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AL SARRANTONIO SCHELETRI (Skeletons, 1992) PROLOGO La terra ruota intorno al sole ogni 365,2 giorni. Assieme al sole, agli altri otto pianeti, e a tutti i vari aggregamenti rocciosi, inclusi comete, asteroidi, e detriti del nostro pianeta, come i satelliti, la terra ruota intorno al piano galattico, cioè il cuore della nostra galassia, la Via Lattea, ogni duecento milioni di anni. Ciò significa che se ci fosse una zona nel piano galattico composta di un plasma sconosciuto, nebbia spaziale, particelle di un gas ignoto, o qualsiasi altra cosa, la terra ci passerebbe attraverso una volta ogni rivoluzione intorno al cuore della Via Lattea, in altre parole ogni duecento milioni di anni. Quella zona c'era. E la terra la attraversò. CAPITOLO PRIMO IL DIARIO INTIMO DI CLAIRE ST. EVE 1 Oggi mi è successo qualcosa. La signora Garr, la mia protettrice a Withers, ha detto che sono come un seme chiuso ben stretto e pronto a crescere. Dice che sono muta perché anche la mia voce è imprigionata dentro al seme. Dice che lei è un giardiniere, e che sta cercando di trovare il giusto tipo di terreno, il giusto sole, e la giusta acqua per farmi germogliare. Oggi, per la prima volta, ho sentito vibrare il seme. 2 Questo giorno di prima estate, all'Ospizio Femminile Withers, di Cold Spring Harbor, New York, è iniziato come ogni altro. Tutte in piedi alle sei e trenta, indossare le uniformi di saglia grigia, lavarsi e pettinarsi, mezz'ora di esercizi di ginnastica ritmica in palestra col signor Cary. Poi la colazio-
ne nel refettorio, simile a quello di una prigione, file di panche e tavoli allineati, proibito parlare, e dopo aver impilato i vassoi, di nuovo nelle nostre stanze. Un'ora di meditazione, la chiamano; io la chiamo solitudine. Poi terapia, seguita dal pranzo, sempre consumato in silenzio. Poi, la sala della televisione. La dispotica Margaret Gray, l'ospite più anziana dell'Ospizio Femminile Withers, ci aspettava lì, perché quello è il luogo in cui veniamo finalmente lasciate sole. Come sempre, ha aspettato che Priscilla Ralston, la sua leccapiedi diciottenne, accendesse il televisore sul canale religioso, e che Priscilla ritornasse al suo posto. Poi si è spostata in fretta davanti a noi, è salita su di una sedia, e si è girata per averci di fronte. «Impareremo,» ha detto, con la mano sottile chiusa in un pugno ossuto, gli occhi che saettavano per la sala, sfidando chiunque a contraddirla. Anche la sua voce era dura e cattiva, e sottile. «Guarderemo e impareremo.» È scesa, e si è messa in piedi sotto il televisore come una sentinella, per accertarsi che gli occhi di tutte fossero fissi sullo schermo. Ognuna di noi ricorda Laura Paine, la ragazza alla quale vennero cavati gli occhi. Laura era grande, aveva quasi vent'anni, e sapeva ridere. Arrivò a Withers l'estate scorsa, e venne accecata un mese dopo. Aveva un problema di alcolismo, e degli splendidi occhi azzurri. Per tre settimane sopportò la tirannia televisiva di Margaret Gray, poi un giorno si alzò, spinse Margaret da parte, e rimise il canale degli sceneggiati a puntate. Le altre ragazze applaudirono. Laura sorrise, e si mise di sentinella al posto di Margaret finché Margaret lasciò la sala. Guardammo sceneggiati per tutta la settimana. Poi il venerdì mattina Laura non si presentò a colazione. La trovarono nella sua stanza, con i pugni premuti contro le orbite vuote, ubriaca. Gli assistenti dissero che si era portata in camera il liquore di nascosto, e che aveva fatto tutto da sola. Priscilla Ralston disse a una delle ragazze che Margaret Gray aveva puntato un coltello davanti agli occhi di Laura, e per Laura gli occhi erano la sua parte più bella, e che l'aveva fatta bere fino a farle perdere conoscenza. Secondo Priscilla, Margaret aveva detto: «Se il tuo occhio ti offende, estirpalo,» e aveva strappato gli occhi di Laura col coltello mentre lei giaceva incosciente. Quando il tempo della televisione è finito, alle quattro, siamo tornate nelle nostre stanze per altra forzata solitudine. Alle cinque ho visto la signora Garr per un'ora. La signora Garr mi ha condotta alla finestra della mia stanza. La fresca
brezza del tardo pomeriggio estivo mi alitava addosso. Mi ha fatto guardare fuori, i terreni ondulati, il campo da gioco, il piccolo cimitero con accanto il villino del signor Cary, e più oltre lo scintillio dell'acqua, una barca rossa su Long Island Sound, attraverso gli alberi. «Non lo vuoi, tutto questo?» mi ha detto, in piedi dietro di me, stringendomi le spalle con le mani. «Non vuoi correre nell'erba e gridare, o saltare nell'acqua, e riempirtene la bocca, e soffiarla fuori come fa una balena?» Io ho alzato silenziosamente lo sguardo su di lei, e lei mi ha stretto più forte le spalle. «Oh, Claire, voglio così intensamente che tu fiorisca.» Mi ha fatto voltare, ha preso le mie mani fra le sue, e mi ha guardato nel profondo degli occhi. «Hai quasi sedici anni,» ha detto. «Non hai mai pronunciato una parola. Ma non hai nulla che non va. Le tue corde vocali sono a posto. Sei intelligente, e i tuoi lavori scritti sono buoni come quelli di una studentessa del college. Svolgi bene i tuoi compiti. Sei in buoni rapporti con le altre ragazze. «Ma è come se tutto di te fosse dentro quel seme. Come se tu non avessi ancora cominciato a vivere. Come se... stessi aspettando qualcosa.» La voce della signora Garr mostrava chiaramente la sua frustrazione. «Parlerai quando sarai pronta, Claire. Lo so. Voglio che tu cominci a vivere.» La signora Garr ha aspettato la mia risposta, ma io mi sono limitata a guardarla, e infine ha lasciato andare le mie mani, e si è allontanata da me, richiudendo le proprie nella delusione più cupa. «Quel seme si aprirà,» ha detto lasciando la mia stanza. Alle sei abbiamo cenato, e alle sette abbiamo guardato ancora la televisione, con Priscilla che faceva la sua parte mettendo sul canale degli spettacoli comici, e Margaret Gray che arrivava a passo di marcia per cambiare sul canale religioso. Margaret ha tenuto banco fino alle dieci, ora in cui siamo andate tutte in bagno, per lavarci e pettinarci di nuovo, e poi a letto. La signora Garr si è fermata davanti alla mia stanza, il suo profilo stagliato contro la luce del corridoio, per darmi la buonanotte prima di chiudere la porta. Allora mi sono sdraiata tranquillamente a letto, e ho dormito, fino a quando durante la notte mi sono svegliata, e mi è successo qualcosa. Mi sono seduta sul letto. Come una brezza dalla finestra, qualcosa mi ha avvolta e penetrata; ho sentito un pizzicore dalla punta delle dita strisciare giù fino nel profondo del mio essere, e dentro di me ho sentito un balzo.
Mi sono alzata, e sono andata alla finestra. All'esterno ho visto delle sagome nell'oscurità, che si muovevano sulle colline vicino agli alberi e all'acqua. Qualcuno ha urlato. E poi ho sentito molto rumore attorno a me, e la signora Garr ha spalancato la porta della mia stanza. «Claire, sbrigati,» ha detto. E poi è entrata di corsa, e mi ha presa per un braccio, trascinandomi fuori nel corridoio, e ci sono state altre urla. CAPITOLO SECONDO LE MEMORIE DI PETER SUN 1 Doveva essere l'adunanza più grande, il giorno più bello della nostra vita: delegati dall'Asia, dal Terzo Mondo, dal Nord e dal Sud America, dall'Australia, dall'Europa, persino da Cuba. Quel mattino, quando il sole sorse sulla Piazza Rossa, e sulle tende che erano spuntate come fiori durante l'ultima settimana, tenute ferme agli angoli con delle pietre, vidi proprio con i miei occhi una folla molto più numerosa del previsto. Avevo detto centocinquantamila, ma sembravano piuttosto duecentomila, forse di più. Fino a quel momento credevo di sapere cosa dire a tutte quelle persone, per inaugurare il magnifico giorno sulla terra dedicato alla causa della democratizzazione. Ed io, un umile uomo dell'umile Cambogia, un paese ripetutamente razziato per migliaia di anni, un paese ancora legato agli Khmer Rossi, e alle figure quasi altrettanto tristi di Pnom Penh, ero stato scelto per aprire i lavori. I capi di Mosca si sarebbero addirittura scomodati per accogliermi. Non si vedeva nemmeno un soldato ostile. Ma quando il sole sorse su quell'assemblea, su migliaia e migliaia di tende e sacchi a pelo, su centinaia di migliaia di volti diversi, fu troppo per me, improvvisamente non sapevo cosa dire, e dovetti andarmene. Quando lasciai il palco c'era Jon Roberts, degli Stati Uniti, con la sua fascia da anni sessanta stretta attorno alla fronte, e i lunghi capelli legati. «Come a Woodstock,» diceva, sorridendo quasi ingenuamente, anche se non era ingenuo, soltanto molto giovane. «Preparerò la colazione. Frittelle nella Piazza Rossa.»
«Tornerò in tempo,» lo avvertii, d'un tratto incapace di respirare, soffocato dalla consapevolezza che tutto si era davvero realizzato, che tutti quegli oratori, grandi pensatori e scienziati e scrittori e musicisti da tutto il mondo, davvero si erano riuniti in quel luogo per celebrare la democrazia. «Non allontanarti,» mi ammonì, corrugando la fronte. «Peter, Paul & Mary cominciano tra venti minuti, quelli della CNN saranno qui tra meno di un'ora, sai che vogliono...» «Pensaci tu alla CNN,» gli dissi, battendogli una mano sulla spalla. «Puoi farcela, Jon.» «Ma i media, sai quanto è importante tutta questa merda...» «Pensaci tu,» ripetei. «Te la cavi meglio di me in questo.» «Cerca di essere qui per mezzogiorno, dannazione!» mi gridò dietro. «Devi essere qui a mezzogiorno, per parlare...» «Prometto,» dissi allontanandomi a spintoni in mezzo alla folla. Qualcuno dei presenti mi riconobbe, e nonostante molti si facessero da parte, c'erano anche quelli che volevano stringermi la mano, e scambiare due parole. Infine frugai nel mio zaino, trovai gli occhiali da sole, li misi, e svoltai a destra abbassando la testa. Ben presto nessuno mi riconobbe più, e potei guardarmi attorno mentre camminavo: un mare di picnic umani, famiglie levatesi col levar del sole che si spingevano in tutta la piazza. Faceva freddo a quell'ora del giorno, pur essendo il mattino del primo luglio, ma già si vedeva dissiparsi la nebbia, ed evaporare la rugiada. Vedevo solo sorrisi, e trovai la cosa notevole, veramente notevole. Mi ci volle quasi mezz'ora soltanto per uscire dalla folla. E poi, improvvisamente, riuscii a respirare. C'erano degli autobus, quelle cose enormi, ingombranti e rumorose che fanno ancora i Russi, e ne presi uno che usciva dalla città. Avevo bisogno di allontanarmi, e di ritrovare la terra sotto i piedi, e i campi coltivati, almeno per un poco. L'autobus si avviò sferragliando, si fermò con un sibilo a una fermata, inclinandosi da una parte per far salire i passeggeri, ripartì ondeggiando, e in quaranta minuti eravamo fuori Mosca. 2 Tolte tutte quelle decorazioni marziali, l'Unione Sovietica era un bel posto, e in luglio il poco frumento cominciava a germogliare e a crescere. Seppi di essere giunto dove volevo quando vidi un campo di quell'oro rachitico, e feci fermare l'autista, che mi assicurò che entro un'ora e mezza
sarebbe passato un altro autobus, e che mi avrebbe riportato nella Piazza Rossa parecchio tempo prima di mezzogiorno. «Io la conosco,» disse in modo confuso, sorridendo e mettendo in mostra lo spazio vuoto dove mancava un dente. Mi batté forte sul petto. «Lei è un brav'uomo. E parla Russo!» «Sì,» dissi. Mi colpì ancora. «Sarò di ritorno qui io stesso, tra novanta minuti, e la riaccompagnerò io.» Feci un cenno di ringraziamento, desiderando che gli occhiali fossero più grandi, e mi lasciai cadere giù dall'autobus, seguito dagli sguardi di alcuni passeggeri mentre l'autista ripartiva con uno scossone. Finalmente potevo sentire la terra sotto i piedi. A fianco della strada c'era una striscia di ghiaia, e oltre quella il suolo benedetto. Mi tolsi le scarpe, arrotolai i pantaloni, e mi incamminai. Le prime file erano indurite dal sole e rese compatte dalle intemperie, e la pula stenta del frumento mi carezzava i polpacci. Dietro al campo di frumento c'era un appezzamento di terreno appena arato, probabilmente per le patate. Ci entrai. Avevo trovato ciò che cercavo, terra appena smossa che mi si infilava tra le dita dei piedi. Era quello di cui avevo bisogno. «Il vero democratico,» aveva detto un filosofo, «è il contadino che ara la terra.» Mi sdraiai con la schiena contro un soffice solco e giacqui a guardare il sole. Ero arrivato in fondo a una lunga strada, e le notti precedenti erano state febbrili e piene di eccitazione. Dalla tasca del giubbotto di cotone tirai fuori un foglio ripiegato e ci diedi un'occhiata. Le parole che avrei pronunciato, ispirate dagli scritti di Abramo Lincoln, parvero d'un tratto ancora fresche e vitali. Sapevo che avrei potuto dirle, e crederci, dopotutto. Le altre parole che avevo pensato di dire, le parole che mi avrebbero smascherato per l'impostore che ero, dovevano restare non dette, almeno per il momento. C'erano troppe cose in gioco, per lasciare che la confessione di un uomo distruggesse tutto. Le parole scritte su quel foglio sarebbero andate bene. Lo ripiegai e lo rimisi in tasca. Improvvisamente mi sentii stanco, in quel luogo. Chiusi gli occhi e mi addormentai. Feci un sogno assurdo, un mondo di petali rosa e azzurri dove i bambini danzavano e il sole era sempre caldo, e anche la pioggia era calda, e fiori
nuovi sbocciavano ogni giorno. E mentre giacevo in un letto di petali e osservavo quel mondo, un pizzicore mi pervadeva, e una ragazza incantevole, dalla pelle scura, mi si avvicinava sorridendo attraverso i petali. Tese le mani, aprì la bocca, e disse una sola parola. Il sogno continuò, ma poi finì. 3 Quando aprii gli occhi, mi accorsi dalla posizione del sole che avevo dormito quasi troppo a lungo. Mi alzai, mi spolverai, e mi avviai verso la strada. A poca distanza vedevo l'autobus, come una bestia addormentata, sul ciglio della strada. Sul limitare del campo di patate inciampai in qualcosa e caddi. Mi rimisi in piedi e guardai in cerca della pietra che dovevo avere urtato col piede. Non c'era nessuna pietra, e dal terreno spuntavano invece i resti scheletrici di una mano umana, con le dita aperte. Le ossa erano sbiancate, ma sembravano coperte dalla nebbia spettrale di una forma umana. Le dita della mano si mossero, scattando avanti e indietro. «Deve venire con me,» disse una voce alle mie spalle. Di solito non mi faccio prendere di sorpresa, ma quella volta sobbalzai, mettendomi in una posizione difensiva mentre mi voltavo. Era l'autista dell'autobus, che mi era venuto incontro attraverso il campo. «Venga, la prego,» disse guardando spaventato la mano scheletrica. «Non sto sognando?» dissi, stordito. «Ciò che vedo è vero?» «Sì. La prego.» Lo seguii attraverso le basse file di frumento, continuando a girarmi verso il luogo dove c'era quella mano. Adesso non c'era più solo la mano, ma tutto un braccio che si sollevava da terra. «Aspetta,» dissi afferrando il braccio dell'autista. L'uomo si fece il segno della croce e si ritrasse verso l'autobus, implorandomi di andare con lui. «Sta succedendo ovunque,» disse. «Dobbiamo andare.» Non mi mossi. Realizzai che doveva essere un sogno, un sogno strano che bilanciava l'altro mio sogno infantile. Il giorno era ancora caldo e piacevole, sotto i miei piedi non c'erano petali rosa e azzurri, ma comunque piacevole pula di frumento. «Questo non è reale.»
«Lo è,» disse l'autista. Si fermò, e mi parve che avesse perso la ragione. «All'ultima fermata del mio giro c'erano due scheletri che aspettavano sul ciglio della strada. Hanno attaccato un passeggero, la vecchia signora Borogrov, quando è scesa dall'autobus. Hanno usato le mandibole come fossero armi, e l'hanno fatta a brandelli. Lei si lamentava come un gatto. Ho chiuso le porte su uno di loro quando ha cercato di salire, bloccandogli l'osso del braccio. L'ho colpito finché non si è fatto indietro, ritirando il braccio dalla porta. L'altro passeggero, una donna ancora più vecchia, ha cercato una via di scampo dalla porta posteriore dell'autobus, ma l'hanno tirata giù e gettata a terra. La signora Borogrov non si muoveva già più, e aveva la faccia coperta di sangue. Lì c'è un vecchio cimitero a trenta metri dalla strada, e ho visto degli altri scheletri scavalcare il basso steccato, e avvicinarsi all'autobus. L'altra signora ormai era per terra, e la stavano colpendo con qualsiasi cosa avessero a portata di mano. Uno di loro ha sollevato una pietra e gliel'ha gettata sulla testa...» Io lo presi per un braccio e gli diedi una scrollata, perché mi ero reso conto che si trovava in stato di shock. «Deve venire con me,» disse, e si diresse incespicando verso l'autobus. Io mi voltai di nuovo verso il campo, e vidi uno scheletro umano quasi completo alzarsi da terra. C'era qualcosa di appena visibile, una forma più umana che lo avvolgeva come un vago sudario, ma dava principalmente l'impressione di essere un insieme di ossa umane umanamente disposte che si tira in piedi a strappi. Lo scheletro mi guardò con quel suo teschio, aprì la mascella senza produrre alcun suono, e mi si avvicinò a lunghi passi, seminando per strada grumi di terriccio che gli cadevano dalle giunture. Ritornai all'autobus, dove trovai l'autista già seduto al suo posto che mi aspettava. Aveva gli occhi incollati allo scheletro che si stava avvicinando. «Salga,» disse, con la mano sulla maniglia della porta, pronto a chiuderla. Saltai sull'autobus, e subito l'autista chiuse la porta. Il motore tossicchiò una volta, e poi ruggì animandosi mentre l'autista innestava la prima. Mi spostai su uno dei sedili davanti e guardai fuori dal finestrino impolverato. Lo scheletro aveva cominciato a correre verso di noi, raggiungendo la strada proprio nel momento in cui partivamo, lasciandolo nel nugolo di polvere sollevato dalle ruote posteriori. Con un gesto rabbioso si chinò, cercò per terra, trovò una grossa pietra e ce la scagliò addosso, colpendo il vetro posteriore.
«Madre di Dio,» disse l'autista, fissando alternativamente la strada e lo specchietto retrovisore. «Madre di Dio.» «Sto sognando,» mi trovai a dire a voce alta. «Tutto il mondo sta sognando,» disse l'autista. «Tutto il mondo, alla fine, è impazzito.» «È successo qualcosa prima che cominciasse tutto questo?» chiesi. «Cosa c'è stato prima che accadesse?» «C'è stata una strana sensazione, piacevole, come se qualcosa mi pervadesse, poco prima,» disse l'autista. «L'ho sentita anch'io,» dissi, ricordando il pizzicore che mi aveva pervaso nel sogno. Dietro di noi lo scheletro si era messo a camminare tranquillamente nella nostra stessa direzione, in mezzo alla strada. 4 Per quindici minuti la follia parve assopirsi. Vedevo solo campagna, case lontane che puntinavano le basse colline, in un giorno d'estate. Pensai che forse avevo davvero sognato, dopotutto, che senza sapere come ero salito sull'autobus che ritornava a Mosca e mi ero addormentato, per risvegliarmi poi nella normalità. Solo il nervosismo dell'autista, che scoccava occhiate scrutatrici di qua e di là della strada, sbirciando persino nelle altre auto che passavano, mi fece cambiare idea. «Deve fare qualcosa,» disse bruscamente. «Cosa vuoi dire?» «Deve fare qualcosa per arrestare tutto questo. Sono sicuro che può farlo, lei è stato capace di farli incontrare tutti a Mosca, di far arrivare qui grandi uomini e donne da tutto il mondo. Lei può fermare tutto questo.» «Forse è successo solo fuori Mosca. Forse può occuparsene il vostro governo.» «Il governo,» sbottò. «Spero che lei abbia ragione,» disse, e aggiunse quasi immediatamente: «Madre di Dio.» Eravamo alla periferia di Mosca. Una folla enorme era apparsa di fronte a noi, su un lato della strada principale, e avvicinandoci vedemmo quelle che sembravano essere camicie bianche essere in realtà un assembramento di scheletri. «Il Cimitero Nazionale,» disse l'autista, sconvolto. Alla nostra sinistra, al limitare della città, l'esteso Cimitero Nazionale sembrava aver preso vita. Ne avevo visitati altri, come l'Arlington National Cemetery negli Stati Uniti, ma quello era di dimensioni maggiori. La rivo-
luzione Sovietica aveva creato molti eroi, molti cadaveri da seppellire, e parecchi erano sepolti lì. E adesso era vivo, acri e acri di terra rovesciata, popolata di rigide figure bianche che si spostavano in massa verso il centro di Mosca. Davanti a noi un'auto si bloccò con gran stridore di freni, e il guidatore scese a guardare meravigliato la scena. L'autista imprecò, cercò di sterzargli attorno, urtò il parafango posteriore dell'auto e l'uomo, cadde a terra. «Devi fermarti ad aiutarlo,» gli dissi. «Guardi.» L'autista aveva rallentato, ma in quel momento vedemmo cinque scheletri far breccia nell'argine sul fianco della strada, alzarsi e avvicinarsi all'uomo, che si era rimesso in piedi stringendosi una gamba. Uno degli scheletri sollevò una zappa da giardino, e l'abbassò su di lui ripetutamente e con violenza. Gli altri scheletri rivolsero la loro attenzione su di noi. «Merda,» disse l'autista dell'autobus, spingendo sull'acceleratore, ma riuscendo solo a spingere più avanti l'auto. «I parafanghi si sono incastrati.» Mise la retromarcia, ma dietro si era formata una coda, e andò a sbattere contro la prima auto. Sentii un grido soffocato, ma l'autista continuò a cercare di indietreggiare. Sentii altri schianti e mi spostai fino al vetro posteriore, rotto, per vedere le auto disseminate su tutta la strada, che la trasformavano in un immenso parcheggio. A perdita d'occhio gli scheletri si stavano arrampicando su dall'argine, e molti impugnavano armi di fortuna. Poco lontano vidi uno scheletro infilare un lungo bastone di legno nel finestrino aperto di un'auto, piegandosi poi a vedere cosa avesse colpito. Tutt'attorno a noi si levavano urla soffocate. «Ci stiamo riuscendo!» gridò l'autista. Mise la prima, accelerò a fondo e sterzò bruscamente a destra. Quasi ci ribaltammo sull'argine, ma l'autista sterzò di nuovo, senza esitare, a sinistra, e tenne l'autobus in strada. Le auto che procedevano in direzione opposta si erano fermate. Davanti a noi solo poche auto avanzavano verso la città, ma la strada era praticamente sommersa da un fiume di bianchi scheletri. Uno di essi tentò di bloccare l'autobus saltandoci proprio di fronte, ma l'autista accelerò e lo travolse. Scrutando fuori dal finestrino cercai di vedere cosa ne fosse stato, ma si era confuso nella mobile massa bianca alle nostre spalle. Mentre il cimitero scorreva via di fianco a noi, il numero degli scheletri diminuì, e presto non ne vedemmo più.
«Forse Mosca è sicura,» disse l'autista. Le sue parole avevano il tono di una preghiera. 5 Andammo avanti finché, a pochi isolati dalla Piazza Rossa, non potemmo procedere oltre. All'improvviso apparve l'Armata Rossa, una falange di uniformi verde oliva con decorazioni rosse che faceva allontanare il traffico dalla strada. L'autista si spostò sul lato della strada per lasciar passare una fila di autocarri diretti verso la periferia di Mosca. «Questa è la fine della corsa,» disse l'autista in tono di scusa. «Va benissimo.» L'autista aprì la porta, e mentre gli passavo davanti gli lessi in volto la paura. «Tu resti qui?» gli chiesi. In lui si svolgeva una battaglia evidente. Tese una mano, me la posò sulla spalla, e si alzò. «Ho promesso che l'avrei portata a destinazione, e lo farò,» disse. «Lei riuscirà a mettere fine a questa follia.» Non risposi. Quando lasciammo l'autobus ci trovammo immersi in un'inimmaginabile accozzaglia di rumori. In lontananza sentii l'esplosione di un colpo di fucile, seguita da un'altra che sembrava quella di un mortaio. Un pennacchio sottile di fumo si levò a est. Attorno a noi il caos, e i soldati che cercavano di incanalare una folla formicolante e disordinata. Non c'era panico, piuttosto una specie di pressante incertezza. «Che cos'è?» disse un uomo vicino a me a una donna che lo accompagnava. «Cosa può essere? Sono gli Americani? È la guerra?» «Sono i Cinesi!» disse un altro con voce sicura. «Quei bastardi alla fine hanno attaccato.» «Scommetto che sono i Tedeschi,» disse una donna poco distante. «Ho sempre saputo che i Tedeschi sarebbero entrati in guerra un'altra volta.» «Perché non ci dicono qualcosa?» disse il primo, quello con la donna. «Perché ci tengono sempre all'oscuro?» Durante tutta questa conversazione io e l'autista cercavamo di farci largo tra la folla verso la Piazza Rossa. Il movimento generale non sembrava dirigersi né verso né via dalla piazza, e costituiva invece una sorta di gelatina statica. «Venga con me,» disse l'autista quando risuonò un'altra esplosione più vicina, decisamente di un mortaio, precipitando i nostri compagni in un'al-
tra serie di frenetiche ipotesi. «Sono sicuramente gli Americani, solo loro posseggono la tecnologia sufficiente per arrivarci addosso in modo tanto improvviso!» «No, non l'avrebbero fatto, devono essere i Tedeschi!» L'autista mi trascinò fuori dal capannello di persone e ci trovammo dall'altra parte della strada. «Passeremo attraverso il GUM,» disse l'autista. E infatti eravamo riusciti a trovarci davanti all'entrata principale dei grandi magazzini, lontani solo pochi passi. Tra spinte e gomitate arrivammo fino alle porte girevoli, che però non si muovevano. Dentro c'era gente che voleva uscire, ma la pressione di quelli già in strada impediva loro di lasciare il magazzino. «Fatevi indietro, dannazione! Non vedete chi c'è con me?» sbraitò l'autista. Con una violenza mai vista, aiutandosi con gesti e urla, riuscì a vuotare le porte, e potemmo passare. «Prima lei,» disse occupando la porta dietro di me e mantenendo costante la pressione finché non fummo passati. In effetti la folla mi aveva riconosciuto, e mi faceva rispettosamente strada. L'autista mi prese per un braccio e mi condusse avanti, finché una giovane donna mi fermò e mi chiese se sapevo cosa stava succedendo. Io feci per dirle degli scheletri, poi, semplicemente, dissi che non lo sapevo. Nei suoi occhi si vedeva la paura, ma ebbe la forza di ribattere che ci avrebbe pensato l'esercito, come aveva sempre fatto. Le persone attorno a lei parvero concordare. L'autista mi fece attraversare il magazzino di corsa. Quello che altrimenti avrebbe potuto essere un gradevole shopping si trasformò in un accelerato viaggio surrealistico tra una confusione di merci disposte ad arte su tavolini lustri a beneficio del consumatore, mentre i nostri passi risuonavano metallici sul pavimento lucidato a cera. I commessi innervositi dietro i banconi si erano trovati improvvisamente senza nulla da fare, e si erano riuniti in piccoli gruppi bisbiglianti. All'esterno esplosero due mortai, e d'un tratto i bisbigli aumentarono di volume. «Più vicino, senz'altro più vicino,» disse qualcuno. Un'altra esplosione, più sorda. «Ah, l'esercito li sta allontanando dalla città!» «Allontanando chi?» disse un impiegato, ridacchiando innervosito. «Chiunque sia!» rispose l'amico. Attraversammo tutto il magazzino, e raggiungemmo l'isolato successivo. Il caos regnava anche fuori da quelle porte, anche se era meno assordante,
lontano com'era dai rumori delle armi da fuoco, spostato verso la Piazza Rossa. Uscimmo spingendo le porte e ci ritrovammo tra la folla. «Resti accanto a me,» disse l'autista. «Conosco tutte le strade secondarie.» Era vero. Probabilmente ci sarebbero volute ore per arrivare nella Piazza Rossa in mezzo a quella moltitudine semovente, ma dopo cinque minuti avevamo attraversato la strada ed eravamo entrati in un altro edificio, abbandonato e deserto. Oltrepassammo una fila di di ascensori aperti e vedemmo una guardia in una specie di garitta che stava ascoltando attentamente una radio, a orecchie tese, e non badava a noi. «Cosa dicono?» chiese l'autista, fermandosi. La guardia continuò ad ignorarci. Era un uomo anziano, forse un pensionato con conoscenze importanti, e i suoi lineamenti erano concentrati in una paura cupa. «Cosa...» ripeté l'autista dell'autobus, allungando una mano verso il vecchio in uniforme, ma la guardia spense bruscamente la radio. «Sono balle,» disse. «Tutte balle.» Tentò di apparire allegro, ma il duro sguardo della paura era ancora nei suoi occhi. «Cosa ha detto la radio?!» strillò ancora l'autista, afferrando il vecchio per il bavero. «Dicono quello che dicono sempre,» rispose la guardia. «Di stare calmi, di andare a casa, che la situazione è sotto controllo.» L'espressione di calma beatitudine crollò, la falsa allegria scomparve. «Oh, Dio, l'ultima volta che l'hanno detto, i Tedeschi, i carri armati, la mia Vanya portata via...» Nascose il volto tra le mani e cominciò a piangere. «Andiamo,» disse l'autista spingendomi avanti. Uscimmo dall'edificio e passammo al successivo, anche quello quasi vuoto. «Ancora uno,» disse l'autista. Nell'edificio seguente non vedemmo un'anima, ma un indistinto brontolio si intensificò mentre ci avvicinavamo alla porta in fondo. «Questo ci porterà sulla piazza oltre il muro, passando per la tomba di Lenin,» spiegò. «Dimmi come ti chiami,» gli chiesi. Si voltò a guardarmi sorpreso. «Come ti chiami?» ripetei. D'un tratto divenne vergognoso, e quasi comicamente sì fermò e fece un inchino. «Sono Victor Volokovsky, al suo servizio.» «Grazie, Victor,» gli dissi.
Se possibile la sua timidezza aumentò. «Di nulla.» Tese le mani davanti a sé. «È un piacere servirla. Lei è un grand'uomo.» Io sorrisi e gli strinsi una spalla. «Ne dubito,» dissi. «Ma apprezzo quello che hai fatto per me.» «È quello che lei ha fatto...» cominciò, ma una forte esplosione poco lontano lo distolse dalla dimostrazione di gratitudine, e Victor mi prese per un braccio. «Meglio che ci muoviamo.» Il sordo brontolio era il mormorio dell'immensa folla nella Piazza Rossa, che scorsi quando attraversammo il muro del Cremlino, oltrepassando il grande mausoleo che custodiva i resti di Lenin; lì dissi a Victor di fermarsi. «Non dovrebbe esserci qualcuno di guardia, davanti alla tomba?» Sbarrò gli occhi. «Sempre. C'è un contingente di guardie del Partito. Marciano continuamente, e la porta è chiusa a chiave.» La porta non era chiusa, ma completamente spalancata. Quando mi avvicinai, Victor rimase indietro. «Forse non dovremmo,» disse. «Vieni con me.» Riluttante mi raggiunse, ed entrammo. Mi si rizzarono i capelli sulla nuca. La tomba era vuota. La lunga bara di vetro che racchiudeva il corpo di Lenin era aperta, il pesante coperchio era stato spinto da parte, e sul pavimento erano sparsi frammenti di vetro. «Madre di Dio!» disse Victor, tornando fuori. Lo seguii, e subito ci ritrovammo nella piazza. La folla era ancora lì dal mattino, ma non per propria scelta. Sembrava intrappolata dalla folla più grande che dall'esterno cercava di arrivare nella piazza. Dell'esercito non c'era quasi nessuna traccia, solo pochi soldati col capo scoperto tentavano di farsi largo, ma venivano bloccati dov'erano. L'enorme palco rizzato sotto il balcone del Cremlino era deserto, e io mi trovavo a circa cinquanta iarde di distanza con ben poca speranza di raggiungerlo. Osservando meglio la parte anteriore del palco riconobbi la figura di Jon Roberts, grazie alla fascia attorno alla fronte. Stava cercando di mantenere un minimo di ordine davanti a sé, e lottava con un microfono che non funzionava. Una parte della folla si era fatta strada verso di noi, premendo da dietro, e venivamo lentamente spinti in avanti. «Devo arrivare su quel palco,» dissi a Victor. Mi guardò pensieroso, poi il suo volto si illuminò. «Ho ancora una risorsa.»
Procedendo a spintoni, mi condusse di nuovo alla tomba di Lenin. Entrammo e passammo oltre la bara vuota, verso la parete di fondo. Victor si fermò e si mise a bisbigliare fra sé, ad occhi chiusi. «Dove, dove,» disse. «Cosa stai cercando?» gli chiesi. «Ho visto un servizio speciale alla televisione,» mi rispose. «Una visita guidata ai segreti del Cremlino. Sotto la Piazza Rossa c'è una serie di gallerie, e uno degli ingressi è qui, nella tomba, lo ricordo chiaramente. E credo che ci sia uno sbocco proprio vicino al palco... ah!» Si diresse verso destra, e la sua mano si appoggiò alla maniglia di una porta quasi invisibile. L'abbassò ripetutamente, ma senza nessun risultato. «Sono stato uno stupido a pensare che la porta potesse essere aperta,» disse con voce addolorata. «Grazie per aver provato,» gli dissi. «Dovrò per forza conquistarmi un passaggio tra la folla.» «Combatterò al suo fianco!» disse Victor. Andò ai piedi della bara aperta di Lenin, scelse una grossa scheggia di vetro spesso, si tolse la giacca e la avvolse attorno alla parte più sottile. «Se è necessario, anche senza la sua approvazione, mi farò strada con questo... Madre di Dio...» Fissò dentro la bara con occhi spalancati. Con cautela spostò la fodera di raso, scoprendo il fondo. «Svelto, mi aiuti!» In due sollevammo il fondo della bara, rivelando un'apertura, dalla quale ci investì una corrente d'aria fredda. «Deve condurre alle gallerie!» disse Victor. L'accenno di un sorriso gli increspò le labbra. «Quei furbi comunisti bastardi hanno lasciato una via di fuga a Lenin anche dopo morto!» Si arrampicò oltre il bordo della bara, e si calò con prudenza nell'apertura, tastandosi attorno. «C'è persino un corrimano,» disse, e ben presto la sua testa scomparve. «Va tutto bene!» gridò. «Venga giù, c'è luce sufficiente per vedere!» Lo seguii, e mi ritrovai su un pavimento solido e asciutto. Per un secondo non vidi niente, poi i miei occhi si abituarono e scorsi Victor, di fronte a me, che scrutava in avanti, dove baluginava una luce fioca e ondeggiante. Mentre ci avvicinavamo i rumori soffocati della moltitudine nella piazza cominciarono a scendere verso di noi. «Sopra dev'esserci una grata,» disse Victor, e come richiamata dalle sue parole apparve una grata sopra la nostra testa. Era praticamente coperta da
forme in movimento, e lasciava filtrare solo poca luce. «Dovrebbe essere semplice vedere fuori, se non ci fosse tutta quella gente sopra,» disse Victor. Altre esplosioni, sorde e lontane, risuonarono in distanza, e la folla reagì spostandosi prima da una parte e poi dall'altra. Victor avanzò nella galleria, e io lo imitai. Camminammo per forse trenta iarde prima di raggiungere un'altra grata, anch'essa coperta da forme in movimento. I rumori dei mortai adesso erano più regolari, anche se ancora lontani. «Immagino che l'esercito stia opponendo una resistenza risoluta alle porte di Mosca,» disse Victor. Per un istante mi rammentai l'orda di scheletri che come un ammasso di vermi fluiva dal Cimitero Nazionale verso la città. «Non è questo che avevo in programma per oggi,» dissi. «No, vero?» Proseguimmo. La grata successiva era munita di una scala infissa nel muro che conduceva in superficie, ma anch'essa era irrimediabilmente oppressa dai corpi. Dedussi che ci stavamo avvicinando al palco. Quella dopo, come avevo segretamente sperato, si trovava proprio sotto il palco, ma non aveva scala. «Provi a sollevarla,» disse Victor, mettendosi a gambe divaricate, con le mani contro il muro, permettendomi di arrampicarmi sulla sua schiena rigida e sulle spalle. «Non ci arrivo,» dissi, con le dita tese a pochi centimetri dal fondo della grata. «Le sembra che potrebbe essere spinta verso l'alto?» chiese Victor. «Non vedo niente che la tenga fissa.» «Bene. Venga giù un momento.» Scesi dalle spalle di Victor e lo seguii indietro verso l'ultima grata, quella con la scala. I colpi di mortaio adesso erano regolari, ma sempre lontani. Victor salì la scala e cominciò a tempestare di pugni i piedi di coloro che stavano in piedi sopra la grata. «Hey, voi! Dico a voi!» gridò. Qualcuno in superficie strillò: «Sono qua sotto! Ci stanno attaccando da sotto!» Si sentirono delle urla, e un movimento generale di gente che si allontanava dalla grata. Victor cercò di spingerla verso l'alto, ma altri corpi vi vennero spinti sopra. Poi qualcuno con un bastone da passeggio cadde di traverso sulla grata, e Victor non poté più sollevarla.
«Aiuto! Aiuto!» urlò qualcuno mentre Victor afferrava il lembo di un abito. «Ascolti!» gridò Victor. Una faccia si voltò a guardarlo. «Oh, Dio, vi prego, no!» «Non voglio farle del male!» «Lasciatemi andare!» implorò il tizio sulla grata. «Mi calpestano, mi prendono a calci... owww!» «Ascolti!» urlò Victor, avvicinando la faccia alla grata. «Deve aiutarmi, lo sa chi c'è qui con me?» «Non voglio saperlo... basta! Fermo!» Il tizio si voltò a gridare contro qualcuno che gli era salito addosso, agitando debolmente il bastone. «Guardi chi c'è qui con me!» gridò Victor. La testa si girò di nuovo, e guardò giù verso di me. «Questo è Peter Sun,» disse Victor autoritario. «È l'unico in grado di toglierci da questo pasticcio. Capisce?» «Mio Dio! Mio Dio!» disse il tizio, fissandomi. «È vero! Aiutiamolo! Dobbiamo aiutarlo... scendetemi di dosso!» Il tizio lottò per alzarsi, restò in piedi un momento e poi si acquattò per guardarmi ancora. «Signor Sun, la aiuteremo!» Il tizio si rialzò e cominciò a urlare: «Allontanatevi dalla grata! Il signor Sun è là sotto! Lasciatelo salire... toglietevi dalla grata!» Le sue urla vennero interrotte dalla prima esplosione ravvicinata. L'uomo rimase in silenzio per un attimo, poi riaccostò la faccia alla grata. «Una bomba è caduta nella piazza! C'è della gente ferita!» «Per favore, tiratemi fuori di qui,» dissi. «Sì! Toglietevi! Allontanatevi!» L'uomo agitò il bastone, ma sulla grata sembravano esserci gli stessi corpi di prima. L'uomo col bastone si chinò rapidamente. «Mi dispiace... non riesco a farli muovere... ohhh!» Un'altra esplosione risuonò vicinissima. «Mi dia il suo bastone!» gridò Victor all'uomo. «Un'altra bomba, qui vicino! La gente sta urlando!» «Il suo bastone - me lo dia!» «Oh, che Dio ci aiuti!» disse l'uomo, tentando di allontanarsi con la folla. Il bastone scivolò momentaneamente nella grata, e Victor lo afferrò. «Cosa state facendo!» gridò l'uomo da sopra la grata. «Ridatemelo!» Cercò di ritirare il bastone attraverso la grata. «Ridatemelo!»
«Mi serve per far uscire di qui il signor Sun!» gridò Victor. «Con questo posso aiutarlo!» «Cosa? Oh, sì. Oh, Dio...» disse l'uomo lasciando andare improvvisamente il bastone prima di essere spinto via dalla folla. Victor tirò il bastone, ed era riuscito a farne passare metà, quando l'ultimo pezzo rimase incastrato tra i corpi scaldanti che cadevano. Un'altra faccia, schiacciata contro la grata, ci fissò strillando la sua sofferenza: «Aiuto!» Victor cercò di liberare il bastone, poi d'un tratto lo spezzò in due. «Lo faremo andar bene,» disse. Io rimasi a guardare la faccia premuta contro la grata. «Aiuto, aiuto...» «Non possiamo far niente,» disse Victor trascinandomi via. Riluttante, mi voltai e lo seguii fino alla grata sotto il palco. «Adesso salga di nuovo sulle mie spalle, e spinga con questo per aprirla,» disse mettendomi in mano il bastone rotto. «Dovrebbe essere abbastanza lungo.» Montai ancora sulle sue spalle e spinsi la grata, che si sollevò subito. La prima volta scivolò, ma la seconda riuscii a ribaltarla, infilando la punta del bastone in mezzo alla grata e aprendovi un passaggio. «Adesso viene la parte difficile; dovrò issarla per farla passare attraverso,» disse Victor. «E tu?» chiesi. Rimase in silenzio un momento. «Dovrò ritornare alla tomba. La guarderò fare le sue magie dalla piazza.» Allungai la mano per stringere la sua. «Sei un brav'uomo, Victor Volokovsky. Ma ti avverto, non credo che ci sia niente che io possa fare.» «Proverà.» «Sì, proverò, ma...» Sorrise, mi strinse forte la mano e poi la lasciò andare. «Lo so,» disse. «Ma sono fiero che abbia preso il mio autobus.» «Sono fiero di conoscerti, Victor.» «Vada,» mi disse. Mi issò da sopra le sue spalle, tenendomi per le gambe con mani forti mentre io annaspavo e riuscivo infine ad aggrapparmi al bordo dell'apertura e a sollevarmi all'esterno. Quando guardai giù, se n'era già andato. Sentii i suoi passi allontanarsi lungo la galleria. Effettivamente ero sotto il palco; e lì, incredibilmente, quando uscii, c'era Jon Roberts che camminava davanti al cordone dei soldati, e dietro a lui
il palco era ancora vuoto. «Mio Dio, non posso crederci!» disse abbracciandomi. «Dove...» «Non c'è tempo,» dissi. «Qualcuno degli ospiti che devono parlare è ancora qui?» «Tutti andati,» disse. «Sono scappati quando è cominciata la sparatoria. Erano certi che i Sovietici avessero deciso di trasformare questa piazza in un'altra Tienanmen. Io non so ancora cosa diavolo stia succedendo, ma ho deciso di resistere. C'è in giro un mucchio di voci, ma i ragazzi dell'esercito sembrano spaventati come tutti gli altri.» Rise. «Qualche idiota ha perfino detto che la piazza era circondata da zombi.» Prima che potessi rispondere continuò. «Guarda,» disse prendendomi per il braccio e guidandomi verso i gradini che salivano sul palco. «Credo che adesso il microfono principale funzioni. Tu sei l'unico che può calmarli, Peter.» Venne esploso un altro colpo di mortaio, che atterrò dall'altra parte della piazza. Jon esitò, poi mi guardò dritto in faccia. «Fallo,» disse. Non mi ero mai sentito più impotente, né più falso, in tutti i miei trentacinque anni di vita; mi diressi lentamente in mezzo al palco, osservando Jon che controllava un gruppo di cavi, trovava i due che cercava e li collegava, dandomi poi un segnale. «Per favore,» dissi. Immediatamente nella folla di fronte a me ci furono alcune reazioni, e gli occhi si girarono verso il palco. Come per miracolo, il bombardamento era cessato. L'attenzione si diffuse e si propagò, e in quel momento sentii quell'impeto di determinazione che tanto spesso avevo provato di fronte a una folla, un'energia prorompente che divampava in me e in loro. Molte grida tacquero, e vidi persone chinarsi ad aiutare i propri vicini. «Per favore aiutate quelli che vi stanno accanto,» dissi. I feriti vennero trasportati verso il retro della folla, e il silenzio fu miracolosamente quasi completo. «Oggi avrebbe dovuto essere un grande giorno...» cominciai. Ma non riuscii a dire altro, perché tutt'attorno a noi, sugli edifici e sul muro del Cremlino intorno alla Piazza Rossa, vidi qualcosa di orribile. Scheletri bianchi, allineati spalla a spalla, si levarono come uno solo, e il motivo del cessato bombardamento fu evidente. L'esercito era stato sconfitto. Jon attraversò di corsa il palco. «Peter...» disse, poi alzò gli occhi. «Mio Dio, che cos'è? È un brutto scherzo?» Mi mise una mano sulla spalla, e in quel momento esplose un colpo. Vidi addirittura il fucile che aveva spara-
to, e lo sbuffo di fumo salire dalla canna dell'arma impugnata da uno scheletro dall'altra parte della piazza. Sentii uno spruzzo sul viso e fui certo di essere stato colpito. Ma in un barlume di consapevolezza mi resi conto che ero stato bagnato dal sangue di Jon. I suoi occhi erano sbarrati per la sorpresa quando cadde; la parte inferiore della sua faccia era stata portata via. Non disse nulla e cadde, precipitando giù dal palco. Avevo visto altre volte la morte, e avevo visto morti peggiori di quella, ma in quel momento rimasi paralizzato. La folla non aveva ancora reagito, e sapevo di dover dire loro qualcosa, e restare lì a costo della mia vita. Ma proprio mentre le parole mi si ghiacciavano in gola, da dietro e da sopra di me venne un rumore. Io, e tutti i presenti nella piazza, rivolgemmo l'attenzione al balcone del Cremlino, dal quale tanti leader sovietici avevano passato in rassegna le truppe e parlato al popolo. Una voce forte e rimbombante, una voce russa, si diffuse da lì, esigendo attenzione. «Silenzio!» Fui attraversato da un pensiero improvviso: che quello fosse, dopotutto, un trucco del governo sovietico; che tutti quegli scheletri risorti dalla tomba erano un inganno della tecnologia, armi per sconfiggere la democrazia che noi tutti, Jon ed io e e tutti gli altri che avevano così fermamente dimostrato di crederci, pensavamo fosse inevitabile lì e in tutto il resto del mondo. Forse i regimi totalitari avevano un loro piano. Il potere non passa facilmente di mano, come si dice; nonostante risieda nel cuore, le sue manifestazioni possono esprimersi nella morbidezza di coperte e guanciali o nella durezza dell'acciaio. Era forse quello un inganno, un'arma? Alzai lo sguardo, e attesi. Il balcone era apparentemente vuoto. Attorno ad esso le sommità degli edifici della Piazza Rossa erano gremite di scheletri armati. Vidi una squadra sistemare un mortaio, ed approntare altri enormi cannoni. Mi sentii d'un tratto scoraggiato, e in quell'istante seppi le parole che avrei detto quando sarebbe stato il momento. «Silenzio!» tuonò di nuovo l'autoritaria voce russa, e dagli abissi della storia apparve sul balcone un fantasma che si sporse rigidamente sulla folla. Era Lenin in persona. A prima vista era uno scheletro come gli altri, ma ad un più attento esame il vago sudario che avevo notato sullo scheletro nel campo di patate diventava netto e visibile. Come una spettrale acquaforte disegnata nell'aria attorno alla scheletrica figura, apparvero i linea-
menti di Lenin: la barba appuntita, il volto arcigno e il pugno chiuso. Era uno scheletro con intorno il corpo di Lenin, opaco, come aria. «Ascolta, borghesia!» gridò. La sua voce squillò per tutta la piazza con rimbombante autorità da ogni altoparlante. La folla immensa era elettrizzata, per la paura e lo shock. Lo scheletro alzò il pugno chiuso e si sporse maggiormente. «È cominciata una nuova lotta! Questa volta non sbaglieremo! Il proletariato trionferà, il lavoratore trionferà, le masse trionferanno! L'agiata borghesia verrà calpestata al suolo. Tutti i lavoratori ne godranno i benefici! Il lavoratore è lo stato, lo stato è il lavoratore! Un nuovo giorno è sorto nell'ordine del mondo. Questa volta non sbaglieremo!» Il pugno dello scheletro si abbatté forte sul parapetto del balcone. Lenin distolse brevemente lo sguardo, fece un cenno alle proprie spalle e tornò a rivolgersi a noi. Quando parlò di nuovo, la sua voce era più bassa, ma ugualmente dura. «Questo è il prezzo del passato... bisogna pagare il conto!» Quattro corpi umani apparvero dimenandosi al balcone. Quando vennero gettati di sotto, con le corde attaccate al collo che li risollevarono subito, lasciandoli penzoloni a scalciare, riconobbi i dirigenti sovietici: il capo del KGB, il ministro degli esteri, il capo dell'esercito in uniforme, e il primo ministro, che quel giorno avrebbe dovuto parlare prima di me. Anche se avevo già visto simili spettacoli, si trattava di una esibizione disgustosa, quattro corpi che prendevano a calci la loro vita poche iarde sotto al luogo dal quale avevano esercitato così a lungo il loro dominio. Lenin si sporse a guardare i corpi finché restarono immobili. Poi sollevò di nuovo il pugno chiuso. «Questo, adesso, è il prezzo della sfida!» La mascella del cranio bianco si aprì in un ghigno mostruoso, debolmente accompagnato dal sudario degli spettrali lineamenti di Lenin, che tese le mani verso gli scheletri che circondavano la piazza. «Distruggeteli tutti! Che si uniscano alle masse!» I cannoni tuonarono. Io ignorai i proiettili che colpivano il palco, presi il microfono e gridai: «Per favore! Osservate il vostro vicino! Se osservate il vostro vicino manterrete la calma!» Si sentirono solo le parole «Per favore» prima che il microfono si spegnesse, e allora vidi uno scheletro con in mano le estremità recise del cavo, mentre un altro mi puntava un fucile alla testa. Ero certo che il sudario attorno allo scheletro che aveva tagliato il cavo trattenesse i lineamenti di
Jon Roberts. Caddi in ginocchio proprio mentre esplodeva il colpo. Adesso tra la folla gli scheletri giunti dalle strade erano numerosi. I colpi dei mortai piovevano ovunque, l'aria era densa di fumo e urla. Strisciai giù dal palco e mi lasciai cadere nella piazza. Una donna giaceva ai miei piedi, con il foro di un proiettile ben nitido sopra l'occhio sinistro. Mentre la fissavo la pelle e i lineamenti del volto si dissolsero nel nulla, scoprendo il cranio bianco. Tutto il suo corpo parve liquefarsi; vidi le caviglie sopra le scarpe diventare bianche ossa. Le primitive fattezze si contrassero in una spettrale visione attorno alle ossa, e vidi aprirsi l'ombra dei suoi occhi quando il cranio lucido volse su di me le orbite, e la mascella si schiuse con uno scatto. «Uccidiamolo!» gridò levando le mani ossute verso la mia gola. «Uccidiamolo!» Mi allontanai con un balzo. La donna si alzò, con i vestiti aderenti allo sfuggente fantasma del suo corpo. In piena luce, tuttavia, anche così da vicino, sembrava che quei vestiti fossero indossati da uno scheletro del cinema. «Uccidiamolo!» strillò di nuovo saltandomi addosso. Sentii il pressante fremito di quella mano spettrale, e il tocco di un dito ossuto sul collo. Mi gettai all'indietro nella folla, mi girai, e corsi lontano da lei. Quasi immediatamente mi scontrai con un altro scheletro, che roteò il calcio di un fucile in direzione della mia testa. Lo schivai e mi ritrovai di nuovo vicino al palco. «Tutti quanti!» gridava Lenin. Guardai in su attraverso uno squarcio nel fumo dei mortai e vidi il leader comunista che si allontanava. Sotto il balcone i quattro cadaveri umani si erano trasformati in scheletri tormentati dalle convulsioni. Sotto i miei occhi, il primo ministro afferrò la corda con le mani ossute e si tolse il cappio dal collo. Cominciò ad arrampicarsi lungo la corda e sul balcone, seguito dagli altri tre. Il fumo si faceva sempre più fitto. Vicinissimo sentii l'urlo di un uomo. Nel fumo apparve un braccio, lo afferrai e lo trassi verso di me. Era il vecchio che aveva dato il bastone a Victor. Sembrava stordito, ma illeso. «Lei...» disse. «Sì,» risposi. «Venga con me.» Mi infilai sotto il palco e mi tirai dietro il vecchio, che zoppicava ma era in grado di muoversi. Procedemmo carponi. Una cortina di fumo si disperse davanti a me, rivelando un corpo umano in posizione prona, un uomo
con gli occhiali in completo marrone con una baionetta ficcata nel collo, che si stava decomponendo in uno scheletro. «Svelto,» dissi. Strisciammo oltre il corpo e trovammo la grata aperta. Trascinai il vecchio fino al buco e lo calai giù. «Dovrà saltare da un'altezza di pochi piedi, stia attento.» Lo lasciai andare, e lo sentii atterrare con un gemito. Lo seguii immediatamente. «Il mio bastone,» disse raccogliendo ciò che restava sul pavimento del suo bastone rotto. «Me l'ha regalato lo zio Mikhail,» disse con aria sognante. «Era del legno più pregiato.» «Dobbiamo andare,» dissi. «Mio zio Mikhail.» Gli tolsi il bastone di mano. «Se non ci muoviamo, moriremo.» «Forse dovremmo,» continuò il vecchio assente. «Lo sapeva che ero un insegnante di scuola prima della pensione? Ragazzini di dodici anni. Insegnavo storia, la storia di Lenin. Nessuno di noi sapeva che saremmo vissuti abbastanza per vedere Lenin, vero? Forse sto dormendo. Chissà dove sono adesso i miei ragazzini di dodici anni?» Mi guardò implorante. «Lei non sa come fermare tutto questo? Non dovevate farla finita con Lenin e tutti gli altri, e portare la democrazia nel mondo? E cos'avete fatto? Avete peggiorato le cose!» Si aggrappò a me con rabbia. «Ridammi il mio bastone, che possa picchiarti, guarda cos'hai fatto!» Cominciò a piangere, allontanandosi da me nella semi-oscurità, di nuovo verso l'apertura della grata. Lo presi gentilmente per le spalle e lo costrinsi a voltarsi. «Venga con me. Forse possiamo scappare.» «I miei ragazzi. Quei poveri dodicenni che vedono tutto questo.» Per un attimo i suoi occhi ridivennero lucidi, e parve ritrovare la ragione. «È giusto» disse. «Dobbiamo cercare di sopravvivere.» «Bene.» Continuai a camminare, ad un passo più lento di quanto desiderassi per rispetto del vecchio che zoppicava dietro di me. Non mi permise di aiutarlo. Feci una sosta alla grata con la scala e guardai fuori. Un corpo vi giaceva di traverso, contorcendosi, e la copriva quasi completamente. Nonostante lì sotto urla ed esplosioni giungessero come ovattate, non era difficile comprendere che in superficie si stava svolgendo una cruenta battaglia. Continuai a camminare.
