche altro particolare significativo quanto indimostrabile. E adesso eccolo lì seduto davanti a me, ripiegato su stesso e minuto. Sembrava svuotato di ogni energia. Alzò verso di me uno sguardo accigliato e, con uno smozzicato accento siberiano, chiese: «Chi è lei?». Per qualche secondo non fui in grado di rispondere, ma quando finalmente ci riuscii lo feci con una tranquillità che non mi sarei mai aspettato. «Sono il genero di Harrison Sinclair» risposi in russo. «Il marito di sua figlia Martha.» Parve che il vecchio avesse visto un fantasma. I suoi grossi sopraccigli si abbassarono, poi tornarono ad alzarsi di scatto; i suoi occhi si strinsero,
quindi tornarono ad allargarsi. «Bozhe moi» mormorò. Mio Dio. Rimasi lì a guardarlo, senza fare altro, con il cuore che martellava furiosamente, senza capire che cosa intendesse, chi pensasse che io fossi. Si alzò piano piano, con un'espressione accigliata, quasi puntandomi contro un dito accusatore. «Come diavolo ha fatto a entrare qui dentro?» Non risposi. «Lei è stupido a venire qui» continuò con voce appena udibile. «Harrison Sinclair mi ha tradito. E adesso verremo uccisi entrambi.» 35 Avanzai nella vasta sala da pranzo. I miei passi echeggiarono sulle pareti spoglie, contro l'alto soffitto a volta. Sotto la sua calma glaciale, sotto il suo atteggiamento imperioso, gli occhi di Vladimir Orlov guizzavano qua e là con grande ansia. Trascorsero diversi attimi di silenzio. I miei pensieri correvano all'impazzata. Harrison Sinclair mi ha tradito. E adesso verremo uccisi entrambi. Tradito. Lui? Che cosa intendeva dire? Orlov fece finalmente sentire la sua voce, chiara, risonante, riverberata dalle pareti. «Come osa presentarsi al mio cospetto?» Allungò una mano sotto il bordo del tavolo e premette un pulsante. Dal corridoio sentii giungere un lungo, ininterrotto suono ronzante. E dall'interno della casa si udì un rumore di passi. La governante, probabilmente già rinvenuta ma impossibilitata a muoversi o a farsi sentire, non rispondeva alle chiamate. Ma forse qualcuna delle guardie aveva sentito il rumore e si era insospettita. Estratta la Sig dal tascone della tuta la puntai contro l'ex presidente del KGB, chiedendomi se gli fosse mai capitato di trovarsi così sotto tiro. «Voglio che sappia» dissi, tenendo la pistola sotto il tavolo «che non ho alcuna intenzione di farle del male. Dobbiamo soltanto fare quattro chiacchiere, poi me ne andrò. Quando la guardia farà la sua comparsa, le assicuri che è tutto a posto. Altrimenti lei quasi sicuramente morirà.» Prima che potessi continuare, la porta della sala da pranzo si spalancò con violenza e un uomo mi puntò contro un'arma automatica, gridando: «Fermo!». Sorrisi con disinvoltura, gettando un rapidissimo sguardo al vecchio, che
dopo un brevissimo attimo di esitazione gli replicò: «Va' pure. Ti ringrazio, Volodya, ma non c'è nessun problema. È stato un equivoco». Abbassata l'arma, l'uomo mi valutò attentamente con lo sguardo - vestito da manovale com'ero, non feci di sicuro svanire i suoi sospetti -, rilassandosi e dicendo: «Mi scusi». Poi si ritirò, chiudendosi la porta dietro le spalle. Accostatomi al tavolo, mi sedetti di fianco a Orlov. Aveva la fronte lucida di sudore, il volto, visto da quella posizione, appariva cinereo. Glaciale e imperioso, certo, ma al tempo stesso profondamente impaurito e disperatamente teso a non lasciarlo trapelare. Ero seduto a meno di un metro da lui, troppo vicino perché si sentisse a suo agio, per cui, quando aprì bocca per parlare, distolse lo sguardo. Aveva dipinta in viso un'espressione furente. «Perché è qui?» gracchiò con voce rauca. «Per via di un accordo che lei ha preso con mio suocero» risposi. Ci fu una lunga pausa di silenzio, nel cui corso mi concentrai, cercando di sentire la famosa voce separata ma senza riuscirci. «Qualcuno l'avrà sicuramente seguita. Lei ci ha messo in pericolo entrambi.» Senza rispondere, strinsi le labbra in un gesto di profonda concentrazione, finché, di punto in bianco, sentii un suono, una frase priva di senso, qualcosa che non capii. Un frammento di pensiero, senza dubbio, ma nulla che fosse possibile cogliere in maniera concreta. «Lei non è russo, vero?» chiesi. «Perché è qui?» ripeté Orlov, agitandosi sulla sedia. Con il gomito andò a sbattere contro un piatto di portata. «Stupido!» Mentre parlava, sentii un'altra frase vaga, che di nuovo non capii, in una lingua straniera. Quale? Non russo, non era possibile, non mi risultava affatto familiare. Feci una smorfia, chiusi gli occhi, ascoltai, sentii una strisciata di vocali, parole che non ero in grado di decifrare. «Allora?» insistette. «Perché è qui? Che cos'ha intenzione di fare?» E spinse all'indietro la sedia in quercia dall'alto schienale scolpito, che produsse un lungo rumore stridente sul pavimento in cotto. «Lei è nato a Kiev!» esclamai. «Vero?» «Se ne vada!» «Lei non è russo. Lei è ucraino.» Orlov si alzò e cominciò ad arretrare per uscire dalla sala. Mi alzai anch'io, puntandogli contro la Sig, riluttante a minacciarlo una
seconda volta. «Rimanga dov'è, per favore» gli intimai. Si bloccò. «Il suo russo ha un leggero accento ucraino... lo si capisce dalle "g".» «Che cos'è venuto qui a fare?» «La sua lingua madre è l'ucraino. Lei pensa in ucraino, vero?» «Lo sa già» ribatté. «Non c'era nessun bisogno che venisse fin qui, mettendomi in pericolo, per scoprire una cosa che Harrison Sinclair sa benissimo.» E fece un passo verso di me con aria minacciosa, in un maldestro tentativo di recuperare il vantaggio psicologico. Il vecchio abito di foggia staliniana gli pendeva addosso come quello di uno spaventapasseri. «Se ha qualcosa da dirmi, o da darmi, sarà meglio che sia di un'importanza tale da far tremare il mondo.» Un altro passo. «Presumerò che lo sia, quindi le concederò cinque minuti per spiegarsi, dopo di che sarà meglio che lei sparisca.» «Si sieda, la prego» replicai, indicandogli con la canna della pistola la sua sedia vicino al tavolo. «Non ci vorrà molto. Mi chiamo Benjamin Ellison e, come ho detto, sono sposato con Martha Sinclair, la figlia di Harrison Sinclair. Mia moglie ha ereditato dal padre ogni bene. I suoi contatti di certo molto vasti - possono confermarle che sono davvero chi dico di essere.» Parve rilassarsi, si lasciò cadere, apparentemente perdendo l'equilibrio. Ma all'improvviso si voltò verso di me, con le mani tese. Con un alto grido, quasi subumano, gutturale - uno aaaghgh contorto, strozzato - mi si buttò addosso, afferrandomi ai ginocchi e cercando di farmi cadere. Mi piegai, lo afferrai a una spalla e lo misi a terra. Rimase lì lungo e disteso, ansando, paonazzo in viso. «No» ansimò. Gli occhiali gli caddero rumorosamente sul pavimento a poca distanza da lui. Tenendogli puntata addosso la pistola li recuperai, mentre con il braccio libero riuscivo in qualche modo a farlo rimettere in piedi. «La prego» dissi. «Non lo rifaccia.» Orlov si accasciò sulla sedia più vicina come una marionetta, stremato ma all'erta. Mi ha sempre affascinato il modo in cui i leader a livello mondiale, una volta privati del loro potere, appaiono tangibilmente sminuiti in un senso quasi fisico. Ricordo di avere incontrato una volta Michail Gorbaciov alla Kennedy School di Boston e di avergli stretto la mano alla fine di una conferenza che aveva tenuto qualche mese dopo che Boris Eltsin lo aveva buttato fuori dal Cremlino. E mi era parso un uomo minuto, molto vulnerabile, molto comune. Avevo provato un impeto di simpatia nei suoi
confronti. Ed ecco una frase in russo. L'avevo colta, sentivo i pensieri di Orlov: una frase in russo perfettamente riconoscibile in mezzo a un flusso indistinto di ucraino, come una scheggia di uranio affondata nella grafite. Sì, era nato a Kiev. E quando aveva cinque anni la sua famiglia si era trasferita a Mosca. Come il medico di Roma, era a sua volta bilingue, anche se pensava soprattutto in ucraino frammischiato a un po' di russo. Tradotta in americano, l'espressione che aveva pensato equivaleva a Saggi. «Lei,» dissi, fingendo una grande sicurezza «dei Saggi sa pochissimo.» Orlov si mise a ridere. Aveva i denti in pessimo stato, pieni di varchi, irregolari e macchiati. «Invece so tutto, Mr. Ellison.» Lo scrutai in viso, concentrandomi, per vedere che cos'avrei potuto sentire ancora. Di nuovo, apparentemente, espressioni per lo più in ucraino. Che però mi consentirono di cogliere qua o là qualche espressione apparentata, parole che sembravano simili ad altre russe, inglesi o tedesche. Tsyurikh, sentii per esempio, che stava probabilmente per Zurigo. Quindi Sinclair, e qualcosa di simile a bank, anche se non potevo esserne certo. «Dobbiamo parlare» replicai. «Di Harrison Sinclair. E dell'accordo che avete fatto.» E tornai a chinarmi verso di lui, come se stessi riflettendo con intensità. Percepii una raffica di parole strane, basse, confuse, indistinte, tra le quali però ne colsi con la massima chiarezza una, quasi gridata. Di nuovo Zurich, o qualcosa del genere. «Accordo» sbottò in tono di scherno. Il vecchio mastro spione esplose in una risata secca. «Ha rubato alcuni miliardi di dollari a me e al mio Paese... miliardi di dollari! E lei lo chiama accordo!» 36 Dunque era vero. Alex Truslow aveva ragione. Ma... miliardi di dollari? Era soltanto una questione di soldi? Tutto lì? Certo, a pensarci bene, nel corso della storia è stato il denaro a motivare la maggior parte degli atti più esecrabili. Era dunque stato per denaro che Sinclair e gli altri erano stati assassinati, che l'Agenzia, come mi aveva messo in guardia Ed Moore, era a pezzi?
Miliardi di dollari. Orlov mi osservava con aria arrogante, tentando di raddrizzare gli occhiali. «E adesso» ripeté con un sospiro, passando all'inglese «è soltanto questione di tempo perché i miei mi rintraccino... non ho dubbi. E non mi sorprende più di tanto che lei mi abbia trovato. Non c'è posto in terra - o perlomeno non un posto degno di viverci - dove uno alla fine non possa essere scoperto. Ma quello che non so è il perché. Perché ha deciso di mettere a repentaglio la mia vita venendo qui, qualunque siano i suoi motivi? È stato un gesto di immensa stupidità.» Parlava un inglese eccellente, quasi perfetto, con accento britannico. Tirato bruscamente il fiato sbottai: «Sono stato attentissimo. Lei non deve preoccuparsi». Ma la sua espressione non cambiò di un filo. Le narici si allargarono leggermente; gli occhi, immobili, non tradivano nulla. «Sono qui» continuai «per sistemare tutto. Per raddrizzare il torto che mio suocero le ha fatto. Sono pronto a offrirle una grossa cifra in cambio del suo aiuto per rintracciare quei soldi.» Sporse le labbra. «A rischio di apparire volgare, Mr. Ellison, mi interesserebbe moltissimo conoscere il suo concetto di "grossa cifra".» Annuii e mi alzai. Poi, rimessa la pistola in tasca e arretrato fino a pormi fuori della sua portata, sollevai le gambe dei pantaloni della tuta da lavoro, quanto bastava per mostrargli le mazzette di dollari che mi ero fissato ai polpacci con nastro adesivo. Infine, aperti i fermagli in velcro comperati a Siena, il denaro cadde a terra in due mucchietti separati di mazzette che raccolsi e posai sul tavolo. Era una grossa quantità di denaro, probabilmente più di quanto Orlov ne avesse mai visto e di sicuro più di quanto ne avessi visto io, ed ebbe un effetto convincente. Fece scorrere lo sguardo sulle mazzette e vi infilò la mano, accertandosi almeno superficialmente che fossero soldi veri. Alzò lo sguardo e chiese: «Quanti sono? Settecentocinquantamila dollari, più o meno. Eh?». «Un milione secco» risposi. «Ah» replicò, spalancando gli occhi. Quindi si mise a ridere. Una specie di gracchiare, aspro, irridente. E con gesto teatrale spinse verso di me i due mucchi di denaro. «Io mi trovo in forti ristrettezze finanziarie, Mr. Ellison. Ma questa cifra... per quanto sia elevata... non è niente in confronto a ciò che avrei dovuto ricevere.» «Sì» dissi. «Con il suo aiuto io posso risalire a quei soldi. Ma prima
dobbiamo parlare.» Sorrise. «Accetterò il suo denaro come una dimostrazione di buona fede. Non sono orgoglioso fino al punto da rinunciarci. Dopo di che, certo, parleremo. E troveremo un accordo.» «Bene» replicai. «Allora mi consenta di porle la prima domanda. Chi è stato a uccidere Harrison Sinclair?» «Speravo che fosse lei a dirlo a me, Mr. Ellison.» «Ma a eseguire l'ordine è stato un agente della Stasi» ribattei. «È molto probabile, sì. Ma, sia stata la Stasi o la Securitate, io non c'entro. Non rientrava certamente nei miei interessi uccidere Harrison Sinclair.» Inarcai un sopracciglio in tono interrogativo. «Quando Sinclair è stato ucciso,» continuò Orlov «io e il mio Paese siamo stati frodati di oltre dieci miliardi di dollari.» Mi sentii avvampare il viso, che si mise a formicolare. Tutto lasciava intendere che quell'uomo stava dicendo la verità. Il mio cuore assunse un battito lento, regolare. La villa toscana di Orlov non aveva certamente nulla di modesto, ma non si poteva neanche dire che quell'uomo vivesse da sibarita come avevano fatto certi nazisti di alto rango in Brasile e in Argentina negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Una grossa somma di denaro gli avrebbe procurato non soltanto un'esistenza lussuosa ma, cosa ben più importante, la sicurezza per tutta la vita. Ma... dieci miliardi di dollari! «Com'erano intitolate le memorie di quel direttore della CIA dei tempi di Nixon... William Colby, si chiamava, no? Uomini d'onore?» Annuii, in guardia. Orlov non mi piaceva, anche se per motivi che non c'entravano niente con l'ideologia o la strenua rivalità che si riteneva comunemente esistere tra il KGB e la CIA. Hal Sinclair una volta mi aveva confidato che quando era residente in diverse capitali, alcuni dei suoi migliori amici erano i suoi pari grado del KGB. Siamo - anzi, dovrei forse dire eravamo - molto più simili che diversi. No, il suo autocompiacimento lo trovavo ripugnante. Qualche istante prima mi stava saltando addosso per graffiarmi come una vecchia isterica, e adesso eccolo lì seduto come un pascià... a pensare soprattutto in ucraino, per Dio! «Be',» continuò «William Colby era, è, un uomo d'onore. Forse troppo, per la sua professione. E, finché non mi ha tradito, pensavo che lo fosse
anche Hal Sinclair.» «Non capisco.» «Fino a che punto l'ha messa al corrente di tutta questa vicenda?» «Molto poco» riconobbi. «Subito prima del crollo dell'Unione Sovietica,» riprese «lo contattai in segreto, servendomi di canali coperti a cui non si faceva ricorso da anni. Ci sono - cioè, c'erano - molti modi per farlo. E chiesi il suo aiuto.» «Per fare che cosa?» «Per far uscire dal mio Paese la maggior parte delle sue riserve auree» rispose. Ero sbalordito, persino intimidito... ma tutto ciò aveva una logica. Corrispondeva perfettamente a quello che sapevo io, che avevo letto sulla stampa o che mi era stato detto da amici affidabili. La Central Intelligence Agency aveva sempre calcolato che l'Unione Sovietica disponesse di dieci miliardi di dollari in riserve auree, depositati in diverse camere sotterranee blindate a Mosca e dintorni. Finché di punto in bianco, dopo il fallito colpo di Stato dell'agosto 1991, il governo sovietico aveva annunciato che esse ammontavano soltanto a tre miliardi di dollari. Notizia che aveva fatto vacillare il mondo finanziario. Dove diavolo poteva essere scomparso tutto quell'oro? Erano arrivate informative di ogni genere; una affermava che il partito comunista sovietico aveva ordinato che centocinquanta tonnellate d'argento, otto di platino e almeno sessanta d'oro venissero nascoste all'estero. Inoltre, si sosteneva che alcuni funzionari del partito avevano nascosto qualcosa come cinquanta miliardi di dollari in diverse banche occidentali, in Svizzera, a Monaco, in Lussemburgo, a Panama, nel Liechtenstein e in una serie di località defilate come le isole Cayman. Altre informative ancora sostenevano che il partito comunista sovietico, negli ultimi anni della sua esistenza, aveva provveduto a frenetici riciclaggi di denaro. I responsabili delle imprese sovietiche avrebbero creato una serie di false joint venture e di aziende di facciata per far volatilizzare denaro fuori del Paese. In effetti, il governo Eltsin era arrivato fino ad affidare a una società di indagini americana, la Kroll Associates - una delle principali concorrenti di Alex Truslow, tra l'altro -, l'incarico di rintracciare questo denaro, ma senza alcun risultato. Si diceva anche che un massiccio trasferimento presso banche svizzere sarebbe stato personalmente ordinato dal dirigente ammi-
nistrativo del partito, morto suicida - o ucciso - un paio di giorni dopo il fallito colpo. Erano dunque stati degli ex compagni di Orlov a cercare di fermarmi nell'impresa di risalire a tutto quel denaro, e quindi a uccidere Charles Van Aver, l'uomo della CIA a Roma? Rimasi ad ascoltare, stordito, stupefatto. «La Russia» disse Orlov «stava andando a pezzi.» «L'Unione Sovietica, vorrà dire.» «Entrambe. Intendo parlare di entrambe. Era chiaro a me, come a chiunque avesse cervello, che l'Unione Sovietica stava per essere gettata nell'inceneritore della storia, per usare la trita espressione tanto cara a Marx-, Ma stava per andare a rotoli anche la Russia, la mia amata Russia. Gorbaciov mi aveva chiamato a dirigere il KGB dopo che Krjučkov aveva tentato un colpo di Stato. Ma il potere gli stava scappando di mano. I duri stavano razziando le ricchezze del Paese... sapevano che Eltsin avrebbe preso il sopravvento ed erano lì in attesa di distruggerlo.» Avevo letto e sentito parlare moltissimo della scomparsa delle ricchezze russe sotto forma di valute forti, di metalli preziosi e persino di opere d'arte. Erano cose che non mi risultavano nuove. «Così» continuò «proposi un piano per far sparire dalla Russia quanto più oro possibile. I duri avrebbero sicuramente cercato di riprendere il potere, ma se fossi riuscito a tenere le loro mani lontane dalle riserve non avrebbero avuto alcun potere reale. Insomma, volevo salvare la Russia dal disastro.» «Anche Hal Sinclair» convenni, rivolto a lui come a me stesso. «Sì, esattamente. Quindi sapevo che mi avrebbe capito. Ma ciò che gli proposi gli fece paura. Si sarebbe dovuto trattare di un'operazione clandestina, in cui la CIA avrebbe dovuto aiutare il KGB a far sparire l'oro. A farlo uscire dal Paese. In modo che un giorno, calmatesi le acque, potesse tornare indietro.» «Ma perché le serviva l'aiuto della CIA?» «L'oro è molto difficile da trasferire. Straordinariamente difficile. E, vista la cura con cui ero tenuto d'occhio, non avrei mai potuto farlo uscire dai nostri confini. I miei uomini e io eravamo tenuti sotto controllo, sorvegliati di continuo. Né avrei potuto trasformarlo in liquidi, venderlo: sarebbero risaliti subito a me.» «Perciò voi due vi siete incontrati a Zurigo.»
«Sì. È stata una procedura molto complicata. Ci siamo incontrati con un banchiere che Sinclair conosceva e di cui si fidava. Il quale ha creato un sistema di conti su cui accogliere l'oro. E Sinclair ha accettato la mia condizione: che mi fosse consentito "sparire". Di conseguenza, ha fatto in modo che tutti i dati sulle mie possibili dislocazioni venissero cancellati dalle banche dati della CIA.» «Ma come ha potuto Sinclair - o la CIA - far uscire l'oro dal Paese?» «Oh, sa,» rispose stancamente «i modi ci sono. Abbiamo usato gli stessi canali che un tempo servivano per far uscire clandestinamente dalla Russia i transfughi.» Canali, come sapevo benissimo, che comprendevano il sistema dei corrieri militari, e che è protetto dalla Convenzione di Vienna. Era stato per il suo tramite, per esempio, che avevano passato la Cortina di Ferro in direzione Ovest diversi famosi transfughi. Di uno, il leggendario Oleg Gordievskij, avevo sentito dire che sarebbe stato fatto passare nascosto dentro un camion dei traslochi. Una palla, ma plausibile. «Un intero aereo militare viene trattato alla stregua di una valigia diplomatica,» continuò Orlov «cui viene consentito di lasciare un Paese senza controlli. E poi c'erano i camion piombati. E diversi altri sistemi, accessibili alla CIA ma non a noi a causa dello stato di continua sorveglianza a cui eravamo sottoposti. C'erano informatori dappertutto, persino tra le mie segretarie personali.» Ma c'era ancora qualcosa che non si incastrava alla perfezione. «Come faceva Sinclair a sapere che poteva fidarsi di lei? Come diavolo faceva a essere sicuro che lei non fosse uno dei cattivi?» «In conseguenza» rispose Orlov «di ciò che gli offrivo.» «Cioè?» «Be', voleva fare un ripulisti nella CIA. Era convinto che fosse completamente marcia. «E io gli fornii la prova che le cose stavano proprio così.» 37 Orlov scoccò uno sguardo verso la porta, come se si aspettasse che comparisse una delle sue guardie. Sospirò. «Agli inizi degli anni Ottanta cominciammo finalmente a elaborare la tecnologia per intercettare le comunicazioni più sofisticate tra il quartier generale della vostra CIA e altri enti governativi.» E sospirò un'altra volta,
rivolgendomi un sorriso meccanico. Sembrava che tutta quella storia l'avesse già raccontata in precedenza. «Il satellite e le apparecchiature a microonde piazzate sul tetto dell'ambasciata sovietica a Washington cominciarono a raccogliere un'ampia gamma di segnali, che ci confermarono le informazioni già da noi ottenute attraverso un infiltrato a Langley.» «E cioè?» Un altro sorriso meccanico. Cominciai a chiedermi se non fosse per caso semplicemente il modo in cui sorrideva sempre, un rapido tic della bocca, senza che gli occhi cambiassero espressione, rimanendo all'erta. «Qual è stata la grande missione della CIA dalla fondazione fino al... diciamo al 1991?» Sorrisi, da cinico vecchio arnese del mestiere come lui. «Battere il comunismo mondiale e rendervi la vita un inferno.» «Esatto. Ma c'è mai stato un momento in cui l'Unione Sovietica abbia realisticamente rappresentato una minaccia per gli Stati Uniti?» «Da dove comincio? Lituania, Lettonia, Estonia? Ungheria? Berlino? Praga?» «Ma per gli Stati Uniti in sé?» «Avevate la bomba. Non dimentichiamolo.» «Ma avevamo paura di usarla, come ce l'avevate voi. Salvo che voi lo avete fatto e noi no. Qualcuno a Langley ha mai creduto seriamente che Mosca avesse i mezzi o la volontà di conquistare il mondo? E che cosa si pensava che ne avremmo fatto, una volta presone possesso? Che l'avremmo ridotto a pezzi come, mi spiace doverlo dire, hanno fatto i nostri stimatissimi leader sovietici con quello che era il grande impero russo?» «Un po' di abbaglio c'è stato da entrambe le parti.» «Ah. Però questo abbaglio... è senza dubbio servito a far lavorare giorno e notte la CIA per parecchi anni, no?» «In che senso?» «In questo semplice senso...» rispose Orlov «che ora la vostra grande missione è sconfiggere lo spionaggio industriale. O no?» «Così pare. Ormai il mondo è cambiato.» «Sì. Spionaggio industriale a livello internazionale. Giapponesi, francesi e tedeschi sono tutti lì che vogliono soltanto rubare i preziosi segreti del mestiere alle vostre povere, afflitte, aziende americane. E soltanto la Central Intelligence Agency può fare del vostro Paese un posto sicuro per il capitalismo.
«Sia come sia, alla metà degli anni Ottanta il KGB era l'unico servizio di intelligence del mondo che disponesse di un'attrezzatura in grado di monitorizzare tutte le comunicazioni in partenza dal quartier generale della CIA. E ciò che apprendevamo non faceva altro che confermare i sospetti più neri di alcuni dei miei più incalliti confratelli comunisti. Dalle comunicazioni tra Langley e la Federal Reserve eccetera che avevamo intercettato siamo venuti a sapere che la CIA era piuttosto impegnata da anni a dirigere le sue formidabili capacità spionistiche contro le strutture economiche di presunti alleati come i giapponesi, i francesi e i tedeschi. Contro imprese private di quei Paesi. E tutto al fine di proteggere la sicurezza nazionale americana.» Fatta una pausa, si voltò a guardarmi. «E con ciò?» replicai. «Roba di routine, per il nostro mestiere.» «Già» ribatté, allungandosi comodamente sulla sedia e alzando i palmi di entrambe le mani, come a dire che proprio questo era il punto. «A un certo momento abbiamo pensato di avere individuato i contorni di una normale operazione di riciclaggio di denaro. Sa com'è: i flussi di denaro che procedono verso le diverse residenze della CIA nel mondo dai conti che Langley ha presso la Federal Reserve di New York. Ovunque sia necessario dotare di fondi qualche operazione coperta in favore della democrazia. Da New York a Bruxelles, a Zurigo, a Panama, a San Salvador. Invece non era così. Niente affatto.» Scoccatomi uno sguardo, piegò la bocca in un altro sorriso. «Più i nostri geni finanziari scavavano...» Accortosi del mio scetticismo, continuò: «Sì, tra tanti fessi avevamo anche qualche genio. E più scavavano, più si confermavano nei loro sospetti che non si trattasse affatto di una normale operazione di riciclaggio. I soldi non venivano semplicemente istradati. Li si faceva. Li si ammassava. Soldi guadagnati con lo spionaggio industriale. E la cosa veniva sempre più confermata d'intercettazione in intercettazione. «Ma ad agire in questo modo era la CIA in quanto istituzione? Niente affatto. I nostri infiltrati dentro Langley ci hanno confermato che si trattava di poche persone. Privati. Si trattava di operazioni controllate da una piccola cellula di persone.» «I "Saggi".» «Denominazione scherzosa, devo presumere. Un minuscolo drappello di servitori dello Stato all'interno della CIA che si stavano arricchendo enormemente. Sì, molto bene. Servendosi delle informazioni ottenute attraverso le operazioni di spionaggio di cui sopra.»
In realtà è abbastanza comune il fatto che gli agenti della CIA schiumino dai loro budget, dai loro fondi, che sono fluidi e poco documentati (per motivi di segretezza: nessun direttore della CIA che abbia ordinato un'operazione coperta in un qualsiasi Paese del Terzo Mondo gradisce che rimanga in giro anche un solo brandello di carta che possa mettere all'erta qualche commissione del Congresso USA). Di conseguenza, molti agenti che conosco hanno l'abitudine di succhiare per sé un dieci per cento - la decima la definisce infatti qualcuno - dei fondi cui hanno accesso, facendoli sparire in qualche conto numerato svizzero. Io non l'ho mai fatto, ma chi se ne rendeva responsabile lo faceva per fornirsi una specie di copertura, di protezione, caso mai qualcosa fosse andato storto. La routine dei contabili di Langley, ingobbiti sotto le loro visiere verdi, consiste nell'ascrivere genericamente simili somme ai costi, pur sapendo benissimo dove sono andate a finire. Quanto sopra lo esposi a Orlov, che come risposta si limitò a scuotere il capo. «Stiamo parlando di grosse cifre. Non di decime.» «Chi erano? Cioè, chi sono?» «Non siamo entrati in possesso di nessun nome. Erano troppo protetti.» «E come hanno fatto ad ammassare le loro fortune?» «Non occorre una grande conoscenza dei procedimenti della microeconomia, Mr. Ellison. I Saggi erano edotti delle più riservate conversazioni e riunioni strategiche tenute in consigli di amministrazione e uffici vari di aziende, o persino nel chiuso di un'automobile, a Bonn e Francoforte, a Parigi, Londra e Tokyo. E con le informazioni così raccolte... Be', si trattava semplicemente di procedere a qualche investimento strategico nelle varie Borse del mondo e in particolare a New York, a Tokyo e a Londra. In definitiva, una volta al corrente delle intenzioni di Siemens, Philips o Mitsubishi si sapeva perfettamente quali azioni vendere o comperare, no?» «Quindi non si trattava di appropriazione indebita nel vero senso dell'espressione.» «Per niente. Non c'è stata nessuna appropriazione. Ma manipolazione di Borse, violazione di centinaia di leggi americane e di altre nazioni. E i Saggi sono stati veramente in gamba... I conti bancari che avevano in Lussemburgo, a Gran Cayman e a Zurigo sono diventati sempre più floridi. Si sono fatti un'autentica fortuna. Centinaia di milioni di dollari, se non di più.» Tornò ad alzare lo sguardo alla porta a due battenti, quindi continuò, con una vaga espressione di trionfo sul viso appuntito. «Pensi che cos'avrem-
mo potuto fare disponendo di quelle prove... le trascrizioni, le intercettazioni... Roba da far girare la testa. Non potevamo chiedere niente di meglio da usare per la nostra propaganda. L'America ruba ai suoi stessi alleati! Lasciata filtrare una notizia del genere, la NATO sarebbe andata in malora.» «Mio Dio!» «Ma poi è arrivato il 1987.» «In che senso?» Orlov scosse lentamente il capo. «Non lo sa?» «Che cos'è successo nel 1987?» «Si è dimenticato ciò che è successo quell'anno all'economia americana?» «L'economia?» chiesi, perplesso. «C'è stato il grande crollo in Borsa dell'ottobre, ma...» «Esattamente. "Crollo" è forse un'espressione esagerata, ma sta di fatto che le Borse americane sono cadute a picco; il 19 ottobre di quell'anno, mi pare.» «Ma che cosa c'entra questo con...» «Un "crollo" in Borsa, per usare la sua espressione, non è necessariamente un disastro. Anzi, ne può derivare il contrario. Un gruppo di investitori avvertiti può realizzare enormi profitti, vendendo allo scoperto oppure con operazioni a termine, o attraverso l'arbitraggio, o con altri mezzi. No?» «Che cosa intende dire?» «Sto dicendo, Mr. Ellison, che una volta scoperto che cosa stavano facendo questi Saggi, qual era il loro comportamento, siamo stati in grado di seguire molto da vicino le loro attività... e a loro insaputa.» «E nel crollo del 1987 loro hanno guadagnato. È così?» «Servendosi dei sistemi telematici di intermediazione, oltre che di millequattrocento diversi conti con forte movimento in entrata e in uscita, calibrandosi precisamente secondo il Nikkei di Tokyo e tirando le leve esattamente al momento giusto e con la giusta velocità, non soltanto con quel crollo hanno realizzato forti guadagni, Mr. Ellison. Lo hanno provocato.» Stordito, non potei fare altro che sgranargli in faccia gli occhi. «Quindi, come vede,» continuò «disponevamo di prove molto gravi su ciò che un gruppo all'interno della CIA aveva fatto al mondo intero.» «E ve ne siete serviti?» «Sì, a un certo punto lo abbiamo fatto.»
«Quando?»» «Quando dico "noi" intendo parlare della mia struttura. Lei ricorderà certamente gli eventi del '91, il colpo di Stato contro Gorbaciov, fomentato e organizzato dal KGB. Be', come lei ben sa, la CIA era stata informata in anticipo che lo si stava preparando. Perché crede che non abbia fatto niente per impedirlo?» «Ci sono diverse teorie» risposi. «Ci sono le teorie e ci sono i fatti. E i fatti sono che il KGB era in possesso di un dossier dettagliato ed esplosivo sul gruppo di persone che si definiscono i Saggi. Dossier che, una volta diffuso per il mondo, avrebbe distrutto la credibilità degli americani, come le ho detto.» «Per cui la CIA è stata costretta all'inerzia» dissi. «Ricattata dalla minaccia della rivelazione.» «Precisamente. Chi avrebbe mai rinunciato a una simile arma? Non un oppositore convinto degli Stati Uniti. Non un leale uomo del KGB. Quale prova migliore avrei potuto offrire?» «Certo» convenni. «Bravissimo. Ma chi è al corrente dell'esistenza di questo dossier?» «Soltanto un manipolo di persone» rispose. «Il mio predecessore al KGB, Krjučkov, che è vivo ma teme troppo per la propria vita perché possa parlare. Il suo primo assistente, che però è stato giustiziato... No, mi scusi, se non mi sbaglio credo che il New York Times abbia pubblicato un articolo in cui si diceva che avrebbe "commesso suicidio" subito dopo il colpo di Stato. E naturalmente io.» «E lei questa straordinaria documentazione l'ha consegnata?» «No» rispose. «Perché?» Una rapida scrollata di spalle, un sorriso storto. «Perché era sparita.» «Che cosa?» «In quelle giornate, a Mosca, la corruzione era dilagante» spiegò Orlov. «Persino più di adesso. Il vecchio ordine, i milioni di persone che lavoravano in tutte le vecchie burocrazie, ministeri, segretariati, tutto l'apparato governativo sovietico, insomma, sapeva di avere i giorni contati. C'erano direttori di industrie che vendevano i loro prodotti sul mercato nero. Funzionari che offrivano dossier negli uffici del KGB alla Lubianka. Gli uomini di Eltsin ne avevano asportato molti dal quartier generale del servizio, e alcuni di essi stavano passando di mano. E mi è stato detto che il dossier
sui Saggi era scomparso.» «Dossier del genere non spariscono come neve al sole.» «Certo che no. Mi è stato detto che se l'era portato a casa una funzionaria di livello abbastanza basso del Primo Direttorato, che lo aveva venduto.» «A chi?» «A un consorzio di uomini d'affari tedeschi. Mi è stato detto che l'avrebbe venduto per qualcosa di più di due milioni di marchi tedeschi.» «Ma avrebbe potuto realizzare parecchio di più.» «Certo. Quel dossier valeva una barca di soldi. Conteneva gli strumenti per ricattare alcuni dei funzionari di massimo livello della CIA. Valeva molto ma molto di più della cifra a cui quell'idiota lo ha venduto. Ma l'avidità può rendere irrazionali.» Repressi la voglia di sorridere. «Un consorzio tedesco» considerai meditabondo. «E che interesse può avere un gruppo di tedeschi a ricattare la CIA?» «Allora non lo sapevo.» «E adesso lo sa?» «Ho le mie idee.» «Tipo?» «Lei mi sta chiedendo fatti» rispose. «Ci siamo incontrati a Zurigo, Sinclair e io, ovviamente in assoluta segretezza. Ormai avevo lasciato il mio Paese. E sapevo che non ci sarei mai più tornato. «Sinclair era furioso che non avessi più quel dossier incriminante, per cui minacciò di mandare a monte tutto l'affare, volando a Washington e piantando ogni cosa. Abbiamo litigato per alcune ore. Ho cercato di fargli capire che non lo stavo imbrogliando.» «E lui ci ha creduto?» «Allora ho creduto di sì. Ora non più.» «Perché?» «Perché pensavo che avessimo ancora un accordo da portare a termine, mentre poi si è scoperto che non era affatto così. Quindi me ne sono andato da Zurigo per venire in questa casa - che per inciso mi era stata trovata da Sinclair - ad aspettare notizie. I dieci miliardi di dollari erano ormai in Occidente. Oro che apparteneva alla Russia. Era un gioco enorme, ma dovevo fidarmi dell'onestà di Sinclair. Anzi, di più: del suo interesse personale. Voleva impedire che la Russia diventasse una dittatura di destra, russonazionalista. Voleva anche lui risparmiare al mondo una calamità del gene-
re. Ma credo che tutto sia dipeso da quel dossier. Dal fatto che non avevo più da dargli quel materiale sui Saggi. Deve avere pensato che non giocavo pulito. Altrimenti, perché avrebbe fatto il doppio gioco con me?» «Eh?» «I dieci miliardi di dollari sono finiti in un caveau blindato di Zurigo. Sono lì, sotto la Bahnhofstrasse, e per portarli via occorre essere a conoscenza di due codici di accesso, accesso che io non ho mai ottenuto. Perché poi Sinclair è stato ucciso. Con la conseguenza che adesso non c'è più nessuna speranza di recuperare quell'oro. Quindi spero di averla convinta che non avevo nessunissimo interesse a farlo uccidere... le pare?» «No» convenni. «Direi proprio di no. Ma forse io sono in grado di aiutarla.» «Se dispone dei codici di accesso di Sinclair...» «No» risposi. «Non ne esistono. Non mi è stato lasciato niente.» «Allora temo che non ci sia nulla che io possa fare.» «Errore. C'è qualcosa che posso fare io. Però mi occorre il nome del banchiere con cui vi siete incontrati a Zurigo.» Ma in quel momento i due battenti della porta in fondo alla sala si spalancarono con violenza. Balzai in piedi, non volendo però estrarre la pistola caso mai fosse ancora la guardia di prima, con cui dovevo continuare a ostentare un'aria di assoluta normalità: non potevo rischiare che pensasse che stessi minacciando il padrone di casa. Avvistai un lampo di stoffa blu e capii subito. Comparvero tre carabinieri italiani in uniforme, con le armi puntate su di me. «Le mani ferme sui fianchi» mi ordinò uno di loro. Poi entrarono nella sala, disposti nella tipica formazione degli interventi di emergenza. A quel punto la mia pistola era del tutto inutile: erano in troppi. Orlov arretrò fino a mettersi contro una parete, come se volesse togliersi dalla linea di fuoco. «È in arresto» disse un altro carabiniere. «Non si muova.» Rimasi lì stordito, confuso. Come poteva essere successo? Chi li aveva chiamati? Non capivo. Finché vidi il piccolo pulsante nero d'allarme inserito nella grossa gamba in quercia del tavolo, nel punto in cui posava sul pavimento in cotto. Il tipo di pulsante che si può far funzionare con un piede, come fanno i cassieri di banca, non visti, per chiamare la polizia. Senza fare rumore, Orlov aveva fatto scattare un allarme in un posto lontano. Nella fattispecie, avevo moti-
vo di pensare, presso il comando della polizia di Stato a Siena, il che spiegava come mai ci avessero messo così tanto ad arrivare. Guardie senza dubbio assegnate a questo misterioso emigrato "tedesco" che aveva bisogno di una protezione di prim'ordine. Il modo in cui Orlov mi era saltato addosso, l'unica sua goffa mossa. Sapeva che lo avrei spinto a terra, consentendogli di girarsi su se stesso e di azionare il pulsante d'emergenza con una mano, un ginocchio o un piede. Però c'era qualcosa che non andava. Gettata un'occhiata all'ex capo del KGB vidi che era terrorizzato. Da che cosa? Mi stava guardando. «Segua l'oro» mi disse. Che cosa intendeva dire, esattamente? «Il nome» gli chiesi in risposta. «Mi dica il nome.» «Non posso pronunciarlo» rispose, sventolando disperatamente le mani a indicare i carabinieri. «Quelli lì...» Sì, certo che non poteva pronunciarlo ad alta voce. Non di fronte a quegli uomini. «Il nome» ripetei. «Lo pensi!» Lui mi guardò, confuso, disperato. Poi si rivolse ai carabinieri. «Dove sono i miei uomini?» chiese. «Che cosa avete fatto a...» E all'improvviso parve scattare verso l'alto. Si sentì un rumore lacerante, che riconobbi immediatamente. Voltatomi, vidi che uno dei carabinieri gli puntava addosso un fucile mitragliatore, il cui fuoco automatico gli stava aprendo una grottesca falce nel torace. Le braccia e le gambe ebbero qualche ultima furiosa contrazione, mentre esplodeva un ultimo, orrendo urlo. Il sangue schizzò dappertutto, spargendosi sul pavimento, sulle pareti, sul tavolo lucidato. Orlov, con la testa staccata dal corpo, era rannicchiato in un ammasso di carne sanguinolenta. Una visione da incubo. Esplosi in un involontario urlo di orrore. Per quanto sapessi di essere in forte inferiorità numerica avevo spianato la pistola. Ma che senso aveva? Il silenzio calò improvviso su di noi. Il fuoco del fucile mitragliatore era cessato. Stordito, alzai le mani e mi arresi. 38 I carabinieri mi trascinarono ammanettato oltre il portale a volta di Castelbianco e poi, lentamente, verso uno sgangherato furgone blu con targa militare. Sembravano carabinieri, e come tali erano vestiti, ma ovviamente non lo
erano affatto. Erano assassini... ma al soldo di chi? Stordito dall'orrore, non riuscivo a pensare con lucidità. Orlov aveva chiamato i suoi uomini, per avere la sorpresa di vedere arrivare questi. Ma chi erano? E perché non avevano ammazzato anche me? Uno di loro disse qualcosa sottovoce in italiano. Gli altri due, standomi addosso sui due lati, annuirono e mi spinsero nel retro del furgone. Non era il momento di agire, di fare mosse brusche, per cui obbedii. Uno dei carabinieri mi si sedette davanti nel retro del furgone, mentre un altro si metteva al volante e il terzo montava la guardia dal sedile anteriore. Nessuno di loro parlava. Osservai il mio guardiano, un giovane grassoccio dall'aria arcigna. Era seduto a circa mezzo metro da me. Mi concentrai. Non "sentii" niente, soltanto il rombo smorzato del motore sulla strada in terra battuta fuori del castello. O così presumevo, visto che nel retro del furgone non c'erano finestrini. I polsi, ammanettati in grembo, mi si stavano irritando. Cercai di nuovo di svuotarmi del tutto la mente, di concentrarmi. Nel corso dell'ultima settimana era diventato una specie di riflesso condizionato. Liberavo il più possibile la mente da qualsiasi pensiero che potesse distrarla, rendendola una sorta di lastra vuota, un recipiente. Dopo di che sentivo i frammenti di pensiero nella ben nota tonalità leggermente alterata che indicava che non stavo sentendo nulla di pronunciato a voce alta. Resi la mia mente il più possibile vuota, ricettiva, e dopo qualche istante... "sentii" il mio nome... e poi qualcos'altro che mi parve familiare... nel vago modo ondeggiante che mi diceva che si trattava di pensieri. In inglese. Il giovane stava pensando in inglese. Non era affatto un carabiniere. E nemmeno italiano. «Chi sei?» gli chiesi. Sollevò gli occhi a guardarmi, tradendo soltanto per un attimo la sua sorpresa, quindi scrollò le spalle in silenzio, con aria ostile, come se non capisse. «Il tuo italiano è ottimo» incalzai. Il motore si fece meno rumoroso, poi tacque del tutto. Ci eravamo fermati da qualche parte. Non potevamo essere lontani dal castello - avevamo viaggiato soltanto qualche minuto -, per cui mi chiesi dove mi avessero portato.
Le portiere del furgone si aprirono scorrendo sulle guide e gli altri due montarono. Mentre uno mi teneva sotto la minaccia di un'arma, l'altro mi fece cenno di stendermi sul pavimento. Quando lo ebbi fatto, cominciò ad attaccarmi alle caviglie delle cinghie nere di nylon. Cercai di renderglielo il più possibile difficile, scalciando e torcendomi. Ma lui riuscì a fissarle con un fermaglio di velcro, legandomi insieme i piedi. Fu a quel punto che scoprì la seconda pistola, nascosta in una fondina attaccata al mio polpaccio sinistro. «Ne aveva una seconda, ragazzi» disse in tono di trionfo. In inglese. «Speriamo che non ce ne siano altre» commentò quello che sembrava il capo. La sua voce era profonda, raspante, rauca di fumo di sigaretta. «No, non ce ne sono» replicò l'altro, facendomi scorrere le mani lungo le gambe e le braccia. «Benissimo» disse il capo. «Siamo suoi colleghi, Ellison.» «Me lo dimostri» ribattei, steso sulla schiena. Non vedevo altro che la luce del tettuccio, sopra di me. Nessuna risposta. «Può crederci o meno» rispose il capo. «Per noi non fa nessuna differenza. Dobbiamo soltanto chiederle un paio di cose... e se sarà completamente sincero non avrà nulla di cui preoccuparsi.» Mentre parlava, avvertii qualcosa di freddo e liquido scorrermi sulle braccia nude e poi sul viso, sul collo, sulle orecchie: mi stavano spalmando di un liquido vischioso con un pennello. «Sa che cos'è?» chiese il capo. Sentii un gusto dolce sul margine della bocca. «Posso immaginarlo.» «Bene.» Quindi tutti e tre insieme mi trascinarono fuori dal buio del furgone, nella luce accecante del giorno. Inutile ribellarsi. Non avrei ottenuto nessun risultato. Guardandomi attorno mentre venivo trascinato, vidi alberi, cespugli, un po' di filo spinato. Eravamo ancora nel parco di Castelbianco, non lontano dall'ingresso, di fronte a una delle casette in pietra che avevo visto arrivando. Venni posato a terra. Sentii un odore di terra argillosa e poi un altro, marcescente, di spazzatura in putrefazione, e capii dov'ero. Poi il capo disse: «Non deve fare altro che dirci dov'è l'oro». Steso di schiena sul terreno, la nuca fredda per il contatto con il suolo umido, risposi: «Orlov non ha voluto collaborare. Sono riuscito a mala pe-
na a parlare un po' con lui». «Non è vero, Ellison» intervenne uno di loro. «Lei non è sincero.» E mi abbassò verso il viso un oggettino luccicante, che capii essere un bisturi affilato come un rasoio, tanto che chiusi istintivamente gli occhi. "Dio, no. Non farlo." Sentii una rapida strisciata sulla guancia. Lo shock del metallo gelido. Poi un forte dolore, come prodotto da un ago. «Non vogliamo tagliuzzarla troppo» intervenne il più anziano. «Su, ci risponda. Dov'è l'oro?» Mi sentii colare sulla destra della faccia qualcosa di caldo e appiccicoso. «Non ho idea» risposi. Il bisturi ora era appoggiato sulla guancia sinistra, freddo e stranamente gradevole. «Mi spiace doverlo fare, Ellison, ma non abbiamo scelta. Di nuovo, Frank.» «No!» ansimai. «Dov'è?» «Ve l'ho detto, non ho...» Un'altra strisciata. Prima fredda e poi calda. Sentii il sangue scorrermi sul viso, mescolandosi all'appiccicoso liquido esca di cui ero stato spalmato. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. «Lei sa perché lo facciamo, Ellison» riprese il capo. Cercai di girarmi sullo stomaco con una violenta torsione, ma mi stavano tenendo saldamente fermo in due. «Maledizione» sbottai. «Orlov non sapeva niente. Le risulta così difficile capirlo? Non sapeva niente. Quindi non so niente neanch'io.» «Non ci obblighi» ribatté il più l'anziano. «Sa che non ci tireremo indietro.» «Se mi lasciate andare, posso aiutarvi a trovarlo» mormorai. Fece un cenno con la pistola, e i due più giovani mi afferrarono, uno per i piedi e l'altro per la testa. Mi divincolai furiosamente, ma avevo scarse possibilità di movimento e quelli mi tenevano stretto. Venni buttato nella fredda, buia umidità della casetta in pietra, fetida del forte odore della spazzatura in avanzato stato di putrefazione. Avvertii una serie di fruscii. E anche un altro odore, acre, come di cherosene o benzina. «La spazzatura è stata portata via ieri» disse il più anziano, «Devono avere una bella fame.» Altri fruscii.
Un crepitare di plastica, poi altri fruscii, questa volta quasi frenetici. Sì, benzina o cherosene. Mi misero a terra, con i piedi legati. Nell'angusto, orrendo cubicolo, l'unica luce veniva dalla porta, contro cui vedevo stagliarsi il profilo dei due falsi carabinieri. «Che cosa diavolo volete?» urlai. «Ci dica semplicemente dov'è e la porteremo fuori di qui» rispose la voce rauca del capo. «Nient'altro.» «Oh, Dio» non potei fare a meno di esplodere. Non bisogna mai far trasparire la paura, ma in quel momento la mia era incontenibile. Una serie di graffi, altri fruscii. Dovevano essercene a dozzine. «Stando alla sua scheda personale,» continuò «lei avrebbe un'autentica fobia dei topi. Quindi, per favore, ci dia una mano e tutto sarà finito.» «Ve l'ho detto. Non sapeva niente.» «Chiudi, Frank» ordinò il capo. La porta della casetta in pietra fu chiusa di botto, sentii girare la chiave nella serratura. Per un attimo tutto fu nero come la pece, ma poi, a mano a mano che i miei occhi si abituavano al buio, ogni cosa assunse una tetra sfumatura ambra. Da tutto attorno arrivavano fruscii, rumore di animali che zampettavano. Diverse grosse sagome scure mi si accostarono da entrambi i lati. La pelle cominciò a formicolarmi. «Quando è pronto a parlare,» sentii dire da fuori «noi siamo qui.» «No!» urlai. «Vi ho detto tutto quello che so!» Qualcosa mi corse sui piedi. «Gesù...» Dall'esterno una voce rauca gridò: «Lo sapeva che i topi sono... come si potrebbe dire... "legalmente ciechi"? Agiscono quasi del tutto in base all'olfatto. La sua faccia, tra il sangue e il liquido dolce che le abbiamo spalmato addosso, costituirà per loro un'attrazione irresistibile. La rosicchieranno fino a ridurla alla disperazione». «Non so nient'altro» urlai. «E allora mi spiace molto per lei» ribatté la voce rauca. Sentii qualcosa di grosso, caldo e ruvido strofinarmisi sul viso, poi sulle labbra, e poi divennero diversi, e infine molti. Non potevo aprire gli occhi, ma sentivo dolorose punture sulle guance, taglienti, insopportabili, un rumore frusciante, come di carta. Una coda mi sbatacchiò contro l'orecchio, una zampa umida mi si posò sul collo. Soltanto la consapevolezza che i miei carcerieri erano lì fuori in attesa
che crollassi mi impedì di urlare tutta la mia terribile, ineffabile paura. 39 Chissà come - chissà come! - ce la feci a conservare la lucidità. Riuscii a tirarmi in piedi, gettando a terra topi da ogni parte, spazzandomeli via dal viso e dal collo con le mani. Nel giro di pochi minuti mi tolsi le cinghie di nylon, ma tutto ciò poteva servire a ben poco, come gli uomini seduti lì fuori sapevano senza dubbio benissimo: l'unica via per uscire da quella massiccia struttura in pietra era la porta, che però era chiusa con una robusta serratura. Andai in cerca a tentoni di una pistola, finché mi ricordai che me le avevano portate via entrambe. Mi rimanevano soltanto alcune cartucce fissate con nastro adesivo a una caviglia, sotto le calze, ma, ovviamente, senza un'arma in cui caricarle per fare fuoco, non servivano a niente. Quando i miei occhi si furono abituati al buio, individuai la fonte dell'odore di carburante. A ridosso di una parete erano ammassati diversi bidoncini da cinque litri di benzina, in mezzo a un assortimento di strumenti agricoli. La "casa dei topi", come l'aveva chiamata il mio amico italiano, era sicuramente il deposito della spazzatura ma vi venivano messi anche i materiali per i lavori in corso di attuazione sulla proprietà di Orlov, sacchi in carta di cemento, contenitori in plastica di fertilizzante, rastrelli, spruzzatori, attrezzi per la malta, qualche pezzo sparso di compensato. Mentre i topi mi si affollavano attorno - mantenevo gli arti in costante movimento per impedire loro di tentare di arrampicarmisi addosso - esaminai quella limitata congerie di oggetti in cerca di una via d'uscita. Valutai che né un rastrello né gli altri attrezzi agricoli avrebbero retto un assalto alla porta rinforzata in acciaio. Lo strumento più ovvio per un attacco sembrava la benzina, ma un attacco a che cosa? Inoltre, con che cosa darle fuoco? Non avevo neanche un fiammifero. E comunque, anche se fossi riuscito a spargere la benzina e a darle in qualche modo fuoco, sarei semplicemente bruciato vivo. E gli unici a guadagnarci qualcosa sarebbero stati i miei carcerieri. Sarebbe stata una scemenza colossale. Eppure una soluzione doveva esserci. Sentii il ruvido baffo di un topo sul collo e rabbrividii. Da fuori una voce profonda cantilenò: «Non vogliamo altro che quell'informazione». La cosa più logica era inventarla, fingere di cedere e sputarla.
Ma non avrebbe mai funzionato. Se l'aspettavano certamente, avevano senza dubbio ricevuto istruzioni della massima precisione. Dovevo uscire di lì. Impossibile. Non ero Houdini. Eppure dovevo farcela. I topi, piccole creature brune dalle lunghe code scagliose, mi zampettavano attorno ai piedi emettendo lievi squittii. Erano dozzine. Alcuni si erano inerpicati sulle pareti, due di loro, su un sacco di fertilizzante da venticinque chili, mi saltarono addosso, avendo fiutato il sangue che mi si stava seccando sulle guance. Inorridito, allungai le mani per scacciarli. Uno mi morse sul collo. Mi misi a battere i piedi furiosamente, riuscendo a calpestarne alcuni. Capii bene che lì dentro non sarei sopravvissuto a lungo. La prima cosa a richiamare la mia attenzione fu il sacco di fertilizzante. Nella penombra riuscii a distinguere un'etichetta: CONCIME CHIMICO FERTILIZZANTE Gialla, romboidale, avvertiva che si trattava di un "ossidante", roba che di norma si usa per l'erba; trentatré per cento di azoto, diceva ancora l'etichetta. Mi avvicinai, strizzando gli occhi. Un derivato in uguale misura di nitrato di ammonio e nitrato di sodio. Un fertilizzante. Possibile...? Un'idea, se non altro. Le possibilità di riuscita non erano particolarmente elevate, ma valeva la pena di tentare. Un'altra via di scampo non c'era. Chinatomi, liberai dal nastro adesivo il caricatore per la Colt 45 che avevo sotto la calza sinistra. La pistola me l'avevano portata via, ma di quel sottile oggetto non si erano accorti. Era pieno, conteneva sette cartucce. Non un granché, ma potevano bastare. Le tirai fuori tutte e sette. La voce, da fuori, tornò a farsi sentire. «Si goda il resto della giornata, Ellison. E anche la notte.» Reprimendo l'orrore mi accostai a una parete, camminando sulle pietre del pavimento zeppo di topi. Infilai a una a una le cartucce in una crepa della malta; le sistemai ben in fila, con le punte grige e smussate che sporgevano. Trovai una vecchia pinza arrugginita. La serrai con cautela sulla punta di ciascuna cartuccia, tirando, torcendo sui due lati, fino a far uscire la pallot-
tola dal bossolo. Il proiettile, la parte che fa il lavoro sporco, quella che viene sparata contro il bersaglio. Ma non mi serviva a niente, a me occorreva ciò che rimaneva nel bossolo: la carica e il fulminante. Un trio di topi mi stava girando fra i piedi, uno mi arrivò fino al ginocchio, artigliando il tessuto della camicia nel tentativo di aprirsi un varco verso il mio volto. Ebbi un fremito di terrore, rabbrividii e li presi a manate, riuscendo a sbatterli sul pavimento. Ripresomi a fatica, recuperai a uno a uno i bossoli di ottone dalla fessura nella parete, versando lentamente il piccolo quantitativo di carica su un pezzo di carta che avevo stracciato da uno dei sacchetti di cemento. Tra tutte e sette mi consentirono di accumularne un bel mucchietto, una sostanza color grigio scuro fatta di minuscole sfere irregolari di nitrocellulosa e nitroglicerina. Il passo di gran lunga più rischioso era il successivo. Ovvero le capsule di nickel inserite nel fondo di ogni cartuccia, che contengono una piccola quantità di tetracene, una sostanza fortemente esplosiva. Oggettini sensibilissimi alla forza percussiva. Mentre lì, al buio, obbligato com'ero a scuotermi in tutte le membra e circondato da una marea di topi aggressivi, la mia concentrazione non era al massimo. Eppure dovevo procedere con grande cautela. Ispezionai la casetta in pietra in cerca di qualcosa che potesse servirmi da trapano, ma non trovai nulla di nemmeno approssimativamente simile. Una ricerca attenta in ogni buio angolo dell'angusto locale avrebbe forse anche potuto farmi scovare qualcosa di utilizzabile, ma non ebbi il coraggio di infilare le mani nude in una nicchia brulicante. Non sono orgoglioso del terrore che ho dei topi, ma abbiamo tutti le nostre fobie, e penso si possa essere d'accordo che la mia non era del tutto irragionevole. Avrei dovuto accontentarmi della penna a sfera che avevo in tasca, ma poteva bastare. Ne tolsi la cartuccia. Con grande, grande cautela ne infilai la punta nella bocca del bossolo, facendo uscire da sotto la prima capsula fulminante. La seconda uscì molto più agevolmente, e nel giro di qualche minuto ne estrassi sei, lasciando un solo bossolo intatto. In quel momento mi sentii strusciare sull'attaccatura della nuca qualcosa di asciutto e scaglioso, che mi fece rabbrividire. Lo stomaco mi si contrasse di colpo. Feci scivolare le sei capsule fulminanti nel bossolo lasciato intatto, sistemandole una sopra l'altra e nello spazio rimasto libero versai il muc-
chietto di esplosivo, comprimendo il tutto con l'indice. Ora disponevo di una piccola bomba. A quel punto trovai uno dopo l'altro un frammento di compensato che poteva andare bene per le mie esigenze, un pezzo di tubo (arrugginito), una bottiglietta, uno straccio, una grossa pietra e un lungo chiodo quasi diritto. Una ricerca che occupò diversi minuti simili a un'eternità, con i topi che si torcevano sul terreno formando quello che mi sembrava un tappeto mobile di nefando orrore. Lo stomaco rimaneva contratto in un duro, doloroso groppo di tensione. Mi resi conto che rabbrividivo quasi senza interruzione. Con la pietra martellai il chiodo dentro il pezzo di compensato fino a far sporgere appena la punta dall'altra parte. Ora il fertilizzante. Dei diversi sacchi da venticinque chili ce n'erano due con un tenore di azoto che andava dal diciotto al ventinove per cento, uno invece arrivava al trentatré: scelsi quest'ultimo. Lo aprii lacerandolo e ne cavai una manciata di prodotto che versai su un altro grosso pezzo di carta strappata da un sacchetto di cemento. Una piccola schiera di topi arrivò fino alla base del mucchio, i baffi frementi di curiosità e brama. Li cacciai via menando botte con la bottiglietta. I loro corpi erano molto più sodi e muscolosi di quanto pensassi. Se avessi dovuto parlare non sarei riuscito a farlo, tanto ero paralizzato dalla paura, ma in qualche modo il sistema nervoso mi faceva continuare a lavorare quasi come un robot. Usando la bottiglietta a mo' di mattarello sopra i morbidi, tondeggianti grumi di fertilizzante li ridussi a una polvere sottile. Ripetuto diverse volte il procedimento, ottenni un bel mucchio ben polverizzato. In condizioni ideali quel passo non sarebbe stato necessario, ma quelle in cui mi trovavo erano tutt'altro che ideali. Tanto per cominciare, l'agente sensibilizzante avrebbe dovuto essere nitrometano, il liquido azzurro usato dai fanatici dei motori elaborati per aumentare il numero di ottani del carburante. Ma lì attorno non c'era niente di simile. Soltanto benzina, che avrei dovuto far bastare anche se era molto meno efficace. Quindi il minimo che potessi fare era ridurre in polvere il fertilizzante azotato, diminuendo il diametro dei grumi e spargendolo su una superficie quanto più vasta in modo da aumentarne la reattività. Tolto il tappo a uno dei bidoncini, versai con delicatezza la benzina sul fertilizzante polverizzato. La calca dei topi fu pervasa da una grande agitazione: avvertendo il pericolo scapparono via in una serie di ributtanti piroette, appiattandosi sul fondo del locale.
