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JAMES PATTERSON RICORDA MAGGIE ROSE (Along Came A Spider, 1992) PROLOGO FACCIAMO FINTA CHE (1932) New Jersey, vicino a Princeton, marzo 1932 La fattoria di Charles Lindbergh era illuminata da vivaci luci arancione. Sembrava un castello in fiamme, specialmente in quella cupa regione del New Jersey coperta d'abeti. Lembi di nebbiolina sfioravano il ragazzo mentre si avvicinava sempre più al suo primo momento di vera gloria, il suo primo delitto. Era buio pesto e il terreno era fradicio, fangoso e pieno di pozzanghere. Aveva previsto tutto quanto, compreso il tempo. Indossava stivali da lavoro da adulto. L'alluce e il tallone erano imbottiti con pezzi di stoffa e strisce del Philadelphia Inquirer. Voleva lasciare impronte, molte impronte. Impronte da uomo. Non le impronte di un ragazzo di dodici anni. Sarebbero andate dalla strada provinciale, che collegava Stoutsburg a Wertsville, sino alla fattoria e ritorno. Quando raggiunse un boschetto di pini, a meno di trenta metri dalla casa, cominciò a rabbrividire. L'edificio signorile era grande quanto si era immaginato: sette camere da letto e quattro bagni solo al secondo piano. La casa di campagna di Lindy il Fortunato e Anne Morrow. Cavoli, pensò. Il ragazzo si avvicinò a poco a poco alla finestra della sala da pranzo. Era affascinato dalla fama. Ci pensava moltissimo, quasi sempre. Com'era veramente la fama? Che odore aveva? Che sapore aveva? Che aspetto aveva la fama vista da vicino? «L'uomo più affascinante e famoso del mondo» era proprio lì, seduto a tavola. Charles Lindbergh era alto, elegante, aveva favolosi capelli biondo oro e la pelle chiara. Lindy il Fortunato aveva davvero l'aria di chi è il migliore. E anche sua moglie, Anne Morrow Lindbergh, dava la stessa impressione. Anne portava i capelli corti, neri e ricciuti, che per contrasto facevano apparire la sua pelle bianca come la porcellana. La luce delle candele sul
tavolo da pranzo sembrava danzarle intorno. Sedevano entrambi ritti sulle sedie. Sì, avevano certamente un'aria superiore, quasi fossero doni speciali concessi da Dio al mondo. Tenevano la testa alta, e mangiavano il cibo con delicatezza. Allungò il collo per vedere che cosa c'era negli impeccabili piatti di porcellana. Sembravano costolette d'agnello. «Io diventerò più famoso di voi due poveri stronzi», bisbigliò infine il ragazzo. Era una promessa che faceva a se stesso. Aveva ripassato ogni singolo dettaglio almeno un migliaio di volte. Si mise metodicamente al lavoro. Recuperò una scala di legno abbandonata vicino al garage dagli operai. Tenendosi stretta al fianco la scala, si avvicinò a un punto appena oltre le finestre della libreria. Salì silenzioso fino alla camera del bambino. Il ritmo del suo polso era velocissimo, e il cuore batteva così forte che gli rimbombava negli orecchi. La luce di una lampada in corridoio illuminava la stanza. Riuscì a scorgere il lettino e il principino che vi sonnecchiava. Charles Junior, «il bambino più famoso del mondo». Accanto al letto, per ripararlo dalle correnti d'aria, c'era un paravento coloratissimo con disegni di animali. Si sentiva abile e astuto. «Sta arrivando la Volpe», bisbigliò mentre apriva silenziosamente la finestra. Salì un altro scalino e finalmente fu dentro la stanza. In piedi vicino al letto, guardava il principino. Aveva riccioli d'oro come il padre, ma era grasso. Charles Junior era già grasso a soli venti mesi. Il ragazzo non riuscì più a controllarsi. Calde lacrime gli scesero dagli occhi. Il corpo prese a tremare per la frustrazione e la rabbia. Eppure provava la più incredibile gioia della sua vita. «Bene, ometto di papà. Ora tocca a te», bisbigliò tra sé. Prese dalla tasca una pallina di gomma attaccata a un elastico. Fece scivolare rapidamente quello strano aggeggio sopra la testa di Charles Junior, proprio mentre i suoi occhietti azzurri si aprivano. Quando il bambino attaccò a piangere, il ragazzo fece cadere la pallina proprio dentro quella boccuccia bagnata di saliva. Si allungò verso il lettino, prese in braccio il piccolo Lindbergh e scese veloce per la scala. Tutto andava secondo i piani. Di nuovo attraversò di corsa i campi fangosi, col prezioso fagotto che si dibatteva nelle sue braccia, e scomparve nel buio. A meno di tre chilometri dalla fattoria, sotterrò il piccolo e viziatissimo
Lindbergh. Lo sotterrò vivo. Quello fu solo l'inizio di quanto doveva accadere. D'altronde lui stesso non era che un ragazzo. Lui, non Bruno Richard Hauptmann, era il rapitore del piccolo Lindbergh. Aveva fatto tutto da solo. Cavoli! PARTE PRIMA MAGGIE ROSE E GOLDBERG IL TAPPO (1992) 1 Quella mattina del 21 dicembre 1992 ero il ritratto della felicità. Mi trovavo nella veranda della nostra casa sulla 5 Street a Washington. Quel locale piccolo e angusto era ingombro di cappotti ammuffiti, stivali da lavoro e giocattoli rotti. Che importanza aveva? Era casa mia. Stavo suonando Gershwin sul nostro pianoforte, un tempo superbo, ora leggermente scordato. Erano appena passate le cinque e faceva un freddo da ghiacciaia. Ero disposto a qualche sacrificio per amore di Un americano a Parigi. Il telefono strillò dalla cucina. Magari avevo vinto la lotteria del Distretto di Columbia, o della Virginia, o del Maryland, e si erano dimenticati di chiamarmi la sera prima. Tento regolarmente la fortuna in tutte e tre queste lotterie. «Nana? Rispondi tu?» gridai dalla veranda. «È per te. Potresti anche rispondere tu», mi rispose gridando la mia stizzosa nonna. «Perché devo alzarmi anch'io?» Non è esattamente ciò che ci dicemmo, ma il senso era quello. Come sempre. Entrai zoppicando in cucina, cercando di non calpestare altri giocattoli con le gambe ancora irrigidite per l'ora mattutina. Avevo trentotto anni. Se avessi immaginato di raggiungere quest'età avrei avuto più cura di me stesso. La chiamata era del mio socio della omicidi, John Sampson; sapeva che sarei stato già in piedi: mi conosce meglio dei miei figli. «'giorno, cioccolatino. Sei alzato, vero?» mi salutò. Non erano necessarie ulteriori presentazioni. Sampson e io siamo amici da quando, a nove
anni, cominciammo a fare piccoli furti nel negozio di Park vicino ai cantieri. Allora non sapevamo che il vecchio Park era capace di spararci per il furto di un pacchetto di Chesterfield. Nana Mama ci avrebbe fatto di peggio se avesse saputo delle nostre attività criminose. «Se non ero alzato, adesso lo sono», risposi. «Dimmi qualcosa di bello.» «C'è stato un altro omicidio. Sembra che sia ancora il nostro ragazzo», m'informò. «Ci stanno aspettando. Ormai saranno già tutti là.» «È ancora troppo presto per vedere il furgone dell'obitorio», borbottai. Mi sembrava già di sentire le contrazioni del mio stomaco. Non era quello il modo in cui volevo iniziare la giornata. «Oh, merda. Cazzo.» Nana Mama sollevò gli occhi dal tè fumante e dalle uova in camicia. Mi lanciò uno dei suoi sguardi sprezzanti da padrona di casa. Era già pronta per andare a scuola, dove alla bella età di settantanove anni prestava servizio volontario. Sampson continuava a snocciolare dettagli cruenti sui primi omicidi della giornata. «Modera il linguaggio, Alex», disse Nana. «Modera il linguaggio se vuoi restare in questa casa.» «Sarò lì tra una decina di minuti», congedai Sampson. «Sono io il proprietario di questa casa», replicai a Nana. Lei gemette come se udisse quella terribile notizia per la prima volta. «C'è stato un altro omicidio a Langley Terrace. Sembrerebbe l'opera di un maniaco omicida. Temo che lo sia», la informai. «Che orrore», commentò Nana Mama. Puntò i suoi dolci occhi castani nei miei. I capelli bianchi ricordavano i centrini che lei metteva su tutte le seggiole del nostro soggiorno. «Questo orrore è solo una delle tante conseguenze di ciò che i politici han fatto a questa città! A volte penso che dovremmo andarcene da Washington, Alex.» «A volte penso la stessa cosa», dissi, «ma probabilmente resisteremo.» «Sì, i neri resistono sempre. Noi perseveriamo. Sopportiamo sempre in silenzio.» «Non sempre in silenzio», precisai. Avevo già deciso d'indossare la mia vecchia giacca di tweed. Era un giorno di omicidi, e questo significava che avrei visto dei bianchi. Sopra la giacca sportiva misi il mio piumino stile Georgetown. E più adatto al mio vicinato. Sul cassettone, vicino al letto, c'era la foto di Maria Cross. Tre anni prima, mia moglie era stata assassinata nel mezzo di una sparatoria. Il caso, come la maggior parte degli omicidi della zona sud-est della città, non era
mai stato risolto. Baciai mia nonna avviandomi verso la porta della cucina. Lo facciamo da quando avevo otto anni. Ci diciamo anche «addio», nel caso non dovessimo rivederci. Va avanti così da quasi trent'anni, da quando Nana Mama mi ha accolto e ha stabilito che avrebbe potuto cavare qualcosa di buono da me. Ne ha cavato un detective della omicidi, con un dottorato in psicologia, che lavora e vive nei ghetti di Washington, nel Distretto di Columbia. 2 Ufficialmente ricopro la carica di vicecomandante della squadra omicidi: una carica reboante, che non significa nulla. Tale titolo dovrebbe collocarmi alla sesta o settima posizione nel dipartimento di polizia di Washington. Non è così. Ma tutti si aspettano che mi faccia vedere sulla scena di tutti i delitti nel Distretto di Columbia. Un trio di auto biancazzurre della polizia metropolitana del Distretto di Columbia era parcheggiato disordinatamente davanti al numero civico 4115 di Benning Road. Era arrivato un furgone della scientifica coi finestrini oscurati, e un'ambulanza con allegramente scritto sulla portiera OBITORIO. Davanti alla casa del delitto si trovavano due camion dei pompieri. Intorno bighellonavano i soliti patiti degli incidenti, che non mancano in ogni vicinato: per lo più, guardoni di sesso maschile. Alcune donne anziane, con cappotti invernali sopra il pigiama o la camicia da notte e bigodini azzurri o rosa nei capelli, rabbrividivano per il freddo sui pianerottoli. La casa a schiera aveva un rivestimento cadente di assicelle verniciate in azzurro caraibico. Una vecchia Chevette con un finestrino rotto, riparato con nastro adesivo, sembrava abbandonata sul vialetto di accesso. «Al diavolo. Torniamocene a letto», sbottò Sampson. «Mi sono ricordato di quello che ci aspetta. Da un po' di tempo detesto questo lavoro.» «Io amo il mio lavoro, amo la omicidi», replicai sogghignando. «Ecco il reperto medico nel suo bel vestito di plastica. E ci sono i ragazzi della scientifica. E ora chi viene verso di noi?» Un sergente bianco, infagottato in un eskimo blu e nero con collo di pelliccia, avanzava dondolando verso me e Sampson, mentre noi ci avvicinavamo alla casa. Teneva le mani ficcate in tasca per scaldarsele. «Sampson? Uhm, detective Cross?» Il sergente fece schioccare la ma-
scella inferiore nel modo in cui certa gente in aereo compensa la pressione nei timpani. Sapeva esattamente chi eravamo. Sapeva che eravamo della squadra investigativa speciale. Ci stava scassando le palle. «Che c'è, amico?» A Sampson non garba molto essere preso per i fondelli. «Detective capo Sampson», risposi al sergente. «E io sono il vicecomandante Cross.» Il sergente era un irlandese dalla pancetta a salvagente. Il suo viso assomigliava a una torta nuziale rimasta a lungo sotto la pioggia. Non sembrò molto impressionato dalla mia giacca di tweed. «C'è che stanno gelando le palle a tutti quanti», ribatté sibilando. Io e Sampson siamo entrambi appassionati di culturismo e ci alleniamo nella palestra attigua alla chiesa di St. Anthony. Messi insieme raggiungiamo i duecentoventi chili. Siamo in grado di intimidire chiunque, se lo vogliamo, e a volte, nel nostro mestiere, bisogna farlo. Io sono alto uno e novanta, mentre John supera i due metri. Porta sempre gli occhiali da sole, e a volte ha in testa un berretto sdrucito o una fascia gialla. Qualcuno lo chiama John-John, perché è così grosso da poterne contenere due, di John. Superammo il sergente dirigendoci verso la casa del delitto. La nostra task force d'elite è al di sopra di questo genere di prove di forza. A volte. Due agenti erano già stati dentro la casa. Una vicina nervosa aveva telefonato al distretto verso le quattro e quaranta, perché pensava di aver individuato un ladruncolo. Era in piedi per via dell'insonnia. Sono cose che capitano in un quartiere. I due uomini di pattuglia avevano scoperto tre corpi nella casa e, quando avvisarono la centrale, fu ordinato loro di attendere la squadra investigativa speciale. La SIS è composta da otto agenti neri, evidentemente selezionati per fare carriera nel dipartimento. La porta esterna che dava accesso alla cucina era socchiusa. L'aprii completamente. Le porte di tutte le case producono un loro rumore particolare quando si aprono e si chiudono: quella gemeva come un vecchio. Nella casa c'era buio pesto. Atmosfera lugubre. Il vento venne risucchiato attraverso la porta aperta. Riuscii a sentire qualcosa che sferragliava all'interno. «Non abbiamo acceso le luci, signore», disse uno degli agenti dietro di me. «Lei è il dottor Cross, giusto?» Annuii. «La porta della cucina era aperta quando siete arrivati?» Mi ri-
volsi all'uomo di pattuglia. Era un bianco dal volto infantile, che cercava di compensare facendosi crescere dei baffetti. Probabilmente aveva ventitré o ventiquattro anni, e quella mattina era proprio spaventato. Non potevo dargli torto. «Uhm. No. Nessuna traccia di effrazione. Non era chiusa a chiave, signore.» L'agente era molto nervoso. «È veramente un macello là dentro, signore. Si tratta di una famiglia.» Uno degli agenti di pattuglia accese una potente torcia d'alluminio zigrinato e tutti noi buttammo l'occhio dentro la cucina. C'era un tavolo di formica per la colazione con sedie di plastica verde. Un orologio nero (col disegno di Bart Simpson) era appeso alla parete. Era del tipo che si vede in tutte le vetrine degli empori. Gli odori del Lysol e del grasso bruciato si fondevano producendo nel naso una sensazione strana, anche se non del tutto spiacevole. Di solito c'erano odori ben peggiori nei casi di omicidio. Io e Sampson esitammo, comportandoci esattamente come avrebbe potuto fare l'assassino poche ore prima. «Lui era proprio qui», dissi. «È entrato dalla cucina. Era qui dove siamo noi.» Per quanto spesso si facciano queste cose, è come se fosse sempre la prima volta. Non si vorrebbe mai entrare. Non si vorrebbero vedere altri incubi nella propria vita. «Sono di sopra», interloquì il poliziotto coi baffi. Ci comunicò chi erano le vittime. Una famiglia di nome Sanders: due donne e un bambino. Il suo collega, un nero basso e robusto, non aveva ancora spiccicato verbo. Si chiamava Butchie Dykes. Era un poliziotto giovane e sensibile, che avevo intravisto alla centrale. Entrammo in quattro nella casa della morte. Ognuno di noi trasse un profondo respiro. Sampson mi diede dei colpetti affettuosi sulla spalla. Sapeva che gli omicidi di bambini mi facevano un brutto effetto. I tre cadaveri erano al piano superiore, nella camera da letto di fronte alle scale. C'era la madre, Jean «Poo» Sanders, trentadue anni. Anche da morta, il suo volto era sempre notevole: grandi occhi castani, zigomi sporgenti, labbra carnose che avevano già preso un colore violaceo. La bocca era spalancata come per gridare. La figlia di Poo, Suzette Sanders, aveva quattordici anni. Era solo una
ragazzina, ma era ancor più carina della madre. Portava un nastro lilla tra i capelli acconciati a treccine e un piccolo brillante al naso per dimostrare più anni di quelli che aveva. Era stata imbavagliata con un collant blu. Il bambino, Mustaf Sanders, di tre anni, giaceva col viso rivolto verso l'alto, e le sue piccole guance sembravano rigate dalle lacrime. Indossava un pigiama a sacco come quelli dei miei figli. Proprio come aveva detto Nana Mama, questa era solo una delle tante conseguenze di ciò che i politici han fatto a questa città. In questo nostro brutto Paese. La madre e la figlia erano state legate a una colonna del letto in falso ottone con biancheria di satin, calze a rete rosse e nere, e lenzuola a disegni floreali. Estrassi il registratore tascabile che porto sempre con me e cominciai a dettare le mie prime osservazioni. «Casi di omicidio dal numero H234.914 al 916. Una madre, la figlia adolescente, un bambino. Le donne sono state squarciate con qualcosa di molto tagliente. Forse un rasoio. I loro seni sono stati recisi. Non sono visibili in giro. Il pelo pubico è stato rasato. Vi sono ferite multiple da coltello, che i patologi chiamano 'tipiche di comportamento furioso'. C'è una gran quantità di sangue e di materia fecale. Ritengo che le due donne, sia la madre sia la figlia, fossero prostitute. Le ho viste battere in giro.» La mia voce era un cupo borbottio. Mi chiesi se dopo sarei riuscito a capire tutte le parole. «Il corpo del bambino sembra essere stato buttato da parte. Mustaf Sanders indossa un pigiamino con un motivo di orsacchiotti. Sembra un mucchietto abbandonato lì per caso.» Non potei fare a meno di rattristarmi quando abbassai lo sguardo sul bambino. I suoi occhi mi fissavano tristi e senza vita. Sentivo un gran frastuono dentro la testa. «Non credo che lui volesse uccidere il bambino», dissi a Sampson. «Lui o lei che sia.» «La Belva», aggiunse Sampson scuotendo la testa. «Propendo per la Belva. Alex, è una belva. La stessa belva del delitto avvenuto al Condon Terrace questa settimana.» 3 Da quando aveva tre o quattro anni, Maggie Rose Dunne era sempre stata osservata dalla gente. Adesso, a nove anni, era abituata a essere oggetto
di una speciale attenzione; non badava più agli estranei che la guardavano con aria sciocca come se fosse Maggie Mani-di-Forbice o la figlia di Frankenstein. Quella mattina qualcuno la stava osservando, e lei non lo sapeva: ma questa volta le sarebbe importato. In questo caso, era molto importante. Maggie Rose si trovava alla Washington Day School di Georgetown, dove tentava di confondersi con gli altri centotrenta studenti. In quel momento stavano cantando entusiasti tutti insieme. Confondersi con gli altri non era facile per lei, benché lo desiderasse disperatamente. Del resto, era la figlia di Katherine Rose. Non poteva passare davanti a un negozio di videocassette senza trovare esposta la foto di sua madre. Sembrava che i film di sua madre fossero programmati in TV quasi ogni sera. La mamma aveva ricevuto più nominations per l'Oscar di quanto la maggior parte delle altre attrici vedesse la propria foto sulla rivista People. Per tutte queste ragioni, Maggie Rose tentava di mimetizzarsi il più possibile. Quella mattina indossava una maglietta Fido Dido in stato pietoso, con buchi in posizione strategica davanti e sulla schiena. Aveva scelto dei jeans Guess, consumati e sciupati. Ai piedi un paio di vecchie Reebok rosa - le sue preferite - e i calzini Fido presi dal fondo dell'armadio. Di proposito non si era lavata i lunghi capelli biondi prima di andare a scuola. Quando la madre la vide in quella tenuta, per poco non le cascarono gli occhi, ma la lasciò ugualmente andare a scuola conciata così. Era un tipo che non perdeva la calma. Capiva quanto fosse duro per Maggie vivere nella sua situazione. I ragazzi di quell'affollato consesso, che comprendeva le classi dalla prima alla sesta, stavano cantando Fast Car di Tracy Chapman. Prima di suonare la canzone accompagnandosi al nero e lucente piano Steinway dell'auditorium, la signora Kaminsky cercò di spiegare il messaggio che conteneva. «Questa commovente canzone scritta da una giovane nera del Massachusetts parla della condizione dei miserabili nel Paese più ricco del mondo. Parla di che cosa significa essere neri negli anni '90.» La minuscola e sottile insegnante di musica e arti visive dimostrava sempre grande sensibilità; credeva che fosse dovere di un buon insegnante non solo informare, ma dare delle convinzioni ai giovani e importanti virgulti di quella scuola prestigiosa. Ai bambini piaceva la signora Kaminsky, per cui essi si sforzarono
d'immaginare la triste condizione dei poveri e dei diseredati. Dato che la retta della Washington Day School era di dodicimila dollari, occorreva da parte loro una buona dose d'immaginazione. «You got a fast car», cantavano insieme con la signora Kaminsky e il suo piano. «And I got a plan to get us out of here.» Mentre cantava Fast Car, Maggie cercava davvero d'immaginarsi come sarebbe stato essere così povera. Aveva visto abbastanza diseredati dormire al freddo nelle strade di Washington e, concentrandosi, poteva raffigurarsi scene terribili dalle parti di Georgetown e di Dupont Circle. Soprattutto gli uomini che, a ogni semaforo, lavavano con gli stracci sporchi i parabrezza, e ai quali sua madre dava sempre un dollaro, a volte di più. Alcuni mendicanti la riconoscevano e sembravano impazzire dalla gioia: sorridevano come se avessero vinto una scommessa, e Katherine trovava sempre qualcosa di carino da dire. «You got a fast car», cantava ad alta voce Maggie Rose. Aveva veramente voglia di far salire in alto la sua voce. «But is it fast enough so we can fly away? We gotta make a decision: we leave tonight or live and die this way.» La canzone terminò fra gli applausi e le grida di tutti i bambini radunati. La signora Kaminsky accennò un buffo inchino verso il piano. «Sai che fatica», borbottò Michael Goldberg, a fianco di Maggie. Era il suo migliore amico a Washington, dove da meno di un anno lei si era trasferita coi genitori. Venivano da Los Angeles. Michael faceva dell'ironia, naturalmente. Come sempre. Era il suo modo - tipico della gente della East Coast - di trattare la gente che non era in gamba quanto lui, cioè praticamente tutto il resto dell'umanità. Era un vero cervellone, Maggie lo sapeva bene: leggeva di tutto, collezionava di tutto, sapeva fare un sacco di cose; riusciva anche a essere divertente, con chi gli andava a genio. Però era nato con un soffio al cuore e, non avendo ancora un fisico alto né molto robusto, si era guadagnato il soprannome di «Tappo», che in qualche modo lo strappava dal suo piedistallo di piccolo genio. Maggie e Michael andavano insieme a scuola in macchina, quasi tutti i giorni, e quella mattina erano arrivati con un'auto dei servizi segreti. Il padre di Michael era il ministro del Tesoro. Nessun bambino era veramente «normale» alla Washington Day, ma cercavano tutti di confondersi in qualche modo con gli altri.
Mentre uscivano in fila dall'adunata del mattino, a ognuno di loro veniva chiesto chi sarebbe venuto a prenderli nel pomeriggio: le misure di sicurezza erano una cosa tremendamente importante in quella scuola. «Il signor Devine...» cominciò a dire Maggie all'insegnante-sorvegliante piazzato all'uscita dall'auditorium. Si chiamava Guestier ed era professore di lingue, cioè francese, russo e cinese. Il suo soprannome era «Testa di rapa». «E Jolly Charlie Chakely», finì la frase per lei Michael Goldberg. «Servizi segreti reparto diciannove. Automobile Lincoln. Targa numero SC-59. Uscita nord, Pelham Hall. Sono addetti a moi perché il cartello di Medellin ha minacciato di morte mio padre. Au revoir, mon professeur.» Sul registro della scuola, alla data del 22 dicembre, fu annotato: Michael Goldberg e Maggie Rose Dunne - a cura dei servizi segreti. Uscita nord, Pelham, alle tre. «Dai, sapientona.» Michael Goldberg diede una gomitata nelle costole a Maggie Rose. «Ho una macchina veloce. Uh huh, uh huh. E ho in mente di andarcene via da qui.» Non c'era da stupirsi che lui le piacesse, pensò Maggie. Chi altri l'avrebbe chiamata «sapientona»? Chi altri se non Goldberg il Tappo? Mentre uscivano dall'auditorium, qualcuno stava tenendo d'occhio i due amici, ma essi non notarono nulla di strano o di anormale. Non se l'aspettavano. L'idea era tutta lì. Era la parte principale del piano. 4 Alle nove di quella mattina, la signora Vivian Kim decise di ricostruire il caso Watergate nella sua classe alla Washington Day School. Non se ne sarebbe mai più dimenticata. Era una donna intelligente e carina, nonché un'ottima insegnante di storia americana: il suo corso era fra quelli preferiti dagli alunni. Due volte alla settimana interpretava una scenetta storica e a volte ne faceva preparare una dai bambini, che se la cavavano davvero bene. In tutta franchezza, poteva affermare che le sue lezioni non erano mai noiose. Quella mattina, aveva scelto il Watergate. Nella sua terza c'erano Maggie Rose Dunne e Michael Goldberg. Qualcuno sorvegliava l'aula. La signora Kim interpretava ora il ruolo del generale Haig, ora quelli di H.R. Haldeman, di Henry Kissinger, di G. Gordon Liddy, del presidente Nixon, di John e Martha Mitchell, nonché di John e Maureen Dean. Era
una buona imitatrice e fece un eccellente lavoro con Liddy, Nixon, il generale Haig, e soprattutto i Mitchell e Mo Dean. «Durante il suo messaggio annuale sullo stato dell'Unione, il presidente Nixon si rivolse all'intera nazione in TV», disse ai bambini. «Molti ritengono che ci abbia mentito. Quando un funzionario del governo mente, commette un crimine orribile, dal momento che noi, sulla base del suo giuramento e della sua onestà, gli abbiamo accordato la nostra fiducia.» «Fiii! Buu!» Un paio di bambini della classe prese parte attiva alla lezione, poiché l'insegnante, entro limiti ragionevoli, incoraggiava questo genere di partecipazione. «Fare buu va benissimo», disse. «E anche fischiare. Tuttavia, a questo punto della nostra storia, il signor Nixon si trovava davanti alla nazione, davanti a gente come voi e me.» Si sistemò come se stesse parlando da un podio e cominciò a fornire alla classe la sua interpretazione di Richard Nixon. Assunse un'espressione scura e cupa. Scosse il capo da una parte all'altra. «Voglio che sappiate... che non ho alcuna intenzione di abbandonare il lavoro che gli americani mi hanno incaricato di svolgere per gli Stati Uniti.» Fece una pausa mentre ripeteva le parole dell'infame discorso di Nixon. Era come una nota tenuta in sospeso in un'opera lirica brutta ma di grande effetto. I ventiquattro bambini della classe erano in silenzio. Per il momento Vivian Kim aveva completamente catturato la loro attenzione: era il nirvana di ogni insegnante, per quanto breve potesse essere. Bello, pensò. Si udì un incerto bussare al vetro della porta dell'aula. Quella magica atmosfera venne interrotta. «Buu! Fiii», borbottò Vivian Kim. «Sì? Chi è? Sì? Chi c'è?» chiese ad alta voce. La porta di vetro e mogano lucido si aprì lentamente. Uno degli alunni abbozzò la colonna sonora di Nightmare on Elm Street e il signor Soneji, con fare esitante, timido, mosse un passo dentro l'aula. Quasi tutti i bambini s'illuminarono in volto all'istante. «C'è qualcuno in casa?» chiese il signor Soneji con voce stridula. I bambini scoppiarono in una risata. «Ohh! Guarda, ci sono tutti», commentò. Gary Soneji insegnava matematica, e anche informatica, materia ancor più popolare delle lezioni di Vivian Kim. Aveva una calvizie incipiente, i baffi e portava occhiali da studente inglese. Non aveva l'aspetto di un divo dello schermo, ma a scuola lo era poiché, oltre a essere un insegnante ispi-
rato, era il gran maestro dei videogame Nintendo. La sua popolarità e il fatto di essere un genio dei computer gli avevano guadagnato il soprannome di «Mister Chips». Salutò per nome un paio di studenti mentre si avvicinava rapidamente alla scrivania della signora Kim. I due insegnanti si misero a parlottare tra loro nei pressi del primo banco. La signora Kim volgeva la schiena alla classe. Annuiva parecchio, e non parlava molto. Sembrava minuscola accanto al signor Soneji, alto più di un metro e ottanta. Infine la signora Kim si rivolse ai bambini. «Maggie Rose e Michael Goldberg? Potreste venire qui davanti? Portatevi le vostre cose, per favore.» Maggie Rose e Michael si scambiarono sguardi perplessi. Che cos'era tutta quella storia? Raccolsero le loro cose, e quindi si diressero verso i primi banchi per scoprirlo. Gli altri bambini avevano cominciato a bisbigliare tra loro, e anche a parlare ad alta voce. «Bene, smettiamola. Questo non è l'intervallo», la signora Kim li calmò. «È ancora lezione. Vi invito a rispettare le regole che ci siamo dati.» Quando arrivarono davanti, il signor Soneji si chinò per parlare con Maggie e Michael senza farsi sentire dagli altri. Goldberg il Tappo era più basso di Maggie Rose di almeno dieci centimetri. «C'è un piccolo problema, ma niente di cui preoccuparsi.» Il signor Soneji era calmo e molto gentile coi bambini. «Praticamente è tutto a posto. C'è solo un piccolo intoppo, tutto qua. Però va tutto bene.» «Non mi sembra», sbottò Michael Goldberg, scuotendo il capo. «Che cosa sarebbe questo piccolo intoppo?» Maggie Rose per il momento non disse nulla. Per una qualche ragione aveva paura. Era successo qualcosa. C'era senz'altro qualcosa che non andava. Se lo sentiva alla bocca dello stomaco. La mamma le diceva sempre che aveva un'immaginazione troppo vivace, e lei quindi cercava di apparire calma, di agire con calma, di essere calma. «Abbiamo appena ricevuto una telefonata dai servizi segreti», spiegò la signora Kim. «Hanno ricevuto delle minacce. Riguardano sia te sia Maggie. Probabilmente è la telefonata di un pazzo, ma intendiamo mandarvi subito a casa come misura cautelare. È solo una precauzione: voi bambini sapete come funziona la cosa.» «Sono certo che sarete entrambi di ritorno prima di pranzo», le venne in aiuto il signor Soneji, anche se il suo tono non risultò molto convincente.
«Che genere di minacce?» Maggie Rose chiese al signor Soneji. «Nei confronti del padre di Michael? Oppure riguardano mia mamma?» Il signor Soneji diede dei colpetti affettuosi sul braccio di Maggie. Spesso gli insegnanti della scuola privata si stupivano della maturità di molti di quei bambini. «Oh, del solito genere che riceviamo ogni tanto. Molte chiacchiere, ma poi non succede niente. Solamente qualche svitato in cerca di celebrità, ne sono sicuro. Sarà qualche stupido.» Il signor Soneji fece una gran boccaccia. Dimostrava preoccupazione, ma senza eccessi, e i bambini ne furono rassicurati. «E allora perché dobbiamo andare fino a casa sul Potomac, per metterci a piangere come dei vitelli?» Michael Goldberg faceva smorfie e gesti come un piccolo avvocato di tribunale. Sotto molti aspetti sembrava una versione da cartone animato del suo famoso padre, il ministro. «È solo per non trascurare nessuna minima precauzione. D'accordo? Basta così, non intendo sostenere un dibattito con te, Michael. Sei pronto per andare?» Il signor Soneji era gentile, ma deciso. «No davvero.» Michael continuava ad aggrottare le sopracciglia e a scuotere il capo. «Sul serio, signor Soneji. Non vale, non è giusto. Perché non vengono qui i servizi segreti e non ci rimangono finché non è finita la scuola?» «Non è in questo modo che intendono procedere», replicò il signor Soneji. «Non sono io che stabilisco le regole.» «Credo che siamo pronti», intervenne Maggie. «Dai, Michael. Smettila di discutere. La faccenda è chiusa.» «La faccenda è chiusa.» La signora Kim intervenne in soccorso con un sorriso. «Vi farò avere i compiti da fare a casa.» Maggie Rose e Michael scoppiarono a ridere. «Grazie, signora Kim!» dissero all'unisono. La donna trovava sempre la battuta adatta alla situazione. I corridoi erano quasi vuoti e molto silenziosi. Un portiere, un nero di nome Emmett Everett, fu l'unica persona che vide il terzetto uscire dall'edificio scolastico. Appoggiato alla sua scopa, Everett osservò Soneji e i due bambini percorrere tutto il lungo corridoio. Fu l'ultima persona che li vide insieme. Una volta fuori, attraversarono in fretta il parcheggio della scuola, circondato da cespugli ed eleganti betulle. Le scarpe di Michael scricchiolavano sulle pietre.
«Scarpe da becchino.» Maggie gli si accostò per dirgli una spiritosaggine. «Sembrano scarpe da becchino, si muovono come scarpe da becchino, fanno un rumore di scarpe da becchino.» Michael non aveva argomenti per controbattere. Che poteva dire? Sua madre e suo padre gli compravano ancora i vestiti in quello strambo negozio dei Brooks Brothers. «Che cosa dovrei indossare, signorina Gloria Vanderbilt? Delle scarpe da ginnastica rosa?» disse debolmente. «Certo, scarpe da ginnastica rosa», confermò raggiante Maggie. «Oppure delle Air-out verde acido. Ma non scarpe da funerale, Tappo.» Il signor Soneji condusse i bambini verso un furgone blu ultimo modello, parcheggiato sotto gli olmi e le querce che fiancheggiavano per tutta la sua lunghezza l'edificio dell'amministrazione e della palestra; dall'interno si udiva echeggiare il rumore alterno dei palloni da basket che rimbalzavano. «Voi due potete salire dietro. Oplà. Ci siamo», disse mentre li aiutava a montare nel retro del furgone. Gli occhiali continuavano a scivolargli giù dal naso. Alla fine se li levò. «Ci porta a casa?» chiese Michael. «Lo so che non è una Mercedes limousine, ma devo farlo, signor Michael. Sto solo seguendo le istruzioni che mi ha dato per telefono il signor Chakely.» Salì anche lui nel furgone, richiudendo la porta scorrevole con un forte colpo. «Un attimo. Vi faccio un po' di posto.» Rovistò tra le scatole di cartone impilate verso la parte anteriore: in quel furgone regnava il disordine più completo. Era l'antitesi dello stile usato a scuola dall'insegnante di matematica, ordinato, quasi fanaticamente metodico. «Sedetevi dove volete, ragazzi.» Continuava a parlare mentre cercava qualcosa. Quando si girò, indossava una paurosa maschera, nera e gommosa. Davanti al petto teneva un aggeggio di metallo. Sembrava un estintore in miniatura, ma il suo aspetto era più fantascientifico. «Signor Soneji?» chiese Maggie Rose con voce sempre più acuta. «Signor Soneji!» Si mise d'impulso le mani davanti al viso. «Ci spaventa. La smetta di scherzare!» Soneji puntava il piccolo ugello metallico proprio su Maggie Rose e Michael. Mosse un passo rapido verso di loro piantandosi saldamente sugli scarponi dalla suola di gomma.
«Che cos'è quella cosa?» disse Michael, senza sapere bene perché lo chiedesse. «Ehi, io ci rinuncio. Assaggiane un po', piccolo genio, e poi dimmelo tu.» Spruzzò addosso a loro una raffica di cloroformio, tenendo il dito sul pulsante almeno dieci secondi. I bambini furono avvolti da una nebbiolina e crollarono sul sedile posteriore. «Dormite, bravi bambini», disse il signor Soneji con voce tranquillissima e tenerissima. «Nessuno lo saprà mai.» Questo era il bello. Nessuno avrebbe mai saputo la verità. Soneji si arrampicò sul sedile anteriore e accese il motore del furgone blu. Mentre usciva dal parcheggio, cantava Magic Bus degli Who. Quel giorno si sentiva di umore meraviglioso. Stava progettando, tra le altre cose, di diventare il primo rapitore seriale di bambini d'America. 5 Intorno alle undici meno un quarto ricevetti una telefonata di emergenza a casa Sanders. Non volevo più parlare con nessuno di altre emergenze. Ero reduce da un incontro di dieci minuti con la stampa. Al tempo degli omicidi nei quartieri popolari alcuni giornalisti erano miei amici: ero un loro beniamino, e il mio nome era apparso perfino sul supplemento domenicale del Washington Post. Avevo parlato, ancora una volta, dell'alto numero di omicidi tra la gente di colore del Distretto di Columbia. L'anno precedente erano state quasi cinquecento le vittime nella nostra capitale, di cui solo diciotto bianche. Un paio di cronisti ne aveva preso nota. Facevamo progressi. Presi il ricevitore da un giovane detective della SIS, Rakeem Powell. Nel palmo della mano tenevo una vecchia palla da baseball che doveva essere appartenuta a Mustaf. Quella palla mi procurava una strana sensazione. Perché mai uccidere un bel bambino come quello? Non sono riuscito a trovare una risposta. Almeno finora. «È il capo», m'informò Rakeem aggrottando le sopracciglia. «È preoccupato.» «Cross», mi annunciai all'apparecchio dei Sanders. Mi girava ancora la testa, desideravo terminare quanto prima quella conversazione. Il microfono odorava di scadente profumo al muschio: il profumo di Poo o di Suzette, o magari di entrambe. Su un tavolo vicino al telefono c'erano
le foto di Mustaf in una cornice a forma di cuore. Pensai ai miei due figli. «Sono il comandante Pittman. Com'è la situazione lì?» «Credo che ci troviamo di fronte a un serial killer. Madre, figlia e un bambino. È la seconda famiglia in meno di una settimana. Le luci di casa erano spente: a quello piace lavorare al buio.» Gli propinai un paio di dettagli cruenti. Per Pittman, di solito, era sufficiente. Mi avrebbe lasciato lavorare da solo su quel caso, dal momento che gli omicidi della zona sudest non avevano un gran peso nel piano strategico generale. Seguì qualche istante di teso silenzio. Vedevo l'albero di Natale della famiglia Sanders nella sala della TV. Era stato decorato con grande cura: luccicanti decorazioni acquistate al supermercato, strisce di mirtilli finti e di popcorn. In cima era piazzato un angelo di stagnola fatto in casa. «Mi hanno detto che la vittima è uno spacciatore. Uno spacciatore e due prostitute», mi disse il capo. «No, è falso», replicai a Pittman. «In casa avevano fatto un bell'albero di Natale.» «Certo. Per favore, non raccontarmi stronzate, Alex. Non oggi. Non ora.» Se stava cercando di farmi uscire dai gangheri, c'era riuscito. «Una delle vittime è un bambino di tre anni in pigiama. Forse spacciava. Indagherò.» Non avrei dovuto lasciarmi sfuggire quelle parole; non dovrei dire un sacco di cose. Negli ultimi tempi mi sembrava di stare per esplodere. Negli ultimi tempi significava da circa tre anni. «Tu e John Sampson sbrigatevi a venire alla Washington Day School», proseguì Pittman. «Qui è scoppiato l'inferno. Parlo sul serio.» «Anch'io parlo sul serio», ribattei. Cercai di mantenere basso il tono della voce. «Sono sicuro che si tratta di un assassino che lascia la firma. Qui la situazione è brutta: la gente piange per le strade, e manca poco a Natale.» Niente da fare: il comandante Pittman ci ordinò di recarci alla scuola di Georgetown. Era scoppiato un inferno. Prima di partire per la Washington Day, telefonai all'unità speciale «serial killer» del nostro dipartimento, e poi alla «super unità» alla sede FBI di Quantico. L'FBI possiede archivi computerizzati riguardanti tutti i casi di omicidi seriali, completi dei profili psichiatrici che, a fronte di un considerevole numero di particolari riservati relativi agli omicidi, analizzano i vari comportamenti criminali. Cercavo una corrispondenza tra età, sesso e tipo di ferite inflitte alle vittime.
Un tecnico della scientifica mi porse un rapporto da firmare mentre me ne andavo via da casa Sanders. Firmai al solito modo, con una †. Cross. Un duro che viene dai quartieri duri della città. 6 I dintorni della scuola privata misero un po' in soggezione me e Sampson: ci trovavamo su un altro pianeta rispetto alle scuole e alla gente della zona sud-est. Eravamo due dei pochi neri che si trovavano nell'atrio della Washington Day School. Avevo sentito dire che ci dovevano essere dei ragazzi africani, figli di diplomatici, che frequentavano l'istituto, ma non ne vidi: c'erano solo gruppetti di insegnanti, bambini e genitori sconvolti. La gente piangeva senza ritegno sul prato davanti all'edificio e nell'atrio. Due ragazzini, due bambini, erano stati rapiti in una delle più prestigiose scuole private di Washington. Capii che era un giorno tragico per tutte le persone coinvolte nella faccenda. Basta così! mi dissi. Fa' solo il tuo lavoro. Ci occupammo dei nostri compiti di polizia. Cercammo di soffocare l'ira che provavamo, ma non fu cosa facile: continuavo a vedere gli occhi del piccolo Mustaf Sanders. Un agente in uniforme ci disse che eravamo desiderati nell'ufficio del preside, dove ci aspettava il comandante Pittman. «Non perdere la calma», mi consigliò Sampson. Al lavoro, di solito, George Pittman indossa un completo grigio o blu. Predilige le camicie a righine e le cravatte a strisce argento e blu, ed è un fanatico di scarpe e cinture della Johnson & Murphy. I capelli grigi sono sempre lisciati all'indietro e aderiscono alla sua testa rotonda quasi a dare l'idea di un elmetto. È conosciuto col nome di Jefe, il Boss dei Boss, il Duce, Pits, Georgie Porgie... Penso di sapere quando sono cominciati i miei problemi col comandante: è stato dopo la pubblicazione di quell'articolo su di me nel supplemento domenicale del Washington Post. Dicevano che ero uno psicologo, che lavoravo però nella squadra omicidi e reati gravi del Distretto di Columbia. Avevo spiegato al cronista come mai continuavo ad abitare nella zona sudest: «Mi piace abitare dove sto ora. Nessuno mi caccerà da casa mia». In effetti, credo che sia stato il titolo scelto per l'articolo ad aver fatto saltare i nervi a Pittman (e a qualcun altro del dipartimento). Il giovane
giornalista aveva intervistato mia nonna per raccogliere del materiale. Nana era stata insegnante d'inglese, e l'impressionabile cronista prese nota della cosa con grande entusiasmo. Gli aveva riempito la testa delle sue convinzioni: secondo lei, i neri, fondamentalmente tradizionalisti, sarebbero logicamente stati gli ultimi nel Sud ad abbandonare la religione, la morale e addirittura le buone maniere. Disse che io ero un vero uomo del Sud, visto che ero nato nel North Carolina, e illustrò anche le ragioni per cui noi - nei film, in TV, nei libri e negli articoli di giornale - idolatriamo i detective quasi psicotici. Il titolo del pezzo, sopra una foto che mi ritraeva in espressione meditabonda, era L'ULTIMO GENTILUOMO DEL SUD. L'articolo provocò grossi problemi all'interno del mio dipartimento, che è molto formale. Il comandante Pittman soprattutto se n'ebbe a male. Non potei dimostrarlo, ma ero convinto che l'articolo fosse stato messo da qualcuno direttamente sulla scrivania del sindaco. Bussai, in una sequenza di tre colpi, alla porta dell'ufficio del preside, poi Sampson e io entrammo. Prima che potessi dire qualcosa, Pittman sollevò la mano destra. «Cross, ascolta solamente quello che ho da dire», m'invitò avanzando verso di noi. «C'è stato un rapimento in questa scuola. Un rapimento molto grave...» «Veramente orribile», interloquii. «Sfortunatamente un assassino ha colpito anche nel quartiere di Condon Terrace e di Langley. L'assassino ha già colpito due volte. Finora sono morte sei persone. Sampson e io siamo i responsabili delle indagini su quel caso. Praticamente, indaghiamo solo noi.» «Sono informato della situazione dei casi di Condon e Langley. Ho già preso i provvedimenti necessari. Qualcuno se ne sta occupando», assicurò il comandante. «Hanno tagliato via i seni a due donne nere, stamattina. Gli hanno rasato il pelo pubico mentre erano legate al letto. Di questo eri informato?» gli chiesi. «Un bambino di tre anni è stato assassinato, con addosso il suo pigiamino.» Avevo ripreso a gridare. Lanciai un'occhiata verso Sampson e vidi che stava scuotendo il capo. Un gruppo di insegnanti presenti in ufficio rivolse lo sguardo verso di noi. «Hanno tagliato via i seni a due giovani donne nere», ripetei a loro beneficio. «C'è qualcuno che ora passeggia per Washington con dei seni in tasca.»
Pittman indicò un ripostiglio dell'ufficio del preside. Desiderava che noi due entrassimo in quella stanza. Scossi il capo. Volevo dei testimoni quando mi trovavo con lui. «So che cosa stai pensando, Cross.» Abbassò la voce e parlò vicinissimo al mio viso. L'odore stantio di sigaretta mi arrivò addosso a ondate. «Pensi che sto cercando di prenderti in castagna, ma non è così. So che sei un bravo poliziotto, so che solitamente prendi a cuore le cose.» «No, tu non sai quello che penso. Ecco quello che penso! Sono già morti sei neri. Là fuori c'è un maniaco omicida in calore. Si sta affilando i canini. E adesso due bambini bianchi sono stati rapiti, ed è una cosa terribile. Terribile! Ma ho già un cazzo di caso di cui occuparmi!» D'improvviso mi puntò contro l'indice. Il suo volto era paonazzo. «Lo decido io di che caso ti occupi! Lo decido io! Tu sei esperto nel trattare la liberazione degli ostaggi. Sei uno psicologo. Abbiamo altri detective per seguire i casi di Langley e Condon. Inoltre, il sindaco Monroe ha chiesto specificamente di te.» Era dunque così che stavano le cose! Adesso mi era tutto chiaro. Era intervenuto il nostro sindaco. Ero io l'oggetto del contendere. «E Sampson? Almeno lui potrebbe continuare con quegli omicidi.» «Se hai delle lamentele, falle al sindaco. Voi due lavorate a questo rapimento. Questo è quanto ho da dirti al momento.» Ci voltò le spalle e si allontanò. Ci avevano affidato il caso del rapimento Dunne-Goldberg, che ci piacesse o no. A noi non piaceva. «Forse non ci resta che tornarcene alla casa dei Sanders», suggerii a Sampson. «Tanto qui nessuno sentirà la nostra mancanza», convenne lui. 7 Una lucente moto BMW K-1 nera s'infilò sotto il basso portone in pietra della Washington Day School. Il conducente si fece identificare, poi la moto percorse a velocità elevata una stradina che portava verso un gruppo di edifici scolastici grigi. Erano le undici. La BMW K-1 raggiunse i novanta all'ora nei pochi secondi necessari ad arrivare all'edificio dell'amministrazione. Poi frenò con dolcezza, senza quasi sollevare la ghiaia, e il conducente la fece scivolare dietro una Mercedes limousine grigio perla con targa diplomatica DP101. Restando seduta sulla moto, Jezzie Flanagan si tolse il casco nero e sco-
prì i capelli biondi piuttosto lunghi. Dall'aspetto le si poteva attribuire un'età di circa trent'anni, e in effetti ne aveva compiuti trentadue l'estate precedente. La vita minacciava di passare oltre e lei aveva la sensazione di essere ormai una reliquia, storia antica. Veniva direttamente alla scuola dal cottage che possedeva sul lago, dove aveva trascorso la sua prima vacanza dopo ventinove mesi. Questo spiegava il suo abbigliamento di quella mattina: la giacca in pelle da motociclista, i jeans neri scoloriti con scaldamuscoli, una grossa cintura in pelle, la camicia a scacchi rossi e neri da boscaiolo, e gli scarponi da cantiere consumati. Due poliziotti si portarono di corsa ai suoi fianchi. «Tutto a posto, agenti», disse la donna, «ecco il mio tesserino di riconoscimento.» Dopo aver guardato il documento, i poliziotti indietreggiarono immediatamente e divennero premurosi. «Può entrare», disse uno di loro, «c'è una porta laterale proprio dietro quelle siepi, signora Flanagan.» Jezzie riuscì a offrire un sorriso amichevole ai due poliziotti dall'aria così seria e impegnata. «Lo so che oggi non ho un'aria molto regolamentare. Ero in vacanza. Corro in moto, e così sono venuta qui di corsa.» Tagliò per un prato ricoperto di brina e sparì all'interno dell'edificio dell'amministrazione. Nessuno dei due poliziotti le tolse gli occhi di dosso finché non fu scomparsa. I suoi capelli biondi volavano come strisce di carta nel forte vento invernale. Era senz'altro stupenda, anche con quei jeans sporchi e gli scarponi da lavoro. Inoltre, come dichiarava il suo tesserino, faceva un lavoro molto tosto. Era una figura di primo piano. Mentre passava per il corridoio, qualcuno fece l'atto di afferrarla. Qualcuno agguantò un pezzo di Jezzie Flanagan, il che era una costante della sua vita nel Distretto di Columbia. Era Victor che si era agganciato al suo braccio. Una volta, e ormai faceva fatica a immaginarselo, era stato il suo partner. Il primo, in effetti. Ora lui era stato assegnato alla protezione di uno degli studenti della Day School. Basso e calvo, era un tipo che vestiva con molta ricercatezza, ed era spocchioso pur senza avere alcun valido motivo. Le aveva sempre dato l'impressione che nei servizi segreti lui fosse fuori posto; forse era più adatto per i gradi inferiori del corpo diplomatico. «Jezzie, come va?» chiese a mezza voce, quasi bisbigliando. Dava l'im-
pressione di non fare mai niente per intero. Questo le era sempre seccato. La donna esplose. In seguito capì che, quando Schmidt l'aveva fermata, aveva già i nervi a fior di pelle. Non che avesse bisogno di una giustificazione per quello scoppio d'ira. Non quella mattina, e non in quelle circostanze. «Vic, lo sai che due bambini sono stati portati via da questa scuola, e che forse sono stati rapiti?» gli chiese bruscamente. «Uno è il figlio del ministro del Tesoro. L'altra è la figlia di Katherine Rose. L'attrice Katherine Rose Dunne. Come credi che mi senta? Ho un leggero mal di stomaco. Sono arrabbiata. Sono anche sbalordita.» «Volevo dirti solo ciao. Come va, Jezzie? Lo so che qui si è scatenato l'inferno.» Ma lei si era già allontanata, se non altro per risparmiarsi di dover parlare con Victor. Si sentiva davvero nervosa. E stava male. E soprattutto era molto tesa. Non stava cercando volti familiari nell'atrio affollato della scuola, bensì i volti giusti. In quel momento ce n'erano due. Charlie Chakely e Mike Devine. I suoi agenti. I due uomini che lei aveva assegnato alla scorta del giovane Michael Goldberg e anche di Maggie Rose Dunne, dato che andavano e tornavano insieme da scuola. «Com'è potuto accadere?» domandò quasi gridando. Non le importò che lì vicino avessero smesso di parlare e che la gente la guardasse. Poi abbassò la voce quasi in un bisbiglio quando chiese ai suoi agenti un rapporto su tutto quanto era avvenuto fino a quel momento. Ascoltò tranquilla lasciando che spiegassero. Ma si vedeva che quello che udiva non le andava a genio. «Levatevi di torno», esplose di nuovo. «Fuori di qua subito. Non voglio più vedervi!» «Non potevamo farci niente», tentò di protestare Charlie Chakely. «Che diavolo potevamo fare? Cristo!» Poi lui e Devine se la filarono quatti quatti. Chi conosceva Jezzie Flanagan avrebbe potuto comprendere la sua reazione. Erano scomparsi due bambini. Era accaduto sotto la sua sorveglianza. Lei era il superiore diretto degli agenti dei servizi segreti, che proteggevano quasi tutti a eccezione del presidente: membri chiave del governo e le loro famiglie, una mezza dozzina di senatori, compreso Ted Kennedy. Lei rispondeva al ministro del Tesoro stesso. Aveva lavorato in modo incredibilmente duro per ottenere tutta quella fiducia ed era una persona responsabile. Settimane di lavoro di cento ore;
nessuna vacanza per anni e anni; nessuna vita privata di cui valesse la pena di parlare. Sentiva già il rumore della tempesta in arrivo. Due dei suoi agenti avevano combinato un tremendo pasticcio. Ci sarebbe stata un'inchiesta, una caccia alle streghe del buon tempo antico. Jezzie Flanagan era seduta su una sedia arroventata. Dato che era la prima donna a occupare quel posto, l'eventuale caduta sarebbe stata rovinosa e dolorosa, e largamente pubblicizzata. Finalmente scorse l'unica persona che stava cercando in mezzo alla folla (con la speranza di non trovarla): il ministro del Tesoro Jerrold Goldberg era già arrivato alla scuola di suo figlio. Insieme col ministro c'erano il sindaco Carl Monroe, un agente speciale dell'FBI che conosceva, di nome Roger Graham, e due neri che non riconobbe subito, entrambi alti, uno addirittura enorme. La donna inspirò profondamente e si diresse con passo rapido verso il ministro e gli altri. «Mi spiace molto, Jerrold», sussurrò quando gli fu accanto. «Sono certa che ritroveremo i bambini.» «Un insegnante.» Fu tutto ciò che Jerrold Goldberg riuscì a proferire. Scosse la testa. Aveva gli occhi umidi e luccicanti. «Un insegnante dei bambini più piccoli. Com'è potuto accadere?» Straziato dal dolore, dimostrava dieci anni di più dei suoi quarantanove. Il suo viso era bianco come il gesso delle pareti della scuola. Prima di venire a Washington, aveva lavorato alla Salomon Brothers di Wall Street. Si era fatto un patrimonio di venti o trenta milioni di dollari durante i ricchi e folli anni '80. Era brillante, accorto e assennato. Pragmatico quanto bastava. Però quel giorno egli era solamente il padre di un ragazzino rapito, e aveva un'aria estremamente fragile. 8 Stavo parlando con Roger Graham dell'FBI quando il supervisore dei servizi segreti, Jezzie Flanagan, si unì al nostro gruppo. Disse quello che poteva per confortare il ministro Goldberg. Poi il discorso ritornò pacatamente al rapimento, e alle prime misure da prendere. «Siamo sicuri al cento per cento che è stato questo insegnante di matematica a prendere i bambini?» chiese Graham al gruppo. Io e lui avevamo
già lavorato a fianco a fianco. Era molto in gamba e da anni era considerato un asso nell'FBI. Aveva scritto con altri un libro sulla sconfitta del crimine organizzato nel New Jersey, da cui era stato ricavato un film di successo. Ci rispettavamo e ci apprezzavamo, cosa che accade raramente tra i federali e la polizia locale. Quando mia moglie era stata uccisa a Washington, Roger si era fatto in quattro per interessare il Bureau alle indagini; mi era stato di maggior aiuto del mio stesso dipartimento. Decisi di tentare di rispondere alla sua domanda. Ormai mi ero calmato abbastanza da poter parlare e riferii loro quello che Sampson e io avevamo raccolto fino a quel momento. «Hanno senz'altro lasciato la scuola insieme: li ha visti un portiere. L'insegnante di matematica, un certo Soneji, si è recato nell'aula della signora Kim e le ha raccontato una balla, dicendo che c'erano state delle minacce telefoniche e che lui doveva portare i bambini nell'ufficio del preside perché fossero condotti a casa. Ha detto che i servizi segreti non avevano specificato se le minacce riguardavano il bambino o la bambina. Poi ha semplicemente proseguito con loro due. I ragazzi avevano abbastanza fiducia in lui da seguirlo senza problemi.» «Com'è possibile che un potenziale rapitore di bambini possa entrare a far parte del corpo insegnante di una scuola come questa?» chiese l'agente speciale. Un paio di occhiali da sole faceva capolino dal taschino della sua giacca. Occhiali invernali. Nel film tratto dal suo libro, Graham era stato interpretato da Harrison Ford: una scelta davvero azzeccata. Sampson lo chiamava «Hollywood». «Questo non lo sappiamo ancora», risposi. «Presto lo sapremo.» Finalmente il sindaco presentò me e Sampson al ministro Goldberg e, recitando la scenetta dell'imbonitore, ci descrisse come la squadra più decorata del Distretto di Columbia eccetera eccetera. Poi fece entrare il ministro nell'ufficio del preside. Graham si accodò, ruotando gli occhi verso me e Sampson per far capire che in quella sceneggiata lui non c'entrava. Jezzie Flanagan rimase indietro. «Ho sentito parlare di lei, detective Cross, ora che ci penso: lei è lo psicologo. Mi ricordo un articolo sul Washington Post.» Fece un sorriso. Un mezzo sorriso per essere esatti. Senza sorridere, ribattei: «Sa come sono gli articoli di giornale: il solito mucchio di mezze verità. In quel caso, senz'altro esagerazioni». «Non ne sono sicura. Comunque, è stato un piacere conoscerla.» Poi entrò nell'ufficio dietro il ministro Goldberg, il sindaco e l'asso dell'FBI. Nessuno invitò me, il detective-psicologo beniamino dei rotocalchi. Nessuno invitò Sampson.
Monroe cacciò fuori la testa. «Voi due, restate nei dintorni. Non create problemi. E cercate di non incazzarvi. Abbiamo bisogno di voi qui. Ho bisogno di parlare con te, Alex. Restatene buono. Mi raccomando: non t'incazzare.» Sampson e io cercammo di fare i bravi poliziotti, restando nei paraggi dell'ufficio del preside per altri dieci minuti. Infine abbandonammo il nostro posto. Ci sentivamo incazzati. Continuavo a vedermi davanti agli occhi il viso del piccolo Mustaf Sanders. Chi sarebbe andato alla ricerca del suo assassino? Nessuno. Mustaf era già finito nel dimenticatoio. Sapevo che questo non sarebbe mai accaduto ai due bambini della scuola privata. Un po' più tardi, quella stessa mattina, Sampson e io eravamo seduti sul parquet di abete della sala giochi della Day School con alcuni bambini. Eravamo lì con Luisa, Jonathan, Stuart, Mary-Berry e sua sorella Brigid: non era ancora passato nessuno a prenderli e loro erano spaventati. Alcuni bambini della scuola avevano bagnato le mutandine e uno aveva vomitato. Dovevamo fare in modo che il trauma non avesse conseguenze troppo gravi. Sul liscio parquet c'era anche l'insegnante, Vivian Kim. Volevamo parlare con lei a proposito della visita di Soneji nella sua classe e, in generale, di Soneji. «Siamo nuovi bambini della vostra scuola», scherzò Sampson. Si era tolto gli occhiali da sole, anche se forse non era il caso: di solito i bambini lo prendono in simpatia, perché s'inserisce bene nel loro drappello di «amici mostri». «No, non è vero!» replicò Mary-Berry. Sampson era già riuscito a farla sorridere. Un buon segno. «Esatto, in realtà siamo dei poliziotti», ammisi. «Siamo qui per assicurarci che ora tutti stiano bene. Cioè... accidenti... dopo una mattinata del genere.» La signora Kim mi sorrise. Capì che stavo cercando di rassicurare i bambini: c'era la polizia ed era tutto di nuovo sicuro, nessuno poteva far loro del male. L'ordine era ristabilito. «Sei un bravo poliziotto?» mi domandò Jonathan. Aveva un'aria seria e convinta, pur essendo così piccolo. «Sì. E anche il mio collega, il detective Sampson.» «Tu sei grande. Tremendamente grande. Grande, grande, grande come
casa mia!» esclamò Luisa. «Così possiamo proteggere meglio tutti voi», rispose Sampson alla piccola. Aveva fatto presto a entrare nelle loro simpatie. «Hai dei figli?» mi chiese Brigid. Prima di parlare ci aveva attentamente studiato coi suoi occhi vivacissimi, e già mi piaceva. «Ho due figli», le dissi. «Un bambino e una bambina.» «E come si chiamano?» chiese Brigid. Aveva addirittura ribaltato i ruoli. «Janelle e Damon», risposi. «Janelle ha quattro anni e Damon sei.» «Come si chiama tua moglie?» chiese allora Stuart. «Non ho una moglie.» «Perbacco, perbacco», disse sottovoce Sampson. «Sei divorziato?» mi chiese Mary-Berry. «È così, vero?» La signora Kim rise. «Ma che domande fai al nostro simpatico amico, Mary?» «Faranno del male a Maggie Rose e a Michael Goldberg?» volle sapere Jonathan il Serio. Era una buona domanda, e meritava una risposta. «Spero di no, Jonathan. Ma ti dirò una cosa. Nessuno farà del male a te. Io e il detective Sampson siamo qui proprio per impedirlo.» «Siamo dei duri, nel caso non si veda», sogghignò Sampson. «Grrr! Nessuno farà mai del male a questi bambini. Grrr!» Alcuni minuti dopo, Luisa cominciò a piangere. Era una bambina carina e avrei voluto stringermela tra le braccia, ma non potevo. «Che c'è, Luisa?» chiese la signora Kim. «La mamma e il papà presto saranno qui.» «No, non verranno.» La ragazzina scuoteva il capo. «Non verranno. Non vengono mai a prendermi a scuola.» «Qualcuno verrà», dissi con voce calma. «E domani sarà di nuovo tutto a posto.» La porta della sala giochi si aprì lentamente, facendomi distogliere lo sguardo dai bambini: era il sindaco, che veniva a far visita alla scuola dei ragazzini privilegiati della città. «Ti tieni lontano dai guai, Alex?» Fece un cenno col capo e sorrise nello scorgere l'insolita scenetta. Monroe, sui quarantacinque anni, era dotato di una rude bellezza. Aveva una bella chioma e folti baffi neri. Vestito blu, camicia bianca e cravatta giallo acceso gli conferivano un'impressione di efficienza. «Ah, sì. Sto cercando di far qualcosa di buono nel mio tempo libero. Io e Sampson.»
La risposta si meritò una risatina del sindaco. «Sembra che tu ci sia riuscito. Facciamo un giretto. Vieni con me, Alex. Dobbiamo parlare di alcune cosette.» Salutai i bambini e la signora Kim e mi avviai con Monroe fuori dell'edificio scolastico. Forse ora avrei scoperto quel che stava succedendo e perché mi era stato assegnato un caso di rapimento al posto di quelli di omicidio. E se potevo scegliere io. «Sei venuto con la tua auto, Alex?» chiese mentre scendevamo la scalinata d'ingresso della scuola. «Mia e del dipartimento.» «Prenderemo la tua auto. Come sta lavorando la SIS, secondo te? L'idea è forte», disse mentre proseguivamo verso il parcheggio. A quanto pareva aveva già mandato avanti il suo autista con l'auto. Un vero uomo del popolo, il nostro sindaco. «Qual è esattamente l'idea alla base della SIS?» gli chiesi. Da un po' di tempo mi ponevo domande riguardo alla mia attuale posizione di lavoro. Carl Monroe esibì un largo sorriso. Sa essere molto astuto con la gente, e in effetti è molto in gamba. Dà sempre l'impressione di essere premuroso e di prendersela a cuore, e magari è anche vero. È capace perfino di stare ad ascoltare, quando ne ha bisogno. «L'idea fondamentale è fare in modo che il personale nero più capace della polizia metropolitana salga ai vertici, come dovrebbe. E non solo i leccapiedi, Alex. Nel passato non è sempre stato così.» «Credo che andremmo benissimo anche senza programmi speciali a favore delle minoranze. Ha sentito parlare degli omicidi a Condon e Langley Terrace?» domandai a Monroe. Annuì, ma non disse altro degli omicidi nei quartieri popolari. Quel giorno non erano in cima alla lista delle sue precedenze. «La madre, la figlia e il figlioletto di tre anni», insistei, ricominciando ad arrabbiarmi. «Di loro, non frega niente a nessuno.» «E allora, è una novità, Alex? Non importava niente a nessuno da vivi, perché dovrebbe importargli da morti?» Eravamo arrivati alla mia auto, una Porsche del '74 che aveva visto giorni migliori. Le portiere cigolavano e si sentiva il leggero odore dei panini che vi avevo consumato. L'ho usata nei tre anni in cui avevo uno studio privato. Vi salimmo tutti e due. «Sai, Alex. Colin Powell ora è capo di stato maggiore. Louis Sullivan
era il nostro ministro della Sanità e dei Servizi sociali. Jesse Jackson mi ha dato una mano per arrivare a questo incarico», mi disse mentre prendevamo la Canai Road e ci dirigevamo verso il centro della città. Intanto fissava il suo riflesso nel finestrino laterale. «E adesso lei aiuta me?» chiesi. «Senza neppure averglielo richiesto. Proprio gentile e premuroso, non c'è che dire.» «Esattamente», convenne il sindaco. «Sei maledettamente svelto, Alex.» «Allora mi aiuti adesso: voglio risolvere gli omicidi dei quartieri popolari. Mi spiace moltissimo per quei due ragazzini bianchi, ma del loro rapimento ci sarà sempre qualcuno pronto a occuparsi. Anzi ci sarà il problema opposto: troppa gente che se ne occupa.» «Certo che è così. Lo sappiamo entrambi.» Monroe annuì. «Quegli stupidi bastardi s'intralceranno l'uno con l'altro. Ascoltami, Alex. Vuoi ascoltarmi?» Quando Carl Monroe vuole qualcosa, non si dà per vinto facilmente. Lo avevo già visto in azione e ora ricominciava con me. «Alex, mi risulta che sei a terra.» «A me va bene», protestai. «Ho un tetto sopra la testa e qualcosa da mangiare in tavola.» «Sei rimasto nella zona sud-est, quando avresti facilmente potuto andartene», continuò col curriculum fallimentare che avevo già sentito. «Lavori ancora alla parrocchia di St. Anthony?» «Sì. Sono nella squadra della mensa. Qualche seduta terapeutica gratuita. Il Samaritano Nero.» «Ti ho visto in una commedia una volta a St. Anthony. Sai anche recitare: hai veramente presenza scenica.» «Il nodo di sangue di Athol Fugard.» Mi ricordavo di quella volta. Maria mi aveva convinto a entrare nel suo gruppo filodrammatico. «La commedia è molto buona. Chiunque ci può fare bella figura.» «Segui quello che sto dicendo? Mi stai ascoltando, almeno?» «Lei vuole sposarmi.» Risi forte in faccia a Monroe. «Però prima vuole uscire con me.» «Una cosa del genere», rispose Monroe con una risata scrosciante. «Lo sta facendo proprio bene, Carl. Mi piace sentire qualche parolina dolce prima di essere scopato.» Monroe rise ancora, un po' più fragorosamente del dovuto. Poteva comportarsi da amicone e poi trapassarti con lo sguardo quando lo reincontravi. Qualcuno del dipartimento lo chiamava «Noce di cocco». Io ero fra lo-
ro. «Marrone fuori, bianco dentro.» Avevo la sensazione che in effetti fosse un uomo solo. Ancora mi chiedevo che cosa volesse da me. Monroe se ne restò tranquillo per un attimo. Riprese a parlare quando c'immettemmo sulla superstrada Whitehurst. Il traffico era intenso e le strade viscide non miglioravano la situazione. «Ci troviamo di fronte a una circostanza molto tragica. Questo rapimento è importante anche per noi. E chiunque risolva il caso diventerà importante. Voglio che tu dia una mano a risolverlo, che partecipi al gioco. Voglio che ti faccia un nome con questo caso.» «Non voglio farmi un nome», risposi secco a Monroe. «Non voglio partecipare a questo gioco del cazzo.» «Lo so che non vuoi. E questa è una delle ragioni per cui dovresti. Ti dirò una cosa che è la pura verità. Tu sei più in gamba di noi, e diventerai un pezzo grosso in questa città. Piantala di fare il maledetto testardo. Deciditi a saltare il fosso: ora.» «Non sono d'accordo. L'idea di farmi diventare una persona di successo è sua, non mia. Le chiedo di lasciar perdere.» «Be', lo so io qual è la cosa giusta, in questo momento. Per entrambi», disse. Stavolta Carl Monroe non sorrise per niente. «Mi terrai aggiornato sui progressi di questo caso. Tu e io siamo insieme in questa faccenda. Qui si farà carriera.» Annuii. Questo è sicuro, pensai. «Chi farà carriera, Carl?» Mi ero fermato davanti all'edificio del distretto. Monroe scivolò fuori dell'auto. Dall'esterno guardò in basso verso di me. «Questo caso diventerà tremendamente importante, Alex. È tuo.» «No, grazie», risposi. Ma Monroe se n'era già andato. 9 Alle dieci e venticinque, in perfetto orario rispetto alle prove che aveva fatto, Gary Soneji svoltò col furgone in una stradina laterale, piena di buche e coperta di erbacce, con rovi di more su ciascun lato. Dopo essersi inoltrato per cinquanta metri, non riusciva a vedere altro che la strada in terra battuta e un groviglio di cespugli sopra di lui. Dalla strada principale nessuno poteva scorgere il suo furgone. Il veicolo superò sobbalzando una bianca fattoria in rovina. L'edificio sembrava sul punto di crollare su se stesso. A non più di quaranta metri
dalla casa c'era quanto restava di un granaio nelle stesse condizioni di degrado. Soneji vi entrò col furgone. Era finita, ce l'aveva fatta. Nel granaio era parcheggiata una Saab nera del 1985. A differenza del resto di quella fattoria abbandonata, il granaio dava la sensazione di essere abitato. Il pavimento era in terra battuta. Tre finestre rotte erano chiuse in qualche modo con tela e nastro adesivo. Non c'erano trattori ad arrugginire né altri macchinari agricoli. Il granaio odorava di terra umida e di benzina. Gary prese due lattine di Coca-Cola da un contenitore sul sedile di fianco. Se le tracannò entrambe ed emise un rutto soddisfatto. «Voi ragazzi volete una Coca?» gridò verso i due bambini drogati e assonnati. «No? Va bene, presto però avrete molta sete.» Non c'è alcuna certezza nella vita, pensava, ma non riusciva a immaginare in che modo un poliziotto potesse sorprenderlo ora. Avere una tale fiducia in se stesso era stupido e pericoloso? si chiese. Certo che no, perché lui era anche realistico. Non c'era alcun modo di rintracciarlo ora. Non avevano alcuna pista da seguire. Progettava di rapire una persona famosa da... be', da sempre. Nei suoi progetti, la vittima era cambiata parecchie volte, ma non l'obiettivo che aveva in mente. Aveva lavorato alla Washington Day School per mesi. Ora, quel preciso momento dimostrava che ogni maledetto minuto che vi aveva passato ne era valso la pena. Mister Chips. Ripensava al suo nomignolo a scuola, Mister Chips! Che deliziosa commedia aveva messo in scena. Roba da Oscar. Meglio di qualsiasi altra cosa che aveva visto dopo Robert De Niro in Re per una notte. E quell'interpretazione era un classico. Anche De Niro doveva essere uno psicopatico, nella vita reale. Infine Gary Soneji aprì la portiera scorrevole del furgone. Rimettiamoci al lavoro, rituffiamoci a corpo morto nel lavoro. Tirò fuori i due bambini, uno alla volta, e li sistemò nel granaio. La prima fu Maggie Rose Dunne. Poi il piccolo Goldberg. Li posò svenuti l'uno accanto all'altra sul pavimento. Li spogliò, lasciandoli vestiti della sola biancheria. Preparò con molta attenzione le dosi di sodio secobarbital. Ecco il vostro simpatico farmacista al lavoro. Si trattava di una dose a metà tra la pillola di sonnifero e l'anestetico ospedaliero. Avrebbe fatto effetto per circa dodici ore. Tirò fuori delle siringhe monouso e i due lacci emostatici che aveva pre-
parato. Doveva stare molto attento: coi bambini non era facile azzeccare la dose giusta. Quindi spostò di due metri la Saab nera, in modo da scoprire una buca di un metro e mezzo per un metro e venti nel pavimento del granaio. Aveva scavato la fossa nel corso delle numerose visite precedenti nella fattoria abbandonata. Dentro la cavità era sistemato uno scomparto in legno di fattura artigianale, una specie di rifugio. C'era anche un serbatoio con la riserva di ossigeno. Mancava solo un televisore a colori per rivedersi i vecchi film. Per primo sistemò Goldberg nello scomparto di legno. In braccio a lui non pesava quasi niente; esattamente quello che provava nei suoi confronti: niente. Poi toccò alla principessina, l'orgoglio e la gioia della mamma, Maggie Rose Dunne. Direttamente dal paese delle favole. Infilò gli aghi nel braccio di ciascuno. Fu attentissimo a somministrare lentamente il liquido, impiegando tre minuti. Le dosi erano calcolate secondo il peso: 25 milligrammi per chilo corporeo. Controllò il respiro di entrambi. Dormite sodo, tesorucci miei da qualche milione di dollari. Richiuse la botola con un tonfo, coprendola poi con una spanna di terra. Dentro quel fienile abbandonato. Nel mezzo della campagna del Maryland dimenticata da Dio. Proprio come era stato sotterrato il piccolo Lindbergh sessant'anni prima. Laggiù nessuno li avrebbe ritrovati. Finché non lo avesse voluto lui. Se lui voleva farli ritrovare. Un grosso se. Ripercorse stancamente il tratto di strada in terra battuta verso ciò che restava della vecchia fattoria. Voleva darsi una lavata. Desiderava pure divertirsi un po'. Si era addirittura portato un minitelevisore per vedersi in TV. 10 I notiziari andavano in onda ogni quindici minuti circa. Gary Soneji era proprio lì, nell'onnipotente televisione. Vide le foto di Mister Chips in ogni notiziario. Però l'annunciatore non poteva fornire alcun indizio di quello che stava realmente accadendo. Era questa allora la fama! Era questa la sensazione che si prova a essere famosi! Gli piacque moltissimo. Era per questo che si era allenato in tutti quegli anni. «Ciao, mamma! Guarda chi c'è in TV. Il Bambino Cattivo!»