Quando arrivai alla grata successiva mi guardai indietro, ma non riuscii a vedere il vecchio. Lo chiamai, e sentii un gemito soffocato. Rifeci la strada di corsa e feci appena in tempo a vedere il vecchio cadere a terra sotto le mani di uno scheletro, l'uomo vestito di marrone che avevo visto passando. Si era scrollato di dosso quasi tutti i vestiti, ma la manica strappata di una camicia penzolava ancora attorno al braccio scheletrico, e quasi ridicolmente gli occhiali da sole aderivano ancora alla vaghezza dei lineamenti che incorniciavano il teschio. Si era tolto la baionetta dal collo e l'aveva infilata nel petto del vecchio, ritirandola mentre cadeva a terra senza vita. «E adesso tu,» mi disse lo scheletro vestito di marrone, in tono quasi affettuoso. Mi balzò incontro, brandendo la baionetta. Presi il bastone rotto del vecchio e parai il colpo, facendogliela sfuggire di mano. Quando si chinò a raccoglierla, lo colpii alla nuca col bastone. Cadde, tentò di rialzarsi, e lo colpii ancora. Stavolta giacque immobile. Le ossa dalle quali era composto si sbriciolarono in una polvere finissima, e il vago profilo del suo corpo si dissolse. Rimasero solo gli occhiali e il brandello della manica strappata. «E così i morti possono morire,» sussurrai. Quello non era il primo uomo che avevo ucciso. Mi ci ero abituato da tempo, e provavo solo una debolissima sensazione di rimorso, nonostante i miei moderati sermoni pacifisti. Pensai rapidamente all'autista dell'autobus, a Jon Roberts, a tutti coloro che si erano rivolti a me sperando nella salvezza. E se avessero saputo delle mie altre vite? Se avessero saputo cosa ero stato? Mi avrebbero reso comunque omaggio allora? Non sapevo se ridere o provare vergogna. «Devi morire...» disse una voce mentre una mano mi scivolava attorno al collo. Era il vecchio, il proprietario del bastone, tornato in vita come uno scheletro. Era piuttosto forte, e con una fitta di panico vidi il luccicore della baionetta che aveva recuperato saettarmi davanti agli occhi pronta a tagliarmi la gola. Istantaneamente lo colpii al petto ossuto con i gomiti e gli feci perdere l'equilibrio. Abbandonò la presa attorno al collo, e io mi girai su di lui col suo bastone, battendolo mentre giaceva a terra, con le mani alzate a proteggersi il viso. Esitai intimorito, vedendo il profilo dei suoi lineamenti coprire l'orrendo
teschio vuoto, ma la mia esitazione durò solo un momento, prima che lo colpissi ancora e ancora, finché non rimase immobile e non si trasformò in polvere. Sentendo dei movimenti provenire dalla grata aperta sotto il palco raccolsi la baionetta, tenni stretto il bastone, e corsi per tutta la galleria fino a raggiungere lo sbocco sotto la tomba di Lenin. Con cautela risalii nella bara ed entrai nel mausoleo. L'edificio era deserto. Fuori infuriavano i rumori della battaglia. Andai alla porta della cripta e guardai fuori. Sentii il rombo dei motori a reazione e vidi tre aerei volare sopra di me in formazione. Una striscia di fuoco solcò il cielo, colpì un aereo e gli tranciò via un'ala. Mentre i suoi compagni proseguivano il volo, l'aereo colpito precipitò a terra come un giocattolo rotto. Quando cadde al suolo sentii lo scoppio dell'esplosione, e vidi un nero pennacchio di fumo levarsi sulla città. Pensai ai campi attorno a Mosca. Sapevo che l'unica possibilità di sopravvivere stava nel raggiungere una zona meno popolata. Mi balenò alla mente la domanda che per la prima volta mi scosse fino nel profondo del mio essere: Mio Dio, stava forse succedendo in tutto il mondo? Le mie riflessioni vennero interrotte da un altro passaggio dei due restanti aerei. Stavolta lasciarono cadere un carico di bombe, prima di allontanarsi dalla città. Un'altra striscia di fuoco si levò a inseguire un aereo, ma il possibile boato parve insignificante in confronto alle più potenti esplosioni delle bombe sganciate dall'aereo in una diagonale che andava da sinistra a destra rispetto a me, terminando dritte in mezzo alla Piazza Rossa. Le terra mi tremò sotto i piedi, e sentii un boato mentre parte della tomba di Lenin alle mie spalle cedeva e crollava su se stessa. Quasi immediatamente apparve un'altra squadriglia che eseguì la medesima manovra. Due aerei vennero colpiti mentre vomitavano il loro carico di bombe, e uno sfrecciò così vicino a terra che riuscii a vedere nella cabina di guida la forma del pilota che si contorceva. Era uno scheletro. Prima che il MIG si schiantasse in mezzo alla Piazza Rossa dietro di me, il pilota venne espulso e scagliato in un ampio arco; il paracadute lo frenò con uno scatto, impedendogli di sfracellarsi, e lo depositò delicatamente a terra. Vidi le gambe scheletriche penzolare e sparire oltre il Cremlino. Sembrava che non ci fosse nient'altro da fare che uscire da Mosca. Era chiaro che, almeno localmente, l'esercito sovietico era sconfitto. Ma l'Unione Sovietica era un paese immenso. Nonostante l'ossessione visiva del-
lo scheletro che sorgeva dal campo di patate, non potevo fare a meno di ricordare la sensazione del terriccio tra le dita dei piedi, il profumo della terra... Presi la mia decisione, e iniziai a camminare. 6 Mantenendomi vicino agli edifici mi diressi verso est, e verso il perimetro della città. Una volta mi nascosi all'ombra di un portone, per lasciar passare un convoglio di quattro autocarri dell'esercito guidati da scheletri. Nel retro scoperto dell'ultimo autocarro erano ammucchiati parecchi cadaveri umani, alcuni dei quali in cima alla catasta si fondevano sotto i miei occhi in scheletrici resti, e tornavano in vita con uno scatto schiocco. Avevo percorso forse mezzo miglio quando un'auto, una berlina prodotta in Unione Sovietica, sbucò stridendo tra due edifici di fronte a me e si fermò. La porta del passeggero si aprì. Io indietreggiai, estraendo la baionetta. Era una giovane donna. «Non sopravviverai cinque minuti per strada. Sali.» Salii sull'auto e sbattei la portiera. «Io so chi sei,» mi disse. Io guardai fuori dal parabrezza e non parlai. «Ti ho visto in piazza, che cercavi di calmare la folla. Non sono molti gli uomini che sarebbero rimasti su quel palco.» «Non ci sono riuscito.» La ragazza sbuffò. «A far cosa? Non vedi cosa sta succedendo? Nessuno può fermare tutto questo. Tutto il mondo sta andando a pezzi.» «Sta succedendo dappertutto?» chiesi. «Dappertutto.» Guidò l'auto sulla strada, sterzò verso est, e premette a fondo il pedale dell'acceleratore. «Conosco delle strade secondarie, forse possiamo farcela a raggiungere la campagna.» Per un poco non parlò, e si limitò a guidare. Passammo attraverso un dedalo di vicoli, sempre diretti all'incirca verso est. Solo una volta vidi uno scorcio della strada principale, intasata di traffico, con sbuffi di fumo che si levavano dalle auto in fiamme. «Come fai a sapere cosa sta succedendo dalle altre parti?» le domandai. «La radio. Ci sono giunte notizie dalla Gran Bretagna, dalla Spagna, dall'America. La televisione ha funzionato per un poco, poi ha cominciato a
trasmettere solo musica marziale. Sai come fanno. Poi un monoscopio. Poi nulla. Quando sono partita la radio funzionava ancora, ma non era cambiato molto. Se potessimo trovare un apparecchio radio a onde corte, scommetto che ne sapremmo di più. Ne avevamo uno, ma si è rotto, e non abbiamo trovato i pezzi di ricambio.» Fece una deviazione strategica mentre passava un altro convoglio. L'autocarro di testa rallentò, lo scheletro che guidava lanciò un'occhiata alla nostra auto, e proseguì. «Sono i vetri oscurati,» disse la mia compagna, sorridendo. «Sono contenta che mio padre li abbia fatti arrivare, non aveva altra scelta, non ci sono cose come gli optional in Russia. Prendi quello che c'è.» «Questa auto è tua?» «Di mio padre. Adesso è morto, così suppongo che sia mia.» «Mi dispiace.» «Per cosa?» «Per tuo padre.» Lei rise, un suono forzato. «Stamattina era vivo. È così che va il mondo adesso, no? Era andato a far visita alla tomba di mia madre, ci andava una volta alla settimana. Era lì quando è successo, e mia madre l'ha ucciso quando si è alzata dalla tomba. Erano tutti e due nel nostro appartamento, che mi aspettavano per uccidermi quando sono scappata dalla Piazza Rossa. Eravamo davvero fortunati ad avere un appartemento tutto per noi, senza doverlo dividere con altre cinque o sei persone. Mio padre era un importante uomo di governo.» Solo in quel momento mi accorsi che si trovava in uno stato di isteria. Stava cercando di contenersi con tutte le sue forze, di essere dura, ma le sue mani cominciarono a tremare sul volante. «Davvero mi dispiace...» Si voltò a guardarmi. I suoi occhi erano colmi di lacrime. «Perché? Li ho uccisi, naturalmente. Li ho colpiti tutti e due con una scopa, e poi con una pala, finché le loro ossa non sono cadute a pezzi. E per tutto il tempo continuavano a parlarmi, a dirmi che presto sarei stata di nuovo con loro, non appena mio padre mi avesse ammazzato con l'ascia che teneva nell'armadio, l'ascia che mio nonno usava a Stalingrado nel 1942, per abbattere i cani, perché potessero mangiarli. I Tedeschi erano quasi riusciti a farli morire di fame, ma loro mangiavano qualsiasi cosa capitasse loro tra le mani pur di sopravvivere. Mio padre deve avermi raccontato quella storia un centinaio di volte.»
Ritornò sulla strada, svoltando fuori da un vicolo troppo bruscamente e raddrizzando la berlina a fatica. «Hai fatto la cosa giusta,» le dissi pacatamente. «Davvero? Tu hai mai ucciso i tuoi genitori?» Tacqui, e non le dissi che una volta l'avevo fatto. «Hai mai visto quel poco che restava della tua vita morirti davanti?» Tacqui ancora. Improvvisamente rise con asprezza. «Ho pensato una cosa buffa. Se Lenin è ancora vivo, allora di certo lo è anche Stalin. E gli zar. Non è un bel miscuglio? Mi domando come organizzeranno le cose. E anche Pietro il Grande, e Caterina. I due Grandi. Che confusione, esatto? Prova a pensarci, anche i miei nonni sono vivi, Stalin li aveva fatti ammazzare durante una delle ultime epurazioni...» A quel punto crollò, e si mise a piangere. L'auto sbandò pericolosamente. La ragazza sterzò bruscamente a destra, mandando l'auto a schiantarsi con violenza contro il muro di un edificio. Mi preparai, abbassai la testa, e puntai la spalla contro il cruscotto. Quando ci fermammo mi guardai a fianco e vidi che la giovane era stata scagliata in avanti oltre il volante, e aveva rotto il parabrezza con la testa. Sul davanti del parabrezza scorreva un rivolo di sangue che si raccoglieva in una pozza sul cofano. Le sentii il polso, che era molto debole. «Sto venendo, padre...» sussurrò. Il polso si fermò. Dovetti spingere forte per cercare di aprire un poco la portiera. Il corpo della ragazza aveva cominciato ad agitarsi, la carne si era dissolta nel nulla. Il teschio si voltò verso di me con un ghigno. Spinsi la portiera con il ginocchio, riuscendo ad aprire uno spiraglio. Sentii la mano della ragazza sulla spalla. La portiera non si muoveva, e cominciavo a sentire puzza di benzina. Tentai di abbassare il finestrino, che scese fino a metà e poi si bloccò. La ragazza allungò entrambe le mani per dilaniarmi le spalle, nel tentativo di arrivare alla faccia. Quando mi voltai un attimo, la sua faccia era a pochi pollici dalla mia. La parte inferiore del suo corpo era ancora intrappolato nella lamiera contorta, ma lei si stava agitando, cercava di liberarsi, e nello stesso tempo di mordermi. Usai un braccio per colpire il vetro del finestrino bloccato, che finalmente si ruppe, mandando frammenti ovunque. Misi fuori la testa e mi di-
vincolai. L'odore di benzina era sempre più forte. La ragazza mi gridò dietro, afferrandomi per le gambe e trattenendole per un momento in una morsa ferrea, finché non mi misi a scalciare e riuscii a liberarmi. Mi tuffai fuori dall'auto, caddi sul marciapiede, mi rialzai e mi allontanai incespicando mentre l'auto prendeva fuoco. La ragazza strillò, poi d'un tratto si buttò fuori dal finestrino, bruciando come una candela di cera. Mi ricordò l'immolazione spontanea dei monaci buddisti. Si gettò a terra, poi si alzò e barcollò verso di me. Dopo pochi passi inciampò, e cadde a terra bruciando e urlando. Improvvisamente le ossa si dissolsero in un mucchietto di polvere, e il fuoco si spense proprio mentre sentivo svanire il suo ultimo grido. Mi voltai e mi allontanai vacillando mentre una jeep militare svoltava l'angolo rombando e si dirigeva a tutta velocità verso la carcassa dell'auto. Mi nascosi in un vicolo, e vidi uno scheletro che scendeva, esaminava la carcassa, e risaliva sulla jeep; mi passò lentamente accanto prima di scomparire. 7 Un'ora più tardi ero vicino alla periferia di Mosca. Il Cimitero Nazionale si trovava due miglia più a nord. Uscii dal riparo degli alti edifici e mi incamminai tra le case e le basse abitazioni vicine, tenendomi nella loro ombra. Da quasi ogni abitazione venivano urla e grida; figure per lo più di scheletri sbirciavano fuori dalle finestre e dagli usci aperti. Ormai stava scendendo la notte. Da quanto tempo era cominciato? Quel mattino avevo visto il primo scheletro trascinarsi fuori dalla terra, e adesso era sera. Era stata questione di poche ore, e già la distruzione era grande. Accolsi le lunghe ombre come gradite amiche e proseguii verso est. Quando tre ore dopo sorse la luna, quasi piena, mi ritrovai agli inizi dei terreni coltivati. Mosca, ad ovest, era un susseguirsi di incendi, da un capo all'altro dell'orizzonte, e di sporadiche esplosioni, ovattate dalla distanza. Altri villaggi e città, a nord e a sud, erano illuminati da incendi più piccoli, accompagnati da suoni più deboli. A volte un aereo rombava alto su di me, e tutto a un tratto una flotta di più di cinquanta aerei sfrecciò verso est, alta sopra la mia testa. Le tracce di vapore disegnavano linee argentee dalla terra alla luna luminosa. E venne l'oscurità, e finalmente trovai un posto dove nascondermi, un
campo non arato delimitato da un alto fosso accanto al quale scorreva un corso d'acqua poco profondo che si rivelò essere imbevibile. Lì vicino cresceva una siepe di mirtilli primaticci, che servirono solo a rammentarmi quanto fossi affamato. Ne raccolsi quanti potei e mi rannicchiai nel mio nascondiglio, riparato da una sporgenza di terra battuta. Poco lontano sentii il ringhio di un cane, seguito da un lugubre gemito. Improvvisamente mi sentii solo e triste, e desideroso della compagnia di un cane. «Qui, bello,» dissi dolcemente, alzandomi dal mio rifugio. Non era a più di cinque passi da me, lo scheletro di un cane, che si stagliava nettamente nell'argentea luce lunare. Lo scheletro della bestia ululò e mi balzò addosso. Io alzai il braccio e la gettai da parte, e svelto presi la baionetta e lo infilzai. Il cane fantasma ansimò una volta e sparì in un pugno di polvere. Controllai attentamente la zona attorno a me, e di nuovo mi sistemai nel mio nascondiglio. E così mi era stata negata anche la compagnia di un cane. Splendido. Mi sarei comportato in quella situazione come mi ero comportato in tutte le altre nella mia vita. Avrei mangiato quello che avevo nel piatto. A dispetto della paura, risi pensando a Peter Sun, l'ultima e forse migliore maschera da me indossata. E ne avevo indossate molte. Chi sarei stato adesso, in quel nuovissimo mondo? Un filosofo? Un assassino? Un giullare? Per un attimo lasciai che la vita mi scorresse addosso, dolore, un po' di gioia, e molta vergogna. Ripensai alla mia infanzia in Cambogia, negli anni settanta, il tempo trascorso in Tailandia, gli anni passati in America, all'università di Yale. Pensai a dove mi trovavo in quel momento. E adesso chi sarai? Chiunque fossi stato, sarei stato vivo. Mi avvolsi nella notte, e impavido di vivere, dormii. CAPITOLO TERZO DALLA SECONDA VITA DI ABRAMO LINCOLN 1
Io... mi svegliai. Dietro ai miei occhi c'era l'evanescenza di un ricordo: una commedia teatrale, delle risate. La parte più forte del mio ricordo. E poi qualcosa di ancora più forte, un rumore che avevo sentito fin troppe volte a Washington, e nell'Unione, negli ultimi quattro anni. Uno sparo. Dentro di me, senza dubbio. L'avevo sentito? Avevo sentito qualcosa, come se qualcuno mi avesse battuto forte sulla spalla, come era solito fare il mio vecchio amico Joshua Speed, di Springfield. «Dagli addosso, Abe!» diceva. Mi aveva rattristato rifiutargli una posizione nell'Amministrazione; ma persino in politica, come diceva mia zia, le cose non possono essere troppo scontate. Un uomo non può usare il genio per spaccare la legna, significa imbrogliare. E così ero sveglio. Adesso mi ricordavo. La commedia era Our American Cousin, al Ford's Theater. Mio Dio, chissà se Mary stava bene? Povera Mary, aveva sempre paura di queste cose. Chissà se era stata colpita anche lei? Ci doveva essere stato più di un assassino, perché mettevano sempre delle guardie fuori dal palco, oppure no? Poi... la memoria svaniva. Dove mi trovavo? Decisamente non ero nel mio palco al Ford's Theater. Non c'erano bandiere, solo in una cassa buia, e quello che sentivo. Mio Dio, forse mi avevano sepolto vivo? Mi avevano sparato, ero stato dichiarato morto, e sepolto, mentre ancora facevo parte del mondo? Cosa avevano fatto di male quegli uomini di fronte a Dio! Forse mi avevano fatto dichiarare morto da George McClellan, lui sì che doveva averlo sbrigato in fretta quel compito. Almeno potevo respirare. E muovermi, un poco. Ma perbacco, mi sentivo rigido e indolenzito. E mi faceva male dietro la testa. Ormai avrei dovuto essere stato preso dal panico, ma in qualche modo riuscivo a pensare solo a qualcosa di comico, un ritratto mio qui dentro morto e sepolto col mio mal di testa, e la povera Mary là fuori con una delle sue emicranie perché non c'ero più. Ero preoccupato per Mary. Beh, era tempo di vedere in che acque mi trovavo, così sollevai i gomiti e tentai di spingere contro il coperchio. Ma questi miei grossi gomiti andavano dove volevano, così alla fine dovetti distendere le braccia lungo il corpo, che a quanto pare era stato vestito con un dannato completo di lana, costoso ma che pizzica, e poi appoggiare i palmi piatti contro il soffitto della mia casetta, e spingere verso l'alto.
Stranamente sentivo che le mie mani erano soffici e cedevoli fino all'osso, e che il lavoro di spinta lo facevano le ossa stesse. Ma che io sia dannato se non funzionava! Il coperchio si sollevò sui cardini, almeno pochi pollici. Dovevo essere a Springfield, pensavo, perché perlomeno la terra a Springfield è soffice, a causa di tutta quella pioggia. O forse mi hanno messo a Washington, proprio come non volevo, in quel posto dove si può far galleggiare una bara su quella melma paludosa e infestata di zanzare che osano chiamare Capitale della Nazione. La Nazione... Mio Dio, cosa stava avvenendo nell'Unione? Cinque giorni dopo Appommatox, cosa diavolo sarebbe successo alla Ricostruzione con il vice Presidente Andy Johnson in carica? Non per darmi troppe arie, ma proprio Andy Johnson? Mio Dio, Andy era un brav'uomo, anche indispensabile, ma era anche un beone, a essere sinceri, e un dannato sudista da mettere alla porta! E con quel carattere! Il Congresso l'avrebbe mangiato per colazione, e non avrebbe avanzato niente per pranzo! Con le mie vecchie ossa che scricchiolavano come mai prima, aprii completamente il coperchio della bara. Cadde facilmente all'indietro, e non mi cadde addosso nessun terriccio, né dell'Illinois né di un'altra parte. Una cappella funebre. E non troppo buia, grazie a Dio. Un po' di luce filtrava da una spaccatura nel vetro del tetto. Mi sollevai lentamente e battei la testa. La bara era sistemata in una specie di ricettacolo di legno, bello e liscio al tatto, come mogano o noce. Signore, se facevano male le mie lunghe ossa. Tutt'attorno erano sparsi resti polverosi di fiori, e la cosa mi sorprese. Non ero forse rimasto chiuso lì dentro al massimo pochi giorni? Raccolsi un fiore e lo sentii polverizzarsi istantaneamente fra le dita. Bene. Forse l'azione mummificante della cripta. Era meglio prendere le cose come venivano. Cercando di sgusciare fuori dal ricettacolo, vidi sul rivestimento della bara una targa d'argento che diceva: ABRAMO LINCOLN SEDICESIMO PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI NATO IL 12 FEBBRAIO 1809 MORTO IL 15 APRILE 1865 Sogghignai leggendolo. Non così in fretta, pensai. Un estroso incisore
avrebbe dovuto fare una nuova targa per correggere l'ultima data! Era un genere di lavoro che ero ben contento di fargli fare. Mi tirai fuori dal ricettacolo, e finalmente fui in piedi, ben dritto, ad ascoltare ogni angolo del mio corpo scricchiolare come fanno le nocche una in fila all'altra. Sentendo la rigidità abbandonare piano le ossa, esaminai la mia piccola casa di pietra. Non mi avevano trattato male. Sul pavimento della cripta c'erano gli avanzi polverosi di rami sempreverdi. Perbacco, avevano addobbato la mia dimora dell'aldilà come la tolda di un mercantile del Kentucky. C'era luce appena sufficiente per studiare le due spesse porte che mi chiudevano dentro. Non mi piaceva l'aspetto di quelle porte, solide come due ceppi d'albero. E il ceppo è la parte che non si abbatte. Sollevai la mano per grattarmi la barba, e subii quello che dovrei definire il primo shock della mia breve nuova vita. Nella luce fioca potevo vedere le ossa attraverso la mia mano. Subito mi tirai su la manica dell'elegante camicia e osservai il braccio: ossa, avvolte da un lieve accenno del mio corpo. Scoprii che mettendo le braccia a una certa angolazione rispetto alla luce, il mio corpo diventava più visibile, ma mai più di un accenno. Se mi toccavo il braccio, mi sembrava abbastanza solido, a meno che non stringessi forte, nel qual caso toccavo direttamente l'osso. A vedermi ero poco più di uno scheletro ambulante. Bene. Dovetti sedermi e pensarci su, e il bordo del ricettacolo era un posto buono come un altro. Sempre pensando mi girai, per potermi guardare meglio nel legno lustro della cassa. La luce era molto debole, ma ciò che vidi mi innervosì non poco. Vidi il mio teschio, con l'ombra del buco di un proiettile proprio nella nuca. Voltando la testa di qua e di là, spostandola nella luce, riuscii a cogliere a tratti la mia immagine. Ero certamente io, senza dubbio, brutto come sempre. Come mi avevano chiamato durante la prima campagna presidenziale? La Scimmia? D'accordo, non sono mai stato una gran bellezza, ma questa cosa dello scheletro mi rendeva considerevolmente meno attraente, devo ammetterlo. Provai a sorridere, vidi la quasi invisibile traccia delle mie labbra tendersi nel solito ghigno malinconico, e ancora di più, dietro ad esse, il bianco osseo di un teschio sorridente.
Perbacco. Che io sia dannato se la faccenda non mi dava i brividi. Ma non permisi che durassero a lungo. Non aveva senso. L'unico senso era nel cercare di arrivare al nocciolo della questione. Cosa diceva sempre il mio socio Billy Herndon? Diceva che avevo, più di ogni altro uomo in America, il dono del pensiero. Forse questo era vero. Proprio non vedevo la ragione di attaccarsi alla vernice e agli ornamenti di una faccenda. Via tutta la vernice, tolti tutti gli ornamenti, restava l'idea vera da tenere in mano. Allora la si poteva studiare, chiara e semplice. No, grazie, tutte quelle elaborazioni non facevano per me. Bene, adesso quella era l'unica cosa da fare. Pensarci su. Il primo pensiero, e il più logico, era che i predicatori della Bibbia avevano ragione, e che l'Armaghedon era arrivato. Non avevano promesso che i morti sarebbero risorti? Certo, ma se era così, avevano anche promesso che sarebbero saliti al cielo. Quella cripta non mi sembrava proprio un paradiso. Non dubitavo che avrei trovato Springfield appena fuori da quelle pesanti porte. E anche se Springfield mi era piaciuta assai, non era certo il paradiso. E allora cos'era successo? Il mio secondo pensiero fu un pensiero egoista. Forse io ero stato resuscitato dai morti. Da vecchio bestemmiatore quale ero, riuscivo a pensare solo in termini scherzosi che in qualche modo mi ero risuscitato dai morti, o che qualcun altro l'aveva fatto per me. Ero presuntuoso come chiunque - eccetto quello sciocco di McClellan, che in boria superava di gran lunga tutti gli uomini che ho mai conosciuto, incluso quel politicante di Stephen Douglas - ma non potevo credere che un solo uomo, nemmeno se ero io, fosse tanto importante perché l'Unione o qualsiasi altra cosa lo elevasse ad un simile onore. Forse c'entrava la scienza? Forse gli individui che ci avevano costruito quelle navi da guerra, quei cannoni mai visti prima, e che se ne erano usciti con tutti quei nuovi sistemi di uccidere, avevano scoperto un modo per ottenere il contrario? Pensai a cinque, poi dieci, poi venti possibilità. Il fatto era che non avevo abbastanza elementi con cui fare delle congetture. Avevo bisogno d'altro, mi servivano molte più cose concrete da tenere in mano e studiare. Avevo bisogno di giornali da leggere, e di vedere la realtà con i miei occhi, prima di risolvere quest'enigma. Così, sospirando a fondo, mi alzai, distesi le mie lunghe ossa, e mi apprestai a lottare con le due porte di pietra della mia piccola prigione.
Con mia grande sorpresa non ci fu alcuna lotta. Quando appoggiai le mani alle porte trovai un saliscendi interno, e si aprirono facilmente davanti a una luce accecante. Riparandomi gli occhi, mi incamminai nel mondo. 2 Era una notte fresca e scura, illuminata dalla luna. Era primavera inoltrata, a giudicare dalla sensazione e dal profumo. E nonostante ci fossero sottili differenze rispetto ai miei ricordi, conoscevo quel luogo. Il cimitero di Oak Ridge, sicuro come l'oro, a Springfield, Illinois, negli Stati Uniti d'America. Per un attimo venni sopraffatto dall'emozione di essere vivo. Qualsiasi fossero le circostanze, ero certo di sentirmi vivo, fin troppo. Avevo una quantità tale di energia che non ricordo di aver mai posseduto da quand'ero giovane. Fin troppo vivo. Per poco svenni e dovetti sedermi. Mi girai a guardare la mia cripta di pietra. Alla luce della luna era davvero graziosa, e ben tenuta, con le due colonne e la facciata a grossi mattoni. Lasciai che i miei occhi spaziassero sulle verdeggianti colline ondulate che si distendevano dalla mia casa di pietra. Era indubbiamente il cimitero di Oak Ridge, e indubbiamente ero a Springfield. Finalmente i miei occhi inviarono al cervello il loro stupefacente messaggio: attorno a me ogni tomba, ogni cripta e tumulo, erano spalancati sotto il cielo. Non ero l'unico ad essere tornato in vita. 3 Osservai il pendio della collina sotto di me, e vidi un flusso di scheletri dirigersi verso i cancelli in ferro battuto del cimitero. Per via di tutto il mio pensare, ero evidentemente in ritardo. Con la visuale libera dai limiti della mia piccola cripta, adesso vedevo l'esodo in massa degli scheletri che da quel luogo sciamavano in ogni direzione verso l'uscita. Utilizzando la mia collina come osservatorio, studiai i quattro cantoni di Oak Ridge e vidi la stessa cosa: tombe aperte, tumuli aperti. Più oltre la città di Springfield sembrava mutata, eppure sentivo che era la stessa. Ovviamente ero sepolto da diverso tempo. Ma quanto...? Fui sorpreso dall'apparire di una macchina vicino all'entrata del cimitero,
molto più in basso. Un vagone, fatto di metallo. Dietro c'erano delle pale e una cassa di legno, molto semplice. E così dopotutto gli inventori si erano dati da fare. Non era neppure tirata da un cavallo! Notevole. Ma comprensibile. Si muoveva lungo una stradina che correva attorno al cimitero e sembrava diretta all'uscita quando si trovò di fronte alla folla di scheletri. D'un tratto si fermò, e cominciò a indietreggiare. Gli scheletri all'esterno della calca la videro e la inseguirono. Due di loro saltarono sul carro e aprirono una porta, trascinando fuori un uomo. Il vagone smise di muoversi. Un altro uomo venne trascinato fuori dall'altra parte. A quel punto mi accorsi che la bara sul carro si apriva, e ne usciva uno scheletro, vivace come un gatto. I due uomini erano stati gettati a terra, e mentre guardavo lo scheletro sul carro afferrò una pala e saltò giù. I suoi compagni tennero uno degli uomini fermo a terra, e lo scheletro lo colpì con la pala finché rimase immobile, poi rivolse l'attenzione all'altro, che sentivo gridare da dove mi trovavo. La mia prima reazione fu di arrestare quella folle violenza, e di costringere gli scheletri a lasciare andare i due uomini. Non era forse quella la cosa giusta da fare? Non mi era mai piaciuto il governo delle masse. Ma una sensazione viscerale mi trattenne. Sembrava giusto. Non solo, ma sentivo crescere in me una voglia di sangue che mi spaventava. Non solo quei due uomini meritavano di morire, dovevano morire, se possibile. Erano il nemico. E questa era una sensazione strana per me. Mai in tutti gli anni del grande conflitto che divideva questa Unione ho desiderato di veder morire un uomo. In tutte quelle battaglie, non una sola morte di un solo soldato Confederato mi ha dato gioia; e certamente nessuno dei miei rifiuti a sospendere l'esecuzione di una spia o di un disertore mi ha riempito di soddisfazione. Eppure era quello che sentivo in quel momento: una soddisfazione immensa. Non solo: volevo unirmi alla mischia, uccidere io stesso i viventi. Erano sentimenti ripugnanti, ma erano ciò che provavo. E adesso una cosa strana stava succedendo sotto di me. Mentre le urla del secondo uomo si affievolivano, vidi il primo risorgere a nuova vita. La sua carne si dissolse, e adesso era come gli altri scheletri. Presto fu raggiunto anche dall'amico, e tutti e due risalirono sul vagone, incitando gli altri a montare dietro, e lo guidarono lentamente al cancello principale. Là gli scheletri si divisero, salutandosi, e altri ancora salirono a bordo mentre il carro di metallo oltrepassava i cancelli, usciva dal cimitero, e andava
verso Springfield. Altri scheletri, non contenti di aspettare il loro turno per varcare i cancelli, stavano scavalcando in più punti la recinzione in ferro battuto, come bianchi insetti ossuti. Nonostante una parte di me desiderasse seguirli, una parte ancora più grande mi diceva di fermarmi. Josh Speed una volta disse che avevo una mente rapida, ma questo, replicai, non era vero; come ho detto molte volte, sono lento ad apprendere e lento a dimenticare. In quel caso c'era molto da apprendere, e non concepivo di correre come quegli altri là sotto. Cercavano solo di andarsene da dove si trovavano. Per me invece il problema era capire perché. A Oak Ridge era sepolta gente che avevo conosciuto. Non dovetti camminare molto per arrivare alla tomba aperta di una persona che avevo conosciuto e tanto amato. Il dolore del ricordo mi sopraffece guardando il nome sulla piccola lapide: WILLIAM WALLACE LINCOLN. Il mio piccolo Willie, morto di febbre. Rammento ancora il pony che tenevamo nelle stalle della Casa Bianca, e che lui adorava cavalcare, quella piccola peste. La sua morte aveva distrutto la signora Lincoln, e quasi distrutto me. Persino il pony era morto pochi mesi dopo, in un incendio nella stalla. La sua fossa era vuota, il terriccio era rimosso e sollevato, e un corpicino avrebbe potuto alzarsi e passarci attraverso. Mi ritrovai, perso nell'antico dolore, a cadere al suolo, e scavare nella terra, chiamandolo per nome, fino a trovare la sua bara, come speravo, aperta e vuota. Mi rialzai, tremante per una nuova emozione. Davvero l'avrei rivisto? E anche Edward? E tutti quelli che avevo conosciuto qui, e nel Kentucky, nell'Indiana, a Washington? Tutti quelli, ed erano tanti, che mi erano stati cari, e che ricordavo con affetto, portati via dal tempo e da la Maggiore Potenza? Era davvero un'idea travolgente. Mi sedetti a terra, momentaneamente sopraffatto da quel pensiero immenso. La resurrezione dei morti. Cosa significava? Si trattava forse del Giorno del Giudizio? Mi rimisi in piedi. Non aveva senso che mi perdessi a sguazzare in simili oziose speculazioni. Sfiorai con la mano il freddo angolo della pietra tombale di Willie e mi diressi giù per la collina, deciso a trovare dei giornali, e dei libri che parlassero di fatti. Ero deciso ad apprendere esattamente come il mondo fosse diventato.
CAPITOLO QUARTO DALLA VITA DECISAMENTE NON ESEMPLARE DI ROGER GARBAGE 1 Voglio dire, cosa cazzo è successo stanotte? Avete mai visto niente del genere? Spero solo che le fottute batterie tengano duro. Voglio dire, la musica è musica, giusto? Voglio dire, non si sa mai. Adesso sono qui, che bado ai fatti miei, che ascolto i nastri a trentamila piedi come mi pagano per fare, i figli di puttana, e bum, un attimo dopo so solo che sono nel bel mezzo di una guerra. E se siamo in mezzo a una guerra, potrebbe essere complicato trovare delle batterie, giusto? Chissà se queste batterie sono dentro bene? Oh, hey, e chissà i Vomits? Voglio dire, posso sempre sperare che siano morti, no? Forse la prima fottuta bomba è caduta sul loro fottuto autobus, e bum, se ne sono andati i buoni pasto della Roundabout Records. E i voli in prima classe di Carl Peters, i video dal suo posto sull'aereo, e tutto il resto giù nel cesso. Si può sempre sperare, giusto? Heh, heh. Hey, cosa diavolo sta facendo il pilota? Non avrà intenzione di atterrare proprio in mezzo a questa merda, vero? Cosa dia... Bene. Solo un piccolo annuncio all'altoparlante. «Voleremo in circolo ancora per un poco, signore e signori.» Giusto, finché non finisce il fottuto carburante. Mi chiedo cosa pensano di tutto questo quegli stupidi bastardi là dietro, il fuoco terra-aria sotto di noi, le scie dei razzi e i piccoli sbuffi di fumo diecimila piedi più in basso. Se lo immaginano che se finiamo laggiù possono dire addio a Roger & Co.? Mandria di vacche. Così posso solo sperare che i fottuti Vomits siano morti. Perché so che io lo sono. Il lungo volo verso casa per essere abbattuto. E spero che Carl Peters, il vecchio Carly caro, sia andato con loro. Bum, dritti contro la spalla di un ponte, o qualcosa del genere. Hey, voglio dire che probabilmente passerà un mese prima che mi chiudano il conto spese, e potrei spassarmela niente male nel frattempo, mentre fanno i funerali e tutto il resto. Ma quanto durano queste batterie? Fa niente. Ne ho una scatola piena. Doppia anfetamina su per la nappa. Spengo tutto, tanto mi sono stufato di ascoltare. Vorrei che quella puttana
della hostess passasse di qui, ho bisogno di un'altra vodka e limone per sciacquare dalla cavità nasale il pizzicore di quella coca. Fa niente. Suono quel piccolo aggeggio che ronza... Hey, signorina? Un'altra vodka e limone. E mi porti ancora un po' di quelle patatine? Puttana, mi ha guardato come se l'avessi appena trascinata fuori dal gabinetto mentre si stava cambiando il tampone. Fa niente. Avrà un posto speciale nel mio cuore, la puttana dei cieli, Carol credo che si chiami, scoprirò chi è e la farò licenziare. Le grandi linee aeree non vogliono guai nelle cabine di prima classe, l'ho già fatto altre volte. Le daranno un bacio d'addio sul culo e venerdì prossimo sarà dietro un bancone a vendere Chanel No. 5. Oh, il potere del conto spese, ed ecco che arriva con quel drink... Uh-oh, ecco che l'aereo se ne va. Cosa dia... oh, mi ha rovesciato addosso il drink! Merda! Sai quanto costa questo vestito, puttana? È cuoio del Cile! E non sederti, portami un fottuto straccio, qualcosa! Gesù, ha la faccia un po' pallida. «Guardi fuori dal finestrino,» dice. D'accordo, guardo fuori dal finestrino. E allora, vedo la terra. Il che significa che quel fottuto pilota ha fatto un accidente di una svolta. Non dovremmo essere qua sopra, vero? Quelle sono le luci di Los Angeles, laggiù, giusto, e guarda tutti quegli incendi. E allora, qual è il pro... Oh, giusto, l'ala. E così il fottuto motore è in fiamme. Un altro sbuffo di fumo dal basso, l'aereo ondeggia e poi si raddrizza. «Significa che atterreremo in orario?» chiedo alla puttana, che si è alzata e si è data un contegno. Mi fissa e scuote la testa, e se ne va. «Hey, cosa ne diresti di portarmene un altro?» Cazzo, mi sto divertendo. Vecchio Carly, spero che sia morto, e sia dannato se gli darò l'occasione di mollarmi come intendeva fare. Credo di dovere qualcosa a Rita, quella battona, per avermi fatto la soffiata quando ho chiamato ieri. Si aspettava davvero che me la facessi con lei stanotte? Gesù, pensavo che stare con la battona fosse un pagamento sufficiente. Vuoi liquidarmi, eh, Carly caro? Vedremo, amico. Uh... oh... 2
Più tardi, come dicono. Sembra che abbiamo fatto un altro tuffo fuori programma. Ho visto all'incirca la terra ruotare fuori dal finestrino come in un fottuto cartone di Bugs Bunny. Un sacco di urli dal carro bestiame là dietro. Ma il nostro Capitan Bob, o qualunque sia il suo nome, ci ha tirati fuori, e ci ha rimessi in carreggiata. Hurrà per Capitan Bob! Dov'è il mio drink? La hostess, come si chiama, Carol, passa di qua ma non con il mio nuovo drink. Ormai quello vecchio si sta asciugando sui calzoni di pelle. Gesù, sento ancora l'odore della vodka. «Hey, dov'è il mio...» Ma la puttana mi dice di allacciare la cintura e di rannicchiarmi in posizione d'urto. Dice anche per favore. E allora le dico «Fammi un bocchino,» ma non ottengo una grande reazione, anzi si sporge per allacciarmi la cintura. Al che le spingo via la mano e le dico «Non un lavoro di mano, tesoro, un lavoro di bocca,» e questo le fa perdere la calma e comincia a urlare contro di me. In quel mentre si apre la porta della cabina ed esce Capitan Bob in persona, pallido quasi come la vecchia Carol. «Cosa succede?» dice, con tono biascicato da Capitan Bob. «Non vuole mettersi la dannata cintura!» strilla Carol. «Se la metta, e si abbassi,» dice Capitan Bob, ma in quell'istante all'aereo viene un colpo di sonno, e Capitan Bob perde tutto il suo interesse per me, così come tutto il colore che ha in faccia. Ritorna nella sua cabina. Carol, quella fannullona, che adesso sta piangendo, ha deciso di tornare là dietro per aiutare quei poveri babbei a salvarsi la pelle, e mi va benissimo. «Portami un'altra vodka e limone!» le grido dietro. «E fottetevi tutti, tanto io il mio lavoro l'ho perso lo stesso!» E poi, improvvisamente, l'aereo è silenziosissimo, e le luci si spengono. Questo lo conosco, l'ho visto nei film della serie Airport. Proprio adesso scommetto che il vecchio George Kennedy è a terra che sta facendo il possibile per farci atterrare. Gesù, come vorrei avere quell'altro drink, tanto per esagerare. Guarda, siamo ancora inclinati su un fianco. Un altro sbuffo di fumo. Adesso so perché è tutto così silenzioso. Abbiamo perso i motori. Merda, se solo ci vedessi e fossimo dritti, mi farei un'altra pista di coca. E poi le luci si riaccendono. Applausi da dietro. Io sono l'unico in prima classe, così mi esibisco in un piccolo applauso da solo, giusto per fare la mia parte. È proprio questo che
mi dirà Carl, «Non hai fatto la tua parte, Roger.» «Fatti questo, Carl,» ho intenzione di rispondergli. 'Fanculo i Vomits, 'fanculo la Roundabout Records, 'fanculo tutti. Le luci si spengono di nuovo. Stiamo precipitando! Weeeeeee! Non sono mai stato prima su un DC-10 in picchiata. E questo cos'è, un beccheggio o un'imbardata? Davvero, è molto meglio di Disney. Quelli della mandria là dietro non la pensano come me, però, perché stanno gridando come dei pazzi. Io gli grido di stare zitti, ma a questo punto non credo che mi sentano. È un momento buono come un altro per smettere di parlare e riattaccare il Walkman, per ascoltare uno dei nastri di promozione dei Vomits, che non promuoverò più: Oh, yeah, my-yi-yi baby È dolce come lo zucchero filato, Ma se è così dolce Come mai si chiama Pilato? Basta. Voglio dire, la chitarra di Brutus Johnson riesce quasi a salvare questa merda, ma non completamente. Questa era una faccenda che Carly caro e tutti gli altri non avevano mai capito, che i Vomits non avevano molto e non avrebbero avuto molto di più. Erano quelli come me che li tenevano a galla, spingendo quei nastri presso le stazioni dei college, e tenendo su di giri i deejay dei grandi media, l'unica bustarella onesta ancora rimasta. E quella era una delle ragioni per cui voleva fottermi? Per averli aiutati? «Signorina,» grido nella buia cabina roteante. «Adesso voglio quel drink!» Fottiti, Carl. Okay, forse ancora un po' di Vomits prima che ci schiantiamo, e allora mandiamolo avanti in fretta: Nell'oscurità Penso di amarla Mi avvicino La bacio e l'abbraccio Poi arriva il giorno
E arriva la luce E io la vedo Ooooo Ooooo baby Sei così brutta. Basta di nuovo! E poi... non stiamo cadendo! Sento che si accende il motore di sinistra, quello dall'altra parte. Sembra di essere su un boomerang che si raddrizza improvvisamente. Le luci ammiccano, si accendono. Vedo la vecchia Carol che barcolla verso di me, si ferma un paio di sedili più indietro, si piega in due, e rigetta. Poco controllo, Carol. Forse dovrei farle sentire questo nastro. Ti lasceranno a casa di sicuro, baby. Devi tenere pulite le fodere dei sedili. Sapete, forse non è proprio quella gran vacca, dopotutto. Forse le piacerebbe farlo prima che ci schiantiamo e andiamo a fuoco: dimettersi alla grande. «Hey, Carol,» dico, ma quando le luci si spengono ancora inciampa e mi cade addosso, piangendo. Posso quasi sentire terra, molto vicino. «Chi diavolo ci stava sparando?» dico un attimo prima che l'aereo cada. 3 Atterri, piuttosto. Non so come ha fatto Capitan Bob, ma è riuscito a tenerci sulla pista in una posizione ragionevolmente orizzontale. A proposito di Carol, prima che abbia il tempo di provare a mettermi orizzontale con lei, si alza e se ne va, chiaramente contenta di essere viva. Di nuovo scatta il modo comportamentale da hostess-puttana, e lei è tutta efficienza. «Forse è meglio che tu guardi fuori dal finestrino, stavolta,» le dico. Lei guarda, e fa tanto d'occhi, e lancia uno strillo. Lungo la pista asfaltata, sulla quale ci siamo adagiati leggermente inclinati su un carrello d'atterraggio mezzo distrutto, non sta certo arrivando il comitato di ricevimento che Carol si aspettava. Per quanto mi riguarda, sono sicuro che sono la coca e le anfetamine e la vodka che mi sono sparato a farmi vedere quello che vedo. C'è un intero esercito di veicoli aeroportuali, un'autopompa, due o tre di quei rumorosi vagoncini portabagagli, una berlina con la luce lampeggiante sul tetto, che procedono verso di noi, e tutti guidati da scheletri. Per un attimo mi sembra tutto troppo sciocco, e mi scappa da ridere.
«Per l'eterno riposo, gente!» Carol si è tirata indietro, e sta barcollando verso la cabina di comando. La porta della cabina si apre e Capitan Bob appare proprio nel momento in cui risuona il primo sparo. Quegli scheletri pazzeschi hanno delle armi, e ce le stanno scaricando addosso! «Cos'è, Halloween?» chiedo. Mi ignorano, e ne approfitto per riporre tutte le mie cose - Walkman, nastri, batterie - nella mia cartella. Nel retro dell'aereo la mandria comincia a darsi alla fuga. «Se colpiscono il serbatoio l'aereo esplode,» dice Capitan Bob con la sua voce da Capitan Bob. «Faccia uscire gli scivoli dall'altro lato. Dobbiamo far allontanare tutti dalla fusoliera.» La mucca Carolina annuisce e va sul retro. Dietro a Capitan Bob, nella cabina, vedo il Navigatore Ned e il Copilota Pete che si tolgono le cuffie e si preparano ad abbandonare la nave. «È brutto,» mi dice cupamente Capitan Bob, forse perché non ha notato il mio sorriso. «È così dappertutto.» Io faccio un cenno di assenso, dandogli la risposta che vuole, e lui mi passa accanto e va verso la coda dell'aereo. Passando, il Copilota Pete mi dice, in tono molto efficiente: «Meglio che si prepari a muoversi, signore,» e io cerco di non ridere e gli rispondo di sì. Mi passano tutti accanto e vanno verso la coda dell'aereo. Quando aprono le tende vedo la confusione organizzata, tutta la gente nei passaggi, e poi sento il sibilo leggero dell'apertura di un portellone o di un finestrino, e uno scivolo di sicurezza inizia a srotolarsi e a gonfiarsi. Guardo fuori dal finestrino, e vedo gli scheletri accampati lì vicino, sulla pista asfaltata, in file ordinate pronti a fare fuoco. «Gesù,» dico andando verso la cabina; mi fermo a dare un'occhiata allo scompartimento bar dietro le tendine, e trovo cinque o sei bottigliette di vodka che mi infilo nella tasca del giubbotto di pelle. Entro nella cabina. Oooo, ragazzi, che bel giocattolone. Mi chiudo la porta alle spalle, metto giù la cartella, e mi siedo nella poltrona del capitano. «Capitan Bob, sempre più in alto!» urlo, chiedendomi di sfuggita dov'è l'interfono perché possano sentire tutti mentre se ne vanno. Sbadigliando, guardo fuori a destra dell'aereo, e vedo gli scheletri in posizione di fuoco che aspettano pazienti. «Ora dello sniffo,» dico. Mi metto la cartella sulle ginocchia, tiro fuori la busta e taglio una pista
di coca con la mia carta di credito migliore. Come dicono in banca, non andate in giro senza. Come dice il Papa, non lasciate Roma senza. Come dicono gli omosessuali, non fatevelo mettere senza. E via con Madama Cannuccia, su in Monsignor Naso. Sobbalzo un poco, per gli spari, ma la bestemmia che mi scappa per aver sparso un po' di coca è compensata da uno degli effetti speciali più grandiosi mai visti. Un altro aereo si è cimentato nello stesso trucchetto di Capitan Bob, ma quest'altro capitano dei cieli non ce la fa. I miei occhi colgono tempestivamente un missile terra-aria sfrecciare in alto a colpire il jumbo jet che sta eseguendo la curva dell'atterraggio. Quel dannato coso viene spezzato in due dall'esplosione come il cilindro di cartone della carta oleata. Sembra restare appeso lì nella notte per un secondo, poi cade avvitandosi pigramente, con le fiamme che serpeggiano lungo la fusoliera finché si schianta sulla pista a un miglio di distanza, ed esplode in una grossa palla arancione. Il nostro piccolo jet rimane un po' scosso. E adesso i ragazzi scheletri aprono il fuoco. Sento gli scoppi, sento le urla, e languidamente scivolo dalla poltrona girevole di Capitan Bob su quella del Copilota Pete. Dall'altra parte dell'aereo la mandria di bestiame sta scappando per salvarsi la pelle. La corsa finisce prima ancora di cominciare. Vedo abbattere uno scemo del villaggio con la sua borsa da uomo d'affari stretta in mano. Stupefacente. Quando si rialza perché è stato colpito solo al braccio, lo scemo ha ancora la borsa stretta in mano. Il secondo colpo però lo becca quasi subito, e a quel punto lascia andare la borsa perché non ne ha più bisogno. Ma non è il solo a trovarsi faccia a faccia con l'asfalto. È come l'Ultimo Baluardo di Custer. La mucca Carolina riesce a fare cinquanta iarde prima che un colpo le faccia fare una giravolta, e un altro la prenda sotto il collo. Non sa decidere dove cadere, ma il terzo colpo la mette fuori dal giro delle vodka e limone per sempre. Crolla in un mucchio. È pieno di mucchi. Decido che è giunto il momento per una di quelle vodka e la tiro fuori dalla tasca. Sto svitando il tappo quando indovinate chi appare? Capitan Bob. «Fuori di qui!» mi grida. Penso che forse ha perso la sua freddezza professionale. «Dovrò dirlo al tuo principale,» gli dico offrendogli la bottiglietta. «Credevo che vi sconsigliassero di urlare con i passeggeri. Fatti una bevuta! Puoi benissimo volare pieno. Lo fa un sacco dei tuoi colleghi piloti.»
Mi guarda come se fossi sbarcato da Plutone, e mi allontana la mano. «Intendo provare a ripartire,» dice gettandosi sulla sua poltrona e cominciando a girare gli interruttori. «Perché?» «È un massacro là fuori! Non ha visto cos'hanno fatto a quei passeggeri? Qualcuno è rimasto a bordo, forse riesco a decollare, e ad arrivare in volo a un'isola, o da qualche parte.» Mi stringo nelle spalle e mi tolgo di mezzo, portandomi dietro la cartella. Quando mi metto a gironzolare fuori dalla cabina di volo mi accorgo che sul resto dell'aereo si stanno sfogando tutti i generi di follia: persone che corrono su e giù per i passaggi, un sacco di urla e di pianti. Uno cerca di risalire per la rampa di emergenza, un altro non pensa che sia una buona idea. «Stiamo decollando!» dice quello all'interno, come se la spiegazione bastasse. Un colpo di fucile centra quello che sta cercando di salire, un tipo in completo con gli occhiali di traverso, il che decide la questione, perché il tipo porta una mano alla nuca, da dove è sgorgato uno zampillo di sangue. Molla la presa sulla rampa e scivola fuori vista. Io finisco la mia vodka, appoggio la bottiglia sul sedile di fianco, e ne prendo un'altra. Un'occhiata di sfuggita a Capitan Bob mi dice che sta tentando, ma che non andrà molto lontano. Inclino la bottiglia, la vuoto in una lunga sorsata, la appoggio accanto all'altra sul sedile, e mi frego le mani. Pare sia ora di salvare la pellaccia del vecchio Roger, mi dico, perché il radar del vecchio Roger, che segnala il pericolo accuratamente e senza fallo, ha cominciato a suonare nella mia testa. Una volta l'ho visto in un film. Vado alla tenda che divide la prima classe, dove ci sono il bar, il carrello del cibo, e un piccolo montacarichi piazzato in fondo al compartimento che porta su dalla galea tutto quel cibo da linea aerea, caldo, buono, nutriente, di prima classe. C'è un pulsante, che schiaccio subito ma non succede niente. Sto cominciando a pensare che forse non c'è corrente, ma poi si ferma con un botto e apro lo sportello. Dentro non è molto spazioso, ma quando tiro fuori gli scaffali e i vassoi di alluminio, c'è giusto il posto per me e la mia cartella. Appena in tempo, perché gli scheletri si sono fatti strada fino alla rampa e stanno sparando nella cabina. E in quel momento mi accorgo di un fatto curioso, che quando uno dei miei compagni di viaggio viene abbattuto, subito fa la sua ricomparsa, dopo che si è sfaldato tutto lasciando solo quello scheletro da cartoni animati. Ed ecco qualcos'altro da stranalandia: da vici-
no, le ossa non sono tutt'ossa, ma anche un po' fantasmi, dato che riesco a vedere una specie di profilo umano quando la luce li prende dal lato migliore. Ma adesso basta con queste considerazioni inutili: dentro il montacarichi, chiudi lo sportello, e aspetta che succeda qualcosa. Ho un piano, naturalmente; ce l'ho sempre. Alla Roundabout Records non mi chiamano "Lo Squalo" per nulla. Mi hanno anche chiamato "La Merda" e "La Donnola", e "Testamatta", ma non mi hanno mai creato dei problemi. «Pustola» mi ha infastidito un poco, ma che cazzo, tanto mi pagavano. E allora questo piano? Se hai un dubbio, aspetta che ti passi. Non penso proprio che le teste d'ossa facciano saltare l'aereo mentre ci stanno sopra. Diavolo, potrebbero anche averne bisogno più tardi. Da quello che posso vedere hanno intenzione di eliminare chiunque gli capiti a tiro, e per continuare l'opera, una volta che hanno fatto fuori tutti, allora tutti saranno esattamente come loro, e se ne andranno via. È Capitan Bob, quello che sta intonando uno yodel poco lontano? Forse. Proprio non c'è abbastanza spazio qui dentro per riuscire a stappare una di queste deliziose piccole Gilbey... Dannazione! Me la sono rovesciata addosso! Sono maldestro come quella vacca! Gesù, vorrei strillare un po'. Questi pantaloni di pelle si stanno prendendo una bella batosta. Spero che gli ossi non abbiano ancora preso Rita; lei può rimettermi in contatto con quel suo amico sarto per farmi fare un altro paio di questi splendori. Gesù, ma questo è un motore? Oh, Cristo, allora in fondo non hanno ancora beccato Capitan Bob. Lo sento ululare dalla gioia nella sua cabina, quella stupida merdaccia, e uno dei motori è fuori uso! Ci ucciderà tutti adesso, di sicuro! Vicino risuona il belato di una pistola automatica. Capitan Bob strilla come una donnicciola, e poi, fortunatamente, l'aereo chiude i battenti. Vorrei potermi tirare una pista qui dentro. Un'altra bottiglietta di vodka - attento, stavolta, vecchio Roger - e, ah, è ora di farsi un pisolino, al rumore di tutti quegli spari che stanno venendo da fuori, e al suono delle parole di una ninna-nanna dei Vomits che mi cantano allegramente nella testa: Fai la nanna, Fai la nanna, Fai la nanna, puttanella,
Hai quello che volevi, Hai preso quello che volevi, Hai quello che volevi, E adesso fai la nanna... Ma davvero quei babbei pensavano di farcela senza un tipo come me? 4 Mi risveglio circondato da un benedetto silenzio. Non sono uno stronzo, perciò ascolto bene prima di aprire lo sportello. Potrebbero aver lasciato qualcuno sull'aereo, ma ne dubito. Probabilmente l'hanno frugato a fondo, e se non mi hanno trovato fino adesso, sono un uomo libero. Così apro lentamente lo sportello, allungo le gambe intorpidite - maledetta puzza di vodka rovesciata! - e ondeggiando come un bambino mi inoltro nel corridoio, tirandomi dietro la cartella... Niente. Oscurità, la debole luce ambrata degli accumulatori dà ai corridoi dell'aereo quell'aspetto notturno, e fuori è ancora notte! Va bene, non ho dormito tutta la notte. Con i miei capelli a spazzola forse posso passare per una di quelle teste d'osso. E su e giù per i corridoi. Qui non c'è nient'altro che bagagli, e dubito che dentro ci sia qualcosa che meriti di essere preso. C'è un paio di mucchietti di polvere, ma li spazzo via con lo stivale. Sbircio fuori dal finestrino: niente. L'aeroporto da qui sembra tranquillo; da questa distanza si vede che le luci del terminal sono accese, ma non c'è molto movimento. Poi in cielo vedo la scia di un aereo con le luci che ammiccano, che si sta abbassando per atterrare. Non c'è fuoco antiaereo, atterra con il carrello, attraversa rullando la pista proprio davanti a me, e si dirige verso il terminal. Fino qui niente di strano. È finita? Ho sognato tutto? No, non penso. Se dovessi tirare a indovinare, direi che quell'aereo era pieno di teste d'osso. Allora torno in galea, la mia cella di prima. Non c'è niente di buono da mangiare; tutti i vassoi che ho tirato fuori per entrare in quel buco sono stati vuotati, quel delizioso sugo di carne au jus si è trasformato in altrettanto catrame marrone. Ma più su, nel bar, c'è un bel cesto di quelle patatine che avevo chiesto alla mucca dei cieli Carolina. Così mi riempio le ta-
sche, e prendo qualche bottiglia di gin, dato che le piccole vodka sono finite... E quella cosa dritta dietro le prese d'aria, non è una bottiglia di Stoli? Mio Dio, questa dev'essere la mia notte fortunata. E non è nemmeno una piccola, per la verità, è un litro intero, e ancora da aprire. Era il vizietto segreto di Capitan Bob? O forse la vecchia Carol la teneva per i passeggeri migliori? Mi chiedo che aspetto ha la vecchia Carol nel suo vestitino di ossa. Ah, Stoli, Stoli... Scarico le bottiglie piccole piccole di gin; siamo io e la mia grande bottiglia di vodka, e sono pronto a partire. In piedi fuori dalla porta aperta davanti a una delle rampe, dò una sbirciatina nella notte fiacca di Los Angeles. Niente male. Alcune stelle brillano attraverso il fango, dev'essere una buona notte a L.A. Chissà se c'erano delle feste a cui avrei dovuto andare? Ci sono sempre i night-club, in mancanza d'altro. Anche se gli ossi probabilmente ci sono già stati. Credo che finirò su per le colline di Hollywood, ma non resisto a dare un'occhiata al centro, prima di andare. Penso perfino di avere un buon mezzo sicuro per andarci. Vecchio Roger, vecchio Squalo, sempre a pensare. Okay, ora di andare. La rampa non è fissa come dovrebbe; infatti dev'essere stata sforacchiata da qualche proiettile, perché è piuttosto sgonfia, e mi fa fare un bello scivolone. Ma per fortuna in fondo c'è ancora un po' d'aria, e mi salva le chiappe. E non lascio cadere la Stoli, grazie a Dio. Gironzolo per l'aeroporto. Non è sereno come pensavo da lassù in alto, infatti sta cominciando a piovigginare. Quelle stelle che credevo di vedere erano aeroplani, e uno sta atterrando proprio in questo momento, ed è tempo di stare bassi. Lo sciocco atterra e mi rulla accanto. Come mi aspettavo vedo una coppia di teste d'osso ai comandi, con le cuffie e tutto il resto. Come diceva mio padre, il mondo sta cambiando, figliolo. Giusto, papà. È una passeggiata più lunga del previsto, per arrivare dove voglio. Perché non mettono un'agenzia di auto a noleggio sulle piste più distanti, in caso qualcuno ne avesse bisogno? Se c'è una cassetta per le proposte vicino al banco della Hertz, potrei anche infilarci un bigliettino. Finalmente, però, dopo essere stato costretto a baciare l'asfalto per evita-
re un veicolo trasportatore di bagagli guidato da uno di quegli obbrobri, riesco a raggiungere il luogo desiderato. È buio e deserto, proprio come piace a me. I parcheggi sono pieni. Quello che voglio è una corvette nuova decappottabile. Quello che mi serve è qualcosa di diverso. Mi ci vuole quasi mezz'ora per trovarla: una Lincoln Town Car con vetri oscurati ai finestrini. Una vera auto da padrino. Mi ci vogliono altri venti minuti per trovare le chiavi nell'ufficio. E poi, mentre mi avvio verso il mio nuovo acquisto, vedo qualcuno entrare nel posteggio. Nascondersi è facile, basta scegliere una macchina e acquattarsi. Chiunque sia passa a meno di due passi da me. Con mia grande sorpresa scopro che non è una testa d'osso, è una ragazza della California, e nemmeno troppo brutta. «Hey, sorella,» dico. Quasi schizza fuori dalla canottiera, si volta verso di me, e si mette in una di quelle posizioni da tartarughe Ninja. Io mi limito a sorridere. Lei si avvicina e io la lascio guardare quanto sono innocuo: soltanto un buono a nulla in pantaloni di pelle e giubbotto di pelle, camicia aperta, orecchini, sconvolto. Un ordinario uomo d'affari californiano. «Chi sei?» sibila. «Sono quello che vedi.» Mi stringo nelle spalle. «E se fossi in te, sorella, mi abbasserei un po' di più. Qualcun altro sta scricchiolando da queste parti.» Immediatamente si mette piatta e zitta. Perlomeno è abbastanza sveglia. Io mi sono già ritirato tra le ombre dietro la griglia del radiatore dell'auto. Stavolta è una testa d'osso, col fucile automatico in spalla. È così vicino che riesco a vedere che non è tanto impavido quanto sembra. Tutt'ossa com'è, ha un'aria spaventata; ma quando lumo il profilo spettrale che si porta appresso, vedo che grasso seccatore invadente era, con quella trippa da birra che gli ballonzola oltre la cinta dei pantaloni elastici. La maglietta, appena visibile, dice FORZA LAKERS. Che imbecille. Ma la sorella non è così sveglia, in fondo. Il grassone è quasi passato quando lei gli salta addosso, aggredendolo da dietro. Tira fuori un coltello lungo, da pubblicità televisiva, e glielo ficca tra le ossa. Lo scheletro protesta, e per poco non riesce a girare il fucile su di lei prima di cadere. E subito dopo, un'altro fatto sorprendente: il corpo ossuto, la maglietta
fantasma, la pancia piena di birra, e tutto il resto, si trasformano in un mucchietto di polvere. Ah! «Il mondo sta cambiando, figliolo,» dico. Immediatamente lei si rimette in piedi di fronte a me. Sembra che sia davvero capace di usare quel coltello, e me lo tiene proprio davanti alla faccia. «Ti ho chiesto chi sei,» dice in tono da dura. Io le allontano la mano, ma forse è proprio fuori di testa, e ha intenzione di farmi male. Il Roger-radar è partito ancora. Rilasso un po' il sorriso, lo rendo più amichevole. «Scusa,» dico. «È stata una notte dura. Il mio aereo è stato abbattuto, poi tutti quelli che c'erano dentro sono stati ammazzati dagli scheletri. Puoi darmi del pazzo, ma stasera non sono completamente padrone di me.» Lei si distende, solo un poco, quanto basta perché il radar smetta di lampeggiare e mi informi che dopotutto può anche non uccidermi. «Suppongo che tu possa dire altrettanto, vero?» azzardo. «Sì.» D'un tratto abbassa le difese, scende col coltello fino allo stivale, dove lo fa scomparire da qualche parte in una guaina, e mi guarda, torva ma senza propositi omicidi. «Una notte da cani.» Io mi arrischio in una breve risata. «Giusto.» Lei continua a guardarmi. Improvvisamente so di aver avuto una brutta giornata, perché normalmente avrei dovuto sentirle addosso puzza di sbirro dal momento che l'ho vista. Mi sembra poco saggio offrirle uno sniffo di cocaina, come stavo per fare. «Io sono Roger,» dico allungando la mano. «Lavoro per la Roundabout Records.» Lei guarda la mano, poi me la stringe. «Io sono Marianne. Fino a due ore fa ero un poliziotto. Adesso credo di essere solo un essere umano.» «Sapevo che eri un poliziotto,» dico sorridendo, perché nel giro di pochi minuti le sarebbe passata la debolezza e avrebbe cominciato a insospettirsi al mio riguardo. È un altro dei miei radar. «In borghese, giusto?» «Pattuglia Stradale,» dice. «Veramente ero a casa quando è iniziato tutto questo. Stavo per andare al lavoro. Quando ci sono arrivata, metà della stazione era già cadavere. Corpi dappertutto, che ritornavano in vita come... quelle cose. Le strade brulicavano.» Vuole parlare ancora, così le lascio riprendere fiato, si abbandona allo shock per un momento, poi si atteggia da dura, e se ne tira fuori.