Fremente, versai il fertilizzante così sensibilizzato nel rugginoso pezzo di tubo, che chiusi a un'estremità inserendovi un sasso grosso quanto bastava per tapparlo completamente. Era un tubo del diametro di un centimetro e mezzo circa, abbastanza adatto per le mie esigenze. Infine inserii a forza nel nitrato la cartuccia che avevo preparato. Ma una volta controllato tutto il lavoro che avevo fatto mi sentii prendere da un improvviso accesso di disperazione, dalla sconfortante sensazione che quella bomba rudimentale non avrebbe funzionato. Gli ingredienti di base c'erano, ma il risultato era una cosa del tutto imprevedibile, data la fretta con cui avevo dovuto assemblarla. Comunque fosse, chiamata a raccolta tutta l'energia di cui disponevo, feci penetrare a forza il tubo in una fessura nella vecchia malta che teneva insieme due pietre della parete. Una fessura molto stretta. Sì. Avrebbe anche potuto funzionare. E se non fosse stato così? Se invece di esplodere fosse deflagrata, l'impresa sarebbe fallita miseramente, riempiendo quell'angusto spazio di fumi tossici che mi avrebbero travolto, se non addirittura ucciso. C'era anche la possibilità che un inceppamento del tubo mi mutilasse o accecasse, se non peggio. Il pezzo di compensato lo applicai al tubo esplosivo sporgente, in modo che il chiodo arrivasse appena a toccare la base della cartuccia. Quindi, trattenendo il fiato, con il cuore che martellava furiosamente, mi avvolsi lo straccio attorno agli occhi e sollevai la pietra che qualche istante prima avevo usato come martello. La tenni così un attimo, direttamente davanti alla capocchia del chiodo piantato nel compensato. Infine, ritiratala di circa mezzo metro, la scagliai con grande forza contro la capocchia. L'esplosione fu spaventosa, incredibilmente forte, un tuono. Di punto in bianco tutto ciò che c'era attorno a me divenne un incubo dalle tonalità giallastre, visibile anche attraverso il sudicio straccio che mi ero avvolto sugli occhi, una furibonda tempesta di pietre e fuoco, una cateratta di shrapnel. Tutto il mio mondo si convertì in una palla infuocata, e fu l'ultima cosa che mi rimase in mente. QUINTA PARTE Zurigo
Le Monde La Germania elegge cancelliere moderato Il travagliato Paese dice no al neofascismo scegliendo il centrista Wilhelm Vogel. Sollievo nelle altre capitali DA BONN, JEAN-PIERRE REYNARD L'Europa non teme più un ritorno del nazismo. In Germania, infatti, nonostante la gravissima situazione economica, gli elettori hanno votato massicciamente per... 40 Bianco, chiarissimo, più bianco del bianco, ne presi coscienza. Non dell'assenza di colore ma di un bianco ricco e cremoso che mi infondeva quiete con il suo silenzio e la sua radiosità. Poi mi resi conto di un lieve mormorare di voci, distante. Mi sembrava di fluttuare su una nuvola roteando su me stesso, anche se in realtà non sapevo in quale momento mi trovassi con la testa all'ingiù, ma non me ne importava niente. Altri mormorii. Avevo appena aperto gli occhi, che sembravano incollati da un'eternità. Cercai di mettere a fuoco le figure mormoranti che intravedevo davanti a me. «È rinvenuto» sentii dire. «Ha aperto gli occhi.» A poco a poco, ciò che mi circondava si mise a fuoco. Ero in una stanza completamente bianca, coperto da lenzuola bianche, ruvide, di mussola; le braccia, ovvero l'unica parte del corpo che potevo vedere, erano coperte di bende altrettanto bianche. Quando lo sguardo fu a fuoco vidi che la camera era una stanza spartana con le pareti tirate a calce. Mi trovavo probabilmente in una fattoria, o qualcosa del genere. Ma dove? Una flebo mi entrava nel braccio sinistro, ma non mi sembrava di essere in un ospedale. «Mr. Ellison?» mi sentii chiamare da una voce maschile. Cercai di grugnire qualcosa, ma non parve uscirmi di bocca nulla.
«Mr. Ellison?» Nuovo tentativo di grugnito. E ancora una volta pensai che non fosse venuto fuori nulla, ma forse mi sbagliavo. Dovevo avere prodotto qualche tipo di suono perché la voce - che si esprimeva in un inglese accentato esclamò: «Oh, Dio!». E finalmente vidi che a parlare era un uomo di bassa statura, dal viso affilato, con la barba accuratamente spuntata e due caldi occhi bruni. Portava un rozzo maglione grigio fatto a mano e un paio di comodi pantaloni dello stesso colore sopra a due consunte scarpe di cuoio. Aveva una discreta pancia, era agli inizi della mezza età. Mi porse di scatto una mano morbida, grassoccia, che strinsi. «Mi chiamo Boldoni» disse. «Massimo Boldoni.» «Dove...» replicai con grande fatica. «Sono un medico, Mr. Ellison, anche se non sembra.» Parlava inglese con un morbido accento italiano. «Non ho il camice perché la domenica di solito non lavoro. Quanto alla sua domanda, lei è a casa mia. Abbiamo diverse stanze libere.» Doveva avere visto l'espressione confusa del mio volto perché spiegò: «Questo è un podere, una vecchia fattoria, e mia moglie ne ha fatto una pensione, il Podere Capra». «Io non...» cercai di dire «non capisco...» «Se la sta cavando abbastanza bene, considerato quello che le è capitato.» Abbassai lo sguardo sulle braccia bendate e poi tornai a guardarlo. «È stato molto fortunato» continuò. «Avrebbe potuto subire una lesione all'udito. Invece ha soltanto qualche ustione alle braccia, da cui dovrebbe guarire in fretta. Non sono gravi, pochissima pelle è bruciata, come vedrà. Lei è un uomo fortunato. I suoi indumenti si sono incendiati, ma lei è stato trovato prima che il fuoco potesse provocarle eccessivi danni.» «I topi» dissi. «Non ci sono tracce di rabbia o di altro del genere» rispose. «Le sono stati fatti tutti gli esami del caso. I nostri topi toscani appartengono a una variante sana. I morsi superficiali sono stati medicati e guariranno molto in fretta. Potrà rimanerle qualche leggera cicatrice, ma nient'altro. Le sto facendo una flebo con morfina per evitarle il dolore, ed è per questo che probabilmente le sembra di volare, vero?» Annuii. Una sensazione davvero piacevole, nessun dolore. Avrei voluto chiedergli chi fosse e come mai fossi finito lì, ma trovavo difficile articola-
re le parole, sembravo in preda a un'inerzia totale. «Ne ridurrò gradualmente il quantitativo. Ma adesso ci sono alcuni suoi amici che vorrebbero vederla.» Fece dietrofront e picchiò alcuni leggeri colpi su una porticina arrotondata, che si aprì. Prese congedo. Sentii un fremito in gola. Su una sedia a rotelle, con un'aria molto stanca e abbattuta, mi vidi davanti Toby Thompson. E di fianco a lui c'era Molly. «Oh, Dio, Ben» esclamò mia moglie, precipitandosi verso di me. Non l'avevo mai vista così bella. Indossava una gonna marrone di tweed, una camicetta bianca, il filo di perle che le avevo comperato da Shreve's e il cammeo portafortuna d'oro con doppiofondo che le aveva regalato suo padre. Ci baciammo a lungo. Poi mi scrutò attentamente, con gli occhi pieni di lacrime. «Ero... eravamo... tanto preoccupati. Mio Dio, Ben.» E mi prese entrambe le mani. «Come avete fatto, voi due... ad arrivare qui?» riuscii a chiedere. Sentii il ronzìo della carrozzina di Toby che si avvicinava. «Temo che siamo arrivati un po' tardi» rispose Molly, serrandomi entrambe le mani. Il dolore mi costrinse a una smorfia, tanto che ritirò le sue di scatto. «Mi spiace molto.» «Come stai?» chiese Toby. Era in completo blu sopra uno sfavillante paio di scarpe ortopediche. I capelli bianchi erano in perfetto ordine. «Lo vedremo quando mi avranno tolto gli antidolorifici» risposi. «Dove sono?» «A Greve in Chianti.» «Il medico...» «Massimo è una persona di assoluta fiducia» rispose Toby. «Lo teniamo a libro paga... caso mai dovessero servirci le sue prestazioni professionali. E ogni tanto il Podere Capra lo usiamo come safe house.» Molly mi posò una mano su una guancia come se non riuscisse a credere che fossi veramente lì davanti a lei. Osservandola con più attenzione vidi che era esausta, sotto gli occhi arrossati c'erano due profonde borse nere che aveva tentato di nascondere con il trucco. Ma nonostante tutto era bella. Si era messa Farcas, il mio profumo preferito; la trovavo irresistibile, come sempre. «Ho sentito tanto la tua mancanza» disse.
«Anch'io, piccola.» «Non mi avevi mai chiamato così» si stupì. «Non è mai troppo tardi» borbottai «per imparare una nuova espressione di affetto.» «Non la smetti mai di impressionarmi» interloquì Toby. «Non so come tu abbia fatto.» «A fare che cosa?» «Come tu sia riuscito a far saltare una breccia in quella casetta di pietra. Se non lo avessi fatto, adesso saresti probabilmente morto. Quei tipi erano prontissimi a lasciarti lì finché non fossi stato divorato vivo o, più probabilmente, morto di paura. E, se non ci fosse stata l'esplosione, i nostri uomini non avrebbero saputo dove cercarti.» «Non capisco» replicai. «Come facevate a sapere dov'ero?» «Un passo alla volta» ribatté. «A localizzare la tua chiamata da Siena ci abbiamo messo otto secondi.» «Otto? Io ero convinto...» «Da quando hai abbandonato il servizio, la nostra tecnologia delle telecomunicazioni è molto migliorata. E puoi benissimo verificare che sto dicendo la verità. Se vuoi posso venirti più vicino.» Per il momento mi bastava il suo tono di sicurezza. E in ogni caso, anche se avessi voluto, ero troppo intontito per poter concentrare la mente. «Non appena abbiamo scoperto dov'eri risalendo alla fonte della telefonata, cioè a Siena, siamo riusciti ad arrivare qui.» «Grazie a Dio» intervenne Molly. Intanto continuava a tenermi strette entrambe le mani, quasi temesse che potessi scappare via. «Ho immediatamente ordinato la liberazione di Molly e siamo volati a Milano, accompagnati da alcuni uomini della sicurezza... caso mai potessero servire.» E diede una botta con entrambe le braccia sulla carrozzina. «Non è molto facile andare in giro con uno di questi aggeggi: non si può dire che in Italia abbiano una grande passione per le rampe di accesso per i disabili. Comunque sia, avevamo istallato un buon sistema di allarme. Ti ho mai detto che se si fa cadere anche una sola piccolissima goccia d'acqua davanti a un formicaio...» Esplosi un gemito. «Risparmiami le formiche, Toby. Mi manca la forza.» Ma lui continuò, ignorando la mia interruzione: «... le formiche operaie si precipitano per tutto il formicaio correndo in un modo particolare per dare l'allarme, per avvertire della possibile minaccia d'inondazione, indi-
cando persino le uscite di sicurezza. In meno di mezzo minuto la colonia comincia l'evacuazione del formicaio». «Affascinante» dissi, senza molta convinzione. «Perdonami, Ben. A volte divago. Comunque sia, tua moglie ha controllato da vicino il lavoro del dottor Boldoni, assicurandosi che tu venissi curato al meglio.» Mi rivolsi a lei. «Voglio la verità, Mol. Le mie ferite sono gravi?» Mi rispose con un sorriso mesto ma incoraggiante. Aveva gli occhi scintillanti di lacrime. «Guarirai, Ben. Davvero. Non è il caso che ti preoccupi.» «Sentiamo, allora. Che cosa ho?» «Ustioni di primo e secondo grado alle braccia» rispose. «Ti faranno male ma non sono gravi. Sono estese a non più del quindici per cento del corpo.» «Se non sono gravi, perché sono collegato a quella roba?» replicai, avendo notato per la prima volta che una benda particolare, attaccata all'estremità del mio indice, era di un color rosso baluginante, con un effetto tipo il dito di E.T. Sollevai la mano. «Che cosa diavolo è?» «Un ossimetro. La luce rossa è un raggio laser. Misura la saturazione dell'ossigeno nel tuo corpo, che viene mantenuta costante al novantasette per cento. Hai il polso un po' alto, sui cento, come del resto era prevedibile.» «L'esplosione ti ha provocato una leggera commozione cerebrale, Ben. Il dottor Boldoni temeva che potesse esserci qualche ustione interna, e avrebbe potuto essere un guaio: la trachea può gonfiarsi e, se non si è tenuti sotto costante osservazione, si può morire. Hai espulso qualcosa, tossendo, e lui ha temuto che fossero frammenti di trachea carbonizzata. Ma ho controllato e, grazie a Dio, era soltanto fuliggine. Possiamo escludere la presenza di ustioni interne, ma c'è stata una certa inalazione di fumo.» «La cura, dottoressa?» «Ti curiamo con le flebo. Ioni K in soluzione fisiologica. Venti ogni duecento mi di soluzione, ogni ora.» «Traduci, per favore.» «Scusa, si tratta di potassio. Volevo essere sicura di idratarti bene, di fornirti moltissimi fluidi. La medicazione ti dovrà essere cambiata ogni giorno. Quella roba bianca che vedi sotto le bende è pomata Silvidene.» «Sei fortunato ad avere al seguito il tuo medico personale» commentò Toby.
«Inoltre, avrai bisogno di molto riposo a letto» concluse Molly. «Quindi ti ho portato un po' di roba da leggere.» E mi porse un fascio di riviste. Sopra a tutte c'era un Time con in copertina un primo piano di Alex Truslow. Ottimo aspetto, pieno di vigore, anche se il fotografo sembrava avere fatto di tutto per mettere in evidenza le borse sotto gli occhi. CIA IN CRISI, diceva il titolo di copertina. E più sotto: UNA NUOVA ERA. «Sembra che non dorma da dieci anni» osservai. «La foto successiva gli rende più giustizia» replicò Toby. E aveva ragione. Dalla copertina del New York Times Magazine, Alex Truslow, gli argentei capelli in un ordine perfetto, sorrideva orgogliosamente. SAPRÀ... SALVARE LA CIA? chiedeva il titolo. Posai la pila di riviste, sorridendo orgogliosamente anch'io. «Quando arriverà la conferma del Senato?» «C'è già stata» rispose Toby. «Il giorno dopo la nomina. Il presidente ha convinto la commissione senatoriale per l'intelligence che da quelle parti abbiamo bisogno al più presto di un direttore a tempo pieno, e lunghe procedure avrebbero soltanto provocato agitazione. È stato confermato quasi all'unanimità. Esclusi due voti, credo.» «Fantastico» esclamai. «Scommetto che so chi sono i due contrari.» E dissi i nomi dei due esponenti più chiacchierati della destra nella commissione, entrambi del Sud. «E così» confermò Toby. «Ma questi due pagliacci non sono niente in confronto ai veri nemici.» «Dentro l'Agenzia» precisai. Annuì. «Ma dimmi una cosa. Chi erano quei banditi travestiti da guardie italiane?» «Non sappiamo ancora. Americani. Mercenari privati, secondo me.» «Dell'Agenzia?» «Se sono dipendenti della CIA, vuoi dire? No, non risultano da nessuna parte. Sono... sono rimasti uccisi. C'è stata una... sparatoria piuttosto furibonda. Abbiamo perso due uomini in gamba. Adesso stiamo esaminando con i computer impronte, foto e altre caratteristiche salienti per vedere se salta fuori qualcosa.» Gettò un'occhiata all'orologio. «E adesso...» Un telefono su un tavolo vicino si mise a suonare. «Dovrebbe essere per te» disse.
41 Era Alex Truslow. Il collegamento era buono, la sua voce mi arrivava così chiara che doveva essere amplificata elettronicamente, il che significava che la linea era sterile. «Grazie a Dio sta bene» disse. «Grazie a Dio e agli uomini che mi ha mandato dietro» risposi. «Però sulla copertina di Time ha un'aria un po' malandata, Alex.» «Margaret dice che sembro appena imbalsamato. Forse scelgono foto così poco lusinghiere proprio perché si chiedono se ci sarà una nuova era e concludono: neanche per idea, questo tipo non può essere all'altezza. Sa, un vecchio fossile come me. La gente vuole sempre sangue fresco.» «Be', si sbagliano. Congratulazioni per la conferma.» «Veramente, per imporla, il presidente ha dovuto torcere qualche braccio. Comunque, ciò che più conta, Ben, è che la rivoglio qui.» «Perché?» «Dopo quello che le è capitato...» «Non ho ancora niente da riferire» confessai. «Lei mi ha parlato di una fortuna... siamo su una linea sicura, eh?» «Senza dubbio.» «Okay. Lei mi ha parlato di una fortuna, e per di più scomparsa, ma non avevo idea delle dimensioni. Né delle sue origini.» «Le spiacerebbe ragguagliarmi in merito?» «Adesso?» E rivolsi uno sguardo interrogativo a Toby. Lui a sua volta ne scoccò un altro a Molly, chiedendole: «Le spiacerebbe molto lasciarci parlare un attimo a quattr'occhi?». Molly aveva gli occhi arrossati e gonfi. Le lacrime presero a colarle sulle guance. Gli rispose con uno sguardo di sfida. «Sì. Moltissimo.» «Allora, Ben?» chiese Alex dall'altro capo della linea. «Il problema è che dobbiamo addentrarci in certe questioni di natura tecnica, piuttosto noiose...» insistette Toby. «Mi spiace» ribatté Molly freddamente. «Io non me ne vado. Siamo compagni di vita, Ben e io, e non mi lascio tagliare fuori.» Seguì una lunga pausa di silenzio, che Toby interruppe concludendo amabilmente: «Così sia. Ma devo contare sulla sua discrezione...». «Ci conti.» Dopo di che, al telefono come al tempo stesso a lei e a Toby, riferii il succo di ciò che mi aveva detto Orlov. E mentre parlavo potei vedere lo
sbalordimento dipingersi sul viso dei due ascoltatori presenti. «Dio del cielo!» ansimò Truslow. «Adesso capisco. È una notizia splendida. Hal Sinclair non era affatto invischiato in un'impresa criminale. Stava cercando di salvare la Russia. Certo. E adesso, per favore, la rivoglio qui.» «Perché?» «In nome di Dio, Ben, questi uomini che l'hanno sottoposta a una tortura così orrenda... potrebbero essere stati al soldo della fazione.» «Dei Saggi?» «Sembrerebbe. Non può essere altrimenti. Hal dev'essersi confidato con qualcuno. Qualcuno che contava lo aiutasse a elaborare nei dettagli il piano per l'oro. Qualcuno che invece faceva il doppio gioco. Altrimenti quella gente come avrebbe potuto venire a sapere dell'oro?» «Qualche cosa poco pulita a Boston?» «Possibile. Anzi, direi addirittura probabile.» «Ma questo non spiega Roma» replicai. «Van Aver, già» convenne. «E lei continua a chiedermi perché la rivoglio qui?» «Che cosa c'è dietro quella storia?» «Non ho idea. Non vi è nessuna prova di un collegamento con i Saggi, anche se non posso escluderlo. Certamente, chiunque sia stato a uccidere Van Aver era a conoscenza dei particolari del previsto incontro tra voi due. Può darsi ci sia stata qualche fuga di notizie dai cablogrammi scambiati tra Roma e Washington... O sul posto.» «Sul posto?» «Mettendo sotto controllo il telefono di Van Aver, o forse persino i telefoni di tutti gli addetti alla sede di Roma. Sa, con ogni probabilità noi due stiamo parlando di uno degli ex compagni di Orlov. Potremmo non arrivare mai a scoprirlo con certezza. È una scommessa, come lei sa benissimo.» «Cioè?» «Un tempo, di fronte all'opportunità di dirigere la CIA avrei fatto i salti di gioia. Avrei dato qualsiasi cosa. Mentre adesso... adesso che la direzione mi è stata affidata... mi sembra una trappola mortale. Le persone potenti che non mi vogliono in quel posto sono veramente troppe. Mi sembra proprio una trappola mortale.» «Sei riuscito a leggere i pensieri di Orlov?» mi chiese Toby non appena ebbi appeso. Annuii. «Però c'è un piccolo problema. Orlov era nato in Ucraina.» «Ma parlava in russo» obiettò Toby.
«È la sua seconda lingua. Quando mi sono reso conto che pensava in ucraino, ho creduto di essere fottuto. Un brutto intoppo. Ma poi mi è venuta in mente una cosa. Quel tale dell'Agenzia che mi ha sottoposto ai test, il dottor Mehta, ha suggerito l'ipotesi che forse io non ricevo i pensieri in sé ma onde radio di frequenza estremamente bassa emesse dal centro del cervello preposto al linguaggio. In realtà sentirei le parole che il cervello prepara perché siano pronunciate... o non pronunciate. Quindi durante la nostra conversazione ho continuato a passare dall'inglese al russo e viceversa, sapendo che Orlov li parlava entrambi. E questo mi ha messo in grado di capire ciò che pensava, perché la sua mente traduceva in inglese ciò che lui pensava in ucraino.» «Già» disse Toby, annuendo. «Già.» «E gli ho fatto diverse domande, sapendo che, qualsiasi cosa avesse deciso di dire, se non altro le risposte le avrebbe pensate.» «Ottimo» commentò. «A volte» continuai «cercava con tanta forza di non rispondere che arrivava a pensare in inglese le parole che non voleva dire.» L'antidolorifico aveva cominciato a fare effetto, per cui trovavo difficile concentrarmi. Niente mi sarebbe piaciuto di più che addormentarmi e andare avanti a dormire per qualche giorno. Toby si agitò sulla carrozzina, poi si avvicinò un po' manovrando una leva. La carrozzina reagì con un leggero ronzìo. «Ben,» disse «qualche settimana fa un ex colonnello della vecchia Securitate» - la polizia segreta rumena del defunto dittatore Ceausescu - «si è rivolto a un backstopper che conosciamo bene.» Intendeva dire che si era rivolto a un falsificatore di quelli che preparano documenti falsi di copertura per gli agenti che operano in proprio. «E questi a sua volta si è rivolto a noi.» Aspettai che continuasse, e dopo una non brevissima pausa lo fece. «Abbiamo beccato il rumeno. E dopo un duro interrogatorio abbiamo scoperto che era a conoscenza di un complotto per ammazzare alcuni funzionari di alto rango dell'intelligence americana.» «Organizzato da chi?» «Non sappiamo.» «E contro chi?» «Non sappiamo neanche questo.» «Pensate che ci sia un collegamento con l'oro fatto sparire?» «È possibile. Adesso però dimmi una cosa. Orlov ti ha rivelato dove sono stati sistemati i dieci miliardi di dollari?»
«No.» «Credi che lo sapesse e che non abbia voluto dirtelo?» «No» ripetei. «Non ti ha dato un codice di accesso o qualcosa del genere?» Era visibilmente deluso. «Non è possibile che in realtà Sinclair abbia messo in atto un bidone colossale? Capisci? Che abbia fatto credere a Orlov di essere d'accordo con questo progetto di spostare l'oro e poi...» «E poi che cosa?» interloquì Molly, fissandogli addosso uno sguardo di furente intensità. Sulle guance le erano comparse due piccole chiazze rosse, sapevo che aveva sentito più di quanto potesse tollerare. «Mio padre era un uomo meraviglioso» mormorò, quasi con un filo di voce. «È una brava persona. Il più onesto e corretto degli uomini. In nome di Dio, la cosa peggiore che si può dire di lui è che in realtà era troppo corretto.» «Molly...» attaccò Toby. «Ero in taxi con lui, a Washington, una volta che ha trovato un biglietto da venti dollari ficcato nel sedile. L'ha consegnato all'autista dicendo che forse chi l'aveva perso se ne sarebbe accorto e si sarebbe rivolto alla società dei taxi, o qualcosa del genere. "Papà, quel taxista se li metterà in tasca e chi si è visto si è visto" gli ho detto...» «Molly» ribatté Toby sfiorandole una mano, con uno sguardo addolorato. «Noi dobbiamo tenere conto di ogni possibilità, per quanto remota.» Molly tacque. Il suo labbro inferiore era in preda a un tremito. Scoprii che stavo cercando di sintonizzarmi sui suoi pensieri, ma era un po' troppo lontana e non disponevo dell'energia mentale necessaria. A essere franchi, non avevo nemmeno idea se disponessi ancora di quella singolare facoltà. Forse l'esperienza vissuta nella casa dei topi incendiata me l'aveva tolta improvvisamente com'era comparsa. Considerai che l'eventualità non mi sarebbe spiaciuta più di tanto. Qualsiasi cosa Molly stesse pensando, comunque, la pensava con grande passionalità. Ma potevo in ogni caso immaginare il suo tumulto intimo, al punto che avrei voluto saltare fuori dal letto per andare a confortarla. Mi addolorava moltissimo vederla in quello stato. Invece rimasi dov'ero, con le braccia bendate e la testa sempre più intontita. «Non credo, Toby» dissi in tono pensoso. «Molly ha ragione. Una simile ipotesi non concorda affatto con quanto noi due sappiamo del carattere di Hal.» «Quindi siamo al punto di prima» replicò. «No» ribattei. «Una dritta Orlov me l'ha data.»
«E cioè?» «"Segua l'oro" mi ha detto. "Segua l'oro." E intanto pensava il nome di una città.» «Zurigo? Ginevra?» «No. Bruxelles. E una soluzione si può trovare, Toby. Visto che il Belgio è notoriamente uno dei massimi mercati mondiali dell'oro, non può essere così difficile scoprire dove possano essere nascosti a Bruxelles dieci miliardi di dollari in oro.» «Provvedo a prenotarti il volo» disse Toby. «No!» esclamò Molly. «Ben non va da nessuna parte. Ha bisogno di almeno una settimana di riposo a letto.» Scossi stancamente il capo. «No, Mol. Se non chiudiamo il cerchio, il prossimo è Truslow. E poi toccherà a noi. Simulare "incidenti" è la cosa più facile del mondo.» «Lasciandoti uscire da quel letto violerei il giuramento di Ippocrate...» «Vada a farsi fottere il giuramento di Ippocrate» ribattei. «La nostra vita è in pericolo. C'è in ballo una fortuna immensa e, se non la troviamo... maledizione, non rimarrai qui per continuare a essergli fedele.» Quasi sottovoce sentii Toby aggiungere: «Sono d'accordo». Quindi, con un forte ronzìo elettrico, cominciò ad allontanarsi lentamente sulla sua carrozzina. La camera era immersa nel silenzio e nella pace. In città ci si abitua talmente ai rumori che si arriva a non sentirli più. In quel posto, invece, in una remota zona dell'Italia centrale, dall'esterno non ne arrivava nessuno. Dalla finestra, nella luce limpida di un pomeriggio toscano, vedevo un campo di alti girasole morti, lunghi gambi bruni raggrinziti e chini come tante file di pii fedeli. Toby ci aveva lasciato soli, in modo che potessimo parlare tra noi. Molly si era seduta sul letto e mi accarezzava distrattamente i piedi attraverso la coperta. «Scusami» dissi. «Di che cosa?» «Non so. Mi andava soltanto di scusarmi.» «Accetto le scuse.» «Spero che questa storia su tuo padre non sia vera.» «Ma personalmente...» «Personalmente sono convinto che non abbia fatto niente di male. Però
dobbiamo scoprirlo.» Molly fece girare lo sguardo sulla camera, poi scrutò fuori della finestra il particolare panorama delle colline toscane. «Sai, io qui potrei viverci.» «Anch'io.» «Davvero? Potremmo farlo? Credi?» «Certo. E io apro una filiale toscana dello studio Putnam & Stearns. Dai, Molly.» «Mah, visto il talento che hai nel fare soldi...» E sorrise amaramente. «Potremmo trasferirci qui e basta. Tu lasci la professione e viviamo felici e contenti...» Una lunga pausa di silenzio, finché continuò: «Voglio venire con te. A Bruxelles». «È una cosa pericolosa, Molly.» «Potrei esserti d'aiuto. E tu lo sai. E comunque non devi metterti in viaggio se non accompagnato da un medico. Viste le tue condizioni.» «Come mai non ti opponi più al fatto che io mi metta in viaggio?» chiesi. «Perché so che questa storia su papà non è vera. E voglio che tu lo provi.» «Ma non ti viene in mente la possibilità - per non dire la probabilità che, se non trovo niente, per tuo padre non ne sortirà niente di buono?» «Mio padre è morto, Ben. Il peggio è già successo. Nessuna tua scoperta può far tornare indietro il tempo.» «D'accordo» replicai. «Va bene.» Le mie palpebre stavano cominciando a chiudersi, non riuscivo più a trovare la forza per tenerle aperte. «Adesso però lasciami dormire.» «Farò qualche telefonata per trovare un albergo a Bruxelles per noi due» la sentii dire da un milione di chilometri di distanza. "Bene" pensai. "Fa' pure." «Alex Truslow mi ha avvertito che nel giardino c'è qualche serpente» mormorai. «E... sto cominciando a domandarmi... se uno di essi non potrebbe essere Toby.» «Ho scoperto una cosa, Ben. Una cosa che potrebbe esserci di aiuto.» E Molly aggiunse qualcos'altro che però non capii, dopo di che la sua voce svanì in lontananza. Un po' più tardi - qualche minuto, o forse soltanto qualche secondo - mi parve di sentirla scivolare silenziosamente fuori dalla camera. Sentii arrivare da lontano un belare di agnelli, chissà da dove, poi mi addormentai.
42 Toby Thompson ci accompagnò fino all'ingresso delle partenze internazionali all'aeroporto di Milano Malpensa. Molly gli diede un bacio, io gli strinsi la mano, quindi passammo oltre il cancelletto del metal detector. Qualche tempo dopo arrivò la chiamata d'imbarco del volo Swissair per Bruxelles. Sapevo che in quel momento Toby stava imbarcandosi su un volo per gli Stati Uniti. L'effetto dell'antidolorifico che mi aveva tenuto a galla nel corso degli ultimi due giorni aveva cominciato a svanire (anche se avevo ancora la mente troppo stordita per poter "leggere" Toby). Sapevo che, se volevo stare all'erta, era meglio rinunciare a quella roba. Ma adesso mi sembrava di avere le braccia in fiamme, in particolare l'interno degli avambracci. Pulsavano, e ogni pulsazione mi spediva una lama di dolore fino alla spalla. In aggiunta a tutto ciò, da quando l'effetto dell'antidolorifico aveva cominciato a svanire, avevo un terribile, incessante mal di testa. Ero comunque riuscito a trasportare le mie due borse a mano (nessuno di noi due aveva affidato alcun bagaglio al check in) e a raggiungere il mio posto senza troppo dolore. Toby ci aveva comperato due biglietti di prima classe e fornito due passaporti nuovi di zecca. Ora eravamo Carl e Margaret Osborne, proprietari di un piccolo ma prospero negozio di oggetti da regalo a Kalamazoo, Michigan. Mi venne assegnato un posto vicino al finestrino, come richiesto, da cui tenni attentamente d'occhio la squadra di manutenzione della Swissair indaffarata sulla pista a portare a termine i controlli prevolo. Ero teso in tutto il corpo. Il portello anteriore dell'aereo era stato chiuso e bloccato da qualche minuto. La zona della prima classe mi offriva un ottimo osservatorio. Non appena vidi l'ultimo addetto alla manutenzione lasciare la cabina di pilotaggio per scendere sulla pista, mi misi a strepitare. Levando alte le braccia bendate urlai: «Fatemi uscire da qui! Mio Dio! Oh, mio Diol Fatemi uscire!». «Che cosa succede?» mi urlò Molly. Praticamente tutti i passeggeri di prima classe si erano voltati a guardarci, inorriditi. Un'assistente di volo corse verso di me lungo il corridoio. «Oh, Gesù» gridai. «Devo scendere... subito!» «Mi spiace, signore» replicò l'assistente di volo. Era alta e bionda, con un viso comune, mascolino, senza alcuna caratteristica particolare. «Non
possiamo far sbarcare i passeggeri al momento del decollo. Se c'è qualcosa che posso fare per lei...» «Che cosa succede?» mi chiese Molly. «Fatemi uscire!» urlai, alzandomi. «Devo uscire di qui. Soffro in un modo incredibile.» «Signore!» protestò la svizzera. «Prendi le borse!» ordinai a Molly. Sempre tenendo levate le braccia, gemendo e lamentandomi, cominciai ad avviarmi per il corridoio. Molly si affrettò a recuperare i bagagli dal vano superiore, riuscendo in qualche modo a farsi passare sopra le sottili spalle le cinghie di due valigie e afferrando le altre due con le mani. Quindi mi seguì nel corridoio verso la parte anteriore dell'aereo. Ma l'assistente di volo ci bloccò il passaggio. «Signori! Mi spiace terribilmente, ma i regolamenti di volo...» Finché un'anziana signora si mise a strillare, terrorizzata: «Fatelo uscire da qui!». «Mio Dio!» le feci eco. «Signore, l'aereo sta per decollare!» «Fifa! Si tolga dai piedi» le ingiunse Molly, furibonda. «Sono il suo medico. Se non ci fa scendere immediatamente, si troverà sulle spalle un processo spaventoso. Lei, personalmente, intendo dire, signora, e si trascinerà dietro tutta questa dannata linea aerea. Ha capito?» La svizzera sbarrò gli occhi, arretrando però per il corridoio fino ad appiattirsi contro una fila di sedili per farci passare. Con Molly a rimorchio, baldanzosamente alle prese con il nostro bagaglio, corsi verso la scaletta di servizio che grazie a Dio era ancora agganciata al fianco dell'aereo. Attraversammo di corsa la pista e tornammo nell'aerostazione. Tolsi i bagagli a Molly - mi sentivo male ma ero tranquillamente in grado di farlo -, e me la tirai dietro mentre correvo verso il banco delle prenotazioni della Swissair. «Che cosa diavolo sta succedendo?» «Taci... soltanto... Sta' zitta ancora un attimo!» Gli addetti al banco della Swissair per fortuna non avevano visto da dove arrivavo. Tirai fuori un fascio di banconote (anch'esse cortesemente fornite da Toby) e comperai due biglietti di prima classe per Zurigo. Il volo sarebbe partito di lì a dieci minuti. Ce l'avevamo fatta per un pelo.
Anche se il volo da Milano a Zurigo fu piacevole e privo di eventi particolari - la Swissair è sempre stata la mia compagnia preferita -, soffrii di un dolore fisico quasi costante. Mi feci portare un Bloody Mary e riuscii a ottenebrarmi del tutto la mente. Molly si addormentò quasi subito. Prima di imbarcarsi, prima ancora di tutto questo traffico di cambio d'aereo, si era lamentata di non sentirsi bene. Aveva la nausea. Comunque non ci aveva dato peso: un malanno beccato nel viaggio di andata, fatto con un 747 che secondo lei sembrava un "cassone volante". Evidentemente volare non le piaceva molto. Avevo deciso che a questo punto sarebbe stata follia continuare a fidarsi di Toby. Forse ero troppo sospettoso, ma non potevamo più correre rischi. E se il serpente nel giardino era lui... Per questo gli avevo detto che la mia meta era Bruxelles. No, Orlov non aveva affatto pensato quella città, ma lo sapevo soltanto io. Così come sapevo perfettamente che nel giro più o meno di un'ora il personale della sede CIA di Bruxelles si sarebbe accorto che i signori Osborne non erano affatto arrivati da Milano, e sarebbe stato diramato l'allarme. La mia rappresentava dunque al massimo una diversione temporanea, ma sempre meglio che niente. Segua l'oro, mi aveva gridato Orlov pochi attimi prima del suo raccapricciante assassinio. Segua l'oro. E adesso sapevo che cosa intendesse dire. O così perlomeno credevo. Lui e Sinclair avevano trattato il loro affare a Zurigo. E anche se non mi aveva detto il nome della banca, aveva però pensato qualcosa. Un nome. Koerfer. Doveva essere un nome. Di una banca? Di una persona? Avrei dovuto individuare la banca di Zurigo dove i due mastri spioni si erano incontrati. Segua l'oro significava seguire la traccia documentaria, che era l'unico modo per scoprire la natura della belva che aveva ucciso Sinclair. E probabilmente, per Molly e per me, anche l'unico modo per rimanere vivi. Cercai di rilassarmi. Una delle prime domande che Toby mi aveva posto era stata se la... facoltà ardeva ancora dentro di me. In realtà in quel momento non avevo saputo che cosa rispondergli: non disponevo dell'energia o della volontà necessarie per concentrarmi a sufficienza. In quel momento, tuttavia, chiamai a raccolta le forze e, mentre Molly dormiva, provai. Mi faceva male la testa più che mai. Forse dipendeva dalla ferite sofferte nell'incendio. Oppure, più sinistramente, dalla facoltà che avevo acquisito nel laborato-
rio del Progetto Oracolo. C'era forse qualcosa che cominciava a degenerare, ad andare storto. Era stato Toby o Rossi ad accennare con la massima disinvoltura al fatto che l'unico individuo con cui il sistema aveva funzionato, l'olandese, era impazzito? Il frastuono che sentiva in testa lo aveva spinto al suicidio. E io cominciavo a capire quale impulso avesse provato. Eppure al tempo stesso ero preoccupato di non disporre più della dannata facoltà che mi aveva trascinato in tutto quel pasticcio. Perciò aggrottavo la fronte, strizzavo gli occhi e mi accigliavo nello sforzo di rendere ricettiva la mia mente, ma lo trovavo difficile. Ero circondato da rumori che mi rendevano arduo, al limite della follia, distinguere le onde ELF. Quello dei motori dell'aereo, smorzato, ronzante, stordente; il chiacchiericcio dei passeggeri vicini, assolutamente indistinto; una risata forte, chiassosa, venuta da chissà dove, in fondo, nella zona fumatori; il pianto di un neonato pochi sedili dietro di noi; l'acciottolìo e tintinnìo dei carrelli di servizio in movimento nei corridoi, carichi di bottigliette e lattine. Accanto a me, addormentata, c'era Molly, ma non volevo venire meno all'impegno che mi ero assunto nei suoi confronti. E il passeggero più vicino - bisogna ricordare che eravamo in prima classe - si trovava a una discreta distanza da me. Chinai furtivamente il capo verso mia moglie, mettendo a fuoco la mente, e la sentii mormorare qualcosa, forte. Di punto in bianco si agitò, quasi avesse avvertito la mia vicinanza, e aprì gli occhi. «Che cosa stai facendo?» mi chiese. «Ti stavo tenendo d'occhio» mi affrettai a rispondere. «Ah sì?» «Come ti senti?» «Da cani. Ho ancora la nausea.» «Mi spiace.» «Grazie. Passerà.» E si tirò lentamente a sedere, massaggiandosi il collo. «Ben, hai un'idea chiara di ciò che devi fare a Zurigo?» «Abbastanza» risposi. «E per il resto procederò a naso.» Annuì, sfiorandomi la destra. «Come va il dolore?» «Sta diminuendo» mentii. «Bene. Voglio dire, ti sei esibito in un bel tentativo di comportamento da macho, ma io so quanto fa male. Questa sera, se vuoi, ti do qualcosa per aiutarti a dormire. Le notti sono il momento peggiore, perché non si riesce a fare a meno di usare le braccia per cambiare posizione nel letto.»
«Non sarà necessario.» «Caso mai dimmelo.» «Senz'altro.» «Ben?» La guardai. Aveva gli occhi cerchiati di rosso. «Ho sognato papà, Ben. Ma probabilmente lo sai già.» «Te l'ho detto, Molly, io non...» «Lascia perdere. Questo sogno che ho fatto... Lo sai in quanti posti siamo vissuti, mentre crescevo? Afghanistan, Filippine, Egitto. Ho sempre sofferto la sua assenza, fino a quando riesco a risalire con la memoria. Credo sia un fenomeno abbastanza diffuso tra i figli degli uomini della CIA. Papà è sempre lontano e non si sa dove sia, né perché né che cosa stia facendo, e gli amici continuano a fare domande. Mi sembrava che mio padre non ci fosse mai - soltanto molto più tardi ne ho capito la ragione -, ma ero convinta che sarebbe bastato fossi più carina con la mamma perché lui passasse più tempo a casa, a giocare con me. Me lo ricordo benissimo. E quando, diventata più grande, mi ha spiegato che lavorava per la CIA, l'ho presa benissimo... Probabilmente, in larga misura l'avevo già capito da sola, e un paio di miei amici si erano sbizzarriti in ipotesi. Ma ciò non mi ha facilitato le cose.» Fece arretrare lo schienale fino a metterlo in posizione quasi orizzontale, quindi chiuse gli occhi, come se fosse sul lettino dell'analista. «E non me le ha facilitate neanche il fatto che più tardi sia uscito allo scoperto, quando è stato pubblicamente identificato come dipendente della CIA. Lavorava sempre, era un vero schiavo della professione. Come conseguenza, io che cosa ho fatto? Lo sono diventata a mia volta, mi sono dedicata alla medicina, e in un certo senso è stato anche peggio.» Mi accorsi che si era messa a piangere, ma lo attribuii alla stanchezza, o al trauma che avevamo appena subito entrambi. Lasciatasi sfuggire un accorato sospiro, continuò: «Credo di essere sempre stata convinta che saremmo arrivati a conoscerci meglio una volta che fosse andato in pensione, e quando io avessi avuto una famiglia mia. Ma adesso...». La voce le calò di tono, strozzandosi e poi facendosi stridula. Era tornata bambina. «Adesso non potrò mai più...» Non riuscì ad andare oltre, ma io le accarezzai i capelli per farle capire che non era necessario. L'ultima volta che avevo visto il padre di Molly era stato durante un
viaggio di lavoro a Washington. Era direttore della Central Intelligence Agency ormai da diversi mesi. E io mi trovavo lì per un impegno di natura perfettamente legale. Non avevo nessun motivo valido per chiamarlo dallo Jefferson Hotel, dov'ero sceso. Ma probabilmente volevo in qualche modo condividere l'eccitazione della nuova importanza da lui conseguita, del fatto che mio suocero fosse stato nominato a una carica tanto eminente. Egoismo? Certo. Volevo crogiolarmi nella gloria riflessa. E senza dubbio volevo anche tornare nel quartier generale della CIA in un modo trionfale, anche se si trattava del trionfo di un altro. Al telefono Hal mi aveva detto che sarebbe stato felice di stare con me un attimo, quanto bastava per un rapido pranzo o per bere qualcosa (era diventato un fanatico salutista e aveva rinunciato all'alcol; beveva soltanto qualche bibita non alcolica o il finto cocktail che gli piaceva tanto: sugo di mirtillo con seltz e lime). Aveva mandato un'auto con autista a prendermi per portarmi a McLean, e questo mi aveva reso nervoso. Se il Washington Post avesse avuto sentore del fatto che abusava delle proprie prerogative? Harrison Sinclair, la rettitudine personificata, che mandava una limousine governativa a prendere suo genero, a spese del contribuente. Genero che invece avrebbe benissimo potuto servirsi di un taxi. Mi sarebbe toccato vedere la mia foto in prima pagina, il mattino dopo, ripreso nell'atto di montare su una limousine governativa? L'ultima volta che ero stato alla CIA mi era toccato andarmene alla chetichella con uno scatolone sotto un braccio, percorrendo in totale solitudine tutto il cavernoso atrio fino al parcheggio, questa volta, invece, mi ero trovato di fronte un'accoglienza veramente trionfale. Nell'atrio mi era venuta incontro Sheila McAdams, l'assistente esecutiva di Hal, una bella donna sui trent'anni che mi aveva accompagnato all'ufficio del capo. Il direttore irradiava salute. E sembrava molto felice di vedermi. In parte, penso, in conseguenza del fatto che aveva una gran voglia di esibire il suo nuovo status. Avevamo pranzato nella sua sala da pranzo privata: insalata greca, melanzane alla griglia e grossi bicchieroni gelati del suo cocktail al mirtillo con seltz e lime. Avevamo parlato per un po', superficialmente, dell'impegno professionale che mi aveva portato a Washington. Poi di come era cambiata l'Agenzia dopo la scomparsa dell'Unione Sovietica e di ciò che progettava di fare lui in qualità di direttore. Avevamo spettegolato su alcune conoscenze comuni. Chiacchierato un po' di politica. Nel complesso un pranzo piacevole,
anche se del tutto frivolo. Ma non avevo mai più dimenticato una cosa che mi aveva detto mentre stavo andandomene. Mi aveva messo una mano su una spalla, dicendo: «Lo so che non abbiamo mai parlato di quello che è successo a Parigi». Lo avevo guardato con aria interrogativa. «Di quello che è successo a te, voglio dire...» «Sì...» avevo replicato. «Un giorno voglio che ne parliamo» aveva continuato. «Ho una cosa da dirti.» Mi ero immediatamente sentito prendere dalla nausea. «Parliamone subito» avevo ribattuto. Ma in definitiva, sentendolo rispondere «Non posso», avevo provato sollievo. «Certo, i tuoi impegni devono essere...» «Non è soltanto quello. Non posso. Ne parleremo. Non adesso ma presto.» Invece non era mai successo. Arrivati all'aeroporto di Kloten, Molly e io prendemmo un taxi, una Mercedes, per il centro di Zurigo. Ci lasciammo alle spalle la gigantesca, appena ristrutturata Hauptbahnhof, aggirammo il monumento ad Alfred Escher, il politico del XIX secolo cui si riconosce il merito di avere fatto di Zurigo un centro bancario moderno. Avevo prenotato al Savoy Baur en Ville, l'albergo più vecchio della città, meta abituale dei migliori avvocati e professionisti americani. Anch'esso ben ristrutturato nel 1975, si trova sulla Paradeplatz, vicino a tutto ma, cosa più importante, contiguo alla Bahnhofstrasse, dove un palazzo su due è una banca. Ci registrammo e salimmo in camera, che era piacevole, un profluvio di ottoni e armadietti con intarsi in pero. Chiacchierammo per un po' fino ad avere entrambi troppo sonno per continuare. Ancora una volta mia moglie si offrì di darmi un sedativo, ma lo rifiutai. Rimasi lì a guardarla mentre si addormentava, cercando di imitarla. Avevo un bisogno disperato di sonno, ma non voleva venire. Il dolore alle mani e alle braccia stava montando con un calore formicolante, in testa mi turbinavano gli eventi, le scoperte degli ultimi giorni. In uno dei caveau sotto la Bahnhofstrasse, a pochi metri dal nostro albergo, giaceva la risposta all'interrogativo a proposito della fine fatta da
più di dieci milioni di dollari in oro rubati all'ex Unione Sovietica, la risposta all'enigma della morte di Hal Sinclair. Di lì a qualche ora sarei stato con ogni probabilità molto più vicino alla soluzione del mistero. Avrei voluto che fosse già mattino. Sul tavolino, accanto alla base della lampada, era posato l'International Herald Tribune fattoci trovare in camera dalla direzione dell'albergo. Lo presi e feci scorrere distrattamente la prima pagina. Uno degli articoli, una colonna di spalla sulla destra, era sormontato dalla foto di un viso che mi era ormai molto familiare. Anche se non mi sorpresi di trovare la notizia proprio lì, il contenuto dell'articolo mi apparve comunque sinistro. Ultimo capo del KGB trovato massacrato in Italia centrale DI CRAIG RIMER SERVIZIO ESCLUSIVO PER THE WASHINGTON POST ROMA - Vladimir A. Orlov, ultimo capo del servizio d'intelligence sovietico, o KGB, è stato trovato morto dalla polizia locale nella sua residenza a 25 chilometri da Siena. Aveva 72 anni. Fonti diplomatiche hanno rivelato che si nascondeva in Toscana da diversi mesi dopo essere fuggito dalla Russia. Le autorità italiane confermano che Orlov è rimasto ucciso nel corso di un'aggressione armata. Gli assalitori non sono stati identificati, ma si ritiene siano avversari politici o esponenti della mafia. Secondo notizie non confermate, Orlov, prima della morte, avrebbe potuto essere stato coinvolto in operazioni finanziarie illecite. Il governo russo ha rifiutato qualsiasi commento in merito, ma nel corso di una dichiarazione rilasciata questa mattina a Washington, il nuovo capo della CIA, Alex Truslow, ha detto: «Vladimir Orlov ha presieduto allo smantellamento del più grande strumento di oppressione sovietico, il KGB. La sua scomparsa ci addolora». Mi tirai a sedere nel letto con il cuore che batteva furiosamente in aggiunta al pulsare della testa, delle mani e delle braccia. L'articolo accanto
riguardava il nuovo leader tedesco. Vogel, diceva il titolo, abbraccia i legami americani. E attaccava: «Wilhelm Vogel, il neoeletto cancelliere tedesco la cui travolgente elezione ha avuto luogo pochi giorni dopo che il crollo in Borsa aveva gettato il Paese in uno stato di diffuso panico, ha invitato in Germania l'altrettanto neoeletto capo della CIA, Alex Truslow, per consultazioni circa il modo migliore di garantire relazioni stabili tra gli Stati Uniti e la Germania. Il nuovo capo dell'intelligence americana ha immediatamente accettato l'invito come sua prima visita ufficiale, e si ritiene che volerà a Bonn per incontrarsi sia con il nuovo cancelliere sia con la sua controparte tedesca, Hans Koenig, direttore del Bundesnachrichtendienst, ovvero del servizio di intelligence della Germania Federale...». Capii subito che Alex Truslow era in pericolo. Normale contrappasso. Vladimir Orlov mi aveva dato i suoi avvertimenti circa la presa del potere in Russia da parte dei duri. E che cosa aveva detto il mio amico corrispondente inglese, Miles Preston, a proposito dell'esigenza che per garantire una Germania forte ci fosse una Russia debole? Adesso, Orlov, che con Harrison Sinclair aveva cercato di salvare la Russia, era morto. E sulla scia di una Russia in difficoltà era stato catapultato al potere un nuovo leader tedesco. I teorici delle congiure, alla cui schiera, come ho detto, non appartengo, amano scrivere e parlare dei neonazisti come se la Germania non desiderasse altro che una rinascita del Terzo Reich. È una sciocchezza, una stupidaggine. I tedeschi che mi è capitato di conoscere e tutto sommato di apprezzare durante la mia breve permanenza a Lipsia non erano affatto così. Non erano né nazisti né camicie brune, non portavano la svastica né altro del genere. Erano bravi, rispettabili patrioti, non diversi nella sostanza dal russo medio, dall'americano medio, dall'italiano medio, dal cambogiano medio. Ma il punto non era affatto la gente comune. «La Germania, amico» aveva detto Miles. «L'onda del futuro. Noi stiamo per assistere alla nascita di una nuova dittatura tedesca. E non arriverà per caso, Ben. È da un bel po' che la si sta progettando...» È da un bel po' di tempo che la si sta progettando... Inoltre, Toby mi aveva avvertito dell'incombere di un complotto per assassinare qualcuno. A quel punto si accese come una luce, ebbi un lampo d'illuminazione
nella nebulosa penombra, un breve attimo d'intuizione. Vladimir Orlov mi aveva parlato del crollo del 1987: «Un "crollo" in Borsa, per usare la sua espressione, non è necessariamente un disastro. Anzi, ne può derivare il contrario. Un gruppo di investitori avvertiti può realizzare enormi profitti...». Avevo replicato chiedendo se nel corso di quel crollo in Borsa i Saggi lo avessero realizzato. «Certamente» aveva risposto. «Servendosi dei sistemi telematici di intermediazione, oltre che di miUequattrocento diversi conti con forte movimento in entrata e in uscita, calibrandosi precisamente secondo il Nikkei di Tokyo e tirando le leve al momento giusto e con la giusta velocità, non soltanto con quel crollo hanno realizzato forti guadagni, Mr. Ellison. Lo hanno provocato.» Se i Saggi erano riusciti a provocare la notevole - ma al tempo stesso relativamente benigna - crisi borsistica del 1987... ... avevano forse fatto la stessa cosa in Germania? La CIA, aveva oscuramente avvertito Truslow, era ammalata del cancro della corruzione. Una corruzione basata sulla raccolta e sull'impiego di notizie economiche della massima segretezza a livello mondiale al fine di manipolare le Borse e tramite esse le nazioni. Possibile? E, di conseguenza, possibile che dietro l'invito rivolto ad Alex Truslow dal neoeletto cancelliere Vogel ci fosse un motivo recondito? A Bonn avrebbe benissimo potuto verificarsi qualche manifestazione di protesta contro il capo dello spionaggio americano. Le dimostrazioni erano ormai una costante delle notizie giornalistiche. Chi si sarebbe sorpreso se Alex Truslow fosse stato assassinato da "estremisti" tedeschi? Era un piano perfettamente logico. Alex, che sapeva sicuramente troppe cose sui Saggi, nonché sul crollo borsistico avvenuto in Germania... Quando raggiunsi Miles Preston, a Washington erano le nove del mattino. «Il crollo borsistico tedesco» mi fece eco con voce rauca, come se fossi uscito di senno «è successo perché i tedeschi hanno finalmente costituito un'unica Borsa unificata, Ben, la Deutsche Borse. Quattro anni fa non sarebbe potuto capitare. Spiegami un po'... come mai questo improvviso interesse per l'economia tedesca?» «Non posso dirtelo, Miles.»
