BRAD MELTZER RICATTO INCROCIATO (Dead Even, 1998) A Cori, che non potrebbe significare di più, per me, perché già signif...
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BRAD MELTZER RICATTO INCROCIATO (Dead Even, 1998) A Cori, che non potrebbe significare di più, per me, perché già significa tutto. E ai miei genitori, che mi hanno nutrito d'amore, mi hanno insegnato a ridere e mi hanno sempre lasciato sognare. Dimmi chi ami e ti dirò chi sei ARSENE HOUSSAYE CAPITOLO UNO «E se sarà un disastro?», domandò Sara, infilandosi a letto. «Non sarà un disastro», disse Jared. «Sarai grandiosa». «E se invece ti sbagli? Se scoprirò di essere una qualunque? Forse è proprio questo che cercavano di dirmi. Forse era questo il messaggio». «Non c'era nessun messaggio. E tu non sei una qualunque», ribadì Jared, raggiungendo sua moglie sotto le coperte. «È solo il tuo primo giorno di lavoro. Non devi far altro che presentarti ed essere te stessa». Spense l'abat-jour sul comodino e allungò una mano per afferrare la sveglia. «A che ora vuoi alzarti?». «Alle sei e mezza... che ne dici?». Sara esitò. «No, alle sei e un quarto». Tentennò ancora. «Anzi, puntala alle sei meno un quarto, nel caso che ci siano problemi con il metrò». «Shhh, respira», disse Jared. Si rialzò sui gomiti. «Va bene essere nervosi, ma non c'è ragione di ammattire». «Scusami. È solo che...». «Lo so», la interruppe lui, prendendole una mano. «So come ci si sente in questi casi... Ricordo bene com'è andata l'ultima volta. Però sono sicuro che stavolta andrà tutto benissimo». «Tu credi?». «Ma certo!».
«Lo credi davvero?». «Sara, da questo momento non ti rispondo più». «È un sì o un no?». Jared sfilò uno dei due cuscini che aveva sotto la testa e lo gettò in faccia a Sara, tenendovelo blandamente premuto. «Mi rifiuto di prendere in considerazione questa domanda». «Intendi dire che non hai più voglia di parlare di lavoro?», domandò Sara, tra le risate attutite dal cuscino. «Proprio così». Jared balzò a cavalcioni della moglie, continuando a tenerle il cuscino in faccia. «Oh-oh, mi sa che qualcuno si sta un po' sovreccitando». Sara cercò di scostare il cuscino, ma si rese conto che Jared stava aumentando la pressione. «Smettila, non mi fai ridere», aggiunse. «Mi stai facendo male». «Oh, smettila di piagnucolare». «Cosa?», fece lei. Jared non rispose. «Dico sul serio, Jared. Non respiro». Lo sentì muoversi in avanti. All'improvviso, si ritrovò la spalle immobilizzate dalle ginocchia di lui, «Jared, cosa fai?». Sara gli afferrò i polsi e vi conficcò le unghie. Per tutta risposta, lui premette più forte. «JARED, TOGLITI! LASCIAMI!». Sara si dimenava ormai con violenza, cercando di divincolarsi in ogni modo. Mentre con le unghie gli solcava le braccia e le gambe, boccheggiava per il disperato bisogno di aria. Ma lui premeva sempre più forte. Sara ebbe la tentazione di arrendersi, ma resistette. Soffocata dalle sue stesse lacrime, urlò il nome del marito: «JAAARED...», singhiozzò. «JAAAAARED...». Svegliatasi di soprassalto, Sara si ritrovò seduta sul letto, con il viso madido di sudore. La stanza era immersa nel silenzio. Jared dormiva accanto a lei. "Era solo un sogno", disse Sara tra sé, cercando di rallentare la corsa sfrenata del cuore. "Va tutto bene". Tornando a posare il capo sul cuscino, però, non riuscì a cancellare quell'orribile incubo. Quel sogno, più ancora dei precedenti, le era parso tremendamente reale. La paura, e le reazioni di lui, il contatto. Tutto spaventosamente vivido. "Jared non c'entra, però", disse tra sé. "È colpa del lavoro". Per autoconvincersene si accoccolò accanto al marito cingendogli il petto con un braccio. Era caldo, sotto le coperte. Era evidentemente colpa del lavoro. Sara fece un respiro profondo e gettò un'occhiata alla sveglia sul comodino di Jared. "Altre due ore", calco-
lò. "Soltanto". «Ecco», disse Jared, rivolto all'uomo dai capelli rossi che si trovava dietro il banco di Mike's Delicatessen, «io vorrei un bagel al sesamo - però, dovresti grattarmi via una parte dei semini - con un piccola spalmata di formaggio cremoso e un caffè... leggerissimo, con un cucchiaino di zucchero». «Amore», disse Sara, «perché, già che ci sei, non gli chiedi se può snocciolarti due olive?». «Ti prego, non fargli venire certe idee». Il rosso si mise all'opera. «Non conosco nessuno che per chiedere uno stupido bagel con caffè si dilunghi in tutti questi dettagli. Cos'è? Un'opera d'arte?». «Mikey, quando avrai finito, lo vedrai tu stesso», rispose Jared strizzando un occhio. «Non prendermi per i fondelli», tagliò corto Mikey, e si rivolse a Sara. «E la metà normale della famiglia che cosa desidera?». «Qualunque cosa di cui tu voglia sbarazzarti. Però dev'essere ben preparata... Voglio qualcosa di speciale». «Oh, ecco! È per questo che sei la mia preferita», intonò Mikey. «Niente complicazioni, nessuna richiesta assurda: cose normali, ragionevoli...». «È lei il gestore?», gli domandò, interrompendolo, una donna dai capelli bianchi che portava un paio di enormi occhiali. «In persona», rispose Mikey. «Posso aiutarla?». «Ne dubito. Voglio solo presentare un reclamo». Da una tasca della sua borsa piena di libri - modello "AMORE È... UN INSEGNANTE DI PIANO" - estrasse un tagliando e lo sbatté sul bancone. «Questo tagliando dice che posso avere uno sconto di un dollaro su una confezione di Cheerios gusto tradizionale. Ma controllando sugli scaffali ho visto che non ne avete più, e il tagliando scade domani». «Mi dispiace, signora. Come vede, il negozio è molto piccolo: non possiamo tenere grandi scorte. Se vuole, però, posso scontarle un dollaro su qualche altra varietà di Cheerios. Abbiamo i multigrain, quelli alle nocciole e al miele o al...». «Io non voglio un'altra varietà di Cheerios. Li voglio al gusto tradizionale», strillò la donna, inducendo tutti i presenti a voltarsi. «E non creda che non sappia come funzioni. Quando stampate questi tagliandi fate sparire la merce in offerta nel retrobottega, così i clienti non possono approfittarne». «Veramente, signora, non c'è abbastanza spazio per...».
«Si risparmi le sue scuse. La vostra è pubblicità ingannevole! E questo è illegale!». «Si sbaglia», dissero Sara e Jared all'unisono. Colta di sorpresa, la donna squadrò quei due che stavano aspettando i loro bagel. «No, che non mi sbaglio», insistette. «Distribuendo i tagliandi, questo signore fa un'offerta sui prodotti che vende». «Mi dispiace doverla contraddire, ma una pubblicità non è un'offerta», obiettò Sara. «A meno che non vi si specifichi una quantità esatta o chi è intitolato a goderne», aggiunse Jared. «Oh-oh», disse un uomo in coda alle spalle di Sara e Jared. «Sento puzza di avvocati». «Perché non vi fate gli affari vostri?», sibilò l'anziana donna. «E lei perché non lascia in pace il nostro amico?», ribatté Sara. «Nessuno ha chiesto la vostra opinione». «Neanche il nostro amico, allora, ha chiesto di essere trattato come una pezza da piedi», replicò Sara. «Essendo anch'io un'appassionata di Cheerios, posso capire il suo disappunto, ma certi atteggiamenti antipatici qui non attaccano. Qui adottiamo un approccio diverso: si chiama "comportarsi civilmente". Se lei non vuole partecipare, ne ha tutto il diritto, ma qui la regola è questa. Quindi, se non le va a genio, faccia come un tagliando e voli via!». Jared fece fatica a trattenere le risate; rivolta a Mikey, l'anziana donna ringhiò: «Non mi vedrà mai più in questo negozio». «Cercherò di sopravvivere», rispose Mikey. Sbuffando infuriata, la donna se ne andò. Mikey guardò i suoi due clienti preferiti. «"Faccia come un tagliando e voli via"?». «Be', scusami... Sono un po' nervosa». «Sei riuscita a farla andare via!», sottolineò Jared. «Esatto», concordò Mikey. «E quindi, oggi, la colazione la offro io». Quindici minuti dopo, Sara e Jared erano pigiati al centro di un vagone del metrò stipato al limite della capienza. Sara indossava il suo completo giacca-e-pantaloni blu, Jared una felpa con cappuccio della Columbia Law School e un paio di pantaloni corti da jogging. Grande fondista, sin dai tempi del liceo, Jared era ancora molto atletico, anche se la piccola chierica lo faceva sentire più vecchio di quanto non apparisse. Con i vestiti ben piegati in uno zainetto, ogni lunedì, mercoledì e venerdì cominciava la
giornata con una mezz'ora di corsa. «Non è male come inizio», disse Jared, schiacciato contro la moglie. «Il tuo primo giorno di lavoro deve ancora cominciare e hai già ottenuto la tua prima vittoria». «Non so», fece Sara, mentre il convoglio lasciava la fermata della 59th Street. «C'è una bella differenza tra un'insegnante di piano esaurita e dei veri criminali. E se la storia fa testo, questo lavoro sarà persino più sfigato del precedente». «Uno stupido incidente capitato in uno studio legale, per quanto famoso, non può minimamente scalfire il tuo valore sul mercato del lavoro». «E i sei mesi passati a cercare? Dai, Jared...». «Non mi interessa. Andrà benissimo». Sara alzò gli occhi al cielo. «E non fare quella faccia», aggiunse Jared. «So cosa stai pensando, e non è vero». «Ah, adesso credi addirittura di potermi leggere nel pensiero?». «Io non credo; io so leggerti nel pensiero». «Ah, davvero?». «Certo». «Okay, allora dimmi, tesoro: che cosa passa nella mia piccola mente sconvolta dal panico?». Jared chiuse gli occhi e prese a massaggiarsi ritmicamente le tempie. «Vedo una grande inquietudine, un grande nervosismo... No, aspetta! Vedo un marito bellissimo, intelligente, sportivo... Ehi, ehi, ehi! È proprio un tipo niente male...». «Jared...». «Esatto, è così che si chiama! Oh, mio Dio, stiamo avendo la stessa visione». «Non ho nessuna voglia di scherzare. Che cosa faccio se questo lavoro mi va male? L'articolo sul "Times"...». «Non ci pensare, al "Times". Diceva solo che il sindaco ha annunciato dei tagli della spesa nel bilancio in via di approvazione. Anche ammesso che li approvino, non significa che verrai licenziata. Se vuoi metterti il cuore in pace, però, telefona al giudice Flynn e...». «Te l'ho già detto ieri sera. Non lo chiamerò mai», lo interruppe Sara. «Se scelgono di tenermi, voglio che sia perché me lo merito, e non perché qualcuno mi ha raccomandato». Jared decise di non insistere. Da quando la conosceva, lei aveva sempre rifiutato trattamenti di favore o spintarelle sul lavoro. Il suo bisogno di indipendenza era troppo profondo: quando lo zio di Jared si era offerto di
mettere una buona parola per procurarle un colloquio presso lo studio legale in cui lui lavorava, Sara aveva declinato. Agli occhi di Jared la logica di Sara era folle e controproducente, ma lui sugli agganci prosperava, mentre lei li aveva sempre disdegnati. «Scusami, come non detto», disse infine Jared. «E poi, se dovesse andar male con questo lavoro, potresti sempre cercarne un altro». «No, è escluso», fece lei, recisa. «La mia povera psiche ha già subito troppe delusioni». «È esattamente quello che volevo dire», riprese Jared, cercando di rimediare. «Basta con le delusioni, per la tua povera psiche! Ti adoreranno, capiranno subito che sei un genio e, diversamente da Winick & Trudeau, non ti licenzieranno mai. Già da oggi, ti faranno vento con gigantesche piume, aspergendo essenze fresche come quelle delle salviette per neonati. Non dovrai più preoccuparti dei tagli della spesa e non avrai più il nodo allo stomaco». «Fammi capire», disse Sara, sorridendo affettuosamente. «Credi davvero a tutte le cose insensate che dici?». «Sono un avvocato. È il mio lavoro». «Già... Be', non rendi un gran servizio alla nostra categoria». «Ma tu non sei più avvocato, Sara. A partire da oggi tu sei procuratore distrettuale». «E con ciò? Vuoi dire che non sarò più avvocato?». «Una volta entrati in procura, ci si trasforma in vampiri. Si prova l'irrefrenabile desiderio di arrestare e segregare persone innocenti». «...disse l'uomo che aiutava i criminali a farla franca». «...disse l'ipocrita procuratore distrettuale». «...disse l'uomo che non avrà mai più un rapporto sessuale con sua moglie». Jared scoppiò a ridere. Il treno stava per fermarsi alla stazione della 50th Street. «...disse la donna che ha sempre ragione e mai torto e che non dovrebbe mai essere contraddetta». «Grazie», disse Sara. A quel punto, la baciò, indugiando sulle sue labbra. «Guarda che così non riuscirai a scendere», fece Sara ritraendosi. Le porte del vagone si richiusero. «Non preoccuparti», disse Jared. «Oggi la mia destinazione è downtown Manhattan». «Hai qualche lavoro da sbrigare in tribunale?».
«No», rispose lui con un sorriso equivoco. «Voglio esplorare un nuovo percorso per il mio jogging mattutino. Pensavo di partire dal tribunale per poi risalire fino al mio ufficio». «Ehi, aspetta! Vuoi dire che ti farai di corsa trenta isolati aggiuntivi solo per accompagnarmi al lavoro?». «È il tuo primo giorno, no?». Sara non poté trattenere un sorriso. «Be', non è necessario!». «Lo so», tagliò corto Jared. Scesi alla fermata di Franklin Street, Sara e Jared si mischiarono alle orde di pendolari che sovraffollavano le strade di New York. Era un mattino di settembre tiepido e sereno, soleggiato persino, per quel che è possibile tra gli incombenti grattacieli di Manhattan. «Tutto a posto?», domandò Jared. «Sì», rispose Sara. «Non sanno cosa li aspetta». «Ecco! È così che mi piaci». «Sono così tesa che potrei mettermi a litigare di nuovo, così su due piedi». «Okay, tesoro, ma non più di due volte al giorno, eh?». «Promesso», disse Sara. «Non più di due». Jared le diede un bacio fugace e lanciò un'ultima occhiata alla donna che amava. Quando l'aveva conosciuta, era rimasto affascinato dai suoi profondi occhi verdi, messi in risalto dalle espressive sopracciglia: gli era parso che la rendessero attraente, ma in modo discreto. Gli era piaciuta anche perché non portava trucco, fatta eccezione per una vaga ombra rosata. Ripensando a quell'immagine, Jared si voltò e si avviò di corsa. «In bocca al lupo!», gridò, girando indietro la testa, ormai lanciato verso West Broadway. «E fai vedere a tutti quanto sei in gamba!». Osservando il marito che si allontanava e salutava con la mano, Sara non poté fare a meno di ridere tra sé: "Che scemo!". E nel giro di un minuto, si rese conto di come lui si sbagliasse. Sara, ormai, era sola, e il nodo allo stomaco aveva cominciato a stringersi. Aggrappandosi a un ricciolo che le ricadeva dietro un orecchio, cercò di darsi un contegno. Sara era l'unico punto fermo in una marea di persone frenetiche, tutte con vestito scuro e borsa d'ordinanza. "Tutti avvocati", pensò. Raccogliendo le forze e stringendo i denti, si costrinse ad avanzare in direzione di Centre Street. "Sciogli il nodo! Sciogli il nodo! Sciogli il nodo", continuava a ripetere tra sé.
Al numero 80 di Centre Street, davanti al tetro edificio in mattoni che ospitava gli uffici della procura distrettuale di Manhattan, Sara seguì la mappa virtuale che aveva memorizzato e raggiunse l'ascensore sul retro del palazzo. Mentre attraversava il buio atrio marmoreo, le passò accanto una specie di esercito di uomini e donne in completo blu, che procedevano a passo molto sostenuto. Un uomo stracarico di fascicoli la urtò, proseguendo poi per la propria strada, inseguito da una donna in gessato. «Ricordati che alle due abbiamo l'udienza del caso Schopf!», gli urlò dietro quest'ultima. Un altro uomo, intento a spingere un carrellino sommerso di incartamenti, si faceva largo tra la folla gridando: «Permesso! Permesso! È urgente!». Per quanto andassero di fretta, a giudicare dalle occhiaie alcuni di loro, non dormivano da diversi giorni. Ma se si dubita che il lavoro di procuratore distrettuale aggiunto, a Manhattan, sia tra i più ambiti in assoluto, si tenga presente che solo per ottenere un colloquio la lista d'attesa è di oltre sei mesi. Osservando quelle drammatiche scenette, Sara si accorse che al panico, in lei, stava subentrando una sorta di eccitazione. Dopo sei lunghi mesi, la legge tornava a essere un che di animato e vivo. Proprio questa era la ragione per cui aveva sperato di trovare un posto in procura: nello studio per cui aveva lavorato in precedenza, con le vagonate di giovani avvocati blasé vestiti all'italiana che lo frequentavano, non aveva mai percepito tutto quel fermento. Per qualcuno, non era altro che caos. Per Sara, invece, era la suprema attrattiva di quell'impiego. Al settimo piano, Sara passò attraverso un metal detector e percorse un ampio corridoio dal pavimento rivestito con un tappeto di gomma blu sbiadito che evocò in lei il ricordo della sua vecchia scuola media. Mentre cercava la porta del suo ufficio, non poté fare a meno di notare che, in quel tortuoso corridoio, a qualsiasi appiglio disponibile, inclusi tutti i ganci degli attaccapanni, pendevano sacchetti di plastica da lavasecco a gettoni. "Non mi pare un segno di abbondanza di tempo libero", pensò, davanti alla porta contrassegnata dal numero 727, dipinto sul vetro traslucido incorniciato di quercia massiccia. La scrivania antistante l'ufficio era vuota. Ritenendo che non vi fosse motivo di attendere, Sara aprì la porta ed entrò. L'ufficio era esattamente come se l'era immaginato: un'ampia scrivania di metallo; un tavolo di fòrmica su cui era posato un vecchio computer; una poltroncina in similpelle dietro la scrivania; due sedie pieghevoli di metallo; due enormi schedari metallici; una libreria piena di ordinanze, di-
spositivi di sentenze e altri volumi d'argomento giuridico; e, infine, un attaccapanni con un sacchetto da lavasecco appeso a un gancio. Il tipico ufficio pubblico. «Tu sei Sara Tate, vero?». Un robusto giovanotto fece il suo ingresso nell'ufficio. «Esatto», rispose Sara. «E tu sei...». «Alexander Guff, il tuo APP». Notando lo sguardo interrogativo rivoltogli da Sara, aggiunse: «Ti assisterò nella preparazione dei processi». «Che cosa significa?». «Significa che farò qualunque cosa vorrai. Secondo l'interpretazione più riduttiva, sarei il tuo segretario, ma se vorrai accogliermi sotto la tua ala protettrice io sarò per te come Venerdì per Robinson Crusoe, come Jimmy Olsen per Superman, come Watson per Sherlock Holmes...». «Come il capitano per Tennille?». «Sì, qualcosa del genere», disse Guff ridacchiando. Questi era robusto, ma basso, con capelli neri a cespuglio che a Sara sembrarono una specie di mocio vileda. Il viso rotondo e il naso da pugile erano messi in risalto dalla postura scomposta, che lo faceva sembrare anche un po' gobbo. «So a cosa stai pensando», riprese Guff, a un certo punto, affondando le mani nelle tasche. «Non ho la gobba. È solo la posizione. Sono un ragazzo nervoso, e questo non è che un sintomo manifesto della mia ansia interiore. Per la cronaca, mi piace anche affondare le mani nelle tasche. Mi aiuta a pensare». «Fa' pure», disse Sara, stringendosi nelle spalle. «Sai una cosa? Mi sei già simpatica», disse Guff. «Osservi, parli chiaro e sembri tollerante. Buon segno. Andremo d'accordo». «Sei sempre così schietto?», domandò Sara. «Sono fatto così. A certi piace, altri non mi sopportano». «In poche parole», domandò Sara, prendendo posto dietro la scrivania, «io sarei il capo e tu il mio brillante assistente?». «Ti sembro davvero un tipo così banale?», fece di rimando Guff, prendendo una sedia e sistemandosi di fronte a lei. «Non ho ancora deciso. Va' avanti». Voleva domandargli dei tagli della spesa, ma ancora non era convinta di potersi fidare. E poi, non aveva intenzione di scoprirsi così presto. «Da quanto tempo abiti a New York City?», aggiunse, cercando di cavargli qualche altra informazione. «Da quando sono uscito dal college, cioè da poco più di due anni. Personalmente, preferirei abitare con i miei genitori e risparmiare qualche sol-
do, ma sto cercando di ribellarmi alla mia educazione da sobborghi residenziali». «Ah, davvero?», domandò Sara, poco persuasa. «E ti ribelli venendo a lavorare alla procura distrettuale?». «Certo che no. Questo lavoro lo faccio per campare. Cioè: guardami! Con il mio atteggiamento e i capelli incasinati che mi ritrovo, avresti mai detto che mio padre è dottore? È che mia madre fa parte di un car-pool?» «Smettila», disse Sara. «Mi sembra di sentire mio marito». «Ah, allora l'anello è vero...», fece Guff. «Da sei anni». Sara picchiettò sulla scrivania con la fede nuziale in platino e oro. «Lo vedi? È il mio destino. Tutte le migliori sono già prese. Dove la trovo più una ragazza sola, che non sia matta, che non mi incendi il futon, che...?». «...che sappia apprezzare un anarchico dei sobborghi residenziali che si crede più ribelle di quanto non sia?». Guff si mise a ridere, appoggiandosi allo schienale. «Senza offesa, Guff: escludo che l'intera popolazione femminile stia complottando ai tuoi danni». «Raccontalo alla mia collezione dei Beatles e al mio stereo svaniti nel nulla. La mia vita sembra dimostrare esattamente il contrario». «Oh-oh! Un caso di paranoia cronica. Non dirmi che sei anche un maniaco delle teorie della cospirazione...». «Dipende da cosa intendi tu per "maniaco". Non sono certo un fanatico delle trite cospirazioni continuamente riciclate da Hollywood, ma credo fermamente che vi siano dei fenomeni inspiegati e inspiegabili». «In che senso?», domandò Sara dopo un breve silenzio. «Codici segreti e cose del genere... Fidati di me!». Sara scosse la testa, divertita. «Non è colpa mia: dipende dalla mia educazione». «Su questo punto ti do ragione». «Ovvio. Ognuno è il prodotto della sua famiglia. A proposito, parlami un po' di te. Hai fratelli o sorelle? I tuoi genitori sono dei pazzi scatenati come i miei?». «I miei genitori sono morti quando frequentavo il primo anno della law school», lo interruppe Sara. «Tornavano da una gita in Connecticut; la loro macchina è slittata su una lastra di ghiaccio e si è scontrata frontalmente con un furgone. Sono morti sul colpo». «Oh, mi dispiace... Non volevo...».
«Non ti preoccupare», disse Sara, sforzandosi di far finta di nulla. «Non potevi saperlo». «Davvero, io non...». «Guff, ti prego, ho detto di non preoccuparti. Tutti abbiamo un ricordo che preferiamo non evocare. Questo è il mio. Ora, lasciamo perdere... e vedrai che ci divertiremo». Vedendo l'espressione dipinta sul volto di Guff, Sara si rese conto che il suo turbamento era sincero. Provava un evidente dispiacere per il fatto di averla ferita. Era il segnale che Sara aspettava: Guff era un bravo ragazzo, e lei poteva tranquillamente aprirsi. Inspirando profondamente, proseguì: «Che si dice, da queste parti, dell'articolo uscito ieri sul "Times"?». «L'hai visto anche tu, eh?». «Non promette nulla di buono, vero?». «Forse ti converrebbe parlarne con Monaghan», rispose Guff, dopo una breve pausa. Monaghan era il procuratore distrettuale in persona. «Non nascondermi la verità, Guff. Se sai qualcosa, parla». «So soltanto che il sindaco sta cercando di ridurre il numero degli impiegati municipali e ha annunciato tagli indiscriminati, che colpirebbero tutti i settori, senza eccezioni». «Vuoi dire che mi licenzieranno?». «Non ho certo sentito fare il tuo nome, ma quando cala la scure i primi a saltare sono sempre gli ultimi arrivati. E da quando ho messo piede qui dentro stamattina, ne ho sentite di tutti i colori... Secondo un tale che ho incontrato in ascensore, tutti i neo-assunti rientrerebbero automaticamente nella lista». «A me nessuno ha detto niente». Guff indicò la vaschetta di metallo posata sulla scrivania di Sara. «Mi dispiace, Sara». Sara prelevò l'unico foglio che c'era e lesse la circolare inviata a tutto lo staff della procura distrettuale di Manhattan. Il documento recitava: «Le recenti dichiarazioni del sindaco ci costringono ad affrontare il problema della riduzione del personale. Secondo consuetudine, i tagli colpiranno in misura proporzionale il personale di supporto, gli assistenti e i procuratori aggiunti. Sebbene tali decisioni siano di estrema gravità per chi dovrà essere licenziato, ci auguriamo che questa fase di ristrutturazione non pregiudichi il quotidiano lavoro della procura». «Non ci posso credere», sbottò Sara, con voce rotta. «Io non posso assolutamente perdere questo lavoro».
«Ti senti bene?», le domandò Guff. «Certo, sto benissimo», rispose lei, con poca convinzione. «È solo che non capisco... Perché proprio adesso?». «Vuoi scherzare? L'anno prossimo ci saranno nuove elezioni. Il sindaco non è scemo: sa di rischiare la poltrona. E colpendo tutti i settori in egual misura darà un'impressione di efficienza, di correttezza e di alacrità, tutto in un colpo solo. È una mossa politica». Sara intrecciò le mani dietro la nuca, cercando di massaggiar via la tensione. Tentò di riorganizzare le idee, ma la sua mente era in preda a un turbine. Era persino peggio del previsto: un colpo devastante per il suo orgoglio. "Perché deve succedere di nuovo?", si domandò. "Perché non è sempre tutto facile?". Sentendosi sommergere dall'autocommiserazione, Sara si rinchiuse nel silenzio. «Mi dispiace, non intendevo rovinarti la giornata così presto». Per un lungo istante, Sara tacque. Ma quando si rese conto di non poter restare lì tutto il giorno con il broncio, all'autocommiserazione subentrò l'impulso ad accettare la sfida. "Che cosa farebbe Jared?", si domandò. "No, lasciamo stare Jared. Sono problemi esclusivamente miei. Sono affari miei, e non vanno neppure così male", pensò. "Ho visto di peggio, di molto peggio. In questo caso, se non altro, non c'è nulla di definitivo. E poi, qui almeno non sono sola. Qui posso usare il cervello. L'ha detto anche Jared che sono in gamba, che sono la più in gamba di tutti". Sara si voltò verso Guff e ruppe il silenzio. «Secondo te, quando comincerà Monaghan a dare attuazione alla circolare?». «Forse una settimana, o due. Perché?». «Voglio sapere quanto tempo ho a disposizione». «Si direbbe quasi che tu abbia in mente un piano». «Nient'affatto. Però mi ci sono voluti sei mesi per trovare questo lavoro, e non intendo farmi cacciare senza opporre resistenza». Colpito dalla determinazione della sua superiore, Guff domandò: «E allora che cosa facciamo?». «Devi dirmelo tu», rispose Sara. «Sei tu quello che lavora qui». «So soltanto che tu hai il corso d'orientamento fino all'ora di pranzo, mentre io ho un appuntamento dal dottore nel pomeriggio. Quindi, probabilmente, dovremo aspettare fino a domattina per discutere sul da farsi». «Fantastico...», sospirò Sara, gettando un'occhiata all'orologio appeso al muro. Nuovamente rivolta a Guff, riprese: «Quante probabilità ho, secondo te?».
«Devo essere sincero?». «Certo». «Allora, mettiamola così: se fossi uno scommettitore...». Guff si interruppe. «Be'? Allora?». «Punterei i miei soldi su un altro cavallo». Era ormai pomeriggio quando Sara fece ritorno in ufficio, ma sul suo volto trapelavano già evidenti segni di stanchezza. Per tutte le quattro ore di corso d'orientamento, una semplice introduzione al funzionamento della procura distrettuale, Sara non aveva smesso un solo istante di domandarsi chi sarebbe stato, tra i presenti, il primo a essere licenziato. Continuò a interrogarsi anche in ufficio, sprofondata nella sua poltrona, ma non fece quasi in tempo a tirare il fiato che squillò il telefono. «Pronto», rispose Sara. «Allora?». Era Jared. «Come va? È tutta la mattina che ti cerco». «Il fatto è che nella prima ora di lavoro ho scoperto di essere già candidata al licenziamento». «Ti hanno licenziata?». «Non ancora... Monaghan, però, ha annunciato dei licenziamenti, e tutti credono che io sarò tra i primi della lista». «E chi l'ha detto?». «Il mio assistente...». «E che cosa ne sa, il tuo assistente?». «...l'addetto del corso di orientamento», proseguì Sara, «la donna che mi ha aiutato a compilare tutti i moduli, il procuratore che ho dovuto controinterrogare durante un finto processo, i quattro avvocati che ho incrociato...». La voce di Sara si incrinò, e gli occhi le si riempirono di lacrime. «Io non sono come te, Jared... A me non va sempre tutto liscio. È per questo che la gente mi considera una fallita». «Ehi, ehi, ehi...», obiettò Jared. «Nessuno ti considera una fallita. E poi, tu non c'entri: è colpa dei tagli». «Sì, ma adesso devo ricominciare tutto daccapo», disse Sara. «Ricerche, colloqui, porte in faccia...». «Shhh, calmati», disse Jared. «Sarai fantastica». «Sei l'unica persona che lo pensa». «Non è vero. Pop mi ha chiamato stamattina per sapere se avevi già vinto il tuo primo caso».
«Jared, stai parlando di mio nonno. Non è esattamente un giudice imparziale». «Non importa. Sarai fantastica comunque». «No, non credo. Non sono pronta per...». «Hunter College, magna cum laude». «Sai che roba! In una piccola città...». «E la Columbia Law School, allora?». «I miei genitori hanno pagato il rettore per farmi ammettere». «Non è vero», disse Jared. «Ma, anche se l'avessero fatto, non hai forse avuto ottimi risultati?». «Be', mi pare». Sara si alzò di scatto dalla sedie e girò intorno alla scrivania. «Maledizione, perché mi piango addosso in questo modo? Mi sembra di essere una liceale. Cambiamo argomento. Che cosa succede da te, invece?». «Nulla», fece Jared. «Ne parliamo in un altro momento». Sara restò perplessa. «No, parliamone adesso». «Non è così importante». C'era sotto qualcosa. «Jared, non fare così, per favore». «In che senso?». «Non nascondermi delle buone notizie solo perché sei preoccupato per me». «Non ti nascondo nulla. Non è che sia una cosa...». «Visto? Lo sapevo. Adesso, sputa». Sia pur riluttante, Jared si arrese. «Al ritorno dalla pausa-pranzo, Wayne è venuto da me e mi ha detto che sono, testuali parole, "sul binario giusto"». «Wayne?», domandò Sara, elettrizzata. «Vuoi dire: Thomas Wayne, uno dei boss dello studio? Ti ha detto quando prenderanno una decisione al riguardo?». «A quanto dicono, potrei diventare socio entro i prossimi sei mesi... sempre che riesca a procacciare un numero di clienti sufficiente». «È stupendo», esclamò Sara. Jared tacque. «Non mi dirai che hai paura di non trovare i clienti, vero?», aggiunse lei. «È per questo che non ne volevo parlare...». «Jared, apprezzo i tuoi riguardi, ma sono ancora in grado di tenere a mente due cose in una volta. Smettila con le mezze parole e spiegami: che ne è dell'elenco che avevamo stilato? Devi ancora contattare qualcuno?».
«No, ho fatto tutto. Le nostre associazioni di ex studenti, la camera di commercio, la sinagoga, la chiesa, l'ostello della 92nd Street, il partito democratico, quello repubblicano, il Kiwani Club, il Rotary, i Maghi del toast... ho messo annunci sui loro bollettini, ho chiesto il permesso di partecipare ai loro incontri... Non capisco perché non stia funzionando». «Amore, lo so che non sei abituato alla trafila riservata ai comuni mortali, però ci sono cose in cui il successo non è garantito. Non è colpa tua». «Non sono d'accordo. Dev'esserci qualcosa che mi sfugge. Forse, la prossima volta, per non dare l'impressione di essere una specie di piazzista aggressivo e zelante dovrei vestire un po' più casual». «Non la smetti mai, vero?». «Be', voglio capire bene. C'è sempre una soluzione». «Ehi, cos'è questa improvvisa disinvoltura?». «Io sono sempre disinvolto». «Jared, tu porti i pantaloni di tela e la camicia con le maniche arrotolate solo perché tuo padre lo ha sempre fatto e continua a farlo». «Questo non significa che io non sia disinvolto. E poi, il look "pantalone largo - manica di camicia arrotolata" è elegante, è impeccabile, è in». «Senza offesa, caro, ma tu non hai la più pallida idea di che cosa sia in. E se non ci fossi io, tu saresti uguale da tutti i lati». «Mi stai dando dell'inquadrato?». «Dico soltanto che non stiamo affrontando il nostro problema». In quel momento, Guff entrò canticchiando nell'ufficio di Sara: «C'è qualcuno che vuole salvare il posto di lavoro, qui?». «Un attimo», gli disse Sara, dopo aver posato la mano sul microfono della cornetta. Quindi, rivolta a Jared, aggiunse: «Scusami, ma devo scappare». «Tutto bene?». «Sì... almeno, lo spero», rispose. «Comunque, grazie per aver ascoltato il mio sfogo». «Scherzi? È un piacere». Sara posò la cornetta e guardò il suo assistente. «Ehi, ragazzi, ho fatto una domanda: c'è qualcuno che vuole salvare il posto di lavoro?» «Che ci fai, qui?», domandò Sara. «Credevo dovessi andare dal dottore». «Ho appena saputo che al settore Trasporti hanno già mandato a casa trecento persone, così ho pensato di spostare l'appuntamento. Ho l'impressione che la situazione si stia evolvendo troppo rapidamente per poterti la-
sciare da sola in balìa degli eventi». «Come facevi a sapere che non sarei uscita a pranzo?». «Ancora una volta, devo ringraziare quel demone maligno che io chiamo ragionamento deduttivo: visto che eri così determinata a non farti buttare a mare, ho immaginato che saresti rimasta qui a strapparti i capelli. E a giudicare dai tuoi occhi rossi, mi sa che ho indovinato». «Sei furbo, per essere uno che viene dai sobborghi residenziali». «I centri commerciali sono una perfetta scuola di vita. Allora, sei pronta? Ho un'idea per salvare il tuo posto di lavoro». «Davvero?», domandò Sara. «Non lo sapremo mai se resteremo tutto il giorno qui seduti». Sara gettò la circolare di Monaghan nel cestino. «Guff, ti sono veramente grata per aver rimandato l'appuntamento dal dottore. Non dovevi». «Ascolta: stamattina tu mi hai trattato da pari a pari, e per me è molto importante. Considerato che nella stragrande maggioranza dei casi le donne che incontro non mi cagano, credo che ti sarò fedele per la vita. Dài, andiamo». Sara lo seguì. «Dove?». «In tribunale, qui vicino. Un vero procuratore aggiunto ha sempre un caso da seguire». CAPITOLO DUE Seduto nel suo impeccabile e super-equipaggiato ufficio, Jared fissava il telefono ultimo modello posato sulla scrivania. «Dai, merda! Squilla!». «Guarda che così non funziona», disse Kathleen, la sua segretaria entrando nella stanza con un mazzo di carte sotto il braccio. «Finché resterai a fissarlo, non suonerà mai». Tre settimane prima, Kathleen aveva compiuto trentacinque anni, sebbene il viso pieno di lentiggini e i capelli liscissimi e lunghi fino ai fianchi inducessero a dargliene al massimo trenta. Aveva lavorato come avvocato da Wayne & Portnoy per quasi sette anni, ma un'improvvisa avversione per la vista del sangue l'aveva costretta a orientarsi verso la carriera di segretaria. Erano quattro anni che lavorava al fianco di Jared, e se la cura da lui dimostrata per la pulizia e l'organizzazione lo rendevano un superiore molto esigente, Kathleen si piccava di essere ancora più maniacale di lui. Secondo la battuta che girava in ufficio, Kathleen era così paurosamente ordinata che riusciva persino ad ammaestrare la polvere. Alcuni ritenevano che la devozione di Kathleen per Jared e-
sprimesse amore per l'ordine, ma altri la consideravano un segno inequivocabile della piccola cotta che lei aveva per il suo capo. L'ufficio di Jared rispecchiava il gusto del suo soggiorno di casa: confortevole, elegante, bello e pieno di cimeli cinematografici. Jared aveva sviluppato la passione per gli oggetti pop ai tempi in cui studiava storia e frequentava un corso opzionale di cinematografia. Per la laurea, i suoi genitori gli avevano regalato un manifesto originale di The Big Sleep, con Humphrey Bogart, ed era stato amore a prima vista. Nel suo ufficio, due erano i poster cinematografici incorniciati: uno del classico Ladri di biciclette; l'altro dell'edizione francese di Manhattan, di Woody Alien. Sul tavolo di fòrmica situato dietro la sua scrivania, campeggiava un vecchio trofeo conquistato a Yale, quando faceva parte della squadra di corsa campestre e su strada. Maniaco della competizione, Jared era sempre stato, a sua memoria, un grande podista. Non gli importava della velocità: non era uno sprinter. Era molto più attratto dalla gradualità delle gare sulla lunga distanza e dalle strategie necessarie ad affrontarle. Quel trofeo l'aveva vinto al primo anno di college, in occasione di una gara internazionale organizzata dall'università di Madrid. Dei trecento americani invitati alla competizione, Jared era stato l'unico che si fosse preoccupato di indagare sulle caratteristiche del percorso. Con alcune telefonate ad hoc e una visita a un'agenzia di viaggi, aveva scoperto che gli urbanisti, nel tentativo di promuovere la Spagna come sede di futuri Giochi Olimpici estivi, avevano rifatto il manto di una serie di strade del centro, sostituendo l'asfalto con un pavé turisticamente più attraente. Jared e i suoi compagni di squadra avevano così potuto allenarsi per mesi sulle strade più dissestate di New Haven, riuscendo poi, in gara, a sbaragliare la concorrenza. L'approccio di Jared alla corsa era logico, razionale, pragmatico: questa attività fisica gli serviva per affinare le sue abilità intellettive. Era la sfida intellettuale ciò che lo stimolava a competere, lo stesso movente che lo aveva spinto a studiare legge. Una volta uscito dalla law school, infatti, si era messo a correre per diventare socio di qualche studio legale. «Posso farti una domanda?», disse Jared, con gli occhi ancora incollati all'apparecchio. «Procacciare clienti è sempre così difficile o sono io che non sono capace?». «Che cosa dice Sara?», domandò Kathleen. «Che è difficile». «E tu che cosa pensi?».
«Penso di non essere capace». «Be', non voglio sentire altro. Mi rifiuto di discutere l'argomento». Jared la guardò. «Perché devi sempre fare così?». «Jared, ricordi com'è andata a finire l'ultima volta che ho manifestato un'opinione diversa dalla tua? Volevi un consiglio sul regalo da fare a tua madre per il suo compleanno: Sara e io avevamo proposto saponette e sali da bagno profumati; tu, invece, propendevi per un bouquet di fiori. Ci hai fatto impazzire per almeno una settimana, comprando tutte le riviste femminili esistenti e facendo di tutto per convincerci che ci sbagliavamo. Alla fine, non contento di essere riuscito a dimostrare persino una stupidaggine del genere, hai insistito finché non ci siamo convertite alla tua idea». «Però avevo ragione: i sali da bagno, quell'anno, non andavano di moda». «Non è questo...», disse Kathleen, ma subito si bloccò. Non era compito suo rimproverarlo. Dopo un po', però, aggiunse: «Se si tratta di lavoro, di questioni legali o di un caso importante, adoro vederti impegnato nelle tue ricerche; quando si tratta di pareri personali, invece, non mi piace essere l'oggetto dell'indagine». «Insomma, concordi con Sara nel dire che...?». «Ti prego, Jared, smettila di sospettare dei consigli altrui. Sara ha dimostrato di saper affrontare problemi piuttosto seri. Sa quello che dice e ti conosce bene». «Okay, allora tu pensi davvero che...?». «L'unica cosa che penso davvero è che tua moglie sia una donna in gamba. E siccome neanch'io sono tanto scema, non vedo ragione per farmi coinvolgere nelle tue contorsioni. Ora, possiamo lasciar perdere la questione e tornare a occuparci del caso?». «Hai ragione», concordò Jared, lanciando un'ultima occhiata al telefono. «A che ora avrebbe dovuto chiamare?», domandò Kathleen. «Venti minuti fa, ma non m'importa del ritardo... Voglio soltanto ricevere l'informazione che mi serve prima dell'arrivo di Hartley». Jerry Hartley era il legale che patrocinava la causa intentata contro la Rose Microsystems con l'accusa di discriminazione sessuale. Rose era uno dei clienti più importanti di Jared, e sebbene Hartley avesse in mano ben poco, Jared sapeva che nei casi di discriminazione era sempre necessario procedere con i piedi di piombo. «Ebbene, qual è la strategia?», domandò Kathleen. «Data la situazione, farò di tutto perché il caso non approdi in tribunale.
Patteggiamento o morte». «E se Hartley rifiuta di patteggiare?». «Nessun avvocato rifiuta il patteggiamento. Dobbiamo soltanto trovare Barrow». «Sarà anche il tuo investigatore privato preferito, ma sembra sparito dalla faccia della Terra», disse Kathleen. «Per non parlare che dell'ultimo quarto d'ora, l'ho chiamato in ufficio, a casa, sul cellulare, sul teledrin, e gli ho spedito anche un fax. Avrei mandato un piccione viaggiatore, se avessi avuto l'indirizzo». Kathleen aprì la cartelletta che aveva in mano. «Forse è il caso di contattare qualcun altro: ho un elenco di quattordici detective, sei poliziotti col doppio lavoro e tre informatori di polizia. Sono tutti disponibili e affidabili». «Barrow lavora a questo caso da una settimana. Fidati: lo conosco... Si farà vivo». Prima ancora che Kathleen potesse obiettare alcunché, il telefono di Jared si mise a squillare. «Jared Lynch», fece lui. «Sì. No. Accompagnalo di sopra». Riagganciò e si passò una mano tra i capelli ben tagliati. «È arrivato Hartley...». «E tu non hai l'informazione che ti serve», aggiunse Kathleen. «Esatto». Erano diretti al numero 100 di Centre Street, e Sara faticava a tenere dietro a Guff, che filava a rotta di collo. Incuneandosi nel flusso di avvocati che di norma facevano la spola tra un edificio e l'altro, Guff spiegò: «Questo palazzo non ospita soltanto la maggior parte delle aule del tribunale, bensì anche l'UAC». «L'UAC?», domandò Sara, perplessa. «Non preoccuparti, vedrai». Guff infilò l'ingresso dell'edificio. Superati i controlli di sicurezza, si avviarono decisi verso un ascensore. Mentre le porte stavano per richiudersi, qualcuno interpose un braccio e le fece riaprire. Era un uomo alto, dai capelli sale e pepe tagliati alla marine, che, prendendo posto in cabina, squadrò Sara da capo a piedi. «Ehilà, Victor, che piacere vederti!», disse Guff. «Mmm», fece Victor per tutta risposta. Con il suo completo blu scuro stirato di fresco e la cravatta blu e rossa di Hermès, perfettamente annodata, Victor faceva un figurone. Nel tentativo di sciogliere l'imbarazzo, Guff riattaccò. «Victor, voglio presentarti Sara Tate. Sara, ti presento Victor Stockwell». Sara e Victor si
scambiarono un cenno. «Sara lavora qui da ieri. La sto portando all'UAC per insegnarle i trucchi del mestiere». «Ti conviene insegnarglieli alla svelta», disse Victor. «Stanno per licenziare sessanta persone». «Sessanta?», domandò Sara, mentre le porte dell'ascensore, giunto al secondo piano, si aprivano. Victor scese e Sara e Guff lo seguirono. «Chi ti ha detto che sono sessanta?», gli domandò Guff. «Elaine», rispose Victor, «la segretaria del procuratore distrettuale. In questa cifra, però, sono compresi anche gli impiegati, non solo i procuratori». Si voltò verso Sara. «Se fossi in te, comunque, non disferei neanche i bagagli. Le matricole saranno le prime a saltare». «Grazie», mugugnò Sara, irritata dal consiglio di Victor. «È inutile indorare la pillola», aggiunse Victor; quindi, allontanandosi, disse: «Ci vediamo più tardi». Quando Victor fu abbastanza lontano da non poter sentire, Sara disse: «Cos'è? Faceva l'allenatore delle cheerleaders prima di diventare procuratore?». «Oh, non prendertela. È fatto così», rispose Guff. «È un ex marine: non riesce a non fare il duro con le nuove reclute. Gli sembra di tornare ai bei tempi del militare». «C'è qualche possibilità che venga licenziato lui al mio posto?», domandò Sara. «Neanche una su mille ziliardi. Victor è probabilmente il miglior pubblico ministero del nostro ufficio, se non di tutto lo stato di New York». «Questo bullo dall'aria tenebrosa? E le giurie si bevono quello che racconta?». «Sarà anche gelido e antipatico, ma in tribunale lo adorano», rispose Guff. «È venerato dai giurati e dai testimoni; i giudici gli vengono a mangiare in mano. È davvero incredibile». «E quale sarebbe la ragione?». «È onesto fin quasi alla brutalità», disse Guff, in tono neutro. «Troppi avvocati sparano cazzate di ogni tipo, nella speranza che almeno una attacchi. Victor, invece, si basa esclusivamente sui dati di fatto che ha a disposizione, né più né meno. Se non è riuscito a dimostrare qualcosa, è il primo ad ammetterlo; se invece ci è riuscito, non si perde in inutili sottolineature. La gente rimane così colpita dalla sua onestà, che non può fare a meno di innamorarsene. Sarà anche spigoloso, ma sono vent'anni che dà prova di
grande maestria in questo gioco». «Insomma, è proprio bravo...». «Eh, già... Il migliore», concluse Guff. Quindi, spalancò una porta su cui campeggiava la scritta UAC. «Benvenuta all'Ufficio Assegnazione Casi», annunciò, mentre attraversavano la reception. Guff salutò una segretaria e si diresse verso uno degli uffici che si aprivano in fondo a quella sala. Fece entrare anche Sara e richiuse la porta. «Dunque è qui che vengono assegnati i casi?», domandò Sara. «Esatto», confermò Guff, prendendo posto dietro una scrivania. «Anche se nessuno lo sa, questo è il cuore pulsante della procura distrettuale. Qui vengono vagliati in prima istanza quasi tutti i reati commessi in città: qualcosa come 125.000 casi ogni anno. Quando qualcuno viene arrestato, l'agente di polizia responsabile compila un modulo apposito in cui spiega la ragione dell'arresto. Questi moduli vengono poi inviati qui all'UAC, dove un supervisore - uno dei procuratori aggiunti più anziani - assegna i casi a quelli come te. «Ovviamente, l'assegnazione non avviene a caso, bensì in base all'esperienza del procuratore aggiunto: i casi migliori toccano, in genere, ai più esperti. Tu, quindi, essendo alla prima settimana di lavoro, otterrai probabilmente un piccolo, stupido caso di cui non frega niente a nessuno». «Se non altro, avrò un caso su cui lavorare», disse Sara. «È pur sempre qualcosa». «Sì, ma non basta», riprese Guff. «Tutti possono ottenere un caso. A New York, di merda ce n'è in abbondanza, ma i crimini sono come le donne: ce n'è quanti ne vuoi, ma trovarne uno davvero degno di nota è difficilissimo». «E, allora, come faccio a procurarmi un buon caso?». «Domanda pertinente. Ti dirò, in tutta sincerità, che occorre svelare uno dei segreti meglio custoditi della procura», spiegò Guff, mentre Sara ascoltava con attenzione. «Bisogna eludere l'UAC e trovare qualcuno che ti affidi il caso prima ancora che arrivi in questo ufficio». «E dove lo trovo uno che sia disposto ad affidare un caso a una nuova arrivata?», domandò Sara. «È questo il problema», ammise Guff. «A volte, se l'agente che ha compiuto l'arresto è realmente interessato al caso - poniamo, ad esempio, che il suo collega sia rimasto ferito - scavalca l'UAC e assegna il caso a un procuratore aggiunto di cui si fida. Oppure può capitare che un giudice affidi un determinato caso a un procuratore da lui ritenuto adatto al compito».
«Siamo sicuri che è tutto legale?». «È una specie di grande cospirazione dell'ufficio, ma è così che funziona: è la punizione dei reati più gravi ciò che alimenta la fiducia della gente nel sistema, ed è proprio questa fiducia il miglior deterrente contro il crimine». «Il discorso mi intriga, ma dove lo trovo un poliziotto o un giudice disposto ad affidarmi un caso?». «Non lo troverai mai», disse Guff. «Al tuo livello, l'unica persona in grado di aiutarti è la segretaria dell'UAC, l'ape regina in persona. È lei che riceve materialmente i verbali redatti dai vari distretti, li esamina uno per uno, li pinza insieme al modulo apposito e li consegna al supervisore dell'UAC». «È kosher?». «Non saprei, di preciso, però è così che funziona». «Insomma, credi che la cosa migliore da fare, per me, sia questa?». «Senza ombra di dubbio. Se ti assegnano un caso e tu riesci a portarlo in aula, i pezzi grossi capiranno che non scherzi. Io sono troppo in basso nella scala gerarchica per poter arrivare a un giudice o a un detective disposti ad affidarti un incarico. Però so come si fa per procurarsi un caso importante attraverso i canali consueti: sii carina con la segretaria, e vedrai che ti passerà qualcosa. A quel punto, non dovrai far altro che portare il caso in tribunale e vincere». Lentamente, un sorriso affiorò sulle labbra di Sara. «Settecentomila dollari?», domano Jared, incredulo. «Ma come puoi anche solo pensarla, una cifra del genere?». Sapeva che Hartley gli avrebbe chiesto un mucchio di soldi per chiudere il caso, ma non immaginava che potesse arrivare a tanto. Quand'anche si fosse trattato della classica esagerazione finalizzata a spuntare una metà della cifra iniziale, trecentocinquantamila dollari erano comunque quasi il doppio di quello che il cliente di Jared era disposto a spendere. «Be'», fece Hartley, passandosi una mano tra i sottili capelli che viravano ormai al grigio, «non mi sembra una cifra così assurda». «Hartley, se io presento un conto del genere, mi fanno a pezzi. Sai benissimo anche tu che si tratta di una quantità di denaro esorbitante». «Cosa vuoi che ti dica? Il caso è serio. Se la mia richiesta è così esosa, allora fammi una controfferta». Jared era stato autorizzato a pagare fino a duecentomila dollari, ma lui
sperava addirittura di risparmiare qualcosa. Con qualche elemento in più a disposizione, sapeva di poter scendere a cinquantamila. L'unico problema era che questi elementi ancora non li aveva. «Non so», disse Jared, nel tentativo di prendere tempo. «A queste condizioni, allora, è meglio andare in tribunale. Sai benissimo anche tu che la tua cliente ha avuto una reazione spropositata...». «E anche se fosse? Vi conviene riflettere sull'opportunità, per voi, di arrivare in aula. Queste vicende generano immancabilmente una montagna di pessima pubblicità». Jared cambiò espressione e lanciò una gelida occhiata al suo interlocutore. «Sai una cosa, Hartley? Sto scoprendo un aspetto di te che non conoscevo. Tu ammetti implicitamente che la causa è priva di reale fondamento, ma accetti di patrocinarla perché sai che i casi di discriminazione fruttano un mucchio di soldi». «Non giudicarmi, figliolo. Tu hai la tua famiglia da sfamare; io ho la mia». «Non sono tuo figlio, e non intendo prendere in considerazione neanche l'ipotesi di avvicinarmi a settecentomila dollari. Ti conviene spararne un'altra». «Sembro nervosa?», domandò Sara, asciugandosi le mani sui pantaloni blu del suo completo. «"Nervosa" non è la parola giusta», rispose Guff. «Direi piuttoso "apparentemente calma, ma terrorizzata nell'intimo"». «È normale. C'è in gioco il mio posto di lavoro». «Non pensare al posto di lavoro. Hai memorizzato bene il piano d'azione?». «Certo. Tu me la presenti, io attacco bottone e lei mi affida un incarico». «Perfetto». Guff aprì la porta dell'ufficio ed entrò in anticamera. «Ci siamo». Seduta dietro una piccola scrivania di quercia situata nell'area della reception, Evelyn Katz era immersa, gomiti sul tavolo, nella lettura delle sue carte. Sapendo che, in genere, i procuratori tornavano dalla pausa-pranzo intorno alle due, lei esaminava con grande rapidità gli ultimissimi verbali arrivati, preparandoli per la distribuzione. «Ciao, Evelyn», disse Guff, avvicinandosi alla sua postazione. «Come va, oggi?». «Ci conosciamo?», domandò Evelyn.
«Sono Guff, uno degli APP che lavorano al numero 80. Ero assistente di Conrad Moore, ricordi? Volevo presentarti il mio nuovo capo». Mentre Sara si avvicinava alla scrivania di Evelyn, Guff aggiunse: «Lei è Sara Tate. È arrivata oggi, e non era ancora venuta all'UAC». «Congratulazioni a entrambi», fece Evelyn, tornando a occuparsi dei fogli che aveva sotto mano. Guff non ebbe il tempo di riattaccare discorso, perché nell'ufficio fece il suo ingresso un uomo in divisa verde oliva con una pila di nuovi verbali appena giunti. «Di nuovo?». «Il pomeriggio è ancora giovane», profetizzò l'uomo, andandosene. «Ci vediamo presto». La porta si richiuse, Evelyn infilò i verbali nell'apposita vaschetta e riprese il lavoro interrotto, continuando a ignorare Guff e Sara. Sara guardò Guff e poi si rivolse alla segretaria: «Mi scusi, non vorrei disturbare. Il fatto è che sono nuova, qui, e...». «Ascoltami bene», la interruppe Evelyn, posando la cucitrice. «Lo so che sei nuova, qui, e so anche che ti piacerebbe avere un buon caso a cui lavorare. Il fatto è che io non ti conosco. Quindi, se ti aiutassi a eludere la fila, farei un torto a un sacco di persone che mi sono più simpatiche di te e che, per giunta, mi scocciano molto di meno». Sara, imbarazzatissima, non sapeva più cosa dire: «Mi scusi, non volevo seccarla... sto solo cercando di salvare...». Di nuovo, la porta dell'UAC fu aperta, ma non dall'uomo in divisa verde oliva, bensì da Victor Stockwell. Avanzando ad ampie falcate, Victor guardò Sara e disse: «Non ti hanno ancora licenziata?». Sara si sforzò di sorridere. «Incredibile, vero? Sono riuscita a resistere altri venti minuti buoni». «Ehilà, Vic», fece Guff. Visto che questi non gli rispose, Guff aggiunse: «Come ti voglio bene! Ti amo! Ti adoro!». Senza degnarlo di uno sguardo, Victor si avviò verso l'ufficio del supervisore UAC. Evelyn raccolse una pila di verbali già pronti e lo seguì. Quando Evelyn se ne fu andata, Sara si sporse sulla sua scrivania. «Pazzesco...». «Poteva andare peggio», commentò Guff. «E come? Peggio di così è impossibile». «Be', potevano metterti al rogo, o farti bere la cicuta. Potresti avere la pellagra... questo sì che sarebbe brutto!».
«Non scherzare, Guff», implorò Sara. «Lascia fare a me: andrò a supplicare Victor. Magari, si impietosisce e ci aiuta». Prima ancora che Sara potesse sollevare obiezioni, Guff era già entrato nell'ufficio del supervisore. Rimasta sola, Sara chiuse gli occhi e provò a massaggiarsi le tempie. Ancora una volta, la porta si aprì. Era l'uomo in divisa che consegnava i verbali. «Dov'è Evelyn?», domandò, con il nuovo mazzetto di fogli in mano. «È in quell'ufficio con Victor», spiegò Sara. Mentre l'uomo posava i verbali nell'apposita vaschetta, Sara domandò: «C'è qualcosa di interessante, tra quei casi?». «Non ne ho idea», rispose l'uomo. «Nella cartelletta, però, c'è una richiesta di affidamento a Victor. Puoi star sicura che è roba buona». Su una cartelletta, in cima alla pila di carte, era attaccato un post-it giallo su cui era scritto: «RICHIESTA DI AFFIDAMENTO A VICTOR STOCKWELL». «Buon per lui, ma per me non c'è niente?», domandò Sara. «Lasciami indovinare: sei in cerca di un buon caso per impressionare il tuo capo, vero?». «Più o meno...». «Allora, questa città non ti ha proprio insegnato nulla? Se vuoi una cosa, prenditela!». «Non capisco», disse Sara. «Quel caso», fece l'uomo, indicando la cartelletta, «se vuoi, può essere tuo». «In che senso? C'è scritto che è per Victor». «Non c'è scritto che è per Victor: è solo una richiesta. Significa che all'agente che ha compiuto l'arresto piacerebbe, se fosse possibile, che il caso venisse assegnato a Victor». L'uomo si guardò intorno, per accertarsi che non ci fosse traccia di Evelyn. Quindi, tornò a rivolgersi a Sara. «Se c'è la richiesta per Victor, è sicuramente un buon caso. Secondo me, ti conviene prenderlo». «Sei ammattito?», domandò Sara. «Non posso farlo! Non è destinato a me». «Non è destinato a nessuno. Deve ancora essere smistato». «Ma c'è la richiesta per Victor...». L'uomo staccò il post-it dalla cartelletta e lo appallottolò. «Adesso, non più. Non c'è nessuna richiesta». «Aspetta...».
«Su metà dei verbali c'è scritto "richiesta di affidamento a Victor", ma lui - credimi - non può seguirli tutti. E poi, Victor è un pezzo di merda. Se gli sfugge qualche caso importante, gli sta solo bene. Se ne hai davvero bisogno, prendi quella cartelletta e basta!». «Non so...», fece Sara, nervosa. «Ascolta, la vita è la tua. Io non voglio spiegarti come ti devi comportare», disse l'uomo, avviandosi alla porta. «Di certo, però, Victor non ne sentirà la mancanza. Ha per le mani decine di casi». Uscendo, aggiunse: «Ti faccio i miei migliori auguri». Trovandosi nuovamente sola nella stanza, Sara adocchiò la cartelletta ormai priva di contrassegni. Era come paralizzata. "È sicuramente un ottimo caso", pensò. "Victor non se ne accorgerà neanche". Incerta sul da farsi, ascoltava gli echi della conversazione tra Guff e Victor. A quanto pareva, Victor non aveva intenzione di fornire il suo aiuto. «Non è colpa mia», stava dicendo Victor. «È la vita». Pochi secondi dopo, Guff ricomparve sulla porta. «Cosa c'è che non va?» domandò, notando l'espressione corrucciata di Sara. Sara indicò la cartelletta. «Il fattorino ha detto che è sicuramente un buon caso». «Oddio», fece Guff, con un vago sorriso, «non starai mica pensando di prenderlo senza dir nulla, vero?». Sara non rispose. «Sei sicura che sia un buon caso?». «Be', praticamente, sì», rispose lei. «Perché? Che cosa pensi?». «Prendilo, senza pensarci due volte. Fidati di me: se vuoi un buon caso, puoi star certa che qui non te ne daranno». Dalla reception, Sara capì che Evelyn stava per congedarsi. Si avvicinò ulteriormente alla scrivania. «Non dovrei farlo». «Però lo farai», la incitò Guff. «Prendilo, e vìa! È un attimo!». Sara afferrò la cartelletta. «Spero di non finire nei guai». «Non succederà nulla», la rassicurò Guff, mentre uscivano a razzo dalla stanza. Quando Evelyn tornò al suo tavolo, Guff e Sara non c'erano più. Con loro era sparita anche la cartelletta destinata a Victor Stockwell. «Insomma, non mi sei stato a sentire, nell'ultima mezz'ora, oppure proprio non hai capito?», domandò Jared. «Quattrocentomila dollari è una cifra lontanissima da quella su cui io posso trattare. Se la metti su questo
piano, allora dovremo davvero vederci in tribunale». «Jared, io mi sto stufando», sospirò Hartley. «Prima dici che vuoi trovare un accordo, e poi punti i piedi a ogni passo». «Per forza! Tu continui a sparare cifre assurde. C'è...». Jared fu interrotto dal trillo elettronico del suo telefono. A Kathleen aveva dato istruzioni precise: doveva interromperlo solo se avesse chiamato Barrow. Lenny Barrow era il migliore tra gli investigatori privati utilizzati da Jared. Se i pubblici ministeri avevano a disposizione interi distretti di polizia, con agenti e investigatori pronti a scovare ogni sorta di informazione a danno dell'inquisito, gli avvocati della difesa erano costretti a rivolgersi, per il lavoro da segugi, agli investigatori privati. Da una settimana Barrow era alla ricerca di informazioni sul conto della cliente di Hartley. Jared ridacchiò tra sé, convinto di avere già in mano la carta per indurre l'avversario a più miti consigli. "Come al solito, la ricerca paga", pensò. Alzando la cornetta, Jared giunse a chiedersi se cinquantamila dollari non fossero persino troppi. Forse, venticinquemila più le scuse formali sarebbero bastati. Oppure, venticinquemila e basta. «Jerry, vuoi scusarmi un attimo?», disse Jared, portandosi la cornetta all'orecchio. «Pronto». «Jared, sono io», disse Barrow, all'altro capo del filo, con la sua solita voce calma. «Credevo ti fossi dimenticato.... Ci sono novità?». «A dire il vero, no. Non ho trovato niente di losco, di strano o di men che pulito. Quella donna fa una vita noiosissima». «Benissimo», commentò Jared, come se stesse ricevendo buone notizie. «Appena riagganciato, glielo dico». «Hartley è lì nel tuo ufficio?», domandò Barrow. «Sì», disse Jared, con un sorriso. «Ce l'ho proprio di fronte». «C'è un'altra cosa che voglio dirti. Siccome ti voglio bene, ho fatto anche un po' di lavoro extra. L'uomo a cui Hartley ha intentato causa, il tuo cliente...». «Be'?». «È uno stronzo schifoso. Nell'ultima ditta per cui ha lavorato, quattro donne lo hanno denunciato, e in due casi le accuse si sono rivelate fondate. È una fortuna che Hartley non abbia buoni amici come me, perché - per come stanno le cose - prevedo guai». «Fantastico», disse Jared. «Non potevo sperare di meglio». «Mi spiace, capo», disse Barrow. «E porgi i miei saluti a Hartley e a Sara».
«Ci puoi contare. E grazie di tutto», concluse Jared. Riagganciò e rivolgendosi a Hartley si sforzò di sorridere. «Scusami, mi stavano dando delle informazioni a proposito della tua cliente... Ora possiamo tornare alle nostre cifre». Sara e Guff filavano per il corridoio. «Fammi vedere», disse Guff. «Non qui», rispose Sara, guardandosi le spalle: «In ascensore». «Wow! Sono sicuro che è un caso importante. Un omicidio brutale, magari. Anzi, meglio: un duplice omicidio». «Cerca di controllare la tua sete di sangue», implorò Sara. L'ascensore era vuoto quando Sara e Guff vi entrarono. Guff premette ripetutamente il pulsante: «Dài, chiuditi, chiuditi, chiuditi!». A porte finalmente chiuse, Sara aprì la cartelletta e cercò immediatamente lo spazio riservato alla "descrizione del reato". Sia pure a fatica, Sara riuscì a decifrare la pessima calligrafia dell'agente che aveva effettuato l'arresto. «Oh, no! Non può essere vero... Ti prego, dimmi che ho letto male», disse, passando il documento a Guff. «Perché? Cos'è?». Mentre Guff consultava il verbale, Sara disse: «Incredibile. Non è un duplice omicidio, e neanche singolo. Neppure un'aggressione. Un tale di nome Kozlow è stato acchiappato mentre cercava di infilarsi in casa di qualcuno sulla Upper East Side. Il mio futuro è affidato a uno stupido, insignificante caso di furto con scasso. A mano disarmata, per giunta». «È un reato da nulla», osservò Guff, quand'erano ormai quasi al pianterreno. «Però, guardiamo all'aspetto positivo: adesso, hai un caso su cui lavorare». «Mah...», fece Sara, mentre uscivano dall'edificio. «Spero solo di non essermi cacciata nuovamente nei guai». Victor era in piedi davanti alla scrivania di Evelyn. «Dovrebbe esserci un verbale indirizzato a me. L'imputato si chiama Kozlow». «Kozlow, Kozlow, Kozlow...», ripeté Evelyn, sfogliando i documenti che aveva in mano. «Qui non lo vedo. Mi dispiace». «E tra quegli altri, lì?», domandò Victor, sprezzante, indicando la vaschetta portadocumenti di Evelyn. Lei sfogliò anche il mazzetto di verbali appena arrivato, ma non trovò quello richiesto da Victor. «Niente, mi spiace». «È un caso di furto con scasso. L'imputato si chiama Kozlow».
«Ho capito, l'hai già detto», disse Evelyn, «ma non lo vedo. Hai controllato che non ce l'abbia qualche altro procuratore?». «Ascoltami bene», sibilò Victor, con un'occhiata cattiva. «Chi è che fa le domande, qui? Io o tu? Anzi, la questione è ancora più semplice: chi di noi due è il supervisore UAC?». «Scusami, non intendevo...». «Non mi interessa quello che intendevi... Mi interessa soltanto trovare quel caso. Quindi adesso ti metti a cercare quel verbale, e non smetti finché non lo trovi. Capito?». CAPITOLO TRE «E adesso che cosa facciamo?», domandò Sara, seduta nel suo ufficio, con gli occhi fissi al verbale dell'arresto di quel Kozlow. «"Che cosa facciamo?"», fece Guff, stupito. «Che razza di domanda è mai questa?». «Insomma, questo caso è una schifezza... Come faccio a sbarazzarmene? Non posso restituirlo? Non posso portarlo indietro e farmene dare un altro?». «Una volta che l'hai preso, non puoi più restituirlo. È come quando si compra un paio di pantaloni e li si fa accorciare; se ci hai messo mano, non puoi riportarli indietro». «Ma questi pantaloni io non li ho toccati. Li ho solo tolti dallo scaffale». Agitando il verbale, Sara urlò: «Sono intatti, capito?». «Be', non li puoi restituire comunque. Non li puoi cambiare e non puoi riavere i soldi». «Perché?». «Perché se tutti facessero così, i piccoli reati - che in questa città sono la maggioranza - non verrebbero mai perseguiti. Tutti i procuratori resterebbero in attesa dei casi più interessanti». «Guff, sarò sincera: me ne frego. Io devo trovare una soluzione. Non posso tornare all'UAC, lasciare la cartelletta sul tavolo della segretaria e dire che il fattorino me l'ha consegnata per errore?». «Forse, è possibile», congetturò Guff. «Sempreché...». Il telefono di Sara si mise a squillare. «"Sempreché" che cosa?», domandò Sara, ignorando il telefono. «Sempreché la segretaria non si sia ancora accorta che il verbale è sparito. Ma se lo scopre...».
«Scusami un attimo», disse Sara, alzando il ricevitore. «Pronto». «Sara, sono Evelyn, dell'UAC. Non è che hai per le mani un caso di furto con scasso, di cui è imputato un certo Kozlow? Se l'hai preso tu, devi dirmelo. È importante». «Puoi attendere un attimo?», domandò Sara. Mise Evelyn in attesa e guardò Guff. «Siamo nei guai». «Duecentocinquantamila?», domandò Marty Lubetsky, avvampando per la rabbia. «Che diavolo di accordo sarebbe, questo?». «Se consideriamo i termini della questione, credo che non sia poi così male», spiegò Jared, cercando di mettere in luce gli aspetti positivi della trattativa condotta con Hartley. «Lui è partito da settecentomila». Marty Lubetsky era il socio di Wayne & Portnoy addetto alla supervisione dei conti della Rose Microsystems. «Non me ne frega un cazzo di quello che loro chiedevano: avrebbero potuto chiedere anche settecento milioni di dollari, per quel che mi riguarda. Il tuo lavoro consiste nel tirare al ribasso fino alla cifra stabilita dal nostro cliente. Da questo punto di vista hai fallito miseramente». Arrabbiato con se stesso, per aver cercato di spiegarsi, Jared tacque. Lubetsky non voleva saperne, di spiegazioni. A lui piacevano i risultati. E quando i risultati non arrivavano, gli piaceva mettersi a sbraitare. E quando sbraitava, gli piaceva farlo senza interruzioni. Il silenzio di Jared, quindi, si protrasse per dieci minuti circa. «Maledizione, Jared, se avevi bisogno di aiuto, perché non l'hai chiesto? Adesso sono inculato, ci farò la figura del coglione, senza tener conto del fatto che hai superato di cinquantamila dollari il tetto fissato da Rose». «Ho precisato che l'accordo era subordinato al consenso di Rose».. «Me ne frego delle tue precisazioni. Non possiamo ricacciare il genio nella lampada». Dopo un ulteriore, breve silenzio, Jared ribatté: «Non so cosa dire. Ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità. Con questo accordo credo comunque di aver agito nel rispetto degli interessi di Rose. Se vuoi, mi incarico io di informarlo». «Ci puoi scommettere che sarai tu a dirglielo. Visto che dovranno pagare di tasca loro, voglio che sappiano chi devono ringraziare». Incapace di sostenere lo sguardo di Guff, Sara era intenta a scarabocchiare con la matita. Davanti a sé, aveva lo schizzo di una persona sulla
forca, penzolante da un cappio. Sotto l'impiccato, Sara aveva disegnato quattro piccoli riquadri che riempì con le quattro lettere del suo nome: Quando ebbe finito, prese a pugnalare l'impiccato con la matita, di cui finì per spezzare la punta. «La vuoi smettere di autoflagellarti?», domandò Guff. «Questo caso non era neppure destinato a me». «Non era destinato a nessuno. E poi - se può servire a farti star meglio te l'avrebbe chiesto con più convinzione, se davvero ne avesse avuto bisogno». «Non ha insistito solo perché sa che è una fregatura». «O mangi 'sta minestra o salti dalla finestra, capo. E adesso smettila di farti del male». «Hai ragione. Riflettiamo sulla prossima mossa. Basta con l'autocommiserazione». «Ecco, è questo il giusto atteggiamento che...». «Un'ultima cosa», lo interruppe Sara. «Lo sai qual è il risvolto più ridicolo?». «No, dimmelo tu». «Il risvolto più ridicolo è che tutto questo non mi servirà comunque a salvare il posto di lavoro! Ho pescato il più insignificante e inutile caso giudiziario di tutta la città, e come se non bastasse finirò lo stesso in un mare di guai!». Prendendo finalmente fiato, Sara spostò il verbale riguardante Kozlow su un lato della scrivania. «Kozlow-Sara 1 a 0», sentenziò Guff. «Non è affatto divertente», riprese Sara. «Con un'unica mossa idiota, ho danneggiato la mia carriera e mi sono fatta un nemico tremendo». «Non preoccuparti per Evelyn: le passerà alla svelta». «Chi se ne frega di Evelyn: io sto parlando di Victor». Guff si irrigidì. «Victor lo sa?». «Immagino di sì. Evelyn mi ha detto che era stato lui a chiederle notizie del verbale. Perché? È grave?». «In parole semplici: nella lista delle persone che è meglio non far mai arrabbiare, Victor è al primo posto». «Dobbiamo chiedere aiuto. Non conosci qualcuno che sia amico di Victor? Magari potrebbe aiutarci a sistemare le cose». «Dammi il tempo di fare qualche telefonata», disse Guff, uscendo di corsa dall'ufficio. L'improvviso congedo di Guff fece calare il silenzio. Sara scrutò la stan-
za perlopiù spoglia e fu assalita da un senso di vertigine. Con la sensazione che le pareti le si serrassero intorno, chinò la testa sul tavolo, nella speranza di sfuggire alla realtà. Per quasi un minuto, sembrò funzionare. Poi, però, lo squillo del telefono la fece risprofondare nei suoi problemi. «Pronto», rispose. «Se ci sono brutte notizie, non voglio sentirle». «A quanto pare, il tuo pomeriggio non è diverso dal mio», disse Jared. «Già, ma io forse sono riuscita a peggiorare ulteriormente le cose». Dopo aver raccontato a Jared della sottrazione del caso destinato al procuratore che li distribuiva, Sara aggiunse: «Adesso mi ritrovo tra le mani questo caso insignificante e, per giunta, non riuscirò neppure a salvare il posto». «C'è una cosa che non mi è chiara, però», disse Jared. «Se è un caso così stupido, perché era indirizzato a un pezzo grosso del vostro ufficio?». «Evidentemente, chi ha eseguito l'arresto voleva che se ne occupasse lui». «Ne sei sicura?». «Che vuoi dire?», domandò Sara, rialzando la testa. «I poliziotti non sono stupidi. Sanno benissimo che i pezzi grossi non si occupano di casi insignificanti». Sara ricapitolò mentalmente la situazione. «In effetti, non ci avevo pensato», disse, con una voce da cui trapelava una certa eccitazione. «Per quel che ne so, questo caso potrebbe anche essere una miniera d'oro». «Sara, fai attenzione. Non riporre troppe speranze nel...». «L'hai detto tu», fece Sara. «Dev'esserci una ragione per cui questo verbale era indirizzato a Victor». «Aspetta: Victor chi? Victor Stockwell?». «Sì, lo conosci?». «Di fama». «Comunque, una cosa è ormai certa: non è una coincidenza che il verbale fosse indirizzato a Victor». «D'altra parte, non è detto che il caso sia importante», chiosò Jared. «Altrimenti, sarebbero venuti a riprenderselo». «Se anche non fosse abbastanza importante per Victor, non è detto che non debba esserlo per me». «Non illuderti», consigliò lui. «Ne hai parlato con il tuo assistente? Magari, lui ha qualche idea». «Questo è l'altro aspetto», disse Sara, sgonfiandosi non poco. «A Guff ho raccontato di aver sottratto il verbale, ma non gli ho detto che era indirizzato a Victor».
«Perché no?». «Non lo so». «Dai, Sara, non cercare di darmela a bere». «Il fatto è che lui di me si fida. E io non voglio perdere la sua fiducia». «D'accordo, ma devi cambiare mentalità. Occupati di questo caso e fa' di tutto per portare a casa una vittoria. Secondo me, è l'unica cosa che puoi fare per salvare il posto». «Hai perfettamente ragione. Da questo momento in poi, si combatte». Quando posò la cornetta, Sara si rese nuovamente conto del silenzio che regnava nella stanza. Ma invece di sentirsene intrappolata, cercò di affrontarlo. "Ecco", pensò, "devo cambiare mentalità, altrimenti soccomberò". Si alzò e si avvicinò alla scrivania di Guff. «Buone notizie, per caso?». «Ancora no, per il momento», rispose Guff. «Come mai sei così pimpante?». «Ho deciso che è ora di darsi da fare». «Davvero? E a cosa dobbiamo questo repentino cambiamento?». «Solo a un pizzico di sano realismo; eppoi, per quanto possa suonare incredibile, sento che questo caso potrebbe riservare delle belle sorprese». Con i pugni stretti intorno alle sbarre della sua cella, Tony Kozlow faticava a tenere bassa la voce. «Che significa "ha rubato il verbale"?». «Vuol dire che se l'è fregato, mi spiego?», disse Victor, a una spanna di distanza dalle sbarre. «Se n'è impadronita. Il verbale è arrivato alla segretaria, lei l'ha visto e l'ha preso. Secondo me, ha visto che c'era su il mio nome è ha creduto che fosse un caso importante. Il problema è che, invece, si è presa una seccatura». «Non cercare di prendermi per il culo», disse Kozlow. Capello scuro, pizzetto nero e giubbotto nero di pelle a tre quarti, Tony Kozlow corrispondeva a un tipo che in procura avrebbero definito "rognoso". Di infima educazione ed estremamente irascibile, Kozlow era visibilmente seccato dal tono di Victor. «Rafferty lo sa?». Victor si irrigidì. «Non ancora. Non sono riuscito a trovarlo. Anzi, la vera ragione per cui mi trovo qui... è che pensavo fosse venuto a farti visita». «Rafferty che viene a far visita a me?», domandò Kozlow, sogguardandolo incredulo. «Perché non scopri dov'è e poi non riprovi a chiamarlo?». Avvicinandosi con calma alla cella, Victor fece scivolare un braccio tra due sbarre e serrò una mano dietro il collo di Kozlow. «Ascoltami bene», disse Victor, premendogli la faccia contro l'inferriata. «Non dirmi quello
che devo fare, capito? Non lo sopporto». Infuriato, Kozlow imitò il gesto di Victor, afferrandolo per un orecchio e attirandolo con violenza contro le sbarre. «Credi che basti, come minaccia?», urlò Kozlow. «Se riprovi a toccarmi, ti stacco la testa!». Nel giro di alcuni secondi, la guardia più vicina raggiunse la cella e liberò Victor dalla presa di Kozlow, colpendo quest'ultimo con la punta del manganello alla bocca dello stomaco e mettendolo in ginocchio. «Si sente bene?», domandò il secondino a Victor. Senza rispondere, Victor voltò le spalle alla cella di Kozlow e abbandonò l'area di detenzione. «Che diavolo di accordo è mai questo?», urlò Joel Rose. «È il massimo che potevamo spuntare», disse Jared, con gli occhi chiusi e la cornetta del telefono stretta tra orecchio e spalla. Jared sapeva, componendo il numero, di doversi preparare al peggio. A Lubetsky non erano affatto piaciuti i termini dell'accordo da lui raggiunto con Hartley, ma Joel Rose, presidente e amministratore delegato della Microsystems, era colui che avrebbe pagato, e la cosa, a lui, piacque ancora meno. Facendo del suo meglio per sembrare soddisfatto dell'esito, Jared disse: «Se poi consideriamo quale sarebbe l'alternativa, non si può dire che sia una cifra esagerata». «Ah, davvero?», fece Rose. «Be', saresti così gentile da ripetermela?». «Duecentocinquantamila dollari». «Adesso, ascoltami, Jared. Questo numero è composto da nove sillabe. E siccome quante più sono le sillabe, tanto più alta, in genere, è la cifra, nove sillabe equivalgono comunque a un bel mucchio di denaro. Quindi, ti domando: ti sembrano pochi duecentocinquantamila dollari?». «Signor Rose, so bene che lei non intendeva pagare così tanto, ma le assicuro che si tratta di un accordo equo; mi creda, avrebbe potuto andare molto peggio». «Crederti?», sbottò Rose. «Guarda che qui non siamo mica ai boy scouts, siamo... Anzi, fa' una cosa: passami Lubetsky. Sono stufo di avere a che fare con gli imbecilli». «Sei sicuro che funzionerà?», domandò Sara, prendendo posto dietro la scrivania. «Quando Conrad dà la sua parola, puoi star certa che la mantiene», rispose Guff.
«Raccontami qualcosa di lui». «Conrad Moore è un pubblico ministero formidabile, uno dei più rispettati di tutta la baracca. Ma soprattutto è la persona per cui ho lavorato quando sono arrivato qui. Mi affidai a lui per un consiglio e lui disse che sarebbe stato felice di darmelo». «Fantastico», disse Sara. «Grazie, Guff». «Aspetta a ringraziarmi, almeno finché non lo incontri. È un tipo piuttosto intenso». «Che significa "intenso"?». «Negli ultimi quattro anni, Conrad ha portato in aula più casi di chiunque altro, in questo ufficio. È imbattibile, da questo punto di vista». «Come mai?». «Semplice: non ha mai accettato un patteggiamento. Se hai commesso un reato, lui ti sbatte in galera. Punto. Niente trattative, niente sconti di pena, niente attenuanti. E poiché si occupa di casi importanti, può permettersi di farlo». «Se è così occupato, come farà a trovare il tempo per aiutarmi?». «So solo che ha appena finito di svezzare un'altra persona; appena ha' mostrato la minima disponibilità, ho colto la palla al balzo». «Comunque sia, non importa. Quando si comincia?». Guff consultò l'orologio. «Ha detto che avrebbe chiamato più o meno...». Il telefono di Sara cominciò a squillare. «Più o meno adesso, stavo dicendo», concluse Guff, con un ghigno di soddisfazione e il braccio ancora all'altezza del petto. «Pronto», disse Sara, dopo aver alzato la cornetta. «Non si risponde così al telefono», disse la voce all'altro capo del filo. «Qual è il tuo lavoro, ora?». «Chi parla?», domandò Sara. «Sono Conrad Moore. Guff mi ha detto che hai bisogno di aiuto. Vuoi dirmi, adesso, qual è la tua funzione, qui?». «Sono procuratore distrettuale», balbettò Sara. «No che non sei un procuratore distrettuale», disse Conrad, in tono reciso. «In TV e al cinema sono tutti procuratori distrettuali, ma nella realtà, di procuratore distrettuale ce n'è uno solo: Arthur Monaghan. Il nostro capo. E, sempre nella realtà, tu sei un procuratore aggiunto. E quando rispondi al telefono, la persona che chiama deve immediatamente capire con chi ha a che fare. Mi spiego?».
Sara si sentì sbattere il telefono in faccia. Cinque secondi dopo, il telefono suonò di nuovo. Un po' esitante, Sara sollevò la cornetta. «Pronto, ufficio del procuratore aggiunto», disse. «No!», urlò Conrad. «Questa è la prima impressione che offri di te. Vuoi che pensino di avere a che fare con la segretaria? Come fai di cognome, Sara?». «Tate». «Ecco, può bastare. In questi uffici abbiamo a che fare con i criminali. E a differenza degli studi legali per cui finora hai lavorato, qui non abbiamo bisogno di estendere la nostra clientela: noi vogliamo ridurla. Quindi, non abbiamo bisogno di essere gentili. Noi vogliamo essere cattivi. Vogliamo che la gente sia terrorizzata all'idea di aver commesso un reato. Non dobbiamo fare gli amiconi con nessuno. D'ora in poi tu sei il procuratore aggiunto Tate. E basta». Di nuovo, Conrad riagganciò. Altri cinque secondi, e il telefono di Sara squillò una terza volta. «PROCURATORE AGGIUNTO TATE! CHI CAZZO È?». «Così va bene», disse Conrad. «È proprio questo il tono intimidatorio che ci vuole». «Sono contenta. Ma ci incontreremo mai di persona, o continueremo per sempre a comunicare via telefono?». «Vieni qui subito», disse Conrad, con voce nettamente più cordiale. «Sono in fondo al corridoio, uscendo dal tuo ufficio a destra. Stanza 755». Posando la cornetta, Sara guardò Guff e tirò un sospiro di sollievo. «È fatta. Vieni anche tu?». «Scherzi? È tutto il giorno che attendo questo momento», disse Guff. «Be', che cosa ne dici?». «È certamente un tipo piuttosto aggressivo», rispose Sara, imboccando il corridoio. «Spero solo che riesca a toglierci da questo guaio». Victor procedeva a passo spedito in Centre Street, ansioso di rientrare in ufficio. Gli impegni pomeridiani gli avevano sottratto più tempo del previsto, cosicché non era ancora riuscito a mettersi in contatto con Rafferty. Ma proprio mentre attraversava la strada, davanti al vecchio Palazzo di giustizia federale, il suo telefonino si mise a squillare. Era il cellulare privato di Victor, il cui numero, utilizzato solo per casi di emergenza, era peraltro ignoto alla procura distrettuale. Estrasse il telefonino e rispose: «Chi è?». «Chi è?», ripeté Kozlow, imitando la voce sostenuta di Victor. «Come
va, Vic? È un po' che non ti schiaccio la faccia tra le sbarre...». Victor si bloccò a un passo dal marciapiede. «Come sei riuscito a chiamarmi?». «Ehi, una telefonata è un diritto di tutti, stronzo. Lo so persino io. Se poi aggiungi che il signor Rafferty è una persona molto generosa, capirai che posso arrivare dovunque... Mi sono spiegato?». «Perché ti ha dato questo numero?». «Non è per niente contento di te, Vic. Le cose non stanno andando secondo i patti». Victor diede un'occhiata in giro. Nessuno dei passanti era abbastanza vicino da sentire. «Allora, perché non mi ha chiamato lui?». «Perché non ha voglia di parlare con te. Vuole sapere soltanto cosa dobbiamo fare». «Non contate più su di me», disse Victor, reprimendo a fatica la rabbia. «Con voi ho chiuso. Vedetevela da soli». «Non è così che si fa». «Invece, sì. Io sono intervenuto per fare un favore al nostro comune amico, ma adesso mi chiamo fuori». «Potresti sempre fare in modo di occuparti tu del caso...». «Te l'ho detto: io ho chiuso. La mia agenda è già abbastanza piena di impegni. Oltre a ciò, non ho certo bisogno di mettere a repentaglio la mia carriera. Capito, piccolo esaltato?». Dopo un breve silenzio, Kozlow ringhiò: «Dimmi solo una cosa: come ci dobbiamo regolare?». «È facile», disse Victor. «Rafferty deve fare in modo che tu venga assolto. Se ti condannano, il tuo boss è fregato. Quindi, se fossi in lui, farei delle indagini sul neo-procuratore aggiunto incaricato del caso. È con lei che dovrete vedervela». CAPITOLO QUATTRO Fuori dall'ufficio di Conrad, Sara lesse le due iscrizioni che ne ornavano la porta: «Crimine ab uno disce omnes» (Virgilio)» e «La fama va conquistata; l'onore non va mai perduto» (Arthur Schopenhauer)». Sara si voltò verso Guff e sollevò perplessa un sopracciglio. «Com'è che l'hai definito? Intenso?». Guff sorrise e bussò sul vetro smerigliato. «Avanti!», ruggì una voce da dietro la porta. Entrarono.
Conrad era in piedi dietro la sua scrivania, intento a riordinare alcune carte. Era più basso di come Sara se l'era immaginato: un uomo di altezza media, piuttosto tozzo, ma forte. Con quei suoi capelli nerissimi e i penetranti occhi castani incuteva timore anche di persona. Un cordiale e simpatico sorriso, però, ne addolciva l'aspetto minaccioso. «Conrad, ti presento Sara Tate». Sara si protese per stringergli la mano. «Piacere». «Prego, sedetevi», fece Conrad, dando l'esempio. «Sara, Conrad è l'incubo ricorrente di ogni criminale». «Già», disse Sara. «Guff mi ha detto che hai molto lavoro». «Non mi lamento, e neppure me ne vanto», disse Conrad, appoggiandosi all'indietro. «Nel campo della giustizia penale, l'America sarà anche il paradiso dei collegi di difesa superpagati, ma per quel che mi riguarda sono altri quelli che si salveranno dall'inferno». «Ti riferisci a noi?», domandò Sara. «Ovvio. Per ogni processo che vinciamo, c'è almeno un criminale che viene tolto dalla circolazione. Può sembrare una banalità, ma noi siamo realmente impegnati a rendere questa città più sicura per tutti. È questa la motivazione fondamentale del nostro lavoro». Incrociando le mani dietro la nuca, Conrad aggiunse: «Ma dimmi un po', Sara: perché hai lasciato lo studio legale per cui lavoravi? Hai sicuramente rinunciato a uno stipendio annuo di centinaia di migliaia di dollari per venire qui...». «Che importanza ha il mio ex stipendio? Credevo che volessi aiutarmi per la questione del mio caso». «Lo farò, infatti», confermò Conrad. «Prima, però, rispondi alla mia domanda». «Be', diciamo che i soldi erano tanti, ma il lavoro era terribile. Nei sei anni che ho trascorso in quello studio legale, ho partecipato a due soli processi. Il resto del tempo l'ho trascorso in archivio a spulciare carte e a redigere istanze d'ogni tipo». «Insomma, ti sei stufata e hai deciso di passare dalla parte dei buoni?». «Non esattamente. Quel lavoro non mi entusiasmava, ma nel giro di un anno o due avrei dovuto diventare socio. Le sofferenze patite sembravano finalmente sul punto di essere ricompensate, e allora decisi di tenere duro. Sta di fatto che - per riassumere una lunga e penosissima vicenda - al momento della verifica biennale del mio operato, mi dissero che non ritenevano di poter accettare la mia candidatura a socio. Secondo loro non avevo i requisiti necessari per entrare a far parte, a pieno titolo, del loro studio».
«Ma è questa la ragione del tuo licenziamento?». «No, il fatto è che...». Sara si interruppe. «Come fai a sapere che sono stata licenziata?». «Sono nove anni che sto in questo ufficio», rispose Conrad, piccato. «Conosco gente in ogni singolo studio legale della città, compreso quello in cui lavoravi tu». «Hai preso informazioni sul mio conto?». «Ascolta: Guff mi ha chiesto di aiutarti. Gli sei simpatica, anche se non so perché. In ogni caso, se devo insegnare a qualcuno i trucchi del mestiere, puoi star certa che prima di iniziare voglio capire con chi ho a che fare». «Perché, allora, mi fai questa domanda, se già conosci la risposta?». «Per vedere se sei una bugiarda», disse Conrad, in tono secco. «Comunque, la sto ancora aspettando, la tua risposta». «Con tutta la gente che conosci, non sei riuscito a scoprirlo da te?», domandò Sara. Conrad sorrise. «Mi hanno detto che ti piaceva litigare». «Altroché se le piace litigare!», esclamò Guff. «Però», aggiunse Conrad, «voglio conoscere anche la tua versione dei fatti». «Che ne diresti, allora, di tenerla da parte per un altro giorno?», propose Sara. «Ho già ampiamente esaurito la mia quota di imbarazzo quotidiana». «Mi sembra giusto», acconsentì Conrad. «Passiamo al tuo problema, allora. Vuoi sapere come procedere nella causa?». «No, questo lo so. Il fatto è che non so se Victor mi consentirà di farlo». «Se Victor e Evelyn sanno che il caso è in mano tua, e ancora non ti hanno chiesto di restituirlo, puoi stare tranquilla: non te lo toglie più nessuno. Che ti piaccia o meno, adesso te lo tieni». «Credi che Victor mi metterà i bastoni tra le ruote?». «Sarà sicuramente seccato, ma non me ne preoccuperei più di tanto. Tutti i supervisori fanno così: difendono il territorio». «Se lo dici tu...», disse Sara, senza però aver capito per quale ragione la cartelletta fosse indirizzata a Victor. «E se questo caso fosse di infima importanza?», domandò Guff. «Credi che sia sufficiente per salvarle il posto?». «Anche se fosse, ormai non ha più importanza», disse Sara. «Brava», disse Conrad. «Se il tuo scopo è quello di far colpo sul capo, qualcosa è sempre meglio di niente». Si alzò dalla sua poltroncina e si av-
viò alla porta. «Ora, muoviamoci». «Si va a imparare a combattere il crimine», disse Guff. «Devo portare la cappa e la spada?», domandò Sara. «Come?», fece Conrad. «Oh, niente...», disse Sara. Seguendo Conrad, aggiunse: «Dove andiamo?». «All'UAC», rispose Conrad. Notando, di sfuggita, che Sara portava la fede nuziale al dito, aggiunse: «Ti do un altro consiglio: fai sparire quell'anello». «Cosa?». «Hai capito benissimo: togliti quell'anello. Ora, tu sei un pubblico ministero, e ti farai nemiche un mucchio di persone cattive. Meno cose queste persone sanno sul tuo conto, meglio è. Fidati: loro sanno sempre trovare il modo di usare contro di te anche la più piccola informazione». Tornando verso il suo ufficio, con una barra al cioccolato presa nel bar interno allo studio, Jared non vedeva l'ora che quella giornata finisse. Prima Hartley, poi Lubetsky, infine Rose: il pomeriggio era stato un susseguirsi di rampogne e brutte figure professionali. Avanzando lungo il serpeggiante corridoio dalle pareti rivestite di pannelli di ciliegio. Jared si sforzò di dimenticare le recenti traversie per concentrarsi sul suo bene più prezioso: Sara, l'unica persona di fronte a cui tutto assumeva un carattere relativo. Provò a figurarsi come avrebbe reagito lei alla scenata di Rose, e ridacchiò tra sé. Sara non avrebbe mai sopportato simili angherie. Avrebbe aspettato che Rose tacesse, dopodiché l'avrebbe letteralmente sbranato. L'avrebbe fatto pentire amaramente della sua arroganza. In effetti, era per questo che Jared l'amava. Lei faceva cose di cui lui era assolutamente incapace. Nel loro rapporto, se Jared aveva il ruolo del punto di riferimento stabile e affidabile, Sara interveniva con un pizzico di follia e con la sua grande spontaneità. A poco a poco, Jared cominciò a rilassarsi. All'improvviso, però, si sentì toccare la spalla. «Posso parlarti un istante in privato?», disse Thomas Wayne, indicando il proprio ufficio. Thomas Wayne era socio fondatore dello studio Wayne & Portnoy, e solo di rado accadeva che egli scambiasse qualche parola in privato con chi non fosse almeno socio. Con i suoi due metri di altezza, Wayne torreggiava sulla maggior parte dei dipendenti dello studio, il che aveva dato adito alla voce secondo cui egli non assumesse nessuno che non fosse più basso di lui. Ovviamente, tale voce non rispondeva a verità,
ma Wayne, che non disdegnava di ammantarsi di un'aura semidivina, non fece mai nulla per smentirla o contraddirla. A suo modo di vedere, erano proprio certe voci il migliore alimento della leggenda; e se mai Thomas Wayne aveva avuto un'ambizione - ebbene, era quella di diventare una leggenda. «Mi hanno detto che non è stata una bella giornata», disse Wayne, richiudendosi alle spalle la porta dell'ufficio. «Di certo, non è stata la migliore che io ricordi», ammise Jared. «Può darsi», riprese Wayne, prendendo posto dietro la grande, ma non sontuosa, scrivania in noce. «Il nostro studio, però, non è stato costruito con giornate come queste. Devi capire, Jared, che per poter diventare soci bisogna lavorare sodo, rimboccarsi le maniche...». «La capisco, signore», lo interruppe Jared. «La somma che la Rose Microsystems dovrà pagare è certamente cospicua, ma sono fermamente convinto di averla salvata da una sorte ben peggiore. Malgrado le loro lamentele io ritengo di dover difendere il mio operato». «Jared, hai mai sentito parlare di Percy Foreman?». «Il nome non mi è nuovo, ma al momento non...». «Percy Foreman era l'avvocato difensore di James Earl Ray, indicato come l'assassino di Martin Luther King jr. Quali che siano le tue convinzioni morali, Percy è stato senza dubbio uno dei più grandi avvocati difensori di tutti i tempi. A un certo punto della sua carriera, accettò di difendere una ricca signora accusata di aver ucciso il marito, ma per farlo chiese una parcella di cinque milioni di dollari. Dico: cinque milioni! È una cifra oscena, anche se rapportata agli standard odierni. In ogni caso, la donna pagò, e Percy ne assunse la difesa. Nel corso del processo, smontò un argomento dopo l'altro ricorrendo a ogni cavillo, a ogni infamia e a ogni lusinga immaginabile. Alla fine, riuscì a farla assolvere. I giornalisti, ovviamente, si interrogarono sulle ragioni dell'esorbitante parcella, e interrogarono anche Percy, fermandolo sulla scalinata del palazzo di giustizia. Lui, impassibile, rispose che la parcella equivaleva all'intero patrimonio della vedova». Wayne fissò Jared. «È questo il genere di avvocato di cui abbiamo bisogno. L'intelligenza, l'onestà, persino l'aggressività, sono tutte ottime doti. Ma per procacciare la massima quantità di lavoro, l'unica cosa indispensabile è la fiducia nella tua capacità di vincere le cause. I clienti vanno dove si vince. Se ti sentono fiducioso, ti daranno fiducia, si fideranno ciecamente e non discuteranno mai le tue decisioni.
«È questa la ragione dei problemi che hai incontrato oggi, Jared», proseguì Wayne. «Se Rose avesse avuto totale fiducia in te, avrebbe staccato l'assegno senza fiatare. Invece, lui - un cliente da tre milioni di dollari - adesso minaccia di rivolgersi a un altro studio. Se almeno tu stessi procacciando altro lavoro, potremmo chiudere un occhio sulla questione di Rose, ma dai dati che ti riguardano non mi sembra che la ricerca di nuovi clienti sia esattamente il tuo forte». «Lo so», disse Jared, «ma sto facendo del mio meglio per...». «Per procurare nuovi clienti non basta fare del tuo meglio. Tu devi riuscire a convincere le persone ad affidarti la loro vita. Se non otteniamo questa loro fiducia, non riusciremo a tenerci buoni i vecchi clienti e neppure a procurarcene di nuovi. E se non riusciamo ad attrarre nuova clientela, lo studio non può crescere, e se non può crescere diventa più difficile accogliere nuovi soci. Tu mi capisci... Vero, Jared?». «Certo, signore», rispose Jared, sforzandosi di assumere un tono entusiastico. «Ma non si preoccupi. Conosco bene il valore dei vecchi clienti e di quelli nuovi, e soprattutto so bene quanto valga essere soci di questo studio». «Magnifico», disse Wayne. «In tal caso, sono felice di aver parlato con te». Arrivati all'UAC, Sara, Conrad e Guff raggiunsero un ufficio interno. Sara si sedette alla scrivania. «Okay», disse Conrad. «Ponile la domanda». «Un tale che afferma di essere dotato di poteri paranormali promette a una ingenua vecchina di liberare la sua gatta dagli spiriti maligni», recitò Guff. «Che reato gli contesti?». «Eh?». «Il reato», ripeté Guff. «Di che cosa lo accusi, il paragnosta?». Poiché Sara posò lo sguardo sul codice di procedura penale di New York appoggiato sul tavolo, Conrad disse: «Lascia stare il codice. Bàsati su quello che sai». «Non sono sicura», disse Sara. «Truffa, immagino». «Immagino?», domandò Conrad. «Tu non puoi limitarti a immaginare. Tu sei un procuratore aggiunto. Quando un poliziotto arresta qualcuno e ti consegna il verbale, tocca a te stabilire qual è il reato commesso. Ciò significa che devi conoscere tutti i possibili reati - e, quindi, il codice - a menadito».
«Sì, hai perfettamente ragione...», ammise Sara. «Avrei dovuto...». «Poco male. Va' avanti... consulta pure il codice, ma trovami il reato». Sara si mise a sfogliare il volume, alla ricerca della soluzione al problema teorico sottopostole da Guff. Per alcuni minuti, Conrad e Guff rimasero a fissarla, senza dire una parola. Alla fine, Sara alzò gli occhi dal libro. «Predire il futuro». «Spiegati», disse Conrad. Sara lesse dal codice. «Nello stato di New York chi pretenda di poter esorcizzare o influenzare spiriti maligni può essere accusato di Predire il futuro». «E qual è l'eccezione?». «Il Predire il futuro è consentito solo a scopo di intrattenimento o ricreativo», rispose Sara, stropicciandosi il mento. «Esatto», disse Conrad. «Ed è per questo che non abbiamo mai arrestato il Mago Zurli e i suoi colleghi». «Qual è il nesso con il mio caso di furto con scasso?». «Sei sicura che si tratti di furto con scasso?», domandò Conrad. «Magari, è solo un'effrazione con violazione di domicilio. O forse un semplice furto. E puoi escludere che sia una rapina? L'unico modo per assicurartene è di considerare i fatti a uno a uno. Se conosci i fatti, sarai in grado di determinare il reato. Se, ad esempio, rubi i soldi a qualcuno e poi lo malmeni, è rapina. Ma se derubi qualcuno e poi picchi la vittima perché si mette a gridare, abbandonando il bottino, non è più rapina, perché non ti sei impossessata di proprietà altrui. La soluzione sta nella conoscenza di ogni dettaglio». «Immaginati la scena del delitto come un film», disse Guff, «e scomponila nei singoli fotogrammi. Se mancano dei fotogrammi, la scena sarà incompleta». «Ho capito», disse Sara, un po' infastidita. «Non c'è bisogno di ribadire ulteriormente il concetto». Si mise a leggere il verbale ad alta voce: «"Avendo ricevuto una chiamata via radio che riferiva di una violazione di domicilio e descriveva sommariamente l'autore del reato, l'agente sottoscritto ha fermato un elemento sospetto a due isolati dal luogo del furto con scasso. La sua perquisizione ha portato al ritrovamento di un orologio Ebel di diamanti, una palla da golf d'argento 925/1000, oltre a quattrocentodiciassette (417) dollari in contanti. Riportato l'individuo sospetto al 201 di East 82nd Street, la vittima ha identificato come propri gli oggetti ritrovati nella perquisizione"».