«È da allora che li sto ammazzando.» «Gesù,» dico, e credo di metterci la giusta dose di simpatia. In realtà ho voglia di sbadigliare. Sentire di poter essere sincera era quello che voleva, perché si lascia andare. «Nel mio lavoro veramente non ho mai ammazzato nessuno. E adesso non faccio altro che uccidere da otto ore a questa parte.» «Io ero in volo quando è cominciato,» le dico, cercando di pensare al sistema per farla andare via. «Dev'essere stato un inferno qui a terra.» Stavolta sbadiglio davvero, ma lei non se ne accorge. «Lo è stato,» dice. Si passa una mano tra i capelli. Non è per niente brutta, ma conosco il tipo. Il suo ragazzo fa body building, o qualcosa del genere, e passa un sacco di tempo sulla spiaggia, magari a fare surf, e se le metto una mano addosso lei tira fuori quel coltello e me la taglia all'altezza del polso. «Si sta combattendo in tutta L.A.,» dice. «Tutte le strade principali sono bloccate dagli incidenti. Le squadre della Guardia Nazionale combattono a Torrance e San Pedro. Gesù...» Crolla in un fagotto piagnucoloso, meglio perché il mio radar si è rimesso a funzionare e ho il tempo di reagire, e lei no. Mi butto a terra e rotolo sotto la macchina più vicina mentre appaiono due ossi, che passeggiano disinvolti, come se fossero in un viale alberato. Uno dei due ha un fucile, l'altro una specie di attrezzo da giardino che sembra un machete da ceto medio. Non aspetto per vedere a cosa assomigliano i loro fantasmi: vedo ossa e rotolo. Anche la vecchia Marianne li sente, ma per lei è già troppo tardi. Il pianto non paga mai abbastanza. Si gira e ruota su se stessa e molla un calcio a uno, ma quello col machete la colpisce e la prende proprio di traverso sulla nuca. Lei boccheggia e cade su un ginocchio, ma continua a lottare. È una poliziotta con le palle. Infatti ha già tirato fuori a metà della guaina il suo coltello da televisione prima che il machete la colpisca ancora, staccandole a metà la fottuta testa. Veramente disgustoso. Non c'è bisogno di essere Einstein per sapere cosa succederà adesso. Ma i due ossi, benedetto il loro teschio, mi salvano le chiappe trascinando via la cara poliziotta deceduta mentre si sta ancora trasformando in una di loro. Quello del machete, lo vedo intanto che passa sotto i lampioni del parcheggio, è davvero una specie di operaio agricolo, a giudicare dall'imma-
gine fantasma. Bel rovescio, Juan. E così mi rialzo e salgo sulla mia Lincoln Town Car, più silenziosamente possibile, la imballo che è una bellezza, complimenti al motore che fa le fusa come un gattino, e parto. Ma non faccio in tempo a uscire dal parcheggio, ovviamente. Uno sbirro è sempre uno sbirro. Nello specchietto retrovisore vedo la vecchia Marianne, che adesso è ufficialmente uno skel, spingere da parte i suoi due compagni teste d'osso e corrermi dietro. E dannazione se non riesce anche a raggiungermi così metto la retromarcia, in perfetta sincronia, e stendo quella puttana prima che possa togliersi di mezzo. Dall'interno lussuoso sento il debole scricchiolio delle ossa, e quando riparto, sgommando stavolta, c'è un ordinato mucchietto di polvere proprio dietro di me, che già si sta sparpagliando per la lontana Santa Anas. Juan e il suo amico sono rimasti fermi dov'erano, giustamente perplessi. 5 A proposito, grazie per le informazioni sul traffico, Marianne. Mi tengo lontano dalle autostrade senza pedaggio, e non passa molto tempo prima che le parole della poliziotta vengano confermate. Incidenti dovunque. Persino le rampe di uscita sono bloccate. Tempo di reminiscenze, un briciolo di nostalgia per i bei giorni passati, quando ero l'unico ragazzo bianco dalle mie parti a est di L.A., e mi ritornano in mente tutte quelle stradine secondarie. Cosa diceva ancora il mio vecchio? «Portami un ago nuovo, figliolo.» Stupefacente, nessuno mi importuna. È scontato che io sia una testa d'osso. I pochi umani che vedo o stanno scappando nei vicoli sudici per salvarsi la pelle, o stanno per diventare scheletri. Sono sicuro che ce ne sono un sacco nascosti nelle cantine e nelle soffitte, per non parlare delle fogne. In mezzo alla strada vedo due teste d'osso che picchiano una terza testa d'osso. Fino a quando arrivo vicino sono solo scheletri. Incuriosito, rallento per vedere cosa succede, e i lineamenti diventano un po' più visibili alla fioca luce dei lampioni. Sono due tossici che ne menano un altro. Mentre sono fermo lo colpiscono davvero forte con una specie di sfollagente, e quello crolla a terra, poi si tramuta in polvere. Così. Anche i morti ammazzano i morti. È ora di sgommare, perché tossico uno e tossico due hanno rivolto la loro attenzione su di me, e mi seguono con lo sguardo da quelle orbite da
scheletri, agitando le mandibole scricchiolanti. Chissà se gli skel possono sbavare? Io lo so cosa vogliono, la Town Car, quindi è ora di bruciare ancora un po' di copertoni e di muoversi. Su a Hollywood Hills, che vedo levarsi proprio di fronte a me dopo un'altra mezz'ora di contorsioni stradali e stradine secondarie, cercando di evitare i rottami, gli umani in fuga, e gli skel che danno loro la caccia come Robocop. Hollywood Hills: ancora illuminata come al cinema, magica, probabilmente più di prima. Persino la «H» di Hollywood è l'unica lettera che è stata colpita dal fuoco dei mortai, per dimostrare l'intoccabilità di falsalandia. Il mio luogo ideale. Imballo il motore, e mi ci precipito, aprendo la cartella con la destra per tirare fuori la mia preziosa bottiglia di Stoli. È tempo di festeggiare. Chissà cosa sta facendo il resto del mondo stanotte? CAPITOLO QUINTO IL DIARIO INTIMO DI CLAIRE ST. EVE 1 Dapprima ho pensato che l'Ospizio Femminile Withers fosse andato a fuoco. Qualche volta, di notte, facevamo delle esercitazioni antincendio, ma l'espressione sul volto della signora Garr non era affatto tranquilla. Sembrava terribilmente sconvolta. Quando mi ha preso per un braccio mi è balenato alla mente che la mia vita stava per cambiare. Quel pizzicore che mi aveva pervaso ha fatto iniziare a crescere il seme, e la cosa mi esalta e mi spaventa. Forse quella stanzetta, e quel grosso e terribile edificio non sarebbero più esistiti. Credo di aver sorriso. La signora Garr mi ha guardata, e il suo sguardo si è fatto compassionevole. «Oh, Claire,» ha detto, «io mi prenderò cura di te,» e mi ha stretta al petto. Fuori in corridoio c'era una gran confusione. Io mi sono guardata attorno in cerca delle pompe e dei secchi per l'acqua. Ho pensato alle forme che avevo visto fuori tra gli alberi e il laghetto, e che avevo creduto essere i vigili del fuoco. Ma dov'erano? Perché non sentivo le sirene?
Poi una sirena si è messa effettivamente a suonare, seguita da molte altre, da quella sul palo appena fuori dai confini di Withers, fino ad almeno altre due che distinguevo nelle vicinanze di Cold Spring Harbor. Significava che l'incendio doveva essere esteso. Ma dov'era? Quando la signora Garr mi ha trascinato per i corridoi ho visto solo facce spaventate e confuse. Poi è scattata un'altra sirena, una più forte e perfino più lontana, e ho pensato che forse sì trattava di una calamità ancora più grande. La guerra? Avevamo fatto delle esercitazioni anche per quello, e ci avevano costrette a stare sedute nel salone con la testa tra le ginocchia. La mia esaltazione è svanita, lasciando solo la paura, e mi sono fermata di colpo in mezzo al corridoio. La signora Garr si è chinata a guardarmi in faccia. «Non preoccuparti.» Mi ha abbracciato ancora, ma non ne ho tratto alcun conforto. La paura che leggevo nei suoi occhi era sufficiente a confermarmi che non si trattava di un semplice incendio. Poi ci siamo dirette verso le cantine. Tutta la confusione che regnava nei corridoi ha dimostrato di avere uno scopo. File irregolari si stavano spingendo verso le due enormi porte verdi che conducevano al seminterrato. Quand'ero molto giovane avevamo fatto un'esercitazione lì dentro, un'esercitazione per la guerra nucleare. Dietro di noi, da qualche parte nelle vuote profondità dell'edificio, ho sentito il rumore di vetri rotti. Cosa poteva essere? Era caduta una bomba? Ho aspettato il lampo di luce, l'esplosione contro l'edificio che ci avrebbe ridotte tutte in cenere, ma è venuto solo un altro rumore di una finestra infranta. I pompieri? Chi erano quelle figure che avevo visto tra gli alberi e il laghetto? Paracadutisti russi? È venuto il nostro turno, e siamo state spinte attraverso le grandi porte verdi, e poi giù. Si sentiva un parlottare confuso, ma non sono riuscita ad afferrare una parola. Poi qualcuno si è avvicinato nel buio con un paio di cuffie e un Walkman, e ho sentito accendersi la radio: un annunciatore diceva a voce molto alta che si stava combattendo nella città di New York, e che erano state riportate notizie di combattimenti a Chicago, Miami, Atlanta... Nel buio le cuffie si sono allontanate da me. Le braccia della signora Garr erano la mia unica guida. Alle nostre spalle c'è stato un frastuono, vicino alle porte, e abbiamo sentito gridare. «Chiudete le porte!» ha urlato qualcuno. Sembrava la vice-direttrice, la
signora Carmody. Poi una voce inconfondibile, quella roboante della signora Page, la direttrice, si è levata sopra a tutti i mormorii. «Tacete!» C'è stato un immediato silenzio. «Signor Cary,» ha tuonato la signora Page, «chiuda subito quelle porte.» Abbiamo sentito un rumore in cima alle scale. Poi nell'oscurità abbiamo visto uno spiraglio di luce, mentre una porta veniva tirata indietro e sbattuta. Ho sentito il signor Cary, l'insegnante di ginnastica, grugnire per lo sforzo. «Io... non riesco a chiuderla, signora Page.» «La chiuda!» ha ruggito la signora Page. «Io...» Poi la porta in cima alle scale è stata spinta verso l'interno, e ha mostrato un grande rettangolo del corridoio di sopra. In quel rettangolo è avanzato qualcosa, in piena luce, che all'inizio mi ha fatto venire voglia di ridere. Uno scheletro umano. La signora Page si è fatta strada in mezzo alla confusione delle ragazze verso le scale, e si è fermata vicino a me e alla signora Garr. L'ho sentita chiaramente ansimare. «Signor Cary!» ha gridato, ma il signor Cary non aveva bisogno di essere sollecitato, e stava già sbattendo la porta in faccia allo spettro. La signora Page ci ha spinte da parte e si è precipitata su per le scale, e in un attimo lei e l'insegnante di ginnastica stavano spingendo la porta con tutte le loro forze. È rimbombato uno scatto, e la porta si è chiusa. «La sbarra, signor Cary, la sbarra!» ha ruggito la signora Page, e la traversa metallica è stata fatta scivolare davanti alla porta. «Fatto,» ha detto il signor Cary, affannato. «Interne.» La signora Page si è rivolta a noi dal primo scalino, nel buio. Si è fatto assoluto silenzio. «Stiamo attraversando un brutto momento. Sono certa che le autorità sapranno risolvere la situazione. Nel frattempo queste sono le cose che voi farete. Resterete assolutamente tranquille. Ascolterete i vostri superiori. Ascolterete soprattutto me. Quaggiù ci sono delle provviste, ma dubito che dovremo rimanere qui a lungo. Avete capito?» L'inflessione crescente alla fine del suo discorso era stata compresa da tutte; la voce ferrea del comando. C'è stata un'ondata di assensi che si è conclusa con un «Sì» detto da una ragazza vicino a me.
«Tutte assieme!» ha strillato la signora Page. «Sì, signora Page!» hanno detto tutte le voci all'unisono. «Molto bene. Lei, signor Cary,» ha detto poi all'insegnante di ginnastica, «farà la guardia alla porta.» «Sì, signora Page,» ha detto il signor Cary con scarso entusiasmo. Quasi potevo sentirla al buio scoccargli un'occhiata fulminante prima che ripetesse, con un entusiasmo decisamente maggiore: «Sì, signora Page!» «Bene.» Ho sentito i suoi passi scendere le scale, e poi un tonfo sordo alla porta delle cantine. «Signora Page?» ha chiamato il signor Cary nel buio. «Lo ignori.» «Sì, signora Page.» «La fine è vicina!» ha gridato un'altra voce nel buio. «Che il malvagio abbandoni il suo cammino, e l'ingiusto i suoi pensieri; e che ritorni al Signore!» «Margaret Gray,» ha detto severa la signora Page, «stai zitta.» «E dopo queste cose vidi un altro angelo scendere dal cielo, con un grande potere; e la terra venne illuminata dalla sua gloria!» «Amen!» ha risposto la voce di Priscilla Ralston. «Signorina Ralston! Signorina Gray!» ha ordinato la signora Page. «Ed egli gridò con voce possente,» ha proseguito Margaret Gray, «Babilonia la grande è caduta!» «Signora Carmody,» di nuovo la voce della signora Page, «faccia star zitta quella ragazza!» Ho sentito dei piedi strascicare nel buio, e poi la voce della signora Carmody che gridava. Qualcuno, col respiro affannoso, ha spinto forte tra la ressa, e quasi mi ha gettata a terra. «Fermate quella ragazza!» ha gridato la signora Page. In cima alle scale il signor Cary ha lanciato un urlo. «Pentitevi!» ha gridato Margaret Gray dall'oscurità in cima alle scale. «Volgete lo sguardo dai vostri idoli; e voltate le vostre facce da tutti i vostri abomini!» «Amen!» ha esclamato Priscilla Ralston. Il signor Cary ha urlato ancora, e poi ho sentito la sbarra grattare contro la porta, e cadere nel buio. «Fermatela!» ha gridato la signora Page, aggiungendo le proprie proteste a quelle del signor Cary.
La porta si è aperta verso l'interno scivolando sui cardini, e mostrando Margaret Gray, magra come una bacchetta, dritta in tutta la sua altezza. «Entrate, angeli del Signore!» Ha fatto un passo indietro, scoprendo lo specchio della porta, affollato di scheletri. Subito tutti hanno cominciato a strillare. Il signor Cary è apparso davanti alla porta, tentando di bloccare il passaggio alle creature. Una di esse teneva sollevato qualcosa, sembrava una grossa scheggia di vetro, e gli ha vibrato un colpo con quella. Il signor Cary ha urlato ed è caduto. Margaret Gray è ridiscesa giù per le scale, si è rifatta strada attraverso le ragazze strette l'una accanto all'altra. Il suo volto era raggiante. In cima alle scale gli scheletri esitavano. Erano in quattro. Uno di loro è entrato, esitante, e ha chinato il capo per guardare nel seminterrato. I suoi movimenti erano viscidi, spregevoli quasi. Ha risalito le scale, ha latrato una risata mentre diceva qualcosa agli altri, e se n'è andato. Mentre i tre rimasti bloccavano l'entrata, la signora Page ancora una volta si è spinta tra le ragazze, si è fermata in fondo alle scale e ha guardato in su. Il signor Cary era a metà scala, ansante, e si teneva il fianco destro. «Signor Cary,» ha detto la signora Page, «vada subito dalla signora Carmody. Si prenderà cura di lei.» Prima che il signor Cary potesse rispondere, la signora Page ha raddrizzato le spalle e ha salito gli altri gradini. In cima ha fissato in pieno gli scheletri. «Voi, andatevene immediatamente!» ha gridato con la sua voce più autoritaria. Le creature sono indietreggiate, poi una di loro ha fatto un balzo avanti, brandendo una lunga scheggia di vetro. La signora Page ha fissato intenta lo spettro per un attimo, poi ha boccheggiato: «Signor Carlucci!» . «Esatto,» ha detto lo scheletro. «Custode a Withers, dal 1904 al 1980.» «Quando è morto...» ha ansimato la signora Page. «Hah!» ha gridato lo spettro, e ha squarciato il viso della signora Page, che urlando ha portato le mani al volto mentre gli altri scheletri le sono saltati addosso, buttandola sui gradini. Vedevo le sue gambe scalciare da sotto il mucchio. L'ho sentita strillare, poi chiamare, «Ragazze!» prima che un secondo strillo fosse seguito dal silenzio. Le ragazze, piangendo, si erano strette in un angolo, compatte, lontane dalle scale, in fondo alle quali il signor Cary stava ancora ansimando. Gli
scheletri si sono gettati su di lui. Ha gridato una volta, con voce roca, poi ha taciuto. In cima alle scale era riapparso lo scheletro viscido che se n'era andato, portando una grossa tolla con un beccuccio rosso opaco. «Uscite,» ha detto, e gli altri scheletri hanno abbandonato il corpo insanguinato del signor Cary e hanno risalito le scale. Quello con la tolla ha svitato il beccuccio ed è sceso a metà delle scale, rovesciando del liquido mentre risaliva. Ha tirato fuori una scatola di fiammiferi, ne ha acceso uno, e l'ha buttato sulle scale. «Statemi calde, signore.» Ha riso, e anche gli altri hanno riso, e si sono allontanati dalla porta. Di sopra, nei corridoi, c'era ancora fracasso, e rumore di vetri rotti. L'intera sommità delle scale è stata divorata dalle fiamme ruggenti, e la cantina ha iniziato a riempirsi di fumo denso, e le ragazze che non gridavano hanno cominciato a tossire. «Pentitevi!» La voce di Margaret Gray si è levata dal fondo della stanza. «Pentitevi!» «Corri con me, Claire,» ha detto la signora Garr, vicino a me. Con mia grande sorpresa si è messa a correre dritta verso le scale, tirandomi dietro di sé. Quando abbiamo raggiunto le fiamme mi sono quasi sentita sollevare e stringere contro il suo petto. Ho sentito il mondo bruciare e avvampare attorno a me, ho sentito le fiamme sul braccio, e poi ci siamo trovate fuori dal fuoco, e siamo ruzzolate sul pavimento del corridoio. «Alzati, Claire, svelta,» ha detto la signora Garr. Mi ha tirata in piedi e mi ha spinto in una porta vicina con i vetri smerigliati. Era la toilette delle signore, e le luci all'interno erano spente. Ha chiuso la porta e mi ha spinto contro il muro mentre fuori passava qualcuno. Poi la pressione delle sue mani su di me si è allentata, e l'ho sentita ansimare sottovoce: «Oh, Dio, oh, Dio...» Fuori, in fondo alle scale, abbiamo sentito l'orribile lamento delle urla, il ruggito del fuoco crepitante, seguito da un boato, e da un urlo più forte. La signora Garr mi teneva le mani tremanti contro le orecchie. Sono passate altre figure, e una di loro si è fermata davanti al vetro smerigliato. Ho visto l'ombra di uno scheletro, e la porta si è aperta verso l'interno. La signora Garr mi ha tirato via, e mi ha spinto contro la parete. La testa di uno scheletro ha guardato dentro, oltre di noi, nella stanza.
Così da vicino ho visto un vago contorno delle ossa, una parvenza di lineamenti. La mano scheletrica si è allungata verso l'interruttore, a pochi pollici da dove stavamo io e la signora Garr. Fuori si è fermato un altro scheletro e ha detto: «No, non lì dentro!» Lo scheletro con la mano sull'interruttore ha riso, si è allontanato, e ha lasciato che la porta si richiudesse. Il fumo entrava da sotto la porta, e ho sentito la signora Garr irrigidirsi accanto a me. Insistendo affinché rimanessi dov'ero, si è allontanata da me nell'oscurità, verso la parte opposta della stanza, dove si è fermata davanti alla lunga finestra. In fretta l'ha sollevata di alcuni pollici. Io mi sono premuta una mano contro un orecchio, e ho appoggiato l'altro orecchio alla parete, per non sentire le grida che venivano dalla cantina. Ho sentito un altro boato, e molte urla sono state subito zittite. Dall'altra parte della stanza la signora Garr mi ha fatto cenno di andare da lei, ma ho scoperto di non potermi muovere. Era come se avessi messo le radici lì vicino alla parete. La signora Garr mi è venuta vicino e mi ha tirato gentilmente verso la finestra. «Dobbiamo arrampicarci fuori,» ha sussurrato. Da quel lato dell'edificio il terreno scendeva in pendio fino ai garage sotterranei, per cui in effetti ci trovavamo al secondo piano. «Ti calerò giù io,» ha detto la signora Garr. Io ho guardato fuori nella notte. C'era un breve tratto di cespugli, sotto, che sembrava essere lontanissimo. Sulla destra una pozza di luce illuminava l'asfalto di fronte alle porte dei garage. Giungevano grida dai terreni circostanti, e due scheletri stavano passando di corsa diretti ai campi di gioco. La signora Garr si è chinata su di me e mi ha guardata negli occhi. «Devi farlo, Claire.» Io ho esitato, poi ho annuito. Mi ha aiutata ad arrampicarmi sul cornicione, poi mi ha calata oltre il ciglio, sostenendomi per le braccia e poi per le mani. Ho guardato giù; i cespugli sembravano sempre molto lontani. La signora Garr mi ha lasciato andare, e io sono caduta, con gli occhi chiusi, e sono atterrata in mezzo ai cespugli. Ho sentito uno strappo bruciante al fianco, ma le mie gambe hanno retto saldamente, e sono rotolata a terra illesa. Da sopra la signora Garr mi guardava, e poi si è messa a osservare i ter-
reni vicini. Ha fatto un rapido cenno ed è scomparsa nel bagno. Sono apparse altre tre figure, più vicine, che si dirigevano ai garage. Quando sono entrate nel cerchio di luce, ho potuto distinguere nettamente i contorni fumosi che avvolgevano i loro scheletri. Erano la signora Page, il signor Cary, e il vecchio custode, il signor Carlucci. Si sono fermati sotto la luce a parlare, e il signor Cary ha riso e poi ha sollevato la porta di un garage, e tutti e tre sono entrati. La signora Garr è riapparsa alla finestra, si è arrampicata oltre il davanzale, si è calata giù e si è lasciata andare. È atterrata di fianco a me, duramente, ed è rotolata verso l'edificio, trascinandomi con sé nei cespugli, mentre la signora Page usciva sulla porta del garage e si guardava attorno. Ha guardato sopra di noi, la finestra aperta del bagno, e ho guardato anch'io. Le fiamme saettavano fuori nella notte. La signora Page è ritornata nel garage. La signora Garr si stava massaggiando la caviglia, e tremava. Con cautela ha disteso la gamba, e ha mosso la caviglia prima in un senso e poi nell'altro. «Grazie a Dio, non è rotta,» ha sussurrato. Mi ha stretta accanto a sé, e un altro rumore è provenuto dal garage. Nella pozza di luce è apparsa l'estremità posteriore dell'auto della signora Page, una grossa berlina nera; l'auto ha fatto retromarcia, ed è partita verso destra. La signora Garr era in piedi, e mi stava aiutando ad alzarsi, quando la signora Page è uscita dal garage e ci ha visto. Per un attimo sono restate entrambe immobili, poi la signora Garr ha visto il contorno indistinto attorno allo scheletro della signora Page e ha detto: «Signora Page?» Lo spettro è corso verso di noi, fuori dalla luce del garage, e è saltato addosso alla signora Garr, gettandola a terra. Lo scheletro, emettendo suoni affannati, ha preso a tempestarla di pugni. La signora Garr si è liberata e ha cercato di alzarsi, ma quando la signora Page le è saltata di nuovo addosso la caviglia non ha retto. Lo scheletro l'ha bloccata a terra, e ha allungato la mano verso una pietra lì vicino, sollevandola per colpirla. Poco lontano c'era un'altra pietra, più grossa. L'ho raccolta, l'ho sollevata faticosamente sopra la testa, e l'ho abbassata con violenza sul teschio dello scheletro. Ho visto le fessure delle crepe del teschio allargarsi dal punto di impatto,
e la signora Page è caduta, evaporando in una nuvola di polvere. La signora Garr si è rialzata. «Dobbiamo andare, Claire,» mi ha detto. «Andremo a casa mia, e troveremo mio marito.» Ho seguito la forma zoppicante dentro il garage aperto. 2 Le fiamme si levavano ormai da quasi tutte le finestre di Withers. Le grida si erano zittite. Lontano, dai terreni, le sirene ululavano ancora, e si sentivano i rumori distanti dei clacson e delle sirene della polizia. La signora Garr ed io siamo entrate nel garage. Era vuoto. «Oh, Dio,» ha detto la signora Garr voltandosi verso di me. «Dobbiamo fare assolutamente in silenzio, Claire, e arrivare alla mia auto. È sul davanti, nel parcheggio grande.» Io ho fatto segno di sì con la testa, e ci siamo avviate, mantenendoci a ridosso dell'edificio. Quando ha svoltato l'angolo in fondo, la signora Garr si è ritratta, e io sono riuscita a dare un'occhiata. I terreni in quella direzione erano pieni di scheletri. Ho visto uno spettro aiutarne un altro a uscire da una finestra rotta della cantina. Erano entrambi carbonizzati, coperti di fuliggine. «Dall'altra parte, Claire,» ha detto la signora Garr. Siamo tornate indietro oltre il garage e abbiamo fatto il giro dalla parte opposta di Withers, tenendoci il più possibile vicine all'edificio. Il fuoco aveva raggiunto l'ultimo piano, e si sentivano dei boati. I muri di pietra accanto ai quali camminavamo erano caldi al tatto. Siamo arrivate davanti all'edificio fermandoci solo una volta per nasconderci da un unico scheletro che stava passando. Ho guardato i prati scoperti, e il parcheggio, più lontano. «Riesci a correre, Claire?» Ho fatto segno di sì, domandandomi invece se la signora Garr potesse farcela, con la sua caviglia. Ce la faceva. L'area di fronte a noi sembrava deserta, e noi l'abbiamo attraversata di corsa; la signora Garr zoppicava leggermente e mi teneva per mano. Al parcheggio eravamo senza fiato. La signora Garr ha aperto la sua auto con le chiavi e io sono salita al suo fianco. Siamo uscite dal parcheggio, e ci siamo dirette lungo il viale alberato. Dietro di noi Withers bruciava con violenza e il fuoco possente si innalzava nel cielo. Per la prima volta ho notato che era una bellissima not-
tata, e che in cielo splendevano la luna e le stelle. Quando siamo state vicino all'entrata principale la signora Garr ha frenato e ha fermato l'auto. «Oh, mio Dio.» I massicci cancelli di Withers erano stati chiusi a chiave, ma anche se fossero stati aperti, il rottame accartocciato e ancora fumante della grande berlina nera della signora Page bloccava la strada. Due scheletri, il signor Carlucci e il signor Cary, sono comparsi alla luce dei fari, e si sono diretti verso di noi. Il signor Carlucci teneva in mano una chiave inglese, e rideva. «Andate da qualche parte, signore?» Ha puntato un dito contro il signor Cary. «Quel vecchio bastardo non mi ha detto che non sapeva guidare.» Il signor Cary ha appoggiato la mano scheletrita sul finestrino della signora Garr e ha detto: «Scendete dall'auto.» Dalla mia parte il signor Carlucci ha sferrato un colpo con la chiave, incrinando il vetro. Il teschio del signor Cary ghignava. La signora Garr ha inserito la retromarcia. Il signor Carlucci si è buttato sul cofano dell'auto e ha colpito ancora il parabrezza con la chiave. La signora Garr ha schiacciato a fondo l'acceleratore, poi ha sterzato bruscamente. Il signor Carlucci è stato scaraventato contro un albero vicino alla strada, ed è crollato in un mucchietto di polvere. Il signor Cary stava correndo verso di noi dall'entrata principale, e gridava: «Restate dove siete!» La signora Garr ha girato l'auto, puntandola di nuovo verso Withers, e ha spinto il piede sull'acceleratore. «Prega, Claire,» ha detto. «Prega che il cancello posteriore sia aperto.» Siamo passate rombando oltre l'edificio principale, abbiamo costeggiato il campo da gioco, e il piccolo cimitero. Sotto il cielo notturno tutte le tombe erano aperte e vuote. Dopo il cimitero c'era la casa del signor Cary, un grazioso villino. Un breve vialetto, attorniato da alberi e cespugli, ci ha portato al cancello, anch'esso chiuso a chiave. In alto, sulle sbarre di ferro, c'era un'insegna di lucido ottone che diceva OSPIZIO FEMMINILE WITHERS. «E adesso cosa facciamo?» ha esclamato la signora Garr. Improvvisamente ha preso una decisione. «Scendi dall'auto, Claire,» mi ha ordinato. Io ho obbedito, e sono rimasta su un lato della strada mentre la signora
Garr ha tirato indietro l'auto, ha svoltato a sinistra, e l'ha nascosta tra i cespugli fra due grandi alberi. Le sterpaglie si sono risollevate di scatto dopo il passaggio dell'auto. In un attimo era scomparsa, e la signora Garr ed io ci siamo dirette alla casa del signor Cary. 3 La casa era piccola e graziosa, con un giardino roccioso sul davanti e vasi di fiori alle finestre. Abbiamo percorso un vialetto di pietre fino alla veranda, e la signora Garr ha provato ad aprire la porta. Era chiusa a chiave, e così anche la finestra della veranda. La signora Garr ha preso un sasso dal giardino, e l'ha gettato contro la finestra. Ha infilato una mano, ha sganciato il saliscendi, e l'ha sollevata. Si è arrampicata all'interno, e un momento dopo mi aveva aperto la porta. In casa le luci erano spente. «Sono stata qui solo una volta, a prendere un tè con la signora Cary,» ha detto la signora Garr, «ma se mi ricordo bene, la cantina era vicino alla cucina...» Abbiamo sentito un rumore sul retro della casa, in fondo a un corridoio che stavamo attraversando. La signora Garr si è precipitata al caminetto del soggiorno, e ha staccato l'attizzatoio dal sostegno, poi è entrata in corridoio davanti a me. Un gatto è schizzato fuori da una camera da letto, e tutte e due siamo sobbalzate. Un altro rumore è venuto dalla stanza in fondo al corridoio, e la signora Garr ha aperto la porta con una spinta del lungo attizzatoio. Un colpo di fucile è esploso, frantumando l'intonaco del corridoio sopra la nostra testa, e una voce ha gridato: «Vi ucciderò, state lontano da me!» La signora Garr ha chiamato: «Signora Cary, è lei?» «Io so chi siete, state fuori, vi ucciderò!» «Signora Cary, per favore, possiamo aiutarla.» «Fatemi vedere una mano!» La signora Garr ha allungato lentamente una mano nell'apertura della camera da letto. «È un trucco! Fatemi vedere il resto!» «D'accordo,» ha detto la signora Garr, poi si è girata verso di me. «Resta dove sei, Claire.» Ha raddrizzato le spalle e si è spostata piano nello specchio della porta.
La voce nella camera da letto si è rotta in pianto. «Oh, Dio...» La signora Garr ha gridato: «Va tutto bene, Claire.» Io l'ho seguita nella stanza, e lì, in un angolo dietro il letto matrimoniale, era acquattata la moglie del signor Cary. In grembo teneva posata una pistola. «Non pianga,» ha detto la signora Garr. Le è andata vicino, si è inginocchiata, e l'ha abbracciata. «Va tutto bene adesso.» «Sono venuti, erano dappertutto!» piangeva la signora Cary, indicando la finestra con mano tremante. All'esterno c'era una nitida vista del cimitero. «Là fuori! Li ho visti! Sono usciti da sotto terra, e sono venuti qui a casa, hanno bussato alle porte, e continuavano a venire fuori...» «Va tutto bene,» ha detto ancora la signora Garr, stringendo fra le braccia l'anziana donna. «E il mio John?» ha esclamato improvvisamente la signora Cary. Aveva smesso di piangere, e guardava fissa la signora Garr. «Lei conosce il mio John, era giù a scuola, cosa gli è successo?» «Signora Cary...» «Sta arrivando, vero? Arriverà subito ad aiutarmi? È sempre qui quando ho bisogno di lui...» Si era alzata, lasciando cadere a terra la pistola, e cercava di divincolarsi dalla stretta della signora Garr per andare alla porta della camera da letto. «No, signora Cary, resti qui. Venga in cantina con noi.» La signora Garr ha esitato, poi ha aggiunto: «John ci raggiungerà più tardi.» «Davvero?» ha detto la signora Cary, illuminandosi. «Certo, certo che verrà. Non mi lascia mai da sola troppo a lungo. È sempre presente per me.» La signora Garr ha parlato con calma: «Sì, naturalmente. Anche mio marito, Michael, c'è sempre quando ho bisogno di lui.» «Allora andiamo in cantina!» La signora Cary si è alzata e si è diretta vivacemente alla porta, seguita dalla signora Garr che ha raccolto la pistola dal pavimento e mi ha messo un braccio attorno alle spalle. «Vieni, Claire.» 4 Siamo andate in cantina. La signora Cary ci ha fatto strada, accendendo le luci. «C'è un posto nel retro che John ha sistemato, nel caso ce ne fosse stato bisogno.» Sembrava felice, ma in modo innaturale. «John è sempre previdente. Quando ci siamo trasferiti qui, ha fatto subito scorta di cibi in
scatola e acqua. Non si è mai fidato di quei Russi, fin da quando hanno cercato di installare quei missili a Cuba.» Si è voltata verso la signora Garr e ha sorriso. «Sarà orgoglioso di se stesso, ora. Probabilmente è uno dei pochi che era pronto.» Ha tirato una catenella, e ci siamo trovate davanti a un muro, o così ci è parso. Ma c'era una maniglia, e con qualche sforzo, e l'aiuto della signora Garr, la signora Cary l'ha aperta, rivelando una stanzetta asciutta provvista di scaffali pieni di cibi in scatola lungo una parete, una mensola con una lanterna, un fornello e una valigetta del pronto soccorso, una pila di riviste, una piccola fila di libri, due lettini, e persino uno scrittoio con una vecchia sedia intagliata. «Sul pavimento a destra c'è una botola che contiene una toilette portatile,» ha detto la signora Cary. «Gli escrementi vengono scaricati in un pozzo calcareo che ha scavato John.» Ha sorriso. «Oh, John è così intelligente! L'aria è addirittura depurata, e ci sono un sacco di batterie se l'elettricità viene a mancare. Ma soprattutto può essere chiusa dall'interno, e nessuno può entrare senza la chiave di John.» Ha guardato la signora Garr. «Le piace?» «Moltissimo,» ha risposto la signora Garr. «Perché non...» «Vado solo di sopra a chiudere la porta della cantina,» ha detto la signora Cary. «Torno subito.» «D'accordo,» ha detto la signora Garr. La signora Cary ha salito le scale, e un momento dopo l'abbiamo sentita al piano di sopra, e poi abbiamo sentito la porta d'ingresso aprirsi e chiudersi. «Oh, Dio,» ha detto la signora Garr, e l'ho seguita mentre si precipitava di sopra. La signora Cary era sul vialetto d'ingresso, e si stava dirigendo sulla strada che portava a Withers. «Signora Cary!» ha gridato la signora Garr. La signora Cary si è fermata e si è voltata. «Va tutto bene,» ha detto. «Vado solo a prendere John.» «Ma...» «Lo so.» La signora Cary ha sorriso. «L'ho capito dal modo in cui mi guardavate. Ma non mi ha mai lasciata sola.» «Signora Cary...» L'anziana donna ha agitato la mano in segno di saluto e ha ripreso a camminare verso la strada. «Voi non capite, non sono mai stata senza di
lui.» Si è fermata ancora, e di nuovo ci ha guardate. «Se lo trovo, lo riporterò qui.» Ripartì, e presto la perdemmo di vista. «Dio,» ha detto la signora Garr. Siamo tornate in cantina, dentro il piccolo rifugio; la signora Garr ha verificato ogni cosa, poi ha richiuso la pesante porta. Su di essa c'era una serratura con un meccanismo a rotazione; la signora Garr l'ha fatto ruotare e ha controllato la porta, poi si è girata verso di me con un'espressione stanca ma speranzosa. «Credo che qui saremo al sicuro, Claire.» Mi ha fissato per alcuni istanti, poi si è avvicinata e mi ha stretto, e ha cominciato a piangere. «Oh, Claire, Claire, spero che mio marito stia bene...» Dopo un poco si è calmata, e si è sdraiata su un lettino. Io mi sono sdraiata sull'altro, e presto mi sono addormentata. 5 Sono stata svegliata dalla signora Garr. Fuori dalla porta del rifugio si udiva un rumore raschiante. «Claire, mettiti dietro di me,» ha detto la signora Garr. Mi ha fatto sedere in fondo al lettino e mi si è messa davanti con in mano la pistola della signora Cary. «Signora Garr, siete lì dentro?» ha detto una voce da dietro la porta. La signora Garr non ha risposto. La voce ha continuato: «Sono io, la signora Cary.» Sembrava proprio la stessa di prima. Ancora la signora Garr non ha risposto. «Mi faccia entrare, signora Garr. So che è lì dentro. La prego mi faccia entrare.» «Ha trovato John?» ha domandato la signora Garr. C'è stata una pausa. «No, non l'ho trovato. Ho tanta paura. La prego mi faccia entrare.» Ho guardato la signora Garr, che non si era nemmeno mossa in direzione della porta. «La prego, signora Garr. Credo che stia arrivando qualcuno.» Il rumore raschiante alla porta riprese. La signora Garr stringeva la pistola con entrambe le mani, e le mani
tremavano. «Oh, Dio, signora Garr! Sono là fuori! Sono tutti là fuori, e vengono verso di me! La prego! Per favore mi faccia entrare!» La signora Garr è balzata in piedi per aprire la porta, ma si è bloccata udendo un'altra voce parlare all'esterno. «Non importa,» ha detto la nuova voce. «D'accordo,» ha risposto la voce della signora Cary, perfettamente calma. C'è stato un rumore secco alla porta, e il meccanismo ha ruotato, e la porta si è aperta. La signora Garr si è spinta contro di me e ha alzato la pistola. Il signore e la signora Cary, scheletri entrambi, erano in piedi sulla porta. Il signor Cary teneva in mano un'ascia. «Vi avevo detto che John era intelligente,» ha detto la signora Cary. «Era l'unico ad avere la chiave di questa porta.» La bocca nel teschio del signor Cary si è aperta in un urlo, e lui si è lanciato contro di noi agitando l'ascia. La signora Garr ha tirato il grilletto della pistola, e il rinculo l'ha fatta sbattere contro di me. Nella stanza è risuonata una forte esplosione. Il signor Cary è crollato dov'era, e l'ascia è caduta nel mucchietto di polvere che era diventato. «Cosa avete fatto!» ha strillato la signora Cary. «Il mio John! Cosa avete fatto a mio marito! Ohhhhhhhhh!» La signora Cary si è precipitata urlando nella stanza, con le mani scheletrite tese davanti a sé come artigli. La signora Garr ha tirato di nuovo il grilletto, ma mentre la signora Cary la colpiva si è sentito solo uno scatto a vuoto. Ho sentito una mano scheletrita scivolarmi sul viso e afferrarmi per la nuca, provocandomi un insolito pizzicore al contatto con le ossa. La signora Cary strillava, e cercava di trattenere sia me che la signora Garr, ma io mi sono liberata, mentre la signora Garr e la signora Cary sono cadute a terra. Anche la pistola è caduta, rotolando via per fermarsi a ridosso della parete. La signora Cary ha spinto la signora Garr a terra sotto di sé, strillando sempre. «Lei ha ucciso mio marito! Ha ucciso John!» Ha affondato le mani nella polvere che era stato suo marito e l'ha stretta tra le dita, ululando. D'un tratto ha raccolto l'ascia da in mezzo alla polvere e l'ha sollevata sopra la testa per abbatterla sulla signora Garr. Io ho raccolto la pistola con tutte e due le mani, l'ho tenuta come avevo
visto fare alla signora Garr, ho mirato alla signora Cary, e ho tirato il grilletto. Si è sentita un'altra forte esplosione, e io sono caduta all'indietro, e ho lasciato scivolare la pistola dalle mani che mi tremavano. Quando ho alzato gli occhi, la signora Cary si stava dissolvendo in polvere, con la schiena inarcata, e le ossa alla base del collo in frantumi. «John...» ha detto, e poi è sparita. Le lacrime mi scorrevano lungo le guance, e non riuscivo a smettere di tremare. La signora Garr è venuta da me e mi ha abbracciato. «Oh, Claire, hai fatto la cosa giusta...» Mi ha guidato a un lettino, mi ha fatto sdraiare, e mi ha steso sopra una coperta. Poi è andata alla porta, ha fatto per chiuderla, ma l'ha riaperta ed è uscita. Ha cercato sul pavimento finché non ha trovato una chiave appesa a un anello, l'ha portata nella stanza e ha chiuso la porta. «Adesso nessuno può arrivare fino a noi,» ha detto. Ha chiuso la porta a chiave e mi è venuta vicino. «Dormi.» Ha tenuto la luce accesa, si è sdraiata sull'altro lettino, e dopo un poco ho sentito il suo respiro regolare, e ho capito che si era addormentata. Mi sono seduta sul lettino e mi sono girata a guardare i due mucchietti sparsi di polvere che facevano compagnia a me e alla signora Garr nella nostra piccola cella. CAPITOLO SESTO DALLA SECONDA VITA DI ABRAMO LINCOLN 1 Erano i tempi migliori, erano i tempi peggiori. Non sono mai stato un grande lettore di narrativa. Billy Herndon cercava sempre di farmi leggere questo o quello, e io penso di aver provato una segreta soddisfazione nel non accontentarlo. Ma quel Dickens aveva ragione, e ricordo che Billy mi aveva letto quelle parole più o meno all'inizio del 1860, prima che scoppiasse la guerra. Anche se mi era parso, a mano a mano che si susseguivano gli eventi, che a noi toccasse molto del peggio e molto poco del meglio. Quelle parole mi parvero più appropriate in quel momento. La prima cosa che pensai fu che ci trovavamo nel bel mezzo della follia. Mi sembrava che tutto il mondo fosse come un cane rabbioso. Ricordavo un'estate, nel-
l'Indiana, durante la quale era impazzata la rabbia; sembrava che ne fossero contagiate tutte le creature. Solo quell'anno avevamo cacciato di più e mangiato di meno che in tutta la vita, ed ero arrivato ad avere la nausea delle verdure. Uno dei risvolti migliori per quanto riguardava i Confederati durante la guerra era che la maggior parte dei vegetali cresceva sul loro territorio, e quindi erano costretti a mangiarne di più. I tempi migliori, i tempi peggiori... Sembrava proprio una follia, uomini fatti quasi solo di ossa che correvano per le strade, dando la caccia alla gente in carne e ossa come cani, e poi trasformando loro in scheletri. Non era certo il genere di mondo nel quale uno si sarebbe aspettato di risvegliarsi, non aveva niente del Giorno del Giudizio. Quella era una possibilità che avevo decisamente scartato. E allora, se non era opera del Reggitore dei Mondi, che cosa c'era all'origine di tutto ciò? Cosa significava, allora? Intanto significava una mia piccola felicità personale, anche solo per aver rivisto la mia vecchia casa di Springfield. La raggiunsi allo spuntare dell'alba, dopo aver camminato tutta la notte in mezzo alla follia. Devo riconoscere che la vista della sua struttura massiccia, le cinque finestre allineate all'ultimo piano, persino lo steccato bianco all'ingresso, apparentemente inalterato, mi rincuorò. Ma quello cos'era? Quando entrai dalla porta principale, scoprii la ragione per cui la casa non era cambiata. Era stata trasformata in un museo! Corde munite di nappe erano tese attraverso le stanze, e sui tappeti c'erano le scritte "Non calpestare". Dio mio. Mi chiesi cosa avrebbe detto Mary. E poi eccola là, che avanzava verso di me mentre facevo il giro della casa, quasi timorosa di toccare qualunque cosa per via di tutti quei cartelli. «Papà...» «Mary.» Era entrata dritta dalla porta principale mentre io ci stavo passando davanti per passare all'altra parte della casa; ci fermammo di colpo, come due adolescenti nella fase del corteggiamento, prima che lei mi corresse incontro e mi abbracciasse alla vita. «Oh, Abramo, cosa è successo? Come è possibile...?» «Non lo so, mamma, ma è così, ed eccoci qua.» Lei mi guardò, ed essendo ormai abituato a cercare i lineamenti attorno a tutti quei teschi e e quelle ossa, vidi il suo volto. Era un volto anziano, ma era come l'avevo conosciuto per la prima volta tanto tempo prima, prima che fosse assalito da tutte le sue paure, prima che la morte dei piccoli Wil-
lie e Eddie la derubassero di tutta la sua forza. «Bontà divina, mamma, credo proprio che tu stia sorridendo.» Mi strinse forte. Devo confessare che ero estremamente impreparato al ritorno della bella che mi aveva accalappiato. «Mamma,» dissi, stringendola anch'io, e lasciando che tutti i vecchi ricordi mi ritornassero in mente. «Non è proprio come pensavo che sarebbe stato, ma è bello lo stesso,» disse Mary, e io guardai dietro di lei e lì sulla porta c'erano Eddie e Willie, esattamente com'erano prima che la malattia li portasse via, e dietro di loro c'era il mio Tad, che feci fatica a riconoscere, perché era più alto e più vecchio dell'ultima volta che l'avevo visto. «Voi piccole pesti!» tuonai, un po' troppo forte, temo, perché colsi Mary alla sprovvista facendola indietreggiare. Ma io ero già alla porta, a prendere tra le braccia i due ragazzini, uno per parte, trascinandomi dietro Tad e facendomeli girare attorno per sentirli di nuovo tra le mie braccia. «Salve, signor Presidente,» disse Tad tra il serio e il faceto, salutandomi con la sua solita pronuncia blesa. «E tu, Eddie, non hai nulla da dire al tuo comandante in capo?» Mi mise le braccia al collo, e cielo, sentendolo così mi venne da piangere, perché era lui, tutto intero, e non un fantasma. «È quello che ho sempre sognato, Abe, come ho sempre voluto che fosse il Paradiso, noi tutti ancora assieme,» disse Mary, e dannazione non riuscì a trattenersi, e scoppiò in lacrime, e noi tutti con lei. Pensai brevemente a come poteva sembrare stupido, cinque scheletri che piangevano e gridavano in un museo, ma la verità è che più il tempo passava, meno vedevo che eravamo scheletri, e più il fioco fantasma di quello che eravamo era l'unica cosa che vedevo. «Bene, mamma, non so se questo è il Paradiso, ma è di certo quello che abbiamo.» «E se solo Robert fosse qui,» disse lei, «non mancherebbe niente.» «Robert!» esclamai, pensando al mio primogenito. «Dov'è?» «Non lo so,» disse Mary tristemente. «L'ultima volta che l'ho visto ero...» Per la prima volta da quando era entrata da quella porta vidi una traccia di quella malinconia che l'aveva tanto oppressa. Rabbrividii al pensiero che potesse tornare. «Bene, mamma,» dissi allegramente, «sono sicuro che tornerà. Saprà certo dove trovarci.» Misi giù Eddie e Willie, e subito si infilarono sotto le nappe, alla ricerca dei vecchi posti dove giocare. «Abe, tu credi che...» disse Mary speranzosa, guardandomi con quegli
occhi che mi imploravano di parlare per lei. Io abbassai lo sguardo su di lei e sorrisi. «Mary, la casa è nostra, giusto? E se l'hanno trasformata in un museo, immagino che non ci siano altri proprietari legali che quelli per i quali l'hanno trasformata in un museo, non trovi?» «Oh, papà!» Di nuovo mi abbracciò. Non potevo dire che tra di noi mancassero momenti di tenerezza. «Abe, sono così felice, sarà tutto come una volta.» Eppure, sentendo il clamore all'esterno, i rumori di un'intermittente violenza, non ero certo che sarebbe stato proprio così. 2 Fui sorpreso di constatare che almeno all'inizio lo fu. Ero compiaciuto, e non poco esterrefatto, dell'estremo rispetto accordatoci dopo il nostro reinsediamento nella vecchia casa di Springfield. Ai primi giorni di violenza e sconvolgimento seguì una specie di calma, almeno nella nostra parte del mondo. Capivo che quelli come noi avevano più o meno occupato la città, ma che molti umani si nascondevano o stavano fuggendo verso altri luoghi. I visitatori che accogliemmo in quei giorni venivano dalla strada, e dovetti ammettere che la loro sorpresa di fronte al legittimo proprietario era comica a vedersi. Dopo un poco venimmo lasciati per lo più in pace. Occupai piacevolmente il mio tempo leggendo e mettendomi al corrente sul nuovo mondo. Alcune passeggiate alla biblioteca locale, con Eddie e Willie al seguito, mi concessero sufficienti sguardi a enciclopedie e giornali recenti per darmi almeno il sapore degli stupefacenti cambiamenti subiti dal mondo negli ultimi centotrenta anni. I traumi maggiori mi vennero inferti dalla scoperta dei progressi degli scienziati. Se non erano stati loro a causare il recente evento di cui facevo parte, di certo si erano occupati di molti altri progetti. Il telefono, e soprattutto la televisione, erano per me giocattoli nuovi e meravigliosi, e nonostante non li avessimo in casa, non passò molto tempo prima che ne comprendessi l'utilizzo. Aerei a reazione, l'automobile, i progressi della medicina, tutte queste cose erano fonte di stupore. La mia istruzione in così breve tempo fu comunque maggiormente incrementata da una scoperta casuale, che si rivelò piacevole e inattesa, nell'ingresso della nostra casa di Springfield, che mi tenne occupato per un po' di tempo. A quanto pare uno dei responsabili del museo, nel tentativo di
aumentare la vitalità storica del luogo, aveva installato in una delle nostre vecchie librerie una collana completa rilegata in pelle delle biografie dei presidenti degli Stati Uniti. Devo ammettere che quelle dei miei predecessori mi interessavano poco. Ma quelle di coloro che avevano governato dopo di me mi fornirono un panorama completo dei quadri politici generali della Nazione e del mondo da quando me n'ero andato. Non so quante ore ogni giorno rimanessi chiuso nel mio studio, affondato nella mia poltrona, con una gamba sul bracciolo per stare più comodo, ad assorbire quella testimonianza vivente. Ammetto persino di aver letto il volume dedicato a me stesso, scritto da un tizio di nome Sandburg. Allora mi dissi che volevo solo un riferimento, per stimare l'accuratezza degli altri volumi, ma ora so che si trattava di orgoglio. Lo abbandonai imbarazzato da tante lodi. E così passava il nostro tempo a Springfield. Nonostante fossimo fantasmi, dimostrammo di possedere ancora mediocri appetiti. Pur lamentandosi della mancanza di servitori, Mary era assolutamente contenta di cucinare sul funzionale fornello il cibo che Tad ed io portavamo a casa dalle nostre rapide scorrerie nei negozi vicini. Era interessante vedere come il cibo venisse ingerito, e come scomparisse tra le nostre labbra spettrali, lasciando intatto il bianco scheletro all'interno. Mary aveva la sua casa, e tranne che per le rare passeggiate in mia compagnia, Eddie, Willie e Tad erano sempre tenuti sott'occhio a causa delle paure di Mary, non tutte senza fondamento, che fuori potesse loro accadere qualcosa. Ma i ragazzi, specialmente i due più giovani, si divertivano a combinare monellerie in casa, trasformando oggetti che i conservatori dovevano aver creduto inestimabili in reliquie distrutte. Mary era particolarmente felice in quel periodo, ma io vedevo lievi indizi dei suoi vecchi mali, soprattutto nella paura che le impediva di lasciare la casa. «Non possiamo starcene qui dentro per sempre, mamma. Che ci piaccia oppure no, là fuori c'è un mondo che non resterà immobile per noi.» «Perché no! Una volta noi abbiamo dato loro tutto, non dobbiamo nulla al mondo.» «Mamma...» tentai di farla ragionare. «No! Ti prego, Abe, presto arriverà anche Robert, ed ogni cosa sarà perfetta.» «Mary, non posso vivere così. È come» - tentai di evitare di dirlo, ma dannazione, l'analogia calzava a pennello - «essere tornato nella tomba.» Conoscevamo entrambi molto bene il suo comportamento, la vecchia paura attanagliante, e per un certo periodo me ne lasciai influenzare, per-
ché mi sentivo in colpa e responsabile per lei. 3 Un giorno, però, poco dopo che ebbi finito l'ultima delle biografie, sentii il tetto della casa opprimermi come una bara che si chiudeva, e dovetti uscire. «Dove stai andando!» disse Mary con voce stridula, vedendo che indossavo il mio vecchio cappello a cilindro che i custodi erano stati tanto gentili da salvare. «Solo fino alla biblioteca, mamma,» mentii. «Vorrei che non andassi nemmeno fino lì, qualcosa potrebbe...» «Qualcosa potrebbe succedere anche qui,» dissi, quasi irritato. Mi accorsi di una rabbia insolita che mi cresceva dentro, una rabbia che faticavo a controllare. «Potremmo venire schiacciati da un meteorite precipitato dallo spazio. Un pazzo potrebbe entrare di corsa dalla strada con una bomba. Devo uscire, Mary.» E senza voltarmi, mi tolsi il cappello e uscii. Non andai alla biblioteca, e mi diressi invece al mio vecchio ufficio legale. Anche quello, come avevo appreso dalle mie letture, era stato conservato. Desideravo rivedere il luogo in cui avevo lavorato. Ero a metà strada quando un rumore lungo la via mi costrinse a voltarmi per vedere da cosa fossero provocate tutte quelle grida. «Papà! Papà!» gridava Eddie correndomi dietro con Willie alle calcagna. I due si fermarono di fronte a me. «Permesso di accompagnarvi, signore,» disse Willie. «Vostra madre sa che siete qui?» chiesi con severità. Willie sorrise. «No. Sta aggiustando un completo per Tad. Lo fa stare in piedi su una sedia.» «Beh...» «Per favore, papà, per favore!» implorò Eddie. «Prometto che saremo buoni,» disse Willie. «D'accordo,» concessi, segretamente felice di avere compagnia, «ma dovrete spalleggiarmi con vostra madre, più tardi.» «Racconteremo tutte le bugie che vorrete!» disse Eddie. Io risi forte, come uno sciocco, proprio lì in strada. «D'accordo, peste che non siete altro, saltiamo tutti nella stessa barca.» Quando arrivammo all'ufficio fui piacevolmente sorpreso di vedere il
mio socio Billy Herndon in persona in piedi sulla soglia ad accogliermi. «Allora è vero,» disse. Sul vago fantasma del suo volto dalla carnagione scura c'era un misto di incredulità, meraviglia, e, credo, sollievo. «Perbacco, Billy,» dissi mentre Eddie e Willie correvano nell'ufficio, urlando dal piacere di trovare tutte le vecchie carte da sparpagliare, e un sacco di oggetti da rompere, «credo proprio che tu sia ubriaco.» «Grazie a Dio lo sono, signor Lincoln,» disse richiudendo la porta a chiave dopo che fummo entrati nella stanza. Sulla scrivania di Billy, come mi aspettavo, c'era una bottiglia di bourbon vuota per un quarto, e lì accanto, nel cestino, ce n'erano altre tre vuote. Il resto della stanza era come me lo ricordavo, con tanti libri impilati in cataste casuali, tranne per l'aggiunta di un televisore, acceso ma senza immagine, e una radio, anche quella accesa ma che emetteva solo un sibilo. «Dormi con questi aggeggi accesi, Billy?» gli chiesi. «Si accendono periodicamente,» disse. Mentre parlava si versò un altro drink. «Ci sono notizie da entrambe le parti. È un modo per tenersi in comunicazione.» «Capisco...» dissi. «Signor Lincoln, non vi ha contattato nessuno?» Lo guardai stupito. «Contattato?» «C'è della gente a Springfield, gente dei nostri, qualcuno dei vecchi tempi. C'è un movimento per ottenere un minimo di organizzazione, per trovare qualcuno adatto al comando...» Smise di parlare per bere il bourbon, e come sempre rimasi colpito dalla spettralità del gesto, al quale partecipava solo il sudario umano, mentre il bourbon non andava oltre le labbra socchiuse, lasciando il bianco scheletro intatto, escluso. Ma l'alcool sembrava comunque sortire un certo effetto. Si raddrizzò, alto e magro, e mi fissò con i penetranti occhi neri. «Non sapete di cosa sto parlando, signor Lincoln?» «No, Billy, non lo so.» «C'è un'altra guerra! Noi contro... loro!» Si fermò di nuovo per versarsi un drink. «Non sembri essere molto attratto dall'idea, Billy.» «Come potrei esserlo! Come può esserlo chiunque! Sapete quanto... bizzarro è tutto questo?» «Sì, lo so,» risposi. «Sto cercando di risolvere questo enigma da quando è iniziato.» «Cosa c'è da risolvere?» gridò quasi. Persino Eddie e Willie smisero di
depredare la mia scrivania per il tempo necessario a guardarlo. Abbassò la voce e mi guardò con aria da cospiratore. «Signor Lincoln, gli scienziati, quelli umani, hanno detto che la terra è entrata in una specie di nube nello spazio. Se ne è discusso parecchio alla televisione prima che la maggior parte dei canali smettesse di funzionare. Ci sono state delle comunicazioni anche dalla nostra parte. Per me sono tutte chiacchiere. Il fatto puro e semplice è che eravamo morti e adesso siamo vivi. Tutti vivi. Tutti sono tornati, dagli uomini delle caverne a Gengis Khan. Perfino Stephen Douglas!» «Douglas!» Risi al pensiero del piccolo democratico. Anche Billy colse l'ironia nella giustapposizione di Gengis Khan e Stephen Douglas, e rise assieme a me. «Ma il fatto è, signor Lincoln,» proseguì, «che c'è una lotta in corso per decidere chi prenderà in mano le cose. Una grande lotta. E... c'è bisogno di uomini in gamba per vincere la lotta.» Avevo già capito dove voleva arrivare, e lo interruppi prima. «Non sono ancora riuscito a risolvere questo enigma, Billy. Ritengo che mi ci dedicherò ancora per un po' di tempo, in solitudine, se non ti dispiace.» «Come potete parlare così?» «Perché è così che mi sento. E Mary...» «La signora Lincoln?» disse Billy con cautela. Non erano mai andati d'accordo, da quando il povero Billy, tanto tempo prima, aveva commesso l'errore di paragonare Mary, molto schiettamente, a un serpente. «È... sempre lei,» dissi. «È stata felice durante le ultime settimane, Billy, e vorrei che restasse tale, per quanto mi sarà possibile, entro certi limiti.» Soppesò le mie parole. «Il che significa che non avete intenzione di nascondervi in casa per sempre...» «No, non potrei farlo. Ma farmi coinvolgere in questa guerra tra i vivi e i risorti...» «Signor Lincoln, è molto più di questo!» Sapeva di aver conquistato il mio interesse, e non allungò la mano verso la bottiglia. «Dimmi cosa intendi, Billy.» «C'è la guerra all'interno della nostra gente! Pensateci! Tutti gli uomini malvagi della storia riportati improvvisamente in vita, assieme ai buoni! Caligola come Carlomagno, Cromwell come Washington, Napoleone...» «Certamente Washington è più abile di me...» Si interruppe per bere ancora. «Washington è morto. Sono morti in molti. Combattono già da tempo. I rapporti della televisione sono stati orribili.
