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PATRICIA CORNWELL PUNTO DI ORIGINE (Point Of Origin, 1998) Con affetto a Barbara Bush (che ha fatto la differenza) L'opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell'opera di ciascuno. 1 Cor. 3,13 GIORNO 523.6 PASSO DEL FAGIANO REPARTO FEMMINILE DI KIRBY WARDS ISLAND, NY Salve dottoressa, Tic toc Ossa segate e fuoco. Ancora a casa da sola con la bugiarda FBI? Occhio all'ora, dottoressa! Sprizza luce oscura, paura, TRENITRENITRENI. GKSFWFY vuole le foto. Vieni a trovarci. Terzo piano. Tratta con noi. TIC TOC dottoressa! (Parlerà Lucy?) LUCY BUH alla TV. Vola dalla finestra. Viene con noi Sotto le coperte. Viene fino all'alba. Ride e canta. La stessa vecchia canzone. LUCY LUCY LUCY e noi! Aspetta e vedrai.
Carrie 1 Benton Wesley era in cucina e si stava togliendo le scarpe da ginnastica quando corsi da lui con il cuore pieno di paura, di odio e di terrore. La lettera di Carrie Grethen era fra una pila di lettere e documenti messi da parte fino a un minuto prima, quando avevo deciso di affrontarla con una tazza di tè alla cannella nella mia casa di Richmond, in Virginia. Erano le diciassette e trentadue di domenica 8 giugno. «Immagino te l'abbia mandata in ufficio», disse Benton sfilandosi le calze bianche della Nike. Non sembrava turbato. «Rose non legge la posta indirizzata alla mia attenzione. Tanto più se sulla busta c'è scritto "Riservata".» Lo sapeva benissimo. Avevo il batticuore. «Forse invece dovrebbe. Mi sembra che tu abbia un po' troppi ammiratori», disse in tono tagliente. Posò i piedi nudi per terra e i gomiti sulle ginocchia, la testa bassa. Notai che aveva le spalle e le braccia, muscolose e sode per la sua età, bagnate di sudore; gli guardai le ginocchia, i polpacci e le caviglie segnate dall'elastico delle calze. Si passò le dita fra i capelli grigi umidi e quindi si appoggiò allo schienale della sedia. «Uffa», mormorò asciugandosi la faccia e il collo con un asciugamano. «Sono troppo vecchio per queste stronzate.» Si stava alterando. Trasse un respiro profondo e buttò fuori il fiato. Aveva posato sul tavolo il Breitling Aerospace di acciaio inossidabile che gli avevo regalato a Natale. Lo prese e se lo mise al polso. «Maledizione. Certa gente è peggio del cancro. Fammi vedere», disse. La lettera era scritta con la penna rossa, in uno strano stampatello, e in cima al foglio erano disegnate una specie di cresta e le lunghe penne della coda di un uccello, con la parola ergo, che in quel contesto non mi sembrava avesse alcun significato. Aprii il foglio bianco da fotocopie con la punta delle dita e glielo posai davanti sull'antico tavolo di rovere che tenevo in cucina. Benton non toccò quella che poteva essere una prova e lesse con attenzione quello scritto bizzarro, riflettendo e cercando di ricordare. «Il timbro postale è di New York, dove il processo ha destato un certo
scalpore.» Continuavo a razionalizzare e a negare. «Solo due settimane fa le hanno dedicato un articolo importante, quindi il nome potrebbero averlo preso da lì. In fondo l'indirizzo del mio ufficio è di dominio pubblico. È possibile che non l'abbia scritta Carrie, ma qualche altro pazzoide.» «Invece secondo me è stata lei.» Si rimise a leggere. «Come fa a mandarmi una cosa del genere da un ospedale psichiatrico? Non c'è nessuno che controlla?» ribattei spaventata. «Saint Elizabeth's, Bellevue, Mid-Hudson, Kirby», elencò senza alzare lo sguardo. «I vari Carrie Grethen, John Hinckley Junior e Mark David Chapman sono pazienti, non detenuti. Godono degli stessi diritti civili di cui godiamo noi e nei loro penitenziari e ospedali psichiatrici formano associazioni di pedofili via computer e vendono informazioni ai serial killer per posta. Figurati se non riescono a scrivere una lettera minatoria a un medico legale.» Lo disse in tono pungente, secco. Quando alzò gli occhi, vidi che erano pieni di odio. «Carrie Grethen sta prendendo in giro te, me, l'FBI», continuò. «La bugiarda», citai dalla lettera. Wesley si alzò e si mise l'asciugamano su una spalla. «Supponiamo che me l'abbia scritta lei», ripresi. «Te l'ha scritta lei.» Non aveva dubbi. «E va bene. Non vuole semplicemente prendermi in giro, Benton.» «Infatti. Ci ricorda che lei e Lucy sono state amanti, cosa che finora non è di dominio pubblico», mi fece notare. «Il punto è che Carrie Grethen non ha ancora finito di rovinarci la vita.» Non potevo nemmeno sentirla nominare e la sua ineffabile presenza in casa mia mi riempiva di rabbia. Era come se fosse lì, in cucina con noi, ad appestare l'aria con la sua malvagità. Mi vennero in mente il suo sorrisetto perfido e il suo sguardo maligno e mi chiesi che faccia avesse, dopo essere stata rinchiusa cinque anni in mezzo a dei pazzi criminali. Carrie non era malata di mente. Non lo era mai stata. Era instabile, psicopatica, violenta e incosciente. Guardai gli aceri giapponesi che ondeggiavano al vento e il muretto di pietra che divideva il mio giardino da quello dei vicini. Quando squillò il telefono mi resi conto di non avere nessuna voglia di rispondere. «Scarpetta», dissi sollevando il ricevitore e guardando Benton che rileggeva la lettera per l'ennesima volta. «Salve», mi salutò la voce nota di Pete Marino. «Sono io.»
Il capitano Marino lavorava nel dipartimento di polizia di Richmond e lo conoscevo abbastanza bene da capire dal suo tono di voce che era successo qualcosa. «Cosa c'è?» chiesi. «Ieri sera a Warrenton è bruciata una villa. L'avrai sentito al telegiornale», rispose. «Nella stalla c'erano una ventina di cavalli di razza che valevano una fortuna. Tutti morti. Casa e stalla sono completamente rase al suolo.» Ero perplessa. «Scusa, Marino, ma perché lo vieni a dire a me? Prima di tutto quella non è una zona di tua competenza...» «Adesso sì», mi interruppe. Mi sentii mancare l'aria, come se la mia cucina fosse improvvisamente diventata piccolissima. Aspettai che si spiegasse. «L'ATF ha appena chiamato l'NRT», proseguì. «Cioè noi», intervenni. «Esatto. Ci siamo dentro tutti e due, mia cara. Ci vediamo domani mattina all'alba.» Il National Response Team era una branca dell'ATF, cioè dell'ente federale che si occupava di alcol, tabacco e armi da fuoco, e interveniva in caso di attentati o altre calamità di competenza dell'ATF e di incendi che coinvolgevano chiese o esercizi commerciali. Marino e io non appartenevamo all'ATF, ma era abbastanza frequente che quella e altre agenzie governative ci chiedessero di collaborare in caso di necessità. Per esempio, mi avevano chiamata in occasione delle bombe al World Trade Center e a Oklahoma City e anche nel disastro aereo del volo TVVA 800. Avevo preso parte all'identificazione delle vittime dei Davidiani a Waco e alle indagini sugli attentati di Unabomber. Purtroppo sapevo per esperienza che l'ATF mi mandava a chiamare solo se era morto qualcuno e, se c'era di mezzo anche Marino, inevitabilmente si presumeva l'omicidio. «Quanti?» allungai la mano verso il blocco degli appunti. «Qui non è il quanti che conta, capo, ma chi. Villa e cavalli appartenevano nientemeno che a Kenneth Sparkes, il magnate della stampa. E, adesso come adesso, sembra che ci sia rimasto.» «Santo Dio», mormorai. Mi si annebbiò improvvisamente la vista. «Siamo sicuri?» «Be', è scomparso.» «Mi spieghi come mai lo vengo a sapere solo adesso?» Mi stavo innervosendo, perché tutte le morti per cause innaturali della
Virginia erano di mia responsabilità e non doveva essere Marino a informarmi, ma il mio ufficio del Nord Virginia. Ero furibonda che non mi avessero avvertito a casa. «Non ti incazzare con quelli di Fairfax», disse Marino leggendomi nel pensiero. «La contea di Fauquier ha messo tutto in mano all'ATF. È così che funziona.» Non mi andava giù lo stesso, ma non era quello il momento di sottilizzare. «Suppongo che finora non siano stati ritrovati cadaveri», dissi prendendo appunti. «Certo che no. Quello è affar tuo.» Rimasi un attimo zitta, con la penna in mano. «Marino, qui è bruciata una villa. Anche se si sospetta il dolo e il proprietario è un pezzo grosso, mi spieghi che cosa c'entra l'ATF?» «Per via del whisky e dei mitragliatoli. Oltre al fatto che con la compravendita di cavalli la tenuta rientra nella categoria di esercizio commerciale», rispose Marino. «Straordinario», borbottai. «E un incubo, te lo dico io. Il comandante dei vigili del fuoco ti chiamerà entro stasera. Ti conviene fare la valigia perché l'elicottero ci verrà a prendere prima dall'alba. Mi dispiace che capitino sempre tutte nel momento peggiore: purtroppo mi sa che dovrai dire addio alle ferie.» Benton e io quella sera dovevamo partire per Hilton Head per una settimana di vacanze al mare. Era dall'inizio dell'anno che non passavamo un po' di tempo insieme ed eravamo stanchi morti e stressati. Quando riattaccai, mi resi conto che non avevo il coraggio di guardarlo in faccia. «Mi dispiace», gli dissi. «Avrai capito che c'è stata un'emergenza.» Alzai gli occhi titubante, ma Benton evitò il mio sguardo e continuò a cercare di decifrare la lettera di Carrie. «Devo partire domani mattina all'alba. Tu vai, io magari ti raggiungo a metà settimana», continuai. Non mi stava a sentire perché non voleva sapere. «Cerca di capire», lo implorai. Continuò a fare finta di niente e io mi accorsi che c'era rimasto malissimo. «Ti ricordi i cadaveri mutilati ritrovati in Irlanda e poi anche qui?» disse, sempre leggendo. «Te ne eri occupata tu, no? "Ossa segate". E poi pensa a Lucy e si masturba, raggiungendo più volte l'orgasmo sotto le coperte. O
almeno così presumo.» Continuò a scorrere la lettera parlando fra sé. «Parla come se la relazione fra lei e Lucy continuasse», proseguì. «Usa il noi per farsi passare per dissociata. Come se a commettere i delitti fosse qualcun altro, non lei. Finge di avere una doppia personalità. Trucco più che prevedibile e pedestre per farsi dichiarare incapace di intendere e di volere. L'avrei detta dotata di un po' più di originalità.» «È perfettamente capace di intendere e di volere», replicai arrabbiata. «Io e te lo sappiamo benissimo.» Aprì un'Evian e bevve dalla bottiglietta di plastica. «Da dove viene "Lucy Buh?"» Si sbrodolò leggermente e si asciugò il mento con il dorso della mano. Balbettai: «È un soprannome che le avevo dato io quando andava all'asilo. A un certo punto non ha più voluto che la chiamassi così, ma a volte mi scappa ancora». Mi interruppi e ripensai a mia nipote a quei tempi. «Immagino che Lucy glielo abbia raccontato.» «Be', c'è stato un periodo in cui Lucy e Carrie si dicevano un sacco di cose», rifletté Wesley. «Carrie è stata la prima amante di Lucy e sappiamo tutti che, per quanto odioso, il primo amore non si scorda mai.» «Per fortuna non capita spesso di avere uno psicopatico come primo amore», osservai. Ancora non mi capacitavo che a mia nipote fosse successo. «Uno non ce l'ha mica scritto in faccia, che è psicopatico», attaccò Benton, come se non mi avesse già fatto quella predica mille volte. «Sono persone carine e intelligenti con cui fai conversazione in aereo, in coda allo sportello, che ti vengono a salutare dietro alle quinte o ti scrivono su Internet. Possono essere tuoi fratelli, compagni di scuola, figli, amanti. Sono come me e te. Lucy non poteva farci niente. Non aveva chance, con Carrie Grethen.» Notai che nel mio giardino c'erano troppe erbacce, ma la primavera era stata straordinariamente fresca e le rose erano bellissime. Ondeggiavano nella brezza spargendo per terra pallidi petali. Wesley, esperto di profili psicologici dell'FBI in pensione, riprese la sua interpretazione. «Carrie vuole le foto di Gault. Le foto di lui morto, le foto dell'autopsia. Tu gliele dai e lei in cambio ti fornisce dei particolari, dei dettagli preziosi che a te possono essere sfuggiti, ma che sarebbero importantissimi per il pubblico ministero al processo del mese prossimo. Ti provoca, ti fa nascere il dubbio di esserti lasciata sfuggire qualcosa, qualcosa che magari ha a che fare con Lucy.»
Benton vide gli occhiali sul tavolo e li inforcò. «Carrie vuole che tu la vada a trovare. A Kirby.» Mi guardò, con l'espressione dura. «L'ha scritta lei.» Indicò la lettera. «Si è rifatta viva. Me lo sentivo, che sarebbe successo.» Lo disse con una certa rassegnazione. «Che cos'è la luce oscura?» domandai, alzandomi perché non riuscivo a stare un momento ferma. «Sangue.» Sembrava sicuro. «Hai pugnalato Gault alla coscia recidendogli l'arteria femorale e lui è morto dissanguato. Cioè, sarebbe morto dissanguato, se non fosse arrivato il treno. Temple Gault.» Si tolse di nuovo gli occhiali. Era agitato anche lui. «Finché è in circolazione Carrie, ci sarà anche lui. I due gemelli cattivi», aggiunse. In realtà non erano gemelli, ma si erano ossigenati i capelli e se li erano praticamente rasati a zero. Di una magrezza preadolescenziale, vestivano tutti e due abiti di taglio unisex, l'ultima volta che li avevo visti a New York. Insieme avevano ucciso finché non avevamo catturato lei alla Bowery e io ucciso lui in una galleria della metropolitana. Avrei preferito non vederlo né parlargli e tantomeno toccarlo, anche perché catturare i delinquenti e commettere omicidi, per quanto giustificati, non era compito mio. Ma Gault aveva voluto così. Aveva fatto di tutto perché succedesse, perché morire per mano mia voleva dire legarmi a lui per sempre. Non sarei mai riuscita a liberarmi di Temple Gault, sebbene fosse morto ormai da cinque anni. Nella mia memoria erano impressi indelebilmente il suo corpo straziato sui lucidi binari di acciaio e i topi attirati fuori dalle tane buie dall'odore del suo sangue. Nei miei incubi aveva gli occhi azzurri come il ghiaccio, con le iridi frammentate come molecole, e io udivo il rombo del treno, accecata dai fari brillanti come lune piene. Per anni, dopo averlo ucciso, avevo rifiutato di fare l'autopsia a persone morte sotto un treno. Essendo il capo dell'istituto di medicina legale della Virginia potevo assegnare i casi ai miei sottoposti e così facevo. E, dopo avergliene conficcato uno nella coscia, non potevo più guardare le lame affilate dei bisturi con lo stesso distacco clinico di una volta. Nella folla mi pareva di riconoscerlo fra gli sbandati e la notte dormivo con la pistola vicino al letto.
«Benton, perché non ti fai una doccia e poi pensiamo a come organizzarci per la settimana ventura?» dissi scacciando quei ricordi insopportabili. «In fondo qualche giorno da solo a leggere e a passeggiare sulla spiaggia ti farà bene. Ci sono tanti sentieri che ti piacciono... Potrai startene un po' per conto tuo...» «Bisogna informare Lucy.» Si alzò in piedi. «Anche se in questo momento Carrie è rinchiusa, qualunque cattiveria abbia intenzione di fare, la coinvolgerà di sicuro. Nella lettera lo dice chiaramente.» Fece per uscire dalla cucina. «Quante cattiverie può fare ancora?» chiesi con un groppo alla gola. «Potrebbe trascinare in tribunale tua nipote», si fermò a rispondere. «Pubblicamente. A caratteri cubitali sul "New York Times". Su tutte le prime pagine dei giornali americani da "Hard Copy" a "Entertainment Tonight". In tutto il mondo. "Agente dell'FBI legata da rapporto omosessuale a una temibile assassina"...» «Lucy ha lasciato l'FBI con tutti i suoi pregiudizi, le sue menzogne e la sua paura dello scandalo.» Avevo le lacrime agli occhi. «Basta. Più di così non possono farle.» «Kay, qui non si tratta solo dell'FBI», disse. Sembrava esausto. «Benton, per favore non incominciare...» Ma non riuscii ad andare avanti. Si appoggiò contro lo stipite della porta del salotto, dove il fuoco scoppiettava nel caminetto perché la temperatura non era salita sopra i quindici gradi, quel giorno. Aveva l'aria addolorata. Non gli piaceva parlare di certe cose, affacciarsi verso il lato oscuro dell'animo. Non voleva nemmeno pensare alle efferatezze che avrebbe potuto compiere Carrie e poi era preoccupato per me. Sarei stata chiamata a testimoniare al processo di Carrie Grethen, ma ero anche la zia di Lucy: la mia credibilità di testimone sarebbe stata messa in discussione, la mia testimonianza invalidata, la mia reputazione distrutta. «Usciamo?» propose Wesley con dolcezza. «Dove ti va di mangiare? La Petite? O Benny's, per una grigliata e una birra?» «Scongelo un po' di minestra», dissi asciugandomi gli occhi, con voce rotta. «Non ho tanta fame. Tu?» «Vieni qui», mi disse, tenero. Mi avvicinai e lui mi prese fra le braccia. Mi sorprendeva sempre la forza con cui mi teneva stretta. Quando mi baciò, sapeva di sale. Gli appoggiai la testa sul petto e sentii il suo mento sui miei capelli. Non si era rasa-
to e la peluria che gli era spuntata era bianca come la spiaggia dove quella settimana non sarei andata: niente passeggiate sulla battigia, niente chiacchierate a cena da La Polla's o Charlie's. «Penso che dovrei andare a vedere che cosa vuole», mormorai alla fine al suo collo bagnato. «Neanche per sogno.» «L'autopsia di Gault è stata fatta a New York. Io non ho foto.» «Carrie sa perfettamente chi ha eseguito l'autopsia.» «E allora, se lo sa, perché lo chiede a me?» Chiusi gli occhi e lo abbracciai con forza. Benton rimase un attimo zitto, mi baciò la testa e mi accarezzò i capelli. «Lo sai», rispose poi. «Vuole manipolarti, usarti. È la sua specialità. Vuole che le procuri quelle foto per vedere Gault a pezzi e scatenare la propria fantasia. Chissà che cos'ha in mente; darle corda in questo momento è il peggio che tu possa fare.» «Che cosa vorrà dire GKSFWFY? Sembra una di quelle sigle che si usano negli annunci personali...» «Non saprei proprio.» «E Passo del Fagiano?» «Non ne ho idea.» Rimanemmo a lungo sulla porta di quella che io continuavo stranamente e inequivocabilmente a considerare casa mia. Quando non era fuori per qualche consulenza su casi particolarmente aberranti, Benton viveva lì. Mi rendevo conto che gli dispiaceva che parlassi sempre del mio questo e del mio quell'altro per quanto, non essendo sposati, le nostre cose appartenevano o a me o a lui. Ormai avevo superato la mezz'età e non volevo la comunione dei beni con nessuno, amante o parente che fosse. Probabilmente sembravo egoista, e probabilmente lo ero. «Che cosa faccio io domani, quando tu te ne vai?» mi chiese riprendendo il discorso. «Vai a Hilton Head e fai un po' di spesa», risposi. «Compra del Black Bush e dello scotch. Fai una bella scorta. Non ti dimenticare la crema solare, protezione 35 e 50, noci, pomodori e cipolle.» Stavo per rimettermi a piangere. Mi schiarii la voce. «Appena mi libero, prendo il primo aereo e ti raggiungo. Non so come andrà a finire questo caso di Warrenton. Ma è già successo, no? Il più delle volte quando puoi andare in vacanza tu non ci posso andare io e viceversa.»
«Che schifo di vita», mi sussurrò nell'orecchio. «È anche colpa nostra», replicai. Mi stava venendo un sonno da morire. «Può darsi.» Si chinò a baciarmi sulla bocca e lasciò scivolare le mani sul mio corpo. «Prima della minestra potremmo andare a letto.» «Vedrai che succederà qualcosa durante il processo», dissi. Avrei voluto rispondere alle sue carezze, ma non ci riuscivo. «Pensa, saremo di nuovo tutti a New York: il Bureau, tu, Lucy... tutti al processo. Sì, sono sicura che ha passato questi cinque anni a pensare alle cattiverie che può ancora fare.» Mi ritrassi, vedendomi di colpo davanti agli occhi il volto spigoloso e duro di Carrie. Mi venne in mente com'era bella la sera che fumava con Lucy a un tavolo da picnic vicino ai poligoni di tiro dell'accademia dell'FBI a Quantico. Mi sembrava di risentire le loro voci allegre, di rivedere i loro baci appassionati sulla bocca, le loro carezze fra i capelli. Ricordavo la strana sensazione che avevo provato allontanandomi in silenzio, senza rivelare la mia presenza. Carrie aveva già cominciato a rovinare la vita a mia nipote e ormai le conseguenze di quella storia grottesca si facevano sentire. «Benton», dissi. «Sarà meglio che mi prepari.» «Andrà tutto bene, te lo assicuro.» Mi stava spogliando, pieno di desiderio. Quando io ero fredda, lui sembrava eccitarsi ancora di più. «Io invece non ti posso assicurare niente», sussurrai. «Non posso dire che andrà tutto bene, perché non è vero. Avvocati e giornalisti se la prenderanno con Lucy e con me, ci faranno a pezzi. E magari alla fine Carrie tornerà libera. Vedrai!» Gli presi la faccia fra le mani. «Giustizia e verità. I pilastri degli Stati Uniti», conclusi. «Piantala.» Si fermò e mi guardò intensamente negli occhi. «Non cominciare», mi disse. «Un tempo non eri così cinica.» «Non sono cinica. E non sono stata io a cominciare», risposi, innervosita. «Non sono stata io a mutilare un ragazzino di undici anni e lasciarlo nudo contro un cassonetto della spazzatura con una pallottola nella testa. A uccidere uno sceriffo e una guardia. E Jayne, la gemella di Gault. Te lo ricordi, Benton? Te lo ricordi? Ti ricordi Central Park, la vigilia di Natale? Le impronte nella neve e il sangue gelato nella fontana?»
«Certo che mi ricordo. C'ero anch'io. Conosco anch'io tutti i particolari.» «No, non è vero.» Ero arrabbiata e mi staccai da lui, ricominciando a vestirmi. «Tu non hai messo le mani dentro quei corpi straziati, non hai toccato e misurato le loro ferite», esclamai. «Tu non li hai sentiti parlare, da morti. Non hai visto le facce dei loro cari che aspettavano nel corridoio di sentirsi dare notizie tragiche. Tu non vedi quello che vedo io. No, Benton Wesley. Tu vedi dei bei dossier precisi, foto patinate, fredde scene di delitti. Passi molto più tempo con gli assassini che con le vittime. E forse alla sera fai meno fatica di me a prendere sonno. Forse riesci ancora a sognare, perché non hai paura degli incubi.» Uscì da casa mia senza dire una parola, perché avevo esagerato. Ero stata ingiusta e cattiva e non avevo nemmeno detto la verità. Wesley dormiva tutt'altro che bene, la notte. Si girava continuamente, si lamentava e sudava freddo. Non sognava quasi mai o perlomeno aveva imparato a non ricordare più niente la mattina. Misi la saliera e la pepaiola sui bordi della lettera di Carrie Grethen per evitare che si ripiegasse su se stessa. Il suo scritto sardonico e inquietante era una prova, ormai, e come tale andava trattato. Con la ninidrina o il Luma Lite avremmo potuto trovare impronte sul foglio di carta bianca e confrontare la grafia ad altri suoi scritti, in maniera da dimostrare che quel messaggio contorto era stato vergato da lei prima di apparire in giudizio, imputata di omicidio, davanti alla corte d'assise di New York. La giuria avrebbe visto che cinque anni di cure psichiatriche a spese dei contribuenti non avevano cambiato Carrie Grethen. Che non era affatto pentita e, anzi, godeva di quello che aveva fatto. Ero sicura che Benton non era andato lontano perché non l'avevo sentito mettere in moto la sua BMW. Corsi fuori, lungo le strade asfaltate di fresco, davanti alle belle ville di mattoni dei miei vicini, finché non lo scorsi sotto un gruppetto di alberi che guardava la riva pietrosa del fiume James. L'acqua era gelata e color del vetro e i cirri nel cielo della sera sembravano strisce di gesso. «Appena torniamo a casa prendo la macchina e parto. Sistemo l'appartamento e compro lo scotch», disse senza voltarsi. «E il Black Bush.» «Non devi partire proprio stasera», risposi. Esitavo ad avvicinarmi. Il sole basso gli brillava sui capelli mossi dal vento. «Domani mi devo svegliare presto. Potresti partire con me.» Rimase zitto, gli occhi fissi su un'aquila che mi aveva seguito da quando ero uscita di casa. Si era messo una giacca a vento rossa, ma aveva ancora i
pantaloncini corti umidi e si stringeva le braccia al petto infreddolito. Lo vidi deglutire a vuoto e intuii il suo dolore, nascosto in un recesso dove soltanto io potevo sbirciare. In quei momenti mi chiedevo come facesse a sopportarmi. «Non sono una macchina, Benton», gli sussurrai per l'ennesima volta da quando avevo cominciato ad amarlo. Non rispose. L'acqua del fiume aveva a malapena la forza di scorrere lentamente verso le dighe, producendo uno scroscio sordo. «Ho una grande capacità di sopportazione», spiegai. «Superiore a quella di tanti altri. Ma non devi aspettarti troppo da me.» L'aquila volava in tondo sopra gli alberi alti e Benton, quando finalmente aprì bocca, parlò in tono ancor più rassegnato. «Anch'io ho una capacità di sopportazione superiore alla norma», rispose. «In parte, perché ce l'hai tu.» «Questo vale anche per me.» Feci un passo avanti e lo abbracciai da dietro, stringendolo intorno alla vita. «Infatti.» Lo strinsi forte e gli posai la guancia sulla schiena. «C'è uno dei tuoi vicini che ci guarda», disse. «Dalla finestra. Sapevi che anche in questo quartiere elegante si nascondono dei guardoni?» Mi prese una mano e giocherellò distrattamente con le mie dita. «C'è da dire che, se abitassi qui, ti guarderei anch'io», aggiunse in tono divertito. «Tu abiti qui.» «Non è vero, ci dormo solo.» «Senti, parliamo di domani mattina. Mi verranno a prendere come al solito all'Eve Institute verso le cinque», lo informai. «Quindi, se mi sveglio alle quattro...» Sospirai, chiedendomi se la mia vita sarebbe mai cambiata. «Rimani qui, stanotte.» «Io alle quattro non mi alzo», replicò. 2 Il mattino dopo, l'alba mi trovò su un campo piatto e tinto di azzurro. Mi ero alzata alle quattro e anche Wesley alla fine aveva deciso di partire con me. Ci eravamo salutati con un bacio veloce prima di dirigerci ognuno verso la propria macchina, senza quasi guardarci perché non amavamo i
lunghi addii. Mentre percorrevo West Cary Street verso Huguenot Bridge, però, mi aveva colto un senso di pesantezza e mi ero sentita tutto a un tratto triste e nervosa. Sapevo per esperienza che era alquanto improbabile che raggiungessi Wesley a Hilton Head e prevedevo che quella settimana non avrei né letto né dormito fino a tardi. I casi di incendio non erano mai facili da risolvere e il fatto che vi fosse coinvolto un personaggio di spicco di Washington avrebbe senza dubbio richiesto maggiore lavoro. Più attenzione attirava una morte, più pressioni politiche ricevevo. Le luci erano ancora spente all'Eve Institute, che non era un istituto di ricerca medica né un ente dedicato a un benefattore o a un personaggio che si chiamava Eye. Tutte le volte che ci andavo a farmi rifare gli occhiali o controllare la vista mi faceva impressione parcheggiare vicino a campi da cui spesso partivo verso qualche catastrofe. Appena sentii il rumore familiare oltre le fronde degli alberi scuri aprii la portiera immaginando già ossa e denti carbonizzati immersi in un pantano nero. Pensai al volto spigoloso di Sparkes, ai suoi abiti eleganti, e mi vennero i brividi. Mentre la sagoma dell'elicottero si stagliava contro uno spicchio di luna, presi le mie sacche da viaggio impermeabili e la valigeria di alluminio Halliburton tutta graffiata in cui tenevo la mia attrezzatura medica e fotografica. Due automobili e un pick-up su Huguenot Road rallentarono: evidentemente la gente che andava in città al mattino presto non resisteva alla tentazione di guardare un elicottero che volava basso. I curiosi svoltarono nel parcheggio e uscirono a osservare le pale che tagliavano l'aria con una virata lenta per evitare i fili dell'alta tensione, le pozzanghere, il fango e la sabbia e la polvere che si alzavano da terra. «Sarà Sparkes», commentò un vecchio appena arrivato su una Plymouth tutta arrugginita. «Magari portano un organo per un trapianto», osservò l'autista del pickup, lanciandomi un'occhiata di traverso. Le loro parole si dispersero come foglie secche appena il Bell LongRanger nero rombò scendendo delicatamente a terra. Mia nipote Lucy, ai comandi, si fermò in aria scatenando una tempesta di fieno appena tagliato, che alla luce dei fari di atterraggio pareva bianchissimo, e quindi si posò dolcemente sul campo. Presi in mano le mie borse e mi avventurai a testa bassa contro il vento. Il plexiglas era scuro e non riuscivo a vedere all'interno quando aprii il portellone posteriore, ma riconobbi il braccio muscoloso che si allungò per prendermi la sacca. Salii sull'elicottero mentre altri
veicoli si fermavano a guardare come fossimo alieni e dalle cime degli alberi scendesse una pioggia dorata. «Mi stavo chiedendo dove foste», dissi a voce alta per farmi sentire nonostante il frastuono delle pale, chiudendo la porta. «All'aeroporto», rispose Pete Marino, mentre mi sedevo a fianco a lui. «E più vicino.» «Non è vero», replicai. «Almeno là si può prendere un caffè e andare al gabinetto», spiegò e capii che non era in quell'ordine che ne aveva avuto bisogno. «Suppongo che Benton sia partito per le ferie senza di te», aggiunse. Lucy dava manetta al motore e le pale ruotavano più veloci. «Ti dico già che me la vedo brutta», mi informò Marino di cattivo umore, mentre l'elicottero cominciava ad alzarsi da terra. «Vedrai che sarà un casino.» Marino per lavoro aveva continuamente a che fare con la morte e l'idea di passare a miglior vita lo atterriva. Non gli piaceva volare e tantomeno su velivoli senza hostess né ali. In grembo aveva il "Richmond Times Dispatch" tutto spiegazzato e teneva la testa alta per non vedere la terra che si allontanava sempre di più e la città che si alzava lentamente all'orizzonte come un gigante in procinto di tirarsi in piedi. La prima pagina del giornale annunciava a caratteri cubitali la notizia dell'incendio, corredata da una fotografia aerea della tenuta distrutta che fumava nella notte. Lessi l'articolo senza scoprire niente di nuovo, perché parlava soprattutto della presunta morte di Kenneth Sparkes, del suo impero e della sua vita a Warrenton. Non avevo mai sentito parlare dei suoi cavalli e non sapevo che quello chiamato Wind aveva partecipato al Derby del Kentucky l'anno prima e valeva un milione di dollari. Ma non ne rimasi sorpresa: Sparkes era un uomo intraprendente, narcisista e sicuro di sé. Posai il giornale sul sedile di fronte a me e notai che Marino non si era allacciato la cintura, che penzolava sul fondo dell'elicottero. «Che cosa succede se incontriamo un vuoto d'aria e tu non hai la cintura?» gli gridai perché mi sentisse. «Vuol dire che mi rovescerò addosso il caffè», rispose lui. Si sistemò la pistola sul fianco e vidi che aveva la camicia beige tesa all'inverosimile sulla grossa pancia. «Caso mai tagliuzzando cadaveri non te ne fossi accorta, sappi che se un elicottero precipita la cintura non serve a un accidente. E nemmeno l'air bag.» In realtà gli dava fastidio qualsiasi cosa legata in vita e portava i panta-
loni tanto bassi che mi chiedevo come facessero a non cadergli. Tirò fuori due focaccine da un sacchetto di carta bisunto. Nel taschino della camicia aveva un pacchetto di sigarette e sulle guance il rossore tipico di chi soffre di ipertensione. Quando mi ero trasferita in Virginia da Miami, dove ero nata, Marino era investigatore alla Omicidi e io l'avevo trovato antipatico quanto capace. Veniva all'obitorio e mi chiamava «signorina», faceva il prepotente con i miei dipendenti e, se gli serviva una cosa, se la prendeva senza nemmeno chiedere. Una volta si era addirittura portato via dei proiettili prima che io li avessi etichettati, facendomi infuriare. Fumava con i guanti sporchi di sangue e faceva battutacce sui morti. Guardai dal finestrino le nuvole che sfrecciavano nel cielo e pensai a quanto tempo era passato da allora. Marino andava per i cinquantacinque e non mi sembrava vero. Ormai erano undici anni che ci difendevamo e ci irritavamo a vicenda quasi quotidianamente. «Ne vuoi una?» Mi porse una focaccina avvolta in carta oleata. «Mi fa venire nausea il solo vederla», risposi sgarbatamente. Pete Marino sapeva che le sue cattive abitudini alimentari mi preoccupavano e stava cercando di attirare la mia attenzione. Si zuccherò il caffè nella tazzina di plastica, cercando di tenerla ferma nonostante la turbolenza. «E un po' di caffè?» mi chiese. «Se vuoi, te ne verso una tazza.» «No, grazie. Aggiornami, piuttosto.» Sentivo aumentare la tensione. «Avete scoperto qualcosa, da ieri sera?» «L'incendio non è ancora spento del tutto. Le stalle bruciano ancora», riferì. «I cavalli sono più di quanti pensavamo. Ne devono essere bruciati una ventina, fra purosangue, cavalli da corsa e due puledri di razza. Saprai già di quello che ha corso il Derby. Pensa ai soldi dell'assicurazione... Un cosiddetto testimone sostiene che i loro nitriti sembravano grida di bambini.» «Che testimone?» Non ne avevo ancora sentito parlare. «Be', ha telefonato una marea di deficienti dicendo che avevano visto questo o che sapevano quest'altro. Succede sempre, nei casi di grande risonanza. E non c'è bisogno di essere un testimone oculare per sapere che i cavalli hanno nitrito e scalciato come matti cercando di scappare.» In tono più duro aggiunse: «Lo prenderemo, quello che gli ha dato fuoco. Voglio vedere che cosa fa lui, quando gli brucia il culo.» «Non sappiamo ancora se è stato qualcuno a dargli fuoco», gli ricordai. «Non è stato ancora accertato che l'incendio sia doloso; per quanto ammet-
to che, se io e te siamo stati invitati, il dubbio ci sia.» Marino si voltò verso il finestrino. «Detesto quando ci sono di mezzo degli animali.» Si rovesciò il caffè su un ginocchio. «Merda.» Mi lanciò un'occhiataccia, come se fosse colpa mia. «Animali e bambini. Mi fa stare male.» Non sembrava preoccupato per l'illustre personaggio che poteva essere morto fra le fiamme, ma conoscevo abbastanza Marino da sapere che indirizzava i propri sentimenti dove era in grado di tollerarli e non era il misantropo che faceva finta di essere. Ripensai a quel che mi aveva detto e immaginai i purosangue e i puledri terrorizzati. L'idea che avessero nitrito e preso a calci le pareti della stalla mi faceva accapponare la pelle. Le fiamme avevano avvolto la tenuta di Warrenton come rivoli di lava distruggendo la villa, le stalle, le cantine piene di whisky d'annata e la collezione di armi, divorando tutto fuorché le mura di pietra. Guardai verso la cabina di guida, dove Lucy parlava alla radio e con il secondo pilota dell'ATF, indicando un elicottero Chinook sotto la linea dell'orizzonte e un aereo talmente distante da sembrare una scheggia di argento. Il sole era sempre più luminoso e trovavo difficile concentrarmi guardando mia nipote. Stavo male per lei. Era stata costretta a lasciare l'FBI, il sistema automatizzato che aveva creato, i robot che aveva programmato, gli elicotteri che aveva imparato a pilotare. Si era chiusa in se stessa e si era allontanata anche da me. Non volevo parlarle di Carrie. Mi appoggiai allo schienale senza dire niente e cominciai a leggere le carte sul caso Warrenton. Avevo imparato da tempo a concentrarmi esclusivamente su una cosa lasciando da parte i pensieri e gli umori del momento. Mi resi conto che Marino mi guardava tastandosi il taschino della camicia per assicurarsi di non essere rimasto senza sigarette. Il frastuono del rotore aumentò ulteriormente, quando aprì il finestrino e si fece scivolare in mano una Marlboro. «Toglitelo dalla testa», gli dissi girando pagina. «Vedi scritto "vietato fumare" qui intorno?» ribatté lui infilandosi una sigaretta in bocca. «Tu non lo vedi mai, neanche quando ce l'hai sotto al naso.» Rilessi i miei appunti e mi soffermai su una dichiarazione che mi aveva fatto al telefono il comandante dei vigili del fuoco la sera prima. «Incendio doloso a scopo di lucro?» domandai alzando gli occhi dal fo-
glio. «A opera del proprietario, Kenneth Sparkes, che potrebbe aver appiccato un incendio dalle conseguenze più gravi del previsto? Su che basi?» «Spark vuol dire scintilla, no?» rispose Marino. «Il nome giusto per un piromane.» Diede un tiro alla sua sigaretta. «Se è stato lui a dare fuoco alla casa, gli sta bene che sia bruciato tutto. Sai come si dice, anche quando fanno carriera rimangono sempre ragazzi di strada.» «Sparkes non è mai stato un ragazzo di strada», ribattei. «Guarda che ha studiato a Rhodes.» «Se lo dici tu...» fece Marino. «Mi ricordo quando sui suoi giornali ha lanciato una campagna contro la polizia. Lo sapevamo tutti che gli piacevano un po' troppo le donne e la cocaina, ma non siamo riusciti a incastrarlo perché nessuno aveva il coraggio di farsi avanti per denunciarlo.» «Dici bene, non è mai stato dimostrato», insistetti. «E il fatto che uno si chiami Sparkes e abbia politiche editoriali che non ti garbano non implica che sia un piromane.» «Guarda che in fatto di cognomi azzeccati io sono un grande esperto.» Marino si versò dell'altro caffè e continuò a fumare. «Pensa che ho conosciuto un coroner che si chiamava Della Morte, un certo Tomba che uccideva le sue vittime nei cimiteri, un giudice Forca e un avvocato Della Cella. Per non parlare di Totò Nero, coinvolto in un giro di scommesse e ucciso fuori del proprio ristorante. E te lo ricordi quel poveretto che fu colpito da un fulmine davanti a una chiesa l'estate scorsa?» Mi guardò. «Be', si chiamava Bruciati.» Non ero in grado di sopportare discorsi simili a quell'ora del mattino e presi le cuffie dietro al sedile per non sentire Marino e seguire quel che si dicevano i due piloti in cabina. «Non vorrei mai morire fulminato davanti a una chiesa: te lo immagini cosa direbbe la gente?» continuava Marino. Prese un altro caffè, come se non avesse problemi di prostata. «Me li sono scritti tutti, ma finora non l'avevo mai detto a nessuno. Nemmeno a te, vero? Se non te li scrivi, poi te li dimentichi.» Bevve un sorso. «Secondo me ci si potrebbe fare un libro. Uno stupidario, come quelli che negli ultimi tempi hanno avuto tanto successo.» Mi infilai le cuffie e guardai i poderi e i campi deserti che lasciavano il passo a casolari, fienili e strade: mucche e vitelli erano puntini scuri nei recinti e una mietitrebbia sbuffava fra campi punteggiati di balle di fieno. La campagna si trasformò poi gradualmente nelle ricche tenute di War-
renton, dove la criminalità era bassa e le ville circondate da ettari ed ettari di parco comprendevano dependance, campi da tennis, piscine e stalle modello. Sorvolammo piste d'atterraggio private e laghetti con anatre e oche. Marino era a bocca aperta. I nostri piloti rimasero zitti per un momento, aspettando di essere a portata dei colleghi dell'NRT a terra. Poi udii la voce di Lucy, mentre cambiava frequenza e cominciava la trasmissione. «Echo uno, qui elicottero nove-uno-nove Delta Alpha. Teun, mi senti?» «Affermativo, Delta Alpha», rispose T.N. McGovern, la caposquadra. «Siamo a dieci miglia in direzione sud, procediamo verso l'interno per atterrare con dei passeggeri a bordo», disse Lucy. «ETA ore otto circa.» «Ricevuto. Qui sembra inverno e la temperatura non accenna a salire.» Lucy si spostò sulle frequenze del centro di osservazione meteorologica automatizzato, o AWOS, di Manassas e sentii un lungo e meccanico resoconto di venti, visibilità, condizioni del cielo, temperatura, punto di rugiada e regolazioni altimetriche secondo l'ora di Sierra, che era l'ultimo aggiornamento della giornata. Non mi esaltò venire a sapere che la temperatura era scesa di cinque gradi da quando ero uscita di casa e immaginai Benton che stava andando verso il sole e le spiagge. «Piove», annunciò il secondo pilota al microfono. «La pioggia è almeno venti miglia a ovest da qui e i venti soffiano in direzione ovest», rispose Lucy. «Meno male che è giugno.» «Sembra che ci sia un altro Chinook che procede verso di noi al di sotto della linea dell'orizzonte.» «Facciamoci notare», disse Lucy cambiando nuovamente frequenza. «Chinook sopra Warrenton, qui elicottero nove-uno-nove Delta-Alpha, state salendo? Ci troviamo a ore tre, diretti due miglia verso nord, a mille piedi di quota.» «Vi vediamo, Delta-Alpha», rispose l'elicottero militare a due rotori che prendeva il nome da una tribù indiana. «Buon viaggio.» Mia nipote premette due volte il pulsante di trasmissione. La sua voce calma e bassa che attraversava lo spazio da un'antenna all'altra mi sembrava sconosciuta. Continuai ad ascoltare e, non appena mi fu possibile, mi intromisi. «Hanno detto che c'è vento e fa freddo?» domandai guardandole la nuca. «Raffiche da venti a venticinque verso ovest», disse nelle mie cuffie. «Tendenti a rafforzare. State bene là dietro?» «Sì», risposi. Ripensai alla lettera di Carrie.
Lucy indossava una tuta blu dell'ATF e aveva un paio di occhiali scuri Cébé. Si era fatta crescere i capelli, che le arrivavano mossi sulle spalle e mi facevano venire in mente il legno rossastro dell'eucalipto; erano folti e lucidi, molto più belli dei miei spaghetti biondo cenere. Immaginai il suo lieve tocco sul collettivo e sul ciclico mentre usava i pedali del rotore di coda per mantenere l'assetto dell'elicottero. Le piaceva volare e lo faceva con facilità, come tutto quello che provava a fare. Aveva ottenuto il brevetto privato e commerciale con il numero minimo di ore richiesto e subito dopo aveva preso il brevetto di istruttore per il semplice gusto di trasmettere agli altri le proprie competenze. Mi resi conto che eravamo arrivati alla fine del viaggio quando sorvolammo boschi dove erano stati abbattuti molti alberi, i cui tronchi stavano in equilibrio precario come blocchetti di legno per bambini, fra stretti sentieri e mulattiere. Dall'altra parte della collina grossi nuvoloni grigi si confondevano alle colonne di fumo che si alzavano stancamente da un inferno che aveva seminato morte e distruzione. La tenuta di Kenneth Sparkes era una macchia nera, un cumulo di macerie ancora fumanti. L'incendio aveva lasciato una scia di devastazione: osservai dall'alto la splendida casa di pietra, le stalle e i fienili rasi al suolo. I mezzi dei vigili del fuoco avevano abbattuto parte della cancellata bianca che cintava la tenuta e fatto scempio di ettari di giardino. La proprietà di Sparkes era circondata da campi e pascoli; poco lontano passava una strada, poi c'era una centralina elettrica e alcune case sparse. Giungemmo alla magnifica tenuta di Sparkes prima delle otto del mattino e atterrammo a una certa distanza dalle sue rovine per evitare di creare scompiglio con lo spostamento d'aria provocato dalle pale. Marino scese e si avviò, mentre io aspettavo che Lucy e il secondo pilota fermassero il rotore principale e spegnessero i vari interruttori. «Grazie del passaggio», dissi all'agente speciale Jim Mowery, che aveva accompagnato Lucy quel giorno. «Ha fatto tutto lei», replicò questi. Aprì il portellone posteriore. «lo resto qui, se voi volete andare», aggiunse poi rivolgendosi a mia nipote. «Sembra che ormai tu te la sappia cavare egregiamente», la stuzzicai incamminandomi. «Zoppico ancora un pochino, ma sì, me la cavo», disse. «Aspetta, lascia che ne porti una io.»
Mi prese la valigetta di alluminio, che sembrava leggerissima nella sua mano forte. Camminavamo fianco a fianco, vestite uguali, sebbene io non avessi né un'arma né la radio. Le suole degli scarponi rinforzati, talmente malridotti che avevano assunto un colore grigiastro, affondavano nel fango. Ci avvicinammo alla tenda gonfiabile grigia che sarebbe stata la nostra base nei giorni a venire. Accanto alla tenda c'era un grande mezzo bianco superattrezzato del ministero del Tesoro, con le luci di emergenza e ATF e INDAGINI ESPLOSIVI scritto in azzurro. Lucy era un passo avanti a me, il volto oscurato da un berretto blu scuro. Era stata trasferita a Philadelphia e presto sarebbe andata via da Washington. Il solo pensiero mi faceva sentire vecchia e inutile. Ormai era cresciuta, ma aveva la maturità che avevo avuto anch'io alla sua età e avrei preferito che non andasse via, anche se non glielo avevo detto. «Brutta cosa», attaccò. «Non ci sono piani interrati, ma c'è una porta sola. Quindi la maggior parte dell'acqua si è raccolta qui. Sta per arrivare un'autopompa.» «Quanto è profonda la pozza?» Pensai alle migliaia di litri d'acqua scaricati dai naspi dei pompieri e immaginai una melma nera e fredda, piena di cenere e di rottami pericolosi. «Dipende dai punti. Al tuo posto, non sarei venuta», mi disse in un tono che mi fece sentire di troppo. «Sì, invece», replicai offesa. Lucy non nascondeva il suo disagio, quando lavorava con me. Non era maleducata, ma spesso davanti ai suoi colleghi si comportava come se mi conoscesse appena. Mi ricordavo che, quando la andavo a trovare all'UVA, diversi anni prima, non voleva che gli altri studenti ci vedessero insieme. Non si vergognava di me, questo lo sapevo, ma mi considerava la presenza troppo ingombrante che io avevo sempre cercato di non essere. «Tutto pronto per il trasloco?» le chiesi sforzandomi di sembrare disinvolta. «Per favore, non tarmici pensare.» «Però ormai hai deciso di andare, vero?» «Certo. E un'occasione da non perdere.» «Infatti. E sono molto contenta per te», dissi. «Come sta Janet? Dev'essere duro, per lei...» «Be', non mi trasferisco mica su un altro pianeta...» rispose Lucy. Stava facendo tutto facile, ma in realtà non lo era per niente. Janet lavo-
rava all'FBI. Lei e Lucy stavano insieme dai tempi dell'addestramento a Quantico. Ora lavoravano per enti federali separati e presto avrebbero abitato in città diverse: era più che probabile che il lavoro fosse d'ostacolo alla loro relazione. «Pensi che riusciremo a trovare un momento per parlare, oggi?» le chiesi aggirando una serie di pozzanghere. «Certamente. Appena avremo finito qui, andremo a berci una birra, sempre che troviamo un bar aperto, qui al polo nord», replicò, mentre il vento ci sferzava la faccia. «Anche tardi, non importa.» «Eccoci», mormorò Lucy con un sospiro quando arrivammo alla tenda. «Salve, ragazzi», gridò. «È qui la festa?» «Guarda tu che bella festa...» «Dottoressa, non sapevo facesse visite a domicilio...» «Non è in visita, sta facendo da baby-sitter a sua nipote.» Oltre a Marino e me, la squadra era composta da nove uomini e due donne, una delle quali era la caposquadra McGovern. Avevamo tutti addosso una tuta da lavoro blu, logora come gli scarponi. Gli agenti si aggiravano inquieti e impazienti davanti al portellone posteriore del mezzo superattrezzato, con sedili e scaffali ricavati nell'interno di alluminio lucido e scomparti esterni pieni di nastro giallo per delimitare le scene dei delitti, paletti, picconi, fari, spazzoloni, piedi di porco e asce. Il quartier generale mobile era dotato di computer, fotocopiatrice e fax, oltre che di divaricatore idraulico, cuscino sollevatore, mazza e fresa da taglio, a volte indispensabile per salvare vite umane. Non mi veniva in mente niente che quel mezzo non avesse, tranne forse uno chef e, ancora più importante, una toilette. Alcuni agenti avevano incominciato a decontaminare stivali, rastrelli e pale in vasche di plastica piene di acqua saponata. Era un lavoraccio, dato il brutto tempo, perché mani e piedi gelavano e non asciugavano mai. I tubi di scarico andavano puliti dai residui di petrolio e si utilizzavano soltanto attrezzi elettrici o idraulici, in previsione delle inevitabili domande e discussioni del giorno del processo. La McGovern era seduta a un tavolo dentro la tenda, gli scarponi slacciati e una cartellina sulle ginocchia. «Bene», disse rivolgendosi alla squadra, «ne abbiamo già parlato al comando davanti a caffè e brioche, che voi purtroppo vi siete persi», aggiunse guardando noi. «Ma preferisco ricapitolare. Al momento sappiamo che
l'incendio è presumibilmente scoppiato l'altro ieri, la sera del giorno 7, alle ore venti.» La McGovern aveva più o meno la mia età e lavorava all'ufficio di Philadelphia. Sarebbe stata il nuovo mentore di Lucy, pensai, e mi irrigidii. «Infatti è a quell'ora che è scattato l'allarme antincendio», proseguì. «Quando sono arrivati i vigili del fuoco, la casa era già completamente avvolta dalle fiamme e anche le stalle stavano bruciando. Siccome i mezzi non sono riusciti ad avvicinarsi a sufficienza, si sono limitati a circondare gli edifici e inondarli d'acqua. Perlomeno ci hanno provato. Abbiamo calcolato che al pianterreno ci sono 130.000 litri d'acqua. Questo vuol dire che ci vorranno sei ore per pomparla via, supponendo di avere quattro pompe e di non incontrare troppi ostacoli. A proposito, non c'è corrente e i vigili del fuoco della zona sistemeranno dei fari all'interno.» «Quanto ci hanno messo ad arrivare?» le domandò Marino. «Diciassette minuti», rispose. «Hanno dovuto chiamare gente fuori servizio. Qui sono tutti volontari.» Qualcuno sbuffò. «Non bisogna essere troppo severi con loro. Hanno usato tutte le cisterne per buttare abbastanza acqua», replicò la McGovern in tono di rimprovero. «La casa è bruciata come un castello di carte e c'era troppo vento per usare la schiuma; comunque, a mio parere, sarebbe servita a poco.» Si alzò e andò verso il mezzo superattrezzato. «Il fatto è che si è trattato di un incendio rapidissimo e di grande potenza termica. Di questo siamo certi.» Aprì una porta rossa e cominciò a distribuire rastrelli e pale. «Non conosciamo né il punto di origine né la causa», proseguì, «ma si ritiene che il proprietario della tenuta, Kenneth Sparkes, il magnate della stampa, fosse all'interno della casa e non sia riuscito a scappare. Per questo abbiamo con noi la dottoressa.» Mi rivolse uno dei suoi sguardi intensi, cui non sfuggiva nulla. «Che cosa vi fa pensare che fosse a casa al momento dello scoppio dell'incendio?» domandai. «Per prima cosa, il fatto che non si abbiano sue notizie. Poi che sul retro ci sia una Mercedes bruciata. Non abbiamo ancora controllato, ma immaginiamo che sia la sua», rispose uno degli investigatori. «Inoltre il maniscalco che gli ferra i cavalli era qui giovedì 5, due giorni prima dell'incendio, e dice che Sparkes era a casa e che non sembrava in partenza.» «Chi si occupava dei cavalli quando Sparkes era fuori città?» chiesi. «Non lo sappiamo», replicò la McGovern.
«Posso avere il nome e il recapito del maniscalco?» domandai. «Certo. Kurt?» fece, rivolgendosi a uno dei suoi investigatori. «Un attimo che lo cerco.» Sfogliò un notes con le giovani mani grosse e segnate dal duro lavoro. La McGovern prese dei caschi azzurri da un altro scomparto e cominciò a distribuirli, ricordando a ciascuno dei suoi quali erano le sue mansioni. «Lucy, Robby, Frank, Jennifer, voi venite con me. Bill, tu fai da assistente. Mick, tu gli dai una mano perché questa è la prima volta che Bill lavora con l'NRT.» «Che fortuna.» «Oh, una vergine!» «Piantatela, per favore», disse Bill. «Oggi mia moglie compie quarant'anni. Non mi rivolgerà più la parola.» «Rusty si occuperà del mezzo», continuò la McGovern. «Marino e la dottoressa staranno qui a disposizione.» «Si sa se Sparkes era stato minacciato?» domandò Marino, perché il suo mestiere era sospettare. «Ne sappiamo quanto voi, a questo proposito», rispose l'investigatore che si chiamava Robby. «E del presunto testimone oculare?» domandai. «Abbiamo ricevuto una telefonata», spiegò. «Era una voce maschile; non ha voluto identificarsi. Chiamava da fuori, quindi non sappiamo se si trattasse di uno sciacallo.» «Però ha detto di aver sentito i cavalli che bruciavano vivi», insistetti. «Sì. Dice che sembrava di udire le grida di esseri umani.» «Ha spiegato come faceva a essere tanto vicino da sentirli?» Mi stavo innervosendo. «Dice di aver visto l'incendio da lontano e di essersi avvicinato in macchina, di essere rimasto lì a guardare un quarto d'ora e poi di essere scappato appena ha visto arrivare i pompieri.» «Questo non lo sapevo. Mi dà da pensare», disse minaccioso Marino. «I tempi coincidono, visto che i vigili del fuoco hanno impiegato diciassette minuti a raggiungere l'incendio. E noi sappiamo che c'è tanta gente a cui piace appiccare il fuoco e poi stare a guardare. Di che razza era?» «Gli avrò parlato trenta secondi», rispose Robby. «Ma non aveva un accento particolare. Parlava a voce bassa e con grande calma.» Dopo un momento di silenzio in cui tutti rimpiangemmo di non sapere chi fosse l'autore della telefonata e se dicesse o meno la verità, la McGo-
vern riprese ad assegnare gli incarichi per la giornata. «Johnny Kostylo, il nostro amato capo di Philadelphia, terrà i contatti con i giornalisti e i vip, per esempio il sindaco di Warrenton, che ha già chiamato perché non vuole che la sua città faccia brutte figure.» Alzò gli occhi dalla cartellina e ci guardò. «Sta arrivando uno dei nostri consulenti», continuò. «E dovrebbe venire anche Pepper a darci una mano.» Alcuni agenti fischiarono di contentezza, all'idea che fosse in arrivo Pepper, il cane specializzato in incendi dolosi. «Meno male che l'alcol non gli dà fastidio», commentò la McGovern infilandosi il casco. «Perché c'erano quattro o cinquemila litri di bourbon, in quella casa.» «Abbiamo scoperto che cosa ci facevano?» chiese Marino. «Sappiamo se Sparkes produceva o vendeva alcolici? Mi sembra impossibile che si tenesse una cantina tanto fornita solo per sé.» «Pare che avesse gusti fini e gli piacessero le collezioni», spiegò la McGovern, parlando di Sparkes come se fosse morto. «Amava il bourbon, i sigari, le armi automatiche, i cavalli. Quello che non sappiamo è se queste collezioni fossero legali o meno, ed è per questo che abbiamo chiamato voi, invece dell'FBI.» «Mi dispiace doverlo ammettere, ma temo che l'FBI sia già in allarme. Credo che vogliano sapere se possono rendersi utili.» «Che gentili.» «Così ci spiegano come dobbiamo fare il nostro mestiere.» «Dove sono?» domandò la McGovern. «A bordo di una Suburban bianca, a uno o due chilometri da qui. Sono tre, in divisa. E rilasciano interviste.» «Merda. Se c'è una telecamera, puoi stare sicuro che c'è un agente dell'FBI davanti.» Scoppiò qualche risatina sarcastica: non era un mistero che fra le due agenzie federali non correva buon sangue. L'ATF sosteneva, spesso a ragione, che l'FBI si prendesse sempre tutto il merito delle operazioni andate a buon fine. «A proposito di rompicoglioni», disse un agente. «Il Budget Motel non accetta l'American Express, capo. Cosa dobbiamo fare, usare le nostre carte di credito personali?» «E dalle sette in poi niente servizio in camera.» «Le stanze fanno schifo.»
«Non potremmo cambiare albergo?» «Vedrò di fare il possibile», promise la McGovern. «Ecco perché ti vogliamo bene, capo.» Un'autopompa rossa, necessaria all'eliminazione dell'acqua dalla scena dell'incendio, avanzò lungo la strada sterrata sollevando polvere e pietrisco. Due vigili del fuoco in tuta e stivaloni di gomma scesero dal mezzo e parlottarono con la McGovern prima di cominciare a svolgere le manichette da un pollice e tre quarti munite di filtro. Se le misero in spalla ed entrarono in quel che rimaneva della villa, sistemandole in quattro punti diversi. Quindi tornarono sul mezzo e posarono per terra delle pesanti pompe Prosser, che collegarono al generatore. Nel giro di pochissimo il rumore del motore divenne assordante e le manichette si gonfiarono di acqua sporca. Presi una giacca da vigile del fuoco e un paio di pesanti guanti ignifughi e mi sistemai il casco. Quindi cominciai a pulire i miei fedeli scarponi Red Wing sciacquandoli con acqua fredda saponata che filtrò all'interno e intrise i lacci. Non avevo pensato di mettermi biancheria di seta sotto la tuta perché era giugno, ma avevo fatto male: il vento soffiava forte da nord e ogni goccia d'acqua sembrava abbassarmi di un grado la temperatura corporea. Mi dava fastidio avere freddo. Mi dava fastidio non potermi fidare delle mie mani perché le avevo intirizzite o coperte da guanti pesanti. Mentre mi soffiavo sulle dita e mi allacciavo la giacca fin sotto il mento, vidi che la McGovern mi stava venendo incontro. «Sarà una giornataccia», disse rabbrividendo. «Dov'è finita l'estate?» «Teun, mi hai fatto saltare le ferie. Stai rovinando la mia vita privata.» Tanto valeva dire le cose come stavano. «Beata te che ce l'hai.» Cominciò a pulirsi gli scarponi. Teun era un soprannome che probabilmente veniva dalle sue iniziali, T.N., che stavano per qualche nome terribile tipo Tina Nola, o almeno così mi era stato riferito. Da che lavoravo con l'NRT l'avevo sempre sentita chiamare Teun e così la chiamavo anch'io. Era una donna in gamba, divorziata, forte e muscolosa, con un gran fisico e occhi grigi molto belli. L'avevo vista diventare una belva quando si arrabbiava, ma sapeva anche essere generosa e gentile. Era specializzata in incendi dolosi e si favoleggiava che fosse in grado di intuire che cosa aveva innescato un incendio semplicemente sentendolo descrivere. Mi infilai due paia di guanti di gomma mentre Teun McGovern guardava l'orizzonte soffermandosi a lungo sull'ammasso nero racchiuso dentro i
muri di pietra ancora in piedi. Seguii il suo sguardo verso le stalle bruciate e mi parve di sentire i nitriti e il calpestio degli zoccoli dei cavalli imprigionati. Mi venne un groppo in gola. Avevo visto le mani straziate degli arsi vivi e di chi aveva cercato di difendersi prima di soccombere al proprio assassino. Sapevo che cosa voleva dire lottare per la vita e le immagini che mi venivano in mente in quel momento erano insopportabili. «Maledetti giornalisti», disse Teun alzando gli occhi verso un piccolo elicottero che volava basso sopra di noi. Era uno Schweizer bianco senza scritte né telecamere, almeno che io vedessi. La McGovern fece un passo avanti e indicò con il dito tutti i giornalisti presenti nell'arco di dieci chilometri. «Vedi quel furgone?» mi disse. «È una radio locale con un illustre personaggio, tal Jezabel, che ha un figlio paralitico e un cane senza una zampa chiamato Sport. E specializzata nel raccontare storie drammatiche. Quella è un'altra radio. La Ford Escort laggiù è di qualche stronzo che scrive per un giornale scandalistico di Washington. Quello invece è il "Post".» Indicò una Honda. «Non ti puoi sbagliare: è una brunetta con le gambe lunghe. T'immagini venire qui con la gonna? Secondo me lo fa perché crede che così gli uomini le parlino più volentieri. Ma i nostri non sono mica tanto scemi. A differenza degli agenti dell'FBI.» Si girò a prendere una manciata di guanti di gomma sul mezzo. Io mi infilai le mani in tasca. Ormai ero abituata alle tirate della McGovern contro i giornalisti, tutti falsi e bugiardi, e non l'ascoltavo nemmeno più. «E questo è solo l'inizio», continuò. «Vedrai come brulicheranno quei vermi fra un po'. Perché io ho già capito, sai? Lo vedrebbe anche un boy scout come mai quelle povere bestie sono morte e tutto il resto è andato in fumo.» «Ti vedo più allegra che mai», commentai sarcastica. «Non c'è niente di cui essere allegri», replicò lei. Posò il piede sulla lucida ribalta del mezzo. Una vecchia station wagon si fermò lì vicino. Pepper era un magnifico labrador nero con un distintivo dell'ATF sul collare; stava belio comodo e al calduccio sul sedile anteriore dell'auto, senza alcuna voglia di scendere. «Che cosa posso fare?» chiesi. «A parte restare a disposizione nel caso abbiate bisogno di me.» Teun guardava da un'altra parte. «Fossi in te rimarrei con Pepper o sul mezzo. Al caldo.» La McGovern aveva già lavorato con me e sapeva che se dovevo but-
tarmi in un fiume o setacciare le macerie di un bombardamento o di un incendio non mi tiravo indietro, che riuscivo a maneggiare una pala e che non mi piaceva stare con le mani in mano. Perciò il suo commento mi indispettì. Mi parve che ce l'avesse con me. Mi voltai per risponderle e la vidi ferma immobile, come un cane che punta. Aveva un'espressione incredula e lo sguardo fisso su qualcosa all'orizzonte. «Cristo santo», borbottò. Seguii il suo sguardo e vidi un puledro nero, solo, a un centinaio di metri da noi, appena oltre le rovine fumanti della stalla. Era un animale stupendo, che pareva intagliato nell'ebano, e persino da quella distanza ne vedevo i muscoli ben definiti e la coda che si muoveva appena. «Le stalle», disse Teun sbigottita. «Come avrà fatto a uscire?» Prese la radiolina. «Jennifer, sono Teun», disse. «Parla.» «Da' un'occhiata dietro le stalle. Vedi anche tu quello che vedo io?» «Dieci-quattro. Avvistato quadrupede.» «Spargi la voce. Bisogna accertare che sia un superstite e non appartenga a qualcun altro.» «Giusto.» La McGovern si allontanò con una pala in spalla. La vidi addentrarsi nel cumulo di macerie puzzolenti e scegliere un punto che probabilmente corrispondeva alla porta d'ingresso, nell'acqua gelida fino alle ginocchia. Il cavallo nero ondeggiava in lontananza, solitario. Mossi qualche passo nella melma nera, gli scarponi zuppi d'acqua, le dita intirizzite. Nel giro di pochissimo avrei avuto bisogno di andare in bagno e mi sarei dovuta cercare un albero o un punto riparato senza maschi intorno. Non entrai subito dentro quel che restava della casa e feci un giro intorno ai muri di pietra. Il pericolo che le strutture ancora in piedi crollassero era sempre molto alto in casi come quello e, sebbene i muri sembrassero abbastanza solidi, avrei certamente preferito che li abbattessero con una gru e li portassero via. Continuai la mia ispezione sotto un vento pungente, sconfortata: non sapevo da dove cominciare, mi faceva già male la spalla sotto il peso della valigetta di alluminio e al solo pensiero di rastrellare quelle macerie fradice d'acqua mi veniva male anche alla schiena. Ero sicura che la McGovern voleva vedere quanto avrei resistito. Dai buchi di quelle che erano state porte e finestre vidi galleggiare nell'acqua nera di fuliggine migliaia di cerchi di acciaio, di quelli che tengono
insieme le botti di whisky. Immaginai il bourbon d'annata che esplodeva nelle preziose botti di rovere e scorreva dalla porta come un fiume di fuoco verso le stalle dei purosangue di Kenneth Sparkes. Mentre gli investigatori cercavano di capire dov'era scoppiato l'incendio e perché, mi addentrai nelle pozze d'acqua appoggiandomi a tutto ciò che aveva l'aria di essere abbastanza solido da reggere il mio peso. C'erano chiodi dappertutto e con l'aiuto di un coltellino multiuso che mi aveva regalato Lucy me ne tolsi uno dallo scarpone sinistro. Mi fermai sotto il rettangolo perfetto di una porta davanti alla casa e rimasi lì a guardare per qualche istante. A differenza di tanti altri, io non scattavo migliaia di fotografie quando controllavo la scena di un delitto. Preferivo prendere tempo e osservare; di solito guardandomi lentamente intorno scoprivo molte cose. Era dalla parte anteriore della casa che si godeva il panorama migliore e questo non era sorprendente. Dai piani più alti, che non esistevano più, si dovevano vedere colline e boschi e ammirare i cavalli che il proprietario acquistava, allevava e poi vendeva. Si riteneva che Kenneth Sparkes fosse a casa la sera dell'incendio, il 7 giugno. Ricordavo che il tempo era bello e anche leggermente più caldo di quel giorno, con una brezza leggera e la luna piena. Osservai quella che doveva essere stata una casa stupenda, soffermandomi su brandelli di divano zuppi d'acqua, parti metalliche, cocci di vetro, elettrodomestici e televisori semifusi. C'erano centinaia di libri, quadri, materassi e mobili bruciacchiati, evidentemente caduti dai piani superiori. Immaginavo che quando era suonato l'allarme antincendio Sparkes fosse nel suo salotto a godersi il panorama, o magari in cucina a preparare la cena. Eppure, più pensavo a dove poteva essere, meno capivo come mai non fosse fuggito, sempre che non fosse ottenebrato dall'alcol o dalla droga o avesse cercato di spegnere l'incendio finché il monossido di carbonio non gli aveva fatto perdere i sensi. Lucy e compagni erano dall'altra parte della casa e cercavano di aprire una centralina elettrica che si era arrugginita istantaneamente per effetto del calore e dell'acqua. «Auguri», disse la McGovern avanzando nell'acqua torbida verso di loro. «Ma non è da lì che è partito.» Continuò a parlare, spostando il telaio carbonizzato di un asse da stiro. Seguirono il ferro e quel che restava del filo. Poi allontanò a calci dei listelli di acciaio da botte, come irritata da tanto disordine.
«Avete notato le finestre?» chiese loro. «I cocci sono all'interno. Secondo voi questo vuol dire che è entrato qualcuno?» «Non necessariamente», rispose Lucy accucciandosi per vedere meglio. «Il calore che si sviluppa dentro la casa fa sì che il vetro si scaldi e si espanda più velocemente all'interno che all'esterno, provocando crepe e fratture disuniformi dalle caratteristiche ben diverse rispetto a quelle provocate da un intervento meccanico.» Raccolse un pezzo di vetro e lo porse alla McGovern, che era il suo supervisore. «Il fumo esce», continuò Lucy, «l'atmosfera entra. La pressione diventa uniforme. Non è detto che sia entrato qualcuno.» «Brava, sette più», le disse la McGovern. «Sette più è troppo poco», protestò Lucy. Gli altri agenti scoppiarono a ridere. «Sono d'accordo con Lucy», intervenne uno di loro. «Finora non ho trovato segni di effrazione.» La McGovern approfittava dell'occasione per insegnare alla sua squadra, i cui membri aspiravano alla qualifica di Certified Fire Investigators, o CFI. «Vi ricordate che dicevamo che il fumo filtra attraverso i mattoni?» continuò indicando alcuni punti vicino al tetto dove la pietra sembrava essere stata pulita con spazzole di acciaio. «O credete che sia l'effetto dell'erosione da parte dei getti d'acqua?» «No, la malta è parzialmente venuta via. È stato il fumo.» «Infatti. Il fumo che spingeva fra un mattone e l'altro.» Il tono della McGovern era duro. «Il fuoco segue dinamiche di ventilazione proprie. Guardate qui sul muro. E anche lì», spiegò indicando. «Sulla pietra non c'è fuliggine né combustione parziale. Vetro fuso, tubi di rame fusi.» «È scoppiato in basso, al primo piano», ipotizzò Lucy. «Nella zona principale della casa.» «Anche secondo me.» «E le fiamme hanno raggiunto i tre metri di altezza, attaccando il secondo piano e il tetto.» «Cosa che richiede un certo carico d'incendio.» «Oppure l'uso di liquidi infiammabili. Ma ci possiamo scordare di ricostruirne la diffusione in questo macello.» «Non ci possiamo scordare un bel niente, invece», ribatté la McGovern alla sua squadra. «E non sappiamo se ci sia stato bisogno di usare infiam-
mabili, perché non conosciamo il carico d'incendio.» Mentre parlavano, lavoravano nell'acqua fra il frastuono delle pompe e il gocciolio costante. Mi concentrai su alcune molle che si erano impigliate nel mio rastrello e mi accucciai a liberare i denti da pietre e pezzi di legno semibruciati. Bisogna sempre prendere in considerazione l'ipotesi che la vittima di un incendio sia stata sorpresa a letto; alzai gli occhi per vedere quelli che una volta erano stati i piani superiori. Continuai a scavare senza trovare niente di nemmeno lontanamente umano, ma solo i resti fradici e tetri dell'elegante villa di Kenneth Sparkes. Alcune delle sue cose fumavano ancora in cima a mucchi non del tutto coperti d'acqua, ma la maggior parte di quel che trovavo nel mio rastrello era freddo e impregnato dell'odore nauseabondo di bourbon bruciato. Setacciammo le macerie tutta la mattina e io feci quel che sapevo fare meglio: tastavo nel fango e, ogni volta che sentivo qualcosa di inquietante, mi toglievo i guanti ignifughi e provavo a toccarlo con le dita coperte solo dai guanti di gomma. La squadra della McGovern si era divisa perché ciascuno seguisse le proprie intuizioni. Era quasi mezzogiorno quando la vidi arrivare. «Come va?» mi chiese. «Sono ancora in piedi», risposi. «Non male, per una abituata a stare seduta tutto il giorno.» Sorrise. «Lo prendo come un complimento.» «Hai visto com'è tutto uniforme?» Alzò la mano; aveva il guanto sporco di cenere. «La temperatura era altissima e costante da un angolo all'altro della casa. Il calore era tale che le fiamme hanno bruciato i due piani superiori e tutto quello che contenevano. Qui non c'entrano archi elettrici, arricciacapelli lasciati accesi o unto che prende fuoco. Qui c'è sotto qualcosa di grosso.» Nel corso degli anni avevo notato che chi aveva a che fare con gli incendi parlava del fuoco come se avesse volontà e personalità proprie. La McGovern si mise a lavorare a fianco a me ammucchiando in una carriola quel che non riusciva a gettare da una parte. Pulii quel che mi sembrava una falange ma si rivelò essere una pietra e lei puntò il manico di legno del rastrello verso il cielo grigio e deserto. «Il piano più alto è l'ultimo a cadere», mi disse. «In altre parole, le macerie provenienti dal tetto e dal secondo piano dovrebbero essere quelle sopra a tutto. Secondo me, sono quelle in cui stiamo frugando adesso.» Colpì con il rastrello una trave doppia di acciaio che doveva aver fatto par-
te del tetto. «Sissignore», continuò. «Ecco perché ci sono pezzi di ardesia e di isolamento dappertutto.» Continuammo a lungo, fermandoci al massimo un quarto d'ora di tanto in tanto. Il comando dei vigili del fuoco locale ci portò caffè, bibite e panini e sistemò lampade al quarzo in maniera di consentirci di lavorare in quel buco buio e pieno d'acqua. A ogni angolo della casa una pompa Prosser aspirava acqua dalla manichetta scaricandola fuori delle mura di granito. Anche dopo aver rimosso migliaia di litri, le condizioni in cui eravamo costretti a lavorare rimanevano pessime. Ci vollero ore prima che il livello dell'acqua scendesse in maniera percettibile. Alle due e mezzo mi accorsi che non ce la facevo più e uscii. Cercai un punto abbastanza nascosto, sotto i rami di un grande abete vicino alle stalle ancora fumanti. Non mi sentivo più né le mani né i piedi, ma sotto la tuta protettiva ero sudata. Mi accucciai e mi guardai nervosamente intorno per accertarmi che non mi vedesse nessuno. Quindi mi feci coraggio e andai verso le stalle. L'odore di morte mi assalì facendomi girare la testa. I cavalli erano pietosamente ammucchiati uno sull'altro, le zampe tese e lacerate dalle ustioni. Giumente, stalloni e castroni erano bruciati fino all'osso e dalle carcasse carbonizzate si alzavano ancora fili di fumo. Mi augurai che fossero morti intossicati dal monossido di carbonio prima di venire avvolti dalle fiamme. Ne contai diciannove, fra cui due puledri di meno di un anno e uno leggermente più grande. L'odore di pelo bruciato e di morte era soffocante e mi avvolse come un pesante mantello mentre mi avviai sull'erba verso i resti della villa. L'unico sopravvissuto sembrava guardarmi, immobile e cupo, in lontananza. Teun McGovern stava ancora spalando con i piedi nell'acqua, rimuovendo macerie; mi accorsi che era stanca e, malignamente, me ne rallegrai. Il sole si stava abbassando e il vento era diventato più pungente. «Il puledro è ancora là», la informai. «Quanto vorrei che potesse parlare...» Raddrizzò la schiena e si massaggiò la nuca. «Se è libero ci dev'essere una ragione», dissi. «Non ha senso che sia riuscito a scappare solo lui. Spero che se ne occupi qualcuno.» «Stiamo facendo il possibile.» «Non potrebbe farsene carico un vicino?» Non mollavo, perché ero veramente preoccupata.
Teun mi lanciò un'occhiata e mi fece cenno verso l'alto. «La camera da letto e il bagno di Sparkes erano qua sopra», mi informò tirando fuori dall'acqua sporca una mattonella di marmo bianco sbreccata. «Rifiniture in ottone, pavimenti in marmo, ugelli di idromassaggio. Abbiamo trovato anche il telaio di un lucernario che al momento dell'incendio doveva essere aperto. Se allunghi una mano alla tua sinistra, troverai quel che resta della vasca da bagno.» Le pompe continuavano ad aspirare e sputare l'acqua sull'erba facendo abbassare il livello dell'acqua all'interno. Vicino a noi alcuni agenti stavano rimuovendo l'antico parquet di rovere, la cui superficie era carbonizzata con molto poco legno superstite a riprova del fatto che l'incendio era scoppiato al secondo piano, nei pressi della camera da letto di Sparkes. Ricuperammo le maniglie di ottone degli armadi e frammenti di mobili in mogano, oltre a centinaia di grucce per abiti. Scavammo fra pezzi di legno di cedro bruciato, resti di scarpe da uomo e di abiti. Alle cinque l'acqua era scesa di altri trenta centimetri mettendo a nudo un paesaggio desolato che pareva una discarica bruciata, con carcasse di elettrodomestici e divani. Teun e io stavamo ancora scavando nell'area del bagno principale, trovando flaconi di medicinali, bottiglie di shampoo e creme, quando scoprii le prime tracce di un morto. Tolsi con cura la cenere da un pezzo di vetro seghettato. «Credo che abbiamo trovato qualcosa», dichiarai e mi parve che il gocciolio e il rumore delle pompe avesse soffocato la mia voce. Teun puntò la torcia nel punto in cui stavo lavorando e si immobilizzò. «Gesù», esclamò scioccata. Fra i cocci ci fissavano due occhi bianchi. «Sul corpo dev'essere caduta una finestra, oppure la cabina della doccia, impedendo che bruciasse completamente», dissi. Spostai degli altri cocci mentre la McGovern fissava sbigottita il cadavere grottesco di una persona che senza dubbio non era Kenneth Sparkes. La parte superiore della faccia era coperta da pezzi di vetro spesso e gli occhi grigiastri, completamente sbiancati dal calore, ci fissavano da dietro l'arcata sopraccigliare bruciata. Alcuni lunghi ciuffi di capelli biondi galleggiavano sinistri nell'acqua sporca. Non c'erano più né naso né bocca, ma solo ossa gessose e calcinate e denti talmente bruciati che non rimaneva più nulla di organico. Il collo era parzialmente intatto e il tronco coperto di altri vetri; fusa alla carne bruciata c'era la stoffa scura di una camicia, di cui si intravedeva an-
cora la trama. Anche i glutei e il bacino erano stati risparmiati dal fuoco, protetti dal vetro. La vittima indossava dei jeans. Le gambe erano bruciate fino all'osso, ma gli stivali di pelle avevano protetto i piedi. Avambracci e mani non esistevano più e non vidi traccia delle ossa corrispondenti. «Chi sarà?» chiese la McGovern stupita. «Sparkes viveva con qualcuno?» «Non lo so», risposi, cercando di togliere l'acqua. «Riesci a capire se si tratta di una donna?» mi chiese Teun chinandosi a guardare alla luce della torcia. «Senza aver esaminato meglio il corpo non ci giurerei», risposi. «Ma si, credo che sia una femmina.» Alzai gli occhi al cielo, immaginando il bagno in cui doveva essere morta quella donna. Poi, sguazzando nell'acqua, presi la macchina fotografica. Su una porta c'erano il cane Popper e un agente, mentre Lucy e altri investigatori, cui evidentemente era giunta voce della nostra scoperta, ci stavano raggiungendo. Pensai a Sparkes. Non capivo niente, a parte il fatto che in casa sua la sera in cui era scoppiato l'incendio c'era una donna. Temevo che da qualche altra parte avremmo ritrovato anche lui. Gli agenti si avvicinarono e uno di essi mi porse un sacco mortuario. Lo aprii e scattai altre foto. Avremmo dovuto rimuovere il vetro, che si era fuso assieme alla carne. Era un'operazione che andava svolta in obitorio e diedi istruzione che mi facessero avere anche tutto quello che si trovava intorno al corpo. «Se volete darmi una mano...» dissi. «Prendiamo una tavola e dei teli. Bisognerà chiamare anche l'impresa di pompe funebri responsabile della rimozione dei cadaveri. Ci vuole un furgone. State attenti, perché i vetri sono taglienti. Solleviamola così com'è, a faccia in su, senza fare troppa forza per evitare che la pelle si laceri. Ecco, così. Aprite meglio il sacco, più che potete.» «Non ci sta.» «Non si potrebbero rompere le schegge sull'esterno?» suggerì la McGovern. «Qualcuno ha un martello?» «No, no. Copriamola così com'è.» Davo io gli ordini, perché era mia responsabilità. «Avvolgete questo intorno ai bordi per proteggervi le mani. Avete tutti i guanti?» «Sì.» «Quelli che non stanno facendo niente è meglio che continuino a cercare. Potrebbero esserci altri cadaveri.»