«Ecco», disse Conrad «in questo verbale si trova sì e no un 3% di quello che è realmente successo». «Perché?», domandò Sara, perplessa. «Perché è così che funziona: chi scrive il verbale tende sempre ad accentuare l'importanza del proprio contributo». Conrad si sporse in avanti e tolse il verbale dalle mani di Sara. «Lo capisci dal fatto che l'agente usa il termine "furto con scasso". Non è compito del poliziotto determinare la tipologia del reato da imputare. Questo è compito tuo. Ma come possiamo sapere se la descrizione fornita dalla radio corrispondeva realmente a questo Kozlow? E poi, chi ha denunciato il reato? La vittima o qualcun altro? Se la denuncia è anonima, ad esempio...». «...il giudice può negare il valore di prova a un dato proveniente da fonte non verificabile», disse Sara. «Insomma, mi stai dicendo che devo andare a parlare con l'agente che ha eseguito l'arresto?». «Esatto», rispose Conrad. Quindi, indicando la minuscola videocamera collocata sopra il computer dell'UAC, aggiunse: «Faccia a faccia, ma al videotelefono». «Che sfoggio di alta tecnologia...», commentò Sara, avvicinandosi alla videocamera. «Anche a me pare assurdo», concordò Conrad, «ma non ho voglia di addentrarmi nella questione». «Be', io credo che sia stupendo, invece», disse Guff. «Si tratta di un gigantesco passo in avanti, verso il magico mondo del futuro prefigurato da cartoni animati come "I Pronipoti"». Ignorandolo, Sara disse: «D'accordo, adesso mi metto in contatto con l'agente e chiarisco tutti i dettagli. Quando avrò finito, fisserò i capi d'imputazione e ripartirò daccapo». «Che cosa intendi per "ripartire daccapo"?». «Se davvero voglio tenermi questo lavoro a tutti i costi, non posso accontentarmi di un misero caso. Non credi?». «Te l'avevo detto che ha una gran voglia di fare», disse Guff. «Certo, fai bene ad accaparrarti tutti i casi su cui riesci a mettere le mani», disse Conrad a Sara. «Ma considera che, fino a quando sarà lui il supervisore, Victor ti lascerà soltanto gli scarti. Finiresti per avere a che fare con tutti i borseggiatori di Manhattan». «Non c'è un modo per aggirare l'ostacolo?». «Visto che sei già riuscita a inimicarti Evelyn, ne dubito». «Non importa. Vorrà dire che pagherò il fio», disse Sara, sforzandosi di
farsi coraggio. «Sono pronta a tutto». «Brava, l'atteggiamento è quello giusto», disse Conrad. «Quando però hai finito di andare in giro a rastrellare casi, torna a casa e riposati un po'. La formalizzazione delle accuse è prevista per le undici di stasera». «Le undici di sera? Non credevo che gli uffici rimanessero aperti fino a quell'ora». «Ehi, siamo a New York City», disse Conrad. «Una metropoli i cui sedici milioni di abitanti sono perennemente in guerra tra loro. Qui si lavora ventiquattr'ore su ventiquattro». «Ci sarò». Sara sollevò la cornetta del telefono e compose il numero dell'agente Michael McCabe; Conrad si alzò in piedi. «Dove vai?», gli domandò lei. «Ho il mio lavoro da sbrigare. Ci vediamo stasera, qui, al primo piano. Meglio arrivare con un po' di anticipo, per sicurezza». «A più tardi», disse Sara, e Conrad uscì. Quando l'agente rispose, Sara gli spiegò che chiamava per avere informazioni sull'arresto di Kozlow e che avrebbe voluto parlargli via videotelefono. Riagganciò e attese che l'agente la richiamasse. Dopo un paio di minuti, il telefono squillò. «Solleva la cornetta e clicca su "Receive"», disse Guff, indicando un'icona sullo schermo del computer. Sara eseguì le istruzioni di Guff, e la faccia ipercolorata dell'agente McCabe si materializzò a tutto schermo. «Mi sente?», domandò Sara, avvicinandosi alla minuscola videocamera. «Ah, magnifico», disse l'agente, alzando gli occhi al cielo. «Una matricola». «Si risparmi i mugugni. So quello che faccio». «Ha alle spalle sei anni di lavoro in un importante studio legale», disse Guff, sporgendo la testa in modo da entrare nel campo di ripresa della videocamera. «E questo chi diavolo è?», domandò McCabe. «Nessuno», tagliò corto Sara. «Cominciamo. Mi racconti tutto!». Seduto sulla sua poltrona di marocchino dallo schienale alto, dietro la scrivania stile Impero, Oscar Rafferty compulsava con estrema calma il contratto per lo sfruttamento in Germania dei diritti della Gatta sul tetto che scotta. Sarebbe bastata una telefonata. Anzi, no: una telefonata e un rapido incontro nel suo ufficio. E l'accordo sarebbe stato concluso. Da
quando era entrato nel mondo della proprietà intellettuale, aveva imparato l'arte di far colpo. Così era arrivato al punto in cui si trovava. Dai tappeti cuciti a mano al mobile di Calder nell'angolo della stanza, era evidente il suo sforzo di ostentare sempre il meglio. E se avesse desiderato un'ulteriore conferma del proprio successo, sarebbe stato sufficiente osservare l'inchiostro che si stava asciugando sulle pagine di quel contratto. Neanche tre quarti d'ora gli ci erano voluti per guadagnare quei quattro milioni di dollari. Come media oraria, sarebbe stata strepitosa persino per un banchiere. Rafferty teneva tre telefoni sulla scrivania. Con le tecnologie disponibili, non sarebbe stato difficile ridurli a uno, ma l'impressione suscitata nei clienti valeva bene la sottrazione di spazio che ciò comportava. Al primo squillo del telefono centrale - la sua linea personale - Rafferty sollevò il ricevitore. «Accetto solo buone nuove». «Non so se siano buone, però sono nuove», disse l'investigatore privato all'altro capo del filo. «Si chiama Sara Tate. Ha trentadue anni ed è nata e cresciuta a Manhattan. Sei mesi fa è stata licenziata dallo studio legale in cui lavorava; la sua carriera ha subito una battuta d'arresto e ora ha appena cominciato come procuratore aggiunto. Secondo alcuni suoi ex colleghi, è aggressiva, schietta e idealista. Uno di loro mi ha detto che è piuttosto insicura e anche molto irritabile, ma che non è certo una stupida». «Che altro hai saputo?», domandò Rafferty, ansioso di scoprire i punti deboli di Sara. «Com'è in tribunale?». «Uno solo dei suoi colleghi l'ha vista personalmente in azione. Dice che fa la figura della persona sincera, cosa alquanto rara tra gli avvocati, al giorno d'oggi». «Credi che possa rappresentare un pericolo?». «Tutti i neo-pubblici ministeri sono pericolosi. Se sono alla loro prima indagine, ce la mettono tutta per spuntarla. La ragione per cui Sara Tate è pericolosa, però, non sta tanto nella sua volontà di spuntarla: visti i precedenti, lei ha bisogno di questo lavoro per sopravvivere; di conseguenza, farà l'impossibile per vincere la causa». «È quello che mi ha detto anche Victor». «Victor sa il fatto suo». Rafferty rifletté un istante. «Sappiamo perché è stata licenziata?». «Non ancora, ma posso scoprirlo facilmente. Secondo me, si è messa contro qualcuno più forte di lei. Nessuno l'ha detto esplicitamente, ma traspariva dal loro tono. Se tu le fai un torto, lei te lo restituisce... con gli interessi».
«Sai qualcosa della sua famiglia?». «Famiglia medio-borghese: il padre faceva il rappresentante; la madre era segretaria in uno studio legale. Entrambi di umili origini, anche se a vedere Sara non lo si direbbe. Sono morti diversi anni fa in un incidente stradale, ma per lei, sempre secondo gli ex colleghi, è ancora un argomento tabù». «Bene. Questo è un possibile appiglio. Nessun altro parente?». «Ha un nonno, ed è sposata». «Raccontami del marito». «Si chiama Jared Lynch. Proviene da un ricco sobborgo residenziale di Chicago, ma ha lavorato duro per arrivare a occupare la sua attuale posizione. Il padre è un agente di cambio in pensione, la madre è casalinga, e abitano a Chicago con i due fratelli minori di Jared. Economicamente, Sara e Jared hanno una piccola assicurazione pagata dai genitori di Jared, ma quanto a liquidità riescono a malapena a sbarcare il lunario. Quando Sara è stata licenziata, il mancato introito ha inciso duramente sulle loro finanze. Dalle informazioni che ho raccolto, negli ultimi sei mesi hanno praticamente dato fondo a tutti i loro risparmi». «È quello che capita quando si viene licenziati da un posto che garantisce uno stipendio di riguardo», commentò Rafferty. «E Jared che lavoro fa?». «Negli ultimi sei anni, ha lavorato come avvocato in uno studio legale... da Wayne & Portnoy, un posto di lusso». «È avvocato?». «Incredibile, vero? Due avvocati in una sola famiglia». «In effetti, è un'ottima notizia». «Che ne dici?». «Dico che comincio a intravedere alcune interessanti opportunità». Raggiunto l'edificio a cinque piani in pietra arenaria in cui abitavano, nella Upper West Side, Sara salì le scale di corsa, a due a due, e aprì la porta dell'appartamento. In soggiorno la luce era spenta. «Oh, no!», esclamò. Jared non era ancora rientrato. Sara accese le luci e premette il tasto "PLAY" della segreteria telefonica. C'era un solo messaggio. «Sara, sono Tiffany. Ci sei?». Era una ragazza che Sara aiutava nell'ambito del progetto "Big Sisters". «Ehi, Grande Sorella, richiamami. E ricordati che giovedì sera abbiamo un appuntamento». Ridacchiando tra sé per il messaggio di Tiffany, Sara si diresse in cucina e cominciò a preparare la cena. La divisione dei compiti era molto sempli-
ce: il primo arrivato cucinava; il secondo rigovernava. Potendo scegliere, Sara preferiva pulire, mentre a Jared piaceva di più far da mangiare: aveva preso da suo padre la passione per gli esperimenti gastronomici. L'appartamento di Sara e Jared era al secondo piano. Sebbene vi fossero una sala da pranzo e una camera da letto piuttosto grandi, la stanza più ampia era il soggiorno. Con il divano foderato super-imbottito e le gigantesche poltrone bordò era il posto migliore per rilassarsi e mettersi comodi. Arredato con uno stile che Sara aveva definito "funky-ereditato", l'appartamento combinava l'informalità di Sara e la passione collezionistica di Jared. Ai tempi dell'università, Jared trascorreva il tempo andando a caccia di cartoncini d'invito alle anteprime e locandine cinematografiche rare. Dopo essersi laureato, invece, era passato ai manifesti veri e propri; e una volta estinto il debito di ottomila dollari che Sara aveva contratto per frequentare la law school, Jared aveva acquistato, per celebrare l'evento, il primo pezzo da collezione davvero prezioso - uno degli scudi utilizzati da Kirk Douglas in Spartacus - che dominava la parete cui era appoggiato il divano. Da allora, si era accaparrato un sacchetto di arachidi salate proveniente dal set di Schegge di follia, una saliera impiegata in A cena con gli amici, un cartiglio decorativo usato in Un uomo per tutte le stagioni e, infine, il pezzo forte della collezione: il coltello con cui Roman Polanski tagliava il naso di Jack Nicholson in Chinatown. Jared concepiva la sua raccolta come un modo per coltivare la storia pop; Sara, invece, la vedeva semplicemente come una cosa che metteva Jared di buon umore. Sara, da parte sua, teneva molto ai sei quadri incorniciati che ornavano la parete di destra. Da quando erano sposati, Sara aveva preso l'abitudine di eseguire, nel giorno del loro anniversario di matrimonio, un ritratto di Jared. Pur non avendo una formazione specifica, Sara aveva sempre avuto la passione per il disegno. La pittura non l'aveva mai attratta, e neppure gradiva lo schizzo a matita: quando disegnava, usava soltanto l'inchiostro. Non aspirava alla perfezione; le bastava creare un effetto. Schiacciò l'aglio, sminuzzò le cipolle, aggiunse il pepe e preparò tutti gli altri ingredienti necessari per un buon sugo di pomodoro fatto in casa. A dire il vero, lei si sarebbe accontentata anche di un sugo già pronto, ma spronata dalla speranza di riuscire a salvare il proprio posto di lavoro - decise di fare a Jared una sorpresa. Cinque minuti dopo, Jared varcò la soglia di casa. Vide Sara e le sorrise. «A quanto pare, la tua giornata è finita meglio di com'è iniziata», disse Jared.
«È stato incredibile», confermò Sara, correndo ad abbracciarlo, incapace di contenere l'euforia. «Ho appena cominciato a lavorarci, ma quei casi sono già tutti miei. Ho i miei reati, i miei imputati... ho tutto!». «Vuoi dire che hai più di un caso per le mani?». «Ne ho cinque. Il furto con scasso, due furti in negozi, un borseggio e un possesso di sostanze stupefacenti. L'unico che abbia qualche possibilità di finire in aula è il furto con scasso, ma non importa: le cose si stanno finalmente sistemando, proprio come dicevi tu». «Sei incredibile, lo sai? Dico davvero». «E il patteggiamento come si è risolto? È andato tutto bene?». «Benissimo», disse Jared, posando la borsa e allentando il nodo della cravatta. «Niente di particolare». Sara osservò attentamente il marito, anche se aveva già capito tutto dal tono della sua voce. «Ci risiamo con questo giochetto?». Jared le voltò le spalle. Gliene avrebbe parlato, del patteggiamento e delle lavate di capo che si era preso, ma non in quel momento. Sara era finalmente di buon umore, e Jared non aveva intenzione di rovinarglielo. «Davvero, nulla di importante». «Credi che io me la beva?». «In effetti, questo è il mio auspicio». «Be', invece, ti sbagli. Perché, per farla breve, non mi racconti come stanno le cose?». Jared si gettò sul divano e posò la testa su uno degli enormi cuscini. «Non c'è molto da raccontare. Ho impiegato l'intero pomeriggio per riuscire a risparmiare al mio cliente un processo rischiosissimo e una marea di pubblicità negativa; e per tutto ringraziamento, Lubetsky mi ha fatto una scenata di mezz'ora, Rose si è infuriato e persino Wayne, il grande capo, si è sentito in dovere di farmi la ramanzina». «E tu che cosa hai risposto?». «Avevano ragione. Che cosa potevo dire?». «Be', che so? "Smettetela di gridarmi in faccia, bestioni: è evidente che meglio di così non potevo fare!"». «Forse mi sbaglio, ma non credo che una reazione del genere mi avrebbe aiutato». «Allora, aspetta... Fammi indovinare: vuoi dire che hai reagito nel tuo solito modo? Sei rimasto lì e...?». «Sono rimasto lì e ho lasciato che mi urlassero in faccia», disse Jared, stringendosi nelle spalle. «Ho pensato che fosse la maniera migliore di far-
li sbollire». «Ma, caro, anche ammesso che abbiano ragione, non puoi permettere che ti trattino così. Sei pur sempre un essere umano. So bene che non ti piace lo scontro, ma non puoi sempre scegliere la strada del minor attrito possibile». «Non è che non mi piaccia lo scontro...». «È solo che ti piacciono le cose perfette, lisce, pulite», lo interruppe Sara. «Io so perché sei così, e mi piaci per questo... Anzi, vorrei avere io il tuo autocontrollo. Però, non puoi sempre evitare il conflitto con chiunque sia investito di un minimo di autorità». «Senti», disse Jared, massaggiandosi le tempie, «non potremmo lasciar perdere il lavoro? La giornata è già stata abbastanza tesa». «D'accordo», disse Sara. «Anche perché è ora di scartare il tuo regalo». «Mi hai comprato un regalo?». «Nulla di straordinario... Un pensierino, per ricordarti che ti amo. Stamattina mi hai aiutato più di quanto tu possa immaginare». «Non dovevi...». Lasciò la frase in sospeso. Sara aveva ormai raggiunto la camera da letto e ne stava ritornando con la propria borsa di pelle in mano. «Ecco», disse lei, porgendogli il regalo e sedendoglisi accanto. «Mi regali la tua borsa?». «Il regalo è dentro. Non ho avuto il tempo di incartarlo, così ho pensato che la borsa potesse fungere da pacchetto. Aiutami... Lavora di fantasia». «Oh, ma che pacchetto meraviglioso!», disse Jared, ammirando la borsa. La aprì e ne estrasse una girandola di metallo rossa, bianca e blu. «Ti avevo detto che non era nulla di straordinario», disse Sara. «L'ho comprata da un ambulante nel metrò. Devi leggere quello che c'è scritto sull'asticella, però... Dice: "Benvenuti a Puerto Rico"». «È stupendo», disse Jared, soffiando sulla girandola. Quando cominciò a girare, a Jared tornò il sorriso sulle labbra. «Grandioso, davvero. Viva Puerto Rico!». Sara scoppiò a ridere e gli tese la mano per aiutarlo ad alzarsi dal divano. Conducendolo in cucina, disse: «E aspetta di vedere quello che ho preparato per cena». Giunti davanti ai fornelli, aggiunse: «Chiudi gli occhi». «So già di che si tratta. Ho sentito il profumo appena...». «Shhh! Chiudi gli occhi». Jared obbedì, e Sara disse: «Tira fuori la lingua». Sara intinse un dito nel sughetto e lo passò sulla lingua di Jared. «Allora, che ne dici?».
«A mia memoria, è il più spudorato approccio sessuale che tu abbia mai messo in atto». «Davvero? E funziona?». «Funziona sempre», rispose Jared, con un ghigno. Con gli occhi ancora chiusi, sentì le mani di Sara che gli cingevano il collo. Lei lo attirò a sé e lo baciò. Prima sulla bocca; quindi, sul mento. Al contempo, gli slacciò la cravatta e gli sbottonò la camicia. Lui fece lo stesso con la camicia di lei. «Vuoi che restiamo qui o preferisci...». «Qui», disse Sara, spingendolo contro il piano della cucina. «Ho voglia di farlo qui». CAPITOLO CINQUE «Cosa ne dici?», domandò Sara. «Vuoi scherzare? È stato incredibile. Quando tu eri sdraiata sul buffet e io...». «Stavo parlando della cena, stupido». Vestita della sola maglietta a maniche corte, Sara era seduta al tavolo della cucina di fronte a Jared, che invece aveva addosso dei pantaloncini da jogging. «Ah», disse lui. Guardò il piatto vuoto. «È stata magnifica. Tutto è stato magnifico. Soprattutto tu». «Non attribuire a me tutti i meriti; anche tu non sei stato male», disse Sara, protendendosi per prendergli una mano. «Comunque, che ore sono?». «Perché? Hai un appuntamento?». «Sì. Un appuntamento con la giustizia. Devo tornare in tribunale. La formalizzazione delle accuse è prevista intorno alle undici». «Oddio... il tuo caso!», esclamò Jared. «Scusami, avrei voluto chiederti di raccontarmi tutto. È solo che ero così preso da...». «Non ti preoccupare», disse Sara. «È un buon caso. Almeno, credo. Cioè, probabilmente non sarà un granché: è una stupidaggine, ma sono convinta di potermela cavare... forse, se tutto va bene». «Da come ne parli, è una vittoria sicura». «Non prendermi in giro. Lo sai come divento quando sono sotto pressione: è tutto un susseguirsi di alti e bassi. Quando ho preso quella cartelletta, ero al settimo cielo; un'ora dopo ero disperata, terrorizzata alla sola idea di quel che mi aspettava; un'ora dopo ancora, stavo già imparando i trucchi del mestiere, angosciata, ma anche vagamente fiduciosa; tornando a casa,
invece, mi pareva che tutto stesse andando per il verso giusto». «E adesso?». «Adesso ho di nuovo il morale sotto i piedi. Non solo sono agitata per come potrà andare, bensì anche preoccupata per come mi sono procurata quel caso. \vresti dovuto vedermi, oggi pomeriggio. Sono restata lì a fissare quella cartelletta per non so quanto tempo, nel panico più assoluto. Ma quando è arrivato il momento di decidere cosa fare, ho capito che quella era la mia unica possibilità». Sara lasciò la mano del marito e si alzò in piedi. «Dimmi la verità. Ho fatto male a impadronirmi del caso in quel modo?». «Quello che penso io non ha importanza», disse Jared, con la sua consueta diplomazia. Nel suo intimo, Sara sapeva che lui stava solo cercando di eludere la domanda; d'altra parte, non aveva voglia di sentire le sue prediche. Come sempre accadeva quando si parlava di lavoro, Jared si sarebbe attenuto al suo solito rigore. «Quello che importa è come ti senti tu». «Mi sento malissimo. Adesso che mi è scesa l'adrenalina, non riesco a pensare ad altro. È come una specie di fantasma maligno che incombe. Il peggio è che non so neanche perché sono così agitata: sarà perché ho preso il caso in quel modo, o solo perché adesso non posso disfarmene?». «Ascolta, ormai è andata. L'hai visto, l'hai preso e adesso devi gestirtelo. E poi, da quello che hai detto, non mi pare che freghi a qualcuno, in procura». «Fatta eccezione per Victor, probabilmente. Ancora non l'ho visto». «A proposito, hai poi detto al tuo assistente che il caso era in origine destinato a Victor?». «Non ancora. Siamo stati presissimi tutto il pomeriggio; non ne ho avuto il tempo materiale. E poi, ho deciso di non dirglielo, per il momento... Voglio aspettare ancora un po' prima di mettere a repentaglio il rapporto». «Sei sempre convinta che potrebbe esserci in ballo qualcosa di grosso?». «Non so», rispose Sara, raccogliendo da terra il suo completo blu. «Ma se non è un caso degno di Victor, non vedo come potrebbe servirmi a salvare il posto di lavoro». Quando si fu rivestita, Sara si avviò alla porta. «In bocca al lupo», le urlò dietro Jared. «E falli soffrire!». «Non preoccuparti», disse Sara. «Saranno guai per la difesa». Alle dieci e mezza, Sara varcò l'ingresso del numero 100 di Centre Street. Giunta all'aula riservata alla formalizzazione delle accuse, vide con
grande sorpresa che Guff era lì appoggiato alla porta. «Che ci fai tu qui?», domandò Sara. «Non eri tenuto a venire». «Tu sei il mio capo», disse Guff. «Dovunque tu vada, io ti seguo». «Be', grazie, Guff. Apprezzo molto il tuo aiuto. Adesso dobbiamo solo aspettare...». Nel corridoio rimbombò una voce: «Procuratore aggiunto Tate! Qual è l'imputazione?». «Furto con scasso di secondo grado», gridò Sara di rimando, quando Conrad era ancora a dieci metri di distanza. Raggiunti i due colleghi, il burbero pubblico ministero domandò: «E quale sarebbe la ragione di questa scelta?». «Perché il furto con scasso di primo grado richiede la presenza di un'arma o di un corpo contundente, oppure il ferimento di una vittima, fatti di cui, nel verbale, non troviamo traccia». «Ma non sono, quelli che hai elencato, anche i requisiti del furto con scasso di secondo grado?», buttò lì Conrad. «Solo se il luogo del delitto non è un'abitazione privata», ribatté Sara, con un tono sempre più convincente. «E stando alla sezione relativa alle definizioni, il numero 201 di East 82nd Street è senz'altro da considerare abitazione privata. È li che dorme la vittima. Me l'ha confermato di persona: l'ho chiamata». Conrad sorrise: «Ottimo lavoro. Ma non potrebbe trattarsi di tentato furto?». «No, perché impadronendosi dell'orologio, della palla da golf d'argento e dei quattrocentodiciassette dollari, l'imputato ha effettivamente commesso un furto. Tentato furto sarebbe indubbiamente un'accusa troppo leggera». «Non potrebbe essere rapina, allora?». «Secondo l'agente McCabe, non c'era traccia di violenza, il che esclude la rapina». «Che ne dici di "effrazione e violazione di domicilio"?», domandò Conrad. «Già prima hai cercato di fregarmi», disse Sara. «Non è contemplato, nello stato di New York, il reato di effrazione e violazione di domicilio». «Ne sei sicura?». Sara lo guardò in tralice. «Certo che ne sono sicura. Ci ho messo un'ora a scoprirlo. Ora possiamo entrare e sbrigare questa formalità?». «Sei tu che comandi», disse Conrad, facendo un cenno verso la porta. Data l'ora tarda, Sara si aspettava di trovare l'aula semideserta, ma non
appena ebbe messo piede all'interno, vide che era piena di pubblici ministeri, agenti di polizia, impiegati del tribunale, avvocati difensori e imputati arrestati da poco. I pubblici ministeri stavano sul lato destro, gli avvocati difensori sulla sinistra. Gli imputati venivano tenuti in una stanza adiacente all'aula, e quando arrivava il loro turno venivano condotti al centro dell'aula, dove un giudice presiedeva alla formalizzazione delle accuse, che durava, mediamente, sui cinque minuti; definito il capo d'imputazione, veniva fissata la cauzione. Al suo ingresso in aula, Sara sapeva chi cercare. Da un punto di vista giuridico, si rendeva conto che la formalizzazione delle accuse era una garanzia vitale di libertà e di correttezza. Da un punto di vista strategico, però, sapeva anche che quella circostanza aveva una funzione tutta diversa: consentire alle parti in causa, cioè ai due avvocati, di studiarsi a vicenda. Un avvocato difensore di quelli tosti poteva diventare un vero incubo per il pubblico ministero, mentre uno di mezza tacca significava automaticamente una facile vittoria. Comunque, come gli allenatori delle squadre di football spiano le partite delle future avversarie, i pubblici ministeri della procura distrettuale preferivano sapere chi avrebbero avuto di fronte. E Sara non faceva eccezione. «Hai idea di chi sia?», domandò a Conrad, mentre prendevano posto in prima fila sulle panche di legno. Conrad esaminò gli avvocati difensori schierati sul lato sinistro dell'aula, intenti a scrivere o a riordinare un'ultima volta le carte. «Non lo sapremo finché non lo chiameranno». «Oh, no!», fece Sara. «Che cosa succede?». Sara indicò un tipo alto e biondo dall'altra parte dell'aula. Indossava un completo di ottimo taglio e aveva una borsa nera di Gucci. «Quello è Lawrence Lake, un socio dello studio legale per cui lavoravo». «Mi sa che è proprio quello il tuo avversario», disse Guff. «Come fai a saperlo?», domandò Conrad. «Vuoi scherzare? Riesco a individuare il nemico appena entra in aula. Fa parte del mio indomabile istinto ferino». «Tu sei pazzo». «Puoi scommetterci!», esclamò Guff, sbarrando gli occhi, per darsi un contegno fiero. «Sono pazzo come una volpe». «O pazzo come un pericoloso psicopatico», aggiunse Conrad. Rivolgendosi a Sara, domandò: «Hai scoperto qualcos'altro a proposito di Ko-
zlow?». «Niente di più di quello che c'era nella cartelletta. Ha già affrontato due processi: uno per aggressione di primo grado, l'altro per omicidio di primo grado. Per l'aggressione ha usato un coltello a serramanico; quanto all'omicidio, invece, ha affondato un cacciavite nella gola della vittima». «Cristo», disse Guff. «Un bambino difficile». «Non secondo i giurati. Ne è uscito indenne in entrambe le circostanze». «È bravo a mentire», disse Conrad. «Se fossi in te, però, darei un'occhiata a questi altri due casi. Magari è uno che ha il pallino della violenza creativa». «Domani lo farò sicuramente», disse Sara. «Hai già riflettuto sull'ammontare della cauzione?». Sara annue. «E qual è il numero magico?». «Spero di spuntare almeno diecimila dollari. Non credo che li abbia. Però ho deciso di chiederne quindicimila, perché i giudici tendono sempre a ritoccare verso il basso la richiesta iniziale». «Di questo non c'è da preoccuparsi», disse Conrad. «I giudici del turno di notte sono in genere così irritati che, per puro sadismo, tendono piuttosto a infierire sugli imputati». «Speriamo», disse Sara, sogguardando ancora una volta la borsa nera di Lawrence Lake, firmata Gucci. Un quarto d'ora dopo, quando l'addetto convocò le controparti della causa che opponeva lo stato di New York a Anthony Kozlow, Sara vide Lawrence Lake alzarsi e dirigersi verso il banco della difesa. «Maledizione», sussurrò Sara. «Mantieni la calma», disse Conrad. Mentre Sara muoveva sicura verso il banco della pubblica accusa, Anthony Kozlow entrò in aula scortato da due commessi del tribunale. Indossava un consunto giubbotto di pelle nera, e aveva l'aria di chi non si radeva da giorni. Sara non poté evitare di domandarsi come facesse uno sfigato di quella risma a pagarsi un avvocato del livello di Lawrence Lake. Quando Kozlow raggiunse il banco della difesa, lui e Lake si strinsero la mano con l'aria di due vecchi amici. A guardare Kozlow, Sara sudava freddo. Non era come quando lavorava per lo studio legale. Non stava combattendo contro qualche misteriosa persona giuridica. Ora era contrapposta a Tony Kozlow, una persona in carne e ossa che si trovava a non più di tre metri da lei. Non lo aveva mai visto, non lo conosceva, ma era pronta a far tutto ciò che era in suo potere pur di
vederlo in galera. Senza mai alzare gli occhi, il giudice esaminò il modulo dell'accusa compilato da Sara. Spiegò che Kozlow era accusato di furto con scasso di secondo grado e controllò che l'imputato fosse assistito da un legale. Dopo aver letto tra sé il resto del modulo, il giudice guardò Sara. «Ha da proporre una cifra per la cauzione?». «Chiediamo che la cauzione sia fissata a quindicimila dollari», spiegò Sara. «L'imputato ha alle spalle una lunga storia di atti criminosi...». «Due arresti non possono essere definiti "una lunga storia"», la interruppe Lake. «Chiedo scusa», disse Sara, «ma stavo parlando io, se non sbaglio». «Ho compreso il punto della pubblica accusa», disse il giudice. «E ho sotto gli occhi la fedina penale del signor Kozlow. Ora sentiamo, avvocato Lake, qual è la sua posizione?». Lake sorrise beffardo, rivolto verso Sara. «Il mio cliente è stato arrestato due volte. Evidentemente, non si può dire che sia una lunga storia. In sintesi: il signor Kozlow ha profondi legami all'interno della nostra comunità, ha vissuto qui per quasi tutta la sua vita, e non è mai stata pronunciata una sola condanna a suo carico. Non vedo ragione, dunque, di fissare una cauzione così onerosa». Il giudice rifletté per un istante, dopodiché annunciò: «Il giorno del 180.80 è venerdì. La cauzione è fissata a diecimila dollari». Sollevata, Sara immaginava che Kozlow, pur potendosi permettere un difensore come Lake, ci avrebbe impiegato almeno un paio di giorni per mettere insieme quella cifra. Senza batter ciglio, però, Lake disse: «Vostro Onore, il mio assistito intende pagare la cauzione». «Parlatene con il funzionario addetto a questo compito», rispose il giudice. Batté il martelletto sul banco, e l'impiegato chiamò il caso successivo. Senza proferir parola, Sara si voltò e uscì immediatamente dall'aula. Guff e Conrad la seguirono. «Va bene, ha pagato la cauzione», disse Conrad. «Non vedo il problema». «Il problema è Lawrence Lake. Quello non è un avvocato da Pagine Gialle. Ci vogliono cinquecento dollari l'ora solo per parlargli». «Vorrà dire che Kozlow ha qualche risparmio da parte», fece Conrad. «Succede...». «Non so», disse Sara, con la tentazione di raccontar loro che il caso era
originariamente indirizzato a Victor. «Ho una brutta sensazione. Questo Kozlow non mi sembra esattamente un pezzo grosso... Come si spiegano, allora, tutti questi soldi e l'ostentata familiarità con uno del calibro di Lake?». «Non ne ho idea», disse Conrad, consultando il proprio orologio. «Comunque, l'ora di andare a nanna è passata da un pezzo, e inoltre non credo che potremmo risolverlo stanotte, questo problema. Ne parliamo domattina». Sara non aveva intenzione di lasciar cadere il discorso. «Che cosa...». «Vai a casa e cerca di dimenticare», disse Conrad. «La giornata di lavoro è finita». Prima ancora che Sara potesse aggiungere altro, Kozlow uscì dall'aula e la urtò passando. «Scusami, Sara», sibilò. «Ci vediamo fuori». «Che cosa hai detto?», domandò Sara. Senza rispondere, Kozlow proseguì per la sua strada. Avendo deciso, causa la pioggia, di non fare la sua abituale corsa mattutina, Jared arrivò al lavoro alle otto, e si diresse alla palestra privata con campo da basket all'interno dello studio legale, nella speranza che un po' di movimento lo aiutasse a sciogliere la tensione accumulata a causa degli eventi del giorno prima. Situata al settantunesimo piano, la palestra privata era stata allestita per espresso volere di Thomas Wayne, il cui amore per il basket aveva avuto buon gioco sul desiderio dei soci di ampliare la biblioteca. Tra gli avvocati che lavoravano da Wayne & Portnoy, la palestra era affettuosamente nota come «la più alta corte della città», e in effetti le sue tre pareti interamente in vetro offrivano una sbalorditiva vista su downtown Manhattan. Nella mezz'ora trascorsa sul tapis roulant, Jared ripassò mentalmente le conversazioni avute il giorno precedente. Prima Lubetsky, poi Rose e, infine, Wayne. Quando il display apposito segnò cinque chilometri, Jares si fermò, andò a farsi la doccia e si diresse nel suo ufficio. «Va un po' meglio, oggi?», domandò Kathleen, quando Jared le passò davanti. «Mah», fece lui, stringendosi nelle spalle. «E tu?». «Io sto benissimo. Sono solo un po' preoccupata per te». Kathleen si tolse una matita da dietro un orecchio e la puntò contro il suo superiore. «Ma, se vuoi davvero metterti di buon umore, perché non mi chiedi che cosa bolle in pentola? Ti assicuro che ne vale la pena».
Jared incrociò le braccia. «D'accordo. Che cosa bolle in pentola?». «Il solito», rispose lei. «Lubetsky vuole vederti. Rose vuole parlarti, e un cliente tutto nuovo vuole ingaggiarti». «Un cliente che vuole ingaggiarmi?». «È venuto dieci minuti fa e ha chiesto espressamente di te. Ti sta aspettando in sala colloqui». «Aspetta un attimo», disse Jared. «Non sarà mica uno stupido scherzo concepito nel tentativo di farmi stare meglio, vero?». «Nessuno scherzo. Non volevi dei clienti? Be', eccoteli! Ha detto che il tuo nome gli è stato fatto da un amico. Se vuoi, te lo porto in ufficio». «Sì, grazie. Ottima idea», disse Jared, in preda a un attacco di tachicardia. «Sarebbe il massimo». Qualche minuto dopo, Kathleen entrò nell'ufficio di Jared accompagnata da un uomo alto e magro, dai capelli neri. «Jared, ti presento il signor Kozlow», disse. «Mi chiami pure Tony», disse l'uomo, porgendo la mano a Jared. «Come la tigre dei corn-flakes», scherzò Jared. «Esatto», sorrise Kozlow. «Proprio come la tigre», «Non ti pare un po' strano che Kozlow possa permettersi un avvocato di quel livello?», domandò Sara a Conrad, avendolo raggiunto in ufficio nel primo pomeriggio. «Per niente», rispose Conrad. «Capita spesso che persone di quel tipo tengano dei soldi nel materasso proprio per occasioni come questa». «E che ne dici del fatto che il suo avvocato era del mio ex studio? Voglio dire: a New York ci sono migliaia di studi legali. Non credi che sia più di una semplice coincidenza il fatto che abbia scelto proprio quello?». «Sara, prendi fiato e rilassati. So bene quanto tu abbia investito emotivamente in questo caso, ma così corri il rischio di perdere il senso della prospettiva. Credimi: so perfettamente come ti senti. Quando ho cominciato a lavorare qui, volevo trasformare tutti i casi di cui mi occupavo in materiale da prima pagina. A volte, però, bisogna riconoscere di non avere per mano altro che una banale noterella, che vale a malapena l'ultima pagina di un giornaletto scolastico». «Insomma, pensi che io stia viaggiando un po' troppo con l'immaginazione?». «Penso soltanto che tu debba smetterla di preoccuparti del portafoglio di Kozlow, per concentrarti davvero sul caso. Lunedì prossimo hai il gran
giurì». «Per non parlare degli altri quattro casi che mi sono accollata», aggiunse Sara. «A proposito, com'è andata, stamattina?». «Le formalizzazioni? Come ieri sera, persino più veloci. Per il possesso di droga e uno dei furti, si trattava di incensurati: sono stati denunciati a piede libero. Per l'altro furto e il borseggio, ho chiesto duemila dollari ciascuno». «Avevano precedenti?». «Quasi cinquanta arresti in due. E il borseggiatore - non ci crederai! - si chiama Marion». «Ehi, non prenderti gioco di questo nome! Marion è il vero nome di John Wayne». Inclinando leggermente la testa, Sara osservò Conrad con molta attenzione. «Aspetta», disse lei, «stai scherzando, vero?». «Signornò, signora. Su John Wayne non si scherza». Sara scoppiò a ridere. «Okay, te lo concedo», disse. «Ma secondo questo foglio, John Wayne il Borseggiatore ha alle spalle ventitré arresti, e giura di non aver mai sottratto un portafoglio in vita sua, il che, a mio parere, lo rende quantomeno sospetto. Il tipo accusato di furto nel negozio non gli è tanto da meno». «Dunque, se ho capito bene, i primi due sono da prosciogliere. Per gli altri, dovrai comunque aspettare di sentire cos'hanno da dire i loro avvocati. Non perderci troppo tempo, però. Sarà meglio che ti preoccupi dell'atto d'accusa contro Kozlow». «A proposito, posso farti una domanda? Cosa intendeva il giudice con "giorno del 180.80"». Conrad corrugò la fronte e tacque per un istante. «Non ti hanno insegnato proprio niente allo studio legale, eh?». «Ho lavorato quasi esclusivamente nel civile. Allora, mi vuoi dare quest'altra dritta?». «Eccoti la dritta. Il "giorno del 180.80" è un modo sintetico per indicare il giorno entro il quale tu devi presentare l'atto d'accusa se l'imputato viene trattenuto in carcere. Ma siccome Kozlow ha pagato la cauzione, dovrai preoccuparti soltanto del gran giurì, dove...». «Lo so cosa succede davanti al gran giurì». «Sei sicura?». «Non la smetti mai, vero?», domandò Sara con un sorriso spazientito. «Il
gran giurì è una giuria composta da dodici comuni cittadini, e io dovrò convincerli della necessità di rinviare a giudizio Kozlow con l'accusa di furto con scasso di secondo grado. Se li convinco, ci sarà il processo; altrimenti...». «Altrimenti, il caso è chiuso». Tornando al proprio ufficio, Sara meditava sul consiglio di Conrad. Forse, lui aveva ragione. Forse, lei esagerava nella sua ricerca disperata di materiale da prima pagina. Forse, Kozlow aveva semplicemente un po' di soldi da parte. E poi, forse, lei si stava facendo trarre in inganno dalla sua immaginazione. Tuttavia, per quanto cercasse di circoscrivere e ridimensionare quei fatti, non poteva fare a meno di tornare all'aspetto cruciale di tutta la vicenda: il caso Kozlow era destinato a Victor. Avvicinandosi all'ufficio, Sara notò che Guff non era al suo posto, e vide che la porta era socchiusa, benché ricordasse chiaramente di averla chiusa. Le venne in mente un altro dei consigli di Conrad, a proposito della procura: "Chiudi tutto a chiave! La risevatezza è fondamentale, e in giro c'è sempre un mucchio di gente curiosa". Attraverso il vetro traslucido della porta, colse la sagoma sfuocata di una persona seduta alla sua scrivania. Guardò istintivamente intorno per vedere se in giro ci fosse qualcuno. Dato che era l'ora della pausa-pranzo, i corridoi erano relativamente vuoti. Sia pur con una certa esitazione, Sara aprì la porta e vide che ad attenderla in ufficio c'era Victor. «Posso esserti utile?», domandò, irritata. «No», rispose Victor. «Volevo soltanto sapere come sta andando il tuo caso». «Come hai fatto a entrare nel mio ufficio?». «Era aperto. Spero che non ti dispiaccia». «Invece, mi dispiace, eccome!». «La prossima volta starò più attento. Ora, dimmi: come procede il caso?». «Perché?», domandò lei, reticente. «C'è qualcosa che non va?». «No, nulla». «Allora, perché ti sei intrufolato qui di soppiatto e fai di tutto per intimorirmi?». Sperava, con questa tattica, di indurlo a scoprirsi, per coglierlo in contropiede. Ma non funzionò. «Ehi, che immaginazione fertile! Devi stare attenta, però, perché potrebbe danneggiarti».
«Che cosa intendi dire?», domandò Sara. «Esattamente quello che ho detto: stai attenta, perché nella tua posizione non puoi permetterti di fare altri errori». «È questo che sei venuto a dirmi?». «Sara, se sono qui è solo perché ti sei impadronita di un caso eludendo la mia supervisione. Ora, non mi interessa quanto fossi disperata, o come tu sia riuscita a farti baciare il culo da Conrad. Ti avverto, però, che se capita una seconda volta, non ti darò più pace». Sara non voleva ammetterlo, ma sapeva che Victor aveva ragione. «Mi dispiace... Io...». «Risparmiati le lacrime. Non mi interessa». Victor si alzò e si diresse alla porta. «Se fossi in te, però, mi guarderei le spalle. Non si può mai sapere quando calerà la scure». Non appena Victor fu uscito, fece il suo ingresso Guff. «Che voleva?». «Non saprei dire». «Non mi sembrava particolarmente di buon umore». «Era nervoso. Mi ha minacciato. Comunque, ci sono altre brutte notizie, prima che io vada a mangiare un boccone?». «A dire il vero, temo di sì», disse Guff, agitando un fax di due pagine. «È appena arrivato. È la notifica di un cambio d'avvocato. A quanto pare Kozlow si è scelto un nuovo difensore». «E allora?». «Allora, leggi un po' il nome di questo nuovo avvocato e dimmi se non ti suona vagamente familiare». Sara diede una rapida scorsa ai due fogli e passò a leggere la firma in calce. Quando a piè di pagina vide il nome del marito, Sara sprofondò nella sua poltroncina. «Non ci posso credere! Si può fare una cosa del genere?». «Non lo so», rispose Guff. «Di certo, è la prima volta che ne sento anche solo parlare». «Dovrà rinunciare all'incarico», disse Sara. Sollevò la cornetta del telefono e compose il numero di Jared. Rispose Kathleen, e Sara chiese di parlare con il marito. «È appena uscito. Mi ha detto che dovevate incontrarvi a pranzo. C'è qualcosa che non va?». «No, va tutto bene». Sara riagganciò e schizzò fuori dall'ufficio. Guff la inseguì fin nell'atrio. «Che vuoi che faccia, mentre tu sei via?». «Cerca di capire se un'eventualità del genere è contemplata. L'ultima
persona che vorrei trovarmi di fronte in questo caso è mio marito». Venti minuti più tardi, Jared scese da un taxi davanti a Forlini's, che tra i ristoranti italiani non solo era il più vicino al tribunale, bensì anche il più popolare. Lasciò una banconota da dieci dollari al taxista ed entrò nel ristorante. «Ehi, bellezza!», disse a Sara, ansioso di condividere con la moglie la gioia per l'inaspettato acquisto di un cliente. «Dove diavolo ti eri cacciato?», domandò Sara. «Ero bloccato nel traffico». Jared prese posto al tavolo. «Tutto bene?». «No, non va tutto bene!». Jared sfiorò un braccio di Sara. «Dimmi che cosa...». «Non capisco come tu abbia potuto accettare questo incarico, tanto più che sapevi benissimo che questo era il mio caso. Fino a prova contraria, tu lavori tranquillo in un grosso studio legale, mentre io non ho che questo...». «Ehi, ehi, ehi, rallenta un attimo. Si può sapere di che cosa stai parlando?». «Del mio caso di furto con scasso. Perché hai accettato di assistere la mia controparte?». «Assistere la tua controparte? Non capisco...». «Il caso Kozlow. Ho ricevuto la notifica dell'avvenuto incarico». «Aspetta», disse Jared. «Vuoi dire che il mio cliente è la tua controparte? Tu stai lavorando al caso di Tony Kozlow?». «Te l'ho anche detto, ieri sera». «No, tu non hai fatto nomi. Hai detto soltanto che era un caso di furto con scasso». «Be', non hai notato la coincidenza, quando oggi Kozlow si è presentato da te?». «Lui non ha parlato di furto con scasso. Ha detto soltanto che si trattava di un reato minore. E che mi avrebbe fatto avere gli incartamenti». «E il fax con la notifica come me lo spieghi?». «Noi avevamo soltanto il numero di registro del caso. Sara ha preparato la notifica e l'ha faxata alla procura distrettuale. In segreteria controllano il numero di riferimento e lo smistano al pubblico ministero interessato. Ti giuro, cara, non l'avrei mai fatto di proposito». «Comunque, dovrai rinunciare all'incarico». «Cosa?», domandò Jared. «Parlo sul serio. Rinuncerai, vero?».
«Perché dovrei?», protestò Jared. «È un cliente nuovo. Per me è una grossa occasione». «Jared, per te si tratta di un cliente. Per me...». «No... Hai ragione. Questo è il tuo caso. Sei arrivata prima tu. Io cedo il passo». «Dici davvero?», domandò Sara. Jared tacque un istante. «Certo». Poi, sempre più convinto, aggiunse: «Solo perché sei tu». Sara accarezzò una mano di Jared. «Sei una brava persona, Charlie Brown. So quanto...». «Sara, non c'è bisogno di dire alcunché». «Sì, invece. Voglio che tu sappia quanto mi dispiace. Non avrei mai voluto metterti in questa situazione, ma questa storia del nuovo lavoro mi ricorda troppo...». «Quello che è successo al tuo ex studio è un caso isolato, e tu non dovresti giudicare te stessa in base a quell'episodio. E poi, mica l'ha ordinato il dottore di diventare soci in uno studio legale di New York. Non è obbligatorio». «Ah, sì? E tu, allora, che cosa stai facendo?». «Io sto facendo del mio meglio per sfatare i pronostici, e per rendere felice mia moglie». «Be', sappi che stai facendo un ottimo lavoro», disse Sara. Quindi, seguendo con un dito l'orlo del suo bicchiere d'acqua, aggiunse: «Dimmi una cosa, però: se avessimo dovuto affrontarci in tribunale, chi credi che avrebbe vinto?». «Tu, è ovvio», rispose Jared, con un sorriso da furbetto. Sara scoppiò a ridere. «Sei davvero un presuntuoso, lo sai?». «Che cosa ho detto?». «Non è necessario che tu parli. Riesco a leggerti...». «...come un libro aperto?». «Non scherzare, Lynch. Ti avverto». «Be', allora che cosa vuoi che dica? Mi hai domandato chi avrebbe vinto. Vuoi che dica ti dica quello che penso veramente o preferisci che dica quello che ti fa più piacere? Scegli tu». Sara rise di nuovo. «Lo sai che certe volte sei spaventosamente spocchioso?». «Cosa? Io sarei spocchioso?». «No, tu sei sordo». Alzando ulteriormente la voce, aggiunse: «Ho detto
"spaventosamente spocchioso"!». Jared cercò di non incrociare gli sguardi degli altri avventori. «Lo sai che detesto quando fai così». «È per questo che non reggeresti il confronto. Sono troppi i tasti che potrei toccare». «Ah, dunque sarebbe questo il tuo metodo? Invitare la giuria al ristorante, per poi metterti a sbraitare come una matta?». «Qualunque cosa. Questo è il mio motto». «Bella roba... Sta pur certa, allora, che non farai molta strada in tribunale. Ricordati che non hai mai affrontato un processo penale». «Certo, se consideriamo la cosa da un punto di vista puramente formale... Ma qui non stiamo parlando di chi ne sa di più; stiamo parlando di chi vincerebbe il processo. E se ci pensi bene, ti conviene ammettere che non avresti una sola possibilità di vittoria contro di me». «Ah, davvero?». «Certo». «E che cosa te lo fa pensare?». «Tu sarai anche il signor So-tutto-io, però non sei minimamente preparato alla lotta». «E tu, invece, sì?». «Ragazzo, sono sei anni che ti comando a calci in culo». Toccò a Jared, questa volta, scoppiare a ridere. «Vuoi provocare?». «Parlo seriamente», disse Sara. «Per vincere un combattimento, occorre conoscere i punti deboli dell'avversario, e io, i tuoi, li conosco tutti». «Dimmene uno». «Ad esempio, odi che ti si dica che nella vita hai sempre trovato la pappa pronta». Jared incassò senza replicare. «Dimmene un altro». «Be', sei prevedibile». «Non darti troppe arie», disse Jared. «Sparane un altro». «Non sopporti di vedermi soffrire: non sapresti essere spietato con me». «Credimi: se ce ne fosse bisogno, mi sfilerei subito i guanti bianchi». «Tu non sopporti che le cose non filino alla perfezione». «E tu sei terrorizzata dalla possibilità di un fallimento», ribatté Jared. «E adesso, per favore, dimmi un vero punto debole». «Hai paura dei gatti». «Non ho paura dei gatti. Sono semplicemente convinto che tramino ai miei danni».
«Da piccolo hai letto interi volumi d'enciclopedia dall'inizio alla fine». «Solo i volumi J e Li-Lz, quelli delle mie iniziali». «Tu hai un editorialista preferito». «Non sono certo l'unico». Sporgendosi al di sopra del tavolo, Sara sollevò un mignolo e disse, a voce bassa: «E per finire... ce l'hai piccolo». «Questa non mi fa per niente ridere», disse Jared, sghignazzando nervosamente. «Ritira!». «Va bene, va bene: ritiro. Ma non venirmi a dire che non so quali tasti toccare». «Ah, certo, tu conosci senz'altro i miei punti deboli. Ma io conosco altrettanto bene i tuoi». «È proprio questo il motivo per cui non vorrei mai affrontarti in tribunale», disse Sara. «Finirebbe in un bagno di sangue». «Be', fortunatamente, non succederà. Rinuncerò all'incarico appena torno in ufficio». «Mi fa piacere», disse Sara. Protese le braccia sul tavolo e prese le mani di Jared tra le sue. «Sappi che apprezzo molto il fatto che tu ti prenda cura di me». «Sara, tu non hai bisogno che io mi prenda cura di te. E poi, io lo faccio solo perché mi piace». La attirò a sé e la baciò lievemente. «Non potrei sopportare di farti del male», disse. «Ma smettiamola di stressarci, visto che il problema è risolto». Quando ebbero terminato di pranzare, Sara e Jared si alzarono da tavola e uscirono dal locale. La giornata era di un grigio pallido, e le nuvole cominciavano ad addensarsi. «Pioverà ancora», osservò Sara. Jared annuì. «Io ho il mio taxi che mi aspetta. Vuoi un passaggio?». «No, io vado nella direzione opposta alla tua. Faccio tranquillamente due passi». Jared salutò la moglie con un bacio e rimase a guardarla fino all'angolo dell'isolato. Sara aveva una caratteristica andatura ballonzolante che a Jared piaceva molto, sebbene lui per questo la prendesse in giro. Quando lei ebbe girato l'angolo, Jared raggiunse il taxi, fermo davanti al ristorante. Non appena aprì la portiera, vide che sul sedile posteriore c'era seduto qualcuno. Era Kozlow. «Come la va, avvocato?», domandò Kozlow. «Prego, si accomodi». Jared esitò. «Non si preoccupi», lo rassicurò Kozlow. «Non voglio farle del male».
Jared, non senza una certa titubanza, salì sul taxi e si sedette accanto a Kozlow. «Che cosa succede?», domandò. «Come mai lei è qui?». «Lo vedrà». «Che cosa significa?», domandò Jared, mentre l'auto si immetteva nel traffico. «Come...». «Taci! Ci vorrà un attimo». L'auto accostò davanti a un celebre edificio cittadino sulla 58th Street, le cui maniglie e ringhiere di ottone lucidato scintillavano anche quando non c'era il sole. Un commesso in livrea aprì la portiera dal lato di Jared, che scese dal taxi con cautela. Kozlow, invece, rimase seduto. «Lei non viene?». «Non è posto per me», rispose Kozlow. «E poi, sono affari suoi». Richiuse con violenza la portiera, e il taxi filò via. «Signor Lynch», disse il commesso. «Da questa parte, prego». Jared, benché perplesso, lo seguì. Il commesso lo guidò attraverso un atrio dalle pareti rivestite di pannelli, una delle quali ornata da un magnifico specchio antico, e giù per una scala ricurva interamente coperta da un tappeto. Jared saggiò con una mano la consistenza della propria ombra delle due del pomeriggio. Torcendo il collo a destra e a manca, cercò di cogliere qualche elemento significativo. Non vide nessuno, eppure quel luogo aveva tutta l'aria di essere un club. Ai piedi della scala, si dipartiva verso sinistra il bancone di un bar stupendamente sistemato, davanti al quale si apriva un ampio salone arredato in uno stile a metà tra l'antiquariato francese e il tribale africano. Le pareti di quella sala cupa e vagamente inospitale erano decorate da maschere rituali dipinte a mano; oltre a ciò, gruppi di poltrone a schienale alto e tavolinetti Luigi xv. Casse acustiche invisibili diffondevano musica africana a basso volume. L'uomo in livrea accompagnò Jared a una porta priva di contrassegni, posta sul fondo del locale, che si aprì a rivelare una stanza privata. All'interno, disposti attorno a un caminetto di marmo, vi erano un divano e due poltrone antiche. Su una poltrona sedeva un uomo dai tratti spigolosi, alto ed elegante, che indossava un blazer nero fatto su misura e aveva i capelli biondi - che cominciavano appena, qua e là, a ingrigire - pettinati all'indietro a scoprire la fronte. Sebbene fosse impossibile accorgersene in quella circostanza, aveva anche una gamba più corta dell'altra, ma tale menomazione, causata da un incidente di gioco patito su un campo di football, era da lui ostentata come una medaglia al valore. Anzi, per lui non si trattava
affatto di un normale incidente, bensì di un "incidente subito a Princeton", come se questo facesse una gran differenza. Sentendoli arrivare, si alzò e tese a Jared una mano ben curata. «Felice di conoscerla, signor Lynch», disse. «Le dispiace spiegarmi che cosa succede?», domandò Jared. L'uomo lo ignorò. «Mi chiamo Oscar Rafferty. Non vuole accomodarsi? La prego», disse facendo un cenno verso il divano. Quindi, si voltò verso il commesso. «Grazie, George. Puoi andare». La levigata eleganza della voce di Rafferty parlava di un uomo abituato a veder soddisfatte le proprie richieste. Jared trovò conferma a questa impressione nella B dorata che contrassegnava i bottoni neri del blazer Brioni di Rafferty. Neanche Thomas Wayne aveva mai portato giacche Brioni da duemila dollari. Quei bottoni, per Jared, rappresentarono l'inequivocabile segnale del fatto che non si trattava di un normale incontro con un cliente. Mettendosi a sedere, Jared prese un pacchetto di fiammiferi da una coppa posata sul tavolino da caffè che separava il divano dalla poltrona su cui, intanto, Rafferty aveva ripreso posto. «Ho saputo che lei è di Highland Park», disse Rafferty, con grande cordialità. «Conosce, per caso, i Pritchard, la famiglia del giudice Henry Pritchard? I suoi due figli sono entrambi miei clienti: uno è drammaturgo, l'altro produttore, il che significa che lui non fa praticamente nulla». Imbarazzato dall'approccio di Rafferty, che si sforzava di scovare eventuali conoscenti comuni, Jared disse: «Non vorrei sembrarle scortese, ma posso aiutarla in qualche modo, signor Rafferty?». All'improvviso, Rafferty cambiò espressione. Non aveva gradito quell'invito a tagliar corto. «Ebbene, sì, Jared. Siccome io sono quello che paga il conto di Tony Kozlow, ho pensato che dovessimo conoscerci. Ci sono alcune piccole cose di cui è bene che tu sia informato». «Be', se si tratta della difesa di Kozlow, devo informarla, purtroppo, che sono costretto a rinunciare all'incarico. Ho appena scoperto che mia moglie rappresenta la pubblica accusa in questo procedimento». «Lo sappiamo. Non ha importanza per noi». «Ma ha importanza per me!», esclamò Jared. «È per questo che ho deciso di rinunciare all'incarico. Se vuole, però, sarò felicissimo di consigliarle il nome di un legale di assoluta fiducia, che lavora nel mio stesso studio». Rafferty assunse un'espressione di cupo rimprovero. «Credo che tu non abbia capito. Tu non rinuncerai all'incarico. Sei tu il nostro avvocato».
«Ah, davvero?». «Certo», ribadì seccamente Rafferty. «E, che ti piaccia o no, dobbiamo vincere. Ma se credi di averci impressionato con il tuo strabiliante curriculum da avvocato in carriera, ti sbagli. L'unico tuo impagabile pregio è quello di essere sposato con il pubblico ministero. Tu conosci certamente il suo metodo, il suo approccio ai problemi e, soprattutto, i suoi punti deboli. In altre parole: sai come battere tua moglie». «Ma io non ho intenzione di accettare questo incarico», insistette Jared. «Di nuovo, non hai capito. Il nostro amico Anthony Kozlow non deve assolutamente essere condannato. Quindi, se hai intenzione di proseguire a lungo con i tuoi exploit sessuali sul buffet della cucina, dovrai fare in modo di scongiurare questa spiacevole eventualità». «Come fa a sapere...?». «Credimi», disse Rafferty, con calma. «Se Kozlow verrà assolto, saremo tutti contenti». «"Tutti contenti"? Che significa?». Senza degnarlo di una risposta, Rafferty gli porse una grossa busta formato A4. Jared la aprì e vide che conteneva una ventina di fotografie in bianco e nero. Che ritraevano Sara. «Questa è Sara che va al lavoro», commentò Rafferty, mentre Jared fissava un luminoso ritratto en plein air. «Qui, invece, sta tornando a casa». Le foto mostravano gran parte dei luoghi in cui Sara era stata nelle precedenti ventiquattr'ore. Quando Jared arrivò all'immagine di Sara colta sul bordo della banchina del metrò in attesa del treno, Rafferty riprese: «Qui è quando tornava a casa, sul tardi, la sera della formalizzazione delle accuse. Credo che non vedesse l'ora di rientrare a casa, perché continuava a sporgersi oltre il bordo, nella speranza di veder sopraggiungere il treno. Non è prudente, Jared. Basterebbe una piccola spinta». Osservando quelle foto, Jared si sentì invadere da un profondo disgusto. Le percussioni della musica afro sembravano bersagliarlo da ogni lato. Le immagini di Sara sfumarono in un attacco di vertigini. Jared chiuse gli occhi, nel tentativo di riscuotersi. Quando li riaprì, guardò in faccia Rafferty. «Che cosa vuole?», domandò. «Voglio che tu faccia assolvere Kozlow», rispose Rafferty. «Nient'altro». «E se non dovessi riuscirci?». Senza batter ciglio, Rafferty raccolse le foto e le rimise nella busta. «Mi risponda», insistette Jared. «E se non dovessi riuscirci?».
Rafferty risigillò la busta. «Credo che la risposta la conosca anche tu, Jared». Lasciò che queste parole sortissero il loro effetto. «E adesso ascolta bene quello che sto per dirti, perché so cosa stai pensando: se ti rivolgi alla polizia o a qualche altro tutore dell'ordine, ti giuro che te ne faccio pentire amaramente. Il silenzio è d'oro: neanche con tua moglie devi parlare. Se apri bocca, Sara farà una brutta fine. Le sguinzaglio contro Kozlow, che le sarà addosso prima ancora che tu possa sollevare la cornetta del telefono per avvertirla», minacciò Rafferty. «Ovviamente, so benissimo che non ci sarà bisogno di arrivare a tanto... tu sei un avvocato brillante, Jared. Nelle prossime settimane, non dovrai far altro che il tuo lavoro: prepararti per il processo, essere un bravo avvocato difensore e far assolvere il tuo cliente. Questo è l'obiettivo: proscioglimento pieno, senza patteggiamenti. Evita il processo o vincilo. Se lo farai, noi spariremo dalla tua vita. Senza fastidi, senza problemi. Mi sono spiegato?». Jared annuì, lentamente, gli occhi fissi al tappeto rosso sangue che copriva il pavimento. «Interpreterò questo sgradevole silenzio come un assenso», disse Rafferty. «Dunque, domattina Kozlow verrà al più presto nel tuo ufficio. E ora goditi pure quel che rimane della giornata». Rafferty si alzò e accompagnò l'ospite all'ingresso del club. All'esterno, attendeva un'auto privata. Mentre Jared prendeva posto, Rafferty disse: «Arrivederci, Jared». Il destinatario del saluto registrò a malapena. Solo quando ebbe richiuso la portiera, si rese pienamente conto della gravità della situazione. Rivide mentalmente tutta la scena: Rafferty, la foto di Sara sul bordo della banchina nel metrò... Poi, gli venne in mente Kozlow. "Oh, mio Dio", pensò, slacciandosi la cravatta, in debito d'ossigeno. "Per un mio stupido errore, adesso siamo in trappola". CAPITOLO SEI «Salve, vorrei parlare con Claire Doniger», disse Sara, leggendo il nome dal suo blocco per appunti. «Sono io», zufolò la Doniger con una voce divenuta compiacente, per gli anni trascorsi ai cocktail party, e rauca, per gli anni di sigarette fumate. «Salve, signora Doniger, sono Sara Tate della procura distrettuale. Abbiamo già parlato ieri, a proposito del furto da lei subito. Ricorda?». «Sì, ricordo», disse la signora Doniger. «Come va?». «Benissimo, grazie. Stiamo appunto procedendo nelle indagini, e avrei
bisogno che lei mi ripetesse ancora una volta la sua versione dei fatti». «Be' non saprei che altro aggiungere. Ero immersa nel sonno più profondo. Alle tre e mezza ho sentito suonare il campanello di casa. Mi sono alzata per vedere chi fosse. Guardo dallo spioncino e vedo un agente di polizia. Quando ho aperto la porta ho visto che insieme a lui c'era un altro uomo, il quale, stando a quel che diceva l'agente, aveva appena rubato in casa mia. Io, ovviamente, ero spaventata, e ho detto che doveva esserci un errore. Al che il poliziotto mi ha mostrato l'orologio e la palla da golf d'argento, chiedendomi se erano miei». «Erano suoi?», domandò Sara, prendendo appunti. «Senza ombra di dubbio. Li ho riconosciuti all'istante. L'orologio è un Ebel di diamanti del 1956, che mio padre aveva regalato a mia madre per il loro venticinquesimo anniversario di matrimonio... Hanno smesso di produrre quel modello nello stesso anno... La palla da golf, invece, è un regalo di ringraziamento che ho ricevuto dall'associazione per la lotta contro il cancro cui sono iscritta: avevo contribuito alla raccolta di fondi in occasione di un torneo di golf delle celebrità. C'è il mio nome inciso sulla base. Evidentemente, quell'uomo li aveva appena rubati, e l'agente l'aveva sorpreso mentre era di pattuglia». Ricordandosi del consiglio di Conrad, secondo cui conviene sempre lasciar perdere il verbale della denuncia, per chiedere chiarimenti su questioni generali e ad ampio spettro, Sara domandò: «Come ha fatto l'agente a individuare Kozlow?». «È così che si chiama? Kozlow?». «Sì, è lui... il nostro delinquente preferito», scherzò Sara, nella speranza di stimolare il buon umore e la loquacità della signora Doniger. «L'agente mi ha spiegato di aver ricevuto il messaggio via radio: qualcuno aveva visto un ladro uscire di soppiatto da casa mia e aveva telefonato alla centrale». «Sa per caso chi è l'autore di questa telefonata?». «Una mia vicina di casa, che abita proprio di fronte a me. Si chiama Patti Harrison. Quella notte non riusciva a dormire e si era alzata per fare uno spuntino. Almeno, così mi ha detto». «Ha qualche ragione per dubitarne?». «È un po' un'impicciona. Sa tutto di tutti. Non mi meraviglierei se scoprissi che quella sera stava sbirciando dalla finestra per vedere chi rientrava a casa tardi. A quanto pare, però, ha visto quest'uomo uscire dalla mia casa, lo ha ritenuto un individuo sospetto e ha chiamato la polizia, fornen-
done una descrizione. Fortunatamente, l'agente di ronda arrivava da Madison Avenue e, appena girato l'angolo, lo ha sorpreso. Una coincidenza che ha dell'incredibile, mi pare». «Pare anche a me», concordò Sara. Scorrendo gli appunti, cercò di figurarsi la successione degli eventi, fotogramma per fotogramma. Con calma passò in rassegna ogni singolo fatto, alla ricerca di eventuali particolari mancanti. Infine, domandò: «Signora Doniger, la sua casa è protetta da un sistema antifurto?». «Prego?». «Casa sua è dotata di antifurto?». «Be', sì, ma è probabile che quella sera non fosse inserito, perché spesso attacca a suonare per niente e non si spegne più». «Ha trovato tracce di effrazione, come una finestra rotta, ad esempio? Esistono altri accessi praticabili, oltre alla porta d'entrata?». «No, non direi. No», rispose la signora Doniger. «Ora, però, devo chiederle di scusarmi: avrei un appuntamento, e sono già in ritardo. Non potremmo concludere la nostra conversazione un'altra volta?». «Be', a dire il vero, credo di averle chiesto tutto», disse Sara. «In ogni caso, potremmo risentirci prima della riunione del gran giurì, che è fissata per lunedì prossimo». «Ma certo», convenne la signora Doniger. «Possiamo riparlarne quando vuole». Dopo aver riagganciato, Sara trascrisse alcune altre note sul suo blocco. «Se fossi in te, non lo farei», avvertì Guff, entrando all'improvviso in ufficio. «Che cosa non faresti?». «Non prenderei appunti a quel modo. È meglio evitare». «E perché mai?». «Perché per il codice di New York, qualsiasi informazione registrata su qualsiasi supporto, da te raccolta con l'intento di utilizzarla in dibattimento, dev'essere trasmessa alla difesa prima del processo. Quindi, ti conviene evitare qualsiasi tipo di memorandum». «Vuoi dire che sa la mia teste cambia versione prima del processo, la difesa potrebbe utilizzare questi appunti per farci fare la figura degli scemi in tribunale?». «È la legge», disse Guff, gettando sulla scrivania di Sara una cartelletta. «Comunque, ho trovato le informazioni che mi avevi chiesto a proposito degli altri nuovi procuratori aggiunti». Sara aprì la cartelletta, mentre Guff
continuò a spiegare: «Oltre a te, i neo-assunti sono diciotto. Finora, ognuno di loro è riuscito a procurarsi almeno un paio di casi. Li ho suddivisi per tipo di reato». Sara diede una scorsa all'elenco e vide che ognuno di loro aveva in mano almeno tre casi di violazioni minori. Nove suoi colleghi, inoltre, erano riusciti ad accaparrarsi dei reati gravi, e due, addirittura, erano impegnati in casi di omicidio. «Merda», sospirò Sara. «Perché a New York sono tutti così competitivi?». «Sono le regole del gioco, baby. In questa città, nel preciso istante in cui decidi di fare una cosa, ci sono sempre almeno cinquecento persone in fila che hanno avuto la stessa idea prima di te». Guff eseguì un ampio gesto circolare con il braccio. «Potrà sembrarti stupido, ma a quest'ora ci sono almeno dieci persone che stanno facendo quello che fai tu. Pensieri originali non ce ne sono, a New York. È questo il bello dell'animale mosso da ambizione». «Questo animale, però, sta per mordermi i fondelli». «Non capisco perché tu ne sia così sorpresa. Quando sono stati annunciati i licenziamenti, anche l'ultimo dei lavativi ha cominciato a darsi arie da stakanovista». «Forse, allora, è il caso che io rilanci. Magari, posso procurarmi qualche altro caso». «Il problema non è: "quanti casi riesco a procurarmi?", bensì "quanti ne riesco a vincere?"», disse Guff. «Tenendo conto che ne hai già cinque, non ti consiglio di cercarne altri». «In due casi il proscioglimento è...». «Cos'è meglio, Sara? Avere per mano dieci casi e finire sopraffatti, o seguirne cinque con professionalità, attenendosi al codice?». «Qui a New York? Scelgo la prima opzione». «Dài, non lo pensi veramente». «Infatti. Però...». «Sei tentata di accaparrarti altri casi. Ti capisco, ma se metti troppa carne al fuoco, rischi di bruciarla. Prosciogli chi va prosciolto e concentrati sui casi più importanti; dopodiché, dovrai cercare di portarli in aula e di vincere i processi. È l'unico modo, se vuoi farti notare». «Ricapitolando: se esiste anche solo una remota possibilità di vittoria, dobbiamo sfruttarla al massimo; se invece le cose prendono una brutta piega, si proscioglie». «Questo è il consiglio del capitano», disse Guff. «Se lo seguirai, sarai
invincibile». In quanto membro dell'ufficio della procura distrettuale addetto ai rapporti con la stampa, Lenore Lasner passava la gran parte delle sue giornate di lavoro a spiegare a giornalisti e privati cittadini il funzionamento e l'organizzazione della procura. Chiedevano informazioni sull'esito di particolari processi o sul curriculum dei giudici. Di tanto in tanto capitava che le chiedessero notizie riguardanti un procuratore aggiunto. «Sara Tate, Sara Tate», ripeté Lenore spulciando un faldone. «Non mi pare di averla, qui». «Lavora qui da lunedì scorso», disse l'uomo appoggiato al banco, intento a osservare le lunghe e curatissime unghie di Lenore. Aveva una voce profonda, quasi rimbombante, e due guance scavate che gli davano un'aria malata. «Perché non me l'ha detto subito?», fece Lenore. Voltò il faldone e si mise a esaminare un foglio attaccato con una graffetta all'interno della copertina posteriore. «Tate, Tate, Tate», ripeteva Lenore facendo scorrere un unghia lungo l'elenco dei nuovi procuratori aggiunti. «Eccola». «Ha delle unghie bellissime», disse l'uomo. «Grazie», rispose Lenore, arrossendo lievemente. «Che cosa vuole sapere, a proposito del procuratore aggiunto Tate?». «Vorrei solo sapere dov'è il suo ufficio». «Mi spiace, ma non siamo autorizzati a fornire informazioni di questo genere. Posso darle il suo numero di telefono, però». «Va benissimo... Sarebbe così gentile da prestarmi una penna e un foglio per prendere nota?». «Certo». Quando Lenore si girò per prendere un blocchetto per appunti dalla sua scrivania, l'uomo diede un'occhiata all'elenco. Accanto al nome di Sara c'era il suo numero di telefono, nonché l'indirizzo e il numero del suo ufficio: Centre Street 80, ufficio 727. «Oops, non mi mandi al diavolo... Mi viene in mente che ho già il suo numero», disse l'uomo. «La chiamerò più tardi». «Ne è sicuro?», domandò Lenore, tornando al banco della reception. «Sì, sì», rispose lui. «So esattamente dov'è». «Ti senti bene?», domandò Kathleen, quando Jared fece ritorno in ufficio. Aveva un'aria sfatta, un colore cinereo. «Sì, grazie», rispose lui. «È il pranzo che ha avuto da ridire con me».
Richiusa la porta, Jared andò a gettarsi sulla sua sedia, premette il pulsante "non disturbare" sulla tastiera del telefono e appoggiò la fronte sulla scrivania. A chi poteva rivolgersi? Avrebbe voluto chiamare la polizia, o l'FBI, ma non riusciva a togliersi dalla testa le minacce di Rafferty. Soprattutto, però, non riusciva a smettere di pensare a Sara. Non c'erano minacce o conseguenze morali che tenessero: se si trattava di proteggere sua moglie, Jared era disposto a tutto. Doveva parlagliene assolutamente, per la sua sicurezza. Sollevando la cornetta, però, si rese conto di quanto sarebbe stato difficile convincerla a subire in silenzio. Non gli avrebbe neanche dato il tempo di finire la frase, e sarebbe andata di corsa dai suoi amici procuratori. Se poi le fosse venuto in mente di affrontare Rafferty, le cose sarebbero precipitate. Per entrambi. E poi, magari Rafferty stava già intercettando le sue telefonate. "No, è impossibile", pensò. "È troppo presto... Anche se con le apparecchiature giuste potrebbero farlo senza neanche dovermi entrare in ufficio". Posando il ricevitore, Jared si rese conto di non avere via di scampo. Poi, però, afferrò nuovamente la cornetta e, prima ancora di poter cambiare idea, compose il numero di Sara. "Devo dirglielo". «Ufficio del procuratore aggiunto Tate», rispose Guff. «Posso esserle utile?». «Sono Jared, il marito di Sara. Posso parlarle?». «Ehi, Jared! Mi spiace, ma non è in ufficio. Vuoi lasciarle un messaggio?». «Puoi dirle di richiamarmi appena rientra? È urgente». «Qualcosa che non va?». «Indovinato. Ma tu dille soltanto che voglio parlarle. È importante». Mentre riagganciava, Jared udì bussare con veemenza alla porta. Non fece in tempo a dire: «Sono occupato», che la porta si spalancò. Era Marty Lubetsky. «Dove sei stato, tutto il giorno?», domandò Lubetsky a Jared. «È tutta la mattina che ti lascio messaggi». «Mi dispiace. Ero sopraffatto dal lavoro». «Ho saputo. Mi ha appena telefonato Oscar Rafferty». «Vi conoscete?», domandò Jared. «Quanto ci si può conoscere dopo una telefonata di tre minuti. Mi ha detto che ti ha ingaggiato a nome di un suo conoscente». «Perché ha chiamato?». «Per assicurarsi che tu avessi tempo sufficiente da dedicare al caso che
gli interessa. A dire il vero, credevo gli avessi detto tu di telefonarmi. Sapeva che sono il tuo supervisore, e ha detto che l'unica ragione per cui si è rivolto a noi è l'ottima reputazione del nostro studio. Ha aggiunto che se il caso si risolvesse per il meglio, potrebbe affidare a te il compito di gestire tutti i suoi affari legali. Sembra un'ottima fonte di potenziale lavoro». «Sarebbe una buona cosa». «Puoi scommetterci», disse Lubetsky. «Comunque, volevo farti le mie congratulazioni. Mi dispiace per ieri, ma a quanto sembra le cose si stanno aggiustando. Continua così». «Ci proverò», disse Jared, mentre Lubetsky si accomiatava. Jared infilò una mano in tasca e ne tolse il pacchetto di fiammiferi che aveva preso al club. Sul risvolto, a lettere d'oro, c'era scritto TWO ROOMS. Premette il tasto dell'interfono. «Che c'è?», domandò Kathleen. «Avrei bisogno di un favore urgente. C'è un club che si chiama Two Rooms sulla East 58th Street. Puoi chiedere a Barrow di fare una rapida indagine e di riferire appena può?». «Nessun problema», disse Kathleen. «A chi devo intestare il conto?». «A nessuno. Pago io». «Che cosa hai scoperto?», domandò Jared, concitato, parlando al telefono con Barrow, venti minuti più tardi. «Hai ricevuto il fax?», domandò Barrow. In quell'istante, Kathleen entrò nell'ufficio di Jared con un mazzetto di fogli. «Ecco fatto», disse, posandoli sulla scrivania. Jared spulciò rapidamente quella serie di articoli di giornale, contratti immobiliari e documenti catastali. «Grazie, eh?», fece Kathleen. Jared, però, continuò a ignorarla. Fu tentata di dire qualcosa, ma poi si rese conto che forse non era il momento, cosicché uscì dall'ufficio, chiudendosi la porta alle spalle. «Come puoi vedere, è il più classico e stupido dei club per ricchi», spiegò Barrow. «All'esterno non ci sono insegne, ma a quanto pare è conosciuto da tutte le persone giuste. Un tempo si chiamava Le Club, ma poi qualcuno ha avuto perlomeno il buon senso di cambiargli nome. Oltre a questo, ho trovato alcune menzioni del club sui giornali, e recensioni relative al ristorante. È un posto serio, Jared... Super-esclusivo. A quanto sembra, entrare è impossibile, il che significa che le signore in cerca di gonzi ci vanno regolarmente a caccia, fingendo indifferenza».
«È un club privato?». «Non lo so. Non mi hanno risposto al telefono. Se ti serve il numero, lo trovi sulla prima pagina del fax». «Grazie», disse Jared, soprappensiero. «Ah, ho fatto un controllo anche sul tuo amico Kozlow. L'hai vista la sua fedina penale?». «Sto ancora aspettando che mi mandino il materiale dallo studio del suo ex avvocato. C'è qualcosa di interessante?». «Non lo definirei esattamente interessante, però ti dico una cosa: quel tipo è un lurido bastardo. Chiunque usi un cacciavite per...». «Be', lo leggerò da me», lo interruppe Jared. «No, ascolta: ha preso un cacciavite e...». «Lenny, ti prego. Non ho proprio voglia di parlarne adesso». Barrow si placò per un istante; quindi, domandò: «Tutto questo ha a che fare con la ragione per cui al ritorno dal pranzo eri così sconvolto?». «Chi ti ha detto che ero sconvolto al ritorno dal pranzo?». «Kathleen. Mi ha detto che eri uno straccio». «Non è affatto vero. È solo che ho un mucchio di cose a cui pensare». «Jared, ci conosciamo da tanto tempo. Non devi raccontarmi le bugie». «Non ti sto raccontando bugie», ribatté Jared. «Non potrei mai. Be', dimmi quanto ti devo per le tue ricerche». «Credi che io possa accettare dei soldi da te? Se lo facessi, Sara finirebbe per patire la fame», disse Barrow, ridendo di gusto. «Se è una cosa importante e personale, siamo a posto così. Cerca solo di recuperare il prossimo blocchetto di Ticket Restaurant». «Grazie, Lenny». «Non c'è di che. Fammi sapere se ti serve altro». Jared interruppe la comunicazione e compose il numero del Two Rooms. «Two Rooms, mi dica». Jared riconobbe la voce del commesso in livrea. «Salve, vorrei alcune informazioni sul vostro club. È privato o è aperto al pubblico?». «Siamo aperti al pubblico, signore». «Dunque, quella stanza al piano inferiore... la si può prenotare per un pranzo?». «Mi dispiace, ma a ora di pranzo siamo chiusi. Si può solo cenare». Jared, esitante, disse: «Sono stato lì circa un'ora fa. Ho avuto un incontro con Oscar Rafferty».
Questa frase fu accolta, all'altro capo del filo, da un gelido silenzio. Quindi, il commesso disse: «Oggi, signore, non ci sono stati incontri, qui». «Come no?», insistette Jared. «Riconosco persino la sua voce. Lei è la persona che mi ha accompagnato nella sala al piano inferiore». «Non so di che cosa parla, signore. Mi creda, non c'è stato alcun incontro». Jared udì un clic. Il commesso aveva riattaccato. "Che diavolo sta succedendo?", si domandò Jared. Nel tratto di strada che separava la stazione del metrò da casa sua, Jared fu sopraffatto dalla stanchezza. Durante il viaggio si era guardato in giro almeno trenta volte, nel tentativo di capire se qualcuno lo stava seguendo. Sul metrò, aveva cambiato vagone tre volte, ed era sceso all'improvviso, appena prima che le portiere si richiudessero, alla fermata della 72nd Street, invece che alla 79.th Street com'era sua abitudine. Camminando per Broadway, osservava la propria immagine riflessa in ogni vetrina davanti a cui passava, per controllare che nessuno lo tallonasse. A un certo punto, si mise istintivamente a correre. E non a corricchiare, bensì proprio a correre, a tutta velocità. In pieno sprint, svoltò bruscamente in 78th Street e si infilò nella porta più vicina, l'angusta entrata di servizio di una drogheria d'angolo. A quanto pareva, però, nessuno lo stava seguendo. "Forse Rafferty bluffava", pensò Jared, proseguendo verso casa. "Forse, con quelle minacce voleva solo spaventarmi". Jared entrò nel portone del suo palazzo e aprì la cassetta della posta. Si accorse, da un lieve scrocchio, di aver calpestato qualcosa. Guardò a terra e vide dei frammenti di vetro infranto sparsi dappertutto nel piccolo andito. Usò un piede a mo' di scopa e spinse le schegge in un angolo. Salendo le scale, notò altro vetro per terra e comprese, ben presto, quale ne fosse l'origine: il grande quadro incorniciato che, con i suoi girasoli, ornava il pianerottolo era andato in frantumi. Subito, però, vide anche che la porta del loro appartamento era socchiusa. Mentre avanzava cauto, un brivido freddo gli corse lungo la schiena. Ignorando i frammenti di vetro che scricchiolavano sotto le sue scarpe, controllò da una parte e dall'altra del breve corridoio e sulla successiva rampa di scale che non vi fosse nessuno. Lentamente, spinse la porta e sbirciò all'interno. Per prima cosa, vide le librerie in quercia, che lui e Sara avevano tanto faticato a montare, scaraventate a terra. Poi le sedie in pino ammucchiate in un angolo e il relativo tavolo rovesciato. La cucina a soqquadro. Si diresse circospetto in soggiorno, camminando sulle centinaia di libri
che coprivano gran parte del pavimento. Il suo manifesto di Bogart era stato strappato dalla parete; cuscini delle poltrone sparsi a caso, il divano rovesciato su un fianco, le lampade alogene a terra, il tavolino da caffè in vetro distrutto, la televisione a faccia in giù sul pavimento, videocassette ovunque e, per finire, le piante sradicate, con svuotamento dei vasi sul tappeto. Sebbene i sei ritratti di Jared eseguiti da Sara fossero ancora appesi al muro, le loro cornici erano ormai inservibili. "Oh, mio Dio", pensò Jared. "Non è rimasta una sola cosa intatta". Mentre in quella baraonda cercava il telefono per avvertire la polizia, Jared sentì un tonfo sordo provenire dalla camera da letto. C'era ancora qualcuno in casa. Jared si acquattò in un angolo del soggiorno, mettendosi a spiare da dietro il divano rovesciato. Udì l'intruso spostarsi dalla camera da letto in cucina. Passi pesanti che fecero tremare il pavimento di legno duro. Sentì frugare nei cassetti della cucina. Quindi, scorse, al centro della stanza, un tagliacarte d'argento. Non era lontano. Doveva impadronirsene. Quatto quatto, Jared si avvicinò all'obiettivo, evitando i compact disc che lastricavano la stanza. Pregando di non calpestare un qualche asse cigolante, raccolse il tagliacarte. Poi, cercando di fare meno rumore possibile, si alzò in piedi. Poteva ancora contare sul fattore sorpresa, ma non appena ebbe impugnato la sua arma, sentì che l'intruso ritornava in camera da letto. Sporgendo la testa, Jared gettò un'occhiata fugace in cucina. Vedendo che, in effetti, non c'era nessuno, vi si introdusse e notò che qualcuno aveva buttato per aria tutti i cassetti, svuotato le credenze e i mobili. Serrando ulteriormente nel pugno il tagliacarte, Jared si appiattì contro il frigorifero e prese fiato. Era in un bagno di sudore. "Tieni duro", disse tra sé. "Respira profondo". Dieci secondi dopo, si decise ad abbandonare la trincea della cucina, per muovere silenzioso verso la porta chiusa della camera da letto. A mano a mano che si avvicinava, coglieva sempre più chiaramente il rumore soffocato prodotto da un frenetico rovistare. Evidentemente, qualcuno stava frugando nei cassetti del grosso comò sistemato sul lato destro della stanza. Mentre l'ansia lasciava il posto a una rabbia incontrollabile, Jared levò la mano che stringeva il tagliacarte e posò l'altra sulla maniglia. Tremava. "Al tre, vado", si disse. "Uno... due...". Spalancò la porta di scatto e fece irruzione nella stanza, ma non appena fu entrato sentì un dolore in mezzo alle scapole. Qualcuno l'aveva colpito, facendolo cadere a terra. Lo stavano aspettando. Nella caduta gli era sfuggito di mano il tagliacarte, ma prima
che riuscisse ad afferrarlo sentì risuonare una voce familiare: «Ma sei impazzito?». Sara era lì in piedi, con un coltello da cucina in mano. «Credevo che fossi il ladro», disse lei, lasciando cadere l'arma. «Avrei potuto ammazzarti». «Scusami», disse Jared, rialzandosi. Ancora scosso, abbracciò la moglie. «L'importante è che tu stia bene. Stai bene?». «Sì, sta' tranquillo», rispose Sara. «Oh, grazie a Dio! Quando sei rientrata?». «Dieci minuti fa, più o meno», spiegò Sara. «Quando sono entrata, a momenti svenivo. Ho chiamato la polizia e poi sono venuta a vedere se avevano rubato i gioielli di mia madre». «Li hanno rubati?». «Fortunatamente, no. Però mi pare che abbiano preso i soldi dal primo cassetto del comò, l'orologio d'oro da taschino che ti ha dato Pop e alcune cornicette d'argento. I gioielli, invece, non li hanno trovati». Sara tornò in soggiorno e rivide il cumulo di rovine cui era ormai ridotto il loro appartamento. Mentre lei si dava da fare per rimettere a posto le piante e i vasi, Jared vide il coltello di Chinatown posato in bella vista su uno dei cuscini del divano. Quando raccolse la teca che proteggeva il suo pezzo da collezione più pregiato, si accorse che alla sua base, con del nastro adesivo, era stato attaccato un foglietto. Gli balzò il cuore in gola quando lesse le tre parole che c'erano scritte: "TI CONVIENE TACERE". «Devono aver pensato che fosse un coltello qualsiasi», disse Sara. «Eh?». «Il coltello... Se avessero saputo cos'era, di certo se lo sarebbero preso». «Ah, certo», disse Jared. Staccò il foglietto dalla teca e lo appallottolò. Sara sollevò la cornetta del telefono. «Non riesco a crederci. Non faccio in tempo a passare dalla parte dei buoni che subito veniamo presi di mira dalla malavita. Adesso chiamo Conrad per assicurarmi che...». «No!», urlò Jared, bloccandola. Quindi, cogliendo l'espressione sorpresa della moglie, aggiunse: «La polizia sarà qui a momenti. A quel punto vedremo quel che manca e ragioneremo sul da farsi». «Sì, forse hai ragione», ammise Sara, raccogliendo alcuni libri dal pavimento del soggiorno. «Però, ti giuro che se prendo quei bastardi che ci hanno combinato questo disastro, sarà mia cura seguire personalmente il caso... Chiunque sia stato a mettere le sue manacce tra le mie cose, pagherà caro».
«Già», fece Jared, senza entusiasmo. «Ehi, ti senti bene?». «Sì, sì, sto bene». «Ne sei sicuro? Hai una faccia spaventosa». «Che vuoi che ti dica? Ci sono entrati in casa i ladri e ci hanno disfatto l'appartamento... Dovrei essere contento?». «No, è ovvio. Ma pensa al lato positivo: se ne sono andati prima che rientrassimo, nessuno si è fatto del male e, con tutta probabilità, non avremo mai più a che fare con loro». «Già», ripeté Jared, fin troppo consapevole del fatto che Rafferty non avrebbe mollato l'osso. «Siamo davvero fortunati». «Ah, a proposito: perché mi cercavi oggi pomeriggio? Cosa c'era di così importante?». Jared si irrigidì, stringendo nel pugno il foglietto accartocciato. «Oh, nulla». «Guff mi ha detto che era urgente». «Non era nulla», ribadì Jared. «Solo una crisi passeggera». Quando a mezzanotte la polizia, dopo aver passato l'appartamento al setaccio, alla ricerca di impronte digitali, se n'era andata, Sara e Jared avevano rimesso a posto le loro cose. «I poliziotti mi sono sembrati molto attenti», disse Sara, sdraiandosi sul divano. «È nel loro interesse», disse Jared, sedendosi sulla sua poltrona preferita. «Tu sei una di loro». Si sforzava in tutti i modi di dissimulare la sua affettazione, ma non riusciva a staccare gli occhi dalla moglie. Se l'avesse fatto, sarebbe potuto accadere qualcosa - anzi, sarebbe certamente accaduto qualcosa. E la colpa sarebbe ricaduta su di lui. Dipendeva tutto da lui. A disagio, per via del silenzio, aggiunse: «Comunque, adesso che abbiamo finito con questo casino, vorrei sottoportene un altro: non posso rinunciare alla difesa di Kozlow». Sara saltò su dal divano. «Che significa "non posso"? Sei maggiorenne... Puoi fare quello che vuoi». «Davvero, non posso». «Perché no? Hai una pistola puntata alla tempia?». «No», rispose lui, seccato. «È solo che non posso rinunciare». «Non puoi farmi questo, Jared. Avevi promesso che...». «Lo so, ma purtroppo non sono in grado di mantenere la mia promessa».
«Ascolta: Kozlow si è rivolto a te solo perché sei mio marito. È evidente che sta cercando di fregarci». «Grazie per il complimento». «Hai capito benissimo quello che voglio dire». «Be', a parte la ragione per cui sarei stato scelto, Lubetsky ha scoperto che il tipo che paga il conto di Kozlow è uno piuttosto ricco. È convinto che, se io assumo questo incarico, potrebbe affidare a noi anche gli altri suoi affari legali». «Allora, di' a Lubetsky di incaricarsi lui del caso. Sarei felice di schiaffeggiare in aula la sua settuplice pappagorgia». «Kozlow vuole me, e Lubetsky ha detto che devo assolutamente pensarci io. Ci ho provato, cara. Davvero». «Non ci hai provato abbastanza», disse lei, alzando la voce. «Se accetti questo incarico, ostacolerai la mia carriera. E se io vengo sconfitta in un processo da mio marito, dovrò scordarmi anche quella vaga possibilità che ho di conservare questo lavoro». «Calmati un attimo». «Non dirmi che mi devo calmare. Provaci tu, per sei mesi, a spedire curriculum a tutti gli studi legali di New York. Provaci tu, a ricevere duecentoventicinque lettere di rifiuto. Sul mercato della giustizia, io sono una merce usata. E siccome la mia autostima ha già dovuto subire abbastanza umiliazioni, non sento proprio il bisogno di ripetere l'esperienza». «Ehi, aspetta», disse Jared, mettendosi a sedere accanto a sua moglie. «Credi davvero che io lo faccia per rovinarti la carriera? Sara, tu per me sei la cosa più importante al mondo. Non farei mai nulla che possa danneggiarti. È solo che...». La voce di Jared ebbe un sussulto. «Che cosa?». «Niente... Io...». «Su, parla», lo pregò Sara. «Che cosa aspetti?». Jared esitò; quindi, disse: «Lubetsky mi ha detto che se non accetto l'incarico e non convinco il cliente ad affidarci i suoi affari, dovrò scordarmi di diventare socio. Anzi, mi licenzierà in tronco». Sara restò di sasso. «Stai scherzando? Davvero, ti ha detto questo?». «Dopo quello che è successo ieri, mi ha dato una specie di ultimatum. Tra sei mesi voteranno sulla mia candidatura a socio, e nei sei anni e mezzo che finora ho trascorso da loro non ho procacciato neppure un cliente». «Ti sei occupato di alcuni dei casi più importanti...». «Sì, ma non erano clienti miei. Ora devo procurarmi il lavoro da me, e
se non ci riesco sono guai. Anche se si tratta soltanto di un gruppo di avvocati, uno studio legale è pur sempre un'impresa, e se l'impresa non si espande, tra sei mesi mi troverò esattamente nella situazione da cui tu sei appena uscita». Sara tacque. Deciso a sfruttare lo spiraglio, Jared insistette: «Non so come fare. Con i tuoi debiti ancora da pagare, non so se possiamo permetterci di...». «Davvero ti licenzieranno?». «Così mi ha detto», rispose Jared. «So che una tua eventuale sconfitta al processo potrebbe danneggiarti, ma a quel punto, alla procura, le tue qualità di pubblico ministero non saranno già più in discussione. Non si sbarazzeranno di te solo perché non riuscirai a vincere il tuo primo processo». «E chi dice che non riuscirò a vincerlo?», domandò Sara, con un sorriso un po' stiracchiato. Jared tirò un sospiro di sollievo. «Grazie, tesoro. Apprezzo molto quello che stai facendo». «Io non sto facendo proprio niente. Se anche ci sarai tu, dall'altra parte, non farò sconti: verrò armata fino ai denti». «È il minimo che tu possa fare». Sara si alzò dal divano e seguì il marito fuori dalla stanza. Mentre raggiungevano la camera da letto, gli domandò: «Chi è che paga il conto di Kozlow?». «Non posso dirtelo», rispose Jared, in tono scherzosamente ostile, entrando in camera da letto. «Tu sei il nemico». «Oh-oh, ci siamo», disse Sara. «Si sono aperte le ostilità». Appoggiandosi allo schienale della sedia e guardando soddisfatto una piccola ricevente nera, Rafferty sorrise. «Ebbene?». «A quanto pare, il primo round è da assegnare al nostro ragazzo», disse l'interlocutore di Rafferty togliendosi le cuffie. «È davvero abile: sa toccare le corde giuste». «Per questo l'abbiamo scelto», disse Rafferty. «Ora speriamo solo che sappia fare altrettanto in tribunale». «E se così non fosse?». «Non voglio .neppure prendere in considerazione una simile eventualità». «Kozlow, però, ha detto...». «Non voglio saperlo. Dovrei ammazzarlo per quello che ha fatto».
«E lo faresti, se non fosse che lui, prima ancora che tu possa muoverti, è capace di staccarti la testa». Rafferty ignorò l'osservazione. «Non farti spaventare da lui. L'idea del furto era buona, ma questo non risolve certo i nostri problemi. Finché Kozlow non viene assolto, siamo tutti nei guai. Quindi, non ha alcuna importanza quello che farei: deve essere assolto». Alle due meno un quarto, quella notte, Jared era disteso a letto, incapace di prendere sonno. Nell'ora precedente, si era appisolato a più riprese, ma ogni volta, sul punto di sprofondare nel sonno, prossimo a dimenticare ogni guaio, si risvegliava di soprassalto. E tutti i problemi tornavano a galla. Ogni volta, si girava istintivamente verso la moglie e osservava il ritmico movimento del suo petto, per accertarsi che respirasse. Questa era l'unica cosa di cui gli importava: finché lei stava bene, il resto non contava. Alle sette di mercoledì mattina, Jared era già sulla banchina del metrò in attesa del treno. Tenendosi accuratamente lontano dal bordo, non smise un solo istante di guardarsi intorno e di scrutare la folla. Un tale con la camicia azzurra e la cravatta rossa aveva l'aria sospetta, e anche quello con il completo verde scuro. Per non parlare della donna che leggeva il giornale o della ragazza che ascoltava il suo walkman. Arretrando, Jared cercò di non farsi sopraffare dalle paure. Ma quando dalla scala mobile affluì un ulteriore ondata di passeggeri, Jared si mise a sobbalzare a ogni minimo sguardo. A quel punto, girò i tacchi, uscì dalla stazione e fermò un taxi. Quando arrivò in ufficio erano già quasi le sette e mezza. La violazione del domicilio, la pessima nottata e il viaggio mattutino lo avevano provato sia fisicamente sia psicologicamente. Aveva gli occhi stanchi e le spalle cadenti, ma soprattutto un groppo alla gola per aver mentito a Sara. A dire il vero, non era in condizioni di fare una levataccia, ma se doveva proteggere sua moglie, allora aveva un bel po' di lavoro da sbrigare. Trovarsi di fronte una persona come Sara in un processo significava che nulla poteva essere lasciato al caso. Come aveva scoperto alla sua prima esperienza in tribunale, un buon avvocato può trasformare in vittoria anche la più piccola sbavatura della controparte. Percorrendo il corridoio, però, Jared non pensava alle strategie processuali, alle testimonianze o al criterio di scelta dei giurati. Stava ancora ripassando mentalmente, in maniera compulsiva, tutte le possibilità a disposizione di un avvocato che intenda rinunciare a un incarico. Quando rag-
giunse la scrivania di Kathleen, si sforzò di sorridere. «Buongiorno», disse lei. «Si comincia presto oggi, eh?». «Già», fece Jared. «Cancellami tutti gli appuntamenti del prossimo mese, a cominciare da oggi: il caso Kozlow ha la priorità assoluta». «Perché? Non è un banale furto con scasso?». «Che ne sai tu dell'importanza di questo caso?», replicò Jared, irritato. «Ehi, rilassati. Era solo una domanda». Jared si sporse al di sopra della scrivania di Kathleen e abbassò la voce. «Non deve saperlo nessuno, ma a te lo voglio dire: la pubblica accusa, in questo processo, sarà sostenuta da Sara». Kathleen sobbalzò. «Cosa? Dovrai affrontare tua moglie?». Jared corrugò la fronte. «Credimi: mi piacerebbe disfarmi di questo caso. Ed è per questo che ho bisogno del tuo aiuto. Per quel che posso immaginare, il fatto che moglie e marito si trovino l'una di fronte all'altro in tribunale rispettivamente nelle vesti di rappresentante della pubblica accusa e avvocato difensore potrebbe comportare un qualche tipo di conflitto di interessi. Da un punto di vista etico, mi pare un campo minato per tutti i soggetti coinvolti nella situazione, ma soprattutto per l'imputato. Insomma, dovresti trovarmi un consulente legale che in base al codice deontologico verifichi se una simile situazione è contemplata o meno». «Perché non accetti? La seppelliamo». «Non ti permettere, capito?», la avvertì Jared. Kathleen smise di scrivere, alzò la testa e lo guardò. «Ehi, calmati! Stavo scherzando. Quando avrò trovato la persona giusta ti farò sapere». Inspirando profondamente, Jared si avviò verso il proprio ufficio. "Forse, questa volta funzionerà", pensò. Quando aprì la porta, fu accolto da una voce che disse: «Ehilà, capo! Che programmi ha per oggi?». Kozlow era semidisteso su una sedia in un angolo dell'ufficio di Jared, con i piedi appoggiati sul cestino dei rifiuti. «Come ha fatto a entrare qui?», domandò Jared, infastidito. «Antico segreto cinese», rispose Kozlow. «Se fossi in lei, però, non ne parlerei con Kathleen. A occhio e croce, direi che è una a cui non piacciono le sorprese». Jared andò a sedersi e fissò il suo cliente negli occhi. «Stammi a sentire», disse, tirando un calcetto che costrinse Kozlow a togliere i piedi dal cestino. «Lo so che sei stato tu a entrare in casa mia». «Oh, qualcuno è entrato in casa tua?», domandò Kozlow con aria innocente.
«Non credere di fare lo stronzo con me, hai capito?», minacciò Jared. Kozlow balzò all'impiedi e, afferrato Jared per la cravatta, lo tirò a sé. «E tu non credere di usare questo tono con me», snocciolò di rimando Kozlow. La trazione esercitata sulla cravatta non accennava a diminuire. «Hai capito?», aggiunse Kozlow, dopo un po'. Jared annuì, traumatizzato dalla reazione. «Hai da fare un lavoro, e noi vogliamo essere sicuri che tu lo faccia bene. Non prenderla come un fatto personale». «Ecco cosa mi serve», disse Sara, sedendosi alla sua scrivania, mentre Guff era pronto per prendere nota. «Innanzitutto, devi scoprire se marito e moglie possono affrontarsi in tribunale. Siccome mi puzza come un camion di letame, vorrei che tu trovassi qualcosa per cui uno di noi due può o deve rinunciare al proprio incarico. In tal caso, Jared mi darà la precedenza. Poi, voglio...». «Sei spaventata all'idea di trovartelo di fronte, vero?», domandò Guff. «Chi, Jared? Neanche per sogno. Perché? Sembro spaventata?». «Come non detto. Dimmi cos'altro devo fare». «Magari sono un po' nervosa, ma non credo di essere spaventata». «Okay, ho capito: non sei spaventata». «Sul serio, non mi turba», insistette Sara, ma quando vide che Guff non replicava, ammise: «Che vuoi che ti dica? È ovvio che sia spaventata». «Solo perché è tuo marito?». «In parte è per questo, ma sono preoccupata soprattutto perché le cose sembrano sempre girare nel verso giusto, per lui. Tutto si sistema sempre a suo favore». «Non capisco». «Ti faccio un esempio: al terzo anno di law school, c'era un corso che verteva sugli aspetti legali relativi all'istituto della presidenza degli Stati Uniti. Il primo giorno, il professore chiese a noi studenti di alzarci tutti in piedi. A quel punto cominciò a dire: "Tutti gli individui di sesso femminile si siedano. Tutti coloro che non sono nati sul territorio degli Stati Uniti si siedano. Chiunque sia più basso di un metro e ottanta si sieda". A uno a uno i componenti delle categorie elencate si sedettero, me compresa, e quando il professore ebbe terminato il suo elenco, l'unica persona rimasta in piedi era Jared. A quel punto il professore disse: "Lei è l'unica persona presente che, a parte i requisiti d'età, possiede le qualità per diventare presidente».
«Sai che roba! Vuol dire soltanto che è un regolare pazzesco di un metro e ottanta». «Non è solo questo. Per quanto tu sia brillante, furbo o aggressivo, Jared trova sempre, come per incanto, un sistema per volgere le cose a proprio vantaggio. È così che faceva alla law school, ed è per questo che, nonostante non abbia mai procacciato un solo cliente, è candidato a diventare socio dello studio in cui lavora. È difficile da spiegare, ma è uno di quei tipi che, anche quando devono lavorare duro per ottenere un risultato, danno l'impressione di averlo conseguito facilmente». «Odio i tipi come lui», disse Guff. «Io, invece, me lo sono sposato. E ciò significa che dovremo faticare più del previsto per vincere», disse Sara. «Comunque, rimettiamoci al lavoro. Voglio parlare al telefono con la vicina della signora Doniger...». «Patti Harrison», disse Guff. «Rintracciala al telefono; così potremo farle qualche domanda preliminare. È sicuramente la testimone più interessante che abbiamo da portare davanti al gran giurì, l'unica che abbia visto Kozlow sgattaiolare fuori dalla casa. Terza cosa: voglio riparlare con la Doniger. Dobbiamo accertarci che sia pronta per la testimonianza. Quarto e ultimo... Aspetta, qual era l'ultima cosa che dovevo dirti?». «Vuoi interrogare l'agente McCabe? È qui fuori che aspetta». «Cosa? È qui?». «Te l'ho detto», confermò Guff. «Ieri sei stata impegnatissima tutto il giorno, così ho pensato bene di chiamarlo io, per chiedergli quando poteva presentarsi. Venerdì lavora fino a tardi, ed è di turno anche nel fine settimana. Mi ha detto che oggi per lui sarebbe andato bene, e io l'ho invitato a venire». «Fantastico», disse Sara. «Fallo entrare». Poco dopo, l'agente McCabe fece il suo ingresso nell'ufficio di Sara. Aveva occhi penetranti, anche se stanchi, e la bocca piegata in una smorfia triste; era più magro di come gli era apparso al videotelefono. Si tolse il berretto da poliziotto, scoprendo i folti capelli neri, e prese posto di fronte a Sara. «Allora, come la trattano in procura?», domandò con una marcata inflessione di Brooklyn. «Meglio non si potrebbe», rispose Sara, sfogliando il suo blocco degli appunti. «Vorrei risentire la sua ricostruzione dei fatti prima della testimonianza davanti al gran giurì. Può ripetermi com'è andata quella notte?». «Be', è semplice: io sono di pattuglia nell'East Side, tra la 80th e la 90th
Street e da Lexington a Madison Avenue. Verso le tre e mezza, ricevo via radio la segnalazione di un presunto furto al 201 della East 82nd Street. Mentre mi forniscono la descrizione del presunto ladro, mi reco all'indirizzo segnalato». «È accorso sul posto?». «Ovvio. Sa cosa significa essere di pattuglia?». «Certo», disse Sara, imbarazzata. «Di pattuglia». «Comunque, a un paio di isolati dal luogo del delitto, vedo un tale che corrisponde perfettamente alla descrizione del presunto ladro». «E qual era questa descrizione?». «Jeans neri, giubbotto di pelle nero e pizzetto sul mento. Combaciava». «Teneva, per caso, un atteggiamento in qualche modo sospetto? Stava correndo? Ha opposto resistenza all'arresto? C'erano indizi della sua colpevolezza?». «Alle tre e mezza di notte, in una via deserta, a due isolati dal luogo del delitto, ho visto quest'uomo che corrispondeva alla descrizione fornitami via radio», disse seccamente McCabe. «Che altro vuole sapere?». «L'ha perquisito sul posto?». «Sì. Ho trovato l'orologio, la palla da golf e il denaro». «Rifacciamo», disse Sara. «Quando saremo davanti al gran giurì, non si accontenteranno di così poco». Passò a McCabe una copia del verbale di denuncia, e aggiunse: «Bene, agente McCabe, può dirci che cosa ha trovato addosso all'imputato?». Leggendo dal verbale, McCabe declamò: «Un orologio Ebel di diamanti, una palla da golf d'argento e quattrocentodiciassette dollari in contanti». «Perfetto», disse Sara. «Così va benissimo. Quindi, ha riportato Kozlow al 201 di East 82nd Street e ha svegliato la signora Doniger?». «Esatto. Non si era neanche accorta di essere stata derubata». «Ha riconosciuto come propri gli oggetti trovati addosso a Kozlow?». «Sì, dopo un attimo di indecisione li ha riconosciuti. Sull'orologio c'era inciso il nome della madre; sulla palla da golf, invece, il suo». «È stato rubato altro, a parte i soldi?». «Io non ho trovato altro; del resto, la signora Doniger mi ha assicurato che non mancava nulla, oltre a quello che si è detto. Per come la vedo io, Kozlow stava arraffando la roba, ma a un certo punto, per non so quale ragione, dev'essersi spaventato ed è fuggito». «Ha interrogato la vicina della Doniger, la signora Harrison?». «No», rispose McCabe. «Non sapevo che fosse lei l'autrice della segna-
lazione». «Un attimo», disse Sara, alzando gli occhi dal foglio. «Mi sta dicendo che non ha proceduto all'identificazione dell'imputato da parte della testimone, quella notte stessa?». «Io non sapevo che era stata la vicina a chiamare». «Va bene. D'accordo», disse Sara. «Ma ha fatto, almeno, rilevare le impronte digitali in casa della Doniger?». McCabe scosse la testa in segno di diniego. «Avevo già fermato il presunto colpevole... Non c'era bisogno di rilevare le impronte». «Vuole scherzare?», domandò Sara. «Ce n'era bisogno, eccome! Sarebbe stata la miglior prova dell'avvenuta intrusione». «Ehi, non se la prenda con me: non sono un investigatore. Io becco la gente, la impacchetto e la sbatto dentro. E poi, non ci sono abbastanza soldi per rilevare le impronte a ogni minimo reato. Se non c'è scappato il morto o non si tratta di un caso importante, la scena del delitto resta dov'è e noi proseguiamo per la nostra strada». «Be', buono a sapersi», disse Sara. «Mi ricordi di ringraziare i responsabili dei tagli al bilancio, quando avrò perso la causa». Scorrendo gli appunti, aggiunse: «Be', mi permetta di farle qualche altra domanda. Da quanto tempo conosce Victor Stockwell?». «Che domanda è mai questa?». «È una domanda importante», insistette Sara. «So chi è, ma non l'ho mai incontrato». Perplessa, Sara incalzò: «Perché, allora, ha richiesto che il caso fosse affidato a lui?». «Che cosa?». «Quando ho assunto questo incarico, sul modulo che accompagnava il verbale c'era la richiesta di affidare il caso a Victor. Se lei lo conosce appena, perché ha chiesto che fosse assegnato a lui». «Io non ho chiesto proprio niente», rispose McCabe. «È lui che mi ha chiesto di passargli il caso». Sara ammutolì. «Davvero?», disse poi. «È stato Victor ad avvicinarla?». «Proprio così. Mi ha telefonato alcune ore dopo l'arresto, mentre stavo compilando tutti i documenti. Mi ha detto che era interessato al caso Kozlow e mi ha chiesto di indirizzare a lui la cartelletta. Non avevo motivo di non farlo, così ho preso un post-it e ci ho scritto su il suo nome». Quando notò l'espressione perplessa di Sara, domandò: «Ho fatto male?». «Non lo so», rispose lei. «È quello che ho intenzione di scoprire».