Un uomo di nome Hitler è salito al potere per un poco in Europa, prima di essere falciato dalle forze di Napoleone, il quale a sua volta è stato assassinato tre giorni fa. Le alleanze sono state costituite e infrante centinaia di volte. Il caos regna su ogni continente. E naturalmente gli umani sono sempre là fuori, attaccano in forze ridotte, si uniscono in bande, aspettano...» «Questo è impossibile,» dissi scuotendo la testa. Per la prima volta da quando mi ero svegliato, l'antica disperazione mi piombò addosso, distruggendo tutto lo stupore delle ultime settimane, e mostrandomi che poteva anche essere un mondo diverso, ma era sicuramente sempre lo stesso. «Billy...» dissi lentamente. «Sì, signor Lincoln?» «Hai notato una certa... cattiveria dentro di te, la rapidità all'ira, alla violenza, che prima non c'era mai stata?» Fece una pausa per finire di bere. «Sì. È una delle ragioni per cui mi sono chiuso qui dentro con queste bottiglie.» «E hai notato che nonostante questa rabbia latente si intensifichi di fronte agli umani, esiste anche nei confronti di quelli come noi, specialmente quelli che non rientrano nei nostri piani?» «Sì.» «Cosa ne deduci, Billy?» «Cosa ne deducete voi, signor Lincoln?» «È la mia perplessità più grande, Billy. Gli esseri umani sono sempre stati una razza violenta, ma credo che siamo stati salvati dalla moderazione del pensiero.» Sorrisi debolmente. «Se non dalla moderazione nell'uso dell'alcool.» «Sì... signor Lincoln,» disse Billy, restituendomi il fiacco sorriso. «Ma in queste nuove circostanze, credo che ci troviamo di fronte a un processo fondamentale. Durante le settimane di lettura, mi sono imbattuto nella citazione di un uomo di nome Charles Darwin...» «Qui ho il suo libro Sull'origine delle specie, signor Lincoln!» disse Billy, riportando alla luce il volume da sotto la pila sulla sua scrivania. Si mise a sfogliare le pagine, si fermò e cominciò a leggere. Sollevai la mano per farlo smettere. «Sai che non ho pazienza per queste cose, Billy. Ringrazio la Provvidenza per le enciclopedie che ho trovato in biblioteca. Sono state loro a illuminarmi sul nocciolo della questione. L'idea della sopravvivenza del più forte.» «Sì,» disse Billy.
«Pensavo che si trattasse di un'idea spaventosa, finché ci ho girato attorno e l'ho guardata meglio. Ha perfettamente senso. Ce l'abbiamo sempre avuta sotto gli occhi. Un animale, un uomo, si ammalava e moriva. Un altro, più forte, restava in vita. Se solo i deboli partorissero, presto non ci sarebbe più nulla. Ogni cosa cerca di migliorarsi. Se la guardi da questa angolazione, non è affatto deprimente, ma piuttosto sensato, non trovi?» «Certo, signor Lincoln.» «Così credo che siamo di fronte a questo. Mi ricorda quell'uomo che aveva due stufe. Una diventava bollente, l'altra solo calda. Una sera d'inverno tornò a casa con il fondoschiena congelato. Si sedette sulla stufa calda, e non successe molto. Poi si sedette sulla stufa bollente, e subito il fondoschiena si scongelò, e lui fu di nuovo un uomo felice. «Credo che siamo di fronte a una stufa calda e a una bollente. Questa guerra con gli umani, beh, è una stufa calda. La battaglia fra noi stessi è quella bollente. Dobbiamo arrivare alla stufa bollente, e sederci sopra, o rimarremo tutti senza fondoschiena!» «Esatto, signor Lincoln! Degli umani possiamo occuparcene più tardi. Se non riequilibriamo la nostra gente, estirpando i tiranni dalla storia, ci ritroveremo con un paese, e un mondo, nel caos. Questa è la sola possibilità per rendere il mondo sicuro per i principi democratici, una volta per tutte...» «Naturalmente c'è un modo per sedersi su entrambe le stufe nello stesso momento, credo...» Billy mi guardò come in aspettativa, e io mi sentii lo stomaco sottosopra. «Tutto ciò mi risuona troppo familiare, Billy. E il prezzo di tante vite...» «Accadrà comunque, signor Lincoln, con o senza di voi. E temo che senza di voi ciò che accadrà sarà una cosa terribile.» Io strinsi il pugno, osservando le ossa attraverso la carne sottile curvarsi come artigli. Ancora non mi ero abituato completamente a quel nuovo aspetto, ed ero spaventato dalle mie nuove sensazioni. «Ma temo che questa violenza ci sfuggirà di mano.» «Lo farà, a meno che non la imbrigliamo.» Presi una decisione improvvisa. «No, Billy, non posso. Non posso fare questo alla signora Lincoln, e francamente non posso farlo a me stesso. Ho paura per il mondo, ma ci vorrebbe un uomo duro per fare questo lavoro. E io duro credo di non esserlo più.» «Credo che lo siate, invece, signor Lincoln. Credo che voi, tra tutti, siate in grado di trovare un equilibrio per queste nuove emozioni, e di rivolgerle
al bene pubblico.» «Significherebbe mandare migliaia di persone, milioni forse, di nuovo nelle loro tombe, senza parlare dei milioni di umani che trasformeremmo nella nostra razza.» Mi battei il pugno sul palmo della mano. «Non posso permettermi di farlo. Non di nuovo...» Billy mi posò la mano sul braccio. «Signor Lincoln, se voi non...» Sollevai la mano. «Basta, Billy.» Mi voltai verso Eddie e Willie, impegnati a rompere le punte delle nostre vecchie penne contro la stufa nella stanza. Il mio cuore si riempì di soddisfazione alla loro vista, anche se stavo già reprimendo l'orgoglio e la bramosia di potere che Billy Herndon aveva risvegliato in me, assieme al senso di colpa per il fatto che poteva aver ragione sul mio conto. «Andiamo, birbanti!» dissi ai ragazzi, rimettendomi in testa il cappello. Andai alla porta e attesi che Eddie e Willie accorressero, gridando mentre sgattaiolavano fuori dall'ufficio e sotto le mie braccia. «Verremo a trovarvi, signor Lincoln,» disse Billy. «Ci sono altri che la pensano come me. Vi convinceremo in fretta.» Io indicai la stufa, che essendo estate era spenta. «Quella stufa è fredda, Billy, e io sono come lei.» Poi me ne andai. 4 Vennero davvero a trovarmi, pochi giorni dopo. Faceva un caldo infernale, tutto d'un tratto; era la fine di giugno, la prima ondata di caldo dell'anno. Mi vantavo di essere riuscito a scoprire il funzionamento delle macchine in casa nostra che raffreddavano l'aria, procurando a tutti un gran sollievo. Non ricevevamo visite, e dato che non avevamo né televisore né radio, sapevamo solo che il mondo esterno si era per la maggior parte acquietato. Di tanto in tanto c'era un po' di tafferuglio per strada, ma nessuno venne a disturbarci. Una o due volte uscii a cercare un giornale, ma ne erano stati stampati pochi, e quelli, purtroppo, fornivano scarse notizie sul caos che sembrava regnare ovunque nel mondo. Mi stancai di leggere vecchie notizie dalla biblioteca. Per lo più giocavo con i ragazzi, e restavo seduto a pensare. Durante quei giorni Mary divenne anche più felice. Nonostante che al momento della sua morte fosse stata più vecchia di me, i suoi lineamenti avevano riguadagnato lo splendore giovanile. Credo che si rendesse conto
che avevo superato una crisi interiore, e che dopotutto mi avrebbe avuto tutto per sé. Consumavamo magri pasti, e ne eravamo sazi, anche se uno dei viaggi al supermercato con Ted rivelò che le provviste sugli scaffali stavano diminuendo. In fondo alla mia mente la cosa mi infastidiva, e costituiva un altro presagio del cedimento che stava subendo l'ordine. Billy Herndon e altri tre arrivarono dopo cena, mentre ero seduto sulla veranda ad ammirare il fatto che il sole, indipendentemente da quello che succedeva nel mondo, continuava a tramontare sfarzosamente come sempre. In cielo c'era una falce di luna, e godevo anche di quella. Il mormorio di Herndon e degli altri cessò quando giunsero al mio cancello, dove si fermarono un attimo in silenzio, incerti su come procedere. «Signor Lincoln...» esordì infine Billy. «Entrate, signori,» dissi, sollevando una lunga gamba dal bracciolo della sedia a dondolo, dove l'avevo lasciata a penzolare, e alzandomi in piedi. «Andremo nel mio studio a parlare.» Quando attraversammo la casa Mary apparve e si aggrappò a me. «Papà, cosa succede?» «Va tutto bene,» le dissi, tenendola stretta un istante, prima di lasciarla andare. «Solo alcune persone che sono venute a parlare con me. Ti ricordi Billy Herndon...» Rivolse a Herndon un'occhiata a labbra strette. «Sì, mi ricordo...» Billy chinò la testa. Credo che sentisse lo sguardo bruciante di Mary penetrarlo, mentre ci dirigevamo tutti nello studio. Chiusi la porta, e provai una fitta vedendo Mary, chiaramente sconvolta, che si allontanava a passo greve verso un'altra parte della casa. «Accomodatevi, signori,» dissi. Spostai una pila di libri da una sedia, e notai i lineamenti vagamente familiari che circondavano le ossa di un compagno di Billy, il volto sottile, il pizzetto. Degli altri due uno appariva ancor più familiare, e il terzo lo riconobbi immediatamente come Stanton, il mio vecchio segretario alla guerra. «Signor Segretario!» esclamai calorosamente, stringendogli la mano. Fu allora che vidi che l'altro suo polso era ammanettato a quello dell'uomo col pizzetto. «E questo cos'è?» chiesi. «Signor Presidente,» disse Stanton, non senza calore, ma eludendo la mia domanda. Poiché nessuno accennava a sedersi, andai dietro la mia scrivania e mi sedetti. Presi un fermacarte, un pesante globo di vetro che conteneva una
miniatura della Casa Bianca, lo trattenni un momento, e lo rimisi con cura sulla scrivania. «Vi ascolto, signori,» dissi. Lo sconosciuto che mi sembrava più familiare parlò ad alta voce. Era un uomo anziano, all'incirca di un'ottantina d'anni, alto e sottile, con l'aria di chi ha trascorso del tempo al servizio del governo. «Salve, papà,» disse, «sono io, Robert.» «Robert!» esclamai. Feci per alzarmi, poi mi riappoggiai allo schienale, stravolto dal fatto che mio figlio, l'unico che fosse sopravvissuto fino all'età matura, adesso mi stesse di fronte apparentemente più vecchio di me di almeno venticinque anni. L'ultima volta che l'avevo visto era stato arruolato, su mia timida richiesta, come capitano nello Stato Maggiore del Generale Grant. Aveva ventidue anni. «Robert, non riesco a crederci!» Mi alzai finalmente in piedi, feci il giro della scrivania e lo abbracciai rigidamente. Avevo l'irreale sensazione di abbracciare mio nonno. Mi ritrassi e lo guardai. «Beh, certo che ne hai fatta di strada.» Indicai la porta. «Adesso te ne vai là fuori a baciare tua madre e i tuoi fratelli, immediatamente.» Aggrottai la fronte. «Sii gentile con tua madre, però, vuoi, Robert? Per lei sarà un bello shock.» «Sì, signore,» disse. Fui sorpreso vedendo che guardava prima Herndon. «Comunque è meglio che voi non siate qui,» disse Billy. Robert annuì e uscì, richiudendosi la porta alle spalle. Io rivolsi la mia attenzione a Billy, che dava l'impressione di essere decisamente disfatto. «Non sei mai stato molto propenso ad ascoltare i tuoi discorsi sulla temperanza, vero, Billy?» «Le cose sono peggiorate parecchio negli ultimi giorni, signor Lincoln,» disse Billy. «Solo gli Stati Uniti sono divisi in cinque territori, tre dei quali sono governati da autentici tiranni. Il sud, incluso il Messico, è stato preso da Aaron Burr, che ha sconfitto, e ucciso, Sam Houston. Lo chiamano il Secondo Alamo. La Florida è governata da Cortés. La sezione nordorientale, inclusi Maryland, Virginia, e Washington D.C., è attualmente la più stabile, con tre governatori territoriali, nessuno dei quali è molto forte, alleati con un ex-presidente degli anni sessanta, Lyndon Johnson. Si dice che abbia nostalgia del Texas, che non ha il fegato di sopportare quello che sta succedendo, e vorrebbe lasciare qualcuno in carica per andarsene a sud. Burr gli ha promesso un governatorato. Naturalmente, questa stabilità potrebbe venire scossa in qualunque momento, ma abbiamo la sensazione
che se Johnson venisse sostituito subito, ci sarebbe la possibilità di permanenza e crescita di un sistema democratico. La maggior parte dell'esercito è attualmente sotto il controllo di Johnson. Pensiamo che questa sarebbe la nostra ultima occasione di creare qualcosa di permanente dal nuovo ordine che si sta formando.» «È tutto molto... interessante,» dissi prendendo il fermacarte dalla scrivania, sollevandolo e rimettendolo giù. «Signor Presidente,» disse Stanton. «Permettetemi di essere franco. Thomas Jefferson è morto, John Adams è morto, sapete già che Washington è stato ucciso durante i primi giorni di combattimento. Hamilton a quanto pare è impazzito. Andrew Jackson è stato visto a New Orleans, ma si è riunito alla sua giovane moglie Rebecca e non ha alcuna ambizione di potere. Dei presidenti più recenti non abbiamo alcuna notizia certa, anche se molti, da quello che sappiamo, non vogliono avere niente a che fare con questa guerra, o non hanno ancora deciso. Siamo dell'opinione che alcuni non siano all'altezza del compito, e che alcuni siano addirittura pericolosi. In breve, signor Presidente, pensiamo che voi siate l'unico adatto all'impresa.» Io aprii bocca per parlare, ma Stanton mi prevenne. «Lasciatemi finire, se permettete, signor Presidente. C'è dell'altro. I precedenti capi degli Stati Uniti non sono i soli ad avere progetti sul nostro territorio. Ce ne sono altri, molti dei quali estremamente pericolosi, in Europa, Asia, e in quella che adesso chiamano Unione Sovietica, comprendente la Russia e i territori a est. Uno degli antichi dominatori dell'India ha già massacrato milioni di indù. Ci sono immensi arsenali bellici, alcuni di una potenza terrificante, pronti all'uso o già in fase di utilizzo in vari punti del globo. Questo non è un problema limitato agli Stati Uniti, e nemmeno alle Americhe. E poi naturalmente c'è il problema dei vivi...» «Quello che il Segretario sta dicendo,» disse Herndon, «è che una volta rappacificati i "nuovi viventi", come li chiamiamo, ci sarà ovviamente un'altra lotta con quelli che erano già qui. Sappiamo che quando vengono uccisi diventano come noi, il che sembra un modo relativamente umano di gestire il problema. La convivenza è fuori questione. Voi ed io abbiamo già parlato di questa rabbia che sembriamo avere contro i viventi umani; apparentemente è incontrollabile, e possiamo solo concludere che ci sia una ragione per questo. Loro non vivranno con noi; noi non possiamo vivere con loro. Per come la vediamo noi, l'unica soluzione è di farli diventare come noi. Sarà una guerra oltre la guerra. Mi è parso che vi foste già re-
so conto di tutto questo, quando ve ne ho parlato.» «Sì...» dissi, col cuore sempre più afflitto. «Capite, vero, l'urgenza della faccenda, signor Presidente?» chiese Stanton. Io lo guardai, guardai il silenzioso prigioniero ammanettato accanto a lui, con gli occhi bassi. Vidi che un tempo si era rotto un osso della gamba. «Sì, capisco. Ma sfortunatamente, non posso essere d'aiuto.» «Signor Presidente, non è possibile!» esplose Stanton. «Senza di voi, non c'è speranza. Le opere storiografiche di tutto il mondo citano voi, e ciò che avete fatto durante la Guerra di Secessione. C'è un uomo, Gandhi, che ha tentato di fermare lo spargimento di sangue in India, che vi ha espressamente menzionato per nome. È stato eliminato due giorni fa. Voi siete conosciuto, siete un uomo in grado di trascinare i popoli. Signor Presidente,» disse, sopraffatto dall'emozione, «c'è un treno, in questo istante, che vi aspetta per portarvi a Washington. Temiamo che un velivolo non sarebbe sicuro. Sono stati presi accordi con Lyndon Johnson per trasferire il potere domani a mezzogiorno. Ci varremo dell'opera di una vecchia Corte Suprema di giustizia. Radio e televisione diffonderanno la procedura in tutto il mondo. Voi dichiarerete che gli Stati Uniti d'America, a partire da domani a mezzogiorno, sono di nuovo una nazione sovrana, e che tutte le nazioni sono concretamente invitate ad unirsi a noi in un nuovo ordinamento democratico.» Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Con voi questo può accadere. Senza di voi non abbiamo nulla.» Mi sentii oppresso dal peso di una tristezza mai provata prima in vita mia, nemmeno nei giorni più oscuri della guerra. «Signori,» dissi, indirizzando le mie parole sia ai miei due amici che allo sconosciuto ammanettato. «Io vi rispondo di no. Non posso, e non voglio esservi utile. E ve ne dico il motivo. Ho pensato a ciò a lungo e intensamente, e l'ho girato sottosopra, e ho scrutato nel profondo del mio cuore. Ho chiesto al Reggitore dei Mondi di farmi da guida, e sentivo di averne bisogno, più che mai in questo momento della mia esistenza. Ed ecco la mia conclusione. «Sebbene la vostra causa sia grande, e in verità è grande, non posso farne parte. Qualsiasi uomo in possesso del senno della verità, che si facesse un esame di coscienza, concluderebbe che questa è l'unica via da seguire, ma io non posso camminare al vostro fianco. La colpa è mia. «Ho creduto che la mia riluttanza procedesse dal non voler sottomettere Mary e la mia famiglia ad ulteriori sofferenze. Te l'ho detto l'altro giorno,
Billy. La verità è che il dovere verrebbe come sempre al primo posto. Se il dovere ti stende un sentiero davanti, le tue gambe devono sorreggerti fino in fondo. «Ma la verità è che non ho gambe abbastanza forti, e non sono in grado di percorrere quel sentiero. Sarei come uno storpio, e per voi costituirei un fardello. «La prima volta avevo la forza necessaria per quel compito. Ricordo ciò che esso ha fatto a me, e alla mia famiglia. Ma ora la forza è scomparsa.» In quel momento quasi mi misi a piangere. «Non servirei a nulla, signori, vivo o morto. Mi sento vuoto dentro. Non posseggo più la volontà di mandare degli uomini al massacro, per nessuna causa. Sento questa caratteristica di violenza nella mia nuova esistenza, e sono d'accordo con Billy che sia stata infusa in noi a ragion veduta e per il nostro miglioramento, eppure io non potrei farne uso. E se non posso usarla io, non posso aspettarmi che altri ne facciano uso in vece mia.» Alzai lo sguardo su di loro. Billy si era avvicinato alla porta e sembrava essersi messo di guardia, ma continuava a guardarmi intensamente. Stanton, nel frattempo, aveva aperto le manette dell'uomo col pizzetto e si era allontanato da lui. L'uomo mi guardava fisso, con sorprendente malanimo. «Signor Presidente,» disse Stanton, «questo è John Wilkes Booth, l'uomo che vi ha assassinato il quattordici aprile del 1865, piantandovi un proiettile dietro il cranio al Ford's Theater. È l'uomo che ha causato tanto dolore a voi e alla Nazione, che ha derubato voi della vita e gli Stati Uniti della possibilità di venire adeguatamente risanati.» Osservai quell'uomo, e d'un tratto lo riconobbi. L'attore. Mary ed io l'avevamo visto diverse volte sul palcoscenico. Carl Sandburg l'aveva definito il mio assassino; si era rotto la gamba saltando giù dal mio palco dopo aver esploso il colpo fatale. Davanti agli occhi vidi una rossa rabbia e sentii me stesso gridare. Quello era l'uomo che aveva tentato di distruggere l'Unione. Cercai a tastoni sulla scrivania, trovai il pesante fermacarte col quale avevo giocherellato prima, lo afferrai stretto. Non vedevo altro che una rabbia totale, e alzai il fermacarte sull'attore che si era fatto piccolo per la paura. Quello... Billy Herndon e il Segretario Stanton mi stavano tenendo. Ero piegato in due, e quando rialzai gli occhi, la porta della stanza si era aperta, e Robert era entrato. «È finita?» chiese Robert.
«Sì. Vostro padre starà subito bene,» disse Billy. «Padre,» disse Robert, «Devo confessarvi che sapevo...» «Va tutto bene,» dissi. «È giusto che un uomo sappia ciò che è...» Sbirciai sul pavimento il mucchietto di polvere che era diventato l'attore John Wilkes Booth; in mezzo troneggiava il fermacarte ammaccato con la miniatura della Casa Bianca intrappolata all'interno come un insetto nell'ambra. Ripresi il controllo e mi raddrizzai. «È in tutti noi,» disse con rassegnazione Billy Herndon. «E tocca a uomini come noi accertarsi che da ciò nasca il miglior mondo possibile.» Misi la mano sulla spalla di Billy. «Sì,» dissi. «Hai ragione, naturalmente. Suppongo che a volte un uomo non sappia, o non voglia, vedere la scimmia appollaiata sulla sua schiena. Avevo sperato...» «Voi siete l'unico che possa controllare tutto ciò,» disse Stanton. «Siete l'unico uomo attorno al quale possiamo radunarci tutti noi, in tutto il mondo.» Io mi allontanai, guardai fuori dalla finestra, e unii le mani dietro la schiena. «Signor Presidente?» mi chiamò Stanton. «Che Dio mi aiuti,» dissi. Per un attimo restai in silenzio, poi continuai: «Robert, mandami tua madre. Devo dirle che è ora di preparare i bagagli per Washington.» CAPITOLO SETTIMO LE MEMORIE DI PETER SUN 1 Quando mi risvegliai nel fossato pensavo di essere solo, e invece mi ritrovai circondato da corpi. Non corpi, per essere esatto, piuttosto mucchi di vestiti cosparsi di polvere di morti. Mentre stavo guardando, rannicchiato nel mio angolino nel fianco del fossato, dall'alto cadde un altro mucchio di vestiti, proprio a pochi passi da me. Fu allora che udii una rozza risata, e il dialogo tra due voci. «Quello lì non darà più fastidio a nessuno. Qual è il prossimo crimine?» La seconda voce, più pratica ed efficiente, disse: «Saccheggio. Furto di provviste alimentari altrui.» «Benissimo.» La prima voce emise una specie di grugnito. Sentii una terza voce ansimare, e poi di nuovo la rozza risata della prima voce.
«È andato in atomi con facilità, vero, compagno?» «Provvedi a lui,» disse la seconda voce, stizzita. «Va bene.» Un altro mucchietto di vestiti che seminavano una scia di polvere atterrò nel fossato. «Prossimo?» chiese la voce rozza. «Ubriachezza. Incetta.» «Bene,» grugnì la voce rozza, e un altro mucchio di vestiti piovve dall'alto di fronte a me. D'un tratto sentii una voce completamente nuova, un grido stridulo, e i rumori di una zuffa. La voce rozza imprecò, e poi una figura vestita di tutto punto cadde nel fossato davanti a me, carponi, e si rialzò. La faccia perplessa di uno scheletro guardò dritto nella mia, e spalancò le mandibole. Improvvisamente lo scheletro, avvolto nel sudario di una fisionomia vaga e spettrale di donna, guardò in su e cominciò ad agitare le braccia. «Compagni! Compagni! Ho trovato...» Esplose un colpo di fucile, e lo scheletro barcollò all'indietro e cadde in polvere. La voce rozza rise. «Mi ha risparmiato la fatica di buttarla di sotto.» «Avanti,» disse la voce pratica. «Il prossimo è un dissenziente politico. È stato sorpreso a pronunciare slogan antipartito.» La voce rozza rise con disapprovazione, poi grugnì. «Direi due colpi di pala per questo, per i suoi terribili delitti.» Un altro polveroso mucchietto di vestiti cadde davanti a me. «Cosa ne dici di farne due alla volta, in modo che il lavoro proceda più in fretta?» rise di nuovo la voce rozza. Altri due mucchi di vestiti. Una pietra scalzata dal mio piede rotolò nel fossato facendo rumore. «Hai sentito niente, compagno?» chiese la voce rozza. Ci fu silenzio, durante il quale trattenni il respiro e rimasi perfettamente immobile. «Niente,» rispose la voce pratica. «Continua.» «Bene.» Continuarono per quelle che mi parvero ore. Poi, finalmente, con estremo distacco, la voce pratica disse: «Abbiamo terminato.» «D'accordo.» Contai fino a sessanta, e stavo quasi per muovermi quando uno scheletro massiccio si lasciò cadere nel fossato con in mano una pala, e iniziò a os-
servare il mucchio di vestiti e la parete di fronte a me. Si spostò in giù alla mia destra, poi si voltò, e rivoltando i vestiti con la pala iniziò ad avvicinarsi a me. Io mi nascosi nel mio cantuccio meglio che potei. «Cosa stai facendo là sotto?» Lo scheletro massiccio si fermò a non più di due passi a destra della mia nicchia, e il teschio guardò in su. «Prima ho sentito qualcosa.» «Non essere stupido! Torna qui immediatamente!» ordinò la voce risoluta. La mano dello scheletro si strinse sul manico della pala, e sentii borbottare un'imprecazione. «Cos'è stato?» chiese la figura di sopra. «Cos'hai detto?» «Niente, compagno,» disse cupamente lo scheletro massiccio. «Sto arrivando.» Iniziò ad arrampicarsi sulla parete del fossato, e ad un certo punto gli scivolò un piede proprio sul fondo del mio cantuccio, ma poi, con mio gran sollievo, continuò a salire. Dopo pochi minuti, e molti rimproveri espressi dalla voce risoluta ed efficiente, sentii il rombo del motore di un veicolo, che partì e si allontanò. Contai di nuovo fino a sessanta, poi rotolai fuori dal mio buco. Con cautela mi arrampicai sulla scarpata e guardai oltre il ciglio. La strada che costeggiava il fossato era deserta, e un furgone dell'esercito stava scomparendo dietro una lontana collina. Appoggiai la schiena all'argine del fossato e inspirai profondamente l'aria fresca, rivolgendo un'occhiata al posto che mi aveva ospitato. Mi rilassai un momento, poi mi issai fuori dal fossato e seguendo il sole verso est, cominciai a camminare. 2 Non mi ci volle molto a capire che non sarei riuscito ad arrivare lontano con la luce del giorno, almeno non vicino alla strada, che era periodicamente invasa dal traffico proveniente per lo più dalla direzione di Mosca. Mi tenni in prossimità del mio amico fossato, e in più di un'occasione mi ci dovetti gettare dentro per evitare di essere scoperto da un convoglio di passaggio. Notai che tutti i veicoli militari erano guidati da scheletri, e il fatto non fece che aumentare la mia inquietudine. Finalmente, scorgendo davanti a me la parvenza di un villaggio, mi scostai dalla strada e mi ci diressi tra gli alberi.
Mentre mi avvicinavo, la vista dei mucchietti di polvere bianca mi informò immediatamente che lì si era svolta una sorta di battaglia locale. Un capannello di case dall'aspetto desolato mi introdusse in una piazzetta cittadina, dove attorno a una fontana sovrastata dalla statua di Lenin c'erano altri mucchi di vestiti. Armi russe, in gran parte residuati bellici della Seconda Guerra Mondiale, giacevano sparse tutt'attorno, assieme a zappe, rastrelli e bastoni grezzi. Qualcuno aveva combattuto, lì, ma chi? Umani o scheletri? «Erano brava gente,» disse una voce alle mie spalle, facendomi sobbalzare mentre ero ancora intento a fissare la fontana. Mi misi in posizione difensiva, ma la vecchia donna umana che mi stava di fronte si limitò a sorridere. Si teneva vicino una scopa. «Non ti serviranno i pugni contro di me, giovane uomo. Ai miei tempi ho visto di peggio, se riesci a credermi. I Tedeschi, le epurazioni, i campi di concentramento. Sotto altre forme, ma ho già visto tutto questo; ieri era tutto condensato in una volta sola.» Mi rilassai leggermente, ancora sospettoso, e adirato con me stesso per la mancanza di cautela dovuta alla stanchezza. «Sei qui da sola?» Puntò la scopa verso il mucchio di vestiti. «Con loro. Ci sono tre miei familiari lì dentro, il mio stupido figlio, una figlia, e un nipote.» «Cos'è successo?» Camminando piano, mi passò davanti e andò a sedersi sul bordo della fontana, e appoggiò la scopa in terra accanto a sé. «Abbiamo combattuto, come facciamo sempre. E come sempre, abbiamo perso.» «Tutta la città?» «Tutti tranne me. Mi hanno lasciata in vita, per vendetta.» «I soldati hanno fatto questo?» Mi guardò sorpresa. «Certo che no. I soldati scheletri non sono arrivati che dopo il massacro. Hanno radunato tutti gli assassini e li hanno portati via per aggiungerli all'esercito. Devono averne parecchi per il loro esercito, adesso. Ieri qui c'era un ragazzo dell'esercito, un ragazzo umano, ma è morto assieme al resto della città.» «Chi è stato?» Lei indicò oltre le cime dei tetti con la scopa. «Sono venuti da quella direzione, dal cimitero, tutti in una volta. Tutti i morti di questa città. E non avevano dimenticato.» «Dimenticato cosa?» Lei mi guardò. «Cosa? Cosa si prova ad essere vivi, naturalmente. Ci o-
diano.» Cominciavo ad essere impaziente con quella vecchia donna delirante, e feci per allontanarmi, ma si mosse rapidamente e mi afferrò per un braccio, tenendolo poi stretto. «Se avessi saputo che ci odiavano, non li avrei aiutati.» Abbassai lo sguardo su di lei. «Cosa stai dicendo?» «Perdonami,» disse. Gli occhi le si erano riempiti di lacrime. «Qualcuno deve perdonarmi. Quando diventi così vecchio, pensi di non volere che la vita finisca.» La fissai, aspettando che proseguisse. «Io li ho aiutati!» disse. «Come potevo sapere che ci odiavano tutti, che ci volevano tutti morti! Mi hanno promesso salva la vita, se avessi rivelato loro tutti i nascondigli! Mi hanno promesso che tutti gli altri sarebbero stati soltanto trasformati in creature come loro! Come potevo sapere che quello stupido pazzo di mio figlio, e tutti gli altri, li avrebbero combattuti? Come potevo saperlo!» Si aggrappò a me con le sue mani da vecchia. «Li hanno raggruppati qui vicino alla fontana, tutta quanta la città, e gli scheletri li hanno uccisi una volta, e poi li hanno uccisi ancora! E si sono trasformati in questo!» Mi lasciò andare, raccolse la scopa, e con essa sfiorò la polvere. «Li ho implorati di uccidere anche me, ma non hanno voluto! Adesso tu devi uccidermi!» Si mise a scopare la polvere, scuotendola dai vestiti, cercando di pulire. Mi allontanai da lei, e lei mi seguì, cadendo nel mucchio di polvere, strisciando dietro di me, gemendo. «Va bene, confesso! Tutte le altre volte, quando sono arrivati i Tedeschi, quando ci sono state le epurazioni, anche allora ho detto dov'erano i nascondigli! Volevo vivere! Ma ora voglio morire!» Mi strisciò dietro come un insetto, e io mi ritrassi, e poi mi girai per correre via verso la parte opposta della città. La sua risata folle mi raggiunse. «Io ti conosco! Io so chi sei! Ho visto la tua foto alla televisione! E così è questo il tuo nuovo mondo, il tuo mondo di pace e democrazia? È questo che volevi?» Corsi finché non potei più udire le sue parole, e mi lasciai la città alle spalle. 3 Avevo così appreso che l'esercito degli scheletri era già passato. Forse,
allora, le zone lontane dalle strade principali erano sicure. Trascorsi il resto della mattina nei boschi al limitare della strada, attento a sentire l'occasionale rombo degli autocarri. Vidi un altro villaggio discosto dalla strada, e mi ci diressi. Quello si rivelò essere interamente vuoto, più piccolo del primo, con poche case, poco più che capanne, e una piazza coperta di rifiuti. Una delle capanne era piena di cibi essiccati, e feci un pasto, raccogliendo poi in un lenzuolo tutto quello che potevo trasportare. Controllai il resto delle abitazioni, in cerca di una radio o un televisore che funzionasse, ma non ne trovai, e proseguii in fretta. Decisi di restare nella campagna. Allontanandomi dalla strada, mi inoltrai in una piccola valle boscosa, nella quale non si sentiva nessun suono tranne il canto degli uccelli e lo squittire degli scoiattoli. Mi fermai un istante a osservare una gallina che covava le uova nel nido, rammentando tutte le volte che la natura mi aveva dato sollievo quando il mondo degli uomini diventava troppo pesante da sopportare. L'idillio venne interrotto dall'arrivo di un uccello scheletro che sfrecciò attraverso il mio campo visivo per puntare malignamente nel nido della gallina. Ci fu un'esplosione di piume, e uno strido acuto e prematuramente interrotto. La gallina cadde a terra morta, solo per trasformarsi in una creatura scheletrita e volare su per unirsi all'altro scheletro aviario nel beccare le uova e farle precipitare fuori dal nido. Cessarono la loro attività per guardarmi, e quello che poco prima era un uccello emise uno strido rabbioso. Proseguii, percorso da un brivido temporaneo. Da quel momento in poi notai tutti i buchi rivoltati nel suolo della foresta, specialmente vicino ai tronchi degli alberi, dove le carcasse degli animali morti erano ritornate in vita. Fu con sollievo che mi lasciai alle spalle quella vista, solo per sbucare dagli alberi sul fondo della valle di fronte a una vista ancora più fantastica. Nella radura, che misurava grosso modo come un campo di calcio, c'erano i resti di un MIG sovietico. Era come vedere l'immagine di un sogno, totalmente fuori posto nello scenario della fitta boscaglia. Mi ricordò una favola per bambini, ma il contatto col freddo acciaio fu sufficiente a riportarmi alla realtà. Doveva essere stato un atterraggio incredibile. Seguii con lo sguardo le cime recise degli alberi, che partivano dalla coda dell'aereo e non si riusciva a vedere dove cominciassero. Il pilota doveva essere scivolato sulla
cima degli alberi fino ad atterrare in quel posto. L'aereo si era piegato nettamente in due, altrimenti sarebbe rimasto intatto. Sempre guardingo, mi avvicinai alla cabina di pilotaggio. Il tettuccio era alzato. Pronto a tutto, posai a terra il mio fagotto di cibo e mi sollevai per sbirciare all'interno. La cabina era vuota, ma c'era del sangue. Non lo considerai né un segno buono né un segno cattivo. Capii solo che con ogni probabilità un pilota umano era atterrato lì col suo aeroplano. Cosa poteva essere diventato... Mi lasciai cadere a terra e ripresi il fagotto del cibo. Attorno all'aereo l'erba era stata calpestata, e non da un uomo solo. Con cautela seguii la traccia, che conduceva nella boscaglia, e di lì a un sentiero sgombro, segnato dai solchi delle ruote di un carro. Proseguii su quella pista, e mi inoltrai nel profondo della foresta. Gli alberi si chiudevano su di me come un baldacchino. Lo scheletro di uno scoiattolo mi guardò da un ramo. Attesi che mi saltasse addosso, ma squittì e scappò via. Vidi altri scheletri di animali, un coniglio, e in lontananza quello che sembrava lo scheletrico profilo di una volpe in fuga. Due scheletri di grossi uccelli, che avrebbero potuto essere nemici naturali, si battevano in cielo a bassa quota. La foresta era piena di strane grida. L'unico animale vivo che avevo visto era stata quella gallina. Sentii dei rumori di fronte a me. Mentre mi avvicinavo mi legai il fagotto del cibo sulla schiena e mi arrampicai su un albero ramificato. Avevo imparato ad essere silenzioso, tanto tempo prima in Cambogia. Nemmeno un gufo notò la mia presenza, quando gli passai accanto. Più salivo in alto, più l'albero si arcuava sopra i rumori. Scorsi tra i rami un carro di legno, e continuai ad arrampicarmi verso l'esterno. Presto raggiunsi un posto che si affacciava splendidamente sulla scena che si svolgeva sotto di me. Un carro rozzamente coperto, attaccato a un cavallo di piccola taglia, era circondato da tre uomini. Entrò in scena una donna che portava una bracciata di verdure apparentemente commestibili trovate nella foresta. Uno degli uomini prese una pentola dal carro, e ci buttò dentro le verdure. Subito apparve un'altra donna con una brocca d'acqua che svuotò nella pentola mentre due uomini cominciavano a preparare il fuoco. «Questo sarà un buon pasto!» disse allegramente uno degli uomini in un dialetto russo di cui non riuscii ad identificare la provenienza. Fortunatamente erano tutti umani. Mi sistemai il più comodamente possibile sul mio trespolo e osservai.
In breve tempo avevano acceso un fuoco sotto la pentola. Erano esperti uomini della foresta, e dal profumo che giungeva fino a me anche ottimi cuochi. Pensai al pacco di gallette secche legate alla schiena e mi resi conto che era trascorso più di un giorno dal mio ultimo pasto decente. La fame mi assalì come un'ondata, ma la tenni a bada. Ormai da molti anni non sentivo più i morsi della fame, ma controllarla era uno dei molti talenti che riscoprii immediatamente. Li osservai cucinare, e mangiare. Durante il pasto una delle donne andò al carro coperto con un piatto di cibo. Dall'interno provenivano gemiti di dolore. La donna uscì e nello stesso strano dialetto disse: «Non vuole mangiare nulla.» L'uomo con la voce allegra si strinse nelle spalle. «Allora morirà.» Senza guardare verso l'alto, ma alzando la voce, disse: «Forse il nostro amico sugli alberi vorrebbe mangiare qualcosa!» Tutti mi fissarono e scoppiarono a ridere. Mi sentii come un ragno in trappola. In quel momento chiunque di loro, con un'arma, avrebbe potuto abbattermi. Ma quello con la voce allegra fece un cenno con la mano e disse: «Vieni giù, amico mio.» Io scesi dall'albero e avanzai nella radura. «Sei bravo, non fraintendermi,» disse sempre quello allegro. Prese un lembo della mia camicia tra il pollice e l'indice. «Ma ti sei scordato i vestiti. Risaltavi come l'aquilone di un bimbo impigliato tra i rami di quell'albero.» Mi strinse la mano. «Io sono Sasha.» Si rivolse agli altri, e mi presentò i due uomini più giovani come i suoi figli, Tibor e Caspian. Le donne, che restarono indietro, non mi vennero presentate. «Siediti, e mangia,» mi disse. Mi acquattai vicino al fuoco. Una delle donne, con i capelli lunghi e neri, mi servì, senza degnarmi di un'occhiata. L'altra, dai capelli rossi e ancora più lunghi, mi guardava, ma da lontano. Mi sentivo sotto esame. «Io lo conosco,» disse infine la seconda donna. «Reesa, non sei stata interpellata.» La donna scrollò le spalle e si allontanò. Sasha si chinò su di me e disse: «Tu sei Peter Sun.» «Sì.» «Sei un brav'uomo. Ma non sempre, vero?» Esitai prima di rispondere. «No, non sempre.» Mi diede una pacca sulla schiena. «Sei sincero.» Mi chiesi come facesse a conoscere tali cose di me. Non erano Cinesi, e
non erano Cambogiani, e quei giorni erano passati da tanti anni. Sentii che gli altri mi guardavano più da vicino. «Forse è meglio che me ne vada,» dissi, mettendo giù il cibo, e disponendomi ad alzarmi. Sasha mi mise una mano sulla spalla e mi fece sedere di nuovo. «Sciocchezze,» disse. «Qui nessuno ti farà del male. Non è vero, Tibor? Caspian?» I due figli, a turno, annuirono, sebbene i loro occhi non fossero completamente amichevoli. La donna dai lunghi capelli rossi, che stava pulendo la pentola, mi guardò con freddezza. Dal carro venne un lamento di dolore. «Vieni con me,» disse Sasha. «Ti dimostrerò che non vogliamo farti del male.» Camminai con lui fino al carro. All'interno c'era un uomo in uniforme, ovviamente il pilota del MIG abbattuto, sdraiato supino su un mucchio di trapunte. Era coperto con un lenzuolo, e aveva un aspetto febbricitante; agitava la testa da una parte all'altra. Sasha tirò indietro il lenzuolo e indicò il polpaccio dell'uomo. «Se l'è rotto, qui, quando è atterrato,» disse. «È stato spettacolare da vedere, è stato colpito da altri due MIG. L'abbiamo tirato fuori dai rottami, e Reesa gli ha aggiustato la frattura.» Mi guardò negli occhi. «Un tempo l'avremmo annegato nella pozza più vicina, a causa dell'uniforme che indossa.» Sorrise. «Ma è sorprendente la differenza che può fare un giorno, e adesso non è un nemico, ma un amico. Tutti noi abbiamo un nemico più grande.» «E io?» Gli si illuminò il volto. «Tu? Tu non sei mai stato un nemico, Peter Sun. O qualsiasi nome tu stia usando oggi.» «Ma il modo in cui i tuoi figli mi guardano...» Mi posò la mano sulla spalla. Nei suoi occhi c'era una tristezza dura. «Loro non ti odiano, amico mio. Hanno solo soggezione di te.» Nella mia vita avevo visto molto, ma mai qualcosa di simile. «Non capisco.» La sua risata risuonò di nuovo. «Non serve che tu capisca! Saprai tutto al momento giusto.» «Dovrei comunque andarmene.» «No,» disse Sasha. «Non credo che tu lo desideri. Persino la foresta adesso è piena di pericoli. Un uomo da solo non sopravvivrebbe a lungo.
Noi conosciamo bene questi boschi, e stiamo andando a est, proprio come te. Inoltre,» aggiunse, riprendendo il suo sorriso triste, «sappiamo che tu verrai con noi!» Stavo per parlare quando Sasha mi strinse la spalla, e continuò: «Abbiamo del caffè. Vieni a berne un poco.» Dopo aver coperto il sofferente pilota, mi ricondusse accanto al fuoco. 4 Rimasi. Stranamente, non mi sembrò che la mia decisione fosse completamente cosciente. Di rado nella mia vita sono stato bene all'interno di un gruppo; perfino durante i giorni che avevano preceduto l'attuale follia, mentre stavo organizzando il raduno a Mosca, non ero mai stato del tutto a mio agio con le persone convocate da Jon Roberts. Spesso avevo sentito il bisogno di andarmene, di stare solo. Eppure mi ritrovai a far parte di una strana banda, e contento di farne parte. Provavo una sorta di conforto nell'affidarmi a uomini e donne che conoscevano così bene quella foresta. Durante i primi due giorni che trascorsi con loro non incontrammo ostacoli. C'erano molti sentieri che attraversavano la foresta, e Sasha sceglieva sempre quello che meglio ci confaceva, e continuava a dirigersi verso est. Una volta sentimmo un gran fragore in lontananza, e ne deducemmo che si stava svolgendo una grande battaglia, nella città di Gorki, disse Sasha; ma a parte l'occasionale scheletro di coniglio che Sasha e Tibor catturarono e sgozzarono con grande soddisfazione per il gusto di vederlo tramutarsi in polvere, non vedemmo niente che assomigliasse a uno scheletro. Nei miei compagni non riscontrai molto della soggezione di cui mi aveva parlato Sasha. Ero trattato con deferenza, forse, ma era mischiata a quello che mi sembrava un velato disprezzo. Reesa, soprattutto, provava un gran piacere a gettarmi quasi addosso i miei pasti. In effetti vidi Sasha, un paio di volte, prenderla in disparte per rimproverarla, ottenendo il risultato di aumentare se possibile il suo ribrezzo per me. Solo quando io stesso le parlai del suo comportamento, dopo che mi aveva deliberatamente rovesciato addosso un eccellente stufato di verdure mentre me lo stava porgendo, mostrò un atteggiamento sorprendentemente mutato. «Non avevi nessun bisogno di farlo,» le dissi irritato, rimettendo il poco che restava dello stufato nella scodella e gettando per terra quello che mi era rimasto appiccicato ai vestiti.
Lei arrossì e si rifiutò di guardarmi. «Mi hai sentito? Io non ti ho fatto niente. Non hai nessuna ragione di trattarmi in questo modo.» Inesplicabilmente si voltò e cominciò a piangere. Non sapevo cosa fare. Reesa lasciò cadere a terra la pentola con lo stufato e corse nella boscaglia. Io la seguii, e la trovai rannicchiata contro un albero, con le mani davanti agli occhi, che piangeva. «Non dovresti fare tanto rumore. Ci farai scoprire,» le dissi. Lei si alzò e cercò di scappare, ma la presi per un braccio. «Cosa c'è che non va?» le chiesi. «Perché mi tratti come se mi odiassi?» «Perché ti odio! Lasciami andare!» Io la lasciai, e lei fuggì nel profondo della foresta. Guardai indietro verso il campo, certo che ormai Sasha o uno degli altri ci avessero seguiti. Ma ero da solo. Sasha aveva insistito ripetutamente che non ci allontanassimo. «Reesa! Torna qui!» La sentii piangere poco distante, e poi sentii un suono che avevo già sentito tanto tempo prima, in un altro paese. Corsi nella piccola radura, e la vidi immobile contro un albero. Aveva smesso di piangere. Un cinghiale incattivito era nella radura tra Reesa e me, e la fissava biecamente. Era vero, non uno scheletro, e gli occhi neri e le zanne bianche non facevano che aumentare la ferocia del suo aspetto. «Non muoverti, Reesa,» sussurrai. Annuì piano. Il cinghiale sbuffò rabbiosamente, nel preludio dell'attacco, con gli occhi inchiodati su Reesa. Ispezionai freneticamente il bosco alle mie spalle in cerca di un'arma, e trovai un bastone lungo e duro, ma nessuna delle due estremità era appuntita, e lo gettai. Ne stavo cercando un altro quando sentii un grido e vidi che il cinghiale aveva caricato Reesa. Afferrai il bastone smussato e corsi nella radura. Senza pensare balzai sul dorso del cinghiale, gli feci passare il bastone sotto la gola e tirai verso di me. Le zampe della bestia cedettero, ma avevo semplicemente dirottato la sua ira su di me. In un attimo il cinghiale mi aveva ribaltato. Tenni il bastone contro la sua gola, lottando per la vita, mentre il cinghiale inferocito si preparava a infilzarmi con le zanne. Reesa apparve sopra di me, estrasse un coltello dallo stivale e squarciò la gola del cinghiale con un taglio lungo e profondo. L'animale emise un orribile lamento, agitò le zampe, e quando Reesa re-
cise l'arteria crollò in una pozza di sangue. Solo per tornare in vita un momento più tardi come scheletro. Ma Reesa l'aveva previsto. Quando avvenne la trasformazione, gli affondò il coltello tra le ossa del collo. L'animale morì un'altra volta, e le sue ossa divennero polvere. Noi cademmo assieme quando il cinghiale si dissolse, e giacemmo ansimanti, e Reesa scoppiò a ridere. «Temo che dovrai sopportare il mio stufato di verdure per ancora un po' di tempo.» Si sollevò su di me, con i capelli che scendevano come un mantello, e studiò il mio viso. «Ho temuto, e desiderato, questo momento, più di ogni altra cosa nella mia vita,» disse. Mi baciò, premendo forte la bocca contro la mia. Sentii me stesso rispondere a quel bacio, avvolgerla tra la mie braccia, stringerla al petto. Sembrava non solo giusto, ma stranamente inevitabile. Mi staccai e sorrisi lievemente. «Ma pensavo che mi odiassi...» «Taci,» disse Reesa. Tacqui, per un po'. 5 Passarono le settimane. Reesa ed io eravamo amanti. Gli altri esprimevano solo accettazione; in realtà se lo aspettavano. Sasha non era il padre di Reesa, come avevo pensato; e Tibor e Caspian non erano suoi fratelli. L'altra ragazza, quella dai capelli neri di nome Maria, era cugina dei due giovani. Venni a sapere da una conversazione avuta con Sasha che un tempo erano stati molti di più. Quando insistetti per conoscere i particolari, mi rivolse il suo sorriso triste e disse: «Quando sarà il momento, ti racconterò.» Facemmo molta strada. Era arrivata l'estate, e il nostro viaggio divenne più piacevole; le notti soprattutto, erano fresche e limpide, con le stelle che occhieggiavano tra gli alberi. Molte sere giacqui con Reesa fra le braccia, a guardare il carro dell'Orsa Maggiore, il sorgere del perno di Ercole col suo bastone, il facilmente riconoscibile Leone. Viaggiavamo per lo più di giorno, senza incontrare ostacoli; le città e i villaggi che attraversavamo nel nostro viaggio verso nord-est erano popolati solo da scheletri di animali. Trovavamo un'infinità di provviste, in gran parte cibi essiccati, e rare e preziose scatolette di carne o pesce. Durante i primissimi giorni di questo periodo il pilota sul carro peggiorò. Sapevo che Sasha si era preparato alla sua morte; una notte, quando sem-
brava che il giovane pilota si dipartisse da questo mondo, Sasha restò di guardia tutta la notte, dopo averlo legato mani e piedi. «Se muore,» disse Sasha, «morirà una seconda volta, rapidamente.» Fu una notte insonne per Maria, che era diventata l'infermiera del pilota, e il mattino seguente, quando la febbre finalmente scese e il pilota riprese conoscenza, il giovane vide il volto di Maria, e non quello di Sasha. Si piacquero subito, e mentre il pilota si rimetteva in forze lui e Maria divennero inseparabili. Una sera dopo cena il pilota si sentì abbastanza bene per unirsi a noi e chiacchierare attorno al fuoco. Non era un giovane timido, ma attese comunque di essere invitato. Quando Sasha lo pregò di sedersi con noi, non perse tempo e tirò fuori di tasca un pacchetto di sigarette americane, facendolo passare in giro. «Marlboro!» escalmò Tibor felice. «Ah, meraviglioso,» disse Sasha, accendendone una. «È passato tanto tempo da quando mi divertivo a uccidermi lentamente.» «Siete persone buone,» disse il pilota. «Vi ringrazio per la mia vita.» «Ci avresti ringraziato per la tua morte, se non fossi guarito,» disse Sasha. Il giovane annuì. «Avrei fatto lo stesso.» Fece una pausa. «L'ho fatto per il mio migliore amico, il giorno in cui mi sono levato con l'aereo.» «Era come uno stato di follia?» disse Maria, alzandosi e posandogli le mani sulle spalle. «Sì, follia è la parola giusta,» rispose. Si sporse in avanti verso il fuoco. «Un incubo. Le sirene si sono messe a suonare, ma quando abbiamo raggiunto gli aerei, la metà era già in volo, e al comando c'erano loro.» Rabbrividì. «Sembra che gli scheletri avessero attaccato le altre baracche, trasformando i nostri compagni in... quelle cose. Abbiamo dovuto sostenere una battaglia solo per levarci in volo. Ci hanno ordinato di volare verso nord, di salvare gli aerei, e di riunirci. Solo quattro di noi sono riusciti a staccarsi da terra senza essere... trasformati.» Guardò nel fuoco. «Il mio migliore amico, Mikhail, è stato trasformato in uno di loro sotto i miei occhi. Un momento prima stava combattendo al mio fianco, e un momento dopo è stato colpito da un proiettile.» «Tutti abbiamo vissuto storie simili,» disse Sasha. «Sì,» disse il pilota, «suppongo di sì.» Fissò di nuovo il fuoco. «Ma io l'ho ucciso con le mie stesse mani, e l'ho guardato diventare polvere. Avevamo frequentato assieme la scuola di volo.» Maria lo abbracciò.
«Ma adesso,» disse il pilota levando lo sguardo dal fuoco e rivolgendoci un sorriso tirato, «abbiamo un nuovo esercito, vero?» Sasha si strinse nelle spalle. «Una specie. Qualcosa possiamo fare.» «Cioè?» disse il pilota amaramente. «Sapete che l'Armata Rossa è stata decimata in un solo giorno? Quando ho decollato, ho potuto ascoltare la radio. I miei tre compagni sono stati abbattuti davanti a me, da uomini che avevano conosciuto, con i quali avevano giocato a carte la sera prima. Uomini fatti di ossa...» Emise uno sbuffo di fumo e gettò la sigaretta nel fuoco. «Scusate se parlo così. Sono un egoista. È solo che quando mi sono svegliato ho pensato che potesse essere stato tutto un brutto sogno.» «Hai sentito niente di Mosca?» chiesi. Mi guardò. «Sì. Distruzione totale. Mezza città in fiamme. Le cose sono andate meglio a Leningrado. Prima che precipitassi, i rapporti dicevano che Leningrado era diventata una città guarnigione, e un agguerrito gruppo di combattenti resisteva nel centro della città. Spero che ce l'abbiano fatta.» Prese un'altra sigaretta dal pacchetto e l'accese. Attorno al fuoco si fece silenzio. «Che possibilità abbiamo?» continuò il pilota. «Hanno gli aerei, il carburante, la maggior parte dei soldati. Migliaia di anni di cadaveri da usare in battaglia. Che speranza abbiamo contro di loro? Le armi nucleari? E dove le sganciamo, su noi stessi? Dobbiamo distruggere tutto per salvarci la pelle?» Divenne più rabbioso. «Sapevate che quel bastardo di Stalin è salito al potere a Mosca? Il secondo giorno ha fatto ammazzare Lenin, e aveva ammazzato quasi tutti gli zar prima ancora che si avvicinassero alla capitale. Si dice che abbia aspettato Nicola II vicino alla tomba per ucciderlo con le proprie mani. È pazzesco, ve lo dico io.» «Come dicevo, ci sono dei modi,» disse Sasha tranquillamente. Il pilota lo guardò brusco. «Pensi che esista un luogo sicuro? Abbiamo sentito i rapporti. Cina, America, è lo stesso ovunque. Al mondo non c'è abbastanza vodka per annegarci quest'incubo.» Sasha andò al carro, e ritornò con una bottiglia scura. «Forse questa servirà,» disse. Il pilota prese la bottiglia con gratitudine, e bevve a lungo. Poi la restituì a Sasha. «Chiedo scusa. Ho paura di non essere me stesso, è solo lo shock di tutta questa faccenda.» La bottiglia venne fatta passare, e ritornò al pilota, che bevve un altro sorso e sbadigliò.