Una sola cosa andò storta in tutto il pomeriggio: la conferenza stampa dell'FBI. Aveva parlato un agente di nome Roger Graham, che evidentemente si credeva un pezzo grosso. Anche lui voleva un po' di gloria. «Credi di essere tu il protagonista del film, Graham? Ti sbagli, piccolo!» gridò Soneji alla TV. «Qui di star ce n'è una sola, e sono io!» Si era aggirato parecchie ore nella fattoria, a osservare la notte che scendeva lentamente. Distinse le varie sfumature di buio che avvolgevano quel posto. Erano le sette, ed era ora di andare avanti col piano. «Avanti, sbrighiamoci.» Camminava impettito per la fattoria come un pugile professionista prima di un incontro. «Andiamo avanti.» Per un po' pensò a Charles e Anne Morrow Lindbergh, la sua coppia preferita in senso assoluto. Questo lo calmò un po'. Pensò al piccolo Charles, e a quel povero stupido di Bruno Hauptmann che, innocente, era stato evidentemente incastrato per quel delitto progettato ed eseguito in modo così brillante. Era convinto che il caso Lindbergh fosse il delitto più elegante del secolo, non solo perché era rimasto insoluto - molti, moltissimi delitti restavano insoluti -, ma perché era importante e insoluto. Soneji aveva fiducia in se stesso, ma era anche realista nei confronti del proprio capolavoro. Un colpo di fortuna era sempre possibile. Un caso fortunato da parte della polizia poteva accadere. La consegna dei soldi poteva essere un momento critico. Implicava un contatto, e un contatto è sempre una cosa molto pericolosa nella vita. Per quanto ne sapeva - e la sua conoscenza era enciclopedica -, nessun rapitore dei tempi moderni aveva risolto in modo soddisfacente il problema del pagamento del riscatto. Almeno se voleva essere pagato in modo equo per le proprie fatiche (e lui aveva bisogno di un enorme compenso in cambio dei suoi ragazzini multimiliardari). Aspetta che sentano quanti soldi voglio. Quel pensiero gli fece affiorare un sorriso sulle labbra. Naturalmente, i famosissimi Dunne e i potentissimi Goldberg potevano pagare, e volevano pagare. Non era un caso che avesse scelto quelle due famiglie, potenti e ricche sfondate com'erano, coi loro mocciosi viziati. Soneji accese una delle candele che teneva in una tasca della giacca e aspirò l'odore piacevole di cera d'api. Poi si portò nel piccolo bagno che dava sulla cucina. Si ricordava una vecchia canzone dei Chambers Brothers, Time. Era arrivata l'ora... l'ora di togliere il tappeto da sotto i piedi di tutti quanti. Era arrivata l'ora... l'ora di fare la prima sorpresina, la prima di tante. L'ora...
l'ora di costruire la propria leggenda. Questo era il suo film. In quel fine dicembre la stanza, l'intera casa, era gelida. Gary Soneji poteva vedere il proprio fiato uscirgli dalla bocca mentre s'installava in bagno. Fortunatamente la casa disponeva dell'acqua di un pozzo, che arrivava ancora in bagno. L'acqua era gelida. Soneji accese alcune candele e si mise al lavoro. Avrebbe impiegato almeno mezz'ora per finire. Per prima cosa, si tolse la mezza parrucca scura da calvo. L'aveva acquistata tre anni prima, in un negozio di costumi teatrali a New York. Era la sera in cui aveva visto Il fantasma dell'Opera. Quel musical gli era piaciuto moltissimo. Si era identificato a tal punto col fantasma da esserne spaventato. Aveva poi letto il romanzo originale, prima in francese poi in inglese. «Bene, bene, che cosa abbiamo qui?» disse rivolto al viso nello specchio. Una volta tolta la colla e le altre porcherie, si scoprì una folta capigliatura bionda, lunga e ondulata. «Signor Soneji? Mister Chips? Sei tu, amico?» Era un tipo mica male. Aveva qualche speranza? Magari di trovare un posto a stipendio fisso? Sì, certamente, a stipendio fisso... Non era per nulla simile a Chips. Per nulla simile al nostro signor Soneji! Vennero via i folti baffi che aveva portato fin dal giorno in cui aveva sostenuto un colloquio alla Washington Day School. Poi si tolse le lenti a contatto. Il colore degli occhi, da verde, ritornò marrone scuro. «Ecco, guardati un po'. Guardati un po' ora. La genialità sta nei dettagli, no?» L'insulso topo di biblioteca della scuola privata era quasi completamente scomparso. Quell'ingenuo imbecille di Mister Chips era morto e sepolto per sempre. Che stupenda messinscena. Che piano audace, e che impeccabile esecuzione. Peccato che nessuno avrebbe mai saputo quello che era veramente successo. Ma a chi avrebbe potuto dirlo? Lasciò la fattoria verso le undici e trenta della sera, come da tabella di marcia, e s'incamminò verso il garage, a nord della casa. In un posto speciale - molto speciale - del garage aveva nascosto i suoi risparmi: cinquemila dollari. Era il nascondiglio segreto dei soldi rubati nel corso degli anni. Anche quello faceva parte del piano. Un programma a
lungo respiro. Poi si diresse verso il granaio dove c'era l'auto. Una volta entrato nel granaio, diede un'occhiata per controllare i bambini. Fino a quel momento andava tutto a gonfie vele. Nessuna lamentela da parte dei ragazzini. La Saab partì immediatamente. Si diresse verso la strada principale, con le sole luci di posizione. Quando vi arrivò accese i fari. Aveva ancora del lavoro da fare, quella notte. Il suo capolavoro teatrale proseguiva. Cavoli! 11 L'agente speciale Roger Graham abitava a Manassas Park, a metà strada tra Washington e la scuola dell'FBI a Quantico. Aveva un fisico alto e imponente e capelli corti color sabbia. Si era occupato di parecchi rapimenti importanti, ma nulla somigliava a quell'incubo. Era appena passata l'una di quella notte, quando giunse finalmente alla sua casa in stile coloniale: sei camere da letto, tre bagni e un grande prato elegante che si estendeva su una superficie di due acri. Sfortunatamente, quella non era stata una giornata normale. Era esausto. Spesso si chiedeva perché mai non si metteva tranquillo a scrivere un altro libro. Lasciare il Bureau e andarsene in prepensionamento per conoscere finalmente i suoi tre figli prima che se ne andassero da casa. La strada nel Manassas Park era deserta. Le luci della veranda lungo la strada erano una visione amica. Nello specchietto retrovisore della Ford Bronco di Graham apparvero delle luci. Un'auto si era fermata dietro la sua, coi fari accesi. Ne uscì un uomo sventolando un blocco per appunti. «Agente Graham? Sono Martin Bayer del New York Times», disse ad alta voce mentre saliva su per il vialetto. Gli fece vedere per un attimo le sue credenziali di giornalista. Oh, Cristo! Un figlio di buona donna del New York Times, pensò Graham. Il cronista indossava vestito scuro, camicia a righine, cravatta regimental. L'immagine classica dello yuppie di New York che partiva a razzo verso l'incarico che gli era stato affidato. Quegli stronzi del Times e del Post erano tutti uguali, per Graham. Tra
loro non c'era più un vero cronista. «Ne ha fatta di strada a quest'ora per sentirsi rispondere 'no comment', signor Bayer. Mi spiace. Non posso fornirle alcuna informazione sul rapimento. Sinceramente, non ho niente da dirle.» In realtà non gli spiaceva affatto, ma perché farsi dei nemici al New York Times? Quei bastardi potevano infilarti la loro penna intinta nel veleno in un orecchio e fartela uscire dall'altro. «Una domanda, una sola domanda. Capisco perfettamente che lei sia tenuto a non rispondere, ma per me è cosa di grande importanza. Proprio per me personalmente. Tanto da farmi venire qui all'una di notte.» «E va bene. La faccia. Qual è la sua domanda?» Chiuse a chiave la porta della sua Bronco, tirò in aria le chiavi e le afferrò al volo. «Siete tutti così insulsi e stupidi? Questa è la mia domanda, superuomo di un Graham.» Un lungo e affilato coltello balenò in avanti una volta, poi un'altra, per colpire la gola dell'agente. Il primo fendente lo inchiodò con le spalle alla Ford, il secondo gli recise la carotide. Cadde morto sul vialetto di casa sua. Non aveva avuto il tempo di parare il colpo, di scappare e neppure di dire una preghiera. «Credevi di essere una star, Roger? Volevi fare il divo, vero? Che fine ha fatto la star? Finita, zero. Mi aspettavo che fossi molto ma molto meglio. Ho bisogno di essere sfidato dal migliore e dal più in gamba di tutti.» Si chinò, e fece scivolare una scheda nella tasca della camicia bianca di Graham. Diede qualche colpetto compiaciuto sul petto del morto. «Allora, cazzone, come farebbe un giornalista di New York a essere qui all'una di notte? Prova un po' a chiedertelo, stronzo.» Poi si allontanò dalla scena dell'omicidio. La morte dell'agente Graham non aveva nessuna importanza per lui. Certo che no. Aveva già ucciso più di duecento persone, prima. Con l'esercizio si diventa maestri. E non sarebbe neppure stata l'ultima volta. Questo omicidio avrebbe dato la sveglia a tutti. Lui sperava solo che quelli avessero in serbo qualcuno di meglio, nascosto dietro le quinte. Altrimenti, dov'era il divertimento? La sfida? Come sarebbe potuta quell'impresa diventare più famosa del rapimento Lindbergh? 12 Cominciavo già a sentirmi coinvolto emotivamente nella faccenda dei
bambini rapiti. Il mio sonno fu inquieto e agitato fin da quella prima notte. Nei sogni rividi alcune brutte scene della scuola. Continuavo a rivedermi Mustaf Sanders. I suoi occhi tristi mi fissavano, implorando un aiuto che non gli stavo dando. Mi svegliai, e mi ritrovai coi miei figli nel letto. A una cert'ora del mattino dovevano essersi intrufolati a bordo. È uno dei loro trucchi preferiti, gli scherzetti che combinano al caro paparone. Damon e Janelle erano addormentati come sassi sopra la trapunta a riquadri: la sera prima ero troppo distrutto per toglierla dal letto. Dovevano sembrare due angeli che riposavano accanto a un cavallo da tiro schiantato dalla fatica. Damon è un bellissimo ragazzino di sei anni, che mi ricorda sempre quanto fosse speciale sua madre. Ha gli occhi di Maria. Jannie è l'altra pupilla dei miei occhi. Ha quattro anni, va per i cinque. Le piace chiamarmi «paparone», parola che sembra appartenere a un gergo tutto inventato da lei. Sul letto si trovava pure una copia del libro di William Styron sulla depressione, che stavo leggendo. Speravo mi desse qualche aiuto per superare la depressione che mi affligge da quando è morta Maria. Erano tre anni, e mi sembravano venti. Ciò che in effetti mi svegliò quella mattina furono i fari delle auto che proiettavano la loro luce attraverso gli avvolgibili della finestra. Udii sbattere la portiera di un'auto, poi lo scricchiolare rapido di passi sulla ghiaia del vialetto. Facendo attenzione a non svegliare i bambini, scivolai verso la finestra della camera. Abbassai lo sguardo su due auto di pattuglia della polizia metropolitana parcheggiate dietro la vecchia Porsche nel nostro vialetto. Doveva fare un freddo maledetto là fuori. Stavamo proprio entrando nel cuore dell'inverno del Distretto di Columbia. «Fatemi respirare», borbottai dentro i gelidi avvolgibili della finestra. «Andatevene.» Sampson si stava dirigendo verso la porta posteriore della nostra cucina. La sveglia vicino al letto segnava le cinque meno venti. Era ora di andare a lavorare. Quella mattina, poco prima delle cinque, Sampson e io accostammo con l'auto a un decrepito edificio in arenaria di Georgetown, costruito prima della guerra, un isolato a ovest della M Street. Avevamo deciso di perqui-
sire noi stessi l'appartamento di Soneji. L'unico modo per avere un lavoro ben fatto è farlo da sé. «Le luci sono tutte accese. Pare che in casa ci sia qualcuno», rilevò Sampson mentre scendevamo dall'auto. «Chi potrebbe mai essere?» «Hai a disposizione tre risposte, però le prime due non contano», borbottai. Soffrivo di quel tipo di debolezza di stomaco tipica delle prime ore del mattino. Una visita nella tana del mostro non mi avrebbe certo giovato. «L'FBI. Forse c'è la televisione», tirò a indovinare. «Magari ci stanno girando Storie vere dell'FBI.» «Andiamo a vedere.» Entrammo nell'edificio e salimmo le scale, strette e tortuose. Al secondo piano, il nastro giallo che si usa per le scene del delitto era stato fissato a linee incrociate sulla porta che conduceva nell'appartamento di Soneji. Non aveva l'aria del posto in cui poteva abitare un tipo come Mister Chips. Era più adatto a un qualunque omicida da strapazzo di una qualsiasi cronaca nera di provincia. La porta di legno piena di sfregi era aperta. Riuscii a scorgere due tecnici dell'FBI che lavoravano all'interno. Un dee-jay locale chiamato «Il Meccanico» stava strillando da una radio posata sul pavimento. «Ehi, Pete, come va?» gridai all'interno. Conoscevo uno dei due, Pete Schweitzer. Alzò gli occhi quando udì la mia voce. «Guarda chi c'è. Benvenuti nel sancta sanctorum.» «Siamo venuti a disturbarvi. A vedere come lavorate», disse Sampson. Avevamo già collaborato entrambi con Pete Schweitzer: lo trovavamo simpatico e affidabile quanto poteva esserlo uno dell'FBI. «Entrate e accomodatevi pure in casa Soneji. Questo è il mio collega addetto alle caccole di mosca, Todd Toohey. La mattina a Todd piace ascoltare la radio. Toddie, questi sono due fantasmi di piedipiatti come me.» «I migliori», dissi a Toddie Toohey. Avevo già cominciato a curiosare in giro per l'appartamento. Di nuovo tutto ridiventava irreale. Sentivo una specie di grumo freddo e umido dentro la testa. L'atmosfera era lugubre e carica di mistero. Il piccolo appartamento-studio era in completo disordine. Non vi erano molti mobili: un materasso sul pavimento, un tavolino, una lampada e un divano che aveva l'aria di essere stato raccolto per strada. Il pavimento però era ricoperto di oggetti. Lenzuola, asciugamani e biancheria spiegazzati costituivano la parte principale di quella confusione: era sparso l'equivalente di due o tre carichi
di lavatrice. Parecchie centinaia di libri e un'analoga quantità di riviste erano ammucchiati in quell'unica stanzetta. «Nulla d'interessante finora? Hai dato un'occhiata a questa biblioteca?» domandai a Schweitzer. Mi rispose senza sollevare lo sguardo dal mucchio di libri che stava spolverando. «È tutto interessante. Verifica i libri lungo la parete. Tieni pure presente il fatto che, prima di filarsela, il nostro caro amico ha eliminato ogni impronta da tutto il maledetto appartamento.» «Ha fatto un buon lavoro? È all'altezza dei vostri standard?» «Un lavoro eccellente. Io stesso non avrei potuto fare di meglio. Non abbiamo trovato da nessuna parte neppure mezza impronta. Nemmeno su uno di quei maledetti libri.» «Forse legge indossando guanti di plastica», suggerii. «Potrebbe averlo fatto. Non scherzo. Questo posto è stato spolverato da un professionista, Alex.» Ero rannicchiato vicino ad alcune pile di libri. Lessi i titoli sulla costa. La maggior parte di essi, pubblicati all'inarca negli ultimi cinque anni, non era di narrativa. «Un vero patito dei delitti», osservai. «Un sacco di libri su rapimenti», aggiunse Schweitzer. Alzò lo sguardo e indicò con la mano. «Il lato a destra del letto, vicino alla lampada. Lì c'è la sezione rapimenti.» Mi spostai laggiù e guardai i volumi. La maggior parte era stata rubata alla biblioteca di Georgetown. Immaginai che doveva avere una carta d'identità per l'accesso a quegli scaffali. Che fosse un ex studente? Parecchi fogli stampati al computer erano appesi alla parete sopra la biblioteca sui rapimenti. Cominciai a leggere la lista. • Aldo Moro, rapito a Roma. Cinque agenti della scorta uccisi durante il sequestro. Il corpo di Moro ritrovato in un'auto parcheggiata. • Jack Teich, liberato dopo il pagamento di 750.000 dollari. • J. Reginald Murphy, direttore dell'Atlanta Constitution, liberato dopo il pagamento di 700.000 dollari. • J. Paul Getty III, liberato in Italia dopo il pagamento di un riscatto di 2.800.000 dollari. • Virginia Piper di Minneapolis, liberata dopo che il marito ha pagato un milione di dollari. • Victor F. Samuelson, liberato in Argentina dopo il pagamento di
14.200.000 dollari. Emisi un fischio quando scorsi le somme indicate nella lista. Quanto avrebbe chiesto lui per Maggie Rose Dunne e Michael Goldberg? Il luogo era piccolo e Soneji non aveva molti posti da controllare per cancellare le impronte. Eppure, il fatto che avesse eseguito un lavoro impeccabile era inquietante. Mi chiesi se Soneji poteva essere stato un poliziotto. Un accorgimento del genere dimostrava che il delitto era stato progettato a lungo, in modo da aumentare le possibilità di farla franca. «Entra qui un momento», disse Sampson dal bagno. Le pareti erano ricoperte di foto ritagliate da riviste, giornali, copertine di dischi e di libri. Ci aveva riservato una sorpresa finale. Non c'erano impronte digitali, ma aveva scarabocchiato un messaggio. Proprio sopra lo specchio, c'era una scritta in stampatello: VOGLIO ESSERE QUALCUNO! Sulle pareti c'era una mostra. Vidi River Phoenix e Matt Dillon. C'erano foto tratte dai libri di Helmut Newton. Riconobbi l'assassino di Lennon, Mark David Chapman. E Axl Rose. Anche Pete Rose, il giocatore di baseball, era appiccicato alla parete. E Neon Deon Sanders. C'era Wayne Williams, e articoli di giornale. L'incendio dell'Happy Land Social Club a New York City. Un articolo del New York Times sul rapimento Lindbergh. Un articolo sul sequestro di Samuel Bronfman, l'erede dei Seagram, e un articolo su un bambino scomparso, Etan Patz. Pensai a Soneji, il rapitore, tutto solo nel suo appartamento desolato. Aveva accuratamente cancellato le impronte da ogni centimetro di superficie. La stessa stanza era così piccola, quasi monacale. Era un lettore, o almeno gli piaceva essere circondato da libri. Poi c'era la sua galleria fotografica. Che significato poteva avere per noi? Erano indizi o false piste? Ero davanti allo specchio del lavabo, e lo fissai come sapevo che lui aveva fatto moltissime volte. Che cosa avrei dovuto scorgervi? Che cosa ci aveva visto Gary Soneji? «Questa era la sua foto alla parete: il viso nello specchio.» Proposi questa teoria a Sampson. «È l'immagine chiave in questo contesto, quella centrale. Vuole essere la star delle star.» Sampson era appoggiato a una parete di foto e ritagli di giornale. «Perché non ci sono impronte, dottor Freud?» «Deve sapere che noi disponiamo delle sue impronte in qualche archi-
vio. Mi fa pensare che abbia indossato un qualche travestimento a scuola. Forse si truccava proprio qui prima di andare a scuola. Potrebbe trattarsi di un attore. Penso che non abbiamo ancora visto il suo vero volto.» «Io credo che il ragazzo abbia in mente grossi progetti. Senz'altro vuole diventare una star», concluse Sampson. Voglio essere qualcuno! 13 Maggie Rose Dunne si era risvegliata dal più strano sonno della sua vita. Aveva fatto brutti sogni, orribili e indescrivibili. Le sembrava che intorno a lei tutto si muovesse al rallentatore. Aveva sete e aveva un terribile bisogno di fare pipì. Sono troppo stanca questa mattina, mamma. Per favore! Non voglio alzarmi. Non voglio andare a scuola oggi. Per favore, mamma. Non mi sento bene. Veramente, non mi sento bene, mamma. Maggie Rose aprì gli occhi. O almeno credette di aver aperto gli occhi, ma non vide nulla. Ma proprio nulla. «Mamma! Mamma! Mamma!» urlò infine Maggie, e non smise di urlare. Dopo, per almeno un'ora, fluttuò tra coscienza e incoscienza. Si sentiva addosso una gran debolezza. Galleggiava come una foglia sopra le acque di un fiume immenso. Le correnti la portavano dove volevano. Pensava alla mamma. Lo sapeva che Maggie era scomparsa? Ora la stava cercando? Doveva essere già alla sua ricerca! Forse qualcuno le aveva amputato braccia e gambe. Non le sentiva. Doveva essere successo molto tempo prima. Era tutto nero. Doveva essere sepolta sottoterra. Doveva essere in decomposizione e forse stava per diventare uno scheletro. Era quella la ragione per cui non sentiva più le braccia e le gambe? Sarebbe sempre stato così? Non poteva sopportare una cosa simile e si mise di nuovo a piangere. Si sentiva così confusa. Non riusciva a pensare. Però Maggie Rose riusciva ad aprire e chiudere gli occhi. O almeno pensava di riuscirvi. Ma non vi era alcuna differenza tra il tenere gli occhi chiusi o aperti. Era tutto buio, in entrambi i casi. Se continuava ad aprire e chiudere gli occhi molto velocemente, vedeva il colore. Ora, in quel buio, vedeva striature e macchie di colore. Per lo più rosse e giallo brillante.
Maggie si chiese se era immobilizzata o legata a qualcosa. Era quello che ti facevano dentro una bara? Ti legavano giù? Perché avrebbero dovuto fare una cosa del genere? Per impedirti di uscire dalla terra? Per tenere il tuo spirito sottoterra per sempre? D'improvviso si ricordò di una cosa. Il signor Soneji. Per un attimo, un po' della nebbia che vorticava intorno a lei si dissipò. Il signor Soneji l'aveva portata via da scuola. Quando era accaduto? Perché? Dov'era il signor Soneji ora? E Michael? Che era accaduto a Michael? Erano usciti insieme dalla scuola. Almeno quello se lo ricordava. Allora si mosse, e accadde la cosa più stupefacente. Scoprì di poter rotolare su se stessa. E fu ciò che fece Maggie Rose. Rotolò su se stessa, e d'improvviso urtò contro qualcosa. Riusciva a sentire di nuovo tutto il suo corpo. Aveva ancora un corpo da sentire. Era assolutamente certa di avere il proprio corpo e di non essere uno scheletro. E Maggie urlò. Rotolando aveva urtato contro qualcosa o qualcuno. C'era qualcun altro lì al buio con lei. Michael? Doveva essere Michael. «Michael?» La voce di Maggie era sommessa, quasi un sussurro. «Michael? Sei tu?» Rimase in attesa di una risposta. «Michael?» bisbigliò più forte. «Michael, su. Per favore, parlami.» Chiunque fosse non rispose. Era ancora più spaventoso che essere lì da sola. «Michael... sono io... Non spaventarti... Sono Maggie... Michael, per favore, svegliati. Oh, Michael, per favore... Per favore, Tappo. Stavo solo scherzando su quelle tue stupide scarpe. Su, Michael. Parlami, Tappo. Sono la tua Sapientona.» 14 La casa della famiglia Dunne era del tipo che gli esperti delle agenzie immobiliari locali definivano di stile neoelisabettiano. Né io né Sampson ne avevamo viste molte del genere nella zona sud-est del Distretto di Co-
lumbia. All'interno, dava quella sensazione di serenità e di varietà che credo sia normale tra i ricchi. C'erano moltissime cose costose, incisioni in stile art déco, paraventi orientali, una meridiana francese, un tappeto del Turkestan, un affare che sembrava un tavolo d'altare cinese o giapponese. Mi ricordai di una cosa che aveva detto una volta Picasso: «Datemi un museo, e io ve lo riempirò». C'era un bagnetto con accesso da una delle sale di soggiorno. Pochi minuti dopo il mio arrivo il comandante Pittman mi afferrò e mi ci spinse dentro. Erano circa le otto: troppo presto per una cosa del genere. «Che cosa credi di fare?» mi domandò. «Che cos'hai in mente di fare, Cross?» La stanza era veramente angusta, non c'era abbastanza posto per due adulti della nostra stazza. Ma non era neppure la solita stanzetta da bagno. Il pavimento era rivestito da un tappeto di William Morris. E in un angolo era piazzata una sedia firmata. «Pensavo di bermi un caffè. Poi intendevo partecipare alla riunione della mattina», dissi a Pittman. Volevo con tutte le mie forze andarmene da quel bagno. «Non prendermi per il culo.» Cominciò ad alzare la voce. «Non provarti a farlo con me.» Hmm, non farlo, pensai. Non fare scenate qua dentro. Ebbi l'idea di mettergli la testa sott'acqua dentro la tazza del cesso, così, tanto per calmarlo. «Abbassa la voce, o me ne vado», gli dissi. Io cerco quasi sempre di agire in modo ponderato e ragionevole. È uno dei miei peggiori difetti. «A me non lo dici di abbassare la voce. Chi cazzo ti ha detto di andartene a casa ieri sera? Tu e Sampson. Chi ti ha detto di andare nell'appartamento di Soneji stamattina?» «Tutta 'sta storia per questo? È per questo che ora noi due siamo qua dentro?» gli chiesi. «Ci puoi scommettere. Sono io che mi occupo di queste indagini. Ciò significa che se voi due volete allacciarvi le scarpe, prima lo dovete chiedere a me.» Feci un largo sorriso, non potei farne a meno: «Dove l'hai presa questa battuta? La diceva Lou Gossett in Ufficiale e gentiluomo». «Pensi che stia scherzando o che mi diverta, Cross?» «No. Non credo che sia divertente. Non venire più a rompermi le palle, altrimenti rischi le tue», lo avvertii.
Uscii dal bagno. Pittman non mi seguì. Sì, quello stronzetto a volte può irritarmi. Ma non riuscirà a fregarmi. Poco dopo le otto, la squadra antisequestri era finalmente riunita in un grande soggiorno stupendamente arredato. Subito avvertii che c'era qualcosa di storto. Senz'altro era successo qualcosa. Jezzie Flanagan dei servizi segreti aveva preso la parola. Mi ricordavo di lei per averla vista la mattina prima alla Day School. Stava davanti a un caminetto acceso. Sulla cappa del camino erano appesi rami di agrifoglio, minuscole lampadine e cartoline di auguri natalizi, parecchie delle quali, insolite, provenivano evidentemente da amici californiani dei Dunne: foto di palme decorate o di Babbo Natale in slitta nel cielo sopra Malibu. I Dunne si erano trasferiti da poco a Washington, dopo che Thomas Dunne aveva accettato il posto di direttore della Croce Rossa. Jezzie Flanagan aveva un aspetto più formale di quello esibito a scuola. Indossava un'ampia gonna grigia, un pullover girocollo nero e piccoli orecchini d'oro. Aveva l'aria di un avvocato di Washington, uno di quelli attraenti e di successo. «Soneji ci ha contattato a mezzanotte, la notte scorsa. Poi di nuovo verso l'una. Non credevamo che l'avrebbe fatto così presto. Nessuno di noi se lo aspettava. La prima telefonata proveniva dalla zona di Arlington. Ha subito messo in chiaro che non aveva niente da dire sui bambini, tranne che sia Maggie Dunne sia Michael Goldberg stavano bene. Che altro poteva dire? Non ci ha permesso di comunicare con nessuno dei due, e così non lo sappiamo con certezza. Parlava con lucidità e sembrava pienamente padrone della situazione.» «È già stata analizzata la registrazione della sua voce?» chiese Pittman dal suo posto vicino alla prima fila. Se io e Sampson dovevamo starcene lì in qualità di osservatori, faceva piacere sapere che Pittman era nelle nostre stesse condizioni. A quanto pareva, nessuno parlava neppure con lui. «Lo stiamo facendo», rispose la Flanagan educatamente. Diede alla domanda l'attenzione che si meritava, osservai, ma evitò di mostrarsi condiscendente. Era veramente in gamba a mantenere il controllo della faccenda. «Quanto è rimasto all'apparecchio?» chiese poi il procuratore Richard Galletta. «Sfortunatamente non molto, trentaquattro secondi per essere precisi», rispose la Flanagan con la stessa cortese efficienza. Fredda, ma simpatica.
Era in gamba. La studiai. Si trovava visibilmente a suo agio di fronte alla gente. Avevo sentito dire che si era fatta una buona reputazione negli ultimi anni, il che significava che era stata capace di far riconoscere i propri meriti. «Se n'era andato da parecchio tempo quando siamo arrivati alla cabina telefonica di Arlington. Non potevamo avere subito una fortuna così sfacciata», aggiunse. Accennò un sorriso, e notai che parecchi degli uomini lì presenti glielo ricambiarono. «Per quale motivo crede che abbia telefonato?» chiese il capo del dipartimento di polizia dal fondo della stanza. Era un tipo con pochi capelli, una bella pancia e fumava la pipa. La Flanagan sospirò. «La prego, mi lasci continuare. Sfortunatamente c'è dell'altro, oltre alla telefonata. Ieri notte Soneji ha assassinato l'agente dell'FBI Roger Graham. Il fatto è avvenuto davanti alla casa di Graham in Virginia, sul vialetto del garage.» È una bella impresa impressionare un gruppo di gente esperta come quella radunata in casa Dunne. Ma la notizia dell'assassinio di Graham ci riuscì. Sentii le ginocchia che cedevano. Io e Roger ci eravamo trovati a fianco a fianco nel corso degli ultimi anni. Quando lavoravo con lui sapevo sempre che le mie spalle erano coperte. Non che avessi bisogno di ulteriori ragioni per desiderare con tutto il cuore di mettere le mani su Gary Soneji: in ogni caso, lui ne aveva fornita una valida. Mi chiesi se Soneji lo avesse previsto. E che cosa significava in tal caso? Come psicologo, quell'assassinio mi riempì di una sensazione di paura. Mi diceva che Soneji era un uomo organizzato, che aveva abbastanza fiducia in se stesso da giocare addirittura con noi, ed era disposto a uccidere. Non era di buon auspicio per Maggie Rose Dunne né per Michael Goldberg. «Ci ha lasciato un chiaro messaggio», proseguì la Flanagan. «Il messaggio è stato battuto a macchina su una scheda, o quella che sembrava una scheda di biblioteca. Il messaggio è diretto a tutti noi: 'Quel pallone gonfiato di Roger Graham pensava di essere un pezzo grosso. Be', è chiaro che non lo era! Se vi occupate di questo caso, siete in grave pericolo!' Il messaggio è firmato Il Figlio di Lindbergh.» 15 La stampa si buttò col solito cinismo sull'affare del sequestro. Il titolo di prima pagina di uno dei quotidiani del mattino diceva: GLI UOMINI DEI
SERVIZI SEGRETI ERANO A PRENDERSI UN CAFFÈ. La notizia della morte dell'agente Roger Graham non era ancora stata diramata. Cercavamo di tenere la cosa nel cassetto. I pettegolezzi giornalistici di quella mattina riguardavano il fatto che gli agenti dei servizi segreti Charles Chakely e Michael Devine avevano abbandonato il loro posto alla scuola privata. In effetti erano andati a fare colazione nel corso delle lezioni. Ma era una cosa del tutto normale in questo genere di servizio. La pausa per il caffè, tuttavia, sarebbe costata loro molto cara. Per l'esattezza gli sarebbe costata la carriera. Pittman, fino a quel momento, non stava utilizzando molto né me né Sampson. Andò avanti così per due giorni. Abbandonati a noi stessi, ci concentrammo sulla debole pista lasciata da Soneji. Io la seguii fino ai negozi della zona in cui si potevano acquistare articoli per trucco ed effetti speciali. Sampson, invece, si recò alla biblioteca di Georgetown, ma lì nessuno lo aveva mai visto. Non si erano neppure accorti dei libri rubati dai loro scaffali. Soneji era riuscito a sparire. E, cosa ancor più seccante, sembrava non essere mai esistito prima di venire assunto alla Washington Day School. Non ci sorprese il fatto che avesse falsificato il suo curriculum e parecchi attestati di servizio. Si era comportato con la stessa perizia del truffatore più consumato. Non aveva lasciato alcuna pista. Aveva dimostrato una sicurezza spinta fino alla temerarietà pur di ottenere quel posto a scuola. Un presunto datore di lavoro precedente aveva contattato la Washington Day School e aveva caldamente raccomandato Gary Soneji, in procinto di trasferirsi nella zona di Washington. Ulteriori raccomandazioni erano pervenute via fax dall'università della Pennsylvania. Dopo due colloqui che avevano fatto un grande effetto, la scuola era stata tanto impaziente di accaparrarsi quell'insegnante così preparato e di bella presenza che, per battere la concorrenza di altre scuole private del Distretto di Columbia (ultimo tocco del truffatore), lo aveva assunto su due piedi. «E non ci siamo mai pentiti di averlo assunto. Fino a ora, naturalmente», ammise con me il vicepreside. «Era perfino migliore di quanto ci aspettassimo. Sarei veramente stupito se prima di venire qui non avesse mai insegnato matematica. Vorrebbe dire che è un attore straordinario.» Finalmente, nel tardo pomeriggio del terzo giorno, Don Manning, uno dei luogotenenti di Pittman, mi assegnò un compito. Mi venne chiesto di
esaminare e valutare Katherine Rose Dunne e suo marito. Avevo già cercato di farmi ricevere per conto mio dai Dunne, ma mi era stato opposto un rifiuto. Incontrai Katherine e Thomas Dunne nel cortile di casa loro. Un muro di pietra grigia alto più di tre metri e una fila di enormi tigli lo separavano dal mondo esterno. In effetti il cortile era costituito da parecchi giardini separati da muri in pietra e da un ruscello serpeggiante. C'erano i giardinieri, naturalmente, una giovane coppia che, a quanto si vedeva, guadagnava bene con quel mestiere. Guadagnavano senz'altro più di me. Katherine Rose si era messa un vecchio maglione di cammello sopra i jeans e un pullover dal collo a V. Probabilmente stava bene con qualunque straccio, pensai quando la vidi. Veniva ancora considerata una delle più belle donne del mondo. Aveva fatto solo pochi film da quando era nata Maggie Rose, ma non aveva perduto nulla della sua bellezza, almeno a quanto potevo vedere io. Neppure in quel momento di angoscia. Suo marito, Thomas Dunne, era stato un importante avvocato del mondo dello spettacolo a Los Angeles, dove si erano conosciuti. Laggiù si era avvicinato a Greenpeace e ad altri movimenti di ecologisti. La famiglia si era trasferita a Washington dopo che lui era diventato direttore della Croce Rossa americana. «Si è occupato di altri sequestri di bambini?» volle sapere Thomas Dunne. Cercava di capire quale fosse la mia collocazione professionale. Ero importante? Potevo essere di qualche aiuto alla loro bambina? Fu un po' brusco, ma non lo biasimai, date le circostanze. «Una dozzina circa», gli risposi. «Può parlarmi un po' di Maggie? Potrebbe servire. Più ne sappiamo, e maggiori saranno le nostre possibilità di trovarla.» Katherine Rose annuì. «Certo, signor Cross. Abbiamo cercato di crescere Maggie nel modo più normale possibile», disse. «Questa è una delle ragioni per cui ci siamo decisi a trasferirci sulla East Coast.» «Non so se definirei Washington un posto normale in cui crescere. Non è esattamente come abitare in una tranquilla cittadina svizzera.» Sorrisi. Per una qualche ragione, quella frase iniziò a rompere il ghiaccio. «A confronto con Beverly Hills è molto normale», ribatté Tom Dunne. «Non sono neppure sicura di che cosa significhi 'normale', oggi come oggi», osservò Katherine. Gli occhi di lei sembravano grigio-azzurri. Da vicino il suo sguardo era molto penetrante. «Credo che 'normale' corri-
sponda a una qualche immagine antiquata rimasta nel ripostiglio della nostra mente, mia e di Tom. Maggie non è viziata. Non è una bambina del tipo 'Susy ha questo', oppure 'i genitori di Casey le hanno comprato questo'. Non è presuntuosa. Ecco che cosa intendo per 'normale'. È semplicemente una bambina, agente.» Mentre parlava con affetto della figlia, mi ritrovai a pensare ai miei, di figli, ma soprattutto a Janelle. Anche Jannie era «normale». Con questo intendo dire che era equilibrata, senz'altro non viziata, adorabile in ogni senso. Li ascoltai con attenzione ancora maggiore mentre parlavano di Maggie Rose. «Assomiglia moltissimo a Katherine.» Thomas Dunne propose un argomento che riteneva importante farmi conoscere. «Katherine è la persona meno egocentrica che io abbia mai conosciuto. Mi creda, sopravvivere all'adulazione e agli insulti odiosi che una stella del cinema può ricevere a Hollywood, e rimanere una persona come lei, è molto difficile.» «Come mai l'avete chiamata Maggie Rose?» chiesi a Katherine. «Questo è opera mia.» Gli occhi di Thomas Dunne brillarono. Si capiva che gli piaceva parlare a nome della moglie. «Era un soprannome che poi ha attecchito subito. La cosa è cominciata quando ho visto loro due in ospedale.» «Tom ci chiama 'le ragazze Rose', 'le sorelle Rose'», proseguì Katherine. «Facciamo ginnastica e corriamo qui, nel 'Giardino delle Rose'. Quando io e Maggie litighiamo, è 'la guerra delle Rose'. E via di seguito.» Amavano molto la loro bambina. Lo avvertivo da ogni parola che dicevano su Maggie. Soneji, o comunque si chiamasse in realtà, nel loro caso aveva fatto una scelta oculata. Si trattava di un'altra mossa perfetta da parte sua. Si era preparato bene. Una grande stella del cinema e un avvocato famoso. Genitori molto affezionati. Soldi. Prestigio. Forse gli piacevano i film di lei. Cercai di ricordare se Katherine Rose avesse interpretato un ruolo che poteva averlo spinto ad agire. Non ricordavo di aver visto foto sue nell'appartamento di Soneji. «Sapreste immaginare in che modo Maggie potrebbe reagire in una simile circostanza?» domandai. «Perché fa questa domanda?» mi chiese a sua volta Katherine. «Da quanto ci hanno raccontato i suoi insegnanti, sappiamo che si comporta molto bene. Questa potrebbe essere una ragione per cui Soneji l'ha scelta.» Ero schietto con loro. «Che altro vi può venire in mente? Esprime-
te ogni possibile associazione di idee.» «Maggie oscilla tra un atteggiamento serio - è molto severa e ligia ai doveri - e uno molto fantasioso», disse Katherine. «Lei ha figli?» mi chiese. Trasalii. Stavo pensando di nuovo a Jannie e Damon. «Due figli. E poi lavoro per i ragazzi dei quartieri poveri», risposi. «Maggie ha molti amici a scuola?» «Decine e decine», disse suo padre. «A lei piacciono i ragazzi che hanno tante idee, ma non sono troppo egocentrici. Salvo Michael, che è molto attento alle esigenze del proprio io.» «Mi racconti di loro due, Maggie e Michael.» Katherine Rose sorrise per la prima volta da quando stavamo parlando. Era così strano quel sorriso, che avevo visto in tanti film e ora vedevo di persona. Ne fui ipnotizzato. Mi sentii intimidito, e anche imbarazzato dalla mia stessa reazione. «Sono inseparabili fin da quando ci siamo trasferiti qui. Sono una coppia stranissima, ma non si lasciano mai. A volte li chiamiamo 'i fidanzati'.» «Come pensa che Michael reagirebbe in queste circostanze?» «Difficile a dirsi.» Thomas Dunne scosse il capo. Dava l'impressione di essere un uomo molto impaziente. Probabilmente era abituato a ottenere quello che voleva e quando lo voleva. «Michael ha la necessità di seguire un piano. La sua vita è molto ordinata, ben organizzata.» «Che cosa mi può dire dei suoi disturbi fisici?» Sapevo dei problemi che aveva avuto alla nascita. Aveva ancora un soffio al cuore. Katherine Rose scrollò le spalle. «Sembrava non fosse un grosso problema. A volte si stanca. È un po' piccolo per la sua età. Maggie è più alta di Michael.» «Lo chiamano 'Tappo', un nomignolo che credo gli piaccia. Lo fa sentire parte del gruppo», aggiunse Tom Dunne. «È una specie di bambino superdotato. Maggie lo chiama 'cervellone'. Questa è una descrizione abbastanza esauriente di Michael.» «Michael è senz'altro un cervellone.» «Com'è quando si stanca?» Ritornai su un punto sollevato da Katherine, forse un punto importante. «Diventa irascibile?» Soppesò la domanda prima di rispondere. «Si sente solamente stanco morto. A volte, schiaccia un pisolino. Una volta... Mi ricordo che si sono addormentati entrambi vicino alla piscina. Quella strana coppia era stesa nell'erba. Proprio come due bambini.» Mi fissò coi suoi grandi occhi grigi e cominciò a piangere. Ce l'aveva
messa tutta per controllarsi, ma alla fine aveva ceduto. Per quanto fossi riluttante, ora mi sentivo tirato dentro fino al collo. Provavo compassione per i Dunne e i Goldberg. Se pensavo a Maggie Rose mi venivano in mente i miei figli. Mi sentivo coinvolto in un modo che non sempre è utile. La rabbia che provavo nei confronti dell'assassino di Mustaf si stava trasferendo sul rapitore di questi due bambini innocenti: il signor Soneji, Mister Chips. Volevo arrischiarmi a dire loro che sarebbe andato tutto bene, convincere me stesso che sarebbe andato tutto bene. Ma non ne ero affatto sicuro. 16 Maggie Rose credeva ancora di trovarsi nella propria tomba. Era ben più che raccapricciante e spaventoso. Era un milione di volte peggio di qualunque altro incubo avesse mai avuto. E Maggie sapeva di avere un'immaginazione molto fervida. Era capace di orripilare o sbalordire i suoi amichetti, quasi a suo piacere. Era notte? Oppure era giorno? Emise un debole gemito: «Michael?» In bocca, soprattutto sulla lingua, sentiva un forte sapore di tamponi di cotone. La sua bocca era incredibilmente secca. Aveva una gran sete. A volte si mordeva la lingua. Continuava a immaginarsi d'ingoiare la lingua. Nessuno aveva mai provato una tale sete. Neppure nei deserti dell'Iraq e del Kuwait. Maggie Rose continuava a fluttuare tra il sonno e la veglia. I sogni si susseguivano l'uno dopo l'altro. Ne era appena iniziato uno nuovo. Lì vicino qualcuno stava picchiando su una pesante porta di legno. Chiunque fosse gridò il suo nome. «Maggie Rose... Maggie Rose, di' qualcosa!» Poi Maggie non fu più sicura che si trattasse di un sogno. C'era davvero qualcuno. Qualcuno voleva penetrare nella sua tomba? Erano forse la mamma e il papà? O finalmente la polizia? D'improvviso fu accecata da una luce che veniva dall'alto. Maggie Rose era sicura che si trattava di luce. Era come se davanti al suo viso si fosse acceso un centinaio di flash. Il cuore le batteva così forte e veloce che Maggie Rose capì di essere viva. Nel posto orribile in cui qualcuno l'aveva messa, ma viva. Maggie Rose sussurrò verso l'alto, verso la luce: «Chi è? Chi c'è? Chi c'è
lassù? Vedo un viso!» La luce era così violenta che Maggie Rose non riusciva a vedere niente. Per la seconda - o terza - volta il buio completo si era trasformato in un bianco accecante. Poi la sagoma di qualcuno nascose alla vista gran parte della luce. Maggie non riusciva a vedere chi c'era lì. La luce s'irradiava da dietro la persona. Maggie serrò forte gli occhi. Poi li aprì. Ripeté l'azione più volte. Non riusciva a vedere niente. Non riusciva a mettere a fuoco chi o che cosa ci fosse lì. Dovette continuare a strabuzzare gli occhi. Chiunque si trovasse lassù doveva vedere che lei li strabuzzava, doveva capire che lei era viva. «Signor Soneji? Mi aiuti», cercò di urlare. La sua gola era così asciutta. La sua voce era così stridula e irriconoscibile. «Zitta! Zitta!» gridò una voce dall'alto. C'era qualcuno là sopra! C'era davvero qualcuno là sopra che poteva tirarla fuori. Sembrava la voce di una vecchia. «Per favore, mi aiuti. La prego», implorò Maggie. Una mano calò rapida e la colpì al volto con violenza. Maggie scoppiò in pianto. Provò più spavento che dolore, ma lo schiaffo le fece male. Non era mai stata schiaffeggiata prima. La testa le rimbombava con violenza. «Smettila-di-piangere!» Quella voce lugubre si era fatta più vicina. Poi quella persona scese nella tomba, e fu proprio sopra di lei. Maggie sentì una forte puzza di sudore e un alito cattivo. Qualcuno la teneva inchiodata al suolo, e lei era troppo debole per reagire. «Non fare resistenza, piccola bastarda! Non fare mai resistenza! Chi credi di essere, piccola bastarda?» Dio, ti prego, che stava accadendo? «Tu sei la famosa Maggie Rose, vero? Una marmocchia ricca e viziata! Adesso ti dirò un segreto. Il nostro segreto. Ragazzina ricca, tu morirai. Tu morirai!» 17 Il giorno seguente era la vigilia di Natale. Non si avvertiva il clima gioioso delle festività. E prima di Natale la situazione sarebbe ancora peggiorata.
Nessuno di noi aveva potuto concedersi ai soliti preparativi festosi con le proprie famiglie. Quella situazione si aggiungeva, aggravandola, alla tensione della squadra antisequestri. Ingigantiva la sofferenza di quel compito deprimente. Se Soneji aveva scelto il periodo natalizio per questo motivo, aveva avuto ragione. Aveva rovinato il Natale a tutti quanti. Verso le dieci del mattino percorsi la Sorrell Avenue verso casa Goldberg. Nel frattempo Sampson se l'era filata per fare qualche indagine sugli omicidi della zona sud-est. Avevamo concordato di ritrovarci verso mezzogiorno a confrontare le nostre storie dell'orrore. Parlai coi Goldberg per più di un'ora. Non stavano reagendo granché bene alla situazione. Sotto molti aspetti erano ancor più disponibili di Katherine e Thomas Dunne. Erano genitori più rigidi dei Dunne, ma anche Jerrold e Laurie Goldberg nutrivano un grande amore per Michael. Undici anni prima, i dottori avevano detto alla donna che non poteva avere figli. Quando aveva scoperto di essere incinta di Michael, le era sembrato un miracolo. Soneji ne era al corrente? mi chiesi. Con quale particolare cura aveva scelto le sue vittime? Perché Maggie Rose e Michael Goldberg? I Goldberg mi permisero di vedere la cameretta di Michael e di restarci un po' di tempo da solo. Chiusi la porta della camera e rimasi seduto immobile per qualche minuto. Avevo fatto la stessa cosa nella stanza di Maggie dai Dunne. La camera del ragazzo era stupefacente. Era una vera e propria stanza del tesoro piena di computer e di videogame: Macintosh, Nintendo, Windows. I laboratori della AT&T non erano attrezzati quanto la stanza di Michael Goldberg. Manifesti dei film di Katherine Rose, Tabù e Luna di miele, erano attaccati alle pareti. Un manifesto di Sebastian Bach, il cantante degli Skid Row, era piazzato sopra il letto. Una foto di Albert Einstein con un taglio di capelli punk color lilla mi fissò dalla stanza da bagno privata di Michael. C'era inoltre una copertina della rivista Rolling Stone che chiedeva: «Chi ha ucciso Pee-Wee Herman?» Una foto incorniciata di Michael e Maggie Rose era appoggiata sulla scrivania. I due ragazzi in posa a braccetto sembravano grandissimi amici. Che cosa aveva spinto ad agire Soneji? Qualcosa forse che c'entrava con quella loro speciale amicizia? Nessuno dei Goldberg aveva mai conosciuto Soneji, benché Michael avesse parlato moltissimo di lui. Soneji era l'unico, bambino o adulto, che avesse mai battuto Michael a giochi come Ultima e Super Mario Bros. Ciò
indicava che forse Soneji era anche lui un cervellone, un altro bambino prodigio, che però non lasciava per una specie di puntiglio che un ragazzino di nove anni lo sconfiggesse ai videogame. Non era disposto a perdere in nessun gioco. Ero di nuovo in biblioteca coi Goldberg, a guardare fuori di una finestra, quando all'improvviso il caso prese per sempre una piega incontrollabile. Vidi Sampson uscire di corsa dalla casa dei Dunne e, proprio mentre raggiungeva il prato, uscii anch'io come un razzo da casa Goldberg. Si bloccò come un attaccante di football nella zona di meta. «Ha telefonato ancora?» chiesi. Scosse la testa. «No. Però ci sono novità. È accaduto qualcosa, Alex, e l'FBI se lo tiene per sé. Hanno in mano qualcosa. Su, andiamo.» La polizia aveva istituito un blocco stradale in fondo a Plately Bridge Lane, una traversa di Sorrell Avenue. I cavalli di Frisia impedirono ai giornalisti di seguire le tre automobili che avevano lasciato casa Dunne appena dopo le due del pomeriggio. Io e Sampson eravamo sulla terza auto. Settanta minuti dopo, le tre berline percorrevano a tutta velocità la strada che attraversava le colline intorno a Salisbury, nel Maryland. Scendevano per una strada tortuosa verso la zona industriale, annidata tra fitti boschi di conifere. Essendo la vigilia di Natale, il moderno complesso industriale era deserto. Era un silenzio gravido di mistero. I prati ricoperti di neve circondavano tre distinte costruzioni per uffici in pietra calcarea. Una mezza dozzina di auto della polizia e di ambulanze era già arrivata in quello scenario misterioso. Un fiumiciattolo che finiva nella baia di Chesapeake scorreva dietro il gruppo di costruzioni. L'acqua era color rosso-marrone e sembrava inquinata. Alcuni cartelli indicatori blu sugli edifici dicevano: J. CAD MANUFACTURING, THE RASER/BECTON GROUP, TECHNOSPHERE. Fino a quel momento non ci avevano dato nessun indizio, non una sola parola era stata pronunciata su quanto era accaduto nella zona industriale. Sampson e io ci unimmo al gruppo che si dirigeva verso il ruscello. Sul posto c'erano altri quattro agenti dell'FBI, che avevano un'aria corrucciata. Tra la zona industriale e l'acqua si stendeva un terreno coperto di erbac-
ce giallastre. Poi, prima di giungere al fiume, c'era una striscia di trenta o quaranta metri priva di vegetazione. Il cielo era color grigio cenere e minacciava altra neve. Giù da un argine fangoso, gli aiutanti dello sceriffo stavano versando un qualche composto in alcune impronte per prenderne il calco. Gary Soneji era stato lì? «Le hanno detto qualcosa?» chiesi a Jezzie Flanagan quando ci trovammo a camminare affiancati giù per l'argine ripido e fangoso. Si stava rovinando le scarpe, ma non sembrò farci caso. «No. Non ancora. Niente di niente!» Era frustrata quanto me e Sampson. Questa era la prima circostanza in cui la squadra non funzionava come una cosa sola. L'FBI aveva avuto un'occasione per mostrare spirito di collaborazione. L'aveva bruciata. Non era un buon segno. Non era un inizio promettente. «Speriamo che non siano quei bambini», bisbigliò quando raggiungemmo un terreno più piatto. Due agenti dell'FBI, Reilly e Gerry Scorse, erano sulla riva del fiumiciattolo. Ricominciò a nevicare. Un vento freddo soffiava sopra l'acqua color grigio ardesia, che aveva l'odore del linoleum bruciato. Mi sentivo il cuore in gola. Non riuscivo a vedere niente lungo la riva. L'agente Scorse fece un discorsetto, che credo avesse l'obiettivo di calmare l'animo di noialtri. «L'atteggiamento cauto, quasi diffidente, che abbiamo adottato non era rivolto contro nessuno di voi. Visto il grande interesse che questo caso ha suscitato nella stampa, ci è stato chiesto - meglio ordinato - di non dire niente finché non fossimo arrivati tutti qui. Finché non avessimo visto coi nostri occhi.» «Visto che cosa?» chiese Sampson all'agente speciale dell'FBI. «Volete dirci che diavolo sta succedendo? Piantiamola con questa logorrea.» Scorse fece un segnale a uno degli agenti dell'FBI e gli disse qualcosa. Si chiamava McGoey, ed era in forza all'ufficio direttivo di Washington. L'avevo visto entrare e uscire dalla casa dei Dunne. Noi tutti pensavamo che sostituisse Roger Graham, ma tale supposizione non era mai stata confermata. McGoey annuì a quanto Scorse gli andava dicendo, poi si fece avanti. Era un uomo grasso dall'aspetto solenne, con grossi denti sporgenti e capelli bianchi tagliati a spazzola. Aveva l'aspetto di un militare vicino al pensionamento. «La polizia locale ha ripescato un bambino dal fiume verso le dieci di
oggi», annunciò. «Non sanno dire se si tratta di uno dei due bambini rapiti oppure no.» Ci fece camminare per una sessantina di metri lungo la riva fangosa del fiume. Ci arrestammo oltre un cumulo di terra coperto di muschio. Non si udiva alcun suono, eccetto il sibilo del vento sopra l'acqua. Finalmente capimmo perché ci avevano fatto venire fin lì. Un corpicino era avvolto in coperte di lana grigia, dotazione di un'ambulanza dell'obitorio. Era il fagotto più minuscolo e solo dell'intero universo. Un agente della polizia locale cominciò a fornirci i dettagli necessari. Iniziò a parlare con voce rauca e incerta. «Sono il tenente Edward Mahoney. Sono in forza alla polizia di Salisbury. Circa un'ora e venti minuti fa, una guardia giurata della Raser/Becton ha scoperto quaggiù il corpo di un bambino.» Ci avvicinammo alle coperte. Il corpo giaceva su un tumulo erboso che scendeva nell'acqua salmastra, vicino a un boschetto di salici. Il tenente s'inginocchiò a fianco del corpicino. Il suo ginocchio ricoperto dall'uniforme grigia sprofondò nel fango. I fiocchi di neve turbinavano intorno al suo volto, appiccicandosi ai capelli e alle guance. Scostò le coperte quasi con reverenza. Sembrava un padre che sveglia delicatamente il figlio per andare a pesca. Appena poche ore prima avevo visto una foto dei due ragazzini rapiti. Fui il primo a prendere la parola davanti al cadavere del bambino assassinato. «È Michael Goldberg», dichiarai con voce sommessa ma chiara. «Mi rincresce dover dire che si tratta di Michael. E lui, il povero Tappo.» 18 Jezzie Flanagan ritornò a casa solo verso l'alba del giorno di Natale. Le girava la testa, quasi le scoppiava sotto la spinta delle idee riguardo al sequestro che le turbinavano dentro. Doveva assolutamente far cessare quelle immagini ossessive. Doveva spegnere i motori, altrimenti sarebbe esplosa. Doveva smetterla di fare il poliziotto. La differenza tra lei e gli altri poliziotti era che lei sapeva staccare. Jezzie viveva ad Arlington con la madre. Dividevano un piccolo appartamento in un condominio vicino alla fermata della metropolitana di Crystal City. Jezzie lo considerava un «appartamento da suicidi». Quella
sistemazione avrebbe dovuto essere provvisoria, solo che ormai abitava lì da quasi un anno, da quando aveva divorziato da Dennis Kelleher. Dennis, detto «la Peste», si trovava nel Jersey settentrionale in quel periodo, a cercare ancora di entrare al New York Times. Non sarebbe mai riuscito nell'impresa, Jezzie ne era profondamente convinta. L'unica cosa in cui si era dimostrato bravo era stato il tentativo di scuotere la fiducia di Jezzie in se stessa. Era un vero asso in quella specialità, ma alla fine lei non gli aveva permesso di distruggerla. Aveva lavorato troppo duro ai servizi segreti per trovare il tempo di traslocare dall'appartamento di sua madre. O almeno questo era ciò che continuava a ripetersi. Non c'era stato il tempo di avere una vita privata. Stava risparmiando in vista di qualcosa di grosso, di un importante cambiamento nella sua vita. Faceva il computo dei suoi beni almeno un paio di volte alla settimana, ogni settimana. Possedeva ventiquattromila dollari. Quello era tutto. Aveva trentadue anni. Sapeva di essere carina, quasi bella, nella stessa misura in cui Dennis Kelleher era un buono scrittore. Poteva essere competitiva, pensava spesso. Ce l'aveva quasi fatta. Aveva bisogno solo di un'occasione, e alla fine aveva capito che quell'occasione doveva crearla lei. Si sentiva impegnata a fondo in quell'obiettivo. Si bevve una Smithwich, una birra chiara veramente ottima, il veleno preferito da suo padre. Mordicchiò una fetta di formaggio fresco. Poi si bevve una seconda birra sotto la doccia, nella cupa scala numero uno a casa di sua madre. Il visino di Michael Goldberg le balenò di nuovo davanti agli occhi. Non avrebbe più permesso che l'immagine del piccolo Goldberg le guizzasse nella mente. Non avrebbe avvertito alcun senso di colpa, anche se ne era lacerata. Basta con quelle immagini! Basta con tutto, adesso. Sua madre tossiva nel sonno. Aveva lavorato trentanove anni per l'azienda dei telefoni. Era la proprietaria dell'appartamento di Crystal City ed era una formidabile giocatrice di bridge. Nient'altro da dire su Irene Flanagan. Il padre era stato poliziotto nel Distretto di Columbia per ventisette anni. L'ultima partita la giocò sul suo amato posto di lavoro: un infarto aveva colpito Terry Flanagan tra la folla di Union Station, con centinaia di estranei a guardarlo morire, indifferenti. Perlomeno, quello era il resoconto che lei dava dell'accaduto. Jezzie decise, per la millesima volta, che doveva andarsene dalla casa di sua madre. A qualunque costo. Basta coi pretesti. Sgomberare, sgombera-
re... sgombra da qui con la tua vita. Aveva perso la nozione del tempo in cui era rimasta sotto la doccia, con la bottiglia di birra mezza vuota al suo fianco, sfregandosi il vetro freddo contro la coscia. «Drogata di disperazione», bisbigliò a se stessa. «Che pena!» Era comunque rimasta sotto la doccia abbastanza da finire la Smithwich e da avere di nuovo voglia di un'altra birra. Aveva voglia di qualcosa. Era riuscita per un po' a evitare di pensare al piccolo Goldberg. Ma non per davvero. Come avrebbe potuto? Il piccolo Michael Goldberg. Però, nel corso degli ultimi anni, Jezzie era diventata brava a dimenticare, per evitare a qualunque costo di soffrire. Era stupido soffrire, se si poteva farne a meno. Naturalmente ciò obbligava anche a evitare rapporti troppo stretti, evitare persino i dintorni dell'amore, evitare la maggior parte delle emozioni umane. Bene. Poteva essere un baratto accettabile. Aveva scoperto di poter sopravvivere senza amore. Sembrava una cosa terribile, ma era la verità. Sì, al momento, soprattutto in quel momento, quel baratto era un buon affare, pensò Jezzie. La aiutava a superare i giorni e le notti di crisi. E comunque riusciva in tal modo ad arrivare fino all'ora del cocktail. Ci riusciva bene. Se ce la faceva come donna-poliziotto, poteva farcela in qualsiasi cosa. Gli altri agenti dei servizi segreti dicevano che lei aveva i cojones. Era il loro modo di farle un complimento, e quindi Jezzie lo accettava come tale. Poi precisavano che aveva dei cojones di ferro. E quando non li aveva, era abbastanza in gamba da far finta di averli. All'improvviso, sentì il bisogno di prendere la moto per fare un giro; doveva uscire dal minuscolo e soffocante appartamento di Arlington. Doveva, doveva assolutamente, farlo. Sua madre la chiamò. «Jezzie, dove vai così tardi? Jezzie, sei tu?» «Vado qui vicino, mamma.» Una battuta cinica le rimbalzò dentro la testa: vado a fare gli acquisti di Natale al centro commerciale. Come al solito se la tenne dentro. Desiderava che il Natale se ne andasse via. Aveva paura del giorno successivo. Poi partì nella notte sulla sua BMW K-1, sfuggendo ai suoi incubi personali, oppure inseguendoli. Inseguendo i suoi demoni. Era Natale. Michael Goldberg era morto per i nostri peccati? Era di questo che si trattava? Rifiutò di sentire su di sé tutta la colpa. Era Natale e Cristo era già morto per i peccati di tutti. Anche per i peccati di Jezzie Flanagan. Si sentiva un
po' pazza. No, si sentiva molto pazza, ma poteva riprendere il controllo della situazione. Sempre sotto controllo. Ecco quello che avrebbe fatto ora. Cantava Winter Wonderland, mentre a centottanta chilometri all'ora percorreva l'autostrada che usciva da Washington. Di solito non aveva paura, ma quella volta sì. 19 In alcuni quartieri di Washington e delle vicine periferie del Maryland e della Virginia, la mattina di Natale vennero effettuate perquisizioni casa per casa. Le auto biancazzurre della polizia giravano per le strade del centro trasmettendo dagli altoparlanti un messaggio: «Stiamo cercando Maggie Rose Dunne. Maggie ha nove anni. Ha lunghi capelli biondi. È alta un metro e trenta e pesa trentadue chili. Una grossa ricompensa verrà data a chi fornirà informazioni che le permetteranno di ritornare in seno alla sua famiglia». Dentro la casa, una mezza dozzina di agenti dell'FBI lavorava in modo sempre più serrato insieme coi Dunne. Sia Katherine Rose sia Tom Dunne furono terribilmente scossi dalla morte di Michael. All'improvviso Katherine sembrò invecchiata di dieci anni. Eravamo tutti in attesa della prossima telefonata di Soneji. Mi ero messo in mente che avrebbe telefonato ai Dunne il giorno di Natale. Cominciavo a provare la sensazione di conoscerlo un po'. Volevo che chiamasse, volevo che cominciasse ad agire, in modo che facesse il suo primo sbaglio. Volevo catturarlo. Verso le undici della mattina di Natale, la squadra antisequestri venne convocata d'urgenza nel soggiorno dei Dunne. Eravamo quasi una ventina di poliziotti, tutti alla mercé dell'FBI per avere informazioni vitali. La casa ronzava come un alveare. Che cos'aveva fatto il Figlio di Lindbergh? Non ci avevano ancora dato molte informazioni. Sapevamo che era stato consegnato un telegramma a casa Dunne, che non veniva considerato come uno dei tanti messaggi di mitomani. Doveva essere Soneji. Gli agenti dell'FBI avevano monopolizzato i telefoni di casa nel corso degli ultimi quindici minuti. L'agente speciale Scorse tornò a casa Dunne poco prima delle undici e mezzo, probabilmente reduce dai festeggiamenti di Natale a casa sua. Il comandante Pittman entrò in scena cinque minuti dopo. Era stato chiamato il comandante della polizia.
«Sta diventando una storia veramente brutta: ci lasciano sempre all'oscuro.» Sampson si appoggiò al caminetto della stanza. «Quelli dell'FBI non si fidano di noi. Noi ci fidiamo di loro ancor meno che all'inizio.» «Noi abbiamo cominciato subito a non fidarci dell'FBI», gli ricordai. «Hai ragione.» Fece un largo sorriso. Potevo vedere la mia immagine riflessa nei suoi occhiali da sole e mi vedevo piccolo piccolo. Mi chiesi se tutto il mondo sembrava così piccolo dal punto di vista privilegiato di Sampson. «È stato il nostro uomo a mandare il telegramma?» mi chiese. «Questo è ciò che pensa l'FBI. Probabilmente è il suo modo di fare gli auguri di Natale. Forse vuole sentirsi parte di una famiglia.» Sampson mi sbirciò da sopra i suoi occhiali scuri. «Grazie, dottor Freud.» L'agente Scorse si stava aprendo la strada per portarsi vicino a noi. Lungo il tragitto incocciò nel comandante Pittman. Si strinsero la mano. Un esempio edificante di rapporti di buon vicinato. «Abbiamo ricevuto un altro messaggio che sembra provenire da Gary Soneji», annunciò Scorse non appena fu arrivato davanti a noi. Aveva uno strano modo di stirarsi il collo e di girare la testa da una parte all'altra quando era nervoso. Eseguì quel numero alcune volte quando cominciò a parlare. «Ve lo leggerò. È indirizzato alla famiglia Dunne... 'Cari Katherine e Tom... Che ne pensate di dieci milioni di dollari? Due in contanti. Il resto in titoli negoziabili e diamanti. A Miami Beach!... Maggie Rose finora sta bene. Fidatevi di me. Domani è un gran giorno... Vi auguro un felice anno. Il Figlio di L.'» Dopo quindici minuti dal suo arrivo, era stata rintracciata la provenienza del telegramma. Si trattava di un ufficio della Western Union sulla Collins Avenue a Miami Beach. Gli agenti dell'FBI si fiondarono immediatamente sul posto a interrogare il direttore e gli impiegati. Non si cavò un ragno dal buco, proprio come stavano procedendo le indagini su tutti gli altri fronti. Non ci restava altro da fare che partire immediatamente alla volta di Miami. 20 La squadra antisequestri arrivò all'aeroporto di Tamiami in Florida alle quattro e trenta del pomeriggio di Natale. Il ministro Jerrold Goldberg ci aveva organizzato il viaggio a bordo di un jet speciale dell'aeronautica mi-
litare. Una scorta della polizia di Miami ci accompagnò di gran carriera all'ufficio dell'FBI sulla Collins Avenue, vicino al Fountainbleu e ad altri alberghi della Gold Coast. L'FBI si trovava a soli sei isolati di distanza dall'ufficio della Western Union da cui Soneji aveva inviato il telegramma. Lo sapeva questo? Probabilmente sì. Sembrava che quello fosse il suo procedimento mentale. Aveva la mania di tener tutto sotto controllo. Continuavo a prendere appunti su di lui. Avevo già riempito una ventina di pagine di un taccuino che mi tenevo in tasca. Non potevo redigere un profilo psicologico di Soneji, dato che non disponevo ancora di informazioni sul suo passato. I miei appunti erano zeppi delle solite parole del gergo professionale: organizzato, sadico, metodico, controllato, forse ipomaniaco. Ci stava osservando mentre correvamo per Miami? Molto probabile. Magari sotto un altro travestimento. Aveva rimorsi per la morte di Michael Goldberg? Oppure stava entrando in una fase maniacale? Nell'ufficio dell'FBI erano già state installate le linee telefoniche supplementari di emergenza. Non sapevamo in che modo Soneji avrebbe comunicato da quel momento in poi. Parecchi agenti della polizia di Miami ora integravano la squadra, come pure altri duecento agenti in forza all'FBI nella zona meridionale della Florida. D'improvviso la parola d'ordine fu: fare tutto molto in fretta. Spicciarsi e aspettare. Mi chiesi se Gary Soneji avesse un'idea del caos che stava creando mentre si avvicinava lo scadere dell'ultimatum. Anche questo faceva parte del piano? Stava veramente bene, Maggie Rose Dunne? Era ancora viva? Avremmo avuto bisogno di qualche riscontro prima che lo scambio finale fosse approvato. Avremmo chiesto a Soneji almeno una prova materiale. Maggie Rose finora sta bene. Fidatevi di me, aveva scritto. Certo, Gary. Le cattive notizie ci seguirono anche a Miami. Il rapporto preliminare dell'autopsia di Michael Goldberg era stato inviato per fax all'ufficio dell'FBI di Miami. Ci fu immediatamente una riunione, nella sala emergenze dell'FBI. Sedevamo a scrivanie sistemate ad anfiteatro, ciascuna dotata di terminale e tastiera. La stanza era insolitamente silenziosa. Nessuno di noi aveva voglia di ascoltare i dettagli della morte del bambino. Un tecnico dell'FBI di nome Harold Friedman venne scelto per spiegare al gruppo i risultati dell'autopsia. Era un tipo quantomeno fuori del normale per l'FBI. Era un ebreo ortodosso, ma col fisico e con l'aspetto di un ragazzo da spiaggia di Miami. Portava in testa uno zucchetto multicolore.
«Siamo ragionevolmente convinti che la morte del piccolo Goldberg sia stata accidentale», cominciò con voce chiara e profonda. «A quanto pare, prima è stato stordito con uno spruzzo di cloroformio. C'erano tracce di cloroformio nelle vie nasali e in gola. Poi gli è stata fatta un'iniezione di sodio secobarbital, probabilmente due ore dopo. Il secobarbital è un potente anestetico. Ha anche proprietà che possono inibire la respirazione. È quanto sembra essere accaduto in questo caso. Probabilmente il respiro è diventato irregolare, dopodiché il bambino ha cessato di respirare e ha avuto un arresto cardiaco. Non ha sofferto se era addormentato. Sospetto che lo fosse, e che sia morto nel sonno... Presentava anche parecchie ossa fratturate», continuò Harold Friedman. Nonostante l'aspetto di ragazzo da spiaggia, era un tipo pacato e dimostrava una certa intelligenza nel presentare la sua relazione. «Riteniamo che il bambino sia stato colpito da molte scariche di pugni e di calci. Però questo non ha niente a che vedere col decesso. Le ossa rotte e le contusioni sull'epidermide sono state prodotte dopo la sua morte. È giusto che sappiate che dopo il decesso ha anche subito violenze sessuali: è stato sodomizzato, e presenta conseguenti lacerazioni. Questo Soneji è un elemento molto malato.» Fu il primo commento di Friedman. Era uno dei pochi dettagli reali che possedevamo sulla patologia di Gary Soneji. Evidentemente si era lasciato trasportare da un accesso di rabbia scoprendo che Michael Goldberg era morto. O che qualcosa del suo piano perfetto non era poi così perfetto. Gli agenti e i poliziotti spostavano il peso sulle sedie da una natica all'altra. Mi chiedevo se il parossismo sfogato su Michael Goldberg poteva avere su Soneji un effetto calmante o eccitante. I miei dubbi sulla possibilità che Maggie ne uscisse viva aumentavano sempre più. Il nostro albergo era situato di fronte all'ufficio dell'FBI. Non era gran che secondo i parametri di Miami Beach, ma disponeva di una grande piscina sul lato rivolto verso l'oceano. Intorno alle undici, la maggior parte di noi aveva staccato per andarsene a dormire. La temperatura superava ancora i trenta gradi. Il cielo era trapunto di stelle lucenti e ogni tanto veniva solcato da qualche jet proveniente da nord. Sampson e io attraversammo a passo da turisti la Collins Avenue. «Vuoi mangiare oppure preferisci stordirti di whisky?» mi chiese a metà strada.
«Sono già abbastanza stordito. Stavo pensando a una nuotatina. Quando si è a Miami Beach...» «Stasera non ti prenderai un'abbronzatura degna del luogo», disse rotolandosi tra le labbra una sigaretta spenta. «Una ragione in più a favore della nuotatina notturna.» «Io mi piazzerò nella hall», disse Sampson quando svoltammo nell'atrio. «A rimorchiare qualche bella ragazza.» «Buona fortuna», gli gridai. «È Natale. Spero che ti facciano un regalino.» Indossai un costume da bagno e mi avviai verso la piscina dell'albergo. Sono giunto alla conclusione che il segreto per restare in salute è fare sport e quindi mi alleno ogni giorno, ovunque mi trovi. Pratico molto assiduamente anche lo stretching, che si può fare a qualunque ora e in qualunque posto. La grande piscina era chiusa, ma non per questo mi scoraggiai. Noi poliziotti siamo famosi per attraversare le strade senza guardare, parcheggiare in doppia fila e, in generale, non osservare le regole. È la nostra unica forma di tracotanza. Qualcun altro aveva avuto la mia stessa idea e stava nuotando in modo così silenzioso e tranquillo che non me ne accorsi finché non passai tra le sedie a sdraio, avvertendo sotto i piedi una sensazione di freddo e umido. Il nuotatore era una donna snella e atletica, con un costume blu e nero. Aveva braccia lunghe e gambe ancora più lunghe. Era un bello spettacolo in quel giorno non troppo bello. Le sue bracciate erano potenti, ritmiche e senza sforzo. Sembrava che si trovasse nella sua piscina privata e non volli disturbarla. Quando virò, vidi che si trattava di Jezzie Flanagan. Questo mi sorprese. Mi sembrava che nuotare non si addicesse a un supervisore dei servizi segreti. Scesi rapidamente nell'estremità opposta della piscina e iniziai le mie vasche. Non avevano niente di bello né di ritmico, ma le mie bracciate facevano un buon lavoro; di solito riesco a fare lunghe nuotate. Portai facilmente a termine trentacinque vasche. Mi sentivo finalmente sciolto come non mi capitava da alcuni giorni. Le ragnatele cominciavano a cadere. Potrei farne un'altra ventina, e poi andare a coricarmi. Oppure potrei prendermi una birra con Sampson per festeggiare il Natale. Quando mi fermai per una rapida boccata d'aria, Jezzie Flanagan era seduta proprio lì, sull'orlo di una sedia a sdraio.
Teneva un morbido asciugamano gettato sulle spalle nude. Era molto carina al chiaro di luna di Miami: sottile, biondissima... I suoi luminosi occhi azzurri mi fissavano. «Venti vasche, detective Cross?» Sorrise, in un modo che rivelava una persona diversa da quella che avevo visto al lavoro nei giorni precedenti. Sembrava molto più rilassata. «Trentacinque», la corressi. «Non appartengo esattamente alla sua stessa categoria, e neppure a quella vicina. Ho imparato il mio stile nella piscina della parrocchia.» «Insista.» Conservò quel suo grazioso sorriso. «È in buona forma.» «Comunque si definisca il mio stile, stasera si sta proprio bene. Dopo tutte le ore passate al chiuso in quella stanza, con quelle finestrelle che non si aprono mai.» «Se avessero grandi finestre, tutti penserebbero di scappare in spiaggia. Qui in Florida non si combinerebbe niente.» «Perché, noi stiamo combinando qualcosa?» chiesi a Jezzie. Rise. «Avevo un amico la cui teoria sul lavoro nella polizia era: 'fa' del tuo meglio'. Io sto facendo del mio meglio. In circostanze impossibili. E lei?» «Anch'io faccio del mio meglio», confermai. «Dio sia lodato.» Sollevò allegramente entrambe le braccia. La sua esuberanza mi sorprendeva. La scena era divertente, e faceva bene ridere, una volta tanto. Faceva veramente bene. Era veramente necessario. «Date le circostanze, sto facendo del mio meglio», aggiunsi. «Date le circostanze, Dio sia lodato!» Alzò di nuovo la voce. Era divertente, oppure era tardi, o entrambe le cose. «Vuole fare uno spuntino?» le chiesi. Volevo sentire che cosa ne pensava del caso. Non ne avevo ancora parlato con lei. «Vorrei mangiare qualcosa», rispose. «Ho già saltato due pasti oggi.» Concordammo di trovarci nella sala da pranzo dell'albergo, uno di quegli affari all'ultimo piano che girano lentamente su se stessi. Si cambiò in cinque minuti, altra cosa che m'impressionò. Calzoni beige larghi. Una maglietta con collo a V, pantofole cinesi nere. I suoi capelli biondi erano ancora umidi. Li aveva pettinati all'indietro e le stavano bene. Non era truccata, ma non ne aveva bisogno. Sembrava così diversa da come si presentava sul lavoro: molto più sciolta e a suo agio. «In tutta franchezza e onestà, devo dirle una cosa.» Rideva. «Quale cosa?»
«Be', lei è un forte nuotatore ma il suo stile è goffo. D'altra parte, in costume da bagno fa la sua bella figura.» Ridemmo tutti e due. Un po' della tensione di quella lunga giornata cominciava ad allentarsi. Ci dimostrammo bravi entrambi a far parlare l'altro mentre bevevamo una birra o mangiavamo qualcosa. Un fatto da mettere in rapporto alle circostanze particolari e alla tensione dei giorni passati. E poi fa parte del mio mestiere far parlare la gente, e la cosa mi stimola. Riuscii a farle confessare che era stata eletta Miss Washington quando aveva diciott'anni. Aveva fatto parte di un'associazione goliardica femminile all'università della Virginia, ma l'avevano buttata fuori per «comportamento sconveniente», frase che mi piacque molto. Però, mentre chiacchieravamo, fui sorpreso dal fatto che anch'io le stessi raccontando più di quanto avessi messo in conto. Era un tipo con cui era facile lasciarsi andare. Jezzie m'interrogò sui miei primi tempi di psicologo a Washington. «Più che altro è stato un brutto sbaglio», le dissi, senza riferirle la rabbia che mi aveva procurato, e ancora mi procurava. «Un sacco di gente non vuole saperne di uno strizzacervelli nero, e pochi neri possono permettersene uno.» Mi fece parlare di Maria, ma solo un po'. Lei mi raccontò come si sentiva una donna nei servizi segreti dove il novantanove per cento sono uomini del genere macho. «A loro piace mettermi alla prova, oh, sì, almeno una volta al giorno. Mi chiamano 'l'Uomo'.» Conosceva alcune divertenti storielle sulla Casa Bianca. Aveva conosciuto i Bush e i Reagan. Tutto sommato fu un'ora piacevole che passò troppo velocemente. In effetti era passata più di un'ora. Forse addirittura due. Infine Jezzie notò la nostra cameriera che si aggirava tutta sola vicino al bar. «Accidenti. Siamo gli ultimi clienti del ristorante.» Pagammo il conto e prendemmo l'ascensore per scendere dal ristorante girevole. La stanza di Jezzie si trovava quattro piani sopra la mia. Probabilmente dalla sua suite godeva anche della vista sull'oceano. «È stata veramente una serata simpatica», le dissi quando l'ascensore si arrestò al suo piano. Credo che si tratti di una battuta elegante di una commedia di Noel Coward. «Grazie della compagnia e buon Natale.» «Buon Natale, Alex», mi disse sorridendo. Si sistemò i capelli biondi dietro l'orecchio. Era un tic che avevo già notato. Mi diede un bacetto sulla guancia e si diresse verso la sua camera. «Ti
sognerò in costume da bagno», mi disse mentre si chiudevano le porte dell'ascensore. Scesi quattro piani, e mi feci la mia doccia fredda di Natale, da solo nella mia stanza d'albergo di Natale. Pensai a Jezzie Flanagan. Sciocche fantasie in una solitaria stanza d'albergo di Miami Beach. Di certo tra noi due non ci sarebbe mai stato niente di serio, però mi piaceva. Mi sembrava quasi di poter parlare di qualunque cosa con lei. Lessi ancora un po' del mio libro contro la depressione, finché non mi addormentai. Feci qualche sogno in cui c'era la mia bella. 21 Attento, adesso stai molto attento, Gary. Gary Soneji osservava con la coda dell'occhio sinistro la donna grassa. Osservava quella massa informe e gonfia, come una lucertola osserva un insetto poco prima del pasto. Lei non aveva il minimo sospetto che lui la stesse studiando. Era una donna-poliziotto, diciamo così, e anche un'addetta alla biglietteria dell'autostrada all'uscita numero 12. Contò lentamente il suo resto. Era enorme, nera come la notte, completamente ignara, e con la testa tra le nuvole. Soneji pensò che aveva l'aspetto di Aretha Franklin se Aretha fosse stata stonata e avesse dovuto sopravvivere nel mondo reale di tutti i giorni. Lei non aveva la minima idea di chi le stava passando accanto nel fiume monotono del traffico delle vacanze. Anche se lei e tutti i suoi colleghi avrebbero dovuto cercarlo disperatamente. Con tanti saluti alla «massiccia retata della polizia» e alla classica «caccia all'uomo su scala nazionale». Che fottutissima delusione. Ma come potevano sperare di acchiapparlo mettendogli gente simile alle calcagna? Potevano almeno cercare di non fargli perdere l'interesse al gioco. A volte, soprattutto in circostanze simili, Gary Soneji aveva voglia di proclamare l'ineludibile verità dell'universo. Proclama. Ascolta, puttanella sciatta di una piedipiatti! Non lo sai chi sono io? Un travestimentuccio da nulla ti ha confuso? Sono quello che hai visto in tutti i notiziari degli ultimi tre giorni. Tu e metà del mondo, Aretha, bambolina mia. Proclama. Ho programmato e realizzato il Crimine del Secolo in modo così perfetto che sono già più grande di molti serial killer, tipo John Wa-
yne Gacy o Juan Corona. È andato tutto bene finché quel ricco bambino cianotico non si è ammalato. Proclama. Guarda bene. Guardami proprio bene. Sii una maledetta eroina almeno una volta nella vita. Sii qualcosa di diverso da una grassa nullità nera sull'Autostrada dell'Amore. Guardami, per favore! E guardami! Gli porse il resto. «Buon Natale, signore.» Gary Soneji fece spallucce. «Buon Natale anche a lei.» Mentre si allontanava dalle luci lampeggianti del casello, immaginò la poliziotta con una di quelle facce sorridenti che ti danno il buongiorno. S'immaginò un'intera nazione abitata da quelle sorridenti facce da luna piena. Ed era proprio quello che stava accadendo. Stava diventando davvero peggio dell'Invasione degli ultracorpi. Lo faceva impazzire se ci pensava, cosa che cercava di evitare. Una nazione di facce da luna piena sorridenti. Amava Stephen King, s'identificava con la sua misteriosa e bizzarra fantasia, e desiderava che King scrivesse qualcosa su tutti gli stupidi col sorriso stampato in faccia che ci sono in America. Riusciva a vedere la copertina di quello che sarebbe stato il capolavoro di King: Facce da luna piena. Quaranta minuti dopo, Soneji con la sua fidata Saab abbandonò la Route 413 all'altezza di Crisfield, nel Maryland. Accelerò lungo la sconnessa strada in terra battuta che conduceva alla vecchia fattoria. A questo punto dovette sorridere, dovette ridere. Li aveva mandati completamente in confusione. Fino a quel momento, loro non avevano la minima idea di come stessero le cose. Lui aveva già dato la polvere al caso Lindbergh, o no? Adesso era arrivata l'ora di togliere di nuovo il tappeto da sotto i piedi di quelle facce da luna piena. 22 Lo spettacolo era proprio cominciato! Un fattorino della Federal Express era arrivato negli uffici dell'FBI poco prima delle dieci e trenta del mattino del 26 dicembre. Aveva consegnato il nuovo messaggio del Figlio di Lindbergh. Fummo richiamati nella sala emergenze al secondo piano. Sembrava che tutto il personale dell'FBI si trovasse lì. Si trattava del rapimento, questo fu chiaro a tutti. Qualche attimo dopo l'agente speciale Bill Thompson di Miami si preci-
pitò dentro. Brandiva una busta dall'aspetto familiare. Con cautela aprì la busta arancio-blu davanti a tutto il gruppo. «Ci farà vedere il messaggio. Però non ce lo leggerà», insinuò sottovoce Jeb Klepner dei servizi segreti. Sampson e io stavamo in piedi insieme con Klepner e Jezzie Flanagan. «Oh, stavolta non se la terrà per sé», predisse Jezzie. «Dividerà la tensione con noi.» Thompson era pronto, davanti a tutti. «Ho un messaggio di Gary Soneji. Ecco che cosa dice. C'è il numero uno. Poi: Dieci milioni. Sulla riga successiva, il numero due. Poi le parole Disney World, Orlando - Il Regno Magico. Sulla riga successiva il numero tre. Poi: Parcheggiare a Pluto 24. Attraversare la Laguna dei Sette Mari sul traghetto, non con la monorotaia. Ore 12.50 di oggi. Sarà finita per le 13.15. Ultima riga: Il detective Alex Cross consegnerà il riscatto. Da solo. È firmato: Il Figlio di Lindbergh.» Alzò subito lo sguardo. I suoi occhi frugarono la sala. Non fece fatica a ritrovarmi tra i presenti. Posso assicurarvi che il suo sbigottimento non era niente in confronto al mio. Un'ondata di adrenalina si era già immessa nel mio sistema circolatorio. Che diavolo voleva Soneji da me? Che ne sapeva di me? Sapeva quanto desideravo mettergli le mani addosso? «Non fa alcun tentativo di trattare!» L'agente speciale Scorse cominciò a scaldarsi. «Soneji dà per scontato che noi pagheremo i dieci milioni.» «Proprio così», dissi ad alta voce. «E ha ragione. In definitiva è proprio la famiglia che chiede di sapere come e quando pagare il riscatto.» I Dunne ci avevano dato istruzioni di pagare Soneji. Senza condizioni. Soneji probabilmente lo sapeva. E quella era di certo la ragione principale per cui aveva scelto Maggie Rose. Ma perché aveva scelto me? Al mio fianco Sampson scosse il capo, e bisbigliò: «Lo sa il Signore. Misteriose sono le sue vie». Una mezza dozzina di auto ci aspettava nel parcheggio cotto dal sole dietro il palazzo dell'FBI. Bill Thompson, Jezzie Flanagan, Klepner, Sampson e io viaggiammo in una delle berline dell'FBI. Avevamo i titoli e i soldi. Il detective Alex Cross consegnerà il riscatto. Il denaro era stato raccolto la notte prima. Era stato un lavoro terribilmente complesso riuscire a farlo in modo così rapido, ma la Citibank e la Morgan Stanley avevano collaborato. I Dunne e Jerrold Goldberg avevano il potere di ottenere quello che volevano, e chiaramente avevano esercitato grandi pressioni. Come richiesto da Soneji, due milioni del riscatto erano
in contanti. Il resto era in piccoli diamanti e in titoli. Era un tesoro negoziabile, e anche molto facile da trasportare. Trovava facilmente posto in una normale valigia. Il tragitto dal centro di Miami all'aeroporto Opa Lock West durò circa venticinque minuti. Ne avremmo impiegati altri quaranta per il volo. In tal modo saremmo arrivati a Orlando intorno alle 11.45. Ci stavamo stretti. «Potremmo tentare di mettere un apparecchio addosso a Cross.» Ascoltammo l'agente Scorse che parlava alla radio con Thompson. «Una radiotrasmittente portatile. Ne abbiamo una a bordo dell'aereo.» «Questo non mi piace troppo, Gerry», affermò Thompson. «Non piace neppure a me», dissi dal sedile posteriore. Il mio era un eufemismo. «Niente microfoni. Non se ne parla.» Stavo ancora cercando di capire perché Soneji avesse scelto me. Non aveva senso. Pensai che potesse aver letto qualcosa su di me in quel vecchio articolo di giornale a Washington. Ero certo che aveva qualche buona ragione. Non ci potevano essere dubbi in proposito. «Ci sarà tantissima gente nel parco», disse Thompson una volta saliti a bordo del Cessna 310 diretto a Orlando. «Quella è la ragione evidente per cui ha scelto Disney World. Un sacco di genitori e di bambini anche nel Regno Magico. Può passare inosservato con Maggie Rose. Potrebbe aver travestito anche lei.» «Disney World si adatta bene alla sua propensione per gli scenari grandiosi e importanti», dissi. Una delle teorie che mi ero annotato sul taccuino era che Soneji potesse essere stato lui stesso un bambino violentato. In tal caso, non avrebbe provato che rabbia e disprezzo per un posto come Disney World, dove i bambini bravi vanno con le loro mammine e i loro paparini. «Abbiamo provveduto alla sorveglianza del parco, sia aerea sia a terra», aggiunse Scorse. «Le immagini stanno già arrivando nella sala emergenze a Washington. Stiamo anche filmando Epcot e l'Isola del Tesoro. Nel caso che introduca un cambiamento all'ultimo minuto.» Mi immaginavo la scena nella sala emergenze dell'FBI sulla 10th Street. Una ventina di pezzi grossi che si accalcavano. Ognuno di loro con la sua scrivania e un monitor della TV a circuito chiuso. Le foto aeree di Disney World sarebbero apparse contemporaneamente su tutti gli schermi. La lavagna della stanza era piena di cifre: il numero esatto di agenti e altro personale che stava convergendo sul parco in quel momento. Il numero delle uscite. Ogni strada in entrata o in uscita. Le condizioni del tempo. Il nume-
ro dei visitatori di quel giorno. Il numero degli addetti al servizio di sicurezza della Disney. Ma probabilmente niente su Gary Soneji o Maggie Rose, altrimenti ne avremmo saputo qualcosa. L'idea di trovarsi con un pazzo e una bambina rapita non era molto allettante. E neppure la cruda realtà della folla di vacanzieri che ci stava aspettando a Disney World. Ci avevano detto che dentro il parco c'erano più di settantamila persone. E tuttavia questa sarebbe stata la nostra carta migliore per acciuffare Soneji. Forse era la nostra unica carta. Fummo trasportati nel Regno Magico in un furgone speciale, con scorta della polizia munita di lampeggianti e sirene spiegate. Prendemmo la corsia di emergenza sulla I-4, superando il traffico normale che veniva dall'aeroporto. La gente pigiata nelle station-wagon e nei furgoncini ci sbeffeggiava, invidiosa della velocità con cui avanzavamo nel traffico. Nessuno aveva la minima idea di chi fossimo, o del perché ci stessimo precipitando verso Disney World. Per loro eravamo dei pezzi grossi che andavano a vedere Topolino e Minnie. Arrivammo tutti all'uscita 26-A, quindi proseguimmo per World Drive verso il piazzale delle auto. Raggiungemmo il parcheggio poco dopo le 12.15. Eravamo arrivati al pelo, ma Soneji non ci aveva concesso il tempo di organizzarci. Perché Disney World? Continuavo a cercare di capire. Forse Gary Soneji aveva sempre voluto andarci da bambino, e non gliel'avevano permesso? Perché apprezzava l'efficienza quasi nevrotica di quel parco dei divertimenti? Per Gary Soneji sarebbe stato relativamente facile entrare a Disney World. Ma come avrebbe fatto a uscirne? Quella era la domanda più interessante di tutte. 23 Alcuni addetti della Disney parcheggiarono le nostre auto nel settore Pluto, fila 24. Un tram in fiberglass ci aspettava per portarci al traghetto. «Perché Soneji ha voluto te?» mi chiese Bill Thompson mentre scendevamo dall'auto. «Hai qualche idea in proposito, Alex?» «Forse ha sentito parlare di me negli articoli pubblicati a Washington. Forse sa che io sono uno psicologo e ciò ha attirato la sua attenzione. Comunque glielo chiederò di sicuro quando lo vedo.»