«Ma che cosa stai facendo? Sei in Europa, vero? Dove?» «Diciamo semplicemente Europa e tagliamola lì.» «Su che cosa stai indagando?» «Mi spiace.» «Ben Ellison... noi siamo amici. Apriti con me.» «Se potessi lo farei senz'altro, Miles. Ma non posso.» «Senti un po'... va be', lasciamo perdere. Se hai intenzione di andare avanti, lascia almeno che ti dia una mano. Farò un po' di domande, in giro, qualche ricerca per tuo conto, parlerò con un po' di amici. Dimmi dove posso raggiungerti.» «Non posso.» «Allora chiamami tu.» «Mi farò vivo, Miles» risposi, chiudendo la comunicazione. E soltanto in quel momento mi venne un barlume di idea. Rimasi lì a sedere a lungo, sul bordo del letto, con lo sguardo fisso sull'elegante panorama della Paradeplatz, i cui palazzi mandavano sprazzi di luce nel sole, fuori della finestra, improvvisamente assalito da bieco terrore. 43 Non mi addormentai più, non era possibile. Invece feci una telefonata a uno dei tanti avvocati di mia conoscenza a Zurigo, che fui tanto fortunato da trovare in città e in ufficio. John Knapp era specializzato in legislazione sui grossi complessi aziendali, l'unica branca più noiosa di quella sui brevetti che tanto mi gratifica. Viveva ormai da circa cinque anni a Zurigo, dove lavorava nella sede distaccata di un prestigioso studio legale americano. Conosceva inoltre benissimo il sistema bancario svizzero, avendo studiato presso la locale università e presieduto a parecchie transazioni segrete e non del tutto limpide per conto di diversi clienti. Ci conoscevamo dai tempi dell'università, in America, dove eravamo compagni di corso, e qualche volta avevamo giocato a squash insieme. Sospettavo che nell'intimo io non gli piacessi affatto, come lui non piaceva a me, ma svariati motivi di lavoro ci avevano uniti in frequenti occasioni, per cui, incontrandoci, assumevamo entrambi un atteggiamento falso e cordiale, abbandonandoci alle manifestazione proprie del cameratismo maschile. Lasciai un biglietto a Molly, ancora addormentata, spiegandole che sarei
stato di ritorno nel giro di un paio d'ore. Poi presi un taxi davanti all'albergo, chiedendo all'autista di portarmi alla Kronenhalle sulla Ramistrasse. John Knapp era un uomo di bassa statura, snello, afflitto fino all'ultimo stadio dalla tipica turba dell'uomo basso. Come un chihuahua che cercasse di intimorire un San Bernardo, esibiva spesso un gesticolare imperioso che risultava vagamente ridicolo, fumettistico. Aveva due occhietti bruni e capelli castani screziati di grigio e appiccicati al cranio, con una frangetta che gli dava l'aria di un monaco sporcaccione. Dopo avere passato tanto tempo a Zurigo aveva assunto le tonalità del luogo e si vestiva come un banchiere svizzero. Abito blu di taglio inglese e camicia a righe rosso scuro, probabilmente comperata da Charvet, a Parigi, luogo da cui venivano di certo i gemelli in seta. Era arrivato con un quarto d'ora di ritardo, gesto quasi sicuramente inteso a denotare potere. Knapp era uno di quegli uomini che leggono tutti i libri sul potere e sul successo, su come si organizza un pranzo con gente di potere e su come ci si fa assegnare un ufficio di alta rappresentanza. Il bar della Kronenhalle era così affollato che ero riuscito a stento a trovare un posto per sedermi. Ma i clienti erano esattamente del tipo giusto, i glitterati di Zurigo - secondo l'espressione americana - che non sono necessariamente i letterati ma certamente le persone potenti e famose. Knapp, che amava vivere alla grande, era un appassionato frequentatore di luoghi simili. Andava regolarmente a sciare a Sankt Moritz e a Gstaad. «Gesù, che cosa ti è successo alle mani?» chiese, mentre mi stringeva un po' troppo energicamente la destra, provocandomi una smorfia. «Manicure malriuscita» risposi. La sua espressione di orrore si trasformò in una di esagerato divertimento. «Sei sicuro che non si tratti di tagli provocati dal mirabile sfogliare domande di brevetto che ti tocca fare?» Sorrisi, tentato di sciorinare tutto il mio arsenale di battute (gli avvocati specializzati in grosse concentrazioni aziendali, come ho avuto modo di apprendere, sono piuttosto suscettibili), ma non replicai. Conclusi i preliminari, chiese: «Qual buon vento ti porta a Zurigo?». Stavo bevendo un scotch, mentre lui aveva puntigliosamente ordinato una kirschwasser esprimendosi in Schweizerdeutsch, lo svizzero tedesco. «In materia temo che dovrò usare qualche circospezione» risposi. «Lavoro.» «Ah-Aa» replicò, in un tono carico di sottintesi. Aveva senza dubbio sentito parlare da qualche conoscente comune dell'attività da me svolta per
l'Agenzia. E probabilmente pensava che fosse quello il motivo del mio successo professionale (e tutto sommato non aveva poi così torto). In ogni caso ero convinto che con lui fosse meglio fare il misterioso piuttosto che raccontargli una qualsiasi favoletta di facciata. Finsi di ammorbidirmi un po'. «Ho un cliente che ha certi beni qui che sta cercando di localizzare.» «Non esula un po' dal tuo normale tipo di lavoro?» «Non del tutto. Si collega a una pratica che il mio studio sta cercando di portare a termine. Se non ti spiace, non posso dire di più.» Sporse le labbra e sorrise, come se in materia ne sapesse più di me. «Sentiamo.» Il frastuono dell'ambiente era così forte che l'ipotesi di leggere i suoi pensieri appariva del tutto vana. In effetti ci provai in alcune occasioni, chinandomi verso di lui e concentrandomi il più possibile, ma senza alcun risultato. D'altra parte non c'era nulla che volessi apprendere che non avrebbe detto ad alta voce. A prescindere da quanto erano sicuramente noiosi i suoi pensieri. «Che informazioni hai sulla situazione locale dell'oro?» «Dipende da quello che vuoi sapere.» «Sto cercando di rintracciare un deposito in oro fatto in una delle banche di qui.» «Quale?» «Non so.» Sorrise in modo ironico. «Vecchio mio, a Zurigo ci sono quattrocento banche regolarmente registrate, quasi cinquemila agenzie. E ogni anno arrivano in Svizzera diversi milioni di once di oro, dal Sudafrica come da chissà dove. Buona fortuna.» «Quali sono le più grosse?» «Le più grosse? Le Tre Grandi... l'Anstalt, la Verein e la Gesellschaft.» «Eh?» «Scusa. L'Anstalt è il Credit Suisse, o Schweizerische Kreditanstalt. La Verein è la Società delle Banche Svizzere. E la Gesellschaft è l'Unione delle Banche Svizzere. Quindi, in sostanza, stai cercando dell'oro depositato in una delle tre grandi, ma non sai in quale, eh?» «Esatto.» «Quanto?» «Alcune tonnellate.» «Tonnellate?» Nuovo sorriso ironico. «Ho i miei seri dubbi. Di che cosa
stiamo parlando? Di un Paese?» Scossi il capo. «Di un'azienda prospera.» Si lasciò sfuggire un lieve fischio. Una bionda in abito verde chiaro con due spalline sottilissime gli gettò un'occhiata in tralice, erroneamente convinta che si trattasse di una manifestazione di ammirazione nei suoi confronti, quindi si affrettò a distogliere lo sguardo. «Quale sarebbe il problema?» riprese Knapp, finendo la sua kirschwasser e facendo schioccare le dita per chiederne un'altra al cameriere. «Hanno perso il numero del conto?» «Seguimi un attimo» risposi. Stavo cominciando a esprimermi come lui e la cosa non mi piaceva. «Se un grosso quantitativo d'oro venisse spedito a Zurigo e sistemato su un conto numerato, dove andrebbe a finire, fisicamente?» «In un caveau. In effetti, per le banche locali rappresenta un problema sempre più grosso. Hanno tanti di quei soldi e di quell'oro da accatastare che non hanno quasi più spazio. D'altra parte le leggi municipali non consentono di costruire edifici più alti, per cui sono costretti a scavare sottoterra come le talpe.» «Sotto la Bahnhofstrasse.» «Esattamente.» «Ma non sarebbe più conveniente vendere l'oro su piazza, convertendolo in beni liquidi? Franchi tedeschi o svizzeri, o roba del genere.» «Non proprio. Il governo svizzero ha il terrore dell'inflazione, per cui ha posto limitazioni sulla quantità di contante a disposizione degli stranieri. Era persino stato imposto un limite di centomila franchi per i conti esteri.» «Sull'oro non vengono pagati interessi, vero?» «No di certo» rispose Knapp. «Non ci si rivolge alle banche svizzere per ricavarne un interesse. Praticano tassi attorno all'uno per cento. Se non allo zero. E in qualche caso capita addirittura di dover pagare per tenere i propri soldi qui. Non sto scherzando. Ci sono moltissime banche che addebitano un uno e mezzo per cento su ogni prelievo.» «Benissimo. Ora, guardando l'oro si può dedurre da dove proviene, no?» «Di norma sì. L'oro, quello di cui si servono le banche centrali per le proprie riserve, è conservato in forma di lingotti, di solito del peso di trecento once troy. E di norma si tratta di oro "three-nines", ovvero puro al 99, 9 per cento. Inoltre, di solito è marchiato, con la stampigliatura di numeri e valori campione, codici d'identificazione e di serie.» Il cameriere portò la kirschwasser, che lui prese senza nemmeno accorgersi da dove
diavolo fosse comparsa. «Ogni dieci lingotti depositati, uno viene sottoposto a campionatura aprendovi sei fori in punti diversi, da cui vengono estratti trucioli di pochi milligrammi che vengono analizzati. Quindi, sì, certo, di gran parte dei lingotti si può stabilire da dove provenga.» E così detto si concesse un risolino, sorseggiando meditabondo la sua bevanda. «Dovresti provare questa roba... ti piacerebbe. Comunque, il mercato dell'oro è una cosa strana, nervosa. Ricordo quando è impazzito, non molto tempo fa. I sovietici stavano cercando di vendere un carico di lingotti, qui a Zurigo, e qualcuno si è accorto che alcuni portavano impressa l'aquila dello zar. Gli gnomi sono andati in tilt.» «Perché?» «Dài, vecchio. È una storia che risale al Natale del 1990. Lingotti d'oro con sopra stampigliata l'aquila dei Romanoff! Significava che il governo di Gorby stava per finire nel cesso e che quindi vendeva l'ultimo oro di cui disponeva. Che stava raschiando il fondo del barile. Altrimenti, perché mai avrebbe dovuto fare ricorso alle riserve risalenti ai tempi zaristi? Di conseguenza, il prezzo dell'oro è volato a cinquanta dollari per oncia.» Mi bloccai a metà di un sorso del mio scotch, sentendomi il sangue affluire alla testa. «E poi?» chiesi. «Poi che cosa? Niente. Si è scoperto che era una trappola ben congegnata. Una sofisticata azione di depistaggio informativo da parte dei sovietici. È saltato fuori che avevano aggiunto deliberatamente al mucchio pochi vecchi lingotti zaristi. Dopo di che, rimasti fermi a guardare il mercato salire alle stelle, come sapevano che sarebbe avvenuto, avevano venduto il loro oro al nuovo prezzo più alto. Furbi, eh? Mica male. I sovietici non erano poi quei fessi totali che sembravano.» Rimasi un attimo in silenzio, preso nelle mie riflessioni. E se non si fosse affatto trattato di depistaggio? mi chiesi. Se... Ma non ne capivo il senso. Posato il bicchiere, replicai cercando di rimanere il più apparentemente imperturbabile possibile e chiedendo: «Quindi l'oro si può riciclare?». Knapp rimase un attimo in silenzio a sua volta. «Be', sì... certo. Lo si fonde, lo si raffina, lo si ricampiona, si eliminano i marchi. Se si vuole mantenere la segretezza sull'operazione è una bella rottura di coglioni, ma ci si può riuscire. E non costa neanche molto. L'oro è un bene perfettamente fungibile. Però non capisco, Ben. Stai cercando un enorme carico d'oro che appartiene a uno dei tuoi clienti, ma non sai dov'è?» «È una cosa un po' più complicata. Ma non posso addentrarmi troppo nei particolari. Dimmi una cosa: quando parli della segretezza delle banche
svizzere, che cosa intendi? Quanto è difficile superarla?» «Ullalà» esclamò. «Che cos'è? Un giallo?» Gli fissai addosso uno sguardo fermo, e lui continuò: «Non è facile, Ben. Due delle espressioni più sacre in questa città sono: "principio della riservatezza" e "libertà di scambio di valute". Traduzione: l'inalienabile diritto di nascondere i soldi. È la loro ragione d'essere. I soldi sono la loro religione. Voglio dire, quando Huldrych Zwingli ha dato il via alla Riforma di Zurigo scaraventando tutte le statue cattoliche nel fiume Limmat, prima si è assicurato di averne raschiato via tutto l'oro, consegnandolo al consiglio municipale. E dando in tal modo vita al sistema bancario svizzero.» «Ma questi svizzeri... be', bisogna proprio amarli. Vanno pazzi per la segretezza, a meno che non risulti conveniente fregarsene. Mafiosi, commercianti di droga, dittatori corrotti del terzo mondo con valigiate di soldi pubblici arraffati indebitamente, la loro segretezza gli svizzeri la difendono come un prete nel confessionale. Non scordare che, durante la guerra, quando i nazisti sono venuti qui e hanno cominciato a usare le maniere forti, di punto in bianco loro si sono messi a scodinzolare, consegnando tutti i numeri di conto degli ebrei tedeschi. Gli piace diffondere il mito di essersi opposti con grande fermezza ai nazisti, quando sono venuti qui per portarsi via i soldi degli ebrei, ma non è affatto vero. Hum, hum. D'accordo, non tutte le banche si sono comportate così, ma moltissime sì. Che la Basler Handelsbank abbia riciclato soldi per i nazisti è un fatto documentato.» E così dicendo Knapp faceva scorrere lo sguardo sulla folla come se fosse in cerca di qualcuno. «Senti, Ben, tu stai cercando un ago in un pagliaio.» Annuii, tracciando un disegno nella condensa formatasi sulla parete del bicchiere. «Be',» replicai «un nome ce l'ho.» «Un nome?» «Quello di un banchiere, credo.» Un nome, non aggiunsi, pensato da Orlov in connessione con l'oro e con Zurigo. «Koerfer.» «Ah, magnifico!» esclamò in tono di trionfo. «Perché non me l'hai detto subito? Il dottor Ernst Koerfer è il direttore operativo della Banca di Zurigo. O perlomeno lo è stato fino a un mese fa circa.» «Andato in pensione?» «Morto. Infarto, o qualcosa del genere. Anche se non giurerei sul fatto che avesse un cuore. Era un vero figlio di puttana, ma governava una nave perfettamente in ordine.» «Ah» replicai. «E attualmente conosci qualcuno alla Banca di Zurigo?» Mi guardò come se fossi diventato scemo. «Ehi, vecchio. Io conosco tut-
ti nel mondo bancario svizzero. È il mio mestiere. Il nuovo direttore operativo si chiama Eisler. Il dottor Alfred Eisler. Se vuoi, posso fare una telefonata e presentarti. Vuoi?» «Sì,» risposi «sarebbe magnifico.» «Non c'è nessun problema.» «Grazie, vecchio» conclusi. Procurarsi un'arma in Svizzera si rivelò molto più complicato di quanto prevedessi. I miei contatti erano limitati, per non dire inesistenti. D'altra parte avevo paura a mettermi in comunicazione con Toby o con chiunque altro all'interno della CIA. Lì dentro non c'era nessuno di cui mi fidassi. In caso di assoluta necessità avrei sempre potuto rivolgermi a Truslow, ma era un percorso da evitare: come potevo essere sicuro che i canali di comunicazione non fossero infiltrati? Molto meglio non chiamarlo. Ma finalmente, pagata una bella cifra al direttore di un negozio di articoli sportivi e per la caccia, riuscii a procurarmi il nome di un tale in grado di "aiutarmi": il cognato dello stesso direttore, che, chi lo avrebbe mai detto, gestiva una libreria antiquaria. La trovai a pochi isolati di distanza. In caratteri dorati, il vecchio Fraktur tedesco, sulla vetrina si leggeva la scritta: BUCHHÄNDLER ANTIQUITÄTEN UND MANUSKRIPTE Il mio ingresso venne salutato dal trillare di un campanello sulla porta. L'ambiente era angusto, buio e olezzante di muffa, di umidità e dell'odore di vaniglia tipico delle vecchie legature che si sgretolano. Alti scaffali metallici neri, sovraffollati di disordinate pile di libri e riviste ingiallite, occupavano ogni centimetro quadrato di pavimento. Un angusto passaggio tra di essi portava, sul fondo, a una piccola, caotica scrivania in quercia sepolta sotto una montagna di carte e libri, dietro cui sedeva il proprietario. «Guten Tag!» mi gridò. Gli risposi con un cenno del capo, poi, scrutando tutto attorno come se fossi in cerca di un volume particolare, gli chiesi in tedesco: «Fino a che ora tiene aperto?». «Fino alle sette» rispose. «Allora torno quando avrò più tempo.» «Se avesse soltanto qualche minuto,» replicò «nel retro ho alcune nuove
acquisizioni.» E, alzatosi, chiuse la porta del negozio, sistemando in vetrina un cartello con la scritta "Chiuso". Poi mi guidò in una stanzetta zeppa di alte pile di libri rilegati in pelle scrostata, dove, in alcune scatole per scarpe, teneva nascosta una ridottissima scelta di armi da fuoco, ai limiti del pietoso, il cui meglio era rappresentato da una Ruger Mark II (rispettabile semiautomatica ma soltanto un calibro^ 22), una Smith & Wesson e una Glock 19. Scelsi quest'ultima. È un'arma che ha dato un bel po' di problemi, o perlomeno così mi avevano detto i colleghi dell'Agenzia, ma mi è sempre piaciuta. Mi fu venduta per un prezzo esorbitante, ma ero in Svizzera. Durante il pranzo, all'Agnes Amberg di Hottingerstrasse, nessuno di noi due tirò fuori la questione che ci pesava tanto sull'animo. Sembrava che avessimo bisogno entrambi di una pausa nella tensione, di comportarci per un po' da comuni turisti. Con le mani bendate trovavo difficile, e non poco doloroso, tagliare il pollo. Segua l'oro... Ora disponevo di un nome e di una banca. Avevo fatto diversi passi avanti. Una volta trovata una direzione, un percorso da seguire, sarei potuto arrivare più vicino a scoprire perché Sinclair fosse stato ucciso... ovvero, quale congiura si volesse coprire. Sedevamo in un silenzio cupo. Finché, prima che potessi dire qualcosa, Molly mi precedette: «Lo sai che in questo posto le donne non hanno avuto il diritto di voto fino al 1969?». «E allora?» «E io che ero convinta che negli Stati Uniti la professione medica non prendesse sul serio le donne. Dopo il medico da cui sono andata oggi, non lo dirò mai più.» «Sei andata da un medico?» chiesi, anche se lo sapevo già. «Per la questione dello stomaco?» «Già.» «E che cosa ti ha detto?» «Che sono incinta» rispose. «Ma tanto tu lo sapevi già.» «Sì» riconobbi. «È vero.» 44
Molly e io riuscimmo a stento ad aspettare di essere tornati in albergo. Nella gioia - e nel terrore - di scoprire che si sta generando un essere umano può esserci qualcosa di straordinariamente eccitante, e quella sera ci sentivamo senza dubbio entrambi inclini all'amore. Anche Laura era incinta del nostro bambino, ma l'avevo saputo soltanto dopo la sua morte. Quindi per me era la prima volta. Quanto a Molly, be', erano anni che si dichiarava contraria alla procreazione, tanto da farmi temere che si sarebbe immusonita, se non addirittura che avrebbe proposto di liberarsi del bambino o qualche altra orrenda soluzione del genere. Invece no. Era elettrizzata, felicissima. Un atteggiamento da mettere in relazione con la recente perdita del padre? Probabile, ma chi lo sa come opera la mente a livello inconscio? Già si stava strappando i vestiti di dosso prim'ancora che avessimo chiuso la porta della camera. Mi fece scorrere le mani sul torace, sotto la cintura, sulle natiche, me le fece passare davanti, baciandomi avidamente. Io corrisposi con non minore passione, attaccandomi alla sua camicetta color crema, trafficando con i bottoni (alcuni dei quali caddero sul tappeto) e infilandoci dentro le mani per accarezzarle i seni, i capezzoli già eretti. Poi, ricordatomi delle mani ustionate e bendate, al loro posto usai la lingua, leccandola in cerchi sempre più concentrici verso i capezzoli. Rabbrividì. Presi a spingerla a ritroso con le spalle e la parte superiore del corpo - tenendo larghe le braccia, che continuavano a pulsare, come le chele di un'aragosta - verso l'immenso letto, cadendole sopra. Ma non era tipo da farsi dominare così in fretta. Ci dibattemmo, lottammo con un'aggressività che non avevo mai riscontrato nella nostra attività erotica ma che scoprii di mio altissimo gradimento. Ancora prima che la penetrassi già si stava lasciando sfuggire lamenti e gemiti di piacere, pregustando ulteriore piacere. Poi, come si usa dire, rimanemmo stesi nel caldo riverbero dell'amore a goderci il sudore appiccicoso e l'afrore, accarezzandoci e parlando sottovoce. «Quand'è successo?» chiesi. Mi ricordavo l'occasione in cui avevamo fatto l'amore poco dopo che ero divenuto telepatico, con lei talmente eccitata che non si era messa il diaframma. Ma era un fatto troppo recente. «Il mese scorso» rispose. «Non credevo che sarebbe successo niente.» «Ti sei dimenticata di mettertelo?» «In parte sì e in parte no.» Sorrisi del suo sotterfugio senza provare alcun risentimento. «Vedi,» dissi «c'è gente della nostra età che cerca con grande impegno di concepi-
re, comperando strumenti per l'ovulazione, manuali e roba del genere. Invece tu ti dimentichi una volta di metterti il diaframma ed ecco che subito succede, per caso.» Annuì, sorridendo enigmaticamente. «Non del tutto.» «Infatti avevo i miei dubbi.» Scrollò le spalle. «Avremmo dovuto parlarne prima?» «Probabilmente» risposi. «Ma per me va benissimo così.» Ancora una pausa, poi chiese: «Come vanno le ustioni?». «Bene» risposi. «Le endomorfine naturali sono degli antidolorifici straordinari.» Ebbe una breve esitazione, come se stesse chiamando a raccolta il coraggio di dirmi una cosa importante. Prima non potei fare a meno di sentire una frase - l'orribile cosa che era una volta -, quindi mi chiese: «Sei cambiato, vero?». «In che senso?» «Lo sai benissimo. Sei ridiventato ciò che avevi giurato non saresti tornato mai più.» «Così dev'essere, Mol. Non avevo altra scelta.» La sua risposta fu lenta a venire e triste. «No, penso proprio di no. Ma sei già diverso... Lo sento. Lo avverto. Non ho bisogno della telepatia per capirlo... È come se tutti questi anni di Boston fossero stati spazzati via. Ci sei tornato dentro fino al collo. E a me non piace. Mi fa paura.» «Anche a me.» «Questa notte hai parlato.» «Nel sonno?» «No, al telefono. Con chi?» «Con un giornalista che conosco, Miles Preston. L'ho conosciuto in Germania ai primi tempi di CIA.» «Gli hai chiesto qualcosa circa il crollo della Borsa in Germania.» «E io che ero convinto che dormissi profondamente.» «Credi che c'entri qualcosa con la morte di papà?» «Non so. Potrebbe essere.» «Io ho scoperto qualcosa.» «Sì» risposi. «Ricordo che hai detto qualcosa quando mi stavo assopendo, a Greve.» «Credo di avere capito perché mio padre mi ha lasciato quella lettera di autorizzazione.» «Cioè?»
«Ricordi il documento allegato al suo testamento? Comprendeva il diritto di proprietà della casa, le azioni e i titoli, e poi quello strano "strumento finanziario", come continuano a definirlo gli avvocati, che mi concede tutti i diritti di beneficiaria, in patria come all'estero, no?» «Infatti. E allora?» «Be', è un documento del tutto superfluo per i conti in patria, che sarebbero comunque diventati automaticamente miei. Mentre per quelli all'estero, dove la legislazione in materia varia di molto, una lettera del genere potrebbe risultare utile.» «In particolare se si trattasse di un conto svizzero.» «Esattamente.» E si alzò dal letto dirigendosi verso il ripostiglio, dove aprì una valigia da cui recuperò una busta. «Lo "strumento finanziario"» mi informò. Rovistò ancora un attimo, tirando finalmente fuori il libro che per chissà quale motivo suo padre aveva lasciato a me, la prima edizione delle memorie di Allen Dulles, Il mestiere di agente segreto. «Perché diavolo te lo sei portato dietro?» chiesi. Non rispose. Invece tornò al letto, posando entrambi gli oggetti sulle lenzuola stazzonate. Poi aprì il libro. La copertina, quasi tutta grigia, era apparentemente intatta, ma, aprendosi, la legatura produsse uno scricchiolìo. Era probabilmente già stato aperto qualche volta. Forse soltanto una, quando il leggendario Dulles aveva estratto la sua stilografica Waterman per scrivere sul frontespizio, con la sua calligrafia pignola: «Ad Hal, con la più viva ammirazione, Allen». «È l'unica cosa che papà ti ha lasciato» riprese. «E per un bel po' mi sono chiesta come mai.» «Anch'io.» «Ti voleva bene. E anche se era un tipo frugale, non è mai stato tirchio. Perciò mi chiedevo come mai ti avesse lasciato soltanto questo libro. La sua mentalità la conoscevo abbastanza bene: era un giocatore. Di conseguenza, quando mi hanno permesso di portare via le mie cose, ho raccattato tutti i documenti e ho deciso di portarmi dietro questo per esaminarlo con la massima attenzione in cerca di qualche segno. Così si comportava con me quando ero piccola: mi faceva qualche segno sui libri in modo che non mi sfuggissero le parti importanti. E l'ho trovato.» «Eh?» Guardai la pagina che mi stava indicando. La 73, dove si trattava di codici, cifrari e decrittazione. Nel testo, l'espressione "Codice rosa" era sotto-
lineata. E accanto a essa, a matita, leggerissima, si leggeva la scritta "L2576HJ". «È senz'altro il suo sette» continuò. «E il suo due. E la sua J.» Capii subito. "Codice rosa" in realtà stava a significare "Codice Onice". Dulles non aveva evidentemente voluto rivelarne il nome vero. Il "Codice Onice" era un leggendario cifrario della seconda guerra mondiale che l'Agenzia aveva ereditato dallo U.S. Diplomatic Service. Ed era ancora in circolazione, sebbene venisse usato di rado, essendo stato decifrato da molto tempo. L2576HJ era un'espressione in codice. Hal Sinclair aveva lasciato a Molly e a me il mezzo legale per accedere al conto. Me ne aveva lasciato il numero. Sempre che fossi riuscito a decrittarlo. «E ce n'è un altro» continuò Molly. «Alla pagina precedente.» Me lo indicò. In cima alla pagina 72 c'era una serie di numeri, 79648, che Dulles citava come esempio per far capire al comune lettore il funzionamento dei codici. Era leggermente sottolineato a matita. Accanto a esso Sinclair aveva scritto R2, sempre a matita. Una sigla che indicava un cifrario molto più recente, di cui però non mi ero mai servito. Quel 79648 doveva essere un altro codice che si sarebbe tradotto in una differente serie di numeri (o forse di lettere) una volta che vi fosse stato applicato il codice R2. Avevo dunque bisogno di qualche informazione in codice dall'interno della CIA, ma non potevo rivelare la mia dislocazione. Perciò feci una telefonata a un collega dei tempi di Parigi che, andato in pensione da tempo, insegnava scienze politiche a Erie, Pennsylvania. Gli avevo salvato la pelle due volte - una durante un appostamento notturno finito male e un'altra a livello burocratico, allontanando ogni ombra dal suo nome nell'indagine che era seguita. Mi doveva dunque molto e infatti accettò senza alcuna esitazione di telefonare a un amico fidato, tuttora nell'Agenzia, per chiedergli come favore per un vecchio collega di fare un rapido giretto negli archivi della crittografia, al piano di sotto. Visto che un cifrario vecchio di venticinque anni non è più una questione di sicurezza nazionale, si sentì snocciolare una serie di codici. Poi mi telefonò alla cabina pubblica fuori del mio albergo, leggendomeli. E finalmente ebbi a disposizione il numero del conto. Il secondo codice, invece, era tutto un altro paio di maniche. Essendo ancora in uso, il suo cifrario non era sistemato nei criptoarchivi (la Cripta,
come veniva chiamato). «Farò del mio meglio» disse l'amico di Erie. «Ti richiamo» replicai. Molly e io rimanemmo a sedere in camera immersi in un profondo silenzio. Io sfogliai le memorie di Dulles. Il capitolo "Codici e cifre" lo aveva iniziato con il famoso, severo motto di Henry Stimson, segretario di Stato nel 1929: «Un signore non legge la posta degli altri». Si sbagliava, ovviamente, e infatti Dulles si affannava a spiegarlo. Nell'ambiente dello spionaggio tutti leggono la posta degli altri, oltre a tutto ciò su cui riescono a posare lo sguardo. Ma forse le spie non sono gentiluomini. Mi chiesi anche che cosa diavolo avrebbe detto Henry Stimson circa la possibilità che i gentiluomini si leggessero reciprocamente il pensiero. Un'ora più tardi richiamai Erie. L'amico rispose al primo squillo. La sua voce era diversa, tesa. «Non ho potuto procuratelo» disse. «Cioè?» Era intervenuto qualcuno? «È disattivato.» «Come?» «Disattivato. Tutte le copie sono state ritirate dalla circolazione.» «Da quando?» «Da ieri. Che cos'è questa storia, Ben?» «Mi spiace» risposi, sentendo una stretta al petto. I Saggi. «Devo scappare. Grazie» conclusi. E riagganciai. Il mattino dopo ci inoltrammo per alcuni isolati sulla Bahnhofstrasse fino a trovare il numero giusto. La maggior parte delle banche hanno il loro quartier generale ai piani alti dei palazzi, sopra i negozi eleganti. Nonostante la magniloquenza della sua denominazione, la Banca di Zurigo era piccola, a gestione familiare, molto discreta. L'ingresso era nascosto in una stretta laterale della Bahnhofstrasse, accanto a una Konditorei. Una piccola targa in ottone diceva semplicemente B. Z. et C.ie. Chi non sapeva che cosa significava era evidentemente inutile che lo sapesse. Mentre entravamo nell'atrio avvertii un movimento alle nostre spalle. Mi voltai di scatto, tendendomi, ma vidi che era soltanto un passante, forse uno zurighese. Alto, magrissimo, in completo grigio. Senza dubbio un bancario, o un negoziante diretto al lavoro. Mi rilassai e, stretta Molly al mio fianco, entrai nell'atrio.
Qualcosa però mi era rimasto fissato nella mente. Tornai a gettarmi un'occhiata alle spalle, ma l'uomo se n'era andato. La faccia. Pallida, estremamente pallida, con grossi cerchi oblunghi sotto gli occhi chiari, labbra sottili e sottili capelli biondi pettinati lisci all'indietro. Aveva senza dubbio un'aria familiare. Finché in un lampo mi venne in mente la piovosa serata della sparatoria in Marlborough Street, a Boston. Il passante alto e scarno. Era lui. Il mio tempo di reazione era stato spaventosamente lento, ma a quel punto ne ero sicuro al cento per cento. Quello stesso uomo di Boston adesso era lì, a Zurigo. «Che cosa c'è?» chiese Molly. Voltatomi, entrai nella banca. «Niente» risposi. «Su. Abbiamo diverse cose da fare.» 45 «Che cosa succede, Ben?» chiese Molly, spaventata. «C'era qualcuno?» Ma prima che potesse aggiungere altro, dall'interfono si fece sentire una voce maschile che ci chiese di dichiarare il motivo della nostra visita. Fornii le mie generalità autentiche. La receptionist rispose con una minima punta di deferenza: «Si accomodi, prego, Mr. Ellison. Il direttore Eisler l'aspetta». Dovevo rendere credito a John Knapp: da quelle parti aveva evidentemente i suoi giusti agganci. «Per favore, accertatevi di non avere addosso nulla di metallico» disse la voce incorporea. «Chiavi, temperini a serramanico ed eventuali monete in quantità rilevante. Potete riporre ogni cosa al sicuro in quel cassetto.» E immediatamente ne emerse uno dal muro, piccolo. Ci liberammo entrambi di monete, chiavi eccetera, riponendole. Si sentì un leggero ronzìo e i due battenti di una porta ci vennero aperti elettronicamente davanti. Avvistai una coppia miniaturizzata di telecamere di sorveglianza, giapponesi, montate a ridosso del soffitto, poi Molly e io passammo in un'angusta anticamera ad aspettare che una seconda porta a due battenti venisse aperta. «Non sei armato, vero?» mi chiese Molly sottovoce. Scossi la testa. La seconda porta si aprì e ci vedemmo venire incontro una giovane bionda dall'aria comune, un po' massiccia, con un enorme
paio di occhiali dalla montatura in acciaio che addosso a qualsiasi altra donna sarebbero stati eleganti. Si presentò come assistente personale di Eisler e ci fece strada per un corridoio in moquette grigia. Fatta una rapida sosta alla toilette, le raggiunsi. L'ufficio del dottor Alfred Eisler era piccolo e semplice, a pannelli di legno. Sulle pareti facevano bella mostra di sé alcuni acquerelli a colori vivaci, in cornici di legno chiaro, e poche altre cose. Non c'era nessuno dei raffinati tocchi ornamentali che mi sarei aspettato di trovare in un posto del genere, tipo tappeti orientali, orologi a pendolo, mobili in mogano. La scrivania del direttore era semplice e sgombra, in vetro e cromo. Di fronte a essa c'erano due poltroncine in pelle bianca dall'aria comoda e di moderno design svedese, sistemate sui due lati di un divanetto trapuntato, anch'esso in pelle bianca. Eisler era abbastanza alto, più o meno della mia statura, ma piuttosto corpulento, e indossava un completo nero di lana. Imprecisata età tra i quaranta e i cinquanta, faccia tonda e mascella forte, occhi incavati e grandi orecchie a sventola. Attorno alla bocca, sulla fronte e nel solco tra i sopraccigli esibiva un reticolo di rughe profondamente incise. Inoltre era calvo, lustro come una palla da biliardo. Un personaggio interessante, seppure vagamente sinistro. «Mrs. Sinclair» disse, prendendo la mano di Molly. Sapeva quale fosse il vero punto focale della situazione: non il marito ma la moglie, l'erede legale, secondo il dettato della legge bancaria svizzera, del conto numerato del padre. «Mr. Ellison» aggiunse. La sua voce era pastosa, un profondo brontolìo di basso; l'accento era un misto di svizzero tedesco e di inglese Oxbridge delle classi elevate. Ci sedemmo nelle poltrone in pelle bianca, mentre lui prendeva posto di fronte a noi sul divanetto. Proceduto alle presentazioni, Eisler chiese alla segretaria di portarci il caffè. Parlando, le rughe che gli segnavano la fronte gli si facevano ancora più incise; con le mani ben curate gesticolava in un modo tanto delicato da apparire quasi femmineo. Ci rivolse un sorriso teso per indicare che la riunione era cominciata. Che cosa volete? chiedeva la sua espressione. Tirato fuori il documento di autorizzazione firmato dal padre di Molly, glielo porsi. Datagli un'occhiata, alzò lo sguardo. «Immagino che intendiate accedere al conto numerato.» «Esattamente» rispose Molly, tutta efficientismo.
«Ci sono alcune formalità da espletare» replicò lui in tono di scusa. «Dobbiamo prima avere conferma della sua identità, verificare la sua firma e così via. Immagino che lei disponga di referenze bancarie negli Stati Uniti.» Molly annuì altezzosamente, tirando fuori una serie di documenti in cui c'erano tutte le informazioni del caso. Lui li prese e premette un pulsante per chiamare la segretaria, a cui li porse. Non avevamo passato nemmeno cinque minuti in chiacchiere oziose sulla Kunsthaus e le altre attrazioni obbligate di Zurigo - che il telefono suonò. Eisler sollevò la cornetta, rispose «Ja?», ascoltò qualche istante e tornò a posarla sulla forcella. Altro sorriso teso. «Miracoli della tecnologia del fax» disse. «Una volta una procedura come questa richiedeva tempi molto più lunghi. La prego...» E porse a Molly una penna a sfera e una tavoletta a molla su cui era attaccato un unico foglio con l'intestazione della Banca di Zurigo, chiedendole di scrivere il numero del conto - la sua firma numerica - in chiaro sulla sottile linea grigia stampata al centro. Dopo di che, non appena Molly ebbe finito di scrivere il numero codificato con tanta elaborata cura da suo padre, chiamò di nuovo la segretaria, consegnandole il foglio. Quindi procedette a qualche ulteriore chiacchiera disinvolta, spiegandoci che la calligrafia veniva esaminata su un visore ottico e confrontata con quella riportata sulla scheda trasmessa via fax dalla nostra banca di Boston. Il telefono tornò a suonare. Eisler sollevò la cornetta, disse «Danke» e appese. Un attimo più tardi la segretaria tornò lì portando un raccoglitore grigio contrassegnato con il numero 322069. Avevamo chiaramente superato il primo ostacolo. Il numero del conto era esatto. «Dunque» disse Eisler. «Che cosa posso fare per voi?» Avevo scelto deliberatamente di sedermi nella posizione più vicina a lui. Mi chinai in avanti. Svuotai la mente di ogni pensiero. Approfittai dell'attimo di silenzio. Mi concentrai. E la voce si fece sentire. Ma in tedesco, naturalmente, e in un contesto aggrovigliato. «Allora?» riprese Eisler, osservandomi seduto in quel modo, chino in avanti, la fronte corrugata. Non avevo sentito abbastanza. Avevo imparato il tedesco, avevo seguito
un corso intensivo presso la Fattoria, ma Eisler pensava troppo in fretta per le mie possibilità. Non ero all'altezza. «Vorremmo sapere quanto c'è sul conto» risposi. Quindi tornai a chinarmi verso di lui, mi sforzai, mi concentrai, cercai di isolare qualcosa dal flusso di parole in tedesco, qualsiasi cosa mi risultasse intelligibile, cui potessi afferrarmi. «Non mi è consentito entrare in dettagli» rispose in modi flemmatici. «E comunque non lo so.» A quel punto sentii una parola. Stahlkammer. Era senza dubbio quella la parola che mi era balzata addosso emergendo da lui. Stahlkammer. Camera blindata. «A questo numero di conto è collegata una camera blindata, vero?» chiesi. «Sì, signore» ammise. «È così. E piuttosto grossa anche.» «Voglio avervi accesso subito.» «Come desidera» rispose. «Certamente. Subito.» E si alzò dal divanetto, riflettendo con la testa calva la luce delle lampade puntiformi nascoste nel soffitto. «Immagino che disponiate del codice di accesso a combinazione.» Molly mi guardò, indicandomi che no, non ce l'aveva. «Credo sia uguale al numero di conto» risposi. Eisler fece sentire un'unica risata secca, quindi tornò a sedersi. «Non saprei proprio. Anche se, per motivi di sicurezza, di norma dissuadiamo i nostri clienti da una simile procedura. E in ogni caso non è composto dallo stesso numero di cifre.» «Forse lo abbiamo» replicai. «Ne sono sicuro... da qualche parte. Il padre di mia moglie ci ha lasciato una gran massa di documenti e appunti. Di quante cifre è composto il codice?» Lui gettò un'occhiata alla pratica. «Temo di non potervelo dire.» Invece io lo sentii, e diverse volte. Il numero che stava pensando ma che baldanzosamente non voleva dire, articolato in qualche recesso del centro del suo cervello preposto al linguaggio... Vier... Quattro cifre, intendeva dire? «Potrebbe essere di quattro cifre?» chiesi. Lui rise di nuovo, scrollando le spalle. Un gioco divertente, diceva il suo atteggiamento, ma adesso è finito. «Esiste un conto numerato che noi amministriamo e curiamo» spiegò in
tono paziente, come se stesse parlando con un bambino lento di comprendonio. «Fondi che la legge vi consente di ritirare o trasferire. Ma c'è anche una camera blindata, una sorta di grande cassetta di sicurezza, che siamo incaricati di custodire. Ma a cui non abbiamo accesso. Come stipulato dal defunto Mr. Sinclair, per aprirla occorre un codice di accesso.» «Che lei può sicuramente fornirci» intervenne Molly, chiamando a raccolta tutta la sua altezzosità. «Assolutamente no. Mi spiace.» «Lo esigo, come erede legale del conto.» «Se potessi sarei ben felice di farlo» replicò Eisler. «Ma, in base ai termini dell'accordo qui riportato, non posso.» «Ma...» «Mi spiace» disse il banchiere in tono risoluto. «Temo che non sia possibile.» «Ma io sono l'erede legale di tutti i beni di mio padre» insistette Molly in tono indignato. «Sono desolato» replicò Eisler, impassibile. «Spero proprio che non siate venuti qui fin da - da Washington, vero? - soltanto per scoprire questa realtà. Una semplice telefonata vi avrebbe fatto risparmiare tempo e denaro.» Io rimasi a sedere in silenzio, non ascoltando nemmeno lo scambio di battute e aprendo distrattamente la chiusura lampo del mio portadocumenti in pelle. E in quel momento sentii di nuovo: ...Vier... seguito da un'altra serie di numeri. Acht... Sieben... Lo tenni d'occhio mentre guardava la pratica, ed eccoli lì tutti quanti, in sequenza, chiarissimi: Vier... Acht... Sieben... Neun... Neun. «Vede, Mrs. Sinclair,» continuò il banchiere ad alta voce «si tratta di un sistema a chiave doppia, studiato...» «Sì» lo interruppi. E sfogliando gli appunti contenuti nel mio portadocumenti finsi di esaminare attentamente un foglio. «Eccolo qui. Lo abbiamo.» Eisler si interruppe, e mi scrutò con aria sospettosa. «Ottimo» disse poi, quando ebbi enunciato le cifre. «Secondo i termini fissati dai proprietari, ora che vi avete avuto accesso il conto viene trasferito da uno status di inattività a uno status attivo...» «Proprietari?» lo interruppi di nuovo. «Sono più di uno?» «Sì, signore. Si tratta di un conto a doppia firma. Uno dei proprietari è
sua moglie, in quanto beneficiaria legale.» «E l'altro?» chiesi. «Questo non posso rivelarvelo» rispose Eisler, in tono al tempo stesso di scusa e sdegnoso. «Occorre un'altra firma. A essere sincero fino in fondo, l'identità dell'altro proprietario non mi è nota. Quando il secondo proprietario si presenta con il codice di accesso, la sequenza numerica viene inserita nei nostri computer. La firma del comproprietario viene codificata nel data base, in modo che inserendo il debito codice essa viene stampata graficamente. È il sistema di sicurezza adottato dalla nostra banca per garantire che nessun dipendente possa rimanere implicato in un eventuale processo intentato contro di noi.» «In parole povere che cosa significa?» chiese Molly. «Significa» rispose Eisler «che lei è legalmente autorizzata a ispezionare la camera blindata per verificarne il contenuto. Ma senza l'autorizzazione del secondo proprietario non può né trasferirlo né ritirarlo.» Il dottor Alfred Eisler ci accompagnò a un ascensore angusto che si mosse per diversi piani. Stavamo scendendo sotto il livello della Bahnhofstrasse, spiegò, nelle catacombe. Uscimmo in un corridoio in moquette grigia, una vera e propria gabbia di sbarre d'acciaio alla cui estremità era piantata una robusta guardia di sicurezza in uniforme verde oliva, che, salutato con un cenno del capo il direttore, aprì la serratura della pesante porta in acciaio. Mentre la superavamo per inoltrarci in un altro passaggio nessuno di noi parlò, finché non arrivammo in una ristretta zona chiusa e contrassegnata dal numero Sieben. Tre pareti della gabbia erano costituite da sbarre di acciaio. La quarta invece era metallica, in cromo o acciaio temprato. Al centro si vedeva un'enorme ruota, sempre in acciaio, con sei raggi, evidentemente il meccanismo attraverso cui poteva essere fatta aprire. Presa una chiave dall'anello che portava attaccato alla cintura, Eisler fece scattare la serratura della gabbia. «Prego, sedetevi, se volete» disse, indicando un tavolino metallico al centro del locale, accanto a cui erano sistemate due sedie. In mezzo al ripiano erano posati un telefono beige senza tasti e una piccola tastiera elettronica. «La stipula del conto» riprese «prevede che nessun dipendente della banca può rimanere in questa zona mentre viene formata la combinazione. Digitate le diverse cifre lentamente, controllando sul visore elettronico di
non avere commesso sbagli. In caso contrario è consentito un secondo tentativo. Sbagliato anche quello, il meccanismo elettronico della serratura si blocca. E l'accesso viene inibito per almeno ventiquattro ore.» «Capisco» risposi. «E che cosa succede una volta inserito il codice di accesso?» «A quel punto» spiegò Eisler indicando la ruota a sei raggi «la camera blindata interna si sblocca automaticamente e voi potete girare la ruota. Non tema, è molto più semplice di quanto appaia. E la porta della camera blindata si apre.» «E una volta finito?» chiese Molly. «Quando avrete finito di esaminare il contenuto, o nel caso si presentasse un qualsiasi problema, vi prego di chiamarmi semplicemente sollevando la cornetta.» «Grazie» disse Molly, mentre lui si allontanava. Aspettammo un attimo, finché sentimmo che la seconda porta di acciaio si chiudeva. «Ben» disse Molly sottovoce. «E adesso? Che cosa diavolo...» «Pazienza.» Lentamente e con cura - le mie dita avvolte nella garza erano assai poco destre - digitai le cifre 48799, controllandone la comparsa sul piccolo visore elettronico nero. Quando ebbi digitato l'ultimo 9 si sentì un rumore meccanico sibilante, come se fosse stato rotto un sigillo. «Bingo!» esclamai. «Non riesco quasi a respirare» commentò lei con voce strozzata. Raggiunta insieme la ruota, la facemmo girare. Si mosse agevolmente sotto le nostre mani, scorrendo in senso orario e facendo sporgere in avanti e aprire un vasto settore della parete di acciaio. L'interno della camera blindata era illuminato da deboli luci fluorescenti. Con delusione vidi che era piccola. Un angusto quadrato chiuso tra quattro pareti di mattoni, di circa un metro e mezzo di lato. Vuoto. Finché, guardando meglio, mi resi conto che i nostri occhi erano stati ingannati da un'illusione ottica. Quelle che all'inizio mi erano parse le quattro pareti interne della camera blindata, in mattoni rozzamente giustapposti e uniti fra di loro, a mano a mano che i nostri sguardi si abituavano alla luce si andarono rivelando qualcosa di completamente diverso. Non si trattava affatto di mattoni. Erano lingotti d'oro, di un giallo scuro con una sfumatura rossastra. La cavernosa camera blindata era piena - quasi completamente, dal pa-
vimento al soffitto - di oro in lingotti. 46 «Mio Dio!» mormorò Molly. Io non riuscii a fare altro che restare lì a bocca aperta. Con passo incerto, quasi irritati, procedemmo nella camera blindata verso le pareti di oro massiccio. Non luccicavano e non baluginavano, come ci si sarebbe potuto aspettare. La colorazione generale era di un giallo opaco, tipo mostarda, ma a un esame più attento mi accorsi che alcuni dei lingotti ammassati gli uni sugli altri erano di un più chiaro color giallo-burro (nuovi, e di una purezza quasi pari al cento per cento), mentre altri erano di un giallo rossiccio, che indicava una certa impurità da rame: erano probabilmente il risultato di una fusione di monete d'oro miste a gioielli. All'estremità di ciascuno di essi era impresso un grosso numero di serie. Se non fosse stato per i riflessi di giallo intenso e per la patina pastosa avrebbero benissimo potuto sembrare mattoni impilati in bell'ordine, del tipo che si trova in qualsiasi cantiere. Molti mostravano abrasioni e ammaccature: erano stati prodotti in Russia almeno un secolo prima, se non di più. Alcuni sapevo che erano stati portati via all'esercito hitleriano dalle truppe vittoriose di Stalin, ma per la maggior parte si trattava di oro estratto nell'Unione Sovietica. I bordi di diversi presentavano qualche tacca: i punti in cui erano state effettuate le prove. Quelli più recenti erano di forma trapezoidale, ma per la stragrande maggioranza erano rettangolari. «Gesù, Ben» riattaccò Molly, voltandosi a guardarmi. Era rossa in viso, aveva gli occhi sbarrati. «Avevi idea?» Chissà perché, parlava sottovoce. Annuii. Andò a prendere uno dei lingotti, ma non poté sollevarlo. Ci riuscì soltanto provando con entrambe le mani e dopo qualche istante lo posò sopra gli altri, con un tonfo sordo. Poi ci affondò l'unghia del pollice. «È vero, eh?» chiese. Annuii in silenzio. Ero nervoso, naturalmente, ed eccitato. Nonché spaventato. Il mio sangue pulsava di adrenalina. Mi venne in mente una famosa frase di Lenin: «Quando avremo vinto su scala mondiale, useremo l'oro per costruire gabinetti pubblici in alcune delle più grandi città del mondo». Si sbagliava sotto diversi profili.
Mi parve più adeguata alla situazione una citazione da Plauto: «Odio l'oro. Ha convinto molti uomini ad agire male in molte maniere». Giustissimo. A richiamarmi alla realtà dal mio sogno a occhi aperti fu la vista di Molly che si afflosciava sul pavimento in cemento armato, strusciando con la schiena contro la parete di oro in lingotti. Il suo corpo sembrava essersi svuotato di ogni forza vitale. Non era svenuta ma sembrava stordita. «Chi è l'altro proprietario?» chiese sottovoce. «Non lo so» riconobbi. «Un'ipotesi?» «Non sono in grado di fare neanche quella. Non ancora, perlomeno.» Si strinse le ginocchia tra le braccia, tirandosele al petto. «Quanto?» «Eh?» «Quell'oro. Quanto è?» precisò, tenendo gli occhi chiusi. Feci scorrere lo sguardo sul locale. La pila era alta poco meno di due metri. Ogni lingotto era lungo ventitré centimetri, largo sette e mezzo e alto due e mezzo. Mi ci volle un bel po', ma alla fine contai 526 pile... Ovvero... 37.879 lingotti d'oro. Avevo calcolato bene? Ricordavo di avere letto un articolo sulla Federal Reserve Bank di New York. Me lo feci tornare in mente. La camera blindata dell'oro della Fed, che è lunga la metà di un campo di rugby, contiene qualcosa come 126 miliardi di dollari in oro, calcolando un prezzo di mercato di 400 dollari per oncia. Non sapevo quale fosse la quotazione dell'oro quando Orlov e Sinclair avevano saccheggiato il tesoro nazionale sovietico, ma 400 dollari mi sembravano una valutazione corretta ai fini del mio calcolo. No. Non andava bene. Dunque. Il più grosso scomparto di oro del caveau della Fed conteneva una parete d'oro pari a 107.000 lingotti. Per un valore di diciassette miliardi di dollari. Mi turbinava nella mente una serie di calcoli febbrili. Il volume di quella camera blindata era all'incirca un terzo del precedente. Tornai al mio calcolo originale di 37.879 lingotti. In quel momento l'oro non si vendeva più a 400 dollari per oncia ma a un quotazione più vicina ai 330 dollari. D'accordo. Di conseguenza, a 330 dollari all'oncia, un lingotto d'oro, del peso di quattrocento once troy, valeva 132.000 dollari. Il che ci portava a un totale di...
Cinque miliardi di dollari. «Cinque» dissi. «Cinque miliardi?» «Già.» «Una cifra che non riesco nemmeno a concepire» replicò lei. «E se ne sta posata lì, ben impilata... e io mi ci appoggio... ma non riesco nemmeno a concepire un valore di cinque miliardi di dollari... e per di più tutto mio...» «No.» «Per metà?» «No. Appartiene alla Russia.» Mi piantò addosso uno sguardo gelido, poi disse: «Non sei divertente». «Già. Comunque lui aveva detto dieci» la interruppi. «Che cosa?» «Qui dentro ci sono probabilmente cinque miliardi di dollari. Mentre Orlov mi ha parlato di dieci miliardi.» «Si vede che si sbagliava. Oppure ti ha mentito.» «Oppure una metà è scomparsa.» «Scomparsa? Che cos'hai in mente, Ben?» «Pensavo che avessimo finalmente trovato l'oro» riflettei ad alta voce. «Ma qui ce n'è soltanto una parte.» «Che cos'è quella roba?» chiese lei, stupita. Ficcata nella fessura tra due pile verticali d'oro, al livello del pavimento, c'era una piccola busta quadrata color écru. «Che cosa diavolo...» continuò, tirandola. Uscì agevolmente. Con gli occhi sbarrati, se la rigirò in mano, vedendo che non c'era scritto niente su nessuno dei due lati, e l'aprì con aria irritata. Dentro c'era un foglio bordato di azzurro - carta da lettere di Tiffany, a giudicare dall'aspetto - con l'intestazione Harrison Sinclair in maiuscoletto. Nel centro c'era scritto qualcosa con la calligrafia di suo padre. «E...» attaccò Molly, ma la interruppi. «Non dirlo ad alta voce. Fammi vedere.» Due righe. La prima diceva: Cassetta 322. Banque de Raspail. La seconda: Boulevard Raspail, 128, Paris 7e. Nient'altro. Il nome e l'indirizzo di una banca di Parigi. Il numero di una cassetta, presumibilmente una cassetta di sicurezza. Perché? Che cosa poteva significare? Ci trovavamo davanti a un vero e proprio gioco di scatole
cinesi: eravamo arrivati a tanto. «Che cosa?...» chiese. «Su» replicai in tono impaziente, intascando il biglietto. «Andiamo a fare ancora quattro chiacchiere con Eisler.» 47 Secondo le Vite di Plutarco: «Un uomo morto non può mordere». E credo sia stato John Dryden, due secoli or sono, a scrivere: «I morti non raccontano storie». Si sbagliavano entrambi. Hal Sinclair continuava a raccontarci storie molto tempo dopo il suo funerale, storie che rimanevano sconcertanti. Nei sei decenni passati su questa terra, il brillante vecchio mastro spione Harrison Sinclair era riuscito a creare sorpresa in centinaia di persone, amici e colleghi, superiori e subordinati, nemici di tutto il mondo e dentro Langley. Ma sembrava che anche dopo la sua morte le sorprese, le contorsioni e i ribaltamenti non fossero destinati a cessare. Chi si sarebbe mai aspettato una cosa del genere sulla scia di un morto? Nel breve lasso di tempo che occorse a Molly e me per un rapido scambio di idee a bassa voce, già l'assistente personale di Eisler era lì ad attenderci nel corridoio fuori della camera blindata. L'avevamo chiamata noi e le chiedemmo di vedere immediatamente il direttore. «C'è qualche problema?» chiese, irradiando sollecitudine dal volto. «Sì» rispose Molly, ma si fermò lì. «Saremo felici di aiutarvi in ogni modo possibile» incalzò la donna, scortandoci nell'ascensore che saliva all'ufficio di Eisler. Era tutta efficientismo, ma il suo riserbo svizzero si era vagamente sciolto: cinguettava come se nell'ora appena trascorsa fossimo diventati vecchi amici. Molly conversò con lei, mentre io rimanevo in silenzio. Intanto, nella tasca destra dei pantaloni tastavo la Glock. Essere riuscito a introdurla nella banca attraverso i metal detector non era stata un'impresa da poco, e il merito lo dovevo riconoscere all'addestramento ricevuto presso la CIA. Un mio conoscente di quei tempi, Charles Stone, una volta mi aveva raccontato come aveva fatto a contrabbandare una pistola Glock attraverso un cancelletto di sicurezza di una linea aerea all'aeroporto Charles de Gaulle di Parigi. La Glock è fatta in maniera predominante, anche se non completamente, di plastica, e lui (con una certa genialità, devo dire) l'aveva smontata nelle sue componenti, sistemando
le parti metalliche piccole nell'appiccicoso borsello degli strumenti per radersi e quelle grosse nella struttura esterna di un portaabiti - entrambi fatti passare attraverso la macchina a raggi X dei bagagli -, nascondendo addosso soltanto i tre pezzi di plastica. Tecnica che però, purtroppo, non era applicabile alla mia situazione, dal momento che non mi sarei trovato in presenza del lusso di un metal detector e, al tempo stesso, di un'apparecchiatura a raggi X per i bagagli. Quindi avrei dovuto portarmi addosso tutto quanto, e la pistola avrebbe senza dubbio fatto scattare gli allarmi. Perciò avevo elaborato un mio sistema personale, approfittando di un'anomalia presente in tutti i metal detector, che sono notevolmente meno sensibili alle estremità rispetto al centro del campo. Mentre la Glock contiene una quantità piuttosto limitata di acciaio. Quindi non avevo fatto altro che appendere la pistola a un lungo filo di nylon fissato alla mia cintura e fatto passare per un forellino che avevo aperto nella tasca destra dei pantaloni. La pistola dondolava pertanto nella gamba destra dei calzoni, vicino alla scarpa: passando per il metal detector l'avevo tenuta ferma con una mano nascosta in tasca e stretta sul filo. In sostanza, l'avevo spinta a calci oltre l'apparecchiatura tenendola ai margini del campo magnetico, dove esso è così attenuato da non individuare praticamente nulla. Naturalmente, mentre ci passavo sotto ero quasi catatonico per la paura che il mio stratagemma non funzionasse e che il mio tentativo d'imbrogliare il metal detector andasse a monte. Invece non c'erano stati incidenti, e nel corso della sosta alla toilette avevo potuto recuperare l'arma e piazzarmela con tutto comodo nella tasca dei pantaloni. Il dottor Eisler, che sembrava persino più agitato della sua assistente, ci offrì un caffè che rifiutammo. Quando si sedette sul divano di fronte a noi aveva incisa in fronte una ruga di preoccupazione. «Allora» chiese con la sua voce grave ma chic. «Quale sarebbe il problema?» «Il contenuto della camera blindata è incompleto» risposi. Mi fissò addosso per diversi istanti uno sguardo furente, poi scrollò imperiosamente le spalle. «Noi non sappiamo nulla del contenuto delle camere blindate dei nostri clienti. Siamo obbligati solo al rispetto di tutte le precauzioni in ordine alla sicurezza, tutte...» «La banca è responsabile.» Esplose una risata secca. «Temo di no. E in ogni caso sua moglie è soltanto la comproprietaria.»
«Sembra che manchi un grosso quantitativo di oro» insistetti. «Un po' troppo per essersi perso per strada. Quindi mi piacerebbe sapere dove diavolo potrebbe essere andato a finire.» Eisler espirò attraverso le narici e annuì cortesemente. Sembrava sollevato. «Mr. Ellison, Mrs. Sinclair... vi rendete sicuramente conto entrambi che io non ho la facoltà di discutere alcuna operazione.» «Visto che era stato depositato sul mio conto,» sbottò Molly «ho il diritto di sapere dove è stato spostato!» Eisler esitò un attimo, annuendo un'altra volta. «Signori. Nel caso dei conti numerati la nostra responsabilità consiste nel permettere l'accesso a chiunque corrisponda ai requisiti stipulati dalla persona o dalle persone che li hanno aperti. Oltre a ciò, al fine di proteggere tutte le persone interessate, noi dobbiamo attenerci a una riservatezza assoluta.» «Stiamo parlando del mio conto» ribatté Molly, irremovibile. «E io voglio sapere dove è andato a finire quell'oro!» «Mrs. Sinclair, in queste questioni la riservatezza è una tradizione del nostro sistema bancario nazionale, una tradizione che la Banca di Zurigo è tenuta a osservare. Mi spiace terribilmente. Se c'è qualcos'altro che posso fare...» Con un unico movimento sciolto tirai fuori la Glock e gliela puntai contro l'alta, vasta fronte. «Questa pistola è carica» dissi. «E sono prontissimo a usarla. Non...» Avendo visto che cominciava a far scorrere un piede sulla destra, seppure con la massima cautela, verso quello che riconobbi per il pulsante di un allarme non sonoro piazzato alla base della sua scrivania, a pochi centimetri di distanza, feci scattare la sicura. «Non sia così stupido da premere quell'allarme.» Mi accostai fino a portare la canna della pistola a un paio di centimetri dalla sua fronte. Non avevo più bisogno di concentrarmi, tanto i suoi pensieri ormai scorrevano in maniera comprensibile. Li coglievo in grande quantità, in precipitosi flussi, per lo più in tedesco ma con qualche brano di inglese qua e là, in vista di pronunciare frasi, obiezioni, dichiarazioni oltraggiate. «Come vede siamo disperati» dissi. La mia espressione gli fece comunque capire che, per quanto potessi essere disperato, continuavo a essere perfettamente lucido e pronto a sparargli in qualsiasi momento. «Se lei è così imbecille da spararmi,» replicò con sbalorditiva calma «non otterrà alcun risultato. Tanto per cominciare non uscirete da qui. Non
soltanto lo sparo verrà udito dalla mia segretaria, ma in questo locale ci sono dei sensori del movimento che...» Stava mentendo, come riuscii a percepire. E aveva una comprensibile paura: non si era mai trovato in una situazione del genere. «Anche ammesso che io vi fornisca l'informazione che volete,» continuò «cosa che non farò, non riuscirete di sicuro ad andarvene dalla banca.» Conclusi che su questo punto stava dicendo la verità, anche se per capire la logica delle sue asserzioni non occorreva disporre di percezioni extrasensoriali. «Sono comunque pronto a porre fine a questa sciocchezza» proseguì. «Se lei posa quell'arma e se ne va, non farò alcuna denuncia. Capisco che siete disperati. Ma minacciandomi non otterrete nulla.» «Non stiamo minacciando nessuno. Vogliamo informazioni circa un'operazione riguardante un conto che di pieno diritto, secondo le leggi bancarie americane e svizzere, appartiene a mia moglie.» Alcune gocce di sudore cominciarono a scorrergli sulla fronte, partendo dalla cupola calva e liscia della testa e scivolando lungo le linee parallele che vi erano profondamente incise. Vidi che la sua risolutezza stava vacillando. Sentii un flusso di pensieri, alcuni irritati, altri imploranti. Era in preda a un tormento di indecisione. «Qualcuno ha rimosso parte dell'oro da quella camera blindata?» chiesi sottovoce. Nein, sentii distintamente. Nein. Eisler chiuse gli occhi, apparentemente in attesa dello sparo che avrebbe posto fine alla sua vita. Il sudore ormai colava a rivoletti. «Non posso rispondere» insistette. Nessuno aveva asportato quell'oro. Però... All'improvviso mi venne un'idea. «Però c'era dell'altro oro, vero? Oro che non è stato depositato nella camera blindata.» Ressi saldamente puntata la pistola, accostandola pian piano finché la canna arrivò a toccargli la tempia umida di sudore. Gliela premetti sulla pelle, che si compresse formando tanti piccoli segni di tensione tutto attorno all'estremità della canna. «Per favore» mormorò. Ora i suoi pensieri mi arrivavano veloci e aggrovigliati, incoerenti. Non riuscivo a distinguerli. «Una risposta» incalzai «e ce ne andremo.»
Inghiottì, chiuse gli occhi e poi tornò ad aprirli. «C'è stata un'unica spedizione» mormorò. «Dieci miliardi di dollari in lingotti d'oro. Li abbiamo ricevuti qui alla Banca di Zurigo.» «E dove sono andati a finire.» «In parte nella camera blindata. Quella che avete visto voi.» «E il resto?» Inghiottì di nuovo. «Trasformato in liquidi. Abbiamo fornito la nostra assistenza alla vendita attraverso mediatori d'oro con cui trattiamo in termini di riservatezza. È stato fuso e rimodellato.» «Per un valore di?» «Forse cinque... forse sei...» «Miliardi?» «Sì.» «Ed è stato convertito in liquidità. Contanti?» «Il valore è stato trasferito con un bonifico.» «Dove?» Tornò a chiudere gli occhi. I muscoli gli si tesero come se stesse pregando. «Non posso rispondere.» «Dove?» «Non devo rispondere.» «A Parigi?» «No... per favore, non posso...» «Dove era indirizzato quel bonifico?» Deutschland... Deutschland... München... «A Monaco?» «Dovrà uccidermi» mormorò, sempre a occhi chiusi. La sua risolutezza mi sorprese. Che cosa lo aveva preso? Che cosa lo sorreggeva in questa stupida determinazione? Stava tentando di smascherare il mio bluff? A questo punto doveva sicuramente aver capito che non stavo bluffando. Ma anche se così fosse stato, avendo una pistola puntata alla fronte, quale uomo in possesso delle sue facoltà mentali avrebbe affrontato il rischio che stessi bluffando, che la pistola fosse scarica? Quell'uomo preferiva essere ucciso piuttosto che violare la riservatezza bancaria svizzera! Si sentì un vago rumore liquido e vidi che aveva perso il controllo della vescica. Una macchia scura gli si stava allargando sul cavallo dei pantaloni. La sua paura era autentica. Aveva gli occhi ancora chiusi ed era immo-
bile, paralizzato dal timore. Ma non rinunciai. Non potevo. Premendogli ancora di più la canna contro la tempia dissi lentamente: «Vogliamo solo un nome. Ci dica dov'era indirizzato quel bonifico. A chi. Ci fornisca un nome». Ora il corpo di Eisler era in preda a un evidente tremito. Non soltanto gli occhi erano chiusi, ma le palpebre erano serrate, contorte in piccoli noduli grinzosi di tensione muscolare. Il sudore gli colava sul viso, sulle mascelle, sul collo, formandogli una chiazza scura sul bavero dell'abito grigio e macchiandogli la cravatta. «Ripeto. Voglio un nome. Nient'altro.» Molly mi guardava con due occhi pieni di lacrime. Per lei la scena era eccessiva. "Tieni duro, Molly" avrei voluto dirle. "Resisti." «E lei sa qual è il nome che voglio.» Lo ebbi nel giro di un minuto. Rimase in silenzio. Le labbra tremavano come se fosse sul punto di scoppiare a piangere. Ma resistette. Non parlò. Pensava. Non parlava. Stavo per abbassare l'arma quando mi venne in mente un'altra domanda. «Quando è stata l'ultima volta che dei fondi gli sono stati trasferiti da questa banca?» Questa mattina, pensò Eisler. E serrò ancora di più gli occhi. Gocce di sudore gli rotolavano sul naso, sulle labbra. Quel mattino. A quel punto, abbassata la pistola, conclusi: «Bene. Vedo che lei è un uomo con una volontà di acciaio». Aprì lentamente gli occhi, guardandomi. Vi vidi una grande paura, certo, ma anche qualcos'altro. Una punta di trionfo, mi parve, un lampo di sfida. E finalmente parlò. Con voce incrinata. «Vi spiacerebbe uscire dal mio ufficio?» «Lei non ha parlato» insistetti. «È ammirevole.» «Vi spiacerebbe uscire...» «Non intendo ucciderla» continuai. «Lei è un uomo d'onore, sta facendo il suo mestiere. Ma se possiamo convenire tra noi che tutto questo non sia mai successo, se accetta di non denunciare il fatto e di lasciarci uscire indisturbati dalla banca, metteremo fine a questa storia. Ce ne andremo.» Sapevo bene che non appena avessimo lasciato la banca avrebbe telefo-
nato alla polizia - nei suoi panni lo avrei fatto anch'io -, ma questo ci avrebbe concesso alcuni preziosissimi minuti di vantaggio. «Va bene» disse. E la sua voce tornò a incrinarsi. Si raschiò la gola. «Uscite subito di qui. E se avete una sola briciola di buon senso, cosa di cui dubito fortemente, andatevene subito anche da Zurigo.» 48 Uscimmo a passi veloci dalla banca, mettendoci addirittura a correre nella Bahnhofstrasse. Eisler sembrava essersi attenuto all'accordo di lasciarci uscire dall'edificio (per la sicurezza sua e dei dipendenti) ma calcolavo che a quel punto doveva aver avvertito sia le guardie private della banca sia la polizia. Aveva i nostri nomi veri, anche se non quelli di facciata - fatto in sé incoraggiante -, ma era probabilmente soltanto questione di ore, se non meno, perché venissimo catturati. E una volta che gli scagnozzi dei "Saggi" fossero venuti a sapere che ci trovavamo lì, se non lo sapevano già... No, non volevo ragionare in quei termini. «L'hai saputo?» mi chiese Molly mentre correvamo. «Sì. Ma non possiamo parlarne adesso.» Ero all'erta, tenevo d'occhio tutti i passanti in cerca dell'unico volto che avevo riconosciuto, lo slavato viso del biondo aspirante assassino che avevo visto per la prima volta a Boston. Non lo vidi. Ma un istante dopo avvertii che avevamo di nuovo qualcuno con noi. Ci sono dozzine di modi per pedinare una persona, ed è raro che un agente veramente in gamba venga scoperto. Il problema del biondo era che, nel gergo dei servizi, lo avevo "fatto": lo avevo riconosciuto. Non poteva sperare di seguirmi senza che me ne accorgessi, tranne nel più approssimativo dei pedinamenti. E in effetti non lo vidi mai nei nostri paraggi. Ma, come avrei scoperto di lì a poco, c'erano altri inseguitori che non conoscevo. D'altra parte, nell'affollato traffico pedonale della Bahnhofstrasse sarebbe stato difficile, se non impossibile, individuarli. «Ben» attaccò Molly, ma le gettai un'occhiata furibonda che la zittì sull'istante. «Non adesso» replicai con un soffio di voce. Arrivati alla Barengasse svoltai a sinistra e lei mi seguì. Le vetrine dei negozi mi offrivano un'ottima superficie riflettente per tenere sotto controllo chi ci stesse seguendo, ma non individuai nessuno in maniera evidente.