Sara accompagnò McCabe alla porta e, quando questi se ne fu andato, tornò alla sua scrivania. Non era certo senza motivo che uno dei migliori pubblici ministeri si interessava a un caso di così basso profilo. Mentre si arrovellava alla ricerca di ipotesi plausibili, raccolse una graffetta di metallo dal tavolo, la spiegò e prese ad arrotolarsela intorno a un indice. Magari Victor credeva che fosse un caso interessante. Forse, voleva alleggerire il proprio carico di lavoro. O magari conosceva qualcuna delle persone coinvolte. Non poteva darsi che fosse amico di Claire Doniger? O che conoscesse Kozlow? Continuando a torcere la graffetta, rifletté sulle ragioni per cui era consigliabile tenere per sé i propri sospetti. Osservando il dito costretto dalla graffetta, si rese conto di non avere la minima idea sul da farsi. La procura, per lei, era ancora un territorio inesplorato; aveva bisogno di aiuto. Srotolando la graffetta, cercò il pulsante dell'interfono sulla tastiera del suo telefono, ma dovette constatare che ne era sprovvista. Non era più allo studio legale! «Guff, puoi venire qui un attimo?», urlò. Quando Guff arrivò, Sara gli chiese di chiudere la porta. «Oh-oh, che succede adesso?», domandò lui. «Devo dirti una cosa». «Fammi indovinare: vuoi la mia lista segreta». «La lista di cosa?». «La mia lista segreta di parole buffe. Lo so che tutti ne parlano. Ne ho diffuse un paio via e-mail la settimana scorsa, e da allora tutti aspettano con ansia il seguito. Io, però, non le rivelerò mai. Dovrete accontentarvi di quelle che ho già reso pubbliche: magatello, baballone, gino di legno...». «Guff, ti prego, ascoltami. Ti ricordi quando all'UAC io mi sono impadronita del caso?». Guff annuì. «Quando è arrivato il fattorino a consegnare, tu eri dentro a parlare con Evelyn e Victor. Quindi, non sai che il caso Kozlow era già destinato a qualcun altro... Anzi, proprio per questo l'ho preso». «Be', non è un problema. I poliziotti richiedono sempre i migliori procuratori». «Lo so, ma ho appena saputo che in questo caso non è stato il poliziotto a richiedere il procuratore, bensì il procuratore a chiedere il caso al poliziotto». «E chi sarebbe questo procuratore?». Sara non rispose.
«Rispondimi, Sara. Non è uno scherzo. Potrebbe essere...». «Victor», disse lei. «Questo caso lo voleva Victor». «Oh, no! Perché hai fatto una scemenza del genere? È come mettersi a stuzzicare un cane rabbioso». «È stato il fattorino a togliere il post-it con la richiesta. Diceva che non aveva importanza... Io non sapevo...». «Infatti, tu non sai...». «Guff, sono stata stupida, lo ammetto. Tu però puoi aiutarmi. Non saprei di chi altro fidarmi». «Non so. Secondo me, questa faccenda è fuori dalla mia portata. Se fossi in te, ne parlerei con Conrad». «Conrad mi ammazza se viene a sapere che ho rubato un caso indirizzato a un altro procuratore». «Sta a te decidere, ma se dovessi scegliere da chi farmi ammazzare, tra Conrad e Victor sceglierei in ogni caso Conrad, senza esitazioni». «Com'è andato?», domandò Conrad, quando Sara entrò nel suo ufficio. «Com'è andato che cosa?». «Il tuo incontro con McCabe. Non era fissato per stamattina?». «Ah, sì», disse Sara, cercando di non inciampare. «È andato bene, ma non benissimo». Sedendosi sul divano verde oliva in similpelle, domandò: «Dove l'hai preso, questo divano?». «Di' a Guff di ordinartene uno. Nel giro di un anno vedrai che arriva», disse Conrad. «Ma dimmi dell'incontro». «Che dire? L'agente sembra una persona a posto, ma ha commesso degli errori stupidissimi. Non ha fatto rilevare le impronte digitali». «Tipico... Uno dell'ottanta per cento». «Come?», domandò Sara. «Alla procura distrettuale, il venti per cento dei procuratori svolge l'ottanta per cento del lavoro», spiegò Conrad. «Lo stesso discorso vale per i giudici, i poliziotti e gli investigatori. Per l'ottanta per cento di queste persone il lavoro è burocrazia pura che dura dalle nove alle cinque». «Non è burocrazia», obiettò Sara. «La gente, qui...». «Sara, hai idea di quanti carichi pendenti ci sono a Manhattan? Cinquecentomila. Significa che ci sono, di sicuro, almeno cinquecentomila delinquenti a piede libero... Poi ci sono tutti quelli che non sono stati scoperti. Per la maggior parte della gente che ci lavora, questo posto è come una catena di montaggio. I quattro quinti di questa gente è qui soltanto per l'asse-
gno mensile. Non hanno alcuna intenzione di rischiare la vita loro e della loro famiglia per arrestare un merdosissimo delinquente; non vogliono fare quello che realmente servirebbe per arginare il crimine. Non per questo diventano cattive persone, certo, ma pessimi operatori pubblici sì». «Quindi, tu ritieni che io faccia parte dell'altro venti per cento?», domandò Sara. «In effetti, sì. Hai trentadue anni e, quindi, sai certamente a cosa vai incontro. A questa età, che ti piaccia o meno, hai davanti a te questa carriera. Non sarai smaliziata e sei certamente nuova, ma sei sincera, e Guff si fida di te, la qual cosa - checché tu ne pensi - è un indice importantissimo. Se riesci a portare l'imputato in aula, Monaghan capirà che non sei qui per passare il tempo. E siccome io sono costantemente in cerca di persone disposte a far parte di quel venti per cento di lavoratori seri, farò tutto ciò che è in mio potere per salvare il tuo posto. Tu raccontami che altro ha detto il poliziotto: vedrai che sistemeremo tutto». «Be', ha detto che non ha provveduto all'identificazione dell'imputato da parte della testimone». «Non è un problema», disse Conrad. «Puoi pensarci tu: fai mettere in fila un po' di brutti ceffi e chiedi alla testimone di identificare Kozlow. Se non hai tempo, però, puoi chiederglielo davanti al gran giurì, così i giurati potranno vedere con i loro occhi». «E per quel che riguarda le impronte digitali?». «Quelle, ormai, è meglio che te le scordi». «Schifoso ottanta per cento», ringhiò Sara. Conrad sorrise. «Ci sono altri problemi?». Sara abbassò lo sguardo. «Uno solo», disse, imbarazzata. «C'è una cosa su cui non sono stata del tutto sincera. Quando questo caso è arrivato all'UAC, sulla cartelletta c'era una nota che diceva: "Richiesta di affidamento a Victor Stockwell"». Tra le sopracciglia di Conrad si formò un solco di sospetto. «E che ne è stato di quella nota?». «Il fattorino l'ha staccata, e io ho lasciato che la gettasse via», disse Sara. Prima che Conrad potesse intervenire, aggiunse: «So di aver sbagliato, ma ho pensato che Victor riceve di certo molte richieste, e che un caso in più o in meno per lui non significa nulla. Quando ho interrogato McCabe, però, ho scoperto che non era stato lui a indirizzare il caso a Victor; è stato Victor a chiedere che gli fosse indirizzato». Nella stanza calò il silenzio. Sara non aveva quasi il coraggio di guardare Conrad in faccia.
Dopo un po', Conrad si sporse in avanti e disse: «Ti piace proprio tanto complicarti le cose, eh?». «Sì, sono molto brava in questo». Rialzando la testa, notò che il solco tra le sopracciglia di Conrad era scomparso. «Non sei infuriato?». «Sara, se tu avessi saputo che Victor voleva quel caso, gliel'avresti rubato ugualmente?». «Neanche per sogno. Io ho soltanto...». «Mi basta questo. Non potrei mai biasimarti per aver tentato di portarti in testa al gruppo. Anzi, è proprio di questo che abbiamo più bisogno». La reazione di Conrad la colse totalmente impreparata. Troppo impegnata a elaborarla, Sara si limitò ad annuire con riconoscenza. «Non devi preoccuparti», proseguì lui. «Io sono dalla tua parte». Dal modo in cui lo disse, Sara comprese che non stava mentendo. «Quindi, come devo comportarmi con Victor?». «Ti ha detto niente del caso?». «So che è molto seccato, ma non l'ha voluto indietro». «Allora, qual è il problema?». «Non trovi che sia un po' strano? Cioè, per quale ragione Victor è interessato un caso di quart'ordine come questo?». «Che vuoi che ne sappia? Succede spesso che dei pubblici ministeri richiedano l'affidamento di particolari casi: magari vogliono dare un'altra lezione a un pregiudicato da loro già perseguito, oppure conoscono qualcuna delle persone coinvolte. Forse, Victor è il pubblico ministero che ha perseguito Kozlow negli altri processi che ha subito, ed è ancora arrabbiato per il fatto che l'abbia fatta franca; oppure è amico della signora Doniger». «O forse questo caso nasconde qualcosa di più di un semplice furto con scasso». Conrad scosse la testa. «Non hai ancora rinunciato al colpo da prima pagina, vero?». «Non posso rinunciare», disse Sara, disperata. «È tutto quello che ho. E poi, non sono soltanto mie fantasie». «Ne sei sicura?». «Credo di sì. Abbiamo un caso di furto con scasso in cui, tra tutte le cose preziosissime che potevano essere rubate, scompaiono solo due o tre oggetti di scarso valore; poi, c'è il fatto che l'imputato, uno scalzacani, ha non si sa come - accesso ai migliori avvocati della città; infine, nota che tra tutti gli studi legali a cui avrebbe potuto rivolgersi ha scelto prima quello in cui lavoravo io e poi quello di mio marito. E, come se non bastasse, ab-
biamo il miglior pubblico ministero del mondo che pietisce un misero caso e, per giunta, si introduce di soppiatto nel mio ufficio. Che altro ti serve? Un'insegna al neon con su scritto "SIAMO I SOSPETTI"?». «Continuo a credere che tu stia esagerando: c'è una spiegazione logica a ognuno dei dubbi da te sollevati». «Ah, sì? Be', se tutto è davvero così normale, perché Victor non ha preteso che gli restituissi il caso?». «Aspetta un attimo: stai accusando Victor di qualcosa?». «Io non sto accusando nessuno. Credo soltanto che valga la pena dare un'occhiata in giro, e penso che anche tu dovresti ammetterlo». «Mi riservo di valutare», disse Conrad. «Ma, visto che sei così immersa nelle indagini, come hai intenzione di procedere, ora?». «Non ho ancora deciso. Pensavo di controllare il curriculum di Victor, ma non so dove cercare». «Puoi consultare la banca dati AJIS: troverai certamente i nomi dei pubblici ministeri che hanno perseguito Kozlow; e anche eventuali altri casi in cui Victor ha avuto a che fare con la signora Doniger. Però ti avverto: sono decine le ragioni per cui Victor potrebbe essere interessato al caso. Quindi, se fossi in te, ridimensionerei le mie manie di grandezza. Non fanno che gonfiare a dismisura le tue aspettative». «Oh, non preoccuparti», disse Sara, con voce percorsa da un filo di agitazione. «Non ho perso il senso delle proporzioni». Vedendo che Sara continuava a prendere furiosamente appunti, Conrad scosse la testa. «Che cosa c'è?», domandò lei. «Che cosa ho fatto?». «Niente», rispose Conrad. «C'è altro?». «Un'ultima cosa: come faccio a beccare i bastardi che mi sono entrati in casa?». «Ah, sì. Guff me ne ha parlato. Mentre tu interrogavi McCabe, abbiamo chiamato il 20° Distretto di polizia. Stanno indagando, ma non hanno indizi. Ti conviene incolpare la malasorte e scordartene». «Come!? E il discorso sul fatto che bisogna fare di tutto per arginare il crimine?». «Era tutta scena», scherzò Conrad. «Però, puoi sperare nei risultati delle analisi sulle impronte digitali». Quando Conrad finì la frase, Guff irruppe nell'ufficio. «Vergogna, vergogna, vergogna!», disse Guff. «Adesso, parli proprio come uno dell'ottanta per cento».
«Hai il vizio di origliare, eh?», gli domandò Conrad. «Solo le conversazioni più interessanti», rispose Guff. Quindi, rivolgendosi a Sara, aggiunse: «Ti porto notizie dal fronte del processo. Innanzi tutto, la vicina della Doniger, Patti Harrison, ha detto che sarà felice di rispondere alle tue domande. Puoi chiamarla in giornata per fissare un appuntamento. Poi, ho fatto alcune ricerche sulla questione del conflitto di interessi. In base al codice deontologico, uno scontro in tribunale tra moglie e marito crea certamente un conflitto di interessi. Purtroppo, l'ostacolo può essere aggirato se il difensore ottiene dall'imputato una dichiarazione scritta di assenso, previa esplicazione dei termini del conflitto». «Maledizione», disse Sara. «Dunque, Jared non deve fare altro che...». «Aspetta un attimo», interloquì Conrad. «L'avvocato difensore di Kozlow è tuo marito?». «Te l'avevo detto che non erano solo mie fantasie», disse Sara. «Hai qualche consiglio, a proposito?». «Digli che se non rinuncia all'incarico, chiederai il divorzio», suggerì Conrad. «È una cosa che ho già visto... Ti aspettano momenti poco piacevoli». «La legge lo prevede?», domandò Sara, inquieta. «Solo a precise condizioni», rispose Guff. «Lo studio legale deve seguire una serie di trafile, dopodiché Jared deve ottenere il consenso scritto da Kozlow. Inoltre, dovrà dimostrare di essere in grado di garantire gli interessi del suo cliente nonostante la tua presenza sul banco della pubblica accusa. È questa la prassi in caso di conflitto di interesse». «E conviene accertarsi che venga messo tutto nero su bianco: l'ultima cosa che ti auguro è di vincere il processo, per poi vederti soffiare la vittoria sotto il naso perché Kozlow ricorre in appello lamentandosi di aver subito un processo irregolare». «Insomma, se Kozlow gli firma la dichiarazione, Jared può continuare a difenderlo?», domandò Sara, incapace di rassegnarsi all'idea. «Mi dispiace. Avrei voluto portarti notizie migliori», disse Guff. Conrad puntò un dito contro Sara. «Ti consiglio di fare attenzione. So che muori dalla voglia di vincere, ma non lasciare che questo caso invada la tua vita privata». «Troppo tardi», sospirò Sara. Ignorando i morsi della fame e una pila di messaggi a lui indirizzati, scritti su foglietti rosa, Jared lavorò anche durante la pausa-pranzo. Rilesse
la definizione del reato di furto con scasso, stilò un elenco di possibili approcci difensivi e cominciò una ricerca su tutti i casi analoghi degli ultimi dieci anni. Persino l'ufficio di Jared era rivelatore della sua ossessione del momento. Il poster di Woody Alien era stato sostituito da un pannello su cui aveva applicato l'ingrandimento della mappa stradale relativa al luogo del delitto, su cui erano segnate le abitazioni della Doniger e della Harrison, il punto in cui l'agente McCabe aveva ricevuto la chiamata e quello in cui Kozlow era stato fermato. Jared era intenzionato a cominciare ogni giornata allo stesso modo, fino al processo: arrivato in ufficio, si sarebbe messo a osservare la mappa, ripassando mentalmente tutti i particolari della vicenda. Ogni giorno avrebbe ripetuto l'operazione, alla ricerca di nuovi possibili punti controversi da sottoporre alla giuria. Al processo, gli sarebbe bastato sfruttare il più piccolo errore, uno svarione, un'incertezza, un dettaglio sfuggito alla ricostruzione degli eventi. Non doveva far altro che vincere sulla base dei fatti, per proteggere sua moglie. D'altra parte, se non fosse riuscito a vincere sulla base dei fatti, avrebbe potuto tentare con il suo cliente. Aveva assistito a un'infinità di processi in cui l'imputato, grazie alla sua credibilità - o meglio, per la sua abilità nella recitazione - aveva costretto la giuria a votare la non colpevolezza. Quando però vide Kozlow che si mordeva le unghie e ne sputava i frammenti in una tazza di caffè, Jared si rese conto che quest'ultima possibilità era da escludere. Entrò Kathleen. «Sei in grado di parlare?», domandò. «C'è Brownie al telefono». Jonathan Brown era uno dei meno noti e più improbabili antiquari di Manhattan. Specializzato in cimeli del mondo dello spettacolo, Brown era la fonte privilegiata da cui Jared attingeva i propri pezzi da collezione più preziosi e rari. Si erano conosciuti in un negozio d'antiquariato quando Jared frequentava la law school, ma solo quando Jared acquistò il coltello di Chinatown Brown si rese conto di essersi procacciato un cliente per la vita. Più mercante che collezionista, Brown amava ripetere che Jared aveva il diritto di precedenza su ogni nuovo arrivo; e Jared, che per lui provava simpatia, faceva mostra di credergli, il più delle volte. «Sei pronto a trattare?», disse Brown, quando Jared ebbe alzato la cornetta. «Ascolta, Brownie: non è proprio il...». «Oh, ci risiamo! Adesso, ti metterai a piagnucolare: "Eh, Brownie, se
sapessi i debiti che abbiamo. Se abbassi un po' il prezzo, però, ci faccio un pensierino". Be', oggi la tiritera non attacca, caro mio. Sono stufo di far la parte della gallina dalle uova d'oro». «No, davvero...». «Almeno, aspetta di sentire cos'ho da dirti! Ti ricordi la lista di oggetti del desiderio che mi hai dato? Quella con su scritto: "Se trovi qualcuna di queste cose, prendimela", a caratteri cubitali. Per una cifra tutta da definire, tra poco potresti diventare il possessore - apri bene le orecchie! - della vera maschera da sub utilizzata sul set del Laureato! Sto parlando di un oggetto unico: l'autentica maschera che si vede nella famosa scena della piscina. È proprio...». «Brownie, scusami, ma non ho tempo». Jared riagganciò. «Hai quasi finito con quei documenti?», domandò Kathleen. «Ecco», disse Kathleen, passando a Jared un mazzo di fogli. Dopo averli consultati tutti, sia pure rapidamente, Jared raggiunse Kozlow e glieli posò sulle gambe. Porgendogli una penna, disse. «Li legga, e se acconsente a quanto c'è scritto, metta una firma». «Che cos'è?», domandò Kozlow. «È il documento con cui lei mi conferisce l'incarico di difenderla in tribunale, nonostante il conflitto di interesse creato dal fatto che la pubblica accusa è rappresentata da mia moglie. Serve per dimostrare che lei è a conoscenza del fatto e che conferma l'incarico. In questo modo, se perdiamo, lei non potrà dire che non ne sapeva nulla». «Se non firmo, invece, posso presentare appello?». «Certo, ma se lei non firma, Sara solleverà il conflitto d'interesse. È troppo furba per non chiedere questo documento». Mentre Kozlow firmava, Jared si rivolse a Kathleen: «Sei riuscita a metterti in contatto con la vicina della signora Doniger o con l'agente?». «Perché tutta questa fretta?», domandò Kathleen. «Di solito, lo facciamo dopo il gran giurì. Adesso come adesso, non sappiamo neppure se ci sarà o no il processo». «Non importa. Voglio parlare con loro», disse Jared. Guardando Kozlow, aggiunse: «In questa vicenda, dobbiamo comportarci come se il peggio fosse già accaduto». Alle quattro di quello stesso pomeriggio, Sara prese la cornetta e compose il numero di telefono di Jared. Kathleen gli passò la chiamata.
«Che cosa vuoi?», domandò Jared. «Che accoglienza!?», disse Sara. «Davvero affettuosa». «Scusami. È che ho molto da fare. Stai bene?». «Benissimo». «Sei sicura?». «Certo! Perché non dovrei stare bene?». «No, facevo per dire», rispose Jared. «Be', cosa vuoi?». Sorpresa dal tono del marito, domandò: «Ehi, che ti prende?». «Sono molto preso dal lavoro. Dài, dimmi cosa c'è». «Volevo accertarmi che tu sapessi della necessità di presentare una dichiarazione di assenso firmata da...». «Kozlow l'ha già firmata. L'ho appena spedita. Domattina, al tuo arrivo in ufficio, la troverai sulla tua scrivania». «Bene», disse Sara. «È ancora valido il nostro appuntamento per cena?». «Cena? Oh, merda! Me n'ero dimenticato. Non ce la farò mai, sono sommerso dalle cose da fare». «Jared, non cercare scuse. Hai promesso a Pop che saresti venuto». «Lo so, ma...». «Ma cosa? Hai troppo lavoro? Kozlow non è ancora stato rinviato a giudizio». «Non cercare di fregarmi», disse Jared. «Se tu fai il tuo lavoro come si deve, io ho bisogno di tempo per prepararmi a gestirne le conseguenze». «Be', allora, fatti pure le nottate. Non ti servirà a nulla: in tribunale ti disfo». Jared non raccolse la provocazione. «Ehilà! Pronto?», disse Sara. «C'è qualcuno? Qualcuno che abbia un minimo di senso dell'umorismo, magari». «Scusami, Sara, ma devo proprio andare», disse Jared. «Ci vediamo a casa». Il clic segnalò a Sara la fine della telefonata. «Tutto bene?», domandò Guff, sbirciando da dietro i faldoni allineati sulla scrivania di Sara. «Temo di no. Jared sta lavorando troppo, se si considera che non c'è ancora il rinvio a giudizio». «Forse, si sta solo portando un po' avanti». «Forse», ammise Sara. «Io, però, capisco al volo se mio marito è nervoso, e adesso c'è qualcosa che lo rende furioso. Mi sa che qui, ormai, la luna di miele è finita».
CAPITOLO SETTE Quella sera, alle sette, Sara e Guff si trovavano davanti al Delicatessen della Second Avenue, immersi nel profumo di sottaceti kosher e di knish fritti che fluttuava nell'aria. Mentre uno sciame di abitanti dell'East Side si addentrava, seguendo il proprio naso, nel regno dei sandwich giganti al pastrami e dei camerieri dediti al turpiloquio, Sara notò che l'aria si era fatta pungente. «L'inverno è alle porte», disse. «Tu dici?», domandò Guff, soffiando aria nelle mani unite a coppa davanti alla bocca e saltellando sul posto per riscaldarsi. «Ma rispiegami la ragione per cui tuo nonno vuole che lo aspettiamo qui fuori quando all'interno c'è una temperatura ideale». «Guff, te l'ho già ripetuto dieci volte: scordati del fatto che è mio nonno. Lui si chiama Pop, e gli piace essere chiamato così. Noi così lo chiamiamo. E se vogliamo cenare con lui, è qui fuori che dobbiamo aspettarlo. In caso contrario, se lui passando vedrà che non ci siamo, penserà che non lo abbiamo aspettato e se ne andrà via. Credimi: potrà sembrarti ridicolo, ma non sto scherzando. Te lo dico perché è capitato un mucchio di volte». «È proprio un personaggio, eh?». «Per questo ti ho invitato. Sarà anche il parente più stretto che mi è rimasto, ma a quattrocchi si rischia di esserne sopraffatti. Se si è almeno in due a fronteggiarlo, si fa meno fatica». «Perché Jared non è venuto?». «Jared ha detto che è occupato, ma io credo che dipenda anche dal fatto che lui e Pop non sempre vanno d'accordo». «Perché?». «Ai tempi in cui io e Jared cominciavamo a uscire insieme, Pop sosteneva che lui non fosse l'uomo giusto per me». «E con questo?». «Pop gliel'ha detto in faccia, la sera stessa del loro primo incontro». «È un'opinione che tu non condividi, immagino». «Ovvio. Checché ne dica Pop, Jared è l'uomo della mia vita». «Come fai a esserne certa?». «In che senso? Non c'è una spiegazione. Si sa... e basta». «Non crederai che mi accontenti di questa melensaggine sentimentale, vero? Dev'esserci qualcosa di più... un evento, un fatto che per te ha rappresentato una sorta di segno».
Sara ci pensò su e disse: «In effetti, c'è stato qualcosa del genere. Quando ero piccola, sui nove-dieci anni, mio padre cominciò a partire molto spesso e a star via a lungo per lavoro; era rappresentante di una ditta di abbigliamento femminile. Contemporaneamente, io iniziai ad avere l'incubo ricorrente di diventare sorda. Era terribile. Tutti parlavano, ma io non sentivo niente. Allora, mi mettevo a urlare a squarciagola, ma nessuno mi sentiva. Questo sogno si è ripetuto per circa due anni». «Perché ti mancava tuo padre». «Esatto. Quando mia madre mi portò dallo psicologo, questi le spiegò che l'incubo nasceva dalla mia paura di rimanere sola. Io ero piccola, e i miei genitori erano spesso assenti; la mia paura, dunque, aveva un fondamento ben reale. Con qualche piccolo aiuto, alla fine, riuscii a superare le mie angosce prepuberali e ad affacciarmi alla vita. Dodici anni dopo, però, i miei genitori sono morti. E l'incubo si è ripresentato: lo stesso terribile sogno ossessivo, in cui io - a dieci anni - sono sorda e non riesco a sentire e a far sentire la mia voce neppure urlando come una pazza. In questo secondo caso, però, sembrava che non ci fosse nulla da fare, nessuna psicologorrea in grado di scuotermi. Mi stava uccidendo, ma poi è scomparso all'improvviso quando ho cominciato a frequentare Jared. Da allora non l'ho più avuto. E questa è una delle ragioni per cui Jared mi è apparso come l'uomo della mia vita. Pop, ovviamente, non è d'accordo, ma questo fa parte della sua natura». «Non capisco. Come può una persona essere così cattiva?». «Lo vedrai», disse Sara con un sorriso vagamente minatorio. «Ah, un consiglio: evita di fargli domande sull'industria dell'abbigliamento». Guff si aspettava di vedere un vecchietto irascibile, cosicché restò sorpreso quando Pop fece la sua comparsa. Con il suo sguardo mite ma vivacissimo e il sorriso cordiale, il vecchio aveva un'aria molto più simpatica di quanto Guff immaginasse. Quando Pop li raggiunse, Guff poté anche rendersi conto di quanto fosse massiccio. Ex poliziotto di quartiere a Brooklyn, Pop non era più una montagna di muscoli, ma le sue ampie e decise falcate tradivano l'uomo che era stato. Dopo aver dato un bacio a Sara, Pop si mise a fissare Guff. Dopo un po', disse: «Ehi, che ti è successo ai capelli? Sono finti?». «No, sono verissimi», rispose Guff. «E io sono Guff. Piacere di conoscerti, Pop». «Oh, chiamami pure Pop», disse il vecchio, stringendogli la mano. «Per quanto riguarda i tuoi capelli, stavo scherzando. Era solo una battuta».
Guff lanciò un'occhiata a Sara, mentre seguivano Pop all'interno del ristorante. «Dov'è quel noioso di tuo marito?». «Sta lavorando a un caso», spiegò Sara. «Mi ha detto di salutarti». «Non cercare di darmela a bere, sorella. Gente ben più importante di lui mi ha tirato il bidone». «Ah, ne sono certa», disse Sara. La cameriera fece accomodare Guff, Sara e Pop a un tavolo in fondo al locale. «Secondo voi, allora, questo è un buon ristorante?», domandò Guff. «Buono?», trasecolò Pop. «Ehi, stai parlando del Delicatessen della Second Avenue! Qui fanno il pastrami da quando Eisenhower era ancora alla Casa Bianca a grattarsi l'enorme fronte che aveva». «Eisenhower aveva la fronte ampia?», domandò Guff. «Certo», rispose Pop. «Ike aveva davvero un gran melone. Come Jack Kennedy. Solo che Kennedy aveva i capelli. Guarda le foto, e poi dimmi se non ho ragione». «Non ci ho mai fatto caso», disse Guff, reprimendo un sorriso. «E chi altri ha la testa grossa?». «Perbacco, a quei tempi tutti ce l'avevamo. È per questo che portavamo il cappello. Goldwater, Nixon, Milton Berle, persino l'amico francese Charles De Gaulle, avevano tutti il capoccione. Era come un codice segreto». «Già», disse Guff, tutto eccitato. «Capisco benissimo quello che intendi dire». Quando Sara scoppiò a ridere, neanche Pop riuscì a trattenersi. «Che c'è da ridere?», domandò Guff. Nonno e nipote erano piegati in due dalle risate. «Ehi, aspetta, non gli avrai mica raccontato dei discorsi che facevamo il giorno in cui ci siamo conosciuti, vero?». «E tu che ci sei cascato!», sghignazzò Pop. «Scusami», disse Sara, «ma quando ti infervori a quel modo, non riesco a non ridere». «Fantastico», disse Guff, prendendo un menu e aprendoselo davanti alla faccia. «Prendetemi pure in giro, due contro uno! Se vi sentite meglio, fate pure! Accomodatevi». Davanti al ristorante, appoggiato a un'auto color grigio metallizzato lì parcheggiata, c'era l'uomo dalle guance scavate. Era poco oltre la trentina, ma a causa dei suoi tratti marcati era difficile indovinarne l'età. Dal suo punto di osservazione privilegiato poteva vedere molto chiaramente Sara,
Guff e Pop. Restò a fissarli per alcuni minuti, soffermandosi sul volto di Pop. "Ecco un altro varco nelle sue difese", pensò l'uomo, incrociando le braccia. «Be', com'è il tuo nuovo lavoro?», domandò Pop, raccogliendo dal piatto il suo sandwich al pastrami e manzo sotto sale. «Va o non va?». «Va», rispose Sara. «E il meglio deve ancora venire», aggiunse Guff. «Digli del caso a cui stai lavorando». «Di che si tratta?», domandò Pop. «Niente...». «Dài, parla», insistette Guff. «Fa' come dice il tuo amico». «Nulla di straordinario», disse Sara. «Nel primo caso di cui mi sto occupando, in tribunale mi troverò di fronte Jared come avvocato difensore». «Ah, ecco!», esclamò Pop. «Ora mi spiego la sua assenza. Siete ai ferri corti, eh?». «No, non ancora», rispose Sara, infilzando una frittella di patate. «È solo che sta lavorando sodo, e questo mi rende...». «Ti rende nervosa, vero?», disse Pop. Sara posò la forchetta e allontanò da sé il piatto. «Non solo Jared è un ottimo avvocato, ma è anche la persona che mi conosce meglio al mondo». «Be', non c'è nulla di cui tu debba preoccuparti. Se si tratta di convincere una giuria, tu sei di gran lunga più credibile di lui, a prescindere da quanto lui si prepara. Ha sempre avuto la pappa pronta, e certe cose la gente le nota». «Pop, ti prego, non dire così. Ha lavorato duro per arrivare dov'è arrivato, e nessuno gli ha fatto trovare la pappa pronta». «Sì, invece. L'ho capito subito, la prima volta l'ho visto, con quei suoi sfolgoranti gemelli di Yale ai polsini della camicia. Gli voglio bene come a un figlio, ma proprio non sa cosa significhi lottare». Rivolgendosi a Guff, Pop aggiunse: «La volta che ci siamo conosciuti veniamo qui, al mio delicatessen preferito, e lui si mette in testa che deve pagare il conto. Poi, quando vedo che lascia metà del sandwich nel piatto, gli dico che può farsi dare un sacchetto per portarselo a casa. E lui fa: "Prendilo tu, tanto so che se lo porto a casa io finisce di sicuro nella spazzatura". Ti rendi conto?». «Mi sorprende che tu abbia permesso a Sara di sposarlo», disse Guff. «Guff, non stuzzicarlo», implorò Sara. «E tu, Pop, cambia discorso». «Okay, cambio discorso. Però ricordati che una giuria non se le beve le
sue fregnacce. Tu, invece, fai un'ottima impressione, sei una persona vera: una vera americana che lavora duro». «Grazie, Pop. Sarebbe bello se tu potessi ripetere queste cose al mio capo». Alle dieci e mezza Sara giunse finalmente a casa. Appese il cappotto nell'armadio e si diresse in cucina. Aprì il frigorifero e guardò all'interno, in cerca di qualcosa di interessante. All'improvviso sentì dei passi e una mano che le si posava sulle spalle. Afferrò una bottiglia di vino e, girando su se stessa, fece per vibrare un colpo, ma si fermò in tempo. Era Jared. «Non farlo mai più!», strillò Sara, posando la bottiglia. «Mi hai fatto spaventare!». «Scusami, non volevo», disse Jared, abbracciandola. «Be'? Com'è che adesso mi diventi improvvisamente carino?». «Mi sei mancata. Ero un po' in ansia». «Perché, allora, oggi sei stato così stronzo al telefono?». «Ero soltanto molto indaffarato», disse Jared. «Lo sai come divento quando lavoro, no?». Tenendo Sara tra le sue braccia, aggiunse: «Lo sai quanto ti amo, vero?». «Certo». «No, davvero», riprese Jared, fissando Sara negli occhi. «Lo sai quanto ti voglio bene? Lo sai quanto sei importante per me? Lo sai che farei qualsiasi cosa per te, vero?». «Ma certo», ripeté Sara, interrogandosi sulla ragione di tanto trasporto. «Jared, sei sicuro che vada tutto bene al lavoro?». «Sì, sì, va tutto bene». «Bene. Era quello che volevo sapere». Gli diede un bacio. «Dobbiamo impedire che questo caso invada la nostra vita privata». «Non succederà, vedrai», disse Jared, abbracciandola forte. Alle sue spalle, Jared notò di sfuggita i sei ritratti che lei gli aveva fatto. I vetri rotti erano stati rimossi da tempo, ma i quadri erano rimasti senza protezione. Osservando quelle vulnerabili immagini di sé, Jared la strinse ancor di più. «Non accadrà nulla», sussurrò. «Te lo prometto». «Puoi mettermi in comunicazione con Barrow?», domandò Jared a Kathleen, entrando in ufficio il mattino seguente. «È importante». «Sei terrorizzato, eh?», fece Kathleen. «A che cosa ti riferisci?».
«A Kozlow. È di questo che vuoi parlare con Barrow, vero? Vuoi che dia un'occhiata ai suoi trascorsi». Come sempre, Kathleen aveva colpito nel segno. Jared, però, non aveva alcuna intenzione di raccontarle tutto. L'avrebbe esposta a inutili rischi. «Perché mai dovrei indagare su un mio cliente?», domandò. «Suvvia, Jared, non trattarmi come una deficiente. Le borse che hai sotto gli occhi parlano chiaro: sono giorni che non fai una dormita come si deve. Da quando è entrato in questo studio non ti sei più dato pace. Inoltre, arrivi al lavoro presto come non mai. E poi, dài, non bisogna essere dei geni per capire che quel tipo è una brutta gatta da pelare». Jared si guardò in giro. Nessuno poteva sentire. «Da che cosa lo deduci?». «Hai letto i suoi precedenti?». «So che ha subito due arresti, ma non ho ancora avuto occasione di approfondire. Sono stato occupato con un mucchio di altre cose». «O forse hai deciso di non approfondire per paura di quello che potresti scoprire». Jared restò a bocca aperta. «Perché? Di che si tratta?». Kathleen scrutò a sua volta circospetta il corridoio e si sporse in avanti, appoggiandosi sui gomiti. «Se fossi in te, farei molta attenzione! Quel tipo è una specie di bomba a orologeria ambulante. Due anni fa, ha avuto una lite con un malavitoso di Brooklyn, un certo Joey Gluck, e sai cos'è successo? Stando agli incartamenti, una sera, Joey torna a casa ubriaco in compagnia di una prostituta della zona. Si spogliano alla svelta, ma non sanno che sotto il letto si è nascosto Kozlow, il pazzo. Quando Joey è pronto per coricarsi, Kozlow estrae un coltello a serramanico e gli inchioda un piede nudo al pavimento. Striscia fuori dal suo nascondiglio e spinge all'indietro il malcapitato, tanto per fargli ancora un po' male. La cosa terribile è che, al processo, Joey ha inaspettatamente deciso di cambiare la sua versione dei fatti e, all'improvviso, ha dichiarato di non ricordare più nulla». «E la prostituta che fine ha fatto?». «Hanno ritrovato il suo cadavere la sera dopo. Overdose di eroina, se dobbiamo credere all'autopsia». «Pensi che l'abbia uccisa Kozlow?». «Dimmelo tu. Intanto, ascolta il caso numero due: un muratore, tale Roger Hacker, rientra a casa dopo una dura giornata di lavoro. Va direttamente in bagno e si siede sul wc. All'improvviso, sente dei rumori inspiegabili
provenire da dietro la tenda della doccia. Non fa in tempo ad alzarsi, però, che Kozlow balza allo scoperto. A quanto pare, Kozlow lo colpisce duro al pomo d'Adamo e lo spedisce al tappeto; quindi, lo prende a calci in testa, in faccia e, infine, anche in mezzo alla schiena. Frattura della clavicola. A quel punto, Kozlow ritiene di essersi fatto capire a sufficienza, ma quello stupido di Roger commette un grave errore. Si rialza a fatica, prende un cacciavite dalla sua cintura da lavoro e insegue Kozlow, che ormai sta uscendo dall'appartamento. Il povero Roger non ha avuto neppure il tempo di capire che cosa lo ha colpito. Secondo il vicino di casa, che - ovviamente - al processo ha finito per negare tutto, si sentivano urla atroci, come se qualcuno stesse torturando un gatto. Quando è arrivata la polizia, Roger era disteso in una posizione innaturale, con il cacciavite piantato in gola, mentre gli occhi...». «Basta, non voglio sapere altro», la interruppe Jared. «Ti dico solo un'altra cosa: l'autopsia ha rivelato che almeno una dozzina di colpi sono stati inferti post mortem; ciò significa che, anche quando Roger era già morto, Kozlow ha continuato a squartarlo per puro divertimento». «Ho detto che non voglio più sentire». «Jared, so bene che queste notizie non sono delle migliori, ma tu hai a che fare con un assassino. Devi...». «Per favore, non dirmi quello che devo fare. Chiama Barrow e chiedigli di controllare due persone. La prima è Kozlow; la seconda è Oscar Rafferty». «Chi è Oscar Rafferty?». «È quello che voglio sapere anch'io». «Be', presto lo scopriremo», disse Kathleen. «Gli chiederò di indagare su tutto: vita privata, conti bancari, mogli, tessere di club... Tutto quello che poterbbe risultare utile». «E digli di stare in campana. Non vorrei che Rafferty gli facesse qualche brutta sorpresa». Kathleen non era abituata a vedere Jared così agitato. «È un lavoro pericoloso, vero?». «Se lo scoprono, sì». «Hai voglia di parlarne?». Jared sospirò. «No, non ora». Kathleen lo osservò. Conosceva Jared da quattro anni e aveva imparato a capire quando lui parlava sul serio e quando voleva soltanto che lei insi-
stesse. Quel giorno non era proprio il caso di insistere. «Quando hai bisogno, io sono qui», disse. In fondo al corridoio, Kathleen vide spuntare Kozlow accompagnato da una delle segetarie dello studio. Fece un cenno a Jared e, a voce alta, disse: «...dopodiché chiederò di trovare tutto il materiale reperibile sui furti con scasso. Te lo faccio avere prima di pranzo». «Grazie», disse Jared, adocchiando Kozlow. Vestito con il suo solito giubbotto corto di pelle, Kozlow si accomodò nell'ufficio di Jared. Da una tasca anteriore dei suoi jeans sbiaditi penzolava una catenella metallica. «Allora, che si fa oggi? Altre menate legali?». «Già, altre menate legali». Jared seguì Kozlow in ufficio, mentre Kathleen ringraziò la segretaria che l'aveva accompagnato. «Bene, cominciamo. Oggi lavoreremo sulla sua testimonianza». «Dovrò testimoniare? Davanti al gran giurì?». «Sicuro», rispose Jared, prendendo posto dietro la scrivania. «Se riusciamo a dare una forma credibile alla sua versione dei fatti, può darsi persino che il gran giurì decida di non rinviarla a giudizio. Se poi, per un qualche miracolo, lei riesce a risultare simpatico ai giurati, ci sono alcune probabilità che votino a suo favore». «Io sono sempre simpatico a tutti», precisò Kozlow, sedendosi di fronte a Jared. «Dimmi cosa devo fare». «Per prima cosa, deve procurarsi un buon vestito». «Io sono già vestito benissimo». «Sì, ma io voglio che lei si procuri un completo. Come il mio». Kozlow osservò il gessato blu di Jared. «E per quale ragione dovrei vestirmi come te?». «C'è un'ottima ragione», disse Jared. Premette il tasto dell'interfono. «Kathleen, puoi venire un attimo?». Quando Kathleen arrivò, Jared disse: «Intorno alle dieci, mi piacerebbe che tu accompagnassi il signor Kozlow a fare compere. Gli serve un completo sobrio, una bella cravatta non troppo vistosa, un paio di mocassini e un paio di occhiali dalla montatura sottile. È fondamentale avere un aspetto credibile». «Sono commosso... È dai tempi del militare che non mi vesto così bene», commentò Kozlow. «Ha fatto il militare?». «Sì, ho passato qualche tempo nell'esercito. Ma dimmi: chi pagherà tutta questa roba?». «Sarà addebitata in conto spese a Rafferty», rispose Jared. «Qui non facciamo beneficenza. D'altra parte, se vogliamo convincere i giurati che lei è
innocente, la prima cosa da fare è sforzarsi di sembrarlo». Quando Kathleen se ne fu andata, Jared prese un blocco per appunti dalla propria borsa. Cercava in ogni modo di affrontare quel caso come se fosse uno dei tanti, ma dentro di sé sentiva crescere l'impazienza. «Sentiamo: mi racconti la sua versione dei fatti». «Io ero lì che camminavo per i fatti miei, quando a un certo punto arriva 'sto sbirro che mi dichiara in arresto», spiegò Kozlow, gesticolando come a sottolineare quanto andava dicendo. «Mi porta a casa di 'sta signora e le fa: "È lui quello che le ha rubato in casa, vero?"». «Così ha detto?», domandò Jared, prendendo appunti. «Ha usato proprio queste parole?». «Certo. La signora, praticamente, non poteva che rispondere di sì». "Interessante", pensò Jared. «Mi dica: dove ha preso l'Ebel che le è stato trovato addosso?». «L'ho trovato per strada». «E la palla da golf?». «Era nell'immondizia. Doveva essere la mia serata fortunata». Jared fissò Kozlow con rabbia. «Le conviene inventare qualcosa di più convincente. I membri del gran giurì non sono poi così stupidi». «E se dicessi che me li ha messi addosso lui?». «Se il poliziotto ha dei trascorsi poco luminosi, potrebbe funzionare. E i quattrocentodiciassette dollari come me li spiega?». «Erano soldi miei», protestò Kozlow. «Erano persino infilati nel mio fermacarte, quando lo sbirro me li ha levati dalla tasca». «Okay, gliene chiederò conferma», disse Jared, spazientito. «Ora, mi dica un po': lei è di Brooklyn; che cosa ci faceva nella Upper East Side alle tre di notte?». Kozlow restò perplesso. «Ottima domanda. Non ci avevo pensato». Jared lanciò il blocco degli appunti sulla scrivania. «Be', ci pensi adesso! Serve una risposta plausibile, perché altrimenti in tribunale ci mangiano vivi». «Perché? Rafferty mi ha detto che davanti al gran giurì non è previsto l'interrogatorio incrociato. Se è vero, possiamo anche metterci a parlare di football femminile». «Non ci sarà interrogatorio incrociato perché davanti al gran giurì un solo avvocato ha diritto di parola: il procuratore aggiunto. Sara potrà farle qualunque domanda, mentre io dovrò assistere in silenzio». «Allora, forse dovrei rifiutarmi di testimoniare».
Jared balzò in piedi e fece mezzo giro della scrivania. «Mi ascolti attentamente: l'avvocato qui sono io, non lei. Ora, se lei fosse un cliente qualsiasi me ne fregherei di una sua eventuale condanna; si dà il caso, però, che io abbia intenzione di vincere questo processo a ogni costo; quindi, farò di tutto per impedire che uno stupido scimmione mi metta il bastone tra le ruote. Se lei non crede di dover essere serio, me lo dica, in modo che...». Kozlow saltò su e spintonò Jared con violenza, mandandolo a sbattere contro il muro. Afferrandolo per i risvolti della giacca, Kozlow gli puntò i gomiti tra le costole. «Che cosa ti ho detto, ieri? Non sono un idiota; quindi, non trattarmi come se lo fossi». L'adrenalina calò di colpo, e Jared si rese conto di essere nei guai. «Mi scusi, non intendevo...». «Ho capito benissimo quello che intendevi», disse Kozlow, mollando la presa. Mentre Jared si risistemava camicia, giacca e cravatta, Kozlow andò alla finestra, e con un movimento ripetuto e ritmico si mise a battere piano la fronte contro il vetro. «Se testimonierò, sarà più facile che me la cavi?». «Se lei testimonierà e sarà credibile, possiamo cominciare a imparare la danza della vittoria. I casi di scambio di persona sono quanto di più adatto per confondere una giuria. Lei mi inventi una spiegazione plausibile della sua presenza in quel luogo a quell'ora; il resto è un gioco da ragazzi. Lo sa quante persone, a New York, girano in jeans e giubbotto di pelle?». «Mezzo milione?». «Come minimo», disse Jared. «Ora, ricominciamo. Mi racconti la sua versione dei fatti». «Mi puoi assicurare che Victor non ha mai perseguito Kozlow?», domandò Sara, sbirciando sullo schermo del computer, appostata alle spalle di Guff. «È scritto qui», rispose Guff. «Nei due processi subiti da Kozlow, la pubblica accusa era rappresentata da due procuratori aggiunti che adesso non lavorano più qui. Questo, però, non esclude che Victor e Kozlow si conoscano. Per quel che ne sappiamo, Victor potrebbe aver usato Kozlow come testimone, come informatore o in una qualsiasi altra veste». «Non possiamo verificare via computer?». «Non esattamente. L'AJIS è una banca-dati limitata: ci sono solo i fatti più importanti. C'è un campo dedicato agli elenchi dei testimoni, ma nella maggior parte dei casi non viene riempito. Se vogliamo verificare i nomi a uno a uno, dovremo spulciare gli incartamenti a mano».
«Bene. Diamoci da fare». «Ma, Sara, Victor lavora qui da almeno quindici anni. Stiamo parlando dei faldoni, alti ognuno una spanna, relativi a migliaia di casi. Solo per recuperarli in archivio ci vorrà almeno una settimana». «Non importa. Voglio verificare». «Ma...». «Guff, voglio scoprire se tra Victor e Kozlow c'è un legame. Non mi importa quanto tempo ci vorrà o quante pagine dovrò leggere». «Peggio per te, e per la tua vista!». «Be', è un problema che riguarda anche te», chiarì Sara. «Abbiamo tempo fino alla una; a quell'ora dovrebbe arrivare la signora Doniger. Se riesci a procurarti la docùmenatzione relativa ai casi più recenti, possiamo cominciare subito e procedere a ritroso». «Non li richiedo tutti in una volta?». «No, non vorrei che Victor se ne accorgesse. Se scopre quello che stiamo per fare, siamo finiti. Chiedi cinquanta casi suoi, cinquanta di Conrad, e cinquanta di qualche altro importante procuratore aggiunto. Se qualcuno domanda a cosa servono, tu rispondi che servono per studiare il modo di procedere di alcuni dei più stimati pubblici ministeri». Guff sorrise. «Ti stai appassionando, vero?». «Altroché! Per la prima volta, da quando è iniziata questa storia, so esattamente cosa fare». «Ma che diavolo sto facendo?», piagnucolò Sara quattro ore e mezzo più tardi, con la scrivania, come gran parte dell'ufficio, sommersa di fogli, faldoni e scatoloni. «È un'impresa disperata». «Ti avevo avvertito», disse Guff. «Ma mi hai ascoltato? No. Ti sei fidata di me? No. Hai voluto fare di testa tua, con quell'aria saccente, convinta di risolvere la giornata con la prima idea che ti è venuta? Sì, sì e sì. E che cosa ne abbiamo ricavato? Polvere. Polvere sulle mani, sui vestiti... dappertutto! Non sto scherzando, signorina; non sono affatto contento. Neanche un po'». «Guff, per caso qualcuno può averti visto quando hai inoltrato la richiesta per questi incartamenti?». «Non credo». «È possibile scoprire se qualcuno li ha spulciati prima di noi?». «Credo di sì. Perché?». «Sto solo cercando di capire se Victor può aver saputo in qualche modo
quello che stiamo facendo. Insomma, qualcuno potrebbe aver già aperto questi faldoni e alterato il loro contenuto». «Non essere paranoica. La triste verità è che non esiste la benché minima traccia di un suo legame con Kozlow, con la Doniger, con la vicina della Doniger... Niente di niente». «A proposito, che fine avrà fatto la signora Doniger?», domandò Sara, guardando l'orologio. «Doveva essere qui alla una». «È in ritardo di mezz'ora soltanto», disse Guff. «Dàlie tempo. Arriverà». «Mah», fece Sara, sfogliando le carte che aveva posate in grembo. «Ho una brutta sensazione. Questa è un'altra di quelle cose che mi puzzano». «Perché? Solo perché la tua testimone-chiave è in ritardo all'appuntamento? Sai che roba! Se è per questo, neanche nel caso del borseggio riusciamo a trovare il testimone». «Guff, sai benissimo anche tu che non è la stessa cosa». «Ascolta: stiamo passando al setaccio l'archivio della procura distrettuale. Quando avremo finito, sapremo se Victor è in qualche modo legato a Kozlow, alla Doniger ecc. Finché non troviamo nulla, però, non puoi continuare a pensare che siano tutti degli orchi cattivi». «E se invece fossero tutti degli orchi cattivi?». «Dimentica i mostri della tua fantasia e concentrati su quelli veri. Avresti anche quattro reati minori da affrontare, oltre a questo caso e al suo tremendo gran giurì. Ma se pensi ai paurosi arretrati di lavoro dei tribunali che si occupano dei reati minori, devi ammettere che le maggiori probabilità di arrivare a un processo sono legate al caso Kozlow. Quindi, se non riesci a convincere il gran giurì della necessità di rinviare a giudizio l'imputato, il processo te lo scordi. A quel punto, non avrà più importanza che tutti ti sembrino sospetti». «Lo so, lo so... Hai ragione... Se mi va male il caso Kozlow, non ho speranze di salvare il mio...». Sara fu interrotta dal trillo del telefono. «Procuratore aggiunto Tate», disse, dopo aver sollevato la cornetta. «Sara, sono Claire Doniger». «Salve, signora» disse Sara. «Dove si trova? Sta bene?». «Sto bene, cara. Volevo solo parlare con te di quel furto. Stanotte ci ho pensato su e mi sono resa conto che proprio non ho il tempo di star dietro a questa storia. Perciò ho deciso di non venire a testimoniare Visto che le mie cose le ho recuperate, ho deciso di porgere l'altra guancia». «Porgere l'altra guancia?», ripeté Sara, confusa. «Ma è assolutamente...».
«Lo so che può sembrare una sciocchezza, ma questo è quanto», disse la signora Doniger. «Quindi, per quel che mi riguarda, il caso è chiuso». «Mi dispiace, ma le cose non funzionano in questo modo. Una volta compiuto un arresto, sta a noi - e a nessun altro - decidere se e quando un caso è chiuso». «Be', tu fa' pure quello che devi fare», disse la signora Doniger, in tono offeso. «Chiedo solo che non si interferisca più nella mia vita». «Signora, io non intendevo...». «Non è necessario dilungarsi. Sono già abbastanza occupata. Ti saluto». Quando Sara abbassò il ricevitore, Guff domandò: «Che succede? Non vuole più testimoniare?». «Così dice». «Credi che cambierà idea?». «Non posso saperlo», disse Sara, afferrando nuovamente la cornetta del telefono. «Ma nel caso che non dovesse cambiarla...». «Chi chiami?». «La vicina della signora Doniger. Se la vittima batte in ritirata, voglio assicurarmi di avere almeno Patti Harrison. Del resto, a pensarci bene, è lei la nostra migliore testimone: è lei l'unica persona che ha visto Kozlow uscire di soppiatto da casa della Doniger». Sara compose freneticamente il numero della Harrison. «Pronto?», rispose la voce all'altro capo del filo. «Signora Harrison, sono Sara Tate, della procura distrettuale. So che il nostro appuntamento è fissato per questo pomeriggio, ma non è che potrebbe gentilmente venire un po' prima?». «Ah, no, mi dispiace, signora Tate, ma non posso più rendere quella testimonianza». «Prego?». «Non... posso», balbettò Patti Harrison. «Sono troppo occupata... Sarà meglio che si cerchi qualcun altro. Mi dispiace davvero. Arrivederci». La Harrison riagganciò senza concedere il diritto di replica. Sara guardò Guff. «Che diavolo sta succedendo?», domandò. «Non mi dirai che anche lei si chiama fuori, eh?». «Se così è, siamo nei guai seri», disse Sara, rifacendo il numero. Il telefono squillò cinque volte prima che la Harrison si decidesse a rispondere. «Pronto?», disse la signora Harrison, con voce flebile e tremula. «Signora Harrison, sono ancora io, Sara Tate». «Mi spiace, ma...».
«Mi ascolti, signora Harrison», la interruppe Sara. «Non so chi sia venuto a minacciarla, ma se lei si confida con noi, le assicuro che non avrà nulla da temere». «Nessuno mi ha minacciato», ribatté la Harrison. «Nessuno, ha capito? E adesso la prego di lasciarmi in pace». «Signora Harrison, ieri lei mi ha detto che era felice di testimoniare. Oggi, invece, non riesco a tenerla al telefono per più di trenta secondi. Capisco che lei possa essere spaventata, ma se non testimonia, non fa altro che incoraggiare questo genere di comportamenti. Se davvero tiene alla sua sicurezza, mi dica chi è venuto a minacciarla, e io le giuro che nel giro di mezz'ora li faccio arrestare. Non c'è da aver paura». «Io non ho paura». «Che ne dice se vengo io, adesso, da lei? Così possiamo parlare e...» «No!», gridò la Harrison. «Non venga. Apprezzo molto quello che fa, ma ormai ho deciso. La saluto». Quando Sara ebbe posato la cornetta, Guff disse: «Non posso credere che tu le abbia parlato a quel modo». «Oh, dài», disse Sara. «È inutile girarci intorno. Kozlow ha già adottato questa tattica altre due volte: non è giusto che se la cavi di nuovo». A quel punto, sentì bussare alla porta. «Chi è?», gridò. Victor aprì la porta ed entrò. Sara e Guff chiusero simultaneamente e di scatto i faldoni che stavano consultando. «Posso fare qualcosa per te?», domandò Sara, sistemando alcune cartellette per cercare di impedirgli di spiare sulla scrivania. «Venivo a vedere come procedevano le cose», disse Victor. «A che ti servono questi vecchi casi?». «Ricerche extra», balbettò Sara. «Voglio essere sicura di non aver tralasciato nulla». «Affari tuoi. Soprattutto, però, assicurati di non perdere di vista il vero problema». «Grazie per il consiglio. Hai altro da dirmi? Sai, sono presissima». «È tutto, credo», disse Victor, tamburellando con le nocche su uno dei contenitori dei faldoni. «Stai attenta, però. So che è difficile, per te, mandar giù l'idea, ma non sei poi così furba». Detto questo, Victor lasciò l'ufficio. «Che è venuto a fare?», domandò Guff. «Lui sa», disse Sara, sprofondando nella sua poltroncina. «Che cosa sa?».
«Sa che stiamo controllando gli incartamenti dei suoi vecchi processi. È venuto a dirci che ci tiene d'occhio, ecco perché è venuto! Sa degli incartamenti, segue gli sviluppi del caso e, anche se non lo ammetterebbe mai, è a conoscenza di quel che è successo ai nostri testimoni». «Che significa che non testimonieranno?», domandò Jared. «Esattamente quello che ho detto», rispose Rafferty, con voce che giungeva rauca attraverso il telefono. «Non testimonieranno. Per qualche ragione, devono averci ripensato». Alzando gli occhi in direzione di Kozlow, che stava sfogliando una rivista in un angolo dell'ufficio, Jared si sentì improvvisamente mancare. «Può attendere un istante?», domandò a Rafferty. Prima ancora che questi potesse dire alcunché, Jared posò la cornetta e raggiunse la scrivania di Kathleen. «A che ora avete finito di fare shopping, tu e Kozlow, stamattina?». «Alle dodici meno un quarto, più o meno. Perché?». «E poi che avete fatto?». «Lui ha detto che aveva alcune faccende da sbrigare, e io sono andata a scegliere qualche cravatta», disse Kathleen, a disagio. «Ci siamo incontrati un'ora dopo, più o meno. Perché? Cos'è successo?». «Quindi, è rimasto da solo per almeno un'ora. Ho capito bene?». «Be', calcola pure un'ora e un quarto. È arrivato in ritardo». «Cristo!», esclamò Jared. Tornò di corsa alla sua scrivania e riprese la cornetta. «Non dovevate minacciarli», disse a Rafferty. «Minacciarli? Noi non usiamo certi metodi», disse Rafferty. «È contro la legge». «Non è per niente spiritoso». «Su con il morale! Si goda la buona notizia. Il suo lavoro dovrebbe esserne notevolmente semplificato». Quando Rafferty ebbe riagganciato. Jared sentì bussare alla porta. «Avanti», disse. Facendo capolino nella stanza, Kathleen disse: «Mi dispiace davvero. Non volevo...». «Non preoccuparti... Non potevi saperlo». Notando che Kathleen aveva in mano uno dei foglietti rosa che era solita usare per trascrivere i messaggi, Jared aggiunse: «Ha telefonato qualcuno?». «Lubetsky vuole sapere se hai finito con le istanze del caso AmeriTex». «Oh, merda!», esclamò Jared, mettendosi affannosamente a cercare tra le carte ammassate sulla sua scrivania. «Digli che domattina le troverà sul
tavolo quando arriva». «Mi ha detto di ricordarti che bisogna presentarle entro oggi pomeriggio alle cinque». Jared fissò Kathleen sgomento. «Stai scherzando, vero?». «Neanche per sogno». «Okay», disse Jared, consultando il suo orologio. «Ho tre ore e mezza di tempo». Accese il computer e aprì il file Ameritex. «Mi servono due paralegali per alcune ricerche e un associato con almeno tre-quattro anni di esperienza per gli aspetti procedurali. Trovameli: tra mezz'ora li voglio in riunione». «Hai qualche preferenza per quanto riguarda l'associato?», domandò Kathleen. «Basta che sia bravo», disse Jared, e Kathleen uscì. «Sono davvero impressionato», disse Kozlow. «Chi ti assicura che tutti lasceranno le loro occupazioni per scattare ai tuoi ordini?». «Questo è uno studio legale importante», disse Jared. «Con 168 soci, 346 associati e uno staff paralegale che può contare su più di cento elementi, si trova sempre qualcuno disponibile. È per questo che i clienti sborsano fior di quattrini». «È questa la ragione per cui lo fai? I quattrini?». «In parte». «E qual è l'altra parte?». Sorpreso dall'improvvisa curiosità di Kozlow, Jared esitò un attimo prima di rispondere. Poteva essere l'occasione per aprire una breccia. Forse con la sincerità avrebbe ottenuto ciò che quella mattina aveva inutilmente perseguito con modi bruschi. «Vuole sapere la vera ragione per cui ho scelto di fare l'avvocato difensore? Ho pensato che in questo campo c'è sicuramente molto da fare», spiegò Jared. «L'idea sarebbe quella di distribuire un po' di giustizia anche tra coloro che a volte ne vengono privati». «Parli come un boy scout». «Lo sostiene anche Sara», rispose Jared. Approfittando dell'aggancio, aggiunse: «A proposito, perché non mi racconta cos'è successo con la Doniger e la Harrison?». Kozlow si irrigidì. Richiuse la rivista e lo guardò minaccioso: «Non ci riprovare». «Che cosa ho fatto?», domandò Jared, colto alla sprovvista. «Non cercare di fregarmi, Jared... Non metterti a fare l'amicone con me».
«Credevo solo che fossimo...». «Tàppati quella cazzo di bocca!», tuonò Kozlow, facendo tremare i vetri. «Tappati la bocca e pensa a fare il tuo lavoro». «Mi stai prendendo in giro?», domandò Conrad, sporgendosi al di sopra della scrivania di Sara. «Non ci penso nemmeno», rispose Sara. «È arrivato che avevo appena finito di parlare al telefono con la signora Harrison. Avevo i faldoni dei suoi casi sparsi dappertutto». «Lo sapevo. Avrei dovuto impedirti di farlo. È assurdo che tu indaghi sul conto di uno come Victor». «Io non sto indagando sul conto di Victor. Sto solo cercando di capire la ragione per cui voleva questo caso per sé». «In ogni caso, ti consiglio di fare molta attenzione. Non è esattamente il tipo con cui conviene litigare. Se scopre quello che stai facendo...». «Lo so. Ci ho pensato tutto il pomeriggio: con Victor penso di potermela cavare; con la Doniger e la Harrison, invece, non so proprio come fare. Pare che non abbiano intenzione di testimoniare». «Testimonieranno», disse Conrad, allontanandosi dalla scrivania. «Solo che ancora non lo sanno». «Oh-oh, ci siamo», disse Guff. «È l'ora del testosterone». «No, dico davvero», insistette Conrad. «Possono piangere e puntare i piedi quanto vogliono, ma lunedì mattina saranno in aula. Hai preparato l'attrezzatura da viaggio per Sara?». «È pronta dal giorno in cui è arrivata», rispose Guff, orgoglioso. Quindi, lasciò l'ufficio, per ripresentarsi poco dopo con una cartelletta a fisarmonica in mano. La posò sul tavolo di Sara. «Aprila», disse Conrad, rivolto a Sara. La cartelletta era suddivisa in scomparti contrassegnati da lettere dell'alfabeto. «È sotto la S», disse Guff. Sara infilò la mano nello scomparto della S e ne tolse un mazzetto di fogli. «Sai cosa sono?», le domandò Conrad. «Mandati di comparizione da compilare», rispose Sara. «Risposta esatta. Entrando qui come procuratore aggiunto, hai acquisito il potere della penna, noto anche come facoltà di citare in giudizio. Firma due di questi moduli e vedrai che, con il conforto della legge dello stato di New York, le due testimoni, lunedì, saranno costrette a portare il loro culo
davanti al gran giurì. Terrorizzate o no». «Non so», disse Sara. «La Doniger è stata scortese, ma la Harrison sembrava proprio spaventata. Non vorrei che le capitasse qualcosa...». «Devi smetterla!», le ingiunse Conrad, con voce irritata. «Di fare che cosa?», domandò Sara. «Devi smetterla con quell'atteggiamento difensivo. Tu sei un procuratore aggiunto: non arretri di fronte alle minacce. Portare i testimoni in aula fa parte del tuo lavoro. Non ti chiedo certo di mettere a repentaglio l'incolumità delle persone, ma arrendersi non è la soluzione». «E allora qual è la soluzione?». «Sei tu che devi dirmelo. Tocca a te risolvere il problema». «Conrad, non potremmo finirla con questa scenetta da telefilm?». «La finiremo quando avrai trovato una soluzione adeguata». «Tocca a me risolverlo? Be' allora, ecco cosa ti dico: invece di spedirle il mandato di comparizione stasera, glielo farò notificare da un paio di agenti lunedì mattina. Così, qualunque cosa succeda, gli agenti potranno proteggerla e, eventualmente, scortarla in tribunale». Conrad ci pensò su. Quindi, disse: «Bene. Mi sembra un ottimo inizio». «Ora ragioniamo sul fatto criminoso in sé e per sé. Mi pare che siamo tutti d'accordo sulla responsabilità di Kozlow, o mi sbaglio?». «Ehi, capo», disse Guff. «Sono le due e mezza». «Come? Davvero?», domandò Sara, consultando l'orologio. Si alzò in piedi. «Mi dispiace, ma devo proprio scappare. Ho un appuntamento a cui non posso mancare». «Che ne diresti, invece, di prepararti per il gran giurì?», domandò Conrad. «Hai appena cominciato». «Credimi: è la mia priorità assoluta», rispose Sara, togliendo la sua giacca dall'attaccapanni. «"Gran giurì" significa "rinvio a giudizio", che significa "processo", che significa "vittoria", che significa "felicità eterna". È escluso che io perda al primo round, tantopiù che c'è ancora molto da scavare». «Certo, sai usare la proprietà transitiva con grande disinvoltura, ma quando ti preparerai, concretamente, per questa miracolosa serie di eventi?». «Abbiamo a disposizione tutta la giornata di domani. E poi Guff mi ha detto che avremmo potuto vederci anche nel fine-settimana». «Ah, davvero?», fece Conrad, lanciando un'occhiataccia a Guff. «Qual è il problema?», disse Guff. «Tu lo passi sempre qui, il week-
end». «Domani non posso, però possiamo fare sabato», rispose Conrad. «Non dimenticatevi che ho anch'io i miei casi da seguire». «Lo so, e apprezzo molto il tuo aiuto», disse Sara, avviandosi di corsa alla porta. «Comunque, ci vediamo domani». «Aspetta un attimo», disse Conrad. «Non scappare. È così importante da farti piantare qui tutto?». «Ho appuntamento con la mia sorellina». «Hai una sorella?». «Non è propriamente una sorella», disse Sara. «È una ragazza che aiuto nell'ambito del progetto "Big Sisters"». «Davvero?», domandò Conrad. «E nei fine-settimana che cosa fai? Doni il sangue o vai a dar da mangiare ai barboni?». «Spiritoso», commentò Sara, sarcastica. «Quando hai cominciato?». «Più o meno un mese dopo il licenziamento dal mio ex studio legale. Mi ero stancata di gironzolare intorno al telefono in attesa che suonasse. Ho pensato che sarebbe stato meglio così, piuttosto che pagare altre sedute psicanalitiche; per non parlare del divertimento». «Be', è carino da parte tua», disse Guff. «Brava!». «Grazie per l'approvazione», disse Sara. «Ma anche se mi piacerebbe guadagnarvi entrambi alla causa, ora devo proprio andare. Sono in ritardo». «Un'altra cosa», disse Conrad. «Stasera, quando torni a casa, parla con tuo marito della faccenda dei testimoni. Entro domani mattina dobbiamo assolutamente capire che diavolo sta succedendo». «Ce la faremo, vedrete», disse Sara, andandosene. Alle tre e venti, Sara attraversò la 116th Street e risalì di corsa Amsterdam Avenue. Sulla destra c'erano i moderni e immacolati edifici della sua alma mater, la Columbia Law School, mentre sulla sinistra sorgevano i maestosi edifici della Columbia University, segnati dal tempo. Procedendo in direzione nord gli edifici divenivano improvvisamente meno sontuosi: nel giro di un isolato le statue di marmo, l'architettura gotica e i portici ornati di sculture lasciavano il posto a vetrine sfondate, macchine distrutte e al peggior intrico di vie di tutta la città. All'altezza della 121st Street terminava ufficialmente la Columbia University, e - come aveva avuto modo di apprendere al suo primo anno di law school - esisteva una linea di de-
marcazione da non valicare tra la Ivy League e Harlem. Giunta davanti alla scuola elementare "Ralph Bunche", Sara vide che lo spiazzo antistante quel fatiscente edificio di mattoni brulicava di centinaia di bambini felici di aver terminato la loro giornata scolastica. Quando girò l'angolo, facendosi largo tra la folla di ragazzini, Sara udì un grido: «Sei in ritardo!». Era Tiffany Hamilton, la sua "sorellina", seduta sul cofano di un'auto bianca. Era già alta per essere una tredicenne, ma l'abitudine recentemente acquisita di mettersi il rossetto, la faceva sembrare ancora più grande. Aveva occhi grandi, la pelle caffelatte e lunghissimi capelli raccolti in una treccia che le arrivava in fondo alla schiena. E anche un atteggiamento che ti colpiva come un treno in corsa. «Ho detto che sei in ritardo», ripeté Tiffany. «Ho sentito», disse Sara, raggiungendola. «Ho semplicemente deciso di non rispondere». «Dove sei stata?». «Al lavoro». «Ah, giusto», disse Tiffany, saltando giù dal cofano. Il suo rossetto rosa risplendeva nel sole pomeridiano. «Mi ero dimenticata che avevi ricominciato a lavorare. Puoi già arrestare la gente? Ce l'hai un distintivo?». «No, niente distintivo», rispose Sara, ridendo. «Ci danno soltanto un mucchio di rossetti come il tuo. In giornate come questa, è un'arma micidiale: si può accecare l'avversario». «Molto spiritosa», disse Tiffany, serrando le labbra in una smorfia di auto-compiacimento. «Ma raccontami del tuo nuovo lavoro? Ti piace?». «Certo che mi piace. Anche se il caso a cui sto lavorando mi sta tirando scema». «Davvero? E cos'è? Un omicidio? Una sparatoria?». «No, un furto con scasso. Ma indovina chi sarà il difensore dell'imputato?». «Perry Mason». «Come fai a sapere chi è Perry Mason?». «Ho una televisione». «Be', comunque, non è la risposta giusta. Riprova». «È più grasso o più magro di Perry Mason?». «Chi ti ha detto che è un uomo? Potrebbe anche essere una donna». «Okay, ma è più grasso o più magro?». «Più magro». «Più bello o più brutto?».
«Più bello». «Più alto o più basso?». «Non saprei. Uguale, forse». «Dunque, sono sicura che è un uomo, ma ha più o meno capelli di Perry Mason?». «Meno», ridacchiò Sara. «Soprattutto in questo punto qui dietro la...». «Jared?». «In carne e ossa». «Oh, mio Dio! Voleranno gli stracci... Posso venire ad assistere?». «Vedremo», rispose Sara. «Che effetto ti fa sapere che dovrai vedertela con lui in tribunale? È strano? E lui ha paura?». «Non credo che abbia particolari preoccupazioni», disse Sara, pensando ai suoi due testimoni. «Vuoi dire che ti batterà? Peccato... È brutto, eh?». «Non mi batterà affatto», disse Sara. Nel tentativo di cambiare discorso, aggiunse: «Tu, piuttosto, raccontami: come va la scuola?». «Benissimo», rispose Tiffany. Stavano passando davanti alla Columbia Law School. «Allora, dove si va di bello, oggi?». «Dipende. Com'è andato il compito in classe di matematica?». «Ho azzeccato l'ottantanove per cento delle risposte». «Mah... Non è ancora il massimo dei voti». «Dài, Sara, avevi detto che se fossi arrivata al novanta per cento...». «So quello che ho detto e... aspetta che controllo... mi dicono che ottantanove è ancora sotto il novanta». «Sara, ti prego, ho lavorato tutta la settimana per meritarmi quel voto. Mi manca solo un unico punticino percentuale. Un minuscolo, microscopico punticino». «Va be', va be'... Mi stai straziando il cuore. Di che morte vuoi morire?». «Che ne diresti di andare al Metropolitan Museum of Art?». «Per me va bene. Ma vuoi andare a visitare il museo o semplicemente sederti sui gradini a far la conta degli artisti tormentati che passano?». «Voglio giocare alla conta degli artisti tormentati. Con un bonus di cinquanta punti per ogni basco nero». «Lo immaginavo», disse Sara. «Trovane un'altra» «Allora, potremmo andare al bowling e poi a cena da Sylvia's». «Non posso restare a cena, stasera», rispose Sara. «Devo prepararmi per... Ehi!». Un passante che procedeva nella direzione contraria alla loro
urtò Sara, facendole perdere l'equilibrio, e sullo slancio inciampò a sua volta, franandole addosso. Era un uomo con i capelli scuri. «Mi dispiace», disse questi. «È stata colpa mia». «Oh, non si preoccupi». Mentre raccoglieva la sua borsa da terra, Sara non poté fare a meno di notare le guance scavate che definivano la sua fisionomia. «Ero soprappensiero», spiegò l'uomo, osservando attentamente Tiffany. «Non è niente». «Ne è sicura?». «Certo», disse Sara. «Non mi sono fatta nulla». Dopo che si furono rimesse in cammino verso la parte centrale del campus, Tiffany disse: «Strano tipo, eh?». «Sì, aveva un che di inquietante», ammise Sara. Risistemandosi la borsetta in spalla, si rese conto che qualcosa non andava. Frugò nella borsetta. «Figlio di puttana!», gridò, girando i tacchi e mettendosi a correre. «Che cosa c'è?», domandò Tiffany. «Quell'uomo mi ha appena rubato il portafoglio», gridò Sara, tornando a rotta di collo sui suoi passi, ma quando svoltò l'angolo di Amsterdam Avenue con la 117th Street, lo sconosciuto era svanito. CAPITOLO OTTO Salendo le scale di casa, Jared notò che le schegge di vetro erano state completamente rimosse e che al quadro dei girasoli era stata messa una nuova cornice. Dalla sera in cui, rientrando, aveva trovato la casa devastata, erano ormai trascorse quarantott'ore, ma se ripensava al rumore dei frammenti di vetro sotto i piedi gli venivano ancora i brividi. Giunto sul pianerottolo, si domandò per quale ragione avessero sfasciato anche il quadro. "Non ha senso", pensò Jared. "È un gesto inutile... a parte la gioia prodotta dal cieco esercizio della violenza". Ma poi si rese conto che, per Kozlow, quello non era che un innocuo giochetto. Mentre indugiava con la mente sull'immagine di Kozlow intento a ridurre in pezzi la cornice originale del quadro, Jared sentì sbattere il portone del palazzo al pianterreno. Dal passo pesante, escluse che potesse trattarsi di Sara. Rifiutandosi di affacciarsi alla ringhiera, Jared si mise affannosamente a cercare la chiave di casa. Nel frattempo, il rumore di passi risaliva le scale. Aprì la serratura superiore, con le mani che gli tremavano. "Ades-
so, quella inferiore", pensò, mettendosi a cercare la chiave nel mazzo. Quando l'ebbe infilata nella toppa, girò verso sinistra, ma la serratura non scattò. "Oh, no, non ora! Apriti, maledetta porta!". All'improvviso, udì uno scatto. La porta si aprì e lui, colto di sorpresa, si ritrovò all'interno. Richiuse la porta e sbirciò dallo spioncino. I passi sulle scale erano quelli di Chris Guttman, il coinquilino del terzo piano. A disagio per la sua stessa paranoia, Jared si diresse in camera da letto. «Sara, ci sei?». Silenzio. Jared gettò la borsa ai piedi del proprio comodino e si sedette sul letto. "Respira profondo, Jared", disse tra sé. "Non devi dargli la soddisfazione di spaventarti". Andò in bagno e si bagnò il viso con l'acqua fredda. Con la coda dell'occhio vide qualcosa muoversi nella doccia. Aprì di colpo la tenda, ma vide che non c'era nessuno. Deserto. Tornò alla svelta in camera da letto e controllò sotto il letto. Poi nel proprio armadio. Quindi, in quello di Sara. Poi nell'armadio della biancheria. Nulla, e nessuno. Era sicuro, a quel punto, di essere solo in casa, ma Jared non divenne, per questo, meno inquieto. Alle otto e mezza, Jared era seduto in soggiorno e stava cimentandosi mentre attendeva con ansia il ritorno della moglie - con le parole crociate del «New York Times». "Non può esserle successo nulla", pensò, osservando l'orologio del videoregistratore. "Il viaggio è lungo... È semplicemente questa la ragione del suo ritardo". Nell'ultima mezz'ora aveva telefonato tre volte all'ufficio di Sara, ma non aveva ricevuto risposta. Nel tentativo di distrarsi, Provò a immaginare la reazione di lei alla notizia del ritiro dei due testimoni. Si figurava che prima avrebbe accusato lui, dopodiché avrebbe cominciato a chiedere spiegazioni. Terminata la sua analisi, Jared tornò a osservare l'orologio del videoregistratore. "Non può esserle successo nulla", tornò a pensare. "Oh, fa' che non le sia successo nulla!". Dieci minuti dopo, Sara arrivò finalmente a casa. Non appena sentì il rumore della chiave nella toppa, Jared ripiegò il giornale sulle ginocchia. «Com'è andata la giornata?», gridò. «A meraviglia», rispose lei sarcastica. «Prima il tuo cliente minaccia due testimoni, poi uno mi urta e mi ruba il portafoglio». Posando il giornale, Jared non poté fare a meno di pensare a Kozlow. «Stai bene?», domandò poi. «Dove è successo?». Sara entrò in soggiorno e, in breve, raccontò l'episodio. «Quel figlio di puttana mi ha portato via tutto: carte di credito, la patente...».
«Mi dispiace ricordare che te l'avevo detto di procurarti una borsa con una chiusura più sicura», disse Jared. "È stato lui?", pensò, intanto. «Ma dimmi un po' cos'è questa storia del mio cliente che avrebbe minacciato i testimoni?». «Dài, Jared, sai benissimo come...». «Ti giuro che non so proprio di cosa parli». Sara si avvicinò a Jared e lo fissò negli occhi. «Ripetilo». «Ti giuro che non so proprio di cosa parli», ripeté Jared, scandendo ogni singola sillaba. "Non battere ciglio!" disse tra sé, trattenendo il respiro. "Non battere ciglio, o se ne accorgerà!". Sara scrutò il marito. "Se sta mentendo, devo ammettere che è molto migliorato", pensò. Infine, disse: «Ho parlato sia con la signora Doniger sia con la Harrison, appena dopo pranzo, e mi hanno detto entrambe che non intendono più testimoniare. La Harrison era così spaventata, che le tremava la voce». «Credi che Kozlow sia andato a trovarle?». «Chi altri?». «In effetti, non ci sarebbe che lui», disse Jared, deciso. «Però posso assicurarti che è stato con me tutta la mattina». «E nel pomeriggio?». «Ho lavorato ad alcune istanze per Lubetsky. Dovevamo presentarle entro le cinque. Ma non dicevi di averle sentite appena dopo pranzo?». «Infatti», disse Sara. «Era una domanda-tranello?». «Be', smettila con questi sospetti. Io non so davvero di cosa parli», disse Jared. Rendendosi conto di dover assolutamente evitare l'argomento, per non farsi smascherare, Jared aggiunse: «Ma dimmi del tuo portafoglio: quanti soldi c'erano dentro?». «Non lo so e non ho voglia di pensarci», rispose Sara, abbandonandosi a peso morto sul divano. «Sono esausta». «Andrai al lavoro, questo fine-settimana?», domandò Jared, con una certa ansia. «Sì. E tu?». «Ovvio», fu la risposta di Jared. «E stasera che cosa vuoi fare?». «Sinceramente, per le prossime ore, avrei voglia di restare qui seduta a vegetare». «Avresti voglia di tagliarmi i capelli?». «Certo, va' a prendere il necessario». Sara aveva tagliato per la prima volta i capelli a Jared quando frequentavano il secondo anno della law
school. Lui era tornato a casa massacrato dal Columbia Barber Shop, e Sara aveva scommesso che persino lei sarebbe stata in grado di fare di meglio. Un mese dopo, Jared la mise alla prova. Da quel giorno, non aveva più speso un soldo per tagliarsi i capelli. Dopo essersi lavato i capelli sotto la doccia, Jared arrivò in cucina con un asciugamano avvolto intorno ai fianchi e si sedette accanto al tavolo. Mentre gli pettinava i capelli, Sara disse: «Si sta diradando di brutto, qua dietro, la chioma del mio uomo!». «Ah, non c'è dubbio. All'aperto, sento il vento freddo come mai prima. Ma se è destino che io diventi calvo - ebbene, lo diventerò». «A quanto pare, il dado è ormai tratto». «Bene», concluse lui. «Ma posso farti un'altra domanda a proposito del lavoro?». «Spara», disse lei, serrando una ciocca tra due dita. «Non hai pensato alla possibilità di chiudere il caso lasciando cadere i capi d'accusa?». «Che cosa?», domandò lei, cominciando a spuntare la ciocca. «Lasciar cadere i capi d'accusa e chiudere il caso», ripeté Jared, mentre sentiva i capelli tagliati che gli scendevano lungo la schiena. «È una soluzione praticabile. Di questo procedimento non rimarrà traccia, e in più ti sarai tolta Kozlow dai piedi, per sempre». Sara interruppe le operazioni di taglio e si accigliò. «E io che cosa ne ricaverei?». «Per essere chiari, eviterai di fare la figura della scema. Piuttosto che fallire davanti al gran giurì o perdere al processo, puoi scegliere di ritirarti prima ancora che ti si possa attribuire alcunché. In tal modo, tu non macchieresti il tuo curriculum». Con un colpo secco, Sara tagliò a metà un grosso ciuffo che aveva tra le mani. «Ehi, che ti prende?», domandò Jared, osservando la ciocca mozzata che cadeva a terra. «Pensi davvero che io sia una tale sfigata?». «Oh, tu non c'entri niente: si tratta del tuo caso. L'hai detto tu stessa: due testimoni a carico si sono ritirati. È tuo dovere anche quello di non sprecare le risorse pubbliche. Non è giusto che tu proceda, nonostante il ritiro dei testimoni, solo per salvare il tuo posto di lavoro». «Intanto, c'è sempre il poliziotto. E poi, una delle due testimoni ha cambiato idea. Alla fine, la signora Doniger ha deciso di presentarsi».
«Davvero?», domandò Jared. «In realtà, no», disse Sara, riprendendo a tagliare i capelli. «Volevo solo vedere la tua reazione». «Che cosa?», domandò Jared, con affettazione. Le bastò questo. «Tu sapevi già che avevano rinunciato a testimoniare, vero?». Jared si alzò in piedi per guardarla in faccia. Sara si avvicinò. «Sara, io...». «Chi te l'ha detto?», domandò Sara, puntando le forbici verso di lui. «È stato qualcuno della procura o lo stesso Kozlow?». «Io non...». «È stato Kozlow, vero? Cristo, domani, come prima cosa, lo incrimino per intralcio alle indagini e minacce». «Sara, non credo che sia stato lui». Jared si sforzò di non distogliere lo sguardo. Solo così sarebbe riuscito a convincerla. «Davvero, te lo giuro». «E allora come hai fatto a sapere della Doniger e della Harrison?». «Me l'hanno detto loro stesse. Le avevo chiamate per sentire la loro versione dei fatti, ecco tutto». "Non è del tutto falso", pensò Jared, cercando di farsi forza. Dopo aver parlato con Rafferty, le aveva effettivamente chiamate per il motivo addotto. «Perché, allora, hai fatto finta di non sapere nulla?». Ebbe un lampo di ispirazione. «Anche tu, prima, mi hai teso il tranello sulla testimonianza della Doniger. Volevo solo capire che cosa sapevi». Sara fissò Jared, e non riuscì a trattenere un sorriso. «Che cosa c'è?», domandò Jared, sforzandosi di sorridere a sua volta. «Guarda come siamo ridotti. Si può essere più esauriti?». Jared fissò la propria fede nuziale. «Be', probabilmente sì». «Okay, potremmo esserlo molto di più, ma non dobbiamo metterci a fare psico-giochini di potere». «Hai ragione», disse Jared, ma sentiva di dover osare. «È questo caso che...». «Lo so che è importante, ma devi calmarti». Sara riprese a tagliare capelli. «Non puoi lasciartene ossessionare». «Allora, sforzati di leggere un po' tra le righe. Non sto facendo tutto questo solo per me... Lo sto facendo anche per te». «Che cosa vuoi dire?». Jared si alzò di nuovo dalla sedia e guardò Sara negli occhi. «Devi considerare meglio ciò a cui stai lavorando. So che hai dei sospetti in merito a
quello che sta accadendo, ma non hai gli elementi per provarlo. Il tuo poliziotto non ti può aiutare; i testimoni recalcitrano. Se accetti di lasciar cadere i capi d'accusa e chiudi il caso, nessuno potrà sostenere che tu abbia perso la tua prima causa. A quel punto, anzi, tu potrai scegliertene uno migliore. Tesoro, io sto solo cercando di aiutarti. E anche tu sai bene che questo è il modo migliore per dare ai tuoi capi la dimostrazione delle tue qualità, della tua capacità di decidere». «Non so». «Sara, se arrivi al processo con gli elementi di cui disponi ora, perderai. E se perderai, in men che non si dica, ti ritroverai di nuovo nelle liste di disoccupazione». Sara non batté ciglio, ma dal modo in cui teneva serrate le labbra, Jàred capì che era inquieta. «Che ne dici di patteggiare una riduzione della pena?», propose lei, esitante. «Niente patteggiamenti», rispose Jared. Avrebbe ceduto volentieri, ma non poteva. «Comunque, se hai voglia di tornare a iscriverti alle liste di disocc...». «Piantala di ripetere questa cosa!», urlò Sara. «Ehi, non prendertela con me; non sono io la causa del problema. Io sto soltanto cercando di aiutarti a risolverlo. Comunque, cosa pensi di quello che ho detto?». Sara si allontanò dal marito e si mise a guardare intorno, senza obiettivi precisi. Jared capì di averla in pugno. La menzogna gli pesava sulla coscienza, ma cominciava a dare i suoi frutti. «Credi davvero che perderei?», domandò Sara. «Sì», rispose lui, immediatamente. «Lo credo davvero». «È una domanda seria. Non dirmi bugie». Jared inspirò profondamente. Il suo unico fine era quello di proteggere sua moglie. «Non dico bugie, Sara». «Be', preferisco dormirci sopra. Ne riparliamo domani». Sara uscì dalla stanza, e Jared chiuse gli occhi. Ce l'aveva quasi fatta. Curvo sul lavandino, Jared stava lavando i piatti della cena thailandese che si erano fatti portare a domicilio. Benché sapesse di non poter allentare la pressione, gli pareva, per la prima volta, che le cose fossero sulla via di sistemarsi. Quando il telefono squillò, chiamò Sara. «Tesoro, andresti tu a rispondere?». Poco dopo, si sentì chiamare: «Jared, è per te».
Lui chiuse il rubineto, si asciugò le mani e andò a rispondere. «Pronto». «Salve, signor Lynch, sono Bari Axelrod della American Health Insurance. La richiamo per quell'indirizzo del dottor Kuttler. Un collega mi ha detto che avrei potuto trovarlo nei suoi incartamenti». «Prego? Non capisco». Ci fu una pausa imbarazzata all'altro capo del filo. «È lei Jared Lynch?». «Sì, in persona». «Potrebbe, per cortesia, dirmi la sua data di nascita e il numero della sua tessera sanitaria». «No, aspetti. Come ha detto che si chiama, lei?». «Mi chiamo Bari Axelrod, e lavoro per la American Health Insurance, la sua assicurazione». «Per quale motivo mi chiede queste informazioni?», domandò Jared, sospettoso. «Non le avete già?». «Signore, sono appena stata mezz'ora al telefono con una persona che diceva di chiamarsi Jared Lynch. Se non era lei, vorrei capire con chi sto parlando. Se può rassicurarla, le ultime tre richieste da lei inoltrate riguardano i dottori Koller, Wickett e Hoffman, nell'ordine. Mi creda, io ho già quelle informazioni. Ora, per cortesia, potrebbe dirmi la sua data di nascita e il numero della sua tessera sanitaria?». Jared eluse la domanda. «Che cosa voleva?». «A scopo di controllo, potrebbe dirmi quale ginocchio le ha curato il dottor Koller?». «Il sinistro. Ora mi dica che cosa voleva». «Mi ha chiesto un resoconto di tutte le spese sanitarie - per poter fare un calcolo, diceva». «E lei gli ha fornito tutte le informazioni personali sulla mia salute?». «Non potevo immaginare... Mi ha fornito data di nascita e numero di tessera sanitaria. Ha detto che doveva fare un bilancio delle spese sostenute». Asciugandosi la fronte con lo strofinaccio dei piatti, Jared cominciò a cammminare su e giù per la cucina. «Che cosa gli ha detto, esattamente?». «Gli ho detto delle spese dentistiche dal dottor Hoffman, dei check-up annuali dal dottor Wickett e della visita al ginocchio dal dottor Koller, inclusa la spesa per il tutore ortopedico. Dopodiché ha cominciato a chiedermi di sua moglie». «E lei che cosa gli ha detto?», domandò Jared, con voce agitatissima. «Signore, io non potevo...».
«La prego, mi spieghi soltanto che cosa gli ha detto». «Mi sono limitata a passare in rassegna le spese. Noi, qui, non abbiamo altre informazioni. Le prescrizioni per la pillola anticoncezionale, il Teldane per le allergie e i quattro mesi di antidepressivi prescritti dal suo psicologo. Proprio a questo proposito, mi ha chiesto l'indirizzo e il numero di telefono del dottor Kuttler. Diceva che voleva verificare la frequenza. Io non credevo di avere i dati richiesti, così l'ho pregato di attendere, ma lui ha detto che non era importante e che avrebbe potuto verificare altrove. Quando ho trovato le informazioni che mi aveva chiesto ho richiamato, ma ora mi rendo conto che...». «È incredibile», sospirò Jared. «Mi dispiace davvero, signore. Mi ha dato il numero di tessera sanitaria, e io...». «Ma come avrà fatto a trovarlo?». «Non ne ho idea. È stampato sulla tessera. Ha per caso perso il portafoglio, di recente?». «Tutto bene?», domandò Sara, entrando in cucina. Jared annuì e tornò a concentrarsi sull'interlocutrice al telefono. «Signorina Axelrod, la richiamo più tardi. Ora non ho quelle carte sotto mano». «Ma...». Jared riagganciò. «Che c'è?», domandò Sara, cogliendo l'espressione inquieta del marito. «Altri problemi con la compagnia assicuratrice», disse Jared, asciugandosi nuovamente la fronte. «Niente di grave, però». «Sei sicuro, perché...». «Sì, sì», ribadì Jared. «Hanno fatto confusione con una delle nostre richieste. Me ne occupo io». Jared trascorse parte del sabato mattina vagando avanti e indietro lungo le anguste corsie del vicino minimarket, facendo compere neanche tanto necessarie. Nelle precedenti quattro notti non una volta era riuscito a dormire fino all'ora prevista per la sveglia. Per quanto fosse sfinito, alle tre, alle quattro, alle cinque si ritrovava sveglio, e sempre per la stessa ragione: per controllare che Sara stesse bene. Aveva atteso quel sabato come il giorno in cui finalmente sarebbe riuscito a riposare fino a tardi, recuperando il sonno perduto durante la settimana. Ma quando, alle otto, la sveglia di Sara si era messa a suonare, Jared era stato costretto a prendere contatto con la realtà. Aveva fatto l'impossibile per tenere gli occhi chiusi e rimane-
re a letto, ma ancora una volta non c'era stato nulla da fare. Non era riuscito a togliersi quella domanda dalla testa: "Le faranno del male?". Questo era il problema che lo assillava ogni giorno, non appena apriva gli occhi, ed era l'unica cosa di cui gli importasse. Rifiutandosi di pensare al peggio, Jared era sceso dal letto e, mentre Sara si faceva la doccia, era andato al mini-market. Un quarto d'ora dopo, era sulla via del ritorno, con due sacchetti di plastica pieni di cose e una mezza dozzina di bagel. Passando accanto a decine di altri newyorchesi con sacchetti e affini, Jared continuava a pensare a sua moglie. "Andrà tutto bene", pensò. "Altrimenti...". Il filo dei suoi pensieri fu interrotto dall'assordante sirena di un'ambulanza in avvicinamento, che sfrecciava per Broadway con i lampeggianti accesi. Quando Jared alzò gli occhi, l'ambulanza era a quattro isolati di distanza. Pochi secondi dopo, però, aveva già raggiunto la 80th Street, cioè l'isolato in cui abitavano Jared e Sara. "Non girare, ti prego, non girare", implorò Jared tra sé, in piedi all'angolo della 79th Street. Tutt'intorno, la gente si era portata le mani alle orecchie per non avere i timpani perforati dall'urlo straziante della sirena, ma Jared non fece caso al rumore. Era troppo concentrato sull'ambulanza, soprattutto quando la vide svoltare nella 80th Street. D'istinto, si mise a correre. Sollevando un po' i sacchetti, Jared partì, alla massima velocità di cui era capace, nella direzione seguita dall'ambulanza. "Oh, no, fa' che non sia Sara", pregò. Andava piuttosto spedito, ma a lui non pareva sufficiente. Non ci pensò due volte: mollò le borse e volò a razzo. Sentiva chiaramente l'eco della sirena che rimbombava nella via stretta. Voltando l'angolo, vide che il mezzo di soccorso si era fermato a metà dell'isolato successivo, proprio all'altezza del loro appartamento. «Sara!», gridò. Ma non appena ebbe mosso le prime falcate lungo la 80th Street, notò che l'ambulanza stava ripartendo: era stata costretta a fermarsi per colpa di un'auto parcheggiata in seconda fila. Quando il mezzo svoltò in Columbus Avenue, Jared smise di correre. "È tutto a posto", pensò, lì in piedi, con le mani tremolanti. "Sara sta bene, per fortuna". Con passo sicuro e sguardo deciso, Sara passeggiava avanti indietro nella sala del gran giurì. «Signore e signori della giuria, siete qui riuniti, oggi, per svolgere un lavoro, e questo lavoro si chiama giustizia». «"Questo lavoro si chiama giustizia"?», la interruppe Conrad, seduto in prima fila sui banchi della giuria. «Qui non siamo a una seduta del Con-
gresso: noi vogliamo che i giurati ti prendano sul serio». «Non posso farci niente», disse Sara, gettando il proprio blocco per appunti su un tavolo lì vicino. «Quando sono nervosa, finisco sempre per essere retorica o per esprimermi a stereotipi. I lunghi anni passati a vedere pessimi film cominciano a farsi sentire». «Non ti hanno insegnato nulla al tuo ex studio legale?», domandò Guff, seduto accanto a Conrad. «Te l'ho detto: ho assistito a due processi in sei anni. Io mi occupavo di tutt'altro». «Ah, la beata paralisi della resistenza passiva!», disse Guff. «Che nostalgia, per quell'atmosfera di stagnazione!». «Un'altra battuta come questa e ti faccio vedere io la stagnazione a calci in...». «Lascialo perdere», disse Conrad. «Torniamo al problema della giuria». Si alzò in piedi e si avvicinò a Sara. «Che tu sia davanti a un gran giurì o in aula al processo, il problema della giuria è la fiducia. Se si fidano di te, si schiereranno dalla tua parte. In caso contrario, perderai. Ma un conto è riuscire a piacere alla giuria, un altro conto è convincerla a rinviare a giudizio una persona. Se vorrai che la giuria voti contro l'accusato, ti servirà ben più di qualche sorriso carino e qualche gesto appropriato». «Be', allora qual è il trucco?». «Il trucco sta nel linguaggio», disse Conrad. «Una giuria è composta da un minimo di sedici a un massimo di ventitré persone. Il tuo compito consiste nel convincerne almeno dodici del fatto che gli elementi disponibili giustificano l'incriminazione. Loro non votano per il suo arresto: non devono decidere della sua incarcerazione. Devono soltanto decidere se vi sono elementi sufficienti per ritenere che Kozlow abbia commesso il reato in questione. È un ostacolo molto piccolo, ma è facile inciamparvi». «Che intendi per "linguaggio"? Vuoi dire che esistono delle formule magiche?». «Eccome, cara mia!», rispose Conrad. «Regola numero uno: mai usare il nome dell'imputato. Non chiamarlo mai Kozlow, Anthony o Tony: otterresti l'effetto di umanizzarlo, e perciò i giurati incontrerebbero qualche difficoltà nel votare contro di lui. Chiamalo "l'imputato" o "l'accusato". Regola numero due: usa ogni volta che puoi i nomi della vittima, del poliziotto e dei testimoni: "la signora Doniger", "l'agente McCabe", "la signora Harrison ecc. Ciò li renderà più umani e più affidabili. Regola numero tre: non pronunciare mai il capo d'imputazione per cui chiedi il rinvio a giudizio,
cioè non dire mai frasi tipo "l'imputato ha commesso un furto con scasso" o "ha commesso un omicidio". Queste parole spaventano la gente, per non parlare del fatto che i giurati si metterebbero a chiedere spiegazioni prima di pronunciarsi. Per facilitarti il compito, ti conviene dire: "Se voi credete che l'imputato abbia rubato a casa della signora Doniger..."». «Sei sicuro che funzioni?», domandò Sara con un tono scettico. «Sono qui da nove anni, e mai un gran giurì mi ha negato il rinvio a giudizio», disse Conrad. «Magari, poi, il processo non lo vinco, però ci arrivo sempre. E questo succede perché riesco a concentrarmi sui particolari». «E chi ti ha tramandato queste perle di saggezza?». «Lo stato americano», rispose Conrad con fierezza. «Ehi, hai fatto il militare?», domandò Guff, in tono sarcastico. «Impossibile, con la flemma che ti ritrovi...». «Ho dato la mia disponibilità per tre anni, e loro mi hanno fatto fare la law school, ma dopo tre anni ti trasferiscono dal penale. Quando mi hanno detto che avrei dovuto occuparmi di noiose cause civili, tipo divorzi, testamenti e reati fiscali, ho fatto il gran salto e sono venuto qui». «Ti piace stare in prima linea, eh?». «Non posso farne a meno», rispose Conrad. «Ma torniamo al nostro argomento: lo sai come devi procedere?». «Chiamerò i testimoni in ordine di coinvolgimento. Comincerò dal poliziotto, poi passerò alla Doniger, quindi alla Harrison e infine a Kozlow». «Kozlow ha deciso di testimoniare?». «È arrivata la notifica», spiegò Sara. «Evidentemente, Jared ritiene che possa risultare credibile. Spero soltanto che, essendo l'ultimo a testimoniare, i giurati facciano in tempo a farsi un'idea prima di sentirlo». Sara ripensò agli altri testimoni a disposizione. La Harrison era senza dubbio la più importante, dato che era l'unica ad aver visto Kozlow uscire dalla casa della signora Doniger. Ma se si fosse rifiutata di testimoniare o, peggio ancora, avesse ritrattato, il pronostico di Jared si sarebbe avverato: l'intero caso sarebbe stato a rischio. Rivolta a Conrad, riprese: «C'è un'altra cosa: so che non ti piacerà questa ipotesi, ma se domani le cose cominciassero a mettersi male, potrei anche lasciar cadere i capi d'accusa». «Non avrei nulla da obiettare, invece», disse Conrad. «Il caso è tuo, e io, che tu ci creda o no, apprezzo molto queste tue considerazioni». Notando lo sguardo assente di Sara, aggiunse: «Parlo seriamente: è giusto essere realisti». «...disse l'uomo che non avrebbe mai accettato neanche un patteggia-
mento». «Sara, non tutte le cause sono vincenti. Pensa alla situazione in cui ti sei trovata: testimoni pavidi, un'imputato sfuggente, tuo marito. Quanto a sovraccarico emotivo, questo caso non è certo una cosa da poco». «Sì, ma questo caso...». «So bene che con questo caso tu speravi di metterti in luce, ma non si può creare qualcosa dal nulla. O meglio: in alcuni casi è possibile, ma ora non è il momento. Quando sarai davanti al gran giurì, domani, prenderai la tua decisione e, comunque vada, ne accetterai le conseguenze». «Non sono tanto le conseguenze che mi spaventano, quanto piuttosto la causa. Avresti dovuto sentire Jared, ieri sera: mi ha fatto una danza del senso di colpa di cui persino mia madre sarebbe stata fiera. E ti assicuro che anche questo non è poco». «Ci credo. Tra la penuria di testimoni e Victor che ti alita sul collo, hai tonnellate di ragioni per lavartene le mani. Magari, l'idea di chiudere il caso non ti entusiasma, ma in questa situazione sarebbe sempre meglio che perdere in aula». «Immagino di sì», disse Sara, abbacchiata. «Anche se la differenza non mi appare così evidente». Rafferty allungò una mano sul suo monumentale divano in pelle e sollevò la cornetta del telefono che squillava. «Mi hanno detto che volevi parlarmi», disse Kozlow, all'altro capo del filo. «Non ti hanno insegnato a dire buongiorno? O forse è questo il saluto dell'uomo di Neanderthal?», domandò Rafferty. «Salve. Come va?», ringhiò Kozlow. «Siamo pronti per domani». «Pare di sì. Sara ha in mente di notificare, domattina, un ordine di comparizione alle due testimoni». «Davvero? E saranno lì a riceverlo?». «Certo», disse Rafferty. «Così, quando davanti al gran giurì non riusciranno a dir nulla di interessante, la faremo finita con questa scemenza». «Siamo sicuri che questa sia la soluzione migliore?». Rafferty ignorò la domanda. «Da dove stai telefonando?». «Non preoccuparti», rispose Kozlow. «Chiamo da una cabina. Mi credi così stupido?». «Non saprei. Non è stata una stupidaggine rubare l'orologio di diamanti e la palla da golf d'argento?».