«È stanco, deve riposare,» disse Maria. «Sono davvero stanco,» confermò il pilota, e si alzò. In parte la sua rabbia era sbollita. «Siete brave persone. Vi prego di perdonarmi.» «Vai a dormire,» disse Sasha gentilmente. «Sì,» rispose il pilota, sbadigliando ancora. Maria lo accompagnò al carro. «Ha ragione, sapete,» dissi accettando la bottiglia e bevendo. «Sembra veramente una situazione senza speranza.» «Non mi sembri un tipo che si arrende,» disse Sasha. «No.» «Non è da te offrire la gola per diventare uno di loro. Potresti farlo?» «Ma no, non potrei. Qualcuno una volta ha detto, 'L'uomo senza se stesso non è nessuno'.» «Ah,» disse Sasha, venendomi più vicino. «Dimmi, chi sei esattamente?» Mi lasciò bere ancora dalla bottiglia. Scossi la testa. «Non sono nessuno.» Lo guardai intensamente. «Perché non mi dici come fai a sapere tante cose di me, e dove stiamo andando?» Sasha sorrise, accettando la bottiglia che gli porgevo. «Ah,» disse. «Ogni cosa a suo tempo, eh?» 6 l pilota e Maria ci lasciarono una settimana dopo. Sembrava che Sasha sapesse che sarebbero partiti. Sembravano saperlo tutti. Reesa cominciò il giorno prima ad affaccendarsi attorno a Maria, rammendando i suoi abiti, aiutandola a raccogliere il cibo. Il pilota era cupo e ansioso. La sera prima della partenza ci annunciò le loro intenzioni. «Buona fortuna,» disse Sasha semplicemente. Tibor tirò fuori uno zaino con dentro delle armi, e lo aprì perché il pilota lo ispezionasse. Conteneva una pistola, un fucile a baionetta, un coltello da caccia. Lo richiuse e lo porse al pilota. «Ti potrà servire,» disse. «Grazie,» rispose il pilota. Il suo nervosismo era svanito. «Sono venuto a parlarvi aspettandomi una discussione. Maria è d'accordo di venire con me. Pensavo che avreste lottato per tenerla con voi. Non so cosa dire.» «Non dire nulla,» lo tranquillizzò Sasha, offrendogli una bottiglia scura. «Bevi. Le tue decisioni sono tue.» Il pilota si sedette con noi. «Voglio ugualmente giustificare la mia de-
cisione,» disse. «Sento che dovremmo stare per conto nostro. Voglio trovare un luogo lontano da tutta questa follia, forse sugli Urali. Spero ancora che un mattino mi sveglierò e tutto sarà svanito. Nel mio cuore sento che finirà, e un giorno voglio scendere dalla mia montagna e scoprire che la terra ci è stata restituita.» «Sarebbe una bella sensazione,» disse Sasha, guardandomi. «E... Maria ha accettato di venire con me. Ci nasconderemo, e formeremo una famiglia.» «Buona fortuna,» disse ancora Sasha. «Io...» abbassò gli occhi, improvvisamente stizzito. «Parli come se non credessi alle mie intenzioni. Forse pensi che io sia un vigliacco perché non continuo a combattere?» «Nient'affatto,» disse Sasha. «Cosa c'è, allora? Capisco solo dal tono della tua voce che pensi che non ci riusciremo.» «Ti prego di non arrabbiarti. Non ha niente a che fare con te.» «D'accordo,» disse il pilota, rilassandosi. Sasha si alzò e girò attorno al fuoco per abbracciare Maria. Anche il pilota si alzò e gli strinse la mano, poi si abbracciarono brevemente. «Partirete domattina?» «Sì.» «Bene. Anche noi siamo diretti sugli Urali, ma procederemo più lentamente. Abbiamo alcune cose da fare lungo il cammino. Forse ci rivedremo. Due persone sole viaggiano più in fretta. Spero che troviate ciò che cercate.» Il pilota ci guardò tutti, commosso. «Siete... gente in gamba,» disse. Si allontanò col suo zaino pieno di armi, e Maria lo seguì. Partirono alle prime luci dell'alba, e noi li accompagnammo con lo sguardo. Mi girai verso Reesa, in piedi accanto a me, e le sorrisi appena. «Forse dovremmo fare lo stesso. Potremmo nasconderci anche noi sulle montagne, e diventare come Adamo ed Eva.» I suoi occhi si riempirono di lacrime, e si sciolse dal mio abbraccio. Quando la raggiunsi stava piangendo, e me la strinsi vicino. Pianse a lungo, e infine mi disse che era incinta di mio figlio, e aggiunse: «Non dirmi mai più quelle cose.» 7
Il giorno successivo alla partenza di Maria e del pilota discutemmo a lungo. Si risolse alla svelta, ma ci ricordò che il mondo non era rose e fiori e spensierato. Mi ero quasi abituato a vedere scheletri di animali e di uccelli, perfino dei minuscoli insetti che infestavano la terra dove prima brulicavano vere formiche e scarafaggi. Ma la vista di scheletri umani, dopo settimane trascorse in loro assenza, mi dimostrò che ero ancora lontano dall'abituarmi a quel nuovo mondo. Caspian e Tibor erano in avanscoperta; quando Caspian tornò indietro di corsa, Sasha fece fermare immediatamente il carro. «Sono una banda, mezzo chilometro più avanti.» «Quanti?» chiese Sasha. «Nove, forse dieci. Sembra che non sappiano dove andare nella foresta.» «Renderà le cose più facili. E Tibor?» «È già al suo posto.» «Bene. Arriviamo.» Caspian annuì e scivolò di nuovo tra il fogliame. Sasha si rivolse a me. «Nel carro.» Io lo guardai sorpreso. «Sono perfettamente in grado...» «Fai come dico. Reesa verrà con me. Se dovesse succedere...» «Non lo farò. Vengo con te.» Rifletté per un momento. «D'accordo. Ma fai esattamente quello che ti dico.» Sorrise. «Forse puoi essere invisibile per noi.» Tutti e tre seguimmo le tracce di Caspian e ci inoltrammo nella foresta. Sentimmo la banda di scheletri ancora prima di vederla. Si agitavano e si dimenavano nel sottobosco, imprecando ad alta voce. Sasha sorrise cupamente e sussurrò: «Cittadini.» Poi puntò un dito su verso gli alberi, disegnando un arco col braccio. Sapevo cosa voleva da me. Li tra gli alberi riuscivo a malapena a scorgere Tibor, piazzato vicino a uno spazio aperto che la banda avrebbe presto raggiunto, e Caspian, che ci fece un cenno da un'altra posizione sempre sul perimetro dello spiazzo. Mi arrampicai silenziosamente sull'albero più vicino, e mi spostai verso l'esterno fino a trovarmi sopra il terreno aperto, appollaiato come un uccello. Sotto di me vidi Sasha estrarre il suo lungo coltello, e Reesa, a pochi metri da lui, fare lo stesso. Io aspettavo il segnale di Sasha. Lo diede appena gli scheletri avanzarono tra gli alberi. Ne contai nove,
tutti armati di fucili e molto rumorosi. Quello che li guidava era di grossa stazza, e attorno all'ossatura si vedeva il vago profilo di un rude uomo barbuto con braccia e mani enormi. L'uomo con la barba alzò un braccio, e la banda, ammutolendo, si fermò. Sembrava che annusasse l'aria. Sasha diede il segnale. Io agitai due rami frondosi uno contro l'altro, e lasciai che dal basso mi dessero una rapida occhiata prima di rotolare su un ramo più solido e nascondermi. «Prendetelo!» gridò lo scheletro dall'aspetto da orso. Tre scheletri si diressero al primo albero. Tibor era il più vicino, e ne attaccò due prima che apparisse Caspian ad aiutarlo con il terzo. Gli altri sei reagirono alzando i fucili contro Tibor e Caspian. Io feci altro rumore tra gli alberi, e due fucili si spostarono su di me. Un proiettile mi sibilò accanto mentre mi riabbassavo verso la protezione del mio ramo. Nel frattempo, Sasha e Reesa erano avanzati verso gli scheletri alle loro spalle. Due li presero subito, riducendoli in polvere, e altri due quando si voltarono pronti a combattere. Caspian e Tibor sistemarono gli altri due. Sasha guardò su verso di me e rise. «Adesso puoi scendere!» Caspian e Tibor si chinarono a raccogliere le armi degli scheletri. Mentre stavo scendendo dall'albero vidi un tenue movimento tra il fogliame dietro di me. Gridai un avvertimento proprio mentre risuonava uno sparo. Caspian, che si era appena rialzato, venne colpito e cadde. «Oh, no,» esclamò Sasha. Tibor mi aveva già oltrepassato all'inseguimento quando mi lasciai cadere a terra. Sentii un grido, e dopo pochi minuti Tibor ricomparve. «Ce n'era un undicesimo,» disse rabbiosamente, passandomi davanti con aria truce. «Adesso non ce ne sono più.» Caspian era sdraiato sulla schiena, gemendo, e Reesa gli teneva la testa sollevata; chiuse gli occhi, e strinse i denti, mentre Sasha esaminava la ferita che gli si apriva nel petto. «Voglio che ve ne andiate tutti,» disse Sasha. «Sasha...» cominciò Reesa. I suoi occhi fiammeggiavano oscuri. «Subito.» Noi ci avviammo verso il limitare della foresta. Vidi Sasha chino su Caspian, che gli parlava in un mormorio. Sempre stringendo i denti, Caspian fece un cenno di assenso. D'un tratto il corpo di Caspian si irrigidì, si inarcò all'indietro, e rimase
immobile. Svelto, Sasha si abbassò, posò brevemente la mano sul capo del giovane, e poi, non appena il corpo di Caspian iniziò a dissolversi, rivelando lo scheletro, gli affondò il coltello nella gola. Immediatamente il corpo divenne polvere. Sasha si alzò, borbottò qualcosa a capo chino, e tornò da noi. «Proseguiamo,» disse a labbra strette. Caricammo i fucili sul carro e ripartimmo. 8 Due giorni dopo i Monti Urali sorsero davanti a noi in lontananza. La morte di Caspian aveva gettato una cappa su tutti noi, ma alla vista di quegli alti picchi nebbiosi bianchi e azzurri, la vita ritornò in me e nei miei compagni. Una parola di Sasha riportò il sorriso sulle labbra di Tibor, e illuminò gli occhi di Reesa, che venne da me, e mi mise un braccio attorno alla vita. Mi strinse vicino e indicò un punto davanti a noi, leggermente verso nord, ai piedi di un picco gigantesco. «Casa,» ripeté Sasha. Accelerammo l'andatura. Nonostante ci fosse ancora un giorno di cammino, sembrava che il nostro esiguo gruppo volesse far passare quel giorno molto in fretta. Sasha intonò un canto in una lingua gutturale che non conoscevo, che non era russo. Tibor e Reesa si unirono a lui in coro. Reesa mi guardò con le lacrime agli occhi. «Amerai questo luogo.» Quella notte ci accampammo in un prato inondato dal profumo di fiori in boccio. Sasha e Tibor erano quasi avventatamente a loro agio. Per la prima volta dalla morte di Caspian, Sasha tirò fuori una delle sue scure bottiglie di vino, e ci sedemmo attorno al fuoco a parlare. «Quand'ero ragazza venivo a giocare in questo prato,» disse Reesa, sorridendo. «Ci venivamo tutti,» disse Sasha. Il suo volto esprimeva soddisfazione. «Questo era il posto più bello del mondo. Lo chiamavamo la Valle dei Boccioli. Quando tutti i fiori sbocciavano nel raggio di cinquanta chilometri da qui, il profumo si concentrava in questo luogo. Guardatevi attorno. Qui non ci sono fiori, ma il loro odore è ovunque.» «Era un luogo magico,» disse Tibor. «Lo è ancora!» replicò Sasha. «Forse.» Tibor sospirò. «Ma non è lo stesso.» «Niente è lo stesso,» disse Sasha dolcemente, e passò il vino a Tibor,
che lo terminò. Più tardi, mentre gli altri dormivano, Reesa si distese tra le mie braccia, e guardammo il cielo. Le stelle erano avvolte da una nube delicatamente profumata. Mi sentivo come se stessi vagando nel sogno di un bambino. «Questo è il luogo in cui Tibor sposò la sua promessa,» disse Reesa. «Si chiamava Krista.» La sua voce era triste e sognante. «È morta. Molta della mia gente si è sposata in questo luogo.» Le feci voltare il viso per guardarla negli occhi. «E tu?» «Io aspettavo te,» disse sorridendo, e mi baciò. «Non c'era nessun altro? Nessuno della tua gente?» «No.» «Perché?» Reesa chiuse gli occhi e si appoggiò al mio braccio. Per un attimo credetti che si fosse addormentata. Un sorriso sognante le increspava le labbra. «Perché sapevo che saresti arrivato,» rispose. «Mi sposeresti qui?» «Per stanotte saremo sposati.» Aveva un'aria così triste e felice che la baciai, e posai il palmo della mano sul suo ventre gravido. «Dimmi ciò che sai, Reesa,» le chiesi. «Presto,» disse, «Sasha ti dirà ogni cosa.» «Reesa, qualcuno deve stare di guardia.» «No...» Non mi avrebbe detto altro; si rannicchiò tra le mie braccia e si addormentò. Quella notte sentii dei movimenti nei boschi circostanti, ma per la prima volta dall'inizio del mio viaggio con quella gente, non ebbi paura. E di nuovo sognai lo strano sogno della ragazza dalla carnagione scura nel campo di petali, che socchiudeva le labbra e mi diceva un'unica parola che non potevo udire. 9 Raggiungemmo il villaggio di Sasha al calare della notte il giorno seguente. Si vedevano delle luci, ma nessuno venne ad accoglierci. In periferia, su una collina, c'era un camposanto. Lo fiancheggiammo, e i miei compagni non vollero guardare, ma passando io lo osservai, alla luce del
sole al tramonto. Notai che tutte le tombe aperte erano state riempite di nuovo, ed erano sormontate da tumuli di terra fresca. Entrammo in un villaggio deserto, ma quando raggiungemmo la piazza non era più vuoto. Dalle colline circostanti, e giù dal pendio dell'incombente montagna a est, gli abitanti sciamarono verso il villaggio. Sebbene mi sembrassero una folla, contai solo venti teste, metà delle quali appartenevano a bambini. La vista dei bambini che correvano e ridevano mi riempì di una felicità che pensavo scomparsa. «Sembri contento,» disse Sasha. Risi. «Credo che potrei restare qui per sempre.» Fece un cenno affermativo col capo. «Se solo potessi.» Un vecchio con il costume del villaggio si avvicinò a noi, fumando una pipa. Sasha gli mostrò subito deferenza. «Maestro Yuri,» disse, inchinandosi. Il vecchio agitò la pipa. «Non ce n'è più bisogno,» disse, e rivolse a me la sua attenzione. Improvvisamente, e sorprendendomi, si inchinò. «Sono io che dovrei inchinarmi,» dissi. «Sciocchezze,» disse. Poi a Sasha: «Parleremo più tardi.» «Siamo al sicuro per stanotte?» chiese Sasha. «Per stanotte,» rispose il vecchio. «I nostri esploratori ci danno tre giorni.» Si inchinò di nuovo a me e ci lasciò. «Cosa intendeva dire?» chiesi a Sasha. «Entro una settimana,» disse Sasha, facendo col braccio un gesto che includeva sia i bambini che il villaggio, «tutto questo non ci sarà più.» Volevo chiedere altro, ma mi fece tacere mettendomi la mano sul braccio. «Ti prego,» disse, «almeno per il bene del mio popolo, divertiti stanotte.» «D'accordo,» dissi, sentendo che le mie domande, come sempre con Sasha, erano state eluse. «D'accordo.» Al tramonto cominciò una festa. Dapprima i bambini danzarono attorno al fuoco acceso in mezzo alla piazza. Nel loro cerchio c'erano molti posti vuoti, ma essi cercarono non solo di essere felici, ma di far pensare agli spettatori che quei posti vuoti fossero occupati da decine di giovani ballerini. Mi venne riservato un posto d'onore, con Reesa al mio fianco. Eccezionalmente ci fu un vero e proprio banchetto, a base di carne affumicata, e con molto vino. I festeggiamenti, connotati dall'atmosfera surreale di un at-
to conclusivo, continuarono per quasi tutta la notte, e ci furono dei canti, nella lingua sconosciuta che Sasha aveva usato giorni prima. Sentivo dentro di me un crescente disagio per via di quella disperata felicità tutt'attorno, e alla fine dovetti scusarmi. Reesa mi seguì fino a metà del pendio di una collina poco distante, e lì ci sedemmo. La notte si era annuvolata, privandoci delle stelle. Rimasi ad osservare il fuoco fumoso morente sotto di noi, e ascoltai i tristi canti sconosciuti. «Sta per accadere qualcosa di terribile, vero?» dissi. «C'è un esercito di scheletri molto vicino. Questa gente è sopravvissuta i primi giorni, Peter,» disse Reesa. «Eravamo quasi in mille in questo villaggio. Ci sono altri villaggi ai piedi degli Urali, e sono tutti distrutti.» Ascoltò per un poco il triste canto che si levava fino a noi. «Sanno che stanno per morire,» disse. «Si rifiutano di diventare come gli scheletri, e così domani, dopo che saremo partiti, si uccideranno due volte. La polvere verrà poi seppellita, per riposare in eterno.» La guardai, e vidi le lacrime che le rigavano il volto nella fioca luce del fuoco lontano. «Io mi ucciderò con loro, Peter, e così farà Tibor. Solo Sasha continuerà con te, dopo aver due volte ucciso e sepolto l'ultimo di noi.» La voce di Sasha ci raggiunse. «E io ti supplicherò, Peter Sun, di uccidermi di nuovo, quando morirò alla fine del nostro viaggio.» Spostai lo sguardo da Sasha a Reesa, e lo fissai in quegli occhi duri e intelligenti. «Voi non potete sapere...» «Queste cose accadranno, Peter Sun,» mi disse Sasha. «O meglio, come noi ti conosciamo, Kral Kishkin. Da centinaia di anni sappiamo che sarebbero accadute. Vieni con me.» Sasha ci superò, e proseguì su per la collina. «Vai,» disse Reesa dolcemente. «Ti aspetterò qui.» Io la guardai negli occhi colmi di lacrime. «Reesa, non te lo lascerò fare. Il nostro bambino...» «È destino che accadano queste cose. Vai con Sasha.» «Reesa...» «Vai.» Mi alzai e risalii la collina. Quando raggiunsi Sasha, mi voltai a guardare Reesa, che aveva chinato il capo e stava piangendo. «Siediti accanto a me,» disse Sasha. «Non puoi lasciare che muoia in questo modo,» dissi con rabbia, abbassando lo sguardo su di lui. «Se questi pazzi vogliono uccidersi, che lo
facciano, ma lei deve venire con noi.» «Siediti,» disse Sasha con indulgenza. «No,» dissi. «Non permetterò che accada. Potete vivere con le vostre superstizioni e le vostre leggende se volete, ma Reesa no.» Mi ritrassi da lui e tirai fuori il coltello. «Sono disposto a lottare contro di te, Sasha. Sono disposto a morire qui, se è questo che deve accadere.» Si alzò e tese la mano. Io feci un passo indietro e agitai il coltello contro di lui. «Dico davvero, Sasha.» La tristezza che vedevo nei suoi occhi era opprimente. «Ascoltami, Peter. Reesa partirà con te domani. Solo che ancora non può saperlo.» Si sedette di nuovo, e batté la mano sull'erba accanto a sé. «Ti prego, siediti.» Senza rinfoderare il coltello mi sedetti, ma non troppo vicino. «Parla.» Un sorriso gli sorse alle labbra. «Non hai ancora appreso tutto sull'invisibilità, Peter. Non è vero, Tibor?» Mi girai di scatto e vidi Tibor proprio alle mie spalle, pronto, al comando, a disarmarmi e a bloccarmi. «Salve,» disse Tibor. Si fece avanti e tese a Sasha una bottiglia di vino. «Va tutto bene là in basso?» chiese Sasha. «Sì,» rispose Tibor. «Abbiamo avuto notizia da due esploratori all'avanguardia che domani sarà il nostro ultimo giorno di libertà. Tutti gli altri stanno ricevendo ordine di rientrare.» «Capisco,» disse Sasha. Tibor se ne andò, e passando mi batté una mano sulla spalla. «Siediti vicino a me,» disse Sasha, tendendomi la bottiglia. Misi via il coltello e mi spostai accanto a lui. Le nubi sopra di noi si erano diradate, scoprendo uno scintillare di stelle. Sasha le guardò per un momento. «Sono vecchie amiche,» disse. Mentre lo fissavo, lasciò vagare lo sguardo fino al camposanto, alla nostra sinistra, illuminato dalla luce delle stelle. Vidi che erano state scavate molte fosse nuove, e che Tibor era salito sulla collina con una vanga per ultimare il lavoro. Sasha si fece passare il vino e bevve a lungo. «Se vuoi puoi considerarla una storia per bambini, Peter Sun. Ogni popolo ha la sua versione. La nostra è stata tramandata oralmente per migliaia di anni, in una lingua che non si parla più. L'hai sentita cantata nei nostri canti.» «Chi è il tuo popolo?» chiesi. Sorrise. «Non lo sappiamo nemmeno noi. Qualcuno ci ha chiamato la
Tribù Perduta. Un tempo ci chiamavano Zingari, ma non lo siamo. Gli Zingari sono nostri cugini, credo, ma tanto tempo fa abbiamo abbandonato la strada e costruito dei villaggi. Durante le varie epurazioni avvenute nel corso dei secoli, è stato comodo chiamarci Zingari. Ne sono stati cacciati e uccisi abbastanza della nostra tribù, dovevano darci un nome.» «E quella lingua, cos'è?» «Non so dirti nemmeno questo, Peter. Ma c'è, e ci è utile. Ci dice che in fondo al nostro cuore, dopotutto, non siamo Russi. E ci ha reso più facile uccidere i Russi quando i Russi hanno cercato di uccidere noi, praticamente sempre.» Bevve ancora del vino e mi passò la bottiglia. «E così questa è la mia storia per bambini. È una storia semplice, sul principio del mondo, e sulla fine del mondo, e il nuovo principio.» Attese che bevessi e cominciò. «Si dice che dopo aver creato il mondo, Dio lo tenne in mano, e lo guardò, e tutto ciò che vide erano rocce, e acqua, e ghiaccio. Era un bel posto, ma non ne era ancora soddisfatto, e allora lo fece passare attraverso una nuvola di profumo. E quando lo fece, accadde qualcosa di meraviglioso. Il mondo divenne vivo. «Si dice che il primo uomo e la prima donna sui quali Dio posò gli occhi appartenevano al nostro popolo. Parlò loro nella nostra lingua e li benedisse, e disse loro di prendersi cura del mondo. Poi disse loro che aveva altri mondi da creare, e doveva andarsene, ma che se mai il mondo avesse avuto bisogno di lui, avrebbero dovuto chiamarlo immediatamente perché venisse a salvarli, e ciò avrebbe dimostrato che credevano in Lui. Poi mise il mondo a roteare nello spazio.» Sasha prese la bottiglia e bevve. «Così Dio se ne andò, e si dimenticò del mondo, e si dimenticò della nuvola di profumo. E il mondo roteò nello spazio, finché un giorno passò di nuovo attraverso la nuvola di profumo. Soltanto che stavolta il mondo divenne troppo vivo. Quello che era morto tornò alla vita, rendendo il mondo affollato e privo di equilibrio. «Il nostro popolo non chiamò subito Dio, e quando finalmente lo fece, e Dio vide quello che era successo, era quasi troppo tardi, e Dio era arrabbiato. E così Lui promise di salvare il mondo, ma a un prezzo terribile.» Di nuovo Sasha bevve del vino, una profonda golata, e mi guardò. «"Verrà un uomo," disse Dio, "dall'Est e dall'Ovest, e per voi avrà nome Kral Kishkin, ma non sarà uno di voi. E sebbene l'unica figlia del vostro
padre più forte starà con lui, e farà germogliare il suo seme, quello non sarà il nuovo fiore del mondo. Ma da Kral Kishkin verrà il nuovo seme del mondo." Promise che se avessimo fatto queste cose, di nuovo ci avrebbe donato il suo favore, ma nel mondo a venire.» Sasha non aveva smesso di guardarmi. «Ecco. Una bella fiaba, vero?» Presi il vino dalle sue mani e bevvi. «È tutto quello che è, una bella fiaba.» Si strinse nelle spalle. «Può darsi. Nei libri c'era molto di più, su quando sarebbe accaduto, come proteggere Kral Kishkin fosse nostro sacro dovere, e tutto quanto. Devo riconoscere che io stesso non ci ho creduto fino a quando non è successo veramente. La nostra tribù era diventata quasi parte del mondo. Il mio terzogenito, Igor, è andato persino a scuola a Leningrado, per diventare uno scienziato.» Gli occhi gli si incupirono. «Sono certo che sia morto, adesso. Sapevamo che questo stava arrivando, Peter Sun, e non abbiamo fatto nulla finché non è stato troppo tardi. La profezia si è avverata. E Reesa, che è l'unica figlia del nostro Re morto, ti ha atteso per tutta la vita.» Si sporse verso di me, nell'oscurità quasi totale, e mi fissò con quei suoi occhi duri. «Ma per quanto riguarda il modo in cui il mio popolo intende comportarsi quando arriverà l'esercito degli scheletri, tu non puoi farci niente. Io chiedo solo che quando sarà il momento, quando mi vedrai e capirai che costituisco una minaccia, tu ti impegni ad uccidermi.» Io non risposi. Sasha mi mise la mano sul braccio e strinse. «Questo è il modo in cui andrà, Kral Kishkin. È l'unico modo in cui posso adempiere al mio sacro dovere, ed essere certo che Reesa, e il vostro bambino, abbiano una possibilità con te. Ma perché sia così, devi darmi la tua parola.» Io lo fissai, senza parole. «Domani, prima che arrivino i primi soldati dell'esercito, io ucciderò due volte i membri della mia tribù. Poi ucciderò me stesso. Reesa verrà con te, su tra le montagne, per adempiere al dovere della tua protezione. Quando glielo dirò, non potrà rifiutare. Sa di essere in grado di farlo quanto me, anzi, di più, perché ti ama.» Mi strinse ancora più forte, e sentii il tremore della sua mano. «E c'è una possibilità che la mia tribù sopravviva, Peter Sun. In un modo o nell'altro, in questo mondo o nel prossimo. Se la mando con te, noi avremo una possibilità in questo mondo.» La sua stretta si allentò. «Ma perché tu possa salvare Reesa e il bambino,
devi giurare di uccidermi. Perché dopo che mi sarò ucciso, sarò uno di loro, e sicuramente vi darò la caccia. Capisci?» Io lo guardai. «Sì, capisco.» «Lo giuri?» I miei occhi erano fermi, fissi nei suoi. «Sì.» «Bene!» Improvvisamente scoppiò a ridere, e alzò la bottiglia. Ne bevve un poco, e ne fece bere un poco anche a me. Poi restammo seduti assieme nella notte, e guardammo giù per la collina, il fuoco morente nella piazza del villaggio, e ascoltammo cantare i bambini. 10 L'esercito di scheletri era più vicino del previsto. A quanto pareva avevano marciato tutta la notte ed erano giunti in vista, nella vallata adiacente, il mattino seguente. Si sentiva il rombo delle macchine, che mi ricordava l'avanzare delle locuste, lo stesso tremore del suolo, l'elettricità nervosa nell'aria. Il villaggio di Sasha era in preda alla confusione per i preparativi, ma la loro principale preoccupazione eravamo Reesa ed io. Ci diedero il cavallo migliore per il carro, che venne caricato con quanto cibo, provviste, e armi poteva portare. Sasha mi premette nella mano il suo lungo coltello. «Quando sarà il momento,» disse, «usa questo. Me lo diede mio padre, e suo padre lo diede a lui. Mi piacerebbe sapere che continuerà ad essere utile. L'ho offerto a Tibor, ma è anche il suo desiderio che l'abbia tu. Vorrebbe pensare a te come a suo fratello, e io vorrei pensare a te come a mio figlio.» «Grazie, Sasha.» Quando giunse il momento della partenza, una strana quiete discese sul villaggio. Sentii il peso delle loro speranze gravare sulle nostre spalle. Erano in ventidue, in un villaggio che un tempo era popolato da centinaia di persone. Restarono a guardare il nostro carro che si allontanava con una speranza così palpabile da essere quasi una sensazione fisica. Avevamo percorso solo pochi metri quando Reesa mi fece fermare il carro e saltò a terra per correre indietro da Sasha. «Non c'è un altro modo?» gridò. «Non possiamo fuggire tutti sulle montagne, e nasconderci nelle foreste? Mio padre non avrebbe forse voluto che lottassimo?»
Sasha la strinse a sé finché il suo pianto non si fu calmato, poi la fece allontanare con gentilezza. «Stiamo lottando, Reesa. Vai.» Corse verso di me, piangendo, e risalì sul carro. Io incitai il cavallo a partire, e il carro si mosse, e Reesa non si guardò più indietro. Salimmo costantemente per quattro ore sulla montagna che chiamavano Uz-Cur. I Russi la chiamavano Konzhakovski Kamen, ed era una vetta coperta da una foresta lussureggiante incappucciata di neve. Vedemmo alcuni scheletri di uccelli, e un solitario scheletro di falco che volava in circolo sopra la nostra testa senza mai scendere in picchiata. Il cielo divenne azzurro intenso. Ci fermammo a riposare su un promontorio che Reesa sembrava conoscere molto bene. Offriva una splendida vista delle vallate che si stendevano sotto di noi, e anche del suo villaggio. Riuscivamo a distinguere i minuscoli tetti delle capanne, e l'area sgombra della piazza. Reesa si sedette accanto a me. Nonostante la giornata fosse calda, si strinse addosso uno scialle e rabbrividì, guardando cupamente il villaggio ai suoi piedi. «Sarà tutto finito, ormai,» disse. «Guarda!» esclamai. Laggiù, verso nord, c'era una coltre di fumo, e sentimmo un'esplosione sorda. Il villaggio scoppiò in un'eruzione di fiamme. Ci fu un'altra esplosione, e un'altra ancora. Guardai più attentamente e vidi uno dei razzi, un minuscolo missile da quell'altezza, che veniva lanciato, compiva un arco sopra agli alberi e atterrava quasi esattamente nel centro del villaggio. Sforzai maggiormente gli occhi e vidi, dove era partito il missile, una fila di armamenti. La valle adiacente al villaggio era un brulichio di piccoli esseri bianchi, autocarri, e carri armati. La strada, una linea sottile a tratti visibile tra gli alberi, era ingombra di mezzi corazzati. Lasciai che la strada guidasse i miei occhi verso nord, e vidi i resti anneriti di altri due villaggi, entrambi più piccoli di quello di Reesa; anche gli alberi tutt'attorno erano stati bruciati. Gli stessi villaggi non erano altro che crateri scavati ai piedi delle montagne. Un altro missile andò a segno nel villaggio, e stavolta il fuoco divampò e si diffuse. Sentimmo il fioco suono cavo dei cannoni. «Proseguiamo,» disse Reesa distogliendo lo sguardo. La strada ci racchiuse in un altopiano, lontano dalle vallate, e presto Reesa tornò ad essere se stessa. Mi raccontò della sua infanzia, dei luoghi dove aveva giocato lassù, e anche più in alto sulla montagna, dove lei e suo
padre avevano un tempo addestrato un falco. La vista dello scheletro di un'aquila che volava in cerchio calò su di lei un velo di tristezza. «Sembra passato così tanto tempo,» disse. Più tardi quello stesso giorno Reesa cominciò a soffrire di nausea, e io spinsi il carro in un folto di alberi, mentre lei si allontanava a vomitare tra i cespugli. Quando la raggiunsi, preoccupato, mi spinse via, e poiché insistevo a stare con lei, mi rimproverò. «Sciocco che sei! È solo il bambino!» «Io... mi dispiace,» balbettai. Vomitò ancora, poi uscì barcollando di tra i cespugli e venne a posare la testa sul mio petto. «Non devi mai essere dispiaciuto,» disse. «Io...» «Mai,» ripeté. Salimmo sul carro, e di nuovo posò la testa contro di me e chiuse gli occhi. Io guardai il sole e vidi che era rimasta all'incirca un'ora di luce. «Forse dovremmo fermarci qui, stanotte.» «Dovremmo proseguire,» disse Reesa, ma dopo un momento si era addormentata addosso a me, e la mia decisione era presa. La adagiai nel carro, la coprii, e mi accampai. Ci trovavamo in una posizione più esposta di quanto avrei voluto, ma dopo aver controllato la boscaglia su tre lati e aver disposto delle trappole, ero certo di poter sorvegliare l'unico spazio aperto che avevo di fronte. Il sole tramontò, e sorse la luna, splendente e quasi piena. Sentii stridere i grilli, e mi domandai se fossero insetti veri, oppure quelli bianchi, cinerei, del nuovo mondo. Fui tradito dai miei occhi. Un momento prima ero sdraiato a guardare la luna nascente; un momento dopo avevo le orecchie piene del rumore di una delle mie trappole che scattava dietro di me. Mi svegliai di scatto, e vidi la luna ormai alta nel cielo. Avevo dormito per ore. Non avevo idea di quale trappola fosse scattata. Studiai i tre lati alle mie spalle con gli occhi e le orecchie, ma non sentii, né vidi, nulla. Mi alzai, implorando me stesso di fare silenzio, e controllai il carro. Reesa dormiva, e il suo respiro era leggero e regolare. Tornai nello spiazzo, e mi acquattai servendomi dei cespugli come copertura. Mi mimetizzai fra di essi e attesi. Non ci fu alcun rumore, finché sentii una voce dietro di me. «Ancora non conosci la vera invisibilità, eh, Kral Kishkin?» Mi girai di scatto e vidi Sasha, o piuttosto il suo scheletro, sfacciata-
mente bianco alla luce lunare. «Dove sei...» «Sono andato a fare una passeggiata nei boschi,» disse Sasha, e rise. Se avessi chiuso gli occhi, mi sarebbe parso lo stesso uomo al quale avevo parlato quel mattino. Ma adesso aveva in mano un'arma a lama corta, e la teneva minacciosamente davanti a sé. «Vorrei riavere il mio coltello lungo,» disse, e rise di nuovo. «Dalla parte del manico, per favore.» Tolsi il coltello dalla cintura e gli mostrai la parte della lama. «Ho paura di non potere, Sasha, ho fatto un giuramento.» Fece l'innocente. «A chi?» «A te, naturalmente.» «Non parlavo sul serio, Kral Kishkin.» Avanzò di un passo verso di me. Io non mi mossi, e restai in posizione di attacco. D'un tratto si voltò e iniziò a camminare verso gli alberi. «Vieni con me,» disse, con un'ombra della sua antica tristezza. Io rimasi dov'ero, e allora si fermò e si girò. «Seguimi fino a un luogo speciale,» disse. «Possiamo sistemare la nostra questione lontano dagli occhi di Reesa. Concedimi quest'ultimo desiderio.» Si inoltrò tra gli alberi, con le sue ossa soffuse di luce lunare. Lo seguii, cautamente. C'era un sentiero. Teso, con la lama puntata davanti a me, tallonai Sasha per forse venti metri, tenendolo sempre sott'occhio. Gli alberi si aprirono su un terreno coperto da un soffice tappeto di aghi di pino. La luce brillava su di noi come una lanterna, e l'aria era densa del vago profumo dei fiori, lo stesso che avevo sentito quella sera nella Valle dei Boccioli. «Questo luogo era sacro,» disse Sasha. «Venivamo qui a pregare Dio.» Fece un cenno con la mano, e gli scheletri apparvero tutt'attorno a me, uscendo dalla boscaglia. «Prendetelo,» disse Sasha freddamente. Ero circondato. Accoltellai i primi due che mi vennero vicino, e li vidi crollare in polvere, sostituiti subito da altri quattro. Mi afferrarono alle spalle. Affondai la lama all'indietro, e presi quello che mi aveva aggredito, ma altri due mi tennero le braccia e mi bloccarono, mentre il terzo si impadroniva delle mie gambe. Sentii che il coltello di Sasha mi veniva tolto di mano con un colpo e cadeva a terra. I tre scheletri mi costrinsero in posizione prona. Sasha si avvicinò, si chinò e raccolse il suo coltello. Lo esaminò, e alla luce della luna vidi il fantasma delle sue antiche fattezze av-
volgergli le ossa. «È stato sciocco da parte mia,» disse, «avertelo dato. E sciocco da parte mia credere che non avrei pensato in modo diverso dopo essermi fatto questo.» Piegò la testa all'indietro e mi mostrò lo squarcio sul collo spettrale, nel punto in cui si era tagliato la gola. «Posso solo rammaricarmi che al resto della mia tribù non sia stato concesso di vedere il mondo come io lo vedo ora.» «Cosa vedi, Sasha?» Le orbite oculari si volsero su di me. «Questo,» disse facendosi scorrere le mani lungo lo scheletro, «è ciò che Dio voleva. Questo è il mondo, adesso. È sciocco pensare in qualunque altro modo.» «Hai dimenticato di essere stato umano, Sasha?» «Io sono umano!» disse. «Io sono io. Sei soltanto tu che adesso non mi sembri normale, Kral Kishkin. Sei tu che non appartieni a questo mondo. Diglielo,» disse a uno degli scheletri che mi tenevano le braccia. «Salve, Peter Sun.» Riconobbi la voce del pilota del MIG che Sasha e gli altri avevano curato dopo il disastro aereo, l'uomo che era partito con Maria per vivere lontano da ogni cosa. Lo scheletro girò la faccia verso di me e vidi il profilo dei lineamenti del pilota. «È vero,» disse la voce di Maria. Guardai in giù e vidi che lo scheletro che mi teneva per le gambe, in effetti, era Maria. Sasha disse: «Io, e i quattro soldati che l'esercito è stato tanto gentile da concedermi, abbiamo trovato il loro nascondiglio, non lontano da qui. Sapevo che Maria sarebbe andata lì. Una piccola capanna accogliente, certo, ma non ne hanno più bisogno.» «No, è vero,» confermò Maria. «Tenetelo fermo,» disse Sasha. Poi si rivolse a me. «Ben presto vedrai ogni cosa in modo diverso, Kral Kishkin.» Tenne la lama di fronte a me, e si preparò a vibrare il colpo. Risuonò uno sparo. Il pilota del MIG boccheggiò, mi lasciò andare, e cadde in polvere. Io evitai con un balzo la punta del coltello di Sasha. Un secondo sparo esplose nella notte, e Maria divenne polvere. Il terzo scheletro che mi teneva tentò di colpirmi, ma mi girai e lo misi fuori combattimento, mentre risuonava un altro sparo, e subito un altro. Anche quello si dissolse nel nulla. Sasha si precipitò su di me. Io mi abbassai, e schivai il suo colpo, e lui cadde, ma si rialzò subito. Un colpo di fucile lo mancò, e Sasha ritornò alla carica, quasi ferendomi
al braccio, poi d'improvviso si girò e corse nella foresta. Reesa apparve fuori dagli alberi e mi passò accanto correndo. «Reesa!» gridai. «Io lo prenderò,» disse con voce dura. Sia Sasha che Reesa conoscevano quella foresta meglio di me. Li sentii correre sulle sterpaglie davanti a me, e cercai di stargli dietro. Più avanti vidi un bianco balenare di ossa, e sentii risuonare uno sparo. La corsa nella foresta proseguì. Udii Sasha imprecare, e un momento dopo sbucai in un'altra radura. Sasha aveva perduto il coltello e fronteggiava Reesa, che teneva il fucile alto e puntato su di lui. Sasha avanzò verso di lei lentamente, a mani aperte. La sua voce era suadente. «Reesa, sono io...» Reesa sparò, e Sasha restò un istante immobile, poi si disintegrò in una nuvola di polvere, cadendo nel nulla. Quando Reesa si voltò verso di me, mi aspettavo lacrime, mi aspettavo che lasciasse cadere il fucile e si abbandonasse tra le mie braccia piangendo. Invece passò oltre, e il suo viso era duro e fermo. «Potrebbero essercene altri. Meglio controllare.» Perlustrammo la zona boscosa attorno al nostro accampamento, ma non c'era nessun altro. La notte, quando già l'alba occhieggiava a est, Reesa giacque contro di me, tesa e irritata. «Reesa, perché sei arrabbiata?» le chiesi. «Avrei dovuto sorvegliarti. Non avrei dovuto dormire.» «Reesa...» «No.» Si girò verso di me, e sfogò la sua rabbia. «Io ho un sacro dovere da compiere, e mi sono lasciata soggiogare dalla stupidità.» «Dall'amore.» Chiuse le mani a pugno, e per un istante pensai che mi avrebbe colpito. «Sì, amore. Questa è la stupidità. Mi sono lasciata andare a credere che potesse durare.» Me la strinsi vicino. «Certo che può durare. Ci prenderemo cura l'uno dell'altra.» «No.» Si allontanò da me. «Non capisci? Io sono qui per badare a te, e poi non ci sarò più.» «Ma Sasha ha detto...» «Sasha l'ha solo rimandato! Non ti ha detto tutto?» «Ha detto che io e te in questo modo avremmo avuto una possibilità...» «Non ti ha detto niente. Il testo della profezia dice che la figlia del-
l'altissimo concepirà il figlio di Kral Kishkin, ma che Kral Kishkin ripopolerà il mondo con la figlia di un'altra tribù.» Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Tu avrai un'altra moglie, Peter Sun, e avrai altri figli. Ma io e tutta la mia tribù ci estingueremo.» «Non ci credo. Non permetterò che accada.» «Accadrà.» Io la tenni accanto a me, e lasciai che piangesse finché fu sopraffatta dal sonno. Le misi la mano sul ventre, immaginando di poter sentire quel bambino, il mio bambino, che si muoveva dentro di lei. Amavo Reesa più della vita stessa, più di tutto il mondo e di tutti gli esseri umani che ci vivevano. Quando sorse il sole, ricoprendo l'est di splendida luce, giurai davanti ad esso che non avrei lasciato che le parole di Reesa si avverassero. «Giuro, sulla terra e su tutte le creature viventi,» dissi. Accanto a me, Reesa si agitò nel sonno, si voltò per rannicchiarsi più vicino, e sussurrò in sogno: «Estinti.» Guardai l'alba del nuovo giorno, e il mondo che riprendeva vita sotto le nostre montagne, e alzai lo sguardo alla dura e inflessibile vetta che dovevamo scalare, e pregai. CAPITOLO OTTAVO DALLA VITA INCREDIBILMENTE SUPERFICIALE DI ROGER GARBAGE 1 Che sballo! Hollywood! Come fa ancora quella canzone dei Vomits? È così puttana, Ricca e pacchiana (HOLLYwood, HOLLYwood) Insopportabile, Come una vecchia scoppiata (È HOLLY wood, HOLLY wood) (Coro) Ma di notte, io l'amo Neanche a dirlo, Farei l'amore con lei...
Se potessi metterle un sacco Sulla testa! Yeah! Poi entra la chitarra di Brutus Johnson - brrrrrrrng, brrrrrrrng - e tutti impazziscono, e il vecchio Squalo, il vecchio Roger, eccomi qui, organizzatore, impresario, e manager della strada, si prende l'assegno e se ne va a casa. Come mi piace, baby! Dio, spero proprio che quei bastardi siano morti. E Carl Peters, e tutti gli altri, perché, baby, questa è tutta un'altra storia! Ah, i Cadaveri Eccellenti ne sanno qualcosa, non trovate? Vorrei davvero che Rita, la segretaria di Carl, fosse in giro adesso. Sto avendo la nausea di vedere teste d'osso fuori dai vetri schermati di questa Lincoln Town Car. Ci starebbe proprio bene in questa Lincoln, la vecchia Rita ci saprebbe fare. Potrebbe tagliare la coca, e lei sa come usare la cerniera di questi calzoni di pelle. Lo sappiamo già tutti e due, sì, lo sappiamo bene. Yeah! Ma Cristo, come qualsiasi film quando dura troppo, la faccenda sta diventando noiosa. Voglio dire, dove c'è un po' di vita stanotte? Ho visto solo quegli obbrobri ambulanti che se ne andavano in giro a sparare in aria. Ho preso la strada vecchia che fa il giro delle colline, e posso farla tranquillamente a memoria, con gli occhi chiusi. Ti ricordi i bei tempi, Rog? Alla guida di quel dannato autobus turistico, con i capelli tagliati come un Moschettiere, sempre sorridente, e quel microfono in mano che usavi per dire a quei matusa dove eravamo: «E adesso quella, signore e signori, è la casa di Bob Hope! E proprio in fondo alla strada...» Quando ciò che volevo veramente era gridare loro di andarsene a casa a crepare sui loro Megadivani, sbuffando il loro ultimo respiro da pane raffermo davanti a Bob Barker alla tivù. O almeno volevo raccontargliela giusta: «Signore e signori - vecchie scoregge, se posso permettermi - vedete quella schifezza da venti locali là dietro l'inferriata? Beh, ha tanti allarmi da svegliare Ciccio Arbuckle dai morti, e comunque il vecchio Johnny non c'è quasi mai! E se mai riusciste ad arrivare così vicino da suonare il campanello, è probabile che un ex lottatore da trecentocinquanta libbre smetta di palpare la cameriera, compaia dietro di voi, e vi stacchi la testa dalle spalle, mandandola a finire tra le vostre mani tese prima che abbiate toccato il campanello con un dito! Ve-
dete quella telecamera lassù? E quell'altra, là, e quell'altra ancora? Beh, potete salutare adesso, perché una di quelle vi sta riprendendo il grugno proprio mentre passate! Voglio dire, questi bastardi hanno degli investigatori per sorvegliare i loro investigatori!» Ah, sì, i bei vecchi tempi. E a proposito di Ciccio Arbuckle, giuro di aver visto quella grassa scoreggia proprio questa sera, e stava passeggiando lungo il Boulevard. Dovevano essere proprio le sue grosse ossa, e ho fatto appena in tempo a distinguere i lineamenti. Sembrava che ce ne fossero un sacco, di quelli dei vecchi tempi, dei tempi morti, se volete, in giro per una passeggiata sul viale del ricordo, e se non fossi stato così fatto di coca, mi sarei potuto spaventare vedendo Stanlio e Ollio e Buster Keaton - che aveva davvero una brutta cera come scheletro, persino peggiore che da vivo, credetemi, qualche volta ho visto quel povero vecchio bastardo che ciondolava in attesa che una parte gli cadesse sulla testa - e Mary Pickford, che camminavano in silenzio su e giù lungo il Boulevard, davanti a Grauman, adocchiando tutti i cambiamenti, forse anche piangendo lacrime d'osso. Era come un orrendo film muto. Ho addirittura rallentato per guardare due morti dei vecchi tempi - credo che fossero John Wayne e Henry Fonda, ma tanto non si piacevano molto nemmeno in vita - fare a cazzotti in mezzo alla strada, e Wayne martellare di pugni la testa di Fonda finché il vecchio soldato a cavallo si è ridotto a una manciata di polvere che è volata via. Il Duca se né andato tranquillamente a zonzo per strada, e credetemi, la gente gli ha fatto largo. Io quasi l'ho investito - diamine, lui non mi è mai piaciuto troppo quand'era davvero vivo, una volta mi ha spinto da parte per arrivare al bar a uno di quei cocktail che la Boil Oil, società madre della Roundabout, dava in continuazione, invitando chiunque non fosse vincolato, o legato, alle varie divisioni per lo spettacolo: Palmer Pictures, Vortex Video, la stessa Roundabout - ma ho lasciato stare il vecchio cowboy, facendogli una pernacchia da dietro i vetri scuri mentre passavo in auto. Strano, troppo strano. E nessuno che dia una festa! Su per queste colline, e tutte le case sono buie. Che cazzo! Ossi, ossi dappertutto, e nemmeno un goccio da bere! La Stoli sul sedile accanto a me è mezza vuota. Hey, sono persino disposto a dividerla con qualcuno! La casa di Geldorf è buia, la casa di Henley è buia. E poi alla casa successiva - bum! Qual luce rifrange alla remota finestra! E si infrange invero sotto i miei occhi, in un'esplosione di vetri, una
lampada volata fuori sul prato, bum, seguita da tanto di filo. Abbasso il finestrino della frazione di un pollice e ascolto... Ah! Il magico suono! Risate! Infila il vialetto e dentro il cancello aperto, giovanotto. Ma non sono già stato qui prima? Mi sembra vagamente familiare. Viale lungo, un sacco di cespugli - mah! Resto ad aspettare se salta fuori un osso, ma forse non sono ancora saliti così in alto sulle colline. E qui siamo su una collina. Il viale gira e gira, e si attorciglia attorno a quella casa fottutamente magnifica. Pietra, su fino alle cupole. Tetto di tegole rosse, illuminato dagli angoli. Paesaggio by Mario. Piscina, campo da tennis, un enorme edificio che sembra un albergo. Da baciarsi la punta delle dita, un bel lavoro. Esattamente ciò che volevo, e che avrei avuto in un paio d'anni, se non fosse stato per quel fottutissimo Carl Peters e il suo fottutissimo licenziamento. Dovrai aspettare, Carlo. Guarda quel parcheggio! Bello, bellissimo. Adesso so che sono già stato qui. Ma chi ci abita? Me ne sarei ricordato. Stanotte sono fatto, ma allora devo essere stato peggio. Dev'essere stato con Rita, che ci agitavamo sui sedili anteriori. Dei fotogrammi (inclusi quelli di Rita), mi tornano alla mente, una notte lunghissima, quattro o cinque feste, quella era l'ultima tappa, come sto male! Ero rotolato fuori dall'auto sull'asfalto del parcheggio. Il mondo girava. Ricordo che sono rimasto sdraiato lì per un po', a fissare il soffitto, e le luci che illuminavano il soffitto. Chissà se sono entrato? Chi cazzo se ne frega. Ci entro adesso, con in mano la Stoli! Chiudo a chiave? No. Non sono troppo stabile, lasciatemi fermare un momento, che mi appoggio a questo cofano. Io conosco quest'auto. Bobbie Zick, Mento Records. E questa è la sua casa? Come sto male, argh, credo proprio che lo sia. Aargh, davvero. Sono io, che vomito sul cofano della Mercedes del vecchio Bob. Pensate che gli importi? No. Il vecchio Bob ne ha dieci o undici. È pieno di Mercedes. Diamine, questa dev'essere l'auto per le consegne, che fa una corsa per un quarto di latte o un grammo di coca. Cocamobile,
forse. Il vecchio Bob. Entriamo, Zelda? Adesso lo so. È il posto di Fitzgerald. F. Scott. E la moglie pazza. Bob Zick andava in giro a vantarsi di che furto fosse stato, solo novemila, dicevano che era abitata dal fantasma di Zelda, o qualcosa del genere. Vecchio Bobbie, sempre in cerca di affari. E io ho appena sboccato sulla sua auto. Odio quel fottuto, ha troppi soldi. Oh, bene. Forse... Basta con i conati di vomito! Mi asciugo la bocca nella manica, e pulisco la manica sull'auto di Bob. Che rivelazione! Chiederò un lavoro al vecchio Bobbie! Una volta non ha provato a soffiarmi alla Roundabout? Lo so, Rita me l'ha detto, flagrante delicioso. Ha cercato di comprare il mio contratto da Carl, per organizzare un gruppo chiamato... Grapevine! Ecco, sì, Grapevine! Avevano qualcosa di buono, per giunta, avrebbero potuto sfondare con un po' di lavoro. Il finale, con i bianchi che ballavano come negri, Smokey Robinson e lo stile dei Miracles, proprio non funzionava. Avevano un pezzo forte, credo, "Guarire te": Oh, baby, Sei proprio tanto bella (oh, baby) Sei nei miei so-ogni Ogni mo-omento.... Niente male. Ma aveva bisogno di lavoro. Un mucchio di lavoro. Da me! Bobbie caro, arrivo! Gli piace la Stoli, giusto? Quella piace a tutti. So che gli piace la coca. O almeno tre mesi fa gli piaceva. Ma non si sa mai con questi tizi di Hollywood, vedono Gesù durante la notte, e bum, smettono questo, smettono quello. Niente droghe, niente alcool, niente sesso, niente carne. Comunione con i frutti - ve la ricordate? L'energia della piramide. La reincarnazione. Bagni di latte. Salviamo le balene, no al nucleare, potere al popolo, diamo un'occasione alla pace, salta giù da un ponte per i Testimoni di Geova. Ama il tuo vicino, costruisci steccati più alti. Merda, ho odiato gli anni sessanta.
E i settanta. E gli ottanta. Ma amo gli anni novanta! Bobbie, caro! Comunque mi porto la coca. Su, staccati dal cofano. Wow, se gira il mondo. Stai calmo, Rog, aspetta che si metta in moto il meccanismo di focalizzazione. Gesù, se puzzo di vomito. Vediamo di arrivare fino a quel cespuglio in fondo al parcheggio. Quei fiori hanno un buon profumo, forse riescono a togliermi quest'odore dalla manica. Ra-ta-ta... È un mucchietto di polvere quello che vedo? Uh-oh. Ecco che riparte il radar. È tutta la notte che vedo mucchietti come quello. I due volte morti. Balla all'indietro, Rog, uno-due, uno-due... Una mano sulla spalla. «Vedo che stai prendendo seriamente il tuo lavoro con i Vomits, Roger.» Conosco quella voce da finto Inglese! «Bobbie, caro!» dico, voltandomi. E guardo dritto nelle orbite di uno scheletro. «Wow!» grido. Ma il vecchio Bobbie mi ha preso e mi tiene bello stretto. Adesso riesco a vedere la sua faccia intorno al teschio, appena un poco, il ghigno di un fantasma sulle labbra di un fantasma. Poi mi lascia andare, e io cado per terra come un burattino. Aspetto il colpo che mi sfracella il cranio, la pallottola che mi trapassa il cuore, il calcio, il pugno. Voglio dire, questi scheletri odiano istintivamente le nostre viscere, giusto? Ma lui sbadiglia, si volta, e ritorna verso casa. «Hai un po' di coca, Roger?» mi chiede. 2 «Ossa Party!» Adesso lo vedo, il nuovo show TV, al sabato mattina dopo i cartoni animati. Piccolo palco, grande podio con un orologio sullo sfondo, e un paio di femori al posto delle lancette che scandiscono la mezz'ora di divertimento. Il vecchio Dick Clark travestito da scheletro che fa suonare i grandi successi: e tutte le ragazzine teste d'osso che ballano, ballano, ballano! Ne farebbero un settantotto giri! Ha un ritmo che va forte, e
ci posso parlare sopra a raffica! "Ossa Party, USA"! Yeah! E che sia dannato se non è proprio quello che sta succedendo qui. Sono tutti morti, ma nessuno ha lasciato la festa. Se sbattessi i cuscini del divano, la coca ne verrebbe fuori a sbuffi come polvere, ecco quanto si è fatto festa in casa del vecchio Bobbie. E la festa non è ancora finita. Gesù, vedo dei morti che conoscevo. A prima vista è solo un mucchio di agitate teste d'osso che ballano, ma se guardo più da vicino riconosco le facce: Metà dei Rolling Stones, un paio di Eagles, diversi presentatori televisivi. Uno o due mi salutano pure, mentre passo in mezzo a loro. «Ciao, Rog.» «Hey, Garbage, come te la passi?» «Roggie, caro!» Ma non lo sanno che sono morti? Ed ecco che il surrealismo solleva la sua brutta faccia ancora più in alto, e la musica fa una pausa... prima che parta un CD dei Vomits! Wow! Il party continua. Una testa d'osso si gira verso di me e dice: «Vai forte, Roger Dodger!» Il pezzo è "Su di te", lato B del primo successo dei Vomits, che ne comprende ventuno, e la chitarra di Brutus strimpella forte tre volte, come in "Wild Thing", prima che la voce di Randy Pants parta acuta, quasi stridula: Se non vuoi Venire su di me, Allora lasciami Venire su di te... Vero materiale da sonetto Shakespeariano, e rimango lì, un po' stordito da tutta la faccenda. Ma ecco che Bobbie Zick mi sta facendo segno dall'altra parte della stanza, vicino all'impianto dei CD. Mentre cerco di gesticolare per ringraziarlo di aver messo i Vomits apposta per me (anche se vorrei che fossero morti), fa anche lui un gesto per invitarmi a seguirlo, si gira e sale le scale. Io lo seguo come un cagnolino, ovviamente. Voglio dire, se dovevo morire, sarei già morto, giusto? E il radar di Roger, sorprendentemente, è spento.
