DAVID SELTZER PROFEZIA (Prophecy, 1979) A Hector M'rai Prologo Sulla foresta di Manatee cadeva la neve e gravava il sile...
35 downloads
715 Views
811KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
DAVID SELTZER PROFEZIA (Prophecy, 1979) A Hector M'rai Prologo Sulla foresta di Manatee cadeva la neve e gravava il silenzio impenetrabile dell'inverno. La nevicata durò cinque giorni e cinque notti. Seppellì gli alberi che davano lavoro ai tagliaboschi, ghiacciò i fiumi che davano cibo agli indiani. Gli uomini della foresta si ritrassero, cercarono il calore entro i confini di piccoli rifugi affollati, nutrendosi delle magre provviste, nell'attesa del ritorno della primavera. Le altre creature della foresta erano in condizioni migliori. In milioni di anni di evoluzione avevano saputo adattare la loro struttura corporea e i loro ritmi vitali alla penuria di cibo e al gelo che li aspettava. Gli insetti garantirono la salvezza della futura prole deponendo le uova sott'acqua e al riparo dello strato ghiacciato, dove sarebbero state al sicuro dalla furia degli elementi. Gli uccelli migrarono verso climi più caldi; i rettili a sangue freddo e gli anfibi scesero alla temperatura dell'ambiente circostante aspettando di riscaldarsi con l'arrivo della primavera. Le poche creature a sangue caldo che potevano sopravvivere durante l'inverno accontentandosi della stentata vegetazione sepolta sotto la neve non sarebbero cadute in letargo, pur diminuendo di peso e di numero via via, mentre andavano brucando per il terreno desolato. Le altre, cui occorreva una maggiore provvista di cibo, ricorsero all'ibernazione e piombarono in un coma simile alla morte, con il battito cardiaco e la respirazione ridotti al minimo vitale. Nascosti sotto la coltre candida che celava il confine tra il Canada e il Maine, decine di migliaia di animali si immersero nel torpore del letargo, nel buio silenzio delle loro tane. Alcuni di essi sarebbero emersi dai loro rifugi a primavera, insieme ai piccoli nati durante il loro lungo sonno invernale; altri non ne sarebbero usciti mai più, morti quietamente nel sonno di vecchiaia o di fame, sigillati per sempre nelle loro tombe di terra Ignote e nascoste agli occhi degli uomini, queste segrete cavità nelle quali la vita rimaneva sospesa venivano utilizzate anno dopo anno, alcune da secoli. Variavano in dimensione dal nido a forma di tazza da tè del tamia alla caverna larga più di tre metri dell'orso.
Ma quest'anno c'era un nuovo antro di ibernazione. E per forma e dimensione non somigliava a nessuno di quelli costruiti fino ad allora. Al riparo in mezzo ai picchi rocciosi e scoscesi che sovrastavano un lago ghiacciato, la grande tana era alta quasi dieci metri e larga sei; al suo interno l'aria era ammorbata dal puzzo delle carcasse in putrefazione. L'occupante dormiva di un sonno agitato. Aspettava la primavera con impazienza. A mano a mano che il sole si avvicinava alla terra, la neve che copriva la foresta di Manatee cominciava a liquefarsi risvegliando le creature della foresta. Dal suo antro segreto e sotterraneo scavato nei monti al di sopra delle cime degli alberi, un grande orso americano di tre quintali si svegliò all'alba e uscì in cerca di preda. L'orso procedeva sul terreno ancora ricoperto da una sottile crosta bianca, lasciandosi dietro una doppia fila di impronte che scendeva sino al lago; qui giunto, ruppe il ghiaccio con la zampa massiccia e bevve la sua razione abbondante d'acqua; soddisfatto, si guardò intorno e udì un rumore simile a quello di una corteccia lacerata. Seguendo il rumore, vide in lontananza un cervo imponente intento a saziarsi. L'animale raddrizzò la testa coronata di corna maestose, subito all'erta non appena ebbe avvertito il pericolo. L'orso avanzò senza fretta; sapeva che il cervo non gli sarebbe sfuggito; anche il cervo sembrava esserne conscio, perché si afflosciò rassegnato quando riconobbe lo spettro della morte nell'ingombrante forma che gli muoveva contro. All'ultimo minuto il cervo schizzò via e l'orso caricò; l'inseguimento continuò silenzioso se non per il tonfo attutito di zampe e zoccoli sulla neve e l'ansito dell'orso nell'attimo in cui raggiunse repentinamente la preda. Con un solo colpo violento, le unghie dell'orso affondarono in una zampa posteriore lacerando la carne. Il cervo cadde e il suo sangue venne assorbito dalla neve mentre l'animale si dibatteva; poi il cervo restò immobile a guardare l'orso prepararsi al colpo finale. Non sarebbe stata una morte veloce. Non c'era bisogno che l'orso si affrettasse; nulla avrebbe potuto sottrargli il suo pasto. Ma, nell'accingersi a vibrare il colpo, l'orso udì un suono, proprio dietro di lui. Uno strillo aspro, una voce che l'orso non aveva mai udito. Un'ombra lo sovrastò, e l'orso si scansò squittendo come un topo spaventato. Volle correre, ma venne scaraventato in aria con forza tale che la pelliccia si strappò dal corpo mentre il torso in fuga piombava a terra spellato. Le zampe non cessarono di brancicare l'aria, in una immobile corsa, neanche dopo che la testa era già stata asportata di netto dalle spalle.
Il cervo ferito si tirò in piedi barcollante, e trascinandosi dietro la zampa offesa trovò scampo nel fitto d'un bosco. Qui si fermò a osservare con occhi impassibili il suo predatore trasformato in preda. La testa dell'orso fu divorata sul posto, il corpo invece fu portato nell'antro, su, in mezzo alle rocce. Qui sarebbe stato mangiato con comodo, e le sue ossa sarebbero finite insieme al mucchio di carogne che doveva continuare a crescere per tutta la primavera, formando una macabra impalcatura che avrebbe toccato il soffitto alto dieci metri. All'architetto di questa caverna le zampe e gli zoccoli non piacevano; li strappava alle sue vittime e li lasciava a marcire sul pavimento di terra. Non doveva trascorrere molto tempo, prima che anche mani e piedi umani cominciassero ad ammucchiarsi per marcire lì... 1 Per Robert Vern, l'arrivo della primavera a «Washington significava ben altro che ciliegi in fiore e l'apertura della stagione di canottaggio sul Potomac. Il calendario della sua esperienza personale segnalava il cambio di stagione con uno spostamento nella natura dell'infelicità umana. L'inverno era il periodo delle fughe di gas, dell'infanzia trascurata, delle polmoniti e della morte per asfissia. La primavera era il breve preludio alle morsicature di ratto e ai problemi di fognatura estivi. Nei quattro anni da che lavorava per il Dipartimento della Sanità, Robert Vern aveva visto le case popolari andare di male in peggio. E ormai si sentiva pervadere da un senso di personale fallimento. Faceva il medico. Il suo paziente era l'intero ghetto. E il battito cardiaco di quel paziente si affievoliva, a dispetto di tutti i suoi sforzi. Nel complicato groviglio di cause ed effetti, un cambiamento nei costumi nazionali stava producendo un effetto drammatico sullo sviluppo urbano. I giovani eserciti di lavoratori del ceto medio, quelli che una volta si univano, si sposavano e andavano a sistemarsi nei sobborghi cittadini dove potevano mandare i loro figli a scuole «buone», adesso restavano celibi, invadendo il cuore della città e dando luogo a un boom terriero sul quale prosperavano tutti i proprietari di immobili. Aree che un tempo erano state programmate per l'edilizia pubblica venivano rizonate, e come risultato i ghetti erano congestionati. In un singolo casamento a un blocco dove prima abitavano duemila negri, oggi ce n'erano seimila. Le famiglie di otto persone occupavano i monolocali, traboccando sulle scale antincendio e
sui marciapiedi, così disperatamente affamate di alloggi da essere alla totale mercè dei proprietari di slums. Se si lamentavano che mancava l'acqua, venivano sbattute in strada. Se esisteva un gruppo di gente contro cui Robert si sentiva vendicativo, erano i padroni degli slums. Nei suoi interminabili giri per i casamenti vedeva dappertutto l'impronta della loro voracità. Lui faceva causa, li portava in tribunale dove li affrontava e li batteva, ma non serviva a niente: anche se venivano penalizzati, alla fin fine a vincere erano sempre loro. Erano proprietari immobiliari, e la proprietà immobiliare era carente. Quanto ai loro inquilini, non erano così sciocchi da comparire in tribunale. Poi c'erano i politici. L'incessante flusso dei burocrati abbronzati artificialmente che saltavano sempre fuori per farsi fare la foto alle inaugurazioni di programmi edilizi per la crisi degli alloggi, ma erano sempre introvabili quando i programmi perdevano i loro fondi e si trasformavano in ghetti di criminalità. Sembrava non esistesse una soluzione, sembrava non ci fosse una fine. E sembrava che a nessuno importasse niente, fuorché a Robert Vern. Per la comunità di persone in mezzo a cui lavorava, Robert Vern era una specie di sostanza irritante; un idealista, un uomo che rifiutava di crescere. E sembrava più giovane anche fisicamente; alto un metro e ottanta e con una bella faccia da ragazzo, la sua figura sarebbe parsa più credibile in un campus universitario con in mano un pallone da calcio, che non a Washington con la borsa da medico. L'età dell'entusiasmo giovanile era ormai sparita dalla capitale, morta con Kennedy e i Corpi della Pace; ma Robert Vern era ancora prigioniero di quella capsula temporale, vibrava ancora della fede che l'energia di un solo uomo che fosse capace di distinguere il bene dal male sarebbe alla fine prevalsa. La sua conversazione su temi sociali era a base di diatribe, il suo zelo spaventava. Pochi osavano farselo amico per paura di venire coinvolti nella sua battaglia contro il mondo. Eppure, quando trattava con i poveri e i diseredati, Robert Vern era uomo di squisita bontà. Stava davvero male per loro, a volte addirittura si sentiva colpevole di essere nato con tutte quelle possibilità che loro non avrebbero mai conosciuto. Una volta s'era trovato a parlare con uno psichiatra, in occasione di una raccolta di fondi per i servizi comunitari di salute mentale, e alla fine di una tediosa conversazione Rob si era sentito suggerire che gli avrebbe fatto bene iniziare una terapia. Lo psichiatra gli aveva fatto notare che lui soffriva di ciò che definì la «sindrome messianica», una nevrosi che induce a
comportarsi come un dio allo scopo di compensare qualche colpa segreta, o la mancanza di un dignitoso, semplice sentimento del proprio valore umano. Persone così, aveva proseguito lo psichiatra, possono sentirsi meritevoli di stare al mondo soltanto quando si uniscono ai deboli e agli inermi. A quelli che hanno bisogno di loro. Rob si era sentito irritato per l'analisi superficiale; tuttavia, doveva riconoscere che quell'uomo aveva toccato una verità di fondo: c'era chiaramente una discrepanza tra quel che Rob cercava di fare e quello che poteva fare. L'aveva fatto riflettere, inducendolo a temere di agire mosso dai propri bisogni, più che da quelli degli altri. Adesso Rob aveva trentanove anni ed era a un bivio, incline ad analizzare non soltanto dove stesse andando, ma dove fosse rimasto fino a quel momento. Ricordava che persino da ragazzo aveva sentito il desiderio di curare, di guarire. Quando andava a comprare i pesci tropicali per il suo acquario, scartava sempre i sani per scegliere invece tutti quelli malati, quelli coperti di chiazze bianche o che trascinavano in acqua delle pinne malandate. Si affannava intorno a loro giorno e notte per guarirli, curando ittiomatosi e idropisia con l'identica dedizione che aveva notato in suo padre, un medico di provincia che era morto quando Rob aveva dodici anni. Era andato all'università con una borsa di studio, poi si era iscritto alla Scuola di Medicina. Dopo essersi laureato brillantemente, aveva sdegnato i compensi della pratica privata per andare a prendersi cura di coloro che non potevano permettersi di pagare nessun tipo di trattamento medico. Era stato in Brasile, con i Corpi della Pace, e lì era diventato un esperto in malattie causate dalla miseria e dallo squallore ambientale; poi, due anni dopo, era andato a New York, dove questo particolare ramo era diventato la sua specialità medica. Lavorava allora al Bellevue Hospital, un'istituzione che sta alla professione medica come la Ford Motor Company sta alla produzione automobilistica. Una catena di montaggio sulla quale i pazienti sfilavano così veloci e continui che dopo un po' tutti quanti sembravano identici e persino i medici perdevano il senso della propria identità. Rob faceva il una giornata di venti ore, ed era stato al Bellevue che, una sera in cui si sentiva sperduto e solo, aveva conosciuto una giovane donna di nome Maggie. Maggie Duffy, ora Maggie Vern, la moglie di Rob da sette anni, a quel tempo era una studentessa della Julliard School of Music. Era arrivata la vigilia di Natale all'ospedale con il suo violoncello e due amiche con i violini, per fare una serenata nel Reparto bambini.
Dopo tanti anni, quello continuava a essere per Rob il ricordo più caro. Maggie aveva suonato Brahms, la faccia lustra di pianto alla vista dei bambini; teneva infilato un kleenex sotto le corde dello strumento proprio sulla punta superiore, accanto ai piroli dell'accordatura, e si asciugava le lacrime tra un brano e l'altro. Mentre suonava, appariva completamente serena e in pace; una sola e unica entità che esprimeva un solo e unico sentimento. Quel sentimento era la compassione. Avevano trascorso quella notte insieme, a camminare per le fredde strade di Time Square con la sensazione di essere i due soli superstiti al mondo nella città così insolitamente spopolata dalla notte di Natale. Spinti da un senso di urgenza, quasi che i loro sentieri non si dovessero più incrociare, si erano raccontati a vicenda la storia della propria vita. E all'alba del giorno di Natale, davanti al caffè e alla torta di ciliegie dell'Automat, entrambi avevano segretamente compreso di aver trovato il proprio compagno per la vita. Ciò che Rob ammirava più di tutto in Maggie era il suo ottimismo, la sua ingenuità, la sua schiettezza, la sua vulnerabilità. Sotto molti aspetti Maggie appariva una bambina innocente, facile da ferirsi, subito consolata, ora esuberante e l'attimo dopo pensosa, pronta a reagire con immediatezza e istintività a tutto quanto la circondava. Mentre Rob si soffermava nelle regioni della mente, lei seguiva i dettami del proprio sentimento. Insieme, formavano una combinazione perfetta. Il loro primo appartamento a New York era giusto a un passo da Columbus Circle; al mattino, Rob aveva l'abitudine di stare alla finestra della cucina a contemplare Maggie avviarsi alla Julliard School con il suo violoncello; spesso si portava dietro anche un bicchiere d'acqua, per nutrire una piantina che, chissà come, era riuscita ad aprirsi un varco nell'asfalto, proprio nel bel mezzo della strada, ed era sopravvissuta al traffico. Maggie faceva una sosta lì per rivolgere alla pianta qualche parola di incoraggiamento, inducendo così i passanti a crederla un po' balzana. Ma non era balzana. Era Maggie. E Rob l'amava oggi come allora, e più di chiunque altro avesse mai conosciuto in vita sua. Ma l'intimità di cui si erano beati nei loro primi anni a New York era sparita, ora. Spostarsi a Washington era stato come saltare da un campo fiorito in un fiume in piena, che li aveva travolti separandoli. Maggie era diventata primo violoncello della Washington Symphony, occupata di giorno con le prove e di sera con le esecuzioni. Rob era stato inghiottito nella battaglia senza fine che, a quanto pareva, stava ormai per perdere.
Negli ultimi mesi, quando Maggie tornava a casa la sera dai suoi concerti, lui spesso già dormiva e il mattino usciva prima che lei si svegliasse. Non passavano più il loro tempo a bere vino parlando dei loro sentimenti, ora; erano svanite le lunghe notti e le tarde mattinate in cui stavano insieme e liquidando tutti i problemi del mondo facevano l'amore. I loro contatti erano superficiali e frammentari, la loro conversazione pratica, il loro fare l'amore contrito e poco frequente. Ne erano entrambi turbati, ma nessuno dei due ne parlava. Era un ciclo da cui sembravano incapaci di uscire. Maggie adesso stava facendo anche delle ore extra, esercitandosi per l'apertura della nuova stagione sinfonica; Rob era assediato da una alluvione di chiamate d'emergenza che erano ancora più spaventose del solito. Negli ultimi tre giorni avevano comunicato tra loro più che altro per telefono, e con bigliettini lasciati sul letto o sul frigo. Il messaggio era semplice, in certo senso triste. La nota diceva sempre: «ti amo». Seduto al posto passeggeri accanto al conducente in un'ambulanza che andava a tutta velocità in risposta a una chiamata d'emergenza dai casamenti, Rob si costrinse a distogliere il pensiero da Maggie. La penosa distanza che si era creata tra loro era una cosa che lui si sentiva impotente a modificare. Pensò ai problemi del decadimento urbano, e dopo un po' elaborò una teoria che in un certo senso lo consolò. Anche se l'influsso esercitato dai giovani lavoratori che non si sposavano era tremendo perché congestionava i ghetti delle case popolari, forse il crollo dell'istituzione del matrimonio avrebbe avuto almeno un effetto positivo. Con un minore numero di matrimoni si sarebbero messi al mondo meno bambini. Meno vittime innocenti gettate in quel gorgo inarrestabile. Ma il pensiero dei bambini lo ricondusse a Maggie di nuovo. Di tutti i possibili argomenti, questo era il più difficile tra loro due. Bastava un semplice accenno perché si guardassero in cagnesco. Maggie aveva trent'anni e stava diventando impaziente e ansiosa. Rob dal canto suo aveva visto un numero sufficiente di bambini affamati per rendersi pienamente conto che la sovrappopolazione era il problema più urgente del pianeta e riteneva ingiusto portare un bambino in un mondo simile. Chiuse gli occhi, cercando di trovare un momento di requie. L'ambulanza rallentava; il guidatore al suo fianco uscì in un sospiro di frustrazione. «Non avrei dovuto prendere la A Street.» Rob seguì lo sguardo del conducente lungo la Pennsylvania Avenue: una dimostrazione davanti alla Casa Bianca bloccava il traffico. «Faccia marcia indietro.»
Ma era troppo tardi. Erano imbottigliati. «Accenda la sirena,» ordinò Rob. «E vada dritto avanti.» Mentre si facevano lentamente strada, Rob osservò i dimostranti. Erano indiani americani, alcuni con arco e frecce, i volti truccati con le sgargianti pitture di guerra, le voci alzate in strilli acuti e minacciosi. In cerca di un bersaglio su cui sfogare la loro rabbia, un gruppo assalì l'ambulanza e si mise a pestare sul cofano. Un giovane militante ci danzava intorno brandendo una lancia. «Cristo Dio!» sibilò il conducente. Rob teneva lo sguardo fisso davanti a sé. Conosceva la sindrome. La rabbia che nasceva dall'impotenza. L'aveva vista anche nei casamenti. Qualsiasi bianco, quali che fossero i suoi motivi per trovarsi lì, rappresentava l'intero establishment. Ed erano sempre quelli che ci andavano per aiutare che dovevano sopportare in pieno l'urto della collera. Pompieri presi di mira da cecchini, assistenti sociali minacciati di morte. Il tipo buono aveva la pelle dello stesso colore di quello cattivo e i tipi cattivi si tenevano fuori tiro. «Si può sapere che cosa credono di ottenere così?» domandò il conducente. Rob non rispose. D'improvviso s'era ricordato che aveva promesso a Shusette che sarebbe andato all'udienza della Commissione per gli Affari Indiani. Guardò l'ora al suo orologio. Troppo tardi. Non sarebbe arrivato a tempo. Di solito, una chiamata d'emergenza dai casamenti significava una vita appesa a un filo. E adesso, con l'ingorgo di traffico, non era sicuro di arrivare a tempo nemmeno là. «Gliel'ho fatto vedere, a quell'uomo, e sa lui cosa dice? Che è varicella!» La negra urlava fuori di sé perché era arrabbiata, e giustamente. Il suo bambino di sei mesi che Rob stava esaminando nel suo lettino, era tutto coperto di morsicature di ratto in suppurazione. Intorno, nel monolocale, si accalcavano gli altri cinque bambini della donna, tutti nati a non più di un anno di distanza l'uno dall'altro, e poi una masnada di gente venuta su dalla strada, attratta dal suono dell'ambulanza. La stanza era zeppa da scoppiare. Il caldo intollerabile. «Gli dico, dentro ci sono i topi!» urlava la donna con le lacrime agli occhi. «Lui mi dice: è varicella. Dico, lì ci sono topi, e mi hanno morsicato il mio bambino, altro che varicella!» Rob abbassò lo stetoscopio e prese il polso del bambino.
«Vuole sapere che cosa m'ha detto?» gli gridò la negra. «M'ha detto che anche i topi hanno bisogno di spazio, per vivere!» Ruppe in singhiozzi, i suoi bambini le si aggrapparono intorno.. «Ecco che cosa m'ha detto, quel bastardo di padrone di casa. Anche i topi devono vivere, m'ha detto!» Rob si guardò in giro cercando i due inservienti dell'ambulanza; le loro facce erano a stento visibili giù in fondo alla stanza Fece un segno e loro cominciarono a farsi largo nella ressa. «Che cosa volete fare?» lo aggredì la donna. «Portare il vostro bambino in un ospedale.» «E poi?» «Guarirà.» «Così mi tornerà qui a farsi mangiare tutto un'altra volta!» «No, se posso impedirlo.» «Non può impedire una merda!» lo schernì rabbiosa la donna. Rob incassò senza fiatare. Lei gli andò addosso, la faccia a pochi centimetri dalla sua. «È già stato qui, lei! Quello, l'ha già detto una volta,» ringhiò. «No,» rispose Rob. «Non sono mai stato qui, prima.» «L'inverno passato. Di sopra. Da quella signora morta di polmonite, quando han spento il calorifero. Lei aveva portato fuori il cadavere e ci aveva detto che il calorifero l'avrebbero riacceso.» Rob se ne ricordò. «Il calorifero è stato riacceso,» osservò in tono dolce. «Ah! Per una settimana! Poi, l'hanno spento!» Lo fissò con occhi di bragia e Rob si sentì chiudere lo stomaco. «Mi porti via il mio bambino per ingrassarlo su un po', così possiamo darlo di nuovo da mangiare ai topi?» «Dove posso trovare il suo padrone di casa?» «Questa sì che è una domanda!» «Sa dove abita?» «Come no! In Virginia, abita. Abita con voialtri cani ricchi in alto, abita!» «Io voglio soltanto aiutarla...» «Balle! Balle e basta. Lei qui si fa i suoi soldi, ecco tutto! Cosa vuole che gliene importi di quel che ci succede qua dentro...» Nella stanza cadde un silenzio di tomba, la donna si nascose la faccia tra le mani. Rob le toccò una spalla, ma rabbiosamente lei si ritrasse. «Avanti, lo prenda!» gli urlò piangendo. «Lo faccia adottare o che so io! Non voglio che torni qui!»
«Verrebbe in tribunale con me?» le domandò Rob. «No!» «Se viene a denunciarlo, io posso far causa al suo padrone di casa.» «Così ci sbatte fuori tutti!» La donna aveva ragione. Ne sapeva abbastanza dalle esperienze degli altri per capire che in quel posto esporsi era pericoloso. Ecco perché, quando la loro frustrazione toccava il punto di rottura, trovava sfogo soltanto in tumulti di piazza. «Fuori dei piedi!» gli urlò la negra. «E si porti con lei il mio povero bambino malato.» Rob annuì, sconfitto. Fece segno agli inservienti di avviarsi e li seguì, ma poi sostò sulla porta e si volse a guardare la donna che piangeva circondata dai figli. «Non intendeva dire quel che ha detto,» disse la voce di un uomo tra la calca. «Non è colpa sua, se lei non ci può aiutare.» Rob sentì improvvisamente un nodo alla gola. Si girò e uscì. Intorno al casamento le strade erano ingombre di corpi nudi sino alla cintola nel caldo eccessivo per quella stagione. Mentre si faceva strada in mezzo a loro diretto all'ambulanza, Rob capì che se si metteva a fare troppo caldo troppo in fretta, prima dell'estate lì sarebbe stato un inferno. La pioggia di mattoni e bottiglie che calavano sui veicoli governativi era direttamente proporzionale alla durata del caldo estivo. E tutto lasciava prevedere che a luglio quella pioggia sarebbe diventata un diluvio. Prese posto nel retro dell'ambulanza e si fermò un secondo ad asciugarsi la fronte. Poi rivolse la sua attenzione al bambino. Aveva gli occhi rovesciati all'insù e all'improvviso aveva smesso di agitarsi. La sirena dell'ambulanza attaccò il suo lamento lacerante mentre Rob apriva di furia la borsa e tirava fuori una siringa con mani che tremavano. Ma si fermò, la faccia sbiancata di paura, e si chinò ad ascoltare il petto immobile del bambino. Ascoltò un attimo, poi, improvvisamente, inaspettatamente, cominciò a piangere. Anche il bambino si era messo a piangere. Era vivo. E Robert Vern si rese conto di essere sul punto di crollare. 2 «La situazione della nostra foresta, signor senatore, è paragonabile a quanto segue...» Nella sala delle udienze della Sottocommissione senatoriale, cinque se-
natori sedevano a un lungo tavolo, illuminato in un'isola di luce, e ascoltavano un giovane indiano americano che sapeva parlare con eloquenza e passione. Era lì per protestare contro il furto della sua terra tribale, un'intatta area selvaggia di ottocento chilometri quadrati sul punto di essere spianata dall'industria del legname. «Se io mi presentassi a casa sua, è probabile che lei mi riceverebbe con ospitalità. Se avessi bisogno di cibo e di un letto, probabilmente lei me li darebbe. Dirò di più, se le chiedessi di avere una stanza tutta per me, e se lei avesse una stanza simile a sua disposizione, forse lei sarebbe persino tanto gentile da concedermela.» L'indiano fece una pausa e la sua voce divenne intensamente vibrata: «Ma se pretendessi che la sua casa, e tutto quello che c'è dentro, mi appartenesse, e le ordinassi di uscire di casa sua, lei indubbiamente si arrabberebbe! Ebbene, è esattamente quello che sta succedendo alla popolazione indigena di questo paese!» Uno scroscio di applausi partì da vari punti della sezione buia riservata agli spettatori, zittito dal battere di un martelletto. Victor Shusette strizzò gli occhi per mettere a fuoco l'ora sul suo orologio. No, ormai Robert Vern non sarebbe più venuto. Anche Shusette desiderò ardentemente di essere altrove. A cinquantasei anni, si sentiva troppo vecchio e stanco per fronteggiare la pressione della posizione in cui cercavano di cacciare la sua agenzia Si supponeva che l'Ente Protezione Ambientale fosse apolitico. Ma stavano ficcandolo a forza in un focolaio di politica. «Posso apprezzare i suoi sentimenti, signor Hawks...» cominciò un senatore. «Può apprezzare i fatti, signor senatore?» «D'accordo, parliamo di fatti. Proprio di fatti volevo occuparmi...» «E allora occupiamoci di questi fatti: l'acquisto di tutta la terra indiana, nei territori del Nord Est, fu effettuato in base alle disposizioni del Trattato Nove...» Il senatore alzò la voce: «Per favore, vuole lasciarmi finire?...» «E il Trattato Nove non è mai stato ratificato dal Congresso!» «Signor Hawks...» «In tutta quanta la storia di questo paese non si è mai dato prima che un trattato sia entrato in vigore senza la piena approvazione del Congresso. Parlo della vostra Costituzione. Parlo delle vostre leggi! Parlo della vostra cosiddetta giustizia! E le voglio fare una domanda!» Il senatore s'era messo a battere il suo martelletto.
«Voglio farle una domanda! È così che si sarebbe proceduto con gente di pelle bianca?» Un altro scoppio di applausi venne dall'auditorium buio. Il martelletto continuò a pestare finché non ottenne silenzio. «Ha finito, signor Hawks?» «Ho finito con questo discorso, se è questo che vuole sapere.» Si udirono delle risate; l'indiano sorrideva. Sapeva come ravvivare il procedimento quando occorreva, sapeva esattamente quando era tempo di attaccare e quando era tempo di desistere. Anche alcuni tra i senatori sorridevano. Sapevano che li stava manipolando un maestro nell'arte della guerra verbale. John Hawks non era un uomo facile da giudicare. Era un oratore equilibrato e rifinito, e in più aveva dalla sua la giusta causa. Nessuno sapeva con esattezza da dove fosse saltato fuori; la sua ascesa tra le fila dei portavoce militanti era stata fulminea. Tre settimane prima nessuno aveva mai sentito parlare di lui. Oggi era il rappresentante scelto dal gruppo che si autoproclamava PAO. Stava per: Popolazione Americana Originaria. Un amalgama frettolosamente formato da masaquoddy, ashinabeg, yurok, wampanoag e cree, minuscole tribù lungo la frontiera tra il Maine e il Canada che cercavano di proteggere la loro terra da una società che rispondeva al nome di Pitney Paper Mill. «Ciò che stavo per dirle, signor Hawks,» riprese il senatore, «è che sebbene io possa apprezzare i suoi sentimenti, tuttavia il blocco che avete eretto nella vostra foresta è contro la legge.» «Non sarà la legge a darci giustizia,» dichiarò Hawks. «Il blocco condurrà a uno scontro.» «Astenersi dal blocco non ci darà giustizia.» «Si rende conto che la Corte Suprema ha emanato un ordine restrittivo pendente contro il vostro blocco?» «Di quale Corte Suprema parla, signor senatore?» Il senatore lo guardò con aria sufficiente. «La Corte Suprema degli Stati Uniti.» John Hawks si rilassò contro lo schienale della sua sedia e sorrise. «Quella non è una Corte Suprema molto alta, signor senatore. La mia corte suprema è molto più in alto.» Dall'oscurità partirono fischi di approvazione e applausi. Victor Shusette aveva sentito quanto bastava. Lasciato il Senato, uscì dall'ingresso principale del vecchio Senate
Building e si fermò un momento sui gradini, strizzando gli occhi nel sole. I rami di ciliegio si stavano ricoprendo di candore e l'aria gli portava sin lì ondate di fragranza, ma senza dargli il piacere che aveva sempre provato in primavera. Quest'anno, aveva un problema da affrontare, assolutamente. Dopo tutta una vita dedicata all'Ente Protezione Ambientale tanto da farne una forza riconosciuta e rispettata, all'improvviso gli toccava vedere l'EPA a repentaglio. Nella disputa terriera fra una fabbrica di pasta di legno e gli indiani, l'EPA veniva usato come una pedina. La Pitney Paper Mill progettava di valersi del suo diritto a tagliare il legname nella foresta di Manatee; gli indiani le erano di inciampo. La cartiera aveva il denaro per vincere la guerra legale; ma gli indiani si erano conquistata la simpatia della nazione. Il bel risultato di tutto questo era che la Corte Suprema non se la sentiva di arrivare a una decisione, e si era rivolta a Shusette perché fornisse un Rapporto EPA in modo da servirsene per superare il punto morto. Non era semplice come poteva sembrare. Le industrie del legname occupavano oltre la metà dei lavoratori del Maine. I lavoratori del Maine appoggiavano i loro senatori. I loro senatori avevano il controllo sui cordoni della borsa che teneva in vita l'Ente Protezione Ambientale di Shusette. In particolare, c'era un senatore del Maine, quello repubblicano, che già aveva cominciato a lavorarsi il terreno. Shusette aveva ricevuto un suo invito ad andare a pescare nella sua cabina privata sul fiume Kennebec il giorno di inaugurazione della pesca al salmone. Certo, era facile resistere a questo ovvio genere di «promozioni». Ma ce n'erano altre meno facilmente trascurabili. A Washington si diceva che una mano lava l'altra. Molto opportunamente i politicanti erano una razza monca, aveva notato Shusette. Sembravano servirsi principalmente della loro mano destra. Per stringere mani, gesticolare e puntare il dito contro gli altri con aria di indignazione. La mano sinistra di solito se la tenevano in tasca, o in una manopola, senza dubbio per nascondere che senso avesse tutto quello stringere mani, gesticolare e puntare dita contro gli altri. Nel caso del senatore repubblicano del Maine, la sua mano sinistra nascondeva una scatola a sorpresa di minacce e promesse varie. Promessa che se l'Ente di Shusette avesse presentato un rapporto positivo, o sufficientemente ambiguo, lui avrebbe onorato il sacrificio del primo round cedendo nel round successivo. Se, per esempio, l'EPA avesse riferito che il taglio del legname su larga scala nella foresta di Manatee non era a detrimento dell'ambiente, allora il senatore del Maine avrebbe appoggiato l'E-
PA suggerendo che il taglio di alberi fosse del tipo «limitato» invece che totale. Se, d'altro canto, il rapporto EPA fosse stato completamente negativo, il senatore era in grado di condurre una battaglia contro l'EPA, sicuro del pieno appoggio delle risorse finanziarie di tutto il gruppo politico d'interesse legato alle industrie del legname. Avrebbe potuto scatenare una campagna per screditare il rapporto. Poteva persino arrivare a introdurre una legislazione che avrebbe ridotto le future possibilità di azione dell'EPA in ogni controversia. Quella resa dei conti tra la Pitney Paper Mill e un pugno di indiani americani che si definivano Popolazione Americana Originaria non era una semplice schermaglia di poco conto. Il risultato di questa isolata disputa sulla terra avrebbe avuto delle conseguenze da precedente legale e il Rapporto EPA veniva così a fornire un'arma potente all'una o l'altra delle parti in causa nelle future controversie. Shusette si domandò quanti dei suoi sperimentati ambientalisti fossero già stati oggetto di premure da parte dei mestatori politici dell'industria del legname; quanti inviti fossero già calati su di loro perché partecipassero a ricchi parties; o magari accenni a eventuali cariche politiche. I suoi tecnici erano un gruppo di gente seriamente impegnata e, per quanto ne sapeva Shusette, incorruttibile. Ma le pressioni su chiunque avesse svolto quell'incarico sarebbero state enormi. Proprio per tutti questi motivi Victor Shusette aveva pensato a Robert Vern. Non apparteneva alla EPA; la sua integrità era indiscutibile; la sua dedizione alla causa della giustizia incomparabile. Era del tutto alieno da ambizioni politiche, e sapeva tener testa a qualunque uomo politico. Inoltre aveva le doti del medico per trattare con il tipo di agitazione emotiva che esisteva nella foresta di Manatee. Per giunta alla Sanità sembrava proprio essere finito in un vicolo cieco. Shusette sapeva che Robert Vern era psicologicamente pronto per un cambiamento. «Rob?» Victor Shusette avanzava incerto per il lungo buio corridoio ospedaliero verso la figura solitaria dell'uomo che stava appoggiato al muro. Era la mezzanotte passata, aveva cercato Rob dappertutto e aveva persino, un'ora prima, telefonato a sua moglie, svegliandola, solo per sentirsi dire che Rob non era ancora rincasato. E alla fine, per ogni evenienza, aveva pensato di fare un salto all'ospedale, e lì aveva saputo che Rob si trovava in ospedale dalle due del pomeriggio per tentare di salvare la vita di un bambino delle
case popolari. La figura che si profilava al buio davanti a lui certo sembrava Rob. Ma Shusette non poteva esserne proprio sicuro. Non gli era ancora mai capitato di vedere Rob immobile. Da quando, un anno prima, si erano incontrati alla Commissione centrale, avevano sempre condotto le loro conversazioni in transito, con Shusette che si affannava dietro a Rob per tenere il suo ritmo mentre Rob correva di qua e di là. L'uomo che ora si vedeva fermo lì davanti, era chiaramente un uomo esausto, privato delle ultime gocce di vitalità e di energia. «Victor,» lo salutò Rob. «Cosa ti porta da queste parti?» «Maometto viene alla montagna.» Fece una pausa e studiò il suo amico. «Stai bene?» Rob accennò di sì con la testa: «Hai una sigaretta?» «Fumi?» «La prima da quando avevo ventidue anni.» «Stai riprendendo?» «Può darsi.» Shusette gli offrì una sigaretta che Rob accese aspirandone una boccata senza inalare. Aveva un sapore disgustoso. «Dalla qua a me.» Rob gli passò la sigaretta e poi si diresse a una panca e si lasciò cadere seduto, stanco morto. «Come sta il bambino?» domandò Victor. «Debole. Come sai del bambino?» «Ti tengo d'occhio.» Rob non era nello stato più adatto per apprezzare le battute di spirito. Si sdraiò sulla panca e si mise un braccio sugli occhi. Sembrava essersi preparato per passarci la notte. «Non rincasi, stanotte?» «Aspetto un elettrocardiogramma.» «Troppo stanco per parlare?» «No.» «Ti lascio tranquillo, se ti senti troppo stanco.» «Ascolterò.» Shusette fece una pausa; cercò con gli occhi nella hall una sedia. Non ce n'erano. Si lasciò scivolare a terra e appoggiò la schiena al muro. Visti da lontano, si sarebbero detti due derelitti. «Volevo parlarti dell'udienza di stamani.»
«Mi spiace d'averla mancata.» «Spiace anche a me. Ne valeva la pena, ti dico. Gli indiani sono pronti a scendere sul sentiero di guerra.» «Alcuni hanno assalito la mia ambulanza.» «E avevano tutte le ragioni. Voglio dire, per essere arrabbiati.» «E non ne abbiamo tutti?» «Questa cartiera... la Pitney Paper Mill... ha acquistato i diritti al legname per centomila acri di foresta, in base alle disposizioni del Trattato Nove. Gli indiani sostengono che il Trattato non è mai stato ratificato dal Congresso.» «Ho letto della faccenda.» «Gli indiani hanno bloccato l'accesso alla foresta per tenerne fuori la fabbrica... la Corte Suprema ha emanato un ordine di restrizione preliminare contro quel blocco... sono tutti quanti pronti a scannarsi a vicenda, e il tutto dipende da un Rapporto EPA, ora.» Shusette fece una pausa per consentire a Rob il tempo di assimilare il fatto. Non voleva correre troppo. «È una controversia terriera,» disse Rob svogliato. «Che cosa c'entra l'EPA con una disputa di terreno?» «È una dichiarazione di resa da parte del potere giudiziario, Rob. Nessuno vuole prendere una decisione.» «Football politico,» borbottò Rob. «La Supercoppa, infatti,» rincarò Shusette. «Ti dico, Rob, che chiunque scriverà questo rapporto farà o disferà l'industria del legname. Per quanto mi riguarda, io direi che potrebbe persino fare o disfare l'intero habitat del pianeta. Per lo meno, di quello terrestre.» «Allora, non ti resterà che l'oceano e il cielo, dopo.» «Non mi spiacerebbe vincerne uno su tre.» Rob si levò seduto, sfregandosi gli occhi. «A volte ti invidio, Victor.» «Perché?» «Terra, acqua, cielo. A me sembra semplicissimo.» Shusette ne fu divertito. «Veramente?» «Le questioni sono là fuori, belle e chiare. Scendi in battaglia e vinci oppure perdi.» «Di solito, perdi.» «Ma le perdite sono decisive. E così pure le vittorie.» «Questo è vero.» Rob si passava una mano sulla faccia, e infine uscì in un lungo sospiro
di stanchezza. «Io... faccio solo dei lavori domestici. Sono come una serva in una casa zeppa di bambini distruttivi. Pulisco una stanza, e non faccio a tempo a passare a un'altra che la prima è di nuovo tutta sudicia.» Rob aveva un'espressione cupa, la sua voce era atona. «Io sto proprio nel bel mezzo di tutto il caos e urlò: 'È ora di piantarla.' Ma nessuno ascolta.» I suoi occhi vagarono in direzione di Shusette, visibile soltanto come sigaretta che ardeva nella vicina oscurità. «Cosa diavolo ci vuole perché ti si ascolti?» Shusette si limitò a scuotere la testa. «Una volta mia moglie,» proseguì Rob, «incontrò un artista, un pittore, che le disse che un'opera d'arte non è mai finita, è soltanto abbandonata.» Rob tra sé sorrise al buio con tristezza. «Mi domando se si potrebbe dire lo stesso delle buone intenzioni.» «Hai l'aria di voler rinunciare, direi.» «Diresti?» «È così?» «Chissà!» Shusette si mise in piedi con una certa fatica; gli dolevano le ossa mentre zoppicava alla panca di Rob per sedersi accanto a lui. «Vuoi sapere una cosa?» «D'accordo.» «Se la tua parte di questo dialogo avessi potuto suggerirtela io, non avrei potuto desiderare niente di meglio.» Rob gli dette un'occhiata interrogativa. Non capiva. «Ho sempre aspettato che tu ne avessi finalmente abbastanza del tuo lavoro.» «E perché?» «Mi piacerebbe che tu venissi con me alla EPA.» Rob scosse il capo in cenno di diniego. «Il gioco è più grosso, Rob, le poste sono più alte. Sei qui a passare una notte intera per salvare un solo bambino malato mentre potresti tenere nelle tue mani la sagola di salvataggio dell'intera specie. Vai in tribunale per ripulire una sola stanza in un solo casamento, mentre potresti con la stessa energia ripulire tutto il pianeta.» Rob taceva. «Vuoi efficacia? Vuoi essere ascoltato?» proseguì Shusette. «Io sono disposto a mettere nelle tue mani un lavoro che potrebbe influire sull'intera
massa di terra di questo paese.» Shusette guardò dritto negli occhi Rob: «Parlo di metterti in un punto cardinale, di importanza centrale nel tempo e negli eventi, un punto da cui potresti avere un effetto su tutto quanto il tuo mondo.» Rob taceva sempre. Shusette sapeva di tenerlo. «Mi riferisco a quella disputa terriera, Rob.» «Non è il mio ramo, Vic.» «Ho fiducia in te.» «Fidati di me per le case popolari. Non per gli alberi.» «Ti posso insegnare tutto quello che ti occorre sapere. La cosa non ha niente di misterioso. Sta tutto scritto nei libri.» Rob nell'oscurità cercava di studiare la faccia di Shusette. «Perché io?» «Perché hai intelligenza e tatto. Perché hai integrità e rettitudine.» «Tutto questo è molto lusinghiero, ma non risponde alla mia domanda.» Shusette si alzò in piedi e restò fermo di fronte a lui. «D'accordo, Rob. Ti dirò la verità. In questa storia cammino su un campo minato e se non bado bene a dove metto i piedi mi salta tutto per aria. I politicanti dell'industria del legno mi stanno alle costole, pronti ad attaccarmi. Qui, la politica è del tipo pesante. Quella foresta sta diventando una zona bellica.» Rob era scettico. «Non può essere così grave come pensi.» «Non per te, certo. Tu ci sei abituato alle zone belliche. Io ho tutti gli esperti che voglio in alberi, ho bisogno di qualcuno esperto nel trattare le persone. È in questo che sei esperto tu. Se ti lasci imbonire un paio di giorni da me, nessuno sarà più adatto di te per fare questo lavoro.» Rob meditò un attimo in silenzio, poi si alzò. Camminò a lungo per il corridoio; i suoi passi riecheggiavano nell'immobilità della notte. L'offerta di Shusette lo tentava e lo faceva sentire sleale. Come se prendendo in considerazione il pensiero di un cambiamento, in certo senso ingannasse la gente che contava su di lui Ripensò alla negra e al suo bambino. E alla sua promessa che li avrebbe aiutati. «A che cosa pensi, Rob?» domandò Shusette. «Che mi sento come un uomo sposato che mediti di prendere un'amante,» replicò Rob. «Forse è proprio il modo migliore per te di considerare la cosa. Prendila soltanto come un'avventura. Solo una cosa da provare.» Shusette poteva vedere Rob che tentennava. «Dammi solo un paio di settimane della tua vita,» gli propose. «Ho bisogno di te, in questa faccenda.»
3 L'indomani la dimostrazione degli indiani davanti alla Casa Bianca toccava il suo apice febbrile. Maggie Vern la osservò mentre passava in taxi diretta un'altra volta allo studio medico dove si era fatta vedere due giorni prima. La notte precedente Rob non era nemmeno rientrato, era rimasto all'ospedale a tenere sotto controllo la battaglia tra vita e morte del bambino della casa popolare. E le aveva telefonato che probabilmente si sarebbe fermato in ospedale anche quella notte, dopo aver passato la giornata intera in ufficio, alla Sanità. Be', forse era meglio così, dopotutto. Lei non era proprio in condizioni di affrontarlo. Nello studio medico attese insieme a un gruppo di donne in fasi diverse di gravidanza, tenendo sempre gli occhi incollati alla pagina di una rivista. Si sentiva le mani sudate e nelle scarpe le dita dei piedi le dolevano a forza di strizzarle, una sua abitudine di quando era nervosa. Certe volte non si accorgeva nemmeno di aver avuto una giornata difficile sino a notte, quando le dita dei piedi cominciavano a farle male. Nelle due ultime notti, mentre durava quell'attesa dei risultati dell'esame, era come se le dita dei piedi fossero state artigliate, tanto le dolevano. Sapeva che se il suo esame era positivo, lei aveva davanti una crisi che non si sentiva la forza di affrontare. Suo marito era un uomo pieno di forza, eloquente, appassionato, sempre capace di persuaderla che il suo modo di vedere era giusto. Per quanto riguardava il mettere al mondo dei bambini, sapeva a memoria la cantilena. Al mondo c'erano dieci milioni di bambini indesiderati. Il controllo delle nascite era una responsabilità collettiva, di ognuno e di tutti a prescindere dai propri mezzi finanziari. La società andava a rotoli. L'ambiente andava a rotoli. Mettere al mondo anche un solo altro bambino era da irresponsabili. I primi anni, lei era sempre stata d'accordo con le idee di Rob. Le convinzioni di Rob erano le sue. Aveva trovato entusiasmante condividere con lui i suoi scopi, la sua risolutezza nella vita. Cresciuta nel protetto ambiente provinciale dello stato di New York, esposta unicamente a persone e prodotti ugualmente omogeneizzati di un mondo borghese medio-alto, per lei Robert Vern aveva rappresentato un personaggio intrepido e brillante, una figura magnetica. Un uomo di mondo, vibrante di passione e colmo della fede di potersi foggiare il futuro nel palmo della mano. Ciò l'aveva fatta sentire come se la propria vita fosse stata cosa banale, i propri oriz-
zonti limitati, la propria intelligenza inconsistente. In quei primi anni il suo sentimento per Rob era stato di gratitudine; le pareva semplicemente miracoloso che un simile gigante di uomo avesse potuto amarla. La gratitudine adesso era affondata sotto un miscuglio di risentimenti repressi, ma il senso di inferiorità persisteva. Maggie provava vergogna per il fatto di non sapersi innalzare al di sopra dei propri bisogni. Si sentiva egoista, perché desiderava essere felice. Ironicamente, loro a Washington conducevano una vita che, vista dall'esterno, chiunque poteva invidiare. Tutti e due eccellevano nel proprio campo, erano stimati per il loro lavoro, e ogni tanto stavano gomito a gomito con la «gente che fa la storia». Maggie aveva suonato il suo violoncello alla Casa Bianca e Rob aveva occupato una sedia accanto ad Arthur Young in un seminario sulla Fame nel Mondo. Per tutti quelli che li conoscevano, erano una coppia di persone indipendenti, forti, soddisfatte e realizzate. Ma Maggie sapeva che il loro matrimonio non era più un matrimonio in nessun senso della parola. Era una sistemazione vitto-e-alloggio tra due persone che conducono vita separata e i cui valori diventavano di giorno in giorno più divergenti. Quando capitava che si ritrovassero insieme, parlavano dei fatti del giorno, reprimendo accuratamente il loro spaventoso bisogno di intimità. Non parlavano più dei loro sentimenti, adesso, delle loro speranze segrete, dei loro sogni. Era come un linguaggio dimenticato, caduto in disuso, il linguaggio della loro infanzia, inadatto ai reciproci ruoli adulti. Per un po' Maggie aveva sperato che il tempo avrebbe finito per riavvicinarli di nuovo. Ma questo non accadeva e lei sentiva di non poter aspettare ancora. Nelle due ultime settimane aveva sostenuto una lotta contro la depressione; no, non il tipo di cosa che un tempo lei avrebbe chiamato così, non le paturnie. Questa volta era stato diverso; un desiderio, quando si svegliava la mattina, di richiudere subito gli occhi e trovare oblio nella tenebra, un desiderio come di morte. Era persino arrivata, in alcuni momenti della giornata, a pensare, senza nessuna ragione apparente, al suicidio: pensava di venire semplicemente ritrovata, chissà come, morta da qualche parte. Una volta, dopo aver visto un automezzo dei donatori di sangue, quel giorno dell'anno che si suppone che tutti quanti siano disposti a dare il sangue in cambio di una rosetta all'occhiello, si era messa a pensare se per caso, andando da un ospedale all'altro a donare sangue, avrebbe potuto
semplicemente morire e basta. Una morte nobile. Una morte che Rob avrebbe solo potuto approvare. Dare tutto di se stessa a coloro che ne hanno bisogno. Ma la depressione era svanita subito, non appena si era accorta che i mestrui erano cessati e che forse poteva essere incinta. Per la prima volta dopo mesi aveva sentito la solitudine mollare la presa. In un certo qual modo, si sentiva confortata e amata. Da Rob. Anche se lui non ne sapeva niente. Non era rimasta incinta intenzionalmente. Si era solo limitata a non prendere più tante precauzioni. Lei e Rob stavano così di rado insieme, nello stesso letto e nello stesso tempo, e con sufficiente energia per fare l'amore, che l'esercizio di inserire un diaframma era diventato di per se stesso un'esperienza mortificante. Quando le toccava toglierlo, inutilizzato, il mattino, la cosa accentuava ancora di più la sua sensazione di non essere desiderata. Maggie sapeva che se era rimasta incinta ci sarebbe stata una crisi nella sua vita come lei non ne aveva ancora mai conosciute. Ci sarebbero state angoscia e recriminazioni e forse lei sarebbe stata costretta al tipo di decisione a cui non osava nemmeno pensare. Rob avrebbe rifiutato di mettere al mondo un bambino, ma Maggie sentiva il proprio bisogno intimo troppo grande per pensare di reprimerlo. «Maggie?» Il dottore che la chiamava era un uomo che lei conosceva sin dal loro primissimo trasloco a Washington Peter Hamlisch era stato loro vicino di casa nel primo appartamento che avevano avuto a Georgetown. Quando era venuta lì, quella settimana, l'aveva ricevuta il tecnico di laboratorio. Era la prima volta che rivedeva Peter in tre anni. «Buon Dio!» esclamò lui. «Ma guardati!» «Così brutta?» sorrise Maggie. «Così bella, vuoi dire. Vieni.» Lo seguì per un corridoio e poi dentro al suo studio e Peter Hamlisch, chiusa la porta, le indicò una sedia. Maggie rimase in piedi. «Non mi sembra vero,» disse lui. «Saranno due anni, eh?» «Quasi tre.» «Come sta Rob?» «Benissimo. Lavora molto.» «Sempre gli stessi orari?». «Oh, sì, sempre.» «E tu? Come va?»
«Piena di lavoro.» «Noi pensiamo sempre di venire una volta al concerto...» «Oh, non importa.» «Ho visto la tua foto della Casa Bianca.» «Pessima foto.» Le sorrise, felice di stare con lei. «Hai un'aria magnifica. Ma questo vale per tutte le donne incinte, a pensarci bene.» Le ci volle un minuto buono per capire, poi ne rimase colpita come un pugile suonato. «Siediti, su,» disse Hamlisch. «Non sapevo che ti saresti stupita tanto. Le donne di solito sono sempre molto sicure di queste cose.» «Ne sei proprio certo?» gli domandò Maggie, la voce rotta. «Sì,» rispose Hamlisch, un po' perplesso. Maggie andò lentamente alla sedia e sedette. Provava così tante emozioni contrastanti che le si annebbiò il cervello. «Ti senti bene?» Maggie annuì, poi cercò di sorridergli, ma senza riuscirci. L'interfono ronzò sulla scrivania di Hamlisch e lui schiacciò un bottone. «Rimanga in linea,» disse. Poi si girò a guardare Maggie. «Mi pare di capire che non è una buona notizia.» Maggie scosse il capo, non sapendo cosa dire. «Pensavo che la gravidanza fosse stata programmata, se no non sarei stato così disinvolto quando te l'ho detto.» Maggie portò le dita alle labbra secche, ma non si fidò della propria voce. «Non è la fine del mondo, sai,» la rincuorò Hamlisch. «Sei proprio agli inizi soltanto. Le donne affrontano questa cosa tutti i giorni.» Rapida, Maggie scosse di nuovo il capo, e si portò le mani agli occhi premendo forte perché non cadessero le lacrime. Hamlisch prese una mano di Maggie tra le sue, e il tocco fu sufficiente per liberare l'emozione. Pianse dolcemente, con piccoli singhiozzi infantili. «Senti, Maggie, adesso tu rimani seduta qui per un quarto d'ora,» le disse Hamlisch. «Devo vedere un paziente. Poi voglio portarti a colazione.» Ma non andarono a colazione, Maggie non aveva fame. Camminarono invece per le calde strade di Washington. Maggie si asciugava gli occhi via via che parlava finché non ebbe tirato fuori proprio tutto. Descrisse come e perché il suo matrimonio secondo lei era sbagliato; come e perché lei provava un così disperato bisogno di Rob e non le riusciva assolutamente di
capire come fare per raggiungerlo. Si sentiva sleale nel divulgare a questo modo la sua infelicità, ma, in un certo senso, le faceva bene il fatto di esprimerla. Hamlisch aveva ascoltato quasi sempre in silenzio, facendole ogni tanto una domanda, incoraggiandola a continuare, finché non fu sicuro che lei aveva detto tutto quanto c'era da dire. Era comprensivo e compassionevole. Gli erano entrambi cari. Ora si erano fermati al lungo specchio d'acqua limpida di fronte al monumento di Washington, un luogo dove in altri tempi Maggie era arrivata con l'autobus per unirsi a ventimila negri che reclamavano i loro diritti alla libertà. L'erba adesso era cresciuta di nuovo dove allora era stata calpestata. Un gruppo di bambini giocavano con le loro barchette; Maggie e Hamlisch stettero a guardarli. «Sai,» sospirò a un tratto Hamlisch, «una volta, ricordo, qualcuno mi fece una descrizione di Albert Einstein. Diceva che era un 'visionario' non per quello che vedeva, ma per quello che rifiutava di vedere.» «Non era Einstein, era B.F. Skinner,» corresse in tono dolce Maggie. «Ah, si?» «Scientific American. Rob è abbonato.» Hamlisch si sedette sull'orlo dello stagno e Maggie gli sedette accanto. Si asciugava gli occhi con il fazzoletto piegato a tampone. «Comunque sia, lo dicevo pensando a Rob,» aggiunse Hamlisch. «Lo so.» «Ha dei punti deboli, come tutti gli uomini che realizzano delle cose.» «Così, tu pensi che io sia un'egoista?» Non era stata una domanda aggressiva la sua, piuttosto una richiesta di confermarle quel che lei stessa pensava. «Penso che tu sia in un guaio.» Maggie immerse nell'acqua il suo fazzoletto e se lo strizzò sulla fronte e sugli occhi. «Dio, ho pianto tanto negli ultimi tempi che mi sa che sono disidratata.» «Lo ami, Maggie?» «Sì.» Aveva risposto senza emozione e senza esitazione. Un semplice fatto della vita. «E se dovessi fare una scelta?» «Sono incapace di fare quella scelta.» «Credi che se tu aspettassi un altro poco?... Voglio dire, ad avere un bambino. Forse tra qualche anno lui la penserà diversamente.»
«Non potrei farlo.» I suoi occhi avevano perso ogni espressione, ora. «Sono incapace di uccidere qualsiasi cosa, non potrei farlo.» Si girò verso di lui nel desiderio di farsi capire bene. «Io, capisci, lo amo già, e provo la sensazione che anche lui mi ami già.» Scosse la testa sentendosi una sciocca. «Pensi che sono tutte soltanto sciocchezze, da parte mia?» «No.» «Capiti quel che deve capitare, ma io non potrò mai...» Le si spezzò la voce e tacque, irrigidendosi in tutta la persona. «Qualunque cosa accada, nascerà.» Hamlisch la studiò attentamente. «Allora, immagino che tu abbia preso una decisione.» Maggie non rispose. «Quando pensi di dirglielo?» Lei si scostò lentamente. «Quanto tempo perché si noti?» Ma Hamlisch le aveva letto nel pensiero. «Non è una buona idea, Maggie. Ho visto le donne farlo. Di solito, donne non sposate. Cercano di far finta di niente, e dopo è troppo tardi per un aborto. In questo modo si indeboliscono emotivamente. Se c'è un momento nella vita in cui hai un gran bisogno di essere matura, è quando sei incinta, Maggie.» «Quando è troppo tardi per un aborto?» «Non lo fare, Maggie.» Maggie sapeva che Hamlisch aveva ragione. «Non importa in che modo lui la pensa,» spiegò Hamlisch. «È anche vita sua. Ha il diritto di prendere le sue decisioni, ma tu hai il diritto di prendere le tue.» «Non era che un'idea,» sussurrò Maggie. «Vai nel suo ufficio ora, subito,» le consigliò Hamlisch. «Liberati di tutto questo peso.» «Ho paura, Peter,» bisbigliò lei. «Lui dirà di no e tu ti arrabbierai, ecco tutto. A parer mio, in questo momento la collera è meglio della paura.» La prese per mano e si avviarono verso la strada; Peter vide passare un taxi e riuscì a fermarlo. Maggie disse al conducente di portarla al Dipartimento della Sanità.
Ma Rob non era in ufficio quando lei arrivò. Lo attese due ore buone, e intanto sentiva l'ansia crescerle dentro finché comprese che non avrebbe potuto affrontare la cosa. All'ultimo minuto fuggì. Avrebbe scelto con ogni cura il suo momento. Quando Bob rincasò erano le due di notte. Il bambino della casa popolare era morto. L'infezione causata dai morsi era stata complicata da anemia. Il cuore aveva ceduto sotto una cospirazione di attacchi. Rob aveva già visto morire dei bambini. Questa morte lo aveva colpito in maniera particolarmente dura, aggravando in lui il senso della propria futilità. Qui si mosse adagio nella stanza da letto per non svegliare Maggie. La tenue luce della luna si riversava dalla finestra illuminandola nel sonno. Si sedette accanto a lei sul letto e le accarezzò via una ciocca di capelli dagli occhi. E allora notò una debole traccia che partiva dagli angoli degli occhi e risaliva al naso. Era un solco lasciato dalle lacrime. Maggie aveva pianto. La guardò a lungo, travolto dall'angoscia di non sapere il motivo di quelle lacrime. Per un attimo pensò di svegliarla, poi cambiò idea. L'indomani era martedì. Lei aveva una prova la mattina presto. Si chinò a baciarla, sperando che in qualche modo servisse a rassicurarla, a farla sentire in salvo. Poi si spogliò e si sdraiò sul letto accanto a lei. Gli era difficile prender sonno perché la sua mente era in tumulto. Pensò di nuovo all'offerta che gli faceva Shusette. Forse, un nuovo lavoro era proprio quel che ci voleva. L'unica altra alternativa al suo lavoro attuale era la pratica privata. In un certo senso, era inevitabile, ma per Rob aveva il sapore amaro di un ritiro in pensione. Lui era ancora abbastanza giovane per fare qualcosa su un piano globale. E lavorando per l'EPA, ci sarebbero stati altri vantaggi ancora. Niente più chiamate d'emergenza, nottate intere all'ospedale, comparizioni in tribunale di primo mattino. E questo significava più tempo da passare con Maggie. Forse già per questo sarebbe valso la pena provare. Si addormentò pensando agli alberi e fu presto immerso nei sogni. Si vedeva camminare per i casamenti. Gli alti edifici sbilenchi con le scale di sicurezza a zig-zag stavano rannicchiati in mezzo ad alberi torreggianti. Le scale di sicurezza erano zeppe di corpi. Corpi neri. Centinaia. E tutti avevano in mano una lancia. Maggie gli era accanto, spaventata. I corpi neri cominciarono a scorrere in giù, le facce truccate con i colori della guerra, le voci rumoreggiami in un solo urlo assordante. Rob prese Maggie tra le braccia e corse nella foresta, ma si smarrì tra gli alberi. Mag-
gie urlava, si aggrappava a lui e lo implorava di salvarla; ma, all'improvviso, si trovò sull'orlo di un precipizio e non poté continuare a correre oltre. Rob si fermò, guardò il sole. E proprio dal centro del sole una lancia calò bruciante contro di lui. Rob si svegliò ansimante, in un bagno di sudore. Si alzò dal letto su gambe tremanti e tirò le tende per eliminare la luna. Ma era così brillante, quella luna, che poteva vederla persino attraverso i tendaggi. Tornato a letto, finalmente richiuse gli occhi e questa volta cadde sfinito in un sonno privo di sogni. 4 Sopra la foresta di Manatee splendeva la stessa luna che illuminava la stanza da letto di Robert Vern. Faceva rilucere dolcemente le cime della sconfinata distesa d'alberi. Un vento caldo increspava le superfici dei laghi dando forma a scintillanti tappezzerie di lustrini fatti di riflessi di luna. Dal tempo della creazione del pianeta, questo lembo di terra di ottocento chilometri quadrati era rimasto così come Dio aveva desiderato che fosse. Il sole del mattino da sempre filtrava cosi tra gli alberi rifulgendo nella nebbia come raggi di laser; il gigantesco abete nero e quello rosso frastagliavano da sempre allo stesso modo l'orizzonte montuoso. L'alba sorgeva come sempre al suono discorde delle voci delle strolaghe, e il crepuscolo calava come sempre accompagnandosi al suono del battito d'ali lievemente tamburellante delle pernici rosse. E la tenebra notturna era sempre scandita ogni tanto dal grido inatteso e improvviso. Quello era il luogo dove il fiume Manatee entrava nel fiume Espee creando un bacino noto agli indiani masaquoddy, yurok, ashinabeg e wampanoag con sessanta diversi nomi. Tutti questi nomi magnificavano la profusione di vita nelle sue acque. Ma in anni recenti i nomi indiani avevano ceduto il posto ad altri. Il corpo d'acqua più vasto, il lago con al centro la sua piccola isola, che un tempo era chiamato con il nome di lago Wabagoon, era chiamato oggi lago di Mary dal nome della moglie di Morris Pitney, un industriale della Georgia salito sino allo stato del Maine nel 1930 per fondare la cartiera Pitney Paper Mill, sulle rive del veloce Espee. Lo stagno un tempo chiamato Talak'tah figurava ora sulle mappe di rilevamento del servizio forestale con il nome stagno di Ferro Piatto, commemorando il ferro da stiro con cui Mary Pitney stirava i pantaloni a suo marito.