Aspettai che i due agenti tornassero con la tavola e i teli azzurri plastificati, nervosa e irritabile. «Okay», dissi. «Adesso la solleviamo. Al mio tre.» Non fu facile cercare di mantenersi in equilibrio con i piedi nell'acqua, mentre in quattro cercavamo di tirare su il corpo. Oltre a tutto il vetro era abbastanza tagliente da penetrare oltre i guanti di cuoio. «Forza», dissi. «Uno, due, tre, su.» Centrammo il cadavere sulla tavola e io lo coprii meglio che potei con i teli, legandoli bene con le cinghie. Procedevamo a passo lento, esitanti, con l'acqua alle caviglie. Le pompe e il generatore ronzavano in sottofondo mentre trasportavamo il macabro carico verso lo spazio vuoto che fino a qualche giorno prima era stata una porta. Si sentiva l'odore di carne bruciata e di morte e il puzzo rancido della stoffa, dei mobili e degli arredi che erano bruciati nell'incendio della villa di Kenneth Sparkes. Quando uscii alla pallida luce della sera, ero senza fiato, indolenzita, tesa e intirizzita. Posammo a terra il cadavere e io rimasi a osservarlo mentre gli altri riprendevano le ricerche. Aprii i teli e studiai a lungo quel corpo straziato, tirando fuori dalla mia valigetta la torcia e la lente. Il vetro si era fuso intorno alla testa sull'attaccatura del naso e fra i capelli c'erano cenere e una sostanza rosa. Con l'aiuto della torcia e della lente d'ingrandimento osservai le zone in cui restavano brandelli di carne; quando vidi tracce di emorragia nel tessuto carbonizzato nella zona temporale sinistra, a pochi centimetri dall'occhio, mi chiesi se ci avevo visto doppio. Mi ritrovai Lucy di fianco e mi accorsi che il carro blu scuro e lucido della Wiser Funeral Home stava accostando poco lontano. «Hai trovato qualcosa?» mi domandò Lucy. «Non so per certo, ma questa mi sembra un'emorragia, più che la disidratazione che si riscontra quando la pelle si lacera.» «Si lacera per via del fuoco, intendi?» «Sì. Con il calore la carne si dilata e la pelle si lacera.» «Come quando si arrostisce un pollo, vuoi dire?» «Esattamente.» Se non si ha esperienza dei danni provocati dal fuoco è facile confondere lesioni cutanee, muscolari e ossee per ferite causate da atti di violenza. Lucy si accucciò vicino a me e guardò. «Cos'altro avete trovato là dentro?» le domandai. «Spero non altri cadaveri.» «Finora no», rispose. «Fra poco sarà buio e dovremo interrompere le o-
perazioni fino a domattina.» Alzai la testa e vidi un uomo in abito gessato che scendeva dal carro funebre e si infilava un paio di guanti di gomma. Poi tirò fuori una barella dal retro con un gran clangore. «Comincia stasera, dottoressa?» mi chiese. Mi pareva di averlo già visto, da qualche parte. «Portatela a Richmond», dissi. «Comincerò domani mattina.» «L'ultima volta che ci siamo visti era dopo la sparatoria di Moser. Quella ragazza per cui litigavano è sempre in mezzo ai guai.» «Ah, sì.» Mi ricordavo vagamente, perché avevo a che fare con troppe sparatorie e troppe persone in mezzo ai guai per rammentarmele tutte. «Grazie della collaborazione», gli dissi. Sollevammo il corpo per i bordi del pesante sacco di vinile e lo posammo sulla barella, che poi facemmo scivolare dentro al furgone. A quel punto l'uomo chiuse il portellone. «Spero che non sia Kenneth Sparkes», disse. «Non l'abbiamo ancora identificato», risposi. L'uomo sospirò e salì al posto di guida. «Le voglio dire una cosa», dichiarò mettendo in moto. «Me ne frego di quel che dice la gente: per me era un brav'uomo.» Rimasi a guardarlo mentre si allontanava e mi sentii addosso gli occhi di Lucy. Mi sfiorò un braccio. «Sei stanca morta», mi disse. «Potresti dormire qui stanotte; ti riporto indietro io domani mattina. Se troviamo qualcos'altro, te lo facciamo sapere subito. Non c'è motivo di restare.» Mi aspettava un lavoro difficile e la cosa più sensata sarebbe stata tornare a Richmond al più presto. Ma non avevo voglia di stare nella mia casa vuota: Benton era a Hilton Head e Lucy sarebbe rimasta a Warrenton. Era troppo tardi per telefonare a un'amica e comunque ero troppo stanca per fare conversazione. Era uno di quei momenti in cui non mi attirava niente. «Teun ci ha prenotato un posto in un buon motel e ho una camera a due letti, zia Kay», aggiunse Lucy con un sorriso, tirando fuori della tasca la chiave della macchina. «Così adesso sono di nuovo tua zia.» «Basta che non ci sia nessuno in giro.» «Devo assolutamente mettere qualcosa sotto i denti», dichiarai. 3
Andammo al Burger King di Broadview a comprare maxi hamburger e patatine. Fuori era buio e freddo. Le luci mi facevano bruciare gli occhi e il Motrin non riusciva a sollevarmi dal mal di testa e dall'angoscia. Lucy si era portata dei CD e, mentre attraversavamo Warrenton sulla Ford LTD che aveva noleggiato, ne mise uno ad alto volume. «Che cos'è?» chiesi, sperando che lo abbassasse. «Jim Brickman», rispose lei con dolcezza. «Non mi sembra proprio», replicai, con le tempie che mi pulsavano per i flauti e i tamburi. «Avrei detto che era musica pellerossa. Che cosa ne dici di abbassare un po' il volume?» Lucy lo alzò. «È David Arkenstone. Spirit Wind. Devi aprire la mente, zia Kay. Questo pezzo si intitola Destiny.» Lucy correva come il vento e mi lasciai andare alla musica. «Stai diventando un'originale», le dissi, immaginando un bivacco nella notte con i lupi in lontananza. «E musica per entrare in comunicazione, per trovare se stessi e pensare positivo», continuò, mentre attaccavano le chitarre e il ritmo si faceva più vivace. «Che cosa dici, funziona?» Non riuscii a trattenere una risata di fronte a quella spiegazione. Lucy era sempre alla ricerca di tutti i come e perché. La musica era effettivamente rilassante e mi parve che alcune parti buie della mia mente stessero cominciando a rischiararsi. «Secondo te che cosa è successo, zia Kay?» mi domandò all'improvviso Lucy rompendo l'incantesimo. «Dimmi quello che pensi dal più profondo del tuo cuore.» «In questo momento non te lo so proprio dire.» Le risposi come avrei risposto a chiunque altro. «Non dovremmo fare troppe supposizioni, né a proposito del sesso della vittima né del motivo per cui si trovava a casa di Sparkes.» «Teun è convinta che l'incendio sia doloso e io la penso come lei», dichiarò. «Lo strano è che Pepper non abbia avuto reazioni nei punti che ritenevamo più sospetti.» «Tipo il bagno del primo piano», dissi. «Infatti. Il povero Pepper ha lavorato come un cane e non ha mangiato niente.» Il labrador era stato addestrato sin da piccolo a fiutare idrocarburi distil-
lati del petrolio come cherosene, gasolina, liquido per accendisigari, diluenti per vernici, solventi e così via e, quando trovava qualcosa, gli addestratori lo ricompensavano dandogli da mangiare. Si trattava delle sostanze usate più comunemente da chi voleva provocare un incendio di una certa portata con un semplice fiammifero. I liquidi infiammabili si diffondono e formano dei ristagni mentre i loro vapori ardono: inzuppano tessuti, imbottiture, tappeti e moquette, filtrano sotto i mobili e fra le fessure dei pavimenti. Non sono solubili in acqua né facili da rimuovere e quindi, se Pepper non aveva fiutato nulla, era alquanto improbabile che ne fossero stati usati. «Dobbiamo accertare che cosa c'era in casa per poter calcolare il carico d'incendio», proseguì Lucy mentre violini, strumenti ad arco e tamburi attaccavano un brano più triste. «Così avremo un'idea di che cosa ci voleva per sviluppare un incendio di quella portata.» «Abbiamo trovato alluminio e vetro fusi e un cadavere orribilmente ustionato sulle cosce e gli avambracci, ovvero nelle zone che non erano protette dalla cabina della doccia», precisai. «Questo secondo me significa che la vittima era sdraiata, forse nella vasca da bagno, quando le fiamme l'hanno raggiunta.» «Mi sembra strano che un incendio così sia scoppiato in un bagno di marmo», ribatté mia nipote. «Non potrebbe essere stato di origine elettrica?» domandai scorgendo l'insegna rossa e gialla del nostro motel che lampeggiava a un chilometro o due di distanza. «L'impianto elettrico di quella casa era perfetto. Quando l'incendio ha raggiunto i fili e il calore ne ha danneggiato il rivestimento, i fili di terra sono entrati in contatto, il circuito è saltato, i fili sono entrati in arco e gli interruttori sono scattati», spiegò. «Questo poteva succedere sia che l'incendio fosse doloso sia che non lo fosse. È difficile da stabilire, ma abbiamo ancora tante cose da esaminare e bisogna aspettare i risultati delle analisi dei laboratori. Certo che, comunque sia scoppiato, è divampato molto rapidamente. Lo si capisce dal parquet: c'è una netta demarcazione fra la parte carbonizzata e il legno relativamente intatto e questo vuol dire che il calore è stato intenso e rapido.» Mi venne in mente che il legno in prossimità del corpo aveva proprio l'aspetto descritto da Lucy: screpolato e pieno di bolle scure al di sopra e non bruciato fino in fondo. «Al primo piano?» domandai, assalita da sospetti sempre più cupi.
«Probabilmente. E comunque sappiamo con certezza che l'incendio si è sviluppato a grande velocità perché sappiamo a che ora è scattato l'allarme e che cosa hanno trovato i vigili del fuoco quando sono giunti a casa di Sparkes diciassette minuti dopo.» Rimase un momento zitta e poi continuò: «Pensando al bagno e alla possibile emorragia nei tessuti vicino all'occhio sinistro, tu che conclusioni tiri? Che stesse facendo il bagno o la doccia quando è svenuta per il monossido di carbonio e abbia battuto la testa?». «Era completamente vestita», le ricordai. «Aveva persino gli stivali. Se si mette a suonare l'allarme antincendio mentre sei nella doccia o nella vasca da bagno, non ti prendi la briga di rivestirti di tutto punto.» Lucy alzò il volume e regolò i bassi. Tamburi e campanelli mi fecero venire in mente incenso e mirra. Quanto avrei voluto stendermi al sole vicino a Benton e addormentarmi... Volevo passeggiare sulla spiaggia la mattina con le onde che mi lambivano i piedi. Pensai a Kenneth Sparkes, all'ultima volta che l'avevo visto. Chissà che cosa era rimasto di lui. «Questo pezzo si intitola Caccia al lupo», mi informò Lucy entrando in un autogrill. È proprio quello che fa per noi, visto che stiamo dando la caccia a un brutto lupo cattivo.» «Non è un lupo», la corressi mentre parcheggiava. «È un drago.» Si infilò una giacca a vento della Nike sulla tuta e nascose la pistola. «Tu non hai visto niente», dichiarò aprendo la portiera. «Teun mi prende a calci nel sedere, se lo viene a sapere.» «Hai frequentato troppo Marino», replicai, perché anche Pete andava spesso contro i regolamenti e nascondeva la birra nel bagagliaio della sua auto di servizio senza contrassegni. Lucy entrò nell'autogrill e io pensai che non avrebbe ingannato nessuno con gli scarponi infangati, la tuta blu sbiadita piena di tasche e l'odore di bruciato addosso. La aspettai in macchina, mentre sul CD tastiere e campanacci cambiavano ritmo. Avevo un gran sonno. Lucy tornò con una confezione da sei bottiglie di Heineken e si rimise alla guida. Io mi assopii al suono di flauti e percussioni finché non mi riscosse un pensiero improvviso. Rividi denti scoperti e sbriciolati e occhi biancastri come uova sode, capelli che galleggiavano nell'acqua nera come barba di granoturco e un corpo mutilato avvolto in una complicata ragnatela di vetro fuso. «Cosa ti è preso?» mi chiese Lucy preoccupata, voltandosi verso di me. «Niente», risposi. «Devo essermi addormentata.» Il Johnson's Motel era davanti a noi, dall'altra parte dell'autostrada. Era
di pietra, con tende da sole bianche e rosse e un'insegna luminosa rossa e gialla che prometteva apertura ventiquattr'ore su ventiquattro e aria condizionata. Un altro neon segnalava che c'erano ancora camere libere. Scendemmo dalla macchina e ci avviammo verso lo stuoino con la scritta WELCOME davanti all'ingresso. Lucy suonò il campanello; apparvero nell'ordine un grosso gatto nero e un donnone che parve materializzarsi dal nulla. «Ho prenotato una camera a due letti», disse Lucy. «Entro le undici del mattino bisogna lasciarla», ci informò la signora andando dietro al bancone. «Posso darvi la quindici, là in fondo.» «Siamo dell'ATF», le disse Lucy. «Sì, l'avevo capito. È appena arrivata la sua collega. Il conto è già stato saldato.» Un cartello vicino alla porta annunciava che non si accettavano assegni, ma incoraggiava l'utilizzo di MasterCard e Visa. Pensai che Teun McGovern era una donna piena di risorse. «Vi servono due chiavi o ve ne basta una?» domandò la signora aprendo un cassetto. «Due, grazie.» «Ecco a voi. La camera è già bell'e pronta. Se domani mattina quando ve ne andate non ci sono, mi lasciate le chiavi sul bancone.» «C'è da fidarsi?» fece Lucy. «Altro che! Tutte le camere hanno la doppia serratura.» «Fino a quando fate servizio in camera?» continuò a stuzzicarla Lucy. «Finché funziona la macchinetta della Coca-Cola», rispose la signora strizzando l'occhio. Dimostrava una sessantina d'anni, aveva i capelli rossi tinti, la pappagorgia e la ciccia strizzata in un paio di pantaloni marrone di poliestere e una maglia gialla. Era evidente che le piacevano le mucche bianche e nere perché ne aveva una collezione di ceramica sugli scaffali, sui tavoli e alle pareti. Un piccolo acquario era popolato di uno strano assortimento di girini e altri pescetti. Non riuscii a trattenermi dal domandare: «Li alleva lei?». La donna sorrise, leggermente imbarazzata. «Li ho presi nello stagno qui dietro. Un po' di tempo fa uno è diventato rana e mi è annegato. Non lo sapevo che le rane sottacqua muoiono.» «Vado a fare una telefonata», disse Lucy aprendo la porta scorrevole. «A proposito, dov'è finito Marino?» «Credo che sia andato a mangiare con gli altri», risposi.
Lucy se ne andò con il sacchetto degli hamburger e, siccome immaginavo che chiamasse Janet, mi rassegnai a mangiare tutto freddo. Mi appoggiai al bancone e notai la scrivania ingombra di carte dall'altra parte della stanza, con il giornale locale che dichiarava a caratteri cubitali: INCENDIATA LA VILLA DEL MAGNATE DELLA STAMPA. Fra le carte riconobbi un ordine di comparizione e una serie di avvisi che promettevano una ricompensa a chi forniva informazioni a proposito di ricercati, con tanto di identikit di stupratori, ladri e assassini. Eppure Fauquier era una contea tranquilla, dove la gente si illudeva di vivere al sicuro. «Spero che non lavori sola tutta la notte», dissi alla signora; non riuscivo a perdere l'abitudine di dare consigli non richiesti. «C'è Cetriolino a tenermi compagnia», mi rispose lanciando un'occhiata affettuosa al gatto nero e grasso. «Che bel nome...» «Sa, se lascio aperto un barattolo di cetriolini, quello se li mangia tutti. Ci infila dentro la zampina, pensi. L'ha sempre fatto, sin da quando era piccolo.» Cetriolino era accoccolato davanti alla porta di una stanza che pensai fosse quella privata della signora. Mi fissava con occhi simili a monetine d'oro e muoveva la coda dal pelo lungo con l'aria annoiata. A un certo punto si sentì suonare il campanello e la donna andò ad aprire a un signore in canottiera che teneva in mano una lampadina bruciata. «Ci risiamo, Helen», dichiarò porgendogliela. La donna aprì un armadietto e tirò fuori una scatola di lampadine, mentre io lasciavo a Lucy tutto il tempo di finire la telefonata per poi farne una io. Guardai l'ora e decisi che ormai Benton doveva essere arrivato a Hilton Head. «Ecco qua, Big Jim.» Gli diede una lampadina nuova. «È da sessanta watt?» Strizzò gli occhi per controllare. «Okay. Stai ancora un po'?» Dal tono sembrava che ci sperasse. «Mah. Saperlo.» «Allora non va troppo bene», fece Helen preoccupata. «E quando mai va bene?» Scosse la testa e uscì sconsolato. «Ha di nuovo litigato con la moglie», mi spiegò Helen scuotendo la testa a sua volta. «Non è la prima volta che viene, sa, e questo è uno dei motivi per cui litigano. Non so perché la gente si faccia tante corna. Pensi che la maggior parte dei miei clienti abita nel raggio di dieci chilometri.» «E lei li conosce tutti.»
«Be', sa com'è. Comunque io mi faccio gli affari miei. Purché non mi distruggano le camere...» «La villa che è bruciata era qui vicino», buttai lì. La donna si animò. «Pensi che quella sera ero di turno. Si vedevano le fiamme da qui: alte come in un vulcano.» Gesticolò. «Eravamo tutti fuori a guardare e a sentire le sirene. Poveri cavalli, però. Che brutta fine.» «Lei conosceva Kenneth Sparkes?» chiesi. «Di persona no.» «Abitava da solo?» insistetti. «Non aveva una donna?» «Be', sa, la gente mormora.» Guardò verso la porta, come per vedere se stava arrivando qualcuno. «E cosa dice?» «Mah, per esempio che è un dongiovanni», rispose Helen. «Qui quelli come lui non sono tanto benvisti: però, insomma, è un uomo importante... Sa, gli piacciono giovani e carine.» Rifletté un istante, mentre fuori della finestra danzavano le falene, quindi mi guardò negli occhi. «Dell'ultima si sono scandalizzati in tanti», spiegò. «Possono dire quello che vogliono, ma questo rimane il vecchio Sud.» «E chi si è scandalizzato?» domandai. «Quelli di Jackson, sa? Sono degli attaccabrighe», spiegò, sempre guardando la porta. «Non gli piace la gente di colore. E il fatto che lui si facesse vedere in giro con una bella bionda, bianca e giovane... Be', la gente gli parlava dietro, mettiamola così.» Immaginai seguaci del Ku Klux Klan che bruciavano le croci, razzisti con lo sguardo gelido e le armi in pugno. Sapevo che cos'era l'odio, passavo la vita a mettere le mani nello scempio che provocava. Con il cuore stretto diedi a Helen la buonanotte. Non volevo giungere a conclusioni affrettate: se l'incendio fosse stato appiccato per motivi razziali, la vittima sarebbe stata Sparkes, non una donna sconosciuta il cui cadavere era già in viaggio per Richmond. Anche se, per la verità, i colpevoli avrebbero potuto non sapere che in casa c'era qualcuno. Quando uscii, al telefono c'era l'uomo in canottiera. Aveva la lampadina in mano e parlava a voce bassa, in tono accorato. Quando gli passai vicino, sentii che era arrabbiato. «Per la miseria, Louise, è proprio questo che dico. Imparassi a tacere, qualche volta...» accusava al telefono. Decisi di chiamare Benton più tardi. Aprii la porta rossa della camera numero quindici e vidi che Lucy faceva
finta di non essere stata ad aspettarmi. Era seduta su una poltrona con lo schienale alto a scrivere e fare calcoli su un notes. Non aveva toccato la cena, nonostante sapessi che stava morendo di fame. Presi gli hamburger e le paratine dal sacchetto e li posai su un tovagliolo di carta che avevo sistemato sul tavolino. «E diventato tutto freddo», le annunciai. «Ci si fa l'abitudine.» Lo disse in tono distaccato. «Vuoi fare la doccia per prima?» le domandai. «Vai pure», mi rispose, immersa nei suoi calcoli, corrucciata. Per il prezzo che aveva, la camera era sorprendentemente pulita e accogliente. Era sui toni del marrone, con un televisore che doveva avere l'età di mia nipote, lampade cinesi e lanterne con le frange, statuine di porcellana, dipinti a olio e copriletti a fiori. La moquette era folta, a motivi indiani, mentre la tappezzeria raffigurava scene campestri. I mobili erano di formica oppure rivestiti di gommalacca tanto spessa che non si vedeva il legno. Controllai il bagno e vidi che le piastrelle bianche e rosa risalivano probabilmente agli anni Cinquanta. Sul lavabo c'erano bicchieri di plastica e delle saponette Lisa Luxury. Ma fu la rosa rossa di plastica alla finestra a commuovermi. Qualcuno aveva voluto dare a quel bagno un tocco di calore, per quanto artificiale, e probabilmente la maggior parte dei clienti non se ne accorgeva nemmeno. Forse quarant'anni prima, quando la gente era un po' più educata di adesso, certi particolari si notavano. Abbassai il coperchio del water e mi sedetti a togliermi gli scarponi bagnati. Quindi combattei con bottoni e gancetti finché non riuscii ad abbandonare i miei vestiti in un mucchio sul pavimento. Rimasi sotto la doccia finché non mi passò il freddo, cercando di levarmi di dosso l'odore di bruciato e di morte. Quando uscii dal bagno con una maglietta del Medical College of Virginia, Lucy lavorava al computer. Mi stappai una birra. «Cosa fai?» le chiesi sedendomi sul divano. «Niente di particolare, veramente. Vado per tentativi», rispose. «Ma è stato un incendio enorme, zia Kay. E non sembra che sia stata usata benzina.» Non sapevo che cosa dire. «È morto qualcuno nel bagno principale. Forse. Ma come può essere successo alle otto di sera?» Non sapevo. «Supponiamo che sia andata a lavarsi i denti e abbia sentito suonare l'allarme antincendio.»
Lucy mi fissò. «E allora cos'ha fatto?» domandò. «È restata lì a morire?» Si interruppe e si stiracchiò le spalle doloranti. «Spiegamelo tu, capo. Sei tu l'esperta.» «Non sono in grado di spiegare niente, Lucy», risposi. «Signore e signori, neanche la famosa esperta dottoressa Kay Scarpetta conosce la risposta!» Si stava innervosendo. «Diciannove cavalli», continuò. «Chi se ne prendeva cura? Sparkes non aveva uno stalliere? E perché lo stallone nero è sopravvissuto? Perché lui solo?» «Come fai a sapere che è uno stallone?» domandai. In quel momento qualcuno bussò alla porta. «Chi è?» «Sono io», annunciò Marino brusco. Lo feci entrare e gli lessi subito in faccia che aveva scoperto qualcosa di nuovo. «Kenneth Sparkes è vivo e vegeto», ci comunicò. «Dov'è?» chiesi, precipitando di nuovo nella confusione. «Pare che fosse all'estero. Quando ha sentito che cos'era successo ha preso il primo aereo. Adesso è a Beaverdam e dice di non sapere niente, nemmeno chi sia la morta», spiegò. «Perché proprio a Beaverdam?» domandai, calcolando quanto tempo occorreva per raggiungere quel posto remoto nella contea di Hanover. «È dalla sua addestratrice.» «Dalla sua addestratrice?» «L'addestratrice dei suoi cavalli! Cosa vuoi, che addestri lui?» «Ho capito.» «Io domani mattina verso le nove ci vado», mi informò. «Tu che cosa fai? Vieni con me o vai a Richmond?» «Per identificare il cadavere mi conviene parlargli, anche se dice di non sapere niente. Vengo con te», decisi. Guardai Lucy. «Pensavi di farti accompagnare dalla nostra intrepida pilota o hai noleggiato un'automobile?» «Per un po' basta elicotteri», ribatté Marino. «Devo ricordarti che l'ultima volta che hai avuto a che fare con Kenneth Sparkes l'hai fatto arrabbiare.» «Davvero?» feci. Non me lo ricordavo perché mi era successo spesso di far arrabbiare Sparkes, cioè tutte le volte che io mi occupavo di qualche caso e non ci trovavamo d'accordo sui particolari che potevano essere divulgati dalla stampa. «Te lo dico io, capo. Me la offrite una birretta?»
«Non riesco a credere che non ti sia portato niente da bere», disse Lucy riprendendo a battere sui tasti del portatile. Marino aprì la porta del frigo e si prese una birra. «Volete che vi dica che cosa ne penso?» chiese. «Per me non cambia niente.» «In che senso?» domandò Lucy senza alzare gli occhi dallo schermo. «Nel senso che dietro c'è comunque Sparkes.» Posò l'apribottiglie sul tavolino e si fermò sulla porta con la mano sulla maniglia. «Per prima cosa, è fin troppo fortunoso che fosse all'estero quando è successo», spiegò sbadigliando. «Avrà incaricato qualcuno di fare il lavoretto al posto suo. Quando si hanno i soldi...» Prese una sigaretta dal pacchetto che teneva nel taschino della camicia e se la infilò in bocca. «A quel bastardo non mancavano né i soldi né la fica.» «Per l'amor del cielo, Marino!» protestai. Volevo che la piantasse e se ne andasse, ma lui mi ignorò. «Il peggio è che adesso probabilmente ci troviamo di fronte a un omicidio, oltre a tutto il resto», disse aprendo la porta. «Il che vuol dire che ci sono dentro fino al collo. E voi pure. Merda.» Tirò fuori l'accendino, la sigaretta sempre in bocca. «Cosa non darei per poter fare dell'altro... Sapete quanta gente si può pagare quello stronzo?» Ormai non lo fermava più nessuno. «Giudici, sceriffi, vigili del fuoco...» «Marino!» Lo interruppi perché stava peggiorando la situazione. «Stai saltando alle conclusioni. Che oltre a tutto sono campate in aria.» Mi puntò contro la sigaretta ancora spenta. «Vedrai», disse uscendo. «Vedrai in che ginepraio ci siamo infilati.» «Ci sono abituata», dissi. «È quello che credi.» Sbatté la porta. «Stai un po' attento», gli gridò dietro Lucy. «Hai intenzione di lavorare sul tuo computer tutta la notte?» le chiesi. «No, tutta la notte no.» «E tardi e volevo parlare con te di una cosa», le dissi. Stavo pensando di nuovo a Carrie Grethen. «E se ti dicessi che non ho voglia di parlare?» Non scherzava. «Pazienza», replicai. «Dobbiamo parlare comunque.» «Sai, zia Kay, se intendi attaccare con Teun e Philadelphia...»
«Che cosa?» esclamai sbigottita. «Che cosa c'entra Teun?» «Me ne sono accorta, che ti è antipatica.» «Non dire scemenze.» «Guarda che ti conosco», continuò. «Non ho niente contro Teun. E comunque non era di lei che intendevo parlare.» Mia nipote si zittì e cominciò a togliersi gli scarponi. «Lucy, ho ricevuto una lettera di Carrie.» Aspettai una sua reazione, ma non ottenni nulla. «Una lettera molto strana, minacciosa, inquietante. L'ha spedita dall'ospedale psichiatrico di New York.» Mi interruppi e aspettai che facesse cadere per terra uno scarpone. «In pratica ci informa che ha intenzione di creare scompiglio al processo», spiegai. «Non che questo mi sorprenda. Però...» Mi impappinai, mentre Lucy si toglieva le calze bagnate e si massaggiava i piedi. «Dobbiamo farci trovare pronte, ecco.» Si slacciò la cintura e si abbassò la zip dei pantaloni, come se non mi avesse nemmeno sentito. Si sfilò la camicia sporca e la buttò per terra, rimanendo in reggiseno da sport e mutande di cotone. Si avviò verso il bagno con passo energico e aggraziato e io rimasi lì, a bocca aperta, finché non sentii scrosciare l'acqua. Era come se non mi fossi mai accorta della sua bella bocca, del suo seno prosperoso, delle sue braccia forti e delle sue gambe muscolose. O forse mi ero sempre rifiutata di vederla come un'entità indipendente con una sua sessualità, perché preferivo non pensare alle sue scelte di vita. Per un attimo la immaginai a letto con Carrie e me ne vergognai subito. Ero confusa, ma non mi sembrava poi tanto strano che una donna volesse fare l'amore con mia nipote. Rimase a lungo sotto la doccia; sapevo che lo faceva apposta per rimandare la discussione. Stava riflettendo e forse era arrabbiata. Prevedevo che se la sarebbe presa con me e quando uscì dal bagno, qualche minuto dopo, con una maglietta dei vigili del fuoco di Philadelphia, il mio umore peggiorò ulteriormente. Era fresca e profumava di limone. «Non che siano fatti miei», esordii indicando la scritta sulla maglietta. «Me l'ha regalata Teun», rispose. «Ah.» «E comunque hai ragione, zia Kay, non sono fatti tuoi.» «Dovresti imparare a non...» cominciai, infuriandomi.
«Che cosa dovrei imparare?» Assunse un'espressione incuriosita apposta per provocarmi, per irritarmi e farmi sentire un'idiota. «A non andare a letto con i colleghi.» L'emozione mi aveva fatto trascendere. Ero stata ingiusta, oltre che irragionevole, ma avevo tanta paura per lei. «Se uno mi regala una maglietta vuol dire che ci vado a letto? Ottima deduzione, dottoressa Scarpetta», rispose Lucy sempre più arrabbiata. «Parli tu, poi, che ci convivi, con un collega...» Ero sicura che, se fosse stata vestita, avrebbe preso la porta e se ne sarebbe andata. Invece mi diede le spalle e guardò la finestra, asciugandosi le lacrime. Cercai di salvare la situazione, non volevo che degenerasse a quel modo. «Siamo stanche tutte e due», sussurrai. «È stata una giornataccia e adesso Carrie ha ottenuto quel che voleva: ci ha messe una contro l'altra.» Mia nipote non si mosse, né emise suono. Si asciugò di nuovo gli occhi, sempre dandomi le spalle. «Non sto dicendo che vai a letto con Teun», spiegai. «Ti sto solo avvertendo delle difficoltà che ci sarebbero se... Be', insomma, mi è sembrata un'eventualità molto probabile.» Lucy si voltò di scatto e mi lanciò un'occhiataccia. «Come sarebbe a dire un'eventualità molto probabile?» chiese. «Teun è lesbica? Non lo sapevo.» «Forse con Janet non va troppo bene in questo periodo», continuai. «Le persone sono quello che sono.» Si sedette in fondo al mio letto e capii che non aveva intenzione di mollare. «Che cosa intendi dire?» «Niente di più di quello che ho detto. Non sono nata in una caverna. Che Teun sia una donna non fa nessuna differenza, per me. Non conosco i suoi gusti, ma non vedo perché non potreste piacervi. Siete due belle donne, affascinanti, coraggiose e intelligenti. Ti sto solo ricordando che è il tuo supervisore.» Mi sentii pulsare le tempie e assunsi un tono più accorato. «E poi? Che cosa faresti?», domandai. «Intendi passare da un'agenzia federale all'altra finché non ti sei bruciata la carriera a furia di storie sbagliate? È proprio questo che temo, per quanto ti dispiaccia: te lo dico una volta per tutte.»
Mia nipote mi fissò con gli occhi lucidi. Non si asciugò le lacrime che le rigarono le guance andando a cadere sulla maglietta che le aveva regalato Teun McGovern. «Scusami, Lucy», le dissi con dolcezza. «So che non è un periodo facile, per te.» Si voltò dall'altra parte e continuò a piangere in silenzio. A un certo punto trasse un respiro profondo, tremando. «Hai mai voluto bene a una donna?» mi chiese. «Voglio bene a te.» «Sai benissimo che cosa intendo.» «No, non mi sono mai innamorata di una donna», risposi. «Non consapevolmente, perlomeno.» «La tua è una risposta evasiva.» «Non voleva esserlo.» «Pensi che ti potrebbe succedere?» «Cosa?» «Di innamorarti di una donna», insistette. «Non lo so. Non sono più sicura di niente.» Ero sincera. «Probabilmente quella parte del mio cervello è chiusa a chiave.» «Non ha niente a che fare con il cervello.» Non sapevo che cosa dire. «Sono andata a letto con due uomini», mi confidò. «Quindi so la differenza, per tua informazione.» «Lucy, non devi sentirti in dovere di difenderti.» «Infatti. Non vedo perché io debba giustificare le mie scelte personali.» «Hai ragione, ma succederà. Che cosa pensi che farà Carrie?» domandai, tornando in argomento. Lucy aprì un'altra birra e controllò se avevo finito la mia. «Manderà lettere ai giornali?» ipotizzai. «Mentirà sotto giuramento? Riferirà in tribunale nei minimi particolari tutto quello che vi siete dette e che avete fatto o sognato di fare?» «Come faccio a saperlo?» ribatté. «Ha avuto cinque anni per pensarci, mentre noi vivevamo la nostra vita.» «Che cosa potrebbe sapere e tirare fuori?» le chiesi. Lucy si alzò e cominciò a passeggiare nervosamente avanti e indietro. «Una volta ti fidavi di lei», continuai. «Ti confidavi con lei mentre era complice di Gault. Ti ha usato, Lucy. Per arrivare a noi.» «Sono troppo stanca per parlare di queste cose», dichiarò.
Ma non avevo nessuna intenzione di lasciar perdere. Mi alzai e spensi la luce, perché trovavo che fosse più facile parlare in un'atmosfera rilassata, nella penombra. Sprimacciai i cuscini sul suo letto e sul mio e abbassai i copriletti. In un primo momento Lucy non raccolse il mio tacito invito e continuò a camminare furiosamente mentre io la osservavo in silenzio. Poi, di malavoglia, si sedette sul letto e si appoggiò alla testiera. «Lasciamo perdere per un attimo la tua reputazione», cominciai, in tono pacato. «Parliamo del processo che ci sarà a New York.» «So già di che cosa si parlerà.» Volevo fare un discorsetto introduttivo e alzai la mano per farmi ascoltare. «Temple Gault ha ucciso almeno cinque persone in Virginia», cominciai, «e sappiamo che Carrie era coinvolta in almeno uno di questi omicidi, dal momento che abbiamo un filmato che la mostra mentre spara in testa a un uomo. Tu te lo ricordi.» Lucy rimase zitta. «Tu c'eri, quando abbiamo guardato quell'orribile cassetta a colori», proseguii. «Lo so.» La sua voce tremava di rabbia. «Ne abbiamo già parlato mille volte», disse. «L'hai vista uccidere», continuai imperterrita. «La donna con cui stavi quando avevi diciannove anni, eri ingenua e lavoravi alla programmazione del CAIN all'ERF.» Mi accorsi che si chiudeva in se stessa come un riccio, più il mio monologo diventava doloroso per lei. L'Engineering Research Facility dell'FBI ospitava la Criminal Artificial Intelligence Network, una rete informatica meglio conosciuta come CAIN. Era stata Lucy a concepire l'idea di quel sistema e a promuoverne la messa a punto e adesso aveva dovuto abbandonarlo. Non riusciva nemmeno a sopportare di sentirlo nominare. «Hai visto la tua donna uccidere, una donna che ti aveva ingannato a sangue freddo, in modo premeditato. Non potevi fare niente, contro di lei», le spiegai. «Perché mi stai dicendo queste cose?» mi chiese, con la testa appoggiata sul braccio. «Sto ricapitolando quello che è successo perché tu ti renda conto della situazione.» «Non ce n'è bisogno.»
«Invece sì. A proposito, non entreremo nel merito di ciò che Carrie e Gault hanno scoperto sul mio conto. E questo ci porta a New York, dove Gault uccise la propria sorella e almeno un poliziotto. Le prove dimostrano che non era solo. Sugli effetti personali di Jayne Gault furono trovate impronte di Carrie. Quando fu catturata nella Bowery, Carrie aveva i pantaloni macchiati di sangue. Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere stata lei a premere il grilletto.» «Infatti probabilmente è stata lei», disse Lucy. «Lo sapevo già.» «Ma non che è implicata anche nell'omicidio di Eddie Heath. Ti ricordi la cioccolata e la scatola di minestra che era andato a comprare al supermercato? Sulla borsina ritrovata accanto al bambino moribondo e mutilato c'era l'impronta del pollice di Carrie.» «Non è vero!» Lucy era scioccata. «E non è tutto.» «Perché non me l'hai mai detto? Era sua complice. L'avrà anche aiutato a uscire di prigione, allora.» «Non abbiamo dubbi. Erano come Bonnie e Clyde già prima che tu la conoscessi, Lucy. Quando tu avevi diciassette anni e non avevi ancora baciato nessuno, lei era già un'assassina.» «Come fai a sapere che non avevo mai baciato nessuno?» ribatté stupidamente mia nipote. Per un momento restammo in silenzio. Poi Lucy disse con voce tremante: «Dunque secondo te per due anni ha cercato di conoscermi e di diventare... Di fare quel che poi...». «Di sedurti», finii io per lei. «Non so se l'avesse pianificato con tanto anticipo. Francamente, non mi interessa neppure.» Ero indignata. «Abbiamo mosso mari e monti per ottenere l'estradizione in Virginia per quei reati e non ci siamo riusciti. New York non la molla.» Mi ero dimenticata di avere la bottiglia in mano, quando chiusi gli occhi e ripensai a quei morti. Rividi Eddie Heath appoggiato al cassonetto della spazzatura con la pioggia che gli lavava il sangue dalle ferite, lo sceriffo e la guardia uccisi da Gault e probabilmente anche da Carrie. Avevo esaminato i loro corpi, tradotto il loro dolore in diagrammi, protocolli autoptici e cartelle odontoiatriche. Volevo che Carrie morisse per quel che aveva fatto a loro, a mia nipote e a me. «È un mostro», dichiarai con voce scossa dalla pena e dalla collera. «Farò di tutto perché venga punita.» «Perché mi fai questa predica?» chiese Lucy agitata, alzando la voce.
«Pensi forse che non voglia anch'io che paghi per quel che ha fatto?» «No, lo so.» «Allora lasciami schiacciare il pulsante o infilarle l'ago in vena.» «Il rapporto che hai avuto con lei non deve interferire con la giustizia, Lucy.» «Oh, Gesù.» «È già difficile così. Se perdi il senso della prospettiva, Lucy, fai il suo gioco.» «Gesù», ripeté Lucy. «Non voglio più sentirne parlare.» «Ti domandi che cosa vuole?» insistetti. «Te lo dico io: vuole manipolarci. È la cosa che le riesce meglio. E poi? La dichiareranno non colpevole in quanto incapace di intendere e di volere e il giudice la rispedirà a Kirby. A quel punto migliorerà improvvisamente e i medici decideranno che in fondo non è pazza. Non si può essere giudicati due volte per lo stesso reato: tornerà a piede libero.» «Se mai succederà», disse Lucy gelida, «la andrò a cercare e le farò saltare le cervella.» «Che razza di risposta è questa?» Osservai la sua ombra appoggiata ai cuscini, seduta sul letto. Era rigida e la sentivo respirare forte, piena di odio. «Non interessa a nessuno con chi sei andata a letto o con chi ci vai adesso», aggiunsi a voce più bassa. «Anzi, penso che la giuria capirà perché è successo. Eri giovane e lei era più grande di te, intelligente e bellissima. Era una donna affascinante e piena di attenzioni. Ed era il tuo supervisore.» «Come Teun», disse Lucy e io non capii se mi stava prendendo in giro. «Teun non è una psicopatica», replicai. 4 La mattina successiva mi addormentai sulla LTD presa a nolo e mi risvegliai fra campi di granoturco, silos e filari di alberi dei tempi della guerra civile, mentre Marino guidava. Passammo accanto a vasti campi cintati di filo spinato, linee telefoniche e giardini con cassette della posta a fiorellini o con lo zio Sam disegnato sopra. C'erano laghi, torrenti, poderi e pascoli, villette con gli steccati sbilenchi e stenditoi carichi di biancheria che si gonfiava nel vento. Mi voltai da una parte e mi misi una mano davanti alla bocca per na-
scondere uno sbadiglio, perché consideravo un segno di debolezza mostrarsi stanchi o annoiati. Dopo pochi minuti imboccammo la 715 o Beaverdam Road e cominciammo a vedere delle mucche fra i fienili grigi. Sembrava che la gente da quelle parti non avesse l'abitudine di disfarsi dei camion scassati. La proprietaria di Hootowl Farm viveva in una grande casa bianca circondata da campi e pascoli a vista d'occhio. Stando alla targa sulla porta, la casa era stata costruita nel 1730. Nel frattempo era stata dotata di piscina e di un'antenna parabolica che aveva l'aria di poter intercettare segnali provenienti dalle altre galassie. Betty Foster ci venne incontro prima ancora che scendessimo dalla macchina. Sulla cinquantina, aveva lineamenti aristocratici e le rughe di chi prende molto sole, i capelli bianchi raccolti in uno chignon e il passo elastico di una persona con la metà dei suoi anni. La sua stretta di mano era forte e vigorosa e i suoi occhi castani velati di tristezza. «Io sono Betty», si presentò. «Lei dev'essere la dottoressa Scarpetta. E lei il capitano Marino.» Strinse la mano anche a lui, con fare disinvolto. Betty Foster indossava un paio di pantaloni, una camicetta di jeans senza maniche e scarponi marroni, logori e con la suola infangata. Nonostante la cordialità con cui ci aveva accolto, sembrava leggermente intimorita dalla nostra presenza, come se non sapesse da dove cominciare. «Kenneth è nel recinto», ci informò. «Vi stava aspettando. Vi dico già che è sconvolto. Adorava i suoi cavalli e naturalmente il fatto che in casa sua sia morta una persona lo turba profondamente.» «Che rapporto c'è fra lei e Kenneth Sparkes, signora Foster?» domandò Marino mentre ci incamminavamo lungo il sentiero sterrato che portava alle stalle. «Gli allevo e addestro i cavalli da anni», rispose la donna. «Da quando si è trasferito a Warrenton. Aveva i Morgan più belli di tutto il Commonwealth. Per non parlare dei cavalli da corsa e dei purosangue.» «Li portava da lei?» chiesi. «A volte. A volte invece gli vendevo dei puledri e lui me li lasciava un paio di anni perché glieli addestrassi, prima di portarli a casa. Ha anche accoppiato dei purosangue per vendere i puledri appena raggiungevano l'età giusta per addestrarli. Io andavo a casa sua due o tre volte la settimana a controllare che tutto andasse bene.» «Non aveva uno stalliere?» chiesi. «L'ultimo se n'è andato diversi mesi fa. Da allora si è sempre occupato di
tutto Kenny. Anche perché non può prendere chiunque: bisogna stare molto attenti.» «Ci parli di questo stalliere», disse Marino prendendo appunti. «Era un vecchietto molto in gamba, che purtroppo soffriva di cuore», rispose. «Forse uno dei cavalli si è salvato», le rivelai. La donna non fece commenti. Ci avvicinammo a un fienile rosso e a un cartello che avvertiva: ATTENTI AL CANE. «Un puledro, credo. Nero», spiegai. «Maschio o femmina?» domandò. «Non lo so.» «Ha una striscia bianca sul muso?» mi domandò. «Non l'ho visto da vicino», risposi. «Be', Kenny aveva un puledro che si chiamava Windsong», disse la Foster. «La madre, Wind, aveva corso nel Derby. Era arrivata ultima, ma il fatto stesso di avervi partecipato era straordinario. Il padre aveva vinto diverse gare a premi. Quindi forse Windsong era il cavallo più prezioso della scuderia.» «Be', pare che sia sfuggito alla carneficina», ripetei. «Spero che non sia ancora lì in giro da solo.» «Se mai, non lo sarà per molto. La polizia è al corrente della cosa.» Marino non sembrava molto interessato. Quando entrammo nel recinto, dove fummo salutati da un calpestio di zoccoli, chiocciare di polli e galline che razzolavano liberamente, tossì e strizzò gli occhi per la polvere sollevata da una giumenta Morgan marrone. I cavalli nei box nitrivano al suo passaggio; in sella riconobbi Kenneth Sparkes, sebbene non l'avessi mai visto in jeans macchiati e stivaloni. Era un ottimo cavallerizzo e quando incontrò il mio sguardo non dimostrò né sollievo, né di avermi riconosciuto. Mi resi conto immediatamente che la nostra presenza lo infastidiva. «Possiamo parlargli da qualche parte?» chiesi alla Foster. «Ci sono delle sedie qua fuori», disse facendomi segno. «Oppure potete usare il mio studio.» Sparkes prese velocità e si lanciò al galoppo, facendo scappare le galline in una nuvola di piume. «Sapeva se c'era una donna che stava con lui a Warrenton?» domandai mentre ci dirigevamo di nuovo fuori. «Ha mai visto qualcuno, quando andava da lui?» «No», rispose lei.
Prendemmo delle sedie di plastica e ci sedemmo con le spalle alla pista, rivolti verso il bosco. «Ma Kenny frequenta tante donne e io non le conosco tutte», precisò. Voltandosi verso il recinto aggiunse: «A meno che quello di cui parlava non sia veramente Windsong, l'unico cavallo che gli rimane è quello che sta cavalcando in questo momento. Black Opal, detto Pal». Marino e io non rispondemmo e ci girammo a guardare Sparkes che smontava di sella e porgeva le redini a uno dei dipendenti della Foster. «Bravo, Pal», disse accarezzando il muso e il collo del cavallo. «Come mai non era con gli altri cavalli?» domandai alla Foster. «È troppo giovane. È un castrone di tre anni che ha ancora bisogno di addestramento. Per questo era qui. Gli è andata bene.» Fece una smorfia di dolore e si voltò di scatto dall'altra parte. Poi si raschiò la gola, si alzò dalla sedia e si allontanò. Nel frattempo Sparkes era uscito dalla pista aggiustandosi i pantaloni e la cintura. Io e Marino ci alzammo per stringergli rispettosamente la mano. Indossava una camicia rossa sbiadita e zuppa di sudore. Si asciugò la faccia con un fazzoletto giallo che portava intorno al collo. «Prego, accomodatevi», disse cortese, come facendoci l'onore di darci udienza. Marino e io ci risedemmo, Sparkes si prese una sedia e si mise di fronte a noi. Notai che aveva lo sguardo risoluto, ma gli occhi rossi. «Vorrei precisare subito che sono convinto che non si è trattato di un incidente», dichiarò. «E quello che stiamo cercando di accertare», replicò Marino più educatamente del solito. «Secondo me l'hanno fatto per motivi razziali.» Strinse le mascelle e assunse un tono rabbioso. «E chiunque sia stato, ha ucciso intenzionalmente i miei cavalli e distrutto tutto quello a cui tenevo.» «Se pensa che l'abbiano fatto per motivi razziali», intervenne Marino, «come spiega che non abbiano controllato se lei era in casa?» «Ci sono cose peggiori della morte. Forse non volevano che morissi, ma che soffrissi. Metta insieme le cose...» «È quello che stiamo cercando di fare», replicò Marino. «Spero che non vi venga nemmeno in mente di accusare me.» Ci puntò un dito contro. «So benissimo cosa vi frulla in capo», continuò. «Pensate che abbia dato fuoco alla casa e alle scuderie per incassare i soldi dell'assicurazione. A-
scoltatemi bene.» Si chinò verso di noi. «Vi assicuro che non sono stato io: non farei mai una cosa simile. Non sono minimamente responsabile di quello che è successo. Sono la vittima e probabilmente è solo un caso se sono ancora vivo.» «Parliamo dell'altra vittima», dissi a bassa voce. «Una donna di razza bianca con lunghi capelli biondi, a quanto sembra. Chi poteva essere in casa sua quella sera?» «Non ci sarebbe dovuto essere proprio nessuno!» esclamò. «Riteniamo che sia morta al primo piano», proseguii. «Presumibilmente nel bagno.» «Chiunque fosse, si è introdotta abusivamente in casa mia», spiegò. «Magari è lei che ha dato fuoco alla casa e poi non è più riuscita a fuggire.» «Non ci sono segni di effrazione», gli fece presente Marino. «E se aveva inserito l'antifurto, non è scattato. L'unico a suonare è stato l'allarme antincendio.» «Non capisco.» Sparkes sembrava sincero. «Sono sicuro di averlo inserito, prima di partire.» «Dove era diretto?» sondò Marino. «A Londra. Appena sono arrivato, però, mi hanno avvertito. Non sono nemmeno uscito da Heathrow. Sono salito sul primo aereo», rispose. «Sono atterrato a Washington e sono venuto subito qui in macchina.» Abbassò gli occhi. «Che macchina?» domandò Marino. «La mia Cherokee. L'avevo lasciata all'aeroporto di Dulles nel parcheggio per soste lunghe.» «Ha la ricevuta?» «Sì.» «E la Mercedes che ha lasciato a casa?» continuò Marino. Sparkes aggrottò la fronte. «Quale Mercedes? Io non ho nessuna Mercedes. Ho sempre comprato automobili americane.» Ricordavo che era una sua scelta precisa e dichiarata pubblicamente in più di un'occasione. «Dietro casa sua c'è una Mercedes. Anche quella è bruciata, perciò non sappiamo molto al riguardo», spiegò Marino. «A me non pare uno dei modelli più recenti, però. Berlina, un po' squadrata... sa, come le facevano una volta.»
Sparkes scosse la testa. «A questo punto è probabile che sia la macchina della vittima», concluse Marino. «Magari era venuta a farle una visita inaspettata. Chi aveva le chiavi di casa sua e conosceva il codice per disinnescare l'antifurto?» «Buon Dio» esclamò d'un tratto Sparkes. «Josh. Il mio stalliere, una bravissima persona. Si è licenziato per motivi di salute e io non ho mai pensato di far cambiare le serrature.» «Deve dirci come rintracciarlo», fece Marino. «Ma lui non...» cominciò Sparkes. Poi si interruppe, incredulo. «Oh, mio Dio», sospirò. «Mio Dio.» Mi guardò. «Ha detto che era bionda?» «Sì.» «Sa descrivermela meglio?» Nella sua voce c'era un'ombra di panico. «Snella, bianca. Vestita con jeans, camicia e stivaletti. Allacciati, non da cowboy.» «Quanto era alta?» «Non glielo so dire. Devo ancora esaminare il corpo.» «Portava gioielli?» «Non ha più le mani, signor Sparkes.» Sospirò. Quando aprì di nuovo bocca, gli tremava la voce. «Aveva i capelli molto lunghi, diciamo fino a metà schiena, di un biondo chiaro?» «Mi sembra di sì», risposi. «Be', vede, c'era questa ragazza...» cominciò. Si schiarì la voce diverse volte. «Santo cielo. Insomma, io ho una casa a Wrightsville Beach. L'ho conosciuta là. Studiava all'università, credo. O perlomeno un po' ci andava e un po' no. Durò poco, cinque o sei mesi. E qualche volta venne qui a Warrenton, a casa mia. L'ultima volta ci vedemmo lì e io troncai la relazione perché non aveva più senso andare avanti.» «Aveva una vecchia Mercedes?» gli chiese Marino. Sparkes scosse la testa. Si coprì il volto con le mani. Poi cercò di ricomporsi. «Una Volkswagen. Celeste», riuscì a dire. «Era senza soldi. Quando ci lasciammo le diedi qualcosa. Mille dollari. Le raccomandai di riprendere gli studi e di laurearsi. Si chiama Claire Rawley e potrebbe aver preso un mazzo di chiavi senza dirmelo, una delle volte che venne a trovarmi. Potrebbe anche avermi guardato mentre digitavo il codice dell'antifurto e averlo memorizzato.»
«È da oltre un anno che non la sente?» chiesi. «Infatti», rispose. «Mi sembra che sia passato un secolo. Fu una scemenza, in realtà. La vidi a Wrightsville mentre faceva surf e attaccai discorso sulla spiaggia. Devo dire che era una delle ragazze più belle che avessi mai visto. Per un po' persi la testa, poi però ritornai in me e mi accorsi che c'erano troppi problemi e troppe complicazioni. Claire aveva bisogno di una persona che si prendesse cura di lei e io non potevo farlo.» «Mi dica tutto quello che sa sul suo conto», gli chiesi. «Di dov'era, la sua famiglia... Tutto quello che potrebbe aiutarmi a identificarla o escludere che si tratti di lei. Naturalmente mi metterò in contatto anche con l'università.» «Devo dirle una triste verità, dottoressa Scarpetta», mi rivelò. «In realtà non so niente di Claire. La nostra fu una relazione prevalentemente basata sull'attrazione sessuale. Per quel che potevo, la aiutai a risolvere i suoi problemi, soprattutto economici.» Si interruppe. «Le ero affezionato, ma da parte mia non fu mai una cosa seria. Voglio dire, non mi ha neanche sfiorato l'idea di sposarla.» Non c'era bisogno di altre spiegazioni. Sparkes era un uomo potente e si percepiva a prima vista. Era uno a cui le donne non dicevano quasi mai di no. Ma in quel momento mi astenni dal dare giudizi. «Mi dispiace», disse alzandosi. «Posso dirvi soltanto che era un'aspirante attrice senza grandi possibilità, che passava il tempo in spiaggia e a fare surf. Dopo un po' che la frequentavo, mi accorsi che aveva qualcosa che non andava. Era un po' strana, svogliata, e a volte sembrava un po' assente.» «Beveva?» domandai. «Non tantissimo: l'alcol aveva troppe calorie, per i suoi gusti.» «Si drogava?» «Il dubbio mi venne. E io con la droga non voglio avere niente a che fare. Però non lo so con certezza.» «Per favore, mi scrive esattamente il suo nome?» chiesi. «Prima che se ne vada», intervenne Marino con la voce del poliziotto minaccioso, «è sicuro che non si sia trattato di una sorta di omicidiosuicidio, cioè che questa donna non volesse distruggere tutto quello che le apparteneva prima di togliersi la vita? Poteva avere qualche motivo per farlo, signor Sparkes?» «A questo punto non sono più sicuro di niente», rispose fermandosi vicino alla porta del fienile.
Marino si alzò dalla sedia. «Be', scusi se mi permetto, ma c'è qualcosa che non mi quadra», disse Marino. «Dovrei vedere le ricevute del suo viaggio fino a Londra. E del parcheggio dell'aeroporto di Dulles. E poi l'ATF vorrebbe sapere come mai aveva la cantina piena di bourbon e di armi automatiche.» «Faccio collezione di armi della seconda guerra mondiale. Sono tutte regolarmente denunciate», rispose, controllandosi. «Il bourbon l'ho comprato da una distilleria fallita cinque anni fa. Non avrebbero dovuto vendermelo e io non avrei dovuto comprarlo. Ma purtroppo è andata così.» «Credo che l'ATF abbia per le mani problemi più grossi del suo bourbon», replicò Marino. «Pertanto, se ha quelle ricevute, le sarei grato se me le consegnasse.» «Vuole anche perquisirmi, capitano?» chiese duro Sparkes, guardandolo male. Marino non distolse lo sguardo. Le galline chiocciavano tutto intorno. «Si rivolga al mio avvocato», continuò Sparkes. «Sarò lieto di collaborare.» «Marino», mi intromisi. «Mi lasceresti un attimo da sola con il signor Sparkes?» Marino rimase sorpreso e si impermalì. Si allontanò verso il fienile senza dire una parola, seguito dalle galline. Sparkes e io rimanemmo l'uno di fronte all'altra. Era un uomo molto bello, alto e dal fisico asciutto, con folti capelli brizzolati. Aveva gli occhi nerissimi e i lineamenti da aristocratico, con il naso diritto alla Jefferson e la pelle nera senza una ruga. Stringeva in mano il frustino con il piglio di chi è arrabbiato ma cerca di trattenersi. Avevo l'impressione che Kenneth Sparkes fosse un uomo capace di violenza, ma dotato di grande autocontrollo. «Che cosa vuole da me?» mi chiese diffidente. «Volevo solo precisare che, se anche abbiamo avuto delle divergenze in passato...» Scosse la testa, senza lasciarmi finire. «Il passato è passato», tagliò corto. «No, signor Sparkes. Voglio che lei sappia che non nutro alcun malanimo nei suoi confronti», ribattei. «Le attuali indagini non hanno nulla a che fare con quel che è successo in passato.» Quando Sparkes si occupava più direttamente dei propri giornali, mi aveva accusato di razzismo dopo che avevo reso noti alcuni dati statistici sugli omicidi fra i neri, da cui emergeva che molti erano legati alla droga,
alla prostituzione e all'odio. I suoi reporter avevano estrapolato alcune mie dichiarazioni citandole fuori contesto e a un certo punto ero stata addirittura convocata nell'elegante ufficio del proprietario delle testate. Non mi sarei mai più dimenticata i mobili di mogano, i fiori freschi e le lampade coloniali. Sparkes mi aveva ordinato di dimostrare maggiore sensibilità nei confronti degli afroamericani e di ritrattare pubblicamente le mie dichiarazioni bigotte, come se fosse stato in condizione di potermi dare degli ordini. L'uomo con la faccia sudata e gli stivali sporchi di letame che avevo di fronte in quel momento non mi sembrava la stessa persona. Gli tremavano le mani e, nonostante l'aspetto forte e deciso, sembrava sul punto di cedere. «Mi terrà informato sugli sviluppi delle indagini?» mi domandò con gli occhi lucidi, ma a testa alta. «Per quanto è possibile, sì», risposi evasiva. «Voglio solo sapere se è davvero Claire, e se ha sofferto», mi spiegò. «Di solito chi muore in un incendio non soffre perché perde i sensi a causa del monossido di carbonio prima di essere raggiunto dalle fiamme. In genere è una morte tranquilla e indolore.» «Grazie a Dio», sospirò. Alzò gli occhi al cielo. «Oh, Signore ti ringrazio», mormorò. 5 Quella sera tornai a casa in tempo per preparare una cena che non avevo voglia di cucinare. Benton mi aveva lasciato tre messaggi e io non l'avevo richiamato. Mi sentivo strana e oppressa, ma qualcosa mi spinse a lavorare nel giardino fino al crepuscolo, a sradicare erbacce e tagliare rose da mettere in cucina. Ne scelsi alcune rosa e gialle, ancora in boccio. Poi andai a fare una passeggiata, rimpiangendo di non avere un cane. Cominciai a immaginare di prenderne uno e meditai su quale scegliere, se era possibile e come. Mi sarebbe piaciuto prendere un levriero troppo vecchio per correre e destinato a morte certa. Naturalmente con la vita che facevo tenere un animale in casa sarebbe stato poco pratico. Mentre mi perdevo in queste riflessioni, un vicino uscì dalla sua casa di pietra per portare fuori il suo cagnolino bianco. «Buona sera, dottoressa Scarpetta», mi salutò tristemente. «Quanto si
trattiene in città?» «Non lo so», risposi, ancora immersa nelle mie fantasie canine. «Ho sentito dell'incendio.» Era un medico in pensione. Scosse la testa. «Povero Sparkes.» «Lo conosceva?» domandai. «Sì.» «Brutta cosa. Che cane è?» «Mah, un misto», rispose. Proseguì per la sua strada, accendendosi la pipa: evidentemente la moglie non lo lasciava fumare in casa. Passai davanti alle abitazioni dei miei vicini, molto simili anche se tutte un po' diverse, di mattoni e relativamente moderne. Mi sembrava bello che il fiume che scorreva dietro di esse serpeggiasse fra i sassi come faceva duecento anni prima. Richmond non era famosa per i cambiamenti radicali. Arrivai nel punto in cui avevo trovato Wesley quando si era arrabbiato con me e mi fermai accanto allo stesso albero. Era troppo buio perché potessi vedere le aquile o la riva del fiume. Rimasi lì per un po' a guardare le luci delle case nella notte, improvvisamente stanchissima, e a chiedermi se Kenneth Sparkes fosse la vittima o l'assassino. A un certo punto udii dei passi pesanti sulla strada, alle mie spalle. Mi voltai di scatto e afferrai lo spray al peperoncino che tenevo attaccato alle chiavi. Sentii la voce di Marino e subito dopo riconobbi la sua inequivocabile sagoma corpulenta. «Non dovresti venire qui a quest'ora, capo», mi rimproverò. Ero troppo esausta per ribellarmi alle sue intromissioni nella mia vita privata. «Come facevi a sapere che ero qui?» gli chiesi. «Me l'ha detto un tuo vicino.» Non me ne importava niente. «Ho la macchina qui dietro», continuò. «Ti riaccompagno a casa.» «Marino, è possibile che non riesca mai a stare un momento in pace?» Lo dissi senza rancore, perché sapevo che era in buona fede. «Stasera no», rispose. «Devo darti una brutta notizia e preferirei che ti sedessi, prima.» Il mio primo pensiero fu Lucy e mi sentii mancare. Barcollando, gli posai una mano sulla spalla, con la testa che mi scoppiava: temevo da sempre di sentirmi dire che le era successo qualcosa di orribile. Ero impietrita e
non riuscivo più a pensare a niente, come se un vortice mi avesse risucchiato in un luogo buio e spaventoso. Marino mi prese per un braccio perché non cadessi. «Gesù», esclamò. «Vieni in macchina, così ci sediamo.» «No», riuscii a dire con un filo di voce. Dovevo sapere: «Come sta Lucy?». Marino rimase un attimo zitto. Aveva l'aria confusa. «Be', non lo sa ancora, a meno che non l'abbia sentito al telegiornale», rispose. «Che cosa non sa ancora?» domandai. Avevo l'impressione che il sangue stesse tornando a scorrermi nelle vene. «Carrie Grethen è evasa da Kirby», mi comunicò. «Questo pomeriggio sul tardi. Non se ne sono accorti finché non è stata ora di servire la cena al reparto femminile.» Ci incamminammo a passo svelto verso la sua auto. La paura lo innervosiva. «E tu vai in giro a passeggiare nella notte con il tuo mazzo di chiavi in mano», mi sgridò. «Per la miseria, non lo fare mai più, capito? Non abbiamo idea di dove sia quella delinquente, ma è chiaro che, se è fuori, tu sei in pericolo.» «Siamo tutti in pericolo», mormorai salendo in macchina; pensavo a Benton da solo sulla spiaggia. Carrie Grethen lo odiava quasi quanto odiava me, ne ero convinta. Benton aveva tracciato il suo profilo psicologico e diretto le operazioni che avevano portato alla sua cattura e alla morte di Temple Gault. Benton aveva sfruttato tutte le risorse del Bureau per metterla dentro e, fino a quel giorno, era riuscito a tenercela. «Pensi che possa sapere dov'è Benton?» domandai a Marino mentre mi riaccompagnava a casa in macchina. «È solo su quell'isola e probabilmente va a passeggio sulla spiaggia disarmato, non pensando che qualcuno potrebbe dargli la caccia...» «Proprio come qualcuno di mia conoscenza», mi interruppe Marino. «Va bene, riconosco di aver sbagliato.» «Sono certo che Benton ne è al corrente, ma lo avvertirò comunque», promise Marino. «Non vedo come faccia Carrie Grethen a sapere che andate in vacanza a Hilton Head. Non avevate ancora la casa là quando Lucy le raccontava tutti i fatti tuoi.» «Non dire così», esclamai mentre fermava la macchina davanti a casa
mia. «Lucy non si rendeva conto di quel che faceva. Non voleva certo mettermi nei guai.» Feci per aprire la portiera. «Che volesse o non volesse, ti ci ha messo comunque.» Buttò fuori il fumo dal finestrino. «Come ha fatto a scappare?» chiesi. «Kirby è su un'isola e non è certo di facile accesso.» «Non si sa. Circa tre ore fa avrebbe dovuto scendere a cenare con le sue amabili colleghe, quando le guardie si sono accorte che mancava. Non c'era traccia di lei e a un chilometro e mezzo di distanza dal manicomio criminale c'è un vecchio ponte pedonale sull'East River che porta a Harlem.» Gettò la sigaretta sul vialetto di casa mia. «Immaginano che se ne sia andata da quella parte. Ci sono poliziotti dappertutto e hanno mobilitato gli elicotteri per accertarsi che non sia ancora sull'isola. Io però non credo. Secondo me era da un po' che ci pensava e aveva calcolato bene i tempi. Vedrai che si farà viva in qualche modo. Scommettiamo?» Entrai in casa turbata, controllai tutte le porte e inserii l'allarme. Poi feci una cosa che non facevo mai e che mi innervosì fare: presi la mia Glock nove millimetri nel cassetto dello studio e ispezionai gli armadi di tutte le stanze. Mi fermai sulla porta di ogni camera con la pistola in mano e il cuore che batteva all'impazzata. Carrie Grethen era diventata un mostro dotato di poteri soprannaturali. Incominciavo a pensare che potesse superare qualsiasi sistema di sicurezza e sbucarmi davanti quando meno me lo aspettavo. Sembrava però che nella mia casa di pietra a due piani non ci fosse nessuno tranne me; perciò mi portai in camera un bicchiere di borgogna e mi infilai l'accappatoio. Chiamai di nuovo Wesley; sentendo che non rispondeva, la mia agitazione aumentò. Feci un ultimo tentativo verso mezzanotte, ma di nuovo non ottenni risposta. «Santo cielo», esclamai, sola nella mia stanza. La luce soffusa creava ombre fra i comò di antiquariato e i tavoli di rovere che avevo fatto sverniciare perché mi piacevano i difetti e i segni del tempo sul legno. Le tende rosa pallido ondeggiavano alla corrente dell'impianto di condizionamento e ogni movimento, per quanto spiegabilissimo, mi faceva trasalire. Più tempo passava, più mi attanagliava la paura e cercavo di scacciare i ricordi di Carrie Grethen. Non vedevo l'ora che Benton mi richiamasse. Mi dissi che non poteva essere successo niente e che ave-
vo solo bisogno di una bella dormita. Così cercai di leggere le poesie di Seamus Heaney e mi assopii a metà di The Spoonbait. Il telefono squillò alle due e venti del mattino e il libro mi cadde di mano. «Scarpetta», risposi con il cuore in gola. «Kay, sono io», disse Benton. «Scusa se ti chiamo a quest'ora, ma temevo che mi avessi cercato. Non so perché, ma la segreteria era spenta. Sono uscito a cena e poi ho fatto una lunga passeggiata. Ho camminato due ore per pensare. Immagino che tu abbia saputo.» «Sì», risposi, improvvisamente sveglissima. «Stai bene?» mi chiese, perché mi conosceva bene. «Ho controllato ogni angolo della casa prima di mettermi a letto. Ho tirato fuori la pistola e ho aperto tutti gli armadi e scostato la tenda della doccia.» «Me l'aspettavo.» «È come sapere che ti sta per arrivare un pacco bomba.» «No, Kay. Perché non sappiamo né se arriverà né come arriverà. Sarebbe meglio, se lo sapessimo. Ma fa parte del suo gioco lasciarci sulle spine.» «Benton, sai che ce l'ha con te. Non mi piace che te ne stia laggiù da solo.» «Vuoi che torni a casa?» Ci pensai su senza riuscire a decidermi. «Prendo la macchina e arrivo», continuò. «Se è questo che vuoi.» Gli raccontai del cadavere trovato nelle rovine dell'incendio della tenuta di Kenneth Sparkes e tutto il resto, compreso il mio incontro con il magnate a Hootowl Farm. Parlai a lungo e lui mi ascoltò pazientemente. «Il fatto è che sarà terribilmente complicato», conclusi. «È un caso strano, che richiederà molto lavoro. Non ha senso che ti rovini le ferie pure tu. E poi Marino ha ragione: non vedo come Carrie possa sapere della casa di Hilton Head. Probabilmente sei più al sicuro là che qua, Benton.» «Vorrei tanto che si facesse viva», disse in tono duro. «L'aspetterei al varco con la mia Sig Sauer e metterei fine a tutta la faccenda.» Sapevo che voleva ucciderla veramente e anche che sarebbe stato il danno peggiore che potesse fare. Non era da lui ricorrere alla violenza o permettere a un'ombra del male cui dava la caccia di oscurargli la coscienza e il cuore. Mentre lo ascoltavo, mi resi conto che ero anch'io nel suo stesso stato d'animo. «Lo vedi quanto è distruttiva?» esclamai sconvolta. «Siamo qui che par-
liamo di come vorremmo spararle, ammazzarla sulla sedia elettrica o con un'iniezione letale. È riuscita nel suo intento, Benton: è diventata un'ossessione, per noi. Perché devo ammettere di volerla morta più di ogni altra cosa al mondo.» «Penso che dovrei tornare a casa», ripeté. Riattaccammo poco dopo e l'insonnia si dimostrò l'unico nemico contro cui dovetti combattere, quella notte. Mi rubò le poche ore che mi separavano dall'alba e mi perseguitò risvegliandomi da immagini di angoscia e di orrore. Sognai che ero in ritardo per un appuntamento e che rimanevo bloccata nella neve e non potevo usare il telefono. Non riuscivo a trovare risposte nelle autopsie e mi sentivo finita. A un certo punto mi imbattevo in un terribile incidente automobilistico, vedevo i corpi sanguinanti fra le lamiere e non riuscivo a fare niente per loro. Mi girai e rigirai nel letto aggiustandomi cuscini e coperte finché il cielo non assunse un colore azzurrino e le stelle scomparvero. A quel punto mi alzai e preparai il caffè. In macchina accesi la radio e ascoltai ripetutamente i servizi sull'incendio di Warrenton e il cadavere che era stato ritrovato. L'ipotesi più accreditata dai giornalisti era che la vittima fosse il famoso imprenditore. Mi chiesi se Sparkes fosse divertito o meno dalla cosa e anche perché non avesse rilasciato dichiarazioni alla stampa e annunciato al mondo di essere sano e salvo. A quel pensiero, mi assalì nuovamente una ridda di dubbi. La Mustang rossa del dottor Jack Fielding era parcheggiata dietro all'istituto di medicina legale di Jackson Street, fra il Jackson Ward e il Medical College della Virginia Commonwealth University, recentemente ristrutturati. Il nostro era un edificio moderno che, oltre ai vari laboratori, ospitava il Biotech Park. Avevamo cambiato sede soltanto due mesi prima e dovevo ancora abituarmi a vetrate e muri di mattoni collegati da antichi architravi. Era un edificio luminoso, con pavimenti marrone rivestiti di resina epossidica e pareti lavabili. Dovevamo ancora finire di traslocare e di sistemare la roba e io, se da una parte ero contentissima di avere finalmente un obitorio moderno, dall'altra ero distrutta. Lasciai la macchina nel posteggio riservato al capo medico legale in Jackson Street con il sole basso negli occhi e aprii la porta di servizio. I corridoi erano perfettamente puliti e profumavano di deodorante industriale. Appoggiati alle pareti c'erano ancora dei cartoni pieni di pannelli, fili elettrici e latte di pittura. Fielding aveva aperto la cella frigorifera di
acciaio inossidabile, che era più grande di tanti salotti, e le porte della sala autopsie. Mi infilai in tasca le chiavi e il portafoglio e mi avviai verso gli spogliatoi, dove mi tolsi la giacca del tailleur e indossai un camice abbottonato fino al collo. Mi sfilai le ballerine e mi infilai le Reebok nere che chiamavo le mie scarpe da autopsia. Erano macchiate e certamente rappresentavano un rischio biologico, ma sostenevano le mie gambe non più giovani come nessun'altra scarpa sapeva fare e non uscivano mai dall'obitorio. La nuova sala autopsie era molto più ampia di quella di prima ed era anche organizzata in maniera da utilizzare meglio lo spazio. I tavolacci di acciaio non erano più fissati al pavimento e quindi potevano essere messi da parte quando non servivano. I cinque tavoli nuovi erano mobili: si potevano far entrare e uscire dal frigorifero ed essendo dotati di carrelli non c'era più bisogno di spezzarsi la schiena a furia di sollevare e spostare i cadaveri. Inoltre i lavabi a parete erano fatti sia per mancini sia per destrorsi. Avevamo a disposizione anche aspiratori antiostruzione, stazioni per lavaggio oculare e un doppio condotto di scarico collegato all'impianto di ventilazione dell'edificio. Nel complesso mi era stato messo a disposizione quasi tutto quello di cui aveva bisogno l'istituto di medicina legale della Virginia per affrontare il terzo millennio. In realtà, tuttavia, il lavoro cambiava poco. E di certo non migliorava. Ogni anno ci trovavamo a dover esaminare un numero sempre maggiore di lesioni provocate da armi da taglio e da fuoco, le denunce senza senso contro di noi si moltiplicavano e i tribunali si barcamenavano come potevano fra avvocati che mentivano abitualmente e giurati sempre meno coscienziosi. Quando aprii la pesante porta mi investì una corrente d'aria fredda. Passai davanti a una serie di cadaveri, infilati nei sacchi o avvolti in sudari plastificati sanguinolenti da cui sbucavano i piedi rigidi. Se avevano le mani chiuse in un sacchetto di carta marrone, voleva dire che la loro era stata una morte violenta. Nel vedere due sacchi molto più piccoli degli altri, mi vennero in mente il neonato morto improvvisamente e il bambino annegato nella piscina di casa sua. La vittima del rogo di casa Sparkes era avvolta nei teli insieme alle schegge di vetro, come l'avevo lasciata. Trasportai la lettiga sotto la forte lampada fluorescente. Poi mi cambiai di nuovo le scarpe e passai nell'altra ala, dove uffici e sale riunioni ci separavano dai morti. Erano quasi le otto e mezzo e il corridoio era affollato di interni e impiegati che prendevano il caffè. Scambiai i soliti saluti distaccati e mi avviai
verso la porta aperta di Fielding. Bussai una sola volta prima di entrare; Fielding stava parlando al telefono prendendo velocemente appunti. «Vuole ripetere, per favore?» disse con la sua voce forte e brusca, tenendo la cornetta fra la spalla e il mento e passandosi le dita fra i capelli. «L'indirizzo? Mi scusi, il nome dell'agente?» Non mi guardò neppure e continuò a scrivere. «Ha un recapito telefonico?» Lo ripeté per accertarsi di aver scritto giusto. «Ha già un'idea della causa del decesso? D'accordo, d'accordo. Mi ripete il nome della traversa? Va bene. Lei ci sarà? D'accordo, vada pure.» Fielding riattaccò. Aveva l'aria agitata già a quell'ora del mattino. «Che cosa abbiamo?» gli domandai, visto che la giornata si preannunciava intensa. «Sembrerebbe asfissia meccanica. Una donna nera con una storia di alcol e droga. L'hanno trovata semisdraiata sul letto con la testa contro il muro e il collo in una posizione innaturale. Siccome è nuda, conviene che vada a controllare.» «Sì, conviene che qualcuno vada a controllare», concordai. Fielding capì al volo. «Possiamo mandare Levine, se vuoi.» «Buona idea. Sai, intendo cominciare la vittima dell'incendio e gradirei se mi dessi una mano», spiegai. «Perlomeno all'inizio.» «D'accordo.» Fielding spinse da una parte la sedia e si alzò. Aveva un corpo statuario. Indossava un paio di pantaloni beige e una camicia bianca con le maniche arrotolate, Rockport e una cintura di pelle intrecciata intorno alla pancia soda e piatta. Aveva più di quarant'anni ma teneva molto alla forma fisica, che non era certamente peggiorata da quando l'avevo assunto, poco dopo la mia nomina. Era un peccato che non tenesse altrettanto al suo lavoro. Ma era diligente e rispettoso e, per quanto lento e puntiglioso, di solito non dava nulla per scontato e sbagliava di rado. Lo trovavo disponibile, affidabile e gradevole e non l'avrei sostituito con nessun altro. Entrammo nella sala riunioni insieme e io mi sedetti a un'estremità del lungo tavolo lucido. Carte, prospetti, modelli di muscoli e organi e uno scheletro anatomico erano l'unico ornamento della sala, oltre alle fotografie dei capi, tutti maschi, che mi avevano preceduto nella sede precedente. Quella mattina l'interno, un borsista, i miei tre assistenti, il tossicologo e gli amministratori erano tutti presenti. Avevamo una studentessa della
MCV che stava facendo uno stage e un anatomopatologo di Londra che stava girando gli obitori americani per saperne di più su omicidi seriali e ferite da arma da fuoco. «Buongiorno», esordii. «Vediamo che cosa abbiamo e quindi parleremo della vittima dell'incendio.» Fielding spiegò la possibile asfissia meccanica e Jones, amministratore del distretto centrale, cioè dell'ufficio in cui ci trovavamo, passò concisamente in rassegna gli altri casi. C'era un maschio bianco che aveva sparato cinque colpi in testa alla fidanzata prima di farsi saltare il proprio cervello malato. C'erano la morte neonatale improvvisa, il bambino annegato in piscina e un giovane che era andato a schiantarsi contro un albero sulla sua Miata rossa, presumibilmente mentre cercava di togliersi camicia e cravatta per infilarsi una maglietta. «Per la miseria», esclamò la studentessa, che si chiamava Sanford. «E come avete fatto a capirlo?» «Be', aveva la maglietta mezza infilata e la camicia e la cravatta sul sedile del passeggero», spiegò Jones. «Era uscito dal lavoro e aveva un appuntamento con degli amici a un bar. Non è la prima volta che ci troviamo di fronte qualcuno che è andato a sbattere con la macchina mentre si cambiava di abito, si radeva o si truccava.» «È lì che alla voce causa di morte sul certificato verrebbe da scrivere: stupidità», commentò Fielding. «Probabilmente siete già tutti al corrente del fatto che ieri sera Carrie Grethen è fuggita da Kirby», dissi. «Sebbene la cosa non riguardi direttamente il nostro ufficio, è preoccupante per tutti noi.» Cercavo di essere il più obiettiva possibile. «Aspettatevi i giornalisti», continuai. «Hanno già chiamato», mi informò Jones guardandomi da sopra le lenti da presbite. «C'erano cinque messaggi sulla segreteria da ieri sera.» «A proposito di Carrie Grethen?» Volevo esserne certa. «Sì», rispose. «E quattro a proposito del rogo di Warrenton.» «Parliamo anche di questo», dissi. «Per ora il nostro ufficio non rilascerà informazioni né sulla fuga da Kirby né sulla vittima del rogo. Fielding e io saremo di sotto quasi tutto il giorno e preferirei che non ci interrompeste, a meno che non sia assolutamente necessario. E un caso molto difficile.» Guardai i volti intorno al tavolo, seri e pieni di interesse. «In questo momento non sappiamo se si sia trattato di un incidente, di un suicidio o di un omicidio e i resti non sono ancora stati identificati. Tim»,
dissi rivolgendomi al tossicologo, «vorrei i livelli di alcol e monossido di carbonio. È possibile che la donna fosse tossicodipendente, perciò vorrei al più presto una valutazione per oppiacei, anfetamine, metanfetamine, barbiturici, cannabinoidi.» Annuì, prendendo appunti. Mi fermai a dare una scorsa alla rassegna stampa che mi aveva preparato Jones e quindi imboccai il corridoio che portava all'obitorio. Nello spogliatoio delle donne mi tolsi la camicetta e la gonna e presi da un armadietto il dittafono che Lanier aveva progettato appositamente per me. Era sistemato su una cintura da legare in vita sotto il camice blu a maniche lunghe, in maniera che il tasto del microfono non venisse a contatto con le mani sporche di sangue. Fissai il microfono senza fili al colletto, mi allacciai le scarpe da autopsia, misi i copriscarpe sterili, indossai la mascherina e la visiera protettiva. Fielding comparve nella sala delle autopsie nello stesso momento in cui entrai io. «Passiamola ai raggi X», dissi. Portammo il tavolo di acciaio nel corridoio che conduceva alla sala delle radiografie e trasferimmo il corpo con tutto quello che vi era attaccato, sollevandolo per i lembi del lenzuolo, su un tavolo sotto al braccio C del sistema mobile di imaging digitale, ovvero un apparecchio radiografico e un fluoroscopio inseriti in un'unità computerizzata. Dopo aver effettuato le procedure di messa a punto, collegai i cavi di connessione e premetti il tasto di accensione. Sul quadro di controllo si illuminarono alcuni quadranti e una time line. Infilai una videocassetta nel caricatore e schiacciai un pedale per attivare il monitor. «1 grembiuli», dissi a Fielding. Gliene porsi uno di piombo azzurro e me ne allacciai uno sulla schiena. Era pesantissimo e sembrava pieno di sabbia. «Siamo pronti, direi», annunciai premendo un bottone. Muovendo il braccio potevamo esaminare il corpo in tempo reale da diverse angolazioni solo che, a differenza dei normali pazienti d'ospedale, quello che stavamo osservando non respirava, non pulsava e non deglutiva. Le immagini statiche degli organi e delle ossa in bianco e nero sul monitor non rivelavano né proiettili né anomalie. Ruotando ancora il braccio, scoprimmo alcune macchie radioopache che immaginai fossero oggetti metallici rimasti attaccati al cadavere. Con le mani protette dai guanti iniziammo a tastare intorno al corpo, senza distogliere gli occhi dallo schermo. A un certo punto chiusi le dita intorno a due oggetti duri e rigidi. Uno era delle
dimensioni e della forma di una moneta da mezzo dollaro; l'altro, quadrato, leggermente più piccolo. Cominciai a lavarli nel lavandino. «È un pezzo di fibbia da cintura di metallo argentato», dichiarai infilando l'oggetto in una scatola plastificata che marcai con un pennarello. L'altro oggetto fu più facile da identificare. Non ci volle molto, infatti, a capire che era un orologio da polso. Il cinturino era bruciato e il vetro rotto. Quando lo risciacquai, vidi che il quadrante era arancione brillante, con un disegno astratto inciso sopra. «Sembra da uomo», osservò Fielding. «Ci sono donne che portano orologi grandi», dissi. «Io, per esempio. Così vedo meglio.» «Dici che è un orologio sportivo?» «Può darsi.» Ruotammo il braccio continuando a scavare, mentre le radiazioni dal tubo attraversavano il corpo e tutto ciò che c'era rimasto attaccato. Intravidi quello che mi parve un anello sotto la natica destra, ma quando cercai di afferrarlo non lo trovai. Dal momento che il corpo giaceva supino sul pavimento del bagno, la schiena e il posteriore, vestiti compresi, si erano conservati meglio. Infilai la mano sotto i glutei e frugai con le dita nelle tasche posteriori dei jeans, dove trovai mezza carota e un anello che mi parve una vera. In un primo momento mi sembrò di acciaio, poi capii che era di platino. «Sembra da uomo anche l'anello», disse Fielding. «A meno che non avesse dita veramente grandi.» Me lo prese per guardarlo più da vicino. L'odore di carne bruciata in decomposizione era terribile, ma stavamo cominciando a scoprire che cosa poteva aver fatto prima di morire quella donna sconosciuta. C'erano peli scuri e spessi di animale attaccati ai suoi jeans bagnati e luridi e, sebbene non potessi esserne certa, sospettavo che fossero di cavallo. «Non c'è inciso niente», disse Fielding mettendo l'anello in una bustina di plastica. «No», confermai con crescente curiosità. «Mi chiedo perché l'avesse nella tasca posteriore dei pantaloni invece che al dito.» «Bella domanda.» «A meno che non avesse fatto qualcosa per cui era meglio toglierlo», continuò riflettendo ad alta voce. «Tanta gente si toglie gli anelli anche per lavarsi le mani.»