Su per le scale, Roger Dodger! 3 Bobbie è nel suo ufficio in fondo, con la porta aperta. Passo davanti ad altre porte, tutte camere da letto, tranne un'occasionale stanza da bagno, e sento gemiti e grugniti. Adesso comincio a ricordare la prima volta che sono stato qui. Rita e io abbiamo usato una di queste camere da letto. Cerco di immaginarmi le teste d'osso che scopano, ma proprio non funziona con la fantasia. Voglio dire, sono degli ossi duri, se mi concedete il gioco di parole, ma proprio non ce li vedo. Bobbie è appoggiato all'indietro nella sua poltrona. È l'ufficio che piacerebbe a chiunque avere: stereo e video assembrati dal pavimento al soffitto, poster, una cosa enorme che penzola dietro la scrivania con il logos della Mento Records - un grande mento, che ricorda vagamente quello di una famosa star del rock - dipinto a colori fosforescenti. «Chiudi la porta e siediti,» dice. «Certo, Bobbie!» Veramente quello che voglio fare è chiedergli come fa un ebete di Cleveland, Ohio, ad avere un accento inglese, e perché scrive il suo nome Bo-b-b-i-e. E dato che sono nel giro, so già la risposta: Perché no! «Ciao, Bobbie,» dico, e mi siedo. Metto la cartella sulle ginocchia, e la bottiglia di Stoli sulla sua scrivania. «Eccellente, vecchio mio,» dice, prende la Stoli, svita il tappo, e ne beve un goccio. Nel nulla. La mascella si apre, la bottiglia si appoggia contro le labbra spettrali, ma quando la vodka arriva, semplicemente... scompare. Si accorge che sto con la bocca aperta, e dice: «Ti ci abitui, credimi.» «Già,» dico. «Allora, Roger!» dice mettendo giù la Stoli. Davanti a sé, noto. Noto anche che adesso sta fissando di brutto la mia cartella. «Oh, puoi scommetterci, Bobbie.» Apro la cartella, apro la busta, e ne stendo una pista per lui sul tampone della carta assorbente. Un sacco di spigoli di carte di credito hanno premuto contro quel tampone, vecchio mio. Di nuovo la stessa stranezza: la coca viene sniffata, scompare, e il teschio sorride mentre Bobbie si appoggia allo schienale, tirando su col na-
so. «Ottimo,» dice. Ne preparo un po' anche per me, per educazione, e dico: «Sì, non è male.» «Ho sentito che Carl Peters ti ha scaricato,» dice Bobbie. Ha scelto proprio il momento in cui ho la polverina su per il naso, e per poco non mi snarigio il cervello. Mi appoggio allo schienale, tenendomi il dorso del naso con le mani, cercando di non crepare. «Già, infatti,» squittisco. «È sempre stato uno stupido.» Immediatamente un po' della coca va dove può fare del bene, e mi sento subito molto meglio. «Puoi dirlo forte,» dico. Bobbie fa una pausa, approfitta della bottiglia di Stoli, poi la rimette giù davanti a sé e dice: «Allora, non ti piacerebbe lavorare per me? Ti ricordi la mia offerta?» «Mi ricordo,» dico, tentando di mantenere il sangue freddo. «Grapevine, giusto?» Butta la testa all'indietro e scoppia a ridere. «Quelli? È un pezzo che non ci sono più. Morti, per così dire.» «Oh,» dico io, perché non so cosa diavolo rispondere a una battuta del genere. «Sto parlando di qualcosa di molto meglio. Una cosa che riguarda tutta la West Coast. Ti affido l'organizzazione.» A me? Sta dicendo questo a me? «Devo dire,» continua Bobbie, «che ho pensato a te fin dall'inizio. Ho pensato, se c'è qualcuno che può scampare a questo casino... illeso, è Roger Garbage.» «Hey, grazie, Bobbie,» dico, «credo.» «Quello che mi serve è... un intermediario, se mi segui. Chiamiamolo assicurazione.» «Uh, Bobbie...» Si è fermato a bere ancora un po' di Stoli. A quanto pare i morti possono bere, perché quando quel bastardo ha finito, c'è ancora solo un dito di vodka nella fottuta bottiglia. Fa un cenno verso la cartella. Gliene taglio un'altra pista, e lui se la tira. «Lo dico ancora, vecchio mio, è ottima.» Di nuovo si appoggia allo schienale, incrocia le ossa delle mani dietro la
testa d'osso e sorride. «Tu non sai ancora di cosa sto parlando, vero?» «No... veramente...» Ride. «Non ci arrivi? Non capisci che quando si poserà la polvere, per così dire, al potere ci sarà solo un gruppetto di gente, della tua o della mia razza?» «Mi è venuto in mente, Bobbie, ma nelle ultime ventiquattr'ore sono dovuto scappare per salvarmi la pelle...» «Esattamente!» Si alza, si stira. «E scappare da cosa?» Si punta un dito contro. «Da noi! Vedi, probabilmente domineremo il mondo!» Raccoglie un telecomando dalla scrivania, si gira verso un enorme schermo incassato in una parete, e lo accende. Nell'angolo in basso a destra c'è il logos di un notiziario, e un reporter sta strillando eccitato di non so quale battaglia. Un video sfocato, un mucchio di edifici, macerie per strada, mucchi di polvere. Assomiglia a cento altri posti, prima che la telecamera si allontani e l'orizzonte di Chicago, o di quella che una volta era Chicago, si stagli contro un cielo arancio fumoso dall'aspetto malsano e la linea costiera del lago Michigan. La Sears Tower ha dentro un paio di morsi, e lo Standard Oil Building è quasi distratto. Un sacco di aerei sta ronzando lì attorno, e si sentono degli spari, e dei rumori ancora più forti di esplosioni. «Merda,» dico. E lo dico ancora, perché adesso la telecamera si sposta di nuovo vicino, inquadra le strade ingombre di macerie e poi si sposta a destra sulla faccia del reporter, una testa d'osso con in mano un microfono. «Così,» dice l'osso, «infuria la battaglia per il Midwest. Il Governatore Provvisorio Warren Harding ha chiesto il cessate il fuoco per fare l'inventario degli armamenti, ma si impegna a continuare la lotta finché ogni umano sia convertito, come si dice adesso. Come vi abbiamo mostrato in precedenza, tutto il Consiglio degli Assessori di Chicago, incluso il sindaco, è stato giustiziato questo pomeriggio fuori dal Municipio. Il sindaco, dopo essere stato convertito, dice che...» Bobbie spegne la televisione. «Questo è solo l'inizio,» dice mettendosi comodo. «La stessa cosa sta succedendo in tutto il paese. In tutto il mondo.» «Anche in Inghilterra?» dico, e subito vorrei staccarmi la lingua con un morso per averlo detto. «Sì, vecchio mio, anche in Inghilterra,» dice Bobbie. Si sporge in avanti, offrendomi un panorama ancora più raccapricciante della sua faccia. «Il
punto è che voi umani vi opponete con la forza. C'è sempre una remota possibilità che vinciate. E se vincete...» Punta un dito verso di me, e sorride. «Uh...» «Non capisci, Roger? Se vince la tua razza, tu mi proteggi! Comunque vada, la gente avrà bisogno della musica, giusto? E io sarò quello con la musica! Se vinciamo noi, ti terrò nel giro, ti convertirò, come si dice. Ad ogni modo lavoreremo assieme felici per sempre!» «Non sono troppo entusiasta della parte che riguarda la conversione, Bobbie.» Si sporge in avanti. La sua voce da inglese fasullo diventa appena più rude. «Non hai scelta al riguardo, Rog. L'unico motivo per cui non sei ancora morto è che ho bisogno di te come sei.» Io lo tranquillizzo dicendo: «Uh, va bene, Bobbie. Parlami della musica.» «La stanza di sotto,» dice, «è abbastanza piena di talenti, vecchi e nuovi, da riempire i magazzini di dischi per anni. Li ho fatti firmare tutti. Nuovi contratti, inviolabili, per la Mento Records. Per quanto ne so, sono l'unico produttore rimasto ancora nel giro.» «Carl Peters?» chiedo, sapendo che se c'è qualcuno in grado di sopravvivere all'incubo, quel bastardo di Carl Peters può farcela. Bobbie rimette le mani dietro la nuca e si dondola all'indietro nella poltrona. «Quel mucchietto di polvere che avevi sotto i piedi nel viale d'ingresso...?» «Oh,» dico, e salta su dalla sedia per sporgermi sulla scrivania e stringere la mano di Bobbie. «Hai fatto un affare, amico.» «Benvenuto a bordo, vecchio mio,» dice Bobbie. 4 E così per un po' si fa festa. Ogni giorno Bobbie e io facciamo qualche telefonata, quando riusciamo a ottenere la comunicazione, e facciamo un giretto, con discrezione, sulla Lincoln Town Car, quando è sicuro. Sta diventando sempre meno sicuro, almeno per gli umani, e almeno di giorno. Così sbrighiamo un sacco di lavoro di notte, lasciando che la festa prosegua da sola a Bobbielandia mentre noi andiamo fino a Bel Air o a Malibu per concludere un affare. Chiudiamo un sacco di contratti con scheletri di musicisti. Qualcuno si rifiuta di firmare con me in giro, a meno che non sia
strafatto di coca. Hendrix, in particolare, cerca di darmi una stangata sulla testa con la sua Stratocaster, ma Bobbie lo tira indietro appena in tempo. Dopo il fattaccio me ne sto in macchina dietro i vetri schermati, mentre Bobbie tratta con Mama Cass, che esce apposta per cercare di farmi fuori. Mi faccio un appunto di mandarle un prosciutto in scatola e una dozzina di pagnotte. In casa di Bobbie riesco a ottenere un po' più di rispetto. Sono tutti così in pista che se entrasse il Papa in carne e ossa applaudirebbero. Una telefonata di Bobbie ci ha fatto entrare in un meraviglioso giro di coca, uno dei tanti che sembrano essere risorti; a quanto pare molti vecchi spacciatori morti sono tornati in affari. Quando Bobbie non c'è passo un sacco di tempo nel suo ufficio a guardare la televisione. La ricezione via cavo è instabile; qualche volta non funziona per ore, e quando ritorna l'immagine ai comandi c'è un umano, che manda in onda una pellicola ovviamente ripresa da un furgone che mostra gli umani al contrattacco. Queste non durano mai a lungo. «Forza, Stati Uniti!» urlo di solito, levando in saluto la mia Carta Bianca, ma non lo faccio quando c'è in giro Bobbie caro. Per quanto riguarda le cronache delle teste d'osso, ho la sensazione di ascoltare solo la loro parte della storia. Ma è pazzesco abbastanza. Il mondo è tutto un gran casino. La caccia agli umani è ormai agli sgoccioli, e adesso la maggior parte delle cronache riguarda le varie guerre civili fra ossi che sono scoppiate in ogni angolo del mondo. Un particolare servizio, del quale non garantisco perché ero più fuori che mai (Bobbie mi aveva appena rimproverato perché avevo sbagliato curva con la Town Car, portandoci da Janis Joplin subito dopo che era stata convertita in un mucchietto di polvere da uno spacciatore incazzato), mostrava Simòn Bolivar e Ambrose Bierce che scappavano da un branco di scheletri di tori selvaggi in un'arena messicana, mentre il pubblico impazziva. Proprio quando Bolivar è stato incornato alla schiena e è diventato polvere, hanno messo la pubblicità, e quando hanno ripreso, lo schermo era invaso dall'enorme orribile teschio di Richard Nixon, col sudore che gli sgocciolava dal labbro superiore di fantasma, che diceva tranquillamente di essere venuto in Cina per portare la pace alla nazione e al mondo. «La Cina risorgerà dalle ceneri e governerà la terra,» diceva Nixon, e poi ha dichiarato guerra al Vietnam, che era la stronzata più grossa che potevo sopportare prima di spegnere. E ci sono un sacco di scempiaggini come questa. Infatti sono in attesa
che il mio radar si metta a funzionare, dicendomi di salire sulla Lincoln e dirigermi sulle colline, lontano da Bobbie, del quale mi fido tanto quanto mi sono sempre fidato, cioè niente. Ma il radar non si accende mai. Voglio dire, dove c'è una condizione migliore per un umano in questo momento? Nascosto in un canale di scolo a mangiare topi morti e a tramare vendetta? Così rimango qui, e che cazzo, con la droga e la musica e il lavoro, mi sto divertendo quanto più è possibile senza essere convertito. E poi... le cose vanno addirittura meglio! È possibile? Puoi scommetterci. Il vecchio Bobbie, quasi gli bacio la fottuta testa d'osso quando un giorno mi copre gli occhi e mi porta in una stanza d'angolo all'ultimo piano della casa, dove fanno un gran picchiare da circa due giorni, mi spinge dentro, accende le luci e dice: «Questo, vecchio mio, è il tuo ufficio!» Ufficio! Dimmi se ti piace, papà! Sai cosa dovevi fare per avere un ufficio alla Roundabout Records, i millenni di attesa, e la lunga fila di culi da leccare? Vorrei che ci fosse qui il mio vecchio adesso, per fargli vedere l'impianto stereo e video identico a quello di Bobbie, la scrivania, e la moquette alta così. Cosa te ne pare, papà? Ce l'ho fatta adesso? Adesso non sono più spazzatura, come il soprannome che mi hanno appioppato, Garbage? «Spero che ti piaccia, vecchio mio,» dice Bobbie. «Se mi piace? Wow...» «Passerai un sacco di tempo qui dentro,» continua ignorando il mio entusiasmo con tono molto professionale. «Le cose stanno diventando sempre più grandi adesso, e temo che dovrò affidare a te tutta la parte musicale. Vicepresidente, vecchio mio, se ti piacciono i titoli.» Mi rivolge uno dei suoi spettrali ghigni all'inglese. «Ho un'altra sorpresa per te, se vieni con me giù nello studio.» Così scendiamo da basso e usciamo, attraversiamo il prato, oltre la piscina, fino all'immenso studio insonorizzato, entriamo, passiamo davanti alle file di attrezzature per il mixaggio dietro ai pannelli di vetro, e quando mi spinge nella sala di registrazione, ecco... I Vomits! Quei quattro ragazzoni in tutto il loro incantevole splendore osseo, Brutus Johnson con la sua Stratocaster di traverso sulla schiena, Barney Barnes che sta aiutando Jimmy Klemp in una posizione al cembalo - e Randy Pants, sogghignante come sempre, con un piede sulla sedia, si voltano a guardarmi quando entro. «Ragazzi!» dico. Improvvisamente li amo.
«Ho sentito che ci volevi morti, Roger,» dice Randy col suo ringhio da baritono. «Beh, uh, io...» Sorride, e toglie il piede dalla sedia per venire a stringermi la mano. «Beh, il tuo desiderio è stato esaudito, pustola.» Mi abbraccia. Vedo Brutus che mi sorride da sopra la sua Strat, pronto a suonare. «Abbiamo dei brani disgustosi da proporti,» dice Randy, lasciandomi andare. Io mi volto verso Bobbie Zick, che se ne sta andando. «Sono tutti tuoi, vecchio mio,» dice, «li ho già scritturati per la Mento Records. Contratto a vita.» «Grande!» dico io. E Brutus grugnisce, suona un accordo, e dice: «Yeah.» 5 Per un po' sono così preso con i Vomits che so a malapena cosa sta succedendo nel resto del mondo. Ci sono gli altri affari per la Mento Records, naturalmente; ma adesso ho una piccola segretaria impertinente, di nome Cheryl, di ossatura molto sottile, e lei bada a tutte le telefonate, tranne quelle più importanti. Ci sono un sacco di fregnacce in questo giro, e molte arrivano a me, fino al punto che mi chiedo cosa stia combinando Bobbie Zick. Non lo vedo quasi più; o è chiuso nel suo ufficio o è fuori con la sua Mercedes a vagare per le colline. Credo che si tratti di quella faccenda di riunire i Beatles, ma quando quelle telefonate cominciano ad arrivare a me, so che Bobbie ha davvero delle altre castagne al fuoco. La sua segretaria, un mostro che sembra una scrofa di nome Noreen, della quale ho veramente paura da quando so per certo che vuole convertirmi con le proprie mani, e poi se è possibile mangiarmi, continua a dirmi, «È fuori, signore,» con quel suo cipiglio libidinoso. Oppure, quando faccio un gran casino per metterla sotto pressione, non dice assolutamente nulla, apre e chiude la mandibola con uno scatto e basta, ma è sufficiente a farmi allontanare in fretta. La faccenda della riunione dei Beatles, a proposito, non va a buon fine, perché vogliono provare a rimettere in piedi la loro società discografica, e Ringo è l'unico che non vuole firmare. Ma i Vomits stanno avendo un grandissimo successo. Sotto la mia guida hanno già messo giù sei nuovi abbozzi. È di gran lunga la roba migliore
che abbiano mai fatto, anche se è caratterizzata da una vena morbosa che non capisco bene. Tutti gli altri però mi dicono che gli ossi la adoreranno, come per esempio quel pezzo che finora è il migliore, "Bella da Morire": (Tu eri) bella da morire, Quando l'altra notte Sei venuta a dirmi quelle cose, E splendevi alla luce della luna, Aoooooooo! Aoooooooo! Abbiamo avuto qualche scontro su quel Aoooooooo!, ma alla fine, dato che tutti gli altri ne andavano matti, incluso Buddy Holly, che aveva assistito a un paio di prove, mi sono arreso. Sono soddisfatto anche di "Rantolo nel Vento", e "Alzati", che non parla di un'erezione, come credevo, ma di un tizio che spunta da sotto terra nello Utah, dove si trovavano i ragazzi quando sono stati convertiti, e di una ballata acustica davvero buona, "Puff, e Randy dice che parla dello stesso tizio dopo che è stato spacciato la seconda volta, investito dall'autobus dei Vomits, veramente, mentre attraversava barcollando la strada:' (Coro): Come una sigaretta che ha fumato abbastanza Te ne sei andato... puff... 6 È una situazione idilliaca, finché un giorno, abbiamo appena messo a punto "Puff come secondo me doveva essere, lo strimpellamento lamentoso di Brutus, il gemito triste e spettrale della voce di Randy, il radar si accende. Violentemente. Tanto per cominciare ho avuto una brutta giornata; Noreen, lo scheletro di scrofa, mi dice che non può autorizzare la circolazione di cassette campione perché non ci sono più, e poi fa scattare la mandibola e aggiunge, non viscida come al solito ma con una punta di tremolio: «Non le serviranno, comunque.» Per un attimo penso, Ci siamo, e mi aspetto che si alzi dalla scrivania, ci salga sopra come Godzilla, e mi mangi in un boccone. Ma invece vedo che sta riponendo le sue cose nelle scatole, in effetti ogni cosa in quel fottuto posto è fuori posto, in attesa di essere imballato nelle scatole. «Cosa dia...» dico, ma quando cerco di avvicinarmi alla porta chiusa del-
l'ufficio di Bobbie mi blocca la strada. «Non può vederlo.» Così me ne vado nel mio ufficio, pensando di chiamare Bobbie al telefono, ma quando arrivo lì il mio ufficio è stato svuotato, le pareti sono spoglie, l'impianto è sparito. «Ah!» grido, cercando qualcuno su cui sfogarmi, ma non c'è nemmeno Cheryl alla sua scrivania, e quando mi avvicino di nuovo a Noreen, mi rivolge un'occhiata ancora più arcigna, e io indietreggio stordito. Scendo le scale incespicando. La festa continua, ma non con la stessa intensità. Infatti molti esponenti del rock se ne sono andati, lasciandosi alle spalle per lo più i seccatori, la feccia, e i vagabondi. Coca e alcool non mancano, e quando un vagabondo di nome Keg mi offre una rivista con delle piste distese sopra, decido che non è mai troppo presto per cominciare, e ne sniffo due righe, una per ogni narice. «Ne avrai bisogno, credo,» dice Keg, e il ghigno parte dal teschio e raggiunge gli spettrali lineamenti tutti bruciati. Ma quando gli chiedo cosa vuole dire rotea gli occhi e mette il naso sulla rivista. È lo stesso per tutta la proprietà. Fuori nel parcheggio le auto scintillanti sono quasi tutte sparite. Finalmente trovo qualcuno che mi dice che gli Stones e Buddy Holly e gli altri hanno sgomberato la notte prima, con le loro macchine o sugli autobus forniti da Bobbie Zick. Quando insisto per avere i particolari, il tizio, un seccatore di nome Joe, si stringe nelle spalle e dice, mostrando il fantasma del suo sorriso sdentato: «In un paese sconosciuto, amico.» Mi viene la tentazione di torcergli il collo, ma lo lascio perdere, mentre un pensiero improvviso e terribile si fa strada nella mia testa. Come mi aspettavo, i Vomits se ne sono andati. Li avevo lasciati non più di quattro ore prima, dopo aver finito di lavorare per quella notte, che stavano discutendo sui particolari minori bevendo Coors. Randy mi aveva detto di andare in ufficio. «Trova qualche sonnifero, dormiamo un paio d'ore e ripartiamo freschi domani.» E adesso sono partiti davvero. Joe, che si è trascinato fino alla piscina e ci sta guardando dentro stupidamente, non mi risponde, e preferisce punzecchiare con un bastone la patina polverosa che galleggia sulla superficie vicino al bordo. «Dove sono i Vomits?» ripeto, e sono quasi isterico. Il tizio continua a fissare la schiuma polverosa. Il pensiero orribile numero due mi si affaccia alla mente. Indico la polvere galleggiante. «Quella non è...»
Il tizio mi sorride. «No, amico. Non sono loro. Ma qualcun altro. Non ha gradito le novità, immagino. La festa è finita e tutto il resto. Credo che si chiamasse Cheryl...» La mia segretaria! Ah! Questa è la fine. Attraverso il prato, guardando in su per individuare la finestra dell'ufficio di Bobbie Zick. Trovata. Nelle vicinanze non c'è niente di così comodo come una scala, ma c'è la grondaia che potrebbe reggere il mio peso. Dopo un paio di false partenze scopro di non essere capace di arrampicarmi sulle grondaie. Ma in quel momento vedo la scrofa, Noreen, uscire di casa e dirigersi alla Mercedes di Bobbie con in mano una pila di cartoni. Sgattaiolo dentro. Keg è svenuto vicino alla rivista, ma ci ha lasciato su ancora una pista di coca. Me la sniffo quasi senza fermarmi, butto da parte la rivista e salgo le scale. La porta dell'ufficio di Bobbie è chiusa, ma non busso nemmeno, e lascio che la coca aiuti il mio piede ad aprirla con un calcio. «Salve, Roger.» Bobbie è seduto alla scrivania, calmo come sempre, con i piedi sul tavolo e la poltrona inclinata all'indietro. Una mano è dietro la nuca, l'altra tiene oziosamente appoggiata la cornetta del telefono all'orecchio. «Cosa ca...» inizio a urlare. «Un momento, vecchio mio,» dice Bobbie. Distoglie l'attenzione da me per parlare a qualcuno che è entrato nella stanza alle mie spalle. «Va tutto bene, Noreen,» dice. «Può restare. Tu pensa a finire di caricare quei documenti, ti dispiace?» Noreen esce sbattendo rabbiosamente la porta. Bobbie indica una sedia. Io sto esplodendo, ma mi siedo mentre Bobbie continua la sua conversazione telefonica. «No,» dice, «niente di cui preoccuparsi. Solo quel dividendo di cui ti ho parlato. Sì, naturalmente manterrò la parola, ma a questo punto non credo che ne avremo bisogno. Sì, certo, non si sa mai.» Ascolta qualche parola dall'altro capo, poi dice: «D'accordo, sì, certo.» Riappende. «Allora, Roger, vecchio mio,» dice sporgendosi in avanti e incrociando le mani. «Cosa posso fare per te?» «Fare!» grido. So che non dovrei davvero mettermi a strillare, il mio radar è schizzato in pieno, ma la coca e il fatto che il mio ufficio, la mia carriera, e la mia segretaria sono morti mi hanno fatto superare il limite. Bob-
bie, comunque, sembra prendere la cosa con molta calma. «C'è stato un leggero cambiamento di programmi.» Sorride serafico. «Ti dispiace...» «Certo che non mi dispiace parlartene, vecchio mio. In realtà, spero piuttosto che dove andremo ci sarà più Stoli da bere. Vedi, se restiamo qui, saremo tutti in polvere o in galera prima di notte.» Adesso sì che ha conquistato il mio interesse. «È il momento in cui si sente sparare giù a valle,» dice, «e la cosa mi mette molto a disagio. Abbiamo fatto praticamente tutto il possibile da qui, perciò ci spostiamo verso nord.» «Nord?» «Ti basti sapere che nelle ultime settimane ho avuto molti pensieri oltre alla musica, Roger. Il mondo è diventato un posto molto complicato. E sono nate... nuove opportunità. Alcuni uomini che la pensano allo stesso modo si sono messi assieme e hanno pensato che noi avevamo un buon piano per governare il mondo. Più economico che mai. Una specie di... superconsumismo.» Il telefono squilla. Lui ride e lo ignora. «D'accordo, chiamiamolo col suo nome. Un monopolio strutturato. Noi controlleremmo tutte le fonti di produttività. L'hai visto su piccola scala nel giro della musica. Dopotutto, è da lì che sono partito. Se noi controllassimo tutti gli artisti, allora nessuno potrebbe andare da un'altra parte per avere della musica, giusto? Beh, mi è parso semplicemente ragionevole espandere quest'idea ad altre aree, come la produzione alimentare, la distribuzione idrica, l'elettricità, i media, incluse l'editoria, la televisione e la radio, i trasporti... beh, afferri il concetto. Qualcuno deve gestire le cose, e poiché nessuno sembrava gestire alcunché, noi ci siamo dati da fare. Sfortunatamente Abramo Lincoln si è impicciato. Quel bastardo è un genio, devo riconoscerlo. Non avrei mai pensato che sarebbe stato capace di rimettere insieme gli Stati Uniti, ma sembra che ci stia riuscendo.» Rivolge lo sguardo alla parete spoglia dell'ufficio dov'era sistemato l'impianto stereo-video. «Comunque, il nostro piccolo schema non funzionerà, perlomeno non in questo paese e non adesso. Proveremo a consolidarlo su a nord.» Sorride. «Ti rendi conto che ti sto raccontando tutto questo perché sei ancora con me, vero?» «Uh, giusto,» dico. «Bene. Spero che tu capisca. Il nostro patto originale vale ancora. Tu sei sempre il Vicepresidente responsabile della musica, sebbene io non sappia
quanta saremo in grado di produrne in questa situazione. Finché questa guerra non sarà finita, non credo che la gente comprerà molti dischi. Un peccato, nel mio cuore avrò sempre un angolino morbido per la musica.» «E i Vomits?» chiedo. Fa un gesto con la mano d'ossa. «Scappati, come gli altri.» Si alza. «La festa è finita, Roger. Quando si poserà la polvere, vedremo.» Sorprendentemente fa il giro della scrivania, mi fa alzare, e mi mette un braccio sulle spalle. Mi conduce alla finestra, e assieme guardiamo fuori, la proprietà, i campi da tennis, il parcheggio, lo studio di registrazione. Cerco di non guardare la piscina con la superficie schiumosa. «La partita non è ancora finita, Roger. Là fuori c'è un mondo da costruire, un mondo di ricchezza e potere, di qualsiasi cosa tu desideri, se sei dalla parte del vincitore.» «Giusto, Bobbie.» Sento la sua mano spostarsi sul mio collo e stringere, appena un po' troppo. Giro la testa e guardo nel suo teschio, e a quella distanza, con la sua faccia umana che è solo un vapore nebbioso attorno al bianco osso, non manca mai di spedire un brivido freddo lungo la mia schiena. Due orbite oculari che si aprono su... nada. Ho la scomoda sensazione di sempre con queste teste d'osso, preferirebbero piuttosto ucciderti che parlare con te. La sua mano si stringe ancora un pochino sul mio collo e poi mi lascia andare. «Posso chiederti una cosa, Bobbie?» dico. «Qualsiasi cosa, vecchio mio.» Io lo guardo e sorrido, concentrandomi sulla spettrale immagine della sua faccia e non sul teschio. «Perché io?» Butta la testa all'indietro e penso che si metta a ridere, ma invece guarda solo il soffitto. «Perché tu?» Noreen appare sulla porta, imbronciata, e dice a Bobbie che è ora di andare. «Scendiamo subito,» dice Bobbie. Noreen se ne va, tenendo fra le grosse mani d'ossa l'ultima pigna di scatole. «Perché tu, Roger Garbage?» ripete Bobbie, riprendendo la nostra conversazione. Di nuovo alza gli occhi al soffitto, poi li riabbassa su di me. Di nuovo il brivido delle orbite oculari vuote. «Vuoi la verità?» «Certo, Bobbie.» Mentre aspetto conto fino a cinque. «Perché...» Mi mette ancora il braccio sulle spalle, e stavolta mi guida verso la porta dell'ufficio e la Lincoln
Town Car ferma di sotto. Sento che sta cercando le parole giuste. In cima alle scale si ferma di colpo, e stavolta ride. «Perché, Roger,» dice, «tu sei uno di noi.» CAPITOLO NONO IL DIARIO INTIMO DI CLAIRE ST.EVE 1 Siamo restate a lungo nel rifugio anti-atomico del signor Cary. Ho perso la nozione dei giorni. Di tanto in tanto sentivamo uno scheletro che frugava nella cantina; due volte hanno tentato di forzare la porta, e la signora Garr si è preparata con la pistola in mano, ma alla fine chiunque fosse se n'è andato. Mangiavamo, dormivamo, e aspettavamo. Finalmente, dopo che per un intero giorno non abbiamo sentito alcun rumore da dietro la porta, la signora Garr mi ha detto che era ora di andare. Si è inginocchiata per parlarmi. «Ecco quello che faremo, Claire. Non possiamo restare qui per sempre. Mio marito lavora a New York City. C'è la possibilità...» Si è fermata e ha chiuso gli occhi. «C'è una possibilità che stia bene, e che sia arrivato a casa, e che si stia nascondendo come facciamo noi. C'è anche la possibilità che sia ancora a New York. Io... io devo provare a trovarlo, Claire. Capisci? Devo sapere. E se è vivo, ci può aiutare. Dovremo trovare un posto dove andare, dove nasconderci.» Si è messa a piangere, e mi ha stretto. «Io non so proprio cosa fare, Claire! Io non so... proprio cosa... fare!» Le ho posato una mano sulla spalla. Lei mi ha guardato, ha sorriso un poco, e ha smesso di piangere. «Sei una brava ragazza, Claire. Sei la ragazza migliore del mondo.» Ha preso la pistola, e l'ascia del signor Cary, e ha attraversato la stanza, evitando i due mucchietti di polvere che erano stati il signore e la signora Cary. Ha ascoltato alla porta, e infine ha fatto scattare la serratura e ha aperto. La cantina era vuota. La signora Garr mi ha preso per mano. «Vieni, Claire.» Abbiamo attraversato la cantina e abbiamo salito lentamente la scala, fermandoci ogni due gradini ad ascoltare. Dal piano di sopra non veniva alcun rumore. Sempre lentamente abbiamo attraversato la casa, guardando in ogni an-
golo di ogni stanza. La luce del sole entrava dalle finestre. La casa era vuota. La signora Garr ha provato il telefono, e l'ha rimesso giù. «Non funziona,» ha detto. Alla fine ha aperto la porta ed è uscita sulla veranda. Un bellissimo sole estivo stava tramontando. Il mondo era tranquillo e silenzioso, a parte lo stridore dei grilli lontani. 2 L'auto era ancora nascosta dove la signora Garr l'aveva lasciata. L'abbiamo scoperta, siamo salite, la signora Garr ha fatto retromarcia sulla strada, e ci siamo fermate davanti alla casa del signor Cary. Abbiamo preso tutto il cibo che abbiamo potuto trovare in casa, abbiamo riempito d'acqua l'orcio che era nel rifugio e abbiamo preso anche quello. Poi siamo risalite in auto e la signora Garr si è diretta verso Withers, guidando piano, curva sul volante, fissando la strada davanti a noi. Abbiamo oltrepassato il cimitero vuoto alla nostra sinistra, e siamo uscite dagli alberi nell'area dietro a Withers. «Oh, Signore,» ha detto la signora Garr. Withers era stato quasi completamente consumato dall'incendio. I piani superiori erano anneriti, scavati, le finestre erano senza vetri. Sembrava lo scheletro di un edificio. La signora Garr ha proseguito, verso il parcheggio e il cancello principale. Il cancello era ancora chiuso. La signora Garr si è affiancata piano all'auto nera della signora Page, vuota, e si è fermata. È scesa dall'auto, ha aperto i due pesanti battenti di ferro del cancello, ed è ritornata. Ci siamo immesse sulla strada, e abbiamo visto tutti quei mucchietti di polvere, nei canali di scolo vicino all'entrata, e per la strada. Abbiamo visto due auto bruciate, e un autobus accartocciato. Le strade erano deserte. I semafori lampeggiavano, verde e rosso, ma la signora Garr li ha ignorati. Con prudenza, si è inoltrata nella cittadina di Cold Spring Harbor. Abbiamo visto altre auto distrutte, di traverso sui cordoni dei marciapiedi oppure abbandonate in mezzo alla strada. Alcuni edifici erano stati bruciati, le vetrine dei negozi erano infrante. Siamo passate dal fronte del porto; i bacini erano stati saccheggiati, le navi bruciate e affondate.
Un palo era stato abbattuto e ci bloccava la strada, ma la signora Garr è riuscita a girarci attorno con l'auto. Il cielo aveva ormai i colori del crepuscolo. La signora Garr si è fermata quasi in fondo a una via, di fronte a un negozio di gastronomia. «Vieni con me,» ha detto, scendendo con la pistola. Siamo entrate nel negozio. La porta era aperta, le luci accese. La vetrina del bancone da esposizione era fracassata, e si sentiva odore di latte rancido. La signora Garr ha guardato vicino all'entrata, ha trovato un cesto a mano, e me l'ha dato. «Riempilo di cibo, Claire. Qualsiasi cosa si conservi.» Nel retro del negozio c'era un telefono, e la signora Garr ci è andata e sollevato il ricevitore. «Funziona!» ha esclamato. La guardavo premere i pulsanti sul telefono, e intanto riempivo il cesto di tutto il cibo che trovavo. C'erano due pagnotte che cominciavano appena ad essere rafferme, e del cibo in scatola e confezionato. La signora Garr era in piedi col ricevitore contro l'orecchio. «Per favore, per favore,» pregava. Infine ha riattaccato ed è tornata da me. «Forse Michael si sta nascondendo,» ha detto speranzosa. Mi ha tolto di mano il cesto pieno e siamo ritornate all'auto. Si stava facendo buio, e già lungo la via c'erano delle luci accese. Il palo della luce abbattuto si accendeva, poi si spegneva in un tremolio, e si riaccendeva sfavillando. Ci siamo allontanate dalla gastronomia, verso la periferia della città. Si sentivano dei suoni, fuori dai finestrini, e subito la signora Garr ha rallentato, si è fermata, e ha abbassato il vetro. Di fronte a noi si levavano molte voci, e l'abbaiare di un cane. La signora Garr mi ha guardato con occhi pieni di speranza. Siamo scese dall'auto. La signora Garr mi ha presa per mano, e mi ha tratta all'ombra degli edifici. Più avanti, la via terminava sfociando in un piccolo parco. Si vedeva il baluginare di un fuoco. Ci siamo avvicinate. Sull'angolo c'era una banca, e le sue imponenti colonne ci nascondevano alla vista. La signora Garr mi ha spinta contro il muro, e ha sbirciato oltre l'angolo, verso il parco. Il respiro le si è strozzato in gola. Anch'io ho guardato dietro l'angolo.
C'era un gruppo numeroso di persone, tutti scheletri, attorno a un gazebo, e alcuni avevano delle torce, o delle pile tascabili. Lo scheletro di un cane agitava paziente la coda accanto allo scheletro di un uomo. Uno scheletro ha salito i gradini del gazebo e ha alzato le mani chiedendo silenzio. Vagamente, sono riuscita a distinguere il profilo di un uomo in abito marrone, con i capelli bianchi. «Quello è il signor Perkins,» ha detto la signora Garr. «Era nel consiglio di direzione di Withers.» «Credo che sappiate tutti cosa fare,» ha detto il signor Perkins. «A quanto ne so, non ne sono rimasti molti, qui in città. C'è ancora il ragazzo di Bob Rainer, ma lasceremo che Bob e Marie se la sbrighino da soli. Bob? Marie?» Due scheletri sono usciti tra la folla, trascinando con loro sul gazebo un ragazzino umano, vestito in jeans e maglietta strappata, che gridava, «No! No!». «Andiamo, Jimmy!» diceva il padre del ragazzo, irritato. «Ti farà male solo per un secondo!» Il ragazzo lottava e urlava. Mentre suo padre lo teneva fermo, sua madre gli ha messo le mani attorno al collo. «No,» ha ansimato la signora Garr, a voce alta. Il cane si è girato e ha guardato dritto verso di noi, ha abbaiato e si è messo a correre. Alcuni scheletri ai bordi della folla si sono voltati e hanno gridato. «Claire, corri!» La signora Garr mi ha preso la mano e ci siamo precipitate nell'auto. Il cane ha girato l'angolo mezzo isolato più indietro. La signora Garr ha avviato il motore, ha messo la prima, ed è sfrecciata in avanti. Il cane è balzato addosso all'auto, e la signora Garr l'ha preso in pieno. Il cane ha spalancato le fauci, e a metà dell'ululato è andato in polvere. Due scheletri hanno imboccato la strada di fronte a noi; uno di loro aveva un pezzo di legno, che ha vibrato contro l'auto, colpendo il cofano mentre gli rombavamo accanto. La signora Garr ha svoltato bruscamente l'angolo, facendo fischiare i pneumatici, e si è diretta, sul marciapiede, verso il parco e gli esterrefatti scheletri.
«Attenti!» ha gridato uno di loro. Abbiamo investito la folla, sparpagliando gli scheletri e riducendone alcuni in polvere, e ci siamo infilate nel gazebo, che ha vacillato sulla sua struttura di legno. Gli scheletri dei genitori del ragazzo sono stati gettati a terra, e hanno abbandonato il corpo del ragazzo inerte sul pavimento. La signora Garr ha fatto per aprire la portiera. «Lo carico sull'auto.» Il corpo del ragazzo improvvisamente si è sfaldato, ed è diventato uno scheletro. Si è alzato e ci ha puntato contro un dito, gridando: «Uccidetele!» La signora Garr ha sbattuto la portiera, ha messo la retromarcia, e è partita. Gli scheletri sparpagliati si sono diretti verso di noi, e uno ha allungato la mano per afferrare la maniglia della portiera dalla mia parte, e l'ha mancata per un soffio. La signora Garr ha accelerato, e ci siamo allontanate in fretta, rimbalzando sul cordone e tornando sulla strada. La signora Garr ha girato l'auto ed è ripartita a tutta velocità. «Prego che Michael ci sia,» ha detto, portandoci più rapidamente possibile fuori dalla città di Cold Spring Harbor. 3 L'autostrada era quasi deserta. C'erano degli autocarri, ma andavano molto veloci; nell'abitacolo di uno di essi sono riuscita a vedere uno scheletro al volante, col braccio appoggiato fuori dal finestrino aperto. «Claire, togliti dal finestrino e stai giù,» mi ha detto la signora Garr. Teneva la corsia di destra, e tre uscite dopo abbiamo lasciato l'autostrada. Siamo passate davanti a un distributore di benzina abbandonato; dove prima c'erano le pompe, adesso si vedeva solo un buco annerito, e le vetrine del negozio erano state ridotte in frantumi. Accanto ad esso c'era un supermercato. Mancava una grande vetrina davanti, ma era aperto, le file di luci all'interno erano accese, e i clienti scheletri spingevano i carrelli. Nel parcheggio uno scheletro stava caricando dei sacchetti nel baule di una station wagon. La signora Garr si è sporta verso di me, e mi ha spinto la testa tanto in giù sul sedile che potevo appena sbirciare fuori. «Siamo quasi arrivate.» Abbiamo percorso un breve tratto di strada, oltre un negozio di video chiuso e un ristorante aperto. La signora Garr ha svoltato a destra, e subito ha rallentato. «Non posso credere a quello che è successo qui.»
Mi sono raddrizzata sul sedile. Sembrava che ci fosse stata una battaglia. Un'auto e un furgoncino erano completamente ribaltati su un lato della strada. Il davanti di due case che si affacciavano sulla via era carbonizzato a seguito di un incendio. Sul prato di una terza casa era stato abbattuto un albero che impediva totalmente la vista. La signora Garr guidava lentamente. I lampioni creavano mute pozze di luce in quel silenzio insolito. Lo scheletro di un gatto è corso fuori da in mezzo a due bidoni della spazzatura, si è bloccato per fissare la luce dei fanali, ha soffiato, ed è scappato di nuovo dietro i bidoni. «Ecco dove vivo.» la signora Garr ha indicato l'ultima casa a sinistra, immersa nel buio. Nel vialetto c'era un'auto col cofano alzato. «Michael,» ha sussurrato la signora Garr. Ha parcheggiato l'auto di fianco al marciapiede, ha preso la pistola, e senza far rumore ha aperto la portiera. «Stammi vicino, Claire,» ha detto. Ci siamo approssimate alla casa, e dall'isolato accanto è venuto un rumore. Il gatto è corso fuori da dietro i bidoni della spazzatura e ha attraversato la strada, sfrecciando in un folto di cespugli. La signora Garr mi ha tirato giù dietro all'auto col cofano aperto nel vialetto. Abbiamo sentito un rumore di passi. Nella pozza di luce di un lampione in mezzo all'isolato uno scheletro si è fermato ad ascoltare. Ha fatto un passo in avanti, fuori dalla luce, e ha guardato la nostra auto. Vedendo avanzare lo scheletro la signora Garr ha alzato la pistola. Una voce lungo la via l'ha chiamato: «Robert, torna dentro adesso!» La figura ha esitato, si è girata a guardare verso una porta aperta dove si stagliava un altro scheletro. «Ho sentito...» ha detto la figura vicino al lampione. «Non hai sentito niente! Torna dentro!» «Oh, va bene,» ha detto lo scheletro, ritornando sui suoi passi attraverso la pozza di luce e poi lungo la via. È entrato in casa e la porta si è chiusa. «I Grierson,» ha detto la signora Garr. «Quelli erano Norm e Joanna Grierson.» Siamo restate un momento dietro all'auto, poi ci siamo alzate e ci siamo avvicinate alla casa della signora Garr, che aveva già in mano la chiave, pronta ad usarla. Ma la porta d'ingresso era socchiusa. La signora Garr l'ha spalancata e siamo entrate nella casa buia. «Claire, stai vicino alla porta,» ha sussurrato la signora Garr, spingendomi contro la parete appena dentro casa, e richiudendo la porta. «Se succede qualcosa, scappa.»
Si è inoltrata nell'oscurità, poi ha acceso una lampada e c'è stato un lampo di luce. La casa era nel caos. Il divano era stato rovesciato. Un tavolino era zoppo, senza una gamba. Il televisore nell'angolo era stato ribaltato dal suo posto, e il tubo catodico si era rotto. La signora Garr ha portato la mano alla bocca, camminando tra i mobili devastati. Nell'altra mano teneva ancora la pistola. Si è diretta verso la cucina, e l'ho sentita singhiozzare. Sono andata anch'io in cucina e ho guardato dentro. Il frigorifero era stato rovesciato, e lo sportello era aperto e pendeva dai cardini come una botola, lasciando uscire odore acido. La signora Garr è uscita dalla cucina e ha attraversato la sala da pranzo. Una vetrinetta per le porcellane era stata spaccata. Ha infilato la mano tra le schegge di vetro e ha preso la statuetta di un ragazzo su una slitta, scheggiata. L'ha rimessa con cura nella vetrinetta e ha proseguito verso una rampa di scale. È salita al piano di sopra, e io l'ho seguita. C'erano due stanze dal soffitto inclinato. In una c'era un letto matrimoniale, con sopra i cassetti della toletta, spaccati, mentre i vestiti erano sparpagliati in giro. Più avanti comunicavano con un'altra stanza. «Michael,» ha chiamato la signora Garr, accendendo la luce. Una scrivania de una poltrona girevole erano ingombre di carte. Un computer era stato gettato a terra, accanto alla stampante, e lo schermo era sfondato. Dagli scaffali allineati lungo le pareti i libri erano stati sparsi su tutto il pavimento. La signora Garr è entrata con circospezione, ed è andata alla scrivania. Ha tolto le carte dalla poltrona e si è seduta. Ha appoggiato la pistola sulla scrivania e per un istante si è presa la testa tra le mani. Poi ha respirato a fondo, ha allungato la mano sotto la scrivania e ha tirato fuori qualcosa, una scatola nera con fili e tasti che sembrava un registratore. Sotto la scrivania, vicino alla poltrona girevole, c'era un pedale. La signora Garr ha premuto un tasto, ho sentito un ronzio, seguito da uno scatto, e la signora Garr ha premuto un altro tasto. Dal registratore è venuta una voce. «Ciao, mia piccola trascrittrice! Come sempre, Beth, non so dirti quanto apprezzo che tu trasferisca per me nel computer queste mie dettature. Sai che io e quelle tastiere proprio non andiamo d'accordo. So quanto sei stan-
ca dopo una giornata a Withers, e voglio che tu sappia che non arriverei da nessuna parte senza di te. Cosa ti devo stavolta? Un'altra cena al Wild Duck? Champagne? Cosa ne dici se tutti e due...» La signora Garr ha fermato il nastro, ha spinto un altro tasto, e si è sentito un ronzio molto più veloce. L'ha fermato di nuovo, e ha premuto il tasto d'avvio. «Per favore, Beth, fammi una nota perché a questo punto inserisca un altro riferimento a Comton. E adesso dell'altro testo: mi pare importante sottolineare che a questo punto Beirut non era più quasi per niente un'entità politica...» Di nuovo la signora Garr ha mandato avanti il nastro, e l'ha fatto ripartire. «Gesù, ancora?» ha detto la voce. «Aspetta, Beth, che vado alla finestra. Questo è il terzo scoppio nell'ultima mezz'ora. Forse hai sentito il rumore dell'esplosione, stavolta. Probabilmente è meglio che smetta e che vada a vedere il notiziario... Hey, questo è davvero strano, ho appena guardato fuori dalla finestra e ho visto un ragazzo con un costume di Halloween, vestito come uno scheletro. Può essere che sia ottobre, l'estate Indiana? Io...» La signora Garr l'ha mandato avanti. «...quello che voglio che tu faccia, Beth.» la voce adesso era molto seria. «Voglio che tu vada da mio fratello in Pennsylvania. Ho già parlato con lui. Sai com'è fatto. Lui saprà cosa fare. Non pensare nemmeno di fare qualcos'altro. Io cercherò di raggiungerti a Withers; se non ci riesco, ci incontreremo là. Tieni duro...» Un tratto vuoto, poi di nuovo la voce, più allarmata. «C'è qualcuno nel viale, Beth, stanno aprendo il cofano della mia auto. Cosa diavolo, stanno picchiando alla porta, Gesù, lascia...» Il nastro si è interrotto, e si è fatto silenzio. La signora Garr ha appoggiato di nuovo la testa tra le mani. Poi si è alzata, ha preso la pistola. La sua espressione era determinata. «Vieni con me, Claire,» ha detto. Mentre scendevamo le scale abbiamo sentito un rumore a pianterreno. La porta si stava richiudendo. Priscilla Ralston, la leccapiedi di Margaret Gray di Withers, era entrata in casa e ci fissava. Era sudicia, aveva i vestiti strappati, gli occhi luccicanti. «Priscilla...?» ha detto la signora Garr. «Salve, signora Garr. Margaret mi ha mandato a prendere Claire.» La signora Garr mi ha tenuto dov'ero. «Margaret Gray è viva?» «Alcune di noi ce l'hanno fatta, e ci siamo nascoste tra il legname nel
capannone vicino alla pompa dell'acqua. Ci siamo rimaste a lungo.» Mi ha guardata. «Abbiamo sognato Claire.» La voce della signora Garr era dolce e sommessa. «Priscilla, sembri molto stanca. Credo che dovresti sederti.» «Non è quello che mi hanno detto di fare.» «Ci hai seguite?» Priscilla ha confermato. «Vi abbiamo visto lasciare Withers. Margaret mi ha portata all'auto della signora Porter, perché sono capace di guidare. Con noi c'era un'altra ragazza, ma quelli nel parco hanno aperto la portiera e l'hanno trascinata fuori. Margaret sta aspettando sull'auto in fondo all'isolato.» La signora Garr ha fatto un passo avanti. «Ferma,» è scattata Priscilla, tirando fuori un lungo coltello e agitandolo minacciosamente davanti a sé. «Non si avvicini, signora Garr. Lasci solo venire Claire con me.» «Non lo permetterò,» ha risposto la signora Garr. «Deve. Margaret la vuole.» «Priscilla,» ha detto con gentilezza la signora Garr avanzando ancora di un breve passo. «Margaret mi ha detto di ucciderla...» Priscilla è balzata sulla signora Garr, con gli occhi duri e accesi. La signora Garr ha alzato la pistola. Quando Priscilla ha abbassato il coltello la signora Garr ha colpito Priscilla alla tempia col fianco della pistola. Priscilla si è accasciata con un grugnito. La signora Garr si è inginocchiata ad esaminare il corpo prono di Priscilla. «Devo averle fatto perdere i sensi.» Quando ha girato Priscilla è rimasta senza fiato vedendo il coltello piantato nello stomaco della ragazza in mezzo a una chiazza di sangue che continuava ad allargarsi. Priscilla si è irrigidita tra le braccia della signora Garr, e poi il suo corpo si è sfaldato. La signora Garr si è alzata, ha puntato la pistola con mano tremante, e ha sparato. Il corpo di Priscilla Ralston si è dissolto in polvere. La signora Garr mi ha preso delicatamente per un braccio, mi ha guidato verso la porta di servizio, e poi di nascosto all'auto. Mentre ci allontanavamo ho guardato dal vetro posteriore e ho visto la figura alta e sottile come un'apparizione di Margaret Gray scendere da un'auto in fondo all'isolato e correre verso la casa della signora Garr.
4 Abbiamo proseguito di notte. Io mi sono sdraiata sul sedile posteriore, ma ho tenuto la testa abbastanza in alto per vedere. All'inizio abbiamo preso strade secondarie, ma dopo esserci imbattute in due bande di scheletri, una a piedi e una che pattugliava i dintorni in auto, la signora Garr si è decisa per l'autostrada di Long Island. I lampioni sull'autostrada erano accesi, ma il traffico era per lo più costituito da veloci autocarri, che ci ignoravano. La signora Garr teneva i finestrini alzati e l'aria condizionata inserita. Ha acceso la radio; si sentivano soprattutto scariche di elettricità statica, ma alcune stazioni stavano trasmettendo. Il notiziario di una rete gestita da scheletri descriveva la battaglia che si svolgeva tra due forze avverse in Messico. Un altro canale suonava musica classica, interrotta da bollettini da tutto il mondo. Anche quella era controllata da scheletri. Proprio a fondo scala la signora Garr ha trovato una stazione appena percettibile, condotta da umani spaventati e frettolosi che dicevano di essere su un furgone da qualche parte a nord del New Jersey, e che stavano trasmettendo a un satellite. Riferivano che la distruzione dilagava nello stato, e dicevano che stavano tentando di organizzare una rete internazionale. Bruscamente hanno smesso di trasmettere, e abbiamo sentito solo elettricità statica. La signora Garr ha spento la radio. Quando abbiamo raggiunto la periferia del Queens sull'autostrada di Long Island, il traffico si è intensificato. Adesso c'erano più autocarri. La signora Garr si è allontanata dal finestrino, spostandosi verso il centro del sedile. Un indicatore sopra di noi ci avvertiva di rallentamenti su tutti i ponti, e che il Lincoln Tunnel era chiuso. La signora Garr si è diretta sulla corsia di destra e vi è rimasta fino a quando ha trovato l'indicazione THROGS NECK/WHITESTONE BRIDGE. Sull'autostrada di Cross Islands, che conduce ai ponti, il traffico era più leggero, specialmente nella corsia di sinistra. La signora Garr si è spostata a sinistra. Mentre ci avvicinavamo alla rampa di uscita per Throgs Neck Bridge, la signora Garr osservava la lunga coda di auto e autocarri che aspettavano di immettersi nella corsia di destra. «Usciremo a Whitestone,» ha detto, accelerando di nuovo nella corsia di sinistra.
Whitestone Bridge era quasi deserto. Eravamo oltre la metà quando la signora Garr ha iniziato a rallentare, guidando con una mano sola e cercando disperatamente con l'altra nella borsetta. «Oh, per favore,» ha detto. Ha trovato il borsellino della moneta e ci ha frugato dentro. Un autocarro ci ha tagliato la strada e si è immesso sulla nostra corsia, e la signora Garr quasi ci andava contro. Ha allungato il braccio verso il sedile posteriore e mi ha messo in mano il borsellino. «Claire, ti prego, trova due dollari e cinquanta centesimi in moneta. Dobbiamo servirci del pedaggio automatico.» Ho frugato nel borsellino. Eravamo strette da ogni parte da autocarri che si dirigevano verso la barriera. La signora Garr ha allungato il collo, ha visto che ci trovavamo in una corsia dove c'era un impiegato scheletro che incassava il pedaggio nella cabina più avanti. Ha guardato a destra e poi a sinistra, e d'un tratto ha sterzato a destra davanti a un autocarro nella corsia adiacente, che ha suonato il clacson ma ci ha lasciato passare. Il cartello sopra la cabina diceva: SOLO MONETA ESATTA. NIENTE CENTESIMI. «Claire, per favore!» Ho messo le monete in mano alla signora Garr, che le ha contate. Eravamo quasi alla barriera. «Non sono abbastanza!» L'autocarro davanti a noi si è fermato con uno sbuffo. Lo scheletro di un braccio si è sporto e ha lasciato cadere le monete nel cesto per il pedaggio. «Dio, dovremo forzare la barriera!» Più avanti a destra era parcheggiata un'auto, bianca e azzurra della polizia, e il teschio di uno scheletro osservava le auto che passavano dalla barriera. L'autocarro davanti a noi ha accelerato e ha messo la prima, mentre la luce diventava verde e la sbarra si alzava. L'autocarro è passato, e la sbarra si è riabbassata. La luce è diventata rossa. Nel borsellino della signora Garr ho sentito una tasca con un rigonfiamento rotondo, chiusa da una piccola cerniera. L'ho aperta e ho guardato dentro. Dietro di noi l'autocarro al quale la signora Garr aveva tagliato la strada ha suonato rabbiosamente il clacson. La signora Garr è avanzata fino al cesto del pedaggio, e ha guardato il poliziotto sull'auto bianca e azzurra che
stava bevendo da un bicchierino di plastica, dal quale il vapore si levava attorno al suo teschio. Nel taschino con la cerniera c'era una grande moneta rotonda. L'ho tirata fuori. Era mezzo dollaro con il profilo di John Kennedy. Mi sono sporta verso il sedile davanti e l'ho premuto nella mano della signora Garr. Lei l'ha guardato per un secondo senza capire. L'autocarro ha suonato ancora il clacson. «Oh, buon Dio, grazie,» ha detto la signora Garr. «Claire, sta' giù.» Mentre mi abbassavo ho visto il poliziotto guardare dalla nostra parte sopra il suo caffè. La signora Garr si è voltata verso l'automatico, ci ha buttato la manciata di monete, e ha tenuto la faccia girata dalla parte opposta del poliziotto. Non appena la luce è diventata verde e la sbarra si è alzata, ha premuto sull'acceleratore e siamo partite. Mentre ci allontanavamo ho guardato di nascosto il poliziotto. Si era rimesso a bere il suo caffè, e non badava più a noi. «Ci siamo andate vicino,» ha detto la signora Garr. Le campate di Whitestone Bridge si sono allontanate alle nostre spalle. La signora Garr teneva la destra, e molte auto e molti autocarri ci sorpassavano sulle corsie di sinistra. Ho guardato indietro, l'acqua sulla quale eravamo appena passate. Un battello era affondato a metà, e dallo scafo spaccato fuorusciva del vapore. Un rimorchiatore che tirava una chiatta di rifiuti passava lì vicino come se non fosse successo niente. Le vele degli yacht ormeggiati punteggiavano la costa dietro di noi. Poco lontano si vedeva il ponte gemello di Whitestone, il Throgs Neck, gremito di auto ferme lungo tutta la campata. «Sai, Claire,» ha detto la signora Garr, «io non credo nei miracoli. Ma quel mezzo dollaro di Kennedy lo era, uno piccolo. Quand'ero ragazza, dopo l'assassinio del Presidente Kennedy, mia nonna mi diede quella moneta. Era una delle prime che erano state coniate. Lei adorava John Kennedy. Mi disse di tenerla sempre con me, che un giorno avrebbe avuto valore. Io credetti che intendesse che sarebbe valsa del denaro. Per molto tempo sono stata attenta a quanto saliva il suo valore. Mi ero dimenticata che fosse lì dentro.» Si è voltata brevemente a guardarmi, e i lineamenti tesi si sono rilassati in un sorriso. «Sai che l'ultima volta che ho controllato, quella moneta valeva quattordici volte il costo originale?» Si è rivolta alla strada, scuotendo la testa. «Non puoi mai sapere...» Ho sentito lo stridore di un motore a reazione, e ho girato la testa appena
in tempo per vedere un argenteo caccia puntare verso il ponte alle nostre spalle. La signora Garr ha trattenuto il respiro. All'ultimo istante il caccia è sceso sotto il ponte, e subito ho guardato dall'altra parte, e l'ho visto sfrecciare verso il Throgs Neck Bridge. Il pilota nella cabina era umano. Si è sentito un sibilo, e qualcosa si è staccato dall'ala del caccia. «È un missile!» ha esclamato la signora Garr. Il caccia ha deviato verso destra, mentre il missile si dirigeva dritto sul Throgs Neck Bridge. Da sinistra un altro aereo si è infilato sotto il Whitestone Bridge, poi un altro. Questi due erano pilotati da scheletri, e si sono buttati a destra all'inseguimento del primo aereo. Il missile ha compiuto un arco verso il Throgs Neck Bridge e l'ha colpito a metà campata. C'è stato un lampo bianco e arancione; il ponte ha retto, come in sogno, per un attimo, e poi è crollato, spaccandosi in due. I cavi di sostegno si sono spezzati contorcendosi come spaghetti, e ho sentito il lontano suono dei clacson, e ho visto le luci dei minuscoli autocarri e delle auto cadere vorticando nella notte. Dove prima c'era il ponte, adesso c'erano solo gli autocarri che precipitavano giù dai parapetti di recente costruzione assieme alle macerie del fondo stradale esploso. I caccia adesso stavano volando sopra la terra ferma. Il pilota umano si è alzato ad angolo acuto, e in quel momento i suoi due attaccanti hanno sparato i missili. L'umano ha cercato di superarli salendo a picco, ma i missili erano veloci e guadagnavano su di lui. Il pilota è scivolato a sinistra e il primo missile gli è sfrecciato accanto, ma quasi immediatamente il secondo missile l'ha colpito. C'è stato un lampo, e uno scoppio assordante. L'aereo del pilota umano si è fermato, immobile nel cielo, poi è caduto a terra a pezzi. I detriti dell'aereo sono atterrati sparsi sulla costa lontana. C'è stata una fiammeggiante esplosione, una pioggia di schegge infuocate. Una barca a vela ha preso fuoco, la vela si è tramutata in un triangolo di fiamme prima di ripiegarsi su se stessa e di affondare. Un altro aereo è apparso lontano dietro di noi, diretto verso Whitestone Bridge. Ho visto la scia fiammeggiante del missile che è esploso in mezzo alla campata che avevamo appena lasciato. La terra ha tremato. Una palla di fuoco si è ingigantita ed è rotolata verso di noi. La signora Garr ha premuto sull'acceleratore e siamo balzate in avanti.
L'esplosione quasi ha riempito il vetro posteriore, e poi si è ritirata crollando su se stessa. Ho visto un'autocisterna uscire dall'incendio in fiamme, ed esplodere con un boato. L'abitacolo si è rovesciato su un fianco, l'autocisterna si è capovolta, bruciando e appiccando il fuoco alle auto vicine. Dietro l'autocisterna il Whitestone Bridge era scomparso. 5 Ci trovavamo sull'autostrada di Cross Bronx, e il traffico stava aumentando. Abbiamo proseguito per due miglia, finché improvvisamente il traffico si è infittito fino a fermarsi. La signora Garr ha allungato il collo per cercare di vedere. «Oh, no,» ha detto. Davanti a noi le due corsie esterne erano bloccate dalle auto bianche e azzurre della polizia. Un gregge di poliziotti scheletri stava controllando ogni auto che passava dall'ingorgo. Sulla destra, appena prima del posto di blocco, c'era una rampa di uscita che diceva BRONX RIVER PARKWAY. C'era una corsia di servizio, ingombra di macerie ma utilizzabile. La signora Garr ha cominciato a percorrerla per arrivare all'uscita, finché ha visto la rampa bloccata dalle barricate della polizia. In cima alla rampa c'era un grosso automezzo, come un autobus scolastico, che bloccava l'accesso alla rampa. La signora Garr è ritornata in fretta nella corsia, e ha cercato di spingersi verso quella centrale. Due autocarri erano a poca distanza l'uno dall'altro, e la signora Garr ha tagliato la strada a quello dietro, ignorando lo sblaterare del clacson, e ha guardato disperatamente nella corsia di sinistra, anch'essa bloccata da auto in fila. Una ragazzina, le cui fattezze erano appena rivelate dalla piccola struttura ossea, ci fissava dal vetro posteriore di un'auto più avanti. Aveva una bambola dall'aspetto umano, alla quale aveva strappato i vestiti, e su cui aveva poi disegnato ovunque delle ossa. La signora Garr ha atteso che si aprisse un varco tra due auto. Quando una si è mossa, lasciando un piccolo spazio, prima che l'auto dietro lo occupasse la signora Garr ha sterzato bruscamente a sinistra e ha cercato di incunearsi tra le due. L'auto dietro, una grossa Cadillac, non voleva farla passare, e si è spostata in avanti fino a lasciare pochissimo spazio. La signora Garr ha insistito, e la Cadillac ha dovuto frenare di colpo per evitare la collisione, lasciandole spazio.