Ormai i Pitney erano morti, ma la loro impronta sul paesaggio era stata permanente. La Pitney Paper Mill, ora passata in altre mani, era cresciuta tanto da figurare nelle tabelle di agenti di borsa ed economisti di Wall Street come una grande consociata, uno dei cinque proprietari assenteisti cui apparteneva oltre metà della terra del Maine, e che guardavano alle sue foreste come a piantagioni di soldi in contanti, in attesa solo di essere mietuti. I maestosi pini che un tempo avevano ricevuto i nomi di antenati indiani ed erano stati considerati ognuno come un singolo, individuale personaggio, adesso erano stati contati e misurati, classificati per ordine di volume e di peso, etichettati con i cartellini del prezzo. I principali prodotti della Pitney Paper Mill erano la carta da imballaggio, i sacchi di carta per droghieri e la carta igienica. Per via di quest'ultimo prodotto e dei fumi abominevoli sospesi sopra un braccio di cinque chilometri del fiume Espee, gli indiani si riferivano alla cartiera con il nome D'hant Y'oah 'tha, il Gigante che Scoreggia. Diversamente dagli indiani delle pianure occidentali dell'Ovest, gli indiani americani delle foreste erano stati popoli passivi, forse perché condizionati dall'amenità del loro ambiente ad accettare i cambiamenti nella propria vita e dare ospitalità a chiunque, oltrepassati i loro confini, pensava di sistemarsi tra loro. Fu così che le piccole tribù masaquoddy, ashinabeg, yurok e wampanoag avevano ceduto volentieri alla cartiera la sua piccola parte della generosa foresta. Fin tanto che gli indiani si erano tenuti alla larga dai tagliaboschi con i loro autocarri e seghe a catena, le due civiltà erano vissute ognuna separatamente, senza suscitare nell'altra, quando la incrociava sul suo sentiero, altro sentimento che quello della semplice curiosità reciproca. I tagliaboschi abbattevano alberi e li trasformavano in pasta di legno e carta; gli indiani pescavano i salmoni con le loro antiche reti e li essiccavano al sole. Tra le due cose non sembrava ci fosse alcuna connessione. Nemmeno quando il temperamento un tempo benevolo di questi popoli indiani aveva cominciato a sottostare a un cambiamento psicologico insidioso, essi pensarono che tra le due cose ci fosse una connessione. Anzi, gli indiani ne erano rimasti disorientati, col timore che se si fosse risaputo che tra le loro fila cominciava a serpeggiare la violenza, li avrebbero accusati di ubriachezza: il verdetto storico del mondo bianco per eludere ogni responsabilità nella degradazione del mondo indiano. Era vero che la crescente aberrazione del loro comportamento, quel che gli indiani definivano col nome Katahnas (attacchi), somigliava agli effetti
di una intossicazione da alcool. Vertigini, allucinazioni, perdita di coordinazione motoria e, non di rado, inspiegabili scoppi di collera. Un uomo aveva aggredito la moglie e i figli, un altro era corso nel lago di Mary, affogandovi. All'inizio, questi incidenti erano stati isolati e rari, vagamente spiegabili in base al movimento delle stelle o alle personalità dei colpiti. Ma adesso il fenomeno dei Katahnas diventava sempre più diffuso e generalizzato, e più spaventoso, perché più difficile da riconoscere. I sintomi che nei primi tempi erano stati così drammatici, adesso si erano attutiti, e l'intera comunità periodicamente cadeva in una sorta di torpore e annebbiamento che poi, per certi periodi, si dissipava per ripiombare nuovamente su di loro come una nube di fumo sempre in agguato. E c'era un altro male segreto di cui i masaquoddy non facevano parola, perché copriva di vergogna coloro che ne erano colpiti. Era un tasso sempre in aumento di feti nati morti e di bambini deformi. Era tradizione delle donne indiane andare da sole a partorire nella foresta, e fu così che per molto tempo ciascuna si tenne per sé il suo pauroso segreto. Le prove della loro genetica in mutazione venivano seppellite in superficiali tombe scavate in fretta per tutta la foresta di Manatee. Il primo membro della tribù masaquoddy che riuscì a mettere insieme una quantità sufficiente di prove e indizi per mettersi in allarme, fu Romona Peters, una masaquoddy purosangue e fiera, di ventott'anni, il cui nome indiano era Oliana. Voleva dire Cerbiatta Primaverile. Per la sua pelle chiara e i suoi occhi di daino Romona aveva ricevuto quel nome da suo nonno, Hector M'rai, ex capo e ora membro più anziano della tribù. Ma l'apparenza di aggraziata cerbiatta era ingannevole, perché in realtà la donna possedeva il coraggio di una volpe. Quando un tagliaboschi l'aveva violentata nella foresta, Romona era appena dodicenne, pure era andata, da sola, diritta a Manatee a cercare lo sceriffo, per denunciarlo. Ma quella era stata anche la sua prima lezione in fatto di giustizia: Romona aveva compreso allora che per gli indiani americani questa parola non doveva esistere. Da quel giorno Romona si era sforzata di impadronirsi di sufficienti conoscenze per diventare una forza di cambiamento per la sua gente. Ma il traguardo era rimasto elusivo. A tredici anni dovette lasciare la scuola come tutte le ragazze indiane la cui manodopera era necessaria al villaggio. Dopo di allora si era servita della biblioteca pubblica Androscoggin di Manatee come d'una scuola, trascorrendovi tutto il tempo libero a sua disposizione, studiando libri che di rado poteva comprendere, cercando di af-
ferrare il più possibile del vocabolario e dei modi del mondo bianco Durante la sua adolescenza, la biblioteca era diventata per lei il punto centrale della sua vita: era il suo paradiso e il suo inferno. Lì veniva spesso schernita dai bianchi che la deridevano apertamente mentre lei andava filando una spola incessante su e giù dalla sala di lettura al grosso vocabolario sul piedistallo, nello sforzo di capire quel che leggeva. Intorno al leggio il tappeto s'era logorato per l'uso, e lei ne era stata incolpata. Alla fine, in biblioteca le era stato proibito di avvicinarsi al dizionario più di una volta per sera. Quel tormentoso bersagliamento cui era esposta era stato più di ogni altro fattore ciò che l'aveva infine privata di ogni possibilità di progredire ancora. Col tempo Romona aveva dovuto rinunciare: era tutto semplicemente troppo umiliante. Ma ora, in seguito ai fatti recenti accaduti al villaggio, Romona aveva ripreso a recarsi in biblioteca. Un giorno aveva visto una donna tornare dalla foresta in stato quasi di choc, le braccia vuote e il ventre piatto. Romona l'aveva interrogata, e la donna alla fine l'aveva portata a vedere i resti grotteschi. Era un feto nato morto e quasi completo. Ma somigliava a un parto animale più che a un essere umano. La testa era grossa in modo spropositato, gli occhi grandi e piatti, senza palpebre, le dita lunghe e rastremate sembravano degli artigli e le gambe, arrotondate e molto più corte delle braccia, erano come un posteriore di animale. La donna aveva implorato Romona di non divulgare il suo segreto e Romona aveva acconsentito. Ma spiò un'altra donna prossima alle doglie e la persuase a farsi assistere da lei come levatrice. E il fatto si era ripetuto. Era stata una variazione diversa, non così grave. Ma anche questa volta il feto nato morto aveva qualità animalesche. Frattanto continuavano anche i parti riusciti: bambini sani e normali. Ma, come una nota insistente e discorde tenuta in sordina al di sotto dell'orchestrazione generale, i parti di feti deformi e gli aborti continuavano anch'essi; ogni tanto qualcuno nasceva vivo, e quei primi vagiti venivano subito tacitati nel cuore della foresta da madri sgomente. Per istinto Romona avrebbe cercato aiuto, ma la sua esperienza con il mondo bianco ufficiale era stata spaventosa quanto bastava per farla esitare. Decise che sarebbe tornata in quel mondo soltanto quando si fosse armata di tutte le possibili cognizioni. Per questo Romona riprese la strada verso la biblioteca di Manatee, sicura com'era che la soluzione al problema dei cambiamenti avvenuti nella fisiologia del suo popolo doveva trovarsi da qualche parte in quel vasto serbatoio di informazioni.
Per Romona adesso era ancora più difficile di quando era bambina sottrarre del tempo per le sue corse in biblioteca. Pesava completamente su di lei la cura e la responsabilità per il nonno ormai vecchio; Hector M'rai soffriva anche lui degli effetti sconvolgenti dei Katahnas, negli ultimi tempi la sua mente si era offuscata, le mani cominciavano a tremargli. E tutto questo non era un semplice risultato dell'età avanzata; dopo un'intera vita passata ai suoi ginocchi e sotto la sua tutela, Romona sapeva bene che suo nonno non era per natura uomo destinato alla senilità. Tra i masaquoddy, Hector M'rai era una leggenda vivente. Era vissuto per cinque incarnazioni, parlava ancora la lingua antica, era un deposito di sapienza tradizionale indiana. M'rai viveva separato dal resto della comunità, in un recinto che si era costruito con le sue mani e seguendo metodi e disegni di costruzione che solo lui ormai ricordava ancora. Chiamava il suo accampamento M'ay-andan'ta, il Giardino dell'Eden. Era fatto di tre tende coniche del tipo tepee, consistenti di tronchi d'albero a sbozzatura grezza e di pelli, ed erano tanto diverse dalle cadenti baracche di cartone ondulato in cui abitavano i masaquoddy quanto il giorno è diverso dalla notte. Nel mezzo di quella foresta mutevole e funestata il suo campo era un'oasi dove il tempo s'era fermato. Una specie di museo. Un tempio eretto a un modo di vita per sempre scomparso. Era duro per Romona strapparsi da M'rai, perché nel lasciarlo temeva sempre che quella potesse essere l'ultima volta che lo vedeva vivo. Ma tutte le sere all'imbrunire Romona copriva a piedi il tragitto verso la città per andare a immergersi nelle enciclopedie e negli opuscoli di medicina della biblioteca pubblica. Sapeva che i Katahnas e i feti deformi abortiti erano in qualche modo legati tra loro, e continuò a lungo a cercare quale fosse quel legame. Fu nella prefazione a un libro sull'alimentazione che Romona trovò un primo indizio. Diceva che l'ingestione di alimenti è il singolo fattore più causativo nella salute umana e nel comportamento allo stesso tempo. E inoltre che sulle caratteristiche culturali effettive di un'intera comunità di persone poteva influire ciò che, in quanto gruppo, esse ingerivano. Descriveva una tribù dell'Africa, di nome El Molo, che negli ultimi anni era diventata a un tratto aggressiva e andava soggetta ad attacchi epilettici quando spaventata, a causa di carenza proteinica in una terra che era stata completamente spogliata della sua selvaggina. Diceva che la proteina fa da ponte allo spazio sinaptico nella catena di comando della risposta neuro-
muscolare. Romona trascrisse tutte le parole che non capiva; in una sola pagina ne trovò sessantasette. Alcune, come «spazio sinaptico», non figuravano nemmeno nel grosso vocabolario sul piedistallo. Quel libro conteneva anche una sezione sulle cure prenatali. E ancora una volta menzionava la proteina, questa volta parlandone come di un fattore primario nello sviluppo di un feto umano sano. Consultando lo schedario di cui si serviva da ragazzina, Romona scoprì che esisteva un intero volume sull'argomento delle proteine. In fondo a questo volume, una tabella riportava gli alimenti ricchi in proteine. E a un tratto Romona piombò in una completa confusione: in cima all'elenco dei cibi ricchi di proteine, stava il pesce. Nella dieta degli indiani non poteva esserci carenza proteinica; facevano i pescatori. L'ottanta per cento di quel che mangiavano era pesce. Romona cercò di raccogliere ogni briciolo di logica in suo possesso per capirci qualcosa. Ma, nella loro dieta, che cosa poteva essere il responsabile della devastazione biologica? Romona sapeva che la dieta dei masaquoddy era rimasta praticamente immutata da secoli, fatta eccezione per i cibi in scatola che erano stata la novità della sua generazione. Gli alimenti in scatola venivano acquistati tutti dallo stesso negozio, l'unico di Manatee che servisse gli indiani. Possibile che i masaquoddy venissero avvelenati? No. Le scatole erano sigillate. Romona non seppe mai quanto si fosse avvicinata a scoprire il nesso che stava cercando, perché a un tratto dovette interrompere tutto. Da un giorno all'altro una tempesta di violenza era esplosa tra gli indiani e i bianchi di Manatee. Per Romona recarsi in città era diventato pericoloso. Era successo che un gruppo di tagliaboschi della cartiera s'era imbattuto nella foresta in un indiano dal comportamento stuporoso e allucinato. Chissà come, si era smarrito nel bel mezzo di tutto ciò che gli era da sempre familiare; lo trovarono che stava letteralmente girando in tondo, senza sapere dove fosse, e andando a sbattere contro gli alberi. L'avevano deriso e preso in giro provocando uno scoppio di collera. L'indiano li aveva assaliti e loro avevano reagito picchiandolo a sangue e lasciandolo in fin di vita. Ciò aveva portato a una rappresaglia. Dieci giorni dopo, il corpo d'un tagliaboschi era stato rinvenuto conciato allo stesso modo, picchiato da un gruppo di indiani. La voce corse in un baleno: gli indiani bevevano ed erano in cerca di rogne. I tagliaboschi erano felici di dar loro tutte le rogne che volevano e qualcuna di più. Si vendicarono razziando un piccolo vil-
laggio di pescatori indiani. Poco tempo dopo, due uomini della cartiera partirono per la foresta in un turno serale e non fecero mai ritorno. Sembravano scomparsi nella foresta. E corse la voce che gli indiani li avevano uccisi. Così, dopo essere vissuti per millenni di seguito in pace con il loro ambiente, gli indiani in poche ore si ritrovarono a vivere in preda alla paura; timorosi di recarsi alle loro reti il mattino, con i fuochi spenti la sera, gli orecchi tesi ad ascoltare l'uggiolare dei due segugi che battevano la foresta di Manatee in cerca di una traccia dei due tagliaboschi scomparsi. Romona Peters, seduta al buio nel silenzio fondo del campo di suo nonno M'rai, ascoltava il duetto cacofonico dei due bracchi seguendo con gli occhi le tre torce della squadra di ricerca e soccorso: sui monti lontani, le torce parevano minuscole lucciole che danzavano e sfrecciavano tra gli alberi. Da una settimana tutte le sere lei e suo nonno avevano seguito così il percorso della ricerca. Ma quella notte avvertivano che qualcosa era cambiato, c'era nel tipo di ritmo e di rumori un che di incalzante che le altre notti era stato assente. A tre chilometri dal loro campo, nel villaggio indiano anche tutti gli altri masaquoddy guardavano i fuochi sul monte e anche loro sentivano, come Romona e M'rai, la precipitazione improvvisa del ritmo di quella caccia. In realtà, in quel momento il percorso dei tre uomini in pattugliamento nella foresta era seguito da migliaia di occhi ansiosi. Gli animali notturni, predatori e prede, stavano nascosti e silenziosi, e sempre più tesi a mano a mano che aumentava l'intensità di quel crescendo. Gli stessi uomini che componevano la squadra di ricerca compresero che c'era qualcosa di nuovo, quella sera. Dopo una settimana di vagabondaggio irrequieto i loro cani erano stati presi improvvisamente da quella specie di isterismo che indicava che il loro traguardo non era lontano. Al crepuscolo avevano fiutato una pista nell'aria ed erano balzati via come palle di cannone. Con ululati di impazienza, i loro corpi massicci si erano sfrenati, dibattendosi contro i finimenti che legavano ogni cane a un segugio umano con un guinzaglio lungo dodici metri. Era difficile mantere il controllo sui bracchi eccitati dalla pista. I loro novanta chili di peso funzionavano ormai come cieche estensioni dei loro nasi. I loro occhi avevano smesso di vedere, la loro mente di lavorare; gli animali erano schiavi della loro foga di unirsi alla fonte dell'odore come drogati che inseguissero l'allettamento dell'oppio. Nel loro delirio l'oscurità
non significava più nulla, e nemmeno gli ostacoli. Se non fossero stati letteralmente legati ai loro padroni umani, si sarebbero buttati ciecamente contro le rocce o sarebbero volati giù dai precipizi. Gli ululati dei cani salivano adesso più alti e più incalzanti mentre gli uomini che erano legati ai due guinzagli dovevano affrettare la corsa, sobbalzando e vacillando tra i rami che li frustavano in volto, trascinati com'erano per un terreno impervio e accidentato. Si muovevano su un terreno a loro ignoto, in mezzo a quei monti, e la corsa aveva preso un ritmo pericolosamente veloce. Ma gli uomini erano riluttanti a richiamare i cani e farli rallentare; temevano che potessero perdere la traccia. Dietro ai due uomini, che erano legati ciascuno a un cane, correva un terzo uomo, trafelato sotto il peso della ricetrasmittente affibbiata alle spalle. «Rallentate i cani,» ansimò «Sono sulla traccia,» gridò in risposta uno. «Non dev'essere lontano.» I cani arrivarono a un pendio e rallentarono. Ma, non appena risalita la cresta e ripresa la discesa, la forza di gravità sommandosi alla loro furia li spinse a una velocità da montagne russe. Adesso gli uomini dovevano correre a rotta di collo trascinati da una forza d'inerzia che erano impotenti ad arrestare. E fu allora che la videro. Un'obliqua massa di acqua bianca rombante nella foresta che s'interrompeva bruscamente nell'oscurità dritto davanti a loro. «Acqua. Una cascata!» «Una rapida!» «Fermate quei cani!» I due uomini al guinzaglio fecero leva all'indietro affondando i tacchi nel terreno per lo sforzo. Ma i cani rifiutarono di fermarsi, tirando ancora più forte per vincere quella resistenza che si opponeva alla loro corsa, e si avvicinavano a ogni istante sempre di più al baratro che si spalancava davanti nel chiaro della luna. «Gesù!...» «Non riesco!...» «Aiutatemi!» Un uomo si afferrò a un tronco e riuscì a tenersi saldo, poi dette un brusco strappo al guinzaglio, tirò indietro il cane e lo colpì duramente lasciandolo a terra stordito. Ma l'altro inciampò e cadde, aggrappandosi disperatamente al guinzaglio mentre veniva trascinato senza poter fare altro che urlare, incapace di arrestare il suo cane che precipitava oltre la cornice. Con un fulmineo balzo, il radioperatore gli fu addosso proprio nell'istan-
te in cui il braccio saltava l'orlo della scarpata. Il volo del cane non durò che un attimo e fu arrestato. In cima alla parete di roccia, l'ancora umana aveva tenuto. A meno di un paio di metri dall'orlo del precipizio, il radioperatore premeva con tutta la sua forza contro l'uomo che gli stava sotto. Il cane oscillava silenziosamente nel vuoto. «Aiutaci!» gridò il radioperatore. I due uomini stavano scivolando centimetro per centimetro verso la cornice, il guinzaglio teso e vibrante sotto di loro mentre il cane si dibatteva nel vuoto in preda al panico. L'altro armeggiò con la sua cintura sfibbiandola rapidamente e la legò a un albero. Il suo cane giaceva a terra ancora stordito dal colpo, gli occhi fissi alla luna. «Aiutaci, dannazione!» Libero dal guinzaglio, l'uomo si slanciò da dietro gli alberi e corse a frenare i suoi compagni buttandosi addosso a loro, agguantò il laccio e tirò all'indietro con tutte le sue forze. Attaccati disperatamente l'uno all'altro, strisciarono tutti e tre lentamente all'indietro come un gambero a sei zampe, e continuarono così finché non ebbero messo un tre metri tra loro e la scarpata. Poi si rinsaldarono dietro il tronco di un albero. L'uomo che il bracco aveva trascinato al precipizio era tutto lacero e contuso; gli altri due gli stavano addosso con tutto il loro peso, schiacciandolo contro l'albero con forza, perché l'altro capo del guinzaglio del cane appeso nel vuoto era ancora allacciato alla sua cintura. Si guardarono tutti e tre con occhi atterriti per il pericolo corso. «Come ti senti?» «Non riuscivo a liberare...» «Non li ho mai visti fare così...» «Quel che inseguono sta giù nella gola, comunque...» «Se è laggiù, è morto.» «Riportiamo indietro il cane.» Con braccia rotte e tremanti s'afferrarono al guinzaglio avvolgendoselo attorno alle mani per rinsaldare la presa. «Su!» Tirarono all'unisono, guadagnando meno di un metro di gioco. Poi, come prima, rinsaldarono di nuovo la presa. «Issa!» Di nuovo issarono all'indietro il guinzaglio, ma questa volta inutilmente. Era come se il peso del cane fosse di colpo aumentato, superando tutte le loro forze congiunte. Calcati i tacchi in terra, seguitarono a tirare a più non
posso, digrignando i denti per lo sforzo. I loro occhi si cercavano stupefatti. Stava diventando una lotta vera e propria, una prova di forza, quasi ci fosse qualcuno che tirava all'ingiù dal capo opposto del guinzaglio. «Dio!...» gemette un uomo quando a un tratto furono trascinati avanti. «Tenetemi!» urlò l'uomo che era legato al cane. «Aiutatemi!» Un uomo gli passò un braccio sotto la cintura serrandosi così nella lotta con lui, l'altro mollò la presa; ma fu subito afferrato dall'uomo che era inchiodato al cane e che gli si avvinghiò con la frenesia di chi sta annegando. «No!...» singhiozzò un uomo: erano miserabilmente trascinati all'abisso. Di colpo venne uno strattone, e i loro corpi schizzarono via catapultati in aria, urlanti nella notte mentre roteando cadevano nel vuoto. Soltanto uno dei tre uomini visse abbastanza dopo essersi schiantato al suolo per vedere la cosa che li aveva tirati nel precipizio. Gli stava sopra emettendo un tranquillo squittio, e alzò un braccio mettendo in mostra al di sotto dell'arto una membrana di carne con un tracciato venoso come rami d'albero, illuminato in trasparenza dalla luna. Fu tutto ciò che l'uomo poté vedere prima che la testa gli fosse spiccata dal corpo e che la reazione chimica detta memoria si spegnesse rapida mentre la testa si schiantava contro un albero. 5 John Hawks era seduto in cupo silenzio e guardava dal finestrino del treno che da Washington lo portava nel Maine, quando vide spuntare l'alba sopra il maestoso pinnacolo del monte Katahdin. Era uno spettacolo che non vedeva da sette anni. La sua ultima visita al suo villaggio natio sette anni prima, quando aveva ventidue anni, per lui era stata una delusione profonda. Era andato là in cerca dei legami ancestrali, per immergersi di nuovo nella civiltà che aveva desiderato dimenticare. Ma aveva invece scoperto che i masaquoddy erano caduti in un limbo culturale. Il villaggio che sin dagli anni dell'infanzia lui ricordava come un luogo di magica bellezza, era divenuto uno scarico di rifiuti. Un'accozzaglia di baracche fatte con materiali di scarto, dal terreno intorno deturpato da un mucchio di macchinario inutilizzabile e scheletri di auto defunte. La prossimità al mondo dei bianchi aveva riscosso il suo mortifero tributo. Un incipiente senso di inferiorità creava negli indiani un appetito di imitazione. Acquistavano lavatrici benché al villaggio non esistesse l'elet-
tricità, abbondavano di radio-transistor malgrado non fosse possibile captare niente fuorché disturbi atmosferici, a causa della barriera dei monti. Compravano automobili che finivano ad arrugginire in un angolo, perché non potevano permettersi la benzina. I reggipetti bianchi dei magazzini Woolworth balenavano assurdamente tra i colori ocra delle giacche di pelle delle donne e la loro calda pelle marrone. Eppure, a dispetto di tutta questa miseria materiale, i masaquoddy non avevano perso la loro fierezza. Fierezza sufficiente per evitare il contatto con i bianchi. Fierezza sufficiente per respingere John Hawks in quanto aveva fatto parte del mondo dei bianchi. È probabile che John Hawks avesse del sangue bianco nelle vene. Questa era stata la sua gioia e il suo inferno. Risaliva troppo indietro nel suo lignaggio per scoprirlo, ma glielo si vedeva chiaramente in volto. I suoi lineamenti erano delicati, la pelle chiara. Un tempo Hawks aveva intimamente goduto di questa consapevolezza di poter passare per un bianco; oggi quel pensiero gli era odioso, perché gli aveva colmato la vita di confusione. Era stato il suo aspetto a farlo scegliere da Mary Pitney tra gli altri bambini masaquoddy: quando aveva dodici anni, era stato allontanato dai suoi per essere educato in un pensionato di Portland. I Pitney, proprietari della cartiera in riva all'Espee, si consideravano dei filantropi così facendo. Erano allora sui settanta e si erano voluti assicurare bene di avere il passaporto per il paradiso prima che fosse troppo tardi. Oltre a lui, altri due bambini indiani erano stati scelti, uno della tribù yurok, un altro degli ashinabeg. Lui era stato il terzo. Quello degli yurok si era suicidato ancora adolescente. L'altro era morto nel Vietnam. Hawks era stato il solo a sopravvivere a quella fatica; e vi era riuscito con l'astuzia e l'inganno: perdendo il suo accento tribale, vestendosi come i figli dei bianchi, imparando che era meglio essere di pelle bianca che rossa. Per molti anni aveva fatto un cosciente sforzo per dimenticarsi dov'era nato. S'era persino inventato una mitica discendenza da una ricca famiglia di Boston i cui membri, diceva, eran tutti morti. I Pitney erano morti quando lui aveva sedici anni; gli avevano lasciato un fondo scolastico amministrato da una banca di Portland. Hawks, in realtà, era un orfano. Non c'era nessuno, eccetto il suo io interiore, a ricordargli la verità. Ma l'inganno di tutta una vita aveva reclamato il suo pedaggio. Passare per bianco in un paese fittamente popolato di indiani significava il privilegiato accesso a conversazioni che di solito erano per soli bianchi. Le fred-
dure erano brucianti tormenti, e lui si era costretto a riderne insieme agli altri. Dopo la scuola di Portland si era guadagnato una borsa di studio per l'università del Maine a Orono. E qui la verità era saltata fuori, umiliandolo. Si era innamorato di una ragazza ricca, istruita, nata e cresciuta in una buona famiglia di Boston. Sentita la sua storia della provenienza dalla ricca famiglia bostoniana, si era assunta l'incarico di accertarsi dei fatti Subito dopo Hawks aveva lasciato l'università, tra un coro di risate di dileggio. Furibondo e pieno di vergogna, era tornato al suo villaggio, ma solo per scoprire che neanche la sua gente lo accettava. Aveva indossato abiti di pelle, cercato di interessarli di nuovo al modo di vita che gli indiani un tempo avevano conosciuto. Ma lo guardavano come uno scherzo di natura. Un po' come un uccello che volesse insegnare a un lupo in che modo deve essere fatto veramente un lupo. C'era stata una sola persona che si era mostrata gentile con lui. Si chiamava Romona Peters. Lei e suo nonno erano gli unici in tutto il villaggio che cercassero di conservare una presa sui modi di vivere indiani. Per Romona, John Hawks aveva rappresentato tutto ciò che lei stessa non era stata in grado di diventare. Istruito, a conoscenza del mondo che stava al di là della foresta. Lei, a sua volta, possedeva agli occhi di Hawks una purezza che lui le invidiava. Era indiana da capo a piedi e senza il benché minimo desiderio di voler copiare i modi dei bianchi. Tra loro l'attrazione era stata istantanea e benché la legge indiana lo proibisse erano divenuti amanti. Ma furono proprio queste differenze che li avevano uniti, a separarli. Era il 1971, e la Pitney Paper Mill cominciava a dare i primi segni di volersi un giorno espandere ed esigere la totalità della terra indiana. Degli operai stavano buttando giù la vecchia antiquata fabbrica di pasta di legno per costruirne una nuova e gigantesca in riva al fiume Espee. Soltanto John Hawks aveva subito capito che erano nei guai. La lunga familiarità con i giornali e la televisione lo aveva messo a conoscenza dei fatti sui furti di terra che stavano verificandosi sulla costa Nordoccidentale del Pacifico. Si rese conto che la nuova fabbrica, una volta ultimata, avrebbe potuto inghiottire l'intera foresta. Tentò di unire intorno a sé i masaquoddy, spronandoli a lottare, ma incontrò solo resistenza e opposizione. Persino Romona era contro di lui. Era pacifista e dichiarò che uno scontro sarebbe stato la loro rovina. Ma a prescindere da questo, Romona lo riteneva prematuro. Pensava che fosse la rabbia a spingere Hawks, l'ira contro i Pitney che gli avevano rovinato la vita, e non la realtà della
nuova fabbrica. Tra loro erano corse parole amare e John Hawks aveva lasciato la foresta di Manatee. Per sempre, così pensava. Era andato dove si agiva. Aveva osservato le altre tribù battagliare contro l'industria per proteggere le loro terre. Assistendo alle successive lotte e sconfitte, imparò che c'era una sola tattica capace di frenare la corsa al furto di terre indiane. Quella tattica era la violenza. Non che nella violenza ci fosse la vittoria. Di vittorie, qualsiasi cosa si facesse, non ce ne sarebbero mai state. Ma nella violenza c'era soddisfazione. A Hawks poteva anche far piacere commerciare in eloquenza con industriali e politici per batterli al loro stesso gioco, ma sapeva bene che loro in fin dei conti lo consideravano innocuo. Come un cane cui avessero insegnato lo scherzo di camminare sulle zampe di dietro ma che, prima o poi, doveva ben tornare su tutte e quattro le zampe. Soltanto quando il cane mostrava i denti, lo si rispettava. Avendo seguito la pista della distruzione di foresta in foresta, di tribù in tribù, Hawks era infine calato a Washington, dove si stavano radunando finalmente i dimostranti, e si era unito al Coro di proteste contro il furto di terre indiane. Con sua sorpresa lì aveva trovato anche i rappresentanti della sua parte di mondo, ansiosi che qualcuno li unisse e sapesse agire da loro portavoce. Era l'occasione che Hawks aveva atteso. Lui aveva predetto ciò che sarebbe accaduto e ora guardavano a lui perché li salvasse. Ma non era solo il fatto che gli avessero dato il potere di rappresentare la sua gente, a importare a Hawks. Era che, finalmente, era stato riconosciuto come indiano. A dispetto di qualche gene recessivo e una fraseologia che pareva il dizionario ambulante dei bianchi, poteva ora dichiarare alto a tutto il mondo che in cuor suo, nella sua anima e nel suo spirito, era sempre stato tutt'uno con i suoi. I tre incontri con la Sottocommissione nazionale per gli Affari Indiani erano stati solo dei gesti simbolici da parte sua, come da parte loro, e la guerra di parole era pesantemente adulterata da parte del governo. «Giustizia» non aveva più senso della locuzione «campo da tennis». Un concetto valido per chi se lo poteva permettere. Era chiaro che il complesso industriale pensava di poter falciare giù la foresta come erba in un prato dietro casa. E con scarsa o nessuna opposizione da parte delle popolazioni che la possedevano per diritto. Ora avrebbero scoperto che non era così Perché John Hawks era pronto a combattere seriamente. Mentre il piccolo treno andava serpeggiando intorno alle falde del monte
Katahdin, Hawks pensava a Romona. Si domandò se l'avrebbe ritrovata. Se gli avrebbe fatto buona accoglienza. Aveva pensato spesso a Romona in quegli anni, in certi periodi pensava a lei di continuo. Sapeva bene che se, da bambino, non l'avessero allontanato dal villaggio, lui e Romona dopo essere cresciuti insieme si sarebbero sposati. Lui ora sarebbe stato un pescatore, lei la madre di parecchi bambini. Maledisse i Pitney per la confusione che avevano provocato nella sua vita. Era lieto di avere l'occasione di lottare a sua volta. Ricordò una conversazione di sette anni prima con il nonno di Romona, quando il vecchio lo aveva severamente messo in guardia contro le forze della collera. «Scopo di una famiglia non è di sopraffare un'altra,» aveva detto M'rai. «Per una famiglia scagliarsi contro un'altra, puntarle il dito contro e dire 'ecco dov'è il cattivo', è autodistruttivo, proprio come se quel dito lo puntassi contro di te.» Hawks gli aveva risposto che se un uomo rifiuta di combattere per difendere quello che gli appartiene allora merita che glielo portino via. «Se veramente ti appartiene,» aveva ribattuto il vecchio, «non hai bisogno di combattere per averlo.» «Nessuno ci porterà aiuto, vecchio,» ricordò di avergli risposto. «La foresta ci porterà aiuto,» aveva ribattuto M'rai. «Katahdin ci porterà aiuto.» Hawks era rimasto attonito per l'infantilità del vecchio. Ma era anche la sua bellezza, questa; la sua fede nelle loro antiche leggende. Katahdin era forse la primissima leggenda che imparava ogni bambino masaquoddy. La mitica bestia il cui aspetto fisico è un miscuglio di tutte le creature di Dio. La leggenda diceva che in caso di necessità Katahdin si sarebbe svegliata dal suo sonno per difendere qualsiasi creatura di Dio che avesse bisogno di protezione. Hawks chiuse gli occhi cercando di immaginarsi il vecchio M'rai ritto in mezzo a una terra dissacrata e squallida dove un tempo si ergevano gli alberi. E si domandò se alla fine il vecchio M'rai avrebbe perso la sua infantile fede in Katahdin. «È una foresta boreale, Maggie. Sai cosa significa?» Robert Vern, nella stanza da letto del loro piccolo appartamento di Georgetown, stava facendosi la valigia; aveva parlato a voce alta per farsi sentire soverchiando l'orchestra che suonava nel soggiorno. Maggie, seduta in una poltrona a schienale rigido, suonava il suo violoncello con l'accom-
pagnamento di musica che usciva dagli altoparlanti del suo registratore portatile. Era il Concerto per violoncello di Schumann, un difficile brano che doveva aprire la stagione degli abbonamenti della Washington Symphony. Era stata scelta come primo violoncello, per questo non poteva accompagnare Rob nel Maine. «Maggie? Non mi senti?» Rob attese una risposta. Ma non venne. Eppure lui aveva parlato a voce sufficientemente alta. Lei non rispondeva, tutto lì. Il suo umore taciturno e scontroso durava da una settimana e Rob ne era profondamente turbato. Tutto sembrava essere iniziato da quella notte in cui, tornando a casa, aveva scoperto che lei aveva pianto. L'indomani era rimasto a casa il mattino per parlargliene, ma lei non era comunicativa, liquidò la cosa come un semplice brutto sogno e niente di più. Ma Rob capiva che c'era qualcosa. Le sere successive aveva notato un flacone di valium sul suo comodino da notte; prima di allora, lei non aveva mai preso sonniferi per dormire. L'aveva sollecitata due volte sull'argomento, ma tutte e due le volte lei l'aveva evitato. Sembrava a un tratto aver paura di lui. Qualche volta che lo guardava, lui leggeva nei suoi occhi un'accusa. E adesso Rob temeva lui stesso di insistere troppo, poiché quando si frugava la mente in cerca di una possibile risposta, sentiva lo stomaco contrarsi per l'angoscia. Con tutto il tempo che loro due trascorrevano separati, ognuno per conto suo, era ben possibile che Maggie si fosse presa una cotta per un altro. Era, questa, un'eventualità che Rob semplicemente non si sentiva di affrontare. Nei sette anni del loro matrimonio, lui le era sempre stato fedele; si sentiva profondamente impegnato verso di lei e l'idea che fosse cambiata gli era intollerabile. Certo, se effettivamente lei aveva un amante, Rob sapeva che era solo colpa sua. Lui l'aveva data per scontata, limitandosi a immaginare che lei semplicemente sarebbe sempre stata li. Quel pensiero gli dava tale angoscia che lo scacciò dalla mente e si costrinse a concentrarsi sul lavoro sottomano. Prese una gran pila di libri e la depose accanto alla sua borsa da medico. I titoli di quei libri erano Erosione del suolo, Idrocoltura, Rischi Industriali. Soltanto alcuni delle dozzine che si era messo a studiare da quando aveva accettato l'offerta di Victor di lavorare per l'EPA. Si sentiva a disagio per questa decisione. In qualche modo, gli sembrava sbagliata. Aveva la netta sensazione che fosse più grossa di lui, quella faccenda Sentiva di trovarsi in un campo che non era veramente il suo. Però aveva dato la sua parola e in fondo non si era im-
pegnato che per il paio di settimane che gli stavano davanti. In quegli ultimi sei giorni si era sprofondato nella ricerca, aveva ottenuto un permesso speciale per restare nella biblioteca della Washington Library dopo le ore di chiusura, aveva passato un fine settimana nelle foreste del New Jersey con un veterano ambientalista esperto di lavoro sul campo. Aveva imparato come si fa a raccogliere i campioni di suolo, come si analizzano per l'assorbimento d'acqua e il contenuto in minerali; sapeva identificare quaranta membri del genere Pinaceae. Poteva persino valutare l'età, la salute e la quantità di precipitazioni nell'arco di dieci anni dal semplice esame del corpo legnoso sottostante la corteccia del fusto. Adesso, a poche ore dalla sua partenza per il Maine, si sentiva più o meno pronto. Il resto l'avrebbero fatto i libri Avrebbe cominciato a studiarli in aereo. Chiusa la valigia, restò un momento seduto sul letto ad ascoltare Maggie. Le aveva spesso invidiato la sua occupazione, perché le portava pace e non angoscia, come accadeva a lui con la sua. Quando suonava, Maggie sapeva esprimere il sentimento con semplicità e immediatezza, e con immensa chiarezza. Era una musicista di talento Rob si alzò e si fermò sulla soglia della stanza da letto a guardarla, gli era proprio di faccia e colse il suo sguardo. «È bello,» sorrise Rob. Lei rispose con un cenno della testa continuando a suonare. «Brahms?» «Schumann.» «Un mucchio di violoncello.» «Amava il violoncello,» rispose, continuando a suonare «Diceva che è il solo strumento che si possa abbracciare come un'amante.» «Un tantino tranquillo dopo cena, però.» «Parlamene.» Era di nuovo nei suoi occhi. L'accusa che lui le era venuto meno. Rob passò in soggiorno e andò a sedersi proprio accanto a lei, sul bracciolo della sua poltrona. «Sai .. Se questo nuovo lavoro dovesse piacermi... mi avrai di nuovo un bel po' per casa.» «Sì?» «Hm-mm. Gli alberi non si ammalano nel cuore della notte, pare.» «Scommetto di sì. Solo che non possono dirlo a nessuno.» Rob le stava seduto proprio alle spalle e lo incantò la piega del suo collo, la fragranza dei suoi capelli. Timidamente si chinò e la baciò su una spalla.
Lei smise di suonare, ma non si volse; la musica sul registratore seguitava a suonare mentre Maggie guardava fisso davanti a sé. «Che cos'è una foresta boreale?» Rob restò un attimo perplesso. Poi si ricordò della domanda che le aveva gridato dalla camera da letto. «Allora mi avevi sentito?» «Ah-ah.» «E perché non hai risposto?» «Non puoi gridare mentre suoni Schumann.» «Una foresta boreale... è qualcosa che nessuno ha mai toccato dai tempi dei tempi.» Lei chinò la testa senza parlare. «Questo ti rattrista?» le domandò. «Direi.» «Perché?» «Posso identificarmi.» La toccò e lei si volse. «Che c'è, Maggie?» sussurrò. Le si inumidirono gli occhi, girò la testa. «Buttalo fuori così come ti viene, Maggie.» «Non posso,» sussurrò lei. «Perché no?» «Perché non è semplice come tu immagini. È... è complicato. Non è semplicemente una cosa che posso dirti e basta.» Lo scrutava negli occhi ora, perché voleva che la capisse bene. «Ho bisogno di ore, di giorni. Ho bisogno di stare con te. Di sentirmi vicino a te. Ho bisogno di quel genere di tempo che a quanto pare noi non abbiamo mai.» Rob l'attirò a sé dolcemente stringendosi la sua testa tra le braccia «Ricordi come stavamo insieme un tempo? Seduti a parlarci?» domandò lei con voce triste. «Semplicemente a... a parlare senza fine? Dicendo tutto quel che ci passava per la testa? Mio Dio, se penso che avevamo l'abitudine di stare su tutta notte a bere vino insieme... e quando veniva giorno chiudevamo le imposte... e prima che lo sapessimo era sera un'altra volta!» Rob annuì. «Perché non lo facciamo più?» domandò lei con tono di lamento. «Perché siamo due persone molto indaffarate, Maggie.» «Una di noi è molto sola.»
Rob scuoteva il capo lentamente. In faccia aveva un'espressione di impotenza. «Non so come fare, Maggie...» «Lo so quel che provi per il tuo lavoro e ti ammiro...» «È qualcosa di più che il mio lavoro...» «Appunto. È come se tu avessi un'amante. Almeno fosse un'amante, potrei competere.» «Non ce l'ho, un'amante,» disse Rob in tono dolce. «Naturalmente no... ma...» «Tu?» La parola gli era sfuggita di bocca senza avere fatto in tempo a fermarla. «Io cosa?» «Hai un amante?» Lo guardò stupefatta. «No, naturalmente.» Lui studiava attento l'espressione sulla sua faccia. «Ne sei sicura?» «Be', se non ne sono sicura non può essere un gran che di amante, ti pare?» «Te lo domandavo sul serio.» Maggie non poté fare a meno di ridere, ma subito si fermò accorgendosi di quanto lui soffrisse. «Ho amato un uomo soltanto in tutta la mia vita,» gli rispose dolcemente. «Non è una cosa sciocca? A trent'anni? Ti assicuro, se confessassi una cosa del genere a una qualunque delle ragazze dell'orchestra mi riderebbe addosso fino a buttarmi fuori scena. Sai, c'è una ragazza che...» Si arrestò per scoppiare di colpo a ridere. Il suo brusco cambiamento di umore era talmente fuori luogo che Rob non sapeva cosa pensarne. Però non poté non ridere con lei. «Be'? C'è una ragazza che... cosa?» le domandò. «Per i principianti, suona il clarinetto. Se afferri il simbolismo.» «Sì.» «Ecco, le pillole non le vanno perché dice che la fanno stare male, e non le va nemmeno il diaframma perché non è efficace al cento per cento. Cioè, voglio dire, si può restare incinta anche se usi il diaframma, no?» «Di solito no.» «Ma succede, no?» «Sì, in teoria può succedere.» Rob continuava a sorridere, ma c'era qualcosa che non andava in quel dialogo. Maggie stava parlando a vanvera.
«Be', sia come sia, questa pensa che si può restare incinta anche con un diaframma, e così compera quei... sai?... com'è che li chiamate? per uomini? Condom?» «Uhm-mm.» «Ecco allora, se ne va al dispensario dell'università e se ne compera a dozzine. Li ho visti. Li tiene nella borsa. Escono fuori tutti legati insieme nella plastica come tanti proiettili da mitragliatrice, o che so io, una lunga catena, e lei ne ordina un centinaio alla volta e non fa altro che aprire la borsa e glieli infilano dentro da sopra il banco, così.» Si fermò a un tratto e scoppiò un'altra volta a ridere mettendosi una mano sulla bocca. «Di', riesci a immaginartelo?» «No-o.» «Sai con quanti è stata? Cinquecento o mille, mi ha detto proprio così. Te lo immagini che non sappia con sicurezza per un solo piccolo mezzo migliaio in più o in meno? Era tutto così bizzarro che Rob riprese a ridere. «E come si chiama?» «Questo poi non lo dico.» La loro risata pian piano si spense, restarono a guardarsi, la musica classica che suonava in sottofondo. I loro occhi si incontrarono senza distogliere lo sguardo, intenerendosi sino a che sarebbe venuto il momento che uno dei due avrebbe dovuto parlare. Ma nessuno dei due voleva parlare. «Lo sai, Rob, che cosa ci è appena successo, a noi due, poco fa?» interrogò Maggie in un sussurro. «Cosa?» «Che tu e io abbiamo riso insieme. Da quanto tempo non lo facevamo?» Rob annuì, in triste segno di assenso. «Molto.» «Ecco di che cosa ho bisogno, Rob. Di stare a mio agio con te. Libera. E rilassata. Se soltanto potessi avere un po' di tempo a questo modo con te, allora ti potrei dire tutto quello che ho dentro.» «Che cosa hai dentro, Maggie?» Lei si irrigidì subito, nelle scarpe le dita dei piedi le si strinsero. «Parti fra tre ore. Non è di così poco tempo che parlavo, me ne serve di più.» «Vieni con me.» «Non posso.» «Abbiamo due settimane, Maggie. Niente telefono, niente emergenza. Mi sistemano in una capanna di tronchi d'albero. Su un'isola. Nel mezzo di un lago. Niente intorno fuorché alberi e acqua.»
«E come faccio?» «E come no?» Maggie capiva che stava soltanto cercando di evitare l'inevitabile. Inconsciamente, faceva proprio quello che Hamlisch l'aveva ammonita a non fare: cercava di evitare l'argomento della sua gravidanza fino a quando sarebbe stato troppo tardi. Se fosse partita ora con Rob, questo bisognava dirglielo. E le sarebbe toccato affrontare proprio la conversazione che più di tutto temeva. Ma, forse, in uno scenario simile la cosa poteva essere affrontata, chissà! Se mai era possibile che lei l'affrontasse da qualche parte, quello doveva essere proprio il posto ideale. «Fa molto freddo lassù?» «Non hai risposto alla mia domanda.» «Sì, invece. Voglio sapere che cosa mettere in valigia.» 6 Il sole mattutino era offuscato da un banco di nubi che pesava basso sopra la foresta di Manatee. Cresceva l'umidità, si udiva un brontolare di tuoni lontani proveniente dall'orizzonte montuoso. Le voci tristi come lamenti di due strolaghe riempirono l'aria sotto il coperchio di nuvolaglia premuto sul lago di Mary, mentre animali di ogni forma e dimensione emergevano dalla fascia alberata per scendere al lago e procedere ai loro rituali di primo mattino: lavarsi, bere e mangiare. In alto tra i monti, ai piedi di una scarpata rocciosa, una famiglia di procioni gustava carne umana, ringhiando e lottando sui pezzi e pezzetti di roba putrida disseminata per il terreno. Il corpo di un uomo sospeso al di sopra delle loro teste con il collo stretto nel cappio di un guinzaglio non incuteva loro nessuna paura. L'odore unico di carne umana era svanito da ore, lasciando giusto un lezzo di carcassa che marciva, tormentosamente fuori portata per i deliranti procioni. Ancora più sopra, sull'altipiano, un guinzaglio masticato e annodato a un tronco era tutto quel che restava dell'unico bracco sopravvissuto al massacro. A forza di denti era riuscito a spezzare lo spesso cuoio e seguendo il suo fiuto era corso al più vicino posto abitato. Lì, a una stazione forestale, una guardia aveva fatto arrivare lo sceriffo i cui uomini avevano più volte tentato di incitare e allettare l'animale per farsi riportare di nuovo nella foresta. Ma l'animale si era rifiutato. Non aveva nemmeno voluto girare la testa nella direzione da cui era venuto. Erano trascorsi due giorni senza un
segno dalla squadra di soccorso. Entro pochi giorni ancora doveva diventare chiaro che non avrebbe mai fatto ritorno. Lo sceriffo della Contea di Manatee stava facendo l'impossibile per tenere nascosta la notizia di queste nuove scomparse, ma c'erano alcune persone il cui privilegio era di essere informate. Una era Bethel Isely, direttore generale della Pitney Paper Mill. Isely aveva quarantaquattro anni, era nato e cresciuto ad Atlanta, Georgia, addestrato in relazioni pubbliche, da appena sei mesi ingaggiato per trasferirsi con la moglie e i tre figli nel Maine e dirigere la Pitney Paper Mill. Benché non sapesse molto circa l'industria del legname, era un esperto nell'arte di sballottare l'opinione pubblica. Sotto i suoi auspici i cittadini di Manatee erano stati oliati con due feste all'aperto, e le tre chiese locali con un ricco assegno ciascuna; le poche voci inizialmente dissenzienti riguardo alla progettata espansione della fabbrica di pasta-legno furono soffocate sotto una pioggia di letteratura tecnica che esaltava gli effetti benefici derivanti dal taglio e raccolta di alberi. Isely prendeva con serietà il suo lavoro e credeva in quello che doveva credere. Esistevano ottimi argomenti sia pro sia contro il taglio di boschi e lui poteva virtuosamente argomentare a favore del lato della faccenda che gli dava da vivere. Il fatto che attualmente gli desse da vivere meglio che mai, rafforzava le sue convinzioni. I Pitney gli avevano dato una casa, due automobili e uno stipendio di settantamila dollari l'anno. Nondimeno, Isely si rendeva conto che tutto sarebbe andato gambe all'aria se l'uomo dell'EPA che arrivava quel giorno avesse stilato un rapporto negativo. Prendendo tutte le sue precauzioni, Isely aveva fatto gli straordinari per istruirsi a fondo su tutti gli aspetti del taglio di legname che gli fossero venuti in mente. Aveva fatto anche di meglio e si era istruito sull'uomo mandato dall'EPA scoprendo così che Robert Vern era dottore in medicina e aveva una moglie di nome Maggie che suonava il violoncello. Per non lasciare niente di intentato, Isely imparò un paio di cose sui violoncelli e le sinfonie. Sperava molto che Vern si sarebbe portato anche la moglie; in tal caso sarebbe stato più facile convincerlo a trasformare la sua missione in qualcosa come una vacanza. Isely si era preparato bene, era pronto a rispondere a tutte le domande, disposto a rendersi libero a tempo pieno per Robert Vern. La Pitney Paper Mill era un modello di efficienza e di alti standard. Lui poteva giustamente andare fiero di quello che aveva da mostrare. Vestendosi per recarsi all'aeroporto, Isely gettò un'occhiata dalla finestra
per controllare il cielo: sembrava proprio maturo per le piogge primaverili. Non molto lontano, anche John Hawks stava facendo i suoi preparativi. Ma non per l'arrivo di Robert Vern. Ignorava che l'uomo della EPA doveva arrivare quel giorno; e anche se l'avesse saputo, non avrebbe modificato per niente il corso delle sue attività. La barricata doveva essere rimessa in piedi. Da quel giorno in poi, nessun veicolo della cartiera sarebbe stato autorizzato a usare la strada principale per entrare nella foresta. Hawks non ignorava che potevano sempre traghettare i loro uomini con la barca lungo il fiume Espee, o mandarli a volo con l'idrovolante nel lago di Mary. Ma tutto ciò sarebbe costato tempo e denaro e in sostanza avrebbe ridotto un bel po' il loro tasso di efficienza. Il blocco sulla strada li avrebbe costretti a prendere sul serio gli indiani. Hawks si trovava nella foresta da non più di ventiquattro ore, essendo andato prima direttamente nel villaggio a mettere insieme un drappello di dieci uomini validi. Tutto era diverso rispetto a sette anni prima. I masaquoddy adesso erano finalmente abbastanza furiosi per desiderare la lotta. Stavano vittimizzandoli da tutte le parti, accusandoli di essere degli assassini e non era vero, di essere degli ubriaconi e non era vero... Hawks aveva avuto ben poco tempo per assimilare la miriade di problemi che assillavano gli abitanti del villaggio, ma aveva ascoltato con preoccupazione quando gli raccontarono dei Katahnas, gli attacchi che colpivano senza preavviso e sconvolgevano la mente e il corpo della sua gente. Gli fecero vedere un uomo che era nel pieno del male. Delirava per la febbre e le allucinazioni. In quel particolare momento, i Katahnas non erano diffusi. Temendo i contatti con i tagliaboschi e la gente di Manatee, gli indiani avevano smesso di andare alle loro reti da pesca, si tenevano nei confini del loro villaggio vivendo di tutta la piccola selvaggina che riuscivano a prendere e della loro scorta di cibi in scatola. E, misteriosamente come erano apparsi, gli attacchi di male erano di colpo scomparsi. Nelle due ultime settimane un uomo soltanto ne era stato colpito. Hawks non seppe che pensare di quella strana malattia e, siccome era in una fase di recessione, non ne poté comprendere le proporzioni allarmanti. Rimandò l'indagine dei Katahnas a un altro momento. Quel giorno, la sua priorità era il blocco.
Seguito dal suo esercito di sostenitori Hawks si incamminò nella foresta diretto alla strada di transito principale. Gli uomini variavano per età dai sedici ai trenta anni. Nessuno di loro aveva mai affrontato un bianco prima di quel giorno. Hawks li ammonì a non portarsi dietro nessun tipo di arma. Dovevano difendere la foresta con la vita, ma nessuno di loro sarebbe stato accusato di minacciare la vita altrui. Così, tra tutti quanti, l'unica parvenza di arma era un'ascia a lungo manico che doveva servire a costruirsi un riparo in caso di pioggia. Procedevano silenziosi per la foresta e passarono nei pressi dell'accampamento del vecchio M'rai. Hawks vedeva i pali incrociati dei tepee spuntare da sopra le cime degli alberi. Appena giunto al villaggio, Hawks si era informato di M'rai e gli avevano detto che anche il vecchio soffriva di frequenti attacchi di Katahnas, che la sua mente era allucinata e confusa e che vagava solo per la foresta di notte raccontando certe storie sulla bestia Katahdin che, dichiarava M'rai, andava a bere sulle rive della laguna segreta. La cosiddetta laguna segreta era un luogo sacro per i masaquoddy; tradizionalmente era il santuario privato dell'uomo più anziano della tribù. Si diceva che ogni cosa laggiù crescesse più grande, molto più grande del naturale. Ma Hawks ricordava ancora quanto fosse rimasto deluso da bambino, un giorno che si era spinto sin là di nascosto, e aveva scoperto che era soltanto uno stagno come tutti gli altri nella foresta. Il mito della laguna segreta era arrivato una volta agli orecchi di certi figli dei fiori a New York, i quali erano venuti per piantarci semi di marijuana nella speranza che sarebbero cresciuti alti come case. Gli indiani li avevano scacciati e delegati dello sceriffo avevano rinvangato ben bene il suolo con picconi e vanghe per essere sicuri che i semi non germogliassero. Hawks si domandò se per caso non ne fosse invece sopravvissuto qualcuno. Se il vecchio M'rai masticava la cannabis mentre stava a meditare nel suo stagno, questo poteva ben spiegare le sue visioni di Katahdin. Adesso erano proprio all'accampamento di M'rai e Hawks si fermò a guardare tra gli alberi. Era esattamente come quando l'aveva lasciato sette anni prima. Nel mezzo di quella foresta tormentata, un'oasi di pace e di bellezza. Tre enormi tende coniche fatte di pelli d'animali stavano disposte a cerchio, nel mezzo un vasto pozzo del fuoco era orlato di pietre. Una fune tesa tra due pertiche sosteneva le pelli e le strisce di ch'arqui appese ad asciugare al sole; un elegante arco fatto a mano era appoggiato contro un albero. Era un arco che Hawks da bambino aveva usato quando M'rai gli insegnava l'arte del tiro. C'era nell'aria l'odore del grasso animale. Un altro
ricordo della sua infanzia. Fermo tra gli alberi, Hawks si lasciava trasportare indietro nel tempo. «Noa'hgna'aught N'hak'tah,» disse un uomo alle sue spalle. Avvertiva Hawks che non era permesso a nessuno di entrare nel campo di M'rai senza espresso invito del vecchio. La lingua della sua infanzia gli era ancora familiare; ne aveva una certa padronanza, poteva farsi capire. «D'hana'ht Yo'ahtha,» rispose, indicando nella direzione della strada. Gli uomini partirono lasciandolo solo. Dal momento del suo ritorno nella foresta Hawks si era trattenuto dal domandare notizie di Romona. Adesso gli era impossibile proseguire senza sapere niente di lei. Penetrò nel recinto e la chiamò forte per nome. «A'han-spanitah Oliana?...» Dopo un minuto, un lembo della tenda fu tratto in dentro e comparve Romona. Era ancora più bella di come la ricordasse. I suoi capelli neri avevano la lucentezza dei mantelli degli animali della foresta e le ricadevano con grazia sulle spalle, come una cascata. Il suo corpo era snello e agile, e diritto come può esserlo solo il corpo di un'indiana. Ma i suoi occhi erano vulnerabili e feriti. Romona rimase immobile in silenzio, sopraffatta dall'emozione. «Dio sia ringraziato,» sussurrò. «Sono venuto per restare, Romona.» «Lotterò al tuo fianco ora, John,» sussurrò Lei. «Lotterò insieme a te. Qui stiamo morendo.» «Vieni con me, adesso.» «Dove?» «La prima battaglia è per oggi.» Lo seguì senza un attimo di esitazione; osservava Hawks camminare davanti a lei per la foresta con l'aria di chi si sente a casa propria. Era diventato un vero indiano ora, lei poteva capirlo già dal modo come i suoi piedi toccavano il suolo della foresta. Quante cose aveva da dirgli! Sui feti nati morti e sulla malattia. Ma in quel momento lui era pieno di un solo progetto, avrebbe aspettato a parlargliene quando fosse stato pronto. Il piccolo Cessna bimotore si tuffò sotto la coltre di nubi e Rob e Maggie guardando dal finestrino colsero la loro prima vista della sottostante foresta. Appoggiato contro il sedile, dietro di loro, stava il violoncello di Maggie e, accanto, la borsa da medico di Rob. I simboli delle due personalità che li avevano tenuti tanto a lungo divisi, viaggiavano ora separatamente.