«Magari aveva dato da mangiare ai cavalli» ipotizzai. Raccolsi con le pinze altri peli. «Al puledro nero scampato alla catastrofe...» «Mah», mormorò Fielding dubbioso. «Dici che l'ha fatto uscire, gli ha dato da mangiare qualche carota e non l'ha riportato nella stalla? Così poi, quando è bruciato tutto, il puledro si è salvato?» Mi lanciò un'occhiata dall'altra parte del tavolo. «Dici che si è suicidata ma non è riuscita ad ammazzare il puledro nero? Com'è che si chiama? Windsong?» Ma quelle domande, almeno per il momento, non avevano risposta. Continuammo a radiografare il corpo e i suoi effetti personali per registrare tutto ed esplorare sullo schermo in tempo reale. Trovammo gli occhielli metallici dei jeans e un dispositivo intrauterino, dal quale deducemmo che la donna era sessualmente attiva con uomini. Scoprimmo inoltre una cerniera lampo e un ammasso annerito delle dimensioni di una pallina da baseball che si rivelò essere un braccialetto di acciaio a maglie piccole e un portachiavi d'argento ad anello con tre chiavi di rame. A parte le configurazioni dei seni paranasali, diverse in ogni essere umano come le impronte digitali, e una corona di porcellana all'incisivo centrale superiore destro, non scoprimmo nient'altro che potesse aiutarci nell'identificazione. Era quasi mezzogiorno quando la portammo di nuovo nella sala delle autopsie e attaccammo il tavolo a un lavabo nell'angolo in fondo, un po' in disparte rispetto agli altri lavabi occupati. L'acqua scorreva rumorosamente sull'acciaio inossidabile mentre i medici spostavano scalette, pesavano e sezionavano organi dettando i dati ai loro microfoni, circondati dagli investigatori. Parlavano in maniera brusca e frammentata, con frasi rade e sconnesse come i corpi che stavano sezionando. «Permesso, scusa, devo venire lì.» «Uffa, mi serve una batteria.» «Di che tipo?» «Non lo so. Quella che va in questa macchina fotografica.» «Venti dollari nella tasca anteriore destra.» «Probabilmente non è stata una rapina.» «Per così poco non si muove più nessuno.» «Dottoressa Scarpetta, abbiamo un altro caso. Possibile omicidio», annunciò ad alta voce un interno posando la cornetta di un telefono da maneggiare con le mani pulite.
«Probabilmente dovrà aspettare fino a domani», risposi. Il carico di lavoro stava aumentando. «Abbiamo la pistola dell'omicida che si è poi suicidato», mi comunicò uno degli assistenti. «Scarica?» domandai. «Sì.» Mi avvicinai per accertarmene, perché non volevo dare niente per scontato quando si trattava di armi arrivate insieme con i corpi. Il morto era un uomo grande e grosso, ancora vestito con jeans scoloriti le cui tasche erano state rivoltate dai poliziotti. Aveva le mani chiuse in sacchetti di carta marrone per non disperdere eventuali residui di polvere da sparo. Quando gli misero un blocco di legno sotto la testa, gli colò del sangue dal naso. «Le spiace se mi occupo io della pistola?» chiesi al detective ad alta voce, per farmi sentire nonostante il frastuono di una sega Stryker. «Faccia pure. Ho già rilevato le impronte.» Presi la Smith & Wesson e controllai il caricatore, che era vuoto. Tamponai la ferita da proiettile alla testa con un asciugamano mentre l'inserviente dell'obitorio, Chuck Ruffin, affilava un coltello su una mola. «Vedete questo segno nero e l'impronta della volata?» chiesi. Il detective e l'interno si chinarono a guardare. «L'ha premuta con la mano destra. Questa è l'uscita; da come è colato il sangue si deduce che era sdraiato sul fianco destro.» «Così è stato ritrovato, infatti», confermò il detective mentre la sega ronzava e nell'aria si alzava polvere di osso. «Prendete nota del calibro, della marca e del modello», raccomandai, ritornando alla mia triste occupazione. «Il proiettile era arrotondato o a punta cava?» «Arrotondato. Remington nove millimetri.» Fielding aveva sistemato un altro tavolo vicino a quello del cadavere, l'aveva coperto con un telo e ci aveva messo sopra gli oggetti che avevamo ricuperato. Incominciai a misurare la lunghezza dei femori carbonizzati nella speranza di calcolare l'altezza della donna. Dal ginocchio alle caviglie le gambe non esistevano più, ma i piedi erano stati protetti dagli stivali. Anche avambracci e mani erano completamente bruciati. Raccogliemmo frammenti di stoffa e peli di animali e tracciammo diagrammi prima di intraprendere l'arduo compito di rimuovere i vetri. «Facciamo scorrere l'acqua tiepida», dissi a Fielding. «Per vedere se riusciamo a tirarli via senza lacerare la pelle.»
«Sembra un arrosto attaccato alla pentola.» «Perché fate sempre paragoni con la roba da mangiare?» si lamentò una voce profonda e sicura che riconobbi immediatamente. Teun McGovern, in tenuta da autopsia, si stava avvicinando al nostro tavolo. Dietro lo schermo protettivo vidi il suo sguardo penetrante e, per un attimo, la guardai negli occhi. Non ero per niente sorpresa che l'ATF avesse mandato uno dei suoi a presenziare all'autopsia, ma non mi aspettavo che venisse proprio la McGovern. «Come va a Warrenton?» domandai. «Si continua a lavorare», rispose. «Il corpo di Sparkes non l'abbiamo trovato. Più che naturale, visto che non è morto.» «Interessante», commentò Fielding. La McGovern si fermò a una certa distanza dal tavolo, di fronte a me, e intuii che aveva visto poche autopsie in vita sua. «Che cosa state facendo?» domandò, mentre io prendevo una manichetta. «Facciamo scorrere acqua tiepida fra la pelle e i vetri nella speranza che vengano via senza fare troppo danno», spiegai. «E se non vengono?» «Be', allora è un casino», rispose Fielding. «Usiamo il bisturi», replicai. Ma non fu necessario. Dopo qualche minuto di innaffiamento costante, cominciai a togliere con delicatezza e molto lentamente gli spessi vetri dalla faccia della morta. Quando tiravo, la pelle si allungava e si deformava, rendendo la donna ancora più orribile a vedersi. Fielding e io lavorammo in silenzio per un po', posando le schegge in una vaschetta di plastica. Impiegammo un'oretta e, quando finimmo, l'odore era peggiorato. La morta sembrava più piccola e pietosa e le ferite alla testa ancor più spaventose. «Dio mio», esclamò la McGovern facendo un passo avanti. «Che spettacolo!» La parte inferiore del volto era bruciata fino all'osso e il cranio era a malapena riconoscibile, con la mascella aperta e i denti a pezzi. Anche le orecchie erano bruciate malamente ma, dagli occhi in su, la carne si era conservata talmente bene che si vedeva ancora la peluria bionda all'attaccatura dei capelli. La fronte era intatta, a parte le abrasioni provocate asportando i vetri. Se la donna aveva avuto qualche ruga, ormai non si vedeva più. «Non capisco che cosa sia questa roba», disse Fielding esaminando le tracce di materiale presente nei capelli. «Arriva fino al cuoio capelluto.»
Sembrava carta bruciata, ma in certi punti si era conservato meglio ed era di color rosa shocking. Ne staccai dei frammenti con il bisturi e li posai in una scatola. «Lo mandiamo ai laboratori», dissi alla McGovern. «Certo», replicò lei. I capelli erano lunghi quarantasei centimetri; ne presi un ciuffo per l'esame del DNA, nel caso avessimo trovato un campione ante mortem con cui raffrontarlo. «Se ritenessimo che si tratti di una determinata persona e voi riusciste a procurarvi il suo spazzolino da denti, potremmo confrontare il DNA utilizzando le cellule della mucosa orale. Ma anche una spazzola per capelli andrebbe bene.» Teun ne prese nota. Spostai una lampada sulla zona temporale sinistra e con la lente esaminai attentamente quella che mi era sembrata un'emorragia nei tessuti risparmiati dal fuoco. «Mi pare che qui ci sia una ferita», dissi. «Escludo che sia una lacerazione dovuta al fuoco. Mi pare piuttosto un taglio, e c'è del materiale lucido dentro.» «E possibile che abbia perso i sensi per via del monossido di carbonio e cadendo abbia battuto la testa?» chiese Teun. Era un'ipotesi che avevano già avanzato altri. «Sarebbe dovuta cadere su qualcosa di molto appuntito», dissi scattando delle fotografie. «Posso dare un'occhiata?» domandò Fielding. Gli porsi la lente. «I margini non sono né laceri né frastagliati», fece notare. «Infatti, non è una lacerazione», concordai. «Sembra piuttosto un'incisione provocata da uno strumento affilato.» Mi restituì la lente e io presi le pinze per asportare con delicatezza il materiale lucido dalla ferita. Lo posai su una pezzuola di cotone. Su un tavolo lì accanto c'era un microscopio. Misi il cotone sul piatto e regolai il condensatore in maniera da illuminarlo. Mi avvicinai all'oculare e misi a fuoco. Nel cerchio luminoso notai dei segmenti argentati dalla superficie striata e appiattita che hanno per esempio i trucioli metallici di un tornio. Sistemai la Polaroid MicroCam sul microscopio e scattai una serie di istantanee a colori ad alta definizione. «Guardate», dissi. Fielding e la McGovern si chinarono sul microscopio.
«Secondo voi che cosa sono?» domandai. Controllai che le fotografie fossero venute bene. «A me ricordano le decorazioni dell'albero di Natale quando diventano vecchie e raggrinziscono», disse Fielding. «Vengono dallo strumento con cui è stato praticato il taglio», fu l'unico commento di Teun McGovern. «Credo anch'io», dissi. Tolsi la pezzuola dal piatto e misi le scagliette grigie fra due batuffoli di cotone, che chiusi in una scatoletta metallica. «Anche questo va al laboratorio», comunicai alla McGovern. «Ci vorrà molto?» chiese lei. «Perché, se ci fossero problemi, potremmo mandarle ai nostri laboratori a Rockville.» «Non ci saranno problemi», risposi. Guardai Fielding e dissi: «Adesso posso continuare da sola, penso». «Va bene», rispose. «Comincio con il prossimo.» Sezionai il collo per cercare eventuali traumi a organi e muscoli, a cominciare dalla lingua, che rimossi sotto gli occhi della McGovern, la quale rimase a guardare stoicamente. Era un procedimento alquanto brutto a vedersi, che divideva i deboli dai forti. «Qui non c'è niente», dissi sciacquando la lingua e asciugandola con una salvietta. «Non ci sono le morsicature tipiche di una crisi convulsiva, né altre ferite.» Controllai le pareti lisce e lucide delle vie respiratorie senza trovare fuliggine; questo significava che quando il calore e le fiamme l'avevano raggiunta, la donna non respirava già più. Trovai anche del sangue, e non era un buon segno. «Ha subito un trauma prima di morire», decretai. «Non è possibile che le sia caduto qualcosa addosso quando era già morta?» domandò la McGovern. «No.» Presi nota della ferita su un diagramma e dettai i dati al microfono. «La presenza di sangue nelle vie respiratorie indica che è stato aspirato», spiegai. «Cioè che la vittima respirava ancora quando ha subito il trauma.» «Che tipo di trauma?» domandò allora Teun. «Una ferita penetrante. L'hanno pugnalata o le hanno tagliato la gola. Non vedo altri segni di trauma alla base del cranio, nei polmoni o al collo; non ci sono contusioni né fratture. Lo ioide è intatto e c'è fusione fra il
corno superiore e il corpo, il che potrebbe voler dire che ha più di venti anni e che con tutta probabilità non è stata strangolata con le mani o con un laccio.» Ripresi a parlare al microfono. «La pelle sotto il mento e il muscolo superficiale sono completamente bruciati», dettai. «Sangue coagulato per il calore nella trachea distale e nei bronchi primari, secondari e terziari. Emoaspirazione e presenza di sangue nell'esofago.» Praticai l'incisione a Y per aprire quel cadavere rinsecchito e straziato e da quel momento l'autopsia fu un'operazione di routine. Sebbene gli organi fossero rovinati dal calore, rientravano nella norma e gli organi riproduttivi confermarono che il soggetto era di sesso femminile. C'era sangue anche nello stomaco, per il resto vuoto e tubolare, a indicare che la donna non mangiava molto. Ma non trovai patologie di sorta, né lesioni recenti o pregresse. Siccome non potevo misurare la statura della vittima, decisi di usare le tabelle della formula di regressione secondo Trotter e Gleser per fare un rapporto fra lunghezza del femore e altezza complessiva. Mi sedetti a una scrivania e sfogliai il volume di Osteologia umana di Bass finché non trovai la tabella relativa alle femmine bianche americane. Sulla base di un femore di 50,2 centimetri calcolai che doveva essere alta più o meno un metro e settantotto centimetri. Stabilirne il peso era più difficile, perché non esisteva tabella, carta o metodo scientifico per calcolarlo. Spesso stimavamo un peso indicativo sulla base della taglia dei vestiti ritrovati addosso alla vittima; in quel caso, visto che la donna portava jeans taglia quarantadue, calcolai che doveva pesare fra i cinquantaquattro e i cinquantotto chilogrammi. «In altre parole», dissi alla McGovern, «era alta e snella. Aveva lunghi capelli biondi, era con tutta probabilità sessualmente attiva, aveva avuto a che fare con i cavalli ed era già morta nella casa di Sparkes prima che le fiamme la raggiungessero. Sappiamo anche che prima di morire subì un trauma importante alla parte superiore del collo e ricevette una ferita da taglio sulla tempia sinistra.» Indicai il punto. «Come, non saprei dire.» Mi alzai dalla sedia e raccolsi delle carte mentre la McGovern mi guardava pensierosa. Si tolse la mascherina e lo schermo protettivo e si slacciò il camice. «Voi siete in grado di accertare se faceva uso di droghe?» mi chiese mentre il telefono squillava.
«Il laboratorio di tossicologia ci dirà se ne aveva fatto uso recente», risposi. «Potrebbero esserci dei cristalli nei polmoni o granulomi da corpi estranei dovuti a sostanze da taglio come talco e fibre provenienti dal cotone usato per filtrarne le impurità. Purtroppo le zone dove è più probabile trovare segni di punture non esistono più.» «E dal cervello? Un uso cronico di sostanze stupefacenti non provoca danni visibili? Per esempio, se avesse avuto problemi mentali rilevanti, fosse stata psicotica o roba del genere, si vedrebbe? Sparkes ha accennato a dei disturbi psichici», disse la McGovern. «Per esempio, saresti in grado di dire se era depressa o maniaco-depressiva?» Avevo già aperto il cranio e il cervello, gommoso e rinsecchito per effetto del calore, era ancora posato sul tagliere, sezionato. «In primo luogo», risposi, «l'esame del cervello è inutile perché è comunque troppo danneggiato. Anche se fosse in condizioni migliori, però, cercare un riscontro morfologico a un determinato disturbo psichiatrico nella maggior parte dei casi è possibile solo in teoria. Un ampliamento dei solchi, per esempio, o una riduzione della materia grigia dovuta ad atrofia potrebbero essere indicativi se si conoscesse il peso originario del cervello prima della malattia. A quel punto si potrebbe dire che, visto che il peso del cervello è diminuito di un etto, probabilmente la vittima soffriva di qualche disturbo mentale. A meno che non si trovi una lesione o una vecchia ferita alla testa che possa indicare un problema, la risposta è no. Non si può.» La McGovern si zittì. Si era accorta della mia freddezza nei suoi confronti. Ero formale e senza un'ombra di cordialità e non facevo niente per evitare di essere sgarbata. Mi voltai a cercare Ruffin. Era vicino al primo lavabo e stava suturando un'incisione a Y con grossi punti. Gli andai incontro. Non aveva ancora trent'anni, ma si era fatto una certa esperienza in ospedale e in un'impresa di pompe funebri. «Chuck, appena puoi, finisci qui e rimettila nel frigo», gli chiesi. «Sì, dottoressa.» Si rimise al lavoro per finire quel che stava facendo e io mi sfilai i guanti e li gettai insieme con la mascherina in uno dei tanti contenitori rossi per rifiuti a rischio biologico sparsi per la sala autopsie. «Andiamo nel mio ufficio a bere un caffè», proposi a Teun McGovern cercando di essere più educata. «Così finiamo il discorso.» Nello spogliatoio ci lavammo con sapone antibatterico e io mi vestii. Dovevamo parlare di lavoro, ma ero anche curiosa di conoscerla meglio.
«Tornando alla possibilità che avesse dei disturbi mentali causati dall'uso di sostanze stupefacenti», riprese lei nel corridoio, «è vero che molte di queste persone disturbate hanno tendenze autolesioniste?» «Chi più chi meno.» «Muoiono in qualche incidente oppure si suicidano. E questo ci riporta alla domanda principale», disse. «Che cosa è successo a Warrenton? È possibile che fosse fuori di testa e si sia ammazzata?» chiese la McGovern. «So solo che le ferite sono precedenti la morte», ripetei. «Però potrebbe essersele provocata da sola, se fosse stata su di giri», insistette. «Sappiamo che cosa sono capaci di farsi certi psicotici.» Era vero. Nella mia carriera avevo avuto a che fare con gente che si era tagliata la gola, pugnalata al petto o amputata gambe o braccia da sola; avevo visto persone che si erano sparate nei genitali o si erano buttate in un fiume per annegarsi; per non parlare di quelli che si erano gettati dalla finestra o autoimmolati. L'elenco delle cose terribili che certa gente era capace di farsi era troppo lungo e, ogni volta che pensavo di aver visto il peggio, mi toccava assistere a qualcosa di ancora più agghiacciante. Quando infilai la chiave nella porta del mio ufficio il telefono stava suonando. Risposi appena in tempo. «Scarpetta.» «Ho i primi risultati», mi annunciò Tim Cooper, il tossicologo. «Etanolo, metanolo, alcol isopropilico e acetone sono zero. Il monossido di carbonio è sotto il sette per cento. Agli altri stiamo ancora lavorando.» «Grazie. Che cosa farei senza di te?» Lanciai un'occhiata a Teun e le riferii quel che mi aveva appena detto Cooper. «È morta prima dell'incendio», spiegai. «Per dissanguamento e asfissia dovuta all'aspirazione di sangue in seguito a un forte trauma al collo. Per conoscere i particolari, bisognerà aspettare il corso delle indagini, ma credo che il caso vada trattato come omicidio. Nel frattempo, bisogna identificarla. Vedrò di fare il possibile.» «Dovrei pensare che questa donna abbia dato fuoco alla casa di Sparkes e si sia tagliata la gola prima che le fiamme la inghiottissero?» sbottò irritata. Non risposi e misi il caffè nella caffettiera elettrica che tenevo su un ripiano. «Non ti sembra un po' incredibile?» continuò. Versai l'acqua e schiacciai un bottone.
«Kay, nessuno vuole sentir parlare di omicidio», disse. «Per via di Kenneth Sparkes e di ciò che questo significa. Spero che tu ti renda conto di quello a cui vai incontro.» «Non solo io. Anche l'ATF», precisai, sedendomi dall'altra parte della mia scrivania, preoccupantemente piena di carte da firmare. «Senti, a me non interessa che ci sia di mezzo Sparkes», replicò. «Io cerco sempre di accertare le responsabilità degli incidenti e di arrestare i colpevoli, se ci sono. Le grane politiche non riguardano me.» Ma io non stavo pensando né ai giornalisti né a Sparkes. Stavo riflettendo che quel caso mi turbava a un livello più profondo e non ne capivo il motivo. «Quanto rimarrete a Warrenton?» domandai. «Ancora uno o due giorni al massimo», mi rispose. «Sparkes ha fatto un elenco di tutto quello che aveva in casa, per noi e per la compagnia di assicurazioni, e fra mobili di antiquariato, parquet e rivestimenti in legno, il carico d'incendio era enorme.» «E nel bagno principale?» chiesi. «Supponendo che il punto di origine fosse quello.» Teun esitò. «Il problema è proprio questo.» «Infatti. Se non sono stati usati liquidi infiammabili, perlomeno non distillati del petrolio, come può essere successo?» «Ci stiamo scervellando per capirlo», rispose frustrata. «Se si calcola la quantità di energia necessaria in quella stanza per generare un flash-over, il carico d'incendio non è sufficiente. Secondo Sparkes, le uniche cose che potevano bruciare, là dentro, erano un tappetino e gli asciugamani. Armadietti e rivestimenti erano tutti di acciaio satinato, fatti su misura. La doccia era a cabina e le tende alla finestra erano sottilissime.» Nel silenzio che seguì si sentì gorgogliare la caffettiera. «In totale che cosa abbiamo?» continuò. «Complessivamente cinque, seicento kilowatt per una stanza di tre metri per quattro? Chiaramente bisogna tenere conto di altre variabili. Per esempio la corrente d'aria che entrava dalla porta...» «E il resto della casa? Hai appena detto che il carico d'incendio era altissimo...» «Ci stiamo concentrando su una stanza, Kay. La stanza in cui è scoppiato l'incendio. Senza un innesco, il carico d'incendio non conta.» «Capisco.» «So che le fiamme sono arrivate al soffitto del bagno e so quanto dove-
vano essere alte quelle fiamme e quanti kilowatt di energia ci volevano per un flash-over. E so anche che un tappetino, due tendine e qualche asciugamano non potevano assolutamente provocare un incendio così.» Sapevo che le sue equazioni erano scientificamente rigorose e non dubitavo nulla di quanto diceva. Ma mi sembrava poco importante. Il mio problema restava immutato. Secondo me quello era un caso di omicidio e, quando era scoppiato l'incendio, la vittima si trovava nel bagno principale, con i suoi pavimenti di marmo, grandi specchi e armadietti in acciaio, cioè tutta roba che non prende fuoco. Per quel che ne sapevo io, la donna poteva essere stata nella vasca. «E il lucernario aperto?» domandai alla McGovern. «Non può avere avuto anch'esso un ruolo?» «Sì. Ancora una volta, perché le fiamme hanno raggiunto un'altezza tale da causare la rottura del vetro; a quel punto il lucernario deve aver agito da canna fumaria. Ogni incendio è diverso dagli altri, ma certe dinamiche si ripetono perché appartengono alle leggi della fisica.» «Capisco.» «Ci sono quattro stadi», spiegò, come se fossi completamente ignorante in materia. «Il primo è lo stadio covante, quando dal fuoco si alzano una colonna di gas infiammabili, fiamme e fumo. Diciamo che questo si sarebbe verificato se a prendere fuoco fosse stato il tappetino del bagno. Quanto più i gas salgono al di sopra delle fiamme, tanto più si raffreddano e si addensano; si mescolano con i sottoprodotti della combustione e cominciano a scendere. Poi il ciclo si ripete creando un turbinio di fumo che si espande orizzontalmente. Lo strato di fumo caldo continua a scendere finché non trova uno sfiato, in questo caso probabilmente la porta del bagno. A quel punto il fumo comincia a uscire dall'apertura lasciando entrare aria fresca. Se l'ossigeno è in quantità sufficiente, la temperatura in corrispondenza del soffitto supera i seicento gradi centigradi e si verifica il flash-over, cioè un incendio generalizzato.» «Nel bagno principale», dissi. «Che si estende poi agli altri vani pieni di ossigeno, dove il carico d'incendio è sufficiente a radere al suolo l'intero edificio», replicò. «Non è la propagazione dell'incendio che mi preoccupa, quanto il suo innesco. Come ho già detto, il tappetino e le tendine non bastavano a sviluppare un rogo di quelle dimensioni. A meno che non ci fosse dell'altro.» «Magari c'era», dissi, alzandomi per versare il caffè. «Come lo prendi?» «Con latte e zucchero.»
Mi seguì con lo sguardo. «Niente robaccia artificiale, per favore.» Posai le tazze sulla scrivania, mentre la McGovern si guardava intorno nel mio ufficio nuovo. Certamente era più luminoso e più moderno di quello che occupavo nella sede vecchia all'angolo fra la Quattordicesima e Franklin Street, ma lo spazio mi mancava comunque. Il peggio era che mi era stato concesso l'onore di un ufficio con vista, nonostante tutti sappiano che a un medico servono pareti a cui appoggiare delle belle librerie, non grandi finestre con vetri antiproiettile su un parcheggio e la Petersburg Turnpike. Perciò centinaia di tomi di medicina e di legge, riviste scientifiche e pubblicazioni varie erano accatastate sugli scaffali, in certi casi in doppia fila. Capitava abbastanza di frequente che Rose, la mia segretaria, mi sentisse imprecare perché non riuscivo a trovare un libro che mi serviva. «Teun», le dissi bevendo un sorso di caffè, «vorrei approfittare dell'occasione per ringraziarti di quello che stai facendo per Lucy.» «Non sto facendo proprio niente. Lucy se la cava benissimo da sola.» «Non è del tutto vero», rimarcai. Sorrisi, cercando di essere cortese, di nascondere l'angoscia e la gelosia che mi attanagliavano. «Però hai ragione», dissi. «Se la sta cavando bene. Sono certa che a Philadelphia si troverà benissimo.» Teun McGovern recepiva ogni mio segnale e mi resi conto che capiva più di quello che avrei voluto. «Kay, per Lucy non sarà tacile», dichiarò. «Indipendentemente da quel che farò io.» Girò il caffè nella tazza, come preparandosi a degustare un vino d'annata. «Sono il suo supervisore, non sua madre», mi fece notare. Quella considerazione mi irritò e lo dimostrai quando presi il telefono e chiesi a Rose di non passarmi telefonate. Poi mi alzai dalla scrivania e chiusi la porta. «Spero proprio che non abbia deciso di venire a lavorare con te perché ha bisogno di una madre», replicai gelida tornando alla scrivania che si ergeva come una barriera fra di noi. «Quel che conta è che Lucy è un'ottima professionista.» La McGovern alzò la mano per fermarmi. «Certo», protestò. «Una vera professionista. È solo che non prometto
niente. È maggiorenne e vaccinata, ma la sua è una strada in salita. Ci sarà senz'altro qualcuno che userà contro di lei il suo passato nell'FBI, dicendo che ha un atteggiamento sbagliato e non ha mai fatto esperienza sul campo.» «Pregiudizi che non reggeranno, di fronte alla sua competenza», dissi, rendendomi conto che parlare di mia nipote in termini obiettivi con Teun mi riusciva difficile. «Basta che la vedano portare l'elicottero, programmare robot per disinnescare ordigni esplosivi e fare a mente calcoli astnisi, che noi non riusciamo nemmeno a fare con la calcolatrice.» Teun si riferiva alle equazioni matematiche e alle valutazioni scientifiche usate per calcolare le caratteristiche fisiche e chimiche di un incendio sulla base delle osservazioni degli investigatori o delle dichiarazioni dei testimoni. Non ero sicura che Lucy potesse farsi molti amici facendo a mente calcoli astnisi. «Teun», le dissi abbassando la voce. «Lucy è diversa e questo non sempre le giova. Per certi versi avere un'intelligenza superiore è uno svantaggio quanto essere ritardato.» «Hai ragione. Lo so benissimo.» «Sono contenta che tu capisca», dissi. Era come se le stessi passando il testimone: ormai a me sarebbe stato difficile seguire Lucy e aiutarla a risolvere i suoi problemi. «Purché tu capisca che è stata e continuerà a essere trattata come tutti gli altri. Comprese le reazioni degli altri agenti al suo passato, alle voci sui suoi rapporti con l'FBI e la sua vita personale», disse con grande sincerità. La fissai a lungo, severa, chiedendomi quanto sapesse in realtà a proposito di Lucy. A meno che non le avesse raccontato tutto qualcuno del Bureau, non vedevo come potesse essere al corrente della relazione che mia nipote aveva avuto con Carrie Grethen e conoscere le implicazioni del processo a suo carico, sempre che venisse di nuovo catturata. Il solo pensiero di quel che sarebbe potuto succedere rabbuiò una giornata già cupa e Teun si sentì in dovere di riempire il mio silenzio turbato. «Ho un figlio», mi confidò a voce bassa, gli occhi fissi sulla tazza di caffè. «E so che cosa vuol dire quando crescono e di colpo se ne vanno, non trovano più il tempo di venirti a trovare o di farti una telefonata.» «Lucy è cresciuta da un pezzo», risposi in fretta, perché non volevo che mi compatisse. «E non ha mai vissuto con me, perlomeno non fissa. Da un certo punto di vista, è sempre stata lontana.»
Teun McGovern si alzò dalla sedia con un sorriso. «Sarà meglio che vada a controllare la squadra», dise congedandosi. 6 Quel pomerìggio alle quattro, quando entrai a cercare Chuck, la sala autopsie era ancora in piena attività. Lo trovai che lavorava al cadavere della donna bruciata insieme con due interni, scarnificandolo il meglio possibile con delle spatole di plastica per evitare di intaccare le ossa. Sudato sotto il berretto e la maschera, Chuck stava rimuovendo i tessuti dal cranio con gli occhi castani un po' sbarrati dietro la visiera. Era alto e magro, con i capelli corti e biondastri che gli scappavano sempre da tutte le parti nonostante cercasse di domarli con il gel. Era carino, di una bellezza un po' adolescenziale, e dopo un anno aveva ancora una gran paura di me. «Chuck?» ripetei, osservando una delle operazioni della medicina legale più brutte a vedersi. «Sì, dottoressa?» Si interruppe e mi guardò. Il fetore stava aumentando di minuto in minuto perché fuori del frigo la carne continuava a decomporsi. Dovevo dedicarmi a un compito che non mi allettava affatto. «Volevo essere sicura di una cosa», dissi. Ruffin era talmente alto che tendeva a stare gobbo e ad allungare il collo come una tartaruga per guardare in faccia il suo interlocutore. «I nostri vecchi pentoloni non ci hanno seguito, nel trasloco?» «Credo che qualcuno li abbia buttati via», spiegò. «A ragione, suppongo», replicai. «Il che significa che tu e io dobbiamo andare a fare una commissione.» «Adesso?» «Sì, adesso.» Non perse tempo ed entrò nello spogliatoio degli uomini, dove si tolse i vestiti sporchi e puzzolenti e si fece una doccia veloce, lavandosi rapidamente i capelli. Era ancora sudato e aveva la faccia rossa, quando ci incontrammo nel corridoio e io gli porsi un mazzo di chiavi. Salii sulla Tahoe rossa dell'istituto posteggiata nel garage, lasciando Ruffin alla guida. «Andiamo da Cole's, forniture per ristoranti», gli annunciai appena mise in moto. «È in Broad Street, all'altezza di Parham. Prendi la 64 e esci a West Broad. Da lì ti guido io.»
Ruffin premette un pulsante sul telecomando e la saracinesca cominciò ad alzarsi, lasciando entrare un sole di cui non mi ero neanche accorta, quel giorno. Era l'inizio dell'ora di punta e nel giro di mezz'ora il traffico sarebbe stato impossibile. Ruffin guidava come una vecchietta, con gli occhiali da sole e la schiena curva, procedendo a una decina di chilometri sotto il limite. «Vuoi accelerare un po'?» gli chiesi. «Chiude alle cinque, quindi forse ci conviene sbrigarci.» Accelerò di scatto e cercò nel portacenere gli spiccioli per il pedaggio. «Posso farle una domanda, dottoressa?» mi chiese. «Certo.» «E una cosa un po' strana.» Guardò nello specchietto retrovisore. «Prego.» «Sa, ne ho viste di cotte e di crude, tra l'ospedale e l'impresa di pompe funebri», cominciò un po' agitato. «Ormai non mi fa più effetto niente.» Rallentò al casello e infilò la moneta nella macchinetta. La sbarra a righe bianche e rosse si alzò per lasciarci passare, mentre le macchine ci sfrecciavano davanti. Ruffin chiuse il finestrino. «Be', il cadavere a cui stiamo lavorando è un caso particolare», dissi, credendo che si stesse riferendo a questo. Ma non era di quello che Ruffin voleva parlarmi. «Vede, quasi tutte le mattine io arrivo prima di lei», disse, con gli occhi incollati alla strada. «Perciò sono io che rispondo al telefono e preparo tutto. Anche perché non c'è nessun altro.» Annuii, senza avere idea di dove volesse andare a parare. «Be', più o meno due mesi fa - eravamo ancora nella vecchia sede - ha cominciato a squillare il telefono alle sei e mezzo del mattino, appena entravo. Andavo a rispondere e non c'era nessuno.» «Quante volte è successo?» mi informai. «All'inarca tre volte alla settimana, ma in certi periodi tutti i giorni. E continua.» La cosa cominciava a interessarmi. «Anche dopo che ci siamo trasferiti?» chiesi per sicurezza. «Sì. Be', il numero non è cambiato», mi rammentò. «Comunque sì, continua. Anzi, è successo anche stamattina e sta incominciando a darmi fastidio. Mi chiedevo se non fosse il caso di cercare di scoprire chi è che chiama.»
«Dimmi che cosa succede quando tiri su il telefono», chiesi mentre Ruffin procedeva sull'interstatale rispettando puntigliosamente i limiti di velocità. «lo rispondo: "Obitorio"», spiegò. «Dall'altra parte stanno muti: silenzio, come se fosse caduta la linea. Allora io insisto un po'. "Pronto? Pronto?" e poi riattacco. Però lo so, che di là c'è qualcuno. Lo sento.» «Perché non me l'hai detto prima?» «Non volevo che pensasse che ero esagerato. O che mi lasciavo prendere dal panico, perché effettivamente al mattino, quando è ancora buio e non c'è un'anima in giro, l'obitorio non è un gran bel posto.» «Dunque è cominciato due mesi fa?» «Più o meno», rispose. «Le prime volte non ci ho fatto caso, sa com'è.» Ero seccata che avesse aspettato tanto a informarmi, ma brontolare, ormai, non sarebbe servito a niente. «Ne parlerò al capitano Marino», promisi. «Nel frattempo, tu dimmi se succede di nuovo, okay?» Ruffin assentì, stringendo il volante fino a farsi venire le nocche bianche. «È dopo il prossimo semaforo. Un palazzo grande, beige, sulla sinistra. Appena passato JoPa's.» Cole's stava per chiudere e c'erano soltanto altre due automobili nel parcheggio. Ruffin e io scendemmo ed entrammo nel grande negozio con l'aria condizionata al massimo e scaffali di metallo alti fino al soffitto. C'era tutto quello che poteva servire alla cucina di un ristorante: mestoli giganteschi, cucchiai, banconi termici per tavole calde, caffettiere e frullatori industriali. Ma a noi interessavano le pentole e guardandomi in giro individuai lo scaffale giusto in fondo, vicino ai misurini e alle padelle elettriche. Avevo appena incominciato a controllare i vari pentoloni quando si materializzò di colpo un commesso calvo e con la pancia. Sull'avambraccio destro aveva un tatuaggio con alcune donne nude che giocavano a carte. «Desidera?» domandò a Ruffin. «Ci serve la pentola più grossa che avete», risposi io. «La più grande è da cinquanta litri.» Prese una pentola mostruosa da uno scaffale troppo alto perché io potessi arrivarci e la porse a Ruffin. «Mi serve anche il coperchio», dissi. «Quello dobbiamo ordinarlo.» «Avete anche qualcosa di profondo e rettangolare?» chiesi, pensando al-
le ossa più lunghe. «Da venticinque.» Si allungò e tirò rumorosamente fuori da un altro scaffale una pentola che probabilmente era stata pensata per quantità industriali di purè, verdure o frutta cotta. «Ha anche il coperchio, per questa?» «Sì.» Fece sbattere diversi coperchi uno contro l'altro, prima di riuscire a prendere quello della misura giusta. «Questo è il becco per il mestolo. Vorrete anche quello, immagino.» «No, grazie», risposi. «Ci basta un cucchiaio abbastanza lungo per mescolare. Di plastica o di legno, non importa. E dei guanti che resistano bene al calore. Due paia. Nient'altro?» Ci pensai e guardai Ruffin. «Forse dovremmo prendere anche un tegame da venticinque, per i lavori più piccoli.» «Buona idea», osservò lui. «Quella grande, piena d'acqua, diventerà pesantissima. E non è il caso di usarla, se va bene anche qualcosa di più piccolo. Questa volta però ci vorrà quella più grande, non crede?» Il commesso era confuso dalla nostra misteriosa conversazione. «Se mi dite che cosa pensate di cuocerci, forse posso consigliarvi meglio», si offrì, sempre rivolgendosi a Ruffin. «Diverse cose», risposi. «Dobbiamo bollirle.» «Capisco», disse, anche se non aveva la minima idea. «Be', vi serve altro?» «No, direi che così basta», replicai con un sorriso. Alla cassa ci consegnò uno scontrino da centosettantasette dollari di attrezzature per ristoranti. Presi il portafoglio e gli porsi la mia MasterCard. «Fate sconti agli statali?» domandai, mentre prendeva la carta di credito. «No», rispose grattandosi il mento mentre studiava la carta. «Il suo nome non mi è nuovo.» Mi guardò con sospetto. «Ah, già!» Fece schioccare le dita. «È la signora che qualche anno fa si è candidata alle elezioni! Cosa voleva diventare, senatore o vicegovernatore?» «Si confonde», risposi. «Io cerco di stare fuori dalla politica.» «Anch'io», fece lui ad alta voce, mentre io e Ruffin trasportavamo la
merce acquistata verso la porta. «I politici sono tutti dei ladri, ecco che cosa sono!» Quando tornammo all'obitorio, diedi a Ruffin istruzione di togliere dal frigorifero i resti della vittima dell'incendio e portarli nella sala di decomposizione insieme con i pentoloni. Controllai i messaggi, perlopiù lasciati dai giornalisti, e mi resi conto che mi stavo tormentando i capelli quando Rose apparve sulla porta che divideva il mio ufficio dal suo. «Brutta giornata?» mi chiese. «Non peggio del solito.» «Vuoi una tazza di tè alla cannella?» «No, grazie», risposi. Rose mi posò sulla scrivania una pila di certificati di morte, che si aggiungevano alle montagne di documenti che dovevo sigiare o firmare. Quel giorno indossava un elegante tailleur pantaloni blu con una camicia rossa e le sue solite scarpe allacciate, nere. Rose aveva superato l'età della pensione e, sebbene dal bel viso sempre ben truccato non si vedesse, i capelli erano più fini di un tempo e completamente bianchi e l'artrite le aveva rovinato le mani, la schiena e le anche, rendendole sempre più difficile stare seduta alla scrivania e occuparsi di me come faceva un tempo. «Sono quasi le sei», mi ricordò con dolcezza. Alzai gli occhi verso l'orologio e cominciai a firmare le carte. «Ho una cena alla chiesa», mi informò diplomatica. «Interessante», replicai, aggrottando la fronte e leggendo velocemente i documenti. «Maledizione, quante volte devo dire a Carmichael di non mettere arresto cardiaco come causa di morte? Per l'amor di Dio, moriamo tutti di arresto cardiaco. E continua a scrivere anche arresto respiratorio, nonostante gliel'abbia corretto un milione di volte.» Sospirai seccata. «Da quanti anni è il medico legale della contea di Halifax?» continuai. «Da venticinque, se non di più?» «Non ti dimenticare che è un ostetrico. E che ha una certa età», disse Rose. «È un brav'uomo, ma ormai certe cose non le impara più. Pensa che batte ancora a macchina i referti su una Rovai manuale. Ti dicevo della cena perché, sai, dovrei essere là tra dieci minuti.» Mi guardò da dietro le lenti da presbite. «Naturalmente, se hai bisogno, posso rimanere», aggiunse. «Io ho da fare», risposi. «Ma non voglio impedire di andare in chiesa né
a te né a nessun altro. Sono già abbastanza nei guai con Dio così.» «Allora arnvederci», si congedò Rose. «Le trascrizioni sono nella cassetta. Ci vediamo domattina.» Quando i suoi passi nel corridoio furono svaniti, rimasi avvolta in un silenzio rotto soltanto dal fruscio delle carte che spostavo sulla mia scrivania. Pensai a Benton, ma mi trattenni dal chiamarlo: non ero ancora pronta per rilassarmi, o forse non volevo ritornare a sentirmi umana, perché non ci si può sentire una persona normale, dotata di emozioni normali, quando si sta per far bollire un cadavere in un pentolone. Alle sette passate imboccai il corridoio che portava alla sala di decomposizione, non lontana dalla cella frigorifera. Aprii la porta ed entrai in quella che era una piccola sala da autopsie con un freezer e uno speciale impianto di ventilazione. Il cadavere adagiato su un tavolo mobile era coperto da un telo e il pentolone nuovo pieno di acqua era su un fornello elettrico sotto la cappa. Mi misi la mascherina e i guanti e abbassai la fiamma per non danneggiare le ossa. Versai nell'acqua due cucchiai di detersivo per bucato e una tazza di candeggina per accelerare il distacco delle membrane fibrose, delle cartilagini e del grasso. Aprii il telo mettendo a nudo ossa da cui era stata rimossa la maggior parte dei tessuti, le estremità orribilmente troncate, come fiammiferi bruciati. Posai delicatamente nella pentola i femori e le tibie, quindi il bacino e la scatola cranica. Seguirono le vertebre e le costole, mentre l'acqua si scaldava diffondendo un odore acre. Volevo esaminare bene le ossa nel caso mi aiutassero a scoprire qualcosa, e quello era l'unico modo per pulirle. Rimasi nella sala per un po' e mi assopii sulla sedia, mentre la cappa aspirava i fumi. Ero stanca ed emotivamente provata. Mi sentivo sola. L'acqua si scaldava e quel che restava di una donna che a mio parere era stata uccisa bolliva in una pentola, ulteriore umiliazione e affronto alla persona che era stata. «Oh, Signore», esclamai, come se il Signore potesse sentirmi. «Abbi pietà di lei, chiunque fosse.» Era duro pensare di finire così, un mucchio di ossa in un pentolone d'acqua bollente e, più ci pensavo, più mi deprimevo. Quella donna aveva avuto una sua vita, prima che il suo corpo e la sua identità venissero straziati tanto crudelmente, aveva avuto persone che le volevano bene. Avevo sempre cercato di soffocare l'odio, ma ormai era troppo tardi. Odiavo il sadismo di chi passava il suo tempo a rovinare e a togliere la vita agli altri pen-
sando di averne il diritto. E, se le esecuzioni mi turbavano profondamente, era solo perché rivangavano delitti odiosi e vittime ormai quasi dimenticate. L'aria era permeata di vapore e di un odore nauseabondo, destinato a diminuire quanto più le ossa restavano a bagno. Immaginai una donna alta e bionda che indossava jeans e stivaletti allacciati, con un anello di platino nella tasca posteriore dei pantaloni. Non aveva più le mani e probabilmente non avrei mai saputo se aveva le dita grandi e se l'anello era il suo. Ma non credevo lo fosse: avevo l'impressione che Fielding avesse ragione e mi ripromisi di chiederlo a Sparkes. Pensai ai traumi che aveva subito e cercai di ricostruirne la dinamica e di capire come mai il suo corpo completamente vestito fosse nel bagno principale. Se avevamo visto giusto, era un posto davvero strano. La donna aveva i jeans addosso, perché la cerniera lampo che avevo ricuperato era chiusa e le natiche coperte. Sulla base del materiale sintetico che le si era fuso addosso, supponevo inoltre che avesse il reggiseno. Questo naturalmente non escludeva un tentativo di violenza carnale, ma di certo ne diminuiva le probabilità. Stavo controllando le ossa in una nuvola di vapore quando squillò il telefono, facendomi trasalire. In un primo momento pensai che fosse qualche impresa di pompe funebri con un cadavere da portare, ma poi vidi lampeggiare la luce corrispondente a una delle linee della sala autopsie e mi venne in mente quel che aveva detto Ruffin a proposito delle strane telefonate che riceveva al mattino. Tirai su la cornetta aspettandomi di non sentire nessuno dall'altra parte. «Pronto», dissi brusca. «Mamma mia, che cosa ti hanno fatto per renderti di questo umore?» chiese la voce di Marino. «Oh», esclamai sollevata. «Scusa, pensavo che fosse una telefonata anonima.» «E perché mai?» «Te lo spiego dopo», dissi. «Che cosa è successo?» «Sono qui fuori nel parcheggio e speravo che mi invitassi a entrare.» «Vengo ad aprirti.» In effetti mi faceva piacere avere compagnia. Andai di corsa nel garage e premetti un pulsante. L'enorme saracinesca cominciò ad alzarsi e Marino si chinò per passarci sotto. La sera era punteggiata di luci ai vapori di sodio e il cielo si era rannuvolato.
«Come mai sei qui a quest'ora?» mi chiese nel suo solito tono burbero, con la sigaretta fra le labbra. «Qui dentro è vietato fumare», gli rammentai. «Come se a quelli qui dentro potesse far male il fumo passivo.» «Qualcuno di noi respira ancora», gli feci notare. Gettò il mozzicone sul pavimento e lo schiacciò con astio, come se non fosse la milionesima volta che succedeva. Nella loro ripetitività, quei battibecchi ci univano, in qualche modo perverso: ero certa che Marino si sarebbe offeso, se avessi smesso di rompergli le scatole. «Ero nella sala di decomposizione. Se vuoi venire con me...» gli dissi chiudendo la saracinesca. «Sto facendo un lavoro.» «Se l'avessi saputo ti avrei parlato per telefono», brontolò. «Non ti preoccupare, non è terribile. Sto pulendo delle ossa.» «Può darsi che a te non faccia effetto. Ma ti assicuro che l'odore dei cadaveri bolliti non è proprio piacevole.» Entrammo nella sala di decomposizione e gli porsi una mascherina. Controllai nella pentola e abbassai la fiamma perché l'acqua non bollisse facendo sbattere le ossa una contro l'altra o contro le pareti del pentolone. Marino si coprì il naso e la bocca con la mascherina e la allacciò malamente. Vide una scatola di guanti di gomma e se ne infilò un paio. Era buffo che si preoccupasse tanto degli agenti esterni, visto che il pericolo maggiore per la sua salute era il modo in cui viveva. Aveva un paio di pantaloni beige, camicia bianca e cravatta, era sudato e macchiato di ketchup. «Ho un paio di cose interessanti da dirti, capo», disse appoggiandosi a un lavandino lucidissimo. «Abbiamo controllato la Mercedes bruciata dietro alla casa di Kenneth Sparkes. È una Benz 240D azzurra dell'81, il cui contachilometri è stato manomesso almeno due volte. È intestata a un certo dottor Newton Joyce di Wilmington, North Carolina. È sull'elenco, ma non siamo riusciti a contattarlo: risponde sempre la segreteria telefonica.» «Wilmington è dove Claire Rawley andava all'università e Sparkes ha la casa al mare», gli ricordai. «Già. Finora gli indizi puntano da quella parte.» Guardava il pentolone sul fornello. «Prende la macchina di uno, va a Warrenton, entra in casa di Sparkes mentre lui non c'è, si fa ammazzare e poi brucia nel rogo», ricapitolò massaggiandosi le tempie. «Se lo vuoi sapere, capo, questa storia puzza quanto quella roba lì dentro. Manca di sicuro un pezzo importante, perché così non ha senso.»
«Ci sono dei Rawley nella zona di Wilmington?» domandai. «Non ha parenti da quelle parti?» «Ce ne sono due, ma nessuno di loro ha mai sentito parlare di una certa Claire Rawley», spiegò. «E all'università?» «Non mi sono ancora messo in contatto», rispose, mentre io controllavo di nuovo la pentola. «Pensavo lo volessi fare tu.» «Domani mattina.» «Bene. Pensi di stare qui tutta la notte a cuocere quello schifo?» «Per la verità pensavo di lasciarlo a bagno e tornarmene a casa», dissi spegnendo il fornello. «Che ore sono? Santo cielo, sono quasi le nove! Domani devo andare in tribunale.» «Andiamo, allora», disse. Chiusi a chiave la sala di decomposizione e aprii di nuovo la saracinesca dell'area di carico. Vidi i nuvoloni scuri che correvano nel cielo oscurando la luna come barche a vela lanciate a tutta velocità. Il vento soffiava ululando intorno al palazzo. Marino mi accompagnò alla macchina. Non sembrava aver fretta: prese le sigarette e se ne accese una. «Non voglio metterti in agitazione», disse, «ma penso di doverti dire una cosa.» Aprii la macchina e mi sedetti al volante. «Mi fai paura», dissi. Era la verità. «Verso le quattro e mezzo di oggi pomeriggio, mi ha chiamato Rex Willis. Sai, il giornalista?» disse. «Sì, lo conosco.» Mi allacciai la cintura. «Pare che oggi abbia ricevuto una lettera anonima, formulata come un comunicato stampa. Brutta cosa.» «Perché?» chiesi, improvvisamente allarmata. «Be', pare sia di Carrie Grethen. Dice che è scappata da Kirby perché i federali l'avevano incastrata e l'avrebbero condannata a morte per qualcosa che non aveva fatto, se non fosse fuggita. Sostiene che all'epoca degli omicidi tu avevi una relazione con l'esperto di profili psicologici che si occupava del caso, Benton Wesley, e che tutte le prove contro di lei furono architettate e costruite da voi per far fare bella figura al Bureau.» «E da dove l'ha spedita?» chiesi indignata. «Da Manhattan.» «All'attenzione di Rex Willis?»
«Sì.» «Il quale, spero, intende non farne niente.» Marino esitò, prima di rispondere. «Hai mai visto un giornalista non fare niente di qualcosa, capo?» «Ma sono impazziti, porca miseria?» sbottai. «Gli arriva la lettera di uno psicopatico e loro la pubblicano come se niente fosse?» «Ne ho una copia, se la vuoi vedere.» Tirò fuori un foglio di carta dalla tasca posteriore dei pantaloni e me lo porse. «È un fax», spiegò. «L'originale è già in laboratorio. Gli esperti di documenti dicono che vedranno che cosa riescono a fare.» Aprii il foglio con le mani che mi tremavano e non riconobbi la scrittura ordinata a penna nera, molto diversa dallo strano stampatello a penna rossa che avevo ricevuto io. Le frasi erano ben formulate e chiare. Lessi velocemente, saltando la parte in cui affermava di essere stata incastrata, e all'ultimo paragrafo mi bloccai. L'agente speciale Lucy Farinelli ha fatto carriera solo perché sua zia, la dottoressa Scarpetta, influente capo medico legale, ha coperto gli errori e le trasgressioni della nipote. Quando Lucy e io eravamo a Quantico, fu lei ad approcciarmi e non io, come verrà certamente affermato in tribunale. Se è vero che per un certo periodo siamo state amanti, lei mi ha strumentalizzato per coprire i propri sbagli nella progettazione del CAIN. Lucy Farinelli si è arrogata il merito di lavori che non ha fatto. Giuro su Dio che questa è la pura verità e vi chiedo di pubblicare questa lettera perché tutti sappiano. Non voglio restare nascosta tutta la vita, condannata dalla società per reati che non ho commesso. La mia sola speranza di libertà e giustizia è che la gente sappia come sono andate veramente le cose e faccia qualcosa. Pietà, Carrie Grethen Marino fumò in silenzio finché non ebbi finito di leggere, quindi decretò: «Chi ha scritto questa roba sa troppe cose. È stata lei senz'altro». «A me manda una lettera delirante e poi scrive questa, del tutto razionale?» Ero talmente agitata che mi era venuta la nausea. «Com'è possibile, Marino?» Si strinse nelle spalle, mentre cominciavano a cadere le prime gocce di
pioggia. «Ti dico quello che penso», dichiarò. «A te ha mandato un segnale. Vuole che tu sappia che sta facendo fessi tutti. Non pensi che ci goda a farti arrabbiare e a rovinarti la giornata?» «Benton lo sa?» «Non ancora.» «Pensi che il giornale la pubblicherà davvero?» domandai, sperando che mi desse una risposta diversa. «Sai come fanno.» Gettò la sigaretta accesa per terra, provocando una pioggia di scintille. «Scriveranno che la famigerata psicopatica e assassina li ha contattati mentre le forze dell'ordine le danno la caccia», spiegò. «E chissà che non l'abbia spedita anche agli altri giornali...» «Povera Lucy», dissi. «Poveri noi», mi corresse Marino. 7 La pioggia cadeva fitta e di traverso mentre tornavo a casa. Non vedevo quasi niente. Avevo spento la radio perché non volevo sentire altre notizie per quel giorno e avevo l'impressione di essere troppo agitata per riuscire a prendere sonno. Rallentai fino a cinquanta chilometri all'ora, perché mi ritrovai due volte in una pozzanghera gigantesca che fece sembrare la Mercedes una barchetta in un lago. In West Cary Street le buche e gli avvallamenti erano stracolmi di acqua e luci di emergenza rosse e azzurre che lampeggiavano nel temporale mi ricordavano che era meglio andare piano. Erano quasi le dieci quando finalmente fermai la macchina nel vialetto di casa mia. Quando le luci dei sensori di movimento non si accesero vicino alla porta del garage, mi spaventai. L'oscurità era fittissima e avevo solo il rumore del motore della Mercedes e il tamburellare della pioggia per orientarmi. Per un attimo mi chiesi se aprire la porta del garage o fare retromarcia e correre via. «Non siamo ridicoli», mi dissi, premendo il bottone sul telecomando. La porta rimase immobile. «Per la miseria!» Misi la retromarcia e rinculai nel vialetto alla cieca. Strisciai contro una pianta, che per fortuna era piccola e non fece danni, ma ero abbastanza sicura di essere finita con le ruote sul prato facendo manovra per arrivare
davanti al portone, dove perlomeno il timer per l'accensione automatica delle luci in casa e fuori della porta aveva funzionato. Le luci dei sensori di movimento ai lati della scaletta rimasero spente. Mi dissi che probabilmente era mancata la corrente a causa del temporale e il circuito era saltato. Quando aprii la portiera la pioggia bagnò il sedile. Afferrai borsa e valigetta e corsi su per le scale. Quando aprii il portone ero fradicia e il silenzio che mi accolse mi riempì di spavento. Le luci che lampeggiavano sulla pulsantiera davanti alla porta indicavano che anche l'antifurto era spento o perlomeno che la caduta di tensione aveva fatto saltare anche quello. Ma non importava, perché ero impietrita dalla paura. Rimasi nell'ingresso con i piedi bagnati, a pensare a dove fosse la pistola più vicina. Non mi ricordavo se avevo messo la Glock nel cassetto del tavolo della cucina. Lì sarebbe stata senza dubbio più a portata di mano che nello studio o in camera da letto, che erano sull'altro lato della casa. La pioggia batteva sui muri e sulle finestre e il vento soffiava minaccioso. Tesi le orecchie per sentire eventuali altri rumori, come lo scricchiolio del pavimento al piano di sopra o passi felpati sulla moquette. Presa dal panico, mollai valigetta e borsa e attraversai di corsa la sala da pranzo verso la cucina, rischiando di scivolare con i piedi bagnati. Aprii il cassetto del tavolo e quasi scoppiai a piangere dal sollievo nel trovarci la mia Glock. Passai in rassegna tutta la casa, accendendo le luci in ogni stanza. Soddisfatta di non aver trovato niente, controllai il contatore e feci scattare gli interruttori che erano saltati. Ristabilito l'ordine e reinserito l'allarme, mi versai un bicchiere di whisky irlandese con ghiaccio e aspettai che mi si calmassero i nervi. Poi chiamai il Johnson's Motel di Warrenton, ma Lucy non c'era. Provai a casa sua, a Washington, e mi rispose Janet. «Ciao, sono Kay», dissi. «Ti ho svegliato?» «Oh, salve dottoressa», mi disse Janet, che non riusciva a darmi del tu, nonostante glielo avessi chiesto più di una volta. «Stavo aspettando Lucy.» «Ho capito», dissi delusa. «Sta tornando da Warrenton?» «Sì, ma non credo che si fermerà molto. Dovrebbe vedere in che stato è questa casa. Scatoloni dappertutto.» «Come l'hai presa, Janet?» «Non lo so nemmeno io», rispose con un tremito nella voce. «Certo ci cambierà la vita. Ma abbiamo già vissuto tanti cambiamenti...» «Sono sicura che supererete anche questo.» Non lo credevo veramente, ma in quel momento, mentre sorseggiavo il mio whisky, ero contenta di avere qualcuno con cui parlare.
«Quando ero sposata, un sacco di tempo fa, Tony e io vivevamo su due pianeti diversi, ma trovavamo sempre il tempo per vederci. E, per quel poco che ci vedevamo, stavamo bene», dissi. «Per certi versi, è anche meglio.» «Sì, però poi avete divorziato», mi fece educatamente notare. «Be', non subito.» «Senta, dottoressa Scarpetta, ci vorrà almeno un'ora prima che Lucy torni. Vuole che le lasci detto qualcosa?» Esitai, incerta. «E successo qualcosa?» mi domandò janet. «No, no», risposi. «Forse non l'hai saputo. E Lucy nemmeno.» Le raccontai brevemente della lettera di Carrie alla stampa e, quando ebbi finito, Janet rimase muta come una tomba. «Volevo avvertirvi perché foste preparate», spiegai. «Non volevo che domani mattina la notizia vi arrivasse col giornale. Potrebbe anche essere al telegiornale della notte.» «Ha fatto bene ad avvertirmi», sussurrò Janet a voce tanto bassa che quasi non la sentii. «Appena arriva a casa Lucy, glielo dico.» «Dille di chiamarmi, se non è troppo stanca.» «Senz'altro.» «Buonanotte, Janet.» «Grazie, ma non sarà buona per niente», ribatté. «Sono anni che quella stronza ci rovina la vita, in un modo o nell'altro. Io non ne posso più, cazzo. E scusi il turpiloquio.» «Be', ogni tanto ci vuole.» «Cristo santo, c'ero anch'io!» Scoppiò in lacrime. «Carrie la ossessionava, la strumentalizzava. Lucy non aveva chance. Per la miseria, era una ragazzina, una bambina prodigio che sarebbe dovuta restare a quel cazzo di università, invece di venire all'FBI. Guardi che io ci sono ancora, ma certe merdate le vedo. Non l'hanno trattata come avrebbero dovuto e questo la rende ancora più vulnerabile, nei confronti di Carrie.» Avevo già bevuto mezzo bicchiere di whisky, ma niente avrebbe potuto alleviare la mia pena, in quel momento. «Tutta questa tensione non le fa per niente bene», si sfogò Janet, come non l'avevo mai sentita fare prima. «Non so se glielo ha detto, dottoressa, e non so nemmeno se intendesse dirglielo, ma sono due anni che Lucy è in cura da uno psichiatra.» «Bene, sono contenta», replicai, cercando di non lasciar trapelare il di-
spiacere. «No, non me lo aveva detto, ma non deve mica dirmi tutto», aggiunsi in tono obiettivo, sentendomi sempre peggio. «È stata vicina al suicidio», mi confidò. «Più di una volta.» «Meno male che è in terapia», riuscii solo a dire, mentre mi si riempivano gli occhi di lacrime. Ero disperata. Perché Lucy non aveva chiesto aiuto a me? «Quasi tutti i geni hanno i loro momenti bui», dissi. «Sono contenta che faccia qualcosa per curarsi. Prende anche dei farmaci?» «Wellbutrin. Con il Prozac stava ancora peggio. A tratti sembrava uno zombie e a tratti saltellava come un grillo.» «Capisco», riuscii a malapena a dire. «Per questo dovrebbe evitare stress, rifiuti e problemi», continuò. «Lei non sa che vita è. Basta un niente e sta male per settimane, un po' su e un po' giù, euforica un momento e depressa e infelice un momento dopo.» Posò la mano sul ricevitore e si soffiò il naso. Avevo voglia di chiederle come si chiamava lo psichiatra di Lucy ma non osavo. Mi chiesi se mia nipote soffrisse di un bipolarismo mai diagnosticato. «Dottoressa Scarpetta, io non voglio che...» le mancò la voce. «Io non voglio che Lucy muoia.» «Ma no», la rassicurai. «Vedrai che non morirà.» Ci salutammo e io restai seduta sul letto per un po' senza svestirmi; avevo paura di addormentarmi, tanta era la confusione che avevo in testa. Per un po' piansi di collera e di dolore. Lucy riusciva a ferirmi come nessun altro poteva fare, e lo sapeva. Riusciva ad arrivare diritta al cuore, e quello che Janet mi aveva appena rivelato era il colpo peggiore. Mi venne in mente l'atteggiamento di Teun McGovern, quando avevamo parlato nel mio ufficio e mi aveva dato l'impressione di sapere tante cose a proposito dei problemi di mia nipote. Che Lucy si fosse confidata con lei e non con me? Aspettai che richiamasse, ma non lo fece. Siccome non avevo telefonato a Benton, a mezzanotte mi chiamò lui. «Kay?» «Hai saputo?» gli chiesi con trasporto. «Hai saputo che cos'ha fatto Carrie?» «Della lettera? Sì, l'ho saputo.» «Porca miseria, Benton.» «Senti, sono a New York», disse cogliendomi di sorpresa. «L'FBI mi ha mandato a chiamare.» «Be', è giusto. In fondo tu la conosci.»
«Purtroppo.» «Sono contento che tu sia a New York», decisi ad alta voce. «Mi sembra meno pericoloso. Non è buffo? Da quando in qua a New York ci sono meno pericoli?» «Sei sconvolta.» «Sai dove potrebbe essere?» gli chiesi facendo roteare il ghiaccio nel bicchiere. «Il codice postale dell'area da dove ha spedito l'ultima lettera è 10036, corrispondente a Times Square. Il timbro è del 10 giugno, cioè ieri. Martedì.» «Il giorno in cui è scappata.» «Infatti.» «E continuiamo a non sapere come ha fatto.» «Già», ammise. «È come se fosse saltata sull'altra riva del fiume.» «Non è vero», ribattei stanca e nervosa. «Sono sicura che qualcuno l'ha vista e che qualcuno l'ha anche aiutata. È bravissima a convincere la gente a fare quello che vuole lei.» «L'unità investigativa ha ricevuto un numero eccezionale di chiamate», mi informò. «Pare che abbia spedito lettere a tutti i giornali più importanti, compreso il "Post" e il "New York Times".» «E allora?» «Be', è una storia troppo succulenta perché la dimentichino in un cassetto, Kay. Carrie Grethen è famosa quasi quanto Unabomber o Cunanan e adesso si mette anche a scrivere ai giornali. Tutto quello che la riguarda vende. Fra un po' pubblicheranno anche la sua lista della spesa. Per loro è oro colato. Le dedicheranno copertine e telefilm.» «Non voglio più parlarne», ribattei. «Mi manchi.» «Se fossi qui con me non lo diresti, Benton.» Ci salutammo e io sprimacciai il cuscino e meditai se versarmi un altro whisky; poi decisi di soprassedere. Cercavo di immaginare le mosse di Carrie, lungo una strada contorta che la riportava sempre a Lucy. Era un tour de force, per lei, perché in fondo era consumata dall'invidia: Lucy era più dotata, più brava, più tutto e Carrie non si sarebbe fermata finché non le avesse succhiato la linfa vitale fino all'ultima goccia. Ero convinta che a quel punto non le importasse neppure essere lì a vedere. Stavamo tutti avvicinandoci al baratro e la forza con cui ci attirava verso il buco nero era sorprendente.
Dormii male, sognando incidenti aerei e lenzuola intrise di sangue. Ero in una macchina, poi su un treno, qualcuno mi inseguiva. Quando mi svegliai, alle sei e mezzo, il sole stava spuntando in un cielo azzurrissimo e l'erba brillava di pioggia. Mi portai nel bagno la Glock, chiusi la porta a chiave e feci una doccia veloce. Quando ebbi finito, tesi l'orecchio per accertarmi che non stesse suonando l'allarme. Poi controllai la pulsantiera in camera mia per vedere che fosse ancora inserito. Mi rendevo conto di essere paranoica e di comportarmi in maniera irrazionale, ma non potevo farci niente. Avevo paura. Di colpo vedevo Carrie ovunque: mi sembrava la signora magra che camminava lungo la strada di casa mia con gli occhiali da sole e il berretto da baseball, o quella in coda in automobile dietro di me al casello, o la barbona che mi fissava avvolta in un logoro cappotto mentre attraversavo Broad Street. Mi pareva di riconoscerla in tutte le ragazze con la pettinatura punk e l'orecchino al naso, vestite strane o da uomo e ogni volta mi ripetevo che erano oltre cinque anni che non la vedevo. Non avevo idea di come fosse e probabilmente non l'avrei riconosciuta che troppo tardi. La saracinesca dell'area di carico era aperta, quando parcheggiai dietro il mio ufficio e la Bliley's Funeral Home stava caricando un corpo sul carro funebre nero nell'andirivieni che caratterizzava il nostro lavoro. «Bella giornata», dissi all'inserviente vestito tutto di nero. «Già, proprio bella», rispose distrattamente. Un altro uomo ben vestito scese a dargli una mano a spingere dentro la cassa. Finalmente ci riuscirono e chiusero il portellone. Aspettai che fossero usciti e richiusi la saracinesca. Prima di tutto andai nell'ufficio di Fielding. Non erano ancora le otto meno un quarto. «Ci sei?» chiesi bussando alla porta. «Avanti», replicò. Aveva il camice stretto sulle spalle possenti e guardava dei libri sugli scaffali. Il mio vice faceva sempre fatica a trovare dei vestiti della sua misura, dal momento che aveva i fianchi strettissimi. Mi ricordavo la prima volta che avevo invitato i miei dipendenti a mangiare a casa mia e si era messo a prendere il sole in giardino a torso nudo, con un paio di jeans tagliati. Con mia enorme meraviglia e leggero imbarazzo mi ero resa conto di non riuscire a staccargli gli occhi di dosso, non tanto perché mi attirasse fisicamente, quanto perché ero affascinata dalla sua bellezza. Non capivo come facesse a trovare tanto tempo da dedicare al proprio aspetto fisico.
«Avrai letto il giornale», mi disse. «La lettera?» chiesi, di umore nero. «Sì.» Prese un vecchio dossier e lo posò per terra. «In prima pagina ci sono una foto tua e una sua. Mi dispiace che ti sia capitata anche questa grana», mi disse, sempre cercando fra i libri. «I telefoni stanno impazzendo.» «Che cosa c'è stamattina?» chiesi cambiando discorso. «L'incidente di ieri notte sulla Midlothian Turnpike, in cui sono morti l'uomo alla guida e il passeggero. Ha già cominciato DeMaio, A parte quello, nient'altro.» «Meno male», commentai. «Io devo andare in tribunale.» «Credevo fossi in ferie.» «Infatti.» «Sul serio? Saresti tornata da Hilton Head?» «Il giudice è Bowls.» «Ho capito», fece Fielding con una smorfia. «Quante volte te l'ha già giocato, questo scherzo? Secondo me aspetta che gli dicano quando hai un giorno libero, per fissare le udienze. Così tu ti dai da fare per esserci e lui fa come se niente fosse.» «Se hai bisogno, mi porto il cercapersone», dissi. «Sarò qui tutto il giorno», replicò, indicando la montagna di carte sulla sua scrivania. «Sono talmente indietro che mi ci vorrebbe uno spec chietto retrovisore», scherzò. «Cercheremo di non romperti le scatole», dissi. Il John Marshall Courts Building era a dieci minuti a piedi dalla nostra nuova sede e io pensai che un po' di esercizio mi avrebbe fatto bene. Era una bella mattina e l'aria era fresca e limpida quando mi avviai sul marciapiede di Leigh Street e presi la Nona, passando davanti al commissariato con la borsa a tracolla e una cartellina sottobraccio. Siccome il processo di quella mattina riguardava un regolamento di conti fra due spacciatori, mi sorprese vedere una quindicina di giornalisti al terzo piano, fuori dell'aula. In un primo momento temetti che Rose avesse sbagliato l'ora: non mi sfiorò neppure il pensiero che potessero essere lì per me. Appena mi videro mi vennero incontro con telecamere, microfoni e
macchine fotografiche puntate. Dopo il primo attimo di sorpresa, mi arrabbiai. «Dottoressa Scarpetta, che cosa dice a proposito della lettera di Carrie Grethen?» mi domandò un giornalista di Channel 6. «No comment», risposi, guardandomi in giro in cerca del pubblico ministero che mi aveva chiamato a testimoniare. «Come giustifica le accuse di complotto?» «Che ruolo avete svolto, lei e l'agente FBI con cui ha una relazione?» «Si tratta di Benton Wesley?» «Qual è stata la reazione di sua nipote?» Mi feci largo fra i cronisti con i nervi tesi come corde di violino e mi chiusi nella saletta dei testimoni, dove mi lasciai cadere su una seggiola di legno. Mi sentivo in trappola e mi davo della scema per non aver previsto un'eventualità del genere. Aprii la cartellina e mi misi a leggere diagrammi e referti, ripassando i fori di entrata e di uscita delle pallottole e le ferite mortali. Rimasi in quella stanzetta angusta e senza finestre per mezz'ora, finché il pubblico ministero non mi trovò. Parlammo qualche minuto prima di entrare in aula. Dove venni di nuovo aggredita ingiustamente e mi dovetti fare forza per non soccombere. «Dottoressa Scarpetta», esordì l'avvocato Will Lampkin, il cui rancore nei miei confronti era di lunga data, «quante volte ha testimoniato in tribunale?» «Obiezione», esclamò il pubblico ministero. «Respinta», decretò il giudice Bowis. «Non le ho mai contate», risposi. «Più o meno», insistette la difesa. «Più di dieci? Più di cento? Un milione?» «Più di cento», risposi, sentendo il suo odio malcelato. «E ha sempre detto la verità davanti alla giuria e al giudice?» Lampkin passeggiava lentamente con un'espressione compunta e le mani dietro la schiena. «Sì, ho sempre detto la verità», risposi. «Non ha mai pensato che avere una relazione con un agente dell'FBI fosse molto poco professionale?» «Obiezione!» Il pubblico ministero si alzò in piedi. «Accolta», disse il giudice lanciando un'occhiataccia a Lampkin. «Che cosa sta cercando di dimostrare, avvocato?»