«È proprio necessario continuare a tirare fuori questa storia? Io...». «Non voglio sentire scuse, brutta sanguisuga. Se l'avessi evitato, ora non ci troveremmo in questa situazione». «Com'è che mi hai chiamato?», domandò Kozlow. «Io sarei la sanguisuga? Ascoltami bene, pseudo-Kennedy della mutua, sei stato tu che...». «Addio», tagliò corto Rafferty, e con una flessione del polso fece svanire la voce di Kozlow. CAPITOLO NOVE Il lunedì mattina, sul presto, Sara camminava su e giù per i bui corridoi di piastrelle al nono piano di One Hogan Place, facendo il possibile per mantenere la calma. Fuori dall'aula del gran giurì, cominciava a formarsi una piccola fila di procuratori aggiunti, ognuno in attesa di sottoporre ai giurati il proprio caso. Poiché la sala d'attesa non poteva accogliere tutti, anche i corridoi erano pieni di testimoni, avvocati difensori, parenti e amici. Sara fissò a lungo il gruppo sempre più numeroso, cercando di dimenticare le proprie ansie. In quella folla era facile riconoscere gli avvocati, con i loro completi monopetto blu marina o grigi e le loro camice di un bianco abbagliante. Tutti gli altri, indistinguibili tra loro, erano testimoni, vittime, imputati o, ancora, parenti e amici venuti a sostenere chi questo chi quello. Per distinguere gli avvocati difensori dai procuratori aggiunti, invece, le bastava osservare il linguaggio del corpo. I difensori erano rilassati e a proprio agio: non potendo intervenire nei lavori del gran giurì, non avevano nulla da perdere. Al confronto, i procuratori aggiunti erano generalmente più giovani, e dai loro sguardi traspariva un lieve eppur sensibile nervosismo. Una mano ansiosamente poggiata su un fianco, un insistito mordersi le unghie, qualche occhiata di troppo all'orologio: questi erano i tratti distintivi dei pubblici ministeri, oltre al loro evidente sforzo di mostrarsi perfettamente calmi. Decifrata la composizione del quadro, Sara si fermò. Alle sue spalle, un uomo in completo grigio disse: «Speravo toccasse subito a noi, ma a quanto pare saremo i settimi, o gli ottavi». Sara si voltò e lo riconobbe: era uno dei presenti al corso di orientamento del primo giorno. «"I settimi o gli ottavi"?» «A comparire davanti al gran giurì», disse il tale. «Degli altri diciassette procuratori aggiunti che hanno cominciato insieme a noi, in sei hanno già finito, e tutti sono riusciti a ottenere il rinvio a giudizio, tranne uno. Questo
tizio - Andrew, di Brooklyn - ha preso una bella botta. Scommetto che sarà il primo a saltare. Pare che sia oggi il giorno decisivo per i licenziamenti». La notizia la colse di sorpresa. «Scusa, puoi ripetermi il tuo nome?», domandò. «Charles, ma gli amici mi chiamano Chuck». «Charles, o Chuck, o come diavolo ti chiami, mi fai un piccolo favore? Taci». I membri del gran giurì venivano eletti mensilmente con un metodo che Guff definiva "una versione giudiziaria della tombola". Ma, a differenza delle normali giurie, che decidono della colpevolezza di un imputato in un solo processo, un gran giurì ascolta, durante il mese della sua vigenza, decine e decine di casi ogni giorno e deve decidere solamente se vi siano o meno le condizioni affinché il pubblico ministero persegua il reato. Il gran giurì veniva rinnovato il primo lunedì di ogni mese, e quello non era certamente il giorno migliore per presentare le richieste di rinvio a giudizio. All'inizio, i giurati sono inesperti ed estremamente cauti, preoccupati di non rinviare a giudizio un innocente. Verso la scadenza della loro carica, invece, si trasformano veterani smaliziati, anche perché si rendono conto che il rinvio a giudizio è solo il passo che condurrà al processo. All'inizio, sono persone gentili che cercano di fare la cosa giusta. Alla fine ridiventano newyorchesi mesi pronti a credere alle cose peggiori sul conto di chicchessia. Passati altri venti minuti, Sara udì risuonare la voce di Guff in fondo al corridoio: «Ehi, guarda chi c'è!». Si voltò e lo vide spingere un carrello metallico pieno dei faldoni e degli incartamenti che lei aveva raccolto sul caso: voleva essere preparata a qualsiasi eventualità. Guff era seguito dall'agente McCabe, da Claire Doniger e da Patti Harrison. McCabe pareva tranquillo, la Doniger seccata e la Harrison terrorizzata. Quando i suoi testimoni la ebbero raggiunta, Sara disse: «Spero che capiate la ragione per cui abbiamo dovuto...». «Non trattarmi come una bambina», replicò la Doniger, con i suoi capelli tinti e super-acconciati, dotati quasi di vita propria. Con il suo vestito di Adolfo, l'abbronzatura da cosmetici, l'immancabile lifting, la borsetta elegante e i suoi cinquantaquattro anni, la Doniger corrispondeva esattamente a come Sara l'aveva immaginata. Quando le sfilò davanti, Sara comprese che per la signora la conversazione era chiusa. Si voltò, allora, verso la Harrison e, posandole una mano sulla spalla, le domandò: «Come va?».
«Bene», rispose lei, poco convinta. «Ha voglia di dirmi chi l'ha minacciata?». «Nessuno mi ha minacciata», ribadì la Harrison. I suoi capelli nerissimi erano tirati all'indietro e tenuti fermi da una clip con fiocco di velluto nero; i suoi occhi azzurri danzavano inquieti, mentre lei parlava. «Però, voglio dirle una cosa: non ho intenzione di diventare una specie di lebbrosa nel mio quartiere». «Chi l'ha trattata come una lebbrosa? La signora Doniger? Kozlow». «Non so neanche chi sia, questo Kozlow. L'ho soltanto visto uscire una notte da casa di Claire. Aveva un'aria losca, e io ho pensato di telefonare alla polizia. Non so altro». «A me basta questo. Mi basta che lei racconti come sono andate le cose». Harrison distolse lo sguardo. «No, non lo farò». «Ma è suo dovere farlo». «Io non devo niente a nessuno, se non a me stessa. Mio marito mi ha lasciata otto anni fa per la sua segretaria personale dall'acconciatura voluminosa; mia figlia se n'è andata a San Francisco e non si fa mai sentire; il massimo che posso fare è flirtare col macellaio del supermercato. Comunque, se anche può sembrarle insulsa, questa è la mia vita. E non ho intenzione di gettarla alle ortiche per un imprecisato senso del dovere». Quando la Harrison si accorse che diverse persone la stavano guardando, si girò verso di loro e urlò: «E voi fatevi gli affari vostri, brutti ficcanaso». Sara attese che la Harrison si calmasse. Quindi, riprese: «Lei ha ragione. È lei che rischia, non io. Ma se - Dio non voglia! - qualcuno dovesse rompere la testa a sua figlia, mentre passeggia una sera all'aria fresca della California, spero che i testimoni, in quel caso, abbiano più spina dorsale di lei». La Harrison la fissò sprezzante. «Ha finito?», domandò. «Così, ora sa come la penso», sibilò Sara, e se ne andò. Risalendo il corridoio, Sara vide arrivare Jared, accompagnato da un Kozlow trasformato, nel suo elegantissimo gessato e con quei raffinati e costosissimi occhiali. "Tipica mossa di Jared", pensò. Dal modo in cui suo marito gesticolava, Sara intuì che stesse spiegando a Kozlow di aspettare in fondo al corridoio, a debita distanza dai testimoni. Kozlow, quindi, si fermò, mentre Jared procedette verso la moglie. «Tutto bene?», domandò, leggendo il linguaggio dei gesti di Sara. «Sì», rispose lei. Inspirò profondamente.
«Sei sicura?», insistette Jared. Allungò una mano per accarezzarle un braccio. Sara si ritrasse di scatto. «No. Non qui». «Scusami... Non volevo...». «Non è il momento». «Capisco», disse Jared, ritornando alla questione insoluta. «Hai pensato alla possibilità di lasciar cadere l'accusa?». «Certo che ci ho pensato...». «Sara!», urlò Guff, dal punto del corridoio in cui si trovava. «Tocca a te!». «Allora?», domandò Jared, guardandola negli occhi. «Facciamo un patto?». Sara tacque, indecisa, con gli occhi fissi a terra. «Ho qui i documenti», aggiunse Jared. L'aveva in pugno. Jared lo sentiva. Sara sapeva quanto fosse importante per lui. E fargli male era un po' come far male a se stessa. Alzando gli occhi, Sara rispose. «Mi dispiace. Non credo sia giusto». «Ma...». «Ti prego, non ne parliamo più», disse Sara, avviandosi verso l'aula del gran giurì. «Questi sono colpi sotto la cintura». Jared serrò la mascella e si allontanò a sua volta. Tenendole la porta aperta, Guff disse: «In bocca al lupo, capo». «Tu non vieni?», domandò lei. «Non posso. Se non si è testimoni e non si fa parte del foro di New York, non si è ammessi. E io, per mia fortuna, non sono né l'uno né l'altro. Ora vai, e fagli il culo!». Quando entrò nell'aula, Sara ebbe la sensazione che tutti gli occhi fossero puntati su di lei. Disposti su due file, sui banchi a loro riservati, sedevano i ventitré giurati. Era la tipica giuria newyorchese, composta perlopiù da uomini e donne in pensione, qualche madre di mezza età, una cameriera, il direttore di qualche negozio, un giovane redattore, un meccanico, uno studente e così via. Kozlow era seduto sul lato destro dell'aula, mentre l'agente McCabe, Claire Doniger e Patti Harrison attendevano in una sala adiacente. Proprio mentre Sara compiva una rapida panoramica dell'aula, Jared fece il suo ingresso e andò a sedersi accanto al suo cliente. Guardò Sara con rammarico, cercando di attirare la sua attenzione.
Sforzandosi di non incrociare lo sguardo del marito, Sara si rese conto di aver commesso un errore consentendogli di presenziare. Avanzò fino al tavolo in prima fila di fronte alla giuria, vi posò la sua borsa e disse: «Allora, tutto bene?». Nessuno rispose. «Okay, bene», fece Sara, aprendo la borsa. Alzò gli occhi di scatto e arrossì leggermente. «Scusatemi». Si avviò alla porta, la aprì e mise fuori la testa. «Che c'è?», domandò Guff, appoggiato al muro. «E i faldoni?». «Oops», fece Guff, passando il carrello a Sara. Dopo averlo spinto fino alla sua postazione, Sara sorrise nuovamente ai giurati. «Ecco, possiamo cominciare». Al termine della testimonianza dell'agente McCabe, Sara aveva nutrito un filo di speranza. Certo, non era il testimone ideale, ma si era attenuto ai fatti e li aveva spiegati. «Ci sono domande?», disse Sara, continuando a evitare lo sguardo di Jared. A differenza dei "piccoli" giurati, che seguono un unico caso per intero senza mai interagire con le parti in causa, i membri di un gran giurì hanno il diritto di porre domande ai testimoni, per approfondire la propria comprensione della vicenda. A meno che non chiedessero a McCabe la ragione per cui non aveva fatto rilevare le impronte digitali, Sara era convinta di potercela fare. Un giurato della seconda fila alzò la mano. «Un attimo, la raggiungo», disse Sara, avvicinandosi al giurato in modo che questi potesse parlarle all'orecchio. Il procuratore aggiunto ha il compito, e l'opportunità, di valutare in anticipo la pertinenza delle domande dei giurati; se il requisito è soddisfatto, è il pubblico ministero stesso a porre la domanda al testimone. Mentre il giurato le bisbigliava all'orecchio, Sara si attenne a ciò che le aveva insegnato Conrad, rimanendo assolutamente impassibile. Quindi, si rivolse a McCabe. «Prima domanda: "Ha eseguito rilevazioni sul luogo del delitto alla ricerca di impronte digitali dell'imputato?"». «Non ne abbiamo i mezzi», rispose McCabe. Il giurato sussurrò a Sara una seconda domanda. «"Ma non sarebbe il sistema più indicato per dimostrare la presenza dell'imputato sul posto?"», riferì Sara.
«Probabilmente, sì», replicò con fastidio McCabe. «Ma non sempre si può fare». Sara gli voltò le spalle. Da quel punto in avanti, la strada era in discesa. Quando la signora Doniger ebbe fornito la sua testimonianza, Sara era ormai un relitto. Seduta sul banco dei testimoni, la signora aveva mantenuto un atteggiamento ostile e poco collaborativo, nonché un'espressione acida e rabbiosa. L'opposto della simpatica vittima che Sara si era immaginata. Sperando di smuovere un po' le acque, Sara lasciò spazio alle domande. Subito, una giurata della prima fila alzò la mano e bisbigliò a Sara la propria questione. «"Lei, dunque, non ha colto il signor Kozlow sul fatto?"», riferì Sara. «No», rispose la Doniger. Seguirono un'ulteriore sussurro e un'altra domanda. «"Dunque, lei non sa se è stato il signor Kozlow a rubare in casa sua?"». «No». Mentre le domande proseguivano, Sara ebbe un attimo di cedimento. Guardò esitante verso Jared. Dallo sguardo, lei intuì quel che gli passava per la testa; del resto, non ci voleva un genio per capire che Sara stava sprofondando. Jared mise un bigliettino sull'angolo del banco della difesa, facendo segno a Sara di avvicinarsi per leggerlo. Fingendo indifferenza, Sara passò accanto a quel banco e - mentre la Doniger rispondeva all'ultima domanda rivoltale - trovò il modo di gettarvi un'occhiata. Il biglietto diceva: «Non credi che sia il caso di lasciar cadere il capo d'accusa?». Guardando in faccia Jared, Sara fu tentata di accettare, di zittire la Doniger e di chiudere lì la questione. Se anche fosse riuscita a ottenere il rinvio a giudizio, che cosa ne avrebbe ricavato? Con testimoni come la Doniger e la Harrison, il processo sarebbe andato persino peggio. Anche Conrad aveva detto che lasciar cadere l'accusa era meglio di una sconfitta. Soprattutto, però, Sara non sopportava l'idea di trovarsi di fronte Jared. Lasciarsi andare a qualche psico-giochino era un conto, ma vederlo soffrire per causa sua era per lei un vero strazio. "Forse ha ragione lui", pensò, tornando al proprio banco. Le domande dei giurati per la signora Doniger si erano esaurite, e Sara capì che era il momento di decidere. Poteva chiudere il caso oppure chiamare a testimoniare la signora Harrison. Il dilemma era grave, ma la soluzione, per Sara, era ovvia. «Se posso approfittare della vostra pazienza, avrei un'altra testimonianza
da sottoporvi», disse Sara, voltando le spalle a Jared. Era una questione di responsabilità. «Prego la signora Patricia Harrison di farsi avanti». A mezzogiorno e mezzo, Guff e Sara fecero il loro ingresso nell'ufficio di Conrad. «Victor, ti richiamo io», disse Conrad, parlando al telefono. «Stanno entrando in questo istante». Riagganciò e scrutò l'espressione dei suoi due colleghi. «Ebbene? Avete ottenuto il rinvio a giudizio?», domandò. «Tu che cosa dici?», domandò Guff per tutta risposta. «Io dico che ce l'avete fatta, e che fate gli indifferenti nel vano tentativo di ingannarmi». «Infatti!», urlò Guff. «Li abbiamo fatti ritornare all'età della pietra, quei comunisti bastardi!». «Fantastico!», esclamò Conrad. Si alzò per abbracciare Sara, la quale sorrideva con modestia. «Avresti dovuto vederla», raccontò Guff, assumendo una posizione guardinga. «Era lì, allo scoperto, armata solo del suo ingegno e di tre pessimi testimoni. Ha lanciato un'occhiata ai giurati, accompagnata da un ghigno beffardo. A quel punto ha cominciato uno slalom ubriacante, e ogni volta che loro credevano andasse a destra, zac!, lei girava a sinistra, e viceversa. Zig-zag-zig-zag! Era come ai buffet organizzati dai miei genitori: le pappine volavano così veloci che era praticamente impossibile vederle». «Che cavolo stai dicendo?», domandò Conrad. «Dico "pappine", ma è solo una metafora per indicare i più solidi argomenti giuridici», spiegò Guff. «Vuoi dire che fioccavano argomenti giuridici solidi, ma così veloci che quasi non si vedevano?». «Esatto. E quando era alle corde, ormai quasi priva di speranze, è risorta - come una scintillante fenice della giurisprudenza - dalle ceneri di quel gran giurì». «E tu sei riuscito a vedere tutte queste cose pur essendo fuori dall'aula?», domandò Conrad. «Fidati, non ho smesso di origliare un solo istante», disse Guff. «E ti assicuro che se dovessi vantare una sola delle mie abilità fisiche, citerei senz'altro le eccellenti facoltà del mio udito». «Insomma, a parte tutte le inutili iperboli, com'è andata?», insistette Conrad. «A dire il vero, è stata Patti Harrison a salvare la situazione», disse a
quel punto Sara, posando finalmente la borsa a terra. «La povera donna terrorizzata ha tirato fuori gli artigli, eh?». «Infatti», confermò Sara. «Quando è arrivato il suo turno, le ho posto la fatidica domanda: "Mi potrebbe indicare, se è presente in aula, la persona che ha visto uscire furtivamente da casa della signora Doniger, quella famosa sera?". Ha riflettuto a lungo. Mi è sembrata un'eternità. C'era un silenzio che - ti giuro! - mi sembrava di sentire girare gli ingranaggi della sua mente. Alla fine, ha sollevato un braccio e con la mano ha indicato Kozlow. "È lui", ha detto». «A Jared sarà venuto un colpo, eh?». «Non aveva un'aria felice. E neanche Kozlow mi è parso troppo contento». «Hai notato la reazione della Doniger?». «Volevo guardare, ma poi me ne sono dimenticata», disse Sara, in tono serissimo. «Ero troppo occupata a osservare Jared». Conrad la fissò con aria enigmatica: «Ti ha fatto star male, eh?». «Tu non immagini com'è: Jared sa esattamente dove colpire». «In tal caso, ti conviene prepararti. D'ora in poi, sarà persino peggio», avvertì Conrad. «Ma dimmi della signora Doniger: hai capito perché ha ti ha voltato le spalle?». «All'inizio credevo che ce l'avesse con me perché le avevo rovinato i programmi o sottratto una mezza giornata destinata allo shopping. Ma poi l'ho vista inferocita, in modo esagerato. Non so perché, ma era agitatissima». «Be', ora che hai ottenuto il rinvio a giudizio, devi pensare al resto. A questo dovrebbe servire la fase di preparazione del processo: a trovare i pezzi mancanti. Se fossi in te, mi prenderei mezza giornata di riposo e mi rimetterei al lavoro domattina». «E Victor?», domandò Sara. «Che cosa?». «Perché eri al telefono con lui, quando siamo entrati?». «Voleva sapere se eravate riusciti a ottenere il rinvio a giudizio». «Non ti ha parlato di nient'altro?», domandò Sara. «Non ti ha chiesto dei vecchi faldoni che abbiamo richiesto in archivio?». Conrad puntò un indice accusatore contro Sara. «Continuo a credere che tu non abbia alcun motivo per accusare...». «Io mi riservo di parlare dopo che avremo finito di esaminare quegli incartamenti».
«Allora, sbrigati», disse Conrad. «Il tuo compito, ora, è quello di preparare il processo, di cercare quelle risposte...». «E prendere a calci in culo quel che resta del tuo povero marito», aggiunse Guff. «A proposito», riprese Conrad, «ti ha detto qualcosa, dopo la decisione del gran giurì?». «Non ha aperto bocca. Ha raccolto la borsa, ha preso la porta e se n'è andato. Ma stasera ci sarà tutto il tempo. Il match Tate-Lynch è soltanto al secondo round». Rientrato in ufficio, Jared gettò la borsa sulla scrivania e allentò il nodo della cravatta. D'istinto, guardò la mappa della scena del delitto che aveva affisso alla parete. Non ne ricavò alcunché di nuovo. Constatò, per l'ennesima volta, quanto fosse vicino a casa della signora Doniger il luogo in cui l'agente aveva fermato Kozlow. "Troppo vicino", pensò. "Così vicino, che quasi lo trovava ancora in casa". «Merda!», gridò, strappando la mappa dal muro. Non appena si fu abbandonato sulla sua poltroncina, dall'interfono giunse la voce di Kathleen. «C'è Oscar Rafferty in linea», disse. «Non...». Il telefono di Jared si mise a squillare. Squillò una seconda volta. E, poi, una terza. Facendo capolino da dietro la porta dell'ufficio, Kathleen disse: «Ehi, mi hai sentito? Il signor Rafferty chiede di te». Il telefono continuava a suonare, ma Jared non si decideva a rispondere. «Jared...». «Non posso parlargli adesso», disse Jared, sprofondato al suo posto. Kathleen uscì, e il telefono tacque. Jared sentì Kathleen che diceva: «Mi dispiace, dev'essere uscito. La farò richiamare non appena sarà di ritorno». Tornata da Jared, Kathleen domandò: «Che cosa è successo?». «Lo sai benissimo cos'è successo... Ho perso. Sara ha ottenuto il rinvio a giudizio, così adesso dovremo affrontare il processo». «E perché non l'hai detto a Rafferty?». «Perché non posso», rispose lui, piccato. «Quante volte te lo devo dire? Adesso non posso». Sorpresa da quella brusca reazione, Kathleen si avvicinò alla scrivania di Jared e si mise a sedere. «Mi vuoi dire, una volta per tutte, che cosa sta succedendo?». Jared abbassò lo sguardo.
«Dài, Jared, a me puoi dirlo. Che problemi hai con Rafferty?». «Non è nulla», rispose lui, incapace di guardarla in faccia. «Non me la racconti». Sapeva che la questione non le competeva, ma la situazione sembrava più seria del solito. «Che cosa ha fatto? Ha detto qualcosa a Lubetsky? Ha detto qualcosa a proposito di Sara?». «Lasciamo stare, ti prego!», insistette Jared. «Che cosa ha detto a Sara? Riguarda lei o riguarda te?». «Basta, Kathleen». «La sta infastidendo? La sta molestando? La sta minacciando?». Jared non rispose. «Ho indovinato, vero? È per questo che ha ingaggiato te: vuole usarti per battere Sara, e se tu rifiuti, lui farà...». «Non farti trascinare dall'immaginazione», disse Jared, cercando di tagliar corto. «Non potresti essere più lontana dalla verità». Kathleen incrociò le braccia e lo fissò. «Ti sembro davvero così scema? Cioè, ti sembro così scema da crederti?». Visto che Jared taceva, Kathleen riprese: «Dimmi soltanto se ho ragione, così possiamo procedere oltre. Non ha senso che tu tenga tutto per te. Possiamo rivolgerci alle autorità, o a Barrow, oppure...». «Kathleen, ti prego... Smettila». «Okay, la smetto. Ma quel che ho capito basta e avanza». Si alzò in piedi e si avviò alla porta. «Credo sia ora di chiedere aiuto a qualcuno. Adesso chiamo Lubetsky e gli spiego...». «Aspetta!», gridò Jared. Kathleen si voltò. Lui si rese conto di non avere scelta. «Se lo dico a qualcuno, la uccideranno!». Kathleen raggelò. «Cosa?». «Te l'ho detto: se parlo, uccideranno Sara». «Così ha detto Rafferty?». Ancora una volta, Jared scelse di tacere. Si era ripromesso di tenere per sé il segreto, ma doveva ammettere che era un sollievo condividerlo. Le minacce di Rafferty cominciavano a pesargli, ma ora, sebbene costretto a tenere la cosa segreta, poteva contare, nella ricerca di una soluzione, sull'aiuto di un'altra persona. Fissò a lungo la sua segretaria. Erano anni che Jared lavorava in quello studio, ma di persone fidate come Kathleen non ne aveva conosciute. Alla fine, si aprì: «Ora ti spiego». Dopo averle raccontato tutta la storia, dall'incontro al club all'irruzione in casa, alle continue minacce, Jared distolse lo sguardo. Kathleen elaborò le informazioni ricevute. «Ecco perché stamattina mi ha fatto tutte quelle domande sul conto tuo e di Sara».
«Ha chiesto informazioni su di noi?». «A tonnellate. Ha chiamato mentre voi eravate al gran giurì. Ha fatto domande di ogni tipo: sulla tua reputazione, sul tuo carattere, sulle tue abitudini di lavoro. Ovviamente, io non gli ho detto nulla, ma era interessato al modo in cui lavori». «Forse». «Te lo assicuro». Kathleen si alzò in piedi e aggiunse: «Dobbiamo fare qualcosa». «Ho già detto a Barrow di indagare», disse Jared, in preda al panico. «Non basta: Rafferty è un osso duro. Perché non ne parli con Sara? Ha il diritto di sapere». «Non posso parlargliene, Kathleen. Te la immagini, la sua reazione? Non farei in tempo a finire di parlare che lei sarebbe già alle costole di Rafferty». «Perché è intelligente». «No, perché è una testa calda. E in questo caso lo scontro non è certo la migliore delle linee di condotta». «Ma non pensi che...?». «Kathleen, le ho già pensate tutte. Stiamo parlando di mia moglie. Lei è tutto, per me. È una settimana che tremo per la paura che possa succederle qualcosa. Lo sai cosa vuol dire?», domandò Jared. «Vado a letto, di sera, con il terrore che possano portarmela via; al mattino, apro gli occhi e ho paura. Per tutto il giorno non riesco a pensare ad altro. Stanotte ho sognato di parlare al suo funerale. Hai presente quanto può essere spaventoso? Sara è la mia vita, Kathleen». Kathleen posò una mano sulla spalla di Jared. «Mi dispiace tanto», disse. Jared si asciugò gli occhi: «È tutta la settimana che mi arrovello alla ricerca di una soluzione. "Mi conviene andare alla polizia o tacere? Devo parlarne con Sara o è più al sicuro se non sa niente?" Muoio dalla voglia di dirle tutto. Come faccio a non dirglielo? D'altra parte, credo che Rafferty dica il vero quando afferma di poter controllare ogni mia mossa; e gli credo anche quando dice che farà del male a Sara, se ne parlerò con qualcuno». «Perché, allora, con me ne hai parlato?». «Tu l'hai capito da sola. Al punto a cui eri arrivata, sarebbe bastato il mio silenzio a confermare le tue deduzioni». «Ma...». «Non ci sono "ma". Se ne parlo a Sara, lei va fuori di testa. Si metterà a
cimentare tutte le persone coinvolte, e non farebbe che peggiorare le cose. Il modo migliore di proteggerla è assicurarsi che non venga a sapere nulla. E siccome è un problema mio, decido io come risolverlo. Se non sei d'accordo, puoi tranquillamente chiamare l'ufficio del personale e chiedere di assegnarti a un altro avvocato. Altrimenti, ti prego di fare come dico io. A prescindere da come la pensi, mi saresti di grande aiuto». «Insomma, ti limiterai a fare quello che vogliono loro?». «Io devo fare quello che vogliono loro: vincere le cause è il mio lavoro, o no?». «E se questa volta perdessi?». «Fidati: vincerò», disse Jared. «Farò qualunque cosa per vincere. Allora, che cosa rispondi?». «La sai già, la risposta. Se non mi fosse piaciuto stare in trincea al tuo fianco, me ne sarei potuta andare qualche anno fa». «Grazie, Kathleen», disse Jared. «Spero solo che tu non debba pentirtene». Sara saltò il pranzo e trascorse la successiva mezz'ora seduta alla sua scrivania, costretta a sbrigare anche le pratiche relative agli altri casi a lei assegnati. Il primo ladro e il detentore di stupefacenti avevano accettato di scontare la pena nel servizio sociale. Ma l'altro ladro e il borseggiatore stavano facendo di tutto per evitare la condanna. Esperti conoscitori della macchina giudiziaria, sapevano che ci sarebbero voluti mesi per trovare un buco utile a celebrare il processo; e quando Sara ebbe preso esame delle inverosimili liste d'attesa dei processi per reati minori, si accorse che sapevano il fatto loro. In preda allo sconforto, tornò a occuparsi del caso Kozlow, proseguendo nella ricerca sui vecchi processi di Victor. Non era riuscita a trovare neanche la più pallida traccia che legasse Victor a Kozlow o alla Doniger. Kozlow non aveva mai testimoniato per Victor, né era mai stato suo informatore. Idem per la Doniger. In cerca di ispirazione, Sara chiuse l'ultima cartelletta ingiallita e tirò fuori un blocco per appunti ancora intonso. Fissando la pagina vuota, si domandò quali fossero le ragioni per cui Victor era così interessato al caso, stilando una lista di possibili risposte: "conosce Kozlow; lo odia; vuole punirlo; vuole aiutarlo; pensa che il caso sia importante". Qualcuno bussò alla porta, interrompendo il filo dei suoi pensieri. «Avanti», disse, senza alzare gli occhi dal foglio. Non si curò della porta che si apriva e di chi stesse arrivando. "Sarà
Guff", pensò. La porta fu richiusa, ma a questo rumore fece seguito lo scatto della serratura. Sara alzò gli occhi. Eccolo lì, di fronte a lei... quel volto, quelle guance scavate... l'uomo che l'aveva fatta cadere e le aveva rubato il portafogli. «Che cosa crede di fare?», domandò Sara, alzandosi in piedi. «Voglio solo garantire la nostra privacy», rispose l'uomo. Indossava un dozzinale completo grigio e aveva una voce bassa, non priva di un che di ridicolo. «Le do un secondo di tempo per aprire la porta, dopodiché io...». «Posso anche aprirla, ma non credo che saresti contenta se qualcuno ci sentisse parlare del caso Kozlow». Sara scrutò attentamente in viso il suo interlocutore. «Si sieda, prego». Poiché lo sconosciuto non accolse l'invito, Sara aggiunse: «Mi scusi, non ho capito il suo nome». «Non l'ho detto, infatti. Sono soltanto un amico della vittima». «Ah, lei conosce la signora Doniger?». «Ho detto: "della vittima"», ripeté l'uomo. «Comunque, ho saputo del tuo exploit di oggi davanti al gran giurì. Sono molto deluso». «Aspetti, mi lasci indovinare: Kozlow l'ha mandata qui per spaventarmi, per convincermi a lasciar cadere le accuse». «Al contrario. Io voglio che tu non solo proceda, ma vinca anche. Solo che, dopo quello che è successo stamattina, con tuo marito... be', secondo me, la vittoria te la sei giocata». «Che cosa sta dicendo?», domandò Sara, appoggiandosi il blocco sulle ginocchia. «Che cosa fai?», domandò l'uomo. «Prendo appunti», rispose lei. Tenendo il blocco nascosto alla vista dell'uomo, tracciò un suo sommario identikit. «Ma mi dica: com'è che oggi mi sarei giocata la vittoria?». «Tuo marito sta cercando di manipolarti». Abbassando la voce e assumendo un tono ancora più confidenziale: «"Dài, Sara, fallo per noi. Le nostre carriere ne trarranno beneficio. Abbandona questo caso, scegline uno migliore e porta a casa una vera vittoria"». Sara smise di disegnare. «Chi le ha detto queste cose?». «È incredibile la quantità di cose che si riescono a sentire in un corridoio affollato. Ma io voglio solo assicurarmi che non succeda più». A quel punto, Sara si arrabbiò. «La avverto che se non la smette di usare questo tono con me la faccio incriminare per minacce, violenza e interru-
zione di pubblico servizio». Senza il benché minimo turbamento, l'uomo ribatté: «Sono sorpreso. Non credevo che conoscessi così bene il codice». Sara restò impassibile. «Senti un po' qui, Sara», riprese l'uomo, «e dimmi se questa storia ti è familiare: c'è una ragazza che non ha paura di nulla. All'improvviso viene licenziata dal lavoro, e questa perdita non solo la costringe a cercare un sostegno psicologico, bensì riapre anche le ferite causate dalla morte dei suoi genitori. Le cose si mettono così male che la ragazza deve cominciare una cura a base di anti-depressivi. La cosa pazzesca è che lei, disperatamente bisognosa di un lavoro, non fa menzione della cura che sta seguendo nella domanda di lavoro presentata alla procura; insomma, trattandosi di un ufficio pubblico, quell'omissione diventa un potenziale problema legale, per lei». «Ho presentato la domanda prima che mi prescrivessero quella cura». «Ma è tuo dovere aggiornare la domanda. Anche ammesso che tu non l'abbia fatto apposta, ho l'impressione che qualcuno potrebbe arrabbiarsi per questa cosa». A poco a poco, l'espressione di Sara mutò dall'ostilità all'angoscia. «È frustrante scoprire che qualcuno sa tutto di te, vero?». «Che cosa vuole?», domandò Sara, con voce deliberatamente neutra. «Niente di impossibile. Vedi, io so che tu hai rubato questo caso a Victor. Quindi, voglio che tu dimostri di essere alla sua altezza. Anzi, meglio: se davvero vuoi bene a tuo marito, ti consiglio di fare tutto il possibile per vincere la causa». «Che significa?». Poiché l'uomo dalle guance scavate non rispondeva, Sara aggiunse: «Mi risponda!». «Non fare la gnorri, Sara. Hai capito perfettamente. Non dovresti aver problemi a tenerlo a bada. Quindi, rimboccati le maniche, tieni d'occhio tuo marito e fa' il tuo lavoro». Prima ancora che Sara potesse replicare, squillò il telefono, ma lei non rispose. «Io proverei a sentire chi è», avvertì l'uomo. «Potrebbe essere una telefonata importante». Il telefono squillò nuovamente. Sara fissò duramente il suo interlocutore. «Parlo sul serio», insistette. Quando Sara si allungò per sollevare la cornetta, l'uomo le tolse il blocco per appunti che teneva nell'altra mano. Lei cercò di non mollare la pre-
sa, ma fu inutile. L'aveva colta di sorpresa, e tirava con forza. Impadronitosi del blocco, staccò il primo foglio su cui Sara aveva schizzato il suo ritratto. «Bel disegno», commentò, apprezzando la somiglianza. Quindi, lo appallottolò. «Procuratore aggiunto Tate», disse Sara, rispondendo al telefono. L'uomo prese un accendino e diede fuoco alla palla di carta, gettandola poi sulla scrivania di Sara. Balzando dalla sedia, lei afferrò il codice di procedura penale e lo sbatté ripetutamente sulla carta incendiata, riuscendo a spegnerla. «Procuratore Tate, mi sente?», starnazzò la voce all'altro capo del filo. «Sono Arthur Monaghan». Udendo il nome del procuratore distrettuale di New York, Sara ebbe un tuffo al cuore. "Oh, Dio!", pensò. "Proprio adesso...". «Buongiorno, signor procuratore», balbettò. «In che cosa posso esserle utile?». L'uomo dalle guance scavate, intanto, se ne stava andando. Sara coprì con una mano il microfono della cornetta e urlò: «Ehi, un attimo!». «Dice a me?», domandò Monaghan. «Oh, no... no, signore», disse Sara, togliendo la mano dal microfono. Senza aggiungere altro, il visitatore misterioso lasciò l'ufficio. «Stavo parlando con il mio assistente. Ma, mi dica, cosa posso fare per lei?». «Avrei alcune questioni riservate da discutere con lei. Venga a trovarmi nel mio ufficio». «Adesso, signore? No, perché io avrei...». «Sì», rispose Monaghan. «Subito». «Certo... Non c'è problema, signore». Sara mise giù la cornetta e corse in corridoio, nella speranza di riuscire ancora a intravedere lo sconosciuto. Dell'uomo, però, non c'era traccia. Alla sua sinistra, dall'estremità più lontana del corridoio, Sara vide arrivare Guff. «Hai per caso visto un brutto ceffo vestito di grigio che andava via di fretta?», gridò lei. «No. Perché?», domandò Guff. Senza curarsi di rispondere, Sara si girò e si mise a correre verso destra. "Magari ha fatto il giro lungo", pensò, passando davanti all'ufficio di Conrad. «Qualcuno ha, per caso, visto un tale in completo grigio che se ne andava di fretta?», disse a voce alta. Nella folla di procuratori aggiunti, agenti di polizia e assistenti che riempiva il corridoio nessuno rispose affermativamente. Quando raggiunse gli ascensori, in fondo al corridoio, Sara si rese conto di essere stata seminata. «Maledizione!», ansimò. Davanti al proprio ufficio, Sara trovò Guff ad attenderla. «Che cosa è
successo?», domandò, annusando l'aria. «Si sente puzza di bruciato». «Entra, ma non toccare le maniglie», disse Sara, entrando. Dopo aver ripulito il tavolo dai resti bruciacchiati del suo disegno, tolse da uno scaffale la cartelletta a fisarmonica e la aprì alla lettera G. Vi trovò un paio di guanti in lattice e, prelevandoli, aggiunse: «Questi servono per maneggiare corpi del reato e affini, no?». «Sì», ammise Guff, mentre Sara si infilava i guanti. «Ma che cosa stai...?». Sara impugnò entrambe le maniglie della porta e le ruotò l'una in senso opposto all'altra. Dopo aver opposto una certa resistenza, le maniglie arrugginite cedettero, e Sara riuscì a svitarle dalla porta. «Passami il sacchetto delle prove», disse a Guff. Guff prese il sacchetto di plastica e lo aprì. Sara vi gettò le maniglie e si tolse i guanti. «Portale alla scientifica. Voglio che rilevino le impronte digitali». «Credi che qualcuno sia entrato nel tuo ufficio?». «No, lo so per certo. Ora voglio scoprire chi è». Cinque minuti più tardi, Sara era già all'ottavo piano di One Hogan Place, sede dell'ufficio del procuratore distrettuale Arthur Monaghan. Superati i controlli di sicurezza, percorse il lungo corridoio e raggiunse una sala d'attesa, dove trovò altri due neo-procuratori aggiunti che aveva già visto al corso di orientamento. Le pareva di ricordare che la donna con gli occhiali dalle lenti ovali si fosse appena laureata alla New York University, mentre l'uomo, un biondo dal viso punteggiato di pallide lentiggini, era stato suo compagno alla Columbia. Sembravano entrambi molto a disagio. Avvicinandosi, fece loro un labile sorriso. «Siamo nei guai, eh?». «Non farmi parlare», dissa la donna della NYU. «Questa città è organizzata e gestita nel peggiore...». «Sei tu Sara Tate?», domandò una donna comparsa sul lato destro della sala d'attesa. Sara si voltò e vide la segretaria del procuratore distrettuale, una donna magra con un'acconciatura e una frangia terribilmente fuori moda. «Sì, sono io». «Su, vieni», esortò la segretaria, «Monaghan ti aspetta». «Buona fortuna», augurò l'ex compagno della Columbia. Innervosita sia dalla sua flemma, sia dagli sguardi dei colleghi, Sara sfilò davanti alla segretaria, con il più classico dei nodi allo stomaco. Sulla
soglia dell'ufficio di Monaghan, vide che la profonda stanza era organizzata intorno a un enorme tavolo da riunioni in mogano; inoltre, sebbene il resto dell'arredamento fosse tutt'altro che eccelso, Sara notò un gusto e una qualità superiori rispetto agli uffici dei procuratori aggiunti: una lucida scrivania in quercia, invece di quella, orribile, in metallo; una poltroncina in pelle, al posto della sedia cigolante di plastica; e schedari nuovi, invece che rugginosi. «Come mai ci ha messo tanto? In fondo, doveva solo attraversare la strada», disse Monaghan, invitandola a entrare. Sorriso smagliante e parrucchino in testa, il procuratore distrettuale Arthur Monaghan aveva l'aria di chi voleva piacere, ma - stando a quanto si mormorava in procura - ci riusciva di rado. «Mi scusi, signore. Ha trascorso una buona giornata?», domandò Sara, prendendo posto di fronte a Monaghan. «Una giornata vale l'altra. L'ho chiamata per parlare di questi incombenti tagli al bilancio. Vorrei sentire la sua opinione». «Mi pare uno stratagemma elettoralistico», rispose lei, sforzandosi di conferire alla propria voce un tono sicuro, mentre in realtà il disagio le impediva di star ferma. «Sono chiaramente uno stratagemma, che però funziona. Ed è per questo che i sindaci lo amano. Di questi tempi, sono tutti innamorati della ruvida politica dei tagli alla spesa pubblica. Basta con la moderazione, torniamo alla dura e spietata essenzialità. Quanto più la gente soffre, tanto più si convincerà che ciò è per il suo bene. Siamo diventati una città di masochisti. Distruggiamo il welfare, conculchiamo i diritti, tagliamo tutto, e la gente la considererà una dimostrazione di amore, per quanto severo. Se si toglie alla gente qualcosa di buono, vorrà dire che in realtà non era poi così buono; altrimenti, i politici non assumerebbero posizioni così rischiose. È l'ultimo grido della psicologia capovolta: teniamoci le cose negative ed eliminiamo quelle positive». «Può darsi, signore. Anche se io credo...». «Vuol sapere una cosa, però? Nulla di tutto questo ha realmente importanza». Posando sulla scrivania i palmi delle mani aperte, aggiunse: «Parliamo, piuttosto, del suo futuro qui in procura». Le mani di Sara erano due spugne. Senza pensarci su, sparò: «Ho per le mani cinque casi. Per uno di questi ho già ottenuto il rinvio a giudizio. In due casi, invece, le accuse sono cadute. Se vuole, però, posso fare anche altro, occuparmi di qualche altro caso...».
«No, lasci stare gli altri casi», la interruppe Monaghan. «Se lei dovesse essere licenziata, verremmo a trovarci nella condizione di doverla sostituire in eventuali altri processi. Si applichi ai casi che già ha e faccia del suo meglio. Nei prossimi trenta giorni lei verrà giudicata insieme ai suoi pari grado, e se dimostrerà di valere, potremmo decidere di tenerla con noi». «Vuol dire che per il prossimo mese posso stare tranquilla?». «"Tranquilla" è una parola grossa. Se fossi in lei, in base al calcolo delle probabilità, comincerei a valutare altre proposte di lavoro». «Davvero?». «Davvero». Sara tornò in ufficio sconvolta per l'uno-due che aveva dovuto incassare in quelle prime battute del pomeriggio. Quando Guff la vide, disse: «Sei stata licenziata, vero?». «Non ancora», rispose Sara. «Ma non temere. Assisterai allo spettacolo prossimamente su questi schermi». Invece di andare a sedersi al suo posto, Sara si accasciò a terra, appoggiandosi con la schiena al muro. «Credi che Purchasing ce la farà a recapitare il nuovo divano entro il prossimo mese?». «Raccontami cos'è successo?», domandò Guff. «Ti senti bene?». «Credo di sì», rispose lei, senza risultare granché convincente. Quando Sara ebbe riferito il contenuto del colloquio con Monaghan, Guff commentò: «Be', se non altro non ti ha licenziata in tronco. Ma dimmi chi è questa persona di cui cerchi le impronte digitali? Che cosa ha fatto?». «Ah, sì... Guance Scavate. Innanzitutto, mi ha minacciata. Ma devo dire che mi ha anche spaventata. Sapeva un mucchio di cose sul mio conto, e mi ha detto che se non vinco la causa, farà del male a Jared». «Credi che parlasse sul serio?». «Non so cosa pensare. Spero solo che, con gli esiti delle rilevazioni delle impronte, si riesca a capire se è un tipo pericoloso o no». «Alla scientifica mi hanno detto che saranno pronti per domattina presto. Anzi, se sei in grado di fornire altre informazioni - colore dei capelli, tratti somatici e roba del genere - l'identificazione sarà ancora più rapida». «Mi passi, per favore, il mio blocco e una matita?», domandò Sara. «Avevo già cominciato a fargli il ritratto, ma quando ho risposto al telefono lui mi ha strappato il foglio e gli ha dato fuoco». «Allora, a cosa ti servono questi?», disse Guff, porgendo a Sara ciò che
gli aveva chiesto. «Ora vedrai». Sfregando leggermente, sulla prima pagina del blocco, la punta della matita tenuta il più possibile orizzontale, Sara riuscì a far emergere i contorni dello schizzo originale, rimasti impressi anche sulla pagina sottostante. «Sei un genio, Holmes!», esclamò Guff. «Bisogna farsi furbi!». «Non ha detto nient'altro?». «Poca roba. Vorrei proprio sapere chi è. A quel punto, forse, saprei come comportarmi». Il telefono di Sara si mise a squillare, ma fu Guff a rispondere. Nel giro di qualche secondo, Guff sbiancò in volto. «Che c'è?», domandò Sara. «Si tratta di Pop», disse Guff. «Ha avuto un incidente». CAPITOLO DIECI Entrata di corsa al pronto soccorso del New York Hospital, Sara si fermò al banco delle informazioni, accompagnata da Guff. «Sto cercando mio nonno», disse lei, con voce rotta, all'impiegata di turno. «Si chiama Maxwell Tate. È stato portato qui circa un'ora fa». Dopo aver controllato sul suo registro, l'impiegata disse: «Al momento è in sala operatoria». «Si salverà?», domandò Sara. «Lo stanno operando. Dovrebbero finire tra poco». Passandosi una mano sulla fronte, Sara chiuse gli occhi. «Dio, ti prego, non portarmelo via!». Un'ora dopo, Sara e Guff erano seduti nella spoglia sala d'attesa dell'ospedale. Guff sfogliava meccanicamente riviste vecchie di anni, mentre Sara era pietrificata e fissava, assente, la parete azzurra che aveva di fronte. A un certo punto, Guff le posò una mano sulla spalla. «Ce la farà, vedrai». «Sempre quel maledetto telefono», disse Sara. «Che vuoi dire?». «In genere, si pensa che la morte debba coglierci in ospedale, mentre siamo circondati dai nostri cari. Invece, è un fenomeno molto più casuale e imprevedibile. La morte non si presenta timidamente, in un attimo di silenzio; la morte irrompe, nel momento in cui si è meno preparati ad affron-
tarla». «È così che hai saputo dei tuoi genitori? Te l'hanno detto al telefono?». «Magari! Nel mio caso, i meravigliosi responsabili dell'ospedale hanno lasciato il messaggio in segerteria telefonica. Ci pensi? Tu vai per ascoltare i tuoi messaggi e senti: "Ci spiace, i suoi genitori sono morti. Buonanotte"». «Una rientra a casa, e le arriva tra capo e collo una roba del genere...». «Tornavo da una giornata di studio in vista degli esami finali», raccontò Sara. «Non dimenticherò mai quella lucina intermittente. Quel messaggio è indelebilmente impresso nella mia memoria: "Salve, sono Faye Donaghue, dell'ufficio legale del Norfolk Hospital, in Connecticut. Avrei bisogno di parlare con un membro della famiglia. Riguarda i signori Robert e Victoria Tate. È un'emergenza assoluta". Aveva un vago accento del Massachusetts, ma per il resto non c'era traccia di emozione nella sua voce». «Non ha detto altro? Non ti ha detto che erano morti?». «Non era necessario. L'ho capito subito. È una sensazione che si ha. Ho pigiato quel tasto appena sono entrata in casa, e siccome avevo i piedi gelati sono andata in cucina a prepararmi una bevanda calda. Il primo messaggio era di una compagna di classe che voleva ripassare con me gli illeciti civili; poi aveva telefonato Jared che, anche se mi conosceva appena, insisteva per avere i miei appunti di procedura civile; infine, il messaggio di Faye Donaghue: "È un'emergenza assoluta". Questa parola continuò a rimbombarmi nella testa per un po': "assoluta, assoluta, assoluta...". Riascoltai il messaggio tre volte per assicurarmi di non aver capito male». Per paura di dire la cosa sbagliata, Guff tacque. Dopo un po' si limitò a sussurrare: «Mi dispiace davvero». «Non è colpa tua. Questa storia, però, mi ha insegnato che la morte romantica non esiste, e che bisogna sempre essere preparati al peggio. Questa è la vera lezione. Finché la terrò presente, nulla potrà coglierci di sorpresa». «Ma non si può vivere in questo modo». «Non ho scelta, Guff... La mia vita è così. Ogni volta che abbasso la guardia, vengo duramente punita: appena mi entusiasmo per questo lavoro, vengo a sapere dei licenziamenti; appena mi appassiono al caso, scopro che in tribunale dovrò affrontare mio marito; appena mi metto alle costole di Victor, scopro che è lui che dà la caccia a me; oggi, infine, proprio mentre cerco di godermi il risultato del gran giurì, mi chiamano per dirmi di Pop. E siccome è successo subito dopo la visita di quel brutto ceffo...».
«Sara, so cosa stai pensando, ma è poco probabile che le due cose siano da porre in relazione». Sara lanciò a Guff un'occhiata scettica. «Non sto dicendo che è da escludere, ma devi fare attenzione a non farti sopraffare dalla paura. Quando Pop uscirà dalla sala operatoria, sentiremo che cosa ci dirà». Dovettero aspettare altri dieci minuti prima che un dottore si facesse vedere in sala d'attesa. «È lei la signorina Tate?». «Sì, sono io», rispose Sara, balzando all'impiedi. «Come sta mio nonno?». «È caduto malamente dalle scale», spiegò il dottore. «Ha una frattura del bacino, per cui l'abbiamo appena operato, e una frattura di Colle». «Sarebbe a dire?», domandò Sara. «Una frattura del radio distale», spiegò il dottore. «L'avambraccio. Dev'esserselo rotto nel tentativo di attutire la caduta. Ha subito anche una contusione alla fronte, poco più di un bernoccolo». «Si rimetterà?». «Se si considera l'età che ha, se la sta cavando piuttosto bene. Per un po' sarà fuori uso, ma l'operazione l'ha superata brillantemente». «Possiamo vederlo?», domandò Sara. «Ora si sta riprendendo. Ma potete chiedere il numero della sua stanza e andare ad aspettarlo. Sarà lì al massimo entro un'ora». Venti minuti più tardi, nella stanza d'ospedale semiprivata destinata a suo nonno, Sara era intenta a sistemare i cuscini del letto, a disporre i fiori che aveva portato e a controllare che la tv funzionasse. A un certo punto, la porta si aprì, e due infermieri spinsero nella stanza un lettino a rotelle su cui giaceva Pop, in semi-incoscienza. Aveva un aspetto tremendo: era pallido, aveva il braccio ingessato e il lato destro della fronte incerottato. Quando Sara lo vide non poté trattenere le lacrime. «Pop, come stai?», singhiozzò. «Alice?», domandò con voce impastata, a occhi ancora chiusi. «Pop, sono io, Sara». «Sara?». Lentamente, la nebbia cominciò a dissiparsi. «Sara, sei qui! Come stai?». «Ah, benissimo!», rispose lei, asciugandosi gli occhi e sorridendo. «Tu, piuttosto, come stai?». «Non lo so. Non sento niente». «È normale, Pop. Non ti spaventare. Ma dimmi com'è successo?».
«Ti hanno spinto di proposito?». Pop scosse la testa. Gli infermieri lo spostarono dal lettino al letto. «Ho perso l'appoggio e sono caduto». «Sei sicuro che nessuno ti abbia spinto?», domandò Sara. «Spinto?». Pop respirava a fatica, ma si sforzò di spiegare. «Ero... sulle scale del metrò, dopo pranzo... Ho sentito il treno arrivare... e poi una massa di persone che correvano... per prenderlo. Mi hanno urtato con violenza... e mi hanno sbattuto a terra... A New York c'è sempre da combattere... per tutto». Sara osservò Guff per cogliere la sua reazione al racconto di Pop. «Sei riuscito a vedere la persona che ti ha spinto?», domandò Guff. Pop scosse nuovamente il capo. «Mi sono accorto a malapena... di quello che è successo...». La porta della stanza si aprì di colpo, ed entrò Jared: «Come sta?», domandò correndo verso Sara. Sara lo abbracciò forte e scoppiò a piangere. «Sta bene», rispose. Ripensando a quello che le aveva detto quell'uomo nel suo ufficio, strinse Jared ancora più forte. «Si rimetterà». «Oh, Pop, mi dispiace tanto», disse Jared. «L'ho appena saputo». Pop protese un braccio e gli strinse forte la mano. Con un cenno del capo, Jared cercò di mostrarsi rassicurante e tranquillo, ma non riusciva a smettere di pensare che si trattasse di un avvertimento di Rafferty. «Non preoccuparti. Ora ci siamo qui noi», disse Sara, turbata dalla persistente espressione di paura dipinta sul volto di Pop. «Faremo in modo di...». La frase fu interrotta dallo squillo del telefono che si trovava sul comodino. «Probabilmente, è l'azienda dei trasporti che vuole porgere le sue scuse», annunciò Guff, mentre Sara sollevava la cornetta. «Pronto», disse Sara. «Ciao, Sara. Chiamavo per sapere come sta tuo nonno». «Chi parla?», balbettò Sara. «Hai la memoria corta, eh? Ci siamo incontrati poche ore fa, in fondo. Ora, ascolta bene questo consiglio: smettila di indagare su di me e mettiti a lavorare al tuo caso». «Lo sapevo, che era stato lei», disse Sara. «Io?», fece lui, con prontezza. «Il metrò è un posto affollato. Non è adatto a un vecchio in giacca blu e pantaloni di tela spiegazzati. Può succedere di tutto, se non si sta attenti».
«Perché...?». Sara non riuscì neppure a terminare la domanda. L'uomo aveva interrotto la comunicazione. Sara, però, continuò a parlare, affinché nessuno potesse sospettare alcunché. «Sì, sì, d'accordo... Non c'è nessun problema. E grazie per il suo aiuto, dottore». Sara riagganciò e si accorse che gli altri la stavano fissando. «Era il dottore di Pop», spiegò. Jared osservò Sara, con aria interrogativa. «Tutto bene?», le domandò. «No... sì... be', credo di sì», disse Sara. «Il dottore voleva avvertire che ci vorrà pazienza, se vogliamo che la cosa si risolva positivamente». Quella sera, Sara e Jared rientrarono a casa alle undici. Appeso il cappotto nel guardaroba, Sara andò diretta in camera da letto. Jared la seguì. «Se pensi che era appena uscito dalla sala operatoria, aveva un aspetto invidiabile», disse Jared, mentre Sara si sbottonava la camicia. «Già...», rispose lei. Notando l'aria assente della moglie, Jared domandò: «C'è qualcosa che non va? È tutta la sera che non dici una parola». «No, nulla», rispose lei, slacciandosi il reggiseno e togliendosi la gonna. Finito di svestirsi, indossò una maglietta della Columbia e si infilò a letto. «Credi che...». «Pop ha la scorza dura», disse Jared, raggiungendola sotto le coperte. «Non per niente, è vissuto così a lungo». Jared rifletté sull'incidente occorso a Pop. "Sarebbe potuto succedere a chiunque", disse tra sé. "Non c'è motivo di pensare che si tratti di un avvertimento di Rafferty". Ripeté dieci volte il ragionamento, ma non gli riuscì di convincersene. Cercando di distogliere il pensiero da quel circolo vizioso, Jared si abbarbicò a Sara. «Ti prego, non è il momento», disse lei, allontanandolo da sé. Colto di sorpresa, Jared la osservò attentamente. Distesa supina, Sara fissava il soffitto serrando tra le mani il bordo delle coperte all'altezza del mento. Aveva uno sguardo inquieto che Jared non vedeva da molto tempo. Quello che era successo a Pop l'aveva evidentemente sconvolta. Jared tornò ad avvicinarsi e le diede un bacio sulla guancia. «Si rimetterà, vedrai». «Quella è solo una parte del problema». «Qual è il resto, allora? I tuoi genitori?». «No», rispose Sara. "Dài", pensò Sara. "Chiedimelo di nuovo". «Be', allora di che si tratta?». «È quel maledetto caso», disse lei. «Voglio che tu rinunci all'incarico».
«Cosa? E perché mai il caso dovrebbe...?». «Non voglio scontrarmi con la mia famiglia. La vita è breve; non è il caso di sciuparla in questo modo». Lo fissò negli occhi, cercando di cogliere la sua reazione. Quando lui distolse lo sguardo, lei si rese conto di aver colpito il bersaglio. Nel tentativo di affondare il colpo, aggiunse: «In fondo, tu e Pop siete le uniche...». «Sara, capisco che tu sia preoccupata per Pop, ma quante volte dobbiamo discutere di questo problema?». «Tu non capi...». «Io capisco... Io so cos'hai passato, oggi. E a Pop voglio molto bene anch'io. Solo che...». «Che cosa?». «È solo...». Jared esitò. "Ora che Pop è all'ospedale, Sara ha ancora più bisogno di me. Non posso sottrarmi al mio dovere", pensò. Poi, come sempre, gli tornò in mente Rafferty, e mutò subito parere. "Qualunque cosa accada, non posso mettere a repentaglio la vita di Sara". «So che l'incidente di Pop ha riaperto vecchie ferite. Purtroppo, però, io non posso fare nulla, e me ne dispiace molto». Sara sapeva che Jared era nel giusto. Però, non si trattava solo di Pop, bensì anche di lui. Voltandogli le spalle, rivide la conversazione avuta nel pomeriggio con quello sconosciuto in ufficio. Lì era cominciato tutto. Lì aveva preso avvio quella nefasta sequenza di eventi. Poi, c'era stata la minaccia contro Jared. Poi, ancora, Monaghan; e la sofferenza nello sguardo di Pop, quando l'avevano portato nella sua stanza d'ospedale; e la telefonata dello sconosciuto. E la morte dei suoi genitori. A Sara pareva che tutto dovesse, in un modo o nell'altro, ricondurla a quel trauma originario. Serrando le palpebre, cercò di contenere la marea emotiva che sentiva montare dentro di sé. Strinse i denti e si sforzò di respirare lentamente. A poco a poco, riconquistò la calma. Asciugandosi gli occhi per cancellare i segni del suo pianto, Sara tornò a girarsi, trovandosi di fronte la curvatura della schiena di Jared. Senza alcun dubbio, lui era la cosa più importante per Sara, e lei avrebbe fatto qualunque cosa per proteggerlo. Sfiorandogli una spalla, Sara disse: «Sappi, però, che dico questo solo perché ti amo». «Lo so», bisbigliò Jared. «Anch'io ti amo». «Secondo me, stava per dirglielo», disse l'ospite di Rafferty, togliendosi le cuffie stereo dalle orecchie. «No, non credo», replicò Rafferty.
«Ma se non stavi neppure ascoltando!». «Fidati, è impossibile», insistette Rafferty. «È troppo intelligente per fare un errore del genere». «Se sei così sicuro, perché vuoi che ascolti le sue conversazioni?». «Perché dopo una giornata come questa chiunque sarebbe tentato di confessarsi con la propria moglie. Il nonno di Sara è in pessime condizioni, e questo li ha riavvicinati. Ma se Jared ha taciuto stasera, puoi star certo che in futuro non aprirà bocca». Rafferty si alzò in piedi e si aggiustò la cravatta. «Ma che cosa pensi dell'incidente capitato al nonno? Credi che ci sia sotto qualcosa?». «Secondo me, è semplicemente scivolato. Succede... Perché?». «Non so», rispose Rafferty. «Ho la brutta sensazione che qualcuno stia cercando di entrare nel gioco». CAPITOLO UNDICI «Come sta tuo nonno?», domandò Conrad, quando Sara, accompagnata da Guff, entrò nel suo ufficio. «Sta abbastanza bene. L'infermiera dice che stanotte ha dormito, e questo è un buon segno». «Sono molto contento», disse Conrad. «Sul versante delle brutte notizie, invece, Victor mi ha detto della tua conversazione con Monaghan». «Ah, davvero?», domandò Sara, sorpresa e a disagio. «Proprio non lo capisco», diss Guff. «Una settimana fa voleva sbarazzarsi di te, e oggi è il tuo APP». Rendendosi conto che nessuno aveva capito, spiegò: «APP... "amico per la pelle". Non ne avevate uno alle scuole medie?». Ignorando la battuta, Conrad scrutò Sara in viso. «Sei ancora del parere che Victor sia coinvolto nella vicenda, vero?». «Sarei una stupida se non lo fossi. Qualunque cosa io faccia, lui lo viene sempre a sapere. Per me, questo può significare due sole cose: o Victor Stockwell è molto preoccupato, oppure - senza offesa - molto losco». «Taci». Conrad uscì in corridoio a controllare che non vi fosse nessuno; quindi, chiuse la porta. Tornato a sedersi, spiegò: «Non puoi parlare con questa leggerezza: Victor lavora qui da quasi quindici anni. Ha molti amici in questo palazzo; non è il caso di inimicarselo». «D'accordo», disse Sara. «Ma a me cosa resta?». «Resta il fatto che stai accusando senza prove un veterano della procu-
ra», rispose Conrad. «Hai finito di esaminare i suoi vecchi incartamenti?». «Quasi, ma credo sia ora di uscire da questo labirinto, per tornare alla domanda iniziale: se tu fossi uno dei migliori nomi di questa procura, per quale ragione richiederesti un infimo caso di furto con scasso?», domandò Sara. «Ci pensavo stamattina sul metrò. Oltre a perseguire il reato, che cosa può fare, di un caso, un procuratore distrettuale aggiunto?». «Può dichiarare non perseguibile il reato, oppure derubricarlo», rispose Conrad. «Sì, ma oltre a questo?», insistette Sara. «Pensa alla controparte in questa causa: dall'incarico al socio del mio ex studio legale all'ingaggio di Jared, tutto sembra indicare che alle spalle di Kolzow ci sia qualcuno. Qualcuno si dà pena per lui. Ora, ipotizziamo che Victor sia legato a questa gente. Se tu fossi un procuratore corrotto, che altro potresti fare?». «Potrebbe insabbiare il caso», rispose Guff. «Esatto!», esclamò Sara. «È quello che ho pensato anch'io, almeno. Victor promette a un pezzo grosso della malavita che insabbierà un determinato caso. Ma quando arriva la documentazione, un neo-procuratore aggiunto desideroso di mettersi in mostra se ne appropria prima ancora che venga registrata. Quando Victor lo viene a sapere, si infuria e ordina alla segretaria dell'UAC di chiamare a uno a uno tutti i procuratori aggiunti fino a scoprire chi è il responsabile». «Ma se è vero, perché Victor non si è semplicemente ripreso il caso?», domandò Guff. «A quel punto, non era più possibile. Ne avevo già parlato con altri. Era troppo tardi per...». «Ma siete entrambi completamente impazziti?», interloquì Conrad. «Credete che Victor Stockwell sia un insabbiatore?». «È possibile». «C'è una notevole differenza tra una cosa possibile e una dimostrabile», disse Conrad. «E se fossi in te, qualora non potessi dimostrarla, non andrei neppure in giro a propalarla ai quattro venti. E poi, soprattutto, non ha senso che tu ti metta alle costole di persone come Victor». «Se davvero ne sei convinto, perché continui a incoraggiarmi?». «Cosa?». «Hai sentito benissimo. Sin dal primo momento, hai tentato di dissuadermi in ogni modo dal prendere di mira Victor, però, ogni volta che ho bisogno di aiuto, sembri sempre felicissimo di potermi suggerire la soluzione migiore. Allora, cosa devo pensare?».
Conrad sfoggiò il più vago dei sorrisi. «Ho ragione, vero?», domandò Sara. «Anche tu credi che sia un tipo losco». «Mi riservo il giudizio. Ma la verità è che mi fido del tuo istinto. Ci sono troppe coincidenze inspiegate in questa vicenda, e se c'è una cosa a cui non credo sono le coincidenze. Insomma, se tu intendi continuare nella tua indagine, io ti darò una mano, ma ripeto: non ti permetterò di mettere a repentaglio la carriera di Victor se non troverai le prove». «Non lo sto incriminando. Sto solo cercando di capire che cosa succede». «Qualunque cosa tu stia facendo, ho l'impressione che ti sfuggano alcuni elementi fondamentali del quadro», disse Conrad. «Nonostante tu avessi già parlato del caso, e ammesso che Victor volesse veramente insabbiare il caso, sarebbe bastato riprenderselo e lasciar cadere i capi d'imputazione». «Scherzi? Io avevo già preso visione dei documenti; non avrebbe più potuto lasciar cadere le accuse. Non sarà un crimine dei peggiori, ma è pur sempre un reato di un certo peso». «Può darsi», disse Conrad. «Però, avrebbe potuto concedere attenuanti, optare per una pena minima o derubricare le accuse». «Magari, però, la persona che tira le fila pretendeva che del furto non rimanesse traccia». «Mi sembra credibile», disse Guff, stringendosi nelle spalle. «Be', tu credi anche che tutti i vegetariani siano cattivi», disse Sara. «Non c'è niente da ridere», ribatté Guff. «Hitler era un vegetariano». «La tua ipotesi, però, ha un punto debole», disse Conrad rivolto a Sara. «E cioè?». «Non sai spiegare perché un insignificante furto con scasso dovrebbe essere così gelosamente nascosto». «È vero», ammise Sara. «È qui che mi areno ogni volta». «Sentite qua», disse Guff. «E se Kozlow fosse legato a qualcuno di grosso? Magari, è per questo che stanno cercando di tenergli la fedina penale pulita». «Oppure Kozlow è in libertà vigilata in un altro stato, e un'eventuale condanna a New York lo costringerebbe a scontare anche la pena sospesa», aggiunse Conrad. «L'ho verificato il primo giorno», disse Sara. «Kozlow è stato arrestato due volte, ma non ha subito condanne». «Magari, allora, è in attesa di un lavoro per cui è richiesta la fedina puli-
ta», disse Conrad. «Potrebbe essere», ammise Sara. «Aspettate, ho trovato!», esclamò Guff. «Magari Kozlow ha scommesso, con qualche individuo poco raccomandabile, che non si sarebbe fatto arrestare per un intero mese. Poi, però, si è fatto beccare a rubare e adesso deve cercare di insabbiare l'arresto per non perdere la scommessa». «Certo, certo... è sicuramente così», disse Conrad, con aria di sufficienza. «Scommettere sulle probabilità di essere arrestati è l'ultima moda. Las Vegas, infatti, è in piena crisi, per questo motivo». «Non divaghiamo, dai», disse Sara. «Non avete altre idee?». «Si potrebbe iniziare cercando di sapere qualcosa di più sul conto di Kozlow e di chi paga le parcelle dei suoi avvocati», suggerì Conrad. «Scoprendo questo, avrai se non altro un'idea più precisa riguardo alle persone coinvolte. A quel punto, potremo abbozzare una spiegazione». «Poi, però, dovremo anche scoprire qual è il ruolo dell'uomo delle maniglie», disse Guff. «"L'uomo delle maniglie"?», domandò Conrad. Sara fulminò Guff con un'occhiata. «Si riferisce a Kozlow» tagliò corto lei. «Se riusciremo a scoprire ciò che lo lega al suo mecenate, avremo un'idea della situazione molto più chiara». «Sei stato tu?», domandò Jared, non appena Kozlow fu entrato nel suo ufficio. «A far cosa?», ridomandò Kozlow, dirigendosi alla sua solita sedia nel solito angolo. Jared scattò in piedi e sbatté la porta. «Sai benissimo di cosa parlo», urlò Jared. «Il nonno di Sara è volato dalle scale del metrò, ieri sera e...». «Ehi, calmati! L'ho saputo». «E come l'hai saputo?». «Me l'hanno detto, e io non c'entro». «Non spererai che io ti creda, vero?». «Credi un po' quello che vuoi, però ti sto dicendo la verità. Se fossimo stati noi stai pur certo che ci saremmo pregiati di informarti noi stessi. Altrimenti che senso avrebbe?». Jared si soffermò sulla logica sottesa all'argomento di Kozlow. «Insomma, non sei stato tu?». Kozlow sorrise. «Stavolta noi non c'entriamo, capo. Il vecchio è semplicemente scivolato dalle scale».
Seduta da sola nel proprio ufficio, Sara afferrò la cornetta del telefono e compose il numero del centralino dello studio legale presso cui lavorava Jared. «Wayne and Portnoy», rispose la centralinista. «In che cosa posso esserle utile?». «Potrebbe per cortesia passarmi l'ufficio Conti attivi?», domandò Sara. Dopo una breve attesa, rispose una voce femminile. «Pronto, sono Roberta». «Ciao, Roberta», disse Sara nel tono più amichevole di cui era capace. «Sono Kathleen, dall'ufficio di Jared Lynch. Non potresti fornirmi alcuni dati su un cliente che...». «Chi diavolo è lei?», domandò Roberta. Sprofondando nel panico, Sara rispose: «Sono Kathleen». «Kathleen chi?». «Kathleen Clarke», precisò Sara, che ricordava il cognome, perché l'aveva letto su una lista di indirizzi di Jared. «Be', è molto strano, perché Kathleen Clarke era qui due minuti fa, e avrebbe potuto parlarmi a quattr'occhi», spiegò Roberta. «Ora, vuole che ricominciamo daccapo o chiamo direttamente la polizia?». Senza por tempo in mezzo, Sara riagganciò. Un attimo dopo, Guff entrò nell'ufficio senza bussare. Vedendo la faccia di Sara, domandò: «Chi ha affondato la tua nave ammiraglia?». «Nessuno», rispose Sara. «Ho appena telefonato allo studio di Jared per tentare di...». «Ti hanno scoperta, vero?», domandò Guff, scuotendo la testa. «Te l'avevo detto di non farlo. È contrario all'etica, e tu lo sai». «Oh, il paladino dell'etica!». «Sara, io mi conosco, conosco i miei difetti: tendo a generalizzare un po' troppo; sono spesso pessimista; non mi piacciono i bambini; non uso il filo interdentale; non credo all'autocombustione; credo che la maggior parte delle persone sia un gregge che segue la moda e aspetta soltanto che la televisione ammannisca nuovi logo da appuntarsi al petto; infine, sono convinto che gli uomini con il pizzetto siano fondamentalmente stupidi. Ma so anche che il tempo prima o poi scade. E so, nel più profondo del mio cuore oscuro, che quando arriverà il mio giorno, i miei meriti verranno riconosciuti. E per torturarmi daranno la cerimonia in diretta televisiva. Ma a me non importa, perché io mi conosco, e so stare al mio posto». «E io no, invece?».
«No, tu no», disse Guff. «Ora sei un procuratore aggiunto: non devi far nulla di cui tu possa in seguito pentirti». «Guff, ti sei scordato di quello che è successo ieri? Quell'uomo, nel mio ufficio, ha minacciato Jared e ha spedito mio nonno all'ospedale». «Tu non sai...». «Io so», insistette Sara. «L'ho visto con i miei occhi e l'ho sentito con le mie orecchie. Non ci vuole un genio per indovinare i pezzi mancanti. Stiamo parlando delle due persone per me più importanti. Se dovessi perderli - per colpa mia, magari - io...». Si interruppe. «Be', per me sarebbe finita. Quindi, essendoci in ballo la sicurezza della mia famiglia, una telefonata allo studio legale di Jared non mi sembra un peccato così grave». «Basta un fiocco di neve, a volte, per causare una valanga». «Guff, ti prego, ho già abbastanza problemi». «Lo so, e so anche quanto sono importanti per te Jared e Pop. Io sto solo cercando di guardarti le spalle». «Grazie, lo apprezzo davvero», disse Sara. «Comunque, visto che siamo in tema di bugie, perché non vuoi parlare con Conrad dell'uomo delle maniglie?». «Perché so quale sarebbe la sua reazione. Se scoprisse che quel tipo mi ha minacciata, prenderebbe in mano lui la situazione, cominciando a darmi lezioni sul fatto che un procuratore aggiunto non deve farsi intimidire. Ne converrai: meno gente lo viene a sapere, meno rischi corre Jared. E poi, non sono sicura di volerne parlare con Conrad. Ultimamente ha chiacchierato un po' troppo in giro». «Ehi, aspetta! Vuoi dirmi che non ti fidi di Conrad?». «Mi fido, però ha spettegolato un po' troppo con Victor». «Dài, non ha rivelato nulla di personale». «Ah, e la mia vita privata non sarebbe un fatto personale?». «Sara, Conrad gli sta solo gettando un po' di fumo negli occhi. Il pettegolezzo è uno dei cardini di questo mondo». «Ma non credi che Victor sia...». «Victor è sicuramente un po' troppo occhiuto, ma questo non ha nulla a che fare con Conrad». «Okay, ne prendo atto», disse Sara. «Però resto del parere di non dirglielo. Piuttosto, hai ricevuto i risultati dalla scientifica?». «Pronti!», disse Guff, consegnandole la cartelletta che aveva in mano. «Rilevazione impronte digitali eseguita». «Che cosa risulta?», domandò Sara aprendo la busta.
«La maniglia presenta un'impronta chiarissima, ma la cosa è strana», rispose Guff. «L'impronta combacia con quella di un certo Sol Broder». «E chi sarebbe costui?». «È proprio questo il problema. La sua faccia non corrisponde per niente al tuo schizzo, ma quando hanno inserito il suo nome nel computer, ne è uscita una fedina penale lunga come una sceneggiatura di Scorsese». «Embe? Quale sarebbe il problema?». «Ecco, vedi... non so come dire, ma... Sol Broder è morto tre anni fa». Sara lasciò cadere la cartelletta sulla scrivania. «Vuoi dire che il tipo con cui ho parlato - quello che ha fatto cadere Pop dalle scale - è uno zombi?». «No, potrebbe anche essere un grande illusionista». Seduto sul sedile posteriore di un taxi, Rafferty era di pessimo umore. Nato e cresciuto a Hoboken, New Jersey, a tre case di distanza dal luogo che aveva dato i natali Frank Sinatra, aveva passato gran parte della propria giovinezza a sognare di liberarsi dei molteplici fidanzati italiani di sua madre, un'irlandese, e di emanciparsi dai vincoli dell'ambiente borghese medio-basso della sua città. Era stato il primo, nella sua famiglia, a frequentare il college, ed era quindi evaso molto presto, e non si era più voltato indietro. Aveva vinto una borsa di studio per il Brooklyn College, ma l'anno successivo era già a Princeton. Sempre di più, sempre meglio. A Princeton, come compagno di stanza, Rafferty aveva trovato uno strillone dalla voce possente, che era, peraltro, l'erede di una nota casa editrice di riviste. Da lui Rafferty aveva imparato a parlare, a mangiare e a vestirsi, al solo scopo di impressionare. Durante le vacanze invernali dello stesso anno, Rafferty era stato invitato a Greens Farms, Connecticut, presso la residenza di campagna del suo compagno di stanza. Là aveva conosciuto il padre del suo compagno, che gli aveva offerto il suo primo lavoro nel ramo editoriale: un impiego stagionale estivo nell'ufficio abbonamenti. Per Rafferty la rete di relazioni del compagno aveva smesso di essere soltanto un che di immaginato, per divenire concreta, a portata di mano. L'unico aspetto negativo di quel lavoro era la paga molto bassa, che aveva costretto Rafferty a tornare all'ovile, da sua madre. Dopo un inverno a Greens Farms, una gita in primavera a Martha's Vineyard e un anno a Princeton, il ritorno a Hoboken fu deprimente. Rafferty sentiva che quello non era il suo posto. Dopo quell'estate, non aveva mai più trascorso neppure una notte nella sua città natale. Sempre di più, sempre meglio. Ecco perché Rafferty, mentre il taxi procedeva per le stradine di Hoboken, faticava
a contenere la rabbia. Da Manhattan, Hoboken è a non più di dieci minuti d'auto, il tempo di percorrere il Lincoln Tunnel. In quei dieci minuti Rafferty non aveva mai smesso di guardare fuori dal finestrino. Quando l'auto giunse a destinazione, Rafferty notò che era tutto cambiato. Dai giornali aveva saputo che la popolazione di Hoboken si divideva ormai in due comunità separate e opposte: i radicatissimi italiani - che celebravano come un eroe il loro figlio prediletto, Frank Sinatra - e gli avventizi professionisti di città che consideravano la residenza a Hoboken il sistema migliore per evitare di pagare le tasse che si pagano a New York City. Passando per le strade in cui era cresciuto, Rafferty poté constatare l'effetto di questo innalzamento del livello sociale: le vie principali erano piene di locali yuppie, ma nelle stradine laterali c'erano ancora i panifici a conduzione familiare e nei quartieri più vecchi le solite compagnie di giovani del luogo, sempre in cerca di un modo per evadere. Quando il taxi fu nei pressi del numero 527 di Willow Avenue, Rafferty disse: «Eccoci. Parcheggia in doppia fila davanti all'agenzia di pompe funebri». L'autista eseguì, fermandosi sull'angolo dell'isolato. «Quand'è stata l'ultima volta che l'hai visto?», domandò Kozlow, mentre l'auto si fermava. Rafferty ignorò la domanda. Aprì la portiera e scese dall'auto. Kozlow seguì Rafferty, verso un edificio in arenaria di quattro piani, e gli domandò: «L'hai avvertito che stiamo arrivando?». Rafferty premette un pulsante del citofono. «Preferisco prenderlo di sorpresa». Al citofono una voce gracchiante domandò: «Chi è?». «Sono io», rispose Rafferty. «Facci entrare». «Io chi?». «Sono Oscar», ringhiò Rafferty. «Oscar chi?», insistette la voce. Sferrando un pugno contro l'apparecchio, Rafferty tuonò: «Apri questa cazzo di porta, se no ti spacco il...». Si udì il ronzio dell'interruttore che apriva il portone, e i due entrarono. Rafferty abbassò il bavero della giacca e si sistemò. "Non c'è ragione di essere nervosi", pensò. Dopo quattro piani di scale a piedi, Rafferty e Kozlow erano spompati. Quando furono davanti all'appartamento numero otto la porta si aprì, e oltre la soglia comparve l'uomo con le guance scavate. «Ehilà, ragazzi».
Entrando nello spartano appartamento con camera da letto unica, Rafferty ebbe la tentazione di colpire quell'uomo. Per spaventarlo quel tanto che sarebbe bastato. Gli antichi istinti tornavano a manifestarsi, ma Rafferty riuscì a dominarli. Regredire non aveva senso. «Elliott, avevo capito che dovevi dargli una ripulita, a questo posto», disse Rafferty, staccando un frammento di intonaco dalla parete. «Se i soldi me li dai tu, lo farò certamente», ribatté Elliott. «Come butta, Tony?». «Come al solito», rispose Kozlow. «Io i soldi te li ho già dati», riprese Rafferty, seguendo Elliott nel frusto soggiorno. «Sì, ma io parlo di soldi veri, di tanti soldi». «Lo sai come stiamo a soldi», disse Rafferty, avvicinandosi a una sedia di metallo sistemata in un angolo della stanza. Prima di sedersi ripulì il sedile con una mano. «Insomma, mi portate cattive notizie?», domandò Elliott. «A dire il vero, sono venuto per farti una domanda», rispose Rafferty. «Lunedì pomeriggio, il nonno di Sara Tate è volato dalle scale nel metrò. Un brutto capitombolo: si è fratturato il bacino. Volevo essere sicuro che tu non ne sapessi niente». «Sara Tate è il procuratore aggiunto incaricato del caso Kozlow?», domandò Elliott. «Esatto», disse Rafferty, scrutando i biechi tratti dell'interlocutore alla ricerca di un sia pur minimo cenno di simulazione. «Mi spiace, ma non ne so nulla». «Vuoi dire che non l'hai mai avvicinata? Non le hai mai parlato?». «Non so neppure che faccia abbia, se è per questo», disse Elliott, con una smorfia sprezzante. Il tono era sfottente, come di chi non ha nulla da perdere o, forse, gode di un raro momento di autocontrollo. «Una perfetta sconosciuta». «Elliott, posso rubarti qualcosa da bere?», domandò Kozlow. «È la tua specialità», rispose Elliott, senza smettere di fissare Rafferty. «Non cercare di prendermi per il culo», lo avvertì Rafferty. «Secondo te, sarei così scemo da cercare di fotterti? Tu sei come un padre, per me». «Puoi dirlo forte», disse Rafferty. «Infatti. E poi, di che cosa ti preoccupi? Non avevi detto che era tutto sistemato?». «Infatti», confermò Rafferty. «A meno che qualcuno non ha voltato
gabbana». «Be', è inutile che sospetti di me», insistette Elliott. «Io ho già avuto quel che volevo. E poi, a me interessa che tu ce la faccia. Altrimenti, perché ti avrei presentato Tony?». «Ah, certo, s'è visto come sono andate le cose...», disse Rafferty. «Ehi...», gridò Kozlow dalla cucina. «Non c'è qualcos'altro che devi dirmi?», domandò Elliott. «Per ora, no», rispose Rafferty avviandosi alla porta. «Ma non preoccuparti: mi rifarò vivo». Rafferty e Kozlow non aprirono bocca finché non furono all'aperto. Alla pungente aria settembrina, Kozlow, finalmente domandò: «Gli credi?». «Tu lo conosci meglio di me. Che ne dici?». «Io mi fido di lui. È un tipo vendicativo, ma non credo che ci farebbe una cosa del genere. Il nonno di Sara è scivolato». «Spero solo che tu abbia ragione», disse Rafferty, prendendo posto sull'auto che li attendeva. «Per il bene di tutti». «Va bene. Allora, d'accordo», disse Jared, gelido, parlando al telefono. «Se vuoi vederlo, devi mettermi la richiesta per iscritto». «Stai scherzando?», domandò Sara. «Voglio solo fare qualche domanda a Kozlow. Perché devo presentare richiesta scritta, visto che possiamo metterci d'accordo per telefono?». «Sara, non ce l'ho con te. È la prassi che seguo con tutti i miei clienti. Se vuoi parlargli, devi seguirla anche tu». «D'accordo, te la mando!», disse Sara, sensibilmente irritata. «A più tardi». «Non dimenticare che abbiamo la cena scolastica», aggiunse Jared. «Devo proprio...?». «Sì, devi assolutamente venire. È importante, per me, e sarebbe bruttissimo se tu non ci fossi. Ci vediamo lì alle nove». Quando Jared ebbe terminato la conversazione, arrivò Kathleen. «Vuole vedere Kozlow?». «Esatto. Ma se crede che io le renderò la vita facile si sbaglia di grosso». Kathleen non fece in tempo a rispondere, perché qualcuno bussò alla porta. «C'è nessuno?», domandò Barrow, entrando nell'ufficio. Teneva in mano un sacchetto di carta marroncino che conteneva chiaramente una bottiglia di vino. «Dove sei stato? A ubriacarti?», domandò Jared al suo investigatore pri-
vato preferito. «Quando sono in servizio non bevo lo sai», rispose Barrow, la cui barba sale-e-pepe cominciava a presentare una netta prevalenza del sale sul pepe. «Questa bottiglia mi serve solo per le impronte digitali. Una mia spregevole cliente mi ha chiesto di spiare il suo ricco marito». I due si conoscevano dai tempi in cui Jared aveva cominciato a lavorare per Wayne & Portnoy. Nei successivi sei anni e mezzo erano diventati ottimi amici, qualcosa di più di due persone che amavano ridere e divertirsi insieme, compresa quella volta che Barrow aveva sorvegliato Sara per riferire a Jared l'ora esatta del suo arrivo a casa, in modo da prepararle una festa a sorpresa per il trentesimo compleanno. A livello professionale, Barrow era in grado di scovare informazioni impagabili, che avevano consentito a Jared di vincere a mani basse almeno quattro processi. Dall'espressione del detective, però, Jared capì che questa volta non ce n'era. «Allora, che notizie mi porti?», domandò Jared. «Con chi abbiamo a che fare?». Sedendosi su una delle poltroncine poste di fronte alla scrivania di Jared, Barrow spiegò: «A essere sincero, non l'ho capito bene neanch'io. Ho controllato il nome di Rafferty su tutte le banche-dati a cui ho accesso, ma non ho trovato quasi nulla. È nato a Hoboken, il che lascia supporre umili origini. Per un miracolo, e grazie a una borsa di studio messa in palio dai sindacati tessili, è riuscito - udite, udite! - ad arrivare a Princeton. Vive in un bel palazzo della Upper East Side - altra sorpresa. Possiede una quota di una società proprietaria di teatri valutata intorno ai cinquanta milioni di dollari, la Echo Enterprise, e l'unico consiglio che mi sento di darti è il seguente: se fossi in te, girerei alla larga da 'sto tizio». «Per quale ragione». «Si capisce subito che è un brutto tipo, Jared. La gente, di solito, non si nasconde, a meno che non abbia qualcosa da nascondere. Ma su di lui, più scavo, meno trovo. Oscar Rafferty ha un controllo totale sulla sua vita, ed è strutturato per tenercene fuori». «E di Kozlow che cosa mi dici? Qual è la sua storia?». «Kozlow è un tipo difficile come pochi. Chiedendo in giro di lui, gli aggettivi più usati per descriverlo sono stati "violento" e "instabile". A quanto pare non è tanto bravo a eseguire gli ordini: è stato cacciato dall'esercito per insubordinazione. Di fatto, non è mai stato una mente. In occasione dei suoi due arresti, lui aveva soltanto fatto ciò che qualcuno gli aveva detto di fare: ha accoltellato un tizio per conto di un usuraio e ha regolato i conti
con un piccolo spacciatore di droga. Su questa base, direi che il rapporto tra lui e Rafferty è quello tra dipendente e datore di lavoro». Jared rifletté in silenzio sulla fondatezza delle ipotesi di Barrow. Alla fine disse: «Potrebbe trattarsi della mafia?». «Lo escludo», rispose Barrow. «I legami con la malavita organizzata lasciano tracce evidenti. Però, credimi, questi sono tipi altrettanto pericolosi». «Che cosa te lo fa pensare?». «Il fatto che mi abbiano già avvicinato», rispose Barrow, risoluto. «Cosa?». «Giuro. Non so come siano riusciti a scoprire che tu mi avevi ingaggiato per indagare sul loro conto, ma mentre venivo qui hanno cercato di corrompermi. Rafferty ha detto che mi avrebbe pagato il doppio se avessi accettato di raccontarti il falso». «E tu cos'hai risposto?». «Ho accettato. Pecunia non olet». «Allora, tutto quello che...». «Credi che potrei raccontarti stronzate?», domandò Barrow. «Ci vuole ben altro che un paio di migliaia di svanziche per comprare la mia integrità e per convincermi a tradire un amico. Ciò non significa, però, che io non debba accettare il loro denaro con piacere». «Loro, dunque, credono che tu sia venuto a dirmi...». «...che non ho trovato nulla di importante sul loro conto; che non so nulla di Tony Kozlow e del suo usuraio, né della Echo Enterprise, né della lussuosa residenza di Rafferty, né della sua ambizione di distinguersi dalla massa. Se vogliono essere fatti fessi, sono i benvenuti». «Credi davvero di riuscire a fregarli?». «Hai qualche idea migliore?», domandò Barrow, con voce improvvisamente seria. Poiché Jared non rispose, aggiunse: «Questa è gente che non scherza; il fatto che sapessero dell'incarico da te affidatomi significa che stanno frugando nel tuo passato e nasando in ogni angolo. E dopo aver trascorso con loro la bellezza di cinque minuti, ho capito chiaramente che il mio silenzio è questione piuttosto importante. Di qualunque cosa si tratti, questa gente ha roba grossa da nascondere». «Che cosa devo fare, secondo te?». «Che altro vuoi fare?», rispose Barrow, con aria furbetta. «Lasciami scavare ancora un po'. Non possono tirarti in mezzo e sperare che tu non reagisca».
«Non so... Non credo sia una buona idea attaccar lite». «Ma dài!», disse Barrow, alzandosi in piedi. «Tu non stai attaccando lite. Stai solo raccogliendo informazioni. Se Rafferty ti chiede qualcosa, tu digli che io non ho trovato niente di interessante. Lui non saprà mai la verità». «Non sono sicuro che sia la migliore...» «Be', ormai è deciso», tagliò corto Barrow. «Ora torniamo alle cose importanti». Prima di andarsene, Barrow tolse dal suo sacchetto di carta marrone una bottiglia di champagne vuota e la posò platealmente sulla scrivania di Jared. «Che cos'è?». «Questa, amico mio, è una delle bottiglie che si vedono nella scena del Capodanno nel Padrino, parte seconda. È così che ho speso i primi duecento dollari di Rafferty. Se lo sapessero, si arrabbierebbero. Buon compleanno in anticipo». Jared restò inaspettatamente silenzioso. «Non dovevi farlo, Lenny». «Senti, non c'è motivo di preoccuparsi. Mi ringrazierai un altro giorno». «Puoi starne certo», disse Jared, senza entusiasmo. «Però, devi giurarmi che stai attento». «Pensa per te», disse Barrow, avviandosi alla porta. «Sei tu quello nel mirino». Quella sera, alle sette e un quarto, Sara era seduta su una delle panchine che costeggiano lo spiazzo di Battery Park City, affacciato sul fiume Hudson. Situata all'estremità meridionale di Manhattan, Battery Park City era, per Sara, l'unico posto in cui fosse possibile evadere veramente da New York. A differenza di Central Park, che era gremito di turisti, oltreché dei newyorchesi che ci andavano a fare jogging, pattinaggio a rotelle e a cercare un minimo di relax, il percorso per il jogging di Battery Park City, in riva al fiume, era frequentato soltanto dai residenti in zona e da pochi pendolari che lavoravano nel vicino quartiere degli affari. Il suo tortuoso vialetto alberato, inoltre, era perfetto per un incontro appartato e segreto. Proprio mentre consultava l'orologio, interrogandosi sulle ragioni di quel ritardo, Sara udì una voce alle sue spalle: «Non temere, non potrei mai tirarti un bidone». Sara si voltò e vide che Barrow stava finalmente arrivando, con un enorme sorriso stampato in faccia. Sara non ricambiò. «Ehi, cos'è quel muso lungo?», domandò lui, sedendosi accanto a lei. «Avevo paura che non venissi».
«Lo vedo», disse Barrow, rimirandosi le cuticole masticate delle unghie. «Che ne diresti di raccontarmi tutto? A cosa devo l'onore di questa convocazione segreta?». «Devo chiederti un favore. Ma siccome non è un favore piccolo, ho pensato che sarebbe stato meglio chiedertelo di persona». «Sara, se cerchi informazioni sul conto di Jared, la risposta è no». «Ti prego, almeno ascoltami», implorò Sara. «Lo so che la tua è una posizione scomoda, ma io sono nei guai grossi». «Sara, sai bene che io e Jared...». «So che siete amici di vecchia data. E so anche che non gli faresti mai del male. Io, però, ho bisogno del tuo aiuto. Credi forse che avrei mai osato chiederti una cosa del genere se non si trattasse di una questione di vita o di morte?». Barrow rivolse lo sguardo verso il fiume. «È davvero così importante?». «Te lo giuro su Dio, Lenny. Non sarei qui, se così non fosse». Deciso a fuggire lo sguardo di Sara, Barrow si fissò sul gigantesco orologio della Colgate che galleggiava sull'Hudson. «Tic, tac, tic, tac», fece lui, con un filo di voce. Infine, tornò a guardare Sara. «Mi dispiace, cara, ma proprio non posso». «Tu non capisci», insistette lei. «È una...». «Sara, non aggraviamo questa situazione già abbastanza spiacevole. Quando ho domandato a Jared se ti potevo incontrare, lui mi ha pregato di spacciarti informazioni false. Io non farei mai una cosa del genere, lo sai, ma non farò nulla neanche contro di lui. È l'unico sistema che ho per conservare l'amicizia di entrambi». «Insomma, hai deciso che non mi aiuterai in nessun modo?». «Mi spiace», rispose Barrow. «In questa vicenda, devi far conto sulle tue sole forze». Scendendo le scale che conducono al piano inferiore del Rockefeller Center, Sara si sentiva uno straccio. L'incontro con Barrow era andato molto peggio del previsto, e aveva aggiunto alle sue paure la sensazione che la sicurezza di Jared stesse lentamente sfuggendole dalle mani. Giunta al pianterreno, all'entrata del tradizionale ricevimento d'autunno dello studio legale Wayne & Portnoy, inspirò a fondo e si sforzò di dimenticare la giornata che aveva alle spalle. La sua calma era solo apparente, ma non voleva che Jared la vedesse turbata. Dopo aver verificato il nome di Sara sulle ventidue pagine della lista di
oltre mille invitati, la receptionist indicò l'enorme tenda che copriva la pista del ghiaccio del Rockefeller Center. «Come vede abbiamo coperto la pista per avere un minimo di privacy. Laggiù si balla con la musica del dj Sir Jazzy Eli. Per mangiare qualcosa e per un ambiente un po' più formale può invece accomodarsi da quella parte». La receptionist accennò alla fila dei negozi che circondavano la pista da ghiaccio. «Sono aperti i ristoranti?». «Solo per noi», disse la receptionist con malcelato orgoglio. «Li abbiamo affittati, insieme ai bar e agli altri negozi». Sara roteò gli occhi dinanzi a cotanta presentazione. Si avviò al guardaroba e si tolse la giacca, mostrando un vestito nero da parata. Tempestato di migliaia di perline nere, l'abito aderiva impeccabilmente al profilo del suo corpo. Entrata sotto il tendone, vide la pista da ballo strapiena di giovani coppie che danzavano al ritmo martellante della musica. "Come sono giovani...", pensò. "Saranno appena usciti dalla law school". Le venne in mente la volta che Jared e lei erano stati alla loro prima festa annuale. Era stata organizzata al Carlyle. Jared, a quei tempi, aveva appena cominciato da Wayne & Portnoy e aveva sposato Sara da un mese. Sbalorditi dallo sfarzo dell'allestimento, avevano passato la prima ora a contare e assaggiare i quindici capolavori d'alta cucina disponibili al buffet, dal sushi ai pomodori fritti ai cosciotti d'agnello. Poi, dopo qualche chiacchiera con Lubetsky e altri soci dello studio, si erano lanciati nelle danze. Da allora, di anno in anno, che si trattasse della festa da Wayne & Portnoy o di quella equivalente organizzata da Winick & Trudeau, lo studio legale in cui lavorava Sara, avevano ballato sempre meno e chiacchierato sempre di più. "Oh, com'era tutto più semplice!", pensò Sara, allontanandosi dall'ingresso. Imboccando il passaggio che circondava la pista di pattinaggio, Sara notò che l'unica cosa diversa, rispetto alle feste svoltesi al Carlyle, era il sito. Al posto dei ristoranti veri e propri c'erano in azione le mastodontiche strutture del catering che si muovevano in queste occasioni. C'erano sei buffet sparsi con ogni tipo di leccornia, mentre sei bar diversi servivano ogni varietà di cocktail, e i soliti avvocati, con i loro soliti tuxedo, ripetevano le solite vecchie conversazioni. «Sara! Ehi, da questa parte!», urlò qualcuno dalla parte opposta di quella vasta sala. Sara riconobbe la voce di Jared e si guardò in giro. A un ulteriore cenno di Jared, Sara lo individuò: era in compagnia di un uomo più anziano di lui, dalle tempie brizzolate: «Fred, voglio presentarti mia moglie», disse Jared, quando Sara li ebbe raggiunti. «Sara, ti presento Fred Joseph,
che è probabilmente il miglior avvocato del nostro studio legale». Adottando il suo più smagliante sorriso da party, Sara strinse la mano a Fred. «Finalmente ho il piacere di conoscerti», disse. «Jared mi ha detto che vi troverete di fronte in tribunale. Dev'essere difficile anche solo parlarsi, vero?», disse Fred. «Eh, sì», rispose Sara. Non ce la fece a simulare un sorriso. «Fred, ti dispiacerebbe scusarci un momento? È da stamattina che non lo vedo e...». «Oh, non occorre che mi spieghi», la interruppe Fred. «Jared, ci vediamo dopo». «Sì, certo», disse Jared sorridendo a trentadue denti. Non appena Fred fu scomparso alla loro vista, però, quel sorriso svanì. «Ehi, che cavolo ti prende?», abbaiò Jared. «Quello è un socio dello studio». «Poteva anche essere tua madre», ribatté Sara. «Non sono in vena di spiritosaggini». Tra gli invitati qualcuno aveva cominciato a fissarli. Deciso a non dare spettacolo, Jared prese Sara per mano e la condusse con calma verso un angolo del ristorante. Insoddisfatto dal livello della privacy, si spostò nei pressi delle porte a vento della cucina, da e verso cui continuavano a sfrecciare camerieri carichi di vassoi d'argento. Ma quel che importava a Jared era che non ci fossero avvocati. Prima ancora che Jared potesse aprir bocca, però, furono raggiunti da un cameriere. «Sono spiacente, signori, ma temo che qui non possiate restare. È pericoloso: ci sono piatti caldi...». «La prego, è un'emergenza», insistette Jared. «Ci conceda un minuto». «Ma, signore...». Tirandosi dietro Sara, Jared si spostò verso il fondo della cucina, accanto a una pila di piatti sporchi che cresceva a vista d'occhio. «Qui non diamo fastidio a nessuno. Ora, me lo concede un minuto?». Il cameriere, indispettito, se ne andò, e Jared tornò a rivolgersi a sua moglie. «Non provare più a mettermi in imbarazzo a quel modo, capito?», sibilò. «Qui si tratta della mia vita». «Te l'avevo detto che non ero dell'umore giusto». «Però hai accettato di venire». «Non importa. Resta il fatto che questo è l'ultimo posto in cui vorrei essere». «E credi che io sia contento? Sono sommerso dal lavoro. Questo caso mi sta uccidendo». «Sei sempre tu quello che sta peggio, vero?».
«Puoi starne certa», rispose Jared, alzando la voce. «Quindi, il meno che tu possa fare è di non complicarmi la vita». «E perché mai? Tu mi rendi forse la vita facile, con Kozlow? No, devo mettere tutto per iscritto» «Ah, è per questo, dunque! Sei infuriata con me solo perché ti chiedo di attenerti al normale protocollo. Be', scusami, cara, ma se non hai le palle per...». «Risparmiami i tuoi stupidi cliché da macho. Qui non si tratta di palle, e neppure del protocollo: il fatto è che tu sei un borioso pezzo di merda». «Ah, davvero?». «Certo. Che ragione ci sarebbe, se no, di farmi fare tutta quella assurda trafila burocratica?». «E perché, allora, tu chiami il mio studio spacciandoti per Kathleen e chiedendo di passarti l'ufficio Conti aperti?», ribatté Jared. Sara restò di sasso. «Ehi, io non ne so nulla». «Sara, lo so che sei stata tu a telefonare. Era ovvio che sarebbero venuti a dirmelo, che qualcuno cercava informazioni sul conto di Kozlow. Ho capito subito che eri tu». Sara tacque. «Come se non bastasse, mi accusi di essere scorretto», proseguì Jared. «Quello che hai fatto non solo infrange almeno una mezza dozzina di principi etici, bensì rischia anche di minare la nostra fiducia reciproca. Tu sai benissimo che c'è in gioco la mia carriera, e nonostante questo fai il gioco sporco alle mie spalle. Io non ti farei mai una cosa del genere». «Ah, sì, eh?». «Puoi metterci la mano sul fuoco», ribadì Jared. «Come mai, allora, hai chiesto a Barrow di spacciarmi informazioni false?». Jared fissò la moglie inviperito. «Eh, già... Tu non mi faresti mai una cosa del genere», disse Sara, in tono sarcastico. «Tu sei tutto gentile e a posto con il tuo studio legale da superstar, le sue grandi feste e il perenne atteggiamento da vincenti. Be', ti dirò una cosa: a conti fatti tu sei spietato almeno quanto me. L'unica differenza è che io non ho la pretesa di agire su un piano di elevata moralità». «Risparmiami le tue lezioni», replicò Jared. «Ammetto di averlo fatto e me ne assumo tutta la reponsa-bilità. Se vuoi che parliamo del caso, parliamone. In caso contrario, da parte mia non sento alcun bisogno di passare tutte le serate a litigare sulle rispettive strategie processuali».
Sara si appoggiò al frigorifero industriale che aveva accanto e inspirò profondamente. «Sono pienamente d'accordo. Allora, di che altro si potrebbe parlare?». «Di una realistica e onorevole conclusione del caso, ad esempio», suggerì Jared. «A mio modo di vedere, dovremmo chiudere la questione al più presto. Più la tiriamo in lungo, meno tempo avremo da dedicare a Pop, che di certo gradirebbe...» «Che figlio di puttana!». «Ehi, che cosa...?». «Non permetterti di tirare in ballo mio nonno!», gridò Sara. «Non servirtene come strumento di pressione! Lui è la mia famiglia, capito?». «Sara, ti giuro che non intendevo affatto...». «So perfettamente quello che intendevi. Ora, se vuoi che parliamo, va bene, ma lascia stare Pop. Non voglio neanche sentirlo nominare». «D'accordo. Allora, veniamo al sodo: per quel che ne so io, tu non hai in mano niente. Sei riuscita a ottenere il rinvio a giudizio sulla base delle dichiarazioni di un poliziotto inetto e di una testimone inattendibile che io in aula distruggerò, e tu lo sai. Se lo si osserva con distacco, questo è un chiaro caso di scambio di persona. Per farla breve, e per aiutarti, ti faccio un'ultima offerta: lascia cadere le accuse e chiudi il caso, altrimenti dovrò sconfiggerti al processo. Sta a te scegliere». «Proprio un bel discorso, ma non hai speranze di evitare il processo». Jared serrò i pugni e avvampò. «Maledizione, Sara, perché devi essere così cocciuta?». «Strano», rispose lei, gelida, andandosene. «Stavo per farti la stessa domanda». Spalancando entrambi i battenti della porta della cucina, aggiunse: «Goditela da solo, la tua festa». Una settimana dopo, vedendo Sara, il lift della procura distrettuale disse: «Hai un aspetto terribile». «Avresti dovuto vedermi quando mi sono svegliata», disse lei. Le profonde occhiaie segnavano di scuro la sua carnagione chiara. «Ci ho messo un'ora per arrivare a questo risultato». «È sempre così: quando le cose cominciano ad andare male, si comincia anche a perdere il sonno». «Chi ha detto che le cose mi vanno male?», domandò Sara, stizzita, mentre le porte dell'ascensore si chiudevano. «Ehi, non arrabbiarti con me. Da quello che si sente dire in giro, pare
che al processo ti ritroverai di fronte tuo marito. Se può interessare la mia opinione, credo che esistano modi meno dolorosi di farsi del male». Quando vide che Sara non accennava il benché minimo sorriso, il lift aggiunse: «Stanno già volando gli stracci, vero?». Sara annuì. «Quando lui è stato coinvolto nel caso, come difensore dell'imputato, io ero tormentata dall'idea di potergli nuocere. Ora, invece... questa cosa sta diventando un fatto personale. Ogni giorno troviamo nuovi modi per accoltellarci l'un l'altra alle spalle». «È naturale. Il modo migliore per nascondere la paura è l'aggressività. È la soluzione più immediata, non dovresti meravigliartene». «Non me ne meraviglio. Sono soltanto delusa: credevo che il nostro rapporto fosse più solido». «Non è questione di solidità. Più andrà avanti, peggio sarà, e puoi star certa, mia cara, che ne vedrai ancora di molto brutte». «Darnell», sospirò Sara, appoggiandosi contro la parete di fondo dell'ascensore, «come conosolatore fai davvero schifo». «Senti qua, allora», disse lui, mentre l'ascensore era ormai quasi al settimo piano. Imitando meglio che poteva l'espressione di Ethel Merman, prese a cantare: «You'll be swell, you'll be great... gonna have the whole world on your plate. Starting here, starting now...». «Everything's coming up roses...», terminarono in coro. Uscendo dall'ascensore, Sara aggiunse: «Grazie, Darnell». In corridoio vide l'agente McCabe che la aspettava, seduto su un angolo della scrivania di Guff. Diede una rapida occhiata alla bacheca delle presenze. La piccola calamita accanto al nome di Victor segnalava la sua assenza: non era ancora arrivato. Sollevata, Sara raggiunse McCabe e lo fece entrare in tutta fretta nel proprio ufficio. «C'è qualcosa che non va?», domandò lui. «No, va tutto bene», rispose lei, richiudendo la porta. «Avevo una piccola domanda a cui speravo che lei potesse rispondere». «Dica pure», fece McCabe. «Dopo aver eseguito un arresto, voi agenti seguite l'andamento di tutti i casi?». «Dipende dai casi. Se il reato è grave, se un collega, un parente o un amico sono rimasti feriti o in qualche modo coinvolti, io il caso lo seguo di sicuro. Ma se è una cosa piccola, non si ha il tempo di seguirla... anche perché spesso questi casi si risolvono con il patteggiamento». «Questo caso è da considerarsi una cosa piccola?».