Ore prima, in una frettolosa telefonata, Maggie aveva promesso al direttore dell'orchestra sinfonica che avrebbe continuato a esercitarsi su Schumann durante la sua vacanza di due settimane, purché la sostituissero fino al suo ritorno. Il direttore d'orchestra si era lagnato, ma Maggie aveva saputo essere ferma. Quel momento decisivo della sua vita era stato per lei come una iniezione di vitamina: si sentiva fiduciosa e fiera di avere fatto un primo passo avanti per risolvere il suo dilemma. Dal canto suo, Rob le era grato che fosse partita con lui. Nel limbo del volo si erano sentiti più a loro agio insieme di quanto non accadesse da mesi. Per tutto il tempo del viaggio le loro mani erano state allacciate, si erano raccontati cari e buffi ricordi, entrambi deliziandosi di quella intimità. Erano tutti e due trasportati da una sensazione di benessere, e dal sentimento che tra loro tutto sarebbe andato bene. «È bellissimo,» sussurrò Maggie guardando in basso alberi e laghi. Rob annuì, preso da un senso di timore. «Sai, mi ero dimenticato che il mondo può avere questo aspetto.» «Forse è proprio il nostro guaio, che dici? Non vediamo la foresta a causa degli alberi.» Lui sorrise, apprezzando la battuta. «È proprio vero,» seguitò Maggie pensosamente. «Credo che ci lasciamo talmente assorbire nei particolari che perdiamo di vista il senso globale della vita.» «Quale sarebbe secondo te, Maggie?» Rob glielo domandò in tono scherzoso, ma voleva conoscere veramente il parere di Maggie. «Siamo noi, quello che sta dentro di noi. Se dentro c'è il vuoto, allora la vita non ha senso.» «Ti senti il vuoto, dentro?» Ma lei mantenne un viso serio. «No.» «Nemmeno io. Non in questo momento, comunque.» Si guardarono e Rob la baciò su una guancia. «Possibile che sia tutto vero questo? Ho fatto qualcosa di giusto negli ultimi tempi?» gli domandò Maggie. Rob rise e se la cullò tra le braccia stringendosi la sua testa sul petto, lo sguardo che vagava verso il finestrino. «Sai,» le disse in tono lento e pensoso, «ieri camminavo per le strade di una città dove seimila persone vivono in un solo blocco di appartamenti, impilate una sull'altra e strette fianco a fianco come sardine, e non chiedendo altro che quel tanto di spazio per sdraiarsi la notte e alzarsi il matti-
no.» Maggie alzò gli occhi a guardarlo. Rob teneva gli occhi fissi alla foresta. «E oggi sto volando sopra ottocento chilometri quadrati di una terra superba e intatta che un pugno di uomini pretende debba essere tutta soltanto per loro.» Rob scosse la testa perplesso, non riusciva a parlare. «I bambini muoiono di malnutrizione e gli agricoltori buttano le scorte eccedenti di latte nelle fogne.» «Perché lo fanno?...» «Per far salire i prezzi.» «È spaventoso!» «Ecco, Maggie, il senso globale che ha la vita. Profitto. I casamenti popolari... gli alberi.. la fame...» La sua voce si spense, negli occhi c'era della disperazione. «Ti posso dire una cosa, Rob?» Maggie parlava in un soffio. «Mmmm.» «Sei meraviglioso a preoccuparti di tutte queste cose. È proprio ciò che, a quanto pare, a me non riesce.» Maggie fece una pausa, concentrandosi; desiderava esprimere con chiarezza il suo pensiero. «Ma quello che preoccupa me, invece, è che tu sembri prendere tutto come se ti sentissi personalmente responsabile.» «Suppongo di esserlo.» «Rob, non puoi fare molto più della tua parte, il mondo è troppo grande.» Lui annuì, guardandola compiaciuto. «Hai mai letto Piccolo è bello?» gli domandò Maggie. «Che cos'è?» «Proprio quel che ha l'aria di essere. Un libro.» Lui abbassò lo sguardo sui libri che avevano dormito per tutto il viaggio sui suoi ginocchi. «Scommetto che non regge il paragone con Colture Idroponiche e Rischi Industriali,» motteggiò. «Questo sì che è un libro eccitante.» «Allora, ti prego, non dirmi come va a finire!» scherzò lei di rimando. Ma lui sorrise tra sé con aria triste scuotendo la testa. «Ho paura di saperlo, come va a finire. Ho proprio paura di sì.» L'aereo calò in picchiata e comparve l'aeroporto Androscoggin Non era che una strisciolina di cemento assediata dalla foresta. Sulla strada di ghiaietto che portava all'aeroporto Rob scorse due automobili gialle in un polverone, che avanzavano velocemente dirette sulla pista di atterraggio.
Atterrarono in pochi minuti e Rob e Maggie scesero nel vento frizzante. Per loro fu come un tonico. Avidamente ci immersero il naso con la faccia rovesciata indietro e gli occhi chiusi, beandosi di quel lavaggio vivificante «Ummm, senti l'odore!» mugolava Maggie estasiata. «Pino.» «Voglio imbottigliarlo e portarmelo a casa.» «Laggiù ce n'è quanto ne vuoi. Guarda quei monti!» Proprio accanto a loro sulla pista d'atterraggio un uomo e una donna stavano assicurando a terra il loro aereo privato, mentre i due figli, un ragazzo di dieci anni e una ragazza di dodici, uscivano in gridolini gioiosi cercando intanto i loro bagagli. Il ragazzino vide Rob che lo guardava e gli gridò: «Andate in campeggio?» «Più o meno,» gli rispose Rob. «Staremo in una baita.» «Noi invece staremo fuori! Su una montagna, proprio vicino a una cascata. Ci vorran tre giorni di marcia solo per arrivarci!» «Sarà dura, mi sa,» gli disse Maggie. «Lì sta il bello!» gridò con esuberanza il ragazzo. Vicino a lui, sua sorella stava ora facendosi schermo agli occhi guardando il cielo. «Cosa diavolo è quello?» domandò. Rob e Maggie alzarono la testa a guardare e restarono stupefatti. Un cane enorme penzolava dall'estremità di una corda attaccata al fondo di un elicottero che si stava avvicinando. Era un bracco, le sue quattro zampe fendevano l'aria come stesse nuotando invece che volare, e la coda gli ruotava come se istintivamente cercasse di funzionare da elica. «Ma è un cane!» rise il ragazzo. «Un cane volante!» Anche Maggie rise, girandosi verso Rob: «Cosa dici che stanno facendo?» «Mai visto niente di più strano,» brontolò Rob soprappensiero. Si guardò intorno sulla pista, e si accorse che tutti gli altri erano rimasti attoniti come lui, tutti strizzavano gli occhi osservando il cielo, coperto ma luminoso. Poi Rob notò le due automobili gialle che aveva già visto dall'aereo. Portavano l'emblema della Pitney Paper Mill e sterzarono sulla pista proprio accanto a loro. «Il signor Vern?» L'uomo che si sporgeva dal finestrino di guida della prima auto aveva una faccia tonda, gote rosee, una prematura calvizie e un caloroso, simpa-
tico sorriso. Uscì di macchina rivelando una certa pinguedine intorno alla vita e andò verso di loro con passo dondolante e la mano tesa. «Bethel Isely,» si presentò. «Pitney Paper Mill. Avete fatto un buon volo?» Rob sapeva che sarebbero andati a prenderlo all'aeroporto, ma non che avrebbero mandato dei rappresentanti della cartiera. «Uhmm... sì...» borbottò, mentre l'uomo gli stringeva la mano. «Le presento mia moglie, Maggie Vern...» «Piacere, signora Vern...» «Salve,» rispose Maggie. «Sono davvero felice che sia venuta, signora Vern. Sarebbe stato un peccato perdersi una simile occasione, no?» Lesse il disagio negli occhi di Rob. «Spero che non le spiaccia che io sia venuto a prenderla. I funzionari locali non sanno esattamente come si arriva nel posto dove siete sistemati, così ho pensato che forse potevo essere di aiuto.» Rob fu lento a rispondergli. «Per dire la verità, non mi sembra corretto farmi accompagnare proprio dalla Pitney Paper Mill...» «Comprendo perfettamente. Vi chiamo subito un taxi. Solo, di solito i taxi nella foresta non ci vanno.» «E allora come ci si va?» «Auto private. È questo il biglietto. Vi noleggiamo una macchina noi. Avevo pensato di risparmiarvi questo disturbo portandone una in più con me, ma va benissimo. Io desidero soltanto che lei possa fare tutto ciò che vuole.» «È molto gentile da parte sua,» disse Maggie. «Non vorrei che vi capitassero noie,» rispose Isely. «Ho persino inscatolato un po' di viveri, così per qualche giorno credo che avrete tutto quel che può occorrervi. Mia moglie insisteva per cucinarvi qualche cosa lei, ma io le ho detto: no, cara, non farlo o penseranno che cerchiamo di fare delle pressioni su di loro.» «Sono veramente addolorato di sembrarle un ingrato,» disse Rob. «Capisco perfettamente,» rispose Isely. «Quello è un Rogeri, vero?» domandò poi a Maggie indicando il suo violoncello. «Un Montagna,» rispose lei, stupita. «S'intende di violoncelli?» «M'intendo di legno. Quello ha un dorso di pino di balsamo, un ventre di abete, e un ponte di acero... Ci sono tre diversi alberi, lì dentro.» «Interessante,» mormorò Maggie.
«Sa,» proseguì imperterrito Isely, «nel mondo non avremmo tanta bella musica se la gente non abbattesse gli alberi.» Rob non poté trattenere una risata. «Fortuna che non vuole fare pressioni.» «Ci vado troppo pesante?» ribatté Isely, sorridendo. «Non importa,» rispose Rob. Quell'uomo, nonostante la sua impudenza, gli piaceva. «Be', intendo essere schietto, e sono a vostra disposizione per questa faccenda,» disse Isely. «Il suo viaggio qui per me è veramente di grande importanza. Ho voluto venirle incontro all'aeroporto, perché non pensasse che avrebbe trovato in me un nemico. Anche noi del legname siamo esseri umani. E non desideriamo fare niente di scorretto o ingiusto, non più di quanto voi desideriate che noi si faccia.» «Apprezzo molto quel che mi dice.» «Sentite, se volete noleggiare una macchina, per conto mio d'accordo, però preferirei condurvi io sul posto. Se mi date ascolto il tempo di arrivare sino al lago, dopo vi lascerò in pace tutti e due.» Rob colse l'espressione sulla faccia di Maggie. Era chiaro che a lei dispiaceva che l'uomo si sentisse svilito. «D'accordo,» disse Rob. «Lei è molto gentile,» dichiarò Isely. Poi si voltò verso le due auto. «Kelso? Venite fuori a prendere i bagagli dei signori; Johnny, tu prendi il violoncello e bada di trattarlo con cura. Costa un mucchio di soldi.» Cinque uomini saltarono fuori della macchina posteggiata dietro a quella di Isely e cominciarono a caricare il loro bagaglio. Indossavano dei blusotti scozzesi sopra maglie bianche a maniche lunghe, i loro stivali erano incrostati di fango. Evidentemente erano dei tagliaboschi. «Signora Vern? Vuole accomodarsi davanti?» domandò Isely. «Mi permette una domanda sola?» domandò Maggie. «Tutto quel che vuole.» Socchiuse gli occhi alzando la faccia verso il cielo seguendo il bracco, che ora si trovava sospeso quasi sopra le loro teste e veniva lentamente calato a terra. «Cosa ci fa quel cane lassù per aria?» «Questi elicotteri non si possono permettere degli spostamenti di peso improvvisi. Lo trasportano da fuori, così almeno sanno che sta sempre nello stesso posto.» «Da dove l'hanno portato?» seguitò Maggie.
«Dalle montagne.» «Be', se l'è vista piuttosto brutta, quel cane.» Sia Rob sia Maggie capirono che Isely stava nascondendo qualcosa. «Cucciolo di qualcuno?» domandò Maggie. «No... non proprio.» Rob fissò Isely dritto negli occhi. «Andiamo, che razza di misero è?» «Oh, nessun mistero, se è per questo. Quel bracco faceva parte della nostra squadra di ricerca e soccorso. Almeno, immagino che sia lo stesso cane. Non credo ci siano altri bracchi, da queste parti.» «Qualcuno che s'è perso?» domandò Maggie. Isely accennò di sì. «Gente della nostra società, si dà il caso. Un paio di tagliaboschi. Partirono per un turno speciale e non fecero più ritorno.» «Non li hanno ritrovati?» La faccia di Isely si incupì, i suoi occhi seguivano la discesa a terra del bracco. «No, signor Vern.» «Cosa ritiene che sia potuto accadergli?» «Oh, non saprei... si saranno perduti, immagino.» Chiaramente Isely liquidava il discorso. «Siamo pronti?» Lo seguirono alla macchina, Maggie sempre con gli occhi sul bracco che ora annaspava nell'aria, le zampe già quasi a terra. «Così, hanno semplicemente rinunciato? Il gruppo di soccorso torna indietro?» Isely si fermò e rifletté se era il caso di parlare o no. «Non c'è più nessuna squadra di soccorso, signora Vern.» Rob e Maggie si guardarono sconcertati. «Non capisco,» disse Rob. «Tre uomini e due cani sono entrati là dentro. È tornato soltanto un cane. S'è presentato a una stazione forestale; della gente che l'aveva con sé non abbiamo saputo più nulla.» «E a loro cosa è accaduto?» Isely scosse la testa. «Si saran persi anche loro, immagino.» «Una squadra di soccorso?» esclamò Maggie. «È possibile?» Ormai Isely s'era spinto troppo in là e non aveva più modo di cavarsela tirandosi indietro. Fece segno a Maggie e Rob e si appartarono. «Sentite, qui stiamo cercando di comportarci tutti onestamente, così vi dirò la verità. Questa particolare foresta, in questo momento, non è troppo sicura. Era per questo che avevo pensato fosse meglio accompagnarvi dentro io stesso.» «Come mai?» chiese Rob.
«Gli indiani là dentro sono furiosi. Stan facendo di tutto per tenere lontana la gente della cartiera dalla foresta.» Rob e Maggie ascoltavano, pieni di tensione, e a disagio «Voi però non avete nessun bisogno di preoccuparvi. Non oserebbero immischiarsi con quelli del governo. Quello che sta succedendo qui è una specie di lite in famiglia.» «Sta dicendoci che gli indiani avrebbero fatto del male a quella gente?» gli domandò Rob. «Questo è terribilmente difficile da provare. Non ce n'è nessuna di prova. Dico che in questo preciso momento le cose con gli indiani si sono messe veramente piuttosto male.» «Li avete interrogati?» «Sì. Lo sceriffo.» «E loro, cosa dicono?» «Che non ne sanno niente. Che quella gente è stata portata via da Katahdin.» «E cosa sarebbe Katahdin?» domandò Rob. Isely scosse la testa, con aria tra cupa e divertita. «Una delle loro leggende. Lo chiamano Katahdin.» «Sarebbe a dire, una specie di orco?» domandò Maggie. «Più o meno. Solo che questo è parecchio più brutto. Grosso come un drago, con gli occhi da gatto, un intruglio con dentro di tutto. A proposito di intrugli, mia moglie vi ha fatto una crostata di ciliegie. Ce l'ho qui in macchina.» Fece il giro della macchina e si sistemò al posto di guida. Rob e Maggie si scambiarono un lungo sguardo prima di fare la stessa cosa. «Questa idea di Kathadin,» proseguì Isely mentre chiudeva la sua portiera, «è per spaventare i tagliaboschi e tenerli lontani. Sono superstiziosi peggio degli stessi PAO.» «Pao?» ripeté Rob. «PAO. Sta per Popolazione Americana Originaria. È così che si chiamano loro. Ashinabeg, masaquoddy, wampanoag, yurok, si sono uniti e si sono dati il nome PAO.» Inserì la chiave d'accensione e avviò il motore. «Ma, e quelle persone?» domandò Maggie con aria preoccupata. «Quelle persone scomparse, intendo, lei cosa dice?» «Una cosa sola posso dirle, signora Vern, è che se dipendeva da me, non era una squadra di soccorso che avrei mandato laggiù, ma un drappello
dello sceriffo.» «Lei allora è convinto che siano stati gli indiani a fare del male a quella gente.» Isely cercò gli occhi di Rob al di là di Maggie. «Signor Vern, là dentro vanno in giro come ubriachi per la maggior parte del tempo. È una cosa dannatamente triste, ma vera. I miei uomini li han visti sbattere contro gli alberi della foresta senza sapere quel che si facevano. Abbiamo sentito di un indiano che è finito diritto nel lago ed è annegato. Un altro si è fatto vedere qui all'ospedale, a Manatee, tutto pieno di tagli, ferite da coltello, perché il fratello l'aveva aggredito.» Rob e Maggie restarono in silenzio. «Temo proprio che non ci sia altra spiegazione all'infuori dell'alcool.» «E dove se lo procurano?» domandò Rob. «Non sappiamo. Da quando è cominciata questa follia, a Manatee è proibito a tutti vendergliene.» Maggie si voltò a guardare Rob, angosciata. «Insomma... lei ci sta dicendo... che quelle persone sono sparite perché gli indiani hanno fatto loro qualcosa di male.» «Signora Vern, una squadra di soccorso non si perde. E nemmeno i miei uomini si perdono.» Ingranò la marcia, e le due auto lentamente uscirono dall'aeroporto. Dall'aeroporto la corsa in macchina li portò attraverso la cittadina di Manatee. La sua unica strada centrale sembrava costruita per una cartolina illustrata. C'erano tre chiese, due negozi, un ufficio postale, una biblioteca, una prigione, il tutto in fila con ordine un edificio dopo l'altro. Ma vi aleggiava una curiosa solitudine. Per le strade girava poca gente. I rami ancora nudi degli alberi erano battuti dal vento con suoni di solfeggio. A una decina di chilometri da Manatee svoltarono su una strada in terra battuta, seguiti da vicino dalla seconda macchina ingolfata nel loro polverone, e si tuffarono nella foresta. Isely spiegò che la strada che stavano percorrendo scompariva ogni inverno sotto la neve e a primavera bisognava sempre riscavarla di nuovo con i bulldozer. Comunque era un lavoro imperfetto: Isely si teneva saldo al volante che sobbalzava in risposta ai ciottoli profondamente incastrati nello stretto corridoio che correva nell'interminabile distesa d'alberi d'alto fusto. Il discorso era caduto adesso sull'argomento cartiere, e Rob restò colpito dalla conoscenza di cui dava prova Isely: non c'era molto che quell'uomo non sapesse, inclusi gli standard EPA e i loro regolamenti per la lavorazio-
ne della pasta-legno. «Ora, questa faccenda delle cartiere che rovinano la foresta, è un puro mito,» stava dicendo Isely mentre si addentravano sempre di più nella foresta. «Noi abbiamo una lavorazione di pasta-legno su piccola scala in funzione in riva al fiume Espee da ormai vent'anni. Piantiamo ogni volta che tagliamo, e quella terra è più stabile oggi di quando Dio l'ha fatta.» Rob prese l'informazione cum grano salis. Dalle proprie ricerche sapeva che ci volevano un centinaio di anni perché un abete rosso diventasse grosso anche solo quanto una gamba d'uomo. Isely gli lanciò un'occhiata e lesse il suo scetticismo. «Per dargli quel che gli è dovuto,» aggiunse, «bisogna riconoscere che Dio non aveva la scienza moderna per aiuto. Non disponeva di idroponica, tecnica di silvicoltura o procedimenti di analisi chimica per determinare l'erosione del suolo.» «Oh, penso che se la sia cavata abbastanza bene anche così, viste le circostanze,» disse Rob. «E considerata la sua istruzione inferiore,» aggiunse Maggie. Isely rise. Era un suo talento particolare quello di sapersi unire alle risate degli altri quando a farne le spese era lui stesso. «Di dove siete voi, di Washington?» «New York,» rispose Rob. «E lei?» «Proprio qui.» «Il suo accento è meridionale.» «Accidenti! E io che pensavo di averlo perso. Stavo solo provando per vedere se riuscivate a indovinarlo.» Rob ridacchiò. Decisamente c'era qualcosa di simpatico in quell'uomo. «Sono di Atlanta. Ho vissuto là tutta la vita. È così che ho beccato questo lavoro. Ho cominciato a fare relazioni pubbliche per la Pitney Paper Mill laggiù.» «Perché poi Atlanta?» «È là che stanno tutti gli uffici della sede centrale.» «La Pitney Paper Mill ha la sua base in Georgia?» «Oh, sì! Tutte le industrie del legname vengono da fuori. Però ci appartiene oltre metà della terra del Maine e di conseguenza siamo proprio di casa qui. È il nostro cortile e, mi creda, ne avremo molta cura.» Per Rob, questa particolare informazione fu raggelante. Le foreste del Maine erano in possesso di proprietari assenteisti. Era l'identica situazione delle case popolari. Le industrie del legname, protette dalla lontananza, po-
tevano essere altrettanto spietate dei proprietari degli slums. Non toccava a loro vedere la miseria, o vivere con lo squallore che le loro azioni potevano causare. D'un tratto la macchina rallentò; Isely sospirò esasperato. Davanti a loro un pittoresco gruppo di indiani si era materializzato fuori del fogliame circostante, occupando il centro della strada, evidentemente intenzionato a bloccare la macchina. Vestivano non molto diversamente dai tagliaboschi con bluse scozzesi, jeans, stivali; stavano fermi immobili, saldi, spalla a spalla. Ed era evidente che erano pronti a venire alle mani. «Che succede?» domandò Rob quando Isely ebbe fermata la macchina. «Succede qualcosa di illegale, ecco che succede.» «Chi sono?» domandò Maggie. «Quei PAO che vi dicevo.» «Che cosa vogliono?» «Adesso lo sapremo.» Infatti un indiano stava avanzando verso di loro. Era alto, dai lineamenti delicati; indosso aveva un abito più nuovo di quello degli altri. La sua giacca di pelle sulle spalle era ornata di frange; la fibbia della sua cintura era lucente e nuova. Le facoltà deduttive di Rob gli dissero che quell'uomo era appena arrivato nella foresta. Si avvicinò alla macchina con passo elastico e lento e il piglio autoritario di un vigile stradale di Washington. Sostò alla portiera di Isely mettendo una mano sul bordo del finestrino: Rob notò le sue unghie pulite. Si domandò se fosse davvero un indiano. «Il signor Hawks, vero?» s'informò Isely. «Precisamente,» rispose Hawks. «Avevo sentito dire che lei veniva dalle nostre parti... piacere di conoscerla.» L'uomo si chinò e li scrutò in faccia uno a uno. «Lei chi è?» domandò a Isely. «Il mio nome è Bethel Isely.» «Così, lei è Isely.» Era chiaro che il nome non gli andava. «Qui ci sono il signor Vern e sua moglie,» spiegò Isely. «Sono dell'EPA. Le sarei grato se ci volesse lasciar libero il passaggio.» Gli occhi di Hawks si inchiodarono a quelli di Rob, che vi lesse una forza spaventosa. Maggie distolse lo sguardo, mettendosi a guardare dal parabrezza la strada davanti a lei. Uno degli indiani, notò, era una donna. Le due donne incrociarono gli sguardi. Gli occhi di Romona sfavillavano fissandola con intensa attenzione.
«Mi avevano detto che lei sarebbe venuto qui per lavorare in modo indipendente,» disse Hawks a Rob. «Questo avevano detto i senatori.» «Io sto lavorando in modo indipendente,» replicò Rob. Ma restò stupito nell'udire il suono della propria voce, tanto più debole e incerta gli sembrava, paragonata a quella dell'indiano. «E allora com'è che si trova su questa macchina?» lo sfidò Hawks. Rob strinse i denti. L'aveva saputo sin dall'inizio che quello sarebbe stato un errore. «Si trova su questa macchina, perché io l'ho persuaso a entrarci,» s'interpose Isely. «Sono andato io a prenderlo all'aeroporto, per condurlo qui, perché temevo che accadesse appunto qualcosa di questo genere.» «Ha fatto una scelta pessima,» disse Hawks. «Nessuna macchina della cartiera passa da qui.» Isely rispose con un sogghigno di incredulità. Guardò Rob, poi di nuovo Hawks. «Questo è illegale, signor Hawks,» ammonì. «Secondo quali criteri lei sceglie le leggi che non è illegale trasgredire?» «Senta, io non starò qui seduto a polemizzare con lei. La Corte Suprema ha emanato un ordine contro questo blocco.» «La Corte Suprema non ha mai convalidato il Trattato Nove. Questa terra è nostra. Noi abbiamo il diritto di trovarci qui.» Si avvicinava la donna indiana. Andò a fermarsi proprio a fianco di Hawks, quasi intendesse sostenerlo perché non cedesse. «Ah, Romona,» disse freddamente Isely. «Signor Isely,» ribatté Romona sullo stesso tono. «Fa parte anche lei di questa faccenda, Romona?» La bocca di lei si strinse. «Per nascita, signor Isely.» «Vi state cacciando tutti in un mare di guai,» disse Isely. «Questo è un fatto, signor Isely,» replicò lei. Di nuovo i suoi occhi incontrarono lo sguardo di Maggie. Maggie si sentì intirizzire sotto quello sguardo. Isely sospirò a lungo, gli occhi fissi davanti alla strada. «Possiamo andarci a piedi?» s'informò Rob. «Sedici chilometri?» «Non c'è un'altra strada?» «Temo proprio di no.» «Allora si torna indietro,» decise Rob. Ma Isely lo ignorò e si girò verso Hawks.
«John, le voglio dire una cosa.» «Signor Hawks,» corresse Hawks. «Signor Hawks... le dò un minuto per dire ai suoi amici di togliersi di mezzo.» «È subito fatto, signor Isely.» Fece dietrofront e rivolto ai suoi uomini dette il segnale di tirarsi da parte. Eseguirono, rivelando una massiccia catena metallica, tesa, e chiusa da un lucchetto, tra due alberi ai due lati della strada. Isely avvampò, tutto il suo corpo parve accendersi di collera. «Immagino che non servirà a nulla chiederle di aprire la serratura di quel lucchetto, vero?» «Provi,» disse Hawks. «Per favore, vuole aprire quel lucchetto?» «No.» Isely uscì rapido dalla macchina. «Kelso?» chiamò rivolto alla macchina dietro di loro. «Segare quei due alberi, per favore.» In macchina Rob e Maggie si guardarono spaventati. D'un tratto il silenzio alle loro spalle fu rotto dal brusio di un motore. Uno dei tagliaboschi, il più grosso di tutti, era uscito di macchina con in mano una sega portatile già accesa. Di colpo ci fu movimento. Gli indiani arretrarono, i tagliaboschi avanzarono, Hawks corse come un razzo alla catena e tirò su un'ascia a lungo manico sollevandola alta sopra la sua testa quasi in segno di avvertimento. «Ora, ascolti un po', John...» cominciò Isely. Ma Hawks lo interruppe. «Mi chiamo signor Hawks!» gridò soverchiando il fragore della sega. «Signor Hawks, tutto questo è semplicemente idiota!» «Non passerete!» Hawks aveva gli occhi ardenti come un selvaggio, e ora nella sua espressione si vedeva la paura. Rob fu di colpo fuori dell'auto e prese per un braccio Isely. «Le ho già detto che non voglio entrare.» «Lo voglio io.» «Non vedo a che scopo.» «Allo scopo di non lasciarsi intimidire.» «Ascolti...» «Se noi ce ne andiamo adesso, ci verremo a trovare in un pasticcio infernale. Quelli torneranno a casa a dire agli altri che l'hanno spuntata, e la prossima volta, saranno tre volte tanti. È una cosa che va arrestata subito,
ora!» «Se mai ci va di mezzo qualcuno...» «Non ci va di mezzo nessuno... stanno soltanto bluffando.» Si girò verso i suoi uomini. «Kelso! Tirali giù!» Il tagliaboschi avanzò con la sega in mano. Rob gli poteva vedere in faccia la voglia che aveva di pestare. Era più grosso di Hawks, lo superava di peso, ed era a caccia di sangue. Letteralmente sorrideva, i denti macchiati di nicotina messi in mostra da un ghigno minaccioso, mentre dalle labbra gli sfuggiva una specie di goloso squittio, come un risolino infantile. Romona si teneva ritta e ferma accanto a Hawks di nuovo, con le braccia lungo i fianchi e le mani a pugno chiuso; aveva la mascella rigida, sembrava prepararsi a ricevere uno schiaffo. Hawks tese in fuori un braccio allontanandola gentilmente, e guardando il tagliaboschi calare su di lui. «Rob!» venne dall'auto il grido di Maggie. «Non permetta che questo avvenga, Isely,» gridò Rob. «Vuole farsi da parte, signor Hawks?» gridò Isely a Hawks. Hawks alzò l'ascia e se la portò all'altezza del petto. «Prima di tagliare questi alberi dovrete tagliare la testa a me!» «Come vuole lei,» replicò Isely. «Kelso, butta giù quell'albero!» «Aspetti un momento,» gridò Rob, ma la sua voce fu soffocata dal rumore della sega che colpiva l'albero. Quel che accadde subito dopo fu un pandemonio. Nell'istante in cui la corteccia dell'albero venne colpita dalla sega, Hawks faceva schizzare via la sega con il manico della sua ascia; per un attimo i due uomini si guardarono come due gladiatori. Poi le loro armi cozzarono in uno sfavillio di metallo. «Fermi!» urlò Maggie. Ma era troppo tardi. Gli uomini erano in lotta, girandosi attorno in cerchi e parando i colpi dell'avversario, mentre tutti gli altri correvano avanti e parlavano tutti insieme. «John, no!» gridò Romona. «Isely, lo fermi,» esclamò Rob. «Kelso!» L'aria vibrava del clangore dei metalli, tutti i presenti arretravano, spaventati e increduli. La sega saettava in avanti, e l'ascia fendeva l'aria con un ampio arco, i due uomini ruotavano e si schivavano, allargando sempre di più l'area del loro duello. Il tagliaboschi era chiaramente all'offensiva, Hawks limitandosi a servirsi della sua arma per difendersi, deviando e sal-
tando di lato continuamente mentre la sega affettava l'aria intorno alla sua testa. In un colpo frastornante sega e testa dell'ascia cozzarono duramente e Hawks perse l'equilibrio, barcollò all'indietro e cadde. Il tagliaboschi gli balzò incontro, ma cozzò nel piede di Hawks che lo colpì duramente in pieno petto, respingendolo. E allora Hawks fu in piedi in un lampo e passò all'attacco lanciando un terrificante grido di guerra e ruotando per aria la sua ascia, alzata sopra la testa. Il tagliaboschi cadde all'indietro sul cofano di un'auto e Hawks gli balzò addosso immobilizzandolo con l'ascia alla gola. Ora il tagliaboschi era inerme, gli occhi gli strabuzzavano dalle orbite mentre Hawks premeva sempre più forte. «Basta così!» avvertì Isely. «Lascialo!» «Molla la sega!» urlò Hawks. «Mollala, Kelso,» comandò Isely. Ma il tagliaboschi non ne volle sapere. Con i denti in mostra ringhiò come un animale e il suo ginocchio scattò improvvisamente in alto colpendo Hawks tra le gambe. Tutto il corpo di Hawks rabbrividì, ma lui tenne duro, calcando ancora più forte contro il manico dell'ascia. Il tagliaboschi fece partire un'altra ginocchiata e Hawks si indebolì. «Fermateli!» urlava Maggie. Il tagliaboschi, raccogliendo tutte le sue forze, colpì per la terza volta; l'impatto era paralizzante e Hawks indietreggiò mollando la presa. Lottò per ricuperare terreno, ma il tagliaboschi gli affondò uno stivale nello stomaco con un calcio pauroso, che piegò Hawks in due; e allora il tagliaboschi gli dette un calcio in piena faccia. L'urto lo fece ruzzolare all'indietro, cadde, e il tagliaboschi balzò su di lui. Hawks ruzzolò via un attimo prima che la sega colpisse lì dove c'era stata la sua testa. Adesso i due uomini rotolavano a terra avvinghiati, Hawks cercando di tenere a bada la sega con il manico d'ascia. Ma il manico di legno si spezzò in tanti frammenti grandi come fiammiferi e allora, d'un tratto, cessò ogni movimento. Hawks giacque immobile a terra, gli occhi spalancati sul tagliaboschi mentre la sega si abbassava sino a pochi centimetri dal suo pomo d'Adamo. «Decidi!» gli ringhiò il tagliaboschi. «La tua testa o quegli alberi!» «Voi distruggete quella foresta, e la foresta distruggerà voi!» «L'hai voluta,» urlò il tagliaboschi calando la sega sino a scalfirgli la carne. «Fermo!» urlò Rob correndo avanti. «Fermo! Lo lasci!» «Lascialo! Kelso!» gli urlò Isely.
«Gli dica di aprire quella catena, allora,» urlò in risposta il tagliaboschi. «Apra la catena, Hawks,» gli chiese Isely. «No!» urlò Hawks alla sua gente. «Non aprite!» «Io lo voglio ammazzare,» ringhiò il tagliaboschi. «La apra,» gridò Rob. «No!» gridò Hawks di nuovo. Rob si voltò verso Romona. La vide con gli occhi sbarrati di paura. «Apra quella catena!» le gridò Rob. «La apra, dannazione! Cosa credete di provare a questo modo?» «Che sono degli assassini!» «Non aprire, Romona!» gridò Hawks. «Assassini!» urlò Romona a Isely. «No!» urlò Rob rivolto a Romona. «Così non provate un accidenti di niente. Il blocco è contro la legge. Questa gente ha il diritto di passare. Voi li avete fermati. Avete usato un'arma! Quest'uomo morirà qui e non sarà servito a niente perché non proverete niente di un dannato niente!» La sega elettrica rigò il collo di Hawks e un filo rosso cominciò ad allungarsi. Gli occhi di Romona erano terrorizzati. «Chiunque sia a tenere quella chiave,» dichiarò Rob quasi in un singhiozzo, «è colpevole di omicidio!» «Non aprite!» giunse l'ordine rauco di Hawks mentre un rivolo di sangue cominciava a fluire dalla sua gola. «Lo ammazzo!» gridò il tagliaboschi. Con un lampo Romona corse al gruppo degli indiani, strappò via la catena di una chiave dalla cintura di un uomo, e in un attimo fu al lucchetto. «No!» urlò Hawks. Romona aprì e alzò subito alte le mani aperte avvertendo con un gesto che era fatto. Di colpo ci fu silenzio. La sega a catena tacque. Nessuno si muoveva. Intorno a loro la foresta era avvolta in una immobilità di morte. Il tagliaboschi stava sempre sopra a Hawks, fulminandolo con occhi di ferocia. Poi gli sputò in faccia. Hawks restò immobile. L'altro si alzò con grande lentezza e gli scalciò addosso con aria di trionfo. «Se non ci fosse una signora bianca qui presente,» ruggì tra i denti, «ti piscerei sopra.» Si voltò e partì per la macchina seguito dagli altri tagliaboschi. Le porte dell'auto sbatterono una per una su di loro. «Sono spiacente di tutto questo, Hawks,» disse Isely, piano. «Sinceramente.» Poi si avviò alla sua auto. «Signor Vern?» chiamò guardando Rob.
Rob era fermo vicino a Hawks e stava osservandolo attentamente. Poteva sentire quel che l'uomo stava passando in quel momento. «Come si sente?» domandò a bassa voce a Hawks. Hawks non risposte. Non si mosse. Lo sputo del tagliaboschi gli stava ancora in faccia; aveva una lacerazione sulla pelle della gola, dove il sangue rapidamente si stava coagulando. Rob scorse anche qualcosa d'altro. Un luccicare umido agli angoli degli occhi di Hawks. «Qui non c'è niente che si possa fare,» disse Isely. Rob fece un cenno di assenso, lentamente, e si avviò alla macchina. Prese posto accanto a Maggie, che guardava sempre la donna indiana. Voltava loro le spalle, la testa era abbassata, la fronte poggiata contro un albero. Maggie sapeva che la donna stava piangendo. «Avrei dato non so cosa perché non fosse accaduto,» disse Isely, «solo... proprio non me l'aspettavo che avrebbe lottato.» «Partiamo,» brontolò Rob. Le due auto gialle della Pitney Paper Mill lentamente partirono, oltrepassarono la catena e corsero nella foresta. 7 Il viaggio in macchina dal blocco al lago di Mary si svolse in silenzio; Rob, Maggie e Isely erano sconvolti dall'inaspettata e improvvisa violenza cui avevano assistito. Isely aveva fatto un debole tentativo di giustificarsi per la sua ostinazione nel voler rompere il blocco; disse qualcosa sugli indiani, che erano dei bambini cocciuti e avevano bisogno di severità. Parlava a dei sordi. Rob e Maggie rifiutarono di rispondere. Raggiunsero la sponda del lago che era quasi notte. Sulla superficie dell'acqua c'era un velo di nebbia impalpabile; rondini calavano basse in silenziose acrobazie. L'acqua levigata a specchio era screziata dalle bocche dei pesci affamati che a loro volta competevano con le rondini nella caccia a quella delicatezza di piatto che veniva servito a tutti soltanto una volta all'anno: le effimere. Rob aveva letto qualcosa sulle effimere quando era uno studente del primo corso di biologia, e questo aveva lasciato su di lui un'impressione duratura. Perché il ciclo vitale delle effimere era unico nel progetto evolutivo. Dopo una incubazione di dodici mesi nel fango del fondo del lago, questi minuti insetti trasparenti come ragnatele non avevano altro che una notte di vita. In quella notte, si schiudevano dalle uova e risalivano l'acqua
a nuoto, predati dai pesci mentre cercavano la salvezza della superficie. Quelli che ce la facevano, rapidi mettevano le ali e prendevano il volo, divorati dagli uccelli mentre si affannavano verso la luce della luna. I pochi che sopravvivevano, s'incontravano alti nel cielo, i loro corpi si univano, maschio e femmina, e in quell'istante di unione la fertilizzazione aveva luogo. Al mattino cadevano morti sulla superficie dell'acqua espellendo le uova nelle convulsioni dell'agonia. Le uova lentamente scivolavano verso il basso, dove per dodici mesi avrebbero dormito aspettando quella sola, unica notte di coscienza. Quando Rob per la prima volta aveva letto di questo ciclo vitale, in lui erano scattati degli interrogativi ai quali non era mai stato in grado di dare una risposta. L'effimera veniva e andava, non chiedendo niente, non prendendo niente, viveva e moriva nel breve attimo che la natura le aveva assegnato. Nel corso di quelle dodici ore, esistevano giovinezza e vecchiaia? Conquista di conoscenza? Era possibile che, a causa della loro dimensione, i loro minuti fossero ore, e le loro ore, anni? L'uomo stesso, chissà, se visto attraverso gli occhi di una creatura più grande, potrebbe allora essere percepito come se vivesse e morisse in un breve battito di ciglio? Fermo insieme a Màggie sulla sponda del lago, Rob ricordò questi antichi interrogativi. Forse era proprio questo bisogno d'interrogare che aveva l'uomo l'origine dei suoi tormenti. Senza le domande, niente resterebbe senza risposta. Forse la sua stessa vita era identica a quella dell'effimera, senza altro scopo, al di fuori di quelli che si inventava, che non fosse quello di perpetuare la vita stessa. «Guarda gli uccelli!» gli sussurrò Maggie. «Effimere,» rispose Rob. Poi le prese una mano e saltarono nel piccolo canotto che Isely aveva lasciato lì per loro. Aveva lasciato anche un'auto perché potessero essere liberi di andare in città o di spostarsi per la foresta in qualsiasi momento avessero voluto. Non fosse stato per l'esplosione di violenza al blocco, tutto sarebbe stato proprio ideale. Ma Rob e Maggie adesso si sentivano feriti. Forse in maniera irreparabile. Il loro piccolo motore fuoribordo ronzò mentre la barca rompeva l'ininterrotta superficie dell'acqua; gli uccelli si tuffavano intorno a loro e i pesci saltavano sull'acqua senza affatto risentirsi della loro presenza. Davanti a loro, nel mezzo del lago, sorgeva una piccola isola, giusto il pinnacolo di una montagna acquatica che rompeva a malapena la pelle dell'acqua sorreggendo un boschetto di pini. Sull'isola si vedeva una sola e unica capanna. Era piccola, fatta di tronchi d'albero e calcina, con davanti una veranda
che dava sull'approdo, una banchina illuminata da una tremolante luce di un faro. «Sembra carino, qui,» disse Maggie, mentre la barca accostava lenta la banchina. Ma in realtà non lo sembrava. Il luogo appariva isolato e funesto. La capanna aveva un'aria silenziosa e buia come se fosse stata disabitata da anni. «Tieni in fuori quel remo, d'accordo?» Seguì le istruzioni di Rob badando a che la barca non sbattesse nella banchina. Legarono la barca e poi stettero per un po' seduti lì in silenzio. Era tale la quiete che si potevano udire respirare a vicenda. «Dobbiamo uscire alla svelta da questa faccenda,» disse Rob piano. «Lo so.» Uscirono dal canotto, sulla banchina il fruscio dei loro passi risuonava nell'aria. Il cielo era striato d'arancione; un pallido telone d'azzurro sullo sfondo andava mutandosi in grigio. La luna era pallida e quasi piena, offuscata da uno sciame di effimere che si levavano come una nube dalla superficie del lago. Rob si fermò un istante a osservarla prima di entrare nella baita. «Be', non è niente male,» disse Maggie, sollevata. Rob s'impadronì lesto di una lampada al kerosene che si accese con un sibilo: si guardarono in quella bianca cruda luce. «Il focolare!» esclamò Rob. Era fatto di pietra e occupava tutta una parete. «Capperi,» fu tutto quel che riuscì a dire Maggie. «Non è male, sai, Maggie. Il posto lo è davvero, carino.» Lei si costrinse a un sorriso coraggioso. «Vero?» «È bello,» disse Rob. Rob esplorò gli armadi e scoprì che qualcuno si era dato parecchio da fare perché la cabina fosse ben rifornita e accogliente per il loro arrivo. Lì c'era tutto ciò di cui potevano aver bisogno. Cibo in scatola in quantità, martello e chiodi, candela e fiammiferi, un astuccio da pronto soccorso, persino un gioco di Scrabble. Il divano e la poltrona disposti davanti al camino erano nuovi, la cucina a gas era stata pulita e lustrata di recente, c'era un'antiquata ghiacciaia già fornita di un lingotto di ghiaccio e grandi caraffe di acqua minerale erano in fila sull'acquaio nella zona della cucina. L'intera baita era in realtà un'unica grande stanza, ma l'area del cucinino era a un livello più basso del soggiorno e il solaio ricavato sopra di essa creava un soppalco in cui era alloggiato un letto. Maggie salì la scala stret-
ta e ripida che portava al solaio e vi trovò un letto matrimoniale con una coperta imbottita di piume rannicchiato proprio sotto il cornicione. Aveva un'aria gradevole e calmò la sua apprensione. Andò alla ringhiera del solaio e guardò in giù verso Rob. «Niente bagno?» domandò. «Credo di no.» «Oioi.» «Troppo dura?» «Oh, no!» rispose Maggie con coraggio. «Non ci sono interruttori della luce, sopra, vero?» «Temo di no.» «Suppongo che diventeremo selvaggi.» «Suppongo di sì.» «Te la senti?» «Puoi scommetterci.» Ci fu una pausa. «Margaret?» «Sissignore?» «Sarà carino qui.» «Lo so.» Si misero entrambi al lavoro; Maggie disfece le valigie mentre Rob accendeva un'altra lampada e poi si occupava del fuoco nel camino gargantuesco. Sopra il camino, sistemate a guisa di spade incrociate, c'erano due pagaie da canoa; Rob si affrettò a tirarle giù nel timore che le lambissero le fiamme. Con la sua esperienza di ispettore della Sanità, sapeva bene che quel posto poteva incendiarsi tutto come un'esca. «E per cena?» chiamò Maggie da sopra. «Be'... abbiamo la roba in scatola e la crostata di ciliegie della signora Isely.» «Non mi sento entusiasta della torta della signora, Isely,» disse Maggie. Rob esitò, scorgendo una lenza in un angolo. «Che ne diresti di trote fresche per cena?» «Come no!» «Ne vuoi un po'?» «Puoi scommetterci. E anche delle patatine arrosto.» «Le pulisci tu?» «Le patatine arrosto?» «Le trote.»
«Quali trote?» «Il pesce che sto andando a pescare.» Maggie si affacciò al di sopra della ringhiera del solaio, interrogativa. Lui le mostrò la canna da pesca e scomparve. Maggie ristette un lungo momento a guardare in basso la stanza della baita. Il fuoco ardeva, i grossi ceppi sibilando e scricchiando riempivano l'aria del profumo di pino. Scese e tirò fuori il violoncello, sistemò una sedia al centro della stanza dove l'alone del fuoco l'avrebbe riscaldata. Mentre Rob cercava la pace a modo suo, lei l'avrebbe trovata a modo proprio. Strinse il suo archetto e accordò lo strumento con tocchi lievi sul fascio delle corde in alto. Poi cominciò a suonare. La musica riempì la piccola stanza; il suo dolce suono attenuava la tensione di quella giornata. In piedi sulla banchina immersa nel crepuscolo, Rob udì la musica che colmò anche lui di un senso di pace. La musica si diffondeva dalla porta aperta della baita e fluttuava sul lago espandendosi, finché parve raggiungere i picchi stessi dei lontani monti. Rob sapeva di essere un uomo fortunato, privilegiato in tutti i modi. Si domandò perché si concedesse tanto poco tempo per apprezzarlo. Lontano, oltre il lago, lungo le acque basse della costa si profilava la figura di un grosso animale a quattro zampe che pascolava pacifico e silenzioso. Si fermò e alzò la testa, come se stesse ascoltando la musica. Rob poteva vedere che si trattava di un alce. Accanto aveva un piccolo; anche lui guardava in direzione dello strano suono musicale. Rob desiderò subito che Maggie potesse vederlo e stava per chiamarla quando a un tratto un pesce agganciò l'estremità della sua lenza. Era un piccolo salmone, che saltava e si inarcava mentre Rob lo tirava a riva, e cessò presto di dibattersi. Rob se lo tirò sulla banchina, lo agganciò sotto la branchia col dito, sollevandolo per esaminarlo e ne ammirò la lucente silhouette stagliata sullo sfondo del cielo che imbruniva. Fu un attimo di perfetta bellezza; Rob volle prolungarlo e assaporarlo. Si sfilò la cintura e vi legò il pesce, poi si sdraiò sulla banchina e restò in contemplazione del cielo. Cominciavano a spuntare le stelle, più brillanti di quanto non le avesse mai viste, e il cielo aveva una profondità che gli dette la sensazione di guardare diritto nell'eternità. Ma quell'istante venne di colpo distrutto. Nell'acqua si udì un rumore risonante, come se qualcuno avesse scagliato un masso enorme. Rob si ritrovò di schianto seduto, la testa protesa verso la direzione del rumore. A sei metri da lui, l'acqua era stata agitata, i cerchi si allargavano verso l'esterno per fondersi presto nella quiete.
Lo sguardo di Rob corse alla costa, l'unico luogo possibile da cui poteva essere gettato un sasso. Laggiù non c'era niente, solo ombre e silenzio. L'acqua ora era di nuovo liscia. Una brezza lieve vagò attraverso il lago portandosi dietro l'odore della notte selvaggia. Una notte oscura, umida e piena di mistero. Rob perlustrò la superficie del lago e scorse un'ombra sottile e scura che gli veniva incontro nella foschia. Era una piccola anitra nera che parlottava contenta tra sé mentre veniva nuotando tranquilla verso la sponda a mettersi al riparo per la notte. Appariva del tutto inconsapevole della presenza di Rob, veniva proprio all'approdo. Rob sedeva senza muoversi. Poteva vedere luccicare gli occhi dell'anatra che avanzava su di lui. Ma all'improvviso dette uno strillo. Le sue ali sbatterono in uno sforzo spasmodico di volo mentre qualcosa la trascinava in basso sott'acqua. In una frazione di secondo era scomparsa. La maretta nell'acqua era lì a dimostrare la sua breve lotta e già si calmava rapidamente. Rob sedeva immobile. Impietrito. Poi lo vide. Era a trenta centimetri soltanto dal punto in cui era scomparsa l'anatra. Un ingrossamento onduloso nell'acqua, che stava a indicare che lì era sfrecciato qualcosa di grosso appena al di sotto del pelo dell'acqua. Il lago si era fuso con il buio del cielo e Rob dovette affidarsi speranzoso alla luce della luna mentre seguiva con occhi avidi tutti i vortici e le ondulazioni scintillanti. Qualsiasi cosa fossero, ce n'erano parecchi, probabilmente si azzuffavano sui resti dell'anatra. E d'un tratto qualcosa emerse in un grande spruzzo. Era un pesce. Un salmone. Spropositato, gargantuesco. Lungo almeno un metro e mezzo con una circonferenza sulla taglia del corpo d'un uomo. Saettò verso l'alto nell'aria, il suo corpo vibrante mentre attraversava il cerchio di luna. Ripiombò nell'acqua con un tonfo strepitoso e turbolento, come il rumore d'un masso scagliato da grande altezza. Poi tutto fu silenzio. Era svanita ogni traccia di movimento. Rob stette a osservare l'acqua che andava ricoprendosi di nebbiolina sulla superficie, finché la nebbia si fece così spessa che tutto ne fu oscurato. Al chiaro della luna, il lago aveva ora assunto un aspetto ultraterreno, pareva un cratere di vapore. Rob prese il suo pesce e si raddrizzò, con le gambe molli e tremanti; lentamente si diresse alla baita. Su una lontana spiaggia del lago, John Hawks sedeva solo, nell'oscurità, lo sguardo fisso sull'isola. Alle finestre della capanna di tronchi si vedevano laggiù minuscoli puntini di luce. Ricordava di quando era ragazzo, e del
senso di mistero che era allora intorno a quell'isola. A quel tempo non c'era nessuna capanna, lì; i bambini indiani usavano l'isola come banco di prova del loro coraggio. Quando uno di loro riusciva a fare il percorso avanti e indietro dalla sponda all'isola senza fermarsi, specialmente di notte, aveva fatto un grande passo verso l'integrazione nei ranghi degli anziani. Correva voce che uno spirito abitasse l'isola. Uno spirito furioso, il cui volto e la cui forma erano insolitamente belli. Secondo la leggenda, lo spirito era stato bandito dall'isola da fratellastri gelosi, e nella solitudine era diventato demente. I rumori dell'alba e dell'imbrunire gli venivano tutti attribuiti; il grido della strolaga, il richiamo dell'alce. Lo spirito era chiamato N'ayah'an'tak'tah. Tradotto letteralmente significava Il Matto Bello. Era anche il nome dell'isola. La capanna sull'isola l'aveva fatta costruire Morris Pitney, e da allora l'isola fu dichiarata luogo vietato per gli indiani. Molti ritenevano che fosse per questo che i Pitney erano morti improvvisamente a due mesi di distanza l'uno dall'altro. Li aveva uccisi Il Matto Bello. I metodi dello spirito erano stati strani. I Pitney avevano l'abitudine di dormire, come fanno di solito tutti i bianchi, con la bocca aperta. E Il Matto Bello era una donna; i suoi seni erano pieni di veleno. Mentre dormivano, aveva versato il veleno dentro le loro bocche. Quando Hawks ricordava leggende come queste, capiva perché i bianchi considerassero gli indiani come dei bambini. Ciò che i bianchi non capivano era che un'immaginazione sfrenata è un dono da custodire con cura, un dono che ha soltanto l'uomo. Gli indiani che si facevano assimilare dal mondo dei bianchi lo perdevano in fretta, quel dono. Per conservarlo, ci voleva un nutrimento attento. Il vecchio, M'rai, lo aveva nutrito bene. Le sue visioni immaginose erano di una cristallina limpidezza, e lui sapeva descriverle così dettagliatamente da farle sembrare vere. Dopo lo scontro al blocco, Romona aveva portato Hawks al campo del vecchio e gli aveva curato le ferite con radice di valeriana e muschio di torba. Questo aveva lenito il dolore della carne ma non quello dello spirito. Nelle ore successive Hawks era rimasto a sedere in silenzio, fissando il fuoco nell'accampamento del vecchio mentre M'rai intesseva racconti sulle creature della foresta. Parlava di K'harah'nitah, la sua laguna segreta, un posto dove i girini, diceva, diventavano tanto grossi che si potevano mangiare come fossero del pesce Dove i geometrini misuravano metà della lunghezza di una mano d'uomo. Il vecchio aveva sollecitato entrambi a recarsi con lui allo stagno per ve-
derli, ma avevano rifiutato. Non avrebbero invaso la segreta laguna. Non l'avrebbero deluso col mostrargli che non riuscivano a vedere quel che lui vedeva. Dopo che M'rai si era ritirato, Hawks e Romona erano rimasti zitti, gli occhi sulle braci ardenti nel fuoco. Quando Romona aveva bisbigliato il suo nome, Hawks si era alzato ed era uscito da solo nella foresta. E adesso, seduto in riva al lago, ripassava nella sua mente i fatti accaduti al blocco della strada, tentando di strapparli alla confusione in cui si erano svolti. Si domandò se quando tutto era cominciato lui già avesse saputo che era pronto a dare la sua vita, e si domandò se quelli che erano morti combattendo per ciò in cui credevano avessero posseduto questa consapevolezza. John Hawks non riusciva a concepirsi come un uomo che invecchia. Non è che pensasse di dover restare sempre giovane. Semplicemente, nella sua immaginazione c'era un vuoto, come se per lui il futuro non esistesse. Dai fogliami bui alle sue spalle Hawks intese il rumore del movimento. Ma, per istinto, sapeva che non c'era nulla da temere. I grilli continuavano a stridere indicando così che in giro non c'era nessuna minaccia incombente. Di notte, i loro cori significavano che nell'aria c'era buona volontà. Quando nell'aria c'erano sentimenti malevoli, quando un uomo, per esempio, camminava irato o un predatore era a caccia, i grilli zittivano subito. «John?...» Romona. Emerse con grazia, come una mobile ombra, e scivolò a sedere al suo fianco. Nel buio, lui la sentì tutta quanta. Il suo profumo era come cuoio e pino. Benché i loro corpi non si sfiorassero neppure, era come se lui li sentisse uniti. Si sentiva la pelle del corpo reagire alla vicinanza di lei come una vaga sensazione, una specie di formicolio dal lato in cui era seduta lei. Si voltò e non le vide che gli occhi. Brillanti come quelli di un animale mentre lei contemplava l'isola che pareva galleggiare sospesa nella nebbia. «Pensi che dormano con la bocca aperta?» sussurrò lei. Hawks sorrise. Sedettero per un po' in silenzio, guardando entrambi il lago. «Il tuo orgoglio ti ucciderà, John,» disse lei in tono dolce. «L'hai preso dai bianchi. Non ti serve a nulla.» Hawks si girò verso di lei, il suo umore già indurito sotto l'offesa. «L'ho preso dagli indiani,» disse. «C'è una differenza tra la dignità e l'orgoglio.»
«Credi?» Lei annuì. Quando parlò, il suo tono era dolce e affettuoso. «La dignità ti viene dalla consapevolezza di ciò che non puoi fare. L'orgoglio è l'opposto.» Hawks si distolse da lei. «Sei andata di nuovo a guardare i dizionari,» le disse. «Sì.» Lei si spostò, facendoglisi più vicina, sperando che lui si girasse. Ma lui non si girò. «Noi non abbiamo bisogno che tu muori per noi, John,» gli disse. «Abbiamo bisogno che tu viva per noi. Abbiamo bisogno di te per guarire dalle nostre ferite, non per aggravarcele. Sbagliavo quando ti dissi che avrei lottato al tuo fianco. Io non sapevo che tu avevi l'intenzione di morire.» «Non ne avevo l'intenzione,» rispose lui gentilmente. «Ero disposto a farlo.» «Sei arrabbiato con me perché non te l'ho permesso?» Mentre le sue parole lo penetravano e lui capiva, ricordò che cosa significava stare con Romona. Possedeva una saggezza che oltrepassava la sua facciata. Alla sua domanda, riuscì a rispondere soltanto con una scossa della testa. «Non lo so,» sussurrò infine. «Se tu fossi morto oggi, sarebbe stata la morte di un bambino cocciuto. Se tu vuoi morire per aiutare la tua gente, non morire prima di averla aiutata.» Hawks fissava le piccole onde che lambivano la spiaggia. Il corpo di un gambero d'acqua dolce scintillava nella luna mentre andava cercando tra i ciottoli che luccicavano appena sotto la superficie dell'acqua. «Non ho molto da dare, eccetto la vita.» «Ci sono tante cose che tu ancora non sai. Molto che è avvenuto in questa foresta e che tu ignori ancora.» «Parli dei Katahnas?» «L'hai saputo?» «Si.» «Sai dei parti di feti nati morti?» Hawks la guardò perplesso. «No.» «I nostri corpi si sono ammalati, stanno andando in rovina. E le nostre menti stanno andando in rovina. Il nostro ventre è acido come il latte delle mammelle di N'ayah'an-'tak'tah.» Lei alzò gli occhi ai suoi e lo fissò; par-
lava con calma intensità. «Le nostre donne stanno mettendo al mondo dei bambini gravemente deformati. Quest'anno ne abbiamo avuti otto. Sei sono nati morti. Due sono stati uccisi.» Fece una pausa, provando repulsione per l'immagine che le era sfrecciata nella mente. «Questi bambini sono... incompleti. Somigliano molto ad animali.» Hawks le vedeva negli occhi il dolore che provava. Scosse la testa, incapace di capire. «Stiamo morendo,» disse lei. La sua voce ora tremava. «La nostra gente qui sta morendo.» «Qualcuno sa di tutto questo?» «Nessuno. Soltanto io. Le donne si vergognano di farlo sapere.» «Perché non ne hai parlato a nessuno?» «Perché avevo paura.» Hawks si alzò in piedi e guardò verso l'isola. Vedeva le ombre muoversi alle finestre della piccola capanna, e udiva la musica diffondersi per il lago. Mentre lui era lì a sentire la campana suonare a morto per la sua gente, loro stavano ascoltando musica. La sua mascella si serrò per la collera. «In città sono arrabbiati con noi,» disse Romona. «Dicono che abbiamo ucciso la loro gente. Avevo paura a riferire loro quello che sapevo.» Hawks abbassò lo sguardo su di lei. «Chi è che ha ucciso la loro gente?» «Nessun indiano ha ucciso la loro gente.» «Chi è stato?» «Nessuno lo sa.» Romona alzò gli occhi a guardarlo, i suoi occhi erano vulnerabili e impotenti. «Di chi ci possiamo fidare, John?» Hawks strinse i pugni. In un momento in cui loro avevano più che mai bisogno di sfidare il mondo bianco, eccoli costretti a dover dipendere dai bianchi. Con la loro salute che vacillava, non c'era niente altro da fare. «Cosa dici di quelli del governo?» domandò Romona. La bocca di Hawks si torse in un ghigno. «Gli ultimi di cui fidarsi sono quelli del governo.» «Lui mi è sembrato un uomo buono. Potevo vedere che era un uomo buono.» «A noi serve un medico. Non un politico.» «Allora vieni con me in città,» lo sollecitò. Hawks abbassò gli occhi a guardarla. «Il dottor Pope?» «Sì.»
«Non ci sarà di nessun aiuto.» Hawks conosceva bene Winston Pope. Era l'unico medico locale ed era sulla lista paga della cartiera. I suoi principali servizi erano le cure di emergenza ai tagliaboschi e il trattamento delle loro famiglie. Una volta all'anno faceva un giro obbligatorio per i villaggi indiani per le vaccinazioni, ma lo faceva con risentimento, come se stesse vaccinando altrettanti capi di bestiame contro l'afta epizootica. Adesso che gli indiani e la fabbrica del legname lottavano in un corpo a corpo, non era probabile che il dottor Pope sentisse della simpatia per loro. «Quante sono le donne incinte nel villaggio?» «In questo momento solo due.» «Le portiamo a Portland.» «Non vorranno andarci.» «Le persuaderai.» «Si vergognano...» «Un medico bianco non si fa centotrenta chilometri da Portland fin qui soltanto per visitare due indiane incinte!» Di colpo i grilli cessarono il loro canto. Anche Romona si ritrasse per la durezza nella voce di Hawks. «Farò quel che posso,» bisbigliò. Poi si alzò per andarsene. «Mona.» Si fermò e si volse a guardarlo. Lui mosse lento verso di lei, il suo volto emerse nel chiaro di luna. Era segnato dall'angoscia. «Non andartene.» «Non c'è niente altro da dire.» «Lo so,» mormorò lui. Lei lo guardò esitante, e lui abbassò il capo, non sapendo come esprimersi. «Sai che cosa dice mio nonno, John? Sulle parole?» Lui scosse il capo. «Che gli uomini le hanno inventate per mascherare i propri sentimenti.» Quando Hawks alzò gli occhi a guardarla, i suoi erano umidi. «Sono contenta che tu sia ancora capace di paura, John,» sussurrò lei. «Temevo che in te la parte umana fosse scomparsa.» Dall'oscurità circostante i grilli lentamente ripresero i loro cori. «Te lo assicuro, Maggie. Era un record mondiale. Era più di un record mondiale Non ho mai sentito dire che esistesse al mondo un salmone così
enorme.» Rob misurava a grandi passi la stanza centrale della capanna, mentre Maggie, in cucina, badava a preparare il piccolo salmone catturato da lui. Rob era agitato e sbalordito, incapace di credere di avere visto veramente quel che aveva visto. «Era lungo almeno un metro e venti'» esclamò. «Be',» disse Maggie spargendo sale sui tranci di salmone sfrigolanti, «questa era o no la terra di Paul Bunyan? E del bue gigante, caro?» «Era il Maine?» «Certo!» «Ti dirò, forse c'era del vero in quella storia. Può darsi che Paul Bunyan sia esistito.» Maggie rise. In certo senso si stava godendo il suo sbalordimento. Era riposante vederlo per una volta tanto così sconcertato. Metteva in luce il suo lato fanciullesco. «Quel pesce era un gigante. Voglio dire, era un mostro, un fenomeno. E sembrava che ce ne fossero anche diversi.» «Forse tornerai a casa con un trofeo.» «Così, tu non mi credi.» «Io ai pescatori credo sempre.» «Credi che non sappia quel che ho visto?» «È scappato, non è così?» «Maggie.» Rob entrò in cucina e le fece segno di guardarlo. «Sono un uomo sobrio. Più che sobrio. Sono uno scienziato.» «Sei un uomo brillante.» lo canzonò lei teneramente. «Non mi stai prendendo sul serio.» «Sì, invece. Passami quella forchetta, vuoi?» «Ti dico che ho visto il pesce più grosso mai visto in tutta la mia vita.» «Alla luce della luna...» «Sì, era buio.» Lei lanciò a Rob uno sguardo giocoso e affondò la forchetta nel pesce che sfrigolava. «Vostro Onore, il mio cliente dice che ha visto il pesce più grosso mai visto in vita sua. Ora, il fatto che fuori fosse buio pesto non ha niente a che vedere con la sua testimonianza.» Rob stette zitto, rendendosi conto a un tratto che Maggie poteva anche aver ragione. «Pensi che non l'abbia visto?» «Sono il tuo avvocato difensore. Credo a tutto quello che mi dici.»