«Un conflitto d'interesse. È risaputo che la dottoressa Scarpetta ha avuto almeno una relazione sentimentale con un collega con cui collabora normalmente e che ha esercitato pressioni su membri dell'FBI e dell'ATF per favorire la carriera della nipote.» «Obiezione!» «Respinta. Vuole arrivare al punto, avvocato Lampkin?» disse il giudice, prendendo il bicchiere e bevendo un sorso d'acqua. «Grazie, Vostro Onore», disse Lampkin con deferenza. «Quella che vi voglio illustrare è una vecchia storia.» 1 quattro bianchi e gli otto neri sedevano educatamente nel box della giuria guardando ora Lampkin ora me, come davanti a una partita di tennis. Alcuni erano imbronciati. Uno si tormentava un'unghia. Un altro pareva sul punto di addormentarsi. «Dottoressa Scarpetta, è vero che lei ha una tendenza a strumentalizzare le situazioni a suo personale vantaggio?» «Obiezione! È una domanda volta a innervosire il testimone!» «Respinta», decretò il giudice. «Dottoressa Scarpetta, la prego di rispondere alla domanda.» «No, assolutamente no», risposi con trasporto, guardando i giurati. Lampkin prese un foglio di carta dal tavolo a cui era seduto il suo cliente diciannovenne. «Secondo il giornale di stamattina», proseguì, «lei avrebbe strumentalizzato organismi statali per anni...» «Vostro Onore! Obiezione! Questo è scandaloso!» «Respinta», replicò gelido il giudice. «Il giornale dice nero su bianco che lei ha complottato con l'FBI per mandare sulla sedia elettrica un'innocente!» Lampkin si avvicinò ai giurati sbandierando una fotocopia dell'articolo. «Vostro Onore, per l'amor del cielo!» esclamò sudato il pubblico ministero. «Avvocato, per favore, vuole continuare il suo controinterrogatorio?» esortò il giudice Bowls. Quello che dissi a proposito di distanze, traiettorie e organi vitali colpiti da proiettili da dieci millimetri rimase sfuocato nella mia memoria. Quando scesi la scalinata del palazzo di giustizia senza guardare in faccia nessuno, non ricordavo già più nulla della mia deposizione. Due giornalisti, più tenaci dei loro colleghi, tentarono di seguirmi, ma desistettero poco più avanti rendendosi conto che sarebbe stato più facile parlare con un sasso.
L'ingiustizia del trattamento che quel ciccione di Lampkin mi aveva riservato era inesprimibile. Era bastato che Carrie sparasse un colpo e io ero già ferita. Per di più mi rendevo conto che era solo l'inizio. Quando aprii la porta di servizio dell'istituto, mi ci volle un attimo per abituarmi alla penombra dell'area di carico. Aprii la posta interna e fui sollevata nel trovare Fielding nel corridoio, che veniva dalla mia parte. Dal momento che si era cambiato, dedussi che doveva essere arrivato qualche altro corpo. «Tutto bene?» domandai infilando gli occhiali da sole nella borsetta. «Un suicidio, a Powatan. Una ragazza di quindici anni che si è sparata alla testa. Pare che il padre non la lasciasse più uscire con un poco di buono. Hai l'aria stanca, Kay.» «Mi hanno massacrata.» «Maledetti avvocati. Chi è stato, stavolta?» Sembrava pronto a fare a botte. «Lampkin.» «Ah, quel viscido ciccione?» Mi posò una mano sulla spalla. «Vedrai che poi passa. Credimi. Devi solo cercare di stringere i denti e tirare avanti.» «Lo so.» Gli sorrisi. «Sono nella sala di decomposizione, se hai bisogno.» Ero contenta di potermi chiudere a lavorare in solitudine sulle ossa della vittima del rogo, anche perché non volevo che nessuno dei miei dipendenti si accorgesse di quanto ero sconvolta e spaventata. Accesi le luci e chiusi la porta. Mi infilai un camice e due paia di guanti di gomma, quindi accesi il fornello elettrico e tolsi il coperchio al pentolone. La carne aveva continuato a staccarsi dalle ossa dopo che avevo spento il fuoco, la sera prima, e me ne accertai con un cucchiaio di legno. Poi stesi un telo plastificato sopra a un tavolo. Il cranio era stato aperto durante l'autopsia; sollevai con cura dall'acqua tiepida e coperta da uno strato di grasso la calotta gocciolante e le mandibole con i denti calcinati, posandole sul telo. Per staccare i tessuti dalla ossa preferivo un abbassalingua di legno alle spatole di plastica. Non si potevano usare strumenti di metallo perché potevano danneggiare le ossa impedendo così di identificare eventuali segni di violenza. Lavorai con grande attenzione, scarnificando con cura la scatola cranica, mentre il resto dello scheletro continuava a stare a bagno nell'acqua calda. Per due ore pulii e sciacquai fino a farmi indolenzire polsi e dita. Non mi venne neanche in mente di pranzare. Alle due trovai una tacca
nell'osso sotto la regione temporale, in corrispondenza dell'emorragia, e mi fermai non credendo ai miei occhi. Avvicinai le lampade per illuminare meglio il tavolo. Si trattava di un'incisione diritta e lineare di un paio di centimetri di lunghezza e tanto superficiale da rischiare di passare inosservata. Non mi sembrava di aver mai visto nulla di simile, a parte sui crani di persone cui era stato tolto lo scalpo il secolo scorso. Il fatto che in quei casi generalmente non si trovassero segni sull'osso temporale non voleva dire gran che. L'asportazione dello scalpo non era un procedimento chirurgico esatto e tutto era possibile. Sebbene non potessi provare che alla vittima di Warrenton mancassero tratti di cuoio capelluto, non potevo neppure dimostrare il contrario. Quando era stata ritrovata, la testa era tutt'altro che integra e se di solito lo scalpo riguardava la maggior parte del cranio, poteva anche essere più circoscritto. Presi un asciugamano per tirare su la cornetta, perché con le mani che mi ritrovavo era meglio non toccassi niente, e feci il numero del cercapersone di Marino. Per dieci minuti aspettai che mi richiamasse e nel frattempo ripresi il mio lavoro, senza trovare altri segni. Questo naturalmente non voleva dire che non ce ne fossero stati altri, visto che almeno un terzo delle ventidue ossa del cranio erano carbonizzate. Pensai a che cosa fosse meglio fare. Mi tolsi i guanti e li gettai nella spazzatura, poi presi l'agenda dalla borsa e cominciai a sfogliarla. In quel momento mi richiamò Marino. «Dove cavolo eri?» sbottai, stressata. «A pranzo al Liberty Valance.» «Grazie per avermi richiamato tanto tempestivamente», gli dissi irritata. «Mi dispiace, capo, me ne sono accorto adesso. Cosa cazzo è successo?» Sentivo in sottofondo un brusio di gente che chiacchierava gustando quella che aveva fama di essere una cucina molto ricca e pesante ma assolutamente squisita. «Chiami da un telefono pubblico?» domandai. «Sì, e sono anche fuori servizio, tanto perché tu lo sappia.» Sentii che beveva un sorso di qualcosa, probabilmente birra. «Devo andare a Washington, domani. Ho fatto una scoperta importante.» «Mamma mia. Chissà perché quando dici così mi fai paura.» «Ho trovato una cosa.» «Me la vuoi dire adesso o vuoi che mi roda dalla curiosità tutta la notte?»
Mi accorsi che aveva bevuto e decisi di lasciare perdere. «Senti, vuoi venire con me, sempre che il dottor Vessey ci possa ricevere?» «Quello dello Smithsonian?» «Lo chiamo a casa appena finisco di parlare con te.» «Domani è il mio giorno libero, quindi suppongo di poterti accompagnare.» Non dissi niente e guardai la pentola fumante. Abbassai appena il calore. «D'accordo, vengo», disse alla fine, dopo un'altra sorsata. «Vienimi a prendere a casa», gli proposi. «Alle nove.» «Okay.» Provai a chiamare Vessey nella sua casa di Bethesda. Rispose al primo squillo. «Grazie al Cielo», esclamai. «Alex? Sono Kay Scarpetta.» «Oh, ciao! Come stai?» A chi non passava la vita a rimettere insieme i pezzi delle persone passate a miglior vita, Vessey dava l'impressione di essere un po' svanito e fuori del mondo, ma era uno degli antropologi legali più bravi a livello internazionale e in passato mi aveva aiutato in più di un'occasione. «Se mi dici che domani sei a Washington, benissimo», risposi. «Sarò al mio posto, come al solito.» «Ho trovato un segno su un cranio e ho bisogno del tuo aiuto. Hai sentito parlare dell'incendio di Warrenton?» «Se uno è dotato di orecchie non può non averne sentito parlare.» «Certo. Hai ragione.» «Non ci sarò prima delle dieci. Non sperare di trovare posteggio», mi avvertì. «Pensa che l'altro giorno mi hanno portato un dente di maiale con della carta stagnola dentro», mi raccontò, un po' distratto. «Immagino venisse da una porchetta arrosto. Comunque, l'hanno trovato nel giardino di una casa privata e il coroner del Mississippi ha creduto che fosse di un poveraccio a cui avevano sparato in bocca.» Tossicchiò e si schiarì la voce. Poi sentii che beveva un sorso di qualcosa. «Ogni tanto mi arriva qualche zampa di orso», disse. «Perché evidentemente i coroner continuano a scambiarle per mani di persone.» «Lo so, Alex», dissi. «Non è cambiato niente.» 8
Marino fermò la macchina sul vialetto di casa mia alle nove meno un quarto, perché voleva un caffè e qualcosa da mangiare. Ufficialmente era fuori servizio, quindi indossava blue jeans, una T-shirt della polizia di Richmond e stivaletti da cowboy dall'aria alquanto vissuta. Si era lisciato all'indietro i pochi capelli che gli restavano e sembrava un vecchio scapolone panciuto in procinto di portare la sua donna da Billy Bob's. «Andiamo a un rodeo?» gli chiesi aprendogli la porta. «Non farmi girare le palle già al mattino presto», fu la risposta. Mi lanciò un'occhiataccia che mi lasciò del tutto indifferente, perché sapevo che il suo era solo un atteggiamento. «Be', come direbbe Lucy, sei proprio fico. Senti, ti posso offrire caffè e muesli.» «Quante volte te lo devo dire che non mi piace il tuo mangime per uccelli?» borbottò seguendomi in cucina. «E io che non cucino uova e bistecche a colazione?» «Be', se lo facessi, forse non passeresti tante serate da sola.» «Non ci avevo mai riflettuto.» «Quello dello Smithsonian ti ha detto dove possiamo parcheggiare? Lo sai che trovare un posteggio a Washington è impossibile.» «Dici? Il presidente dovrebbe fare qualcosa.» Eravamo nella cucina di casa mia e il sole brillava dorato dalle finestre e si rifletteva sull'acqua del fiume che scorreva poco lontano. Avevo dormito meglio, la notte prima, anche se non capivo come fosse possibile. Magari il mio cervello si era talmente sovraccaricato che a un certo punto era andato in tilt. Non ricordavo di aver sognato e ne ero contenta. «Ho un paio di permessi dall'ultima volta che è venuto Clinton», mi informò Marino versandosi un caffè. «Rilasciati dal sindaco.» Ne versò una tazza anche per me e me la tirò facendola scivolare sul tavolo come una birra in un saloon. «Può darsi che, fra la tua Benz e i permessi, riusciamo a non beccare multe», spiegò. «Lo sai che alle auto in sosta vietata a Washington mettono le ganasce?» Aprii un bagel con semi di sesamo e cercai nel frigo qualcosa con cui farcirlo. «Ho dell'emmental, del chcddar e del prosciutto.» Aprii un altro cassetto. «Parmigiano reggiano, che però non va bene, Mi dispiace ma non ho
formaggi cremosi. Credo di avere del miele, però, se hai voglia di dolce.» «Cipolle?» mi domandò curiosando da dietro le mie spalle. «Sì, quelle le ho.» «Emmental, prosciutto e una fettina di cipolla, come mi ha ordinato il medico», proclamò bello contento. «Questa sì che è una colazione.» «Burro non te ne metto», lo avvertii. «Bisogna che ti ponga dei limiti: non voglio sentirmi responsabile della tua morte improvvisa.» «La senape va bene lo stesso», si accontentò. Spalmai la senape sul pane, poi ci posai una fetta di prosciutto, una fettina di cipolla e quindi il formaggio. L'odore che sì sprigionava dal forno era talmente delizioso che rimisi il muesli nella scatola e mi preparai un panino anch'io. Ci sedemmo in cucina e mangiammo guardando i colori dei fiori nel mio giardino e l'azzurro limpido del ciclo e bevendo caffè colombiano. Alle nove e mezzo eravamo sulla I-95 in direzione nord; trovammo ben poco traffico fino a Quantico. Mentre superavo l'uscita per l'accademia dell'FBI e la base dei Marine, ripensai ai tempi in cui avevo appena incominciato la relazione con Benton e Lucy si stava affermando in quella che continuava a essere una roccaforte maschile quasi come all'epoca di Hoover. L'unica differenza era che, per essere politicamente corretto, l'FBI era diventato molto più riservato nei suoi pregiudizi e nella sua sete di potere e marciava inesorabile attribuendosi meriti e competenze che gli spettavano solo in parte, trasformandosi sempre di più in una sorta di corpo di polizia federale d'America. Erano considerazioni che mi facevano stare male e che tendevo a tenere per me, non volendo offendere chi nel suo piccolo si impegnava e dava l'anima per quello che riteneva un nobile ideale. Mi resi conto che Marino mi stava fissando, facendo cadere la cenere dal finestrino. «Sai, capo», mi disse, «certe volte penso che dovresti dare le dimissioni.» Si riferiva al mio incarico di consulente per il Bureau in qualità di patologo. «So che ultimamente hanno interpellato altri medici legali», continuò. «Invece di chiamare te. Diciamo la verità: è un anno che non vai all'accademia e non è un caso. Non vogliono più avere a che fare con te per via di Lucy.» «Non posso dare le dimissioni perché non lavoro per loro», spiegai. «Lavoro per degli agenti che hanno bisogno di una mano per risoK'ere i casi di cui si occupano e si rivolgono all'FBI. Non voglio essere io ad an-
darmene. E poi le cose si muovono, cambiano i responsabili e chissà che in futuro la situazione non migliori. E poi anche tu sei loro consulente e non mi pare che ti abbiano più chiamato.» «Be', forse la penso anch'io come te.» Gettò il mozzicone dal finestrino. «Fa schifo, non ti pare? Vai lì, lavori con delle brave persone, bevi una birra con loro. Mi fa girare i coglioni, se te lo devo dire, che la gente ce l'abbia con la polizia e la polizia con la gente. Vent'anni fa, quando ho cominciato, i vecchi, i bambini, tutti erano contenti di vedermi; io ero fiero della mia divisa e mi lucidavo le scarpe ogni giorno. Adesso nei quartieri più malfamati mi pigliano a sassate appena mi vedono e se saluto qualcuno per strada manco mi risponde. Mi sono fatto un culo così per ventisei anni per cosa? Per diventare capitano e dirigere l'addestramento?» «Probabilmente è uno dei lavori in cui puoi fare di più», gli ricordai. «Sì, ma non è per quello che mi ci hanno messo.» Guardò fuori del finestrino i segnali verdi dell'autostrada. «Mi hanno messo da parte sperando che mi sbrighi ad andare in pensione. Lo sai, capo, ci penso un sacco. Penso che in fondo mi piacerebbe prendere la barca e andare a pescare, rimettere in strada il camper e andarmene un po' in giro a vedere il Grand Canyon, lo Yosemite, il lago Tahoe e tutti questi posti in cui non sono mai andato. Poi però penso che invece mi annoierei e che tanto vale crepare in servizio.» «Non dire stupidaggini», lo rimproverai. «Secondo me invece dovresti andare in pensione e fare come Benton.» «Con tutto il rispetto, non sono il tipo da fare il consulente», replicò. «L'Institute of Justice e l'IBM non prenderanno mai uno che si veste come mi vesto io. Indipendentemente da quello che so fare.» Ero d'accordo con lui e non dissi niente perché, tranne rare eccezioni, era la verità. Benton era un bell'uomo elegante che faceva subito buona impressione sugli altri. Era proprio quella la differenza fra lui e Pete Marino, che per il resto erano entrambi onesti, umani e molto competenti. «Dunque. Dobbiamo prendere la 395 e dirigerci verso Constitution Avenue», pensai ad alta voce guardando i segnali e facendo finta di non vedere le macchine che mi sfioravano il paraurti impazienti di superarmi, perché evidentemente il limite di velocità era troppo basso per loro. «L'importante è non andare troppo avanti e finire su Main Avenue. Mi è già capitato.» Misi la freccia a destra. «Venerdì sera, quando sono venuta a trovare Lucy.»
«È un ottimo modo per farsi fregare la macchina», commentò Marino. «Infatti. Ho rischiato che mi facessero scendere e me la portassero via.» «Come?» chiese curioso. «Hanno fatto per accerchiarmi, ma io ho accelerato.» «Hai messo sotto qualcuno?» «No, ma ci sono andata vicino.» «E l'avresti fatto, capo? L'avresti investito o ti saresti fermata?» «Fermarmi? E con gli altri dieci intorno alla macchina che cosa avrei fatto?» «Mah», borbottò Marino abbassando gli occhi. «Quella intanto è gente che vale poco.» Quindici minuti dopo eravamo in Constitution Avenue davanti al ministero degli Interni, con il Washington Monument che torreggiava sul Mall, dove erano state sistemate delle tende per una mostra sull'arte africana e gli ambulanti vendevano granchi e T-shirt dai camion. Il prato fra una bancarella e l'altra era pieno di rifiuti e le sirene delle ambulanze si susseguivano in continuazione. Stavamo girando in circolo, con lo Smithsonian in lontananza che pareva un drago rosso scuro. Non c'era un posteggio neanche a morire e le strade erano tutte a senso unico, si interrompevano a metà di un isolato, oppure erano chiuse al traffico; inoltre i pendolari sembravano avere troppa fretta per dare la precedenza agli incroci. «Sai che cosa dovremmo fare?» dissi a Marino svoltando in Virginia Avenue. «Lasciare la macchina nel parcheggio custodito del Watergate e pigliare un taxi.» «Ma chi è che riesce a vivere in un posto come questo?», bofonchiò Marino. «Tantissime persone, evidentemente.» «Mamma, che posto spaventoso», continuò. «Benvenuti in America.» Il posteggiatore in divisa al Watergate fu molto gentile e non batté ciglio quando gli consegnai la macchina e gli chiesi di chiamarmi un taxi. Il mio carico prezioso era sul sedile posteriore, in una robusta scatola di cartone imballata con scaglie di polistirolo. Marino e io scendemmo all'angolo fra la Dodicesima e Constitution Avenue poco prima di mezzogiorno e salimmo la scalinata piena di gente del museo di storia naturale. Le misure di sicurezza erano aumentate dopo l'attentato in Oklahoma e la guardia ci informò che il dottor Vessey sarebbe dovuto scendere personalmente a prenderci. Mentre aspettavamo, andammo a dare un'occhiata alle ostriche spinose
dell'Atlantico e alle zampe dei leoni marini del Pacifico esposti nella mostra Gioielli del mare, sotto lo sguardo vacuo di un teschio di Hadrosaurus appeso alla parete. C'erano anguille, pesci e granchi in vasi di vetro, liguus fasciatus e un mosasauro trovati in uno strato gessoso nel Kansas. Marino stava cominciando ad annoiarsi quando le porte di lucido ottone dell'ascensore si aprirono e spuntò il dottor Alex Vessey. Era cambiato poco, dall'ultima volta che l'avevo visto: sempre minuto, capelli bianchi e occhi di un'intensità straordinaria che, come quelli di tutti i geni, erano costantemente fissi altrove. Era forse più abbronzato e segnato dalle rughe, ma la montatura scura e spessa degli occhiali era la medesima. «Ti trovo bene», gli dissi stringendogli la mano. «Sono appena tornato dalle ferie. A Charleston. Ci siete mai stati?» chiese mentre salivamo sull'ascensore. «Sì», risposi. «Conosco bene il mio omologo di laggiù. Ti ricordi del capitano Marino?» «Certo.» Salimmo tre piani sopra l'elefante africano nella rotonda, mentre le voci dei bambini arrivavano fino a noi come nuvolette di fumo. In verità il museo era una specie di enorme magazzino di granito, contenente oltre trentamila scheletri umani ordinatamente riposti in cassetti di legno verdastri che andavano dal pavimento al soffitto. Questa rara collezione era stata fatta allo scopo di studiare i popoli del passato e in modo particolare le tribù indigene americane. Qualche tempo prima queste avevano chiesto di riavere le ossa dei loro antenati, il progetto di legge era stato approvato e Vessey si era ritrovato con l'oggetto di studio di tutta la sua vita in partenza per il vecchio West, ormai non più tanto selvaggio. «Abbiamo dei collaboratori che raccolgono dati da fornire ai vari gruppi», ci spiegò accompagnandoci lungo un corridoio affollato e buio. «Bisogna informare le tribù di quello che abbiamo e sta a loro decidere che cosa farne. Fra un paio d'anni il materiale relativo agli indiani d'America potrebbe essere di nuovo sottoterra. Così gli archeologi del ventunesimo secolo avranno anche loro qualcosa da fare.» Continuò a parlare, mentre camminavamo. «Di questi tempi sono talmente arrabbiati che non si rendono conto che stanno facendo del male a se stessi. Se non impariamo dai morti, da chi dobbiamo imparare?» «Alex, non sei il solo a pensarla così.» «Be'», ribatté Marino, «se in uno di quei cassetti ci fosse il mio trisavolo,
io non sarei mica tanto contento.» «Il fatto è che non sappiamo chi ci sia in quei cassetti e non lo sa neppure chi crea tutto questo scompiglio», spiegò Vessey. «Sappiamo soltanto che questi esemplari ci hanno aiutato a scoprire molte cose sulle malattie che affliggevano gli indiani d'America e ciò torna tutto a vantaggio di chi adesso si sente depauperato. Ma è meglio che non mi scaldi, se no non la finisco più.» Vessey lavorava in una serie di piccoli laboratori pieni di lavandini e piani di lavoro scuri, con migliaia di libri, scatole di diapositive e riviste specializzate. Qua e là c'erano le solite teste rimpicciolite, teschi frantumati e ossa di animale scambiati per resti umani. Su una tavola di sughero erano attaccate fotografie della tragedia di Waco, dove Vessey aveva trascorso settimane per ricuperare e identificare i cadaveri semicarbonizzati dei Davidiani. «Vediamo che cosa mi hai portato», mi disse. Posai il pacco su un tavolo e Vessey tagliò il nastro adesivo con un coltellino. In un cigolio di polistirolo tirai fuori il cranio e quindi la parte inferiore e più fragile della scatola cranica, comprendente le ossa facciali, e posai il tutto su un telo azzurro pulito; Vessey accese le lampade e andò a prendere una lente. «È qui», gli indicai. «Corrisponde a un'emorragia nella zona temporale. I tessuti circostanti erano troppo bruciati per poter risalire al tipo di ferita. Finché non ho trovato questo segno sull'osso non avevo idea di che cosa potesse essere successo.» «Un'incisione diritta», commentò, rigirando il cranio per osservarla da un'altra angolazione. «Siamo certi che non gliela abbiate procurata nel corso dell'autopsia, per esempio ribattendo all'indietro il cuoio capelluto per scoprire la volta cranica?» «Certissimi», risposi. «Se rimetto insieme i pezzi, si vede che il taglio è qualche centimetro sotto al punto in cui abbiamo aperto in fase di autopsia», dissi mettendo il cranio al suo posto. «E comunque l'angolazione sarebbe sbagliata, se lo scopo fosse quello di tirare indietro il cuoio capelluto, no?» Alla lente d'ingrandimento il mio indice parve improvvisamente grandissimo. «È verticale invece che orizzontale», gli feci notare. «Hai ragione», disse interessato. «In corso di autopsia non avrebbe senso praticare un'incisione del genere, a meno che il patologo non fosse ubriaco,
naturalmente.» «Pensi che possa trattarsi di una ferita da difesa?» chiese Marino. «Mettiamo che l'abbiano aggredita con un coltello e lei abbia lottato per difendersi: avrebbe potuto procurarsi un taglio così sulla faccia?» «E possibile», ammise Vessey continuando a scrutare l'osso. «Ma mi sembra curioso che l'incisione sia tanto fine ed esatta. E poi la profondità sembra identica alle due estremità; non sarebbe così, se fosse frutto di una pugnalata: il taglio sarebbe più profondo dalla parte in cui si è conficcata la lama e meno dalla parte in cui è uscita.» Fece una dimostrazione agitando un coltello immaginario per aria. «Bisogna tener presente che molto dipende dalla posizione dell'aggressore rispetto alla vittima», puntualizzai. «Quando ha ricevuto il colpo, la vittima era in piedi o per terra? L'aggressore le stava davanti, dietro, a fianco o sopra?» «Giusto», disse Vessey. Si avvicinò a un armadio di rovere scuro con le ante di vetro e prese un vecchio teschio marrone da uno scaffale. Lo portò verso di noi e me lo porse, indicandomi un taglio nell'area parietale e occipitale sinistra, sopra l'orecchio. «Parlavi di scalpo», mi disse. «Questo è il cranio di un bambino di otto o nove anni a cui fu tolto lo scalpo prima di dargli fuoco. Non so dire se fosse maschio o femmina, ma so che aveva un'infezione a un piede e quindi non era in grado di correre.» Tenni in mano il cranio e ripensai a quello che Vessey aveva appena detto, a un bambino malato e spaventato, alla terra intrisa di sangue, alle urla degli indiani massacrati e al campo in fiamme. «Merda», esclamò arrabbiato Marino. «Come si fa a fare una cosa così a un bambino?» «Come si fa a fare una cosa così in generale», dissi io. Poi mi rivolsi a Vessey indicando il cranio che avevo portato io: «Questo taglio sarebbe insolito per uno scalpo?». Vessey trasse un respiro profondo e sospirò. «È difficile dirlo, Kay. Dipende. Gli indiani usavano tante tecniche diverse. Di solito praticavano un'incisione circolare lungo la galea e il periostio per rimuovere facilmente lo scalpo dalla volta cranica. Certi erano più semplici, altri comprendevano anche orecchie, occhi, faccia e collo. In alcuni casi alla stessa persona venivano fatti scalpi diversi, in altri veniva asportato solo il ciuffo di capelli sul cranio rasato o una piccola parte sul
cocuzzolo. E poi, come si vede nei western, c'era anche chi prendeva la vittima per i capelli e gli tagliava via la pelle con un coltello o una spada.» «Era un trofeo», disse Marino. «Sì, oltre che simbolo di virile coraggio e abilità», aggiunse Vessey. «Naturalmente c'erano motivazioni culturali, religiose e persino mediche. Nel tuo caso», aggiunse rivolgendosi a me, «sappiamo che lo scalpo non era completo perché la vittima aveva ancora i capelli; io ho l'impressione che la lesione ossea sia stata provocata da uno strumento affilatissimo, una lama molto tagliente, forse un rasoio o un taglierino, se non addirittura un bisturi. Quando la subì, la vittima era ancora viva ma non fu la causa di morte.» «No, la ferita fatale è stata quella al collo», dissi. «Non ci sono altri tagli, tranne forse qui.» Avvicinò la lente all'arco zigomatico sinistro. «Molto leggero», mormorò. «Forse troppo, per essere certi che lo sia. Lo vedi?» Mi chinai a guardare con attenzione. «Forse», dissi. «Sembra un filo di ragnatela.» «Infatti. È appena accennato. Potrebbe non essere niente, ma ha la medesima angolazione del segno sull'altra guancia. Verticale anziché orizzontale o diagonale.» «Mi fate star male», disse Marino minaccioso. «Vogliamo tagliare corto? E scusate la battuta. State dicendo che qualcuno le ha tagliato la gola, poi l'ha sfregiata e quindi ha dato fuoco alla casa?» «È una possibilità», affermò Vessey. «Be', sfregiare una persona implica conoscerla», proseguì Marino. «A meno che non abbiamo a che fare con un pazzo. Generalmente gli assassini non sfregiano le loro vittime, se non le conoscono.» «Questo di norma è vero», concordai. «Nella mia esperienza le uniche eccezioni sono gli omicidi a opera di psicotici molto disorganizzati.» «Chi ha dato fuoco alla villa di Sparkes non era per niente disorganizzato, secondo me», osservò Marino. «Quindi pensate che l'assassino conoscesse bene la vittima?» chiese Vessey osservando lentamente il cranio con la lente. «Non possiamo escludere niente», dissi. «Anche se, per la verità, non riesco proprio a immaginare che Sparkes abbia ammazzato tutti i suoi cavalli.» «Forse l'ha fatto apposta per eludere i sospetti», disse Marino. «Proprio perché la gente dicesse quel che hai appena detto tu.»
«Alex», dissi, «chiunque sia stato, ha fatto di tutto perché noi non ce ne accorgessimo. Se non le fosse caduta addosso la cabina della doccia, della vittima non sarebbe rimasto gran che e noi non saremmo in grado di risalire alla dinamica dell'omicidio. Se non avessimo ricuperato dei tessuti, per esempio, non avremmo scoperto che era morta prima che scoppiasse l'incendio, perché non saremmo stati in grado di misurare il livello di monossido di carbonio. A quel punto avremmo dato per scontata la morte accidentale, a meno che non fossimo riusciti a dimostrare che l'incendio era doloso. Cosa che finora non siamo riusciti a fare.» «Io non avrei dubbi sul fatto che si tratti del classico incendio doloso finalizzato a nascondere un omicidio», disse Vessey. «Ma perché allora l'assassino si è preso la briga di sfregiarla?» domandò Marino. «Perché non si è limitato ad ammazzarla, a dar fuoco alla casa e a fuggire? Di solito i pazzoidi che mutilano la proprie vittime vogliono che le veda più gente possibile. Per la miseria, le lasciano nei giardini pubblici, ai margini delle strade, sui sentieri dove la gente va a correre, in mezzo al salotto, per essere sicuri che qualcuno le veda!» «Forse invece questo non vuole che vediamo niente», dissi. «Forse ritiene importante che non capiamo il suo modus operandi. Credo proprio che dovremmo fare una bella ricerca sul computer per controllare se ci sono stati casi che abbiano delle analogie con questo.» «Per fare una ricerca del genere bisogna coinvolgere un sacco di gente», mi fece notare Marino. «Programmatori, analisti, operatori dell'FBI e dei dipartimenti di polizia di grandi città come Houston, Los Angeles e New York. Il rischio è che prima o poi qualcuno si lasci scappare qualcosa e venga fuori tutto quanto sui giornali.» «Be'», ribattei, «dipende da chi si coinvolge.» Prendemmo un taxi in Constitution Avenue e chiedemmo all'autista di andare verso la Casa Bianca e prendere la Quindicesima Strada. Volevo portare Marino all'Old Ebbitt Grill e, siccome erano le cinque e mezzo, non dovemmo fare code e ci sedemmo in un séparé con i sedili di velluto verde. Mi era sempre piaciuto quel ristorante con le vetrate colorate, gli specchi e le lampade a gas di ottone con le fiammelle che tremolavano. Nel bar erano appesi animali impagliati, dalle tartarughe ai cinghiali e alle antilopi, e i baristi avevano sempre un gran daffare a qualsiasi ora del giorno. Una coppia dall'aria molto distinta dietro di noi parlava di biglietti per il
Kennedy Center e del fatto che il figlio avrebbe cominciato l'università a Harvard l'autunno successivo, mentre due giovani discutevano se mettere o meno il pranzo sul conto spese. Posai la mia scatola di cartone sulla sedia vicino a me. Vessey l'aveva richiusa con del nastro adesivo. «Chiediamo un tavolo per tre?» fece Marino guardando la scatola. «Sei sicura che non puzzi? Pensa se qualcuno qui dentro se ne accorge...» «Stai tranquillo, non puzza», gli assicurai aprendo il menù. «Per favore, cambiamo discorso, visto che vogliamo mangiare? Gli hamburger qui sono talmente squisiti che forse farò uno strappo e ne ordinerò uno anch'io.» «Stavo pensando di mangiare pesce», replicò Marino con grande affettazione. «Che cosa mi consigli?» «Va' a quel paese, Marino.» «E va bene, se proprio insisti prenderò l'hamburger. Fosse più tardi ordinerei una birra. È una tortura venire in un posto così senza prendere una Jack Black o una bella spina ghiacciata. Scommetto che fanno il mint julep. Non ne bevo uno da quando uscivo con quella ragazza del Kentucky, Sabrina. Te la ricordi?» «No, ma se me la descrivi forse mi viene in mente», risposi distrattamente, guardandomi in giro e cercando di rilassarmi. «La portavo al FOP. Una volta che c'eravate anche tu e Benton ve l'ho presentata. Capelli biondo rossicci, occhi azzurri, pelle bellissima. Faceva la pattinatrice di professione.» Ero nel buio più totale. «Be'» disse continuando a guardare il menù, «non durò molto, comunque. Non credo che mi avrebbe nemmeno considerato, se non fosse stato per il pick-up. Quando ce la portavo le sembrava di essere su un carro in una parata.» Scoppiai a ridere e l'espressione vacua di Marino non fece che peggiorare la situazione. Ridevo tanto forte che mi lacrimavano gli occhi e il cameriere che si stava avvicinando decise di tornare dopo un po'. Marino sembrava scocciato. «Che cosa ti è preso?» mi domandò. «Sono stanca», risposi. Ero senza fiato. «Se hai voglia di birra, prenditene una. È il tuo giorno libero e guido io.» Questo provocò un immediato miglioramento del suo umore e, quando ci servirono il suo hamburger con emmental e la mia insalata di pollo, il suo primo boccale di Samuel Adams era quasi finito. Mentre mangiavamo chiacchierammo del più e del meno e ascoltammo brandelli di conversa-
zioni ai tavoli vicini. «Le ho detto: vuoi andare da qualche parte per il tuo compleanno?» chiedeva un uomo d'affari a un altro. «Ma se sei sempre in giro...» «Mia moglie è uguale», rispose l'altro, con la bocca piena. «Sembra che non la porti mai da nessuna parte. Invece andiamo a cena fuori quasi tutte le settimane.» «A Oprah dicevano che una persona su dieci prende in prestito più soldi di quanti è in grado di restituire», raccontava un'anziana signora al suo compagno di tavolo, che aveva appeso il cappello di paglia all'attaccapanni vicino. «Pensa un po'!» «Non mi sorprende. Ormai non mi sorprendo più di niente.» «Qui c'è il parcheggio», diceva uno degli uomini d'affari. «Io però vengo sempre a piedi.» «E di sera?» «Noo! Scherzi? A Washington? Solo se vuoi morire...» Mi scusai e andai alla toilette, che era grande e rivestita di marmo grigio. Siccome non c'era nessun altro entrai in quella riservata agli handicappati in maniera da avere più spazio e potermi lavare la faccia e le mani in privato. Cercai di chiamare Lucy, ma il cellulare non prendeva il segnale. Usai il telefono a gettoni e rimasi piacevolmente sorpresa di trovarla a casa. «Stai facendo i bagagli?» domandai. «Perché? Senti l'eco delle stanze vuote?» «Mah, forse.» «Be', io lo sento. Dovresti vedere che macello.» «E se venissi a vedere davvero?» «Perché? Dove sei?» mi chiese lievemente insospettita. «All'Old Ebbitt. Ti chiamo dal telefono vicino alle toilette. Marino e io siamo andati allo Smithsonian a parlare con Vessey, stamattina. Posso venire a fare un salto? Non solo per vederti, ma anche per chiederti un consiglio professionale.» «Certo», rispose. «Intanto stasera non abbiamo in programma niente.» «Vuoi che ti porti qualcosa?» «Sì, da mangiare.» Non era il caso di riprendere la macchina, visto che Lucy abitava in un quartiere a nordovest della città, nei pressi di Dupont Circle, dove trovare parcheggio era difficile come nel resto della città. Fuori del ristorante Marino fischiò per richiamare l'attenzione di un taxi, che inchiodò per farci salire. Il tempo era bello e le bandiere sui tetti e sui prati non sventolavano.
In lontananza si sentiva suonare senza requie l'antifurto di una macchina. Passammo davanti alla George Washington University, al Ritz e alla Blackie's Steakhouse diretti verso la casa di Lucy e Janet. Abitavano in un quartiere un po' bohémien e prevalentemente gay, con bar a luci basse come The Fireplace e Mr P's, sempre pieni di uomini ben fatti e con orecchini in tutto il corpo. Lo sapevo perché c'ero stata diverse volte, quando ero andata a trovare Lucy in passato; notai persino che la libreria lesbica si era trasferita e che vicino al Burger King c'era un'erboristeria nuova. «Può lasciarci qui», dissi al tassista. Quello inchiodò e accostò. «Porco giuda», fu il commento di Marino appena l'auto celeste si tu allontanata. «Credi che ci sia rimasto ancora qualche americano in questa città?» «Se non fosse per gli immigrati, caro Marino, io e te non saremmo qui», gli ricordai. «Gli italiani sono diversi.» «Davvero? Diversi da chi?» chiesi entrando nel D.C. Café. «Da questi», rispose. «Tanto per cominciare, quando i nostri avi sbarcarono a Ellis Island, impararono subito a parlare inglese. E non guidavano il taxi senza sapere nemmeno da che parte girarsi. Di', carino questo locale...» Era un caffè aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, in cui aleggiava un profumino delizioso di soffritto. Alle pareti erano appesi manifesti pubblicitari di kebab, tè verde e birra libanese e un articolo di giornale incorniciato attestava che i Rolling Stones avevano mangiato nel locale. Una donna spazzava lentamente il pavimento senza badare a noi, come se quello fosse il suo scopo nella vita. «Sta' tranquillo», dissi a Marino. «Ci metto un minuto.» Trovò un tavolo dove si poteva fumare, mentre io andai al banco e lessi il menù giallo e illuminato. «Sì?» mi chiese il cuoco girando le bistecche sulla griglia e dando una mescolata alle cipolle. «Un'insalata greca», ordinai. «Una pitta con pollo e... scusi un attimo.» Riflettei un istante. «Un Kefte Kabob Sandwesh. Sempre che si pronunci così.» «Da portar via?» «Sì.»
«La chiamo io quando è pronto», mi disse, mentre la donna continuava a ramazzare. Mi sedetti vicino a Marino, che stava guardando Star Trek alla televisione anche se la trasmissione era disturbatissima. «Non sarà la stessa cosa, quando starà a Philadelphia», mi disse. «No.» Osservai il capitano Kirk che puntava il suo phaser a un Klingoniano o qualche altro alieno. «Non lo so», continuò appoggiando il mento su una mano e soffiando fuori il fumo della sigaretta. «Ma non mi sembra giusto, capo. Si era fatta i suoi programmi e si era messa d'impegno per realizzarli. Non mi interessa quello che dice lei a proposito del trasferimento, io sono convinto che non abbia nessuna voglia di andarsene. Solo che crede di non avere scelta.» «Anch'io credo che non abbia scelta, se vuole continuare su questa strada.» «E che cavolo! Un'alternativa c'è sempre. Vedi mica un posacenere?» Ne vidi uno sul bancone e glielo andai a prendere. «Così adesso sono complice», dichiarai. «Mi rompi le scatole perché altrimenti non sapresti cosa fare», fu il suo commento. «In realtà preferirei che tirassi avanti ancora per un po', se non ti dispiace», ribattei. «Passo metà del mio tempo a cercare di non farti ammalare, ho l'impressione.» «Molto gentile da parte tua, tenuto conto di come passi l'altra metà.» «È pronto!» Il cuoco mi stava chiamando. «Perché non pigli anche due o tre di quei dolcetti con i pistacchi?» «Niente da fare.» 9 Lucy e Janet abitavano in un condominio di dieci piani chiamato The Westpark, in P Street, a pochi minuti di distanza dal D.C. Café. Era un palazzo di mattoni rossi con una lavanderia e una stazione di servizio Mobile vicino. Sui balconcini c'erano moltissime biciclette e persone che si godevano la serata tiepida fumando e bevendo. Qualcuno stava provando delle scale al flauto. Un ragazzo a torso nudo chiuse la finestra. Suonai all'interno 503. «Chi è?» chiese la voce di Lucy al citofono.
«Siamo noi», risposi. «Noi chi?» «Noi con la roba da mangiare. Se non apri diventa tutto freddo.» La serratura scattò permettendoci di entrare nell'atrio, dove chiamammo l'ascensore. «A Richmond con la stessa cifra avrebbe un attico», commentò Marino. «Millecinquecento al mese per un appartamentino con due camere da letto.» «Alla faccia! E come farà a pagare un affitto così Janet, ora che resta sola? Non credo che il Bureau le dia più di quarantamila dollari l'anno.» «Credo che sia ricca di famiglia», risposi. «Più di così non so.» «Certo che di questi tempi c'è da essere contenti di non essere agli inizi della carriera.» Scosse la testa mentre le porte dell'ascensore si aprivano. «Nel New Jersey, quando ho cominciato io, con millecinquecento dollari vivevo bene un anno. La criminalità era più bassa e la gente più educata, persino in quel quartiere di merda dove lavoravo io. Invece adesso siamo qui a cercare di identificare una poveretta sfregiata e bruciata e quando avremo finito con lei sarà la volta di qualcun altro. Come si chiamava quello che faceva rotolare un masso su per la montagna e appena stava per arrivare in cima gli cadeva di nuovo giù? Siamo come lui, capo. Mi chiedo perché ce la prendiamo tanto.» «Perché se non ce la prendessimo tanto sarebbe ancora peggio», risposi, fermandomi davanti alla porta arancione pallido e suonando il campanello. Sentii tirare il chiavistello; un istante dopo Janet aprì la porta. Aveva un paio di calzoncini corti deìl'FBI e una maglietta dei Grateful Dead che pareva un reperto dei tempi dell'università. Era tutta sudata. «Avanti», ci accolse con un sorriso. Annie Lennox cantava in sottofondo. «Che profumino!» L'appartamento aveva due camere da letto e due bagni in pochi metri quadrati e dava su P Street. C'erano scaffali pieni di libri e di vestiti dappertutto e scatoloni sul pavimento. Lucy era in cucina a prendere piatti, stoviglie e tovaglioli di carta. Liberò un tavolo basso e mi tolse di mano le borse. «Ci hai salvato la vita», mi annunciò. «Stavamo morendo di fame. Ciao, Pete, mi fa piacere vederti.» «Mamma che caldo che fa qui dentro», osservò. «Sopportabile», replicò Lucy. Era sudata anche lei.
Si riempirono i piatti e mangiarono, sedute sul pavimento; io mi appollaiai sul bracciolo del divano e Marino andò a prendersi una sedia di plastica dal terrazzo. Lucy aveva un paio di calzoncini da ginnastica della Nike e una canottiera ed era sporca dalla testa ai piedi. Sia lei sia Janet avevano l'aria stanca; potevo immaginare come dovevano sentirsi. Era un brutto periodo per entrambe: ogni cassetto che svuotavano e ogni scatolone che chiudevano doveva essere un pugno nello stomaco. Si stava concludendo una fase della loro vita. «Quant'è che abitate qui?» chiesi. «Tre anni?» «Quasi», rispose Janet prendendo una forchettata di insalata greca. «Tu pensi di rimanere?» domandai a Janet. «Per ora, sì. Non vedo perché dovrei cambiare. E poi così quando Lucy verrà a trovarmi avrà il suo spazio.» «Mi dispiace tirare fuori il discorso», disse Marino, «ma avete motivo di pensare che Carrie sappia dove abitate?» Ci fu un attimo di silenzio: Lucy e Janet continuarono a mangiare. Andai ad abbassare il volume del CD. «Motivo?» esclamò alla fine Lucy. «Sinceramente non ho motivo di pensare che sappia niente di me.» «Speriamo», replicò Marino. «Ma dobbiamo prendere in considerazione questa eventualità, che vi piaccia o no. In un quartiere come questo passerebbe del tutto inosservata, non credete? E, se ci mettiamo nei suoi panni, non vorremmo sapere dove abita Lucy?» Nessuno disse una parola. «Io credo proprio di sì», continuò. «Ora, scoprire dove abita il capo non è un problema, è stato persino sul giornale. Trovata lei, trovato Benton. E tu?» Indicò Lucy. «Il problema sei tu, perché Carrie era già dentro quando ti sei trasferita qui. Adesso poi che vai a stare a Philadelphia, Janet resta da sola. A dire la verità, questa cosa non mi piace per niente.» «Non siete sull'elenco telefonico, vero?» domandai. «Macché», rispose Janet piluccando svogliatamente l'insalata. «E se qualcuno chiedesse di voi in portineria?» «Non sono autorizzati a dare informazioni», replicò. «Sul fatto che non siano autorizzati possiamo anche essere d'accordo», fece Marino sardonico. «Ma non credo che le misure di sicurezza siano poi così affidabili. Quanta gente importante vive in questo palazzo?»
«Non fasciamoci la testa prima di essercela rotta», esclamò Janet irritata. «Vogliamo cambiare discorso?» «Parliamo dell'incendio di Warrenton», proposi. «Okay.» «Io vado a sbaraccare di là», fece Janet con discrezione: essendo dell'FBI, non era coinvolta nel caso. Appena entrò in camera da letto, dissi: «Nel corso dell'autopsia abbiamo scoperto cose strane e vagamente inquietanti. La donna è stata assassinata ed era già morta quando è scoppiato l'incendio, il che naturalmente fa pensare che sia stato doloso. Siete risaliti alla causa?». «Abbiamo fatto una serie di calcoli teorici», rispose Lucy. «L'unica speranza è ricostruire il modello dell'incendio, visto che non ci sono prove materiali del dolo, ma solo qualche indizio. Ho passato un sacco di tempo davanti al computer in compagnia del Fire Simulator, ma i risultati sono sempre gli stessi.» «Che roba è questo Fire Simulator?» si informò Marino. «Uno dei programmi del FPEtool, il software che usiamo per studiare l'incendio teorico», spiegò paziente Lucy. «Per esempio, supponiamo che il flash-over si raggiunga a seicento gradi centigradi. Inseriamo i dati che conosciamo, come sfiati, superficie, energia ricavabile dal materiale presente, presunto punto di origine, tipi di rivestimenti e così via, e alla fine ricaviamo delle indicazioni sul modo in cui potrebbe essersi sviluppato l'incendio. Be', indipendentemente dagli algoritmi, dalle procedure e dai programmi che ho usato, con l'incendio di Warrenton arrivo sempre allo stesso risultato. Non è spiegabile che un incendio tanto rapido e violento sia scoppiato nel bagno principale.» «E invece siamo assolutamente certi che sia scoppiato lì», dissi. «Infatti», ribadì Lucy. «Voi sapete che quel bagno è stato ricavato di recente in un angolo della camera da letto. Se guardate le pareti di marmo e le parti di soffitto ricuperate, si vede chiaramente il cono con il vertice sul pavimento in corrispondenza del punto in cui si trovava il tappetino, presumibilmente. Questo significa che l'incendio si è sviluppato lì in tempi rapidissimi e producendo molto calore.» «Il famoso tappetino», disse Marino. «Se dai fuoco a un tappetino da bagno, che genere di incendio ottieni?» «Lento», rispose Lucy. «Fiamme alte al massimo un metro e mezzo.» «Be', quindi non è stato il tappeto», dissi io. «Un'altra cosa importante è che il tetto direttamente sopra al bagno è di-
strutto», continuò Lucy. «Questo vuol dire che le fiamme hanno raggiunto almeno i due metri e mezzo di altezza nel punto di origine e che la temperatura è salita fino ad almeno 1800 gradi perché il vetro del lucernario si è fuso. L'ottantotto per cento degli incendi dolosi comincia per terra, ovvero il flusso del calore radiante...» «Cosa cavolo è il flusso del calore radiante?» interruppe Marino. «Il calore radiante viene emesso da una fiamma sotto forma di onde elettromagnetiche in quantità pari in tutte le direzioni, a trecentosessanta gradi. Fin qui mi segui?» «Sì», risposi. «La fiamma emette calore anche sotto forma di gas caldi, che pesano meno dell'aria e quindi salgono verso l'alto», continuò Lucy. «Cioè il calore si trasferisce in modo convettivo. Quando l'incendio è agli inizi, la maggior parte del trasferimento del calore è convettivo, verso l'alto rispetto al punto di origine. In questo caso, il pavimento. Ma a mano a mano che l'incendio si sviluppa e si formano strati di fumo e gas caldi, il calore si trasmette per irraggiamento. È a questo punto che secondo me la cabina della doccia ha ceduto ed è caduta addosso al cadavere.» «E il cadavere?» domandai. «Dov'era in tutto questo tempo?» Lucy prese un notes posato in cima a uno scatolone e fece scendere la punta alla penna. Poi disegnò i contorni di una stanza con una vasca, una doccia e, in mezzo al pavimento, un fuoco stretto e alto che lambiva il soffitto. «Con un fuoco abbastanza intenso da proiettare le fiamme fino al soffitto, parliamo di alto flusso radiante: questo avrebbe danneggiato il corpo, se non ci fosse stata una barriera, cioè qualcosa che assorbisse il calore radiante; può darsi che la vasca e la cabina della doccia abbiano protetto alcune parti del corpo. Penso anche che il cadavere fosse a una certa distanza dal punto di origine. Relativamente parlando, naturalmente: un metro o due.» «Non vedo come altro possa essere andata», dissi. «È chiaro che qualcosa lo ha protetto.» «Infatti.» «Ma come si fa ad accendere un fuoco così senza liquidi infiammabili?» domandò Marino. «Speriamo che venga fuori qualcosa nei laboratori», rispose mia nipote. «Visto che il carico d'incendio non spiega la dinamica del fenomeno, se ne deduce che è stato aggiunto o modificato qualcosa, il che indicherebbe il
dolo.» «State eseguendo controlli finanziari?» le chiese Marino. «Be', quasi tutti i registri di Sparkes sono bruciati nell'incendio, ma i suoi contabili e il suo commercialista sono stati di grande aiuto. Finora non è emerso nulla che faccia pensare che avesse problemi economici.» Fui sollevata di saperlo. Fino a quel punto mi pareva che tutto indicasse che Kenneth Sparkes era una delle vittime, più che il responsabile dell'incendio. Tuttavia la mia opinione non era condivisa dai più, ne ero certa. «Lucy», dissi, appena ebbe finito di mangiare. «Credo che siamo tutti d'accordo che il modus operandi dell'assassino è molto particolare.» «Infatti.» «Supponiamo, tanto per dire, che ci siano stati casi analoghi in passato, ovvero che questo sia uno dei tanti incendi appiccati per nascondere gli omicidi commessi dallo stesso criminale.» «Be', è possibile», commentò Lucy. «Tutto è possibile.» «Si potrebbe fare una ricerca?» domandai. «Esistono dei database che potrebbero aiutarci?» Lucy si alzò e gettò i contenitori del ristorante in un grosso sacco della spazzatura in cucina. «Se vuoi, si può provare», disse. «C'è l'AXIS, l'Arson Incident System.» Conoscevo bene sia l'AXIS sia la rete ESA, Enterprise System Architecture, che l'ATF aveva messo a punto su mandato del Congresso per creare una banca dati nazionale su esplosioni e incendi dolosi. Collegata con duecentoventi siti, questa permetteva a qualsiasi agente di accedere al database centrale e all'AXIS attraverso un portatile dotato di modem o di sicura linea cellulare. Compresa mia nipote. Ci condusse nella sua angusta camera da letto, ormai deprimentemente spoglia, a parte qualche ragnatela negli angoli e qualche mucchietto di polvere sul parquet. Il materasso, ancora coperto da lenzuola color pesca stropicciate, era contro la parete e arrotolato in un angolo c'era il tappeto di seta coloratissimo che le avevo regalato al suo compleanno. I cassetti del comò, vuoti, erano impilati sul pavimento. Il suo studio era uno scatolone con un portatile Panasonic sopra. Il computer era in una valigetta di acciaio e magnesio grigia rispondente agli standard militari, ovvero resistente a vapore, polvere e tutto il resto, nel senso che probabilmente non si sarebbe rotta nemmeno se fosse finita sotto le ruote di un fuoristrada. Lucy si sedette sul pavimento con le gambe incrociate, quasi in procinto
di adorare la sua divinità tecnologica. Premette un tasto per togliere lo screen saver e l'ESA si accese di luce azzurrognola, visualizzando una mappa degli Stati Uniti. Digitò nome e password, quindi una serie di comandi per entrare nel sistema, sorpassando un certo numero di barriere di sicurezza e passando di livello in livello. Una volta avuto accesso al database, mi fece cenno di andarmi a sedere vicino a lei. «Prenditi una sedia, se preferisci», mi disse. «No, va bene così.» Il pavimento era duro e scomodo per la mia povera schiena, ma non mi lasciai scoraggiare. Il sistema le chiese di digitare una o più parole chiave su cui condurre la ricerca. «Non ti preoccupare del formato», disse Lucy. «Il sistema di ricerca accetta qualunque associazione. Ci si può scrivere di tutto, dalla misura dei naspi usati dai pompieri ai materiali di cui era fatta la casa agli impianti antincendio e tutte le informazioni previste dai moduli dei vigili del fuoco. Si possono anche fare ricerche mirate.» «Proviamo morte, omicidio, sospetto incendio doloso», suggerii. «Sesso femminile», aggiunse Marino. «E benestante.» «Tagli, incisioni, emorragie, incendio rapido, elevata potenza termica», continuai. «Che cosa ne dite di non identificato?» propose Lucy, scrivendo. «Va bene», risposi. «E bagno, suppongo.» «Mettici anche cavalli», suggerì Marino. «Va bene, proviamo così», fece Lucy. «Possiamo sempre aggiungere dell'altro, se ci viene in mente.» Lanciò la ricerca e quindi allungò le gambe e si stirò la schiena. Sentii che Janet lavava i piatti in cucina. Nel giro di un minuto il computer dichiarò di aver controllato 11.873 file trovando 453 riferimenti. «Parte dal 1988», ci avvertì Lucy. «E comprende indagini all'estero cui ha preso parte l'ATF.» «Si possono stampare quattrocentocinquantatré file?» domandai. «Ho già imballato la stampante, zia Kay», mi rispose Lucy con aria di scusa. «Allora copiamo tutto sul mio computer», proposi. Lucy sembrava titubante. «Ma sì, in fondo non c'è niente di male», disse. «Purché tu stia attenta a... no, va bene lo stesso.» «Non ti preoccupare, sono abituata a trattare informazioni riservate. Farò
in modo che non vi acceda nessuno.» Mi resi subito conto di aver detto un'idiozia. Lucy guardò affascinata lo schermo del computer. «Questo SQL su UNIX mi fa impazzire», disse, come rivolta a se stessa. «Se avessero un po' di cervello, ti terrebbero a lavorare con i computer», disse Marino. «Non importa», replicò lei. «Ho fatto quello che dovevo fare. Ti invio i dati, zia Kay.» Uscì dalla stanza e la seguimmo in cucina, dove Janet stava fasciando dei bicchieri nella carta di giornale prima di metterli in una scatola per imballi. «Perché non andiamo a fare due passi prima che io riparta?» proposi a mia nipote. «Così parliamo un po'.» Mi lanciò un'occhiata diffidente. «Che cosa?» fece. «Chissà quando ci rivedremo», spiegai. «Be', allora sediamoci qua fuori.» «Okay.» Prendemmo due sedie di plastica e ci sedemmo sul terrazzo, chiudendo la finestra alle nostre spalle e osservando la strada che si animava con l'arrivo della sera. I taxi sfrecciavano e il caminetto dietro la vetrina di un locale per soli uomini brillava nel buio. «Volevo solo sapere come stai», le dissi. «Ho l'impressione che tu non mi parli più molto di te.» «E tu come stai?» Fissò la strada con un sorriso amaro e io osservai il suo profilo perfetto. «Sto bene, Lucy. Normale, direi. Lavoro troppo. Che cos'altro è cambiato?» «Sei preoccupata per me.» «Lo sono sempre stata, da quando sei nata.» «Perché?» «Perché bisogna ben che qualcuno si preoccupi.» «Ti ho detto che la mamma si sta per fare un lifting?» Il solo pensiero della mia unica sorella mi fece irrigidire. «L'anno scorso si è fatta rifare i denti e adesso il lifting», continuò Lucy. «Il suo attuale compagno, Bo, sta con lei da quasi un anno e mezzo. Tu che ne dici, quante volte si può scopare prima di doversi fare un'altra plastica?»
«Lucy!» «Lascia perdere, zia Kay. Anche tu la pensi come me. Vorrei tanto sapere perché mi è toccata una madre tanto di merda.» «Non serve a niente fare così» le dissi con dolcezza. «Non la odiare, Lucy.» «Le ho detto che mi trasferivo a Philadelphia e lei non ha battuto ciglio. Credi che mi chieda mai di Janet? Vado a prendermi una birra. Ne vuoi una?» «No, grazie.» La aspettai fuori guardando le persone che camminavano mentre calava la sera, certe abbracciate, altre parlando forte, altre ancora da sole, con il passo deciso di chi ha un appuntamento. Volevo parlarle di quello che mi aveva raccontato Janet, ma non osavo farlo. Pensavo che in fondo aveva il diritto di dirmi quello che voleva e la mia etica professionale mi imponeva di tacere. Lucy tornò sul terrazzo con una bottiglia di Miller Lite. «Adesso parliamo di Carrie, così poi ti calmi», mi disse in tono piatto, bevendo un sorso. «Ho un Browning High-Power, la Sig di ordinanza, un fucile da caccia calibro dodici con sette proiettili. Ho tutto quello che vuoi. Però sai una cosa? Penso che anche disarmata la ammazzerei, se venisse a cercarmi. Ne ho abbastanza, capito?» Alzò la bottiglia. «A un certo punto si prende una decisione e si va avanti.» «Che decisione?» domandai. Lucy si strinse nelle spalle. «Di non dare a nessuno più potere di quello che ha già. Puoi vivere nella paura, odiarli», spiegò. «Ma, da un certo punto di vista, questa è una resa. Oppure vivi la tua vita con la consapevolezza che se il mostro osa attraversarti la strada, tu lo puoi anche ammazzare.» «Mi sembra l'atteggiamento giusto», dissi. «Forse l'unico possibile. Non so se sia veramente quello che provi, ma spero proprio di sì.» Lucy guardò la luna e io ebbi l'impressione che stesse cercando di trattenere le lacrime. Ma torse mi sbagliavo. «La verità, zia Kay, è che potrei occuparmi della loro parte informatica con una mano sola. Lo sai?» «Probabilmente potresti occuparti della parte informatica di tutto il Pentagono con una mano sola», le dissi con il cuore gonfio. «Non esageriamo.» Non sapevo che cosa dirle.
«Ho pestato i piedi a troppa gente imparando a pilotare l'elicottero e... be', lo sai anche tu.» «So che sai fare un sacco di cose, e so anche che ne puoi imparare molte altre. Devi sentirti molto sola, Lucy.» «Tu ti senti mai così?» mi sussurrò. «Sempre», bisbigliai a mia volta. «E così adesso sai perché ti ho sempre voluto tanto bene. Capito?» Mi guardò, poi allungò la mano e mi sfiorò il braccio. «Ti conviene andare», mi disse. «Non voglio che ti metta in strada troppo stanca.» 10 Era quasi mezzanotte quando rallentai davanti alla guardiola del custode prima di raggiungere casa mia. Mi fece segno di fermarmi. Era una cosa insolita e temetti volesse dirmi che il mio allarme aveva suonato tutta la sera o che mi aveva cercato qualche pazzoide. Marino dormicchiava ormai da un'ora e mezzo, ma si svegliò non appena abbassai il finestrino. «Buona sera, Tom», dissi alla guardia. «È successo qualcosa?» «Niente di grave, dottoressa Scarpetta», rispose chinandosi verso di me. «Ma sono capitate due o tre cose un po' strane e, quando ho cercato di contattarla e ho visto che non era a casa, ho pensato che c'era qualcosa che non andava.» «Che genere di cose strane?» gli chiesi immaginando già qualche catastrofe. «Sono arrivati due fattorini che dicevano di doverle consegnare una pizza, praticamente uno dietro l'altro. Poi tre taxi per portarla all'aeroporto. È venuto persino uno che sosteneva di doverle lasciare dei bidoni nel giardino per conto dell'impresa di costruzioni che deve farle dei lavori in casa. Sostenevano tutti quanti che li aveva chiamati lei.» «Be', non è vero», esclamai stupefatta. «E quando è successo?» «Quello dei bidoni è venuto verso le cinque di oggi pomeriggio. Gli altri sono arrivati dopo.» Tom era un uomo di una certa età che probabilmente non avrebbe saputo che cosa fare in una situazione di emergenza, ma era gentile e probabilmente convinto di essere esperto e capace. Nei miei confronti si dimostrava particolarmente protettivo. «Ha preso i nomi?» chiese Marino ad alta voce.
«Domino's e Pizza Hut.» La faccia animata di Tom era seminascosta dietro alla visiera del berretto da baseball. «I taxi erano Colonial, Metro e Yellow Cab. L'impresa di costruzioni era la Frick. Mi sono preso la libertà di fare un paio di telefonate. Avevano tutti un ordine a nome suo, dottoressa, con tanto di orario di chiamata. Ho preso nota.» Mi porse un foglio strappato da un blocco senza riuscire a nascondere la propria soddisfazione. Quella sera aveva fatto più del solito e la cosa gli faceva immensamente piacere. Accesi la luce di cortesia e io e Marino leggemmo l'elenco. I taxi e le pizze erano stati ordinati fra le dieci e dieci e le undici, mentre i bidoni erano stati richiesti nel primo pomeriggio, specificando però che venissero recapitati più tardi. «Quelli di Domino's hanno detto che a chiamare era stata una donna. Ho parlato con il fattorino, un ragazzo giovane: sosteneva che lei aveva ordinato una maxipizza non troppo sottile precisando che sarebbe venuta a ritirarla al cancello. Mi sono scritto come si chiamava», ci annunciò tutto fiero. «Dunque lei non ha ordinato niente, dottoressa?» Voleva esserne sicuro. «No», risposi. «Senta, dovesse arrivare qualcun altro, mi chiami immediatamente.» «E chiami anche me», aggiunse Marino scrivendogli il numero di casa su un biglietto da visita. «A qualsiasi ora.» Lo porsi a Tom dal finestrino e lui lo lesse attentamente, nonostante avesse già visto Marino un'infinità di volte. «Agli ordini, capitano», disse. «Se si presenta qualcuno, la avverto subito. Se vuole lo trattengo fino al suo arrivo.» «Non è il caso», rispose Marino. «Se è solo un ragazzino che porta le pizze non saprà niente; se invece fosse qualche malintenzionato che si spaccia per fattorino, è meglio che lei non corra rischi.» Intuii che stava pensando a Carrie. «Come vuole, capitano. Anche se credo che saprei cavarmela.» «Ha fatto un ottimo lavoro», mi complimentai. «Non so come ringraziarla.» «Sono qui per questo.» Puntò il telecomando per alzare la sbarra e farci passare. «Ti ascolto», dissi a Marino. «Qualche stronzo che ti vuole rompere le scatole», commentò lui tetro.
«Darti fastidio, spaventarti, farti perdere la pazienza. E, se posso dire la mia, ci sta riuscendo molto bene.» «Non penserai che Carrie...» cominciai. «Non lo so», mi interruppe Marino. «Ma non mi sorprenderebbe che fosse stata lei. L'hanno fatto vedere persino al telegiornale, dove abiti.» «Forse dovremmo cercare di scoprire se le ordinazioni sono state fatte da qui», dissi. «Cristo santo», esclamò mentre imboccavamo il vialetto di casa mia e ci fermavamo dietro la sua macchina. «Spero proprio di no. A meno che non ci sia qualcun altro che ti vuole dare fastidio.» Spensi il motore. «Posso dormire sul divano, se preferisci che resti», si offrì aprendo la portiera. «No, non è il caso», gli risposi. «Basta che non mi riempiano il giardino di bidoni. Sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso: i vicini non me la perdonerebbero.» «Non capisco come mai hai deciso di venire a stare qui.» «Lo sai benissimo, invece.» Marino si infilò in bocca una sigaretta: evidentemente non aveva nessuna fretta di andare. «D'accordo, perché è custodito. Sai a che cazzo serve, comunque.» «Se non te la senti di guidare, puoi dormire sul divano», dissi. «Chi, io?» Accese la sigaretta e buttò fuori il fumo dal finestrino. «Non è per me che sono preoccupato.» Scesi dalla macchina e rimasi fuori ad aspettarlo. Mi resi conto di quanto era stanco e provai un'ondata di affetto e di tristezza per lui: Marino era solo e probabilmente stava malissimo. Non doveva avere molti bei ricordi, fra il lavoro in mezzo ai violenti e le tante storie d'amore finite male. Forse l'unico punto fermo della sua vita ero io che, per quanto corretta, non sempre mi dimostravo comprensiva. Non ci riuscivo. «Dai, ti preparo un ponce. Dormi da me. Hai ragione: non mi va di stare sola, con questa storia dei taxi e delle pizze.» «Infatti», disse fingendosi freddo e professionale. Aprii la porta e staccai l'allarme. Poco dopo Marino era sul divano del salotto con un bourbon on the rocks in mano. Gli misi lenzuola pulite e una coperta leggera nel letto e poi mi sedetti a parlare con lui. «Pensi che alla fine perderemo noi?» mi chiese con voce insonnolita.
«In che senso?» domandai. «Sai che dicono che alla fine il bene trionfa sempre. Non è mica vero. Basta pensare a quella poveretta finita bruciata in casa di Sparkes. Col cazzo che il bene trionfa sempre.» Alzò stancamente la schiena dallo schienale come un malato, bevve un sorso di bourbon e prese fiato. «Carrie è convinta che alla fine l'avrà vinta lei», continuò. «Cazzo, nei cinque anni che ha passato a Kirby non ha pensato ad altro.» Quando Marino era stanco o mezzo ubriaco si lasciava andare al turpiloquio. Per la verità anch'io credevo che a volte qualche parolaccia ci volesse e pensavo che cazzo fosse semplicemente un'imprecazione che aveva perso il suo significato letterale, ma mi rendevo conto che a certi la volgarità dava fastidio. «Per me è inaccettabile che gente come lei possa averla vinta», dissi sorseggiando il mio vino rosso. «Anzi, è inconcepibile.» «Ti illudi che sia così.» «No, Marino. Ne sono convinta.» «Mah.» Bevve un altro po' di bourbon. «Come cazzo fai a esserne convinta? Sai quanti sono finiti al creatore perché gli è venuto un infarto o qualche criminale li ha ammazzati? Ed erano tutti convinti di farcela, come te. Tutti quanti. Ci illudiamo di essere immortali; anche io e te, che pure con la morte abbiamo a che fare tutti i giorni. Io non ho mica più tanta salute. Credi che non lo sappia che mi avveleno? Però non faccio niente per cambiare e continuo a imbottirmi di colesterolo, di whisky e di birra, fregandomene di quel che dicono i dottori. Vedrai che ormai non campo molto.» Parlava con voce roca e in tono sempre più lacrimoso. «Al mio funerale verrà qualche collega e tu dirai a quello che prenderà il mio posto che in fondo con me lavoravi bene», proseguì. «Marino, fatti una dormita», replicai. «Sai benissimo come ci rimarrei, se ti succedesse qualcosa. Non posso nemmeno pensarci, scemo che non sei altro.» «Dici davvero?» Si stava tirando un po' su. «Certo», ripetei. Anch'io ero stanca. Finì il bourbon e giocherellò con il ghiaccio nel bicchiere. Io però non raccolsi, perché pensavo che avesse già bevuto abbastanza. «Sai una cosa, capo?» disse con la voce impastata. «Mi sei simpatica, anche se sei una grandissima rompicoglioni.»
«Grazie», risposi. «Ci vediamo domani mattina.» «È già mattina.» Giocherellò di nuovo con il bicchiere. «Buonanotte», dissi. Quando spensi l'abat-jour erano le due e ringraziai il cielo che quel sabato fosse di turno Fielding. Trovai il coraggio di posare i piedi per terra alle nove passate. Gli uccelli cinguettavano in giardino e la luce del sole rimbalzava sul mondo come un pallone in mano a un bambino scatenato. La cucina era talmente piena di luce che sembrava bianca e gli elettrodomestici di acciaio inossidabile parevano specchi. Feci il caffè e cercai di schiarirmi le idee pensando ai file caricati sul mio computer. Meditai se aprire le tapparelle e le finestre per far entrare l'aria fresca, ma poi pensai a Carrie e lasciai perdere. Andai in salotto a controllare se Marino si era svegliato. Era inquieto nel sonno come nella vita: aveva sbattuto per terra la coperta, massacrato il cuscino e appallottolato le lenzuola. «Buongiorno», dissi. «Lasciami dormire ancora un po'», bofonchiò. Si girò da una parte e si tirò il cuscino sotto la testa. Aveva un paio di boxer azzurri e una canottiera che non arrivava a coprirgli tutta la pancia. Chissà perché gli uomini si facevano meno problemi a ingrassare delle donne, riflettei. Io stavo attenta a non prendere peso e appena mi accorgevo che i vestiti mi andavano stretti diventavo scorbutica. «Va bene», gli dissi. Raccolsi la coperta e gliela misi addosso; russava di nuovo come un orso. Andai in cucina e chiamai Benton a New York. «Spero di non averti svegliato», gli dissi. «Stavo uscendo. Come stai?» Era cordiale, ma un po' distante. «Starei meglio se tu fossi qui e lei dietro le sbarre», risposi. «Il problema è che la conosco bene e lei sa che sono in grado di prevedere le sue mosse. Quindi non serve che io cerchi di prevederle, non so se mi spiego», disse con quel tono controllato che assumeva sempre quando era arrabbiato. «Ieri sera ci siamo travestiti da barboni e siamo scesi nelle gallerie della Bowery. Ti puoi immaginare che bella serata abbiamo passato. Siamo andati anche dove è morto Gault.» Benton stava sempre attento a parlare della morte di Gault senza accen-
nare al fatto che l'avevo ucciso io. «Sono convinto che ci è tornata e che continuerà a tornarci», disse, «non soltanto perché le manca, ma anche perché il ricordo dei delitti che hanno compiuto insieme la eccita. La eccita il sangue, tanto che non può più farne a meno. E noi sappiamo che cosa vuol dire questo, Kay: che presto ucciderà di nuovo, se non lo ha già fatto senza che noi ce ne accorgessimo. Non vorrei fare l'uccello del malaugurio, ma ho la sensazione che abbia in mente un piano ancor più perverso di quelli che ha già messo in atto.» «Mi sembra impossibile», dissi, ma non ne ero affatto convinta. Tutte le volte che mi illudevo di aver visto il peggio, trovavo sempre qualcosa di ancor più sconvolgente. O forse era solo che il male si esprimeva con maggiore efferatezza nelle società più evolute, capaci di raggiungere Marte e di comunicare attraverso il cyberspazio. «Finora non abbiamo trovato traccia di lei», dissi. «Abbiamo seguito centinaia di piste senza arrivare a niente. Il dipartimento di polizia di New York ha istituito una task force, come ben sai, e il centro di comando riceve chiamate ventiquattr'ore su ventiquattro.» «Quanto pensi di restare a New York?» «Non lo so.» «Be', sono sicura che, se è da quelle parti, sa benissimo dove sei. Alloggi sempre al New York Athletic Club, vicinissimo a dove stava quella volta con Gault.» Ero di nuovo agitata. «Immagino che il Bureau ti voglia usare come esca. Metterti nella gabbia e aspettare che arrivi lo squalo.» «Ottima analogia», commentò. «Speriamo che funzioni.» «Io invece spero proprio di no», dissi sentendomi invadere dalla collera e dalla paura. «Vorrei che tornassi a casa e lasciassi che se la sbrighi il Bureau. Non posso crederci: sei in pensione e loro ti usano come esca...» «Kay...» «Come puoi lasciarti trattare...» «Non mi lascio trattare in nessun modo. È una scelta mia, un lavoro che voglio concludere. Me ne sono occupato fin dall'inizio e per quanto mi riguarda continua a essere un caso mio. Non posso sdraiarmi sulla spiaggia sapendo che Carrie è a piede libero e che ucciderà di nuovo. Come faccio a voltarmi dall'altra parte sapendo che tu, Lucy, Marino... sapendo che siamo tutti in pericolo?» «Benton, non fare il capitano Achab, okay? Non lasciare che questa donna diventi un'ossessione per te.» Scoppiò a ridere.
«Perché non mi prendi sul serio, maledizione?» «Ti prometto che starò alla larga dalle balene bianche.» «Ti ricordo che le stai dando la caccia, invece.» «Ti amo, Kay.» Quando uscii nel corridoio per andare nel mio studio, mi domandai perché continuavo a dirgli sempre le stesse cose. Lo conoscevo quasi come conoscevo me stessa e sapevo che chiedergli di lasciar perdere sarebbe stato come chiedere a me di mollare il caso Warrenton e affidarlo a un altro patologo legale. Accesi la luce nel mio studio, che era grande e rivestito di legno e aprii le persiane per far entrare la luce del mattino. Lo studio era vicino alla camera da letto e nemmeno la donna che veniva a fare le pulizie sapeva che tutte le finestre di casa mia erano dotate di vetri antiproiettile, come quelle del mio ufficio. Non era solo Carrie a farmi paura: purtroppo gli assassini che mi accusavano di essere la causa della loro condanna erano tantissimi e la maggior parte di loro non stava in galera per tutta la vita. Ricevevo spesso lettere di detenuti che mi facevano complimenti più o meno gentili e promettevano di venirmi a cercare appena usciti. La verità, tuttavia, per quanto deprimente, era che non bisognava essere un investigatore o un esperto di profili psicologici o un medico legale per essere nel mirino di gente violenta. Spesso le vittime erano persone qualunque in uno stato di particolare vulnerabilità: in macchina, di ritorno dalla spesa, in un parcheggio. Insomma, semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato, come si suol dire. Mi collegai con America Online e vidi che Lucy mi aveva spedito per posta elettronica i file della ricerca condotta nei database dell'ATF. Diedi il comando di stampa e tornai in cucina a prendere un altro caffè. Stavo pensando a cosa mangiare, quando spuntò Marino, con la camicia fuori dei pantaloni e la barba lunga. «Io vado», mi annunciò sbadigliando. «Non prendi il caffè?» «No, faccio colazione per strada. Magari mi fermo da Liberty Valance», mi spiegò, come se non gli avessi mai raccomandato un'alimentazione più sana. «Grazie di essere rimasto a dormire qui», dissi. «Figurati.» Mi fece un cenno di saluto uscendo e io rimisi l'allarme. Tornai nel mio studio e vidi che dalla stampante stava uscendo una montagna di carta.
Quando la risma da cinquecento fogli fu finita, ne misi un'altra; la stampante andò avanti ancora mezz'ora. Le schede comprendevano nomi, date, luoghi e un breve resoconto degli investigatori. C'erano anche figure, diagrammi, analisi e in alcuni casi addirittura delle fotografie. Sapevo che mi ci sarebbe voluta come minimo tutta la giornata per controllarle e temetti che fosse stata un'idea stupida e una perdita di tempo. Avevo passato in rassegna una decina di schede, quando sentii suonare il campanello. Non aspettavo nessuno e comunque di solito il custode mi avvertiva dell'arrivo di qualche ospite. Immaginai che fosse un ragazzino del quartiere che voleva vendermi un biglietto della lotteria, delle caramelle o qualche giornale, ma quando controllai lo schermo del videocitofono rimasi di sasso nel vedere che fuori della porta di casa mia c'era Kenneth Sparkes. «Sì?» dissi al citofono senza riuscire a mascherare la sorpresa. «Mi scusi, dottoressa Scarpetta», replicò guardando la telecamera. «Devo assolutamente parlarle.» «Vengo ad aprire.» Corsi alla porta. Sparkes aveva l'aria distrutta. Indossava un paio di pantaloni beige e una polo verde bagnata di sudore. Alla cintura aveva il cellulare e il cercapersone e in mano una cartella di coccodrillo chiusa con una zip. «Si accomodi, prego.» «Conosco molti dei suoi vicini», spiegò. «Per questo il custode mi ha lasciato passare.» «Ho appena fatto il caffè.» Entrando in cucina, sentii l'odore della sua acqua di colonia. «Mi scusi se mi sono presentato senza avvertirla», disse. Sembrava sinceramente preoccupato. «Il fatto è che non so con chi altro parlare e avevo paura che, se le avessi chiesto un appuntamento, me l'avrebbe rifiutato.» «Infatti.» Presi due tazze dalla credenza. «Come lo vuole?» «Come esce dalla caffettiera», rispose. «Vuole anche qualcosa da mangiare?» «No, no. Grazie.» Ci sedemmo al tavolo davanti alla finestra e aprii la porta che conduceva in giardino perché di colpo mi sembrava che mancasse l'aria. Ero piena di dubbi: Sparkes era indagato per omicidio in un caso di cui mi stavo occu-
pando ed ero sola in casa con lui di sabato mattina. Posò la cartella sul tavolo e la aprì. «Immagino che lei conosca l'andamento delle indagini», disse. «In realtà non so niente.» Bevvi un sorso di caffè. «Non sono un'ingenua, signor Sparkes», aggiunsi. «Per esempio, se lei non fosse un uomo influente, il custode non l'avrebbe lasciata passare e adesso non sarebbe qui.» Prese una busta dalla cartella e me la posò davanti. «Sono fotografie di Claire», disse. Ero titubante. «Sono stato qualche giorno nella mia casa al mare», spiegò. «A Wrightsville Beach?» chiesi. «Sì. E mi sono ricordato di avere queste. Non le avevo più guardate da quando ci eravamo lasciati e non ci pensavo più. Sono le foto di un servizio che aveva fatto, non mi ricordo per chi. Me ne aveva date alcune copie quando avevamo incominciato a stare insieme. Le ho detto che ogni tanto lavorava come modella, vero?» Feci scivolare fuori della busta quelle che dovevano essere una ventina di stampe a colori venti per venticinque. Guardai la prima e mi ricordai di quello che aveva detto Sparkes a Hootowl Farm: Claire Rawley era bellissima. Aveva i capelli che le arrivavano a metà schiena, diritti e di un biondo dorato. Era sulla spiaggia con un paio di short e un top ridottissimo che le copriva a malapena il seno. Al polso destro aveva un grosso orologio da sub con il cinturino di plastica nero e il quadrante arancione. Assomigliava a una divinità nordica, dal viso incantevole e dal corpo abbronzato, atletico e sensuale. Dietro di lei, sulla sabbia, c'era un surf giallo e in lontananza si vedeva il mare azzurro. Anche nelle altre foto Claire Rawley era ritratta su sfondi molto belli. In una era seduta sulla veranda di una vecchia casa gotica del Sud, in un'altra su una panchina di pietra in un giardino o in un cimitero pieno di erbacce e in un'altra ancora fingeva di lavorare con dei pescatori su un peschereccio di Wilmington. Alcune delle pose erano un po' costruite e artificiose, ma poco importava: Claire Rawley era di una bellezza statuaria, un capolavoro vivente nei cui occhi si leggeva un'inesprimibile tristezza. «Ho pensato che potessero servirle», disse Sparkes dopo un lungo silenzio. «Non so neppure se lei ha visto... cioè quanto si possa... insomma.» Tamburellò nervosamente con il dito sul piano del tavolo.