«Vacci piano con lui», mi consigliò. «Vogliamo solo che restituisca la bambina.» «È quello che voglio anch'io», replicai. Stavamo entrambi esagerando. Volevamo Maggie Rose sana e salva, ma volevamo anche catturare Soneji. Volevamo finirla con lui una volta per tutte, lì a Disney World. Thompson mi mise il braccio intorno alle spalle mentre eravamo nel parcheggio. Un po' di spirito cameratesco, tanto per cambiare. Sampson e anche Jezzie Flanagan mi augurarono buona fortuna. Gli agenti dell'FBI si dimostravano d'aiuto, almeno per il momento. «Come ti senti?» Sampson mi tirò in disparte un attimo. «Ti sta bene tutta questa faccenda? Lui ha chiesto di te, ma tu non sei obbligato ad andarci.» «Mi sta bene. Non mi farà alcun male. Sono abituato agli psicotici, ti ricordi?» «Tu sei uno psicotico, amico.» Presi la valigia col riscatto. Salii da solo sul tram arancione. Aggrappato a un sostegno di metallo, mi diressi verso il Regno Magico, dove dovevo consegnare la valigia in cambio di Maggie Rose Dunne. Erano le 12.44. Eravamo in anticipo di sei minuti. Nessuno mi prestò molta attenzione mentre seguivo il flusso continuo di persone verso le file di sportelli e di cancelletti d'entrata della biglietteria centrale del Regno Magico. E perché mai avrebbero dovuto farlo? Doveva essere quella l'idea che spingeva Soneji a scegliere posti affollati. Strinsi più forte la valigia. Sentivo che, finché avevo con me il riscatto, disponevo di un salvagente per Maggie Rose. Aveva osato portare la bambina con sé? C'era anche lui? Oppure era tutta una messinscena per metterci alla prova? Ormai tutto era possibile. La folla di Disney World era allegra e rilassata. Si trattava per lo più di famiglie in vacanza, che si divertivano sotto il cielo luminoso color fiordaliso. La voce piacevole di un annunciatore cantilenava: «Tenete per mano i bambini piccoli, non dimenticate gli effetti personali e godetevi il vostro soggiorno». Per quanto uno sia sfinito, ci si sente conquistati da quella terra della fantasia. È tutto incredibilmente pulito e sicuro. Avevo la sensazione di essere protetto, il che era maledettamente strano per me. Topolino, Pippo e Biancaneve salutavano tutti ai cancelli principali. Il parco era immacolato. Gli altoparlanti sapientemente nascosti nei cespugli
diffondevano Yankee Doodle Dandy. Sentivo battere forte il cuore sotto la maglietta larga. In quel momento ero completamente privo di contatti coi miei. Sarebbe stato così finché non fossi arrivato nel Regno Magico. Avevo le mani sudaticce, e me le asciugai nei pantaloni. Stavo entrando in una zona di ombra fitta proiettata dalla biglietteria centrale e dal centro trasporti. Si vedeva il traghetto, una minuscola nave fluviale del Mississippi, senza la ruota a pale. Un uomo con giacca sportiva e cappello a larga tesa scivolò al mio fianco. Non sapevo se si trattava di Soneji. La sensazione di sicurezza e protezione che emanava da Disney World s'infranse immediatamente. «Cambio di piani, Alex. Ora ti porto a vedere Maggie Rose. Per favore, continua a guardare dritto avanti a te. Finora ti sei comportato magnificamente. Continua così e finisce tutto bene.» Una Cenerentola alta uno e ottanta ci superò, proseguendo nella direzione opposta. I bambini e gli adulti esplosero in un boato di meraviglia. «Ora girati, Alex. Rifacciamo la stessa strada che hai percorso prima. Può filare tutto liscio e tranquillo come in una giornata di vacanza al mare. Tutto dipende da te, amico.» Era perfettamente calmo e teneva sotto controllo la situazione, come del resto aveva dimostrato di saper fare in tutta la vicenda del rapimento. Fino a quel momento era avvolto da un'aura di invincibilità. Mi aveva chiamato Alex. Cominciammo a tornare indietro camminando contro la corrente della folla. La chioma di riccioloni biondi di Cenerentola sobbalzava davanti a noi. I bambini ridevano deliziati nel vedere la loro eroina del cinema e dei fumetti muoversi come una persona viva. «Prima devo vedere Maggie Rose», fu l'unica cosa che dissi all'uomo col cappello a tesa larga. Era Soneji travestito? Non potevo dirlo. Avevo bisogno di vederlo meglio. «Va bene. Ma se qualcuno ci ferma, te lo dico subito, la bambina è morta.» Cappello a Tesa Larga parlava con indifferenza, come se dicesse l'ora a uno sconosciuto. «Non ci fermerà nessuno», gli assicurai. «La nostra unica preoccupazione è la salvezza della bambina.» Sperai che quest'affermazione fosse vera per tutte le persone coinvolte nell'operazione. Avevo avuto un breve incontro con Katherine e Tom Dunne quella mattina. Sapevo che ciò che a loro importava era riavere la
bambina quella sera. Il sudore aveva cominciato a scorrermi lungo il corpo. Non avevo modo di controllarlo. La temperatura non superava i trenta gradi, ma c'era molta umidità. Cominciavo a preoccuparmi che involontariamente potesse succedere qualche pasticcio. Adesso qualsiasi cosa poteva andare storta. Non avevamo fatto nessuna prova, lì nel cuore di Disney World e della sua folla imprevedibile. «Ascolta. Se l'FBI mi vede uscire, qualcuno potrebbe avvicinarsi», mi decisi a dire. «Spero di no», disse facendo schioccare la lingua tra i denti. Scosse il capo avanti e indietro. «Sarebbe una grave infrazione dell'etichetta.» Chiunque fosse, si comportava in un modo innaturalmente calmo per una situazione così tesa. Aveva già fatto in precedenza una cosa simile? mi chiesi. Avevo l'impressione che fossimo nuovamente diretti verso le file di tram arancione. Uno dei tram ci avrebbe riportato al parcheggio? Era questo il piano? L'uomo aveva un fisico troppo robusto per essere Soneji, pensai. A meno che non indossasse un astuto travestimento con molte imbottiture. Mi venne di nuovo in mente l'idea dell'attore. Sperai che non si trattasse di un impostore. Di qualcuno che aveva scoperto quello che stava accadendo in Florida, e che poi ci aveva contattato per impadronirsi del riscatto. Non sarebbe stata la prima volta che accadeva in un caso di rapimento. «FBI! Mani in alto!» udii all'improvviso. Era accaduto tutto in un baleno. Il cuore mi salì in gola. Che diavolo stavano facendo? Che cos'avevano in mente? «FBI!» Una mezza dozzina di agenti ci aveva circondato nel parcheggio. Avevano i revolver in pugno. Almeno un fucile era puntato sull'intermediario, e quindi su di me. L'agente Bill Thompson era lì con gli altri. Vogliamo solo che restituisca la bambina, mi aveva detto alcuni minuti prima. «Via! Andate via!» persi la pazienza e gridai. «Stateci lontani! Andate fuori dei piedi!» Ora guardai direttamente Cappello a Tesa Larga. Non poteva essere Soneji. Ne ero quasi certo. Chiunque fosse non gli importava di essere riconosciuto o persino fotografato a Orlando. Come mai? Come faceva a essere così calmo?
«Se prendete me, la bambina è morta», disse agli agenti dell'FBI che ci circondavano. Era freddo come il ghiaccio. I suoi occhi sembravano morti. «Niente lo può impedire. Non posso farci niente. E neppure voi. Ormai è spacciata.» «Adesso è viva?» Thompson fece un passo verso di lui. Sembrava che stesse per colpirlo, cosa che avremmo voluto fare tutti quanti. «E viva. L'ho vista due ore fa. Sarebbe stata libera a casa sua se non combinavate questo magnifico casino. Adesso sta' indietro, come ha detto Cross. Indietro, cazzone.» «Come facciamo a sapere che sei un socio di Soneji?» chiese Thompson. «Uno. Dieci milioni. Due. Disney World, Orlando - Il Regno Magico. Tre. Parcheggiare a Pluto 24.» Ci sciorinò le parole esatte del messaggio del riscatto. Thompson mantenne la sua posizione. «Tratteremo per la liberazione della bambina. Tratteremo. Farai a modo nostro.» «Che cosa? E far morire la bambina?» Era stata Jezzie Flanagan a parlare. Si era messa dietro Thompson e la squadra armata dell'FBI. «Abbassate le armi», ordinò con fermezza. «Lasciate che sia Cross a fare lo scambio. Se fai a modo tuo e la bambina muore, lo dirò a tutti i cronisti del Paese, giuro che lo farò, Thompson. Giuro davanti a Dio che lo farò.» «Lo farò anch'io», dissi all'agente speciale dell'FBI. «Ti do la mia parola.» «Non è lui. Non è Soneji», disse infine Thompson. Guardò l'agente Scorse e scosse il capo nauseato. «Lasciateli andare», ordinò. «Cross e il riscatto vanno da Soneji.» Io e l'uomo di ghiaccio ci rimettemmo in cammino. Stavo tremando. La gente ci guardava mentre proseguivamo verso i tram arancione. Mi sembrava di vivere una situazione completamente irreale. Qualche momento dopo eravamo su uno dei tram. Ci sedemmo. «Stronzi», borbottò l'uomo. Era il suo primo segno di emozione. «Per poco non rovinavano tutto.» Ci fermammo all'altezza di una Nissan Z nel settore Paperino, fila 6. L'auto era color blu scuro, coi vetri colorati di grigio. Non c'era nessuno all'interno della spider. Cappello a Tesa Larga avviò l'auto e riprendemmo la I-4. Il traffico in uscita dal parco era quasi nullo. Una giornata di vacanza al mare, aveva detto. Ci dirigemmo di nuovo verso l'aeroporto internazionale di Orlando, in
direzione est. Cercai di farlo parlare, ma non aveva niente da dirmi. Forse non era così calmo e padrone di sé. Forse prima si era spaventato a morte anche lui. L'FBI per poco non mandava a monte tutto quanto; non sarebbe stata la prima volta. In effetti, quella mossa al parco era semplicemente un bluff. Ripensandoci, capii che quella era la loro ultima possibilità di trattare la liberazione di Maggie Rose Dunne. Era passata poco più di mezz'ora quando entrammo in un hangar privato pochi chilometri oltre il terminal principale di Orlando. Erano le 13.30. Lo scambio non sarebbe avvenuto a Disney World. «Il messaggio prometteva che tutto sarebbe finito alle 13.15», dissi mentre scendevamo dalla Nissan. Una calda brezza tropicale proveniente dall'aeroporto ci investì. L'odore del gasolio e dell'asfalto bollente era molto pesante. «Il biglietto mentiva», rispose. Era di nuovo freddo come il ghiaccio. «Ecco il nostro aereo. Ora siamo tu e io soli. Cerca di essere più intelligente dell'FBI, Alex. Non dovrebbe essere troppo difficile.» 24 «Mettiti comodo, rilassati e goditi il viaggio», m'invitò quando fummo a bordo. «Sono il tuo simpatico pilota. Be', forse non proprio simpatico.» Mi ammanettò al bracciolo di uno dei quattro posti per i passeggeri dell'aereo. Un altro ostaggio, pensai. Forse potevo strappare via il bracciolo. Era di plastica e metallo. Abbastanza fragile. L'uomo era senza dubbio il pilota dell'aereo. Ottenuta l'autorizzazione al decollo, il Cessna si avviò sobbalzando lungo la pista, aumentando gradualmente la velocità. Infine si sollevò e rimase in aria, virando verso sudest e passando sopra la zona orientale di Orlando e St. Petersburg. Ero sicuro che fino a quel momento eravamo sotto controllo. Da lì in poi, però, tutto dipendeva dal nostro intermediario e dal piano di Soneji. Restammo in silenzio durante i primi minuti di volo. Mi sistemai comodo per osservarlo al lavoro, cercando di ricordare ogni dettaglio del volo. Ai comandi si comportava in modo efficiente e rilassato. Non mostrava segni di tensione. Un vero professionista. Mi passò per la testa un possibile collegamento. Ora ci trovavamo in Florida, volavamo in direzione sud. Un cartello della droga colombiano aveva minacciato la famiglia del ministro Goldberg. Che fosse una coincidenza? Non credevo più alle coincidenze.
Una regola della polizia, soprattutto nel lavoro di polizia di cui avevo esperienza, continuava a frullarmi in testa. Una regola importante. Un buon novantacinque per cento dei delitti viene risolto grazie all'errore di qualcuno. Fino a quel momento Soneji non aveva commesso errori. Non ci aveva lasciato aperto alcun varco. Era arrivata l'ora di coglierlo in fallo. Lo scambio sarebbe stato un momento pericoloso per lui. «È stato tutto pianificato con molta precisione», dissi all'amico col cappello. L'aereo si addentrava sempre più profondamente nell'Atlantico. Verso quale destinazione? Per compiere lo scambio finale con Maggie Rose? «Hai perfettamente ragione. È stato fatto tutto col massimo scrupolo. Non hai idea della perfezione con cui sono state congegnate le cose.» «Sta davvero bene la bambina?» «Te l'ho detto, l'ho vista stamattina. Non ha subito danni», assicurò. «Non le è stato torto un capello.» «Mi risulta difficile crederti», replicai. Mi ricordai dello stato pietoso in cui avevamo ritrovato Michael Goldberg. Il pilota scrollò le larghe spalle. «Credi quello che vuoi.» Non gli importava assolutamente nulla di ciò che pensavo. «Michael Goldberg ha subito una violenza sessuale. Perché dovremmo credere che alla bambina non sia stato fatto del male?» contestai. Mi guardò. Ebbi la sensazione che non sapesse niente delle condizioni del piccolo Goldberg. Mi sembrava che non fosse un complice di Soneji, che Gary Soneji non avrebbe voluto nessun vero complice. Il pilota doveva essere un semplice mercenario, il che significava che avevamo una possibilità di riavere Maggie Rose. «Michael Goldberg è stato picchiato dopo che era morto», gli dissi. «È stato sodomizzato. Così adesso sai con chi ti sei messo. Di chi sei complice.» Per una qualche ragione, ciò fece sorridere l'intermediario. «Va bene. Basta con le domande fastidiose e i consigli interessati. Apprezzo il tuo coinvolgimento emotivo. Goditi il viaggio. La bambina non è stata picchiata né violentata. Ti do la mia parola di gentiluomo.» «Perché, tu saresti un gentiluomo? Comunque, non puoi saperlo. Non la vedi da questa mattina. Non sai che cosa può aver combinato Soneji, lasciato da solo. Soneji, o comunque si chiami.» «Be', si deve pur aver fiducia dei propri soci. Ora restatene ben appoggiato al sedile con la cintura allacciata. Fidati di me. Dato che siamo a corto di personale non potremo servire bevande o spuntini in volo.»
Come mai era così maledettamente calmo? Era troppo sicuro di se stesso. Che ci fossero stati altri sequestri di bambini prima di quello? Forse avevano fatto una prova altrove? Era perlomeno un sospetto da verificare. Se solo avessi potuto verificare qualcosa alla fine di quella storia. Mi appoggiai all'indietro per un momento e lasciai vagare lo sguardo al di sotto. Eravamo in pieno oceano. Guardai il mio orologio: poco più di trenta minuti di volo da Orlando. Il mare era mosso, nonostante la giornata serena e luminosa. Ogni tanto una nuvola proiettava la sua ombra sulla superficie grigiastra dell'acqua. La sagoma tremolante dell'aereo appariva e spariva. L'FBI doveva seguire le nostre tracce sul radar, ma il pilota lo sapeva. Non sembrava preoccuparsene. Era un gioco terribile tra gatto e topo. Come avrebbe reagito l'intermediario? Dov'erano Soneji e Maggie Rose? Dove avremmo effettuato lo scambio? «Dove hai imparato a volare?» chiesi. «In Vietnam?» Era un po' che me lo stavo chiedendo. Doveva avere l'età giusta, tra i quarantacinque e i cinquant'anni, anche se spesi male. Avevo avuto in cura alcuni veterani del Vietnam abbastanza cinici da farsi coinvolgere in un sequestro di bambini. La mia domanda non lo disturbò, ma neppure si diede la pena di rispondere. Strano, non sembrava nervoso né preoccupato. Uno dei bambini rapiti era già morto. Come mai era così tracotante e rilassato? Che cosa sapeva che io non sapevo? Chi era Gary Soneji? Chi era lui? Che rapporto c'era tra loro? Circa mezz'ora dopo, il Cessna iniziò la discesa verso un'isoletta circondata da spiagge di sabbia bianca. Non avevo alcuna idea di dove ci trovassimo. Forse in qualche punto delle Bahamas. L'FBI ci stava seguendo ancora? Seguiva le nostre tracce dal cielo? Oppure in qualche modo era riuscito a seminarli? «Come si chiama quell'isola laggiù? Tanto, a questo punto non posso farci più niente.» «Si chiama Piccola Abaco», rispose infine. «Qualcuno sta seguendo le nostre tracce? Quelli dell'FBI, voglio dire. Hai addosso qualche microspia?» «No. Niente microspie. Non ho nascosto niente nella manica.» «Forse hanno messo qualcosa tra i soldi.» Sembrava al corrente di tutte le possibilità esistenti. «Polvere fluorescente?»
«Niente che io sappia», dissi. Quello era vero. Però non potevo esserne sicuro. Può darsi che l'FBI non mi avesse detto tutto. «Spero proprio di no. È difficile aver fiducia in voi dopo ciò che è successo a Disney World. Quel posto brulicava di poliziotti e di agenti dell'FBI. Dopo che vi era stato detto di non farlo. Di questi tempi non ci si può più fidare di nessuno.» Cercava di fare dello spirito. Non gli importava che io reagissi o no. Sembrava una persona completamente rovinata, alla quale fosse stata offerta un'ultima possibilità di fare dei soldi. Nel modo più sporco. Sulla spiaggia c'era una stretta pista di atterraggio. La sabbia ben battuta si stendeva per parecchie centinaia di metri. L'aereo atterrò con facilità. Il pilota eseguì una rapida inversione a U, poi rullò direttamente verso una macchia di palme. Tutto sembrava far parte di un piano. Ogni dettaglio esattamente al suo posto. Finora era tutto perfetto. Niente pittoresche capanne esotiche. Non si vedeva neppure una piccola struttura adatta ad accogliere i passeggeri. Le colline dietro la spiaggia erano ricoperte di una lussureggiante vegetazione tropicale. Nessuna traccia di anima viva, da nessuna parte. Né Maggie Rose, né Soneji. «È qui la bambina?» gli chiesi. «Ottima domanda», rispose. «Aspettiamo e vedremo. Farò io il primo turno di guardia.» Spense il motore e attese in silenzio, nel caldo soffocante. Comunque, niente risposte alle mie domande. Volevo strappare il bracciolo e picchiarlo con quello. Digrignavo i denti così forte che mi era venuto mal di testa. Tenne lo sguardo puntato sul cielo limpido al di sopra della pista di atterraggio. Rimase a guardare attraverso il parabrezza per parecchi minuti. In quel caldo avevo problemi di respirazione. È qui la bambina? È viva, Maggie Rose? Maledetto! Gli insetti sbattevano con ritmo incessante contro il finestrino colorato. Un pellicano passò in volo vicino a noi un paio di volte. Era un posto solitario. Non accadde nient'altro. Il caldo aumentò in modo insopportabile. Era il caldo che si sente in automobile quando si resta fermi al sole. Il pilota sembrava insensibile. Evidentemente era abituato a quel clima. I minuti divennero un'ora, poi due. Ero inzuppato di sudore e morivo di sete. Cercai di non pensare al caldo, ma non mi fu possibile. Continuavo a pensare che l'FBI doveva sorvegliarci dal cielo. Un'attesa senza fine. Che
cosa l'avrebbe interrotta? «Maggie Rose si trova qui?» gli chiesi ancora, ogni tanto. Più la cosa si protraeva, e più temevo per lei. Nessuna risposta. Nessun segno che mi avesse udito. Non guardava mai l'orologio. Non si spostava sul sedile, non si agitava. Che si trovasse in una sorta di trance? Che diavolo aveva quel tipo? Fissai per parecchio tempo il bracciolo cui mi aveva ammanettato. Lo consideravo la cosa più vicina a un errore che avessero fatto sino a quel momento. Era vecchio, e si smosse quando lo misi alla prova. Avrei potuto strapparlo via. Se si arrivava a quel punto, sapevo che mi trovavo nei guai. Ma dovevo provare. Era l'unica soluzione. Poi, all'improvviso, il Cessna rullò all'indietro verso la pista della spiaggia. Decollammo di nuovo. Volavamo a bassa quota, a meno di trecento metri. Nell'aereo entrò aria fresca. Il rombo dell'elica iniziava a produrre su di me un effetto ipnotico. Stava scendendo il buio. Osservavo il sole fare il suo solito numero di sparizione notturna, scivolando completamente fuori dell'orizzonte di fronte a noi. Capii che era rimasto in attesa di quel momento. L'arrivo del buio. Voleva lavorare di notte. A Soneji piaceva la notte. Circa mezz'ora dopo il tramonto, l'aereo cominciò a scendere di nuovo. Sotto di noi brillavano puntini e macchie di luce che dall'alto davano l'impressione di una piccola città. Tutto lì. Era arrivata l'ora della verità. Stava per aver luogo lo scambio di Maggie Rose. «Non chiedere niente, tanto non risponderò», disse senza distogliere gli occhi dai comandi. «Guarda che l'avevo capito da solo», dissi. Cercando di dare l'impressione di voler cambiare posizione nel sedile, diedi uno strattone al bracciolo, che cedette un po'. Avevo paura di fare maggiori danni. La pista di atterraggio e l'aeroporto erano piccoli, ma almeno c'erano. Riuscii a scorgere due altri piccoli aerei vicino a una baracca di legno non verniciata. Il pilota non tentò di stabilire alcun contatto radio con la terra. Il mio cuore batteva all'impazzata. Un vecchio cartello con la scritta CAMPO DI AVIAZ era collocato in equilibrio precario sul tetto dell'edificio. Nessuna traccia di anima viva quando ci arrestammo con un sobbalzo. Né Gary Soneji, né Maggie Rose. O comunque non ancora. Qualcuno ha spento le luci, pensai. Ma allora dove diavolo sono? «È qui che faremo lo scambio di Maggie Rose?» Aggredii di nuovo il
bracciolo. Un altro strattone con quasi tutta la mia forza. L'altro si alzò dal sedile. Passò a fatica nello stretto spazio dietro il mio sedile e iniziò a scendere dall'aereo. Aveva in mano la valigia coi dieci milioni di dollari. «Addio, detective Cross», mi disse girandosi. «Spiacente, ma devo scappare. Non disturbatevi a setacciare la zona. La bambina non è qui. E neppure qui vicino. A proposito, siamo di nuovo negli Stati Uniti, nel South Carolina.» «Dov'è la bambina?» gli gridai dietro, facendo forza sulle manette attaccate al bracciolo. Dov'era l'FBI? A che distanza da noi si trovava? Dovevo fare qualcosa, dovevo agire subito. Mi alzai per fare leva, poi tirai con tutto il mio peso e la mia forza quel piccolo bracciolo. Lo strattonai a più riprese. Il pezzo di plastica e di metallo si strappò per metà dal sedile. Insistei. L'altra metà del bracciolo si ruppe staccandosi con un rumore simile alla dolorosa e complicata estrazione di un dente. Due passi di corsa e fui al portello aperto dell'aereo. L'intermediario era già sceso a terra, e se la stava filando con la valigia. Mi buttai su di lui. Dovevo trattenerlo finché non fossero arrivati quelli dell'FBI. Volevo anche stenderlo, quel bastardo, fargli vedere chi conduceva adesso la danza. Piombai addosso all'uomo come un falco su un topo di campagna. Cademmo pesantemente a terra. Il bracciolo pendeva ancora dalle mie manette. Il metallo lo colpì al volto e lo fece sanguinare. Lo cinturai una volta col braccio libero. «Dov'è Maggie Rose? Dov'è?» urlai con tutta la forza dei miei polmoni. Alla mia sinistra, sopra la lucente superficie nera del mare, potevo vedere delle luci avanzare fluttuando verso di noi, in rapido avvicinamento. Dovevano essere gli uomini dell'FBI. I loro aerei di sorveglianza stavano venendo in aiuto. Erano riusciti a seguirci. Proprio allora venni colpito dietro il collo. Sembrava un tubo di piombo. Non persi immediatamente i sensi. Soneji? urlò una voce dentro di me. Un secondo colpo si abbatte sulla mia nuca. Stavolta andai al tappeto. Non vidi chi stava vibrando i colpi, o che cosa usava. Quando rinvenni, il piccolo aeroporto del South Carolina brulicava di luci abbaglianti e di movimento. L'FBI era arrivata in forze, accompagnata dalla polizia locale. Ovunque, ambulanze e macchine dei pompieri. L'intermediario però era sparito insieme col riscatto di dieci milioni. Una fuga pulita. Una pianificazione perfetta da parte di Soneji. Un'altra mossa impeccabile.
«La bambina? Maggie Rose?» chiesi a un dottore calvo del pronto soccorso che stava curando le mie ferite alla testa. «Mi dispiace, signore», disse con voce lenta e strascicata. «La bambina è sempre irreperibile. Maggie Rose non si è mai vista da queste parti.» 25 Crisfield, nel Maryland, si stendeva sotto un cielo plumbeo e cupo. La pioggia era caduta a sprazzi per quasi tutto il giorno. Un'auto solitaria percorreva veloce a sirena spiegata le strade di campagna sdrucciolevoli per la pioggia. Dentro l'auto c'erano Artie Marshall e Chester Dils. Dils aveva ventisei anni, e quindi era di vent'anni più giovane di Marshall. Come molti poliziotti giovani delle zone rurali, sognava di andarsene da lì: le stesse speranze e sogni che accarezzava quando frequentava la Wilde Lake High School a Washington. Ma ora eccolo lì a Crisfield. Twin Peaks II, come chiamava quella cittadina con meno di tremila abitanti. Il desiderio di passare nella polizia dello Stato del Maryland gli provocava quasi una sofferenza fisica. Era un passaggio difficoltoso a causa degli esami severi, soprattutto quello di matematica. Ma diventando un poliziotto dello Stato avrebbe potuto scappare dalla contea di Somerset. Magari poteva arrivare a Salisbury o Chestertown. Né Dils né soprattutto il mite Artie Marshall erano pronti per l'improvvisa notorietà di cui stavano per godere. Così stavano le cose in quel pomeriggio del 30 dicembre. Era arrivata una telefonata alla loro stazione sulla Old Hurley Road. Un paio di cacciatori aveva individuato qualcosa dall'aria sospetta nella zona occidentale di Crisfield, sulla strada che conduceva al campeggio di Tangier Island. I cacciatori avevano scoperto un veicolo abbandonato. Un furgoncino blu. Nei giorni immediatamente precedenti, qualsiasi cosa avesse un che di sospetto veniva immediatamente messa in relazione col clamoroso rapimento di Washington. Quell'ordine di servizio venne ben presto considerato superato. Comunque a Dils e a Marshall venne ordinato di controllare la segnalazione. Un furgoncino blu era stato utilizzato per portare via i bambini da scuola. Era quasi sera quando arrivarono alla fattoria sulla Route 413. La strada in terra battuta aveva un'aria spettrale.
«C'è una vecchia fattoria là dietro?» chiese Dils al suo collega. Dils era al volante. Andava a venticinque chilometri all'ora. «Sì. Ora non ci abita nessuno. Non credo che possa venirne fuori qualcosa di buono, Chesty.» «È questo il bello del nostro lavoro. Non si può mai dire. C'è sempre qualcosa di buono da qualche parte là fuori.» Aveva preso l'abitudine di rendere tutto un po' più affascinante di quanto fosse in realtà. Aveva le sue idee e i suoi grandi sogni, ma Artie Marshall li considerava solo un segno d'immaturità. Arrivarono al granaio cadente di cui avevano parlato i cacciatori nella telefonata alla stazione di polizia. «Andiamo a dare un'occhiata», disse Marshall, cercando di tener testa all'entusiasmo del giovane agente. Chester Dils balzò fuori dell'auto di pattuglia. Artie Marshall lo seguì, ma senza la stessa foga. Si avvicinarono a un granaio rosso dal colore molto sbiadito, una costruzione bassa che sembrava essere sprofondata di almeno mezzo metro dai tempi del suo splendore. I cacciatori si erano fermati al granaio per ripararsi dall'acquazzone del pomeriggio. Poi avevano chiamato la polizia. L'interno del granaio era piuttosto buio e lugubre. Le finestre erano state coperte con della tela. Artie Marshall accese la sua torcia elettrica. «Facciamo un po' di luce sull'argomento», sussurrò. Poi urlò: «Abbiamo fatto tombola, perdio!» Eccolo lì. Un gran buco nel mezzo del pavimento in terra battuta. E un furgone blu scuro vicino al buco. «Per la miseria, Artie!» Chester Dils estrasse la pistola d'ordinanza. D'improvviso ebbe difficoltà di respirazione. Aveva qualche problema a stare lì in piedi. A dire il vero non aveva voglia di avvicinarsi a quella buca. Non voleva più rimanere dentro il granaio. Dopotutto, forse non era pronto per entrare nella polizia dello Stato. «Chi è là?» chiese Artie Marshall con voce alta e chiara. «Vieni fuori, subito. Siamo della polizia! Siamo della polizia di Crisfield.» Cristo, Artie si stava comportando meglio di lui, pensò Dils. Si stava mostrando all'altezza della situazione. L'idea gli fece muovere le gambe. Si stava inoltrando nel granaio, per vedere se si trattava di ciò che lui ardentemente sperava che non fosse. «Punta quella torcia in basso dentro qua», disse al collega. Erano arrivati proprio al bordo della buca nel terreno. Riusciva a malapena a respirare.
Gli sembrava che il petto fosse stretto da un laccio emostatico. Gli tremavano le ginocchia. «Tutto bene, Artie?» Marshall abbassò la luce della torcia nella buca buia e profonda. Videro ciò che i cacciatori avevano già visto. C'era una piccola cassa nella fossa. Quasi una cassa da morto. La cassa di legno - la cassa da morto - era completamente aperta, ed era vuota. «Che diavolo è?» si chiese Dils quasi inconsciamente. Artie Marshall si chinò di più. Puntò il fascio luminoso della torcia direttamente nella buca. Istintivamente si guardò intorno. Si guardò alle spalle. Poi la sua attenzione ritornò alla buca nera. C'era qualcosa sul fondo. Qualcosa che sembrava color rosa vivace, o rosso. La mente di Marshall lavorava freneticamente. È una scarpa... Cristo, dev'essere della bambina. Dev'essere qui che hanno tenuto Maggie Rose Dunne. «È qui che hanno tenuto quei due bambini», comunicò infine al collega. «L'abbiamo trovato, Chesty.» Ed era proprio così. E avevano trovato anche una delle scarpe rosa da ginnastica di Maggie Rose. Le vecchie Reebok, le sue scarpe preferite che avrebbero dovuto aiutarla a confondersi con gli altri ragazzi alla Washington Day School. La cosa veramente strana era che la scarpa sembrava abbandonata lì apposta per essere ritrovata. PARTE SECONDA IL FIGLIO DI LINDBERGH 26 Quando Gary era molto agitato, si rifugiava nelle amate fantasie della sua adolescenza. Ora era molto agitato. Il piano geniale che aveva concepito sembrava sfuggito al suo controllo. Non voleva neppure pensarci. Quasi sussurrando, ripeteva a memoria le parole magiche: «La fattoria di Charles Lindbergh era illuminata da vivaci luci arancione. Sembrava un castello in fiamme... Ma adesso il rapimento di Maggie Rose era il Delitto del Secolo. Proprio così!» Secondo una delle sue fantasticherie, era lui che aveva eseguito da ragazzo il rapimento Lindbergh.
Era quello l'inizio di tutto: una storia che aveva inventato all'età di dodici anni. Una storia che si ripeteva continuamente per non impazzire. Il sogno a occhi aperti di un delitto commesso venticinque anni prima di nascere. Ormai era buio pesto nel seminterrato di casa sua. Lui si era abituato al buio. Ci si poteva vivere. Poteva perfino essere stupendo. Erano le sei e un quarto di mercoledì 6 gennaio a Wilmington, nel Delaware. Ora Gary lasciava vagare la mente, la lasciava volare. Era in grado di vedere ogni segreto particolare della fattoria di Lindy il Fortunato e di Anne Morrow Lindbergh a Hopewell. Per tanto tempo era stato ossessionato da quel celebre rapimento. Fin da quando la matrigna l'aveva mandato per la prima volta in cantina. «Dove i bambini cattivi vanno a meditare su ciò che hanno fatto di sbagliato.» Ne sapeva più di qualunque altra persona vivente su quel rapimento. Il piccolo Lindbergh era stato ritrovato infine in una tomba poco profonda a soli sei chilometri dalla casa del New Jersey. Ah, ma era davvero il piccolo Lindbergh? Il cadavere che avevano trovato era troppo alto di statura: ottantaquattro centimetri, invece dei settantaquattro di Charles Junior. Nessuno aveva capito quel sensazionale sequestro irrisolto. A tutt'oggi. E sarebbe andata così anche con Maggie Rose e Michael Goldberg. Nessuno sarebbe mai riuscito ad arrivarne a capo. Era una promessa! Nessuno era mai riuscito a risolvere neppure uno degli altri omicidi che aveva commesso, no? Avevano catturato John Wayne Gacy Junior, dopo più di trenta omicidi a Chitown. Jeffrey Dahmer fu beccato dopo diciassette a Milwaukee. Gary ne aveva uccisi più di tutti e due messi insieme. Ma nessuno sapeva chi fosse, o dove si trovasse, o che altro avesse in mente di fare dopo. Era buio in quella cantina, ma Gary c'era abituato. «La cantina è un'abitudine acquisita», aveva detto una volta alla matrigna per farla arrabbiare. La cantina era come la mente una volta che si è morti. Poteva essere una cosa raffinata, se si possedeva una mente veramente grande, come la sua. Gary stava pensando al piano operativo, e la sua idea era semplice: il bello doveva ancora venire. Era meglio che non chiudessero occhio. Ai piani superiori della casa, Missy Murphy stava facendo del suo meglio per non arrabbiarsi troppo con Gary. Stava preparando i biscotti per la loro figlia, Roni, e per gli altri ragazzi del vicinato. Missy cercava vera-
mente di essere comprensiva e costruttiva. Ancora una volta. Aveva cercato di non pensare a Gary. Di solito quando cucinava al forno ci riusciva. Ma stavolta no. Gary era incorreggibile. Era anche simpatico, dolce e brillante come una lampadina da mille watt. Quella era la principale ragione per cui lei si era sentita attratta da lui. L'aveva conosciuto all'università del Delaware. Lui si era trasferito lì da Princeton. Non aveva mai parlato con uno così in gamba in tutta la sua vita, neppure i suoi professori stavano alla pari con Gary. La parte adorabile di lui era quella che l'aveva portata a sposarselo nel 1982. Contro il parere di tutti. La sua migliore amica, Michelle Lowe, credeva nei tarocchi, nella reincarnazione, in tutta quella roba insomma. Lei aveva fatto il loro oroscopo, quello di Gary e quello di Missy. «Mandalo via, Missy», le aveva consigliato. «Non lo guardi mai negli occhi?» Ma Missy era andata avanti, sposandolo contro il parere di tutti. Forse era per quello che lei gli era rimasta attaccata nel bene, nel male e nel peggio. Sopportò ben più di quanto chiunque si sarebbe aspettato da lei. A volte era come se ci fossero due Gary da sopportare. Gary e i suoi incredibili giochi mentali. Doveva esserci sicuramente una brutta notizia in arrivo, pensava mentre stava versando un sacchetto pieno di briciole. Uno di quei giorni lui le avrebbe rivelato che l'avevano licenziato dal lavoro. La solita brutta storia che ricominciava. Gary le aveva già detto che era «più in gamba di chiunque altro» sul lavoro (senza dubbio ciò era vero). Le aveva detto che lui stava superando tutti quanti. Le aveva detto che piaceva ai suoi principali. (Questo probabilmente era stato vero all'inizio.) Le aveva detto che tra breve intendevano nominarlo direttore vendite. (Questa era senz'altro una delle storie di Gary.) Poi, nacquero dei problemi. Gary le aveva raccontato che il suo capo aveva cominciato a essere geloso di lui. L'orario di lavoro era impossibile. (Questo era abbastanza vero. Stava lontano da casa tutta la settimana e anche qualche weekend.) Il ciclo era avviato. La cosa penosa era che se non ce la faceva in questo lavoro, con questo principale, come poteva farcela da qualunque altra parte? Missy Murphy era sicura che uno di quei giorni Gary sarebbe venuto a casa e le avrebbe detto che avevano chiesto le sue dimissioni. I suoi giorni come commesso viaggiatore della Atlantic Heating Company erano contati. Dove avrebbe trovato lavoro, dopo? Chi poteva essere più comprensivo del suo attuale principale, il fratello di lei, Marty?
Perché doveva essere tutto sempre così difficile? Come mai lei si faceva sempre mettere nel sacco dai tipi come Gary Murphy? Missy Murphy si chiese se quella sera sarebbe stata la sera del fattaccio. Gary era stato di nuovo licenziato? Glielo avrebbe detto quella sera, tornato a casa dal lavoro? Come poteva una persona così intelligente essere un fallito? si chiedeva. La prima lacrima le cadde nella pasta dei biscotti, poi Missy si sfogò. Tutto il suo corpo prese a tremare e a sussultare. 27 Non avevo mai avuto difficoltà a ridere delle mie frustrazioni di poliziotto e di psicologo, ma stavolta era molto più dura. Soneji ci aveva sconfitto giù nel Sud, in Florida e in Carolina. Non avevamo avuto indietro Maggie Rose. Non sapevamo se era viva o morta. Dopo essere stato interrogato per cinque ore dall'FBI, venni spedito in aereo a Washington a rispondere alle stesse domande nel mio dipartimento. Uno degli ultimi inquisitori fu il comandante Pittman. Il capo apparve a mezzanotte. Era fresco di doccia e di rasatura, apposta per il nostro incontro speciale. «Hai un aspetto assolutamente spaventoso», esordì. «Sono in piedi da ieri mattina. Lo so che aspetto ho. Dimmi qualcosa che non so.» Ancor prima che mi uscissero di bocca quelle parole capii che stavo commettendo un errore. Di solito affronto le sconfitte con coraggio, ma ormai ero intontito, stanco e completamente fuori di testa. Il capo si chinò verso di me da una delle seggiole di metallo della sala riunioni. Gli vedevo i denti d'oro mentre parlava. «Certo, Cross. Ti devo sbattere fuori di questo caso di sequestro. Giusto o sbagliato che sia, la stampa sta addossando gran parte della responsabilità di questo disastro a te, e a noi. L'FBI non viene messo sotto accusa. Per giunta Thomas Dunne sta facendo una gran cagnara. Il che mi sembra giusto. I soldi del riscatto sono spariti, e non abbiamo recuperato sua figlia.» «Sono tutte stronzate», obiettai al comandante Pittman. «Soneji ha chiesto di me come intermediario. Nessuno sa ancora perché. Forse non avrei dovuto andarci, e invece ci sono andato. È stato l'FBI che non ha saputo garantire la sorveglianza, non io.» «Adesso dimmi qualcosa che io già non so», ricominciò Pittman. «In ogni caso tu e Sampson ritornate a occuparvi degli omicidi Sanders e Tur-
ner. Proprio come volevate all'inizio. Non m'interessa se, non ufficialmente, continuate a lavorare al sequestro. Questo è tutto.» Il capo, dopo aver recitato la sua bella tirata, se ne andò. Passo e chiudo. Nessuna discussione. Sampson e io eravamo stati rispediti al nostro posto: il settore sud-est di Washington. Ora ognuno tornava a occuparsi del proprio orticello. L'omicidio di sei neri diventava di nuovo importante. 28 Due giorni dopo il mio ritorno dal South Carolina, venni svegliato dal baccano di una folla riunitasi all'esterno di casa nostra. Ero apparentemente al sicuro fra le lenzuola, quando udii un ronzare di voci. In testa mi rimbombava una frase: «Oh, no, è di nuovo domani». Infine aprii gli occhi. Vidi altri occhi. Damon e Janelle mi stavano fissando. Il fatto che stessi ancora dormendo a quell'ora pareva divertirli. «Ragazzi, è la TV che fa tutto questo fracasso?» «No, papà», rispose Damon. «La TV è spenta.» «No, papà», ripeté Janelle. «È meglio della TV.» Mi rizzai su un gomito. «Be', state facendo una festa coi vostri amici?» Entrambi scossero il capo con serietà. Poi Damon sorrise, mentre la bambina rimase seria e un po' timorosa. «No, papà, non stiamo facendo una festa», assicurò Damon. «Hmm. Non ditemi che sono ritornati i giornalisti e quelli della TV. Sono appena stati qui... solo ieri sera.» Damon se ne stava in piedi con le mani sopra la testa. Lo fa quando è nervoso o eccitato. «Sì, papà, sono di nuovo i giornalisti.» «Smammate», borbottai tra me. «Smamma tu», replicò Damon con sguardo torvo. In parte capiva quel che stava accadendo. Un pubblico linciaggio. Il mio. Di nuovo quei maledetti giornalisti. Mi rigirai a fissare il soffitto. Aveva bisogno di una mano di bianco. Quando si è proprietari di una casa, il lavoro non finisce mai. La notizia che ero stato io a combinare un gran casino al momento della consegna del riscatto era arrivata ai giornali. Qualcuno, forse l'FBI, forse George Pittman, aveva provveduto a sputtanarmi. Qualcuno della polizia
aveva lasciato trapelare l'informazione falsa secondo cui il nostro operato a Miami derivava dalle mie valutazioni psicologiche su Soneji. Un settimanale a diffusione nazionale intitolava: POLIZIOTTO DI WASHINGTON HA PERSO MAGGIE ROSE! Thomas Dunne aveva detto in un'intervista in TV che mi riteneva personalmente responsabile della mancata liberazione della figlia in Florida. Da quel momento divenni l'oggetto di parecchi articoli e editoriali. Nessuno di essi era particolarmente positivo e neppure si avvicinava alla realtà dei fatti. Se fosse stato vero che in qualche modo avevo mandato a monte l'operazione, avrei accettato le critiche. Riesco ad accettare una lavata di capo se me la merito. Ma io non avevo affatto combinato pasticci. Avevo rischiato la vita in Florida. Avevo bisogno più che mai di sapere perché Gary Soneji aveva voluto me per lo scambio in Florida. Perché mi aveva coinvolto nei suoi piani? Finché non l'avessi scoperto non sarei riuscito a staccarmi dal sequestro. Non importava ciò che il capo diceva, pensava o faceva di me. «Damon, vai subito sulla veranda», dissi a mio figlio. «Di' ai cronisti di andare a spasso. Di' loro di filarsela. D'accordo?» «Sì. Di andare a spasso!» disse Damon. Feci un largo sorriso a Damon, il quale capiva che stavo facendo del mio meglio in quella situazione. Mi ricambiò il sorriso. Infine Janelle fece una smorfia e prese Damon per mano. Mi stavo alzando. Avvertivano che stavo per mettermi in azione. Potevano contarci. Sbirciai all'esterno verso la veranda. Avrei parlato coi giornalisti. Non mi curai di mettermi le scarpe, né la camicia. Mi vennero in mente le immortali parole di Tarzan: Aaeeyaayaayaa! «Come state in questa bella mattina d'inverno?» chiesi con indosso un paio di pantaloni color kaki. «Qualcuno vuole un caffè o delle paste?» «Detective Cross, Katherine Rose e Thomas Dunne danno a lei la colpa per gli errori commessi in Florida. Il signor Dunne ha fatto un'altra dichiarazione ieri sera.» In un certo senso mi stava fornendo le notizie del mattino, oltretutto gratis. Sì, ero ancora il capro espiatorio della settimana. «Posso capire la delusione della famiglia Dunne per i risultati dell'operazione in Florida», commentai con tono sereno. «Buttate pure i bicchierini del caffè sul prato, come avete già fatto. Li raccoglierò dopo.» «Allora lei riconosce di aver fatto un errore», disse qualcuno. «Passare i soldi del riscatto senza prima vedere Maggie Rose?»
«Non riconosco un bel niente. Non ho avuto scelta né in Florida né nel South Carolina. L'unica scelta che ho avuto era di non seguire l'intermediario. Vede, se uno è ammanettato, e l'altro ha una pistola, ci si trova in grosso svantaggio. Se poi i soccorsi arrivano in ritardo, quello è un altro problema ancora.» Sembrava che non avessero ascoltato una sola parola di quello che avevo detto. «Le nostre fonti dicono che è stato lei a prendere la decisione di pagare il riscatto», disse qualcuno. Cercai di ribattere a quelle sciocchezze. «Perché avete piantato le tende sul mio prato? Perché venite qui a spaventare la mia famiglia? A mettere sottosopra il quartiere? Non m'interessa quello che stampate su di me, ma vi dico questo: non avete la minima idea di quanto sta succedendo. Potreste mettere in pericolo la piccola Dunne.» «È viva, Maggie Rose Dunne?» gridò qualcuno. Mi voltai e ritornai in casa. Così imparavano. Ora sapevano che cosa significava rispettare la privacy della gente. «Ehi, uomo del burro. Che succede?» Un'altra folla mi riconobbe un po' più tardi quella mattina. Erano uomini e donne in fila per tre sulla 12 Street davanti alla chiesa di St. Anthony. Avevano fame e freddo, e nessuno di loro aveva le Nikon o le Leica al collo. «Ehi, uomo del burro, ti ho visto in TV. Sei diventato un divo del cinema?» mi gridò qualcuno. «Come no? Non si vede?» Nel corso degli ultimi anni Sampson e io abbiamo lavorato presso la mensa della parrocchia di St. Anthony, due o tre volte alla settimana. Ho cominciato grazie a Maria, che aveva svolto un po' del suo lavoro di assistente sociale tramite la parrocchia. Ho continuato dopo la sua morte per il più egoistico dei motivi: quel lavoro mi faceva sentire bene. Sampson accoglie davanti alla porta principale le persone che vengono a mangiare. Prende i biglietti numerati che ricevono quando si mettono in fila. Lui rappresenta un deterrente per quelli che danno in escandescenze. Io sono il deterrente fisico all'interno del refettorio. Mi chiamano l'«uomo del burro». Jimmy Moore, che manda avanti la cucina, crede nel potere nutritivo del burro di arachidi. Insieme con un pasto completo - che di solito consiste di pane, due tipi di verdure, stufato di carne o pesce, e dessert -, chiunque lo desideri può avere un vasetto di burro di arachidi.
Ogni giorno. «Ehi, uomo del burro. Oggi ce l'hai un po' di buon burro di arachidi per noi? La solita marca o qualche altra schifezza?» Sorrisi alle solite facce da cane bastonato che vedevo nella folla. Al mio naso arrivava il consueto puzzo di sudore, alito cattivo e alcol stantio. «Non conosco il menù di oggi.» Gli habitué conoscono me e Sampson. La maggior parte di loro sa pure che siamo della polizia. Alcuni sanno che sono uno strizzacervelli, dato che ricevo i pazienti fuori della cucina in una roulotte con la scritta: AIUTATI CHE IL CIEL T'AIUTA, VIENI AVANTI! Il posto di Jimmy Moore è bello ed efficiente. Lui sostiene che si tratta della più grande mensa per poveri della zona orientale, e in media serviamo millecento pasti al giorno. La mensa inizia il servizio alle dieci e un quarto, e il pranzo finisce alle dodici e trenta. Questo vuol dire che, se si arriva un solo minuto dopo le dodici e trenta, quel giorno si resta a pancia vuota. La disciplina ha un ruolo importante nel programma assistenziale della parrocchia. Non viene ammesso nessuno in preda all'alcol o alla droga. Durante il pasto ci si deve comportare bene. Si hanno a disposizione dieci minuti per mangiare: c'è altra gente affamata, fuori al freddo, a fare la fila. Tutti vengono trattati con rispetto e dignità. Non si fanno domande agli ospiti. Se si aspetta in fila, si mangia. Si viene chiamati «signore» o «signora» e il personale, in maggioranza volontario, è allenato ad avere un'aria ottimista. In effetti, sui nuovi volontari, che scodellano o ritirano i piatti, vengono effettuati i «controlli del sorriso». Verso mezzogiorno successe qualcosa fuori. Sentivo Sampson che urlava. C'era qualche casino. La gente in fila per il pasto urlava e imprecava ad alta voce. Poi sentii Sampson chiedere aiuto. «Alex! Vieni fuori!» Corsi all'esterno e capii immediatamente che cosa succedeva. Strinsi i pugni: erano grossi e solidi come incudini. I giornalisti. Mi avevano scovato di nuovo. Un paio di cameramen dei telegiornali, scattanti come scoiattoli, filmavano la gente che faceva la fila per la mensa. Non era un'azione molto popolare, evidentemente. Quella gente cercava di conservare gli ultimi brandelli di dignità: non desiderava essere vista in TV fare la fila a una mensa per poveri. Jimmy Moore è un irlandese duro e brusco che era stato con noi nella
polizia del Distretto di Columbia. Era già fuori, ed era proprio lui che faceva più baccano di tutti. «Figli di puttana, bastardi, stronzi!» mi ritrovai a urlare. «Voi non siete stati invitati qui! Non siete i benvenuti, bastardi! Lasciate in pace questa gente. Lasciateci distribuire i pasti in pace.» I fotografi smisero di scattare. Mi fissarono, come Samspon, Jimmy Moore e quasi tutti quelli in fila per il pasto. I giornalisti non se ne andarono, però indietreggiarono. La maggior parte di loro attraversò la 12th Street, e così capii che mi avrebbero atteso all'uscita. Noi lavoravamo per quella povera gente, pensavo mentre osservavo i cronisti e i fotografi che m'aspettavano in un parcheggio sull'altro lato della strada. In quei giorni, per chi diavolo lavorava la stampa se non per le ricche famiglie da cui dipendeva? Intorno a noi si levarono frasi sconnesse e adirate. «La gente ha fame e freddo. Mangiamo. La gente ha il diritto di mangiare», gridò qualcuno dalla fila. Tornai dentro al mio posto di lavoro. Cominciammo a servire il pranzo. Ero di nuovo l'uomo del burro. 29 Nella città di Wilmington, nel Delaware, Gary Murphy stava spalando uno strato di dieci centimetri di neve. Era mercoledì pomeriggio, 6 gennaio. Stava pensando al sequestro. Stava cercando di mantenere il controllo della situazione. Stava pensando a quella ricca piccola strega di Maggie Rose Dunne, quando una lucente Cadillac blu si accostò al marciapiede davanti alla sua casa in stile coloniale di Central Avenue. Gary imprecò sottovoce emettendo pennacchi di vapore. La figlia di Gary, Roni, di sei anni, faceva palle di neve, disponendole poi in ordine sulla crosta gelata che ricopriva la neve. Emise uno strillo quando vide lo zio Marty uscire dall'auto. «Chi è questa bellissima bambina?» gridò a Roni dall'altra estremità del prato. «Un'attrice del cinema? Sì! È Roniii? Sì, è lei!» «Zio Marty! Zio Marty!» strillava Roni correndo verso l'auto. Ogni volta che Gary vedeva Marty Kasajian pensava a un film schifoso, con John Candy nel ruolo di uno spiacevole, sgradito e inverosimile zio che capitava continuamente a torturare una modesta famiglia del Midwest. Lo zio Marty era ricco e aveva successo, e parlava a voce più alta di John
Candy, ed era lì. Gary disprezzava il fratello di Missy per tutte quelle ragioni, ma più di tutto perché era il suo principale. Missy doveva aver udito l'agitazione prodotta dall'arrivo di Marty: e come avrebbe potuto non udirla chiunque abitasse nella Central Avenue o nella vicina North Street? Uscì dalla porta sul retro con lo strofinaccio dei piatti ancora in mano. «Guarda chi c'è!» strillò. A Gary sembrava che lei e Roni avessero la stessa voce da porcellino. Una fottuta sorpresa, avrebbe voluto urlare Gary. Lo tenne per sé, come per sé teneva tutti i suoi veri sentimenti quando era a casa. S'immaginava di picchiare a morte Marty con la sua pala da neve, di assassinarlo per davvero davanti a Missy e Roni. Di far vedere loro chi era veramente il padrone di casa. «La Divina Miss Missy!» continuò a declamare Marty, come una mitraglia. Infine salutò Gary. «Come va, vecchio Gar. Che cosa mi dici degli Eagles? Li hai presi i biglietti per il Super Bowl?» «Certo, Marty. Due posti all'altezza della linea di metà campo.» Gary Murphy scagliò la sua pala d'alluminio sul mucchietto di neve. Arrancò verso Missy e Roni che stavano vicino allo zio Marty. Poi entrarono tutti quanti in casa. Missy mise in tavola uno zabaione e pezzi di torta di mele e uva, con fette di formaggio sui lati. Il pezzo di Marty era più grosso di tutti gli altri. Era lui il Padrone di Casa, no? Marty porse una busta a Missy. Era la «gratifica» da parte del fratellone, che lui voleva far vedere a Gary. Era come spargere sale sulle ferite. «Mamma, zio Marty e papà devono parlare un paio di minuti, tesoro», disse Marty a Roni non appena ebbe finito la sua torta. «Credo di aver dimenticato in auto qualcosa per te. Non so. Forse sul sedile posteriore. È meglio che tu vada a vedere.» «Prima mettiti il cappotto, tesoro», disse Missy alla figlia. «Non prendere freddo.» Roni emise uno strillo, quasi una risata, mentre abbracciava lo zio. Poi si allontanò di corsa. «Che cosa le hai preso?» sussurrò Missy al fratello come una cospiratrice. «Sei sempre esagerato.» Marty scrollò le spalle come se non riuscisse a ricordare. Con tutti gli altri Missy era normale. A Gary ricordava la sua vera madre. Aveva perfino il suo aspetto. Era solo col fratello che lei cambiava in peggio. Cominciava addirittura a imitare le sgradevoli abitudini e la cadenza di Marty. «Ascoltate, ragazzi», disse lo zio chinandosi verso di loro. «C'è un pic-
colo problema. È rimediabile, purché lo affrontiamo in tempo, ma dobbiamo fare qualcosa. Insomma, cerchiamo di comportarci da persone adulte.» Missy si mise subito in guardia. «Di che si tratta, Marty? Qual è il problema?» Marty ora appariva davvero preoccupato e a disagio. Gary aveva già visto un migliaio di volte quello sguardo da cane bastonato. Soprattutto quando doveva affrontare un cliente che non aveva ancora pagato o doveva licenziare qualcuno in ufficio. «Gar!» Guardò Gary per chiedergli di aiutarlo in quel compito ingrato. «Vuoi dire qualcosa tu?» Gary scosse le spalle. Come se non capisse a che cosa si riferisse. Vaffanculo, stronzo, stava pensando. Stavolta sei da solo. Sentiva che sul suo viso si apriva un sorriso che veniva direttamente dallo stomaco. Non voleva mostrarlo, ma infine gli si schiuse sulle labbra. Era un momento quasi piacevole. L'essere colto in fallo aveva i suoi lati piacevoli. Poteva essere una lezione da cui si poteva imparare qualcosa. «Mi spiace, ma non credo che ci sia niente di divertente.» Marty scosse il capo. «Non lo credo davvero.» «Be', neanch'io», convenne Gary con una strana voce. Era acuta e da ragazzo. Non sembrava affatto la sua voce. Missy gli lanciò un'occhiata strana. «Che cosa succede? Volete farmi capire qualcosa?» Gary guardò sua moglie. Era molto arrabbiato anche con lei. Lei faceva parte della trappola e lo sapeva. «Le statistiche delle mie vendite all'Atlantic fanno veramente schifo questo trimestre», disse infine Gary facendo spallucce. «È questo, Marty?» Marty si accigliò e guardò le sue nuove Timberland. «Oh, è molto peggio, Gar. Le tue statistiche di vendita sono quasi inesistenti. E, quel che è peggio, quello che è molto peggio, è che hai in mano anticipi per trentatremila dollari. Sei in rosso, Gary. Sei sottozero. Non voglio dire altro, altrimenti lo so che poi me ne pentirei. Sinceramente non so come affrontare questa situazione. È molto difficile per me... imbarazzante. Mi spiace, Missy. Sono cose che odio fare.» Missy si coprì il volto con le mani e iniziò a piangere. Dapprima in silenzio, come se non volesse. Poi i singhiozzi si fecero più forti. Gli occhi del fratello luccicarono per le lacrime. «Proprio quello che non volevo. Mi spiace, sorellina.» Fu Marty che al-
lungò una mano verso di lei per confortarla. «Sto bene», disse Missy scostandosi dal fratello. Fissò il marito seduto dall'altra parte del tavolo. I suoi occhi sembravano più piccoli e più scuri. «Dove sei stato in giro tutti questi mesi, Gary? Che cos'hai fatto? Oh Gary, Gary, a volte ho perfino l'impressione di non conoscerti. Di' qualcosa per migliorare la situazione. Ti prego, di' qualcosa, Gary.» Gary rifletté molto attentamente prima di dire una parola. Poi disse: «Ti amo tanto, Missy. Amo te e Roni più di quanto non ami la mia stessa vita». Gary mentiva, e sapeva che si trattava di una bugia molto buona. Detta e recitata benissimo. Ciò che desiderava era ridere in faccia a loro. Quello che più desiderava era ucciderli tutti. Non c'era altro da fare. Bum. Bum. Bum. Era arrivata l'ora di un bell'omicidio multiplo a Wilmington. L'ora di rimettere in moto il suo piano. Proprio in quel momento, Roni ritornò in casa di corsa. Stringendo in mano una nuova videocassetta sorrideva con una faccia da luna piena. «Guarda che cosa mi ha portato lo zio Marty.» Gary si teneva la testa fra le mani. Non riusciva a fermare l'urlo che gli rimbombava nel cervello. Voglio essere qualcuno! 30 Nella zona sud-est del Distretto di Columbia la vita e la morte continuavano. Sampson e io eravamo tornati a occuparci degli omicidi Sanders e Turner. Non rimasi sorpreso che nel frattempo fossero stati fatti ben pochi progressi per risolverli. Non ero neppure sorpreso che di ciò non importasse niente a nessuno. Domenica 10 gennaio capii che era ora di prendersi una giornata di riposo, il mio primo giorno libero da quando era avvenuto il rapimento. Iniziai la mattina commiserandomi un po', e restandomene a letto fin verso le dieci a cercare di farmi passare il mal di testa, conseguenza dei bagordi con Sampson la sera prima. Quasi tutti i pensieri che mi passavano per la mente erano inconcludenti. Tanto per cominciare sentivo terribilmente la mancanza di Maria. Mi veniva in mente com'era bello starsene a letto insieme fino a tardi la domenica mattina. Poi m'infuriavo per il modo in cui mi avevano fatto diventare il capro espiatorio. E, cosa più importante, ero abbattuto perché nessu-
no di noi aveva potuto aiutare Maggie Rose Dunne. Un'immagine della piccola si era subito sovrapposta a quella dei miei due figli. Ogni volta che pensavo a lei, che probabilmente ormai era morta, provavo una stretta allo stomaco. Il che non è una cosa simpatica, soprattutto di mattina dopo una notte di bagordi. Stavo considerando l'idea di restarmene a letto fino alle sei di sera. Me lo meritavo. Non avevo voglia di vedere Nana e sorbirmi le sue rampogne su quello che avevo fatto la notte prima. Non avevo voglia neppure di vedere i miei figli. Continuavo a ripensare a Maria. Una volta, in un'altra vita, io e lei, e di solito i bambini, passavamo tutte le nostre domeniche insieme. A volte ce ne restavamo a letto fino a mezzogiorno, poi ci vestivamo e magari andavamo al ristorante. Non c'erano molte cose che io e Maria non facessimo insieme. Ogni sera tornavo a casa prima che potevo. Maria si comportava allo stesso modo. Era la cosa che desideravamo di più. Grazie a lei si erano rimarginate le ferite aperte dal fallimento del mio studio privato di psicologo. Mi aveva fatto recuperare un certo equilibrio dopo un paio di anni di vita disordinata insieme con Sampson e altri amici scapoli, compresi alcuni giocatori di pallacanestro dei Washington Bullets. Maria mi fece riacquistare la salute mentale, e gliene fui sempre grato. Magari sarebbe continuato così per sempre. O magari ci saremmo separati. Chi può dirlo? Non ci è stata concessa la possibilità di scoprirlo. Una sera non tornò dal suo lavoro di assistente sociale. Infine arrivò la telefonata e mi precipitai al Misericordia Hospital. Avevano sparato a Maria: era in condizioni molto critiche. Fu tutto quello che mi dissero al telefono. Arrivai all'ospedale poco dopo le otto. Un amico, un agente di pattuglia che conoscevo, mi fece sedere e mi disse che Maria era morta durante il trasporto in ospedale. Era successo durante una sparatoria da un'auto in corsa nei quartieri popolari. Non potemmo neppure dirci addio. Accadde tutto senza preavviso e senza spiegazioni. Il dolore che provavo era una specie di palo d'acciaio che dal centro del petto mi saliva sino alla fronte. Pensavo continuamente a Maria, giorno e notte. Dopo tre anni, finalmente, cominciavo a dimenticare. Stavo imparando. Ero disteso a letto, tranquillo e rassegnato, quando Damon entrò in camera come se gli bruciassero i vestiti.
«Papà. Ehi, papà, sei sveglio?» «Qualcosa non va?» chiesi. «Hai la faccia di uno che ha appena visto Michael Jackson in giardino.» «C'è una persona che vuole vederti, papà», mi annunciò Damon eccitato e senza fiato. «C'è qui una persona!» «Chi è? Kermit del Muppet Show?» chiesi. «Chi c'è qui? Cerca di essere un po' più preciso. Non sarà un altro giornalista? Se è un giornalista...» «Lei dice che il suo nome è Jezme. È una si-gno-ra, papà.» Credo di essermi messo a sedere sul letto, ma la testa cominciò a girarmi, e così mi distesi di nuovo. «Dille che scendo subito. Non stare a dirle che sono a letto. Dille che scendo subito.» Damon uscì dalla camera, e mi chiesi come avrei potuto mantenere quella promessa. Quando scesi le scale, Janelle, Damon e Jezzie Flanagan erano ancora lì in piedi nell'atrio di casa nostra. Janelle sembrava un po' a disagio, però ultimamente svolgeva meglio il compito di rispondere al campanello della porta di casa. Una volta era timidissima di fronte agli estranei. Per aiutarla a superare l'imbarazzo, io e Nana abbiamo incoraggiato lei e Damon a rispondere alla porta di casa durante le ore diurne. Doveva essere qualcosa d'importante a spingere Jezzie Flanagan a venire a casa mia. Sapevo che metà dell'FBI stava cercando il pilota che aveva preso il riscatto. Fino a quel momento nessuna notizia da nessun fronte. Indossava larghi calzoni neri, con una semplice camicetta bianca, e scarpe da tennis consumate. Mi ricordavo il suo modo di vestire casual dai tempi di Miami. Mi faceva quasi dimenticare che razza di pezzo grosso lei fosse nei servizi segreti. «È successo qualcosa», dissi trasalendo. Sentii un dolore attraversarmi il cranio e arrivarmi in viso. Non riuscivo a sopportare il suono della mia voce. «No, Alex. Non abbiamo altre notizie su Maggie Rose. Qualche ulteriore avvistamento. Nient'altro.» Gli «avvistamenti» erano, per l'FBI, le testimonianze oculari di persone che «affermavano» di aver visto Maggie Rose o Gary Soneji. Fino a quel momento, spaziavano da un appartamento vuoto a pochi isolati dalla Washington Day School fino alla California, dal reparto pediatrico del Bellevue Hospital di New York City al Sudafrica, per non parlare di una sonda spaziale atterrata vicino a Sedona, in Arizona. Non passava giorno senza notizie di avvistamenti da qualche parte. Questo è un grande Paese, con un sacco di svitati in libertà.
«Non volevo disturbare», disse infine con un sorriso. «Solo che ci sono rimasta male per quanto è successo, Alex. Quegli articoli su di te sono tutte sciocchezze. Inoltre sono pieni di bugie. Volevo dirti ciò che provavo e allora sono venuta qui.» «Be', ti ringrazio», dissi a Jezzie. Era una delle poche cose simpatiche che mi erano capitate in quella settimana. Ne rimasi stranamente colpito. «In Florida hai fatto tutto quello che potevi. Non lo dico solo per rincuorarti.» Cercai di mettere a fuoco la vista. Vedevo ancora un po' confuso. «Non la definirei una delle migliori esperienze della mia vita lavorativa. D'altra parte non ritenevo di meritare la prima pagina per quello che ho fatto.» «Non te la meritavi. Qualcuno ti ha incastrato. Qualcuno ti ha montato contro la stampa. Sono tutte fesserie.» «Sono stronzate», sbottò Damon. «Giusto, paparone?» «Lei è Jezzie», la presentai ai bambini. «A volte lavoriamo insieme.» I bambini si stavano abituando a Jezzie, ma ne erano ancora un po' intimiditi. Jannie cercava di nascondersi dietro il fratello. Damon teneva entrambe le mani ficcate in tasca, come suo papà. Jezzie si accosciò per portarsi alla loro altezza. Strinse la mano a Damon, poi a Janelle. Fu una buona mossa. «Il tuo papà è il miglior poliziotto che abbia mai conosciuto», confidò a Damon. «Lo so.» Damon accolse benevolmente quel complimento. «Io sono Janelle.» Mi sorprese con quella sua presentazione così spontanea. Capii che desiderava essere abbracciata. A Janelle piace essere abbracciata più che a chiunque altro al mondo. Da lì deriva uno dei suoi numerosi nomignoli: «Ventosa». Anche Jezzie avvertì la sua esigenza. Allungò le braccia e strinse Jannie. Era proprio una bella scenetta. Damon decise immediatamente di unirsi al loro gruppo. Era la cosa giusta da fare. Era come se la loro migliore amica, persa di vista da molto tempo, fosse d'improvviso ritornata dalla guerra. Dopo circa un minuto, Jezzie si rialzò in piedi. In quel momento venni colpito dall'idea che lei era una persona veramente simpatica, e che non ne avevo conosciute molte durante le indagini. La sua visita a casa mia era stata una mossa meditata, ma anche piuttosto coraggiosa. La zona sud-est non è un quartiere dove le donne bianche possono inoltrarsi a cuor leggero, neppure una che probabilmente portava una pistola.
«Be', mi sono fermata solo per un abbraccio.» Mi strizzò l'occhio. «A dire il vero, sto indagando su un caso non lontano da qui. Adesso devo ridiventare la solita fanatica del lavoro.» «Lo prendi un caffè?» le chiesi. Pensavo di poter mettere insieme un caffè. Nana probabilmente ne aveva un po' in cucina, preparato da non più di cinque o sei ore. Mi lanciò un'occhiata furtiva e riprese a sorridere. «Due bei bambini, una bella mattina di domenica a casa con loro. Tutto sommato, non sei poi quel tipo duro che sembri.» «No, sono anche un duro», dissi. «Sono semplicemente un duro che è riuscito a trovare la strada di casa per la domenica mattina.» «D'accordo, Alex.» Continuava a sorridere. «Solo, non farti abbattere dalle assurdità che pubblicano i giornali. Tanto nessuno crede più a quelle pagine di fumetti. Ora devo proprio andare. Mi prenoto per un caffè.» Aprì la porta di casa e si mosse per uscire. Salutò con la mano i bambini mentre la porta si richiudeva dietro di lei. «Ciao, paparone», mi disse sorridendo. 31 Dopo che Jezzie Flanagan ebbe esaurito i suoi impegni nella zona sudest, si diresse verso la fattoria in cui Gary Soneji aveva sepolto i due bambini. Era già stata lì un paio di volte, ma c'erano ancora molte cose in quella fattoria del Maryland che non la convincevano. In ogni caso, lei era un tipo maledettamente ostinato. Pensava che nessuno avesse voglia di catturare Soneji più di lei. Ignorò il cartello con scritto LUOGO DEL DELITTO e s'inoltrò a tutta velocità nella strada in terra battuta fino a un gruppo di costruzioni diroccate. Ricordava con precisione tutti i particolari. C'erano la fattoria, un garage per le macchine e il granaio in cui erano stati nascosti i bambini. Ma perché questo posto? si chiese. Perché qui, Soneji? Che cosa poteva dirle quel posto riguardo alla sua vera identità? Jezzie Flanagan si era rivelata un vero genio delle indagini fin dal primo giorno in cui era entrata nei servizi segreti. Era uscita col massimo dei voti e con la lode dalla facoltà di giurisprudenza dell'università della Virginia, e il ministero del Tesoro aveva cercato di spingerla a entrare nell'FBI, dove quasi la metà degli agenti erano laureati in legge. Ma Jezzie aveva esaminato la situazione e aveva scelto di entrare nei servizi segreti, dove comun-
que la laurea avrebbe costituito un titolo in più. Fin dagli inizi aveva lavorato dalle ottanta alle cento ore alla settimana. Era l'astro nascente del dipartimento perché era più intelligente e tenace degli uomini con cui e per cui lavorava. Aveva più grinta. Ma Jezzie aveva pure capito subito che al primo passo falso la sua stella sarebbe precipitata. Lo aveva sempre saputo. C'era una sola soluzione: trovare Gary Soneji. Doveva essere lei a trovarlo. Percorse a palmo a palmo i campi intorno alla fattoria finché non sopraggiunse il buio. Poi ricominciò con l'aiuto di una torcia elettrica. Prese appunti, cercando di trovare l'anello mancante. Forse era qualcosa che aveva a che fare col vecchio caso Lindbergh, il cosiddetto delitto del secolo, che risaliva agli anni '30. Il Figlio di Lindbergh? Anche la casa di Lindbergh a Hopewell, nel New Jersey, era una fattoria. Il piccolo Lindbergh era stato sepolto non lontano dal luogo del sequestro. Bruno Hauptmann, il rapitore del piccolo Lindbergh, era originario di New York City. Che il rapitore di Washington fosse un qualche lontano parente? Che fosse di qualche località vicina a Hopewell? Magari Princeton? Come mai non era ancora saltato fuori niente a proposito di Soneji? Prima di lasciare la fattoria, Jezzie rimase seduta in auto. Avviò il motore, accese il riscaldamento e se ne restò lì, ossessionata, persa nei suoi pensieri. Dov'era Gary Soneji? Come aveva fatto a sparire? Al giorno d'oggi nessuno può sparire così. Nessuno è così in gamba. Poi pensò a Maggie Rose Dunne e a Goldberg il Tappo, e le lacrime cominciarono a scenderle lungo le guance. Non riusciva a smettere di singhiozzare. Capì che era quella la vera ragione per cui era venuta alla fattoria. Jezzie Flanagan doveva sfogarsi. 32 Maggie Rose era completamente al buio. Non sapeva da quanto tempo si trovava lì, però era un periodo molto lungo. Non riusciva a ricordarsi quando aveva mangiato l'ultima volta. O quando aveva visto o parlato con qualcuno che non fossero le voci dentro
la sua testa. Desiderava che arrivasse subito qualcuno. Aveva quel pensiero fisso in testa, per ore intere. Desiderava perfino che la vecchia ritornasse a sgridarla. Aveva cominciato a chiedersi perché la stavano punendo: che cos'aveva fatto di così sbagliato? Aveva fatto la cattiva e si meritava che tutto ciò le accadesse? Sì, cominciava a pensare di essere stata cattiva, dato che le stavano accadendo tutte quelle cose orribili. Non riuscì a rimettersi a piangere, anche se lo voleva. Non riusciva più a piangere. Per gran parte del tempo pensava di essere morta. Maggie Rose, ormai, quasi non sentiva più le cose. Allora si dava dei pizzicotti molto forti. Si mordeva persino. Una volta si addentò il dito sino a farlo sanguinare. Assaggiò il proprio sangue caldo e fu qualcosa di stranamente meraviglioso. Aveva l'impressione di dover restare al buio in eterno. Il buio era un locale piccolo come un ripostiglio. Lei... Improvvisamente, Maggie Rose udì alcune voci all'esterno. Non riusciva a capire quello che dicevano, ma erano senz'altro voci. La vecchia? Doveva essere lei. Maggie voleva chiamare ad alta voce, ma aveva paura della vecchia. Delle sue urla spaventose, delle sue minacce, della sua voce stridula che era peggiore dei film dell'orrore che sua madre non voleva che lei guardasse. Era di gran lunga peggiore di Freddy Krueger. Le voci cessarono. Non sentiva più nulla, neppure premendo l'orecchio contro la porta del ripostiglio. Se n'erano andati via. La lasciavano lì dentro per sempre. Cercò di piangere, ma non le venne neppure una lacrima. Poi Maggie Rose cominciò a urlare. La porta d'improvviso si spalancò e lei venne accecata dalla luce più splendente. 33 La notte dell'11 gennaio, Gary Murphy se ne stava al sicuro nel suo seminterrato. Nessuno sapeva che si trovava laggiù, ma se quella ficcanaso di Missy avesse aperto la porta, lui avrebbe semplicemente acceso la lampada del suo banco di lavoro. Stava ripassando tutto il piano nella propria mente. Ancora una volta per essere sicuro. Era ossessionato dall'idea di assassinare Missy e Roni, ma pensava di aspettare ancora. Eppure, quella fantasticheria era allettante. Uccidere la
propria famiglia aveva un certo sapore casereccio. Non richiedeva molta immaginazione, ma l'effetto sarebbe stato molto chiaro: il gelo avrebbe percorso quella comunità urbana così serena e perbene. E tutte le altre famiglie si sarebbero messe a fare le cose più ridicole, come chiudere a chiave la porta di casa e starsene barricati tutti insieme. Verso mezzanotte si accorse che la sua famigliola era andata a letto senza di lui. Nessuno si era neppure preoccupato di dargli una voce. Non gliene fregava niente di lui. Un rombo sordo stava montando dentro la sua testa. Aveva bisogno di una mezza dozzina di pastiglie di Nuprin per far cessare per un po' quel rumore che lui solo sentiva. Forse avrebbe incendiato quella casa così perfetta sulla Central Avenue. Bruciare le case faceva bene all'anima. Lo aveva già fatto in precedenza, lo avrebbe fatto di nuovo. Dio, gli doleva il cranio come se qualcuno lo avesse colpito con un martello. Che avesse qualche problema fisico? Possibile che stavolta impazzisse? Cercò di pensare all'Aquila Solitaria, Charles Lindbergh. Neppure quello funzionò. Nella sua mente rivisitò la fattoria allo svincolo di Hopewell. Niente. Anche quel viaggio mentale non funzionava più. Anche lui aveva raggiunto una fama mondiale, Cristo! Adesso era famoso. Lo conoscevano nel mondo intero. Era un divo dei telegiornali in tutto il pianeta Terra. Infine uscì dalla cantina, e poi dalla casa di Wilmington. Erano le cinque e mezzo di mattino. Mentre s'incamminava verso l'auto, si sentiva come un animale che avesse riacquistato la libertà. Ritornò in auto nel Distretto di Columbia. Là c'era altro lavoro da fare. Non voleva deludere il suo pubblico, vero? Avrebbero avuto pane per i loro denti. Non abbassate la guardia con me! Erano circa le undici di quel martedì mattina. Premette delicatamente il campanello della porta di una casa in mattoni, dall'aria curata, ai margini del quartiere di Capitol Hill. Un elegante rintocco, din don, risuonò all'interno. Il puro rischio di trovarsi di nuovo a Washington gli dava un piacevole brivido. Era molto meglio che starsene nascosto. Si sentiva di nuovo vivo, poteva respirare, aveva un suo spazio. Vivian Kim teneva la catenella alla porta, ma l'aprì di una trentina di centimetri. Aveva visto, attraverso lo spioncino, la familiare uniforme di
addetto dell'azienda elettrica municipalizzata di Washington. Una signora carina, ricordava Gary dai tempi della Washington Day School. Lunghe trecce nere. Un bel nasino all'insù. Lei chiaramente non lo riconobbe dato che era biondo, senza baffi né rigonfiamenti posticci alle guance e al mento. «Sì? Posso aiutarla?» chiese all'uomo in piedi nella veranda. Dalla casa proveniva musica jazz. Thelonious Monk. «Spero sia il contrario.» Sorrise affabilmente. «Qualcuno ha chiamato per una bolletta dell'elettricità troppo alta.» Vivian aggrottò la fronte e scosse il capo. Aveva al collo un ciondolo appeso a una striscia di cuoio. «Non ho chiamato nessuno. Non credo proprio di aver chiamato l'azienda elettrica.» «Be', qualcuno ci ha chiamato, signora.» «Ritorni un'altra volta. Magari ha chiamato il mio fidanzato. Dovrà ritornare, mi spiace.» Gary fece spallucce. Era una cosa deliziosa. Non voleva che finisse. «Credo di sì. Lei può richiamarci, se vuole. La rimetterò tra le chiamate. Si tratta di una sovrafatturazione. Lei ha pagato troppo.» «D'accordo, ho capito.» Tolse lentamente la catena e aprì la porta. Gary entrò nell'appartamento. Estrasse un lungo coltello da caccia dalla tasca del giubbotto e lo puntò in viso all'insegnante. «Non gridare. Non gridare, Vivian.» «Come fa a sapere il mio nome? Chi è lei?» «Non alzare la voce, Vivian. Non c'è ragione di aver paura... L'ho già fatto altre volte. Sono un semplice ladruncolo.» «Che cosa vuole?» L'insegnante aveva cominciato a tremare. Gary rifletté un attimo prima di rispondere alla sua domanda terrorizzata. «Voglio mandare un altro messaggio alla TV. Voglio la fama che mi merito», proclamò infine. «Voglio essere l'uomo di cui l'America ha più paura. Ecco perché lavoro nella capitale. Sono Gary. Non ti ricordi di me, Viv?» 34 Sampson e io scendemmo di corsa la C Street nel cuore di Capitol Hill. Sentivo il respiro dentro il naso mentre correvo. Le braccia e le gambe sembravano uscire dalle loro articolazioni. Le auto di pattuglia del dipartimento e le ambulanze avevano bloccato
completamente la strada. Avevamo dovuto parcheggiare nella F Street e percorrere di corsa gli ultimi due isolati. I cronisti della WJLA-TV erano già sul posto. E anche la CNN. Ovunque urlavano le sirene. Individuai davanti a me un gruppetto di cronisti. Videro che stavamo arrivando. Era difficile che passassimo inosservati quanto gli Harlem Globetrotter a Tokyo. «Detective Cross? Dottor Cross?» urlarono i cronisti, cercando di farci rallentare. «No comment», dissi facendo un gesto per allontanarli. «Neanche una parola da nessuno dei due. Toglietevi dalle palle.» All'interno dell'appartamento di Vivian Kim, Sampson e io oltrepassammo i soliti volti familiari: i tecnici della scientifica, i medici legali, quelli della omicidi, tutti a sguazzare nel loro mostruoso elemento. «Non voglio più fare questo lavoro», disse Sampson. «Il mondo intero sta sprofondando nella fogna. È troppo.» «Abbiamo la nausea», gli bisbigliai, «abbiamo tutti e due la nausea.» Sampson mi afferrò la mano e me la tenne. Voleva dirmi che era arrivato al limite. Entrammo nella prima camera da letto a sinistra del corridoio. Cercai di restare immobile. Non vi riuscii. La camera di Vivian Kim era arredata in modo molto elegante. Le pareti erano coperte di foto di famiglia in bianco e nero e poster di mostre d'arte; c'era pure un violino antico. Non volevo guardare la ragione per cui mi trovavo lì. Infine fui costretto a farlo. Vivian Kim era inchiodata al letto, trafitta da un lungo coltello da caccia, che la trapassava all'altezza dello stomaco. Le erano stati tagliati i seni. Le avevano rasato il pelo pubico. Aveva gli occhi rovesciati all'indietro, come se avesse visto qualcosa di indicibile durante i suoi ultimi istanti. Feci vagare lo sguardo per la camera. Non riuscivo a guardare il corpo mutilato. Il mio sguardo si soffermò su una macchia di colore sul pavimento. Trattenni il fiato. Nessuno ci aveva detto niente in proposito mentre venivamo lì. Nessuno aveva notato l'indizio più importante. Fortunatamente nessuno l'aveva spostato. «Guarda qua», dissi indicandola a Sampson. La seconda scarpetta di Maggie Rose Dunne giaceva sul pavimento della camera da letto di Vivian Kim. L'omicida aveva lasciato quello che i patologi chiamano un «tocco artistico». Stavolta aveva lasciato un messaggio chiaro, una vera e propria firma. Tremai mentre mi chinavo sulla scarpetta. Avevamo sotto gli occhi un esempio di humour sadico. L'assurdo contrasto tra la scarpa rosa e l'atrocità del delitto.