«Forse al buio pareva più grosso, eh?» «Vostro Onore, dichiariamo una temporanea insanità mentale.» «Ma ha mangiato un'anitra, Maggie!» «Vostro Onore, ha mangiato un'anitra.» «L'ho visto!» «Domani cerca di catturarlo. Forse saprà di anitra.» Rob levò le mani in segno di resa. Maggie soppresse una risatina mentre soffiava su una forchettata di pesce bollente, e con precauzione se la portò alla bocca. «Potrebbe anche essere stato un anatroccolo, suppongo,» borbottò Rob. Poi si riprese, e per non pensarci più si sporse a prendere i tovaglioli di carta e li mise in tavola. «Mmmm...» gemette Maggie in estasi masticando il pesce. «Assaggialo un po'!» Gliene imboccò una forchettata. Rob stralunò gli occhi in segno di approvazione. «Ambrosia...» confermò deliziato. «Questo è il solo cibo che voglio mangiare fin tanto che resteremo qui, niente altro. Voglio pesce a colazione, a pranzo e a cena!» «Nessun problema.» Rob prese dei piatti e li mise in tavola. «Si dà il caso che io sia di fatto uno dei più grandi pescatori del mondo.» «Tu pesca che io mangio,» replicò Maggie avvolgendosi un asciugapiatti intorno a una mano per prendere la casseruola a tre piedi. «Bene, ecco quel che si dice un rapporto.» Mentre lei stava per mettere il pesce in tavola, lui si chinò e la baciò sul collo. Questo la fermò a mezzo. «Quanto è bello, questo,» sussurrò lei. Si girò e i loro occhi si incontrarono; erano tutti e due pieni di una reciproca ammirazione. «Mi ero scordata che poteva essere così,» disse lei. «Anch'io.» Maggie si sentì prossima al pianto e ne fu imbarazzata. «Ti va di dare un'occhiata alla nostra lista dei vini?» domandò Rob. «Oh, va bene il mio solito.» «Château Lafitte?» «Mogen David.» «Mogen David, pronti!» Ruotò, si chinò su una cassetta di ghiaccio, e in tavola apparve una bot-
tiglia di vino. «Dove diavolo l'hai preso?» rise lei. «Era qui.» «L'ha lasciato qualcuno?» «Con i complimenti del signor Isely, senza dubbio.» «Ah! Vino e torta di ciliegie!» «Che vuoi, gli altri burocrati sono trattati a Rolls-Royce a Natale e vacanze estive tutto compreso. A me, mi corrompono con vino e torta di ciliegie.» «All'inferno,» disse Maggie sedendosi a tavola. «A me le Rolls-Royce non piacciono.» «Neanche a me.» «Però non mi piace nemmeno il signor Isely.» «Neanche a me.» «Versa il vino e tira fuori la torta.» «Corruzione, corruzione...» Maggie ridacchiò, e così fece Rob. Erano riusciti felicemente a scuotersi di dosso i paurosi fatti di quella giornata, e qualunque cosa incombesse ancora davanti o dietro a loro, erano eccitati e radiosi. La cena trascorse scandita da altre battute sulla storia del pesce di Rob, e da un bel po' di silenzi mentre si contemplavano con tenerezza e bevevano il vino. Il fuoco era caduto ora, ardevano i soli tizzoni; da fuori arrivavano i suoni della foresta: un coro di insetti notturni, il grido di un falco che volteggiava alto sopra di loro. Rob si appoggiò alla spalliera della sedia, guardando Maggie, crogiolandosi nella beata serenità di quell'ora. Lei versò quanto restava del vino nel proprio bicchiere e lo bevve tutto chiudendo gli occhi mentre ascoltava i suoni della foresta. «I boschi... sono incantevoli, scuri, e profondi...» bisbigliò, recitando i versi della sua poesia prediletta. «E io debbo mantenere una promessa...» Rob sorrise. I suoi tre bicchieri di vino avevano fatto il loro effetto. «Il mio cavallino dà una scossa al campanello dei finimenti,» continuò lei, «come per chiedere se c'è qualche errore...» Non riusciva a ricordare il resto e aprì gli occhi; il suo sguardo vagò come cercasse le parole mancanti. «Ai finimenti,» disse Rob alzando il suo bicchiere. «Agli errori,» rispose lei pensosa.
«Ai boschi.» «Non bisogna dimenticare i boschi.» «Scuri e profondi...» Maggie alzò il suo bicchiere vuoto accanto a quello di Rob e sorrise con tristezza. «E alle promesse... che dobbiamo mantenere.» Maggie richiuse gli occhi; lievemente stordita, lievemente euforica, lievemente malinconica. Rob si alzò e inserì una cassetta nel registratore; riempì la stanza di dolce musica. Si avvicinò a Maggie, i cui occhi erano chiusi, la testa appoggiata tra le sue mani, e le toccò i capelli. Lei fece un rumore simile a un ronron di gattino. Prendendola per mano, la condusse al sofà. Si sedettero insieme, lei con la testa sulle ginocchia di Rob, felice del calore del fuoco vicino. «Vuoi sapere una cosa?» lei mormorò. «Hmmmmm.» «Oggi ero orgogliosa di te.» Lui annuì, ricordando gli eventi del bosco. «Non era una cosa... pazza, di'?» sussurrò lui. «Eri così coraggioso.» «Ero spaventato.» «Non lo mostravi.» «Non osavo.» «La vita non sarebbe più facile,» disse lei, la sua voce alzandosi lievemente di tono, «se noi non avessimo paura di mostrare che abbiamo paura...» «Troppo vino?» sussurrò Rob. «Non abbastanza.» «No?» «Ancora spaventata di avere paura...» Rob sorrise. Era un po' partita. Ed era assolutamente bella. La sua mano si tese a carezzarle la fronte, poi le passò dolcemente le mani sulle palpebre. Lei respirò profondamente e si rannicchiò più vicina. «La donna indiana?» Maggie sussurrò. «Mmmm?» «Ero gelosa di lei.» «Davvero?» «Lei aveva il vero coraggio... Essere forti quando si è spaventati... reclamare il proprio diritto. È quel tipo di coraggio che a me sembra che manchi.»
«Oh, sai, penso che ci voglia un mucchio di coraggio per stare con me e sopportarmi, no?» «Io ti amo,» rispose lei. Rob si chinò e la baciò. E lei accettò il bacio senza una mossa, poi sorrise mentre assaporava. «Qualche volta... ti amo tanto,» disse poi, «... che desidererei che di te ce ne fosse di più.» «Be', potrei mettere su un altri dieci chili.» «Voglio dire .. desidererei che fossimo di più noi.» Raccolta nel buio delle sue palpebre chiuse, si rese conto di quel che aveva detto. Non ne aveva avuta l'intenzione, era venuto fuori da sé. Aprì gli occhi e vide che aveva prodotto il suo effetto. L'espressione di Rob si era incupita. «Potremmo parlarne?» chiese lei in un bisbiglio. «Adesso?» «Perché non adesso?» «Tutto è così perfetto, adesso.» «Capisco.» Poteva sentire il muro alzarsi tra di loro. Così fuggevole, così fragile era l'intimità, che poche parole bastavano per distruggerla, frantumarla. Mentalmente Maggie lottò per schiarirsi le idee e si sforzò di scuotersi di dosso la nebbiosità del vino. «O siamo troppo lontani... o siamo troppo vicini. È così?» La figura di Rob si afflosciò affaticata, sprofondò la testa indietro nel divano. Maggie lentamente si tirò su a sedere; un senso di solitudine a un tratto la pervadeva. «Solo... a parlarne?» sussurrò. «Basta questo a sciupare tutto?» «Conosci il mio modo di pensarla, Maggie,» rispose lui triste. «Intendi, come la pensi circa il mondo in generale.» «Sì.» Lei si sfregò la fronte. Stava perdendo coraggio e fiducia. Rimpianse d'aver bevuto: più di ogni altra cosa voleva essere eloquente. Aveva provato e riprovato tra sé in così tante maniere diverse questo dialogo, e adesso era così impreparata. «Senti, Rob,» bisbigliò. «Quando ero piccola, mia madre mi diceva di mangiare tutto quello che avevo nel piatto perché al mondo c'erano i bambini che morivano di fame. E questo non mi riusciva di capirlo.» Levò gli occhi, cercando di cogliere il suo sguardo, ma lui stava fissando nel fuoco. «E adesso... mi dici che non dovrei restare incinta, perché al mondo ci so-
no i bambini che muoiono di fame. E neanche questo mi riesce di capire.» «Io lo capisco.» «Che cos'è, Rob?» gli chiese con dolcezza. «Hai forse paura?» Lui si alzò dal divano e andò accanto al fuoco, lo sguardo perduto sulle fiammelle dei tizzoni semispenti. «È questo, Rob? Hai paura?» domandò lei. «Non so, Maggie,» rispose lui in un sussurro. Poi scrollò la testa in muta disperazione. «Non so più niente su un mucchio di cose, Maggie.» La sobrietà stava tornando a Maggie. Si rese conto che mai prima di allora aveva sentito Rob rassegnarsi a dire che era in stato di confusione. In tutti gli anni in cui erano stati insieme, non l'aveva mai visto incerto. Ciò le dette speranza. Guardava e aspettava, voleva che lui dicesse di più. «Mi sento come se...» I suoi occhi scrutavano intorno, come se cercassero le parole. «Come se... fossi stato in una gara su pista da corsa a centosessanta chilometri all'ora... e fossi tornato al punto da cui ero partito.» Il suo sguardo ritornò sul fuoco. «E oltretutto nella gara non c'era nessun altro.» Maggie ne fu profondamente commossa. Sapeva di avere ascoltato una confessione che lui non avrebbe condiviso con nessun altro al mondo. «Ti posso aiutare?» gli domandò con voce tremante. I loro occhi si incontrarono e non si lasciarono. Lui si avvicinò lentamente, le si inginocchiò davanti e stette a guardarla diritto negli occhi. «Mi sono sentito tanto vicino a te, questa sera.» Lei annuì e alzando una mano gli toccò dolcemente la guancia. «Non possiamo stare semplicemente così, per un po'?» le domandò. «Semplicemente vicini?» La sua tenerezza era talmente irresistibile che lei non poté fare a meno di pensare che qualche piccolo passo era stato fatto. «Sì,» sussurrò. Le labbra di lui le si avvicinarono e lei gli andò tra le braccia, i loro corpi si fusero in un abbraccio stretto, intimo, quasi disperato. Lei appoggiò la faccia sopra la sua spalla e chiuse gli occhi quasi in preghiera. Non meno di lui aveva il desiderio di proteggere questa loro intimità. Avevano due settimane da passare lì. Avrebbe aspettato sino alla fine. «Andiamo di sopra?» gli sussurrò. Lui accennò di sì e le prese la mano, guidandola su per la stretta scala sino alla cameretta del solaio, dove si spogliarono e scivolarono sotto il morbido piumino marrone. Dal camino le luci del fuoco giocavano sui traversini al di sopra di loro, e la cassetta che suonava musica sinfonica tac-
que, e non ci fu altro rumore che il loro respiro mentre facevano l'amore. Era intenso e appassionato, travolti insieme in un singolo movimento; Maggie gemeva mentre si sentiva sollevata da una forza irresistibile a un vertice che la fece gridare forte e scoppiare in lacrime. Poi si aggrappò a Rob. Lui le carezzava i capelli, come per consolarla. Poi ci fu silenzio, e Maggie restò a guardare le ombre del fuoco danzare sul soffitto con Rob che le dormiva tra le braccia. Fu Maggie a udirlo per prima. Un rumore debole, quasi inudibile, grattante, che proveniva da fuori, dalle assi in legno della veranda. Smise, sostituito subito da un rapido battito che aebbe in intensità, poi bruscamente cessò. Sentendo il corpo di Maggie tendersi Rob si svegliò. Il rumore riprese. Andava rapido come un trapano elettrico adesso, una vibrazione continua, attutita, proprio fuori della porta d'ingresso. Seduti sul letto, ascoltavano, gli occhi sbarrati per l'apprensione. «Cos'è?» sussurrò Maggie. Rob scosse la testa. «Hai tolto la torcia elettrica dalla valigia?» «È dabbasso.» Rob si alzò in fretta dal letto e avvolgendosi in una coperta scese rapidamente la scala. Trovò la torcia e corse alla porta. Il rumore saliva di intensità e di strepito, facendosi più rapido a ogni attimo che passava. Maggie si alzò anche lei e restò a guardare dal solaio, la sua faccia illuminata dalla luce della torcia che metteva in rilievo l'espressione della paura. «Che cos'è?» sussurrò di nuovo. «Non lo so.» Rob tolse il catenaccio e afferrò la maniglia. Fece una pausa per radunare il suo coraggio. «Non aprire,» gli disse Maggie sottovoce. Lui guardò Maggie, e poi la porta. Poteva letteralmente vedere vibrare le assi dissestate che gli stavano sotto i piedi. Poi, con un movimento brusco, spalancò la porta: il fiato gli si mozzò per lo choc. Ai suoi piedi giaceva un procione, faccia in su, in convulsioni. Aveva gli occhi vitrei e dalla bocca si riversava a fiotti la schiuma, gli artigli tremolanti alla terminazione di ogni arto, tutte le membra scosse in ogni fibra. Rob guardò verso il solaio a Maggie. «Che cos'è?» gridò Maggie di nuovo. «È un...» «Attento!» urlò Maggie. In un improvviso caos di pelo l'animale era scattato in piedi balzando
contro Rob e gli aveva chiusa in una morsa la schiena con le quattro zampe. «Dio! Dio!» pianse forte Maggie. «Gesù!» strillò Rob. Stava roteando e sbalzando per tutta la stanza grottescamente alla luce della torcia ma senza riuscire a scuotere via l'animale, che non mollava e affondava i denti nel suo fianco, con un maligno ringhio che andava alzandosi sino a soverchiare il grido di dolore che sfuggiva a Rob. «Rob!» Riuscì finalmente a strapparsi via la coperta di dosso e l'animale andò a terra cadendo stordito per un attimo; ma rapidamente mise a fuoco Rob e sfrecciò contro di lui un'altra volta. Gli si avventò ai piedi mentre Rob correva in un tentativo di sfuggirgli, e lo addentò proprio sotto la coscia serrandoglisi strettamente avvinghiato alle ginocchia. «Oh! Dio!» singhiozzò Maggie. «Qualcuno ci aiuti!» gridò, fuori di sé. «Coltello!» Maggie corse giù per la ripida scala mentre Rob riusciva finalmente a respingere via l'animale sempre ringhiante e lo scagliava dall'altra parte della stanza: colpì una parete e cadde, con un tonfo rintronante. Schiuma e sangue gli colavano dalla bocca; ma stavolta mise a fuoco Maggie mentre lei correva nella cucina. «No!» urlò Rob. L'animale saettò come un lampo per la stanza mentre Maggie tirava giù un cassetto e coltelli e forchette si rovesciavano a terra intorno a lei. «Attenta!» le gridò Rob. Maggie lo vide appena in tempo. Saltò sul tavolo, e la bestia andò a sbattere in una credenzina proprio al di sotto di lei. Il procione adesso andava in giro senza reggersi più, barcollante, ma sempre in cerca di un nuovo bersaglio. Rob gli urlò contro per richiamare la sua attenzione e deviarlo da Maggie e la bestia partì subito all'attacco scagliandosi con piena furia. Rob corse verso la parete più lontana, inciampò in una pagaia di canoa, che cadde fragorosamente al suolo accanto a lui. Proprio mentre l'animale gli saltava addosso era riuscito ad afferrare da terra la pagaia e rotearla attorno. Centrò il procione direttamente nel ventre, e dall'urto si alzò una sbuffata di polvere; ma il procione si attaccò saldamente alla pagaia, strisciando verso Rob che la stava ruotando nel fuoco. Lo sbatté con un colpo tremendo contro il bordo di pietra del camino e l'animale stramazzò diritto nel fuoco.
Salì in una palla di fiamme. Maggie urlò. Di colpo era tutto finito. L'animale giaceva irrigidito, con la faccia rivolta all'insù, bruciacchiando nelle braci infiammate. Rob ristette in piedi, fermo, nudo, il corpo tutto striato di sangue. Maggie, rannicchiata sulla piccola tavola della cucina, singhiozzava forte. 8 Di primavera l'apertura del concerto all'alba attaccava presto. Le voci stralunate delle strolaghe cominciavano a udirsi già nell'oscurità nell'interludio dell'ora in cui la notte cedeva il passo al giorno. Nel silenzio della sua capanna, Rob udì le voci delle strolaghe e si sentì gelare. Aveva i palmi delle mani sudati; il coltello da macellaio gli si appiccicava alle dita mentre studiava i tessuti del cervello del procione morto i cui pezzi lordavano la tavola della cucina. Aveva già visto prima di allora casi di idrofobia, osservato almeno un centinaio di istologie del cervello eseguite su ratti, gatti e cani degli slums. Qui non aveva a sua disposizione dei microscopi, né coltelli da chirurgo, non aveva altro che un coltello da macellaio e una lente di ingrandimento. Ma i sintomi che stava cercando si sarebbero potuti osservare anche a occhio nudo. Quel che vedeva, era allo stesso tempo un sollievo per lui, e un mistero. Qualunque fosse la malattia, non era rabbia. Ma era qualcosa che Rob non aveva mai visto prima. I tessuti del cervello avevano perso la loro consistenza. Erano semplicemente diventati pappa. Avvolse i resti del procione in carta da giornale, meno un pezzetto della dimensione di un grosso bottone, che sigillò per bene in vaso di Mason. Poi uscì, con il suo pacco fradicio di sangue per depositario in un bidone della spazzatura che stava in un angolo della veranda; appesantì il coperchio con un ciocco di legna da ardere. In mattinata avrebbe sotterrato il tutto. Sapeva che l'odore di carne poteva attirare gli orsi. Restò a guardare il lago che stava prendendo forma a mano a mano che il cielo si rischiarava. La nebbia stava dissolvendosi formando un velo di vapore che oscurava la linea costiera. Rob si fregò gli occhi e tornò nella capanna chiudendosi adagio la porta alle spalle e guardò un attimo verso il solaio. Tutto era tranquillo. Nelle ore che erano seguite all'aggressione, Maggie era stata così tesa che Rob aveva dovuto insistere perché prendesse del va-
lium per dormire. Le era rimasto seduto accanto finché non aveva preso sonno. Poco prima di addormentarsi, lei aveva sussurrato di volersene andare. «È contro di noi,» gli aveva detto. Anche Rob lo sentiva. L'atmosfera intorno a loro era ostile. La violenza al blocco sulla strada, la vista di quell'enorme pesce, l'attacco del procione. Nel breve tempo che erano rimasti lì, avevano subito un attacco su tutti i loro fronti civilizzati. Ma sebbene condividesse il suo disagio, Rob lottò contro l'impulso di partire subito. Aveva un lavoro da fare. Avrebbe solo cercato di farlo nel tempo più breve possibile. Il lavoro di ricerca comportava la raccolta di campioni del suolo, poi doveva scattare alcune fotografie e fare una visita alla cartiera. Se lavorava senza sosta poteva fare tutto nel giro di cinque o sei giorni. Inserì una cassetta nuova nel registratore, poi se lo portò vicino al divano e sedette con il microfono vicinissimo alla bocca per sussurrare il suo messaggio senza svegliare Maggie. «30 maggio...» cominciò. Fece una pausa per controllare l'ora al suo polso. «Ore cinque del mattino. Istologia del cervello. Procione.» Sostò ancora per far scorrere indietro il nastro e assicurarsi che stesse registrando. Poi continuò. «Atrofia corticale nella parte finale anteriore del tessuto nella zona della scissura calcarina... sino agli spessori dei sulci dei lobi laterali... interessante l'ipotalamo, mesencefalo e gangli basali. Striatura di Gennari completamente sparita... prolasso totale del cervelletto.» Si fermò e spense il registratore. Poi lo riaccese. «Causa del danno... ignota.» Spense il registratore e chiuse gli occhi. Mentre si abbandonava al sonno, udì il grido demente delle strolaghe. Nello stesso istante in cui Robert Vern si abbandonava al sonno, una famiglia di campeggiatori si svegliava. Un ragazzo di dieci anni e una ragazza di dodici si agitarono nei loro sacchi a pelo, il padre si stava già dando da fare accendendo un piccolo fuoco sul quale si preparava a cuocere la colazione. Travis Nelson si sentiva a casa sua nella foresta. Era nato e cresciuto nel New Hampshire; suo padre era stato lui stesso un grande appassionato della vita all'aperto e gli aveva insegnato tutto quel che occorreva, dalle qualità di funghi commestibili al modo di sistemare una trappola per conigli. Quella era stata la scuola più preziosa che avesse mai frequentata. Persino se il corso della sua vita lo aveva portato lontano dal mondo selvaggio, dentro di sé aveva sempre provato un senso di sicurezza che gli veniva dal-
la consapevolezza di poter sopravvivere in condizioni primitive. Adesso voleva trasmettere questo sentimento ai propri figli. Di professione, Travis Nelson faceva l'insegnante di storia, impiegato del sistema scolastico a Newton, Massachussetts. Per hobby era un pilota brevettato che per anni aveva messo da parte i piccoli risparmi ricavati dal suo stipendio di insegnante per comprarsi finalmente un suo aereo personale, un Cherokee monomotore. Il battesimo del volo era stato quello da Boston a Manatee proprio il giorno prima. Era la prima vacanza che si prendeva con la sua famiglia. Aveva aspettato finché non se l'era potuta permettere, e aveva aspettato anche che i suoi bambini fossero abbastanza grandi da poter assimilare bene tutte le cose che intendeva insegnare loro. Paul, dieci anni, era un avventuriero nato, e la dodicenne Kathleen era decisa a non essere da meno di suo fratello; quanto alla moglie di Travis, Jeanine, non c'era nulla che la spaventasse. L'unica cosa che l'aveva turbata erano state le parole di una guardia forestale che, mentre si inoltravano nella foresta, li aveva avvertiti che entravano nella Regione Selvaggia di Manatee a loro rischio e pericolo. La gente ci si era persa, lì dentro, aveva detto, e le autorità stavano «indagando». Travis si rammentò del «bracco volante» che avevano visto al loro arrivo all'aeroporto di Manatee: doveva senza dubbio far parte delle «indagini». Quanto a lui, non provava nessun timore. Sapeva come si fa ad aprirsi un sentiero e seguire una bussola, e sapeva anche che un fuoco era più che sufficiente a scoraggiare gli orsi che cacciavano durante la notte. Quel che lo disturbava un poco era la parola «indagine» in sé: suonava così poliziesca. «Papà?» La faccia di suo figlio Paul emergeva dalla piccola apertura della lampo in cima al sacco a pelo. Aveva dormito completamente racchiuso lì dentro come un bruco nel suo bozzolo, per proteggersi dalle zanzare. «Credo di sentirla, sai?» gli sussurrò il ragazzo. «La cascata!» Travis sorrise. «È ancora lontana due giorni di strada.» «E allora che cos'è che sento?» «Il vento, tra gli alberi.» Il ragazzo si rotolò sulla schiena con tutto il sacco a pelo che rotolava con lui. «Di', pensi che pioverà?» domandò poi, scrutando il cielo. «Meglio di no.» «Faremo come hai detto, vero? Dormiremo ciascuno per conto nostro
una notte intera?» «Sei certo che ce la farai?» «Fa un po' paura.» «Non c'è niente che debba farti paura.» «Kathleen pure, lo farà?» «Non lo so.» «Se lei ci riesce, ci riesco anch'io.» La faccia di Kathleen apparve dal suo sacco a pelo. «Io ci riesco.» «Io pure,» ribatté subito Paul. «Be', allora suppongo che ci riusciremo.» Travis sorrideva. «E se rotoliamo giù dallo scoglio?» domandò Kathleen. «Non dormiremo mica vicino allo scoglio.» «Forse sarebbe meglio che dormissimo in fondo alla cascata invece che in cima,» osservò Kathleen. «Forse. Vedremo.» Paul si mise ginocchioni dentro il suo sacco a pelo e avanzò a piccoli salti sino al fuoco. «Non riesco a liberare questa,» disse tirando dall'interno la sua chiusura lampo. Suo padre gli passò una mano sotto il mento e con uno strattone tirò giù la lampo. «Secondo me, dovremmo vivere come facevano gli indiani una volta,» disse Paul, uscendo dal sacco a pelo. «Voglio dire, mangiare soltanto quel che catturiamo noi.» «Mi sembra una buona idea, sai,» gli rispose suo padre. «Per caso, durante la notte ho catturato una piccola pancetta.» «Come hai fatto?» domandò Kathleen. «Era soltanto uno scherzo, tonta,» disse Paul. «Lo so, tonto,» rispose in tono stanco Kathleen. «Anche il mio era uno scherzo.» «Oh'» Travis ridacchiò e intanto disponeva sul fuoco le striscioline di pancetta. Aveva progettato quella vacanza per più di un anno e adesso sentiva che avrebbe soddisfatto pienamente tutte le sue aspettative. A mezzogiorno Robert Vern era già sveglio di nuovo e senza indugio aveva dato inizio alla sua ricerca. Maggie era ancora scossa, spaventata di restare sola nella baita; lo accompagnava attraverso la foresta restando a guardarlo raccogliere campioni di suolo che lui andava riponendo nelle piccole fiale che gli tintinnavano nelle tasche della giacca quando cam-
minava. Era l'unico rumore che udissero mentre si spostavano tra gli alberi. La giornata era coperta, la nebbia mattutina era indugiata creando intorno a loro una cappa opprimente di umido e un'atmosfera ovattata di silenzio. Lo spesso tappeto di selci su cui camminavano era fradicio e ambedue avevano i pantaloni bagnati sino all'altezza delle cosce. «Guarda laggiù,» disse Rob puntando una mano. Maggie seguì il suo gesto e vide in alto, sporgente oltre gli alberi, qualcosa che sembrava un tetto di assicelle di legno, a meno di un chilometro forse da loro. «Si direbbe un capanno sull'albero,» osservò Maggie. «È una stazione di guardia forestale. Credo che da lì potrei scattare delle buone foto.» Le tese la mano e lei la prese. Rob poteva sentire un'improvvisa tensione nelle sue dita. «C'è qualcosa che non va?» Gli occhi di lei si voltarono a guardare nella foresta. «C'è qualcosa che non va?» ripeté Rob. «Non so...» Le sorrise in modo rassicurante e si mosse. Poi s'impietrì e anche i suoi occhi si girarono a scrutare la foresta. Restarono entrambi immobilizzati. «Senti qualcosa?» le domandò. «C'è qualcosa, lì dentro,» gli rispose Maggie con voce che tremava. Un ramo scattò nel fogliame proprio di fronte a loro, Maggie chiuse gli occhi e quando il rumore venne di nuovo, rabbrividì. «Apri gli occhi,» le bisbigliò Rob, la voce piena di timore. A meno di venti metri c'era la forma imponente di un cervo, immobile tra gli alberi come una statua, la corona delle corna tenuta alta. Comunicava un senso irresistibile di potenza e dignità. «Che meraviglia...» disse in un soffio Rob. Maggie gli strinse forte la mano, l'immensità della cosa l'aveva resa debole. Non era la prima volta che vedeva un cervo, ne aveva visti da una certa distanza e in gabbia allo zoo. Ma il vederne uno così vicino a lei, senza niente tra di loro, per la prima volta le fece intendere sino in fondo il significato della parola «selvaggio». Si sentiva piccola e vulnerabile, come un intruso nei domini di un re. L'animale girò la testa con regale maestosità e mosse per andarsene. Ma potenza e dignità erano rapidamente svanite. Barcollava in avanti trascinandosi a terra le zampe posteriori senza forza. Una zampa gli era stata
quasi strappata via, ma era guarita in qualche modo, e aveva lasciato il cervo permanentemente mutilato. Mentre il cervo spariva nel fogliame Rob e Maggie lo seguivano con occhi angosciati. Ripresero silenziosi il cammino, cupi, avanzando affaticati tra il fitto sottobosco. «Niente è mai quel che sembra, non è vero, Rob?» sussurrò Maggie. «Niente è mai bello come vorresti.» Lui le strinse forte la mano e continuarono ad arrancare in silenzio. In una mezz'ora circa raggiunsero la stazione di guardia. La stazione sorgeva in un piccolo spiazzo sopra un'altura sovrastante il lago. Era una piccola capanna in legno di sequoia costruita sulla cima di un ponteggio incrociato alto un quindici metri; una ripida scala a pioli saliva quasi verticale da terra sino alla cima dell'impalcatura. Spirava dal luogo una sensazione di isolamento che non era soltanto puramente fisica. In un certo senso quel posto sembrava esistere in un esilio, come se fosse separato ed estraneo a tutto ciò che lo circondava. «C'è qualcuno, lassù?» chiamò forte Rob. Non ci fu risposta. «Ehi!» gridò Rob. Nessuna risposta. Rob scorse una corda penzolante dall'alto dell'impalcatura appesantita da un sasso. La tirò, e venne il suono di un campanello. Era un suono lieve, come una campanella da sala da pranzo. La tirò una seconda volta e poi attesero in silenzio. «Suppongo che non ci sia nessuno,» osservò a un tratto Maggie. «Questi posti di guardia non dovrebbero mai essere deserti. Sorvegliano gli incendi forestali.» «Allora forse dormono.» «Vorrei scattare delle foto da lassù.» Montò sullo stretto gradino della scala a pioli e cominciò a salire seguito da Maggie. Era più alta di quel che sembrava vista da giù, mentre salivano Maggie cominciò a sentire la nausea. A metà strada si arrestò, chiuse gli occhi. «Rob?...» Rob si fermò, voltandosi per guardarla. «Mi vengono le vertigini,» lo avvertì. Rob discese alcuni gradini e la prese per mano. «È questa la signora che un anno fa voleva scalare il monte McKinley?» «Quest'anno è diverso.»
«Sei solo un pochino giù di corda, tutto qui.» Lei lo fissò dritto negli occhi. «Credo che si tratti di qualcosa di più serio, Rob.» Stava per aggiungere qualcosa, quando una voce a un tratto la interruppe dall'alto. «Scendete subito, voialtri laggiù! Non siete autorizzati a salire!» Da sopra, la faccia della guardia forestale sporgeva attraverso una finestrella. Era un uomo sui sessant'anni, dal volto molto segnato e la pelle spessa, atteggiata in un cipiglio da can mastino. «Via! Giù subito!» «Ehm... ci scusi ma noi siamo del...» «Non mi importa un fico di dove siete. Non starò certo a dire di dove sono io, così non state a dirmi di dove siete voi.» Rob e Maggie si scambiarono un lungo sguardo. «Somiglia a quel bracco,» sussurrò Maggie. «Via! Andatevene!» «Sono del governo,» gli gridò Rob. La guardia forestale restò visibilmente scossa. «Il governo?» «Sì, signore.» «Io lavoro per il governo.» «Vorrei prendere qualche foto. Le porterò via solo pochi minuti.» La guardia sorrise e la forza di gravità provocò una caduta di sputo di tabacco dalle sue labbra. «Salite pure, soci!» «Penso che è tocco,» bisbigliò Maggie. «Ce la fai?» le domandò Rob. «Tienimi la mano.» Faticosamente salirono e si ritrovarono su una lunga e stretta veranda dove, sull'uscio, li aspettava la guardia. «Contento che siate arrivati,» disse. «Era ora. Mi chiamo Laiken.» «Grazie,» borbottò Rob oltrepassando la soglia con Maggie sempre per mano. «Voialtri del governo vi tenete sempre per mano?» gli sorrise Laiken chiudendosi la porta dietro. «Questa è mia moglie.» «Bella donna.» «Grazie,» disse Maggie. «Mia moglie pure, era una bella donna. Più bella persino di lei, esclusi i presenti.»
Maggie rise, senza sapere che dire. «Vuol vedere la sua foto?» «Sì,» disse Maggie. Quell'improvvisa familiarità li aveva presi entrambi alla sprovvista e sentirono che c'era qualcosa che non funzionava. Una rapida occhiata alle sue condizioni di vita disse a Rob qualche altra cosa. La piccola stanza in vetro e legno di sequoia era un ammasso di abiti frusti e riviste sbrindellate; ammucchiate in un angolo del pavimento stavano le scatole vuote del cibo e le bottiglie vuote di liquore. L'aria era irrespirabile per il tanfo. Rob conosceva quell'odore. Uremia. Un aroma essudato dai pori della pelle di quegli alcolizzati che hanno consumato una quantità tale di alcool che il loro fegato non filtra più le tossine. E gli occhi dell'uomo erano scoloriti, altro segno di mal di fegato e alcolismo. La guardia forestale era, mentalmente e fisicamente, in uno stato di deterioramento alcolico. Mentre la guardia forestale rovistava in uno scaffale ingombro in cerca della foto, sia Rob che Maggie notarono che aveva una mano fasciata in un bendaggio improvvisato con stracci e cotone idrofilo, intriso di sangue. Dal colore del sangue Rob capì che si trattava di una ferita recente e che a causa del bendaggio antigienico presto si sarebbe infettata. «Che ne dice?» La guardia aveva trovato la foto e la passò a Maggie. Era una foto vecchia e scolorita, la donna si vedeva a stento. «È sua moglie?» domandò Maggie. «Sì, Dio l'abbia in gloria.» «Molto carina.» «Non più, adesso.» Maggie non poté trattenere una risata. «No, probabilmente,» disse poi. «No... non più,» disse lui, serio, scrutando la foto. Cadde un silenzio. L'uomo andò a riporre la fotografia sullo scaffale. Aveva l'aria triste. «Le spiace se faccio qualche foto?» domandò Rob. «No. Faccia pure. Devo sorridere?» «Come dice?» «Per la foto.» Poco mancò che Rob scoppiasse a ridere. «Oh... Ah... no, voglio solo prendere qualche foto degli alberi.» La guardia sorrise, come se spartisse con loro chissà quale segreto. «Allora, io intanto vado a sedermi e aspetto qui,» disse avviandosi a una sedia a dondolo, «fino a quando sarete pronti per le domande.»
Rob lo guardò un attimo, perplesso, poi cominciò a scattare delle foto mentre Maggie passava in rassegna lo scaffale in disordine per trovare il modo di tenersi occupata. «Così, voialtri venite da Washington,» osservò la guardia. «Uhm,» rispose Rob. «Quello è il fiume Espee?» «Non credo proprio che sia un altro.» «Allora, immagino che quella ciminiera sia la fabbrica di legname.» «Siete dell'FBI?» «FBI?» Rob era stupefatto. «Eh. Siete dell'FBI?» «EPA.» «FBI. EPA, fa tutto lo stesso.» Rob sorrise scuotendo la testa, poi montò sulla macchina un teleobiettivo e mise a fuoco la ciminiera che spuntava da sopra gli alberi sul lontano Espee. La cartiera sembrava molto più grande di quanto si fosse aspettato. Pareva una fabbrica enorme. Le tubature metalliche e le cisterne che le serpeggiavano intorno erano scintillanti e nuove nuove. «Immaginavo che sareste venuti presto quassù,» disse la guardia. «Perché mai?» domandò Rob. «Dobbiamo pur scoprire i fatti, no?» «Sì, suppongo di sì.» «Sì, signore. Quando è ammazzata la gente, è questo che si deve fare.» Stavolta Rob si girò per guardarlo, e vide che anche Maggie faceva la stessa cosa. «Non dobbiamo, forse?» insisté la guardia. «Cos'è che intendete dire?» gli domandò Rob. «Quei tagliaboschi, intendo. Quelli che sono stati uccisi, io sono innocente e sono pronto a rispondere a tutte le domande che volete.» Rob e Maggie si scambiarono un'occhiata. Finalmente, avevano capito che senso avesse tutta la straordinaria conversazione di quell'uomo. «Quando siete pronti a farmi domande, in qualunque momento, io sarò ben felice di rispondere,» continuò la guardia. «Ho già detto allo sceriffo tutto quello che so; ma non aveva l'aria di volermi credere.» «No?» «Ha detto che sono ubriaco. Lei pensa che io sia ubriaco?» «Non saprei,» rispose Rob. «Lo è?» «Bevo un po', ma so quel che ho visto.» Maggie era interessata e si sedette sul bracciolo d'una sedia accanto alla
guardia. «Cos'è che ha visto?» «Se è per quello, gli ho detto che per conto mio ero pronto a sottopormi al lie detector, e dico a voi la stessa cosa, accidenti!» «Io le credo,» Maggie lo rassicurò. «Che cosa ha visto?» La guardia la scrutò e sorrise. «Senta, la mia voce a lei, le sembra strana?» «No.» «A me, si. Mi rintrona la testa. Forse è colpa delle mie orecchie e non della voce.» Maggie restò del tutto sconcertata. «O forse è colpa della mia mano,» aggiunse lui, alzando la mano bendata. «Che cosa le è successo alla mano?» domandò Maggie. «Non mi sono neppure accorto di essere stato morso finché non ho visto il sangue.» «Qualcuno l'ha morsa?» La guardia assentì con la testa e tirò fuori della tasca un pezzo di carta tutto spiegazzato. «A lei piacciono le poesie?» domandò. «Ne ho scritta una.» Maggie guardò Rob. Il dialogo le riusciva adesso completamente incontrollabile. «Che cosa le ha morso la mano?» gli domandò Rob mettendo via la macchina fotografica. Ma la guardia lo ignorò, gesticolando con il foglio sgualcito in direzione di Maggie: «Su, lo prenda. Ho messo tutto in rima. Rima tutto.» Maggie prese il foglio incerta. «Magari, riesce a farlo pubblicare su Playboy,» propose l'uomo. Poi a un tratto si mise a ridere, ansimando e tossendo mentre si batteva le cosce con le mani. Maggie lo guardava piena di compassione. L'uomo era chiaramente un povero folle. «Le spiace se do un'occhiata a quella mano?» gli domandò Rob. «Sono un medico.» «Sì?» fece la guardia, con aria stupita. «Uhm...» «Be', ch'io sia dannato,» e scoppiò un'altra volta a ridere. Rob tirò davanti alla guardia una sedia a spalliera rigida e srotolò la fasciatura. Era un morso di animale, i segni degli incisivi ben visibili nella carne gonfia.
«Cos'è stato?» gli domandò Rob. «Uhmmm,» rispose la guardia, accennando con la testa in un angolo della stanza. Là, nel mezzo di un mucchio di immondizie, giaceva il corpo di un gatto. Maggie sobbalzò e chiuse in fretta gli occhi. «È morto giusto la notte scorsa,» li informò la guardia. «Mi ha morsicato e poi è morto. Non mi sono neppure accorto di essere stato morso finché non ho visto il sangue.» Rob si alzò e andò a guardare il gatto morto. Intorno alla bocca c'era della bava rappresa. «Possiamo andare?» domandò Maggie in fretta. Rob si inginocchiò e prese il gatto. Era rigido, con il corpo grottescamente inarcato come se fosse morto piegato all'indietro. «Posso portarlo con me?» domandò alla guardia. «Non capisco perché mi abbia aggredito,» disse l'uomo. Nella sua voce adesso c'era una nota triste. «Sono sempre stato buono con lui.» «Lo vorrei esaminare,» insisté Rob. «Si mangiava sempre insieme,» continuò la guardia. «Più di tutto preferiva il pesce. Gli piaceva cucinato. Be', non è insolito per un gatto, eh?...» I suoi occhi cominciavano a luccicargli e si voltò in fretta da un'altra parte. Maggie lo osservava in silenzio con uno sguardo pieno di simpatia. «Dovrebbe tenere quella mano immersa in acqua calda,» gli consigliò Rob. La guardia annuì e cominciò a piangere. Era un rumore patetico, come se il piangere fosse un atto che gli faceva male fisicamente. Rob fece un gesto in direzione della porta, ora però Maggie era riluttante a lasciare l'uomo in quello stato. Alla fine si alzò anche lei. «Ritorneremo, d'accordo?» disse alla guardia. «Ritorneremo, prima di partire.» «Vi spiacerebbe seppellirlo in profondità?» disse per tutta risposta la guardia, sempre piangendo. «Non voglio che quella cosa se lo mangi.» Rob e Maggie di nuovo si guardarono perplessi, poi uscirono. Rimasero fermi sulla piccola veranda in momentaneo silenzio, rattristati dall'infelicità che c'era in quel luogo. Si sollevò una brezza lieve, increspando la superficie del lago; il pezzo di carta sgualcito che la guardia forestale aveva dato a Maggie le sventolava nella mano mentre lo apriva e cercava di decifrarne gli sgorbi infantili. «Tre... piccole... torte,...» lesse lentamente a voce alta. «Torce,» la corresse Rob leggendo da sopra la sua spalla.
«Torce,» continuò lei, «brillanti. Tutto si spense, una lotta tremenda.» Fece una pausa e si volse a guardare Rob, poi continuò: «Lo vidi accanto al lago il giorno dopo... grosso come un drago... con ali grigio topo.» La brezza ora soffiava più forte e i capelli di Maggie le ondeggiavano in volto mentre restava a fissare il foglio cercando di decifrare il resto. «Tutto qui?» domandò Rob. «Il resto è stato cancellato.» I loro sguardi si incontrarono, nessuno dei due parlava. «È qualcosa che hai già sentito altre volte?» gli domandò infine Maggie. Rob ci pensò un momento, poi alzò le spalle. «Grosso come un drago?» Rob scosse lentamente la testa. «È il suo lavoro, no, di stare seduto lassù a sorvegliare la foresta,» insisté Maggie. «L'hai detto tu stesso. Si suppone che stia lassù giorno e notte.» Rob la guardò, poi sorrise. «Questa poesia racconta ciò che lui ha visto.» «Maggie, quell'uomo è ubriaco fradicio. Quel che vede sono allucinazioni.» «Grosso come un drago? È quello che ha detto anche Isely all'aeroporto.» «Se tu fossi sbronza sino a quel punto, i draghi li vedresti anche tu.» Maggie ci pensò su un momento e assentì. Poi fece una smorfia imbarazzata sentendosi all'improvviso molto sciocca. «Questo posto comincia a farti effetto,» la consolò Rob prendendola per mano. Cominciarono a scendere. «Temo proprio di sì.» «Senti, andiamocene a pescare, eh? Per un po', facciamoci gli affari nostri e basta.» Scesero con cautela i gradini stretti. Rob sorreggeva Maggie con una mano e nell'altra teneva la carcassa irrigidita del gatto. Mentre attraversavano la foresta annusarono nell'aria l'odore della pioggia. Un brontolio di tuono rumoreggiava da un banco di nubi che planavano scure e basse sui lontani picchi dei monti. La famiglia di campeggiatori, Travis Nelson, sua moglie e i figli, sentì cadere le prime gocce e decise di piantare le tende e aspettare che spiovesse. Avrebbe ritardato la loro ascensione alla cascata, ma su terreno saturato
la salita sarebbe stata troppo difficile. Sistemarono il loro campo sulla spiaggia del lago di Mary augurandosi che in mattinata lo scroscio sarebbe cessato. Ma non cessò. La massa di nubi stava sospesa sopra la conca selvaggia come un coperchio permanente e scodellava una provvista di pioggia apparentemente inesauribile. Nel giro di due giorni per tutto il terreno si erano schiusi i germogli nuovi; i rami prima nudi degli alberi si rivestirono del feltro primaverile verde tenero. Gli animali della foresta nel frattempo si erano rintanati, accettando la fame con l'istintiva conoscenza che quando fosse cessato il diluvio la terra sarebbe stata coperta dall'abbondanza. La pioggia che un terreno assetato assorbiva con avidità avrebbe idratato i semi in letargo portando sostentamento alle creaturine minuscole che prosperavano sulla vegetazione; queste, a loro volta, sarebbero state le fonti di cibo dei carnivori. La catena alimentare che cominciava dal microscopico fungo della muffa, terminava con il più grosso tra i predatori; un orso nel consumare un cervo mangiava interi acri di vegetazione che avevano portato quel cervo all'età adulta. Tra gli alberi sferzati dalla pioggia e dal vento, la sola figura che si muovesse era quella di Robert Vern. Maggie si era fatta sempre più nervosa via via che si prolungava la sua prigionia causata dalla pioggia: lui era impaziente di concludere al più presto il suo lavoro. L'istologia del cervello che aveva condotto sul gatto morto non era stata conclusiva. Lì c'era un danno non dissimile da quello constatato nel procione, ma le ore trascorse dal momento della morte del gatto a quelle in cui aveva potuto esaminarlo avevano provocato l'atrofia delle cellule del cervello. Per una vera analisi ci voleva un'attrezzatura sofisticata. Non appena fosse cessata la pioggia, Rob contava di inviare il tessuto del gatto, insieme a quello del procione, al laboratorio di Washington. Per quanto riguardava il suo rilevamento ecologico, la pioggia stessa gli stava procurando importanti risposte. Il suolo era a base di argilla e pertanto assorbiva un'enorme quantità di pioggia. Se fossero stati abbattuti gli alberi, negando al suolo le radici che avidamente assorbivano l'eccesso di acqua, il suolo sarebbe diventato soprassaturo. Questo avrebbe causato l'annegamento dei semi nuovi e nel giro di dieci anni l'intera foresta sarebbe stata un deserto ecologico. Certo, non mancavano i sistemi artificiali per salvare le pianticelle nuove. Si potevano coltivare altrove separatamente, in un ambiente controllato, e poi ripiantare quando fossero diventate stabili. Se la Pitney Paper Mill era disposta a contrarre questo genere di impegno costoso e lungo, gli ef-
fetti immediati potevano essere trascurabili. Ma le promesse erano facili da fare e impossibili da controllare. La fabbrica di legname poteva consentire a impegnarsi e poi mancare di tenere fede ai suoi impegni. La EPA non aveva i fondi per intraprendere una sorveglianza costante. Rob aveva letto quanto bastava sulla duplicità delle industrie del legname. Lo stanziamento pubblicitario di una singola società del legname era probabilmente pari a quello del bilancio con cui sopravviveva la EPA per un intero anno fiscale, mantenendo un personale al completo. In termini dei loro rispettivi messaggi al pubblico, le industrie del legname avevano un ampio margine. Tra le pubblicità televisive e gli opuscoli pubblicitari, riuscivano a persuadere il pubblico che loro «rifogliavano» altrettanto in fretta di quando «defogliavano», ma la semplice aritmetica elementare bastava anche a un bambino per capire che la cosa era impossibile. Cinquanta secondi bastavano per tagliare un albero. Ci volevano cinquanta e più anni per farlo ricrescere. Rob avanzava a fatica con il fango ai ginocchi, sentendosi preso da timore in quella turbolenta foresta per la potenza degli elementi intorno a lui. Nessuna meraviglia che gli indiani avessero preso lampi e tuoni per cose scagliate giù dagli dèi. Rob si domandò seriamente se le sue spiegazioni scientifiche fossero un gran che migliori. Certamente la perfezione del sistema ambientale, dalla respirazione del più piccolo insetto al moto del pianeta stesso, lasciava una lacuna che nemmeno tutta la scienza del mondo poteva colmare. L'uomo stesso fisicamente era tra le creature più deboli e vulnerabili della terra; forse, la sua mente analitica altro non era che un meccanismo difensivo, insorto a compensare le sue deficienze. L'isolamento di Rob in quell'ambiente nuovo gli aveva spalancato nella mente delle risorse che lui era avido di esplorare. Si domandò se l'uomo, nel suo stato più primitivo, non fosse stato per caso la preda anziché il predatore. Nei tempi preistorici, quando le tigri dai denti a sciabola infestavano le foreste americane, gli uomini dovevano essere stati come conigli, rintanati nel silenzio, rosi dalla paura. Era un fatto stabilito che le prove dello sviluppo culturale dell'uomo, le pitture delle caverne, il linguaggio scritto, iniziavano con la testimonianza dei suoi fuochi da campo. Forse qui c'era un nesso importante. Se il fuoco forniva protezione dagli animali notturni, questo doveva avere offerto all'uomo primitivo la sua prima opportunità di parlare ai suoi simili libero dalla paura che i suoni che emetteva attraessero i predatori. Se di giorno cacciava e di notte si nascondeva, il fuoco doveva avergli dato la prima possibilità di abbandonarsi comoda-
mente a pensare, a sognare, a prendersi il lusso di lasciare che la sua mente vagasse. Sulla via complicata e azzardosa verso la sopravvivenza, forse era stato qualcosa di così subitaneo e improvviso come il primo fuoco controllato ciò che aveva permesso alla mente umana di cominciare a sviluppare quel meccanismo astratto e, in ultimo, perdente, che il cervello dell'uomo aveva finito per diventare. Questa sorta di speculazione portava a un circolo vizioso. Se davvero c'era un piano, se la creazione del pianeta era qualcosa di più che un accidente chimico, l'uomo era forse stato progettato perché servisse da strumento di distruzione? Oppure l'ingegnere si era spinto troppo in là coi suoi progetti... Forse, dopotutto l'uomo era creato a immagine e somiglianza di Dio... Forse, sia Dio che l'uomo avevano entrambi la tendenza a creare una macchina di troppo... Ritrovarsi a speculare a questo modo per Rob fu una vera rivelazione. Era un uomo di scienza, non facilmente dedito a pensieri sul misticismo o Dio. Forse, questo era dovuto al fatto che qui si sentiva così piccolo, così vulnerabile, in confronto alle dimensioni e alla potenza di tutto quanto lo circondava. E inoltre c'era anche la musica del violoncello che proveniva dalla baita, il cui suono malizioso e stregante veniva a ondate, sollevandosi e ricadendo, portato dal vento ed esaltava il senso di mistero del mondo attorno a lui. Maggie era diventata claustrofobica; la musica era il suo unico sollievo in quei giorni. Nel suo sforzo teso a completare tutto il suo lavoro al più presto, Rob era infatti completamente assorbito dalla ricerca, camminava tutto il giorno per l'isola, di notte era sepolto in letture e nella stesura del suo rapporto. Maggie aveva letto ogni singola rivista che aveva trovato nella baita, tutti periodici vecchi, aveva giocato a Scrabble da sola fino ad averne la nausea, aveva sperimentato in quanti modi era possibile cucinare il salmone che Rob continuava a catturare con tutta facilità e che portava a casa ogni sera per cena. La loro provvista di scatolame stava per esaurirsi e in pratica vivevano principalmente di pesce. Una dieta monotona, come tutto il resto della loro vita lì. Il terzo giorno di pioggia rischiarono la corsa in barca dall'isola alla spiaggia ma trovarono la strada che portava in città troppo danneggiata. Erano sedici chilometri di strada e sebbene fossero a corto di provviste, avevano troppo timore di restare impantanati. Tornarono alla baita sperando che l'indomani il mattino sarebbe sorto insieme al sole.
Per John Hawks e Romona Peters, la pioggia fu un benvenuto sollievo. Avevano rizzato il campo insieme nel cuore della foresta e per tre giorni e tre notti erano rimasti abbracciati dimentichi delle torture e frustrazioni della loro vita. Con quel diluvio, le attività dei tagliaboschi si erano fermate; Hawks non doveva far fronte al pauroso spettro del blocco sulla strada. Era come se la natura stessa fosse intervenuta per frenare il corso catastrofico degli eventi. Romona aveva parlato con le due donne gravide del villaggio indiano, e loro avevano piattamente rifiutato di accompagnarla per farsi visitare da un dottore di Portland. E adesso tutto quello che potevano fare era di aspettare. Se l'uno o l'altro dei bambini che le due donne partorivano fosse stato deforme, Romona l'avrebbe preso, morto o vivo, per farlo esaminare da qualcuno che fosse in grado di dare una spiegazione. Per ora, non poteva fare altro che scacciare dalla mente i pensieri che la perseguitavano e lasciarsi infine placare dai rumori del tuono che rimbombava. L'unico lato conturbante di quella gran pioggia era che, chissà come, aveva dato avvio a una rinnovata epidemia di Katahnas. Gli indiani del villaggio avevano profittato del primo giorno di pioggia per andare a svuotare le loro reti da pesca pesanti di salmone e affumicare il pesce. Nelle due precedenti settimane infatti erano vissuti tutti di cibo in scatola, riluttanti a recarsi al fiume per timore di uno scontro con quelli di Manatee o con i tagliaboschi. Adesso tre uomini erano stati colti da attacchi e tremavano di febbre sotto il vento ghiacciato che spazzava l'accampamento indiano. La notizia della nuova epidemia di Katahnas giunse a Romona e Hawks la terza notte di pioggia; si recarono al villaggio per indagare. Visitarono i tre malati, tutti in preda a confusione e spavento. Hawks rimase sgomentato e stupefatto, e per la prima volta si rese conto di quanto fosse grave quella malattia misteriosa. I Katahnas colpivano senza nessuna premonizione, e non sembrava esserci nessuna possibile spiegazione circa il come e il quando degli attacchi. Tornarono al loro campo in preda entrambi a un senso di sconfitta. Era come se la stessa foresta si fosse rivoltata contro di loro. Nella quiete della notte sentirono una civetta stridere e prendere il volo; si fermatono a osservarla, mentre le sue ali potenti la spingevano verso il brillante alone della luna. Le nubi si erano aperte, la pioggia era cessata. Il rovescio che aveva concesso loro un po' di respiro dai problemi che li asse-
diavano, era cessato con la stessa subitaneità di come era iniziato. Gli alberi scintillavano al chiaro della luna e Hawks e Romona compresero che l'indomani la loro battaglia doveva ricominciare. Ma la calma non durò nemmeno sino al mattino. Furono destati nottetempo dal rumore di un'auto che si avvicinava, con il motore che strideva e gemeva sobbalzando verso di loro attraverso gli alberi. Hawks uscì dalla tenda e i suoi occhi furono subito colpiti da un faro battistrada. Nell'abbaglio, distinse le ombre di tre uomini che stavano avvicinandosi, i fucili tenuti allentati lungo i fianchi. «John Hawks?» «Sì.» Hawks si fece schermo agli occhi e vide che erano vestiti da tagliaboschi; il capo a quanto pareva era il tipo al centro. In una mano reggeva un bicchiere di plastica. «Qualcuno in quella tenda?» «No.» «Bene, così non le spiacerà se ci spariamo dentro qualche fucilata.» «Aspettate.» «Digli di uscire.» Romona emerse dalla tenda, tre torce elettriche illuminarono i suoi occhi spaventati. «Ah-ah...» borbottò uno. «Mi chiamo Romona Peters. Sono la nipote di Hector M'rai.» Stava eretta, rigida, la testa alta, soltanto un lieve tremito del mento tradiva la sua paura. «Cosa volete?» domandò Hawks. «Voltati.» Hawks rimase fermo. «Ho detto voltati.» «Perché?» «Voglio controllare se hai addosso delle armi. Mi dicono che vai in giro con una brutta ascia.» «Non mi volto.» Un fucile si alzò lentamente. «Voltati!» «Fa' come ti dice,» lo sollecitò Romona. «Meglio che dai retta alla tua squaw.» «Non mi volterò.»
«Io mi volterò,» disse in fretta Romona. Girò le spalle, e uno degli uomini le si avvicinò da dietro. Hawks stava per balzargli contro ma una canna di fucile gli si parò davanti alla faccia; nella notte riecheggiò il rumore di cane innescato. «Siete venuti a ucciderci?» ansimò Hawks. «Perché non aspetti, che così lo vedi da te.» L'uomo dietro a Romona l'abbracciò prendendole i seni nelle mani; Hawks fu per balzare di nuovo e due canne di fucile gli calarono sulla testa, fermandolo. «Lasciali fare, John,» mormorò Romona con voce tremula. «Visto? A lei piace.» «Toglieteglielo di dosso!» ringhiò Hawks tra i denti. «Un semplice controllo delle armi...» «Toglieteglielo di dosso!» urlò Hawks. Romona gemette e Hawks si scagliò sull'uomo; quello l'afferrò per il bavero mandandolo a sbattere contro un albero, due canne di fucile premettero duramente nel suo collo. «Prima dovrete uccidermi,» ansimò Hawks. «Preferiamo che tu stia a guardare.» «Vi prego, lasciateci,» implorò Romona. «Non vi abbiamo fatto niente.» «State violando i confini altrui.» «Ce ne andremo!» gridò Romona. «Non violiamo i confini,» sibilò Hawks. «Questa terra appartiene alla Pitney Paper Mill.» «Questa terra appartiene alla mia gente.» «Be', questa è semplicemente una menzogna, indiano.» «Cosa volete da noi?» gemette Romona. «Vi vogliamo fuori dei piedi.» «Non ce ne andremo.» «Credo proprio di sì, invece.» L'uomo a capo del trio alzò il bicchiere di plastica che teneva in mano come se volesse fare un brindisi in onore di Hawks, poi, d'un tratto, gettò il contenuto sul cavallo dei calzoni di Hawks. Hawks sentì l'odore di benzina. Cercò di scappare, ma gli altri due gli incollarono le braccia contro l'albero, sopraffacendolo. Il capo del trio si fece avanti lento, si mise una pipa in bocca e l'accese con il suo accendisigari. Poi, lentamente, abbassò l'accendino finché la fiammella non fu che a un pelo dai pantaloni intrisi di benzina di Hawks.
«Vi diamo ventiquattro ore per lasciare questa foresta,» disse l'uomo con l'accendino. «Se entro domani sera non siete spariti, torneremo.» Spense l'accendino e il terzetto indietreggiò. Hawks restò immobile a guardare l'auto girare e sparire sobbalzando nella notte. 9 Rob e Maggie reagirono alla vista del sole mattutino come due prigionieri rimasti a lungo in cella d'isolamento che vedano finalmente la luce del giorno. Per loro fu un tonico, li riempì di energia e rianimò i loro spiriti. Si organizzarono in un baleno per la corsa in città. Il lago scintillava al sole quando lo traversarono con la loro piccola barca; sbarcati, scoprirono che la strada che portava in città aveva già cominciato ad asciugarsi. Ripiegarono all'indietro la capote dell'auto che Isely aveva lasciato lì per loro lasciando che l'aria frizzante li lavasse mentre correvano per una foresta di un verde smagliante. Per un attimo Rob si preoccupò che gli indiani li potessero fermare un'altra volta perché stavano usando una macchina della cartiera, ma quando oltrepassarono il punto dove c'era stato il blocco, non videro nessuno. «Pensi che abbiano rinunciato?» domandò Maggie. «Ne dubito. Vorrei liberarmi di questa macchina.» Svoltarono e si diressero in città parcheggiando davanti alla biblioteca, la prima priorità di Maggie. Avrebbe cercato qualche libro e poi fatto la spesa mentre Rob andava in banca a incassare i traveller's checks. Dopo di che avevano appuntamento all'ufficio postale dove Rob contava di spedire a Washington i campioni di suolo e di tessuto animale. Erano talmente esilarati di trovarsi fuori dei confini angusti della loro baita, di camminare su del cemento, anziché nel fango, di muoversi in mezzo ad altri esseri umani e dire buongiorno, che non si avvidero di essere osservati. John Hawks e Romona Peters avevano anch'essi fatto il viaggio in città e individuato la macchina della cartiera come una delle due che avevano oltrepassato il loro blocco. Nella piccola cittadina a strada unica attesero pazientemente l'occasione di incontrarli. Hawks era venuto a Manatee in cerca dello sceriffo per ottenere protezione contro gli uomini che li avevano minacciati la notte prima. Lo sceriffo della Contea di Manatee aveva ascoltato senza simpatia, senza neppure simulare un gesto menzognero col dire che avrebbe controllato la storia. Questo infatti era il suo abituale modo di trattare con gli indiani; sempli-
cemente annuire con la testa finché quelli erano stanchi di parlare e smettevano. Romona aveva tentato di dissuadere Hawks da quella perdita di tempo inutile, lei lo conosceva bene lo sceriffo, era l'identico uomo al quale si era rivolta quando era stata violentata all'età di dodici anni. Adesso, sedici anni dopo, gli aveva visto brillare in fondo agli occhi lo stesso lieve cenno di divertimento di allora. Lo sceriffo si chiamava Bartholomew Pilgrim; un uomo tarchiato e robusto, sui cinquant'anni, al quale veniva permesso di continuare ad agire come capo riconosciuto della esecuzione della legge più per apatia pubblica che non per vero e proprio appoggio. Nella città di Manatee, c'erano ben pochi reati e scarso bisogno di gente veramente efficiente nelle cariche pubbliche. Lui, il presidente della banca locale, il sindaco, i tre pastori delle tre chiese, il consiglio della Camera di Commercio, facevano parte tutti di una sola generazione cresciuta insieme; si erano sostenuti a vicenda e, una volta insediati, si tenevano saldi al loro posto. Recentemente al gruppetto si era unito il capo della Pitney Paper Mill, Bethel Isely. Al suo modo paesano, quel gruppo fungeva da piccola giunta di comando; ognuno difendeva gli altri nell'interesse di tutto il gruppo. Bartholomew Pilgrim era stato avvertito della presenza di John Hawks nella foresta di Manatee; le notizie sui fatti accaduti al blocco gliele aveva portate Bethel Isely. Ma non poteva trattare Hawks come gli sarebbe piaciuto. I suoi superiori di Portland l'avevano avvisato che il portavoce dei PAO era conosciuto a Washington e che, ufficialmente, bisognava trattarlo con delicatezza. A livello non ufficiale però le cose stavano ben diversamente. Finché nessuno tra coloro che formavano il personale addetto all'applicazione della legge nella Contea poteva venire accusato di vessazioni o violazione dei diritti civili, Pilgrim poteva chiudere un occhio e consentire che avessero corso fatti come quelli capitati la notte precedente a Hawks e Romona. Mentre Hawks parlava allo sceriffo, gli aveva letto negli occhi che era già a conoscenza di quanto accaduto e che probabilmente l'aveva sancito. «Cacchio, amico mio, sicuro che mi piacerebbe aiutarvi...» «Non mi chiami amico suo.» «Certo che mi piacerebbe aiutarvi, vecchio mio, ma non è che possa fare molto, io.» «Proteggermi fa parte del suo dovere.» «Il mio dovere è di proteggere i cittadini di questa contea.» «Io sono un cittadino di questa contea.»