«Un furto con scasso senza uso di armi? È un po' come attraversare la strada senza fare attenzione. Me ne capitano un paio alla settimana. Non ho il tempo di seguirli tutti». «Dunque, se io - o chiunque altro al mio posto - avesse deciso di soprassedere, lei non ne avrebbe saputo più nulla». «Se me ne fossi interessato, l'avrei saputo, ma è molto probabile che non me ne sarei curato. Il mio dovere è di togliere la gente come Kozlow dalla strada; al resto dovete pensarci voi». «E infatti lo facciamo», disse Sara. «Soprattutto se crediamo che nessuno stia guardando». Uscendo dall'ufficio di Sara, McCabe vide due colleghi del distretto. Dopo una breve conversazione sui rispettivi casi e una rassegna delle novità del giorno, McCabe si congedò avviandosi verso gli ascensori. Voltato l'angolo e superato il tavolo del sorvegliante, vide che al mezzanino qualcuno gli bloccava la strada. Era Victor. «È lei Michael McCabe?», domandò Victor, fissandolo gelido. «Dipende», rispose l'agente. «Vuole consegnarmi un mandato di comparizione?». Con un sorriso teso e forzato, Victor disse: «Assolutamente no». Quindi, tendendogli la destra, aggiunse: «Mi presento: sono Victor Stockwell». «Ah, dunque lei è il famoso Victor», disse McCabe, stringendogli la mano. «Che cosa posso fare per lei?». «Be'», rispose Victor, posando una mano sulla spalla del suo interlocutore, «avrei alcune domande da farle». «Ci vorrà molto? Perché io devo tornare...». «Non si preoccupi», disse Victor. «Ci vorrà solo un secondo». Mezz'ora dopo, Sara telefonò a Patti Harrison, ma non ottenne risposta. Riagganciò e compose il numero di Claire Doniger. «Pronto», fece la Doniger. «Sale, signora. Sono Sara Tate. Mi dispiace disturbarla, ma avrei...». «Che cosa c'è?», domandò la Doniger. Cercando di mantenere un tono gentile, Sara disse: «Mi chiedevo se non aveva, magari, un attimo di tempo per farmi visitare la sua casa. Sa, ci sarebbe molto utile avere un'idea precisa della sua casa, in modo che la giuria possa...». «Mi spiace, ma, come le ho già detto la settimana scorsa, sono molto occupata, ultimamente. Ora, non vorrei sembrarle scortese, ma devo proprio
andare. La saluto, signorina Tate». La comunicazione fu interrotta. Sara corse nell'ufficio di Conrad. «Puoi aiutarmi a cercare un investigatore?». «A che cosa ti serve un investigatore?», domandò Conrad. «Voglio scoprire che diavolo sta succedendo a Claire Doniger, e per farlo ho bisogno di un professionista. Non sono Miss Marple; non posso pensarci io». «Calmati», disse Conrad. «Ricominciamo daccapo. Che cosa ha fatto la Doniger?». «Il problema è che non ha fatto proprio niente. Non mi è stata di alcun aiuto. Non vuole parlare del caso, si rifiuta di testimoniare e vuole impedirci di fare un sopralluogo in casa sua. Mi tratta come se fossi una sua nemica». «E tu non glielo devi permettere», disse Conrad. «Te l'ho già detto: sei tu che conduci il gioco, e il tuo compito è quello di indurla a cooperare. Se insiste nel suo atteggiamento, puoi dirle che ha solo una scelta: o trova una mezz'oretta per farti fare un giro della casa, oppure ti presenterai con un mandato di perquisizione e sei poliziotti, un fotografo e un giornalista, che ci impiegheranno otto ore e ficcheranno il naso in tutte le sue cose. Chissà mai che non si decida... E nel caso continui a opporsi, prendila per le spalle e dalle uno scrollone, finché non le entrerà un po' di sale in zucca». Per accompagnare quanto andava dicendo, Conrad scrollò una persona immaginaria. «E se ancora non capisce, gliela farai pagare». A Sara tornò il sorriso. «Sai che sei proprio carino quando ti arrabbi?», disse. «Grazie», rispose lui, aggiustandosi la cravatta. «È stata la scena dello scrollone a eccitarti, vero?». «Ah, ah, ah», rise Sara, sorpresa dalla reazione di Conrad. «Chi ha detto che sono eccitata?». «Ah, io no. Non ho aperto bocca». «Bene. Perché sono ben lungi dall'essere eccitata. Al massimo, sono vagamente divertita». «D'accordo. Scegli tu la formulazione più adatta. Non voglio certo farti dire cose che non hai detto. Comunque, c'è altro che vuoi chiedermi?». «Te l'ho detto», rispose Sara, riannodando il filo della conversazione. «Ho bisogno di un investigatore che mi aiuti nelle indagini». Venti minuti dopo, Guff entrò nell'ufficio di Conrad. «Che cosa succe-
de?», domandò. Sara accostò una mano alla bocca e bisbigliò: «Conrad ci sta cercando un investigatore». «No, capisco...», diceva intanto Conrad. «Ti ringrazio comunque». Posò la cornetta e si rivolse a Sara. «Puoi scordartene. Devi vedertela da sola». «Anche questo ha detto di no?», domandò Sara. «È incredibile», sospirò Conrad. «In tutto il distretto non c'è una sola persona disponibile. Mai visto niente del genere». «Perché sono così rigidi?». «Innanzi tutto, manca il personale. E poi, ci sono sempre i tagli al bilancio. Sono tutti così preoccupati per il proprio posto di lavoro che si rifiutano di indagare su un caso di scarsa importanza». «O forse c'è sotto qualcos'altro», disse Sara. «Per quel che ne sappiamo, Victor potrebbe...». Conrad la interruppe. «Sara, la devi smettere! Victor non conosce tutti gli investigatori che abbiamo chiamato». «Però, magari, conosce tutti gli ufficiali del distretto incaricati di distaccare gli investigatori», obiettò Sara. «Non importa», disse Guff, seduto sul divano. «Domani andiamo di persona a dare un'occhiata. Non c'è bisogno di un investigatore: faremo da soli». «Mah...», sospirò Guff. «So che potrà sembrarvi strano, detto da me, ma forse vi conviene lasciar cadere le accuse e chiudere il caso. Come dice Monaghan, al primo processo è di gran lunga più importante evitare la sconfitta, e se scorriamo la lista dei tuoi testimoni, non mi sembra che ci sia granché da fare». Sara si morse le labbra, ma non poteva che dirsi d'accordo con lui. Dopo l'incidente occorso a Pop, però, le pareva che non si trattasse più soltanto del lavoro. La posta in palio era cresciuta. In gioco c'era Jared. «No», insistette. «Non posso». «Se ti liberi di questo impiccio, però, potrai occuparti degli altri casi...». «Lo sto già facendo». «Davvero?». «Sì», confermò lei. «E se è proprio impossibile trovare un investigatore, ci penserò io. Domattina andremo a trovare Claire Doniger e vedremo che cosa salta fuori». All'una e mezza Jared andò a pranzo da "Chez Wayne", il ristorante ri-
servato al personale dello studio legale. Ogni giorno, oltre trecento persone si raccontavano storielle, scambiavano pettegolezzi e si ingozzavano in quell'enorme sala. Seduto da solo a un tavolo in fondo alla sala, Jared ignorava le conversazioni dei colleghi. Pescava cucchiaiate dal suo piatto di minestrone e continuava a pensare al lavoro. Benché non intendesse lasciarsi andare a una fiducia eccessiva, aveva l'impressione di trovarsi in una posizione di vantaggio. Sara non aveva ancora in mano nulla, e i suoi testimoni diventavano ogni giorno più ostici. Le cose volgevano finalmente al bello, per la difesa, ma soprattutto Sara sarebbe stata salva. Cosicché, quando vide arrivare Marty Lubetsky, suo diretto superiore, Jared gli fece un cenno con la mano per attirare la sua attenzione. Avvicinandosi al tavolo di Jared con il vassoio del pranzo, Lubetsky gli domandò: «Ehi, come mai così di buon umore?». «Non è nulla», rispose Jared. «Stavo pensando al caso AmeriTex della settimana scorsa». «Sei in cerca di complimenti?». «No». «Ah, certo», disse Lubetsky, posando il vassoio sul tavolo. «Comunque, non ti preoccupare: ho ricevuto copia delle istanze. Ottimo lavoro». «Grazie», disse Jared. «Ma raccontami del caso Kozlow. Come ti sembra che vadano le cose?». «Bene, benissimo. Potrebbe ancora chiudersi con un nulla di fatto, ma è difficile che Sara accetti». «Come è messa, lei?». «Il suo castello accusatorio comincia a franare. Credo che entro la fine della settimana si renderà conto di avere tra le mani un caso perdente. E per quando sarà cotta a puntino ho in serbo qualche altro piccolo trucco». Appoggiata alle porte del vagone del metrò, Sara si rese conto di essere nei guai. Da quando aveva preso quella cartelletta, le cose avevano cominciato a precipitare, e, per quanto si sforzasse, con le unghie e con i denti, di risalire la china, sentiva che il terreno le franava sotto i piedi. A mano a mano che procedeva verso la uptown Manhattan, il treno veniva invaso da sciami di pendolari, e Sara si ritrovò ben presto al centro del vagone. Premuta su ogni lato da quella folla di estranei, cominciò a provare una certa claustrofobia. Si sbottonò il cappotto, nella speranza di sbollire un po', ma l'aria secca e polverosa del metrò le procurava una copiosa e sgradevole traspirazione. Chiuse gli occhi, cercando di non pensare agli altri passeg-
geri, di cancellare per un attimo Jared, Kozlow e l'uomo dalle guance scavate. Provò a dimenticare i suoi genitori e la sua famiglia, a ignorare quello che sarebbe accaduto se avesse perso il processo. Malgrado gli sforzi, però, c'era una persona a cui non riusciva a non pensare: Pop. Non riusciva a dimenticare la paura che gli aveva letto negli occhi, quando lo avevano condotto nella sua stanza d'ospedale dopo l'operazione. Lo aveva quasi perduto, e lui lo sapeva. Gli avevano fatto del male: questo pensiero proprio non lo riusciva a scacciare. E se non si fosse data da fare, la stessa sorte sarebbe toccata a suo marito. "Tieni duro!", disse tra sé, serrando la presa intorno alla maniglia della sua borsa. "Andrà tutto bene". Quando il metrò giunse alla fermata della 79th Street, Sara scese, disperatamente bisognosa di una boccata d'aria fresca. Risalì alla svelta in superficie e inspirò profondamente. Sulla via di casa, fece del proprio meglio per convincersi che tutto si sarebbe risolto, che doveva solo calmarsi e cercare di concentrarsi. Non appena ebbe girato l'angolo del suo isolato, Sara sentì una voce dietro di sé. «Ehi, Sara, che succede?». Lei si girò di scatto e vide, con sollievo, che si trattava di Joel Westman, il coinquilino del piano di sopra. «Scusami, Joel, temevo fossi qualcun altro». «Non volevo spaventarti», disse Joel, raggiungendola. «Ti senti bene? Hai una faccia...». «Sto bene», rispose lei, procedendo verso casa. «Sono solo un po' raffreddata, e poi ho avuto una settimana terribile». «Ti capisco. Il lavoro può davvero rovinarti la vita, a volte», disse Joel. «Ma che è successo alla tua borsa?». Sara abbassò lo sguardo e vide che su un lato della sua borsa di pelle qualcuno aveva inciso la parola "vinci". Il cuore di Sara ebbe un sobbalzo. La minaccia era più vicina di quanto avesse immaginato; anzi, l'aveva avuta accanto, sul metrò. CAPITOLO DODICI Il mattino dopo, Sara era davanti al 201 di East 82nd Street e attendeva con ansia l'arrivo di Conrad e Guff. Era passata una settimana dall'ultima volta che aveva sentito Patti Harrison, e Sara sapeva che se non avesse trovato al più presto qualche elemento utile, al processo se la sarebbe vista brutta. Osservando la vecchia ma ben tenuta facciata in arenaria, con le piante in vaso a ornare i gradini dell'ingresso e le alte ed eleganti finestre,
Sara non poté fare a meno di confrontarla con quella di casa propria. Se l'edificio in pietra arenaria in cui abitavano Jared e Sara aveva un caratteristico aspetto Upper West Side, la casa della Doniger aveva un lustro tipico della Upper East Side. Arrivò un taxi da cui scesero Conrad e Guff. «È qui, dunque, che Kozlow ha dato inizio a tutta questa storia?», domandò Guff, osservando a sua volta la casa. «Studiala bene», disse Conrad. «Cerca di immaginare lo svolgimento dei fatti come tu li hai appresi e verifica che siano compatibili con la scena del delitto». Secondo le istruzioni di Conrad, si misero tutti e tre a scrutare quella casa, cercando di immaginare l'agente McCabe che trascinava Kozlow a casa della signora Doniger, mentre Patti Harrison sbirciava da dietro una tendina. «Okay, ho finito», disse Guff, dopo circa mezzo minuto. «Possiamo entrare, ora?». «Taci», dissero Sara e Conrad all'unisono. Terminato l'esame della facciata della casa, Conrad e Guff salirono i gradini dell'ingresso. «Aspettate un attimo», disse Sara. «Prima voglio parlare con la Harrison. Non sono più riuscita a sentirla, dal giorno del gran giurì». Attraversò la strada, e gli altri due la seguirono. Sara suonò il campanello, e Conrad coprì lo spioncino con la punta di un dito. «Perché metti il dito sullo spioncino?», domandò Sara. «Se ci vede e non ha voglia di parlare con noi, farà finta di non essere in casa», rispose lui a bassa voce. «Così sarà costretta a domandare...». «Chi è?», disse una voce da dietro la porta. Conrad sorrise. «Signora Harrison, sono Sara Tate. Volevo farle qualche domanda». «No», obiettò la Harrison. «Se ne vada». «Ci vorrà solo un minuto», insistette Sara. «Glielo prometto». «Le ho detto di andarsene. Non ho nessuna intenzione di parlare con lei». Perplessa, Sara si volse verso Conrad. «Signora Harrison, va tutto bene?», domandò. Silenzio. Mettendosi a bussare alla porta, Conrad disse: «Signora Harrison, sono il procuratore distrettuale aggiunto Conrad Moore. La avverto: se non apre immediatamente la porta, torneremo con un mandato di perquisizione, un cellulare pieno di poliziotti e un ariete per sfondare la porta. In un modo o
nell'altro, entreremo». «Non c'è la causa probabile per un mandato di perquisizione...», bisbigliò Sara. «È vero, ma lei non lo sa», rispose Conrad sottovoce. Quindi, alzando il volume, gridò: «Signora Harrison, le do tre secondi per decidere, dopodiché, se non avrà aperto, faremo in modo che tutto il vicinato sappia del suo rifiuto di collaborare con le autorità. Uno... Due...». I chiavistelli scattarono, e la porta si aprì. Quando Sara entrò vide la casa immersa nel più totale scompiglio e la signora Harrison, voltata di spalle, con il capo chino sorretto dalla mano sinistra. «Si sente bene?», le domandò Sara, sfiorandole una spalla. Quando la signora Harrison si girò, Sara vide che aveva l'occhio sinistro tumefatto e cerchiato da un grosso livido viola scuro. La parte destra del labbro inferiore era ferita, e un livido occupava anche l'intera guancia destra. Il braccio destro, appeso a un fazzoletto annodato al collo, era ingessato. Vedendola così conciata, Sara si sentì male. La Harrison non era più soltanto una testimone; era diventata una vittima. «Chi è stato?», domandò Sara. «Vi prego, andatevene...», implorò la Harrison, con le lacrime agli occhi. «Ci dica chi è stato», insistette Sara. «È stato Kozlow?». «Noi la proteggeremo», aggiunse Conrad, mentre la signora si sedeva sul divano del soggiorno. «Anche la signorina aveva detto che mi avrebbe protetta, ed ecco cosa ne ho ricavato», disse la Harrison indicando Sara. «Ma questa volta...». «Mi ha spezzato il polso con le sue stesse mani!», strillò la signora, con le lacrime che ormai sgorgavano inarrestabili. «A mani nude!». «Ci dica chi è stato», ripeté Sara, cingendole le spalle con un braccio. «Non mi tocchi», gridò la Harrison, divincolandosi. «Uscite da casa mia. Il solo fatto che voi siate venuti qui mi espone a un ulteriore rischio. Se proprio volete parlare con qualcuno andate dai Doniger. È a casa loro che è successo tutto». «La prego, signora Harrison, lasci che la aiutiamo». «Non voglio il vostro aiuto! Voglio che ve ne andiate!», urlò la Harrison, avvampando. «Andatevene! Uscite da casa mia!». Avviandosi alla porta, Sara non seppe che cosa dire. «Io volevo solo fare il mio dovere di cittadina!», piagnucolò la Harrison. «Ecco! Il mio dovere di cittadina».
«Lo sappiamo», disse Conrad, che si trovava alle spalle di Sara. «È per questo che...». La porta si richiuse con violenza alle loro spalle. Guff guardò Sara. «Mio Dio!», esclamò. «È pazzesco!». «A mani nude», disse Sara. «Le ha spezzato il polso a mani mude. Con che razza di animali abbiamo a che fare?». «Non lo so», rispose Conrad. «Ma ho qualche domanda da fare a Claire Doniger». Conrad attraversò la strada, bussò alla porta della vittima del furto e, con il dito poggiato contro lo spioncino, attese una risposta che non arrivò. Riprovò a bussare e suonò il campanello. «Forse ti ha sentito gridare», disse Sara. «O forse non è in casa», aggiunse Guff. «Stronzate», disse Conrad. «Sono sicuro che c'è». Battendo dei pugni poderosi contro la porta, riprese: «Apra, signora Doniger. Sappiamo che è in casa!». «Lasciamo stare», disse Guff, girandosi per andarsene. «Torneremo a cercarla un'altra volta». Non ottenendo risposta, Conrad seguì il consiglio di Guff e ridiscese gli scalini della casa. «Tu non vieni?», domandò a Sara, vedendo che non dava segno di volersi muovere. Dopo un'ulteriore sosta davanti alla porta della Doniger, Sara raggiunse Conrad e Guff. «A cosa stavi pensando?», le domandò Conrad. «La signora Harrison ha detto che dovevamo rivolgerci ai Doniger, come se ce ne fossero più di uno. Ho controllato sulla cassetta della posta e, in effetti, c'è scritto "Mr. e Mrs. Arnold Doniger". A quanto pare, Claire è sposata». «Come mai la signora non ne ha mai fatto parola?», domandò Guff. «Proprio questo è il mistero», disse Sara. «Ma non dovrebbe essere troppo difficile svelarlo». Dall'ufficio, Sara telefonò a Claire Doniger. «Pronto», disse la signora, alzata la cornetta. «Salve, signora Doniger. Avrei un favore da chiederle». «Ancora? Gliel'ho già detto ieri», disse disse la signora. «Io...». «Vorrei solo chiederle di suo marito». All'altro capo del filo calò un breve silenzio. Poi, la signora Doniger disse: «Mio marito è morto». Sorpresa, Sara disse: «Oh, mi dispiace moltissimo. Quando è morto?». Altro silenzio. «Venerdì scorso». «Oh, veramente?», domandò Sara, sforzandosi di non sembrare sospet-
tosa. Contò mentalmente i giorni. «Spero che la sua testimonianza non si sia accavallata con il funerale. Quando è stato?». «Sabato». Prima che Sara potesse rivolgerle un'altra domanda, la Doniger aggiunse: «A essere sinceri, la settimana scorsa è stata durissima. Era da un po' che stava male... alla fine il diabete lo ha ucciso. Anche per questo non volevo lasciarmi coinvolgere dalla questione del furto con scasso. Mi pareva così insulsa, a confronto con tutte le cose terribili che mi sono capitate». «La capisco perfettamente. Mi dispiace di essere stata così assillante». «Non fa niente», disse la Doniger. «Sono io che devo scusarmi per essere stata brusca con lei. Devo ancora rendermi bene conto della situazione». «Ma certo», disse Sara. «Lei ha tutta la mia comprensione. Mi dispiace di averla disturbata». Posata la cornetta, Sara guardò Conrad e Guff. «È morto?», domandò Guff. «Dice che è morto venerdì scorso», spiegò Sara. «Era diabetico... era malato da un po'. Almeno, così ha detto lei». «Ma tu non ci credi, vero?», le domandò Conrad. «Ti sembra possibile? Sono due settimane che ci sentiamo continuamente, e lei si dimentica di dirmi che suo marito è morto? L'abbiamo vista lunedì, e non ha detto una parola. In fondo era vedova da non più di settantadue ore». «Che cosa hai intenzione di fare?», le domandò Guff. «Indovina», disse Sara. «Cosa ci vuole per riesumare un cadavere?». Alle otto e mezza, Jared era da solo in ufficio. Kozlow se n'era andato da circa due ore, e Kathleen da pochi minuti soltanto, per stare un po' con suo marito. Godendosi quel silenzio, ma senza riuscire veramente a rilassarsi, Jared era seduto sul bordo della sua poltroncina, intento a definire l'imminente conversazione con Sara. Innanzi tutto, le avrebbe detto che, all'ora di pranzo, aveva parlato con Pop. Ciò sarebbe servito a farle abbassare la guardia. Quindi le avrebbe domandato come andava il lavoro. E ciò, probabilmente, gliel'avrebbe fatta rialzare, ma Jared sapeva di dover affrontare gli argomenti con rapidità: le sere precedenti, qualunque fosse stato il tema affrontato, Jared aveva notato che la pazienza di Sara era sul punto di esaurirsi, e una prolungata discussione sul lavoro non avrebbe certo facilitato il compito di parlare con lei. Jared consultò l'orologio. Non poteva attendere oltre. Era dall'ora di pranzo che aveva la tentazione di chiamarla, ma aveva ritenuto più utile
aspettare la fine della giornata. Credeva, in tal modo, di cogliere Sara in preda alla frustrazione, nel momento in cui una dura giornata di lavoro comincia a farsi sentire. Come soleva dire il suo professore di diritto aziendale alla law school: «Quanto più debole è la preda, tanto più facile sarà ucciderla». La ripeteva a ogni piè sospinto, ma Jared, sollevando la cornetta del telefono per chiamare Sara, non poté non dirsi pienamente d'accordo. Compose il numero, e Sara rispose: «Procuratore aggiunto a te». «Sara, sono io». «Che cosa vuoi?». Jared mantenne un tono affettuoso e gentile. «Volevo solo sapere come stai. Tutto bene?». «Sì. Che altro c'è?». «Ho parlato con Pop, oggi. Sembra che stia meglio». «Già. Sono andata a trovarlo all'ora di pranzo», disse Sara. «Sei stato carino a chiamarlo». «Figurati!». Ci fu un breve silenzio. «Dài, Jared, qual è la ragione di questa telefonata?». Jared scosse la testa. Lo conosceva troppo bene. «Volevo farti un'ultima proposta». «Jared!». «Ascoltami un attimo. Non voglio tormentarti su cosa è meglio o peggio per il tuo lavoro. C'è in ballo qualcosa di più importante delle nostre carriere. L'hai detto anche tu: ci sono in gioco la nostra vita e il nostro matrimonio. Finché ci sarà di mezzo questo caso, siamo esposti al rischio. Lo hai visto anche tu cos'è successo in quest'ultima settimana e mezza: non è passato giorno senza che litigassimo, mentre di notte abbiamo trascurato le cose veramente importanti. Sara, se scegli di lasciar cadere le accuse, tutto questo finirà all'istante. Potremo tornare a vivere, a stare insieme come si deve, a occuparci di Pop e di tutto quello che abbiamo tanto faticato a costruire». «Sarebbe questa la tua ultima proposta? La famosa chiusura del caso?». «Sì. Da domani, mi metterò a preparare le mozioni probatorie, e a quel punto non potrò fare più nulla per proteggerti: ci dovremo incontrare in tribunale. Suvvia, amore, eh?». «Puoi girarla come ti pare, Jared, ma io ho la netta sensazione che tu stia cercando di manipolarmi. Credevi davvero di darmela a bere?», ridacchiò Sara. «E poi, comunque, non deciderò nulla prima di aver parlato con l'a-
natomopatologo». «Che cosa c'entra l'anatomopatologo con il nostro caso?». «Be', se riesco a fargli riesumare la salma di Arnold Doniger, magari mi dirà se il tuo cliente dev'essere incriminato anche per omicidio». Jared sobbalzò sulla sedia. «E chi sarebbe Arnold Doniger?». Jared non ottenne risposta. Udì soltanto un clic. Sara aveva riagganciato. «Che cosa ha detto?», domandò Conrad. «Credo che se la sia fatta sotto», rispose Sara. «Non posso credere che tu gli abbia sbattuto il telefono in faccia a quel modo». «Se lo merita. Mi telefona con quel tono da principe del foro, convinto che io mi prostri ai suoi piedi al solo sfiorare un paio di tasti delicati. Lo detesto quando usa mio nonno e la mia carriera contro di me... Sa benissimo che mi fa inferocire». «È il tuo tallone d'Achille. Qualunque valido avversario cercherebbe di sfruttarlo». «Be', io non voglio un avversario: voglio un marito». «Se lo ami così tanto, perché non ti arrendi?». Sara guardò Conrad. Era tentata di parlargli dell'uomo dalle guance scavate. E di dirgli che se si dannava tanto era solo per proteggere suo marito. Poi, però, scelse di mentire: «Perché lui è la mia controparte. Dargli filo da torcere è il mio lavoro». Conrad la osservò attentamente. «Ti spiacerebbe ripetere?», domandò. Sara, che armeggiava con delle graffette, non rispose. «Fa' come credi», disse lui. «Io ho finito con le domande». Dieci minuti dopo, Guff si ripresentò in ufficio e porse a Sara alcune carte. «Questa è la copia del tuo ordine di esumazione, firmato dal giudice Cohen. Lo tireranno su stanotte. L'autopsia è la prima in programma domattina». «Grandioso», disse Sara, riponendo le carte nella propria borsa. «E grazie ancora per la firma». «Non devi ringraziare me. È Conrad l'amico del giudice». «Be', allora grazie», disse Sara, rivolgendosi a Conrad. «Per te, questo e altro, amica mia». Alle dieci di sera, Jared prese la giacca dall'attaccapanni dell'ufficio e uscì in corridoio. Sebbene in tutto l'edificio vi fossero ancora decine di
giovani associati al lavoro, tutto il personale di supporto era ormai andato a casa, cosicché i corridoi apparivano deserti. Mentre raggiungeva l'ascensore, Jared era ancora impegnato a digerire la notizia appena ricevuta da Sara. Messo giù il telefono, aveva cercato, sul database Lexis, informazioni sul conto di Arnold Doniger: non aveva trovato altro che un trafiletto sul «New York Times» che annunciava il suo fidanzamento con Claire Binder - laureata a Radcliffe ed esperta di antiquariato, di dodici anni più giovane di lui - e un telegrafico annuncio mortuario, che risaliva al sabato precedente. Perché Rafferty non gliel'aveva detto? Mentre aspettava l'ascensore, Jared ripensò alla rinnovata fiducia che aveva colto nel tono di Sara e alle possibili ripercussioni sul caso. I palmi delle mani gli si bagnarono di sudore, costringendolo a posare la borsa. Quando si chinò per raccoglierla, arrivò l'ascensore. Dentro, c'erano Rafferty e Kozlow. Sforzandosi di sorridere, Jared disse: «Che cosa...?». Non ebbe il tempo di finire la frase, perché Kozlow lo colpì con un calcio allo stomaco, spedendolo a terra come un sacco di patate; quindi, lo trascinò, ancora boccheggiante, all'interno dell'ascensore. Quando le porte si furono richiuse, Rafferty premette il pulsante di arresto d'emergenza, facendo partire l'assordante segnale d'allarme. Senza dargli modo di riprendere fiato, Kozlow gli sferrò altri due calcioni allo stomaco; poi, raccolse la borsa di Jared e la aprì, svuotandone il contenuto addosso a Jared, che giaceva immobile a terra. Quando ebbe finito, con l'allarme che continuava a echeggiare, Kozlow lo colpì di nuovo. Quindi, mettendogli un piede sulla nuca, gli tenne la faccia premuta a terra. «Ci stiamo divertendo, vero?», domandò Kozlow. Jared si sforzava di sollevare la testa, ma non rispose. Sputava sangue. «Ti ho fatto una domanda», riprese Kozlow. «Ci stiamo divertendo o no?». Col piede esercitò un'ulteriore pressione. Jared sentiva di essere sul punto di perdere i sensi. «Rispondimi!», urlò Kozlow. «Rispondimi o ti spiaccico la testa!». «Basta, Tony», disse Rafferty, allontanando Kozlow da Jared. «Non mi toccare!», strillò Kozlow. «So quello che faccio». «Ne sono certo», riprese Rafferty. «Io, però, ho bisogno di parlargli. Ora, prendi fiato e calmati». Kozlow si fece da parte, e Rafferty si chinò accanto a Jared. «Mi avevi detto di non preoccuparmi», disse sottovoce. «Così mi avevi detto...». «Mi dispiace», mugolò Jared, con bava e sangue alla bocca. «Non sape-
vo che Sara avesse...». «Non venirmi a raccontare stronzate. Ne ho sentite già a sufficienza. Dobbiamo scoprire quello che sa: rubale gli appunti, leggile nel pensiero, fa' quello che vuoi, ma scopri che cosa sta succedendo. Questo caso non deve assolutamente trasformarsi in un processo per omicidio». Rafferty si rialzò e disinserì l'allarme. In pochi istanti, l'ascensore raggiunse il primo piano dell'edificio: Jared rimase a terra; Rafferty lo scavalcò e uscì, imitato da Kozlow, il quale, per soprammercato, schiacciò con il tacco di uno stivaletto la mano destra di Jared. «Cerca di rimetterti in riga», avvertì Kozlow, calcando sulla povera mano. «Non sto scherzando», aggiunse Rafferty, mentre le porte si richiudevano. «Per domattina voglio delle risposte». Jared arrivò a casa alle undici meno un quarto. Seduto sul divano, attese con impazienza il rientro di Sara. Quando sentì sbattere la porta, alle undici e mezza, si alzò di scatto e andò incontro alla moglie. «Dimmi che cosa è successo?», le domandò, prima ancora che lei si fosse sbottonata il cappotto. «Non posso», rispose lei. «E lasciamo stare questo argomento». «Cos'è questa storia di Arnold Doniger? Perché...?». «Jared, hai sentito quello che ho detto?», domandò Sara, arrabbiata. «Lasciamo perdere». «Dimmi soltanto se farai eseguire un'autopsia, così saprò cosa fare domani». Sara andò in camera da letto e cominciò a spogliarsi. «Ti prego», disse Jared. «Devi saperlo». Sara conosceva le tattiche di Jared, ma non aveva la minima intenzione di lasciarsi smuovere. Facendo finta di non sentire, appese la giacca e la gonna nel guardaroba e, dopo aver preso una maglietta dal comò, si diresse in bagno. Jared la seguì e si fermò sulla soglia, mentre lei si mise a lavarsi la faccia. «Sara, non ignorarmi. Ho bisogno del tuo aiuto. Non so più cosa fare». Il suo tono ormai implorante la colse in contropiede. Non solo perché lei era facile a commuoversi, bensì soprattutto perché Jared non stava fingendo: stava veramente andando a fondo e aveva bisogno del suo aiuto. Sarebbe bastato dirgli quel che chiedeva, e la sua angoscia sarebbe svanita. "No", pensò, "non devo permettergli di farmi questo". Con gli occhi chiusi, si sciacquò via il sapone dal viso e, quand'ebbe finito, con un rapido mo-
vimento, lo affondò in un asciugamano. "Non devi guardarlo", disse tra sé. "Se lo guardi, sei fregata". «Sara, ti supplico. Sono tuo marito». Sara colse una piccola incrinatura nella voce di Jared. Non era più una preghiera: Jared stava piangendo. A quel punto, Sara non poté resistere e, sollevata la testa, capì che soffriva; anzi, nei suoi occhi c'era più paura che sofferenza. «Ti supplico», ripeté. Sara sentì un nodo in gola, un tuffo al cuore. Non avrebbe mai voluto trattarlo a quel modo, ma non aveva scelta. «Mi dispiace, Jared. Non posso». Con gli occhi bassi, Sara cercò di sgattaiolare fuori dal bagno, ma quando gli fu vicina, lui la abbracciò. «Sara...». Lei si ritrasse. «Per favore... è già abbastanza difficile». Jared restò sulla soglia del bagno a guardare la moglie che si infilava a letto. E non si mosse neppure quando lei spense l'abat-jour sul comodino. Nel buio, Sara gli augurò la buonanotte. Per due ore e mezzo Jared rimase a letto immobile, fingendo di dormire con le spalle rivolte a Sara e lo sguardo, ormai abituato all'oscurità, fisso sul termosifone color crema che si trovava nell'angolo della stanza. Ripensò al giorno in cui erano entrati in quell'appartamento, quando lui aveva suggerito di ridipingere il termosifone in modo che facesse pendant con la trapunta beige e rosso scuro. Sara gli aveva risposto che nessuno, a New York, si sarebbe mai sognato di ridipingere un termosifone perché facesse pendant con una coperta e, quindi, si era chiamata fuori da quell"'inutile" progetto. Ma lui non si era dato per vinto e l'aveva dipinto davvero: il suo senso dell'ordine aveva avuto la meglio sull'istinto della moglie a conformarsi al caos totale della sua città. Sforzandosi di rimanere sveglio, continuò a fissare il termosifone e non si capacitava di come avessero fatto a discutere per tanto tempo su una questione così stupida. Quando le cifre elettroniche della sua sveglia scattarono sulle due e trenta, Jared si voltò lentamente sull'altro fianco e bisbigliò: «Sara». Silenzio. «Sara, sei sveglia?». Silenzio. Con la massima cautela Jared sollevò le coperte e scivolò fuori dal letto. In punta di piedi, ne fece il giro. A metà strada, posò il piede su una tavola non perfettamente fissata, che emise un flebile scricchiolio. Nel sonno, Sara si rigirò su un fianco, voltandosi proprio verso il comodino che Jared
voleva raggiungere. «Sara», sussurrò lui, bloccandosi. Silenzio. Jared avanzò sempre più curvo e andò ad accucciarsi vicino alla borsa di Sara, posata ai piedi del suo comodino. Allungando la mano, però, ebbe un'esitazione. "Mio Dio, che cosa sto facendo", pensò. Ritraendo la mano si meravigliò di aver pensato di fare una cosa simile. Poi, guardò Sara, e la ragione di quel gesto gli apparve nuovamente in tutta la sua chiarezza: per la vita di Sara avrebbe corso qualsiasi rischio. Ignorando il nodo che aveva allo stomaco, Jared trattenne il respiro e sollevò cautamente la borsa. Gli tremavano le mani nell'aprire l'unico fermo e nel sollevare la cintura di pelle della borsa. Diede febbrilmente una scorsa alle cartellette che trovò al suo interno e prelevò quella su cui era scritto "KOZLOW". Prima di aprirla, guardò ancora una volta la moglie addormentata. Era bellissima. Jared rimase a fissarla estasiato. Non avrebbe mai voluto ingannarla, ma doveva assolutamente scoprire che cosa sapeva. Prima di potersi autodissuadere, aprì la cartelletta e cominciò a leggere. «Che diavolo credi di fare?». Jared si alzò in piedi di scatto. Sara era sveglia come un grillo. «Sara, aspetta, fammi...». «Vattene». «Non è come...». «Vattene! Voglio che te ne vada da questa casa! All'istante!», gridò lei. Balzò giù dal letto e strappò la cartelletta dalle mani di Jared. «Come osi? Con che coraggio mi fai una cosa del genere? Hai davvero così poco rispetto per me?». «No, non è questo... io...». «Tu cosa? Stavi cercando delle caramelle? Ti serviva una penna per prendere nota dei tuoi sogni? O volevi solo contravvenire a tutte le regole deontologiche in una volta sola? Quale stupida scusa accamperai, questa volta?». «Fidati di me, Sara. Lo so che l'apparenza testimonia a mio sfavore, ma posso spiegarti». «Fidarmi di te? Come posso fidarmi di te?». Sara lasciò cadere la cartelletta e si scagliò contro Jared, colpendolo prima al petto e poi alla schiena. «Ce l'avevi, la mia fiducia, ma l'hai tradita!». Jared cercò in qualche modo di arginare la sua furia. «Sara, lascia che ti spieghi!». «Ma sì, prego... Spiegami, dài. Muoio dalla voglia di sentire cosa inven-
ti». Jared inspirò profondamente. Tremava. Non aveva via di scampo. «Lo so che non mi crederai, ma tu non c'entri. Te l'ho detto e ripetuto sin dall'inizio quanto è importante per me questo caso. Non intendevo affatto fregarti... Volevo soltanto sapere che cosa devo aspettarmi per domani». «Non è che hai fatto la stessa cosa anche prima del gran giurì? Hai frugato tra le mie cartte anche allora? E non è che prima del processo ti verrà voglia di dare un'altra occhiata?». Snocciolando domande, Sara lo incalzava: a ogni interrogativo, si avvicinava di un passo, puntandogli contro l'indice accusatore. D'istinto, Jared arretrava, sempre più lontano dal letto. «Ehi, non usare quel tono con me, capito?», replicò. «Non sono riuscito a vedere nulla». «Solo perché io ti ho bloccato!». «Ascolta, mi dispiace, ma sono convinto che, al mio posto, ti saresti comportata allo stesso modo», ribatté Jared, con le spalle contro il comò di Sara. «Comunque, se vuoi che me ne vada, me ne andrò, ma ti conviene riflettere prima di fare una cosa di cui ti potresti pentire amaramente». Sara si voltò, raggiunse il proprio comodino, prese un mazzo di chiavi dal cassetto e le gettò a Jared. «Queste sono le chiavi di casa di Pop. Raccogli la tua roba e sparisci». «Vuoi scherzare?», reagì Jared, sbalordito. «Ho deciso», rispose lei. «Ora, vattene». «Sei sicura di...?». «Sparisci! Va'!». Jared scosse la testa, confuso e furioso allo stesso tempo. «Te ne pentirai». «Lo vedremo». Jared raggiunse, furibondo, il proprio guardaroba. "Aspetta che si ritrovi da sola", pensò. "Allora si renderà conto di aver esagerato". In preda a una vertigine di ostilità, turbinò per la casa raccattando vestiti, biancheria e cose sufficienti a trascorrere fuori di casa il fine-settimana. Ma solo quando ebbe terminato, Jared si rese conto di quello che stava accadendo. Con il suo zainetto nero sulle spalle, Jared raggiunse la porta. Vide, nella penombra del soggiorno, che Sara era seduta sul divano, con la borsa appoggiata a terra ai suoi piedi. D'improvviso, alla rabbia subentrò il principio della realtà. «Vado», disse, con voce suadente. Sara non rispose. «Sara, io...».
«Ho sentito». Jared afferrò la maniglia. «Volevo dirti che sono davvero mortificato». «Mi sembra il minimo». «Dico davvero, mi dispiace moltissimo», ribadì. Non voleva andarsene così, ma non sapeva che altro dire. Cercò disperatamente le parole giuste, e non le trovò. Alla fine, biascicò: «Vuoi davvero che me ne vada?». Di nuovo, Sara evitò di rispondere. Lo squadrò da capo a piedi. Aveva un'aria così vulnerabile, lì in piedi, con quello zainetto in spalla. La stanza fu invasa da un imbarazzante silenzio. Jared cercò di leggere l'enigmatica espressione di Sara. Lentamente, si sfilò lo zainetto e lo posò a terra. «Non ci provare», disse Sara. «Ma tu...». «È inutile, Jared: non cambio idea. Voglio che te ne vada». Jared si voltò, aprì la porta e uscì, senza aggiungere altro. La prima cosa che lo colpì fu il silenzio. Restò impassibile, invece, davanti alle numerose foto di Sara e dei suoi genitori che ornavano le lunghe pareti dell'ingresso. Registrò subliminalmente quell'odore un po' stantio eppure familiare, che gli ricordava la casa dei suoi nonni. Ma, entrando nel modesto appartamento di Pop, sulla East 76th Street, l'unica cosa che non poté ignorare fu il penetrante silenzio che vi regnava. «Ehilà!», esclamò, tanto per fare un po' di rumore. «C'è nessuno?». Non ebbe risposta. Con lo zainetto ancora in spalla, Jared si inoltrò in casa. Posato lo zaino, entrò nella stanza da letto, ma subito decise che non avrebbe dormito nel letto di Pop. Non gli sembrava bello. Cercò l'armadio della biancheria e, trovatolo, ne tolse delle coperte e un lenzuolo; quindi, aprì il divano-letto e si preparò il giaciglio. Non gli restava che coricarsi. "Durerà il tempo di chiudere il caso", pensò. "È questo che intendeva, spero". Non aveva intenzione di approfondire. Tornò in anticamera e controllò che la porta fosse chiusa a chiave. Diversamente da quella di casa loro, che era dotata di doppia serratura e catena, la porta di quell'appartamento aveva una sola serratura, quella che Pop aveva trovato quando era andato ad abitarci, quasi vent'anni prima. Per Pop una serratura era più che sufficiente a farlo sentire sicuro. Per Jared, invece, la questione era diversa. Lui non si preoccupava della serratura, e neppure di sé stesso. Era preoccupato per sua moglie. Più lui sarebbe stato lontano, meno Sara sarebbe stata al sicuro.
Tornato in soggiorno, Jared sollevò la cornetta del telefono, posato sul tavolino da caffè, e compose il numero di casa. "Dai, Sara, rispondi!". Il telefono squillò un paio di volte. "Dai, lo so che ci sei". Un altro squillo. "Ti prego". Un altro. "Sara, dove sei?". Un altro ancora. "Oh, mio Dio, Sara", pensò, ormai spaventato. «Pronto». Sara aveva la voce roca da addormentata. «Scusami se ti ho svegliato. Volevo dirti che sono arrivato e che...». Sara gli sbatté il telefono in faccia. Jared posò piano la cornetta. Sara stava bene. Per il momento. Non era più riuscita ad addormentarsi dopo la telefonata di Jared. Dopo che se n'era andato e finché non sapeva dov'era, Sara non aveva avuto problemi. Ma dopo che l'aveva chiamata, non era più stata capace di rilassarsi. Forse, era stata la voce di lui al telefono, o forse la voce della coscienza. In ogni caso, cominciava a fare effetto. E doveva affrontarla da sola. Alle quattro e mezza Sara era ancora sveglia. Provò con una tazza di tè bollente e un goccio di latte; poi, con la musica classica. Infine, si domandò se non vi fosse qualcosa che le sfuggiva. Per esperienza, sapeva che la sua insonnia poteva dipendere dal rimuginare sui fatti del giorno appena trascorso o dal timore per quello imminente. In quel caso, però, rannicchiandosi sul lato del letto solitamente occupato da Jared, Sara si rese conto che erano vere entrambe le cose e che avrebbe passato una brutta nottata. «Di che cosa è morto?», le domandò Walter Fawcett, senza giri di parole, l'indomani mattina. Fawcett, un tipo robusto e dalla parlata rude, con due baffoni folti e occhiali molto spessi, era uno dei dieci anatomopatologi che eseguivano esami autoptici a Manhattan. Fuori dalla sala autopsie, nel seminterrato dell'ufficio dell'anatomopatologo capo, Sara e Fawcett discutevano i particolari della morte di Arnold Doniger. «Secondo la moglie e il certificato di decesso, è entrato in coma a causa del diabete di cui soffriva», spiegò Sara, strofinandosi gli occhi iniettati di sangue. «A quanto pare, è andato in ipoglicemia». «Prima dicevi che sono stati degli infermieri a portarlo via... C'è qualcosa di interessante nel loro rapporto?». Passando a Fawcett una copia del documento, Sara rispose: «Stando a quello che c'è scritto qui, Arnold aveva dato un po' fuori di matto la notte in cui poi è morto. Sua moglie ha dichiarato che il marito aveva spesso at-
tacchi d'angoscia, per via del diabete, cosicché lei, credendo che la crisi fosse dovuta a ipoglicemia, gli aveva dato del succo di frutta e una barra al cioccolato. Qualche ora dopo, al momento di coricarsi, lo aveva visto iniettarsi dell'insulina. Il mattino dopo, al risveglio, l'ha trovato morto accanto a sé. Si è spaventata e ha chiamato un'ambulanza. Fine della storia». «No, la storia continua», disse Fawcett. «Scopriremo dell'altro». Quando ebbe terminato di leggere il rapporto, lo restituì a Sara. «Hai intenzione di presenziare all'autopsia?». Persa nei suoi pensieri, Sara non rispose. Fawcett le passò una mano davanti alla faccia. «Ehi, ci sei?», le domandò. «Eh?», fece Sara, tornando bruscamente alla realtà. «Scusami, non ho sentito». «Primo: volevo sapere se assisterai all'autopsia. Secondo: cos'è che ti preoccupa?». «Nulla, in verità; pensavo a un altro aspetto di questo caso», spiegò Sara. «Quanto all'autopsia, devo essere in tribunale a mezzogiorno, però speravo di assistere, perché in procura dicono tutti che è molto istruttivo vedere come funziona». «Non sanno quello che dicono», disse Fawcett, entrando in sala autopsie. «Ma se ci tieni, vai a prepararti». «Faranno un'autopsia?», domandò Rafferty, prendendo posto davanti alla scrivania di Jared. «Stando all'unica cartelletta che sono riuscito a vedere, hanno riesumato il corpo stanotte e lo sezioneranno stamattina», rispose Jared. «E a quel punto ti ha beccato, vero?», domandò Kozlow, seduto sulla sua solita sedia d'angolo. «Oh, Cristo, devi esserti...». «Basta», lo interruppe Jared. «Non ho voglia di parlarne». «Sei stato un disastro!». «Rimedierò», ribatté Jared. «Ho portato con me vestiti per non più di tre giorni. Quindi, ho la scusa per tornare. E poi, non credo che abbia cambiato la serratura». «Per ora», aggiunse Kozlow. «C'è qualcosa che possiamo fare per impedire l'autopsia?», domandò Rafferty. «Possiamo tentare di farla sospendere, ma credo che farebbe più male che bene. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di alimentare sospetti». «E allora cosa si fa?». «Chiediamo una contro-autopsia, sperando che contraddica i risultati
della prima. Perizie o esami contrastanti hanno sempre l'effetto di confondere i giurati. E poi, la cosa migliore che possiamo fare è attendere. So che scalpitate, ma non c'è ragione di essere nervosi, almeno finché non sapremo che cosa hanno scoperto». «E cosa succede se scoprono qualcosa di poco chiaro?», domandò Kozlow. «Dipende», rispose Jared. «Se si tratta di qualcosa di discutibile, possiamo ingaggiare un patologo in grado di ridimensionare le loro tesi. Ma se riescono a risalire a te, possono accusarti di orni...». «Ti ho detto che questa storia non deve in alcun modo sfociare in un processo per omicidio», lo zittì Rafferty. «Be', spiacente di deluderla, ma a questo punto io non posso farci nulla». Quando Sara e Fawcett ebbero finito di prepararsi, lui le porse un pacchetto di chewing-gum alla menta. «Mastica queste», disse. «Perché?», fece Sara, prendendole. «In sala non si possono portare cibi o bevande, ma le gomme ti aiuteranno a combattere la nausea. L'odore può dare il voltastomaco». «A me non succederà», disse Sara, mettendosi in tasca le gomme e sistemandosi la mascherina davanti alla bocca. «Sono già stata in una camera mortuaria». Fawcett si strinse nelle spalle ed entrò nella sala autopsie. L'enorme e asettica stanza era suddivisa in otto singole aree di lavoro, ciascuna dotata di un tavolo per gli esami autoptici. I tavoli di metallo avevano la superficie traforata da centinaia di forellini necessari al drenaggio dei liquidi organici. In quel momento erano in corso altre tre autopsie. Quando Fawcett aprì la porta della sala, il fetore dei corpi in decomposizione la colpì come un treno in faccia. Cercando concitata le gomme da masticare, osservò il corpo inanimato di Arnold Doniger e notò la sfumatura verdastra che caratterizzava ormai il suo incarnato. La decomposizione aveva cominciato a intaccare le spalle e l'esterno delle cosce, mentre il cedimento dei tessuti epidermici conferiva al suo volto un aspetto quasi liquefatto. Non riuscendo a prendere le gomme, Sara si chinò in avanti e vomitò senza neanche togliersi la mascherina. Il vomito le colò tutto sul davanti del camice che aveva indossato. Subito, Fawcett trascinò Sara fuori dalla sala, per evitare di contaminare l'area. Mentre la osservava lavarsi nel lavandino di metallo che si trovava fuori dalla sala autopsie, disse: «La masticherai una cicca, adesso?».
«Credo di sì», rispose lei, sputando gli ultimi resti della colazione. Sciacquatasi un'ultima volta la bocca e la faccia, Sara si rialzò e si asciugò. «Riproviamo? Sei pronta?», le domandò Fawcett. «Prontissima». Fawcett esaminò rapidamente il cadavere di Doniger e premette un pedale che mise in funzione un registratore. In tono estremamente professionale e misurato, Fawcett disse: «Ci sono tracce di imbalsamazione in corrispondenza dei triangoli femorali destro e sinistro, nonché sul lato sinistro del collo. Il cadavere imbalsamato è quello di un maschio sessantaseienne di pelle bianca, ben formato e nutrito, capelli castani, un metro e settantatré di altezza per un peso di circa ottantasette chilogrammi. Non reca segni evidenti di ferite». Sollevando le palpebre del morto, Fawcett tolse dagli occhi due dischetti opachi che parevano lenti a contatto. «Che cosa sono quelli?», domandò Sara. «Sono dei chiudi-occhi», rispose Fawcett. «Uno dei trucchi preferiti dai becchini. Sono una specie di lenti dai bordi dentellati che servono per tenere chiusi gli occhi del morto. Per sempre». «Terribile», commentò Sara. «Però, funziona», replicò Fawcett. «Comunque, a me personalmente non piacciono. Una questione di gusto». Tolti i copri-occhi, Fawcett impugnò uno scalpello. Con un rapido movimento incise una grossa Y sul petto di Doniger. Partendo dalle spalle, due tagli si congiungevano più o meno all'altezza dello sterno, proseguendo poi, come un'unica linea, fino al bacino. «Mastica», consigliò Fawcett, quando vide che la bocca di Sara era immobile. «Adesso viene il peggio». Sara prese a masticare furiosamente. Ma non sapeva cosa l'aspettava. Fawcett affondò lo scalpello al centro della Y e staccò la pelle dal corpo esanime, mostrando una cassa toracica scurita e gran parte degli organi interni. Fu a quel punto che la colpì il nauseabondo odore alcolico del fluido per l'imbalsamazione. «Ci sei ancora?», domandò Fawcett. «Io... credo di sì», balbettò Sara, sforzandosi di concentrarsi sulla freschezza della sua gomma alla menta. «Bene... perché ti ho mentito. Il peggio viene adesso». Posò lo scalpello e prese una cesoia d'acciaio lunga oltre un metro. «I giardinieri la usano per tagliare i rami più grossi, ma è utilissima anche per chi, come me, deve tagliare vecchie ossa». Si mise al lavoro sulle costole di Doniger, comin-
ciando a tagliarle dal basso in alto: ogni costola, un rumore sinistro, come di una palla da baseball colpita dalla mazza. Per finire, liberò il cuore dallo sterno e tolse cinque costole alloggiate nel diaframma. «Gomma alla menta, gomma alla menta...», ripeteva Sara, con un filo di voce. Rimosse le costole, Fawcett compì un esame degli organi interni, ora perfettamente visibili e raggiungibili. «Bravi», disse lui, compiaciuto. «L'avevano tagliato bene. È quasi intatto». Voltandosi verso Sara, domandò: «Che cosa hanno detto che aveva mangiato, la notte del decesso?». «Succo di frutta e una barra al cioccolato. Perché?». Fawcett tornò a chinarsi sul corpo e, con lo scalpello, si rimise al lavoro. Dopo aver praticato alcune incisioni, fece scivolare le mani sotto lo stomaco e lo estrasse, posandolo poi in una vicina bacinella di metallo. Guardando Sara rispose: «Perché adesso controlliamo». Tre ore e mezzo più tardi, all'ultima cicca del secondo pacchetto, Sara uscì finalmente dalla sala autopsie. Attraverso la porta osservò Fawcett che stendeva un lenzuolo sul cadavere e pronunciava le sue ultime considerazioni a beneficio del registratore. Quando raggiunse Sara, lei faticava a contenere l'entusiasmo. «Che ne pensi?», gli domandò, ansiosa. «È omicidio?». «Io ti presento i fatti; le conclusioni spettano a te». «Be', ti ringrazio, ma nelle ultime tre ore e mezzo non ti ho sentito parlare d'altro che di cavità anteriori e di stabilizzazione dei fluidi. Ora dovresti spiegarmelo in termini più espliciti: Arnold Doniger è andato in coma ed è morto a causa del suo diabete?». «Sia pur con un certo margine di errore, direi di sì», rispose Fawcett, mentre si toglievano i camici. Abituata all'approccio di Conrad, che usava rispondere alle domande in modo netto, o bianco o nero, Sara era a disagio di fronte ai condizionali di Fawcett. «Ora, però, la questione importante è la seguente: il decesso è avvenuto in modo naturale o è stato causato da terzi?». «Non capisco», disse Sara, mentre facevano ritorno all'ufficio di Fawcett. «Con gli elementi a disposizione si possono sostenere entrambe le tesi; sta a te decidere qual è la più logica. Secondo la moglie del defunto, questi dava segni di malessere e quindi gli aveva dato succo di frutta e barra al cioccolato. Quando si ha il diabete, questo genere di malesseri è causato da
un calo dello zucchero nel sangue; per riportare il tasso glucidico a un livello accettabile, è sufficiente, in genere, un qualche tipo di apporto calorico... una mela, un biscotto o cose del genere. Se si esagera, gli zuccheri nel sangue aumentano e si rende necessaria l'iniezione di insulina per farli calare. Questa, perlomeno, è la norma». «Dunque, il cibo fa salire gli zuccheri, mentre l'insulina li fa abbassare. È così?». «Sì», rispose Fawcett, entrando nel suo disordinatissimo ufficio e dirigendosi immediatamente verso la sovraccarica libreria che copriva la parete opposta alla porta. Mentre cercava tra i volumi, proseguì: «E se ti fai un'iniezione di insulina quando il livello degli zuccheri nel sangue è già basso, provocherai una sua ulteriore diminuzione, che determina il coma o un colpo apoplettico. In sostanza, noi sappiamo che, al momento dell'iniezione di insulina, il tasso glucidico era basso, perché Doniger è caduto in coma. Il problema è capire come fosse il livello degli zuccheri alcune ore prima dell'iniezione». «E come si fa?». «Come ho detto, è un po' un problema. Ricordi il caso di Claus von Bùlow? Determinare il tasso glucidico nel sangue per dimostrare un omicidio è un'impresa quasi impossibile». «Che significa "quasi"?», gli domandò lei, cercando di estorcergli qualche risposta concreta. «Ah, eccolo!». Fawcett tolse da uno scaffale un manualetto dalla copertina bianca. Lo compulsò, tormentandosi il lobo dell'orecchio. Dopo un po', disse: «Secondo la pratica tradizionale, a poche ore dalla morte di un individuo è impossibile determinare il livello degli zuccheri nel sangue. Ma se ti abboni ad alcune delle più importanti riviste di settore - che qui, a causa dei tagli al bilancio, non sono più disponibili - scoprirai che esiste una parte del corpo in cui questa misurazione è possibile: la cavità anteriore dell'occhio». «Vuoi dire che, quando sezionavi gli occhi di Doniger, stavi misurando il tasso degli zuccheri nel sangue?». «La scienza è in grado di fornire dati oggettivi, basta sapere dove cercarli», rispose Fawcett. «La stabilizzazione dei fluidi a livello oculare è molto più lenta che in qualsiasi altra parte del corpo. La situazione dei fluidi nell'occhio, quindi, non corrisponde a quella del resto del corpo. Di conseguenza, mentre i fluidi corporei possono dissiparsi, a livello oculare persistono e lasciano un segno chiaro come un'impronta digitale... da cui siamo
in grado di dedurre il tasso glucidico nel sangue». «E che cosa hai dedotto dagli occhi di Arnold Doniger?», domandò lei, sempre più ansiosa. «Che il livello degli zuccheri era normale, ma devi tenere conto che gli occhi sono sempre leggermente in ritardo sul resto del corpo. Il che significa che, se è morto per ipoglicemia, come i risultati dell'autopsia mostrano senza ragionevole ombra di dubbio, il calo degli zuccheri è intervenuto in maniera brusca e soltanto alla fine». «Ma questo non conferma la versione di Claire Doniger, che afferma di avergli dato il succo di frutta e la barra al cioccolato proprio perché il tasso glucidico era basso?». «Non perdere di vista i fatti. Hai visto anche tu cosa c'era nel suo stomaco: nessuna traccia di cibo. Arnold Doniger non mangiava da diverse ore, quando è morto». «Insomma, l'hanno prima affamato, e quando il tasso glucidico era già calato gli hanno fatto l'iniezione di insulina per finirlo. È così?». «Oppure gli hanno fatto un'overdose di insulina... sempre che la morte sia stata causata da terzi. In ogni caso, è un modo fantastico di uccidere qualcuno. Anche esaminando accuratamente gli occhi, un patologo non può giungere a conclusioni indubitabili. Se qualcuno l'ha ucciso, devi riconoscere che si tratta di una persona di notevole ingegno». Sara annuì. «E il decesso a quando risale? Secondo la mia teoria, Doniger sarebbe morto più o meno quattro giorni prima di quanto dice sua moglie. Non c'è modo di dimostrarlo?». «Sarebbe più facile se fosse appena morto, ma è rimasto sottoterra per una settimana. Gli infermieri che sono andati a prelevare il cadavere non hanno sentito strane puzze?». «Non credo, ma andrò a domandarglielo», disse Sara. «C'è altro che potrebbe destare sospetti?». «A dire il vero ci sono dei segni nel cervello che sono, a volte, la conseguenza di un'esposizione a temperature fredde o freddissime. Il cervello, però, è ormai ridotto a una poltiglia in decomposizione, ed è difficile determinare quale sia la vera causa di quei segni. Comunque, mi sono sembrati strani». Mentre elaborava l'informazione, Sara vide che l'orologio di Fawcett segnava mezzogiorno meno un quarto. «Sono in ritardo!», esclamò, balzando in piedi. Raggiunse la porta, ma si fermò per porre a Fawcett un'ultima domanda. «Credi che ci siano elementi sufficienti a dimostrare che Arnold
Doniger è stato assassinato?». «Tocca a te decidere: tu sei convinta?». Sara aprì la porta e con un ampio sorriso rispose: «Assolutamente. Ora dobbiamo soltanto convincere la giuria». Salendo in fretta e furia i gradini al numero 100 di Centre Street, Sara consultò l'orologio e maledì il traffico di New York che aveva tenuto prigioniero il suo taxi nell'ultima mezz'ora. Era mezzogiorno e un quarto: quindici minuti di ritardo sulla formalizzazione delle accuse nei confronti di Kozlow. Con la speranza che non l'avessero ancora chiamato, Sara si fiondò dentro l'edificio, superò i metal detector e prese l'ascensore, diretta all'undicesimo piano. Scesa dall'ascensore, percorse un corridoio e raggiunse l'aula 1127. Si fermò davanti alla porta per prendere fiato. Quella piccola sosta, peraltro indispensabile, le fece capire che se non fosse andata immediatamente in bagno, le sarebbe esplosa la vescica. Attraverso una finestra, vide che Kozlow era seduto sul lato sinistro dell'aula, il che significava che le chiamate erano in ritardo. Sara corse in bagno e si infilò nella prima delle quattro cabine. Poco dopo, sentì che nel bagno era entrato qualcuno che aveva aperto il rubinetto di uno dei lavandini. Incuriosita, Sara sbirciò da una fessura della porta, ma quando riuscì a mettere a fuoco la zona dei lavandini, quella persona non c'era più. Un forte colpo di nocche contro la porta della sua cabina la fece sobbalzare. «Chi è?», domandò, con un certo nervosismo. «Sono io. Su, alzati!». Riconobbe la voce, e un brivido le corse lungo la schiena. Aggrappato alla porta della cabina e affacciato all'interno, Sara vide l'uomo dalle guance scavate. Saltò in piedi, si risistemò i vestiti e schizzò fuori. Trovò ad attenderla Guance Scavate, appoggiato a uno dei lavandini. «Ti ho sorpresa con le braghe calate, eh?», ironizzò lui, mentre Sara gli si avvicinava infuriata. «Che diavolo crede di fare?». «Volevo solo controllare che i miei inves...». Non riuscì a terminare la frase, perché Sara tentò di colpirlo al volto con la propria borsa. Elliott sollevò un braccio e bloccò la borsa a mezz'aria, strappandogliela di mano. «Bella, questa borsa», disse, gettandola a terra. «Vedo che hai cancellato il mio messaggio». «Stammi alla larga». «Non è di te che mi importa, Sara... anche se mi fa piacere che tu abbia
cacciato di casa tuo marito». «Guai a te se lo tocchi!». Elliott afferrò Sara per i risvolti della giacca. «Non dirmi quello che devo o non devo fare, capito?». La spintonò, mandandola a rotolare dentro una delle cabine. Sara inciampò nel water e finì di testa contro la parete. Andandosene, Elliott aggiunse: «Comunque, ti consiglio di andare a visitare la cantina di casa Doniger. Vedrai, ti piacerà». Sara cercò di scuotersi e si lanciò all'inseguimento di Elliott, ma quando sbucò in corridoio, era già scomparso. Imprecò, strofinandosi vigorosamente il bernoccolo che le era spuntato sulla nuca. Il cuore prese a batterle all'impazzata quando guardò attraverso il vetro della porta dell'aula. Con grande stupore vide che Kozlow e Jared, in piedi dietro i banchi della difesa, stavano rivolgendosi al giudice. Sara si catapultò in aula, proprio mentre l'addetto del tribunale rivolgeva a Jared la fatidica domanda: «Il suo cliente si dichiara colpevole o innocente?». Non capendo come fosse possibile che si procedesse senza di lei, Sara raggiunse in tutta fretta la prima fila. "Forse, dovrei sollevare obiezione", pensò, totalmente incerta sul da farsi. Era sul punto di prendere la parola, ma all'ultimo istante vide che seduto al banco della pubblica accusa c'era Conrad. Con un cenno del capo, gli porse un silenzioso ma sentitissimo ringraziamento. «Non colpevole», disse Jared, in piedi accanto a Kozlow, dietro i banchi della difesa. Per tutta risposta, Conrad si avvicinò allo scranno del giudice e gli consegnò un grosso fascicolo di documenti. In silenzio, Sara prese posto al tavolo del pubblico ministero. Voltandosi a sinistra, incrociò lo sguardo di Jared. Aveva un'aria stravolta e le borse sotto gli occhi: evidentemente non aveva passato una bella nottata. Sara fuggì di proposito quello sguardo e attese che Conrad facesse ritorno al tavolo. Quando anche lui si fu seduto, gli sussurrò: «Grazie. L'autopsia è durata più del previsto, e il traffico mi ha...». «Tranquilla», disse Conrad. «Fortuna che Guff aveva una copia di tutte le carte. È lui che ti ha salvato il culo». Sara si guardò intorno e vide Guff nella prima fila dell'area riservata al pubblico. Le strizzò l'occhio. «La presentazione delle mozioni avverrà tra due settimane», annunciò il giudice. «La prima udienza del processo è fissata per il 3 ottobre. Presiederà il giudice Bogdanos». Dopo che il giudice ebbe battuto il suo martelletto sul banco, Jared si
avvicinò a Sara. «Sono felice di vederti. Cominciavo a preoccuparmi». «Avevo del lavoro extra da sbrigare», disse lei. «Ti riferisci all'autopsia?». «Precisamente». «Be', che cosa hanno scoperto?». «Non credo che sia tenuta a rispondere», interloquì Conrad, alzandosi in piedi. Infastidito, Jared disse: «Tu devi essere Conrad». «E tu devi essere Jared». «Esatto... Il marito di Sara, la quale, se non sbaglio, è capace di rispondere da sola alle domande». «Be', se non sbaglio, gli avvocati difensori sanno bene di non poter chiedere informazioni di questo tipo. Quindi, bando alle domande sui risultati dell'autopsia». «Non sapevo che fossi tu il pubblico ministero in questo processo», disse Jared. «Infatti, non lo è», disse Sara, interponendosi. «Conrad, ci penso io. Jared, ne discuteremo in un altro momento». «Come vuoi», rispose Jared, continuando a squadrare Conrad. «Fammi sapere». Rivolgendo un cenno a Conrad, aggiunse: «È stato un piacere». «Piacere mio», replicò Conrad, gelido. Quando Jared e Kozlow ebbero lasciato l'aula, Sara guardò Conrad. «Cos'è 'sta storia?». «Non mi piaceva l'idea che ti mettesse i piedi in testa», rispose Conrad, rimettendo le sue cose in borsa. «Apprezzo il pensiero, ma con mio marito credo di sapermela cavare bene anche da sola». «Ne sono certo, ma...». «Niente "ma"», lo interruppe Sara. «Sarò anche una novellina, e magari devo ancora imparare un sacco di cose, ma non sono una stupida. Ho lasciato che tirasse fuori la questione dell'autopsia solo perché volevo verificare che cosa sa. Jared dispone di un'efficacissima rete di informatori. Quindi, scendi dal pero e smettila di credere di dovermi salvare dagli uomini malvagi». «Sara, perché tu lo sappia: mai, neppure una sola volta, ho pensato che che tu fossi una stupida». Colta di sorpresa da quel complimento, Sara tentennò. «Che cosa significa?».
«Nulla. È soltanto quello che penso». «Be', allora non trattarmi come una pivella. So come fare». «Vuoi dire che oggi non c'era bisogno che ti sostituissi? Saresti riuscita a fare tutto da sola, vero?». Sara sorrise. «Dai, non rovinare la mia appassionata arringa con queste sciocchezzuole logiche», scherzò. «C'era un gran bisogno che tu mi sostituissi, oggi. È solo che...». «Ho capito, ho capito... È tuo marito, e tu sei l'unica ad avere diritto di punzecchiarlo. Ma perché non ce ne andiamo di qui? Se non sbaglio, hai un processo da preparare». «Eh, già... Non vediamo l'ora!», esclamò Guff, uscendo dall'aula. «Ma raccontaci dell'autopsia. Ti sei vomitata addosso o sei riuscita a trattenerti?». Sara si guardò intorno e vide Jared e Kozlow che sostavano ancora in corridoio. «Non qui», disse. «Ne parliamo quando arriviamo in ufficio». Rientrati al numero 80 di Centre Street, Sara impiegò i successivi tre quarti d'ora per riferire a Guff e Conrad l'andamento dell'autopsia e le scoperte dell'anatomopatologo. Raccontò loro dei fluidi nell'occhio di Arnold Doniger e dell'assenza di cibo nel suo stomaco. Spiegò che poteva essere morto per un'iniezione praticata per ucciderlo o per sbaglio. Senza fretta e in modo circostanziato, Sara riferì ogni particolare, cercando di non influenzare l'opinione dei colleghi. Posto che si convincessero dell'omicidio, Sara voleva che arrivassero da soli alla conclusione. Quando Sara ebbe terminato, Conrad disse: «Insomma, lo stomaco era completamente vuoto, eh?». Sara annuì. «Dunque, non è vero che la moglie gli aveva dato da mangiare e da bere», proseguì Conrad. «Anche ammesso che tutto il resto risulti logicamente spiegabile, è evidente che Claire ci ha mentito». «È quello che penso anch'io», disse Sara. «Non possiamo ignorare questo fatto». «E se si tratta di omicidio, si spiega anche come mai il bottino del furto era così scarso», disse Guff. «Mi sembra che i conti tornino», disse Sara. «Il quadro è completo». Rivolgendosi a Conrad, aggiunse: «Allora, sii sincero: che cosa ne pensi?». Conrad non rispose subito, ma a un certo punto disse: «Credo che potresti cambiare il capo d'accusa da furto con scasso in omicidio. Bel colpo».
«Davvero?», esclamò Sara, emozionata. Era raggiante, incapace di contenere il proprio entusiasmo. Per la prima volta, dopo che Pop era finito all'ospedale, le pareva di intravedere uno spiraglio per salvare Jared. «Sono un po' troppe le cose sospette sul conto di Claire e sul quello di Kozlow...», disse Conrad. «Oh, mio Dio, è incredibile!», esclamò Sara, battendo un pugno sul tavolo. «Lo sapevo che in questo caso c'era sotto qualcosa. Ma chi incriminiamo di omicidio? Tutti e due o soltanto Kozlow?». «Devi deciderlo tu. Chi è, secondo te, l'assassino?». «Secondo me, Claire ha la coscienza sporca, ma non credo che sia l'autrice materiale del delitto. Probabilmente, è per fare l'iniezione al marito che ha ingaggiato Kozlow». «E forse l'orologio e la palla da golf erano una ricompensa per il lavoro svolto», aggiunse Guff. «Controllando i conti bancari di Claire, scopriremo se era o meno a corto di contanti». «Bene. Perfetto. Facciamolo al più presto», disse Sara. «Non voglio perdere tempo». Quindi, guardando Conrad, domandò: «Che altro possiamo fare?». «Se fossi in te, prima di muovere nuove accuse, farei qualche altra indagine. Per ora, conosci il come, ma in tutti i casi di omicidio che si rispettino è necessario scoprire il perché. Studia l'estratto conto di Claire Doniger, controlla il testamento di suo marito, scava ovunque vi sia la possibilità di trovare un movente. Solo quando l'avrai trovato, ti converrà presentare i nuovi capi d'imputazione, mediante nuova denuncia, con richiesta di arresto. Hai molte cose da fare, ma sei sulla buona strada». Conrad si alzò e si avviò alla porta. «Ora, purtroppo, devo proprio tornare a occuparmi del mio lavoro. Tenetemi informato, mi raccomando». «Puoi contarci», disse Sara. «E grazie ancora per avermi sostituito, oggi. Sei stato gentilissimo, davvero. Grazie di tutto». «Servo vostro», disse Conrad. Quando Conrad se ne fu andato, Guff vide che Sara era già intenta a stendere un elenco delle cose da fare. «Non preoccuparti», disse Guff. «Lo salveremo». «Solo se ci organizziamo. Per batterlo non c'è altro modo». Vedendo che Conrad se n'era andato, Sara prese la propria borsa e la posò sulla scrivania. «Potresti, per favore, portarla in laboratorio per far rilevare le impronte digitali?». «Perché?», domandò Guff.
«Perché mentre correvo per arrivare in aula, ho avuto la fortuna di incontrare di nuovo l'uomo dalle guance scavate». «Era in tribunale?». «Mi spia», disse Sara. «E siccome non sappiamo ancora chi sia, per scoprirlo ho fatto la prima cosa utile che mi è venuta in mente: ho cercato di colpirlo con la borsa nella speranza che la afferrasse». «E così ti sei procurata le impronte di questo cattivaccio, eh?», domandò Guff. «Ma lo sai che sei davvero perfida, nella tua furbizia?». «Faccio del mio meglio», rispose lei, appoggiandosi allo schienale della sedia. «E a lei, signor Guff, tutta la mia gratitudine per avermi salvato il culo». «Oh, non c'è di che. A dire la verità, Conrad moriva dalla voglia di sostituirti. E vedere il match tra lui e Jared valeva ben il prezzo del biglietto». «Non capisco perché si sia dato tanta pena». «Che cosa c'è da capire? Si è preso una cotta per te». «Ma fammi il piacere! Quale cotta?!». «Sara, per un errore organizzativo e una pessima scelta di tempo, a momenti non ti presentavi alla formalizzazione delle accuse. Non hai telefonato per assicurarti che ci fosse qualcuno a coprirti, non avevi chiesto a nessuno di pararti il culo: eri in ritardo e stavi per mancare all'appuntamento. Be', vuoi sapere qual è stata la reazione di Conrad? Credi che ti abbia rimproverata? No. Gli sono uscite le vene del collo e della fronte per la rabbia? No. Ha detto: "La copro io, non c'è problema". Se fossi stata un altro, ti avrebbe massacrata. Ma siccome sei tu, ti ha sostituita». «Forse, con il passare degli anni, si sta ammorbidendo». «Conrad non si ammorbidirà mai. Stiamo parlando di un uomo che si rifa il letto anche in hotel. Come credi che possa ammorbidirsi, una persona del genere? Si è preso la briga di affrontare Jared perché ha una cotta per te». «Non esagerare», disse Sara. «Secondo me, voleva soltanto farmi un favore». Quella sera, Jared prese un taxi e chiese di essere portato nell'Upper East Side. Tra le boutique e i locali alla moda che facevano ala a Madison Avenue, sorgeva la casa-ufficio di Lenny Barrow. All'angolo tra la Madison e la East 65th Street, sopra un negozio di abbigliamento per bambini dai prezzi stratosferici, c'era un'insegna: «SIETE SICURE DI SAPERE DOV'È? LEONARD BARROW - INVESTIGATORE PRIVATO». Jared en-
trò in un portoncino accanto al negozio, salì le scale e bussò alla porta di Barrow. Lenny lo accolse in giacca sportiva e cravatta. «Ehi, come mai così elegante?», domandò Jared. «Sai com'è in questo quartiere, no?», disse Barrow togliendosi la giacca e allentando il nodo della cravatta. «Il look qui è importante». Tornò alla scrivania e risprofondò nella sua consunta poltroncina di pelle. L'ufficio era minuscolo e strapieno di roba, ma la zona era di quelle che garantivano una clientela puntuale nei pagamenti. «Cosa c'è di così importante da spingerti a venirmi a trovare di persona?», domandò. «Il fatto è che ho paura di parlare nel mio ufficio», rispose Jared. «Anche i muri hanno orecchie». «Tutti i muri hanno orecchie. Il problema è: chi è che ascolta?». «Io so chi mi ascolta. È per questo che voglio sapere che altro hai scoperto». «Be', se può servire a farti star meglio, ho fatto alcune ricerche e ho scoperto che una quota della compagnia di Rafferty, la Echo Enterprise, era di proprietà del nostro povero caro estinto, Arnold Doniger». «Cosa?». Jared sobbalzò sulla sedia. «Lui e Rafferty sono stati soci per anni... Hanno trasformato l'azienda in una vera e propria miniera d'oro». «Vuoi scherzare? Vuoi dire che Rafferty ha fatto ammazzare Doniger per impadronirsi della baracca?». «Chi vivrà, vedrà», rispose Barrow. «E il telefono di Rafferty sei riuscito a metterlo sotto controllo?». «Volevo farlo ieri, ma non ne ho avuto il tempo. Però ho controllato i tabulati della compagnia telefonica». «E allora?». «E allora niente. Le chiamate locali non sono accessibili ai privati. Sara, però, potrebbe verificare. La procura distrettuale può tutto». «Me ne frego della procura distrettuale. Anzi, non nominarmela neanche: Sara non ci aiuterà di certo, e io ho bisogno di quelle informazioni al più presto; anzi, subito. Capito?». Tamburellando con i pollici sul tavolo, Barrow scrutò in viso l'amico. «A quanto pare, ci sono ancora problemi nella suite matrimoniale». «Scusami, non ce l'ho con te. Io e Sara ci stiamo un po' punzecchiando, ultimamente». «L'averti cacciato di casa mi sembra un po' peggio di una punzecchiatu-
ra». «Chi ti ha detto che mi ha sbattuto fuori?». «Sapere è il mio mestiere». «Ho capito, è stata Kathleen». «Certo che è stata lei. Cosa credi? È preoccupata per te. Dice che stai diventando pazzo... rifiuti persino i cimeli cinematografici in regalo». «Questo non c'entra con il fatto che me ne sono andato di casa. Io voglio solo vincere questo caso». «E Sara ti ha già fornito un po' troppe ragioni per ritenere che ciò non succederà, vero?». «È difficile spiegare. Due giorni fa era al tappeto, e adesso picchia come Muhammad Ali. È un po' che le va tutto bene». Osservando l'amico che giocherellava nervosamente con la punta della cravatta, Barrow domandò: «Non ti piace proprio perdere, eh?». «È una cosa che odio», rispose Jared, alzando gli occhi. «E il fatto che sia proprio tua moglie a batterti ti rende ancora più furioso». «Non so. In ballo ci sono cose più importanti». «Più importanti del tuo matrimonio? Di che si tratta?». «Lasciamo perdere», disse Jared, affranto. «Non ne posso parlare». Nella stanza calò un inquietante silenzio. «Sei nei guai fino al collo, eh?». Jared non batté ciglio. Barrow si chinò ad aprire l'ultimo cassetto in basso della sua scrivania e tirò fuori una pistola calibro 38. «Tieni», disse. «Magari ti serve». Jared prese la pistola dalle mani di Barrow e la fissò. «Mah, non credo di essere il tipo che va in giro con il cannone». «Se, come sembra, sei nei guai, ti conviene avere un'arma», disse Barrow. Si arrotolò una gamba dei pantaloni e scoprì un'altra pistola, più piccola, infilata in una fondina di pelle. Ne slacciò la fibbia, e la porse a Jared. «Se non ti piacciono le 38, prendi questa. È piccola, maneggevole, facile da nascondere». Poiché Jared non dava segno di volerla accettare, Barrow insistette: «Per i casi di emergenza». Sia pur con una certa riluttanza, Jared accettò il prestito e, arrotolata una gamba dei pantaloni, si allacciò la fondina. «Non sembra neanche di averla, vero?». «In effetti...», concordò Jared. «Spero soltanto di non doverla mai usare».
Sul sedile di guida di un'anonima auto bianca presa a noleggio, Kozlow fissava il portone dell'ufficio di Barrow, domandandosi perché ci stesse mettendo così tanto. "Dài tempo al tempo", pensò. "È come dice Rafferty: hanno un mucchio di cose di cui parlare. Jared si sta innervosendo ed è alla ricerca di una via d'uscita". Come sempre, Rafferty aveva ragione. Jared rimase in ufficio da Barrow per un'ora buona. Quando uscì, Kozlow lo osservò scomparire in fondo all'isolato. Pareva persino più teso di quando era arrivato. Kozlow fissò l'insegna di Barrow. Sapeva che non ci sarebbe voluto molto. Venti minuti dopo, Barrow uscì dal portone e fece per attraversare la 65th Street. "Ci siamo", pensò Kozlow. "Ora gli restituisco la cortesia". Il sabato mattina, Sara arrivò al lavoro presto. Tra i recenti sviluppi del caso Kozlow e il lavoro da sbrigare per gli altri due casi ancora aperti, per tacere dei documenti relativi a quelli ormai chiusi, Sara cominciava a capire chi aveva la tentazione di portarsi un cambio d'abiti in ufficio. Posando sul tavolo la tazza di caffè tiepido che aveva in mano, Sara si avvicinò al telefono per ascoltare i messaggi registrati nella segreteria. Ce n'era uno solo, di Tiffany, che voleva sapere come mai, il giorno prima, Sara non fosse andata a prenderla a scuola. «Oh, no!», esclamò Sara, mettendosi a studiare una scusa per rappacificarsi con lei. Si accomodò sulla sua sedia e appoggiò i piedi sulla scrivania. "Oggi sarà una giornata stupenda", pensò, cercando di scacciare il pensiero di Tiffany. Pop stava meglio; il suo banale caso di furto con scasso si era trasformato in un omicidio da brivido; infine, pur sentendo la mancanza di suo marito, confidava nelle proprie capacità di garantire la sua sicurezza. Per la prima volta, da mesi, Sara sprizzava fiducia da tutti i pori. Tutto si sarebbe sistemato. Dieci minuti dopo, Guff fece capolino nell'ufficio di Sara. Le lanciò un'occhiata e le domandò: «Che gusto aveva il canarino che ti sei mangiata ieri sera?». «Ehi, è vietato essere di buonumore, per una volta?». «No, anzi», disse Guff. «Venivo giustappunto a dirti che OGGI È IL TUO GIORNO FORTUNATO!». Uscendo d'un balzo dall'ufficio, Guff gridò: «Venite avanti, ragazzi!». Rientrò immediatamente nella stanza, seguito da due facchini che trasportavano un divano in similpelle verde oliva nuovo di pacca.
«Sei riuscito ad averlo!», esclamò Sara, incredula. «Dimmi come hai fatto». Mentre gli uomini disponevano il divano sul lato destro della stanza, Guff spiegò: «Diciamo che siamo in debito di un favore con quella deliziosa ragazza dai capelli rossi dell'Ufficio acquisti». «Che cosa hai fatto? Sei uscito con lei?». «Al contrario. Le ho promesso che non l'avrei tormentata per almeno sei settimane. Lei ha tentato di strappare una tregua di due mesi, ma io sono stato irremovibile». «Fantastico», disse Sara, sedendosi sul divano. Tastandone i cuscini, aggiunse: «Wow, vera similpelle americana». «Per il mio capo, solo il meglio!», disse Guff, mentre i fattorini del mobilificio se ne andavano. «Ma aspetta: il bello deve ancora venire». Guff infilò una mano nella tasca posteriore dei pantaloni e ne tirò fuori qualcosa. «Indovina che cos'ho nella mano destra?». Sara ci pensò su un istante. «Una giraffa?». «Qualcosa di più piccolo». «Una canoa?». «Cala ancora». «Una testa tagliata?». «Ancora più piccolo». «Una bacchetta magica che fa dire sempre la verità?». «Oh, non indovinerai mai», sospirò Guff. «I documenti sono arrivati in settimana e, nonostante siano cose da trattare personalmente, io ho trasgredito ogni regola, incaricandomi di tutto al posto tuo. Eri così occupata che...». «Su, fammi vedere... Cos'è?», sollecitò Sara. «Okay, chiudi gli occhi», disse Guff, e Sara obbedì. «Al tre, riaprili. Uno... due... tre!». Quando riaprì gli occhi, Sara vide l'oggetto di tanto mistero: un distintivo ufficiale, d'oro, recante inciso il suo nome e la qualifica - "Sara Tate, procuratore distrettuale" - oltre alla scritta «New York County», contea di New York. Il distintivo sembrava risplendere nella luce mattutina. «Congratulazioni», disse Guff, porgendole il distintivo con relativa custodia in pelle nera. «Ora sei ufficialmente un procuratore distrettuale aggiunto». Sbalordita, Sara non riusciva a staccare gli occhi da quella nuova specie di carta d'identità. «È incredibile», disse infine. «Mi sembra di essere un
poliziotto». «Infatti, ora puoi fare tutte quelle cose che fanno i poliziotti, tipo presentarsi sulla scena del delitto e procurarsi, gratuitamente, i posti migliori a teatro, ma soprattutto puoi estrarre il distintivo e gridare: "Sara Tate! Procuratore distrettuale!"», gridò Guff, facendo la mossa di estrarre e mostrare un distintivo immaginario. «È stupendo. Grazie, Guff, davvero. Non dovevi prenderti tutto questo disturbo». «Ci sarebbe un modo per ricambiare: fammi la scena del procuratore distrettuale che mostra il distintivo». Sara si alzò dal divano nuovo e si mise in posizione. Brandì il distintivo e gridò: «Sara Tate! Procuratore distrettuale! Non vi muovete, e nessuno si farà male!». «Non puoi urlare in rima», disse Guff, ridendo. «Nessuno ti prenderà sul serio». Prima che Sara potesse fare un altro tentativo, Conrad fece irruzione in ufficio. Aveva una faccia tutt'altro che allegra. «Guarda qua!», gli disse Sara, mostrandogli il distintivo. «Pura autorità materializzata in oro». Non ottenendo risposta, aggiunse: «Suvvia, sorridi! Ci stavamo divertendo». «Ancora non l'hai saputo, eh?», domando Conrad. «Saputo che cosa?». Il tono di Conrad aveva un che di funereo. «Sara, forse è meglio che ti sieda». «Che cosa è successo?». «Siediti, è meglio». «Si tratta di Jared? Sta bene? Che cosa...?». «Jared sta bene». Sara era ormai in preda all'angoscia. «Si tratta di Pop? Oh, mio Dio, è lui? Che cosa gli è successo? È...?». «I tuoi familiari stanno tutti bene», la interruppe Conrad. «Si tratta del tuo amico investigatore privato, Lenny Barrow. L'hanno trovato morto ieri sera». CAPITOLO TREDICI «Lenny è morto?», domandò Sara, sconvolta. «Quando è successo? Come?».
«Un pirata della strada l'ha investito a un isolato dal suo ufficio», spiegò Conrad. «L'impatto gli ha fracassato il cranio». Sara sprofondò nel divano. «Non ci posso credere. Lo conoscevamo da anni. È stato lui ad accompagnarmi in ospedale quando ho dovuto farmi togliere l'appendice». «Se vuoi posso farmi dare il verbale degli agenti che sono arrivati sul posto», propose Conrad. «Magari, ne puoi ricavare qualche altra informazione». «Non posso credere che sia morto», ripeté Sara. «Ti senti bene?», le domandò Guff, sedendolesi accanto. «Passami il telefono. Devo dirlo a Jared». «Morto?», domandò Jared, con voce rotta. «Ha telefonato Sara più o meno mezz'ora fa. È rimasto ucciso ieri sera», spiegò Kathleen. «È terribile, Jared. Mi dispiace tanto... So bene quanto eravate amici». «Non ci credo», disse Jared. Si snodò la cravatta e sbottonò il primo bottone della camicia, con le mani che gli tremavano. «Kozlow e Rafferty si sono fatti sentire?». «Non ancora. Non credo che vengano, oggi». Vedendo che Jared stava sudando, Kathleen gli domandò: «Ti senti bene? Vuoi che vada a prenderti dell'acqua?». Jared si alzò e si diresse alla porta, con il sudore freddo che gli colava lungo la schiena. «Sto bene. Ho solo bisogno di prendere una boccata d'aria». Percorrendo il corridoio, Jared faticava a respirare. Arrancò fino al bagno dei maschi e si chinò su uno dei tre lavandini di marmo. Sentiva di essere sul punto di vomitare. Per alcuni lunghissimi minuti combatté contro la nausea, cercando di controllare la respirazione. Quindi, aprì il rubinetto dell'acqua fredda e si sciacquò il viso. Quando rialzò la testa, scorse il proprio riflesso nello specchio. "È colpa mia", pensò. "Non avrei mai dovuto coinvolgerlo". Distolse lo sguardo. Come avrebbe voluto tornare indietro, cambiare il corso delle ultime settimane, liberarsi di quel caso, proteggere sua moglie e, soprattutto, salvare la vita del suo amico! Rivivendo mentalmente gli eventi, si rimproverò per la visita all'ufficio di Barrow, la sera precedente. Avrebbe dovuto imaginarlo... Rafferty gli aveva pur detto che l'avrebbero tenuto d'occhio. Incapace di guardarsi allo specchio, Jared serrò le palpebre e i pugni. In un batter di ciglia, il doloroso rimorso si trasformò in tormentosa angoscia.
Riaprì gli occhi. «STUPIDO FIGLIO DI PUTTANA! COME HAI POTUTO FAR QUESTO A UN AMICO?», urlò. Poi, obnubilato, arretrò di un passo e sferrò un pugno contro la propria immagine riflessa, mandando in frantumi lo specchio nel lavandino. Il sangue cominciò a scorrergli lungo l'avambraccio e a sgocciolare dal gomito, ma Jared rimase immobile. L'insensato gesto di rabbia non gli era certo servito a star meglio, non aveva lenito il dolore né cancellato le sue paure. Però aveva tolto di mezzo lo specchio, e per un breve ma intensissimo istante, Jared Lynch trovò scampo da sé. Alle cinque, quella sera, Jared rientrò a casa dal lavoro esausto e sgomento. Nelle precedenti sette ore era rimasto seduto alla sua scrivania, senza riuscire a combinare nulla. Così, quando Kathleen gli aveva consigliato di andarsene a casa, per la prima volta non aveva fatto obiezioni. E quando sentì pronunciare la parola "casa", Jared sapeva che non si riferiva alla casa di Pop, bensì a casa sua - alla casa di Sara e sua, a casa loro - l'unico posto in cui avrebbe voluto trovarsi. Aprendo la porta, si aspettava di non trovare nessuno. Invece, Sara era già lì. «Oh, Jared! Che cosa terribile!», disse, avvicinandosi a lui e stringendolo tra le braccia. Jared appoggiò la fronte sulla spalla di lei e scoppiò a piangere. «Ci sono qui io», disse Sara, accarezzandogli piano i capelli. I due rimasero lì a lungo, in piedi, avvinghiati l'uno all'altra. Per un attimo, i loro problemi svanirono. Fu allora che Sara notò le bende sulla mano di Jared. «Che cosa ti è successo?», gli domandò. «Oh, niente. Va tutto bene», rispose lui, ritraendosi. «Ma come...». Jared eluse lo sguardo della moglie e si diresse in cucina. «Mi sono ferito con un tagliacarte. Non è nulla». Si versò un bicchiere di vino rosso e si avviò verso la camera da letto, seguito da Sara. Entrando nella stanza Sara si rese conto di aver lasciato la propria borsa aperta sul letto. Fingendo indifferenza, la chiuse e la mise a terra. «Non ti fidi proprio più di me, eh?», domandò Jared, con le lacrime al livello di guardia. «Sara, non lo farò mai più. Puoi anche non credermi, ma ti giuro che è la verità. Mi hai colto alla sprovvista con l'accusa di omicidio, e io mi sono fatto prendere dal panico». «Jared...». «Lo so che non vuoi parlarne adesso, ma io non sapevo proprio dove an-
dare. Io... Io non so... davvero... Lo ti amo, Sara». «Anch'io ti amo», disse lei. «E ti capisco». «Poi, questa storia di Lenny...». «Davvero, non c'è nulla da spiegare. Capisco perfettamente quello che vuoi dire». «Sul serio?», domandò lui. «Vuoi dire che non ti dispiace che io sia tornato a...». «Jared, un nostro amico è appena stato ucciso... L'ultima cosa che voglio è che te ne stia da solo a casa di Pop». Jared protese le braccia per stringerla a sé. Stretta nel suo abbraccio, Sara aggiunse: «Mi credevi davvero così spietata da non volerti qui con me, per stanotte?». Jared si allontanò. «Che significa "per stanotte"?». «Be', non so... Pensavo che, siccome al processo manca poco...». Jared la guardò sdegnato. Senza proferir parola, corse fuori dalla camera da letto. Passando dalla cucina, scagliò il bicchiere nel lavandino, con conseguente pioggia di schegge e vino rosso. «Oh, merda», mormorò Sara. Il suo unico scopo era proteggerlo. Se lui restava a casa, Guance Scavate avrebbe avuto un appiglio in meno per tormentarla. Gli corse dietro gridando: «Jared, perdonami. Non avrei dovuto dire quello che ho detto. Se vuoi, puoi restare». «No, neanche per sogno», rispose lui, ormai quasi sulla porta. «Ti prego... Desidero veramente che tu rimanga». Non ottenendo risposta, aggiunse: «Amore, ti giuro, mi fa piacere se rimani. È la verità». Jared si fermò e, giratosi, disse: «Se fosse così, non ti sarebbe mai neanche sfuggita una frase del genere». «Non è vero. Io...». «È morto!», urlò Jared. «Lenny è morto, e tu continui a pensare ai tuoi stramaledetti incartamenti! Non ti rendi conto di quanto sia assurdo?». «Jared, ti prego...». «Non voglio più parlare», tagliò corto lui. «Starò da Pop». Aprì la porta, volgendo le spalle alla moglie. «E se ti interessa, ha chiamato la sorella di Lenny: il funerale è fissato per domani; quindi, se non sei troppo presa dai tuoi impegni, sarebbe il caso che ti facessi vedere». «Ci sarò senz'altro». «Bene. Ci vedremo là». Senza votarsi, Jared se ne andò, sbattendosi la porta alle spalle.
«Io ne ho piene le palle», disse Kozlow, dopo aver ascoltato la conversazione tra Jared e Sara. «Ci sta prendendo per il culo come vuole. Ammazziamola e facciamola finita». «Ma allora sei proprio scemo!», esclamò Rafferty, seduto alla scrivania nel suo studio. «Sara è la migliore merce di scambio di cui dispongo. Senza di lei, non avrò più nulla per costringere Jared a fare quello che voglio». «Chissenefrega di Jared! Se lui non resta in quella casa, è inutile. Io dico che dobbiamo tornare da Victor e dirgli di...». «Lasciamo perdere Victor. Te l'ho detto un migliaio di volte: lui non metterà più il becco in questo caso, quindi non voglio più sentirne parlare». «Sto solo dicendo che ultimamente Jared non ha fatto nulla per...». «Mi hai sentito?», sbottò Rafferty. «T'ho detto che non voglio più sentirne parlare!». In un lampo, Kozlow si sporse sulla scrivania e afferrò Rafferty per l'orecchio sinistro. Tirandolo a sé, sibilò: «Quante volte ti ho detto che non devi usare questo tono con me? Lo sai che non lo sopporto». «Lasciami», disse Rafferty e, quando Kozlow ebbe mollato la presa, aggiunse: «Che ti prende?». «Niente. È solo che non mi piace quando mi parlano in quel modo». «Be', ti sei spiegato». Rafferty si passò una mano tra i capelli, cercando di ricomporsi. Quando tutto sarebbe finito, avrebbe pensato a Kozlow. «Insomma, sei ancora convinto che se vogliamo vincere il processo ci conviene scommettere su Jared?», domandò Kozlow. «Esatto. Questo è quanto». Rimasta sola, Sara si sforzò di evocare l'immagine del viso di Lenny. Lo conosceva da almeno cinque-sei anni, ma - come l'esperienza le aveva insegnato - le cose più semplici sono, di solito, anche le più facili da dimenticare. Nel giro di qualche settimana, i vividi ricordi della sua presenza fisica avrebbero cominciato a dissolversi. Avrebbe conservato memoria della persona, delle sue qualità di uomo e di investigatore, ma l'artista che era in lei aveva bisogno di qualcosa di più "figurativo". Certo, avrebbe potuto riguardare le vecchie fotografie, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Sara voleva fissare nella memoria il modo in cui lui si muoveva, gesticolava e faceva sobbalzare le spalle quando rideva. Di questo aveva bisogno, e a questo si dedicò nelle due ore successive. Sfiancata da questa operazione, Sara andò a riscaldarsi della pasta avan-
zata, che poi mangiò lì in piedi, dalla pentola, appoggiandosi al lavandino. Quindi, nel tentativo di concentrarsi su qualcosa di più concreto, svuotò la cesta della roba sporca in un sacco rosso che usava per il bucato e scese in lavanderia, nel seminterrato del palazzo. Con il sacco in una mano, Sara uscì dal portone e, prese le chiavi, aprì il cancello nero di metallo che introduceva in cantina. Richiudendoselo alle spalle, raggiunse la stanza delle lavatrici e si mise a separare i capi bianchi da quelli colorati. Era la tipica lavanderia condominiale newyorchese: silenziosa, umida e di difficile accesso. Accanto a essa sorgevano le cantine vere e proprie, oltre a un labirinto poco illuminato di condutture, cavi e contatori di ogni tipo. Da quando si erano trasferiti in quella casa, Sara aveva sempre trovato spettrale quel luogo, con le nude pareti in cemento armato che lo facevano sembrare una tomba. Quando ebbe terminato di caricare le lavatrici, prese le chiavi e salì in casa. Mezz'ora dopo tornò in cantina. Riaprì il cancelletto di metallo e raggiunse la lavanderia. Ancora tormentata dal rimorso per quello che aveva detto a Jared, spostò il bucato dalle lavatrici agli essiccatoi. "Forse dovrei chiamarlo", pensò. "Questa non è una notte da trascorrere in solitudine". Dai suoi pensieri la riscosse un rumore metallico proveniente dal fondo della cantina. "Queste condutture, sempre in funzione per tutto l'inverno", pensò. Ma quando sentì nuovamente quel rumore, più vicino, si voltò. Con la coda dell'occhio vide qualcosa muoversi. Spaventata, lasciò cadere i panni bagnati che aveva tra le mani. "È solo un topo", constatò, notando un roditore che si nascondeva in tutta fretta dietro una delle lavatrici. Tirò un sospiro di sollievo, ma non cessò di sentirsi a disagio. Caricati gli essiccatoi, Sara si accinse a tornare in casa, ma giungendo al cancelletto di metallo si rese conto di aver lasciato le chiavi in lavanderia. Tornò sui suoi passi, ma sulle lavatrici e gli essiccatoi le chiavi non c'erano. Aprì lo sportello di uno degli essiccatoi e frugò tra il bucato umido. Nulla. Passò al secondo essiccatoio, da cui tolse i panni a uno a uno. All'improvviso, udì un altro rumore alle sue spalle. Si voltò, immaginando di vedere un topo, ma non vide più nulla, perché le luci si spensero. Avvolta dal buio, Sara pensò immediatamente che potesse esserci qualcuno. "Non muoverti", pensò. "Altrimenti ti scopre". Trattenne il respiro e si mise in ascolto, ma non si sentiva altro che il monotono turbinio dell'essiccatoio in funzione. Quella perforante vibrazione riempiva l'aria, incessante. "Forse, è soltanto saltato un fusibile", ipotizzò tra sé. "Non c'è ragione di farsi prendere dal panico". A quel punto, sentì una mano che le
tappava la bocca, premendo con forza. Qualcuno l'aveva sorpresa alle spalle. «Ehilà, Sara!», le bisbigliò all'orecchio. Avrebbe riconosciuto quella voce ovunque. Era l'uomo dalle guance scavate. Gli affondò un gomito nello stomaco, riuscendo a divincolarsi. Quindi, se la diede a gambe verso l'uscita. Elliott le si mise alle calcagna. Non si vedeva nulla, ma a tentoni Sara riuscì a uscire dalla lavanderia e, raggiunto il cancello nero, si agrappò alle sbarre e gridò: «POLIZIA! AIU...». Non riuscì a finire di pronunciare la parola, perché Elliott le tappò di nuovo la bocca con una mano, mentre con l'altra picchiava sulle dita di Sara strette intorno alle sbarre del cancello. Quando Sara mollò la presa, la trascinò indietro in lavanderia, nell'oscurità più assoluta. Sara si dibatteva come un'ossessa, cercando di liberarsi dalla morsa. Bloccandole i polsi con una mano, la sbatté contro il muro. Ma poiché Sara non smetteva di agitarsi, le rifilò un manrovescio. Sara si placò, e lui, avvicinandosi ulteriormente, la afferrò per la gola. Il suo alito sapeva di alcool. «Lascialo fuori di casa, capito? Non voglio che frughi tra le tue carte». Sara annuì con decisione. Elliott la spinse a terra. Nel buio pesto, Sara non riusciva a vedere dove lui fosse, se davanti a sé o alle sue spalle. Poteva essere ovunque. Rimase immobile, distesa. Di nuovo, ascoltò attentamente, e non udì altro che il rumore ossessivo dell'essiccatoio. "Non muoverti", pensò Sara. "Neanche lui può vederti". A quel punto, con il sottofondo della centrifuga, risuonò la voce cupa di Elliott. «Non esiste nulla di intoccabile», avvertì. «Neanche tu». Sara non ebbe il tempo di rispondere. Vide uno spiraglio di luce e poi udì il cancello di metallo che si apriva e si richiudeva. Se n'era andato. Sara corse fuori a sua volta e lo scorse. «POLIZIA! AIUTO! QUALCUNO MI AIUTI!», urlò. «A New York non ti aiuta nessuno», disse Elliott. Posò le chiavi di Sara sul gradino più lontano dal cancello. «Presto passerà qualcuno, vedrai». Andandose, aggiunse: «Ci vediamo in tribunale». Il lunedì mattina Sara arrivò al lavoro sperando in una giornata tranquilla. Il funerale di Lenny e, nella circostanza, la vista di Jared l'avevano messa a dura prova. Quando imboccò il corridoio, dunque, l'ultima cosa che si aspettava era di vedere due uomini intenti a traslocare i suoi faldoni. «Ehi, voi! Che cosa credete di fare?». «Traslochiamo i faldoni», rispose uno dei due.
«Vedo, ma chi vi ha dato il permesso di entrare nel mio ufficio?». «Conrad Moore. Ha detto di venire a prendere tutti i documenti relativi al caso Kozlow, perché il procuratore aggiunto è stato rimosso dall'incarico». Sara restò a bocca aperta. Proprio in quel momento, arrivò Guff. «Che sta succedendo?». «Mi hanno licenziata», disse Sara, uscendo di corsa. «Che cosa?», domandò Guff, incredulo. Partì all'inseguimento di Sara, che si era fiondata verso l'ufficio di Conrad. «Perché diavolo non me ne hai parlato?», domandò Sara, facendo irruzione. «Calmati, Sara», disse Conrad. «Posso spiegarti». «Ah, sì? E come? Tu sapevi che mi avevano licenziato e non hai avuto nemmeno la decenza di avvisarmi!». «Che cosa dici? Nessuno ti ha licenziata». «Ah, no?», domandò Sara. «No», ribadì Conrad. «Ti è stato solamente tolto il caso Kozlow». «Cosa?». «È stato Monaghan a deciderlo. Dice che non si può lasciare in mano a una novizia un caso di omicidio come questo. È troppo complesso, e tu saresti troppo esposta. Per questo, devi consegnarmi tutti i documenti relativi al caso». Sara si voltò verso Guff, soppesando le parole di Conrad. «Non c'è problema», disse Guff. «Troveremo il modo di...». «No», sbottò Sara. «Io non posso rinunciare. Questo caso è mio». «Mi dispiace», disse Conrad. «So che fa rabbia, ma io devo fare quello che dice Monaghan». «Io non sono arrabbiata», corresse Sara, con voce terribilmente seria. «Però, non posso proprio rinunciare a questo incarico». Conrad guardò Guff e, poi, di nuovo Sara. «Cos'è che non mi avete detto, voi due? Evidentemente, c'è qualcosa che mi avete nascosto». «Non c'è niente», negò Sara. «È solo che non posso mollare». Visto che Conrad insisteva a guardarlo, Guff disse: «Smettila di fissarmi a quel modo... Io non ho fatto niente». «Sara, dimmi che cosa succede». Sara abbassò lo sguardo, ma non aprì bocca. «Se me ne parli, ti aiuterò. Altrimenti, saranno affari tuoi, e al caso dovrai rinunciare comunque».