La portiera dell'auto dietro a noi si è aperta. Uno scheletro enorme, con le vaghe fattezze di un uomo corpulento e muscoloso con una maglietta nera, è sceso e si è diretto verso di noi sbattendo la portiera e gridando. La signora Garr ha preso la pistola dal sedile davanti. Le auto attorno a noi hanno cominciato a suonare il clacson. Cinque auto più avanti un poliziotto ha alzato lo sguardo, e ha urlato all'uomo di tornare alla sua auto. L'uomo si è fermato di fianco alla portiera posteriore della nostra auto, esitante. «Ho detto di tornare dentro!» ha urlato ancora il poliziotto. «Cosa diavolo sta succedendo, ad ogni modo?» ha strillato l'uomo. «Alcuni umani sono passati di qui poco tempo fa, con le auto cariche di armi. Salga sulla sua auto e stia tranquillo.» «Li avete presi?» ha chiesto l'uomo. «Sì, li abbiamo presi. Adesso lei...» «Va bene, va bene,» ha detto l'uomo corpulento, levando le mani al cielo. Ha picchiato forte sul baule dell'auto della signora Garr col piatto della mano, è ritornato alla sua auto, ed è salito. Né il poliziotto né l'uomo ci avevano guardato. Ma la ragazzina sul sedile posteriore dell'auto davanti a noi, con in mano la bambolina, ci stava ancora fissando. Avanzavamo a poco a poco. Quattro auto più avanti i poliziotti guardavano dentro i. finestrini, e facevano passare un'auto alla volta, mentre queste si stringevano nell'unica corsia. Eravamo già in posizione obliqua verso il centro quando la signora Garr ha cominciato a studiare il divisorio dell'autostrada alla nostra sinistra. «Là.» Appena prima della strozzatura c'era un passaggio nel divisorio, come se fosse stato causato da un incidente. C'era solo un cordolo un po' alto. Mentre guardavamo, un'auto di fronte a noi ha deciso di non aspettare, è salita sul cordolo e si è allontanata. «Hey!» ha gridato un poliziotto. «Meglio chiudere quel buco,» ha detto un altro. Il primo poliziotto ha annuito, ed è andato a prendere due coni autostradali arancioni da un mucchio lì vicino. Le auto continuavano ad avanzare. «Torniamo indietro, Claire.» Il poliziotto aveva trovato i coni che cercava e noi eravamo ancora di un'auto lontane dal buco. L'auto davanti a noi ha fatto uno scatto, quasi ur-
tando il poliziotto che stava ritornando con i coni, e ha lasciato spazio sufficiente perché noi potessimo passare. La signora Garr ha sterzato a sinistra e siamo saltate sul cordolo. Sotto l'auto abbiamo sentito il rumore della strisciata, e per un attimo siamo rimaste sospese. La signora Garr ha imballato il motore, e l'auto è strisciata oltre l'ostacolo e attraverso il passaggio, portandoci dall'altra parte del divisorio. Un'auto in arrivo ci ha suonato dietro, ha sterzato per evitarci, e ha proseguito. Il poliziotto si è fermato a urlare contro l'auto che per poco lo investiva. Dal vetro posteriore la ragazzina ci fissava, e quando ci siamo rimesse in strada e siamo ripartite ci ha salutato, agitando la bambola. Alle nostre spalle il poliziotto ha chiuso il buco con i coni. 6 «Se non possiamo passare da nord, dovremo attraversare New York City,» ha detto la signora Garr. Aveva abbandonato l'autostrada di Cross Bronx per quella di Deegan, ma anche quelle corsie dirette a nord erano bloccate dalle auto della polizia. Tutte le rampe delle uscite per le strade dirette a nord erano chiuse o sorvegliate da poliziotti armati. Abbiamo proseguito, verso New York City. Siamo passate a destra dell'enorme tre quarti di cerchio che era lo Yankee Stadium, in fiamme. Il cartellone, visibile dietro il fumo rischiarato dalle fiamme, diceva YANKS VS. TWINS, 2, 3, 4 LUGLIO. 4 LUGLIO, FUOCHI D'ARTIFICIO. Mentre guardavo, la parte superiore dello stadio, già minata dall'incendio, è crollata su se stessa, esplodendo nel cielo una scia di scintille. Adesso il traffico era diminuito. La signora Garr ha acceso di nuovo la radio. Da una e dall'altra parte della banda si sentivano solo scariche di elettricità, ma improvvisamente un'emittente molto forte ha proclamato a gran voce: «Abbiamo fatto esplodere quasi tutti i maggiori ponti! Questa guerra non finirà finché la razza umana non dominerà ancora il mondo!» La voce affannosa si è allontanata dal microfono e si è messa a discutere con altre voci indistinte. «Il George Washington Bridge è saltato! Abbiamo colpito il George Washington Bridge!» La voce è stata interrotta da un mitragliare di colpi, poi ha gridato al microfono: «Serrate le file! Abbandonate le strade! Abbandonate...»
Abbiamo sentito un grido mozzato, un forte sibilo, poi più nulla. La signora Garr ha spento la radio. Dietro di noi, in lontananza, si vedeva un'ardente palla di fuoco che avrebbe potuto essere stata il George Washington Bridge. 7 Harlem era in fiamme. Le tenebre della notte erano illuminate di arancione, le strade erano coperte di detriti e veicoli bruciati. Una squadra di auto della polizia stava bruciando in un angolo, e contro di esse si era schiantato un autocarro del servizio fognario, che bruciava in disparte. Nelle strade silenziose c'erano mucchi di polvere. Non ho visto una finestra che avesse i vetri, un'auto che non avesse il parabrezza sfondato. Guidavamo attraverso un labirinto di carcasse in fiamme. Quando abbiamo raggiunto la Novantacinquesima strada, la situazione non era diversa. Tutti i lampioni erano spenti, ma la città era illuminata dagli incendi. Nella Novantaduesima strada ci siamo imbattute in un blocco stradale che rendeva impercorribile la Seconda Avenue. Sembrava che l'avessero fatto apposta; auto accartocciate e autobus rovesciati erano stati ammucchiati in una parete alta e solida che chiudeva la strada. La signora Garr ha svoltato verso ovest. La stessa cosa era successa nella Terza Avenue, a Lexington, al Madison: barricate compatte di veicoli che erano stati spinti o parcheggiati o ammassati in mezzo alla strada. Abbiamo continuato verso ovest, e non abbiamo visto nessuno. Era come se la città si fosse isolata. Quando abbiamo raggiunto Broadway, abbiamo trovato la strada improvvisamente libera e aperta, e la signora Garr ha girato verso sud. I negozi di Broadway erano sventrati. Ho visto solo un'auto aggirarsi furtiva come noi tra gli autobus anneriti, le auto rovesciate, i mucchi di polvere. Non c'erano poliziotti, né umani. Una fila infinita di semafori lampeggiava rosso, verde, giallo, una ripetizione di quello che avevamo visto nel villaggio quasi deserto di Cold Spring Harbor. Alla Cinquantasettesima strada la città improvvisamente ha ripreso vita. Prima uno scheletro ci ha attraversato la strada, barcollando, con un sacchetto dal quale spuntava ben visibile il collo verde di una bottiglia. La figura si è fermata, non ci ha prestato alcuna attenzione, ha alzato la bottiglia alla bocca di scheletro, e ha bevuto. Non ho visto niente scendergli nel
corpo, sebbene lo scheletro avesse fatto un lungo sorso. Tra le fiamme di un negozio per signore poco lontano ho visto il vago profilo di un uomo con un abito a tre pezzi attorno allo scheletro. La figura ha vuotato la bottiglia, l'ha lasciata cadere per strada, ed ha continuato ad inciampare senza degnarci di uno sguardo. Ho visto degli altri scheletri. Due erano seduti di fronte a un negozio, il primo che vedevamo con la vetrina intatta, con i fucili in grembo, e ci hanno guardato passare. Uno di loro ha guardato meglio, cercando di vedere attraverso i finestrini, ma non si è alzato. Vicino alla Quarantottesima strada abbiamo visto una luce improvvisa. I lampioni erano accesi, e le pensiline dei teatri erano illuminate dalle insegne al neon. Gli scheletri passeggiavano, a gruppi di due o tre, e molti erano armati. Alcuni teatri erano distrutti e chiusi, ma alcuni erano aperti. Un cartellone annunciava: SPETTACOLO DI VARIETÀ' UMANO, TUTTA LA NOTTE! CONVERSIONI DAL VIVO! Un altro diceva: SEXY SHOW DI MORTI! XXX! Su qualcuno dei lampioni, dalle facciate degli edifici, erano stati legati dei nodi scorsoi. Fuori da un teatro che proclamava: VIVI! MORTI! ABBIAMO DI TUTTO!, una donna umana, poco vestita e urlante, è corsa in strada, è inciampata ed è caduta. Alcuni passanti si sono girati a guardare uno scheletro alto uscire a lunghi passi dal teatro e puntarle una pistola alla schiena. «Ultima possibilità!» La donna si è voltata a guardarlo, singhiozzando. «No! Non lo farò con quella cosa!» Lo scheletro si è stretto nelle spalle, ha tirato il grilletto e le ha piantato una pallottola in corpo. La donna è rovinata a terra, e un momento dopo la sua forma umana si è sfaldata, diventando uno scheletro. Si è alzata in piedi ridendo, e si è avvicinata allo scheletro alto, cercando di mettergli un braccio al collo. «D'accordo, Clyde, nessun prob...» «Ho detto l'ultima possibilità!» Lo scheletro alto le ha piantato in corpo un'altra pallottola. La donna ha gettato un gridolino e si è tramutata in polvere. «Questi dannati umani stanno scarseggiando,» ha detto lo scheletro alto alla folla che si stava disperdendo, poi si è girato ed è rientrato nel teatro. Abbiamo raggiunto la Quarantaduesima strada. Le luci erano splendenti, la folla una moltitudine. Uno scheletro basso ha attraversato la strada va-
cillando, si è buttato sull'auto, ha cercato di restare in piedi. Ho visto il profilo di un ago che sporgeva dal suo braccio spettrale. «Mer...» ha detto con voce indistinta, tentando di stare dritto. Improvvisamente ha guardato nel finestrino, e ha fissato da vicino la signora Garr con occhi spalancati. «Hey... voi siete...» La signora Garr ha spinto sul gas, ha evitato un taxi giallo, si è buttata sulla destra e ha svoltato all'incrocio successivo, mentre la figura dietro a noi è caduta carponi in mezzo alla strada, e cercava di rialzarsi. Una fila di teatri, lo Schubert, il Nederlander, erano praticamente tutti bui, ma una pensilina che proclamava LE MICETTE! IL PIÙ GRANDE SUCCESSO DI BROADWAY!, con il disegno recentemente aggiunto dello scheletro di un gatto, era accesa, e lungo tutto l'isolato c'erano code di scheletri che aspettavano di entrare. Abbiamo incontrato un altro blocco di auto distrutte, che ci ha costretto a svoltare a sinistra. Di fronte, una folla si era ammassata davanti a un hotel, e si stava disperdendo per strada. Fra di essi c'erano anche dei poliziotti, ed è stato sparato un colpo. La folla si è riversata in strada molto più in fretta, impedendo quasi il passaggio. Pochi isolati più in là un'ampia colonna di veicoli militari si stava facendo strada nella nostra direzione. C'erano mitragliatrici, cisterne, convogli di soldati. La signora Garr ha girato ancora a sinistra, in una stradina buia. Alcuni scheletri ci sono passati a fianco, con la testa bassa. Sulla Quinta Avenue abbiamo potuto svoltare di nuovo verso il centro, e siamo passate attraverso un altro blocco nel quale si apriva un'unica corsia. Tutta la parte bassa della città era al buio, e di nuovo le strade erano vuote. Alla nostra destra giganteggiava l'Empire State Building. Era completamente senza corrente, e la sua guglia puntava verso il cielo malinconico. La signora Garr ha fermato l'auto. «Claire,» ha detto, puntando un dito. Sulla porta dell'edificio è apparsa una donna umana, che ha guardato furtivamente nella nostra direzione ed è ritornata nelle viscere dell'Empire State Building. Accanto a lei ho visto la fugace immagine di un uomo con un fucile. La signora Garr ha spento il motore. «Svelta, Claire.» Dalla strada alle
nostre spalle è venuta un'esplosione sorda, e il fragore delle raffiche delle mitragliatrici. La signora Garr ha preso la pistola e siamo corse fino all'entrata principale dell'Empire State Building. Era chiusa a chiave. Lungo la strada gli spari si sono fatti più incalzanti. Tra due edifici ho visto un accecante lampo di luce seguito da vicino da un sibilo. La terra ha tremato. «Dobbiamo fare qualcosa,» ha detto la signora Garr. Ci siamo dirette verso l'auto. Dietro di noi la porta dell'edificio si è spalancata, e un fucile è stato puntato contro di noi. «Entrate, all'inferno,» ha detto una voce. 8 Siamo entrate. Immediatamente la porta è stata chiusa di nuovo, a chiave, dall'uomo col fucile. Era robusto, e poteva avere circa vent'anni. Portava la divisa dell'esercito, con la camicia aperta sul collo. Ha preso la pistola dalla mano della signora Garr e se l'è infilata nella cintura. Poi ci è passato davanti in fretta e si è diretto verso una fila di ascensori. Accanto agli ascensori c'era una radio dell'esercito che sembrava una scatola, col quadrante illuminato. La donna che avevamo visto ci aspettava all'interno di un ascensore aperto e fiocamente illuminato. «Dentro,» ha detto l'uomo col fucile. Siamo entrate nell'ascensore. «Vai.» L'uomo ha fatto un cenno alla donna, la quale ha spinto un bottone. L'uomo è restato nel corridoio, e noi abbiamo visto le porte chiudersi e lasciarlo indietro. L'ascensore si è sollevato con un gemito metallico. «Ci vorrà qualche minuto per salire, l'energia ausiliaria è debole,» ha detto la donna, all'incirca di mezza età, dall'aspetto sparuto. Continuava a rigirare la fede nuziale che portava all'anulare sinistro. «Lei...» ha cominciato la signora Garr. «Vi prego di non parlare,» ha detto la donna, distogliendo lo sguardo. Siamo salite in silenzio. Una o due volte l'ascensore si è bloccato. Noi aspettavamo che le porte si aprissero, ma la cabina era semplicemente immobile. La donna pareva esausta. Dopo un poco l'ascensore si è rimesso in moto con uno scatto, e ha ripreso a salire lentamente.
Dopo quella che ci è sembrata un'ora, l'ascensore si è fermato ondeggiando e le porte si sono aperte. La donna è scesa nell'oscurità, e noi l'abbiamo seguita. In fondo al corridoio c'era una finestra, che ci concedeva una luce tremolante dei lontani incendi che divampavano all'esterno. Dopo alcuni minuti ci siamo abituate alla penombra. Abbiamo passato un cartello che diceva PONTE PANORAMICO. La donna ha svoltato in un'apertura, e ha iniziato a salire una rampa di scale di acciaio. In cima c'era una porta, alla quale ha bussato due volte. La porta si è aperta stridendo, sul volto sconosciuto di un giovane di circa tredici anni, dallo sguardo duro. «Questi sono gli ultimi,» ha detto. «I prossimi che Randy lascia entrare, io sparo.» Ha aperto completamente la porta, rivelando l'enorme pistola che teneva in mano, e siamo uscite sul ponte panoramico. Accanto al ragazzo c'erano altre due persone, un uomo e una donna anziani, in piedi vicino a uno dei telescopi, e facevano a turno per guardarci dentro. «Quei due sono toccati,» ha detto il giovane prima di allontanarsi. Si è seduto con la schiena contro la parete e ha posato il fucile in grembo. La donna che era salita con noi sull'ascensore è tornata giù per i gradini della scala d'acciaio, e si è richiusa la porta alle spalle. «Se la sta facendo col soldatino da basso. Io lo so,» ha detto il ragazzo, ridendo sotto i baffi. C'era un vento leggero, lassù, che soffiava un odore acre. Il cielo era nero e arancione. Sorprendentemente, sopra la nostra testa splendevano ferme alcune stelle. La signora Garr ed io abbiamo iniziato a camminare da un angolo del ponte panoramico, e abbiamo fatto un lento giro, guardando giù verso la città. La maggior parte degli incendi era a nord, la direzione dalla quale eravamo venute. Più vicino, la città sembrava essere stata tagliata in sezioni, alcune completamente intatte, altre devastate da violenti incendi. Ogni cosa sotto di noi era al buio. «Gli incendi al centro si sono spenti,» ha detto il ragazzo. Si era alzato dal suo posto ed era venuto vicino a noi. Aveva ancora la pistola. «Ieri hanno combattuto per tutta Soho e il Village. Si vedevano sparare i cannoni, e i buchi che facevano. Stamattina hanno dato il tocco finale al Bowery. Oggi il grosso dell'azione si è svolto nei quartieri alti.» L'uomo e la donna anziani si sono avvicinati, e il ragazzo ha fatto un verso di disgusto, poi è tornato a sedersi e ha richiuso gli occhi. «Vecchi
idioti senza cervello,» ha detto. Gli occhi dell'uomo brillavano di interesse. Indossava una giacca sportiva di tweed con le toppe sui gomiti, e la sua cravatta era perfettamente annodata. Ha tirato fuori di tasca una pipa e ha cercato di accenderla, ma senza successo. «Lawrence, continui a dimenticarti che hai finito il tabacco,» gli ha detto sua moglie con dolcezza. Sul volto di Lawrence è apparsa un'espressione di disappunto. Ha abbassato gli occhi sulla via sotto di noi. «E il negozio di pipe Petersen era a solo pochi isolati di distanza...» La moglie gli ha battuto affettuosamente la mano sul braccio. Lawrence si è illuminato. «Ma un prezzo così esiguo da pagare per ottenere simili guadagni,» ha detto. «Sapete...» «Oh, Cristo, ci risiamo!» ha detto il ragazzo con la pistola. Lawrence si è girato a guardare il giovane. «Come ho detto, Ralph, proprio non riesco a capire perché i giovani come te non vedono le strabilianti opportunità che implica tutto questo...» «Smetti di fare la predica, vecchio,» ha detto Ralph tenendo gli occhi chiusi. Lawrence si è rivolto a noi. «Quel giovanotto ha dei proiettili per la sua pistola. Davvero non capisco come Randy possa permettere a un ragazzino...» «Se non la pianti, vecchio, ne userò un paio su di te,» ha detto Ralph, coprendosi le orecchie e cullando la pistola che aveva in grembo. Lawrence ha scosso la testa e ha continuato: «Ma come stavo dicendo, sapete quanto è notevole tutto questo?» «È notevole,» ha risposto la signora Garr, «ma orribile.» «Orribile, sì, è vero,» ha detto Lawrence pensieroso. «Ma dovete considerare tutto l'insieme. Prima che mi ritirassi dalla Columbia University...» «Cristo, adesso ricomincia con la lezione di storia!» Ralph si è alzato e si è allontanato definitivamente da noi, verso l'altro lato del ponte panoramico. «Avanti, caro, racconta,» ha detto la moglie di Lawrence. Lawrence ha guardato Ralph che se ne andava, poi ha ripreso: «Che giovanotto sgradevole. Ma come stavo dicendo, questo evento offre notevoli opportunità. In questo momento stiamo davvero vivendo nel passato.» «E il passato sta tentando di ucciderci,» ha detto la signora Garr.
«È vero,» ha detto Lawrence. «È vero. Ma contemporaneamente lo stiamo vedendo. Sapevate che prima del black-out televisivo tre giorni fa, potevamo sentire Giulio Cesare che parlava? E Archimede? C'era quella stazione, qual era, cara?» «La CNN, Lawrence,» gli ha suggerito la moglie. «Sì, la CNN, che veramente ha cercato di dare un senso a questo nuovo mondo, per un giorno o due...» È stato interrotto da una forte esplosione poco lontano. Ho guardato giù, e a destra. Un carro armato stava attraversando la Trentaseiesima strada, per girare nella Quinta. «Oh, cielo,» ha detto Lawrence, dando una rapida occhiata e riportando subito la sua attenzione su di noi. «Tu che opinione hai di tutto questo, cara?» mi ha detto. «Sembri una ragazza intelligente.» La signora Garr mi ha stretto a sé. «Claire non parla.» «Non parla...» ripeté Lawrence. «Sono così spiacente per te, signorina.» Mi ha sfiorato il braccio con sguardo triste. «Racconta, Lawrence,» ha insistito sua moglie. «Dovrebbero sapere.» «Sì,» ha detto Lawrence. «Poiché siete così tanto più giovani di me e di mia moglie Katherine, dovreste venire informate che il destino della razza umana è segnato.» La signora Garr non ha fatto commenti. «Ho paura che sia vero,» ha continuato Lawrence. «Non perché i morti sono più numerosi dei vivi. Il loro numero è già stato significativamente ridotto dalla violenza. Nemmeno a causa della violenza innata che sembra albergare nei confronti dei vivi, e del desiderio che hanno di convertire i vivi in creature come loro stessi. La ragione è, secondo la mia opinione, che essi hanno semplicemente delle menti migliori di noi. Capi migliori. In questo stesso istante, nelle capitali di tutto il mondo, si stanno svolgendo lotte per la conquista del potere. Ci sarà una grande guerra tra i ranghi dei morti, nella quale tutti i più forti si giocheranno il dominio del mondo. Ma pensate a queste menti eccelse: Napoleone, Ramsete II, Enrico V! Molti di loro moriranno, e moriranno coloro che non si adatteranno rapidamente alla tecnologia moderna, come il povero Giulio Cesare, che ha piazzato delle catapulte all'interno del Vaticano, ed è stato rovesciato il giorno dopo che quella rete...» «CNN, Lawrence,» lo aiutò gentilmente la moglie. «Sì, il giorno dopo che la CNN ha parlato con lui. Il controllo della CNN è stato presto assunto da gruppi radicali, dapprincipio dagli uomini del Ku
Klux Klan del periodo centrale di questo secolo, il cui numero si è rivelato inadeguato, e poi dal governo provvisorio di Atlanta, che attualmente è capitanato da Huey Long.» Si è fermato, ha tirato fuori la pipa, si è palpato le tasche. «Se solo avessi un po' di tabacco...» «Vai avanti, caro,» ha detto Katherine. «Sì... dunque, la mia opinione è che si sta svolgendo una battaglia, e coloro che si adatteranno in fretta e bene, e con maggiore intelligenza, prevarranno. E quando la guerra tra i morti sarà finita, allora essi daranno al mondo un nuovo ordine, nel quale temo che noi non avremo parte. Così verremo convertiti, come si dice, oppure» fece un gesto con la mano «cancellati dalla faccia della terra.» «Non è terribile?» ha detto sua moglie. «Terribile, sì,» ha confermato Lawrence, «ma inevitabile, temo.» Bruscamente Lawrence si è allontanato da noi, è andato al parapetto del ponte panoramico, e ha guardato giù. La moglie l'ha seguito tristemente con lo sguardo. «Ha ragione, sapete,» ha detto. «Aveva ragione anche sul Giappone e sulla Seconda Guerra Mondiale, e sul Vietnam. Allora gli hanno dato ascolto, e c'erano dei giornali che pubblicavano i suoi articoli. Ma da quando è andato in pensione nessuno lo ascolta più. Credo che se solo avesse il suo tabacco, e qualcuno che pubblicasse le sue idee, sarebbe così contento.» Si è avvicinata a suo marito, e l'ha abbracciato. «Sta iniziando una battaglia!» ha detto Lawrence eccitato. Di sotto c'è stato un lampo, e un'esplosione sorda, seguita immediatamente da altre due. Ci siamo sporte anche noi dal parapetto. Ralph è apparso dall'altra parte del ponte e ci ha raggiunti. «Merda santa,» ha detto. Lawrence ha scosso la testa. «Questi giovani, che linguaggio sboccato...» È stato zittito da un'altra fulgida esplosione a mezza costa dell'Empire State Building. Abbiamo sentito vacillare l'edificio. Ho seguito la linea di fuoco fino a un obice che si era piazzato sulla Quinta Avenue, mezzo isolato davanti a noi. «Faranno arrivare le forze aeree tra poco» ha detto Lawrence. «Non è noi che vogliono. Scommetto che non sanno nemmeno che esistiamo. Stiamo assistendo a una battaglia per il controllo di New York City, tra le
forze più vecchie e meno meccanizzate di Theodore Roosevelt, e quelle più moderne comandate da suo cugino Franklin Delano. FDR vincerà, almeno qui. Temo però che scoprirà che il controllo di New York non è più una garanzia per vincere la carica nazionale. Sarebbe dovuto andare direttamente a Washington, se era quello che voleva. Mi mancano davvero quei bollettini della...» «CNN, Lawrence,» ha detto sua moglie, senza traccia di irritazione. «Povera me,» ha aggiunto quasi immediatamente. «Quella non è...» Suo marito era andato al telescopio a pagamento, l'aveva girato, e lo stava puntando sulla strada, di fronte ai carri armati. Si è staccato dallo strumento e si è messo a frugarsi furiosamente nelle tasche. «Suppongo che voi non abbiate...» ha cominciato a chiedere alla signora Garr. «Tieni, Lawrence,» gli ha detto la moglie, mettendogli in mano un quarto di dollaro. «Ma è l'ultimo.» Il professore si è girato di nuovo verso il telescopio, ha inserito ansiosamente la moneta da venticinque centesimi, e ha diretto lo strumento sull'ormai visibile colonna di scheletri che marciava verso l'Empire State Building in ranghi perfetti. «Sì, credo proprio...» ha detto Lawrence, scrutando freneticamente nel telescopio. «Sì! Riesco a vedere il vago contorno delle uniformi. Il Diciassettesimo Cavalleggeri. Magnifici!» Ha passato il telescopio alla moglie, e si è rivolto a noi. «Ne avevamo sentito parlare, alla radio. Erano le truppe d'assalto del Generale Cornwallis durante la Rivoluzione Americana. Una meravigliosa compagnia di uomini impeccabili.» Si è girato verso la moglie. «Riesci a vedere i bottoni, cara? Vedi come brillano quegli stivali?» «Vedo distintamente il rosso delle uniformi,» ha risposto Katherine. «Mi faccia vedere, signora,» ha detto Ralph, impossessandosi del telescopio. «Sono dei pazzi, ovviamente,» ha detto Lawrence, «e verranno fatti a pezzi dai carri armati, che sono al comando di Fiorello La Guardia, secondo le ultime notizie. Ci sono volute due settimane a La Guardia per sbalzare di sella Peter Stuyvesant. Per un poco era sembrato che Stuyvesant avesse una mente sufficientemente sveglia per adattarsi, ma quando La Guardia ha ripreso il controllo della Guardia Nazionale, e dell'Armeria sulla Sessantaseiesima strada, e soprattutto dopo che si è assicurato un'alleanza con Franklin Roosevelt, da quel momento Stuyvesant ha avuto il
destino segnato. Credo che stiamo assistendo al compimento di quel destino.» Mentre Lawrence riprendeva il telescopio, noi cercavamo di guardare giù in strada. I carri armati avevano spostato le loro torrette dall'Empire State Building e le avevano dirette sulle truppe sopraggiungenti. «Adesso non ci vorrà molto, temo,» ha detto Lawrence, con un misto di tristezza ed eccitazione. Dalle torrette dei carri armati sono esplosi fumo e fiamme. Abbiamo sentito il tonfo sordo dei colpi, e un momento dopo nei ranghi serrati dei cavalleggeri si sono aperti tre grossi squarci. Quando il fumo si è diradato, la colonna stava serrando di nuovo i ranghi, lasciandosi dietro una nuvola di polvere. «Wham!» ha esclamato Ralph, ridendo. I carri armati hanno sparato ancora; e ancora i ranghi sono stati devastati e rapidamente ricostituiti. Venivano esplose salve anche dagli edifici circostanti, e a destra e a sinistra i minuscoli scheletri sparivano con uno sbuffo nel nulla. Gruppi di scheletri armati si sono fatti avanti dalle strade laterali e si sono diretti verso i Dragoni, ma gli Inglesi si rifiutavano ancora di rompere i ranghi. Ho sentito un lontano grido di comando, e i dragoni hanno innestato le baionette. Il loro numero era stato ridotto della metà. La battaglia è iniziata. Mentre la retroguardia dei Dragoni veniva fatta a pezzi dal cannoneggiamento dei carri armati, l'avanguardia veniva decimata dal fuoco degli M-16, dalle granate a mano, e dalle arti marziali sfruttate nel combattimento corpo a corpo. È finito tutto in fretta. «Tutto qua?» ha detto Ralph, tornando a sedersi vicino alla porta. «Ragazzi, se era noioso.» Lawrence abbandonò tristemente il telescopio. «Non hanno mai avuto una possibilità,» ha detto. «Su, su, caro,» ha cercato di rincuorarlo la moglie. Nella strada più sotto non restava più nulla del Diciassettesimo Cavalleggeri, solo un avanzo di fumo che sollevava i mucchietti di polvere. Di nuovo le torrette dei carri armati si sono girate verso l'Empire State Building, e abbiamo udito e sentito il loro sordo cannoneggiamento. Hanno bussato due volte alla porta di acciaio. Ralph si è alzato e l'ha socchiusa, con la pistola in pugno. Ha aperto completamente la porta davanti all'uomo di colore in uniforme di nome Randy è alla donna che ci aveva accompagnate sull'ascensore.
«Divertiti?» ha detto Ralph, ridacchiando. Randy l'ha ignorato. «Prima le buone notizie,» ha detto Randy fosco. Ha infilato una mano nella tasca del giubbotto cachi e ha tirato fuori un pacchetto che ha lanciato a Lawrence. Il pacchetto è atterrato ai piedi del professore, che l'ha raccolto. «Tabacco!» ha esclamato felice il vecchio. Ha guardato l'etichetta sul sacchetto di plastica. «Non è la mia solita marca, ma la sostituirà meravigliosamente!» «Ce l'aveva il negozio di dolciumi a pianterreno,» ha detto Randy. «E adesso le brutte notizie,» ha continuato. Ha distolto lo sguardo, e ha aspettato che il boato dei cannoni si acquietasse prima di proseguire. «Sono riuscito a far funzionare la radio, da basso. Stanno mandando un elicottero dall'aeroporto, come hanno promesso. Ma è già mezzo pieno, e non possiamo andare tutti.» Ci ha guardati, ma l'espressione sul suo volto non era così dura come avrebbe voluto. La donna accanto a lui guardava sempre a terra. «Io e Helen andiamo. C'è posto per... un'altra persona ancora.» Ha continuato in fretta. «Sistemate la faccenda tra di voi. Tirate a sorte, fate quello che volete. Ma fate alla svelta. L'elicottero sarà qui tra otto minuti, e si fermerà solo trenta secondi. Helen e io saremo dall'altra parte del ponte.» Si sono allontanati rapidamente. «Ve l'avevo detto che se la stava facendo,» ha detto Ralph. «Allora, tiriamo a sorte?» ha proposto Lawrence. «No, ho una soluzione migliore,» ha detto Ralph. Ha sollevato la pistola. «Vado io.» «Ma giovanotto...» ha cominciato Lawrence. Ralph gli ha agitato la pistola davanti alla faccia. «Vado io, e basta. Ditevi che ho scelto la pagliuzza più corta, se vi fa sentire meglio.» Ci ha guardati uno alla volta. «E se qualcuno di voi dice qualcosa all'innamorato o a Helen, gli sparo. È chiaro abbastanza?» Si è voltato ed è andato dall'altra parte del ponte panoramico, girandosi una volta a salutarci con un ghigno. «Ciao ciao.» «Perdinci, non ho mai...» ha balbettato Lawrence, seguendolo. «In tutta la mia vita non ho mai...» «Lawrence,» l'ha blandito la moglie, trattenendolo. «Lascialo andare. Non importa. Sai che né tu né io saremmo andati senza l'altro, e sono certa che la signora Garr non avrebbe lasciato qui Claire. L'unico rimpianto che ho, è che Claire non abbia avuto la possibilità di salire su quell'elicottero.»
Io ho scosso la testa e mi sono stretta alla signora Garr. «Ecco, vedi, Lawrence? Sarebbe andata comunque in questo modo, per il meglio, e non altrimenti. Lascia che vada quel giovane.» «Ma l'ingiustizia di quel gesto!» ha balbettato ancora Lawrence. I carri hanno sparato di nuovo, e di nuovo l'edificio ha tremato. Poi abbiamo sentito un rumore nuovo, lontano, fatto di scatti, che cresceva in volume. Abbiamo alzato lo sguardo; attraverso la cortina di fumo che copriva la città verso est stava arrivando un elicottero che portava i chiari segni distintivi dell'esercito. Quando si è avvicinato, Lawrence improvvisamente ha detto: «Nascondetevi.» «Lawrence, perché in nome del cielo...» ha detto Katherine. «Fate come dico,» ha ripetuto Lawrence, guidandoci verso la porta metallica. Abbiamo sceso i gradini, e Lawrence ha chiuso la porta dietro di noi. Ci siamo ritrovati quasi al buio, e Lawrence ci ha condotte lungo un corridoio rimbombante verso l'altro lato dell'edificio, dove abbiamo salito un'altra rampa di scale, in cima alla quale c'era un'altra porta. Lawrence l'ha aperta, e ci ha fatte entrare in un ufficio spazioso con grandi finestre bombate che davano sul ponte panoramico. Vedevamo Randy, Helen, e Ralph che aspettavano con le facce rivolte verso l'alto. «Restate nell'ombra, in modo che non vi vedano,» ci ha ammonito Lawrence. Ci siamo addossate alla parete di fondo e siamo rimaste a guardare. È apparso l'elicottero, sospeso nel cielo, poi si è abbassato, e Randy ha agitato la mano. L'elicottero si è abbassato ancora di più. Riuscivamo a sentire il rombo delle eliche rotanti. Una porta nel fianco è scivolata all'indietro, e da essa è stata calata un'imbracatura di corda. Randy ha aiutato Helen a salirci, e ha gridato qualcosa verso l'elicottero. L'imbracatura si è sollevata. Quando Helen è arrivata in cima, è scomparsa rapidamente all'interno della porta aperta, l'imbracatura si è riabbassata, e Randy è salito. L'imbracatura si è sollevata di nuovo, e Randy si è arrampicato nell'elicottero. La corda è stata calata ancora, e Ralph è stato issato a bordo. Quando ha raggiunto l'apertura, mani di scheletro si sono sporte a tirarlo dentro. Ralph si è messo a lottare. Helen è apparsa un secondo alla porta, tentando di afferrare la corda per scendere dall'elicottero, ma già stava per-
dendo le forze, e una lunga scia di sangue le scorreva dalla gola tagliata. Poi è apparso Randy, in lotta con uno scheletro che l'ha colpito più volte. All'estremità della corda due figure hanno cercato di tirare Ralph nell'elicottero, e Ralph ha sparato un colpo. Una delle figure è esplosa in polvere. L'elicottero ha sbandato, poi si è ristabilito in aria. Helen si è sfaldata in scheletro, si è alzata e ha aiutato a soggiogare Randy che veniva ucciso da un'altra figura. Mentre Randy diventava uno scheletro, Helen ha fatto un cenno verso il ponte panoramico. «Sta parlando di noi,» ha sussurrato Lawrence. Ralph ha sparato ancora, colpendo Helen al petto. Mentre Randy si alzava sotto forma di scheletro, Helen è diventata polvere davanti ai suoi occhi. Restando appeso alla corda, Ralph ha sparato ancora nell'interno dell'elicottero, che ha fatto un improvviso scatto verso il basso, inclinandosi verso destra. I rotori hanno colpito lo spigolo dell'edificio e si sono spaccati. L'elicottero si è ribaltato, sbuffando come una bestia gigantesca. Uno dei montanti d'atterraggio si è impigliato nella propaggine di sicurezza del parapetto del ponte panoramico, e c'è stato un sonoro strappo quando si è liberato con uno strattone. Ralph, in equilibrio fuori dalla porta aperta, ha sparato un ultimo colpo, si è infilato la pistola nei jeans, e si è abbarbicato alla corda. L'elicottero ha traballato, e Ralph è stato scagliato via, ha mollato la presa della corda, ed è rotolato oltre il parapetto dell'Empire State Building, urlando. In un attimo, mentre gli scheletri, tra i quali Randy, cercavano di uscire dalla porta, l'elicottero si è esibito in un possente rollio lamentoso e si è capovolto, scivolando via dall'edificio, con i rotori fuori uso che scattavano impotenti, ed è scomparso alla vista. Dopo quella che ci è sembrata un'eternità, abbiamo sentito un tonfo roboante, quando l'elicottero si è schiantato a terra. «Randy non lo sapeva,» ha detto Lawrence. «Ma quando ho visto i segni distintivi sull'elicottero, io lo sapevo. Tutta la squadriglia a cui apparteneva quell'elicottero è stata requisita dagli scheletri una settimana fa. C'è stata una battaglia imponente, ma gli umani hanno perduto. Tutti gli armamenti sono passati in mano agli scheletri. Ho visto tutto su quella stazione televisiva...» «CNN, caro,» ha detto sua moglie.
«Naturalmente, CNN. Se solo Randy me l'avesse chiesto. I suoi amici erano dei traditori.» Abbiamo lasciato l'ufficio, e siamo usciti sul ponte panoramico a osservare il punto in cui si era schiantato l'elicottero. Abbiamo sentito un grido oltre il parapetto, e quando abbiamo guardato, Ralph era aggrappato alla griglia metallica curva verso l'alto che serviva come deterrente per aspiranti suicidi. «Aiutatemi!» gridava. Sotto di lui, molto lontano, la carcassa contorta dell'elicottero stava ancora bruciando. «Svelti!» strillava Ralph, spostando il proprio peso nel tentativo di ottenere una presa migliore sulle sbarre. «Dobbiamo aiutarlo,» ha detto Lawrence. «C'era un tubo flessibile arrotolato, nel corridoio,» ha detto la signora Garr. «Va bene,» ha detto Lawrence. Lawrence, la signora Garr e io siamo tornati nel corridoio, accompagnati dalle grida di Ralph che ci implorava di non lasciarlo. «Ti aiuteremo!» gli gridava Katherine. «Stanno prendendo qualcosa per tirarti su!» «Gesù, sbrigatevi!» pregava Ralph. La signora Garr tirava il tubo, e Lawrence ed io lo srotolavamo. È arrivato fino al parapetto del ponte panoramico, e si è fermato. «Non è sufficiente!» ci ha gridato dentro la signore Garr. «Adesso provo a sganciarlo!» ha risposto Lawrence. Ralph implorava aiuto. «Non ce la faccio più!» «Devi farcela!» gli gridava Katherine. «Ti tireremo su subito!» La signora Garr ha allungato il tubo più che poteva. Improvvisamente si è mosso in avanti. «L'ho sganciato dalla sua grappa!» ha gridato Lawrence. Sono rimasta a guardare mentre la signora Garr e Katherine hanno fatto scendere il tubo fino a Ralph, che lo fissava disperatamente. «Non resisto!» «Ancora pochi secondi,» l'ha incitato Lawrence raggiungendoci al parapetto. «Pochi secondi e ti avremo tirato su.» L'imboccatura penzolava a pochi pollici dalle mani di Ralph, e poi è scesa a battergli sulle nocche. Con una mano ha mollato la presa, ha cercato freneticamente di afferrare
l'imboccatura, c'è riuscito. «Bene, Ralph! Adesso resisti!» Ralph ha afferrato il tubo anche con l'altra mano, e l'ha avvolto strettamente attorno ad entrambe. «Bene! Ti tiriamo su!» ha gridato Lawrence. «Avanti!» ha risposto Ralph. Tutti e quattro abbiamo preso il tubo e abbiamo cominciato a tirare oltre il parapetto. Ralph si è messo a ridere. «Sì! Ce la farò!» Ha guardato giù verso i resti dell'elicottero in fiamme, e ha sputato. «Bastardi! Cercare di fottermi! Haha! Bastardi!» «Ralph, stai attento!» gli ha gridato Lawrence. «Devi farcela da solo a passare oltre la curva delle sbarre di sicurezza! Non possiamo tirarti su diritto, devi arrampicarti attorno ad esse!» Ralph stava ancora ridendo e guardando giù. «Bastardi! Nessuno la fa a me!» Si è tenuto al tubo con una mano, e ha tolto la pistola dai jeans. «Sapete cosa faccio quando torno là sopra?» ci ha gridato. «Vi ammazzerò uno per uno! Non potete fidarvi di tutti! Siete tutti morti. Voi...» «Ralph!» ha gridato Lawrence. Il tubo si era impigliato tra due sbarre. Il tubo si è mosso verso l'alto, bloccando la mano di Ralph che lo stringeva tra le due sbarre. Quando se n'è accorto, la sua mano stava già venendo schiacciata contro la sbarra. «Owwww!» ha urlato, liberando la mano con uno strattone così violento che l'ha gettato lontano dall'edificio, aggrappato al nulla. «Gesù!» Ha lasciato cadere la pistola, e ha cercato furiosamente di afferrarsi al tubo, mancandolo solo per pochi pollici. «Geeeeesùùùùùù!» È rotolato via da noi, urlando, fino a ridursi un puntino, ed è svanito nel relitto fumante dell'elicottero. Tutti e quattro abbiamo guardato altrove. «Le mie parole potranno sembrare dure,» ha detto Lawrence tristemente, «ma credo che sia andato tutto per il meglio. Ho creduto a quel ragazzo, quando ha detto che ci avrebbe ammazzati.» 9 Quella sera i carri armati hanno continuato a sparare contro l'Empire
State Building e gli edifici circostanti. C'è stata un'altra eccitante, bizzarra carica effettuata da un reggimento che Lawrence ha creduto di poter identificare come il gruppo della Guardia Nazionale che aveva sedato le sommosse per la chiamata alle armi a New York City nel 1861. Anche quello è stato distrutto. Abbiamo assistito a un combattimento aereo ravvicinato che è terminato sconclusionatamente, con i due aerei che si sono allontanati verso est dopo aver lanciato razzi fumanti nel buio. Poco dopo mezzanotte, con una luna quasi piena che si levava sulla città decimata a delineare le strade piene di crateri e i grattacieli ridotti a semplici edifici nell'arcana luce argentea, Lawrence ci ha radunate e ha detto alla signora Garr: «Lei e Claire non potete stare qui.» «Dove possiamo andare?» ha chiesto la signora Garr. «Ci ho pensato,» ha detto Lawrence. «Credo che viaggiare in automobile sarebbe da pazzi. La maggior parte delle stradine fuori città è stata demolita. Due giorni fa il Lincoln Tunnel è crollato e si è riempito d'acqua, e l'Holland Tunnel era sotto assedio. Da quasi una settimana non vedo un aereo di linea. Ma i treni...» La signora Garr fece tanto d'occhi. «Lei crede...» «A questo punto è l'unica scelta logica. Se volete arrivare in Pennsylvania, non vedo quale altro modo ci possa essere.» Si fermò per tirare fuori la pipa di tasca, metterci un pizzico del prezioso tabacco nel sacchetto di plastica, e accenderla. «Inoltre, restare con me e Katherine sarebbe sciocco.» «Intendete restare qui?» ha chiesto la signora Garr. Lawrence ha annuito, sbuffando una nuvoletta di fumo. «Ma perché?» «Katherine ed io, coscientemente, abbiamo preso una decisione, alcuni giorni fa. Non siamo giovani, e il nostro amore per la vita non è legato a cose giovani. Io sono affascinato da ciò che mi sta succedendo attorno. E voglio studiarlo per quanto posso. Quindi...» Tirò una boccata dalla pipa. «Lasceremo che gli scheletri ci convertano,» ha detto Katherine semplicemente. «Cosa?» Lawrence ha confermato. «Presto faranno delle ricerche a tappeto per gli umani, se seguono il loro solito schema. Non ho intenzione di lasciare che qualcuno come quello sgradevole giovanotto di nome Ralph mi privi anzitempo della vita, ma quando arriveranno gli scheletri...» «Come potete...?» ha detto la signora Garr incredula.
Lawrence le ha battuto affettuosamente sulla mano. «È facile, mia cara. Quando sarà finito il mio tempo in questa vita, voglio studiare l'altra. Non mi dispiace, davvero. Non tradirei mai la razza umana mentre ne sono parte, ma questa seconda esistenza presenta tali meravigliose opportunità per ricominciare da capo, forse per insegnare ancora...» «Ma sarà uno di loro! Vorrà uccidere il resto di noi!» «Mia cara,» ha detto Lawrence dolcemente, «tutti diventeremo dei loro. Ciò non significa che voi dobbiate arrendervi, ma...» «No!» ha detto la signora Garr. «Io non voglio pensarci! Non voglio pensare che prenderanno tutti, mio marito...» Si è messa a piangere, e Lawrence l'ha abbracciata, e ha lasciato che gli piangesse sulla spalla, mentre Katherine la guardava con comprensione. «Ci abbiamo davvero pensato a fondo,» ha ribadito Katherine gentilmente. «Non voglio, proprio non voglio...» Si è scostata da Lawrence e si è seduta abbracciandosi le gambe, poi mi ha chiamata a sé e mi ha tenuta stretta, mentre Lawrence e Katherine ci lasciavano sole. «Claire, non lascerò che lo facciano a te, non lo permetterò.» Presto ha smesso di piangere; nei suoi occhi era rimasta un'espressione dura e determinata. Si è alzata, ed è andata da Lawrence e Katherine, che mano nella mano stavano guardando la città. «Mi parli dei treni,» ha detto la signora Garr. 10 Siamo partite tra mezzanotte e il mattino. L'ultima volta che li abbiamo visti, Lawrence e Katherine stavano fianco a fianco, felici, e ci auguravano buona fortuna, mentre le porte dell'ascensore erano pronte a chiudersi per portarci giù. «Se doveste incontrarci dopo la nostra conversione, spero che vi rendiate conto di avere ogni diritto di cercare di distruggerci,» ha detto Lawrence, poi ha sorriso. «Sapete, abbiamo pensato anche a questo.» «Ricordate,» ha aggiunto Katherine, «la nostra prima alleanza è sempre con il genere umano.» «Addio,» ha detto Lawrence. «Addio,» ha detto la signora Garr. «Buona fortuna.» Le porte si sono chiuse sull'immagine di Lawrence che fumava la sua pipa e ci seguiva pensierosamente con lo sguardo.
L'ascensore ha cominciato a scendere con uno scatto e un ronzio, e stavolta il viaggio è stato molto più lungo che in precedenza. Quando abbiamo raggiunto il pianterreno le porte si sono aperte cigolando sull'ignoto. La signora Garr mi ha stretto forte la mano. «Cerca di starmi vicino, Claire,» ha detto. Siamo passate accanto alla radio abbandonata di Randy, ci siamo dirette alle porte di vetro dell'ingresso, e abbiamo guardato fuori. Sulla via c'era il rottame di un carro armato distrutto, con la torretta piegata ad un'angolatura inutilizzabile, e un cingolo divelto. La strada sembrava essere deserta. Abbiamo aperto le porte con una spinta, ci siamo tenute a ridosso dell'edificio, e ci siamo avviate verso ovest. Non abbiamo visto nessuno. La strada era deserta davvero, disseminata di buchi e solchi, e ci siamo lasciate alle spalle i resti della battaglia. Ovunque si vedevano mucchietti di polvere, dispersi dolcemente dal vento. Ci nascondevamo negli usci, e camminavamo vicino alle facciate degli edifici. Abbiamo raggiunto la Sesta Avenue, e abbiamo aspettato nell'ombra buia per attraversare la strada. «Andiamo, Claire...» Abbiamo sentito dei rumori provenire da nord. Due isolati più su una colonna di carri armati avanzava fragorosamente verso la Sesta Avenue, diretta a est. Abbiamo atteso che passasse. Alla retroguardia c'erano due autocarri pieni di un contingente dell'esercito di scheletri. Abbiamo attraversato la strada, senza badare al segnale che diceva "Alt". Abbiamo proseguito verso ovest, e poi verso nord. Alla Settima Avenue abbiamo scoperto di essere andate troppo oltre, e siamo ritornate indietro. D'un tratto la signora Garr mi ha trascinato dentro l'uscio aperto di un negozio all'interno del quale tremolavano le luci al neon, accendendosi e spegnendosi. «Entra qui, Claire.» Siamo entrate nel negozio. Le pareti erano coperte di articoli e omaggi per le feste, costumi, tovaglioli di carta decorati con Topolino e Bugs Bunny. Mi sono abbassata, pensando che la signora Garr avesse visto qualcuno arrivare per strada, e invece si era diretta verso la vetrina, ed era sporta sul divisorio di fondo alto fino alla vita, tentando di raggiungere qualcosa. Con un ultimo sforzo ha allungato il braccio e ha ritirato la mano stringendo due maschere di plastica.
Me ne ha porta una. «Mettila,» mi ha detto. Era la maschera di plastica a tutta testa di uno scheletro. L'ho messa e attraverso i buchi per gli occhi ho guardato la signora Garr che si infilava la sua. Quando le luci si spegnevano, sembrava uno scheletro. Quando si riaccendevano, sembrava un umano che indossava una maschera. «Al buio ci sarà utile,» ha detto. Siamo uscite dal negozio, e subito abbiamo visto una figura dall'altra parte della strada, uno scheletro con un elmetto dell'esercito e un fucile. Abbiamo continuato a camminare, con le mani vicine al corpo. Il soldato ci ha lanciato un'occhiata, e non si è fermato. Proseguendo, abbiamo passato diversi hotel, il Broadway, il Penta, fino a dove il Madison Square Garden si allarga in circolo in mezzo agli edifici circostanti. Il tabellone per le affissioni riportava STASERA MOSTRUOSI AUTOCARRI! Un'altra indicazione lì vicino, con una freccia, diceva PENN STATION. Un'esigua folla di scheletri si era riversata fuori dal Madison Square Garden. «C'è un altro modo per entrare alla Penn Station,» ha detto la signora Garr. Siamo passate a destra della folla, da un'entrata oltre l'indicazione del Madison e sotto un cavalcavia. C'era un semicerchio dove i taxi caricavano i passeggeri, ma era deserto. Abbiamo trovato una fila di porte, di cui una era aperta. «Cammina in fretta e tieni la testa bassa,» si è raccomandata la signora Garr. Fuori da un piccolo corridoio abbiamo incontrato un formicolare di gente diretta ai treni. Tirandomi indietro, la signora Garr ha detto: «Questo non funziona.» Si è guardata attorno furiosa. «C'è un altro passaggio, ma non ricordo esattamente dove. Una volta sono venuta in città con Michael, e ci siamo persi nei tunnel. Non abbiamo visto nessuno per cinque minuti. Se solo mi ricordassi dove siamo sbucati...» Sopra la sua testa ha visto un cartello con una freccia indicatrice che diceva AMTRAK. «Eccolo,» ha detto. Abbiamo seguito il cartello, e presto ci siamo trovate in un dedalo di sottopassaggi in fase di costruzione. Uno ci ha portate a un punto morto. Sia-
mo tornate indietro, abbiamo svoltato, e siamo capitate vicino a una fila di maleodoranti gabinetti. Dietro l'angolo c'erano le biglietterie dell'Amtrak, e sulla parete di fondo il tabellone con gli arrivi e le partenze. «Ancora una deviazione...» ha detto la signora Garr. Siamo tornate oltre i gabinetti e lì c'era un ingresso, parzialmente bloccato con un cavalletto. «Eccoci,» ha detto la signora Garr. «Adesso dobbiamo trovare un treno diretto a ovest attraverso la Pennsylvania.» Di nuovo siamo tornate in vista delle biglietterie, dove lunghe code di scheletri aspettavano. La signora Garr ha allungato il collo, cercando di leggere il tabellone con le partenze e gli arrivi. «Resta qui, Claire.» Si avviò lentamente allo scoperto per studiare il tabellone. Un passeggero quasi in fondo alla coda si è girato a guardarla, ha distolto lo sguardo, e si è girato di nuovo. La signora Garr è ritornata. «Trovato.» Il passeggero curioso stava per lasciare la coda per seguirci quando altri due passeggeri, marito e moglie, discutendo gli hanno bloccato la strada. Ha cercato di superarli, allungando il collo. «Ho visto...» ha cominciato a dire. «Hai visto cosa, amico?» gli ha chiesto l'uomo. «Oh, lascialo perdere, Jeff,» è sbottata la moglie. «Infastidisci sempre tutti. Portami solo lontano da questa maledetta città prima che ogni cosa si trasformi in polvere.» La coda si è mossa. Lo scheletro che ci stava fissando, che indossava il vago contorno di una giacca e una cravatta, non si è mosso con essa. «Ha intenzione di muoversi o cosa?» gli ha domandato Jeff dandogli una leggera spinta, e i due si sono messi a fare baruffa, mentre noi ritornavamo, oltre i gabinetti, all'apertura bloccata dal cavalletto. Gli abbiamo girato attorno e siamo entrate in un tunnel nero e con un penetrante odore di umidità. «I treni sono da qualche parte lungo questa galleria,» ha detto la signora Garr. Come in risposta alle sue parole, una sudicia striscia argentea è sfrecciata alla nostra sinistra, illuminando il tunnel. «Andiamo, Claire.» Sopra di noi c'erano delle lampadine fioche che illuminavano appena il cornicione sul quale eravamo, e che ci ha finalmente condotto a una fila di piattaforme ferroviarie. «Dobbiamo trovare la piattaforma numero cinque,» ha detto la signora
Garr. Il nostro cornicione era di fronte alla piattaforma tre. «Dobbiamo scendere e attraversare.» La signora Garr si è calata sulle rotaie, e mi ha aiutato a seguirla. Abbiamo attraversato i binari, abbiamo scavalcato con cautela la terza ringhiera, e siamo risalite dall'altra parte. Due piattaforme più in là c'era un treno argenteo dell'Amtrak. Mentre attraversavamo i binari per raggiungere la piattaforma quattro, ho sentito un rombo, ed è apparsa una luce in fondo al tunnel buio, che si stava dirigendo su di noi. La signora Garr si è arrampicata, e mi ha teso la mano. «Claire!» Io l'ho presa, e lei mi ha sollevata proprio mentre il treno passava. Davanti a noi c'era la parte terminale del nostro treno. Dalla parte opposta si sentivano delle voci. Abbiamo fatto il giro e abbiamo visto due scheletri, uno con in mano un termos. «Ultimo viaggio per me,» diceva quello col termos. «La moglie e i bambini mi aspettano nell'Ohio. Ci nasconderemo sulle colline finché tutta questa stronzata sarà finita.» «Hai sentito parlare di legge marziale, vero? Passano per le armi chiunque abbandoni un servizio pubblico.» «Che si fottano,» ha risposto quello col termos. «Ne ho avuto abbastanza di questa follia. Hai visto anche tu che hanno messo gli operai dei vecchi tempi a lavorare alla galleria di nord-est. Uomini della macchina a vapore, per l'amor di Dio. Quando quel Fulton ha stroncato il sindacato, quello per me era il momento critico.» «E cosa mi dici dell'esercito?» «Quale? Quando decideranno chi è il responsabile di tutto, allora potranno richiamarmi.» L'altro si è messo a ridere. «Beh, dicono che Lincoln...» Noi abbiamo girato attorno al treno, e ci siamo trovate davanti lo scheletro della coda alla biglietteria, quello in giacca e cravatta, che stava risalendo dalla fossa del treno vicino, col fiato grosso. «C'è una taglia per voi umani, sapete. Si tratta d'oro...» La signora Garr è corsa avanti, e l'ha spinto nella fossa. L'uomo ha mantenuto l'equilibrio per un istante, poi è caduto, battendo contro la terza ringhiera. Ha gridato ed è scomparso in una nuvola di scintille e polvere. La signora Garr è tornata di corsa, e mi ha fatto appiattire contro il fianco del treno proprio mentre apparivano i due uomini dell'Amtrak dall'altra parte.
«Cosa dia...» Si sono diretti al bordo della fossa e hanno guardato giù. «Cristo,» ha detto il primo. Il secondo ha riso. «Forse era un uomo dell'epoca del vapore.» Ha riso anche il primo, e tutti e due sono ritornati dall'altra parte del treno. «È ora di togliere da qui questo catorcio, prima che qualcuno lo faccia saltare in aria.» La signora Garr mi ha trascinato lungo il fianco del treno. Le porte che salivano all'ultima carrozza erano chiuse a chiave. Abbiamo sbirciato dentro. Era un vagone passeggeri vuoto, buio e invitante. Siamo passate al vagone successivo, una carrozza bagagli, anch'essa chiusa. La prima porta del vagone seguente era aperta. La signora Garr è salita con prudenza e ha guardato dentro, poi è tornata giù in silenzio. «Ci sono quattro scheletri in fondo al vagone,» ha mormorato. Ci siamo sistemate le maschere e siamo salite. La signora Garr ha subito spinto il pulsante della porta che divideva il nostro vagone da quello dei bagagli. Ho guardato in fondo al vagone passeggeri. I quattro scheletri stavano giocando a carte. Uno ha detto qualcosa e c'è stato uno scoppio di risate. Dopo un momento la porta si è aperta con un sibilo, e noi siamo entrate. I quattro scheletri in fondo al vagone hanno alzato brevemente lo sguardo e sono ritornati al loro gioco. La porta si è richiusa scivolando alle nostre spalle. La signora Garr ha spinto la porta del bagagliaio, ma la porta ha emesso un lieve brontolio e non si è aperta. «Dannazione,» ha detto la signora Garr, e ha provato ancora. Ancora non si è aperta, ma c'era sempre quel vago brontolio. La signora Garr ha colpito la porta col piatto della mano, e con un gemito la porta ha cominciato a scivolare indietro. Abbiamo finito di aprirla spingendola a mano, e improvvisamente si è sbloccata, ed è scivolata dentro lo stipite. Siamo entrate nel vagone bagagli, e la porta si è richiusa rumorosamente dietro di noi, precipitandoci nell'oscurità e nella fioca luce che entrava dai due finestrini centrali. «Grazie a Dio,» ha detto la signora Garr. Ci siamo tolte le maschere, e ci siamo fatte strada a tentoni nel labirinto di casse e valige, sacchi della posta, scatole di cibarie. Un minuscolo scheletro di cane in una gabbia abbaiava debolmente; lo scheletro di un uccello,
sempre in gabbia ma appeso, ha gracchiato una volta, e poi è rimasto in silenzio, e ha seguito il nostro avanzare con il piccolo teschio senz'occhi. La porta sul retro del vagone era chiusa a chiave. Era diversa dalle altre, aveva un'enorme maniglia con una doppia serratura. «Basta,» ha detto improvvisamente la signora Garr, esausta. Si è lasciata scivolare a terra, e ha raccolto le ginocchia al mento. Dopo pochi minuti dormiva. Mi sono seduta accanto a lei. E non molto tempo dopo, mentre il treno cominciava a muoversi borbottando, ho chiuso gli occhi anch'io. 11 Ci siamo svegliate all'improvviso, accecate dalla luce del sole. Il vagone era tutto illuminato. Sotto di me sentivo il confortevole ondeggiare borbottante del treno in movimento. Ci siamo alzate e ci siamo dirette a uno dei finestrini. La luce mi feriva gli occhi, e per un attimo li ho chiusi. Quando li ho riaperti, ho visto quello che mi è sembrato un sogno. «Oh, Claire,» ha detto la signora Garr. Stavamo viaggiando in una campagna verdeggiante. Gli alberi d'estate, la vegetazione lussuriosa ai lati dei sentieri, le ondulate colline boscose, creavano un contrasto così profondo con i luoghi dai quali venivamo che per alcuni momenti siamo rimaste a bocca aperta. «Mi chiedo dove siamo,» ha detto la signora Garr. Ci siamo spostate al finestrino dall'altra parte del passaggio. Lo scheletro del cagnetto ha cominciato ad abbaiare. L'uccello in gabbia ha piegato il capino, e ci ha seguite col suo sguardo senz'occhi. Quando sono passata vicino alla sua gabbia ha sporto il becco. In lontananza, dietro al treno, c'erano le rovine di una città. Il fumo scuro inquinava l'azzurro cielo estivo. «Quella non è New York,» ha detto la signora Garr. Ha studiato il profilo della città per alcuni minuti, poi si è voltata. «Quella era Philadelphia.» Io ho seguitato a guardare. La signora Garr si è riunita a me, e ha indicato un'alta collina sulla quale un edificio bianco a colonne che assomigliava vagamente a un tempio greco era stato sventrato, e giaceva ancora fumante. «Quello era il Museo delle Belle Arti,» ha detto. «Michael e io ci siamo stati. È dove hanno girato il primo film di Rocky.»