Era probabile che, essendosi fatto scoprire quando stavamo entrando nella banca, il biondo avesse deciso di tenersi in disparte. Ormai erano in ballo altre persone che lavoravano con lui. E avrei dovuto individuarle. Molly si lasciò sfuggire un lungo sospiro tremulo. «È una follia, Ben. Stiamo correndo un pericolo tremendo.» La sua voce si abbassò. «Senti, mi ha dato un fastidio tremendo vederti puntare una pistola alla testa di quell'uomo. Come mi ha dato fastidio vedere gli effetti che la cosa ha avuto su di lui. Sono sistemi veramente disgustosi.» Stavamo inoltrandoci nella Barengasse. Avvertivo la presenza degli altri pedoni tutto attorno a noi, ma non ero ancora in grado di fissare l'attenzione su qualcuno in particolare. «Le armi?» chiesi. «Mi hanno salvato la vita in più di un'occasione.» Fece un profondo sospiro. «Lo diceva sempre anche papà. Mi ha persino insegnato a usarle.» «Fucili? O che cosa?» «Armi corte. Una .38 e una .45. E in effetti me la cavavo abbastanza bene. Ero un asso, se proprio vuoi saperlo. Ma non appena sono stata in grado di colpire il centro di un bersaglio della polizia a cento metri di distanza ho posato la pistola di mio padre e non ho mai più sparato in vita mia. Gli ho anche detto di non tenerne più in casa.» «Ma se dovessi usarne una per difendere te stessa o me?» «Lo farei, naturalmente. Ma non mettermi mai nelle condizioni di doverlo fare.» «Non lo farò. Te lo prometto.» «Grazie. Ma con Eisler era proprio necessario comportarsi in quel modo?» «Sì, temo proprio di sì. Se non altro adesso dispongo di un nome. Di un nome e di un conto che con ogni probabilità ci riveleranno dov'è andato a finire quell'oro.» «E la Banque Raspail di Parigi?» Scossi il capo. «Non so che cosa significhi quel biglietto. A chiunque fosse destinato.» «Ma perché mai mio padre ha lasciato lì quel biglietto?» «Non so.» «Se c'è una cassetta di sicurezza dovrebbe esserci anche una chiave, no?» «In genere sì.»
«Quindi che fine ha fatto?» Scossi il capo. «Noi non l'abbiamo. Ma un sistema per accedere a quella cassetta dev'esserci. Prima, però, Monaco. Se c'è modo di intercettare Truslow prima che gli capiti qualcosa, lo scoprirò.» Eravamo sfuggiti ai pedinatori? Lecito dubitarne. «E Toby?» chiese Molly. «Non sarà il caso che tu lo informi?» «Non possiamo rischiare di metterci in contatto con lui. Né con lui né con altre persone della CIA, a questo punto.» «Ma potremmo avere bisogno del suo aiuto.» «Non mi fido.» «E se cercassi di raggiungere Truslow adesso?» «Sì» risposi. «Potrebbe essere in viaggio per la Germania. Ma se riuscissi a fermarlo...» «Eh?» A metà della risposta deviai bruscamente verso una cabina telefonica stradale. Certo, era troppo, di gran lunga troppo rischioso fare una telefonata all'ufficio di Truslow presso la CIA, ma c'erano altre possibilità. Anche lì, anche improvvisando sui due piedi. C'erano. In piedi per strada, con Molly accanto a me, feci girare uno sguardo attento su ciò che mi circondava. Nessuno... per il momento. Con l'assistenza di una centralinista internazionale chiamai una struttura privata di comunicazioni a Bruxelles. Una volta ottenuto il collegamento mi introdussi in una sequenza di numeri che trasferì la chiamata a un sistema piuttosto complicato di rinvio delle telefonate al punto di partenza, un cerchio chiuso. La chiamata che feci subito dopo, a chi avesse tentato di risalire all'origine, sarebbe parso che partisse da Bruxelles. Mi rispose l'assistente esecutivo di Truslow. Gli diedi un nome che Truslow avrebbe riconosciuto come una mia copertura e gli chiesi di passarmelo. «Mi spiace, signore» rispose. «In questo momento il direttore è a bordo di un aereo militare in volo sopra l'Europa.» «Ma è accessibile attraverso un collegamento via satellite» insistetti. «Non mi è consentito, signore...» «È una situazione di emergenza!» gridai quasi. Bisognava raggiungere Truslow per avvertirlo dei pericoli che comportava il suo ingresso in Germania. «Mi spiace, signore» replicò.
Appesi. Era troppo tardi. In quel momento sentii pronunciare il mio nome. Mi voltai a guardare Molly, che però non aveva detto niente. O, perlomeno, avevo pensato di sentire il mio nome. Una sensazione veramente strana. Sì, senza dubbio il mio nome. Mi guardai attorno per la strada. Ed eccolo di nuovo, pensato, non pronunciato, ma senza il minimo dubbio. Sì, però non si trattava affatto di un uomo ma di una donna. I miei inseguitori erano persone rigorosamente rispettose delle uguali opportunità. La donna sola, accanto a un'edicola a poca distanza da me, apparentemente assorta in una copia di Le canard enchainé, giornale satirico francese. Tra i trenta e i quaranta, capelli corti rossastri, abito professionale color verde oliva. Di struttura poderosa, a giudicare da quanto potevo vedere. Senza dubbio molto esperta nel suo mestiere, che sospettavo non essere limitato ai pedinamenti. Ma se pure era uno degli inseguitori, le mie deduzioni non potevano spingersi più in là. Al servizio di chi? Degli esponenti della CIA contro cui Truslow mi aveva messo in guardia? Dei Saggi? O di gente collegata con Vladimir Orlov, al corrente dell'esistenza dell'oro e del fatto che io ero sulle sue tracce? I datori di lavoro di quella donna sapevano che ero andato alla Banca di Zurigo. E sapevano che ne ero uscito a mani vuote... A mani vuote, certo, ma a questo punto con un notevole bagaglio d'informazioni. Il nome di un tedesco di Monaco che era stato il destinatario di circa cinque miliardi di dollari. Ora toccava a me. «Mol» dissi, il più sottovoce possibile. «Devi andartene da qui.» «Che cosa...» «Parla sottovoce. Comportati come se niente fosse.» E sorrisi, come se avessi detto una battuta scherzosa. «Abbiamo compagnia. Voglio che tu vada via da qui.» «Ma dove?» chiese, spaventata. «Va' a recuperare i nostri bagagli al deposito della stazione ferroviaria» mormorai. Riflettei qualche istante. «Poi va' al Baur-au-Lac, sulla Talstrasse. Lo conosce qualsiasi tassista, in tutta la Svizzera. C'è un ristorante che si chiama Grillroom. Ci vediamo lì.» E le porsi il mio portadocumenti in pelle. «Portatelo dietro.»
«Ma e se...» «Fila!» Febbrilmente mi replicò sottovoce: «Non sei in condizioni di affrontare alcun pericolo, Ben. Le tue mani... l'abilità...». «Va' via!» Mi scoccò un'occhiata di fuoco e poi, senza alcun preavviso, si girò di scatto, allontanandosi a grandi passi. Magnifica recitazione: la sua reazione era stata così naturale che qualsiasi osservatore avrebbe pensato che avessimo litigato. La rossa sollevò bruscamente gli occhi dal giornale per seguirla un attimo con lo sguardo, voltandosi a guardarmi e poi tornando alla sua lettura. Aveva deciso di stare addosso a me, sua preda principale. Bene. Di punto in bianco feci dietrofront, allontanandomi di gran carriera. Con la coda dell'occhio vidi che la rossa aveva abbassato il giornale e, lasciando perdere ogni prudenza e finzione, mi stava correndo dietro. Subito davanti a me vidi una stradina stretta, poco più di un vicolo. Vi svoltai bruscamente. Dalle Barengasse alle mie spalle sentii arrivare delle grida e i passi della donna. Mi appiattai contro un muro di mattoni, vidi l'abito oliva precipitarsi nel vicolo al mio inseguimento, feci scattare la sicura della Glock e sparai. Si sentì un gemito, una forte espirazione. La donna fece una smorfia, cadde in avanti, ma recuperò l'equilibrio. L'avevo colpita alla parte superiore di una gamba, forse in una coscia. Senza un attimo di pausa scattai in avanti, sparandole di nuovo, anche se non direttamente addosso ma tutto attorno a lei, sfiorandole la testa e le spalle. Perso per un istante l'equilibrio, piegò il corpo prima sulla destra e poi sulla sinistra, finché, recuperato l'equilibrio, mi puntò contro a sua volta una pistola, prendendo la mira un attimo di troppo, finché... ... la sua mano si aprì di scatto. Una mia pallottola le era entrata nel polso. L'arma cadde a terra con un forte rumore metallico e le fui addosso in un solo balzo. La buttai a terra, affondandole il gomito nella gola e bloccandola in quella posizione con la sinistra. Per un attimo rimase immobile. Era ferita alla coscia e al polso, il sangue le aveva intriso la seta dell'abito color oliva in diversi punti. Ma aveva una forza enorme ed era agilissima. Scattò indietro con un soprassalto di energia, facendomi quasi cadere, finché il mio gomito destro tornò a premere con forza sulla cartilagine della sua gola.
Con un movimento rapido mi impadronii della sua pistola - una piccola Walther - che mi ficcai in una tasca della giacca. Così disarmata e soffrendo moltissimo per il dolore, l'aspirante assassina si lasciò sfuggire un gemito, un suono basso, gutturale, animale. Le puntai contro la mia pistola, mirando precisamente tra i suoi occhi. «Questa pistola può sparare sedici colpi» le dissi a voce bassissima. «Ne ho usati cinque. Ne rimangono undici.» I suoi occhi si spalancarono, ma in fiero tono di sfida, non di paura. «Non esiterò a ucciderti» continuai. «Penso che tu mi creda, ma in caso contrario pazienza. Ti ammazzerò perché devo farlo, per proteggere me stesso e altri. Anche se per il momento preferirei non farlo.» I suoi occhi si strinsero leggermente, come se volesse manifestare il suo assenso. In quel momento sentii un suono di sirene, sempre più forti, quasi lì. Era forse convinta che l'arrivo della polizia le avrebbe offerto l'opportunità di scappare? Rimasi in ogni caso con la pistola puntata, pronto a fare fuoco, sapendo che era una professionista, dotata con ogni probabilità di un coraggio omicida e per di più pagata molto profumatamente per ciò che valeva. Avrebbe fatto qualsiasi cosa. Ma calcolavo che, concessale l'opportunità, avrebbe preferito non morire. È un istinto umano, e anche quell'assassina ne aveva sicuramente qualcuno. Dovevo portarla il più lontano possibile dalla strada in modo che nessuno di noi due risultasse visibile. «Adesso» dissi «voglio che tu ti rimetta in piedi. Poi fai dietrofront e che ti avvii pian piano. Ti dico io dove andare. Se commetti la stupidaggine di fare qualcosa di sbagliato, non esiterò a sparare.» Mi raddrizzai, sollevai il gomito dalla sua gola ormai piena di lividi e, continuando a puntarle la Glock in mezzo alla fronte, la tenni d'occhio mentre con molta lentezza, e provando un gran dolore, si sforzava di tirarsi in piedi. A quel punto fece sentire le prime parole dirette a me. «Non farlo» disse, con un indeterminato accento europeo. «Voltati» replicai. Lo fece, lentamente, e io procedetti a una rapida perquisizione con la mano libera. Non trovai niente, né una seconda pistola né un pugnale. «Adesso muoviti» proseguii, ficcandole la canna della pistola nella nuca e pungolandola ad andare più in fretta.
Quando fummo arrivati a una nicchia buia e deserta in fondo all'edificio ve la spinsi bruscamente, sempre tenendole la Glock puntata alla nuca. Quindi le ordinai: «Voltati». Lo fece piano. Aveva un'espressione irritata, recalcitrante. Visto da vicino, il volto era squadrato, persino mascolino, ma non brutto. Si preoccupava del proprio aspetto, non so se per motivi di vanità o di copertura. Usava un eye liner azzurro e un ombretto di un celeste molto chiaro mescolato con lustrini appena avvertibili. Sulle labbra, tonde, imbronciate, era steso un rossetto di un colore vivace. «Chi sei?» chiesi. Non rispose. Colsi un leggero tic sotto il suo occhio sinistro, ma a parte quello il suo viso rimase perfettamente immobile. «Non sei nelle condizioni di fare la dura» insistetti. La guancia sinistra fu scossa dal tic ma gli occhi continuarono a guardarmi con un'espressione annoiata. «Chi ti ha ingaggiato?» Niente. «Ah, una vera professionista» dissi. «Sono così scarsi, di questi tempi. Devi beccare un bel po' di grano.» Tic, silenzio. «Chi è il biondo?» insistetti. «Il pallidone.» Ancora silenzio. Mi gettò un'occhiata, come se stesse per dire qualcosa, poi lasciò perdere lo sguardo nel vuoto. Era molto brava a dissimulare la paura. Per un attimo valutai l'opportunità di minacciarla di nuovo, ma poi mi venne in mente che disponevo di un altro mezzo per apprendere ciò che mi interessava. Altre risorse, altre facoltà. Mi ero dimenticato il vero motivo che mi aveva portato lì. Mi accostai, continuando a tenerle puntata la pistola tra gli occhi. Mi venne immediatamente incontro il flusso di rumore indistinto che avevo ormai imparato a riconoscere, il solito groviglio di sillabe e suoni. Stranamente, però, si trattava di quelli che ormai sapevo essere i pensieri "udibili" di una persona che non ha paura. E in una lingua che non riconobbi. La guancia sinistra continuava a vibrare per la tensione, un'emozione che ciascuno di noi sperimenta in maniere diverse. Quella donna era stata spinta in una nicchia buia con un'arma semiautomatica puntata addosso, eppure non aveva paura.
Esistono varie droghe che nell'ambiente delle operazioni clandestine vengono somministrate agli agenti per mantenerli in stato di imperturbabilità e freddezza, una vera e propria farmacopea di bloccanti e ansiolitici a livello sperimentale, e così via, scoperti nel corso degli anni e impiegati per mantenere calmi ma lucidi gli agenti sul campo. E forse quella donna era sotto l'effetto di qualcosa del genere. Oppure era eccezionalmente controllata, uno di quei particolari esemplari umani, affetti da sociopatia o da Dio sa che cosa, che non vivono la paura come tutti noi e che perciò risultano molto adatti al loro strano tipo di professione. Si era arresa non per paura ma per un calcolo molto razionale. Avrei scommesso che aspettava di sorprendermi non appena avessi abbassato la guardia. Ma nessuno è totalmente privo di paura. Senza, non si è umani. A un certo livello la proviamo tutti. Ci tiene in vita. «Il nome di quell'uomo» chiesi con un filo di voce. E strinsi il dito sul grilletto blu metallico, appena appena ma in maniera perfettamente avvertibile, dicendomi che se necessario l'avrei dovuta uccidere. Max. Sentii, nel suo timbro di voce cristallina, una sillaba chiarissima. Max. Un nome, immaginai. Comprensibile in qualsiasi lingua. «Max» ripetei ad alta voce. «Max come?» Il suo sguardo incrociò il mio senza timore o sorpresa. Soltanto indifferenza. «Me lo avevano detto che sei in grado di farlo» disse, facendo finalmente sentire la propria voce. Sì, l'accento era europeo. Non francese ma... scandinavo? Finlandese o norvegese?... Scrollò le spalle. «So molto poco. È per questo che sono stata ingaggiata.» Finalmente riconobbi l'accento. Olandese, o forse fiammingo. «Saprai anche molto poco,» replicai «ma non puoi non sapere niente. Altrimenti non serviresti a niente. Ti sono state fornite istruzioni, nomi in codice eccetera. Qual è il cognome di Max?» Max, sentii di nuovo. «Mettimi alla prova» ribatté con una punta d'impertinenza. «Qual è il cognome?» «Non lo so» rispose, sporgendo leggermente le labbra. «E comunque sono sicura che Max non è nemmeno il suo vero nome.» Annuii. «Sono sicuro che hai ragione. Ma da che parte sta?»
Altra alzata di spalle. «Chi ti ha ingaggiato?» «Intendi dire la ditta che compare sulla mia busta paga settimanale?» ribatté con un sorriso di scherno. Mi chinai per accostarmi di più finché sentii il suo alito caldo sul viso, la dock sempre puntata su di lei, per tenerla schiacciata contro il muro di mattoni con la sinistra. «Come ti chiami?» chiesi. «Almeno questo penso che lo saprai.» L'espressione del suo viso non cambiò. Zanna Huygens, pensò. «Di dove sei, Zanna?» Tirati indietro, rompicazzo, sentii dire. In inglese. Tirati indietro. Parlava l'inglese, il tedesco, il fiammingo. Era probabilmente una dei tanti killer fiamminghi che le organizzazioni spionistiche usano come liberi professionisti. La CIA se ne serviva, come anche degli olandesi, non perché fossero particolarmente in gamba ma per la loro naturale facilità nei confronti di molte lingue, che rendeva loro facile insinuarsi ovunque nel mondo nascondendo la propria vera identità. Qualcos'altro che non capii. Un'espressione fluttuante, ripetuta diverse volte: il nome il nome il nome. Il nome rompicazzo il nome dimmi il nome... Il nome dimmi il nome. «Non so niente» mi sputò addosso, sporcandomi la faccia con la saliva. Un tremito alla guancia sinistra, le perfette labbra cremisi sporte in un broncio seccato. Poi, riflettuto un attimo, cominciò a parlare. «Lo so che sei una specie di scherzo di natura» disse. E senza alcun preavviso le sue parole cominciarono a fluire abbondanti nel loro compassato, cantilenante accento fiammingo. «So che sei stato addestrato dalla CIA. E so che hai questa strana caratteristica, che ogni tanto senti le voci dentro la testa degli altri, della gente che ha paura, non so esattamente come, né perché né da dove ti sia venuta questa cosa né se magari ci sei nato...» Blaterava, parlava quasi a vanvera, e all'improvviso capii che cosa stava tentando di fare. Parlava ininterrottamente in modo da tenere occupato il centro del cervello preposto al linguaggio con una serie di parole probabilmente provate in anticipo. Se si continua a parlare senza sosta, infatti, il cervello è troppo occupato a produrre i pensieri che portano al discorso articolato, troppo
impegnato perché ci si possa insinuare e leggerlo. «... né perché tu sia qui,» continuò «però so che hai fama di essere spietato e sanguinario e so anche che non sei destinato a tornare negli Stati Uniti vivo, anche se potrei probabilmente esserti di un qualche aiuto, perciò per favore non ammazzarmi, ti prego di non ammazzarmi, stavo soltanto facendo il mio lavoro, e ti sarai accorto che non ti ho sparato addosso, per favore...» Per un attimo mi chiesi se stesse davvero implorandomi. Era paura quella che vedevo nei suoi occhi? Forse l'ansiolitico aveva finito il suo effetto, oppure la tensione e il terrore avevano finalmente cominciato a penetrare sotto la sua dura scorza. Ma mentre inspiravo, pensando a come reagire, di punto in bianco mi tese le mani verso la faccia, puntando con le unghie affilate alle orbite e lanciando acute grida, assordanti. Nello stesso tempo mi piantò con violenza il ginocchio nell'inguine, il tutto in un unico, stupefacente, spaventevole istante. Reagii con un certo ritardo, ma non del tutto, puntando la pistola, con il dito bendato stretto in maniera incerta sul grilletto, ma lei mi mollò una botta alla mano, cercando di far cadere la pistola, che però non cadde affatto. Una mossa, comunque, che mi fece arretrare istintivamente, trasmettendo in tal modo la stretta necessaria al grilletto. La sua testa esplose. L'aria venne espulsa dai suoi polmoni con un rumore liquido. Cadde a terra. Con la massima calma mi chinai su di lei e la frugai, in cerca di una documentazione qualsiasi, carte, portafoglio, ma senza trovare altro se non un borsellino contenente pochi soldi in valuta svizzera, probabilmente lo stretto indispensabile per portare a termine la missione di quel mattino. Poi tagliai la corda. Per un lungo, angosciante momento, mentre facevo scorrere lo sguardo sulla sala del Grillroom presso il Baur-au-Lac, seppi che Molly era morta. Seppi che l'avevano beccata. Come la volta prima, ero sfuggito all'aggressione ma loro si erano presi mia moglie. Il Grillroom è un posto confortevole, dall'aria del club privato, con american bar, grande camino in pietra e tanti bravi professionisti seduti a tavola davanti a un piatto di émincé de turbot. Un locale in cui, così inzaccherato e macchiato di sangue, ero decisamente fuori posto. Infatti avevo già attirato diversi sguardi infastiditi, carichi di disapprovazione. Mentre mi voltavo per andarmene, una giovane cameriera mi si avvicinò in gran fretta, chiedendomi: «Mr. Osborne?».
Mi ci volle un attimo per ricordare che era la mia facciata. «Perché me lo chiede?» Rispose con un cenno timido della testa, porgendomi un biglietto piegato. «Da parte di sua moglie, signore» disse, rimanendo davanti a me in attesa mentre l'aprivo. Ma non appena le ebbi dato un biglietto da dieci franchi scomparve. La Ford Granada azzurra qui davanti c'era scritto, con la calligrafia di Molly. 49 Quando ci arrivammo, Monaco era buia, una serata limpida e frizzante punteggiata di tremule luci urbane. Avevamo recuperato il bagaglio dal deposito presso la Hauptbahnhof di Zurigo ed eravamo montati sul treno delle 15.39, arrivando a Monaco alle 20.09. Avevamo avuto un attimo di timore al passaggio della frontiera con la Germania, mi ero preparato ad affrontare un controllo del passaporto. C'era infatti stato tutto il tempo perché i nostri documenti falsi venissero inviati per fax alle autorità tedesche, in particolare se la CIA aveva messo l'operazione in priorità, come avrei scommesso. Ma è cambiato tutto. I tempi in cui poteva capitare di essere svegliati di soprassalto dalla porta dello scompartimento che scorreva con violenza, mentre una voce abbaiava in tedesco «Deutsche Passkontrolle!» appartengono ormai alla storia. L'Europa si sta unificando, i controlli dei passaporti sono rari. Esausto ma teso, ansioso, eccitato, in treno avevo cercato di dormire ma non ci ero riuscito. Cambiammo un po' di soldi in stazione centrale all'agenzia della Deutsche Verkehrs-Bank, dopo di che provvidi a prenotare una camera per la notte. Il Metropol, che offre l'unico vantaggio di essere proprio di fronte alla Hauptbahnhof, era completo, ma riuscii a trovare una camera al Bayerischer Hof und Palais Montgelas di Promenadeplatz, in pieno centro e incredibilmente caro. Ma, com'è ben noto, nel mare in tempesta qualsiasi porto... eccetera. Da una cabina telefonica cercai Kent Atkins, residente della CIA a Monaco. Atkins, mio vecchio compagno di bevute ai tempi di Parigi, come ho già detto, era amico di Edmund Moore. Inoltre, ciò che più conta, era stato lui a consegnare a Moore i documenti che mettevano in guardia contro l'e-
sistenza di qualcosa di "sinistro" all'interno dell'agenzia. Quando finalmente lo trovai a casa erano circa le nove e mezzo di sera. Rispose al primo squillo. «Sì?» «Kent?» «Sì?» La sua voce era brusca, all'erta, ma sembrava che lo avessi svegliato. Una delle capacità fondamentali che si acquisiscono nel nostro mestiere è di svegliarsi di colpo e di tornare perfettamente lucidi nel giro di un secondo. «Vai a letto presto, ragazzo. Sono appena le nove di sera.» «Chi parla?» «Padre John.» «Chi?» «Père Jean.» Un vecchio scherzo tra noi, una citazione di cui speravo si ricordasse. Lunga pausa di silenzio. «Chi... Oh, Dio! Dove sei?» «Possiamo vederci per berne uno, o qualcosa del genere?» «Non si può rimandare?» «No. Tra mezz'ora all'Hofbraühaus?» «Perché non ci vediamo nell'atrio dell'ambasciata americana, allora?» ribatté subito in tono sarcastico. Capii l'antifona e sorrisi tra me. Molly mi stava guardando con aria preoccupata. La rassicurai con un cenno del capo. «Ci vediamo in Leopold» concluse Atkins, e appesi. Leopold, come sapevo perfettamente - e lui sapeva che lo sapevo - significava Leopoldstrasse, a Schwabing, la zona settentrionale della città. E più nello specifico significava l'Englischer Garten, un luogo fatto apposta per gli appuntamenti, e in particolare il Monopteros, un tempio classicheggiante costruito nella prima metà del XIX secolo su un'altura nel parco. Perfetto per un "appuntamento alla cieca", come li definiamo noi spioni. Invece di prendere la U-bahn direttamente dalla stazione ferroviaria, comportamento che presentava qualche rischio, uscimmo e camminammo per un po', procedendo a zig zag fino in Marienplatz, sempre affollata e oppressa dalla mostruosità gotica del nuovo municipio, con la sua facciata grigia spaventosamente illuminata di notte, e, sull'angolo a sudovest, dalla notevole barbarie di un grande magazzino moderno che distrugge totalmente l'unità gotico-kitsch della piazza, per quanto orrenda. In un certo senso la Germania non era cambiata dall'ultima volta che l'a-
vevo vista. Mi rassicurò vedere una folla in attesa davanti a un semaforo rosso della Maxburgstrasse mentre non c'era in vista una sola automobile e tutti avrebbero potuto attraversare in massa senza che se ne accorgesse nessuno. Ma per i tedeschi la legge è la legge. Un giovane saltellava alternativamente su un piede e sull'altro, in preda a disperata impazienza, come un cavallo che mordesse il freno, ma neanche lui avrebbe mai violato l'etichetta civica. Eppure sotto alcuni aspetti la Germania era cambiata drasticamente. La folla di Marienplatz era più chiassosa e minacciosa della solita calca serotina che vi si vedeva una volta. Skinhead neonazisti sostavano in piccole bande gonfie di spregio, gettando insulti razzisti ai passanti. Gli edifici gotici, peraltro lindi, erano coperti qua e là di graffiti. Ausländer raus e Kanacken raus, vi si leggeva, ovvero Via gli stranieri in vari gradi di violenza. Tod alle Juden und alle Ausländerpack, Morte agli ebrei e alle orde straniere. Deutschland ist stärker ohne Europa, La Germania è più forte senza Europa. Insulti agli ex tedeschi dell'est: Ossi-Parasiten. Tracciata con lo spray su un ristorante elegante si leggeva un'evocazione dei tempi passati: Deutschland für Deutschen, ovvero La Germania ai tedeschi. E un'unica scritta malinconica: Für mehr Menschlichkeit, gegen Gewalt, ovvero: Per una maggiore umanità, contro la violenza. Dozzine di senza casa dormivano su cartoni stesi sopra le grate. Molti negozi erano sbarrati con assi, diverse vetrine erano sfondate e non riparate, molte attività commerciali avevano un aspetto moribondo. Wegen Geschäftsaufgabe alle Waren 30% billiger, diceva un insegna. Si liquida tutto al 30% per chiusura. Monaco sembrava una città che avesse perso la testa. Mi chiesi se non fosse così anche tutto il resto del Paese, che stava soffrendo la più grossa crisi economica dai giorni immediatamente precedenti alla presa del potere da parte di Hitler. Molly e io prendemmo la U-bahn da Marienplatz a Mùnchner Freiheit, dove ci inoltrammo per i vialetti asfaltati dell'Englischer Garten, sulla riva del laghetto artificiale, fino alla torre cinese. Avvistammo immediatamente il Monopteros, che mi ha sempre dato l'idea di un Jefferson Memorial affetto da bulimia, tutto colonne panciute e capitelli riccioluti. Lo aggirammo in silenzio. Negli anni Sessanta il Monopteros era un punto d'incontro per gli sfaccendati, i dimostranti eccetera. Ora invece sembrava il posto dove si davano appuntamento ragazzi di entrambi i sessi in blusa di college americano e giaccone di cuoio.
«Perché credi che i soldi siano stati trasferiti a Monaco?» chiese Molly. «La capitale finanziaria della Germania non è Francoforte?» «Sì. Però Monaco è il centro manifatturiero. La capitale industriale del Paese oltre che la capitale politica della Baviera. La vera città dei soldi. A volte viene definita la capitale occulta della Germania.» Eravamo in anticipo o, piuttosto, Atkins arrivò in ritardo, nella sua antiquata Ford Fiesta ridotta a poco più di alcuni strati di ruggine tenuti assieme con nastro isolante. Aveva la radio al massimo volume, o forse era un nastro: Donna Summer nel classico She Works Hard for the Money. Ricordavo che a Parigi aveva un'imbarazzante propensione per le discoteche. La musica cessò soltanto quando spense il motore, lasciando che l'auto andasse a fermarsi scoppiettando a una cinquantina di metri da noi due. «Bella macchina» gli gridai mentre si avvicinava. «Molto gemütlich.» «Molto merdosa» ribatté senza sorridere. Sul suo viso si leggeva una forte tensione, la stessa ansia che avevo colto nella sua voce. Atkins era tra i quaranta e i cinquanta, snello, con un gran ciuffo di capelli prematuramente imbiancati in netto contrasto con i folti sopraccigli neri. Aveva un viso allungato e sottile, praticamente privo di labbra, ma comunque era abbastanza un bell'uomo. Inoltre era gay, fatto che per molto tempo gli aveva complicato la carriera (gli alti papaveri di Langley sono arrivati all'illuminismo soltanto molto di recente). Dall'ultima volta che lo avevo visto a Parigi era un po' invecchiato. Sotto gli occhi aveva due cerchi profondi, segno di notti insonni. Quando lo frequentavo ai tempi di Parigi non era un tipo ansioso, ma adesso c'era qualcosa che lo turbava , e sapevo che cosa. Feci per presentargli Molly, ma non era dell'umore giusto per i convenevoli. Allungò una mano a stringermi una spalla. «Ben» disse, con un'espressione di allarme negli occhi. «Vattene da qui. Va' via dalla Germania. Non posso permettermi di farmi vedere con te... In che albergo sei sceso?» chiese poi. «Il Vier Jahreszeiten» mentii. «Troppo pubblico, troppo vulnerabile. Se fossi in te non starei nemmeno in città.» «Perché?» «Perché sei PNG.» Persona non grata. «Qui?» «Ovunque.»
«In che senso?» «Sei sulla lista nera.» «Cioè?» Atkins esitò un attimo, gettò un'occhiata a Molly e poi a me, quasi volesse chiedermi il permesso di proseguire. Glielo diedi con un cenno del capo. «Cauterizzazione.» «Che cosa?» Nel gergo dell'Agenzia, un agente compromesso o identificato viene "cauterizzato" per il suo stesso bene tirandolo rapidamente fuori da una situazione delicata e portandolo al sicuro. Ma si tratta di un'espressione che da qualche tempo viene sempre più usata con una connotazione ironica, nel senso dell'eliminazione di un agente da parte dei suoi stessi datori di lavoro quando si ritiene che sia diventato pericoloso per l'organizzazione. Atkins mi stava dicendo che nel mondo era stato diramato l'ordine che qualsiasi dipendente dell'Agenzia avesse la ventura di incontrarsi con me doveva sistemarmi. «È una D-Sid.» Ovvero una DCID, una direttiva del capo della Central Intelligence. «Ordini diramati da un tale dell'Agenzia, uno scaldasedie di nome Rossi. Che cosa ci fai qui?» Ora Atkins stava camminando in fretta, probabilmente per un inconscio riflesso di paura. E noi gli stavamo al passo con Molly costretta quasi a correre. Intanto si limitava ad ascoltare, lasciando che fossi io a parlare. «Ho bisogno del tuo aiuto, Kent.» «Che cosa ci fai qui, ti ho chiesto. Sei fuori di testa?» «Fino a che punto sei al corrente di questa storia?» «Mi hanno avvertito che avresti potuto comparire da queste parti. Ti sei messo in proprio, o che cosa?» «Sì, quando ho lasciato il servizio e mi sono iscritto a legge.» «Però adesso sei tornato nel gioco» osservò. «Perché?» «Sono stato costretto.» «Lo dicono tutti. In realtà non se ne esce mai.» «Cazzate. Per un po' io ne sono stato fuori eccome.» «Si dice che saresti stato sottoposto a un programma sperimentale supersegreto. Un programma di ricerca destinato a esaltare il livello di utilizzabilità della gente. Non so che cosa significhi. Le voci sono vaghe.» «Macché voci! Si tratta di bario» replicai. E lui capì l'antifona: "bario" è un termine d'ispirazione KGB che sta per falsa informazione fornita ai so-
spetti d'infiltrazione per smascherarli, allo stesso modo in cui il bario viene usato in gastroenterologia. «Può darsi» ribatté. «Ma devi comunque ritirarti al coperto, Ben. Tutti e due. Sparire. La vostra vita è in pericolo.» Quando fummo arrivati in un punto deserto, una macchia di alberi accanto a un sentiero in terra battuta, mi fermai. «Lo sai che Ed Moore è morto?» Sbatté le palpebre. «Certo che lo so. Gli ho parlato la sera prima che morisse.» «A me ha detto che eri spaventato a morte.» «Esagerava.» «Però spaventato lo sei, Kent. Devi dirmi tutto quello che sai. Hai dato a Moore certi documenti che...» «Che cosa stai dicendo?» Molly, avvertendo la sua reticenza, annunciò: «Vado a fare quattro passi. Ho un gran bisogno di un po' di aria fresca». E andandosene mi strusciò la mano sulla nuca. «Me lo ha detto lui, Kent» continuai. «E ti assicuro che la cosa è rimasta tra noi due. Comunque non abbiamo tempo per ulteriori spiegazioni in merito. Che cosa sai?» Si morse il labbro inferiore, accigliandosi. La sua bocca era una linea diritta, addirittura un arco piegato all'ingiù. Diede un'occhiata all'orologio, un Rolex fasullo. «I documenti che ho consegnato a Ed erano molto lontani dall'arrivare a una qualsiasi conclusione.» «Però tu sai qualcosa di più, vero?» «Non dispongo di niente di scritto. Nessun documento. Tutto ciò che so l'ho sentito a voce.» «Spesso sono le informazioni più preziose. Ed Moore è stato ucciso per questo, Kent. E io dispongo di qualche informazione che potrebbe risultare utile...» «Non le voglio le tue maledette informazioni!» «Ascoltami!» «No» ribatté. «Ascoltami tu. Io ho parlato con Ed poche ore prima che quei figli di puttana inscenassero il suo suicidio. Mi ha avvertito dell'esistenza di una congiura per uccidere qualcuno.» «Sì» convenni, avvertendo una tensione allo stomaco. «Ma chi?» «Ed Moore aveva soltanto qualche informazione vaga. Ipotesi.» «Chi?»
«L'unico che può dare una ripulita all'Agenzia.» «Alex Truslow.» «Ci sei arrivato.» «Lavoro per lui.» «Mi fa piacere. Per il suo bene e per il bene della ditta.» «Ne sono lusingato. Adesso però ho bisogno di qualche informazione. Recentemente una grossa cifra è stata bonificata sul conto di una grossa azienda qui a Monaco. Presso la Commerzbank.» «Un conto di chi?» Potevo fidarmi di lui o no? Dovevo basarmi sull'intuito di Ed Moore. Mi tuffai. «Sei dalla mia parte o no?» Atkins fece un respiro profondo. «Sì, Ben, sono dalla tua parte.» «Il nome del destinatario è Gerhard Stoessel. E la ditta intestataria del conto è la Krafft A.G. Dimmi tutto quello che sai in proposito.» Scosse la testa. «Ti sbagli, ragazzo. Ti hanno dato una dritta completamente sbagliata.» «Perché?» «Lo sai chi è Stoessel?» «No» riconobbi. «Cristo! Non li leggi i giornali? Gerhard Stoessel è il presidente della Neue Welt, un'immensa immobiliare, che si ritiene possegga o controlli la fetta più importante del commercio di immobili nella Germania unificata. Inoltre, Stoessel è il consigliere economico di Wilhelm Vogel, il neoeletto cancelliere, che lo ha già nominato ministro delle Finanze nel suo governo. Vuole che ricostruisca la disastrata economia tedesca. Viene definito lo Svengali di Vogel, una specie di genio della finanza. Come ti ho detto, ti hanno dato una notizia che non sta in piedi.» «Perché?» «L'immobiliare di Stoessel non ha assolutamente nulla a che vedere con la Krafft A.G. Che notizie hai a proposito di quest'ultima?» «È in parte il motivo per cui mi trovo qui» risposi. «So che è un'enorme produttrice di armi.» «No, soltanto la più grossa d'Europa. Con sede centrale a Stoccarda. Molto più grossa di qualsiasi altra ditta tedesca legata al sistema di difesa del Paese, come Krupp, Dornier, Krauss-Maffei, Messerschmitt-BölkowBlohm, Siemens. Senza dimenticare la Bayerische Motorenwerke. Più grossa della Ingenieurkontor Lubeck, che fabbrica sottomarini, e della Maschinenfabrik Augsburg-Nürnberg, della AEG, della MTU, della Messer-
schmitt, della Daimler-Benz, della Rheinmetall...» «Come fai a sapere che Stoessel non ha legami con la Krafft?» «Per motivi connessi con la legge. Una norma emanata alcuni anni fa dall'Ufficio Centrale dei Cartelli quando la Neue Welt ha cercato di comperare la Krafft. L'ufficio dei cartelli ha deciso che le due aziende non possono essere in alcun modo collegate, che una fusione produrrebbe un gigante incontrollabile. Lo sapevi che l'espressione "cartello" viene dal tedesco Kartell? È un concetto tedesco.» «Allora la mia informazione è esatta» replicai. Per tutto quel tempo, mentre parlavo e ascoltavo, mi ero teso nello sforzo di percepire quanto possibile dei pensieri di Kent. Qua e là qualcosa era trapelato. E ogni volta mi aveva confermato una cosa che sapevo già, ovvero che stava dicendo la verità, perlomeno nei limiti in cui la conosceva lui. «Se la tua informazione è giusta - ripeto: se -, non ti chiederò da dove ti sia arrivata. Non voglio saperlo... Però sarebbe una prova molto interessante del fatto che l'azienda di Stoessel è riuscita chissà come, in segreto, ad acquisire la Krafft.» Mi girai per accertarmi che Molly fosse nei paraggi. Lo era. Stava camminando avanti e indietro a passi decisi. Tutto ciò, pensai senza dirlo, significava che la Banca di Zurigo aveva incanalato alcuni miliardi di dollari verso una grossa azienda tedesca, la più grossa immobiliare combinata con il più grosso produttore di armi... un'azienda che stava dietro a Wilhelm Vogel... Il futuro leader, in pratica, dell'Europa. Rabbrividii, non volendo prendere in considerazione le implicazioni di tutto ciò ma incapace di trattenermi. Le conseguenze, avevo immediatamente capito, erano persino peggiori di quanto potessi sospettare. 50 «Potrebbe trattarsi di una tangente?» chiesi. «No. Stoessel è noto per essere un Mister Mani Pulite» rispose Atkins. «Proprio quelli che di tangenti ne beccano di più.» «D'accordo, non sto sostenendo che lui non ne prenda. Però sta di fatto che attualmente tutti i finanziamenti alle campagne elettorali, qui in Germania, sono controllati con incredibile rigore. .. per impedire ai giganti dell'industria di imporre il loro controllo sulla politica. Ci sono infiniti mo-
di per versare fondi in maniera occulta, ma non esiste una sola grossa azienda che oserebbe farlo. L'intelligence tedesca mantiene una sorveglianza stretta. Quindi, se disponi di prove - prove documentarie - del fatto, si tratterebbe di dinamite politica.» Che cosa dovevo dire? Non avevo nessuna documentazione. Soltanto i pensieri arrivati fino a me dalla testa di Eisler. Ma dire una cosa del genere ad Atkins! «A maggior ragione» incalzai «alcuni miliardi di dollari o marchi tedeschi introdotti surrettiziamente nel Paese sarebbero d'incalcolabile valore per un candidato. Però non capisco. Credevo che Vogel fosse un populista moderato.» «Camminiamo» rispose Atkins. Con la coda dell'occhio continuavo a seguire Molly. Ci mettemmo a passeggiare e, tenendosi a distanza, lei ci seguì. «Allora» riprese Atkins, chinando la testa. «L'economia tedesca è in una crisi che non conosceva dagli anni Venti. Giusto? Tumulti ad Amburgo, Francoforte, Berlino, Bonn. In tutte le principali città e anche in quelle più piccole. Neonazisti dappertutto. Un'ondata di violenza sta spazzando il Paese. Mi segui?» «Continua.» «Ed ecco che la Germania affronta queste importanti elezioni. Ma che cosa succede poche settimane prima? Un forte crollo in Borsa. Una vera e propria catastrofe. L'economia tedesca - be', lo vedi da te, ne hai sentito parlare - è in ginocchio. Un mortorio. Si tratta di una depressione in certa misura peggiore della Grande Crisi degli anni Trenta negli Stati Uniti. «Come conseguenza la Germania precipita nel caos. Il cancelliere in carica ovviamente viene buttato fuori e viene eletta la faccia nuova. Un uomo del popolo. Un uomo d'onore - un ex insegnante, un padre di famiglia - che cambierà tutto. Salverà la Germania. La rifarà grande.» «Sì» confermai. «Esattamente com'è salito al potere Hitler nel cuore del disastro di Weimar. Stai suggerendo che Vogel sarebbe un nazista in pectore?» Per la prima volta Kent si mise a ridere. Più uno sbuffo, a dire il vero, che una risata. «I nazisti - o meglio i neonazisti, per essere precisi - fanno orrore. Ma sono estremisti e non rappresentano neanche lontanamente la maggioranza dell'elettorato tedesco. Credo che al proposito i tedeschi vengano accusati ingiustamente. Sì, certo, il fenomeno Hitler è pur capitato ed è successo tanti anni fa, e la gente cambia. La Germania vuole tornare
grande. Intende reclamare il proprio status di potenza mondiale.» «Mentre Vogel...» «Vogel non è quello che dice di essere.» «Cioè?» «È quello che stavo cercando di scoprire quando ho spedito quei documenti a Ed Moore. Sapevo che era un brav'uomo, una persona di cui potevo fidarmi. Fuori dall'Agenzia. Fuori da quello che sta succedendo, qualsiasi cosa sia. Oltre che uno specialista di politica europea.» «Che cos'hai scoperto?» «Io sono stato trasferito qui pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino. Mi è stato affidato il compito di verificare l'attendibilità di agenti del KGB, della Stasi e così via. Giravano voci - soltanto voci, bada bene - che Vladimir Orlov avesse fatto uscire dal suo Paese enormi quantitativi di denaro. Per lo più questi personaggi di basso profilo non sapevano un assoluto cazzo. Ma quando ho cercato di ottenere qualche informazione su Orlov ho scoperto che la sua dislocazione era indicata come "sconosciuta" in tutte le banche dati.» «Era protetta dalla CIA» dissi. «Infatti. Strano, ma okay. Finché mi è capitato un tipo del KGB, un funzionario di livello piuttosto alto del Primo Direttorato Centrale, il quale credo francamente avesse una fame disperata di soldi - ha cominciato a lasciar trapelare qualcosa circa un dossier che aveva visto riguardante la corruzione all'interno della CIA. Già, certo. La CIA è corrotta? Il papa va a cagare tra i boschi? Chi lo sa? Sia come sia, si tratterebbe di un gruppo di funzionari, il nome l'ho dimenticato. Non è importante. «Ma ecco che cosa ha fatto scattare un mio ragionamento. Questo tipo del KGB mi ha parlato di un piano americano - addirittura della CIA, secondo lui - per manipolare il mercato azionario tedesco.» Mi limitai ad annuire, sentendo il cuore che batteva contro la gabbia toracica. «Nell'ottobre del 1992 la Borsa di Francoforte ha acconsentito alla creazione di un'unica Borsa tedesca centralizzata, la Deutsche Borse. Dice questo tipo: data l'interconnessione di tutta l'Europa, ovvero il modo in cui tutte le monete europee erano collegate tra loro attraverso il Sistema Monetario Europeo, una crisi della Deutsche Borse avrebbe devastato tutta l'Europa. Specialmente in questi tempi di scambi programmati e di assicurazione sul portafoglio, di scambi telematici andati nel pallone. Sul mercato tedesco non c'era nessun interruttore di circuito. I computer erano programmati
per vendere automaticamente, innestando altre vendite massicce a catena. Oltre a tutto si stava vivendo un periodo di grande instabilità monetaria, da quando la Bundesbank, la banca centrale tedesca, era stata costretta ad alzare i tassi, imponendo al resto dell'Europa di comportarsi di conseguenza. E il fatto aveva danneggiato le quotazioni del mercato azionario. Comunque i particolari non sono così importanti. Il fatto è che questo tipo del KGB sosteneva che era in fase di attuazione un piano per minare e distruggere l'economia europea. Era un mago della finanza, per cui lo sono stato ad ascoltare. Secondo lui tutte le leve erano già sistemate al posto giusto, mancava soltanto un'abile e improvvisa infiltrazione di capitali...» «Dov'è questo tale, quest'uomo del KGB?» «Morbillo» rispose Kent con un sorriso mesto. Un tipo di omicidio destinato ad apparire una morte naturale. «Uno dei suoi, immagino.» «Hai denunciato il fatto?» «Naturale. È il mio mestiere, amico. Ma mi è stato detto di lasciar perdere. Lascia perdere qualsiasi tentativo di indagare in merito: sarebbe disastroso per i rapporti tedesco-americani. Non sprecarci sopra altro tempo.» Di punto in bianco mi resi conto che eravamo in piedi davanti alla sua vecchia Ford arrugginita. Avevamo compiuto un vasto cerchio, anche se ero così concentrato che non me n'ero accorto. Molly ci raggiunse. «Avete finito, voi due?» chiese. «Sì» risposi. «Per adesso.» Quindi, rivolto ad Atkins: «Grazie, vecchio». «Okay» replicò, aprendo la portiera dell'auto. Non l'aveva chiusa a chiave; nessuno, per quanto bisognoso, si sarebbe mai dato la pena di rubare un'auto del genere. «Ma adesso accetta un consiglio, Ben. E anche tu, Molly. Portate via il culo da qui. Se fossi in voi io non vi passerei nemmeno la notte.» Gli strinsi la mano. «Ti spiacerebbe darci un passaggio in centro?» «Mi spiace sì» rispose. «L'ultima cosa che posso permettermi è farmi vedere con te. Ho acconsentito a incontrarti perché siamo amici. Mi hai aiutato a superare un periodo duro... Te lo dovevo. Ma fammi un favore: prendi la U-bahn.» Si sedette al posto di guida, allacciando la cintura. «Buona fortuna» concluse. Poi, sbatté la portiera, fece scendere il finestrino e aggiunse: «E toglietevi di qui». «Possiamo rivederci?» chiesi. «No.» «Perché?»
«Sta' lontano da me, Ben, altrimenti sono un uomo morto.» Girò la chiavetta dell'accensione, sorrise e aggiunse: «Di morbillo». Presi il braccio di Molly e ci avviammo per il vialetto verso Tivolistrasse. Le prime due volte che Kent cercò di accenderlo, il motore non partì, ma la terza ce la fece. L'auto tornò in vita con un rombo. «Ben» attaccò Molly, ma c'era qualcosa che mi disturbava, per cui mi voltai a guardare Kent che stava facendo la conversione a U. La musica, mi venne in mente. Aveva spento il motore con la musica al massimo volume, quella roba di Donna Summer. La radio, aveva detto. Ma adesso la radio era spenta. E lui non l'aveva spenta. «Kent» gridai, precipitandomi verso l'auto. «Salta giù!» Mi guardò, sorpreso, con un sorriso incerto, come se si stesse chiedendo se stavo cercando di fargli uno scherzo. Un mezzo sorriso che scomparve improvvisamente in una vampata di luce bianca, un botto assurdo, vuoto, come quello di una pentola andata in frantumi. Invece erano i finestrini della Ford Fiesta. Seguì un'esplosione tremenda, formidabile, un colpo di tuono, una fiammata prima sulfurea e poi via via color ambra e rosso sangue, venata da grandi lingue di fiamme color ocra e indaco e seguita da una colonna di cumulonembi che scagliò nell'aria l'auto ridotta a pezzi. Qualcosa mi colpì alla nuca: il quadrante del suo Rolex fasullo. Molly e io ci stringemmo l'una all'altro, ammutoliti per un attimo dal terrore, poi ci mettemmo a correre il più velocemente possibile nella semioscurità dell'Englischer Garten. 51 Pochi minuti dopo mezzogiorno arrivammo a Baden-Baden, la famosa e antica località termale tedesca annidata tra boschi di pini e betulle della Foresta Nera. Con la sfavillante Mercedes 500SL color argento fumo che avevamo noleggiato (con interno in cuoio rosso, esattamente il tipo di auto che avrebbe guidato un giovane diplomatico ambizioso dell'ambasciata canadese), avevamo fatto molto in fretta. C'erano volute meno di quattro ore di guida impegnativa in mezzo al traffico dell'autostrada A-8 in direzione ovest nord-ovest rispetto a Monaco. Indossavo un abito di taglio classico ma elegante, comperato al volo al Loden-Frey di Maffeistrasse mentre stavamo ormai uscendo dalla città.
Avevamo passato una notte di orribile pena, senza sonno, al nostro albergo di Promenadeplatz. La tremenda esplosione dell'Englischer Garten, l'orrenda morte del mio amico: immagini di terrore che ci si erano incise indelebilmente nel cervello. Ci eravamo confortati a vicenda e avevamo parlato per ore nel tentativo di sedare i reciproci timori, di dare un senso all'accaduto. Sapevamo che era ormai imperativo trovare Gerhard Stoessel, l'industriale e barone tedesco delle attività immobiliari cui era stato indirizzato il bonifico da Zurigo. Ero ormai sicuro che fosse al centro della congiura. Dovevo in qualche modo riuscire a piazzarmi vicino a lui per percepire i suoi pensieri. E dovevo riuscire a contattare Alex Truslow a Bonn o dovunque fosse per metterlo in guardia. Doveva lasciare il Paese o adottare adeguate misure di sicurezza. Il mattino presto, dopo aver rinunciato alla battaglia per cercare di trovare un po' di quel sonno di cui avrei avuto tanto bisogno, avevo telefonato a una giornalista finanziaria di Der Spiegel che avevo conosciuto superficialmente ai tempi di Lipsia. «Elisabeth,» avevo detto «ho bisogno di contattare Gerhard Stoessel.» «Il grande Gerhard Stoessel in persona? Sono sicura che è a Monaco. La sede centrale della Neue Welt è lì.» Invece non era a Monaco, come avevo appreso dopo qualche telefonata preliminare. «Non potrebbe essere a Bonn?» avevo chiesto ancora a Elisabeth. «Non ti chiedo perché tu lo voglia contattare» aveva risposto, avvertendo il tono urgente della mia voce. «Ma saprai sicuramente che non è facile arrivare a lui. Lasciami fare qualche telefonata.» Mi aveva richiamato dopo una ventina di minuti. «È a Baden-Baden.» «Non ti chiederò qual è la tua fonte, ma immagino sia affidabile.» «Affidabilissima.» E prima che potessi fare altre domande aveva aggiunto: «Scende sempre al Brenner Park Hotel und Spa». Nel XIX secolo, a Baden-Baden accorreva tutta la nobiltà europea; era stato lì che, dopo avere perso tutto al casino di Spielbank, disperato, Dostoevskij aveva scritto Il giocatore. Ora invece era frequentata da un pubblico eterogeneo di tedeschi e di persone provenienti da altri Paesi europei che vi andava a sciare e a giocare a tennis o a golf, ad assistere alle corse dei cavalli presso l'ippodromo Iffezheim e a godersi i benefici dei bagni ricchi di minerali riforniti dai pozzi artesiani sprofondati nei visceri dei
Monti Florentiner. La giornata era cominciata con tempo coperto e molto freddo, e quando eravamo arrivati davanti all'albergo Brenner, in mezzo a un parco privato sulla riva del fiume Osbach, aveva cominciato a cadere una pioggerella gelida. Baden-Baden sembrava una città abituata alla grandiosità e allo spirito festivo; l'alberata Lichtentaler Allee, con i suoi vibranti festoni di rododendri, azalee e rose, ne costituiva l'ossatura centrale e il grande passeggio. Ma in quel momento aveva un'aria desolata e deserta. Molly rimase ad aspettarmi nella Mercedes mentre entravo nell'atrio tranquillo e spazioso dell'albergo. Quanto viaggiare avevo fatto negli ultimi mesi, pensai. Quante cose mi erano successe, anzi, meglio, quante cose erano successe a entrambi da quella giornata spazzata dalla pioggia, nello Stato di New York, quando avevamo sepolto la bara di Harrison Sinclair. E adesso eccoci lì, in una località termale deserta della Foresta Nera tedesca. E ancora una volta pioveva. L'impiegato in uniforme che sembrava incaricato del banco delle registrazioni era un giovane sui venticinque, con capelli color stoppa e aria servizievole. «Prego, signore?» «Ich habe eine dringende Nachricht für Herrn Stoessel» risposi con la maggior aria d'importanza possibile, reggendo in una mano una busta commerciale. Ho un messaggio urgente per Herr Stoessel. Mi presentai per Christian Bartlett, secondo attaché al consolato canadese di Tal Strasse a Monaco. «Le spiacerebbe consegnargli questa lettera?» aggiunsi nel mio tedesco venato di un forte accento ma comunque più che sufficiente per farmi capire. «Sì, certo, signore» rispose l'impiegato, allungando la mano a prendere la busta. «Ma non è in albergo. È uscito per il pomeriggio.» «Dov'è?» chiesi, infilandomi la busta nel taschino della giacca. «Ai bagni, credo.» «Quali?» Scrollò le spalle. «Non saprei. Mi spiace.» A Baden-Baden i bagni veramente importanti sono soltanto due, entrambi in Romerplatz: i Bagni Vecchi, detti anche Friedrichsbad, e le Caracalla-Therme. Ai primi che raggiunsi, le Caracalla-Therme, ripetei la mia storiella, incontrando unicamente degli sguardi vacui. Mi venne risposto che lì non c'era nessun Herr Stoessel. Uno degli inservienti più anziani, tuttavia, avendo sentito la conversazione, intervenne dicendo: «Herr Stoessel
non viene qui. Provi al Friedrichsbad». E infatti in quest'ultimo il guardiano - un uomo corpulento, di carnagione giallastra e mezza età - rispose con un cenno affermativo del capo. Sì, Herr Stoessel era lì. «Ich bin Christian Bartlett,» gli dissi «von der Kanadischen Botschaft. Es ist äusserste wichtig und drigend, dass ich Herrn Stoessel erreiche.» Sono Christian Bartlett dell'ambasciata canadese. È urgente che io contatti Herr Stoessel. Il guardiano scosse lentamente la testa, con mulesca truculenza. «Er nimmt gerade ein Dampfbad.» Sta facendo il bagno a vapore. «Man darf ihn auf gar keinen Fall stören.» Ho istruzioni di non disturbarlo. Tuttavia era rimasto intimorito e impressionato dal mio tono imperativo, e forse anche dalla mia condizione di straniero, per cui acconsentì ad accompagnarmi al bagno a vapore privato dove si trovava il grande Herr Stoessel. Se si trattava davvero di una questione urgente avrebbe visto che cosa poteva fare. Incrociammo una serie di inservienti in camice bianco che spingevano davanti a sé su carrelli vassoi d'argento con acqua minerale e bibite fredde e altri che trasportavano pile di spessi asciugamani bianchi di cotone, e finalmente arrivammo in un corridoio che sembrava interdetto agli altri dipendenti del bagno. Fuori dalla stanza del vapore sedeva un uomo dalla faccia di patata, in uniforme grigia di guardia giurata, che sudava abbondantemente ed era visibilmente a disagio. Con ogni evidenza una guardia del corpo. Al nostro avvicinarsi alzò lo sguardo, ringhiando: «Sie dürfen nicht dort hineingehen!». Non si può entrare! Lo guardai, con aria sorpresa, e sorrisi. Con la velocità di un lampo estrassi dalla tasca dei pantaloni la pistola, usandola per dargli una botta sulla tempia. Cadde a terraxon un gemito. Poi, fatta roteare l'arma nella direzione opposta, colpii alla nuca anche il guardiano, con lo stesso risultato. Muovendomi in fretta trascinai entrambi i corpi in una vicina nicchia di servizio, fuori vista, e chiusi le porte per impedire l'accesso alla zona. Sfilare l'uniforme bianca al guardiano fu facile. Mi era grande ma dovevo accontentarmi. Afferrato un vassoio vuoto posato su un banco in acciaio inossidabile e a diverse bottiglie di acqua minerale prese da un piccolo frigo, procedetti con passo disinvolto verso la porta della stanza del vapore. Le diedi un grande strattone, si aprì con un forte sibilo. Il vapore mi turbinò tutto attorno, denso e opaco come cotone idrofilo,
come garza ondulata. Il locale era intollerabilmente caldo, bruciante, il vapore solforoso e acre. Ne gustai il sapore. Le pareti a volta erano coperte di piastrelle in ceramica. «Wer ist da? Was ist los?» Chi è? Che cosa c'è? Attraverso la fitta foschia intravidi soltanto un paio di figure nude, arrossate, corpulente. Stese sopra una lunga panca di pietra, su asciugamani bianchi, come due carcasse in uno scannatoio. La voce veniva dal corpo più vicino, dal torace peloso, tondeggiante. Mentre avanzavo tra le dense nuvolaglie reggendo alto il vassoio distinsi le orecchie a sventola, la calotta cranica calva, il grosso naso. Gerhard Stoessel. Quel mattino avevo esaminato attentamente la sua foto su Der Spiegel. Era lui, senza dubbio. Non riuscii invece a capire bene chi fosse il suo compagno, al di là del fatto che era un altro uomo di mezza età, glabro, con le gambe corte. «Erfrischungen?» abbaiò Stoessel. Rinfreschi? «Nein!» Senza dire nulla arretrai fino a uscire dal locale, chiudendomi la porta dietro le spalle. La guardia del corpo e il guardiano erano ancora privi di conoscenza. In fretta e con decisione presi ad aggirarmi per i corridoi che portavano fuori dal bagno a vapore finché trovai ciò che volevo: una porta cieca situata su quello che doveva essere il retro del locale del vapore. Il cunicolo di manutenzione che sapevo essere obbligatoriamente lì, indispensabile perché gli operai del bagno potessero procedere alle riparazioni ai condotti del vapore. La porta non era chiusa a chiave, né del resto vi era motivo che lo fosse. L'aprii e nervosamente mi piegai in due per introdurmi nel basso cunicolo. Era buio. Le pareti erano viscide di umidità e di depositi minerali. Perso per un momento l'equilibrio allungai una mano per recuperarlo, aggrappandomi accidentalmente a un tubo rovente. Soltanto con un grande sforzo riuscii a trattenermi dal lanciare un urlo di dolore. E finalmente, mentre avanzavo carponi, avvistai un puntolino di luce, verso il quale mi diressi. Il calafataggio attorno a un condotto del vapore, nel punto in cui si inseriva nella zona del bagno, si era staccato lasciando filtrare un po' di luce... e di rumore smorzato. Dopo un minuto circa i miei orecchi si erano abituati alla scadente qualità dei suoni quanto bastava perché potessi distinguere parole e intere frasi. La conversazione tra i due uomini si svolgeva in tedesco, ma riuscivo lo stesso a capirne una buona parte. Accucciato al buio, con le mani appoggiate a sostegno contro le scivolose pareti di cemento armato, ascoltai affa-
scinato e inorridito, sopraffatto dalla paura. 52 All'inizio fu soltanto qualche espressione isolata: Bundesnachrichtendienst, il servizio d'intelligence della Germania Federale. Il servizio d'intelligence svizzero. La Direction de la Surveillance du territoire, la DST, l'organizzazione di controspionaggio francese. Parlarono di qualcosa a Stoccarda, di un aeroporto. La conversazione si fece più fluida, più espansiva. Una voce carica di spregio - quella di Stoessel? dell'altro? - chiese: «E nonostante tutte le loro strutture, le fonti d'informazione, i programmi di elaborazione dati, non hanno nessuna indicazione su chi possa essere questo testimone segreto?». Non sentii la risposta. Poi una frase tronca: «Per assicurare la vittoria...». E: «La confederazione». E: «Se vogliamo che un'Europa unita sia nostra». Quindi: «Un'opportunità del genere si presenta al massimo un paio di volte in un secolo...». «Un pieno coordinamento con i Saggi...» E l'altro, che in quel momento decisi essere Stoessel: «... alla storia. Sono passati sessantuno anni da quando Adolf Hitler è diventato cancelliere e la repubblica di Weimar è scomparsa. Ci si dimentica che agli inizi nessuno pensava che sarebbe durato più di un anno!». L'altro ribatté in tono irritato: «Hitler era un pazzo! Noi invece no». «Noi non siamo impastoiati dall'ideologia,» replicò la voce di Stoessel «che è sempre la rovina...» Qualcosa che non sentii, a cui Stoessel replicò: «Dobbiamo avere pazienza, Wilhelm. Nel giro di qualche settimana tu sarai il leader della Germania e noi governeremo. Ma per consolidare il potere ci vorrà del tempo. I nostri soci americani ci garantiscono il loro riserbo». Tu sarai il leader della Germania... L'altro era dunque Wilhelm Vogel, il cancelliere neoeletto. Non potevano esserci dubbi. Mi si rivoltò lo stomaco. Vogel, ormai ero sicuro che fosse lui, fece sentire un suono, una sorta di obiezione smorzata, a cui Stoessel replicò ad alta voce e in maniera perfettamente intelligibile: «... staranno a guardare senza fare niente. Dopo Maastricht la conquista dell'Europa è diventata immensamente più facile. I governi cadranno a uno a uno. I politici non sono comunque dei leader. Do-
vranno guardare ai capi delle grandi aziende, perché industria e commercio sono le uniche forze capaci di governare un'Europa unificata. Non hanno la capacità di guardare al di là di un certo limite. Mentre noi siamo strateghi e sappiamo vedere molto più lontano, più in là del domani e del dopodomani. Al di là della contingenza quotidiana». Un'altra protesta del cancelliere, a cui Stoessel ribatté: «Una conquista globale che è semplicissima perché si basa su motivi di profitto, puri e semplici». «Il ministro della Difesa» disse Vogel. «Ne avremo facilmente ragione» replicò Stoessel. «Vuole anche lui la stessa cosa. Una volta che l'esercito tedesco sarà stato restituito al suo giusto splendore...» Un'altra osservazione smorzata e Stoessel continuò: «È facile! È facile! La Russia non rappresenta più una minaccia. Non è più niente. Quanto alla Francia... sei abbastanza vecchio per ricordare la seconda guerra mondiale, Willi. I francesi bestemmieranno e si lamenteranno, imperverseranno parlando di linea Maginot, ma alla fine capitoleranno senza combattere». Vogel parve obiettare ancora qualcosa, a cui Stoessel replicò con voce querula: «Perché è nel loro migliore interesse, perché altrimenti? Il resto dell'Europa si accoderà e anche la Russia non avrà altra scelta». Vogel disse qualcosa a proposito di Washington e di un "testimone segreto". «Verrà scoperto» replicò Stoessel. «L'infiltrazione verrà smascherata ed eliminata. Lui ci garantisce che la cosa verrà messa a tacere.» Vogel disse qualcosa di cui distinsi soltanto le parole «prima di allora» e Stoessel replicò: «Sì, precisamente. Avrà luogo fra tre giorni... Sì. No, quell'uomo verrà assassinato. È tutto organizzato alla perfezione. Morirà. Non c'è da preoccuparsi». Si sentì un rumore, un tonfo, che capii essere la porta del bagno di vapore che veniva aperta. Quindi, molto chiaramente, Stoessel disse: «Ah, eccolo qui». «Benvenuto» disse Vogel. «Spero che il volo da Stoccarda sia andato bene.» Un altro tonfo, la porta era stata richiusa. «... volevamo dirle di nuovo» si rifece sentire la voce di Stoessel «quanto le siamo grati. Tutti noi.» «Grazie» gli fece eco Vogel. «I nostri ringraziamenti, di cuore» incalzò Stoessel.