«In casi come questo», gli spiegai con calma, «non è possibile identificare il corpo da una foto. Ma questo non significa che le foto non servano: se non altro non escludono che il corpo ritrovato fosse di Claire Rawley.» Le osservai di nuovo, facendo attenzione a eventuali gioielli. «Portava un orologio interessante», osservai, continuando a guardare le foto. Sparkes sorrise e mi guardò. Poi sospirò. «Glielo regalai io. Era uno di quegli orologi sportivi che vanno di moda fra i surfisti. Aveva un nome strano... Animal? Le dice qualcosa?» «Ne aveva uno anche mia nipote», ricordai. «Sono relativamente economici, vero? Sugli ottanta, novanta dollari?» «Questo a dire il vero non me lo ricordo. Ma so che l'ho comprato in un negozio di articoli sportivi che le piaceva particolarmente, il Sweetwater Surf Shop, in South Lumina, vicino a Vito's, Reddog's e Buddy's Crab. Abitava da quelle parti con delle amiche. In un condominio non molto carino in Stone Street.» Presi appunti. «Ma era sul mare e a lei piaceva.» «Non portava gioielli? Ricorda se ne aveva qualcuno strano?» Sparkes ci dovette pensare su. «Braccialetti?» «Non ricordo.» «E il portachiavi?» Scosse la testa. «Anelli?» «Ogni tanto ne metteva qualcuno... Di quelli d'argento, da pochi soldi.» «Non aveva una fascetta di platino?» Sparkes fu colto alla sprovvista. «Platino, ha detto?» «Sì, e anche abbastanza grossa.» Gli guardai le mani. «Sarebbe andata bene a lei.» Si appoggiò allo schienale e alzò gli occhi al cielo. «Accidenti», esclamò. «Deve avermela presa. Avevo una fascetta di platino che mettevo quando stavamo insieme. Mi prendeva in giro dicendo che voleva dire che ero sposato con me stesso.» «Pensa che gliel'abbia sottratta?» «Penso di sì. La tenevo in una custodia di pelle in camera da letto.»
«Non si è accorto se in casa mancava qualcos'altro?» gli domandai. «Un fucile della mia collezione non è più stato ritrovato. L'ATF ha ricuperato tutti gli altri, anche se non le dico in che condizioni. Ma quello no.» Si stava deprimendo. «Che tipo di fucile?» «Un Calico.» «Spero che non sia finito in mano a qualche balordo», dissi con trasporto. Si trattava di un fucile mitragliatore particolarmente pericoloso, simile a un Uzi e capace di sparare fino a cento proiettili da nove millimetri. «Deve informare la polizia e l'ATF», gli dissi. «L'ho già fatto, almeno in parte.» «Non solo in parte, signor Sparkes.» «Sì, lo so. Lo farò», disse. «Vorrei sapere se è Claire. Cerchi di capire, dottoressa, in questo momento è la cosa che mi sta più a cuore. Le confesso che ho provato a chiamarla e che le sue amiche mi hanno detto che non la vedono da una settimana e più. L'ultima notte che ha passato a casa è stata il venerdì prima dell'incendio. La ragazza con cui ho parlato ha detto che negli ultimi tempi Claire le era parsa strana, depressa. Non aveva avvertito che sarebbe andata via per un po'.» «Vedo che ha fatto il detective», osservai. «Lei non lo farebbe, se fosse in me?» domandò. «Certo.» Incontrai il suo sguardo e vi lessi un grande dolore. Aveva la fronte sudata e parlava come se avesse la bocca asciutta. «Torniamo alle foto», dissi. «Perché furono scattate, esattamente? Lei sa per chi faceva la modella?» «Qualche agenzia locale, se ben ricordo», disse guardando fuori della finestra. «Credo che fossero per un depliant della Camera di Commercio, forse per pubblicizzare la spiaggia.» «E per quale ragione gliele diede, signor Sparkes?» Continuavo a passare in rassegna le foto. «Solo perché le era simpatico? Per impressionarla?» Scoppiò in una risata amara. «Magari, fosse stato tutto lì», replicò. «Sapeva che ero un uomo influente, che conoscevo gente nel mondo del cinema e che potevo farle vedere in giro.» «Sperava che lei la aiutasse a fare carriera», dissi alzando gli occhi.
«Sì.» «E lei l'ha aiutata?» «Dottoressa Scarpetta, io devo muovermi con i piedi di piombo», rispose sinceramente. «Non sarebbe stato corretto far vedere in giro le foto della mia bella amante bianca per aiutarla a sfondare. Vede, cerco di mantenere la mia vita sentimentale il più riservata possibile.» C'era indignazione nei suoi occhi scuri. «Non è da me sbandierare quello che faccio nella mia vita privata. Non è mai stata mia abitudine. Forse dovrei aggiungere che non si deve credere a tutto quello che si legge.» «Lo so benissimo», risposi. «Anzi, meglio di tanti altri. A essere sincera, non mi interessa tanto la sua vita privata quanto il motivo per cui ha portato queste foto a me, invece che agli investigatori della contea di Fauquier o all'ATF.» Mi guardò negli occhi e rispose: «Perché la identificasse, come le ho già spiegato. Ma anche - e forse questa è la cosa più importante - perché mi fido di lei. Nonostante le differenze di opinione, penso che lei non sia il tipo da incriminare con false prove o da muovere accuse ingiuste». «Capisco.» Ero sempre più a disagio e non vedevo l'ora che si alzasse e se ne andasse, risparmiandomi la fatica di mandarlo via. «Vede, sarebbe molto comodo dare tutta la colpa a me. C'è tanta gente che mi detesta e non aspetta altro che di vedermi rovinato, in carcere o addirittura nella tomba.» «Gli investigatori con cui lavoro non sono così», dissi. «Non è di lei, di Marino o dell'ATF che mi preoccupo», si affrettò a rispondere, «ma di fazioni che godono di un certo potere politico. Razzisti e paramilitari legati a personaggi che lei conosce senz'altro. Si fidi di me.» Si voltò dall'altra parte, le mascelle serrate. «Vogliono fregarmi», continuò. «Se qualcuno non scopre esattamente che cosa è successo, io ho i giorni contati, lo so. E chi ammazza dei cavalli innocenti e inermi è capace di tutto.» Gli tremavano le labbra e aveva gli occhi lucidi. «Arsi vivi!» esclamò. «Solo un mostro può fare una cosa del genere!» «Ha ragione», dissi. «Ma sembra che di questi tempi al mondo ce ne siano parecchi. Che cosa mi dice di quel puledro? Davvero uno dei suoi cavalli è scampato all'incendio?» «Windsong», confermò asciugandosi gli occhi nel tovagliolo. «Bellissi-
mo esemplare. Ha un anno, sa, ed è nato a Warrenton da due splendidi cavalli da corsa. Anche loro sono morti nel rogo.» Gli mancò la voce. «Come abbia fatto Windsong a scappare proprio non lo so. È stranissimo.» «A meno che Claire - sempre che di lei si tratti - non lo abbia fatto uscire dalla stalla senza poi riuscire più a farcelo rientrare», ipotizzai. «Aveva già visto Windsong, quando veniva a trovarla a casa?» Sparkes trasse un respiro profondo e si fregò gli occhi. «Non credo che fosse nemmeno nato, all'epoca. Anzi, mi ricordo che, quando frequentavo Claire, Wind, la madre, era pregna.» «Allora può darsi che Claire abbia dedotto che Windsong era il puledro di Wind.» «Sì, è possibile.» «Dov'è Windsong adesso?» domandai. «Per fortuna lo hanno ripreso e riportato a Hootowl Farm, dove è al sicuro e ben curato.» Parlare dei cavalli lo turbava e non credevo che fosse una posa. Per quanto fosse un personaggio pubblico, non credevo che Sparkes sapesse recitare così bene. Mi accorsi che stava per scoppiare in lacrime ma cercava in tutti i modi di trattenersi. Spinse indietro la sedia e si alzò da tavola. «C'è un'altra cosa che volevo dirle», mi comunicò mentre lo accompagnavo alla porta. «Se Claire fosse viva, penso che avrebbe cercato di mettersi in contatto con me. Se non altro mi avrebbe scritto. Se avesse saputo dell'incendio, intendo dire, e non vedo come potrebbe non averlo saputo. Era una donna sensibile, nonostante i suoi problemi.» «Quando è stata l'ultima volta che l'ha vista?» chiesi aprendo la porta. Sparkes mi guardò negli occhi e mi resi conto ancora una volta che aveva una personalità tortissima. Non potei fare a meno di sentirmi turbata e quasi intimidita. «Più o meno un anno fa.» La sua jeep metallizzata era nel vialetto di casa mia. Aspettai che vi salisse, prima di chiudere la porta, e mi chiesi che cosa avrebbero pensato i miei vicini se l'avessero riconosciuto. In altre circostanze la cosa mi avrebbe fatto ridere, ma in quel momento non trovavo nulla di divertente in quella visita. Non mi spiegavo perché fosse venuto di persona a portarmi quelle fotografie, invece di mandarmele. Tuttavia non mi aveva fatto domande indiscrete, non aveva approfittato del suo potere e della sua influenza per cercare di strumentalizzarmi, né tentato di influenzare le mie opinioni o il mio atteggiamento nei suoi con-
fronti. O comunque io non avevo avuto questa impressione. 11 Scaldai il caffè e tornai nello studio. Per un po' mi sedetti sulla mia poltroncina ergonomica a guardare e riguardare le fotografie di Claire Rawley. Se si trattava di un omicidio premeditato, perché era stato commesso in un posto dove la vittima non sarebbe dovuta essere? E se invece i colpevoli erano i nemici di Sparkes, non era una coincidenza troppo strana che avessero colpito proprio quando in casa c'era una donna, che oltre a tutto non ci sarebbe dovuta essere? E anche il più feroce dei razzisti sarebbe stato capace di bruciare vivi dei cavalli solo per fare dispetto al loro padrone? Non c'erano risposte a quegli interrogativi. Mi rimisi a leggere le schede dell'ATF, scorrendo pagina dopo pagina fino a farmi venire male agli occhi. C'erano incendi di chiese, di case, di negozi e di una serie di bowling in cui il punto di origine era sempre la stessa corsia; e poi appartamenti, distillerie, stabilimenti chimici e raffinerie rase al suolo da incendi in cui si sospettava il dolo, ma non sempre lo si riusciva a dimostrare. Gli omicidi erano più rari e generalmente a opera di ladri o coniugi abbastanza inesperti da non mettere in conto che, quando un'intera famiglia scompare e vengono trovati frammenti di ossa bruciate nel giardino dietro la loro casa, la polizia tende a insospettirsi. Se le vittime hanno in corpo dei proiettili che risultano all'esame radiologico e non c'è monossido di carbonio nelle vie respiratorie è chiaro che non sono morte nell'incendio. Alle dieci di sera, però, arrivai a due casi che attrassero la mia attenzione. Uno era avvenuto a Baltimora nel marzo precedente e l'altro sei mesi prima. La vittima dell'episodio più recente, un giovane di venticinque anni chiamato Austin Hart, al quarto anno di medicina alla Johns Hopkins, era deceduto in un incendio scoppiato nella casa in cui abitava, non lontano dal campus. Quella sera si trovava da solo perché l'università era chiusa per le vacanze di Pasqua. Secondo il breve resoconto della polizia, l'incendio era scoppiato la sera della domenica e, quando erano sopraggiunti i vigili del fuoco, era già generalizzato. Hart aveva riportato ustioni talmente gravi che l'identificazione era stata possibile soltanto attraverso il confronto di radici dentarie e punti ossei trabecolari alveolari in radiografie ante e post mortem. L'incendio era scoppiato nel bagno del primo piano, non risultavano archi elettrici
e non era stata trovata traccia di liquidi infiammabili. Il caso era stato segnalato all'ATF dal comando dei vigili del fuoco di Baltimora e Teun McGovern era stata richiamata da Philadelphia. Dopo settimane di indagini accurate, raccolte di testimonianze e analisi di laboratorio, tutto sembrava indicare la matrice dolosa dell'incendio e quindi la morte di Hart per assassinio. Tuttavia né l'una né l'altra erano state per ora dimostrate e dallo studio teorico l'innesco di un incendio tanto rapido in un piccolo bagno piastrellato contenente soltanto un gabinetto e un lavandino di porcellana, una tenda alla finestra e una vasca chiusa con una tenda di plastica non sembrava possibile. L'incendio precedente era avvenuto in ottobre a Venice Beach, in California, anche questo di sera, in una casa sul lungomare a poca distanza dalla leggendaria palestra Muscle Beach. Marlene Farber era un'attrice di ventitré anni che recitava piccole parti in telefilm e soap opera e si manteneva soprattutto girando spot pubblicitari. Il rogo che aveva raso al suolo la sua villetta di legno era altrettanto inspiegabile. Quando lessi che si riteneva che l'incendio fosse scoppiato nel bagno principale della villa, mi sentii gelare. Anche in quel caso la vittima era stata ridotta a un pugno di ossa bianche e calcinate e l'identificazione era avvenuta attraverso il confronto di radiografie post mortem con una radiografia del torace effettuata due anni prima. In pratica era stata riconosciuta da una costola. Non era stata riscontrata presenza di infiammabili né trovata la spiegazione per le fiamme alte tre metri che avevano incendiato il piano superiore dopo essersi sviluppate nel bagno. Gabinetto, vasca da bagno, lavabo e mensola, anche tenuto conto dei cosmetici, non bastavano. Inoltre, stando al satellite dell'Istituto Meteorologico Nazionale, non vi erano stati fulmini nel raggio di cento miglia dall'abitazione della Farber nelle ultime quarantotto ore. Ero immersa nelle riflessioni con un bicchiere di pinot nero quando Marino mi chiamò. Era quasi l'una di notte. «Sei sveglia?» mi domandò. «E se non lo fossi stata?» Sorrisi, perché era sempre così che esordiva, quando chiamava a ore strane. «Sparkes possedeva quattro Mac dieci con silenziatore, che pare avesse comprato a milleseicento dollari l'uno, una mina Claymore che aveva pagato mille e cento dollari e un MP40. Oltre a - apri bene le orecchie - novanta granate vuote.»
«Ho capito.» «Dice che fa collezione di armi della seconda guerra mondiale e che se gliene capitano sottomano se le compra. Come le botti di bourbon, che ha preso da una distilleria del Kentucky fallita cinque anni fa. Per il bourbon al massimo gli daranno una bacchettata sulla mano, perché in confronto al resto, cosa vuoi che sia? Le armi sono tutte registrate e le tasse pagate. Quindi da questo punto di vista è pulito, anche se a Warrenton c'è un investigatore che sospetta che Sparkes vendesse segretamente armi a gruppi anticastristi nel sud della Florida.» «Su che cosa basa i suoi sospetti, questo investigatore?» chiesi. «Non ne ho la minima idea. Ma so che gli investigatori di Warrenton seguono la pista come un cane segue il postino. Secondo loro la morta sapeva qualcosa e Sparkes doveva assolutamente farla fuori, a costo di dar fuoco alla baracca e ammazzare tutti i cavalli.» «Se fosse stato coinvolto in un traffico di armi», intervenni spazientita, «avrebbe avuto ben più di qualche mitragliatore e di un mucchio di granate vuote.» «Be', loro sono convinti che è stato lui. Siccome è un pezzo grosso, può darsi che i tempi siano lunghi.» «E il Calico che non è più stato ritrovato?» «E tu come fai a sapere del Calico?» «C'è un Calico che non è stato ritrovato, vero?» «Cosi dice Sparkes, ma tu come...» «E venuto a trovarmi stamattina.» Marino rimase in silenzio. «Come sarebbe?» chiese confuso. «E venuto a trovarti... dove?» «A casa. Senza avvertirmi prima. Mi ha portato delle fotografie di Claire Rawley.» Marino rimase zitto tanto a lungo che temetti che fosse caduta la linea. «Senza offesa, capo», disse poi. «Sei sicura di non esserti lasciata invischiare dal fatto che lui...» «No», Io interruppi decisa. «Be', e da quello che hai visto che cosa sai dire?» «Solo che la sua presunta ex era bellissima. I capelli sono simili a quelli della vittima e altezza e peso non discordano dalle mie stime. La Rawley portava un orologio simile a quello che ho trovato e dal giorno prima dell'incendio non è stata più vista dalle amiche con cui abita. E un inizio, ma sicuramente non basta.»
«L'unica cosa che la polizia di Wilmington è riuscita a farsi dire dall'università è che fra gli iscritti risulta una Claire Rawley. Pare abbia frequentato a fasi alterne e dall'autunno scorso non si sia più fatta vedere.» «Cioè più o meno dal periodo in cui ruppe con Sparkes.» «Stando a quello che dice lui», fece notare Marino. «E i genitori?» «L'università più di così non dice. Tipico. Divulgherà gli altri dati soltanto su ordine del tribunale. Sai come funzionano queste cose. Pensavo che magari potresti parlargli tu, per vedere di ammorbidirli un po'. La gente preferisce avere a che fare con i medici piuttosto che con i poliziotti.» «E il proprietario della Mercedes? Siete riusciti a trovarlo?» «La polizia di Wilmington ha messo la casa sotto sorveglianza», rispose Marino. «Hanno sbirciato dalla finestra e annusato dalla buca delle lettere per cercare di capire se dentro c'era un morto, ma finora non sembrerebbe. Pare che sia sparito e non abbiamo motivi sufficienti per emettere un mandato.» «Quanti anni ha?» «Quarantadue. Capelli e occhi castani, uno e ottanta per settantacinque chili di peso.» «Be', qualcuno saprà bene dov'è, o almeno dove è stato visto l'ultima volta. Un medico non può lasciare i suoi pazienti senza dire niente a nessuno.» «Be', lui l'ha fatto. Non ha disdetto gli appuntamenti: la gente è andata e non ha trovato nessuno. I vicini non hanno visto né lui né la sua macchina da almeno una settimana. Nessuno l'ha visto partire, da solo o con qualcuno. Pare che una vecchina che abita vicino gli abbia parlato la mattina del 5 giugno, cioè il giovedì prima dell'incendio. Erano usciti tutti e due a prendere il giornale e si sono salutati. Ha avuto l'impressione che andasse di fretta e che fosse più scorbutico del solito. Al momento non abbiamo altro.» «Mi chiedo se Claire Rawley era una sua paziente.» «Spero tanto che sia ancora vivo», disse Marino. «Sì», annuii con trasporto. «Lo spero anch'io.» Compito di un medico legale non è applicare la legge o farla rispettare, quanto condurre indagini obiettive su testimoni morti. A volte, però, certe definizioni mi stavano decisamente strette. Per me la giustizia contava più dei codici, soprattutto quando avevo l'impressione che nessuno badasse ai fatti. Fu questo genere di considera-
zioni a spingermi la domenica mattina a decidere di andare a trovare Hughey Dorr, il maniscalco che aveva ferrato i cavalli di Sparkes due giorni prima dell'incendio. Le campane della chiesa battista e di quella presbiteriana suonavano mentre sciacquavo la tazza del caffè dopo aver fatto colazione. Controllai i miei appunti alla ricerca del numero di telefono che mi aveva dato uno degli investigatori dell'ATF. Il maniscalco non era in casa, quando telefonai. Trovai la moglie e mi presentai. «È a Crozier», mi informò. «Resterà tutto il giorno a Red Feather Point. Ci si arriva da Lee Road, sulla sponda nord del fiume, non può sbagliare.» Invece potevo sbagliare, eccome. In quella zona c'erano tantissimi allevatori di cavalli e le loro ville francamente mi sembravano tutte uguali. Le chiesi di darmi qualche indicazione in più. «È proprio di fronte al penitenziario di stato, dall'altra parte del fiume. Ha presente quello dove i detenuti di giorno lavorano in campagna?» aggiunse. «Lei saprà certamente dov'è.» Purtroppo, infatti, lo sapevo. C'ero stata diverse volte, o perché qualche detenuto si era impiccato nella sua cella o perché aveva fatto fuori un compagno. Mi feci dare il numero di telefono e chiamai per chiedere se potevo andare. Nel carattere lievemente snob degli allevatori di cavalli, non parvero minimamente interessati al mio lavoro, ma mi dissero che avrei trovato il maniscalco nella stalla, un edificio verde. Tornai in camera e mi misi una maglietta da tennis, jeans e scarpe con i lacci. Poi telefonai a Marino. «Se vuoi venire mi fa piacere, altrimenti ci vado da sola», gli dissi. Sentii le grida tipiche di una partita di baseball trasmessa alla tv, poi il rumore della cornetta appoggiata da qualche parte e Marino che respirava forte. «E una stronzata», dichiarò. «Lo so», ammisi. «Sono stanca anch'io.» «Dammi mezz'ora.» «Ti vengo a prendere, così risparmiamo tempo», mi offrii. «Okay.» Abitava a sud del fiume James, in un quartiere di case di legno poco lontano dalla Midlothian Turnpike e dai suoi enormi centri commerciali in cui si trovava di tutto, dalle pistole alle moto, dai Bullet burger agli autolavaggi con o senza cera. La casa bianca di Marino era in Ruthers Road, dietro al Bon Air Cleaners e Ukrop's. Nel suo giardino sventolava una grossa
bandiera americana e dietro alla casa si intravedeva il garage dove teneva il camper. Il sole brillava sugli addobbi natalizi disposti accuratamente tutto intorno alla casa, con migliaia di lampadine colorate nascoste fra le foglie e sugli alberi. «Non capisco perché non le togli da un anno all'altro», gli dissi per l'ennesima volta, appena mi aprì la porta. «Se le tolgo, poi alla festa del Ringraziamento mi tocca rimettercele», mi rispose, come sempre. «Hai idea del tempo che ci vuole? Tanto più che ogni anno ce ne aggiungo.» Era diventata un'ossessione, per lui, tanto che aveva una valvoliera a parte per le decorazioni natalizie, che comprendevano un Babbo Natale tirato da otto renne, pupazzi di neve, bastoncini di zucchero, giocattoli e un Elvis dotato di altoparlanti che trasmettevano canti natalizi. L'illuminazione era tale che si vedeva da molto lontano e il suo giardino era tappa obbligata del giro turistico Stranezze di Richmond. Non riuscivo a capacitarmi di come un tipo antisociale come Marino potesse sopportare le file di macchine e limousine davanti a casa sua e le battute pesanti degli ubriachi. «Non capisco che cosa ti è preso», gli dissi salendo in macchina. «Due anni fa non l'avresti mai fatto. Poi, di colpo, hai trasformato il tuo giardino in un luna park. Sono preoccupata. Oltre a tutto rischi che ti vada a fuoco la casa. So che mi ripeto, ma secondo me...» «Lascia perdere...» Si allacciò la cintura e tirò fuori una sigaretta. «Che cosa diresti tu, se anch'io decorassi la casa a quel modo e lasciassi le lampadine nel giardino tutto l'anno?» «Lo stesso che direi se ti comprassi un camper, ti facessi fare una piscina e mangiassi porcherie ogni santo giorno: che ti sei bevuta il cervello.» «E avresti ragione», commentai. «Senti...» Giocherellava con la sigaretta spenta. «Ormai sono arrivato a un'età in cui o le cose le faccio adesso o non le faccio più», disse. «Me ne frego di quello che pensa la gente. Si vive una volta sola, no? E ormai non mi resta più nemmeno tanto tempo.» «Marino, tu pensi troppo alla morte.» «E un dato di fatto.» «Il fatto è che, se muori, finisci su uno dei miei tavoli. E questo dovrebbe spingerti a cercare di rimandare il più possibile la cosa.»
Stette zitto e guardò fuori del finestrino mentre io percorrevo la Route 6 attraverso la contea di Goochland, con i suoi boschi fitti dove a volte si percorrevano chilometri senza incontrare un'altra macchina. La mattina era tersa, ma l'umidità e la temperatura stavano salendo. Passammo davanti a case semplici con il tetto di lamiera e delle belle verande e vaschette per gli uccelli nel giardino. C'erano alberi carichi di mele verdi e girasoli con la testa bassa come in preghiera. «La verità è che me lo sento, capo», riprese Marino. «Sento che ormai mi manca poco. Se penso alla mia vita, mi pare di aver già fatto tutto. Anche se dovessi andarmene ora, mi sembrerebbe di aver già fatto abbastanza, capisci? Così mi vedo questo muro davanti e niente dietro. La strada finisce lì. È solo questione di vedere come e quando me ne andrò. Tanto vale fare quello che mi pare. Perché in fondo non cambia niente, no?» Non sapevo che cosa dire; pensare alla sua casa tutta illuminata a Natale mi faceva venire le lacrime agli occhi. Meno male che avevo gli occhiali da sole. «Non vorrei che ti ci fissassi», gli dissi a bassa voce. «A volte la gente si convince talmente di una cosa che poi gli succede davvero.» «Come Sparkes», osservò. «Non vedo il collegamento.» «Forse si è talmente convinto di questa cosa che alla fine è successa. È nero, pieno di nemici e fissato che tutti ce l'hanno con lui e ha tanta paura che gli portino via tutto che decide di darsi fuoco alla casa da solo. Ammazza i cavalli e la fidanzata, così non gli rimane niente. Per la miseria, coi soldi dell'assicurazione non si rifà certo della perdita. Non c'è verso. Il fatto è che, da qualsiasi parte la giri, Sparkes è fregato: o ha perso tutto quello che amava o finisce dentro.» «Se fosse solo per l'incendio, il dubbio che sia stato lui mi verrebbe», dissi. «Ma qui è morta una ragazza, assassinata, sono morti tutti i cavalli. Non ci siamo.» «Per me è come O.J. Simpson. Nero, ricco e potente con la ex, bianca, che finisce con la gola tagliata. Non ti pare che le analogie siano un po' troppe? Senti, ho voglia di una sigaretta. Fumo fuori del finestrino.» «Se Kenneth Sparkes avesse voluto ammazzare la sua ex, non pensi che l'avrebbe fatto da qualche altra parte, dove il collegamento con lui non fosse tanto immediato?» gli feci notare. «Perché distruggere tutto quello che aveva e attirare i sospetti?» «Non lo so, capo. Forse ha perso la testa e ha fatto una cazzata. Forse
non aveva in programma di ammazzarla e di dar fuoco alla casa.» «Non c'è niente in questo incendio che faccia pensare a un gesto impulsivo», dissi. «Anzi, ho l'impressione che sia stato tutto ben congegnato.» «È possibile. Oppure gli è andata bene.» La stradina era punteggiata di luce e di ombra e gli uccelli appollaiati sul filo del telefono mi facevano pensare alle note musicali. Passando davanti al North Pole con la sua insegna a forma di orso polare, mi ricordai di quando ci andavo a pranzo dopo le udienze nel tribunale di Goochland con investigatori e periti che ormai erano andati in pensione. Non ricordavo bene i casi di cui ci occupavamo perché da allora ne avevo visti troppi, ma ripensare a quei tempi mi fece intristire. Red Feather Point era in fondo a una strada sterrata che portava a un bellissimo casolare sul fiume James. La polvere si alzava dietro la macchina mentre mi avventuravo fra pascoli verdissimi punteggiati qua e là da qualche balla di fieno. La villa a tre piani aveva i muri non perfettamente a piombo tipici delle costruzioni antiche e anche i silos coperti di rampicanti avevano l'aria di non essere di questo secolo. I cavalli pascolavano in un campo più in là e il maneggio di terra rossa era vuoto, quando posteggiammo. Marino e io entrammo in una costruzione verde da cui proveniva il rumore di un martello che batteva sul metallo. Splendidi cavalli da caccia alla volpe, purosangue e arabi allungavano il collo dal loro box incuriositi e io non resistetti alla tentazione di accarezzare il loro muso vellutato. Mi fermai a sussurrare parole dolci a un puledro e alla madre, che mi guardavano con i loro grandi occhi marroni. Marino rimase a distanza, scacciandosi le mosche dal naso. «Guardarli va bene», commentò. «Ma di morsi me ne basta uno.» Il locale in cui i cavalli venivano ferrati e nutriti, con rastrelli e manichette alle pareti di legno e coperte appese sulle porte, era silenzioso; non incontrammo nessuno, a parte una donna vestita da amazzone, con il cap in testa e una sella all'inglese in mano. «Buongiorno», dissi appena le martellate si zittirono. «Sono la dottoressa Scarpetta, cerco il maniscalco», mi presentai. «Ho chiamato prima.» «È laggiù.» Mi fece cenno, senza rallentare il passo. «Già che c'è, dia un'occhiata anche a Black Lace. Ultimamente non mi sembra tanto in forma», disse. Mi resi conto che doveva avermi preso per un veterinario. Marino e io girammo dietro l'angolo e trovammo Dorr su uno sgabello con lo zoccolo anteriore destro di una giumenta bianca stretto fra le ginoc-
chia. Era calvo, con una schiena imponente e braccia muscolose e indossava un grembiulone di pelle. Sudato e coperto di polvere, stava estraendo dei chiodi da un ferro di alluminio. «'giorno», ci disse, mentre la cavalla tirava indietro le orecchie. «Buongiorno, signor Dorr. Sono la dottoressa Scarpetta e questo è il capitano Marino», dissi. «Sua moglie mi ha detto che l'avrei trovata qui.» Alzò gli occhi verso di noi. «Lasci perdere il signor Dorr: qui sono Hughey per tutti. È un veterinario?» «No, un medico legale. Il capitano Marino e io ci stiamo occupando del caso Warrenton.» Si incupì e gettò il ferro vecchio da una parte. Poi prese un coltello ricurvo da una tasca del grembiule e cominciò a tagliare il fettone finché non apparve lo zoccolo bianco marmorizzato. Un sassolino che si era incastrato di sotto lanciò una scintilla. «Bisognerebbe sparargli, a quello che gli ha dato fuoco», borbottò prendendo da un'altra tasca una tronchesina e cominciando a pareggiare lo strato esterno dello zoccolo. «Stiamo facendo di tutto per scoprire come sono andate le cose», disse Marino. «Il mio compito è identificare la donna morta nel rogo», spiegai, «e capire esattamente che cosa le è successo.» «Prima di tutto», intervenne Marino, «perché si trovava in quella casa.» «Ho sentito. È una stranezza», commentò Dorr. Stava usando una raspa e la giumenta tirava indietro le labbra, irritata. «Non ci sarebbe dovuto essere nessuno, in casa», dichiarò. «A quanto ho capito, lei era andato da Sparkes solo pochi giorni prima», chiese Marino prendendo appunti. «L'incendio è scoppiato sabato sera», disse Dorr. Cominciò a pulire il fondo dello zoccolo con una spazzola di ferro. «Io ci sono stato giovedì, quasi tutto il giorno. Non c'era niente di strano. Ho ferrato otto cavalli e guardato quello che aveva un'infezione allo zoccolo. Gli ho fatto delle spennellature di formaldeide, ma lei lo sa meglio di me», disse. Abbassò la zampa destra e prese la sinistra; la giumenta fece un sobbalzo e mosse la coda. Dorr le toccò il naso. «Per distrarla», ci spiegò. «È una brutta giornata, per lei. Sono come dei bambini, ti mettono alla prova. La gente pensa che si affezionino, ma a lo-
ro interessa solo mangiare.» La giumenta girò gli occhi e mostrò i denti quando il maniscalco tirò fuori degli altri chiodi, lavorando senza interrompersi nemmeno quando parlava. «Lei ha mai visto una donna alta, bionda e molto bella, quando andava da Sparkes?» gli chiesi. «No. Di solito quando andavo stavamo con i cavalli. Se appena poteva, mi aiutava. Andava pazzo per quelle bestie.» Prese di nuovo il coltello in mano. «Dicono che se la spassava in giro», continuò Dorr. «Ma io non l'ho mai visto. Mi sembrava un tipo solitario e, sapendo chi era, mi stupiva.» «Da quanto lavora per lui?» domandò Marino assumendo una posizione dalla quale capii che voleva continuare lui. «Sono quasi sei anni», rispose Dorr prendendo la raspa. «Ci vado una o due volte al mese.» «Quando lo vide quel giovedì, le disse che stava per partire?» «Sì, certamente. Ci andai apposta. Doveva partire due giorni dopo per Londra e, visto che quello che prima gli dava una mano al ranch aveva smesso di lavorare, se ci fossi andato dopo non avrei trovato nessuno.» «Sembra che la vittima avesse una vecchia Mercedes azzurra. Lei ne ha mai visto una al ranch di Sparkes?» Dorr strisciò lo sgabello di legno sul pavimento tirandosi dietro la scatola degli attrezzi. Prese una zampa posteriore della giumenta. «Non mi pare.» Gettò un altro ferro. «No, non mi ricordo proprio. Su, buona.» Fermò la cavalla posandole la mano sulla groppa. «Brutti zoccoli», ci disse. «Come si chiama?» «Molly Brown.» «Lei non è di qui, vero?» «Sono nato e cresciuto nel sud della Florida.» «Anch'io, sa? A Miami.» «Non esageriamo: Miami è quasi in Sudamerica!» 12 Era entrato un cane, che annusava il pavimento pieno di paglia alla ri-
cerca dei pezzetti di zoccolo. Molly Brown stava elegantemente con una zampa alzata come fosse in un salone di bellezza a farsi fare la manicure. «Hughey», dissi, «in questo incendio ci sono alcuni particolari che destano perplessità. Per esempio il cadavere, visto che a casa di Sparkes non ci sarebbe dovuto essere nessuno. Siccome sono io a occuparmene, voglio fare il possibile per scoprire come mai quella donna si trovava lì e perché non è scappata quando è scoppiato l'incendio. Forse lei è l'ultimo a essersi recato nella tenuta di Warrenton prima del rogo e sarebbe importante che ci dicesse se quel giorno notò qualcosa di particolare. Cerchi di ricordare.» «Per esempio», intervenne Marino, «ricorda se Sparkes parlò al telefono con qualcuno? Ebbe l'impressione che stesse aspettando ospiti? Gli aveva mai sentito nominare una certa Claire Rawley?» Dorr si alzò e accarezzò di nuovo Molly Brown sulla groppa, mentre l'istinto mi diceva di stare lontana dalle robuste zampe posteriori della cavalla. Il cane si mise ad abbaiare nella mia direzione come se di colpo mi avesse riconosciuto come estranea. «Su, su, cuccia.» Mi chinai e tesi la mano nella direzione del cane. «Dottoressa Scarpetta, mi sono accorto che lei si fida di Molly Brown e anche la cavalla se n'è accorta. Lei invece ha paura», aggiunse indicando Marino. «Guardi che loro se ne rendono conto, sa?» Uscì e noi lo seguimmo. Marino si appiattì contro il muro per passare dietro a un cavallo davvero imponente. Il maniscalco girò dietro l'angolo, dov'era parcheggiato il suo camion. Era un pick-up rosso con una forgia a gas propano sul pianale. Girò una manopola facendo spuntare una fiamma azzurrognola. «Visto che non ha buoni zoccoli, devo metterle delle clip ai ferri. Una specie di ortopedia per animali», commentò prendendo un ferro di alluminio con un paio di pinze e accostandolo alla fiamma. «Se ho appena acceso la forgia conto fino a cinquanta», spiegò annusando il metallo. «Altrimenti fino a trenta. L'alluminio non cambia colore, perciò lo scaldo finché non diventa malleabile.» Portò il ferro sull'incudine e vi praticò dei fori, poi preparò i fermagli e li batté per appiattirli. Per arrotondare gli spigoli usò una mola che faceva lo stesso rumore di una sega Stryker. Sembrava approfittare del proprio lavoro per prendere tempo, per pensare o per evitare di dirci quello che ci interessava. Sicuramente era dalla parte di Sparkes. «Vede, la famiglia della vittima ha diritto di sapere», insistetti. «Ma fin-
ché non avrò identificato la vittima con certezza, non potrò nemmeno dire ai suoi cari che è morta. Vorranno sapere che cosa le è successo e bisogna che io lo scopra.» Ma Dorr non aveva altro da aggiungere e lo seguimmo di nuovo da Molly Brown, che nel frattempo aveva defecato e calpestato i suoi stessi escrementi. Irritato, Dorr spazzò via il letame con una ramazza mentre il cane continuava a gironzolare. «Vedete, la difesa principale del cavallo è la fuga», disse dopo aver stretto fra le ginocchia una delle zampe anteriori della cavalla. «Anche se sono affezionati al padrone, appena possono scappano.» Piantò i chiodi attraverso il ferro, ribattendone le punte che fuoruscivano dallo zoccolo. «Gli esseri umani fanno uguale, se si sentono messi alle strette», aggiunse. «Spero che lei non si senta messo alle strette», dissi accarezzando il cane dietro alle orecchie. Dorr ribadì bene i chiodi e quindi ne arrotondò le punte con una lima, prendendo tempo prima di rispondere. «Ecco fatto», disse a Molly Brown. L'aria odorava di metallo e di letame. «Come voi non potete pensare di venire qui e mettervi subito a ferrare questa cavalla», continuò battendo con il martello, «non potete nemmeno aspettarvi che io mi fidi di voi la prima volta che vi incontro.» «Capisco», dissi. «Io non mi ci metterei mai, a ferrarla», fece Marino. «Non avrei voglia nemmeno di provarci.» «1 cavalli mordono, sapete? Scalpitano, scalciano, sbattono la coda negli occhi. Meglio fargli vedere subito chi comanda, se non si vogliono guai.» Si drizzò massaggiandosi la schiena, poi tornò alla forgia a scaldare un altro ferro. «Senta, Hughey», disse Marino seguendolo. «Io le chiedo di aiutarci perché sono convinto che lei lo vuole fare. Lei era affezionato a quei cavalli e penso che le dispiaccia che quella poveretta sia morta.» Il maniscalco frugò in uno scomparto laterale del camion. Prese un altro ferro e lo afferrò con le pinze. «Posso soltanto dirvi quello che penso io.» Tenne il ferro sulla fiamma. «Sono tutto orecchi», lo incoraggiò Marino. «Secondo me è stato un professionista; la donna era sua complice ma per
qualche ragione non ce l'ha fatta a tirarsi fuori.» «Quindi crede che sia stata lei a dare fuoco alla casa.» «Magari non da sola. E poi è rimasta prigioniera.» «Perché lo pensa?» domandai. Dorr strinse il ferro caldo in una morsa. «Perché c'è un sacco di gente che ce l'ha con il signor Sparkes. Soprattutto di estrema destra», rispose. «Sì, ma perché secondo lei la donna era loro complice?» insistette Marino. Dorr si fermò un attimo a stirarsi la schiena. Girò la testa facendo scricchiolare il collo. «Forse non sapevano che Sparkes era partito e gli serviva una donna per farsi aprire la porta. Tanto più che lui la conosceva.» Marino e io ascoltavamo senza interrompere. «Sparkes non è il tipo da chiudere la porta in faccia a un amico. Anzi, secondo me è troppo bravo e rischia di pigliarsi delle fregature.» Si intuiva la sua collera dal modo in cui martellava e molava il ferro; quando lo infilò in un secchio d'acqua, sfrigolò. Senza dire niente, tornò da Molly Brovvn e si sedette sullo sgabello. Cominciò a provare il ferro, limandone i bordi e tirando fuori il martello. La giumenta era nervosa, ma sembrava soprattutto annoiata. «Vi dirò anche un'altra cosa a sostegno della mia teoria», disse continuando a lavorare. «Quando ero alla tenuta, quel giovedì, c'era un dannato elicottero che continuava a volarci sopra la testa. Da quelle parti non li usano per irrigare, quindi non capivamo se si era perso o se stava cercando un posto dove atterrare. Sarà stato lì un quarto d'ora, prima di andarsene verso nord.» «Di che colore era?» domandai ricordando l'elicottero che avevo visto sorvolare la scena dopo l'incendio. «Bianco. Sembrava una libellula.» «Uno piccolo, con il motore a pistoni?» chiese Marino. «Non me ne intendo, ma sì, era piccolo. Biposto, a occhio. Senza numeri né sigle. E questo dà da pensare, no? Che magari fosse qualcuno che faceva un'ultima ricognizione dall'alto...» Il cane aveva posato la testa sulla mia scarpa e stava chiudendo gli occhi. «Non l'aveva mai visto prima?» domandò Marino. Mi resi conto che anche lui aveva fatto il collegamento con l'elicottero bianco, ma non voleva
dimostrarsi troppo curioso. «No. A Warrenton gli elicotteri non vanno di moda. Fanno paura ai cavalli.» «Però in zona ci sono un piccolo aeroporto, una pattuglia acrobatica dell'aeronautica e alcune piste di atterraggio private», ribatté Marino. Dorr si rialzò. «Be', io vi ho detto come la penso io», disse. Prese un fazzoletto e si asciugò la faccia dal sudore. «Altro non so. Uffa, ho male dappertutto.» «Un'ultima cosa», disse Marino. «Sparkes è un uomo importante, molto impegnato. Ogni tanto prenderà pure lui l'elicottero. Per andare all'aeroporto, magari, visto che abita tanto lontano.» «Certo. Di solito atterrano nella tenuta», disse Dorr. Lanciò a Marino un'occhiata piena di diffidenza. «E sono dello stesso tipo di quello che ha visto lei?» domandò Marino. «Gliel'ho già detto: uno così non l'avevo mai visto.» Dorr ci fissò e Molly Brown diede uno strattone alla cavezza mostrando i denti. «Sentite una cosa», fece Dorr. «Se volete a tutti i costi dare la colpa a Sparkes, non cercate di mettermi di mezzo.» «Non vogliamo a tutti i costi dare la colpa a Sparkes né a nessun altro», ribatté Marino in tono di sfida. «Vogliamo fare luce sulla faccenda e trovare il responsabile. Niente di più.» «Non sarebbe male, per una volta», commentò Dorr. Mi rimisi alla guida turbata, ripassando quello che sapevo e quello che aveva detto Dorr. Marino parlò poco e, quanto più ci avvicinavamo a Richmond, tanto più di malumore diventava. Appena ci fermammo davanti a casa sua, gli trillò il cercapersone. «Quell'elicottero non mi quadra», decretò mentre lasciavo la macchina dietro al suo pick-up. «Mah, magari era lì per caso.» La possibilità c'era. «Adesso cosa vorranno da me?» Alzò il cercapersone e lesse sul display. «Merda, mi sa che è successo qualcosa. Entra un attimo, è meglio.» Non mi capitava spesso di entrare in casa di Marino; forse l'ultima volta era stata durante le vacanze di Natale, quando ero andata a trovarlo con una pagnotta fatta in casa e uno stufatino che era la mia specialità. Naturalmente quella volta le decorazioni erano accese e anche dentro la casa
c'erano addobbi dappertutto e un albero di Natale gigantesco. Mi ricordavo persino un trenino elettrico che correva sui binari intorno a un paesello coperto di neve. Per il brindisi Marino aveva preparato un drink fortissimo dopo il quale, in tutta onestà, non avrei assolutamente dovuto guidare. In quel momento la casa di Marino mi parve spoglia e triste, con la sua poltrona reclinabile preferita al centro del soggiorno, i trofei di bowling collezionati nel corso degli anni allineati sulla mensola del caminetto e il televisore maxischermo che forse era l'oggetto più bello della casa. Lo seguii in cucina e non potei fare a meno di notare i fornelli sporchi di unto, la pattumiera troppo piena e i piatti sporchi nel lavandino. Presi una spugnetta e cominciai a dare una pulita, mentre Marino componeva il numero. «Lascia stare», mi disse. «Be', a furia di lasciar stare...» «Pronto», disse. «Sono Marino. Che cosa è successo?» Rimase in ascolto per un bel po', corrucciato e sempre più rosso in faccia. Cominciai a lavare i piatti, che non erano pochi. «Ma non controllano se i passeggeri ci sono tutti?» domandò. «Si, va be', se i sedili sono tutti occupati. Davvero? Siamo sicuri al cento per cento che l'hanno fatto anche stavolta? Certo, non se lo ricorda nessuno; quando mai qualcuno si ricorda qualcosa... e scommetto che non hanno nemmeno visto niente.» Sciacquai i bicchieri e li posai su uno strofinaccio ad asciugare. «Sono d'accorcio che la questione dei bagagli lascia delle perplessità», disse. Siccome il detersivo per i piatti era finito, dovetti usare un pezzo di sapone che trovai sotto il lavandino. «Già che ci sei», stava dicendo, «vedi se riesci a scoprire qualcosa a proposito di un elicottero bianco che volava intorno alla villa di Sparkes.» Stette un attimo zitto, poi aggiunse: «Forse prima e sicuramente poi, perché l'ho visto anch'io con i miei occhi». Rimase in ascolto un po' mentre io attaccai le posate; poi, con mia grande sorpresa, chiese: «Prima di chiudere, vuoi parlare con tua zia?». Rimasi di sasso e lo fissai. «Te la passo.» Mi porse il telefono. «Zia Kay?» Lucy sembrava stupefatta quanto me. «Che cosa fai a casa di Marino?» mi chiese.
«Le pulizie.» «Che cosa?» «Tutto a posto?» le domandai. «Fatti spiegare da Marino. Io controllo l'elicottero. Da qualche parte avrà ben dovuto fare rifornimento. Forse ha consegnato il piano di volo alla FSS di Leesburg, anche se ne dubito. Ora scusa, ma devo andare.» Riattaccai e di colpo mi sentii offesa e arrabbiata, anche se non sapevo bene perché. «Penso che Sparkes sia nei guai, capo», dichiarò Marino. «Che cosa è successo?» chiesi. «Pare che il sabato, cioè il giorno dell'incendio, si sia presentato a Dulles per il volo delle ventuno e trenta. Ha fatto il check in, ma non ha mai ripreso i bagagli a destinazione, cioè a Londra. Questo vuol dire che potrebbe aver consegnato le valigie e il biglietto al gate e poi essersene tornato tranquillamente a casa.» «Credevo che nei voli internazionali contassero i passeggeri a bordo» ribattei. «Non avrebbero notato se ne mancava uno?» «Non si sa. Non ti scordare che se è arrivato dov'è arrivato tanto scemo non dev'essere.» «Marino...» «Aspetta. Lasciami finire. Sparkes sostiene di aver trovato le guardie ad aspettarlo al suo arrivo a Heathrow alle nove e quarantacinque del mattino dopo. Stiamo parlando di ora locale: qui erano le quattro e quarantacinque. Lo avvertono che a casa sua è scoppiato un incendio, lui fa dietro-front e prende il primo volo United per Washington senza più pensare ai bagagli.» «Be', può succedere, se uno è sconvolto», gli feci notare. Marino rimase un attimo a guardarmi, mentre posavo la saponetta sul lavandino e mi asciugavo le mani. «Capo, devi smetterla di prendere le sue parti», mi disse. «Non sto prendendo le sue parti. Sto cercando di essere obiettiva, a differenza di tanti altri. E comunque si possono sempre rintracciare le guardie che lo informarono dell'incendio a Heathrow, no?» «Be', finora non ci sono riusciti. E comunque non si capisce come facessero a sapere dell'incendio. Sparkes naturalmente ha una spiegazione per tutto: dice che quando viaggia i servizi di sicurezza di solito gli riservano un trattamento speciale e lo vanno a prendere al gate. Pare che a Londra la notizia dell'incendio fosse già stata data quella mattina e che l'uomo d'affari con cui Sparkes aveva appuntamento avesse chiamato la British Airways
perché lo informassero appena metteva piede a terra.» «E almeno a questo uomo d'affari qualcuno è riuscito a parlare?» «Non ancora. Non ti scordare che questa è la versione di Sparkes. Mi duole dirtelo, capo, ma ho l'impressione che parecchie persone sarebbero disposte a mentire per coprirlo. Se dietro a questa storia c'è veramente lui, deve aver preparato tutto nei minimi dettagli. Ti faccio notare anche che quando è arrivato a Dulles per prendere il volo per Londra, l'incendio era già divampato e la donna già morta. Chi ci dice che non è stato lui a farla fuori e a usare un congegno a tempo per appiccare il fuoco dopo essersi allontanato dalla tenuta?» «Nessuno», ammisi. «Ma non puoi neanche provarlo. E ho l'impressione che questa tua teoria sia indimostrabile, a meno che dalle analisi non venga fuori che è stato usato qualche ordigno telecomandato.» «Di questi tempi le case sono piene di aggeggi utilizzabili come timer. Sveglie, videoregistratori, computer, orologi digitali...» «E vero. Ma ci vuole anche qualcosa per accendere il basso esplosivo, come detonatori, scintille, fusibili, fuoco», dissi. «Se non hai altro da farmi fare», aggiunsi poi sarcastica, «io andrei.» «Non te la prendere con me», sbottò. «Non è mica colpa mia.» Mi fermai sulla porta e lo guardai. Ciuffi di capelli grigi e fini gli aderivano alla testa sudata. Probabilmente in camera sua c'erano mucchi di vestiti sporchi e mettere in ordine e pulire quella casa sarebbe stata un'impresa titanica. Pensai a Doris, la sua ex moglie, e immaginai la servile docilità con cui gli era stata vicina prima di piantarlo improvvisamente per un altro uomo. Era come se a Marino avessero trasfuso del sangue sbagliato. Per quanto si impegnasse e lavorasse bene, sembrava in perenne conflitto con l'ambiente che lo circondava. E questo lo stava lentamente uccidendo. «Fammi un favore», gli dissi, con la mano sulla porta. Si asciugò la fronte nella manica e tirò fuori le sigarette. «Non incoraggiare Lucy a tirare conclusioni affrettate», dissi. «Sai quanto me che il problema sono le forze dell'ordine e i politici locali. Secondo me siamo molto lontani dallo scoprire che cosa c'è sotto. Perciò non mettiamo ancora in croce nessuno.» «Sono stupefatto», ribatté Marino. «Dopo tutto quello che ha incasinato per farti cacciare, tu lo tratti come un santo?» «Non lo tratto come un santo. Francamente non credo ne esistano.» «Proprio vero che Sparkes ci sa fare, con le donne», continuò Marino.
«Se non ti conoscessi, direi che ti sei presa una cotta.» «Non ti rispondo nemmeno.» Uscii meditando se sbattergli o meno la porta in faccia. «Tipico di chi ha la coda di paglia.» Mi seguì nel giardino. «Non credere che non mi sia accorta che tu e Wesley siete in rotta...» Mi voltai e gli puntai contro l'indice. «Adesso basta», lo avvertii. «Non ti impicciare degli affari miei e non mettere in discussione la mia professionalità. Eppure dovresti conoscermi, per la miseria.» Scesi i gradini e mi chiusi in macchina. Feci retromarcia lentamente, ostentando grande disinvoltura, e mi allontanai senza degnare Marino nemmeno di uno sguardo. 13 Lunedì mattina un violento temporale si abbatté sulla città. Il vento era forte, la pioggia fittissima e, quando presi la macchina per andare a lavorare, dovetti regolare al massimo i tergicristalli e l'aria condizionata per evitare che mi si appannasse il parabrezza. Quando al casello abbassai il finestrino per pagare, mi si inzuppò la manica; al colmo della sfortuna, proprio quel giorno nell'area di carico dell'obitorio c'erano due carri funebri e mi toccò lasciare la macchina fuori. Nei quindici secondi che mi occorsero per attraversare di corsa il parcheggio e infilare la chiave nella porta di servizio, finii di bagnarmi. Ero fradicia, con i capelli che gocciolavano e le scarpe che grondavano acqua. Controllai sul registro che cosa era arrivato durante la notte. Era morto un neonato nel letto dei genitori. Una signora anziana sembrava essersi suicidata prendendo troppe pillole e, come al solito, c'era stata una sparatoria in un quartiere degradato vicino al centro della città, che recentemente stava diventando più umano e abitabile. Da diversi anni a quella parte, Richmond era stata definita una delle città più violente degli Stati Uniti con un record di centosessanta omicidi all'anno per una popolazione di duecentocinquantamila anime. In genere la colpa veniva addossata alla polizia. E a me, se le statistiche compilate dal mio ufficio non piacevano ai politici o i processi erano troppo lenti. L'irrazionalità di tutto questo non finiva mai di stupirmi, perché i depositari del potere non sembravano neppure prendere in considerazione
l'idea che la prevenzione è il metodo più efficace contro le malattie più pericolose. È decisamente meglio vaccinare contro la poliomielite, per esempio, che curarla. Chiusi il registro e uscii nel corridoio deserto con le scarpe che facevano cic ciac. Entrai nello spogliatoio perché cominciavo ad avere freddo. Mi tolsi il tailleur e la camicetta e mi infilai un paio di pantaloni da chirurgo, impresa che diventava tanto più ardua quanta più fretta si aveva, misi il camice e mi fregai i capelli con un asciugamano, pettinandoli con le dita. La faccia che restituì il mio sguardo nello specchio aveva l'aria angosciata e stanca. Stavo mangiando e dormendo male e negli ultimi giorni avevo bevuto più caffè e alcol del solito: se avevo gli occhi pesti era anche per la rabbia e la paura che mi provocava Carrie. Non sapevamo dove fosse, ma io la vedevo ovunque. Entrai nella saletta dove Fielding, che evitava la caffeina, si stava preparando una tisana. Le sue abitudini salutiste mi ricordarono che non facevo ginnastica da oltre una settimana e contribuirono a far peggiorare il mio umore. «Buongiorno», mi accolse allegramente. «Speriamo che sia buono davvero», risposi prendendo la caffettiera. «Non mi sembra che ci sia troppo lavoro, oggi. Pensavo di lasciarlo a te e di affidarti anche la riunione di stamattina. Ho molto da fare.» Fielding era fresco ed elegante in camicia gialla con polsini doppi, cravatta colorata e pantaloni neri. Era ben rasato e profumato. Persino le scarpe erano lucide perché, al contrario di me, lui non lasciava che le circostanze esterne interferissero con il suo modo di vivere. «Non capisco come fai», esclamai ammirata. «Dimmi, non ti toccano mai i mali che affliggono il resto dell'umanità, come depressione, stress, incontenibile voglia di cioccolato, di sigarette, di scotch?» «Quando sono teso tendo ad allenarmi troppo», riconobbe bevendo la tisana fumante e guardandomi. «E a farmi male.» Rifletté un momento. «Ma soprattutto, ora che mi ci fai pensare, mi isolo da mia moglie e dai figli. Trovo delle scuse per non stare a casa, mi comporto da egoista e mi rendo odioso. Quindi sì, anch'io sono un po' autolesionista. Ma ti assicuro che se trovassi il tempo di farti una bella camminata, un giro in bicicletta e un po' di ginnastica, ti sentiresti meglio.» Si allontanò e aggiunse: «Sono le morfine naturali del corpo, no?». «Grazie», gli dissi, rimpiangendo di averglielo chiesto.
Mi ero appena seduta alla scrivania quando arrivò Rose con i capelli raccolti e un tailleur blu elegante. Sembrava pronta per un consiglio di amministrazione. «Non sapevo che fossi già arrivata», mi disse posando sulla scrivania un mucchio di protocolli. «Ha appena chiamato la McGovern dell'ATF.» «Ah, sì?» chiesi interessata. «Ti ha detto perché?» «Mi ha chiesto di riferirti che il fine settimana era a Washington e che ti deve parlare.» «Quando e a che proposito?» Cominciai a firmare la corrispondenza. «Dovrebbe essere qui a momenti», rispose Rose. Alzai gli occhi sorpresa. «Chiamava dalla macchina. Mi ha detto di avvertirti che era quasi a Kings Dominion e che sarà qui fra venti minuti, mezz'ora.» «Dev'essere una faccenda urgente», mormorai aprendo una cartellina piena di vetrini. Mi voltai e tolsi la protezione di plastica dal microscopio. Poi accesi l'illuminatore. «Non devi sentirti in dovere di riceverla», mi confortò, protettiva come sempre. «Non ha preso appuntamento e non ha neppure chiesto se eri impegnata.» Posai un vetrino sul piatto e appoggiai l'occhio sulla lente per esaminare una sezione di tessuto pancreatico. Le cellule vizze e rosa sembravano appartenere a tessuto ialino o cicatriziale. «L'esame tossicologico è risultato negativo», informai Rose cambiando vetrino. «Tranne l'acetone», aggiunsi. «Sottoprodotto di un metabolismo inadeguato del glucosio. E i reni mostrano vacuolizzazione iperosmolare delle cellule del rivestimento tubolare convoluto prossimale. Il che significa che, invece di essere cuboidali e rosa, sono trasparenti e ingrossate.» «Di nuovo Sonny Quinn», disse Rose sgomenta. «In più abbiamo una storia di alito dall'odore fruttato, perdita di peso, sete, minzione frequente. Con l'insulina sarebbe vissuto benissimo. Non che non creda nella preghiera, nonostante quel che ha detto la famiglia alla stampa.» Sonny Quinn era il figlio undicenne di una coppia appartenente alla setta dei Christian Science, morto otto settimane prima. Sebbene non ci fossero dubbi sulla causa del decesso, perlomeno da parte mia, avevo preferito aspettare i risultati delle analisi prima di pronunciarmi. Il ragazzo era morto
perché non aveva ricevuto adeguate cure mediche. I genitori avevano protestato poiché non volevano che venisse effettuata l'autopsia ed erano addirittura andati in televisione, accusandomi di persecuzione religiosa e di aver mutilato il corpo di loro figlio. Rose, che aveva già sopportato una serie di miei sfoghi in proposito, mi chiese: «Vuoi chiamarli?». «Più che altro non posso farne a meno.» Cercò nella spessa cartella di Sonny Quinn il numero di telefono e me lo scrisse. «Auguri», mi disse uscendo. Feci il numero con il cuore gonfio. «Pronto, parlo con la signora Quinn?» dissi, sentendo una voce di donna. «Sì.» «Sono Kay Scarpetta. Ho ricevuto i risultati delle analisi di lab...» «Non pensa di averci già fatto soffrire abbastanza?» «Credevo voleste sapere perché vostro figlio è morto...» «Non mi parli più di mio figlio», sbottò. Sentii che passava la cornetta a qualcuno. Avevo il batticuore. «Pronto. Sono Quinn», disse l'uomo che si trincerava dietro la libertà di culto per una religione che aveva fatto morire suo figlio. «Sonny è morto in seguito a una polmonite dovuta a chetoacidosi diabetica acuta conseguente all'esordio acuto di diabete mellito. Mi dispiace, signor Quinn.» «È un errore. Uno sbaglio.» «Mi dispiace, signor Quinn, ma non è un errore», risposi cercando di trattenere la collera. «Posso solo suggerirle di far curare al più presto i fratelli di Sonny, se dovessero presentare sintomi simili, per non dover soffrire di nuovo...» «Non voglio sentirmi dire come devo crescere i miei figli da un medico legale», mi interruppe gelido. «Ci vediamo in tribunale, cara signora.» "Non mancherò", pensai, perché sapevo che il tribunale li avrebbe condannati per negligenza e maltrattamento aggravato di minore. «Non ci telefoni più», mi ordinò prima di riattaccare. Posai la cornetta con il cuore gonfio e, alzando gli occhi, vidi Teun McGovern nel corridoio, proprio fuori della porta. Dal suo sguardo mi resi conto che aveva sentito tutto. «Avanti», le dissi. «E io che credevo che il mio fosse un lavoro duro», commentò. Mi
guardò negli occhi e si sedette direttamente di fronte a me. «Per voi dev'essere routine, ma io non avevo mai sentito una telefonata così. Capita anche a me di parlare con le famiglie, ma per fortuna non gli devo spiegare nei particolari in che stato sono la trachea o i polmoni dei loro cari.» «E il lato peggiore di questo lavoro», dissi semplicemente, oppressa da un peso che non voleva lasciarmi. «Fai l'ambasciatore che porta pena.» «Non sempre», risposi, sapendo che non avrei più dimenticato le dure accuse dei Quinn per il resto dei miei giorni. Erano tante le voci che non avrei più scordato, le urla e le suppliche colme di rabbia, di dolore e talvolta di biasimo, perché avevo osato toccare ferite profonde e ascoltare. Ma non volevo parlarne con Teun McGovern. Non volevo trattarla come un'amica. «Devo fare ancora una telefonata», le dissi. «Se vuoi, puoi andarti a prendere un caffè oppure rilassarti un momento. Sono certa che ti interesserà sapere se scopro qualcosa.» Chiamai la University of North Carolina di Wilmington e, sebbene non fossero ancora le nove, riuscii a parlare con il segretario. Fu molto educato, ma non mi disse nulla. «Capisco il motivo per cui chiama e le assicuro che vorremmo aiutarla», esordì. «Ma senza un'ordinanza del tribunale non possiamo assolutamente divulgare informazioni personali sui nostri studenti. Meno che mai al telefono.» «Signor Shedd, stiamo parlando di un omicidio», gli ricordai impaziente. «Me ne rendo conto», replicò. Riprovai, ma era come cercare di abbattere un muro di gomma. Alla fine mi arresi e lo salutai. Quando mi rivolsi di nuovo alla McGovern ero affranta. «Vogliono pararsi il fondoschiena casomai la famiglia poi gli faccia causa», disse lei. Lo sapevo anch'io. «Bisogna semplicemente obbligarli a darci quelle informazioni; prima o poi ci riusciremo.» «Infatti», replicai scocciata. «Come mai sei venuta da me?» domandai. «Ho sentito che avevi i risultati delle analisi, o almeno qualcuno. Ho telefonato venerdì sul tardi.» «Non me lo hanno detto.» Ero irritata. Se l'analista aveva chiamato lei prima di me, mi sarei arrabbiata davvero. Presi il telefono e chiamai Mary Chan, una ragazza appena assunta nei laboratori.
«Buongiorno», dissi. «Avete dei referti per me?» «Stavo per portarglieli giù.» «Quelli che avete mandato all'ATF?» «Sì, esattamente. Vuole che glieli faxi o che glieli porti di persona?» Le diedi il numero di fax del mio ufficio. Non le feci una sfuriata, ma le manifestai comunque il mio disappunto. «La prossima volta le sarei grata se desse a me i risultati delle analisi relative ai casi di cui mi occupo, prima di mandarli ad altri», dissi con calma. «Mi scusi», rispose, e dal tono capii che le dispiaceva davvero. «Hanno chiamato alle cinque, quando stavo per uscire.» Due minuti dopo avevo in mano i referti e la McGovern aprì la valigetta per prendere le sue copie. Mi guardò mentre li leggevo. Il primo riguardava l'analisi delle scaglie di metallo che avevo trovato dentro la ferita nella regione temporale sinistra del cadavere. Secondo la microscopia elettronica a scansione e l'esame radiografico a energia dispersiva, o SEM/EDX, la composizione del materiale in questione era magnesio. Anche per quanto riguardava la sostanza fusa ritrovata nei capelli della vittima, i risultati erano inspiegabili. Il FTIR, o spettrofotometro a trasformazione di infrarossi, aveva fatto assorbire alle fibre raggi infrarossi in maniera selettiva. Il modello caratteristico sembrava essere quello del polimero polisilossano, o silicone. «Strano, ti pare?» mi chiese la McGovern. «Cominciamo dal magnesio», dissi. «La prima cosa che mi viene in mente è l'acqua di mare, che ne contiene in abbondanza. Oppure una cava. Ma potremmo anche avere a che fare con un chimico industriale o un tecnico di laboratorio. A te vengono in mente degli esplosivi?» «Be', se fosse venuto fuori cloruro di potassio... potrebbe essere la polvere che si usava per i flash», rispose. «O RDX, stifnato di piombo, azotidrato di piombo o fulminato di mercurio, se parliamo di detonatori, per esempio. Oppure acido nitrico, acido solforico, glicerina, nitrato ammonico, nitrato di sodio. Nitroglicerina, dinamite ecc. Aggiungo che Pepper si sarebbe accorto di alti esplosivi come questi.» «E il magnesio invece?» «Si usa nei fuochi d'artificio», rispose. «Per ottenere luce bianca brillante. O nei razzi di segnalazione.» Si alzò. «Di solito si preferisce la polvere di alluminio perché si conserva meglio, a meno che le particelle di magnesio non siano rivestite, per esempio di olio di semi di lino.» «Razzi di segnalazione», riflettei a voce alta. «Uno potrebbe accenderli,
sistemarli strategicamente e poi correre via. Teoricamente è fattibile?» «Purché il carico d'incendio sia adeguato, sì.» «In questo caso però non ne avremmo ritrovato una scheggia nella ferita, dove si direbbe sia stata lasciata dallo strumento da taglio con cui è stata inferta.» «Non si usa magnesio per fare i coltelli», osservò Teun McGovern. «No, è troppo duttile. E nell'industria aerospaziale, data la sua leggerezza?» «Certamente. Ma sotto forma di leghe che sarebbero senza dubbio risultate alle analisi.» «Già. Passiamo al silicone, che mi pare un assurdo. A meno che non avesse impianti al silicone prima che li vietassero. Ma sappiamo che non li aveva.» «Quello che ti posso dire è che la gomma siliconica si usa negli isolamenti elettrici, negli oli per circuiti idraulici e come idrorepellente. Niente che ci possa interessare, a meno che non ci fosse qualcosa nel bagno, magari nella vasca... rosa, per di più. Non so.» «Sappiamo se Sparkes nel bagno aveva un tappeto antiscivolo o qualche oggetto rosa?» domandai. «Abbiamo appena cominciato a controllare il contenuto della casa insieme a lui», mi spiegò. «Pare che il bagno principale fosse tutto bianco e nero, però. Pavimento e pareti di marmo nero, lavandino, pensili e vasca bianchi. La cabina della doccia era europea e non era di vetro temperato, e questo spiega perché non si è disintegrata in milioni di palline di vetro quando la temperatura è salita oltre i duecento gradi.» «E anche perché si è fusa sopra al cadavere», dissi. «L'ha praticamente avvolta come una pellicola trasparente.» «Be', non proprio.» «La porta aveva cardini di ottone e niente telaio, il che coincide con quello che abbiamo ricuperato. Su questo punto almeno la memoria del tuo amico non è labile.» «E su altri?» «Non sappiamo, Kay.» Si slacciò la giacca del tailleur, quasi di colpo le fosse venuto di mente che poteva rilassarsi. Nello stesso momento guardò l'ora. «E un uomo molto in gamba», disse. «Questo è certo.» «E l'elicottero? Che cosa ne pensi, Teun? Avrai saputo del piccolo Schweizer o Robinson bianco, o quel che era, notato dal maniscalco due
giorni prima dell'incendio. Pensi che sia lo stesso che abbiamo visto noi il lunedì dopo?» «È un'ipotesi», disse. «Alquanto vaga, mi sembra.» Mi rivolse uno sguardo intenso. «Forse ha appiccato il fuoco e poi è volato di corsa all'aeroporto», continuò. «Il giorno prima il pilota fa un giro di ricognizione sapendo che dovrà atterrare e decollare dopo il calar del sole. Mi segui?» Annuii. «Il sabato Sparkes uccide la ragazza e dà fuoco alla casa, poi corre fuori e sale sull'elicottero che lo porta nei pressi di Dulles, dove ha nascosto la Cherokee. Va all'aeroporto, si costruisce un alibi con ricevute e bagagli e poi si dà alla macchia finché non è tutto finito e si ripresenta a Hootowl Farm.» «Ma perché allora l'elicottero sarebbe dovuto tornare lunedì, quando perlustravamo fra le macerie della casa?» domandai. «Ai piromani piace guardare», dichiarò. «Per quel che ne so io, c'era Sparkes lassù, a controllare dall'alto mentre noi sgobbavamo come muli. Paranoico, se non altro. Tanto era sicuro che avremmo pensato che fosse qualche giornalista. Come puntualmente abbiamo fatto.» «Non c'è niente che lo provi», ribattei. Stavo perdendo la pazienza. Sotto lo sguardo di Teun cominciai a sistemare le pile di carte che ingombravano la mia scrivania. A un certo punto si alzò e chiuse la porta. «E ora che noi due parliamo un momento», dichiarò. «Ho l'impressione di esserti antipatica e forse, se mi spiegassi che cosa ti ho fatto, potremmo chiarire le cose.» «Non mi sei antipatica. Non mi sono fatta ancora un'idea precisa sul tuo conto.» La fissai. «L'importante comunque è che facciamo il nostro lavoro e non perdiamo l'obiettività. Dal momento che stiamo indagando su un omicidio», aggiunsi. «Adesso mi fai arrabbiare», replicò. «Non era mia intenzione, te l'assicuro.» «Pensi che a me non me ne freghi niente se qualcuno è morto ammazzato? E questo che stai dicendo? Credi che sia arrivata dove sono arrivata fregandomene di chi appiccava incendi e perché?» Si rimboccò le maniche, come per fare a botte. «Teun», le dissi. «Scusa, ma non ho tempo. E poi non mi sembra co-
struttivo.» «È per via di Lucy, vero? Sei convinta che io voglia prendere il tuo posto, o Dio sa cosa. Non è per questo che ce l'hai con me, Kay?» Adesso mi stavo arrabbiando anch'io. «Non è la prima volta che lavoriamo insieme», continuò. «Finora non abbiamo mai avuto problemi. Quindi viene spontaneo chiedersi che cosa sia cambiato. E io credo di saperlo. Adesso, anche quando parliamo a tu per tu, incombe l'ombra di tua nipote che sta per trasferirsi a Philadelphia per lavorare con me e sotto la mia supervisione. La mia, non la tua. E questo a te non va giù. Sai una cosa? Se fossi al tuo posto, forse mi sentirei nello stesso modo.» «Non è né il momento né la sede adatta per questo genere di discorsi», decretai. «Okay.» Si alzò e si mise la giacca sul braccio. «Allora andiamo da un'altra parte», decise. «Voglio risolvere la faccenda prima di ripartire.» Mi prese in contropiede, perché quello era il mio regno, protetto da legioni di classificatori, referti, messaggi e corrispondenza che mi tenevano inchiodata al mio posto. Mi tolsi gli occhiali e mi massaggiai la faccia. La McGovern era un'immagine sfuocata e questo mi rese le cose più facili. «Ti porto a pranzo fuori», dissi. «Se ti puoi trattenere altre tre ore. Nel frattempo», dissi alzandomi, «devo scaldare delle ossa in un pentolone. Se vuoi e se te la senti, puoi venire con me.» «Non mi fai paura.» Teun McGovern sembrava compiaciuta. Teun non era il tipo che stava a guardare gli altri lavorare e, dopo che ebbi acceso il bruciatore nella sala di decomposizione, rimase appena il tempo di vedere il vapore che si alzava. Poi uscì a telefonare all'ufficio dell'ATF di Richmond e ricomparve un'ora dopo con il fiatone, molto tesa. Io rimestavo con il cucchiaio nel pentolone. «Ce n'è stato un altro», mi disse velocemente. «Un altro cosa?» domandai. Posai il lungo cucchiaio di plastica su un tavolo. «Un altro incendio. Strano anche questo. Nella contea di Lehigh, a un'ora circa da Philadelphia», mi informò. «Ci sto andando. Mi accompagni?» Pensai a tutto quello che sarebbe potuto succedere se avessi mollato a metà quello che stavo facendo per seguirla. E poi non avevo nessuna vo-
glia di passare cinque ore in macchina con lei. «E bruciata una casa», mi spiegò. «Ieri mattina presto. È stato ritrovato il cadavere di una donna. Nel bagno principale.» «Oh, no.» «È chiaro che l'incendio è stato appiccato per nascondere l'omicidio», spiegò e continuò elencando le varie analogie con il caso Warrenton. Quando il cadavere era stato scoperto, la polizia di stato della Pennsylvania aveva richiesto immediatamente l'assistenza dell'ATF. Gli investigatori intervenuti avevano inserito i dati nel computer e l'ESA aveva subito messo in relazione i casi. La sera prima, il rogo di Lehigh aveva cominciato ad assumere una certa importanza e l'FBI aveva messo a disposizione alcuni agenti e Benton. La polizia di stato aveva accettato. «La casa era costruita sulla roccia», mi spiegò Teun mentre percorrevamo la I-95 in direzione nord. «Quindi non ci sono seminterrati di cui preoccuparci. Stanno lavorando dalle tre di stamattina e lo strano è che non è stata rasa al suolo. Camera da letto, bagno, la camera degli ospiti direttamente sopra e il salotto direttamente sotto sono bruciati malamente. Il soffitto del bagno è distrutto e il pavimento di cemento del garage si è sfogliato.» Questo succede quando un calore intenso e repentino porta a ebollizione l'umidità racchiusa nel cemento frammentandone la superficie. «Dov'era il garage?» chiesi cercando di immaginare la scena. «Sullo stesso lato della casa. Anche qui l'incendio si è sviluppato rapidamente e generando enorme potenza termica. Però la casa non è andata completamente distrutta e molte superfici sono bruciate solo parzialmente. Buona parte è stata danneggiata solo dal fumo e dall'acqua. Questo farebbe pensare a una mano diversa da quella che ha dato fuoco alla tenuta di Sparkes, se non fosse per un particolare molto importante: sembra che non siano stati usati infiammabili e neanche qui il carico d'incendio nel bagno giustifica l'altezza delle fiamme.» «Il cadavere era nella vasca?» domandai. «Sì. Mi vengono i capelli dritti.» «Infatti. In che stato è?» Era la domanda più importante e gliela posi mentre viaggiavamo sulla Ford Explorer d'ordinanza a una ventina di chilometri sopra al limite di velocità. «Non pessimo, altrimenti il medico legale non si sarebbe accorto che aveva la gola tagliata.» «Quindi le hanno già fatto l'autopsia», dedussi.
«A dire la verità non lo so con precisione. Ma finché non la vedi tu, quella donna di lì non si muove. Io andrò a controllare la scena del delitto.» «Non vuoi che ti aiuti a spalare, questa volta?» domandai. Teun scoppiò a ridere e accese il lettore di CD. Non mi aspettavo Mozart. «Se vuoi, spala pure», mi disse con un sorriso che allentò la tensione. «Sei in gamba, per essere una che corre solo se c'è qualcuno che la insegue. Ho l'impressione che privilegi la ginnastica mentale a quella fisica.» «Se passi la giornata a fare autopsie e sollevare cadaveri, andare in palestra non serve.» La mia, però, era una grave distorsione della realtà. «Fa' vedere le mani.» Obbedii e Teun le guardò, mentre cambiava corsia. «Per la miseria. Non avevo mai pensato a cosa possono fare bisturi, seghe e cesoie per il tono muscolare», osservò. «Cesoie?» «Be', che cos'è che usate per aprire il torace?» «Costotomo, per piacere.» «Guarda che in certi obitori usano proprio le cesoie da giardino. E ho visto anche ricostruire il passaggio delle pallottole con dei ferri da calza.» «Mai visto. Né da me né negli altri obitori in cui ho lavorato. Anche se devo ammettere che un po' di tempo fa si improvvisava», mi ritrovai a dire, ascoltando Mozart. «Piccoli segreti del mestiere che non vorresti mai venissero fuori in tribunale», confessò la McGovern. «Un po' come quelli che fanno sparire nel cassetto segreto della scrivania una bottiglia di liquore distillato illegalmente appena confiscato. O come quei poliziotti che raccolgono souvenir, tipo pipe da marijuana e armi illegali. O quei medici legali che si tengono protesi o parti di cranio che in realtà andrebbero sepolti con il cadavere.» «Non nego le scorrettezze di certi miei colleghi», dissi. «Ma tenere un osso di un cadavere senza autorizzazione non è la stessa cosa che fregare una bottiglia di liquore, almeno secondo me.» «Sei molto assoluta nei tuoi giudizi, vero, Kay?» replicò Teun. «A differenza di tutti noi, tu sbagli raramente e probabilmente non eccedi mai nel mangiare o nel bere. A dire la verità con il tuo perfezionismo ci metti a disagio, ci fai vivere nel terrore di sbagliare e di ricevere la tua disapprovazione.» «Santo cielo, che quadro spaventoso!» esclamai. «Spero che non tutti mi
vedano così.» Teun non rispose. «Io certamente non mi vedo così», dichiarai. «Proprio per niente. Forse sono riservata perché devo esserlo e non parlo molto perché fa parte del mio carattere e perché non è mia abitudine confessare pubblicamente i miei peccati. Ma non mi guardo intorno a giudicare. E ti assicuro che sono molto più severa con me stessa che con gli altri.» «Io non ho questa impressione. Mi sento osservata e giudicata, un po' come se ti volessi accertare che sono degna di seguire Lucy e non abbia cattive influenze su di lei.» Non volevo rispondere, perché era vero. «Non so nemmeno dove sia», dissi, rendendomene conto all'improvviso. «Te lo dico io, se vuoi. È a Philadelphia che fa la spola fra l'ufficio e la nuova casa.» Per un attimo ascoltammo la musica e sulla tangenziale intorno a Baltimora mi venne in mente lo studente di medicina che era morto in un incendio sospetto. «Teun», dissi. «Quanti figli hai?» «Uno. Joe.» Mi resi conto che non era un argomento gradito. «Quanti anni ha?» domandai. «Ventisei.» «Abita vicino?» Guardai dal finestrino i segnali che indicavano le uscite verso strade di Baltimora che avevo imparato a conoscere molto bene quando studiavo medicina alla Johns Hopkins. «Non so dove abiti, se devo essere sincera», rispose. «Non abbiamo mai avuto un bel rapporto. Non credo sia possibile avere un buon rapporto con lui, per la verità.» Non feci domande, ma evidentemente le era venuta voglia di parlare. «Mi resi conto che aveva dei problemi quando cominciò ad aprire di nascosto il bar di casa alla tenera età di dieci anni. Beveva gin e vodka e riempiva le bottiglie di acqua pensando che non ce ne accorgessimo. A sedici anni era già alcolizzato e passava da un trattamento all'altro. Poi cominciarono a piovere le denunce per guida in stato di ebbrezza, ubriachezza molesta, furto e così via. Se ne andò di casa a diciannove anni e dopo un po' interruppe del tutto i contatti. A dire la verità credo che faccia il barbone.»