Gary Soneji era stato in quella camera da letto. Soneji era anche l'assassino dei quartieri popolari. Era lui la Belva. Ed era tornato a colpire. 35 Gary Soneji era ancora a Washington. Stava inviando messaggi speciali ai suoi fan. Ma ora c'era una differenza. Ci buttava pure alcune esche. Sampson e io ottenemmo una dispensa dal capo: potevamo occuparci del sequestro dei bambini nella misura in cui esso era collegato alle indagini per gli altri omicidi. Il che era fuor di dubbio. «Questo è il nostro giorno libero, e quindi dobbiamo divertirci», mi disse Sampson mentre camminavamo per le strade della zona sud-est. Era il 13 gennaio. Faceva un freddo cane. Avevano acceso vari falò nei bidoni della spazzatura quasi a ogni angolo di strada. Un fratello nero si era fatto scolpire a rasoio VAFFANCULO sulla nuca. Era esattamente quello che pensavo io in quel momento. «Il sindaco Monroe non telefona più. Non scrive più», dissi a Sampson. Osservavo le nuvolette del mio fiato nell'aria gelida. «Non tutto il male vien per nuocere», ribatté lui. «Salterà fuori quando cattureremo la Belva. Sarà lì a prendersi tutti i complimenti al posto nostro.» Continuammo a camminare scambiandoci altre battute stupide sulla situazione e su di noi. Stavamo passando al setaccio il quartiere di Vivian Kim, che era ai margini della zona sud-est. Passare al setaccio un quartiere è un lavoro che tira scemi. «Ieri ha visto qualcuno o qualcosa d'insolito?» chiedevamo a tutti quelli abbastanza ottusi da aprirci la porta. «Ha notato qualche persona, o qualche auto sconosciuta, qualche dettaglio che le è rimasto in mente? Lasci decidere a noi se è importante.» Come al solito nessuno aveva visto niente. Nada de nada. E neppure uno che fosse contento di vederci, soprattutto quando nella nostra operazione a porta a porta ci spostammo nel cuore della zona sud-est. Per soprammercato il vento gelido aveva fatto scendere la temperatura ben sotto lo zero. Veniva giù del nevischio. Le strade e i marciapiedi erano coperti di una poltiglia ghiacciata. Un paio di volte ci unimmo ai barboni che si scaldavano vicino ai loro falò nei bidoni della spazzatura. Infine verso le sei di sera tornammo arrancando alla nostra auto. Eravamo stremati. Avevamo completamente sprecato una lunga giornata. Non ne avevamo cavato niente di buono. Gary Soneji era di nuovo sparito nel
nulla. Mi sembrava di vivere in un film dell'orrore. «Vuoi farti ancora qualche isolato?» chiesi a Sampson. Mi sentivo abbastanza disperato da tentare la fortuna con le slot-machine di Atlantic City. Soneji stava giocando con noi. Forse ci stava osservando. Forse quel fottuto bastardo era invisibile. Sampson scosse il capo. «No mas, tesoro. Voglio bermi almeno una cassa di birra. Poi magari passerei a qualche bevanda più seria.» Si pulì gli occhiali dal nevischio. Poi se li rimise. È strano come conosco bene ogni sua mossa. È dall'età di dodici anni che si pulisce gli occhiali a quel modo, con la pioggia o con la neve. «Facciamoci questi altri isolati», dissi. «Per la signora Vivian è il meno che possiamo fare.» «Lo sapevo che l'avresti detto.» Entrammo nell'appartamento di una certa signora Quillie McBride verso le sei e venti. Quillie e la sua amica, la signora Scott, erano sedute al tavolo della cucina. La signora Scott aveva qualcosa da dirci che, a suo parere, poteva esserci d'aiuto. Avremmo ascoltato qualunque cosa. Se mai passate la domenica mattina per la zona sud-est del Distretto di Columbia, o per il settore settentrionale di Philadelphia o per Harlem a New York, vedrete signore come Quillie McBride e la sua amica Willie Mae Randall Scott. Queste donne indossano camiciotti e gonne scolorite di gabardine. Il loro equipaggiamento di solito comprende un cappello con piume e scarpe dal tacco robusto con stringhe che rendono i piedi simili a salsicce. Vanno o vengono da varie chiese. Willie Mae, che è una testimone di Geova, distribuisce la rivista Torre di guardia. «Credo di potervi aiutare tutti», disse la signora Scott con voce sommessa e sincera. Probabilmente aveva un'ottantina d'anni, ma parlava in modo molto chiaro e preciso. «Le saremmo grati», dissi. Sedevamo tutti e quattro intorno al tavolo della cucina. Era stato preparato un piatto di biscotti d'avena in previsione di una qualche visita. Un trittico di foto dei due Kennedy assassinati e di Martin Luther Bang era in bella vista su una parete della cucina. «Ho sentito parlare dell'assassinio dell'insegnante», disse la signora Scott a beneficio mio e di Sampson. «Ebbene, ho visto un uomo aggirarsi nel quartiere circa un mese prima degli omicidi Turner. Era un bianco. Ho la fortuna di avere ancora una buona memoria. Io cerco di conservarla concentrando l'attenzione su ciò che mi passa davanti agli occhi. Fra dieci
anni sarò in grado di ricordarmi di questo colloquio parola per parola, signor detective.» La signora McBride aveva tirato la sua sedia vicino all'amica. Dapprima non parlò, però appoggiò la mano sul braccio gonfio della signora Scott. «È vero. È così», confermò. «Una settimana prima degli omicidi Turner, lo stesso bianco è ripassato di nuovo per il quartiere», proseguì la signora Scott. «Questa seconda volta, andava di porta in porta. Faceva il venditore.» Sampson e io ci guardammo. «Che tipo di venditore?» le chiese Sampson. La signora Scott fece scivolare lo sguardo sul volto di Sampson prima di rispondere alla domanda. Immaginai che si stesse concentrando, che si stesse assicurando di ricordarsi tutto su di lui. «Vendeva apparecchi di riscaldamento per l'inverno. Mi avvicinai alla sua auto e guardai dentro. Sul sedile anteriore c'era una specie di opuscolo commerciale. La sua ditta si chiamava Atlantic Hearing ed è di Wilmington, nel Delaware.» La signora passava gli occhi da un viso all'altro per assicurarsi di essere stata chiara, oppure che avessimo capito tutto ciò che aveva appena detto. «Ieri ho visto la stessa auto attraversare il quartiere. Ho visto l'auto la mattina in cui la donna della C Street è stata uccisa. Ho detto a questa mia amica: 'Non può trattarsi di una semplice coincidenza, no?' Ora, non so se lui sia quello che voi state cercando, ma penso che dovreste parlargli.» Sampson mi guardò. Poi entrambi facemmo una cosa rara in quegli ultimi tempi. Sorridemmo. Perfino le signore si unirono a noi. Avevamo in mano qualcosa. Uno squarcio nel buio, finalmente, il primo di questo caso. «Parleremo col commesso viaggiatore», dissi alla signora Scott e a Quillie McBride. «Andiamo a Wilmington, nel Delaware.» 36 Gary Murphy rientrò a casa poco dopo le cinque del pomeriggio successivo, il 14 gennaio. Era stato in ufficio, appena fuori Wilmington. C'erano poche persone e aveva in mente di sbrigare alcune pratiche inutili. Doveva cercare di far sembrare le cose in ordine ancora per un po'. Aveva finito col pensare ad argomenti più vasti. Al piano generale. Gary non riusciva proprio a prendere sul serio quel turbinio cartaceo di fatture e conti che ricoprivano la sua scrivania. Continuò a raccogliere fatture spiegazzate di clienti, dando un'occhiata ai nomi, alle somme e agli indirizzi. A
quale persona sana di mente potevano mai interessare tutte quelle fatture? pensava. Era tutto così banale, stupido e insignificante. E quella era la ragione per cui quel lavoro e il Delaware costituivano un buon nascondiglio. Quindi non concluse assolutamente nulla in ufficio, se non sprecare alcune ore. Se non altro, sulla via del ritorno, aveva preso un regalo per Roni. Aveva acquistato una bici rosa con le ruotine e le banderuole. Aggiunse una Casa di Sogno di Barbie. La sua festa di compleanno era per le sei. Missy lo accolse alla porta di casa con un abbraccio e un bacio. La tecnica dell'appoggio costruttivo era il suo punto forte. La festa le aveva dato qualcosa cui pensare. Se l'era scrollata di dosso per qualche giorno. «Giornata favolosa, tesoro. Non scherzo. Per la settimana prossima, ho fissato tre visite a casa di clienti. Contale, tre», le disse Gary. Accidenti. Sapeva essere affascinante, quando lo voleva. Mister Chips va nel Delaware. Seguì Missy nella sala da pranzo, dove stava preparando la tavola per la festa con piatti colorati in plastica e tovaglioli di carta. Aveva già appeso un lenzuolo dipinto alla parete, del tipo di quelli che vengono sollevati dai tifosi alle partite di football dell'università degli Scemi. Questo diceva: FORZA RONI - SETTE o SCHIATTA! «È semplicemente geniale, tesoro. Riesci a far miracoli con niente. È tutto fantastico», esclamò Gary. «Le cose ora stanno senz'altro migliorando.» In verità lui cominciava a sentirsi depresso. Era stufo e voleva schiacciare un pisolino. L'idea della festa di compleanno di Roni d'improvviso gli apparve spossante. Di certo non c'erano state festicciole quando lui era bambino. I vicini cominciarono ad arrivare alle sei in punto. Bene, pensò. Ciò significava che i bambini volevano proprio venire. Trovavano Roni simpatica. Lo si vedeva su tutte le loro facce da luna piena. Parecchi genitori rimasero alla festa. Erano amici suoi e di Missy. Ligio al dovere, ricoprì il ruolo di barman mentre Missy intratteneva i bambini coi giochi. Si divertivano tutti. Lui guardò Roni: sembrava una trottola. Gary aveva una fantasia ricorrente: uccideva tutti quelli che partecipavano a una festa di compleanno. Una festa di compleanno, o magari una caccia all'uovo di Pasqua per bambini. Questo lo fece sentire un po' meglio. 37
La casa a due piani, rivestita di mattoni verniciati di bianco, era situata su un appezzamento alberato. Era già circondata da auto: station-wagon, jeep, familiari. «Non è possibile che sia casa sua», osservò Sampson mentre parcheggiava in una strada laterale. «La Belva non vive qui. Questo è un posto da James Stewart.» Avevamo trovato Gary Soneji, ma non provavamo la sensazione di aver fatto centro. La casa del mostro era un perfetto esempio di casa suburbana, una casa pretenziosa in una strada ben curata di Wilmington, nel Delaware. Erano passate poco meno di ventiquattr'ore da quando avevamo parlato con la signora Scott nel Distretto di Columbia. In quel lasso di tempo avevamo rintracciato la Atlantic Heating di Wilmington e rimesso insieme la squadra antisequestri originale. Le luci erano accese in quasi tutte le stanze della casa. Un furgone della Domino's Pizza arrivò più o meno contemporaneamente a noi. Un ragazzo smilzo e biondo corse verso la casa portando sulle braccia quattro grandi scatole. Il fattorino venne pagato, poi il furgone partì rapidamente come era arrivato. Il fatto che fosse una bella casa di un bel quartiere mi rendeva nervoso, e persino più diffidente nei confronti dei prossimi minuti. Soneji, in un modo o nell'altro, aveva sempre avuto due caselle di vantaggio rispetto a noi. «Muoviamoci», dissi all'agente speciale Scorse. «Ci siamo. Ecco la porta dell'inferno.» Ci precipitammo nella casa in nove: Scorse, Reilly, Craig e altri due agenti dell'FBI, Sampson, io, Jeb Klepner e Jezzie Flanagan. Eravamo armati fino ai denti e indossavamo giubbotti antiproiettile. Volevamo farla finita, lì e subito. Entrai dalla porta della cucina. Io e Scorse arrivammo dentro insieme. Sampson era un passo indietro. Neanche lui aveva l'aria di un papà del vicinato che arrivava tardi alla festa. «Chi siete voi? Che succede?» urlò una donna presso il bancone della cucina quando irrompemmo. «Dov'è Gary Murphy?» chiesi ad alta voce. E contemporaneamente tirai fuori il mio distintivo. «Sono Alex Cross della polizia. Siamo qui per il sequestro di Maggie Rose Dunne.» «Gary si trova nella sala da pranzo», c'informò con voce tremante una seconda donna in piedi davanti a un frullatore. «Per di qua», indicò con la mano.
Percorremmo di corsa il corridoio. Alle pareti erano appese le foto di famiglia. Una pila di regali ancora da aprire giaceva sul pavimento. Avevamo i revolver in pugno. Era un momento terribile. I bambini che ci vedevano erano spaventati. E lo erano anche i loro padri e le loro madri. C'erano lì tante persone innocenti. Proprio come a Disney World, pensavo, proprio come alla Washington Day School. Gary Soneji non si trovava nella sala da pranzo. C'erano solo altri poliziotti, bambini con cappellucci da compleanno, alcuni piccoli animali, papà e mamme a bocca aperta, increduli. «Credo che Gary sia andato di sopra», disse infine uno dei papà. «Che sta succedendo? Che diavolo succede?» Craig e Reilly stavano già scendendo rumorosamente giù dalle scale nel corridoio principale. «Sopra non c'è», urlò Reilly. Un bambino disse: «Credo che il signor Murphy sia sceso in cantina. Che cos'ha fatto?» Ritornammo di corsa in cucina e, poi, Scorse, Reilly e io scendemmo in cantina. Sampson ritornò di sopra a fare un secondo controllo. Non c'era nessuno nei due piccoli locali della cantina. C'era una porta doppia che dava all'esterno. Era chiusa a chiave, non dall'interno. Sampson scese un attimo dopo, a due gradini alla volta. «Ho controllato tutto il piano superiore. Non c'è!» Gary Soneji era sparito di nuovo. 38 E va bene, alziamo il tiro! facciamo un po' di rock and roll. Facciamo sul serio, pensava Gary mentre correva. Aveva in serbo dei piani di fuga sin da quando aveva sedici o diciassette anni. Lo sapeva che le cosiddette «autorità» sarebbero arrivate da lui un giorno o l'altro, in qualche modo, in qualche posto. Aveva già visto tutto nella sua mente, nei suoi elaborati sogni a occhi aperti. L'unico punto interrogativo riguardava il «quando». E forse il «per che cosa». Per quale dei suoi delitti? E così erano arrivati in Central Avenue a Wilmington! La fine della famosa caccia all'uomo. Oppure l'inizio? Dal momento in cui si era accorto della presenza della polizia, Gary a-
veva agito come una macchina programmata. Stentava a credere che ciò che aveva fantasticato tante volte stesse effettivamente accadendo, però erano arrivati. I sogni speciali si avverano. Se si è giovani nel cuore. Con calma aveva pagato il ragazzo delle pizze. Poi aveva sceso le scale ed era uscito attraverso la cantina. Da una porta seminascosta era arrivato in garage. Aveva chiuso a chiave la porta dall'esterno. Un'altra porta laterale lo aveva condotto in una stradina che sboccava nel giardino dei Dwyer. Si era chiuso alle spalle anche quella porta. Gli scarponi da neve di Jimmy Dwyer erano sistemati sui gradini della veranda. Dato che per terra c'era la neve, aveva preso gli scarponi del vicino. Aveva fatto una sosta tra casa sua e quella dei Dwyer, pensando di farsi catturare lì, subito (essere catturato, proprio come Bruno Hauptmann nel caso Lindbergh). Gli andava a genio quell'idea. Ma non era ancora il momento, e non lì. Poi si era messo a scappare, lungo la serie di vicoletti che separavano le case. Nessuno, salvo i bambini, utilizzava quei vialetti, infestati da erbacce e cosparsi di lattine vuote. Gli sembrava di correre in un tunnel. Quello doveva essere l'effetto della paura che sentiva in ogni centimetro del proprio corpo. Gary aveva paura. Fu costretto ad ammettere di avere paura. Ammetti di essere sotto l'influsso dell'adrenalina, amico mio. Era passato di corsa da un giardino al successivo, lungo la vecchia cara Central Avenue. Poi si era addentrato nel fitto bosco di Downing Park. Non aveva incontrato anima viva in tutto il tragitto. Solo lanciando un'occhiata all'indietro era riuscito a vederli; si muovevano verso la casa. Aveva visto quel grosso nero di Cross l'Africano e Sampson. La caccia all'uomo in cinemascope. L'FBI in tutto il suo splendore. Ora procedeva a tutta velocità verso la stazione della metropolitana, a quattro isolati da casa sua. Il collegamento con Philadelphia, Washington, New York, il mondo esterno. Doveva aver percorso i cento metri in dieci secondi netti, o poco più. Si era tenuto in forma. Braccia e gambe poderose, uno stomaco piatto come un'asse da stiro. Alla stazione era parcheggiata una vecchia Volkswagen. Era sempre parcheggiata lì, il fedele Maggiolino della sua dissoluta giovinezza. La scena dei delitti passati, senza esagerazione. La usava quel tanto che bastava per tenere carica la batteria. Era giunta l'ora di divertirsi ancora, di fare
altri giochi. Il Figlio di Lindbergh era di nuovo in azione. 39 Sampson e io eravamo ancora in casa Murphy alle undici passate. La stampa si affollava all'esterno, dietro un vistoso cordone giallo. C'erano alcune centinaia di vicini della comunità di Wilmington. La cittadina non aveva mai vissuto una serata così importante. Un'altra massiccia caccia all'uomo era già scattata lungo la Eastern Seaboard, ma si spingeva anche verso ovest in Pennsylvania e Ohio. Sembrava impossibile che Gary Soneji/Murphy potesse farla franca una seconda volta. Non credevamo che potesse aver preparato questa fuga così come aveva programmato quella da Washington. Uno dei ragazzi alla festa aveva visto un'auto della polizia locale nei dintorni prima che arrivassimo nel quartiere. Il ragazzo aveva parlato dell'auto della polizia al signor Murphy. Ci era sfuggito per pura fortuna! Avevamo mancato di catturarlo per una questione di minuti. Sampson e io interrogammo la moglie per più di un'ora. Finalmente avremmo saputo qualcosa sul vero Soneji/Murphy. Missy Murphy avrebbe potuto essere una delle madri dei bambini della Georgetown Day School. Portava i capelli biondi pettinati in modo semplice. Indossava una gonna blu marine, una camicetta bianca e scarpe da barca. Aveva qualche chilo di troppo, ma era carina. «Nessuno di voi vuole credermi, ma io conosco Gary. So chi è. Lui non è un rapitore di bambini.» Mentre parlava, fumava una Marlboro Lights dopo l'altra. Quello era l'unico gesto che tradiva ansia e paura. Parlammo con la signora Murphy in cucina. Era ordinata e pulita, perfino nel giorno della festicciola. Notai un paio di raccolte di libri di cucina e una copia di Meditazioni per donne che hanno troppo da fare. Un'istantanea di Gary Soneji/Murphy in costume da bagno era attaccata al frigo. Sembrava il tipico padre americano. «Gary non è una persona violenta. Non riesce nemmeno a punire Roni», stava dicendo Missy Murphy. Quello m'interessava. Si adattava al modello di comportamento che stavo elaborando da anni, studiando i rapporti riguardanti i sociopatici e i loro figli. I sociopatici hanno spesso difficoltà a punire i loro figli. «Le ha detto perché non riusciva a punire vostra figlia?» le chiesi. «Gary non ha avuto un'infanzia felice. Vuole solo il meglio per Roni.
Lui sa che lo fa per una specie di compensazione. È una persona molto intelligente. Potrebbe facilmente ottenere il dottorato in matematica.» «Gary è cresciuto qui a Wilmington?» chiese Sampson. Parlava con Missy con voce sommessa e tono semplice. «No, è cresciuto a Princeton, nel New Jersey. Gary è vissuto là fino all'età di diciannove anni.» Sampson si annotò un appunto, poi guardò nella mia direzione. Princeton era vicino a Hopewell, dov'era avvenuto il rapimento Lindbergh, negli anni '30. Il Figlio di Lindbergh era la firma adottata da Soneji sui biglietti con cui aveva chiesto il riscatto. Non sapevamo ancora il perché. «La sua famiglia abita ancora a Princeton?» chiesi alla signora Murphy. «Possiamo entrare in contatto con lei?» «Non ha più una famiglia. Un giorno scoppiò un incendio mentre Gary si trovava a scuola. La matrigna, il padre, il fratellastro e la sorellastra morirono tutti in quel tragico incidente.» Volevo andare a fondo di tutto quello che ci diceva Missy Murphy. Per il momento mi trattenni. Però, un incendio nella casa di un giovane affetto da turbe psichiche... Un'altra famiglia distrutta. Era quello il vero obiettivo di Soneji/Murphy? Le famiglie? E se così fosse, che c'entrava Vivian Kim? L'aveva uccisa solo per mettersi in mostra? «Lei ha conosciuto qualcuno della famiglia?» domandai a Missy. «No. Morirono prima che io e Gary ci conoscessimo. Ci siamo incontrati all'ultimo anno di università. Io ero all'università del Delaware.» «Che cosa le ha detto suo marito dei suoi anni a Princeton?» «Non molto. Si tiene molte cose per sé. I Murphy vivevano parecchi chilometri fuori città. I loro vicini più prossimi abitavano a tre o quattro chilometri di distanza. Gary non ebbe amici finché non frequentò la scuola. Anche allora era spesso un isolato. A volte è molto timido.» «Che cosa mi può dire del fratello e della sorella?» domandò Sampson. «In effetti, erano il fratellastro e la sorellastra. Questo rappresentava una parte del problema di Gary. Non era in confidenza con loro.» «Ha mai parlato del rapimento del piccolo Lindbergh? Possiede libri su Lindbergh?» continuò Sampson. La sua tecnica d'interrogatorio è mirare subito al cuore. Missy Murphy scosse il capo. «No. Che io sappia, almeno. C'è un locale pieno di libri giù in cantina. Potete andare a guardare.» «Oh, lo faremo», le rispose Sampson.
C'era materiale in abbondanza, e fui sollevato nell'apprendere quelle notizie. Prima non c'era niente, o molto poco, su cui lavorare. «La sua vera madre è ancora viva?» le chiesi. «Non so. Gary non vuole parlare di lei. È un argomento che assolutamente non vuole affrontare.» «E che mi dice della matrigna?» «Gary non amava la matrigna. Apparentemente era molto attaccata ai propri figli. Lui la chiamava 'la Meretrice di Babilonia'. Credo che fosse originaria di West Babylon, vicino a New York. Penso che si trovi a Long Island.» Dopo mesi a digiuno di informazioni, non riuscivo a porre abbastanza velocemente le domande. Tutto quello che finora avevo udito collimava con le risultanze del caso. Mi spuntò in testa un'altra domanda. Gary Soneji/Murphy aveva detto la verità alla moglie? Era capace di dire la verità a un'altra persona? «Signora Murphy, lei ha qualche idea su dove potrebbe essersene andato?» «C'era qualcosa che spaventava sul serio Gary», rispose. «Credo che abbia a che fare in qualche modo col suo lavoro. E con mio fratello, che è il suo principale. Non riesco a immaginare che sia andato a casa nel New Jersey, ma forse l'ha fatto. Forse Gary è tornato a casa. È un tipo impulsivo.» Uno degli agenti dell'FBI, Marcus Connor, si affacciò alla cucina dove stavamo parlando. «Posso parlare con voi due un momento? Mi scusi, si tratta solo di un minuto», disse alla signora Murphy. Connor ci accompagnò giù nel seminterrato della casa. Gerry Scorse, Reilly e Kyle Craig dell'FBI si trovavano già là sotto, in attesa. Scorse aveva in mano un paio di calze Fido Dido. Le riconobbi dalla descrizione di ciò che Maggie Rose Dunne indossava il giorno del sequestro e anche dalle visite nella camera della bambina, dove avevo visto la sua collezione di vestiti. «Allora che ne pensi, Alex?» mi chiese Scorse. Avevo notato che, quando le cose prendevano una strana piega, chiedeva il mio parere. «Esattamente quello che ho detto della scarpetta da ginnastica a Washington. L'ha lasciata perché la vedessimo. Ora sta giocando con noi. Vuole che noi giochiamo con lui.» 40
Il vecchio hotel Du Pont del centro di Wilmington era un posto adatto per fare una dormita. Aveva un bar simpatico e tranquillo, dove Sampson e io intendevamo starcene a bere in pace. Non pensavamo di avere compagnia, quindi fummo sorpresi quando Jezzie Flanagan, Klepner e alcuni agenti dell'FBI si unirono a noi per il bicchiere della staffa. Eravamo stanchi e frustrati dopo aver mancato per un pelo Gary Soneji/Murphy. In poco tempo ci scolammo parecchia roba forte. A dire il vero ci trovavamo benissimo insieme. «La squadra.» Cominciammo a parlare ad alta voce, giocammo a poker, facemmo un po' di casino quella sera nella compita Sala Delaware. Sampson parlò un po' con Jezzie. Anche lui la considerava una brava poliziotta. La bisboccia infine si spense e ci avviammo verso le nostre camere, sparse per tutto l'hotel. Io, Jeb Klepner e Jezzie salimmo insieme le scale ricoperte da uno spesso tappeto verso le nostre camere al secondo e al terzo piano. Alle tre meno un quarto di mattina il Du Pont era silenzioso come un mausoleo. Fuori, la strada principale di Wilmington era completamente deserta. La camera di Klepner era al secondo piano. «Mi guarderò qualche pornosoft», disse separandosi da noi. «Di solito riescono a farmi addormentare.» «Sogni d'oro», gli augurò Jezzie. «Appuntamento alle sette nella hall.» Klepner gemette trascinandosi lungo il corridoio che conduceva alla sua camera. Jezzie e io salimmo la scala tortuosa verso il nostro piano. C'era un tale silenzio che si poteva udire lo scatto del semaforo sulla strada, che passava dal rosso al giallo al verde. «Mi sento ancora molto carico», le dissi. «Non riesco a togliermi dalla testa Soneji/Murphy. Due volti. Si presentano nettamente distinti nella mia mente.» «Anch'io mi sento tesa. Fa parte del mio carattere. Che cosa faresti se invece di essere qui fossi a casa tua?» «Probabilmente andrei a suonare il piano sulla veranda. Sveglierei il vicinato con qualche pezzo blues.» Scoppiò a ridere. «Potremmo ritornare giù nella Sala Delaware. Là c'era un vecchio piano verticale. Probabilmente apparteneva al signor Du Pont. Tu suoni e io bevo ancora qualcosa.» «Il barman se n'è andato dieci secondi dopo di noi. E già a letto a casa sua.»
Avevamo raggiunto il terzo piano. Il corridoio presentava una leggera curva. Un cartello indicava la direzione per raggiungere le varie camere. Alcuni ospiti avevano messo le scarpe fuori della porta per farle lucidare. «Sono alla 311.» Jezzie estrasse una chiave a scheda dalla tasca della giacca. «Sono alla 334. E ora di chiudere la serata. Così domattina si riparte freschi e riposati.» Sorrise e mi guardò negli occhi. Per quanto mi ricordassi, era la prima volta che restavamo in silenzio. La presi fra le braccia e la strinsi delicatamente. Ci baciammo in corridoio. Era un po' che non baciavo una donna a quel modo. A dire il vero non so chi avesse cominciato quel bacio. «Sei bellissima», le bisbigliai quando le nostre labbra si staccarono. Quelle parole mi uscirono senza pensarci. Non era la cosa più brillante che potessi dire, però era la verità. Sorrise e scosse il capo. «Ho le labbra troppo grandi. Sembro un bambino cascato a faccia in giù. Sei tu quello bello. Sembri Cassius Clay.» «Certo che lo sembro. Dopo che ha preso un sacco di pugni.» «Qualche pugno, forse. Che ti dà un'aria più vissuta. Il giusto numero di colpi duri. Anche il tuo sorriso è bello. Sorridimi, Alex.» Baciai di nuovo quelle labbra troppo grandi. A me sembravano perfette. Ci sono molte leggende sugli uomini neri che desiderano le donne bianche, e sulle donne bianche che vogliono provarci con gli uomini neri. Jezzie Flanagan era una donna intelligente ed estremamente desiderabile. Era una persona con cui potevo parlare, una persona di cui desideravo la compagnia. Eccoci lì, l'uno nelle braccia dell'altra verso le tre di notte. Avevamo entrambi bevuto un po', ma non troppo. Non c'entravano le leggende. Eravamo due persone sole, in una città sconosciuta, in una notte molto, molto particolare. In quel momento desideravo solo essere abbracciato. Penso che anche Jezzie lo volesse. Il suo sguardo era dolce e sereno. Ma quella notte aveva anche qualcosa di fragile. C'era un reticolo di venuzze rosse negli angoli dei suoi occhi. Forse anche lei non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine di Soneji/Murphy. Eravamo andati così vicini a catturarlo. Stavolta eravamo rimasti indietro solo di mezza casella. Osservai il viso di Jezzie da una distanza che prima non avrei mai creduto possibile. Le passai delicatamente un dito sulle guance. La sua pelle era
morbida e liscia. I suoi capelli biondi parevano seta tra le mie dita. Il suo profumo era penetrante come quello dei fiori di bosco. In testa mi frullò una frase. Non iniziare una cosa che non puoi portare a termine. «Allora, Alex?» disse Jezzie sollevando le sopracciglia. «Questo è un problema spinoso, vero?» «Non per due poliziotti in gamba come noi.» Seguimmo la leggera curva a sinistra del corridoio e ci dirigemmo verso la stanza 311. «Forse dovremmo pensarci sopra due volte», dissi mentre camminavamo. «Forse io l'ho già fatto», mi sussurrò. 41 All'una e trenta di notte, Gary Soneji/Murphy uscì dal Motel 6 di Reston, in Virginia. Colse il proprio riflesso in una porta a vetri. Il nuovo Gary - il Gary du jour - gli restituì lo sguardo. Aveva una zazzera nera e una barba ispida, e vestiti polverosi da contadino. Sapeva di poter recitare quella parte. Avrebbe parlato con l'accento strascicato del vecchio Sud. Per tutto il tempo necessario, comunque. Non per troppo tempo. Che nessuno si distragga. Gary salì sulla Volkswagen scassata e partì. Era molto eccitato. Quella parte del piano lo entusiasmava. Era la parte più audace dell'intera avventura, la più eccitante. Come mai era così su di giri? si chiese mentre la sua mente divagava. Solo perché metà della polizia e dei bastardi dell'FBI di tutto il continente americano lo stavano cercando? Perché aveva rapito due ricchi rampolli e uno di loro era morto? E l'altra, Maggie Rose? Non voleva neppure pensare a quello che le era veramente accaduto. Il buio della notte virò verso un morbido colore grigio velluto. Non diede retta all'impulso di premere l'acceleratore e di tenerlo inchiodato a tavoletta. Una pennellata arancione infine illuminò il cielo del mattino mentre passava per Johnstown, in Pennsylvania. Si fermò a un bar, scese dall'auto e si sgranchì le gambe. Controllò il proprio aspetto allo specchietto laterale del Maggiolino. Un ossuto bracciante agricolo gli restituì lo sguardo dallo specchio. Un
altro Gary, irriconoscibile. Sembrava in tutto e per tutto uno zoticone di campagna: camminata del cowboy che ha ricevuto un calcio da un cavallo, mani in tasca o pollici infilati nelle bretelle. Si passava in continuazione una mano fra i capelli. Sputava ovunque fosse possibile. Bevve una tazza di caffè molto forte, il che era forse una mossa discutibile. Panini raffermi ai semi di papavero con burro. Non erano ancora arrivati i giornali del mattino. Lo serviva una cameriera stronza e boriosa. Voleva farle la festa. Trascorse cinque minuti fantasticando sul modo di ucciderla proprio lì, in mezzo al bar. Tesoro, togliti quella camicetta bianca da scolaretta. Bene, ora probabilmente ti dovrò uccidere. Ma forse no. Dimmi qualche parola dolce e pregami di non farlo. Quanti anni hai? Ventuno, venti? Usalo come argomento per commuovermi. Sei troppo giovane per morire, inappagata, in questo bar lungo la strada. Gary infine decise di lasciarla vivere. La cosa stupefacente era che lei non si rese conto di quanto fosse andata vicino a essere uccisa. «Buona giornata. Ritorni presto», disse lei. «Preghi che non lo faccia.» Mentre guidava lungo la Route 22 si lasciò prendere dalla collera come da molto tempo non gli accadeva. Basta con quelle stronzate sentimentali. Nessuno gli prestava attenzione, l'attenzione che meritava. Quei grandissimi stupidi e incompetenti credevano di avere qualche possibilità di fermarlo? O di catturarlo da soli? O di processarlo in TV? Era il momento di dargli una lezione; era arrivata l'ora della vera grandezza. Fare una cosa quando il mondo se ne aspettava un'altra. Gary Soneji/Murphy accostò a un McDonald's a Wilkinsburg, in Pennsylvania. I bambini di tutte le età amavano i McDonald's, giusto? Cibo, gente e divertimento. Rispettava ancora la tabella di marcia. Il Bambino Cattivo era molto affidabile da quel punto di vista, sulle sue mosse si poteva regolare l'orologio. C'era la solita folla errabonda di tonti e di musoni dell'ora di pranzo che entrava e usciva dal McDonald's. Erano tutti prigionieri del tran tran e delle fregole quotidiane, lì a ingoiarsi quegli hamburger e quelle bisunte patatine a fiammifero. Come diceva quella vecchia canzone su tutti gli zombi in giro per l'America? Siete tutti zombi? Camminate come zombi? Qualcosa sui milioni di zombi in circolazione. Una stima largamente per difetto.
Era lui l'unico essere vivente che campava usando quasi tutto il proprio potenziale? si chiese Soneji/Murphy. Sembrava proprio così. Nessuno era speciale come lui. O almeno lui non aveva conosciuto nessun tipo speciale. Entrò nel McDonald's. Stavano servendo un trilione di McBurger, e non aveva ancora finito di contarli. C'erano intere mandrie di donne. Le donne coi loro preziosi pargoletti. Le massaie indaffarate, che rendono tutto banale, le stupide oche con le loro stupide tette cadenti. C'era anche Ronald McDonald, sotto forma di una sagoma di cartone che offriva biscotti raffermi ai bambini. Che giornata! Ronald McDonald incontra Mister Chips. Gary pagò due caffè e si voltò per tornare indietro, attraversando la folla. Gli sembrava che la testa stesse per scoppiargli. Il viso e il collo erano avvampati. Respirava affannosamente. Aveva la gola secca e sudava troppo. «Sta bene, signore?» chiese la ragazza alla cassa. Non prese neppure in considerazione l'idea di risponderle. Dice a me? Robert De Niro, giusto? Lui era il nuovo De Niro, solo che come attore era perfino meglio. Disponeva di una gamma di personaggi più ampia. De Niro non correva rischi come lui. De Niro, Hoffman, Pacino... Nessuno di loro correva rischi per allargare la propria sfera d'azione. Almeno dal suo punto di vista. La sua mente era travolta da una quantità di pensieri e percezioni. Aveva l'impressione di galleggiare in un mare di particelle leggere, fotoni e protoni. Se quelle persone avessero potuto leggere per qualche secondo nella sua mente, non avrebbero creduto ai loro occhi. Andava a sbattere apposta contro la gente mentre si allontanava dal bancone del McDonald's. «Mi scusi», disse dopo un urto improvviso col fianco. «Ehi, lei, stia attento!» sentì dire. «Sta' attento tu, stupido», disse Soneji/Murphy rivolto al contadino stempiato che aveva urtato. «Che cosa devo fare per avere un po' di rispetto? Devo spararti nell'occhio sinistro?» Posò entrambi i caffè bollenti mentre proseguiva attraverso la sala ristorante. Attraverso la sala. Attraverso la gente che incrociava. Attraverso i tavoli di formica. Attraverso le pareti, se solo l'avesse voluto. Gary/Soneji estrasse da sotto la giacca a vento un revolver. Eccoci: era l'inizio della sveglia dell'America. Uno spettacolo speciale per tutti i bambini e tutte le mamme. Ora lo guardavano tutti. Quelli le capivano, le pistole.
«Sveglia, suonati!» urlò dentro la sala del McDonald's. «Caffè bollente! Ce n'è per tutti! Svegliatevi, lo sentite il profumo?» «Quell'uomo ha una pistola!» disse uno dei fisici nucleari seduto a mangiare un Big Mac gocciolante. Come faceva a vedere attraverso la grassa nebbia che si levava dal suo piatto? Gary fronteggiò la sala col revolver puntato. «Nessuno esca da qui!» muggì. «Siete svegli ora? Vi siete svegliati? Penso di sì. Penso che ora siate tutti sintonizzati. Qui comando io! Quindi fermi tutti. Guardate e ascoltate.» Gary fece partire una pallottola in direzione del viso a un cliente che masticava un hamburger. L'uomo si portò le mani alla fronte e cadde sul pavimento. Ecco una cosa che attira l'attenzione. Era una pistola vera, una pallottola vera, una scena vera. Una donna nera si mise a strillare e tentò di mettersi a correre. Soneji la atterrò colpendola alla testa col calcio della pistola. Una mossa eseguita con molta calma, pensò. Buona per un telefilm. «Io sono Gary Soneji! Sono proprio io. Impressionante, vero? Siete alla presenza del rapitore di bambini più famoso del mondo. Questa è una dimostrazione gratuita. Quindi osservate con attenzione. Può darsi che impariate qualcosa. Gary Soneji è stato in molti posti, lui ha visto cose che voi non vedrete mai in vita vostra. Fidatevi, se ve lo dico io.» Finì uno dei suoi McCoffee e osservò da sopra l'orlo del bicchiere i patiti del fast food che tremavano. «Questa», disse infine pensieroso, «è quella che viene definita una 'situazione pericolosa con sequestro di ostaggi'. Ragazzi, Ronald McDonald è stato sequestrato. Da questo momento fate ufficialmente parte della storia.» 42 Due poliziotti, Mick Fescoe e Bobby Hatfield, stavano per entrare nel McDonald's quando risuonarono i colpi di pistola dalla sala. Colpi di pistola? All'ora di pranzo al McDonald's? Che diavolo stava succedendo? Fescoe era un quarantenne alto e corpulento. Hatfield era più giovane di quasi vent'anni. Era in servizio solo da un anno. Nonostante la differenza d'età, i due avevano in comune un certo humour nero. Avevano già stretto una salda amicizia. «Porca miseria», bisbigliò Hatfiled quando cominciarono i fuochi d'arti-
ficio. Adottò una posizione acquattata che aveva imparato non molto tempo prima, e che non aveva mai usato fuori del poligono di tiro. «Ascoltami, Bobby», gli disse Fescoe. «Portati all'uscita laggiù.» Indicò un'uscita vicino ai registratori di cassa. «Io girerò sul lato sinistro. Tu aspetta che sia io a cominciare. Non fare niente finché non gli salto addosso. Poi, se ti trovi in una buona posizione di tiro, non stare a pensarci, Bobby, premi il grilletto.» Bobby Hatfield annuì. «Ho capito.» Poi si separarono. L'agente Mick Fescoe non prese fiato mentre girava di corsa verso l'altra estremità del McDonald's. Si teneva così addossato al muro di mattoni che vi sfregava contro la schiena. Erano mesi che diceva a se stesso che doveva perdere un po' di ciccia. Stava già ansimando. Si sentiva un po' stordito. Proprio non ne aveva bisogno. Avere il capogiro e giocare a Mezzogiorno di fuoco con un rapinatore non era proprio il massimo. Si rialzò vicino alla porta. Poteva sentire all'interno il pazzo che urlava. Però c'era qualcosa di strano, come se il rapinatore funzionasse con un telecomando. I suoi movimenti erano discontinui. Si muoveva a scatti, come un automa. Il tono della voce era molto acuto, come quello di un ragazzino. «Sono Gary Soneji. L'avete capito tutti? Sono proprio io. Diciamo pure che mi avete trovato voi. Siete tutti degli eroi.» Possibile? si chiese Fescoe in ascolto vicino alla porta. Soneji il mostro, qui a Wilkinsburg? Chiunque fosse, quello aveva certamente una pistola. Una persona era stata colpita. Un uomo giaceva sul pavimento a braccia aperte. Non si muoveva più. L'agente udì un altro colpo. Urla laceranti di terrore echeggiarono dall'interno del locale affollato. «Lei deve fare qualcosa!» gli urlò un tizio che indossava un giaccone verde chiaro. Proprio a me lo vieni a dire, mormorò Fescoe tra i denti. La gente era sempre molto coraggiosa con la vita dei poliziotti. Prima lei, agente. E lei quello che si mette in tasca duemilacinquecento bigliettoni al mese per farlo. Cercò di controllare il respiro. Quando vi riuscì, si spostò verso la porta a vetri. Disse in silenzio una preghiera e si buttò attraverso la porta. Vide immediatamente l'uomo. Un bianco, già rivolto verso di lui. Come se lo stesse aspettando. Come se ci contasse. «Bum!» urlò Gary Soneji, e contemporaneamente premette il grilletto.
43 Nessuno di noi aveva dormito più di un paio d'ore; alcuni anche meno. Eravamo storditi e sfiniti mentre scendevamo lungo la Highway 22. Gary Soneji era stato avvistato parecchie volte nella zona a sud della nostra posizione. Era diventato l'Uomo Nero per metà degli americani. Sapevo che si trovava a suo agio in quella parte. Jezzie Flanagan, Jeb Klepner, Sampson e io viaggiavamo su una Lincoln blu. Sampson cercava di dormire. Io ero stato prescelto per il primo turno di guida. Stavamo attraversando Murrysville, in Pennsylvania, quando, alle dodici e dieci, la radio trasmise una chiamata d'emergenza. «A tutte le unità, è in corso una sparatoria!» disse la voce del coordinatore della stazione di polizia, accompagnata da una serie di scariche elettriche. «Un uomo che afferma di essere Gary Soneji ha sparato ad almeno due persone in un McDonald's a Wilkinsburg. Al momento tiene almeno sessanta persone in ostaggio.» Meno di trenta minuti dopo eravamo a Wilkinsburg, in Pennsylvania. Sampson scosse il capo disgustato e stupefatto. «Quello stronzo sa come organizzare una festa, vero?» «Sta cercando di uccidersi? È scoccata l'ora del suicidio?» volle sapere Jezzie Flanagan. «Qualsiasi cosa faccia non mi sorprende più, ma la mossa del McDonald's concorda col resto. Pensate a tutti quei bambini. È come la scuola, come Disney World», dissi loro. Dall'altra parte della strada rispetto al McDonald's vidi alcuni tiratori scelti della polizia o dell'esercito sul tetto di un supermercato. Tenevano i fucili puntati in direzione degli archi dorati sulla vetrina anteriore. «Assomiglia proprio al massacro del McDonald's di qualche anno fa, quello nella California meridionale», dissi a Sampson e a Jezzie. «Non dirlo neppure per scherzo», bisbigliò Jezzie. «Lo dico, e non per scherzo.» Ci affrettammo verso il McDonald's. Dopo ciò che era successo non volevamo che uccidessero Soneji. Ci stavano filmando. I furgoni di tutte le televisioni nazionali erano parcheggiati dappertutto in doppia fila. Stavano filmando tutto quello che si muoveva o parlava. La situazione si presentava veramente male. Mi ricor-
dava senza alcun dubbio quella sparatoria al McDonald's in cui un uomo aveva ucciso ventuno persone. Era quello che Soneji voleva farci venire in mente? Un caposezione dell'FBI venne di corsa verso di noi. Era Kyle Craig, che avevamo visto in casa Murphy a Wilmington. «Non sappiamo con certezza se si tratti di lui. È un tipo vestito da contadino. Capelli scuri, barba. Dice di essere Soneji. Ma potrebbe trattarsi di un altro pazzo.» «Fammi dare un'occhiata», dissi a Craig. «Ha chiesto di me in Florida. Lui sa che io sono uno psicologo. Forse ora riesco a parlargli.» Prima che Craig potesse rispondere, lo avevo superato dirigendomi verso il McDonald's. Mi spinsi avanti a poco a poco a fianco di un paio di poliziotti acquattati vicino a una entrata laterale. Mostrai loro il distintivo e dissi che venivo da Washington. Dall'interno del McDonald's non proveniva alcun rumore. Dovevo convincerlo a ritornare sulla terra, a non suicidarsi, a non fare scoppiare l'inferno al McDonald's. «Parla in modo sensato? In modo coerente?» chiesi a un poliziotto. Il poliziotto era giovane, e aveva lo sguardo vitreo. «Ha sparato al mio collega. Credo che sia morto, Dio santo!» «Entreremo là dentro e aiuteremo il tuo collega. Quando parla, quell'uomo dice cose sensate? Parla in modo coerente?» «Dice di essere il rapitore dei bambini di Washington. Si riesce a seguire il filo del suo discorso. Si vanta di essere il rapitore. Dice che vuole essere qualcuno di importante.» L'uomo con la pistola teneva a bada le sessanta persone all'interno del McDonald's. Là dentro c'era silenzio. Era Soneji/Murphy? Tutto coincideva. I bambini e le loro mamme. Il sequestro degli ostaggi. Mi ricordavo le foto sulla parete del bagno. Voleva diventare la foto che altri ragazzi solitari appendevano alle pareti. «Soneji!» gridai. «Sei Gary Soneji?» «Chi diavolo sei?» fu l'urlo che giunse dall'interno. «Chi vuole saperlo?» «Sono il detective Alex Cross. Da Washington. Credo che tu sappia tutto riguardo alle più recenti norme sulla liberazione di ostaggi. Non tratteremo con te. Così adesso sai anche quello che accadrà d'ora in poi.» «Conosco tutti i regolamenti, detective Cross. Sono informazioni di pubblico dominio, no? Ma non sempre i regolamenti vengono applicati», mi rispose urlando Gary Soneji. «Non per me, non valgono per me. Non è mai accaduto.» «Valgono qui», dissi con decisione. «Ci puoi scommettere la vita.»
«Vuoi scommetterci la vita di tutta questa gente, Cross? Io conosco un'altra regola. Prima le donne e i bambini. Mi segui? Ho una speciale considerazione per donne e bambini.» Non mi piacque il suono della sua voce. Non mi piacque quello che diceva. Dovevo far capire a Soneji che in nessun caso l'avrebbe fatta franca. Non ci sarebbero state trattative. Se ricominciava a sparare, l'avremmo abbattuto. Mi ricordavo di altre situazioni del genere in cui mi ero trovato coinvolto. Soneji era più complicato, più intelligente. Sembrava che lui non avesse niente da perdere. «Non voglio che si faccia del male a nessuno! Non voglio che si faccia del male a te!» gli dissi con voce chiara e forte. Stavo cominciando a sudare. Sentivo il sudore che colava sotto la giacca, su tutto il mio corpo. «Molto commovente. Sono commosso per quello che hai appena detto. Il mio cuore ha sussultato. Davvero», rispose. «Tu capisci quello che intendo dire, Gary.» La mia voce si fece più sommessa, come se parlassi a un paziente spaventato e ansioso. «Certo che lo capisco.» «C'è un sacco di gente armata qui fuori. Nessuno potrebbe controllarli se la situazione si aggravasse. Io non posso. E neppure tu. Ci potrebbe essere un incidente. Non vogliamo che accada.» All'interno, di nuovo silenzio. Il pensiero che mi martellava in testa era che, se Soneji era arrivato allo stadio suicida, l'avrebbe fatta finita lì. Avrebbe messo in atto la sua sparatoria finale proprio adesso, ottenendo che tutti i riflettori della notorietà fossero puntati su di lui. Non avremmo mai saputo che cos'aveva fatto scattare la molla dentro di lui. Non avremmo mai saputo che cos'era accaduto a Maggie Rose Dunne. «Salve, detective Cross.» D'improvviso, me lo vidi sulla soglia della porta, a un metro e mezzo da me. Era proprio lì. Uno sparo echeggiò da uno dei tetti. Soneji roteò su se stesso stringendosi una spalla con la mano. Era stato colpito da un cecchino. Balzai in avanti e afferrai Soneji con entrambe le mani. La mia spalla sinistra affondò nel suo petto. Un placcaggio degno di un campione. Cademmo pesantemente sul cemento. Non volevo che qualcuno lo ammazzasse ora. Dovevo parlargli. Dovevamo scoprire che ne era di Maggie Rose. Mentre lo tenevo a terra, si rigirò e mi guardò in volto. Il sangue uscito
dalla sua spalla ci aveva imbrattato tutti e due. «Grazie per avermi salvato la vita», disse. «Un giorno ti ucciderò per questo, detective Cross.» PARTE TERZA L'ULTIMO GENTILUOMO DEL SUD 44 «Mi chiamo Bobbi», le avevano insegnato a dire. Sempre il suo nuovo nome. Mai quello vecchio. Mai, mai più Maggie Rose. Era rinchiusa all'interno di un furgone buio, o di un camion. Non aveva idea di dove si trovava ora. Se si trovava vicina o lontana da casa. Non sapeva da quanto tempo era stata portata via dalla sua scuola. Ora pensava in modo più chiaro. Si sentiva di nuovo quasi in condizioni normali. Qualcuno le aveva portato dei vestiti, il che significava che non le avrebbero fatto subito del male. Altrimenti perché mai si sarebbero curati di procurarglieli? Il furgone, o camion che fosse, era sporchissimo. Non c'erano tappetini o coperte sul pavimento. C'era un odore di cipolle. Dovevano averci tenuto delle verdure. Dove coltivavano cipolle? Maggie Rose cercò di ricordare. Nel New Jersey e nella zona settentrionale dello Stato di New York. Le sembrava che ci fosse anche odore di patate. Forse rape o patate dolci. Quando mise insieme tutto ciò, Maggie Rose concluse che probabilmente la stavano portando in qualche posto verso sud. Che altro sapeva? Che altro poteva capire? Non la drogavano più, dopo la prima volta. Aveva l'impressione che il signor Soneji non si vedesse da alcuni giorni. E neppure l'orribile vecchia. Parlavano di rado con lei. Quando le parlavano, la chiamavano Bobbi. Perché Bobbi? Si comportava sempre bene, ma a volte aveva bisogno di piangere. Come ora. Soffocava i singhiozzi. Non voleva che qualcuno la sentisse. C'era una sola cosa che le dava forza. Era una cosa semplicissima, ma così potente. Lei era viva. E voleva restare viva più di ogni altra cosa. Maggie Rose non aveva notato che il camion stava rallentando. Per un
po' avanzò sobbalzando. Poi il veicolo si arrestò del tutto. Udì qualcuno che scendeva dalla cabina. Sentì qualche parola smorzata. Le era stato detto di non parlare nel camion, altrimenti l'avrebbero imbavagliata di nuovo. Qualcuno aprì la porta scorrevole. La luce del sole l'assalì. Dapprima non riuscì a vedere nulla. Quando infine cominciò a distinguere qualcosa, Maggie Rose non credeva ai suoi occhi. «Ciao», salutò con un sussurro, come se avesse perduto la voce. «Mi chiamo Bobbi.» 45 Anche a Wilkinsburg la giornata sembrava non finire mai. Interrogammo tutte le persone che erano state tenute in ostaggio dentro il McDonald's. L'FBI, nel frattempo, aveva preso in custodia Soneji/Murphy. Pernottai lì quella notte. E anche Jezzie Flanagan. Eravamo insieme per la seconda notte di fila. Non potevo desiderare niente di meglio. Non appena entrammo in una camera del Cheshire Inn, vicino a Millvale, Jezzie disse: «Tienimi tra le braccia per un paio di minuti, Alex. Probabilmente ho un'aria più sicura di quanto mi sento veramente». Mi piaceva tenerla tra le braccia, ed essere abbracciato. Mi piaceva il suo odore. Mi piaceva il modo in cui la sua figura si adattava alle mie braccia. Fra di noi tutto era ancora elettrizzante. Ero eccitato al pensiero di trovarmi ancora con lei. C'era stato solo un paio di persone con cui ero riuscito ad aprirmi. Nessuna donna dopo Maria. Avevo la sensazione che Jezzie potesse essere una di quelle. Inoltre avevo bisogno di avere di nuovo un rapporto con qualcuno. C'era voluto un po' di tempo per capirlo. Non ero mai stato un tipo da una notte e via, e non volevo certo iniziare adesso. Ciò tuttavia creava qualche problema e qualche questione teorica che non ero ancora pronto ad affrontare. Jezzie chiuse gli occhi. «Stringimi ancora per un altro minuto», bisbigliò. «Sai che cos'è veramente bello? Stare con qualcuno che capisce quello che hai passato. Mio marito non ha mai capito questo lavoro.» «Neanch'io. Infatti lo capisco ogni giorno di meno», dissi scherzando. Ma in parte era la verità. Tenni Jezzie tra le braccia molto più di un minuto. La sua bellezza era sorprendente, senza età. Mi piaceva guardarla.
«È tutto così strano, Alex. Strano in modo piacevole, ma strano. Che sia tutto un sogno?» «Non può essere un sogno. Il mio secondo nome è Isaiah. Non lo sapevi?» Jezzie annuì. «Lo sapevo che il tuo secondo nome era Isaia. L'ho visto su un rapporto dell'FBI. Alexander Isaiah Cross.» «Adesso capisco come hai fatto ad arrivare così in alto. Che altro sai di me?» «Tutto a suo tempo», rispose Jezzie. Mi toccò le labbra con un dito. Il Cheshire era un pittoresco alberghetto di campagna a circa quindici chilometri da Wilkinsburg. Jezzie era corsa dentro a prendere una camera per noi. Fino a quel momento nessuno ci aveva visto insieme nell'albergo, il che andava bene a tutti e due. La nostra stanza era in una vecchia rimessa imbiancata, staccata dall'edificio principale dell'albergo. Era piena di autentici pezzi di antiquariato, tra cui un telaio a mano e parecchie trapunte. C'era un caminetto a legna, e così accendemmo un fuoco. Jezzie ordinò dello champagne. «Festeggiamo. Facciamo baldoria», disse mentre riattaccava il ricevitore. «Ci meritiamo qualcosa di speciale. Abbiamo preso il cattivo.» L'albergo, quella stanza appartata, era tutto praticamente perfetto. Una finestra ad arco si affacciava su un prato ricoperto di neve e su un lago ghiacciato. Un'erta montagna si stagliava dietro il lago. Sorseggiavamo lo champagne davanti al fuoco scoppiettante. Mi ero preoccupato per le possibili conseguenze della nostra notte a Wilmington, ma non ce n'erano state. Parlammo senza impacci, e filò tutto liscio anche quando scese il silenzio. Ordinammo la cena. Il ragazzo del servizio in camera era chiaramente a disagio mentre sistemava i vassoi della cena davanti al caminetto. Non riusciva ad aprire lo scaldavivande, e per poco non fece cadere un intero vassoio. Credo che non avesse mai visto prima un tabù in carne e ossa. «E tutto a posto», gli assicurò Jezzie. «Siamo due poliziotti ed è tutto perfettamente legale. Si fidi di me.» Parlammo per un'altra ora e mezzo. Pensai alle volte in cui, da ragazzo, un amico restava a dormire da me. Ci mettemmo a parlare a ruota libera. Non c'era imbarazzo tra noi. Mi fece parlare di Damon e Jannie e non voleva che mi fermassi.
Il menù comprendeva roast beef con qualcosa di camuffato da Yorkshire pudding. Non importava. Quando Jezzie finì l'ultimo boccone, cominciò a ridere. Ci facemmo entrambi un sacco di risate. «Perché mai mi sono mangiata tutta quella roba? Non mi piace nemmeno, lo Yorkshire pudding. Mio Dio, tanto per cambiare ci si diverte.» «Che facciamo ora? Per divertirci e festeggiare.» «Non so. Tu che cos'hai voglia di fare? Scommetto che hanno bei giochi di società alla reception. Io sono bravissima a Scarabeo.» Allungò il collo in modo da guardare fuori della finestra. «Oppure potremmo passeggiare lungo il lago, e cantare Winter Wonderland.» «Sì. Potremmo pattinare. Io so pattinare, sono un mago sui pattini. Non c'era sul mio rapporto dell'FBI?» Jezzie sorrise e mi diede un colpo sulle ginocchia. «Mi piacerebbe vederti. Pagherei per vederti pattinare.» «Però ho dimenticato i miei pattini.» «Oh, bene. Che altro? Voglio dire, tu mi piaci troppo, ti rispetto troppo per farti credere di essere interessata al tuo corpo.» «Per essere del tutto sincero, io sì che sono interessato al tuo corpo.» Ci baciammo, e mi sembrò la cosa più bella del mondo. Il fuoco scoppiettava. Lo champagne era ghiacciato. Il fuoco e il ghiaccio. Yin e yang. Gli opposti si attraggono. Non andammo a dormire fino alle sette del mattino. Uscimmo persino a fare una passeggiata. Ci mettemmo a pattinare al chiaro di luna con le nostre scarpe. In mezzo al lago Jezzie si appoggiò a me e mi baciò. Un bacio serio, un bacio da ragazza grande. «Oh, Alex», mi bisbigliò contro la guancia, «penso proprio che finiremo nei guai.» 46 Gary Soneji/Murphy venne condotto alla Lorton Federal Prison, nella parte settentrionale della Virginia. Ben presto cominciò a circolare la voce che gli era capitato qualcosa, ma nessun membro del dipartimento di polizia di Washington fu autorizzato a vederlo. Lui apparteneva al ministero della Giustizia e all'FBI e non lo avrebbero mollato tanto facilmente. Non appena la sua presenza a Lorton venne resa pubblica, arrivarono i manifestanti. Proprio com'era accaduto con Ted Bundy, in Florida. Uomi-
ni, donne e scolari se ne stavano giorno e notte all'esterno del parcheggio del carcere a intonare slogan. Organizzavano marce, portavano candele e striscioni. DOV'È MAGGIE ROSE? MAGGIE ROSE È VIVA! LA BESTIA DELL'EST DEVE MORIRE! SEDIA ELETTRICA PER LA BESTIA! Una settimana e mezzo dopo la cattura, andai a incontrare Soneji/Murphy. Avevo dovuto sfruttare sino in fondo il credito di cui godevo a Washington, ma ce l'avevo fatta. Il dottor Marion Campbell, direttore di Lorton, mi accolse al sesto piano, adibito a infermeria, davanti a una schiera di ascensori grigio ferro. Era sulla sessantina, ben conservato e con una massa fluente di capelli neri. Molto reaganiano. «Il detective Cross?» Mi tese la mano con un sorriso educato. «Proprio io. Sono anche psicologo legale.» Parve sorpreso. Evidentemente nessuno gli aveva detto nulla. «Be', lei deve aver messo in moto gli ingranaggi giusti. Non sono molti quelli autorizzati a vederlo. I colloqui con lui sono merce rara.» «Mi sto occupando di questo caso fin dal rapimento dei due bambini, a Washington. E ho partecipato al suo arresto.» «Sì! Be', non sono del tutto sicuro che stiamo parlando dello stesso uomo.» Campbell non si preoccupò di chiarire quella sibillina dichiarazione. «Preferisce che la chiami dottor Cross?» «Dottor Cross, detective Cross, Alex. Faccia lei.» «Mi segua, dottore. La aspetta un'esperienza molto interessante.» Soneji, rimasto ferito nel corso della sparatoria al McDonald's, era ricoverato in infermeria. Il dottor Campbell mi guidò lungo un ampio corridoio su cui si aprivano due file di celle, tutte occupate. Lorton è un posto popolare, davanti al suo portone c'è sempre la fila. I detenuti erano per lo più neri e la loro età oscillava fra i diciannove e i cinquant'anni. Tutti si sforzavano di apparire duri e decisi, ma non è un atteggiamento che funzioni più di tanto in un carcere federale. «Temo di aver sviluppato un certo senso di protezione nei suoi confronti», disse Campbell. «E fra un momento ne capirà il motivo. Pare che tutti vogliano vederlo, che ne abbiano assoluta necessità. Ho ricevuto telefonate da tutto il mondo. Uno scrittore giapponese. Un medico di Francoforte. Un altro di Londra. Cose così.» «Ho la sensazione che non mi stia dicendo tutto sul suo conto, dottore», osservai. «Di che cosa si tratta?» «Preferisco che tragga da solo le sue conclusioni, dottor Cross. Lo trove-
rà in questo reparto. Mi piacerebbe molto conoscere la sua opinione.» Ci eravamo fermati davanti a una porta d'acciaio, sorvegliata da un agente, oltre la quale cominciava l'ala di massima sicurezza dell'infermeria. Una luce vivida illuminava la prima cella. Non era quella di Soneji. Lui ne occupava una sulla sinistra, buia e vigilata da due guardie armate. «Si è dimostrato violento?» domandai. «No, nulla del genere. Non credo che debba preoccuparsi di eventuali comportamenti violenti. Se ne renderà conto coi suoi occhi. Bene, vi lascio soli.» Gary Soneji/Murphy ci guardava dalla sua brandina. Se si escludeva il braccio appeso al collo, non era affatto cambiato dall'ultima volta che l'avevo visto. Mi stava studiando, ma nulla lasciava intuire che avesse riconosciuto in me l'uomo che aveva tentato di uccidere. Da un punto di vista professionale, la prima impressione fu che avesse paura di restare solo con me. Il suo corpo mandava segnali ben diversi dall'individuo che avevo atterrato nel McDonald's di Wilkinsburg. «Lei chi è? Che cosa vuole da me?» chiese alla fine con un lieve tremolio nella voce. «Mi chiamo Alex Cross. Ci siamo già conosciuti.» Sembrò confuso, e credo che chiunque sarebbe stato pronto a giurare sulla sincerità della sua reazione. Scosse la testa e chiuse gli occhi. Fu un momento stranissimo, sconcertante. «Mi dispiace, ma non mi ricordo di lei.» Parlò in tono quasi di scusa. «In quest'incubo circola talmente tanta gente. Inevitabilmente finisco per dimenticarmi di qualcuno. Buongiorno, Alex Cross. La prego, avvicini una sedia al letto. Come può vedere, ho avuto un'infinità di visitatori.» «Lei ha chiesto di me durante le trattative in Florida. Sono della polizia di Washington.» Vidi un sorriso spuntargli sulle labbra. Distolse lo sguardo e scosse nuovamente la testa. Ancora non capivo dove stesse lo scherzo, e glielo dissi. «Non sono mai stato in Florida», spiegò allora. «Non ci ho mai messo piede.» Poi Gary Soneji/Murphy si alzò. Portava un pigiama da ospedale troppo largo e la ferita al braccio pareva causargli una certa sofferenza. Aveva un'aria abbandonata, vulnerabile. C'era qualcosa che non andava in quella faccenda. Ma che cosa? Perché non ero stato avvertito? Evidentemente, al dottor Campbell stava davvero a cuore che traessi da solo le mie conclusioni.
Soneji/Murphy andò a sedersi sull'altra sedia. Mi fissava con sguardo addolorato. Non assomigliava a un killer. Non assomigliava a un sequestratore. A un insegnante, forse? A un Mister Chips? A un bambino sperduto? «Questa è la prima volta che parlo con lei», disse. «E non avevo mai sentito il nome Alex Cross. Non ho rapito nessun bambino. Conosce Kafka?» «Un po'. Perché?» «Mi sento come il Gregor Samsa della Metamorfosi. Sono finito in un incubo; niente di quello che sta succedendo ha senso per me. Io non ho sequestrato i figli di nessuno. Qualcuno deve credermi. Io sono Gary Murphy, e in tutta la mia vita non ho fatto male a una mosca.» Se avevo capito bene, quell'uomo mi stava dicendo che mi trovavo davanti a un caso di personalità multipla... Gary Soneji/Murphy a tutti gli effetti. «Ma tu gli credi, Alex? Gesù, amico. Questo è il punto.» Scorse, Craig e Reilly del Bureau, Klepner e Jezzie Flanagan dei servizi segreti, Sampson e io ci eravamo riuniti in un'angusta sala riunioni al quartier generale dell'FBI. A fare la domanda era stato Gerry Scorse. Non del tutto sorprendentemente, non credeva a Gary Soneji/Murphy. La teoria della personalità multipla lui non la beveva. «Che cosa ci guadagnerebbe, a raccontare menzogne tanto sfacciate?» obiettai. «Dice di non aver rapito i bambini. Dice di non aver partecipato allo scontro a fuoco da McDonald's.» Li guardai in faccia a uno a uno. «Sostiene di essere questo educato signor nessuno del Delaware che risponde al nome di Gary Murphy.» Reilly aveva la risposta pronta. «Sta tentando la carta dell'infermità mentale. Per farsi mandare in qualche confortevole manicomio nel Maryland o in Virginia. E uscirne nel giro di sette od otto anni. Sa benissimo quello che fa, Alex, ci puoi scommettere. Ma è abbastanza intelligente e abbastanza in gamba per sostenere il gioco sino in fondo?» «Non dimenticate che l'ho incontrato una volta soltanto e che non siamo rimasti insieme neppure un'ora. Però dico questo: è molto convincente nella parte di Gary Murphy. La mia opinione è che sia un MP a tutti gli effetti.» «Che cosa diavolo vuoi dire MP?» brontolò Scorse. «Mai sentito.»
«È un termine psichiatrico molto usato», replicai. «Tutti noi strizzacervelli parliamo di MP quando ci ritroviamo. Maledettamente pazzo, Gerry.» Risero tutti, tranne Scorse. Di lui, Sampson diceva che assomigliava a un impresario di pompe funebri: Scorse il Becchino. Era un professionista serio e zelante, ma gli mancava il senso dell'umorismo. «Maledettamente divertente, Alex», brontolò alla fine. «Vale a dire MD.» «Pensi che ti permetteranno d'incontrarlo ancora?» domandò Jezzie. Come professionista, non era meno seria di Scorse, ma averla intorno era molto più piacevole. «Sì, direi di sì. Lui vuole rivedermi. Forse riuscirò perfino a scoprire perché diavolo aveva chiesto di me, in Florida. Perché proprio io sono l'eletto del suo incubo.» 47 Due settimane più tardi, riuscii a strappare un'altra ora di colloquio con Gary Soneji/Murphy. Avevo trascorso le due notti precedenti a documentarmi sulla turba psichica nota come personalità multipla, e la mia sala da pranzo sembrava una biblioteca specializzata. Sull'argomento è stato scritto parecchio, ma le opinioni degli esperti non potrebbero essere più discordanti. Non mancano neppure voci autorevoli che negano l'esistenza di casi autentici di personalità multipla. Gary se ne stava seduto sul letto, lo sguardo perso nel vuoto, quando entrai. Non aveva più il braccio appeso al collo. Non era stato facile per me tornare lì, a parlare con un sequestratore, un serial killer di bambini. Poi rammentai le parole scritte tanto tempo fa da Spinoza: «Non sono tenuto a ridere delle azioni degli uomini, né a piangere per esse e neppure ad aborrirle, ma sono tenuto a comprenderle». E io, almeno per il momento, ero ben lontano dal comprendere. «Salve, Gary», dissi piano, per non spaventarlo. «Se la sente di parlare?» Lui girò la testa verso di me; sembrava contento di vedermi. Tirò una sedia vicino al letto e mi fece cenno di sedere. «Temevo che non l'avrebbero lasciata tornare. Sono felice che sia qui», disse. «Che cosa le faceva credere che non me lo avrebbero permesso?» «Oh, non lo so. Solo che avevo la sensazione che con lei sarei riuscito a parlare. E poiché questo non è esattamente il mio periodo fortunato, pen-
savo che l'avrebbero tagliata fuori.» C'era in lui un'ingenuità che mi turbava. Mi affascinava, quasi. Quello era l'uomo che avevano descritto i suoi vicini di Wilmington. «A che cosa stava pensando? Un momento fa, prima che arrivassi io a interromperla.» Lui sorrise e scosse la testa. «Non lo so neanch'io. A che cosa pensavo? Ah, sì, ecco. Mi ero ricordato che il mio compleanno cade proprio in questo mese. Continuo a pensare che prima o poi mi sveglierò e scoprirò che è stato tutto un brutto sogno. È un pensiero ricorrente, sa, una specie di leitmotiv.» Decisi di cambiare discorso. «Vogliamo fare un passo indietro? Mi racconti di nuovo del suo arresto.» «Mi sono svegliato a bordo di un'autopattuglia, fuori di un McDonald's.» Era esattamente quello che mi aveva detto due giorni prima. «Avevo i polsi ammanettati dietro la schiena. E più tardi mi hanno messo anche i ceppi ai piedi.» «Ma non sa come era arrivato su quell'autopattuglia?» insistetti. Accidenti, era davvero bravo. Affabile, gentile, credibile. «No, e non so neppure che cosa ci facessi, in un McDonald's di Wilkinsburg. È la cosa più bizzarra che mi sia mai capitata.» «Posso capirlo.» Una nuova teoria aveva cominciato a prendere forma nella mia mente durante il tragitto da Washington. Certo, era piuttosto azzardata, ma avrebbe spiegato alcune cose che fino a quel momento sembravano del tutto prive di senso. «Le era mai successo nulla del genere, prima? Qualcosa di anche solo vagamente simile, Gary?» «No. Non ero mai finito nei guai. E non ero mai stato arrestato. Lei può verificare, no? Ma naturalmente, certo che può.» «Intendevo dire se non le era mai capitato di svegliarsi da qualche parte senza sapere come ci fosse arrivato.» Mi guardò, la testa lievemente piegata di lato. «Perché me lo chiede?» «Le era già successo, Gary?» «Be'... sì.» «Me ne parli. Mi racconti di tutte le volte che si è risvegliato in una località sconosciuta.» Aveva il vezzo di cincischiare la camicia: la tirava fra il secondo e il terzo bottone, come per staccare il tessuto dalla pelle. Mi chiesi se quel tic
scaturisse dal timore di non riuscire a respirare e che cos'avesse generato una simile paura. Forse da bambino era stato ammalato. O si era trovato intrappolato in uno spazio angusto, con poca aria da respirare. Oppure chiuso da qualche parte. Proprio com'era successo a Maggie Rose e a Michael Goldberg. «Da un anno a questa parte, forse un po' di più, soffro d'insonnia. Ne ho parlato con uno dei dottori che mi hanno esaminato», disse. Nelle relazioni mediche non si parlava d'insonnia. Ne aveva effettivamente informato uno dei medici o aveva solo immaginato di farlo? In quelle relazioni si parlava delle irregolarità del profilo Wechsler, segno d'impulsività. Dei due test per la determinazione del quoziente d'intelligenza, uno verbale e uno pratico, in entrambi dei quali aveva ottenuto un punteggio molto elevato. Del risultato del test di Rorschach, che indicava una grave situazione di stress emotivo. Della reazione positiva alla scheda 14 del TAT, la cosiddetta «scheda di valutazione suicidio». Ma sull'insonnia neppure una parola. «Me ne parli, per favore. Mi aiuti a capire.» Avevamo già discusso del fatto che, oltre a essere un detective, ero anche uno psicologo; si fidava delle mie credenziali. Per il momento, almeno. Forse era per quello che mi aveva voluto in Florida? Gary mi fissò negli occhi. «Cercherà davvero di aiutarmi? Non di mettermi in trappola, dottore, ma di aiutarmi?» Gli assicurai che avrei ascoltato ciò che aveva da dire senza pregiudizi, e lui replicò che non chiedeva altro. «È già da un pezzo che non riesco a dormire. Da più di quanto non riesca a ricordare. Stava diventando tutto molto confuso. Non mi era facile distinguere tra lo stato di veglia e il sogno. Mi sono svegliato su quell'autopattuglia in Pennsylvania. Ignoro come ci fossi arrivato. Ecco quello che è realmente successo. Mi crede? Qualcuno deve credermi.» «Sono qui per ascoltarla, Gary. Quando avrà finito di parlare, le illustrerò la mia opinione. Ma ho bisogno di sapere tutto.» Sembrò soddisfatto, perché riprese: «Mi ha chiesto se mi era già successo in passato. Sì. Qualche volta. Mi svegliavo in posti sconosciuti. A volte ero a bordo della mia auto, su strade che non avevo mai percorso, che non avevo mai neppure sentito nominare. In un paio di occasioni in un motel. O per la strada. Philadelphia, New York. Atlantic City, una volta. In tasca avevo delle fiches del casinò e un biglietto omaggio per il parcheggio. Ma proprio non so come me li fossi procurati».
«Le è mai successo di svegliarsi a Washington?» «No. A Washington no. È da quando ero ragazzino che non ci vado. Di recente, ho scoperto che posso tornare alla consapevolezza. Alla piena consapevolezza, intendo. E scopro per esempio di trovarmi in un ristorante, ma non ricordo affatto di esserci entrato.» «Non ha mai chiesto aiuto a un medico?» Chiuse gli occhi castano chiaro, che erano la sua caratteristica più saliente. Quando li riaprì, sorrideva. «Non abbiamo soldi da spendere in psichiatri. Tiriamo avanti a fatica. Ecco perché mi sento così depresso. Siamo sotto di trenta bigliettoni. La mia famiglia ha un debito di trentamila dollari e io sono in carcere.» Tacque e mi guardò di nuovo. Cercava di decifrare la mia espressione e non si vergognava di farlo. Da parte mia, non potevo che giudicarlo collaborativo, stabile e, in linea generale, del tutto lucido. D'altra parte, non dimenticavo che chiunque avesse rapporti con lui correva il rischio di venire manipolato da un sociopatico estremamente abile e intelligente. Prima di me aveva ingannato un sacco di gente; ovviamente ne aveva tutte le capacità. «Fino a questo punto le credo», mi decisi a dire. «Quello che mi ha detto sembra sensato, Gary. Sarò lieto di aiutarla, se mi sarà possibile.» Lacrime improvvise gli gonfiarono gli occhi, gli rigarono le guance. Mi tese le mani e io le presi. Presi le mani di Gary Soneji/Murphy. Erano gelate. Come se avesse paura. «Sono innocente. So che può sembrare pazzesco, ma sono innocente.» Era molto tardi quando tornai a casa, quella sera. Stavo entrando nel vialetto quando una motocicletta mi si affiancò. Che diavolo c'era ancora? «Mi segua per favore, signore», disse il centauro, nel più perfetto stile da polizia autostradale. «Mi venga dietro.» Era Jezzie. Rise e risi anch'io, perché capivo che stava cercando di riportarmi nel mondo dei vivi. Voleva dirmi che stavo dedicando troppe energie a quel caso. Rammentarmi che dopotutto era stato risolto. Parcheggiai la vecchia Porsche, scesi e mi avvicinai a lei. «Ora di staccare», annunciò Jezzie. «Credi di farcela? Ti sembra abbastanza ragionevole staccare alle undici di sera?» Entrai per controllare che i ragazzi stessero bene. Dormivano, e io non avevo alcuna ragione per rifiutare l'offerta di Jezzie. Tornai fuori e salii in moto.
«Non ho ancora capito se questa è la cosa peggiore o la migliore che ho fatto in questi ultimi tempi», brontolai. «È sicuramente la migliore. Sei in buone mani. Non hai nulla da temere, se non una morte istantanea.» Di lì a pochi secondi, la luce potente dell'unico faro inondava la 9th Street. Scendemmo verso l'Independence, quindi lungo la Parkway, che in certi punti è tortuosa fino all'assurdo. E a ogni curva Jezzie seguiva l'andamento della strada, sfrecciando accanto alle auto che sembravano immobili. Ci sapeva fare, con la moto. Non era una dilettante. Mentre il paesaggio correva intorno a noi, e la linea tratteggiata si snodava sulla nostra sinistra, a pochi centimetri dalla ruota anteriore, pensai che doveva averla lanciata così centinaia di volte, e mi sentivo sorprendentemente tranquillo. Non sapevo dove stessimo andando e non me ne importava. I ragazzi dormivano. Con loro c'era Nana. E la corsa in moto faceva parte della terapia. Sentivo l'aria fredda insinuarsi sotto i vestiti, approfittando di ogni varco. Mi schiariva la mente e di certo avevo un gran bisogno di schiarirmela. N Street era deserta. E una strada lunga e stretta, su cui si allineano case vecchie di cent'anni. Graziosa, soprattutto in inverno. Tetti spioventi coperti di neve ghiacciata. Luci ammiccanti sulle verande. Jezzie tirò al massimo l'acceleratore. Centodieci. Centotrenta. Centosessanta. Non so di preciso a che velocità procedessimo, ma mi sembrava di volare. Alberi e case erano un'unica macchia indistinta. L'asfalto era una macchia indistinta. Ma in un certo senso era piacevole. A condizione che vivessimo abbastanza a lungo per raccontarlo. La frenata fu lenta, senza scosse. Jezzie non si stava esibendo; semplicemente, sapeva quello che faceva. «Siamo a casa. L'ho appena presa», annunciò mentre smontavamo. «Sei stato bravo. Hai gridato una volta soltanto, sul George Washington.» «Dentro di me non ho smesso un solo istante.» Resi euforici dalla corsa, entrammo. L'appartamento non era affatto come lo avevo immaginato. Jezzie spiegò che non aveva avuto il tempo di sistemarlo, ma a me sembrò bello e pieno di gusto. Levigato e moderno, ma non freddo. Vidi un'infinità di magnifiche foto artistiche, quasi tutte in bianco e nero. Le aveva fatte lei, disse Jezzie. In cucina e in soggiorno c'erano vasi colmi di fiori freschi. E poi libri da cui spuntavano segnapagine: Il principe delle maree, Angelo custode, Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta. Una rastrelliera per il vino: Beringer, Rutherford. Un
gancio cui lei appese il casco. «Così, dopotutto hai un'anima casalinga.» «Scordatelo, Alex. Io sono una dura dei servizi segreti fatta e finita.» La presi fra le braccia e ci baciammo con dolcezza. Scoprivo la tenerezza là dove non avevo previsto di trovarne; scoprivo una sensualità che mi stupiva. Era esattamente tutto quello di cui andavo in cerca, con una sola piccola pecca. «Sono felice che tu mi abbia portato a casa tua. Parlo sul serio, Jezzie. Sono commosso.» «Anche se per riuscirci ho dovuto sequestrarti?» «Una motocicletta che sfreccia nella notte. Un bell'appartamento accogliente. Fotografie di gran classe. Quali altri segreti mi nascondi?» Con un dito, seguì i contorni della mia mascella. «Non voglio avere segreti. Ecco quello che mi piacerebbe davvero. Va bene?» Dissi di sì. Perché era quello che volevo anch'io. Era tempo che mi aprissi di nuovo con qualcuno. Probabilmente, anzi, era più che tempo per entrambi. Forse non era così che apparivamo agli occhi del mondo, ma eravamo stati soli troppo a lungo. Quella era la semplice verità che, reciprocamente, ci stavamo aiutando a capire. Era mattino presto quando facemmo ritorno a casa mia, a Washington. Il vento era freddo e sferzante contro i nostri volti. Mi tenni stretto a lei mentre galleggiavamo nell'indistinto chiarore grigio dell'alba. Le poche persone che incontrammo, e che a piedi o in auto si recavano al lavoro, ci guardarono incuriosite. Probabilmente al loro posto lo avrei fatto anch'io. Eravamo una coppia maledettamente attraente. Jezzie mi lasciò nel punto esatto in cui mi aveva prelevato. Mi chinai su di lei e sulla moto calda e vibrante e la baciai di nuovo. Sulle guance, sulla gola, infine sulle labbra. Per me, avremmo potuto restare lì tutta la mattina. Lì, abbracciati nello squallore della zona sud-est. Per un attimo pensai che sarebbe stata la cosa più giusta. «Devo andare», dissi. Lei annuì. «Sì. Lo so, Va' a casa, Alex. E dai un bacio ai tuoi bambini da parte mia.» Ma aveva un'aria triste mentre io le voltavo le spalle. Non iniziare una cosa che non puoi portare a termine, rammentai a me stesso. 48
Per il resto della giornata me la presi comoda. Forse era un atteggiamento irresponsabile da parte mia, ma mi andava bene così. A volte è giusto caricarsi sulle spalle il peso del mondo, a condizione che si sappia come scrollarselo di dosso. La temperatura era sotto lo zero mentre mi dirigevo verso il carcere di Lorton, ma il sole splendeva e il cielo era di un azzurro quasi abbagliante. Bello e carico di speranze. Fallaci illusioni degli anni '90. Pensavo a Maggie Rose, quella mattina, e arrivai alla conclusione che ormai doveva essere morta. Suo padre stava facendo il diavolo a quattro sulla stampa e in TV e non mi sentivo di biasimarlo per quello. In un paio di occasioni avevo parlato per telefono con Katherine Rose. Lei non aveva rinunciato alla speranza. Mi aveva detto di sentire che la sua bambina era ancora viva. Ascoltarla era una cosa tristissima. Cercai di prepararmi psicologicamente all'incontro con Soneji/Murphy, ma avevo difficoltà a concentrarmi. Davanti agli occhi continuavano a balenarmi immagini della notte appena trascorsa. Dovetti impegnarmi a fondo per rammentare a me stesso che ero al volante nel traffico di mezzogiorno di Washington, e che stavo lavorando. Fu allora che mi venne l'idea: una teoria sul conto di Gary Soneji/Murphy che, in un'ottica psichiatrica, sembrava avere una certa logica. Il disporre di una nuova teoria mi aiutò a calarmi nel mio ruolo quando arrivai al carcere. Soneji/Murphy mi aspettava nella sua cella al sesto piano. Dall'aspetto, pareva che neppure lui avesse chiuso occhio. Ora toccava a me prendere l'iniziativa. Gli stetti addosso per un'ora buona, quel pomeriggio, forse anche un po' più a lungo. Andai giù duro. Probabilmente più di quanto avessi mai fatto con gli altri miei pazienti. «Gary, si è mai trovato in tasca ricevute di hotel o ristoranti, oppure scontrini fiscali di cui non rammentava nulla?» Vidi i suoi occhi illuminarsi e un'espressione che forse era di sollievo dipingersi sul viso. «Come fa a saperlo? Gliel'ho detto che volevo lei come dottore. Non voglio più parlare col dottor Walsh. Non sa far altro che prescrivere idrato di cloralio.» «Non credo che sarebbe una buona idea. Io sono uno psicologo, non uno psichiatra come il dottor Walsh. E inoltre faccio parte della squadra che ha contribuito al suo arresto.» Lui scosse la testa. «Tutto questo lo so. So anche che lei è stato l'unico
ad ascoltarmi prima di emettere un giudizio. So che mi odia: pensa ai due bambini che ho sequestrato e a tutte le altre cose che avrei fatto... Ma, almeno, lei ascolta. Walsh finge soltanto di farlo.» «È necessario che continui a vedere il dottor Walsh.» «Oh, d'accordo. A questo punto credo di capire come funzionano le cose qui dentro. La prego, però, non mi lasci solo in quest'inferno.» «Non lo farò. Continuerò a seguirla. E continueremo a parlare come stiamo facendo adesso.» Poi gli chiesi di raccontarmi della sua infanzia. «Non ricordo granché. Pensa che sia strano?» Lui era più che disposto a parlare. Spettava a me decidere se ciò che ascoltavo era la verità o un elaborato castello di menzogne. «Per alcuni è normale. Il fatto di non ricordare, intendo dire. Ma a volte, se se ne parla, tornano in mente molte cose.» «Ricordo i fatti, naturalmente. E le date. Va bene, cominciamo. Data di nascita, 24 febbraio 1957. Luogo di nascita, Princeton, New Jersey. Queste cose le so. Anche se a volte ho l'impressione di aver imparato tutto questo via via che crescevo. Ho vissuto esperienze al cui riguardo non riesco a scindere il sogno dalla realtà. Non sono certo di saper distinguere tra una cosa e l'altra. Non ne sono affatto certo.» «Vada a ruota libera, senza fermarsi troppo a pensare.» «Be', di certo non sono mai stato una persona felice. Ho sempre sofferto d'insonnia. Non sono mai riuscito a dormire più di un'ora o due di fila. E non riesco a ricordare un momento in cui non fossi stanco. E depresso... Come se per tutta la vita avessi cercato di tirarmi fuori di un buco nero. Non voglio rubarle il lavoro, dottore, ma temo di non avere una grande opinione di me stesso.» Tutto quello che sapevo di Gary Soneji portava a un individuo diametralmente opposto: dinamico, sicuro, con un'altissima concezione di sé. Gary mi descrisse un'infanzia terrificante, completa di violenze fisiche da parte della matrigna nei primi anni e di abusi sessuali da parte del padre in seguito. Mi descrisse come fosse stato costretto a isolarsi dal clima d'ansia e di conflittualità in cui viveva. La matrigna era arrivata in casa nel 1961 in compagnia dei suoi due figli. A quell'epoca Gary aveva quattro anni ed era già un bambino introverso e lunatico, ma da allora non aveva fatto che peggiorare. Quanto fosse peggiorato, non era evidentemente ancora disposto a dirmelo. Nell'ambito della terapia messa a punto dal dottor Walsh, Soneji/Murphy
era stato sottoposto al Wechsler Adult, al Minnesota Multiphasic Personality Inventory e al test di Rorschach. Negli esami concernenti la sfera della creatività, era passato col vento in poppa, ottenendo punteggi molto alti nelle risposte orali come in quelle scritte. «Che altro, Gary? Cerchi di tornare indietro il più possibile. Si ricordi che, più mi permetterà di capire, più mi sarà facile aiutarla.» «Ci sono sempre state queste 'ore perdute'. Intervalli di tempo che non riuscivo a ricostruire.» La sua espressione si andava facendo via via sempre più tirata. Le vene del collo sporgevano. Una patina di sudore gli ricopriva il viso. «Loro mi punivano perché non riuscivo a ricordare...» mormorò. «Chi? Chi la puniva?» «Per lo più la mia matrigna.» Il che significava che con tutta probabilità i danni più gravi si erano verificati quando lui era ancora molto piccolo e la sua educazione era affidata alla matrigna. «Una stanza buia», disse. «Che cosa succedeva nella stanza buia? Che genere di stanza era?» «Mi confinava laggiù, nello scantinato. Era la nostra cantina, e lei mi ci chiudeva quasi ogni giorno.» Aveva cominciato a respirare affannosamente. Sapevo, per averlo constatato in molte vittime di violenze infantili, che parlarne doveva risultargli terribilmente arduo. Chiuse gli occhi per ricordare, per rivedere un passato che non avrebbe mai più voluto affrontare. «Che cosa succedeva nello scantinato?» «Nulla... Non succedeva nulla. Era questa la punizione. Venivo lasciato a me stesso.» «Quanto duravano queste punizioni?» «Non lo so. Non posso ricordare tutto!» Aveva socchiuso gli occhi e mi guardava da sotto le palpebre abbassate a metà. Non sapevo per quanto tempo ancora avrebbe retto. Dovevo procedere con cautela e aiutarlo a ricostruire le parti più dolorose del suo passato senza mai privarlo della certezza che il suo benessere mi stava a cuore, che poteva fidarsi di me, che lo stavo ascoltando. «È possibile che in qualche occasione ci sia rimasto per tutto un giorno? Per tutta una notte?» «Oh, no. No. Era per molto, molto tempo. Perché non dimenticassi più.