Il nuovo venuto si rivolse loro parlando in tedesco, ma con un accento straniero, forse americano. Una sonora voce di tonalità baritonale, vagamente familiare. L'avevo sentita in televisione? Alla radio? «È previsto che il testimone compaia davanti alla commissione senatoriale sull'intelligence» disse il nuovo venuto. «Chi è?» chiese Stoessel. «Non ne conosciamo ancora il nome. Abbiate pazienza. Dobbiamo ottenere l'accesso ai dati computerizzati della commissione. Soltanto così potremo essere sicuri che il testimone segreto si presenterà a riferire sulla questione dei Saggi.» «E su di noi?» chiese Vogel. «È al corrente della Germania?» «Impossibile saperlo» rispose l'americano. «Comunque, che lo sappia o meno - uomo o donna che sia -, una connessione con voi è facile da stabilire.» «Allora deve essere eliminato» disse Stoessel. «Ma senza conoscere la sua identità è impossibile sapere chi bisogna eliminare» replicò l'americano. «Soltanto quando quell'uomo comparirà...» «Soltanto in quel momento?» interloquì Vogel. «In quel momento si provvederà» gli fece eco l'americano. «Posso garantirvelo.» «Ma verranno prese misure per proteggerlo» obiettò Stoessel. «Non esistono misure protettive adeguate» continuò l'americano. «Non preoccupatevi. Io non lo sono. Ma il problema più urgente, adesso, è quello del coordinamento. Se gli emisferi verranno ripartiti, a noi le Americhe e a voi l'Europa...» «Certo,» interloquì Stoessel in tono impaziente «lei si riferisce al coordinamento tra i due governi mondiali centrali, ma è una cosa facile da realizzare.» Era tempo di entrare in azione. Il più silenziosamente possibile mi girai su me stesso, impacciato dalla ristrettezza dello spazio, e tornai indietro verso la porta. Rimasi in ascolto qualche istante e, quando fui sicuro che non passava nessuno, tornai nel corridoio, che in quel momento mi apparve grottescamente illuminato. Sui ginocchi dei miei pantaloni bianchi di cotone si vedevano due chiazze di fango. Corsi all'ingresso del locale del vapore, trovai il vassoio di acqua minerale e spalancai la porta. Una grossa nuvolaglia di vapore opaco mi turbinò attorno mentre entravo.
Stoessel sembrava essersi spostato un po' sulla destra. L'uomo in cui riconobbi Vogel, invece, non si era mosso dal punto della panca dove si trovava prima. L'ultimo arrivato era seduto più lontano, sulla destra del cancelliere, fuori dal mio campo visivo. «Ehi» esclamò quest'ultimo, sempre in tedesco. «Nessuno deve entrare qui dentro, ha capito?» Una voce sempre più familiare, da impazzire. Stoessel mi strapazzò in tedesco: «Piantiamola con questi rinfreschi! Ci lasci in pace! Ho dato istruzioni che non volevo essere disturbato!». Rimasi lì senza muovermi, consentendo agli occhi di adeguarsi al vapore opaco. L'americano sembrava un uomo di mezza età, anche se non potevo esserne sicuro, e in condizioni fisiche migliori dei due tedeschi. Finché un alito d'aria arrivato da chissà dove perforò la nube solforosa, formando una striscia chiara nel vapore. Il volto dell'americano, baluginante davanti ai miei occhi, divenne riconoscibile, e per un attimo non potei muovermi. Il nuovo direttore della CIA. Il mio amico. Alex Truslow. SESTA PARTE Lac Tremblant Los Angeles Times Riarmo in Germania. Acquistate armi nucleari La mossa ha l'appoggio di Washington e dei leader occidentali CAROLYN HOWE NOSTRO INVIATO In considerazione del fatto che la Germania ha preso decisamente le distanze dal neonazismo, gli USA e la maggior parte delle nazioni del mondo hanno appoggiato la richiesta del neo cancelliere tedesco Wilhelm Vogel «di "ripristinare" l'orgoglio nazionale della Germania»... 53 «Wer ist denn das?» gridò Vogel. Chi è questo qui? «Wo ist der Leibwächter?» Dov'è la guardia del corpo?
Vidi che i capelli argentei di Truslow erano ben pettinati; il viso era arrossato per effetto del calore rovente o della rabbia, o forse per entrambi i motivi. Mi accostai. E lui, con voce bassa, preoccupata, cortese, mi disse: «Piantala qui, Ben, per favore. Per il tuo bene. Non preoccuparti. Ho detto loro che sei un amico, che non dev'esserti fatto alcun male. Non ti verrà fatto niente. Non sarai colpito in alcun modo». Deve essere ucciso, sentii. Deve essere ucciso immediatamente. «Ti abbiamo cercato dappertutto» continuò Truslow con dolcezza. Ellison deve essere eliminato, stava intanto pensando. «Devo dire» continuò in tono sereno «che questo è l'ultimo posto al mondo dove pensavo di trovarti. Ma adesso sei al sicuro e...» Gli scagliai contro il vassoio, sparpagliando bottiglie di acqua minerale dappertutto. Una colpì Vogel allo stomaco, le altre andarono a fracassarsi rumorosamente sul pavimento piastrellato. «Halten Sie diesen Mann auf. Er darf hier nicht lebend herauskommen!» ordinò Truslow in tedesco. Fermate quest'uomo! Non deve uscire vivo da qui! Balzai fuori dalla porta e scappai con tutta la forza di cui potevo disporre, con la massima velocità che riuscii a chiedere al mio corpo, verso l'uscita più vicina, su Romerplatz, con le parole di Truslow che mi echeggiavano alle spalle. Alex Truslow mi aveva mentito. Molly era ferma ad aspettarmi con la Mercedes in moto davanti all'ingresso laterale del Friedrichsbad. Innestò la marcia e si avviò velocissima verso la periferia, dove trovò l'autostrada A-8. L'aeroporto internazionale di Echterdingen era a un centinaio di chilometri a est, poco a sud di Stoccarda. Per un bel po' non dissi niente. Poi le raccontai ciò che avevo visto. Reagì esattamente come me, sconvolta, inorridita, pallida di rabbia. Ora sapevamo entrambi perché Truslow mi avesse ingaggiato, perché Rossi mi avesse assoggettato con l'inganno al Progetto Oracolo, perché fossero così euforici quando avevano scoperto che su di me l'esperimento aveva funzionato. Molte cose ora acquistavano senso. Ad alta voce, mentre correvamo a tavoletta sull'autostrada affidati alle mani esperte di Molly, misi insieme i vari pezzi del mosaico. «Tuo padre
non ha commesso alcun crimine» le dissi. «Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di salvare la Russia, perciò ha acconsentito ad aiutare Vladimir Orlov a svuotare i forzieri sovietici delle loro riserve auree e ad aiutarlo a portarle all'estero per nasconderle. Le ha fatte trasportare a Zurigo, dove in parte sono state depositate in una camera blindata e in parte sono state convertite in beni liquidi.» «Liquidi che da lì dove sono andati a finire?» «Sono caduti sotto il controllo dei Saggi.» «Di Alex Truslow, vuoi dire.» «Già. Chiedendomi di aiutarlo a rintracciare una fortuna scomparsa - di cui secondo lui tuo padre si sarebbe appropriato indebitamente - in realtà intendeva utilizzarmi, con la mia facoltà, per localizzare la metà dell'oro a cui non poteva avere accesso. Perché tuo padre l'aveva messo sotto chiave presso la Banca di Zurigo.» «Ma chi è il comproprietario del conto?» «Non so» riconobbi. «Truslow probabilmente sospettava che Orlov avesse rubato l'oro. È per questo che si è servito di me per rintracciarlo, non essendoci riuscita la CIA.» «E una volta che tu l'avessi trovato?» «Sarei presumibilmente riuscito a leggere i suoi pensieri. Scoprendo dove avesse messo l'oro.» «Ma papà era cointestatario del conto... Truslow avrebbe comunque avuto bisogno della mia firma.» «Truslow voleva evidentemente che arrivassimo a Zurigo. Chissà perché. Che cos'ha detto quel banchiere? Che una volta avutovi accesso, il conto passava da uno status di inattività a uno status attivo, no?» «Che cosa significa?» «Non so.» Molly tacque un attimo, incerta, lasciandoci sorpassare da un enorme TIR. «E se il Progetto Oracolo non avesse avuto effetto su di te?» «Probabilmente non avrebbe trovato l'oro. O forse sì. Ma in ogni caso gli ci sarebbe voluto molto, molto più tempo.» «Quindi mi stai dicendo che si è servito dei cinque miliardi su cui ha potuto mettere le mani per innescare il crollo della Borsa tedesca?» «Tutto torna, Molly. Non posso esserne certo, ma torna. Se l'informazione di Orlov è esatta e i Saggi, ovvero Truslow, e probabilmente Toby, e probabilmente altri...» «Le massime cariche della CIA...»
«Sì. Se i Saggi usavano la CIA per raccogliere informazioni riservate sui mercati stranieri e sono in qualche modo riusciti a provocare la crisi della Borsa americana del 1987, devono essere stati loro anche a innescare quella molto più grossa che ha avuto luogo in Germania.» «Ma come?» «Si incanala qualche miserabile miliardo di dollari - cioè, di marchi tedeschi - in maniera occulta e senza preavviso verso il mercato azionario tedesco. Usati con abilità e rapidità, da esperti con accesso ai conti telematici con forte movimento, possono essere impiegati per acquisire vaste somme di denaro a credito al fine di destabilizzare un mercato già debole. Si arriva a disporre di capitali molto più vasti, con cui comperare su parziale credito e poi vendere, ricomperare e rivendere ancora, usando i programmi telematici con una velocità possibile soltanto in questa era dei computer.» «Ma a che scopo?» «A che scopo?» le feci eco. «Guarda quello che è successo. Vogel e Stoessel stanno per assumere il controllo della Germania. Truslow e i Saggi ormai dominano la CIA...» «E poi?» «E poi... non so.» «Ma chi verrà ucciso?» Non disponevo di una risposta precisa ma sapevo che c'era un'infiltrazione, qualcuno che era a conoscenza di questa congiura tra gli uomini di Truslow e quelli di Stoessel, tra la Germania e gli Stati Uniti. E questa persona, chiunque fosse, stava per testimoniare davanti alla commissione senatoriale sull'intelligence nelle udienze sulla corruzione in atto nella CIA. Quella "corruzione" il cui cervello era il nuovo direttore della Central Intelligence Agency, Alex Truslow. Di lì a due giorni un testimone segreto avrebbe mandato tutto a monte. Se non lo avessero ucciso prima, uomo o donna che fosse. All'aeroporto di Echterdingen trovai una compagnia privata e un pilota che era in procinto di tornare a casa per la sera. Sentitosi offrire il doppio della tariffa normale per Parigi fece dietrofront, indossò la tenuta di volo e ci fece strada al suo piccolo aereo. Chiese via radio il permesso di atterraggio e, non appena lo ebbe ottenuto, decollammo. Un po' dopo le due di notte arrivammo al Charles de Gaulle, dove, supe-
rato il più breve dei controlli doganali, prendemmo un taxi per Parigi. Smontammo davanti al Duc de Saint-Simon, nell'omonima via del XVII arrondissement, dove svegliammo la portiera di notte che dormicchiava al banco del ricevimento e trovammo una camera libera. La donna non appariva affatto felice di essere stata disturbata. Molly insistette senza troppo calore per accompagnarmi nella mia missione notturna, ma aveva la nausea, per cui mi fu facile dissuaderla. Per me Parigi non era soltanto una delle più grandi città del mondo ma anche una fase dei miei ricorrenti incubi, o perlomeno lo era diventata. Non era l'Île, la Rive Gauche e rue Royale ma rue Jacob, la stradina scura e chiassosa dove Laura e il mio bambino non ancora nato erano stati uccisi e dove James Tobias Thompson era rimasto paralizzato per sempre in una sequenza che si ripeteva senza tregua nella mia mente, facendosi sempre più ritualizzata, grottesca, artificiale. Per me Parigi era diventata un sinonimo di tragedia. Eppure non avevo potuto esimermi dal tornarci. E ora mi trovavo in un deprimente studio di fotografo a un secondo piano senza ascensore su una squallida traversa di rue de Sèze. Sotto di noi c'era una miserabile distesa di botteghe dalle vetrine oscurate, sormontate da scritte come SEX SHOP, VIDEO, SEXODROME e LINGERIE LATEX CUIR e fiancheggiate dalle grosse croci verdi lampeggianti della Grande Pharmacie de la Place. Quello che sembrava essere stato un minuscolo appartamento, con il passare degli anni era stato trasformato alla meglio in un tetro misto di studio fotografico porno e di sexyvideoteca. Mi misi a sedere su una lurida poltroncina in plastica ad aspettare che Jean finisse il suo lavoro. Non sapevo come si chiamasse davvero e non mi ero mai curato di saperlo, ma arrotondava in maniera consistente i suoi guadagni con una parallela attività di produttore di documenti, patenti e passaporti falsi, soprattutto per conto di agenti privati e di balordi di piccolo cabotaggio. In passato avevo avuto occasione alcune volte di ricorrere a lui quando ero di base a Parigi e lo avevo trovato affidabile, oltre che un buon artigiano. Potevo fidarmi di lui? Be', immagino che nella vita non ci sia nulla di certo. Ma Jean aveva tutti i motivi di questo mondo per essere affidabile. La sua stessa vita dipendeva dalla fama di riserbo che si era fatto, fama che un solo tradimento avrebbe macchiato per sempre. Avevo passato tre quarti d'ora a sfogliare distrattamente una rivista di cinema spiegazzata, dopo essermi stancato di far passare le scatole vuote
dei video esposte sul banco. Nel commercio porno esistono più feticci e varianti di quanto immaginassi (La sculacciata, Duro, Trisex, oltre a diverse deviazioni di cui non avevo mai sentito parlare), ormai tutte disponibili in video. Era notte fonda. Il fotografo aveva chiuso a chiave la porta d'ingresso e abbassato la tendina per ripararsi dal poco traffico notturno della stradina. Dalla stanza interna sentivo arrivare il ronzìo di un essiccatore fotografico ad aria calda. Finalmente Jean riemerse dalla camera oscura. Era un uomo di bassa statura, avvizzito, prematuramente invecchiato, con due occhialetti tondi cerchiati di metallo. Emanava un forte odore di soluzione di permanganato di potassio, che aveva usato per invecchiare artificialmente i documenti. «Voilà» disse, posandoli sul banco con un gesto elegante. Quindi sorrise con un certo orgoglio. Il lavoro non era stato particolarmente difficile: era riuscito a operare sull'intero set di documenti preparati per noi dalla CIA, in realtà riciclandoli, utilizzando le stesse nostre foto e modificando i numeri dove necessario. Comunque, ci aveva fornito una coppia di passaporti canadesi e due coppie americane. Dal punto di vista dei documenti, ora Molly e io potevamo assumere a pieno titolo una delle due cittadinanze. Li passai in rassegna tutti quanti con la massima cura. Aveva fatto un lavoro meticoloso. Oltre che spaventosamente caro. Ma non ero in condizione di tirare sul prezzo. Annuii, pagai la sua piccola estorsione e uscii in strada. Si sentiva brusìo di ciclomotori, l'odore acre dei fumi di scarico. Anche a quell'ora della notte molta gente si aggirava per le vie di Pigalle in cerca di una rapida gratificazione. Mi passò accanto una piccola banda, apparentemente di studentelli di entrambi i sessi vestiti alla moda francese degli anni Sessanta, giacconi di cuoio o giubbotti di università americane (deturpate da sgargianti scritte tipo "American Football" che servivano soltanto a farle sembrare ancora più false); capelli lunghi, jeans arrotolati alla caviglia, scarponcini di aspetto ortopedico del tipo che di norma si vedono addosso alle suore. Passò qualcuno rombando a bordo di un'enorme moto, una Honda Africa Twin 750. Nel giro di pochi minuti feci diverse telefonate a vecchi contatti dei tempi della CIA. Nessuno di essi aveva alcun legame ufficiale con i servizi di sicurezza governativi, per lo più lavoravano fuori dall'ambito della legge (distinzione difficile per l'ambiente dello spionaggio): dal proprietario di
una bottega di hamburger che riciclava soldi (naturalmente a pagamento) a un armaiolo che personalizzava armi per assassini e sicari professionisti. Li tirai giù tutti dal letto tranne un gufo notturno che si trovava in un night club con una bimba e un cellulare. E finalmente, attraverso un vecchio amico di cui anni prima mi ero servito come galoppino, riuscii a rintracciare quello che i miei colleghi francesi a volte definivano un "ingénieur", ovvero un "ingegnere", insomma un tecnico capace di eludere abilmente i sistemi internazionali di intercettazione telefonica. Nel giro di un'ora ero a casa sua, in un decrepito grattacielo anni Sessanta del XII arrondissement, dalle parti di Avenue de la République. Mi sbirciò per qualche istante attraverso lo spioncino e finalmente mi aprì. Il suo appartamento, fornito di pochi mobili dozzinali, puzzava di birra stantia e di sudore. Era di bassa statura e grassoccio, indossava un paio di jeans sudici, macchiati di vernice, e una maglietta bianca piena di padelle, con la scritta Hard Rock Cafe, sotto cui sporgeva una cospicua pancia. Stava evidentemente dormendo, come del resto quasi tutta Parigi; i capelli erano in disordine, gli occhi gonfi. Senza nemmeno degnarmi di un grugnito di saluto mi indicò con il pollice un telefono bianco, anch'esso pieno di macchie, posato su un tavolino dal ripiano in finto legno, tutto sbreccato sui bordi. Accanto a esso c'era uno spaventevole divano color giallo mostarda che lasciava intravedere in più punti l'imbottitura. Il telefono era posato in equilibrio precario sopra un set di guide telefoniche di Parigi. L'ingénieur non conosceva il mio nome e naturalmente non me lo chiese. Gli era stato detto che ero un homme d'qffaires, ma con ogni probabilità lo erano tutti i suoi clienti. Si stava guadagnando una sveltina veramente facile di cinquecento franchi per consentirmi di usare un telefono a cui era impossibile risalire. Cioè, in realtà la chiamata che stavo per fare consentiva di risalire all'origine, ma la traccia a ritroso si arrestava ad Amsterdam. Da lì la linea arrivava fino a Parigi attraverso una serie di passaggi che nessuno strumento elettronico d'intercettazione telefonica era ancora in grado di superare. L'ingénieur prese i miei soldi, fece sentire un grugnito porcino e si spostò ciabattando in un'altra stanza. Se avessi avuto più tempo avrei preferito qualcosa di più sicuro, ma dovevo accontentarmi. Osservai con disapprovazione che la cornetta era piena di ditate unte e che puzzava di fumo di pipa. Formai il numero, seguì una sequenza di strane tonalità. Presumibilmente il segnale stava ballando la gavotta in giro per l'Europa, passando sotto l'Oceano Atlantico e probabilmente tornando
di nuovo in Europa prima di procedere ormai debole verso Washington, D.C., dove il sistema di telecomunicazioni in fibre ottiche dell'Agenzia lo avrebbe amplificato, facendolo passare attraverso i propri filtri di controllo elettronici. Ascoltai i soliti clic e brusii, in attesa del terzo squillo. Dopo di che, una voce femminile annunciò: «Trentadue cento». Com'era possibile che a rispondere al telefono fosse sempre la stessa donna, a qualsiasi ora del giorno e della notte? Forse non era neanche una voce umana ma sintetizzata, di alta qualità. «L'interno nove otto sette, per favore» risposi. Un altro clic, seguito dalla voce di Toby. «Ben? Grazie a Dio. Ho sentito di te a Zurigo. Sei...» «So tutto, Toby.» «Sai...» «Circa Truslow e i Saggi. E i tedeschi, Vogel e Stoessel. E il testimone a sorpresa.» «Gesù Cristo, Ben, di che cosa diavolo stai parlando? Dove sei?» «Piantala, Toby. Tanto in un modo o nell'altro verrà fuori tutto. Ormai sono a conoscenza di troppi tasselli della storia. Truslow ha cercato di farmi accoppare, ed è stato un grave errore.» Sullo sfondo si sentì un leggero fruscio di energia statica. «Ben,» replicò finalmente «ti sbagli.» Data un'occhiata all'orologio vidi che il collegamento durava ormai da dieci secondi, quanto bastava per risalire all'origine. Ovvero ad Amsterdam. Avrebbero stabilito che ero lì, e sarebbe stato un depistaggio molto utile. «Naturale» ribattei sardonicamente. «No, per favore, Ben. Stanno succedendo cose che non puoi capire... senza avere un quadro preciso. Sono tempi difficili. Abbiamo bisogno dell'aiuto di gente come te, e tanto più adesso, con la tua facoltà...» Lentamente posai la cornetta. Sì, era coinvolto anche lui. Tornai al nostro albergo e mi misi a letto accanto a Molly, profondamente addormentata. Agitato e insonne tornai a uscirne, prendendo la copia delle memorie di Allen Dulles lasciatami dal padre di Molly e mettendomi a sfogliarla senza uno scopo preciso. Non è neanche un gran libro, ma era tutto ciò che avevo
a disposizione in quella camera d'albergo, e avevo bisogno di far scorrere lo sguardo su qualcosa, di distrarmi dal turbinìo dei miei pensieri. Lessi in fretta un paragrafo sugli Jedburgh, che erano stati paracadutati in Francia; poi uno su sir Francis Walshingham, il capo dello spionaggio della regina Elisabetta, nel XVI secolo. Tornai a dare un'occhiata ai codici che Hal Sinclair ci aveva lasciato cioè, che Hal Sinclair aveva lasciato a me perché li scoprissi - e pensai all'enigmatico biglietto trovato nella camera blindata di Zurigo, con l'accenno a una cassetta di sicurezza di Boulevard Raspail. E per la milionesima volta mi misi a pensare al padre di Molly e ai segreti che ci aveva lasciato in eredità, un gioco di scatole cinesi di segreti. Mi chiesi... Fu un'illuminazione non più valida di tante altre, certamente nulla di ben fondato, a spingermi ad abbandonare una seconda volta il letto per recuperare una lametta dal mio necessaire da barba. Una volta gli editori americani pubblicavano libri di una qualità decisamente superiore, e dicendo una volta intendo fino al 1963. Sotto la sovraccoperta in grigio, rosso e giallo del volume Il mestiere dell'agente segreto la pesante rilegatura era fittamente telata, con inciso il logo dell'editore. Una legatura cucita, non incollata, in tela bianca e nera. Esaminai attentamente il libro privo della sovraccoperta, rigirandolo più volte ed esaminandolo da tutte le angolazioni. Possibile? Era veramente così in gamba il vecchio mastro spione? Con grande cura aprii in orizzontale la legatura con la lametta. Sollevai la tela nera, staccai la fodera bruna in carta kraft ed eccolo lì, ammiccante come un faro: un segnale di Harrison Sinclair dalla tomba. Una chiavetta in ottone di forma strana, con sopra inciso il numero 322: la chiave di quella che secondo me era la spiegazione, la soluzione del mistero, chiusa in un caveau di Boulevard Raspail, a Parigi. 54 Il mattino dopo ci avviammo di gran carriera per rue de Grenelle in direzione di Boulevard Raspail e della Banque de Raspail. «Tra due giorni è programmato un omicidio, Ben» disse Molly. «Due giorni! E non sappiamo nemmeno chi sarà la vittima. Sappiamo soltanto che se questo testimone a sorpresa non renderà la sua testimonianza saremo tutti morti.»
Due giorni: lo sapevo. Avevo il pensiero praticamente fisso sul ticchettare dell'orologio. Ma non replicai. Incrociammo un uomo anziano, con un corretto soprabito blu e i corti capelli bianchi pettinati con cura all'indietro, occhi bruni a mandorla protetti da occhiali rettangolari. Ci sorrise. Io gettai un'occhiata nella vetrina di un negozio con l'insegna IMPRIMERIE che, come esempi del proprio lavoro, esponeva una sfilata di biglietti da visita appuntati su una tavola di sughero. Nel vetro colsi il riflesso di una donna, di cui ammirai la figura prima di rendermi conto che si trattava di Molly; poi vidi il riflesso di una piccola Austin Mini Cooper bianca e rossa che si muoveva lentamente alle nostre spalle. Mi paralizzai. La stessa auto l'avevo vista anche la notte prima dalla finestra del nostro albergo. Quante piccole Austin rosse con il tetto bianco potevano esserci in circolazione? «Merda!» esclamai, picchiandomi la mano sulla fronte in un ampio gesto teatrale. «Che cosa?» «Ho dimenticato una cosa.» E mi indicai alle spalle senza dire niente. «Dobbiamo tornare in albergo. Ti spiace?» «Che cos'hai dimenticato?» Le presi il braccio. «Andiamo.» Scuotendo la testa la feci girare su se stessa, avviandomi a ritroso verso l'albergo. Alla guida dell'Austin, che ora osservai con un rapido sguardo furtivo, c'era un giovane occhialuto in abito scuro. Accelerò e scomparve. «Hai dimenticato i documenti o qualcosa del genere?» chiese Molly mentre facevo girare la chiave nella porta della nostra camera. Mi posai un dito sulle labbra. Lei mi gettò uno sguardo preoccupato. Chiusi la porta e feci scattare la serratura, gettando il portadocumenti in pelle sul letto. Svuotatolo di tutto lo sollevai in alto alla luce, facendo scorrere le dita su ogni piega, esaminandolo con grande attenzione. Molly formulò una breve espressione con le labbra: Che cosa c'è? «Siamo seguiti» risposi ad alta voce. Mi rivolse uno sguardo interrogativo. «Va tutto bene, Molly. Adesso puoi parlare.» «Certo che siamo seguiti» replicò in tono esasperato. «Lo siamo sempre
stati da...» «Da quando?» Tacque un attimo, accigliata. «Non so.» «Pensaci. Da quando?» «Gesù, Ben, sei tu...» «... l'esperto. Lo so. D'accordo. Quando sono arrivato a Roma c'era qualcuno ad aspettarmi. E in quella città sono stato pedinato quasi continuamente. Li ho seminati in Toscana, credo.» «A Zurigo...» «Esatto. Eravamo seguiti anche lì, alla banca e dopo. E probabilmente anche a Monaco, sebbene sia difficile dirlo. Ma sono sicuro al cento per cento che questa notte non mi ha seguito nessuno.» «Come fai a saperlo?» «Be', in realtà non lo sono fino in fondo. Ma sono stato maledettamente attento e, prima d'incontrarmi con quel tipo dei documenti, ho fatto un lungo giro vizioso. Se vi era qualche traccia di un pedinamento, io non me ne sono accorto. Eppure sono addestrato a badare a cose del genere. È una pratica che non si perde, per quanto uno debba dedicarsi alla legislazione sui brevetti.» «Quindi che cosa intendi dire?» «Che sei stata seguita tu.» «Come dire che sarebbe colpa mia? Siamo usciti dall'aeroporto insieme, e tu hai fatto fare al taxi un giro a zig zag. Hai detto che eri sicuro che non ci seguiva nessuno. E io non sono uscita dall'albergo.» «Fammi vedere la borsetta.» Me la porse e io ne rovesciai il contenuto sul letto, mentre lei mi osservava sgomenta. Esaminai ogni cosa con la massima cura, dopo di che esaminai la stessa borsetta e la fodera. Esaminai anche i tacchi delle nostre scarpe, sebbene fosse poco probabile, non avendole noi mai perse di vista. No. Niente. «Sono come il tuo gatto nero» disse lei. «Il campanellino del gatto, piuttosto» replicai. «Ah!» «Che cosa?» Allungai una mano e le tolsi dal collo il medaglione e la catenina. Feci scattare il coperchio d'oro, rotondo, ma all'interno non vidi che il cammeo d'avorio. «Per l'amor di Dio, Ben, che cosa stai cercando? Una cimice o qualcosa
del genere?» «Ho pensato che era il caso di darci un'occhiata, no?» E glielo resi. Ma poi mi venne in mente una cosa, per cui lo ripresi. Tornai ad aprire il medaglione ed esaminai con grande attenzione l'interno del coperchio. «Che cosa dice l'iscrizione che c'è nell'interno?» chiesi. Molly chiuse gli occhi, cercando di ricordare. «Niente. L'iscrizione è sul dorso.» «Esatto» replicai. «E questo ha facilitato non poco la cosa.» «Quale cosa?» Attaccato al portachiavi, in quel momento posato sul letto, tenevo uno strumento da gioielliere. Lo recuperai, inserii nel coperchio il minuscolo cacciavite smussato. Se ne staccò un dischetto d'oro, più o meno delle dimensioni di un quarto di dollaro e alto circa tre millimetri. Vi era attaccata una minuscola spirale di filo sottile poco meno di un capello. «Non una cimice» dissi. «Una trasmittente. Una radiobussola miniaturizzata con una portata di una decina di chilometri. Emette un segnale su una frequenza radio.» Molly mi stava guardando a bocca aperta. «Quando gli uomini di Truslow ti hanno preso, a Boston, lo avevi addosso, vero?» Ci pensò un attimo prima di rispondere: «Sì...». «E poi, quando ti hanno mandato in Italia, te l'hanno restituito con le altre cose.» «Sì...» «Benissimo. Certo. Naturale che volevano tu rimanessi al mio fianco. Qualsiasi precauzione avessimo preso, avrebbero sempre saputo dove eravamo, secondo per secondo. Purché tu avessi addosso quel medaglione.» «Anche adesso?» Risposi lentamente, non volendo allarmarla più del necessario. «Già» risposi. «Direi che è facile immaginare che sappiano dove ci troviamo in questo momento.» 55 La piccola, elegante Banque de Raspail, un gioiellino al numero 128 di Boulevard Raspail, nel VII arrondissement di Parigi, era una banca privata di affari che sembrava servire una clientela esclusiva di parigini discreti in cerca di un eccellente servizio personale che evidentemente erano convinti
di non poter trovare nelle banche aperte alle masse plebee. L'interno pubblicizzava scopertamente la riservatezza dell'ambiente: non vi si vedeva un solo cliente. E in realtà non sembrava affatto una banca. I pavimenti erano coperti da scoloriti Aubusson; qua e là, a ridosso delle pareti, si vedeva qualche poltroncina Biedermeier ricoperta in seta Scalamandre, qualche busto italiano dall'aspetto fragile, qualche lampada a vaso appollaiata sopra tavolini anch'essi Biedermeier. Le pareti erano scandite da precisi quadranti di fregi architettonici dorati che completavano l'impressione di maestosa eleganza e grande solidità. Personalmente non avrei mai messo i miei soldi in una banca che spendeva tanto negli orpelli, ma io non sono francese. Sia Molly sia io sapevamo che stavamo agendo in ristrettissimi margini di tempo. Mancavano due giorni all'omicidio e non sapevamo ancora chi fosse il bersaglio. E ormai quella gente - ovvero gli agenti di Truslow, forse in aggiunta a quelli ingaggiati da Vogel e dal consorzio tedesco che lo sosteneva - ci aveva localizzato. Erano informati che eravamo a Parigi. Poteva darsi che non sapessero perché, potevano non essere a conoscenza dell'enigmatico biglietto di Sinclair circa la Banque de Raspail, ma erano al corrente che eravamo lì per un motivo. E anche se avevo rigorosamente evitato di parlarne con Molly, sapevo bene che le probabilità che venissimo uccisi erano forti. Certo, per i servizi segreti americani valevo moltissimo a causa della mia facoltà psichica, ma più che altro ormai rappresentavo una minaccia. Sapevo che cosa stavano facendo in Germania gli accoliti di Truslow, o perlomeno lo sapevo in parte. Non avevo nessuna documentazione, nessuna prova, niente di concreto, per cui, quand'anche avessi reso pubblica la cosa - telefonando, per esempio, al New York Times - nessuno mi avrebbe creduto. Sarei stato trattato alla stregua di un pazzo farneticante. Molly e io dovevamo essere eliminati. Per i sicari di Truslow era l'unica cosa logica da fare. Ma se ce l'avessimo fatta, se fossimo riusciti a tenere duro fino a determinare chi doveva essere assassinato a Washington di lì a due giorni, a svelare l'omicidio programmato e a renderlo di pubblico dominio portandolo alla luce del sole, saremmo stati al sicuro. O perlomeno così credevo. L'orologio continuava a ticchettare. Ma chi poteva essere? Chi poteva essere questo testimone a sorpresa? Un assistente di Orlov, un russo, qualcuno a cui si era fidato a rivelare la
verità? O magari un amico di Hal Sinclair, una persona di cui Hal si fidava? Valutai anche le possibilità più remote. Toby? Chi altri, in definitiva, ne sapeva quanto lui? Era lui che doveva presentarsi a sorpresa davanti alla sottocommissione senatoriale di lì a due giorni per testimoniare contro Truslow, mandando all'aria tutta la congiura? Ridicolo. Per quale motivo? Spaventati, tesi e allo stremo, Molly e io avevamo litigato al Duc de Saint-Simon finché eravamo arrivati a elaborare un piano attuabile. Dovevamo lasciare l'albergo al più presto possibile, sui due piedi. Però dovevamo anche andare in Boulevard Raspail, per verificare che cosa ci avesse lasciato mio suocero. Non potevamo correre il rischio di trascurare un solo pezzo del rompicapo, qualunque fosse. Forse non saremmo arrivati a niente, forse la cassetta era vuota, forse addirittura presso la banca non esisteva nemmeno più una cassetta di sicurezza intestata a Hal Sinclair. Ma dovevamo scoprirlo. Segua l'oro, mi aveva esortato Orlov. E noi lo avevamo fatto. E a questo punto la pista dell'oro portava inesorabilmente a quella piccola banca privata di Parigi. Quindi, resici conto che avevamo ben poche altre possibilità d'azione, avevamo fatto le valigie in fretta e furia e li avevamo fatti recapitare dal fattorino al Crillon, dandogli una mancia generosa perché agisse con discrezione. Molly gli spiegò che stavamo preparando il terreno per la visita di un prestigioso uomo di Stato, per cui era d'importanza vitale che la nostra dislocazione rimanesse segreta e che quindi non rivelasse a nessuno dov'era stato trasferito il nostro bagaglio. Il medaglione con cammeo, invece, era tutta un'altra faccenda. Non avevo dubbi che la trasmittente radio contenuta nel suo interno avrebbe fatto accorrere i pedinatori al Saint-Simon. Distruggerlo era una soluzione, ma non la migliore. Sempre meglio un depistaggio. Lo presi con me e mi misi a passeggiare senza una meta precisa fuori dell'albergo, in direzione del Boulevard Saint-Germain. Di fronte alla stazione della metropolitana di Rue du Bac c'è un caffè quasi sempre affollato. Entrai, mi accostai al banco e ordinai una demitasse. Incastrata al mio fianco c'era una signora di mezza età, molto curata, con capelli color rame raccolti in uno chignon, che stringeva a sé una capacissima borsetta di pelle verde e una copia nuova di zecca di Vogue. Con grande disinvoltura feci scivolare il medaglione nella borsetta, finii il mio caffè, lasciai qualche franco sul bancone e tornai in albergo. Dal momento che simili trasmittenti inviano il loro segnale ra-
dio secondo la linea di mira, i nostri pedinatori sarebbero stati almeno per il momento depistati: finché la mia amica lettrice di Vogue avesse continuato ad aggirarsi in mezzo alla folla non sarebbero mai stati in grado di localizzare la provenienza del segnale. Avevamo lasciato l'albergo separatamente e per uscite diverse - risparmierò i dettagli: basti dire che era piuttosto improbabile che fossimo seguiti - dopo esserci dati appuntamento all'obelisco di Place de la Concorde, da dove tornammo indietro in taxi, attraversando la Senna sul Pont de la Concorde e percorrendo Boulevard Saint-Germain fino al bivio di Boulevard Raspail. Alcune giovani imbronciate e di abbigliamento squisito erano sedute a lavorare con grande impegno ad alcuni tavoli in mogano ben distanti dalle porte in vetro e mogano attraverso cui Molly e io entrammo. Un paio di esse alzarono lo sguardo, stizzite, infastidite dall'intrusione. Irradiavano sufficienza, ma con una particolare patina francese. Finché un giovanotto si alzò da uno dei tavoli e si affrettò a venirci incontro con aria ansiosa, quasi temesse che avessimo intenzione di rapinare la banca prendendoli tutti in ostaggio. «Oui?» Ci si era piazzato davanti, impedendoci il passo con una posizione goffa. Indossava un doppiopetto in serge blu di taglio esageratamente accurato e occhiali rotondi con montatura nera, sul tipo di quelli usati da Le Corbusier (e dopo di lui da intere generazioni di fanfaroni americani di professione architetto). Passai la palla a Molly, che era ufficialmente la persona interessata. Portava una delle sue singolari ma comunque eleganti mise, una specie di sottoveste in lino nero che sarebbe stata bene su una spiaggia come a un pranzo alla Casa Bianca. Come al solito nessuno sapeva civettare con eccentricità come lei. Attaccò a spiegare la situazione nel suo ottimo francese: era l'erede legale dei beni del padre e di conseguenza chiedeva di poter avere regolare accesso alla sua cassetta di sicurezza. La guardavo parlare come da grande distanza, riflettendo sulla singolarità del caso. I beni del padre. Eravamo lì sulle tracce delle sostanze di suo padre, tra le quali sembrava rientrare anche un'immensa fortuna che peraltro non gli apparteneva. Sposo silente, li seguii per l'atrio fino al tavolo del giovane funzionario per portare a compimento il nostro piano. Anche se era soltanto la seconda banca in cui entravo nel corso di questo dramma in cui Molly e io eravamo precipitati da quando avevo conseguito la mia bizzarra facoltà telepatica,
mi sembrava che da una settimana a quella parte non avessi fatto altro. I rituali, le formule, tutto mi appariva ormai noto. E mentre eravamo lì seduti mi scoprii ad affondare in quel particolare recesso del mio cervello con cui avevo acquisito una familiarità similarmente intensa: lo strano posto in cui fluttuano parole e frasi. I pensieri. Masticavo un po' di francese, come si usa dire, il che significa che avevo una discreta conoscenza della lingua a livello di conversazione, quindi aspettavo che i pensieri del giovane banchiere gallico facessero sentire la loro voce.., ... Invece non arrivava niente. Per un istante fui preso da una ben nota paura: che la particolare facoltà tanto repentinamente impostami, altrettanto repentinamente fosse svanita. Non percepivo un bel niente. Mi venne in mente il pomeriggio in cui mi ero aggirato per Boston, dopo essere uscito dalla Corporation, quando ero stato stravolto dall'incredibile abbondanza di pensieri altrui, confusi, irritati o carichi di rimorso, a brandelli, che percepivo senza dover fare sforzi. In quel momento, invece, mi chiesi se non si stesse per caso riducendo a nulla. «Ben?» mi sentii chiamare dalla voce di Molly. «Sì?» Mi stava guardando con curiosità. «Dice che se vogliamo possiamo accedere anche subito alla cassetta. Dobbiamo compilare un modulo.» «Facciamolo senz'altro» replicai, sapendo che stava cercando di indovinare le mie intenzioni. "Eh, no, Molly," pensai "se disponessi della facoltà non ti toccherebbe chiedere niente." Il funzionario prese da un cassetto un modulo in due pagine, evidentemente inteso a un unico scopo: intimidire. Quando Molly lo ebbe compilato gli gettò un'occhiata, sporgendo le labbra, quindi si alzò per andare a consultare un uomo più anziano, presumibilmente il suo superiore. Qualche minuto dopo tornò lì e con un cenno del capo ci fece strada verso un locale interno, le cui pareti erano costituite da tanti riquadri in ottone opacizzato, in diverse misure che andavano da un dieci per dieci centimetri circa a più o meno tre volte tanto. Inserì la chiave in uno dei più piccoli. Estratta dal suo incavo la cassetta con il suo frontale in ottone la trasportò in una stanzetta riservata, lì accanto, dove la posò su un tavolo, spiegandoci che per aprire una cassetta di sicurezza il sistema francese richiede due chiavi, una in possesso del cliente e l'altra della banca. Poi, con uno stringato sorriso ci lasciò soli nel locale.
«Allora?» chiesi. Molly scosse il capo in un breve gesto che significava moltissimo: apprensione, sollievo, stupore, frustrazione. Inserì nella seconda serratura la chiave nascosta da suo padre nella legatura delle memorie di Allen Dulles. Ad Harrison Sinclair, riposi in pace, il senso dell'umorismo non aveva mai fatto difetto. La lastra di ottone sul davanti della cassetta si aprì con un leggero clic. Molly allungò la mano all'interno. Trattenni per un attimo il respiro. Seguivo le sue mosse con spasmodica attenzione. «Vuota?» chiesi finalmente. Dopo qualche secondo scosse il capo. Liberai il respiro. Molly estrasse dall'oscuro recesso della cassetta di sicurezza una lunga busta grigia di circa ventitré centimetri per dieci. Con aria perplessa la aprì strappandola e ne tirò fuori il contenuto: un biglietto scritto a macchina, un brandello giallo di busta commerciale e una piccola fotografia in bianco e nero, lucida. Un istante più tardi la sentii tirare un respiro brusco. «Oh, buon Dio!» esclamò. «Buon Dio!» 56 Fissai la foto che l'aveva presa tanto alla sprovvista. La più ordinaria delle istantanee tratte da un album di famiglia: dieci per tredici, bordi smerlati tipici degli anni Cinquanta, persino una macchia bruna e crostosa di mucillagine sul dorso. Un bell'uomo snello, dall'aria atletica, in piedi con sottobraccio una giovane bellezza bruna di occhi e di capelli; di fronte a loro, con un sorriso malizioso, una sfrontata maschietta di tre o quattro anni, occhi chiari sfavillanti, capelli scuri tagliati con una frangetta impeccabile e legati in due treccine sui lati della testa. Tutti e tre in piedi sui logori gradini in legno di una grossa casa altrettanto in legno, o di un casino di caccia, a giudicare dall'aspetto, un capanno, la tipica casa per l'estate, cadente e comoda, che si può trovare sul lago Michigan, sul lago Superiore, nei Pocono o negli Adirondack, come pure sulle rive di qualsiasi lago in ogni parte degli Stati Uniti. La bimbetta - non potevano esserci dubbi che fosse Molly - era una sfocata frenesia di iperattivismo, la sua immagine era stata colta a stento da un barlume di apertura per un sedicesimo di secondo, o giù di lì. I genitori avevano un'aria al tempo stesso orgogliosa e a loro agio: una scenetta fa-
miliare da far sciogliere il cuore, tanto tipicamente americana da risultare quasi kitsch. «Me lo ricordo quel posto» disse Molly. «Eh?» «Voglio dire, non lo ricordo moltissimo in sé, però ricordo di averne sentito parlare. Era la casa di mia nonna, La madre di mia madre, in Canada, non so bene dove. Una vecchia casa su un lago.» Quindi Molly tacque, continuando a fissare la foto, forse riconoscendone i dettagli: una poltrona Adirondack sul portico dietro le figure ritratte, mancante di una striscia di legno; le grosse pietre irregolari che formavano il fronte della rozza casa; la giacca del padre, in crespa a righe bianche e azzurre, e il suo farfallino; il semplice abito estivo a fiori della madre; la palla e il guanto da baseball abbandonati sui gradini accanto a loro. «Che strano» disse. «È un ricordo lieto. Comunque quella casa non è più nostra. Purtroppo. I miei genitori l'hanno venduta quando ero piccola, credo. Non ci siamo mai tornati, tranne un'estate.» Raccolsi il brandello di busta, su cui si vedeva scritto un indirizzo, o perlomeno parte di un indirizzo, scribacchiato in una filiforme grafia: 7, rue du Cygne, ler, Paris. Parigi, va bene, ma che cos'era? E perché era lì, chiuso in quel caveau? E perché la foto? Un segnale, un messaggio a Molly dal defunto padre... Da... (si perdoni la banalità)... dall'oltretomba? Presi la lettera, evidentemente scritta su una vecchia macchina per scrivere e piena di cancellature e refusi. Era indirizzata "Alla mia amatissima Snoops", chissà perché. Alzai gli occhi a Molly, per chiederle che cosa diavolo significasse una simile dedica, ma lei sorrise umilmente, spiegando: «Snoops era il nomignolo con cui mi chiamava lui». «Snoops? Come dire ficcanaso?» «Be', sta per Snoopy. Il mio personaggio preferito dei fumetti, da bambina.» «Ah, Snoopy.» «E... e anche perché da piccola mi piaceva aprire i cassetti chiusi a chiave. Ficcare il naso in cose che non mi riguardavano. Roba che fanno tutti i bambini, ma se si ha come padre il residente della CIA al Cairo o il direttore di non so quale struttura della CIA, si viene presi in giro molto di più per la propria curiosità. I curiosi si scottano il naso e così via. Perciò papà mi chiamava Snoopy, e poi Snoops.»
«Snoops» ripetei, assaporandone il suono, con malizia. «Non osare, Ellison. Hai capito? Non osare, cazzo!» Tornai alla lettera, malamente battuta a macchina su carta Crane écru sotto l'intestazione Harrison Sinclair, che iniziava: ALLA MIA AMATISSIMA SNOOPS Se stai leggendo questa lettera - ed è ovvio che la stai leggendo, perché altrimenti queste parole non le avresti mai viste - consentimi prima di esprimerti per la milionesima volta la mia ammirazione. Sei un magnifico medico ma, se non avessi disprezzato tanto la professione che mi sono scelto, saresti stata anche una spia di prim'ordine. Non lo dico con alcuna ostilità: sotto certi punti di vista avevi ragione a provare tanta antipatia per il mestiere dell'agente segreto. Ha molti aspetti discutibili. Spero soltanto che un giorno tu apprezzerai ciò che vi è anche di nobile, in esso, e non soltanto per un senso di devozione filiale, o di lealtà, o di colpa. Quando il suo cancro è progredito al punto che è apparso chiaro che non avrebbe tirato avanti più di qualche settimana, tua madre mi ha fatto sedere nella sua camera di ospedale - nessuno sapeva amministrare la giustizia come lei - e mi ha detto che non avrei mai dovuto interferire nel modo in cui avresti scelto di vivere la tua vita. Ha aggiunto che non avresti mai proceduto secondo schemi convenzionali ma che alla fine, ovunque tu fossi finita, nessuno avrebbe avuto una mente più lucida, una presa più ferma sulla realtà e una visione del mondo più chiara di quella della nostra "cara Martha". Quindi credo che capirai ciò che sto per dirti. Per motivi che ti appariranno presto evidenti, non vi è traccia di questa cassetta di sicurezza né tra le mie carte né nel mio testamento né in qualche altro luogo. Per trovare questo biglietto bisognerà che tu abbia trovato la chiave che ho lasciato (a volte i sistemi più semplici e antiquati sono i migliori) e che sia anche entrata nella camera blindata di Zurigo. Avrai trovato l'oro. E sicuramente vorrai qualche spiegazione. A me le cacce e gli inseguimenti non sono mai piaciuti un granché, quindi credimi se ti dico che non era mia intenzione complicare le cose a te, ma a tutti gli altri. Nulla, in questo gioco, è chiarissimo, ma se sei arrivata fino a qui avrai capito perché ho agito così. Tutto è stato fatto per proteggere te.
Queste parole le sto scrivendo dopo un importantissimo incontro a Zurigo con Vladimir Orlov, nel cui nome probabilmente riconoscerai quello dell'ultimo capo del KGB. Ho fatto con lui un accordo che ti devo spiegare. E da lui ho anche appreso certe cose che debbo ugualmente dirti. Io infatti sto per essere ucciso. Ne sono sicuro. Quando leggerai questo scritto potrò essere morto o meno, ma volevo che conoscessi il motivo. Come sai meglio di chiunque altro, cara Snoops, i soldi non hanno mai esercitato su di me una grande attrazione, al di là di quelli che servono per sopravvivere dignitosamente. Perciò confido che quando ti avranno detto che ero corrotto, che mi sono reso responsabile di appropriazione indebita e qualsiasi altra calunnia possa essere stata diffusa sul mio conto ora che me ne sono andato, voglio che tu conosca la verità. Si tratta di sciocchezze. E tu lo sai. Ma quello che potresti non sapere è che nel momento in cui sto scrivendo queste parole ho già ricevuto diverse minacce di morte, alcune prive d'importanza, altre invece molto serie. Sono cominciate (non c'è da sorprendersi) poco dopo che sono stato nominato direttore della Central Intelligence Agency, ovvero quando mi sono assunto l'onere di fare piazza pulita, ho lanciato la mia folle crociata per ripulire la CIA. Era una struttura che amavo. In cui credevo. E sono sicuro che tu, Ben, puoi capirlo come non lo può capire nessun esterno. Nei recessi più profondi della CIA sta succedendo qualcosa di terribile. Esiste un gruppo ristretto di persone che con il passare degli anni ha abusato delle informazioni a loro disposizione al fine di ammassare enormi somme di denaro. E io mi sono imposto di smascherarle fino dal primo giorno in cui sono entrato in carica come direttore. Avevo le mie teorie, ma mi occorrevano prove. L'atmosfera di Langley, ai tempi, era quella di un acciarino, pronto a prendere fuoco alla prima scintilla fatta scattare da una delle tante commissioni di indagine del Congresso o da un qualsiasi giornalista intraprendente del New York Times. A livello di corridoio si parlava apertamente di togliermi di mezzo. Alcuni dei vecchi mi odiavano ancora più di quanto, ai tempi, avessero odiato Bill Colby! So che diversi personaggi del potere di Washin-
gton, di alto rango ed estrema influenza, sono addirittura andati dal presidente a sollecitare la mia rimozione. Vedi, circolava una ridda di voci circa il fatto che la corruzione sarebbe arrivata a un livello tale da togliere il fiato. Avevo sentito parlare di un ristretto gruppo, senza volto, di esponenti del passato e del presente, noti come i Saggi, che si incontravano in condizioni di assoluta segretezza. Si diceva che fossero coinvolti in grossissimi imbrogli. E si riteneva che si servissero di informazioni raccolte dall'Agenzia per ammassare enormi quantità di denaro a titolo privato. Ma nessuno sapeva chi fossero. Evidentemente erano così influenti, così ben ammanicati, da essere riusciti a non farsi scoprire. Finché un giorno sono stato contattato direttamente da un uomo d'affari europeo - finlandese, per la precisione - che ha dichiarato di rappresentare, sue precise parole, «un ex leader mondiale» che disponeva di "informazioni" che avrebbero potuto interessarmi. Furono avviate prolungate trattative, molto prima ancora che venissi a sapere che la persona da lui rappresentata altri non era che l'ex capo del KGB sovietico, Vladimir Orlov, che viveva in una piccola dacia fuori Mosca e voleva lasciare l'ex Unione Sovietica per andare in esilio. Orlov, mi fece sapere l'intermediario, aveva una proposta interessante da farmi. Aveva bisogno del mio aiuto per salvare le riserve auree della Russia dagli esponenti della linea dura che, era convinto, un giorno o l'altro avrebbero fatto saltare il governo Eltsin. Se lo avessi aiutato a trasferire un'enorme quantità di oro - dieci miliardi di dollari! - lui era pronto a fornirmi un prezioso dossier su alcuni elementi corrotti della CIA. Orlov, aggiunse l'intermediario, era in possesso di un dossier che documentava in maniera straordinariamente dettagliata una massiccia corruzione all'interno della CIA. Vaste somme di denaro ammassate negli anni da un ristretto gruppo di esponenti del servizio che avevano realizzato fenomenali guadagni servendosi d'informazioni raccolte in tutto il mondo attraverso lo spionaggio industriale e commerciale. Disponeva di tutti i nomi, i luoghi, gli importi, le relazioni. Tutte le prove. Naturalmente acconsentii. Avrei accettato comunque di aiutarlo
- lo sai quanto disperatamente desiderassi impedire che la Russia tornasse sotto una dittatura - ma il richiamo del dossier rendeva addirittura irresistibile la sua offerta. In realtà, Orlov arrivò a Zurigo senza niente: il dossier gli era stato rubato sotto il naso, fatto che mi irritò. All'inizio sospettai che ci fosse sotto un tentativo di ricatto, ma poi capii che Orlov era davvero una vittima. E, visto che ero arrivato fino a quel punto, ormai dovevo portare a termine il nostro accordo. Ma per realizzare un'operazione di simili dimensioni avevo bisogno di aiuto, e di un aiuto che venisse dall'esterno dell'Agenzia. Esente da ogni possibile ombra di corruzione. Era un fatto di vitale importanza, data l'enorme somma di denaro con cui eravamo alle prese. Inoltre, gli aspetti finanziari della questione dovevano essere risolti completamente in nero. Di conseguenza, mi rivolsi all'unico uomo dell'Agenzia che a quel punto era un esterno, un uomo la cui integrità personale appariva al di sopra di ogni dubbio: Alexander Truslow. Fu il più grosso sbaglio che avessi mai commesso. Di Truslow feci il cointestatario del conto presso la Banca di Zurigo dove avevo trasferito metà dell'oro. Ciò significava che nessuno di noi due avrebbe potuto spostarlo da lì senza il consenso dell'altro. E l'oro avrebbe potuto essere trasferito o venduto soltanto quando il conto fosse stato attivato, il che sarebbe avvenuto quando una qualsiasi delle due parti avesse ottenuto l'accesso al conto. Pensavo che, se fosse sorto qualche problema, saremmo stati entrambi al riparo da qualsiasi accusa. Non avrei potuto essere accusato di un furto su scala mondiale. L'altra metà concordammo che venisse trasferita in Canada via container, attraverso Terranova, per mezzo della St. Lawrence Seaway. Ma in questo momento ho una paura terribile. Temo per la mia vita. Come sai, Ben, a Langley c'è gente veramente molto in gamba a far passare un omicidio per una morte naturale. Quindi non rimarrò ancora a lungo in questo mondo. Ho appreso soltanto di recente che Wilhelm Vogel, che è in lizza per la carica di cancelliere in Germania, è controllato da un cartello tedesco di immenso potere. Stanno cercando, in maniera occulta, di riarmare e ricostruire la Germania. È loro intenzione
arrivare a controllare non soltanto il loro Paese ma, attraverso di esso, tutta l'Europa unificata. E hanno come alleato il gruppo interno alla CIA di cui ho parlato sopra. Pare che il loro accordo preveda una divisione pacifica delle spoglie. Gli elementi della CIA controlleranno il servizio e, tramite esso, l'economia dell'emisfero occidentale. Il cartello tedesco avrà l'Europa. E tutti diventeranno enormemente, inconcepibilmente ricchi. È un fascismo di tipo nuovo, basato sulla grande industria, e sta conquistando le leve del governo in questo periodo di fragilità e incertezze. A capo degli americani c'è Alexander Truslow. E di fronte a una simile situazione io sono del tutto impotente. Ma sono convinto che avrò presto modo di bloccare ogni cosa. Ci sono dei documenti da rivelare. Devono saltare fuori. Se verrò ucciso, dovrete trovarli voi due. A tale scopo lascio a ciascuno di voi un regalo. Mi sono rimaste ben poche cose, e me ne rammarico. Ma ora mi piacerebbe farvi eredi di una piccola cosa, una per ciascuno, due regali fatti di conoscenza, che in definitiva è il bene più prezioso. A te, Snoopy, lascio il ricordo di un momento molto felice della tua vita, come della mia e di quella di tua madre. Le vere ricchezze, come avrai modo di scoprire, le si deve trovare nella famiglia. Questa fotografia, che penso tu non abbia mai visto, mi fa sempre tornare in mente un'estate molto felice che noi tre abbiamo vissuto insieme. Tu avevi soltanto quattro anni, per cui sono sicuro che non ricorderai quasi niente. Mentre io, reo confesso di dipendenza dal lavoro anche a quei tempi, ero stato costretto a prendere un mese di vacanza dopo un'operazione di appendicectomia fatta in extremis. Probabilmente era stato il mio stesso corpo a impormi di passare un po' più di tempo con i miei cari. Quel posto ti piaceva, catturavi ranocchi nel laghetto, imparavi a pescare, a lanciare la palla del softball... Non stavi mai ferma e non ti ho mai visto così felice. Sono sempre stato convinto che Tolstoi sbagli quando, all'inizio di Anna Karenina, scrive che tutte le famiglie felici sono uguali. Ogni famiglia, felice o infelice che sia (e la nostra ha vissuto entrambe le situazioni), ha una sua
unicità come un fiocco di neve. Mi sia consentito essere sentimentale e banale per una volta in vita mia, cara Snoops. A te, invece, Ben, consegno l'indirizzo di una coppia che nel momento in cui leggerai questa lettera potrebbe anche non essere più in vita. Spero di cuore che almeno uno di loro lo sia ancora per poterti raccontare una storia molto interessante. Portati dietro questo brandello di carta, ti servirà come biglietto d'ingresso, una specie di passe partout. Sono infatti convinto che ciò che queste due persone hanno da raccontarti ti solleverà dal terribile fardello che ti stai portando dietro da tanto tempo. Tu non sei stato in alcun modo responsabile della morte della tua prima moglie, Ben, e queste due persone te lo confermeranno. Come avrei voluto potertelo svelare io, da vivo. Ma per varie ragioni non mi è stato possibile. Capirai presto. Qualcuno - La Rochefoucauld, credo, o un altro scrittore francese del XVII secolo - ha espresso magnificamente il concetto: «Raramente possiamo indurci a perdonare chi ci ha aiutato». Un'ultima citazione letteraria, un verso da Geronzio di Eliot: «Dopo tale conoscenza, quale perdono?». Con tutto il mio affetto, papà. 57 Molly aveva le guance rigate dalle lacrime, si mordeva il labbro inferiore. Sbatteva le palpebre tenendo lo sguardo fisso sul biglietto, ma finalmente lo alzò per guardarmi. Non sapevo da dove cominciare, che cosa chiederle. La strinsi tra le braccia, senza dire nulla per un lungo istante. Sentii il suo torace fremere di leggeri singhiozzi. Ma dopo un paio di minuti il respiro si fece più regolare, e si staccò da me. Aveva lo sguardo acceso, due occhi che per un attimo furono quelli della bambina di quattro anni della foto. «Perché?» chiese. «Perché che cosa?» Mi scrutò in viso, facendovi scorrere lo sguardo su e giù, su e giù, ma in silenzio, come se stesse cercando di decidere che cosa intendesse dire. «La
fotografia» rispose. «Un messaggio. Che cos'altro potrebbe essere?» «Non credi che possa essere solo... un regalo diretto, dettato dal cuore?» «Dimmelo tu, Molly. È una cosa che tuo padre avrebbe fatto?» Tirò su con il naso e scosse il capo. «Papà era meraviglioso, ma non lo si sarebbe mai potuto definire una persona aperta. Credo che abbia imparato a comportarsi in maniera criptica dal suo amico James Jesus Angleton.» «Ok. Allora, dov'era questa casa di tua nonna in Canada?» Scosse di nuovo la testa. «Dio, Ben, avevo quattro anni. Vi abbiamo passato esattamente un'estate. Non ne ricordo niente.» «Pensaci» la esortai. «Non posso! Voglio dire... a che cosa dovrei pensare? Non lo so dove fosse. Nel Canada francese, chissà dove, forse nel Quebec. Gesù!» Le strinsi il viso tra le mani, fissandola. «Che cosa stai... piantala, Ben!» «Prova, almeno.» «Prova... ehi, dacci un taglio. Abbiamo fatto un accordo. Mi hai assicurato - mi hai promesso - che non avresti cercato di leggermi nel pensiero.» trem... tremo... tremante? Soltanto un frammento, una parola o un suono, che intesi a stento. «Stai tremando?» chiesi. Mi scoccò uno sguardo interrogativo. «No. Che cosa stai...» «Tremo. Tremante.» «Che cosa stai...» «Concentrati! Tremante. Tremo. Trem...» «Che cosa stai dicendo?» «Non so» risposi. «Cioè, invece lo so. Lo so. Ti ho sentito... lo hai pensato...» Tornò a fissarmi negli occhi, con aria alternativamente perplessa e di sfida. Poi, dopo un attimo, ribatté: «Non ne ho idea...». «Cerca. Pensaci. Tremo? Tremante? Tramonto? Trembley? Canada? Tua nonna? Trembley o qualcosa del genere? Si chiamava così?» Scosse la testa. «Era la nonna Hale. Ellen. E il nonno si chiamava Frederick.» Emisi un sospiro di frustrazione. «Okay. Tremante. Tramonto. Tram...» ...tram... tramblan... «C'è qualcos'altro» incalzai. «Tu stai pensando - o forse subvocalizzando - qualcosa, un pensiero, un nome, qualcosa di cui la tua mente conscia non
è del tutto consapevole.» «Che cosa stai...» La interruppi con impazienza: «Che cosa significa Tramblan?». «Che cosa?... Oh, mio Dio... Tremblant. Lac Tremblant!» «Eh?» «La casa era su un lago, nel Quebec. Adesso ricordo. Lac Tremblant. Sotto una grande montagna, bella. Mont Tremblant. La casa era sul Lac Tremblant. Come facevi a saperlo?» «Te lo sei ricordato tu. Non abbastanza da dirlo ad alta voce, ma lo avevi comunque lì, nel cervello. Probabilmente è un nome che hai sentito menzionare decine di volte, da piccola, e l'hai immagazzinato nella mente.» «Credi che sia importante?» «Credo che sia fondamentale. Sono convinto che sia per questo che tuo padre ti ha lasciato la foto di un posto che non avrebbe potuto riconoscere nessuno all'infuori di te. Un posto che probabilmente non è registrato da nessuna parte. In modo che se qualcuno fosse riuscito ad avere accesso a questa cassetta si sarebbe comunque trovato in un vicolo cieco. Il massimo che chiunque avrebbe potuto fare, tranne tu, era identificare te e i tuoi genitori, dopo di che sarebbe rimasto in una posizione di stallo.» «Lo sono rimasta anch'io, quasi.» «Immagino che tuo padre contasse sul fatto che saresti riuscita a fartelo tornare in mente, a risalire fino a lì, o qualcosa del genere. Contava su di te. Ne sono sicuro. Ti ha lasciato quella foto perché tu lo scoprissi.» «E poi?» «E poi perché ci andassi.» «Credi che... che i documenti siano lì?» «Non ne sarei molto sorpreso» risposi, alzandomi e rimettendomi a posto i pantaloni e la giacca. «Che cosa stai facendo?» «Non voglio sprecare un solo minuto di più.» «Dove hai intenzione di andare?» «Tu resti qui» risposi. Poi mi guardai attorno. «Pensi che qui io sia al sicuro?» «Dirò al direttore della banca che abbiamo bisogno di servirci di questa saletta per il resto della giornata. Non deve esservi ammesso nessuno. Se dovremo pagare un affitto, lo faremo. Una saletta chiusa a chiave nel caveau di una banca... Un posto più sicuro non potremo mai trovarlo, perlomeno così, sui due piedi.» E mi voltai per andarmene.