«No, no, lei è di fuori città.» «Sono nato qui e vivo qui.» «Io non glielo consiglio, sa, al suo posto traslocherei da qualche altra parte.» «Non traslocherò da nessuna parte.» Lo sceriffo si rilassò tranquillamente contro la spalliera della sua sedia girevole che scricchiolò sotto il suo corpo pesante. «Voglio dirle una cosa, vecchio mio, io non sono contro voialtri indiani, e nemmeno lo è il signor Isely. Si dà il caso che quello sia anzi un uomo molto generoso. Dopo che ho saputo del blocco, ero proprio intenzionato a mettervi dentro tutti quanti. Sarebbe stato perfettamente nei miei diritti mettervi agli arresti. Ma il signor Isely, lui mi ha detto, no, John Hawks, dice, è un bravo ragazzo, basta che gli diamo il tempo di traslocare altrove e andrà tutto bene.» «Non me ne vado da nessuna parte.» «Mi spiace sentirle dire questo.» «Se mi capita qualcosa, la gente lo scoprirà.» «Certamente, lo farà di sicuro.» «Lei ne dovrà rispondere.» «Allora mi auguro proprio che lei si prenda cura di se stesso.» Era stato dopo questo scambio che Hawks e Romona, usciti dalla stazione di polizia, avevano visto il veicolo della fabbrica parcheggiato davanti alla biblioteca. E ora, con la sua vita in pericolo, Hawks sapeva che non c'era più nessuno a cui rivolgersi all'infuori dell'uomo mandato dal governo. «È un diavolo di vacanza, questa, Victor.» Rob si premeva una mano sull'orecchio libero e urlava nel telefono di una cabina telefonica situata sull'angolo della strada accanto all'ufficio postale. «Mi metto in salvo dai ratti e mi aggredisce un procione. Gli indiani sono assetati di sangue, e i tagliaboschi sono felici di fargliene bere quanto ne vogliono. Ti assicuro che in confronto i casamenti mi sembrano una cura di riposo.» Rob fece una pausa e assentì col capo. «Voglio concludere questa faccenda al più presto, Vic. Il rapporto te lo rifinisco quando torno a Washington.» Victor Shusette, seduto nel suo ufficio a Washington, ascoltava preoccupato. La sua scelta di Robert Vern per condurre la ricerca sul campo a Manatee gli era rimbalzata contro, e adesso l'ultima cosa che voleva sentir-
si dire era che Rob ne avrebbe fatto un lavoro veloce. I politicanti dell'industria del legname avevano appreso che Vern non aveva nessuna esperienza come ambientalista; il fatto che fosse qualificato in virtù dell'insegnamento ricevuto da esperti veterani di lavoro sul campo, e in ragione della sua innata intelligenza, per loro significava ben poco. Perché adesso avevano un eventuale motivo per screditare il rapporto EPA. Per Shusette ormai era troppo tardi, non poteva più rimangiarsi la sua scelta; farlo, avrebbe significato danneggiare ancora di più la credibilità dell'Ente Protezione Ambientale e la credibilità era tutto ciò che l'Ente avesse da vendere; la credibilità inoltre è una merce fragile. Sotto molti riguardi, la gente considerava l'EPA un po' come una forza di polizia. Quand'anche avesse funzionato alla perfezione per anni e anni di fila, un unico incidente discutibile o una sola trasgressione da parte di un solo individuo, era capace di far saltar fuori tutto il segreto risentimento contro la sua agenzia trascinando al crollo dell'intera struttura. Qualunque fosse il rapporto che Robert Vern avrebbe presentato, quel rapporto doveva essere a tenuta stagna, documentato con un eccesso di completezza tale da compensare per qualsiasi dubbio che fosse insorto circa le sue capacità o la sua esperienza. «Rob, odio dovertelo dire, ma voglio che ti fermi lì il più a lungo possibile.» A tredicimila chilometri di distanza da Shusette, Rob stava immobile nella cabina telefonica, ascoltando, e la sua espressione si faceva sempre più cupa mano a mano che Shusette gli spiegava in quale situazione s'erano venuti a trovare. «Victor,» l'interruppe Rob, «c'è una cosa che ti devo spiegare. Poco fa sono stato un po' leggero nel parlartene, ma quando ti dicevo che gli indiani sono in cerca di guai, non stavo scherzando. Qui dicono che hanno ucciso della gente.» «Di che cosa stai parlando?» «Questo è ciò che dicono. E da quanto ho potuto constatare io posso capire perché lo dicano. Ho visto della vera violenza, Victor.» «Stai dicendo che ti ritieni in pericolo?» «Sto dicendoti che qui non mi trovo terribilmente a mio agio. E nemmeno Maggie.» «Vuoi che ti faccia proteggere? A questo posso provvedere.» «No, non è questo che voglio.» «Dimmi quel che ti serve. Cosa posso fare?» «Voglio andarmene di qui, Victor. Voglio finire il lavoro che sono venu-
to qui per fare, e andarmene al più presto.» «Se torni qui troppo in fretta, non ci facciamo una bella figura, Rob Se non ti trovi in nessun vero pericolo, io vorrei che ti fermassi lì il più a lungo possibile.» Rob non rispose. «Rob?» «Sì.» «Senti. Se proprio devi tornare, allora torna. Quel che io intendevo dire, è che le apparenze in questo momento contano un mucchio. Mi assumo la cosa io.» «No,» rispose Rob, sospirando di esasperazione. «Se puoi, aggiungi dieci giorni. Sarò soddisfatto così.» «D'accordo.» «Fatti vivo, eh?» «D'accordo.» Rob appese e si appoggiò alla parete del piccolo cubicolo in vetro con occhi disperati. Detestava più d'ogni altra cosa al mondo di fallire in qualcosa; e mai in tutta la sua vita si era così stupidamente preparato da solo un fallimento. La ricerca sul campo era stata un errore sin dall'inizio; si maledisse tra sé per avere permesso a Shusette di persuaderlo a quel lavoro. Era stato il sud egocentrico desiderio a incastrarlo; la promessa che lui avrebbe finalmente potuto fare qualcosa che avrebbe inciso in maniera duratura. E adesso, grazie alla sua inesperienza, il lavoro era sotto il segno del fallimento. Aveva promesso a Maggie che sarebbero partiti al più presto, ma, se l'avessero fatto, lui avrebbe buttato a mare l'intera faccenda. Stava con gli occhi fissi sulla strada, quando scorse Maggie dirigersi a un supermercato. Portava stivali e una giacchetta da cavallerizza, il vento le sollevava dolcemente i capelli. Le sue braccia erano cariche di libri, il suo passo energico, somigliava in tutto a una ragazzina in atto di traversare la strada di qualche campus universitario in una cittadina di provincia. Era raro che la vedesse da quella distanza; questo gli ricordò le belle mattinate in cui soleva stare a guardarla dalla finestra del loro appartamento di New York. Il pensiero di quanto fossero divenute complicate le loro vite lo colmò di tristezza. La telefonata di Shusette l'aveva ridotto a uno straccio. Provava un sentimento molto simile a un desiderio di arrendersi. Sentiva che l'ossessivo mulino che da quattro anni teneva in azione con tutto il suo peso, improv-
visamente stava rallentando. Non c'era niente che lui potesse fare per modificare il corso della terra, lo avvertiva in questo posto più fortemente che mai. Camminando in mezzo a questi alberi torreggiami lui si era visto, nella sua dimensione e nella sua forza, in una prospettiva reale, nella sua vera prospettiva. Lui non era da più di una formica. E pretendeva di scalare un grattacielo. Questo lavoro era stato il suo ultimo, disperato tentativo di lasciare la sua impronta, e ne usciva sconfitto. Adesso a Washington si sapeva quel che lui aveva saputo sin dall'inizio. Che questo lavoro non era affar suo. «Signor Vern?» Rob ebbe un sussulto per l'intrusione; si girò e vide John Hawks che lo aspettava fuori della cabina telefonica. La donna indiana, Romona, era lì anche lei. Avevano un'espressione intensa e non apparivano più gentili ora di quanto lo fossero stati al blocco. Rob uscì nella strada, di umore agitato e ansioso. «Mi chiamo John Hawks.» «Ricordo.» «Vorremmo che lei venisse con noi.» «Per far cosa?» «Desideriamo parlare con lei.» «Qui per me va benissimo.» Hawks lesse la paura negli occhi di Rob e ne rimase stupito. Era raro che un bianco gli facesse l'onore di ritenerlo di pari forza. «Ha paura di noi?» Rob non rispose subito. «Sì.» «Per via di quel che ha sentito dire?» «Non ho sentito dire niente.» Hawks comprese che era una bugia. «Non ha sentito dire che siamo ubriaconi? Violenti? Assassini?» Rob scrutava Hawks, incerto su quale fosse l'atteggiamento di quell'uomo. Non si capiva se stesse cercando di rassicurare o di spaventare. «È questo che dicono di noi, signor Vern. Fanno la tara sui nostri diritti raccontando menzogne sul nostro conto.» Gli si avvicinò; Rob poteva sentire l'odore di umido che emanava dalla sua giacca di pelle. «Non siamo ubriachi. Non siamo violenti. La mia gente, sono tutti dei pescatori, e la loro vita è pulita.» Rob esitava, non sapendo come rispondere. Hawks si irrigidì subito scambiando erroneamente il suo silenzio per una minaccia di rifiuto.
«Le dico tutto questo non per scelta, per necessità.» «Cosa succede?» domandò Rob. «Vogliono uccidermi.» «Chi?» «La cartiera.» «Perché dovrebbero farlo?» «Non è forse ovvio?» «Loro hanno diritto a entrare nella foresta.» «Non mi riferisco al blocco.» L'asprezza nella voce di Hawks fece calare un silenzio; i due uomini si esaminarono vicendevolmente come due avversari. «La prego,» disse in un soffio Romona, «desideriamo che venga con noi.» «Perché?» «Nessuno del governo è venuto qui prima d'ora. Vogliamo che lei veda la nostra gente, che la conosca, così potrà riferire.» «Sentite,» disse Rob. «Io posso anche capire quel che provate, ma il mio lavoro qui non ha niente a che fare con...» «È dunque sordo come tutti gli altri?» lo interruppe Hawks. Adesso era in collera e lottò per controllarsi. «Io sono stato educato nelle vostre scuole, signor Vern, sono un uomo istruito, ho studiato le vostre leggi e ho perfezionato il vostro linguaggio, ma non è servito a niente: le vostre leggi non valgono per gli indiani, e il vostro linguaggio in una bocca indiana è perduto perché rifiutate tutti quanti di ascoltare!» Le sue parole colpirono Rob nel momento sbagliato. Lui ne aveva fin sopra i capelli di tutto. «E magari nemmeno adesso sente quel che sto dicendo,» s'infuriò Hawks. «Se è per sentire, sento,» replicò di rimando Rob, sullo stesso tono. «Ma posso anche vedere. Lei si stupisce che gli altri vi accusino di essere violenti...» «La violenza che ha visto lei, era provocata...» «Da chi?» «Era necessaria.» «Era suicida.» Gli occhi di Hawks penetrarono come trapani in quelli di Rob. «Mi dica una cosa, lei è disposto a morire per le cose in cui crede?» Rob arretrò, restio a prolungare quella lotta.
«Senta, sono o non sono qui per studiare l'ambiente?» «E che concetto ha lei, dell'ambiente? Voglio saperlo. È il terreno? Alberi? Rocce?» «Andiamo, questo è...» «L'ambiente, siamo noi!» dichiarò Hawks. «L'ambiente è ciò di cui siamo fatti! E questo ambiente lo stanno lacerando e straziando, e noi pure!» «La mia gente è malata, signor Vern,» s'interpose Romona. «La loro mente è confusa. Tremano e cadono, e tutto questo non ha niente a che fare con l'alcool, come crede la gente di città.» «Diglielo,» le ordinò Hawks. «Ho fatto da levatrice, signor Vern, ho visto i prodotti di questo caos.» Rob guardava dall'uno all'altro, incapace di capire di che cosa stessero parlando. «Raccontagli tutto quanto,» le disse Hawks. «Bambini nati morti, signor Vern. Nati deformi. Così malamente...» Romona vacillò. «Devono essere messi a morte.» Rob restò impietrito. Dall'intensità con cui parlava la donna, era chiaro che stava dicendo la verità. Ma lui era nell'incapacità di capirci qualcosa. «Ci serve aiuto, signor Vern, disperatamente. E non c'è nessuno che voglia aiutarci.» «La fine della nostra foresta è la fine della nostra gente,» proclamò Hawks. «Così, non stia a parlare di 'ambiente' come se la cosa non avesse niente a che fare con noi.» Seguì un silenzio durante il quale Rob si avvide che Maggie si avvicinava e che esitava avendo avvertito la tensione nell'aria. Rob le tese una mano. «Queste persone desiderano che andiamo con loro, Maggie. Ci sono cose che vogliono che noi vediamo.» Mentre correvano nella foresta, Romona descrisse a Rob tutta la storia e i particolari degli attacchi, dei parti di nati morti e dei feti deformi. Gli raccontò anche della propria futile ricerca nella biblioteca pubblica in cerca di spiegazioni. Maggie l'ascoltava in silenzio, il cuore pieno di simpatia per la giovane indiana. Ringraziò il cielo che il feto nel suo grembo dormisse al sicuro, in segreto, e protetto dalla tragedia che si era abbattuta su quella gente. Rob interrogò Romona con completezza professionale, poi le rivelò di essere un medico. La donna si portò le mani agli occhi per nascondere le
lacrime di gratitudine. Maggie tese una mano per toccarla, ma Romona si ritrasse. L'abisso tra i loro due mondi era troppo grande perché un solo gesto bastasse a colmarlo. «Lei ha fatto degli esperimenti con gli animali?» domandò Hawks. «Qualcuno.» «Di che tipo?» «Cose di routine. Effetti di medicinali.» «Ho visto degli animali in gabbia ammalarsi e morire. Li ho visti ammalarsi e abortire. Li ho visti diventare pazzi e mangiarsi i loro piccoli. È quel che succede a un figlio della natura quando scopre che è diventato un prigioniero.» «Ho visto anch'io tutto questo. Ma non spiega quello che mi avete descritto voi. La tensione può certamente svolgere una parte importante, ma non può causare tutto quello che dite voi.» «Mio nonno dice che quando gli uomini si rivoltano contro la foresta, la foresta si rivolta contro gli uomini. Dice che dovremo soffrire tutti per questa profanazione.» Oltrepassarono una biforcazione nella strada forestale e Hawks toccò il braccio a Rob. «Fermi qui.» «Perché?» gli domandò Romona. «Non ci ritorneranno mai, Romona. E io voglio che vedano proprio tutto.» Rob parcheggiò la macchina fuori della strada e tutti scesero. S'incamminarono per uno stretto viottolo che portava diritto all'accampamento di Hector M'rai. La pista era un budello di rovi che strappavano gli abiti, graffiavano le facce; un nugolo di simulidi ronzavano agli occhi insinuandosi nelle orecchie. Hawks apriva il corteo rompendo delle ragnatele. Tutte queste cose per Rob erano altrettanti indizi del fatto che ben poche persone passavano di lì. Un pensiero agghiacciante gli passò a un tratto per la mente e uno sguardo a Maggie gli confermò che lei stava pensando la stessa cosa. Gli indiani erano stati accusati di assassinio, e sia Rob sia Maggie erano stati testimoni della violenza di cui John Hawks era capace. E si erano lasciati portare nel fitto di una foresta dove loro erano completamente inermi. «Dove stiamo andando?» domandò Rob. «Proprio dritto davanti,» replicò Hawks. Rob si fermò.
«Voglio sapere dove stiamo andando.» Hawks indicò davanti a lui. «Guardi da sé.» Maggie prese per il braccio Rob e avanzarono insieme con passo incerto entrando nell'improvvisa oasi di bellezza nota agli indiani con il nome di M'ay'-an-dan'ta, il Giardino dell'Eden. Tre vaste tende coniche si ergevano in un recinto circolare intorno a un grande pozzo del fuoco orlato di pietre. Una corda tesa tra due pertiche sorreggeva le pelli di animali stese ad asciugare, un elegante arco da tiro era appoggiato a un albero. Nel mezzo di quella foresta in subbuglio, pareva un quadro di storia americana primitiva dipinto da un grande artista. Un'oasi dove il tempo stava immobile. «È... è bello,» sussurrò Maggie. «Che posto è?» domandò Rob. «È il vostro villaggio?» «No,» rispose Romona. «È tutto quel che ci è rimasto di ciò che eravamo un tempo,» Hawks disse. «Volevo che lo vedesse, prima di vedere ciò che siamo diventati.» «Lo ha costruito mio nonno. Per lui questo luogo è sacro. Non lascia entrare nessuno, qui.» Rob avanzò sino al centro del campo, contemplando gli alberi intorno. Sentiva quale senso di pace profonda esistesse in quel luogo. «Posso capire per che cosa vi battete.» «Non ci battiamo per vivere nel passato, non più di quanto lo faccia lei,» replicò Hawks. «Lottiamo per la nostra parte di presente. Lottiamo per avere le stesse possibilità che ha lei. Lottiamo per tutto ciò per cui lottereste voi.» Rob accettò in silenzio queste parole. Riconobbe in John Hawks il medesimo tipo di uomo che era lui stesso. Lo zelo era identico, la retorica identica, la frustrazione identica. La sola differenza era che John Hawks essendo un indiano si vedeva negato il diritto di arrabbiarsi. «Volevo solo dire,» rispose Rob sottovoce, «che questo luogo è molto bello.» Romona si girò verso una delle tre tende. «A'hns-pah-ni'-tah, M'rai?» chiamò forte. «Mio nonno non sta troppo bene,» disse poi a Rob. «Anche lui ha sofferto di Katahnas.» «Y'ahn'-pahni'tha?» chiamò in risposta una voce. «A 'han-pahni'tah Ki'ythi.» Un lembo di tenda fu tirato indietro e comparve M'rai. Era vestito in pelle, ma indossava anche una cravatta e aveva i capelli pettinati all'indietro in modo strano, come Romona non glieli aveva mai visti in tutta la sua vita.
«N'iyhn-tah?» domandò scherzosamente Romona. «N'ahn-mohn'i'ka,» rispose il vecchio sorridendo. «A'yah'al-mah'nitah.» Camminava con difficoltà, tenendosi molto eretto nella persona, con la testa che tremava lievemente nel suo tentativo di sollevarla indietro con dignità. I suoi occhi si posarono su Maggie, che rispose sorridendo al suo sorriso. «Dice che sapeva che venivano dei visitatori,» tradusse Romona. «Come faceva a saperlo?» s'informò Maggie. «M'rai sa appunto di queste cose,» replicò Romona. Da come guardava il vecchio, era chiaro che Romona gli era profondamente affezionata. Anche Maggie provò un istantaneo affetto per quel vecchio. Nel suo sorriso c'era una dolcezza che la faceva sentire come se l'avesse abbracciata. «Per favore, gli dica che siamo molto felici di trovarci qui,» domandò Maggie. «Parla un po' l'inglese,» rispose Romona. «Gliel'ho insegnato io stessa.» «Benvenuti,» disse il vecchio. Anche Rob si sentiva catturato dal vecchio. Ma lui lo stava guardando con l'occhio del professionista. Vide che gli occhi di M'rai erano velati per la cateratta, che le nocche delle sue dita erano sbucciate e bruciate, forse dalle sigarette. «Queste persone sono del governo,» spiegò Romona a M'rai. «Noi speriamo che ci aiuteranno.» «In quanti sono?» domandò il vecchio. «Siamo in due, signore,» gli rispose Rob. «È abbastanza?» Rob rise divertito. «Be', lavoriamo sodo.» «Molto bene.» M'rai tese la mano a Maggie, che fece un passo avanti. «Una donna tenera,» disse il vecchio tastando la sua mano. «Troppo,» rispose Maggie. «No, proprio giusto.» «La sua casa è molto bella,» disse Rob. «Grazie.» «Non scambi queste tende per la sua casa,» interloquì Hawks. «La sua casa è l'intera foresta.» «Sa,» disse pensosamente Rob, voltandosi verso Hawks, «ho visitato un posto, non più tardi di una settimana fa, dove undici persone abitano in una sola stanza.»
«Sì?» Rob avvertì il tono aggressivo di Hawks. «Volevo soltanto che lei sapesse...» «Che noi chiediamo troppo?» «Che c'è gente che lotta per un solo centimetro di spazio abitabile...» «Perché hanno cominciato a lottare quando era troppo tardi!» dichiarò Hawks. Poi afferrò l'arco, guardando inferocito la foresta. «Questo campo è fatto tutto secondo l'uso di un tempo,» disse Romona, in un tentativo di riportare la calma. «M'rai ci sta insegnando, così che ci sia qualcuno che possa ricordare. Ci sono delle gallerie sottoterra al di sotto della temperatura di congelamento per immagazzinare i cibi... ci si può spostare da una tenda all'altra senza dovere mai mostrarsi.» Hawks infilò una freccia nell'arco e rabbiosamente la rilasciò; andò a colpire con un tonfo riecheggiante la corteccia di un albero. «E mi ha insegnato anche questo,» disse. Romona diventava visibilmente imbarazzata e tentò ancora una volta di sviare la collera di Hawks. «Quando aveva ancora la vista buona, M'rai era un grande arciere. Dicono che riusciva a colpire un colibrì alla luce della luna.» «È vero?» s'informò Rob. «Qui abbiamo dei grossi colibrì,» disse il vecchio. Rob scoppiò a ridere, ma subito si accorse che M'rai aveva parlato sul serio senza voler dire una freddura. «È vero,» confermò ancora M'rai. «Qui, tutte le cose crescono più grandi e più grosse. Molto più grosse. Molto più grosse di quanto lei possa immaginare.» «Be',» ribatté Rob, «è vero che io ho visto effettivamente un salmone che mi ha mozzato il fiato.» «È il Giardino dell'Eden,» disse M'rai. «Le piacerebbe vederlo?» «Sì.» «Allora andiamoci.» «Dove?» domandò Romona. «Allo stagno.» Romona lo guardò con aria incredula. «Vuoi portarli allo stagno?» «Che cosa è lo stagno?» domandò Rob. «Non è permesso a nessuno andare allo stagno,» replicò Romona. «Nemmeno agli indiani. È il santuario privato dell'uomo più anziano della tribù.»
«Io posso fare tutto quello che voglio,» disse M'rai. «Non aspettarti che loro vedano quel che vedi tu, vecchio,» lo ammonì Hawks. Al che M'rai sorrise: «Io non mi aspetto mai niente. Ecco perché vedo tutto.» Partì in una direzione della foresta e tutti gli tennero dietro; presero per un viottolo stretto, molto usato questo, che portava alla laguna segreta. In tutti gli anni in cui era vissuta accanto al vecchio Romona non aveva mai percorso quel sentiero. E sentiva che era sbagliato farlo ora. Sentiva che stavano invadendo un luogo sacro e comprese che se M'rai non avesse perduto il controllo sulle sue facoltà mentali, non avrebbe mai permesso che si verificasse un simile abuso. «Nessuno è mai stato qui prima d'ora,» disse M'rai lungo la strada. «Nessuno che sia vivo oggi ha mai visto questo luogo. Eccetto me.» Hawks sorrise tra sé ricordando la volta che da ragazzo era riuscito a intrufolarsi sin lì. Provava ancora parte della delusione di allora quando aveva scoperto che dopotutto non c'era niente di insolito in quel luogo. «Una volta vennero degli hippies,» disse poi il vecchio, «per piantarci dei semi cattivi.» «Marijuana,» spiegò Hawks. «Ma furono cacciati prima che vedessero qualcosa.» «Che c'è da vedere?» domandò Maggie. Il vecchio indicò loro in quel momento una radura e tutti si fermarono, stupiti dalla meraviglia di ciò che vedevano. Tra gli alberi torreggianti, c'era un laghetto di immobile acqua, una conca scintillante di azzurro chiaro e limpido, circondata da un lussureggiante fogliame e tralci di vite; gli alberi erano inclinati in avanti tutt'intorno come in atto di rendere omaggio, e le foglie dei cespugli erano in quel luogo più grandi e più verdi che in qualsiasi altro punto della foresta. Era come se, in quel singolo posto, fosse stato estate invece che primavera. E le differenze non finivano qui. Mentre Rob lentamente avanzava notò una profusione di funghi, ogni tronco d'albero ne era coperto, i viticci sporgenti bizzarramente in tutte le direzioni. E una vegetazione simile a dei funghi commestibili si attaccava anche alla corteccia degli alberi, alcuni avevano la dimensione di un orecchio d'elefante. Rob s'avvicinò al bordo dello stagno e vide, attraverso lo scintillante azzurro pallido dell'acqua, delle immagini che gli riuscì difficile capire cosa fossero In apparenza sembravano colli di tronchi di legname che fossero
stati prima legati strettamente insieme e poi affondati nello stagno. Anche Hawks stava esaminando con attenzione il posto. Lo stagno era diverso da come se lo ricordava. C'era davvero un non so che di mistico adesso. Una sensazione quasi fisica che lo metteva persino a disagio. Avanzò sino al bordo del laghetto e si fermò accanto a Rob notando che Rob aveva gli occhi turbati, come se stesse cercando di rispondere a un interrogativo non chiaro. «È veramente come un Giardino dell'Eden,» sussurrò Maggie alle loro spalle. «È magico.» «Una volta, eravamo un popolo magico,» disse M'rai. «È vero,» aggiunse Romona in tono soffocato. «E questo era il luogo più magico di tutti.» Stava avanzando lentamente, intimorita ed emozionata di trovarsi realmente lì. Si rivolse a Maggie, domandandosi se la donna avrebbe saputo capire il suo sentimento. «Questa laguna è lo scenario di molte leggende indiane.» «Ne abbiamo sentita una,» le rispose Maggie con un sorriso. «Sì?» «Katydid .. dadlin... qualcosa così, no?» «Katahdin,» corresse Romona. «Katahdin non è una leggenda,» interloquì il vecchio. Le parole di M'rai fermarono l'attenzione di Rob. Guardò verso di lui con occhi turbati. «Mio nonno è la persona più anziana della nostra tribù,» si affrettò a spiegare Romona con imbarazzo. «È suo dovere promuovere la fede nelle leggende.» «Io l'ho visto. Qui, proprio su queste rive.» Hawks fece un passo verso il vecchio per farlo tacere. «Sono queste cose a far credere agli altri che gli indiani siano degli ubriaconi, vecchio. Le nostre leggende è meglio che ce le teniamo per noi.» «Ma lui è reale,» implorò M'rai. «A che cosa somiglia?» gli domandò Maggie. «Lo sta per caso compiacendo?» rimbeccò Hawks. Maggie fu presa alla sprovvista: «No.» Il vecchio si rivolse a lei, calmandola con un sorriso. «Lui è fatto di una parte di tutte le cose mai create,» rispose dolcemente. «Dall'argilla all'uomo. E porta su di sé l'impronta di ogni creatura di Dio.» Parlava con lentezza e scandendo le parole, come se stesse insegnando a un bambino. «Quando dorme sembra una montagna. Quando è in piedi è alto come un
albero.» «Lo dice con affetto, questo,» Maggie rispose con tenerezza. «Lui si è svegliato per proteggerci.» «Niente ci proteggerà,» schernì Hawks. «Loro dicono che abbiamo ucciso quella gente, e questa sarà la loro scusa per uccidere noi.» «Signor M'rai?» lo chiamò Rob dalla sponda del lago. «Quei tronchi, sono davvero dentro all'acqua?» M'rai andò al bordo dello stagno, i suoi occhi si sforzarono nella direzione che gli indicava Rob. «Laggiù, verso il mezzo, sotto la superficie c'è...» «Vengono qui due volte l'anno,» rispose il vecchio. «Per magia. Dopo entrano nel lago.» «Questo stagno immette nel lago?» «Oltre quegli alberi, laggiù. L'acqua entra qui dal fiume, e poi prosegue e va nel lago.» Seguendo il gesto del vecchio, Rob riuscì a distinguere un luccicante corso d'acqua che serpeggiava tra gli alberi lontani Lo stagno non era dunque una conca chiusa, era una piccola cavità formata da un piccolo affluente del fiume. «Laggiù l'acqua ha lo stesso colore?» domandò Rob. «Lo stesso azzurro chiaro?» «Quando entra qui, no. Quando esce, sì.» «Così questo colore comincia a prenderlo quando entra qui nello stagno e poi si travasa nel lago.» «Nel lago scompare. Là ritorna blu scuro. Il colore è dovuto alla magia che c'è qui nell'acqua. C'è soltanto qui, in questo posto segreto.» Rob scambiò uno sguardo con Hawks che cominciava a ricevere il messaggio. «Guardate,» chiamò Maggie. Si voltarono tutti verso lo stagno e videro un'ondulazione a forma di una V prodotta da qualcosa che nuotava proprio sotto il filo dell'acqua. «Che cos'è7» domandò Rob. Il vecchio si rivolse a Hawks, gesticolando mentre gli parlava: «A'han'tka' Prodai th'ay'andan'tah.»« Prese una piccola rete fatta di ramoscelli che stava appoggiata a un albero. «N'hoan'thaiy'do'e,» lo istruì M'rai. «Dice che vi mostrerà perché chiama questo posto il Giardino dell'Eden,» spiegò Romona. Hawks prese la piccola rete per la pesca a mano ed entrò a guado nel-
l'acqua facendo un balzo verso la creatura che nuotava; la mancò. «Resta dove sei,» gli disse M'rai. «Deve tornare su di nuovo per forza.» In quell'istante Rob colse la visione di un sistema radicale esposto alla base di un albero. Le radici erano letteralmente sollevate al di sopra del suolo come se cercassero un sostegno nell'aria. Maggie notò il cambiamento sulla sua faccia. «Qualcosa non va?» «Quelle sono radici di alimentazione. Dovrebbero trovarsi sotto la terra.» Accanto a loro ci fu un tonfo nell'acqua; Hawks grugnì di soddisfazione e ritornò a riva con qualcosa di grosso che si agitava nella rete. Quando fu vicino lo buttò a terra. Tutti fissarono la cosa con ripugnanza e orrore. «È un pesce?» gridò Maggie. «No.» Dibattendosi ai loro piedi stava la forma spropositata di un girino. La testa era gonfia e sformata, e misurava un buon venticinque centimetri di lunghezza. E aveva anche dell'altro che non andava: uno degli occhi sporgeva fuori dell'orbita come se qualche pressione fatta dall'interno lo ributtasse infuori, e una delle sue zampe parzialmente sviluppate era molto più lunga dell'altra, lunga quanto tutta la sua coda. Il vecchio scrutò le loro facce, poi sorrise. «Ve lo a'vevo detto, qui le cose crescono in grande.» Rob alzò rapido gli occhi e fissò lo sguardo in quelli di Hawks. «Ne ha mai visti prima?» domandò. «No.» «Nessuno li ha visti,» proclamò orgoglioso M'rai. «Ci sono soltanto in questo stagno.» Rob si sentiva scosso. Tutto cominciava a prender forma ora. I tronchi affondati, la colorazione dell'acqua, la profusione di fungo... «Questo stagno alimenta il lago?» «Sì.» «E proviene dal fiume Espee?» «Sì.» «Ed è là che c'è la cartiera?» «Sì.» Rob strinse i pugni e prese a camminare in su e in giù, rapidamente, alla fine si fermò e si rivolse al vecchio. «Non mangi nulla da quest'acqua. Non mangi nulla di tutto ciò che cresce in questo terreno.» La sua voce tremava. «Non mangi niente assoluta-
mente di tutto quello che cresce in questo posto.» «Perché?» domandò semplicemente il vecchio. «Questo terreno è avvelenato. Quest'acqua è avvelenata.» Il vecchio restò sconvolto. Poi, d'improvviso, rise. Era una cosa al di là della sua comprensione. «Quanto è distante da qui la cartiera?» domandò Rob. «Circa cinque chilometri risalendo il fiume,» gli rispose Hawks. «È meglio andarci in barca.» «Aspettateci qui,» ordinò Rob. «E il villaggio?» domandò Romona. «Prima vado alla fabbrica,» friggeva Rob. Girò sui tacchi e s'incamminò verso il viottolo. «Signor Vern!» lo chiamò Hawks da dietro. «Sono in pericolo in questa foresta stanotte. Non posso restare qui.» «Dove la trovo?» «Alla baita sull'isola, all'alba.» Fu facile trovare il punto in cui il fiume Espee entrava nel Iago di Mary. Era una vasta via d'acqua in agitazione, costellata di reti da salmone tese attraverso la sua imboccatura sui pali. Rob sedeva sulla loro piccola barca guardando dritto davanti a sé, troppo furente per parlare. Dalla massiccia quantità di lettura che aveva fatto, sapeva che esistevano delle forme di vita che erano estremamente suscettibili alla mutazione chimica. Le più suscettibili erano quelle che attraversavano due o più fasi prima di pervenire alla forma adulta, come salamandre o rane. Specificamente, ricordava di avere letto di uno stagno nel New Jersey che aveva prodotto rane a sei zampe dopo che gli alberi intorno erano stati spruzzati di un pesticida di nome Deldrin. Nella foresta di Manatee non si faceva uso di pesticidi; era sin troppo chiaro che la fabbrica di pasta-legno impiegava prodotti chimici tossici. Il colore aberrante della fogliazione intorno allo stagno di M'rai, il sistema radicale esposto e il girino deforme, erano tutti eloquenti barometri di un ambiente pericolosamente tossico. Mentre la loro imbarcazione fendeva l'acqua impetuosa, il frastuono della fabbrica cominciava ad aumentare d'intensità, finché l'aria ne fu piena. Il fiume si divise in due canali; Rob seguì il più stretto guidato dal rumore crescente. Portava a una curva dove il paesaggio improvvisamente cambiava. La superficie dell'acqua divenne lucente d'olio e costellata da lattine di pepsi cola e da corpi di pesci morti che stavano pancia all'aria; l'edificio
enorme della Pitney Paper Mill sovrastava tutto come un gigante, la sua ciminiera sputava fuori dei fumi color marrone scuro che coprivano il sole. La riva del fiume era disseminata fittamente di tronchi d'albero; enormi trattori issavano tronchi giganteschi sopra al suolo ridotto a una poltiglia di fango. E nell'aria c'era un puzzo insopportabile. Rob e Maggie si cercarono con gli occhi ed espressero tacitamente il loro disgusto. Il motore fuoribordo aveva a un tratto cominciato a grugnire e Rob si accorse che il canale si era fatto meno profondo. Il corso navigabile si era ristretto a una via d'acqua proprio nel mezzo del fiume, fiancheggiata dalle montagne di fango che si era accumulato su entrambi i lati sino alla sponda. «Ehi, laggiù!» disse una voce dalla riva. Rob alzò gli occhi. Un gruppo di tagliaboschi gli stava indicando di risalire il fiume in direzione della parte opposta della fabbrica. Ma era troppo tardi. La poppa del canotto si incagliò nel limo e il motore lo abbandonò. Erano impantanati a quindici metri buoni dalla costa. «Avete una corda?» gridò un tagliaboschi. Rob aveva una fune d'attracco, ma era troppo corta. «Troppo corta!» gridò in risposta. «Aspettate!» Rob e Maggie aspettarono mentre l'uomo correva a un autocarro e tornava con un lungo rotolo di corda e glielo buttava. Rob legò un capo alla prua; da riva quattro uomini presero a tirarli attraverso il fango. «Sto cercando il signor Isely,» disse Rob. «Gli uffici sono disopra.» «Più vicino non potete portarmi?» «Vi toccherà guadare. Ma state attenti, in quella roba si sprofonda proprio.» Rob prese Maggie per mano e si calarono dalla barca, affondando sino ai ginocchi nel fango. Due tagliaboschi entrarono in acqua per aiutarli, uno trasse Maggie a riva. «Cercate il signor Isely?» «Sì,» rispose Rob mentre si arrampicava a riva. «Venite.» Seguirono gli uomini alla fabbrica, tra un frastuono che cresceva sempre di più mano a mano che si avvicinavano. Appena fuori delle porte, li fermò una guardia in uniforme che telefonò di sopra per avere il permesso di farli entrare.
«Nome?» «Robert Vern.» La guardia ripeté il nome al telefono, poi fece loro segno di entrare dando a tutti e due una cuffia e un elmetto. «C'è un ascensore montacarichi appena dietro la porta. Schiacciate il quarto.» Entrati nell'edificio, Rob e Maggie furono quasi atterrati da uno sbarramento di caldo e di strepito. Si trovavano in una specie di immenso magazzino pieno di macchine ruggenti e mastodontiche: i loro padroni umani erano ridotti alle dimensioni di nanerottoli. Gli uomini erano a stento visibili nel labirinto di tubi e serbatoi baluginanti che emettevano vapore e ardevano di calore lavorando il legname grezzo. Lì la temperatura poteva essere benissimo sui quaranta gradi. Maggie fu presa da nausea mentre aspettavano il montacarichi. «Stai bene?» Lei annuì. «Come fa la gente a lavorare qui dentro?» Arrivò l'ascensore ed entrarono; le porte si chiusero con un brusco clangore di metallo dietro di loro. Mentre salivano, i loro sguardi corsero a una fila di maschere antigas. Sotto c'era l'avviso: «Usare in caso di allarme. Dirigersi immediatamente all'aperto.» Con un sobbalzo, l'elevatore si fermò e quando le porte si aprirono Bethel Isely era di fronte a loro. Vestiva in completo e cravatta e sfoggiava un sorriso di genuino piacere. «Potete togliervi le cuffie!» urlò mentre dava loro la mano. «Qui è tutto bello tranquillo!» Li guidò al suo ufficio. Una segretaria domandò se volevano del caffè. Rob e Maggie rifiutarono. Rob era impaziente di visitare la fabbrica. «Desidero vedere come funziona tutto, qua dentro,» disse Rob in tono fermo. «Dal principio alla fine. Voglio conoscere l'intera lavorazione.» «Niente di più facile. È davvero molto semplice, sa? Prego, seguitemi.» Cominciarono il giro dal tetto della fabbrica dove sostarono accanto a una ringhiera a contemplare le cataste alte come montagne dei tronchi tagliati. In basso, degli uomini alimentavano di tronchi un convogliatore che correva lungo tutto il lato della fabbrica, e, risalendolo, trasportava fin sopra il tetto i tagli piccoli di legname già scortecciato; qui piombavano in un serbatoio d'acqua e poi galleggiando percorrevano tutto il letto nel senso della lunghezza, immessi in un canale artificiale. «Questo corso d'acqua si chiama 'il canale',» spiegò Isely mentre lenta-
mente lo costeggiavano. «Tutto il legname che risulta inadatto per i cantieri di legname viene tagliato in tronchi di circa un metro e venti di lunghezza e in questo canale è convogliato alle macinatrici. Impieghiamo mole di pietra per sfibrare e trasformare i tronchi in pasta-legno. Una volta ottenuta la pasta, la sbianchiamo, da marrone si trasforma in bianca, dopo di che viene pressata e si ha la carta. E questo è tutto. Un processo di lavorazione molto semplice e un'industria molto convenzionale. Fatta eccezione per il volume, non è diversa da settant'anni fa.» «Qual è il volume?» «Al momento?» «Capacità massima. Quanti tronchi riuscite a lavorare in un giorno?» «Forse un cinque acri.» La risposta lasciò Rob quasi muto; Isely fu lesto ad alleviare il colpo. «Vale a dire, sempre che noi si abbia fretta. Ma non abbiamo fretta.» «Quanto tempo è, in termini di un singolo albero? Quanto ci vuole per trasformare un albero in carta?» Isely poteva vedere che Rob era sconvolto. «Non l'ho mai calcolato.» «Una stima approssimativa.» «Come lei saprà, il traguardo principale che si prefigge qualsiasi industria è l'efficienza...» «Allora deve saperlo.» «Stavo soltanto cercando di dirle che è una cosa di cui andiamo orgogliosi.» «Le ho rivolto una semplice domanda...» «Dieci minuti.» Rob fu impietrito. Gli alberi che venivano trasportati lungo quel canale alle macchine di sfibratura si erano eretti sulla terra per forse dieci secoli. E ora, nel giro di dieci minuti, li riducevano in uno stato che avrebbe permesso di scriverci sopra, farci un pacco di qualcosa, soffiarcisi il naso dentro e poi buttarli nella spazzatura. Le attitudini dell'uomo a disfare lo lasciarono stordito. «Voglio vedere tutto il resto,» dichiarò Rob. «Tutta quanta la fabbricazione.» «Potrà vedere tutto ciò che desidera. Non abbiamo niente da nascondere.» Rob prese la mano di Maggie e discesero una stretta scala a pozzo metallica sino al terzo piano, dove massicce macchine macinavano e masticavano i tronchi riducendoli in pasta.
Qui il livello del rumore era insopportabile. Isely doveva urlare direttamente negli orecchi di Rob per farsi sentire. «I tronchi sono sminuzzati meccanicamente! Nessun prodotto chimico! Li maciniamo con mole di pietra!» «Poi li candeggiate?» «Cosa?» «Li candeggiate, dopo?» «Sì. Li candeggiamo!» «Yoglio vedere!» Scesero giù per un'altra scala metallica al secondo piano, dove la pasta scura usciva riversandosi in vasche fumanti e riemergeva su un convogliatore, trasformata in colore bianco. Era da qui che veniva il puzzo acre; l'aria era a malapena respirabile. Maggie si teneva le mani sulla bocca e sul naso; cominciava a sentirsi male di nuovo. «Signora Vern, si sente bene? Può andare a sedersi lì fuori, accanto alla porta!» Maggie annuì riconoscente e si avviò a una uscita di sicurezza dove sedette sui gradini ansimando in cerca d'aria. Rob ristette a osservarla a lungo, poi decise che stava bene. E tornò a rivolgersi a Isely. «Perché la sbiancate?» gridò per soverchiare il fracasso. «Fatta eccezione per la carta d'imballaggio, a nessuno piace la carta che non sia bianca. Non state a domandarvi come mai. Un semplice ticchio che ha la gente. Magari non l'avesse. Risparmieremmo un sacco di soldi.» «Con che cosa la sbiancate?» «Cloro. Ma rimane nella fabbrica, non ne esce nemmeno una goccia. È un rischio per noi, perché il cloro può trasformarsi in gas. Sarebbe un bel po' più sicuro se potessimo scaricarlo fuori nell'acqua, ma sappiamo che farebbe un inferno di danni all'ambiente. E l'ultima cosa che vogliamo è danneggiare l'ambiente.» «Non finisce nell'acqua, allora?» «Nemmeno una goccia. È facile verificarlo. Siamo ben lieti se fate l'esame dell'acqua. Qui non facciamo niente che non sia raccomandato dalla EPA. Le assicuro che seguiamo religiosamente le vostre norme.» «Voglio vedere ancora!» «Da questa parte.» Maggie li seguì lungo l'ultima scala al piano principale, il pianterreno, quello da dove erano entrati inizialmente. Il livello del caldo qui era più in-
tenso che in qualsiasi altro punto della fabbrica. «Era qui che la pasta bianca candeggiata passava nei pressatoi che sembravano rulli compressori, per emergere in forma di un enorme foglio di carta continuo. «E questo è tutto!» disse Isely. «Una volta che la pasta è scesa quaggiù, viene pressata in fogli, asciugata, e diventa carta.» «Come fa a trasformarsi in carta?» «La pasta è fibrosa. Quando viene pressata, le fibre s'intrecciano creando un solido.» Rob si guardò intorno tra le enormi macchine, la faccia che tradiva la delusione. «E l'unico prodotto chimico che usate qui è il cloro?» «Sì. No, mi scusi. Mischiato al cloro c'è anche un agente caustico. È biodegradabile, raccomandato dall'EPA, e resta qui insieme al cloro. Non va nei bacini idrici.» «Innocenti come neonati, eh?» «Mi scusi?» Rob si girò piazzandosi davanti a lui e restò a guardarlo con aria diffidente. «Qualcosa che non va?» domandò Isely. «Che succede ai tronchi prima che arrivino fin qui?» Qualcosa nella voce di Rob mise in guardia Isely. La sua era stata un'accusa più che una domanda. «Vengono flottati lungo il fiume sino alla fabbrica.» «Semplicemente? Li fate solo galleggiare direttamente alla fabbrica?» «Esatto.» «Non li tenete fermi da qualche parte? Non si arrestano in nessun punto lungo la strada?» «Qualche volta. Se abbiamo troppo...» «Dove si fermano?» «Solitamente non si fermano.» «Ma a volte sì. Non è quello che ha appena detto?» «Sì.» «Dove li tenete?» «In vari posti.» «Stagni? Li tenete negli stagni?» «Può darsi. Li ammorbidisce, tenerli a mollo.» «Così tenerli a mollo nell'acqua fa parte della lavorazione?» «Restano a mollo mentre scendono lungo il fiume.» «Ma un ammollamento extra è meglio per voi.»
Isely cominciava a sentirsi offeso per questo interrogatorio. «Si dà il caso che non sia meglio. Se restano a mollo troppo a lungo, affondano e si coprono di alghe e le alghe entrano poi nella pasta.» «D'accordo. Ricapitoliamo un attimo.» «Di che si tratta? È un terzo grado?» «Mi limito a farle qualche domanda.» «Sono lieto di rispondere alle sue domande.» «Bene, perché devo fargliene ancora.» Maggie guardò fisso Rob cercando di fargli capire di calmarsi La sua collera la stava mettendo a disagio. «Lei dice che a volte i tronchi vengono tenuti negli stagni,» lo sfidò Rob. «Sì. Quando abbiamo un'eccedenza di materia prima da lavorare.» «Io ho visto montagne di tronchi tagliati là fuori. Direbbe che proprio ora avete un'eccedenza di materia prima?» «Sì.» «E questo quanto spesso succede?» Isely non rispose. «Per me è facile da scoprire, sa,» lo avvertì Rob. «Si può sapere dove sta cercando di arrivare?» «Quanto spesso vi capita di avere dell'eccedenza?» «Abbastanza spesso.» «Forse tutto il tempo?» «Non lo so.» «Ma più spesso che occasionalmente soltanto.» Isely cominciava ad arrabbiarsi. «Non lo so.» «Non è lei il responsabile, qui?» «Lo sono, ma non posso sapere proprio tutto.» «È il suo lavoro, sapere tutto!» Isely fissò gli occhi diritto in quelli di Rob. «Signor Vern, io sono nuovo a questo lavoro, esattamente come lei è nuovo al suo.» Rob si irrigidì per l'ira. Maggie tese una mano a toccargli un braccio in un tentativo di calmarlo. «Tenete i tronchi nell'ammollo chimico?» domandò Rob. «Che io sappia, no.» «Che significa questa risposta?» «Che non rientra nelle mie competenze saperlo. Il trasporto di tronchi al-
la fabbrica è di competenza di un subappaltatore privato. Noi non abbiamo nessuna giurisdizione su ciò che fa lui.» «Le ho rivolto una domanda!» «E io ho risposto!» «Lei è responsabile per qualsiasi effluente che esca da questo processo di lavorazione,» urlò Rob. «È lei che noleggia l'appaltatore, è lei che vende il prodotto, lei deve rispondere di qualsiasi cosa succeda qui dentro!» Avvicinò la sua faccia a quella di Isely: «Risponda, voglio sapere quali prodotti chimici usate!» «Voglio fare io una domanda a lei, ora!» urlò di rimando Isely. «Quante pagine userà per stendere il suo rapporto?» «Risponda alla mia domanda!» «Quante pagine? Un centinaio? O forse un migliaio? E quante copie? Cinquecento magari?» «Voglio sapere i prodotti chimici che usate!» «Stiamo parlando di cinquecento fogli di carta semplicemente per il suo rapporto. Sbaglio molto con il mio calcolo?» «Le ho domandato ..» «Le sto rispondendo! Io offro, lei domanda! Anche lei è responsabile! A meno che non si voglia riempire i cassetti di sassi e soffiarsi il naso nei cactus...» «Quali sono i prodotti chimici che usate per l'ammollo dei tronchi?» gli urlò fuori di sé Rob. «Nessuno,» rimbeccò, furente, Isely. «Non le credo.» «E allora faccia l'esame dell'acqua!» si infuriò del tutto Isely. «È questo che facciamo noi! Se i tronchi fossero ammollati in prodotti chimici, sarebbero spremuti fuori durante la lavorazione della pasta direttamente nel bacino che sta davanti a questa fabbrica!» Adesso Isely fumava di rabbia con la faccia rossa di collera. «Noi preleviamo campioni di quell'acqua ogni dieci giorni e non c'è un dannato accidenti che galleggi nell'acqua che ci sia sconosciuto e che non sia perfettamente sicuro per l'ambiente!» «Perché là fuori ci sono dei pesci morti, allora?» «Se lei ne sapesse di più sul suo mestiere, signor Vern, la risposta la saprebbe da solo. In quel braccio di fiume l'acqua è eccessivamente sfruttata. Non ha sufficiente ossigeno per sostentare della vita acquatica nel raggio di un chilometro tutt'intorno, e questo è perfettamente accettabile per l'EPA: non ha nessun effetto sul resto dell'acqua. E non ha niente a che vede-
re con prodotti chimici di nessun tipo.» Questa tirata zittì Rob. Chiaramente Isely sapeva quel che si diceva. «Sa come si fa a fare l'esame dell'acqua, dottor Vern?» «So come si fa.» «E allora lo faccia! Non abbiamo niente da nascondere, noi!» Isely girò sui tacchi e scomparve nel montacarichi, le porte si chiusero sul suo cipiglio furente. Rob si sentiva male per la tensione. Prese per mano Maggie e uscirono nella frescura della sera. Il sole offuscato dai fiumi della fabbrica era basso all'orizzonte; Rob e Maggie si diressero senza parlare alla loro barca, guadarono i tre metri nel fango e con uno sforzo saltarono nel canotto. Rob sospinse a forza di remi la barca fuori della corrente di fango immettendosi nella stretta via d'acqua navigabile al centro del fiume, poi avviò il motore. In pochi minuti raggiungevano l'imboccatura in cui il fiume Espee si gettava nel lago di Mary. Rob notò il cadavere di un castoro stretto in una delle reti da pesca. Il sole tramontava; i pipistrelli erano calati a cibarsi della profusione di insetti cui la pioggia aveva dato vita. Si calavano in picchiata e si tuffavano stagliati contro il cielo striato di arancione, silenziosi come tante farfalle in un campo di fiori. L'ironia di quella terra era che apparisse così invincibilmente indomita. A prescindere dal disastro che incombeva, in agguato nelle sue viscere, all'esterno conservava una imperturbabilità implacabile. Quella facciata era come la somma di tutte le sue diverse parti e possedeva una sorta di coraggio collettivo; tanto più difficile da analizzare bene, perché ogni cosa formava un tutto inestricabilmente commisto. Sedevano silenziosi, respirando a fondo la fragranza confortante dei pini mentre la piccola imbarcazione solcava la superficie calmissima del lago dirigendosi all'isola. Nel caldo e nel frastuono della cartiera, Maggie aveva sperimentato una specie di agitazione nel suo ventre, diversa da qualunque altra sensazione mai provata prima. Ma non era il tipo di movimento piacevole che lei aveva sentito descrivere dalle altre donne incinte. Era stato un moto brusco e risentito, qualcosa di ribelle come se i suoi visceri fossero in conflitto. Adesso sentiva che il suo ventre ricuperava la calma, il tonico dell'aria fresca e la quiete del lago le calmavano i nervi. Dal suo posto nella poppa della barca, Maggie si girò con la faccia verso Rob e gli vide negli occhi la disperazione. Lei sapeva che Rob non era abituato alle sconfitte; desiderò ardentemente di poterlo aiutare in qualche modo: come, non lo sapeva.
«Rob, i girini non potrebbero certe volte diventare molto grossi?» gli domandò gentilmente. «Quelle radici si sollevavano dal terreno, Maggie. Il fogliame là era diverso da tutto il resto della foresta. Il colore dell'acqua era sbagliato.» «Deve proprio essere colpa della fabbrica? Non potrebbe essere tutto dovuto a qualche altra cosa?» Rob scosse il capo in segno di disperazione. «Non lo so,» disse poi. Maggie notò che aveva gli stivali coperti di una melma spessa e brunogrigiastra. Lo strato di melma le era salito sino all'apertura in alto e adesso lo sentiva sgocciolare dentro lungo le gambe e sino alla punta dei piedi. Cacciò un dito nella stretta apertura degli stivali e fece una smorfia di disgusto nel toccare quella melma vischiosa; se la rotolò tra le dita, poi si lavo nell'acqua lasciando scorrere la mano lungo il canotto. Continuò il movimento, grattando via il fango e lavandosi la mano in un gesto meccanico, una sorta di ritmo inconscio. «Io gli credo,» disse poi, mentre seguitava a levarsi il fango dall'interno degli stivali. «Isely, intendo dire.» «Perché?» «Non saprei. Fa troppi sbagli per essere un bugiardo.» «Vorrai dire che fa troppi sbagli per essere un buon bugiardo.» «Secondo me, non mentiva.» Rob la guardava ripulirsi gli stivali, soprappensiero, quando a un tratto fu preso da un vivo interesse per il suo traffico. Staccandosi dalla sua mano la melma brunogrigiastra lasciava nell'acqua una scia in cui aveva colto un luccicare di riflessi come se contenesse minuscole particelle di qualcosa di metallico. «E poi,» proseguì Maggie, «se avesse mentito, non ti avrebbe mica incoraggiato a fare l'analisi dell'acqua, ti pare?» Gli occhi di Rob corsero agli stivali da cui Maggie continuava a grattar via fango, e, con una raggelante certezza, vide una debole striatura argentea nell'impronta delle sue dita. La sua espressione di colpo si fece gelida. «Forse, perché non era nell'acqua,» rispose. Maggie avvertì il suo tono e rapidamente alzò gli occhi a guardarlo. «Forse era più pesante dell'acqua,» disse lui. La spaventò l'espressione della sua faccia. «Cosa intendi dire, Rob?» «Guardati gli stivali.» Lei guardò, e allora vide quel che vedeva Rob. Tirò su dal collo del suo stivale un grosso grumo di fango e se lo lisciò tra le mani, poi guardò, e
scorse una minuta pepita di una sostanza metallica e molle. «Sembra dell'argento,» disse. «Sembra un'otturazione di dente o qualcosa di quel genere.» «È molle?» Lei schiacciò la pepita con il dito. «Sì.» «L'argento è duro.» «Allora cos'è?» «Asciugati le mani, poi toccalo.» Rapida Maggie si asciugò una mano nel suo scialle poi, delicatamente, toccò la bollicina simile a stucco fresco. «È asciutto?» «Sì,» rispose lei, stupefatta. La faccia di Rob s'indurì per la collera, ma ora nella sua espressione c'era anche del trionfo. «Che cosa è?» Maggie domandò. «Alla facoltà di medicina, usavano farci una domanda cattiva. La ricordo ancora perché sbagliai la risposta.» «Che domanda era?» «Qual è il solo liquido che non bagna?» «E la risposta?» La faccia di Rob si accese per l'eccitazione. Adesso, aveva qualcosa da cui partire. «Mercurio.» 10 Mentre le creature notturne andavano a caccia nella foresta di Manatee sotto il chiarore tranquillo e calmo della luna, Robert Vern si affaticava, nella sua baita, con laboriosa intensità, la faccia crudamente illuminata dalla luce bianca d'una lampada al kerosene, messa sul tavolino della cucina accanto a lui. La grossa pila di libri che Victor Shusette gli aveva dato cominciava lentamente, avaramente, a concedere le risposte alle sue domande. Per cinque ore di fila Rob aveva divorato un testo dopo l'altro, prendendo febbrili appunti, controllando i rimandi, e ora, all'una del mattino, l'enormità di ciò che aveva scoperto andava prendendo forma. Maggie era a letto, addormentata; il silenzio totale in cui la baita era immersa accentuava ancora di più la spaventosa chiarezza con cui la sco-
perta pian piano emergeva nella mente di Rob. Un indice in appendice a un libro sui veleni industriali aveva fornito oltre un centinaio di simboli dei composti chimici, contenenti mercurio, che venivano utilizzati nell'industria. Uno dopo l'altro Rob era andato eliminandoli. La sua conoscenza della chimica era al tempo stesso un attivo e un passivo nella sua ricerca attuale. Sebbene lo mettesse in grado di comprendere il linguaggio, gli impediva di prendere la via più breve, come avrebbe fatto qualcuno più ingenuo di lui. Rob sapeva che perché un prodotto chimico avesse un effetto così profondo sugli organismi viventi, il prodotto stesso doveva contenere degli organismi viventi Pertanto aveva liquidato i prodotti sintetici creati in laboratorio concentrandosi sui biochimici, le colture vive, costituite da muffa, virus e batteri. Ma due ore di ricerca erano terminate nella frustrazione. Dopo averli rintracciati uno per uno, aveva scoperto che i loro usi erano primariamente farmaceutici e agricoli. Nessuno di essi aveva una qualsiasi possibile applicazione nell'industria del legname. Aveva ripreso da capo la sua ricerca, cominciando a lavorare sui composti sintetici, i composti chimici inorganici più correntemente usati nell'industria: caustici e antisettici, usati a scopi igienici e per tenere pulite le parti di macchinario. Cominciò, tra tutti, a spiccare un composto particolare. Era il PMT. Veniva usato per tenere sotto controllo la vegetazione, per impedire alle alghe di formarsi su macchine quali gli impianti petroliferi e le pompe di fognatura, che dovevano funzionare sott'acqua. Rob ricordava bene Isely dirgli che se i tronchi stavano immersi troppo a lungo sopra ci si formavano le alghe, e che questo per loro era un inconveniente. Era dunque possibile che si servissero di questo prodotto, o un altro analogo, negli stagni in cui tenevano i loro tronchi, per conservarli liberi dalle alghe. Ma non era ancora una cosa ben chiara. Perché il PMT non era organico. Era sintetico. Inorganico. Le sostanze inorganiche potevano causare solo dei danni esteriori all'ambiente, come l'inquinamento. Quel che Rob invece cercava era qualcosa capace di provocare il caos interno, biologico. Cercava una sostanza organica. Prese un libro sull'analisi chimica, scompose nei suoi elementi il PMT e, così facendo, trovò la chiave. PMT era il simbolo del metilmercurio inorganico. «Metile», stava per metilnitrato. Il metilnitrato, se ingerito da un organismo vivente, poteva diventare organicamente fruibile nel passare attraverso il suo corpo. In altre parole, il metilmercurio inorganico poteva diventare una sostanza organica. Quel tipo di sostanza di cui Rob era in
cerca. Rob tracciò rapidamente un grafico per stamparsi in testa il funzionamento della reazione chimica. Il PMT viene versato nell'acqua. I grani microscopici di mercurio che esso contiene si comportano tra loro come magneti, ogni granello lentamente ne trova un altro, e si radunano, formando delle piccole sfere. La stessa attrazione magnetica che agisce sul mercurio agisce anche sul plancton, le microscopiche componenti vegetali dell'alga, radunandolo. Invece di attaccarsi ai tronchi sommersi, l'alga cresce intorno alle piccole sfere di mercurio, che, ingrossandosi, diventano pesanti e affondano nel limo. I girini, i piccoli pesci, gli insetti acquatici, tutti gli animali che si nutrono di alga, consumano le palline di mercurio ricoperte di verde e morbida vegetazione; e il mercurio, nel passare attraverso il loro corpo, diventa organico. Queste minuscole creature vengono mangiate da altre, più grandi. La concentrazione di metilmercurio aumenta via via che risale lungo la catena alimentare. Un pesciolino trasporterà nel suo corpo una minuscola quantità di veleno, un salmone mangerà un migliaio di pesci piccoli. Un orso mangerà un migliaio di salmoni. Quando il mercurio avrà infine raggiunto l'ultimo stadio della catena alimentare, le creature che l'hanno ingerito saranno piene di veleno. I loro prodotti escrementizi penetrano nel terreno, fertilizzano il fogliame che è mangiato dagli erbivori: cervi, conigli, topi, vermi. L'intero ambiente diventa tossico. Ma questo non era ancora tutto quello che doveva scoprire quella notte Robert Vern. Alla fine, aveva preso a studiare un libro intitolato Precedente legale riguardante le decisioni industriali. Faceva il resoconto particolareggiato di alcuni tra i più catastrofici degli incidenti industriali nell'età tecnologica. Nell'indice analitico era elencato qualcosa come «MMT». Il simbolo era diverso da PMT, ma Rob fece presto a determinare che si trattava unicamente di una differenza semantica, rispecchiava un cambiamento nel linguaggio della chimica degli ultimi vent'anni. MMT e PMT erano la stessa e identica cosa. Metilmercurio inorganico. Ciò che Rob trovò nelle pagine di quest'ultimo libro gli ghiacciò il sangue. Il capitolo sull'MMT era una storia dettagliata, e con fotografie, del più devastante incidente industriale a memoria d'uomo. Le foto avevano l'aria di essere state prese in una zona bellica: erano fotografie ospedaliere di gente mutilata e sfigurata, di bambini deformi, di vecchi dagli occhi vitrei e i sorrisi insensati. Erano le fotografie prese a Minamata, Giappone, nel 1956. In quell'anno, in quel posto, un'intera comunità di centomila persone era diventata malata, sfigurata e infine era morta per avvelenamento
da metilmercurio. Una cartiera sulle rive del lago di Minamata aveva pompato metilmercurio in un bacino idrico per cinquant'anni: il lago veniva usato dall'intera popolazione come fonte di acqua potabile. Nessuno, non un uomo o una donna o un bambino, era sfuggito al suo effetto disastroso. La prima volta che i sintomi erano diventati visibili, erano stati battezzati «malattia della sbronza», o «malattia sorridente», o anche «malattia felina», quest'ultimo nome dovuto al fatto che la popolazione dei gatti domestici, che mangiava soltanto il pesce pescato nel lago, era stata la prima specie animale a impazzire e morire. Si era scoperto allora che il metilmercurio inorganico, quando convertito dal processo digestivo in metilmercurio organico, diventava una neurotossina e un mutageno. In quanto neurotossico, attaccava le cellule del cervello, causando perdita di sensibilità tattile, disorientamento, eventualmente paralisi e morte. Come mutageno, attaccava il feto in formazione. Diversamente da altri mutageni noti all'uomo, esso aveva la capacità di saltare la barriera placentale, viaggiando attraverso l'organo di purificazione del sangue che normalmente protegge un feto in sviluppo dalle impurità e dai veleni ingeriti dalla madre. Il PMT di fatto si concentrava addirittura nelle cellule sanguigne del feto; una concentrazione del trenta per cento più alta di quella riscontrabile nelle cellule sanguigne della madre. Dopo estesi esami di laboratorio, il metilmercurio era stato dichiarato dagli scienziati il più potente veleno che fosse venuto al mondo nell'età posteriore alla seconda guerra mondiale. Il suo uso su vasta scala nell'industria era stato per esempio messo fuori legge dopo di allora dalla Corte Mondiale dell'Aja, in Olanda. L'ultima pagina di quel capitolo era una testimonianza eloquente del potere del PMT. Si trattava di una fotografia a tutta pagina di una donna, mutilata e curva, con nelle braccia il corpo di un bambino sfigurato. Robert Vern chiuse il libro e rimase seduto immobile nel silenzio della baita. Era troppo sopraffatto d'orrore per muoversi, scioccato dalle proporzioni del disastro che aveva scoperto. Mentalmente lottò per impossessarsi pienamente del suo significato, per serrare in qualche modo insieme sin gli ultimi frammenti di comprensione della cosa. A Minamata il veleno aveva avuto cinquant'anni per accumularsi. Qui, nella foresta di Manatee, la cartiera funzionava da soli vent'anni. Forse era possibile fermarla prima che fosse tròppo tardi. Il fattore sconosciuto era la potenza del composto chimico utilizzato a Minamata in confronto a quello usato qui. Era possibile che quei cinquant'anni si potes-
sero ridurre a metà, se la potenza del prodotto chimico fosse stata doppia. Un ultimo interrogativo che si formulò nella mente di Rob: come potevano usarlo qui? Come potevano? Possibile che ne ignorassero gli effetti? Possibile che il cambiamento di linguaggio chimico che adesso lo etichettava come PMT invece che MMT, li inducesse a credere che non fosse lo stesso prodotto? Oppure dava loro una scusa, una ragione per dichiararsi innocenti? Come potevano, come osavano, seguitava a ripetergli la sua voce interiore. Come osavano? In un'improvvisa esplosione di rabbia, Rob calò il pugno sulla tavola, facendo sobbalzare tutto quel che c'era sopra. Rapidamente si alzò, spalancò la porta della baita e si arrestò nella notte, i pugni stretti, fissando stupidamente le stelle. «Rob?...» Si girò e guardò dentro, vide Maggie in vestaglia scendere la scaletta. Avanzava verso di lui guardandolo con occhi impauriti e si fermò sulla soglia dell'uscio spalancato. «Cos'è?» sussurrò. «Metilmercurio inorganico,» disse Rob con voce tremante. «PMT. È un agente sfangante... Raccoglie le alghe e le tiene lontane dai tronchi. Ecco in che cosa immergono a bagno i tronchi.» Si accorse che lei non capiva. «È una neurotossina. Nel 1956 ha spazzato via una comunità di centomila persone a Minamata, in Giappone.» Maggie ascoltava tutta confusa. «Perché lo adopererebbero qui?» «Perché costa poco ed è efficace. Efficiente. Non è questo che diceva Isely? Che sono orgogliosi della loro efficienza?» Rob adesso tremava di rabbia. «Ne sei sicuro?» «Gli indiani mangiano pesce e si comportano come se fossero ubriachi quando non hanno nemmeno un goccio di alcool. Non è questo che ha detto Hawks? Che la gente pensa che gli indiani siano ubriachi? 'I miei sono dei pescatori'... non è questo che ha detto? A Minamata era chiamata la malattia del bere!» Con il respiro sempre più rapido, Rob cominciò a camminare in su e in giù, frustrato di non potersi sfogare. «Un procione diventa aggressivo e crepa, con il cervello ridotto in poltiglia! Un gatto, lo stesso! Il gatto della guardia forestale che mangiava solo pesce, ricordi? Lui ce lo ha detto! E quel vecchio. L'indiano. Hai visto le bruciature sulle sue dita?» «È dovuto al mercurio, quello?»