Perché facessi il bravo bambino. Non il Bambino Cattivo.» Mi guardò, ma senza aggiungere altro. Intuii che stava aspettando una qualche reazione da parte mia. Optai per l'elogio, e lui parve gradirlo. «Un ottimo inizio, Gary, davvero ottimo. So quanto sia difficile per lei.» E mentre guardavo l'adulto che mi stava davanti, immaginavo il ragazzino chiuso in una cantina buia. Tutti i giorni. Per settimane che certo dovevano essergli sembrate più lunghe di quanto realmente fossero. Poi pensai a Maggie Rose. Possibile che fosse ancora viva, e Gary la tenesse prigioniera da qualche parte? Avevo bisogno di estrarre dalla sua mente anche i segreti più oscuri, e dovevo farlo più in fretta di quanto preveda una terapia ortodossa. Katherine Rose e Thomas Dunne avevano il diritto di conoscere la sorte riservata alla loro bambina. Che ne è stato di Maggie Rose, Gary? Ti ricordi di Maggie Rose? Eravamo arrivati al momento più delicato. Gary avrebbe potuto spaventarsi e rifiutare d'incontrarmi ancora, se avesse pensato che non ero più suo «amico». Avrebbe potuto rinchiudersi in se stesso. C'era perfino la possibilità di un crollo psicotico totale. Allora sarebbe precipitato nella catatonia e tutto sarebbe stato perduto. Dovevo continuare a lodarlo per i suoi sforzi. Era importante che aspettasse con ansia le mie visite. «Quanto mi ha detto finora dovrebbe essermi utilissimo. È stato molto bravo. Sono impressionato dall'impegno che ha messo nel ricordare.» «Alex», sussurrò lui quando mi alzai per andarmene. «Lo giuro su Dio, non ho fatto nulla di orribile né di malvagio. Per favore, mi aiuti.» Per quel pomeriggio era in programma il test della macchina della verità. La prospettiva spaventava enormemente Gary, che tuttavia giurò di essere contento di sottoporvisi. Mi disse che avrei potuto aspettare i risultati, se lo desideravo. E io lo desideravo moltissimo. L'operatore, arrivato appositamente da Washington, era considerato uno dei migliori. Al soggetto sarebbero state poste diciotto domande; quindici di controllo e tre destinate alla valutazione effettiva. Il dottor Campbell mi raggiunse quaranta minuti dopo che Soneji/Murphy era stato portato via. Era rosso per l'eccitazione e aveva l'aria di aver corso. Non mi fu difficile intuire che aveva da dirmi qualcosa d'importante. «Ha ottenuto il punteggio massimo», mi riferì. «È passato a vele spiega-
te. Potrebbe darsi che Gary Murphy stia davvero dicendo la verità!» 49 Potrebbe darsi che Gary Murphy stia davvero dicendo la verità! Il pomeriggio seguente misi in piedi una rappresentazione coi fiocchi nella sala riunioni del carcere di Lorton. Avevo un pubblico importante: il dottor Campbell, direttore della prigione, il procuratore distrettuale federale James Dowd, un rappresentante dell'ufficio del governatore del Maryland, altri due legali della procura generale di Washington e il dottor James Walsh, membro della commissione sanitaria di Stato e dello staff di consulenti del carcere. Riunirli tutti era stata un'impresa non da poco e ora che ce l'avevo fatta non potevo lasciarmeli sfuggire. Non avrei avuto un'altra possibilità per chiedere ciò di cui avevo bisogno. Mi sembrava di essere tornato ai tempi degli esami alla Johns Hopkins. Ero teso come una corda di violino e sapevo che stavo puntando alto. Perché ero convinto che proprio lì, in quella stanza, si giocassero i destini del caso Soneji/Murphy. «Voglio tentare una regressione mediante ipnosi», annunciai al gruppo. «I rischi sono pressoché inesistenti, e i risultati potrebbero essere di grande importanza. Sono certo che Soneji/ Murphy si dimostrerà un soggetto altamente ricettivo e che ci fornirà molti elementi utili. Forse scopriremo che cos'è accaduto alla bambina scomparsa. E certo impareremo molte cose sul conto dell'imputato.» Il caso aveva già sollevato molti complessi interrogativi di carattere giurisdizionale. Uno degli avvocati mi aveva detto che c'erano tutti i presupposti per sollevare un conflitto di competenza. Poiché erano stati varcati i confini di Stato, il sequestro e l'assassinio di Michael Goldberg erano di competenza federale e sarebbe stato un tribunale federale a occuparsene. Le uccisioni al McDonald's sarebbero invece state discusse da una corte del Westmoreland. Inoltre, non era escluso che Soneji/Murphy venisse giudicato anche a Washington per uno o più degli omicidi che apparentemente aveva compiuto nella zona sud-est. «Che cosa spera di ottenere, con precisione?» mi domandò il dottor Campbell, che continuava a offrirmi il suo appoggio. Come me, aveva colto l'espressione scettica di molti, compreso il dottor Walsh. Ora capivo l'antipatia di Gary nei suoi confronti. Walsh mi dava l'impressione di un
uomo meschino, gretto, e fiero di esserlo. «Molto di quanto ci ha detto finora sembra indicare una grave reazione dissociativa. A quanto pare, il soggetto ha avuto un'infanzia terribile. Violenze fisiche e forse anche sessuali. Già da bambino potrebbe aver operato una dissociazione psichica nel tentativo di sfuggire alla sofferenza e alla paura. Non sto affermando che siamo davanti a un caso di scissione della personalità, ma è una possibilità. L'infanzia del soggetto è senza dubbio di quelle che possono produrre questa rara forma di psicosi.» «Il dottor Cross e io abbiamo discusso l'ipotesi che Soneji/ Murphy sia vittima del fenomeno comunemente noto come 'stato di fuga'», fu pronto a raccogliere la palla il dottor Campbell. «Episodi psicotici attinenti sia all'isteria sia all'amnesia. Parla di giorni, di weekend, addirittura di settimane, perduti. Nel corso di queste fughe, un paziente può destarsi in un luogo sconosciuto ignorando completamente come ci sia arrivato o che cos'abbia fatto in un lasso di tempo anche prolungato. In alcuni casi, nel soggetto si palesano due personalità distinte, e a volte antitetiche. Un fenomeno riscontrabile anche nell'epilessia del lobo temporale.» «Che cos'è, viaggiate in coppia, voi due?» grugnì Walsh. «Epilessia del lobo temporale. Fammi prendere fiato, Marion. Più teorie arzigogolate mettete in piedi, più possibilità avrà quel tizio di farla franca in tribunale.» «Non sto arzigogolando», replicai. «Non rientra nelle mie abitudini.» Intervenne il procuratore distrettuale. James Dowd era un tipo serio sulla quarantina. Se fosse riuscito a ottenere il caso Soneji/Murphy, nel giro di poco tempo sarebbe diventato molto famoso. «Non c'è la possibilità che il soggetto stia fingendo questa condizione psicotica a nostro uso e consumo? In sostanza, che sia un semplice psicopatico e nient'altro?» Mi guardai intorno prima di rispondergli. Era evidente che Dowd aveva posto le sue domande in tutta serietà e che ci teneva ad accertare la verità. Il rappresentante dell'ufficio del governatore sembrava scettico ma scevro da pregiudizi. Per quanto riguardava la squadra del procuratore generale, fino a quel momento si era mantenuta neutrale. Per il dottor Walsh, d'altra parte, Campbell e io avevamo già parlato abbastanza. «Naturalmente sì», mi decisi a dire. «È una delle ragioni per cui vorrei tentare l'ipnosi regressiva. In questo modo potremo verificare la coerenza della sua versione.» «Se è un soggetto ricettivo», puntualizzò il dottor Walsh. «E a condizione che lei sia in grado di stabilire se è effettivamente sotto ipnosi o se sta solo recitando.»
«Ho tutti i motivi di ritenere che sia ricettivo», mi affrettai a rispondere. «Io invece ho i miei dubbi in proposito. E francamente ho qualche dubbio anche su di lei, Cross. Non m'importa se al paziente piace parlare con lei. In psichiatria, la simpatia del paziente per il terapeuta non è una condizione necessaria.» Lo guardai con durezza. «Quello che piace al paziente è che io lo ascolto.» Avevo una gran voglia di dare una lezione a quel bastardo intrigante. «Quali sono le altre ragioni per cui vorrebbe sottoporre a ipnosi il detenuto?» Era stato il rappresentante dell'ufficio del governatore a parlare. «In tutta franchezza, non sappiamo molto di quello che potrebbe aver fatto durante queste sue fughe», rispose per me il dottor Campbell. «E lui non ne sa di più. Altrettanto all'oscuro sono sua moglie e la sua famiglia, che abbiamo già ascoltato molte volte.» «Inoltre ignoriamo quante siano le personalità agenti», intervenni. «Quanto all'altra ragione...» - feci una pausa a effetto -, «è che voglio interrogarlo su Maggie Rose Dunne. Voglio cercare di scoprire che cosa le ha fatto.» «Bene, ci ha illustrato le sue argomentazioni, dottor Cross. Grazie per il tempo e l'impegno che sta dedicando a questo caso», concluse James Dowd. «Le faremo sapere.» Quella sera decisi di prendere in mano le redini della faccenda. Telefonai a un giornalista del Post che conoscevo e di cui mi fidavo e gli chiesi di incontrarci al Pappy's Diner, un locale situato ai margini della zona sud-est. Da Pappy's nessuno ci avrebbe riconosciuto, ed era esattamente ciò che volevo: che nessuno sapesse del nostro incontro. Per il bene di entrambi. Lee Kovel era uno yuppie sulla via del declino e per certi versi un imbecille, ma a me piaceva. Non faceva mai mistero dei suoi sentimenti: le sue piccole meschine gelosie, la sua amarezza per lo squallore in cui era precipitato il giornalismo, il suo presunto cuor tenero, le sue occasionali impennate conservatoci. Era tutto bene in vista, perché il mondo ne prendesse atto. Mi raggiunse al banco. Portava un abito grigio e scarpe da tennis azzurre. Pappy's offre un illuminante spaccato sull'eterogeneità razziale del Paese: i suoi clienti sono latinoamericani, neri, coreani, bianchi della classe lavoratrice che per un verso o per l'altro provvedono ai bisogni della zona sud-est. Ma Lee è unico.
«Qui dentro spicco come un occhio nero», si lamentò. «Sono troppo su per questo posto.» «E chi potrebbe vederti? Il tuo direttore? Evans e Novak?» «Molto divertente, Alex. Che diavolo hai in mente? Perché non mi hai chiamato quando questa storia era ancora fresca? Prima che beccassero quell'imbecille?» «Gli dia un caffè, nero e bollente», dissi al barman. «Ho bisogno che sia ben sveglio.» Mi girai a guardare Lee. «Ipnotizzerò Soneji in carcere. Cercherò Maggie Rose Dunne nel suo inconscio. Puoi avere l'esclusiva. Ma a quel punto mi sarai debitore di un favore.» «Stronzate!» sputò quasi lui. «Sentiamola tutta, Alex. Ho l'impressione che tu abbia lasciato fuori qualcosa.» «Indovinato. Sto cercando di ottenere l'autorizzazione a ipnotizzare Soneji. Ci sono in mezzo un sacco di sporchi giochetti politici. Ma se farai in modo che il Post ne parli, credo che mi accontenteranno. La teoria delle profezie che trovano in se stesse il proprio adempimento, hai presente? Otterrò l'autorizzazione. E tu avrai l'esclusiva.» Il caffè arrivò in una bella tazza vecchio stile. Marrone chiaro con un sottile bordo blu sotto l'orlo. Con aria più che mai meditabonda, Lee sorseggiò la bevanda. Sembrava divertito da quel mio tentativo di manipolare l'ordine costituito di Washington. Faceva palpitare il suo tenero cuore. «E se saprai qualcosa da Gary Soneji, io sarò il secondo a esserne informato. Subito dopo di te, Alex.» «Pretendi molto. D'accordo, comunque. Pensaci su, Lee. È per una buona causa. Si tratta di Maggie Rose. Per non parlare della tua carriera.» Lo lasciai a finire il caffè di Pappy's e a dar forma al suo pezzo. E fu davvero così, perché uscì nell'edizione del mattino del Post. Nana Mama è sempre la prima ad alzarsi a casa nostra. Probabilmente è la prima in tutto il mondo. O almeno così credevamo Sampson e io quando avevamo dieci o undici anni e lei era vicepreside della Garfield North Junior High School. Che mi svegli alle sette, alle sei o alle cinque, la luce in cucina è invariabilmente accesa e Nana Mama è lì, intenta a fare colazione o a prepararsela. È quasi sempre la stessa: un uovo in camicia, un muffin, tè leggero con latte e due cucchiaini di zucchero. Di solito ha già cominciato a preparare la colazione anche per noi, nel pieno rispetto delle nostre diversità di gusti. Di norma il menù della casa
comprende: frittelle e salsicce di maiale o pancetta; melone quando è la stagione; fiocchi di riso o d'avena o porridge con un bel tocco di burro e una generosa spolverata di zucchero; uova cucinate in tutti i modi possibili. Di tanto in tanto fa la sua comparsa anche un'omelette alla gelatina d'uva, l'unico dei suoi piatti che io non apprezzi. Le omelette di Nana sono troppo bruciacchiate all'esterno e, come le ho detto più volte, uova e gelatina stanno bene insieme quanto le frittelle col ketchup. Lei non è d'accordo, anche se a dire la verità non l'ho mai vista assaggiare l'omelette con gelatina. I ragazzi invece la adorano. Quella mattina di marzo Nana era seduta al tavolo di cucina e leggeva il Washington Post, che, tra parentesi, ci viene consegnato da un uomo di nome Washington. Il signor Washington fa colazione con Nana tutti i lunedì mattina. Quel giorno però era mercoledì, e stavamo per entrare in una fase importante delle indagini. La scena che mi si parò davanti agli occhi al mio ingresso in cucina era familiare, e tuttavia non potei fare a meno di trasalire. Ancora una volta mi veniva mostrato in quale misura il rapimento Dunne-Goldberg era entrato nella nostra vita privata, nella vita dei miei familiari. Il titolo di testa del Washington Post recitava: SONEJI/MUEPHY IPNOTIZZATO. Lessi l'articolo, corredato da una fotografia di Soneji e da una mia, mentre mangiavo le mie solite due prugne secche. Si parlava di certe non meglio precisate «fonti scettiche riguardo alle opinioni dei terapeuti incaricati di seguire il sequestratore», di «riscontri medici che avrebbero potuto modificare il corso del processo»; si diceva che, «se fosse stato giudicato mentalmente incapace, Soneji/Murphy avrebbe potuto cavarsela con una condanna di tre anni da scontare in qualche istituto psichiatrico». Evidentemente, io non ero l'unica fonte di Lee. «Perché non escono allo scoperto e non dicono quello che hanno in mente?» borbottò Nana, masticando il suo toast. Evidentemente non apprezzava più di tanto lo stile del mio amico. «Dire che cosa, Nana?» indagai. «Quello che salta agli occhi. C'è qualcuno che non vuole vederti frugare nel suo piccolo caso tranquillo. Vogliono lavare la giustizia con lo Spic e Span; non è essenziale che si arrivi alla verità. Anzi sembra che qui nessuno abbia grande interesse per la verità. Vogliono solo che cessi il dolore. La gente ha una soglia di tolleranza al dolore molto bassa, soprattutto da
un po' di tempo a questa parte. Per la precisione, da quando il dottor Spock ha cominciato ad allevare i bambini al posto nostro.» «È su questo che stai macchinando mentre mangi il tuo uovo, Nana? Hai un attacco di pessimismo mattutino?» Mi versai una tazza di tè. Niente latte né zucchero. Presi un muffin e tra le due fette infilai un paio di salsicce. «Nessuna macchinazione. La verità è evidente come il naso che hai in mezzo alla faccia, Alex.» Abbozzai un cenno d'assenso. Forse aveva ragione, ma era un pensiero troppo scoraggiante per affrontarlo alle sei del mattino. «Niente di meglio delle prugne a quest'ora. Mmm, proprio buone.» «Uhm.» Nana Mama si accigliò. «Sono contenta che ti piacciano perché ho il sospetto che d'ora in poi dovrai ingoiare bocconi più amari. Spero non ti secchi se ti parlo senza peli sulla lingua, Alex.» «Grazie, Nana. Apprezzo la tua franchezza.» «Non c'è di che. E insieme con la colazione voglio offrirti questo ottimo consiglio: non fidarti dei bianchi.» «La colazione è squisita.» «Come sta la tua nuova ragazza?» fece mia nonna. Non perde mai un colpo. 50 C'era nell'aria un ronzio acuto quando scesi dall'auto, e a produrlo era una piccola folla di giornalisti e cronisti televisivi radunata all'esterno del carcere. Aspettavano me. E mi aspettava anche Soneji/Murphy, che per l'occasione aveva lasciato il reparto di massima sicurezza. Uscii dal parcheggio sotto una pioggerellina sottile e subito mi trovai circondato da una selva di telecamere e microfoni puntati verso di me da una dozzina di diverse angolazioni. Ero lì per ipnotizzare Soneji/Murphy, e i giornalisti lo sapevano. Ero l'uomo del giorno. «Thomas Dunne sostiene che lei sta cercando di far ricoverare Soneji in un istituto psichiatrico, perché possa tornare libero nel giro di un paio d'anni. Qualche commento, detective Cross?» «Per il momento nessuno.» Non potevo parlare coi giornalisti, anche se quell'atteggiamento non mi avrebbe certo reso più popolare. Ma mi ero impegnato in questo senso con l'ufficio del procuratore generale, in cambio dell'autorizzazione a incontrare il detenuto.
Al giorno d'oggi l'ipnosi è molto usata in psichiatria, e spesso a praticarla è lo stesso terapeuta che segue il paziente, oppure uno psicologo. Ciò che mi proponevo nel corso di una serie di sedute era scoprire che cosa fosse accaduto a Gary Soneji/ Murphy durante i suoi «giorni perduti», le sue fughe dalla realtà. Ovviamente non sapevo quanto tempo ci sarebbe voluto e, quanto a questo, neppure se l'esperimento avrebbe avuto successo. Una volta nella cella di Gary, tutto si svolse senza il minimo intoppo. Lo invitai a rilassarsi e a chiudere gli occhi. Dopodiché gli chiesi di inspirare ed espirare con lentezza e regolarità. Lo esortai a sgomberare la mente e quindi a contare lentamente da cento a uno. Prometteva di essere un buon soggetto; non oppose resistenza e quasi subito scivolò in un profondo stato di trance. Per quanto potevo vedere, era sotto ipnosi e decisi di procedere come se non nutrissi alcun dubbio al riguardo. Naturalmente stavo all'erta, pronto a cogliere eventuali segni che rivelassero da parte sua la volontà d'ingannarmi, ma non ne rilevai nessuno. La respirazione si era fatta considerevolmente più lenta. Non lo avevo mai visto così tranquillo e per qualche minuto chiacchierammo del più e del meno. Dato che Gary era rinvenuto o tornato in sé nel parcheggio del McDonald's, affrontai l'argomento non appena lo vidi completamente rilassato. «Ricorda di essere stato arrestato nel McDonald's di Wilkinsburg?» Una breve pausa, poi: «Oh, sì, naturalmente, lo ricordo». «Ne sono lieto, perché ho un paio di domande da farle in proposito. Non ho ben chiara l'esatta sequenza degli eventi. Per caso ricorda qualcosa di quello che ha mangiato?» Vedevo i bulbi oculari muoversi sotto le palpebre abbassate. Stava riflettendo prima di rispondere. Il suo piede sinistro batteva ripetutamente e rapidamente sul pavimento. «No... no... Non mi sembra. Ho davvero mangiato lì? Non ricordo. Non sono certo di averlo fatto.» Almeno, non negava di essersi trovato all'interno del McDonald's. «Si ricorda di aver notato qualcuno tra i presenti? Qualche cliente? Per caso ha parlato con una delle ragazze al banco?» «Mmm... Era affollato. Non mi viene in mente nessuno in particolare. Ricordo di aver pensato che c'è gente che si veste tanto male da essere comica. In posti come Hojo's o McDonald's se ne trovano sempre di persone
così.» Nella sua mente, era di nuovo da McDonald's. Era arrivato fin là con me. Continua così, Gary. «Ha usato il bagno?» Sapevo già che lo aveva fatto. Nel verbale d'arresto erano riportati nei dettagli quasi tutti i suoi movimenti. «Sì, ho usato il bagno», confermò lui. «Ha anche bevuto qualcosa? Mi porti con sé. Cerchi di ricollocarsi in quel momento. Si sforzi più che può.» Sorrise. «La prego. Non faccia il condiscendente.» Aveva piegato la testa di lato, in un'inclinazione bizzarra. Poi cominciò a ridere. Una risata strana, più profonda di quella che io conoscevo. Strana, e tuttavia non del tutto allarmante. Le frasi si fecero più rapide, più staccate. E il piede batteva per terra sempre più veloce. «Non è abbastanza in gamba per farcela», disse. L'improvviso mutamento mi colse di sorpresa. «Per fare che cosa? Si spieghi, Gary. Non riesco a seguirla.» «Per cercare d'imbrogliarmi. Ecco quello che intendo dire. È intelligente. Ma non abbastanza.» «Chi starei cercando d'imbrogliare?» «Soneji, naturalmente. C'è lui da McDonald's. Lui sta fingendo di volere un caffè, ma in realtà è incazzato nero. Sta per esplodere. Ha bisogno di attirare l'attenzione. Subito.» Mi protesi verso di lui. Non era quello che avevo previsto. «Perché è arrabbiato? Lei lo sa?» «È incazzato perché hanno avuto fortuna. Ecco perché.» «Chi ha avuto fortuna?» «La polizia. È incazzato perché quegli idioti potrebbero rovinare tutto, mandare a puttane il grande piano.» «Mi piacerebbe discuterne con lui», dissi, nel tono più disinvolto che riuscii a trovare. Se Soneji era lì, forse avremmo potuto parlare. «No! No. Lei non è sul suo stesso piano. Non capirebbe nulla di quanto lui ha da dire. Lei non sa un bel nulla di Soneji.» «È ancora arrabbiato? fi arrabbiato perché si trova in prigione? Che cosa ne pensa Soneji del fatto di essere qui, in questa cella?» «Lui dice... vaffanculo. VAFFANCULO!» Mi si avventò addosso, abbrancandomi per il bavero della giacca sportiva. Era forte, ma lo sono anch'io. Mi avvinghiai a lui e lui a me. Sembrava-
mo due grossi orsi abbracciati. Le nostre teste si scontrarono. Avrei potuto divincolarmi, ma non lo feci. In realtà non mi stava facendo davvero male. La sua aggressione era da intendersi soprattutto come una minaccia, quasi avesse voluto ristabilire le distanze fra noi. Campbell e le guardie arrivarono di corsa. Soneji/Murphy mi lasciò andare e cominciò a scagliarsi contro la porta della cella. Aveva la bava alla bocca. E urlava. Imprecava a pieni polmoni. Solo a fatica gli agenti di custodia riuscirono ad atterrarlo e a immobilizzarlo. Soneji era più robusto di quanto suggerisse la sua corporatura snella; avevo appena avuto modo di scoprirlo. Arrivò anche il medico, che gli somministrò un tranquillante. Di lì a pochi minuti, il detenuto dormiva accasciato sul pavimento. Gli agenti lo issarono sulla brandina e lo imprigionarono in una camicia di forza. Attesi finché non sentii girare la chiave nella serratura. Chi c'era in quella cella? Gary Soneji? O Gary Murphy? O tutti e due? 51 Quella sera, Pittman, il capo, mi telefonò a casa. Sospettavo che non fosse per congratularsi del mio lavoro con Soneji/Murphy, e avevo ragione. Il capo voleva che passassi nel suo ufficio l'indomani mattina. «Che cosa c'è?» gli chiesi. Non volle dirmelo per telefono e dubito che la sua reticenza fosse da attribuirsi al timore di rovinarmi la sorpresa. Al mattino, mi rasai con cura e per l'occasione misi la giacca di pelle. Poi, prima di uscire, suonai qualcosa al piano della veranda. Suonai The Man I Love, For All We Know e That's Life, I Guess. Dopodiché andai a trovare il capo. Per essere le otto meno un quarto del mattino, c'era troppa attività nell'ufficio di Pittman. Per una volta anche l'assistente del capo sembrava impegnatissimo. Il vecchio Fred Cook è un detective fallito che ora si atteggia ad assistente amministrativo. Ha l'aria di uno di quei reperti storici che scendono in campo nelle partite di baseball tra vecchi compagni di scuola. Fred è un essere abietto, meschino, e un politico fin nelle ossa. Averlo come referen-
te è come lasciare messaggi a uno degli ospiti fissi di un museo delle cere. «Il capo ti sta aspettando», mi annunciò con uno dei suoi tipici sorrisetti di superiorità. Fred Cook adora sapere le cose prima di tutti noi. E quelle che non sa, fa finta di saperle. «Che succede stamattina, Fred? Avanti, so che tu puoi dirmelo, se vuoi.» Vidi nei suoi occhi un lampo di soddisfatta consapevolezza. «Entra e scoprilo da solo. Sono sicuro che il capo non si farà pregare per metterti al corrente delle sue intenzioni.» «Sono fiero di te, Freddy. Sei la persona giusta cui affidare un segreto. Sai, dovresti lavorare al Consiglio nazionale per la sicurezza.» Ero pronto al peggio quando entrai, ma avevo sottovalutato il capo. Nell'ufficio con Pittman c'era il sindaco Carl Monroe. Più il nostro capitano di polizia Christopher Clouser e, meraviglia delle meraviglie, John Sampson. A quanto pareva, nel sancta sanctorum del capo era in corso una di quelle colazioni di lavoro tanto di moda a Washington. «Non è poi così male», disse Sampson a bassa voce. Ma a dispetto delle sue parole sembrava un grosso animale finito in una di quelle trappole a doppia morsa usate dai cacciatori. Ebbi la sensazione che si sarebbe volentieri tranciato un piede pur di lasciare la stanza. «Per nulla, direi.» Carl Monroe sorrise gioviale nel vedere l'espressione dipinta sul mio viso. «Abbiamo buone notizie per tutti e due. Notizie molto buone. Devo...? Ma sì, credo di sì... Tu e Sampson siete stati promossi. Da questo momento. Mi congratulo col nostro nuovo detective anziano e il nuovo capodivisione.» Applaudirono tutti e tre con aria d'approvazione, mentre Sampson e io ci scambiavamo un'occhiata incredula. Che diavolo stava succedendo? Se l'avessi saputo, avrei portato con me anche Nana e i bambini. Sembrava proprio una di quelle occasioni in cui il presidente distribuisce medaglie e ringraziamenti alle vedove di guerra. Solo che questa volta alla cerimonia era stato invitato anche il morto. Perché, agli occhi di Pittman, Sampson e io eravamo morti. Rivolsi a Monroe un sorriso complice. «Sarebbe così gentile da spiegare anche a noi che cosa bolle in pentola? Sa, quello che c'è sotto.» Carl Monroe sfoderò il suo magnifico sorriso: caldo, personalissimo, genuino. «Mi è stato chiesto di venire per la promozione tua e del detective Sampson. Questo è tutto. E sono molto felice di trovarmi qui, Alex...» abbozzò una smorfia buffa -, «alle otto meno un quarto del mattino.» Lo ammetto, a volte non è difficile provare simpatia per Carl. Sa per filo
e per segno chi e che cosa è diventato da quando si è messo in politica. Mi ricorda le prostitute della 14th Street, che ti lanciano un paio di vecchie battute mentre le porti dentro per adescamento. «Ci sarebbe da discutere un paio di altre questioni», intervenne Pittman, ma subito si affrettò ad aggiungere: «Possiamo parlarne dopo. Ora dedichiamoci al caffè e ai pasticcini». «Io invece credo che dovremmo discuterne adesso», ribattei. Poi, puntando gli occhi su Monroe: «Metta le sue questioni sul tavolo coi pasticcini». Lui scosse la testa. «Perché non te la prendi calma, una volta tanto?» «Non potrei mai candidarmi a una carica pubblica, vero? Come politico non valgo granché.» Il sindaco strinse le spalle, ma senza smettere di sorridere. «Non lo so, Alex. A volte, con l'esperienza, un uomo cambia e adotta uno stile più efficace. Vede quello che funziona e quello che non funziona. La disponibilità al confronto è decisamente più gratificante. Anche se non sempre si rivela la scelta migliore.» «È di questo che si tratta? Della scelta migliore?» saltò su Sampson. «È questo l'argomento della colazione di stamattina?» Monroe annuì. «Credo di sì. Sì, è questo.» E addentò un dolcetto. Pittman riempì di caffè una costosa tazzina di porcellana che sembrava troppo piccola e delicata nella sua grossa mano. Mi fece venire in mente le tartine al salmone. Roba per palati ricchi. «Per via di questo caso ci stiamo mettendo in urto con l'FBI e i servizi segreti. Una situazione che non fa comodo a nessuno. Di conseguenza, abbiamo deciso di farci completamente da parte. Di sollevarvi dall'incarico.» Tombola. E con questo avevamo fatto il paio. Era saltata fuori la verità della nostra piccola colazione di lavoro. Di colpo cominciammo a parlare tutti insieme. E almeno due di noi stavano gridando. «È una stronzata», ringhiò Sampson in faccia al sindaco. «E lei lo sa. Lo sa, vero?» «Ho iniziato le sedute di ipnosi con Soneji/Murphy», sbraitai io a Pittman, Monroe e Clouser. «L'ho ipnotizzato ieri. Cristo santo, no. Non fatelo. Non ora.» «Siamo al corrente dei tuoi progressi con Gary Soneji. Avevamo una decisione da prendere e l'abbiamo presa.» Improvvisa echeggiò la voce di Carl Monroe. «Vuoi la verità, Alex?
Vuoi sapere come stanno realmente le cose?» Lo guardai. «Sempre.» Monroe non mi staccava gli occhi di dosso. «Il procuratore generale ha fatto pressioni su un bel po' di gente qui a Washington. Ben presto, fra non più di sei settimane, avrà inizio un grossissimo processo. L'Orient Express è già partito, Alex. E tu non sei a bordo. Io non sono a bordo. Questa faccenda è diventata molto più grande di noi. Ora tocca a Soneji/Murphy... Il procuratore, il ministero della Giustizia, ha deciso di sospendere le tue sedute con Soneji/Murphy. A seguirlo sarà un'equipe di psichiatri appositamente formata. Ecco come funzioneranno le cose d'ora in poi. Il caso è entrato in una nuova fase e la nostra partecipazione non è più richiesta.» Sampson e io piantammo in asso la festa. La nostra partecipazione non era più richiesta. 52 Nella settimana successiva presi l'abitudine di rientrare dal lavoro a orari ragionevoli, di solito fra le sei e le sei e mezzo. Era passato il tempo delle settimane lavorative di ottanta o cento ore. Damon e Janelle non sarebbero stati più felici se mi avessero licenziato in tronco. Noleggiammo videocassette di Walt Disney e delle Tartarughe Ninja, ascoltavamo l'album triplo Billie Holiday: The Legacy 1933-1958 e ci addormentavamo tutti e tre sul divano. Insomma, ce la spassavamo alla grande. Un pomeriggio, andammo al cimitero da Maria. Né Damon né Janelle avevano mai superato del tutto la perdita della madre. Prima che lasciassimo il camposanto, mi fermai accanto a un'altra tomba. Quella dove riposava per sempre Mustaf Sanders. Mi sembrava quasi di vedere i suoi occhietti tristi fissi su di me. Occhi che domandavano: perché? Non avevo ancora una risposta per Mustaf. Ma neppure ero disposto a rinunciare. Un sabato, verso la fine dell'estate, Sampson e io affrontammo il lungo viaggio fino a Princeton, nel New Jersey. Di Maggie Rose ancora nessuna traccia. E neppure dei dieci milioni del riscatto. Così, noi approfittavamo del tempo libero per ricontrollare tutto da cima a fondo. Parlammo con parecchi vicini dei Murphy. Tutti i membri della sua famiglia erano morti in un incendio, ma nessuno aveva mai sospettato di Gary. Per quanto ne sapevano a Princeton, Gary Murphy era stato uno stu-
dente modello. Sebbene apparentemente non studiasse mai e non avesse mai rivelato particolari ambizioni, si era diplomato quarto del suo corso. E non si era mai cacciato nei guai, o almeno i suoi vicini di casa non ne erano al corrente. Il giovane che ci descrissero assomigliava straordinariamente al Gary Murphy che avevo incontrato nel carcere di Lorton. Erano tutti concordi, tranne un vecchio amico d'infanzia che penammo non poco a rintracciare. Simon Conklin, fruttivendolo presso uno dei mercati di zona, abitava a una ventina di chilometri da Princeton Village. Andammo a cercarlo perché di lui mi aveva parlato Missy Murphy e, benché lo avesse interrogato, l'FBI non ne aveva cavato granché. In un primo tempo Conklin si rifiutò di parlarci; era stufo dei poliziotti, disse. Cedette solo quando lo minacciammo di trascinarlo a Washington con noi. «Gary ha sempre preso in giro tutti quanti», ci raccontò nello sciatto soggiorno della sua casetta. Era un uomo alto, disordinato, con l'aria logora e i vestiti irreparabilmente male assortiti. Ma era intelligente. Anche lui, come il suo amico Gary Murphy, era stato un ottimo studente. «Diceva sempre che i grandi sapevano come prendersi gioco di tutti. I Grandi con la maiuscola, capite. Così parlò Gary!» «Che cosa intendeva dire, parlando dei 'grandi'?» domandai. A condizione che assecondassi il suo ego, pensavo, sarei riuscito a farlo parlare. A tirargli fuori tutto il possibile. «Lui li chiamava il Novantanovesimo Percentile», mi confidò Conklin. «La crème de la crème. Il meglio del meglio. I signori del mondo, amico.» «Il meglio di che?» interloquì Sampson. Mi ero già accorto che Conklin non gli piaceva, ma fino a quel momento era stato al gioco e aveva recitato la parte dell'ascoltatore attento. L'altro ebbe un sorrisetto altezzoso. «Il meglio dei veri psicopatici. Quelli che sono sempre rimasti fuori, e sempre ci resteranno, perché nessuno li beccherà mai. Quelli troppo furbi per farsi beccare. Che guardano gli altri dalle loro infinite altezze. Non mostrano alcuna pietà, alcuna misericordia. Sono gli unici artefici del loro destino.» «E Gary Murphy era uno di loro?» domandai, comprendendo che adesso era disposto a parlare. Di Gary, ma anche di se stesso. Intuivo che Conklin si considerava parte di quel Novantanovesimo Percentile. «No. Non secondo Gary, perlomeno.» Scosse la testa, senza rinunciare a quel suo irritante sorrisetto. «Secondo Gary, lui era molto più in gamba del Novantanovesimo Percentile. È sempre stato convinto di essere un model-
lo unico. L'originale. Amava definirsi una 'bizzarria della natura'.» Lui e Gary, ci disse Simon Conklin, abitavano nella medesima strada, a circa dieci chilometri dalla città. Prendevano l'autobus della scuola insieme ed erano amici fin dall'età di nove o dieci anni. La strada era la stessa che portava alla fattoria Lindbergh, a Hopewell. Ci disse inoltre che era stato certamente Gary ad appiccare l'incendio in cui era morta la sua famiglia, nell'intento di vendicarsi. Sapeva tutto delle violenze di cui Gary era stato vittima. Non avrebbe mai potuto provarlo, ma era certissimo che il colpevole dell'incendio fosse lui. «Ora vi spiego come faccio a esserne certo. Fu lui stesso a dirmelo, quando avevamo dodici anni. Mi disse che avrebbe fatto i conti con loro in occasione del suo ventunesimo compleanno. Disse che in questo modo tutti lo avrebbero creduto lontano, a scuola, e nessuno avrebbe mai sospettato di lui. Ed è proprio così che è andata, giusto? Ha aspettato nove lunghi anni. Ha avuto nove anni per mettere a punto il suo piano.» Quel giorno restammo con Simon Conklin per tre ore, e altre cinque ne trascorremmo insieme il giorno successivo. Ci raccontò un'infinità di storie tristi e raccapriccianti. Gary chiuso nello scantinato di casa Murphy per giorni e giorni, a volte per settimane. I suoi ossessivi progetti a lunga scadenza: a dieci anni, a quindici, a vita. La guerra segreta ingaggiata da Gary contro i piccoli animali, soprattutto contro gli uccelli che svolazzavano nel giardino della matrigna. Di come strappava le zampe e le ali ai pettirossi: una zampa, poi un'ala, quindi l'altra zampa e la seconda ala, per farli morire il più lentamente possibile. Il suo considerarsi al di sopra perfino del Novantanovesimo Percentile, al di sopra di tutti. E, infine, la sua abilità nel fingere e nel recitare qualsiasi parte. Mi sarebbe piaciuto aver saputo tutto questo durante i miei incontri con Gary Murphy, a Lorton. Mi sarebbe piaciuto dedicare parecchie sedute a Gary, e all'esplorazione degli antichi fantasmi di Princeton. Mi sarebbe piaciuto parlare con lui del suo vecchio amico Simon Conklin. Sfortunatamente, non avevo più nulla a che fare con le indagini. Il caso era ormai fuori della portata mia, di Sampson e di Simon Conklin. Informai l'FBI di quanto avevamo appreso. Stesi un verbale di dodici pagine su Simon Conklin, verbale cui non fece seguito nessuna iniziativa. Ne scrissi un secondo e ne mandai una copia a tutti coloro che avevano fatto parte della prima squadra di ricerca. Vi era citata un'osservazione di Simon Conklin a proposito del suo amico d'infanzia: «Gary diceva sempre che avrebbe fatto cose importanti».
Non successe nulla. Simon Conklin non fu interrogato anche dall'FBI. Loro non volevano seguire tracce nuove. La sola cosa che gli stesse a cuore era chiudere il caso Maggie Rose Dunne. 53 Sul finire di settembre, Jezzie e io ce ne andammo alle Isole Vergini per un lungo weekend. Lei e io soltanto. L'idea fu di Jezzie e a me sembrò buona. Eravamo curiosi. Ansiosi. Eccitati dalla prospettiva di quattro giorni da passare insieme, senz'altra compagnia. Forse non saremmo riusciti a sopportarci tanto a lungo. Si trattava di scoprirlo. Sulla Front Street di Virgin Gorda nessuno si girò a guardarci. Un cambiamento piacevole rispetto a Washington, dove solitamente la gente ci fissava a bocca aperta. Prendemmo lezioni d'immersione da una ragazza nera di diciassette anni. Passeggiammo a cavallo lungo una spiaggia che si stendeva ininterrotta per almeno sei chilometri. A bordo di una Range Rover c'inoltrammo nella giungla dove ci smarrimmo per mezza giornata. L'esperienza più indimenticabile fu la visita a una località troppo bella per essere vera, e che battezzammo «l'Isola Privata in Paradiso di Jezzie e Alex». Era stato l'albergo a trovarla per noi. Ci portarono lì in barca e ci lasciarono soli. «È il posto più straordinario che abbia mai visto», dichiarò Jezzie. «Guarda che acqua, e che sabbia. E le scogliere che ci sovrastano...» «Non è la 5th Street, ma non è male.» Sorridendo, mi guardai intorno. La nostra isola privata era in pratica un lungo banco di sabbia bianca che aveva la consistenza dello zucchero sotto i nostri piedi. Al di là di essa, si stendeva la giungla più lussureggiante che avessimo mai visto, punteggiata di rose bianche e buganvillee. Il mare verdazzurro era limpido come acqua sorgiva. La cucina ci aveva fornito la colazione al sacco: ottimo vino, formaggi scelti, aragosta, polpa di granchio e insalate di vario tipo. In giro non si vedeva anima viva. Facemmo quello che ci sembrò più naturale. Ci spogliammo. Senza vergogna. Senza tabù. Eravamo soli in paradiso, quindi perché no? Risi forte mentre giacevo sulla sabbia con Jezzie. Un'altra delle cose che di recente facevo molto più spesso: sorridere, sentirmi in pace con quanto mi circondava. Sentire, e basta. Ero terribilmente felice di provare di nuovo sentimenti ed emozioni. Tre anni e mezzo di lutto sono davvero troppo
lunghi. «Lo sai, vero, di essere incredibilmente bella?» le dissi, sdraiato al suo fianco. «Non so se te ne sei accorto, ma in borsa ho sempre un portacipria. Con lo specchietto.» Mi guardò negli occhi. «In effetti, da quando sono entrata nei Servizi, ho sempre cercato di minimizzare il fattore avvenenza. Altrimenti si rischia d'incasinare le cose, in una città dominata dai macho com'è Washington.» Mi strizzò l'occhio. «Sai essere talmente serio, Alex. Ma anche infinitamente divertente. Scommetto che solo i tuoi figli conoscono questo aspetto di te.» «Non cambiare argomento. Stavamo parlando di te.» «Tu stavi parlando di me. Di tanto in tanto vorrei passare un po' di tempo a farmi bella; ma di solito mi va bene andare a letto con la testa piena di bigodini rosa e guardare vecchi film in televisione.» «Sei stata bella per tutto il weekend. E non ho visto neppure l'ombra di un bigodino. Solo nastri e fiori freschi tra i capelli. Costumi da bagno senza spalline. A volte, niente costume del tutto.» «Certo che ora, qui, ci tengo ad apparire carina. A Washington è diverso. È solo un problema in più da risolvere. Vai dal tuo capo. C'è un caso importante cui stai lavorando da mesi e la prima cosa che lui ti dice è: 'Tesoro, sei fantastica con quel vestito'. E a quel punto ti viene una gran voglia di rispondere: 'Vaffanculo, stronzo'.» Le presi le mani. «Grazie per essere come sei. Grazie per essere così bella.» «Lo faccio per te», sorrise lei. «Mi piacerebbe fare anche qualcos'altro per te. E che tu facessi qualcosa per me.» Lo facemmo. Fino a quel momento, fra me e Jezzie non c'era stato un solo momento di stanchezza. Tutto il contrario, anzi. E perché stupirsene? Quello era il paradiso, dopotutto. Quella sera andammo a cena in un ristorante all'aperto giù in città. Guardando la spensierata vita isolana che ci ferveva intorno, ci chiedemmo perché mai non mollassimo tutto per cominciare finalmente a godercela anche noi. Mangiammo gamberi e ostriche e parlammo per un paio d'ore di fila. Ci aprimmo senza riserve, Jezzie soprattutto. «Sono sempre stata ossessionata dal lavoro, Alex», mi confidò. «E non mi riferisco solo al caso dei rapimenti. Ero sempre a esaminare rapporti, a
inseguire soluzioni impossibili. Avevo ingranato la quinta, e non riuscivo più a fermarmi.» Non feci commenti. Volevo ascoltarla. Volevo sapere tutto quello che c'era da sapere. Lei sollevò il boccale. «E ora eccomi qui, a bere birra alle Isole Vergini. Be', i miei genitori erano alcolizzati. Tutti e due. Soffrivano di turbe del comportamento prima ancora che queste diventassero di moda. Nessuno ha mai saputo quanto grave fosse la situazione in casa nostra, ma urlavano e litigavano in continuazione. Di solito mio padre perdeva conoscenza. Si addormentava sulla sua poltrona. E mia madre restava fino a tarda notte seduta al tavolo della sala da pranzo. Adorava i cocktail. Mi diceva: 'Preparami un altro dei miei Manhattan, piccola Jezzie'. Io ero la loro piccola addetta ai cocktail. È così che mi sono guadagnata la paglietta settimanale dagli undici anni in poi.» Tacque e mi guardò negli occhi. Non l'avevo mai vista così vulnerabile, così insicura. E pensare che di solito emanava una tale fiducia in se stessa! «Vuoi che smetta? Che parliamo di argomenti più allegri?» Feci un cenno di diniego. «No, Jezzie. Voglio ascoltare tutto quello che hai da dire. Voglio sapere tutto di te.» «Siamo ancora in vacanza?» «Sicuro, e desidero davvero che tu continui a parlare. Fidati di me. Se mi annoierò, mi limiterò ad alzarmi e a lasciarti qui col conto da pagare.» Allora sorrise e continuò. «Li amavo tutti e due, anche se forse in modo strano. E credo che anche loro mi volessero bene. Ero la loro 'piccola Jezzie'. Credo di averti già detto una volta che non volevo diventare una brillante fallita, come i miei genitori.» «Forse in quell'occasione avevi leggermente sfumato i toni.» Sorrisi. «Già. Be', comunque, lavoravo tutte le sere fino a tardi e anche il weekend, i primi tempi che ero nei Servizi. Mi prefiggevo obiettivi impossibili - supervisore a ventott'anni - e li raggiungevo sempre. Almeno in parte, questo spiega perché il mio matrimonio si sia risolto in un tale disastro. Vuoi sapere quando ho cominciato ad andare in moto?» «Certo. E anche perché hai voluto che ci salissi.» «Non riuscivo a staccare con la testa. Mai, neppure quando tornavo a casa la sera. Poi ho scoperto la moto. Quando fili a duecento all'ora, non puoi non concentrarti sulla strada. E allora dimentichi finalmente il lavoro.» «Questo è uno dei motivi per cui suono il piano», osservai. «Mi dispiace per i tuoi genitori, Jezzie.»
«E io sono contenta di essere riuscita a parlartene. Non l'avevo mai fatto prima. Nessun altro conosce la storia per intero.» Ci prendemmo per mano in quel ristorante sull'isola. Non mi ero mai sentito tanto vicino a lei. Dolce piccola Jezzie. Di tutti i momenti che abbiamo vissuto insieme, quello è uno che non scorderò mai. La nostra vacanza in paradiso. Di colpo, troppo di colpo, la vacanza finì. Ci ritrovammo intrappolati a bordo del volo dell'American Airlines che ci avrebbe riportato a Washington, alla pioggia e alla tetraggine, se i bollettini meteorologici dicevano la verità. Al lavoro. Durante il volo si creò tra noi una specie di barriera. Cominciavamo a parlare contemporaneamente, ed eravamo costretti a logoranti minuetti a base di prego, prima tu. Per la prima volta da quando eravamo partiti, ci scoprimmo a parlare di lavoro. «Credi davvero che si tratti di un caso di personalità multipla, Alex? Lui sa che fine ha fatto Maggie Rose? Soneji lo sa. E Murphy lo sa?» «A un certo livello, sì, indubbiamente. Era spaventato quando mi ha parlato di Soneji. Che si tratti o no di una personalità distinta, Soneji resta una figura inquietante. Soneji sa quello che è accaduto a Maggie Rose.» «E pensare che noi invece non lo sapremo mai con sicurezza. O almeno, così sembra.» «Già. Ma continuo a pensare che sarei riuscito a tirarglielo fuori. Era solo questione di tempo.» Eravamo in parecchie migliaia ad affrontare lo scenario da calamità naturale in cui il National Airport di Washington sembrava essersi trasformato. Il traffico procedeva lentissimo. La coda davanti al posteggio dei taxi cominciava all'interno del terminal. E tutti erano bagnati come pulcini. Né io né Jezzie avevamo l'impermeabile e c'infradiciammo da capo a piedi. Di colpo la vita divenne terribilmente deprimente e anche troppo reale. Eravamo a Washington, dove le indagini stagnavano. L'inizio del processo era imminente. Probabilmente sulla scrivania avrei trovato un messaggio di Pittman. «Torniamo indietro. Giriamo i tacchi e torniamocene da dove siamo venuti.» Jezzie mi prese per mano, mi trascinò fino alle porte di vetro della Delta Shuttle. Il suo corpo emanava un profumo e un calore familiari e piacevoli. Indugiava intorno a lei la fragranza del burro di cacao e dell'aloè. La gente si voltava a guardarci. Ci scrutava. Ci giudicava. Quasi tutti,
passando, si giravano. «Andiamocene di qui», dissi. 54 Le cose ripresero a muoversi in fretta. Alle due e mezzo di martedì pomeriggio (ero arrivato a Washington alle undici), ricevetti una telefonata di Sampson. Voleva che ci trovassimo a casa Sanders; pensava di aver trovato un nuovo collegamento fra il sequestro e gli omicidi. Era talmente straripante d'eccitazione da minacciare di esplodere da un momento all'altro. Una delle prime piste seguite stava finalmente dando i suoi frutti. Erano mesi che non tornavo sulla scena della strage, e tuttavia mi apparve tristemente familiare. Guardando i rettangoli scuri delle finestre, mi chiesi se la casa sarebbe mai stata venduta o affittata di nuovo. Seduto in auto sul viale dei Sanders, rilessi il rapporto degli agenti che per primi si erano occupati del caso. Non c'era nulla in quelle pagine che non sapessi già e che non avessi letto almeno una dozzina di volte. Il mio sguardo tornava sempre alla casa. Le tapparelle gialle erano abbassate, impedendomi di vedere all'interno. Dov'era Sampson, e perché mi aveva chiamato lì? La sua vecchia Nissan si fermò dietro la mia macchina alle tre in punto. Sampson scese e salì sulla Porsche. «Oh, hai il colore dello zucchero caramellato, ora. Sei dolce da mangiare come sembri?» «Tu invece sei rimasto grosso e brutto. Ah, l'immutabilità delle cose. Allora, che cosa volevi farmi vedere?» «Un esempio del meraviglioso lavoro che a volte sa compiere la polizia.» Si accese un Corona. «Avevi avuto ragione a voler stare dietro a questa faccenda.» Fuori ululava il vento, gonfio di pioggia. C'erano stati tornado nel Kentucky e nell'Ohio. Il tempo era stato pessimo durante il weekend che avevo trascorso con Jezzie. «Sei stato in vela, hai fatto immersioni e giocato a tennis nel tuo villaggio per bianchi?» domandò Sampson. «Non ne abbiamo avuto il tempo. Da buoni vacanzieri, eravamo impegnati a instaurare legami spirituali troppo difficili da capire per te.» Decisi di darci un taglio. «Entriamo?» Già da parecchi minuti le scene del passato continuavano a balenarmi
davanti agli occhi, e nessuna era piacevole. Rividi il viso della giovane Sanders, quattordicenne. E quello di Mustaf, che di anni ne aveva solo tre. Erano stati belli tutti e due, ricordai. E ricordai come a nessuno fosse importato nulla della loro morte. «A dire la verità, siamo qui per i vicini», si decise a spiegare Sampson. «Qui è successo qualcosa d'importante, ma ancora non capisco che cosa. Però è importante, Alex. E ho bisogno di te.» Andammo a parlare coi vicini dei Sanders, i Cerisier. Era importante. Catturò tutta la mia attenzione, all'istante. Sapevo già che Nina Cerisier era stata la miglior amica di Suzette Sanders fin da quando erano bambine. Nina, come suo padre e sua madre, non si era ancora ripresa dal trauma. Se ne avessero avuto la possibilità, si sarebbero trasferiti altrove. La signora Cerisier ci fece entrare e chiamò la figlia, che era al piano di sopra. Ci sedemmo al tavolo della cucina. Dalla parete ci sorrideva Magic Johnson. Nell'aria aleggiavano fumo di sigaretta e odore di fritto. Quando finalmente scese, Nina si mostrò fredda e scostante. Era una ragazza del tutto normale, sui quindici, sedici anni, e saltava agli occhi che non era per nulla contenta di vederci. «La settimana scorsa», esordì Sampson a mio beneficio, «Nina ha confidato a uno dei suoi assistenti scolastici della zona sud-est che credeva di aver visto l'assassino, un paio di sere prima della strage. Fino a quel momento non aveva trovato il coraggio di parlarne.» «Posso capirla», dissi. Era quasi impossibile convincere i testimoni oculari a parlare con la polizia a Condon, Langley e in tutti i quartieri neri di Washington. «Ho saputo che l'hanno preso», disse Nina in tono noncurante. Aveva due magnifici occhi color ruggine, che in quel momento erano fissi su di me. «Ora non ho più tanta paura. Un po' sì, però.» «Come l'hai riconosciuto?» domandai. «L'ho visto in televisione. È lui l'autore di quel grosso rapimento. Hanno detto tutto in TV.» Guardai Sampson. «Ha riconosciuto Gary Murphy.» Il che significava che lo aveva visto senza il suo travestimento da insegnante. Lui si concentrò su Nina. «Sei proprio sicura che fosse lo stesso uomo?» «Sì. Stava sorvegliando la casa della mia amica Suzie. Mi era sembrato strano. Qui in giro di bianchi non se ne vedono molti.» «Era giorno o notte quando lo hai visto?» la incalzai.
«Notte. Ma so che era lui. La luce della veranda dei Sanders era forte. La signora Sanders aveva paura di tutto e di tutti. Se le fai bu, scappa. Me lo diceva sempre Suzette.» Mi rivolsi a Sampson. «E questo lo colloca sulla scena del delitto.» Lui assentì, poi tornò a guardare Nina. Lei aveva l'aria imbronciata, la bocca stretta a formare una piccola O e con le mani si tormentava senza sosta i capelli raccolti in trecce. «Vorresti dire al detective Cross anche il resto?» «Con lui c'era un altro bianco», raccontò Nina Cerisier. «Rimane in auto mentre l'altro sorveglia la casa di Suzette. Rimane lì tutto il tempo. Due uomini.» Sampson girò la sedia per guardarmi in faccia. «Hanno una gran fretta di portarlo in aula», brontolò. «Non hanno la minima idea di quello che sta succedendo, ma vogliono chiudere il caso. Celebreranno il processo e insabbieranno tutto. Ma forse noi abbiamo la risposta, Alex.» «Fino a questo momento, siamo i soli ad averne una», replicai. Ci congedammo dai Cerisier e tornammo in città, ciascuno con la sua auto. Nella mia mente cominciava a delinearsi una mezza dozzina di possibili ipotesi. È così che lavora la polizia: un passo alla volta. E intanto pensavo a Bruno Hauptmann e al rapimento Lindbergh. Anche Hauptmann era stato processato in tutta fretta dopo essere stato catturato. E quindi condannato e rinchiuso in carcere, forse ingiustamente. Questo, Gary Soneji/Murphy lo sapeva. Faceva tutto parte di uno dei suoi piani macchinosi? Un piano a lunga scadenza, a dieci o dodici anni? Chi era l'uomo che Nina aveva visto con lui? Il pilota della Florida? O magari qualcuno come Simon Conklin, l'amico d'infanzia di Gary? Possibile che ci fosse stato un complice fin dall'inizio? Quella sera mi trovai con Jezzie. Aveva insistito perché smontassi di servizio alle otto; da più di un mese si era procurata i biglietti per una partita di pallacanestro dell'università di Georgetown. Durante il tragitto facemmo una cosa insolita per noi: parlammo solo e unicamente di lavoro. Io feci esplodere l'ultima bomba, la «teoria del complice». «C'è un aspetto che mi lascia sconcertata», fu il suo commento quando le ebbi raccontato tutto. Jezzie non era meno ossessionata di me dai due sequestri. La sua ossessione al riguardo era più discreta, più sottile, ma non le dava tregua. «D'accordo. La ragazza era amica di Suzette Sanders, giusto? Era vicina
alla famiglia. Eppure non ha parlato. A causa dei pessimi rapporti fra abitanti del quartiere e polizia? Non sono sicura di poterlo credere. Il fatto che di colpo, ora, apra la bocca e spifferi tutto...» «Dammi retta», replicai. «Per la maggior parte di quella gente i poliziotti sono come veleno per topi. Io vivo lì, tutti mi conoscono, eppure mi tollerano a malapena.» «Mi sembra talmente strano, Alex. Troppo strano. Le ragazze erano molto amiche, dopotutto.» «Sicuro che è strano. Ma è più facile che l'OLP parli con l'esercito israeliano che certi residenti della zona sud-est si confidino con la polizia.» «In sostanza, qual è la tua opinione ora che hai ascoltato le presunte rivelazioni della Cerisier? Dove lo collochi questo... complice?» «Per il momento da nessuna parte», ammisi. «Il che significa che si colloca perfettamente nel quadro generale. Sono convinto che la Cerisier abbia visto qualcuno. La domanda è: chi?» «Be', devo proprio dirtelo, Alex: a me pare una storia campata in aria. Spero tanto che tu non diventi il Jim Garrison di questo sequestro.» Mancava poco alle otto quando arrivammo al Capital Centre di Landover, nel Maryland. Georgetown giocava contro St. John's di New York City e i biglietti di Jezzie erano ottimi. Un'ulteriore dimostrazione del fatto che in quella città conosceva tutti. È più facile farsi invitare a un ballo di debuttanti che trovare i biglietti per certe partite. Tenendoci per mano, attraversammo il parcheggio diretti verso le luci del Cap Centre. Apprezzavo il gioco di Georgetown e ne ammiravo l'allenatore, un nero di nome John Thompson. In genere durante la stagione Sampson e io assistevamo a un paio delle partite giocate in casa. Stavo facendo qualche domanda a Jezzie per sondare le sue conoscenze di pallacanestro universitaria, quando ci azzittimmo nello stesso momento. Qualunque cosa stessi per dire, mi si fermò in gola. «Ehi, fotti-negri!» aveva gridato qualcuno all'estremità opposta del parcheggio. «Ehi, sale e pepe!» La stretta della mano di Jezzie si accentuò. «Alex? Sta' calmo. Continua a camminare.» «Certo», assentii. «Mai stato più calmo.» «Lascia perdere. Entriamo e basta. Sono solo degli imbecilli. Non meritano neppure una risposta.» Le lasciai la mano e puntai verso tre uomini in piedi vicino a una macchina blu e argento. Non erano studenti di Georgetown. E neppure del St.
John's. Portavano parka e berretti col logo di una società, o forse di una squadra. Erano bianchi e maggiorenni. Alla loro età, avrebbero dovuto saperla più lunga. «Chi è stato?» chiesi. Mi sembrava di essere diventato di legno e avvertivo una bizzarra sensazione d'irrealtà. «Chi ha detto: 'Ehi, fotti-negri?' Faceva ridere?» Uno di loro si fece avanti, pronto ad accettare la sfida. Parlò da sotto un berrettino rosso con scritto DAYGLO REDSKINS. «Che ti prende? Ti va di metterti uno contro tre, Magic? Perché, se è così, hai trovato quelli giusti.» «Be', non siamo proprio pari, io contro voi tre, ma se sta bene a voi... O preferite cercare un quarto, prima?» «Alex?» disse Jezzie alle mie spalle. «Alex, ti prego, no. Lasciali perdere.» «Vaffanculo, Alex», disse uno dei tre. «Dev'essere la tua donna a toglierti le castagne dal fuoco?» «Ti piace Alex, tesoro? Alex è il tuo omaccione preferito?» sentii dire. «Il tuo scimmione?» Sentii uno schiocco dietro gli occhi. Mi sembrò del tutto reale. Come se qualcosa si fosse spezzato dentro di me. Il primo pugno fu per Cappello dei Redskins. Piroettai su me stesso e colpii il secondo alla tempia. Quando Redskins crollò, il suo berretto volò via come un frisbee. Il secondo vacillava; cadde su un ginocchio e restò così per un tempo che mi parve infinito. La voglia di fare a pugni gli era passata del tutto. «Sono così stufo di queste stronzate. Ho la nausea.» Stavo tremando. «Ha bevuto troppo, signore», farfugliò l'unico rimasto in piedi. «Abbiamo bevuto troppo tutti quanti. Era teso, capisce. È stato parecchio sotto pressione negli ultimi tempi. Che diavolo, abbiamo dei colleghi neri. Amici neri. Che posso dire? Mi dispiace, signore.» Dispiaceva anche a me. Più di quanto m'interessasse spiegare a quegli imbecilli. Mi girai e con Jezzie alle calcagna tornai verso la macchina. Avevo le braccia e le gambe di pietra e il cuore che infuriava come un martello pneumatico. «Scusami», dissi. Avvertivo una leggera nausea. «Il fatto è che non ce la faccio più a sopportare queste stronzate. E non sono più disposto a lasciar perdere.» In auto restammo abbracciati per un lungo momento. Poi andammo a ca-
sa insieme. 55 Avrei rivisto Gary Murphy il primo di ottobre. «Nuove prove sopravvenute» era la ragione addotta per quell'ulteriore incontro. A quel punto, mezzo mondo aveva parlato con Nina Cerisier e la teoria del complice viveva di vita propria. Avvalendoci degli uomini della SIS passammo al setaccio i dintorni di casa Cerisier. Con Nina le tentammo tutte: dalle foto segnaletiche agli identikit elaborati dal computer, ma il volto del «complice» non saltò fuori. Sapevamo che era maschio, bianco e, credeva di ricordare la ragazza, tarchiato. L'FBI sosteneva di avere intensificato le ricerche del pilota in Florida; da parte nostra non saremmo stati certo con le mani in mano. Ero di nuovo in gioco. Il dottor Campbell mi precedette lungo il corridoio che attraversava il reparto di massima sicurezza di Lorton. Dagli spioncini delle celle, i detenuti ci osservavano con aria torva. Infine arrivammo nel settore che ospitava Gary Murphy. Come il corridoio, la sua cella era illuminata a giorno, ma io lo vidi sbattere le palpebre mentre si alzava dalla branda, come se stesse emergendo da una buia caverna. Impiegò un istante a riconoscermi. Poi sorrise. Non era cambiato; era lo stesso amabile giovane di provincia, e come sempre sembrava uscito da un remake degli anni '90 della Vita è meravigliosa. Il suo amico Simon Conklin mi aveva detto che Gary sapeva recitare qualsiasi parte. Era un elemento essenziale della sua appartenenza al Novantanovesimo Percentile. «Perché ha smesso di venire, Alex?» I suoi occhi avevano un'espressione quasi addolorata. «Non avevo più nessuno con cui parlare. Quegli altri dottori, loro non ascoltano. Non sul serio.» «Non me lo permettevano. Ma il problema è stato risolto, ed eccomi di nuovo qui.» Sembrava ferito. Si mordicchiava il labbro inferiore, guardandosi le pantofole di tela. Di colpo il suo viso si alterò e lui scoppiò in una fragorosa risata che echeggiò a lungo nella piccola cella. Soneji/Murphy mi si fece un po' più vicino. «Sa, dopotutto lei è solo un altro ottuso bastardo. Fottutamente facile da manipolare; proprio come
quelli che l'hanno preceduta. Furbo, ma non abbastanza.» Lo fissai sorpreso, forse anche un po' scioccato. Il mio sconcerto non gli sfuggì. «Le luci sono accese, ma in casa non c'è nessuno», sbuffò. «Eccomi di nuovo qui», ripetei. «L'avevo semplicemente sottovalutata, Gary. Faccio ammenda.» «Finalmente ci vede chiaro, eh?» Aveva ancora quell'orribile smorfia sul viso. «È proprio sicuro di capire? Sicuro sicuro?» Ma certo che capivo. Avevo incontrato per la prima volta Gary Soneji. Gary Murphy ci aveva appena presentato. Un fenomeno noto come avvicendamento rapido. Il sequestratore mi stava fissando, malignamente gongolante per essersi finalmente rivelato. Davanti a me sedeva l'assassino di bambini. L'abile mimo e attore. Il Novantanovesimo Percentile. Il Figlio di Lindbergh. Tutto questo, e probabilmente molto di più. «Sta bene?» chiese, ed era me che stava imitando. «Tutto bene, dottore?» «Tutto a posto. Nessun problema.» «Davvero? A me non sembra sia tutto a posto. Qualcosa non va, vero, Alex?» Ora sembrava autenticamente in ansia. L'irritazione ebbe la meglio. «Ehi, tu», ringhiai. «Vaffanculo, Soneji.» «Un momento.» Stava scuotendo la testa; il ghigno di lupo si era dileguato con la stessa rapidità con cui era comparso. «Perché mi chiama Soneji? Che cosa succede, dottore? Perché si comporta così?» Lo guardai in faccia; non riuscivo a credere a quello che vedevo. Era di nuovo cambiato. Tac. E Gary Soneji non c'era più. Nel giro di pochi minuti era passato da una personalità all'altra per due, forse tre volte. «Gary Murphy?» azzardai. Lui annuì. «Chi altri? Dico sul serio, dottore, che succede? Se ne sta lontano per settimane. Poi torna e...» «Mi racconti quello che è accaduto.» Non riuscivo a smettere di guardarlo. «Mi dica quello che lei crede sia appena accaduto.» Sembrò confuso, sconcertato dalla mia domanda. Se la sua era una recita, era la prestazione più brillante e convincente cui avessi assistito in tutta la mia carriera di psicologo. «Non capisco. Viene nella mia cella. Ha l'aria tesa. Forse si sente imbarazzato perché per un po' non si è fatto vedere. Poi mi chiama Soneji. Così,
di punto in bianco. Dovrebbe essere divertente o che cosa?» Stava parlando sul serio? Era davvero ignaro dell'incredibile metamorfosi che si era operata in lui non più di sessanta secondi prima? Oppure Gary Soneji si stava ancora prendendo gioco di me? Possibile che potesse cambiare personalità con tanta facilità e senza nessuna apparente giustificazione? Era possibile, certo, ma improbabile. E se le cose stavano realmente così, in che razza di beffa si sarebbe trasformato il processo? Forse Soneji/Murphy sarebbe addirittura riuscito a farla franca. Era questo il suo piano? Era questa la via d'uscita progettata fin dall'inizio? 56 Quando lavorava con gli altri a raccogliere frutta e verdura sul fianco della montagna, Maggie Rose si sforzava di ricordare casa sua. All'inizio il suo «elenco», l'elenco delle cose che rammentava, era generico ed elementare. Più di ogni altra cosa, sentiva la mancanza dei genitori. Le mancavano ogni momento della giornata. Le mancavano i compagni di scuola, soprattutto il Tappo. Le mancava Dukado, il suo gattino «nuovo». E Angel, il suo gattino «dolce». E i giochi Nintendo e il suo armadio. E fare il bagno nella stanza al terzo piano che dava sul giardino. Le feste dopo la scuola erano talmente divertenti. Più ripensava a casa, più particolari ricordava, e il suo elenco continuava ad allungarsi. Le mancava il modo in cui a volte andava a infilarsi tra il papà e la mamma quando si abbracciavano. «Noi tre» era il nome che aveva dato a quel gioco. Le mancavano i personaggi che suo padre inventava per lei, soprattutto quando era ancora piccola. C'era Hank, un grosso papà dallo strascicato accento del Sud, che le chiedeva sempre: «Con chiiii stai parlando?» E Susie Wooderman. Susie era la protagonista di tutte le storie in cui Maggie proiettava se stessa. C'era l'immancabile rituale che aveva luogo quando dovevano uscire in macchina nei giorni freddi. «Orribile, orribile! Brrr! Brrr! Brrr!» intonavano tutti e tre a pieni polmoni.
La sua mamma inventava canzoni e le cantava per lei. Non riusciva a rammentare un tempo in cui non le cantasse una canzone. Cantava: «Ti voglio bene, Maggie. Farei qualunque cosa per te, perché sei tutto per me». E Maggie: «Mi porteresti a Disneyland?» Al che sua madre rispondeva: «Qualunque cosa». «Daresti a Dukado un grosso bacio sulla bocca?» «Lo farò per te, Maggie Rose. Farei qualunque cosa per te.» Ora Maggie riusciva a ricordare intere giornate trascorse a scuola. Ricordava le speciali «strizzatine d'occhio» che la signora Kim le rivolgeva. Ricordava il modo in cui Angel si acciambellava su una sedia emettendo un suono dolce che assomigliava a un uau. «Farei qualunque cosa per te, perché sei tutto per me.» Le sembrava di risentire la voce di sua madre. Per favore, per favore, vieni a riportarmi a casa? cantava Maggie nella sua mente. Vieni, vieni, per favore. Ma nessuno cantava mai nulla. Non più. Nessuno cantava per Maggie Rose. Nessuno si rammentava più di lei. O almeno così credeva, e questo le spezzava il cuore. 57 Nel corso delle due settimane successive rividi Soneji/Murphy una dozzina di volte. Sebbene affermasse il contrario, non mi permise più di avvicinarglisi. Qualcosa era cambiato. L'avevo perduto. Li avevo perduti entrambi. Il 15 ottobre, un giudice federale ordinò una sospensione, rimandando così l'inizio del processo. Doveva essere l'ultima applicazione della tecnica dilatoria adottata dal difensore di Soneji/Murphy, Anthony Nathan. Nel giro di una settimana, più o meno alla velocità della luce, se si pensa ai tempi solitamente impiegati in queste manovre burocratiche, il giudice Linda Kaplan aveva respinto le richieste della difesa. Stessa sorte toccò ai ricorsi presentati alla Corte Suprema. Su tutte e tre le reti televisive l'avvocato Nathan definì l'alto organo collegiale «una teppaglia organizzata dedita al linciaggio». I fuochi d'artificio erano appena cominciati, dichiarò alla stampa. E in questo modo stabilì il tono che contava di imprimere al dibattimento. Il 27 ottobre ebbe inizio il processo: lo Stato contro Murphy. Quella mattina, alle nove meno cinque, Sampson e io ci dirigemmo verso uno degli ingressi di servizio del tribunale federale, in Indiana Avenue. Nei limiti
del possibile, eravamo in incognito. «Ti va di perdere un po' di soldi?» mi chiese Sampson mentre giravamo l'angolo. «Spero con tutto il cuore che tu non abbia intenzione di scommettere sull'esito del processo.» «Certo che sì, tesoro. Così il tempo passerà più in fretta.» «Su che cosa dovremmo scommettere?» Sampson accese un Corona e con aria trionfante esalò il fumo. «Vediamo... Io dico che lo spediranno in qualche manicomio criminale.» «Quello che stai dicendo, in effetti, è che il nostro sistema giudiziario non funziona.» «Ne sono totalmente e irrevocabilmente convinto. Soprattutto di questi tempi.» «Molto bene... Io invece dico che verrà condannato per entrambi i sequestri. E per omicidio di primo grado.» Altro sbuffo trionfante da parte di Sampson. «Preferisci pagarmi subito? Cinquanta dollari ti sembrano una cifra ragionevole da sganciare?» «Cinquanta mi sta bene. Scommessa accettata.» «Fantastico. Adoro portarti via quei pochi soldi che hai.» Sulla 3rd Street, una folla di almeno duemila persone si assiepava davanti all'entrata principale del tribunale. Altre duecento persone, fra cui sette file di giornalisti, erano già in aula. La richiesta del pubblico ministero di proibire l'ingresso alla stampa era stata respinta. Dappertutto ondeggiavano cartelli con la scritta: MAGGIE ROSE È VIVA. Su e giù per Indiana Avenue si vedeva gente con rose fresche all'occhiello. Alcuni vendevano bandierine commemorative. Ma a incontrare il maggior consenso erano le candeline che brillavano sul davanzale di molte finestre, in ricordo di Maggie Rose. Una manciata di reporter stava in attesa all'ingresso secondario, riservato ai fattorini e ai pochi magistrati e legali afflitti da timidezza. Anche molti agenti veterani che non apprezzavano la ressa avevano scelto di passare da lì. Una selva di microfoni venne immediatamente spinta sotto il naso mio e di Sampson. Gli obiettivi delle telecamere ci fissavano con aria sciocca. Ma nulla di tutto questo aveva più il potere di turbarci. «Detective Cross, è vero che l'FBI ha fatto in modo che il caso le venisse tolto?»
«No. Sono in ottimi rapporti con l'FBI.» «S'incontra ancora con Gary Murphy a Lorton?» «Da come parla, si direbbe che lui e io andiamo regolarmente a cena insieme. No, tra noi le cose non sono ancora così serie. Faccio parte di un'équipe di medici che segue il detenuto.» «Questo caso ha presentato risvolti di natura razziale, per quanto la riguarda?» «Di risvolti razziali ce ne sono in un sacco di circostanze, credo. Nella fattispecie, non ho nulla di significativo da segnalare.» «E lei, detective Sampson? È d'accordo?» chiese un tipetto azzimato col farfallino. «Be', caro signore, stiamo entrando dalla porta di servizio, giusto? Noi siamo uomini da porta di servizio.» Sampson sogghignò rivolto verso la telecamera. Non si era tolto gli occhiali da sole. Finalmente riuscimmo a guadagnare uno degli ascensori, da cui cercammo, senza troppo successo, di tener fuori i giornalisti. «Ci è stato confermato che Anthony Nathan ha intenzione di chiedere l'infermità mentale temporanea. Qualche commento?» «Nessuno. Chiedetelo a Nathan.» «Detective Cross, se la sentirebbe di affermare che Gary Murphy non è pazzo?» Finalmente le porte del vecchio ascensore si chiusero e iniziammo la lenta salita verso il settimo piano: il «Settimo Cielo», come lo chiamavano. Non era mai stato più tranquillo, né più sorvegliato. Il consueto scenario da stazione ferroviaria - poliziotti, giovani malviventi con famiglia, truffatori incalliti, avvocati e giudici - era stato arginato da un'ordinanza che destinava l'intero piano a quell'unico dibattimento. Sarebbe stata una cosa grossa. Il processo del secolo. Non era quello che Gary Soneji aveva sempre voluto? Senza il suo solito trambusto, il tribunale federale mostrava tutte le crepe nella luce mattutina che entrava a fiotti dalle grandi finestre della facciata orientale. Arrivammo giusto in tempo per vedere il pubblico ministero entrare in aula. Mary Warner era una minuta trentaseienne proveniente dalla Sesta Giurisdizione e di lei si diceva che fosse perfettamente all'altezza del difensore, Nathan. Come lui, non conosceva il sapore della sconfitta, perlomeno non in casi di rilievo. Aveva fama di essere preparatissima e altamente convincente nell'arringa. Un avvocato che con lei aveva avuto la
peggio aveva detto: «È come giocare a tennis con un avversario che risponde a tutti i tuoi colpi. Il miglior diritto tagliato, te lo rimanda. La schiacciata, te la rimanda. Prima o poi riesce a farti fuori; è inevitabile». Presumibilmente, era stato Jerrold Goldberg a sceglierla, e Goldberg poteva permettersi il pubblico ministero migliore. L'aveva preferita a James Dowd e ad altri iniziali favoriti. Era presente anche Carl Monroe. Al sindaco era impossibile tenersi lontano dalla folla. Mi vide ma non si avvicinò, limitandosi a lanciarmi da lontano uno dei suoi sorrisi brevettati. Se non avessi già saputo come sarebbe andata a finire con lui, lo avrei capito in quel momento. Alla nomina a capodivisione non ne sarebbero seguite altre; mi avevano concesso la promozione al solo scopo di dimostrare che ero stato una buona scelta per la squadra antisequestri, per giustificare l'iniziativa presa e prevenire eventuali domande sul comportamento da me tenuto a Miami. Ad accrescere l'atmosfera generale d'attesa, contribuiva da giorni la notizia che lo stesso ministro del Tesoro, Goldberg, stava collaborando con la pubblica accusa. E, naturalmente, che la difesa era stata affidata ad Anthony Nathan. Il Post aveva descritto Nathan come «un guerriero ninja delle aule di tribunale», e dal giorno in cui era stato assunto da Soneji/ Murphy la sua foto compariva regolarmente in prima pagina. Di lui, Gary si era mostrato riluttante a parlare. In un'occasione mi aveva detto: «Ho bisogno di un buon avvocato, giusto? Con me il signor Nathan è stato molto convincente. Lo sarà altrettanto con la giuria. È estremamente scaltro, Alex». Scaltro? Quando gli avevo chiesto se Nathan fosse intelligente come lui, Gary aveva sorriso. «Perché dice sempre che sono intelligente? Non lo sono. Mi troverei qui, se lo fossi?» Neppure una volta durante quelle settimane aveva abbandonato il ruolo di Gary Murphy. E aveva rifiutato di farsi ipnotizzare di nuovo. Guardai il superavvocato di Gary, Anthony Nathan, che con passo baldanzoso andava a occupare il proprio posto. Di sicuro era un maniaco, e la sua abilità nel far infuriare i testimoni durante i controinterrogatori era ben nota. Perché Gary aveva scelto proprio lui? Che cosa li aveva spinti l'uno verso l'altro? Certo era che per un verso lo si sarebbe potuto definire un accostamento logico: un semipazzo che difende un altro pazzo. Anthony Nathan aveva
già annunciato pubblicamente: «Sarà un vero e proprio zoo. Uno zoo, o una rappresentazione sulla giustizia del selvaggio West. Ve lo prometto. Potrebbero vendere i biglietti d'ingresso a mille dollari l'uno». Avevo il cuore in gola quando l'ufficiale giudiziario annunciò l'ingresso della corte. Scorsi Jezzie all'altro capo della stanza. Era vestita come doveva esserlo la persona importante che lei era: tailleur gessato, tacchi alti, lucida ventiquattrore nera. Mi vide e alzò gli occhi al cielo. Sulla destra stavano Katherine Rose e Thomas Dunne, e nel guardarli la mia sensazione d'irrealtà si accentuò. Non potevo fare a meno di pensare a Charles e Anne Lindbergh e al famosissimo processo che si era celebrato sessant'anni prima. Il giudice Linda Kaplan era noto per essere una donna eloquente ed energica che non permetteva mai ai legali di sopraffarla. Rivestiva quell'incarico da meno di cinque anni, ma aveva presieduto alcuni dei più importanti procedimenti della città. Spesso restava in piedi per tutta la durata dell'udienza e dominava l'aula con indiscussa autorità. Gary Soneji/Murphy era stato scortato al suo posto con discrezione, quasi furtivamente. Era già seduto e perfettamente composto, come sempre faceva Gary Murphy. Erano presenti parecchi giornalisti di fama e almeno un paio di loro stava preparando un libro sul rapimento. I due pool di avvocati ostentavano un'assoluta sicurezza, quasi fossero entrambi convinti dell'inattaccabilità delle rispettive posizioni. L'udienza si aprì con una trovatina scenica. Missy Murphy, seduta in una delle prime file, cominciò a singhiozzare mormorando con voce perfettamente udibile: «Gary non ha fatto male a nessuno. Gary non farebbe mai del male a un altro essere umano». Qualcuno tra il pubblico gridò: «Oh, la smetta, signora». Il giudice Kaplan batté col martelletto. «Silenzio!» intimò. «Di dichiarazioni ne sentiremo a sufficienza nei prossimi giorni.» E aveva senz'altro ragione. La grande corsa era cominciata. Gary Murphy/Soneji e il processo del secolo. 58 Sembrava che tutto fosse caotico e in continua evoluzione, soprattutto i
miei sentimenti riguardo al caso: alle indagini prima e ora al processo. Quel giorno, di ritorno dal tribunale, mi dedicai all'unica cosa che mi pareva avesse ancora un senso: giocai a football coi bambini. Damon e Janelle erano dei vulcani di attività e per tutto il pomeriggio lottarono per accaparrarsi la mia attenzione, soffocandomi con le loro necessità. Ma grazie a loro riuscii a non pensare troppo alle sgradevoli settimane che mi aspettavano. Quella sera, dopo cena, Nana e io ci attardammo a tavola davanti a una seconda tazza di caffè di cicoria. Ci tenevo a conoscere le sue opinioni, e comunque sapevo che avrei dovuto ascoltarle ugualmente. Per tutto il pasto, lei aveva continuato a far turbinare mani e braccia come un lanciatore di baseball. «Alex, credo che dobbiamo parlare», disse alla fine. Quando ha qualcosa di importante da dire, di solito Nana Mama se ne sta zitta a rimuginare per un bel pezzo, poi attacca a parlare ed è capace di andare avanti per ore. I ragazzi stavano guardando La ruota della fortuna nell'altra stanza. Le grida e gli applausi creavano un gradevole sottofondo domestico. «Di che cosa?» domandai. «Ehi, lo sapevi che negli Stati Uniti un ragazzo su quattro vive in condizioni di povertà?» Ma Nana era troppo assorta nei suoi pensieri per darmi retta. Era evidente che si era preparata un discorsetto, me lo dicevano i suoi occhi, ridotti a due capocchie di spillo scure. «Alex, tu sai che nelle questioni importanti sono sempre dalla tua parte.» «Da quando sono arrivato a Washington con una sacca da viaggio e, credo, settantacinque cent in tasca», confermai. Ricordavo ancora con chiarezza il giorno in cui ero stato spedito «su a Nord» a vivere con la nonna; il giorno in cui ero sceso dal treno Winston-Salem alla Union Station. Mia madre era appena morta di cancro ai polmoni, solo un anno dopo la scomparsa di mio padre. Nana mi aveva portato a pranzo alla Cafeteria Morrison's. Era stata la prima volta che avevo mangiato in un ristorante. Avevo nove anni quando Regina Hope mi aveva preso con sé. Allora era soprannominata «la Regina della Speranza» e lavorava come insegnante a Washington. Aveva già superato da un pezzo la cinquantina e mio nonno era morto. Anche i miei fratelli si erano trasferiti nelle vicinanze della capitale più o meno nello stesso periodo, ospiti di questo o quel parente fino al compimento dei diciott'anni. Ma io ero sempre rimasto con Nana. Ero stato il più fortunato. A volte Nana Mama si comportava come la
regina delle stronze, ma solo perché sapeva quello che ci voleva per me. Di tipi come suo nipote ne aveva già visti parecchi. Conosceva mio padre, nel bene come nel male. E aveva molto amato mia madre. Nana Mama era - ed è - un'abile psicologa. Avevo coniato quel soprannome per lei a dieci anni, perché allora per me era già tata e madre a un tempo. Ora teneva le braccia conserte sul petto, vera incarnazione della risolutezza. «Alex, credo di non essere affatto contenta della relazione che hai in corso.» «Potresti spiegarmene il perché?» «Certamente. Prima di tutto, Jezzie è bianca, e io non mi fido dei bianchi. Mi piacerebbe, ma non ci riesco. Quasi nessuno di loro ha rispetto per noi. Ci mentono guardandoci negli occhi. È il loro modo di fare, almeno con quelli che non ritengono loro pari.» «Parli come un'estremista: sembri Farrakhan o Sonny Carson.» Mi alzai e cominciai a sparecchiare la tavola, trasferendo piatti e stoviglie nel vecchio lavello di porcellana bianca. «Non sono orgogliosa dei miei sentimenti, ma non posso neppure negarli.» Gli occhi di Nana Mama seguivano ogni mio gesto. «È questo il crimine di Jezzie, dunque? Essere bianca?» La vidi agitarsi sulla sedia. Si aggiustò gli occhiali, che portava al collo appesi a una cordicella. «Il suo crimine è di essersi messa con te. Sembra dispostissima a lasciarti buttare al vento la carriera e tutto ciò che di buono fai qui nella zona sud-est. Tutto quello che di buono c'è nella tua vita. Damon e Janelle.» «Damon e Janelle non mi sembrano per nulla preoccupati, né tantomeno feriti», ribattei. Avevo alzato la voce e mi ero bloccato a metà strada con una pila di piatti sporchi fra le braccia. Lei batté con forza la mano sul bracciolo della sedia. «Solo perché tu ti sei messo i paraocchi, maledizione! Tu per loro sei il cielo e il sole. E Damon ha paura che tu lo abbandoni.» «Se sono turbati, è perché sei tu a turbarli con le tue maledette idee.» Era ciò che pensavo, ciò che ritenevo fosse la verità. Nana Mama si appoggiò all'indietro sullo schienale. Dalle sue labbra scaturì un gemito di puro dolore. «Non avresti potuto dire una cosa più ingiusta. Faccio il possibile per proteggere quei bambini, proprio come un tempo ho protetto te. Ho passato tutta la vita a prendermi cura degli altri, Alex. Non ho mai fatto del male a nessuno.»