«Dove hai intenzione di andare?» mi gridò lei. Come risposta sventolai in aria il brandello di busta. «Aspetta. Ho bisogno di un telefono, qui dentro. Di un telefono... e di un fax.» «Per fare che cosa?» «Procurameli e basta, Ben.» Le gettai un'occhiata sorpresa, annuii e uscii dalla saletta. Rue du Cygne è una stradina tranquilla a pochi isolati di distanza da quello che un tempo era il Marché des Innocents, il grande mercato centrale di Parigi, il luogo che Emile Zola definisce le ventre de Paris. Dopo l'abbattimento del vecchio quartiere, negli anni Sessanta, vi è stata costruita una serie di enormi strutture modernistiche di una bruttezza impressionante, compreso il Forum des Halles, un complesso di gallerie e ristoranti con la più grande stazione di sotterranea che ci sia al mondo. Il numero 7 era uno squallido palazzo risalente alla fine del secolo scorso, tozzo, buio e odoroso di muffa all'interno. La porta dell'appartamento numero 23 era di legno massiccio e scheggiato, dipinto di bianco molto tempo fa e ora completamente ingrigito. Molto prima di arrivare al secondo piano avevo cominciato a sentire da dentro l'appartamento l'abbaiare basso e minaccioso di un grosso cane. Mi avvicinai e bussai. Dopo un lungo istante di attesa, nel cui corso l'abbaiare del cane si fece più acuto e insistente, sentii un lento strusciare di piedi, il passo di una persona anziana, e poi il rumore metallico di una catena, che immaginai fosse la porta cui veniva tolto il paletto dall'interno. La porta si spalancò. Per un attimo, la più infinitesimale frazione di secondo, mi parve di essere precipitato dentro un film dell'orrore, i passi, il rumore della catena e infine il volto della creatura che adesso vedevo nell'ombra della porta aperta. Una donna. Gli abiti erano quelli di una donna anziana, curva. I capelli sulla testa erano lunghi, grigio argento e raccolti all'indietro in uno chignon disordinato. Ma il viso era di una bruttezza quasi indicibile, una massa di rughe, bozzi e grumi di pelle attorno a un paio di occhi gentili e a una bocca piccola, deformata, storta. Rimasi lì in un silenzio profondamente turbato. Anche se fossi stato in grado di parlare, non disponevo di alcun nome, di nient'altro che un indi-
rizzo. Feci un passo avanti e senza dire niente le mostrai l'ingiallito frammento di busta. Sullo sfondo, dai recessi bui dell'appartamento, sentii il cane che uggiolava e si sforzava di liberarsi. Senza dire una parola nemmeno lei, la vecchia strizzò gli occhi per guardare l'indirizzo che vi era scritto. Quindi fece dietrofront e scomparve. Qualche istante più tardi venne alla porta un uomo sui settant'anni. Dall'aspetto si sarebbe detto che un tempo doveva essere robusto, persino corpulento. Gli arruffati capelli grigi dovevano essere stati nerissimi. Ora invece era fragile e camminava zoppicando in maniera pronunciata. La lunga, sottile cicatrice che aveva su un lato del viso, sul profilo della mascella, un tempo di un brutto rosso infiammato, si era ridotta a un bianco pallido, scolorito. Quindici anni lo avevano invecchiato in maniera drammatica. Un uomo il cui viso e la cui figura sapevo che non avrei mai dimenticato, perché me li ero trovati mentalmente davanti notte dopo notte. L'uomo che avevo visto allontanarsi zoppicando da rue Jacob quindici anni prima. «Ah» dissi con più calma di quanto avrei mai immaginato di poter evocare dalla mia persona. «Tu sei l'uomo che ha ucciso mia moglie.» 58 Non ricordavo di avere visto i suoi occhi, che erano di un grigio azzurro acquoso, due occhi vulnerabili, non certo quelli di uno specialista del KGB per le "eliminazioni fisiche", come doveva essere l'uomo che aveva mandato all'altro mondo la mia bella e giovane moglie sparandole un colpo al cuore senza pensarci due volte. Ricordavo soltanto la sottile cicatrice rossa sul profilo della mascella, il ciuffo di capelli neri, la camicia a scacchi da cacciatore, il passo zoppicante. Un aspirante transfuga, un addetto all'archivio presso la residenza del KGB a Parigi, che si è identificato come "Victor", ha delle informazioni da vendere. Informazioni che dice di avere scoperto negli archivi di Mosca. Qualcosa che riguarda l'acronimo GAZZA. Vuole disertare. In cambio chiede protezione, sicurezza, comodità, tutte le cose che noi americani notoriamente dispensiamo alle spie transfughe come una specie di Babbo Natale dell'intelligence. Parliamo. Ci incontriamo in Faubourg-St. Honoré. Ci incontriamo una seconda volta in un appartamento sicuro. Lui ci promette roba tale da
provocare un terremoto, esplosiva, tratta da un dossier su questa GAZZA. Toby mostra un forte interesse. GAZZA gli interessa moltissimo. Combiniamo di vederci a casa mia, in rue Jacob. Sono convinto che sia un posto sicuro perché Laura è via. Arrivo tardi. Un uomo in camicia a scacchi, con una zazzera di capelli neri, si allontana zoppicando. Sento odore di sangue, forte e metallico, caldo e acido, un odore da far rivoltare lo stomaco, che mi urla qualcosa sempre più forte a mano a mano che salgo le scale. È Laura? Non è possibile, no, certamente, non può essere lei quel corpo contorto, quella camicia da notte in seta, quella macchia rosso scuro. Non è vero, non può essere. Laura è fuori città, è a Giverny, non è lei, c'è una rassomiglianza ma niente di più, non può essere... Sto impazzendo. E Toby. L'ammasso scomposto di forme umane che vedo sul pavimento del pianerottolo: Toby quasi morto, paralizzato per la vita. E a provocare tutto ciò sono stato io. A entrambi. Al mio mentore e amico. Alla mia adorata moglie. "Victor" esaminò il brandello di carta, poi alzò lo sguardo. I suoi occhi grigio azzurri mi scrutarono con un'espressione che non riuscii a definire. Paura? O disinteresse? Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa. Quindi mi disse: «Entra, prego». "Victor" e la donna deforme erano seduti fianco a fianco su uno stretto divanetto. Io rimasi in piedi, con la pistola puntata, furente. Un grosso televisore a colori era acceso con il volume al minimo. Stava trasmettendo una situation comedy americana che non riconobbi. Parlò per primo l'uomo, in russo. «Non sono stato io a uccidere tua moglie» disse. La donna - sua moglie? - era seduta con le mani congiunte in grembo, pervase da un tremito. Non riuscivo a guardarla in faccia. «Come ti chiami?» chiesi, anch'io in russo. «Vadim Berzin» rispose. «E questa è Vera. Vera Ivanovna Berzina.» E inclinò leggermente la testa verso di lei, seduta sulla sua destra. «Tu sei "Victor"» replicai. «Lo sono stato. È vero. Per alcuni giorni mi sono chiamato così.» «Chi sei allora, in realtà?» «Lo sai.»
Lo sapevo? Davvero? Che cosa sapevo effettivamente di lui? «Mi aspettavi?» chiesi. Gli occhi di Vera si chiusero, o meglio, parvero sparire nei grumi di carne. Qualche faccia così mi venne in mente di averla già vista, ma soltanto in foto e film. The Elephant Man, per esempio, un poderoso lungometraggio basato sulla storia vera del famoso Uomo Elefante, l'inglese John Merrick. Un uomo sfigurato dalla neurofibromatosi, il morbo di Recklinghausen, che può provocare tumori della pelle e deformità. Era di questo che soffriva la donna? «Sì» rispose Berzin. «Ti aspettavo.» «Ma non hai paura a lasciarmi entrare in casa tua?» «Non sono stato io a uccidere tua moglie.» «Non ti sorprenderà sapere che non ti credo» ribattei. «No,» rispose con un sorriso smorto «non mi sorprende affatto.» Si interruppe un attimo, quindi proseguì: «Puoi uccidermi, o ucciderci entrambi, con la massima facilità. In questo stesso momento, se vuoi. Ma perché dovresti farlo? Perché, prima di avere ascoltato quello che ho da dirti?». «Abitiamo qui» continuò «dalla disgregazione dell'Unione Sovietica. Siamo riusciti a pagarci la fuga, come hanno fatto moltissimi nostri colleghi del KGB.» «Avete pagato il governo russo?» «No, la tua Central Intelligence Agency.» «Con che cosa? Dollari nascosti da qualche parte?» «Oh, figurati! I pochi dollari che siamo riusciti a mettere insieme nel corso degli anni non sono niente per la grande e ricca Central Intelligence Agency. Non hanno bisogno dei nostri dollaruzzi bisunti. No, la fuga ce la siamo pagata con la stessa valuta con cui hanno pagato tutti gli altri esponenti del KGB...» «Già» replicai. «Informazioni. Informazioni sgraffignate dagli schedari del KGB. Come tutti gli altri. Però mi sorprende che tu abbia trovato degli acquirenti interessati, dopo quello che avevi fatto.» «Ah, già» rispose sardonicamente Berzin. «Ho cercato di mettere nel sacco un brillante giovane dipendente della CIA contro cui il centro di Mosca nutriva un certo risentimento. Perciò ho organizzato una falsa defezione, come da manuale, no?» Non replicai, per cui continuò: «Mi presento all'appuntamento, ma il giovanotto della CIA non c'è. Perciò - siccome la vendetta non è selettiva ammazzo sua moglie e ferisco un altro uomo della CIA, più anziano. Giu-
sto?». «Più o meno.» «Ah. Eh, sì. Una bella storiella.» Mentre parlava avevo abbassato la pistola, ma tornai ad alzarla lentamente. Sono convinto che poche cose sappiano evocare la verità come una pistola carica nelle mani di una persona che sa usarla. Ma per la prima volta fece sentire la sua voce anche la moglie. Gridò, anzi, in una tonalità chiara, forte, di contralto: «Lascialo parlare». Gettai un'occhiata rapida al suo viso sfigurato, quindi tornai a guardare il marito. Che non sembrava affatto spaventato. Al contrario, sembrava piuttosto divertito, come se la situazione gli piacesse. Ma di punto in bianco la sua espressione si fece grave. «La verità è questa» riprese. «Quando sono arrivato a casa tua, mi è venuto incontro l'uomo anziano, Thompson. Ma io non sapevo chi fosse.» «Impossibile!» «No! Non l'avevo mai incontrato, e tu non mi avevi detto chi ci sarebbe stato con te. Per motivi di sicurezza, immagino. Mi ha detto che aveva l'incarico di controllarmi e che voleva cominciare immediatamente l'interrogatorio. Mi sono dichiarato d'accordo. E gli ho parlato del documento GAZZA.» «Che cos'è?» «Un nostro elemento all'interno dell'intelligence americana.» «Una talpa sovietica?» «Non proprio. Un informatore. Uno dei nostri.» «Nome in codice GAZZA?» E usai la parola russa soroka, che indica appunto quel volatile. «Sì.» «Allora era un nome in codice del KGB.» La sfilza dei nomi in codice del KGB tratti da denominazioni di uccelli era molto più lunga e colorita di qualsiasi altra cosa fossimo riusciti a scoprire. «Sì, però, di nuovo, non si trattava di una talpa nel senso ristretto del termine. Non era esattamente un agente infiltrato... piuttosto uno che eravamo riusciti a convertire, a convincere a stare dalla nostra parte, quanto bastava perché facesse qualche lavoretto per noi.» «E GAZZA è...» «Come si scoprì nell'occasione, GAZZA è James Tobias Thompson. Ma io, non conoscendone il nome vero, non avevo idea che stavo parlando con lui in persona: gli schedari del KGB sono troppo frammentati. Quindi ec-
comi lì a parlare di un dossier che intendevo vendere, riguardante una delicata operazione del KGB. Ed ecco lì di fronte a me il diretto interessato che mi ascoltava con grande attenzione mentre cercavo di vendergli un'informazione che avrebbe fatto saltare la sua copertura.» «Mio Dio!» esclamai. «Toby!» «Improvvisamente questo Thompson si fece violento. Mi aggredì, puntandomi addosso una pistola con il silenziatore, e pretese che gli consegnassi un documento di riconoscimento. Be', non ero certo così stupido da portarmene dietro uno, non prima che avessimo concluso l'affare. Mi minacciò, gli dissi che non ne avevo con me... E penso che stesse per uccidermi, quando ci girammo entrambi e vedemmo entrare nella stanza una donna. Una bella donna, in camicia da notte bianca.» «Sì. Laura.» «Aveva sentito tutto. Tutto ciò che avevo detto io e tutto ciò che aveva detto Thompson. Ci spiegò che stava dormendo nella stanza accanto e che il rumore l'aveva svegliata. Poi tutto si fece confuso. Io approfittai dell'interruzione per rimettermi in piedi e cercare di scappare. Mentre lo facevo, tirai fuori la rivoltella per difendermi, ma prima che potessi armare il cane mi sentii esplodere una gamba. Thompson mi aveva sparato. Però non mi aveva ucciso, nella fretta aveva mirato male, ma a quel punto avevo anch'io l'arma pronta, per cui gli sparai, per autodifesa. Quindi balzai nell'atrio e uscii nel pianerottolo, riuscendo a filarmela prima che potesse uccidermi.» Avrei soltanto voluto lasciarmi cadere sul pavimento, coprirmi gli occhi, cercare rifugio nel sonno, e invece ora avevo bisogno di ricorrere a tutta la mia riserva di forza di volontà. Mi lasciai andare su una grossa poltrona squadrata, rimettendo la sicura e continuando ad ascoltarlo in silenzio. «Mentre correvo giù per le scale,» continuò Berzin «sentii un altro sparo silenziato e capii che o si era ucciso o aveva ucciso la donna.» Vidi che gli occhi della moglie sfigurata erano chiusi. E lo erano rimasti per la maggior parte del racconto. Seguì un silenzio lungo, molto lungo. Sentii il distante ronzìo dei ciclomotori, il rombo di un camion, risate di bambini. Ma finalmente riuscii a parlare. «Una storia plausibile» ammisi. «Plausibile» replicò lui «e vera.» «Però non hai nessuna prova.» «Ah no? Da che distanza hai esaminato il corpo di tua moglie?» Non risposi. Non ero riuscito a trovare il coraggio di guardarlo.
«Esattamente» continuò Berzin in tono mite. «Ma se un esperto di balistica avesse esaminato le ferite, avrebbe scoperto che il colpo era stato sparato da una pistola appartenente a James Tobias Thompson.» «Facile dirlo,» ribattei «adesso che quel corpo è sottoterra da quindici anni.» «Il fatto deve pur essere stato registrato su una scheda.» «Sì, di sicuro.» Ma non aggiunsi: però non su una scheda cui io potessi avere accesso. «Allora ho qualcosa che troverai utile e con cui, se me lo consenti, salderò il mio debito con Harrison Sinclair. Era tuo suocero, no?» «È stato lui a portarti via da Mosca?» «Chi altri avrebbe potuto essere abbastanza influente?» «Ma perché?» «Probabilmente in modo che un giorno potessi raccontarti questa storia. È sopra il televisore.» «Che cosa?» «La cosa che voglio mostrarti. Consegnarti. Lì, sul televisore.» Voltai la testa per guardare l'apparecchio, che stava trasmettendo una replica di MASH. Sopra la cassa di legno c'era un insieme di oggetti: un busto di Lenin di quelli che un tempo, a Mosca, si potevano comperare ovunque; un piatto dipinto che sembrava usato come portacenere; una piccola raccolta di libri di versi di Aleksandr Blok e Anna Achmatova, in russo e di edizione sovietica. «È nel Lenin» disse con un sorrisetto furbo. «Il buon zio Lenin.» «Rimani dove sei» gli ingiunsi. Mi accostai al televisore, prendendo in mano il piccolo busto cavo di ferro. Lo rigirai. Su una targhetta alla base si leggeva la scritta BERIOZKA 4.31, che significava che era stato comperato in uno dei vecchi magazzini sovietici dove si pagava in valuta straniera. Quattro rubli e trentuno copechi: una bella cifra, per i tempi. «Dentro» specificò. Agitai il busto e sentii che nell'interno qualcosa si muoveva. Ne estrassi una pallottola di carta più o meno straccia, e finalmente ne emerse un oggetto rettangolare. Lo presi in mano e lo esaminai. Un'audiocassetta miniaturizzata. Gli rivolsi uno sguardo interrogativo. Da uno degli altri locali il cane (che ritenevo fosse legato o in qualche modo costretto) cominciò a uggiolare. «È la prova che volevi» disse.
Poi, visto che non rispondevo, continuò: «Mi sono portato addosso un registratore». «In rue Jacob?» Annuì, compiaciuto. «A guadagnarmi la libertà è stata una registrazione fatta a Parigi quindici anni fa.» «E perché diavolo avevi addosso un registratore?» Una risposta mi venne in mente, ma senza senso. «Tu non avevi nessuna intenzione di passare dalla nostra parte, eh? Stavi lavorando per il KGB anche in quel momento, vero? Raccoglievi informazioni.» «No! L'ho fatto per mettermi al sicuro!» «Metterti al sicuro? E nei confronti di chi? Della gente dalla cui parte avevi intenzione di passare? È ridicolo!» «No... ascolta. Era un registratore di microcassette che la Lubianka mi aveva consegnato per smascherare eventuali "provocazioni" e così via. Ma quella volta lo avevo addosso per mettermi al sicuro. Per registrare qualsiasi promessa, assicurazione e persino minaccia mi venisse fatta. Altrimenti, nel caso di una disputa su ciò che mi era stato promesso, avrei semplicemente disposto della mia parola contro la tua. E comunque sapevo che una registrazione su nastro in qualche modo mi sarebbe tornata utile. Su che cos'altro potevo contare?» E prese la mano della moglie, che notai essere anch'essa sfigurata da piccoli tumori ma non al livello del volto. «È per te. Una registrazione su nastro del mio incontro con James Tobias Thompson. La prova che desideri.» Stupefatto, mi accostai ai due vecchi, spostai una sedia vicinissima a loro e mi sedetti. Non era per niente facile, vista la situazione, ma chinai la testa e mi concentrai, focalizzando l'attenzione finché mi parve di sentire qualcosa, una sillaba qui, una frase là, e infine fui completamente sicuro di sentire qualcosa, fui certo di essermi sintonizzato sui pensieri disperati, agitati di quell'uomo, che mi stavano letteralmente gridando qualcosa. Con molta calma, metodicamente, dissi in russo: «Per me è molto importante che tu mi stia dicendo la verità su tutta questa faccenda. Su Thompson e su mia moglie. Su tutto». «Certo che la sto dicendo!» ribatté. Non risposi. Rimasi in ascolto, mentre il silenzio della stanza era rotto soltanto dai forti uggiolii del cane, finché finalmente qualcosa dilagò a livello della mia coscienza. Certo che ti sto dicendo la verità! Ma era vero? Lo stava pensando? O stava per dirlo? Erano due cose
molto diverse. Che cosa mi faceva ritenere che disponessi della facoltà di indovinare il vero? Costretto com'ero in una simile incertezza, non ero affatto preparato a ciò che sentii subito dopo. Una voce pensata, calma, sicura. Mi senti, vero? Alzai lo sguardo sulla donna, che aveva di nuovo chiuso gli occhi facendoli scomparire in quello spaventevole paesaggio di gonfiori e tumori. La sua piccola bocca sembrava arcuarsi leggermente verso l'alto nella cruda imitazione di un sorriso. Un sorriso triste, consapevole. Sì, pensai, ti sento. E, guardandola e sorridendo, annuii. Seguì una battuta di silenzio, quindi intercettai: Tu mi senti, ma io non sento te. Non ho la tua facoltà. Devi parlarmi a voce. «Il nastro...» attaccò Berzin, ma sua moglie si mise un dito sulle labbra per zittirlo. Perplesso, tacque di colpo. «Sì» dissi. «Sì, ti sento. Come fai a saperlo?» Sono al corrente di queste cose. Conosco i progetti di James Tobias Thompson. «Come mai?» chiesi. Quando mio marito è stato mandato a Parigi io sono stata trattenuta a Mosca. A quella gente piaceva fare così, tenere separati marito e moglie in modo da avere una possibilità di ricatto. In ogni caso avevo un impiego molto importante, troppo importante perché ci rinunciassi. Sono stata la capo segretaria di tre successivi presidenti del KGB. La portinaia, in realtà. Maneggiavo tutti i loro documenti segreti, la loro corrispondenza. «Quindi sei stata tu a scoprire il dossier GAZZA.» Sì, quello e molti altri. «Che cosa sta succedendo?» chiese Berzin, stupito. «Per favore, Vadim. Sta' zitto qualche istante. Ti spiegherò tutto» gli rispose sua moglie in tono tranquillizzante. E continuò come prima, con pensieri chiari e comprensibili come la sua voce parlata. Questa malattia ce l'ho da sempre. E la sua mano sinistra si spostò tremolando verso il viso. Ma quando ho raggiunto la quarantina mi ha aggredito al viso, per cui nel giro di breve tempo sono diventata... inadatta a occupare una posizione così in vista. I presidenti del KGB e i loro assistenti non riuscivano più a sopportare di guardarmi: mi rimossero dal mio
impiego. Ma prima di andarmene portai via con me un documento che ero convinta avrebbe finito per consentire a Vadim di scappare in Occidente. E quando è venuto a trovarmi gliel'ho dato. «Ma come facevi?» insistetti. «Come facevi a sapere di... di me?» Non lo sapevo. Ho indovinato. Nella mia posizione ho scoperto che Thompson stava lavorando a un progetto in fase di sviluppo. Nessuno, al quartier generale del Primo Direttorato Centrale, credeva che una cosa del genere fosse possibile. Io invece sì. Non sapevo se Thompson sarebbe mai riuscito nel suo intento. Però sapevo che era possibile. È una facoltà molto, molto notevole quella di cui disponi. «No» ribattei. «È una cosa terribile.» Ma prima che potessi continuare, spiegandole come stavano veramente le cose, riattaccò: Il padre di tua moglie ci ha fatto uscire dalla Russia. È stato un bel gesto, generoso. Ma avevamo ben altro da offrirgli, oltre a questo nastro. Inarcai i sopraccigli, chiedendo tacitamente: Che cosa? I pensieri della donna continuarono a fluire, impassibili e chiari. Quest'uomo, James Tobias Thompson. Il tuo mentore. GAZZA. Ha continuato a mandare i suoi rapporti a Mosca. Lo so. Li ho visti. Parla di certa gente dentro e fuori della CIA che progetta la conquista del potere. In collaborazione con i tedeschi. Li devi scoprire. Thompson ti dirà chi sono. Si è pentito di ciò che ha fatto. Ti dirà... Ma d'improvviso l'uggiolare del cane si convertì in un abbaiare, aspro, forte. «Cacciatore ha qualcosa» disse Berzin. «Fammi dare una controllata...» «No» ribattei. L'aspro abbaiare del cane si stava facendo sempre più forte, più rapido, più insistente. Finché divenne un terribile, spaventevole ululato lacerante, un grido quasi umano, quasi un urlo. Seguito da un terribile silenzio. Mi parve di sentire qualcosa, un pensiero. Il mio nome, pensato con grande agitazione, da qualcuno molto vicino. Capii che il cane era stato brutalmente scannato. E che adesso toccava a noi. 59 La rapidità con cui si riesce a pensare quando la vita è in pericolo è dav-
vero straordinaria. Sia Vera sia Vadim ebbero un sussulto all'ululato lacerante, disperato del cane, poi la donna lanciò un grido e balzò in piedi, nell'atto di slanciarsi verso il rumore. «Fermati!» le gridai. «Non muoverti... è pericoloso! Sta' giù.» Confusa e terrorizzata l'anziana coppia si strinse in un abbraccio, in un mulinare disperato di braccia. La donna cominciò a gemere rumorosamente, finché il marito esclamò in tono di protesta: «Zitta!». Confusi tacquero entrambi, e sull'appartamento cadde un silenzio sinistro, arcano. Un silenzio assoluto in cui sapevo che qualcuno - una o più persone - si stava muovendo furtivamente. Non conoscevo la pianta dell'abitazione ma potevo immaginarmela: era un appartamento al primo piano, probabilmente munito di una tortuosa scaletta antincendio sul retro del palazzo, dov'era situata la cucina in cui era legato il cane e dove avevano fatto irruzione gli intrusi. Gli intrusi? Ovvero, chi? I miei pensieri correvano velocissimi: Chi sapeva che ero lì? Non c'era più la trasmittente a guidare i miei inseguitori ed ero sicurissimo di non essere stato pedinato. Toby Thompson... Truslow... Lavoravano insieme? O per fini opposti, uno contro l'altro? Che questa vecchia coppia di russi fosse su una lista di elementi da tenere d'occhio? Era possibile che una persona con ottime opportunità di accesso ai segreti dell'Agenzia - Truslow, ma anche Thompson - fosse a conoscenza dell'accordo fatto dal padre di Molly con questa coppia? Sì, certo, assolutamente possibile. E d'altra parte il fatto che mi trovavo a Parigi era ormai noto, per cui sarebbe stato naturale che fosse stata intensificata una sorveglianza che altrimenti sarebbe rimasta a sonnecchiare... Pensieri che mi balenarono in testa nel giro di non più di un paio di secondi, ma in una breve interruzione vidi che entrambi i Berzin stavano precipitandosi - ovvero, per essere più precisi, procedendo goffamente verso l'angusto corridoio buio, forse in direzione della cucina. Stupidi! Che cosa stavano facendo? Che cosa pensavano di fare? «Tornate indietro» ordinai loro, quasi gridando, ma avevano già raggiunto la soglia, agitati e confusi come due cervi spaventati, incapaci di pensare, di comportarsi secondo logica, di riflettere. Balzai loro addosso per trascinarli indietro, per toglierli di mezzo in modo che potessi muovermi senza l'impaccio di dover temere per la loro sicurezza, ma mentre mi muovevo intravidi nel corridoio un'ombra vaga. Il profilo di un uomo, mi
parve. «Giù!» gridai, ma proprio in quell'istante si fece sentire il sibilante, sordo fut fut fut di un'automatica con il silenziatore, e Vera e Vadim cominciarono a barcollare in avanti, cadendo in una specie di balletto grottesco, lento, come due alberi abbattuti, due grandi tronchi antichi segati alla base. L'unico rumore che si sentì ancora fu un basso, profondo lamento che emerse dal corpo del vecchio mentre cadeva rovinosamente a terra. Mi bloccai e, senza riflettere, sparai una raffica di colpi nel corridoio buio. Si sentì un grido, un urlo acuto di dolore da cui dedussi che avevo probabilmente colpito qualcuno, seguito da diverse voci maschili che si misero a gridare all'unisono. Il mio fuoco trovò risposta in una serie di raffiche che scheggiarono lo stipite della porta. Una pallottola mi graffiò una spalla, un'altra colpì lo schermo del televisore, che esplose. Scattai in avanti, afferrando la maniglia della porta del salotto, cadendovi sopra con tutto il mio peso, chiudendola di schianto e girando la chiave nella toppa. A che scopo? Soltanto per rimanere in trappola in quella stanza? Rifletti, dannazione! L'unica via di scampo era rappresentata dal corridoio, dove si trovava chi aveva sparato, una o più persone che fossero, per cui uscire da quella parte era impossibile. Allora? Che fare? Non avevo tempo di pensare. Dovevo agire il più in fretta possibile, ma mi ero andato a ficcare proprio in quell'angolo rischioso. Mentre procedevo a una serie affannosa di ragionamenti, una scarica di pallottole venne sparata contro la porta, perforando lo spesso legno. E adesso? Dove nascondermi? Gesù, Ben, muoviti, in nome di Dio! Mi girai su me stesso, vidi la poltrona di legno su cui ero seduto soltanto qualche istante prima, la scagliai contro la finestra. Il vetro andò in frantumi e il mobile si incastrò tra le strisce di alluminio delle tapparelle. Mi precipitai verso la finestra, disincastrai la poltrona e la usai per eliminare le schegge di vetro rimaste negli stipiti. Alle mie spalle arrivò un'altra raffica di colpi; la maniglia venne scossa con violenza; altri spari. Proprio mentre la porta mi si spalancava dietro le spalle, senza guardare, saltai fuori dalla finestra del primo piano, verso la strada. Piegai le gambe per prepararmi all'impatto, le braccia larghe per proteggere la testa nel caso che fossi caduto in avanti.
Mi pareva di cadere al rallentatore. Per un attimo il tempo si era bloccato. Mi vedevo cadere, come se mi stessi guardando su uno schermo cinematografico, mi vidi raccogliere le gambe verso il corpo, vidi la strada che si andava ingrandendo a mano a mano che mi veniva incontro, arboscelli, marciapiede in cemento, pedoni, e... E nel giro di un attimo mi sentii andare a sbattere contro il marciapiede, un colpo fortissimo, da fracassarmi: ero atterrato sui talloni e caddi in avanti, scattando in piedi quasi come una molla, le braccia tese per recuperare l'equilibrio. Ero ferito, questo mi sembrava chiaro, e avvertivo un forte dolore. Ma ero vivo, grazie a Dio, e in grado di muovermi, per cui, con le pallottole che mi fischiavano attorno da dietro e dall'alto, scartai di lato, cercando di ignorare il dolore lacerante che sentivo ai piedi, alle caviglie e ai polpacci. Mi misi a correre con una velocità di cui non sapevo di essere capace, allontanandomi in direzione delle Halles. Tutto attorno a me i passanti urlavano e strillavano, alcuni indicandomi, altri rannicchiandosi su se stessi mentre mi facevo largo tra la folla. Ma, lo sapevo perfettamente, a salvarmi sarebbe stata proprio la folla, che avrebbe fatto da ostacolo all'avanzata di qualsiasi inseguitore. Ma c'era davvero qualcuno che mi inseguiva? Oppure ero riuscito a sfuggire a quella gente? Erano saliti tutti di sopra, nell'appartamento dei due russi? Oppure erano in attesa... No, non erano saliti tutti di sopra. Lanciata un'occhiata dietro le spalle vidi un paio di uomini in completo scuro e diversi altri ancora in vestiti normali che mi stavano correndo dietro, il viso teso in una smorfia di determinazione. Superai a zig zag un mucchietto di mattoni e qualcos'altro accanto a essi... Tiragli contro quei maledetti mattoni, dannazione! Il pensiero mi fece venire in mente che avevo qualcosa di ben più efficace, una buona pistola, affidabile, con ancora dodici o tredici colpi. Giratomi di scatto ne sparai uno, mirando con la maggior precisione possibile per tentare di non colpire nessun innocente. Vidi uno degli uomini in completo scuro andare giù, lasciandone uno solo all'inseguimento, e mi rimisi a correre, svoltando in rue Pierre-Lescot e superando un tabaccaio, un bar e una panetteria, zigzagando tra la folla dell'ora di punta. Ero un bersaglio in movimento irregolare, un pessimo obiettivo per il mio unico - davvero? inseguitore. Doveva affrontare la scelta tra fermarsi per prendere la mira con una certa precisione o corrermi dietro il più velocemente possibile, e la mia tattica di fuga parve funzionare: decise di continuare a correre, di cer-
care di raggiungermi. Me lo sentivo alle spalle. Ormai eravamo rimasti soltanto lui e io, il mondo si era ridotto a noi due, vita o morte, per strada non c'era più nessuno, non un solo passante, soltanto l'uomo in completo scuro, cappello a tesa larga e occhiali neri, che mi inseguiva guadagnando terreno anche se correvo come non avevo mai fatto in vita mia. Non tenevo in alcun conto la sirena del dolore, i segnali di avvertimento, e di conseguenza il corpo reagiva punendomi. Mentre correvo mi sentii prendere da crampi terribili, trapassanti, al ventre e ai fianchi. Ma non potevo fare altro che continuare a correre; il mio corpo, fuori forma dopo tanti anni di sedentaria pratica legale, lontano dal mestiere di agente segreto, mi stava ordinando di fermarmi, di arrendermi: Che cosa diavolo possono volere da te, ormai? Informazioni? Dagliele! Non sei forse troppo prezioso, data la tua facoltà, perché ti venga fatto del male? Mi vidi torreggiare davanti il Forum des Halles e continuai a correre in quella direzione con il corpo che si opponeva alla mente. Ma perché? Qual era la mia meta? Avevo intenzione di esaurirmi nella corsa e basta? Il mio povero corpo, ormai pervaso ovunque dal dolore, gridava il proprio no alla ferrea determinazione della mente, protestando, implorando e infine lusingandomi con voce melliflua: Arrenditi, non ti faranno del male, e non ne faranno nemmeno a Molly. Vogliono soltanto garantirsi il tuo silenzio e, certo, può anche darsi che non ti credano, ma tu puoi tergiversare, puoi giocare con loro. Arrenditi. Salvati... I passi, più veloci, tambureggiavano alle mie spalle. Mi trovai in una specie di parcheggio sotterraneo, a un'estremità del quale vidi una porta sormontata da una duplice scritta rossa: SORTIE DE SECOURS e PASSAGE INTERDIT. L'aprii e me la chiusi dietro le spalle. Emise un gemito metallico e rugginoso. Ora mi trovavo in una tromba di scale, malamente illuminata, fetida di spazzatura. Accanto alla porta vidi un grosso bidone dei rifiuti, pieno fino a traboccare. Era di alluminio, troppo leggero per poter servire da ostruzione. Qualcosa sbatté contro la porta dall'altro lato, forse un piede, o una spalla, ma la porta non cedette. Disperato, rovesciai il bidone. Spazzatura, altra spazzatura, altra ancora... e, finalmente, un ammaccato paio di forbici. Poteva andare. Valeva la pena di provare. Un altro tonfo contro la porta, che questa volta si aprì in parte; una striscia di luce baluginante filtrò nell'andito semibuio, scomparendo però immediatamente. Mi chinai, afferrai il pezzo di acciaio e lo ficcai in una fessura nel cardine della porta, il più a fondo possibile.
La porta tornò a far sentire un rumore tonante, ma questa volta senza lasciar passare alcuna striscia di luce: non si spostò di un millimetro. Finché le forbici tenevano era bloccata. Mi precipitai su per le scale, arrivando in un passaggio che nel giro di qualche istante mi portò in una galleria piena di gente. Dov'ero? In una stazione... Sì, certo, nella stazione della metropolitana, esattamente: Chatelet les Halles. La più grande del mondo. Un labirinto. Ora avevo molte direzioni verso cui puntare, per seminare quell'uomo... Purché il corpo mi sostenesse, mi permettesse di continuare a scappare. Ma di punto in bianco ebbi chiaro in mente che cosa fare. 60 Quindici anni prima. Sono giovane, molto più giovane. Ho appena ricevuto il diploma a Camp Peary della CIA, sono appena stato destinato a Parigi, con ancora "l'alito che sa di latte", come amava sfottermi il mio capo e amico James Tobias Thompson III. Laura e io siamo arrivati a Parigi quel mattino stesso con un volo della TWA dal Washington National Airport e io sono esausto. Laura dorme nel nostro spoglio appartamentino di rue Jacob; io, mezzo addormentato, sono seduto nell'ufficio di Thompson presso il consolato USA in rue St. Florentin. Quest'uomo mi piace, e lui sembra provare simpatia per me. Un buon inizio per una carriera nei cui confronti, fino a ora, ho avuto la mia buona dose di preoccupazione. La grande maggioranza degli agenti sul campo provano un'antipatia immediata verso i loro superiori, che li trattano per quei giovani inesperti e inaffidabili che in realtà sono. «Diamoci del tu» mi ingiunge. «O ci diamo del lei, nel qual caso tu sei Ellison e io mi devo comportare come una testa di cazzo di sergente addestratore dei marines, o siamo colleghi.» Quindi, prima che io abbia potuto ringraziarlo, mi scaraventa davanti una pila di libri. «Imparali a memoria» mi dice. «Tutti.» Alcuni di essi sono guide di viaggio a disposizione di qualsiasi turista (Pianta di Parigi per quartieri, Elenco stradale con stazioni della metropolitana), ma altri sono pubblicati dall'Agenzia a esclusivo uso interno (mappe dettagliate, riservate, della metropolitana di Parigi, elenchi top secret delle sedi diplomatiche e militari di tutta la città, suggerimenti di fuga in treno o auto). «Spero che tu stia scherzando» dico.
«Ti sembra?» «Non conosco il livello del tuo senso dell'umorismo.» «Non ce l'ho.» Però detto con una leggerissima torsione della bocca intesa a farmi capire che non è affatto così. «Hai una memoria fotografica. Sei in grado di ricordare un 'iradiddio di cose più di quante ne abbia in magazzino io, quassù.» Ridiamo. Lui ha i capelli bruni, è snello, di aspetto giovanile. «Un giorno, amico mio,» conclude «queste informazioni potrebbero tornarti utili!» "Già, Toby, un giorno" pensai in quel momento, dardeggiando qua e là con lo sguardo nell'immensa stazione per cercare di orientarmi. Non ci entravo da anni. "Ma non avresti mai immaginato che potesse tornarmi utile contro di te, eh?" Dal punto di vista fisico ero un vero disastro. Le braccia, anche se mi facevano molto meno male, erano tuttora appesantite; gambe, caviglie e piedi emettevano scintille e spirali di dolore trapassante, lacerante, come un fuoco d'artificio del Quattro Luglio. Chatelet les Halles. Con i suoi quarantamila metri quadrati è la più grande stazione di metropolitana del mondo. "Grazie, Toby. Mi è tornata veramente utile. Ah, io e la mia vecchia memoria fotografica." Mi gettai un'occhiata alle spalle, senza tuttavia concedermi il senso di sollievo che avrebbe potuto significare un abbassamento della guardia. Quell'uomo mi aveva senza dubbio seguito su per le scale, trattenuto soltanto da pochi millimetri di acciaio arrugginito che, probabilmente, sotto una pressione ripetuta, aveva resistito soltanto pochi istanti prima di spezzarsi o piegarsi. Quando si è inseguiti, il peggior sbaglio che si possa commettere è affidarsi all'istinto di sopravvivenza atavicamente proprio dell'uomo, l'atteggiamento combatti-o-scappa, per intenderci, su cui basavano la vita i nostri antenati cavernicoli. L'istinto fa reagire in maniera prevedibile, e la prevedibilità è il nemico contro cui bisogna stare in guardia. Bisogna al contrario entrare nella mente dell'avversario, ragionare come si pensa che farebbe lui, anche se ciò significa accreditarlo di un'intelligenza superiore a quella di cui in realtà dispone. Quindi, che cos'avrebbe fatto quell'uomo? In quel momento, se la porta non aveva ceduto, stava sicuramente cer-
cando l'ingresso alternativo più vicino. Doveva senza dubbio essercene uno. Si sarebbe introdotto nella stazione, entrando a sua volta nella mia testa e cercando di decidere se l'avrei lasciata per uscire in strada - no, troppo rischioso -, o se avrei cercato di seminarlo in quel labirinto di passaggi (molto probabile), oppure ancora se avrei cercato di mettere tra me e lui la più grossa distanza possibile, salendo sul primo treno di passaggio (ancora più probabile). Dopo di che, facendo i suoi calcoli, avrebbe ripercorso il proprio ragionamento a ritroso, eliminando la migliore (e più ovvia) via di scampo e... mettendosi a cercarmi nelle possibilità alternative. Ovunque, allora, tranne che su un marciapiede della metropolitana. Feci scorrere lo sguardo sulla folla. Accanto a me una adolescente dai capelli irti stava esibendosi in una tremenda imitazione di Edith Piaf, stridula, cantando sulla base di una musica per archi vomitata da un'apparecchiatura Casio. La gente le gettava qualche franco sul soprabito che si era stesa davanti per terra, secondo me più per pietà che per manifestare il proprio apprezzamento. Tutti sembravano avere una meta precisa. Avrei proprio detto che lì dentro non mi stava inseguendo nessuno. Dov'era finito quell'uomo? La stazione era un frastornante insieme di frecce arancioni che indicavano le correspondence e di altre, azzurre, che indicavano le sortie, nonché di treni diretti verso decine di mete diverse: Pont de Neully, CréteilPréfecture, Saint-Rémy-Les-Chevreuse, Porte d'Orleans, Château de Vincennes... E non c'erano soltanto i regolari treni della metropolitana ma anche quelli della RER, la Rete Espressa Regionale, che con i suoi convogli collega Parigi ai sobborghi. Un posto immenso, sparpagliato, frastornante, interminabile. E ciò andava a mio vantaggio. Ancora per qualche istante, perlomeno. Presi la direzione che il mio inseguitore avrebbe considerato la più ovvia e quindi, forse, la meno probabile: quella in cui sembrava diretto il flusso più intenso del traffico dei pedoni. Direction Château de Vincennes e Pont de Neuilly. Sulla destra della lunga sfilata di tornelli c'era una zona contrassegnata dall'indicazione PASSAGE INTERDIT, chiusa con una catenella. Scattai in quella direzione, cominciai a correre e la saltai. Una lunga fila di persone con in mano la loro copia di Pariscope si snodava attorno a un chiosco dove si vendevano biglietti di teatro a metà prezzo (Les places dujour a
moitié prix), accanto a una singolare statua in bronzo raffigurante un uomo e una donna, entrambi artisticamente deformi e protesi uno verso l'altra. Superai come un razzo un'uscita che dava sul Centre Georges Pompidou e il Forum des Halles e poi un capannello di tre poliziotti, armati di walkietalkie, pistola e manganello, che mi osservarono con sospetto. Scattati all'erta, due di loro si misero a inseguirmi, gridando. Dovetti fermarmi di colpo davanti a una serie di alte porte pneumatiche, insuperabili. Ma è proprio per questo che Dio ha inventato le Sortie de Secours, le uscite di sicurezza accessibili soltanto alle persone autorizzate, perciò svoltai da quella parte superandole come un fulmine, seguito dalle schiamazzanti proteste di un gruppo di addetti alla metropolitana. Le grida andavano aumentando alle mie spalle in un crescendo. Rimbombare di passi. Oltre una bottega di calze e un fiorista (Promotion - 10 tulipes 35 francs!). Sbucai in un lunghissimo passaggio su cui due tappeti scorrevoli trasportavano i pedoni lungo un piano inclinato. Il più vicino procedeva a ritroso rispetto alla mia direzione di marcia. Tra di essi scorreva una balaustra metallica ad altezza di vita, larga un metro, che saliva verso l'alto come un interminabile nastro d'acciaio. Guardandomi attorno vidi che ai poliziotti di guardia alla metropolitana si era aggiunta una figura solitaria in completo scuro, che li stava superando avvicinandosi a me a una velocità impressionante mentre ero incastrato in una coda di persone che se ne stavano lì immobili, lasciando tutta la fatica ai tappeti scorrevoli. Ero bloccato. L'uomo del completo scuro: esattamente quello che volevo seminare. Quando fu più vicino, mentre calcolavo ancora una volta la distanza che ci separava mi resi conto che era una faccia che avevo già visto da qualche parte. I pesanti occhiali dalla montatura pesante coprivano soltanto in parte i cerchi giallastri che aveva sotto gli occhi. Il cappello a larga tesa non c'era più, di certo perduto nell'inseguimento, lasciando scoperti i capelli sottili, color biondo chiaro, pettinati lisci all'indietro. Curvo, pallido come un fantasma, labbra sottili, anch'esse pallide. In Marlborough Street, a Boston. Fuori della banca, a Zurigo. Lo stesso uomo, senza dubbio. Un uomo che con ogni probabilità sapeva
moltissime cose di me. E per di più un uomo - pensiero raggelante - che non si dava praticamente alcuna pena di nascondersi. Non gli importava nulla che lo riconoscessi. Voleva che lo riconoscessi. Apertomi un varco a gomitate tra le persone ammassate in fila saltai sulla balaustra metallica mobile che scorreva tra i due tappeti scorrevoli. Avendo incespicato, mi resi conto che la superficie metallica era interrotta a intervalli di una trentina di centimetri da alcune lamelle in acciaio sporgenti, messe senza dubbio lì proprio per rendere difficile ciò che stavo facendo io, ovvero correrci sopra. Difficile ma non impossibile. Come l'aveva chiamato la donna di Zurigo? Max. "Okay, vecchio mio" pensai. "Corrimi dietro, Max. "Qualunque cosa tu voglia, vieni a prenderla. "Prova." 61 Correvo, senza pensare a niente. Sulla balaustra metallica, in salita. Attorno a me, da entrambi i lati, si levavano ansiti, strilli, urla. - Chi è quel pazzo? Un criminale? Da che cosa sta scappando? - La risposta era immediata a chi si voltava a guardare a ritroso sulla scala mobile in salita, dove a poca distanza si vedevano i poliziotti francesi che arrivavano soffiando furiosamente nei loro fischietti e facendosi largo tra la folla. E ormai, senza dubbio con immenso sbalordimento degli spettatori, a correre sulla balaustra metallica non era più un uomo solo ma due, il primo disperatamente impegnato a sfuggire al secondo. Max. L'assassino. Senza pensare a quello che facevo saltai in mezzo alla gente dell'altra scala mobile, in discesa, trovandovi un equilibrio instabile per un breve attimo prima di saltare oltre la paretina esterna di vetro, verso la sottostante scalinata, andando a cadere sui gradini. Non potevo rischiare di guardarmi alle spalle, non potevo permettermi di rallentare il passo nemmeno per un istante, quindi mi limitai a correre il più veloce possibile con le caviglie in-
fiacchite. Tutti i rumori circostanti erano coperti dall'incessante, rapido ritmo del battito del cuore, dal sibilare del fiato inalato ed espulso dai miei polmoni. Lontana sopra di me, in cima alle scale, vidi una freccia azzurra: Direction Pont De Neuilly. Un faro. Ero un segugio in caccia di un coniglio, un evaso in fuga. Ero, nel mio cervello febbricitante, qualsiasi cosa, qualsiasi cosa potesse ulteriormente stimolarmi, qualsiasi cosa potesse farmi continuare a correre, nonostante il dolore, ignorando le evidenti esortazioni del mio corpo a fermarmi, cercando di escludere dalle mie percezioni i melliflui, seducenti richiami della sirena: Rinuncia, Ben. Non ti faranno del male. Non puoi comunque vincere, non puoi sfuggirgli, sono troppi, calmati e arrenditi. No. Quell'uomo non avrebbe esitato un attimo a "farmi male", replicai nel mio folle dibattito intimo. Farà ciò che deve fare. Davanti a me, in cima alle scale, cominciò a profilarsi una stretta scala mobile. Dov'erano gli inseguitori? Diedi una rapida occhiata circolare, un veloce scatto della testa mentre puntavo verso la scala mobile. I poliziotti addetti alla metropolitana avevano rinunciato tutti e tre - erano tre? - alla caccia. Probabilmente avevano segnalato la mia presenza ad altri loro colleghi, più avanti. Ne rimaneva uno solo. Il mio vecchio amico Max. Lui non aveva rinunciato. No, il vecchio Max non lo avrebbe mai fatto. Continuava a risalire a grandi passi la balaustra metallica, figura solitaria, curva, in avvicinamento, sempre più veloce... In cima alla scala mobile c'erano un piccolo pianerottolo e, sulla destra, un'altra scala mobile contrassegnata dalla scritta SORTIE RUE DE RIVOLI. Allora? Da che parte? In strada o sul marciapiede della metropolitana? Attieniti a ciò che sai. Esitai soltanto un attimo, poi mi precipitai verso il marciapiede, dove frotte di persone entravano e uscivano dai treni. L'inseguitore era una decina di secondi dietro di me, il che significava che si sarebbe dovuto fermare anche lui sul pianerottolo e che, se ero sfortunato, mi avrebbe avvistato appena davanti a lui, sul marciapiede, bel bersaglio corposo per la croce di collimazione del suo mirino. Non fermarti.
Sentii trillare un campanello elettronico, a segnalare che il treno stava per partire. E capii che non ce l'avrei fatta. Chiamai a raccolta l'ultimo, disperato soprassalto di energia, puntando verso la più vicina porta aperta, ma si chiusero tutte scorrendo sulle loro guide, arrivando a combaciare con uno scatto quando ero ancora a una ventina di metri. E mentre il treno si avviava sentii Max raggiungere il marciapiede. Scattai disperatamente in avanti, verso il convoglio in movimento, e tesi la destra verso la sua parte terminale. Incontrò qualcosa di saldo, vi si aggrappò. Una maniglia. Grazie a Dio. La sinistra ne trovò un'altra e venni portato via in un lampo lungo il marciapiede, lasciandomi alle spalle Chatelet e Max, schiacciando il corpo contro il treno in corsa. Ma non avevo più il sostegno della fortuna, era stata un'idea terribile, stavo per essere ucciso. Con sguardo impazzito, quando la parte frontale del treno si infilò nel tunnel vidi ciò che mi aspettava. Un enorme specchio rotondo sporgente, montato sulla parete all'ingresso del tunnel. Vidi che il treno scorreva via velocissimo a pochi centimetri di distanza, ma così non sarebbe stato per me. Ero un grumo sporgente di carne umana che sarebbe stato tagliato in due metà perfette, come un pezzo di formaggio in cui fosse penetrata la lama di un Sabatier. Ma finalmente un brandello di logica affiorò sulla superficie della mia mente febbricitante: "Che cosa diavolo credi di fare? Che razza di follia sarebbe? Hai intenzione di rimanere aggrappato a questo treno per tutto il tunnel, facendoti schiacciare come una cimice, lasciandoti fare ciò che non è riuscito a farti Max, eh?". Mi sentii sfuggire involontariamente dai polmoni un lungo, forte grido. Un istante prima che l'enorme disco metallico mi fosse addosso, decapitandomi, mollai la presa sulle maniglie e andai a cadere rotoloni sul marciapiede, duro, freddo. Non sentii nemmeno i colpi di pistola che mi piovevano attorno. Ero in un altro mondo, in un quasi allucinante territorio di paura e adrenalina. Andai a sbattere sul pavimento, picchiando la testa e le spalle. Mi sentii pungere gli occhi dalle lacrime. Un dolore indescrivibile, rovente, lacerante, accecante, totalizzante. PASSAGE INTERDIT AU PUBLIC - DANGER.
Un cartello giallo, appena sopra di me, perforò la mia nebbia mentale. Potevo fermarmi e amen. Rimanere lì steso a terra e arrendermi. Oppure - se il mio corpo lo consentiva - balzare ancora avanti, verso la sfavillante insegna gialla, verso l'imboccatura del tunnel. Ma che possibilità di scampo avrei avuto, lì dentro? Qualcosa nel mio intimo, una grossa riserva di energia, si spalancò, facendomi scorrere nel sangue un flusso di adrenalina. Corsi in avanti alla cieca incespicando, fino a raggiungere una breve rampa di gradini in cemento armato. Il cartello giallo era appeso a due catenelle. Lo spinsi da parte con una spallata, scendendo quasi a rotoloni i pochi gradini che portavano nel buio freddo del tunnel, nel vento di coda del treno appena partito. Un angusto passaggio pedonale. Eccolo lì. Che cos'era? Ma certo: la passerelle de sécurité. La passerella di sicurezza. A disposizione delle squadre di manutenzione perché potessero lavorare, in caso di necessità, anche mentre nel tunnel correvano i treni. Mentre avanzavo di corsa - anzi, no, in realtà zoppicando - sentii un rumore alle mie spalle, un suono pneumatico di freni, un lieve stridore metallico, il rumore di un altro treno in arrivo alla piattaforma che mi ero appena lasciato alle spalle. Mi stava venendo addosso. Ma lì ero al sicuro, vero? In quella posizione potevo stare tranquillo, no? No. La passerella era troppo stretta. Il mio corpo sarebbe stato troppo vicino al treno in arrivo. Lo capii anche nel mio stato di esaltazione da adrenalina e paura. Ma sicuramente il mio inseguitore non sarebbe stato tanto suicida da seguirmi lì dentro; aveva capito che ero bell'e andato; era abbastanza furbo da lasciarmi andare incontro alla mia sorte dentro quel tunnel, incontro all'inevitabile morte. Ma proprio in quel momento sentii qualcosa. Un pensiero. E capii che non ero solo. Mi voltai un attimo. Eccolo lì nel tunnel, alle mie spalle. Congratulazioni, Max. Adesso saremo in due a morire. E da quella che era ormai una discreta distanza sentii i campanelli elettronici suonare, quindi lo sbattere delle porte che si chiudevano. Mi paralizzai nel tunnel, mentre il treno cominciava a muoversi verso di me. Sentii qualcosa di simile alle vertigini. Un prurito sulla nuca. Tutte le mie sinapsi presero a vibrare di un unico messaggio chimico di paura...