«È dovuto alle sigarette! La ragione per cui non le sente quando si brucia, quella è dovuta al mercurio. Non ha nessun senso del tatto nelle mani! Mangia quel che esce dallo stagno! Ecco perché c'era un girino grosso come dovrebbe essere una rana!» «È stato il mercurio a farlo?» «Il mercurio, è stato, certo! È un mutageno! E per venti anni è stato versato in quest'acqua!» «Un mutageno...» «È un disastro, Maggie!» Maggie avanzò sulla veranda, la sua espressione che diventava sempre più spaventata mentre osservava Rob marciare avanti e indietro davanti a lei. «Vuoi dire... che muta...» «Muta sì. E come muta! È il solo mutageno che salta la barriera placentale. Si concentra nelle cellule sanguigne fetali con una percentuale del trenta...» «Rob,» io interruppe lei a voce bassa. «Io devo capire bene questo...» «Tu devi capirlo? Io devo capirlo! Io voglio sapere perché diavolo lo stanno usando qui!» «È nel pesce, è così?» «In qualsiasi cosa che mangi il plancton. Qualsiasi cosa che mangi l'alga! Qualsiasi cosa che mangi qualsiasi cosa! Questo significa che è in tutto!» Maggie cercò di mantenere la voce calma e non tradire la sua paura. «Che significa... salta la barriera placentale?» «Aderisce ai cromosomi proprio come aderisce all'alga...» «Senti, non ti capisco. Si può sapere cosa significa?» «Mostri!» urlò. «Significa mostri! Scherzi della natura!» Maggie si ritrasse, come se l'avesse colpita uno schiaffo. «Questo è quello che sta succedendo là fuori!» infuriava Rob. «Ecco perché c'era un dannato salmone lungo un metro e mezzo! Pensavi che non l'avessi visto? L'ho visto! Come ho fatto, dannazione, a non capire?» Maggie sentì all'improvviso un accesso di nausea, chiuse gli occhi, cercando di impedirsi di andare a pezzi. «E i nati morti!» «Cosa!?» sobbalzò Maggie. «È quello che diceva quella donna indiana. Feti nati morti. E bambini deformi. Bambini che sembravano animali, ha detto! E Dio solo sa che cosa altro ancora sta succedendo qui!»
Maggie si sentì tremare in ogni fibra del corpo, la sua mente cominciò a vacillare e smarrirsi. Ma si attaccò disperatamente alla realtà, mossa dal bisogno di essere forte, di saperne di più. «Così se un... animale gravido mangiasse il pesce potrebbe...» «Può.» Maggie rabbrividì tutta. Rob si girò verso di lei, le vide negli occhi la paura. Lo colpì, come se l'avessero folgorato. «Mio Dio.» «Rob?» «È mai possibile?» «Sì.» I loro occhi si fissarono terrorizzati. Ma il loro terrore non era il medesimo. «Grosso come un drago,» disse Rob, in un sussurro. «Cosa?» «Quella poesia. La guardia forestale. Grosso come un drago. Non è questo che diceva?» Maggie era sbalordita. Ma Rob era inconsapevole del suo tormento, trascinato com'era dal proprio. «E quel vecchio. Quell'indiano. Non ha forse descritto la creatura come una cosa fatta di 'ogni essere creato da Dio'? Non era così che ha detto?» Maggie avanzò con gambe molli e tremando tutta sedette sui gradini della veranda. «Gli occhi di un gatto,» sibilò Rob tra i denti. «Questo diceva Isely all'aeroporto.» Maggie abbassò la testa e se la prese tra le mani. Le parole continuavano a colpirla e lei non aveva la forza sufficiente per fermarle. «Ascoltami, Maggie,» sussurrò lui intensamente, «ascoltami.» Ma Maggie stava cercando di non ascoltare più niente. «Un feto in sviluppo attraversa delle fasi precise, diverse. Ogni fase rappresenta uno specifico, preciso stadio dell'evoluzione. Un feto umano: in una fase, è come un pesce. Ha pinne e branchie. In un'altra, sembra felino. La faccia somiglia a quella di un gatto. Si sviluppa risalendo verso l'alto la scala evolutiva e assumendo via via le sue diverse forme e fasi.» Gli occhi di Maggie erano vitrei. Le parole che entravano nei suoi orecchi echeggiavano come se venissero da un'immensa distanza. «Questo composto chimico si attacca al DNA. Il DNA è un fissativo cromosomico. Può 'congelare' certe parti in uno stadio evolutivo, mentre altre parti continuano a crescere e svilupparsi.» Fece una pausa. «Mi stai
ascoltando?» «Sì,» rispose lei in tono spento. «Un animale gravido, un'orsa, diciamo, ingerisce il pesce... e questo corrompe il feto al punto che... dà alla luce un mostro...» Si girò verso Maggie che stava seduta senza reagire e con occhi senza vita. «Maggie?» «Maggie?» «Sì,» lei bisbigliò. Rob fissò intensamente nella notte, incredulo lui stesso di quello che stava per dire: «Maggie, là fuori potrebbe esserci un mostro. Letteralmente un mostro.» Nel silenzio che seguì, una strolaga attaccò il suo lamento sinistro. Echeggiò attraverso il lago buio, riempiendo l'intera foresta di un gemito. «Quanto pesce, Rob,» proferì Maggie quasi balbettando, «ci vorrebbe... per dare alla luce un?...» «Si concentra nelle cellule del sangue fetale.» «Quanto... ce ne... vuole?» «Pochissimo.» Maggie capì che stava per vomitare. Si alzò e si avviò per rientrare. «Avrò bisogno di prove,» disse in un tono spento mentre guardava il lago senza vedere. «Non ne sei sicuro?» «Dovrò prendere dei campioni di sangue. La mia prima priorità è la gente.» Lei si girò di nuovo, tenendo a bada la nausea quanto bastava per tirar fuori la sua domanda. «Quanto tempo? Prima che tu ne sia sicuro?» «Se qui all'ospedale sono attrezzati con un laboratorio... domani.» Maggie entrò nella baita, chiudendosi la porta alle spalle. Rob restò fuori. L'aria riecheggiava del grido demente della strolaga. Travis Nelson stava seduto accanto al fuoco da campo e udì anche lui il richiamo della strolaga. Guardando l'orologio notò che era troppo presto perché le strolaghe si facessero udire. Tra sé e sé Nelson sorrise, domandandosi che cosa aveva indotto la strolaga a svegliarsi fuori orario. Forse anche lei aveva delle responsabilità, stanotte, come lui. I tre giorni di pioggia scrosciante avevano gravemente ostacolato l'avanzata verso la cascata di Nelson della sua famiglia. Adesso avrebbero aspettato che il terreno fosse asciutto prima di tentare la salita in montagna. Per i bambini era stata un'idea eccitante quella di scalare una montagna e pian-
tare la tenda accanto a una ruggente cascata; per alleviare la loro delusione, Travis aveva suggerito l'esplorazione della costa del lago e di imparare strada facendo le tecniche di sopravvivenza. Dopo aver camminato l'intera giornata, si erano ritrovati in riva a un piccolo remoto emissario del fiume Espee, uno dei tre sbocchi in cui le acque torrenziali si facevano strada giù dal monte e si fondevano nel lago. Era una zona riparata, circondata da alti scogli scoscesi, un'insenatura naturale, elencata sulla Mappa del Servizio Forestale come Curva di Mary. Avevano coperto un mezzo chilometro risalendo il fiume e rizzato il campo tra gli alberi dove potevano udire il rumore dell'acqua precipitosa. Travis aveva notato varie trappole per castori e reti da salmone lungo la strada, e le aveva quasi tutte distrutte. La mappa forestale elencava la zona come «protetta». Era un posto di rigenerazione per la vita animale; non era permesso, lì, cacciare o pescare. Le reti erano sistemate da cacciatori di frodo, probabilmente indiani, che non badavano ai limiti e confini stabiliti da coloro che essi ritenevano degli stranieri. Reti e trappole, tuttavia, avevano consentito a Travis l'opportunità di impartire ai suoi figli una lezione di tecniche primitive di caccia. Ciò aveva portato a una conversazione, mentre cadeva la notte e tutti erano seduti intorno al fuoco, sulle condizioni di vita in un ambiente primitivo e sul coraggio e le risorse di ognuno nel caso che fosse stato necessario sopravvivere senza dipendere da niente altro che da se stessi e le proprie capacità. I bambini si erano allora sfidati l'un l'altro ad affrontare la notte ciascuno per conto suo; Travis e sua moglie Jeanine erano stati a guardarli divertiti via via che la sfida si affermava, finché avevano entrambi raggiunto un punto in cui nessuno dei due era disposto a far marcia indietro. Si erano presi ciascuno una torcia elettrica e con il loro sacco a pelo se ne erano andati via, ciascuno per la sua strada, in mezzo agli alberi, per dimostrare che avevano il coraggio di farlo. Travis si era aspettato che facessero ritorno in pochi minuti, e quando non erano tornati era andato a cercarli. Con suo sollievo aveva scoperto che non erano a più di cento metri di distanza dalla propria tenda e che avevano deciso di campeggiare insieme. Gli aveva costruito un fuoco, che loro avevano promesso di conservare durante la notte per scoraggiare eventuali orsi a caccia nei dintorni; poi si erano messi a dormire, fianco a fianco. Paul aveva tirato su la lampo del suo sacco fin sopra la testa, com'era sua abitudine, per tenere lontane le zanzare; Kathleen aveva optato per una dose abbondante di unguento contro gli insetti, ungendosi generosamente tutto il volto per poter respirare la
fresca aria notturna. Travis aveva fatto ritorno al suo fuoco da campo e poi, dietro preghiera di sua moglie, era tornato a controllare i bambini a mezzanotte. Tutto era tranquillo; il fuoco andava ancora e la sveglia di Kathleen era a terra accanto a lei, puntata per le due, senza dubbio perché la svegliasse in modo da accudire al fuoco. Travis aveva sostato lì commosso dallo spettacolo dei suoi bambini addormentati accanto al loro fuoco nell'oscurità della foresta primitiva. Erano al tempo stesso vulnerabili e temerari, belli nella loro innocenza, e lo inteneriva il loro sforzo di dimostrare che erano dei coraggiosi. Il quotidiano groviglio di problemi e frustrazioni connesso all'educazione dei figli era, per quell'istante, spazzato via. Era una scena di incomparabile pace e tenerezza, e lui voleva imprimersela in mente. Dall'alto degli alberi giunse il grido di una civetta e Travis vide Paul muoversi e tirarsi giù la lampo sul naso per scrutare nella notte. I suoi occhi lentamente si richiusero, di lì a un minuto dormiva di nuovo. Travis indugiò a guardare i bambini il più a lungo che gli fu possibile senza mettere in allarme Jeanine. Poi ritornò al suo accampamento lontano un centinaio di metri. Anche sua moglie ora si era addormentata. Rannicchiata nel suo sacco a pelo, appariva anche lei in tutti i sensi altrettanto vulnerabile e altrettanto bella. C'era qualcosa di molto, molto toccante per Travis in questa veglia che faceva, in un ambiente simile, mentre i suoi cari dormivano. Si rese conto di quanto dipendessero da lui per essere protetti, e di quanto si sentissero sicuri di poter chiudere gli occhi persino in un mondo tanto estraneo al loro mondo consueto, perché c'era lui a proteggerli e difenderli. Così delizioso gli riusciva questo sentimento di valore personale, che Travis era riluttante a cedere al sonno Restò sveglio, leggendo un libro di poesie di Thoreau che gli era sempre piaciuto molto. Alle due del mattino, Travis udì la sveglia di Kathleen suonare. Fece tutt'intera la corsa senza venire spenta. Poi udì il rumore di movimento tra gli alberi e si sentì contento che si fosse svegliata per alimentare il fuoco. Kathleen era dei due il tipo responsabile, Paul era l'impulsivo. Si volevano bene, e Travis si augurò che sarebbero rimasti buoni amici per tutta la vita. Chiuse il suo libro e si distese sulla schiena, restando a contemplare il cielo. Non aveva mai visto in vita sua tante stelle. Cominciò a contarle mentre ascoltava il rumore che faceva Kathleen tra gli alberi in cerca di rametti secchi. Sdraiata nel suo sacco a pelo, la dodicenne Kathleen udì anche lei il ru-
more tra gli alberi. Era stata svegliata dalla soneria ma si sentiva così bene al caldo e comoda nel suo sacco a pelo che non aveva voglia di tirare fuori un braccio nel gelo notturno e spegnere la sveglia; l'aveva lasciata suonare sino alla fine, poi nel silenzio era rimasta a dibattere tra sé i relativi meriti di rimanere al caldo e comoda, o di alzarsi per alimentare di nuovo il fuoco. Paul vicino a lei era addormentato, con il naso che usciva dalla stretta apertura in cima al suo sacco a pelo; sul naso aveva una zanzara; lei tirò fuori una mano per cacciarla via e Paul rispose con uno sbuffo, poi rotolò più in là e cominciò a russare. Il rumore la irritò; sapeva che le sarebbe toccato svegliarlo. Ma proprio mentre stava per farlo, sentì il rumore tra gli alberi. Era un rumore pesante, scricchiolante, come se verso di lei si muovesse qualcosa di grosso. «Papà?» In risposta, il rumore cessò. Anche i grilli cessarono di cantare, l'intero ambiente era piombato in un silenzio di tomba. E allora il rumore si udì di nuovo. Questa volta però era a malapena udibile, un fruscio di foglie, come se qualcosa di pesante si fosse sollevato nel fogliame proprio sovrastante al fuoco da campo. «Papà?» mormorò Kathleen piano. L'atmosfera tornò di nuovo a un silenzio immoto. Kathleen sforzò la vista nella direzione degli alberi. Era un muro di buio. Ma poteva sentire che qualcosa lì respirava. E poteva sentire anche l'odore. Un odore di umido, come di uno scantinato dopo la pioggia. Si rese conto di cominciare a tremare, guardò al fuoco semispento. Era caduto troppo per scoraggiare gli orsi. Kathleen aprì la bocca per chiamare forte suo padre, ma non ne uscì nessun suono. Lottò rabbrividendo per tirare fuori il fiato e formare le parole, ma uscirono soltanto in un sussurro: «Papà?...» Allora udì il rumore farsi più vicino. Poteva sentirlo adesso, oltre che udirlo; il terreno sotto di lei vibrava mentre la presenza in agguato usciva nella radura e si avvicinava sovrastandola. Kathleen cominciò a gemere e chiuse gli occhi, lacrime silenziose trovarono la strada sino al suolo. «Non mi mangi, signor orso...» Paul udì la sua voce e aprì lentamente gli occhi. Subito dopo sentì un pesante tonfo sordo, seguito da un profondo gemito. Paul rotolò verso il posto di Kathleen. Lì non c'era niente. Dove c'era stato il suo sacco a pelo, adesso non c'era più niente. Qualcosa sgocciolava in giù, spruzzando la
terra come pioggia fitta. Ma le gocce di pioggia erano rosse. Paul giacque immobile, come in un sogno. Le gocce rosse di pioggia furono seguite dai fiocchi di neve; una nuvola di morbide piume d'oca scendeva ondeggiando in direzione del suolo dal sacco a pelo di Kathleen; si appiccicavano nella pozza rossa, sempre più larga. Da sopra la sua testa veniva un rumore scricchiolante. Come se un cane rompesse delle ossa di pollo. Gli occhi di Paul lentamente si levarono verso l'alto e il ragazzo fu paralizzato dal terrore. L'ombra gargantuesca che torreggiava sopra di lui mangiava silenziosamente, quasi pigramente. La pioggia di sangue e la neve di piume cadeva più fitta, copriva la fronte di Paul di bagnato mentre lui giaceva immobile, stordito, lo sguardo volto a fissare in alto attraverso la stretta apertura del suo sacco a pelo da cui sporgevano solo i suoi occhi e il naso. Poi vide gli occhi abbassarsi su di lui. Erano come due piattini. Piatti e rispecchianti. E incontrarono i suoi. Paul si alzò e cercò di correre, ma non poté farlo. Era intrappolato nei limiti del suo sacco a pelo simile a un bozzolo. Trovò la cerniera, ma era inceppata. Non voleva scendere più giù del suo mento. Udì il tonfo del sacco a pelo di Kathleen che cadeva; davanti a lui sporgeva il suo braccio teso in fuori per terra. Paul urlò; cominciò a saltare verso gli alberi e gridò forte, disperato, quando l'ombra enorme pesantemente calò su di lui. Dal suo accampamento un cento metri più in là, Travis Nelson udì le grida disperate e balzò in piedi, sfrecciando nella foresta. «Paul! Paulie!» Le urla del bambino continuavano, diventavano più frenetiche. Poi, improvvisamente cessarono. Travis Nelson corse nel campo dei figli e vide la silhouette del corpo di Paul volare verso l'alto con l'assenza di peso di una bambola di pezza, e sparire in una spumeggiante nuvola di piume d'oca sullo sfondo luminoso della luna piena. Poi vide la forma gigantesca emergere dagli alberi. «Oh, mio Dio!» singhiozzò. Furono le ultime parole di Travis Nelson. John Hawks aveva trascorso la notte nella sicurezza dei magazzini a forma di canali, scavati nel terreno sotto le tende di M'rai. Come avevano promesso, i tagliaboschi vennero a cercarlo. Interrogarono M'rai e Romona, poi se ne andarono, soddisfatti che Hawks fosse partito. Il vecchio era rimasto sconvolto da quella intrusione nel suo accampamento, e si ritirò nell'isolamento. Dal suo nascondiglio sotterraneo Hawks aveva sentito
M'rai cantare luttuosamente all'interno della sua tenda. All'alba, Hawks e Romona camminarono veloci per la foresta sino al bordo dell'acqua e in zattera raggiunsero l'isola dove Rob e Maggie erano svegli e li aspettavano. Nella baita, Rob raccontò loro le sue scoperte di quella notte. Ascoltarono con attenzione divorante, gli occhi colmi di incredulità e di offesa. Come prova di ciò che si trovavano ad affrontare, Rob mostrò loro le fotografie di Minamata. Se i campioni di sangue che si proponeva di prelevare dagli indiani al villaggio fossero stati positivi, forse avrebbero dovuto affrontare un disastro delle stesse proporzioni. Maggie questa volta si costrinse ad ascoltare e a concentrarsi su ogni particolare. Era sull'orlo dell'isteria e sapeva che doveva far fronte e comprendere bene tutto, o se no scivolare nell'irresponsabile salvezza del collasso emotivo. Per quanto spaventosa potesse essere la realtà, Maggie era decisa ad attaccarvisi con tutte le forze. Rob aveva buttato via i suoi campioni del suolo e sterilizzato le fiale di vetro perché servissero invece da contenitori dei campioni di sangue. Riteneva che facendo un campionamento di dieci uomini, dieci donne e dieci bambini, avrebbe avuto tutti i prelievi sufficienti. Hawks non fu in grado di dirgli se l'ospedale di Manatee avesse o no le attrezzature di laboratorio; Rob e Maggie fecero in fretta e in furia una valigia con alcune cose per dormire fuori, nell'eventualità che avessero dovuto portare i campioni del sangue all'ospedale di Portland, lontano centotrenta chilometri. Alle otto partirono per recarsi al villaggio indiano. Il cielo si era fatto pesante, coperto dalla nuvolaglia, e l'aria era di nuovo opprimente. Zanzare, moscerini e simulidi sciamavano loro intorno e sulla faccia mentre la piccola barca faceva la traversata; gli insetti erano stimolati all'aggressività dall'umidità, sforzandosi di riempirsi le pance nella prospettiva che ricominciasse la pioggia. Nel traversare il lago, Rob disse a Hawks e Romona delle sue speculazioni circa il fatto che gli effetti di mutazione avessero potuto raggiungere le forme di vita animale più elevate. Sceglieva con cura le parole, temendo di sembrare eccessivamente drammatico, o di apparire uno sciocco. Alla luce del giorno, con la foresta intorno a loro che aveva un'aria pacifica e benevola, sembrava più un volo della fantasia che una realtà scientifica, parlare di «mostri» in agguato. Ma Romona e Hawks non lo trovarono per niente fantasioso. Accettarono in silenzio. Dall'approdo dove era parcheggiata la macchina di Rob presero per una piccola stretta strada che attraversava la foresta, diretti al villaggio indiano. L'auto procedeva a scossoni a causa della vegetazione che aveva invaso la
strada e i sassi taglienti; la corsa di sedici chilometri durò oltre un'ora buona. Quando arrivarono nei pressi del villaggio, le foglie degli alberi intorno erano agitate da un leggero vento che portava dai monti l'odore della pioggia. Rob frettolosamente tolse di valigia la sua attrezzatura medica, prese la sua borsa preparandosi, mentre Romona e Hawks lo precedevano nel villaggio per spiegare alla loro gente che cosa intendevano fare. Rob non poteva udire quel che dicevano, dai loro gesti, però, e dalle reazioni della gente a cui parlavano, capì che non sarebbe stata una cosa semplice convincerli. Hawks tornò e chiamò Rob perché si facesse avanti. «Prima visiteremo i malati. Loro non si opporranno.» «Hanno paura?» «Hanno conosciuto soltanto un dottore in vita loro. Li tratta come se fossero degli animali.» Rob e Maggie seguirono Hawks e Romona nel centro del villaggio. Non somigliava neanche lontanamente a un villaggio indiano. Era più simile a uno slum della periferia di una grande città; capanne miseramente e malamente costruite, fatte di materiali di scarto, sorgevano ad angoli bizzarri e in tutte le direzioni, circondate da parti arrugginite di macchinari vari che ricoprivano di sporcizia il terreno. Le carcasse di salmone che stavano essiccando erano buttate su piattaforme di tela, in una profusione di mosche. C'erano scheletri di automobili defunte, una dozzina o più, sparsi un po' dappertutto tra gli alberi intorno. Per Rob, tutto questo aveva un che di familiare. La gente lo seguì come un'orda, e gli si affollò intorno quando entrò la prima volta in una capanna per esaminare un uomo colpito da ciò che chiamavano i Katahnas. Rob ebbe cura di rendere le sue azioni calme, efficienti e prive di qualsiasi esitazione. Si servì di Maggie come avrebbe usato un'infermiera, chiedendo ad alta voce gli strumenti che lei tirava fuori della sua borsa medica. L'uomo che esaminarono delirava e soffriva di tremori febbrili. Le pupille erano dilatate e i riflessi sensori quasi nulli. La sua faccia era in preda a una contrazione muscolare che sembrava un riso, lo stesso riso demenziale che Rob aveva visto nelle fotografie delle vittime del metilmercurio di Minamata. Rob gli fece un'iniezione di fenobarbital per far calare la febbre, poi legò al braccio il tubo di gomma e prelevò il primo campione di sangue. Nei casamenti di Washington, questa operazione avrebbe suscitato gli oh! e ah! dalla folla di spettatori, qui lo osservavano fare in un silenzio
stoico. Persino i bambini restavano impassibili. Visitarono subito dopo gli altri due uomini che soffrivano degli stessi sintomi. Rob ripeté visita e trattamento come con il primo malato, poi disse a Romona e Hawks di portare un tavolo nel centro dello spiazzo e scegliere dieci uomini, dieci donne e dieci bambini per i prelievi di sangue. In particolare, voleva le due donne incinte. Se il livello di tossina nel loro sangue era più basso di quello delle donne non gravide, sarebbe stata una prova ulteriore che era in azione il metilmercurio. Se si comportava qui come a Minamata, il veleno si sarebbe concentrato nel sangue del feto, non in quello delle madri. Ma gli indiani erano ancora riluttanti. Hawks e Romona dovettero sottoporsi per primi loro stessi al prelievo, prima che gli altri cominciassero a venire avanti. Il primo fu un vecchio, zoppicante suile gambe piegate; poi una donna che teneva il suo bambino in braccio. Dopo, si fecero avanti tutti, con il braccio teso all'infuori, come pure quelli dei loro bambini, avendo capito dai modi di Rob e dal suo gentile tono di voce che era lì per aiutarli. In tutta la sua carriera di medico, Rob non aveva mai visto tanto stoicismo. Si sottoposero al prelievo tutti quanti, senza una smorfia, senza emettere il più piccolo suono. Rob era affiancato da Romona e Hawks da una parte, e Maggie dall'altra parte; lavoravano con efficiente routine; Hawks chiedeva nome ed età; Romona li trascriveva ed etichettava ogni fiala. Maggie lavorava con gli accessori medici sterilizzando gli aghi alternativamente, e mettendo via le fiale. Ferma accanto a Maggie c'era una ragazzina indiana, sui dodici anni, che osservava la donna con aperta ammirazione. La ragazzina e Maggie si sorrisero; poi Maggie le prese una mano e se la tenne stretta nella sua. Il contatto umano era importante per Maggie quanto per la ragazzina. Romona guardava con approvazione. «Lei sarà una buona madre.» Maggie dovette reprimere un improvviso desiderio di pianto. Nel giro di venti minuti, Rob aveva riempito le sue fiale, ma c'erano dozzine di persone ancora in attesa, desiderose di prendere parte anche loro. «Prendi i vetrini,» disse Rob a Maggie. «Faremo prelievi digitali.» Maggie si girò per cercarli nella borsa. «Sono in macchina,» le disse Rob. Maggie corse via, ma d'un tratto sentì il rumore di auto che si avvicinavano dalla foresta. Ce n'erano parecchie, e stavano convergendo sul villaggio rapide da tutte le parti, i motori striduli di lagnose proteste contro il
fondo stradale sconnesso delle foreste che attraversavano correndo tra gli alberi. Romona scambiò con Hawks un'occhiata di spavento. Rob, istintivamente, si piazzò davanti a loro in atteggiamento di protezione. Erano auto dello sceriffo e sbucarono nello spiazzo impetuosamente mentre uomini armati saltavano fuori di corsa con i fucili puntati e in un attimo circondarono il villaggio. «Che significa?» sobbalzò Rob. «Che ci uccideranno,» rispose Hawks. Lo sceriffo avanzò con in mano un foglio aperto e sventolante nella brezza che si stava levando. «Voglio che tutti quanti escano di casa,» gridò. «Vi voglio tutti qui fuori, subito!» «Che succede?» domandò Rob. Lo sceriffo rimase di stucco nel vedere un bianco lì. «Lei chi è?» «Le ho domandato che succede.» «Si tolga di torno...» «Voglio una spiegazione...» «Indietro!» Arrivò un'altra macchina. Era una macchina della Pitney Paper Mill; Bethel Isely uscì da dietro il volante e si unì allo sceriffo nel centro dello spiazzo. Scorse Rob e restò chiaramente spiaciuto di vederlo lì. «Voglio le donne alla mia destra e gli uomini a sinistra!» ordinò lo sceriffo. «Voglio sapere che cosa sta succedendo!» gridò Rob. Isely rapidamente gli si avvicinò. «Si trova nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, signor Vern,» disse a bassa voce. «Le suggerisco di far su le sue cose e andarsene.» «Esigo di essere informato su cosa sta succedendo.» «Ci sono stati dei nuovi omicidi la notte scorsa nella foresta. Non siamo disposti a stare ancora con le mani in mano.» Hawks sentì e si irrigidì nella consapevolezza che il momento che più temeva era infine venuto. La battaglia con la Pitney Paper Mill sarebbe finita con la persecuzione di ogni uomo, donna e bambino del suo villaggio. «Ho una lista e voglio che le persone facciano un passo avanti quando leggo il loro nome,» gridò lo sceriffo. «Chi è stato ucciso?» volle sapere Rob da Isely.
«Una famiglia, su alla Curva di Mary.» «E avete delle ragioni per pensare che sia stata questa gente a farlo?» «Sono colpevoli come l'inferno, signor Vern.» «Avete delle prove?» «Le prove sono all'ospedale, in bidoni della spazzatura.» «Russell Windraven, avanti!» gridò lo sceriffo. Gli indiani restarono immobili, spaventati e confusi. «Ho detto avanti!» comandò lo sceriffo. Un uomo, lentamente, si staccò dalla folla; Rob riconobbe in lui uno degli indiani che avevano tenuto il blocco con Hawks. Rob si girò verso Hawks e vide che Hawks non era più accanto a lui. Stava lentamente allontanandosi in direzione degli alberi. «Chester Pinot,» gridò lo sceriffo, e un altro uomo si fece avanti. Quattro degli uomini dello sceriffo mossero verso i due indiani e misero loro le manette. «Raphael Nightwalker!» chiamò forte lo sceriffo. C'era nella sua voce una sfumatura di riso come se stesse annunciando i vincitori di una gara. «Signor John Hawks! Signor Stephen Sky!» Nell'udire il nome di Hawks, Rob corse al centro dello spiazzo, in uno sforzo di sviare l'attenzione da lui. «Voglio vedere i mandati di arresto! Immediatamente!» Lo sceriffo si girò verso di lui. «Le ho detto di levarsi di torno.» «Esigo di sapere con quale diritto...» «Qualcuno mi tolga di torno quest'uomo.» L'intero cerchio di aiutanti dello sceriffo si diresse convergendo su Rob, dando a Hawks il suo momento. Girò sui tacchi, balzando verso gli alberi. «Fermate quell'uomo!» urlò lo sceriffo, e tre corsero verso la foresta per tagliare la strada a Hawks. Hawks cambiò direzione girando su se stesso a metà passo, e si lanciò in una delle capanne. Un fragore di vetro infranto segnalò la sua traiettoria attraverso una finestra del retro. I vicesceriffi fecero di corsa il giro della baracca, giusto un attimo troppo tardi. Hawks era sparito nel folto groviglio degli alberi. «A piedi vi scapperà!» urlò lo sceriffo ai suoi uomini. «Inseguitelo in macchina.» Tre aiutanti oltrepassarono di corsa Maggie e balzarono in macchina; il motore si lamentò mentre penetravano sobbalzando tra gli alberi. Dal posto dove stava, Maggie poteva vedere che Hawks non era corso nella foresta ma era ruzzolato in un fosso di scolo dietro la capanna. «State tutti quanti fermi dove siete!» avvertì lo sceriffo. «La prossima volta che vedrete il vostro amico signor Hawks, sarete molto felici davve-
ro!» Rob si girò verso Romona, che stava immobile, in stato di choc. «La Curva di Mary,» disse in tono di urgenza. «Sa dove si trova?» Lei annuì. «Si limiti a seguirmi alla macchina,» disse Rob, mentre imballava in fretta le sue cose. «Non guardi né a destra né a sinistra, stia semplicemente proprio al mio fianco.» «Uccideranno questi uomini,» mormorò Romona. «Maggie?» Maggie corse avanti e Rob le passò la vaschetta delle fiale. «Tu e Romona entrate in macchina.» «Qui ho due uomini, ne sto cercando cinque!» Rob marciò sullo sceriffo. «Voglio dirle una sola cosa,» lo avvertì. «Qui lei non è solo. Sono un testimone di tutto questo. Quando metterà sotto accusa questi uomini, sarà meglio che assegni la cauzione perché io tornerò per depositarla. E se non escono di carcere esattamente nelle stesse condizioni in cui sono entrati, lo rimpiangerà. Che ci sia anche un solo segno su uno qualunque di loro! Mi ha capito?» Poi girò sui tacchi e si avviò alla sua macchina. Gli ingranaggi gemettero mentre rapidamente, sobbalzando, scompariva nella foresta. Il luogo chiamato la Curva di Mary non era accessibile via terra con l'auto; poteva essere raggiunto soltanto a piedi, lungo sedici chilometri di ardui sentieri nel pieno della foresta. Bruciando di collera e frustrazione, Rob partì in direzione dell'aeroporto nella speranza di requisire l'elicottero del Servizio Forestale che avevano visto trasportare il bracco al loro arrivo.. Era terribilmente ansioso di arrivare alla Curva di Mary prima che facesse notte. Aveva tutta l'aria di ricominciare a piovere, e se ciò accadeva, ogni traccia di prova sarebbe stata lavata via entro l'indomani. Se avesse potuto trovare qualche traccia dell'animale che riteneva essere il responsabile delle uccisioni, allora avrebbe avuto gli attrezzi che gli occorrevano per agire in maniera rapida ed efficiente. Senza una simile prova, le sue teorie non erano altro che una speculazione allarmista, che sarebbe stata attaccata per via delie proporzioni dei suoi elementi drammatici. La parola mostro non faceva parte del vocabolario di un uomo sensato. Eppure, era proprio la parola che faceva al caso, Rob stava convincendosene sempre di più. «Dov'è l'ospedale?» domandò in fretta a Romona mentre volavano attraverso la città, avviati all'aeroporto.
«Dove termina la strada principale,» lo informò Romona. Rob fece un rapido salto lì per guardare le cosiddette prove di cui aveva parlato Isely: i corpi della famiglia che era stata uccisa alla Curva di Mary. Voleva accertarsi che non li avrebbero fatti sparire prima che lui avesse avuto la possibilità di esaminarli. L'«ospedale» non era affatto un ospedale. Era un buco d'emergenza situato in mezzo a un grappolo di case al margine del paese, una struttura a un piano, di stucco verde, che comprendeva in tutto sette locali. Una stanza era la sala operatoria, una era un ufficio, quattro contenevano i letti, e la settima stanza serviva da magazzino. Fu qui che trovò i resti della famiglia di Travis Nelson. I pezzi grossi erano stati messi in una cella frigorifera, i più piccoli erano stati imballati per essere inceneriti. Rob era arrivato lì appena in tempo. Non c'era nessun dottore di turno, solo un'infermiera; fece chiamare il dottor Pope che abitava a due porte di lì. Pope era un uomo magro e scarno, sui settant'anni. Era calvo, appariva fisicamente debole, e restò immediatamente intimidito dai modi pressanti di Rob. Cedendo alla sua richiesta, aprì la dispensa e sparpagliò i resti su due lunghi tavoli di legno. Alcuni dei pezzi si erano induriti congelandosi, altri erano morbidi e poltigliosi per essere stati avvolti nella plastica. Sembrava solo un grottesco puzzle in disordine. In tutti gli anni di pratica medica, mai Rob era stato afferrato da un simile senso di repulsione; la cosa che gli stava di fronte era al di là della sua capacità di tolleranza. I corpi erano rotti e sventrati come se qualcuno avesse aperto la pancia di una vacca e si fosse divertito a vestirne il contenuto con abbigliamenti umani. «Che cos'altro ci toccherà ancora vedere?» chiese Pope. «Che cosa le fa pensare che questa sia opera dell'uomo?» Rob domandò seccamente. «Non so proprio che cos'altro potrebbe averlo fatto.» «Perché non un animale?» «Orso, intende?» «Un orso potrebbe fare questo?» «Un orso non lo farebbe. Non vorrebbe farlo. Non a quattro persone contemporaneamente. Ho visto almeno una dozzina di aggressioni di orso. Non hanno mai questo aspetto. Quando un orso attacca un gruppo di gente, fa i conti con uno solo.» «Questi corpi sono spezzati e strappati! Non è una cosa che degli uomini
farebbero.» «No, a meno che cercassero di fare apparire la cosa come fatta da un animale.» «Lei crede questo?» «Gli animali uccidono per proteggere se stessi. O i loro piccoli. Una volta fatto questo, non hanno alcun interesse a seguitare a uccidere ancora. Questo è stato un atto di vendetta. Questo è l'atto di una mente malata.» «Degli uomini saranno accusati di omicidio sulla base delle sue dichiarazioni. Sarà meglio che lei sappia il fatto suo, quando parla.» Pope non replicò. «Voglio che tutto quanto venga congelato,» ordinò Rob. «Ogni pezzetto, sino all'ultima briciola. Farò fare una completa autopsia di tutto. Ho anche dei campioni di sangue che voglio siano congelati. Ritornerò a prenderli stanotte. Pope accompagnò alla macchina Rob e prese i campioni del sangue; Rob, Romona, e Maggie si diressero a tutta velocità all'aeroporto. Quando vi arrivarono, una lieve pioggia già cominciava a cadere e gli alberi che circondavano la pista di atterraggio già ondeggiavano nel vento che si era levato ancora più forte. A terra c'erano due elicotteri, entrambi con l'emblema del Servizio Forestale. Le credenziali governative di Rob furono sufficienti a far chiamare un pilota da casa sua a sedici chilometri di distanza. Il nome del pilota era Huntoon. Era un uomo grosso e muscoloso, dall'aria scontrosa, e chiaramente era risentito di essere stato chiamato fuori in una simile brutta giornata. Li avvisò che il viaggio sino alla Curva di Mary non avrebbe preso più di una mezz'ora ma che se il vento si fosse levato più forte lui sarebbe stato nell'impossibilità di atterrare. Disse che la linea costiera alla Curva di Mary era circondata da alti scogli e che un elicottero poteva anche prendere il volo con un vento sino a cinquanta chilometri orari, ma non se correva il rischio di essere sbattuto contro la parete di uno scoglio. Prima di salire, Rob insistette con Maggie perché restasse a terra, ma lei rifiutò. Qualsiasi cosa ci fosse da vedere, lei voleva vederla. Ed espresse questo con una forza quale Rob non le aveva mai prima di allora conosciuto. Riluttante, dovette consentire, e salirono nell'elicottero. Rapidamente il vento li portò alti e verso i monti. Quando arrivarono in vista del lago, il vento si era spostato e adesso gli volavano incontro, con le gocce di pioggia come pallini di piombo che
tempestavano il parabrezza dell'elicottero impedendo ogni visuale, sicché la loro sola veduta all'esterno era dai finestrini laterali. «Se laggiù ci fosse un grosso animale, da qui lo si vedrebbe?» gridò Rob al pilota. «Grosso quanto?» «Grosso.» «Come un alce, intende?» «Più grosso.» «Non c'è niente di più grosso di un alce, da queste parti.» «Lo si vedrebbe da quassù?» «Oh sì! Alci, cervi, orsi. Cominciano a correre appena sentono arrivare un elicottero. È facile vederli.» «Tenga gli occhi aperti! Non voglio atterrare se laggiù c'è qualcosa di grosso!» «Lo sapremo subito, adesso. Ecco la curva. Faccio un cerchio di cinque chilometri.» L'elicottero s'inclinò, descrivendo un cerchio basso sopra le cime degli alberi mentre Rob, Maggie e Romona studiavano il terreno sotto di loro. «Questo è buffo,» disse il pilota. «Non c'è un dannato niente. Nemmeno un cervo, addirittura.» Anche Romona aveva l'aria perplessa. «Questa è un'area protetta. Solitamente è piena di selvaggina.» «Protetta?» Il pilota rise. «Bella battuta che ha detto. Gli indiani, laggiù, non fanno altro che cacciare di frodo. Mettono trappole per gli orsi, per i castori... A quanto pare sono riusciti a ripulire tutta l'area, non è rimasto proprio niente.» «Quello che dice non è vero,» protestò Romona. «La mia gente fa della caccia qui, ma per la ragione che c'è così tanta selvaggina!» «Be', non c'è niente laggiù adesso, le sembra?» «Dov'è la curva?» domandò Rob. «Dritto sotto di noi. Vede quel crepaccio tra gli scogli? Proprio laggiù dove viene fuori il fiume?» Rob poteva vedere, lontano, i resti di una tenda, strappata, che sbatteva nel vento. «Possiamo scendere?» «Non vado pazzo per l'idea.» «Il vento è troppo forte?» «Non ancora, ma queste tempeste di vento scoppiano in fretta.» «Se appena è possibile, io vorrei scendere.»
Il pilota controllò gli strumenti, poi chiamò alla radio l'aeroporto chiedendo un rapporto meteorologico. Lo ricevette e assentì. «Dicono che peggio di così non sarà.» «Possiamo atterrare?» «Sì.» Parlò di nuovo nella sua cuffia radiotelefonica. «XJ23Y alla base. Tolgo ora il contatto radio. Bisogna restare sopra le montagne per mantenere il contatto radio. Una volta scesi giù in questi burroni, il segnale non arriva più,» disse il pilota a Rob. Scesero in una veloce linea verticale e d'improvviso furono flagellati da correnti discendenti, l'elicottero sbilanciato così di colpo che Maggie gettò un grido di allarme. Il piccolo velivolo girò su se stesso e si stabilizzò, atterrando con violenza. «Merda,» borbottò il pilota. «Non mi è piaciuto neanche un po'.» «Stiamo tutti bene?» «Siii, ma non sarà divertente nemmeno il decollo. Voialtri, fate pure con comodo. Aspetteremo che si calmi un po'.» Maggie aveva la nausea a causa dell'atterraggio tumultuoso e restò indietro con il pilota, mentre Rob e Romona si dirigevano al fiume e lo risalivano sino al crepaccio dove Rob aveva visto la tenda a brandelli. La pioggia sibilava e la forza del vento qui, alla base degli scogli, era il doppio che su nell'elicottero poco prima. Maggie scese dall'elicottero nella speranza che aria e pioggia la rinvigorissero un po', calmandole l'agitazione nello stomaco. Si tirò il cappuccio del suo eskimo sopra la testa, si legò la sciarpa di lana intorno al collo e respirò a fondo, restando poi a contemplare in lontananza l'orizzonte montano. Le cime dei monti erano oscurate da nuvole nere, si vedevano dei lampi; la nube temporalesca pulsò emettendo un basso rombo di tuono che lentamente si diffuse sopra il lago. «XJ23Y... ricevete?» chiamò il pilota al suo radiomicrofono. «XJ23Y... nessuno che riceve?» Lo spense definitivamente e si girò verso Maggie. «Spero che non ci siamo cacciati in un guaio, noialtri.» Un mezzo chilometro più su, lungo il fiume, dove il crepaccio si restringeva a una via d'acqua fiancheggiata d'alberi, Rob e Romona contemplavano in silenzio la scena dell'omicidio. I segni della violenza facevano paura. Cespugli e arbusti sradicati, rami d'alberi spezzati, pezzetti di abiti appiccicati ai rami d'alberi e agli arbusti sporgenti in fuori. Il terreno davanti alla tenda lacerata era scuro di sangue. Da un albero pendeva la scarpa da tennis di un bambino. A terra c'erano profondi solchi, come se un'e-
scavatrice a cingoli avesse funzionato in senso rampante; Romona scorse una grossa montagnola di terra e andò a guardare. Poi si mise in ginocchio e cominciò a scavare. «Di che si tratta?» domandò Rob mentre lei grattava via la terra. Lei si girò a guardarlo con occhi perplessi. «Feci.» La pioggia le scorreva in volto, guardava esterrefatta Rob. «Sotterrate nel modo in cui lo farebbe un gatto.» Rob si girò e prese a camminare ancora, risalendo sempre il fiume e addentrandosi tra gli alberi. Romona sostò un momento, poi gli tenne dietro. Accanto all'elicottero, adesso, c'era anche il pilota che era uscito e si era fermato nella pioggia accanto a Maggie: osservava preoccupato le nuvole temporalesche in arrivo. «Sta arrivando veloce. Forse se ne andrà veloce.» Annuì con la testa, come per rassicurarsi da solo. «Sì, probabilmente passerà presto». I suoi occhi viaggiarono verso le sponde acquitrinose, nel punto in cui il lago si piegava all'indentro formando la Curva di Mary. Là, l'erba amara e le alte piante erbacee vorticavano con furia crescente. «Ricorda quel che dicevo dei cacciatori di frodo?» Indicò con un gesto la palude. «Vede quei pali, laggiù? Quella è una trappola per castori. Probabilmente c'è dentro qualche castoro morto. Restano presi per il collo lì, e muoiono.» Gli occhi di Maggie seguirono il gesto del pilota e lei vide i pali; si protendevano rigidi verso l'alto tra l'erbe flessibili che si incurvavano. «Le dirò,» proseguì il pilota, «io non credo di essere meno imparziale di chiunque altro, però uno di questi giorni a questi indiani bisogna dare una buona lezione. Una volta, ricordo, se si prendeva un indiano a cacciar di frodo lo legavi semplicemente per i calcagni all'albero più vicino. Non si può più farlo, adesso. Stan diventando come i negri. Prova a mettere una mano su un indiano...» A Maggie non interessava sentire altro e se ne andò, dirigendosi verso la palude. Il pilota restò a osservarla allontanarsi, ridacchiando tra sé, divertito di averla offesa. Lungo il fiume, tra le pareti sempre più strette del crepaccio, Rob e Romona trovarono un altro posto in cui era infuriata la violenza. Gli sbrindellati resti di due sacchi a pelo erano sparpagliati per tutto il fogliame lì attorno, quel che restava di una sveglia schiacciata era appiattito contro il suolo. Il tuono rombò sopra di loro e Rob alzò gli occhi, fissando a un tratto uno squarcio nel tronco di un albero, un paio di metri al di sopra della sua testa. Avvicinatosi, poté vedere, nell'interno dello squarcio bianco, il
marchio di tre enormi artigli. «Romona?» Lei corse da Rob. «Cosa potrebbe averlo fatto?» le domandò. «Forse, un orso.» «Così in alto?» Sopra lo squarcio nel tronco, attaccato a un pezzo di corteccia scheggiata, c'era un ciuffo di spesso pelo nero. Romona ruppe lesta un arboscello asciutto di circa tre metri di lunghezza e se ne servì per sloggiare la pelliccia che il vento le portò in giù nelle sue mani in attesa. Mentre esaminava il pelo, l'espressione sulla sua faccia disse a Rob che stava guardando qualcosa che lei non aveva mai visto prima. «Cos'è?» le domandò. Lei gli passò il ciuffo e Rob separò il pelo nel palmo della sua mano e rimase a guardare le fibre indurite sottostanti; erano dure quasi come calami di piume. Il tuono rotolò più sonoro, e Rob si sentì pervadere da un brivido di gelo. «Non è orso, vero?» disse a bassa voce. «No.» «Che cos'è, allora?» Gli occhi di Romona avevano uno sguardo remoto, fissi in qualche punto nel fitto della foresta. «È Katahdin, signor Vern,» disse cupamente. «Non è più una leggenda.» Il fogliame alle loro spalle improvvisamente esplose. Romona dette un grido. Una figura d'uomo correva a perdifiato verso di loro. Era John Hawks. Aveva la faccia coperta di sangue essiccato che scorreva da uno squarcio nella sua fronte, e i suoi occhi erano velati e fissi per lo choc. Si fermò di colpo e sollevò verso di loro un batuffolo di pelliccia spessa e nera. «Avete visto questo?» gridò. «Sì,» rispose Rob. «È qui. Quel che dicevate è qui!» Romona corse verso di lui e si aggrapparono l'uno all'altra, le loro facce sconvolte dall'angoscia. «Voglio trovarlo,» Rob disse con tono fermo. «Voglio che si sappia la verità.» «Verità?» urlò Hawks: «Qui non c'è nessuna verità! Questa è una menzogna!» Il tuono esplose fragorosamente, mentre il rumore svaniva, udirono qualcosa che sembrava un grido. Riecheggiò per le pareti dirupate degli
scogli e si confuse nel gemito del vento sempre più forte che fischiava attraverso il crepaccio. Hawks, Romona e Rob si immobilizzarono. L'urlo giunse di nuovo. Era Maggie. Rob ruotò su se stesso e corse all'impazzata, inciampando nei sassi. Hawks lo sorpassò subito, Romona ansimava dietro a loro. Nel girare una curva, di colpo si fermarono tutti e tre. Maggie era ferma in mezzo all'erba alta e vorticosa nel vento, le mani strette alle tempie, gli occhi sbarrati dallo spavento. Vicino a lei, il pilota stava irrigidito in una posizione strana, come se fosse rimasto paralizzato in atto di camminare, con un piede sollevato. Entrambi stavano fissando la palude. Il cielo scoppiò in un saettare di lampo e in uno stridente schianto di tuono. Gli occhi di Maggie si voltarono verso Rob, e lui si rese conto che era in stato quasi di choc. Corse da lei, seguito da Hawks e Romona; quando la raggiunsero la videro sollevare un dito tremante e puntarlo a terra. Tutti e tre si ritrassero, orripilati. Nell'acquitrino, al margine dell'acqua, penzolanti da una rete da caccia, c'erano due creature grottescamente deformi. La superficie del corpo era marezzata rosso e nero, misuravano in lunghezza circa un mezzo metro. Una era morta e completamente tesa per tutta la sua lunghezza, penzolante a testa in giù, appesa per gli artigli a uncino delle sue rachitiche gambe posteriori. Aveva un corpo lungo e sottile, nella forma di un animale a quattro zampe, ma delle ali membranose erano tese tra la mano artigliata e i fianchi, come quelle di un pipistrello. Era una beffa dell'evoluzione. La testa era lunga e senza pelo, con un cervello esocefalico che protrudeva in pieghe rosate, lateralmente al cranio; il muso era stretto, con denti aguzzi sporgenti all'insù da una mascella rientrante. E gli occhi erano enormi, parevano senza palpebre e nudi, simili a quelli dei pesci, sovrastanti la superficie della faccia. La pioggia cominciò a cadere più fitta, il vento si levò in tempesta, ma il gruppo continuava a stare impietrito e muto. La bocca di Hawks era piegata duramente dall'amarezza. Romona si teneva rigida, guardando fisso a terra. «Che diavolo sono?» sussurrò il pilota infine. Nessuno rispose. «La mia gente è sempre vissuta con questa leggenda,» disse tra i denti Hawks. «Adesso anche questo le sarà tolto.» «Uno è vivo,» disse Romona. La seconda delle due creature ciondolava sul lieve rigonfio dell'acqua ondulando a pancia in su, i denti presi nella rete. I suoi occhi erano semia-
perti, il suo piccolo petto si sollevava ansimando faticosamente nello sforzo di pompare l'aria. «Bisogna che la riscaldiamo,» disse Rob. «Sta morendo di freddo.» «La lasci lì,» sibilò Hawks. «Lasci che muoia.» Rob si girò verso di lui, improvvisamente furioso. «Lasciarla lì? Lo sa che cos'è, questo? È una prova! Questo è ciò che salverà la vostra foresta!» Hawks fissò a lungo Rob, poi si voltò verso il pilota. «Mi dia il suo coltello.» «No!» urlò Rob. «Voglio soltanto liberarla.» Hawks prese il coltello del pilota e si calò in acqua, con Rob accanto a lui. In un attimo la creatura fu libera e Rob se la sollevò tra le braccia. «Prenda anche l'altra.» Seguendo l'ordine di Rob, Hawks liberò anche l'altra, ma era riluttante a toccarla. «La prenda, su.» «Perché?» «Le voglio entrambi.» «Perché?» lo sfidò Hawks. «Perché la posso aprire e scovare di che cosa è fatta! Posso scoprire di che cosa si nutre! Posso scoprire perché esiste.» «Ha già quella lì!» «Questa la conserverò viva,» promise Rob. «Questa vivrà. Non andrà a finire in una bottiglia di formaldeide per essere riposta su uno scaffale! Se riesco a mantenere questa qui viva, non ci sarà nessuno che la potrà ignorare!» Hawks tirò su la creatura morta prendendola per le zampe posteriori; il fango le colò giù da naso e bocca mentre usciva dall'acqua. Maggie osservava con occhi vitrei. «Deve essere avvolta al caldo,» ordinò Rob mentre guardava a riva. «Maggie?» Si girò verso di lui, la faccia impietrita. «La tua sciarpa.» «Cosa?» domandò Maggie debolmente. «Dammela.» Eseguendo macchinalmente gli ordini, Maggie si tirò via la sciarpa di lana e Rob ci avvolse dentro la piccola creatura. Sembrava un figlio del demonio avvolto in fasce per neonati
«Andiamo,» comandò Rob. «Guardi quegli alberi!» urlò il pilota nel vento in tempesta. «Quelli, sono settanta chilometri orari! Non posso decollare in questo vento!» Rob fece una smorfia di frustrazione. Gli alberi venivano sferzati da un vento che ululava nell'ingolfarsi dentro il crepaccio. «Dobbiamo assolutamente andarcene di qua,» disse al pilota. «Ma ci andremo a spiaccicare contro la roccia! Ha visto cosa è accaduto all'atterraggio. Adesso è peggio.» «Io devo andare in qualche posto caldo! Devo tenere questa cosa in vita.» «Trovi un riparo. Passerà presto.» «Tra quanto tempo?» «Poche ore, forse prima!» «È troppo!» «Non posso volare!» Disperato, Rob si rivolse a Hawks. «Dove sta il vostro villaggio?» «Troppo distante.» «Sedici chilometri,» disse Romona. «Non c'è niente di più vicino?» «Niente,» replicò Hawks. «Mio nonno!» esclamò Romona. «Quelle sono soltanto tende.» «Possiamo arrivarci entro due ore. Se seguiamo il fiume...» «In due ore il temporale potrebbe essere cessato,» protestò Rob. «Potrebbe anche non essere passato,» contraddisse il pilota. Gli occhi di Rob erano disperati mentre fissava il cielo tempestoso. «Il campo di M'rai,» li sollevò Hawks. «Quelle tende non sono abbastanza calde!» insisté Rob. «Possiamo riscaldarle.» «Possiamo accendere il fuoco, dentro,» aggiunse Romona. «Per favore, possiamo andarci?» domandò Maggie in preda all'angoscia. «Penso che le convenga,» consigliò il pilota. «Non c'è nessun'altra scelta,» disse Hawks. «Potremmo aspettare qui dentro all'elicottero,» disse Rob. «Io non voglio aspettare qui.» La voce di Hawks portava un avvertimento che dette da pensare a Rob. Lì erano completamente vulnerabili, sia dentro all'elicottero, sia fuori. Era anzi possibile che si trovassero proprio nella tana stessa dell'animale che aveva causato la distruzione. A giudicare
dall'altezza delle impronte di artigli che Rob aveva visto nell'albero, era alto almeno cinque metri. Quel che non sapeva, era se avesse raggiunto quel punto levando l'artiglio verso l'alto o abbassandolo, per lasciare quelle impronte. Ma se aspettavano dentro all'elicottero, avrebbero potuto trovarsi intrappolati. «L'accampamento di suo nonno, Romona,» disse Rob. «Andiamo.» La decisione fu punteggiata da uno scoppio di tuono così fragoroso che tutti sussultarono; la pioggia scrosciò in un diluvio mentre si dirigevano verso il crepaccio. Rob ritornò di corsa all'elicottero per ricuperare la sua borsa medica; anche il pilota afferrò il suo zaino. Poi, raccogliendo le forze per far fronte alla pioggia e al vento, rientrarono nella stretta apertura tra gli scogli ed ebbe inizio una paurosa scarpinata su sassi scivolosi lungo il fiume ormai travolgente. Il pilota correva di lato a Rob sforzandosi di dare un'occhiata al pacco grottesco che Rob teneva in braccio. «Che cosa è?» Rob scosse la testa e corse avanti. Sapeva che sarebbe stato impossibile spiegare. Nel profondo del crepaccio, si diressero verso gli alberi, spostandosi lateralmente dal fiume prendendo per una salita che conduceva all'interno della foresta. Romona era in testa, seguita da Hawks che teneva per una zampa la creatura morta il cui corpo cadente oscillava e ciondolava davanti agli occhi di Maggie che gli camminava proprio dietro. Il muso da cui colava la melma grattava il suolo, accumulando sporcizia, e dando alla bocca l'aspetto di un macabro sorriso. Maggie faticava camminando, procedendo con una specie di accanimento, le braccia strette intorno allo stomaco quasi per proteggere la cosa che le dormiva dentro dal vedere ciò che lei vedeva. Poteva sentire nel proprio ventre il peso, e cercava di cacciare via le immagini che si formavano nella sua mente su quel che poteva giacere in incubazione dentro di lei Cominciò a contare i passi che faceva, ma il grottesco corpo della creatura che le ciondolava davanti continuava a intrudere nella sua coscienza e ossessionare la sua fantasia. Cacciò la faccia dentro la giacca e represse un impulso a piangere. La sua mente era in un turbine di confusione, perché non riusciva a odiare ciò che poaava nel ventre. Lei gli aveva dato vita e lei l'aveva ferito. Non aveva chiesto di essere creato, non aveva chiesto di essere sfigurato. Eppure gli occhi, la mascella rientrante della faccia che penzolava da-
vanti a lei, la colmavano di paura e orrore. Una scena le sfrecciò per la mente, la fece sussultare e cominciare di nuovo a contare i propri passi: si era vista in atto di affondare un coltello nel proprio ventre. Stava facendo buio, il pilota accese la sua torcia elettrica, sorreggendo Maggie per il braccio quando la vedeva inciampare nelle pietre. Rob si era aperto la giacca e ci aveva ficcato dentro il suo pacco. Sentì un subitaneo, convulsivo movimento quando l'animale cominciò a reagire al calore del suo corpo. Era un buon segno; Rob era deciso a mantenere viva la creatura. Sopra le loro teste, la volta degli alberi sibilava sotto l'assalto del vento; la pioggia stava diminuendo ma il vento continuata a soffiare sempre più forte. Avevano camminato in silenzio per tutta la strada, gli occhi di Hawks intenti a scrutare gli alberi, lasciando che guidasse Romona. Rob dava spesso rapide occhiate a Maggie, sperando che lei non si rendesse conto di ciò che fosse l'oggetto che Hawks temeva e sorvegliava. Ma lei sembrava dimentica di tutto; lo choc della scoperta delle due creature sembrava averla impressionata più di chiunque altro. La sua faccia era come una maschera, priva di qualsiasi espressione. In capo a tre ore giunsero a un letto di fiume con un fondo d'acqua. Tenendosi strettamente affiancati si calarono dentro con l'acqua alle caviglie e riemersero alla sponda opposta. Adesso camminavano in discesa, accelerando mano a mano che andavano avvicinandosi alla loro destinazione. «Shssss!» sibilò Romona. «Guardate!» Si arrestarono di colpo e guardarono attraverso gli alberi verso un lontano, vacillante fuoco da campo che illuminava il contorno delle tende di M'rai. «C'è gente, lì,» sussurrò Romona. Hawks e Romona strisciarono avanti finché riuscirono a distinguere le figure di due uomini seduti accanto al fuoco e voltati di schiena. «Che c'è, adesso?» gridò il pilota. Rob gli fece segno di tacere. Sapeva che Hawks e Romona temevano potesse esserci lo sceriffo. «Che cosa sta succedendo?» domandò il pilota. Romona scattò dal fogliame e corse dentro al campo; gli uomini accanto al fuoco si girarono e si alzarono; erano due indiani. Dopo aver scambiato con loro poche parole, Romona gridò: «John! Vieni! Non c'è nessun altro qui!»