«Hai appena fatto male a me. E lo sai benissimo. Sai che cosa significano per me i miei figli.» Aveva le lacrime agli occhi, ma non cedette. Tenne lo sguardo fisso nel mio. L'amore che ci lega è severo, incapace di mediazioni. Lo è sempre stato. «Non voglio che in seguito tu debba scusarti con me, Alex. Il fatto che ti sentirai in colpa per quello che mi hai appena detto non è importante. Ciò che conta è che sei colpevole. Stai rinunciando a tutto per una storia che non potrà mai funzionare.» Poi si alzò e lasciò la cucina. Fine della conversazione. Aveva preso la sua decisione e questo era quanto. Stavo davvero rinunciando a tutto per Jezzie? La nostra era una storia che non avrebbe mai potuto funzionare? Per il momento lo ignoravo, ma sapevo che avrei dovuto scoprirlo da solo. 59 Al processo Soneji/Murphy stava sfilando un vero e proprio corteo di specialisti. Sul banco dei testimoni si avvicendavano senza sosta periti medici, alcuni dei quali insolitamente coloriti e fantasiosi per essere degli scienziati. Arrivarono esperti dal Walter Reed, dal carcere di Lorton, dall'esercito e dall'FBI. Vennero esibiti e spiegati fin troppo dettagliatamente fotografie e diagrammi; le scene del delitto furono visitate e rivisitate sui misteriosi grafici che dominarono la prima settimana di udienze. Otto fra psichiatri e psicologi furono chiamati a sostenere la tesi che Gary Soneji/Murphy aveva il pieno controllo delle sue azioni; che era un sociopatico; che era razionale, lucido e del tutto sano di mente. Di lui si disse che era «un genio criminale» privo di coscienza come di rimorsi; un attore «degno di Hollywood» che aveva manipolato e ingannato un'infinità di persone. Ma Gary Soneji/Murphy aveva consapevolmente e deliberatamente rapito due bambini; ne aveva ucciso uno o entrambi; aveva ucciso altre persone, almeno cinque e forse di più. Era l'incarnazione del mostro che popola gli incubi di noi tutti... Questo sostennero gli esperti convocati dall'accusa. Il primario del reparto di psichiatria del Walter Reed, la dottoressa Maria Ruocco, rimase sul banco dei testimoni per quasi un intero pomeriggio. Si era incontrata con Gary Murphy almeno una dozzina di volte. Dopo la
lunga descrizione di una tormentata infanzia a Princeton, nel New Jersey, e di un'adolescenza improntata alla violenza contro esseri umani e animali, alla dottoressa Ruocco venne chiesta una valutazione psichiatrica dell'imputato. «Lo considero un sociopatico di grande pericolosità. Gary Murphy è pienamente cosciente delle sue azioni. Non credo affatto alla tesi della personalità multipla.» Con estrema abilità, Mary Warner costruiva giorno dopo giorno il suo caso. Ne ammiravo la preparazione e l'ottima comprensione dei procedimenti adottati in psichiatria. Stava allestendo per il giudice e la giuria un puzzle di estrema complessità; l'avevo vista lavorare in numerose occasioni e sapevo che era in gamba. Alla fine, nella mente dei giurati sarebbe rimasto impresso un quadro dettagliatissimo della mente di Gary Soneji/Murphy. A ogni udienza, la Warner si concentrava su una nuova tessera del puzzle. La esibiva, la spiegava nei minimi particolari. Dopodiché passava a inserirla nel contesto generale. Dimostrava alla giuria con quanta esattezza il nuovo pezzo s'incastrasse con gli altri. In un paio di occasioni, gli spettatori arrivarono ad applaudire quel pubblico ministero dalla voce soave e dalle impeccabili prestazioni. Riuscì in tutto ciò a dispetto delle obiezioni presentate quasi continuamente da Anthony Nathan. La linea di difesa di Nathan era piuttosto semplice, non discostandosi mai dalla tesi che Gary Murphy era innocente per non aver commesso nessuno dei crimini di cui era imputato. A commetterli era stato Gary Soneji. Anthony Nathan passeggiava su e giù per l'aula col suo consueto fare baldanzoso. Non sembrava del tutto a suo agio nell'abito su misura da millecinquecento dollari. Il vestito era ottimamente tagliato, ma Nathan non avrebbe potuto indossarlo peggio. Assomigliava straordinariamente a uno scimmiotto in ghingheri. «Non sono una persona simpatica.» Se ne stava piantato davanti alla giuria composta da sette donne e cinque uomini, il lunedì della seconda settimana. «Almeno non nelle aule di tribunale. Dicono che ho l'aria strafottente. Che sono pomposo. Che sono egocentrico e insofferente. Che è impossibile sopportarmi per più di un minuto di fila. È tutto vero», disse a un pubblico affascinato. «È tutto vero.»
«Ed è proprio per questo che a volte finisco nei guai. Dico la verità. Sono ossessionato dal bisogno di dire la verità. Non ho pazienza, neanche una briciola, per le mezze verità. E non ho mai accettato un caso che non mi consentisse di dire la verità. «La mia difesa di Gary Murphy è semplice, forse la meno complessa e controversa che abbia mai intrapreso. Riguarda la verità. O è bianco o è nero, signore e signori. Ascoltatemi, vi prego. «Il pubblico ministero Warner e i suoi collaboratori non sottovalutano la fondatezza della mia difesa, ed è per questo che hanno voluto sottoporre alla vostra attenzione più fatti di quanti ne abbia presentati la Commissione Warren per arrivare al medesimo risultato: il nulla più assoluto. Se poteste controinterrogare la signora Warner e lei fosse disposta a rispondervi con onestà, è questo che vi direbbe. E allora potremmo andarcene tutti a casa. Non sarebbe simpatico? Oh, sicuro che lo sarebbe.» In aula si sentirono delle risatine. Alcuni membri della giuria, intanto, si erano protesi in avanti per sentire meglio. Ogni volta che passava davanti al loro banco, Nathan si avvicinava di mezzo passo. «Qualcuno, più d'uno a essere sincero, mi ha chiesto perché ho accettato di occuparmi di questo caso. Gli ho spiegato, proprio come lo sto spiegando a voi, che le prove sono tali da rendere assolutamente certa la vittoria della difesa. La verità è totalmente schierata dalla parte della difesa. So che ora non mi crederete. Ma ci arriverete. Ci arriverete. «Questa è un'enunciazione di fatti. Il pubblico ministero Warner non sarebbe voluto arrivare al processo così presto. È stato il suo capo, il ministro del Tesoro, a forzare la situazione; a fare in modo che il processo venisse allestito a tempo di record. Le ruote della giustizia non si sono mai messe in movimento con tanta rapidità. Quelle stesse ruote che si sarebbero dimostrate infinitamente più lente se sul banco degli imputati ci foste stati voi o i vostri cari. Questa è la verità. «Ma in queste particolari circostanze, a causa cioè della sofferenza del signor Goldberg e dei suoi familiari, le ruote si sono messe a girare molto in fretta. E a causa di Katherine Rose Dunne e della sua famiglia, che è ricca, famosa e molto potente e che, come i Goldberg, aspira a vedere la fine dei suoi patimenti. Chi potrebbe biasimarli per questo? Certamente non io. «Ma non a spese di un innocente! Quest'uomo, Gary Murphy, non merita di soffrire ciò che loro hanno sofferto.» A passi rapidi Nathan si accostò all'imputato, il biondo e atletico Gary
Murphy, con la sua aria da boy-scout troppo cresciuto. «Quest'uomo è una persona per bene, esattamente come chiunque altro in quest'aula. E io ve lo dimostrerò. «Gary Murphy è un brav'uomo, non dimenticatelo. E questo è un fatto, uno dei due, due soltanto, che voglio voi ricordiate. L'altro è che Gary Soneji è pazzo. «Ora, non posso non dirvelo, anch'io sono un po' pazzo, appena un po'. Il pubblico ministero ha già attirato la vostra attenzione su questo particolare. Ebbene, Gary Soneji è cento volte più pazzo di me. Gary Soneji è l'individuo più pazzo che io abbia mai incontrato. E l'ho incontrato. Lo incontrerete anche voi. «Ve lo prometto. Tutti conoscerete Soneji, e una volta che l'avrete conosciuto vi scoprirete incapaci di condannare Gary Murphy. Scoprirete che Gary Murphy vi piace, e tiferete per lui e lo sosterrete nella sua battaglia contro Soneji. Gary Murphy non può essere condannato per i sequestri e gli omicidi commessi da Gary Soneji...» Toccò quindi ai testimoni della difesa. Sorprendentemente, tra loro figuravano alcuni insegnanti e studenti della Washington Day School. Più i vicini di casa dei Murphy, arrivati dal Delaware. Nathan era sempre cortese, sempre esauriente coi testi, e loro sembravano apprezzarlo e avere fiducia in lui. «Vuol dirci per favore come si chiama?» «Dottoressa Nancy Temkin.» «La sua occupazione?» «Insegno arte presso la Washington Day School.» «Ha conosciuto Gary Soneji alla Washington School?» «Sì.» «Il signor Soneji era un buon insegnante? Ha mai notato qualcosa che potesse farla dubitare della sua validità come docente?» «No. Era un ottimo insegnante.» «Su che cosa basa questa sua convinzione, dottoressa Temkin?» «Amava la sua materia ed era chiaramente desideroso di trasmettere le sue conoscenze agli studenti. Era l'insegnante più popolare della scuola. I ragazzi lo avevano soprannominato 'Chips', da Mister Chips.» «Lei ha ascoltato i periti che lo hanno definito non sano di mente e affetto da gravi turbe della personalità? Qual è il suo parere?» «Francamente, solo in questo modo riesco a spiegarmi ciò che è accadu-
to.» «Dottoressa Temkin, so che in queste circostanze la mia domanda non è delle più gradevoli, ma l'imputato era suo amico?» «Sì. Era mio amico.» «E lo è ancora?» «Voglio che Gary abbia tutto l'aiuto di cui ha bisogno.» «Anch'io», concluse Nathan. «Anch'io.» Anthony Nathan sparò la sua prima bomba il venerdì della seconda settimana. Il suo fu un gesto tanto drammatico quanto inaspettato e cominciò con una consultazione privata tra lui, Mary Warner e il giudice Kaplan. Fu una delle poche occasioni in cui si sentì Mary Warner alzare la voce: «Vostro Onore, mi oppongo! Non posso non oppormi a una simile bravata. Perché di una bravata si tratta e di nient'altro!» Già dal pubblico si levavano i primi mormoni. La stampa, seduta nelle prime file, era all'erta. Il giudice Kaplan si era apparentemente pronunciato a favore della difesa. Quando Mary Warner tornò al suo posto, fu subito evidente che aveva perduto un po' della sua abituale compostezza. «Perché non siamo stati informati in tempo utile?» gridò quasi. «Perché la proposta non è stata avanzata prima dell'apertura del processo?» Anthony Nathan alzò le mani e il suo gesto fu sufficiente a tacitare l'aula. Poi annunciò: «Chiamo a testimoniare il dottor Alex Cross. Lo cito come teste ostile e non collaborativo, ma comunque come teste per la difesa». Ero io la «bravata». PARTE QUARTA RICORDATE MAGGIE ROSE 60 «Guardiamo di nuovo il film, papà», disse Damon. «Questa volta dico sul serio.» «Niente da fare. Guarderemo il telegiornale, invece. E forse imparerai che nella vita non c'è soltanto Batman.» «Ma il film è divertente.» Damon non rinunciava a cercare d'infondermi un po' di buonsenso.
Decisi di rivelargli un piccolo segreto: «Anche il telegiornale». Ciò che non rivelai fu l'estrema tensione che mi procurava il pensiero della mia deposizione, fissata per il lunedì successivo. Avrei testimoniato per la difesa. Quella stessa sera avevo appreso dalla televisione che Thomas Dunne si sarebbe probabilmente candidato al Senato per la California. Dunne stava cercando di rimettere insieme i cocci della sua vita? O lui stesso era in qualche modo coinvolto nei rapimenti? A questo punto non mi sentivo di escludere più nulla, ma mi rendevo conto che il mio atteggiamento nei confronti del caso stava rasentando la paranoia. In California era successo più di quanto dicessero i verbali? Per due volte avevo chiesto l'autorizzazione a recarmi laggiù per indagare, e in entrambi i casi mi era stato opposto un rifiuto. Jezzie, che in California aveva un contatto, mi stava aiutando, ma per il momento senza risultati. Seguii il telegiornale nel soggiorno a pianterreno, con Damon e Janelle accoccolati al mio fianco. Prima, però, avevamo guardato la videocassetta di Un poliziotto alle elementari, non so se per la decima, la dodicesima o la ventesima volta. I bambini erano dell'avviso che me la sarei cavata molto meglio di Arnold Schwarzenegger. Quanto a me, pensavo che Arnold stesse diventando un attore comico proprio in gamba. O, forse, preferivo Schwarzenegger a un'ennesima visione di Lilli e il vagabondo. Nana era rimasta in cucina a giocare a pinnacolo con zia Tia. Dal divano vedevo il telefono fissato alla parete della cucina; l'avevo staccato per sfuggire alle chiamate dei giornalisti. Le telefonate che avevo ricevuto dalla stampa quella sera vertevano tutte sulla stessa domanda: sarei stato in grado di ipnotizzare Soneji/Murphy in un'aula affollata? Soneji ci avrebbe mai rivelato che fine aveva fatto Maggie Rose? Lo ritenevo uno psicopatico o un sociopatico? Ovviamente io mi ero rifiutato di rilasciare dichiarazioni. Verso l'una di notte, suonò il campanello della porta d'ingresso. Nana si era ritirata in camera sua da un pezzo, e io avevo messo a letto Damon e Janelle intorno alle nove, non senza avergli letto qualche magica storia di gnomi e folletti. Mi trasferii nella sala da pranzo buia e scostai la tenda di cinz. Era Jezzie. Puntualissima. Uscii sulla veranda per abbracciarla. «Andiamo, Alex», mi sussurrò. Aveva un progetto. Lei lo definì un «non progetto», ma trattandosi di Jez-
zie dubitavo che fosse davvero così. Quella sera la moto di Jezzie divorò letteralmente la strada. Le auto che superavamo parevano immobili, congelate nel tempo e nello spazio. Oltrepassammo case e prati immersi nell'oscurità, e tutto quanto d'altro c'era sulla Terra. In terza. Velocità di crociera. Aspettai che passasse in quarta e quindi in quinta. Il rombo della BMW era regolare e costante sotto di noi; il suo unico faro perforava la notte. Jezzie cambiò corsia spesso e con estrema disinvoltura mentre ingranava la quarta e poi passava con decisione alla quinta. Procedemmo lungo la George Washington Parkway a centonovanta chilometri all'ora, che diventarono duecentodieci sulla 95. Una volta Jezzie mi aveva detto di non avere mai inforcato la moto senza spingerla almeno a centosessanta. Le credevo. Continuammo a rotolare nel tempo e nello spazio per atterrare alla fine in una malandata stazione di servizio Mobil a Lumberton, nel North Carolina. Erano quasi le sei del mattino e certo dovevamo essere uno spettacolo quanto mai bizzarro: un nero, una bionda, una grossa moto. Anche l'inserviente della stazione sembrava su di giri. I suoi jeans grigi esibivano grosse toppe da skateboarder; sulla ventina, ostentava uno di quei tagli da porcospino più frequenti sulle spiagge della California che da questa parte del Paese. Come aveva fatto la moda ad arrivare così in fretta fino a Lumberton, nel North Carolina? Il livello di follia nell'aria era aumentato? Le idee vi galleggiavano più liberamente? «'giorno, Rory», lo salutò Jezzie con un sorriso. Andò a fermarsi tra due pompe e mi fece l'occhiolino. «Rory fa il turno undici-sette. L'unica stazione di servizio aperta in un raggio di ottanta chilometri in tutte le direzioni. Non dirlo a nessuno di cui non ti fidi al cento per cento.» Poi, a voce più bassa: «Rory vende pasticchette di tutti i tipi. Tutto il necessario per tirare mattina come Dio comanda. Diazepine, black beauties, anfetamine... basta chiedere». Parlava con una leggera cadenza strascicata che mi piaceva. Come mi piacevano i suoi capelli gonfiati dal vento. «Ecstasy, metanfetamine?» Rory scosse la testa, come a dire che era tutta matta, ma si capiva che Jezzie gli era simpatica. Si scostò dal viso un'immaginaria ciocca di capelli. «Che tipa, oh, che tipa», disse. Un giovanotto dal ricco vocabolario. Jezzie gli lanciò un altro sorriso. Grazie alla pettinatura, Rory sembrava
più alto di sei centimetri buoni. «Non preoccuparti per Alex. È okay. Solo un altro poliziotto di Washington.» «Oh, Jezzie, maledizione! Gesù! Tu e i tuoi amici poliziotti.» Rory girò sui tacchi con la rapidità di chi si è avvicinato troppo al fuoco. A fare il turno di notte in una stazione di servizio, di svitati se ne vedevano parecchi, e svitati noi due lo eravamo di sicuro. Ma... un momento: quali altri amici poliziotti? Meno di un quarto d'ora dopo eravamo alla casa sul lago di Jezzie, un piccolo cottage che dava direttamente sull'acqua, circondato da abeti e faggi. L'estate indiana era arrivata più tardi del solito e il clima era quasi perfetto. «Non mi avevi detto di appartenere all'aristocrazia terriera», commentai mentre sfrecciavamo lungo la pittoresca stradina tortuosa che portava al cottage. «E infatti non è così. È stato mio nonno a lasciare questo posto a mia madre. Era una specie di ladro, un delinquentello di mezza tacca. Ma ai suoi tempi tirò su un po' di soldi. L'unico della famiglia che ci sia riuscito. A quanto pare, il crimine paga.» «Così dicono.» Saltai giù per sgranchiimi i muscoli della schiena e delle gambe. Mi sorprese scoprire che la porta non era chiusa a chiave. Jezzie andò a dare un'occhiata nel frigorifero, che era ben fornito, mise una cassetta di Bruce Springsteen, poi tornò fuori. La seguii verso la distesa d'acqua scura e lucente. Il piccolo molo era stato costruito da poco; attraverso una stretta passerella arrivammo a una piattaforma attrezzata con sedie e un tavolo fissati a terra con bulloni. Aleggiava fino a noi la musica dell'album Nebraska. Jezzie si sfilò gli stivali e i calzettoni a righe blu, poi immerse un piede nell'acqua immobile. Aveva gambe slanciate e atletiche e anche i suoi piedi erano lunghi e ben fatti, i più bei piedi del mondo. Guardandola, mi venne da pensare alle ragazze che frequentavano le università della Florida, del South Carolina, di Miami. Non avevo ancora trovato una parte del suo corpo che non fosse piacevole a guardarsi. «Che tu mi creda o no, quest'acqua ha una temperatura di almeno venticinque gradi», annunciò con un sorriso. «Vuoi dire due virgola cinque, vero?» «Voglio dire due e cinque senza virgole in mezzo. Allora? Hai intenzione di fare il festaiolo o il guastafeste?»
«Che cosa penseranno i vicini? Non ho portato il costume da bagno.» «Era questo il progetto, no? Nessun progetto. Pensa, un intero sabato senza neppure l'ombra di un progetto. Niente processo. Niente interviste con la stampa. Niente bombe sganciate dai Dunne. Come quella che Thomas Dunne ha fatto esplodere questa settimana durante la trasmissione di Larry King. Lamentandosi delle indagini e buttando lì il mio nome ogni due secondi. Niente sequestri che fanno tremare il mondo scaricati sulle tue spalle. Noi due soli, qui in mezzo al nulla.» «Suona bene», commentai. «In mezzo al nulla.» Guardai in alto, verso il punto in cui gli abeti s'incontravano col cielo limpido. «Allora è così che chiameremo questo posto. In Mezzo al Nulla, nel North Carolina.» «Sul serio, Jezzie, e i vicini? Siamo nel Sud...» Lei sorrise. «Non c'è nessuno nel raggio di quasi due chilometri. Neppure una casa, Alex. È troppo presto per chiunque tranne che per i pescatori di pesce persico.» «Non mi va neanche d'incontrare un paio di pescatori pronti a menar le mani. Potrebbero scambiarmi per un pesce persico nero.» «I pescatori vanno tutti sulla sponda meridionale del lago. Fidati di me, Alex. Lascia che ti spogli. Starai più comodo.» «Spogliamoci a vicenda.» Mi arresi e mi abbandonai a lei e alla placidità di quel mattino. Ci svestimmo sul molo. Il sole era tiepido e la brezza del lago accarezzava la nostra pelle nuda. Saggiai l'acqua col piede; Jezzie non aveva esagerato. «Non ti ho mentito», osservò lei con un altro sorriso. «Finora non l'ho mai fatto.» Poi si gettò in acqua con un tuffo impeccabile che quasi non sollevò schizzi. La imitai gettandomi nella lieve scia di bollicine. E mentre sprofondavo sott'acqua, pensai: un nero e una bella donna bianca che nuotano insieme. In pieno Sud. Nell'anno del Signore 1993. Ci stavamo comportando da incoscienti, se non da pazzi. Era un errore? Alcuni avrebbero certamente detto di sì, o almeno lo avrebbero pensato. Ma perché? Stando insieme non facevamo male a nessuno. L'acqua, calda in superficie, si raffreddava considerevolmente a due metri di profondità. Era di un intenso verdazzurro e con tutta probabilità c'era
una sorgente. Correnti impetuose mi sferzavano il petto e i genitali. Mi colpì improvviso un pensiero: Jezzie e io ci stiamo forse innamorando? È amore quello che provo in questo momento? Tornai su. «Hai toccato il fondo? Devi toccare il fondo col primo tuffo della giornata.» «Altrimenti?» «Altrimenti sei un coniglio pauroso, e affogherai o ti perderai per sempre nei boschi prima che il giorno finisca. È vero, sai. È successo molte, molte volte qui, In Mezzo al Nulla.» Giocammo come bambini nell'acqua. Stavamo lavorando troppo tutti e due, da quasi un anno, ormai. Per risalire sul molo era stata montata una scaletta di cedro. Era nuova: il legno non era ancora scheggiato e profumava. Mi chiesi se fosse stata Jezzie a fabbricarla durante le vacanze, prima del rapimento. Ci afferrammo alla scaletta, e l'uno all'altra. In lontananza sul lago echeggiavano le grida di richiamo delle anatre. Era un suono buffo. L'acqua in cui eravamo immersi era appena increspata; minuscole onde lambivano il mento di Jezzie. «Ti amo quando sei così. Sembri talmente vulnerabile», disse. «Il tuo vero io sta cominciando ad affiorare.» «Mi sembra di aver vissuto in un mondo irreale per un tempo lunghissimo. Il sequestro. La ricerca di Soneji. Il processo.» «Per il momento la sola cosa reale è questa. D'accordo? Mi piace stare con te, così.» Mi appoggiò la testa sul petto. «Vedi come può essere semplice?» Con un gesto indicò il lago, l'anello scuro degli abeti. «Non vedi? Ogni cosa è in perfetta armonia con la natura. Andrà tutto bene, te lo prometto. Nessun pescatore di pesce persico si metterà mai tra di noi.» Aveva ragione. Per la prima volta dopo molto tempo, avevo la sensazione che alla fine tutto si sarebbe risolto, tutto ciò che poteva succedere, da quel momento in avanti. La vita non era mai stata tanto lenta e semplice e bella. Avremmo voluto che quel weekend non finisse mai. 61 «Sono un detective della squadra omicidi della polizia di Washington col grado di capodivisione. Mi occupo principalmente di reati in cui l'elemento psicologico riveste un ruolo significativo.» Avevo fatto la mia dichiarazione, preceduta dalla consueta formula del giuramento, in un'aula affollata, silenziosa e crepitante di tensione. Era lu-
nedì mattina e il weekend mi sembrava lontano mille anni. Gocce di sudore m'imperlavano il cuoio capelluto. «Può spiegarci per quale motivo le vengono affidati i casi con implicazioni di natura psicologica?» domandò Anthony Nathan. «Sono psicologo; prima di entrare nella polizia cittadina svolgevo la libera professione. Prima ancora ho lavorato nel settore agricolo. Per un anno ho fatto il bracciante stagionale.» «E si è laureato...» Nathan era ben deciso a descrivermi come un personaggio di grande autorevolezza. «Come lei già sa, avvocato Nathan, ho conseguito il dottorato presso la Johns Hopkins.» «Una delle facoltà di medicina più quotate del Paese, certamente di questa parte del Paese.» «Obiezione. Le opinioni personali dell'avvocato Nathan non hanno alcuna attinenza col nostro caso.» Mary Warner aveva i riflessi pronti. L'obiezione venne accolta. «Inoltre», continuò Nathan, con l'aria di considerare assolutamente futile la presa di posizione del pubblico ministero e del giudice, «ha pubblicato alcuni articoli su Psychiatric Archives e sull'American Journal of Psychiatry.» «Poca roba. Davvero nulla di speciale, avvocato Nathan. Moltissimi miei colleghi collaborano a riviste.» «Ma non al Journal e ad Archives, dottor Cross. Di che cosa trattavano i suoi saggi?» «Dei processi della mente criminale. Conosco abbastanza polisillabi per venire preso in considerazione dalle cosiddette 'pubblicazioni specialistiche'.» «Apprezzo la sua modestia, dottor Cross, la apprezzo davvero. Ora mi dica una cosa. In queste ultime settimane lei ha avuto modo di osservarmi con comodo. Come definirebbe la mia personalità?» «Avrei bisogno di qualche incontro a quattr'occhi. E non so se lei sarebbe disposto a pagare per ascoltare il mio giudizio.» Scoppiò una risata generale. Perfino il giudice Kaplan si concesse un momento di ilarità. «Azzardi una valutazione», mi esortò Nathan. «Sono in grado di reggere il colpo.» Aveva una mente pronta e piena di risorse, Anthony Nathan. Non aveva trascurato nulla per dipingermi come un esperto affidabile, non uno dei
tanti periti di parte che poteva manovrare come burattini. «Lei è un nevrotico.» Sorrisi. «E probabilmente ha una mente tortuosa.» Nathan si girò verso la giuria e alzò le mani coi palmi rivolti verso l'alto. «Perlomeno è onesto. E, se non altro, stamattina mi sono fatto una seduta con uno strizzacervelli senza sborsare un soldo.» Altre risate. Ebbi l'impressione che alcuni giurati stessero cominciando a modificare la loro opinione su Nathan... e forse anche sul suo cliente. Di primo acchito lo avevano giudicato profondamente sgradevole, ma ora si accorgevano che era affascinante e molto, molto brillante. E conduceva la sua difesa con grande abilità, se non addirittura con genialità. «Quanti colloqui ha avuto con Gary Murphy?» mi chiese. Murphy, non Soneji. «Quindici, distribuiti nell'arco di tre mesi e mezzo.» «Sufficienti per una valutazione, immagino.» «La psichiatria non è una scienza esatta. Avrei voluto effettuare altre sedute. Mi sono fatto un'opinione, ma è tutta da verificare.» «E sarebbe?» «Obiezione!» Mary Warner era di nuovo in piedi. «Il detective Cross ha appena detto che per una valutazione definitiva avrebbe avuto bisogno di ulteriori approfondimenti.» «Obiezione respinta», decretò il giudice Kaplan. «Il detective Cross ha anche dichiarato di essere comunque arrivato a un'opinione, seppure suscettibile di revisione. E io vorrei conoscerla.» «Il dottor Cross», riprese Nathan, come se l'interruzione non avesse mai avuto luogo, «a differenza degli altri terapeuti che hanno incontrato Gary Murphy, è stato intimamente coinvolto in questo caso fin dall'inizio, in qualità di funzionario di polizia e di psicologo.» Ancora una volta il pubblico ministero lo interruppe. Stava cominciando a perdere la pazienza. «Vostro Onore, l'avvocato Nathan ha una domanda da fare oppure no?» «Ce l'ha, avvocato?» Facendo schioccare le dita, Nathan si voltò verso la Warner. «Se ho una domanda da fare? Ma certo.» Tornò a rivolgersi a me. «Nella sua doppia veste di funzionario di polizia che ha seguito il caso fin dalle prime battute e di psicologo, può darci il suo giudizio professionale su Gary Murphy?» Guardai l'imputato. In quel momento era certamente Gary Murphy, un uomo buono e gentile precipitato nell'incubo più atroce che si potesse immaginare.
«Le mie prime impressioni sono state semplici e dettate soprattutto dall'emotività. Il fatto che l'autore del sequestro fosse un insegnante mi aveva turbato moltissimo», cominciai. «Lo vivevo come una grave lacerazione nel tessuto sociale. In più, ho visto coi miei occhi il corpo torturato di Michael Goldberg; uno spettacolo che non dimenticherò mai. Ho parlato coi signori Dunne della loro figlioletta e ormai ho quasi l'impressione di conoscerla personalmente. E ho visto le persone assassinate nelle case dei Turner e dei Sanders.» «Obiezione!» tuonò ancora una volta Mary Warner. Il giudice Kaplan mi rivolse uno sguardo gelido. «Lei dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro. Che queste ultime dichiarazioni non vengano messe a verbale. La giuria non ne tenga conto. Nulla prova che l'imputato sia in qualche modo coinvolto nei fatti criminosi da lei menzionati.» Mi rivolsi a Nathan. «Mi ha chiesto una risposta onesta. Voleva sapere qual è la mia opinione. E io le sto rispondendo.» Annuendo, l'avvocato si accostò al banco dei giurati e da lì si voltò a guardarmi. «Abbastanza giusto, sì, abbastanza giusto. Sono certo che possiamo contare su un comportamento assolutamente onesto da parte sua, dottor Cross. Che questa onestà sia o no di mio gradimento. Che sia o no di gradimento di Gary Murphy. Lei è un uomo di grande onestà e non sarò io a interrompere le sue oneste dichiarazioni, se non lo fa il pubblico ministero. Continui pure.» «Volevo catturare il sequestratore, lo volevo con tutte le mie forze. E la pensavano così anche tutti gli altri componenti della squadra antisequestri. In un certo senso era diventato un fatto personale.» «Dunque lei odiava il sequestratore. Voleva che fosse punito nel modo più severo, chiunque fosse?» «Lo volevo. E lo voglio ancora.» «Lei era presente, quando Gary Murphy fu arrestato. E dopo l'imputazione formale, s'incontrò spesso con lui. Che cosa pensa ora di Gary Murphy?» «In tutta franchezza non so che cosa pensare.» Anthony Nathan non era uomo da lasciarsi sfuggire un'occasione. «Dunque nella sua mente c'è un ragionevole dubbio?» Mary Warner sembrava inchiodata all'antico pavimento dell'aula. «Obiezione. La difesa sta cercando di condizionare il teste.» «La giuria non terrà conto dell'ultima domanda», disse il giudice Kaplan. «Ci dica che cosa prova attualmente per Gary Murphy. Ci dia la sua opi-
nione professionale, dottor Cross», riprese Nathan. «Al momento mi è impossibile sapere se è Gary Murphy o Gary Soneji. Non sono sicuro che in quest'uomo coesistano due personalità diverse. Credo che ci sia la possibilità di una scissione della personalità.» «E se così fosse?» «Se così fosse, Gary Murphy ignorerebbe del tutto o quasi le azioni di Gary Soneji. Ma potrebbe anche essere vera l'altra ipotesi; Murphy potrebbe essere un sociopatico particolarmente abile che sta ingannando tutti. Lei compreso.» «Molto bene. Accetto le limitazioni che ci ha indicato.» Nathan teneva una mano sollevata davanti al petto, come se stringesse una pallina tra le dita. Era ovvio che stava cercando il modo di indurmi a essere più preciso. «Proprio questo dubbio, questa incertezza, sembra essere il perno intorno cui ruota l'intera questione, non crede?» osservò poi. «Di conseguenza, vorrei che lei aiutasse la giuria a prendere l'importante decisione cui è chiamata. Dottor Cross, voglio che lei ipnotizzi Gary Murphy! Qui, in quest'aula. Che i giurati traggano da soli le loro conclusioni. Nutro la massima fiducia in questa giuria e nel fatto che, davanti a prove inoppugnabili, saprà arrivare al giusto verdetto. E d'accordo, dottor Cross?» 62 Il mattino seguente furono portate in aula due semplici poltrone di pelle rossa. Per favorire il rilassamento del soggetto, furono abbassate le luci. A me e a Gary venne fornito un microfono. Queste furono le sole modifiche autorizzate dal giudice Kaplan. L'unica alternativa sarebbe stata una videocassetta registrata, ma Gary si era detto disposto a tentare l'esperimento in aula. Voleva provarci. Il suo avvocato voleva che ci provasse. Da parte mia, avevo deciso di comportarmi come se Soneji/ Murphy e io fossimo ancora nella sua cella. Era importante riuscire a escludere almeno alcune delle sollecitazioni esterne che si sarebbero inevitabilmente presentate. Ignoravo se la seduta avrebbe avuto successo, come ignoravo che cosa sarebbe accaduto; avevo una stretta allo stomaco mentre prendevo posto sulla poltrona. Mi sforzavo di non guardare verso il pubblico: stare sul palcoscenico non mi piaceva, e quel giorno meno che mai. In passato, con Gary avevo utilizzato semplici tecniche di suggestione verbale, e a quelle mi attenni. A differenza di quanto si crede di solito,
l'ipnosi non è affatto una procedura complicata. «Gary», esordii, «voglio che si appoggi allo schienale e cerchi di rilassarsi, senza preoccuparsi di nulla.» «Farò il possibile», rispose, e sembrava assolutamente sincero. Quel giorno portava un vestito blu, camicia candida e cravatta a righe. Assomigliava a un avvocato molto più del suo stesso avvocato. «La ipnotizzerò nuovamente perché il suo legale è dell'avviso che questo potrebbe aiutarla. Lei mi ha detto di voler collaborare. È giusto?» «Sì, sì. Voglio dire la verità. Voglio conoscere la verità.» «Molto bene. Ora vorrei che contasse da cento a uno. Lo ha già fatto, ricorda? A ogni numero si sentirà più rilassato. Cominci pure.» Gary Murphy iniziò a contare. «I suoi occhi si stanno chiudendo. Lei ora si sente molto più rilassato... quasi sul punto di addormentarsi... e sta respirando profondamente.» La mia voce si andava facendo via via sempre più monotona, quasi monocorde. Nell'aula il silenzio era pressoché totale, rotto soltanto dal ronzio del condizionatore. Infine Gary smise di contare. «Si sente bene? Tranquillo?» domandai. I suoi occhi erano vitrei e umidi. Sembrava essere caduto in trance, ma chi poteva dirlo con certezza? «Sì, sto bene. Mi sento bene.» «Se per qualunque motivo desiderasse mettere fine alla seduta, sa come fare.» «Sì. Ma sto bene.» Pareva ascoltarmi solo a metà e, considerate le pressioni cui era sottoposto, mi sembrava improbabile che la sua fosse soltanto una finzione. «Durante una delle precedenti sedute, abbiamo parlato del momento in cui riprese conoscenza da McDonald's. Mi disse che era stato come destarsi da un sogno. Lo ricorda?» «Certo. Certo che ricordo. Mi svegliai a bordo dell'autopattuglia fuori del McDonald's. Tornai in me, e c'era la polizia. Mi stavano arrestando.» «Che cosa provò in quel momento?» «Pensai che era impossibile, che non poteva essere vero. Pensai che doveva trattarsi di un incubo. Spiegai che ero un rappresentante e che vivevo nel Delaware. L'unica spiegazione accettabile era che mi avessero preso per un altro. Non sono un criminale. Non ho mai avuto problemi con la
giustizia.» «Abbiamo parlato anche di ciò che accadde prima del suo arresto. Quel giorno. Quando entrò nel locale.» «Non... non sono sicuro di riuscire a ricordare. Mi lasci pensare...» Gary sembrava a disagio. Era una messinscena? O a metterlo a disagio erano i ricordi che cominciavano a ridestarsi nella sua mente? Ero rimasto stupefatto quando in carcere si era trasformato in Soneji e dubitavo che in una situazione così poco favorevole il fenomeno si sarebbe ripetuto. «Si era fermato da McDonald's per andare in bagno. Voleva anche bere un caffè, per tenersi sveglio e non addormentarsi al volante.» «Rammento... rammento qualcosa, molto poco. Mi vedo all'interno del McDonald's...» «Non abbia fretta. Abbiamo tutto il tempo, Gary.» «C'era molta gente. Il McDonald's era affollato. Mi ero diretto verso il bagno. Ma per qualche ragione non sono entrato. Non so perché. È strano, ma non riesco a ricordare.» «Che cosa provava in quel momento? Mentre stava fuori del bagno? Lo rammenta?» «Ero agitato. Sempre di più. Sentivo il sangue che mi pulsava nella testa. Ero sconvolto e non sapevo perché.» Soneji/Murphy non guardava me, bensì un punto alla mia sinistra. Mi stupì constatare quanto fosse facile dimenticare il pubblico che ci ascoltava affascinato. «C'era Soneji nel McDonald's?» lo incalzai. Lui piegò lievemente la testa da un lato, in un gesto stranamente commovente. «C'è Soneji, sì. Sì, c'è lui al McDonald's.» Si stava eccitando. «Finge di bere il caffè, ma è arrabbiato. Lui è... credo che sia proprio furioso. Soneji è un pazzo, un brutto tipo.» «Perché è furioso? Lo sa? Che cosa ha fatto arrabbiare Soneji?» «Tutto gli sta rovinando addosso. La polizia è stata incredibilmente fortunata. Il suo piano per diventare famoso è andato a farsi fottere. Completamente. Ora si sente come Bruno Richard Hauptmann. Solo un altro perdente, uno dei tanti.» La bomba era esplosa. Prima d'allora non aveva fatto alcun riferimento esplicito al rapimento. Ormai completamente dimentico di tutto il resto, tenevo gli occhi fissi su Gary Soneji/Murphy.
Mi sforzai di parlare in tono rassicurante, privo di connotazioni minacciose. Con calma. Era come camminare sull'orlo di un precipizio. O riuscivo ad aiutarlo, o saremmo precipitati entrambi. «Che cosa è andato storto nel piano di Soneji?» «Tutto», mi rispose, ed era ancora Gary Murphy, lo vedevo con chiarezza. Non si era tramutato in Soneji. Ma Gary Murphy sapeva ciò che aveva fatto Gary Soneji: sotto ipnosi, Gary Murphy conosceva i pensieri di Soneji. L'aula era silenziosa. Era tutto immobile. Gary fornì altri particolari. «Era andato a vedere come stava il piccolo Goldberg, e l'aveva trovato morto. Aveva la faccia blu. Dovevano essere stati i barbiturici... certo gliene aveva dati troppi... Soneji non riusciva a credere di aver potuto commettere un errore simile. Non lui. Era stato così preciso e attento. Si era preoccupato di parlare anche con degli anestesisti.» Era il momento di fare una delle domande chiave. «Perché il ragazzo era coperto di lividi e di ferite? Che cosa gli successe, esattamente?» «Soneji perse la testa. Non riusciva a credere a tanta sfortuna. Lo colpì parecchie volte con un badile.» Fino a quel momento era tutto estremamente credibile. Forse si trattava davvero di un caso di scissione della personalità. E se così era, il processo, e con tutta probabilità anche il verdetto, ne sarebbe stato stravolto. «Quale badile?» Stava parlando sempre più in fretta. «Quello che aveva usato per scavare. Li aveva sepolti nel granaio. Con una scorta d'aria sufficiente per un paio di giorni. Una specie di rifugio antiatomico, capisce. Il sistema di ventilazione funzionava perfettamente; come tutto il resto. L'aveva progettato Soneji. E l'aveva installato con le sue stesse mani.» Mi batteva il cuore e avevo la gola secca. «E la bambina? Che ne era di Maggie Rose?» «Stava bene. Soneji le diede un'altra dose di Valium e la rimise a dormire. Lei era terrorizzata, urlava... Perché laggiù era buio. Buio pesto. Ma non era poi così male. Soneji aveva visto di peggio. Lo scantinato.» Dovevo procedere con estrema cautela; non potevo rischiare di lasciarmelo sfuggire. Per il momento avrei accantonato la questione dello scantinato. «Dov'è ora Maggie Rose?» chiesi a Gary Murphy. La risposta fu immediata, priva di esitazioni: «Non lo so».
Non: è morta. Non: è viva. Semplicemente: non lo so... Perché rifiutava di darmi quell'informazione? Perché sapeva quanto fosse importante? Perché tutti in quell'aula volevano conoscere il destino riservato a Maggie Rose? «Soneji tornò a prenderla», seguitò lui. «L'FBI aveva autorizzato il pagamento dei dieci milioni di riscatto. Era tutto pronto. Ma lei era scomparsa! Maggie Rose non c'era più quando Soneji andò a prenderla. Era scomparsa! Qualcuno l'aveva portata via!» Ora l'aula non era più silenziosa. Ma io continuai a concentrarmi su Gary. Il giudice Kaplan era riluttante a ricorrere al martelletto per riportare l'ordine. Si alzò e fece un gesto per imporre il silenzio, ma con scarsi risultati. Qualcun altro aveva portato via la bambina. Ora qualcun altro la teneva prigioniera. Riuscii a porre qualche altra domanda prima che l'eccitazione del pubblico esplodesse, contagiando forse anche il soggetto. La mia voce rimase calma, pacata. «È stato lei a portarla via, Gary? Lei ha salvatola bambina portandola via a Soneji? Lei sa dov'è adesso Maggie Rose?» Evidentemente non gli piaceva essere incalzato in quel modo, perché aveva preso a sudare abbondantemente. Le sue palpebre tremolavano. «Certo che no. No, io in questa faccenda non c'entravo nulla. È sempre stato Soneji. Io non posso controllarlo. Nessuno può. Perché non lo capisce?» Mi protesi verso di lui. «Soneji è qui ora? È qui con noi?» In nessun'altra circostanza mi sarei spinto tanto oltre. «Posso chiedere a Soneji che cos'è successo a Maggie Rose?» Gary Murphy scosse ripetutamente la testa da un lato all'altro. «È troppo spaventoso adesso», bisbigliò; aveva il viso e i capelli madidi di sudore. «Troppo spaventoso. Soneji è un brutto tipo! Non posso dire altro su di lui. Non voglio. La prego, mi aiuti, dottor Cross. Mi aiuti!» «D'accordo, Gary, basta così.» Mi affrettai a farlo uscire dalla trance. Era l'unica cosa da fare, date le circostanze. Non avevo scelta. Poi Gary Murphy fu di nuovo nell'aula con me. Mi guardava, ma nei suoi occhi non lessi altro che paura. Il pubblico rumoreggiava, ormai senza controllo. Cronisti e reporter si accalcavano verso l'uscita per telefonare alle rispettive redazioni. Il giudice Kaplan picchiava senza sosta col martelletto.
Qualcun altro aveva preso Maggie Rose Dunne... Possibile? «Va tutto bene, Gary», sospirai. «Capisco perfettamente la sua paura.» Mi fissò, poi gradualmente parve accorgersi del tumulto che regnava intorno a noi. «Che cos'è successo?» chiese allora. «Che cos'è successo qui dentro?» 63 Ricordavo ancora qualcosa di Kafka; in particolare il raggelante inizio del Processo: «Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K., perché, sebbene non avesse fatto alcunché di male, una mattina lo arrestarono». Era questo che Gary Murphy voleva portarci a credere: era vittima di un incubo. Era innocente, non meno di Joseph K. Mi scattarono almeno una dozzina di foto mentre lasciavo l'aula. E tutti avevano qualcosa da chiedermi. Io rifiutai di rilasciare dichiarazioni. Non mi lascio mai sfuggire un'occasione per tenere la bocca chiusa. Maggie Rose era ancora viva? voleva sapere la stampa. Non dissi quello che pensavo, ossia che con tutta probabilità non lo era. Fuori del tribunale, vidi Katherine e Thomas Dunne che mi venivano incontro, circondati da telecamere e giornalisti. Ero dispostissimo a parlare con Katherine, ma non con Thomas. «Perché lo sta aiutando?» gridò quasi lui. «Non lo sa che quell'uomo mente? Che cosa c'è che non va in lei, Cross?» Era tesissimo e rosso in faccia. Fuori di sé. Sulla sua fronte, le vene sporgenti sembravano sul punto di scoppiare. Katherine Rose aveva un'espressione di totale abbattimento. «Sono stato citato come teste della difesa», replicai. «Sto facendo il mio lavoro, tutto qui.» «Be', lo sta facendo male.» Dunne non si lasciava smontare tanto facilmente. «Si è fatto sfuggire nostra figlia in Florida. E ora sta cercando di far tornare in libertà il suo rapitore.» Ne avevo abbastanza di lui. Mi aveva attaccato personalmente in televisione e sui giornali e, per quanto desiderassi con tutto me stesso la salvezza di sua figlia, non ero disposto a sopportare ulteriormente le sue angherie. «Un accidente!» sbraitai, mentre le telecamere ci ronzavano intorno. «Ho le mani legate, lo capisce o no? Prima mi hanno tolto il caso, così, per capriccio, poi me l'hanno riaffidato. E sono stato l'unico a ottenere dei ri-
sultati.» Li piantai lì e affrontai a tutta velocità la scalinata. Comprendevo la loro angoscia, ma erano mesi che Thomas Dunne non faceva che tormentarmi. Ne aveva fatto una questione personale tra lui e me, e aveva torto. Sembrava che nessuno si rendesse conto di una cosa semplicissima: io ero l'unico a cercare ancora la verità sul conto di Maggie Rose. L'unico. In fondo alle scale venni raggiunto da Katherine, Mi era corsa dietro e ovviamente i fotografi avevano fatto altrettanto. Erano dappertutto, e scattavano come impazziti. «Mi dispiace», sussurrò senza lasciarmi il tempo di parlare. «La perdita di Maggie sta distruggendo Tom. Sta distruggendo il nostro matrimonio. So che lei ha fatto tutto il possibile. E so quello che ha dovuto sopportare. Mi dispiace, Alex. Mi dispiace per tutto quanto.» Fu un momento molto, molto strano. Infine tesi la mano a prendere quella di lei, la ringraziai e le assicurai che avrei continuato le ricerche. E intanto i fotografi continuavano a scattare. Poi mi allontanai in fretta, e non rivelai una sola parola di quello che Katherine e io ci eravamo detti. Il silenzio era la miglior vendetta contro quegli sciacalli. Tornai a casa. Ero ancora alla ricerca di Maggie Rose, ma ora la cercavo nella mente di Soneji/Murphy. Possibile che qualcun altro l'avesse allontanata dal luogo del rapimento? Perché Gary Murphy aveva voluto fornirci quell'informazione? Mentre mi dirigevo verso la zona sud-est, riesaminai mentalmente tutto ciò che aveva detto sotto ipnosi. Gary Soneji ci aveva fregato tutti quanti, quel giorno? Era un'ipotesi inquietante, ed estremamente reale. Ci aveva ancora coinvolto in uno dei suoi spaventevoli piani? Il mattino seguente tentai d'ipnotizzare nuovamente l'imputato. L'incredibile dottor/detective Cross ancora una volta sotto i riflettori! O almeno così scrissero i giornali. Quella volta fallimmo. Gary Murphy era troppo spaventato, fu la spiegazione del suo difensore. E l'aula era troppo rumorosa. Il giudice Kaplan la fece sgomberare, ma neppure ciò servì. Quello stesso giorno venni controinterrogato dal pubblico ministero ma, a differenza di Nathan, Mary Warner era più interessata a trascinarmi giù dal banco dei testimoni che ad avvalorare le mie credenziali. Ormai la mia parte nel processo poteva dirsi conclusa. E io ne ero più che sollevato. Né Sampson né io andammo in tribunale per il resto della settimana, che fu dedicata a ulteriori testimonianze di esperti. Tornammo al lavoro. Ci occupammo di nuovi casi. Cercammo anche di risolvere alcuni aspetti po-
co chiari relativi al giorno del rapimento. Chiusi in una sala riunioni stracolma di pratiche, rianalizzammo ogni particolare punto per punto. Se Maggie Rose era stata prelevata dal luogo in cui era tenuta prigioniera, non si poteva escludere che fosse ancora viva. Era una possibilità remota, ma era pur sempre una possibilità. Ancora una volta Sampson e io tornammo alla Washington Day School per parlare con alcuni insegnanti. Non si mostrarono esattamente felici di vederci. Ma a noi stava a cuore verificare la teoria del complice; dopotutto, non era affatto impossibile che Gary Soneji avesse potuto contare fin dall'inizio sull'aiuto di qualcun altro. Forse Simon Conklin, il suo amico di Princeton? Oppure chi? Ma alla scuola nessuno fu in grado di fornirci elementi utili. Lasciammo l'istituto a mezzogiorno e ci fermammo a mangiare a Georgetown. Poi decidemmo di spingerci fino a Potomac, nel Maryland, dove passammo il pomeriggio a perlustrare Sorrell Avenue e le vie circostanti. Visitammo un paio di dozzine di abitazioni, dove l'accoglienza non fu migliore che alla scuola. Non che questo c'impedisse di continuare per la nostra strada. Nessuno aveva notato persone o auto sospette. Né prima né dopo il rapimento. Nessuno ricordava un furgone diverso da quelli che circolavano abitualmente nella zona. Neppure del tipo più comune, quelli addetti alle consegne per conto di fioristi, artigiani, negozi di alimentari. Più tardi, da solo, puntai verso Crisfield, nel Maryland, dove Maggie Rose e Michael Goldberg erano stati tenuti prigionieri i primi giorni. In una cripta? In una cantina? Sotto ipnosi Gary Soneji/Murphy aveva menzionato lo scantinato. Da bambino era stato spesso rinchiuso in una cantina buia. E per lunghi periodi della sua vita era stato solo e senza amici. Ci tenevo a esaminare la fattoria da solo, con calma. C'erano troppi indizi sconnessi in questo caso, e m'infastidivano enormemente. Erano come razzi che mi saettavano dentro la testa. Mentre mi aggiravo per la proprietà desolata, vagamente irreale, lasciai che i miei pensieri vagassero liberamente. Ma finivano sempre per tornare al Figlio di Lindbergh e al fatto che il piccolo Lindbergh era stato prelevato da una «fattoria». Il presunto complice di Soneji. Ecco uno dei tanti problemi irrisolti. Soneji era stato «individuato» anche nei pressi dell'abitazione dei Sanders, se bisognava credere a Nina Cerisier. Un'altra circostanza tutta da chiarire.
Ci trovavamo davvero davanti a un caso di doppia personalità? Da sempre la comunità psichiatrica era divisa in merito all'esistenza di simili turbe. I casi effettivi di personalità multipla sono rari. Si trattava solo di una delle macchinose costruzioni di Gary Murphy? Stava interpretando deliberatamente i due ruoli? Che ne era di Maggie Rose? Gira e rigira, quello restava l'interrogativo chiave. Che ne era di Maggie Rose? Sul malconcio cruscotto della Porsche conservavo una delle candele distribuite dai manifestanti davanti al tribunale di Washington. La accesi. Per tutto il tragitto di ritorno la sua fiammella mi fece compagnia nell'oscurità che si andava addensando. Ricordate Maggie Rose. 64 Quella sera avevo appuntamento con Jezzie e per tutta la giornata avevo aspettato con ansia il momento di rivederla. C'incontrammo in un motel Embassy Suite, ad Arlington. La città brulicava di giornalisti e noi sapevamo di dover stare particolarmente attenti. Jezzie arrivò dopo di me, affascinante e terribilmente sexy nel suo tubino nero scollato. Portava calze nere con la cucitura e scarpe a tacco alto. Si era dipinta le labbra di un rosso scarlatto e tra i capelli aveva un pettinino d'argento. Non tremare, cuor mio. «Avevo una colazione importante», disse a mo' di spiegazione, mentre si sfilava le scarpe. «Che te ne pare? Ho diritto oppure no a un posto fra la gente che conta?» «Be', una cosa è certa: aumenti decisamente la media delle mie frequentazioni con la gente che conta», replicai. «Arrivo tra un minuto, Alex. Un minuto solo.» Sparì in bagno. Quando ne uscì, io ero già a letto. La tensione che m'irrigidiva il corpo si stava pian piano scaricando nel materasso. La vita era di nuovo bella. «Facciamo un bagno, vuoi?» propose lei. «Per toglierci di dosso la polvere della strada.» «Di polvere non ce n'è. Ci sono soltanto io.» Ma mi alzai e passai in bagno. La vasca era quadrata e insolitamente ampia; una distesa di lucide piastrelle bianche e azzurre, rialzata di almeno una trentina di centimetri rispetto al pavimento. Gli indumenti di Jezzie erano sparpagliati per terra. «Hai fretta?» le chiesi.
«Proprio così.» Aveva riempito la vasca fino all'orlo; qualche bolla di bagnoschiuma veleggiava spensierata verso il soffitto. Dall'acqua si levava una nube densa di vapore e l'aria aveva il profumo di un giardino di campagna. Jezzie agitò l'acqua con la punta delle dita. Poi mi si avvicinò. Tra i suoi capelli riluceva ancora il pettinino d'argento. «Sono un po' tesa», disse. «Lo immaginavo. Di queste cose me ne intendo.» «Credo che sia l'occasione giusta per un po' di relax.» Ero assolutamente d'accordo con lei. Le mani di Jezzie si affaccendavano intorno alla cerniera dei miei pantaloni. Le nostre bocche s'incontrarono; con leggerezza prima, poi con forza. Di colpo Jezzie mi attirò dentro di sé, lì, in piedi accanto alla vasca da bagno. Uno, due, tre affondi, quindi si staccò. Aveva il viso, il collo e il seno arrossati. Per un momento temetti che si sentisse male. La subitaneità con cui mi aveva accolto nel suo corpo per poi respingermi mi aveva sorpreso. Mi aveva scioccato e riempito di piacere al tempo stesso. Era davvero tesa. Violenta, quasi. «Che ti succede?» «Sto per avere un attacco di cuore», bisbigliò lei. «Ti conviene inventare una storia attendibile da raccontare alla polizia, Alex. Accidenti.» Mi prese per mano e mi tirò nella vasca. L'acqua era calda al punto giusto. E così tutto il resto. Ridemmo. Io avevo ancora addosso i boxer, ma il vecchio Pete aveva messo fuori la testa! Me li sfilai. Nella vasca, ci dimenammo fino a trovarci l'uno di fronte all'altra. Jezzie riuscì a montarmi sopra. Si appoggiò all'indietro, sostenendosi con le braccia, e intanto mi scrutava con una sorta di strana intensità. Il rossore del collo e del seno si era ulteriormente accentuato. Fulminee, le sue gambe slanciate emersero dall'acqua e mi serrarono il collo. Ebbe il tempo di spingere il bacino verso di me solo un paio di volte prima che esplodessimo entrambi. Il suo corpo era teso fino allo spasimo. Ci muovemmo e gememmo a lungo. L'acqua traboccava. In qualche modo Jezzie riuscì a circondarmi con le braccia... braccia e gambe. Io ormai avevo il naso a pelo dell'acqua. Poi sprofondai sotto. Jezzie mi cavalcava. Un fremito violento mi percorse in tutto il corpo. Stavamo venendo insieme. E io stavo anche per annegare. Sentii Jezzie che gridava, un grido che mi giunse bizzarramente
deformato attraverso l'acqua. Venni proprio nel momento in cui la mia riserva d'aria si stava esaurendo. Ingoiai acqua e tossii. Jezzie giunse in mio soccorso. Mi tirò su, mi prese il viso tra le mani. Restammo abbracciati per un po'. Esausti. C'era più acqua sul pavimento che nella vasca. Ormai sapevo che mi stavo innamorando di lei. Di questo, e di questo soltanto ero certo. Nella mia vita, tutto il resto era caos e mistero, ma almeno avevo trovato un punto fermo. Ed era Jezzie. Era circa l'una quando mi alzai per tornare a casa. Volevo che i ragazzi mi trovassero lì al loro risveglio. Jezzie si mostrò comprensiva. Da quando era iniziato il processo, capirci era diventato molto più facile. Lei voleva conoscere Damon e Janelle; entrambi pensavamo che fosse la cosa giusta. «Mi manchi già», mormorò mentre io mi rivestivo. «Maledizione, non andartene... Sì, lo so che devi andare.» Si tolse il pettinino d'argento e me lo mise in mano. Uscii nella notte con la sua voce che ancora mi rimbombava nella testa. Il parcheggio era immerso in una fitta oscurità. I due uomini mi comparvero di fronte all'improvviso, come spuntati dal nulla. Automaticamente misi mano alla fondina, ma uno di loro accese una luce abbagliante e l'altro mi puntò contro una macchina fotografica. Gli sciacalli ci avevano scoperto. Merda! Il rapimento era un caso così sensazionale che tutto quanto lo riguardava anche solo da lontano faceva notizia. Era stato così fin dall'inizio. Ai due uomini si accodò una ragazza. Aveva lunghi capelli neri e crespi e sembrava appartenere a una troupe cinematografica di New York o Los Angeles. «Detective Alex Cross?» chiese uno dei due, mentre il suo collega scattava in rapida successione. I lampi del flash laceravano l'oscurità del parcheggio. «Siamo del National Star. Vogliamo parlare con lei, detective Cross.» «Si può sapere che cosa c'entra questo col caso?» lo apostrofai, mentre infilavo il pettinino di Jezzie nel taschino della giacca. «È una faccenda privata. Nulla che possa fare notizia.» «Lasci che questo lo decidiamo noi. È il nostro lavoro. Non so, amico, un nuovo canale di comunicazione fra la polizia di Washington e i servizi segreti. Consultazioni private e chissà che altro.» La ragazza stava già bussando alla porta del bungalow. «Sono del Na-
tional Star», annunciò con voce non meno sonora dei suoi colpi. «Non aprire», gridai a Jezzie. La porta si spalancò. Vestita di tutto punto, Jezzie comparve sulla soglia: fissava la donna dai capelli crespi senza curarsi di nascondere il proprio disprezzo. «Dev'essere un grande momento per voi», disse. «Probabilmente non arriverete mai più vicini di così al Pulitzer.» «No», ribatté pronta la giornalista. «Conosco Roxanne Pulitzer. E ora conosco anche voi due.» 65 Mi misi al piano e suonai un medley di Keith Swat, Bell Biv Devoe, Hammer e Public Enemy. Damon e Janelle mi fecero da pubblico sulla veranda fin verso le otto del mattino. Era il mercoledì della settimana che ci aveva riservato la piccola sensazionale sorpresa di Arlington. Nana era in cucina, intenta a leggere la copia del National Star che avevo acquistato per lei. Aspettavo che mi chiamasse. Non sentendola, mi decisi ad abbandonare il piano ed entrai, pronto ad affrontare tutt'altro genere di musica. Dissi a Damon e a Janelle di starsene lì buoni buoni. «Non muovetevi.» Come tutte le mattine, Nana stava bevendo il tè. Nel suo piatto c'erano gli avanzi dell'uovo in camicia e del toast. Il giornale era sul tavolo, piegato alla bell'e meglio. Letto? Non letto? Impossibile stabilirlo. Fui costretto a chiederglielo. «Hai letto l'articolo?» «Quanto basta per coglierne il succo. E ho visto la tua foto in prima pagina. Credo che sia così che si leggono i giornali di questo tipo. Mi meravigliavo sempre quando vedevo qualcuno comprare roba del genere, la domenica mattina dopo la messa.» Sedetti di fronte a lei e immediatamente m'investì un'ondata di ricordi. Quanti discorsi avevamo fatto, durante i pasti consumati insieme. Nana prese un pezzettino di toast e lo intinse nella marmellata. Se gli uccelli mangiassero come gli esseri umani, mangerebbero certamente come lei. Guardarla è un piacere. «Lei è una bella donna bianca e sono sicura che è anche molto interessante. Tu sei un bell'uomo di colore e a volte il tuo cervello funziona in modo egregio. A un sacco di gente questa storia non piacerà. Te ne rendi conto, vero?»
«E a te, Nana? A te piace?» Lei emise un piccolo sospiro. Posò la tazza sul piattino, facendola tintinnare. «Voglio dirti una cosa, Alex. Non conosco i termini clinici, ma è un fatto che tu non hai mai superato del tutto la perdita di tua madre. Saltava agli occhi quando eri un bambino e a volte è ancora evidente.» «Si chiama sindrome post-traumatica», dissi. «Se t'interessa la definizione esatta.» Quel mio tentativo di rifugiarmi dietro il gergo professionale le strappò un sorriso. Me l'aveva già visto fare in passato. «Non mi permetterei mai di emettere dei giudizi su quello che ti è successo, ma ti ha condizionato fin dal tuo arrivo a Washington. Ricordo di aver notato che non sempre sapevi come comportarti in mezzo alla gente. Non avevi la disinvoltura di altri bambini, almeno. Facevi sport e rubacchiavi col tuo amico Sampson e avevi l'aria perennemente strafottente. Ma leggevi, ed eri moderatamente sensibile. Mi segui? Insomma, forse di fuori eri un duro, ma certo non lo eri dentro.» Non accettavo sempre come oro colato le conclusioni di Nana, ma non per questo potevo negare che di solito colpivano nel segno. Da ragazzo avevo fatto fatica ad ambientarmi nella zona sud-est di Washington, ma da allora sapevo di essere migliorato parecchio. Adesso ero il DetectiveDottor Cross. «Non volevo ferirti, né deluderti.» Indicai il giornale. «Non mi hai deluso, Alex. Tu sei il mio orgoglio e la mia gioia. Una fonte costante di gioia. Quando ti vedo coi bambini, quando penso al lavoro che svolgi qui nel quartiere e al fatto che ti sta ancora a cuore compiacere una vecchia...» «Questo sì che è un lavoro ingrato», la interruppi. «Quanto alla cosiddetta 'notizia', per una settimana o giù di lì sarà un inferno. Poi a nessuno importerà più nulla.» Nana stava scuotendo la testa, ma il suo ordinato caschetto di capelli grigi non si scompose. «Ti sbagli. Alla gente continuerà a importare. Alcuni se ne ricorderanno per il resto della loro vita. D'altra parte, se non vuoi patire le conseguenze del male che hai fatto...» «E che male avrei fatto?» Col manico del coltello, Nana cominciò a radunare le briciole. «Questo devi dirmelo tu. Perché tu e Jezzie Flanagan vi comportate come due ladri, se non avete nulla da nascondere? Se la ami, la ami, punto e basta. La ami, Alex?»
Non le risposi subito. Naturalmente amavo Jezzie. Ma fino a che punto? E dove ci stava portando tutto quello? Ancora: doveva necessariamente portare da qualche parte? «Non lo so con sicurezza, almeno non nel senso che intendi tu», dissi in ultimo. «Sto cercando di scoprirlo. Siamo entrambi ben consapevoli delle possibili conseguenze.» «Se scoprirai di amarla», disse mia nonna, «ebbene, amala. Senza nasconderlo. Io ti voglio bene, Alex. Il fatto è che pensi sempre in grande. A volte sei troppo intelligente, più di quanto sarebbe opportuno per te. E puoi apparire molto strano; agli occhi dei bianchi, intendo dire.» «Ed è per questo che ti piaccio tanto.» «Questa è solo una delle tante ragioni, ragazzo mio.» Quel mattino, mia nonna e io ci abbracciammo a lungo, seduti al tavolo della colazione. Io sono grosso e forte; Nana è minuta e fragile, ma non meno forte di me. Per certi versi, non si diventa mai del tutto adulti, almeno non nei confronti dei propri genitori o dei propri nonni. E certo non nei confronti di Nana Mama. «Grazie, vecchia», mormorai in ultimo. «E fiera di esserlo.» Come sempre, l'ultima parola doveva essere la sua. Quel giorno cercai più volte di mettermi in contatto con Jezzie, ma era fuori oppure preferiva non rispondere. Non aveva neppure inserito la segreteria telefonica. Ripensai alla nostra serata ad Arlington. A quanto mi fosse sembrata tesa. Ancor prima che arrivassero quelli del National Star. Mi baloccai con l'idea di andare a casa sua, ma non ne feci nulla. Il processo non era ancora finito e l'ultima cosa di cui avevamo bisogno era un altro articolo su un giornale scandalistico. Sul lavoro nessuno fece il minimo accenno all'accaduto. Se avessi avuto ancora qualche dubbio in proposito, quel silenzio mi avrebbe fatto capire una volta per tutte l'entità del danno. Mi era piombata sulla testa una bella tegola, sicuro come l'oro. Finii col rintanarmi nel mio ufficio a bere caffè nero e a guardare le pareti. Tutte e quattro erano coperte da «indizi» sul sequestro. Cominciavo a sentirmi colpevole, furibondo e smanioso di ribellarmi. Con una gran voglia di fracassare vetri, come avevo fatto un paio di volte dopo la morte di Maria. Me ne stavo lì, seduto alla scrivania grigia fornita dal governo, a guardare senza vederla la tabella coi miei turni per la settimana.
«Ti ci sei messo da solo in questo casino, scemo.» La voce di Sampson echeggiò alle mie spalle. «Sei solo soletto. Pronto per essere infilzato e arrostito.» Non mi girai neppure. «Non ti sembra che stai minimizzando un po' la situazione?» «Pensavo che prima o poi ti saresti deciso a parlarne», brontolò lui. «Sapevi che io sapevo di voi due.» Un paio di cerchi scuri lasciati sulla tabella da una tazza di caffè catturarono il mio sguardo. Di recente tutto mi stava venendo meno, anche la memoria. Finalmente mi voltai a guardarlo. Era insuperabile coi pantaloni di pelle, un vecchio cappello Kangol e un gilet di nylon nero. Gli occhi erano invisibili dietro gli occhiali scuri. «Secondo te, che cosa succederà adesso?» domandai. «Che cosa dicono loro?» «Nessuno è troppo soddisfatto di come è stato condotto questo fottutissimo caso. Ai piani alti non sono esattamente entusiasti. La mia idea è che stiano contando i potenziali agnelli sacrificali. E di sicuro tu sei uno di quelli.» «E Jezzie?» «Anche lei. Se la fa coi negri. Mi sembra di capire che non sei al corrente delle ultime novità.» «Novità? Quali?» Sampson esalò un sospiro interminabile, poi fece esplodere l'ultima bomba. «Ha chiesto un congedo, o forse ha lasciato i Servizi per sempre. Più o meno un'ora fa. Nessuno sa se è stata lei ad andarsene, o se l'hanno defenestrata.» Chiamai subito l'ufficio di Jezzie. La segreteria m'informò che sarebbe stata fuori per «tutto il giorno». La cercai a casa. Nessuna risposta. Infransi almeno un paio di norme del codice stradale mentre mi dirigevo a tutta velocità a casa sua. A casa di Jezzie non c'era nessuno. Neppure fotografi, per fortuna. Pensando al cottage sul lago, da un telefono pubblico chiamai il North Carolina. L'operatore m'informò che il numero non era più operativo. Ero sorpreso. «Da quando? Ieri sera funzionava.» «Da stamattina. La linea è stata disattivata stamattina.» Jezzie era scomparsa. 66
La sentenza del processo Soneji/Murphy era imminente. La giuria si ritirò l'11 novembre, per ricomparire tre giorni dopo, in mezzo a un tumulto incontrollabile di voci che la volevano incapace di prendere una decisione e di pronunciarsi per l'innocenza o la colpevolezza dell'imputato. Sembrava che il mondo intero fosse in attesa. Quel mattino Sampson venne a prendermi e andammo in tribunale insieme. Dopo qualche giorno di freddo - breve anticipazione dell'inverno la temperatura era tornata a salire. Durante il tragitto pensai a Jezzie. Ormai non la vedevo da più di una settimana; chissà se l'annuncio della sentenza avrebbe avuto il potere di portarla in aula. Mi aveva telefonato. Era nel North Carolina, mi aveva detto. E nient'altro. Ero di nuovo solo, e non mi piaceva. Fuori del tribunale non vidi Jezzie, bensì Anthony Nathan che scendeva da una Mercedes metallizzata. Era il suo grande momento. I giornalisti gli piombarono addosso, come piccioni su un tozzo di pane vecchio. Stampa e televisione cercarono di cavar fuori qualcosa anche da me e Sampson prima che riuscissimo a infilare le scale. Nessuno dei due aveva troppa voglia di farsi intervistare di nuovo. «Dottor Cross! Dottor Cross!» gridò una voce stridula che riconobbi come quella della giornalista di una TV locale. Dovemmo fermarci. Erano dietro e davanti a noi, erano dappertutto. «Dottor Cross, crede che la sua testimonianza aiuterà Gary Murphy a evitare l'accusa di omicidio premeditato? Pensa di averlo involontariamente aiutato a sfuggire all'imputazione più grave?» Qualcosa si ruppe dentro di me. «Siamo felici di essere arrivati al Super Bowl», ringhiai rivolto al balenio di innumerevoli microcamere. «Alex Cross si concentrerà sul suo gioco. Il resto verrà da solo. Alex Cross si accontenta di ringraziare Dio Onnipotente per l'opportunità che gli viene offerta di giocare a questo livello.» Mi protesi verso la giornalista che aveva posto la domanda. «Capisce quello che sto dicendo? Sono stato abbastanza chiaro?» Sampson sorrise. «Quanto a me, sono ancora disponibile a sponsorizzazioni redditizie per le scarpe e le bevande analcoliche.» Riprendemmo a salire i ripidi gradini di pietra ed entrammo. Nel grande atrio cavernoso del tribunale, il frastuono era tale da far dolere i timpani. Tutti urlavano e si muovevano senza sosta, ma con una certa educazione, come fa la folla in abito da sera che ti sospinge all'interno del
Kennedy Center. Soneji/Murphy non era il primo imputato la cui difesa s'imperniasse sull'assunto della personalità multipla. Ma il suo era certo il caso più celebre. Aveva suscitato ogni sorta di interrogativi sul significato dei termini «colpa» e «innocenza» ed erano proprio questi interrogativi a rendere incerto il verdetto... Se Gary Murphy era innocente, come si poteva condannarlo per rapimento e omicidio? Ecco la domanda che il suo difensore aveva fatto germogliare nella mente di tutti. Rividi Nathan in aula. «È evidente che nel mio assistito agiscono due personalità in conflitto», aveva detto ai giurati nel corso della sua arringa. «Una di queste non è meno innocente di voi. Non potete condannare Gary Murphy per sequestro di persona od omicidio. Gary Murphy è un uomo per bene, Gary Murphy è un marito e un padre. Gary Murphy è innocente!» I giurati si trovavano di fronte a un grave dilemma. Gary Soneji/Murphy era un sociopatico diabolicamente abile? Aveva la consapevolezza, e il controllo, delle proprie azioni? Aveva potuto contare sull'aiuto di un complice? O aveva agito da solo? Nessuno conosceva la verità, tranne forse Gary stesso. Non la conoscevano gli esperti. Non la conosceva la polizia. Non la conosceva la stampa e non la conoscevo io. Quali elementi aveva la giuria composta da «pari» di Gary per decidere? Il primo avvenimento della mattinata fu senz'altro la comparsa dell'imputato nell'aula affollatissima e rumorosa. Con indosso un sobrio abito blu, aveva il suo solito aspetto da ragazzo per bene. Assomigliava più all'impiegato di una banca di provincia che a un uomo accusato di sequestro di minore e omicidio. Si levò qualche applauso, a dimostrazione del fatto che oggigiorno anche i rapitori possono contare su un certo seguito. Era indubbio che il processo aveva attratto la solita quantità di stupidi, individui malati e veri e propri psicopatici. «Chi dice che l'America non ha più eroi?» sibilò Sampson. «A loro quel maledetto stronzo piace. Ce l'hanno scritto nei loro occhietti lucidi. Lui è Charlie Manson in versione aggiornata e ampliata. Invece di un hippie sanguinario, uno yuppie sanguinario.» «Il Figlio di Lindbergh», mormorai io. «Mi chiedo se era questo che voleva. Era tutto parte del suo piano per conquistare la celebrità?» Entrarono i giurati. Avevano facce tese e sbigottite. A quale decisione erano giunti, con tutta probabilità solo poche ore prima, in piena notte?
Uno di loro inciampò mentre in fila indiana si dirigevano verso il banco di mogano. Cadde su un ginocchio e per qualche istante la piccola processione s'interruppe. Un incidente insignificante, e tuttavia mi sembrò riassumesse tutta la fragilità e l'incertezza che fin dall'inizio avevano caratterizzato il dibattimento. Guardai Soneji/Murphy e mi parve d'intravedere l'ombra di un sorriso sulle sue labbra. Un piccolo passo falso, forse? Quali erano i pensieri che si affollavano nella sua mente? Quale verdetto aveva previsto? In ogni caso, la persona nota come Gary Soneji, il Bambino Cattivo, avrebbe senz'altro apprezzato la situazione. Tutto era pronto, ed era tutto incredibilmente bizzarro. Con lui al centro del palcoscenico. Qualunque fosse il prezzo da pagare, quello era certo il giorno più importante della sua vita. Voglio essere qualcuno! «La giuria ha raggiunto un verdetto unanime?» chiese il presidente della corte Kaplan quando i giurati ebbero preso posto. Le venne porto un foglietto; la sua espressione non mutò mentre leggeva. Quindi lo restituì al capo della giuria. Tutto secondo la procedura. Il capo dei giurati, che le era rimasto accanto, lesse con voce chiara, ma un po' tremante. Era un impiegato delle poste di nome James Heekin; aveva cinquantacinque anni e un colorito rubizzo, quasi paonazzo, segno forse di pressione alta. A meno che non fosse da attribuirsi allo stress del processo. «In merito all'accusa di duplice sequestro di persona, dichiariamo l'imputato colpevole; in merito all'accusa di omicidio di primo grado dichiariamo l'imputato colpevole.» Neppure una volta James Heekin pronunciò il nome di Gary Murphy. In aula scoppiò il caos. Il clamore rimbalzava contro le colonne di pietra e le pareti rivestite di marmo. I giornalisti si accalcavano verso l'uscita, diretti ai telefoni. Mary Warner, emozionata, si congratulava coi suoi giovani collaboratori. Anthony Nathan e i suoi uscirono in tutta fretta per evitare le domande. Fuori dell'aula, ci fu un momento d'intensa emozione. Missy Murphy e la figlioletta Roni corsero verso Gary, che gli agenti si preparavano a condurre via. Singhiozzando, i tre si abbracciarono. Non avevo mai visto Gary piangere. Se era una recita, non fu meno brillante di quelle che l'avevano preceduta. Non c'era nulla di poco credibile in quella scena di disperazione.
Io non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Poi un paio di agenti allontanarono le due donne e portarono via il detenuto. Se Gary stava fingendo, ebbene, non aveva commesso neanche un errore. La moglie e la figlia assorbivano tutta la sua attenzione; neppure una volta alzò lo sguardo per accertarsi di avere un pubblico. Recitava alla perfezione. Oppure Gary Murphy era un innocente che era stato appena condannato per sequestro di persona e omicidio? 67 «Pressure, pressure», cantava Jezzie a tempo con la musica che le rimbombava nella testa. La pelle le si tendeva sulla fronte mentre scendeva lungo la tortuosa strada di montagna senza cautela né paura. A ogni curva si piegava per seguirne l'inclinazione e procedeva in quarta senza mai scalare. Abeti, macigni e vecchi pali del telefono correvano rapidi ai lati della strada. Una macchia confusa e ininterrotta. Da più di un anno, forse da tutta la vita, si sentiva precipitare in caduta libera. Presto non ce l'avrebbe più fatta e sarebbe esplosa. Nessuno capiva che cosa significasse rimanere sotto pressione così a lungo. Fin da bambina era vissuta nel costante timore di commettere uno sbaglio, di non essere la piccola perfetta Jezzie, di non riuscire a guadagnarsi l'amore dei suoi genitori. La piccola perfetta Jezzie. «Far bene non basta», le ripeteva suo padre quasi ogni giorno. «Far bene significa precludersi la possibilità di fare benissimo.» E così lei era diventata la studentessa modello; era diventata Miss Simpatia; era diventata tutto quello che le riusciva di diventare. Qualche anno prima Billy Joel aveva inciso una canzone intitolata Pressure. Pressione. Una parola che non era sufficiente a descrivere il peso che le gravava da sempre sulle spalle. Doveva liberarsene, e forse aveva trovato il modo. Arrivata in vista del cottage, scalò in terza. Le luci erano accese, ma per il resto tutto era pace e tranquillità. Il lago era una tavola scura e lucente che pareva fondersi con le montagne. Ma le luci erano accese. E non era stata lei a lasciarle accese. Scese ed entrò. La porta d'ingresso non era chiusa a chiave. Il soggiorno era deserto. «Ehi», chiamò.
Passò in cucina, poi nelle due camere da letto. Nessuno. Nulla lì suggeriva una presenza. Tranne le luci. «Ehi, c'è qualcuno?» In cucina, il gancio della porta a rete pendeva dalla catenella. Uscì e si diresse verso il molo. Nulla. Nessuno. Un improvviso battere d'ali alla sua sinistra. Un uccello volava sul pelo dell'acqua. Jezzie si fermò in fondo al molo e tirò un profondo sospiro. In testa le risuonava ancora la canzone di Billy Joel. Beffarda e provocatoria. «Pressure, pressure...» La sentiva in ogni fibra del suo essere. Qualcuno l'afferrò. Braccia forti la strinsero in una morsa d'acciaio. Trattenne a fatica un grido. Poi le venne ficcato qualcosa in bocca. Jezzie inspirò. Colombiana Oro. Erba di ottima qualità. Inspirò di nuovo. Si rilassò fra le braccia che la imprigionavano. «Mi sei mancata», disse una voce. Billy Joel urlava nella sua testa. «Che ci fai qui?» chiese alla fine. PARTE QUINTA LA SECONDA INDAGINE 68 Maggie Rose era di nuovo al buio. Vedeva delle forme tutt'intorno a sé. Sapeva che cos'erano e dove si trovava; sapeva perfino perché. Stava pensando di nuovo alla fuga. Poi, come un lampo, ancora una volta, l'avvertimento. Se cercherai di scappare, non sarai uccisa, Maggie Rose. Sarebbe troppo comodo. Finirai di nuovo sottoterra. Tornerai nella tua piccola tomba. Quindi non provarci, Maggie Rose. Non pensarci neppure. Ormai aveva dimenticato molte cose. A volte non riusciva neppure a ricordare chi fosse. Era come un brutto sogno, come una successione interminabile di incubi. Maggie Rose si chiedeva se i suoi genitori la stessero ancora cercando. Perché avrebbero dovuto? Era passato così tanto tempo dal suo rapimento.