Sara perseverò nel suo silenzio. «Be', fa' come vuoi», disse Conrad, avviandosi alla porta. «Andrò personalmente a prendere gli ultimi faldoni». Sara guardò Guff, che le fece un cenno d'incoraggiamento. Quindi, si decise a parlare. «Ti dirò tutto, ma devi promettermi che farai come dico io». Conrad richiuse la porta e si voltò. «Racconta». «Prima devi darmi la tua parola. Promettimi che farai come dico io». «Io non prometto un bel niente. Ora, dimmi che diavolo succede». «Scordatelo», disse Sara. Conrad scosse la testa. «Dammi una valida ragione per cui io dovrei prendere ordini da te». «Perché se non lo farai, la vita dei miei familiari sarà in pericolo». Sara lasciò che la frase sortisse il suo effetto. Infine, Conrad disse: «Prometto che non farò nulla che possa mettere in pericolo la vita dei tuoi familiari». «Ho la tua parola». «La mia parola d'onore». Sospirando di sollievo, Sara raccontò di come fosse stata avvicinata dall'uomo con le guance scavate, di come le avesse ingiunto di vincere il processo. Gli raccontò tutto, dalle minacce contro Jared all'aggressione ai danni di Pop. Conrad non la interruppe; solo quando Sara ebbe terminato, disse: «Mi stai dicendo che sei stata minacciata e non ne hai parlato con nessuno? Che cosa ti avevo detto? Il sistema esiste appunto per proteggerti in casi...». «Conrad, non ti offendere, ma non mi serve la tua lezione. Il sistema non è bastato a proteggere Pop e certamente non proteggerà mio marito. Quest'uomo, chiunque egli sia, ha le impronte digitali che corrispondono a quelle di un morto, sa tutto di me ed è riuscito a introdursi nella mia cantina senza le chiavi. Il fatto è che ho una paura fottuta. Tutte le volte che rientro in casa, controllo dappertutto, negli armadi, dietro le porte, per assicurarmi che non sia lì ad aspettarmi. Non è un delinquente qualsiasi, e finché non scopriremo chi è, ho ottimi motivi per non farlo arrabbiare. In fondo, preme soltanto perché io faccia il mio lavoro». «No, lui non chiede che tu faccia il tuo lavoro. Lui sta minacciando la vita di Jared». «Vuole che vinca il processo», insistette Sara. «Non chiede altro. E noi sappiamo bene che posso farcela. Tu sei certamente più bravo di me come
pubblico ministero, ma nessuno conosce Jared meglio di me. Conosco il suo modo di pensare e di combattere, e so con chi ha a che fare». «Come Lenny Barrow?», domandò Conrad. «Esatto. Come Lenny Barrow», confermò Sara. «Credimi, non ho alcuna intenzione di aiutare quest'uomo a sfuggire alla giustizia, ma tu non puoi estromettermi da questo caso. C'è in gioco la mia famiglia. È un problema mio, e poi questo è il mio caso». «Mah...». «Conrad, da quando ti ho conosciuto non ho fatto altro che seguire le tue regole. Ho sempre fatto quello che tu mi hai consigliato di fare. Questa volta, però, sono io che ti chiedo di fare come dico io: aiutami a conservare questo incarico. È l'unica cosa che ti chiedo». Conrad ponderò la proposta, nel silenzio più assoluto. «Ci penserò su», disse infine. «Ne riparliamo domattina». «Però mi devi promettere che ci pensi bene», pretese Sara, avviandosi alla porta. «Ti chiedo solo questo». Il mattino seguente, Sara e Guff erano seduti nell'ufficio di Sara, in impaziente attesa dell'arrivo di Conrad. «Credi che accetterà?», domandò Guff. «Non ne ho idea», rispose Sara. «A volte sembra un tipo prevedibile, altre volte è impossibile capirlo». «Prevedibile? Conrad non è mai prevedibile. Gli piacerà anche seguire le regole e fare le prediche, ma se lo ritiene necessario, è pronto a lasciar perdere tutto, pur di fare la cosa giusta. Non dimenticare che è di New York e lavora per lo stato, il che lo rende automaticamente un realista». «Spero proprio che tu abbia ragione», disse Sara. Dieci minuti dopo, Conrad arrivò nell'ufficio di Sara. Chiuse la porta e si appostò davanti alla scrivania a cui era seduta Sara. «Ecco la mia proposta», esordì lui. «Primo: non posso farmi da parte e lasciarti da sola su questo caso». «Be', però potresti...». «Ascoltami», riprese Conrad, interrompendola. «Non posso farmi da parte, perché Monaghan non lo consentirebbe. Ma accetto la tua collaborazione. Agli occhi di tutti, sembrerà che sia io a occuparmi del caso, ma tra noi vigerà la pari dignità». «Insomma, posso continuare a lavorarci e a decidere come muovermi?». «Lo decideremo insieme», corresse Conrad. «Per te, la posta in gioco è
altissima, ma non per questo io posso permettere che tu commetta sciocchezze. L'esperienza mi ha insegnato che l'emotività fa a pugni con la ragione. Così, se tu sbandi, io ti riporto col culo in careggiata». «Ma mi aiuterai a vincere il processo?». «Se non commetti errori, vinceremo. Tuo marito potrà fare quello che vuole, presentare migliaia di eccezioni procedurali, andare a cimentare i più fighetti e straricchi tra tutti gli avvocati del suo studio legale d'alto bordo - col vestito firmato, la cravattina acchittata, la Saab sotto il culo, i capelli coto-fonati, le unghie limate, la mobilia di mogano, tronfi, spocchiosi e stronzi - ma quando tutto sarà finito, verrà con tutta la compagnia a baciarci il culo. E chiunque sia l'uomo che ha fatto del male a tuo nonno, ti garantisco che faremo festa danzandogli sui coglioni». Sara sfoderò il più ampio e soddisfatto dei sorrisi. «Sapevo che si sarebbe espresso così», disse Guff. «È così incredibilmente prevedibile!». «Allora, ci stai?», le domandò Conrad, tendendole la mano. «Tu, però, non devi parlare con Monaghan dell'uomo che mi ha minacciato». «Monaghan non saprà nulla. A lui ho detto soltanto quanto sei aggressiva come pubblico ministero e quanto ti piace lavorare. Sono le cose che più ama sentire. Ora, sei sicura di voler continuare a dare la caccia a questo tipo?». «Non spero di meglio», disse Sara, stringendogli la mano. «Bene», disse Conrad, sedendosi sul divano accanto a Guff. «Perché ho intenzione di cominciare da subito». «Aspetta. Prima dimmi una cosa», disse Sara. «Che cosa ti ha convinto a non estromettermi?». «È stato sufficiente calarmi per un attimo nei tuoi panni, e ho capito che per te era troppo importante. Ti basta, o vuoi che ti propini qualche stronzata psicologica sul mio bisogno di esorcizzare chissà quale fantasma?». «No, mi basta», disse Sara. «Ma se continui a essere così gentile con me, dirò a tutti che sei un tenerone». «Non ci crederanno mai», disse Conrad. Aprì la propria borsa e ne estrasse una busta sigillata della posta interna della procura. «Comunque, per tornare ai fantasmi, questa è appena arrivata dal laboratorio. Dovrebbero essere gli esiti delle impronte digitali che hai fatto analizzare». «Quelle lasciate sulla mia borsa? Che cosa dicono?». «Non ho osato aprirla senza l'aiuto della mia collega», disse Conrad,
passandole la busta. «A te l'onore». Sara aprì la busta e diede una rapida occhiata al contenuto. «Non ci posso credere», disse. «Che c'è?», domandò Guff. «Le impronte sono le stesse dell'altra volta?». «No, sono diverse, ma anche queste corrispondono a quelle di un morto. Secondo il laboratorio, le impronte apparterrebbero a un certo Warren Eastham, un delinquente di mezza tacca assassinato l'anno scorso». «Non capisco», fece Guff. «Come può una persona cambiarsi le impronte digitali?». «Magari ha un aggancio con il laboratorio, che gli consente di sabotare le nostre indagini», suggerì Conrad. «O forse al laboratorio continuano a scambiare le buste», aggiunse Guff. «Comunque sia», disse Sara, «dobbiamo scoprire chi è». Pantaloncini aderenti da ciclista e felpa extra-large della Michigan University, Elliott entrò diretto nell'atrio dell'edificio in cui lavoravano gli anatomopatologi della procura. «Fattorino», disse, rivolto alla guardia di sicurezza, mostrando la sacca di nylon giallo fosforescente che portava sulle spalle. «Cerco il dottor Fawcett». «Prenda l'ascensore. È al seminterrato, stanza B-22». Raggiunta la meta, Elliott aprì la porta e vide Fawcett seduto alla sua scrivania. «Salve», disse. «Sono venuto a ritirare i risultati dell'autopsia di Arnold Doniger». «Lei è un fattorino della procura?», domandò Fawcett, sospettoso. «Già...», disse Elliott, estraendo dalla sacca una cartelletta. «Dunque, vediamo... Devo consegnarli al procuratore aggiunto Sara Tate, Centre Street 80, con urgenza. Una fretta pazzesca, a quanto pare». «Sono tutti uguali», scherzò Fawcett. Consegnò a Elliott la busta sigillata. «Grazie, dotto'», disse Elliott, infilando la busta nella sacca. «Mi saluti i cari estinti, eh?». «Non mancherò», disse Fawcett, mentre Elliott lasciava l'ufficio. Trascorsero due settimane e mezza, e un tagliente vento di ottobre segnalò un precoce arrivo dell'inverno. Benché i cappotti di lana cominciassero a punteggiare il paesaggio urbano, nulla sembrava essere cambiato in quella città che pareva, del resto, indifferente. Sirene che urlavano senza
tregua, il traffico sempre asfissiante, ristoranti cinesi che consegnavano pasti a domicilio a tutte le ore del giorno e della notte, e Sara, Conrad e Guff impegnati a risolvere il loro caso. «Ho trovato», disse Guff, entrando nell'ufficio di Sara con un mazzo di fogli in mano. «Trovato cosa?», domandò Conrad, chinato sullo schedario di Sara. «Ah, buonuomo, lei ignora? Ho appena acquisito il più solenne dei documenti... il tomo delle ultime volontà terrene». «Che cosa?», domandò Conrad. «Il testamento di Arnold Doniger», spiegò Sara, sedendosi alla scrivania. «Il giudice incaricato dei testamenti si è finalmente deciso a inviarcelo». «Deciso?», domandò Conrad. «Avresti dovuto presentargli un'ingiunzione con decorrenza immediata». «Tu ingiungi, io chiedo», disse Sara. «Il risultato è lo stesso». Rivolgendosi a Guff, domandò: «Be', che dice?». «Su una cosa avevi ragione: Arnold Doniger non aveva le pezze sul sedere. Se si sommano le cifre in denaro lasciate in eredità, il nostro amico aveva da parte almeno sette milioni di dollari, senza contare la sua casa di New York, la seconda casa in Connecticut e la sua quota nella Echo Enterprise, la quale, a quanto pare, è la fonte delle sue ricchezze». «Sai che roba!», disse Conrad. «Metà degli abitanti dell'East Side lascerebbe in eredità altrettanto. Il vero problema è: chi sono i beneficiari?». «Qui la cosa si fa strana», disse Guff. «Noi pensavamo che Claire Doniger avesse assoldato Kozlow per ammazzare il marito, in modo da potersi impossessare dell'eredità. Stando al testamento, però, Claire non eredita un bel niente. Quando si sono sposati, dieci mesi fa, lei ha firmato un accordo prematrimoniale che escludeva qualsiasi beneficio da parte sua». «Non percepirà, comunque, una quota per legge?», domandò Conrad. «Se non ricordo male, alla law school ci insegnavano che la moglie del defunto ottiene sempre una determinata percentuale del patrimonio del marito, anche se viene esclusa dal testamento». «Non in questo caso», rispose Sara. «In base all'accordo prematrimoniale, Claire ha rinunciato a ogni beneficio. Non avrà neppure la casa in cui abita». «Insomma, mi stai dicendo che Claire non aveva motivo per uccidere il marito?», domandò Conrad. «Se l'aveva, non si trattava certo dell'eredità, perché stando a questo documento, lei non becca un centesimo».
«Chi sono, allora, i beneficiari?». «Nessuna persona fisica. Le donazioni in denaro sono destinate a una decina di diversi istituti di carità, la casa in Connecticut è stata lasciata a un'associazione che si occupa di storia locale, mentre il ricavato della vendita della casa di New York verrà devoluto all'università di Princeton, la sua alma mater». «Non ha altri parenti?». «Niente figli né fratelli. Ha un paio di cugini e una zia in Florida, ma a loro non ha lasciato che poche migliaia di dollari. Troppo poco per ammazzre qualcuno». «E la sua impresa?», domandò Conrad. «Chi ne è l'erede?». «La Echo Enterprise passa interamente nelle mani del suo socio. A quanto pare, non gli piaceva mischiare gli affari con la famiglia». «Io non credo», disse Sara, alzandosi in piedi. «Non può essere stata che Claire ad assoldare Kozlow; è la cosa più logica». «Sì», ironizzò Conrad, «a parte il fatto, trascurabile, che non aveva un valido movente». «Questo non è necessariamente vero», disse Guff. «Magari, l'ha fatto ammazzare proprio perché non l'aveva inclusa nel testamento». «Non so», disse Conrad. «Sarebbe stato un gesto poco lungimirante, visto che con la morte del marito lei perde anche la casa e la sicurezza economica. Nei panni di Claire, benché molto arrabbiato per l'esclusione dal testamento, avrei cercato di mantenere in vita il consorte per fare man bassa del suo denaro». «Magari, non lo sopportava più», ipotizzò Sara. «Potrebbe essere». «Queste sono elucubrazioni». «No, dico sul serio», insistette Sara. «Che bisogno c'è del movente economico? Non si contano le persone che ammazzano i coniugi per ragioni infinitamente più banali». «È vero», ammise Conrad. «Ma se una cinquantenne non tanto ricca ammazza il neo-marito miliardario di sessantasei anni, una ragione ci sarà pure; e ti assicuro che nella quasi totalità dei casi - almeno, da quando faccio questo lavoro - la ragione è il denaro». «Che è l'unica cosa che Claire non ottiene». «Magari, proprio qui sta il busillis», disse Guff. «Magari Claire non c'entra affatto». «Lo escludo», disse Sara. «Claire c'è dentro fino al collo. Si è comportata in modo troppo strano per non essere in qualche misura coinvolta».
«Be', allora dobbiamo dimostrarlo, il suo coinvolgimento», disse Conrad. «Altrimenti, al processo, avremo vita dura». «Abbiamo una vittima, conosciamo la causa del decesso, il testamento e i probabile assassino, ma ancora ci manca il movente...». «E se non lo troviamo, siamo fregati». «Lo sanno», disse Claire Doniger tormentandosi la fede nuziale. Il succo di frutta e il té al gelsomino che beveva ogni giorno erano posati, intatti, davanti a lei. «Lo sanno di sicuro». «Oh, non essere isterica», disse lui. «Se lo sapessero, ti avrebbero già incriminato come complice. Non possono dimostrare nulla». «Quanto ci vorrà perché questa storia finisca? Insistono per venire a fare un sopralluogo. E se trovano qualcosa di...». «Te l'ho detto. Mi sto già occupando io di tutto. L'avvocato è all'opera proprio per scongiurare questa eventualità». Claire si alzò in piedi, inquieta, e si mise a sparecchiare il tavolo. «Non fai che ripetermelo. Ma che cosa succede se l'avvocato non riesce a impedirglielo? Che cosa...?». Afferrandola per i polsi, lui la costrinse a posare la teiera e il piatto che aveva in mano. Quindi, la tirò a sé, facendola accomodare sulle proprie ginocchia. «Adesso tira il fiato e ascolta bene quello che ti dico: se fossi stato interessato ai soldi, sarei sparito da tempo. Ma io non voglio andarmene da solo. Lo capisci? Quindi, qualunque cosa succeda, io non consentirò che mi venga tolta la parte più importante della ricompensa, costi quel che costi. Tu sei la ragione per cui mi sono avventurato in questa storia. Quindi, sta' sicura che ne usciremo insieme». Tenendo le mani di Claire nelle proprie, aggiunse: «Ora dimmi: chi è il tuo amore». Con un sorriso debole e forzato, Claire rispose: «Sei tu». «Puoi scommetterci che sono io», disse Rafferty. «Puoi scommetterci». Massaggiandosi le tempie e facendo del suo meglio per ignorare il mal di testa pulsante che lo affliggeva, Jared fissava lo schermo del suo computer. Nelle ultime due settimane, aveva contattato i migliori penalisti dello studio, nel tentativo di carpire loro nuovi trucchi, espedienti o consigli per vincere il caso e salvare sua moglie. Persino la mappa ingrandita del luogo del delitto era stata oggetto di una quotidiana, particolare attenzione. Al mattino, non arrivava mai al lavoro più tardi delle sette, e il primo quarto d'ora era solennemente riservato allo
studio della mappa. Un'occhiata, però, la gettava anche prima di tornare a casa, mai prima delle undici di sera. Catalogava ogni istante, scandiva ogni minuto, faceva tutto ciò che era in suo potere per visualizzare ogni sfumatura del delitto. Infine, ricominciando da dove Barrow era stato interrotto, aveva ingaggiato un nuovo investigatore privato, affidandogli il compito di passare al setaccio l'isolato che separava casa Doniger dal luogo in cui McCabe aveva fermato Kozlow. Su suggerimento di Jared, l'investigatore aveva parlato con i netturbini in servizio a notte fonda, interrogato i portieri di notte degli edifici vicini e telefonato persino alle compagnie dei taxi, per informarsi sui taxisti che si trovavano a passare in zona, in quella fatidica notte. Jared e i suoi collaboratori cercarono - per quanto labile, improbabile e oltraggioso fosse questo tentativo - ogni possibile elemento in grado di collocare Kozlow in un luogo diverso da quello indicato da McCabe. Malgrado gli sforzi, però, e le indagini a tappeto, non erano riusciti a trovare un solo nuovo testimone. «Dev'esserci sfuggito qualcuno», disse Jared, fissando la mappa appesa al muro. «Lo escludo», disse Kathleen. «Le abbiamo pensate tutte». «Hai poi parlato con gli addetti alla consegna dei giornali?». «Ho parlato con tutti: "New York Times", "New York Post", "Daily News" e "Newsday"... Non ce n'è uno che cominci la distribuzione prima delle cinque e mezza». «E che mi dici di...». «Non c'è nessun altro», lo interruppe Kathleen. «Abbiamo parlato con tutti: i panettieri che sfornano le prime brioche all'alba, i droghieri che stanno aperti tutta notte, persino le agenzie di accompagnatrici d'alto bordo operanti nella zona. L'unico con cui non abbiamo parlato è Arnold Doniger, ma solo perché è morto». «Lo so», disse Jared. «Però voglio essere sicuro di non aver tralasciato nulla». «Jared, se anche ti ammazzi, non riuscirai a far tornare Lenny e, in più, non potrai proteggere tua moglie. Quando conosceremo l'esito delle istanze che hai presentato, avremo una prospettiva migliore. Fino a quel momento, è inutile esaurirsi in questo modo». «Io sto benissimo», disse Jared, tornando a fissare lo schermo del suo computer. «Jared, tu non...».
«Ho detto che sto benissimo», ripeté lui, alzando la voce. «E cambiamo argomento». «Quanto dista ancora, 'sto posto?», domandò Guff, seduto tra Conrad e Sara sul sedile posteriore di un taxi. «Vuoi tacere, una buona volta?», gli disse Conrad, mentre il taxi sbucava dall'Holland Tunnel. «Tra poco ci siamo». «Non resisto», disse Guff. «Andare in gita mi mette l'ansia. Mi sembra di tornare alle scuole medie». «Alle scuole medie, eh?», fece Conrad. «Be', allora, senti qua: taci, o ti chiudo in un armadietto dello spogliatoio». «Ah, giovinezza», sospirò Guff, sorridendo. «Come mi manchi!». Dieci minuti dopo, il taxi accostò davanti all'ingresso principale del poligono di tiro della contea di Hudson. Quando i tre colleghi furono scesi dall'auto, Conrad disse: «Eccolo... il miglior poligono di tiro di tutto lo stato». «A parte l'intera Manhattan, vuoi dire?», domandò Sara. Nel giro di una ventina di minuti, Conrad, Sara e Guff erano armati ed equipaggiati di tutto punto, pronti per cominciare gli esercizi di tiro. Sara e Guff seguirono Conrad fino a un enorme stanzone dove erano disposte, una accanto all'altra, otto postazioni singole, in fondo alle quali stavano i relativi bersagli: in alcuni casi, si trattava dei classici bersagli a cerchi concentrici; in altri delle sagome di animali come cervi o leoni; in altri ancora di sagome umane. C'erano postazioni per principianti, per tiratori di livello medio e per tiratori esperti, con i bersagli collocati rispettivamente a venti, venticinque e trenta metri di distanza. Conrad si diresse immediatamente verso una postazione per tiratori esperti. «Mi sa che noi rientriamo tra i principianti», disse Sara a Guff. «No, no», disse Conrad. «Venite con me». «Ma io non ho mai sparato in vita mia». «Non importa», disse Conrad. «Il modo migliore per imparare a nuotare è di tuffarsi nell'acqua alta». «E se io non avessi voglia di imparare a nuotare?», domandò Sara. Conrad la invitò ad accomodarsi nella postazione accanto alla propria. «Tutti vogliono imparare a nuotare. Dài, entra». Quando furono tutti e tre in postazione di tiro, Conrad indossò gli occhiali protettivi e le cuffie. Attraverso il piccolo microfono incorporato nelle cuffie, domandò: «Mi sentite?». «Ti sento forte e chiaro, Gringo», rispose Guff, via microfono. «Che ne
diresti di darmi una mano? Ho gli uomini dello sceriffo alle calcagna». Ignorando la spiritosaggine e dopo aver ricevuto l'ok da Sara, Conrad impugnò la calibro 38 che aveva noleggiato e, con sei colpi in rapida successione, disintegrò la sagoma umana di carta posta a trenta metri di distanza. «Niente male, Gringo, però sta' a vedere», disse Guff, puntando l'arma. Sparò anche lui sei colpi, ma il bersaglio rimase intatto. «Ehi, questa pistola dev'essere rotta», disse. «Tocca a te, Sara», disse Conrad. «Prima di sparare, avrei la mia solita domandina da fare: che diavolo ci stiamo facendo in questo posto?». «Te l'ho già detto: stando seduti in ufficio, non avremmo risolto nulla. Ho pensato che un cambio di scena ci avrebbe fatto bene. Quando mi trovo di fronte a un ostacolo logico apparentemente insormontabile, vengo qui a rilassarmi e a riconsiderare il problema». «Ah, è così che ti rilassi? Inforcando occhiali gialli e cuffie gigantesche e sforacchiando a cannonate delle persone di carta?». «Ci sono quelli a cui piace la musica classica; altri prediligono un'estetica un filo più aggressiva», spiegò Conrad. «Tutti, però, abbiamo bisogno di svagarci o di sfogarci, ogni tanto. Ora, basta chiacchiere: spara!». «Agli ordini, colonnello», disse Sara. «Però continuo a non capire in che modo questa messinscena possa aiutarci a risolvere i nostri problemi». Sara sollevò l'arma e mirò al bersaglio. Sparò un colpo. Riprese la mira. Sparò un altro colpo. Poi, mirò e sparò ancora. In sei colpi, non riuscì a centrare il bersaglio neppure una volta. «Ci pensi troppo», disse Conrad, quando Sara ebbe finito. «Sparare dev'essere un gesto istintivo, e l'arma un'estensione della tua mano. È come lanciare una palla da baseball: non puoi mirare, devi tirare e basta». «Oh, un'altra metafora sportiva!», esclamò Sara. «Questa volta con implicazioni zen». «Dico davvero», insistette Conrad. «Riprovaci, ma senza mirare: punta e fai fuoco». Sara ricaricò la pistola e si rimise in posizione. «Ecco», disse. «A noi due». Puntò l'arma e sparò altri sei colpi, due dei quali centrarono la parte alta del bersaglio. «Non male», commentò Conrad, entrando nella postazione di Sara. «L'unico problema mi sembra la posizione. Il centro di gravità è fuori equilibrio; di conseguenza, il rinculo dell'arma ti spinge all'indietro, e il tiro
risulta troppo alto». Ricaricata la pistola di Sara Conrad disse: «Non tenere i piedi uniti. Mettili uno davanti all'altro, in modo che la gamba sinistra funga da ancoraggio». Sara riposizionò i piedi, e Conrad, in piedi alle sue spalle, le aggiustò il bacino. «Ehi, cow-boy, vacci piano. La cosa sta diventando un po' troppo intima». «È proprio questo il punto», disse Conrad. Sorridendo le mise le mani all'altezza della vita. «Fa' in modo di bilanciare il peso intorno a questo punto. L'appoggio posteriore funge da ancoraggio, ma il tuo centro di gravità è qui». «Sono ancorata», disse Sara. Poi, con gesto rapido, puntò la pistola e sparò sei colpi. Quattro proiettili centrarono la sagoma umana, uno dei quali in piena faccia. «Ehi, dove hai imparato a sparare?», domandò Conrad. Sara voltò la testa mostrando a Conrad il proprio profilo, gli strizzò l'occhio e, con voce roca e ammaliante, disse: «A Chinatown, Jake». «Oh, mio Dio!», esclamò Guff. «Ecco cos'è!». «Che cosa?», domandò Sara. «Chinatown?». «No, no», rispose lui. «Il movente di Claire Doniger». «Cosa c'entra il movente di Claire Doniger con Chinatown?». «Non mi riferisco a quello che hai detto, bensì a quel che hai fatto», spiegò Guff. «Finora ci siamo fissati sui moventi più stupidi e banali: avidità, gelosia, odio... Ma non abbiamo mai pensato alla lussuria. Neanch'io ci ho mai pensato, finché non vi ho visti all'opera in quella postazione di tiro». «Che cosa è successo nella postazione?», domandò Sara. «Già, cos'è successo?», ripeté Conrad. «Senza offesa: vi voglio un bene dell'anima, ma davvero siete così ciechi?». «Chi? Io», domandò Sara. «Io non...». «Lascia perdere il caso particolare; concentrati sul senso generale di quello che ha detto», interloquì Conrad, uscendo dalla postazione e avvicinandosi a Guff. «Se il movente è la lussuria, che cosa possiamo dedurre?». «Non ne ho idea», disse Guff. «È stata un'intuizione momentanea. Non saprei che altro aggiungere». «Forse Arnold soffriva troppo, e la moglie l'ha ucciso per liberarlo dai tormenti», ipotizzò Conrad. «Potrebbe trattarsi di un omicidio per amore». «No, è impossibile», disse Sara. «Claire Doniger non mi sembra il tipo».
«Magari, è innamorata di un altro, e ha ammazzato il marito per poter stare finalmente con l'uomo che ama», suggerì Guff. «Troppo romantico», disse Conrad. «E poi, anche tra la pur primitiva popolazione di New York vige l'usanza del divorzio». «Con il divorzio certe cose non si possono ottenere; con l'omicidio sì», obiettò Sara. «Che vuoi dire?», domandò Conrad. «L'uomo amato da Claire potrebbe essere lo stesso che beneficia del testamento di Arnold». «Ho capito dove vuoi arrivare», disse Guff. «Intendi dire che lei e l'amante hanno assoldato Kozlow per ammazzare il marito. Lei ha fatto entrare l'assassino, e l'amante paga il conto». «C'è solo un problema», disse Conrad. «Stando al testamento, l'eredità verrà suddivisa tra istituti di carità e altre associazioni». «Fatta eccezione per una voce dell'elenco», disse Sara. «La Echo Enterprise passerà direttamente sotto il controllo degli altri soci». «Credi che uno dei soci di Arnold Doniger vada a letto con Claire? E che quando i due si sono resi conto di poter diventare straricchi uccidendolo, hanno assoldato Kozlow per farlo fuori?», domandò Conrad. «A me pare che stia in piedi», disse Guff. «Anche a me», confermò Sara. «Anche se ci terrei a precisare che in quella postazione di tiro non è successo nulla». «Su, dài!», fece Guff. «Il sole tramonta o no a est? Ai newyorchesi piace o no vestirsi di nero? Elvis è stato o no sepolto con un vestito bianco, la camicia blu elettrico e la cravatta di cachemire? Be', la risposta è sì, in tutti e tre i casi. Siamo tutti semplici creature. Sarò capace o no di riconoscere un flirt, se lo vedo con i miei occhi? Non c'è il minimo dubbio». «Il sole non tramonta a est», corresse Conrad. «Tramonta a ovest». Guff guardò Sara e, poi, Conrad. «Non importa! I fatti sono incontrovertibili!», gridò Guff, quando Sara scoppiò a ridere. «In quella postazione voi avete flirtato!». CAPITOLO QUATTORDICI Seduto alla sua scrivania d'antiquariato, nel suo ufficio alla Echo Enterprise, Rafferty era tutt'altro che felice. La colazione con Claire era stata uno stress e il pranzo d'affari alla CBS una dura prova; guardando davanti a sé, però, capiva bene che la parte peggiore della giornata doveva ancora
venire: c'era Kozlow con lui, nel suo ufficio. «Ti conviene parlarne con Elliott. Siamo nei guai grossi». «Proprio tu vieni a dirmelo!», esclamò Kozlow, seduto su una delle due poltroncine sistemate davanti alla scrivania di Rafferty. «Sei tu quello che...». Il trillo dell'interfono di Rafferty lo interruppe. «Che c'è, Beverley?», domandò Raferty. «Signore, c'è qui una certa Sara Tate che chiede di vederla», disse la segretaria. «È lì fuori?», domandò Rafferty, serrando il pugno sulla cornetta. «Sì, signore. Dice di essere della procura distrettuale e chiede se può rubarle un minuto». Rafferty valutò la situazione e disse: «Beverley, ascoltami bene: qualunque cosa dica o faccia, la signorina Tate non deve assolutamente sapere chi c'è qui con me in ufficio. Se ti chiede qualcosa di Tony Kozlow, tu devi dire che non sai chi sia e che non l'hai mai sentito nominare. Adesso, dille di aspettare cinque minuti. Quando sono pronto, ti chiamo e tu la farai entrare». Quando Rafferty posò la cornetta, Kozlow domandò: «Sara Tate ha telefonato qui?». «Peggio. È qui fuori. Adesso». Kozlow scattò in piedi come una molla. «Adesso? Qui?». «Calmati», disse Rafferty. «Ora, ti nascondo e poi penserò a lei». Si diresse verso un angolo dell'ufficio e fece scorrere un pannello mobile, dietro il quale si apriva un accesso al suo bagno privato. «Entra», disse Rafferty. «In bagno?», domandò Kozlow. «Non c'è un'uscita di servizio o di emergenza?». «Entra!», ringhiò Rafferty. «Sarà qui a momenti». Kozlow entrò. «A presto», disse, mentre Rafferty richiudeva il pannello. Due minuti dopo, Sara, Guff e Conrad furono fatti entrare nell'ufficio di Rafferty, che li accolse seduto alla scrivania. «Salve, signor Rafferty, mi chiamo Sara Tate», disse Sara, tendendogli la destra. «E questi sono i miei colleghi Conrad Moore e Alexander Guff». «Felice di conoscerla, signorina Tate», disse Rafferty, stringendole la mano. «Prego, accomodatevi». Sara e Conrad si sedettero subito di fronte a lui, mentre Guff andò a prendere una sedia sistemata in un angolo della stanza. «Ditemi... Che cosa posso fare per voi?». «Le dirò, signor Rafferty: stiamo indagando sull'omicidio di Arnold Doniger e...».
«Come?», domandò Rafferty. «Credete che sia stato ucciso? Non riesco a crederci». «Questa è l'ipotesi a cui stiamo lavorando», confermò Sara. «A dire il vero, era nostra intenzione venire a chiedere, con il dovuto mandato, alcuni documenti relativi alla Echo Enterprise, ma poi abbiamo pensato che sarebbe stato utile anche scambiare due chiacchiere con qualcuno dei soci della vittima». «Ma certo», disse Rafferty. «Se c'è qualcosa che posso fare, sono a vostra disposizione». «Non potrebbe raccontarci qualcosa della Echo Enterprise?». «Certo che posso», rispose Rafferty. «Senz'altro. Sì». Con un sorriso forzato, spiegò: «La Echo è una società che si occupa di proprietà intellettuale. In altre parole, possediamo e amministriamo i diritti d'autore di svariate opere teatrali». «Anche opere famose?», domandò Sara, nel tentativo di capire il livello a cui operava la società. La risposta di Rafferty fu pronta. «A Chorus Line, Inherit the Wind, La gatta sul tetto che scotta, Un tram che si chiama desiderio e diverse altre. Chiunque voglia mettere in scena queste opere, che si tratti di una recita scolastica o di una produzione da cinquanta milioni di dollari, deve prima passare da noi. In cambio del nostro permesso, chiediamo in genere una percentuale sui ricavi». «Una percentuale sugli incassi?», domandò Conrad. «Insomma, una specie di gallina dalle uova d'oro». «Diciamo che non ci perdiamo», concesse Rafferty. «Be', non mi sembrate un'organizzazione no-profit», disse Conrad, in tono vagamente accusatorio. «Non capisco. Vuole forse insinuare qualcosa?», domandò Rafferty, cercando di mantenere la conversazione sui binari della cordialità. «Niente affatto», disse Sara, lanciando un'occhiata torva all'indirizzo di Conrad. «Stiamo solo cercando di capire se non abbiamo, per caso, tralasciato qualcosa. Mi dica: quanti sono i soci dell'impresa?». «Abbiamo una quarantina di impiegati, ma gli unici soci siamo io e Arnold». «Ah, davvero?», domandò Sara. «Dunque, ora che il signor Doniger è morto, lei assumerà il pieno controllo della società, giusto?». «Dipenderà dal testamento di Arnie. Quando abbiamo fondato la Echo, abbiamo stabilito che determinate volontà particolari avrebbero avuto la
precedenza sugli accordi societari. Dunque, se Arnie ha lasciato la sua parte della società a qualcuno, ora io ho un nuovo socio. Ma se posso fare un pronostico, siccome lo conosco, Arnie avrà donato la propria quota azionaria a qualche istituto di carità. Lui era un vero filantropo». «Veramente, sul testamento c'è scritto che lascia la sua partecipazione azionaria agli altri soci della Echo Enterprise», spiegò Sara. «Cioè a lei, se non ho capito male». «Che cosa?», domandò Rafferty, fingendosi sorpreso. «È impossibile. Dev'esserci un errore». «Nessun errore», ribadì Conrad, sempre più sospettoso. «Signor Rafferty, in che rapporti è, lei, con Claire Doniger». «L'ho conosciuta insieme a Arnie, a una fiera dell'arredamento domestico di qualche anno fa. È una designer bravissima». «Vi vedete spesso?». «Le ho telefonato qualche volta, dopo la morte di Arnie, per sentire come stava. A parte questo, non abbiamo mai veramente parlato; è una donna molto riservata». «Ma prima che il marito morisse... vi frequentavate?». «Non direi», rispose Rafferty. «Perché me lo chiede?». «No, niente», disse Sara. «Be', signor Rafferty, le abbiamo già fatto perdere fin troppo tempo. Lei ci è stato di grandissimo aiuto». «Figuratevi! Se c'è altro che posso fare per voi, non fatevi scrupoli», disse Rafferty. «Vi hanno consegnato tutto quello che chiedevate, in amministrazione?». «Credo di sì», rispose Sara, alzandosi in piedi e tendendogli la mano. «Di nuovo, grazie per il tempo che ci ha concesso». «Non c'è di che. Sono a vostra disposizione». Quando la porta dell'ufficio si richiuse, Kozlow si affacciò dal suo nascondiglio. «Puoi uscire, se ne sono andati», disse Rafferty. Proprio quando Kozlow stava per rimettere piede nella stanza, la porta dell'ufficio si riaprì. «Un'ultima cosa», disse Sara. «Volevo lasciarle il mio biglietto da visita, nel caso lei avesse bisogno di mettersi in contatto con noi». Kozlow restò impietrito. Al centro della stanza, Rafferty aveva Sara alla sua destra e Kozlow a sinistra, sulle soglie contrapposte. Quando lei fece per entrare, Rafferty le andò prontamente incontro per bloccarle l'accesso. «Grazie», disse Rafferty. «Se ci sono novità, vi chiamerò senz'altro».
«Gliene sono davvero grata», disse Sara. «E scusi il disturbo». «Nessun disturbo. È un piacere, per me, poterla aiutare». Quando Sara se ne fu andata, Rafferty chiuse la porta a chiave. Lui e Kozlow rimasero immobili per alcuni interminabili secondi. «Io l'ammazzo», disse Kozlow. «Mi ha stufato». «Taci», disse Rafferty, sollevando la cornetta del telefono e componendo un numero. «Jared Lynch». «Dimmi un po', super-avvocato dei miei stivali, che diavolo stai combinando? Si può sapere?». «Che c'è?», domandò Jared. «È successo qualcosa?». «Puoi scommetterci che è successo qualcosa! Ho trascorso gli ultimi dieci minuti a conversare amabilmente con tua moglie e i suoi stupidi colleghi!». «Lei si è incontrato con Sara?». «Non solo: sono stato interrogato da lei. E ti dico che ne ho abbastanza. Sara ha chiuso. Le faccio un buco in testa così grosso che...». «No, vi prego... Aspettate! Le parlerò io». «Non me ne frega un cazzo delle tue promesse». «Sistemerò tutto, ve lo giuro. Concedetemi ancora un po' di tempo». «Questo è un ultimatum, Jared. Se non la smette di ficcare il naso, la spedisco a far visita a Barrow. Mi sono spiegato?». «Sì... certo», balbettò Jared, chiaramente scosso. «Mi dispiace... davvero...». Rafferty si risistemò la giacca e tacque per un istante. Non gli piaceva perdere il controllo, ma non era neppure disposto a farsi portare via tutto. «Comunque, non è che, magari, hai qualche buona notizia da darmi?», domandò a Jared. «Forse, sì... Ho appena parlato con l'assistente del giudice. Le decisioni sulle istanze che abbiamo presentato sono previste per domani. Se almeno qualcuna andrà a buon fine, potremo neutralizzare alcuni degli elementi di cui Sara dispone». «Prega che sia così», minacciò Rafferty. «Perché se continui così, lei è morta». «Allora, cosa ne pensi?», domandò Sara a Conrad, mentre lasciavano gli uffici della Echo Enterprise. «A naso, direi che il tipo è un bugiardo, ma non ne ho ancora la certez-
za», rispose Conrad. «Anche quando ho cercato di provocarlo, non ha mai dato segno di essere a disagio». «Non solo: sembrava sincero quando diceva di volerci aiutare». «Questo non vuol dir nulla», disse Conrad, in piedi con Sara davanti all'edificio. «Fingere disponibilità è facile. Mantenere la calma è tutt'altro paio di maniche. Non dobbiamo farci impressionare dalla sua gentilezza: Rafferty è l'unica persona beneficiata dal testamento di Arnold Doniger. Questo basta e avanza, per metterlo in cima alla lista dei sospetti. E poi erediterà un'impresa che vale cinquanta milioni di dollari, e vuol farci credere che non sa cosa c'è scritto sul testamento?». «Be', se può interessare, a me quel tipo non è piaciuto affatto», disse Guff. «Aveva tre telefoni... Ho sentito una pessima vibrazione». «Ne terremo conto», disse Conrad. «Guff ha una pessima vibrazione, quindi Rafferty dev'essere l'omicida». «Che altro abbiamo da fare, per oggi?», domandò Sara. «Dobbiamo prepararci per l'udienza di domani, dare un'altra occhiata al testamento e capire se Oscar Rafferty sia davvero il caro amico del defunto, come vuole farci credere, o il più consumato contapalle che si sia mai visto». «Dovremmo anche cercare di determinare con precisione l'ora della morte», disse Guff. «Potrebbe chiarire un mucchio di cose». Sara, che stava prendendo posto su un taxi, si bloccò. «Non è un'idea malvagia», disse. «A proposito, che ne direste di fare un giretto nell'Est Side?». «Io non posso», rispose Conrad. «Ho alcuni affari da sbrigare in ufficio». «Non puoi rimandare di...». «Non posso», ripeté Conrad. «Ho da fare». Invitando Sara e Guff ad accomodarsi sull'auto, aggiunse: «Voi, però, andateci pure». «Sei sicuro?». «Oh, basta! Sparite!», esclamò Conrad. «Ci vediamo al vostro ritorno in procura». Quando il taxi partì, Guff domandò: «Allora, dove si va?». «A determinare con precisione l'ora della morte di Arnold Doniger». «Ehi, aspetta un secondo!», disse Guff, arrancando, mentre Sara volava verso la porta di casa Doniger. «Quel pazzo ti ha consigliato di controllare in cantina e tu ti decidi solo ora?».
«Non ho avuto il tempo di farlo prima. Ho cercato di farmi assegnare un investigatore, ma non c'è stato niente da fare, ricordi?». «Credevo che per i casi di omicidio un investigatore venisse assegnato d'ufficio». «Infatti, ma i tagli alla spesa stanno decimando un po' tutti i reparti. Per questo, ce ne occupiamo noi». Sara salì i gradini che conducevano alla porta di casa Doniger e suonò il campanello. «Chi è?», si sentì domandare dall'interno. «Signora Doniger, sono Sara Tate. Volevo farle alcune domande». Schiudendo la porta di una fessura, Claire Doniger disse: «Ho incontrato un avvocato, che mi ha consigliato di non parlare con lei. Ha detto che se lei vuole incriminarmi per omicidio, lo può anche fare, ma mi ha spiegato che mi conviene tacere, se lui non è presente». «È un ottimo consiglio», disse Sara. «Ma non le ha mostrato, il suo legale, uno di questi fogli?». Sara porse a Claire un modulo appena prelevato dalla borsa. «Questo è un mandato di perquisizione. Se vuole, glielo compilo e poi faccio arrivare un blindato pieno di poliziotti, che non vedono l'ora di aiutarmi a metterla in imbarazzo con i suoi vicini. Altrimenti, può decidere di collaborare, la qual cosa mi appare di gran lunga più sensata. A lei la scelta». La signora Doniger esitò, ma poi si risolse ad aprire la porta. Aveva un'aria molto più provata rispetto all'ultima volta che l'aveva vista. La sua abituale acconciatura da haute coiffure era spenta e sgonfia, e il viso solitamente ben riposato tendeva alquanto allo stravolto. Malgrado il tentativo di mascherare il pallore con uno spesso strato di trucco, era evidente che Claire Doniger non aveva passato la migliore settimana della sua vita. Entrando nella casa sontuosamente arredata, Sara disse: «Come va?». «A meraviglia», rispose secca la signora. «Ora, la prego, dia la sua occhiata in giro e facciamola finita. Ho un sacco di cose da fare». Spostandosi nel salotto di quel bellissimo edificio ottocentesco in arenaria - ornato da due paesaggi olandesi coordinati, pesanti drappeggi di broccato e mobili Luigi XIV - Sara provò uno spiacevole déjà vu. Erano mesi che fantasticava su quella casa. Vederla dal vero le procurò una scossa. «Pazzesco, eh?», disse Guff, mentre passavano in soggiorno. «È come un sogno», rispose Sara. Giunti in cucina, Sara si rivolse alla padrona di casa. «Lei conferma di aver dato a suo marito, la notte del decesso, un succo di frutta e una barra al cioccolato?». Con un'espressione offesa, la signora Doniger rispose: «Si risparmi le
sue insinuazioni. Kozlow è entrato qui per rubare, e basta». «Le credo», disse Sara. «Potremmo dare un'occhiata anche alla cantina?». «Perché?», domando la Doniger. «Vogliamo vedere se ci sono altri accessi da cui il ladro possa essersi intrufolato», disse Guff. «In caso affermativo, anche la sua versione dei fatti ne uscirebbe rafforzata». La signora Doniger lo fissò, riflettendo sul da farsi. Alla fine acconsentì. «La porta è quella alle vostre spalle. L'interruttore della luce è sulla destra». Mentre scendevano le scale, Guff si accorse che la signora non li stava seguendo. «Comunque», mormorò a Sara, «tu non puoi firmare un mandato di perquisizione. Per quello c'è bisogno di un giudice». «Io lo so», disse Sara, sorridendo, «ma lei no. E ora che abbiamo il suo consenso, possiamo frugare dappertutto». «Bel trucchetto, ma che cosa stiamo cercando, esattamente?». «Non lo so, di preciso. Quell'uomo mi ha detto soltanto di venire a dare un'occhiata in cantina». Giunti in fondo alle scale, Sara e Guff si ritrovarono davanti a quello che aveva tutta l'aria di essere lo studio domestico di Arnold Doniger. Contro la parete opposta alla porta c'erano un piccolo scrittoio in legno, uno schedario con due cassetti e un personal computer. In un angolo c'era una sedia di Princeton, mentre alla parete di destra era appoggiata una libreria stipata di volumi. Sulla parete a sinistra, perfettamente conservato, troneggiava un pesce spada imperiale di due metri probabilmente il trofeo di una battuta di pesca fortunata - ma vi era anche una porticina che si apriva su un magazzino pieno di scatoloni vuoti e vecchi mobili. Le altre due pareti erano ricoperte di fotografie e altri effetti personali: foto di quando Arnold era in marina o, ancora, sulla sua barca a vela, nonché una, più grande, del giorno del matrimonio con Claire. «Bella, questa foto», disse Guff, osservando i due sposi. «Sembrano davvero felici». «È triste, vero?», disse Sara. «Un giorno sei lì, in abito bianco, e dieci mesi più tardi devi già vestirti a lutto». «Benvenuta nel mondo della lotta al crimine», disse Guff. Sara lesse un articolo della rivista «Avenue» messo in cornice accanto alla foto del matrimonio. «Qualcosa di interessante?», domandò Guff. «Dipende da cosa intendi per "interessante"», rispose Sara. «Secondo
questo articoletto di cronaca mondana, in preparazione del ricevimento per il loro matrimonio, organizzato al Pierre, Claire aveva chiesto che venissero cambiate le tende della sala da ballo. Siccome i responsabili del Pierre, a quanto pare, non intendevano assecondarla, Claire fece fare delle tende a proprie spese. Finita la festa, le lasciò dov'erano, dato che erano troppo ingombranti per portarle a casa. La cosa divertente è che al Pierre le tende sono piaciute così tanto, che non le hanno più tolte. E Claire è stata sulla bocca di tutta la bella società per il suo buon quarto d'ora». «Vuoi dire che Claire è il tipo di persona a cui piace sguazzare tra i soldi?». «Vuoi sapere se credo che le piaccia questo stile di vita dispendioso? Be', la risposta è sì». Guff si avvicinò allo scrittoio di Arnold, e Sara propose: «Tu occupati dello scrittoio; io penso al resto della stanza». Dopo un quarto d'ora di ricerche, non avevano ancora trovato nulla. Scoraggiato, Guff cominciò a guardare dietro le foto appese al muro. «Che stai facendo?», gli domandò Sara. «Non lo so. Magari trovo un passaggio segreto, o una siringa usata o qualcos'altro del genere. Hai qualche idea migliore?». «Veramente, no», disse Sara, varcando la porticina che conduceva nell'altra stanza della cantina. Vide un veccho divano a due posti, una serie di sedie da cucina e una quantità di scatoloni vuoti di elettrodomestici, ma con sua grande sorpresa - anche un'altra porticina, che sembrava quella di una cella frigorifera industriale. Quando Sara la aprì, fu investita da una ventata di aria fresca. «Cosa c'è lì dentro?», domandò Guff. Sara accese la luce e infilò la testa all'interno: in quella stanzetta di due metri per due c'erano almeno trecento bottiglie di vino perfettamente ordinate. «Che figlio di puttana!», esclamò Sara. Diede una rapida occhiata in giro e, presa una penna dalla borsa, prese nota di qualcosa. Quindi, riemerse dalla stanza adibita a magazzino con lo sguardo come illuminato da una nuova consapevolezza. «Cosa c'è di tanto entusiasmante?», domandò Guff. «È solo una cella frigorifera». «No, non è solo una cella frigorifera», disse Sara, tornando verso le scale. «Dài, andiamocene di qui».
Seduta nell'ufficio di Fawcett, nel seminterrato in cui lavoravano gli anatomopatologi, Sara stava aspettando che Guff terminasse di parlare al telefono. «Certo, capisco», disse Guff. «Ma lei ritiene che sia possibile?». Mentre Guff ascoltava la risposta, Fawcett entrò e andò a sedersi alla sua scrivania. «Con chi sta parlando?», domandò a Sara. «Con la Chillington Freezer Systems, la ditta che ha installato la cella frigorifera di Doniger». «Sì, sì. No, ha ragione», disse Guff. «Grazie per l'aiuto». Quando posò la cornetta, si voltò verso Sara e Fawcett. «Be', il gentilissimo servizio clienti della Chillington dice che la cella frigorifera viene normalmente regolata sui 12-13 gradi centigradi e tra il cinquantacinque e l'ottanta per cento di umidità, secondo le condizioni del locale che la ospita». «Non mi interessa la conservazione del vino», disse Sara. «Io voglio sapere fino a che temperatura può scendere quel freezer». «È proprio questo il problema», disse Guff. «Una cella frigorifera non è un freezer. È concepita per raffreddare, ma non più di tanto». «Allora, fino a che temperatura...?». «Rilassati, adesso ci arrivo», disse Guff. «Secondo la donna con cui ho parlato al telefono, la temperatura può essere abbassata manualmente tra i sette e i dieci gradi. Ma se si spengono il deumidificatore e la bobina di riscaldamento, e nel locale non entra la luce del sole...». «... come avviene nelle cantine...». «Esatto», disse Guff. «In una cantina, ad esempio, si può abbassare la temperatura tra i quattro e i sette gradi sottozero». «Lo sapevo!», gridò Sara, picchiando un pugno sulla scrivania di Fawcett. «L'ho capito non appena l'ho vista». «Vi dispiacerebbe spiegarmi che cosa sta succedendo?», domandò Fawcett. «Perché questo improvviso interesse per le celle frigorifere?». «Per via di quello che hai detto tu durante l'autopsia», spiegò Sara, tirando fuori la bozza preliminare del rapporto di Fawcett, su cui aveva vergato alcune note a margine. «Tu hai detto che nel cervello di Doniger c'erano come dei segni, la cui causa poteva essere l'esposizione a fredde o freddissime temperature. Ebbene, in quella cella si può ottenere un bel freddo intenso. È così che sono riusciti a evitare che il fetore appestasse tutta la casa e a far sembrare che Arnold Doniger fosse morto il giorno successivo al furto: lo hanno messo nella cella frigorifera e hanno abbassato la temperatura al minimo. Scommetto che in origine avevano intenzione di chiamare
un'ambulanza il mattino seguente dicendo che il povero marito diabetico era morto, ma quando Patti Harrison ha telefonato alla polizia e Kozlow è stato arrestato, hanno dovuto improvvisare». «E la roba che gli hanno trovato addosso?», domandò Guff. «La palla da golf e l'orologio di diamanti». «Secondo me, Kozlow si è fatto prendere dall'avidità e li ha rubati uscendo, sperando che nessuno se ne accorgesse. Ovviamente, non immaginava di essere arrestato di lì a poco. Quando il poliziotto ha riportato Kozlow a casa di Claire Doniger e le ha chiesto se era sua la roba che gli aveva trovato addosso, lei non ha potuto far altro che accreditare la storia del furto. Non poteva certo raccontare che Kozlow era venuto per ammazzarle il marito». «Certo, è possibile», disse Fawcett. «Alcuni anni fa un tale aveva fatto più o meno la stessa cosa con la moglie morta. Se non ricordo male, l'aveva messa nel congelatore e aveva atteso che i figliastri partissero per le vacanze». «Lo vedete? È per questo che adoro New York», disse Guff, con fierezza. «La gente si fa sempre così tanti scrupoli!». Allo scopo di avere sempre una scusa plausibile per ritornare nell'appartamento da cui Sara l'aveva cacciato, Jared vi aveva lasciato gran parte delle proprie cose. Una volta alla settimana si presentava per prendere un vestito, qualche cravatta o altro e, soprattutto, per vedere sua moglie. Dopo l'ultima lite, Jared aveva deciso di stare alla larga, ma le recenti minacce di Rafferty l'avevano indotto a riconsiderare la sua strategia. Doveva assolutamente passare da casa, ma per evitare che Sara si insospettisse, aveva annunciato la visita, dicendo che sarebbe arrivato intorno alle otto. In realtà, nella speranza di trovarla addormentata, non si fece vivo prima di mezzanotte. Cercando di fare meno rumore possibile, raggiunse la camera da letto e aprì piano la porta. «Dove sei stato?», domandò Sara. «Sei in ritardo di quattro ore». Jared non rispose. Appoggiò la propria borsa ai piedi del comodino e si infilò direttamente in bagno. Nelle precedenti due settimane e mezza, le loro conversazioni si erano fatte più rare, asettiche e brevi, fin quasi a sfiorare silenzio più assoluto: ovviamente, di lavoro non si parlava, ma la tensione cominciava ad affiorare anche quando chiacchieravano del più e del meno. Quando Jared uscì dal bagno, Sara era sotto le coperte e gli volgeva la
schiena. All'improvviso lui disse: «Hai frugato nella mia borsa?». «Cosa?», domandò Sara, voltandosi verso di lui. «Hai frugato nella mia borsa?», ripeté Jared, indicando il punto in cui l'aveva posata. «Quando sono andato in bagno era in piedi; adesso è di faccia per terra». Sara scoppiò a ridere. «Forse non ti hanno avvertito, ma esiste una cosa che si chiama forza di gravità». «Non fare la spiritosa!», gridò Jared. «Sto parlando seriamente!». Colta alla sprovvista da quell'accesso d'ira, Sara domandò: «Ehi, che ti prende?». «Che mi prende? Ti ho appena beccata che...». «Tu non hai beccato proprio niente», disse Sara. «Sei solo stressato perché, alla fine, ti stai rendendo conto che non hai speranze di vincere questo caso». «Ti sbagli!», strillò lui. «È escluso che io possa perdere!». Sara vide nei suoi occhi un'espressione che non gli conosceva. La sua consueta, serena cordialità aveva lasciato il posto alla pura disperazione. Nella speranza che si calmasse, Sara disse: «Facciamo che adesso è notte e ci risparmiamo la litigata per domani, eh?». «Dico sul serio, Sara: è escluso che io possa perdere». «Va bene, d'accordo». «Mi hai sentito? È escluso!». «Jared, cosa vuoi che ti dica?», domandò Sara. «Che hai ragione? Che non puoi perdere?». «Voglio solo che tu mi prenda sul serio». Sara non rispose. «Non ignorarmi», insistette Jared. «Allora, mi prendi sul serio o no?». «È inutile rispondere a questa domanda». «Non è inutile. Rispondimi». Sara torno a voltargli le spalle e disse: «Va' a farti fottere». Quando Jared fece ritorno all'appartamento di Pop, era quasi l'una di notte. Ancora scosso, si sforzò di concentrarsi sull'imminente esito delle istanze che aveva presentato. "Se ne accogliessero anche solo la metà", pensò, aprendo la porta, "le cose potrebbero ancora sistemarsi". Ormai abituato all'odore della casa di Pop, non fece caso all'umidità che l'aveva preso alla gola la prima volta che vi era entrato. Non notò neppure le foto di Sara che, da quando dormiva lì, lo ossessionavano ogni sera. Si accorse,
invece, del ventilatore elettrico del 1946 che, inspiegabilmente, era in funzione. Quel ventilatore, di un colore blu brillante, era uno dei cimeli preferiti di Pop: era stato costruito dalla General Electric in stile art déco, quando ancora non si usava racchiudere la ventola in una gabbia metallica di sicurezza. "E ancora funziona!", soleva ripetere Pop, ogni volta che si andava sul discorso. Quando vide quell'apparecchio che vibrava sul tavolino accanto al divano, Jared capì che c'era qualcosa di strano. Quando era uscito, quella mattina, il ventilatore era sicuramente spento. Del resto, essendo ormai prossimo l'inverno, solo un pazzo... «Indovina un po' chi c'è?», domandò Kozlow, saltando fuori all'improvviso dall'armadietto dell'ingresso. Jared si voltò di scatto e fu colpito in pieno naso da un diretto a mano aperta. «Si sono presentati in ufficio da Rafferty!», urlò Kozlow, mentre il naso di Jared sanguinava a fiotti. «Sono stati da Rafferty, e poi in cantina a casa Doniger! Che cazzo succede, eh?». Kozlow non aspettò la risposta di Jared e gli sferrò una ginocchiata allo stomaco. «Me lo vuoi spiegare?». Piegato in due dal dolore, Jared adocchiò una scopa che era caduta a terra quando Kozlow era balzato fuori dall'armadietto. Non doveva far altro che afferrarla, ma Kozlow seguì lo sguardo di Jared e lo precedette. «Volevi usarla contro di me, vero?». Gli rifilò una secca bastonata al torace. «Dài, rispondi!». Lo colpì di nuovo, questa volta alla schiena. Poi ancora al petto. Poi ancora alla schiena. «Allora, perché non mi rispondi?», urlava Kozlow. Jared era steso a terra. In piedi alle spalle della sua vittima, Kozlow gli premette con forza la scopa contro il collo. Non riuscendo a respirare, Jared prese a dibattersi con violenza per togliersi da quella posizione. Cercò di infilare una mano tra la gola e il pavimento per far leva e allentare la pressione, ma non ci fu nulla da fare. Kozlow non mollava, e Jared continuava a boccheggiare, con il viso sempre più congestionato. Con un poderoso strattone, Kozlow lo fece rialzare e lo spinse in avanti. Erano ormai a ridosso del divano, e il ventilatore posato sul tavolino lì accanto, stava ancora girando. Quando Jared capì le intenzioni di Kozlow, reagì d'impeto. L'adrenalina gli diede la forza di puntare i piedi e di spingersi all'indietro. Rotolarono entrambi a terra, dopo aver sbattuto contro la parete coperta di foto incorniciate, tra una pioggia di schegge di vetro. Kozlow fu colto di sorpresa, ma nel giro di qualche secondo riprese in pugno
la situazione: stringendo il manico della scopa con due mani, lo premette contro il collo di Jared, cercando di trascinarlo verso le pale del ventilatore. Jared tentò di divincolarsi e di aggrapparsi a qualunque oggetto gli capitasse sotto mano, per impedire a Kozlow di portare a termine il suo piano. Rovesciò la lampada, scalciò il tavolino da caffè e puntò nuovamente i piedi contro il divano, ma quanto più opponeva resistenza, tanto più Kozlow spingeva. Con un ultimo spintone, Kozlow riuscì a gettare Jared sul divano di faccia sul bracciolo, piantandogli un ginocchio tra le scapole, e prese il ventilatore, avvicinandolo al divano. Jared tirò indietro la testa, ma le pale del ventilatore gli vorticavano a pochi centimetri dalla faccia. Kozlow lo afferrò per i capelli e lo spinse lentamente in avanti. «Avevi detto che avresti vinto», urlò Kozlow. «O mi sbaglio?». «Domani...», biascicò Jared. «Le eccezioni...». «Me ne fotto di domani. Questo è per adesso», disse Kozlow, spingendolo sempre più vicino al ventilatore. Jared voltò la testa di lato, nel tentativo di ritardare ciò che pareva ormai inevitabile. Era così vicino, che riusciva a sentire l'odore della polvere depositata sulle pale rotanti. «Avvertimi se ti faccio male, eh?», disse Kozlow. Pochi millimetri ancora. Jared strinse i denti e chiuse gli occhi. Sul volto di Kozlow si disegnò un ghigno. Jared cominciò a urlare. Il mattino seguente, Conrad e Guff erano davanti al tribunale, in attesa che arrivasse Sara. «Non ci posso credere: è ancora in ritardo», disse Conrad. «È la seconda volta». «Forse, aveva da fare», disse Guff. «Che altro può esserci di più importante? Che altro fa nella vita?». «Forse, sta seguendo dei corsi di tiro con l'arco, o di yo-yo. Che cosa vuoi che ne sappia?». Conrad consultò l'orologio e si accorse che era ora di presentarsi in aula. Quando aprì le porte a vento dell'aula giudiziaria, vide Jared e Kozlow seduti su un banco l'uno accanto all'altro. Jared aveva una garza che gli copriva la punta del mento. Conrad si avvicinò e disse: «Che piacere vederti». «Piacere mio», rispose Jared, reciso. «Che cosa ti sei fatto, in faccia?». «Non sono affari tuoi».
«Come preferisci. Sai dov'è tua moglie?». «No. Perché?». «Perché avrei bisogno di parlarle, ma non so dove trovarla». «Be', te la sei cavata bene senza di lei, l'ultima volta», disse Kozlow, ridacchiando. «Molto spiritoso», commentò Conrad. «Voglio vedere se riderai ancora, il giorno della sentenza. Sarebbe un'ottima maniera per mostrare a tutti quanto sei imbecille». «Okay, abbiamo capito», disse Jared, alzandosi in piedi. «Sei un duro, tu. Ora, però, lasciaci in pace, se non vuoi che ti denunci per molestie». Fissando Jared negli occhi, Conrad disse: «Evidentemente, non hai idea di quanto sia difficile provare un'accusa di molestie». «E tu, evidentemente, non hai idea di quant'è spiacevole essere il destinatario di una denuncia. Anche ammesso che te la cavi, per sei mesi almeno la tua vita sarà un inferno». Prima che Conrad potesse replicare, Sara entrò trafelata in aula. Jared e Conrad si guardarono e tacquero. «Che cosa ti sei fatto, in faccia?». «Niente», rispose Jared. Cinque minuti dopo, il commesso del tribunale chiamò le parti in causa del caso numero 0318-98, che vedeva opposti lo Stato di New York e Anthony Kozlow. Con la sua mascella squadrata e la barba perfettamente curata, il giudice Bogdanos aveva un'aria autorevole, che incuteva un certo timore. In veste di pubblico ministero, più di dieci anni prima, si era fatto conoscere per lo zelo quasi irrazionale con cui sosteneva che chiunque incappasse nelle maglie della giustizia fosse in qualche misura colpevole. Per gli avvocati difensori Bogdanos era un uomo pieno di pregiudizi; per i pubblici ministeri era un eroe. «Sarò brevissimo», disse quando le parti ebbero preso posto dietro i rispettivi banchi. «Istanza della difesa relativa al rinvio del processo, per consentire l'acquisizione di nuovi elementi: respinta. Istanza della difesa relativa alla soppressione dell'orologio di diamanti: respinta. Istanza della difesa relativa alla soppressione della palla da golf: respinta. Istanza della difesa relativa alla soppressione della testimonianza dell'agente Michael McCabe: respinta. Istanza della difesa relativa alla soppressione della testimonianza di Patricia Harrison: respinta. Istanza della difesa relativa alla soppressione della testimonianza dell'operatrice telefonica del servizio informazioni sull'elenco abbonati: respinta. Istanza della difesa relativa al-
l'assenza di causa probabile: respinta». Andò avanti così per un po'. Le trentaquattro istanze presentate da Jared furono tutte respinte. Quando ebbe terminato la lettura, il giudice Bogdanos alzò gli occhi dal foglio e disse: «Avvocato Lynch, ammiro la sua perseveranza, ma sappia che non mi piace affatto sprecare il mio tempo. Nella vita, sono rare le occasioni in cui la quantità fa aggio sulla qualità, e questa non è certamente tra quelle. Mi spiego?». «Sì, Vostro Onore», disse Jared, timidamente. «Bene. Ora fissiamo la data del processo: se non ci sono obiezioni, vi convocherei per giovedì prossimo». «La pubblica accusa è disponibile, Vostro Onore», disse Sara. Sebbene tentato di chiedere una proroga, Jared tacque. Sforzandosi di sorridere, disse: «La difesa non ha nulla in contrario, Vostro Onore». «Bene», disse il giudice. «Arrivederci, a giovedì». Con una svelta rotazione del polso, batté il martelletto sul banco, e l'addetto del tribunale chiamò il caso successivo. «Com'è andata?», domandò Kathleen, seduta alla scrivania, quando Jared le passò davanti. Jared si infilò in ufficio senza rispondere e chiuse la porta. Un minuto dopo, Kathleen lo raggiunse. Aspettandosi di trovarlo seduto alla scrivania, restò sorpresa quando lo vide sdraiato a terra, supino, con le braccia conserte sugli occhi. «Ti senti bene?», gli domandò. Jared ignorò la domanda. «Jared, rispondimi. Ti senti bene? Che cosa ti sei fatto, in faccia». «Sto bene», mormorò. «Dov'è Kozlow?». «Non lo so. Se n'è andato appena siamo usciti dal tribunale. Probabilmente è andato da Rafferty a riferirgli che ho fallito». «Devo dedurre che le tue istanze non sono andate a buon fine, vero?». Immobile con le braccia sugli occhi, Jared aggiunse: «Avrei dovuto immaginarlo: quelle istanze erano carta straccia. Ce n'erano sì e no un paio meritevoli di considerazione. In realtà, speravo soltanto di guadagnare tempo». «Con Bogdanos? Devi essere impazzito». Scuotendo la testa, Jared disse: «Sono nei guai, Kathleen. Non abbiamo una sola possibilità di farcela». «Non dire così. Il processo deve ancora cominciare. Anzi, quando...».
«Dico sul serio», la interruppe lui. «Sta andando tutto storto». «Jared, tu sei l'avvocato di un imputato colpevole. È ovvio che tutto giochi a tuo sfavore». Gli si sedette accanto. «Anche nel caso Wexler sembrava che tutto giocasse a tuo sfavore, e invece ce l'hai fatta. Come anche nel caso Riley, e nel caso Shoretz». «Quei casi erano diversi», disse Jared. «Lì non si trattava...». «Che cosa? Non si trattava di affrontare tua moglie? Non si trattava dello stesso reato? È ovvio: questo caso è più importante. Ma ciò non significa che non riuscirai a salvarla. Sara non è imbattibile... È soltanto una principiante che ha goduto di qualche colpo di fortuna. Per il resto, tu sei il ragazzo prodigio di sempre. Sai benissimo che ho ragione, Jared. In un testa a testa con Sara, tu partirai sempre avvantaggiato. Il problema si risolverà, vedrai. Non arrenderti solo perché le cose non vanno come vorresti». Per nulla persuaso, Jared non si mosse di un millimetro. «Dài», lo incitò Kathleen. «Cerca di scuoterti. È dalla morte di Barrow che sei così. Riprendi in mano la situazione. Non è quello che consigli sempre a tutti i nuovi associati? "Sii più aggressivo. Prendi in mano la situazione!"». «Ascolta, Kathleen: apprezzo molto il tuo sforzo, ma non è proprio il momento», disse Jared. «Lasciami solo, ti prego. Quando mi sarà passata, batterò un colpo». «Io non aspetterei troppo», disse lei. «Il tempo vola». «Ehi, ma che strage è stata?», domandò Guff, quando lui e Sara rientrarono nell'ufficio. «Non si vedeva un'ecatombe del genere dai tempi delle glaciazioni. Le sue istanze si sono estinte come i dinosauri!». «Mah, non esageriamo», disse Sara. «Vuoi scherzare?», insistette Guff. «L'hai vista o no la faccia di Jared, mentre Bogdanos leggeva il responso? Respinta, respinta, respinta, respinta... Mi è sembrato di rivivere, in cinque minuti, la storia di tutte le proposte di fidanzamento che ho fatto in vita mia». «Se è possibile, è stato persino peggio della tua storia sentimentale», rincarò Conrad, con un enorme sorriso stampato in faccia. «Orrore allo stato puro. Una carneficina, uno sterminio, un bagno di sangue, un vero scempio». «Forse è il caso che gli telefoni», disse Sara, protendendosi verso l'apparecchio. «Per assicurarmi che...». «Non ti preoccupare», disse Conrad. «Fa parte del gioco, e lui lo sa».
«Volete sapere una cosa?», disse Guff. «Per quanto possa sembrare folle, questa è una di quelle giornate in cui mi piacerebbe essere un avvocato». «Goditela, finché dura», disse Conrad. «Perché la parte difficile deve ancora arrivare: ora dobbiamo preparare il processo». Alle nove di quella sera, nel suo ufficio, Sara - sotto la supervisione di Conrad - stava sottoponendo Guff, che impersonava Kozlow, a uno pseudo-interrogatorio. Era la settima volta che ricominciavano, nelle ultime due ore. «Allora, signor Kozlow, perché non racconta ai signori giurati in che modo, esattamente, ha assassinato il signor Doniger?». «No, no, no... Ci risiamo», si intromise Conrad, prima che Guff potesse aprir bocca per rispondere. «Non devi stuzzicarlo. Devi guidarlo. Guidalo dove tu vuoi che vada e, quando hai raggiunto la meta, inchiodalo». «Questo tipo di filosofia non mi è nuovo», disse Sara. «Ah, sì... È la filosofia del gulag». «Potrà sembrarti brutto, ma nella vita e nei tribunali è così che si ottiene ciò che si vuole». Voltandosi verso Guff, che era seduto sul divano, Conrad disse: «Signor Kozlow, lei conferma di essere stato a casa di Arnold Doniger quella famosa notte, vero?». «No, io...», fece Guff. «Come spiegare, altrimenti, il fatto che lei fosse in possesso dell'orologio di diamanti e della palla da golf d'argento?». Si rivolse a Sara. «Le tue domande devono essere mirate. I giurati aspettano la tua imbeccata. Ogni balbettio, ai loro occhi, equivale a una menzogna». Alzandosi dal divano, Guff disse. «A proposito, vorrei tanto rimanere qui a farmi stressare ancora un po', ma ora devo proprio andare». «Sei un codardo», gli disse Conrad, quando Guff era ormai sulla porta. Quando Guff se ne fu andato, Sara guardò Conrad e disse: «Avanti il prossimo». «D'accordo», rispose lui, prendendo posto sul divano, dove fino a poco prima era seduto Guff. «Però, ti avverto: io non sarò mansueto come Guff. Il mio Kozlow è un tipo molto più caparbio». «Lo vedremo», disse Sara, sistemandosi di fronte a lui. Diede un'ultima occhiata al blocco degli appunti, si calò nel personaggio e attaccò. La voce forte e il tono perentorio, disse: «Dunque, signor Kozlow, lei conferma di essere stato a casa di Arnold Doniger quella famosa notte, vero?».
«Signorina Tate, perché continua a farmi questa domanda?», piagnucolò Conrad, con l'aria offesa della vittima. «Signori giurati, io ho già risposto. Vedete? È questo il problema, al giorno d'oggi, con gli avvocati: non ti ascoltano mai. Sbatterebbero in galera chiunque, pur di averla vinta; non ci pensano, loro, ai poveri innocenti che fanno soffrire ingiustamente». Presa alla sprovvista dalla risposta di Conrad, Sara disse: «Ehi, non vale! Non puoi fargli fare la figura del simpaticone». «Ah, no?», domandò Conrad. «Che cosa credi che stia facendo, tuo marito, mentre noi siamo qui a parlare?». Due ore più tardi, Jared era sulla porta di casa. Dopo l'aggressione della notte precedente, non se la sentiva di stare da Pop e aveva voglia di vedere sua moglie. Nei dieci anni precedenti - qualsiasi problema, qualsiasi difficoltà, qualsiasi prova si fosse trovato ad affrontare - aveva sempre avuto Sara al suo fianco: lei era stata la prima persona che aveva visto dopo l'intervento al ginocchio, e l'unica che, nonostante tutto, gli avesse fatto i complimenti quando lui aveva perso il suo primo processo. Nelle tre settimane appena trascorse, Jared non aveva avuto problemi a evitarla, ma quando entrò nell'appartamento vuoto e silenzioso provò uno struggente desiderio di incontrarla. Gli mancavano la sua risata, le prese in giro sul suo senso estetico, il modo in cui lei attaccava lite se non era d'accordo su qualcosa. «Sara!?», disse a voce alta, entrando in soggiorno. «Ci sei?». Andò in camera da letto. «Sara!? Amore, sei in casa?». Di nuovo, silenzio. Sara non c'era. «Dio, ti prego, fa' che stia bene», mormorò. Nelle tre settimane appena trascorse, Jared era stato per i fatti propri; quella sera, invece, si sentì solo, e mentre era lì in piedi, nel silenzio della camera da letto, si rese conto di quanto le due cose fossero diverse. «Daccapo», disse Conrad. «Ripassiamolo un'altra volta». «Oh, ma cosa sei? Un robot?», domandò Sara, gettandosi esausta sul divano, accanto a lui. «È quasi mezzanotte». «Per raggiungere la perfezione bisogna fare le ore piccole». «Al diavolo, la perfezione! Per noi, poveri mortali, è irraggiungibile». «Scommetto che Jared, invece, punta sempre alla perfezione». «Ah, sicuro. È questa la differenza tra me e lui: lui mira alla perfezione; io, invece, mi accontento di fare le cose al meglio delle mie capacità». Puntando il dito all'indirizzo di Conrad, aggiunse: «E smettila di usare Jared contro di me. Non mi piace, e non funziona».
«Finora ha funzionato», disse Conrad. «Be', smettila. Mi dà fastidio». Appoggiandosi all'indietro, Conrad la fissò in silenzio. Dopo un po', disse: «Hai sempre sentito questa forte rivalità nei suoi confronti?». «Nei confronti di Jared? Certo. Dal primo momento che l'ho visto». «E come vi siete conosciuti? Lavorando come associati stagionali in uno studio legale?». «Niente di tutto questo. La nostra storia è più carina: io e Jared ci siamo incontrati al primo anno di law school». «Oddio, i fidanzatini sui banchi di scuola... Si può immaginare un quadretto più stucchevole?». «Ne dubito. In questo posso ben dire che abbiamo raggiunto la perfezione». Conrad scosse la testa, e Sara aggiunse: «La prima volta che l'ho visto, aveva appena alzato la mano per rispondere a una domanda del professore di diritto amministrativo. Dopo averlo ascoltato, il professore definì la sua risposta "fantasiosa, ma fastidiosamente saccente". Lui ne restò segnato, e lì ho capito che sarebbe stato mio». «Ma non è in quell'occasione che vi siete conosciuti, vero?». «In pratica, nelle prime settimane ci siamo incrociati, ma l'incontro vero e proprio è avvenuto quando, durante una lezione, siamo stati scelti a caso come controparti per un tribunale fittizio». «Scommetto che, lì per lì, vi siete odiati». «Infatti», confermò Sara. «Secondo lui, io ero troppo impertinente; per me, invece, lui era un saputello insopportabile». «Insomma, com'è che vi siete messi insieme?». «Non so. Forse, era solo che a me piaceva la parola "pene", e lui, guardacaso, ne aveva uno». «Parlo sul serio». «Lo so. Tu parli sempre sul serio, ma io non so come risponderti. Quando penso a Jared, però, c'è una cosa di cui sono sicura: lui è la persona che io vorrei essere. Davvero. È così che lo vedo. E quando stiamo insieme, lui mi aiuta ad avvicinarmi a questo mio ideale. L'amore ha sempre a che fare, in una certa misura, con la ricerca di un complemento». «Assolutamente», ammise Conrad. «Ma dimmi di te: sei mai stato innamorato?». «Certo, sono persino stato sposato per tre anni, tempo fa». «Davvero?», domandò Sara, osservandolo d'un tratto, in una luce nuova. «Non ti ci vedo proprio».
«Neanch'io mi ci vedevo. Infatti, me ne sono andato». «Come si chiamava?». «Marta Pacheco. Ci siamo conosciuti che io avevo appena finito il militare; un anno dopo ci siamo sposati. Quando le dissi che avrei voluto trasferirmi a New York, lei mi ha risposto che preferiva stare vicino alla sua famiglia, in California. Quella, in realtà, fu la goccia che fece trabboccare un vaso già stracolmo, ma fu un ottimo pretesto per separarci. Eravamo troppo giovani per resistere insieme». «E ora ami soltanto il nostro sistema giudiziario. Com'è romantico!». «Questa città è un'amante maligna, ma non ce n'è una migliore», disse Conrad, ridendo. «Ma lasciamo perdere i miei errori... e parliamo ancora un po' dei tuoi. Spiegami perché sei stata licenziata da quello studio legale». «Sei roso dal tarlo della curiosità, eh?». «E chi non lo sarebbe? L'argomento è tabù dal giorno in cui ci siamo conosciuti». «Be', non ho intenzione di svelare il segreto». «Suvvia, non fare la bambina. Che cosa ci sarà mai di così imbarazzante?». «Eh, sapessi! È davvero molto, molto imbarazzante». «Dài, ti prometto che non lo dirò a nessuno». Sara ci pensò su; poi, disse: «Facciamo un patto. Io ti dico perché mi hanno licenziata, e tu mi racconti un fatto altrettanto imbarazzante che ti riguarda». «Cos'è questo? Un quarto grado? Ci confidiamo i rispettivi segreti?». «È la mia ultima offerta: prendere o lasciare». «Prendo», disse Conrad. «Dài, sentiamo». «Eh, già, non sono mica nata ieri, caro mio! Se vuoi conoscere il mio segreto, prima devi svelarmi il tuo». «Tuo marito aveva ragione. Sei davvero impertinente». «Dài, racconta». «E va bene!», acconsentì Conrad. «Hai presente la concezione platonica dell'anima?». «Non vorrai raccontarmi una storia presa da un libro, spero». «Ascolta», riprese Conrad. «Secondo Platone, alla nascita, a ogni anima viene assegnato un demone, una specie di angelo custode, che determina il carattere e il destino della persona. Un po' come in ogni ghianda è già contenuta, in un certo senso, tutta la quercia. Quando ero piccolo, mia madre
era una fervente sostenitrice di questa concezione, e riguardo a me si era convinta, senza ombra di dubbio, che io avessi l'anima dell'uomo di spettacolo». «Tu?». «Credimi, questa è stata anche la mia reazione. Com'è ovvio, però, mia madre non aveva alcun interesse per le mie opinioni adolescenziali, cosicché, quando avevo quindici anni, mi disse che era giunta l'ora di trovarmi un lavoretto part-time per integrare il reddito familiare. Per prendere due piccioni con una fava e realizzare, così, anche il mio destino, mi procurò un lavoro come assistente di un prestigiatore. Ci chiamavano alle feste di compleanno dei bambini: lui faceva i giochi di prestigio, e io lo aiutavo». «Non è per niente imbarazzante. Anzi, direi che è il lavoro ideale». «Era quello che pensavo anch'io, finché non vidi il costume che dovevo indossare. Per quattro interminabili anni sono stato costretto a spiaccicarmi in faccia tre dita di cerone, a indossare una parrucca arcobaleno e delle scarpe gigantesche che...». «Ma allora facevi il clown!», esclamò Sara. «Esatto, io ero il clown che faceva da spalla a Max Marcus, il più sopravvalutato tra i prestigiatori di Cleveland». «Non riesco a crederci! Tu che facevi il clown!?», ribadì Sara, ridendo. «Ridi pure. Io, però, ero davvero bravo. Avevo addirittura una mia precisa identità di clown». «Ah, davvero? E che cosa facevi? Terrorizzavi i ragazzini finché non confessavano le loro malefatte? Gli facevate la scena del clown buono e del clown cattivo, a mo' di poliziotti?». «Devo ammettere che ero un po' carente dal punto di vista della definizione del personaggio, però mi ero scelto un nome d'arte: mi facevo chiamare Slappy Kincaid». Sara scoppiò a ridere fragorosamente. «Slappy Kincaid? Che cavolo di nome ti sei scelto?». «Invece, è un bel nome. Anzi, per un clown, è un nome stupendo». Poiché Sara non la smetteva di ridere, Conrad aggiunse: «Be', io la mia storia imbarazzante l'ho raccontata. Adesso tocca a te. Perché sei stata licenziata?». Sara prese fiato. «Ti avverto, però: non è 'sto granché; anzi, non è nulla in confronto a quella dell'assistente clown...». «Dai, racconta». «Okay. Ecco com'è andata: l'anno scorso, al momento della verifica
biennale del mio lavoro, il presidente del comitato esecutivo dello studio legale mi disse che la mia candidatura a socio era stata respinta. Naturalmente, nei due anni precedenti, io avevo sgobbato come una bestia solo perché Quinn mi aveva fatto capire che ero sulla strada giusta; le cose, però, avevano preso una piega diversa da quella prevista e, quindi, avevano deciso di licenziarmi. E siccome in quello studio avevo passato gli ultimi sei anni della mia vita, mi disse anche che, se avessi voluto, avrei potuto rimanere lì per altri quattro mesi». «Troppa grazia!». «Infatti», disse Sara. «Gli ho sorriso, l'ho ringraziato e sono uscita con calma dal suo ufficio, ma dopo qualche minuto ero già pronta a spaccargli la testa a sprangate. Fu a quel punto che, nel mio ufficio, lessi il piccolo, tenero messaggio speditomi da Quinn via e-mail, secondo il quale la proroga di quattro mesi comportava una piccola condizione: non avrei dovuto dire a nessuno che ero stata licenziata... dovevo dire che me ne andavo di mia spontanea volontà. Evidentemente, temevano che i neo-associati potessero pensare che, in quello studio, le promesse fatte non venivano mantenute. Quindi, in cambio del mio silenzio, mi offrivano un licenziamento di favore». «E quell'idiota ha messo tutto per iscritto e te l'ha spedito via e-mail?». «Eh, già», ridacchiò Sara. «Inutile dire che gli ho risposto, spiegandogli la mia posizione sull'argomento: ho declinato l'offerta e, in un raptus di vendicatività, ho spedito il suo messaggio, per conoscenza, all'intero staff di Winick & Trudeau». «Be', hai dato prova di una notevole maturità». «Ero furiosa e assetata di vendetta; mi sentivo pienamente giustificata. E poi, dopo aver gettato sei anni della mia vita, non potevo accettare che riservassero lo stesso trattamento ad altri, ai miei amici. Se vuoi licenziarmi, fa' pure, ma non sperare che io copra le tue porcherie». Conrad si mise a ridere. «E come ha reagito Quinn, quando l'ha scoperto?». «Che vuoi che abbia fatto? Quando è arrivato inferocito nel mio ufficio, gli ho fatto presente che lo consideravo personalmente responsabile di avermi fatto sprecare sei anni di vita. Lui mi ha detto che ero "una pivellina stupida e incapace, uno spreco di spazio", e io gli ho dato del pallone gonfiato, del dittatorucolo da strapazzo. Al ritorno dalla pausa-pranzo, ho trovato tutta la mia roba già impacchettata e, ovviamente, ho detto addio ai quattro mesi di proroga. A posteriori, mi rendo conto di aver agito da stu-
pida, ma allora mi era parsa la cosa migliore da fare. Comunque, anche se è imbarazzante, almeno...». «A me sembra che non ci sia proprio nulla di imbarazzante. Piuttosto, dovresti esser fiera di quello che hai fatto». «Tu credi?». Conrad fu lusingato dal tono della domanda. «Ti sei preoccupata dei tuoi amici. Questa è la cosa più importante». Un lieve sorriso le illuminò il volto. «Mi fa piacere che tu la veda in questi termini». «Certo, non è che per aiutare i propri amici si debba per forza trasmettere in mondovisione la corrispondenza privata del proprio capo, però...». «Stai attento, Slappy. Non farmi arrabbiare, perché altrimenti do i tuoi memo in pasto all'opinione pubblica. Una teppista vendicativa è molto più pericolosa di un clown-avvocato». «I clown-avvocati, però, sono più simpatici». «Non darti troppe arie», replicò Sara. «Non sei il mio tipo». «E quale sarebbe il tuo tipo?», domandò Conrad. «Vediamo... mi piacciono i clown-astronauti, i clown-dottori e i clownpolitici, ma i clown-avvocati proprio no». «Ne sei sicura?». «Perché me lo chiedi?», disse Sara, civettando. «Rispondimi: ne sei sicura?». «Be', abbastanza. Perché...?». Prima che Sara potesse finire la frase, Conrad si chinò su di lei e, passandole una mano dietro la nuca, la attirò a sé, baciandola a lungo e intensamente. Sara sapeva che avrebbe dovuto ritrarsi. Invece, chiuse gli occhi. CAPITOLO QUINDICI «Non posso», disse Sara dopo qualche secondo, respingendo Conrad. «Non è giusto». «Che cosa non è giusto? Il fatto che ti abbia baciata o...». «Niente... cioè, tutto. Insomma, questa cosa», disse Sara. Si alzò dal divano con le mani che le tremavano. Non avrebbe dovuto aspettare così a lungo. Avrebbe dovuto ritrarsi prima. «Non capisco», disse lui. «Credevo che tu...». «Conrad, io ti voglio molto bene, ma ho un marito. Mi sta facendo arrabbiare, è vero, ma questo non significa che io debba tradirlo».
«Ma...». «Ti prego, non dire più niente», supplicò lei. Cercò un capro espiatorio, ma non ne trovò. «Lo ammetto... Mi è piaciuto. Però non avrei dovuto farlo». La stanza piombò in un silenzio imbarazzante. Conrad, allora, disse: «Scusami. Non intendevo metterti in questa posizione scomoda. Io...». «No, non ti preoccupare». Si sforzò di assumere un tono persuasivo. «È tardi... Abbiamo lavorato tanto... Siamo stanchi tutti due. Tu mi hai fatto un'avance e io ho ceduto». «Lo so, ma non è il modo di risolvere la questione». «La questione non può risolversi. Diciamo che è capitato, e basta». Conrad si alzò in piedi e si avviò alla porta. «Sono venuto in macchina, oggi... Se vuoi, ti do un passaggio a casa». «Grazie», disse Sara. Si soffermò un attimo a pensarci; quindi, aggiunse: «Forse, però, è meglio che prenda un taxi». «Sei sicura?». «Sì...», rispose lei, strascicando la pronuncia. Sul punto di congedarsi, Conrad si voltò. «Sara, mi dispiace davvero. So che ti sembrerà una scusa banale, ma per un attimo ho creduto che fosse la cosa più giusta da fare». «Lo so», disse Sara, rivivendo mentalmente la scena. La tensione con Jared aveva reso tutto così facile. «È questo che mi spaventa». Sporgendosi al di sopra del lavandino del bagno, Jared si avvicinò allo specchio e rimosse con cautela la garza incerottata che aveva sul mento. Sobbalzò quando vide le dimensioni dello sfregio ovale lasciatogli da Kozlow. Benché ormai non uscisse più sangue, la ferita era ancora abbastanza aperta. Cercando di distogliere lo sguardo, si chinò sul lavandino per prendere un batuffolo di cotone e la bottiglietta dell'acqua ossigenata. "Qui mi sa che sentirò un male boia", pensò, inumidendo il cotone con l'antisettico incolore. Trattenne il respiro e cominciò a picchiettarsi il mento con il batuffolo imbevuto. Allo specchio, notò che sui bordi della ferita andava formandosi del pus bianco-giallastro, e Jared, pur sapendo che quello era il primo sintomo dell'incipiente guarigione, si rese conto che anche la sofferenza era solo all'inizio. Passò mezz'ora prima che Sara riuscisse a rendersi conto che, per quella sera, non avrebbe combinato più nulla. Il bacio di Conrad aveva messo in
luce qualcosa che lei non avrebbe mai voluto vedere e, per quanto si sforzasse di rivolgere ad altro la propria attenzione, continuava a ritornare col pensiero a quel che era successo. Mentre cercava di fermare un taxi, in testa le ronzava incessante una domanda: "Come ho potuto?". Avrebbe voluto incolpare la rabbia, la solitudine, la frustrazione, ma mentre il taxi risaliva verso uptown Manhattan - sfilando davanti a Carmine's e a Ollie's, alla John's Pizzeria e a una quantità di altri ristoranti che le ricordavano tutti suo marito - Sara ebbe finalmente il coraggio di affrontare la nuda verità: a lei quel bacio era piaciuto, e di questo non poteva accusare che se stessa. Tornando a casa, c'era una sola persona che Sara avesse voglia di vedere, ma fu molto sorpresa, entrando in camera da letto: Jared era sul letto, dal lato di Sara, e dormiva sodo, ancora tutto vestito e sopra le coperte. Togliendosi le scarpe, Sara fece deliberatamente abbastanza rumore da svegliarlo. «Scusami», bofonchiò Jared, stropicciandosi gli occhi. «Ho telefonato, prima di venire, ma tu non rispondevi. Se a te va bene, io resterei qui, per stanotte». Sara lo guardò. In circostanze diverse, ne avrebbe subito approfittato per litigare. Quella sera, invece, si limitò a dire: «Certo. Come preferisci». Al risveglio, il mattino seguente, Jared considerò l'opportunità di non andare al lavoro. Sapeva di avere una marea di cose da sbrigare, se voleva arrivare preparato al processo, ma avrebbe volentieri trascorso una giornata di sano e rinfrancante relax, per ricaricare le batterie. Quando però, girandosi nel letto, vide che Sara era già uscita, si diede una mossa e saltò giù dal letto. Per quanto fosse tremendamente stanco - sfinito, persino non poteva lasciarle vincere il processo. Un'ora dopo era già arrivato al lavoro. Salendo in ascensore al quarantaquattresimo piano, meditò sull'opportunità di andare a fare un po' di corsa sul tapis roulant: ci andava sempre, quando sentiva il bisogno di chiarirsi le idee. Ancora una volta, però, la paura prevalse sulle esigenze personali, e Jared fu sopraffatto dall'ansia. Quando aprì la porta del suo ufficio, era già immerso nell'elaborazione di possibili strategie processuali. «Sei in ritardo». C'era qualcuno in ufficio. Jared sobbalzò. Era Rafferty. «Nonostante tu sia in grave svantaggio, la tua giornata di lavoro comincia tardi, mi sembra», disse Rafferty, appoggiandosi allo schienale della poltroncina di Jared.
«Non sono neanche le otto». «Sai che roba! Sara è al lavoro dalle sette e un quarto». Jared appoggiò la borsa sulla scrivania. «C'è qualcos'altro che deve dirmi o è venuto soltanto per minacciarmi ancora un po' dopo la disfatta di ieri?». «Non ho più bisogno di minacciarti, Jared. Sai benissimo cosa rischi». Rafferty posò una mano su una grossa busta sigillata, facendola scivolare verso Jared. «Sono venuto per mostrarti cos'altro sta succedendo, mentre tu sei troppo impegnato ad andare a fondo». Jared aprì la busta, ne tolse un mazzetto di fotografie e le sfogliò. Nelle prime Sara e Conrad stavano parlando; nelle ultime, invece, si baciavano. Jared impallidì. «E tu, magari, ti chiedevi come mai passasse così tanto tempo al lavoro, ultimamente!», disse Rafferty. «Chi le ha scattate?», domandò Jared, incapace di staccare gli occhi dalle foto. «A quando risalgono?». «Le ha scattate ieri sera una persona di mia fiducia che lavora in procura. Ha fatto un buon lavoro, no?». Jared uscì di corsa. «Dove vai?», gli domandò Rafferty. Jared, però, non gli rispose. Jared superò di slancio il metal detector al piano a cui lavorava Sara, ignorando il registro che doveva firmare e la guardia di sicurezza, che gridò: «Ehi! Torna indietro! I visitatori devono firmare il registro!». Marciando furioso per il corridoio, domandava ad alta voce: «Sto cercando Sara Tate! Qualcuno sa dov'è?». Una segretaria indicò il fondo del corridoio. Quando Jared scorse Guff, seduto alla scrivania antistante l'ufficio di Sara, fu raggiunto dall'addetto alla sicurezza che lo afferrò per un braccio. «Lo conosci, 'sto tipo?», domandò questi a Guff. «Sì», rispose Guff, alquanto teso. «È a posto». «La prossima volta, ricordati di firmare», disse la guardia a Jared. «D'accordo, grazie», disse Jared, liberandosi dalla sua presa. «Sei venuto per vedere Sara, immagino», disse Guff. Senza rispondergli, Jared si fiondò verso la porta dell'ufficio e spalancò con violenza la porta. Quando questa sbatté contro il muro, Sara alzò gli occhi, spaventata. «Che diavolo ci fai tu qui?», disse, coprendo d'istinto,
con le mani, i fogli che aveva sulla scrivania. «Sto lavorando». «Ho bisogno di parlarti un attimo», le disse Jared. Cogliendo la gravità del tono di voce del marito, Sara richiuse i fogli in una cartelletta. «Guff, puoi lasciarci soli un momento?». «Certo», rispose Guff, uscendo dalla stanza e richiudendosi la porta alle spalle. Sara e Jared si fissarono negli occhi. «Hai una storia con Conrad?», le domandò sottovoce. Sara restò di sasso; quindi, distolse lo sguardo. «Sara, per favore, guardami in faccia», disse Jared, con voce rotta. «Sii sincera: hai baciato Conrad, ieri sera?». «Chi ti ha detto che ci siamo baciati? Non è vero». «Chi me l'ha detto? Non ci posso credere!», urlò Jared. «Mi stai mentendo, cazzo... Stai cercando di raccontarmi delle palle!». «Cos'è? Adesso mi fai spiare nel mio ufficio?», domandò Sara in tono accusatorio. Si voltò verso la finestra per vedere se qualcuno li stava osservando. Sul lato opposto del cavedio, c'era una fila di finestre polverose di altri uffici della procura. «Non cercare di cambiare discorso», disse Jared. «Tu mi hai tradito, e adesso vuoi rivoltare la frittata? Sei tu che hai ingannato me, non viceversa!». «Per prima cosa, abbassa la voce. Seconda cosa: io non ti ho ingannato. Non è andata come credi. Conrad ha cercato di baciarmi, e io mi sono ritratta». «Vuoi dire che le vostre labbra non si sono toccate?». «Proprio così», confermò lei. «Non si sono toccate». Jared si sforzò di mantenere un minimo di autocontrollo. Sentiva un dolore acuto alla base della nuca. Infine, esplose: «Sara, io ho visto le fotografie! Lo capisci? Le ho viste! E voi vi stavate baciando su questo divano! Proprio su questo cazzo di divano qui!». «Non so che fotografie tu abbia visto, io però mi sono ritratta immediatamente! Non è successo nulla». «Prima mi dici che le vostre labbra non si sono toccate; poi, che ti sei ritratta immediatamente. Come puoi sperare che io ti creda?». «Jared, te lo assicuro». «Be', le tue stronzate le vai a raccontare a qualcun altro, capito? Non sei nella posizione di chiedere fiducia». «E tu sì, invece?», domandò Sara.
«Io non ho ingannato mia moglie». «No, ti sei limitato a frugare di nuovo nella mia borsa, stanotte». «Che cosa?», domandò Jared, con una risata forzata. «Ti ho sentito, Jared. Ho sentito tutto, stanotte. E quando mi sono voltata ti ho anche visto. Evidentemente, mi consideri un'idiota: dopo quello che era successo, credevi davvero che fossi così scema da portarmi a casa documenti di qualche valore? Ti ho messo alla prova, e tu hai fallito. Quindi, smettila tu di raccontare stronzate». A denti stretti e braccia conserte, Jared cercò di reagire. Infine, disse: «Va bene, lo ammetto. Mi hai scoperto. Ma non crederai che una cosa del genere sia paragonabile a quello che hai fatto con Conrad, vero? Qui non si tratta di qualche stupido documento! Qui si tratta del nostro matrimonio!». «No, è anche una questione di fiducia! E mettendoti a curiosare nella mia borsa...». «Cosa? Hai il coraggio di paragonare le due cose? Hai sentito cos'ho detto? Qui c'è in ballo il nostro matrimonio, Sara! Il nostro matrimonio!». «So benissimo cosa c'è in ballo, Jared! Non sono cieca!», urlò Sara, alzandosi in piedi. «E te lo ripeto: non è successo nulla! È stato solo un bacio...». «"Solo un bacio"!?». «E io mi sono tirata subito indietro! Ora, smettila di buttarmi addosso la croce!», disse Sara, urlando e agitando un indice sotto il naso del marito. Lui la afferrò per il polso. «Non mi mettere le mani in faccia, capito?». «Non mi toccare!», gridò lei, liberandosi dalla presa. «Posso farti sbattere dentro! Tu sei un ladro!». «Be', perlomeno, non sono una troia!». Con una reazione fulminea, Sara gli rifilò un potente ceffone. Tenendosi la guancia, Jared fissò sua moglie e notò qualcosa che non aveva mai visto prima. «Non lo dovevi fare, Sara. Hai rovinato tutto». «Jared, te lo giuro. Non abbiamo...». Prima che potesse terminare la frase, Jared le aveva già voltato le spalle per andarsene. «Per favore... ascoltami». Allungò un braccio per trattenerlo. «Scusami». «Troppo tardi. Ora, lasciami andare». Cercò di divincolarsi, ma Sara non mollava. «T'ho detto di lasciarmi andare!», ripeté. «È finita!». Con un violento spintone, si liberò dalla presa, mandando Sara a sbattere contro un archivio. All'improvviso, la porta dell'ufficio si spalancò. «Che cazzo stai facendo?», domandò Conrad a Jared.
Senza dire una parola, Jared caricò il destro e cercò di colpire Conrad. Parando facilmente il colpo, Conrad lo afferrò per il braccio e, torcendoglielo dietro la schiena, lo sbatté a faccia in giù sulla scrivania. «Toglimi di dosso quelle cazzo di mani», disse Jared, mentre fuori dall'ufficio cominciava a radunarsi una discreta folla. «Conrad, lascialo», disse Sara. Conrad acconsentì, ma lasciandolo andare disse: «Non ci riprovare. La prossima volta te lo spezzo». «La prossima volta centrerò il bersaglio», avvertì Jared. «Lo vedremo». Jared lanciò un'ultima occhiata a sua moglie e, facendosi largo tra i curiosi, se ne andò. «Che cosa è successo?», domandò Conrad a Sara. «Niente. Sto bene», borbottò lei. «Non ti ho chiesto come stai. Volevo sapere...». «Si sistemerà tutto», aggiunse, allontanandosi da Conrad. «Troverò una soluzione». Uscendo dall'edificio in cui lavorava Sara, Jared si diresse verso la stazione del metrò di Franklin Street. Mentre scendeva le scale, udì il rumore di un treno che si fermava. Superò il mezzanino proprio mentre risuonava la campanella che annuncia l'imminente chiusura delle porte. Si mise a correre a rotta di collo. «Aspetta!», urlò Jared a uno dei conducenti del treno, affacciato al finestrino della cabina di guida. Ma le porte gli si richiusero in faccia. «Ehi!», gridò, tirando pugni a più non posso. «Apri!». Ma le porte non si riaprirono. «Ti prego!», strillò. Spostando i gommini protettivi, infilò le dita tra le porte nel tentativo di farle aprire. Ma non ci fu nulla da fare. «Non partire! Apri!», protestò Jared, continuando a percuotere le porte. Quando il treno si rimise lentamente in moto, Jared provò a corrergli accanto, nella speranza di poter saltare in qualche modo a bordo. «Ehi! Apri queste cazzo di porte!», gridò. «Non te ne andare!». Il treno, però, prese velocità e si allontanò, nonostante le lacrime sgorgassero copiose dagli occhi di Jared. Fu tutto inutile. In un attimo, il metrò scomparve, e Jared si ritrovò sulla banchina della stazione. Completamente solo. Mezz'ora dopo che Jared se n'era andato, Sara telefonò al suo ufficio. «È
rientrato?», domandò a Kathleen. «Non ancora», rispose Kathleen. «Gli dirò che hai chiamato». Trascorso un altro quarto d'ora, Sara richiamò. «Mi spiace», disse Kathleen. «Non è ancora tornato». Sara provò a telefonare a casa; poi, a casa di Pop. Nient'altro che segreterie telefoniche. Lasciò passare dieci minuti; quindi, riprovò a chiamarlo in ufficio. Kathleen le disse: «Sara, ti prometto che non appena rimette piede qui, ti faccio chiamare». Mezz'ora dopo, il telefono di Sara squillò. «Pronto, Jared?». «Sono io», disse Kathleen. «È arrivato in questo momento». «Ti prego, passamelo». «Gli ho detto che avevi chiamato, ma non mi sembra che abbia voglia di parlare. Però immaginavo ti interessasse sapere che è sano e salvo». «Infatti», disse Sara. «Ti ringrazio, Kathleen». «Jared!», disse Sara ad alta voce, rientrando quella sera dal lavoro. «Sei in casa?». Non ottenendo risposta, andò in camera da letto e aprì il guardaroba di Jared. Vestiti e camicie erano svaniti e, a parte qualche brutta cravatta, erano rimaste soltanto le grucce. «Oh, no...». Raggiunse il comò e aprì di scatto il cassetto superiore che, essendo stato svuotato, le rimase in mano, cogliendola di sorpresa. Lo gettò sul letto, e aprì quello successivo; poi, un altro; poi, l'altro ancora. Non c'era più un solo calzino, una canottiera, un paio di mutande. «Non te ne puoi andare così!», urlò, richiudendo con violenza l'ultimo cassetto. «Non te ne puoi andare adesso». Non si aspettava una cosa del genere. Le stava andando tutto per il verso giusto: le indagini, le prove, le istanze e persino il giudice erano a suo favore. Sembrava che tutto dovesse filare liscio, ma a quel punto, nascondendo il viso tra le mani, Sara comprese che, in ogni caso, non sarebbe stata una vera vittoria. Jared attraversò l'abbagliante biancore dell'atrio del New York Hospital, trascinandosi dietro uno zaino da viaggio strapieno. Salì in ascensore al decimo piano e raggiunse la stanza 206. Posò il bagaglio e bussò alla porta. «Ehi, ehi, ehi, guarda un po' chi si è deciso, finalmente, a venirmi a trovare!», esclamò Pop, vedendolo entrare. «Qual buon vento ti porta? A parte il senso di colpa, voglio dire...».
«Perché? Non si può aver voglia di salutare qualcuno? Avrei potuto telefonarti, ma di persona è più carino». «Jared, queste smancerie funzioneranno anche con quelle stupide giurie con cui tu hai spesso a che fare, ma io non la bevo. Quindi, delle due, una: o Sara ti ha detto di venirmi a trovare oppure sei nei guai». «Oh, non dire così, Pop! Considerando che i miei genitori e i miei nonni abitano a Chicago, tu sei l'unico familiare che ho a New York». «Ho capito. Sei nei guai. Quanti soldi ti servono?». «Non mi servono soldi», rispose Jared, avvicinando una sedia al letto di Pop. «Ora perché non mi racconti un po' come stai? Quand'è che ti fanno uscire di qui?». «Quando starò meglio. Oppure, se si deve credere al mio dottore, quando mi avranno rimesso in piedi, cosa che potrebbe avvenire tra due settimane come tra un mese. Ecco... ora che hai pagato il tuo debito morale, perché non mi dici che cosa c'è veramente?». «Non è nulla», disse Jared, sforzandosi di essere convincente. «Sara e io stiamo un po' litigando per via di questo caso a cui lavoriamo entrambi, sui lati opposti della barricata». «Il caso Kozlow». «Già... Ma come fai a...?». «Ehi, cosa credi? Che io non ascolti mia nipote, quando mi parla? Le mie orecchie saranno anche più lunghe e pelose delle tue, ma ci sentono altrettanto bene. Quando Sara mi ha spiegato la situazione, ho capito subito che sarebbero stati guai. Tu e Sara siete già abbastanza in competizione: non si sentiva proprio il bisogno di esasperare la vostra rivalità con un processo». «Non è tanto il processo, quanto quello che succede intorno». «Che altro succede? Sara non sta bene? È incinta? Avete finalmente deciso di mettere la testa a posto e di avere un bambino?». «No, Pop, Sara non è incinta», rispose Jared, giocherellando nervosamente con la pulsantiera che serviva a Pop per chiamare gli infermieri. «Ultimamente, sembra che le vada tutto a meraviglia... La ruota della fortuna continua a girare dalla sua parte». Pop guardò Jared e sorrise. Quindi, disse: «Non ti piace essere battuto da lei al tuo gioco preferito, vero?». «No, non è questo. In gioco c'è più di una banale vittoria...». «Jared, la sai la storia di quello che vuole fregare un artista della fregatura?», gli domandò Pop, interrompendolo.