Rob prese Maggie per il braccio e tutti corsero dentro il campo. Con il fuoco che ardeva e un riparo dalla pioggia, si sentivano protetti lì, riconoscenti, e sollevati che fosse finito quel viaggio spaventoso. «Il vecchio è sparito,» disse Romona. «Non sanno dove.» «Ci possono aiutare?» Rob domandò febbrilmente. «Possono andare al villaggio e mandare qualcuno in città.» «Sì, in città a chiamare qualcuno.» «Chi?» «Chiunque sia in grado di tirarci fuori di qua.» Romona si rivolse agli indiani e cominciò a parlare nella sua lingua. «No, un momento, Romona. Non semplicemente chiunque. Voglio che la gente veda questa cosa. Voglio che la gente sappia di questa cosa. Gli indiani. Quelli di città. Voglio che portino qui tutta la gente che riescono a portare.» Romona di nuovo si girò a parlare con gli indiani. «N'yah'yoentra'ahsh...» «C'è un quotidiano in questa città?» domandò Rob, interrompendola di nuovo. «Sì.» «Li voglio quaggiù. Con una macchina fotografica. E voglio la gente della cartiera. E voglio lo sceriffo. E voglio...» «Non lo sceriffo,» interloquì Hawks. «Voglio che la gente la veda, questa cosa!» s'infuriò Rob. «Mentre l'abbiamo. Mentre è ancora viva! La vostra posta in questo gioco è più grossa della mia!» I due indiani improvvisamente videro ciò che Rob teneva in braccio. Le loro facce si irrigidirono. «Per favore, aiutateci,» li supplicò Rob. «Per favore, fate piesto!» Poi corse verso una delle tende, latrando ordini mentre correva. «Avevate detto che si poteva riscaldare queste tende?» «Porteremo il carbone dentro,» replicò Romona. «Lo faccia subito. Scaldi al vapore qualche panno. Maggie, prendi la mia borsa. Ho bisogno di luce qui dentro. E di un tavolo. Qualcosa su cui lavorare.» Maggie e Pvomona si precipitarono; Hawks osservò le varie attività a lungo, poi, con un cenno di rassegnazione, si rivolse ai due indiani. Chiese di fare tutto ciò che l'uomo del governo voleva. Disse loro che le creature che avevano visto erano state avvelenate dallo stesso composto chimico
che provocava i Katahnas; spiegò che avevano bisogno in quel momento di avere molta gente nella loro foresta, per fare in modo che gli indiani potessero essere curati e guariti. Gli indiani risposero che c'era soltanto un'auto funzionante nel villaggio; se non era al villaggio, avrebbero dovuto mandare gente in città a piedi. Se questo era necessario, bene, ma non sarebbero stati di ritorno prima che fosse trascorsa la mezzanotte. Hawks annuì. Scomparvero silenziosamente nella foresta, le loro figure visibili per un attimo sullo sfondo dell'orizzonte saettato dai lampi. Hawks andò sino al corpo della creatura morta che aveva lasciato tra gli arbusti fuori del campo di M'rai. Giaceva sulla schiena, ormai irrigidita. Le zampe anteriori erano tese verso l'alto, con gli artigli taglienti come rasoi. Hawks la prese e la buttò vicino al fuoco. Poi rimase a contemplare un attimo la foresta, pensando a ciò che poteva stare in agguato là fuori. 11 Il temporale era cessato ora, spostandosi sui picchi dei monti lontani saettati di lampi; da lassù, di là dal lago, veniva un rombare di tuoni potenti come cannonate. Ora la foresta intorno all'accampamento di M'rai si era placata e regnava la calma, con qualche sporadica ventata che scuoteva ogni tanto il fogliame in uno sgocciolare di pioggia. I grilli tentavano timidamente l'avvio al loro concerto notturno, già in ritardo, interrotto di nuovo ogni volta che rombava il tuono. Nelle due ore trascorse da che i due indiani avevano lasciato l'accampamento, Hawks s'era dato molto da fare: aveva raccolto legna da ardere, l'aveva ripulita della corteccia fradicia e poi aveva costruito un fuoco nell'enorme centro del recinto di M'rai, che ora ardeva fiammeggiando come un inferno. Sapeva che non ci voleva niente di meno per dissuadere una bestia delle dimensioni di quella che ormai, nella sua mente, era convinto fosse Katahdin. Aveva anche trovato l'arco di M'rai e una faretra con dentro quattro frecce. Volle verificare la sua abilità di tiratore e scoprì che le lezioni della sua giovinezza continuavano a essergli utili. Delle quattro frecce che tirò, una andò a incastrarsi nel nodo di un albero. La punta saltò mentre Hawks tentava di ricuperarla. Adesso non restavano che tre frecce. Non era il caso di seguitare a esercitarsi. Hawks sapeva bene che arco e frecce erano pateticamente poco per di-
fendersi, ma nel caso che ne avessero avuto bisogno, ogni freccia sarebbe stata preziosa. Dietro a Hawks, una delle tre tende nel campo di M'rai era vivamente illuminata dall'interno, le ombre si delineavano sulle pareti sottili ed era possibile vedere dall'esterno tutto ciò che succedeva. Le figure di Rob e Maggie erano ferme e immobili, chine su un tavolo; Romona, inginocchiata sul pavimento, ventilava un fuoco di carbone. Il pilota non si vedeva da nessuna parte; Hawks concluse che stava certamente esplorando i tunnel sotterranei. Nella tenda regnava il silenzio. L'aria era una nube di fumo che saliva dal fuoco di carbone sul quale Romona si indaffarava, intenta a riscaldare al vapore degli stracci bagnati; Rob si sentiva gli occhi bruciare dal fumo mentre contemplava sotto di lui la creatura neonata che s'indeboliva. Era sdraiata su un ceppo per segare il legno, floscia e come morta, gli occhi chiusi, il petto scosso da un faticoso ansimare. Sotto la cruda luce bianca delle lanterne al kerosene appese nella tenda, i particolari del suo corpo malformato erano adesso evidenti. Ancora bagnata, la pelle era sembrata liscia e maculata di rosso e nero. Ora che era asciutta, Rob poteva vedere che il colore nero era dovuto alla sua pelliccia, morbida e lanuginosa come la pelle di un pulcino appena nato. Le pieghe membranose, simili ad ali di pipistrello, che si estendevano dai fianchi alle minuscole mani artigliate, erano estremamente fragili, sottili come la membrana di un uovo, facili da strappare. Le palpebre erano trasparenti, di modo che le pupille sembravano sempre fisse in uno sguardo sull'esterno; il naso non era altro che un paio di buchi alla punta di una sgraziata protuberanza. I denti erano aguzzi come aghi, e persino ora che la creatura era priva di sensi, si serravano ogni tanto automaticamente se le mani di Rob si avvicinavano troppo alla sua faccia. Ma, nonostante fosse davvero grottesca, chissà come la creatura inteneriva. Forse perché era malata e vulnerabile. Forse perché era piccola e appena nata. Rob sapeva che gli organi interni potevano essere altrettanto devianti quanto le caratteristiche esterne, ma trattava la creatura nel solo modo che conoscesse: come se fosse stata un neonato umano. Le aveva iniettato cinque cc di adrenalina, e il battito cardiaco aveva reagito. Adesso era veloce. Quasi troppo. Rob tolse alla creatura gli stracci caldi e la sventagliò con le mani. La pelle si raggrinziva dove la lieve brezza la sfiorava, un segno che la creatura si riprendeva.
«Morirà?» sussurrò Maggie al suo fianco. «Non credo» Maggie non poté impedirsi dal provare sollievo. Nelle ore trascorse a vegliarla, la sua percezione della creatura era cambiata. Il corpo difforme non era più brutto, ma solenne, delicato e, nel suo modo unico, bello. Il fatto che avesse un aspetto diverso da qualsiasi altra cosa che lei avesse mai visto prima, con il trascorrere delle ore diventò più facile da accettare; a prescindere dal suo aspetto, era una cosa vivente, che respirava e che soffriva. Maggie si sentiva protettiva nei suoi confronti. Si immaginava che avesse bisogno di lei, perché la difendesse. Ma nei profondi recessi della sua mente Maggie era impegnata in una danza emozionale funambolesca. Sulla fune tesa nel vuoto poteva cadere da una parte in una realtà intollerabile, dall'altra nell'abisso della pazzia. Accettare che quella creatura fosse eventualmente analoga a ciò che giaceva in incubazione dentro di lei, l'avrebbe fatta crollare subito. Negarlo, significava negare la realtà. Il corpo era in conflitto con la logica della mente. Maggie era intrappolata tra l'incudine e il martello, incapace di accettare come di negare quel che stava accadendo dentro di lei. Rob si era accorto che Maggie era tormentata, ma non di quanto fosse profondo quel tormento. Conosceva bene la sua immensa compassione per tutti gli esseri viventi, e inoltre sapeva che nelle ultime settimane era stata emozionalmente instabile. Era dunque prevedibile che il ritrovamento di quei due esseri avrebbe provocato in lei più tensione che in tutti gli altri. Ma con il passare delle ore Rob diventava sempre più preoccupato. Gli sembrava che Maggie si stesse ritirando in un guscio protettivo, isolandosi, concentrandosi completamente su quella creatura come se al mondo non esistesse altro. «Vuole un altro straccio?» Romona si era avvicinata con un panno fumante in mano. «No Sta diventando troppo caldo. È possibile fare uscire un po' di fumo da qui?» «Posso aprire i lembi delle tende.» Il pilota comparve, ricoperto di polvere, emergendo da una piccola entrata praticata nel pavimento che conduceva nel sottosuolo. «Niente laggiù, solo sporcizia.» «Niente scorte?» domandò Rob. «Non ne ho viste. È soltanto un buco per formiche.» «Mi serve un vaso sterilizzato.»
«Guardo nelle altre tende,» rispose Romona. «Va bene qualsiasi barattolo. Qualsiasi cosa che si possa sigillare.» «Ho un barattolo di vitamina,» disse il pilota. «Lo dia qua.» «È nel mio zaino...» «Guarda!» il grido di Maggie fu seguito da un acuto squittio di sofferenza. La creatura aveva le convulsioni. Le palpebre s'erano spalancate, le pupille erano rovesciate all'insù; il corpo era rigido, scosso in ogni fibra: dai denti serrati colava una schiuma bavosa. «Si spicci con quel flacone!» latrò Rob. Maggie tese un braccio per toccare la creatura ma Rob glielo fermò. «Non toccarla!» «Non puoi calmarla?» «Non oso darle sedativi.» «Non puoi fare qualcosa?» A un tratto Maggie si portò le mani alla bocca per reprimere un grido mentre guardava in giù angosciata. Il corpo dell'esserino era inarcato, dal naso e dalla bocca colavano a fiotti schiuma e vomito. «Oh... Dio... Dio...» annaspò Maggie e si prese la faccia tra le mani. «Eccole il flacone,» disse il pilota. Rob lo prese in fretta e ne scosse fuori il contenuto cacciandolo poi in mano a Romona: «Bollirlo! Sterilizzare al vapore!» «Mi serve qualcosa per forare il tappo.» «Ho un coltello,» disse il pilota. «Nella mia borsa, Maggie, il tubo di gomma.» Ma Maggie non rispose né si mosse. I suoi occhi sbarrati erano fissi sulla creatura neonata che improvvisamente si era afflosciata sul tavolo in stato comatoso. «Maggie!» «Sì?» «Il tubo nella mia borsa!» «Sì.» Rovistò meccanicamente nella borsa medica e trovò il tubo, che Rob le strappò di mano e inserì nel piccolo foro praticato nel tappo. «L'ho sterilizzato come meglio potevo,» disse Romona, passando rapida il flacone a Rob. Maggie osservò con occhi vitrei Rob tirare giù in fretta una lampada appesa e sostituirvi il flacone. Rob afferrò una siringa ipodermica. Guardò un
attimo la creatura in coma, pieno di esitazioni. Aveva avvertito già prima che la temperatura corporea si stava alzando, il che poteva spiegare le convulsioni. Se fosse stato un neonato umano, gli avrebbe somministrato un'endovenosa idratante per far calare la temperatura. Ma non era un neonato umano. Lui ignorava quale fosse in realtà la sua temperatura corporea normale, né sapeva come avrebbe reagito. Toccò la pelle. Era secca come carta vetrata e scottava. «Ti prego, aiutala,» implorò Maggie. Rob annui con la testa e cominciò a costruire la flebo. Entro pochi minuti era allacciata al sottile braccio della creatura; ascoltando il battito cardiaco con lo stetoscopio, Robert finalmente annuì, sollevato. La respirazione era tornata normale e la temperatura corporea stava calando. Dall'esterno, Hawks aveva seguito attentamente l'attività frenetica nella tenda, e aveva provato un attimo di inquietudine sentendo la creatura squittire. Aveva una voce potente che si udiva lontano nella foresta. I grilli avevano taciuto subito, e dopo erano rimasti zitti. La foresta era silenziosa, come se stesse trattenendo il fiato. Hawks si sforzò di vedere nel buio, i suoi occhi scrutavano gli alberi intorno. Credeva di scorgere forme minacciose in ogni profilo un po' più indistinto, movimenti paurosi nello stormire e nel frusciare delle foglie; si rese conto che la sua immaginazione cominciava a lavorare troppo. Un rumore improvviso lo fece sobbalzare. Era un piccolo rospo che strisciava pigramente tra il sottobosco e avanzava attratto dall'alone di fuoco. Ruzzolò in avanti e andò a piantarsi proprio in cima a un formicaio; ne uscirono formiche a rivoli, che lo ricoprirono mordendogli gli occhi e la faccia. Un fruscio alle spalle fece scattare in piedi l'indiano; era il pilota. Puntò la sua torcia su Hawks, nell'avvicinarsi: i due uomini si valutarono in silenzio. «Pare che la pioggia sia cessata, eh?» borbottò il pilota. Hawks annuì con la testa. «Pensa che i suoi amici tornino indietro?» «Han detto che l'avrebbero fatto.» «Pensa che lo faranno?» A Hawks non andò la domanda e non aveva voglia di ripetere la risposta. «Se non si fanno vedere, io tra non molto torno all'elicottero e me ne volo via da qui.» Hawks non rispose.
«È di queste parti, lei?» «Sì.» «Non ne ha l'aria.» «No?» «Non ha l'aria di essere un indiano.» Hawks gli lanciò un'occhiata: «Neanche lei, ce l'ha.» «Io non sono un indiano.» «Vuol dire che lei non è di queste parti?» Il pilota era sconcertato; Hawks gli girò le spalle. «Quella donna là dentro,» chiese il pilota, «è la sua squaw?» Hawks lo fissò con repulsione. «Quale delle due?» Il pilota cacciò uno sbuffo di sorpresa e scosse la testa. Poi girò i tacchi. Hawks poteva sentire il rumore della lampo dei pantaloni tirata giù, e il tintinnio della fibbia della sua cintura mentre il pilota si allontanava nella foresta. Dentro la tenda, dal contenitore appeso era scesa l'ultima goccia; Rob lo riempì di nuovo. Questa volta ci mise una pura soluzione salina lasciando da parte l'additivo di aminofillina che aveva messo nella prima bottiglia. Lo stimolante aveva fatto il suo lavoro. Adesso la creatura aveva ripreso a muoversi: un braccio minuto sventagliava l'aria, come se cercasse qualcosa su cui appendersi. Ferma accanto a Rob, le labbra aride schiuse, lo sguardo vacuo rivolto in basso, come se riuscisse a stento a vederci, Maggie rispose al gesto della creatura. Tese una mano, ma si fermò, tremante, proprio sopra l'artiglio proteso. Rob si girò verso di lei, gli occhi pieni di preoccupazione. Era pallida, aveva un'espressione sbalordita. Rob si rese conto che era sull'orlo del collasso. «Maggie?...» Vide i suoi occhi cercarlo, e guardarlo come se lo avesse trovato a una grande distanza. «Toccala,» sussurrò a Rob. «Falle sapere che c'è qualcuno qui.» Le prese la mano tremante e la sentì ghiaccia. «Vieni a sedere,» le disse con dolcezza. «Quanto tempo credi che abbia?» sussurrò lei. «Non lo so.» «È un neonato,» disse lei parlando a voce tanto bassa che poteva a stento
udirla. «È appena nato.» Gelato dal tono della sua voce, Rob si girò a cercare la sua borsa medica per prendere un tranquillante, ma lo interruppe il pilota che marciò nella tenda con passo deciso, tirò su la sua borsa e si rivolse a Rob parlando in tono definitivo. «Fuori è tutto a posto. Pioggia, vento, tutto quanto. Propongo di tornare all'aereo e battercela.» «Non possiamo farlo.» «Quegli indiani non torneranno.» «Torneranno,» disse Romona. «Aspetta che si faccia vivo un indiano e puoi aspettare per tre giorni.» «Saranno qui tra poco,» disse Rob. «Lei sta sprecando il suo tempo.» «Stiamo aspettando.» «Non io.» Si avviò. «Aspetti un secondo,» ordinò Rob. «Se vuole venire con me, perfetto.» Rob lanciò uno sguardo a Maggie, riluttante di dover dire davanti a lei quel che aveva da dire. Ma sembrava che Maggie non stesse ascoltando. «Vede che cosa c'è su questo tavolo?» Rob domandò al pilota in tono significativo. «Un fenomeno da circo.» «Un mutante.» «Se io trovassi una cosa del genere, l'ammazzerei e la sotterrerei subito.» «È nato da qualcosa che probabilmente gli assomiglia molto. Solo, un bel po' più grosso. Ed è probabilmente nei pressi del suo elicottero.» L'espressione del pilota si fece più seria e lui si avvicinò al tavolo, guardando in giù alla creatura con estrema ripugnanza. «Sto cercando di tenere questa creatura in vita,» disse Rob, «perché voglio essere sicuro che non ne nascano mai più delle altre.» Benché sembrasse assente e sorda alla conversazione, Maggie serrò i pugni. «Noi abbiamo bisogno di lei, qui,» continuò Rob. «Se stanotte non ce la facessimo a partire, dovremo provare con l'elicottero domani mattina.» «Ha appena detto che non dovrei andare vicino all'elicottero.» «La mia ipotesi è che si tratti di un animale notturno. Lo si può capire dalla dimensione degli occhi.» Il pilota non pareva convinto.
«Ha sentito parlare delle scomparse avvenute nella foresta?» domandò Rob. «Sì.» «Una squadra notturna della cartiera, una squadra di soccorso, una famiglia di campeggiatori. Sono tutti scomparsi di notte. Se dobbiamo correre il rischio di andare all'elicottero, è meglio farlo domani mattina.» Il pilota ascoltò tutto questo in silenzio, poi volse lo sguardo su Rob. «Ho una moglie a casa,» disse a voce bassa. «E un bambino. Penseranno che sono caduto da qualche parte. Hanno sempre paura che vada a sbattere da qualche parte con l'elicottero.» «Se lei si avvicina a quell'elicottero nel buio, potrebbe non tornare mai più a casa.» Il pilota inghiottì e accennò di sì con la testa. «Aspetterò,» disse. Poi si volse e sparì nella notte. Rob guardò Maggie e gli sembrò che lei non avesse badato a quella conversazione. Era immobile, esattamente nella stessa identica posizione, e con la stessa identica espressione, che aveva all'inizio. «Maggie?» «Sì?» «Usciamo. Andiamo a prendere una boccata d'aria.» Lei parve riluttante. «C'è qui Romona.» «Lo sorveglio io,» disse Romona. Rob prese Maggie per un braccio e la condusse fuori nella notte. L'aria era limpida e fredda; il fuoco fiammeggiava alto, illuminando il cerchio d'alberi. Rob riuscì a vedere Hawks e il pilota fermi in due punti diversi del cerchio d'alberi, stavano montando la guardia. Accanto, Hawks aveva il suo arco, poggiato a un albero, con la faretra a terra lì vicino. Maggie rabbrividì nel suo eskimo e Rob la portò vicino al fuoco, prese lo scialle di' lana che le pendeva inutilmente sulle spalle e glielo avvolse bene intorno al collo. La sua faccia era spenta mentre stava lì a guardare al di là di Rob le fiamme. Appariva così chiusa in se stessa e inavvicinabile, che Rob esitò a parlarle. «Maggie?» Non rispose. «Senti, so che tutto questo è un incubo, ma tra poco sarà tutto finito.» Maggie restò immobile, era come se non l'avesse nemmeno udito. «Domattina saremo già lontani, fuori di tutto questo pasticcio,» le diceva
gentilmente Rob. «Torneremo a casa e tu non dovrai mai più preoccupartene.» Lei si irrigidì ma non aprì bocca. «Maggie?» Girò la testa da un'altra parte. Rob adesso era spaventato di non riuscire a raggiungerla. Le andò di fronte, ma lei guardava diritto davanti a sé come se lui non esistesse. «Ricordi quel che ci diceva quel vecchio?» le domandò dolcemente Rob. «Su quella creatura che si sarebbe risvegliata per proteggerli? In certo senso, per quanto sia strano, è vero. Ciò che abbiamo scoperto darà un taglio a tutto quello che stava accadendo qui. Nessuno adesso potrà seguitare a far finta di niente.» Attese una risposta, ma non venne. «Senti quel che ti dico, Maggie? C'è una ragione per quanto è successo. E c'è una ragione se noi siamo qui.» Adesso Rob era quasi disperato. Allungò una mano per toccarla ma lei si irrigidì, come se lo avvertisse di non toccarla. «Lo so che è un essere orrendo, Maggie. È orrendo, perché non era fatto per esistere.» I suoi occhi finalmente si volsero a lui. Erano duri, scintillanti di rabbia alla fiamma del fuoco. «Come lo sai, questo, Rob?» Rob scosse il capo, confuso, sconcertato. «Che non era fatto per esistere,» aggiunse lei. «È una... cosa malata... e deforme.» «È una cosa viva. Chi sei tu per dire che non doveva esistere?» La sua espressione era cattiva e dura; aveva i muscoli del collo e della faccia tesi al punto che tremavano. «Che cos'è che dicono?» aggiunse con voce scossa. «Che le vie del Signore... sono infinite?» Rabbrividì e il suo respiro a un tratto accelerò, sibilando tra i denti serrati mentre la sua faccia si torceva in una maschera di rabbia. «Maggie?» Di nuovo Rob tese una mano per toccarla, ma lei lo allontanò con entrambe le braccia. Rob ristette come paralizzato, inchiodato dai suoi occhi ardenti. «Cosa c'è, Maggie?» «Sono incinta!» esplose lei. «Sono incinta!»
Rob sbiancò, gli occhi sgranati a un tratto per lo choc. «Sono incinta!» strillò lei. «E ho mangiato... quello che loro hanno mangiato! Quello che la madre di quelle creature ha mangiato, là fuori!» «Buon Dio...» proferì Rob in un soffio. «Il pesce!» singhiozzò lei. «Per sei giorni! È abbastanza? Anch'io partorirò un mostro?» Udendo le sue grida, Romona venne fuori di corsa. Anche Hawks e il pilota corsero verso di loro. «Sono incinta!» urlò Maggie a tutti. «Ce l'ho anch'io, quello! Ne ho uno dentro di me! Ne ho uno, anch'io!» Rob l'afferrò e lei dette uno strattone, di colpo presa da panico, lottando e dibattendosi per strapparsi alla sua presa. «No!» urlò, ma lui le afferrò una manica e la tenne salda, tentando di tirarsela fra le braccia. «Vattene!» urlò lei. «Maggie!» «Non toccarmi!», gridò lei, disperatamente. «Lasciami andare!» Riuscì a sfuggirgli, arretrando con occhi selvaggi e spaventati. «Hai paura di me?» strillò. «Io sono la madre di un mostro. Io, anch'io, sono la madre di un mostro!» «Maggie...» «Non avvicinarti, sai! Non avvicinarti!» «Ti supplico, Maggie...» proferì Rob facendo un passo verso di lei. «Non lo ucciderai! Non ti lascerò ucciderlo!» «Maggie...» «Sei stato tu farlo! Sei stato tu, è colpa tua se è accaduto.» «No...» «Tu non volevi sapere, non volevi ascoltare!» «Ti prego...» «Lo odiavi! Lo odiavi!» «Maggie!» «È un fenomeno adesso, è un mostro adesso!» Rob si fermò, angosciato, guardandola agitarsi davanti alle fiamme. «Vuole nascere!», urlò lei. «Vuole nascere!» A un tratto gemette e si batté con le mani la bocca; il vomito sprizzò dalle sue dita. Rob corse da lei a sorreggerla, con lei si lasciò scivolare a terra, dove Maggie si abbatté in pianto, gemendo e tormentandosi; alla fine gli crollò tra le braccia. Ansimando si attaccò a lui; cominciavano a batterle i denti.
«Tienimi...» ansimò. «Sì, sono qui.» «Non lasciarmi andare. Non ucciderlo. Non lo posso uccidere.» «No, no,» la calmò, carezzandole i capelli. E a un tratto le sfuggì un brusco rantolo, boccheggiò, portandosi le mani al ventre. «Mi sta facendo male!» gridò, in preda a panico. «Stenditi.» «Mi sta mangiando!» «È il vomitare, stenditi indietro...» «Non lasciare che mi faccia del male!» «La mia borsa,» disse Rob a Romona. Romona corse via e irruppe nella tenda, riapparendo all'istante con la borsa di Rob. «Non fargli del male,» implorò Maggie mentre Rob le toglieva la giacca e le arrotolava la manica del golf. «Non fare del male al mio bambino...» Rob armeggiò con mani tremanti per preparare una siringa. Non aveva niente fuorché morfina; ne aspirò una quantità minuscola, iniettandola direttamente nella piega del gomito di Maggie. «Oh! Dio!» singhiozzò forte Maggie. Poi, istantaneamente, si calmò. «Maggie.» «Sì.» «Andrà tutto bene.» «No.» «Ce la faremo.» «No. Non posso ucciderlo.» «Rilassati, ora... rilassati...» Le si chiusero gli occhi, si lasciò ricadere su di lui. «Ti prego... amami,» gemette. Poi tacque. Hawks, Romona e il pilota sloggiarono lentamente, lasciando Rob solo, a cullare Maggie tra le sue braccia. La sua faccia si contorse tutta e un singhiozzo di disperazione gli salì dal petto. Aveva il suono del dolore fisico, come se stesse rompendo al di là di una barriera di carne e di ossa per sfuggire alle profondità in cui, per una vita intera, era stato nascosto il sentimento della paura. Il singulto si aprì a forza la strada, e dopo non fu possibile fermarlo. Il corpo di Rob era scosso da quel singulto mentre cullava Maggie nelle sue braccia, la foresta risuonava del suono delle sue lacrime. Infine si calmò rendendosi conto che l'atmosfera intorno a lui si era fatta subitamente ovattata. La foresta era immota, come sospesa in un vuoto. Poi udì un movimento fra gli alberi. Era lontano, una specie di fruscio,
dapprima quasi impercettibile, si fece man mano sempre più distinto. Svegliò Maggie e lottò per metterla in piedi. Il pilota si fece avanti per aiutarlo, gli occhi incollati alla foresta. Hawks si avventurò un poco nell'oscurità del cerchio degli alberi, tutti i sensi in allarme. Romona apparve sulla soglia della tenda, tese l'orecchio dalla parte da cui veniva il rumore. «È gente,» annunciò Romona, sollevata. «Guardate,» chiamò Hawks. Seguirono tutti il suo gesto in direzione di una fila di minuscole luci che avanzava lenta tra gli alberi muovendosi verso di loro. Erano lanterne e torce, una legata all'altra, di modo che nell'oscurità profonda circostante parevano galleggiare come una collana di perle incendiate. «Sono del villaggio,» Romona informò. «E a cosa possono servirci?» disse in tono cupo il pilota. «A noi servono delle auto.» Rob portò Maggie nella tenda e le improvvisò un sedile con un mucchio di stracci per sistemarla vicino al fuoco di carbone. Mentre l'aiutava a sedersi, si rese conto che gli effetti della morfina stavano svanendo. Gli occhi erano di nuovo limpidi. «Non lasciare che gli facciano del male, Rob,» mormorò. Lui scosse il capo per rassicurarla. «Aspettami qui.» Mentre Rob usciva dalla tenda, la processione di indiani con le lanterne stava emergendo nello spiazzo. Alcuni erano giovani, ma per la maggior parte anziani, le facce profondamente segnate e cupe. Si raccolsero in silenzio, la luce del fuoco gettava le loro ombre alte sugli alberi. Poi ruppe l'immobilità silenziosa il rumore lontano di una macchina. Un fascio di fari tagliò l'oscurità, e si udì il tintinnio della carrozzeria mentre un piccolo veicolo si faceva strada nella foresta verso di loro. «Questo sì, ci serve!» esclamò il pilota. «È lo sceriffo,» disse Hawks. Poi si voltò e si diresse alla tenda. «Resterò nei sotterranei finché non siete partiti.» L'auto s'arrestò ai margini dell'accampamento e ne uscirono quattro uomini: lo sceriffo e un suo aiutante, ambedue con i fucili, Bethel Isely e Kelso il tagliaboschi che aveva lottato con Hawks al blocco. «Mettete via le armi,» disse Rob mentre si avvicinavano a lui. «Che cosa succede, signor Vern?» domandò Isely. «Lasciate i fucili qui fuori.» «Le ho domandato cosa sta succedendo.»
«Mettete via quei fucili.» Isely lanciò uno sguardo allo sceriffo e annuì. Lo sceriffo passò il suo fucile al gregario. «Soltanto voi due,» disse Rob a Isely e allo sceriffo. «Il resto può entrare più tardi.» Dentro la tenda, Maggie si alzò faticosamente in piedi, prendendo una posizione di difesa accanto al tavolo dove giaceva la creatura. Anche Romona era lì, e le stava a fianco, ferma e decisa. Isely e lo sceriffo fecero un passo avanti e si ritrassero, le facce contorte in una smorfia di disgusto. Gli occhi della creatura neonata si levarono a fissarli da dietro le palpebre trasparenti, il suo corpo cominciò a tremare, come se avvertisse che il pericolo era vicino. Gemette, poi zittì, il petto sollevato in rapidi ansiti. Rob andò a mettersi di fianco a Isely. «È il risultato del metilmercurio... scaricato dal vostro impianto. Ha avvelenato tutto ciò che esiste nella foresta. Ha dato vita a questa creatura.» Isely non rispose. «Lei lo sapeva?» domandò Rob. Gli occhi di Isely si volsero a Rob. Erano pieni di angoscia. «Lo sapeva?» ripete Bob. Lo sguardo di Isely tornò a posarsi sulla creatura. «Io... non volevo saperlo,» sussurrò. Restarono presso il tavolo, immobili, fissando in basso la creatura vividamente illuminata e ben visibile sotto di loro nella luce di una lampada al kerosene che pioveva dall'alto. L'atmosfera era annebbiata dal fumo di carbone e nell'aria aleggiava la paura. Fuori della tenda, anche gli indiani erano fermi in silenzio, i loro volti illuminati dal fuoco, l'intera scena rimpicciolita da un'enorme luna rossa che ardeva brillante sopra il campo. Uno degli indiani si mosse, entrò nella tenda, altri lo imitarono. Sfilarono chetamente lungo il tavolo in una atmosfera di calma paurosa in cui si udiva soltanto il fruscio dei loro piedi strascicare, via via, che uno dopo l'altro, avanzavano, guardavano la creatura e poi si ritraevano allontanandosi. Non espressero disgusto, non espressero stupore. Le loro facce apparivano calme, benevole, perfino tenere. La creaturina adesso aveva ripreso a lanciare il suo pietoso squittio; lottava per riprendere conoscenza. I rumori che emetteva si facevano sempre più alti e squillanti, superavano le sottili pareti della tenda, si diffondevano riecheggiando per la foresta.
Dall'esterno, dai profondi recessi di buio, venne in riposta un suono. Era uno strillo aspro. Dalla loro posizione presso la tenda, Kelso e l'aiutante dello sceriffo l'udirono, e anche gli indiani l'udirono. L'ultimo indiano aveva lasciato la tenda e si era unito agli altri che formavano ora un gruppetto silenzioso presso il fuoco, e i loro occhi si volgevano verso la foresta, via via che il suono si faceva più forte. La creatura neonata squittiva, lo strillo aspro le rispondeva. Il ritmo aumentava e il suono si avvicinava sempre di più. Dentro la tenda, Romona lo udì, e l'improvviso piegarsi della sua testa mise in allarme Rob che prese anche lui ad ascoltare. Lasciò la tenda, seguito da Romona, con lo sceriffo e Isely che venivano subito dopo. La creatura continuava a quittire, ma lo strillo che giungeva in risposta era a un tratto cessato. Tutti erano fermi e immobili; ascoltavano in silenzio. Gli occhi di Rob frugavano la foresta buia ma non riuscì a scorgere nulla al di là delle vacillanti ombre gettate dal fuoco. Poi udì il movimento; il fogliame della foresta scricchiolava sotto qualcosa che si muoveva nella tenebra. Era diretto verso di loro, il ritmo lento e deliberato si faceva più forte a ogni passo. «Che cos'è?» bisbigliò Isely. Romona levò una mano per farlo tacere. Lo squittio della creatura si faceva disperato ora, improvvisamente salendo al culmine, e il suono scricchiolante divenne più rapido, sempre più vicino. Adesso era al margine dell'accampamento, a pochi secondi dall'invasione nel loro santuario. Rob trattenne il fiato e serrò i pugni. D'improvviso, il fogliame si aprì, rivelando la figura del vecchio M'rai. Entrò nel recinto e si guardò attorno confuso, stupefatto nel vedere così tanta gente lì. «Benvenuti,» sorrise. Rob e Romona si accasciarono per il sollievo. Accadde di colpo. Gli alberi dietro M'rai andarono a pezzi, strappati via dal suolo; un urlo rintronante di rabbia risuonò nell'aria. Una gigantesca forma nera irruppe nel campo, rami saltarono in pezzi, foglie volavano mentre colpiva all'intorno uomini e donne che correvano e urlavano. Era un ingrandimento gargantuesco della creatura neonata; gli occhi a forma di piatto riverberavano al fuoco del campo, la mascella rientrante e cadente perdeva saliva mentre la cosa urlava e colpiva, gettando i corpi dentro agli alberi come bambole di pezza. Il vicesceriffo alzò il suo fucile, ma, proprio in quel momento, fu atterrato, e scagliato in alto, mentre le sue ossa si spezzavano con rumore sordo e il corpo volava nel cielo. Ci fu un clamore di urla di panico; la gente correva dappertutto, si scontrava, cadeva, travolta da una disperazione di fuga. Rob era fermo, incapace di muo-
vere un dito mentre il macello andava avanti tutt'intorno a lui; vide Kelso tagliato in due dagli artigli, la metà superiore del suo corpo atterrò nel fuoco. Un gruppo di indiani tentarono di fuggire nella macchina, ma la bestia la rovesciò. Gli uomini urlanti si riversarono fuori mentre la macchina si ribaltava su un fianco piombando loro addosso. Corpi a brandelli volavano nell'aria dappertutto. La scena si era mutata in un infernale caos di sangue. Dentro la tenda, Maggie afferrò il neonato; la bottiglia dell'endovenosa si schiantò alle sue spalle mentre lei gridava, girando su se stessa con la creaturina in braccio, non sapendo dove rifugiarsi. «Il tunnel!» gridò Hawks balzando fuori della stretta botola nel pavimento della tenda. Prese Maggie e la spinse nell'apertura poi corse all'esterno: «Mona!» Ma Romona non era visibile da nessuna parte. Il pozzo del fuoco era scoppiato in una pioggia di scintille, la gente dappertutto gridava, piangeva, correva, strisciava nelle pozze di sangue. «I tunnel!» gridò Hawks. «I tunnel! Entrate nelle tende!» Il pilota corse verso Hawks, ma gli artigli lo ghermirono, con uno strattone lo levarono insù e lo scagliarono contro un albero. La bestia ora muggiva, si slanciò contro lo sceriffo, che stava rotolandosi a terra tentando di prendere la mira con il suo revolver. Il piede tremendo calò spiaccicandogli la testa, il liquido sprizzò alto nell'aria. Poi l'animale si volse contro Rob; mentre si issava sulle zampe posteriori per caricarlo, Rob vide le mammelle pendule di una femmina. «Attento!» gli urlò Hawks. Rob capriolò e ruzzolò lontano, dietro di sé udì i pali spezzarsi. «Maggie!» gridò. «È in salvo!» urlò Hawks. «Nel tunnel, entri dentro!» Rob cominciò a strisciare a quattro zampe mentre la bestia sfogava la sua rabbia contro la tenda, stracciandola in pezzi come carta velina. «John!» urlò Romona. «Ai tunnel!» Lei gli sfrecciò incontro, scontrandosi in corpi che venivano ghermiti e sollevati scomparendo tutt'intorno a lei; scorse M'rai fermo accanto al fuoco: guardava la massiccia forma della bestia nella sua danza frenetica intorno a lui. «M'rai!» gridò Romona. Hawks l'afferrò sospingendola verso la tenda ma non fecero a tempo a raggiungerla: la tenda verso cui si dirigevano fu strappata a un tratto dai
paletti, cambiarono direzione, puntando verso una delle altre due tende ancora ritte; Isely era arrivato lì un istante prima di loro e piangeva quando Hawks lo cacciò dentro l'apertura; dietro a lui spinse dentro Romona. Poi Hawks si precipitò fuori di nuovo. Di vivo non restava quasi più nessuno. L'aria era percossa dal mugghiare rabbioso della bestia intenta a stracciare quel che restava della tenda. L'unica figura ancora in piedi era M'rai, che guardava tutto quanto con l'aria di un bambino inconsapevole; a terra tutto intorno a lui corpi e pezzi di corpi erano sparpagliati come giocattoli rotti. Fuori c'era anche Rob, tentava disperatamente di trascinare in salvo il pilota la cui faccia era coperta di sangue, puntava verso l'ultima tenda ancora in piedi. Ma la bestia lo vide e gli si rivolse contro con un urlo di rabbia, slanciandosi. «Attento!» gridò Hawks. Rob saltò lontano e ruzzolò veloce. Gli artigli scavarono il suolo a un pelo dalla sua testa mentre Hawks, urlando alla bestia per distrarla, si allontanava di corsa da lui. La cosa si rivoltò verso Hawks con furia e, mentre cadeva a terra, Hawks scorse la carcassa della creaturina morta che lui stesso aveva buttato accanto al fuoco ore prima. L'afferrò lesto e la sollevò alta, poi, nell'istante in cui la bestia si issava sulle zampe posteriori per caricarlo, gliela scagliò addosso. Colpì la bestia al petto; la creaturina finì a terra. Di colpo tutto si fermò. Il ringhio furioso della madre tacque, gli occhi piatti fissavano il corpo del suo neonato. Mentre Hawks guardava, la sua testa enorme si abbassò fino a terra, sangue e saliva le ruscellavano fuori della bocca spalancata. Emise un piccolo suono, come una domanda. Poi calò sulle quattro zampe e carezzò con il naso la minuta carcassa. Hawks e Rob arretravano lenti, piano piano, verso l'unica tenda rimasta, e lì sostarono un istante a osservare la scena. «M'rai!» sibilò Hawks. Ma M'rài non rispose. Era in piedi proprio al di sotto della forma torreggiante, teneva la faccia rivolta all'insù. «M'rai!» La bestia udì la voce di Hawks, i suoi larghi enormi occhi piatti lentamente mossero nella sua direzione, ma rimase immobile a guardare. Poi, senza preavviso, d'un tratto caricò. Rob e Hawks d'un salto furono dentro e sgusciarono per la stretta fessura nel pavimento; udirono sopra di loro i pali della t'enda schiantarsi e le pelli lacerarsi. Il rumore gradatamente andò morendo via via che penetravano nell'oscu-
rità dei sotterranei. Lì, a tre metri circa di profondità, tre gallerie convergevano in un piccolo cubicolo di terra battuta. C'era Maggie, con al petto la creaturina priva di sensi. Isely le stava accovacciato accanto, la testa premuta contro la parete di terra, in lacrime. Rob strappò a Maggie la creatura e la buttò a terra, poi si strinse Maggie tra le braccia; Romona e Hawks si guardavano fissamente nel buio silenzio. Sopra le loro teste, la furia della bestia era cessata. Si allontanò dalla tenda ridotta a brandelli, e con andatura pesante e lenta tornò in cerca del suo neonato morto. Passò oltre M'rai senza toccarlo, e andò a fermarsi sopra la carcassa del suo piccolo, prendendo a sospingerlo con il naso; poi cominciò a leccargli il petto con fermi e rapidi movimenti, dal basso verso l'alto, quasi cercasse di infondergli di nuovo la forza vitale. Si arrestò, mandò un ultimo lamento, raccolse con la bocca la carcassa rigida e lentamente mosse di nuovo verso la foresta. M'rai restò a osservarla confondersi via via con la tenebra notturna e scomparire tra gli alberi. Un sorriso aleggiava sulla sua faccia. Era impazzito. 12 Sull'accampamento di M'rai era spuntata l'alba, illuminando il teatro della strage in tutti i suoi sconvolgenti particolari. La bella oasi di un tempo appariva come un campo di battaglia. Le tende ridotte in frantumi e sporcizia, i corpi sparpagliati dappertutto, braccia e gambe sporgenti dal fogliame del margine circolare, il terreno tormentato e pieno di larghe macchie scure. Il fuoco era quasi spento, ne usciva un filo di fumo: lì stava seduto M'rai e cantava. Dal lago giungeva il mattutino richiamo delle strolaghe quando, da un groviglio di stracci che un tempo era stato una tenda, qualcosa si mosse e i superstiti emersero, uno a uno, dal loro nascondiglio sottoterra. Usci per primo Hawks, seguito da Romona. Poi apparve Rob. Era tutto contuso e impastato di sporcizia, nelle braccia sorreggeva la creaturina mostruosa, ancora viva. Poi apparve Maggie, la faccia graffiata, gli occhi abbagliati. Rob le passò un braccio intorno alle spalle e la fece voltare verso la foresta perché non vedesse la scena da incubo che stava loro davanti. Isely fu l'ultimo a uscire. Non era più lo stesso uomo. Aveva gli occhi infossati e vuo-
ti, le guance scavate, era invecchiato di colpo Hawks e Romona scorsero M'rai e gli si avvicinarono lentamente. Luisi girò verso di loro, e sorrise. «A'haniy 'aht Katahdin» disse. Romona gli si inginocchiò davanti, contemplandolo in volto. Poi, dolcemente, gli strinse sul petto la sua giacchetta aperta. «Katahdin Y'ho'w'atha,» sussurrò il vecchio. «Cosa dice?» domandò Rob avvicinandosi. «Che Katahdin lo ama,» rispose Hawks. Romona girò la testa da un'altra parte, nascondendo le lacrime che le erano salite agli occhi. Rob passò in rassegna con lo sguardo il sinistro spettacolo intorno a loro. La macchina era ribaltata e appiattita. Da sotto sporgevano braccia e gambe, ma nessuna che facesse un movimento. Il cadavere dello sceriffo giaceva contorto e spezzato ai piedi di un albero; il corpo del suo vice gli stava quasi vicino. Giaceva a terra a faccia insù, con il cranio piatto per l'impatto dell'urto. Maggie rabbrividiva tutta; Rob la portò accanto al fuoco semispento e la fece sedere su un masso del bordo. «Starò io con lei,» disse Romona. Maggie teneva il suo scialle di lana penzolante in una mano. Rob dolcemente glielo prese, vi avvolse la creaturina viva e depose il fagotto a terra vicino a Maggie. Poi, lui e Hawks si avviarono ai margini degli alberi, seguiti da Isely. Nessuno di loro parlò mentre contemplavano la foresta immersa nella bruma. «Pensate che sia ancora qui?» domandò Isely in tono spento. «È un animale notturno,» rispose Rob. «Non più, adesso,» disse Hawks. «Non dormirà finché non avrà raccolto la sua roba.» Guardarono tutti e tre la creaturina avvolta nello scialle di Maggie che giaceva a terra, immobile. «Dobbiamo distruggere quella cosa,» disse Hawks. «Dobbiamo bruciarla.» «No.» «Sua madre tornerà a cercarla.» «Non fino a stanotte. È notturna. Dormirà.» Hawks si accese d'ira. Era chiaro che la controversia non era ancora fini-
ta tra loro. «John!» risuonò la voce allarmata di Romona. Si voltarono subito e la videro indicare con un gesto verso la foresta. Si vedeva del movimento, il fogliame oscillava mentre qualcosa veniva nella loro direzione. Era il pilota, gravemente ferito e appena cosciente, che strisciava sul ventre verso lo spiazzo. Rob e Hawks corsero da lui e lo trascinarono avanti sistemandolo in posizione seduta alla base di un albero. La camicia gli pendeva intorno a brandelli, con i pezzi di stoffa ridotti a poltiglia misti al sangue coagulato, che continuava a scorrere dal suo mento sino al ventre. I denti davanti erano piegati all'indentro, e dove una volta c'era stata la fronte ora si vedeva un incavo scolorito. Ripetutamente mormorò qualcosa che non furono in grado di sentire. Rob toccò dolcemente la ferita sulla sua testa; la carne cedette sotto le dita. «Vivrà?» domandò Hawks. Rob si alzò, spostandosi fuori portata per non essere udito, Hawks lo seguì. «Riuscirà a vivere?» ripeté Hawks. «Non lo so.» «Dovremo abbandonarlo, allora.» Rob fissò il pilota con aria cupa. «Non può camminare,» insisté Hawks. «Potremmo trasportarlo.» «Siamo a venticinque chilometri dalla città. Se lo trasportiamo, entro stanotte non avremo fatto neanche metà della strada.» «Voleva vivere. Sono stato io a impedirgli di andarsene. Non posso abbandonarlo qui.» Hawks scosse la testa in segno di avvertimento. «Voi precedeteci,» disse Rob, «potete farcela prima di notte. Mandate qualcuno a prenderci. Noi saremo lungo la strada.» «Non può trasportarlo da solo,.» «C'è qui Isely.» «Io non posso aiutare a portarlo,» disse Isely a bassa voce, dietro di loro. «Riesco a malapena a stare in piedi.» Restarono fermi in un silenzio accorato; sapevano che dovevano prendere una decisione. «Andremo al mio villaggio,» disse Hawks. «È lontano solo tre chilome-
tri. Là saremo al riparo. La mia gente può andare in cerca di aiuto.» «Quanto tempo ci metteranno?» domandò Rob. «La notte scorsa ci son volute sei ore prima che arrivasse una macchina.» «Ce la farebbero a tornare prima di notte?» «Se riusciamo a raggiungere il villaggio entro mezzogiorno, sì.» «Aspettate,» disse Isely. «L'elicottero che vi ha portati, deve avere una radio.» «Non funziona, se non è in volo,» replicò Rob. «La torre della guardia forestale,» propose Isely. «Lassù c'è una radio.» Rob guardò Hawks. «Sono undici chilometri,» disse Hawks. «È metà della distanza sino in città,» li sollecitò Isely. «E tre volte la distanza sino al villaggio,» ribatté Hawks. «Ma lassù c'è una radio.» «E che cosa c'è tra questo posto e lassù?» Isely tacque. «Ci sono undici chilometri di fitta foresta,» aggiunse Hawks. «Con alberi così spessi che non ci si vede a un metro di distanza sui due lati. Non possiamo metterci a traversare una foresta così senza sapere dove si trova quella bestia.» «Io posso,» osservò Isely. Hawks lo studiò con occhi diffidenti. «Non posso portare il pilota,» disse in tono di scusa Isely. «L'unico modo in cui posso rendermi utile è andando sino alla torre. Voi andate al villaggio. Se riesco a stabilire il contatto, uscirete di qui in poche ore.» Rob lo guardò attentamente, domandandosi se si rendeva conto del pericolo che correva. «Lasciate che io faccia almeno questo,» pregò Isely. La sua voce chiariva bene che quello era un atto di espiazione. «Vado a costruire una barella,» tagliò corto Hawks. Rob annuì. «Muoviamoci.» Mentre Hawks raccoglieva rami e pezzi stracciati di pelle d'animale per costruire una barella, Rob passò in rassegna i corpi sparpagliati a terra in cerca di un segno di vita. Non ce n'erano e Rob ne fu quasi sollevato; non sarebbero riusciti a portarne più di uno. Tra i pezzi dell'auto fracassata c'era un fucile indenne, con tre pallottole nella canna. Rob lo prese, tolse le pallottole che si mise in tasca, poi, tra i
resti della tenda, cercò la sua borsa e qualsiasi altra cosa potesse servire, come asce o coltelli. Non si era soffermato a riflettere sul motivo che l'aveva spinto a scaricare il fucile, ma ora, mentre da lontano guardava Hawks, si rese conto di averlo fatto perché temeva che l'indiano potesse cercare di servirsene per mettere a morte la creaturina. Mentre Rob andava cercando tra i rimasugli di tende, Isely frugò le tasche dei vestiti dei tagliaboschi, dello sceriffo e del suo vice, togliendo i loro effetti personali e i documenti di identità per riportarli alle loro famiglie. Sul corpo dello sceriffo trovò una rivoltella e la caricò con le pallottole tolte alla cintura dello sceriffo. Poi andò ad aiutare Hawks a costruire la barella, con Hawks che gli permetteva a stento di aiutarlo, scontrosamente. M'rai continuava a sedere per terra cantando, con una voce così bassa che era a malapena udibile. Maggie e Romona gli sedevano accanto sui sassi che orlavano il pozzo da fuoco, tenendo gli occhi inchiodati alla creatura avvolta nello scialle che stava ai loro piedi. «È viva?» domandò sottovoce Romona. «Sì.» Romona si chinò a togliere la fascia: la gabbietta delle costole continuava a sforzarsi di pompare aria mentre la creatura si attaccava con tutte le sue forze alla vita. «Dobbiamo abbandonarla,» disse Romona. «Morirà.» «Signor Vern?» chiamò forte Romona. Rob si avvicinò e lei si alzò in piedi per affrontarlo. «Questa cosa non la possiamo portare con noi.» «Dobbiamo portarla,» rispose Rob. «Per noi è un pericolo.» «Non sono disposto a perderla.» «Allora la sotterri! Torni a prenderla poi.» «È viva,» protestò Maggie. «E allora la uccida,» rimbeccò Romona. Hawks li raggiunse e si piazzò deciso accanto a Romona. «Romona ha ragione. Deve essere distrutta.» «Ma non si può ucciderla a quel modo...» implorò Maggie. «Se fa un solo rumore...» osservò Romona. «Non può fare nessun rumore,» protestò Maggie. «Guardatela! Non può fare nessun rumore!» Hawks fece per prendere l'involto, e Rob lo fermò. I loro occhi s'incon-
trarono e non si mollarono. «Una volta, lei mi domandò se sarei stato disposto a morire per quello in cui credo,» disse Rob. «Ci sono altre persone, qui.» «Ne sono consapevole.» «Le vorrebbe sacrificare?» «No.» Rob si chinò, prese l'involto, aprì la giacca a vento e ci ficcò dentro la creatura, al sicuro. «Se fa un solo rumore, la uccido. Fino ad allora, resterà viva.» Isely si avvicinò, sentendo la tensione che era nell'aria. «È d'accordo?» domandò Rob a Hawks. «Se fa un solo rumore, muore.» Rob annuì. «Sono pronto per partire,» disse Isely. «La barella è a posto,» rispose gelidamente Hawks. «Possiamo vedere la torretta della guardia dal vostro villaggio?» Rob domandò a Romona. «Sì.» Rob si rivolse a Isely. «Una volta mandato il radiomessaggio, voglio che issi una bandiera. Un qualsiasi straccio andrà bene. Noi monteremo la guardia per vederla.» Isely annuì. «Farò del mio meglio.» Poi si voltò per partire. «Signor Isely?» chiamò Rob. «Sì?», Rob rimase un attimo in silenzio. «Grazie.» Isely entrò nella foresta. Rimasero a guardarlo finché scomparve. Hawks aveva trovato l'arco, ritto e intatto accanto all'albero dove l'aveva lasciato la notte precedente; se lo fissò saldamente sulle spalle insieme con la faretra contenente tre frecce. Dopo di che lui e Rob andarono a prendere il pilota e lo sollevarono sulla barella. Pesava di più di quanto Rob prevedesse. «Guiderò io,» disse Hawks, girandogli le spalle e mettendosi tra i due pali da trasporto. Poi sollevarono e Rob traballò sotto il peso. Non poteva farcela con il pacco della creatura dentro la giacca. «Maggie,» chiamò, «prendi questo.» «Lo prendo io,» gridò Romona. Ma nella sua voce c'era una sfida. «Lei prenda il fucile,» rispose Rob. «Sta vicino al fuoco.» Maggie corse avanti e prese dall'eskimo di Rob il neonato avvolto nello
scialle; rabbrividì quando vide la sua faccia; aveva la bocca incrostata di saliva secca e la pelle cominciava ad afflosciarsi per la disidratazione. «Credo che sia morta,» bisbigliò. «Non è morta. Andiamo.» Hawks partì e Rob vacillò finché non ebbe stabilito un passo in equilibrio con Hawks; Maggie era in fila proprio dietro di loro, la faccia stravolta dall'ansia menue cercava di non guardare il pacco nelle sue braccia. Romona tirò su il fucile e aiutò M'rai a mettersi in piedi, sorreggendolo per un braccio, e seguirono il gruppo nella foresta. I tre chilometri sino al villaggio erano un percorso faticoso, lento, quasi tutto salita. La strada era ingombra di tronchi caduti; a volte dovevano scavalcarli, altre volte strisciarci sotto. Rob aveva il collo dolente e le braccia gli tremavano di fatica menue avanzava barcollando sotto il peso della barella. Hawks camminava in silenzio, i suoi occhi scrutavano la foresta che appariva ingannevolmente benevola. Gli uccelli sopra di loro cantavano e svolazzavano; gli scoiattoli cianciavano con loro dall' alto dei rami. Nel suo sforzo di non inciampare, Maggie si era stretta vicino il suo fagotto di lana per poter vedere dove metteva i piedi. Cercò di ignorare i movimenti della creatura che cominciava a risvegliarsi: la creatura infatti stava riprendendosi, riscaldata dal corpo di Maggie e stimolata dai sobbalzi del suo passo. I suoi muscoli si contraevano e tendevano, aveva aperto una delle sue palpebre trasparenti, rivoltandosi insù; un occhio soltanto adesso fissava da dietro la calda, protettiva oscurità. «Devo fermarmi e metterlo giù,» ansimò Rob. «Continui,» lo sollecitò Hawks, deciso. «Non riesco...» «Romona.» Romona corse da Rob e tese il braccio verso uno dei manici della barella. «No,» disse Rob. «Lasci che l'aiuti.» «No. Faccio da me.» «Aiutalo,» ordinò Hawks. Romona depose il fucile sulla barella e afferrò uno dei manici; Rob lo mollò. «Quanto è lontano ancora?» disse Rob, il fiato grosso. «In cima al colle, siamo a metà strada,» rispose Hawks.