Maggie sapeva che il signor Soneji l'aveva portata via dalla Day School. Ma da allora non lo aveva più visto. C'era solo l'avvertimento. A volte, aveva l'impressione di essere uno di quei personaggi fantastici che un tempo si divertiva a inventare. Gli occhi si riempirono di lacrime. L'oscurità si era diradata. L'alba era vicina. Non avrebbe più cercato di scappare. Odiava stare lì, ma per nulla al mondo sarebbe tornata sottoterra. Maggie Rose sapeva che cos'erano quelle forme. Erano bambini. Tutti radunati in un'unica stanza della casa. Da cui non c'era via di scampo. 69 Il processo si era concluso da una settimana quando Jezzie tornò a Washington. Sembrava un buon momento per ricominciare. Io ero pronto Dio solo sa se ero pronto - a rimettere insieme i cocci e ad andare avanti. Ci sentimmo qualche volta per telefono. Non molte. Di ciò che provava, Jezzie mi disse una cosa soltanto. Che era strano pensare a quanto avesse investito in una carriera di cui ora non le importava più nulla. Avevo sentito la sua mancanza ancor più di quanto avessi previsto. Era a lei che pensavo mentre indagavo su un caso di duplice omicidio: due tredicenni uccisi per un paio di scarpe da tennis Pump. Sampson e io arrestammo l'assassino, un ragazzo di quindici anni proveniente dal «Buco Nero». Quella stessa settimana mi venne offerto un posto di coordinatore tra il dipartimento di polizia cittadino e l'FBI a Washington. Avrei guadagnato molto di più, ma rifiutai. Carl Monroe stava cercando di comprarmi, e io non ci stavo. Quella notte non potei prendere sonno. La tempesta scoppiata nella mia mente il giorno del rapimento non accennava a calmarsi. Non riuscivo a dimenticare Maggie Rose e non riuscivo ad abbandonare il caso. Restavo alzato a guardare la televisione fino alle tre o alle quattro del mattino. Recitavo la parte di Alex lo strizzacervelli nella vecchia roulotte a St. Anthony. Con Sampson feci fuori intere cassette di birra. Poi cercavamo di smaltirla in palestra. E negli intervalli lavoravamo sodo. Il giorno del ritorno di Jezzie, andai da lei. Derek McGinty parlava dalle onde della WAMU Radio. La voce del mio «fratello di radio» sedò il tumulto nel mio stomaco. Una volta lo avevo addirittura chiamato durante la
trasmissione. Con la voce contraffatta, gli avevo parlato di Maria, dei bambini, della tensione cui ero sottoposto da troppo tempo. L'aspetto di Jezzie mi lasciò stupefatto. Si era fatta crescere i capelli, che ora le si allargavano a raggiera intorno al viso. Era abbronzata e vitale come una bagnina californiana in agosto. Come se nella sua vita nulla fosse mai andato storto. «Sei in forma. Riposata eccetera eccetera», le dissi, ma avvertivo un certo risentimento nei suoi confronti. Se n'era andata prima del termine del processo. Senza una spiegazione. Senza una parola di saluto. Era sempre stata snella, ma ora era più sottile e tonica. Le occhiaie che le cerchiavano gli occhi durante le indagini erano scomparse. Portava un paio di shorts di jeans e una maglietta con la scritta SE NON PUOI ABBAGLIARLI COL CERVELLO, FREGALI CON LE STRONZATE. Ma lei non ne aveva bisogno; era abbagliante in tutti i sensi. Mi rivolse un sorriso gentile. «Sto molto meglio, Alex. Credo di essere quasi guarita.» Uscì sulla veranda e venne tra le mie braccia, e anch'io cominciai a sentirmi meglio. La tenni stretta, pensando che per un po' ero tornato a essere solo su questo strano pianeta. Solo in una terra desolata. Ma avevo trovato un'altra persona da amare, con cui condividere la mia vita. «Raccontami tutto», la esortai. «Che cosa si prova a far fermare il mondo e a scendere?» I suoi capelli sapevano di pulito. Lei stessa pareva nuova. «Una sensazione piuttosto gradevole, direi. Era da quando avevo sedici anni che non smettevo di lavorare. I primi giorni sono stati terribili. Poi però è andato tutto bene.» Teneva ancora la testa appoggiata sulla mia spalla. «Sentivo la mancanza di una cosa soltanto», bisbigliò. «Avrei voluto che tu fossi con me. Può suonare stucchevole, ma è la verità.» Era proprio una delle cose che mi aspettavo di sentirle dire. «Sarei venuto.» «Ma al tempo stesso avevo bisogno di fare come ho fatto. Di pensare a tutto da sola, senza interferenze. Non ho cercato nessun altro, Alex. E ho scoperto molte cose sul conto di me stessa. Forse ho persino scoperto chi è Jezzie Flanagan.» Le sollevai il mento con le dita, per guardarla negli occhi. «Dimmi quello che hai scoperto. Dimmi chi è Jezzie.» Sottobraccio, entrammo in casa. Ma Jezzie non parlò molto di se stessa, né di quello che aveva scoperto durante il suo ritiro nel cottage sul lago. Ricademmo nelle vecchie abitudi-
ni, e devo riconoscere che ne avevo sentito la mancanza. Mi chiedevo se mi amava ancora e in quale misura il nostro legame aveva giocato nella sua decisione di tornare. Aspettavo un segno. Jezzie cominciò a sbottonarmi la camicia, e non ci fu modo di fermarla. «Mi sei mancato così tanto», sussurrò contro il mio petto. «E a te, Alex, sono mancata?» Dovetti sorridere. Non avrei potuto darle una risposta più eloquente della mia eccitazione fisica. «Tu che ne dici?» Fu un pomeriggio sfrenato. Da parte mia, non riuscivo a dimenticare la notte in cui i giornalisti del National Star ci avevano sorpreso nel motel. «Chi è più scuro, ora?» domandai con un sorriso. «Certamente io. Bruna come una bacca, dicono sul lago.» «Mi stai abbagliando.» «Uh uh. Dobbiamo tirarla in lungo ancora per molto? Voglio dire, stare qui a guardarci e a parlare senza toccarci. Sbottonati la camicia. Per favore.» «Ti eccita?» Avevo la voce roca. «Uh uh. Anzi toglitela.» «Devi parlarmi di te, e di quello che hai scoperto mentre eri via», le rammentai. Confessore e amante. Un'idea altamente erotica. «Ora puoi baciarmi. Se vuoi, Alex. Riesci a farlo in modo che solo le nostre labbra si tocchino?» «Uhm, non lo so. Aspetta, fammi girare da questa parte. Così. Per caso, stai cercando di chiudermi la bocca?» «Perché dovrei, Dottor Detective?» 70 Mi rituffai nel lavoro. Avevo giurato a me stesso che in un modo o nell'altro avrei risolto il caso del rapimento; non si poteva fermare il Cavaliere Nero. In una lugubre serata piovosa, tornai da Nina Cerisier. Era ancora l'unica ad aver visto il «complice» di Gary Soneji, e comunque mi trovavo già in zona. Quindi perché no? E, nondimeno, perché ero a Langley Terrace di notte, sotto una pioggia fredda e fastidiosa? Perché ero diventato un paranoico, ossessivamente a caccia di informazioni su un sequestro vecchio ormai di diciotto mesi. Perché ero un perfezionista, e lo ero da trent'anni almeno. Perché sentivo la
necessità di sapere che cosa ne era stato di Maggie Rose Dunne. Perché non riuscivo a dimenticare lo sguardo di Mustaf. Perché volevo la verità su Soneji/Murphy. O almeno questo era quanto continuavo a ripetermi. Glory Cerisier non parve troppo contenta nel vedermi accampato sulla porta di casa sua. Aspettavo da dieci minuti buoni e avevo già bussato alla malconcia porta di alluminio almeno una dozzina di volte prima che si decidesse ad aprire. «È tardi, detective Cross. Perché non ci lasciate in pace?» mi assalì. «Non è facile per noi dimenticare i Sanders. Non abbiamo bisogno di qualcuno che continui a ricordarceli.» Guardai la donna alta, sui quarantacinque, che mi fissava. Occhi quasi a mandorla. Begli occhi in un viso che non era nulla di speciale. «Lo so», assentii. «Ma stiamo parlando di omicidi, signora Cerisier. Di feroci omicidi.» «L'assassino è stato catturato. Non lo sa, detective Cross? Non li legge, i giornali?» Mi sentivo un vero idiota, lì sotto la pioggia. Probabilmente lei mi giudicava pazzo. Era una donna in gamba. «Oh, Gesù Cristo.» Scossi la testa e risi con fare imbarazzato. «Ma certo, ha ragione. Sono un po' confuso. Mi dispiace, sul serio.» Colta di sorpresa, Glory Cerisier ricambiò il sorriso. Un sorriso fatto di gentilezza e denti storti, come spesso se ne vedono in certi quartieri. «Non offrirebbe un caffè a questo povero negro? Sono pazzo, d'accordo, ma almeno lo so. Mi faccia entrare.» «D'accordo, d'accordo. Venga, detective. Ci faremo un'altra chiacchierata. Non ci sono alternative, immagino.» «Immagina giusto.» L'avevo persuasa dicendole semplicemente la verità. Bevemmo un cattivo caffè istantaneo nella minuscola cucina. Glory Cerisier, alla quale in realtà piaceva parlare, mi fece un sacco di domande sul processo. Voleva sapere che effetto facesse comparire in televisione. Come molta gente, era incuriosita soprattutto da Katherine Rose. Aveva perfino una sua teoria personale sul sequestro. «Non è stato quell'uomo. Quel Gary Soneji o Murphy che sia. Qualcuno l'ha incastrato.» Rise. Probabilmente trovava divertente confidare certe sue idee folli a un poliziotto folle di Washington. «Mi accontenti un'ultima volta», dissi, quando mi fui finalmente reso
conto di che cosa volessi discutere con lei. «Mi ripeta quello che Nina ha detto di aver visto quella sera. Mi riferisca le sue parole. Con tutta la precisione che le è possibile.» «Perché si carica di tutto questo peso?» ribatté Glory. «Che ci fa qui, alle dieci di sera?» «Non lo so.» Stringendo le spalle, sorseggiai il pessimo caffè. «Forse perché sento il bisogno di capire per quale motivo venni scelto proprio io, laggiù a Miami. Forse.» «L'ha fatta impazzire, giusto? Il rapimento di quei due bambini?» «Sì. Mi ha fatto impazzire. Mi ripeta quello che le disse Nina. Mi parli dell'uomo che era in macchina con Gary Soneji.» «Fin da piccola, a Nina è sempre piaciuto sedersi vicino alla finestra sulle scale. È la sua finestra sul mondo, lo è sempre stata. Si mette lì a leggere o semplicemente a coccolare uno dei suoi gatti. A volte non fa proprio nulla, se non fissare il vuoto. Era lì la sera in cui ha visto quel bianco, quel Gary Soneji. In questo quartiere non ne capitano molti, di bianchi. Neri, a volte un latinoamericano. Per questo ha attirato la sua attenzione. E più guardava, più la faccenda le sembrava strana. Proprio come ha detto a lei. Lui stava sorvegliando la casa dei Sanders. La spiava, o qualcosa del genere. E l'altro uomo, quello rimasto in auto, sorvegliava lui che sorvegliava la casa.» Tombola. In qualche modo, la mia mente affaticata riuscì a individuare la frase chiave. «Sta dicendo che l'uomo in macchina stava sorvegliando Soneji? Che lo stava sorvegliando?» «È questo che ho detto? E strano, ma avevo dimenticato tutto. In un primo tempo, Nina mi ha raccontato che i due uomini erano insieme. Sa, come i rappresentanti che vanno casa per casa in coppia. In seguito però mi ha detto che l'uomo seduto in macchina stava sorvegliando l'altro. Sì, ha detto proprio così. Ne sono quasi sicura. Ma è meglio che lo chiediamo a Nina. Lei lo saprà.» Esortata dalla madre, Nina si dimostrò disposta a collaborare. Sì, era certa che l'uomo in macchina stesse sorvegliando Gary Soneji. Non era arrivato lì con lui. Ricordava con sicurezza che lo stava sorvegliando. Non era in grado di dire se fosse un bianco o un nero; non ne aveva parlato perché non sembrava importante e sapeva che, se lo avesse fatto, la polizia l'avrebbe tempestata di domande. Come gran parte dei ragazzi della zona sud-est, Nina odiava i poliziotti e ne aveva paura.
L'uomo in auto stava sorvegliando Gary Soneji. Quindi forse non c'era mai stato un «complice», ma qualcuno intento a sorvegliare Gary Soneji/Murphy che faceva la posta alle sue vittime? Ma chi? 71 Fui autorizzato a incontrare Soneji/Murphy, ma soltanto in relazione alle indagini sugli omicidi Sanders e Turner. Potevo parlare con lui di delitti che probabilmente non sarebbero mai approdati in un'aula giudiziaria, ma non di quello destinato forse a restare insoluto. È così che funziona la burocrazia. Avevo un amico a Fallston, dov'era detenuto Gary. Conoscevo Wallace Hart, responsabile del reparto psichiatrico di Fallston, da quando ero entrato in polizia. Quel giorno lo trovai ad aspettarmi nell'atrio del vecchio edificio. «Adoro queste piccole attenzioni personali», esclamai stringendogli la mano. «Ovviamente è la prima volta che mi capita di riceverne.» «Ora sei una celebrità, Alex. Ti ho visto in televisione.» Wallace è un nero di bassa statura con l'aria dello studioso; porta occhiali rotondi con lenti spesse e vestiti blu sempre spiegazzati. Per molti assomiglia a George Washington Carver, con un tocco di Woody Allen. Riesce a sembrare a un tempo nero ed ebreo. «Che opinione ti sei fatto di Gary?» gli chiesi mentre l'ascensore ci trasportava al reparto di massima sicurezza. «Fa il detenuto modello?» «Ho sempre avuto un debole per gli psicopatici, Alex. Sono loro a dar sapore alla vita. Te l'immagini un mondo senza i cattivi? Noiosissimo.» «Non la bevi, la tesi della personalità multipla, vero?» «Diciamo che è una possibilità, ma molto esile. Comunque sia, il bambino cattivo che è in lui è davvero cattivo. Mi stupisce che si sia fatto beccare.» «Vuoi sentire una teoria bizzarra?» feci io. «È stato Gary Murphy a incastrare Soneji. Non riusciva più a tenerlo sotto controllo, e lo ha dato in pasto ai leoni.» Wallace m'indirizzò un sorriso pieno di denti, troppo largo per la sua faccina. «Quel tuo cervello bislacco mi piace da morire, Alex. Ma ne sei davvero convinto? Una parte che tradisce l'altra?» «No. Volevo solo vedere se ci avresti creduto tu. Sto cominciando a
pensare che sia uno piscopatico fatto e finito. Ma ho bisogno di sapere fino a che punto lo è. Nel corso dei nostri colloqui ho riscontrato una turba della personalità di natura certamente paranoide.» «Sono d'accordo. È diffidente, esigente, arrogante, ossessivo. Come ho detto, lo adoro.» Fu uno shock rivedere Gary dopo tanto tempo. Aveva gli occhi infossati e cerchiati di rosso, come se soffrisse di congiuntivite. La pelle tirata sul viso gli dava l'aspetto di un teschio. Era dimagrito molto, forse di una quindicina di chili, e non era mai stato sovrappeso. «Già, sono un po' giù. Salve, dottore.» Alzò gli occhi verso di me, ed era di nuovo Gary Murphy. O almeno così sembrava. «Salve, Gary. Come vede, non sono riuscito a stare lontano.» «È passato molto tempo dalla sua ultima visita. Di certo vuole qualcosa. Vediamo se indovino... Sta scrivendo un libro su di me?» Scossi la testa. «Era da un po' che volevo venire a trovarla. Ma ho dovuto procurarmi un'autorizzazione del tribunale. In effetti, sono qui per parlare degli omicidi Sanders e Turner.» «Davvero?» Aveva l'aria rassegnata; quell'atteggiamento indifferente, passivo, non mi piaceva. Mi balenò alla mente il pensiero che la sua personalità fosse sul punto di disintegrarsi del tutto. «Sono autorizzato a discutere con lei solo degli omicidi Sanders e Turner. Ma, se le va, possiamo parlare di Vivian Kim.» «In questo caso, temo che non abbiamo molto da dirci. Non so nulla di quegli omicidi. Non ho neppure letto i giornali, lo giuro sulla testa di mia figlia. Forse il nostro amico Soneji ne sa di più. Ma io no, Alex.» Sembrava non avere più difficoltà a chiamarmi per nome. È bello, scoprire che ci si può fare degli amici dappertutto. «Ma indubbiamente il suo avvocato gliene avrà parlato. Non è escluso che quest'anno venga istituito un altro processo.» «Non lo vedo più. Né lui né nessun altro avvocato. Non serve a nulla, e comunque quei casi non finiranno in tribunale. Troppo costoso.» «Gary», dissi col tono che riservavo ai miei pazienti, «mi piacerebbe ipnotizzarla di nuovo. Sarebbe disposto a firmare i documenti necessari, se riuscissi a ottenere l'autorizzazione? Per me è importante parlare con Soneji. Mi aiuti a parlare con lui.» Mi ascoltò scrollando la testa, ma in ultimo sorrise e annuì. «A dire la verità, parlargli piacerebbe anche a me. Se potessi, lo ucciderei. Ucciderei Soneji. Proprio come, presumibilmente, ho ucciso gli altri.»
Quella sera andai a trovare l'ex agente dei servizi segreti Mike Devine. Era stato uno dei due incaricati della protezione di Goldberg e della sua famiglia e volevo sottoporgli la teoria del «complice». Mike Devine si era volontariamente ritirato dal servizio un mese dopo il sequestro, ma era appena sui quarantacinque e personalmente ritenevo che quell'uscita di scena gli fosse stata imposta. Chiacchierammo per un paio d'ore sulla terrazza del suo appartamento, con vista sul Potomac. Era un appartamento insolitamente elegante e ben fornito, per un single di ritorno quale era Devine. E lui era abbronzato e con l'aria distesa. La prova vivente di quanto sia saggio abbandonare certe professioni finché si è ancora in tempo. Mi ricordava un po' Travis McGee, il protagonista della trilogia di John MacDonald. Robusto, con un viso pieno di carattere. Se la cava bene come pensionato, pensai: aspetto da eroe buono, un'infinità di riccioli castano scuro, sorriso pronto e storie da raccontare in abbondanza. «Il mio socio e io siamo stati buttati fuori», mi confidò dopo un paio di Corona. «Un errore che si è trasformato in una specie di terza guerra mondiale, e coi Servizi noi due abbiamo chiuso. Neppure il nostro capo ci ha dato una mano. Non più di tanto, almeno.» Mi sforzai di parlare come avrebbe fatto un compagno di bevute occasionale. «E un caso che ha fatto sensazione. Probabilmente era necessario che venissero identificati buoni e cattivi.» «Ma forse è stato meglio così», rifletté ad alta voce. «Lei non pensa mai di ricominciare da capo, di provare qualcos'altro prima che arrivi il morbo di Alzheimer a mettere fine a tutto?» «Ho preso in considerazione la libera professione, sì. Sono psicologo. E svolgo opera di volontariato nei quartieri neri.» «Ma ama troppo il lavoro per mollarlo?» Sogghignò, poi ammiccò contro il sole del tardo pomeriggio che si rifletteva sull'acqua. Intorno alla terrazza volavano grandi gabbiani dal petto bianco. Era davvero un bel posticino. «Senta, Mike, vorrei riesaminare con lei i due giorni precedenti il rapimento.» «Questa storia l'ha presa all'amo, eh, Alex? Io stesso ho ricostruito quelle giornate minuto per minuto e, mi creda, non ho trovato proprio nulla. Terreno incolto. Non ci cresce niente. Ho tentato e ritentato, e alla fine ho deciso che era arrivato il momento di accantonare i fantasmi.»
«Le credo. Ma continuo a pensare a una berlina di modello recente che forse è stata vista a Potomac. Una Dodge, probabilmente. M'incuriosisce molto.» Era l'auto che Nina Cerisier aveva visto a Langley Terrace. «Non ha notato una berlina blu o nera in Sorrell Avenue? O magari nei paraggi della Day School?» «Come le ho detto, ho riesaminato riga dopo riga i nostri rapporti giornalieri. Nessuna auto misteriosa. Può controllarli lei stesso, se vuole.» «L'ho già fatto», dissi, e risi dell'apparente follia della mia ricerca. Mi trattenni ancora un po' con Devine, ma non emersero fatti nuovi. Lo ascoltai cantare le lodi della sua vita di pensionato: pesca, partite a golf. Stava riprendendo a vivere. Aveva superato il rapimento Dunne-Goldberg molto meglio di quanto stessi facendo io. C'era qualcosa che continuava a tormentarmi, comunque. L'esistenza del «complice», od osservatore che fosse. E per dirla tutta, la posizione di Devine e del suo ex collega non mi convinceva. Non mi convinceva per nulla. Avevo la sensazione che sapessero molto più di quanto erano disposti a dire. Mentre ero ancora carico, decisi di contattare anche Charles Chakely, il compagno di Devine. Dopo le dimissioni, Chakely e la sua famiglia si erano trasferiti a Tempe, in Arizona. Era mezzanotte, il che significava che a Tempe erano le dieci. Non troppo tardi. «Charles Chakely? Sono il detective Alex Cross: chiamo da Washington.» Ci fu una pausa d'impacciato silenzio prima che mi rispondesse. L'ostilità della sua reazione mi sorprese, e naturalmente rafforzò la convinzione che ci fosse qualcosa di poco chiaro. «Che diavolo vuole?» ringhiò Chakely. «Perché mi ha telefonato? Non faccio più parte dei Servizi. Mi lasci in pace. Stia lontano da me e dalla mia famiglia.» «Senta, non voglio disturbarla...» cominciai, ma lui m'interruppe. «Allora non lo faccia. Glielo dico una volta per tutte, Cross. Stia alla larga.» Avevo incontrato Chakely nei giorni immediatamente successivi al rapimento e ora riuscivo quasi a vederlo mentre mi parlava. A soli cinquantun anni, ne dimostrava sessanta. Grossa pancia da bevitore di birra. Quasi calvo. Occhi gentili ma tristi. Era un ottimo esempio di come potevano ridurti i Servizi, se eri abbastanza sciocco da permetterglielo. «Sfortunatamente, devo ancora occuparmi di un paio di omicidi», repli-
cai, augurandomi che capisse. «In cui è coinvolto anche Gary Soneji/Murphy. Era tornato per uccidere una delle insegnanti della scuola. Vivian Kim.» «Credevo avesse detto che non voleva disturbarmi. Perché non fa finta di non aver mai fatto questa telefonata? Io fingerò di non aver mai sollevato la cornetta. Sto diventando bravo nel gioco del 'fare finta', in questa specie di deserto.» «Potrei ottenere un mandato. Lo sa che potrei. Potremmo parlare di tutto questo a Washington. Oppure potrei fare un salto da lei. Organizzare un barbecue una di queste sere.» «Ehi, che cosa la rode, Cross? Quel maledetto caso è stato chiuso. Se lo scordi. E si scordi pure di me.» A giudicare dalla voce, sembrava sul punto di esplodere. «Stasera ho parlato col suo ex collega.» Quello doveva interessargli. «D'accordo. Ha parlato con Mike Devine. Ci parlo anch'io di tanto in tanto.» «Ne sono felice per voi. Non la seccherò a lungo. Il tempo di una domanda o due.» Finalmente capitolò. «Una soltanto.» «Ricorda di aver visto una berlina di modello recente parcheggiata in Sorrell Avenue? Nei paraggi delle case dei Dunne e dei Goldberg? Magari una settimana o giù di lì prima del rapimento?» «Che diavolo, no. Qualunque circostanza insolita sarebbe finita a verbale. Il caso è chiuso. È chiuso per me. E anche per lei, detective Cross.» Riappese. Ma era tutto troppo sconcertante. Il mistero del secondo uomo mi stava facendo diventare matto. Era un aspetto ancora irrisolto, e troppo importante perché un detective degno di questo nome potesse ignorarlo. Decisi che avrei parlato a Jezzie di Devine e Chakely e dei loro rapporti. C'era qualcosa che non quadrava in entrambi. Qualcosa che si rifiutava di venire a galla. 72 Jezzie e io passammo la giornata nel cottage sul lago. Lei aveva bisogno di parlare. Di spiegarmi com'era cambiata, e raccontarmi quello che aveva scoperto durante il suo volontario ritiro. Accaddero due cose molto, molto, strane, lì, In Mezzo al Nulla, nel North Carolina. Lasciammo Washington alle cinque del mattino e non erano ancora le
otto e mezzo quando arrivammo. Era il 3 dicembre, ma avrebbe potuto essere il primo d'ottobre. L'aria si mantenne tiepida per tutto il pomeriggio e dalle montagne soffiava una brezza dolce. Era piena del cinguettio e del canto degli uccelli. Ora che i villeggianti se n'erano andati, avevamo il lago tutto per noi. Per un'oretta, un motoscafo solitario descrisse evoluzioni sull'acqua; il rombo del motore era simile a quello di un'auto da corsa. Ma per il resto del tempo rimanemmo soli. Per tacito accordo, non affrontammo subito le questioni più spinose. Non parlammo di Jezzie o di Devine e Chakely e neppure delle mie ultime teorie sul rapimento. Nel tardo pomeriggio facemmo una lunga passeggiata nel bosco, seguendo il percorso di un ruscello dall'acqua cristallina che si snodava tra le montagne circostanti. Jezzie non era truccata e portava un paio di jeans tagliati al ginocchio e una felpa dell'università della Virginia cui erano state tolte le maniche. L'azzurro dei suoi occhi rivaleggiava con quello del cielo. «Ti ho già detto di aver scoperto molte cose su me stessa», esordì mentre c'inoltravamo sempre di più nella pineta. Parlava con voce bassa, quasi infantile, e io ascoltavo attento. Volevo sapere tutto di lei. «Vorrei raccontarti di me», riprese. «Ora mi sento pronta. Ho bisogno di spiegarti il perché, il come e tutto il resto.» Annuii in silenzio. «Mio padre... mio padre era un fallito. O, almeno, lui si considerava tale. Era furbo, con la gente ci sapeva fare... quando ne aveva voglia. Ma era nato nella parte sbagliata della città, e non è mai riuscito a dimenticarlo. Un atteggiamento negativo che gli ha procurato un'infinità di guai. Non si curava dell'effetto che produceva su mia madre e su di me. Verso i quarant'anni cominciò a bere forte e quando morì non aveva più un amico. E neppure una famiglia. Immagino che sia stato questo a spingerlo a uccidersi... Mio padre si è suicidato, Alex. A bordo della sua auto. Non c'è stato nessun attacco cardiaco in Union Station. Questa è solo una menzogna che racconto fin da quando ero alle superiori.» Tacemmo entrambi. Solo in un paio di occasioni Jezzie mi aveva parlato dei suoi e io non le avevo fatto alcuna pressione. Non ci tenevo a fare lo psicologo con lei. Quando fosse stata pronta, mi dicevo, sarebbe stata lei ad affrontare l'argomento. «Non voglio diventare una fallita, come mio padre e mia madre. Perché è così che si vedevano loro. Neppure un briciolo di autoconsiderazione.
No, non posso concepire di diventare come loro.» «E tu, come li vedevi?» «Come due falliti, credo.» L'ammissione fu accompagnata da un sorriso pallido. Dolorosamente sincero. «Erano tutti e due così incredibilmente brillanti, Alex. Sapevano tutto di tutto. Leggevano tutti i libri del mondo. Erano in grado di parlare di qualunque cosa. Sei mai stato in Irlanda?» «Una volta sono stato in Inghilterra per lavoro. Quello è stato il mio unico viaggio in Europa. Non ho mai avuto i soldi per tornarci.» «Ci sono certi paesini in Irlanda... Ci vivono persone garbate, che sanno esprimersi con proprietà, ma terribilmente povere. Dovresti vederli, questi 'ghetti per bianchi'. Ogni due negozi c'è un pub. Un Paese pieno di falliti istruiti, l'Irlanda. Io non voglio diventare come loro. Sarebbe un inferno in terra. A scuola m'impegnavo con tutta me stessa. Dovevo essere la numero uno, a qualunque costo. Poi sono approdata al ministero del Tesoro. Salivo, salivo, e mi piaceva. Quali che fossero i motivi che mi spingevano, stavo cominciando ad apprezzare la mia carriera, e la vita in generale.» «Ma tutto si è disintegrato col sequestro Dunne-Goldberg. Tu sei diventata il capro espiatorio. Non eri più la ragazza prodigio.» «Proprio così: ero finita. Gli agenti sparlavano di me e alla fine me ne sono andata. Non avevo scelta. Era tutto talmente sporco e squallido. Sono venuta qui. Per capire chi diavolo ero. E dovevo farlo da sola.» Mi circondò con le braccia e quietamente cominciò a piangere. Era la prima volta che la vedevo in lacrime. Mentre la tenevo stretta, pensavo che non l'avevo mai sentita tanto vicina. Sapevo che mi aveva messo a parte di alcune delle verità per lei più dolorose, e mi sentivo in dovere di fare altrettanto. Eravamo lì, abbracciati, a sussurrare, quando mi resi conto che qualcuno ci stava spiando. Senza che muovessi la testa, i miei occhi saettarono a destra. C'era qualcuno tra gli alberi. Qualcuno ci stava osservando. Un altro osservatore. «Abbiamo compagnia, Jezzie. Al di là della collinetta alla nostra destra», bisbigliai. Lei non si mosse. Era pur sempre un poliziotto. «Ne sei sicuro?» «Sicurissimo. Fidati. Dividiamoci, d'accordo? E se cerca di fuggire, blocchiamolo.» Ci separammo e andammo a metterci sui due lati del poggio. Probabil-
mente la nostra mossa dovette sconcertare l'intruso. Cercò di fuggire. Era un uomo; portava scarpe da tennis e una tuta scura col cappuccio che lo rendeva quasi invisibile tra gli alberi. Non riuscii a stabilirne l'altezza né la corporatura. Lo inseguimmo per un buon mezzo chilometro, ma eravamo a piedi nudi e sapevamo che non saremmo riusciti a raggiungerlo. Rami e spine ci fustigavano il viso e le braccia. Finalmente emergemmo dal bosco per ritrovarci su una stradina asfaltata. Appena in tempo per sentire il rumore di un'auto che scompariva accelerando dietro la curva. Non la vedemmo. «Che strana faccenda!» brontolò Jezzie quando ci fermammo a riprendere fiato. Il sudore ci rigava il viso e i nostri cuori pompavano all'unisono. «Qualcuno sapeva che eri qui?» le domandai. «Nessuno. Proprio non capisco. Chi diavolo poteva essere? Questa faccenda non mi piace, Alex. Mi fa paura. Hai qualche idea?» Io avevo già vagliato una dozzina di ipotesi a proposito dell'osservatore notato da Nina Cerisier. La più attendibile era anche la più semplice: era stata la polizia a tenere sotto sorveglianza Gary Soneji. Ma chi? Possibile che si trattasse di qualcuno del mio dipartimento? O di quello di Jezzie? Sì, era una faccenda che faceva paura. Non era ancora buio quando tornammo al cottage. L'aria si stava raffreddando. Accendemmo il fuoco e preparammo un'ottima cena che sarebbe stata sufficiente per quattro: mais dolce, un'enorme insalata, una bistecca da mezzo chilo a testa, il tutto accompagnato da un bianco secco la cui etichetta diceva: CHASSAGNE-MONTRACHET, PREMIER CRU, MARQUIS DE LAGUICHE. Dopo cena parlammo di Mark Devine, di Charley Chakely e dell'osservatore. Jezzie non mi fu di grande aiuto. Secondo lei, stavo sprecando tempo dietro a una falsa pista. Dipinse Chakely come un tipo eccitabile che avrebbe potuto benissimo dare in escandescenze per una telefonata; uno di quelli che non sono mai soddisfatti di quello che hanno. A suo avviso, Devine e Chakely erano stati buoni agenti, anche se non eccezionali. Se nel corso della sorveglianza della famiglia Goldberg si fosse verificato qualcosa d'insolito, non gli sarebbe certo sfuggito. I loro rapporti erano accurati, e in ogni caso quei due non erano abbastanza intelligenti per fare il doppio gioco. Ne era sicura. Non dubitava che Nina Cerisier avesse visto un'auto parcheggiata nella
sua via, la sera prima dell'omicidio Sanders, ma non credeva che qualcuno avesse spiato Soneji/Murphy. E non credeva neppure che Soneji fosse stato là. «Il caso non è più mio», concluse. «Non rappresento più il ministero del Tesoro né nessun altro. Ti ho dato la mia sincera opinione, Alex. Perché non lasci perdere? È finita. Dimenticatene.» «Non posso», sospirai. «Non è così che ci comportiamo alla Tavola Rotonda di re Artù. Non posso abbandonare questo caso. Ogni volta che ci provo, salta fuori qualcosa che mi fa cambiare idea.» Quella sera andammo a letto presto, verso le nove, nove e un quarto. Il Chassagne-Montrachet, Premier Cru, fece il suo dovere. La passione non mancò, ma conoscemmo anche la tenerezza e il calore. Ci coccolammo, ridemmo e non era poi così presto quando finalmente sprofondammo nel sonno. Jezzie mi chiamò «Sir Alex, il Cavaliere Nero della Tavola Rotonda» e io replicai definendola la «Donna del Lago». Ci addormentammo l'uno fra le braccia dell'altra. Non so che ora fosse quando mi svegliai. Nel sonno avevo allontanato le lenzuola e il piumino, e mi sentivo infreddolito. Mi stupii vagamente che facesse tanto freddo, dato che il fuoco era ancora acceso. Ma quello che i miei occhi vedevano non quadrava coi messaggi inviati dal mio corpo. Ci rimuginai su per qualche secondo. Recuperai le coperte e me le tirai fino al collo. La luce riflessa dai vetri della finestra aveva una qualità insolita. Era strano essere di nuovo lì, con Jezzie; lì, In Mezzo al Nulla. D'altro canto, non riuscivo neppure a immaginare di non esserci. Ero tentato di svegliarla. Per dirglielo. Per parlare di tutto, e di niente. La Donna del Lago. E il Cavaliere Nero. Geoffrey Chaucer rivisitato negli anni '90. Di colpo mi resi conto che non era il fuoco nel camino a riverberarsi sui vetri. Saltai giù dal letto e corsi alla finestra. Davanti a me c'era qualcosa di cui sentivo parlare da sempre; ma che mai avrei pensato di vedere coi miei occhi. Una croce ardeva sul prato di Jezzie. 73 Una bambina scomparsa di nome Maggie Rose.
Assassinii nel ghetto. L'efferata uccisione di Vivian Kim. Uno psicopatico. Gary Soneji/Murphy. Un «complice». Un misterioso osservatore. Una croce di fuoco nel North Carolina. Quando avrebbero finalmente combaciato i pezzi? E sarebbe mai successo? Dal momento in cui vidi la croce e sino alla fine di tutto, mi tormentarono immagini tanto vivide quanto inquietanti. Non potevo abbandonare il caso, come mi suggeriva di fare Jezzie. E la settimana successiva nuovi eventi vennero ad accrescere la mia ossessione. Era tardi quando rientrai dal lavoro, il lunedì sera. Il tempo di percorrere i pochi metri che separavano la porta d'ingresso dalla cucina, e già Damon e Janelle mi erano addosso. «Telefono! Telefono! Telefono!» salmodiava mio figlio, marciando al mio fianco. Nana mi porse la cornetta; era Wallace Hart, dalla prigione di Fallston. «Alex, mi dispiace disturbarti a casa, ma non potresti fare un salto qui? Credo che sia importante.» Io stavo cercando di sfilarmi la giacca e i bambini mi aiutavano. O, meglio, un po' mi aiutavano e un po' cercavano di spezzarmi la schiena. «Che c'è, Wallace? Ho parecchie cosette da sbrigare, stasera.» Mostrai la lingua a Damon e Janelle. «Qualche problemino domestico da risolvere.» «Ha chiesto di te. Vuole parlarti; dice che parlerà solo con te. Dice che è molto importante.» «Non può aspettare fino a domattina?» Avevo avuto una giornata faticosa; e comunque, che altro poteva dirmi d'interessante Gary Murphy? «È Soneji», disse Wallace. «È Soneji che vuole parlarti.» Ero senza fiato. A fatica riuscii a brontolare un: «Arrivo, Wallace». Nel giro di un'ora ero a Fallston. Gary era alloggiato all'ultimo piano, nel braccio che aveva ospitato criminali celebri come Squeaky Fromme e John Hinckley. Un braccio per gente famosa. Proprio come piaceva a lui. Lo trovai sdraiato supino su una branda che non aveva né lenzuola né coperte. Con lui c'era un agente che non gli staccava gli occhi di dosso. Gary era allo «speciale», dove per i detenuti era prevista la sorveglianza non stop. «Ho pensato di farlo trasferire in una cella tranquilla, per stanotte. E di tenerlo sotto osservazione per un po'. Finché non sapremo che cosa gli sta succedendo. Sta volando, Alex.»
«Uno di questi giorni volerà così alto che non riuscirà a tornare indietro», dissi, e Wallace annuì. Entrai nella cella e mi sedetti senza aspettare di essere invitato a farlo. Ero stanco di chiedere il permesso per qualsiasi cosa. Gary teneva gli occhi fissi al soffitto, ma sapevo che il mio arrivo non era passato inosservato. Ehi, ragazzi, c'è Alex! «Benvenuto nella mia psikhuška, dottore», disse alla fine. La sua voce era strana, rasposa e monocorde. «Sa che cos'è una psikhuška?» Nessun dubbio; era Soneji. «È un ospedale sovietico per detenuti. Dove venivano mandati i prigionieri politici.» «Esatto. Molto bene.» Mi guardò. «Voglio fare un nuovo patto con lei. Ripartire da zero.» «Non mi risulta che avessimo stretto un patto.» «Non ho intenzione di sprecare altro tempo. Non posso continuare a recitare la parte di Murphy. Non le piacerebbe scoprire qual è la molla che fa funzionare Soneji? Oh, sì, che le piacerebbe, dottor Cross. Diventerebbe famoso anche lei. E sarebbe ben accetto in qualunque ambiente.» Non credevo che si trovasse in uno dei suoi stati di fuga. Sembrava avere pieno controllo di sé. Era sempre stato Gary Soneji? Il Bambino Cattivo? Fin dal nostro primo incontro? Quella era stata la mia diagnosi iniziale e a quella mi attenevo ancora. «Riesce a seguirmi?» mi domandò. Si era messo comodo, con le gambe allungate sulla brandina, e si stava sgranchendo le dita dei piedi nudi. «Mi sta dicendo che è sempre stato consapevole delle sue azioni. Che non c'è mai stata una personalità scissa. Nessuno stato di fuga. Ha semplicemente interpretato due ruoli, e ora si è stancato di Gary Murphy.» Gli occhi di Soneji erano attenti, magnetici. Il suo sguardo più freddo e penetrante del solito. A volte, nei casi di schizofrenia grave, la vita vissuta con la fantasia diventa più importante di quella reale. «Proprio così. Sta cominciando a vederci chiaro, Alex. Lei è molto più intelligente degli altri. Sono fiero di lei. È l'unico che riesce ancora a interessarmi alle cose. L'unico in grado di tener desta la mia attenzione per periodi prolungati.» «E che cosa vuole da me?» Era importante tenerlo in carreggiata, impedirgli di divagare. «Che cosa posso fare io per lei, Gary?» «Ho bisogno di qualche cosetta. Ma, soprattutto, voglio essere me stes-
so. Voglio che le mie imprese mi vengano riconosciute.» «E in cambio che cosa otterremo?» Soneji mi sorrise. «Le racconterò quello che è successo. Dall'inizio alla fine. La aiuterò a risolvere il suo importantissimo caso. Racconterò tutto a lei, Alex.» In silenzio, attesi che riprendesse a parlare, ma col pensiero continuavo a tornare alle parole scarabocchiate sullo specchio del bagno, a casa di Gary Soneji: VOGLIO ESSERE QUALCUNO! Con ogni probabilità, aveva avuto intenzione di attribuirsi il merito di tutto fin dal principio. «La mia idea era di uccidere entrambi i bambini. Non vedevo l'ora. Con l'infanzia ho un rapporto di amore-odio, capisce. Tagliavo i seni e depilavo i genitali delle mie vittime adulte perché assomigliassero di più ai bambini. E, comunque, l'uccisione dei due marmocchi era la conclusione logica e inevitabile di tutta la faccenda.» Sorrise di nuovo, un sorriso bizzarro e del tutto inappropriato, quasi stesse confessando una bugia di poco conto. «Le interessa ancora sapere che cosa mi ha spinto a optare per un sequestro, vero? E perché ho scelto proprio Maggie Bocciolo di Rosa e il suo amico Goldberg il Tappo?» Ricorreva ai soprannomi per provocare... e per innervosire. Amava recitare la parte del Bambino Cattivo. E certo nel corso di quei mesi aveva rivelato una notevole inclinazione per l'umorismo nero. «M'interessa tutto quello che ha da dirmi, Gary. Proceda pure.» «Sa», riprese lui, «una volta ho calcolato di aver ammazzato più di duecento persone. Un sacco di bambini, anche. Faccio quello che mi sento di fare. Quando mi coglie l'estro.» Ecco di nuovo il sorrisetto automatico, untuoso. Non era più Gary Murphy. Il marito e padre con l'aria da bravo ragazzo di Wilmington, nel Delaware, era scomparso. Uccideva fin da quando era un ragazzino? «È vero? O sta di nuovo cercando d'impressionarmi?» Lo vidi stringersi nelle spalle. «Perché dovrei? Da ragazzo, ho letto tutto quello che c'era da leggere sul rapimento Lindbergh. E su tutti gli altri grandi delitti. Fotocopiavo tutti gli articoli che riuscivo a trovare nella biblioteca di Princeton. In parte questo gliel'ho già raccontato, vero? Ero affascinato, totalmente assorbito e ossessionato dall'idea di rapire dei bambini. Di averli completamente sotto il mio controllo, per torturarli come se fossero uccellini inermi. Facevo pratica con un amico. Lei lo ha conosciuto, dottore. Simon Conklin. Uno psicopatico da quattro soldi, indegno della
sua attenzione, e certo non un socio per me. Non un complice. A solleticarmi è soprattutto il pensiero dell'angoscia dei genitori. Non si fanno scrupolo di annientare un adulto, ma guai a chi tocca uno dei loro piccoli. Un crimine impensabile!, inenarrabile! urlano. Stronzate. Pura ipocrisia. Ma ci pensi. Nel Bangladesh, sta morendo un milione di bambini dalla pelle scura. E a nessuno importa un bel nulla. Nessuno si precipita a salvarli.» «Perché ha ucciso le due famiglie di colore? Qual è il legame?» «Chi dice che dev'essercene per forza uno? È questo che le hanno insegnato alla Johns Hopkins? Forse quelle sono state le mie buone azioni. Perché non dovrei avere anch'io una coscienza sociale, eh? Dev'esserci equilibrio nella vita di ognuno. Io ne sono persuaso. Si legga l'I Ching. Rifletta sulla mia scelta delle vittime. Tossici senza speranza di recupero. Una ragazzina che faceva la prostituta. Un bambino condannato in partenza.» Non sapevo se credergli o no. Stava volando alto. «Intende dire che ha un debole per noi neri? Davvero commovente.» Soneji preferì non raccogliere l'ironia. «A dire la verità avevo un'amica di colore, sì. Una cameriera. La donna che si prese cura di me all'epoca del divorzio fra i miei genitori, se proprio vuole saperlo. Laura Douglas, si chiamava. Poi però se ne tornò a Detroit, mi abbandonò. Una grassa signora con una risata scrosciante che io adoravo. Fu dopo la sua partenza per Detroit che Mamma Terrore cominciò a chiudere il bambino attaccabrighe e ipercinetico che ero nel seminterrato. «Lei sta guardando il ragazzo rinchiuso, l'originale, il prototipo. Nel frattempo, i miei fratellastri e le mie sorellastre se ne stavano di sopra, nella casa di mio padre! A giocare coi miei giocattoli. Mi prendevano in giro parlandomi attraverso le assi del pavimento. Una volta sono rimasto chiuso laggiù per settimane. O almeno questo è ciò che ricordo. Nella sua testa si stanno accendendo tante belle lampadine, dottor Cross? Un ragazzetto confinato in cantina. Bambini sepolti in un granaio. Un'analogia perfetta, chiara come il sole. I pezzi cominciano a combaciare? Il nostro Gary sta finalmente dicendo la verità?» «Me lo dica lei. Sta dicendo la verità?» Ma credevo di sì. Tutto quadrava. «Oh, sì. Parola di scout. Gli omicidi nella zona sud-est. In effetti, mi piaceva l'idea di passare alla storia come il primo serial killer di neri. Non conto quell'imbecille di Atlanta, ammesso e non concesso che abbiano preso l'uomo giusto. Wayne Williams era soltanto un dilettante.»
«Non ha ucciso Michael Goldberg?» «No. La sua morte non è stata intenzionale. L'avrei ammazzato, certo. Ma ogni cosa a suo tempo. Era un marmocchietto viziato. Mi ricordava mio 'fratello', Donnie.» «A che cosa si devono i lividi riscontrati sul corpo? Mi racconti che cosa successe.» «Tutto questo le piace, vero, dottore? Sarebbe interessante scoprire perché. Comunque, quando mi accorsi che mi era morto fra le mani, m'infuriai. M'infuriai sul serio. Presi a calci quel fottuto cadavere non so quante volte. Lo colpii con la pala. Non ricordo se feci altro; ero fuori di me. Poi lo buttai in quel fiume lontano dall'abitato.» «Ma non ha fatto nulla alla bambina? Non ha fatto del male a Maggie Rose Dunne?» «No, non ho fatto del male alla bambina.» Stava imitando la mia voce preoccupata, e ci riusciva piuttosto bene. Sì, era senza dubbio un bravo attore, capace d'interpretare più ruoli. Era inquietante guardarlo, e trovarsi nella stessa stanza con lui. Possibile che avesse ucciso centinaia di volte? Ero incline a crederlo. «Mi racconti di lei. Che ne è stato di Maggie Rose Dunne?» «Va bene, va bene, va bene. La vera storia di Maggie Rose Dunne. Accendi una candela, canta un inno a Gesù per invocarne la misericordia. Dopo il rapimento era piuttosto fuori forma. La prima volta che sono sceso a verificare, perlomeno. Stava smaltendo gli effetti del secobarbital. Ho recitato la parte di Mamma Terrore a beneficio della piccola Maggie. Ho parlato proprio come faceva lei, quando si metteva fuori della porta del seminterrato. Smetti di piangere, chiudi il becco. Chiudi il becco, maledetto marmocchio viziato! L'ho spaventata un bel po', posso assicurarglielo. Poi l'ho rimessa a dormire. Ho controllato il polso a tutti e due; ero sicuro che i bastardi avrebbero preteso la prova che i bambini erano vivi e stavano bene.» «Ed erano entrambi regolari?» «Sì. Perfetti, Alex. Ho posato l'orecchio sul loro piccolo torace. Ho tenuto a freno il mio naturale impulso di arrestare il loro battito cardiaco invece di mantenerlo costante.» «Perché una scelta così sensazionale? Perché tanta pubblicità? Perché correre un rischio tanto grande?» «Perché ero pronto. Mi stavo preparando da molto, molto tempo. Non correvo alcun rischio. Inoltre, avevo bisogno dei soldi. Meritavo di diven-
tare miliardario. Tutti gli altri lo sono.» «È tornato a vedere i bambini, l'indomani?» «Sì, e lei stava bene. Ma il giorno dopo Michael Goldberg era morto e Maggie Rose non c'era più! Entrai nel granaio, e nel punto in cui avevo sepolto i bambini c'era la buca. Una grande buca! Vuota! Non le ho fatto nulla. E neppure sono stato io a ritirare i soldi del riscatto, in Florida. È stato qualcun altro. Ora tocca a lei scoprire quello che è successo, detective. Io credo di esserci riuscito! Credo di conoscere il grande segreto.» 74 Quella mattina alle tre ero già in piedi. A suonare! A suonare Mozart e Debussy e Billie Holiday sulla veranda. Probabilmente gli spacciatori si sarebbero precipitati a chiamare la polizia per lamentarsi del rumore. Più tardi tornai da Soneji. Dal Bambino Cattivo. Nella sua celletta senza finestre. Tutt'a un tratto lui non voleva altro che parlare. Pensavo di sapere dove voleva arrivare e che cosa si preparava a dirmi. Ma avevo bisogno di una conferma da parte sua. «Deve sforzarsi di capire qualcosa che è del tutto estraneo alla sua natura», esordì. «Ero sotto pressione quando spiavo quella fottuta ragazzina e sua madre, l'attrice. Sono un cultore, un drogato del brivido facile. E avevo bisogno di una dose.» Mentre raccontava le sue bizzarre, macabre esperienze, non potei fare a meno di pensare ai miei pazienti che a loro volta erano stati bambini seviziati. Era patetico ascoltare una vittima parlare delle sue innumerevoli vittime. «Io conosco bene l'esperienza del brivido, dottore. La mia canzone è Sympathy for the Devil. Dei Rolling Stones, mi pare. Ho sempre cercato di prendere tutte le precauzioni necessarie, ma senza infrangere la magia. Preparavo le vie di fuga, anche quelle di riserva, studiavo con cura i tragitti per entrare e uscire da tutti i quartieri in cui operavo. Una di queste prevedeva l'utilizzo di una galleria della rete fognaria che dal ghetto arriva al Campidoglio. Nella galleria avevo lasciato un cambio di abiti completo, e una parrucca. Avevo pensato a tutto. Non mi avrebbero preso. Ero estremamente fiducioso nelle mie capacità. Credevo di essere onnipotente.» «E lo crede ancora?» Glielo chiesi in perfetta serietà. Non pensavo che mi avrebbe dato una risposta sincera, però m'interessava ugualmente. «Quello che è accaduto, il mio errore, è stato di consentire ai successi, all'applauso di milioni di ammiratori, di darmi alla testa. Gli applausi pos-
sono diventare una droga. Katherine Rose soffre della stessa malattia, sa. E così gran parte degli attori cinematografici, e dei grandi dello sport. Milioni di persone che tifano per te, che ti portano alle stelle. Che ti ripetono che sei speciale, unico. E allora può succedere che si dimentichino i propri limiti, si dimentichi la fatica che ci è voluta per arrivare in cima. A me è successo. Ecco perché mi hanno preso. Credevo che sarei riuscito a fuggire dal McDonald's! Proprio come ero sempre riuscito a fuggire in precedenza. Tutto quello che volevo era concedermi una piccola 'orgia' di delitti, e poi filarmela. Volevo sperimentare tutti gli aspetti del crimine, quelli che ti fanno scorrere più rapido il sangue nelle vene, Alex.» «Si sente onnipotente ora? Da quando è diventato più vecchio e più saggio?» chiesi. Se aveva deciso di buttarla sull'ironico, potevo farlo anch'io. «Io sono la cosa più vicina all'onnipotenza che le capiterà mai d'incontrare. Perché sono uno strumento per la comprensione del concetto, giusto?» Di nuovo quel suo sorriso vacuo da assassino. Avevo voglia di colpirlo, di fargli male. Quella di Gary Murphy era stata una figura tragica, quasi gradevole per certi versi. Soneji era odioso, era il male allo stato puro. Il mostro umano, la bestia. «Quando sorvegliava le case dei Goldberg e dei Dunne, era all'apice della sua potenza?» Eri onnipotente in quel momento, stronzo? «No, no, no. Come lei sa, dottore, mi stavo già rammollendo. Avevo letto troppi articoli sull'omicidio 'perfetto' di Condon Terrace. 'Nessuna traccia, nessun indizio, l'assassino imprendibile!' Perfino io ne ero impressionato.» «Che cosa è andato storto a Potomac?» Pensavo di conoscere già la risposta, ma ancora una volta mi serviva la sua conferma. Si strinse nelle spalle. «Ero seguito, ovviamente.» Ci siamo, pensai. L'osservatore. «A quell'epoca non lo sapeva?» «Certo che no.» Lo vidi accigliarsi. «Me ne sono reso conto solo molto più tardi. E durante il processo ne ho avuto la certezza.» «Come andò? In che modo scoprì di essere pedinato?» Soneji teneva gli occhi fissi su di me, quasi volesse trapanarmi fino alla nuca. Mi considerava inferiore a lui, un semplice recipiente per i suoi sfoghi. E tuttavia pensava che fossi un interlocutore più interessante degli altri. Non sapevo se esserne lusingato od offeso. Oltre a ciò, Soneji era curioso di scoprire quanto sapevo io.
«Mi consenta di chiarire un punto», disse. «Per me è molto importante. Ho dei segreti da svelarle. Un'infinità di segreti grandi e piccoli. Segreti sporchi, segreti succosi. E voglio rivelargliene uno subito. Sa perché?» «Elementare, mio caro Gary. Per lei è devastante dover sottostare ad altri. Ha bisogno di avere il controllo della situazione.» «Ottimo, Dottor Detective. Ma ho alcune cosettine utili da barattare. Delitti che risalgono all'epoca in cui avevo dodici o tredici anni. Delitti importanti rimasti insoluti. Mi creda sulla parola: ho una collezione di tesori da dividere con lei.» «Capisco», assentii. «E io ho una gran voglia di ascoltarli.» «Lei ha sempre capito. Tutto quello che deve fare è convincere gli altri zombi.» Non potei non sorridere di quel passo falso. «Gli altri zombi?» «Mi dispiace, mi dispiace, non volevo essere scortese. È in grado di convincere gli zombi? Sa a chi mi riferisco. Lei li rispetta ancor meno di quanto faccia io.» Era abbastanza vero. Tanto per cominciare, avrei dovuto convincere Pittman. «Mi aiuterà?» volli sapere. «Mi fornirà elementi concreti? Devo sapere che fine ha fatto la ragazzina. Perché i suoi genitori abbiano finalmente un po' di pace.» «D'accordo. Lo farò», rispose lui. Tutto era diventato incredibilmente semplice. Si passa il tempo ad aspettare. E si aspetta. È quasi sempre così in un'indagine di polizia. Si fanno migliaia, letteralmente migliaia, di domande. Si riempiono interi schedari con cartacce inutili. E ancora domande. Si seguono miriadi di piste che non portano da nessuna parte. Poi succede qualcosa e la nebbia comincia a diradarsi. Succede, di tanto in tanto. E stava succedendo in quell'istante. Il frutto di migliaia di ore di lavoro. La ricompensa per gli interminabili colloqui avuti con Gary. «Allora non mi accorsi che ero sorvegliato», continuò Gary Soneji. «E nulla di quanto sto per raccontarle è avvenuto nei pressi di casa Sanders. Bensì in Sorrell Avenue, a Potomac. Per la precisione, di fronte alla casa dei Goldberg.» Di colpo sentii di non poter più sopportare i suoi tira e molla. Dovevo scoprire quello che sapeva. E c'ero quasi. Parla, piccolo bastardo. «Coraggio», lo esortai. «Che cos'avvenne a Potomac? Che cosa vide dai Goldberg? Chi vide?» «Andai laggiù in macchina poche sere prima del sequestro. C'era un uo-
mo che camminava sul marciapiede. Al momento non ci feci caso. Non gli attribuii alcuna importanza fino a quando non lo rividi durante il processo.» S'interruppe. Si stava nuovamente prendendo gioco di me? Ne dubitavo. Mi guardava come per scandagliarmi l'anima. Sa chi sono. Mi conosce forse meglio di quanto non mi conosca io stesso. Che cosa voleva da me? Ero forse un sostituto per qualcosa che era venuto a mancargli durante l'infanzia? Perché mi aveva scelto per quel terribile compito? «Chi era l'uomo che ha riconosciuto in aula?» «Era l'agente dei servizi segreti. Era Devine. Lui e il suo compare, Chakely, devono avermi notato mentre sorvegliavo le case dei Goldberg e dei Dunne. Sono stati loro a seguirmi. Loro hanno preso la piccola preziosa Maggie Rose! Loro hanno ritirato il riscatto in Florida. È ai poliziotti che avrebbe dovuto star dietro fin dall'inizio. Due poliziotti hanno ammazzato la bambina.» 75 Così, dopotutto, avevo visto giusto sin dall'inizio sul conto di Devine e Chakely. Soneji/Murphy era l'unico testimone oculare, e aveva confermato l'esattezza delle mie supposizioni. Adesso era il momento di agire. Dovevo riaprire il caso Dunne-Goldberg. Con novità che a Washington nessuno avrebbe avuto voglia di ascoltare. Decisi di parlare prima con l'FBI. Due poliziotti avevano assassinato Maggie Rose. Bisognava ricominciare le indagini; il caso del rapimento non era stato risolto e ora stava per esplodere un'altra bomba. Feci un salto dal mio buon amico Gerry Scorse, al quartier generale dell'FBI. Dopo avermi lasciato a raffreddare i miei bollenti spiriti in anticamera per quaranta minuti, mi portò un caffè e m'invitò a seguirlo nel suo ufficio. «Accomodati, Alex. Grazie per aver aspettato.» Mi ascoltò con cortesia, e con apparente interesse, mentre gli riferivo ciò che io avevo scoperto - e Soneji confermato - sugli agenti Mike Devine e Charles Chakely. Prese appunti, un sacco di appunti su foglietti gialli sciolti. «Devo fare una telefonata», annunciò quando tacqui. «Reggiti forte, Alex.» Al suo ritorno, m'invitò ad accompagnarlo di sopra. Non fece commenti
di sorta, ma ritenni che fosse rimasto impressionato dalle rivelazioni di Soneji. Mi scortò nella sala riunioni privata di Kurt Weithas. Weithas è il vicedirettore dell'FBI, il numero due. Insomma, volevano farmi capire che si trattava di un incontro importante, e naturalmente a quel punto io l'avevo capito. La sala era comoda e imponente. Le pareti e buona parte dei mobili erano blu scuro, sobri e austeri; il soffitto mi rammentò l'abitacolo di un'auto straniera. Sul tavolo erano stati preparati matite e blocchetti gialli per appunti. Fu Weithas a prendere in mano il gioco fin dal primo momento. «Vorremmo proporle uno scambio, detective Cross», fu la sua battuta d'apertura. Weithas parlava e si muoveva come un legale del Campidoglio, molto quotato, molto abile. E, per un certo verso, è esattamente ciò che è. Sulla camicia candida sfoggiava una cravatta di Hermès, ed entrando nella stanza lo vidi inforcare un paio di occhiali con la montatura d'oro. Sembrava di pessimo umore. «La metteremo a parte di tutte le informazioni in nostro possesso relative agli agenti Devine e Chakely. Da parte sua, lei s'impegnerà a collaborare per mantenere la massima segretezza su questa faccenda. Ciò che voglio dirle è che sapevamo di loro già da un certo tempo. Abbiamo svolto un'indagine parallela alla sua.» «Vi garantisco la mia collaborazione», bofonchiai, sforzandomi di non apparire troppo sorpreso. «Ma al dipartimento dovrò stendere un regolare rapporto.» Weithas liquidò l'obiezione con un cenno noncurante. «Ho già parlato col suo capo. Nel corso delle indagini ci avete preceduto in un paio di occasioni, ma forse questa volta siamo in leggero vantaggio. Mezzo passo più avanti.» «Disponete anche di un numero maggiore di uomini», replicai. A questo punto subentrò Scorse. «Aprimmo un'indagine sugli agenti Devine e Chakely all'epoca del sequestro. Era logico considerarli dei sospetti, anche se in effetti non li abbiamo mai presi seriamente in considerazione. Comunque, nel corso dell'indagine entrambi furono fatti oggetto di pesanti pressioni. Dato che i Servizi rispondono direttamente al ministro del Tesoro, può immaginare da solo quello che hanno passato.» «In buona parte l'ho constatato di persona», replicai. Scorse ne prese atto con un cenno e proseguì.
«L'agente Charles Chakely rassegnò le dimissioni il 4 gennaio; sostenne che stava meditando quel passo da molto prima del rapimento. Disse anche che non se la sentiva di sopportare le allusioni della gente e le attenzioni dei giornalisti. Le dimissioni vennero accolte immediatamente. Più o meno nello stesso periodo, scoprimmo un piccolo errore nei registri che gli agenti aggiornano quotidianamente. Una data le cui cifre erano state involontariamente invertite. Nulla di decisivo, ma avevamo per le mani un caso importante e controllavamo ogni minimo particolare.» «In ultimo le indagini arrivarono a impegnare, direttamente o indirettamente, novecento dei nostri uomini», interloquì il vicedirettore. Ancora non capivo a che cosa stesse mirando. «In seguito, nei registri furono individuate altre irregolarità», seguitò Scorse. «I nostri esperti arrivarono alla conclusione che due dei rapporti individuali erano stati manipolati, vale a dire riscritti. E infine ci convincemmo che erano stati eliminati i riferimenti al professor Gary Soneji.» «Lo individuarono mentre sorvegliava la casa dei Goldberg, a Potomac», dissi. «Ammesso che si possa prestar fede a quello che dice Soneji.» «Su questo punto credo che si possa. Le sue informazioni collimano perfettamente con le nostre scoperte. Crediamo che i due agenti abbiano spiato Soneji che a sua volta studiava i movimenti di Michael Goldberg e Maggie Rose Dunne. Crediamo che uno di loro abbia seguito Soneji e scoperto il nascondiglio di Crisfield, nel Maryland.» «Li tenevate d'occhio fin da allora?» domandai guardando Scorse. Efficiente e conciso come sempre, lui si limitò a un unico cenno d'assenso. «In aggiunta, abbiamo ragione di credere che loro sappiano di essere sotto sorveglianza. Due settimane dopo le dimissioni di Chakely, anche Devine lasciò i Servizi. Neppure lui e la sua famiglia, dichiarò, erano in grado di sostenere la pressione. Si dà il caso, però, che Devine e sua moglie sono separati.» «Immagino che Chakely e Devine non si siano ancora azzardati a spendere i soldi del riscatto.» «A quanto ci risulta, no. Come ho già detto, sanno che nutriamo dei sospetti. E non sono degli sciocchi. Al contrario.» «È un gioco basato sull'attesa, delicato e complesso», intervenne nuovamente Weithas. «Per il momento non siamo ancora in grado di dimostrare nulla, ma possiamo distruggergli l'esistenza. E di certo possiamo impedirgli di spendere il denaro del riscatto.» «E il pilota della Florida? Non mi è stato possibile condurre un'indagine
sul posto. Avete scoperto la sua identità?» Scorse annuì. L'FBI mi aveva tenuto nascoste molte cose. A me, come a tutti. Non che mi sorprendesse. «Joseph Denyeau, uno spacciatore. Alcuni dei nostri che operano in Florida lo conoscevano. Non è affatto improbabile che lo conoscesse anche Devine, e che abbia deciso d'ingaggiarlo.» «E che ne è stato di Joseph Denyeau?» «Mettiamola così: se ancora non avessimo capito che Devine e Chakely facevano sul serio, Deyneau ci avrebbe tolto gli ultimi dubbi. È stato assassinato in Costa Rica. Gli hanno tagliato la gola. Se tutto fosse andato liscio, il cadavere non sarebbe mai stato trovato.» «E ancora non vi decidete a mettere le mani su quei due?» «Non abbiamo prove, Alex. Neppure uno straccio di prova. Nessuna, almeno, che possa reggere in tribunale. Quello che ti ha raccontato Soneji conferma le nostre conclusioni, ma non ci sarebbe di alcuna utilità in aula.» «Che ne è stato della bambina? Che cos'è successo a Maggie Rose?» Avevo rivolto la domanda a Weithas, che tuttavia non mi rispose. Lo vidi esalare un lungo sospiro e pensai che doveva avere avuto una giornata lunga. E un anno ugualmente lungo. «Non lo sappiamo», brontolò infine Scorse. «Ancora non abbiamo una sola indicazione in merito alla sorte di Maggie Rose. Questa è la cosa più sconcertante.» «C'è un'altra complicazione», aggiunse il vicedirettore del Bureau. Lui e Scorse erano seduti su un divano di pelle scura, chini su un tavolo da caffè in vetro accanto a cui stavano un computer IBM e una stampante. «Sono sicuro che ce ne saranno molte», sospirai. L'FBI non ha nulla da imparare in fatto di bocche cucite. Avrebbero potuto aiutarmi fin dall'inizio. Forse, se avessimo lavorato insieme, saremmo riusciti a rintracciare Maggie Rose. Weithas lanciò un'occhiata a Scorse, poi tornò a guardare me. «La complicazione è Jezzie Flanagan», disse. Lo guardai, stupefatto. Di colpo ero senza fiato, come se qualcuno mi avesse sferrato un pugno nello stomaco. Già da qualche minuto presentivo che si preparavano a rivelarmi qualcosa di molto speciale. Rimasi seduto lì, sentendomi freddo e vuoto, sulla buona strada per non sentire nulla. «Noi pensiamo che i due uomini abbiano potuto contare sulla sua collaborazione. Fin dall'inizio. Jezzie Flanagan e Mike Devine sono amanti da anni.»
76 Quella sera, verso le otto e mezzo, Sampson e io camminavamo lungo New York Avenue. E la zona malfamata dei ghetti di Washington ed è lì che noi passiamo gran parte delle nostre serate. Siamo di casa. Lui mi aveva appena chiesto come me la stessi cavando. «Non troppo bene, grazie. E tu?» replicai io. Sapeva di Jezzie. Gli avevo raccontato tutto. Il caso si faceva sempre più intricato e io non avrei potuto sentirmi peggio. Scorse e Weithas mi avevano disegnato uno scenario perfettamente logico, e Jezzie vi era coinvolta. C'era dentro fino al collo, impossibile dubitarne. Una menzogna aveva condotto a un'altra, e così via. E nel mentirmi non aveva mai mostrato il minimo cedimento. Era stata perfino più brava di Soneji/Murphy. Lucida e sicura di sé. «Vuoi che me ne stia zitto? O preferisci che parliamo?» mi domandò ancora Sampson. «A me va bene comunque.» Come sempre, il suo viso non tradiva nulla. Forse sono gli occhiali da sole a dargli quell'aria di assoluta imperturbabilità, ma personalmente ne dubito. Sampson era così già a dieci anni. «Voglio parlare», dissi. «E non mi dispiacerebbe bere qualcosa. Ho bisogno di parlare di bugiardi psicopatici.» «Offro io», fece lui. Puntammo verso Faces, un bar che frequentiamo fin dai tempi del nostro arruolamento in polizia. Ai clienti abituali non dà fastidio sapere che siamo due detective, e di quelli tosti. Alcuni arrivano addirittura a riconoscere che per il quartiere siamo più un affare che una perdita. Da Faces vanno soprattutto neri, ma non mancano i bianchi appassionati di jazz. E desiderosi d'imparare a ballare e a vestirsi. «È stata Jezzie a incaricare della sorveglianza Devine e Chakely?» Sampson riesaminava i fatti mentre aspettavamo che scattasse il verde al semaforo della 5th Street. Due punk della zona ci occhieggiavano dal loro osservatorio, di fronte al Popeye's Fried Chicken. In tempi passati, sarebbero stati comunque lì, ma non con tanti soldi - o armi - in tasca. «Salve, fratelli», li salutò Sampson ammiccando. Sfotte sempre tutti, lui. Ma nessuno gli risponde mai per le rime. «Già, è così che è iniziato tutto. Devine e Chakely facevano parte della
squadra incaricata di proteggere il ministro Goldberg e la sua famiglia. Lavoravano agli ordini di Jezzie.» «E nessuno ha mai sospettato di loro?» «Non subito. L'FBI li ha passati al vaglio. Lo hanno fatto con tutti. C'erano delle irregolarità nei loro rapporti. È stato questo a far insospettire il Bureau. Qualche esperto dall'occhio lungo ha subodorato una falsificazione. Lo sai, loro hanno venti uomini per ciascuno di noi. E per di più, hanno fatto sparire i verbali manipolati in modo che nessuno di noi ne venisse a conoscenza.» «Devine e Chakely hanno scoperto che Soneji spiava uno dei due bambini. E così che è cominciato tutto? Con una doppia mossa?» Ormai anche Sampson si era fatto un'idea sufficientemente chiara della situazione. «Hanno seguito il furgone di Soneji fino alla fattoria nel Maryland. Avevano capito di avere a che fare con un potenziale sequestratore. Poi qualcuno ha avuto l'idea di sottrargli i ragazzi con un secondo rapimento.» Sampson era cupo in volto. «Un'idea da dieci milioni di dollari. E la signorina Jezzie c'era dentro fin dall'inizio?» «Non lo so. Credo che questo dovremo chiederlo a lei, una volta o l'altra.» «Già. Come ti senti al momento, sopra o sotto il pelo dell'acqua?» «Non so neppure questo. Incontrare una persona che ti mente come lei ha mentito a me cambia inevitabilmente la prospettiva delle cose. È dura da buttar giù, amico. Mi hai mai mentito, tu?» Sampson scoprì i denti in una smorfia che era a metà fra il sorriso e il ringhio. «A me sembra che tu abbia tutta la testa sotto l'acqua», brontolò. «Sembra anche a me», riconobbi. «Diciamo che ho avuto momenti migliori. Ma anche peggiori. Forza, facciamoci questa birra.» John puntò il dito contro i due punk, fingendo di sparare. Quelli risero e risposero miniando un OK. Poliziotti e rapinatori in pieno idillio. Attraversammo la strada diretti da Faces. Una dose di oblio era quel che ci voleva. Il bar era affollato e lo sarebbe rimasto fino all'ora di chiusura. Qualcuno ci lanciò un saluto. Seduta al banco vidi una donna con cui ero uscito qualche volta. Un'assistente sociale, davvero carina e in gamba, che era stata collega di Maria. Mi chiesi perché quei nostri incontri non fossero approdati a nulla. Forse per colpa mia? Figurarsi. Sampson agitò un braccio. «Hai visto Asahe laggiù?» «Sono un detective, io. Vedo tutto. Non mi sfugge niente.»
«Ecco che cominci a piangerti addosso.» Si rivolse al barman. «Due birre. No, quattro.» «Ce la farò. Vedrai se non ci riesco. È solo che non mi era mai passato per la testa d'inserire anche lei nell'elenco delle persone sospette. Colpa mia.» «Sei un duro, amico. Hai ereditato i geni cattivi di tua nonna. Ti faremo come nuovo. E faremo il culo alla nostra signorina Jezzie.» «Ti piaceva, John? Prima che saltasse fuori tutto questo, intendo.» «Oh, sì. Non c'era nulla che non andasse in lei. È un'ottima bugiarda, Alex. Un vero talento naturale». Poi aggiunse: «E no, non ti ho mai mentito, fratello mio. Neppure quando avrei dovuto». Il momento peggiore fu quando lasciammo Faces, a tarda sera. Mi ero fatto qualche birra, ma mi sentivo ancora abbastanza lucido ed ero riuscito a smussare gli angoli della sofferenza. E tuttavia era talmente atroce pensare che Jezzie c'era stata dentro fin dall'inizio. Rammentavo l'abilità con cui aveva stornato i miei sospetti da Devine e Chakely. E con cui aveva saputo tirarmi fuori tutto quello che scopriva la polizia di Washington. Era stata una talpa eccezionale. Fredda e sicura. Perfetta nella sua parte. Nana era ancora in piedi quando rientrai a casa. Non le avevo ancora detto di Jezzie e pensai che un momento valeva l'altro. Sarebbe stato spiacevole comunque. La birra mi diede una mano, e così le molte cose che lei e io avevamo condiviso. Le raccontai tutto. Nana mi ascoltò senza mai interrompere, il che la diceva lunga sul suo modo di recepire la novità. Quando tacqui, restammo a guardarci, seduti l'uno di fronte all'altra in soggiorno. Io stavo sul poggiapiedi, le gambe allungate verso di lei. Il silenzio urlava tutt'intorno a noi. Nana se ne stava rannicchiata sulla sua poltrona, sotto una vecchia coperta color avena. Faceva piccoli cenni d'assenso, mordicchiandosi il labbro inferiore, e intanto rifletteva. «Da qualche parte devo pur cominciare», disse infine. «Quindi tanto vale che cominci da qui. Ti risparmio i 'te l'avevo detto', perché mai avrei immaginato che la situazione fosse tanto brutta. Avevo paura per te, tutto qui. Ma non pensavo a niente del genere. Non avrei neppure potuto concepire un inganno tanto orribile. Ora per piacere abbracciami prima che salga di sopra a recitare le mie preghiere. Pregherò per Jezzie Flanagan stasera. E per noi tutti, Alex.» «Tu sai quello che bisogna dire.» Era la verità. Nana sapeva quando era
il momento di metterti al tappeto e quando non avevi bisogno che di una pacca sul sedere. Ci abbracciammo, poi a passi lenti salì in camera sua. Io restai in soggiorno a pensare a qualcosa che aveva detto Sampson: faremo il culo alla nostra signorina Jezzie. Ma non per quello che c'era stato fra noi. Bensì per Michael Goldberg e Maggie Rose Dunne. Per Vivian Kim, che non meritava di morire. Per Mustaf Sanders. Avremmo inchiodato Jezzie, in un modo o nell'altro. 77 Robert Fishenauer era un agente di custodia della prigione di Fallston. E non ne era mai stato contento come in quel momento, perché credeva di sapere dov'erano nascosti i dieci milioni di dollari del riscatto. O almeno una buona parte di essi. E contava di andare subito a dare una sbirciatala. Era anche ragionevolmente sicuro che Gary Soneji/Murphy stava continuando a prendere per i fondelli tutti quanti. E che si divertiva un mondo. Mentre a bordo della sua Pontiac Firebird percorreva la Route 50, nel Maryland, aveva mille interrogativi che gli turbinavano per la mente. Era Soneji/Murphy il rapitore? Diceva la verità quando sosteneva di conoscere il nascondiglio del denaro? Oppure Gary Soneji/Murphy era solo un sacco di merda? Uno dei tanti fuori di testa che capitavano a Fallston? Contava di scoprirlo molto presto. Ancora pochi chilometri di statale e ne avrebbe saputo più di chiunque altro, eccetto Soneji/ Murphy stesso. La strada secondaria che portava alla vecchia fattoria non esisteva quasi più; se ne accorse quando lasciò la statale per girare a destra. Era invasa dal timo e dai girasole e sul fondo sterrato non si vedevano neppure i solchi lasciati dalle auto di passaggio. Tutt'intorno, la vegetazione mostrava i segni evidenti della devastazione. Qualcuno aveva passato al setaccio l'intera zona nei mesi precedenti. L'FBI o la polizia locale? Con tutta probabilità avevano perlustrato il terreno circostante la fattoria almeno una dozzina di volte. Ma erano stati sufficientemente meticolosi? Robert Fishenauer se lo chiedeva. La sua era una domanda da dieci milioni di dollari. Erano circa le tre e mezzo del pomeriggio quando la Firebird rossa si fermò a fianco del garage in rovina situato a sinistra del corpo principale. Fishenauer sentiva l'adrenalina scorrergli nelle vene. Niente di meglio di una caccia al tesoro per tenersi in forma.
Gary aveva blaterato parecchio di Bruno Hauptmann e del fatto che avesse nascosto parte del riscatto Lindbergh nel garage di casa sua, a New York. Hauptmann, che era stato apprendista carpentiere, aveva costruito uno scomparto segreto nella parete. E, sosteneva Gary, lui aveva fatto qualcosa di simile nella vecchia fattoria del Maryland. Giurava che era la verità, e che quelli dell'FBI non sarebbero mai riusciti a recuperare il denaro. Quando Fishenauer spense il motore della Firebird, un silenzio innaturale gli piombò addosso. La vecchia casa aveva un aspetto tetro, addirittura inquietante. Gli faceva venire in mente La notte dei morti viventi. Solo che in quella nuova versione lui faceva parte del cast. Le erbacce avevano invaso tutto, persino il tetto del garage. I muri portavano le tracce dell'acqua piovana. «Allora, Gary, ragazzo mio, vediamo se sei solo un altro sacco di merda. Io spero proprio di no.» Inspirò profondamente e scese dall'auto. Si era già preparato ciò che avrebbe detto se lo avessero sorpreso lì: Gary gli aveva rivelato dove aveva sepolto il corpo di Maggie Rose Dunne. Naturalmente lui aveva pensato che fosse un'altra delle sue frottole strampalate. Ma quel pensiero aveva continuato a tormentarlo. Ed eccolo lì, a Zombi City, nel Maryland, per verificare. Si sentiva come inebetito. E anche a disagio, colpevole, ma deciso ad andare sino in fondo. Quella era una lotteria da dieci milioni di dollari. E lui aveva il biglietto vincente. Forse stava per scoprire il cadavere della piccola Maggie Rose Dunne. Santo cielo, sperava proprio di no. O forse avrebbe trovato il tesoro nascosto. In carcere, lui e Gary avevano parlato moltissimo, in un'occasione addirittura per ore. Gary adorava vantarsi delle sue imprese. Il suo bambino, così definiva il rapimento. Il suo delitto perfetto. Già. Tanto perfetto da garantirgli la detenzione a vita in un manicomio criminale. Ed ecco Robert Fishenauer, davanti alla porta ammuffita di Zombi City. La scena del delitto, come si dice. Prima di far scorrere il chiavistello arrugginito, infilò un paio di guanti invernali da golf. Sarebbe stata dura spiegare quelli, se l'avessero colto sul fatto. Dovette tirare con forza la porta verso di sé, tanto era fitta l'erba che cresceva sulla soglia. Era arrivato il momento di fare un po' di luce. Estrasse la torcia elettrica
e la accese regolandola al massimo della potenza. Gary gli aveva detto che i soldi erano nascosti sul lato destro del garage, per l'esattezza nell'angolo in fondo. Sparpagliate qua e là scorse vecchie macchine agricole ormai fuori uso. Sentì le ragnatele sfiorargli il viso e il collo mentre avanzava. L'odore della decomposizione era ovunque. Più o meno a metà strada, si fermò per guardarsi indietro. Fissando la porta spalancata, rimase in ascolto per tre minuti buoni. Sentì un jet rombare in lontananza. Poi più niente. E sul fatto che in giro non ci fosse nessuno lui ci contava proprio. Per quanto tempo l'FBI poteva permettersi di tenere sotto sorveglianza una fattoria abbandonata? Erano passati quasi due anni dal rapimento. Rassicurato, riprese ad avanzare verso il fondo del garage. Poi si mise al lavoro. Rovesciò un vecchio banco da lavoro - Gary gliene aveva parlato - e vi salì sopra. A quel punto aveva ormai avuto modo di constatare la meticolosità della descrizione fattagli da Gary. Lui aveva saputo indicargli con precisione dove si trovavano tutti i vecchi attrezzi e l'esatta collocazione di quasi tutte le assicelle di legno sulle pareti del vecchio garage. In piedi sul banco da lavoro, cominciò a staccare le assi nel punto in cui il muro si congiungeva al soffitto. C'era una cavità, lì dietro. Proprio come gli aveva assicurato Gary. Fishenauer puntò il fascio di luce verso la nicchia. Quasi non credeva ai suoi occhi, eppure eccola lì: una grossa pila di banconote. Provenienti dal riscatto che Gary Soneji/Murphy non avrebbe dovuto avere. 78 Alle tre e sedici del mattino seguente, Gary Soneji/Murphy premette la fronte contro le grosse sbarre gelide che separavano la sua cella dal corridoio. Aveva un'altra parte importante da recitare. Hellzapoppin! Vomitò sul lucidissimo pavimento di linoleum, proprio come aveva progettato. E fra un conato e l'altro, chiamava aiuto con voce strozzata. I due agenti del turno di notte arrivarono di corsa. Gary era tenuto sotto sorveglianza fin dal primo giorno, nel timore che cercasse di suicidarsi. Laurence Volpi e Phillip Halyard erano due veterani, entrambi con molti anni di servizio presso il carcere federale, e non amavano troppo venire disturbati dai detenuti, soprattutto dopo mezzanotte.
«Che diavolo ti succede?» sbraitò Volpi, guardando la poltiglia verdastra che si spandeva lentamente per terra. «Qualche problema, stronzo?» «Qualcuno mi ha avvelenato», rantolò Soneji/Murphy. «Sto morendo. Oh, Dio, sto morendo!» «La migliore notizia che sento da un bel pezzo a questa parte.» Sogghignando, Halyard guardò il collega. «Mi dispiace non averci pensato per primo. Una bella dose di veleno, e ci saremmo liberati del bastardo una volta per tutte.» Volpi si stava mettendo in contatto via radio col responsabile della sorveglianza notturna. Agli alti papaveri del carcere la sicurezza di Soneji stava molto a cuore, e Volpi non aveva nessuna intenzione che tirasse le cuoia durante il suo turno. «Sto male di nuovo», gemette il detenuto, e crollò contro le sbarre vomitando ancora, con violenza. Il responsabile del piano arrivò quasi subito e ascoltò il rapporto di Volpi, il classico discorsetto da «parati il culo». «Dice di essere stato avvelenato, Bobby. Non so che cosa diavolo sia successo. È possibile. Fra questi bastardi ce ne sono parecchi che lo odiano.» «Lo accompagno io in infermeria», disse Robert Fishenauer. Era un tipo sempre pronto ad accollarsi le responsabilità, e Volpi ci aveva contato. «Gli faranno una bella lavanda gastrica. Ammanettatelo e mettetegli i ceppi. Anche se stanotte non mi sembra abbastanza in salute per causare guai.» Pochi istanti dopo i due uomini salirono sull'ascensore. Aveva le pareti completamente imbottite ed era vecchio e penosamente lento. Gary sentiva il cuore martellargli in petto come una grancassa. Una dose di sana paura, finalmente. Aveva sentito la mancanza dell'adrenalina in circolo. «Stai bene?» L'ascensore scendeva di un centimetro per volta, o almeno così sembrava. Da un foro nell'imbottitura sporgeva un'unica lampadina nuda che proiettava una luce smorta. «Se sto bene? Tu che ne dici?» rispose Soneji/Murphy. «Dovevo fare in modo di star male, no? E sto male. Questo maledetto affare non può andare più svelto?» «Stai per vomitare di nuovo?» «È assolutamente possibile. Un prezzo insignificante da pagare.» Gary Soneji/Murphy abbozzò un sorriso esangue. «Un prezzo davvero irrisorio, Bobby.»
«Immagino di sì», grugnì l'altro. «Solo stammi lontano, se decidi di vomitare ancora.» L'ascensore non si fermò ai due piani sottostanti, bensì proseguì senza soste verso il seminterrato, dove si bloccò con un tonfo sordo. «Se ci vede qualcuno, stiamo andando in radiologia», ammonì Fishenauer mentre le porte si aprivano. «Il reparto di radiologia è qua sotto.» «Sì, conosco il piano», disse Soneji/Murphy. «Sono stato io a idearlo.» Ma erano passate le tre del mattino e non incontrarono nessuno mentre percorrevano il lungo corridoio. Più o meno a metà, la parete era interrotta da una porta. Fishenauer l'aprì con la sua chiave. Un altro breve corridoio. E in fondo un cancello d'acciaio. Era lì che toccava a Soneji/Murphy; lì Fishenauer avrebbe visto se Gary era all'altezza della sua fama. Perché lui non aveva la chiave del cancello. «Dammi la pistola, Bobby. Pensa ai dieci milioni di dollari. Da questo momento in poi tocca a me, e tu non devi far altro che preoccuparti della tua parte di soldi.» Semplicissimo. Soneji faceva apparire tutto talmente facile. Fai questo, fai quello. Prendi una fetta del malloppo. Riluttante, Fishenauer gli porse il revolver. Non voleva più pensare a quello che stava facendo. Era la sua possibilità di lasciare Fallston, la sua unica possibilità. Se avessero fallito, sarebbe rimasto impantanato lì per tutta la vita. «Non posso dire che sia un piano particolarmente ingegnoso, Bobby, ma funzionerà. Tu punta tutto su Kessler. Fatti vedere spaventato.» «Sono spaventato. Sono maledettamente spaventato.» «E così dev'essere, Bobby. La tua pistola ce l'ho io.» Al di là del cancello stavano di guardia due agenti. Da sopra il tramezzo di plexiglas che gli arrivava alla vita, osservarono sbigottiti quanto stava accadendo. Videro Soneji/Murphy con una pistola puntata alla tempia di Bob Fishenauer. Il detenuto era in ceppi e manette, ma era anche armato. I due agenti balzarono in piedi e puntarono i fucili a canna corta al di sopra del vetro. Non ebbero il tempo di fare altro. «State guardando uno sbirro morto», latrò Soneji/Murphy, «a meno che non apriate quel fottuto cancello in cinque secondi esatti. Non uno di più!» «Per favore», squittì Fishenauer. Aveva paura; sentiva la bocca della pistola premergli contro la tempia. «Ha ammazzato Volpi di sopra.» La guardia più anziana, Stephen Kessler, impiegò meno di cinque secondi a decidere. Girò la chiave nella serratura. Era amico di Bobby e pro-
prio su quella circostanza aveva fatto affidamento Soneji. Soneji aveva pensato a tutto. Sapeva che Fishenauer era un «ergastolano»: legato mani e piedi al carcere come tutti i suoi colleghi. Aveva fatto leva sulla sua frustrazione e sul suo malcontento, e aveva colto nel segno. Era il bastardo più in gamba che l'agente avesse mai incontrato. Avrebbe fatto di lui un uomo ricco. Si affrettarono verso l'auto di Fishenauer, parcheggiata nei pressi dell'ingresso principale. L'agente aveva lasciato la portiera aperta. In un lampo furono dentro. «Bella macchinina», disse Soneji/Murphy. «Ma ora potrai comprarti una Lamborghini. O due o tre, se è per quello.» Si sdraiò sul sedile posteriore, nascosto sotto la coperta su cui abitualmente dormiva il collie di Fishenauer. Puzzava di cane. «E ora andiamocene da questa fogna», disse ancora, e l'agente mise in moto. A un chilometro circa dalla prigione, abbandonarono la Firebird per salire su una Bronco parcheggiata in strada. Di lì a pochi minuti erano in autostrada. Il traffico era scarso, ma sufficiente per mimetizzarsi. Non erano passate neppure tre ore quando la Bronco imboccò la strada dissestata che conduceva alla vecchia fattoria. Durante il tragitto, Soneji/Murphy si era concesso il piccolo ma squisito piacere di assaporare la genialità del suo grande piano. Trovava esaltante il pensiero di aver effettivamente nascosto del denaro nel garage, due anni prima. Non i soldi del riscatto, naturalmente. Era stato davvero preveggente. «Ancora non ci siamo?» chiese da sotto la coperta. Fishenauer non rispose subito, ma dai sobbalzi Gary comprese che erano quasi a destinazione. Si mise seduto sull'angusto sedile posteriore della Bronco. Era quasi a casa, quasi libero. Era invincibile. «È arrivata l'ora di vedere il colore dei soldi», esclamò ridendo forte. «Non credi che a questo punto potresti anche togliermi i braccialetti?» Bob Fishenauer non si curò neppure di voltarsi. Per quanto lo riguardava, il rapporto fra lui e Soneji non era mutato: erano un agente di custodia e un detenuto. «Non appena avrò la mia parte», brontolò alla fine. «Allora, e solo allora, sarai libero.» «Sei sicuro di avere le chiavi delle manette, Robert?» chiese Gary alle sue spalle. «Non preoccuparti per questo. Tu sei sicuro di sapere dov'è nascosto il
resto del denaro?» «Certo.» Soneji/Murphy aveva anche la certezza che l'agente avesse addosso le chiavi. In quell'ultima ora e mezzo, era stato tormentato dalla claustrofobia. Proprio per sfuggire all'angoscia aveva rivolto la sua mente a pensieri più gradevoli. Il suo grande piano. Aveva rivissuto la sua infanzia in una serie di flashback. Aveva rivisto la matrigna. E i suoi due marmocchi viziati. Era stato di nuovo ragazzino, e aveva rivissuto la gloriosa avventura del Bambino Cattivo. Per un po', la fantasia aveva preso il sopravvento sulla realtà. La Bronco accostò. In quel momento Gary Soneji/Murphy passò le mani intorno alla testa di Fishenauer e gli serrò la gola. Il fattore sorpresa. Gli premette con forza le manette sul pomo d'Adamo. «Quello che posso dirti, Bobby... è che dopotutto sono un bugiardo psicopatico.» Fishenauer si dibatteva freneticamente. Gli mancava il respiro, gli pareva di annegare. Con le ginocchia urtò il cruscotto e il volante. La notte era piena dei grugniti animaleschi dei due uomini. Le gambe dell'agente scattarono verso il sedile del passeggero e verso l'alto. I suoi tacchi percuotevano il tettuccio della Bronco. Rantolava emettendo versi bizzarri, simili ai crepitii del metallo su una stufa accesa. Infine ogni resistenza cessò; solo qualche spasimo attraversava ancora le membra di Fishenauer. Gary era libero. Proprio come aveva previsto fin dall'inizio. Gary Soneji/Murphy era di nuovo uccel di bosco. 79 Jezzie Flanagan percorse il corridoio del Marbury Hotel di Georgetown fino alla camera 427. Si sentiva di nuovo sotto pressione. Tirata. Non era troppo soddisfatta di essere lì e si chiedeva quale fosse lo scopo dell'incontro. Jezzie credeva di saperlo e sperava di sbagliarsi. Sfortunatamente, le capitava di rado. Batté leggermente le nocche sulla porta, e intanto si guardava intorno. La sua non era paranoia; metà degli abitanti di Washington era impegnata a spiare l'altra metà. «È aperto. Entra», disse una voce all'interno. Jezzie entrò e lo vide sdraiato sul divano. Aveva preso una suite, e quello non era un buon segno. Aveva voglia di scialare.