«Hai avuto una vita dura», commentai. 14 Erano quasi le sette di sera quando Teun McGovern mi lasciò allo Sheraton Hotel di Society Hill, dove alloggiavano gli Atlanta Braves. Giovani e meno giovani con giubbotti e berretti da baseball giravano per i bar e i corridoi con delle grosse fotografie in mano per strappare un autografo ai loro idoli. Il servizio d'ordine era stato allertato e un signore disperato mi fermò subito dopo la porta girevole. «Lei li ha visti?» mi domandò guardandosi furiosamente in giro. «Chi?» chiesi. «I Braves!» «E come sono fatti?» Mi misi in coda, sognando un bel bagno caldo. Eravamo rimaste imbottigliate nel traffico a sud di Philadelphia, dove cinque auto e un furgone si erano scontrati spargendo vetri e lamiere lungo sei corsie. Era troppo tardi per andare all'obitorio della contea di Lehigh, che distava un'altra ora. Presi l'ascensore, scesi al quarto piano e infilai la tessera di plastica per aprire la serratura elettronica. Tirai le tende e guardai il fiume Delaware e gli alberi della Moshulu ormeggiata a Penn's Landing. Ero a Philadelphia con una sacca, la mia valigetta di alluminio e la borsa. La spia dei messaggi lampeggiava. Ascoltai la voce di Benton che mi informava che aveva prenotato nello stesso hotel dove ero io e sarebbe arrivato non appena si fosse liberato di New York e del traffico. Potevo aspettarlo per le nove? Lucy mi aveva lasciato il suo nuovo numero di telefono e non sapeva se ci saremmo viste oppure no. Marino mi avrebbe raccontato gli sviluppi delle sue indagini non appena avessi richiamato e Fielding mi informava che i Quinn erano andati in televisione quella sera per annunciare che avrebbero intrapreso un'azione legale contro di me e il mio ufficio per violazione dell'autonomia religiosa e per danni morali irreparabili. Mi sedetti sul bordo del letto e mi tolsi le scarpe. Mi si erano smagliate le calze e le gettai nel cestino della spazzatura. Avevo i vestiti appiccicosi perché li indossavo da troppo tempo e temevo di avere nei capelli l'odore delle ossa umane a bagno nel pentolone. «Merda!» esclamai fra me. «Che razza di vita è questa?» Mi tolsi il tailleur, la camicetta e gli slip e li gettai a rovescio sul letto.
Mi accertai di aver chiuso la porta e cominciai a riempire la vasca di acqua caldissima. Lo scroscio ebbe di per sé l'effetto di calmarmi e il bagnoschiuma aveva il profumo di lamponi maturati al sole. Ero confusa all'idea di vedere Benton. Come eravamo arrivati a quel punto? Eravamo amanti, colleghi, amici, e ormai questi ruoli erano inscindibili, come un disegno complicato in tante tonalità di colori pastello. Mi stavo asciugando, quando chiamò. «Scusa, se è tardi», disse. «Come stai?» «Ti va di scendere al bar?» «Basta che non ci siano i Braves. Non ho voglia di risse.» «I Braves?» domandò. «Perché non sali tu da me? Ho un minibar.» «D'accordo. Arrivo fra due minuti.» Si presentò in completo scuro e camicia bianca, come al solito. Ma aveva gli abiti stropicciati dopo una giornata pesante e si doveva radere. Mi prese fra le braccia e rimanemmo stretti a lungo senza parlare. «Profumi di frutta», mi disse. «Dovremmo essere a Hilton Head», brontolai. «Come mai siamo finiti a Philadelphia?» «E un macello», replicò. Si scostò dolcemente e si tolse la giacca. La appoggiò sul letto e aprì il minibar. «Il solito?» mi chiese. «No, un'Evian.» «Io ho bisogno di qualcosa di più forte.» Aprì una bottiglia di Johnnie Walker. «Già che ci sono me lo faccio doppio. Al diavolo il ghiaccio», mi informò. Mi porse l'Evian e io lo guardai mentre si prendeva la sedia dal tavolo e si sedeva. Io tirai su i cuscini sul letto e mi accomodai. «Che cosa c'è che non va?» gli chiesi. «A parte tutto.» «Il solito problema di quando ATF e FBI devono lavorare insieme a un caso», rispose sorseggiando il whisky. «Quanto sono contento di essere in pensione...» «Non mi sembri molto in pensione», commentai. «Hai ragione. Come se Carrie non fosse già un problema abbastanza grosso. Mi hanno coinvolto anche in questo caso e, se devo dire la verità,
l'ATF ha i suoi esperti di profili psicologici e non credo che il Bureau dovesse metterci il naso.» «Come se non lo sapessi, Benton. E non vedo come giustifichino la loro presenza, a meno che non considerino la morte della donna un atto di terrorismo.» «Per via delle analogie con il caso Warrenton», mi rispose. «Come tu ben sai. E non è stato difficile per il capo dell'unità chiamare gli investigatori della polizia di stato per offrire l'aiuto del Bureau. Figurati se non lo accettavano. Così mi hanno tirato in mezzo. Oggi sul luogo dell'incendio c'erano due agenti e hanno fatto incazzare tutti.» «Sai, Benton, dovremmo essere tutti dalla stessa parte», dissi. Era un discorso vecchio, che mi faceva sempre arrabbiare. «Pare che questo agente dell'FBI di stanza a Philadelphia abbia nascosto una cartuccia nove millimetri per vedere se Pepper la trovava.» Benton giocherellò con lo scotch nel bicchiere. «Pepper naturalmente non l'ha trovata, visto che nessuno gli aveva detto di cercarla», continuò. «E l'agente ha fatto due o tre battutacce sul fatto che il cane non aveva più il naso di una volta.» «Che razza di deficiente!» esclamai irritata. «Gli è andata bene che l'addestratore non l'ha massacrato di botte.» «Mah, guarda», continuò con un sospiro, «è sempre la stessa storia. Ai bei tempi gli agenti dell'FBI si comportavano diversamente. Non mostravano il distintivo appena vedevano un fotografo e non si pigliavano indagini che non erano in grado di svolgere. Certe volte mi vergogno. E non solo, mi arrabbio anche, perché questi idioti rovinano anche la mia reputazione, non soltanto la loro. Dopo venticinque anni di servizio... mah. Non so proprio che cosa fare, Kay.» Mi guardò negli occhi bevendo un sorso di whisky. «Continua a fare bene il tuo lavoro e fregatene di tutto il resto», replicai sottovoce. «È un luogo comune, ma è anche l'unica cosa che possiamo fare. E non per il Bureau, l'ATF o la polizia di stato della Pennsylvania, ma per le vittime e le potenziali vittime. Solo per loro.» Finì lo scotch e posò il bicchiere. Le luci di Penn's Landing fuori della mia finestra sembravano allegre; dall'altra parte del fiume si vedeva Camden, nel New Jersey. «Non credo che Carrie sia ancora a New York», disse poi guardando fuori. «Pensiero confortante.»
«Non ho prove, a parte il fatto che nessuno l'ha più vista né sentita. Come fa a mantenersi, per esempio? Spesso si comincia da lì: rapine, furti di carte di credito. Finora nulla indica che stia facendo cose del genere. Questo naturalmente non vuol dire che non lo faccia. Ma credo che abbia un piano e che lo stia seguendo.» Osservai il suo profilo mentre continuava a guardare il fiume. Era depresso, aveva la voce stanca, il tono sconfortato. Mi alzai e andai da lui. «Andiamo a letto», gli dissi massaggiandogli le spalle. «Siamo stanchi e quando si è stanchi si vede tutto più nero.» Sorrise e chiuse gli occhi, mentre io gli massaggiavo le tempie e lo baciavo sul collo. «Quanto prendi all'ora?» sussurrò. «Troppo per le tue tasche», risposi. Non dormimmo insieme, perché le stanze erano troppo piccole e avevamo tutti e due bisogno di riposare. Al mattino mi piaceva farmi la doccia tranquilla e anche a lui. In fondo era il lato positivo dello stare insieme da tanto tempo. C'erano stati dei periodi in cui stavamo svegli tutta la notte a consumarci l'uno fra le braccia dell'altra, perché lavoravamo insieme, lui era sposato e a volte eravamo insaziabili. Quell'entusiasmo, quella vitalità mi mancavano: spesso quando ero con Benton mi pareva di avere il cuore gonfio e triste e mi sentivo vecchia. Il cielo era grigio e le strade bagnate quando io e Benton attraversammo la città in macchina diretti a Walnut Street la mattina dopo, poco dopo le sette. Dai tombini e dalle grate sui marciapiedi si alzavano nuvole di vapore e la mattina era fresca e umida. I barboni dormivano sui marciapiedi o sotto luride coperte nei parchi e uno, di fronte al commissariato, sembrava mezzo morto. Io guidavo e Benton frugava nella ventiquattrore. Prese appunti su un blocco e rifletté su cose che andavano al di là della mia comprensione. Imboccai la I-76 in direzione ovest, dove la coda di automobili si snodava a vista d'occhio, con il sole alle spalle. «Perché il punto di origine è sempre nel bagno?» domandai. «Perché non in un'altra stanza?» «Evidentemente, se è una scelta ripetuta, deve avere un significato per lui», rispose Benton girando pagina. «Magari simbolico. Oppure invece gli conviene per altri motivi. Se l'autore è lo stesso e il punto d'origine è comune a tutti gli incendi, secondo me il significato è simbolico. Probabilmente il bagno rappresenta qualcosa per l'assassino, e forse è il punto d'origine di tutti i suoi delitti. Potrebbe essergli capitato qualcosa in un bagno
quando era bambino, per esempio. Magari è stato molestato, violentato, oppure ha assistito a qualcosa di traumatico.» «Potremmo controllare negli archivi della polizia.» «Verrebbe fuori metà della popolazione carceraria, Kay. La maggioranza è stata vittima di abusi. Che poi ripete sugli altri.» «Andando oltre, però. Perché loro non sono mica morti ammazzati.» «In un certo senso, sì, invece. Quando da bambino ti picchiano e ti violentano, sopravvivi ma dentro sei morto. Non che questo spieghi certi comportamenti. Non c'è niente che la spieghi, a meno che non si creda nell'esistenza del male e nel fatto che ognuno di noi fa le sue scelte.» «Che è esattamente quello che credo io.» Mi guardò e rispose: «Lo so». «Ma Carrie che infanzia ha avuto? Che cosa sappiamo dei motivi che l'hanno spinta a fare certe scelte?» domandai. «Non ci ha mai concesso colloqui», mi ricordò. «Nella sua valutazione psichiatrica c'è ben poco, a parte le manipolazioni del momento. Un giorno è pazza, il giorno dopo lucidissima. Dissociata, depressa e non collaborativa, oppure una paziente modello. Questa gente ha più diritti civili di noi, Kay. Prigioni e istituti psichiatrici spesso proteggono talmente la gente che vi è rinchiusa che ti chiedi se siamo noi i delinquenti.» Stava rischiarando e il cielo si colorava di lilla e di bianco in strisce perfettamente orizzontali. Stavamo attraversando la campagna punteggiata da rocce granitiche sui toni del rosa, segnate dalle esplosioni di dinamite. La nebbiolina che si alzava dai laghi mi ricordava il vapore che si alza dalle pentole d'acqua e, quando passammo davanti ad alte ciminiere da cui usciva una diritta colonna di fumo, pensai al fuoco. Le montagne in lontananza erano soltanto un'ombra e le torri serbatoio punteggiavano l'orizzonte come palloncini colorati. Impiegammo un'ora per raggiungere il Lehigh Valley Hospital, un complesso di cemento non ancora completato con un hangar per elicotteri e un centro traumatologico di primo livello. Lasciai la macchina nel parcheggio riservato ai visitatori. Il dottor Abraham Gerde ci venne incontro nell'atrio nuovo e splendente. «Kay», mi salutò cordialmente, stringendomi la mano. «Chi l'avrebbe mai detto... tu sei Benton, vero? Abbiamo un gran bel bar, se volete prendere un caffè o mangiare qualcosa.» Benton e io rifiutammo educatamente. Gerde era un giovane patologo
legale con i capelli scuri e gli occhi di un azzurro sorprendente. Era passato per il mio ufficio tre anni prima e, siccome non esercitava da molto tempo, veniva chiamato raramente in tribunale come esperto. Ma era umile e meticoloso, qualità che spesso erano più importanti dell'esperienza, particolarmente in quel caso. A meno che non fosse cambiato nel corso degli anni, ero sicura che Gerde, saputo che stavo arrivando, non aveva toccato il cadavere. «Spiegami la situazione», gli chiesi seguendolo lungo un grande corridoio grigio e lucidissimo. «Quando mi ha telefonato il coroner l'avevo pesata, misurata e stavo facendo l'esame esterno. Mi ha detto che c'era di mezzo l'ATF e che tu volevi vedere il corpo e ho piantato tutto lì.» Nella contea di Lehigh i cittadini eleggevano un coroner che decideva quando e se effettuare l'autopsia e quindi determinava le cause della morte. Fortunatamente per Gerde il coroner era un ex poliziotto che non interferiva con i patologi legali e di solito si atteneva alle loro decisioni. Questo non succedeva in altri stati o in altre contee della Pennsylvania, dove le autopsie talvolta venivano effettuate sui tavoli delle imprese di pompe funebri e alcuni coroner erano politici consumati che non conoscevano la differenza tra un foro di entrata e un foro di uscita, né se ne interessavano minimamente. I nostri passi risuonavano lungo le scale; in fondo Gerde spinse una porta a doppio battente che dava su un magazzino pieno di scatole di cartone e di operai con il casco in testa. Passammo nell'altra ala del palazzo e imboccammo il corridoio che conduceva all'obitorio. Era piccolo e rivestito di piastrelle rosa, con due tavoli fissi di acciaio inossidabile. Gerde aprì un armadietto e ci porse camici monouso, grembiuli di plastica e copriscarpe. Una volta vestiti, ci infilammo guanti di lattice e mascherine protettive. Il cadavere era stato identificato: Kellie Shephard era una donna nera di trentadue anni che lavorava come infermiera in quello stesso ospedale dove adesso aspettava l'autopsia. Si trovava dentro un sacco nero su una barella in una piccola cella frigorifera che quel giorno era vuota, a parte gli involucri arancioni che contenevano campioni chirurgici e bambini nati morti in attesa della cremazione. Trasportammo il cadavere nella sala autopsie e aprimmo la cerniera lampo del sacco. «L'avete radiografata?» chiesi a Gerde. «Sì. E le abbiamo preso anche le impronte digitali. Il dentista ieri ha eseguito lo schema della dentatura e l'ha confrontato con le lastre ante mor-
tem.» Gerde e io aprimmo il sacco e togliemmo i teli insanguinati esponendo il cadavere mutilato all'aspra luce delle lampade. Era rigida e fredda, con gli occhi semiaperti in una faccia spaventosa. Gerde non l'aveva ancora lavata e la pelle era incrostata di sangue nerastro, i capelli ritti sul capo come una paglietta. Le ferite erano talmente estese e violente che parevano trasudare rabbia e testimoniare la furia e l'odio dell'assassino. Immaginai la lotta all'ultimo sangue fra la vittima e il suo carnefice. Sulle dita e sui palmi di entrambe le mani c'erano tagli profondi fino all'osso, che la vittima doveva essersi procurata cercando di afferrare la lama del coltello per proteggersi. Avambracci e polsi presentavano numerose ferite da taglio, anch'esse riportate quando la vittima aveva cercato di difendersi. I tagli sulle gambe indicavano che la vittima, a terra, aveva tentato di respingere i colpi scalciando disperatamente. Era stata pugnalata al torace, all'addome e sulle spalle, oltre che sulle natiche e sulla schiena. Molte ferite erano grandi e irregolari, per effetto del movimento del coltello nella carne mentre veniva estratto o perché la vittima si era divincolata. Dalla configurazione delle ferite si deduceva che era stato usato un coltello con una lama affilata da una parte sola e un codolo che aveva lasciato abrasioni squadrate. Uno sfregio superficiale correva dalla mascella destra fino alla guancia e la gola era stata recisa con un taglio che scendeva dall'orecchio destro verso il basso e correva poi trasversalmente nella parte mediana del collo. «Sembra che fosse dietro di lei, quando le ha tagliato la gola», osservai, mentre Benton guardava e prendeva appunti. «Le ha tirato indietro la testa esponendo il collo.» «Ho l'impressione che quello sia stato il gran finale», commentò Gerde. «Se avesse ricevuto una ferita di questo genere all'inizio, avrebbe perso sangue troppo in fretta per lottare. Quindi penso che tu abbia ragione e l'abbia sgozzata alla fine, quando ormai era a terra a faccia in giù. I vestiti?» «Vado a prenderli», disse Gerde. «Sapete, mi arrivano dei casi stranissimi. Incidenti automobilistici spaventosi che poi risultano provocati da un poveretto che ha avuto un malore mentre guidava. Gli viene un infarto e si porta all'altro mondo altre tre o quattro persone. Un po' di tempo fa poi abbiamo avuto un omicidio per colpa di Internet. E poi da queste parti i mariti non sparano alle mogli, le strangolano, le pigliano a bastonate, gli tagliano la testa...»
Mentre parlava andò in un angolo, dove i vestiti erano stati appesi ad asciugare sopra a una bacinella, separati da teli di plastica per evitare che fibre e liquidi corporei passassero inavvertitamente da uno all'altro. Stavo coprendo il secondo tavolo di metallo con un telo sterile quando un inserviente accompagnò nella sala la McGovern. «Ho pensato di fare un salto da voi, prima di andare sul luogo dell'incendio», ci informò. Indossava tuta e scarponi da lavoro e aveva una grossa busta in mano. Non si preoccupò di mettersi guanti o camici e venne a dare un'occhiata. «Santo Dio», commentò. Aiutai Gerde a stendere un pigiama sul telo che avevo appena steso. Sia la maglia sia i pantaloni puzzavano di fumo ed erano talmente pieni di cenere e di sangue che non se ne riconosceva il colore originale. La stoffa era tagliata e bucata sia davanti sia dietro. «Quando è arrivata aveva questo addosso?» domandai per sicurezza. «Sì», rispose Gerde. «Tutto abbottonato. Mi chiedo se parte del sangue non sia dell'assassino. La lotta dev'essere stata furiosa e non mi sorprenderebbe che si fosse ferito.» Gli sorrisi. «Ottima deduzione: ti hanno insegnato bene», scherzai. «Sì, una signora di Richmond», rispose lui. «A prima vista sembrerebbe che l'assassino conoscesse la vittima.» Era stato Benton a parlare. «Lei era a casa, in pigiama, e forse era tardi. Di solito quando l'assassino infierisce così, ha una relazione con la vittima. La cosa strana è la faccia», disse avvicinandosi al tavolo. «A parte questo taglio qui, non sembra avere altre ferite. Invece generalmente l'amante che uccide la compagna dirige la propria violenza sul volto, perché rappresenta la persona.» «Il taglio sulla faccia è meno profondo degli altri», notai aprendo delicatamente la ferita con le mani protette dai guanti. «Più profondo in corrispondenza della mascella e meno quanto più sale verso la guancia.» Feci un passo indietro e osservai di nuovo il pigiama. «Interessante: non mancano né bottoni né gancetti», dissi. «E non ci sono strappi, come invece ci si aspetterebbe in una lotta in cui l'assassino afferra la vittima per tenerla sotto controllo.» «Credo che controllo sia il termine giusto», intervenne Benton. «O mancanza di controllo», osservò la McGovern. «Infatti», disse Benton. «Sembra un raptus. Qualcosa lo fa scattare e lui perde la testa. Probabilmente non voleva che le cose andassero in questo
modo, come peraltro indica il fatto che abbia dato fuoco alla casa. Anche in questo deve aver perso il controllo.» «Secondo me se ne è andato subito dopo averla ammazzata», ipotizzò la McGovern. «Prima di scappare appicca il fuoco pensando di distruggere le prove, ma fa un pasticcio. Oltre a tutto, l'allarme antincendio scatta all'una e cinquantotto della mattina e i vigili arrivano con i mezzi cinque minuti dopo. Quindi i danni sono minimi.» Kellie Shephard aveva ustioni di secondo grado alla schiena e ai piedi e niente di più. «E l'antifurto?» domandai. «Non era inserito», rispose la McGovern. Aprì la busta e cominciò a spargere le foto della scena su una scrivania. Benton, Gerde e io le osservammo. La donna, con il suo pigiama insanguinato, era a faccia in giù sulla porta del bagno con un braccio sotto il corpo e l'altro allungato verso l'alto, quasi nel tentativo di afferrare qualcosa. Le gambe erano tese e vicine, con i piedi che sfioravano il gabinetto. L'acqua nera per terra rendeva impossibile ricostruire eventuali segni di trascinamento, ma nei primi piani si vedevano tagli e spaccature recenti nel telaio della porta e sulla parete vicina. «Il punto di origine dell'incendio è questo», spiegò la McGovern. Indicò una fotografia di quel che restava del bagno. «Questo angolo fra la vasca da bagno e la finestra aperta con la tenda», disse. «In questa zona si vedono i resti di un mobiletto di legno e dei cuscini di un divano.» Posò il dito sulla foto. «Quindi abbiamo una porta e una finestra aperte che fanno da sfiato, come in un caminetto», continuò. «L'innesco è qui, sul pavimento di piastrelle. Le fiamme divorano la tenda, ma questa volta non arrivano ad attaccare il soffitto.» «Perché?» chiesi. «La ragione può essere una sola», rispose Teun. «Non ha costruito bene la pira. L'assassino ha ammucchiato mobili, cuscini e altra roba nel bagno e poi gli ha dato fuoco. Però non sono bruciati come avrebbe voluto, perché la finestra era aperta e le fiamme si sono inclinate in quella direzione. L'assassino non è rimasto a vedere, altrimenti si sarebbe accorto che il materiale che aveva ammucchiato non prendeva fuoco. Questa volta l'incendio ha soltanto lambito il cadavere.» Benton rimase zitto e immobile come una statua scrutando le fotografie
con grande attenzione. Mi rendevo conto che aveva qualcosa in testa, ma la sua riservatezza gli imponeva di aspettare. Non aveva mai lavorato con la McGovern e non conosceva il dottor Gerde. «Sarà una cosa lunga», lo informai. «Io vado sulla scena del delitto», replicò. Era imperturbabile, come sempre quando aveva brutti presentimenti. Lo guardai negli occhi. «Può venire con me», gli propose Teun McGovern. «Grazie.» «Un'altra cosa», aggiunse Teun. «La porta di servizio era aperta e c'era una cassetta per il gatto sull'erba, vicino ai gradini.» «Pensate che fosse uscita a svuotarla?» chiese Gerde. «Che l'assassino la stesse aspettando?» «È una possibilità», rispose Teun. «Non saprei», disse Wesley. «Come faceva l'assassino a sapere che aveva un gatto?» chiesi dubbiosa. «E che quella sera sarebbe andata a vuotare la lettiera o a farlo uscire?» «Potrebbe averla svuotata prima e averla lasciata fuori a prendere aria», fece notare Wesley togliendosi il camice. «Potrebbe aver disinserito l'allarme e aperto la porta quella sera tardi o la mattina presto per qualche altra ragione.» «E il gatto?» domandai. «Qualcuno l'ha visto?» «Non ancora», rispose la McGovern. Poi uscì insieme con Benton. «Comincio con il tampone», dissi a Gerde. Gerde prese la macchina fotografica e iniziò a scattare foto mentre io sistemavo la lampada. Osservai il taglio sul volto, raccolsi diverse fibre, un capello riccio e scuro, lungo una decina di centimetri, che sospettavo essere della donna. Ma c'erano anche dei capelli rossi e corti, che sembravano tinti di recente perché alla radice avevano una striscia più scura di un paio di millimetri. Naturalmente c'erano peli di gatto dappertutto, presumibilmente rimasti appiccicati al sangue della vittima quando era sul pavimento. «Dal pelo lungo e fine si direbbe un gatto persiano», osservò Gerde. «Già, lo penso anch'io», dissi. 15 Raccogliere peli e fibre da un cadavere è un compito molto gravoso che
va svolto prima di tutto il resto. Non ci rendiamo conto di quante porcherie microscopiche ci portiamo appresso finché qualcuno come me non comincia a perlustrare ogni centimetro di vestiario e di pelle alla ricerca di corpi estranei appena visibili. Trovai schegge di legno, che probabilmente provenivano dal pavimento o dalle pareti, lettiera per gatti, terra, frammenti di piante e insetti, oltre alla prevedibile fuliggine generata dall'incendio. Ma la scoperta più importante venne dall'orribile ferita al collo. Con l'aiuto di una lente, infatti, trovai due scaglie lucide di metallo. Le raccolsi con la punta del mignolo e le trasferii su una pezzuola di cotone. Sulla vecchia scrivania di metallo c'era un microscopio, regolai l'ingrandimento e l'illuminatore e, quando vidi i trucioli argentei nel brillante cerchio di luce, rimasi di sasso. «Questo è molto importante», dissi parlando forte. «Adesso li metto in una busta dentro un batuffolo di cotone. Dobbiamo controllare se ce ne sono altri nelle altre ferite. A occhio nudo paiono dei brillantini d'argento.» «Trasferiti dall'arma?» Anche Gerde era emozionato e si avvicinò a dare un'occhiata. «Erano nella ferita al collo a una certa profondità, quindi direi di sì. Penso che ci siano finiti attraverso il coltello, come nel caso Warrenton», risposi. «E di quelli che cosa sappiamo?» «Che sono di magnesio», risposi. «E un'informazione riservatissima, che non deve assolutamente trapelare alla stampa. Lo diremo solo a Benton e alla McGovern.» «D'accordo», replicò turbato. Le ferite erano ventisette: le esaminammo accuratamente senza trovare altri trucioli di metallo; la cosa mi stupì non poco, dal momento che pensavo che la gola fosse stata tagliata per ultima. Se fosse stato così, tuttavia, non ci sarebbero dovuti essere trucioli anche nelle altre ferite? Come mai allora non ne avevamo trovato neppure in quelle in cui il coltello era penetrato fino al manico e durante l'estrazione la lama aveva sfregato contro tessuto muscolare ed elastico? «Non è impossibile, ma di certo è strano», osservai con Gerde cominciando a misurare la ferita alla gola. «Lunghezza diciassette centimetri», dissi prendendo un appunto. «Superficiale vicino all'orecchio sinistro e via via più profonda in corrispondenza dei muscoli del collo e della trachea, quindi di nuovo più superficiale dall'altra parte. La ferita è compatibile con l'ipotesi che la gola della vittima sia stata tagliata da dietro da un individuo
mancino.» Erano quasi le due del pomeriggio quando finalmente cominciammo a lavare il cadavere; per qualche minuto l'acqua che scorreva sul tavolo di metallo rimase scarlatta. Raschiai via le macchie di sangue più resistenti con una grossa spugna morbida. Quando la pelle nera e liscia della vittima fu pulita, le ferite sembrarono ancora più spaventose. Kellie Shephard era una bellissima donna, con gli zigomi alti e la pelle perfetta e levigata. Alta un metro e settantadue, aveva un fisico atletico e asciutto. Non aveva smalto alle unghie e non portava gioielli. Quando la aprimmo, nella cavità toracica trovammo quasi un litro di sangue fuoriuscito dai grandi vasi verso e da cuore e polmoni. Dopo essere stata pugnalata al petto, la donna era morta dissanguata nell'arco di qualche minuto; doveva essere accaduto nelle fasi finali della lotta, quando ormai aveva perso le forze ed era rallentata nei movimenti. L'angolazione delle ferite era tale da farmi sospettare che le fossero state inferte dall'alto quando era quasi ferma, distesa per terra. Probabilmente era riuscita a girarsi, forse in un estremo tentativo di autodifesa, e a quel punto il suo assassino doveva averle tagliato la gola. «Si è sicuramente imbrattato di sangue», commentai cominciando a misurare le ferite sulle mani. «E non poco.» «Dev'essersi ripulito da qualche parte. Non poteva certo entrare in un motel senza cambiarsi.» «A meno che non abiti nei paraggi.» «O che sia salito in macchina sperando che nessuno lo fermasse.» «C'è del liquido brunastro nello stomaco.» «Quindi non aveva mangiato di recente, probabilmente dall'ora di cena», dissi. «Bisognerebbe capire se il letto era sfatto.» Immaginavo la scena: Kellie Shephard dormiva quando la sera del sabato o le prime ore del mattino della domenica era successo qualcosa che l'aveva spinta ad alzarsi, a disinserire l'allarme e ad aprire la porta di servizio. Gerde e io richiudemmo l'incisione a Y alle quattro appena passate. Mi andai a lavare nello spogliatoio dell'obitorio, dove sul piatto della doccia trovai un manichino usato per dimostrare la dinamica di una morte violenta in tribunale. A parte gli adolescenti che davano fuoco ai casolari abbandonati, nella contea di Lehigh gli incendi dolosi erano rari. Nel tranquillo quartiere borghese di Wescosville, dove abitava la Shephard, la violenza non era di ca-
sa: il massimo che poteva capitare era che un ladruncolo rompesse il vetro di una finestra per rubare un portafoglio o una borsetta lasciati inavvertitamente sul davanzale. Dal momento che non esisteva un dipartimento di polizia di Lehigh, prima che intervenissero le forze dell'ordine statali richiamate dall'antifurto, il ladro si era già volatilizzato. Mi infilai una tuta e gli scarponi rinforzati che mi ero portata nella sacca e divisi lo spogliatoio con il manichino. Gerde fu tanto gentile da darmi un passaggio fino alla casa della Shephard e rimasi impressionata dagli abeti e dal verde lungo la strada, interrotto solo di tanto in tanto da qualche chiesa modesta e ben tenuta. Svoltammo in Hanover Drive, dove le case erano a due piani, moderne e spaziose e nei giardini c'erano canestri, biciclette e altri segni della presenza di bambini. «Quanto costano le case, da queste parti?» domandai osservando le villette. «Sui due o trecentomila dollari», rispose. «Ci abitano più che altro tecnici, infermieri, impiegati e agenti di borsa. Devi pensare che la I-78 è l'arteria principale attraverso la valle e che si va e viene da New York in un'ora e mezzo. Tanti fanno i pendolari.» «E per il resto?» domandai. «A dieci minuti, un quarto d'ora da qui ci sono parecchi stabilimenti industriali: Coca-Cola, Air Products, Nestlé, Perrier... e coltivazioni.» «La Shephard però lavorava in ospedale.» «Sì. In macchina da casa sua all'ospedale ci vogliono dieci minuti, come puoi vedere.» «La conoscevi?» Gerde rifletté un momento; in fondo alla strada si alzava una colonna di fumo. «Mi pare di averla vista nel bar», rispose. «Difficile non notare una ragazza così. Probabilmente era con delle altre infermiere, non ricordo. Non credo di averle mai parlato, però.» La casa era gialla con le rifiniture bianche e, sebbene l'incendio fosse stato estinto senza problemi, i danni provocati dall'acqua e dalle scuri con cui i vigili del fuoco avevano aperto dei varchi per far sfogare le fiamme verso l'alto erano ingenti. Della villetta restavano una facciata triste e annerita e finestre rotte che parevano occhi senza vita. Le aiuole erano state calpestate e il prato ben curato ridotto a una palude melmosa. La Camry ultimo modello parcheggiata nel vialetto era coperta di cenere. I vigili del fuoco e gli uomini dell'ATF lavoravano dentro la casa, mentre due agenti
dell'FBI perlustravano il perimetro. Trovai Teun McGovern sul retro; stava parlando con una donna in pantaloncini corti, sandali e maglietta. «Che ore saranno state? Le sei?» le stava chiedendo Teun. «Sì, più o meno. Stavo preparando la cena e la vidi arrivare e lasciare la macchina dov'è adesso», raccontava emozionata. «Entrò e una mezz'oretta dopo uscì a togliere un po' di erbacce. Le piaceva lavorare in giardino. Pensi che lo falciava da sola.» La McGovern alzò gli occhi verso di me. «La signora Harvey», disse presentandomi la donna. «La vicina.» «Buongiorno», dissi alla signora Harvey, il cui sguardo intenso era velato di paura. «La dottoressa Scarpetta è medico legale», spiegò Teun. «Oh», fece la donna. «Rivide Kellie Shephard, quella sera?» le domandò poi. La donna scosse la testa. «Entrò e poi non la vidi più uscire», rispose. «So che lavorava molto e che di solito andava a letto presto.» «Frequentava qualcuno? Vedeva gente?» «Mah, ne girava tanti», rispose la signora Harvey. «Dottori, gente che lavorava in ospedale. Mi ricordo che un anno fa veniva spesso uno che era stato suo paziente. Ma non duravano molto. E troppo bella, questo è il suo problema. Gli uomini volevano una cosa sola e lei invece aveva in testa qualcos'altro. Lo so perché me l'ha detto lei.» «E ultimamente?» domandò la McGovern. La signora Harvey ci dovette pensare su. «Venivano spesso delle amiche», rispose. «Credo che fossero sue colleghe: a volte la venivano a prendere, altre si fermavano da lei. Ma quella sera non ricordo di aver visto nessuno. Questo non vuol dire, naturalmente. Può darsi benissimo che non me ne sia accorta.» «Abbiamo ritrovato il gatto?» mi informai. La McGovern non rispose. «Ah, quel gatto...» sospirò la signora Harvey. «Pumpkin. Quanto lo viziava!» Sorrise e le vennero le lacrime agli occhi. «Lo trattava come un figlio», aggiunse. «Lo teneva in casa?» chiesi io. «Certo. Si figuri che non lo lasciava uscire! Lo trattava come una pianta
rara.» «Abbiamo trovato la cassetta sul retro», disse Teun. «Che lei sapesse, quando Kellie la vuotava, la lasciava fuori tutta la notte? Aveva l'abitudine di vuotarla tutte le sere? Usciva al buio, lasciando la porta aperta e l'allarme disinserito?» La Harvey aveva l'aria confusa e mi resi conto che non sapeva che la sua vicina era stata uccisa. «Be'», rispose. «Tutte le volte che l'ho vista io, vuotava la cassetta in un sacco della spazzatura e poi lo gettava nel bidone. Non mi pare proprio che lo facesse di sera. Può darsi che dopo averla vuotata l'avesse lasciata fuori a prendere aria, sapete? Oppure in quel momento non aveva tempo di lavarla e l'ha lasciata lì per farlo l'indomani. Comunque fosse, per le sue esigenze fisiologiche il gatto aveva a disposizione un angolo del bagno, quindi non sarebbe stato un problema lasciarlo una notte senza cassetta.» Guardò passare l'automobile della polizia. «Non ho capito com'è scoppiato l'incendio», disse la signora Harvey. «Voi lo sapete?» «Non è ancora stato accertato», rispose Teun. «Non è che... ha fatto presto a morire, vero?» Sbatté gli occhi, come abbagliata dalla luce del tramonto, e si morse un labbro. «Spero che non abbia sofferto troppo», aggiunse. «Generalmente chi muore in un incendio non soffre», risposi, aggirando la sua domanda senza essere scortese. «Perde i sensi per il monossido di carbonio.» «Grazie a Dio», esclamò. «Io entro», mi informò Teun. «Signora Harvey, lei conosceva bene Kellie?» le chiesi. «Siamo vicine da quasi cinque anni. Non che facessimo mai niente insieme, ma sì, la conoscevo abbastanza.» «Non avrebbe una sua foto recente, o non conosce qualcuno che me la potrebbe dare?» «Forse ne ho una io.» «Per l'identificazione», spiegai, anche se in realtà la ragione era diversa. Ero curiosa di sapere com'era Kellie Shephard da viva. «Mi parli di Kellie, mi dica qualcosa sul suo conto», continuai. «Per esempio, i suoi abitano da queste parti?» «Oh, no», rispose la Harvey, guardando la casa semidistrutta. «Credo
che vivano nel North Carolina. Suo padre era nell'esercito e giravano molto. Kellie era una donna di mondo e io le dicevo sempre che avrei voluto essere una donna forte e in gamba come lei. Non si lasciava mettere i piedi in testa da nessuno, sa. Non si spaventava di niente. Pensi che una volta mi sono trovata un serpente davanti alla porta di casa, mi è venuta una crisi isterica e l'ho chiamata. Lei è arrivata, l'ha fatto scappare nel giardino e l'ha ammazzato con una pala. Secondo me era così perché doveva difendersi dagli uomini. Io le dicevo di fare del cinema, che sarebbe potuta diventare una diva, ma lei mi rispondeva: "Sandra, io non so recitare!". Al che io le rispondevo: "Perché, le altre sanno recitare?".» «Era una donna pratica, quindi», dissi. «Sicuro. Si era fatta mettere l'antifurto proprio perché era pratica, e anche un po' ansiosa. Se vuole venire con me, vado a vedere se ho le foto.» «Se non le dispiace», dissi. «Molto gentile.» Tagliammo per la siepe, salimmo due scalini ed entrammo in una cucina grande e luminosa. Dalla dispensa rifornitissima e dalla quantità di elettrodomestici dedussi che alla signora Harvey piaceva cucinare. C'erano pentole appese a ganci al soffitto e dal forno proveniva un profumo delizioso di carne e cipolla, forse uno stufato. «Se vuole accomodarsi lì vicino alla finestra, vado un momento in camera mia», disse. Mi sedetti alla tavola e guardai fuori, verso la casa di Kellie Shephard. Vedevo gli agenti che si muovevano dietro le finestre rotte e qualcuno che sistemava dei fari perché il sole stava calando. Mi chiesi quante volte la signora Harvey l'avesse osservata mentre entrava e usciva. Di sicuro la incuriosiva vedere come viveva una donna che sembrava una diva del cinema e probabilmente si sarebbe accorta se qualcuno l'avesse seguita o molestata. Ma dovevo stare attenta alle domande che facevo, perché non era stato reso noto che Kellie Shephard era stata assassinata. «Guardi, questo è ancora meglio», mi disse la Harvey tornando in cucina. «La settimana scorsa era andata una troupe in ospedale a fare un servizio sul centro traumatologico che poi hanno trasmesso al telegiornale. Siccome c'era anche Kellie, l'ho registrato. Non so come mai non mi è venuto in mente prima, ma cosa vuole, con quello che è successo sono un po' stordita.» Aveva in mano una videocassetta. La seguii in un salotto con la moquette azzurra, dove mi sedetti su una poltrona a schienale alto dello stesso az-
zurro. La signora Harvey infilò la cassetta nel videoregistratore, aspettò che il nastro si riavvolgesse e schiacciò il tasto PLAY. Il filmato incominciava con una ripresa dell'ospedale di Lehigh effettuata da un elicottero che trasportava un paziente grave. Fu solo allora che mi resi conto che Kellie lavorava nelle squadre di soccorso e non in un reparto. La si vedeva in tuta di volo mentre correva lungo un corridoio insieme con i membri della squadra di soccorso. «Permesso, permesso», diceva facendosi largo fra la folla. Era una donna bellissima, con una splendida dentatura e un viso molto fotogenico. Immaginai che i pazienti si innamorassero tutti di lei. Il filmato la mostrava poi nel bar dell'ospedale al termine di un'altra missione impossibile. «È sempre una corsa contro il tempo», diceva al giornalista. «Ogni attimo di ritardo può costare una vita umana. Lavoriamo costantemente sotto pressione.» Mentre l'intervista, alquanto banale, continuava, la telecamera si spostò. «L'ho registrato soltanto perché la conoscevo, sa?» si giustificò la Harvey. Lì per lì non me ne resi conto. «Fermi il nastro, per piacere!» esclamai. «Vada un attimo indietro. Ecco, lì. Fermi l'immagine.» Era inquadrata una persona che mangiava. «No», mormorai a bassa voce. «Non è possibile...» Carrie Grethen, in jeans e maglia batik, mangiava un panino a un tavolo insieme con delle altre persone. Non l'avevo riconosciuta subito perché aveva i capelli rossi lunghi fino a coprire le orecchie, mentre l'ultima volta che l'avevo vista li portava cortissimi e biondo platino. Ma poi gli occhi attrassero la mia attenzione. Masticava guardando diritto nella telecamera con lo sguardo gelido e malvagio che ben ricordavo. A quel punto mi alzai e andai a togliere la cassetta dal videoregistratore. «Mi scusi, ma gliela devo portare via», dissi, quasi in preda al panico. «Le prometto che gliela riporto.» «Va bene. Basta che se lo ricordi. Sa, è l'unica copia che ho.» Anche Sandra Harvey si alzò. «Si sente bene? Sembra che abbia visto un fantasma!» «Devo andare. Grazie ancora», dissi. Corsi fuori ed entrai nella casa di Kellie Shephard, con i pavimenti allagati e l'acqua che gocciolava dal tetto. C'era un grande viavai di agenti che
parlavano e scattavano fotografie. «Teun!» gridai. Avanzai con cautela, stando attenta a non cadere. Mi accorsi vagamente che un agente stava infilando la carcassa di un animale bruciato dentro un sacco di plastica. «Teun!» gridai di nuovo. Sentii un rumore di passi che avanzavano sicuri nell'acqua, superando travi cadute dal tetto e pareti crollate, poi la vidi a pochi centimetri da me. Allungò il braccio per aiutarmi a non perdere l'equilibrio. «Attenta», mi raccomandò. «Dobbiamo trovare Lucy!» dissi. «Che cosa è successo?» Mi accompagnò fuori. «Dov'è?» chiesi. «Ci è stato segnalato un incendio in centro. In un negozio di alimentari; si sospetta il dolo. Kay, ma che cosa...?» Eravamo nel giardino e io stringevo in mano la videocassetta come se fosse stata la mia unica speranza. «Teun, per favore...» la guardai negli occhi. «Portami a Philadelphia.» «Andiamo», rispose. 16 Impiegammo quarantacinque minuti per tornare a Philadelphia, perché Teun McGovern andò molto veloce. Si era messa in comunicazione con il suo ufficio su un canale riservato. Sebbene stesse attenta a come parlava, disse abbastanza chiaramente che voleva che tutti gli agenti disponibili uscissero a cercare Carrie. Nel frattempo io chiamai Marino con il cellulare e gli dissi di raggiungermi con il primo aereo. «E qui», lo informai. «Oh, cazzo. Benton e Lucy lo sanno?» «Appena li troviamo li avvertiamo.» «Parto subito», disse. Non credevo, come non lo credeva la McGovern, che Carrie fosse ancora nella contea di Lehigh. Carrie andava dove poteva causare maggior scompiglio e temevo che fosse venuta a sapere che Lucy si era trasferita a Philadelphia. La nostra paura era che stesse cercando di scoprire dove fosse. Non sapevo bene come, ma ero convinta che l'incendio di Warrenton e
quello di Philadelphia avessero lo scopo preciso di attirare in qualche trappola chi in passato aveva avuto a che fare con Carrie. «Ma la casa di Sparkes è bruciata prima che lei fuggisse da Kirby», mi ricordò la McGovern mentre svoltava in Chestnut Street. «Lo so», risposi, attanagliata dalla paura. «Non capisco come, ma sento che Carrie Grethen è coinvolta. Non è un caso che si sia fatta vedere in quel servizio, Teun. Sapeva che dopo la morte di Kellie Shephard avremmo controllato tutto quello che la riguardava e che avremmo guardato quel nastro.» L'incendio era scoppiato in una zona malfamata ai margini occidentali della University of Pennsylvania. Ormai era buio e le luci di emergenza si vedevano da diversi chilometri di distanza. Le auto della polizia impedivano l'accesso alla strada. C'erano almeno otto autocisterne e quattro mezzi dei vigili del fuoco, mentre dall'alto gli aerei antincendio gettavano cascate d'acqua sul tetto fumante. I motori diesel rombavano nella notte e getti ad alta pressione battevano violentemente sul legno, mandando in frantumi altri vetri. I naspi serpeggiavano lungo la strada e l'acqua arrivava ai coprimozzi delle macchine parcheggiate che, per un po', non sarebbero andate da nessuna parte. Fotografi e giornalisti sui marciapiedi si misero subito in allarme vedendoci scendere dall'auto. «L'ATF è coinvolta nelle indagini?» chiese una giornalista televisiva. «Siamo solo venute a dare un'occhiata», rispose Teun senza fermarsi. «Dunque si sospetta il dolo, come negli altri incendi ai negozi di alimentari?» Il microfono ci seguiva. «È in corso un'indagine», rispose Teun. «Le conviene stare indietro, signora.» La giornalista si fermò vicino a un'autocisterna e io e Teun McGovern proseguimmo verso il negozio. Le fiamme avevano attaccato anche la vicina bottega del barbiere, dove i vigili del fuoco stavano aprendo dei buchi nel tetto con asce e picchetti. Agenti con le giacche dell'ATF intervistavano potenziali testimoni e investigatori in tuta e casco entravano e uscivano da un seminterrato. Sentii che parlavano di interruttori a ginocchiera, contatori e tentata truffa. Si alzava una nuvola di fumo nero e sembrava che le fiamme non fossero state ancora domate del tutto. «Sarà dentro», mi sussurrò all'orecchio Teun. La seguii da vicino. La porta di vetro del negozio era spalancata e insie-
me con l'acqua scorrevano fuori scatolette di tonno, banane annerite, pacchi di assorbenti, sacchetti di patatine e vasetti di maionese. Un pompiere pescò un barattolo di caffè in polvere e lo posò sul mezzo con un'alzata di spalle. I fasci di luce dei fari squarciavano il fumo nero che aveva invaso il negozio, illuminando rovine e grovigli di fili che pendevano dalle travi pericolanti. «È qui Lucy Farinelli?» gridò Teun. «L'ho vista che usciva a parlare con il proprietario», rispose una voce maschile. «State attenti là dentro», raccomandò la McGovern. «Sì. Non siamo ancora riusciti a staccare la corrente. Dev'esserci un attacco sotterraneo. Può mica controllare?» «Okay.» «Quindi è questo il lavoro di mia nipote», chiesi a Teun McGovern mentre procedevamo in un fiume d'acqua e scatolette. «Quando le va bene. Credo che il numero della sua unità sia 718. Vediamo se riesco a mettermi in contatto.» Teun si portò la radio alla bocca e cercò di mettersi in comunicazione con Lucy. «Cosa c'è?» chiese la voce di mia nipote. «Disturbiamo?» «Ho quasi finito.» «Appena puoi, raggiungici davanti al negozio.» «Okay.» Il mio sollievo era evidente e Teun sorrise, in una pioggia di scintille provocate da qualche corto circuito. Osservai che i pompieri, neri di fuliggine e sudati, si muovevano lentamente con i loro stivaloni e le pesanti manichette sulle spalle, dissetandosi ogni tanto con degli integratori verdognoli che mescolavano in bottiglie di plastica. Avevano acceso dei fari su un mezzo e la luce aspra conferiva alla scena un'atmosfera surreale. Alcuni curiosi osservavano scattando foto mentre i venditori ambulanti più intraprendenti avevano approfittato dell'assembramento per smerciare incenso e finti orologi di marca. Quando Lucy ci raggiunse, il fumo era meno denso e più chiaro: questo indicava presenza di vapore, ovvero che l'acqua stava arrivando alla sorgente. «Bene», commentò Teun. «Ci siamo quasi.» «Il proprietario sostiene che sono stati i topi a far scoppiare l'incendio, a
furia di rosicchiare i fili della luce», ci informò Lucy. Mi guardò con aria strana. «Che cosa ci fai tu, qui?» «Pare che nell'omicidio di Lehigh ci sia la mano di Carrie», rispose Teun per me. «Ed è possibile che sia ancora nei paraggi. Magari qui a Philadelphia.» «Che cosa?» Lucy sembrava sbigottita. «E come? E Warrenton?» «Lo so», risposi. «Sembra inspiegabile. Ma i punti in comune ci sono.» «Forse ha voluto imitare quell'altro», ipotizzò mia nipote. «Ha letto i giornali e ha voluto farci uno scherzetto.» Ripensai ai trucioli di metallo e al punto d'origine: i giornali non avevano parlato né degli uni né dell'altro, e neppure del fatto che Claire Rawley era stata uccisa a coltellate. Ma c'era un'altra analogia fra i due omicidi che mi turbava: sia la Rawley sia la Shephard erano donne bellissime. «Ci siamo mobilitati alla sua ricerca», disse la McGovern a Lucy. «L'importante è che tu stia attenta, va bene? Kay», mi fece poi, «forse è meglio che tu vada via.» Non risposi, ma dissi a Lucy: «Hai sentito Benton?». «No.» «Non capisco», borbottai. «Mi chiedo dove sia.» «Da quant'è che non lo senti?» mi domandò Lucy. «È uscito dall'obitorio dicendo che andava a controllare la scena dell'incendio. Quanto sarà rimasto, un'oretta?» chiesi a Teun. «Al massimo. Non potrebbe essere tornato a New York o a Richmond?» mi domandò. «Me l'avrebbe detto. Ora provo a richiamarlo. Forse Marino sa qualcosa», aggiunsi, mentre l'acqua continuava a scrosciare e sopra di noi si formava una nebbiolina sottile. Era quasi mezzanotte quando Marino bussò alla porta della mia camera d'albergo. Non aveva notizie di Benton. «Non dovresti stare qui da sola», mi rimproverò. Era agitato e scarmigliato. «E dove dovrei andare, secondo te? Non so che cosa sia successo, Benton non ha lasciato messaggi e, quando lo chiamo al cercapersone, non risponde.» «Non è che avevate litigato?» «Piantala, Marino, per l'amor di Dio», replicai esasperata. «Guarda che volevo solo aiutarti.»
«Lo so.» Trassi un respiro profondo e cercai di calmarmi. «E Lucy?» Si sedette sul bordo del letto. «È scoppiato un incendio vicino all'università. Probabilmente è ancora laggiù», risposi. «Doloso?» «Non credo che sappiano ancora niente.» Rimanemmo un po' in silenzio, mentre la mia ansia cresceva. «Senti», dissi. «Possiamo continuare ad aspettare Dio sa cosa, oppure uscire. Tanto io non riesco a dormire.» Cominciai a passeggiare nervosamente. «Non voglio stare qui a tormentarmi tutta la notte al pensiero che Carrie sia in agguato, per la miseria.» Avevo le lacrime agli occhi. «Chissà dov'è Benton. Magari è con Lucy sul luogo dell'incendio. Non lo so.» Mi voltai e guardai il porto. Mi sentivo tremare il respiro nel petto e avevo le mani così fredde che le unghie avevano assunto una sfumatura bluastra. Marino si alzò e mi accorsi che mi stava guardando. «Vieni», mi disse. «Andiamo a vedere.» Quando raggiungemmo il luogo dell'incendio in Walnut Street, l'attività era notevolmente diminuita. Gran parte dei mezzi dei vigili del fuoco se ne erano andati e i pochi pompieri rimasti stavano riavvolgendo le manichette, esausti. Fumo e vapore si alzavano ancora dal negozio, ma non si vedevano fiamme. All'interno risuonavano voci e passi, mentre i fasci di luce delle torce squarciavano l'oscurità brillando sui cocci di vetro. Avanzai nell'acqua fra scatolette e rottami e, quando arrivai all'ingresso, sentii la voce di Teun McGovern. Stava parlando di un medico legale. «Chiamatelo subito», urlava. «E state attenti, okay? Non sappiamo cosa c'è qui dentro e non vogliamo calpestare niente.» «Qualcuno ha una macchina fotografica?» «Dunque. Qui c'è un orologio di acciaio inossidabile, da uomo. Con il vetro rotto. E un paio di manette.» «Come hai detto?» «Mi hai sentito benissimo. Manette, Smith & Wesson, originali. Chiuse a chiave, come se le avessero messe a qualcuno. Chiuse a doppia mandata,
a dire il vero.» «Mi fai accapponare la pelle.» Entrai nell'edificio mentre grosse gocce di acqua fredda mi cadevano sul casco scivolandomi nel collo. Riconobbi la voce di Lucy, ma non riuscii a capire che cosa stesse dicendo. Sembrava isterica. A un tratto udii degli schizzi e grande movimento. «Aspettate, aspettate!» ordinò Teun McGovern. «Lucy! Portatela fuori, presto!» «No!» urlò Lucy. «Su, su», diceva Teun. «Sono qui. Calmati, adesso.» «No!» gridava Lucy. «NO! NO! NO!» A quel punto sentii un tonfo e un'esclamazione sorpresa. «Oddio! Ti sei fatta male?» chiedeva la voce di Teun. Entrando, vidi Teun McGovern che aiutava Lucy a rialzarsi. Mia nipote era isterica e aveva una mano insanguinata, ma sembrava non farci caso. Mi avvicinai avanzando nell'acqua con lo stomaco stretto e la pelle d'oca. «Fammi vedere», dissi con dolcezza prendendole la mano e illuminandola con la torcia. Tremava tutta. «Quando hai fatto l'antitetanica l'ultima volta?» domandai. «Zia Kay», piangeva. «Zia Kay.» Mi gettò le braccia al collo con un impeto tale che rischiò di farmi cadere. Singhiozzava tanto forte che non riusciva a parlare e mi stringeva con forza. «Che cosa è successo?» chiesi a Teun. «Adesso uscite tutte e due», disse lei. «Dimmi che cosa è successo!» Non volevo andarmene senza una spiegazione. Teun McGovern esitava. «Abbiamo trovato un corpo. Bruciato. Kay, per favore, ora vai.» Mi prese sottobraccio, ma io mi divincolai. «Vieni, andiamo via», ripeté. Mi staccai da lei e mi voltai verso il punto buio in cui gli investigatori parlottavano fra loro muovendosi nell'acqua e facendo luce con le torce. «Qui ci sono altre ossa», diceva uno. «Anzi, no. Sono pezzi di legno.» «Questo, però, non è legno.» «Cazzo. Dov'è il medico legale?» «Vado io», dissi a Teun, come se fosse un caso che mi riguardava. «Tu porta fuori Lucy e fasciale la mano con un asciugamano pulito. Io arrivo
subito. Lucy», feci poi a mia nipote. «Vedrai che andrà tutto bene.» Mi liberai delicatamente del suo abbraccio e mi resi conto che stavo tremando anch'io: era come se me lo aspettassi. «Kay, non ti avvicinare», mi ordinò Teun. «Ti prego, non farlo!» Ma sapevo di doverlo fare e mi diressi verso l'angolo buio schizzando acqua dappertutto e rischiando di inciampare. Avevo le gambe molli. Sentendomi arrivare, gli investigatori si zittirono. In un primo momento non mi resi conto di quello che avevo davanti: sotto i t'asci di luce delle torce mi parve un oggetto bruciato, in mezzo a materiale isolante e carta bagnata, in cima a un mucchio di legno annerito e a pezzi di intonaco. Poi vidi la sagoma di una cintura, la fibbia e il femore che spuntava simile a un grosso bastone bruciato. Con il cuore che batteva all'impazzata mi accorsi che era un corpo carbonizzato la cui testa annerita non aveva più un volto, ma solo qualche ciuffo di capelli grigi. «Fatemi vedere l'orologio», ordinai agli investigatori sbarrando gli occhi. Uno di loro me lo porse e io lo presi in mano. Era un Breitling Aerospace da uomo di acciaio inossidabile. «No!» esclamai inginocchiandomi nell'acqua. «Per favore, fa' che non sia lui!» Mi coprii la faccia con le mani, la testa annebbiata. Mi mancò la vista e barcollai. Poi sentii una mano che mi sosteneva. Mi sentii in bocca il sapore della bile. «Su, dottoressa», disse con dolcezza una voce maschile aiutandomi a rialzarmi. «Non può essere lui!» gridai. «Signore, fa' che non sia lui! Oh, ti prego, ti prego!» Non riuscivo a stare in piedi e ci vollero due agenti per accompagnarmi fuori, mentre io cercavo di raccogliere i frammenti di me stessa, senza parlare con nessuno. Quando mi ritrovai per strada, mi incamminai a fatica, stancamente, verso l'Explorer di Teun McGovern. Era sul sedile posteriore e teneva un asciugamano intriso di sangue intorno alla mano di Lucy. «Mi serve un kit di pronto soccorso», dissi automaticamente. «Forse sarebbe meglio portarla all'ospedale», mi rispose la voce di Teun. Poi vidi il suo sguardo colmo di compassione e di paura. «Prendimelo», insistetti. Teun si voltò a frugare nel retro della macchina. Afferrò una valigetta arancione e slacciò le cinghie. Lucy era sotto choc, pallidissima, e tremava
come una foglia. «Bisogna coprirla», dissi. Tolsi l'asciugamano e le lavai la ferita con dell'acqua minerale. Le si era staccata quasi completamente una spessa striscia di pelle sul pollice. La innaffiai di Betadine e l'odore di iodio mi penetrò nel naso. Era come se tutto quello che avevo appena visto fosse stato un brutto sogno. Non era vero. «Bisogna darle dei punti», disse Teun. Non era successo niente: era stato solo un sogno. «Dobbiamo portarla in ospedale e farle dare dei punti.» Ma avevo già tirato fuori delle steril-strip e della colla al benzoino, perché sapevo che in una ferita come quella i punti non sarebbero serviti a niente. Con le lacrime che mi scorrevano sulle guance, coprii il mio lavoro con una garza. Quando alzai gli occhi e guardai dal finestrino, vidi che fuori della macchina c'era Marino. Aveva l'espressione distrutta dal dolore e dalla rabbia e sembrava sul punto di vomitare. Scesi dall'Explorer. «Lucy, devi venire con me», dissi prendendola a braccetto. Reagivo sempre molto meglio, se avevo qualcuno di cui occuparmi. «Andiamo.» Le luci ci brillavano sul volto, la notte e le persone strane, slegate. Marino venne via con noi, mentre stava arrivando il furgone del medico legale. Sarebbero serviti radiografie, schemi della dentatura e forse anche un esame del DNA, per identificare il corpo. Ci sarebbe voluto del tempo, prima di avere dei risultati definitivi. Ma non importava. Io lo sapevo già: Benton era morto. 17 Per quanto difficile fosse ricostruire l'accaduto, era abbastanza chiaro che Benton era stato attirato con l'inganno verso la sua terribile morte. Non sapevamo che cosa lo avesse spinto a recarsi in un piccolo negozio di alimentari in Walnut Street, ma era possibile che fosse stato rapito altrove e quindi costretto a scendere la scala di quell'angusto edificio in un quartiere malfamato della città. A un certo punto doveva essere stato ammanettato e dopo estenuanti ricerche fu ritrovato anche del filo metallico attorcigliato a forma di otto, con cui probabilmente gli avevano legato le caviglie, che in seguito erano bruciate completamente nel rogo. Chiavi della macchina e portafoglio erano stati ricuperati, ma non la Sig Sauer nove millimetri né l'anello d'oro con sigillo. Nella sua camera d'al-
bergo aveva lasciato parecchi abiti e la sua ventiquattrore, che mi venne consegnata dopo una breve ispezione. Quella notte dormii da Teun McGovern, che aveva fatto mettere sotto sorveglianza la propria casa perché Carrie era ancora a piede libero. Ormai era soltanto questione di tempo: avrebbe finito quel che aveva incominciato e tutto stava a vedere chi avrebbe colpito per primo e come. Marino andò nell'appartamentino di Lucy a vigilare dal suo divano. Non avevamo niente da dirci, perché non c'era niente da dire. Ormai era successo. Teun cercò di scuotermi un pochino. La sera venne a portarmi il tè e uno spuntino in camera, dalla cui finestra si vedevano le vecchie case a schiera di mattoni e i lampioni di ottone di Society Hill. Fu abbastanza sensibile da non insistere e io troppo distrutta per fare altro che dormire. Continuavo a svegliarmi sentendomi male e poi mi veniva in mente perché. Non ricordavo i miei sogni. Piansi fino a farmi diventare gli occhi così gonfi da stentare ad aprirli. Il martedì mattina, sul tardi, feci una lunga doccia e scesi in cucina. Teun aveva indosso un tailleur blu, beveva il caffè e leggeva il giornale. «Buongiorno», disse, sorpresa e contenta di vedere che mi ero avventurata oltre la porta della camera. «Come va?» «Dimmi che cosa è successo.» Mi sedetti di fronte a lei. Teun posò il caffè sul tavolo e spinse indietro la sedia. «Ti prendo un caffè», rispose. «Dimmi che cosa è successo», ripetei. «Devo saperlo, Teun. Avete trovato qualcosa? All'obitorio, intendo dire.» Per un attimo sembrò confusa e guardò un albero di magnolia pieno di fiori un po' appassiti e bruni. «Non hanno ancora finito», disse alla fine. «Ma per il momento sembra che gli abbiano tagliato la gola. Hanno trovato delle ferite al volto. Qui e qui.» Indicò la mascella sinistra e lo spazio in mezzo agli occhi. «Non c'erano né monossido di carbonio, né fuliggine né ustioni nella trachea. Quindi era già morto quando è scoppiato l'incendio», continuò. «Mi dispiace, Kay, io... non so proprio che cosa dire.» «Come mai non l'ha visto nessuno?» domandai, come se non avessi compreso l'orrore delle parole di Teun. «Se l'hanno costretto a entrare nel negozio minacciandolo con una pistola, com'è possibile che nessuno abbia
visto?» «Il negozio chiude alle cinque del pomeriggio», rispose. «Non ci sono segni di effrazione e l'allarme non è scattato perché, chissà come mai, non era stato inserito. Ci sono stati diversi negozi incendiati per riscuotere l'assicurazione. È coinvolta una famiglia di pakistani.» Bevve un sorso di caffè. «La dinamica è sempre la stessa», continuò. «L'incendio scoppia appena dopo l'ora di chiusura e quando le scorte sono minime, senza che nessuno veda niente.» «Ma questo non c'entra con l'assicurazione!» esclamai furiosa. «Lo so, certo», rispose Teun con calma. «Perlomeno non direttamente. Ma, se vuoi, ti dico come la penso io.» «Dimmi.» «Penso che ad appiccare il fuoco sia stata Carrie...» «Questo è evidente.» «Voglio dire che potrebbe averlo fatto d'accordo con il proprietario del negozio. Il quale, per quanto ne sappiamo, potrebbe anche averla pagata, non sapendo quali erano in realtà i suoi piani. Questo naturalmente avrebbe richiesto una buona programmazione.» «Ha avuto anni per programmare e pianificare.» Avevo un groppo alla gola e mi sentii gli occhi pieni di lacrime. «Torno a casa», le comunicai. «Ho da fare. Non posso più rimanere.» «Secondo me, ti conviene...» cominciò a protestare. «Devo cercare di capire quale sarà la sua prossima mossa», risposi, come se fosse stato nelle mie possibilità. «E come si muove. Ci dev'essere un piano più grande, un fine, qualcosa che va più in là di tutto questo. Hanno trovato trucioli di metallo?» «No. Anche perché era in condizioni piuttosto brutte: era proprio nel punto di origine. Il carico d'incendio era elevato, anche se per ora non sappiamo bene che cosa ci fosse dentro il negozio, a parte moltissimi imballi di polistirolo. E quella è roba che brucia. Einora non c'è traccia di infiammabili.» «Teun, sai i trucioli di metallo che abbiamo trovato anche addosso alla Shephard? Portiamoli a Richmond, così li confrontiamo con quelli di Warrenton. Falli dare dai tuoi investigatori a Marino.» Mi lanciò uno sguardo scettico, stanco e triste. «Devi fare i conti con quello che è successo, Kay», mi disse. «Lascia che al resto pensiamo noi.»
«È quel che sto facendo, Teun.» Mi alzai e la guardai dall'alto. «È l'unico modo, per me», ammisi. «Per favore, lasciami fare.» «Non ti dovresti più occupare di questo caso. E ho dato a Lucy un permesso di almeno una settimana.» «Non mi impedirai di occuparmene», le dissi. «Per niente al mondo.» «Non sei in condizione di essere obiettiva.» «Che cosa faresti tu, se fossi al mio posto?» le chiesi. «Te ne andresti a casa a non fare niente?» «Non sono al tuo posto.» «Rispondimi», insistetti. «No, non mollerei. Sarei ossessionata dal caso. Farei esattamente come te», rispose alzandosi. «Ce la metterei tutta per risolverlo.» «Grazie, Teun», dissi. «Grazie davvero.» Mi osservò un momento, appoggiata al bancone della cucina, le mani in tasca. «Kay, non è stata colpa tua», mi disse. «È stata colpa di Carrie», risposi, tutto a un tratto sopraffatta da lacrime amare. «Non mia.» 18 Diverse ore dopo, Marino riaccompagnò Lucy e me a Richmond. Fu il viaggio peggiore della mia vita. Nessuno parlava e il silenzio era deprimente e pesantissimo. Non mi sembrava possibile e, ogni volta che mi rendevo conto che era successo davvero, mi sentivo male. Mi assaliva vivido il ricordo di Benton e non sapevo se ringraziare il cielo o maledirlo per non aver passato con lui l'ultima notte. Da una parte il ricordo tanto vicino delle sue carezze, del suo respiro e dei suoi abbracci mi avrebbe straziato; dall'altra mi tormentava il pensiero di non poterlo più stringere fra le braccia e fare l'amore con lui. La mente vagava nel buio e poi ritornava improvvisamente alla realtà, per esempio al fatto che le sue cose e i suoi vestiti fossero a casa mia. Nonostante fossimo spesso a contatto con la morte, io e Benton non avevamo mai pensato a cosa volevamo fosse fatto di noi dopo il trapasso. Non ci piaceva pensare alla nostra morte e quindi nemmeno ai funerali. Ma le spoglie di Benton presto sarebbero tornate a Richmond. La I-95 in direzione sud si snodava sfuocata mentre il tempo pareva es-
sersi fermato. Quando mi veniva da piangere, mi voltavo verso il finestrino e mi nascondevo. Lucy era dietro e, nonostante non parlasse, la sua rabbia, il suo dolore e la sua paura erano tangibili. «Me ne vado», dichiarò a un certo punto, mentre passavamo Fredericksburg. «Non ne posso più. Troverò un altro lavoro, magari nei computer.» «Non dire stronzate», fece Marino guardando nello specchietto retrovisore. «Così fai il suo gioco. E proprio quello che vuole lei, farti mollare tutto, farti sentire una fallita.» «Tanto lo sono, una fallita.» «Stronzate», fu il commento di Marino. «È colpa mia, se continua ad ammazzare», disse nello stesso tono monotono. «Ammazza perché le va di farlo. Invece di stare qui ad autocompatirci, perché non vediamo che cosa possiamo fare per evitare che ci spedisca al creatore tutti e tre?» Ma mia nipote era inconsolabile: indirettamente era stata lei molto tempo prima a esporre tutti noi al pericolo insito in Carrie. «Carrie vuole farti sentire in colpa», le dissi. Lucy non rispose e io mi voltai a guardarla in faccia. Aveva una tuta militare sporca, gli scarponi e i capelli arruffati. Puzzava di fumo perché non si era fatta il bagno e, a quanto sapessi, non aveva né mangiato né dormito. Aveva gli occhi stanchi, ma lo sguardo era deciso. Conoscevo quello sguardo di disperazione, quando la rabbia porta all'autolesionismo. Una parte di lei avrebbe voluto morire o, forse, era già morta. Arrivammo davanti a casa mia alle cinque e mezzo, con un sole caldo e brillante e il cielo azzurro e senza nuvole. Raccolsi i giornali sullo scalino e fui di nuovo colta dalla nausea nel leggere la notizia della morte di Benton in prima pagina. Sebbene l'identificazione non fosse ancora certa, si riteneva che fosse morto in un incendio, in circostanze molto sospette, mentre aiutava l'FBI nelle ricerche della nota evasa Carrie Grethen. Non era chiaro il motivo per cui si trovava dentro il piccolo negozio di alimentari al momento dell'incendio, ma si presumeva vi fosse stato attirato con l'inganno. «Che cosa ne vuoi fare?» domandò Marino. Aveva aperto il bagagliaio e mi indicava tre grossi sacchetti di carta marrone con gli effetti personali trovati nella camera d'albergo di Benton. Non sapevo che cosa rispondere.
«Te li metto nello studio?» mi chiese. «Se vuoi controllo io che cosa c'è dentro, capo.» «No, grazie, lascia stare.» Prese i sacchetti e li portò in casa. Camminava a passo lento ma, quando tornò sulla porta, io non mi ero ancora mossa. «Ci parliamo dopo», disse. «Senti, chiuditi dentro, inserisci l'allarme e resta in casa con Lucy. Non uscite, capito?» «Non ti preoccupare.» Lucy aveva posato la valigia in camera sua, accanto alla cucina. Guardò dalla finestra Marino che si allontanava. Le andai vicino e le posai le mani sulle spalle. «Non mollare», le dissi posandole la fronte sulla nuca. Lucy non si voltò, ma sospirò affranta. «Restiamo unite, Lucy», mormorai. «Ci siamo solo noi, ormai. Io e te. Benton vorrebbe così. Gli dispiacerebbe se tu lasciassi tutto. E io cosa farei, allora? Se pianti tutto, pianti pure me.» Lucy cominciò a singhiozzare. «Io ho bisogno di te», riuscii a dire con un filo di voce. «Adesso più che mai.» Si voltò e mi abbracciò come faceva da piccola, quando era ancora una bambina impaurita e bisognosa di affetto. Le sue lacrime mi bagnarono il collo e per un momento rimanemmo in mezzo alla stanza, fra computer, libri di scuola e poster da adolescente. «È colpa mia, zia Kay. È tutta colpa mia. È come se l'avessi ucciso io!» gridò. «Non è vero», le dissi piangendo e tenendola stretta. «Come potrai perdonarmi? Te l'ho portato via.» «Non è vero, Lucy. Non sei stata tu.» «Non posso vivere con questo peso.» «Invece sì. Ce la farai. Dobbiamo aiutarci l'una con l'altra per superare questo brutto momento.» «Anch'io gli volevo bene. Ha fatto tanto per me... mi ha fatto entrare al Bureau, mi ha sempre sostenuto. In tutto.» «Vedrai che ce la faremo», dissi. Si staccò da me e si lasciò cadere sul letto. Poi si asciugò la faccia nella manica sporca. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa fra le mani, mentre le lacrime gocciolavano come pioggia sul parquet. «Sentimi», disse a voce bassa, in tono duro. «Io non ce la faccio più, zia
Kay. C'è un limite oltre il quale vivere diventa insopportabile.» Sospirò. «Certe cose vanno al di là della nostra capacità di sopportazione. Mi dispiace solo che non abbia ammazzato me, invece che lui.» La guardai intensamente, mentre parlava di morte. «Se dovessi arrendermi, zia Kay, cerca di capire e non sentirti in colpa», sussurrò asciugandosi di nuovo la faccia nella manica. Le andai vicino e le sollevai la testa. Era calda e sporca di fumo. Aveva l'alito cattivo e puzzava di sudore. «Stammi a sentire», le dissi con un tono che in passato l'avrebbe spaventata. «Togliti dalla testa queste idee, capito? Devi essere contenta di essere ancora viva e smettila di pensare al suicidio, se è questo a cui alludi. Sai perché la gente si ammazza, Lucy? Per rabbia, per ripicca. È l'estremo vaffanculo. È questo che vuoi fare a Benton? A Marino? A me?» Le tenni la faccia fra le mani finché non si decise a guardarmi. «È così che vuoi farti ridurre da quella merda di Carrie?», domandai. «Dov'è finito il tuo famoso coraggio?» «Non lo so», rispose con un filo di voce. «Sì che lo sai», replicai. «Non provarti a rovinarmi la vita, Lucy: ho già sofferto abbastanza. Non voglio passare il resto dei miei giorni con l'eco di uno sparo nella memoria. Non credevo che fossi così codarda.» «Non sono codarda.» Mi guardò negli occhi. «Domani riprenderemo la nostra lotta», le dissi. Lei annuì, inghiottendo a vuoto. «Adesso vai a farti una doccia», le dissi. Aspettai di sentire l'acqua scorrere nel bagno e andai in cucina. Dovevamo mangiare, per quanto non ne avessimo voglia. Scongelai due petti di pollo e li cucinai con un po' di brodo e la verdura che riuscii a trovare. Ci misi un po' di rosmarino, alloro e sherry, ma niente pepe, perché avevamo bisogno di sapori confortanti. Mentre eravamo a tavola, Marino chiamò due volte per controllare che stessimo bene. «Vuoi venire?» lo invitai. «Ho fatto una minestra, per quanto credo che sia un po' liquida per i tuoi gusti.» «Non ti preoccupare», mi rispose. Ma sapevo che era infelice. «C'è tutto lo spazio che vuoi, se ti va di fermarti a dormire. Avrei dovuto chiedertelo prima.» «Non posso, capo. Ho da fare.» «Domani mattina vado in ufficio», lo informai.
«Non capisco come fai», replicò scandalizzato, quasi il fatto di pensare al lavoro in un momento come quello fosse poco opportuno, da parte mia. «Ho un piano e, caschi il mondo, voglio metterlo in pratica», dichiarai. «Odio quando cominci a fare piani.» Lo salutai e cominciai a sparecchiare. Più pensavo a quello che volevo fare e più mi convincevo che bisognava agire al più presto. «Pensi di poterti procurare un elicottero?» chiesi a mia nipote. «Che cosa?» domandò sorpresa. «Mi hai sentito benissimo.» «Posso chiederti a che cosa ti serve? Non posso mica prenotarne uno come fosse un taxi.» «Chiama Teun», dissi. «Dille che ho bisogno di tutta la collaborazione possibile. Spiegale che, se tutto va come spero, avrò bisogno di lei e di una squadra di agenti a Wilmington, nel North Carolina. Non so ancora quando, ma forse molto presto. Ho bisogno che si fidi di me e mi dia carta bianca.» Lucy si alzò e andò a prendere un bicchiere d'acqua dal rubinetto. «È una follia», decretò. «Puoi procurarti un elicottero, sì o no?» «Se ho l'autorizzazione, sì. Di solito usiamo quelli del Border Patrol. Potrei farmene dare uno a Washington.» «Bene», dissi. «Cerca di procurartelo al più presto. Domani mattina vado in laboratorio per avere conferma di quello che credo di sapere già. Forse poi dovremo andare a New York.» «Perché?» Aveva l'aria interessata e scettica al tempo stesso. «Atterreremo a Kirby. Voglio andare fino in fondo», le risposi. Marino chiamò intorno alle dieci; gli assicurai che sia io sia Lucy stavamo bene, relativamente parlando, e che ci sentivamo al sicuro in casa mia, con il suo sofisticato sistema di allarme, buon impianto di illuminazione e diverse armi da fuoco. Aveva la voce impastata e la tv a un volume impossibile: mi resi conto che aveva bevuto. «Ci vediamo in laboratorio alle otto», gli dissi. «Lo so, lo so.» «È molto importante, Marino.» «Non c'è bisogno che tu me lo dica, capo.» «Vai a dormire, adesso.» «Anche tu.»