«Sì». «Be', ecco io sono una specie di Picasso, e tu, che vieni a qui a raccontarmi che non si tratta della vittoria al processo, sei uno che dipinge con il culo. Per quel che ne so io, tu sei sempre stato ossessionato dal successo. Tu sei abituato a far la parte del bambino-prodigio, mentre Sara è sempre stata quella abituata a lottare. Ma adesso che il vento è girato, ti accorgi che è da troie mettersi i tacchi alti». «Non è una questione di orgoglio personale, te lo assicuro. È più importante». «Ascoltami bene, figliolo. Se quello che mi hai detto è vero, si direbbe che Sara stia per batterti al processo, solo che tu non vuoi accettarlo. Tu sei un ottimo avvocato, ma in questo caso Sara ti ha messo con le spalle al muro, e ora ti ritrovi davanti a una scelta: puoi continuare così, ma saresti destinato alla disfatta; puoi arrenderti e ammettere la sconfitta, ma so che non lo farai mai; oppure puoi parlarne con lei, cercando una soluzione che soddisfi entrambi. Sta a te scegliere». Con gli occhi fissi sulla pulsantiera che aveva tra le mani, Jared stava pensando che Pop aveva senz'altro ragione su una cosa: se non si sbrigava a prendere provvedimenti, avrebbe perso il processo. E se avesse perso il processo... Jared alzò gli occhi, per evitare di dover trarre l'ineluttabile conclusione. «Hai voglia di parlarmene?», gli domandò Pop. «Vorrei», rispose Jared. «Però... non posso». «Be', allora ti conviene parlarne con Sara. Se ti tieni tutto dentro, finirai per esplodere». Riflettendo sul consiglio di Pop, Jared posò la pulsantiera sul comodino. «Forse, hai ragione». «Sei sicura che non fosse da Pop?», domandò Tiffany, appoggiata al bordo della fontana che orna la piazza del Lincoln Center. «Ci sono passata per ben due volte, stanotte. A quanto pare, se n'è andato», tagliò corto Sara, in piedi accanto alla sorellina elettiva. «Adesso, però, non potremmo cambiare argomento?». «Sei stata tu a tirarlo fuori». Tiffany indicò un uomo con un berretto da marinaio. «Eccone uno». Sara lo osservò. «Questo non conta. Innanzi tutto, non ha l'aria tormentata. In secondo luogo, quello non è un basco nero». «Nella Upper West Side è il massimo che si riesce a trovare».
«Vuoi scherzare?», ribatté Sara. «Non crederai che i veri artisti tormentati vivano tutti al Village? Guardati un po' meglio intorno in questa zona». Tiffany si mise a osservare la massa di passanti che affollava la vasta spianata del Lincoln Center, affondando le mani nelle tasche del suo pesante cappotto rosa. «Ho freddo, e questo gioco non mi diverte». «Che vuoi che faccia? Che prenda uno shuttle e ti porti al Guggenheim?». «No, voglio solo che tu sia carina», rispose Tiffany. «Già è abbastanza brutto vedersi una volta ogni due settimane; se poi quell'unica volta sei così di cattivo umore...». Colta alla sprovvista da quella reazione, Sara non seppe far altro che posare le mani sulle sue spalle e tirarla a sé. «Perdonami, piccolina. Non sono al meglio della condizione, ultimamente». Tiffany la guardò. «È perché senti la sua mancanza?». «Be', sì, in parte». «Allora, devi fare qualcosa. Potresti rinunciare al caso, ad esempio». «Non è così facile, lo capisci?». «Non mi importa», rispose Tiffany, ancora tra le braccia di Sara. «Io voglio che tutto torni come prima. Finché non farete la pace, neanch'io potrò stare tranquilla». Quella sera Sara e Tiffany cenarono da Sylvia's a Harlem, il ristorante in cui fanno il pollo stufato migliore di tutta Lenox Avenue. Quando ne uscirono, Sara osservò il cielo completamente nero. «Scommetto un'intera cesta di pane di granturco, che nel giro di un paio di giorni avremo la prima nevicata della stagione». «Se non fosse che sto per vomitare, accetterei la scommessa», disse Tiffany, tenendosi lo stomaco. Sara sorrise e, scendendo dal marciapiede, fermò un taxi. Con la coda dell'occhio notò una berlina blu ferma sul lato opposto della strada. Sara, seguita dalla sorellina, salì sul taxi e diede al taxista l'indirizzo di Tiffany. Quando ebbero percorso già un buon tratto di strada, nel pieno di Harlem, Sara si accorse che la berlina blu era dietro di loro. «Sia gentile», disse Sara al taxista. «Faccia un paio di deviazioni. Voglio controllare che la berlina dietro di noi non ci stia seguendo». Esaudendo il desiderio di Sara, il taxista svoltò da Lenox Avenue sulla 131st Street. La berlina, invece, tirò dritto. «Chi credevi che fosse?», domandò Tiffany, guardando fuori dal lunotto
posteriore. «Nessuno. È solo la mia immaginazione», rispose Sara, con un certo sollievo. «Ora, possiamo anche tornare sulla strada principale», aggiunse, rivolta al taxista. Per alcuni minuti, seduta in silenzio accanto a Tiffany, Sara continuò a guardare in giro per controllare che la berlina, come sembrava, fosse effettivamente sparita. Il taxi accostò davanti a casa di Tiffany, sulla 147th Street. «Le dispiace aspettarmi?», disse Sara al taxista. «Ci metterò un attimo». Sara scese dall'auto e accompagnò Tiffany all'interno: le piaceva scambiare due chiacchiere con la zia di Tiffany, quando la riaccompagnava a casa. Dopo una breve conversazione, Sara uscì dal palazzo e cercò il taxi, ma non lo vide: se n'era andato. L'unica automobile in vista era la berlina blu; appoggiato al cofano, c'era un tipo slavato con due enormi baffi biondi. Sara frugò nelle tasche, tirò fuori il distintivo da procuratore distrettuale e si avvicinò a quell'uomo. «Procura distrettuale!», gridò. «Chi diavolo sei tu?». Imperturbato, l'uomo della berlina alzò gli occhi e le passò un foglietto ripiegato. «Che cos'è?», domandò lei, sospettosa. «È una nuova invenzione. Si chiama carta». «Molto spiritoso», disse Sara, togliendogli il foglietto dalle mani. Quando lo ebbe dispiegato, lesse il messaggio che vi era scritto: «SALI IN MACCHINA, POOH». Sara squadrò quel tizio e domandò: «Chi te l'ha dato?». «Non ho idea di chi fosse. E siccome mi ha pagato in anticipo, non mi importa neanche di saperlo. Mi ha detto soltanto di portarti questo biglietto». Sara non era ancora del tutto convinta. «Scusa se mi permetto, però se avessi voluto farti del male, l'avrei già fatto. Tanto più che in questa zona... nessuno si affaccerebbe a guardare. Che ne diresti, allora, di salire in macchina?». Soffermandosi a riflettere sulla logica sottesa a quel ragionamento, Sara alzò gli occhi e vide che Tiffany stava osservando la scena affacciata a una finestra di casa sua. «Visto? Se ti succede qualcosa hai anche una testimone», aggiunse il biondo. Affinché Tiffany non si preoccupasse, Sara le sorrise, sebbene un po' a
forza, prima di avviarsi verso l'automobile. «Dove andiamo?», domandò Sara. «Non posso dirlo», rispose l'uomo, voltando indietro la testa. «Però, vedrai: non te ne pentirai». Scegliendo, infine, di fidarsi e lanciando un'ultima occhiata in direzione di Tiffany, Sara salì esitante sul sedile posteriore dell'auto, che partì verso downtown Manhattan. Per tutto il tragitto, il guidatore tenne gli occhi incollati allo specchietto retrovisore. Attraversando la Upper West Side, Sara credeva che la destinazione fosse Times Square; superata Times Square, immaginò che la stesse portando al Village; lasciato il Village alle spalle, Sara ipotizzò che la meta fosse il palazzo in cui lei lavorava, in Centre Street. Quando anche quell'ipotesi si rivelò sbagliata, Sara domandò: «Dove cavolo è 'sto posto?». «Ancora dieci minuti», rispose il biondo. L'auto svoltò per imboccare il ponte di Brooklyn. «Stiamo andando a Brooklyn?», domandò Sara, inquieta. «Lo vedrai», rispose l'uomo, con un sorriso. Appena terminato il ponte, l'auto girò bruscamente a destra e si inoltrò nel silenzioso e storico quartiere di Brooklyn Heights. Sfilando davanti alle caratteristiche e tradizionali abitazioni dagli esterni rivestiti con assicelle di legno, tra cui quella dove per un certo periodo aveva vissuto George Washington, procedettero verso la passeggiata lungo il fiume, celebre per lo splendido panorama della lower Manhattan che vi si può godere. La stradina lastricata era in genere affollata da residenti e turisti, ma il freddo di quella sera aveva dissuaso qualunque frequentatore. «Capolinea», disse il biondo. Guardandosi in giro piena di angoscia, Sara vide che non c'era anima viva. «Su, scendi», disse l'uomo al volante. «Qui? Vuoi che io scenda qui da sola? Ma sei impazzito?». «Scendi. Non hai nulla da temere».. Accogliendo l'invito del guidatore, Sara scese e si avvicinò al finestrino anteriore. «E adesso?», domandò. «Aspetta qui». Detto questo, il biondo chiuse il finestrino e partì a tutta velocità. «Ehi, aspetta! Dove vai?», gridò Sara, battendo i pugni sulla berlina che sfrecciava via. Intorno a lei, c'erano solo alcune panchine sparse e un vialetto lastricato, ma nessun segno di vita. Seguì il vialetto in direzione della
riva del fiume. «Ehi! C'è nessuno?», urlò. «Sara», sussurrò una voce alle sue spalle. «Chi ca...?», fece lei, sobbalzando. Era Jared. La reazione di Sara fu istantanea. «Ero in ansia per te!», esclamò, abbracciandolo. «Dove diavolo ti sei cacciato?». «Scusami», disse Jared, ritraendosi. «Volevo assicurarmi che tu fossi sola». «Puoi giurarci che sono sola. È da ieri sera, anzi, che sono da sola». «Sei stata tu a volere che me ne andassi». «Sai benissimo che non è la stessa cosa», replicò lei. «Non ti ho trovato neanche da Pop». «Mi dispiace. Non me la sentivo di affrontarti, dopo quello che è successo con Conrad». «Jared, te lo giuro sulla mia testa: con Conrad non è successo nulla. E chiunque osi sostenere il contrario è un bugiardo». «D'accordo, allora sono dei bugiardi», disse Jared, prendendo a calci la prima cosa che gli capitò a tiro. «Come al solito, hai ragione tu». «Non trattarmi in questo modo», disse Sara. Jared non rispose. «Jared, ti prego. Se non volevi affrontare questo argomento, perché mi hai fatto venire fin qui?». «Volevo parlati in privato». «E così hai pensato di assoldare il primo che passava e l'hai mandato a prelevarmi con quel biglietto misterioso, servendoti persino del vecchio soprannome di mio padre? Ci sono modi più semplici e meno perturbanti di mettersi in contatto con qualcuno». «Ho pensato che avresti capito subito chi era il mittente. Chi altro poteva conoscere quel soprannome?». «È incredibile la quantità di cose privatissime che un estraneo può scoprire». Mentre Sara prendeva posto su una delle panchine di legno, Jared annuì, pienamente d'accordo con lei. Quindi, guardandolo negli occhi, aggiunse: «Se non è di ieri che vuoi parlare, di che cosa dobbiamo discutere?». «Del caso», rispose Jared, con un filo di voce. «Dobbiamo discutere del caso». Sara si arrabbiò. «Ma certo... L'unica al cosa al mondo di cui ti importi veramente!». «Sara, sai benissimo che...».
«È vero», insistette Sara. «Ma voglio annunciarti una cosa: tra due settimane ci sarà il processo, le tue istanze non hanno avuto effetto e, quando avremo condannato Kozlow, ci metteremo alle costole di Claire Doniger e di chiunque altro risulti complice dell'omicidio». Jared scosse la testa e si rialzò il bavero del cappotto, in cerca di un po' di calore. Il vento continuava a percuoterli. «Sara, non ho più voglia di litigare con te. Non ne vale la pena. Vorrei solo che tu ascoltassi attentamente quello che ho da chiederti. E sappi che non te lo chiederei mai, se non fosse assolutamente necessario». Avvicinandosi alla moglie, cominciò a spiegare: «So che ti sembrerà folle, ma ho bisogno che tu faccia un errore, un passo falso di proposito. Che so? Perdere delle prove o qualcosa del genere. Puoi scegliere, ma io devo assolutamente vincere il processo». Sara scoppiò a ridere. «Devi proprio essere disperato, eh?», disse. «Ma ti rendi conto che è illegale? Per non parlare delle implicazioni morali di un simile atto». «Affanculo le implicazioni morali. C'è in gioco qualcosa di molto più importante». «Ah, certo... Dimenticavo che il tuo lavoro è la cosa più importante dell'universo». «Ascoltami, ti prego». «Ti ho ascoltato», disse Sara, alzandosi dalla panchina. «E non riesco a credere alle mie orecchie. Quando il vento tirava dalla tua parte, tutto andava bene. Adesso che il vento è cambiato, ti metti a fare queste scene penose. Hai davvero una bella faccia di bronzo, lo sai? Questo lavoro mi ha cambiato la vita. Per la prima volta, da tempo immemorabile, mi sembra finalmente di aver di nuovo in pugno la situazione, mi sento fiduciosa, le mie ansie sono svanite. Questo caso mi ha trasformato in una persona nuova. E se credi di potermi costringere ad accettare il tuo gioco come hai cercato di fare davanti al gran giurì, ti consiglio di scendere dal banano. Ti avverto, e non ho intenzione di ripeterlo: non ti permetterò di rovinarmi tutto». «Tu non capisci», piagnucolò Jared. «Tu devi assolutamente farmi vincere». «Ehi, ma sei sordo? Io non devo fare nulla, se non voglio». «Sì, invece», disse Jared, in tono ora completamente neutro. «È incredibile. Cos'è una prova di nervi? Un delirio di onnipotenza? Non sopporti che io possa batterti, per una volta?».
«Nulla di tutto questo», rispose Jared, la fronte madida di sudore. «Be', comunque, scordatelo!», disse Sara, voltando le spalle al marito. «Vincerò il processo, e tu dovrai fartene una ragione». Jared afferrò Sara per un braccio. «Ascoltami! La situazione è più grave di quello che pensi!». «Ho già ascoltato fin troppo. Ora, lasciami andare». Jared non allentò la presa. «Sara, te lo chiedo in ginocchio, per l'ultima volta: devi farmi vincere». «Perché? Perché è così importante?», gridò Sara, dibattendosi per liberarsi dalla stretta al braccio. Jared capì che non aveva scelta. Tenendola per il braccio, la fissò negli occhi e urlò: «PERCHÉ SE NON VINCO TI UCCIDERANNO!». Sara smise all'istante di lottare. «Che cosa?». «Hai capito benissimo. Ti uccideranno. Io non ho rinunciato alla difesa di Kozlow solo perché hanno minacciato di ucciderti, se l'avessi fatto. È per questo che mi sto dannando l'anima. Per questo sono arrivato al punto di frugare nella tua borsa. Ci hanno fatto pedinare dal momento in cui Kozlow è stato arrestato. Sono stati loro a devastarci la casa. E anche...». «Oh, mio Dio», sospirò Sara, tornando a sedersi. «È una cosa seria, Sara. Siamo nei guai». «Tra le persone che ti hanno avvicinato... c'era per caso un tipo con le guance scavate?». «Guance scavate? No, io sono stato avvicinato da Kozlow e da...», Jared si interruppe. «Dài, sputa! Kozlow e chi altri?». Jared diede un'occhiata d'intorno per assicurarsi che non vi fosse nessuno. Quindi, guardandola negli occhi disse: «Oscar Rafferty. È lui che tira le fila del gioco, dall'inizio. È lui che...». «Che infamone di merda!», esclamò Sara. «Lo sospettavamo: Guff l'aveva detto subito... Insomma, a quanto pare, tu sei sotto la minaccia di Rafferty e io dell'uomo dalle guance scavate...». «Cos'è questa storia dell'uomo dalle guance scavate? Chi sarebbe?». Sara gli raccontò, in breve, dell'incontro con quell'uomo, gli spiegò che aveva minacciato di ucciderlo se lei non avesse vinto e gli parlò anche delle sue strane impronte digitali. Quando Sara ebbe finito, Jared disse: «Vuoi dire che ha minacciato di uccidermi se tu perderai?». «È per questo che non potevo accettare di perdere».
«Ma se è stato lui a far cadere Pop, perché non l'hai fatto arrestare?». «Non so neanche chi sia. E poi, avevo troppa paura che potesse farti del male». «Credo di sapere cosa vuol dire», disse Jared, passandosi una mano sulla medicazione che aveva sul mento. «È stato Kozlow?». «Mi ha staccato mezzo chilo di carne», rispose Jared. «A quanto pare, invece, quell'uomo ti sta aiutando. Non è stato lui a mettervi sulle tracce di Rafferty?». «Niente affatto. Rafferty l'abbiamo stanato noi. Abbiamo cominciato a sospettare di lui quando abbiamo letto il testamento di Arnold Doniger». «Doniger ha lasciato un testamento?». «Lo vedi? È questo il problema di voi avvocati difensori: l'unica cosa che vi sta a cuore è la salvezza del cliente. Siamo noi pubblici ministeri gli unici veramente interessati alla verità». Ignorando la sottolineatura, Jared chiese: «Dimmi del testamento». «Non c'è granché da dire: con la morte dell'amato socio, Rafferty è diventato l'unico e indiscusso padrone della Echo Enterprise». «Cosa?! Rafferty eredita l'intera baracca?». «Esatto», disse Sara, notando l'espressione di incredulità sul viso del marito. «Ma cosa ne deduciamo, noi, a parte il fatto che Rafferty aveva una ragione per uccidere il socio?». «Be', questo spiega anche come mai Rafferty sia così ansioso per la sorte giudiziaria di Kozlow». Passandosi una mano tra i capelli, aggiunse: «Che figlio di puttana!». «Perché? Che cosa ha fatto?», domandò Sara. «Dài, parla». «Be', è molto semplice. Ti ricordi cos'è lo slayer statute?». «Che cosa?». «Lo slayer statute. Slayer, cioè killer». Quando Sara scosse la testa, Jared spiegò: «Lo slayer statute impedisce che gli assassini profittino delle conseguenze dei loro atti criminosi. Poniamo che tu abbia fatto testamento, e che io ne sia il principale beneficiario. Se tu muori, io entro in possesso di tutti i tuoi soldi». «Tutti i venticinque dollari?». «Fino all'ultimo centesimo. Ora, poniamo che io decida di entrare in possesso del denaro prima del tempo, facendoti uccidere. Se si dimostra che io, in qualche modo, ho a che fare con la tua morte, in base allo slayer statute non prendo un soldo - anche se sul testamento c'è scritto che tu la-
sci tutto a me». «A New York è in vigore, questo statuto?». «Non so se esiste uno statuto nero su bianco; di certo, però, nella common law è ampiamente invalso». «Perché, allora, non hanno scelto il patteggiamento?». «Se non ricordo male, questa clausola vale anche se il beneficiario del testamento non è l'autore materiale. Rafferty, quindi, non può consentire che Kozlow ne esca men che pulito». «Rafferty, insomma, temeva la condanna di Kozlow perché, se si fossero scoperti i loro legami, avrebbe dovuto rinunciare all'eredità». «Per non parlare del timore di essere, a sua volta, accusato di omicidio. Direi che questa è l'unica ragione per cui Rafferty si mostra così interessato a tutta questa storia. Se fosse innocente, se ne fregherebbe. E se non fosse ossessionato dal denaro avrebbe consentito che io patteggiassi la pena per Kozlow». «Secondo te, non sta cercando di proteggere anche Claire Doniger?», domandò Sara, alzandosi in piedi. «Sei proprio convinta che sia coinvolta anche lei, eh?». «Dài, Jared. Il marito muore e lei non versa neppure una lacrima; oltre tutto, non muove un dito per agevolare le indagini. Parlare con lei è più difficile che cavarle i denti, e indurla a testimoniare è come... come...». «...come cavarle i denti», ripeté Jared, senza enfasi. «Già, come strapparle tutti i denti». «Okay, allora anche lei è implicata. Ma quale sarebbe il suo movente? Eredita anche lei qualcosa, in base al testamento?». «Neanche il becco di un quattrino. Ma questo non significa nulla. Secondo noi, lei è l'amante di Rafferty. Ammazzato Arnold Doniger, Rafferty si becca l'eredità, e loro possono giocare ai coniglietti felici ogni volta che vogliono. L'unico problema, per noi, era quello di dimostrare il coinvolgimento di Rafferty, ma ormai è chiaro che è lui il mandante dell'omicidio». «Non è malvagia, come teoria», ammise Jared. «Anzi, adesso che mi ci fai pensare, Rafferty diventa sempre iper-protettivo ogni volta che viene tirata in ballo Claire Doniger». «Non ha detto nient'altro che noi si possa usare contro di lui?». Jared si appoggiò allo schienale della panchina. «A dire il vero, nulla di quello che ti ho detto può essere usato contro di lui; è protetto dal segreto professionale».
«Ehi, carino, guarda che di vincere il processo a me non importa più nulla! Io voglio solo essere sicura che non ti succeda niente di male e cavarci da questo...». Vedendo che Jared era perfettamente immobile, Sara si interruppe. «Ehi, cos'hai? Ti senti male?». Senza dir nulla, Jared si alzò in piedi e strinse la moglie tra le braccia. «Perdonami, Sara. Non ho mai avuto l'intenzione di farti del male. Io mi sono comportato male, ma solo perché ero preoccupato per te». Sentendosi pervadere da una sensazione di sollievo, Sara restituì l'abbraccio al marito. «Va tutto bene. Non c'è nessun problema. Anch'io ero preoccupata per te». «Ma io...». «Shhh, non dire altro», lo zittì Sara, continuando a stringerlo a sé. «È finita. È tutto finito, fortunatamente». Ritraendosi di quel tanto che bastava per guardarla negli occhi, Jared capì che Sara aveva ragione. E, per la prima volta da diversi mesi, decise di non sollevare obiezioni. Anzi, la abbracciò ancora più forte, carezzandole la schiena. Jared adorava il modo in cui i loro corpi combaciavano. Lei sentì contro la propria guancia il familiare attrito di quell'ombra di barba rispuntata dal mattino. Chiudendo gli occhi, annusò con piacere il profumo dell'acqua di colonia di cui si era sempre lamentata. E le sue mani, che cingevano i fianchi di Jared, si infilarono sotto la giacca seguendo la lieve curvatura della sua schiena. Stretti l'uno all'altra in silenzio, Sara e Jared non sentirono più il bisogno di parlare. Per troppo tempo non avevano fatto che litigare. L'essenziale, in quel momento, era essere l'uno tra le braccia dell'altra. Tornando a poco a poco alla realtà, Sara si accorse che Jared aveva cominciato a tremare. In un attimo, gli occhi gli si riempirono di lacrime. «È tutto a posto», disse lei, sforzandosi di rassicurarlo e, contemporaneamente, di non scoppiare a piangere. Troppo tardi: come al solito, i singhiozzi di Jared la contagiarono, e finirono per farsi sopraffare entrambi dall'emozione. «È tutto a posto», ripeté Sara, con il viso rigato dalle lacrime. «Va tutto bene». «Lo so», disse Jared, asciugandosi gli occhi con la manica della giacca. «Avevo una tale paura che ti facessero del male, da non riuscire...». «So perfettamente cosa si prova», disse Sara, asciugandosi a sua volta le lacrime. «Però, dobbiamo ridurre al minimo la fase del pianto catartico. In realtà, non saremo al sicuro finché non avremo risolto questo casino». «Hai ragione», disse Jared, ricomponendosi. Si strofinò un'ultima volta gli occhi e si schiarì la voce. «Allora, qual è la prossima mossa?». «Dobbiamo analizzare gli elementi che abbiamo a disposizione. Rafferty
o Kozlow non si sono lasciati sfuggire nient'altro di utile a spiegare perché Victor fosse interessato al caso? O il ruolo dell'uomo dalle guance scavate? Non è che si tratta di un ex dipendente di Rafferty che, magari, vuole vendicarsi di qualcosa? Kozlow non ha mai fatto riferimento a vecchie storie?». «A dire il vero, mi ha un po' stupito sapere che Kozlow ha fatto il soldato». «Ah, sì? In che arma?». «Nell'esercito. Lenny mi ha detto che l'hanno radiato, ma non so altro Perché? Ti dice qualcosa». «Forse. Anche Victor ha un passato nei marines. Verificherò domattina appena arrivo in ufficio». «Bene. Potresti anche procurarti i tabulati del traffico telefonico di Rafferty. Io ci ho già provato, ma il traffico locale è accessibile solo alla pubblica accusa. Se la tua ipotesi è corretta, dovresti trovarci una miriade di telefonate a Claire Doniger e a Kozlow». «E forse anche al nostro misterioso uomo dalle guance scavate...». «Speriamo», disse Jared. «Forse fanno tutti parte della stessa banda». Jared alzò gli occhi e osservò lo scintillante profilo dei grattacieli di Manhattan. Era bello come la prima volta che l'aveva ammirato, da quel punto, durante un giro notturno in bicicletta, con Sara, alla fine del loro primo anno di law school. Jared fece un respiro profondo e sorrise. Gli sembrava, finalmente, di ritornare a vivere. Da questi pensieri lo riscosse la risata di Sara. «Che c'è di tanto divertente?», le domandò. «Nulla», rispose Sara, con una risata che tradiva, insieme, il nervosismo e il sollievo. «Mi sembra incredibile che sia successo a noi. Perché proprio a noi?». «Chissà? Forse doveva andare così». «Ehm... veramente, io credo di essermela andata un po' a cercare. Se non fossi stata così preoccupata per me stessa, non avrei sottratto quella cartelletta. E se io non mi fossi ritrovata il caso Kozlow tra le mani, tu non saresti mai stato coinvolto...». «Okay, ho capito. Non abbiamo il tempo di fare questo giochino. Con l'auto-commiserazione sei a posto per almeno un anno». «Non è auto-commiserazione. È la realtà. Se io non avessi sottratto quella cartelletta, ora non ci troveremmo in questo guaio». «Pensala come ti pare; da parte mia, non mi sogno neppure di rimproverarti, per questo. Ora, torniamo alla questione fondamentale: che cosa fac-
ciamo con il caso?». Sara ci pensò su e disse: «Non lo so. È ovvio, però, che dobbiamo cercare di evitare il processo». «Magari possiamo andare dal giudice a chiedergli di rimuoverci entrambi dall'incarico con la scusa del conflitto di interessi», suggerì Jared. «Oppure inventarci un vizio di procedura per ottenere l'annullamento del processo». «Possiamo fare entrambe le cose, ma non risolveremmo il problema». «Me ne frego di risolvere il problema», replicò Jared. «Io dico che dobbiamo mollare questo caso al più presto e riprenderci la nostra vita. I supereroi lasciamoli fare agli altri». «È escluso. Il problema è anche nostro. Rafferty, Claire Doniger, Kozlow, l'uomo dalle guance scavate sono problemi nostri. E, anche se a te forse piace illuderti del contrario, non ci lasceranno in pace finché non avranno ottenuto quello che vogliono». «D'accordo, allora è sufficiente che escogitiamo un modo per impedire a questo branco di pazzi di perseguitarci. Potremmo congedarci con un inchino e dire che, se ci succede qualcosa, il nostro avvocato ha abbastanza materiale per sbatterli tutti in galera. Che te ne pare?». «Jared, sforzati di considerare la questione da un punto di vista più generale. Se anche ci lasciassero in pace, non possiamo permettere che facciano ad altri quello che hanno fatto a noi». «Vuoi dire che dovremmo spedire l'e-mail di Rafferty, per conoscenza, a tutto lo studio?». «Non prendermi in giro. Sai benissimo che ho ragione». Lasciò che il suo ragionamento facesse effetto; poi, aggiunse: «Che ti piaccia o no, la responsabilità è nostra». Jared annuì. «Che cosa suggerisci di fare?». «Ancora non lo so. Ne voglio parlare domani con Conrad. In queste situazioni lui sa muoversi come nessun altro». «E in quali altre situazioni è bravo a muoversi?». «Dài, Jared, perché rivangare? Ti giuro che non è successo nulla. Ci siamo baciati, ma io mi sono staccata subito. Nient'altro». Jared tacque. Vedendo la reazione del marito, Sara si sentì da cani. Di certo, quel bacio fugace l'avrebbe perseguitata per il resto della sua vita. Si ingegnò di trovare qualcosa da dire, ma si rese conto che non esisteva scusa sufficiente. D'altronde, se voleva sperare di passare oltre, da qualche parte doveva
pur cominciare. «Jared, mi dispiace». «Non c'è bisogno che tu...». «No, invece ne sento proprio il bisogno», lo zittì lei. «Mi dispiace davvero, Jared. Sono così dispiaciuta di averti fatto questa cosa. Vorrei poter tornare indietro, cancellare questo episodio dalla mia vita. So di non avere scusanti; però voglio che tu sappia una cosa: per me non c'è nulla di peggio che farti del male; non c'è una sola cosa al mondo che mi faccia soffrire altrettanto». «Allora, non sei innamorata di lui?». «Innamorata?! Ma sei impazzito? È stato un attimo... un passo falso. Jared, tu sei tutta la mia vita. Non c'è nulla che per me sia più importante. Io confido totalmente in te». «Ah, sì? Perché allora mi hai spiato mentre frugavo nella tua borsa?». Sara alzò una mano e gli solleticò la nuca. «Amore, io dormivo come un sasso. Io l'ho detto soltanto per vedere la tua reazione. E tu, chiaramente, ci sei cascato. La mia fiducia in te, però, è immutata. E, in più, ti amo». Col sorriso da furbetto, Jared disse: «Sei una iena, lo sai?». «Che vuoi che ti dica? Chi scherza col fuoco finisce per bruciarsi». «Sara, ti giuro che io mi sono comportato a quel modo solo perché temevo che...». «Non ha più importanza», disse Sara, prendendogli una mano. «Diamoci un bacio e chiudiamo la questione una volta per tutte». «Qui?», domandò Jared, guardando d'intorno la Promenade completamente deserta. «Davanti a tutta questa gente?». «Certo, qui. È il nostro magic moment hollywoodiano: i nostri intrepidi eroi, il bel panorama, il vento che scompiglia i capelli... È tutto perfetto. Non ci resta che...». Sara lasciò la frase a metà, si protese verso il marito e, afferrandolo per la nuca, gli stampò un bacio in bocca. Rimasero lì abbracciati a baciarsi per un minuto buono. Ancora una volta, tutto il resto svanì. Quando le labbra si separarono, Sara domandò: «Che ne dici?». Jared sorrise. «È bello essere di nuovo a casa». «Sottoscrivo in pieno. Allora, sei pronto?». «Dipende. Che cosa hai intenzione di fare?». «Be', per il momento cercheremo di ricomporre il puzzle; quando il quadro sarà ricomposto, ci metteremo alle costole di quelli che l'hanno mandato in pezzi. Se Rafferty, adesso, già sa di avere dei problemi, vedrai cosa dirà quando il mio piede incontrerà il suo culo». «Spero che tu abbia ragione. Perché se Rafferty ci scopre, non credo che
si tirerà indietro solo perché tu sei procuratore distrettuale». «Procuratore aggiunto, per gli amici. Ora torniamocene a casa». Nascosto dietro un folta e ipertrofica siepe e protetto dai rami più bassi di una quercia, un uomo li osservò allontanarsi. Sapeva che sarebbe successo... Lui l'aveva detto subito. Appena la pressione era aumentata, quei due avevano ceduto. Li osservò avanzare sul vialetto di cemento verso Clark Street, nella sua direzione. Il buio gli garantiva la più assoluta invisibilità. Non dovette neppure acquattarsi al loro passaggio. Restò appoggiato all'albero, a seguirli con lo sguardo. Ebbe la tentazione di allungare una mano, ma riuscì a resistere. Mano nella mano, come due adolescenti, Jared e Sara camminavano sull'onda della ritrovata fiducia reciproca. Ora entrambi sapevano tutto - a parte il fatto che il loro segreto non era più tale. CAPITOLO SEDICI «Lo sapevo!», esultò Guff, fregandosi le mani. «L'avevo detto o no? Eh? Non l'avevo detto, io? Ero stato io a dire che Rafferty c'era dentro fino al collo!». «Sì, sì, abbiamo capito. È vero, avevi ragione!», disse Conrad. «Però adesso lasciaci respirare!». Si rivolse a Sara, che era seduta alla sua scrivania. «Che altro ti ha detto Jared?». «Niente», rispose Sara. «Rafferty è entrato in gioco sin dall'inizio e lo ha minacciato: ha detto che se Jared non avesse fatto assolvere Kozlow, si sarebbe vendicato facendo uccidere me». «Pensi di poterti fidare?», domandò Conrad. «Di chi? Di Jared? Che domande sono? È mio marito». «È anche il tuo avversario, però, e potrebbe manovrare ai tuoi danni». «Tu devi aver fumato qualcosa di strano... Te lo assicuro». Quindi, aggiunse: «Mi ha persino fatto vedere le foto di noi due che ci baciavamo. E non è stato un bel vedere». «Foto? E chi gliele ha date?». «Secondo me...». «Ehi, ehi, ehi!», interloquè Guff. «Vi siete baciati? C'è stato del sesso in questo ufficio? Ditemelo, eh? Perché se è successo, io devo saperlo». «Non è successo nulla», disse Sara. «Uno sfortunato incidente tra amici».
«Dimmi di queste foto», disse Conrad. «Sembrano scattate da quel punto», disse lei, indicando fuori dalla finestra i due uffici di fronte. «Sono entrambi uffici di procuratori aggiunti». «Hai idea di chi possa averle scattate?». «Secondo me, è stato Victor», ipotizzò Sara. «Si sarà anche ritirato dietro le quinte, ma noi sappiamo che, all'inizio, anche lui aveva le mani in pasta». «Può darsi», disse Conrad. «Finché non ne avremo la prova, però, non possiamo toccarlo. Per quanto sia losco, non ha ancora fatto nulla di illegale». «È per questo che voglio mettermi a scavare. Jared mi ha dato il numero di telefono privato di Rafferty. Voglio vedere se salta fuori qualcosa». «Posso pensarci io», disse Guff. «Immagino tu voglia sapere i numeri di chi ha chiamato e di chi è stato chiamato». «Esatto», confermò Sara. Guff, allora, guardò Conrad. «Posso...?». «Hai il mio consenso», disse Conrad. «Se sorgono problemi, di' che ti mando io». Sara lo ringraziò con un cenno. «Ora vi spiego qual è la cosa per cui più mi serve il vostro aiuto. Jared mi ha detto che Kozlow è stato per un certo periodo nell'esercito. Ho la vaga sensazione che proprio lì abbia fatto la conoscenza dell'uomo dalle guance scavate. Siccome, però, contro quest'ultimo non possiamo far nulla, perché non sappiamo neppure chi sia, pensavo che forse potremmo...». «Dimmi che cosa ti serve», fece Conrad. «I nomi di tutti i suoi compagni di camerata? O quelli di tutta la caserma? Foto? Impronte digitali?». «Le foto dovrebbero andare bene. Il nome non lo riconoscerei, ma la faccia sì». «Te le porto appena riesco a procurarmele. Quando il processo sarà finito, conosceremo persino la circonferenza del suo mignolo». «No, no, no», disse Sara. «Io ne ho bisogno prima che cominci il processo. Se aspetteremo che sia finito, uno di noi sarà già morto». Quando Conrad e Guff fecero per andarsene, Sara disse: «Conrad, possiamo parlare un attimo, io e te?». «Ahi, ahi, ahi, farfallone! Mi sa che sono guai», scherzò Guff. Quando Guff se ne fu andato, Conrad, cogliendo l'espressione imbarazzata di Sara, chiuse la porta e disse: «Fammi indovinare di che si tratta».
«Lo so che è spiacevole, ma ne dobbiamo pur parlare». «Sara, tu non devi spiegarmi nulla. So quello che provi per Jared. È tuo marito». «Non è che sia solo mio marito. Lui è...». «È l'uomo che ami», aggiunse Conrad. «No», disse Sara. «È di più. Molto di più». Conrad si mise a sedere sul divano. «Mi dispiace, Sara. Ti giuro che non l'avevo premeditato». «Oh, non devi scusarti. Quando ti sei chinato per baciarmi, non è che io sia esattamente fuggita». Con i gomiti puntati sulle ginocchia e la testa tra le mani, Conrad aveva un'aria affranta. «Maledizione!», borbottò. «Ehi, non starai mica ad autoflagellarti, vero?». «Quello che ho fatto non è giusto... Non avrei dovuto...». «Conrad, ogni amicizia ha i suoi momenti critici. Questo è uno di quei momenti. Però sono convinta che il modo migliore per superarlo sia di lasciarcelo alle spalle, senza perderci troppo in chiacchiere e scuse». «La fai facile, eh?». Sara distolse lo sguardo. «Non lo so... Può darsi». Osservandola, Conrad capì di non avere possibilità di scelta. «Ti giuro, non ho mai...». «Non c'è bisogno di aggiungere altro», tagliò corto Sara, adottando la più dura delle sue espressioni. «Sopravvivremo». «Lo so. Ciò non toglie, però, che a me dispiaccia veramente, Sara. È stato un mio errore di interpretazione. Ma ti assicuro che non succederà più». «Affare fatto», disse Sara, con un sorriso, porgendogli la mano. «Allora, guardiamo avanti e ci tiriamo su il morale?». Conrad le strinse la mano. «Certo, anche perché più in basso di così non credo che possa andare». «Sei pronto per giovedì?», domandò Rafferty quando Jared portò la cornetta del telefono all'orecchio. «Ci sto provando», rispose Jared. «Solo che non è facile organizzre tutto». «Hai avuto tutto il tempo di organizzarti. Che altro ti resta da fare?». «Devo finire le dichiarazioni preliminari; devo fare esami e controesami; devo pensare alla selezione della giuria, per decidere quale tipo di giurato è maggiormente suscettibile di provare simpatia per Kozlow... Il tutto nei
prossimi tre giorni. È davvero troppo». «Sono affari tuoi. Sbrigateli tu. Ci sono novità sul fronte familiare?». «No, a parte il fatto che sono tornato a casa. Le ho detto che non mi piace dormire da suo nonno, e lei, dopo quello che è successo con Conrad, si sente troppo in colpa per lasciarmi fuori di casa. Per il resto, niente da segnalare». «Ne sei sicuro?». Jared non ebbe esitazioni. «Assolutamente», disse. «Dagli appunti che aveva in borsa, però, pare che abbia intenzione di rinunciare alla testimonianza di Patty Harrison». «Credimi: se anche Sara dovesse chiamarla a testimoniare, la signora Harrison non è più quella di una volta». «Per favore, state alla larga da lei, almeno finché non sapremo quali sono le intenzioni di Sara. Non vorrei che alla lista dei capi d'accusa si aggiungessero anche le minacce contro i testimoni». «Non ti preoccupare. È tutto sotto controllo». «Mi raccomando», disse Jared, ossequioso. «Ora, mi lasci tornare al lavoro. Ci sentiremo più tardi». Posata la cornetta, Jared guardò Kathleen, che aveva ascoltato l'intera conversazione. «Credi che lo sappia?», gli domandò. «Non ne ho idea», rispose lui. «Mi pare che sia più apprensivo, ma forse è troppo nervoso per sospettare qualcosa. Spero solo che Sara riesca a scoprire qualcosa prima del processo». Quella sera, alle otto e un quarto, Jared entrò in casa e sbatté la porta. «Sara!», ringhiò non appena la vide, in cucina. «Si può sapere quand'è che hai intenzione di fornirmi la lista dei testimoni?». «Quando sarà pronta», ribatté Sara, recisa, andandosene in camera da letto. «E, se proprio vuoi saperlo, ancora non è pronta». «Non scappare», le gridò dietro Jared, seguendola. «Stai meditando di trasformare il processo in un'imboscata?». «Puoi dire quello che ti pare, ma io ho tempo fino alle dichiarazioni preliminari per finire il mio lavoro d'indagine». «Vuoi scherzare? Nessuno ci mette così tanto. La consuetudine e la cortesia prevedono che...». «Me ne fotto della consuetudine e della cortesia. Le regole sono queste, e io ho intenzione di sfruttare ogni vantaggio che mi concedono. Ora, se proprio hai deciso di restare qui, ti conviene prepararti a dormire sul diva-
no. Altrimenti, va' dove ti pare». Con un gesto fulmineo, Sara gli sbatté la porta della camera da letto in faccia. Un attimo dopo, Jared aprì piano la porta ed entrò in punta di piedi nella stanza da letto. Sara era già seduta alla scrivania nell'angolo, intenta a cercare e pigiare i tasti del loro computer. Jared si avvicinò e lesse le parole che Sara aveva digitato: «Com'è andata la giornata, tesoro?». Jared si chinò a baciarle il collo e prese possesso della tastiera. «Bene», digitò lui. «Ho parlato con Rafferty. Credo sia tutto a posto. Non sospetta di nulla. Mi sembra troppo nervoso». Passò nuovamente la tastiera a Sara. Mentre lei, lentamente, scriveva, Jared prese una sedia e si sedette accanto a Sara. «Perché dobbiamo arrivare a questo punto?», aveva scritto Sara. «Conrad dice che potremmo far bonificare la casa in due ore. E senza microspie potremmo parlare liberamente». In un vorticoso pestar di tasti, Jared rispose: «Se facessimo bonificare la casa, Rafferty lo verrebbe sicuramente a sapere. Secondo me, è meglio andare sul sicuro finché non inizierà il processo». Alla sua maniera monodigitale, Sara insistette: «Ma io ci metto tre ore a scrivere una frase!». Jared ridacchiò tra sé. Non ci aveva pensato. Mise una mano dietro la nuca di Sara e la tirò a sé. Le baciò piano piano un lato della fronte, la guancia, il lobo dell'orecchio. Accarezzandole l'orecchio con le labbra, Jared sussurrò: «Ti amo da impazzire». Proseguendo a baciarla lungo il collo, cominciò a sbottonarle la camicia. Sara chiuse gli occhi, sul punto di cedere alla tentazione. Di colpo, però, si riscosse. Ritraendosi, digitò: «Scordatelo. Loro ci ascoltano». «Non sentiranno nulla», replicò Jared. «Infatti», rispose lei. «Non sentiranno proprio nulla». «E la tua ultima parola?». Sara si limitò a un irrevocabile punto esclamativo. «D'accordo, allora io resterò qui seduto a soffrire», scrisse Jared. «Ecco, sto soffrendo. Soffro. Soffro». Fece una pausa; poi riprese. «Soffro. Soffro». Sara gli diede un colpetto dietro la nuca, e lui cambiò discorso. «Che altro è successo, al lavoro? Ci sono novità?». «Non ancora», scrisse Sara. «Domani». Sedendosi davanti a quel computer, Sara e Jared non avevano notato che la scrivania era spostata di un buon mezzo centimetro più a destra, rispetto
al solito; non si erano accorti della diversa inclinazione del monitor né della nuova derivazione del suo cavo principale, che correndo dietro la scrivania andava a infilarsi in un buchino ad hoc praticato nel muro. Non potevano sapere che quel cavo, strisciando lungo il tubo della caldaia a gas, arrivava fino in cantina, dove era collegato a un altro monitor. Non immaginavano che qualcuno potesse leggere ogni singola parola da loro scritta. Il martedì, di buon'ora, a testa alta e schiena eretta, Sara prese l'ascensore per raggiungere il suo ufficio. Darnell, il lift, la guardò e sorrise. «Ehi, hai mangiato i Ringo, a colazione?», disse. «Hai una grinta da campione». «Eh, sì. È questo il mio segreto», rispose Sara. Mentre le porte dell'ascensore stavano per richiudersi, saltò a bordo un giovane in camicia a mezze maniche. Sara lo riconobbe all'istante: era il fattorino che consegnava i verbali delle denunce all'UAC, la persona che le aveva consigliato di appropriarsi del caso Kozlow. «Che si dice, Darnell?», domandò, entrando. «Niente di nuovo da...?». Quando vide Sara si interruppe. «Ehi!», aggiunse. «Guarda chi si vede». «Vi conoscete?», domandò Darnell. «In un certo senso», rispose Sara. Tendendo la mano al nuovo arrivato, disse: «Comunque, io sono Sara». «Piacere, Malcolm», rispose il fattorino. «Allora, come è quel famoso caso? Avevo ragione, sì o sì?». «Avevi ragione: è roba buona». «Eh, già, altrimenti non te l'avrebbero mai lasciato». Sara corrugò la fronte: «Che cosa?». «Il caso, no?». «Be'? Che cosa vuoi dire?». Malcolm tacque. Dopo un po', disse: «Mi dispiace, credevo che ne aveste già parlato». «Chi? E di che cosa?». Malcolm guardò Darnell e, poi, Sara, che lo stavano fissando. «Sentite, ho già parlato troppo». «Malcolm...». «No, no, non attacca. Se hai dei problemi, veditela con Victor». Le porte dell'ascensore si aprirono, e Malcolm scese. «Ci vediamo, Sara. Ciao, Darnell». Quando le porte si furono richiuse, Darnell domandò: «Ti senti bene? Mi sembri Casper il fantasma».
«Portami su», disse Sara. «Veloce». Sara corse fuori dall'ascensore e raggiunse il suo ufficio. Aprì un cassetto e prese un vecchio blocco per appunti. "Mantieni la calma", disse tra sé. "Non farti prendere dal panico. Sforzati di capire il come e il perché". Rifletté su quella strana frase di Malcolm, soppesandone ogni sillaba: "'Eh, già, altrimenti non te l'avrebbero mai lasciato'. Non me l'avrebbero mai lasciato? Al contrario! Se fosse stato un buon caso, me l'avrebbero tolto!". Tornò, ancora una volta a domandarsi: "Perché Victor era interessato a questo caso?". Con cura passò nuovamente in rassegna le possibili risposte elencate su quel vecchio blocco per appunti: perché conosce Kozlow; perché lo odia; perché vuole fargliela pagare. "Oh, merda!", pensò. "Era evidente sin dall'inizio. Lui ha approfittato della mia debolezza sin dal primo giorno". Chiuse gli occhi, alla ricerca dei pezzi mancanti. "Ma certo!". L'immagine cominciava a prendere forma. Si irrigidì, serrando i pugni, e sentì la rabbia che le saliva alla testa, correndo lungo la spina dorsale. Non provò neppure a contrastarla. «BRUTTO FIGLIO DI PUTTANA!», gridò, scagliando il blocco per appunti contro un muro. «Come ho potuto essere così stupida?». Sbattendo la porta dell'ufficio, Sara uscì infuriata in corridoio, senza guardare in faccia nessuno raggiunse l'ufficio di Victor e, senza bussare, spalancò la porta. «Avanti», disse Victor, alzando gli occhi dal tavolo. Sara era pronta per esplodere. «Abbiamo dei problemi, a quanto pare, eh?». «Tu lo sapevi, vero?», gli domandò Sara. «Ti dispiacerebbe spiegarmi di che cosa vai cianciando?». «Non fare il finto tonto. Tu lo sapevi, vero? Il giorno in cui ci siamo incontrati per la prima volta, in ascensore, tu sapevi già chi ero. Sapevi come mi chiamavo, conoscevi il mio curriculum, la mia storia... tutto quello che c'era da sapere su di me. E, soprattutto, sapevi quanto fosse disperato il mio bisogno di avere un caso». «Sara, io non capisco di che...». «Non è stato neanche tanto difficile, vero? Trovata la scusa giusta per Malcolm, mancava solo la boccalona di turno. Una persona in grado di fare un buon lavoro, ma facilmente influenzabile, abbastanza aggressiva, ma troppo ingenua per avere dei sospetti. Una persona vulnerabile. E abba-
stanza disperata da prendersi quel caso. Una come me». «Certo che hai una bella fantasia, eh?». «È dal primo giorno che continuo a darmi della stupida per essere stata così avventata da impadronirmi di quella cartelletta. Evidentemente, però, c'era qualcosa che mi sfuggiva, vero Victor? Non sono stata io a rubare la cartelletta; sei stato tu a fare in modo che ciò avvenisse». Sul volto di Victor, seduto alla sua scrivania, comparve un vaghissimo sorriso. «Non ci posso credere», disse Sara. «Perché? Perché non te ne sei occupato tu?». «Te l'ho detto. Non so di cosa tu stia parlando... Quel Kozlow, però, è un tipetto mica da ridere, eh?». «Sei un vero bastardo, Victor», sibilò Sara, digrignando i denti. «Sarò anche un bastardo; di certo, però, ho un bel po' di grattacapi in meno». «Ne sei sicura?», domandò Conrad. «Mi pare una cosa insensata». «Che cosa c'è di insensato?», disse Sara. «È stato Victor!». «Fammi capire: mi stai dicendo che il primo giorno, quando sei stata all'UAC, Victor non solo sapeva che Malcolm avrebbe consegnato il verbale relativo al caso Kozlow, ma gli ha anche chiesto di assicurarsi che tu lo rubassi. È così?». «Precisamente». «Ma se Victor voleva liberarsi del caso, perché non l'ha semplicemente passato a qualcun altro? E poi, se voleva che fosse perseguito - senza offesa - perché rifilarlo proprio a te? Perché non darlo a qualcuno con più esperienza?». «Perché Victor voleva evitare che Kozlow o Rafferty scoprissero che se n'era liberato di proposito». «Hai smesso di pensare che Victor sia un insabbiatore di casi?». «No. Penso soltanto che non volesse insabbiare questo caso». Notando l'espressione perplessa e confusa di Conrad, aggiunse: «Te lo rispiego: sono sempre convinta che Victor rimesti nel torbido. Secondo me, deve avere qualche ricco cliente che lo strapaga per insabbiare casi non particolarmente clamorosi; quindi, non è che sia esattamente uno stinco di santo. Ora, io scommetto che le cose sono andate più o meno così: Rafferty viene casualmente a sapere di Victor da qualche pezzo grosso suo amico; quando Kozlow viene arrestato, Rafferty va subito a piangere da Victor, senonché
Victor non è stupido. Sa che il suo giochetto può durare solo finché le persone coinvolte stanno al loro posto, e con Kozlow c'è poco da stare tranquilli». «Allora, Victor dice a Rafferty che non se ne fa niente». «Esatto. Neanche Rafferty, però, è uno stupido. Essendo ormai a conoscenza del segreto di Victor, minaccia di sputtanarlo se non lo aiuta. Victor non vuole occuparsi di insabbiare personalmente il caso, perché non vuole rischiare, però non può neppure disfarsene, perché Rafferty lo minaccia. A quel punto, il problema di Victor è: come sbarazzarsi del caso, senza dar l'impressione di averlo fatto di proposito?». «Si fa in modo che qualcuno lo rubi». «Mi sembra che i conti tornino, o no?». Conrad si alzò in piedi e andò a guardar fuori dalla finestra. «Piuttosto ingegnoso, da parte di Victor». «Victor sa il fatto suo. Non mette a repentaglio la carriera con uno come Kozlow. In fondo, gli basta far finta di essere un po' arrabbiato, dopodiché avverte Rafferty e Kozlow che la cosa gli è sfuggita dalle mani. Magari, si offre di fargli qualche altro piccolo favore - passando qualche informazione o scattando qualche foto - così si convincono che lui non aveva intenzione di mollarli». «E tutte le volte che si è presentato nel tuo ufficio...». «...cercava informazioni da passare a Rafferty, o magari controllava che io non mi impicciassi degli altri casi di sua pertinenza». Allontanandosi dalla finestra, Conrad disse: «C'è un'altra cosa che non riesco a capire. Se Victor sapeva del tuo arrivo, quel pomeriggio, qualcuno deve averglielo detto. Oltre a te e a Jared...». «...c'è una sola persona che può averglielo detto». In quell'istante, entrò Guff. «Ehi, che facce da Casper!», esclamò Guff. «Che succede?». «Niente», balbettò Sara. «Stiamo benissimo». «Guardate che se le vostre lingue si sono nuovamente intrecciate, a me non importa». «Piantala», disse Conrad. «Non fai ridere». «Guff, non potresti scusarci un attimo?», domandò Sara. «Perché? Cos'è tutta 'sta segretezza?». «Guff!», esclamò Conrad. «Okay, okay, è una questione privata... ho capito». Guff si avviò alla porta. «Però non prendetevela con me, eh? Io sono dalla vostra parte».
Quando Guff se ne fu andato, Sara guardò Conrad. «Ti prego, dimmi che non è lui». «Infatti, non lo è», disse Conrad. «Quel ragazzo l'ho conosciuto il giorno stesso in cui è arrivato qui. Non è proprio il tipo». «Non mi importa sapere da quanto tempo lo conosci. Non può essere altrimenti. È stato lui a portarmi all'UAC, e io non ci sarei mai andata, se lui non mi ci avesse portato». «Sara, lui ti stava soltanto facendo un favore». Sara stava sudando freddo. «Oh, mio Dio... Vuoi dire che Rafferty sa che io e Jared abbiamo parlato?». «Neanche per sogno. Nessuno sa nulla». «Allora come spieghi...?». «Non c'è nulla da spiegare», disse Conrad. «Guff lo conosco. E, soprattutto, ho piena fiducia in lui. Non potrebbe mai fare una cosa del genere». «Tu puoi fidarti di chi vuoi», replicò Sara. «A volte, però, succede di beccarsi una pugnalata alla schiena». Sara rientrò a casa alle otto e mezza, quella sera. Entrando, andò diritta in camera da letto, dove trovò Jared seduto alla tastiera del computer. «Ciao, amore. Com'è andata, oggi?». Quando lui si voltò e la vide, aggiunse: «Che cosa è successo!?». Facendogli segno di aspettare, Sara, con il tono più odioso di cui fu capace, disse: «Ti dispiacerebbe andartene in soggiorno? Avrei delle cose da fare, qui». «Agli ordini», rispose Jared, sprezzante. Si alzò e se ne andò sdegnato. In soggiorno accese la tv, per poi tornare di soppiatto in camera da letto. Sara, intanto, aveva scritto: «Forse, Guff sta facendo il doppio gioco. Ho l'impressione che, il primo giorno, mi abbia portato all'UAC per una ragione ben precisa». Mettendosi alla tastiera, Jared scrisse: «Non è un'accusa da poco. Se fossi in te, prima di rovinare un'amicizia, farei tutte le verifiche possibili». Jared aveva ragione. Sara digitò: «Abbiamo un calendario?». «Nella mia borsa», rispose Jared. «Sul mio organizer». Sara aprì la borsa di Jared e trovò l'agendina elettronica. Selezionò la funzione calendario e vide comparire l'elenco degli appuntamenti di Jared e la lista delle cose da fare: «Chiamare l'esperto della giuria - Finire esami - Chiamare printer». Premendo il tasto "UP", risalì fino alla data di lunedì 8 settembre, il suo primo giorno di lavoro. Quando con il cursore giunse
alla data desiderata, però, Sara ebbe un sobbalzo. C'era un'unica nota, a quella data, tra le cose che Jared aveva da fare: «Chiamare V.S.». Sotto quelle iniziali c'era un numero di telefono. Dalle tre cifre iniziali, Sara capì che si trattava di un numero interno alla procura. Rifletté su quelle iniziali: "V.S. come Victor Stockwell". Sara guardò Jared; poi, di nuovo quel numero di telefono. Impossibile! Quando tornò a voltarsi verso il marito, Sara si accorse che lui la stava osservando. Jared mosse le labbra, silenziosamente, per domandarle: «Ti senti bene?». Sara annuì, richiudendo l'organizer. Non era Guff, il doppiogiochista: era Jared. Con le gambe che le tremavano, Sara tornò al computer. Sullo schermo, c'era scritto: «Che cosa ha fatto Guff per suscitare i tuoi sospetti?». Sforzandosi di non lasciar trapelare l'inquietudine, Sara rispose: «Nulla. È solo una sensazione». CAPITOLO DICIASSETTE «Te l'avevo detto che Guff non c'entrava!», disse Conrad, l'indomani mattina. «Lo sapevo che non poteva essere lui». «Oh, lasciamo stare Guff», disse Sara, con voce assolutamente spenta, la testa appoggiata alle braccia conserte sul tavolo. Non l'aveva più rialzata, dacché aveva finito di raccontare a Conrad quello che aveva scoperto. «È Jared che mi preoccupa... Cioè, forse mi sbaglio. Magari non è lui». «Come sarebbe a dire? Certo che è lui». Sara non rialzò la testa. Non era quello che sperava di sentirsi dire. A poco a poco, sentì un antico nodo stringerle lo stomaco. "No, non è possibile", pensò. "Ancora!?". «Sara, cosa c'è?». Sentendosi mancare il fiato, non cercò neppure di rispondere. Non si trattava di un lontano conoscente, o di un collega, bensì di suo marito. In teoria, lei avrebbe dovuto conoscerlo, sapere tutto di lui. Non aveva fatto altro che ripeterselo, la sera prima, nel tentativo di addormentarsi. E tornò a ripeterselo, per convincersi che Conrad si sbagliava. Ma più ci rifletteva, più scopriva ragioni per sospettare del marito: quando voleva, Jared sapeva essere un abile manipolatore, e nell'ultimo mese aveva potuto rendersene conto in prima persona. Infine, quella telefonata a Victor. Victor poteva averlo saputo soltanto da Jared. Sara pensò e ripensò mille volte a tutto,
ma non era facile decidere se fidarsi o no di suo marito. «Come fai a esserne così sicuro?», domandò, a un certo punto. «Non avrebbe neppure senso». «Sì che ha senso, invece», obiettò Conrad. «Io l'ho visto all'opera, tuo marito. In apparenza, sarà anche tutto pulito e perfettino, ma è doppio come chiunque altro. Non ha forse frugato nella tua borsa? Io te l'avevo detto subito, quando lui ti ha parlato di Rafferty, di guardarti da lui». «Tu l'hai detto soltanto perché sei geloso». Conrad la fissò con durezza, e in tono serissimo disse: «Io penso che lui nasconda qualcosa». «E perché mai? Sentiamo... Lui odia Rafferty». «Su questo sono d'accordo, ma ciò non esclude che Jared lavori con Victor: sono due cose diverse». Il nodo allo stomaco si strinse ulteriormente. «Ma perché dovrebbe farmi una cosa del genere?». «Non è che c'è qualcosa di imbarazzante nel suo passato? Magari, lui e Victor lavorano insieme per insabbiare dei casi: Jared mette in fila i clienti, e Victor li fa scomparire». Oppure è vittima di un ricatto. O forse vuole vendicarsi di un torto che gli hai fatto. Per quel che ne sappiamo, quella sera a Brooklyn potrebbe essere stata tutta una messinscena». «Smettila!», disse Sara, alzando la voce. «Non è vero. È impossibile!». «Sara, lo so che non è facile, però non puoi chiudere gli occhi e limitarti a sperare che tutto finisca bene. Apri le persiane e affronta il problema». «Lo sto già affrontando». «No, invece», disse Conrad. «Se lo stessi facendo, avresti già parlato con Jared e gli avresti chiesto conto di quella telefonata a Victor». Sara capì che Conrad aveva ragione. Avrebbe dovuto parlargliene subito. «Non è così facile, lo sai». «Chiamalo. Se ti dirà che non ha mai parlato con Victor, almeno sapremo che sta mentendo». Sara allungò un braccio e sollevò la cornetta. Composto il numero, sentì squillare il telefono di Jared. «Dài, lo so che ci sei!», imprecò. «Maledizione, rispondi!». «Ufficio dell'avvocato Lynch», rispose Kathleen. «Ciao, Kathleen. Sono io. C'è Jared?». «Aspetta che controllo. Un attimo». Sara si alzò in piedi, giocherellando nervosamente con il cavo del telefono, ma Conrad le mise una mano su una spalla e la spinse nuovamente a
sedere. Un attimo dopo, Jared rispose. «Pronto, Sara?». «Hai un minuto da dedicarmi?», domandò lei, facendo del proprio meglio per sembrare calma. «Certo. C'è qualcosa che non va?». «No, nulla. Avrei solo una domanda da farti. Conosci per caso un certo Victor Stockwell?». «Te l'ho già detto. Solo di fama. Perché?». «Non hai mai parlato con lui al telefono?». All'altro capo del filo, ci fu una breve esitazione. «No. Perché?». Sara guardò Conrad e scosse la testa. «Jared, c'è qualcuno nel tuo ufficio?». «Sara, che cosa succede? Ti senti bene?». «Io sto benissimo. Voglio solo che tu risponda alla mia domanda. Hai mai parlato con Victor?». Jared non rispose. «Ti prego, Jared. A me puoi dirlo», insistette Sara. «No, non gli ho mai parlato», ribadì lui. «Perché me lo...?». Sara riagganciò prima che Jared potesse finire la frase. Sentì un dolore lancinante in pieno petto. «Mi dispiace», disse Conrad, cingendole le spalle con un braccio. Sara chiuse gli occhi, sconvolta. "Tranquilla", provò a dirsi. "Ci sono sicuramente tremila spiegazioni". Ma benché si sforzasse, non riuscì a trovarne neppure una. Capì che era tutto finito. Sara non aveva capito nulla. Lo squillo del telefono squarciò il silenzio. Sara non si mosse. Il telefono squillò di nuovo. Al terzo squillo, Sara fece per rispondere. «Non lo fare», disse Conrad. «Jared, non ho intenzione di stare a sentire le tue stupide scuse», disse Sara. «Scusami», disse Jared. «Non avrei dovuto mentirti». «Ah, adesso ne hai inventata un'altra?». «Sara, ti prego. Voglio dirti la verità: ho parlato una volta sola con Victor». Sara si passò una mano tra i capelli e si voltò di lato. Questo, se possibile, era persino peggio. «Sara?», domandò Jared. «Sara, ci sei?». «Sì, ci sono», rispose lei, con un filo di voce. «Ti prego, non arrabbiarti», supplicò Jared. «Non pensare male; l'ho fat-
to per una buona causa». «Sentiamo». «Okay, ecco la storia. Ti racconto tutto. È andata così». «Hai intenzione di dirmi la verità, o stai cercando di improvvisare una spiegazione?». «Sara, te lo giuro, io l'ho chiamato solo per chiedergli aiuto. La sera precedente il tuo primo giorno di lavoro eri così agitata che mi sono sentito in dovere di fare qualcosa. Mentre tu stavi preparando la borsa, io sono andato in camera da letto e ho telefonato al giudice Flynn. So benissimo che tu mi avevi detto esplicitamente che non volevi raccomandazioni, però avresti dovuto vederti... Quell'articolo sul "Times" ti aveva mandato fuori di testa. Non potevo restare con le mani in mano. Ho spiegato a Flynn come stavano le cose e gli ho chiesto cosa mi consigliava di fare. Lui mi ha parlato dell'UAC e, dopo aver fatto un paio di telefonate, mi ha detto che, per l'indomani, il supervisore dell'assegnazione dei casi sarebbe stato Victor e mi ha dato il suo numero di telefono. Il mattino dopo l'ho chiamato, gli ho spiegato la situazione e gli ho detto che se ti avesse aiutato il giudice Flynn gliene sarebbe stato grato. Lui mi ha detto che avrebbe fatto il possibile, e da allora non l'ho mai più sentito. Dopodiché tu mi hai detto del caso che ti eri procurata». «Jared...». «So quello che stai per dire. Non avrei dovuto farlo, non avrei dovuto telefonare a Flynn e a Victor a tua insaputa. Ho sbagliato, ma non potevo stare a guardare mentre tu affogavi. Non sopporto di vederti soffrire a quel modo». «Perché, allora, non me ne hai parlato l'altra sera?». «Volevo, eccome! Ma poi ho pensato che se te l'avessi detto, tu saresti ripiombata nell'incertezza, e io non volevo. Dovendo decidere, ho scelto di non parlartene... sbagliando, lo ammetto». «È la verità?». «Ti ho detto tutto, davvero», disse Jared. «Non potrei più mentirti». «In effetti, dodici volte possono bastare, no?». «Se non mi vuoi credere, ti capisco; però ti assicuro che questa è la verità. Quando mi hai telefonato, prima, mi hai preso alla sprovvista». «Allora spiegami un'altra cosa: perché hai lasciato che, per tutto questo tempo, io sospettassi di Victor? Tu sapevi che ero rosa dal tarlo. Perché non mi hai aiutato?». Jared non seppe cosa rispondere, e tacque. Dopo un po', balbettò: «Io...
non so... Ho scelto di non farlo. Mi dispiace». Quella risposta la lasciò allibita. «Ah, è così? Hai scelto di non farlo?». «Sara, te lo giuro. Non so cos'altro dire. Non volevo ferirti... Volevo soltanto aiutarti». «Okay», disse Sara, non sapendo ancora se credergli. «Ne riparliamo più tardi». «Come vuoi. A più tardi». Colpita dal nervosismo che aveva colto nella voce di Jared, Sara posò la cornetta e guardò Conrad. «Allora?», le domandò. Sara fece un respiro profondo. «Non so. Una parte di me crede che lui stia mentendo; un'altra parte, invece, gli crede ancora». «Tu sei fuori di testa!». «Ma se non sai neanche che cosa mi ha detto!». «Be', allora racconta». Quando Sara gli ebbe riferito della conversazione con Jared, Conrad disse: «Suvvia, Sara. È evidente che ti ha mentito: dopo che tu hai messo giù la prima volta, ha pensato a una bella storiella da raccontarti e ha richiamato. In fondo, tu avevi soltanto letto un articolo di giornale che parlava dei tagli al bilancio: ti sembra un motivo sufficiente per telefonare a Victor?». Prima che Sara potesse obiettare alcunché, Conrad aggiunse: «Perché non mi lasci fare una piccola ricerca sui tabulati del tuo telefono di casa? Se la storia di Jared è vera, lo vedremo: se davvero ha chiamato il giudice Flynn, non parlo più». «Non so», disse Sara. «A parte un piccolo dettaglio, la spiegazione mi è parsa plausibile. Sento di dovergli credere». «Sara, non essere stupida! Lui non ha neanche...». «Non dirmi che sono una stupida! Non sono stupida, Conrad. E anche se tu credi di sapere tutto di amore e di legge, devi ammettere che tra le due cose c'è uno iato. Se io mi metto a controllare i tabulati del telefono, tutto il nostro rapporto di fiducia va a farsi friggere». «Preferisci chiudere gli occhi davanti alla realtà?». «Sei davvero così arido? Si diventa come te dopo un po' di anni che si fa questo lavoro? Non si tratta di chiudere gli occhi! Si tratta di aver fiducia». «Lo so. Però non...». «È mio marito». Senza bussare, Guff fece il suo ingresso nell'ufficio con una grossa busta sotto il braccio. «Ecco, allora chiedilo a lui», disse Conrad. «Anche con lui era una que-
stione di fiducia, no?». A Sara non piaceva la tattica di Conrad, però doveva ammettere che la storia di Jared scagionava Guff da qualsiasi sospetto. L'amicizia ebbe il sopravvento sull'imbarazzo, e Sara confessò a Guff i suoi dubbi, ormai fugati. Quando ebbe finito, fu sorpresa dalla reazione di Guff. «Che cosa?», domandò ridendo. «Sospettavi di me? È la cosa più assurda che abbia sentito dopo quella di Elvis che aveva messo la moquette sul soffitto». «Non sei arrabbiato con me?». «Sara, io lavoro per te non perché sei il mio capo, bensì perché sei la mia amica del cuore. E se mi mettessi a fare il muso, toglierei tempo alla nostra amicizia». L'imbarazzo di Sara si sciolse in un sorriso. «Oh, se fossero tutti come te, Guff!». «Il mondo sarebbe un posto migliore, vero?», disse Guff. «Ma dimmi un po': che cosa hai intenzione di fare con il tizio dalle guance scavate? Il processo comincia domani». «Lascia perdere l'uomo dalle guance scavate», disse Conrad. «Piuttosto, che cosa hai intenzione di fare con Jared?». «Conrad, ti prego, vuoi smetterla, per piacere? Lo so che non lo sopporti, però non sono affari tuoi. Si tratta della mia vita. E se voglio sperare di salvarmi, nelle prossime ore devo scoprire chi è quest'uomo». Gutf, rivolto verso Conrad, scosse la testa. «Non puoi farle questo. Il tempo sta scadendo». Conrad incrociò le braccia e osservò i due colleghi. La discussione su Jared doveva attendere. «Cosa c'è in quella busta?». «Volete dei numeri di telefono? Eccoveli! Di tutti i tipi: locali, più vicine e più lontane, interstatali, internazionali, da un isolato all'altro, da finestra a finestra». Gettò la busta sulla scrivania di Sara. Sara non sapeva da dove cominciare, con quella grossa pila di fotocopie. «Come...?». «I tabulati sono in fondo», disse Guff. Consultando i tabulati relativi a Rafferty vide che il numero di Claire Doniger ricorreva spesso, cerchiato di rosso. «Se può farti stare meglio, Jared ha avuto una buona idea... Non c'è dubbio che ci sia un legame tra loro», disse Guff, mentre Sara continuava a sfogliare le fotocopie. «Rafferty può anche dire che si sono sentiti quattro o cinque volte, ma qui risultano almeno quaranta telefonate nella settimana
dell'omicidio. Quattro nel giorno del furto, quando Arnold Doniger, secondo la nostra ricostruzione, è stato assassinato; cinque nel giorno della morte di Arnold secondo Claire. In ogni caso, siamo al limite della logorrea». «Bene. A che punto siamo con l'uomo dalle guance scavate?». «Al solito punto», rispose Guff. «Persi nel nulla». «Quand'è che arriveranno quelle fotografie?», domandò Sara. «Dovrebbero arrivare a momenti», rispose Conrad, consultando l'orologio. «Non potresti...». «Sto scendendo». Conrad si alzò in piedi e si diresse alla porta. «Appena arrivano, le porto su». Cogliendo l'agitazione di Sara, aggiunse: «Andrà tutto bene, vedrai». «Non lo so», disse Sara. «E se sapessero del mio incontro segeto con Jared?». Conrad la rassicurò. «Non possono saperlo». Quando ebbe girato l'angolo e oltrepassato la vetrina dell'agenzia di pompe funebri, Elliott notò l'auto pubblica scura che lo attendeva davanti a casa. Si avvicinò; contemporaneamente, il finestrino posteriore si abbassò. Quando Elliott si chinò per guardare all'interno, vide che era Rafferty. «Tutto bene?», gli domandò quest'ultimo. Elliott fu infastidito dal tono di quella domanda. «Perché non dovrebbe andar bene?». «No, così... Volevo solo sapere se hai qualche novità a proposito di Sara». Elliott intuì che qualcosa non andava. O Rafferty aveva scoperto qualcosa, oppure era alla ricerca di qualcosa. «Niente di anormale», disse Elliott. «Perché? C'è qualcosa che non va?». «No, niente di anormale», rispose Rafferty, non senza un certo sarcasmo. «Ma per l'inizio del processo mi aspetto i fuochi d'artificio». «Sarà divertente. Tienimi informato». «Puoi contarci. Io non ti taglierò mai fuori». «Che vuoi dire?». «Niente», fece Rafferty. «Voglio solo capire se ci intendiamo». «Ci siamo sempre intesi. E ci intenderemo sempre», disse Elliott. Allora, fammi sapere come va a finire». Rafferty annuì.
Quando l'automobile si allontanò, Elliott si voltò verso il portone di casa. "Non lasciarti spaventare", disse tra sé. "Sta andando tutto liscio". Entrato in casa, si diresse immediatamente in soggiorno e aprì il lucchetto della cassapanca che fungeva da tavolino. Con cautela, dalla cassapanca tolse una scatola, che posò sul divano. Aprì la scatola e ne tirò fuori una delle sei paia di mani di manichino in essa contenute. Alla base delle due mani prescelte, a inchiostro nero, era scritto un nome: WARREN EASTMAN. Elliott portò quelle due mani in cucina e le posò sul tavolo, con le dita rivolte verso l'alto. Quindi, sempre con estrema attenzione, si arrotolò le maniche e si tolse dalle mani i trasparenti e aderentissimi guanti di lattice che recavano incise le impronte digitali di un uomo morto da quasi otto mesi. Fatto ciò, infilò i guanti di lattice sui relativi supporti di plastica. Warren Eastman ritornava tra i morti, Elliott tra i vivi. «Dove diavolo si è cacciato?», domandò Sara, alzando gli occhi dalla bozza della sua dichiarazione preliminare. «Sono già passati venti minuti». «Sei mai stata all'ufficio dove smistano la corrispondenza?», disse Guff, che stava mettendo in ordine le cartellette dei testimoni. «Se sei fortunata, per ricevere un pacco devi aspettare qualcosa come un mese e mezzo». «Non ho tutto questo tempo... Anzi, non ne ho quasi più». «Sara, lo sai: stiamo facendo tutto il possibile». Per cambiare discorso, Guff prese in mano la foto del matrimonio di Sara e Jared sull'angolo della scrivania di lei. «Avete fatto le cose in grande al matrimonio, eh?», domandò. «"In grande" è dir poco. Alla famiglia di Jared non piace tirare al risparmio». «Tu la conosci bene, la sua famiglia, vero? Non è che ci sono dei segreti, tra voi?». Sara interruppe la lettura della sua bozza e guardò Guff. «Non sei ancora convinto, vero?». «No, non è questo. Il fatto è che Conrad, in genere, ha un certo fiuto in queste cose. E poi, la storia che Jared ti ha raccontato...». «Sì, lo ammetto, fa acqua in almeno un paio di punti. Ma credo che ci sia una spiegazione». «No, certo... Hai ragione. Come non detto. Devi assolutamente avere fiducia in lui». Tornando a rivolgere l'attenzione alla sua bozza, Sara domandò: «E di
Conrad che cosa mi dici? Posso fidarmi di lui?». «Non ci provare nemmeno. Conrad non farebbe mai...». «È soltanto una domanda. Visto che abbiamo tirato fuori il microscopio, tanto vale dare un'occhiata a tutti». «Credi che Conrad sia in combutta con Victor?». «Io non ho detto questo, però non ti sembra che Conrad ci metta un po' troppo impegno nell'impedirmi di parlare con Jared». «Be', la ragione è facile immaginarla». «Può darsi», disse Sara. «Però, mi dà da pensare. A proposito...». Sfogliò tra le schede del suo indirizzario e prese la cornetta del telefono. «Chi chiami?». «Il nostro anatomopatologo preferito», rispose lei, componendo il numero. «Bene», disse Guff. «Anch'io ho un paio di telefonate da fare». Sara annuì, e Guff uscì. «Pronto», rispose Fawcett. «Salve, dottore. Sono Sara Tate, della procura distrettuale. Si ricorda? Prima che inizi il processo avrei bisogno di una copia pulita dei risultati di quell'autopsia... Devo presentarla agli atti, e la mia è tutta sottolineata e annotata». «Sicura che non ti sia già arrivata? L'ho spedita una settimana fa. È venuto addirittura il corriere». «Ah... Davvero?», domandò Sara, insospettita. «Sì. Se ne serve un'altra copia, non c'è nessun problema, ma..». «Guff, tu hai mandato un corriere dal dottor Fawcett?», gridò Sara, coprendo con una mano il telefono. Guff infilò la testa in ufficio. «No, capo». Sara scosse la testa. «Vorrei farle una domanda, dottore: è possibile falsificare delle impronte digitali?». «In che senso "falsificare"?». «Si possono riprodurre le impronte digitali di una persona?». «Alcuni anni fa la risposta sarebbe stata negativa. Ora, però, non più. Il bello, di questi tempi, è che tutto sembra possibile. Se io volessi lasciare le tue impronte digitali da qualche parte, mi basterebbe averne una copia stampata su carta. Ne farei una fotocopia e, quando questa è ancora calda, ci applicherei sopra un foglio per la rilevazione delle impronte. A quel punto, non resterebbe che staccare quest'ultimo foglio». «Dalla fotocopia?», domandò Sara.
«Sì, dalla fotocopia», confermò Fawcett. «Il toner delle fotocopiatrici viene persino usato come polvere per la rilevazione delle impronte. Una volta che ho trasferito le tue impronte sul foglio adesivo, posso piazzarle dove voglio». «Ma se escludiamo tutto questo procedimento del foglio adesivo? Non è possibile indossare le impronte digitali di qualcun altro sopra le proprie?». Ci fu una pausa prolungata all'altro capo del filo. Alla fine, Fawcett rispose: «Volendo, probabilmente è possibile con dei guanti di lattice. Ovviamente, i guanti vanno mantenuti a un certo livello di umidità, ma direi che è possibile». «Non capisco». «Le vere impronte digitali presentano sempre tracce di secrezioni delle ghiandole sudoripare o di altre sostanze grasse o polverose. Ma se uno continua a leccarsi le punte delle dita o le unge leggermente, l'effetto che si ottiene è quello delle vere impronte. Tutto sta ovviamente, nel riuscire a ottenere l'impronta originale. Come ho detto, però, non è impossibile. Perché? Vuole farsi un paio di guanti?». «No. Devo trovare un paio di questi guanti». Dieci minuti dopo, Conrad era di ritorno con uno scatolone di medie dimensioni, che posò sulla scrivania di Sara. «Ecco la nostra ultima risorsa». Sara si alzò in piedi e vide che lo scatolone conteneva migliaia di fotografie ordinatamente impilate, ritratti di uomini in uniforme dell'esercito sullo sfondo di una bandiera americana. «Kozlow fu spedito a Fort Jackson, in South Carolina», spiegò Conrad. «A metà del periodo di addestramento ha fatto a pugni con un'altra recluta e, subito dopo, è stato cacciato. A quanto pare, non aveva intenzione di correggere i suoi difetti caratteriali». «E in queste foto chi c'è?», domandò Sara, sfogliandone un primo mazzetto. «Tutti gli altri componenti del team di Kozlow?». «Team?», domandò Conrad. «Non sai nulla di terminologia militare, vero? Un team è composto da due o tre soldati, una squadra da nove, un plotone da tre o quattro squadre, una compagnia da tre o quattro plotoni, un battaglione da cinque compagnie, una brigata è composta da due battaglioni e una divisione è formata da tre brigate, per un totale approssimativo di cinquemila persone». Sara guardò la massa di foto posate sulla scrivania. «Dunque, qui c'è tutta la brigata di Kozlow?».
«Ci sono tutte le persone passate da Fort Jackson nel periodo in cui era presente Kozlow. Nel primo mazzo ci sono le foto dei commilitoni con cui ha fatto l'addestramento. Può darsi che tu ci trovi l'uomo dalle guance scavate». Sfogliando alcune foto, Sara disse: «È impossibile. Guarda, sono tutti uguali: spalle quadrate e taglio da marine. C'è da diventare pazzi». Mentre Sara si accingeva a sfogliare il successivo pacco di fotografie, Guff fece irruzione in ufficio sventolando un fax. «Signore e signori, cominciate pure a scrivere i vostri bigliettini di ringraziamento, perché il sottoscritto ha dato una svolta alla giornata!». Conrad gli riservò un'occhiata scettica. «Spero per te che non sia uno scherzo». «Oh, non lo è affatto!». Mostrò il fax che aveva in mano. «Mentre voi frugavate nei suoi trascorsi da marine, io ho preso un'altra strada. Ho fatto una ricerca incrociata sui nomi che sono risultati dalle analisi delle impronte digitali lasciate dall'uomo con le guance scavate. Sol Broder e Warren Eastman non avevano praticamente nulla in comune: non erano nati nella stessa città, nessuno dei due aveva fatto il militare, non erano mai stati vicini di casa e, per quel che ne sappiamo, potrebbero anche non essersi mai conosciuti. Una cosa in comune, però, l'avevano: erano entrambi dei delinquenti. Allora, ho fatto una ricerca sulla loro fedina penale, sui reati commessi, sui loro avvocati difensori, sulle carceri in cui hanno scontato le loro condanne... Ma ancora non saltava fuori niente. Avevano entrambi passato del tempo nel penitenziario di Hudson, ma in periodi diversi». «Allora, qual è la tua grande scoperta?», domandò Conrad, spazientito. «A un esame più approfondito risulta che quei due avevano un'altra cosa in comune: in quella prigione, Sol Broder e Warren Eastman hanno occupato la stessa cella». «E con questo?». «Con questo, forse, hanno avuto lo stesso compagno di cella», disse Sara. «Esatto», disse Guff, sorridendo. «E il compagno di cella è...». Guff mostrò una vecchia foto segnaletica appena arrivata via fax. Era un po' sgranata, ma ritraeva, senza ombra di dubbio, l'uomo dalle guance scavate. Sara strabuzzò gli occhi. «È lui!», esclamò, strappando il fax dalle mani di Guff. «È l'uomo che mi ha minacciato».
«Incredibile», disse Conrad. «Potresti candidarti al titolo di impiegato del mese». «Io punto più in alto: voglio essere eletto impiegato dell'anno», disse Guff. «Hai scoperto chi è?», domandò Sara, osservando attentamente quell'immagine. «Si chiama Elliott Traylor. Per il momento non so altro, ma in un'ora conto di scoprire tutto quello che c'è da sapere». «Ecco qua», disse Guff, con una cartelletta aperta tra le mani. «La vita e le opere di Elliott Traylor, nato a Queens, New York, da Phyllis Traylor, che lo ha allevato da sola». «Che fine ha fatto il padre?», domandò Sara. «Non se ne ha notizia», rispose Guff. «La famiglia di Elliott viveva in relativa povertà, e sua madre lavorava sia come segretaria che come cameriera. Ora, però, viene il bello. Secondo le sue dichiarazioni dei redditi, la madre di Elliott lavorava per una società che si chiamava StageRights Unlimited. Questo, però, non è che il vecchio nome di... indovinate un po' quale altra società?». «Della Echo Enterprise», rispose Conrad. «Vuoi scherzare?», fece Sara. «Aspetta, c'è dell'altro. Alla StageRights la madre di Elliott lavorava come segretaria personale di Arnold Doniger, ma secondo il tesserino di disoccupazione fu licenziata pochi mesi prima che nascesse Elliott». «Stiamo parlando di almeno venticinque-trent'anni fa», disse Sara. «È ancora viva?». «No, è morta sette anni fa di cancro ai polmoni. Elliott ha fatto il liceo a Queens e si è guadagnato una borsa di studio per iscriversi a ingegneria al Brooklyn College. Da quel che risulta, doveva essere una specie di ragazzo-prodigio, ma ha avuto dei problemi quando è morta la madre. Era al secondo anno di college, quando è successo». «Perché è finito in prigione?», domandò Conrad. «Abuso sessuale aggravato e violenza aggravata. Deve aver avuto una divergenza d'opinioni con una donna che stava corteggiando. Lei si è messa a urlare che la stava stuprando e lui le ha rifilato un pugno in faccia, rompendole la mascella. Fortunatamente qualcuno ha sentito le urla e ha chiamato la polizia. Dal materiale a disposizione, viene fuori il ritratto di un vero bastardo. Piuttosto intelligente, per giunta».
«La laurea in ingegneria, inoltre, potrebbe spiegare la storia delle impronte digitali», disse Sara. «C'è una cosa che non capisco, però», disse Conrad. «Che cosa ci guadagna Elliott se Kozlow viene riconosciuto colpevole?». «Forse ha ancora il dente avvelenato per il licenziamento della mamma», suggerì Guff. «Troppo banale», disse Sara. «Non varrebbe la pena di rischiare così tanto». «Magari è stato assoldato da qualcuno che odia Kozlow e Rafferty per altri motivi». «No, no, siamo fuori strada», disse Conrad. «Se Elliott è coinvolto, qualcosa deve pur guadagnarci. Qui c'è in ballo un'eredità da cinquanta miliardi di dollari». «Allora, la mia domanda è la seguente», disse Guff, sedendosi sul divano accanto a Sara. «Se i soldi non vanno a Rafferty, a chi vanno?». «Secondo il testamento, andrebbero agli eredi di Arnold Doniger». «Cioè a Claire?», domandò confuso Guff «No, il testamento esclude esplicitamente qualsiasi lascito a favore di Claire, la quale, firmando l'accordo prematrimoniale, ha rinunciato a qualsiasi pretesa. L'eredità spetterebbe ad altri eventuali parenti ancora in vita. Per prima cosa verificheranno che Arnold Doniger non avesse figli, dopodiché...». «Ehi, aspetta!», esclamò Conrad. «E se Arnold Doniger avesse avuto un figlio senza saperlo?». «Come si fa ad avere un figlio senza...?». All'improvviso, Sara sentì un brivido freddo correrle lungo la schiena. «Oh, mio Dio! Credi che Elliott...?». «Perché no? Mi sembra l'unica spiegazione sensata». «Che cosa?», domandò Guff. «Voi credete che Elliott sia figlio di Arnold Doniger?». «Be', sì», rispose Sara. «Consideriamo i fatti: la madre di Elliott lavora per cinque anni come segretaria personale di Arnold Doniger. Con il passare del tempo, tra loro nasce una relazione, e Arnold decide di divertirsi un po' alle spalle della prima moglie. A quel punto, però, succede il patatrac: la signora Traylor rimane incinta, e al terzo mese di gravidanza viene scaricata da Arnold. Lui avrà anche un mucchio di soldi, ma non può permettere che la nascita di un figlio illegittimo gli rovini il matrimonio, la reputazione e l'immagine».
«Concordo in pieno», disse Conrad. «Sei mesi dopo, nasce Elliott. La madre è senza lavoro, senza soldi e, secondo il certificato di nascita, anche senza marito. Quando Elliott è abbastanza grande, la madre gli racconta la storia di suo padre, nei confronti del quale, per anni, egli cova un odio senza fine. Quando si presenta l'occasione di ereditare i soldi del padre - eredità legittima, peraltro - Elliott vuole garantirsi un posto in prima fila». «Secondo me però Elliott è più invischiato di quanto tu pensi», disse Sara. «È in possesso di troppe informazioni per essere uno che ha soltanto intenzione di presentarsi alla lettura del testamento». «Sospetti che abbia preso parte all'omicidio?». «Come avrebbe potuto, altrimenti, sapere della cantina di casa Doniger?», domandò Sara. «Secondo me, lui e Rafferty hanno organizzato insieme l'omicidio. Rafferty ci avrebbe guadagnato; Elliott avrebbe ottenuto vendetta. L'arresto di Kozlow, però, ha mandato all'aria i piani, e Elliott si è reso conto che avrebbe potuto ottenere ben più della semplice vendetta contro il padre. A quel punto ha deciso di giocare in proprio, di tradire Rafferty e di aiutarmi a vincere». Mentre Conrad e Guff riflettevano sulla sua ipotesi, Sara si abbandonò all'indietro, con una smorfia di disgusto. «Il che significa che Elliott ha tramato per uccidere suo padre». «Lo so che è difficile da capire, ma succede molto spesso», disse Conrad. «Ma era suo padre!», insistette Sara. «Come si fa a uccidere un genitore?». «Per esempio, incaricando Tony Kozlow per fargli un'overdose di insulina». «C'è un problema, però», disse Guff. «Se Elliott è implicato nell'omicidio di Arnold Doniger, rientra anche lui sotto lo slayer statute». «Certo», ammise Sara. «Ciò non toglie che lui sia un avido pezzo di merda. E poi, l'unico modo per dimostrare il coinvolgimento di Elliott era un'eventuale soffiata di Rafferty, che non l'avrebbe mai tradito, perché così facendo avrebbe dovuto ammettere le proprie responsabilità...». «...e dire addio all'eredità di Arnold Doniger», aggiunse Conrad. «Esatto», confermò Sara. «Ne siete sicuri?», domandò Guff. «Mi sembra un po' tirata per i capelli, come ricostruzione». «Non sono d'accordo», disse Sara. «Non sai di che cosa sono capaci le persone quando c'è di mezzo la loro famiglia». «O di cosa non sono capaci», aggiunse Conrad. «Come, per esempio, te-
nere la bocca chiusa». «Che ne direste di una strana forma di complesso di Elettra? Non è probabile che...?». «In ogni caso, non ha importanza», tagliò corto Sara. «Che ti piaccia o no, Elliott è l'uomo che cerchiamo». «E adesso che cosa facciamo?», domandò Guff. «Facile», rispose Sara. «Hai mai sentito parlare del dilemma del prigioniero?». Alle nove, quella sera, Sara, Conrad e Guff stavano mettendo in ordine le loro cose. «Credete davvero che funzionerà?», domandò Guff, infilandosi la giacca. «Non può non funzionare», rispose Sara, sistemando un paio di blocchi per appunti nella sua borsa. «Invece potrebbe anche non funzionare», disse Conrad. «Se tu parli con Jared, e Jared parla con Victor...». «Non ricominciamo con questa storia». «Allora, tu non parlargliene. Il piano funzionerà se nessuno ne saprà nulla. Nessuno deve immaginare, tanto meno tuo marito». «Perché sei così convinto che Jared sia in combutta con Victor? Perché dovrebbe farmi una cosa del genere?». «Te l'ho già detto. Forse, non lo conosci così bene. E se lui e Victor fossero soci in questo affare dell'insabbiamento dei casi? Ammesso che Victor lo faccia per denaro, ha comunque bisogno di qualcuno che gli trovi i clienti ricchi da spennare, e Jared, in quanto avvocato emergente di un grosso e famoso studio legale, è la persona ideale per questo compito. Si spiega, inoltre, come mai non abbia mai procurato clienti: i suoi clienti pagano in nero». «È impossibile». «Ah, sì? Ne sei proprio sicura? Pensaci bene, Sara. Tutti siamo continuamente in balia delle tentazioni. Basta una piccola spinta. Poniamo che non fosse soddisfatto del lavoro, che fosse stanco di abitare in un bilocale; magari aveva bisogno di soldi, eppoi ha incontrato delle difficoltà a diventare socio...». «Non voglio più ascoltare», disse Sara, cercando di ficcare a forza una cartelletta nella borsa. Non riuscendoci, si innervosì. «Perché cavolo questa cartelletta non vuole entrare?». «Calmati», disse Guff, offrendosi di aiutarla.
«Sara, se parli con Jared e lui, per caso, fa il doppio gioco, la bomba ti esploderà tra le mani. E mentre saremo lì in attesa che tutto vada come abbiamo previsto... BOOOM!». Sara sobbalzò per l'onomatopea. «A quel punto, non ci sarà più nulla da fare». Conrad lasciò che fosse il silenzio a completare la sua opera di persuasione. «Ma se Jared rimane all'oscuro...». «Sopravviverà, Sara. Non ti sto chiedendo molto. Non dovrai neppure mentirgli; è sufficiente che tu taccia. Se non lo farai, rischiamo di veder andare in fumo tutto il nostro lavoro». Sara si voltò verso Guff. «Tu che cosa ne pensi?». «Non so. Da una parte, capisco perfettamente il discorso di Conrad; dall'altra, però, è anche vero che tacere di una cosa così importante è grave, forse addirittura imperdonabile». «Non essere melodrammatico», disse Conrad. «Si tratta soltanto di un piccolo segreto. Tutto qui. Che ne dici, eh?». «Non lo so», rispose Sara. «Vediamo come vanno le cose stasera». Mezz'ora dopo il suo arrivo a casa, Sara era seduta davanti al computer acceso, con gli occhi fissi sullo schermo bianco. Al suo arrivo, si aspettava di trovare Jared in cucina, ai fornelli, oppure in camera da letto, davanti al computer. Con sorpresa aveva constatato la sua assenza e si era risolta ad approfittarne. Si era cambiata di corsa, infilando pantaloncini e maglietta, e si era seduta a scrivere. "È il momento di decidere", pensò. "Prima che lui rientri". Soppesando attentamente i pro e i contro, considerò ogni possibile soluzione. In fondo, lei avrebbe voluto credergli. Il silenzio, però, cominciava a suggestionarla: quanto più Jared tardava - e chissà dov'era? - tanto più le riusciva difficile non dubitare di lui. E quanto più dubitava di lui, tanto più acquistavano forza gli argomenti di Conrad: non doveva neppure mentire a Jared; sarebbe bastato tacere. Presagendo l'avvento dell'istanza razionale, Sara cercò di immaginare come avrebbe agito Pop in una situazione del genere. "Avrebbe detto la verità", pensò. "I genitori di Jared avrebbero mentito. E i miei che cosa avrebbero fatto?". Sara si avvicinò al comò, su cui erano esposte alcune fotografie, e prese quella che ritraeva i suoi genitori. Quindi, andò a sedersi sul letto. Era una vecchia foto, risalente al giorno in cui Sara era stata ammessa all'Hunter College. Suo padre era così orgoglioso che, al ristorante in cui erano andati a festeggiare, aveva mostrato la lettera di ammissione
persino al cameriere. Poi, aveva voluto fotografare Sara con quella lettera. Quindi, la madre di Sara e, alla fine, anche il cameriere, tutti con quella lettera in mano. A quel punto Sara si era impadronita della macchina fotografica e aveva preteso di cambiare soggetto. Il padre, allora, aveva cinto con un braccio le spalle della moglie, e Sara - al tre - aveva scattato. A dodici anni di distanza, Sara provava ancora un'immensa nostalgia, quando guardava quella foto: non solo perché era bella, o perché i suoi genitori erano venuti bene, bensì soprattutto per il ricordo di quel giorno di festa. Il rumore della serratura della porta d'ingresso la riscosse dai ricordi. Jared alla fine era arrivato. Sfiorando con il pollice il vetro che proteggeva la foto dei suoi genitori, Sara comprese che era ora di accantonare le lezioni impartite dalla morte, per occuparsi di quelle della vita. Quando Jared entrò concitato nella stanza, Sara capì che aveva già pronta una scusa. Avrebbe preso posto davanti al computer, e si sarebbe messo a spiegare per filo e per segno la ragione del suo ritardo, dov'era stato e perché lei doveva credergli riguardo alla telefonata a Victor, senonché, prima che potesse oltrepassare il letto, Sara si frappose. Jared si stava mordendo il labbro inferiore e tradiva una certa ansia. "Sarebbe facile mantenere il segreto", pensò Sara. "Non dirgli nulla". Si sedette al computer, serrò i pugni e combatté la sua titubanza. "Bando ai ripensamenti", disse tra sé. "Avanti!". Roteando le dita al di sopra della tastiera, Sara decise di correre il rischio e di fidarsi. Sullo schermo, Jared lesse: «Il piano è questo...». In cantina, seduto su una cassetta di bottiglie rovesciata, un uomo fissava un monitor che, appoggiato in equilibrio su altre due cassette, irrorava quel locale, altrimenti buio, della sua azzurra luce artificiale. Quando sullo schermo vide balenare le prime parole, sorrise, compiacendosi della propria scaltrezza: la derivazione non aveva presentato problemi, ma individuare il tubo della caldaia era stato più difficile. Trovato quello, però, era stato sufficiente calare un filo a piombo che, attraverso il buco che aveva praticato nel muro, raggiungesse la cantina. Aveva dovuto soltanto aspettare che non ci fosse nessuno in casa, ma per lui era stato facile cogliere il momento opportuno, come lo era stato scoprire del loro incontro a Brooklyn. Lentamente, sullo schermo comparve il piano di Sara, in tutti i suoi dettagli, e Elliott, leggendo, annuì tra sé. Non c'era nulla di cui preoccuparsi. Sara, Rafferty e tutti gli altri... non sapevano cosa li attendeva.
CAPITOLO DICIOTTO Il giorno del processo, alle sei e mezza del mattino, Sara e Jared erano seduti al tavolo della cucina e si guardavano in silenzio. La colazione preferita di Sara - un'enorme tazza di cereali e un bicchierone di succo d'arancia - era praticamente intatta. Si era preparata con cura per quel giorno, aveva profuso ogni energia, eppure aveva la sgradevole sensazione di non aver fatto tutto. Conrad l'aveva messa in guardia contro l'ansia da prima udienza. Non c'era esperienza che potesse lenirla; non c'era preparazione che potesse evitarla. Seduto di fronte a sua moglie, Jared era attanagliato dalle stesse paure. Dieci minuti prima aveva tostato due fette di pane di segale senza crosta, ma non ne aveva mangiato che un morso. Da quando aveva cominciato a lavorare per Wayne & Portnoy, si era occupato di almeno una ventina di processi. Era stato personalmente primo difensore in sette casi. Ma, sebbene avesse affrontato ormai diverse dozzine di giurati diffidenti, il giorno della prima udienza gli faceva sempre lo stesso effetto: inappetenza, nausea, dolore acuto alla base della nuca. Messi da parte i cereali e il succo d'arancia, Sara prese una penna e scarabocchiò alcune parole su un angolo del giornale di Jared: «In bocca al lupo, amore mio. Ci vediamo in tribunale». Quindi, cercando di non far rumore, lo baciò teneramente sulla fronte e se ne andò. Mentre Jared si stava alzando per andare a gettare le sue fette di pane tostato, squillò il telefono. «Pronto», disse, sollevata la cornetta. «È bellissima, oggi», disse Rafferty. «Cappotto elegante, scarpe di lusso, niente gioielli. Evidentemente, si è vestita per far colpo». «State alla larga da lei!», minacciò Jared. «Non usare questo tono con me... che mi arrabbio». «Da dove chiama?», domandò Jared. «Sono in macchina, davanti al portone di casa tua. Ti do un passaggio in tribunale». «Non ho bisogno di...». «Non è una proposta, Jared... Scendi! E di corsa» Jared prese il cappotto e la borsa. Se lo sentiva che Rafferty avrebbe voluto parlargli un'ultima volta, prima dell'udienza, ma non immaginava che sarebbe arrivato così di buon'ora. Il tempo era quello tipico del mattino invernale newyorchese: freddo
pungente, niente sole, cielo grigio uniforme. Quando Jared aprì la portiera dell'auto su cui si trovava Rafferty, vide che ad attenderlo c'era anche Kozlow. «È arrivato il grande giorno, eh?», disse Kozlow. «Come mi trovi?». «Può andare», rispose Jared, esaminando il vestito che avevano comprato in occasione del gran giurì. «Ricordati di mettere gli occhiali». «Sono qui», disse Kozlow, dandosi dei colpetti sul taschino della giacca. «Pronti all'uso». Mentre prendeva posto sul sedile posteriore, Jared sentì su di sé lo sguardo gelido di Rafferty. Sforzandosi di ignorare il senso di nausea che gli rivoltava lo stomaco, Jared domandò: «Tutto bene?». «Volevo solo vedere come stavi». «Su con il morale: stanotte ho scoperto alcune cose molto interessanti. Ho letto le domande che intende fare a Claire Doniger e all'agente McCabe; ho dato un'occhiata alla sua dichiarazione preliminare e all'elenco delle prove. Siamo a cavallo... Sappiamo tutto quello che c'è da sapere». «E della selezione della giuria che cosa mi dici?». «Le sembro uno sprovveduto? So esattamente cosa ci serve. L'identikit è: donna, bianca, istruzione universitaria, possibilmente di orientamento liberal. Le persone di questo tipo sono in genere molto comprensive con gli imputati e odiano le donne che fanno i pubblici ministeri». «E Sara, invece, che tipo di persone cerca?». «Non si preoccupi di Sara. È la sua prima volta: non ha mai fatto una selezione della giuria. Di sicuro Conrad la aiuterà, ma quando arriverà il momento lei sarà da sola». «Insomma, è tutto sotto controllo?», domandò Kozlow. «Credi che ci siano buone probabilità di spuntarla?». «Nel campo della giustizia penale non esistono le probabilità», disse Jared. «O la giuria si beve le tue stronzate oppure non se le beve, e te la fa pagare». «Be', allora, devi solo sperare che si bevano le tue stronzate», avvertì Rafferty. «Ehi, sentite: non ho bisogno dei vostri...». «No, stai a sentire tu», lo interruppe Rafferty. «Non venirmi a raccontare che non esistono le probabilità. E, soprattutto, non tollero il minimo dubbio sull'esito del processo. Quello che voglio sentirti dire è che la vittoria è sicura, perché ho già perso fin troppo tempo. Avanti, dillo! "Rafferty, la vittoria è sicura"».