... muoviti muoviti muoviti muoviti... ... ma repressi l'istinto, schiacciandomi contro la parete del tunnel mentre il flusso d'aria annunciava l'arrivo del treno. Quando la sua pelle d'acciaio, terrificante macchia confusa, mi arrivò velocissima addosso, tanto vicina che fui sicuro di sentirmela strusciare sulla pelle, non potei fare a meno di chiudere gli occhi. Si avvicinava, sempre più, sempre più. Riaprii gli occhi. E al margine del campo visivo vidi che Max - a una decina di metri da me - aveva fatto la stessa cosa. Si era schiacciato anche lui contro la parete del tunnel. Era illuminato stroboscopicamente dalla fioca, baluginante, malaticcia luce fluorescente giallo verde di una lampada sospesa. Ma c'era una differenza. I suoi occhi non erano chiusi. Fissavano direttamente avanti a sé. E senza alcuna paura: erano concentrati. Con un'altra differenza. Max non era fermo. Stava procedendo di sbieco, con grande cautela, verso di me. Si stava avvicinando. 62 Si avvicinava, e intanto il treno continuava ad avanzare. Mi sembrava il più lungo del mondo. Mi pareva di essere bloccato nel tempo, nell'occhio di un ciclone. Mentre a mia volta procedevo di sbieco, allontanandomi da lui, avvistai qualcosa davanti a me. Un incavo nella parete, illuminato da un bulbo fluorescente. Una nicchia. Se fossi riuscito... Poche decine di centimetri più avanti, eccolo lì, un incavo profondo. La salvezza. Ancora un piccolo sforzo, avanzando sulla passerella come un gambero, nel terrificante scroscio d'aria, vetro, acciaio e maniglie metalliche sporgenti a non più di cinque centimetri dal mio naso. Ma eccomi finalmente dentro. Nella nicchia. Salvo. Nessun altro sistema di trasporto sotterraneo del mondo ha questo apparato di passerelle e cavità, ricordai. Vedevo nettamente la pagina, i diagrammi. Una nicchia ogni dieci metri... Tra una stazione e l'altra si stende
una media di circa seicento metri di binari... Le linee regolari del Metro di Parigi coprono duecento chilometri di binari... La terza rotaia è particolarmente pericolosa perché trasporta una carica di 750 volt di elettricità. L'incavo era profondo poco meno di un metro. Decisamente spazioso. Potei tirare fuori la pistola, togliere la sicura, armare il cane, sporgere la mano fuori dall'incavo e fare fuoco. Punti. Lo avevo preso. Fece una smorfia di dolore e barcollò in avanti... ... e proprio mentre l'ultimissima parte del treno scorreva via, fragorosa, cadde sui binari. Ma non era ferito gravemente, come capii dal modo in cui si raccolse su se stesso per proteggersi dalla caduta, con le gambe raccolte contro il corpo. Il treno era scomparso. Ormai eravamo soli nel tunnel. Lui in piedi sulla massicciata tra i binari, io rannicchiato nella nicchia. Arretrai per togliermi dalla sua linea di fuoco, ma lui scattò in avanti, con la pistola puntata, e fece fuoco. Sentii una fitta di dolore alla gamba sinistra: ero stato colpito. Premetti ancora una volta il grilletto, ma sentii soltanto un piccolo clic innocuo, un irridente, tremendo rumore che mi disse che il caricatore era vuoto. Neanche pensare di poter ricaricare: non avevo munizioni di riserva. Feci l'unica cosa possibile: con un grande urlo a gola spiegata scattai in avanti, verso l'assassino. Ne distinsi appena l'espressione del viso un attimo prima di metterlo giù: uno sguardo ottuso, privo di qualsiasi curiosità. O era incredulo? Nel brevissimo istante prima di cadere sotto di me cercò di prendere la mira, ma precipitammo a terra avvinghiati senza che potesse alzare la pistola. La sua schiena batté con un forte tonfo contro l'acciaio dei binari e le aguzze pietre grige della massicciata. Sentii la pistola sfuggirgli di mano con un rumore metallico. Si sottrasse con immensa energia, ma io avevo il doppio vantaggio della sorpresa e della posizione - lo tenevo bloccato a terra per le mani e le gambe -, per cui riuscii a ricacciarlo giù dandogli una botta sulla gola a palmo aperto. Si lasciò sfuggire un grugnito, arretrò di nuovo e poi fece sentire per la prima volta la sua voce. Poche parole fortemente accentate. Accento tedesco? «Non... serve» gemette, ma io non avevo nessun interesse per ciò che
poteva dirmi a voce, mi interessava solo quello che gli passava per quella maledetta testa. Tuttavia, non ero in condizione di tirarmi indietro e di concentrarmi, non avevo tempo, per cui cercai di togliergli il fiato dandogli una forte botta sul torace. Alle nostre spalle, verso il marciapiede della stazione, a una quarantina di metri da noi si vedeva un barlume di luce. E finalmente sentii qualche frammento di parole pensate, frasi che sembravano venire a me con singolare ansia, forti e non del tutto distinguibili. Puoi ammazzarmi, pensava in tedesco, puoi ammazzarmi, ma c'è un altro. Un altro prenderà il mio posto. Un altro... ... tanto che per qualche istante, stordito, mollai la presa sulla sua gola. Lui si ritrasse di scatto, e questa volta riuscì a liberarsi. Caddi all'indietro, con le scarpe che aravano la ghiaia come una pozzanghera di grasso. Sventolai disperatamente la destra in cerca di un appiglio che potesse frenare la mia caduta, ma non trovai altro che aria, finché... ... 750 volt di elettricità... ... le punte delle mia dita arrivarono a sfiorare il freddo, duro acciaio della terza rotaia, ma riuscii a ritrarle di scatto appena in tempo, quanto bastava per vedere Max volare verso alto per piombarmi addosso. Tastai tutto attorno in cerca della mia arma, ma era scomparsa. Con un balzo improvviso scattai in avanti, andando a sbattergli addosso e facendolo volare sopra il mio corpo verso la tremenda terza rotaia elettrificata mentre il treno in avvicinamento ci era addosso, fragoroso, con un rumore incredibile. Vidi le sue gambe contrarsi per effetto della scarica elettrica un solo istante prima che il treno, suonando disperatamente la sirena d'emergenza, gli passasse sopra. Gesù Cristo. Non riuscii a credere a ciò che vedevo. Le gambe continuavano a contrarsi, ma terminavano all'altezza della vita. La metà inferiore del suo corpo era squassata dai brividi, moncone sanguinante tranciato all'altezza della vita, fremebonda massa di carne. Davanti a me sentii il rombo di un altro treno in arrivo. Serenamente, con calma glaciale, mi inerpicai sulla passerella, raggiungendo il rifugio della cavità più vicina. Il treno arrivò e io mi schiacciai contro la parete. Quando fu passato, uscii dal tunnel senza guardarmi alle spalle. 63 Il villaggio di Mont Tremblant è un grappoletto di case, un paio di risto-
ranti francesi rustici, un supermercato Bonichoix e un albergo sulla cui facciata fa bella mostra di sé un tendone verde, stranamente fuori posto, una specie di copia su scala ridotta di uno dei grandi alberghi di Montecarlo. Sopra al tutto incombono i monti Laurentian del Quebec, verdi e lussureggianti. Molly e io avevamo raggiunto Montreal da Parigi con due voli separati, in arrivo nei due aeroporti internazionali della città, e servendoci di due compagnie aeree diverse, lei al Mirabel, via Francoforte, e io al Dorval, via Lussemburgo e Copenaghen. Avevo impiegato diverse tecniche standard del mestiere per assicurarmi che nessuno di noi due venisse seguito. Ci eravamo serviti dei passaporti canadesi falsi preparati dal mio contatto francese di Pigalle, il che significava che entrambe le nostre coppie di passaporti americani - intestati a Mr. Alan Crowell e signora e a Mr. John Brewer e signora - erano ancora vergini. Se necessario avrebbero potuto essere usati per qualsiasi evenienza futura. Eravamo anche partiti da due aeroporti diversi, Molly dal Charles de Gaulle e io da Orly. E soprattutto avevamo volato in prima classe e con compagnie europee, Air Lingus, Lufthansa, Sabena e Air France. Compagnie che trattano ancora i passeggeri di prima classe come persone importanti, diversamente da quelle americane, che si limitano a dare loro un sedile più largo e una bibita gratis, e chi si è visto si è visto. In quanto destinato a una persona importante, il posto viene conservato fino all'ultimo istante: in sostanza, di norma tali compagnie offrono la loro assistenza a ciascun passeggero di prima classe tra il check in e l'imbarco. Per ogni tratta del nostro viaggio Molly e io ci imbarcammo all'ultimo istante, il che significò che ai nostri passaporti falsi fu data soltanto la più distratta delle occhiate mentre venivamo spinti a bordo in gran fretta. Anche se avevamo seguito due itinerari a zig zag, riuscimmo miracolosamente ad atterrare nel giro di due ore e mezzo uno dall'altra. Presa a noleggio un'auto dall'Avis caricai Molly e iniziai il nostro viaggio di centotrenta chilometri sulla 15 North. Un'autostrada che si potrebbe trovare ovunque in questo mondo, nella periferia urbana di Milano, Roma, Parigi o Boston. Quando finalmente si trasformò nella 117 - la Autoroute des Laurentides -, la vasta carreggiata ben asfaltata prese a tracciare una bella falce attraverso i maestosi monti Laurentian, passando per Sainte-Agathe-des-Monts e poi per Saint-Jovite. E finalmente eccoci lì, seduti davanti ai nostri piatti di escargots Florentine e di trota in padella, senza toccarli, come una coppia di pugilatori suo-
nati, quasi incapaci di parlare. Non lo avevamo fatto neanche durante il viaggio. In parte dipendeva dal fatto che eravamo entrambi assolutamente esausti, e per di più storditi dal jet lag. Ma in parte credo che stessimo zitti perché negli ultimi giorni, insieme o separatamente, ci erano capitati tanti di quei guai che avevamo fin troppe cose di cui parlare. Eravamo passati al di là dello specchio: tutto si stava facendo sempre più bizzarro. Il padre di Molly aveva avuto il ruolo della vittima, poi quello del mascalzone... E adesso? Toby, dal canto suo, prima della vittima e poi del salvatore... E adesso? E Alex Truslow, il mio amico e confidente, il nuovo direttore della CIA, apparentemente impegnato nella sua crociata... era davvero il capo della fazione che da anni approfittava illegalmente dell'Agenzia? Un assassino con nome in codice Max aveva cercato di accopparmi a Boston, a Zurigo e a Parigi. Chi era veramente? La risposta era arrivata negli ultimi, incredibili istanti in cui avevo fatto ricorso alla mia facoltà telepatica mentre mi dibattevo con lui sui binari della metropolitana di Parigi. Con un ultimo soprassalto di concentrazione ero riuscito a sintonizzarmi, avevo letto i suoi pensieri. Chi sei? gli avevo chiesto. Il suo nome vero era Johannes Hesse. "Max" era, soltanto quello in codice. Chi ti ha ingaggiato? Alex Truslow. Perché? Un'operazione di eliminazione fisica. E chi è il bersaglio finale? I suoi datori di lavoro non ne erano al corrente. Sapevano soltanto che la vittima designata era il testimone a sorpresa che doveva deporre davanti alla commissione senatoriale d'indagine sull'intelligence. L'indomani. Chi era? Chi poteva essere? Mi rimanevano circa ventiquattro ore. Chi era? Perché eravamo lì, in quel posto isolato e remoto del Quebec? Che cosa ci aspettavamo di trovare? Un albero cavo pieno di documenti? Una ma-
schera tagliata in una zucca vuota, con dentro un microfilm? Ormai avevo le mie teorie, che sarebbero valse a spiegare tutto se non fosse mancato l'ultimo, infinitesimo tassello. Ma ero convinto che questo tassello lo avremmo trovato sepolto in un abbandonato capanno in pietra sulle rive del Lac Tremblant. Il catasto delle proprietà del villaggio di Mont Tremblant si trovava nella vicina cittadina di St.-Jerome. Ma si rivelò di scarsissima utilità. Il ruvido francese incaricato degli schedari e di rilasciare i permessi, oltre che di vari altri compiti burocratici assortiti, certo Pierre La Fontaine, ci informò succintamente che tutte le schede di Mont Tremblant erano rimaste distrutte durante un incendio agli inizi degli anni Settanta. Non rimanevano che i titoli di proprietà registrati dopo di allora, ma non riuscì a rintracciare nessuna registrazione relativa alla vendita o all'acquisto di una casa sul lago in cui comparissero i cognomi Sinclair o Hale. Molly e io passammo ben tre ore in sua compagnia a controllare con la massima cura le registrazioni, ma senza esito. Dopo di che facemmo il più vasto giro possibile del lago, oltre il Tremblant Club e le altre strutture recenti, come il Tremblant Lodge con i suoi campi di tennis in terra battuta e la spiaggia di sabbia, il Manoir Pinoteau, lo Chalet des Chutes e altri edifici al tempo stesso eleganti e rustici. Speravamo evidentemente che uno di noi due potesse riconoscere il capanno, sia a memoria (nel caso di Molly) sia per averlo visto sulla fotografia. Ma non avemmo nessuna fortuna neanche in questo caso. Molte delle abitazioni non erano nemmeno visibili dalla strada in terra battuta che costeggiava il lago. Non si vedeva altro che i nomi sulle frecce segnaletiche, alcuni scritti a mano, altri tracciati con abilità professionale. D'altra parte, anche se avessimo avuto il tempo di abbandonare la strada inoltrandoci in tutti i vialetti che portavano a ciascuna casa sul fronte lago - e ci sarebbero voluti dei giorni -, sarebbe in realtà stato impossibile perché diversi di questi vialetti erano bloccati al transito in maniera piuttosto convincente. Inoltre, alcune case erano situate sulla sponda settentrionale del lago, una zona piuttosto isolata, raggiungibile soltanto con un'imbarcazione. Al termine della nostra piccola ricognizione, scoraggiato, accostai davanti al Tremblant Club e parcheggiai. «E adesso?» chiese Molly. «Noleggiamo una barca» risposi. «Dove?»
«Qui, immagino.» Invece no. Non c'era in vista alcun noleggio di barche, e nessuno degli alberghi cui ci rivolgemmo ne noleggiava. Evidentemente la località intendeva rendere la vita il più difficile possibile ai turisti di passaggio. Finché il ronzìo di un fuoribordo ruppe in distanza il silenzio del bel lago vitreo, dandomi un'idea. A Lac Tremblant Nord (che in realtà non si trova sulla punta settentrionale estrema del lago ma costituisce il limite estremo della strada, al di là del quale non è possibile proseguire) trovammo diverse darsene per barche, in legno e alluminio, dipinte di grigio, deserte. Chiuse con lucchetti, ovviamente. Evidentemente una zona d'ormeggio per i residenti del lago privi di accesso alla riva. Far saltare un lucchetto fu questione di un attimo. Nella darsena vidi una schiera di piccole imbarcazioni, per lo più da pesca. Scelsi un Sunray giallo con un motore fuoribordo da settanta cavalli: una buona barca, veloce e, quel che più conta, con la chiave inserita nell'accensione. Il motore si avviò subito e nel giro di pochi minuti ci trovammo a sfrecciare sul lago tra nuvolaglie di fumo azzurrino. Le case erano in stili molto diversi, dallo chalet svizzero alla capanna rustica, alcune direttamente sull'acqua, altre appena visibili tra gli alberi, appollaiate su sporgenze della riva montuosa. Ci fu un falso allarme, una casa in pietra e malta che inizialmente ci parve fare al caso nostro ma che poi si rivelò un capanno antico nell'interpretazione di un architetto moderno. Ma finalmente eccolo lì, senza alcun preavviso, il vecchio capanno con la sua facciata in pietra, su un dolce pendìo, a un centinaio di metri dalla riva. Una veranda dava sul lago, e sulla veranda si vedevano due poltrone Adirondack bianche. Senza dubbio la casa dove Molly aveva trascorso un'estate. In realtà sembrava non essere cambiata da quando era stata scattata quella foto, decenni prima. Molly la fissò, colpita, affascinata. Sulle sue guance non si vedeva più alcun colore. «Eccola lì» disse semplicemente. Spensi il motore quanto più vicino possibile alla riva, non azzardandomi a farlo più in là, e lasciai procedere l'imbarcazione sull'abbrivio attraccandola al traballante pontile di legno. «Mio Dio» mormorò Molly. «Eccola. È lei.» L'aiutai a sbarcare sul pontile, quindi scesi anch'io. «Mio Dio, Ben. Questo posto me lo ricordo!» esclamò con voce bassa ma acuta, piena di eccitazione. E indicò un ricovero per le barche, in legno
dipinto di bianco. «Era lì che papà mi insegnava a pescare.» E si avviò sul pontile verso il ricovero delle barche, persa nel suo nostalgico sogno a occhi aperti, ma io la bloccai. «Che cosa...» «Zitta!» le ordinai. Il rumore all'inizio fu appena udibile, un fruscio d'erba vicino alla casa. Un tap tap tap. «Che cos'è?» chiese Molly con un filo di voce. Mi immobilizzai. La forma scura parve quasi volare verso di noi sul prato incolto, mentre il tap tap tap si mescolava a un acuto uggiolìo, lacerante. Un grugnito basso. Che si trasformò in un formidabile, terrificante abbaiare di avvertimento, mentre l'animale - un Dobermann pinscher, credo - ci veniva addosso di gran carriera, scoprendo i denti. Talmente veloce da essere quasi una macchia indistinguibile. «No!» strillò Molly, correndo verso il ricovero delle barche. Quando il Dobermann si staccò da terra in un balzo che parve interminabile, mi si rivoltò lo stomaco. Ma proprio mentre stavo allungando la mano alla pistola si sentì una voce maschile ordinare: «Fermo!». Sentito uno sciabordìo d'acqua alle nostre spalle, mi voltai di scatto. «Avreste potuto farvi del male, in quel modo. Non gli piacciono le sorprese.» Un uomo alto, con uno sformato costume da bagno, uscì dal lago. L'acqua gli colò in una cascata dalla barba grigia mentre si ergeva in tutta la sua statura, in guisa di un abbronzatissimo, seppure piuttosto invecchiato, Nettuno emerso dall'aldilà. Una visione talmente priva di logica che il mio cervello si rifiutò di prenderne atto. Molly e io rimanemmo a bocca aperta, incapaci di parlare. Poi mia moglie si precipitò ad abbracciare suo padre. SETTIMA PARTE Washington 64 Che cosa si dice in un momento del genere?
Nessuno parlò per quella che parve un'eternità. Il lago era immobile, l'acqua vitrea e opaca. Non si sentiva alcun ronzìo di fuoribordo, nessun grido, nessun richiamo di uccelli. Silenzio assoluto. Il mondo era statico. Piangendo, Molly strinse il padre in un abbraccio di un'energia che sarebbe potuta bastare per frantumarlo. È alta, ma lui lo è ancora di più: per consentirle l'abbraccio gli toccava stare ingobbito. Li guardavo intontito. Finché finalmente riuscii a dire: «Con la barba quasi non ti riconoscevo». «Non sarà proprio per quello che me la sono fatta crescere?» ribatté lui in tono solenne, con voce rauca. Quindi mi scoccò un sorriso tutto rughe, storto. «Immagino tu abbia preso ogni precauzione del caso per non farti seguire da nessuno fino a qui.» «Direi proprio di sì.» «Sapevo di poter contare su di te.» «Maledetto!» esclamò Molly con voce spezzata. Il capanno era buio e immobile. Aveva l'odore tipico della casa che è rimasta chiusa per tanto tempo, degli innumerevoli fuochi scoppiettanti che nel corso degli anni hanno permeato pareti e pavimenti, di canfora e naftalina, di muffa, vernice e olio da cucina irrancidito. Noi due ci sedemmo su un divanetto la cui tappezzeria in mussolina era scolorita da anni di polvere, con gli occhi fissi sul padre di Molly. Lui prese posto su una grossa poltrona di fronte a noi. Si era messo un paio di sformati calzoni corti color cachi e un largo golf blu. Con le gambe stese davanti a sé, disinvoltamente incrociate alle caviglie, aveva un'aria rilassata, sembrava un padrone di casa amabilmente seduto in attesa di farsi un Martini con gli ospiti. La sua barba era piena e non curata, evidente risultato di una crescita di diversi mesi, come del resto era logico. Aveva preso moltissimo sole, probabilmente nuotando e andando in barca; la faccia aveva un'aria dura, sembrava di cuoio, come quella di un vecchio marinaio. «Immaginavo che avreste finito per rintracciarmi qui» disse. «Non così in fretta, però. Ma un paio di ore fa mi ha telefonato Pierre La Fontaine spiegandomi che era arrivata a St.-Jerome una coppia che faceva domande su di me e sulla casa.» E visto che Molly sembrava sorpresa spiegò: «Pierre è l'addetto al cata-
sto, il sindaco di Lac Tremblant, il capo della polizia e il primo factotum in genere. Ed è anche il custode di molte residenze estive. Oltre che un mio fidato amico. È ormai parecchio tempo che si occupa di questa casa. E negli anni Cinquanta ne ha combinato la vendita - con molta abilità, devo dire - in un modo tale che è uscita dalle mani di nonna Hale e di fatto è scomparsa. La questione della proprietà è così ingarbugliata che risalire alla fonte è praticamente impossibile. «Tra parentesi, non è neanche stata un'idea mia ma di Jim Angleton. Quando ho cominciato a occuparmi di operazioni coperte ha deciso che dovevo sempre disporre di un posto dove sparire se la situazione si faceva troppo calda. E il Canada aveva tutte le carte in regola, visto che è fuori dai confini degli Stati Uniti. Comunque, di quando in quando, d'estate ma soprattutto durante la stagione sciistica, Pierre l'affittava. Sempre per conto di un investitore canadese, inventato, di nome Strombolian. Il reddito derivante da queste affittanze è bastato abbondantemente per coprire le spese di manutenzione e il suo disturbo. Il resto lo ha conservato in forma fiduciaria.» E ci scoccò di nuovo il suo sorriso sbilenco. «È un tipo onesto.» Senza alcun preavviso Molly ebbe un'esplosione di collera. Fino ad allora era rimasta seduta accanto a me in silenzio, in un atteggiamento che mi era parso contemplativo, senza dubbio in stato di shock profondo. Invece scoprimmo che la sua rabbia stava covando sotto la cenere, friggendo. «Come... come hai potuto farmi una cosa del genere? Come hai potuto imbrogliarmi in questo modo?» «Snoops...» attaccò suo padre. «Maledizione! Hai idea...» «Molly» le ribatté gridando, con voce rauca. «Basta! Non avevo altra scelta, non capisci?» E ritrasse le lunghe gambe scarne finché si tirò a sedere in posizione eretta, quindi si chinò verso la figlia, con occhi imploranti, lucidi. «Quando hanno ammazzato la mia cara Sheila, il mio amore... sì, Molly, eravamo amanti - ma sono sicuro che lo sapevi già -, mi sono reso conto che era soltanto questione di ore perché arrivassero a me. Ho capito che dovevo nascondermi.» «Ai Saggi» intervenni. «A Truslow e a Toby...» «E a una mezza dozzina di altre persone. Oltre che alle loro forze di sicurezza, che non sono certamente da poco.» «In tutta questa storia c'entra quello che sta succedendo in Germania, vero?» chiesi.
«È complicato, Ben. Io non ho veramente...» «Lo sapevo già che eri vivo» interloquì Molly. «Ci sono arrivata a Parigi.» Nel suo tono c'era qualcosa di implacabile, una tranquilla certezza che mi costrinse a voltarmi a guardarla. «È stato per via della sua lettera» continuò, guardandomi. «Parlava di un'appendicectomia fatta in fretta e furia, che lo avrebbe costretto a passare un'intera estate qui con noi, sul Lac Tremblant.» «E allora?» la esortai. «Be', sembrerà banale, ma sul cadavere io non avevo visto nessuna cicatrice. Il volto era praticamente distrutto ma il corpo no, e penso che me ne sarei ricordata, ne avrei preso nota a un livello inconscio. Voglio dire: poteva anche darsi che ci fosse, ma non ne ero sicura. Capisci? E ricorderai che qualche tempo fa, quando ho cercato di farmi consegnare un referto dell'autopsia, mi è stato detto che non era a disposizione del pubblico. Per ordine del procuratore distrettuale della Contea di Fairfax. Quindi ho cominciato a fare due più due.» «È per questo che hai voluto un fax, a Parigi, eh?» esclamai. Lì per lì mi aveva detto soltanto che le era venuta in mente una cosa circa l'assassinio del padre, un'idea, un modo per provare qualcosa. Annuì. «Qualsiasi patologo - perlomeno quelli di mia conoscenza - tiene una copia del proprio lavoro nello schedario riservato. Lo si fa caso mai capitasse di incappare in qualche guaio, in modo da poter fare ricorso ai propri appunti e così via. Come vedete, non sono priva di risorse. Ho telefonato a un amico del Massachusetts General Hospital, che è patologo, il quale a sua volta ha telefonato a un collega presso il Sibley di Washington, dove era stata fatta l'autopsia. Un'indagine di routine, no? Roba burocratica. In ospedale, se si sanno manovrare le pedine giuste, è incredibilmente facile aggirare i canali della riservatezza.» «E allora?» tornai a esortarla. «Mi sono fatta mandare per fax il referto dell'autopsia. Nel quale naturalmente l'appendice era data per esistente. Non era stata tolta. A quel punto ho capito che dovunque fosse, papà non era sotto quella lapide di Columbia County, Stato di New York.» Poi tornò a guardare il padre. «Di chi era quel cadavere?» «Di nessuno di cui si sia potuta sentire la mancanza» rispose Hal. «Le risorse non mancano neanche a me.» Poi aggiunse sottovoce: «Il mio è un mestiere schifoso».
«Mio Dio!» esclamò Molly sottovoce, a testa china. «Ma non spietato come stai pensando tu» riprese suo padre. «Un esame approfondito dei vari John Doe - i cadaveri non identificati giacenti presso gli obitori degli ospedali - ha messo a nostra disposizione un uomo più o meno della giusta struttura fisica, età e salute. E quest'ultima era la cosa più difficile. Di norma i vagabondi soffrono di decine di malanni diversi.» Molly annuì, tirando fuori un sorriso furioso. Quindi, in tono seccato, chiese: «Perché, i meno vagabondi stanno meglio?». «La faccia non aveva nessuna importanza,» interloquii «visto che doveva rimanere quasi completamente distrutta nell'incidente, vero?» «Esatto» rispose Sinclair. «In realtà è stata distrutta prima dell'incidente, se proprio vuoi saperlo. Agli artisti del restauro, alle pompe funebri, che non avevano la minima idea di non essere all'opera sul vero Harrison Sinclair, è stata consegnata una mia fotografia in base a cui lavorare. Sia che il cadavere debba essere esibito o meno, in genere a quella gente piace rendere il corpo il più presentabile possibile.» «E il tatuaggio sulla spalla?» interloquii. «E il neo sul mento?» «Robetta.» Molly era rimasta ad ascoltare in silenzio il nostro spassionato scambio di battute, ma a questo punto riattaccò a parlare, con voce venata di irritazione. «Ah, già. Dopo l'incidente d'auto il corpo era conciato da sbattere via. Per non parlare dei guasti provocati dal gonfiore della decomposizione.» Quindi annuì e ci scoccò un sorriso che non prometteva niente di buono. Negli occhi le bruciava uno sguardo di fuoco. «Sembrava papà, come no. Ma da che distanza lo abbiamo guardato, in realtà? Quanto abbiamo potuto sopportare di andargli vicino, in un simile momento, in quelle condizioni?» Mi stava fissando ma non mi vedeva, mi guardava attraverso. Nel suo tono c'era qualcosa di terribile: era monotono, ma con sottesa una pungente venatura di acciaio. Rabbia, sarcasmo. «Ti portano all'obitorio, fanno scorrere un cassetto e aprono la chiusura lampo del sacco. Si vede una faccia, parzialmente distrutta da un'esplosione, ma comunque quanto basta perché tu dica: eh, sì, è mio padre, quello mi sembra proprio il suo naso. E quella la sua bocca, per quanto possa avere voglia di guardarla. Cristo! Una si dice: sto vedendo la carne della mia carne, il sangue del mio sangue, l'uomo che ha contribuito a farmi venire al mondo, che mi portava in spalla da piccola, e io non voglio ricordarmi di averlo visto in questo stato, ma loro vogliono che io lo guardi, quindi gli darò un'occhiatina svelta, toh, e ades-
so portatelo via!» Suo padre si era accostato una mano al viso rugoso. Aveva un'espressione triste. Aspettava, in silenzio. Guardando la mia cara Molly vidi che non poteva proseguire. Aveva ragione, certo. Sapevo perfettamente che non era difficile più di tanto usare le maschere facciali e quella che viene definita "arte del restauro" per fare in modo che un morto assomigli a un altro. «Geniale» esclamai, sinceramente impressionato anche se ancora un po' confuso. «Non attribuire il merito a me» ribatté Sinclair. «È un'idea che ho ripreso dai nostri vecchi nemici di Mosca. Ricordi quel singolare caso su cui vengono addirittura tenute delle lezioni al corso della Fattoria, Ben? Quella volta, a metà degli anni Sessanta, che i russi hanno fatto il funerale di un funzionario del servizio segreto militare sovietico tenendo la bara aperta?» Annuii. Ma lui, rivolto alla figlia, continuò: «Noi abbiamo mandato là i nostri spioni, ufficialmente per rendere omaggio ma in realtà per controllare chi si sarebbe fatto vedere al funerale, per scattare un po' di foto e così via. Correva voce che questo ufficiale dell'Armata Rossa fosse un nostro uomo da una dozzina di anni. Ma otto anni più tardi si è scoperto che era ancora vivo. In realtà era stata tutta una complessa operazione del controspionaggio sovietico, una fregatura. Roba complessa. Evidentemente avevano realizzato una maschera dal vivo del doppiogiochista - facendone un triplogiochista -, che poi avevano piazzato su un cadavere che si erano trovati tra le mani. A quei tempi, i begli anni di Breznev, le massime sfere non ci mettevano niente a far sparare a qualcuno, se gli faceva comodo, per cui può anche darsi che avessero diramato l'ordine di cercare il cadavere di un uomo che assomigliasse alla talpa, come si fa a sapere?» «Non sarebbe stato più semplice limitarsi a dire che eri rimasto tremendamente ustionato nell'incidente?» chiesi. «Al punto che non era rimasto niente su cui procedere all'identificazione?» «Più semplice,» replicò «ma in definitiva più rischioso. Un cadavere non identificabile suscita sospetti di ogni tipo.» «E la foto?» chiese Molly. «Quella dove eri ripreso con... con la gola squarciata?» «Ormai,» rispose stancamente Sinclair «non è difficile neanche questo. Un contatto, un ex dipendente del Media Lab, presso il MIT...» «Già» esclamai. «Ritocco fotografico digitale.»
Annuì, mentre sul viso di Molly si dipingeva un'espressione confusa. «Ricordi un paio di anni fa,» le spiegai «quando il National Geographic ha pubblicato in copertina una foto su cui si vedeva la piramide di Giza spostata di un po' in modo da farcela stare?» Lei scosse il capo. «In certi ambienti la cosa ha suscitato grandi polemiche» continuai. «Comunque sia, ormai i laboratori sono in grado di ritoccare le foto in un modo così sofisticato che è quasi impossibile accorgersene.» «Esattamente» convenne mio suocero. «Quindi avete agito in modo che l'attenzione venisse fissata non tanto sulla domanda se tu fossi stato veramente ucciso quanto piuttosto sul come» continuai. «Bene» interloquì Molly, rivolta al padre. «Mi hai imbrogliato. Io ero convinta che fossi stato assassinato, che la gola te l'avessero squarciata prima dell'incidente. E invece tu eri qui in Canada ad andare in barca a vela.» La sua voce si fece più forte, più carica di rabbia. «Era necessario? Era necessario far credere a me che eri stato ammazzato? Era necessario fare una cosa del genere a tua figlia, cazzo?» «Molly...» cercò di calmarla suo padre. «Terrorizzare e traumatizzare la tua stessa figlia? A che scopo?» «Molly!» ripeté in tono quasi disperato. «Ascoltami! Ti prego, dammi retta. Tutto questo era necessario per salvarmi la vita.» Poi, tirato un profondo respiro, cominciò a raccontare. 65 La stanza in cui eravamo seduti - tutta finestre panoramiche, con poco mobilio spartano in legno - si stava facendo sempre più buia con l'avvicinarsi del crepuscolo. Sinclair non si alzò ad accendere le luci e non lo feci neanch'io. Rimanemmo seduti lì, incantati, a guardare la sua silhouette nell'ombra, ascoltandolo raccontare. «Una delle prime cose che feci appena insediato nella carica di direttore, Ben, fu chiedere che mi venisse portata su dagli archivi la trascrizione a uso riservato interno del tuo processo di quindici anni prima davanti alla corte marziale. Avevo sempre nutrito qualche sospetto in merito e, anche se tu desideravi lasciarti tutto alle spalle e non sentirne parlare mai più, volevo scoprire la verità su ciò che era successo quel giorno. «Fossero stati i brutti tempi di una volta tutto sarebbe morto lì. Ma l'U-
nione Sovietica si era dissolta e molti suoi ex agenti ci erano divenuti accessibili. La trascrizione del processo riportava la vera identità dell'uomo che aveva cercato di passare dalla nostra parte: Berzin. Attraverso un complicato canale su cui non mi diffonderò oltre riuscii a contattarlo. «Non so come, i sovietici erano venuti a conoscenza della sua intenzione di defezionare. Penso che li avesse informati Toby. Quindi Berzin era stato imprigionato - per fortuna, con l'ascesa al potere di Krusciov avevano smesso di fucilare i loro stessi uomini - e poi rilasciato e spedito a vivere in un buco a un centinaio di chilometri da Mosca. «Comunque il nuovo governo post-sovietico non aveva nessun interesse per la sua persona. Di conseguenza, riuscii a combinare un affare con lui. Gli fornii un trasferimento sicuro dalla nostra parte per lui e per sua moglie, e in cambio lui mi diede il dossier che aveva cercato di vendere a Parigi, in cui si provava che Toby era, o perlomeno era stato, un elemento dei sovietici sotto il nome in codice di GAZZA.» «Ma che cosa significa "un elemento dei sovietici"?» lo interruppe Molly. «Dal punto di vista ideologico GAZZA non era un simpatizzante del comunismo» spiegò Sinclair. «La storia è cominciata nel 1956, se non prima. Sembra che Toby fosse stato beccato sul fatto da un uomo del KGB con gli occhi bene aperti mentre cercava di appropriarsi di fondi dell'Agenzia. Quindi gli era stato dato un ultimatum: o collabori con noi o noi raccontiamo a Langley tutto quello che sappiamo e tu dovrai affrontare le conseguenze. Toby decise di collaborare. «Comunque, questo Berzin mi disse che aveva un nastro registrato del suo incontro con te e Toby e me lo fece sentire. Confermava ogni cosa. Eri stato messo in mezzo. Consentii a Berzin di conservare l'originale del nastro - ne feci una copia per me - purché promettesse che al momento opportuno lo avrebbe consegnato direttamente a te, non appena tu glielo avessi chiesto. «Fatti i miei controlli, scoprii che Toby non occupava più posizioni delicate. Era incaricato di certi progetti esterni che mi parvero marginali - percezione extrasensoriale e roba del genere - e che non sembravano presentare alcuna possibilità di realizzazione pratica.» «Ma perché non l'hai arrestato?» «Arrestarlo» rispose «sarebbe stato un errore, finché non avessi avuto in pugno gli altri. Non potevo rischiare di metterli all'erta.» «Ma se Toby è uno dei congiurati,» mi chiese Molly «perché in Toscana
ha voluto esserti così materialmente vicino?» «Perché sapeva che ero troppo istupidito dai farmaci per potere agire» spiegai. «Di che cosa state parlando?» chiese Sinclair. A questo punto Molly si voltò a scoccarmi un'occhiata carica di significato. Io distolsi lo sguardo: che senso aveva raccontargli le nostre avventure, seppure ci avrebbe creduto? «La tua lettera ci ha fornito le spiegazioni a proposito dell'oro e del modo in cui hai aiutato Orlov a uscire dal suo Paese» tagliai corto. «L'hai evidentemente scritta dopo averlo incontrato a Zurigo. Ma poi che cos'è successo?» «Sapevo che la comparsa di tutto quell'oro a Zurigo avrebbe fatto scattare allarmi di ogni genere,» rispose «ma non avevo idea di che cosa avrebbe effettivamente significato. Ho spedito là Sheila perché si incontrasse con Orlov e procedesse a una seconda serie di negoziati, arrivando a un accordo definitivo. Ma poche ore dopo essere tornata da Zurigo, mentre camminava per strada in prossimità di casa sua, a Georgetown, Sheila è stata uccisa. «Avevo il cuore spezzato ed ero terrorizzato. Sapevo di essere nei guai fino al collo ed ero sicuro che sarei stato il prossimo. Stavo assistendo a una guerra per quell'oro, probabilmente combattuta dai Saggi. Non riuscivo quasi a pensare, ero sconvolto dal dolore per la perdita di Sheila.» Anche se non lo vedevo in faccia, dalla sua figura messa di profilo capivo che aveva il volto teso, anche se non avrei saputo dire se ciò fosse effetto di una profonda concentrazione o di una violenta tensione. Misi a fuoco la mente, cercando di cogliere ogni pensiero possibile, ma non percepii nulla: non era abbastanza vicino. «Me li trovai subito addosso. Poche ore dopo la morte di Sheila due uomini fecero irruzione in casa mia. Naturalmente tenevo una pistola accanto al letto, e uno dei due lo ammazzai. Quanto all'altro... be', ci siamo trovati in posizione di stallo. Ma lui non voleva semplicemente farmi fuori: aveva progetti più complessi. Doveva sembrare un incidente, per cui aveva dei limiti alla sua azione.» «Lo hai corrotto» azzardai. «Eh?» chiese Molly. «Sì» rispose Hal. «Lo corruppi. Insomma, feci un patto con lui. In definitiva il capo della CIA ha le sue risorse, no? In sostanza gli feci fare un voltafaccia, esattamente come mi era stato insegnato ai tempi dell'adde-
stramento. Disponevo dei miei budget discrezionali. Potevo pagarlo bene. E, soprattutto, potevo fornirgli protezione. «Da lui venni a sapere che era stato mandato lì da Truslow per uccidermi, come aveva fatto uccidere Sheila. Dopo di che l'oro sarebbe stato sottratto dalle mie mani, come anche da quelle dei governi americano e russo, passando in quelle dei Saggi. Truslow aveva già cominciato i preparativi per togliermi di mezzo, facendo realizzare alcune fotografie false in cui comparivo io nelle isole Cayman, falsificando registrazioni computerizzate di viaggi aerei e non so che cosa altro. Voleva farmi uccidere e contemporaneamente farmi accusare della scomparsa del denaro. «Capii allora che Truslow era marcio. Che era uno dei Saggi. Che non si sarebbe fermato finché non fosse entrato completamente in possesso dell'oro. E che io dovevo sparire. «Perciò feci realizzare anch'io una foto falsa... che mi mostrava morto, ultramorto, stramorto. Era la prova che quell'uomo aveva bisogno di portare a Truslow per avere in cambio il suo mezzo milione di dollari. Non appena fossi "morto" - ovvero, non appena il mio quasi sosia fosse bruciato nell'incidente - sarebbe stato al sicuro. Per lui era un ottimo affare. Come anche per me, del resto.» «Dov'è adesso?» chiese Molly. «In Sudamerica, credo, non so bene. Probabilmente in Ecuador.» E per la prima volta sentii un suo pensiero, chiaro come un campanello: L'ho fatto ammazzare. Ormai i tasselli avevano cominciato a ricomporsi, e lo interruppi. «Che cosa sai» gli chiesi «di un assassino tedesco nascosto sotto il nome in codice di Max?» «Descrivimelo.» Lo feci. «L'Albino» rispose. «Lo chiamavamo così. Il suo vero nome è Johannes Hesse. Il massimo specialista della Stasi per le eliminazioni fisiche fino alla caduta del Muro di Berlino.» «E poi?» «Poi è sparito. In Catalogna, credo, sulla via per raggiungere la Birmania, dove hanno trovato rifugio diversi suoi compagni della Stasi. Messo in proprio, secondo noi.» «Ingaggiato da Truslow» lo corressi. «Un'altra domanda: ti aspettavi che i Saggi si mettessero sulle tracce dell'oro?»
«Naturale. E non sono rimasto deluso.» «In che senso?» Sorrise. «Avevo nascosto il numero del conto in alcuni posti dove sapevo che sarebbero andati a guardare. Le casseforti del mio ufficio e di casa mia. Nei miei dossier riservati. In codice, naturalmente.» «Certo, per renderlo credibile» interloquii. «Ma una persona abbastanza in gamba non avrebbe potuto trovare il modo per trasferire i soldi a grande distanza? In modo che non ci si accorgesse di niente?» «No, date le clausole del conto. Una volta che io o i miei eredi vi avessimo avuto accesso, sarebbe stato attivato, e Truslow avrebbe potuto trasferire i soldi. Ma per farlo avrebbe dovuto andare a Zurigo di persona... lasciando per così dire le proprie impronte digitali.» «Ecco perché Truslow aveva bisogno che ad andare a Zurigo fossimo noi!» esclamai. «E perché, non appena abbiamo attivato il conto, i suoi hanno cercato di farmi uccidere. Evidentemente, presso la Banca di Zurigo dovevi disporre di un contatto molto affidabile.» Sinclair annuì stancamente. «Ho bisogno di andare a letto. Di farmi qualche ora di sonno.» Ma io tenni duro. «Dunque l'hai incastrato. Hai avuto "le sue impronte digitali", come hai detto tu.» «Perché mi hai lasciato quella foto a Parigi?» chiese Molly. «Semplice» rispose suo padre. «Se fossi stato rintracciato e ucciso, volevo garantirmi che qualcuno - preferibilmente tu - arrivasse qui e trovasse i documenti che ho nascosto in casa.» «Dunque hai la prova?» incalzai. «Ho la firma di Truslow. Non è poi stato questo grande atto di coraggio... I suoi tenevano d'occhio Orlov, e io, per quanto ne sapeva lui, ero morto.» «La vecchia - la moglie di Berzin - mi ha detto di cercare Toby. Ha detto che avrebbe collaborato.» Sinclair aveva cominciato a parlare più lentamente, gli si stavano chiudendo gli occhi. «È una possibilità» disse. «Se non fosse che Toby Thompson è precipitato per una rampa di scale a casa sua due giorni fa. Secondo il rapporto della polizia la sua carrozzina si sarebbe impigliata nell'angolo di un tappeto. Ma dubito che si sia trattato di un incidente. Comunque è morto.» Molly e io rimanemmo senza parole per buoni venti o trenta secondi. Non sapevo che cosa provare: si può provare dolore per l'uomo che vi ha
ucciso la moglie? Il silenzio venne rotto da mio suocero. «Domani mattina ho appuntamento con Pierre La Fontaine per provvedere ad alcune urgenti incombenze di natura finanziaria a Montreal.» E sorrise. «Per inciso, alla Banca di Zurigo non hanno idea di quanto oro sia nascosto in quella camera blindata. Sono stati depositati cinque miliardi di dollari, ma alcuni lingotti mancano. Trentotto, per la precisione.» «Dove sono finiti?» chiese Molly. «Li ho io. Li ho fatti portare via e vendere. Alla quotazione dell'oro in quel momento ho realizzato un po' più di cinque milioni di dollari. Vista la quantità dell'oro nascosto in quella camera blindata, non se ne accorgerà nessuno. E io credo che il governo russo me lo debba - anzi: ce lo debba come commissione.» «Come hai potuto farlo?» chiese Molly, agghiacciata. «Non è che una briciola, Snoops. Cinque milioni di dollari. Hai sempre detto che volevi aprire una clinica per bambini poveri, no? Ecco i soldi per farlo. Che cosa sono cinque miserabili milioni di dollari in confronto a dieci miliardi, eh?» Eravamo tutti esausti, e di lì a poco Molly e io stavamo dormendo in una delle camere per gli ospiti. Nell'armadio della biancheria avevamo trovato delle lenzuola pulite, anche se vagamente odorose di muffa. Mi stesi accanto a mia moglie con l'idea di fare un breve pisolino, dopo di che avevo intenzione di buttare giù un piano d'azione per il giorno seguente. Invece dormii diverse ore, venendo svegliato da un sogno in cui c'entrava vagamente una misteriosa apparecchiatura che produceva un tonfare ritmico, una specie di macchina del moto perpetuo. Quando scattai a sedere nel chiaro di luna che filtrava attraverso le finestre impolverate capii che i miei sogni avevano preso forma su un rumore che proveniva dall'esterno. Un rumore che da flebile si stava facendo sempre più forte. Un suono molto regolare che mi risultava in qualche modo familiare. Il rumore delle pale di un elicottero. Sembrava che fosse atterrato molto vicino. Sulla proprietà c'era una piattaforma per gli elicotteri? Non l'avevo vista. Mi voltai per guardare fuori della finestra, ma dava sul lago, mentre il rumore dell'aeromobile arrivava dall'altra parte della casetta. Precipitatomi fuori dalla camera e raggiunta una finestra nel corridoio avvistai quello che era inequivocabilmente un mezzo ad ala rotante che si
stava levando in volo da un piccolo rialzo sul terreno della proprietà. Riuscii malamente a distinguere che si trattava di una piattaforma asfaltata per gli elicotteri. Alla luce del giorno non l'avevo notata. Stava arrivando qualcuno? Era arrivato qualcuno? Oppure - e il pensiero mi fece trasalire - qualcuno era appena partito? Hal. Spalancata la porta della sua camera vidi che il letto era vuoto. Anzi, addirittura intatto: o lo aveva rifatto lui prima di partire (improbabile) o (assai più probabile) non ci aveva dormito per niente. Accanto all'armadio c'era una piccola e ordinata pila di indumenti, come se fosse partito di fretta. Se n'era andato. Questa partenza clandestina nel cuore della notte l'aveva organizzata lui, senza dirci niente. Ma dov'era andato? Avvertii la presenza di qualcuno nella stanza. Mi voltai. Molly era lì in piedi davanti a me e si sfregava gli occhi con una mano, tirandosi distrattamente i capelli con l'altra. «Dov'è, Ben?» mi chiese. «Dov'è andato?» «Non ho idea.» «Ma c'era lui su quell'elicottero?» «Credo.» «Ha detto che doveva vedersi con Pierre La Fontaine.» «Nel cuore della notte?» chiesi, correndo al telefono. Nel giro di qualche istante ebbi a disposizione il numero di Pierre La Fontaine. Lo composi e l'apparecchio all'altro capo del filo squillò a lungo prima che qualcuno rispondesse. Lo fece La Fontaine in persona, con una voce gonfia di sonno. Porsi la cornetta a Molly. «Ho bisogno di parlare con mio padre» disse. Pausa di silenzio. «Ha detto che doveva vedersi con lei questa mattina a Montreal.» Altra pausa. «Oh, Dio!» esclamò finalmente Molly. E appese. «Che cosa c'è?» chiesi. «Dice che deve venire qui fra tre giorni per incontrarsi con lui. Non avevano nessun appuntamento a Montreal... né oggi né mai.» «Perché ci ha mentito?» chiesi. «Ben!» Molly agitò alta una busta indirizzata a lei che aveva trovato sotto la pila
di indumenti. Dentro c'era un biglietto scribacchiato in fretta: Perdonami, Snoops, e cerca di capirmi. Non potevo dirvelo. Sapevo che avreste cercato con ogni forza di fermarmi, perché mi avete già perduto una volta. Più avanti capirai. Ti voglio bene. Papà E fu Molly, conoscendo alla perfezione le manie del padre - il modo meticoloso in cui teneva le schede - che alla fine trovò il sottile raccoglitore bruno a fisarmonica in un cassetto del locale usato come studio. Tra una serie di documenti personali di cui aveva evidentemente avuto bisogno durante il suo eremitaggio - estratti conto bancari, carte d'identità false e così via - c'era un fascicoletto di fogli che, messi assieme, raccontavano tutta la vicenda. Evidentemente Sinclair aveva affittato una cassetta sotto falso nome alla posta di St.-Agathe, dove nel corso più o meno delle ultime due settimane aveva ricevuto diversi documenti. Uno dei quali era il programma in fotocopia di un'udienza pubblica, trasmessa in TV, della commissione senatoriale sull'intelligence. Un'udienza che doveva avere luogo quella sera stessa nella Stanza 216 dello Hart Office Building di Washington, il Senato degli Stati Uniti. Una voce del programma era cerchiata in rosso: la deposizione, alle sette di quella sera - meno di quindici ore più tardi -, di un non specificato "testimone". E finalmente capii. «Il testimone a sorpresa» mormorai ad alta voce. 66 Molly si lasciò sfuggire un grido. «No!» esclamò. «È lui...» «Dobbiamo fermarlo» la interruppi. Ora tutti i tasselli avevano finito di comporsi. Tutto aveva una sua terribile logica. Il testimone a sorpresa, l'uomo di cui era stato programmato l'assassinio era Harrison Sinclair. Pensai alla tremenda ironia della sorte: Sinclair, che credevamo di avere sepolto, ci era invece ricomparso davanti vivo, e adesso era destinato a essere ucciso nel giro di poche ore.
Molly (che doveva aver pensato la stessa cosa) congiunse strettamente le mani, portandosele alla bocca. Si morse la nocca dell'indice, quasi per impedirsi di mettersi a urlare. Cominciò a camminare per la stanza, agitatissima. «Mio Dio!» mormorò. «Mio Dio. Che cosa possiamo fare?» Mi trovai a camminare anch'io a grandi passi come lei. Ma non dovevo assolutamente terrorizzarla. Dovevamo rimanere calmi entrambi, riflettere con lucidità. «A chi possiamo telefonare?» chiese. Non smisi di camminare. «A Washington» continuò. «A qualcuno della commissione.» Scossi la testa. «Troppo pericoloso. Non sappiamo di chi ci si possa fidare.» «A qualcuno dell'Agenzia...» «Assurdo!» Riprese a mordersi la nocca. «A qualcun altro, allora. Un amico... qualcuno che possa presentarsi all'udienza...» «Per fare che cosa? Per opporsi a un assassino professionista? No, dobbiamo trovarlo noi e bloccarlo.» «Ma dove?» Mi misi a riflettere ad alta voce. «Non è possibile che tuo padre intenda andare in elicottero fino a Washington.» «Perché?» «Troppo lontano. Assolutamente troppo. E l'elicottero è troppo lento.» «A Montreal, allora.» «Probabile. Non ne sono sicuro, ma direi che ci sono forti probabilità che quell'elicottero lo stia portando a Montreal, dove o farà una breve sosta...» «O si imbarcherà su un aereo per Washington. Se verificassimo tutti i voli in programma tra Montreal e Washington...» «Certo» ribattei con impazienza. «Se ha intenzione di viaggiare con un apparecchio di linea, ma credo che abbia noleggiato un aereo.» «Perché? Non sarebbe più sicuro su un apparecchio di linea?» «Sì, ma un aereo privato consente molta più flessibilità e a suo modo è più anonimo. Io farei così. D'accordo. Presumiamo che l'elicottero lo stia portando a Montreal.» Diedi un'occhiata all'orologio. «Probabilmente ormai è già lì.» «Ma dove? In quale aeroporto?»
«A Montreal ci sono il Dorval e il Mirabel. Ovvero due. Sempre esclusi quelli piccoli, senza nome, che possono esserci tra qui e lì. Chissà quanti.» «Ma le compagnie che noleggiano aerei, registrate a Montreal, non possono essere in numero illimitato» ribatté Molly. Prese un elenco telefonico dal pavimento, vicino al divano. «Se le chiamiamo tutte...» «No!» esclamai, a voce troppo alta. «Molte a quest'ora di notte non risponderanno nemmeno. E chi può dirci che tuo padre sia ricorso a una compagnia canadese? Potrebbe benissimo essersi rivolto a una qualsiasi tra le migliaia che operano negli Stati Uniti.» Molly si accasciò sul divano, nascondendosi il viso tra le mani. «Oh, Dio, Ben. Che cosa possiamo fare?» Tornai a guardare l'orologio. «Non abbiamo altra scelta» risposi. «Dobbiamo arrivare a Washington per fermarlo lì.» «Ma non sappiamo dove andrà, a Washington!» «Altroché se lo sappiamo. Negli uffici del Senato presso lo Hart Building. E precisamente nella stanza 216, dove si svolgono le udienze della commissione senatoriale.» «Ma prima? Non abbiamo idea di dove abbia intenzione di andare prima!» Aveva ragione, naturalmente. Il massimo che potevamo sperare di fare era presentarci nell'aula delle udienze e... E che cosa? Come diavolo potevamo fare per fermare suo padre, per proteggerlo? Ma di punto in bianco mi resi conto che la soluzione l'avevo in testa. Il cuore prese a battermi furiosamente di agitazione e paura. Pochi istanti prima di venire ucciso in maniera tanto macabra, Johannes Hesse, alias "Max", aveva pensato che ci sarebbe stato un altro omicidio. Non potevo fermare Harrison Sinclair, ma il suo assassino sì. «Vestiti» ordinai a Molly. «Credo di esserci arrivato.» Erano appena passate le quattro e mezzo di mattino. 67 Tre ore più tardi - quasi alle sette e mezzo del mattino dell'ultimo giorno - il nostro aeroplanino toccò terra in un piccolo aeroporto nella campagna del Massachusetts. Ci rimanevano meno di dodici ore e temevo che non bastassero. Dalla casa sul Lac Tremblant Molly aveva contattato una piccola com-
pagnia aerea privata denominata Compagnie Aéronautique Lanier, con sede a Montreal, che offriva la disponibilità di un servizio a noleggio ventiquattr'ore su ventiquattro. La telefonata era stata dirottata sul pilota di servizio, svegliandolo. Molly aveva spiegato di essere un medico che aveva bisogno di essere trasportato immediatamente all'aeroporto Dorval di Montreal per un intervento d'emergenza. Aveva fornito le coordinate geografiche esatte della piattaforma per gli elicotteri di suo padre, e poco più di un'ora dopo eravamo stati raccolti a bordo da un Bell 206 Jet Ranger. Al Dorval ci accordammo con un'altra compagnia di noleggio per il trasporto fino alla base aerea statunitense di Hanscom, a Bedford, nel Massachusetts. Di fronte all'offerta di aerei, un Seneca II, un Commander, un turboelica King Air e un Citation 501, noi scegliemmo l'ultimo, che era di gran lunga il più veloce, capace di volare a 600 chilometri all'ora. Al Dorval superammo con facilità le formalità di dogana: i nostri passaporti americani falsi (usavamo la coppia intestata ai coniugi Brewer, conservando vergine l'altra caso mai avessimo avuto bisogno di diventare i coniugi Crowell) vennero guardati appena, e comunque, quando Molly ebbe spiegato che si trattava di un'emergenza medica, fummo fatti passare in tutta fretta. All'Hanscom noleggiammo un'auto e io percorsi sul filo del limite di velocità i cinquanta chilometri circa che ci rimanevano. Una volta che ebbi spiegato nei dettagli il mio piano a Molly, rimanemmo in un cupo silenzio. Era terrorizzata, ma probabilmente non vedeva la logica di mettersi a litigare con me, visto che non era in grado di escogitare un altro sistema meno rischioso per salvare la vita a suo padre. Avevo bisogno di schiarirmi il più possibile le idee, di esaminare ogni possibile punto debole. Molly avrebbe gradito di essere in qualche modo rassicurata, ma non potevo farlo. Inoltre, dovevo elaborare il mio piano fino ai minimi dettagli. Sapevo anche che venire fermati per eccesso di velocità sarebbe stata una catastrofe. L'auto l'avevo noleggiata servendomi di una patente falsa dello Stato di New York e di una carta di credito Visa anch'essa contraffatta. Presso l'agenzia di noleggio l'avevamo fatta franca, ma altrettanto non sarebbe successo nel caso del normale controllo della patente da parte di un poliziotto del Massachusetts che si accompagna di norma a una contravvenzione per eccesso di velocità. Nella rete interstatale dei computer non si sarebbe trovata traccia del documento da me esibito e il gioco sarebbe finito lì. Perciò guidavo con cautela nel traffico dell'ora di punta mattutina in di-
rezione della città di Shrewsbury. Un po' prima delle otto e mezzo arrivammo alla casetta suburbana gialla, in stile ranch, di proprietà di un certo Donald Seeger. Un rischio calcolato. Seeger era un commerciante di armi da fuoco, proprietario di due negozi al dettaglio alla periferia di Boston. Forniva armi alla polizia dello Stato e, se necessario, all'FBI (ogni volta che aveva bisogno di procurasene in fretta qualcuna particolare senza passare per la solita, ingombrante, trafila burocratica). Seeger era istallato in una particolare zona grigia del commercio legale di armi, che si pone a metà tra i fabbricanti di armi da fuoco e quei piccoli consumatori che per diversi motivi non possono ricorrere direttamente né ai distributori né ai tradizionali negozi al dettaglio. Ma soprattutto lo conoscevo quanto bastava per potermi fidare di lui. Un mio compagno di studi, a legge, era cresciuto a Shrewsbury, e Seeger era un suo amico di famiglia. Pur avendo raramente a che fare con gli avvocati e anzi disprezzandoli in massa (come fanno quasi tutti, del resto), quest'ultimo - mi aveva spiegato il mio amico - aveva però bisogno di una rapida (e gratuita) consulenza legale su come trattare con un certo fabbricante di armi corte con cui era in polemica. Non si trattava certamente del mio campo di specializzazione, ma la soluzione gliel'avevo fatta trovare da un socio dello studio. Seeger me n'era stato molto riconoscente, tanto che come ringraziamento mi aveva portato a cena in una buona steak house di Boston. «Qualsiasi cosa possa fare per lei,» mi aveva detto sopra il suo filetto mignon e il suo boccale di birra «basta una telefonata.» Allora avevo pensato che non l'avrei mai più rivisto. Invece ecco arrivato il momento di riscuotere. Venne ad aprirci la moglie, con addosso una vestaglia scolorita a piccoli fiordalisi azzurri. «Don è al lavoro» disse, sbirciandoci sospettosamente. «Di solito esce tra le sette e mezzo e le otto.» L'ufficio di Seeger, con annesso magazzino, era situato in un lungo, stretto, ordinarissimo edificio su un'arteria piena di traffico a pochi chilometri di distanza, dalle parti di Ground Round. Dall'esterno lo si sarebbe potuto dire un magazzino, o magari una lavanderia a secco, ma il sistema di sicurezza all'interno era piuttosto sofisticato. Quando suonai il campanello, parve naturalmente sorpreso di vedermi, ma si precipitò verso la porta con un largo sorriso. Aveva poco più di cinquant'anni ed era in ottima forma fisica, con il collo di un toro. Indossava
un blazer blu troppo grande almeno di una misura e sbottonato. «L'avvocato, vero?» disse, introducendoci tra una sfilata di scaffali metallici carichi fino al soffitto di cassette di armi. «Ellison. Che cosa diavolo ci fa in questo posto dimenticato da Dio?» Gli spiegai che cosa volevo. Assolutamente imperturbabile, rimase zitto un attimo scrutandomi con due occhi da furetto. Poi scrollò le spalle. «Ce l'ho» rispose. «Ancora una cosa» aggiunsi. «Sarebbe in grado di procurarmi le caratteristiche tecniche di un cancelletto metal detector Sirch-Gate III Model SMD200W?» Mi osservò molto, molto a lungo. «Penso di sì» rispose alla fine. «È importante.» «L'avevo capito. Sì. Ho un amico che si occupa di sistemi di sicurezza. Posso farmele mandare qui per fax in un paio di minuti.» Pagai per contanti, naturalmente. E quando la nostra trattativa fu conclusa, il negozio di apparecchiature sanitarie di Framingham, a poca distanza da lì, aveva aperto i battenti. Era un negozio specializzato in apparecchiature per invalidi e quindi aveva in esposizione un bel po' di carrozzine. Vidi subito che quasi nessuna di esse faceva al caso mio. Quando gli ebbi spiegato che volevo comperarne una per mio padre, il commesso mi raccomandò di sceglierne una di quelle leggere, che sono più facili da caricare e scaricare dall'auto. Ma io gli replicai che mio padre era eccentrico, e non poco, e che preferiva le sedie fatte con tanto più acciaio e tanto meno alluminio possibile. Insomma, voleva qualcosa di solido. Alla fine optai per una bella, solida, antiquata carrozzina marca Invacare. Era di notevole pesantezza, con struttura tubolare in acciaio al carbonio rivestito di ottone e cromato. Ma, quel che più conta, i tubi dell'armatura erano di un diametro adeguato ai miei fini. La caricai nel portabagagli, pesantissima nel suo scatolone, e mollai mia moglie in un vicino centro commerciale perché mi procurasse alcune cose: un costoso completo blu gessato di due taglie troppo largo per me, una camicia, gemelli e qualche altro oggetto. Mentre faceva le sue compere io raggiunsi un piccolo carrozziere della vicina Worcester. Il proprietario, un grosso e grasso ex galeotto di nome
Jack D'Onofrio, mi era stato raccomandato da Seeger. Un caratteraccio, mi aveva spiegato, ma un maestro nel trattamento dei metalli. Seeger gli aveva telefonato in anticipo, dicendogli che ero un suo buon amico e che doveva trattarmi bene. Dopo di che, in cambio, io avrei trattato bene lui. Ma D'Onofrio non era di buon umore. Esaminò la carrozzina con aria irritata, seccata, tirando qualche ditata sui braccioli in plastica grigia avvitati ai tubolari in acciaio con viti a passo Phillips. «Non so» sentenziò. «Non è facile cercare di trapanare questo tipo di plastica. Potrei sostituire i braccioli con del teak. Il lavoro diventerebbe molto più facile.» Riflettei un attimo, quindi gli dissi: «D'accordo. Faccia». «L'acciaio non dovrebbe rappresentare un problema. Si taglia e si salda, ma dovrò cambiare il diametro del tubolare frontale.» «La giuntura però non si deve vedere neanche se esaminata molto da vicino» replicai. «E se per tagliare il tubolare usasse un seghetto chirurgico?» «È proprio quello che pensavo di fare.» «Bene. Però mi occorre nel giro di un'oretta.» «Un'ora?» ansimò. «Scherzerà, cazzo.» E mulinò il braccio tozzo e carnoso a mostrare la bottega ingombra. «Guardi lì che roba. Siamo pieni di lavoro. Sommersi. Fino alle palle degli occhi.» Chiedergli di fare il lavoro in un'ora, o anche in due, significava imporgli una bella impresa, ma non impossibile. Stava tirando sul prezzo, ovviamente. Ma io non avevo tempo da perdere. Tirai fuori una busta piena di banconote e gliela sventolai sotto il naso. «Siamo pronti a pagare un extra» dissi. «Vedrò che cosa posso fare.» L'ultimo incontro fu il più difficile da combinare e in un certo senso il più rischioso. Ogni tanto le forze di polizia, l'FBI e la CIA devono ricorrere ai servigi di specialisti nelle tecniche del travestimento. Di norma hanno una preparazione di origine teatrale per quanto concerne il trucco e l'applicazione di protesi, ma quella del travestimento a fini di clandestinità è un'arte altamente specializzata e rara. L'artista dev'essere capace di trasformare l'agente sotto copertura in un'altra persona, assolutamente irriconoscibile, in grado di sostenere l'esame più ravvicinato. Di conseguenza, le tecniche sono limitate e gli artisti pochi. Quello che era forse il migliore, un uomo che aveva lavorato occasio-
nalmente per la CIA (come pure per un lungo elenco di stelle del cinema e della televisione oltre che per diversi eminenti leader religiosi e politici), scoprii che si era ritirato a vivere in Florida. Ma finalmente, dopo diverse telefonate a ditte di costumi e attrezzature teatrali, saltò fuori il nome di un vecchio veterano, un ungherese di nome Ivo Balog che aveva fatto qualche lavoretto per l'FBI e che quindi offriva discrete garanzie di avere l'esperienza necessaria. Mi era stato detto che aveva addirittura messo in grado lo stesso uomo dell'FBI di infiltrarsi non una sola ma ben due volte in una famiglia mafiosa di Providence. Per me era sufficiente. Lavorava in un vecchio palazzo di uffici nel centro di Boston come contitolare di una ditta di trucco teatrale. Lo raggiunsi via telefono poco prima di mezzogiorno. Visto che non c'era tempo perché andassi in auto fino nel centro di Boston, tornando lì, combinammo di incontrarci allo Holiday Inn di Worcester, dove riservai una camera per quel giorno e quella notte. Gli chiesi di liberare tutta la sua giornata per dedicarsi a me, precisandogli che ne sarebbe valsa la pena. «Dobbiamo separarci» dissi a Molly non appena fummo arrivati all'Holiday Inn. «Va' a provvedere al volo per l'ultima parte del viaggio. Ci ritroviamo qui quando hai finito.» Ivo Balog era sui settanta e aveva le fattezze rozze e la carnagione paonazza del forte bevitore. Ma, di qualunque tipo potessero essere i suoi difetti, apparve evidente che era un vero mago. D'intelligenza acuta e pignola, prima ancora di aprire la valigetta del trucco passò circa un quarto d'ora a scrutare il mio viso e la mia figura. «Chi vuole diventare esattamente?» mi chiese. La mia risposta, che ritenevo perfettamente ragionata, non lo soddisfece. «Che cosa fa, per campare, la persona che lei vuole diventare? È un uomo sposato?» Conversammo in quel modo per diversi minuti, componendo una mia falsa biografia. Sollevò diverse obiezioni nei confronti di questo o quel mio suggerimento, ripetendo all'infinito una sorta di suo mantra in un inglese molto accentato: «No. L'essenza di una buona finzione è la semplicità». Poi mi scolorì i capelli e i sopraccigli facendovi passare in mezzo una tintura grigia con il pettine. «Posso aggiungerle dieci, forse anche quindici anni» mi avvertì. «Di più sarebbe pericoloso.» Non aveva idea dei motivi che mi spingevano, ma avvertiva senza dubbio la mia tensione. Apprezzai molto la sua serietà e cautela.