Io però non ci riuscii. Mi sedetti alla scrivania nel mio studio e ripresi a leggere l'elenco degli incendi con morti sospette dell'ESA. Studiai quelli di Venice Beach e di Baltimora cercando di capire se, oltre al punto di origine e alla difficoltà nel dimostrare il dolo, quegli episodi avevano altri punti in comune. Chiamai il dipartimento di polizia di Baltimora e trovai una persona alla divisione investigativa che aveva voglia di parlare. «Del caso si occupò Johnny Montgomery», mi informò il detective; mi accorsi che stava fumando. «Lei ne sa qualcosa?» domandai. «È meglio che parli con lui. Probabilmente dovrà anche dimostrargli di essere chi dice di essere.» «Può richiamarmi nel mio ufficio domani mattina, per essere sicuro.» Gli diedi il numero. «Non più tardi delle otto. Oppure può mandarmi un messaggio per posta elettronica. L'investigatore Montgomery ha un indirizzo a cui posso scrivere?» «Sì, quello glielo posso dare.» Sentii che apriva un cassetto; poi mi diede quello che cercavo. «Mi sembra di averla già sentita nominare, dottoressa», disse pensoso. «Se è quella che penso, lei è proprio una bella signora... sa, l'ho vista in televisione. Mi dica, non viene mai da queste parti?» «Ho studiato a Baltimora.» «Be', adesso so che oltre che bella è anche intelligente.» «Anche Austin Hart, il ragazzo morto nell'incendio, studiava alla Johns Hopkins», dissi. «Secondo me il suo è stato un delitto passionale. Era gay.» «Mi serve una fotografia del defunto e tutte le informazioni che avete sul suo conto: abitudini, hobby, tutto», insistetti approfittando di quell'attimo di debolezza da parte del detective. «Sì, sì», rispose fumando. «Be', era un bel ragazzo. Pensi che faceva il modello per pagarsi l'università. Di biancheria: Calvin Klein o roba del genere. Probabilmente l'ha fatto fuori un amante geloso. La prossima volta che viene a Baltimora, deve assolutamente vedere Camden Yards. Ha sentito parlare del nuovo stadio, vero?» «Sì, certo», risposi. Quello che mi aveva appena detto mi aveva colpito profondamente. «Se vuole, le procuro i biglietti.» «Sarebbe gentile da parte sua. Senta, la ringrazio del suo aiuto. Mi metterò in contatto con Montgomery.»
Riattaccai prima che mi chiedesse per che squadra tenevo e mandai subito un'e-mail a Montgomery specificandogli di che cosa avevo bisogno, nonostante avessi già saputo abbastanza. Poi provai la Pacific Division del dipartimento di polizia di Los Angeles, di competenza per Venice Beach, e fui fortunata. L'investigatore che si era occupato della morte di Marlene Farber era di turno quella sera ed era appena arrivato in ufficio. Si chiamava Stuckey e non si premurò di verificare che fossi chi dicevo di essere. «Quanto vorrei non dovermene occupare io...» esordì. «Guardi, sono sei mesi che ci lavoro e non ho concluso niente. Tutte le piste che ho seguito non mi hanno portato a nulla.» «Che cosa mi sa dire a proposito di Marlene Farber?» «Faceva l'attrice. E recitava in General Hospital e in Northern Exposure. Li ha mai visti?» «Veramente non guardo molta televisione. Solo un po' di PBS.» «Cos'altro? Ah, sì. Hellen. Piccole parti, d'accordo, ma avrebbe anche potuto sfondare. Bellissima ragazza. Aveva una relazione con un produttore, ma siamo abbastanza sicuri che lui non c'entra. È uno che sniffa e che si porta a letto tutte quelle a cui trova una particina. Sa, dopo che mi hanno affidato il caso, ho guardato le registrazioni dei suoi show. Non recitava mica male. Peccato che abbia fatto quella fine.» «Avete trovato niente di strano sulla scena dell'incendio?» domandai. «Direi che era tutto strano. Tanto per cominciare non si capisce come possa essere scoppiato un incendio così nel bagno principale al primo piano. Neanche l'ATF se lo spiega. Non c'era niente da bruciare, eccetto la carta igienica e gli asciugamani. Nessun segno di effrazione e l'allarme non è scattato.» «Signor Stuckey, il cadavere fu ritrovato nella vasca da bagno?» «Quella è un'altra stranezza. A meno che non si sia suicidata, cioè, che abbia appiccato il fuoco e poi si sia tagliata le vene. C'è un sacco di gente che si taglia le vene nella vasca da bagno.» «Avete trovato fibre, peli o residui di qualche importanza?» «Era carbonizzata, sa? Sembrava fosse uscita dal crematorio. Era rimasto abbastanza torace da permettere l'identificazione attraverso delle radiografie, ma a parte questo parliamo di pochi denti, di frammenti di ossa e di qualche capello.» «Faceva la modella, per caso?» «Sì, e anche pubblicità in televisione e sui giornali. Guadagnava bene. Aveva una Viper nera e una casa niente male con vista sul mare.»
«Potrebbe mandarmi qualche sua foto e i rapporti sul caso per posta elettronica?» «Mi lasci l'indirizzo. Vedo che cosa posso fare.» «Ne ho bisogno al più presto, signor Stuckey», dissi. Quando riattaccai avevo la testa che mi girava: tutte le vittime erano bellissime ed erano apparse in televisione o in qualche reportage fotografico. Era un comune denominatore che non si poteva ignorare ed ero convinta che Marlene Farber, Austin Hart, Claire Rawley e Kellie Shephard fossero stati scelti dall'assassino per un motivo ben preciso. Era da lì che partiva tutto. Le modalità erano tipiche di un serial killer come Bundy, che sceglieva donne con i capelli lunghi e diritti che assomigliavano alla ex fidanzata. Quello che non capivo era il ruolo di Carrie Grethen. Prima di tutto era rinchiusa a Kirby quando erano avvenute le prime tre morti e poi il suo modus operandi era totalmente diverso. Ero sconcertata. Carrie non c'era, eppure era coinvolta. Mi assopii un momento e alle sei del mattino mi risvegliai con un sussulto. Mi faceva male il collo e avevo la schiena rigida e indolenzita. Mi alzai piano piano e mi stiracchiai. Sapevo quel che dovevo fare, ma non ero certa di riuscirci e il solo pensiero mi riempiva di terrore, facendomi venire il batticuore. Guardai sgomenta i sacchetti di carta marrone che Marino aveva posato davanti a una libreria piena di riviste di giurisprudenza. Erano chiusi con lo scotch ed etichettati. Li presi e li portai in camera di Benton. Sebbene di solito dormissimo tutti e due nel mio letto, Benton occupava l'ala opposta della casa. Era li che lavorava e teneva le sue cose perché, invecchiando, avevamo capito l'importanza di avere ognuno il proprio spazio. La possibilità di battere in ritirata faceva diventare i nostri scontri meno violenti e il fatto di non vederci durante il giorno rendeva più piacevole ritrovarci la sera. La porta di camera sua era ancora spalancata, le luci spente, le tende tirate. Rimasi impalata sulla soglia a guardare le ombre minacciose che abitavano la stanza. Dovetti fare un atto di coraggio per accendere la luce. Il letto era fatto, il piumino azzurro ben ripiegato, perché Benton era un uomo preciso anche quando aveva fretta. Non si era mai aspettato che gli lavassi la biancheria o gli cambiassi le lenzuola, e questo perché il suo forte senso di indipendenza e di autonomia non si era allentato nemmeno con me. Gli piaceva fare le cose a modo suo. Eravamo uguali, in questo, tanto che a volte mi chiedevo come avessimo fatto a stare insieme. Presi le sue
spazzole dal comò, perché sapevo che sarebbero potute servire per un confronto del DNA nel caso non fosse stata possibile l'identificazione per altre vie. Mi avvicinai al comodino di ciliegio per dare un'occhiata ai libri e ai fascicoli che vi aveva riposto. Stava leggendo Ritorno a Cold Mountain e aveva usato la linguetta strappata di una busta come segnalibro. Non era nemmeno a metà. Notai le bozze del manuale di classificazione criminale che stava correggendo e alla vista della sua calligrafia mi si strinse il cuore. Girai le pagine con affetto, passando le dita sulle sue annotazioni con gli occhi pieni di lacrime. Poi posai i sacchetti sul letto e li strappai per aprirli. La polizia aveva preso tutto quello che aveva trovato nei cassetti e nell'armadio e l'aveva infilato nei sacchetti senza piegarlo. Presi le camicie bianche di cotone e le lisciai una per una, allungai le cravatte di colori vivaci e due paia di bretelle. Si era portato due completi leggeri, che si erano sgualciti come carta crespata. C'erano scarpe eleganti, una tuta, dei calzini e pantaloncini da corsa, ma fu il suo kit da rasatura a farmi trasalire. Qualcuno vi aveva frugato dentro e il flacone di Givenchy III era stato ritappato male. Era uscita dell'acqua di colonia e quel profumo maschile che conoscevo tanto bene mi riempì di commozione. Mi pareva di sentirglielo sulle guance lisce e appena rasate. Tutto a un tratto lo rividi dietro la scrivania del suo ufficio all'accademia dell'FBI, ricordai il suo bel viso, i suoi vestiti eleganti e il suo profumo, ai tempi in cui mi stavo innamorando di lui senza saperlo. Misi ordinatamente da parte i vestiti e aprii malamente un altro sacchetto. Posai la sua ventiquattrore di pelle nera sul letto e feci scattare le serrature. Mi accorsi subito che mancava la Colt Mustang .380 che a volte teneva alla caviglia e mi parve significativo che l'avesse portata con sé la sera in cui era morto. Generalmente girava con la nove millimetri nascosta nella fondina ascellare e prendeva la Colt in situazioni di emergenza. Il fatto che quella sera l'avesse significava che era partito per una missione dopo aver lasciato il luogo dell'incendio a Lehigh. Probabilmente doveva vedere qualcuno e non capivo come mai non vi avesse fatto cenno. Mi sembrava un'imprudenza, e non era da lui agire in maniera avventata. Presi l'agenda di pelle marrone e la sfogliai per vedere le ultime annotazioni. C'erano un appuntamento dal dentista, uno dal parrucchiere e altri impegni, ma niente il giorno della sua morte, tranne un appunto sul compleanno della figlia Michelle, la settimana successiva. Immaginai che fosse con la sorella dalla madre, Connie, l'ex moglie di Benton. Mi pesava l'idea
di dover dividere con loro quel lutto, comunque la pensassero sul mio conto. Aveva scribacchiato commenti e interrogativi su Carrie, il mostro che poco dopo ne avrebbe causato la morte. Triste ironia: Benton aveva cercato di tracciare il suo profilo psicologico nel tentativo di anticiparne le mosse, senza neppure immaginare che anche lei pensava a lui. Carrie aveva pianificato Lehigh e la videocassetta e in quel momento, con tutta probabilità, si faceva passare per un membro di qualche troupe. Mi cadde l'occhio su frasi scritte da Benton. Rapporto/fissazione aggressore-vittima, fusione di identità/erotomania, percezione della vittima come appartenente a uno status superiore. Sul retro della pagina aveva annotato: modello di vita. Come si lega alla scelta delle vittime? Kirby. Accesso a Claire Rawley? Apparentemente nessuno. Senza senso. Altro aggressore? Complice? Gault. Bonnie e Clyde. Modus operandi originario. Possibile legame. Non è sola. Maschio, bianco, fra i 28 e i 45? Elicottero bianco? Mi venne la pelle d'oca al pensiero di ciò che occupava la mente di Benton all'obitorio, quando prendeva appunti guardando lavorare Gerde e me. Aveva intuito ciò che d'improvviso sembrava ovvio: Carrie non agiva da sola. Si era alleata con qualcuno, forse quando era a Kirby. Anzi, ero certa che l'alleanza era precedente alla fuga e mi chiesi se nei cinque anni che aveva trascorso là dentro non avesse incontrato un altro paziente psicopatico che fosse poi stato dimesso. Forse aveva intrattenuto con lui una corrispondenza libera e audace, come aveva fatto con la stampa e con me. Era significativo che la ventiquattrore di Benton fosse stata ritrovata nella sua camera d'albergo, visto che all'obitorio l'aveva con sé. Chiaramente era tornato in camera sua dopo essersi recato sulla scena dell'incendio. Dove fosse andato dopo e perché restava un enigma. Lessi ancora gli appunti a proposito dell'omicidio di Kellie Shephard. Benton aveva sottolineato furia omicida, ha infierito sulla vittima e disorganizzazione. Aveva scritto anche: ha perso il controllo perché la vittima non ha avuto la reazione che si aspettava. Ha rovinato il rituale. Non doveva andare così. Rabbia. Ucciderà di nuovo presto. Chiusi la ventiquattrore e la lasciai sul letto con il cuore gonfio. Uscii dalla stanza, spensi la luce e chiusi la porta, sapendo che presto avrei svuotato armadio e comò perché avevo deciso di vivere con l'eco della sua assenza. Andai a vedere come stava Lucy e la trovai addormentata con la pistola sul comodino. Continuai a girare per casa finché non arrivai nell'ingresso, dove disinserii l'allarme il tempo di aprire la porta e prendere il
giornale sulla scala. Poi andai in cucina a fare il caffè. Alle sette e mezzo ero pronta per andare in ufficio. Lucy non si era mossa. Entrai silenziosamente in camera sua e vidi che il sole filtrava da dietro le tende e giocherellava sul suo viso. «Lucy?» la chiamai, accarezzandole una spalla. Si svegliò di colpo e si sedette sul letto. «Sto per uscire», le dissi. «Ora mi alzo anch'io.» Spinse via le coperte. «Vuoi bere un caffè con me?» le domandai. «Certo.» Mise i piedi per terra. «Dovresti mangiare qualcosa», le consigliai. Aveva dormito con un paio di calzoncini da corsa e una maglietta. Mi seguì in cucina silenziosa come un gatto. «Vuoi del muesli?» le domandai prendendo una tazza dalla credenza. Non rispose e mi guardò mentre aprivo il barattolo di muesli che Benton mangiava quasi sempre a colazione con frutta a pezzetti. Sentendone il profumo mi venne un groppo alla gola e mi si strinse lo stomaco. Rimasi lì impalata, incapace di prendere una ciotola o un cucchiaio. «Lascia perdere, zia Kay», disse Lucy, che aveva capito. «Tanto non ho fame.» Richiusi il barattolo con le mani che tremavano. «Non so come fai a pensare di rimanere in questa casa», mi disse. Si versò il caffè. «È casa mia, Lucy.» Aprii il frigo e le porsi il latte. «Dov'è la sua macchina?» mi chiese, versandone un goccio nel caffè. «All'aeroporto di Hilton Head, suppongo. L'avrà lasciata là quando ha preso l'aereo per New York.» «Cosa pensi di farne?» «Non lo so.» Ero sempre più agitata. «In questo momento la macchina di Benton è l'ultimo dei miei pensieri. Ho tutte le sue cose in casa...» risposi. Trassi un respiro profondo. «Non posso prendere tutte queste decisioni in così poco tempo», mi giustificai.
«Dovresti portare via la sua roba oggi stesso.» Si appoggiò ai mobili della cucina, bevve il caffè e mi squadrò. «Dico sul serio», continuò con lo stesso tono piatto. «Non voglio toccare niente finché non arriva il corpo», risposi. «Ti posso aiutare, se vuoi.» Bevve un altro sorso di caffè. Mi stavo arrabbiando. «Voglio fare a modo mio, Lucy», dissi con un dolore che sembrava irradiarsi da ogni più piccola parte di me. «Una volta tanto non voglio chiudere la porta e scappare. Ho fatto così tutta la vita, a cominciare da quando è morto mio padre. Poi Tony mi ha lasciato, Mark è morto e io sono diventata sempre più brava a chiudere le relazioni come fossero la porta di una casa vecchia da cui uscivo come se non ci avessi mai abitato. Ma alla fine ho capito che non serve a niente.» Lucy aveva gli occhi bassi. «Hai parlato con Janet?» le chiesi. «Lo sa. Adesso sta male perché non ho voglia di vederla. Ma io non ho voglia di vedere nessuno.» «Più scappi, meno riesci a staccarti», dissi. «Se non hai imparato altro da me, almeno impara questo. Non aspettare di avere la mia età per accorgetene.» «Ho imparato un sacco di cose da te», replicò mia nipote mentre il sole cominciava a brillare sulle finestre della cucina. «Più di quanto tu pensi.» Fissò a lungo la porta che dava nel salotto. «Ho l'impressione che stia per entrare da un momento all'altro.» «Lo so», risposi. «Ce l'ho anch'io.» «Telefono a Teun. Appena ho notizie, ti chiamo», mi informò. Il sole era caldo e la gente che andava a lavorare strizzava gli occhi pregustando una bella giornata limpida. Trovai traffico sulla Nona Strada, oltre al cancello di ferro battuto che cintava Capitol Square con i suoi edifici bianchi e i monumenti dedicati a Jackson e a Washington. Pensai a Kenneth Sparkes e alla sua influenza politica. Ricordai la paura e il disagio che mi incuteva una volta, quando mi chiamava per contestare qualcosa che avevo fatto. Ora, invece, mi faceva una pena terribile. Gli ultimi sviluppi non lo avevano liberato dai sospetti, in quanto chi sapeva di avere a che fare con un serial killer non era in condizione di rivelarlo alla stampa. Ero certa che Sparkes non sapesse nulla. Avrei voluto parlargli, rassicurarlo, quasi potessi così rassicurare anche me stessa. La depressione mi stringeva il petto con le sue mani gelide e, quando entrai
nell'area di carico dell'obitorio, la vista di un cadavere in un sacco nero dentro il carro mi turbò come non mi era mai successo prima. Cercai di non pensare che anche Benton era in un sacco come quello, chiuso in un gelido scomparto di acciaio in una cella frigorifera. Avrei preferito non sapere, ma purtroppo la morte non era un'astrazione per me, che conoscevo ogni rumore, ogni odore e ogni procedura di quel luogo dove non esistevano affetti, ma solo osservazione clinica e obiettiva di casi. Stavo scendendo dalla mia macchina, quando arrivò Marino. «Posso lasciare la macchina qui?» mi chiese, sapendo benissimo che quel garage non era per la polizia. Era specializzato a infrangere le regole. «Fai pure», risposi. «Uno dei furgoni è dal meccanico. O almeno così mi pare. Non ti trattieni a lungo, vero?» «E tu cosa ne sai?» Chiuse la portiera e gettò la cenere della sigaretta per terra. Mi confortò notare che era di nuovo maleducato. «Fai un salto in ufficio, prima?» mi chiese, mentre imboccavamo un corridoio che portava in obitorio. «No, salgo subito su.» «Allora ti rivelo un fatto che probabilmente hai scritto nero su bianco sulla tua scrivania», mi annunciò. «La morta è effettivamente Ciaire Rawley. L'hanno identificata dai capelli ritrovati sulla sua spazzola.» Quella conferma non mi sorprendeva, ma mi rattristò. «Grazie», gli dissi. «Almeno adesso lo sappiamo per certo.» 19 I laboratori che analizzavano fibre e residui organici erano al terzo piano; per prima cosa mi recai in quello che conteneva il microscopio elettronico a scansione o SEM, che utilizza un fascio di elettroni per illuminare campioni come i frammenti metallici ritrovati nel collo della Shephard. L'impatto degli elettroni primari provoca l'emissione dalla superficie del campione di elettroni secondari, i quali generano un segnale elettrico contenente informazioni che vengono trasferite su uno schermo. Il microscopio elettronico a scansione riconosce quasi tutti i centotré elementi, che siano carbonio, rame o zinco e, grazie alla profondità di campo, all'alta definizione e all'ampia possibilità di ingrandimento, mostra anche il più piccolo residuo di polvere da sparo o un peluzzo su una foglia di
marijuana con una precisione straordinaria, per non dire inquietante. Il SEM, della Zeiss, era in una sala senza finestre piena di scaffalature beige, piani di lavoro e lavandini. Siccome il costosissimo microscopio era molto sensibile alle vibrazioni meccaniche, ai campi magnetici e agli sbalzi termici o elettrici, doveva essere tenuto in un ambiente accuratamente controllato. L'impianto di condizionamento e di ventilazione era pertanto indipendente da quello che serviva il resto del palazzo e la luce era fornita da lampadine a filamento che non provocavano interferenze elettriche ed erano dirette al soffitto per illuminare debolmente la stanza con i loro riflessi. Pavimenti e pareti erano di cemento armato a prova di traffico e di treni. Mary Chan, la microscopista, era una donna minuta e dalla carnagione chiara. In quel momento era al telefono, circondata dalle sue complesse apparecchiature. Fra quadri portastrumenti, gruppi elettrogeni, dispositivo di emissione e messa a fuoco del fascio di elettroni, analizzatore ai raggi X, tubo a vuoto collegato a un cilindro di azoto, il SEM sembrava la consolle di una navetta spaziale. Mary Chan aveva il camice abbottonato fino al collo e mi fece un cenno cordiale per indicarmi che sarebbe stata da me fra un minuto. «Misurale di nuovo la febbre e prova con un po' di tapioca. Se vomita di nuovo richiamami, okay?» diceva. «Scusa, ma adesso devo andare.» «Mia figlia ha fatto indigestione», si scusò. «Probabilmente ha mangiato troppo gelato ieri sera. Appena ho girato l'occhio si è abbuffata di Chunky Monkey.» Sorrise coraggiosamente, ma mi accorsi che era stanca e che probabilmente era stata sveglia tutta la notte. «Anche a me piace molto», decretò Marino porgendole il sacchetto con le prove. «Un altro truciolo di metallo», le spiegai. «Mi dispiace farle fretta, ma vorrei che lo guardasse subito. È urgente.» «E un altro caso o sempre lo stesso?» «L'incendio di Lehigh, in Pennsylvania», risposi. «Sul serio?» chiese sorpresa aprendo l'involucro con un bisturi. «Brutta cosa, almeno a quanto dicono alla televisione», disse. «E quel poveretto dell'FBI? C'è da aver paura.» Mary Chan non poteva sapere della mia relazione con Benton. «Se poi a questi si aggiunge il caso di Warrenton viene il dubbio che ci sia in giro un piromane scatenato», continuò.
«È proprio quello che stiamo cercando di scoprire», replicai. Mary Chan tolse il coperchio al barattolo in cui avevo messo il frammento di metallo e tolse il batuffolo di cotone con le pinzette. Quindi spinse la poltroncina girevole verso il piano di lavoro alle proprie spalle e mise un quadratino di nastro adesivo al carbonio nero su entrambi i lati di un piccolo piano di alluminio. Poi vi posò la scaglia di metallo che sembrava avere la superficie più ampia ed era grande all'incirca come mezza ciglia. Accese lo stereoscopio, sistemò il campione sul piatto e regolò la sorgente luminosa per controllare il frammento di metallo a un ingrandimento inferiore, prima di passare al SEM. «Vedo due superfici distinte», disse regolando il fuoco. «Una molto lucida, l'altra grigia e opaca.» «Allora è diverso dal campione di Warrenton», dissi. «In quello tutte e due le superfici erano lucide, vero?» «Proprio così. Ho l'impressione che una delle due superfici si sia ossidata per qualche ragione.» «Le spiace?» chiesi. Si spostò e mi lasciò guardare. Ingrandita quattro volte, la scheggia di metallo sembrava un ricciolo di carta stagnola e le leggere striature lasciate dallo strumento usato per affilare il metallo erano appena visibili. Mary scattò una serie di fotografie e quindi si spostò davanti alla consolle del SEM. Premette un pulsante per aprire il tubo, cioè per ottenere il vuoto. «Ci vorrà qualche minuto», spiegò. «Potete aspettare qui oppure tornare fra un po'.» «Io vado a prendermi un caffè», disse Marino, che non aveva mai amato l'alta tecnologia e con tutta probabilità aveva voglia di fumare. La Chan aprì una valvola per riempire il tubo di azoto in maniera da evitare contaminazioni, per esempio da umidità. Poi premette un pulsante sulla consolle e posò il campione sull'apposito supporto. «Prima di emettere il fascio, dobbiamo ottenere un grado di vuoto pari a 10-6 millimetri di mercurio. Di solito ci vogliono due o tre minuti, ma preferisco aspettare un po' di più per essere sicura», spiegò prendendo in mano una tazza di caffè. «Mi sembra che i giornali stiano creando confusione», disse quindi. «Fanno troppe illazioni.» «Non è una novità», replicai. «Ha ragione. Sa che quando leggo i resoconti delle mie testimonianze in tribunale mi chiedo se citano me o qualcun altro? Insomma, prima tirano in ballo Sparkes e, a essere sincera, anch'io pensavo che potesse essere sta-
to lui a dar fuoco alla tenuta e alla ragazza. Magari per soldi, oppure per toglierla di mezzo perché sapeva troppo. Poi però viene fuori che questi due incendi in Pennsylvania, con altri due morti, potrebbero essere collegati. Allora io mi chiedo: che cosa ne facciamo di Sparkes?» Si portò la tazza alle labbra. «Mi scusi, dottoressa, non le ho nemmeno offerto un caffè.» «L'ho già preso, grazie.» Osservai la luce verde che si muoveva lungo l'indicatore mentre il livello di mercurio saliva. «E questa pazza fuggita dal manicomio criminale di New York? Com'è che si chiama? Carrie Grethen? Ci mancava solo l'esperto FBI trovato morto. Ah, forse adesso ci siamo», disse. Accese il fascio di elettroni e lo schermo. La regolazione dell'ingrandimento era su cinquecento e, quando Mary Chan lo diminuì, incominciammo a vedere un'immagine che all'inizio pareva un'onda e poi si appiattiva. La Chan schiacciò altri pulsanti per regolare l'ingrandimento a venti e iniziammo a ottenere i segnali provenienti dal campione. «Cambio le dimensioni del fascio per aumentare l'energia», disse effettuando delle regolazioni su bottoni e quadranti. «Sembra proprio un truciolo di metallo», osservò. La topografia della superficie era semplicemente una versione ingrandita dell'immagine che avevamo visto al microscopio ottico pochi minuti prima e, dal momento che non era molto nitida, probabilmente si trattava di un elemento con basso numero atomico. Mary Chan regolò la velocità di scansione ed eliminò parte del rumore, che appariva sullo schermo come una tempesta di neve. «Qui si vede la differenza fra la parte lucida e quella grigia», disse. «Secondo lei si è ossidata?» chiesi avvicinandomi una sedia. «Be' sono due superfici dello stesso materiale. Azzarderei l'ipotesi che la parte lucida sia stata tagliata di recente, al contrario dell'altra. «Capisco.» Il ricciolo di metallo sembrava un frammento di proiettile sospeso nel vuoto. «L'anno scorso mi era capitato il caso di un uomo picchiato con un tubo in un'officina», disse la Chan premendo un pulsante per scattare qualche fotografia. «Nel cuoio capelluto avevo ritrovato un frammento di metallo proveniente da un tornio, che era finito direttamente dentro la ferita. Dunque, cambiamo il back scatter e vediamo che tipo di raggi X otteniamo.»
Lo schermo diventò grigio e cominciò il conto dei secondi. Mary premette altri pulsanti sul quadro dei comandi e di colpo sullo schermo apparve uno spettro arancione brillante su sfondo blu. Mosse il cursore e allargò quella che pareva una stalagmite psichedelica. «Vediamo se ci sono altri metalli.» Effettuò una serie di regolazioni. «No», dichiarò quindi. «È molto pulito. Secondo me è lo stesso dell'altra volta. Proviamo a richiamare il magnesio e vediamo se c'è sovrapposizione di linee.» Richiamò in sovrimpressione lo spettro del magnesio, che coincideva perfettamente con quello del campione. Poi richiamò sullo schermo una tavola degli elementi: il quadrato corrispondente al magnesio era acceso. Sebbene me lo aspettassi, ora che ne avevo ricevuto la conferma, ero sbigottita. «Secondo lei come è possibile che del magnesio puro si trovi in una ferita?» chiesi alla Chan, mentre stava tornando Marino. «Be', le ho raccontato la storia del tubo», rispose. «Che tubo?» si incuriosì Marino. «L'unica cosa che mi viene in mente è un'officina», continuò la Chan. «Anche se il magnesio non si lavora con macchine utensili, in realtà.» «Grazie, Mary. Dobbiamo fare ancora una cosa, poi torniamo a prendere il frammento del caso Warrenton. Devo portarlo nel laboratorio di balistica.» Guardò l'orologio mentre il telefono squillava di nuovo. Pensai che quel giorno le interruzioni per Mary Chan erano davvero molte. «Certo», mi rispose. Il laboratorio di balistica e quello per le armi da fuoco erano sullo stesso piano e facevano parte della stessa sezione, dal momento che il primo si occupava delle scanalature, dei pieni e dei segni lasciati dal percussore delle armi da fuoco su bossoli e proiettili. Nella nuova sede occupavano uno spazio enorme, in confronto a quello precedente, a triste testimonianza di un degrado sociale sempre peggiore. Ormai c'erano bambini che nascondevano pistole nello stipetto della scuola per mostrarle ai compagni nei gabinetti o sullo scuolabus e gli assassini di undici o dodici anni non erano più una rarità. La pistola era l'arma preferita di chi voleva liberarsi del coniuge o di un vicino il cui cane abbaiava troppo, ma anche dei suicidi. Più preoccupante era il fenomeno
delle stragi in luoghi pubblici a opera di squilibrati, uno dei motivi per cui la nostra nuova sede aveva vetri antiproiettile. L'ufficio di Rich Sinclair, moquettato e bene illuminato, era in posizione avvantaggiata rispetto al resto del laboratorio. Rich stava usando dei pesi per controllare la trazione del grilletto di una pistola Taurus e Marino e io entrammo al suono del cane che batteva contro il percussore. Non ero in vena di chiacchiere e, cercando di non essere troppo sgarbata, dissi chiaro e tondo a Sinclair di che cosa avevo bisogno, specificando che era una cosa urgente. «Questo è il frammento di metallo ritrovato a Warrenton», dissi aprendo una boccettina. «E questo è quello ritrovato a Lehigh.» Aprii l'altra. «Tutti e due presentano striature chiaramente visibili al SEM», spiegai. Il punto era vedere se le striature combaciavano, ovvero se i trucioli di magnesio ricuperati fino a quel momento erano stati prodotti dallo stesso strumento. Erano fragili e sottilissimi e, quando Sinclair cercò di prenderli con una spatolina di plastica, continuavano a sfuggirgli. Allora si aiutò con un quadratino di cartone nero. Posò il frammento di Warrenton su un quadratino e quello di Lehigh su un altro. Quindi li sistemò sui piatti del comparatore. «Sì, sì», disse Sinclair senza fermarsi. «Ottimo.» Spostò i frammenti di magnesio con la spatola appiattendoli e aumentando a quaranta l'ingrandimento. «Potrebbe essere una lama», osservò. «Le striature derivano probabilmente da un processo di rifinitura incompleto perché, per forza di cose, la lisciatura perfetta è impossibile. Tale rifinitura per il produttore è sufficiente, ma non vede le cose dal nostro punto di vista. Ecco, qui è ancora meglio, mi pare.» Si spostò per lasciarci dare un'occhiata. Marino si chinò per primo. «Sembrano impronte di sci», fu il suo commento. «È la lama o cosa?» «Sì, sono i segni lasciati dallo strumento utilizzato che ha tagliato le scaglie. Vede la corrispondenza, quando metto vicini i due frammenti?» Marino non vedeva. «Capo, guarda tu.» Sinclair si fece da parte. Quel che vidi al microscopio sarebbe servito come prova in tribunale: le striature del frammento di Warrenton corrispondevano alle striature dell'altro frammento. Chiaramente in tutti e due gli omicidi era stato usato uno strumento che era entrato in contatto con un oggetto di magnesio. Tutto
stava a scoprire che cosa fosse questo strumento e, dal momento che le scaglie erano tanto sottili, veniva da pensare a una lama affilata. Sinclair scattò delle fotografie e le mise in apposite buste. «Okay, e adesso?» domandò Marino seguendomi al centro dei laboratori, fra tecnici che analizzavano indumenti insanguinati sotto cappe a flusso laminare e un altro gruppo che esaminava un cacciavite Phillips e un machete su un grosso tavolo a forma di ferro di cavallo. «Vado a fare spese», risposi. Non rallentai, anzi, allungai il passo perché sentivo di essere vicina a ricostruire le mosse di Carrie, del suo complice o di chiunque fosse stato. «Come sarebbe a dire?» Udii le esplosioni ovattate che provenivano dalla stanza per i test di funzionamento delle armi. «Perché non vai a vedere come sta Lucy?» domandai. «Io torno fra un po'.» «Non mi piace quando ti tieni così sul vago», disse Marino mentre le porte dell'ascensore si aprivano. «Non mi va che vai in giro da sola a ficcare il naso dove non dovresti. Non è proprio il momento di gironzolare per conto tuo. Non abbiamo la minima idea di dove sia Carrie.» «Verissimo», dissi. «Infatti spero di riuscire a trovarla.» Scendemmo al primo piano e io mi diressi sicura verso la porta dell'area di carico, dove aprii la mia macchina. Marino aveva l'aria tanto infelice che temetti stesse per avere un accesso d'ira. «Vuoi dirmi dove cavolo stai andando?» gridò. «In un negozio di articoli sportivi», risposi mettendo in moto. «Il più grande che trovo.» Venne fuori che il più grande negozio di articoli sportivi di Richmond era Jumbo Sports, sulla riva sud del James, non lontano da dove abitava Marino. Era proprio questo l'unico motivo per cui lo conoscevo, dal momento che non ero molto interessata a palloni da basket, frisbee, pesi e mazze da golf. Presi la Powhite Parkway e due caselli dopo uscii sulla Midlothian Turnpike, diretta verso il centro. Il negozio di articoli sportivi era una costruzione di mattoni con delle sagome rosse su sfondo nero di atleti impegnati in vari sport. Il parcheggio era inaspettatamente pieno, data l'ora, e mi chiesi quante persone in forma più o meno perfetta passavano lì l'ora di pranzo. Non sapevo da che parte girarmi e dovetti studiare i cartelli per orien-
tarmi fra i vari reparti. C'erano guantoni da boxe in offerta speciale e macchine per body-building che parevano strumenti di tortura. L'abbigliamento sportivo, vario e coloratissimo, mi portò a riflettere sul tramonto del bianco, che personalmente continuavo a preferire le rare volte che giocavo a tennis. Immaginai che i coltelli si trovassero nella fornitissima sezione campeggio e caccia in fondo al locale. C'erano archi, frecce, bersagli, tende, canoe, fornelletti e accessori mimetici. In quel momento sembravo l'unica donna nel reparto e non c'era nessuno intenzionato a darmi retta. Controllai i coltelli esposti. Un uomo con la faccia ustionata dal sole stava cercando un fucile ad aria compressa per il decimo compleanno del figlio mentre uno leggermente più anziano, vestito di bianco, si informava sui sieri antivipera e i repellenti contro le zanzare. Stavo per perdere la pazienza. «Scusi?» interruppi. Il commesso, che era giovanissimo, sulle prime parve non avermi sentito. «Vede, prima di usare il siero bisogna interpellare il medico», stava dicendo al signore vestito di bianco. «E come diavolo faccio a interpellare il medico se sono in mezzo a un bosco e mi ha appena morso una vipera?» «Intendevo prima di partire.» Di fronte a quella conversazione priva di logica mi spazientii del tutto. «Non solo i sieri antivipera sono inutili, ma a volte sono anche dannosi», dichiarai. «Lacci emostatici, incisioni locali, succhiare il veleno peggiorano la situazione. Se la morde un serpente», consigliai al signore vestito di bianco, «immobilizzi la parte in cui è stato morsicato e vada all'ospedale.» 1 due rimasero senza parole. «Dunque non mi devo portare dietro niente?» chiese il cliente. «Non devo comprare niente?» «Si compri un bel paio di scarponi e un bastone», risposi. «Eviti l'erba alta e non infili le mani nei buchi e fra le pietre. Dal momento che il veleno circola nel corpo attraverso il sistema linfatico, può essere utile una buona fasciatura stretta o steccare l'arto per tenerlo assolutamente immobile.» «Scusi, ma lei è medico?» chiese il commesso. «Ho una certa esperienza di morsi di serpente.» Evitai di specificare che, in quei casi, la vittima non ce l'aveva fatta. «Avete affilacoltelli?» chiesi al commesso. «Per cucina o da campeggio?»
«Cominciamo con quelli da campeggio», dissi. Mi indicò una parete con una grande quantità di pietre per affilare e altri strumenti in metallo o in ceramica. Notai che la composizione dei prodotti indicata sulla confezione era generalmente molto vaga. Mentre osservavo con attenzione, mi cadde l'occhio su un oggetto esposto nella fila più in basso, un semplice blocco rettangolare di metallo grigio-argento in un involucro di plastica trasparente. Si chiamava «Fire starter» ed era di magnesio. Lessi le istruzioni con il cuore che batteva all'impazzata. Per accendere il fuoco, bastava passare un coltello sulla superficie del blocchetto di magnesio staccandone delle scaglie. Non c'era bisogno di fiammiferi, perché il kit comprendeva un dispositivo per provocarne l'accensione. Ne presi mezza dozzina di confezioni e mi avviai verso la cassa ma, nell'emozione, continuavo a perdermi. Girai fra calzature, bocce da bowling e guantoni da baseball e alla fine mi ritrovai nella sezione nuoto, dove era esposto un vasto assortimento di cuffie dai colori sgargianti. Ce n'era una rosa shocking. Mi venne in mente la strana sostanza trovata fra i capelli di Claire Rawley. Avevo pensato fin dall'inizio che avesse qualcosa in testa quando era stata assassinata, o perlomeno quando era stata raggiunta dalle fiamme. Avevo anche preso in considerazione l'ipotesi che fosse una cuffia da doccia, ma l'avevo subito scartata perché il sottile materiale plastico con cui normalmente erano fatte non avrebbe resistito cinque secondi al calore. Non avevo mai pensato, invece, a una cuffia da piscina. Quando le osservai attentamente, vidi che erano fatte di Lycra, lattice o silicone. Quella rosa shocking era di silicone e sapevo che avrebbe resistito alle alte temperature molto meglio delle altre. Ne comprai un certo numero e tornai in ufficio. Ero talmente agitata che superavo chiunque mi rallentasse, indipendentemente dalla corsia, e fui fortunata a non beccarmi una multa. Mi venivano in mente immagini troppo terribili e spaventose per potermici soffermare. Per una volta sperai di essermi sbagliata. Dovevo correre nei laboratori per accertarmene. «Oh, Benton», mormorai, come se fosse lì vicino a me. «Ti prego, fai che non sia così.» 20 Era l'una e mezzo quando posteggiai nell'area di carico e scesi dalla macchina. Mi avviai di corsa verso l'ascensore e salii al terzo piano. Cer-
cavo Jerri Garmon, che aveva precedentemente esaminato il residuo rosa rivelandomi che era silicone. Sbirciai dalle porte e la trovai nella sala che conteneva la più moderna strumentazione utilizzata per l'analisi di sostanze organiche, dall'eroina ai leganti per vernici. Stava iniettando un campione in una camera riscaldata del gascromatografo e non si accorse di me finché non aprii bocca. «Jerri», la chiamai un po' affannata. «Scusa se ti disturbo, ma ho una cosa che penso dovrebbe interessarti.» Le porsi la cuffia, ma lei non ebbe reazioni. «Silicone», spiegai. A quel punto si illuminò. «Per la miseria! Una cuffia? E chi ci avrebbe mai pensato?» esclamò. «Questo dimostra che non riusciamo più a stare al passo, ormai.» «Possiamo bruciarla?» domandai. «Per questo test intanto devo aspettare. Andiamo. Sono curiosa anch'io.» Pur essendo spaziosi, i laboratori dove venivano analizzati fibre, residui e campioni biologici attraverso strumenti complicati come il SEM e lo spettrometro di massa, erano già un po' stretti. Decine di latte di alluminio a tenuta d'aria usate per la raccolta di residui infiammabili e detriti di incendio erano impilate sopra a delle mensole, insieme con grossi contenitori di essiccante azzurro granulare, capsule di Petri, bicchieri, provette al carbone e i soliti sacchetti di carta marrone usati per le prove. Il test che avevo in mente era semplice e rapido. Il forno a muffola era in un angolo e assomigliava a un piccolo forno crematorio di ceramica beige, grande più o meno come il frigobar di una camera d'albergo; raggiungeva temperature fino a millequattrocento gradi. Jerri lo accese e poco dopo l'indicatore segnalò che la temperatura stava aumentando. Posò la cuffia su un piatto di porcellana bianco non molto diverso da una ciotola da macedonia e aprì un cassetto, da cui estrasse uno spesso guanto di amianto che la proteggeva fino al gomito. Rimase ferma con le pinze in mano mentre la temperatura raggiungeva i cento gradi. A duecentocinquanta controllò la cuffia, che non aveva subito alcuna alterazione. «Ti posso dire che lattice e Lycra a questo punto fumerebbero e comincerebbero a sciogliersi», mi informò. «Questa invece non è neppure appiccicosa e non ha cambiato colore.» La cuffia di silicone non cominciò a fumare che a cinquecento gradi. A settecentocinquanta iniziò a ingrigire in corrispondenza del bordo, a diven-
tare appiccicosa e a fondere. Appena prima di raggiungere i mille gradi prese fuoco e Jerri dovette andare a prendere un guanto più spesso. «Straordinario», commentò. «Adesso si capisce perché lo usano negli isolamenti», dissi io. «Ti conviene spostarti.» «Okay.» Feci un passo indietro e Jerri tirò fuori dal forno la ciotola con le pinze e la prese con il guanto di amianto. All'aria le fiamme aumentarono d'intensità e quando Jerri la posò sotto una cappa aspirante e la accese, la superficie esterna della cuffia bruciava ormai in maniera incontrollabile, tanto che fu necessario coprirla con un coperchio. Quando finalmente il fuoco si spense, Jerri tolse il coperchio per vedere che cos'era rimasto. Con il cuore che batteva notai cenere biancastra e pezzi di silicone ancora di colore rosa. La cuffia non era né collosa né liquefatta: si disintegrava semplicemente finché un calo di temperatura, l'assenza di ossigeno o il contatto con l'acqua non interrompeva il processo. Il risultato del nostro esperimento era decisamente compatibile con il materiale che avevo ritrovato fra i lunghi capelli biondi di Claire Rawley. L'immagine del suo corpo nella vasca da bagno con una cuffia rosa in testa era spaventosa e le implicazioni più vaste di quanto riuscissi a comprendere. Quando si era verificato il flash-over nel bagno, la cabina della doccia era crollata; il vetro e la vasca avevano protetto il cadavere mentre le fiamme salivano dal punto di origine lambendo il soffitto. La temperatura nella vasca non era salita oltre i seicento gradi e una piccola parte di cuffia di silicone era rimasta intatta per il semplice motivo che la porta della cabina della doccia era vecchia e composta da un unico pannello di vetro. Mentre tornavo a casa il traffico dell'ora di punta mi bloccò con un'aggressività che parve proporzionale alla mia fretta. Più volte fui sul punto di prendere il telefono e di chiamare Benton per comunicargli la mia scoperta, ma poi mi tornava in mente un negozio bruciato di Philadelphia, allagato e pieno di macerie, rivedevo quel che restava dell'orologio di acciaio inossidabile che gli avevo regalato per Natale, quel che restava di lui. Immaginavo il filo con cui gli avevano legato le caviglie, le manette chiuse a chiave. Adesso sapevo che cosa era successo, e anche perché. Benton era stato ucciso come tutti gli altri, ma questa volta per ripicca, per vendetta, per soddisfare la sete di sangue di Carrie, per ottenere l'ennesimo trofeo. Fermai la macchina nel vialetto che portava a casa mia accecata dalle lacrime e corsi in casa in preda a un'angoscia primordiale, sbattendo la porta.
Lucy spuntò dalla cucina con un paio di pantaloni beige e una maglietta nera. Aveva un barattolo di maionese in mano. «Zia Kay!» esclamò correndomi incontro. «Che cosa è successo, zia Kay? Dov'è Marino? Sta bene?» «Non è Marino», risposi con un filo di voce. Mi posò una mano sulla spalla e mi fece sedere sul divano della sala. «Benton», dissi. «Come tutti gli altri.» Piangevo. «Come Claire Rawley. Le hanno messo una cuffia per tirare indietro i capelli. La vasca, l'operazione...» «Che cosa?» Lucy era sbigottita. «Volevano la faccia!» Mi alzai di scatto. «Non capisci?» gridai. «Quei segni nelle ossa, sulla mascella... sembrava uno scalpo, ma era peggio! Non gli dà fuoco per nascondere l'omicidio, ma per non farci capire in che stato li riduce! Gli ruba la bellezza, gli strappa via la faccia!» Lucy era a bocca aperta, sotto choc. Borbottò: «Carrie? E stata lei?». «No, non credo proprio», risposi. Camminavo nervosamente fregandomi le mani. «È come con Gault», dissi. «Le piace guardare. Magari dà una mano. Forse aveva fatto incazzare Kellie Shephard, o forse Kellie non c'era stata perché non andava con le donne. Così hanno litigato, Carrie l'ha presa a coltellate finché non è intervenuto il suo complice che le ha tagliato la gola; è lì che abbiamo ritrovato i frammenti di magnesio. Perché erano sul suo coltello, non su quello di Carrie. Il piromane è lui, non Carrie. E la faccia di Kellie non l'ha presa perché era tutta tagliata, perché si era rovinata durante la lotta.» «Credi che l'abbiano fatto anche a...» incominciò Lucy a pugni stretti. «A Benton?» Alzai la voce. «Se credo che gli abbiamo strappato la faccia?» Presi a calci il muro, poi mi ci appoggiai. Mi sentivo il vuoto, il gelo, il buio dentro. «Carrie sapeva che lui la conosceva bene, che sapeva che cosa avrebbe potuto fargli», risposi lentissimamente. «Chissà quanto ha goduto a vederlo lì, in catene. L'avrà minacciato con il coltello. Sì, penso proprio che l'abbiano fatto anche a lui. Anzi, lo so per certo.» Quell'ultimo pensiero era inconcepibile. «Spero solo che fosse già morto», dissi.
«Certo che era già morto, zia Kay.» Anche Lucy piangeva. Mi venne vicino e mi gettò le braccia al collo. «Non avrebbero corso il rischio che qualcuno lo sentisse gridare», spiegò. Un'ora dopo avevo informato degli ultimi sviluppi Teun McGovern, la quale concordò con noi che la cosa più importante era scoprire chi fosse il complice di Carrie e come l'avesse conosciuto. Si irritò più di quanto non volesse far vedere, quando le spiegai ciò che sospettavo e sapevo. Kirby poteva essere la nostra unica speranza e Teun era d'accordo che nella mia posizione avevo più chance di lei di scoprire qualcosa. Lei apparteneva alle forze dell'ordine, io ero un medico. Il Border Patrol aveva portato un elicottero Bell JetRanger a HeloAir, vicino all'aeroporto di Richmond, e Lucy avrebbe voluto partire subito e viaggiare di notte. Io non ero d'accordo, se non altro perché una volta a New York non avremmo saputo dove andare, visto che nessuna delle due aveva intenzione di dormire a Ward's Island. E poi era meglio avvisare Kirby della nostra visita prima di partire. Non che volessi chiedere il permesso, ma semplicemente informarli. Marino avrebbe voluto accompagnarci, ma io mi rifiutai. «Niente poliziotti», spiegai quando si presentò a casa mia alle dieci, quella sera. «Sei fuori di testa, lasciatelo dire», rispose. «Non ne ho tutti i diritti?» Abbassò gli occhi e restò a guardarsi le scarpe da corsa che non avevano mai avuto modo di svolgere la funzione per cui erano state progettate. «Anche Lucy appartiene alle forze dell'ordine», protestò. «E il mio pilota, per quel che ne sanno loro.» «Uffa.» «Devo fare come penso sia meglio, Marino.» «Miseria, capo, non so cosa dire. Non capisco come fai.» Era rosso in faccia e, quando rialzò la testa, vidi che era affranto e aveva gli occhi rossi. «Voglio venire perché voglio prendere quei bastardi», esclamò. «L'hanno fregato. Lo sai, vero? Il Bureau ha registrato la telefonata di un tizio che ha chiamato martedì pomeriggio alle tre e quattordici, dicendo di avere delle informazioni a proposito del caso Shephard, ma che le avrebbe date soltanto a Benton Wesley. Quelli lì per lì non ci hanno creduto e gli hanno
risposto come fanno di solito, menando il can per l'aia. Ma questo le informazioni le aveva davvero. Cito letteralmente quello che ha detto: Gli dica che è a proposito di una donna un po' strana che ho visto al Lehigh County Hospital seduta al tavolo vicino a quello di Kellie Shephard.» «Maledetti!» esclamai, con le tempie che mi pulsavano per la rabbia. «A quel punto secondo me Benton ha chiamato il numero lasciato da questo stronzo, che risultava appartenere a un telefono pubblico vicino al negozio bruciato», proseguì. «È andato all'appuntamento con quest'uomo e, prima di capire che era il complice psicopatico di Carrie, BUM!» Feci un salto. «Si è ritrovato con una pistola puntata contro, forse un coltello alla gola. Lo hanno ammanettato, dando due giri alla serratura. E perché? Perché è un agente federale e sa benissimo che uno normale non conosce il trucco della doppia mandata. Di solito i poliziotti che devono portare uno in centrale gli fanno semplicemente scattare le manette ai polsi. Se quello è esagitato, le manette lo frenano un po', ma basta una forcina per aprirle. Se le chiudi a chiave, invece, non c'è santo che tenga: ci vuole la chiave anche per riaprirle. E Benton, vedendo che usavano la chiave, ha capito senz'altro di non avere a che fare con uno sprovveduto.» «Ho sentito abbastanza», dissi a Marino. «Adesso vai a casa, per favore.» Mi stava venendo l'emicrania: mi facevano male il collo e la testa e avevo un inizio di nausea. Accompagnai Marino alla porta. Sapevo che l'avevo offeso: stava male e non sapeva come sfogare il proprio dolore, perché era incapace di esprimere i propri sentimenti. Forse non si accorgeva nemmeno di stare male. «Per me non è vero», mi fece quando gli aprii la porta. «Io non ci credo. Non l'ho visto, non ci credo.» «Ce lo rimanderanno presto», risposi mentre le cicale frinivano nella notte e le falene volavano nell'alone di luce vicino al portone. «Benton è morto», dichiarai con una forza che mi sorprese. «Devi accettarlo.» «Vedrai che fra un po' è di nuovo qua», insistette lui con voce stridula. «Io lo conosco: Benton è un osso duro. Mica se ne può andare così di punto in bianco...» Invece se n'era andato così, di punto in bianco. Come spesso capita, del resto. Come era capitato a Versace, che tornava a casa dopo essere andato a prendere il caffè e il giornale, o a Lady Diana che non aveva allacciato la cintura di sicurezza. Aspettai che Marino si allontanasse e chiusi la porta
inserendo l'allarme: ormai era un riflesso condizionato, tanto che a volte non mi ricordavo nemmeno di averlo fatto. Lucy si era allungata sul divano e guardava un programma alla tv con le luci spente. Mi sedetti vicino a lei e le misi una mano sulla spalla. Non parlammo, guardando un documentario sui vecchi gangster di Las Vegas. Le accarezzai i capelli ed ebbi l'impressione che fosse calda, febbricitante. Mi chiesi preoccupata che cosa le passasse per la testa: Lucy pensava in maniera tutta sua, difficile da interpretare anche con la stele di Rosetta della psicoterapia o dell'intuizione. Ma avevo capito una cosa, ormai, e cioè che non parlava mai delle cose che le stavano maggiormente a cuore. Ed era un po' che non parlava più di Janet. «Sarà meglio che andiamo a letto, visto che domani mattina dobbiamo alzarci presto, pilota», le dissi. «Pensavo di dormire qui.» Prese il telecomando e abbassò il volume. «Vestita?» Mi rispose con un'alzata di spalle. «Se andiamo a HeloAir verso le nove, chiamo Kirby da là.» «E se ci dicono di non andare?» mi chiese. «Gli dico che ormai sono per strada. Visto che New York in questo momento è in mano ai repubblicani, se è necessario posso chiedere aiuto al mio amico senatore Lord, che metterà di mezzo il sindaco e l'assessore alla Sanità. Non credo che Kirby voglia arrivare a tanto. Meglio lasciarci fare un giro, non credi?» «Non avranno missili terra-aria, vero?» «Sì, ma li chiamano pazienti», risposi. Fu la prima volta che scoppiammo a ridere da parecchi giorni. Non so perché dormii così bene, quella notte, ma quando la sveglia suonò alle sei, mi girai nel letto e mi resi conto che non mi ero più alzata da mezzanotte. Questo mi fece ben sperare in una ripresa, in un rinnovamento di cui avevo disperatamente bisogno. La depressione mi avvolgeva ancora come un velo, ma ormai riuscivo a vedere al di là, a sperare. Stavo facendo quello che Benton avrebbe voluto che facessi. Niente vendette: era contrario. La sua preoccupazione sarebbe stata proteggere Marino, Lucy e me, e proteggere anche gli altri, sconosciuti ignari che lavoravano in ospedale o facevano i modelli e ricevevano la propria condanna a morte nella frazione di secondo necessaria a un mostro per guardarli con occhi malvagi e pieni
di invidia. Appena sorse il sole, Lucy uscì a correre e, sebbene il fatto che uscisse da sola mi mettesse ansia, sapevo che aveva una pistola nel marsupio e che non dovevamo smettere di fare la nostra vita per colpa di Carde. Carde era in posizione decisamente avvantaggiata rispetto a noi che, continuando a vivere come al solito, rischiavamo costantemente di morire. D'altra parte, rinunciare alla nostra vita per paura sarebbe stata una morte ben peggiore. «Tutto a posto?» chiesi quando tornò e venne in cucina. Posai il caffè sul tavolo e Lucy si sedette. Aveva le spalle e la faccia sudate e le porsi uno strofinaccio. Quando si tolse scarpe e calze, di colpo mi venne in mente Benton, seduto lì a fare lo stesso. Veniva sempre in cucina, dopo essere andato a correre. Era accaldato e voleva aspettare prima di farsi la doccia, stare un po' con me prima di rivestirsi e di rimettersi a pensare. «Ho incontrato due o tre persone che portavano a spasso il cane a Windsor Farm», mi rispose. «A parte loro non c'è anima viva. Ho chiesto al custode se ti aveva cercato qualcuno, o se erano venuti altri taxi o fattorini per te. Mi ha detto di no.» «Meno male.» «Quelle sono stronzate: non penso che sia stata lei.» «E allora chi?» chiesi sorpresa. «Mi dispiace dirtelo, ma non credo che Carde sia l'unica ad avercela con te.» «Infatti. Temo che buona parte della popolazione carceraria non mi veda di buon occhio.» «Oltre a quelli che in carcere non sono ancora finiti, come i genitori di quel bambino, quelli della Christian Science. Non pensi che potrebbero essere loro? A mandarti taxi, bidoni per i rifiuti e a chiamare l'obitorio tutte le mattine per riattaccare appena sentono la voce di Chuck? Ti ci manca solo un inserviente che ha troppa paura per rimanere solo all'obitorio e magari a un certo punto non se la sente più e ti molla. No, queste sono stronzate di bassa lega, cattiverie frutto di una mente meschina e ristretta.» Non ci avevo mai pensato. «Telefonano ancora?» domandò. Mi osservò da dietro la tazza, poi guardò fuori della finestra, dove il sole era arancione e il cielo di un pallido azzurro. «Adesso glielo chiedo», dissi. Presi il telefono e feci il numero dell'obitorio. Chuck rispose subito.
«Obitorio», disse nervoso. Non erano ancora le sette e immaginai che fosse solo. «Sono Kay Scarpetta», dissi. «Oh, buongiorno dottoressa», mi fece sollevato. «Senti, ricevi ancora quelle telefonate mute?» «Sì.» «Non dicono niente, vero? Non senti nemmeno il rumore di qualcuno che respira nel microfono?» «Mah, a volte ho l'impressione di sentire rumore di macchine, come se telefonassero da una cabina per strada.» «Mi è venuta un'idea.» «Mi dica.» «La prossima volta che succede, rispondi: Buongiorno signori Quinn.» «Che cosa?» chiese Chuck stupefatto. «Prova un po'», dissi. «Ho l'impressione che dopo smetteranno di chiamare.» Lucy rideva, quando riattaccai. «Ben fatto», disse. 21 Dopo colazione mi aggirai per la camera da letto e lo studio pensando a che cosa portare a New York. La valigetta di alluminio, che in quel periodo avevo sempre con me, mi avrebbe accompagnato anche in quell'impresa. Poi decisi per un paio di calzoni e una camicia di ricambio, beauty case e Colt .38, che mi tenni nella borsetta. Sebbene fossi abituata a girare armata, non portavo mai la pistola quando andavo a New York, città dove si poteva finire in carcere per un'arma nascosta nella borsa. Quando fummo in macchina, lo dissi a Lucy. «È una sorta di compromesso morale», disse. «Meglio farsi arrestare che morire.» «Anch'io la penso cosi», replicai, pur essendomi sempre considerata una cittadina rispettosa della legge. HeloAir era un servizio charter per elicotteri sul lato est dell'aeroporto di Richmond, dove alcune ditte della zona che comparivano nelle classifiche di "Fortune" avevano un terminal proprio per i King Air, Lear Jet e Sikorsky della ditta. Il Bell JetRanger era nell'hangar e, mentre Lucy se ne occupava, io cercai un pilota abbastanza gentile da farmi usare il suo te-
lefono. Presi la carta AT&T nel portafoglio e chiamai l'amministrazione dell'ospedale psichiatrico criminale di Kirby. La direttrice, una psichiatra che si chiamava Lydia Ensor, era diffidente, quando venne al telefono. Quando feci per spiegarle chi ero, non mi lasciò finire. «Ho sentito parlare di lei», interloquì con accento del Midwest. «Sono al corrente della situazione e cercherò di collaborare, per quanto possibile. Non mi è chiaro però il motivo della sua visita, dottoressa. Lei non è il capo dell'istituto di medicina legale della Virginia?» «Sì. Ma sono anche consulente dell'ATF e dell'FBI.» «Che mi hanno già contattato, naturalmente.» Sembrava sinceramente perplessa. «Quindi lei vorrebbe delle informazioni a proposito di un caso di cui si sta occupando? Di un morto, presumo.» «Più di uno, a dire il vero, dottoressa Ensor», precisai. «Ho motivo di sospettare che Carrie Grethen vi sia coinvolta, direttamente o indirettamente, e che lo fosse anche mentre si trovava a Kirby.» «Impossibile.» «Lei evidentemente non la conosce bene», replicai decisa. «Purtroppo io ho a che fare da anni con le efferatezze da lei commesse con Temple Gault, prima in Virginia e poi a New York, quando Gault morì. E adesso è di nuovo alla carica. Sono morte cinque persone, se non di più.» «Conosco anch'io i trascorsi della Grethen», disse la Ensor senza ostilità, ma lievemente sulla difensiva. «Le assicuro che a Kirby è stata trattata come gli altri pazienti di particolare pericolosità sociale...» «Nelle valutazioni psichiatriche della Grethen non c'è quasi niente di utile», tagliai corto. «Come fa a conoscere la sua cartella clinica?» «Sto indagando sugli omicidi legati agli incendi insieme con l'ATF, dottoressa», replicai. «E collaboro con l'FBI, come le ho già detto. I casi di cui stiamo parlando sono di mia competenza in quanto consulente federale. Il mio compito non è arrestare qualcuno o mettere in cattiva luce l'istituto che lei dirige, quanto rendere giustizia ai morti e dare un po' di pace ai loro cari. Per fare questo, devo rispondere a degli interrogativi. E, soprattutto, devo fare il possibile per prevenire altre morti. Carrie ucciderà ancora. Anzi, forse l'ha già fatto.» La direttrice rimase un momento in silenzio. Guardai dalla finestra e vidi l'elicottero blu che veniva portato sull'asfalto. «Che cosa volete che facciamo?» chiese alla fine la dottoressa Ensor, te-
sa e agitata. «Carrie era seguita da un'assistente? Da un legale? Parlava mai con qualcuno?» domandai. «Naturalmente passava molto tempo con uno psichiatra legale, che però non è nostro dipendente, il cui compito è valutare le condizioni dei pazienti per il tribunale.» «Carrie Grethen l'avrà di sicuro manipolato», dissi io guardando Lucy che saliva sui pattini dell'elicottero e cominciava l'ispezione. «Nessun altro? Non aveva fatto amicizia con nessuno?» «Parlava con il suo avvocato. Sì, se vuole, penso di poterla mettere in contatto con lei.» «Stiamo per decollare», le comunicai. «Dovremmo arrivare fra tre ore. Avete una pista per elicotteri?» «Non ricordo che sia mai atterrato nessuno qui. Ci sono diversi parchi, qui intorno. Sarò lieta di venirvi a prendere.» «Non penso che sarà necessario. Credo che atterreremo nelle vicinanze dell'istituto.» «Va bene, vi aspetto. Vi accompagnerò dall'avvocato e dove vorrete.» «Mi piacerebbe visitare il reparto dov'era ricoverata Carrie Grethen.» «Va bene.» «Grazie, molto gentile», dissi. Lucy stava aprendo i pannelli per controllare che tutto fosse in ordine prima di prendere il volo. Si muoveva agile e sicura e, quando salì sulla fusoliera per controllare il rotore principale, mi chiesi se gli incidenti a terra fossero frequenti. Fu solo dopo essere salita a bordo ed essermi sistemata al posto del secondo pilota che notai il fucile Ar-15 dietro la testa di Lucy e, contemporaneamente, che i comandi dalla mia parte non erano stati disabilitati. Ai passeggeri era vietato accedere al collettivo e al ciclico e i pedali anticoppia sarebbero dovuti essere abbastanza indietro da evitare che un incompetente li toccasse senza volere con i piedi. «Cos'hai in mente?» chiesi a Lucy allacciandomi le cinture. «Il volo è lungo.» Controllò il corretto funzionamento della manetta. «Capisco», risposi. «Per imparare, la campagna è l'ideale.» Alzò il collettivo e mosse il ciclico. «Cosa intendi dire?» chiesi, sempre più allarmata. «Che è meglio cominciare a volare dove basta mantenere la velocità, te-
nersi in quota e livellati.» «Toglietelo dalla testa.» Premette lo starter e l'elicottero cominciò a ronzare. «Figurati.» Le pale cominciarono a ruotare e il rombo del motore crebbe d'intensità. «Se vuoi volare con me», disse mia nipote, la quale oltre a essere pilota era anche istruttore di volo, «io devo essere tranquilla che in caso di emergenza tu sia in grado di darmi una mano. Okay?» Non dissi nulla mentre Lucy ruotava la manetta e aumentava i giri. Muoveva le mani sugli interruttori e controllava le luci, poi accese la radio e ci infilammo le cuffie. Lucy si sollevò dalla piattaforma come se la gravita si fosse improvvisamente azzerata. Virò controvento e prese velocità finché l'elicottero non parve alzarsi in volo da solo. Salimmo oltre gli alberi, mentre il sole era alto verso est. Quando fummo a una certa distanza dalla torre e dalla città, Lucy cominciò con la lezione numero uno. Conoscevo già la maggior parte dei comandi e sapevo a che cosa servivano, ma non capivo molto bene come si combinassero. Non sapevo, per esempio, che alzando il collettivo e aumentando la potenza l'elicottero imbardava a destra e bisognava premere il pedale anticoppia sinistro per contrastare la coppia di reazione del rotore principale e mantenere l'assetto; e che quando si prende quota sollevando il collettivo, la velocità cala e bisogna spingere avanti il ciclico. E così via. Era come suonare la batteria, solo che in questo caso bisognava anche stare attenti a uccelli distratti, torri, antenne e altri velivoli. Lucy era molto paziente e il tempo passò in fretta mentre procedevamo a centodieci nodi. A nord di Washington ero in grado di tenere abbastanza stabile l'elicottero regolando il giro direzionale mantenendo la rotta. Ci dirigevamo a 050 gradi e, sebbene non riuscissi a controllare nient'altro, per esempio il GPS, Lucy disse che stavo tenendo bene la rotta. «Aeroplano a ore tre», mi disse al microfono. «Lo vedi?» «Sì.» «Allora devi dire: Tally-ho. È sopra la linea dell'orizzonte. Lo vedi, no?» «Tally-ho.» Lucy scoppiò a ridere. «No. Tally-ho non è come dieciquattro. Se vedi una cosa sopra l'orizzonte vuol dire che è sopra di te. E molto importante, perché se due velivoli sono sulla linea dell'orizzonte e quello che vediamo ci sembra fermo, allora vuol dire che viaggia alla nostra stessa quota o nella stessa nostra direzione o in quella opposta. E non è un dettaglio secon-
dario, ti pare?» Continuò a darmi lezioni finché non fummo in vista di New York e mi rifiutai di proseguire. Lucy sorvolò la Statua della libertà e Ellis Island, dove i miei antenati italiani erano sbarcati molto tempo prima per ricominciare nel Nuovo mondo. La città si estendeva tutto intorno a noi e i grattacieli intorno a Wall Street sembravano ancor più giganteschi a cinquecento piedi da terra, con l'ombra dell'elicottero che si muoveva sul fiume sotto di noi. Era una giornata calda e limpida e c'erano elicotteri che portavano in giro turisti e manager che avevano tutto in abbondanza fuorché il tempo. Lucy parlava alla radio, ma la torre di controllo non rispondeva perché il traffico aereo era congestionato e i controllori non si interessavano di velivoli a settecento piedi. A quell'altezza a New York la regola era stare all'occhio a non andare a sbattere da nessuna parte. Seguimmo l'East River oltre i ponti di Brooklyn, Manhattan e Williamsburg procedendo a novanta nodi sopra chiatte piene di spazzatura, cisterne e battelli turistici. Mentre sorvolavamo i vecchi edifici e ospedali di Roosevelt Island, Lucy parlò con la torre di controllo del La Guardia. Ward's Island era dritta davanti a noi; mi parve appropriato che il tratto di fiume che bagnava la punta sudoccidentale dell'isola fosse chiamato Hell Gate, cancello dell'inferno. Quel che sapevo a proposito di Ward's Island lo avevo imparato studiando storia della medicina; come in molte isole di New York, vi venivano esiliati i delinquenti, i malati e i pazzi. A quanto ricordavo, il passato di Ward's Island era particolarmente infelice, perché a metà del secolo scorso non c'erano né riscaldamento né acqua corrente e veniva usato come luogo di quarantena per i malati di tifo e i profughi ebrei russi. A cavallo fra i due secoli vi era stato spostato il manicomio della città. Certamente le condizioni erano molto migliorate da allora, sebbene i pazienti fossero molto più pericolosi. C'erano aria condizionata, assistenza legale e possibilità di svago, oltre a medici, dentisti, psicoterapeuti, gruppi di sostegno e strutture sportive. Entrammo nello spazio aereo di classe B sopra Ward's Island in modo ingannevolmente civile, volando a bassa quota sopra giardini verdi e ombreggiati verso le brutte costruzioni di mattoni che ospitavano il Manhattan Psychiatric Center, il Children's Psychiatric Center e Kirby. La Triborough Bridge Parkway attraversava il centro dell'isola dove, per quanto fosse bizzarro, c'era un circo con tendone a righe, cavalli e acrobati. C'era poca gente e si vedevano i bambini che mangiavano lo zucchero filato. Mi chiesi come mai non fossero a scuola. Poco più a nord c'erano un depuratore e il
centro di addestramento dei vigili del fuoco di New York, nel cui parcheggio faceva manovra un grande mezzo. Il manicomio criminale era un palazzo di dodici piani con le finestre protette da rete metallica, vetri opachi e condizionatori esterni. Nelle zone all'aperto e in quelle adibite alla ricreazione erano state messe protezioni di filo spinato per evitare evasioni come quella che Carrie aveva trovato tanto facile. Il fiume era largo quasi due chilometri, agitato e minaccioso, la corrente forte: non pensavo che lo si potesse attraversare a nuoto. Ma c'era un ponte pedonale, come mi avevano detto. Aveva il colore dell'ottone ossidato e si trovava più o meno a un chilometro e mezzo da Kirby. Chiesi a Lucy di sorvolarlo e dall'alto vidi gente che lo attraversava in tutte e due le direzioni, entrando e uscendo da Harlem. «Non vedo come abbia potuto passare di lì in pieno giorno», trasmisi a Lucy. «L'avrebbero vista. Ma anche supponendo che l'abbia fatto, e poi? C'erano poliziotti ovunque, soprattutto dall'altra parte del fiume. Come ha fatto ad arrivare nella contea di Lehigh?» Lucy compiva lenti cerchi a cinquecento piedi di quota, con le pale che ruotavano rumorosamente. C'erano i resti di un traghetto che un tempo doveva aver collegato East River Drive alla Centoseiesima Strada e le rovine di un molo, che ormai era ridotto a un ammasso di legno marcio e impregnato di olio di creosoto che si estendeva in acque ostili da un piccolo campo aperto sul lato ovest di Kirby. Sul campo si poteva atterrare, stando attenti a tenersi più vicini al fiume che ai viali protetti e alle panchine dell'ospedale. Mentre Lucy cominciava a fare una ricognizione dall'alto, io osservai le persone a terra. Erano vestite normalmente; alcune erano stese sull'erba o sedute sulle panchine, altre invece camminavano lungo i vialetti fra bidoni di spazzatura arrugginiti. Anche da quella distanza si riconoscevano i modi trasandati e bizzarri di chi è ormai irrecuperabile. Alzavano gli occhi spiritati mentre noi passavamo in rassegna la zona per controllare che non ci fossero fili elettrici o tiranti e che il terreno non fosse troppo molle o sconnesso. Una ricognizione a bassa quota confermò che era possibile atterrare in condizioni di sicurezza e richiamò fuori o alle finestre ancora più gente incuriosita dalla novità. «Forse avremmo dovuto atterrare in un parco», dissi. «Non vorrei scatenare una rissa.» Lucy scese in effetto suolo sollevando erba da tutte le parti. Giustamente un fagiano si spaventò e corse con la sua nidiata lungo la riva del fiume,
scomparendo a tratti fra i cespugli. Mi parve strano che creature tanto innocenti e vulnerabili potessero vivere a fianco di esseri umani così disturbati. Tutto a un tratto mi venne in mente la lettera di Carrie e lo strano indirizzo nell'intestazione: Passo del Fagiano. Che avesse voluto dirmi qualcosa? Lo aveva visto anche lei? E, se mai, che cosa importava? L'elicottero si posò delicatamente sull'isola e Lucy ruotò la manetta al minimo a terra. Ci vollero due minuti per spegnere i motori e parvero un'eternità. Le pale giravano al ritmo dei secondi digitali sotto gli occhi di pazienti e infermieri. Alcuni ci fissavano immobili, con gli occhi sgranati, mentre altri ci ignoravano, continuando a camminare a scatti, ad aggrapparsi alle reti metalliche, a guardare per terra. Un vecchio che si stava rollando una sigaretta ci salutò con la mano e un giovane con le cuffie si mise a ballare su uno dei vialetti, presumibilmente a nostro beneficio, mentre una donna con i bigodini in testa borbottava fra sé. Lucy ruotò la manetta per spegnere il rotore principale e poi fermarlo. Quando le pale si furono fermate completamente e ci apprestammo a scendere, dalla folla di ospedalieri e ospedalizzati spuntò una donna che, nonostante il caldo, indossava un bel tailleur a spina di pesce. Aveva i capelli corti e ben pettinati. Capii che era la dottoressa Lydia Ensor e anche lei parve riconoscermi subito, perché strinse la mano prima a me che a Lucy, presentandosi. «Avete catturato l'attenzione di tutto l'istituto», commentò con un sorrisetto. «Ci scusi», dissi. «Non c'è problema.» «Io rimango vicino all'elicottero», disse Lucy. «Sei sicura?» le chiesi. «Sì», rispose guardando la folla che si era radunata intorno a lei con aria innervosita. «Molti sono esterni in cura al centro psichiatrico», spiegò la dottoressa. Indicò un altro edificio. «E a Odyssey House.» Era una costruzione molto più piccola dietro a Kirby, dove mi parve di vedere un giardino e un campo da tennis di asfalto con la rete lacera. «Troppa droga», aggiunse. «Entrano a fare terapia e poi li becchiamo che si fanno uno spinello mentre escono.» «Io vi aspetto qui», disse Lucy «Al massimo vado a fare il pieno e torno indietro», mi informò. «Preferirei che non ti allontanassi», le dissi.
La dottoressa Ensor mi accompagnò verso l'istituto fra gli sguardi colmi di dolore e di odio dei pazienti. Un uomo con la barba arruffata gridava che voleva un passaggio e intanto indicava il cielo, agitando le braccia come fossero ali e saltando su un piede solo. Scorsi i volti devastati di chi pareva essere altrove, gli sguardi vuoti o colmi dell'amaro disprezzo che chi è rinchiuso prova per chi è libero dalla schiavitù della droga e della demenza. Noi eravamo i privilegiati in grado di vivere la nostra vita, quasi delle divinità per chi non sa fare altro che distruggere se stesso e gli altri. Noi, alla fine della giornata, andavamo a casa nostra, loro restavano lì. L'ingresso del Kirby Forensic Psychiatric Center era tipico degli enti statali, con pareti dello stesso verdino del ponte sul fiume. La dottoressa Ensor mi guidò dietro un angolo, dove premette un pulsante sul muro. «Avvicinarsi al citofono», ordinò una voce che pareva quella del Mago di Oz. La Ensor si avvicinò e parlò al microfono. «Sono la dottoressa Ensor», disse. «Prego», rispose la voce, ritornando umana. L'entrata era tipica dei penitenziari, con due porte automatiche in successione che si aprivano sempre una per volta e gli avvisi alle pareti che vietavano l'introduzione di armi da fuoco, esplosivi, munizioni, alcol e oggetti in vetro. Politici, assistenti sanitari e ACLU potevano dire quello che volevano, ma Kirby non era un normale ospedale. I pazienti erano detenuti che andavano rinchiusi in un istituto di massima sicurezza perché erano violenti, avevano stuprato e percosso, sparato ai famigliari, bruciato le madri, sventrato i vicini o fatto a pezzi gli amanti. Erano mostri, e alcuni di loro erano diventati famosi, come Robert Chambers, lo yuppie assassino, o Rakowitz, che aveva fatto a pezzi e cucinato la fidanzata dandola da mangiare ai senzatetto, o Carrie Grethen, la peggiore di tutti. La porta a sbarre verdi si aprì con uno scatto elettronico e gli assistenti in divisa azzurra salutarono cortesemente la dottoressa Ensor e me, in quanto sua ospite. Nonostante la cortesia, fummo costrette a sottoporci a una perquisizione e passare sotto un metal detector. Mi vergognai nel sentirmi dire che l'introduzione dei medicinali era regolamentata, mentre io avevo abbastanza farmaci da curare un intero reparto. «Non si sente bene?» chiese una guardia per fare una battuta. «Chissà perché, si accumulano», risposi, rallegrandomi di aver lasciato la pistola nel bagagliaio dell'elicottero, chiusa nella valigetta. «Glieli devo trattenere. Li può riprendere all'uscita, okay? Si ricordi di
chiederli, prima di andare via.» «Grazie», dissi, come se mi avesse appena fatto un favore. Fummo autorizzate a passare un'altra porta, su cui campeggiava il cartello NON TOCCARE LE SBARRE, e percorremmo corridoi spogli e incolori su cui si affacciavano le porte chiuse degli uffici in cui si tenevano i colloqui. «Devo precisare che gli avvocati fanno parte della Legai Aid Society, un'organizzazione privata non a scopo di lucro che lavora per il comune di New York. Pertanto non sono dipendenti dell'ospedale.» Mi resi conto che le stava a cuore chiarire quel punto. «Naturalmente, visto che alcuni lavorano qui da diversi anni, sono in buoni rapporti con il nostro personale», mi spiegò continuando a camminare e facendo risuonare i tacchi sulle mattonelle. «Temo che l'avvocato della Grethen, che l'ha seguita sin dall'inizio, non sarà molto disponibile a collaborare con lei.» Mi lanciò un'occhiata. «Purtroppo io non posso farci niente», disse. «Capisco», replicai. «E sono abituata al fatto che gli avvocati non vogliano collaborare con me. Mi stupirei del contrario, a dire il vero.» Il Mental Hygiene Legai Aid era sperduto nei meandri di Kirby, da qualche parte del primo piano. La direttrice aprì una porta di legno e mi fece entrare in un piccolo ufficio tanto ingombro di carte che molti fascicoli erano impilati sul pavimento. La donna dietro alla scrivania aveva i vestiti sgualciti e i capelli crespi e neri. Era grassa e aveva un seno enorme che forse avrebbe tratto beneficio da un reggiseno. «Susan, ti presento la dottoressa Kay Scarpetta, capo dell'istituto di medicina legale della Virginia», disse la Ensor. «E qui per Carrie Grethen, come ti ho anticipato. Dottoressa Scarpetta, l'avvocato Susan Blaustein.» «Piacere», disse la Blaustein, senza accennare ad alzarsi in piedi né a stringermi la mano, continuando a sfogliare una spessa pratica. «Vi lascio sole. Susan, spero vorrai accompagnare la dottoressa Scarpetta in giro. Altrimenti la farò accompagnare da qualcun altro», disse la Ensor. E dal modo in cui mi guardò capii subito che non sarebbe stata una gita turistica. «D'accordo.» L'angelo custode dei malati mentali aveva un forte accento di Brooklyn. «Si accomodi», mi disse non appena la Ensor fu uscita. «Quando è stata rinviata qui Carrie Grethen?» domandai.