«Una suite per la mia ragazza preferita», sorrise Mike Devine. Stava guardando i Redskins alla TV. Calmo come non mai. Per molti versi, a Jezzie ricordava suo padre. Forse era per questo che si era messa con lui. Era stata l'ambiguità della situazione a eccitarla. «Michael, lo sai che non dovremmo incontrarci. È pericoloso.» Jezzie chiuse la porta e girò la chiave nella serratura, ma si sforzava di apparire più ansiosa che arrabbiata. La dolce, cara Jezzie. «Pericoloso o no, dobbiamo parlare. Sai, di recente è venuto a trovarmi il tuo ragazzo. Stamattina la sua auto era parcheggiata davanti a casa mia.» «Non è il mio ragazzo. Gli sto semplicemente pompando le informazioni di cui noi abbiamo bisogno.» Lui sorrise. «Oh, lo stai pompando, questo è sicuro. E lui pompa te. Tutti contenti? Be', io non lo sono.» Jezzie andò a sedersi al suo fianco. Devine era un uomo decisamente sexy, e lo sapeva. Assomigliava a Paul Newman, anche se non aveva occhi azzurri così intollerabilmente belli. Le donne gli piacevano, e non lo nascondeva. «Non dovrei essere qui, Michael. Non possiamo correre il rischio di farci vedere insieme.» Gli appoggiò la testa sulla spalla, lo baciò sulla guancia, poi sul naso. Non aveva alcun desiderio di mostrarsi tenera con lui, ma se era necessario poteva farcela. Poteva fare qualunque cosa. «Oh, sì, invece. A che ci servono tutti quei soldi se non possiamo spenderli e neppure stare insieme?» «Mi sembra di ricordare certi giorni passati al lago, di recente. O li ho soltanto immaginati?» «Al diavolo i momenti rubati. Vieni in Florida con me.» Jezzie lo baciò sulla gola. Era ben rasato e come sempre sapeva di buono. Gli sbottonò la camicia per accarezzargli il petto. Poi le dita scesero più in basso. Aveva inserito il pilota automatico; adesso era in grado di andare sino in fondo. Qualunque cosa. «Potrebbe presentarsi la necessità di liberarci di Alex Cross», bisbigliò lui. «Dico sul serio. Mi capisci, Jezzie?» Lei sapeva che la stava mettendo alla prova, che voleva vedere la sua reazione. «Non è una cosa da poco. Lascia che ci rifletta su. Riuscirò a scoprire che cosa sa Alex, vedrai. Ma tu devi essere paziente.» «Te lo stai scopando, Jezzie. Ecco perché tu sei tanto paziente.» «No, non è vero.» Goffamente, cominciò a slacciargli la cintura dei pantaloni. Doveva te-
nerlo in riga ancora per un po'. «Come faccio a sapere che non ti sei innamorata di Alex Cross?» insistette Devine. «Perché amo te, Michael.» Gli si accostò un po' di più, lo abbracciò. Era facile da imbrogliare. Erano tutti facili da imbrogliare. A quel punto, tutto ciò che le restava da fare era anticipare le mosse dell'FBI. Perfetto. Il delitto del secolo. 80 Erano le quattro del mattino e stavo dormendo, quando arrivò la telefonata. In linea c'era Wallace, ed era a pezzi. Chiamava da Fallston, dove era alle prese con un problema maledettamente serio. Un'ora dopo ero alla prigione. Uno dei quattro privilegiati ammessi nell'ufficetto angusto e surriscaldato di Wallace. La stampa non era ancora stata informata della sensazionale fuga di Soneji, ma naturalmente non sarebbe stato possibile tenerla nascosta ancora per molto. Per i cronisti, quella sarebbe stata una giornata campale. Wallace Hart se ne stava semiaccasciato sulla scrivania ingombra di carte. Con lui c'erano il capo degli agenti di custodia e il legale del carcere. «Che cosa si sa dell'agente che è con Soneji?» domandai a Wallace non appena ne ebbi l'opportunità. «Si chiama Fishenauer. Trentasei anni. È con noi da undici e il suo stato di servizio è buono. Fino a oggi, ha sempre fatto il suo dovere.» «Qual è la tua opinione? Gary l'ha preso in ostaggio?» «Non credo. Credo che quel figlio di puttana abbia aiutato Soneji a scappare.» Quella stessa mattina, l'FBI istituì una sorveglianza di ventiquattr'ore su ventiquattro su Michael Devine e Charles Chakely. Una delle ipotesi avanzate era che Soneji andasse a cercarli. Lui sapeva che erano stati loro a mandare a monte il suo capolavoro. Il cadavere dell'agente di custodia Robert Fishenauer fu rinvenuto nel garage della fattoria di Crisfield, nel Maryland. Con un biglietto da venti dollari ficcato in bocca. La banconota non faceva parte del riscatto trafugato in Florida. Per tutto il giorno continuarono ad arrivare le prevedibili telefonate di «avvistamento». Ma nessuna si rivelò attendibile.
Soneji/Murphy era là fuori da qualche parte e rideva di noi, si spanciava dalle risate in qualche cantina buia. Era di nuovo sulla prima pagina di tutti i giornali nazionali. Proprio come piaceva a lui. Il numero uno dei Bambini Cattivi. Erano le sei del pomeriggio quando in macchina raggiunsi la casa di Jezzie. Non volevo andarci. Lo stomaco mi dava qualche fastidio e la testa era in condizioni perfino peggiori. Dovevo avvertirla che, se Soneji/Murphy l'aveva collegata a Devine e Chakely, con tutta probabilità sulla sua lista nera c'era anche lei. Dovevo metterla in guardia, senza però rivelarle altro di quanto sapevo. Mentre salivo i familiari gradini di mattoni rossi della veranda, fui investito da un frastuono di musica rock, così forte da far tremare i muri. Era l'album Taking My Time di Bonnie Raitt. Bonnie stava lamentosamente cantando I Gave My Love a Candle. Al lago, Jezzie e io avevamo ascoltato quel disco un'infinità di volte. Forse quella sera stava pensando a me. Di certo, negli ultimi giorni io avevo pensato parecchio a lei. Era vestita come sempre quando non era in servizio: T-shirt spiegazzata, jeans tagliati al ginocchio, sandali. Sorrideva; sembrava felice di vedermi. Così calma, sicura, composta. Io avevo lo stomaco stretto, ma per il resto mi sentivo perfettamente lucido. Sapevo quello che dovevo fare. O almeno pensavo di saperlo. «Un'altra cosa», dissi, come se avessimo interrotto la conversazione non più di un minuto prima. Lei rise e spalancò la porta schermata. Non entrai. Rimasi inchiodato dov'ero. Dalla casa vicina arrivava il tintinnio di campanelle agitate dal vento. La spiavo, pronto a registrare il minimo passo falso, l'errore che avrebbe guastato l'impeccabilità della sua recitazione. Nulla. «Ti va un giro in campagna? Offro io.» «Sicuro, Alex. Il tempo di mettere un paio di pantaloni lunghi.» Pochi minuti dopo eravamo sulla moto e ci allontanavamo rombando. Io canticchiavo ancora I Gave My Love a Candle, e intanto rivedevo le mie battute, una per una. Jezzie si voltò. «Possiamo andare in moto e parlare al tempo stesso», gridò nel vento. Io mi tenevo stretto a lei. E quella vicinanza rendeva tutto un po' più difficile. «Mi sono preoccupato per te, quando ho saputo che Soneji se l'era
filata», sbraitai a mia volta. Di nuovo lei si girò. «Perché? Perché preoccuparti per me? A casa c'è la mia Smith & Wesson.» Perché tu hai contribuito a rovinare il suo delitto perfetto, e forse lui lo sa, avrei voluto dirle. Perché sei stata tu a portar via la bambina dalla fattoria. Tu hai preso Maggie Rose Dunne e dopo hai dovuto ucciderla, non è così? «Ha saputo di noi due dai giornali», dissi invece. «Potrebbe decidere di vendicarsi di tutti quelli coinvolti nel caso. Soprattutto di chi, a suo avviso, ha rovinato i suoi piccoli progetti.» «E così che funziona il suo cervello, Alex? Nessuno può saperlo meglio di te. Dopotutto sei tu l'esperto di psicologia criminale.» «Quello che lui vuole è dimostrare al mondo la sua superiorità. Ha bisogno che questa storia sia sensazionale e complicata come ai suoi tempi lo fu il rapimento Lindbergh. Credo che proprio questo sia lo scopo cui mira. Vuole che il suo crimine sia il più grande, il migliore. E non ci è ancora riuscito. Probabilmente pensa di cominciare adesso.» «Chi è il Bruno Hauptmann di questo caso? Chi sta cercando d'incastrare Soneji?» Stava forse cercando di dirmi qualcosa? Forse Soneji era in qualche modo riuscito a incastrare anche lei? Sarebbe stato il colmo. Ma come? E per quale motivo? «Gary Murphy è Bruno Hauptmann. È lui il capro espiatorio, quello che Gary Soneji ha inchiodato con tanta abilità. È stato condannato e imprigionato, e lui è innocente.» Continuammo a parlarci al di sopra del vento per la prima mezz'ora. Poi per chilometri e chilometri filammo sull'autostrada in perfetto silenzio. Ciascuno di noi si era rinchiuso nel suo mondo privato. Stretto a lei, ricordai tante cose di noi. Mi sentivo male dentro; desideravo non provare più nessuna emozione. Sapevo che lei, non diversamente da Gary, era una psicopatica. Priva di coscienza. Ero persuaso che il mondo degli affari e della politica pullulasse di individui come loro. Che non provano mai rimorso, a meno che non vengano costretti a pagare per i loro delitti. Allora, e solo allora, danno la stura alle lacrime di coccodrillo. «E se ce la filassimo un'altra volta?» proposi a Jezzie. Era un po' che ci rimuginavo su. «Se ce ne tornassimo alle Isole Vergini? Ne ho bisogno.» Non ero sicuro che mi avesse udito. Poi la sentii dire: «Perché no? Non mi dispiacerebbe crogiolarmi al sole. Vada per le Isole».
La moto correva. Era deciso, dunque. La campagna che stavamo attraversando era bella, ma gli scenari indistinti che si succedevano intorno a noi, tutto quello che stava accadendo, mi facevano dolere la testa, ed era un dolore che non sarebbe cessato. 81 Più di ogni altra cosa Maggie Rose desiderava vivere. Ora lo capiva. Voleva che la sua vita tornasse quella di un tempo. Voleva disperatamente rivedere suo padre e sua madre. Rivedere tutti i suoi amici, gli amici di Washington e di Los Angeles, ma soprattutto Michael. Che ne era stato di Goldberg il Tappo? Lo avevano lasciato andare? I suoi genitori avevano pagato il riscatto e lui era stato rilasciato, mentre per chissà quale motivo le cose per lei erano andate diversamente? Maggie passava le giornate a raccogliere la verdura, ed era un lavoro duro; ancor peggio, era il lavoro più noioso che si potesse immaginare. Doveva concentrarsi su qualcos'altro durante le lunghe ore sotto il sole cocente. Doveva evitare di pensare a quello che stava facendo e a dove si trovava. Circa un anno e mezzo dopo il sequestro, Maggie Rose fuggì. Si era imposta l'abitudine di destarsi molto presto al mattino. Prima di chiunque altro. E aveva continuato a farlo per settimane intere prima di decidersi a tentare la fuga. Quando si alzò, quella mattina, fuori era ancora buio, ma lei sapeva che di lì a un'ora si sarebbe levato il sole. E avrebbe cominciato a far caldo. Scalza, tenendo in mano le scarpe che usava nei campi, scivolò in cucina. Se l'avessero sorpresa, si sarebbe giustificata dicendo che doveva andare in bagno. Per precauzione non ci era ancora andata. Le avevano detto che non ce l'avrebbe mai fatta a fuggire, e neppure a lasciare il villaggio. Distava più di settanta chilometri dagli altri centri abitati, in qualunque direzione ci si muovesse. Questo le avevano detto. Le montagne brulicavano di serpenti velenosi e gatti selvatici. A volte di notte li sentiva urlare. Non ce l'avrebbe mai fatta a raggiungere una città. Questo le avevano detto. E, se l'avessero colta in flagrante, l'avrebbero rinchiusa sottoterra per almeno un anno. Si ricordava che effetto faceva stare sottoterra? Senza vedere la luce per giorni e giorni? La porta della cucina era chiusa, ma lei aveva scoperto dove tenevano la
chiave: in una cassetta portautensili insieme con un mucchio di altre chiavi arrugginite. La prese, e prese anche un piccolo martello da utilizzare come arma. Lo infilò nell'elastico delle mutandine. Aprì la porta e fu all'aperto. Per la prima volta dopo un'eternità, di nuovo libera. Il suo cuore si librò alto come i falchi che a volte vedeva staccarsi dai loro nidi nascosti. Il semplice fatto di trovarsi sola era esaltante. Camminò per molti chilometri. Aveva deciso di scendere a valle invece di salire verso le montagne, benché uno dei bambini le avesse giurato e spergiurato che da quella parte non c'erano città o villaggi. Dalla cucina aveva prelevato due panini raffermi, con cui fece colazione. Col levarsi del sole, la temperatura cominciò a salire e alle dieci faceva già molto caldo. Ormai da parecchi chilometri costeggiava una strada sterrata, attenta però a tenersi fuori della vista di eventuali passanti. Camminò per tutto l'interminabile pomeriggio, sorpresa lei per prima della propria resistenza. Forse il lavoro nei campi l'aveva irrobustita. Non era mai stata così forte, tutti i suoi muscoli si erano sviluppati. Era il crepuscolo quando arrivò in vista della città. La trovò più grande e più moderna del villaggio in cui era stata segregata tanto a lungo. Cominciò a correre sugli ultimi declivi. La strada sterrata s'immetteva finalmente in una più grande, asfaltata. Una strada vera. Maggie la seguì fino a una stazione di servizio. Era una stazione come tante altre - SHELL, diceva l'insegna - e lei non aveva mai visto niente di più bello in tutta la sua vita. Maggie Rose alzò lo sguardo e vide l'uomo. Lui le chiese se stava bene. La chiamava sempre Bobbi e lei sapeva di stargli a cuore, almeno un pochino. Rispose che, sì, stava bene. Si era semplicemente smarrita nei suoi pensieri. Non gli rivelò che aveva ricominciato a inventare storie, meravigliose fantasticherie che l'aiutavano a dimenticare il dolore. 82 Gary Soneji/Murphy aveva indubbiamente il suo grande piano, ma ora anch'io avevo il mio. Il punto era: sarei riuscito ad attuarlo? La determinazione che mi animava sarebbe stata sufficiente a superare qualsiasi ostacolo, qualunque fosse il prezzo da pagare? Fino a che punto ero disposto a spingermi?
Il viaggio per Virgin Gorda da Washington ebbe inizio in un tetro venerdì di pioggia. In circostanze normali, non avrei potuto essere più felice di andarmene. In una Puerto Rico inondata di sole salimmo a bordo di un trimotore Trislander, e alle tre del pomeriggio scendevamo senza scosse verso una spiaggia candida, una striscia di sabbia delimitata da palme che ondeggiavano al vento. «Eccolo là», disse lei, seduta al mio fianco. «Il nostro posto al sole. Non mi dispiacerebbe rimanerci un mese intero.» «Ha proprio l'aria di essere quello che ci ha prescritto il dottore», assentii, e intanto pensavo: lo scopriremo presto. Scopriremo quanto durerà il desiderio di restare soli insieme, io e lei. «Questa stanca viaggiatrice ha una gran voglia di tuffarsi in acqua. Senza pensare a niente. Vivendo di pesce e frutta. Nuotando fino a crollare esausta.» «È per questo che siamo venuti, no? Per spassarcela al sole. E dimenticare i cattivi della favola.» «Può essere tutto perfetto, Alex. Dico sul serio. Basta lasciarsi andare un po'.» Jezzie sembrava il ritratto della sincerità. Ero quasi tentato di crederle. Quando lo sportello del Trislander si aprì, ci accolse una folata d'aria tiepida, intrisa delle fragranze caraibiche. Gli altri sette occupanti dell'aereo portavano occhiali scuri e magliette colorate. E sorridevano. Mi costrinsi a stamparmi un sorriso sulla faccia. Jezzie mi prese per mano. Era lì, eppure non c'era. Avevo la sensazione di vivere in un sogno. Quello che stava accadendo era impossibile, e tuttavia non potevo negare la realtà. Alcuni funzionari neri con un marcato accento britannico ci scortarono attraverso una serie di rilassati controlli doganali. I nostri bagagli non furono aperti. Io però sapevo che tutto era stato organizzato con la collaborazione del Dipartimento di Stato, e nella mia borsa avevo un revolver di piccolo calibro, carico e pronto all'uso. «Adoro questo posto», disse ancora Jezzie mentre ci univamo alla minuscola coda in attesa al posteggio dei taxi. La strada brulicava di motorini, biciclette e furgoncini impolverati. Mi tornarono alla mente le nostre gite in moto. «Fermiamoci qui per sempre. Fingiamo di non dover più andare via. Niente più orologi, né radio, né notiziari.»
Sorrisi. «L'idea mi piace. Giochiamo a fare finta, per un po'.» Lei batté le mani con l'entusiasmo di una bambina. «Proprio quello che volevo dire. Facciamo finta.» L'isola non era cambiata dalla nostra ultima visita. Yacht e barche a vela punteggiavano l'acqua scintillante. Oltrepassammo piccoli ristoranti e negozi di articoli per sub. Le case a un piano, tinteggiate in colori vivaci, esibivano grandi antenne televisive. Il nostro posto al sole. Il paradiso. C'era tempo per una nuotata, quando arrivammo all'albergo. Ci esibimmo un po'. Flettemmo ogni muscolo dei nostri corpi, facemmo a chi arrivava prima a una scogliera lontana. Io ripensavo al nostro primo bagno insieme, nella piscina dell'albergo di Miami Beach. Quando era cominciata la finzione. Dopo ci sdraiammo sulla spiaggia, a guardare il sole che calava all'orizzonte, si fondeva con esso e infine spariva. «Siamo in pieno déjà-vu», sorrise Jezzie. «Tutto come la prima volta. Oppure quella vacanza l'ho soltanto sognata?» «Ora è diverso», replicai, e in fretta aggiunsi: «Allora non ci conoscevamo così bene». A che cosa stava pensando? Di sicuro aveva fatto i suoi piani. Con tutta probabilità sapeva che stavo ancora dietro a Devine e a Chakely, e aveva bisogno di scoprire le mie intenzioni. Uno stallone nero, snello e muscoloso, perfetto nel suo costume bianco, ci portò la pirla colada. Il gioco del fare finta continuava nell'atmosfera ideale. «Siete in luna di miele?» ci domandò. Era disinvolto, rilassato. «In seconda luna di miele», rispose Jezzie. Il giovane cameriere sorrideva. «Sono sicuro che ve la godrete sino in fondo.» In ultimo, il ritmo lento dell'isola ebbe la meglio su di noi. Cenammo nel ristorante all'aperto dell'hotel. Altre sconvolgenti sensazioni di déjà-vu. In mezzo alla perfezione caraibica, mi sentivo sdoppiato, o piuttosto spaccato in due. Guardavo i vassoi carichi di molluschi e testuggini andare e venire. Ascoltavo gli accordi del gruppo reggae che si preparava all'esibizione serale. E neppure per un momento riuscii a dimenticare che la bella donna che mi sedeva di fronte aveva lasciato morire Michael Goldberg. Per giunta, ero certo che Jezzie avesse ucciso Maggie Rose Dunne, o che comunque avesse offerto la sua complicità agli assassini. Non aveva mai mostrato il
minimo rimorso. Da qualche parte degli Stati Uniti era nascosta la sua parte del riscatto. Ma era stata abbastanza scaltra da lasciare che dividessimo le spese della vacanza. «La metà esatta, Alex. Okay? Niente regali.» A cena, mangiò aragosta isolana e un invitante piatto di bocconcini di squalo. E bevve due birre. Tranquilla, sicura di sé. Per certi versi, era persino più inquietante di Gary Soneji/Murphy. Di che cosa si parla con un'assassina di cui si è innamorati, davanti a una cena impeccabile seguita da qualche drink? Erano mille le cose che avrei voluto conoscere, ma sapevo di non poterle rivolgere nessuna delle domande che mi turbinavano nella mente. Invece, chiacchierammo delle giornate che ci attendevano. Facemmo progetti per la nostra vacanza. La guardavo, e pensavo che non l'avevo mai vista così bella. Continuava a ravviarsi una ciocca bionda dietro un orecchio. Un gesto familiare, intimo. Forse Jezzie era nervosa? Quanto sapeva? «Va bene, Alex», disse alla fine. «Perché non ti decidi a dirmi che cosa ci facciamo qui, a Virgin Gorda? Qual è l'ordine del giorno?» Era una domanda che avevo previsto, e tuttavia mi colse di sorpresa. Era stata una mossa abile, la sua, e naturalmente io ero preparato a mentire, ero in grado di razionalizzare. Non per quello però mi sentivo meglio. «Volevo che avessimo la possibilità di parlare, di parlare sul serio», dissi. «Forse per la prima volta, Jezzie.» Le lacrime le salirono agli occhi, e scesero lentamente a rigarle le guance. Piccoli nastri che luccicavano nella luce morbida delle candele. «Ti amo, Alex», bisbigliò. «È solo che... sarà sempre così difficile per noi. È sempre stato difficile.» «Stai dicendo che il mondo non è pronto per noi? O che noi non siamo pronti per il mondo?» «Non lo so... Che differenza fa, quando è comunque difficile?» Dopo cena scendemmo sulla spiaggia, diretti al relitto di un galeone abbandonato a circa mezzo chilometro dal ristorante. La spiaggia era deserta. C'era un po' di luna, ma man mano che ci avvicinavamo al relitto il buio si faceva sempre più fitto. Brandelli di nuvole veleggiavano sopra le nostre teste. In ultimo, Jezzie non fu che un'ombra scura al mio fianco. Mi sentivo a disagio, inquieto. Continuavo a pensare che avevo lasciato la pistola in camera. D'un tratto lei si fermò. «Alex.» Per un istante credetti che avesse sentito qualcosa e mi voltai. Era impossibile che Soneji/ Murphy fosse arrivato fin
lì, e tuttavia per una frazione di secondo ebbi paura. «Mi stavo chiedendo...» proseguì Jezzie, «mi sono accorta di pensare alle indagini e non voglio. Non qui.» «Qualcosa ti preoccupa?» le domandai. «Hai smesso di parlarmi del caso. Com'è finita con Devine e Chakely?» «Be', dato che sei tu a parlarne, ti dirò una cosa: avevi ragione fin dall'inizio a proposito di quei due. Un altro vicolo cieco. E ora basta. Siamo qui per divertirci; questa è la nostra vacanza. Ce la siamo meritata.» 83 Gary Soneji/Murphy osservava, e la sua mente vagabondava in libertà. Tornava indietro nel tempo, all'epoca del perfetto rapimento Lindbergh. Rivedeva Lindy il Fortunato. La deliziosa Anne Morrow Lindbergh. Baby Charles Junior nella sua culla della stanza dei bambini al secondo piano della fattoria di Hopewell, nel New Jersey. Quelli erano giorni, amico. I giorni della fantasia. Che cosa stava osservando nel molto più banale presente? Per prima cosa, i due babbei dell'FBI, di guardia a bordo della Buick Skylark nera. Un babbeo e una babbea, per la precisione, incaricati della sorveglianza. Innocui. Per lui non costituivano un problema. E certo neppure una sfida. Poi, c'era il moderno grattacielo in cui abitava l'agente Mike Devine. Hawthorne, si chiamava. Piscina sul tetto e solarium, garage privato, servizio di portineria ventiquattr'ore su ventiquattro. Non male, per un ex agente. E i babbei dell'FBI che sorvegliavano l'edificio come se temessero di vedergli mettere le ali e volare via. Le dieci del mattino erano passate da poco quando un fattorino della Federal Express varcò il portone dell'elegante palazzo. Pochi minuti dopo, con indosso la divisa dell'agenzia di recapiti e sotto il braccio due pacchi indirizzati ad alcuni inquilini, Gary Soneji/Murphy premeva il campanello dell'appartamento 17J. Dimostrazione Avon! Non appena Mike Devine comparve sulla soglia, gli spruzzò addosso lo stesso preparato al cloroformio utilizzato per Michael Goldberg e Maggie Rose Dunne. Quel che è giusto è giusto. Proprio come i due bambini, Devine crollò sulla moquette dell'ingresso. Da una delle stanze proveniva un fragore di musica rock: Let's Give Them
Something To Talk Ahout dell'inimitabile Bonnie Raitt. L'agente Devine si svegliò parecchi minuti dopo, stordito e con la vista annebbiata. Non aveva più un solo indumento addosso ed era seduto nella vasca da bagno, piena fino all'orlo di acqua fredda, coi polsi ammanettati ai rubinetti. «Che cazzo è questa roba?» biascicò con la lingua spessa. Si sentiva come se avesse fumato una dozzina di canne. «Questa roba è un coltello estremamente affilato.» Chino su di lui, Gary Soneji/Murphy gli mostrò il suo coltello Bowie. «Te ne darò una dimostrazione pratica. Metti a fuoco quei tuoi begli occhioni appannati. Metti a fuoco, Michael.» Con la punta della lama scalfì appena l'avambraccio del prigioniero, strappandogli un grido. Dal taglio, lungo almeno sei centimetri, il sangue sgorgò e si disperse turbinando nell'acqua. «Non voglio sentire un suono», ammonì Soneji, brandendo l'arma con fare minaccioso. «Questo non è esattamente il rasoio Sensor della Gillette. Questo non si limita a graffiare. Quindi fa' attenzione, per favore.» «Chi sei?» tentò di nuovo Devine, ma le parole gli uscivano di bocca a fatica. Dense come gelatina. «Chi sei?» «Non ti dispiace se mi presento da solo, vero? Sono un uomo ricco e dai gusti raffinati.» Soneji/Murphy rise. Il successo lo rendeva euforico. Mai il futuro gli era apparso più radioso. Lo sconcerto di Devine cresceva di secondo in secondo. «Non hai riconosciuto la citazione? Sympathy for the Devil, Rolling Stones. Sono Gary Soneji/Murphy. Ti chiedo scusa per l'uniforme; un travestimento alquanto rozzo. Ed è un vero peccato, perché sono mesi che aspetto di conoscerti. Di fare la tua conoscenza, bastardo.» «Che diavolo vuoi?» A dispetto delle circostanze, Devine lottava per mantenere un'apparenza di autorità. «Dritto al punto, eh? Meglio così, perché ho una gran fretta. Vediamo di spiegarci, allora: hai due possibilità, una bella alternativa chiara come il sole. Prima possibilità: ti taglio il pene senza stare troppo a pensarci, te lo caccio in bocca e comincio a tagliuzzarti, tanti piccoli taglietti sul viso e sul collo finché non mi dici quello che voglio sapere. Tutto chiaro? Ripeto, possibilità numero uno: dolorosa tortura con successivo, inevitabile dissanguamento.» Devine aveva gettato all'indietro la testa, cercando istintivamente di allontanarsi dal folle che incombeva su di lui. La vista ormai gli si era schia-
rita. Gary Soneji/Murphy? A casa sua? Con un coltello da caccia? «Seconda possibilità», riprese il folle. «Mi dici subito tutto. Io vado a prendere i miei soldi, ovunque tu li abbia nascosti, poi torno e ti uccido, ma in modo pulito, senza effetti speciali. Chissà, potresti anche riuscire a filartela, mentre sono via. Personalmente ne dubito, ma la speranza è l'ultima a morire. E se vuoi saperlo, Michael, io sceglierei questa seconda possibilità.» Anche Mike Devine si era ripreso a sufficienza per fare la scelta giusta. Rivelò a Soneji/Murphy dove aveva nascosto la sua parte del riscatto. Proprio lì, a Washington. Gary Soneji/Murphy gli credette, anche se naturalmente non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Dopotutto, il suo interlocutore era un agente di polizia. Sulla porta d'ingresso si fermò per declamare, in un'ottima imitazione di Arnold Schwarzenegger/Terminator: «Tornerò!» In effetti, quel giorno si sentiva straordinariamente ben disposto. Stava risolvendo quel maledetto caso da solo. Stava giocando al poliziotto e tutto sommato si divertiva. Il piano avrebbe funzionato. Come aveva previsto fin dall'inizio. Cavoli! 84 Dormii un sonno inquieto, destandomi quasi ogni ora. Niente tasti di pianoforte su cui pestare. Niente Janelle e Damon. Solo l'assassina, pacificamente addormentata al mio fianco. Solo il piano che dovevo mettere in atto. Quando finalmente si levò il sole, la cucina dell'albergo ci preparò una colazione al sacco. Vini pregiati, acqua Perrier, costose specialità da gourmet. Più un ombrellone a strisce bianche e gialle, attrezzatura da sub e morbidi teli da spiaggia. Era già tutto a bordo del motoscafo quando arrivammo sul molo, pochi minuti dopo le otto. L'imbarcazione impiegò mezz'ora a raggiungere la nostra isola, splendida e solitaria. Il paradiso ritrovato. L'idea era di restarci per tutto il giorno. Come noi, anche le altre coppie di ospiti dell'albergo avevano i loro isolotti personali su cui appartarsi. La nostra spiaggia era cinta da una scogliera corallina distante un centinaio di metri dalla riva.
L'acqua, del più limpido verde bottiglia, lasciava vedere chiaramente la sabbia del fondo. Pensai che avrei potuto contarne i granelli uno per uno. Piccoli banchi di squatine mi saettavano tra le gambe. Una coppia di sorridenti barracuda, lunghi almeno un metro e mezzo, ci seguì fino alla spiaggia prima di perdere interesse e allontanarsi. «A che ora volete che torni a prendervi?» domandò il barcaiolo. «Sta a voi decidere.» Era un pescatore robusto, un marinaio sulla quarantina dai modi cordiali che durante il tragitto ci aveva intrattenuto con coloriti aneddoti di pesca e vita indigena. Sembrava che vedere un nero e una bianca insieme non gli facesse né caldo né freddo. «Oh, verso le due, le tre.» Guardai Jezzie. «A che ora deve tornare il signor Richards?» Lei stava stendendo sulla sabbia i nostri asciugamani. «Alle tre andrà benissimo.» Richards sorrise. «D'accordo, allora. E divertitevi. Non c'è nessun altro qui, e credo che non abbiate più bisogno di me.» Ci salutò e saltò di nuovo a bordo. Avviò il motore e poco dopo scomparve alla nostra vista. Ed eccoci soli sulla nostra isola privata. Avevamo tutto il tempo di lasciarci alle spalle le preoccupazioni e di essere felici. È certamente un'esperienza bizzarra, trovarsi sdraiati su un telo da spiaggia a fianco di un'assassina. Interminabilmente riesaminavo i miei sentimenti, il piano che avevo messo a punto, i passi che avrei dovuto compiere. E intanto mi sforzavo di tenere sotto controllo la collera e lo sconcerto. Avevo amato quella donna e ora scoprivo in lei un'estranea. Chiusi gli occhi e lasciai che il sole mi penetrasse nella pelle. Dovevo rilassarmi, se volevo arrivare sino in fondo. Dove hai trovato il coraggio di uccidere la bambina, Jezzie? Come hai potuto farlo? Come hai potuto mentire a tutti fino a questo punto? Di colpo arrivò Gary Soneji. Era emerso dal nulla e brandiva un coltello da caccia lungo almeno trenta centimetri, identico a quello che aveva usato per gli omicidi nel ghetto. La sua ombra incombeva su di me. Era impossibile che fosse arrivato fin sull'isola. Impossibile. «Alex. Alex, stai sognando», mi riscosse la voce di Jezzie. Mi aveva posato una mano sulla spalla e con la punta delle dita mi sfiorava la guancia. La notte quasi insonne, il sole tiepido e la fresca brezza di mare: mi ero
addormentato sulla spiaggia. Alzai gli occhi su Jezzie. Era sua l'ombra che avevo visto torreggiare su di me. Il cuore mi batteva forte. I sogni possono sconvolgere il sistema nervoso non meno della realtà. «Ho dormito molto?» brontolai. «Solo un paio di minuti, tesoro.» E poi: «Abbracciami, Alex». Mi si accostò, premendo i seni sul mio petto. Mentre dormivo si era sfilata il reggiseno del costume e la sua pelle levigata, unta di olio solare, scintillava. Qualche goccia di sudore le imperlava il labbro superiore. Non poteva fare a meno di essere bella. Mi alzai a sedere. «Facciamo un passeggiata, ti va?» proposi, indicando un boschetto di buganvillee che crescevano fin quasi sull'acqua. «Voglio parlare con te di alcune cose.» «Quali cose?» Il mio rifiuto l'aveva delusa. Avrebbe voluto fare l'amore lì, sulla spiaggia. Ma io no. «Coraggio, vieni. Parleremo camminando. Questo sole è magnifico.» L'aiutai ad alzarsi e, seppure riluttante, lei mi seguì. Non si preoccupò di rimettere il reggisene C'incamminammo sulla battigia, coi piedi nell'acqua calma e trasparente. Solo pochi centimetri ci dividevano, ma non ci toccammo. Era tutto talmente strano, talmente irreale, e certo fu uno dei momenti peggiori della mia vita, se non addirittura il peggiore in assoluto. «Sei troppo serio, Alex. Siamo venuti qui per divertirci, ricordi?» «Io so quello che hai fatto, Jezzie. Ci ho messo un po' di tempo, ma alla fine ci sono arrivato. So che sei stata tu a portare via Maggie Rose Dunne a Soneji. So che sei stata tu a ucciderla.» 85 «Voglio che ne parliamo, Jezzie. E non temere, non ho registratori addosso. Non potresti non accorgertene, ti pare?» Lei ebbe un mezzo sorriso. Un'attrice perfetta, come sempre. «No, non potrei», disse. Ora il mio cuore martellava come impazzito. «Raccontami quello che è successo. Dimmi perché, Jezzie. Dimmi perché ho dovuto sprecare quasi due anni per capire, mentre tu sapevi tutto fin dall'inizio. Dimmi qual è stata la tua parte in tutto questo.» Finalmente quel sorriso che pareva indistruttibile scomparve. Ora sem-
brava rassegnata. «D'accordo. Ti dirò alcune delle cose che vuoi sapere, quelle su cui continueresti a indagare per l'eternità.» Fu così che mi raccontò la verità. «Com'è accaduto? Be', all'inizio facevamo soltanto il nostro lavoro. È vero, te lo giuro. Facevamo da baby-sitter alla famiglia del ministro. Jerrold Goldberg non era abituato a ricevere minacce, e i colombiani lo avevano minacciato. Prevedibilmente, lui si comportò da quel borghese che è. Reagì in modo spropositato. Pretese la protezione dei Servizi per tutti i suoi familiari. Fu così che cominciò tutto. Con una sorveglianza capillare che nessuno di noi reputava necessaria.» «E tu affidasti l'incarico a due agenti mediocri.» «A due amici, per la verità. E per nulla mediocri. Prevedevamo che sarebbe stata una gran perdita di tempo. Poi Mike Devine individuò uno dei docenti della scuola, un professore di matematica di nome Gary Soneji, mentre gironzolava intorno alla casa dei Goldberg. In un primo momento pensammo che avesse preso una cotta per il ragazzo, che fosse un omosessuale e nulla di più, ma naturalmente a quel punto non si poteva non approfondire. Nei verbali originariamente redatti da Devine e Chakely era riportato tutto.» «Uno di loro si mise alle calcagna di Soneji?» «Un paio di volte, sì. In un paio di posti diversi. Non eravamo ancora preoccupati, ma che potevamo fare, se non andare sino in fondo? E una sera Charlie Chakely lo seguì fino alla zona sud-est. Non avevamo collegato Soneji agli omicidi che si erano verificati in quel quartiere, anche perché i giornali non ne avevano quasi parlato. Solo due altri episodi di violenza nel ghetto, sai.» «Sì, lo so. Quando avete cominciato a sospettare che ci fosse sotto qualcosa di più?» «Non prendemmo in considerazione l'ipotesi del sequestro finché i bambini non vennero effettivamente rapiti. Due giorni prima, Chakely lo aveva seguito alla fattoria nel Maryland, ma allora non sospettava quello che Soneji aveva in mente. Non ce n'era motivo. «A quel punto, però, conosceva l'ubicazione della fattoria. Subito dopo il sequestro, Mike Devine mi chiamò dalla scuola. Capisci, allora ci proponevamo semplicemente di beccare Soneji. Poi mi venne in mente che avremmo potuto intascare noi il riscatto. Non so dirti con precisione come sia successo. Forse era una possibilità che inconsciamente avevo già preso in considerazione. Sembrava talmente facile, Alex. In tre o quattro giorni
sarebbe finito tutto. E nessuno ne avrebbe sofferto. Non più di quanto avessero già fatto. E noi avremmo avuto il denaro del riscatto. Milioni di dollari.» C'era qualcosa di spaventoso nella disinvoltura con cui parlava del crimine commesso. Aveva avuto cura di non sottolineare il particolare, ma l'idea era partita da lei. Non da Devine o da Chakely, bensì da Jezzie. Era lei il cervello. «E i bambini?» domandai. «Michael Goldberg e Maggie Rose Dunne?» «Erano già stati rapiti, no? Non si poteva cancellare ciò che era già accaduto. Tenemmo la fattoria sotto sorveglianza. Eravamo certi che non gli sarebbe successo nulla di male. Dopotutto, lui era un professore di matematica. Lo giudicavamo un dilettante e credevamo di avere la situazione in pugno.» «Li ha nascosti sottoterra, Jezzie. E Michael Goldberg è morto.» Jezzie guardava il mare. «Sì», annuì con lentezza. «Il bambino è morto. E questo ha cambiato tutto, Alex. Definitivamente. Non so se avremmo potuto impedirlo. Comunque sia, fu allora che decidemmo di portare via Maggie Rose. E di chiedere il riscatto. Tutto il piano doveva essere rivisto.» Continuammo a camminare sul bordo dell'acqua lucente. Se qualcuno ci avesse visto, probabilmente ci avrebbe preso per due amanti impegnati a discutere del loro rapporto. E per certi versi era davvero così. Finalmente Jezzie mi guardò. «Per quanto riguarda noi due... non è stato come pensi.» Non avevo nulla da dirle. Ero sul punto di esplodere. La mia mente urlava. La lasciai continuare. Ormai non aveva più molta importanza. «Quando cominciò, laggiù in Florida, avevo bisogno di sapere quello che avevate scoperto. Mi serviva un'entratura nella polizia di Washington. Di te, sapevo che eri un ottimo detective. E che amavi lavorare per conto tuo.» «E così mi hai usato per proteggerti i fianchi. Mi hai scelto per la consegna del riscatto; non potevi fidarti del Bureau. Professionista sino in fondo, Jezzie.» «Sapevo che non avresti fatto nulla che mettesse in pericolo l'incolumità della piccola. E che avresti consegnato il riscatto senza tentare trucchi. Le complicazioni cominciarono al ritorno da Miami. Non so con esattezza quando. Ti giuro che è questa la verità.» Avevo la mente vuota mentre l'ascoltavo, ed ero madido di sudore, ma
non per via del sole cocente. Jezzie aveva portato un'arma con sé? Professionista sino in fondo, rammentai. «Per quello che può valere, posso dirti che mi sono innamorata di te, Alex. Davvero. Per molti versi eri esattamente quello che avevo sempre cercato. Onesto e pieno di calore umano. Affettuoso. Comprensivo. Damon e Janelle mi avevano commosso. Quando ero con te, mi sentivo di nuovo tutta intera.» Ero stordito, e avvertivo una vaga nausea. Stava descrivendo quello che anch'io avevo provato per quasi un anno, dopo la morte di Maria. «Per quello che può valere, anch'io mi ero innamorato di te, Jezzie. Ho cercato di resistere, ma è successo ugualmente. Mai avrei potuto immaginare che qualcuno potesse mentirmi come hai fatto tu. Menzogne e inganni, in continuazione. Ancora quasi non riesco a crederci.» Poi aggiunsi: «E Devine?» Lei si strinse nelle spalle. Fu la sua unica risposta su quel punto. «Sei stata tu a commettere il delitto perfetto. Un vero capolavoro», continuai. «Il grande delitto cui Gary Soneji ha sempre ambito.» Mi lanciò un'occhiata rapida ma intensa, quasi volesse leggermi dentro. Mancava ancora una tessera al puzzle, un'ultima cosa che dovevo sapere. «Che ne è stato della bambina? Che cos'hai fatto, o che cosa hanno fatto Devine e Chakely di Maggie Rose?» Lei stava scuotendo la testa. «No, Alex. Questo non posso dirtelo. Lo sai.» Teneva le braccia incrociate sul petto, in un atteggiamento pieno di fermezza. «Come hai potuto uccidere una bambina? Come hai potuto, Jezzie? Come hai potuto uccidere Maggie Rose Dunne?» Di colpo si ritrasse, mi voltò le spalle. Era troppo, anche per lei. Fece per tornare indietro, ma la fermai afferrandole il gomito. «Toglimi le mani di dosso!» urlò, il viso stravolto. «Forse potresti trattare le informazioni su Maggie Rose», gridai a mia volta. «Potremmo fare uno scambio, Jezzie.» «Non ti permetteranno di riaprire il caso, Alex. Non farti illusioni. Non hanno nulla contro di me. E neppure tu. Non sono disposta a fare nessun baratto.» «Oh, sì, invece», dissi, e la mia voce era calata fino a diventare un bisbiglio. «Sì, che ci starai... non potrai farne a meno.»
Indicai la scogliera e gli alberi di palma che si facevano più fitti man mano che ci si allontanava dalla spiaggia. Sampson emerse dal suo nascondiglio fra la vegetazione; agitava qualcosa che da lontano sembrava un bastoncino argenteo, e che in realtà era un microfono ad alta sensibilità. Comparvero poi due agenti dell'FBI che andarono a fermarsi a fianco di John. Avevano le braccia e il viso rosso aragosta. «Il mio amico Sampson. Ha registrato tutta la nostra conversazione.» Jezzie chiuse gli occhi e restò così per qualche secondo. Non aveva previsto che sarei arrivato a tanto. Non pensava che ne avrei avuto la forza. «Ora ci dirai come hai ucciso Maggie Rose», le intimai. Riaprì gli occhi, che sembravano più piccoli e vuoti. «Non ci arrivi. Proprio non ci arrivi, vero?» «A che cosa non arrivo, Jezzie? Dimmelo tu.» «Ti ostini a cercare il buono nella gente. Ma non ce n'è! Il tuo caso finirà in una bolla di sapone; farai la figura dell'idiota, un idiota fatto e finito. Se la prenderanno con te, sarai tu a pagare.» «Forse hai ragione», ammisi. «Ma almeno mi resterà il ricordo di questo momento.» Fece per colpirmi, ma la fermai, afferrandola per il braccio. Lo slancio la mandò a terra. Il suo viso si scompose in un'espressione attonita. «Ottimo inizio, Alex», sussurrò. «Stai diventando un bastardo anche tu. Congratulazioni.» «No. Io sono quello di sempre. Non c'è niente che non vada in me.» Lasciai che fossero gli uomini dell'FBI e Sampson a dichiararla formalmente in arresto. Poi, senza voltarmi, me ne tornai in albergo. Nel giro di un'ora avevo fatto i bagagli e ripartivo per Washington. 86 Due giorni dopo, Sampson e io eravamo di nuovo in viaggio. Diretti a Uyuni, in Bolivia. Avevamo ragione di credere che lì avremmo trovato Maggie Rose Dunne. Jezzie aveva parlato e parlato. Jezzie aveva fornito tutte le informazioni. Solo che si era rifiutata di parlare col Bureau. Aveva trattato con me. Uyuni è un villaggio andino, trecento chilometri a sud di Oruro. Per arrivarci bisogna raggiungere in aereo Rio Mulato, quindi proseguire a bordo di una jeep o di un furgone.
Eravamo in otto sul Ford Explorer che doveva condurci a destinazione. Con me e Sampson c'erano due agenti speciali del Tesoro, l'ambasciatore americano in Bolivia, l'autista e Thomas e Katherine Rose Dunne. In quelle ultime, estenuanti trentasei ore, sia Charles Chakely sia Jezzie si erano mostrati più che disposti a dirci quello che sapevano su Maggie Rose. Quanto a Mike Devine, il cadavere massacrato era stato rinvenuto nel suo appartamento di Washington. Da quel momento, la caccia a Gary Soneji/Murphy era stata ulteriormente intensificata, ma senza esito. Di certo Gary seguiva in televisione la cronaca del nostro viaggio in Bolivia. Quella era la sua storia, dopotutto. Sostanzialmente, le versioni di Jezzie e di Chakely coincidevano. Si erano trovati davanti all'opportunità di mettere le mani su dieci milioni di dollari facendola franca, e naturalmente ciò aveva comportato la necessità di tenere prigioniera la bambina. Avevano bisogno che la responsabilità del sequestro ricadesse interamente su Soneji e, se fosse stata rilasciata, Maggie Rose avrebbe potuto smascherarli. O, almeno, fu ciò che ci dissero. Nessuno parlava durante quegli ultimi chilometri tra le montagne. Io tenevo d'occhio i Dunne. Sedevano in silenzio, leggermente discosti. Come Katherine mi aveva detto, la perdita di Maggie Rose aveva quasi distrutto il loro matrimonio. Ricordai quanto mi fossero piaciuti, al tempo della nostra conoscenza. Katherine mi piaceva ancora e durante il viaggio avevamo parlato un po'. Era stata la sola a ringraziarmi con autentica gratitudine: non lo avrei mai dimenticato. Speravo che al termine di quella lunga e atroce prova avrebbero ritrovato la figlioletta sana e salva: Maggie Rose, che io non avevo mai incontrato e che forse avrei conosciuto di lì a poco. Pensai a tutte le preghiere che erano state recitate per lei, ai cartelli che ondeggiavano davanti al tribunale di Washington, alle candele accese sul davanzale di tante finestre. Sampson mi diede di gomito mentre attraversavamo il Paese. «Guarda quelle cime lassù, Alex. Non dirò che da sole valgono il viaggio, ma quasi.» Il furgone stava risalendo un ripido pendio. Baracche di legno e lamiera si allineavano ai lati della strada principale di Uyuni, poco più di un sentiero scavato nella roccia. Da un paio di comignoli si levava una spirale di fumo. In lontananza, il viottolo sembrava perdersi fra le Ande. Maggie Rose ci aspettava più o meno a metà strada. Stava di fronte a una delle baracche, in compagnia di svariati componenti di una certa famiglia Patino, quella presso cui aveva vissuto per quasi
due anni. Maggie Rose era vestita come l'orda di ragazzini che l'attorniava: camicia larga, pantaloncini di cotone e sandali, ma i suoi capelli biondi spiccavano fra tante teste brune. Abbronzata e apparentemente in buona salute, assomigliava moltissimo alla sua bella madre. La famiglia Patino ignorava la sua identità. A Uyuni, nessuno aveva mai sentito parlare di Maggie Rose Dunne. E neppure nella vicina Pulacayo, né a Ubina, una città andina a millesettecento metri d'altezza. Erano stati il governo e la polizia boliviani a spiegarcelo. La famiglia Patino era stata pagata per ospitare la bambina, per tenerla al sicuro e in modo che non fuggisse. A Maggie Rose, Mike Devine aveva detto che non c'era nessun posto in cui potesse scappare. Se avesse tentato, sarebbe stata ripresa e torturata. Rinchiusa sottoterra per molto, molto tempo. Io non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Una bambina di undici anni la cui esistenza era divenuta importante per così tante persone. Ripensai alle foto e ai poster che la ritraevano, e non riuscivo a credere di averla finalmente lì, davanti a me. Dopo tutto quel tempo. Maggie Rose non sorrideva, non mostrava la minima reazione mentre il furgone risaliva il pendio. Non sembrava felice che alla fine qualcuno fosse venuto a salvarla, a portarla via. Pareva confusa, ferita e piena di paura. Fece un passo avanti, poi indietreggiò e si girò a guardare la sua «famiglia». Mi chiesi se avesse piena consapevolezza di ciò che stava accadendo. Aveva subito un trauma molto grave e forse era incapace di provare qualcosa. Quanto a me, ero felice di trovarmi lì, pronto a dare una mano se fosse stato necessario. Il mio pensiero tornò a Jezzie, e involontariamente scossi la testa. La tempesta che imperversava nella mia anima non accennava a calmarsi. Dove aveva trovato il coraggio d'infliggere una simile prova a una bambina? Per un paio di milioni di dollari? Neppure tutto il denaro del mondo sarebbe stato una giustificazione sufficiente. Katherine Rose fu la prima a scendere. Nell'attimo stesso in cui la vide, Maggie Rose spalancò le braccia. «Mamma!» Esitò ancora un istante, poi si slanciò. Corsero l'una nelle braccia dell'altra. Avevo gli occhi appannati e per un minuto o giù di lì non riuscii a vedere nulla. Quando mi voltai verso Sampson, scorsi una lacrima spuntare da
sotto il bordo degli occhiali scuri. «Due detective duri come l'acciaio», disse lui, e sogghignò. «Già», replicai. «I migliori di Washington.» Maggie Rose si preparava a tornare a casa. Il suo nome risuonava interminabilmente nella mia testa, come le parole di un sortilegio... Maggie Rose, Maggie Rose. Valeva la pena di sopportare qualsiasi cosa, per un momento come quello. «La fine», dichiarò Sampson. PARTE SESTA LA CASA DI CROSS 87 Eccola lì, la casa di Cross, sull'altro lato della strada, in tutta la sua gloria dimessa. Il Bambino Cattivo era affascinato dalle luci giallastre che ardevano all'interno. I suoi occhi vagavano di finestra in finestra. In un paio di occasioni, distinse la sagoma di una donna nera passare davanti a una di quelle del piano terra. La nonna di Alex Cross, senza dubbio. Ne conosceva il nome, Nana Mama. Sapeva che Alex l'aveva soprannominata così da ragazzo. Nel corso di quelle ultime settimane, aveva scoperto tutto quello che c'era da scoprire sul conto della famiglia Cross. Aveva un piano per loro. Una bella fantasia semplice e ben congegnata. A volte, come in quel momento, al ragazzo piaceva avere paura. Paura per sé; paura per la gente che abitava nella casa. Era una sensazione gradevole, a condizione di averne il pieno controllo. Infine si costrinse a lasciare il suo nascondiglio, ad avvicinarsi ancora di più alla casa dei Cross. Per essere la paura. I suoi sensi erano molto più acuti quando aveva paura. Riusciva a mantenere la concentrazione per periodi di tempo più prolungati. Mentre attraversava la 5 Street, non c'era nulla nella sua mente se non la casa e i suoi abitanti. Il ragazzo scomparve nei cespugli che crescevano lungo la facciata della casa. Adesso il cuore aveva preso a battergli forte e il suo respiro era affrettato. Inspirò a fondo, poi espirò con lentezza. Attraverso l'intrico di rami ispezionava la strada del ghetto. Nella zona sud-est era sempre più buio che
altrove. Le lampadine fulminate dei lampioni non venivano mai sostituite. Fu cauto. Si prese tutto il tempo necessario. Indugiò a esaminare la casa per una decina di minuti almeno. Nessuno lo aveva visto. Quella volta non c'era nessuno a spiarlo. L'ultima stoccata, poi via, verso imprese sempre più grandi. Pronunciò quelle parole a mezza voce. A volte, adesso, gli capitava di non riuscire più a tracciare una linea di demarcazione netta fra le cose. Tutto si confondeva e mescolava: i suoi pensieri, le sue parole, le sue azioni, le mille storie che circolavano sul suo conto. Aveva rivisto ogni dettaglio centinaia e centinaia di volte, ormai. Non appena fosse stato certo che dormivano tutti, probabilmente verso le due, le tre del mattino, avrebbe preso i due bambini, Damon e Janelle. Li avrebbe narcotizzati, proprio lì, nella loro camera al secondo piano. E nel frattempo il Dottor Detective Cross avrebbe continuato a dormire. Doveva farlo. Il celebre dottor Cross doveva soffrire, e molto. Doveva avere una parte nel nuovo capitolo della sua storia. Sì, era necessario. Quella era l'unica conclusione degna. E in ultimo sarebbe stato lui a trionfare. Non che Cross avesse bisogno di ulteriori sollecitazioni, ma il ragazzo gliene avrebbe fornite comunque. Prima avrebbe ucciso la vecchia. Poi si sarebbe occupato dei bambini. E quel caso non sarebbe mai stato risolto. I piccoli Cross non sarebbero stati mai ritrovati. Nessun riscatto sarebbe stato chiesto per il loro rilascio. E dopo, lui avrebbe potuto dedicarsi ad altro. Si sarebbe dimenticato del detective Cross. Ma Alex Cross non si sarebbe mai dimenticato di lui. Né dei suoi bambini scomparsi. Gary Soneji/Murphy mosse verso la casa. 88 «Alex, c'è qualcuno in casa. Alex, c'è qualcuno qui con noi», mi bisbigliava Nana all'orecchio. Ero già in piedi prima ancora che finisse di parlare. Tanti anni per le strade di Washington mi hanno insegnato a muovermi in fretta. Da qualche parte risuonò un tonfo attutito. Sì, c'era un intruso in casa. Quello non era uno dei rumori consueti del vecchio impianto di riscaldamento. «Tu resta qui. Non uscire finché non ti chiamo, d'accordo?» sussurrai.
«Ti avviserò io quando sarà il momento.» «Telefono alla polizia.» «No, tu resti qui. Sono io la polizia. Rimani qui.» «I bambini, Alex.» «Vado a prenderli. Tu resta qui. Per favore, fa' come ti dico, una volta tanto. Per favore.» Non c'era nessuno sul pianerottolo buio. Io, perlomeno, non vidi nessuno. Il cuore mi batteva all'impazzata mentre mi affrettavo verso la camera dei bambini. Ora la casa era troppo silenziosa. Innaturalmente silenziosa. Qualcuno si era introdotto nella nostra casa. Il pensiero di quella terribile violazione mi ossessionava, ma dovevo sforzarmi di allontanarlo. Dovevo concentrarmi su di lui. Conoscevo l'identità dell'intruso. Per settimane, dopo il ritorno dalla Bolivia, ero stato sul chi vive, ma via via che i giorni passavano avevo cominciato a rilassarmi. E allora lui era arrivato. Percorsi a passi rapidi il corridoio, aprii la porta che cigolò sui cardini. Janelle e Damon dormivano ancora. Dovevo svegliarli e portarli di là, da Nana. A causa loro, preferivo lasciare la pistola di sotto, nel tinello. Feci per accendere la lampada sul comodino. Nulla! Mi tornarono alla mente le modalità degli omicidi Sanders e Turner. Soneji amava l'oscurità; il buio era il suo biglietto da visita, la sua firma. Era sua abitudine, quando voleva uccidere, disattivare l'impianto elettrico. Sì, la Belva era lì con noi. D'un tratto qualcosa mi colpì, con la violenza di un camion lanciato a tutta velocità. Soneji, compresi. Mi era balzato addosso e con un colpo solo mi aveva quasi atterrato. La sua forza era sorprendente. Tutta la forza che aveva compresso per una vita intera, fin da quando, ancora ragazzino, veniva chiuso nel seminterrato di casa sua. Per quasi trent'anni si era preparato: tramando contro il mondo, tramando per conquistare la fama che credeva di meritare. Voglio essere qualcuno! Caricò di nuovo. Rotolammo a terra con fragore. Tutta l'aria mi uscì di colpo dai polmoni. Urtai la tempia contro uno spigolo del cassettone e istantaneamente la vista mi si annebbiò, le mie orecchie cominciarono a ronzare. Davanti a me turbinavano miriadi di stelle.
«Sei tu, Cross? Sei tu? Hai dimenticato chi è il protagonista, qui?» Vedevo a malapena il volto di Soneji, mentre lui urlava il mio nome, quasi volesse ferirmi con l'intensità delle sue urla, la forza della sua voce. «Non puoi toccarmi!» ringhiò ancora. «Non puoi farmi nulla! Lo capisci? Lo capisci, finalmente? Sono io la star. Non tu!» Aveva le mani e le braccia lorde di sangue. C'era sangue dappertutto. Chi lo aveva ferito? Che cosa aveva fatto in casa nostra? Intravedevo forme vaghe nella fluttuante oscurità della stanza. Lui aveva in mano un coltello, lo brandiva contro di me. «Sono io la star! Io sono Soneji! Murphy! Chiunque voglio essere!» Compresi che il sangue che lo imbrattava era il mio. Quel primo colpo che mi aveva inferto era stato una pugnalata. Ringhiando come un animale, alzò il coltello una seconda volta. I bambini si erano svegliati. «Papà!» gridò Damon. Janelle piangeva. «Scappate, presto!» urlai, ma erano troppo terrorizzati per reagire. Riuscii a schivare un fendente, ma il secondo, violentissimo, mi colpì alla spalla. Questa volta sentii dolore, un dolore insopportabile. Gridai. Ora tutti e due i bambini stavano piangendo. E io volevo ucciderlo. Avevo la mente in fiamme; provavo una rabbia cieca, irrefrenabile per quel mostro che si era insinuato nella mia casa. Di nuovo Soneji/Murphy alzò il coltello. La lama era lunga e così affilata che non avevo neppure avvertito il primo colpo. Risuonò improvviso un grido feroce. Per una frazione di secondo, Soneji parve raggelarsi. Poi una figura turbinò verso di lui. Nana Mama. «Questa è la nostra casa!» gridava a pieni polmoni. «Fuori di qui!» Un bagliore attirò il mio sguardo. Allungai la mano a prendere le forbici posate sull'album di figurine di Janelle. Le forbici che Nana usava in giardino. Il coltello di Soneji/Murphy calò di nuovo. Era lo stesso che aveva usato nel ghetto e per uccidere Vivian Kim? Mi avventai contro di lui impugnando le forbici e sentii un rumore di carne che si lacerava. Lo avevo preso alla guancia. Il suo grido echeggiò nella stanza. «Bastardo!» «Un ricordino», lo provocai. «Chi è che sta sanguinando ora? Soneji o Murphy?» Sbraitò qualcosa d'incomprensibile. Poi si slanciò.
Questa volta lo colpii al collo. Si ritrasse con un balzo. «Forza, bastardo!» urlai. D'un tratto lo vidi indietreggiare verso la porta. Non fece alcun tentativo di colpire Nana Mama, la figura materna. O forse soffriva troppo per pensarci. Si teneva la faccia con entrambe le mani e la sua voce era un urlo acuto e penetrante mentre correva fuori. Possibile che fosse precipitato in uno dei suoi presunti stati di fuga? Che si fosse improvvisamente perduto in una delle sue fantasie? Ero caduto su un ginocchio e avrei voluto non alzarmi più. Un fragore sordo mi riempiva la testa. A fatica mi rimisi in piedi. Ero coperto di sangue, sulla camicia, sugli slip, sulle gambe nude. Il mio sangue e il suo. L'adrenalina mi scorreva nelle vene. Afferrai qualcosa da mettermi addosso e corsi dietro a Soneji. Questa volta non sarebbe riuscito a fuggire. Non gliel'avrei permesso. 89 In tinello recuperai la pistola. Ero certo che si fosse preparato una via di fuga, nell'eventualità che le cose volgessero al peggio. E di sicuro aveva rivisto il suo piano passo dopo passo centinaia di volte. Viveva nelle sue fantasie, non nella realtà. Non credevo che sarebbe rimasto in casa. Voleva essere libero, per continuare la sua guerra. Stavo forse cominciando a pensare come lui? Probabilmente sì, ed era una scoperta inquietante. La porta d'ingresso era spalancata; sul tappeto, una scia di sangue. Aveva voluto lasciarmi una pista da seguire? Dove aveva progettato di rifugiarsi, se il suo piano fosse fallito? Qual era la mossa imprevedibile che doveva garantirgli la salvezza? Non era facile pensare con chiarezza, mentre il sangue mi gocciolava dalle ferite al fianco e alla spalla. Corsi fuori, nel gelo delle ore che precedono l'alba. Erano le quattro del mattino e la nostra via non era mai stata tanto silenziosa. Chissà se aveva previsto che lo avrei seguito. Mi stava già aspettando? Ancora una volta era riuscito ad anticipare le mie mosse, a battermi sul tempo? Era sempre stato così, ma sentivo che era arrivato il momento di ribaltare la situazione. La metropolitana distava un isolato da casa nostra, sulla 5 Street. La gal-
leria era ancora in costruzione, ma certi ragazzetti del quartiere avevano preso l'abitudine di percorrere sottoterra i quattro isolati fino alla stazione del Campidoglio. Metà correndo, metà arrancando, raggiunsi l'entrata. Le ferite mi dolevano, ma non me ne curavo. Era entrato in casa mia. Aveva cercato di aggredire i miei figli. Con la pistola in pugno, scesi nel tunnel. A ogni passo una fitta mi trapassava il fianco. Procedevo a fatica, tenendomi curvo. Forse mi stava osservando. Forse mi ero cacciato in una trappola. Laggiù i nascondigli non mancavano di certo. Arrivai sino in fondo senza scorgere neppure una goccia di sangue. Soneji/Murphy non era lì. Ancora una volta era riuscito a dileguarsi. Ora che la tensione mi stava abbandonando, cominciavo a sentirmi debole e disorientato. Salii i gradini di pietra che portavano in superficie. I nottambuli entravano e uscivano dall'edicola e dal ristorante Fox, aperto tutta la notte. Dovevo essere uno spettacolo davvero pietoso, e tuttavia nessuno mi fermò. Nella capitale del nostro Paese di scene da incubo se ne vedono anche troppe. In ultimo mi bloccai davanti all'autista di un furgone che stava scaricando un pacco di copie del Washington Post. Gli dissi che ero un agente di polizia. L'emorragia mi rendeva leggermente euforico. «Non ho fatto nulla di male», reagì subito lui. «Non sei stato tu a spararmi, stronzo?» «Nossignore. Che cos'è, matto? È davvero un poliziotto?» Lo costrinsi ad accompagnarmi a casa col suo furgone, e per tutto il tragitto lui non fece che imprecare, minacciando di denunciare il comune. «Se la prenda col sindaco Monroe», replicai io. «È lui il bastardo.» «È davvero un poliziotto?» insiste. «Non si direbbe.» «Sì, sono un poliziotto.» Davanti a casa mia, vidi parcheggiate autopattuglie e ambulanze. Era il mio peggior incubo tradotto in realtà. Fino a quel momento, avevo sempre fatto in modo che il lavoro non contaminasse assolutamente il luogo in cui vivevo. C'era anche Sampson, con un giubbotto di pelle nera infilato su una logora felpa dei Baltimore Orioles. Portava un berretto dell'agenzia di viaggio Hoodoo Gurus. Mi guardava come se fossi ammattito. Alle sue spalle roteavano le luci blu e rosse delle ambulanze. «Che è successo? Non sembri in gran forma.
Stai bene, amico?» «Sono stato pugnalato due volte con un coltello da caccia. Niente di paragonabile alla sparatoria a Garfield.» «Uh uh. Forse non è poi brutta come sembra. Meglio che ti sdrai sul prato. Subito, Alex.» Annuii mentre mi allontanavo. Toccava a me concludere quella faccenda. In un modo o nell'altro, bisognava metterci un punto fermo. Gli infermieri cercarono di convincermi a sdraiarmi sul prato. Il nostro minuscolo praticello. O forse a adagiarmi sulla lettiga. Mi balenò nella mente un'idea nuova. La porta d'ingresso era aperta. Soneji l'aveva lasciata così intenzionalmente? E se così era, per quale motivo? «Restate qui», dissi agli infermieri. «Ma tenetevi pronti con quella lettiga.» Sentii delle grida alle mie spalle, ma proseguii senza badarci. In silenzio, attraversai il soggiorno e passai in cucina. Spalancai la porta che si apre in diagonale rispetto a quella di servizio e mi affrettai di sotto. Non vidi nulla nello scantinato. Nessun movimento. Tutto era come sempre. E a quel punto ero rimasto a corto di buone idee. Mi spinsi fino a un bidone, collocato vicino al vecchio forno, che Nana usa come cesta della biancheria. È l'angolo più lontano dalle scale, ma Soneji/Murphy non era neppure lì. Arrivò correndo Sampson. «Non è qui! Qualcuno lo ha visto in centro. Dalle parti di Dupont Circle.» «Ha in mente un'altra grande rappresentazione», biascicai. «Figlio di puttana.» Il Figlio di Lindbergh. Sampson non cercò di dissuadermi dall'accompagnarlo. Sapeva che lo avrei fatto comunque, glielo dicevano i miei occhi. Ci affrettammo verso la sua auto. Sto bene, cercavo di convincermi. In caso contrario sarei già crollato. Un giovane punk del quartiere guardò il sangue vischioso che m'impregnava la camicia. «Stai tirando le cuoia, Cross? Sarebbe una gran cosa.» Quello doveva essere il mio elogio funebre. Impiegammo dieci minuti circa per arrivare a Dupont Circle. C'erano autopattuglie parcheggiate un po' dappertutto. Le luci rosse e blu dardeggiavano bizzarramente nella luce fredda dell'alba. Per buona parte degli agenti, il turno di notte era quasi finito, ma nessuno voleva un folle in libertà nel centro di Washington.
Un'altra grande rappresentazione. Voglio essere qualcuno. Nell'ora successiva non accadde nulla, a parte il fatto che fece giorno. Comparvero i primi pedoni e all'approssimarsi dell'ora di apertura degli uffici il traffico divenne più intenso. Qualche curioso si fermò a indagare, ma nessuno di noi era disposto a dire alcunché, se non: «Circolare, circolare, per favore. Non c'è nulla da vedere». Grazie a Dio. Fu un medico del pronto soccorso a medicarmi le ferite. Avevo perso molto sangue, ma non erano gravi. Naturalmente, voleva che mi facessi ricoverare all'istante, ma io non ne volli sentir parlare. Un'altra grande rappresentazione. A Dupont Circle, nel centro di Washington? Gary Soneji/Murphy amava esibirsi nella capitale. Dissi al medico di tirarsi da parte, e lui obbedì. Prima però mi feci dare un paio di Percodan, e per un po' funzionarono. Sampson mi stava a fianco, succhiando una sigaretta. «Non ce la farai», profetizzò. «Piomberai a terra come uno straccio. Come un grande elefante africano colpito da un attacco cardiaco.» Io mi stavo godendo la sensazione di stordimento indotta dal Percodan. «Nessun attacco cardiaco», dissi mentre mi avviavo verso la sua auto. «Il grande elefante africano si è beccato un paio di coltellate. E comunque non era un elefante, ma un'antilope africana. Un bell'animale, forte e aggraziato.» «Hai qualche idea?» mi gridò dietro. «Alex?» «Sì. Muoviamoci, però. Non serve a nulla starsene piantati qui in Dupont Circle. Non ha nessuna intenzione di dare il via a una sparatoria nell'ora di punta, lui.» «Ne sei sicuro?» «Ne sono sicuro.» Vagammo per il centro fin quasi alle otto. Quella sorveglianza stava diventando una gran perdita di tempo e io rischiavo di addormentarmi da un momento all'altro. La grande antilope africana era sul punto di cedere. Il sudore m'imperlava la fronte, scorreva lungo il naso. Ancora una volta mi sforzai d'immedesimarmi in Gary Soneji/Murphy. Era lì intorno? O aveva già lasciato la città? Alle sette e cinquantotto arrivò una segnalazione via radio. «La persona sospetta è stata individuata in Pennsylvania Avenue, nei pressi di Lafayette
Park. E in possesso di un'arma automatica. Si sta dirigendo verso la Casa Bianca. Tutte le auto convergano sul posto!» Voglio essere qualcuno. Lo avevano inchiodato tra una calzoleria e un edificio in arenaria che ospitava quasi esclusivamente studi legali. Gli faceva da schermo una jeep Cherokee. E c'era un'altra complicazione: aveva preso degli ostaggi. Due ragazzini usciti presto per andare a scuola. Non dovevano avere più di undici, dodici anni; l'età che aveva avuto Gary quando la matrigna aveva cominciato a chiuderlo in cantina. Erano un ragazzo e una ragazza, pallide ombre di Maggie Rose e Michael Goldberg. «Sono il capodivisione Cross», dissi per poter oltrepassare le transenne che già sbarravano Pennsylvania Avenue. In fondo, era chiaramente visibile la Casa Bianca. Mi chiesi se il presidente ci stesse seguendo in televisione. Un furgone della CNN era già sul posto. Sopra di noi ronzavano due elicotteri della televisione. Dato che lo spazio sopra la Casa Bianca è off limits, non potevano avvicinarsi più di tanto. Qualcuno annunciò l'arrivo del sindaco Monroe. Ma Gary aveva obiettivi più ambiziosi: aveva chiesto del presidente. Se non fosse stato accontentato, avrebbe ucciso i due bambini. Per quanto potevo vedere, Pennsylvania Avenue e le vie che la incrociavano erano già ingorgate. Parecchi automobilisti avevano abbandonato i loro mezzi per proseguire a piedi, ma molti si erano attardati per assistere allo spettacolo. Di certo, milioni di telespettatori ci stavano osservando dalle loro case. Al capo della squadra SWAT spiegai che a mio avviso Gary Soneji/Murphy era pronto a esplodere e lui rispose che avrebbe volentieri messo a disposizione il fiammifero per dar fuoco alla miccia. Le trattative erano già in corso, ma il capo della SWAT era più che lieto di lasciare a me l'onore. C'eravamo arrivati, dunque: stavo per negoziare con Soneji/Murphy. «Questa è la nostra possibilità di beccarlo», disse Sampson scandendo con cura le parole. «Niente trucchetti, Alex.» «Dillo a lui. Comunque, se ne hai l'opportunità fallo fuori. Liquidalo senza pensarci un secondo, John.» Mi detersi il viso con la manica. Grondavo sudore e avevo la nausea. Mi
avevano dato un megafono ad alta potenza. Lo accesi. Avevo il potere, ora. E anch'io volevo essere qualcuno. Era davvero così? Era a questo che si riduceva tutto? «Sono Alex Cross», gridai, e qualche idiota tra la folla lanciò un ululato d'approvazione. Ma, per il resto, il centro di Washington era relativamente tranquillo. Esplose improvvisa una raffica di proiettili. Parecchi finestrini delle auto parcheggiate lungo la via saltarono in aria. Nel giro di una manciata di secondi Soneji aveva fatto un bel po' di danni, ma per quanto potevo vedere non c'erano feriti. A te la palla, Gary. Poi si udì una voce. La sua voce. Mi stava gridando qualcosa. Eravamo lui e io soltanto, ancora una volta. Era questo che voleva? Il suo Momento di Gloria nel bel mezzo della città? Una copertura televisiva in diretta e su scala nazionale? «Fatti vedere, Cross. Vieni fuori, Alex. Mostra a tutti la tua bella faccia.» «Perché dovrei?» «Non stare tanto a discutere», sussurrò Sampson alle mie spalle. «Obbedisci, o sarò io a spararti.» Un'altra salva di proiettili, questa volta più prolungata. Washington stava cominciando ad assomigliare a Beirut. L'aria era piena del ronzio delle telecamere. Di colpo mi alzai e mi allontanai dalla berlina della polizia. Non troppo, quanto bastava per farmi ammazzare. Altri idioti mi incitarono. «Ci sono tutte le stazioni televisive, Gary», urlai nel megafono. «Stanno riprendendo la scena. Stanno riprendendo me. Così alla fin fine sarò io la star dello spettacolo. Sono partito piano, ma guarda che razza di finale.» Soneji/Murphy scoppiò a ridere. Una risata che durò a lungo. Era in pieno delirio? O stava scivolando nella depressione? «Pensi di avermi inquadrato, allora?» sbraitò. «Ne sei convinto? Sai chi sono? Che cosa voglio?» «Ne dubito. So che sei ferito. So che credi di stare morendo. Perché altrimenti...» - feci una pausa a effetto -, «altrimenti non ci avresti permesso di beccarti di nuovo.» Dall'altra parte di Pennsylvania Avenue, Soneji/Murphy emerse da dietro la jeep rosso fuoco. I bambini erano sdraiati sul marciapiede alle sue spalle. Apparentemente illesi. Gary mi rivolse un inchino teatrale. Era di nuovo il bravo ragazzo ame-
ricano, proprio come in tribunale. «Bella mossa», si complimentò. «Ben detto. Ma la star sono io.» Uno sparo echeggiò dietro di me. Gary fu scaraventato all'indietro, in direzione della calzoleria. Atterrò sul marciapiede e rotolò per qualche metro. Urlando, i due bambini balzarono in piedi e corsero via. Mi slanciai al di là della strada. «Non sparate!» gridavo. Mi girai e vidi Sampson, la pistola d'ordinanza ancora puntata contro Gary Murphy. Tenendomi gli occhi fissi addosso, la sollevò verso l'alto. Gary era un mucchietto inerte sul marciapiede. Dalla bocca e dalla testa sgorgava un fiotto costante di sangue. Stringeva ancora la pistola automatica. Mi chinai a togliergliela di mano. Le telecamere ronzavano e ronzavano. Gli sfiorai la spalla. «Gary?» Con gesti attenti lo rovesciai supino. Ancora nessun movimento, nessun segno di vita. Eccolo di nuovo, il bravo ragazzo americano. A quell'ultima festa era venuto Gary Murphy. D'un tratto i suoi occhi si spalancarono, si rovesciarono all'indietro. Poi si fermarono su di me. Lo vidi socchiudere le labbra. «Mi aiuti», bisbigliò con voce soffocata. «Mi aiuti, dottor Cross. La prego, mi aiuti.» M'inginocchiai al suo fianco. «Chi sei?» «Gary... Gary Murphy», sussurrò. Scacco matto. EPILOGO GIUSTIZIA DI FRONTIERA (1994) La notte prima del giorno fatidico, non riuscii a dormire, neppure un paio d'ore. E neppure riuscii a mettermi al piano, sulla veranda. Avevo paura che qualcuno mi avvicinasse per parlare di quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Alle due del mattino salii a baciare Damon e Janelle, poi uscii. Erano le tre quando arrivai alla prigione federale di Lorton. Erano tornati i dimostranti, ed esibivano i loro cartelli fatti in casa sotto un cielo rischiarato dalla luna. Qualcuno cantava canzoni di protesta degli anni '60. C'erano suore e ministri di tutti i culti. Buona parte dei manifestanti, notai, era-
no donne. La cella delle esecuzioni di Lorton era una stanzetta piccola, banale, con tre finestre. Una era riservata alla stampa, una agli osservatori ufficiali e la terza ad amici e parenti del giustiziato. Tutte e tre erano protette da tende blu scuro, che alle tre e mezzo un funzionario del carcere provvide a scostare. Si vide allora la detenuta, sdraiata su una lettiga da ospedale, il braccio sinistro allungato su un supporto improvvisato. Jezzie teneva gli occhi fissi al soffitto, ma si fece attenta e parve irrigidirsi quando i due tecnici le si avvicinarono. Uno portava la siringa in una vaschetta d'acciaio inossidabile. L'introduzione del catetere era l'unico risvolto doloroso dell'esecuzione per iniezione letale, a patto che la procedura venisse espletata nel modo corretto. In quei mesi mi ero recato spesso a Lorton per parlare con Jezzie e Gary Murphy. Avevo ottenuto un lungo congedo dal servizio, e, sebbene fossi impegnato nella stesura di questo libro, di tempo per le visite me ne restava a iosa. A quanto dicevano i rapporti, Gary stava andando a pezzi. Passava gran parte del tempo perso nel suo mondo di fantasia e riportarlo alla realtà diventava sempre più difficile. O almeno così sembrava. Di certo, il suo stato gli aveva evitato un altro processo, e il rischio di una condanna a morte. Da parte mia, ero certo che stesse recitando, ma non c'era nessuno disposto a darmi retta. Io però sapevo che stava semplicemente tramando un altro dei suoi piani. Jezzie aveva accettato di parlare con me. Non avevamo mai avuto difficoltà a parlare, noi due. La condanna a morte comminata a lei e a Charles Chakely non l'aveva colta di sorpresa. Dopotutto, lei e gli agenti dei servizi segreti avevano rapito Maggie Rose Dunne. Erano responsabili della morte di Michael Goldberg, il figlio del ministro del Tesoro, e di Vivian Kim. Per giunta, Jezzie e Devine avevano assassinato il pilota della Florida, Joseph Denyeau. Mi rivelò che i rimorsi l'avevano tormentata fin dall'inizio. «Ma non al punto di fare marcia indietro. Lungo la strada, qualcosa dev'essersi rotto dentro di me. Credo che oggi lo rifarei. Per dieci milioni di dollari, accetterei di correre di nuovo gli stessi rischi. E così un sacco di altra gente, Alex. Questa è l'era dell'avidità. Ma non per te.» «Come fai a saperlo?» le chiesi. «Lo so e basta. Tu sei il Cavaliere Nero.»
Disse che avrei dovuto sforzarmi di non prendermela troppo, una volta che tutto fosse finito. Disse che i dimostranti la irritavano. «Se fossero stati i loro figli a morire, si comporterebbero in modo molto diverso.» Ma io stavo male. A dispetto delle esortazioni di Jezzie, stavo male. E non sarei andato a Lorton quella mattina, se non fosse stata lei a chiedermelo. Non c'era nessun altro ad assistere alla morte di Jezzie. Sua madre era morta poco dopo l'arresto e sei settimane prima Charles Chakely era stato giustiziato alla presenza dei suoi familiari. Quel giorno il destino di Jezzie era stato deciso in modo irrevocabile. Lunghi tubi di plastica collegavano il suo braccio ad alcune flebo. La prima, già in funzione, era un'innocua soluzione salina. A un segnale dell'agente incaricato, vi sarebbe stato aggiunto del tiopental sodico, un barbiturico non troppo forte, e quindi il pancuronio. Normalmente, quel farmaco provoca la morte in una decina di minuti, ma per accelerare il processo si provvede a somministrare al condannato una dose eguale di cloruro di potassio, una sostanza che rallenta il battito cardiaco. Jezzie non avrebbe impiegato più di dieci secondi a morire. Quando mi vide nella finestra riservata agli «amici», agitò debolmente le dita e cercò perfino di sorridermi. Si era pettinata con cura e i suoi capelli, ora tagliati molto corti, erano ancora bellissimi. Pensai a Maria, e al fatto che lei e io non avevamo avuto la possibilità di dirci addio. Tutto quello che desideravo era andarmene di lì, ma rimasi. Lo avevo promesso a Jezzie, e io mantengo sempre le promesse. In realtà, non accadde nulla di particolarmente sensazionale. Jezzie chiuse gli occhi, ma non avrei saputo dire se le erano già stati somministrati i farmaci letali. Tirò un profondo sospiro, poi vidi la lingua sparire all'interno della bocca. È così che nell'era moderna si giustizia un essere umano. E così morì Jezzie Flanagan. Mi affrettai a lasciare il carcere. Ero uno psicologo e un poliziotto, mi ripetevo mentre andavo verso la macchina. Potevo sopportare anche quello. Potevo sopportare qualsiasi cosa. Ero più duro di chiunque altro. Lo ero sempre stato. Avevo le mani affondate nelle tasche del cappotto. Nella destra, stretta al punto di dolermi, tenevo il pettinino d'argento che mi aveva dato Jezzie, tanto tempo prima. C'era una busta bianca infilata sotto il tergicristallo dalla parte del pas-
seggero. La misi in tasca, e non mi preoccupai di aprirla finché non fui sulla strada per Washington. Pensavo di sapere che cosa contenesse, e non mi sbagliavo. La Belva mi aveva mandato un messaggio. Riservato personale. Alex, ha singhiozzato, ha uggiolato, ha implorato pietà prima che la pungessero? Ricordami alla tua famiglia. Ci tengo a essere ricordato. Per sempre, Il FIGLIO DI L. Era ancora impegnato nei suoi atroci giochetti mentali. E sempre lo sarebbe stato. Io avevo cercato di spiegarlo a chiunque si mostrasse disposto ad ascoltarmi. Avevo tracciato un profilo psichiatrico di Soneji per le riviste specializzate. Ero persuaso che avrebbe dovuto venire processato per gli omicidi commessi nella zona sud-est. Anche le famiglie delle sue vittime di colore avevano diritto alla giustizia e alla vendetta. Se mai qualcuno aveva meritato la pena di morte, quello era certamente Gary Soneji/ Murphy. Il messaggio stava a indicare che aveva trovato il modo di raggirare uno degli agenti di custodia. Che aveva tirato dalla sua parte qualcuno di Lorton. Aveva un altro piano. Anche quello a dieci o vent'anni? Mentre guidavo verso Washington, mi chiesi chi dei due fosse stato il manipolatore più abile. Gary o Jezzie? Una cosa la sapevo per certa: erano entrambi psicopatici. Questo Paese ne sforna più di qualunque altro del pianeta. Di ogni forma e dimensione; di ogni razza, fede e sesso. È questa la cosa che fa più paura. Una volta a casa, suonai Rapsodia in blu sulla veranda. Suonai Let's Give Them Something to Talk About di Bonnie Raitt. Damon e Janelle uscirono ad ascoltare il loro pianista preferito. Dopo Ray Charles, naturalmente. Si sedettero sullo sgabello vicino a me. Per molto tempo ci bastò restare così, ad ascoltare la musica, stretti l'uno all'altro. Più tardi, andai a St. Anthony per il pranzo eccetera eccetera. L'uomo del burro è vivo. RINGRAZIAMENTI Vorrei ringraziare Peter Barn per l'aiuto fornitomi per conoscere le vite
private, i segreti e i tabù che ancora esistono in tutta l'America. Anne Pough-Campbell, Michael Ouweleen, Holly Tippett e Irene Markocki mi hanno fatto capire meglio la psicologia di Alex e la sua esistenza nella zona sud-est di Washington. Liz Delle e Barbara Groszewski hanno salvaguardato la mia onestà, Maria Pugatch (la mia Lowenstein) e Mark e MaryEllen Patterson mi hanno riportato alla memoria la mezza dozzina di anni in cui ho lavorato come psichiatra al McLean Hospital. Carole e Brigid Dwyer e Midgie Ford mi hanno dato un aiuto formidabile per Maggie Rose. Richard e Artie Pine hanno grondato lacrime e sangue per questo mio lavoro. E infine Fredrica Friedman è stata mia complice dall'inizio alla fine. FINE