Entro quaranta minuti giunsero sulla cresta del colle, fermandosi a guardare in basso il lago e il villaggio. Il lago era perfettamente immobile, liscio; e così pure il villaggio indiano. Non si vedeva un segno di vita. «Sono andati via,» sussurrò attonita Romona. Anche Hawks era impietrito; guardava con occhi disperati. «Non c'è nessuno?» domandò Rob debolmente. «Nessuno.» «La foresta si è rivoltata contro di loro,» disse M'rai. «Abbiamo fatto arrabbiare Katahdin.» Hawks e Rob deposero a terra la barella. Rob si lasciò cadere e si girò sdraiandosi sulla schiena. Era senza fiato. I muscoli del collo erano tesi in uno spasimo, rigidi e contratti, le sue mani coperte di vesciche e sanguinanti, con schegge profondamente piantate nella carne dove era stata sfregata dai manici di legno rozzamente tagliato. «Ecco la torre, laggiù,» disse Romona. Rob sollevò faticosamente la testa e vide la piccola torre di guardia forestale spuntare da sopra gli alberi su una lontana riva del lago. «Da quanto tempo siamo in strada?» ansimò Rob. «Da due ore, forse meno,» gli rispose Hawks. «Isely dovrebbe essere presto laggiù.» «Se non si è diretto in città,» disse Hawks. «Perché avrebbe dovuto farlo?» domandò Maggie, spaventata. «Sapeva di potercela fare da solo,» rispose Hawks. «Senza di noi, poteva mettersi a correre. Potrebbe farcela prima di sera.» «Andrà alla torre,» si augurò a voce alta Rob. «Ci andrà di sicuro.» La faccia di Hawks era scura quando i suoi occhi si rivolsero a Rob. «Se non ci va, dovremo passare la notte qui.» Rob si tirò in piedi, e sollevarono la barella dirigendosi giù per il pendio verso il villaggio deserto. Isely aveva cominciato il suo viaggio di corsa ma non gli fu possibile mantenere a lungo quel ritmo. Adesso aveva deciso di fare alternativamente trecento passi di corsa e trecento di marcia, e contava tra sé i passi, calmo, cercando di scacciare dalla sua mente il pericolo che temeva stesse in agguato tra gli alberi. Nel corso del suo viaggio aveva deciso che avrebbe aiutato Robert Vern in tutti i modi possibili, se necessario avrebbe confiscato i dossier della Pitney Paper Mill e li avrebbe portati a Washington. Se l'avessero chiama-
to a testimoniare, l'avrebbe fatto raccontando tutto quello che sapeva. Lo faceva sentire meglio, più al sicuro, il pensiero che sarebbe così stato assolto dal suo peccato. Adesso la torre della guardia forestale era visibile, il suo tetto a cannucce sporgeva insù tra gli alberi a non più di un chilometro e mezzo di distanza. Quella vista gli dette nuova energia e lui si mise a correre. Schivava gli alberi come un fante che traversi un campo minato e sentiva le gambe fargli male. Senza fiato, incapace di proseguire così, rallentò un poco, le gambe gli cedevano sotto, affaticate. Sostò un attimo e si appoggiò boccheggiante a un albero, cercando l'ossigeno tra le labbra secche e la trachea arida. Quando la sua respirazione si fu un po' quietata, cominciò a percepire un rumore. Era il rumore di mosche ronzanti, come se lì nei dintorni ci fosse stato un vespaio. Si staccò dall'albero e proseguì barcollante, trovò uno stretto sentiero che gli parve dovesse condurre in direzione della torre di guardia. Qui il suono del ronzio era più forte, e allora vide nel mezzo del sentiero davanti a lui, a terra, una brulicante montagnola di insetti e mosche che planavano al di sopra mentre le formiche convergevano da tutte le direzioni. Si fece più vicino e cominciò a sentire un odore. Era l'odore della carne che imputridisce. Mentre Isely avanzava ancora poté vedere, sottostante gli insetti e le mosche che strisciavano e volavano, il colore nero rosato della carcassa su cui stavano mangiando. Mosse un passo in quella direzione e il tonfo del suo piede fece volar via uno sciame di mosche rivelando una forma che lo arrestò di botto. Ai suoi piedi, stava la carcassa in putrefazione di una creaturina esattamente identica a quella che aveva visto nel campo di M'rai la notte prima. Isely non sapeva niente della seconda creatura che avevano trovato, come non sapeva che la loro madre avesse portato via questa con sé. S'immobilizzo in momentanea confusione, poi rabbrividì sentendo l'odore umido avvilupparlo. S'irrigidì, si rese conto che stava per morire. Il movimento negli arbusti dietro di lui fu rapido, seguito da un urlo di rabbia che gli rintronò gli orecchi. Isely non si volse, non voleva vedere. Ma nel millesimo di secondo che seguì al tonfo della sua testa che cadeva a terra, i suoi occhi registrarono la visione del proprio tronco che veniva strappato e fatto in pezzi. Entro il tardo pomeriggio, una lieve nuvolaglia aveva cominciato a spo-
starsi verso il lago, minacciando il gruppo raccolto nel villaggio indiano con il pericolo di un'oscurità anticipata. Come avevano sospettato, il villaggio era completamente deserto quando vi entrarono: era sparita tutta la gente, erano sparite le masserizie. Rob aveva montato la guardia senza distrarsi un secondo; aveva gli occhi velati per lo sforzo mentre continuava a fissare all'insù verso la lontana torre della guardia forestale. Adesso erano quasi le quattro del pomeriggio, e di Isely non c'era segno. Romona, all'interno di una di quelle strutture vacillanti tipo baracca che componevano il villaggio, si stava occupando del pilota, sdraiato sul pavimento di terra battuta. Ogni tanto aveva ripreso conoscenza e aveva pianto, per poi ricadere nuovamente privo di sensi. Un piccolo fuoco ardeva nel camino. Maggie ci sedeva davanti, lo sguardo perduto nelle fiamme. La creaturina era sempre avvolta nel suo scialle; l'aveva legata stretta con lo scialle per accertarsi che non si sarebbe mossa. E aveva anche avvolto intorno alla piccola apertura in alto un panno, perché aveva visto la creatura fissarla. In un angolo lontano della piccola capanna M'rai si dondolava lentamente, accompagnandosi al suono del suo canto luttuoso e appena udibile. Mentre si inginocchiava accanto al pilota per applicargli un panno bagnato sulla fronte, Romona lanciò un'occhiata attraverso la porta aperta e vide che il cielo si faceva grigio. Era preoccupata per Hawks, partito già da oltre un'ora dal villaggio per avventurarsi in cerca di aiuto. Il pilota gemette e agitò la testa come se volesse disfarsi del panno bagnato. Romona si spostò per vedere i suoi occhi. Erano di nuovo aperti, e sembravano più limpidi questa volta. «L'elicottero...» bisbigliò il pilota. Gli prese una mano e dolcemente gliela massaggiò. «Posso farlo volare,» implorò lui. «Lei sarà presto al sicuro.» «Posso portarvi... fuori di qua...» «Stanno venendo a prenderci.» «Mia moglie penserà che io sia caduto...» «No...» Lui gemette e la sua faccia si torse in una smorfia mentre cercava di trattenere le lacrime. «Mi spiace...» «Lei starà bene presto.» Il pilota pianse e poi perse conoscenza. Romona si tirò in piedi e uscì.
Rob era fermo al centro del villaggio, gli occhi sempre fissi in alto. «Nessun segno?» domandò Romona. Lui scosse il capo. «Avremmo dovuto prendere per la via principale.» «Non avremmo potuto portare la barella per venticinque chilometri.» «Ci toccherà trascorrere la notte qui.» Videro ognuno il terrore negli occhi dell'altro. Il loro silenzio fu rotto da John Hawks, che veniva correndo verso di loro attraverso gli alberi. «Signor Vern!» urlò mentre correva nello spiazzo, «a un mezzo chilometro da qui.» disse, ansimando, «dove stanno facendo il rilevamento degli alberi, hanno lasciato lì una slitta.» «Una slitta?» «La usano per il macchinario di trasporto. Sono come dei carri armati, possono spostarsi su qualsiasi terreno.» «Funzionerà?» Rob gli domandò ansioso. «So come azionare la corrente.» «Quanto tempo ci vorrà?» «È tutto terreno piano, saremo lì in trenta minuti.» «Per andare in città.» «Tre ore, forse quattro.» «Sarà notte, a quell'ora,» disse Romona. «Sarà notte pure qui,» rispose Rob. «Qui abbiamo un po' di riparo,» replicò lei. «Quelle capanne sono come fiammiferi. Se dobbiamo affrontare il buio, che sia almeno vicino alla città.» «Io sono d'accordo,» convenne Hawks. «Va bene,» rispose Romona. «Andiamo!» Corsero alla capanna e ne uscirono con la barella, Romona ancora una volta a fianco di M'rai per sorreggerlo, Maggie che seguiva con la creatura impacchettata in braccio. Hawks aveva ancora in spalla l'arco e la faretra, e il fucile era sulla barella. Calava l'oscurità, ma adesso camminavano pieni di forza. La possibilità di fuggire e scampare il pericolo aveva ravvivato le loro energie. Maggie lottava per mantenersi al passo con Rob e gli studiava la faccia camminandogli al fianco. Sul suo collo le vene sporgevano per lo sforzo di tenere la barella sollevata; la sua mascella era serrata in un'espressione di volitività. I loro sguardi si incrociarono, si scambiarono un cenno rassicurante. Rob era a stento in grado di aprir bocca per la fatica. «Ce la faremo, Maggie.»
«Lo so.» Gli alberi davanti a loro sembravano non dover finire mai, ed erano profondi e scuri come l'eternità. Davano loro l'impressione di muoversi su un tapis roulante, senza andare da nessuna parte, perché il paesaggio restava immutato e nulla segnalava loro che stavano avanzando. Maggie percepì un rapido spasimo percorrere il corpo della creatura nelle sue braccia, e abbassando gli occhi aprì un poco il panno che le avvolgeva la faccia. Aveva entrambi gli occhi aperti, e la fissava dal basso direttamente in volto, con una sorta di affetto inespressivo, quel tipo di fiducia irriflessiva e cieca che si vede sulla faccia di un bambino quando guarda la madre. Maggie rapidamente la coprì di nuovo e concentrò il suo sguardo fissamente sulla foresta. Dentro di sé, pregava che la creatura non piangesse o gridasse. Non avrebbe sopportato di vederla ammazzata. «Ecco!» gridò Hawks. Si misero a correre, giungendo in cima alla cresta di un pendio, dove si apriva ai loro sguardi un'area della foresta abbattuta, sconvolta da uomini e macchine. Gli alberi erano stati ridotti a tronchi affettati, il terreno a una poltiglia con impronte di stivali e ruote. Lattine vuote di bevande e carta sudicia ricoprivano l'intero posto; al centro era fermo un automezzo gigantesco, potente, che pareva il re meccanico di quella contrada desolata. «Guardate le dimensioni di quella cosa!» sibilò Rob, soddisfatto. Era costruito in solido acciaio, alto come un compressore stradale a vapore, con ruote di gomma della circonferenza di un mètro e mezzo. In cima al veicolo spiccava uno stretto scomparto in vetro con una mezza dozzina di leve di cambio tutt'intorno al volante. «Sa guidarlo?» domandò Rob a Hawks. «Sto per imparare. Aspettatemi qua mentre vado a metterlo in funzione.» Calarono la barella a terra e Hawks traversò in un baleno lo spiazzo e balzando sopra la macchina, entrò nello scomparto di guida dove scivolò sotto il volante scomparendo alla vista. Maggie osservava intenta Hawks, quando dal pacchetto che teneva in braccio venne un piccolo miagolio soffocato. Premette lo scialle sul muso della creatura nella speranza di attutire il rumore, con il risultato che quella prese a squittire più forte, allarmata. Rob udì e udì anche Romona, che fu d'un balzo vicino a Rob e lo fissò con lo sguardo che scintillava di sfida, dritto negli occhi. «Aveva detto...» «La prego,» l'interruppe Maggie.
«Smetterà,» borbottò Rob. «L'uccida!» comandò Romona. Ma le loro voci furono soffocate dal rombo del motore dell'autoveicolo. Da un tubo verticale e rigido salirono i fumi dello scarico e Hawks saltò a terra. «Andiamo!» gridò correndo ad afferrare i manici della barella. «John,» protestò Romona. «Muoviamoci, muoviamoci!» tagliò corto Hawks. Rabbiosamente, Romona andò da Maggie. «È tranquillo, ora!» insistette Maggie. «Ha smesso!» «Andiamo!» comandò Rob. Si slanciarono dagli alberi nello spiazzo volando alla macchina; Rob e Hawks legarono la barella al montatoio con delle corde. Romona si arrampicò sul retrocarro aperto e piatto sul fondo, circondato da un pesante, solido paravento metallico a ringhiera. Poi, Romona aiutò M'rai a salire accanto a lei, mentre Rob faceva la stessa cosa con Maggie, e Hawks saltava dentro lo scomparto di guida, esitando un istante, quando l'arco che portava in spalla si infilò nello sportello. «Lo dia a me!» gli gridò dal retro Rob. Ma Hawks scosse la testa in segno di diniego e pian pianino si calò dietro il volante, tirando delle leve che mandarono il veicolo balzelloni prima in avanti e poi bruscamente all'indietro. M'rai perse l'equilibrio, ma Rob fece in tempo a fermarlo prima che cadesse a terra. «Aggrappatevi al parapetto!» gridò soverchiando il rombo del motore. «Attaccatevi tutti saldi.» Maggie si avvicinò di più al parapetto, e involontariamente così facendo si attirò più vicino al viso il pacco nelle sue braccia, e poté udire un suono uscire dall'interno del pacco. Non era uno squittio, era un ronron. Poteva sentire il dolce ronfo delle fusa sotto il proprio mento. «Mi dia il fucile,» disse Rob a Romona. Lei lo afferrò dalla barella e glielo passò da sopra il corpo del pilota, poi sostenne M'rai afferrandosi al parapetto con entrambi le mani ai suoi lati per tenerlo fermo. «Tutti a posto?» chiamò Hawks. «Via!» comandò Rob. Il veicolo sobbalzò e vorticò in un testacoda, i passeggeri si appiattirono al parapetto tenendosi con tutte le forze finché si stabilizzò e partì. Ingranato, il motore era più rumoroso, e il veicolo vibrava come un trapano sui
sassi disseminati lungo la strada. Rob scavalcò il parapetto e si fece strada verso lo scomparto di guida. «Come ci arriviamo?» domandò a Hawks. «C'è un letto di fiume che porta al lago. Seguiremo la costa sino alla strada.» «La mia macchina è là vicino.» «Preferisco viaggiare dentro a questo!» rispose Hawks, con una dura pacca sul pesante cruscotto metallico. Rob annuì e tornò nel retrocarro insieme agli altri; scavalcando il parapetto e sistemandosi dietro a Maggie come aveva fatto Romona con M'rai. La notte stava calando in fretta, ora, e un vento impetuoso si era levato, spazzando gli alberi. Appollaiati su questo stallone metallico, si sentivano tutti quanti sollevati, come soldati che tornassero vivi da una battaglia. Nello scompartimento di guida, Hawks vibrava in ogni fibra, attaccato al cambio. Diede un'occhiata all'indicatore della benzina: il livello era a meno della metà. Sul pavimento ai suoi piedi stava un rotolo di spesso adesivo; lo afferrò, ne stracciò un pezzo con i denti e lo appiccicò sopra l'indicatore di livello. Non voleva saperne niente. L'oscurità stava ispessendosi quando il veicolo emerse da un'area forestale poco alberata e si avviò lungo una distesa di colli ondulati. Hawks sapeva che l'impenetrabile fascia d'alberi alla loro destra si frapponeva tra loro e il lago. Da qualche parte, più avanti, c'era un letto di fiume asciutto che correva proprio diritto in mezzo agli alberi sin giù alla sponda del lago. Da bambino, Hawks si era spesso divertito a farlo tutto di corsa, dalla cima del colle sino alla riva, prendendo il volo negli ultimi metri di corsa per tuffarsi a precipizio direttamente nel lago. Era questo letto di fiume che stava cercando adesso, solo, che nell'oscurità incombente, tutto il paesaggio gli pareva a un tratto sconosciuto e strano. Lanciò un'occhiata alle sue spalle, domandandosi se per caso non l'avesse oltrepassato senza accorgersene, e vide che le nubi si erano aperte sui monti lontani, rivelando una brillante luna piena. Una volta cadute le tenebre, quella luna avrebbe illuminato a giorno il paesaggio. Il momento difficile era ora, prima che le ombre si delineassero in modo da poter vedere con chiarezza i punti di riferimento lungo la strada. Poi vide un riflesso giallo tra gli alberi, davanti, alla sua destra Era il riflesso della luna sul lago, calmo e pacifico laggiù sotto di loro. Hawks poteva persino distinguere la buia isoletta nel centro del lago, dove stava la baita di Rob e Maggie. Era deludente vedere il lago, giacché Hawks non riusciva a trovare la via
di accesso alla riva. «Eccolo, il lago,» esclamò Rob. «È proprio sotto di noi.» «L'ho visto!» urlò Hawks. «Dov'è il letto del fiume?» «L'ho perso.» «Accenda i fari.» Disperato com'era, Hawks si era completamente dimenticato che il veicolo aveva i fari. Trovò un interruttore e lo schiacciò. Un fanale battistrada illuminò il terreno che correva loro incontro. C'era una leva sopra la sua testa e Hawks l'agguantò e fece ruotare il fanale spazzando con il raggio gli alberi tutt'intorno. Con improvviso sollievo riconobbe un punto miliare, una roccia enorme che si stagliava bruscamente nella forma di una punta di freccia. Usavano chiamarla il M'ahay'ak, il «protettore». Il letto asciutto non distava che pochi metri, proprio davanti. «Ce la faremo!» gridò Hawks. «Siamo più che a metà strada!» Il gruppo nel retro del veicolo si scambiava sguardi trionfanti, eccetto M'rai, che teneva gli occhi fissi sugli alberi. Rob lo notò e cautamente si fece strada sino a lui. «Vede qualche cosa?» «Vedo tutto.» «Ce la faremo, vecchio.» «No,» rispose M'rai. Poi si voltò e guardò Rob. «Può fermare la macchina?» Rob lo fissò sbalordito. «Desidero scendere,» spiegò M'rai. «Sarete tutti salvi, se io riesco a scendere.» «Perché?» «Perché così posso parlare a Katahdin. Lui sa quanto lo amo. Gli farò comprendere il motivo per cui gli avete preso il bambino.» Il veicolo improvvisamente sobbalzò, arrestandosi, con il faro che girava in tutte le direzioni. «Grazie,» disse M'rai. Romona lo afferrò e tenne. «M'rai!» «Mi sta aspettando qui fuori,» si lagnò M'rai. Rob afferrò il braccio del vecchio e lo tenne fermo. «Perché si è fermato?» urlò a Hawks. «La traversa che taglia per il lago! Doveva essere qui!» «È coperta dalle felci...» urlò Romona.
«Per favore, vi prego di lasciarmi scendere prima che si arrabbi,» protestò M'rai. «Lo leghi al parapetto,» ordinò Rob a Romona. «Lo leghi.» Poi strisciò allo scompartimento di guida. «Continui a correre, non si fermi! Tenga la cosa sempre in movimento!» «Ma non so dove andare se oltrepassiamo il letto del fiume!» «Alla tua destra,» disse Romona. «Cerca le felci.» «Dove?» chiamò ancora Hawks facendo roteare il fanale. «Ma dovrebbe essere proprio lì!» Accanto a Romona, un acuto squittio salì dal fardello nelle braccia di Maggie. Maggie, disperatamente, spinse in giù la sciarpa che avvolgeva la creatura premendogliela sulla faccia, ma l'animale cominciò a dibattersi, e il suo grido di panico aumentò di intensità. «Buttala fuori!» urlò fuori di sé Romona. «Ci ucciderà tutti!» «Katahdin è qui!» dichiarò M'rai. «Metta in moto!» ordinò Rob. «La metta in moto, questa cosa!» «Ma non so dove andare!» urlò Hawks, esasperato. «Si limiti ad andare! Metta in moto!» Hawks tirò una leva di cambio e il possente veicolo sobbalzò all'indietro, tutti quanti si aggrapparono in fretta al parapetto, a un pelo dall'essere scagliati fuori. Nelle braccia di Maggie la creatura aveva tirato fuori un braccio, l'artiglio tagliente le ondeggiava minaccioso proprio davanti agli occhi ma, aggrappata al parapetto, le era impossibile fermarlo. «Rob!» gridò. «Buttalo!» comandò lui mentre le si avvicinava cauto. Maggie fece un passo indietro per lasciar cadere il pacco, ma l'artiglio si agganciò nella sua giubba, mentre la creatura usciva in grida laceranti e sonore. «Lo butti fuori!» urlò Romona. «Non riesco!» «Eccola, la traversa!» esultò Hawks. «Eccole, le felci!» Ruotò il fanale su un lato e Romona fece un salto per la paura. Tutte le teste si girarono, e lo videro. Il riflesso di due enormi occhi a forma di piatto che li fissavano dal centro del fascio di luce. «Dio!» urlò Maggie. «Si muova!» gridò Rob. «Veloce!» «Madre santa...» gemette Hawks trafficando e tirando le leve di cambio.
Il veicolo sbandò in avanti, M'rai e Romona caddero entrambi sul pavimento. «Sta arrivando!» avvertì Maggie con uno strillo acuto. Brancolò con il pacco ribelle nelle braccia e quando alzò gli occhi vide che dietro di loro il fogliame esplodeva sotto l'impeto dell'enorme spettro di bestia che, abbandonata la foresta, si lanciava alla carica. Hawks spinse l'acceleratore a tavoletta contro il pavimento, correndo ciecamente nell'oscurità, con il veicolo che sobbalzava paurosamente e sbandava da tutte le parti, inseguito dall'animale che guadagnava terreno inesorabilmente. Contro la luce lunare si poteva vederlo soltanto come un'ombra gigantesca che diventava sempre più grande di minuto in minuto. Poi il mezzo si scontrò in un tronco tagliato, e tutti finirono a terra. Hawks trafficò con il cambio, e il veicolo ruotò su se stesso, rotolando in discesa verso gli alberi con la velocità di un ottovolante. Maggie singhiozzava mentre si teneva aggrappata al pavimento con sotto, agganciato a lei, il fagotto che si contorceva. Rob si frugò nella tasca in cerca di una pallottola e la gettò nella canna del fucile. Mirò all'ombra simile a una collina alle loro spalle tenendosi con una mano al parapetto, ma il veicolo sbandò mentre sparava e la pallottola andò perduta. Adesso la bestia gli era quasi addosso, il veicolo filava lateralmente su un colle inclinandosi in un angolo pericoloso. «Schiacciala!» urlò Rob. «Dietrofront e schiacciala!» Hawks lottava con il volante, nell'impossibilità di ruotare a quella velocità per timore di ribaltare. «Punta su di noi!» lo avvertì con un grido Rob. Il muso della bestia era a pochi metri dal parapetto; si poteva vedere la cascata di bava che le colava tra i denti bianchi mentre correva ma, all'ultimo minuto, balzò di lato e prese a galoppare parallelamente al veicolo dal pendio. «Ci è addosso! Vuole ribaltarci!» urlò Rob. «Butti fuori quella cosa,» singhiozzò Romona mentre strisciava verso Maggie. «Glielo butti!» «Gettalo fuori, Maggie!» le urlò Rob. Ma Maggie non poteva muoversi, stava aggrappata con tutte e due le mani alle assi del pavimento. Rob ruzzolò su se stesso accanto a lei, Romona le strappò via lo scialle di lana che avvolgeva la creatura. Con un subitaneo ringhio, la creatura fu sopra il collo di Maggie e urlante di paura le affondò artigli e denti nella carne. Maggie cacciò un grido di dolore,
ruzzolò a terra, Rob si affannò ad andarle dietro per strapparle via dal collo la cosa, ma non gli riuscì di sloggiarla: i denti erano profondamente conficcati nel collo di Maggie. «Attenti!» urlò Hawks dallo scomparto di guida. La bestia si era slanciata, stabilì il contatto, sfiorò il veicolo che si inclinò su un lato, restando per un attimo spaventoso in equilibrio su due sole ruote. «Saltate!» urlò Rob. In un caos di corpi in fuga tutti si buttarono disperdendosi in tutte le direzioni mentre il veicolo crollava su un fianco con una forza paurosa; dopo cominciò a rotolare e sbalzare lungo il pendio in discesa tra gli alberi. Nel toccare terra, Rob aveva visto che Hawks era ancora intrappolato come pure il pilota, legato nel retro al montatoio. La bestia ora aveva concentrato i suoi attacchi sul veicolo stesso, assalendolo con piena furia mentre rotolava pesantemente in mezzo agli alberi. Andò a cozzare contro la base di un masso e qui si arrestò, tranquillo. Hawks lottava disperatamente per riuscire a passare attraverso i vetri rotti, ma era impigliato nello scomparto di guida perché l'arco si era incastrato. La pesante ombra della bestia si avventò sul pilota sventrandolo con una sola possente artigliata, mentre Hawks riusciva a liberarsi appena in tempo: l'arco si era liberato perché la corda era rimasta segata dal cristallo rotto. Di furia agguantò l'arma e corse giù nella notte, cercando di orientarsi nell'oscurità. Maggie correva verso il lago urlando terrorizzata cercando invano di strapparsi dal collo la creatura sempre su di lei, con il muso profondamente incassato nel suo collo. Rob le si affannava dietro, dopo aver tastato all'impazzata tutto il terreno per ricuperare il fucile. E mentre correva dietro a Maggie tentò di ricaricarlo. Vide Romona che inciampava nel buio gridando forte il nome di M'rai. «L'acqua!» venne l'urlo di Hawks. «L'acqua! Tutti all'isola, nuotate!» Rob ora aveva raggiunto Maggie e tentò di fermarla, afferandola in corsa, ma lei era pazza di paura, lottò per cacciarlo da lei e seguitò a correre ciecamente, vacillando e urlando tutto il tempo tra gli alberi. Rob la raggiunse e tenendola vicina a sé alzo il fucile tentando di prendere la mira sulla creatura, ma Maggie non cessava di ruotare la testa e sobbalzare proprio vicino alla canna del fucile. «Non riesco a toglierlo, non riesco a toglierlo! Toglimelo!» urlava Maggie. «Buttati nell'acqua!» le gridò Rob! «Annegalo!»
Dietro di loro udivano il rumore di metallo stritolato, la bestia aveva sfondato il veicolo rovesciato e lo faceva a brani. Rob pregò tra sé che restasse là abbastanza a lungo perché loro potessero raggiungere il lago. Hawks ci arrivò per primo; si fermò, voltandosi a guardare indietro verso gli alberi neri. «Romona!» gridò. «M'rai!» gli giunse la sua voce in risposta. «Non riesco a trovare M'rai.» Hawks tornò di corsa attaccando la salita del pendio e la trovò; la tirò giù, contro la sua volontà, verso il lago, dove la buttò in acqua. «Non abbandonarlo!» urlò Romona. Di nuovo Hawks corse su per il colle mentre Rob e Maggie lo sorpassavano e cadevano in acqua. «All'isola!» urlò Rob. «Toglimelo! Toglimelo di dosso!» «Nuota!» «Non posso!» Rob la raggiunse alle spalle, le passò il fucile davanti al petto, e, afferrandolo saldo ai due lati di Maggie, la tirò all'indietro e spinse entrambi in acque più profonde. Arrampicandosi su per il colle, Hawks vide la figura del vecchio che stava in piedi, attonito, guardando la bestia distruggere l'automezzo. «M'rai!» gridò Hawks correndogli incontro. «Vieni via!» «Parlerò con Katahdin,» rispose il vecchio con calma. Hawks lo afferrò e lo tirò bruscamente indietro, trascinandolo giù per il colle. La bestia li scorse e si sollevò sulle zampe posteriori, la sua testa massiccia che ruotava mentre la puntava verso la sua selvaggina. «Nuota!» ansimò Hawks mentre inciampavano verso la riva. «Non lo farò.» «Vuoi morire?» urlò Hawks. «Non mi farà del male. Lo chiamerò per nome.» Hawks afferrò il vecchio, ma M'rai oppose resistenza. Gli alberi stavano spezzandosi sul colle sovrastante, la bestia stava calando su di loro. «Se gli parlo vi risparmierà,» disse M'rai. Hawks sollevò di peso il vecchio dal suolo e lo scaraventò in acqua, poi saltò dentro dietro di lui. M'rai immediatamente fece dietrofront e ritornò a riva. «M'rai!» gridò Hawks quasi in pianto. Ma M'rai continuò a procedere verso la spiaggia, guadò sino alla sponda, e lì attese l'arrivo di Katahdin.
«Maledizione a te, M'rai,» singhiozzò Hawks. «Non verrò con voi!» Angosciato, Hawks dovette farsi forza e si costrinse ad allontanarsi. Con l'arco e tre frecce strette nella mano, cominciò a nuotare a tutta forza verso l'isola. Rob e Maggie erano andati a finire in acque profonde, ed erano nei guai. Con il braccio intorno a lei, Rob non poteva fare uso delle sue mani per togliere la creatura da dosso a Maggie, e la sua forza stava venendo meno con Maggie che urlava dibattendosi nelle sue braccia. «Dio... Dio... Dio...» urlò lamentosamente Maggie. «Stai ferma!» «Mi sta ammazzando!» Gli occhi di Rob erano a livello di quelli della creatura; lo fissava con risolutezza, i suoi denti aguzzi come aghi infitti nella carne del collo di Maggie. «Aiutami!» gridò Maggie, e cominciò a picchiare, cercando di strapparsi alla presa di Rob. «Maggie, no...» Ma riuscì a liberarsi, e l'acqua eruppe in uno spruzzo bianco mentre Rob tentava di riprenderla. «Aiutateci!» gridò Rob «Hawks!» John Hawks scorse la spruzzata di schiuma bianca salire e nuotò veloce verso di loro, con Romona che lo seguiva dappresso. «È andata sotto!» urlò Rob. «È andata sotto!» Hawks mollò arco e frecce e si tuffò; Romona riuscì a raggiungere Rob e togliergli il fucile; e andò sott'acqua anche lui. Riapparvero all'istante, tutti e tre, Maggie che sputava e inghiottiva acqua, la creatura sempre attaccata al suo collo. «Gli tenga la faccia sott'acqua!» gridò Rob afferrando per i capelli Maggie. Hawks spinse forte sulla faccia della creatura, finché il suo muso fu sotto il filo dell'acqua. Gli occhi di Maggie erano sbarrati e la sua bocca spalancata, con la faccia che le veniva spinta dal di sopra e dal di sotto. «Aiuta... te... mi...» gorgogliò attraverso l'acqua che le inondò la bocca. D'un tratto i taglienti denti della creatura scattarono in su sopra l'acqua e Maggie urlò per il sollievo. Rob l'afferrò in posizione frontale e la tirò via. I denti della creatura si chiusero sulla mano di Hawks e lui la cacciò sotto l'acqua, con una smorfia di dolore mentre con le due mani cercava di tener-
la sommersa. «Il vecchio!» gridò Romona quando gli occhi le corsero alla spiaggia. Là, nella luce della luna, la figura del vecchio era visibile, ritta in una posizione di calma dignità nell'attimo in cui la forma possente della grande bestia irrompeva oltre gli alberi e si sollevava sulle zampe posteriori, fissandolo dall'alto. Mentre Romona guardava, vide M'rai camminare verso la bestia, guardando diritto la sua faccia come se stesse conversando. Poi la bestia sollevò una delle sue zampe e la portò a schiantarsi giù, spiaccicando la minuscola figura ai suoi piedi come se fosse stata una mosca. Romona chiuse gli occhi. Senza più guardare, si voltò con il fucile alto nelle mani e cominciò a nuotare verso l'isola. La buia collinetta che si intravedeva nel mezzo del lago non distava più di mezzo chilometro dalla costa; Romona poteva distinguere il contorno della baita mentre nuotava avanzando silenziosamente verso di essa. Poteva vedere davanti a lei a una certa distanza Hawks, il profilo del cadavere della creatura neonata infilzato sulla punta di una freccia che reggeva, insieme all'arco, alta sopra di lui. Non poteva vedere Rob e Maggie, perché sull'acqua stava formandosi una bruma. Si radunò velocemente, oscurando la sua visione, ovattando tutti i suoni. In pochi minuti si era adunata in un aggraziato tappeto di nebbia che galleggiava sulla superficie, isolando Romona da ogni cosa intorno a lei. Mentre Romona nuotava, sentì quanto sarebbe stato riposante abbandonarsi e scivolare silenziosamente sott'acqua. Sentì il fascino di quella pace, pensò che sarebbe stato caldo e accogliente. Il suo nuoto rallentò, ora si limitava semplicemente a pestare l'acqua. La nebbia intorno a lei roteava, come uno strato di nuvole nel chiaro di luna, pensò Romona, e comprese che non le sarebbe importato nulla se non fosse riuscita a raggiungere la spiaggia. La morte del vecchio l'aveva defraudata dell'unico essere umano di cui aveva completa fiducia. Sembrava ci fosse ben poco per lei ora, soltanto una interminabile battaglia per la quale lei non aveva più la forza. «Romona!» chiamò Hawks. Lei non rispose. «Vern!» gridò con voce disperata Hawks. «Sono qui!» si udì la voce di Rob. «Dov'è Romona?» «Non la vedo!»
«Romona!» gridò Hawks con la voce spezzata per l'emozione. «Oh, Dio! Romona!» «Sono qui, John,» rispose Romona. «Romona!» singhiozzò quasi Hawks. «Sono qui,» lo rassicurò. «Sto bene!» Riprese a nuotare verso la spiaggia. Mentre Rob e Maggie emergevano barcollanti sulla riva e cadevano esausti nel fango, udirono il suono della bestia che urlava al di là del lago. Il suono sembrò vibrare attraverso l'acqua e penetrare tutta l'isola; il suolo sotto la faccia di Rob ne tremava mentre lui stava aggrappato al fango. Maggie gli era a fianco, gemendo mentre lottava per arrivare a un pezzo di terra asciutto. Rob si trascinò sino a lei e se la prese in braccio. Hawks inciampò in avanti, sostenendo Romona, e cadde sui ginocchi, incapace di fare ancora un passo di più. Sdraiò Romona sul bagnasciuga e si sdraiò al suo fianco prendendo il fucile che Romona aveva portato e buttandolo sulla spiaggia insieme all'arco e le frecce e il corpo infilzato della creatura morta. Poi aiutò Romona a mantenersi in piedi e raggiunsero Rob e Maggie, crollando nel fango accanto a loro. La bestia continuava a ululare dalla riva lontana, ma sapeva che adesso erano in salvo. Si sdraiarono sulla schiena, contenti di sentire il solido terreno sotto di loro, e rimasero immobili mentre il sibilo dei loro ansiti svaniva nel silenzio. Anche la bestia adesso si era zittita. Salvo per il lieve lambire dell'acqua contro la riva, nulla rompeva l'immobile pace intorno a loro. Poi Hawks udì un agitarsi dell'acqua, un tonfo attutito, come se qualcosa fosse entrato e stesse nuotando verso di loro. Sedette di botto e fissò la bruma; ondulava e vorticava interminabilmente, in un buio infinito. Il rumore nell'acqua era cessato, ma Hawks restava immobile come un sasso, l'orecchio teso in direzione dell'acqua. Messo in allarme dalla sua posizione tesa, Romona si tirò a sedere a sua volta. Il rumore si udì di nuovo. Un lieve tonfo nell'acqua. Questa volta, più vicino. «Che cosa c'è che non va?» domandò Rob. «Ascolti,» sussurrò Hawks. Rob si sollevò e guardò nella nebbia. Non vedeva niente. L'acqua che lambiva la sponda dolcemente rollava più pesante, un poco soltanto più pesante, ma abbastanza perché Hawks avvertisse il cambiamento. «Che cos'è?» sussurrò Rob, studiando l'espressione di Hawks.
«Le onde sono più pesanti.» Rob lo guardò, confuso. «Il vento non si è levato.» Maggie si levò faticosamente a sedere, i gomiti puntati a terra che tremavano mentre seguiva il loro sguardo. «Sta nuotando,» bisbigliò Romona. «Lo vedremmo,» sussultò Rob. «No.» «Non può nuotare,» gemette Rob. «Non può nuotare...» Non era un'affermazione. Era una preghiera. Ma adesso potevano udirlo distintamente: il rumore del suo fiato che grugniva per lo sforzo; il lieve diguazzare nell'acqua sempre più forte nelle loro orecchie. «No...» si lamentò Maggie con voce tremula. «Nella baita,» ordinò Rob. «Non posso» singhiozzò Maggie. «Il fucile...» disse Rob. «Laggiù.» Rob si mise in piedi faticosamente. «No,» piangeva Maggie. «Tirati su!» ansimò Rob. «Eccolo!» urlò Romona. Tutti si girarono e videro, attraverso il velo di bruma, due ardenti tizzoni che avanzavano inesorabilmente verso di loro. «Dio, no!» gemette Maggie. La bestia rispose con un lamento gorgogliante, l'acqua intorno improvvisamente vorticò veloce. «Spari!» urlò Hawks a Rob. Ma in quel momento gli occhi luminosi scomparvero, la bruma si raccolse in solida parete. «Non la vedo,» gridò Rob mentre caricava il fucile. «Ssss!» I rumori erano cessati. L'acqua fu improvvisamente immobile, calma, le piccole onde lambivano la sponda con un ritmo dolce e regolare. Tutti trattennero il fiato nel silenzio. «Dov'è?» disse Maggie. Hawks alzò una mano per farla tacere. Ma non c'era niente da ascoltare. «È affogata,» disse Rob. «È affogata.» Si girò verso Maggie, con la sua faccia tutta piena di stupore. «È...» Un'enorme bolla d'aria ruppe la superficie direttamente davanti a loro.
Poi, in una cascata di acqua bianca, la bestia improvvisamente si sollevò, colpendo con le braccia l'aria mentre urlava di rabbia. In un caos totale, gridarono e le sfrecciarono sotto, i massicci artigli che tagliavano il fango mentre i quattro scivolavano via e correvano in cerca di scampo. «La bestia!» urlò Rob, tirandosi dietro Maggie. Hawks riuscì ad agguantare le sue armi, buttando via il neonato infilzato su una delle sue frecce mentre correva. Romona inciampò, rotolando giù dalla spiaggia, ma riprese l'equilibrio, e continuò a correre, zoppicando malamente. Dietro di loro, la bestia sostò, abbassandosi su tutte quattro le zampe per un attimo a odorare la carcassa fredda del suo neonato morto. Afferrò il piccolo corpo nella bocca e lo scosse in uno spasmo feroce, selvaggiamente, mordendolo, scagliandolo a pezzi nell'acqua. Poi si levò sulle zampe posteriori, rivolgendo la sua attenzione alle quattro piccole figure che correvano vacillanti verso la baita lungo la spiaggia. In un impeto di vendetta e un turbinare di fango, entrò in azione. La baita era a cento metri circa più su, la sua forma si profilava nella luce di luna mentre il quartetto correva disperatamente in quella direzione, spinto dal rumore delle zampe che affondavano pesantemente nell'acqua del bagnasciuga dietro di loro. Nessuno osava voltarsi a guardare, perché sentivano che la bestia stava guadagnando terreno. Rob guardò Maggie; notò lo sguardo terrificato, il sangue luccicante sul collo, mentre continuava a lottare e correre rimanendo sempre più indietro e più indietro. La bestia le correva quasi di fianco, viaggiava parallelamente a lei nell'acqua bassa e nel fango della spiaggia, con un'andatura goffa, ma celere, e a ogni salto che faceva si avvicinava. Adesso stava distanziandoli e correva avanti, quasi in una gara per arrivare alla baita prima di loro. «Ci tornerà addosso!» gridò Hawks. Erano quasi alla baita ora, ma la bestia li aveva oltrepassati ed era a circa quindici metri più avanti, con la testa che già roteava all'indietro come se l'animale si preparasse a svoltare. Arrivò a destinazione in un finimondo di legno spezzato e andò a sbattere contro la banchina, l'acqua che esplodeva intorno mentre lei ruggiva di frustrazione e confusione; poi fece dietrofront. Diede loro giusto l'attimo necessario per farcela a raggiungere la baita. Hawks superò la ringhiera della veranda e in un lampo fece saltare la porta, mentre gli altri si precipitarono dentro subito dietro di lui.
«Barricate!» gridò Hawks. «Non ci vedo!» gridò Romona. Rob corse al tavolo dove armeggiò per trovare al buio la lanterna al kerosene. «Sta arrivando!» ansimò Maggie dalla finestra. La bestia veniva alla carica con tutta furia e l'intera baita vibrò all'impatto. «Inchiodate la finestra!» urlò Hawks con quanto fiato aveva.» Rob riuscì ad accendere la lampada e corse all'armadio dove aveva visto chiodi e martello. Hawks afferrò il tavolo della cucina e lo assalì furiosamente, ne ruppe di schianto le gambe e lo piazzò contro la finestra. Rob stava correndo verso di lui per inchiodarla, ma la bestia colpì di nuovo; dal camino le pietre rotolarono sul pavimento mentre all'esterno risuonava un ululato di rabbia. «Assi!» urlò Hawks. «Il letto!» gridò Rob a Maggie. «Il letto?» «Le assi del letto!» le urlò Rob, poi scattò verso la finestra e cominciò a inchiodarla con il tavolo. Maggie salì di corsa in solaio, buttò via disperatamente il materasso e si ammassò le sottostanti assi nelle braccia; ma il soffitto a pochi centimetri sopra la sua testa cominciò a scricchiolare e piegarsi, inclinandosi all'indietro sotto un peso improvviso. «Rob!» chiamò Maggie frenetica. Rob corse di sopra nel momento in cui una enorme zampa artigliata penetrava le assi della travatura, ne strappava via una mettendo in vista il cielo. «Il fucile!» urlò Rob. Ma era troppo tardi. Un'altra asse saltò e la potente zampa sfrecciò all'interno. Maggie urlò e cadde a terra; Rob afferrò una lampada al kerosene e la scagliò in alto. «No!» venne l'urlo di Hawks. «Non accenda!» La lanterna si fracassò contro il soffitto e Hawks corse di sopra con un'ascia nelle mani. La zampa della bestia calò di nuovo all'attacco e Hawks colpi con tutta la sua forza; un ruscello di sangue schizzò fuori spruzzando il soffitto; Hawks aveva colpito a fondo. La zampa si ritirò di colpo, e la baita vibrò sotto l'urlo tonante di rabbia. Poi, tutto fu quiete. Rob afferrò Maggie, tirandosela dietro sulla scala; Hawks restò nel so-
laio, l'ascia sollevata e pronta, in attesa che la bestia tornasse. Ma tutto quel che riusciva a vedere attraverso la spaccatura del soffitto era la luce della luna. Romona aveva smantellato un tubo di ventilazione dalla stufa e scrutava fuori attraverso il piccolo foro che l'aveva congiunto al muro. «La vedo,» disse. «Sta andando via!» Attraverso la stretta apertura del tubo, vide la massa della bestia spostarsi lenta, zoppicante, e dirigersi verso la linea degli alberi. Giunta agli alberi, fece dietrofront. Poi arretrò un poco, ripiegandosi su se stessa, e di colpo caricò, venendo avanti a tutta velocità, a un galoppo potente e inarrestabile. «No!» gridò Romona. Colpì la baita con l'impatto di un terremoto. Romona fu scagliata contro la parete: la terra si apriva mentre i tronchi delle mura venivano sradicati, l'interno enorme camino crollava, in una pesante cascata fragorosa di sassi. Le fondamenta sotto la baita gemettero. «Ci rovescia!» urlò Maggie. Le travi sopra le loro teste saltarono e si piegarono per lo sforzo; sedie e tavoli slittarono lungo il pavimento inclinato. Con un sobbalzo improvviso, un lato della baita colpi il suolo, con l'intera struttura che restava precariamente inclinata sul fianco. «Non ce la faremo!» gridò Hawks dal solaio. «Sta entrando!» Rob, Maggie e Romona erano immobili con la schiena contro la parete inclinata; Hawks saltò giù dal solaio e afferrò l'arco tra le macerie. La corda rotta strisciava per terra mentre lui avanzava lentamente, avvicinandosi al violoncello di Maggie; quando lo raggiunse, lo alzò sopra la sua testa e lo fracassò contro il muro riducendolo a pezzi, poi ne strappò via una corda. Da fuori venne un ruggito, la bestia li caricò, possente e fragorosa come un treno merci; la baita fece un mezzo giro su se stessa per l'urto, l'intera parete frontale si ruppe, i travicelli rotolarono a terra scheggiandosi. «Il fucile!» urlò Hawks. «Arriva!» Rob agì. Arrancò per il pavimento inclinato e agguantò il fucile. Hawks si mise tra i piedi l'arco tenendolo fermo e lavorando di denti e di mani affannosamente cercava di fare nodi che gli scivolavano via tra le mani tremanti, tentando di riparare la corda del suo arco. Grugnì esasperato, ormai era chiaro che la bestia entro pochi minuti li avrebbe finiti tutti. La sua zampa massiccia trapassò e sfondò la parete fracassata del davanti, poi ri-
salì verso il tetto tagliando un sentiero attraverso il quale potevano ora vedere gli occhi furibondi e omicidi fissarli dall'alto. L'aria tremava del suo urlo lacerante. Romona si tirò vicino Maggie e Rob alzò il fucile; in quell'attimo il nodo che Hawks cercava di fare gli riuscì e le sue mani lo tesero così forte che lui ricadde all'indietro finendo sul pavimento inclinato. Con una sola possente zampata metà del tetto crollò, rivelando in pieno l'intera figura torreggiante alta sopra di loro, con la bocca che riversava un fiume di saliva mentre urlava in un canto di trionfo e allargava le braccia mettendo in mostra le rosee ali membranose sottostanti. «Spari!» gridò Hawks. E Rob sparò. La mascella della bestia si sgangherò in un'esplosione di polpa sanguinolenta; arretrò, urlante. Rob puntò lesto il fucile e sparò ancora. Hawks s'era rimesso in piedi, ora, e incoccò un'altra freccia, le braccia tremanti per lo sforzo. La bestia si slanciò. «Ancora!» Hawks urlò. Agirono simultaneamente. Un proiettile trapassò il petto della bestia e una freccia le si conficcò nel collo di lato. Vacillò, poi si rizzò in tutta la sua statura, il grosso collo improvvisamente ancor più gonfio. «Ancora!» gridò Hawks, mentre incoccava una freccia. «È scarico!» urlò in risposta Rob. Con un gorgoglio che suonava come un'ondata alluvionale, la bocca distrutta della bestia si aprì e riversò il contenuto dello stomaco, che si sparpagliò dappertutto, rovesciò su tutto e tutti una grandinata di pezzi lattiginosi. Hawks fece partire la sua seconda freccia, che si confisse nel muso della bestia; l'enorme animale urlava di dolore, batteva furiosamente la baita con le braccia, facendo saltare pesanti tronchi di legno che cominciarono a crollare sopra di loro. «Correte!» gridò Hawks. Ma non c'era dove correre. La baita stava crollando, le travi di sostegno piovevano giù con tale forza che si schiantavano contro il pavimento. Hawks stava da solo, con la sua ultima freccia incoccata in attesa del momento giusto. Ma prima che ne avesse la possibilità, la zampa della bestia si slanciò all'interno, lo prese e lo scaraventò contro una parete. «No!» urlò Romona. Rob affannosamente corse verso Hawks, ma gli artigli taglienti lo precedettero. Impalarono Hawks scavandogli il corpo e lo sollevarono spiaccicandolo contro quel che restava di soffitto. Il corpo di Hawks restò incolla-
to lassù per un attimo, poi precipitò sul pavimento a fianco di Rob, con nel pugno maciullato ancora stretto l'arco e la freccia. Rob gli prese la mano di furia per impadronirsi dell'arma, riuscì a togliere la freccia all'arco, ma la zampa di nuovo scattò all'ingiù. «Rob!» Maggie aveva urlato in modo quasi bestiale. Rob fece dietrofront e volle correre, ma gli artigli lo presero, l'alzarono, lo tirarono in alto. «No!» venne lo stesso tremendo urlo di Maggie. Ma non poteva fare niente, fuorché stare a guardare. La bestia aveva tirato su Rob davanti alla bocca e stava tentando di mangiarlo. «Dio! Dio! Dio!» chiamò Maggie. Poi, vide il braccio di Rob scattare all'indietro, la freccia sempre stretta nella sua mano. Con tutta la sua forza, Rob l'affondò dentro l'occhio della bestia, premendo con tutte le sue forze, martellandoci su finché sentì di aver colpito in qualcosa di solido. Per una frazione di secondo, tutto si fermò. La bestia era immobile, ferma, paralizzata; un sottile rivolo di sangue sprizzò dal suo occhio maciullato. Lasciò cadere Rob per terra e strillò per il dolore. Poi si girò, sbandando e vacillando, un artiglio sull'occhio ferito. Rob giaceva fuori della baita per terra in stato di choc e la bestia roteava e danzava sopra di lui, squittendo di agonia, inciampando, sobbalzando in qua e in là, cercando invano di rimettersi in equilibrio. Andò a sbattere contro la baita, facendo crollare completamente il muro di tronchi sul davanti. Rob udì le donne gridare forte. Poi le loro voci tacquero. Le braccia della bestia si abbassarono e tutta la sua figura si accasciò. L'unico occhio restante si girò su Rob. Poi l'animale cadde sui ginocchi. Le sue mammelle materne colme spazzavano la terra mentre l'animale strisciava verso il lago e crollava nell'acqua. Il corpo stremato ondeggiò dolcemente verso il largo, finché una spruzzata di bolle d'acqua ruppe la superficie tutt'intorno la sua testa sommersa. Poi sprofondò, scomparendo alla vista. Il lago ritornò alla sua calma di sempre e la notte alla sua quiete. Il cielo già cominciava lievemente a schiarire; la foresta echeggiava del richiamo delle strolaghe. La baita dietro a Rob era ridotta a macerie; cominciò a udire un movimento all'interno. Raccogliendo tutte le sue forze, riuscì a rotolare in direzione delle baita, quando vide a un tratto Romona che stava strisciandone fuori, aprendosi la strada sotto le macerie. La sua faccia era insanguinata, i suoi occhi senza vita.
«C'è dentro sua moglie,» sussurrò in un tono spento e vuoto. «È caduta proprio su di lei.» Con il sole del mattino, un volo di oche canadesi sopra il lago di Mary ruppe la formazione, spaventato dal rumore degli elicotteri che si avvicinavano. La ricerca era iniziata ventiquattr'ore prima, quando era stata segnalata la scomparsa dello sceriffo, e poi era stata interrotta dall'oscurità allorché la pista dei superstiti era terminata in riva al lago. Per gli uomini negli elicotteri, lo spettacolo dell'isoletta era incomprensibile, non spiegava la misteriosa pista di distruzione. Dove una volta c'era stata una baita non c'era altro che un mucchio di legname rotto e due solitarie figure ritte sulla sponda del lago. 13 La chiamata che Victor Shusette ricevette da parte di Robert Vern lo riempì di allarme e preoccupazione. Ben poco di quel che aveva detto Rob aveva senso per lui; ma era chiaro dal tono di voce di Rob che era tutto vero. Shusette aveva immediatamente lasciato Washington e preso un aereo per Portland, nel Maine, dove era saltato in un taxi per farsi portare all'ospedale dove lo stava aspettando Rob. Non aveva detto a Rob dei recenti sviluppi nella controversia tra le industrie del legname e gli indiani americani; avrebbe tenuto per sé questa informazione fino a quando Rob fosse stato in grado di digerirla. Nel Midwest era stato votato un decreto che invalidava le pretese degli indiani in quanto eredi delle loro terre per diritto di nascita; stabiliva un precedente legale che sicuramente sarebbe stato applicato nel Maine. Anche se la Pitney Paper Mill sarebbe stata multata e costretta a sospendere ogni attività fino a quando avrebbe potuto dimostrare di poter soddisfare tutti i requisiti necessari alla salute e sicurezza dell'ambiente, prima o poi avrebbe riaperto, reclamando la foresta di Manatee. Shusette, seduto nel taxi che lo portava all'ospedale, guardava cupamente fuori del finestrino la pioggia che cadeva. E si domandò quante persone al mondo, al di fuori degli esperti ambientalisti, sospettassero o si curassero del fatto che quelle stesse identiche gocce di pioggia cadevano sulla terra dal tempo della creazione del pianeta. Sarebbero state assorbite dal morbido suolo, e poi si sarebbero vaporizzate, levandosi di nuovo nel cielo, dove si sarebbero ionizzate con l'atmosfera, formando nubi per poi di-
scendere di nuovo sulla terra assetata. Dal finestrino del taxi guardò la pioggia raccogliersi a formare pozzanghere sul suolo di cemento e correre poi lungo i fossi di scolo nelle fognature. Il cielo cominciava a oscurarsi. Shusette controllò l'ora. Erano quasi le otto. Maggie era stata operata alle sei. Maggie Vern cominciò a riprendere conoscenza molto dopo la mezzanotte. Mentre andava gradatamente diventando consapevole del luogo in cui si trovava e di chi lei fosse, la sua mente colse fuggevoli immagini che rappresentavano il passaggio del tempo dall'attacco della bestia sino a quel momento. Le venivano a frammenti, si confondevano, si ripetevano; sembravano esistere soltanto in un sogno. Vide la baita crollare, poi gli elicotteri che calavano sul lago. Ricordò Rob chino su di lei che le gridava di non morire. Poi c'erano altri volti, parzialmente mascherati, una luce luminosa come il sole brillava dietro di loro. Senza aprire gli occhi, Maggie si portò le mani al collo e poi le spostò piano piano lungo tutto il corpo per accettarsi che fosse intero. Il suo tronco era strettamente fasciato e lei non poteva muoversi. Lottando per sollevare le palpebre, vide i tubi serpeggiare in giù ai due lati del letto; ai piedi del letto erano sospesi alle corde i pesi metallici. La fasciatura significava che lei era stata operata; i pesi significavano che era in trazione. Mentre i suoi sensi si facevano sempre più precisi, Maggie si rese conto a un tratto di qualcosa d'altro. Non lo capì da ciò che vedeva o sentiva, glielo disse la propria intuizione. Il suo ventre era vuoto. La sua gravidanza, sparita. Chiuse gli occhi e galleggiò nel vuoto e nel buio, poi, gradatamente, si rese conto che nella stanza c'era qualcuno. Udì il suono di passi; lo scalpiccio si avvicinava adagio al letto. Era lieve e morbido, il passo di una donna. «Sta bene?» sussurrò una voce. «Credo di sì.» Rob era seduto in un angolo buio della stanza dell'ospedale. Romona era in piedi accanto al letto. Le loro voci erano deboli, affaticate, erano esauste. «E lei, come sta?» domandò Rob. «Torno laggiù ora, ci sono dei guai.» Romona esitò, riluttante, a dargli ancora altri fastidi. «La polizia insiste
per esaminare il corpo. È contro la legge indiana. Significa che non saremo in grado di seppellire John come lui avrebbe desiderato.» La voce le tremò, fece una pausa, cercando di controllarla. «Non ha potuto vivere come avrebbe voluto. Non avrà pace nemmeno con la morte.» «Non ci sarà autopsia.» Romona annuì, incapace di mettere insieme altre parole. Rob si alzò e le andò accanto; sapevano tutti e due che non c'era altro da aggiungere. Rob le tese una mano e lei la prese in tutte e due le sue. Poi, Rob la abbracciò forte. I loro occhi non si incontrarono più, lei si girò e chetamente lasciò la stanza. Rob guardò Maggie e a passo lento, adagio, si avvicinò al suo letto e sedette sul bordo abbassando lo sguardo sul suo volto chiuso nel sonno. Era pallido e contuso; una infermiera benintenzionata le aveva legato un nastro azzurro nei capelli. Rob tese una mano e dolcemente lo rimosse, e i capelli le ricaddero in onde sul guanciale. Poi si chinò in avanti e abbassò la testa. Sentì il tocco di una mano fredda sul suo zigomo; alzando lo sguardo vide che aveva gli occhi aperti. Si guardarono fissi, in silenzio. Lui prese la sua mano e se la premette sulle labbra. «Guarirò,» sussurrò lei. «Lo... so.» I loro occhi si fissavano; sentivano la pioggia sui vetri delle finestre. «L'ho perso... vero?» domandò lei con voce debole. «Il... bambino?» «Sì.» «Sento un tale vuoto dentro.» «Non si poteva fare diversamente.» «Era...?» Non terminò la domanda ma lui comprese. «Non ho visto.» «Qualcuno ha visto?» Lui annuì. «Era...?» «Era danneggiato.» Lei abbassò le palpebre, e agli angoli degli occhi si formò un umido luccichio. Rob le asciugò le lacrime in silenzio. In gola aveva un groppo che gli rendeva difficile parlare. «Maggie?» «Sì.» «Avrai un bambino, Maggie.» «Sì.»
«Avremo un bambino.» «Sì,» gemette lei. «Sarà tutto diverso, Maggie, ora.» «Lo so.» Gli afferrò stretta la mano e lui ricambiò la sua stretta con forza. «Mi sei mancato, Robert,» bisbigliò lei. «Sono tornato.» La stretta della sua mano gradualmente allentò e lei ricadde nel sonno. Nel suo posto di vedetta che torreggiava alto sopra la linea degli alberi, la guardia forestale sedeva su una sedia a dondolo, gli occhi iniettati di sangue fissi all'alba che spuntava sulla foresta di Manatee. Il lago laggiù sotto di lui era liscio come uno specchio e rifletteva le sfumature arancione dei primi raggi del sole; tutto era immobile, non c'era un filo di vento. Ma da qualche parte, nel suo campo visivo confuso, colse del movimento e si sporse a prendere un binocolo. Passando in rassegna lentamente lo sconfinato panorama verde, mise a fuoco un monticello grigiastro di terra, con una sfumatura di colorazione scura. Sembrava che stesse rotolando, come se si risvegliasse. Mentre l'uomo guardava, il monticello prese forma lentamente, si sollevò sulle zampe posteriori, e si alzò in tutta la sua statura tra gli alberi. Era una creatura che aveva già visto un'altra volta. Solo, questa volta era più grossa. Più possente, più grande in tutti i sensi. E ce n'erano di piccole intorno alla gigante. Erano cinque. Sgattaiolarono da sotto la madre, poi le tennero dietro quando l'enorme massa pesantemente prese a scendere lenta verso il lago. La guardia forestale mise giù il binocolo, chiuse gli occhi, cercò di scuotersi via dalla mente quella visione. Sapeva che se l'avesse riferita l'avrebbero preso per ubriaco. E lui temeva che avessero torto. Epilogo In retrospettiva, tutto appare inevitabile. Si tratta di una prospettiva comoda, da cui guardare, quando è finita male. Si può, volendo, far risalire un incidente automobilistico fatale al momento in cui la vittima acquistò la macchina, o anche più indietro, forse, al
momento in cui sognò per la prima volta di possederne una. A questo modo, si può sorvolare sui particolari dell'ultimo istante, i segnali stradali ignorati, i limiti di velocità violati, i freni privi di manutenzione, tutte cose che saranno così ritenute senza importanza, di nessun conto per il risultato finale. Anche la storia dell'ambiente del nostro pianeta può essere compresa adottando questa prospettiva; in maniera fatalistica, come una questione di invisibile, ma inevitabile, obsolescenza. O può essere studiata in termini dei singoli particolari e dettagli, tenendo in considerazione la miriade di segnali, ciascuno dei quali, se non fosse stato ignorato, avrebbe permesso di evitare il disastro finale. L'ambiente biologico all'interno di un semplice acquario da salotto seguirà una sequenza di eventi via via sempre più visibili e ovvi: un decadimento della foliazione, un marcire dell'acqua, un oscurarsi del vetro, e per finire la vista dell'intera comunità di pesci raccolta alla superficie dell'acqua a succhiare tormentosamente ossigeno. Persino uno sguardo non allenato l'esaurirsi delle forze vitali diventa allora evidente. Se possiamo, da soli, senza aiuto, capovolgere il processo, solitamente lo facciamo. Se ciò esige la collaborazione di due o tre individui, probabilmente sarà ignorato. Di fatto, il crollo di un habitat esige una cospirazione di negligenze. L'antropologo Richard Leaky, studiando la terra sulle rive del lago Rudolf nel Kenya, in Africa, scoprì la prova di collaborazione umana risalente nel tempo a una data in cui l'uomo non si poteva ancora nemmeno chiamare uomo. E dobbiamo domandarci in quale stadio dello sviluppo umano la «collaborazione» divenne una cosa ripugnante per la personalità umana. Nella mistica e nella psicologia l'uomo sembra seguire i dettami di una dinamica interiore che è stata etichettata con il termine «ego», «io»; un meccanismo che fa sì che ogni individuo della specie umana si senta speciale, particolare, a sé. È un meccanismo che ha trasformato il corso dell'evoluzione in una spinta alla «mobilità verso l'alto», una lotta individuale in cerca di comodità e di lusso a spese della sicurezza della comunità. Affinché non si creda che questo sia un prodotto dell'intelligenza, bisogna rilevare che esiste un'altra specie animale che, misurata al metro del linguaggio, ha una relativa intelligenza che è pari, e alcuni dicono superiore, alla nostra. All'interno della comunità dei delfini, le cui attitudini alla comunicazione e alla soluzione di problemi sono state sviluppate al più alto grado, il concetto di «io» non esiste — non esiste, cioè, in modo dannoso. E quand'anche si volesse scartare questo esempio, dobbiamo pur sem-
pre domandarci secondo quale perversa equazione l'«intelligenza» porterebbe all'autodistruzione. Se abbiamo l'intelligenza di creare sistemi di allarme, perché, allora, continuiamo così stupidamente a ignorarli? La storia che avete letto è basata, nella sua sostanza ecologica, su fatti reali. Sui quotidiani di tutto il Canada è stata ampiamente riportata la notizia che le cartiere del paese usavano da parecchi anni il metilmercurio, l'identica sostanza che causò il disastro di Minamata, in Giappone, scaricandolo nei bacini idrici dell'entroterra. La decadenza fisica e mentale delle popolazioni indiane locali è stata attribuita a ubriachezza. Gli indiani protestano che non fanno uso di alcool. Nel dramma ambientale il termine fantascienza sarà presto obsoleto. La nostra immaginazione ha dei limiti. E la realtà sta cominciando a superare quei limiti. Ringraziamenti Desidero ringraziare Bob Rosen, John Frankenheimer, Michael Eisner, Robert Lescher, George Walsh, Gloria Hammond, Mary Ellen Ernest, Barbara Jacoby e Sylvia Lundgren per il loro appoggio. Inoltre, tutta la mia gratitudine va a Nguyen Van Trung, Thuy Thi Phuong, Timothy Ethan e Emily Ann. FINE