«Cinque anni fa.» Non alzava gli occhi dalle carte. «Lei è al corrente degli omicidi in Virginia per cui deve essere processata?» «Sì, certo.» «Carrie è evasa da qui dieci giorni fa, il 10 giugno», continuai. «Che cosa è successo? Si è capito?» La Blaustein girò una pagina e prese in mano una tazza di caffè. «Non si è presentata a cena. Non so altro», rispose. «Sono rimasta scioccata anch'io, quando è scomparsa.» «Lo credo», risposi. Voltò un'altra pagina senza alzare gli occhi. Mi spazientii. «Avvocato Blaustein», dissi in tono duro, posando le mani sulla scrivania. «Con il dovuto rispetto per i suoi clienti, le dispiace tenere conto anche dei miei? Vuole che le parli degli uomini, delle donne e dei bambini massacrati da Carrie Grethen? Del bambino rapito in un negozio, dove la mamma l'aveva mandato a comprare una confezione di minestra in scatola e ritrovato vicino a un cassonetto in mutande sotto una pioggia gelida? Aveva una pallottola nella testa, gli erano stati asportati brandelli di carne per nascondere i segni delle morsicature, ricorda?» «Sì, certo. Le ho detto che ne sono al corrente.» Continuò imperterrita. «La prego di chiudere quella pratica e di starmi a sentire», dissi. «Sono un patologo legale, ma ho anche una laurea in legge e i suoi trucchetti non funzionano, con me. Lei rappresenta una psicopatica che in questo momento è libera di andare in giro a trucidare degli innocenti. Non vorrei proprio dover scoprire che lei aveva informazioni che avrebbero potuto salvare anche solo una vita umana.» Mi guardò, fredda e arrogante, perché nella vita non faceva altro che difendere dei delinquenti e trattare con maleducazione gente come me. «Lasci che le rinfreschi la memoria», continuai. «Da quando la sua cliente è evasa da Kirby, si ritiene abbia assassinato o sia stata comunque complice dell'assassinio di due persone, a distanza di pochi giorni l'una dall'altra. Omicidi efferati, che ha tentato di nascondere con un incendio. Esistono dei precedenti, che riteniamo collegati, avvenuti quando la sua cliente era ancora rinchiusa.» Susan Blaustein mi fissava in silenzio. «Lei che cosa sa dirmi in proposito?» «Come lei certamente saprà, sono vincolata dal segreto professionale»,
mi fece notare. Ma mi resi conto che le mie parole l'avevano incuriosita. «È possibile che Carrie fosse in contatto con qualcuno fuori?» chiesi. «E, se sì, con chi e come?» «Me lo dica lei.» «Le ha mai parlato di Temple Gault?» «Non posso dirle niente, a questo proposito.» «Dunque gliene ha parlato», dissi. «Certo. Come avrebbe fatto a non parlargliene? Lei sa che Carrie Grethen mi ha scritto una lettera chiedendomi di venire a trovarla e di portarle le foto dell'autopsia di Gault?» Non disse nulla, ma lo sguardo era sempre più attento. «Gault è morto sotto un treno nella Bowery. Fatto a pezzi sui binari della metropolitana.» «Ha effettuato lei l'autopsia?» mi chiese. «No.» «Perché allora Carrie ha chiesto quelle foto proprio a lei, dottoressa Scarpetta?» «Perché sapeva che avrei saputo come procurarmele. Carrie voleva vederle, voleva vedere il sangue, lo scempio. Questo meno di una settimana prima della fuga. Mi chiedo se lei era al corrente del fatto che Carrie scriveva quel genere di lettere. Chiara indicazione, a mio parere, che le sue mosse successive erano premeditate.» «No.» La Blaustein mi puntò contro l'indice. «Pensava di essere stata incastrata, di essere stata usata come capro espiatorio, perché l'FBI non riusciva a cavare un ragno dal buco e aveva bisogno di trovare un colpevole», disse in tono accusa torio. «Vedo che legge i giornali.» La Blaustein si incollerì. «Ho parlato con Carrie cinque anni», disse. «Non era lei che andava a letto con un agente federale. O sbaglio?» «Be', invece si sbaglia.» Pensavo a Lucy. «E a dir la verità, lo scopo della mia visita non è cercare di farle cambiare idea sul conto di Carrie Grethen, ma far luce su queste morti e cercare di prevenirne altre.» La Blaustein si mise di nuovo a sfogliare la pratica. «A me sembra che il motivo per cui Carrie è stata qui tanto a lungo sia che a ogni valutazione delle sue facoltà mentali lei stava attenta a farla dichiarare incapace di intendere e di volere», proseguii. «In maniera che non potesse venire processata. Non è vero, forse? Lei ha cercato di farla passa-
re per una donna troppo malata per rendersi conto delle imputazioni che le venivano rivolte, vero? Invece il fatto stesso che si ritenesse incastrata dall'FBI implica che era consapevole della propria situazione, le pare? O è stata lei a suggerirglielo?» «Basta così», disse la Blaustein. Se fosse stata un giudice, avrebbe battuto il martelletto. «Carrie si finge malata», continuai. «Si inventa tutto, strumentalizza il prossimo. Scommetto che era depressa, che non ricordava niente, quando era importante che lo facesse. Probabilmente prendeva l'Ativan, che non le avrà fatto assolutamente nulla. Chiaramente aveva la forza di scrivere lettere. Di quali altri privilegi godeva? Poteva usare anche il telefono e la fotocopiatrice?» «Anche i pazienti godono dei diritti civili», replicò la Blaustein. «Era taciturna. Giocava a scacchi e a carte. Leggeva molto. In tutti i delitti c'erano aggravanti e attenuanti e la Grethen non era responsabile delle proprie azioni. Era piena di rimorsi.» «Carrie ha straordinarie capacità di persuasione», dissi. «È bravissima a ottenere quello che vuole e voleva restare qui dentro abbastanza da poter fare la propria mossa. Come immancabilmente è successo.» Aprii la borsa e presi una copia della lettera che Carrie mi aveva scritto. La posai davanti alla Blaustein. «Noti l'indirizzo. Passo del Fagiano, reparto femminile di Kirby», dissi. «Sa che cosa voleva dire con questo o posso azzardare una spiegazione?» «Non ne ho la minima idea.» Stava leggendo la lettera con espressione perplessa. «A me fa venire in mente l'indirizzo del procuratore distrettuale che l'avrebbe processata.» «Non so proprio cosa dirle.» «Ho visto che avete dei fagiani, qua fuori», insistetti. «Non li ho mai notati.» «Io sì, perché sono atterrata con l'elicottero nel campo qui vicino. Ma ha ragione, se non si fa quel tratto nell'erba alta fino alla riva del fiume, vicino al vecchio molo, è impossibile notarli.» Non disse nulla, ma mi resi conto che era turbata. «Perciò mi chiedo come facesse Carrie a sapere dei fagiani.» Silenzio. «Lei lo sa, vero?» insistetti. Mi fissò.
«Un paziente del reparto di massima sicurezza non sarebbe mai dovuto andare in quel campo, e nemmeno avvicinarsi. Se non vuole parlarne con me, avvocato, mi rivolgerò alla polizia. In questo momento trovare Carrie Grethen è prioritario, per le forze dell'ordine. Anche perché al sindaco non fa certo piacere tutta questa pubblicità negativa, visto il suo impegno nella lotta contro la criminalità.» «Non so come facesse Carrie a sapere dei fagiani», rispose alla fine la Blaustein. «Potrebbe averglielo detto qualcuno del personale. O uno dei fattorini dello spaccio, qualcuno di fuori. Come lei, insomma.» «Quale spaccio?» «I pazienti che partecipano a determinati programmi possono ottenere dei soldi o dei buoni per lo spaccio. In genere ordinano cioccolata, salatini e cose di questo genere, che vengono consegnati una volta alla settimana. Devono pagarli con i loro soldi.» «E come se li procurava Carrie?» La Blaustein non me lo disse. «Qual è il giorno di consegna?» «Dipende. Di solito all'inizio della settimana. Lunedì o martedì, nel tardo pomeriggio.» «Carrie è fuggita nel tardo pomeriggio di martedì», le feci notare. «È vero.» Avevo lo sguardo duro. «E chi era il fattorino?» domandai. «Qualcuno si è preoccupato di controllare se ha avuto un ruolo nella fuga?» «Non se ne sa più niente», rispose in tono piatto. «Sostituiva il fattorino abituale, che era assente per malattia.» «Era un sostituto? Ma certo, a Carrie non interessavano certo i salatini...» Alzai la voce. «Tiro a indovinare, mi corregga se sbaglio. I fattorini hanno una divisa e guidano un furgone. Carrie si infila la divisa ed esce con il fattorino. Si infila nel furgone e se ne va.» «Sono tutte supposizioni. Non si conoscono le modalità della sua fuga.» «Io credo che lei le conosca, invece. E mi chiedo se non l'abbia anche aiutata economicamente, visto che teneva tanto a lei.» La Blaustein si alzò in piedi indignata. «Se mi sta accusando di averla aiutata a evadere...» «L'ha aiutata, in un modo o nell'altro», la interruppi. Al pensiero che Carrie fosse a piede libero, al pensiero di Benton, mi vennero le lacrime agli occhi. «Lei è una persona abietta», esclamai lanciandole un'occhiataccia. «Vor-
rei che passasse un giorno assieme alle vittime, un giorno soltanto. Vorrei che mettesse le mani nelle loro ferite, che si sporcasse del loro sangue, del sangue dei poveri innocenti che quelli come Carrie massacrano per sport. Credo proprio che molti si scandalizzerebbero, se sapessero di Carrie, dei privilegi di cui godeva, delle sue fonti di reddito nascoste», dissi. «Non solo io.» Bussarono alla porta. Entrò la dottoressa Ensor. «Ho pensato che fosse meglio accompagnarla personalmente»,, mi disse. «Susan avrà da fare. Avete finito?» chiese all'avvocato. «Sì.» «Bene», rispose la Ensor con un sorriso gelido. Capii che la direttrice sapeva benissimo che Susan Blaustein aveva oltrepassato i limiti delle proprie competenze, oltre che della decenza, e che aveva strumentalizzato l'ospedale quanto Carrie. «Grazie», le dissi. Voltai le spalle all'avvocato difensore di Carrie. "Vai al diavolo", pensai. Seguii la dottoressa Ensor verso un ascensore di acciaio inossidabile. Giungemmo a uno spoglio corridoio beige su cui si affacciavano grosse porte rosse che si aprivano previa digitazione di un codice. Tutto era monitorato attraverso telecamere a circuito chiuso. Pareva che Carrie fosse particolarmente interessata al programma animali, che prevedeva una visita quotidiana all'undicesimo piano, in una stanza dove c'erano degli animaletti in gabbia. Le luci erano basse e l'aria umida e carica dell'odore di animali e segatura. C'erano parrocchetti, porcellini d'India e un criceto nano russo. Su un tavolo c'era una cassettina di terra con dei teneri germogli. «Coltiviamo il mangime noi stessi», spiegò la Ensor. «I pazienti vengono incoraggiati a coltivarlo e a venderlo. Naturalmente è tutt'altro che una produzione di massa. Basta appena per i nostri animali; come vede dalle gabbie e dal pavimento, i pazienti tendono a dargli da mangiare anche patatine e salatini.» «Carrie ci veniva tutti i giorni?» domandai. «Così mi è stato detto quando mi sono interessata alle sue attività.» Si interruppe e osservò le gabbiette dove i porcellini d'India grattavano per terra con le zampe. «Naturalmente all'epoca non sapevo niente. Per esempio, nei sei mesi in cui Carrie partecipò a questo programma morì un numero eccessivo di a-
nimali, in maniera del tutto inspiegabile. I pazienti arrivavano e trovavano un criceto morto nella sua gabbia, oppure lo sportellino aperto e un uccellino sparito.» Uscì di nuovo nel corridoio, le labbra serrate. «Ci fosse stata lei, magari ci avrebbe aperto gli occhi», disse. «Ci avrebbe spiegato il motivo di questa inconsueta moria.» Aprì un'altra porta poco più avanti e mi fece entrare in una stanzetta buia con un computer relativamente moderno e una stampante su un semplice tavolo di legno. Notai che nel muro c'era una presa telefonica e fui assalita da un brutto presentimento prima ancora che la dottoressa aprisse bocca. «È qui che Carrie passava la maggior parte del suo tempo libero», mi annunciò. «Come senza dubbio lei saprà, era molto brava con i computer. Incoraggiare gli altri pazienti a imparare a usare il personal fu una sua idea. Suggerì di cercare qualcuno disposto a regalarci del materiale usato. Così adesso abbiamo un computer e una stampante per piano.» Mi avvicinai al terminal e mi ci sedetti di fronte. Premetti un pulsante per togliere lo screen saver e osservai le icone che mi dicevano quali programmi erano caricati. «I pazienti lavorano qui sotto la supervisione di qualcuno?» mi informai. «No. Vengono accompagnati, chiusi dentro e quindi riportati nel reparto un'ora dopo.» Assunse un'aria pensosa. «Devo ammettere che sono rimasta impressionata dal numero di pazienti che hanno imparato il word processing. Alcuni si sono cimentati anche con i fogli elettronici.» Richiamai America Online e mi fu chiesto di digitare nome e password. La direttrice osservava. «Non c'è accesso a Internet», disse. «Come fa a esserne sicura?» «I computer non sono collegati.» «Ma i modem ci sono», risposi. «O perlomeno in questo c'è. Non è collegato soltanto perché non ha la spina telefonica nella presa.» Indicai il muro, poi mi voltai a guardarla in faccia. «Non è mai scomparso un filo del telefono da qualche parte?» le chiesi. «Da uno degli uffici, magari? Da quello di Susan Blaustein, per esempio?» La direttrice si girò dall'altra parte, arrabbiata e turbata nel vedere dove volevo arrivare. «Oddio», mormorò. «Naturalmente avrebbe anche potuto procurarselo da fuori. Per esempio dal fattorino dello spaccio.»
«Non saprei.» «Il fatto è che non sappiamo molte cose, dottoressa Ensor. Per esempio non sappiamo che cosa facesse Carrie quando era chiusa qui dentro. Avrebbe potuto benissimo bazzicare chat rooms, mettere inserzioni, contattare persone. Lei sa quanti reati si commettono attraverso Internet? Pedofilia, stupri, omicidi, sfruttamento di minori per pornografia e altro.» «Per questo ci stavamo attenti», disse. «O perlomeno credevamo di starci attenti.» «Carrie potrebbe aver programmato l'evasione in questo modo. Dice che ha cominciato a lavorare al computer parecchio tempo fa?» «Più o meno un anno. Dopo essere stata a lungo una paziente modello.» «Una paziente modello», ripetei. Pensai ai casi di Baltimora, Venice Beach e Warrenton. Mi chiedevo se fosse possibile che Carrie si fosse trovata un complice attraverso la posta elettronica, un Web site o una chat room. E se avesse commesso quei delitti attraverso la rete, chiusa nell'ospedale psichiatrico? E se avesse lavorato dietro le quinte, consigliando e incoraggiando qualche psicopatico che strappava il volto alle persone belle? Poi, a un certo punto, era fuggita e aveva cominciato a prendere parte agli omicidi di persona. «Avete per caso dimesso qualche paziente piromane da un anno a questa parte, magari con tendenze omicide? Che Carrie poteva aver conosciuto? Magari qualcuno che frequentava gli stessi corsi?» chiesi per sicurezza. La Ensor spense la luce e mi fece uscire nel corridoio. «Non mi viene in mente nessuno», rispose. «Non con le caratteristiche che mi diceva. Devo aggiungere che è sempre presente una guardia.» «E maschi e femmine non si frequentano neppure nelle ore di ricreazione?» «No, mai. Maschi e femmine vivono completamente separati.» Sebbene non fossi certa che il complice di Carrie fosse di sesso maschile, lo sospettavo fortemente e ricordavo che Benton nei suoi appunti parlava di un maschio di razza bianca fra i venticinque e i quarantacinque anni. Le guardie, che a differenza dei loro omologhi in carcere erano disarmate, dovevano assicurarsi che non scoppiassero disordini durante i corsi, ma dubitavo che potessero accorgersi se Carrie si metteva in contatto con qualcuno su Internet. Prendemmo di nuovo l'ascensore e scendemmo al terzo piano. «Il reparto femminile», spiegò la Ensor. «In questo momento abbiamo ventisei donne su un totale di centosettanta pazienti. Quella è la sala visi-
te.» Mi indicò un soggiorno spazioso con delle belle sedie e televisori. In quel momento era deserta. «Non veniva mai nessuno a trovarla?» chiesi, mentre continuavamo a camminare. «Da fuori no, mai. Ispirava compassione, per questo.» Sorrise con amarezza. «Le donne stanno qui.» Indicò un'altra area, con lettini singoli. «Dormiva là, vicino alla finestra», mi informò la Ensor. Presi la lettera di Carrie dalla borsa e la rilessi, fermandomi al quinto paragrafo: LUCY BUH alla TV. Vola dalla finestra. Viene con noi Sotto le coperte. Viene fino all'alba. Ride e canta. La stessa vecchia canzone. LUCY LUCY LUCY e noi! Mi vennero in mente all'improvviso la videocassetta di Kellie Shephard e l'attrice di Venice Beach che recitava negli sceneggiati televisivi. Pensai a troupe e servizi fotografici e mi convinsi sempre di più che ci fosse qualche collegamento. Ma che cosa c'entrava Lucy con tutto questo? Come aveva fatto Carrie a vedere Lucy alla tv? O era solo che sapeva che Lucy volava, pilotava gli elicotteri? Sentimmo del rumore dietro l'angolo e poco dopo apparvero le guardie che riaccompagnavano in reparto le pazienti dopo la ricreazione. Erano sudate e parlavano a voce alta, i volti tormentati; una indossava quello che ultimamente veniva definito dispositivo antiaggressione, ma consisteva sostanzialmente nelle tradizionali catene a polsi e caviglie, unite a una cinghia di cuoio legata in vita. Era giovane e bianca, mi guardava con gli occhi spiritati e la bocca atteggiata in un sorriso sciocco e affettato. Capelli biondo platino e corpo androgino, per un momento mi parve Carrie. Mi venne la pelle d'oca, sentendomi mangiare viva da quegli occhi, mentre le ricoverate si spintonavano a vicenda e facevano di tutto per venirmi addosso. «Sei un avvocato?» mi chiese una nera obesa lanciandomi un'occhiataccia. «Sì», risposi senza batter ciglio, avendo imparato molto tempo prima a non lasciarmi intimidire dall'odio della gente.
«Venga», mi fece la direttrice. «Avevo dimenticato che a quest'ora tornano. Mi scusi tanto.» Invece io ero contenta di averle viste. Era come se avessi guardato Carrie negli occhi senza voltarmi dall'altra parte. «Mi dica che cosa è successo esattamente la sera della fuga, per favore», le chiesi. La dottoressa Ensor digitò un codice su una pulsantiera e aprì un'altra porta rossa. «Secondo la nostra ricostruzione, le cose sono andate così», rispose. «Carrie è uscita con gli altri pazienti per la ricreazione. Ha ricevuto quello che aspettava dal fattorino e all'ora di cena non c'era più.» Prendemmo l'ascensore per scendere. La Ensor guardò l'ora. «Abbiamo subito chiamato la polizia e cominciato le ricerche, ma non c'era traccia di lei. E questo che continua a rodermi», mi spiegò. «Come ha fatto a scappare dall'isola in pieno giorno senza che nessuno la vedesse? C'erano poliziotti, cani, elicotteri...» Mi fermai di scatto. «Elicotteri?» dissi. «Ce n'era più di uno?» «Oh, sì.» «E lei li ha visti?» «Come facevo a non vederli?» rispose. «Sorvolavano la zona. Sono rimasti qui sopra per ore. L'ospedale era tutto in subbuglio.» «Me li può descrivere?» domandai, con il cuore che batteva sempre più forte. «Santo cielo», rispose. «Prima ne sono arrivati tre della polizia, poi si sono aggiunti quelli dei giornalisti.» «Ne ha per caso visto uno piccolo e bianco? Simile a una libellula?» La direttrice assunse un'aria sorpresa. «Sì, veramente sì», disse. «Mi ricordo che ho pensato che fosse qualche pilota curioso di capire che cos'era successo.» 22 Lucy e io decollammo da Ward's Island contro un vento caldo e una bassa pressione che rendeva lento il Bell JetRanger. Seguimmo l'East River e continuammo a volare attraverso lo spazio aereo di classe B del La Guardia, dove atterrammo il tempo sufficiente per riempire il serbatoio e comprare cracker e bibite da un distributore automatico. Io approfittai della so-
sta per telefonare alla University of North Carolina, a Wilmington. Questa volta mi passarono la direttrice del centro psicoterapico dell'università. Mi parve un buon segno. «Io capisco che non vogliate correre rischi», le dissi dalla cabina telefonica del terminal. «Ma vi faccio presente che dalla morte di Claire Rawley ci sono state altre due vittime.» Dopo un lungo silenzio, la dottoressa Chris Booth disse: «Non può venire di persona?». «Era mia intenzione farlo.» «Bene, allora.» Chiamai Teun McGovern per aggiornarla. «Credo che Carrie sia fuggita da Kirby sullo stesso Schweizer bianco che abbiamo visto sorvolare la tenuta di Kenneth Sparkes», le comunicai. «Ha il brevetto di pilota?» chiese confusa Teun. «No, non credo.» «Ah.» «L'avrà il suo complice», dissi. «Quello che l'ha aiutata a fuggire e che sta facendo tutto questo. I primi due casi, Baltimora e Venice Beach, erano una specie di prova generale. Avremmo potuto benissimo non venirlo mai a sapere, Teun. Io penso che Carrie abbia voluto aspettare, prima di tirarci dentro. Fino a Warrenton.» «Quindi pensi che nel mirino ci fosse Sparkes», dedusse pensosa. «Per attirare la nostra attenzione. Voleva essere sicura che intervenissimo. Sì», risposi. «E allora Claire Rawley?» «E proprio il suo ruolo che voglio scoprire a Wilmington. Ho l'impressione che sia la chiave di tutto, il collegamento con il complice di Carrie, chiunque egli sia. Sono anche convinta che Carrie abbia intuito che lo penso e mi stia aspettando.» «Davvero?» «Ci giurerei. Come aspettava Benton a Philadelphia, adesso sta aspettando me e Lucy a Wilmington. Sa come ragioniamo e come lavoriamo almeno quanto noi conosciamo il suo modo di pensare.» «Stai dicendo che tu e Lucy sarete il suo prossimo bersaglio?» Quel pensiero mi gelò lo stomaco. «Spero solo che questa volta lo manchi.» «Non possiamo correre questo rischio, Kay. Ci saremo anche noi ad aspettarvi: l'università deve avere un campo sportivo o qualcosa del genere.
Agiremo con discrezione. Quando vi fermate a fare il pieno chiamatemi. Dobbiamo mantenerci in stretto contatto.» «Non deve assolutamente accorgersi che ci siete anche voi», dissi. «Se mangia la foglia è la fine.» «Credimi, non si accorgerà di niente», disse la McGovern. Ci allontanammo dal La Guardia con settantacinque galloni di carburante e un viaggio insopportabilmente lungo davanti. Tre ore in elicottero erano già troppe, per me. Il frastuono e il peso delle cuffie mi facevano venire mal di testa e le vibrazioni mi lasciavano indolenzita in tutto il corpo. Se superavo le quattro ore di volo l'emicrania era assicurata. Fummo fortunate con il vento e, sebbene la velocità all'aria segnasse centodieci nodi, il GPS indicava che la velocità al suolo in realtà era centoventi. Lucy mi fece prendere di nuovo i comandi; andò meglio appena imparai a non forzare troppo. Dovevo lasciare che vento e correnti termiche ci scuotessero come fuscelli, perché cercare di controbatterli era peggio. Per me non era facile, visto che per carattere sopportare passivamente non mi era congeniale. Imparai a stare attenta agli uccelli e di tanto in tanto individuavo un velivolo insieme con Lucy. Le ore divennero monotone e noiose mentre seguivamo la costa oltre il Delaware River e la Eastern Shore. Facemmo rifornimento di carburante vicino a Salisbury, nel Maryland, dove andai nel bagno e bevvi una CocaCola, poi proseguimmo nel North Carolina: la campagna era sfregiata da lunghi capannoni di alluminio e grosse fosse biologiche color del sangue. Entrammo nello spazio aereo di Wilmington poco prima delle due. Avevo i nervi a fior di pelle al pensiero di quel che ci aspettava. «Scendiamo a seicento piedi», disse Lucy. «Diminuisci la velocità.» «Vuoi che lo faccia io?» chiesi. «Sei tu il pilota.» Non fu facile, ma me la cavai. «Secondo me l'università non è sul lungomare ed è un insieme di edifici di mattoni.» «Ottima deduzione, Sherlock.» Ovunque guardassi vedevo acqua, residence e stabilimenti di vario genere. L'oceano era a est, luccicante e mosso dalle onde, incurante delle nuvole scure e violacee che si accumulavano all'orizzonte. Stava arrivando un temporale; non pareva avesse fretta, ma si annunciava poderoso. «Speriamo di non rimanere bloccate qui», dissi al mio microfono mentre cominciavamo a scorgere un insieme di edifici georgiani.
«Che cosa dici?» fece Lucy guardandosi in giro. «Pensi che ci sarà? Dove pensi che sia, zia Kay?» «Dove crede di poterci trovare», risposi in tono sicuro. Lucy prese i comandi. «Adesso vado io», mi comunicò. «Non so se sperare che tu abbia ragione o torto.» «Secondo me tu speri che ci sia», le risposi. «Con un'intensità che mi spaventa.» «Guarda che, se siamo qui, non è perché l'ho voluto io.» Carrie aveva cercato di rovinarla, aveva ammazzato Benton. «Lo so: è perché l'ha voluto lei.» L'università era sotto di noi. Trovammo il campo sportivo dove ci aspettava Teun McGovern. Era in corso una partita di calcio, ma c'era uno spiazzo vicino ai campi da tennis e Lucy intendeva atterrare lì. Fece due giri sulla zona, uno in alto e uno più in basso, senza vedere ostacoli di sorta, ad eccezione di qualche albero qua e là. C'erano diverse automobili parcheggiate lungo il campo sportivo e, mentre scendevamo a terra, vidi che c'era un'Explorer blu con qualcuno dentro. Poi mi resi conto che l'allenatore in campo era Teun McGovern, in pantaloncini corti, maglietta e fischietto al collo, e notai che i giocatori, maschi e femmine, erano robusti e molto ben coordinati. Mi guardai in giro per vedere se Carrie stava guardando, ma il cielo era deserto e niente faceva pensare che fosse in agguato. Appena toccammo terra e Lucy mise al minimo, l'Explorer attraversò il campo per venirsi a fermare a distanza di sicurezza dalle pale. Alla guida c'era una donna che non conoscevo e sul sedile vicino, con mia grande sorpresa, riconobbi Marino. «Non posso crederci», dissi a Lucy. «Come cavolo ha fatto a venire?» Anche lei era strabiliata. Marino ci guardò da dietro il parabrezza mentre aspettavamo i due minuti necessari per spegnere. Quando salii sul sedile posteriore, non sorrise né mostrò la minima cordialità; intanto Lucy ripiegava le pale del rotore principale e Teun McGovern e i suoi calciatori continuavano a far finta di giocare senza fare attenzione a noi. Notai le sacche da ginnastica sotto le panchine e credetti di capire che cosa contenevano. Eravamo pronti ad affrontare un esercito, un'imboscata di truppe nemiche. Mi chiesi se non fosse l'ennesima beffa di Carrie. «Non mi aspettavo di vederti», dissi a Marino.
«È possibile che se voli USAirways devi sempre e comunque passare per Charlotte?» protestò. «Probabilmente ci ho messo quanto voi.» «Piacere, io sono Ginny Correll.» L'autista si voltò a stringermi la mano. Aveva una quarantina d'anni ed era una bionda molto carina ed elegante in un tailleur verde pallido. Se non avessi saputo la verità, avrei potuto prenderla per una docente universitaria. Ma nell'auto c'erano uno scanner e un rice-trasmettitore e notai anche la fondina ascellare sotto la giacca del tailleur. Aspettò che fosse salita Lucy e cominciò a fare manovra. La partita di calcio, intanto, continuava. «Allora», cominciò a spiegare, «non sapevamo se il ricercato o i ricercati vi aspettassero o vi seguissero e quindi ci siamo preparati per ogni evenienza.» «Ho visto», dissi. «Fra circa due minuti usciranno dal campo. Ma l'importante è che abbiamo uomini dislocati dappertutto. Alcuni sono vestiti da studenti, altri per la città a controllare hotel, bar e locali vari. Noi adesso andiamo al centro psicoterapico dell'università, dove abbiamo appuntamento con la vicedirettrice. Seguiva lei Claire Rawley e ha la sua pratica.» «D'accordo», dissi. «Vi informo che uno della polizia del campus pensa di aver visto Carrie nel centro studentesco ieri», disse Marino. «Nel bar, per la precisione», intervenne la Correll. «Che si chiama Hawk's Nest.» «Capelli corti, tinti di rosso, occhi spiritati. Ha comprato un tramezzino e l'uomo l'ha notata perché passandogli vicino l'ha guardato strano. Quando abbiamo fatto vedere le foto in giro, ha detto che forse era lei. Non ne era sicurissimo, però.» «È da lei guardare strano un poliziotto», disse Lucy. «Mettere a disagio la gente è il suo sport preferito.» «Aggiungo che ci sono tanti studenti che vanno in giro conciati come barboni», osservai. «Stiamo controllando i banchi dei pegni per vedere se ha comprato una pistola. E stiamo anche verificando i furti d'auto nella zona», spiegò Marino. «Se Carrie e il suo amico hanno rubato una macchina a New York o a Philadelphia, presumo che qui preferiscano non girare con una targa di fuori.» Il campus era un insieme ordinato di edifici georgiani ristrutturati circondati da palme, magnolie, Lagerstroemia indica e pini. Le gardenie era-
no in fiore e quando scendemmo dalla macchina il loro profumo nell'aria calda e carica di umidità mi andò alla testa. Mi piacevano i profumi del Sud e per un momento mi parve impossibile che in un posto così potesse succedere qualcosa di brutto. Era estate e nel campus c'era poca gente. I parcheggi erano semivuoti e le rastrelliere per le biciclette quasi deserte. Alcune delle auto che percorrevano College Road avevano un surf sul portapacchi. Il centro di psicoterapia dell'università era al secondo piano del Westside Hall e la sala d'attesa era nei toni del malva e dell'azzurro, luminosissima. Sui tavolini c'erano puzzle da mille pezzi di scene rurali ancora da completare, per ingannare l'attesa prima dell'appuntamento. La receptionist ci stava aspettando. Ci accompagnò lungo un corridoio di sale di osservazione e terapia di gruppo e spazi per la somministrazione di test. La dottoressa Chris Booth era una donna energica sulla sessantina, dall'aria saggia e cortese. Evidentemente amava il sole, perché aveva la pelle abbronzata e segnata dalle rughe in una maniera che le dava carattere. Aveva capelli bianchi e il fisico minuto ma scattante. Era una psicologa con un bell'ufficio che dava sulla facoltà di belle arti e su un gruppo di querce rigogliose. Mi piaceva sempre provare a indovinare il carattere delle persone dal loro ufficio. Quello della dottoressa Booth era un ambiente tranquillo e dimesso, ma il modo in cui erano sistemate le sedie era intelligente e adatto a diverse situazioni. C'era un pouf morbidissimo per il paziente disponibile a farsi aiutare, una sedia a dondolo con lo schienale di paglia intrecciata e un divanetto con lo schienale rigido. La stanza era sui toni del verde chiaro, con quadri di vele alle pareti e felci in vasi di terracotta. «Buongiorno», ci disse la Booth con un sorriso, invitandoci a entrare. «Lieta cii conoscerla.» «Il piacere è tutto mio», replicai. Io mi sedetti sul dondolo e Ginny sul divanetto. Marino si guardò intorno un po' a disagio e si sistemò sul pouf, facendo il possibile per non sprofondare. La dottoressa si sedette sulla sua poltroncina da ufficio con la schiena alla scrivania, che era perfettamente sgombra a parte una lattina di Pepsi. Lucy rimase sulla porta. «Speravo proprio che mi contattaste», esordì la dottoressa, come se fosse stata lei a convocarci. «Perché onestamente non sapevo a chi rivolgermi né se fosse giusto prendere io l'iniziativa.» Ci guardò uno alla volta con i suoi occhi grigi.
«Claire era una bravissima persona, per quanto sia un luogo comune tessere le lodi dei morti», disse. «Non creda», ribatté cinico Marino. La Booth sorrise tristemente. «Volevo soltanto dire che ho seguito molti studenti nel corso degli anni, ma Claire mi aveva colpito in maniera particolare. Nutrivo grandi speranze per lei e sono rimasta sconvolta quando ho saputo.» Si interruppe e guardò fuori della finestra. «L'avevo vista un paio di settimane prima che morisse e ho pensato e ripensato se fosse venuto fuori qualcosa che potesse spiegare quello che è successo.» «Quando dice che l'ha vista, intende dire qui? In seduta?» domandai. La dottoressa annuì. «Sì, abbiamo parlato un'ora.» Lucy era sempre più inquieta. «Prima di entrare nei particolari, può farci un quadro generale della Rawley?» chiesi. «Certamente. A proposito, ho segnato tutti i suoi appuntamenti, con data e ora, nel caso ne aveste bisogno. L'ho seguita tre anni, anche se con diverse interruzioni.» «Come sarebbe?» si informò Marino cercando invano di raddrizzarsi. «Claire si pagava gli studi da sola. Faceva la cameriera al Blockade Runner di Wrightsville Beach. Lavorava per un po', metteva da parte abbastanza soldi per pagarsi un anno di tasse, frequentava e poi doveva smettere per ricominciare a lavorare. Quando non frequentava io non la vedevo e credo che molti problemi siano cominciati in quel periodo.» «Io vado», disse Lucy all'improvviso. «Non voglio lasciare incustodito l'elicottero.» Appena Lucy fu uscita chiudendo la porta, mi assalì la paura: temevo che andasse in giro a cercare Carrie. Marino incrociò il mio sguardo per un istante e mi resi conto che anche lui aveva pensato la stessa cosa. L'agente che ci aveva accompagnato, Ginny, sedeva rigida sul divanetto senza intervenire, limitandosi a seguire attentamente la conversazione. «Circa un anno fa», continuò la Booth, «Claire conobbe Kenneth Sparkes, come sono certa voi sapete. Era un'ottima surfista e lui aveva una casa al mare a Wrightsville. In poche parole, la loro fu una relazione breve e molto intensa, che poi lui troncò.» «In quel periodo lei era ancora iscritta all'università», dissi io.
«Sì, era al secondo anno. Si lasciarono durante l'estate e Claire non tornò all'università che l'inverno dopo. Venne a trovarmi soltanto in febbraio, dopo che il suo professore di inglese aveva notato che si addormentava durante le lezioni e puzzava di alcol. Preoccupato, era andato dal preside, che aveva minacciato Claire di sospenderla, se non fosse venuta da me. Temo che tutto questo fosse legato a Sparkes. Claire era stata adottata e non aveva avuto un'infanzia felice. Era scappata di casa a sedici anni ed era venuta a Wrightsville, dove si era ingegnata a fare di tutto per sbarcare il lunario.» «Dove sono adesso i genitori?» domandò Marino. «Quelli naturali? Non lo so.» «No, intendevo quelli adottivi.» «A Chicago. Non hanno mantenuto i contatti, dopo che lei è scappata. Ma sanno che è morta, gli ho parlato.» «Dottoressa», dissi, «lei ha idea del motivo per cui Claire andò a casa di Sparkes a Warrenton?» «Era incapace di accettare il rifiuto. Probabilmente ci andò per parlargli nella speranza di risolvere qualcosa. So che aveva smesso di chiamarlo la primavera scorsa perché lui si era fatto cambiare numero di telefono. Forse perciò l'unica possibilità di parlargli era presentarsi a casa sua.» «Su una vecchia Mercedes che apparteneva a uno psicoterapeuta che si chiamava Newton Joyce?» domandò Marino, cercando di nuovo di cambiare posizione. La dottoressa trasalì. «Questo non lo sapevo», esclamò. «Ci è andata con la macchina di Newton?» «Lei lo conosce?» «Non di persona, ma per sentito dire. Claire aveva cominciato ad andare da lui perché sentiva l'esigenza di un terapeuta maschio. Questo un paio di mesi fa. Personalmente io non glielo avrei mai raccomandato.» «Perché?» chiese Marino. La Booth rifletté un istante, la faccia tesa. «È una faccenda un po' complicata», disse infine. «Il che forse spiega come mai ero restia a parlare di Claire le prime volte che avete chiamato. Newton è un figlio di papà che non ha mai avuto necessità di lavorare ma si è dedicato alla psicoterapia per hobby. Per brama di potere, suppongo.» «Sa che è sparito dalla circolazione?» intervenne Marino. «Non mi sorprende», replicò la Booth. «Va e viene quando gli pare. A volte sta via per mesi, se non di più. Io sono all'università da trenta e passa anni e me lo ricordo ragazzo. Già allora aveva un grandissimo fascino e ot-
teneva sempre tutto quello che voleva, ma era un terribile egocentrico. Perciò mi sono preoccupata quando Claire incominciò ad andare da lui. Diciamo che l'etica professionale per Newton non esiste. Lui segue le proprie regole e basta, anche se finora nessuno l'ha mai beccato.» «In che senso, scusi?» domandai. «Newton approfitta dei suoi pazienti, li controlla in maniera assolutamente scorretta.» «Ne approfitta sessualmente?» chiesi. «Di questo non ho le prove. Credo che più che altro li tenga in uno stato di dipendenza psicologica. Certamente dominava Claire, in tutto e per tutto. Sin dalla prima seduta. Veniva qui e mi parlava di lui tutto il tempo. Ne era ossessionata. Per questo ho trovato strano che fosse andata da Sparkes: pensavo che ormai le fosse passata, tanto era infatuata di Newton. Onestamente, penso che avrebbe fatto qualsiasi cosa lui le avesse detto di fare.» «È possibile dunque che le abbia suggerito di andare da Sparkes, magari per motivi terapeutici?» chiesi. La Booth sorrise ironica. «È possibile che glielo abbia suggerito lui, ma dubito che lo scopo fosse quello di aiutarla», rispose. «Mi dispiace, ma credo proprio che, se fu Newton a dirle di andarci, con tutta probabilità la strumentalizzò.» «Vorrei proprio sapere come si sono incontrati», disse Marino, protendendosi in avanti sullo scomodo cuscino. «Immagino che glielo avesse consigliato qualcuno.» «No», rispose la Booth. «Si sono conosciuti durante un servizio fotografico.» «Come?» chiesi. Mi si era gelato il sangue nelle vene. «Newton adora Hollywood e ogni tanto riesce a infilarsi in qualche troupe per girare un film o fare qualche servizio fotografico. Qui in città c'è la sede dello Screen Gems Studio e Claire aveva studiato anche storia del cinema. Sognava di fare l'attrice ed effettivamente con la sua bellezza avrebbe potuto ottenere una particina. Mi raccontò che aveva lavorato come modella per una rivista di surf e lui era nella troupe. Mi pare che facesse il fotografo, quella volta. Pare che sia abbastanza bravo.» «Dice che spesso va via», disse Marino. «Ha altre case?» «Veramente non so altro di lui», rispose la dottoressa. Un'ora dopo il dipartimento di polizia di Wilmington aveva un mandato
per perquisire la casa di Newton Joyce nel centro storico, a pochi isolati dal mare. La sua villetta bianca a un piano si trovava in fondo a una strada tranquilla di altre case del secolo scorso, con portici e verande. Grandi alberi di magnolia ombreggiavano il giardino lasciando filtrare soltanto qualche chiazza di luce nell'aria piena di insetti. Teun McGovern ci aveva raggiunti e aspettava sul patio che un investigatore rompesse un vetro per aprire la finestra dall'interno. Marino, la McGovern e l'investigatore Scroggings entrarono con le pistole puntate. Io li seguii, disarmata e spaventata da quel luogo cupo che Joyce chiamava casa. Entrammo in un piccolo soggiorno che era evidentemente utilizzato come sala d'aspetto. C'era un divano vittoriano di velluto rosso, antico e tenebroso, un tavolo con il piano di marmo e una lampada di vetro opalino al centro e un tavolo pieno di vecchie riviste. Di là c'era lo studio che, se possibile, era ancora più strano. Le pareti rivestite di pino ingiallito erano quasi completamente coperte di fotografie incorniciate di attori e modelli in posa. Ce ne dovevano essere centinaia e immaginai che fosse stato Joyce a scattarle. Non riuscivo a capire come i pazienti potessero parlare dei propri problemi in mezzo a tanti personaggi così belli. Sulla scrivania c'erano un Rolodex, un'agenda, delle carte e un telefono. Scroggins attivò la segreteria telefonica per ascoltare i messaggi e io mi guardai intorno. Sugli scaffali c'erano vecchi volumi di classici rivestiti di stoffa o di pelle e dalla polvere che li copriva dedussi che non dovevano essere stati aperti da tempo. C'erano un divano di pelle marrone tutto scrostato, presumibilmente per i pazienti, e un tavolino con un bicchiere d'acqua sopra, quasi vuoto e macchiato di rossetto color pesca sul bordo. Dietro al divano c'era una poltrona con lo schienale di mogano intagliato, che faceva venire in mente un trono. Sentii Marino e la McGovern che controllavano le altre stanze, mentre dalla segreteria di Joyce si alzavano voci diverse. Tutti i messaggi erano posteriori alla sera del 6 giugno, cioè il giorno prima della morte di Claire. Avevano chiamato dei pazienti a proposito dei loro appuntamenti e un agente di viaggio per confermare due biglietti per Parigi. «Com'è quell'accendifuoco?» chiese l'investigatore Scroggins aprendo il cassetto della scrivania. «Un blocchetto di metallo argentato piuttosto sottile», risposi. «Se lo vede, lo riconosce subito.» «Qui non c'è niente che gli assomigli, ma di certo a quest'uomo piacciono gli elastici: ne avrà migliaia. Guardi questa palla.»
Mi mostrò una sfera perfetta realizzata interamente di elastici. «Come farà?» chiese stupito Scroggins. «Comincia con uno e poi ci aggiunge tutti gli altri?» Non ne avevo la minima idea. «Chissà che cosa aveva nella testa», continuò Scroggins. «Pensa che lo facesse mentre stava a sentire i pazienti?» «A questo punto non mi stupirebbe», risposi. «Che personaggio. Guardi qui: sono tredici, quattordici... diciannove palline.» Le tirava fuori e le allineava sul tavolo. Marino mi chiamò. «Capo, vieni un po' qui.» Seguii la sua voce verso una cucina abbastanza piccola con elettrodomestici vecchi, piatti sporchi a bagno nel lavandino e l'immondizia che traboccava dalla pattumiera. Newton Joyce era peggio di Marino, benché mi sembrasse impossibile, oltre che incompatibile con l'ordine di uno che costruisce palline con gli elastici o commette reati come quelli che ritenevo avesse commesso. Ma, a dispetto dei testi di criminologia e delle pellicole hollywoodiane, le persone non sono scientificamente esatte. Come confermava la scoperta che Marino e la McGovern avevano fatto nel garage. Era collegato alla cucina da una porta chiusa con un lucchetto, che Marino aveva prontamente fatto saltare grazie a un tagliabulloni che Teun McGovern aveva sull'Explorer. Dall'altra parte c'era un'area di lavoro e la porta che dava sull'esterno era stata murata. Le pareti erano bianche e in un angolo erano ammucchiati fusti di benzina da aviazione da cinquanta galloni. C'era un congelatore d'acciaio inossidabile Sub-Zero con la porta sinistramente chiusa da un lucchetto. Il pavimento di cemento era pulito e in un angolo c'erano cinque custodie di alluminio per macchine fotografice e delle ghiacciaie di polistirolo di diverse dimensioni. Al centro c'era un grande tavolo di compensato coperto di feltro su cui erano sistemati gli strumenti usati da Joyce per compiere i suoi delitti. In fila ordinata c'era una mezza dozzina di coltelli, ognuno nel suo fodero di cuoio, distanziati perfettamente fra di loro. In una piccola scatola di sandalo rosso c'erano le pietre per affilarli. «Li vedi questi?» disse Marino indicandomi i coltelli. «Ti spiego una cosa, capo. Quelli con il manico di osso sono R.W. Loveless, da scuoiatore, della Beretta. Da collezione, numerati, costeranno seicento dollari l'uno.» Li guardò con desiderio, ma non li toccò. «Quelli di acciaio sbozzato sono Chris Reeves, sui quattrocento dollari
l'uno. Hanno il manico che si svita: così ci puoi mettere dentro i fiammiferi», continuò. Sentii chiudere una porta e poco dopo arrivarono Scroggins e Lucy. L'investigatore era ammirato dai coltelli quanto Marino. Insieme con la McGovern ripresero ad aprire i cassetti degli attrezzi e a forzare due armadi contenenti prove evidenti del fatto che finalmente avevamo trovato l'assassino. In una sacca da ginnastica Speedo c'erano otto cuffie da piscina di silicone, tutte rosa shocking, ciascuna nella propria busta di plastica con l'etichetta sopra, da cui si capiva che Joyce le aveva pagate sedici dollari l'una. Trovammo anche quattro accendifuoco "Fire Starter" in una borsa di Wal-Mart. Nel suo laboratorio di cemento, Joyce aveva un computer, che lasciammo a Lucy. Mia nipote si sedette su una seggiola pieghevole e cominciò a digitare sulla tastiera, mentre Marino cercava di aprire con il tagliabulloni la porta del freezer che, per combinazione, era esattamente uguale a quello di casa mia. «Troppo facile», commentò Lucy. «Ha scaricato la sua posta elettronica su un dischetto. Non c'è password né niente. Tutto, messaggi inviati e ricevuti nel giro di diciotto mesi. Uno degli username è FMKIRBY. From Kirby, probabilmente. Chissà a chi appartiene», aggiunse sarcastica. Mi avvicinai per guardare la corrispondenza fra Carrie e Newton Joyce, il cui macabro username era skinner, lo scuoiatore. Il 10 maggio lui le aveva scritto: L'ho trovata. Un legame per cui morire. Cosa ne pensi di un big della stampa? Non sono bravo? Il giorno seguente Carrie aveva risposto: Sì, BRAVISSIMO. Li voglio. Fammi volare via, mio alato amico. Fammi vedere. Voglio guardarli negli occhi vacui, voglio osservare tutto. «Mio Dio», borbottai. «Voleva che uccidesse in Virginia e in modo tale da essere sicura che io venissi coinvolta.» Lucy continuò, battendo con impazienza sul tasto della freccia all'ingiù. «Dunque conosce Claire Rawley durante un servizio fotografico. Lei diventa la sua esca. È perfetta, perché ha già avuto una relazione con Sparkes», continuai. «Joyce e Claire vanno a casa sua, ma non lo trovano e così Sparkes ha salva la vita. Joyce uccide e mutila Claire e dà fuoco alla casa.» Mi interruppi per leggere altri messaggi. «E adesso noi siamo qui.» «Siamo qui perché lei voleva che ci arrivassimo», disse Lucy. «Voleva che trovassimo tutto questo.»
Premette con forza sul tasto. «Non capisci?» domandò. Si voltò verso di me. «Ci ha attirati fin qui perché vedessimo tutto questo», ripeté. Sentii il tagliabulloni scattare rumorosamente tagliando il lucchetto cii acciaio e la porta del freezer che si apriva. «Cristo», esclamò Marino. «Oh, cazzo!» 23 Sul ripiano più alto del freezer c'erano due teste di polistirolo, una da uomo e una da donna, nere di sangue congelato. Erano state usate per le facce che Joyce aveva strappato alle sue vittime, posato sui manichini e congelato per dare loro forma. Poi aveva riposto i propri macabri trofei in sacchetti di plastica da freezer, che aveva etichettato come facevamo noi con le prove, indicando data, luogo e numero d'ordine. In alto c'era il più recente e io, come un automa, lo presi in mano. Il cuore cominciò a battermi all'impazzata e per un attimo mi si annebbiò la vista. Mi misi a tremare, senza rendermi conto di nulla, e mi ritrovai fra le braccia di Teun McGovern, che mi stava aiutando a sedere sulla sedia su cui fino a un momento prima era stata seduta Lucy. «Portatele dell'acqua», diceva. «Non ti preoccupare, Kay, va tutto bene.» Misi a fuoco il congelatore con la porta spalancata e i suoi sacchetti di plastica sanguinolenti. Marino camminava passandosi nervosamente le mani fra i capelli sempre più radi. Sembrava che stesse per avere un ictus. Lucy era sparita. «Dov'è Lucy?» chiesi con la bocca secca. «E andata a prendere la valigetta del pronto soccorso», mi rispose Teun dolcemente. «Stai tranquilla, non ti agitare. Adesso ti portiamo via. Non devi vedere queste cose.» Ma ormai avevo visto. Avevo visto quella maschera di morte, la bocca piatta, il naso senza dorso. Avevo visto la pelle vagamente arancione, luccicante di ghiaccio. La data sull'etichetta era 17 giugno, il luogo Philadelphia: avevo fatto il collegamento troppo tardi, quando ormai avevo guardato. Ma anche non fosse stato così, avrei guardato lo stesso, perché dovevo sapere. «Sono stati qui», dissi. Feci per alzarmi, ma mi girò di nuovo la testa.
«Sono venuti a lasciare questo. In maniera che noi lo trovassimo», continuai. «Maledetto», gridò Marino. «MALEDETTO STRONZO FIGLIO DI PUTTANA!» Si asciugò gli occhi con la mano, continuando a camminare furiosamente. Lucy stava scendendo la scala, pallida e con gli occhi spiritati. Sembrava in trance. «Qui McGovern. Correll?» disse al ricetrasmettitore. «Correll», rispose una voce. «Raggiungeteci.» «Dieci-quattro.» «Chiamo la scientifica», disse l'investigatore Scroggins. Era sotto choc anche lui, ma non quanto noi. Lui non lo conosceva, lui non aveva mai nemmeno sentito parlare di Benton Wesley. Stava controllando i sacchetti nel freezer, muovendo le labbra per contarli. «Santo Dio», esclamò stupefatto. «Ce ne sono ventisette!» «Luogo e data?» chiesi, raccogliendo le forze per raggiungerlo. Controllammo insieme. «Londra, 1981. Liverpool, 1983. Dublino, 1984 e uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici: undici in Irlanda, nel 1987. Evidentemente ci aveva preso gusto», osservò Scroggins. Si stava agitando, come succede prima di una crisi isterica. Guardai con lui. Gli omicidi di Joyce cominciavano in Irlanda del Nord, a Belfast, e continuavano nella Repubblica, con nove omicidi a Dublino e dintorni: Ballboden, Santry e Howth. Ce n'era uno anche a Galway. Poi Joyce era passato a colpire negli Stati Uniti, soprattutto nell'Ovest, in luoghi remoti di Utah, Nevada, Montana e Washington. Una volta aveva ucciso a Natches, nel Mississippi, e questo era importante per me, soprattutto alla luce di quel che mi aveva scritto Carrie nella sua lettera. Mi riferivo all'accenno alle ossa segate. «I torsi», dissi, mentre la verità mi colpiva come un fulmine. «Quei casi irrisolti in Irlanda... poi silenzio per otto anni, perché colpiva nell'Ovest e i corpi non erano stati scoperti o denunciati alle autorità centrali. Quindi noi non ne abbiamo saputo niente. Non si è mai fermato. Alla fine è venuto in Virginia, dove ha attirato la mia attenzione e mi ha fatto disperare.» Era il 1995 quando due cadaveri mutilati erano stati rinvenuti vicino a Virginia Beach e a Norfolk. L'anno successivo ne erano stati scoperti altri due, questa volta nella zona occidentale dello stato, uno a Lynchburg e l'al-
tro a Blacksburg, nei pressi del campus del Virginia Tech. Nel 1997 Joyce sembrava essersi fermato, ed era in quel periodo che ritenevo si fosse messo in contatto con Carrie. I cadaveri mutilati avevano fatto scalpore, anche perché solo due delle vittime, senza testa e senza arti, erano state identificate attraverso un confronto radiografico con lastre precedenti. Si trattava in entrambi i casi di studenti del college. Me ne ero occupata io e l'FBI era stato coinvolto nelle indagini. In quel momento mi resi conto che lo scopo principale di Joyce non era tanto impedire l'identificazione, quanto nascondere il proprio operato. Non voleva cioè che ci accorgessimo che rubava la bellezza alle sue vittime, togliendo loro l'identità con il suo coltellaccio e aggiungendo il loro volto alla sua gelida collezione. Forse temendo di attirare troppa attenzione su di sé aveva cambiato modus operandi. Forse era stata Carrie a suggerirgli l'incendio. Potevo soltanto ipotizzare che si fossero conosciuti via Internet. «Non capisco», disse Marino. Si era calmato un po' e si era messo a controllare i sacchetti di Joyce. «Come ha fatto a portarseli dietro dall'Inghilterra e dall'Irlanda? Da Venice Beach e Salt Lake City?» chiedeva. «Con il ghiaccio secco», risposi semplicemente, guardando le custodie di metallo per apparecchiature fotografiche e le ghiacciaie di polistirolo. «Li avrà imballati per bene e nascosti nei bagagli senza che nessuno se ne accorgesse.» A un'ulteriore perquisizione della casa trovammo altre prove schiaccianti, tutte in piena vista, perché il mandato parlava di accendifuoco al magnesio, coltelli e resti umani e questo autorizzava la polizia a controllare cassetti e anche ad abbattere pareti, se necessario. Mentre uno dei medici legali del posto prendeva il contenuto del congelatore per trasportarlo in obitorio, altri aprirono armadi e cassaforte. Trovarono divise straniere e migliaia di fotografie di centinaia di persone che avevano avuto la fortuna di scampare alla morte. C'erano anche delle fotografie di Joyce, o almeno così immaginammo, a bordo del suo Schweizer bianco o vicino alla cabina di pilotaggio, con le braccia incrociate sul petto. Lo osservai con grande attenzione. Era un uomo magro e castano; sarebbe stato un bell'uomo, se non avesse avuto il volto deturpato dall'acne. Era butterato fino al collo, come dimostrava la camicia aperta che indossava; potevo solo immaginare la sua vergogna di adolescente, gli scherzi e
la derisione dei compagni. Avevo conosciuto ragazzi come lui, sfigurati dalla nascita o dalla malattia e incapaci di godere le gioie della giovinezza o dell'amore. Perciò rubava agli altri ciò che a lui era stato negato, distruggeva ciò che gli era stato tolto, il punto di origine della sua infelicità, del suo malessere interiore. Ma non provai compassione per lui. Ero convinta che ormai lui e Carrie fossero andati via da lì, da quella città. Carrie aveva raggiunto il proprio scopo, almeno per il momento. Ero caduta nella trappola che mi aveva teso: voleva che trovassi Benton e io l'avevo trovato. Ero certa che la parola fine sarebbe arrivata soltanto dopo che fossi diventata la sua vittima, ma in quel momento ero troppo abbattuta per preoccuparmene. Mi sentivo morire. Trovai un po' di pace su una panchina di marmo bianco nella giungla che era il giardino di Joyce. Begonie e altre piante combattevano con il ginerio per il sole. Trovai Lucy vicino all'ombra intermittente gettata dalle querce, dove ibischi rossi e gialli crescevano con prepotenza. «Lucy, torniamo a casa.» Mi sedetti vicino a mia nipote sulla pietra dura e fredda che associavo ai cimiteri. «Spero che fosse morto, quando glielo hanno fatto», disse ancora una volta. lo non volevo nemmeno pensarci. «Spero solo che non abbia sofferto.» «Carrie l'ha fatto apposta, perché ci ponessimo queste domande», esclamai mentre la collera si faceva strada nella mia incredulità. «Ci ha già preso abbastanza, non credi? Non diamole più niente, Lucy.» Non rispose. «Lasciamo che se ne occupino ATF e polizia», continuai tenendole la mano. «Torniamo a casa e proseguiamo da lì.» «E come?» «Non lo so.» Era la verità. Ci alzammo e andammo verso la strada, dove Teun McGovern stava parlando con un agente fuori della sua macchina. Ci lanciò uno sguardo colmo di compassione. «Per favore, accompagnaci all'elicottero», disse Lucy con una fermezza che era lungi dal provare. «Lo porterò a Richmond, dove il Border Patrol potrà venirlo a prendere. Va bene?»
«Non credo che tu sia nelle condizioni giuste per volare, a dire il vero.» La McGovern era improvvisamente tornata a essere il suo supervisore. «Sto bene», rispose Lucy in tono più duro. «E poi, se non lo porto io chi lo porta? Non possiamo certo lasciarlo su un campo di calcio.» Teun McGovern esitò, fissando Lucy. Poi aprì la macchina. «D'accordo», disse. «Salite.» «Invierò un piano di volo», la informò Lucy sedendosi davanti. «In maniera che tu possa controllare dove siamo, se ti fa stare più tranquilla.» «Okay», rispose Teun mettendo in moto. Prese il ricetrasmettitore e chiamò uno degli agenti dentro la casa. «Mi passi Marino», ordinò. Dopo un momento sentimmo la sua voce. «Che c'è?» «Sono di partenza. Tu le raggiungi al volo?» «Preferisco restare con i piedi per terra», rispose lui. «E dare una mano qui.» «D'accordo. Grazie.» «Buon viaggio», salutò Marino. Quando arrivammo all'elicottero trovammo di guardia un poliziotto del campus in bicicletta; nei campi vicini stavano giocando a tennis e un certo numero di ragazzi tirava calci in porta. Il cielo era azzurro e gli alberi si muovevano appena. Sembrava che non fosse successo niente. Mentre Lucy faceva la sua ispezione, io e Teun aspettammo in macchina. «Che cosa hai intenzione di fare?» le chiesi. «Mandare le loro foto a giornali e televisioni sperando che qualcuno li riconosca», rispose. «Dovranno pur mangiare, dormire e fare rifornimento. Non possono volare all'infinito.» «È inutile: quell'elicottero non è mai stato visto né fare rifornimento né atterrare.» «Be', Joyce nel garage aveva un bel po' di benzina. Per non parlare del fatto che ci sono un sacco di piccoli aeroporti dove un elicottero può scendere a riempire il serbatoio», disse. «Ce ne sono ovunque. Non occorre nemmeno contattare la torre di controllo in uno spazio aereo non controllato. E gli Schweizer non sono certo rari. Comunque non è vero che non è mai stato visto. L'abbiamo visto noi, il maniscalco e la direttrice di Kirby. Solo che non sapevamo chi c'era sopra.» «Già.» Il mio umore stava peggiorando. Non avevo voglia di andare a casa. Non
avevo voglia di andare da nessuna parte. Era come se il tempo fosse diventato brutto, avessi freddo e non potessi fare niente. Avevo la testa piena di domande, di risposte, di supposizioni e di urla. Appena si placavano, lo rivedevo. Lo rivedevo fra macerie fumanti. Rivedevo il suo volto in un sacchetto di plastica. «...Kay?» Mi resi conto che Teun mi stava parlando. «Come ti senti? Veramente.» Mi stava fissando. Trassi un respiro profondo e mi si incrinò la voce quando risposi: «Ce la farò. Teun, non so neanch'io come mi sento e non so che cosa farò. Ma so che cosa ho fatto: ho rovinato tutto. Carrie ha giocato con me come fossi un mazzo di carte e Benton è morto. Lei e Newton Joyce sono ancora liberi, pronti a colpire di nuovo. Magari hanno già colpito. Niente di quello che ho fatto è servito, Teun». Mi si riempirono gli occhi di lacrime. Vidi che Lucy stava controllando che il tappo del serbatoio fosse ben avvitato. Poi spiegò le pale del rotore principale. Teun mi porse un Kleenex e mi toccò affettuosamente la spalla. «Invece hai fatto molto, Kay. Per cominciare, se non avessi scoperto quel che hai scoperto, non saremmo riusciti ad avere un mandato. E allora a che punto saremmo? Non li abbiamo ancora presi, ma almeno sappiamo chi sono. E prima o poi li troveremo.» «Abbiamo trovato solo quel che hanno voluto farci trovare», risposi. Lucy aveva finito l'ispezione e guardava dalla mia parte. «Sarà meglio che vada», dissi a Teun. «Grazie.» Le strinsi la mano. «Abbi cura di Lucy.» «Non credo che ce ne sia bisogno.» Scesi e mi voltai a salutarla con la mano. Poi aprii la portiera e mi sedetti al posto del secondo pilota, allacciando le cinture. Lucy prese da una tasca la lista di controllo e procedette a verificare che interruttori, collettivo e manetta fossero a posto. Non riuscivo a calmarmi: avevo il batticuore e respiravo affannosamente. L'elicottero si alzò da terra e virò verso il vento. Teun ci guardava proteggendosi gli occhi con la mano. Lucy mi porse una carta e mi chiese di aiutarla a navigare mentre lei contattava la torre di controllo. «Wilmington, qui elicottero due-uno-nove Sierra Bravo.» «Qui torre di controllo di Wilmington: elicottero due-uno-nove, procedete.»
«Richiedo l'autorizzazione a partire dal campo sportivo dell'università e dirigermi verso di voi all'ISO Aero. Passo.» «Contattate la torre in avvicinamento. Potete procedere dalla vostra posizione, ma tenetevi in contatto radio e informateci quando raggiungete l'ISO.» «Qui due Sierra Bravo, ricevuto.» Quindi Lucy trasmise a me: «Seguiremo una rotta tre-tre-zero. Dopo che avremo fatto rifornimento, il tuo compito sarà controllare giro e bussola e aiutarmi con la carta». Salì a cinquecento piedi di quota e la torre ci contattò di nuovo. «Elicottero due Sierra Bravo», disse una voce. «Velivolo non identificato a ore sei, trecento piedi di quota, in avvicinamento.» «Qui due Sierra Bravo, ricevuto.» «Velivolo non identificato a due miglia a sud-est dell'aeroporto, identificatevi», ordinò la torre di controllo a tutte le radio in ascolto. Nessuno rispose. «Velivolo non identificato a due miglia a sud-est dell'aeroporto, identificatevi», ripeté la torre. Silenzio. Fu Lucy a vederlo per prima: era alle nostre spalle e sotto la linea dell'orizzonte, il che voleva dire che volava a quota più bassa rispetto a noi. «Torre di controllo», disse Lucy. «Qui elicottero due Sierra Bravo. Avvistato velivolo a bassa quota. Manteniamo le distanze.» «C'è qualcosa che non va», osservò Lucy con me, voltandosi a guardare dietro. 24 All'inizio era un puntino scuro che volava alle nostre spalle direttamente verso di noi. Più si avvicinava, più diventava bianco. Poi si trasformò in uno Schweizer con la cupola luccicante. Mi venne il cuore in gola per la paura. «Lucy», esclamai. «L'ho avvistato», rispose arrabbiata. «Cazzo, è incredibile.» Sollevò il collettivo lanciando l'elicottero in una rapida ascesa. Lo Schweizer mantenne la quota e si mosse più velocemente perché, salendo, la nostra velocità diminuì a settanta nodi. Lucy spinse avanti il ciclico mentre lo Schweizer si avvicinava virando a dritta, dalla parte di Lucy.
Questa accese il microfono. «Torre di controllo. Segnalo manovre aggressive da parte di velivolo non identificato», comunicò. «Cercherò di evitarlo. Nel frattempo contattate la polizia: riteniamo che a bordo ci sia un evaso ricercato, armato e pericoloso. Eviteremo le aree costruite e ci sposteremo verso il mare.» «Ricevuto. Contatto le autorità locali.» La torre di controllo si sintonizzò sulla frequenza di ascolto. «Attenzione. A tutti i velivoli. Ascolto. Qui torre di controllo di Wilmington. Il traffico aereo è chiuso. I mezzi a terra non possono prendere il volo. Ripeto: il traffico aereo nella zona è chiuso. I mezzi a terra non possono prendere il volo. I velivoli collegati su questa frequenza devono immediatamente sintonizzarsi con il controllo di avvicinamento di Wilmington sulla Victor 135.75 o la Uniform 343.9. Ripeto: i velivoli collegati su questa frequenza devono immediatamente sintonizzarsi con il controllo di avvicinamento di Wilmington sulla Victor 135.75 o la Uniform 343.9. Elicottero due Sierra Bravo, rimanete su questa frequenza.» «Ricevuto, due Sierra Bravo», rispose Lucy Sapevo perché si stava dirigendo verso l'oceano: non voleva precipitare in una zona popolata, ferendo o uccidendo altre persone. Ero certa anche che Carrie l'aveva previsto, perché sapeva benissimo che Lucy era buona e pensava sempre prima agli altri che a se stessa. Virò verso est con lo Schweizer che seguiva ogni nostro movimento mantenendosi a un centinaio di metri di distanza, come se non avesse fretta. Fu questo a farmi pensare che Carrie probabilmente ci aveva tenuto d'occhio sin dall'inizio. «Non posso andare a più di novanta nodi», mi disse Lucy. La tensione stava salendo. «Ci ha visto arrivare, oggi», dissi. «Sa che non abbiamo fatto rifornimento.» Sorvolammo la spiaggia in virata, seguendola brevemente. I bagnanti interruppero le proprie faccende per alzare la testa verso i due elicotteri che correvano uno dietro l'altro verso il mare. Quando fummo a mezzo miglio dalla costa, Lucy cominciò a rallentare. «Non possiamo andare avanti per molto» mi disse con un'ombra di disperazione nella voce. «Il motore ci pianta e non ce la facciamo più a tornare. Abbiamo poco carburante.» L'indicatore segnava meno di venti galloni. Lucy cominciò una brusca virata a centottanta gradi. Lo Schweizer era cinquanta piedi sotto di noi e, anche se il sole impediva di vedere chi ci fosse dentro, io lo sapevo. Non
avevo il minimo dubbio e, quando si avvicinò e cominciò a salire dalla parte di Lucy, sentii una serie di rapidi sussulti; subito dopo l'elicottero scartò bruscamente. Lucy prese la pistola dalla fondina ascellare. «Ci stanno sparando addosso!» esclamò. Pensai al fucile mitragliatore, al Calico che mancava alla collezione di Sparkes. Lucy aprì la portiera dalla sua parte e la fece cadere nel vuoto. Poi rallentò. «Ci stanno sparando», avvertì alla radio. «Rispondiamo al fuoco. Tenete tutto il traffico lontano dalla spiaggia di Wrightsville!» «Ricevuto. Avete bisogno di aiuto?» «Chiamate mezzi di soccorso e ambulanze a Wrightsville Beach. Ci saranno dei feriti.» Mentre lo Schweizer volava direttamente sotto di noi, vidi il lampo sulla canna che spuntava dal finestrino dalla parte del secondo pilota. L'elicottero sobbalzò di nuovo. «Credo che abbiano colpito i pattini», gridò Lucy. Stava cercando di puntare la pistola fuori e sparare con la mano bendata. Infilai la mano nella borsetta e mi resi conto sgomenta di aver lasciato la .38 nella valigetta che era rimasta nel bagagliaio. Lucy mi porse la pistola e allungò la mano per prendere il fucile Ar-15. Lo Schweizer scese rapidamente per inseguirci verso la costa e metterci in difficoltà, contando sul fatto che non volevamo mettere a repentaglio l'incolumità della gente a terra. «Dobbiamo tornare verso il mare», gridò Lucy. «Non possiamo sparare, qui. Sgancia la tua portiera e lasciala cadere in mare.» Lo feci e fui investita da una folata d'aria. La terra sembrò di colpo più vicina. Lucy fece un'altra virata e lo Schweizer la imitò. L'indicatore del carburante continuava a scendere. Mi sembrava che quell'inseguimento stesse durando da un'eternità, con lo Schweizer che ci spingeva verso il mare aperto e Lucy che tentava di avvicinarsi alla costa per atterrare. Non potevano sparare senza rischiare di colpire le pale del rotore. Eravamo a millecento piedi di quota e procedevamo a cento nodi sopra il mare quando la fusoliera fu colpita. Sentimmo dei colpi dietro di noi, all'altezza della portiera posteriore. «Adesso viro a destra», mi avvertì Lucy. «Pensi di riuscire a mantenere la quota?» Ero terrorizzata. Stavamo per morire.
«Ci provo», risposi prendendo i comandi. Stavamo andando diritti contro lo Schweizer. Doveva essere a una quindicina di metri da noi e un centinaio di piedi sotto quando Lucy caricò il fucile. «Sposta il ciclico in avanti. Veloce!», mi urlò puntando il fucile fuori della portiera. Stavamo scendendo a mille piedi al minuto ed ero sicura che stessimo per finire addosso allo Schweizer. Cercai di virare, ma Lucy mi gridò di non farlo. «Vacci dritta contro!» Non sentivo gli spari perché stavamo volando direttamente sopra lo Schweizer ed ero convinta che le sue pale stessero per stritolarci. Lucy sparò di nuovo e vidi dei lampi. Poi prese il ciclico e lo spinse verso sinistra per allontanarsi dallo Schweizer un attimo prima che esplodesse in una palla di fuoco. Lo scoppio ci fece sbalzare da una parte. Lucy era ai comandi e io assunsi la posizione di emergenza. Poi, improvvisa come l'onda d'urto che ci aveva colpito, tornò la calma. Intravidi le scintille che si spegnevano nell'oceano Atlantico. Stavamo virando. Guardai mia nipote sbigottita. «Vaffanculo», disse gelida guardando la pioggia di fuoco e rottami che precipitava verso il mare. Con grande calma riprese il contatto radio. «Torre di controllo», disse. «L'elicottero dell'evaso è esploso a due miglia al largo di Wrightsville Beach. Non sembra ci siano superstiti. Sto sorvolando la zona alla ricerca di eventuali segni di vita.» «Ricevuto. Avete bisogno di aiuto?» ci rispose la voce. «Troppo tardi. Negativo. Siamo diretti da voi per immediato rifornimento di carburante.» «Ricevuto.» L'onnipotente torre di controllo sembrava titubante. «Procedete direttamente. Incontrerete le autorità locali all'ISO.» Lucy però compì altri due giri a cinquanta piedi di quota mentre i vigili del fuoco e le macchine della polizia correvano verso la spiaggia con le luci di emergenza lampeggianti. I bagnanti in preda al panico stavano uscendo dall'acqua agitando le braccia, come se avessero avvistato un grande squalo bianco. Sulla superficie galleggiavano lamiere e salvagenti arancioni, ma dentro non c'era nessuno. UNA SETTIMANA DOPO
HILTON HEAD Era una mattina nuvolosa e il cielo grigio come il mare, quando noi che avevamo amato Benton Wesley ci radunammo in un punto deserto e selvaggio della piantagione di Sea Pines. Parcheggiammo vicino ad alcuni residence e seguimmo un sentiero che portava a una duna, per poi addentrarci fra la spergularia. La spiaggia era più stretta, da quella parte, la sabbia più cedevole e punteggiata di pezzi di legno portati dal mare nel corso di innumerevoli burrasche. Marino indossava un gessato con camicia bianca e cravatta scura e, sebbene sudasse copiosamente, non mi sembrava di averlo mai visto così ben vestito. Anche Lucy mi aveva detto che si sarebbe vestita di nero, ma non avevo ancora avuto modo di vederla, perché aveva una cosa molto importante da fare. Erano venuti anche Teun McGovern e Kenneth Sparkes, non perché conoscessero Benton, ma per fare piacere a me. Connie, la ex moglie di Benton, stava sulla riva del mare stretta alle figlie. Era strano per me provare soltanto dolore a guardarle. Non c'erano più né risentimento né animosità né paura, fra noi: la morte aveva cancellato tutto. Non eravamo i soli a ricordare Benton Wesley: c'erano agenti in pensione e l'ex direttore dell'accademia dell'FBI che tanti anni prima aveva creduto nei profili psicologici e nelle visite di Benton ai detenuti. Ormai quello era un campo di indagine noto e affermato, inflazionato da tv e cinema, ma ai suoi tempi aveva rappresentato una grande innovazione. Benton, all'avanguardia, aveva trovato un nuovo modo per cercare di capire gli individui gravemente disturbati, perversi e privi di qualsiasi rimorso. Non c'erano ministri religiosi, perché Benton non ne aveva mai frequentati, da quando lo conoscevo, a parte un cappellano presbiteriano cui talvolta si rivolgevano gli agenti federali. Si chiamava Judson Lloyd ed era un uomo mingherlino con pochi capelli bianchi sulla testa. Portava il colletto da ecclesiastico e in mano aveva una piccola bibbia foderata di pelle. Eravamo meno di venti sulla spiaggia. Non ci furono né musica né fiori, né elogi né discorsi, perché nel proprio testamento Benton aveva detto chiaramente che cosa voleva, lasciando a me il compito di occuparsi delle sue spoglie mortali. Aveva scritto: In fondo è la tua specialità, Kay, e sono sicuro che rispetterai le mie volontà. Non aveva voluto cerimonie. Aveva preferito evitare il funerale militare che gli sarebbe spettato, con le auto della polizia che aprivano il corteo, gli
spari a salve e la bandiera intorno alla bara. Aveva chiesto di essere cremato e che le sue ceneri fossero sparse nel luogo che più aveva amato, l'isola selvaggia di Hilton Head, dove ci eravamo rifugiati ogni volta che ne avevamo avuto la possibilità per dimenticare le nostre battaglie almeno per un attimo, pur se fugace come un sogno. Avrei rimpianto per sempre che l'ultima volta ci fosse andato da solo perché io ero stata trattenuta in città dalla barbarie di Carne; per ironia della sorte, quello era stato l'inizio della fine. Troppo facile rimpiangere di essermi lasciata coinvolgere in quel caso: qualcun altro avrebbe pianto un proprio caro al posto mio, così come era accaduto in passato, e la violenza non avrebbe mai più avuto fine. Cominciò a cadere una pioggerellina sottile che mi accarezzò il viso come una mano fredda e triste. «Non ci siamo radunati qui oggi per piangere Benton», esordì il reverendo Lloyd. «Lui avrebbe voluto che ci facessimo forza l'uno con l'altro e continuassimo per la strada che lui aveva scelto, cercando di sconfiggere il male per far trionfare il bene, lottando per gli oppressi e patendo gli orrori in silenzio, senza scaricarli sul nostro prossimo. Benton Wesley ha lasciato questo mondo migliore di come l'ha trovato. Ci ha lasciato migliori di quello che eravamo. Per questo, amici, vi esorto a portare avanti ciò che lui è stato costretto a interrompere.» Aprì il Nuovo Testamento. «E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo», lesse. Ero in subbuglio e non riuscivo a smettere di piangere. Mi asciugai gli occhi con un fazzoletto di carta e chinai la testa. Il reverendo Lloyd si portò un dito alle labbra e lesse un altro brano della lettera ai Galati, o era Timoteo? Non lo seguivo più: le sue parole mi arrivavano come un torrente di cui non riuscivo a decifrare il significato. Cercavo di scacciare immagini che continuavano ad assalirmi. Ripensavo a Benton con la giacca a vento rossa che guardava il fiume sconsolato, dopo che l'avevo trattato ingiustamente. Avrei dato chissà che cosa per potermi rimangiare quelle frasi offensive. Ma lui aveva capito perché le avevo pronunciate, ne ero certa. Ricordavo il suo bel profilo e la sua espressione imperturbabile in presenza di altri. Forse dava l'impressione di essere freddo, ma in realtà il suo era un modo per difendere la propria dolcezza e tenerezza. Mi chiedevo se mi sarei sentita diversameiite, se ci fossimo sposati. Mi chiedevo se la mia
indipendenza non derivasse da una profonda insicurezza. Mi chiedevo se non avessi sbagliato tutto. «Sapendo questo, che la legge non è per i giusti, ma per gli iniqui e i disobbedienti, per gli empi e i peccatori, per i profani e gli scellerati, per i patricidi e i matricidi, per gli assassini», predicava il reverendo. Sentii una corrente d'aria alle mie spalle, nonostante il mare fosse piatto e pigro. Poi vidi che Sparkes mi era venuto vicino, impettito nell'abito scuro, e mi sfiorava il braccio con il suo, guardando avanti, la mascella forte e risoluta. Si voltò verso di me e mi lanciò un'occhiata piena di compassione. Risposi con un lieve cenno del capo. «Il nostro amico voleva pace e bontà», continuava il reverendo. «Cercava l'armonia che le vittime di cui si occupava non avevano mai avuto. Voleva essere libero dalla violenza e dal dolore, immune alla collera e alle notti di paura e senza sogni.» Udii il rumore delle pale in lontananza, il rombo sordo che avrei sempre associato a mia nipote. Alzai gli occhi e vidi il sole che brillava appena dietro alle nuvole che correvano nel cielo coprendolo e scoprendolo come in una danza dei sette veli. Qualche chiazza di azzurro qua e là brillava all'orizzonte verso occidente, poi la duna alle nostre spalle si illuminò, quasi il maltempo stesse per battere in ritirata. Il rumore dell'elicottero si fece più forte; mi voltai a guardare fra palme e pini e lo vidi scendere di quota. «Voglio perciò che preghiate, senza collera né dubbi», continuava il reverendo. Le ceneri di Benton erano nella piccola urna di ottone che tenevo in mano. «Preghiamo.» Lucy cominciò a sorvolare gli alberi con un grande frastuono. Sparkes mi disse qualcosa che non sentii, ma il tono era dolce e comprensivo. Il reverendo Lloyd continuò a pregare, nonostante nessuno di noi fosse più in grado di comunicare con l'Onnipotente. Lucy teneva l'elicottero immobile a punto fisso vicino alla spiaggia, sollevando spruzzi. Vidi che mi guardava e raccolsi le forze. Mi avvicinai nel vento scatenato dalle pale del rotore, mentre il reverendo si teneva i pochi capelli scompigliati, ed entrai nell'acqua. «Che Dio ti benedica, Benton. Pace all'anima tua. Mi manchi, sai?» dissi quando nessuno mi poté più sentire. Aprii l'urna e alzai gli occhi verso mia nipote, che era lì per creare la corrente che Benton aveva chiesto per disperdere le proprie ceneri. Le feci
un cenno con il capo e lei rispose con un gesto di incoraggiamento che mi fece venire ancor più da piangere. La cenere era come seta, quando vi infilai la mano, ma sentii i piccoli frammenti di osso lanciandola nel vento e restituendo Benton all'ordine superiore che avrebbe voluto ricreare su questa terra, se solo fosse stato possibile. FINE