Jared tacque. «Su, ripeti», disse Rafferty. «"Rafferty, la vittoria è sicura. Il processo lo vinceremo noi"». Jared continuò a tacere. «Ehi, sei sordo?», disse Kozlow, premendo un pollice sul mento di Jared, in corrispondenza della ferita ancora non rimarginata. «Ripeti quella maledetta frase!». Fissando Rafferty con disprezzo, Jared borbottò: «Rafferty, la vittoria è sicura. Il processo lo vinceremo noi». «Molto bene, avvocato Lynch», disse Rafferty. «Era questo che volevo sentire». Davanti all'aula del tribunale, Sara scrutava il corridoio in attesa di Conrad. Mancavano ancora venti minuti all'ora fissata per il loro incontro, ma poiché le era nota l'abitudine di Conrad di arrivare per tempo, Sara cominciava a interpretare quell'anticipo sempre più esiguo alla stregua di un ritardo. Troppo in ansia per aspettare senza far nulla, andò nel bagno delle signore e aprì il rubinetto dell'acqua calda. Quando diventò tiepida, mise le mani sotto l'acqua corrente, tenendole lì per un minuto buono. Era un trucco che le aveva insegnato Pop, alla vigilia del colloquio di lavoro presso il suo ex studio: unico rimedio conosciuto contro le mani che sudano. Mentre era chinata sul lavandino con le mani sotto l'acqua, Sara ebbe l'impressione di udire un rumore proveniente da una delle quattro cabine disposte lungo la parete alle sue spalle. Chiuse il rubinetto e diede un'occhiata allo specchio, ma non vide nessuno. Si piegò a terra per controllare, attraverso le aperture inferiori, che le cabine fossero vuote. "No! Di nuovo?!", pensò. Con circospezione si avvicinò alla prima cabina e, con una leggera spinta, ne aprì la porta: vuota. Lentamente, aprì anche la porta della seconda cabina: vuota. Avvicinandosi alla terza porta, si rese conto che il cuore le batteva all'impazzata, ma anche la terza cabina era vuota. Non ne restava che una: doveva essere quella. Le parve di cogliere un movimento alle sue spalle. Si girò di scatto, ma non c'era nessuno. La sua immaginazione le stava giocando un brutto tiro. Tornò ad appostarsi dietro l'ultima porta e, con un calcio, la spalancò: vuota. Sara scosse la testa, cercando di riscuotersi dalla sorpresa. "Non devo farmi impressionare da quell'uomo", pensò. Ma, per quanto si sforzasse di ignorarlo, dovette constatare di avere nuovamente le mani madide di sudore. Dopo un'altra applicazione di acqua tiepida sulle mani, Sara si rimise di
vedetta davanti all'aula. Conrad non era ancora arrivato. Ma poco dopo, alle nove meno dieci, lo vide sbucare in fondo al corridoio. Avanzava verso di lei con il suo passo sicuro e spedito. «Sei pronta?», disse, quando fu a tiro di voce. «Non saprei. È normale sentirsi come sul punto di perdere i sensi?». «È il tuo primo caso, ed è un caso piuttosto complesso... È normale che tu sia agitata». «Io non sono agitata. Sto per vomitare»... «Tutto regolare. Ora non pensarci, e muoviti», consigliò Conrad. «Fidati di me: non appena il giudice avrà battuto sul banco col suo martelletto, ti sentirai perfettamente a posto. Tutti i grandi magistrati sono particolarmente efficaci, durante il processo. L'emozione li colpisce solo in seguito». «Spero che tu abbia ragione», disse Sara, entrando in aula. «Perché, in caso contrario, ti toccherà riportarmi a braccia nel mio ufficio». Avanzando lungo il corridoio centrale, tra i due settori di banchi riservati al pubblico, Sara si guardò intorno. Claire Doniger non c'era, e neppure l'agente McCabe. Le uniche persone presenti in aula erano un commesso, lo stenografo e due agenti del tribunale. Giunta al banco della pubblica accusa, sul lato sinistro dell'aula, posò la borsa e si volse verso Conrad. «Non credi che...?». Lasciò la frase a metà, perché in quell'istante fecero il loro ingresso Jared e Kozlow. Lanciandole uno sguardo gelido, Jared raggiunse il banco della difesa e posò, a sua volta, la borsa. Quindi, rivolse le spalle a Sara e a Conrad. «Non vai a salutarla?», gli domandò Kozlow. «Taci», disse Jared, aprendo la borsa. Nei dieci minuti successivi, le parti rimasero sedute ciascuna sui propri banchi, in attesa dell'arrivo del giudice Bogdanos. Di tanto in tanto, Sara guardava in giro, scrutando tra la folla che intanto si era radunata. «La vedo male», disse Sara. «Ho un brutto presentimento». Prima che Conrad potesse replicare, il commesso annunciò: «In piedi! Entra il presidente della corte, l'onorevole giudice Samuel T. Bogdanos». Accarezzandosi la barba ben curata, Bogdanos prese posto e fece cenno ai presenti di accomodarsi. Verificò che entrambe le parti fossero presenti e domandò se vi fossero ulteriori istanze o altre questioni da discutere, prima di dare inizio alla selezione della giuria. «No», rispose Sara. «No, Vostro Onore», disse Jared. «Allora, cominciamo. Mitchell, fai entrare i giurati». Il più alto dei due
sorveglianti si infilò in una porticina da cui, poco dopo, rispuntò accompagnato da venti persone candidate a far parte della giuria. In quell'istante, in aula entrò anche Guff, con la faccia stravolta da un'espressione di panico. Raggiunse la prima fila e richiamò l'attenzione di Sara. «Devo parlarti», le disse. «Che cosa c'è?», domandò lei. «Credevo che fossi...». «Lascia perdere», disse Guff, in tono mortalmente serio. «Ci sono dei problemi». Vedendo che i giurati non avevano ancora preso posto, Sara si alzò e si avvicinò al suo assistente. «Spero sia una cosa seria, perché se vogliamo fare una buona impressione...». «Claire Doniger è morta», disse Guff. «Che cosa?», fece Sara, sbalordita. «Non è possibile». «Invece, sì. Te lo dico io. Hanno trovato il cadavere stamattina. È conciata male: gola tagliata, un coltello conficcato nel cranio, mutilazioni varie». «Dottoressa Tate, le ricordo che dobbiamo ancora scegliere i giurati», disse Bogdanos, spazientito. Sara si voltò e vide che Conrad, Jared, Kozlow, il giudice, gli impiegati del tribunale e tutti i giurati la stavano fissando. «Vostro Onore, posso avvicinarmi al banco per conferire con lei?», domandò Sara. «No, non è possibile. Non è più il momento di...». «È un'emergenza», disse Sara. Scrutandola con occhi penetranti, Bogdanos acconsentì: «Si avvicini». Jared e Conrad la seguirono. Sara si chinò per parlare all'orecchio del giudice. «Mi dispiace interrompere i lavori, Vostro Onore, ma il mio assistente mi ha appena riferito che una delle nostre testimoni-chiave è stata trovata morta questa mattina». «Che cosa?», fece Jared, cadendo dalle nuvole. «Di chi si tratta?», domandò Conrad. «Di Patti Harrison?». «Non occorre aggiungere altro», disse Bogdanos. «Signore e signori della giuria, sono molto spiacente, ma l'inizio dell'udienza è rimandato di alcuni minuti. Potreste, per cortesia, attendere fuori dall'aula. Mitchell, ti dispiacerebbe...?». Quando il sorvegliante ebbe accompagnato i giurati fuori dall'aula, Jared domandò: «Di chi si tratta? Com'è successo?». «Si tratta di Claire Doniger», disse Sara. «L'hanno trovata uccisa stamat-
tina». «Che cosa?», domandò Kozlow, apparentemente sorpreso. «Risparmiaci quella faccia da innocentone», disse Conrad, rivolto a Kozlow. «Non permetterti di fare insinuazioni nei confronti del mio cliente», ribatté Jared, agitando un dito sotto il naso di Conrad. «Silenzio», ingiunse Bogdanos. «Dottoressa Tate, che cosa ha intenzione di fare?». Sara guardò Conrad. «Chiederemo un rinvio, in attesa di chiarimenti», disse Conrad. «Certo, il processo deve andare avanti, ma è evidente che ci vorrà almeno un paio di giorni per riorganizzare il castello accusatorio. Claire Doniger era una testimone essenziale per noi». «Vostro Onore, non c'è alcun motivo di concedere un rinvio», obiettò Jared. «L'evento è certamente inatteso, ma la testimonianza di Claire Doniger era pleonastica. Chiedo che l'istanza dell'accusa venga...». «Avvocato Lynch, è appena morta una testimone», sospirò Bogdanos, indignato. «Dovrebbe rendersene conto anche lei. Istanza accolta. L'udienza è rinviata a lunedì prossimo». «Che cosa ha detto?», domandò Kozlow, quando Jared riagganciò la cornetta del telefono pubblico, al primo piano di Centre Street 100. «Non l'ho mai sentito così: era devastato. Gli tremava la voce. Continuava a farmi domande, ma era completamente sconvolto». Jared raccolse la borsa e si avviò all'uscita. «Però, a essere sinceri, credevo che dei tipi come voi...». «Ehi, vuoi scherzare? Qui non si tratta di una vecchia vicina di casa: stiamo parlando di Claire. Rafferty era pazzo di lei: se solo osavo guardarla, lui si infuriava». «Forse, hanno litigato». «Non esiste. Davvero l'hanno trovata con un coltello piantato nel cranio?». «A quanto pare, l'hanno seviziata orribilmente. Hai per caso idea di chi possa essere stato?». «Ho un sospetto», rispose Kozlow. «E se il mio sospetto è fondato, provo pena per quel povero pezzo di merda: Rafferty lo farà a pezzi con le sue stesse mani».
Salendo i tre piani di scale che conducevano all'appartamento di Elliott, Conrad cercò di fare meno rumore possibile. Molto probabilmente, Elliott non era in casa, ma Conrad non intendeva correre rischi. Per questa ragione aveva deciso di presentarsi da solo. Con tutto quello che era successo, era l'unico modo per impedire che qualcuno venisse a saperlo. La segretezza era l'unica garanzia della sua sicurezza. E, potendo contare sulla segretezza, il compito di Conrad sarebbe stato facile da assolvere: doveva solo entrare nell'appartamento e aspettare l'arrivo di Elliott. Cogliendolo di sorpresa, l'avrebbe costretto sulla difensiva. A quel punto, gli avrebbe spiegato che le impronte digitali sul coltello con cui era stata uccisa Claire corrispondevano alle sue e che tutti ormai sapevano che era lui l'assassino. Elliott, ovviamente, avrebbe negato, ma l'importante era che Elliott ascoltasse l'offerta di Sara: se avesse fornito loro qualche elemento contro Rafferty e Kozlow, l'accusa di omicidio volontario sarebbe stata derubricata in omicidio colposo. E se Elliott avesse accettato, sarebbero stati a metà dell'opera. Davanti alla porta dell'appartamento di Elliott, Conrad tappò con un dito lo spioncino e bussò piano. Nessuno rispose. Bussò di nuovo, ma di nuovo non ottenne risposta. Infilò una mano in tasca e ne tolse il mazzo di passepartout che si era fatto dare da un collega della scientifica. Sebbene i modelli di serratura più recenti fossero pressoché inespugnabili con quel genere di chiavi, con le serrature vecchie - come quella di Elliott - era ancora possibile fare miracoli. Conrad provò le chiavi a una a una. Con le prime tre non ebbe fortuna, ma al quarto tentativo, sentì uno scatto. Sorrise tra sé e girò la maniglia, aprendo la porta. Non vedeva l'ora di fargli la sorpresa. Era ansioso di appenderlo al muro e di vedere la faccia che avrebbe fatto. Purtroppo per lui, però, Elliott era già in casa. Sin dalla sera prima sapeva che Conrad sarebbe venuto e, ritraendo il cane della sua rivoltella, sapeva di essere pronto ad accoglierlo. Entrato nell'appartamento di Elliott, Conrad neppure si accorse del primo colpo. Le porte dell'ascensore si aprirono, e ne uscirono Kozlow e Jared. I due si diressero verso l'ufficio di quest'ultimo. «Abbiamo finito, per oggi?», domandò Kozlow. «Questo vestito mi sta stufando». «Be', allora, toglitelo. Non potrebbe fregarmene di meno». Quando giunsero in prossimità della scrivania di Kathleen, la segretaria disse: «Ti conviene telefonare a Rafferty: ha chiamato trenta volte nell'ultima...». Il telefono di Kathleen squillò di nuovo. «Rieccolo».
«Passamelo», disse Jared, entrando nel suo ufficio. Sollevò la cornetta e disse: «Rafferty, come...?». «Dove diavolo eri finito?», gli domandò Rafferty, con voce concitata. «Voglio sapere che cosa sta succedendo... A che punto sono le indagini? Dove l'hanno portata? Io devo...». «Si calmi». «Non dirmi quello che devo fare!», urlò Rafferty. «Si tratta della mia vita! Lo capisci? La mia vita. Chiunque sia stato, devi trovarmelo e dirgli che è un uomo morto!». «Mi ascolti: sono molto dispiaciuto per quello che è successo, ma è necessario che lei si calmi, che si controlli. Se l'hanno trovata stamattina sul presto, si saprà di certo qualcosa nel pomeriggio. Fino a quel momento, lei deve...». «Sei in grado di scoprire qualcosa?». «Credo di sì. Sara dovrebbe avere accesso a...». «Bene. Basta così. Vi raggiungo immediatamente», tagliò corto Rafferty. Senza aggiungere altro, troncò la comunicazione. Sara entrò al numero 80 di Centre Street con fare circospetto, per accertarsi che nessuno la stesse seguendo. «Ehila, Sara», disse Darnell, quando lei salì sull'ascensore. «Come va il processo?». «Un disastro», rispose lei. «Una testimone è stata trovata morta stamattina». «Una vendetta mafiosa?», domandò Darnell. «Magari!», sospirò Sara. «Sarebbe tutto molto più semplice». Quando l'ascensore giunse al settimo piano, tutti i passeggeri scesero. Tutti tranne uno: Sara. «È la tua fermata, Kojak. Che aspetti?». «Maledizione! Ho dimenticato una cosa in tribunale», disse Sara. «Devo tornarci immediatamente». Quando le porte si richiusero, Sara, ritrovandosi a tu per tu con Darnell, disse: «Non potresti portarmi nel seminterrato senza fermarti? Non vorrei che qualcuno mi vedesse tornare indietro». «Ehi, come sei misteriosa!», esclamò Darnell, premendo il pulsante. «Seminterrato, arriviamo!». Raggiunto il seminterrato, Sara uscì dall'ascensore e percorse il corridoio principale fino a una porta che si apriva, sulla destra, accanto alla SALA INTERROGATORI. Entrò in silenzio e si mise a sedere davanti al grande vetro, che nella sala degli interrogatori appariva come uno specchio, oltre
il quale vide l'agente McCabe che parlava con la sua prigioniera. Era voltato di schiena, ma dalla concitazione dei suoi gesti era evidente che le cose non stavano filando lisce. Aveva le spalle rigide e i pugni serrati. Chiaramente irritato, McCabe prese una sedia rugginosa e si mise a sedere. Solo allora Sara riuscì a scorgere la prigioniera. «Non mi dica di avere pazienza!», disse Claire Doniger a McCabe, alzando la voce. «È dalle sei di questa mattina che sono qui. Non ho potuto fare una telefonata, non posso incontrare nessuno... Sono forse in arresto?». «Glielo ripeto per la decima volta, signora Doniger. Se prima non vengono scelti i membri della giuria, il processo non può iniziare», spiegò McCabe. «Quando avranno finito, la manderanno a chiamare e lei potrà fornire la sua testimonianza. Fino a quel momento, mi è stato ordinato di tenerla qui, per una questione di sicurezza». Sara si appoggiò allo schienale della sedia. Tutto procedeva come previsto. «No, capisco», disse Jared, parlando al telefono. Ci fu una lunga pausa. «Be', se i risultati sono questi, ne prendiamo atto. Se lo vedo, glielo dico. Sì, lo prometto». «Allora?», domandò Rafferty, senza neppure lasciare a Jared il tempo di posare la cornetta. «Hanno trovato decine di impronte sul coltello con cui è stata uccisa Claire», disse Jared. «Purtroppo, però, devo darle una brutta notizia, signor Rafferty: le impronte sono sue», aggiunse, indicando Rafferty. «Oh, questa è bella», disse Kozlow, ridendo. «Si sbagliano», disse Rafferty, incredulo. «Non è possibile. Non le hanno neppure, le mie impronte digitali». «Le hanno appena rilevate nel suo ufficio», spiegò Jared. «Sara l'ha messa in cima alla lista dei sospetti e ha chiesto l'intervento della polizia scientifica. Hanno prelevato impronte dalle tazzine, dalla sua scrivania, dalle maniglie». La faccia di Rafferty cambiò colore, al punto che Jared si sentì in dovere di domandare: «Si sente bene?». «Non è possibile», balbettò Rafferty. «Lo giuro su Dio, io non c'entro». «Io le credo», disse Jared, «ma come avvocato devo avvertirla che...». «Non la vedevo da almeno una settimana», insistette Rafferty. «C'è qualcuno che può essersi impadronito delle sue impronte?», do-
mandò Jared. «Qualcuno che da una sua eventuale caduta in disgrazia trarrebbe dei vantaggi?». «Forse...», disse Kozlow. «Quel lurido verme!», ringhiò Rafferty. «Se Elliott...». Si interruppe, e tornò a rivolgersi a Jared. «È già stato emesso l'ordine di arresto nei miei confronti?». «Che io sappia, no. Prima di sera, però, lo emetteranno di sicuro». «Bene», disse Rafferty. «Che mi vengano a prendere». Si alzò di scatto e uscì in un baleno dalla stanza, seguito a ruota da Kozlow. «Chi è Elliott?», gridò Jared, al loro indirizzo, ma nessuno dei due si voltò a rispondere. Quando Rafferty e Kozlow se ne furono andati, Jared fu raggiunto da Kathleen. «Tutto bene?», gli domandò. «Non lo so», rispose Jared. «Te lo dico tra un'ora». La prima pallottola lo colpì al petto. La seconda gli squarciò lo stomaco. Lì per lì, però, Conrad si accorse soltanto del sapore di sangue che, quasi immediatamente, gli riempì la bocca, ricordandogli il gusto amaro della liquirizia purissima. Fu allora che sentì davvero il dolore, come quando si era rotto un braccio giocando a rugby. Quella volta si era trattato di un dolore circoscritto e intenso; ora, invece, ne fu penetrato fino al midollo. Il corpo perse sensibilità, eppure, per certi versi, il dolore aumentò. La vista prese a offuscarglisi, ma riuscì ugualmente a intravedere la sagoma del suo aggressore, in fondo alla stanza. Elliott era seduto al tavolo della cucina e osservava la scena come se fosse al cabaret, in attesa che Conrad stramazzasse a terra. Conrad, però, non cedeva. «Ti conviene spararmi», gridò a Elliott, senza quasi riuscire a udire la propria voce. Partirono altri due colpi. Il primo colpì Conrad a un braccio, l'altro nuovamente al petto. Il corpo, più volte trafitto, era in preda agli spasmi, ma anche se le solide leve cominciavano a piegarsi, Conrad arrancò in direzione di Elliott, con le braccia protese. Cercò di dire qualcosa, ma non riuscì. Elliott fece fuoco un'altra volta. Il colpo raggiunse Conrad alla spalla e lo fece arretrare, ma solo per un istante, perché subito lui riprese la sua lenta marcia. Stava morendo, e lo sapeva, ma era ormai vicinissimo. «Ehi, che cos'hai?», gridò Elliott. «È tutto inutile. Per te è finita». "Non ancora", pensò Conrad. "Se...".
Partì un ultimo colpo, che gli trapassò la gola. Portandosi istintivamente una mano al collo, sentì di essere sul punto di perdere i sensi. Era finita. Su tutto calò una coltre bianca. Conrad si abbatté al suolo esanime, con un tonfo sordo. Il suo ultimo pensiero lo rivolse alla prima moglie, e al giorno in cui si erano conosciuti. Elliott rimase immobile, con l'arma ancora puntata. Quindi, si alzò e girò intorno al corpo inanimato di Conrad. Con un piede lo rivoltò sulla schiena. Non voleva correre rischi, ma un ultimo scossone lo rassicurò. Era proprio finita. Conrad era morto. Di ritorno al numero 80 di Centre Street, Sara si precipitò in ufficio, dove trovò Guff, impaziente, ad attenderla. «Allora?», le domandò Guff, chiudendo la porta. «Che si dice di Rafferty?». Controllando che le tapparelle fossero ermeticamente chiuse, Sara rispose: «Ho dovuto farla breve, perché parlavo da un telefono pubblico, giù in strada. Jared, però, dice che è andato fuori di testa. Lui e Kozlow se ne sono andati dal suo ufficio così di corsa, che lui non è riuscito neanche a sottoporgli la nostra proposta». «Non riesco ancora a capacitarmi che tu gli abbia svelato il piano», disse Guff. «Perché? Anche lui ha ottimi motivi per mettere Rafferty e Kozlow in condizioni di non nuocere». «E quella famosa telefonata a Victor?». «Oh, vuoi smetterla? Andrà tutto bene. Jared non ha detto niente a nessuno». «Insomma, alla storia della morte di Claire hanno creduto senza esitazioni?». «Perché non avrebbero dovuto?», disse Sara, orgogliosa. «Sono andati a prelevarla alle sei di mattina, l'hanno messa sotto chiave, hanno mandato la polizia scientifica a casa sua e un altro po' di persone alla Echo Enterprise, per rilevare le impronte. Abbiamo persino fatto circolare voci di corridoio: a parte il fatto che manca il cadavere, gli ingredienti di un macabro delitto ci sono tutti». «Non ti arrendi, eh?». «Dopo quello che ci hanno fatto passare? Neanche per sogno», disse Sara. «Perché? Cominci a essere preoccupato?». «Ho paura delle ripercussioni. Si è arrabbiato Monaghan quando gli hai parlato?».
Sara non rispose. «Gliene hai parlato, vero?». Di nuovo, Sara tacque. «Oh, no!», esclamò Guff. «Non vorrai dirmi che non lo hai fatto, vero? Quando lo scoprirà, non so cosa ci farà passare. Hai idea di quali sono i costi di tutta questa operazione che abbiamo messo in piedi? Per non parlare delle violazioni del codice deontologico». «Hai ragione», ammise Sara. «Ma non volevo rischiare che filtrasse qualcosa». «A Jared, però, l'hai detto». «Sai benissimo che è diverso. A lui ho creduto opportuno dirlo, così come agli infermieri che sono andati a prelevare il cadavere immaginario e ad alcuni dei colleghi di McCabe. A parte loro, ho pensato che meno gente lo sapeva, meglio sarebbero andate le cose». «Ehi, ma non lo capisci?», domandò Guff. «Monaghan è il procuratore distrettuale, il nostro capo»!. «Se vorrà rimproverare qualcuno, potrà prendersela con me», disse Sara. «Oppure, può darsi che tutto fili come previsto. È il classico dilemma del prigioniero. Se Rafferty e Elliott tengono la bocca chiusa sanno di poter stare tranquilli, ma se uno dei due parla, per l'altro è finita. Nel giro di qualche ora, l'istinto di conservazione indurrà uno dei due a parlare. A noi non resta che attendere e goderci lo spettacolo». «Credi davvero che sia tutto così semplice?». «No, non è semplice», rispose Sara. «Ma se nessuno, oltre a noi, conosce la verità, le cose si risolveranno per il meglio». Dopo aver trascinato il cadavere in soggiorno, Elliott tornò in cucina e sollevò la cornetta del telefono. Compose il numero di Rafferty e attese. All'altro capo del filo, la risposta non tardò: «Pronto», disse Rafferty. «Come va?», gli domandò Elliott. «Giornata pesante, eh?». «Sei stato tu a ucciderla, vero?», urlò Rafferty. «Io ti stacco la testa, lurido...». «Ehi, ehi, ehi, adesso esageri!», disse Elliott. «Perché non vieni a trovarmi, così facciamo due chiacchiere». «Se vuoi parlare, vieni tu da me». «Non ci penso neanche. O qui o niente. Pensaci su. Sappi, comunque, che non dovrai pentirtene: ho qualcosa da farti vedere che, credo, ti piacerà».
«Che cosa...?». Elliott riagganciò. Prese una scatola di proiettili che era posata sul tavolo e ricaricò la pistola. Alla sua sinistra, sul tavolo, c'erano due mani di plastica, alla cui base era scritto, in stampatello, un nome: OSCAR RAFFERTY. "Ecco fatto", pensò. Non gli restava che attendere. «Perché non chiama?», domandò Guff, con i gomiti appoggiati sulla scrivania di Sara, il mento sorretto dalle mani aperte e gli occhi fissi sul telefono. «Sono passate soltanto due ore», disse Sara. «Dàgli tempo». «Magari, è nei guai». «No, vedrai. Secondo me, sta solo cercando di rendere realistica la messinscena. Lo sai com'è fatto: è un perfezionista». «Come se la starà cavando McCabe con Claire Doniger?». «L'ultima volta che li ho visti, lei lo stava facendo impazzire». «Forse è il caso di andare a dare un'occhiata», suggerì Guff. «Le portiamo qualche aggiornamento». «Se proprio ci tieni, andiamo», disse Sara, seguendolo. Pochi minuti dopo, i due erano già nel seminterrato. Decisero di osservare la situazione da dietro il vetro, nella stanza accanto a quella degli interrogatori. Entrando, però, videro subito che qualcosa non andava. McCabe entrò come un turbine, grondando sudore, nella stanza dove si trovavano Sara e Guff. «Vi prego, ditemi che è qui con voi!». «Che cosa sta dicendo?», domandò Guff. «Dov'è Claire Doniger?», aggiunse Sara. «Non lo so», rispose McCabe. «Mi ha chiesto di portarle un po' di caffé, e quando sono tornato era sparita». «Oh, mio Dio!», sospirò Guff. «In che senso "sparita"?», domandò Sara, la voce tremante di paura. «Non può essere sparita». «Quando è successo?», domandò Guff. «Neanche dieci minuti fa», rispose McCabe. «Stavo controllando nei bagni. Correndo qui, credevo di trovarla, e invece eravate voi». «Guff, va' a controllare gli ascensori», ordinò Sara. «E tieni d'occhio le scale. Noi due andiamo a perlustrare a una a una le stanze del seminterrato. Siamo in un seminterrato: non può essere scappata dalla finestra». Sara aprì tutte le porte in cui si imbatté. Quella cantina era utilizzata soprattutto come deposito, cosicché non trovò altro che sedie, tavoli e sche-
dari di ogni tipo e misura. "Come ha potuto scappare?", si domandò Sara. "Avrà scoperto l'imbroglio? Qualcuno le avrà detto qualcosa? Non è che McCabe l'ha fatta scappare di proposito? E se Jared ha detto a Victor...? No, no, non farebbe mai una cosa del genere, toglitelo dalla testa". Dieci minuti dopo, aveva controllato in ogni angolo, e di Claire Doniger non c'era traccia. «Non ci posso credere!», disse Sara, cercando di prendere fiato. Voltandosi verso McCabe, gli domandò: «Come le è saltato in mente di lasciarla sola? Si rende conto del guaio che ha combinato?». «Ehi, io ho fatto del mio meglio per tenerla d'occhio. Non è colpa mia». «Ah, davvero? E di chi sarebbe, allora, la colpa? Forse, è colpa mia... Sono io la stupida che le ha affidato il lavoro di baby sitter!». «Calmati!», disse Guff. Trattenne Sara, impedendole di scagliarsi contro McCabe. «Andrà tutto bene!». «No, invece!», insistette Sara. «Quando Rafferty e Elliott scopriranno che Claire è viva, per noi è finita». CAPITOLO DICIANNOVE «Credete davvero che sia davvero così stupida da andare da Rafferty?», domandò Sara, seduta accanto a Guff sul sedile posteriore di un'auto della polizia che sfrecciava a tutta velocità. «Non può andare da nessun'altra parte», disse uno dei due agenti seduti davanti. «A casa sua sono stati messi i sigilli». «Ma lei non lo sa». «Se davvero è l'amante di Rafferty, andrà certamente da lui», ribadì l'agente. «Ma ci dica di suo marito, procuratore Tate. È riuscita a trovarlo?». «In ufficio non c'è», rispose Sara, sforzandosi di sembrare fiduciosa. «Ho telefonato ad alcuni soci dello studio per cui lavora, ma pare che nessuno lo abbia più visto, da stamattina». Guff guardò Sara. «E se lui...?». «Sono sicura che è semplicemente uscito», lo interruppe lei, nervosa. «È se ti sbagliassi? Forse avremmo dovuto aspettare Conrad». «Gli abbiamo lasciato un messaggio in ufficio. Appena torna, si metterà in contatto con noi». «Riprovi a chiamarlo», suggerì un agente, porgendole il proprio telefono cellulare. «Non ora», insistette lei, rifiutandosi di prendere in considerazione l'ipo-
tesi. «Prima dobbiamo risolvere la questione con Rafferty». Giunti al palazzo in cui abitava Rafferty, i due agenti si avvicinarono al portiere. «Stiamo cercando Oscar Rafferty, appartamento 1708», disse uno dei due. Il portiere prese la cornetta del citofono, ma lo stesso agente aggiunse: «Preferiremmo che lei non lo avvertisse». Il portiere li fece accomodare e disse: «Io non so nulla e non voglio sapere nulla. Me ne frego, io». «Oh, lei è un vero filantropo», disse Guff, che proprio in quel momento era entrato, con Sara, nell'atrio. Nessuno dei quattro visitatori aggiunse altro, finché non furono saliti sull'ascensore. Mentre si avvicinavano al diciassettesimo piano, Sara si voltò verso Guff. «Ovviamente, Rafferty non deve sapere che stiamo cercando Claire Doniger; quindi la nostra scusa sarà che stiamo cercando Kozlow. Capito?». Gli altri tre annuirono in silenzio. Sara mise una mano nella tasca dei pantaloni per controllare, ancora una volta, la pistola che Conrad le aveva dato prima di andare a Hoboken. Notando il suo gesto, Guff disse: «Non ti preoccupare. Non ne avrai bisogno... Secondo Conrad, però, era giusto che la portassi». «Non c'è problema», disse Sara. «Non sono preoccupata». Giunti all'appartamento di Rafferty, Sara suonò il campanello. «Chi è?», domandò Rafferty. «Signor Rafferty, sono Sara Tate, della procura distrettuale. Ci siamo incontrati la settimana scorsa». La porta si aprì all'istante, e Rafferty squadrò i visitatori. Aveva il volto tirato, e i suoi capelli, solitamente ben pettinati all'indietro, erano ridotti a una criniera informe. I capi sportivi di Brioni erano stati sostituiti da un paio di spiegazzati pantaloni di tela e da una camicia con le maniche arrotolate. «Che cosa c'è?», domandò, rinunciando ai convenevoli. «Mi dispiace doverla nuovamente disturbare, ma avrei bisogno di qualche minuto del suo tempo». «Se si tratta di Claire, sappiate che io non ho mai...». «Di questo parleremo più tardi», disse Sara. «Ora ci accontenteremmo di dare un'occhiata al suo appartamento. Abbiamo ragione di credere che Anthony Kozlow sia qui». «E perché mai dovrebbe...?». Rafferty si sforzò di mantenere la calma. «Comunque, entrate... Prego». Rafferty si fece da parte e Guff, insieme ai due agenti, entrò, dando immediatamente inizio alle ricerche. Sara si trattenne a parlare con Rafferty. Studiandone lo sguardo stanco, tentò di capire
che cosa sapesse. «Ho saputo che ha mandato degli agenti alla Echo Enterprise per rilevare le mie impronte digitali», disse Rafferty, rompendo gli indugi. «Infatti... Sono rimasta molto meravigliata quando ho saputo che lei non era in ufficio, oggi. Come mai? È occupato da altre questioni?». «Procuratore Tate, la sua mancanza di tatto è quanto di più inopportuno. Se intende accusarmi di omicidio, allora mi arresti». «Ho una mezza idea, in proposito, ma non si preoccupi: ci rivedremo presto». Proprio in quel momento, Guff ricomparve in soggiorno. «Niente», disse. Un attimo dopo arrivarono anche i due agenti. «Non c'è», disse uno di loro. «Non c'è nessuno». «Grazie», disse Rafferty, indicando loro la porta. «Ora, se non vi dispiace, avrei un funerale da organizzare. Claire non aveva parenti stretti». Sulla porta, Sara si voltò. «Non credevo che foste così intimi». «È la moglie del mio ex socio. Tra buoni amici, non ci si può mancare di riguardo». «Ah, certo», disse Sara. Per tutta risposta, Rafferty sbatté la porta. Mentre tornavano verso l'ascensore, Guff disse: «Strano che Claire non ci fosse». «Avete controllato dappertutto?», domandò Sara. «In un quadrilocale, a New York, non ci sono molti posti in cui nascondersi». «Di sicuro non ha la cella frigorifera in cantina», disse Sara, uscendo dall'ascensore. «Sapeva tutto, secondo voi?», domandò uno degli agenti. «Certo», disse Guff. «Ormai il nostro piano lo conosce mezzo mondo». «Come fai a dirlo?», domandò Sara. «Sara, io non voglio rovinare la tua bella fiaba d'amore, però credo sia il caso di accertarsi che Jared non abbia fatto la soffiata. Se tu non gliene avessi parlato...». «Non è vero», sbottò Sara. «Invece sì», ribadì Guff. «Ti assicuro che ieri ero d'accordo con te: credevo che avessi ragione a volergliene parlare. Adesso, però, non possiamo far finta di non vedere quello che sta succedendo. Non credo che Claire possa essere fuggita dal seminterrato senza un aiuto esterno: qualcuno deve averle svelato l'arcano. E ciò può essere accaduto solo perché qualcuno conosceva il nostro piano».
«Nessuno conosce il piano, Guff! E se McCabe si è fatto scappare Claire Doniger, non è colpa di mio marito!». Quando le porte dell'ascensore si aprirono, Sara uscì infuriata e raggiunse l'auto della polizia. «Dove vai?», le domandò Guff, inseguendola. «Non correre». «Dobbiamo andare da Elliott», disse Sara. «È l'unica altra persona che abbia qualcosa a che fare con questa storia». «E se Conrad...?». «Se Conrad è ancora lì, ci atterremo alla sua storia. Altrimenti, diremo a Elliott che volevamo solo fare un ulteriore controllo». «Okay, d'accordo», disse Guff. «Però devi risolvere la questione di tuo marito. Manda un agente a controllare». «Quante volte devo dirtelo? Jared non farebbe mai una cosa del genere!». Guff si asciugò le mani sui pantaloni. Era combattuto. Non aveva intenzione di provocarla, ma cominciava a provare una certa frustrazione. Abbassando il tono di voce, disse: «Visto che sei così sicura, come mai non riesci a metterti in contatto con lui? Come mai, all'improvviso, Jared è sparito?». Sara fissò gelida il suo assistente. «Mi dia il telefono», disse a uno dei due agenti. Compose nervosamente il numero di Jared, ma non ebbe risposta. Richiuse il telefono e lo restituì al poliziotto. «Hai capito quello che ti ho detto?», domandò Guff. «Non ti sto chiedendo di arrestarlo. Sto soltanto dicendo che potresti mandare qualcuno al suo ufficio a controllare. Con tutto quello che sta succedendo, potrebbe essere utile sapere dov'è». Sara rifletté sul consiglio di Guff. «Tutto qui? Non devono fargli qualche domanda? Devono solo scoprire dov'è?». «Questo dipende da te». Sara aprì la portiera dell'auto della polizia e salì. «Okay», disse, richiudendo la portiera. Rivolgendosi agli agenti, Guff domandò: «Non potreste mandare qualcuno da Wayne & Portnoy?». «Subito», disse il più alto dei due agenti, impugnando il suo walkietalkie. «E magari uno di voi due potrebbe rimanere qui», aggiunse Guff. «Nel caso Claire Doniger decida di farsi viva». «Posso rimanere io», disse l'altro poliziotto. Mentre il primo agente dava istruzioni alla centrale, Guff prese posto sul
sedile posteriore dell'auto. Sara aveva un'espressione impenetrabile, le braccia conserte e gli occhi incollati al finestrino. «Sara, lo sai anche tu che era la cosa più giusta da...». «Lasciamo perdere», tagliò corto Sara. «Ormai è fatta». Sbirciando dalla finestra del suo soggiorno, che si apriva sulla facciata del palazzo, Rafferty si accertò che Sara e gli altri se ne stessero effettivamente andando. Dopo un po', uscì dal suo appartamento e percorse, con circospezione, il corridoio che conduceva al locale della spazzatura. Dentro c'erano Kozlow e Claire. «Ehi, chissà che regalo di Natale gli hai fatto, al portiere? Ti ha avvisato in un batter d'occhio!», disse Kozlow. «Buon per te», rispose Rafferty. «No. Buon per te, soprattutto», obiettò Kozlow, uscendo dallo sgabuzzino per tornare all'appartamento di Rafferty. Questi abbracciò Claire, in corridoio. «Ci sono dei problemi?», gli domandò lei. «No, nessun problema», rispose lui, stringendola tra le braccia. «Ora è tutto a posto». «Non potreste risparmiarvi i festeggiamenti per un altro momento?», disse Kozlow. «Io voglio andarmene di qui». «Rilassati», gli disse Rafferty. Rientrò in casa e prese il cappotto. «Se riusciamo a eludere la sorveglianza del poliziotto che Sara ha lasciato di guardia, voglio andare a trovare la persona che l'ha attirata sulle nostre piste». «C'è un poliziotto sotto casa? E come facciamo a eluderlo?». «Questo palazzo ha ventiquattro piani, la piscina sul tetto, la palestra privata, il garage sotterraneo e una lavanderia gigantesca nel seminterrato. Vuoi che non abbia un'uscita secondaria?». Mentre Sara e gli altri sfrecciavano in auto verso downtown Manhattan, l'agente al volante domandò: «Dov'è che stiamo andando, esattamente?». «A Hoboken», rispose Sara, seduta accanto a lui. L'agente alla guida inchiodò. «È impossibile», disse. «Almeno, con quest'auto. Hoboken è in New Jersey, e lì la polizia di New York non ha alcuna giurisdizione». «Se è in corso un inseguimento, la giurisdizione l'avete, eccome!», precisò Sara.
«Le sembra che questo Elliott sia qui davanti a noi? Le pare che stia cercando di sfuggirci oltrepassando il confine di Stato? Le pare davvero che sia in corso un inseguimento?». «Certo. Guardi, è là! Ha appena superato il prossimo isolato! Presto, acciuffiamolo!», disse Guff. L'agente non si mosse. «Senta, sono d'accordo con voi sul fatto che questa regola è stupida, ma i poliziotti del New Jersey ti fanno il culo se la infrangi. L'ultimo poliziotto del mio distretto che ha sconfinato senza autorizzazione si è fatto tre mesi di punizione alla Capitaneria di porto e mi ha detto che non esiste un posto più fetido». «Suvvia», disse Sara. «Non stiamo facendo niente di così pazzesco. Andiamo a prelevare una persona e la portiamo alla stazione di polizia». «Lei può dire quello che vuole, ma finché non avremo le carte in regola, questa macchina non si muove di qui». «D'accordo», disse Sara, aprendo la portiera dell'auto. «Prenderemo un taxi. Ci andremo noi da Elliott». «No, non possiamo», disse Guff. «Perché? Per una stronzata burocratica?». «Sara, sono le regole. Se noi cerchiamo di prelevare Elliott senza le dovute autorizzazioni, rischiamo di rovinare tutto il nostro lavoro». «Ma...». «Sara, lo sai anche tu come funziona. Non farti accecare dall'istinto. Ragiona: se infrangerai le regole, il giudice non ammetterà le prove che hai raccolto». «Faccia una telefonata e chieda di preparare i documenti necessari», suggerì l'agente. «Possono spedirli via fax alla polizia di Hoboken, e saranno pronti prima che noi si arrivi al Lincoln Tunnel». «Ne è sicuro?», domandò Sara, perplessa. «Certo che sono sicuro», rispose l'agente. «Quanto ci vuole per spedire via fax un paio di fogli?». Mezz'ora dopo, l'auto della polizia era imbottigliata nel traffico all'ingresso del Lincoln Tunnel. «Non ci posso credere», disse Sara, prendendo a pugni il cruscotto. «Lo sapevo che non dovevamo perdere tempo». «Si calmi», disse l'agente. «Meglio perdere un po' di tempo prima, piuttosto che farsi prendere dalla fretta per poi doversene pentire». «Mi stupisce solo che nella comunità criminale di New York questo stratagemma non sia di dominio pubblico», disse Guff. «Se io dovessi mai
commettere un reato a New York, verrei subito in New Jersey, e nessuno potrebbe più farmi niente». «Lo conoscono tutti, questo trucchetto», disse l'agente, per rasserenare un po' l'atmosfera. «Ma chi è così scemo da andare a vivere in New Jersey?». Dato che nessuno rise alla battuta, l'agente aggiunse: «Dài, non ditemi che non vi è piaciuta...». «Lasciamo perdere», tagliò corto Sara. «Non è proprio il momento». «Chi è?», domandò Elliott, rispondendo al citofono. «Sono Rafferty. Facci entrare». Il portone si aprì, e Rafferty salì, accompagnato da Claire e da Kozlow. Quando Elliott schiuse di un filo la porta, vide solo Rafferty e Kozlow. «Ehi, come mai quelle facce allegre?», domandò. Kozlow sferrò un calcione alla porta, svelando la presenza di Claire. «Ehi, guarda un po' chi si vede!», disse Elliott. «Ci volevano imbrogliare». «In realtà, stavano cercando di metterci l'uno contro l'altro», spiegò Rafferty, entrando. «L'unica cosa che non capisco è come abbiano fatto a sapere di te». «Perché non lo chiedi a lui?». Rafferty, Kozlow e Claire guardarono verso il punto indicato da Elliott, e videro il corpo di Conrad, a terra in un lago di sangue. «Oh, mio Dio!», esclamò Claire. «Sei impazzito?», domandò Kozlow. «Lo sai quanti problemi ci procurerà questa cosa?». «Ho valutato attentamente le conseguenze», disse Elliott. «Ed era l'unico modo per farla franca». Digrignando i denti, Rafferty sibilò: «Brutto figlio di puttana!». «C'è qualche problema?», domandò Elliott, con l'aria da ingenuo. «Tu lo sapevi, vero? Sapevi che Claire era viva e conoscevi anche i loro piani». «Io non...» «Non fare il finto tonto, Elliott. Le tue bugie cominciano a contraddirsi. Tu stai minacciando Sara sin dall'inizio. È per questo che ha cominciato a indagare su di te e si è rifiutata di chiudere il caso. Tu dovevi starne fuori, e invece ti sei messo di mezzo». Elliott arretrò verso la cucina, cercando di indurre Rafferty a seguirlo. Se voleva che la scena sembrasse realistica, doveva fare le cose bene. «Oscar, ti giuro che non so di cosa parli».
«Non cercare di prendermi per il culo!», urlò Rafferty. «Credi che sia un coglione?». Rifilò a Elliott uno spintone che lo mandò a ruzzolare contro il tavolo della cucina. «Credi che sia cieco? Ho capito qual è il tuo scopo: tu vuoi tutto per te». "Vieni, avvicinati ancora un po'", pensò Elliott. "Vicino alla finestra. Ecco... ora, girati". «Te lo giuro, io non...». «SMETTILA DI MENTIRE!», urlò Rafferty, con una voce che rimbombò nel piccolo appartamento. «Ti avevo chiesto un piccolo favore: trovami qualcuno per fare l'iniezione. Era quello il tuo compito. E tu che hai fatto, invece? Mi hai tradito! Tu hai tradito me! Io ti ho praticamente cresciuto, e tu mi ripaghi così». Elliott si bloccò. «Tu non mi hai cresciuto!», gridò. «Ah, no? E chi glieli dava, a tua madre, i soldi, dopo il licenziamento? Chi le ha mandato i soldi, puntualmente, ogni anno, fino al tuo sedicesimo compleanno? Chi...?». «Non te ne fregava un cazzo di lei! Tu avevi solo paura!». Si allontanò dalla finestra, pur di urlargli in faccia. «Fino al giorno in cui è morta, l'unica vostra preoccupazione era che lei potesse portarvi in tribunale. Che diventasse vendicativa e mandasse a monte il patetico matrimonio di Arnold o, peggio, che si facesse furba e denunciasse la vostra società. Un'accusa di violenza carnale può diventare un vero casino, vero?». «Tua madre non è stata violentata», rispose Rafferty. «Sì, invece!», ribadì Elliott, con la vena temporale in rilievo, rossa da scoppiare. «Le hai quasi rotto la mandibola! Ho ancora le cartelle mediche che lo dimostrano! E quando ha scoperto di essere incinta, l'avete buttata in mezzo alla strada!». Notando la reazione di Claire, Elliott disse: «La signora non ne sapeva nulla, vero? Cioè, sapeva che era un tipo spietato, ma non che fosse un mostro, vero? Se l'avesse saputo, magari l'avrebbe ammazzzato prima». «Basta!», gli intimò Rafferty. «Lasciala fuori da questa storia!». «Perché? Lei non è meno responsabile di te. Anzi, forse lo è di più. Se non avesse fatto tutte quelle storie per fare l'iniezione a Arnold, noi non avremmo dovuto chiamare in causa Kozlow. E se non avessimo chiamato in causa lui...». «Ehi, pezzo di merda...», disse Kozlow. «Me la vedo io, con lui», ringhiò Rafferty. Tornò a voltarsi verso Elliott. «Abbiamo coinvolto Kozlow perché ci serviva un alibi... lo sai anche tu». «Sarà anche vero, ma vuoi dire che la storia di mia madre è falsa?».
«Elliott, tua madre era una degenerata, che si faceva sbattere da tutti. Io le davo i soldi per pietà, non per senso di colpa. Se ti ha raccontato di essere stata violentata, lo ha fatto soltanto perché si vergognava». «È FALSO!». «È vero, invece», insistette Rafferty. Affondò le mani nelle tasche del cappotto. «Smettila di vivere nel mondo di fantasia inventato da tua madre e torna con i piedi per terra». Infuriato, Elliott fece per mettere mano alla pistola. «Bastardo figlio di...». Si udirono tre colpi. Due colpirono Elliott al petto, il terzo infranse la finestra della cucina alla sua destra. Elliott cadde a terra e il suo sangue cominciò a spargersi sul linoleum. Rafferty ostentò indifferenza per la vittima e si mise a osservare il buco apertosi nella tasca del proprio cappotto. «No!», urlò Claire. Arretrò atterrita, andando a sbattere contro il frigorifero. «Oh, no! Perché cazzo l'hai fatto?», domandò Kozlow, alzando le mani al cielo. «È morto?», domandò Rafferty, mentre la macchia di sangue continuava a espandersi. «Certo che è morto! Gli hai sparato in pieno petto». Kozlow si chinò sul corpo di Elliott per verificare. «Che cosa ti è saltato in mente? Ti rendi conto di quello che fai?». In piedi alle spalle di Kozlow, Rafferty rispose: «Faccio quello che avrei dovuto fare sin dall'inizio». Rafferty puntò la pistola contro Kozlow. «Oscar, sei impazzito?», gridò Claire. Kozlow sentì la canna della pistola posarsi sulla nuca. «Oscar, se è quello che penso, sei un uomo morto». «No, non sono io l'uomo morto», disse Rafferty, concitato. «Pensaci bene: sei stato tu a sparargli, non io. Tu. Se tu non ti fossi comportato come una bestia, tutto sarebbe filato liscio. Sarebbe andato tutto bene». «Metti giù la pistola», disse Kozlow. «Non dirmi quello che devo fare». «Metti giù la pistola!», gridò Claire. Kozlow era un grumo di rabbia allo stato puro. «Prima mi metterò a ballare il tip tap sulla tua faccia, e poi su quella della signora», minacciò. «La faccia di Patti Harrison, al confronto, sembrerà un figurino». Kozlow cominciò a girare la testa, per trovarsi faccia a faccia con Rafferty. «Non ti muovere!», strillò Rafferty.
«Oscar, non farlo!», supplicò Claire. Kozlow era pronto a scattare. «Ti apro come una...». «NON TI MUOVERE!», ripeté Rafferty, urlando a squarciagola. «NON LO FARE!». Kozlow non si fermò. Si voltò e cercò di afferrare Rafferty alla gola, ma prima che la mano potesse giungere a destinazione, risuonò un altro sparo. Uno spruzzo di materia rosso scuro si sparse per la cucina, e Kozlow si accasciò, sbattendo a terra la testa con un rumore sinistro. «Oddioddioddioddio!», gridò Claire. «Oh, mio Dio!». «Claire, adesso non farmi la scena isterica, eh?!». Nel panico più totale, Claire guardò prima Elliott, poi Conrad. I due cadaveri erano ormai ridotti a due spugne insanguinate. Corse al lavandino e vomitò. «Maledizione, Claire! Che cosa stai facendo?!», gridò Rafferty. «Nessuno deve sapere che siamo stati qui! Non dobbiamo lasciare tracce». Prese un paio di guanti di pelle dalla tasca del cappotto e, mentre Claire continuava a rimettere, aprì il rubinetto. Versò detersivo liquido per piatti su tutto il lavandino, nel tentativo di coprire l'odore del vomito. Quindi, prelevò le chiavi di Elliott dal tavolo della cucina, andò in soggiorno e aprì la cassapanca. Frugando, vi trovò il contenuto del portafogli di Sara e scoprì le mani di plastica con il suo nome. I guanti non c'erano, e questo significava che Elliott li aveva addosso. «Perfetto. È l'alibi perfetto», disse Rafferty, spostando le mani finte prive dei guanti. «Ora lui è me». Tolse da un altro paio di mani di plastica i guanti con le impronte di Warren Eastman e li portò in cucina. Per depistare le indagini, li infilò nella tasca posteriore dei pantaloni di Kozlow. Quindi, ne afferrò il cadavere e lo trascinò, faccia a terra, verso il lato opposto della cucina. Sollevandogli la giacca sulla schiena, Rafferty trovò la pistola. Gliela sfilò e gliela mise nella tasca anteriore dei pantaloni. Con la propria pistola, gli cacciò in corpo altri tre proiettili, due alla schiena e uno a una gamba. Quindi, mise l'arma in mano a Elliott. «Così sembrerà che hanno avuto un diverbio», disse Rafferty. «Mentre Kozlow se ne andava, Elliott gli ha sparato alle spalle. Ecco. Così, i conti tornano». Rafferty guardò Claire, che era ancora chinata sul lavandino. «Ti senti bene?», le domandò. «No, che non mi sento bene!», gridò lei, in lacrime. «Gli hai appena fatto saltare il cervello! Hai ammazzato due persone! Che cosa ti prende?». «Non dire così, Claire! Che cosa dovevo fare? Lasciarli in circolazione,
sperando che non decidessero, un giorno, di rovinarmi?». «Noi siamo già rovinati. Credi che Sara Tate non...?». «Taci!», urlò Rafferty. «Non voglio neanche parlarne! Andrà tutto bene, vedrai». Pallida e tremante, Claire sembrava sul punto di svenire. «Portami fuori di qui», disse. «Taci», le intimò Rafferty, trascinandola per un braccio verso la porta. «Dobbiamo fare un'ultima visita». «Mi dispiace per il ritardo», disse a Sara l'agente della polizia di Hoboken, mentre raggiungevano casa di Elliott. «Non si preoccupi», disse Sara, conciliante, premendo il pulsante del citofono corrispondente all'appartamento numero 8. Dopo aver premuto più volte, senza ottenere risposta, il poliziotto di Hoboken diede una spallata al portone, sfondandolo al primo colpo. Giunti all'ultimo piano, bussarono alla porta di casa di Elliott. Ancora una volta, non vi fu risposta. «Elliott, ci sei?», gridò Sara. «Conrad!». Provò a girare la maniglia e vide che la porta non era chiusa a chiave. La aprì ed esclamò: «Oh, mio Dio!». «Conosce queste persone?», le domandò il poliziotto del New Jersey. Sara non rispose. Non riusciva a staccare gli occhi da quello scempio. Non era come l'autopsia: queste persone le conosceva. E sebbene ne avesse paura, non riusciva ad accettare che si potesse morire a quel modo. «Non riesco a crederci», disse. «Perché? Come ha potuto fare questo?». Rivolgendosi all'agente della polizia di New York, Guff disse: «Era proprio il caso di aspettare quei documenti, eh?». «Ehi, non prendetevela con me!», replicò il poliziotto. «Sembra una rapina», commentò il poliziotto di Hoboken. «Quello con il giubotto di pelle ha sparato allo smilzo; poi, però, mentre se ne stava andando, lo smilzo gli ha sparato a sua volta, colpendolo qui, alla nuca». «Neanche per idea», disse Sara. «Guardi queste scie di sangue sul pavimento. Qualcuno ha chiaramente spostato il cadavere di Kozlow». «Magari, ha cercato di strisciare fino alla porta», suggerì il poliziotto del New Jersey. «Oh, no!», gridò Guff, che nel frattempo si era spostato in soggiorno. «Sara! Vieni qui!». Aveva una voce disperata. Sara raggiunse immediatamente il suo assistente e lo vide inginocchiato a terra, accanto al cadavere di Conrad. «Nooo! Conrad!», gridò. Cadde in
ginocchio accanto a Guff e prese la testa di Conrad tra le mani. «CHIAMATE UN'AMBULANZA! PRESTO! SERVE UN'AMBULANZA!». Voleva piangere, ma le lacrime non le venivano. Posò la testa sul petto di Conrad, nella speranza di cogliere un battito, anche lieve, ma non sentì nulla. «Dai, Conrad», disse, dandogli dei piccoli buffetti su una guancia. «Lo so che ci sei. Non ti arrendere!». Nessun segno di vita. Prese a colpirlo al petto. «Mi hai sentito? Non devi arrenderti! Non puoi farmi questo!». Continuò a colpirlo, ma lui rimase immobile. Quando strinse la camicia intrisa di sangue, le mani le tremavano. Cominciò a singhiozzare. «Ti prego, Conrad! Non te ne andare! Non puoi andartene così!». Le lacrime cominciarono, infine, a sgorgare copiose. Sara cercò di scuotere il corpo inanimato per riportarlo alla vita. Lo colpì di nuovo sul petto. Voleva sentire di nuovo il battito del suo cuore. Quando Sara si voltò, vide che Guff stava ancora piangendo. «Vieni qui», gli disse, spalancando le braccia. Guff sprofondò nel suo abbraccio. Restarono lì, per un lungo minuto, in ginocchio, a consolarsi l'un l'altra. «Mi dispiace», disse lei, accarezzandogli la testa. «Mi dispiace tanto». «Era il mio migliore amico», balbettò Guff, tra i singhiozzi. Ascoltando i singulti che scuotevano il petto di Guff, Sara non riusciva a capacitarsi di come potesse essere successo. Conrad non era stato semplicemente colto di sorpresa; era caduto vittima di un'imboscata. Quindi, qualcuno sapeva del suo arrivo. Sara si alzò in piedi, asciugandosi le lacrime con le maniche. Conrad l'aveva avvertita, ma lei non l'aveva ascoltato. Però non intendeva ripetere l'errore. «Chiami il distretto e cerchi di scoprire se Jared è stato prelevato», disse al poliziotto di New York. Mentre l'agente componeva il numero, Sara aiutò Guff a rialzarsi. «Credi che sia stato lui a fare la soffiata?», le domandò Guff. «Non so più che cosa pensare. So solo che...». «Che cosa?», fece il poliziotto, parlando nel suo cellulare. «Quando?». Dopo una pausa, aggiunse: «È qui con me. No, d'accordo. La porto lì subito». Interruppe la comunicazione e, con un'espressione sgomente, guardò Sara. «Che c'è?», domandò lei, allarmata. «Che cosa è successo?». «Hanno appena ricevuto una chiamata da Wayne & Portnoy. L'agente che era lì di piantone... Gli hanno sparato». CAPITOLO VENTI
La folla radunatasi davanti a Wayne & Portnoy era più calma di quel che Sara immaginava, ma era ancora piuttosto numerosa. Le persone uscite dall'ufficio, anziché disperdersi, si erano fermate a guardare, sgomitando e alzandosi in punta di piedi per non farsi sfuggire nulla della scena. «In questa maledetta città, qualsiasi disastro si trasforma in uno spettacolo», borbottò l'agente, mentre l'auto della polizia si faceva lentamente largo tra la calca che andava ingrossandosi. Prima ancora che l'auto si fosse fermata, l'agente aprì la portiera; quando furono quasi a destinazione, a mezzo isolato circa dall'ingresso dello studio legale, la spalancò e scese al volo. Guff lo seguì immediatamente. Sara, invece, non si mosse. Guff si fermò e, voltatosi verso di lei, disse: «Dài, andiamo». «E se...?». «Dovrai comunque fare i conti, prima o poi. E poi, non c'è altro modo per capire cos'è successo». Sara annuì: aveva ragione. Quando Guff vide che Sara si era decisa a scendere dall'auto, raggiunse di corsa l'agente che era ormai quasi arrivato all'ingresso. Sara, a sua volta, cercò di aprirsi un varco tra la folla, ma ben presto Guff scomparve alla sua vista, anche perché non era certo uno che risaltava per la sua altezza. «GUFF, ASPETTAMI!», gridò. Troppo tardi. Saltellando, Sara riuscì a individuare il poliziotto, che stava mostrando il suo distintivo a qualcuno. Proprio mentre si accingeva a raggiungerlo, colse, con la coda dell'occhio, il movimento di una persona che, a una trentina di metri da lei, si allontanava di corsa. Sara l'intravide di schiena, ma riconobbe immediatamente l'inequivocabile impostazione atletica. Rimase di sasso. «Jared!?», gridò. Posto che l'avesse sentita, era evidente che non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Facendosi largo, cercò di guardare meglio, ma la folla era troppo fitta. «JARED!», urlò di nuovo. Ma Jared non si fermò. Sara lo seguì con lo sguardo. "È impossibile", pensò. "Non è lui". Ma, osservando quella testa castana che scompariva oltre il mare dei curiosi, non poté non meravigliarsi della somiglianza. Con tutta la voce che aveva in gola, Sara lo chiamò un'altra volta: «JARED, SONO IO!». Di colpo, l'uomo in fuga si voltò, e Sara restò di sasso. I loro sguardi si incrociarono per un istante. Era lui. Non c'era dubbio. Prima ancora che Sara trovasse qualcosa da dire, Jared riprese la sua corsa. «Jared, aspetta!», gridò, mentre la calca sembrava inghiottirlo. Aprendosi la strada con foga, si lanciò al suo inseguimento. Jared proce-
deva a zig-zag, approfittando della confusione. «Jared!», urlò Sara, intravedendolo a malapena. «Non fare così!». Jared, però, non si fermava. Sempre meno capace di evitare gli astanti, Sara si accorse di non riuscire a tenergli dietro. Jared era veloce e le stava sfuggendo. Lungo la 7th Avenue, a una certa distanza, ormai, dalla sede di Wayne & Portnoy, Sara lo perse definitivamente di vista. Non sapendo cosa fare, estrasse il suo distintivo e urlò: «Polizia! Fermate quell'uomo!». Sebbene nessuno fosse intenzionato a levare un solo dito per rallentare la corsa di Jared, ciò consentì a Sara di muoversi con più agio tra la folla, che al suo urlo si era aperta, e di individuare la direzione in cui Jared stava scappando. All'altezza della 49th Street, Sara si fermò. Jared era scomparso. Guardò giù per la 7th Avenue, ma non vide nessuno. "Magari ha imboccato la 49th Street", pensò. Fu a quel punto che sentì gridare: «Ehi, fai attenzione, stronzo!». Scorse un uomo che, uscendo dalla stazione del metrò, imprecava contro qualcuno che, evidentemente, l'aveva appena urtato scendendo le scale. "Eccolo!". Si lanciò a rotta di collo giù per le scale e si imbatté in un altra massa di persone dirette al mezzanino. Sembrava che tutti quelli che non erano davanti a Wayne & Portnoy si fossero dati appuntamento in quella stazione. Ignorando la lunga fila di persone che attendevano di acquistare il biglietto, Sara scavalcò il mezzanino. Un dipendente dell'azienda dei trasporti la bloccò. «Mi dispiace, ma senza biglietto non si passa», disse, trattenendola per un braccio. «Mi lasci immediatamente», disse Sara, divincolandosi. «Mio marito...». «Signora, non mi interessa niente di suo marito. Lei non può...». Gli sbatté il distintivo in faccia. «Preferisce parlare con il mio capo?». «Mi scusi, io non immaginavo che lei fosse...». Prima che l'uomo potesse finire la frase, Sara era già sfrecciata via, verso la banchina del metrò. Impiegò circa mezzo minuto per individuare Jared: stava cercando di farsi largo tra la folla in attesa del treno verso il bordo della banchina. Poiché le persone erano tutte praticamente ferme, Sara notò che c'erano altre due persone che correvano, oltre a Jared. Quando le passarono a non più di un metro di distanza e vide di chi si trattava, capì anche quale fosse la ragione della fuga di Jared. «Non ti arrendi mai, eh?», domandò Rafferty. Era in piedi alle spalle di Jared, e Sara vide che gli teneva una pistola puntata alla testa. Accanto a Rafferty c'era Claire, che aveva un aspetto terribile. «Stai bene?», domandò Sara al marito.
«Sì», rispose lui. Rivolgendosi a Rafferty, aggiunse: «Lei devi lasciarla andare». «Neanche per sogno. Un ostaggio in più fa sempre...». «HA UNA PISTOLA!», urlò qualcuno tra la folla, scatenando il fuggifuggi generale. Sfruttando la confusione, Sara afferrò la pistola che teneva nella tasca destra dei pantaloni. «Non ti muovere!», le intimò Rafferty. Spinse via Jared e puntò la pistola contro Sara. «Ti spiaccico la testa contro la parete». Era scarmigliato e sudatissimo. Quando Jared si fermò sul bordo della banchina, Sara raggelò. Vedendo la pistola puntata contro sua moglie, Jared si sentì perduto. «Ora dalla a Claire», disse Rafferty, indicando la pistola, mentre la gente continuava a fuggire a tutte le parti. Claire si protese per prendere l'arma, ma Sara esitò. «Non ti conviene farlo», le disse Sara. «Taci!», rispose Claire. Le tolse la pistola e la spinse sul bordo della banchina, accanto al marito. Mentre si avvicinava a lui, sospinta da Claire, Sara gli lanciò uno sguardo disperato. Dovevano fare qualcosa. Pronto a tutto pur di salvare la vita di Sara, e non riuscendo a vedere chiaramente Rafferty, Jared prese una decisione. Quando Claire gli fu passata davanti, le sferrò un calcione dietro le ginocchia, facendola volare a gambe all'aria. Atterrando con un rimbalzo, Claire perse la pistola. Senza esitare, Sara si scagliò contro Rafferty, che nel frattempo era tornato a puntare la sua arma contro Jared. Rafferty riuscì a far fuoco una sola volta; quindi, rivolse l'arma contro Sara, ma non fece in tempo a premere il grilletto, perché lei gli saltò addosso, colpendolo con una violenta ginocchiata in mezzo alle gambe. La pistola gli sfuggì dalle mani, ma era troppo tardi: Jared era stato ferito, e Sara - mentre osservava Rafferty piegato in due dal dolore - lo sentì gridare. «JARED!», urlò. Si voltò, ma non lo vide. Tornò vicino al bordo della banchina. Jared era accasciato sui binari e sanguinava da una spalla. «Jared, mi senti? Dimmi qualcosa», implorò lei. Jared non rispose. Dal suo sguardo perso nel vuoto, Sara comprese che era in stato di shock. Dietro di sé vide che Claire stava aiutando Rafferty a rialzarsi. Alla sua
destra, vicino al bordo della banchina, c'era la pistola di Rafferty. Sara guardò ancora una volta il marito. Le parve che stesse cominciando a riscuotersi dallo spavento. "Devo prendere quella pistola", pensò. "Jared se la caverà da solo". Ma, non appena ebbe mosso il primo passo in direzione dell'arma, udì il segnale elettronico che indica l'imminente arrivo di un convoglio. Sporgendosi oltre il bordo della banchina, scorse in fondo al tunnel i fari del treno in arrivo. Non c'era tempo da perdere. Jared era ancora disteso sui binari. Dall'altra parte c'era la pistola. Doveva scegliere, ma la scelta fu facile. Si sedette sul bordo della banchina e stava quasi per saltare sui binari, quando Rafferty la afferrò per i capelli. Nonostante fosse trattenuta, riuscì a voltarsi e montò su tutte le furie. «LASCIAMI O TI AMMAZZO!». Cercò di affondargli le unghie nelle braccia, poi sulle guance... Fece di tutto per costringerlo a mollare la presa. Sorpreso dalla reazione di Sara, Rafferty la lasciò andare e si chinò per raccogliere la propria pistola. Sara capì di dover agire alla svelta. Dal bordo della piattaforma vide che il treno era ormai vicinissimo. Troppo vicino. Non ce l'avrebbe mai fatta a scendere e risalire in tempo. «JARED! ALZATI!», gridò. Jared ascoltò il consiglio e si rialzò a fatica. Le gambe molli e doloranti lo reggevano a malapena, e l'odore del suo sangue gli dava il voltastomaco. «Dài, sbrigati!», sollecitò lei. «Prendi la mia mano». Sdraiandosi a terra di pancia, protese il braccio. Sentiva il terreno vibrare per l'imminente arrivo del metrò, e quando il rumore si intensificò anche i topi scapparono. Jared si protese a sua volta e afferrò la mano della moglie, ma prima di poter cominciare a tirare, Sara capì dall'espressione del marito che alle proprie spalle qualcuno le si stava avvicinando. Si voltò di scatto. Rafferty aveva la pistola puntata contro Sara e, facendo cenno a Jared, le disse: «Mollalo». «No, non lo fare», implorò Sara. Rafferty non rispose. Vide i fari del treno che usciva dal tunnel. «Salutami i genitori di Sara». Mancava un soffio. Jared doveva saltare fuori di lì. A lui, però, non interessava. L'importante, per lui, era non mettere a repentaglio la vita di Sara. Le lasciò la mano. «CHE COSA FAI?», urlò Sara, la voce quasi completamente coperta dal fragore del treno. «TI UCCIDERÀ!», rispose Jared. «NON MI IMPORTA!», gridò Sara, ancora con il braccio proteso. «TORNA QUI!».
Il treno piombò su di loro. Jared cercò un po' di spazio sotto la banchina. Sara sapeva che non ce l'avrebbe fatta. Non c'era più tempo. Sebbene assordata dallo stridio delle ruote del treno sui binari arrugginiti, Sara gridò un ultimo "ti amo!". «JAAAARED! JAAAARED!». Sara ritrasse il braccio appena in tempo, tuffandosi lontano dal bordo, proprio quando il treno stava per travolgerla. Jared, invece, scomparve, inghiottito sotto il convoglio. Rafferty arretrò, sorridendo. Quando il metrò si fu fermato, Claire corse verso le porte. «Andiamo!», gridò a Rafferty. «No». «Che cosa vuoi fare? Andiamocene di qui!». «Voglio essere sicuro che sia morto». «Che cosa?! Oscar, non perdiamo tempo! Andiamocene!». «Non ci penso nemmeno. Voglio vederlo morto». «Basta! È una fissazione, la tua! Possiamo...». «Vai tu, se vuoi. Io resto qui. Non possiamo permetterci di lasciare in giro testimoni scomodi». Quando risuonò il segnale che annunciava l'imminente chiusura delle porte, Claire tornò, seppur esitante, accanto a Rafferty. «D'accordo. Allora ce ne andremo appena avrai controllato, eh?». Senza rispondere, non appena il treno ebbe lasciato la stazione, Rafferty si avvicinò al bordo della banchina. Si sporse e osservò i binari, in una direzione e nell'altra, ma vide soltanto le tracce di sangue lasciate in precedenza da Jared. "Forse, il treno l'ha proiettato dall'altra parte del...". Rafferty non fece in tempo a terminare il pensiero, perché si accorse che Sara si stava avventando contro di lui. «L'HAI UCCISO!», urlò. All'impatto, Rafferty perse la pistola e l'equilibrio, volando oltre il bordo della banchina. Cadendo, però, riuscì ad afferrare un lembo della giacca di Sara. In men che non si dica, si ritrovarono entrambi sui binari. Rafferty atterrò per primo, e Sara gli piombò sopra. Sara fu la prima a rialzarsi, accecata dalla furia. Mentre Rafferty cercava di rimettersi in piedi, lei lo prese per i capelli, a due mani, e gli sferrò una ginocchiata in faccia. «BRUTTO PEZZO DI MERDA!», strillò. «CHI CAZZO CREDI DI ESSERE?». La risposta di Rafferty giunse sotto forma di un unico, ma preciso, manrovescio che spedì Sara carponi. Con il braccio levato per colpire di nuovo, Rafferty non si accorse dell'assalto di Jared che, atterrandogli sulla ma-
scella con la mano chiusa, urlò: «NON TOCCARE MIA MOGLIE!». Sara seguì a ritroso la traiettoria del marito fino alla minuscola nicchia che gli aveva salvato la vita. Usando il braccio ancora sano, Jared colpì Rafferty allo stomaco. Poi di nuovo al volto. E ancora allo stomaco. Era deciso a restituirgli con gli interessi tutta L'angoscia, la frustrazione, le sofferenze che lui e Sara avevano patito a causa sua. Infine, lo prese per il bavero e guardò il suo viso tumefatto. A quel punto si udì uno sparo, e Jared si accasciò. Sara vide il sangue sgorgare dalla schiena di suo marito. Si girò. Claire era sulla banchina con la pistola di Rafferty in pugno. «JARED!», urlò Sara, correndogli accanto. «Stai bene, Oscar?», domandò Claire. Rafferty annuì, benché rantolante. Allungò un braccio per farsi dare la pistola. «Jared, di' qualcosa!», disse Sara, piangendo. «Ti prego, parla!». Jared non rispose. Chinandosi su di lui, però, Sara scorse la fondina da caviglia con la pistola che Jared aveva avuto da Barrow. Senza dare nell'occhio, se ne impossessò. «NESSUNO SI MUOVA!», intimò un poliziotto che aveva fatto improvvisamente irruzione in scena correndo lungo la banchina. La sua arma era puntata contro Rafferty. Alle spalle dell'agente c'era Guff. Rafferty puntò la sua pistola contro Jared e Sara. Claire raccolse l'arma di Sara e lo imitò. «Ora ci lasciate uscire di qui, altrimenti li ammazziamo tutti e due!», urlò Rafferty, ancora sui binari. «Giuro che non sto scherzando!». «Niente da fare», rispose l'agente, avanzando cautamente con la pistola sempre puntata contro Rafferty. «E voi non siete nella posizione di porre condizioni». «Ah, no?», domandò Rafferty. «Tu e il tuo amico avete una sola pistola; noi ne abbiamo due. Se provi a sparare a uno di noi, l'altro farà secchi i due piccioncini. Direi che è un'ottima posizione per porre condizioni». Guardando in direzione di Sara e Jared, Guff vide che lei teneva nascosta la piccola rivoltella dietro la spalla del marito. «Non lo ascolti!», disse Guff, rivolto al poliziotto. «Vi avverto: faccio sul serio!», minacciò Rafferty. «Tu fai quello che vuoi», disse Guff, sprezzante. «Se solo provate a fare loro del male, lui vi fa saltare le cervella, prima a lei e poi a te». Sfinita, ma decisa a resistere, Claire tenne la pistola puntata contro Sara
e Jared. Guff si voltò verso l'agente. «Crede di potercela fare?». «Posso stenderli come e quando voglio», rispose il poliziotto. «Vi ho detto che non sto scherzando: non cercate di fare i furbi con me», disse Rafferty. «Vi do tre secondi per decidere. Uno...». Nessuno si mosse. «Due...». Nulla di fatto. «Tr...». «LA PISTOLA DI CLAIRE È SCARICA!», urlò Sara. «Cosa?», fece Claire. «È scarica. L'ho svuotata io prima di venire qui». «Sta bluffando», disse Rafferty. «No», insistette Sara. «Non mi avrebbero mai fatto uscire con una pistola carica». Claire guardò la pistola che teneva in pugno. Le tremavano le mani. «Dài, Claire, sparami!», disse Sara. «Tanto è scarica!». «Non crederle, Claire!», disse Rafferty. «È una bugiarda!». Claire, però, scoppiando in lacrime, abbassò l'arma. Guff sorrise all'indirizzo di Rafferty. «Che cosa dicevi del fatto che avevate due pistole contro una?». Sara era sotto il tiro di Rafferty, che era preso di mira dall'agente. «Io in galera non ci vado», disse Rafferty. «Sì, invece», disse Guff. «Puoi soltanto decidere se andarci su un'auto della polizia o su un'ambulanza». «Ti sbagli», insistette Rafferty. «Ingaggerò i migliori avvocati di New York». Sara sapeva che Rafferty aveva ragione. Avrebbe assoldato i migliori avvocati sulla piazza, e con la confusione creata dai guanti con le impronte digitali false, non sarebbe stato facile incastrarlo. Sara guardò Jared, che continuava a sanguinare, rannicchiato a terra. "No", disse tra sé, "non posso permettere che la passi liscia". «Potrai rivolgerti a tutti gli avvocati che vorrai», disse Guff. «Per ora, non devi far altro che consegnare la pistola. Servirà quantomeno a non aggravare la tua situazione». Rendendosi conto che Rafferty lo stava ascoltando, aggiunse: «Lo sai anche tu che ho ragione. È l'unica cosa saggia da fare». «È un caso molto complesso», disse Rafferty, togliendo il dito dal gril-
letto. «Con il collegio di difesa giusto, mi salverò. Pagherò una cauzione e...». «Credi che ti permetteranno di uscire su cauzione?», disse Sara, indignata. «Nessun giudice si sognerebbe mai di lasciarti libero. L'omicidio a sangue freddo di Conrad...». «Non sono stato io!», gridò Rafferty, tornando a puntare la pistola contro di lei. «Per non parlare di quello che hai fatto a Elliott e a Kozlow, e anche a Arnold». «Sta solo cercando di provocarti», disse Guff. «Non lo stare a sentire, Rafferty», disse Sara, tenendolo a tiro. Il respiro di Jared era sempre più affannoso. Non le restava molto tempo. «Ti sbatteranno dentro e butteranno via la chiave». «Oh, certo», disse Rafferty. «Tu speri che io mi arrabbi e ti spari, in modo che il nostro agente, qui, mi piazzi una pallottola nel cranio, vero?». Scosse la testa. «No, io uscirò di qui con le mie gambe, farò la telefonata che mi spetta di diritto e stanotte dormirò tranquillo nel mio letto». «Puoi scordartelo», replicò Sara, alzando la voce. Jared, intanto, si era messo a tremare. «Non uscirai più di galera!». «Sara, smettila!», gridò Guff. «È un caso da pena di morte!», rincarò Sara. «Ti daranno la pena di morte!». «Addio, Sara!», disse Rafferty, abbassando la pistola. «È stato un piacere fare la tua conoscenza». Avvicinandosi al bordo della banchina, per risalirvi, Rafferty protese il braccio verso l'agente, facendo segno di volergli consegnare l'arma. L'agente si chinò per prenderla in consegna, ma a tradimento Rafferty premette il grilletto e gli bucò lo stomaco. Quindi, puntò contro Sara. Con un movimento agile e coordinato, Sara puntò a sua volta e fece fuoco. Tre proiettili, in rapida successione, colpirono Rafferty: due al petto e uno alla spalla. Mentre lui arretrava, sul punto di cadere, Sara sparò ancora, e poi ancora, e ancora. Quando tornò a premere, ripetutamente, il grilletto, capì che l'arma era ormai scarica. Rafferty annaspò per qualche secondo ancora; quindi, inciampando nei binari, perse definitivamente l'equilibrio e rovinò a terra. Solo a quel punto Sara riprese fiato. Le minacce, la paura, i ricatti e le violenze: era tutto finito. Un flebile gemito di Jared la riscosse. Sara posò la pistola e gli prese la testa tra le mani, «UN'AMBULANZA, PRESTO!», gridò. «CHIAMATE
UN'AMBULANZA!». Jared riprese lentamente i sensi e aprì gli occhi. «Abbiamo vinto?», domandò, con un filo di voce. Gli occhi di Sara si riempirono di lacrime. «Sei il solito...». «Dimmelo». Le venne in mente Conrad. «Sì», singhiozzò. «Abbiamo vinto». «Fantastico», sussurrò Jared. «Come ti senti?», gli domandò Sara. «Non so. Non riesco più a sentire le gambe». CAPITOLO VENTUNO «Il procuratore distrettuale la sta aspettando, signorina Tate», disse la segretaria di Monaghan. Sara si avviò cupa verso la porta dell'ufficio. Monaghan era seduto alla sua scrivania con i palmi delle mani posati davanti a sé e un'espressione torva in volto. «Si sieda», disse. «Verrò subito al punto. Il suo comportamento di ieri è stato il più dannoso, presuntuoso e stupido abuso di potere che io abbia mai visto nei miei diciassette anni di esperienza in procura». «Posso spiegare». «"Spiegare"?», riprese Monaghan. «Lei ha mandato a morire uno dei miei uomini! Conrad è morto!». «Signore, io non volevo...». «Non ha alcuna importanza quello che lei voleva. Non mi interessa sapere quali fossero le sue intenzioni. L'unica cosa che conta è che lui è morto. Non solo: è morto stupidamente, perché una neofita presuntuosa voleva mettersi in mostra». «Ma le circostanze...». «Non mi venga a parlare delle circostanze! So che lei e suo marito eravate in pericolo, ma se avesse avuto l'accortezza di segnalarmi il suo problema per tempo, avremmo forse trovato una soluzione. Ora, invece, sono alle prese con tutti i giornalisti della città, che continuano a chiedermi come mai io non sapessi nulla di quello che stava succedendo nel mio maledetto ufficio. Si rende conto di quale danno sia per me tutta questa faccenda? Ma no, certo!, lei non ha avuto tempo di pensarci. Era troppo occupata a pensare a se stessa, e se ne è fregata della procura, del procuratore e anche del suo amico Conrad, per il quale, evidentemente, non provava un
grande affetto». Sara balzò in piedi e percosse la scrivania di Monaghan con entrambi i pugni: «Non si permetta! Conrad era mio amico! Quando lei era pronto a cacciarmi in strada a calci in culo, lui mi ha aiutato senza chiedere nulla in cambio; nel bene e nel male mi ha concesso la sua fiducia, fino a dare la vita. Ora, lei può ritenermi una stupida, inesperta e incompetente pivellina, ma non si permetta di dire un'altra volta che non mi importava di lui! È per lui che sono ancora in questo ufficio». «Be', allora ascolti il mio consiglio: valuti l'opportunità di rassegnare le dimissioni». «Mi creda: ci ho pensato tutta la notte. Andarmene sarebbe la cosa più facile, per me; sarei felice di raccattare le mie cose e filar via, lavandomi le mani di tutta questa faccenda. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore: in questo momento potrei abbandonare la mia professione senza batter ciglio. Il fatto è che io non posso andarmene: sarebbe come fare un torto a Conrad, e lui non lo merita. Certo, non passerà giorno che io, entrando nel mio ufficio, non sentirò il rimorso per quello che è successo; dovrò quotidianamente convivere con questo ricordo, per tutta la vita, ma so già che ne varrà la pena, perché qualcuno deve assolutamente raccogliere l'eredità di Conrad». Monaghan si appoggiò allo schienale della sua poltrona e incrociò le braccia, consentendo a Sara di calmarsi. «Spero che questo sfogo le abbia fatto bene, perché ora tocca a lei ascoltarmi: in primo luogo, non me ne frega un cazzo delle sue lacrimevoli menate psicologiche. Qui non siamo al dipartimento di filosofia; questa è la procura distrettuale. E io sono il procuratore distrettuale! Mi sono spiegato? Non mi frega che lei si sia salvata o che abbia salvato suo marito o che abbia catturato i cattivi. Non mi frega neppure che le condizioni dei due agenti feriti si siano stabilizzate. E vuole sapere perché? Perché Conrad è morto! Punto e basta! Fine delle trasmissioni! E non c'è motivo migliore di questo per licenziarla in tronco!». «Mi licenzi pure, se vuole; io, però, non mi dimetto». «Porti via il culo da questo ufficio, procuratore Tate. Per un bel po' non voglio più vederla e non voglio sapere nulla di lei, se non che le troupe dei telegiornali locali se la sono divorata, insieme al sindaco». «Che cosa significa?». «Per sua fortuna, lo staff del sindaco ha deciso di cavalcare la notizia. Mi ha telefonato non appena si è saputo di quello che è successo: Sara Tate, procuratore distrettuale aggiunto, rischia la vita e infrange le regole per
salvare il marito avvocato. Non poteva sperare in un titolo migliore. Perciò vada all'ospedale e si eserciti a sorridere. Il sindaco sarà lì a mezzogiorno. A quanto pare, ritiene che i newyorkesi riserveranno molta attenzione alla vicenda». «Non farò mai pubblicità al sindaco accanto al letto di Jared». «Oh, sì, invece», replicò Monaghan. «E sa perché? Perché glielo dico io: io sono il capo e lei farà quello che le dico io». «Ma non è...». «La sua opinione non mi interessa, Tate! Io non ho intenzione di rischiare altre critiche a mezzo stampa. Lei andrà all'ospedale, farà il suo bravo sorriso e cercherà di ingraziarsi il sindaco, nella speranza che lui la salvi alla prossima ondata di licenziamenti. Altrimenti, io dovrò rivedere la lista delle persone suscettibili di essere tagliate, e in tal caso le assicuro che Guff, il suo assistente, rischierebbe di grosso». «Dica pure al sindaco che ci sarò». «Gliel'ho già detto». Monaghan si alzò in piedi e indicò la porta. «Benvenuta nel mondo della politica newyorchese», aggiunse. «E ora se ne vada». Davanti all'ufficio di Sara, un gruppetto di assistenti si era radunato intorno alla scrivania di Guff. «Se davvero lo ha fatto, è completamente pazza», disse un assistente con gli occhiali dalla montatura in corno. «Che senso ha incitare qualcuno affinché ti spari?» «Mi volete lasciare in pace?», implorò Guff, seccato. «Si dice che abbia fatto di tutto pur di impedire che Rafferty la sfangasse», riprese un altro assistente. «Che gli ha forzato la mano e al momento giusto lo ha fatto secco. Se fosse vero, sarebbe da manicomio». «A me risulta che quello fosse il suo piano sin dall'inizio», rincarò un terzo assistente con i capelli tagliati da marine. «Che tutta la storia fosse una trappola per ammazzare Rafferty». «Non è vero», disse Sara, facendosi largo tra gli assistenti. «È stata una decisione dell'ultimo minuto, dettata dall'emotività. Credevo che mio marito stesse per morire e ho cercato la vendetta immediata». Colto di sorpresa il piccolo crocchio non si mosse. Sara guardò Guff e poi, di nuovo, il gruppetto di assistenti. «Ora, sparite. Lasciatelo in pace». L'assembramento si disperse, e Guff seguì Sara in ufficio. Quando la vide mettere in borsa le sue cose, le domandò: «Ti hanno licenziata?».
«Eh, no», rispose lei. «Mi hanno relegata in un girone infernale ben peggiore: dovrò farmi fotografare, tutta sorridente, con il sindaco». «Scherzi?». «Neanche un po'. Monaghan voleva sbranarmi per Conrad e per lo spreco di risorse, ma a quanto pare il sindaco apprezza il potenziale pubblicitario di tutta questa faccenda. Comunque, è Jared, soprattutto, che vogliono nella foto: il sindaco aveva proprio bisogno di un buon letto d'ospedale da visitare». «E Jared come sta?». «Fisicamente, il peggio dovrebbe essere passato. La pallottola gli ha bucato un polmone, ma la spina dorsale è illesa. Ha avuto una paralisi temporanea delle gambe, ma i dottori la attribuiscono allo shock del ferimento alla schiena. Sul piano psicologico, il discorso è tutto diverso». «Ha deciso che cosa fare con il suo studio legale?». «Non c'è niente da decidere. Thomas Wayne l'ha chiamato di persona per chiedergli di dimettersi. Quel bastardo non ha neppure aspettato che uscisse dall'ospedale». «Non capisco perché debba dimettersi. Non potrebbe semplicemente...?». «Guff, per salvarci, Jared mi ha rivelato cose coperte dal segreto professionale. E i suoi due clienti sono stati entrambi uccisi. Se la procura distrettuale può godersi il successo d'immagine, per Wayne & Portnoy le cose non potevano andare peggio di così: ora i clienti dello studio potranno legittimamente nutrire qualche dubbio sulla sicureza dei loro segreti». «E Jared come l'ha presa?». «È troppo presto per dirlo. Appena l'ha saputo, era distrutto, ma credo che ora si stia rendendo conto che non poteva andare altrimenti. E poi, un posto di lavoro che non ti concede neppure una settimana per riprenderti, non è certo il posto ideale dove lavorare per tutta la vita». «Questo lo dici tu o lo dice lui?». «L'anno scorso lo dicevo io; ora tocca a lui. Ma credo che ne sia convinto». «Bene», disse Guff, amaramente. «A una cosa, almeno, è servita, tutta questa faccenda». Sara, fino a quel momento, aveva evitato la questione, ma Guff gli offriva l'opportunità di affrontarla. «Guff...». «Non avremmo dovuto farlo, Sara. Il gioco era troppo più grande di noi».
«Ne sei proprio convinto? Credi davvero che non sapessimo a cosa andavamo incontro?». «Ma Conrad...». «Conrad lo sapeva meglio di chiunque altro. Ti ricordi cosa diceva?». «Certo che me lo ricordo... e visto com'è andata a finire, non potrò più dimenticarmene. Quando noi abbiamo proposto di mandare un poliziotto, lui ha insistito perché facessimo tutto da soli, perché solo così avremmo avuto la certezza del segreto. Il fatto è che...» «È tutto inutile», disse Sara. «È tutto inutile», ripeté Guff. Sara aveva colto nel segno. Come anche Conrad sapeva fare. «Scusami, Sara. Non intendevo scaricare su di te il fardello della colpa». «Oh, non ti preoccupare... Il fardello non è nulla. E poi, me lo merito. Tu, invece, non devi assolutamente...». «Non temere. Supererò anche questa. Abbiamo troppe cose da fare: reati da perseguire, giornalisti con cui parlare, relazioni da scrivere...». «Relazioni?». «Certo, se voglio iscrivermi alla law school, qualcuno dovrà pur aiutarmi». Sara sorrise. «Davvero hai intenzione di iscriverti alla law school?». «Ti sembra la faccia di uno capace di mentire?», domandò Guff, pizzicandosi le guance. «Era mia intenzione sin dall'inizio. Quello che è successo ha solo accelerato i tempi». «Ne sono felice, Guff. E credo che anche a Conrad avrebbe fatto piacere». «Puoi scommetterci. Avrebbe avuto un altro discepolo a cui fare il lavaggio del cervello» Sara rise. Avrebbero certamente superato quel brutto momento. «A proposito di discepoli, nella fretta di andarmene di lì, ieri, non ho fatto in tempo a ringraziarti. Senza di te...». «Non ti saresti impadronita del caso? Non avresti passato tutti questi guai? Non avresti avuto un divano o uno stupendo distintivo da procuratore distrettuale?». «Sto parlando seriamente, Alexander». «Oh-oh, allarme nome! allarme nome! Discorso serio in arrivo!». «Scherza pure. Io però apprezzo veramente tutto quello che hai fatto. Non sei stato tu a indurmi a prendere il caso; sono stata io a impadronirmene per risolvere la mia situazione. E siccome né tu né io sapevamo che
Victor aveva organizzato tutto perché io lo prendessi, tu non hai alcuna responsabilità» «È carino da parte tua, ma non...». «Aspetta, fammi finire», disse Sara. «Ti prometto che non dirò nulla di sdolcinato o sentimentale. Dal momento in cui ho messo piede qui dentro, tu sei stato mio amico fidato. Ed essendo una persona che non entra spesso in confidenza con le persone, questo per me vuol dire molto. Anche quando le cose si sono messe male, tu mi hai sempre aiutato e hai sempre...». «Per fortuna che non dovevi dir nulla di sdolcinato!», esclamò Guff. «Insomma, beccati i miei ringraziamenti e facciamola finita». «Okay, d'accordo. Spero soltanto che la nostra prossima avventura sia un po' più banale. Che so? Un suicidio in massa di una setta religiosa o qualcosa di altrettanto rilassante». «Magari! Troppa grazia!». «A proposito di grazia», disse Guff. «Adam Flam vuole vederti». «E chi è Adam Flam?». «Il presidente della commissione disciplinare. Si è appena conclusa la riunione per decidere sul caso di Victor». «Ah, sì? E che cosa hanno deciso?». «Te lo dirà lui». «Dài, Guff, sputa il rospo». «Da me non saprai nulla. Se vuoi scoprirlo, parlane con Adam Flam, ufficio 762». «Okay», disse Sara. «Spero per te che non si tratti di brutte notizie». «Che cosa significa che non intendete incriminarlo?», domandò Sara, in piedi davanti alla scrivania di Adam Flam. «Esattamente quello che ho detto», replicò tranquillo Flam. Era un uomo massiccio, con gli occhi stanchi e un forte accento di Boston. «La commissione ha stabilito che non c'erano elementi a sufficienza per procedere all'incriminazione». «Se non c'erano elementi a sufficienza, perché allora l'avete sospeso pro tempore? Victor aveva lo zampino in questa storia sin dall'inizio. È stato lui a chiedere di indirizzargli il caso e, poi, a fare in modo che io me ne impadronissi». «Richiedere un caso non è illegale e neppure mettere il proprio nome su una cartelletta, mi pare». «E Claire Doniger? Lei può testimoniare che...»
«Claire Doniger non sa nulla. L'abbiamo interrogata fino alle tre di mattina, e non siamo riusciti a cavarle nulla di interessante. Quali che fossero le questioni in cui Victor era coinvolto, i suoi referenti erano soltanto Rafferty e Kozlow, e loro, come cadaveri, difficilmente testimonieranno contro di lui. È solo una questione di prove: se non ce ne sono, la commissione non può rischiare di perdere la faccia con un'incriminazione campata per aria». «"Perdere la faccia"? Che c'entra?». «C'entra, eccome!», rispose Flam. «Victor è uno dei più stimati procuratori, è un'istituzione qui in procura. Prima di metterlo alla gogna, quindi, è meglio avere prove incontrovertibili. Altrimenti, si scatenerà un putiferio, e un mucchio di gente chiederà la testa di chi ha osato infangare il suo nome». «Victor, insomma, non verrà incriminato solo perché gode di una certa popolarità?». «No. Victor non verrà incriminato perché non ci sono prove contro di lui». «Ma io ho le prove». «Procuratore Tate, lei non ha neppure l'ombra di una prova. E finché non saprà dimostrarmi il contrario, l'istanza morale dovrà inchinarsi al realismo. Si accontenti del fatto che la scelta di non incriminarlo ha prevalso per un solo voto di scarto». «Non è giusto». «Neppure quello che è capitato a Conrad è giusto». Sara non accettò la provocazione. Era una cosa a cui avrebbe dovuto fare l'abitudine. «C'è nient'altro?». «Abbiamo deciso di non procedere alla sospensione nei suoi confronti, procuratore Tate, per il suo tentativo di indurre Rafferty a spararle. E, mi creda, si tratta di un vero regalo: se lei non l'avesse provocato, forse quel poliziotto non sarebbe stato ferito». «Non dico che sia stata una mossa razionale, ma non potevo permettergli di approfittare ancora una volta della giustizia». «E della pistola di Claire Doniger che cosa mi dice?». «In che senso?», domandò Sara «Sono passato al deposito corpi del reato. Quella pistola era carica: c'erano sei pallottole». «E con questo?». «Be', non doveva essere scarica?».
«Che vuole che le dica? Alcuni bluff riescono, altri no. Dovreste essere contenti che non sia morto nessun altro». «No, è lei che dev'essere contenta: è un miracolo che la commissione abbia deciso di non farle scontare la morte di Conrad», disse Flam. «Sappia che Conrad era anche amico nostro». Sara capì che non sarebbe stata sola, se anche Guff si fosse iscritto alla law school. «Grazie», disse. «Non mi ringrazi. Stando a quel che si dice, lei diventerà un ottimo procuratore». «È quello che spero», disse Sara. Quando ebbe terminato con Flam, Sara risalì il corridoio fino all'ufficio di Conrad. Erano passate meno di ventiquattr'ore dall'ultima volta che vi era stata, ma rientrandoci provò una sensazione già diversa. Il divano era al suo posto, le vaschette sulla scrivania erano ancora piene di documenti appena ricevuti o pronti per essere smistati, ma c'era qualcosa di strano: sebbene tutto sembrasse in ordine, quella stanza pareva vuota. Sara chiuse gli occhi. Inspirando l'odore di quell'ufficio, cercò di evocare la figura di Conrad. Fu semplice, più facile di quanto avesse creduto, ma sapeva che anche quell'immagine era destinata a svanire. In questo caso, per giunta, non aveva neppure una vecchia fotografia su cui basarsi, come per Lenny Barrow. Per questo, aveva deciso di fotografare in qualche modo il suo ricordo. Si sedette sul divano e aprì la borsa. Ne estrasse il ritratto di Conrad eseguito di suo pugno - simile a quelli che aveva fatto a Jared - lo osservò intenta e, per un attimo, le parve che Conrad fosse lì, ebbe l'impressione di sentirlo sbraitare e imperversare, insegnare e consigliare. Ci aveva messo l'intera nottata per ottenere il risultato che Conrad meritava. Lo appoggiò piano sulla sua scrivania immacolata. Un giorno l'avrebbe incorniciato, ma per il momento quello era il suo posto. «Addio», sussurrò, uscendo. Richiusa la porta, si voltò e lesse le due citazioni ancora affisse sul vetro traslucido: "Crimine ab uno disce omnes» (Virgilio)"; e "La fama va conquistata; l'onore non va mai perduto" (Arthur Schopenhauer)". Le staccò con cautela, facendo attenzione a non strappare lo scotch che le teneva attaccate, e si avviò per il corridoio, diretta al proprio ufficio. Quando lo ebbe raggiunto, attaccò con cura le citazioni alla porta. Arretrò di alcuni passi e ammirò l'effetto. Non era certo sufficiente, ma era un piccolo inizio.
«Non avrebbe sperato di meglio», disse Guff. «Qualcuno doveva pur farlo», disse Sara. A sorpresa, Sara non entrò in ufficio, bensì girò i tacchi e si allontanò. «Dove vai?», le domandò Guff. «In ospedale, ma prima voglio parlare con una persona». Quando l'ascensore arrivò al sedicesimo piano, Sara uscì nel corridoio ben illuminato e restò colpita dal lussuoso tappeto e dai sontuosi arredi. Nessun impiegato pubblico, per quanto di livello elevato, poteva permettersi con il solo salario un tale sfarzo. Giunta alla porta dell'appartamento 1604, coprì lo spioncino con un dito e suonò il campanello. «Chi è?», domandò una voce maschile. «Sono Sara Tate». La porta si aprì, e Victor accolse Sara con il più viscido dei sorrisi. «Che piacere vederla, procuratore Tate. A che cosa debbo l'onore?». «Apri bene le orecchie», disse Sara. «So che mi hai fregata di proposito, ma stai pur certo che, dovessi anche aspettare tutta la vita, prima o poi riuscirò a dimostrarlo». «Dimostrare che cosa?», domandò Victor. Sara lo ignorò e proseguì. «I membri della commissione avranno anche votato per il tuo proscioglimento, ma c'è tempo e modo per far loro cambiare idea. A quel punto la tua attuale sospensione sembrerà...». «Io non sono stato sospeso; mi sono semplicemente preso un periodo di congedo. E se stai cercando di minacciarmi, sappi che non ci metto niente a denunciarti per molestie. Adesso, siccome sei riuscita a salvare il culo, credi di essere la super-eroina dei procuratori distrettuali; invece, hai ancora molto da imparare. E, comunque, tieni presente che non ho paura di una matricola come te». «Continua così, Victor», lo avvertì Sara. «Ti seppellirò con tutta la tua spocchia. La verità è evidente: neppure il migliore dei procuratori aggiunti può permettersi una casa di lusso come questa nello Upper East Side, senza un piccolo introito extra-salariale». «Sara, voglio regalarti una piccola pillola di saggezza: c'è una leggera differenza tra la verità e i fatti. I fatti sono oggettivamente reali, e la verità deve conformarsi a essi. Di conseguenza, se non riesci a trovare dei fatti su cui basarti, non potrai mai giungere alla verità. Mi sono spiegato?». «Il delitto perfetto non esiste, Victor. Se anche questa volta non riuscirò a prenderti in castagna, potrò farlo un'altra volta. In ogni caso, io non mi
arrendo. Puoi dire e fare quello che vuoi, o rifugiarti nella tua filosofia voodoo; io, però, non ti mollerò mai. Sono fatta così». Sara si voltò e se ne andò, aggiungendo: «Goditi il resto della giornata, stronzo, perché da domani non ti darò tregua». Prima di entrare nella stanza di Jared, Sara si fermò nella sala infermiere e domandò: «Come sta?». «Benissimo», rispose un'infermiera piccolina e occhialuta. «Con un po' di amore e un programma di riabilitazione fisica, tornerà in piedi nel giro di qualche settimana. Sembra rinascere quando gli si dedica un po' d'attenzione». «Ha piagnucolato sulla sua spalla, vero? È insopportabile quando sta male». «Tutti gli uomini sono dei bambini piagnucolosi», disse l'infermiera. «Non è stato così tremendo, però. Probabilmente, ha tenuto in serbo i piagnucolii migliori per lei». «Ah, di sicuro», disse Sara, avviandosi verso la stanza del marito. Quando aprì la porta, vide che Jared era seduto a letto. Aveva il braccio sinistro appeso al collo, mentre al braccio destro era attaccata una flebo, ma il viso aveva ripreso colore. Sebbene gli avessero consigliato di riposarsi, Jared era intento a scrivere qualcosa su un blocco per appunti. Non appena si accorse di Sara, smise di scrivere. «Come stai?», gli domandò lei. «Sto meglio, adesso». «E la tua schiena?». «Oh, non preoccuparti della mia schiena», rispose Jared. «Tu, piuttosto, come stai?». «Ci vorrà tempo per accettare la perdita di Conrad, ma ce la farò», disse Sara. «Vedrai, ce la farò». Sara notò l'espressione di Jared, tra il sofferente e il corrucciato. L'argomento era ancora delicato, per lui, e sebbene Sara si sforzasse di mantenere un tono neutro, nell'affrontarlo, non sopportava di vedere suo marito soffrire ancora. Fu sopraffatta dall'emozione. Benché stringesse i denti, la sentiva montare come un'onda, dentro di sé. Non per Conrad: per Jared. «Mi dispiace davvero per lui...». «Io, però, ho sempre amato solo te», disse Sara, asciugandosi le lacrime che avevano cominciato a rigarle le guance. Jared si sporse verso di lei, tendendo al massimo il tubo della flebo, e
abbracciò la moglie. Stringendola a sé, capì che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non rischiare mai più di perderla. «Sara, io...». «Lo so», disse Sara, stringendolo a sua volta. «L'ho sempre saputo». Accanto al marito, Sara piano piano si ricompose. Sciogliendosi dall'abbraccio, notò l'enorme vaso di sottaceti kosher in agrodolce posato sul comodino. «A quanto vedo hai appena ricevuto il bouquet di Pop». «Sì, è appena arrivato». «Stavo per prenderti dei palloncini, ma non volevo che...». «Non mi importa dei palloncini. Ho tutto ciò di cui ho bisogno», disse Jared. E prima che Sara potesse dire alcunché, aggiunse: «Nel caso ti fosse rimasto qualche dubbio, ti assicuro che io non ho detto niente a...». «Non ce ne sono di dubbi: stamattina hanno scoperto la derivazione del cavo del monitor. È così che Elliott è venuto a sapere del nostro piano». «Allora, sei pronta per tornare a riporre in me la tua fiducia?». «Amore, la risposta la conosci già», disse Sara. «Mi dispiace soltanto di essermi fatta prendere dal panico alla fine». «Se c'è qualcuno che deve scusarsi, quello sono io. Se avessi avuto fiducia in te come tu hai avuto fiducia in me, non avrei mai chiamato Victor all'inizio. E se non l'avessi chiamato...». «Lasciamo perdere», lo interruppe Sara. «Non ho più voglia di giocare al gioco dei "se". L'importante è che tu sia salvo e noi siamo insieme; il resto passerà. Ora dimmi che altro è successo». «Non molto, a dire il vero», disse Jared, guardando il suo blocco per appunti. «Sto cercando di capire cosa fare, una volta uscito di qui». «Su un blocco per appunti? Non ce la farai mai. Quel genere di supporto inibisce il pensiero creativo». «Non mi sto dedicando al pensiero creativo. Sto soltanto facendo una lista delle persone che ci devono un favore, nella speranza che qualcuno mi trovi un lavoro». Tornò a guardare il blocco e rilesse la lista di nomi. «Merda», disse, sconsolato, mettendo da parte il blocco. «Speravo proprio di non dover più ripetere quest'esperienza». Sara si sedette sul bordo del letto e gli prese la mano. «Ce la faremo». «È come stare costantemente sulle montagne russe: prima su, poi giù; prima siamo felici, un attimo dopo siamo tristi; appena trovi un lavoro, rischi di essere licenziata; io mi procuro finalmente un cliente, ma subito si scopre che è un pazzo pericoloso; tu gli spari, e io vengo licenziato». Sara scoppiò a ridere. «Se non altro, non hai perso il senso dell'umorismo».
«Dovrei cercare lavoro come cabarettista». «So bene come ti senti. Ma dopo tutto quello che abbiamo passato, mi sono convinta di una cosa: tutto risponde a un grande piano. Se io non fossi stata licenziata, non sarei mai diventata procuratore, che è l'esperienza professionale più importante della mia vita. Se non sei diventato socio di uno studio legale, significa che non era questo il tuo destino». «Se non ci fossi tu, accanto a me, allora sì che sarei nei guai seri. Hai ragione: non mi va che qualcuno decida per me». «Non deve più succedere: tutte le decisioni a venire saranno solo nostre. E poi, quando avrai fatto le tue belle fotografie con il sindaco, il tuo telefono comincerà a squillare senza sosta» «Cosa? Verrà qui il sindaco?», domandò Jared, rialzandosi a sedere come una molla. «Ehi, che eccitazione!», esclamò Sara. «Dovrai fare il cane da salotto del gran capo in persona». «A che ora arriva?», domandò Jared, lisciando il risvolto delle lenzuola e le coperte. Riprese in mano il suo blocco per appunti e sorrise. «Questa è davvero un'ottima opportunità per volgere la situazione a mio favore». Sara scosse la testa. «Ti consiglio di volare basso con l'opportunismo e di interpretare, piuttosto, la parte dell'eroe coraggioso e ferito. È molto più accattivante». Senza rispondere, Jared voltò pagina. «Secondo te, il sindaco non potrebbe mettere una buona parola?». «Non ci posso credere!», disse Sara. «Perché vuoi proprio tornare a sprecare la tua vita in uno studio legale? A parte l'aspetto del prestigio, lavorare da Wayne & Portnoy era orribile, e tu lo sai: non smettevi mai di sgobbare, il tuo lavoro non era apprezzato nella giusta misura e odiavi i tuoi capi. L'unica ragione per cui continuavi a lavorarci era il denaro che sarebbe arrivato con la promozione a socio che ti hanno sempre promesso e mai concesso». «Ma io non sto pensando a uno studio legale». Sara si bloccò, sorpresa. «Ah, no?». «No». «E allora a che cosa pensi?», domandò lei, sollevando un sopracciglio. «Be', se il sindaco potesse mettere una buona parola, pensavo di cercarmi un posto da procuratore aggiunto». Prima, sul volto, le si dipinse un sorriso scettico, ma poi Sara scoppiò a ridere. «Che viscido figlio di puttana!», disse. «Era a questo che mirava
tutta quella triste messinscena di prima, vero? Cercavi di attirare la mia compassione per poi poter buttare lì la tua fantastica idea, eh?». «Che cosa dici?», ribatté Jared, con un sorriso. «Visto? Lo sapevo! Non la smetti mai, eh? Sempre pronto a competere». «Chi? Io? Ti sbagli. Tu hai un lavoro che ti soddisfa? Be', lo voglio anch'io. In una famiglia possono ben esserci due pubblici ministeri!». «Sì, ma non nella nostra». «E perché mai?», domandò Jared. «Sei gelosa?». «Certo che no». «E allora perché? Hai paura? L'idea ti rende nervosa? Temi che possa rubarti il tuono e il fulmine?». «Senti, ragazzino, non potresti rubarmi il fulmine neanche se ti mettessi a ciucciare un parafulmine, a mollo in una piscina per bambini». «Ti rendi conto di quante implicazioni freudiane sei riuscita ad accumulare in sola frase?». «Non tentare di cambiare discorso. Non riuscirai mai più a imbrogliarmi come facevi una volta», disse Sara, afferrando la pulsantiera che regolava la posizione del letto di Jared. «Se non sarai più che carino con me, ti piego in due dentro 'sto letto, prima che tu possa anche solo fiatare». «Credi di farmi paura?». Sara premette un bottone sulla pulsantiera, e il letto cominciò ad assumere una forma a V sempre più stretta. «Okay, d'accordo. Sarò carino. Ritiro tutto, a parte il fatto che io posso benissimo diventare procuratore aggiunto come te». «Non ho mai detto che non puoi. Anzi, se proprio vuoi lanciarti in questa carriera, io non ti intralcerò». Jared guardò Sara con sospetto. «Dici davvero?». «Ho già quello che voglio. Lo abbiamo entrambi». «Vuoi dire che mi amerai anche se diventerò procuratore?», domandò Jared. «Ma sì!». «E mi amerai anche se dovessi tornare a lavorare in uno studio legale?». «Sì, sì». «Quindi, comunque vada, la mia vittoria è certa». «Non si tratta di vincere o di perdere». «Lo so! Scherzavo...». Sara si chinò su di lui e gli diede un bacio sulla fronte. «Jared, con tutto quello che è successo, non ci siamo mai lasciati». Posandogli una mano
dietro il collo, lo guardò negli occhi. Fu allora che rivide suo marito. Così come lo aveva e lo avrebbe sempre visto. «Per nostra fortuna», aggiunse Sara, «ci sono cose che durano nel tempo». In quel momento, bussarono piano alla porta. Un uomo in doppiopetto nero fece capolino e disse: «Signor Lynch? Sono Richard Rubin, collaboratore del sindaco. Posso entrare?». «Ma certo!», rispose Jared, lisciandosi i capelli. Con un vaso sotto il braccio, Rubin si avvicinò spedito al comodino di Jared. Nascose i sottaceti sotto il letto e imbucò l'orologio di Jared nel cassetto, gettò nella spazzatura le cartacce appallottolate che c'erano in giro e posò, finalmente, il vaso sul comodino. A quel punto disse: «Il sindaco porterà dei fiori». Si diresse alla finestra e sollevò la tapparella, facendo entrare un'abbagliante ondata di luce. «È giù nell'atrio con le troupe di giornalisti; la prima foto sarà di lui che entra in questa stanza». «Oh, che spontaneità!», esclamò Sara. Rubin non batté ciglio. Tornò accanto al letto di Jared e rimboccò accuratamente coperte e lenzuola sotto il materasso. Quando ebbe finito, arretrò di alcuni passi e rimirò la scena. Quindi, si rivolse a Sara e a Jared. «Siete pronti?». Jared guardò Sara e sorrise. «Come ti sembro?». «Scapigliato e non rasato, ma fai tenerezza. E io?». «Sfatta e con le borse sotto gli occhi... Hai un'aria da attricetta spossata». «Perfetto», disse Sara. Prese la mano del marito e fece un cenno a Rubin. «Lo faccia entrare. Siamo pronti». FINE