Mi applicò al viso un abbronzante artificiale, picchiettandovi sopra con cura per evitare che si formasse qualche striscia rivelatoria. «Ci metterà almeno due ore a fare effetto» disse. «Spero che abbiamo il tempo necessario.» «Sì» risposi. «Bene. Mi faccia vedere gli abiti che indosserà.» Ispezionò l'abito e le scarpe nere lucidissime, annuendo in tono di approvazione. Poi gli venne in mente qualcosa: «L'armatura?». «Eccola» risposi, porgendogli la maglietta Safariland "Cool Max", in fibre Spectra ultraleggere, che Seeger mi aveva assicurato essere dieci volte più resistente dell'acciaio. «Bene» commentò in tono ammirato. «Sottilissima.» Quando la crema abbronzante ebbe fatto il suo effetto, lui già mi aveva applicato una vernicetta sui denti per scurirmeli, una barba finta di aspetto assolutamente realistico, color sale e pepe, ben spuntata, e un paio di occhiali di corno. Quando Molly tornò lì, dovette guardarmi due volte, con una mano sulla bocca. «Mio Dio!» esclamò. «Per un attimo avevi ingannato persino me.» «Un attimo non basta» ribattei, voltandomi a guardarmi per la prima volta nello specchio della camera. Rimasi di stucco anch'io. La trasformazione era semplicemente sensazionale. «La carrozzina è nel portabagagli dell'auto» disse Molly. «Dovrai darle una controllata con molta attenzione. Senti...» E gettò un'occhiata preoccupata all'artista del trucco, a cui chiesi di uscire qualche istante nel corridoio in modo che potessimo parlare da soli. «Che cosa c'è?» «Si è presentato un problema per quanto concerne l'udienza della commissione senatoriale» rispose. «Di solito sono aperte al pubblico, a meno che non siano specificamente indicate come riservate. Ma questa volta, non so perché - forse perché viene trasmessa in TV dal vivo -, fanno entrare soltanto la stampa e gli "ospiti invitati".» «Hai detto si è presentato» replicai con calma, non volendo cedere al panico. «Che si è presentato un problema.» Reagì con un sorriso mesto: c'era qualcosa che la agitava. «Ho fatto una telefonata all'ufficio del secondo senatore del Commonwealth del Massachusetts» rispose. «Gli ho detto che ero la segretaria amministrativa di un certo dottor Charles Lloyd di Weston, che è a Washington oggi e vorrebbe
vedere un'udienza del Senato dal vivo. Gli assistenti di un senatore sono sempre molto contenti di fare un piacere a un elettore. Un pass del Senato ti aspetta all'ingresso della sala dell'udienza.» E si chinò in avanti a baciarmi sulla fronte. «Grazie» dissi. «Ma non ho una carta d'identità così intestata, e non c'è tempo per...» «Al controllo non te la chiederanno. Ho chiesto... ho detto che ti hanno rubato il portafoglio, e loro hanno consigliato di rivolgersi alla polizia. Comunque, all'ingresso delle udienze aperte al pubblico non viene mai chiesto un documento d'identità. Chiedono raramente anche il pass, a dire il vero.» «E se controllano e scoprono che quel tale non esiste?» «Non lo faranno, e comunque quel tale esiste eccome. Charlie Lloyd è il primario di chirurgia del Massachusetts General Hospital. E questo mese lo passa sempre in Francia. Ho controllato presso due fonti. In questo momento lui e sua moglie sono in vacanza nelle ... Îes d'Hyères, al largo di Tolone, in Costa Azzurra. Naturalmente la segreteria telefonica ha istruzioni di rispondere soltanto che è fuori città. A nessuno piace sentirsi dire che il suo chirurgo se la sta spassando in Provenza od ovunque sia.» «Sei un genio.» Chinò modestamente il capo. «Grazie. Adesso, però, per quanto riguarda il volo...» Avvertii dal suo tono che non tutto era andato alla perfezione. «No, Molly. Non ci sarà qualcosa che non va per il volo, vero?» Rispose con un'improvvisa punta di isterismo. «Ho telefonato a tutte le compagnie di noleggio nel raggio di cento chilometri. Ne ho trovato soltanto una che abbia un aereo disponibile su così breve richiesta. Tutte le altre sono prenotate da almeno una settimana.» «Comunque questo unico aereo lo hai prenotato, immagino.» Esitò un attimo a rispondere. «Sì... però non è vicino. La sede della compagnia è al Logan Airport.» «Ma è a un'ora da qui!» tuonai. Poi guardai l'orologio. Erano le tre del pomeriggio passate. E noi dovevamo essere al Senato prima delle sette. Ci rimanevano soltanto quattro ore! «Digli di mandarci incontro l'aereo all'Hanscom. Paga qualsiasi cosa ti chiedano. Fallo subito!» «L'ho già fatto!» esplose lei in risposta. «L'ho fatto, maledizione! Ho offerto il doppio, persino il triplo delle loro tariffe! Ma mi hanno detto che l'unico aereo a disposizione - un bimotore Cessna 303 - arebbe stato dispo-
nibile soltanto a mezzogiorno o all'una, dopo di che c'era da fare il rifornimento e non so che cos'altro...» «Merda, Molly! Dobbiamo essere a Washington al più tardi per le sei. Il tuo dannato padre...» «Lo so!» ribatté, alzando la voce quasi in un urlo, mentre le sue guance cominciavano a rigarsi di lacrime. «Credi che non me ne renda conto a ogni istante, Ben? L'aereo sarà all'Hanscom tra mezz'ora.» «Appena in tempo. Per volare a Washington ci vogliono circa due ore e mezzo.» «C'è una navetta di linea da Boston ogni mezz'ora, Cristo! E non dovrebbero esserci problemi...» «No! Non possiamo prendere un aereo di linea. Sarebbe una follia. A questo punto? Troppo rischioso. Se non altro per via delle armi.» Gettai un'altra rapida occhiata all'orologio e feci un veloce calcolo. «Partendo subito faremo appena in tempo ad arrivare al Senato.» Feci entrare Balog, lo pagai per la sua fulminea assistenza e lo congedai. «Togliamo le palle da qui» dissi. Erano le tre e dieci. 68 Pochi minuti dopo le tre e mezzo eravamo in volo. Molly si era rivelata preziosa, come sempre. I progetti architettonici di tutti gli edifici pubblici di Washington D. C. sono accessibili a tutti, conservati presso lo schedario pubblico cittadino. Ottenerli è un problema, ma a Washington ci sono diverse organizzazioni specializzate in questa attività. Mentre procedevo alla mia trasformazione in un dignitoso anziano signore in carrozzina, lei ne aveva contattata una che, a un prezzo esorbitante, ci aveva inviato per fax presso una copisteria del posto le fotocopie delle cianografiche degli uffici del Senato presso lo Hart Building. Intanto, spacciandosi per uno dei condirettori del Worcester Telegram, Molly aveva contattato anche l'ufficio del senatore dell'Ohio che fungeva da vicepresidente della commissione sull'intelligence, il cui addetto stampa era stato più che felice di mandare per fax a un condirettore di giornale l'ultimo aggiornamento del programma dell'udienza straordinaria di quella sera. Nell'intimo avevo ringraziato Dio per l'esistenza di una simile tecnologia.
Durante le due ore e mezzo di volo avevamo esaminato programma e progetti fino a che mi ero sentito sicuro che il mio piano era attuabile. Mi pareva elementare. Alle sei e tre quarti il furgone per il trasporto di una carrozzina che avevo noleggiato all'aeroporto si fermò davanti all'ingresso dello Hart Building. Pochi minuti prima, l'autista, dietro nostra richiesta, aveva fatto smontare Molly a qualche isolato di distanza, davanti a un'agenzia di noleggio auto. Un aspetto del mio piano che l'aveva irritata: se io rischiavo la vita per salvare quella di suo padre, perché lei doveva ridursi soltanto a guidare l'auto della fuga? Lo aveva già fatto a Baden-Baden e non voleva rifarlo. «Non ti voglio tra i piedi» avevo ribattuto, mentre eravamo in viaggio verso il Campidoglio. «È un rischio che dev'essere corso da uno soltanto di noi.» Aveva balbettato qualche espressione di protesta, ma io avevo continuato: «Anche se tu fossi travestita, la tua presenza sarebbe comunque troppo rischiosa per entrambi. Il controllo sarà attento, non possiamo permetterci di farci vedere insieme. Uno di noi due potrebbe essere riconosciuto. La presenza di entrambi renderebbe almeno doppie le possibilità di essere individuati. E poi si tratta di un lavoro che richiede una persona sola». «Ma se non conosci l'identità dell'assassino, a che cosa serve il travestimento?» «Ci saranno altre persone - ingaggiate da Truslow o dai tedeschi -, che avranno senza dubbio ricevuto informazioni precise circa il mio aspetto. E che avranno istruzioni di trovarmi... e di eliminarmi» avevo risposto. «D'accordo. Ma continuo a non capire perché non puoi limitarti a introdurre di nascosto una pistola nella galleria della stampa per prendere di mira l'assassino da lì. Dubito che ci sia un metal detector.» «Forse ce l'hanno messo per questa sera, anche se ho i miei dubbi. Ma in ogni caso non si tratta soltanto di introdurre una pistola di nascosto. La galleria della stampa è al secondo piano, troppo lontano dal banco dei testimoni. E troppo lontano dai punti in cui si piazzeranno gli assassini.» «Troppo lontano?» aveva obiettato. «Tu sei un tiratore piuttosto in gamba, Cristo! E lo sono anch'io!» «Non c'entra» avevo ribattuto bruscamente. «Io devo essere lì, vicino all'assassino, per scoprire chi è. La galleria della stampa è troppo distante.» L'avevo messa alle corde e finalmente aveva ceduto, anche se con rilut-
tanza. Per quanto concerneva le questioni mediche l'esperta era lei; ma in questo caso lo ero io; o, perlomeno, dovevo esserlo. Quando mi avvicinai, il Campidoglio era completamente illuminato; la cupola si stagliava nitida nel crepuscolo. C'era un traffico intenso di pendolari stanchi impegnati a tornare a casa dai loro impieghi governativi. Fuori dello Hart Building si era raccolta una grossa folla: spettatori, curiosi, diverse persone dall'aria di giornalisti. Una lunga coda si snodava fuori dalla porta, presumibilmente tutta gente in attesa di entrare nella stanza 216, persone eminenti e con gli appigli giusti, in possesso di un pass speciale. Era una folla mondana, e non c'era da sorprendersi: l'udienza straordinaria di quella sera era un evento importante, che aveva richiamato in città diversi personaggi di più alto rilievo del potere. Compreso il nuovo direttore della Central Intelligence Agency, Alexander Truslow, appena tornato dalla sua visita in Germania. Perché era lì? Due delle più importanti reti televisive americane avrebbero trasmesso l'evento in diretta, dopo avere annullato il programma previsto. Come avrebbe reagito il mondo nel vedere che il testimone a sorpresa non era altri se non il defunto Harrison Sinclair? Lo shock sarebbe stato straordinario. Ma comunque niente in confronto con il suo assassinio in diretta. Quando sarebbe comparso? E da dove? Come avrei potuto fermarlo, proteggerlo, senza sapere quando e come avrebbe fatto la sua comparsa? L'autista assicurò la mia carrozzina alla piattaforma sul retro del furgone e la calò a terra elettricamente, con un forte cigolìo meccanico. Poi la liberò dai blocchi, aiutandomi a risalire la rampa. Una volta che mi ebbe introdotto nell'affollato atrio lo pagai e se ne andò. Mi sentivo esposto, vulnerabile e pieno di paura. Per Truslow e i suoi, nonché per il nuovo cancelliere tedesco, la posta in gioco era immensa. Non potevano rischiare di esporsi. Questo era certo. Due uomini - due individui in realtà insignificanti - si frapponevano fra loro e la loro particolare visione di conquista globale. Tra loro e la ripartizione delle spoglie di un mondo nuovo; tra loro e una fortuna incalcolabile. Non cinque o dieci miseri miliardi di dollari ma centinaia. Che cos'erano, al confronto, le vite di due spie, Benjamin Ellison e Har-
rison Sinclair? Si poteva forse dubitare, a questo punto, che non si sarebbero fermati davanti a nulla per farci "neutralizzare", come si dice nel gergo dello spionaggio? No. E lì, nella sala appena al di là della folla tra cui ero io con la mia carrozzina, delle due apparecchiature di metal detector, delle due ali di agenti di sorveglianza, sarebbe stato seduto Alexander Truslow, impegnato nelle sue note di apertura. Senza dubbio le guardie incaricate della sua sicurezza personale erano piazzate dappertutto. Dov'era, dunque, l'assassino? E chi era? La mia mente correva all'impazzata. Mi avrebbero riconosciuto, nonostante le precauzioni che avevo preso nel mascherarmi? Sarei stato riconosciuto? Mi sembrava improbabile. Ma la paura è un sentimento irrazionale, non soggetto alla logica. Apparentemente ero un mutilato in carrozzina. Mi ero legato le gambe sotto il corpo, in modo da starci seduto sopra. La dimensione che avevo scelto era abbastanza larga da consentirlo. E Balog, il mago del trucco, aveva tagliato e ricucito i pantaloni in modo che sembrassero quelli di un abito elegante adattati da un sarto vero per un mutilato vero. L'effetto era completato da una coperta in grembo. Nessuno avrebbe mai prestato attenzione a un uomo anziano, senza gambe, in carrozzina. I miei capelli erano di un grigio assolutamente convincente, così come la barba; le rughe di vecchiaia del mio viso avrebbero potuto sostenere l'esame più ravvicinato; sulle mie mani si vedevano minuscole macchie di fegatosi; gli occhiali in corno mi conferivano una dignità professorale che, in aggiunta a tutto il resto, modificava il mio aspetto al cento per cento. Balog si era rifiutato di procedere a qualcosa di meno sottilmente perfetto, e adesso ne ero contento. Sembravo un diplomatico o un dirigente d'azienda di alto livello, un uomo attorno ai sessanta che aveva esageratamente sofferto gli effetti dell'invecchiamento. Non assomigliavo più in alcun modo a Benjamin Ellison. O perlomeno così ero convinto. L'ispirazione» per il travestimento mi era ovviamente venuta da Toby Thompson. Un uomo che non avrei visto mai più, con cui non avrei mai potuto confrontarmi direttamente. Era stato ucciso ma mi aveva dato questa idea.
Un uomo in carrozzina richiama l'attenzione e al tempo stesso la respinge. È una delle stranezze della natura umana. La gente si volta a guardare, ma in tutta fretta - come può spiegare chiunque sia stato costretto a servirsene -, dopo di che distoglie lo sguardo, quasi imbarazzata di essere stata colta a curiosare. Come risultato, le persone in carrozzina godono spesso di una particolare condizione di anonimato. Mi ero anche preoccupato di arrivare il più tardi possibile, anche se, ovviamente, non troppo. Rimanere a lungo nella sala delle udienze, dove avrei avuto qualche possibilità di essere riconosciuto, per quanto minima, sarebbe stato pericoloso. Inoltre, avevo preso anche un'altra precauzione, aderendo a un'idea di Molly. Poiché uno dei sensi più potenti dell'uomo è l'odorato, che spesso agisce a livello subliminale, mi aveva suggerito di mettere sul sedile della carrozzina una piccola quantità di una sostanza chimica con un acre odore medicinale. Un sentore di ospedale che avrebbe completato il mio travestimento in maniera sottile e indeterminata. Un'idea brillante, a mio modo di vedere. Quindi eccomi lì in attesa nel vorticare della folla, guardandomi attorno con gravità, cercando di approfittare del mio finto stato per cercare di introdurmi nella fila senza dover fare tutta la coda. Infatti una coppia di mezza età mi fece cortesemente cenno di entrarvi davanti a loro. Accettai l'offerta, inserii la carrozzina nella coda e li ringraziai. Accanto ai due metal detector c'era un lungo tavolo presidiato da giovani dipendenti della Capitol Hill che consegnavano un pass azzurro chiaro alle persone inserite nell'elenco degli invitati. Quando la coda fu arrivata a quell'altezza presi il mio, rilasciato a nome del dottor Charles Lloyd del Massachusetts Central Hospital di Boston. Le persone venivano fatte passare a una a una attraverso il metal detector. Come succede che capiti, vi furono diversi falsi allarmi. Lo fece scattare anche un uomo che mi precedeva. Gli venne chiesto di togliersi di tasca tutte le chiavi e le monetine. Dalle caratteristiche tecniche procuratemi da Seeger avevo appreso che quello specifico metal detector, un Sirch Gate III, al centro aveva una sensibilità capace di individuare 105 grammi di acciaio inossidabile. Sapevo anche che venivano prese attente precauzioni. Ecco il perché della carrozzina. Sapevo che Toby aveva introdotto in più di un'occasione una pistola al di là del metal detector di un aeroporto semplicemente nascondendola sotto un foglio di piombo inserito tra il cuscino
e il sedile della sua carrozzina. Ma non avevo osato comportarmi con altrettanta spavalderia. Nel corso di una perquisizione accurata, una pistola così nascosta sarebbe stata trovata facilmente. L'American Derringer Model 4, arma del tutto inusuale, era stata nascosta dentro un bracciolo della poltrona. Sarebbe stato impossibile distinguerla da tutto l'acciaio circostante. Perciò, spingendo la carrozzina sulla rampa del cancelletto, ero abbastanza fiducioso che non sarebbe stata scoperta. Ma il cuore mi batteva forte e rumorosamente. Mi riempiva gli orecchi con un battito rapido, assordante, che escludeva tutti gli altri rumori. Sentii un rivoletto di sudore scorrermi sulla fronte e superare il sopracciglio sinistro, colandomi in un occhio. No, il battito del mio cuore non lo avrebbero sentito. Ma la mia improvvisa traspirazione era palese per tutti. Qualsiasi agente di sicurezza addestrato a individuare tracce di tensione o di nervosismo avrebbe puntato diritto su di me. Perché quel signore in carrozzina, dall'aria così prospera, sta sudando in quel modo? L'atrio non era né affollato né particolarmente caldo. Anzi, circolava una leggera arietta. Avrei dovuto prendere qualcosa per calmare le mie reazioni nervose, ma avrebbe potuto avere l'effetto di appannarmi i riflessi. Mentre le gocce di sudore mi colavano sul viso, una delle guardie di sicurezza, un giovane di colore, mi fece cenno di mettermi da parte. «Signore, prego» disse. Gli gettai un'occhiata, scoccandogli un sorriso cordiale, e spinsi la carrozzina verso di lui, su un lato del metal detector. «Il suo pass, per favore.» «Certo» risposi, porgendogli il documento azzurro. «Dio, quando arriverà l'inverno? Questo clima non riesco a tollerarlo.» Annuì distrattamente, gettando una rapida occhiata al pass e restituendomelo. «A me invece questa temperatura piace» replicò. «Mi piacerebbe poter stare così tutto l'anno. L'inverno arriva anche troppo in fretta, e io detesto il freddo.» «A me invece piace» risposi. «Una volta andavo a sciare.» Sorrise in tono di scusa. «Signore, ha...» Cercai di indovinare quello che stava tentando di dire. «Non ce la faccio neanche a smontare con facilità dalla carrozzina, se è questo che intende.» E diedi una pacca sui lucidissimi braccioli in teak, come avevo visto fare da Toby. «Spero di non dare disturbo.»
«No, signore, niente affatto. Però è evidente che non può passare attraverso il cancelletto. Perciò devo usare un metal detector manuale.» Si riferiva al detector manuale Search Alert, che emette una tonalità oscillante. Tonalità che, in prossimità del metallo aumenta di botto. «Proceda pure» dissi. «Mi spiace per l'inconveniente.» «Nessun problema, signore. Nessunissimo. Spiace a me di doverle fare una cosa del genere. Il fatto è che stasera hanno moltiplicato le misure di sicurezza, non so perché.» E da un tavolo vicino al cancelletto prese il piccolo detector manuale, una scatola attaccata a un lungo anello metallico a U. «Dovrebbe bastare che vi sia imposto di procurarvi questi pass, no? Invece stanno incasinando tutte le procedure di sicurezza. Là c'è un altro cancelletto,» - e indicò il posto di controllo all'ingresso della sala delle udienze, qualche metro più avanti - «per cui le toccherà sopportare questa storia una seconda volta. Penso che ormai ci si sia abituato, eh?» «È l'ultimo dei miei problemi» risposi placidamente. Quando me la portò vicina, l'apparecchiatura cominciò a segnalare, e io mi tesi. Me la fece scorrere sulle gambe e sui ginocchi e, improvvisamente, quando fu all'altezza delle cosce - e della pistola nascosta - la scatola emise un suono acutissimo. «Che cosa c'è lì?» borbottò il giovane, più rivolto a se stesso che a me. «Questo maledetto aggeggio è troppo sensibile. Tutto il metallo di questa carrozzina lo sta mandando in tilt.» E mentre me ne stavo lì seduto, pieno di sudore, con il sangue che mi faceva rimbombare gli orecchi, sentii la voce amplificata di Alexander Truslow arrivare dal sistema di altoparlanti dell'atrio. «... desidero ringraziare la commissione,» stava dicendo «per avere richiamato l'attenzione dell'opinione pubblica su questo grave problema che turba il servizio cui sono tanto affezionato.» Diminuita la sensibilità, la guardia mi fece scorrere sopra una seconda volta l'apparecchio. E di nuovo, arrivato vicino al bracciolo della poltrona, dov'era nascosta la pistola, l'apparecchio emise un acuto lamento metallico. Mi tesi ulteriormente, sentendo le goccioline di sudore colare dalla fronte, dagli orecchi, dalla punta del naso. «Strumento di merda» esclamò la guardia. «Scusi il linguaggio, signore.» Poi di nuovo la voce di Truslow, chiara, armoniosa. «... che certamente rendono più facile il mio lavoro. Chiunque sia questo
testimone e qualunque sia il contenuto della sua deposizione, non potrà che risultarci utile.» «Se non le dispiace,» dissi «vorrei entrare prima che Truslow abbia terminato di parlare.» Il giovane fece un passo indietro, spense l'apparecchio con aria frustrata ed esplose in tono disperato: «Li odio, questi arnesi. Passi di qui». E mi scortò su un lato del cancelletto. Gli feci un cenno con il capo, lo chinai graziosamente in una specie di saluto e spinsi la carrozzina verso il controllo successivo. Dove però sembrava esserci un intralcio. Si era formata una folla considerevole. Alcuni tendevano il collo, cercando di sbirciare nella sala delle udienze. Che problema c'era? Perché questo intoppo? Di nuovo la voce di Truslow dagli altoparlanti, calma, cortese: «... ogni testimonianza in grado di spalancare le finestre per far entrare la luce del giorno...». Dentro di me esplosi una bestemmia, mentre tutto il mio corpo gridava: muovetevi, maledizione! Muovetevi! L'assassino era già piazzato; dopo qualche secondo il padre di Molly sarebbe entrato nella sala. E io ero lì, bloccato da una massa di sbirri a noleggio. Muovetevi, maledizione! Muovetevi! Ancora una volta mi venne fatto cenno di spostarmi su un lato del metal detector. Questa volta da una donna, bianca, di mezza età, con capelli biondo cenere e figura robusta dentro una divisa azzurra che le stava male. Esaminò il mio pass con aria acida, mi gettò un'occhiata e andò a chiamare qualcuno. Eccomi lì, a poche decine di centimetri, poche decine, dall'ingresso della Sala 216, e questa maledetta mi faceva perdere altro maledetto tempo. Dalla sala delle udienze sentii arrivare un forte rumore di martelletto. Un mormorio tra la folla. L'improvviso, abbagliante lampeggiare dei flash. Che cos'era successo? Era arrivato Hal? Che cosa diavolo stava succedendo? «Per favore» dissi, mentre la donna tornava lì con una collega di mezza età, nera e di struttura più sottile, evidentemente una graduata. «Vorrei entrare il più presto possibile.» «Un attimo» replicò la bionda. «Mi spiace.» Poi si rivolse alla graduata, che disse: «Mi spiace, signore, ma dovrà aspettare la prossima sospensione».
«Non capisco» ribattei. No! Non poteva essere! Ed ecco arrivare dalla sala delle udienze i toni stentorei del portavoce della commissione: «Grazie, signor direttore. Le siamo molto grati per essere venuto qui a darci il suo sostegno in quello che può essere soltanto un momento penoso per la Central Intelligence Agency. E a questo punto, senza ulteriori indugi, vorremmo introdurre l'ultimo testimone di queste udienze. Chiedo che non venga più scattata alcuna fotografia con il flash e che tutti i presenti rimangano seduti mentre...» «Ma io devo entrare là dentro!» protestai. «Mi spiace, signore,» replicò la graduata «ma abbiamo istruzioni di non lasciar più entrare nessuno finché non verrà chiesta una sospensione o non vi sarà un'interruzione di qualsiasi genere. Mi scusi.» Rimasi lì seduto, quasi paralizzato dalla paura e dall'ansia, guardando con aria implorante le due guardie di sicurezza. Nel giro di qualche istante il padre di Molly sarebbe stato assassinato. Non potevo stare lì seduto senza fare niente. Mi ero spinto troppo avanti - tutti e due ci eravamo spinti troppo avanti - per poterlo consentire. Dovevo fare qualcosa. 69 Puntando sul loro viso due occhi sfavillanti di indignazione esplosi: «Sentite, si tratta di un'esigenza di natura sanitaria». «Di che tipo, signore?» «Una questione sanitaria, maledizione. Personale. Non posso perdere tempo!» E mi indicai il grembo, vescica o intestino che fosse, decidessero loro. Era una mossa disperata. Sapevo dalle ciano che nell'atrio non c'era alcuna toilette pubblica. L'unica attrezzata per gli handicappati era fuori della sala delle udienze. Però ce n'era un'altra al secondo piano, che avrei potuto raggiungere senza subire altri controlli. Lo sapevo, ma mi avrebbero consentito di passare? Era un rischio calcolato. E se lo avessero fatto? La donna di colore scrollò le spalle, quindi fece una smorfia. «Va bene, signore...» Mi sentii pervadere dal sollievo. «... passi. C'è una toilette per uomini, sulla sinistra, attrezzata per gli handicappati. Ma la prego di non entrare nella sala delle udienze fino...» Non aspettai che finisse. Con un gran soprassalto di energia spinsi la
carrozzina sulla sinistra, verso l'ingresso della sala. L'ingresso era controllato da un'altra guardia ancora. Da dove stavo seduto avevo un'ottima visuale. La Sala 216 dello Hart Building era un locale spazioso, moderno, su due piani, costruito avendo in mente la televisione. Era infatti completamente inondato di luce da un apparato di fari fissi per le esigenze delle telecamere. Nelle pareti c'erano nicchie dove inserirle per effettuare le riprese della sala; al primo piano, dietro una lastra di vetro e sul sfondo della sala, c'era la galleria della stampa. Dov'era? Nella galleria? L'assassino avrebbe benissimo potuto infiltrarsi servendosi di false credenziali. Gli sarebbe stato facile, ma poi si sarebbe trovato troppo lontano dalla parte frontale della sala per poter mirare con precisione. Avrebbe dovuto quasi certamente usare un'arma corta. Qualsiasi altra, dentro la sala, sarebbe stata individuata. Non eravamo di fronte alla classica situazione del cecchino piazzato su un tetto con il suo fucile. Avrebbe dovuto usare una pistola. Quindi in un modo o nell'altro doveva essere riuscito a introdurne una di nascosto. Ciò significava che avrebbe dovuto piazzarsi a una distanza tale che il colpo fosse mortale. Vicino, insomma. In teoria un'arma corta è precisa anche alla distanza di novanta-cento metri, ma più vicini ci si può mettere e più preciso, più affidabile è il colpo. Ormai ero fuori dal campo visivo delle guardie di sicurezza che mi avevano lasciato superare il secondo controllo. Fattomi coraggio, spinsi la carrozzina su per la rampa, fino a portarla dentro la sala. Accanto all'ingresso c'era un'altra guardia in uniforme. «Scusi...» Tirai avanti, ignorandola, in base a un calcolo preciso: non avrebbe mai abbandonato la sua postazione per inseguire un uomo in carrozzina. Ora mi trovavo nella sala principale. Feci scorrere lo sguardo sulle file di posti, gremite. Era impossibile distinguere tutti, ma sapevo che doveva essere lì, per forza, da qualche parte! Dove - chi - era l'assassino? Tra gli spettatori? Mi voltai verso la parte frontale della sala, dove i senatori erano seduti su un emiciclo rialzato in mogano. Alcuni di essi consultavano appunti, altri tenevano la mano tesa a coprire il microfono che avevano davanti non
volendo far sentire le battute che si scambiavano. Di fronte al podio c'erano tre stenografi in fila, due donne e un uomo, seduti a battere silenziosamente sulle loro tastiere con la velocità del fulmine. E dietro la fila dei senatori, proprio al centro, ecco una porta su cui erano puntati gli occhi di tutti gli spettatori. La sala crepitava letteralmente di tensione. La porta attraverso cui entravano i senatori. E attraverso cui sarebbe sicuramente entrato anche Sinclair. Quindi l'assassino doveva essere piazzato a una trentina di metri da lì. Dove diavolo era? E chi diavolo era? Spostai lo sguardo sul banco dei testimoni, piazzato di fronte alla fila dei senatori. Era vuoto, in attesa del testimone a sorpresa. Dietro di esso si vedeva una fila vuota di sedili, chiusa da una cordonatura, probabilmente per motivi di sicurezza. Poche file dietro il banco dei testimoni vidi Truslow in un impeccabile doppio petto. Sebbene fosse appena tornato dalla Germania non mostrava la minima traccia di stanchezza, i capelli argentei erano perfettamente pettinati con una bella scriminatura. Era una punta di trionfo, di soddisfazione, quella che gli brillava negli occhi? Accanto a lui era seduta sua moglie Margaret, oltre a una coppia di giovani che immaginai essere sua figlia e suo genero. Spinsi lentamente la carrozzina per la corsia laterale, verso la parte frontale della sala. Qualcuno si voltò a guardarmi, affrettandosi a distogliere lo sguardo nel modo a cui mi ero ormai abituato. Era ora di cominciare. Feci scorrere ancora una volta lo sguardo sulla struttura di tutta la sala, fissandomela in mente. Le posizioni da cui una persona armata avrebbe potuto fare fuoco, colpendo il bersaglio e tentando di scappare con qualche possibilità di successo, non erano molte. Respirai profondamente, cercando di dare una parvenza di ordine ai miei pensieri. Dovevo escludere tutte le posizioni oltre i novanta metri. No, quelle oltre i sessanta metri. Ma era nell'ambito dei trenta metri che le probabilità aumentavano in misura astronomica. Benissimo. Tra queste posizioni nell'ambito dei trenta metri, le più probabili erano quelle vicine a un'uscita. Il che, trovandosi le uniche uscite sulla parte frontale della sala o in fondo, significava che lo sparatore doveva molto probabilmente essere seduto o in piedi lì davanti; sul centro, sulla destra o sulla sinistra. Dovevo inoltre escludere tutte le posizioni che non godessero di una li-
nea di fuoco diretta sul tavolo dei testimoni: allora potevo tranquillamente escludere il novantacinque per cento dei posti della sala. Da dove mi trovavo vedevo più che altro nuche. L'assassino poteva essere un uomo o una donna, e questo significava che non potevo basarmi sull'immagine tipo del giovane maschio in buona forma fisica. No, erano troppo in gamba. Non dovevo scartare la possibilità che si trattasse di una donna. I bambini erano da escludere... ma un nano adulto avrebbe benissimo potuto fingersi un bambino. Inusuale, certo, ma non potevo permettermi di escludere le stranezze. Nell'area selezionata bisognava che esaminassi ciascuno con la massima attenzione. Fatto scorrere sistematicamente lo sguardo su tutte le persone sistemate in una posizione strategica di fuoco potei escluderne solo due: una bambina con un colletto alla Peter Pan, che era veramente una bambina, e un'anziana signora dall'aria chic che l'istinto mi confermò essere un'anziana signora. Se i miei calcoli erano esatti, il numero dei possibili sospetti si riduceva a una ventina di individui, tutti sistemati sul davanti della sala. Muoviti. Accelerai l'andatura della carrozzina finché mi fui portato verso la parte frontale della sala. Quindi rallentai, ruotandola fino a mettermi a pochissima distanza dalle persone sedute all'estremità delle file. Qui e là mi sembrò di riconoscere qualcuno, ma naturalmente il pubblico era pieno di facce note. Non amici miei, certamente, ma esponenti del potere. Personalità. La gente che compare nelle rubriche mondane del Washington Post. Dov'era? Focalizzare. Maledizione, dovevo focalizzare, concentrare le mie facoltà di percezione, distinguere il normale rumore della sala da quello dei pensieri. E poi separare l'usuale miscuglio di pensieri umani da quelli dell'uomo o della donna che stava apprestandosi a eseguire un assassinio in pubblico, un fatto che imponeva una straordinaria tensione, un'esecuzione metodica. I pensieri di una persona che si stava concentrando con grande intensità. Focalizza. Avvicinandomi a un uomo in completo con panciotto, poco più di trent'anni, capelli color sabbia, struttura da rugbista, seduto all'estremità della quarta fila, chinai la testa di lato e avanzai lentamente, come se facessi fatica a manovrare la carrozzina.
E sentii... associarmi allo studio o no, e quando? Perché, buon Dio, se non lo so prima... Un avvocato. Washington ne brulica. Via. Subito dopo, un ragazzo sui vent'anni, spettinato, divorato dall'acne, con un soprabito residuato militare color pisello. Troppo giovane? Ma eccolo pensare: non mi chiamerà certamente se non le telefono prima io... Una donna sui sessanta, vestita con cura, viso dolce, rossetto sgargiante. Pover'uomo, come fa ad andare in giro? Poveretto. Stava pensando a me. Senza dubbio. Accelerai un po', sempre a testa china. ... fottuto nido di spie spero che sbaracchino completamente questa maledetta merda. Un uomo alto, sui cinquanta, orecchino all'orecchio sinistro, coda di cavallo. Avrebbe benissimo potuto essere lui. Ma no, non era quello che mi aspettavo, non aveva la concentrazione intensa, da laser, dell'assassino professionista. Mi fermai a mezzo metro da lui, focalizzai. Focalizzai. ... torno a casa e il pezzo lo finisco questa sera e magari lo sistemo domani mattina bisognerà vedere che cosa ne pensa il caposervizio... No. Un giornalista. O un attivista politico. Comunque non un assassino. Ero ormai arrivato alla prima fila, per cui cominciai a percorrere lentamente la corsia frontale della sala, visibilissimo a tutti. La gente mi guardava, chiedendosi chi fossi. Quello lì ha intenzione di attraversare tutta la sala in carrozzina? Sarà permesso? Ma anche: così vicino a tutti quei senatori come faccio ad avvicinarmi di più... Alt! ... per farmi fare l'autografo se... Via. Una cinquantenne biondo cenere, aria anoressica, guance incavate, pelle del viso troppo tesa tipica dell'eccesso di chirurgia plastica, evidentemente una dama del bel mondo di Washington... mousse di cioccolato con confettura di lamponi o magari una bella fetta di torta con sopra una montagna di cioccolato alla vaniglia e tutti mi faranno le congratulazioni... Accelerai, e poi ancora di più, concentrandomi con tutta la forza, scoccando di quando in quando un'occhiata in viso a qualcuno, a testa china, ascoltando. Ora i pensieri arrivavano a me in maniera torrentizia, in un
precipitoso, quasi psichedelico caleidoscopio di emozioni, idee, concetti, barlumi di pensieri privatissimi, le più banali elucubrazioni, rabbia, amore, sospetto, eccitazione... ... promosso facendolo passare avanti a me come possono... Più in fretta. ... da quel dannato Dipartimento di giustizia se... Via! Il mio sguardo scorreva instancabile sulle file di spettatori, su quelle degli assistenti dei senatori, nei loro abiti inappuntabili, su quelle degli stenografi seduti davanti al podio in mogano dietro le loro silenziose tastiere, tutti chini con feroce concentrazione sul loro lavoro. No. ... non è stato messo nulla per iscritto per cui non dovrebbe esserci ufficialmente traccia... Un mormorio si andò diffondendo per la sala. Alzai lo sguardo verso la parete frontale. Mentre continuavo ad avanzare davanti alla prima fila degli spettatori vidi la porta dietro i senatori aprirsi di un palmo. Più in fretta. ... la cena di Kay Graham quando il presidente mi ha chiesto... Puntai di scatto la carrozzina prima in una direzione e poi nell'altra, disperato. Dov'era il cecchino? Ancora nessuna traccia, nessuna, e Hal stava per comparire, dopo di che tutto sarebbe finito. ... le mani su quella bimba se non riesco a procurarmi il suo numero di telefono magari posso chiedere a Myrna di chiamarla di persona ma poi lei non... E improvvisamente, con un trasalimento, mi resi conto che avevo trascurato il posto più ovvio. Voltai di scatto la testa verso il podio, verso il gruppo degli stenografi e, notata una strana incongruenza, sentii i muscoli dello stomaco tendersi. Tre stenografi. Le due donne stavano battendo furiosamente sui tasti, facendo uscire a cascata dall'apparecchio stenografico il foglio continuo, che andava a posarsi nel cestello raccoglitore. Uno del terzetto, invece, sembrava non lavorare affatto. Un giovane bruno, con lo sguardo fisso sulla porta. Strano che avesse la possibilità di stare a guardare in quel modo, contrariamente alle sue colleghe. E non doveva certo essere difficile inserire un cecchino in un gruppo di stenografi. Come diavolo avevo fatto a non pensarci? Spostai di scatto la testa dalla sua parte, scrutandolo di profilo mentre faceva scorrere oziosamente lo sguardo
sul pubblico, e... ... sentii qualcosa. Non da lui, tuttavia, era troppo lontano perché potessi leggere i suoi pensieri, ma sopra la mia spalla sinistra, appena davanti a me. Zwölf. Un semplice blip, apparentemente, all'inizio, un'espressione priva di significato. Ma si chiarì immediatamente. Tedesco. Un numero. Dodici. Elf. Di nuovo, nella stessa posizione, sopra la mia spalla. Undici. Qualcuno stava contando in tedesco. Feci compiere alla carrozzina un dietrofront completo, rivolgendola dai senatori al pubblico. Mi parve che qualcuno stesse avanzando a grandi passi verso di me, colsi una figura umana con la coda dell'occhio. E poi una voce, questa volta parlata: «Signore? Signore?». Zehn. Una guardia di sicurezza stava venendo verso di me, facendomi cenno di togliermi dalla parte frontale della sala. Un uomo alto, capelli a spazzola, completo grigio, con in mano un walkie-talkie. Dove diavolo? Dove? Feci scorrere lo sguardo sulla prima fila, in cerca di qualcuno che potesse avere l'aspetto di un cecchino, ma avvistai soltanto un viso gradevolmente familiare, qualcuno che conoscevo, un vecchio amico, per cui continuai a cercare. E in quel momento sentii: Acht Sekunden bis losschlagen. Otto secondi al tiro. Vidi di nuovo il viso gradevole. E lo riconobbi. Miles Preston. A un paio di metri da me. Il mio vecchio compagno di bevute, il corrispondente estero con cui avevo fatto amicizia anni prima a Lipsia, in Germania dell'Est. Miles Preston? Perché si trovava lì? Se era venuto per motivi professionali, perché non era nella galleria della stampa? Perché mai doveva essere lì? No, certo. La galleria della stampa era troppo lontana. Il corrispondente estero con cui avevo fatto amicizia... Anzi, a dire il vero era stato lui a fare amicizia con me. Era venuto lui da me, mentre me ne stavo seduto da solo in quel bar. Si era presentato. Dopo di che lo avevo ritrovato a Parigi.
Era stato assegnato a me, pivello della CIA. Un classico lavoro di coltivazione dell'orticello. Il suo compito era coltivare un'amicizia, scoprire astutamente tutto il possibile... Corrispondente estero: una copertura ideale. La guardia stava puntando su di me, rapida, determinata. Miles Preston, che sapeva tante cose sulla Germania. Non era affatto inglese. Era della Stasi, invece. Per forza. Un ex agente tedesco messosi in proprio. Pensava in tedesco. Zwölf Kugeln in der Pistole. Dodici colpi nella pistola. I nostri sguardi si incrociarono. Sechs. Lo riconobbi e mi riconobbe anche lui. Ne fui sicuro. Sotto il mio travestimento, i miei capelli grigi, la barba e gli occhiali. Furono i miei occhi a rivelarmi, con il loro lampo di riconoscimento. Mi guardò con occhi gelidi, quasi impassibili, stringendoli leggermente. Poi riportò lo sguardo al centro della sala. Sulla porta che si era aperta di un palmo. Era lui! Ich werde nicht mehr als zwei brauchen. Non me ne occorreranno più di due. Un uomo oltrepassò la porta. La sala si riempì di mormorii di eccitazione. Gli spettatori tendevano il collo, cercando di vedere chi fosse. Sicherung gelöst. Via la sicura. Ma era il presidente della commissione, alto, capelli grigi, torace a botte sotto un completo grigio tortora. Riconobbi in lui il senatore democratico del Nuovo Messico. Era impegnato in conversazione con un'altra persona che stava entrando alle sue spalle, un uomo ancora nell'ombra. Gespannt. Armato il cane. Riconobbi il profilo. Ausgang frei. Uscita libera. L'uomo alle spalle del presidente era Hal Sinclair. Il pubblico non aveva ancora capito chi fosse, ma nel giro di qualche istante lo avrebbe fatto. E Miles Preston... No! Dovevo agire subito! Hier kommt er. Los. Eccolo che arriva... ora! Bereit zu feuern. Pronto a sparare. In quel preciso istante Hal Sinclair, alto e orgoglioso, in abito inappuntabile, barba e capelli perfettamente tagliati, superò la porta, accompagnato
da una guardia del corpo. La folla fu percorsa da un ansito perfettamente udibile, quindi la sala delle udienze esplose. 70 Nella sala scoppiò il trambusto, i sussurri divennero alti mormorii e poi esclamazioni cariche di eccitazione, sempre più forti. Era avvenuto l'impensabile. Il testimone a sorpresa era... un morto. Un uomo che la nazione aveva sepolto e compianto alcuni mesi prima. La galleria della stampa era sottosopra. Diverse persone sul fondo della sala stavano correndo fuori, probabilmente per raggiungere il più vicino telefono. Sinclair e il presidente della commissione, consapevoli dell'effetto provocato dalla comparsa del primo ma ignari di ciò che stava per accadere, continuarono a inoltrarsi nella sala delle udienze verso il banco dei testimoni, dove Hal avrebbe dovuto pronunciare il giuramento. Intanto la guardia dai capelli a spazzola mi era quasi addosso, mano alla fondina, stava riducendo la distanza tra noi, era sempre più vicino... Miles si era messo in piedi, senza che in quel pandemonio nessuno lo notasse. Infilò la mano nella tasca della giacca. Ora! Premetti il pulsante sul fianco del bracciolo destro, che scattò verso l'alto esponendo la pistola, calcio verso l'alto, canna all'ingiù, infilata di precisione nella struttura tubolare metallica. Soltanto due colpi. Il limite dell'American Derringer, ma uno scotto che ero stato costretto a pagare. Era già armata. La tirai fuori, feci scattare di lato la sicura con il pollice ma... Non potevo mirare l'assassino! La guardia, precipitandosi verso di me, mi bloccava la vista. Ma improvvisamente il caos, il disordine infernale venne lacerato da uno strillo perforante, un grido femminile dall'alto, e centinaia di teste si girarono all'insù, verso il punto da cui arrivava. Veniva da una delle aperture quadrate della parete, una delle nicchie per le telecamere, da cui non si sporgeva alcun obiettivo ma una donna, che gridava a pieni polmoni. «Sinclair! Buttati giù. Papà!»
«Ha una pistola!» «Ti ammazzano!» «Buttati giù!» Molly! Come diavolo faceva a essere lì? Ma non c'era neanche il tempo di pensare. La guardia dai capelli a spazzola si bloccò, girandosi sulla destra e alzando uno sguardo confuso. Per un attimo, finalmente, per un secondo spaccato, il mio bersaglio fu visibile. ... e in quel preciso istante, puntata direttamente la pistola sull'assassino, feci fuoco. Ma non con una pallottola normale. No, le probabilità di mancare il bersaglio sarebbero state troppo alte. Era un proiettile per fucile a pallini 410 Magnum di speciale configurazione, che conteneva quindici grammi di pallini di piombo. Centoventi pallini. Un proiettile per fucile a pallini usato in una pistola. Lo scoppio riempì la sala, che si trasformò in un inferno di urla terrorizzate. La gente schizzò via dai sedili, scappando verso le uscite. Alcuni spettatori si buttarono per terra, cercando di mettersi al coperto. Nei due secondi prima che la guardia mi fosse addosso con un balzo, vidi che il tedesco nascosto sotto la copertura di Miles Preston era stato colpito. Aveva gettato la testa all'indietro di scatto, annebbiato, facendosi schermo agli occhi con il braccio sinistro, ma troppo tardi. Il sangue gli inondò il viso mentre l'impatto ad alta velocità di dozzine di pallini di piombo lo feriva, mutilava, inabilitava. Prese l'equilibrio, non riuscì a rimanere in piedi. Stringeva nella destra una piccola pistola automatica. Gli penzolava al fianco, inutilizzata. Vidi che Sinclair era stato buttato a terra da qualcuno, presumibilmente la sua guardia del corpo. I senatori erano quasi tutti rannicchiati su se stessi. Il resto della sala era ridotto a una babele di urla e strilli assordanti. Mi parve che si stessero buttando tutti insieme su di me. Tutti coloro che non stavano scappando verso le uscite, che non si erano appiattiti sul pavimento. Mi divincolai con la guardia, cercando di liberare la Derringer dalla sua poderosa presa. Riuscii appena a rotolare fuori dalla carrozzina, ma le gambe, su cui ero seduto da poco meno di un'ora, non mi ressero. Erano prive di sangue, in preda a un formicolìo totale, non potevano compiere la
loro opera. Non riuscii a mettermi in piedi. «Fermo!» mi urlò la guardia, cercando di strapparmi l'arma. Un colpo! Mi rimaneva un colpo solo! Uno solo, ma questa volta una pallottola calibro .45. Bastava che riuscissi a liberare quella dannata pistola e ad armarla e avrei potuto ammazzare Miles e salvare il padre di Molly. Ma la guardia mi aveva bloccato a terra accanto alla carrozzina, e ora ne avevo addosso anche altre, e ormai sapevo per certo che Miles, da quell'assassino professionista che era, per quanto ferito e mutilato, aveva estratto la pistola, puntandola contro Harrison Sinclair e premendo il grilletto, per metterlo a tacere per sempre... ... in quel momento esatto si sentì l'esplosione. Fui raggelato da una sensazione di terrore. Rinunciai a lottare. Un colpo seguito da altri due, uno dopo l'altro. In tutto tre fortissime esplosioni, che rimbombarono nella sala seguite da un attimo di silenzio confuso e poi da un caos di urla e strilli terrorizzati. Miles aveva sparato tre colpi. Aveva ucciso Harrison Sinclair. Mentre io ero arrivato vicino a bloccarlo. Lo avevo quasi fermato. Come lo aveva quasi fermato la diversione di Molly. Eravamo quasi riusciti a impedire all'assassino di uccidere suo padre. Ma Preston era troppo esperto, troppo rapido, troppo professionale. Ormai inchiodato sul pavimento da una mezza dozzina di guardie di sicurezza, mentre la pistola con ancora dentro la pallottola calibro .45 non utilizzata mi era stata strappata di mano, mi sentii pervadere da una stanchezza terribile. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Di frustrazione, di fatica, di ineffabile tristezza. Non riuscii più pensare a niente. Il nostro piano, il nostro brillante piano, era fallito. Io avevo fallito. «Benissimo» mi dissi, ma in un mormorio spezzato, rauco. Mi lasciai andare con la schiena sul pavimento duro e freddo, mentre tutto attorno echeggiavano le urla di terrore. La guardia fece comparire un paio di manette, infilandomene prima una su un polso e poi la seconda sull'altro. Immobile, tenevo lo sguardo fisso davanti a me, incredulo, nello spazio libero tra il braccio della guardia e il suo torace, verso la parte anteriore della sala. Non credevo a ciò che stavo vedendo. L'assassino, Miles Preston, era steso a terra in un ammasso informe alla base del banco dei testimoni, senza fronte e senza quasi tutto il davanti del-
la faccia. Morto. Sopra di lui, dipinta negli occhi un'espressione di incredulità confusa, torreggiava la figura un po' scarmigliata di Harrison Sinclair. Vivo. L'ultima cosa che vidi prima che mi portassero via, l'ultima visione che ebbi, straordinaria, mirabile, quasi un miracolo, fu Molly. Lassù, nella nicchia della telecamera, nell'apertura quadrata della parete da cui aveva lanciato il suo primo strillo. Nella mano destra, tesa, stringeva ancora una pistola nera opaca. La guardava con un'espressione che sembrava di incredulità, ma sono sicuro di avere colto nel suo viso il vaghissimo barlume di un sorriso. The Washington Post Le rivelazioni sulla CIA sconvolgono il Paese In una sala delle udienze del Senato esplode un conflitto a fuoco dopo la comparsa a sorpresa dell'ex direttore della CIA Harrison Sinclair, creduto morto da lungo tempo DAL NOSTRO INVIATO ERIC MOFFATT Ieri sera gli uffici del Senato dello Hart Building sono stati teatro di una delle scene più straordinarie che abbiano mai avuto luogo nella capitale. Durante la diretta televisiva dell'udienza della commissione sull'intelligence riguardante i presunti fenomeni di corruzione all'interno della Central Intelligence Agency, verso le sette e trenta di sera, senza alcun preavviso, ha fatto la sua comparsa in aula Harrison Sinclair. L'ex direttore del servizio, ritenuto morto in un incidente automobilistico avvenuto nello scorso maggio, si è presentato al fine di procedere a una testimonianza giurata in merito a quella che è stata da lui stesso definita una "vasta cospirazione internazionale" in cui sarebbero coinvolti l'attuale direttore della CIA, Alexander Truslow, e il governo del neoeletto cancelliere tedesco Wilhelm Vogel.
Non appena le guardie armate lo hanno introdotto nella sala delle udienze, è scoppiato un conflitto a fuoco. Uno degli sparatori rimasto ucciso è stato identificato come cittadino tedesco. L'altro aggressore sarebbe invece Benjamin Ellison, avvocato ed ex agente della CIA. Non risultano altre vittime. The New York Times A un mese di distanza dall'incidente avvenuto durante l'udienza della commissione del Senato sull'intelligence permangono diversi interrogativi SERVIZIO SPECIALE DI KENNETH SEIDMAN Washington, 4 gennaio - Dopo gli straordinari eventi avvenuti il mese scorso presso gli uffici del Senato, la nazione è ancora sotto shock per lo spettacolo del direttore della CIA ritenuto morto e ricomparso in diretta televisiva, nonché per il non meno sbalorditivo tentativo di assassinio immediatamente seguito. Tuttavia, nonostante i titoli di prima pagina suscitati dal caso Sinclair-Truslow e le settimane di ulteriori riflessioni in materia, gran parte della vicenda continua a rimanere un mistero. Come è ormai risaputo, Harrison Sinclair, direttore della CIA fino a maggio dell'anno scorso, avrebbe inscenato la propria finta morte al fine di sfuggire alle minacce messe in atto da coloro che stava cercando di smascherare. È anche noto come, per diverse ore dopo il traumatico incidente di Washington, Sinclair abbia reso un'esauriente testimonianza a porte chiuse di fronte alla commissione senatoriale sull'intelligence, spiegando le attività di Alexander Truslow e dei suoi accoliti. Ma che cosa ne è stato di Sinclair dopo i sanguinosi fatti verificatisi il mese scorso presso lo Hart Building? Fonti dei servizi segreti ipotizzano che possa essere stato ucciso, ma rifiutano ogni commento in merito. Cinque giorni dopo il fatto, sua figlia Molly e il marito, Benjamin Ellison, sono stati dichiarati legalmente morti in seguito al capovolgimento della piccola barca da diporto su cui veleggiavano al largo di Cape Cod. Fonti dei servizi segreti
non hanno voluto confermare i sospetti che i due, come Sinclair, siano stati uccisi. La sorte dei tre rimane un mistero. Un portavoce della sicurezza interna del Campidoglio ha riferito la convinzione che la figlia di Sinclair sia riuscita a introdursi nella sala delle udienze attraverso un ingresso di servizio situato ai piedi dell'edificio fingendosi incaricata di una consegna di prodotti alimentari. Secondo il medesimo portavoce, la donna si sarebbe procurata le cianografiche dei progetti architettonici dello Hart Building, che di conseguenza conosceva bene. Svelato complotto tedesco Viene riferito che il responsabile del tentativo di aggressione, un ex cittadino della Germania orientale identificato per Josef Peters, sarebbe un esponente dell'ex servizio segreto di quel Paese, la Stasi. Secondo fonti dei servizi, Josef Peters sarebbe la vera identità di un noto giornalista di nome Miles Preston, che si dichiarava cittadino britannico. Il luogo di nascita indicato sul suo passaporto è infatti Bristol, in Inghilterra, ma le autorità locali non sono riuscite a rintracciare alcuna registrazione circa la nascita di un Miles Preston. Su Josef Peters si sa ancora poco. Dal canto suo Alexander Truslow, successore di Sinclair nella carica di direttore della Central Intelligence, rimane in carcere in attesa di essere sottoposto a processo per alto tradimento il mese prossimo presso la Corte suprema di Washington. L'azienda da lui creata, la Truslow Associates, Inc., è stata accusata di complicità nel presunto tradimento del fondatore e quindi chiusa dalle autorità governative in attesa di ulteriori decisioni in merito. Il governo tedesco del cancelliere Wilhelm Vogel ha rassegnato le dimissioni, mentre i capi di sei grosse aziende tedesche, dei quali il più noto è Gerhard Stoessel, presidente dell'immobiliare Neue Welt con sede centrale a Monaco, sono stati indiziati di reato e dovranno affrontare un processo. Sinclair aveva dichiarato che, con l'appoggio del direttore della CIA Truslow, il cancelliere Vogel e i suoi sostenitori avrebbero provocato il crollo della Borsa tedesca verificatosi nello scorso autunno al fine di garantirsi l'elezione, dopo di che avrebbero programmato un colpo di Stato in Germania con conseguente impo-
sizione della loro egemonia su tutta l'Europa. Qualunque sia l'attendibilità delle dichiarazioni di Sinclair, la notizia del complotto Truslow-Vogel ha sconvolto governi e mercati di tutto il mondo. E non si sa ancora se la vicenda della cospirazione della CIA sia stata completamente sventata. Un pacchetto di documenti La settimana scorsa chi scrive ha ricevuto per raccomandata un pacchetto di documenti preparato e spedito da un ex funzionario della CIA, James Tobias Thompson III, morto in seguito a un incidente occorso in casa sua diversi giorni prima dei fatti di Washington. Questi documenti sembrerebbero confermare le dichiarazioni di Sinclair circa i traffici illegali di Truslow con il consorzio tedesco. Secondo le autorità postali, il pacchetto sarebbe stato manomesso. Uno dei documenti indicati nella lettera di accompagnamento di Thompson riguarderebbe infatti un programma sotto copertura della CIA denominato "Progetto Oracolo". Il documento, tuttavia, risulta mancante. I portavoce della CIA negano l'esistenza di un simile programma. Dalla Tribuna di Siena, pag. 22 Avviso pubblico Il consiglio comunale di Siena accoglie con piacere la creazione della Clinica Crowell in località Costafabbri. La clinica, un'istituzione medica per la cura dei bambini, è gestita sotto la direzione di tre personalità recentemente arrivate in zona dagli Stati Uniti, Mr. Alan Crowell, sua moglie, dottoressa Carol Crowell, che ha una bambina, e il padre della dottoressa Crowell, Richard Hale. Nota dell'autore Il Progetto Oracolo è in effetti un'invenzione narrativa, ma la vicenda raccontata in questo libro si basa su una serie di fatti storici tanto inquie-
tanti quanto poco noti. Stando a fonti affidabili, il fatto che una fortuna in oro sovietico risulti tuttora scomparsa costituirebbe argomento di ricerche da parte di diversi ambienti dell'intelligence e della finanza. Quanto all'interessamento nei confronti della ricerca parapsicologica da parte della CIA, del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e dell'intelligence sovietica è un fatto documentato ormai da lungo tempo. FINE