Adesso mi ricordavo, la lunga scalinata, il pugile impersonato da Sylvester Stallone che la saliva di corsa, saltando quand'era arrivato in cima, e gettava le mani in alto nell'aria in segno di trionfo. «Tutto sta scomparendo,» ha detto stancamente la signora Garr. «Presto tutto sarà scomparso.» Siamo tornate all'altro finestrino. L'uccello ha gracchiato una volta, stizzito, unendosi agli uggiolii del cagnetto. Abbiamo guardato fuori, le colline, ora sciupate da quello che avevamo appena visto, e dalle strade di campagna scavate dalle bombe, e da qualche fattoria in fiamme. Su un poggio c'era una chiesa bianca, col campanile di traverso. Accanto, il piccolo cimitero era devastato, disseminato di buche aperte, di lapidi rovesciate. «Presto dovremo scendere dal treno,» ha detto la signora Garr con una voce che sembrava priva di ogni speranza. Si è allontanata dal finestrino, si è seduta volgendogli le spalle, e mi ha fatto cenno di sedermi vicino a lei. Ha preso la mia mano fra le sue, e mi ha guardato con un sorriso triste e stanco. «Io non so cosa succederà, Claire,» ha detto. «Non so se il fratello di Michael sarà a Arlentown quando ci arriveremo, o se sarà in grado di aiutarci. Non so se rivedrò mai più Michael. Mi manca tanto che sento tanto male... «Ma voglio che tu sappia che qualsiasi cosa succeda, io cercherò di prendermi cura di te. È l'unica cosa che so per certo di dover fare.» Mi ha guardata attentamente. «Sei cambiata, Claire. Credo che quel seme dentro di te abbia cominciato a germogliare.» Io ho fatto segno di sì con la testa. «Tu sai di cosa sto parlando, vero?» Ho fatto ancora segno di sì, e ho sorriso. «Oh, Claire,» ha detto, tirandomi a sé e abbracciandomi. «Quel seme sboccerà in un fiore bellissimo. Lo so. Vorrei poterti dire...» Si è fermata e ha distolto lo sguardo. «Te lo dirò,» ha deciso dopo un momento. «So che non ti è mai stato detto come sei arrivata a Withers. E non ti è mai stato detto chi fossero i tuoi genitori. Fra due anni, quando avresti compiuto diciott'anni e saresti stata abbastanza grande da andartene, se l'avessi chiesto ti sarebbe stato rivelato.» Ho atteso che continuasse. «La verità è, Claire, che io sono venuta a Withers a causa tua. Sedici anni fa, quando avevo circa la tua età, molto prima che incontrassi mio marito, Michael, ho conosciuto un uomo e sono stata con lui per una notte. Era
un uomo di colore, un colonnello dell'aviazione. L'anno seguente ho partorito suo figlio, una bambina dalla carnagione scura. Poiché ero molto giovane, la bambina è stata data in adozione, e non l'ho mai più vista. Mi è stato detto che le avrebbero trovato una casa. Dopo un poco ho conosciuto mio marito, e la bambina è scivolata in fondo alla mia mente. «Ma un anno fa ho cominciato a fare dei sogni. E nei miei sogni c'era una ragazza bellissima, giovane, dalla carnagione scura, che non parlava. Quella giovane era mia figlia, e sapevo che dovevo trovarla e prendermi cura di lei...» Mi ha stretto e si è messa a piangere. «Oh, Claire, ho parlato di te a Michael, e ha capito ogni cosa. La signora Page a Withers stava preparando dei documenti per me, ancora sei mesi e avrei potuto portarti a casa. Il tuo vero padre non sapeva nulla di te, ma ci saremmo messi in contatto con lui. Era un uomo in gamba. Credo che sarebbe molto orgoglioso di te. «Claire, perché tutte queste brutte cose sono successe prima che ti portassi a casa?» La signora Garr, mia madre, mi ha stretto molto forte, poi si è girata e ha guardato scorrere via la campagna. Aveva gli occhi colmi di lacrime. Anche i miei occhi erano colmi di lacrime. Il treno continuava la sua corsa. Sono restata con la schiena girata al finestrino, a guardare il solenne piccolo teschio dell'uccello in gabbia, che ricambiava il mio sguardo. 12 Con indosso le nostre maschere siamo scese dal treno a Arlentown. E sceso solo un altro passeggero, uno scheletro, dalle carrozze di testa. La piattaforma non arrivava fino al bagagliaio, così siamo saltate giù e ci siamo nascoste dietro di esso mentre il passeggero è andato a un'auto nel piccolo parcheggio, è salito, e si è allontanato. Il controllore scheletro si è sporto dal suo scompartimento, ha fatto segno al macchinista davanti, e il treno dell'Amtrak è ripartito lentamente. La stazione, e le colline circostanti, erano intatte. Solo quando abbiamo controllato le poche auto nel parcheggio il mondo reale ci è piombato di nuovo addosso. Una di esse aveva le quattro portiere chiuse a chiave. Nel parabrezza c'era un buco dalla parte del guidatore. Quando abbiamo guardato dentro, abbiamo visto un mucchietto di polvere asciutta sul sedile. C'erano altre due auto. Una era aperta ma vuota, l'altra era chiusa, e le chiavi erano sul sedile vicino a un mucchietto di polvere.
Mia madre ha cercato vicino alla piattaforma, ha trovato una grossa pietra, è tornata e ha rotto il finestrino dell'auto. Abbiamo tolto i vetri e la polvere e siamo salite. Il motore si è acceso subito, ha tossicchiato, si è spento, e al secondo tentativo è partito con un ruggito. Siamo uscite dal parcheggio, e ci siamo avviate attraverso un paesaggio splendido. Sulle strade non c'era traffico. Abbiamo oltrepassato un furgone postale rovesciato, un furgone per la consegna del pane con le quattro ruote tagliate e il portellone aperto. Le poche fattorie che vedevamo erano vuote e silenziose. «La casa del fratello di Michael non è lontana,» ha detto mia madre. Ha provato ad accendere la radio, ma c'erano solo scariche di elettricità, e l'ha spenta. Vedevo la sua tensione aumentare a mano a mano che proseguivamo. Abbiamo svoltato in una stradina di campagna, sotto una vasta distesa di alberi, e poi in un lungo sentiero sterrato che portava dietro a una collina, dov'era visibile un silo. Abbiamo passato un autocarro bruciato. «È quello di Jay,» ha detto mia madre. Quando abbiamo cominciato a salire la collina ha rallentato a passo d'uomo. Ai nostri occhi è apparsa una fattoria consumata dalle fiamme. Un pascolo lì vicino era vuoto, e lo steccato era stato abbattuto in diversi punti. Le porte della stalla erano spalancate. La casa era mezza annerita, e in un angolo del tetto c'era un buco carbonizzato. «Oh, Dio,» ha detto mia madre, togliendosi la maschera e gettandola a terra. Anch'io l'ho tolta. Le mani di mia madre sul volante hanno cominciato a tremare. Ho visto balenare un movimento vicino al silo, ma quando ho guardato non c'era nulla. Mia madre ha fermato l'auto nel cortile, ed è rimasta seduta stringendo il volante mentre la polvere si depositava attorno a noi. «E adesso cosa facciamo?» ha detto. Di nuovo c'è stato un movimento vicino al silo, un lampo rapidissimo, e stavolta mia madre l'ha visto. Ha rimesso in moto l'auto con uno scoppiettio e ha inserito la retromarcia. Improvvisamente una forma umana è uscita dall'ombra del silo, ha appoggiato un fucile lungo il fianco, e ha agitato le braccia sopra la testa verso di noi. Mia madre si è fermata di scatto. «Jay!» Un uomo ci è venuto incontro, alto, dinoccolato, dall'aspetto esausto, alla fine dei quarant'anni. Ha sorriso e ha allargato le braccia.
«Oh, Dio, Jay!» Mia madre ha trafficato con la maniglia della portiera, è riuscita ad aprirla, ed è corsa dall'auto fra le braccia dell'uomo, che l'ha abbracciata forte, ridendo. «Sì, sono io, il tuo vecchio cognato, in carne e ossa!» Lei l'ha tenuto stretto, poi ha alzato lo sguardo. «Michael...» «Non ancora. Ma lo stiamo aspettando. È riuscito a chiamarci prima che le linee telefoniche venissero interrotte un paio di giorni fa. Ha detto che era a Philadelphia, a piedi. Il mio fratellino arriverà qui, in un modo o nell'altro, se lo conosco. Stava cercando te, naturalmente.» «Oh, Jay!» L'uomo ha riso, e l'ha abbracciata ancora. «Sì, ci sono ancora alcuni di noi in giro. Veramente la maggior parte di noi qui attorno è ancora come dovrebbe essere. Ron, lo zio di Michael, non ce l'ha fatta, ha avuto un attacco di cuore il secondo giorno che tutto questo è cominciato. Ci siamo presi cura di lui come abbiamo creduto meglio. Ci siamo accertati che godesse veramente dell'eterno riposo, se segui il ragionamento. Ma gli altri...» «Dove?» Jay ha indicato il silo. «Là. Era vuoto dall'anno scorso. La casa l'abbiamo bruciata noi. Un paio di volte gli scheletri sono venuti a dare un'occhiata, una volta dei nostri vecchi amici, e una volta dei tizi della Guardia Nazionale, ma ci eravamo nascosti piuttosto bene e ci hanno lasciato in pace. Solo Hedge Williams, della fattoria accanto, ha immaginato dove fossimo dopo che è stato convertito, ma era stupido ed è venuto da solo. A parte quello, è stato tutto tranquillo, almeno negli ultimi giorni.» «Claire!» ha chiamato mia madre. Sono scesa dall'auto, e sono andata vicino a lei. «Questa è Claire, Jay. Lei è... mia figlia.» Jay mi ha strizzato l'occhio e mi ha stretto la mano. Ha guardato mia madre e ha sorriso calorosamente. «Michael mi ha detto tutto, Beth. Su, adesso entrate tutte e due, e mangiate qualcosa, e salutate gli altri.» Ci ha accompagnate alla porta del silo, poi ha detto a mia madre: «Dammi le chiavi, Beth. Devo spostare quell'auto sul retro, e sistemarla in modo che nessuno venga a ficcarci il naso.» Mia madre gli ha dato le chiavi. Siamo state accolte sulla porta da una donna di nome Nan, che mi è stata presentata come la moglie di Jay. All'interno c'erano altre quattro persone,
un uomo, una donna, e due ragazze. Il silo era stato sistemato come una vera casa, con mobili, tappeti, scaffali, e un televisore, addossati alla parete curva. Un lavandino, una vasca dietro una tenda improvvisata, e una stufa, erano inseriti nella parete laterale, a destra, e letti e lettini e sacchi a pelo erano allineati a sinistra. In alto due uccelli veri svolazzavano e si tuffavano, e si posavano brevemente su un trespolo prima di impegnarsi in una nuova scherzosa battaglia. «Non badate alle rondini,» ha detto Nan. «Ne avevamo altre, ma una coppia è rimasta uccisa e si è trasformata in scheletro, e abbiamo dovuto sparargli.» Abbiamo mangiato, fatto un bagno, e ci hanno dato dei vestiti puliti. Jay è ritornato e ha acceso la televisione. «Abbiamo tirato il cavo dalla casa,» ha spiegato. «E anche una linea elettrica. Non abbiamo avuto problemi di energia elettrica, la corrente è saltata solo tre o quattro volte, e per niente negli ultimi tre giorni.» Ha fatto passare i canali. «Stamattina la stazione governativa ha trasmesso, e ha detto che stasera ci sarebbe stato un comunicato importante. Questo è il loro governo, naturalmente. Dei nostri non sentiamo niente da giorni. Qualche volta le stazioni indipendenti trasmettono per pochi minuti, e poi spariscono. La società elettrica è stata requisita dai nostri per un giorno, ma non è durata.» Ha spento. Al tavolo a cui ci siamo sedute mi sono accorta che mi si chiudevano gli occhi, e ho visto mia madre di fronte a me che si addormentava. «Cielo!» ha esclamato Jay. «Portate a letto quelle due prima che sbattano la testa sul tavolo! Quanto tempo è passato da quando ti sei fatta un buon sonno, Beth?» «Davvero non lo so,» ha risposto mia madre. Ci hanno aiutato ad alzarci da tavola e ci hanno accompagnato a letto. «No...» ha protestato debolmente mia madre. «Michael...» «Adesso non preoccuparti di Michael,» ha detto Nan. «Vai a dormire. Se Michael arriva, ti svegliamo noi.» Attraverso le palpebre che mi si abbassavano, ho visto mia madre chiudere gli occhi. Nan mi ha guardato incuriosita per un momento, poi ha sorriso. «Anche tu, cara,» ha detto. «Sai, ti ho sognata.» Ha continuato a guardarmi, poi se n'è andata.
Mi sono sdraiata e ho chiuso gli occhi, e mentre mi abbandonavo al sonno ho sentito Nan che diceva agli altri: «Che coincidenza che sia la figlia di Beth. È lei quella di cui vi ho parlato, quella che dobbiamo proteggere...» 13 Mi sono svegliata di soprassalto, al buio. Qualcuno stava chiamando mia madre, cercando di svegliarla. Mi sono drizzata a sedere. La nostra parte del silo non era illuminata, ma dall'altra parte, nella zona giorno, le lampade erano accese, e gettavano su tutto una luce crepuscolare. La televisione era accesa, ma lo schermo era attraversato solo dalle scariche elettriche. Nan era china su mia madre, e la stava scuotendo. «Beth, svegliati! Michael è qui!» Mia madre è uscita dal sonno e si è svegliata. «Michael è qui fuori!» ha ripetuto Nan eccitata. «Oh, Signore,» ha detto mia madre, alzandosi. «Oh, grazie a Dio.» Vicino alla porta si era formata una piccola folla, con davanti Jay, che ha preso il fucile accanto alla porta, e poi l'ha rimesso giù, gridando nell'oscurità: «Va bene, venite avanti! Te l'ho detto, Mike, qui è tutto a posto!» È venuta una risposta soffocata. Jay ha imprecato per l'impotenza, e mia madre si è spinta fino alla soglia. «Dice che non può essere sicuro che qui dentro siamo umani,» ha detto Jay. «Io mi sono fatto vedere da lui, per Dio! Michael e qualche altro sono là nella stalla. Ha mandato fuori una donna, parte di un gruppo col quale ha viaggiato, per dimostrare che anche loro sono umani. Dice che si fida solo di te, Beth.» «Lasciami andare da lui!» ha detto mia madre avanzando attraverso la soglia. «No, aspetta,» ha detto Jay preoccupato, prendendola per un braccio. «Sembra davvero sconvolto. Devono essersela passata brutta là fuori. Voglio solo essere sicuro...» «Lascia che lo veda!» ha detto mia madre, liberandosi dalla stretta di Jay e uscendo dal silo, e dirigendosi verso le porte aperte della stalla. «Michael!» ha chiamato. «Sono io! Sto arrivando!» Jay e tutti noi ci siamo riversati fuori dalla porta dietro a lei. Io non vedevo nulla.
«Beth, non mi piace...» ha gridato Jay. «Va tutto bene!» ha detto mia madre. «Michael!» ha chiamato ancora. «Sono io!» Uno scheletro è uscito dall'ombra delle porte della stalla, imbracciando un fucile che ha alzato e puntato contro mia madre. «Ciao, Beth,» ha detto. «Michael è uno di loro!» ha urlato Jay. Dietro lo scheletro è apparso un gruppo di umani, con le armi in pugno, guidati da Margaret Gray, che ha detto a Michael: «Sparale.» Michael ha sparato, mia madre ha vacillato, ha gettato un urlo ed è caduta. Immediatamente Michael ha lasciato cadere il fucile ed è corso da mia madre. Si è chinato e l'ha presa tra le braccia. «Oh, Dio, Beth, non capisci? Questo è l'unico modo in cui potevamo essere di nuovo assieme.» «Michael...» ha sospirato mia madre. «Oh, Dio, Beth.» Mia madre ha guardato verso di me, ha teso una mano. «Claire...» La mano è caduta, ed è rimasta immobile. Poi ha cominciato a trasformarsi. «Sparate a tutti e due,» ha detto Margaret Gray. Un uomo basso, grasso, calvo, con occhi cattivi si è fatto avanti, ha raccolto il fucile abbandonato da Michael e ha preso la mira. Mia madre e Michael, entrambi scheletri, si sono alzati di fronte a Margaret Gray. «Hai promesso!» ha detto Michael. «Siete degli obbrobri,» ha detto Margaret Gray, facendo segno all'uomo basso. «Adesso.» L'uomo basso e grasso ha sparato due volte. Mia madre e Michael sono diventati polvere. «Adesso uccidete tutti gli altri!» ha urlato Margaret Gray. «Ma non fate del male alla ragazza!» Quelli che erano con lei hanno iniziato a sparare. «Dannazione!» ha esclamato Jay. Si è ritirato verso la porta del silo ed è stato colpito mentre allungava la mano a prendere il fucile. È caduto. Nan mi ha afferrata e mi ha tirata dentro, ed è stata colpita anche lei. Gli altri, l'uomo, la donna, e le due ragazze, sono riusciti a rifugiarsi nel silo. L'uomo è stato abbattuto mentre cercava di recuperare il fucile di Jay. Le donne si sono rannicchiate vicino ai letti e sono rimaste a guardare, io mi sono addossata con le spalle alla parete del silo. «Convertiteli,» ha detto Margaret Gray.
Quelli che stavano entrando nel silo hanno scaricato le loro armi sulla donna e le due ragazze. «Polverizzateli,» ha detto Margaret Gray. Mentre i corpi si trasformavano in scheletri ci sono stati altri spari, e gli scheletri si sono dissolti. «Ciao, Claire,» ha detto Margaret Gray girandosi verso di me. «Non è stato difficile trovarti. Il nastro registrato dal marito della signora Garr è stato molto istruttivo, anche se mi ci è voluta un'ora per trovare l'agenda con l'indirizzo della fattoria. Non approvo quello che è successo alla povera Priscilla Ralston.» Mi si è avvicinata. La luce fanatica nei suoi occhi era anche più accentuata. «Ti ho sognata, Claire. Ti abbiamo sognata tutti. Ho sempre saputo che c'era qualcosa di... speciale in te.» D'un tratto ha levato le mani e gli occhi al cielo. «È stata consegnata a me!» Le scariche della televisione si sono messe a crepitare, l'immagine si è schiarita e ha mostrato uno scheletro sottile seduto dietro una scrivania. Alle sue spalle c'era la bandiera americana. «Signore e signori, il Presidente degli Stati Uniti,» ha annunciato una voce fuori campo. Tutti si sono voltati a guardare. Margaret Gray ha sorriso a labbra strette e ha detto: «Mi hanno internato a Withers per via delle mie convinzioni religiose, Claire. Per tutto questo tempo, da quando avevo sette anni, sapevo che sarebbe successo qualcosa del genere. Sapevo che sarei stata al centro di grandi imprese.» Si è stretta le mani, molto forte, e ho sentito sorgere in lei una rabbia violenta, che ha minacciato di esplodere, e poi si è acquietata. Quando ha parlato di nuovo, la sua voce era quasi gentile, e mi guardava come se fossi motivo di meraviglia. Mi sono sorpresa vedendo una lacrima formarlesi nell'angolo dell'occhio. «Avevo sette anni, quindici anni fa, e dicevano che ero pazza, perfino mia madre e mio padre...» I suoi occhi mi lasciarono un momento, e poi si concentrarono di nuovo su di me con la stessa timorosa soggezione. Alla televisione uno scheletro con le magre fattezze spettrali di Abramo Lincoln stava parlando. «Ho avuto una visione, Claire,» ha detto Margaret. «Che riguardava me e te.» Si è raddrizzata e mi ha indicato una sedia perché mi sedessi. Il suo sorriso è ritornato. «Sentiamo cos'ha da dire il Presidente, prima di dedicarci a grandi cose, vuoi?»
CAPITOLO DECIMO DALLA SECONDA VITA DI ABRAMO LINCOLN 1 «Cittadini degli Stati Uniti: «Ancora una volta mi trovo davanti a voi per esporvi queste brevi e consuetudinarie osservazioni, e per presentare chiaramente ai vostri occhi il giuramento fatto dal Presidente, come previsto dalla Costituzione degli Stati Uniti, "prima che si disponga all'adempimento del proprio dovere". «Sono passati centoventotto anni dall'ultima volta che sono comparso davanti a voi in questa veste, e ancora una volta l'Unione si trova in una crisi profonda. «E ancora una volta stabilisco davanti a voi che quest'Unione non verrà infranta. «L'attuale corso degli eventi, come nel passato conflitto, può condurre solo in due direzioni. O ci sarà la pace, o la pace sarà abrogata, e la guerra continuerà. Non esiste una via di mezzo. «Ancora una volta la nazione è ferita, e tuttavia le ferite guariscono. Ancora una volta ci ritroviamo con un'istituzione, l'istituzione della prima vita, che minaccia di dilaniare l'Unione, e con essa le speranze e i sogni di tutto il suo popolo. «La guerra è qui, e nessuno la vuole, ma nemmeno se ne andrà finché l'Unione rimarrà integra ed inviolata. «Come ho detto nel mio ultimo discorso in un'occasione analoga, tanti anni fa, l'Onnipotente ha i suoi scopi. "Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!" Se supponiamo che la prima vita sia uno di quegli scandali che, nella Provvidenza di Dio, è inevitabile, ma che, avendo prosperato per il tempo da Lui stabilito, l'Onnipotente adesso vuole sopprimere; e che Egli ci dà questa guerra terribile, come guaio per coloro che hanno colpa dello scandalo; dobbiamo forse noi discernere in essa una deviazione da quei divini attributi che i credenti nel Dio vivente sempre Gli ascrivono? Come ho detto, allora, ardentemente speriamo - e ferventemente preghiamo - che questo prepotente flagello della guerra possa trascorrere in fretta. Ma se Dio vuole che continui, così sia. E sempre dobbiamo dire, "I castighi del Signore sono interamente meritati e giusti". «Nessuno vuole la guerra; tutti vogliono la pace. Ma la pace potrà es-
serci solo quando accoglieremo l'ultimo dei nostri fratelli erranti in questa unione della seconda vita. Chiedo ai nostri cittadini umani di deporre le armi e aprirsi alla seconda vita, e sanare così le ferite della nazione. «Le nazioni del mondo stanno combattendo le loro proprie battaglie all'interno di questa guerra. Sono tempi agitati. Pregherò stasera che ancora una volta, come tanti anni fa, otteniamo una pace duratura tra di noi, e così facendo, tra tutte le nazioni del mondo.» 2 Chiusi gli occhi e pregai Dio di aver detto le cose giuste. Come sempre, temevo che la mia voce fosse troppo debole, troppo acuta, che le mie parole fossero inefficaci. Fu allora che Justice William Douglas, «L'uomo migliore che potevano trovare per quel compito,» come diceva il suo motto, mi fece prestare giuramento. Tolsi la mano dalla Bibbia, e grazie a Dio, l'incombenza era stata assolta. «Siete stato magnifico, signor Presidente,» mi disse Stanton, sorridendo raggiante. Il cameraman, uscendo da dietro il suo gigantesco occhio elettronico, fece una smorfia. «Non ho guardato dritto lì dentro, vero?» dissi con un sorriso. Si agitò tutto e disse: «Certo che ha guardato dritto, signor Presidente. È stato... perfetto.» «Fandonie. Ho guardato il foglio che stavo leggendo, proprio come mi avevate detto di non fare. Non vi preoccupate.» Mi alzai e gli battei sulla spalla. Mary, rannicchiata in un angolo, sembrava che avesse pianto, e andai da lei. «Sei felice per me, mamma?» le chiesi abbracciandola. «Felice!» sibilò spingendomi via. «Era solo una battuta,» le dissi gentilmente. «So come ti senti. Anch'io mi sento così. Ma...» «Ma niente, Abramo! Ti sei già reso utile una volta...» scoppiò in lacrime, lasciò l'Ufficio Ovale e non si voltò a guardarmi. «Ancora una volta, mi si spezzerà il cuore.» Io la seguii tristemente con lo sguardo, ma la mia tristezza non durò a lungo. Eddie e Willie erano lì, e stavano devastando la mia scrivania, e
giocando con l'apparecchio televisivo. «Papà, guarda!» disse Willie, girando verso di me la lente. Io portai le mani al volto fingendo sorpresa. «Oh, no! Ancora gli addetti stampa!» «A proposito di addetti stampa...» disse Stanton, venendomi vicino. «Lo so, lo so,» risposi. Sentivo il loro brusio nell'ufficio adiacente. Sapevo che avrei dovuto fronteggiare le loro penne - e telecamere - in qualsiasi momento. «Molti di loro non mi infastidiscono. Ma quella CNN...» Billy Herndon era accanto a me. «Sono sotto controllo, signor Lincoln. Abbiamo promesso a Huey Long un posto ministeriale, forse Segretario del Tesoro.» «Quel ladro!» sghignazzai. Gli occhi di Herndon luccicavano. «Esattamente. Lo terrà tranquillo e occupato, e possiamo tenere d'occhio quanto ruba. In cambio ha passato la stazione a un uomo di nostra fiducia.» «D'accordo.» Diedi un'occhiata ansiosa a Eddie e Willie. Il cameraman stava cercando inutilmente di strappare loro di mano la sua attrezzatura. Poi Herndon e Stanton mi accompagnarono alla porta, e agli addetti stampa che mi aspettavano dietro a essa. «Parleremo più tardi degli altri appuntamenti, signor Lincoln,» disse Billy. I miei occhi erano ancora fissi su Eddie e Willie. Poi venni quasi spinto attraverso la porta, fra le braccia aperte del Quarto Stato e le sue luci accecanti. Subito venne la prima domanda: «Signor Presidente, adesso che nel paese è tornata la stabilità, si aspetta che la guerra contro gli umani duri a lungo?» «Durerà il tempo necessario...» risposi. 3 Più tardi, mentre sedevo da solo nel mio ufficio, al buio, in attesa del ritorno di Stanton e Herndon, mi sentii pervadere da un'intensa stanchezza. Ripensai al mio discorso. Ero certo che fosse inadeguato. Non avevo dubbi sul fatto di essere riuscito a farmi capire dalla nostra razza, ma mi ero sforzato di dimostrare all'altra parte la giustizia del mio pensiero. Se solo avessi potuto far capire loro che l'unica scelta logica da seguire era passare
dalla nostra parte, a braccia aperte, come fratelli... Ma dubitavo che avrebbero capito. Combattevano, proprio come noi, e sicuramente come noi vedevano la giustizia del loro pensiero. Era questo che mi infastidita, ed era forse questo la radice della mia afflizione. Avevamo ragione? Sapevo che esisteva un'animosità di base in noi verso i primi viventi. Io stesso la sentivo, eppure non mi piaceva, come non mi piaceva la mia violenza radicata, portata così abilmente alla luce da Herndon e Stanton. Avevamo ragione? Poteva il semplice fatto di esistere esonerarci dall'avere torto? La logica mi diceva che eravamo lì, e che così andava il mondo adesso, ma ciò era buono e giusto? Non lo sapevo. Potevo solo seguire le direttive che mi ero imposto. E pregavo Dio che fossero quelle giuste. Perché nel mio cuore sapevo che avremmo vinto, avremmo estinto il genere umano dalla terra... Mi girai sulla poltrona e guardai fuori dalla finestra i prati e le luci di Washington. Pensavo a quanto diverso, e per parecchi aspetti quanto più meraviglioso, fosse quel mondo da quello che avevo conosciuto. Le luci si accesero nella stanza. Mi girai di scatto, distendendo la mia lunga ossatura per alzarmi dalla poltrona, alla vista di un vecchio amico che avanzava nella stanza, fumando un sigaro e sorridendo tra la barba. «Grant!» «Sì, signore,» disse Ulisse Grant, stringendomi la mano. Stanton entrò dietro di lui sorridendo. «Pensavamo che foste morto in Ohio!» dissi a Grant. «Lo ero, per così dire. Ma no, dopo che sono... risorto, io, ehm, ho avuto qualche problema a riprendermi.» Ha fatto il gesto di alzare un bicchiere e ha sorriso. Stanton si mise a ridere. «Li abbiamo avuti tutti, dei problemi, eccome!» dissi io. «Beh,» disse Grant, «secondo i miei calcoli, mi sono fatto una bevuta di quindici giorni. Non l'ho mai fatto prima, né fuori né sul campo di battaglia.» «Ricordate quando ho ricevuto delle lamentele perché bevevate, e ho risposto di scoprire quale fosse la vostra marca, e di farne consegnare dei barili a tutti i miei generali?» Ridemmo tutti. «Dio mio, vi siete persino seduto nella mia poltrona,» dissi ancora, ricordando all'improvviso. Grant fece un gesto con la mano. «Non sono tornato per quello, signor Presidente. È già stata una brutta esperienza quella prima volta.» «Ulisse vorrebbe riprendere il comando,» disse Stanton.
Grant aspirò alcune brevi boccate dal suo sigaro. «Credo che possiamo vincere questa guerra in fretta.» Non ero sorpreso, ma finsi di essere impressionato. «Eccellente! Da quanto mi dice il Segretario Stanton, gli eserciti federali sono nello scompiglio a sud-est e a ovest. Con...» «Sherman è già nel sud, signor Presidente,» disse Grant, «e Phil Sheridan è su un aereo dell'esercito diretto a ovest, mentre stiamo parlando. Qualcuno della nostra razza in California ha cercato di formare una piccola nazione personale. La chiamano la Nuova Federazione. Non durerà a lungo.» Fece una pausa. «Mi hanno detto che siete informato che Dwight Eisenhower comanda le nuove Forze Alleate. Visti i suoi precedenti pensiamo che sarebbe un eccellente coordinatore della campagna con gli alleati d'oltremare. Questo non è lo stesso mondo che conoscevamo, signor Presidente.» «È vero. E anche Eisenhower si è seduto dietro questa scrivania...» Grant continuò. «Gli eserciti nazionali saranno pronti tra una settimana. La Guardia Nazionale ha stabilizzato gran parte delle aree civili...» «New York?» «New York è una gran confusione, a voler essere clementi. Philadelphia, Chicago e Boston sono state gravemente danneggiate. Nel sud Atlanta è di nuovo in fiamme, solo che stavolta non siamo stati noi, signor Presidente. Gli umani hanno dato fuoco alla città quando sono scappati. Gli uomini di Sherman stanno restaurando l'ordine.» «Dio, che ironia,» dissi. «Se solo i primi viventi si lasciassero convenire...» Di nuovo quella vaga sensazione di errore, di una pecca nel mio ragionamento, che rischiava di precipitarmi nella disperazione. «Ma signor Presidente,» disse Stanton vivacemente, «abbiamo tutte le ragioni di credere che la guerra non sarà lunga. Quasi tutte le maggiori nazioni del mondo si sono stabilizzate, e sono ora in pieno movimento contro la popolazione umana. La Cina ne sta convertendo a migliaia ogni giorno, la Russia - l'Unione Sovietica, come la chiamano adesso - sta facendo passi da gigante. E dovete ricordare che ogni umano che viene convertito è un soldato che si aggiunge alle nostre truppe.» «Sì...» «Crediamo che in pochi mesi, sei al massimo, il lavoro sarà concluso. Ci sarà un ordine stabile in tutto il mondo, e potremo dedicarci ad altre questioni.»
«Un mondo senza guerra?» «Se non quello,» interloquì Stanton, «allora un mondo che ricomincia da capo. La nostra nazione uscirà da questo conflitto in una posizione di forza, signor Presidente.» «Sì, suppongo di sì.» Rivolsi loro un sorriso tirato. «Questo mi ricorda la storia dell'opossum che è scappato sull'albero. L'avete mai sentita?» Sia Grant che Stanton mi guardarono con indulgenza. «Non credo proprio, signor Presidente,» disse Grant. «C'era questo opossum, la cui estremità posteriore era stata colpita dal fulmine. Sapeva che se fosse stato colpito ancora sarebbe stato un opossum morto. Allora è scappato su un albero, pensando che lì sarebbe stato al sicuro. Soltanto che poi quell'albero è stato colpito dal fulmine, e l'opossum è caduto giù, ed è rimasto ucciso lo stesso.» Sospirai. «Io mi sento come quell'opossum, signori. Credo che tutti dovremmo sentirci così.» «Cosa volete dire con questo, signor Presidente?» chiese Stanton. «Ho paura, signor Stanton,» dissi, «che noi siamo più umani adesso di quanto lo siamo mai stati. E che la vera pace è qualcosa che non potremo mai trovare in questo mondo.» Sapevo di essere stato opprimente, così alzai gli occhi e sorrisi. Mi mossi con la mia estremità posteriore sulla poltrona, e sollevai la gamba sul bracciolo per stare più comodo. «Ma ad ogni modo, un colpo di fulmine alla volta, eh, signori?» 4 Nel corso delle poche settimane successive le cose andarono decisamente bene. Ebbi alcune conversazioni entusiasmanti con leader stranieri al telefono, uomini come Xeng Lo Pin, il dominatore cinese dell'ottavo secolo che era emerso al comando del paese. Era un uomo notevole, uno dei pochi della sua epoca a prosperare e adattarsi all'età moderna. Conosceva anche alcune storielle sporche. I nostri tanti eserciti divennero uno, e sotto l'amministrazione di Grant smisero di attaccar briga per un nonnulla e si dedicarono a tempo pieno a convertire gli umani in secondi viventi. Ci fu una grossa battaglia in Illinois, dove la nostra Quarta Divisione, agli ordini di George Custer, sconfisse e convertì diecimila umani guidati dal Generale Norman Schwarzkopf. Quando Schwarzkopf venne catturato e convertito, assunse immediatamente il comando al posto di Custer, che era riuscito a farsi circon-
dare e distruggere da un gruppo di umani disperatamente nobili che l'avevano assediato. La comicità della faccenda mi fece rabbrividire. Ero obbligato ad apparire in televisione con sgradevole regolarità, e arrivai a considerare l'onere un male necessario. La comunicazione televisiva era stata ripristinata in quasi tutto il paese. Sembrava dare forza alla gente, vedere il loro Presidente in quelle piccole scatole, che parlava loro direttamente. Scoprii di avere poco da dire, come al solito, ma a quanto pare era sufficiente. Un altro rivoltante sviluppo moderno, l'indagine di opinione, mi dimostrò che avevo ciò che mi venne detto essere uno stupefacente indice di ascolto. Non mi sono mai preoccupato di scoprire cosa significasse esattamente, ma mi fidai della parola di Billy Herndon che diceva trattarsi di una buona cosa. Ancora una volta il potere industriale degli Stati Uniti, e stavolta tutti gli Stati Uniti, nord e sud, fu un fattore decisivo nel progredire della guerra. Gli Americani erano proprio bravi a costruire cose, specialmente cose con cui uccidere gli altri. Ogni soldato del nostro esercito aveva due pistole e più proiettili di quanti gli o le servissero. Ma tutto questo potere veniva messo al servizio di una buona causa. Purtroppo Mary divenne un grosso problema. Era sempre sensibile ai miei umori neri, e sembrava nutrirsene, diventando addirittura più apprensiva che in passato. A volte si rifiutava di vedermi per giorni interi, ed era terribile con i domestici della Casa Bianca. C'erano diverse lamentele per il suo comportamento. Non riusciva nemmeno a concentrarsi nell'organizzare la Casa Bianca nel modo che più le piaceva. Capitava che si chiudesse a chiave in camera a piangere, a volte a gridare. Persino i ragazzi cominciarono ad avere paura di lei. La faccenda si fece così grave che un giorno dovetti prenderla al mio fianco, e tenercela con un braccio, e indicarle dalla finestra del mio ufficio una costruzione poco lontana. «Vedi quel posto, mamma? Ti ricordi cosa ti ho detto una volta, la prima volta che siamo stati qui? Che è un manicomio, e temo che se non migliori dovremo mandarti là dentro.» Lei mi guardò con quei suoi luccicanti occhi spaventati. «Allora non l'hai ancora saputo? Non sai che ho finito la mia vita in un posto come quello!» «Mamma...» «Ti avevo avvertito, Abramo! Ti avevo detto che tutto ciò che volevo in questa nuova vita era che tu restassi con me e i ragazzi! Ti sei già dato una volta alla Nazione!» Le sue urla diventarono strilli acuti. «Perché devi la-
sciare che ti abbiano ancora!» «Mamma, ci sono cose che sfuggono al nostro controllo...» «Non c'è niente per me in questa vita! Credevo di essermi svegliata in paradiso, e questo è l'inferno!» «Mary, hai i ragazzi.» «Non ho niente! Non capisci che niente di tutto questo è giusto! Questo non è il paradiso! Voglio tornare a casa, a Springfield, oppure sottoterra, oh, Abramo...» Nascose il volto contro la mia spalla e pianse. «Non posso restare in un mondo come questo...» La consolai, e la strinsi, e tentai di ricordare la ragazza che avevo corteggiato, il cui volto avevo rivisto dopo che entrambi eravamo risorti dalla tomba. «Mary, cara...» Quella notte si tolse la vita, nella sua stanza, da sola, piantandosi un coltello nel petto. Lasciò un biglietto sigillato, che lessi soltanto io: Addio, papà, e miei cari ragazzi. So che è egoista da parte mia, ma non sopporto di perdervi ancora. Perciò torno da dove siamo venuti. Spero, finalmente, di trovare il paradiso. 5 Fu allora che quasi persi la speranza. Una depressione più nera di quelle conosciute in passato si abbatté su di me. Non era solo la perdita di Mary, profonda come nient'altro al mondo. Lei si era portata via la parte di me che credeva giusto quello che stavo facendo. Al suo funerale, un affare di stato presenziato dalla miriade di politici che adesso popolava il Congresso e il gabinetto, e dai ministri dei vari paesi del mondo, io restai seduto in un silenzio assoluto. Tad, Eddie, Willie, e Robert erano seduti accanto a me. Mi sentivo morto, come se l'avessi raggiunta nella tomba. Le sue ultime parole scritte continuavano ad attraversarmi la mente, dirette e veritiere come se fossero state scritte da me stesso: Torno da dove siamo venuti. Spero, finalmente, di trovare il paradiso. Da dove siamo venuti? Dove siamo stati, tutti noi che siamo qui adesso in questa cattedrale, tutti noi che cerchiamo di cancellare il genere umano dalla faccia della terra, prima di risorgere? Perché siamo tornati? Abbiamo davvero il diritto di prendere possesso del mondo? Improvvisamente la parte più grande di me voleva essere con lei, in
qualsiasi luogo fosse ritornata. Non accompagnai a Springfield i suoi resti, la polvere raccolta in un'urna d'argento. Ci venne portata in aereo, e Robert andò ad assicurarsi che venisse messa a riposare nel luogo originario. Ai presenti dicemmo che le impellenti necessità della repubblica mi costringevano a Washington. Ma coloro che mi erano più vicini, in particolare Billy Herndon, sapevano che se fossi tornato laggiù avrei potuto cercare di rientrare anch'io nella mia tomba. Nel corso delle settimane seguenti presi l'abitudine di restare seduto nel mio ufficio con le luci basse, a guardare fuori dalla finestra, firmando automaticamente qualsiasi documento mi passasse sulla scrivania. Mangiavo di rado, comunque più di quanto avessi mai fatto, senza gustare il cibo, senza vedere né parlare con nessuno a meno che non fosse assolutamente indispensabile. Divenni così poco socievole che un giorno Billy Herndon entrò e chiuse la porta. «Signor Lincoln,» disse, «non potete continuare così. State cominciando a contagiare tutti coloro che vi stanno attorno. Presto contagerete il paese.» Alzai lentamente lo sguardo dalla scrivania, e abbozzai un sorriso stanco. «Nemmeno tu sembri così gagliardo, Billy. Per caso ti sei aggregato alla lega antialcolica del Generale Grant?» «Signor Lincoln,» disse, «le cose stanno andando molto bene. Siamo quasi al punto in cui possiamo chiamarlo un lavoro di rifinitura. Il Generale Eisenhower riferisce che oltremare va addirittura meglio. L'Europa ha quasi ottenuto una vittoria totale. Alcuni dei paesi più piccoli, come la Romania, la Turchia e la Grecia, hanno già dichiarato il cento per cento delle conversioni. Dubito che presto ci saranno ancora degli umani.» «Sì...» Emisi un profondo sospiro e lo guardai. «Ma tu, Billy, pensi che stiamo facendo la cosa giusta?» Era sorpreso. «Certo, signor Lincoln! Ne abbiamo parlato cento volte. Voi stesso mi avete detto che avete guardato in fondo alla vostra anima, per vedere chi foste, e avete visto che secondo la nostra natura stavamo facendo la cosa giusta.» «Ma la nostra natura è corretta, Billy?» Mi rivolse un'occhiata perplessa. «Signor Lincoln, non capisco...» «Hai sentito il mio terzo discorso inaugurale, Billy. Mi hai sentito citare le Scritture: "Guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo." Supponi che l'umanità non sia lo scandalo, ma che lo siamo noi, invece?» «Signor Lincoln...»
«Ascoltami fino in fondo, Billy. Se, per amor di discussione, noi siamo lo scandalo...» Osservai il foglio che avevo davanti, una copia del mio discorso, e lessi: «...che, nella provvidenza di Dio, è inevitabile, ma che, avendo prosperato per il tempo da Lui stabilito, l'Onnipotente adesso vuole sopprimere.» Alzai lo sguardo su Billy, che mi fissò. «Signor Lincoln, questo è assurdo. Questo è...» «E se fosse vero, Billy? Se io - se tutti noi - avessimo capito al contrario?» Billy aveva perso ogni traccia dei postumi della sbornia. «Signor Lincoln, non potete negare la nostra natura. Noi possiamo solo agire secondo la nostra natura!» «È vero, è vero. E fin qui, c'è della giustizia.» Sentii un po' della mia vecchia forza, una nuova specie di rabbia, riversarsi dentro di me. «Ma se la nostra causa, che a noi sembra così giusta, non lo è affatto nello schema più grande?» Ho tirato fuori un altro foglio da sotto al primo, una copia del mio secondo discorso inaugurale. «Con malanimo verso nessuno,» lessi, «con carità per tutti; con fermezza nel giusto, poiché Dio ci concede di vedere il giusto, compiamo uno sforzo per terminare il lavoro che abbiamo intrapreso.» Guardai Billy. Temo di averlo spaventato con la violenza da Vecchio Testamento delle mie parole: «Non provi malanimo verso nessuno, Billy? Provi carità per tutti?» «Signor Lincoln, secondo la nostra natura... Come avete detto, "con fermezza nel giusto", poiché Dio ci concede di vedere il giusto...» «Ma se la tua natura è sbagliata, cosa succede? Cosa succede se non proviene da Dio?» Picchiai rabbiosamente un pugno sul tavolo. «Io semplicemente non so perché siamo qui!» Billy rimase un momento senza parole. «Signor Lincoln...» «Io non so se veniamo da Dio! Io disprezzo questa rabbia dentro di me, Billy, quest'odio verso il genere umano. Disprezzo la rabbia che sento verso gli appartenenti alla nostra razza che non si piegano alla nostra volontà! Ho ucciso John Wilkes Booth con le mie mani, perché sentivo che dovevo farlo, ma mi disprezzo per averlo fatto! Io so cosa sono, conosco la mia natura fin nel profondo dell'anima, e non mi piace!» «Signor Lincoln,» disse Billy, «Non vorrete...» Riuscii a sorridere debolmente. «No, Billy, non posso. Forse sono melanconico, ma non sono uno sciocco. Abbiamo del lavoro da fare. Non in-
tendo proporre di saltare giù nel mezzo della corsa.» «Sì, signor Lincoln.» «La cosa che davvero mi sconcerta e mi inquieta, Billy, la cosa che la povera Mary mi ha fatto guardare per la primissima volta, è che se siamo tornati sulla terra, da dove siamo venuti?» Lo guardai in faccia. «E chi ci ha mandati qui, Billy? Tutto quello che voglio è un segno...» A quel punto mi lasciò, a meditare tristemente nel buio, con la sola compagnia dei miei pensieri. 6 Una settimana più tardi altre brutte notizie. La campagna orientale di Grant era andata brillantemente, all'inizio. In men che non si dica gli stati dell'Atlantico erano saldamente in mani federali. Poi Grant si era diretto all'interno, dapprima con risultati simili. Ma per destino o per intenzione, aveva formato una tenaglia attorno a un'imponente forza umana in Pennsylvania, costringendola verso Gettysburg per il confronto finale. Per telefono avevo tentato di convincerlo a combattere dove si trovava e di evitare Gettysburg ad ogni costo. Da quel momento le sue comunicazioni dal fronte divennero ingarbugliate. Ero certo che aveva ripreso a bere, e che adesso stava gozzovigliando persino nel calore della battaglia. Ma Grant protestava di voler combattere su terreno familiare. «Meade ha trovato qui la sua gloria; adesso lasciate che io abbia la mia!» Il terreno familiare, naturalmente, familiare non lo era più, e le nostre forze vennero sbaragliate da un contingente umano determinato e con armi moderne. Mentre era ubriaco Grant aveva ordinato che venissero usati i moschetti, e mi venne riferito in seguito che aveva provato a far caricare e sparare i cannoni della località storica di Gettysburg, che non erano stati usati dal 1863, con miserevoli risultati. La sua ultima telefonata mi giunse da un posto che Grant mi descrisse come il negozio dei regali. Potevo praticamente sentire l'odore d'alcol del suo alito mentre parlava. «Non sta per niente andando come previsto, signor Presidente,» mi disse. «Generale, devo dire che non sono sorpreso.» «Ci sono dei tavoli da pic-nic, adesso, dove una volta c'erano i picchetti! Come fa un uomo a combattere in questo modo!» «Generale Grant...»
«Stanno caricando, signor Presidente! E hanno degli elicotteri!» Sentii il rumore del mitragliamento, e Grant che bestemmiava. «Ho fatto in modo che aveste a disposizione armamenti simili, Generale Grant,» dissi con voce pacata. «Dannate scempiaggini! Sherman arriverà presto, signor Presidente?» «Sherman è nel sud, e ci resterà, Generale. Vi è stata fornita ogni cosa necessaria a proteggere la vostra zona. Se...» Mi ricordai del grande combattente che era stato, e addolcii il tono. «Generale, forse dovremmo parlare di un cambio di comando...» In quell'istante Grant pronunciò un'altra bestemmia. «Dannazione McClellan, portami un'altra bottiglia! E...» Fu tutto quello che sentii. In seguito mi dissero che un cecchino aveva colpito il generale mentre parlava al telefono, e che un momento dopo era scomparso. A Gettysburg gli umani ebbero la meglio, e occuparono la zona per le successive settantadue ore, finché anche McClellan venne sconfitto, e un ufficiale di infimo rango, che aveva cercato di nascondersi in mezzo all'esercito di Grant, venne promosso, non appena fu scoperto, a ufficiale di grado e brigadiere generale nell'esercito degli Stati Uniti d'America. Fu allora che mi recai a Gettysburg per pronunciare un breve discorso e conoscere il mio nuovo, e fin troppo modesto, comandante dell'esercito, Robert E. Lee. 7 Se è mai esistito un uomo più melanconico di me, quell'uomo è Robert E. Lee. Ammetto di aver sentito una comunione istantanea con lui. Ci incontrammo nel suo temporaneo quartier generale, su una cresta che sovrastava i luoghi storici. Gettysburg, almeno, non era cambiata eccessivamente in tutti quegli anni. I molti buchi profondi da dove i morti sepolti erano risorti al loro stato attuale simulavano con portentosa accuratezza i crateri dei cannoni che avevo visto durante il mio ultimo viaggio in quella città. «La battaglia sarà vinta prima della fine del giorno,» disse Lee tristemente. «Non ho dubbi sulle vostre capacità, Generale,» dissi io. Indicò un punto verso est, in una vallata. Era circondato dalle carcasse metalliche dei carri armati distrutti e degli aerei abbattuti. Non riuscivo a
distinguere i soldati individualmente, ma mi rendevo conto della loro esiguità numerica. «Questo è ciò che è rimasto in tutta la parte orientale del paese. Ci sono in corso delle perquisizioni di casa in casa, ormai per lo più nelle campagne. Le città sono epurate.» Indicò gli angoli attorno alla vallata. «Sono circondati su quattro lati. Mi sembrano circa duemila. Ho mandato loro le condizioni di resa, ma» - ha sorriso con aria cupa - «mi hanno risposto di andare all'inferno.» «Sono uomini in gamba. Non c'è... un modo di risolverlo in fretta?» «C'è mai un modo?» disse Lee. «Abbiamo pensato al gas...» Io scossi la testa. «Quello non va bene. Conoscete i miei sentimenti al riguardo, e riguardo tutto le altre terribili armi in nostro possesso. Quegli aggeggi nucleari...» «Sono... male,» disse Lee. «Sì, è tutto male, certo.» «Ma ci sono diversi gradi di male, non siete d'accordo, signor Presidente?» I nostri sguardi si incrociarono. «Anche voi ne siete infastidito, vero, Generale? Da tutto quanto, voglio dire.» «Sì, lo sono, signore. Ma non c'è un altro modo, vero?» «No Generale, non c'è.» «Allora cerchiamo di sbrigarci.» I suoi occhi azzurri erano stanchi ma decisi quando ci stringemmo la mano e ci separammo. Il mio discorso era programmato per l'ora seguente. Su un foglio avevo buttato giù alcuni appunti, ai quali avevo lavorato durante il viaggio in aereo per venire in Pennsylvania. Ma non ne ero ancora soddisfatto. Il Generale Lee era stato tanto gentile da fornirmi uno sgabello da campo e un tavolino perché potessi lavorarci sopra mentre l'ora si avvicinava. Mentre ero seduto lì apparve un soldato, che stette in silenzio e sull'attenti finché lo notai. «Posso aiutarti, figliolo?» gli chiesi alzando lo sguardo. Le fattezze spettrali che gli avvolgevano lo scheletro erano incredibilmente giovani. Aveva circa diciassette anni, capelli un po' lunghi e arruffati, e l'aspetto estenuato dalla battaglia. Portava un fucile M-16 nuovo, ma sembrava che si sarebbe trovato più a suo agio con un moschetto. Il giovane mi salutò. «Signore, il Generale Lee pensava che dovessi parlarvi.» «Avanti, figliolo,» dissi. Per la prima volta da settimane sentii un sincero
sorriso di calore distendersi sui miei lineamenti. «È solo che...» «Non essere impacciato. È ovvio che hai la pancia piena di parole, e se non le tiri fuori ho paura che brontoleranno nello stomaco per sempre.» «Sì, signore,» ha detto innervosito. «Mi ricorda,» dissi, «la storia dell'uomo sul tronco rotolante. L'hai mai sentita?» «Signore?» «Dice così. C'erano una volta dei taglialegna che tagliarono un grosso albero e lo misero in mezzo al fiume. Uno dopo l'altro salirono su quel tronco, ma continuavano a cadere giù. Poi uno di loro salì sul tronco, cominciò a farlo rotolare, e riuscì a stare in equilibrio e a camminare allo stesso tempo.» Il soldato sembrava confuso. «Fai rotolare il tuo tronco, figliolo!» dissi ridendo. «Umm, è solo questo, signore. Io sono stato sepolto laggiù.» Indicò un punto vicino al fondo della valle dove aspettavano i nostri nemici. «Io ero qui nel 1863, durante la guerra.» «Capisco...» «E io volevo soltanto dire, signor Presidente, che quello che avevate detto la prima volta qui era vero.» «E cosa avevo detto?» Trasse di tasca una strisciolina di carta e la spiegò. Cercò per un attimo, poi lesse: «Che noi qui prendiamo la ferma risoluzione che tutti questi morti non siano morti invano; che questa nazione, devota a Dio, possa rinascere nella libertà; e che il governo del popolo, dal popolo e per il popolo non scomparirà dalla terra.» Mi guardò, e lo ammetto, avevo gli occhi pieni di lacrime. «È solo che...» «Avanti, figliolo,» lo incitai. «Io non sono morto invano, signore,» disse. «E noi tutti sentiamo che state facendo la cosa giusta per ognuno.» Mi alzai e gli strinsi la mano. Avevo ancora le lacrime agli occhi. «Grazie, figliolo,» dissi. Pronunciai il mio breve discorso, dimenticandomi delle parole che avevo scritto durante il viaggio in aereo. Riferii invece il breve incontro avuto con quel soldato, di cui non sapevo nemmeno il nome.
Poi ritornai a Washington, sollevato da alcuni miei dubbi. Appresi sull'aereo che Lee aveva vinto, cancellando l'ultima resistenza degli umani nella parte orientale degli Stati Uniti. Appresi anche che c'era stato un colpo di stato a Washington, e che adesso uno degli ex presidenti occupava la Casa Bianca. 8 Stanton mi accolse all'aeroporto, con un contingente ben armato. «È finita,» disse. «Abbiamo l'uomo sotto custodia. Il tutto è durato meno di un'ora. C'erano degli altri con lui, e li abbiamo presi tutti.» Stanton fece una pausa. «Comunque...» «Sì?» dissi, sentendo che qualcosa era andato storto. «Temo che nell'attentato abbiamo perso Robert e Tad. Anche Billy Herndon. Riteniamo che dovrebbero essere sepolti qui a Washington. Un viaggio fino a Springfield sarebbe troppo pericoloso per voi in questo momento.» «Eddie e Willie?» chiesi. «Salvi. Pensiamo davvero che si sia trattato di un incidente isolato, e l'ultima minaccia alla vostra amministrazione. Le indagini rivelano una travolgente approvazione...» «Al diavolo le indagini!» gridai. «Dov'è quell'uomo?» Stanton sbatté le palpebre. «Beh, lo stiamo trattenendo nel seminterrato, nella sala delle conferenze della sicurezza nazionale. Verrà...» «Voglio vederlo, adesso!» «Ma signor Presidente, c'è un incontro molto importante...» «Adesso!» Si inchinò di fronte alla mia ira. Il breve viaggio in elicottero fino alla Casa Bianca fu silenzioso. Scesi da quella macchina appena toccò terra e mi diressi a passo di marcia verso la fila di ascensori che portavano agli uffici nel seminterrato, precedendo di un passo Stanton e il Servizio Segreto. Li bloccai davanti all'ascensore. «Vado giù da solo,» dissi. «Signor Presidente, c'è un visitatore estremamente importante nel vostro ufficio, credo davvero che...» «Può aspettare!» Le porte dell'ascensore si chiusero, e cominciai a scendere. Due guardie dei fanti di marina fecero il saluto militare appena le porte si aprirono toccando il fondo. Dietro di loro, in fondo al lungo tavolo delle
conferenze, era seduto un uomo legato. «Fuori,» dissi. «Signor Presidente, abbiamo ordine...» «Questo è un ordine diretto del comandante in capo! Fuori!» Salutarono ancora e salirono sull'ascensore. Guardai le porte chiudersi, e mi accertai che l'ascensore partisse. Mi rivolsi all'uomo seduto in fondo al tavolo delle conferenze, che mi osservava con occhi mobili sotto la fronte spaziosa. «Perché l'avete fatto?» chiesi. «Non capite che questo non ha niente a che fare col potere? Qui c'è in gioco tutto il nostro futuro, nel bene o nel male. Questo non significa niente per voi?» Mi guardò, con occhi guizzanti, la mandibola che pendeva rilassata mentre parlava. «Dunque,» disse, «Lasciatemi mettere perfettamente in chiaro una cosa. In Cina non me l'avrebbero permesso. E Haldernan mi ha assicurato - assicurato, badate - che tutto si sarebbe svolto senza un intoppo. "Meta," disse, "meta definitiva". Certo, si è sbagliato altre volte...» Fu tutto quello che gli lasciai dire. Poco tempo dopo salii con l'ascensore e dissi alle due guardie in attesa che nella sala delle conferenze della Sicurezza Nazionale c'era bisogno di uno straccio per la polvere. 9 Grazie alle mie letture, l'uomo che mi aspettava nell'Ufficio Ovale mi era familiare. Era una figura del ventesimo secolo, ma avevo letto tanto di tante figure del ventesimo secolo che davvero non mi ricordavo chi fosse. Non era ben vestito, ma aveva molta considerazione per la sua pipa, e il sorriso addolorato sotto il grigio cespuglio arruffato dei capelli me lo fece piacere immediatamente. «Signor Presidente,» disse Stanton, «vi presento il signor Albert Einstein.» «Naturalmente!» dissi. «Lo scienziato!» Einstein annuì umilmente. «È un grande piacere conoscerla,» disse accettando la mia mano. «Il dottor Einstein ha delle notizie per noi,» disse Stanton. «Oh?» «Notizie enigmatiche, temo, signor Presidente,» disse col suo accento tedesco. Guardai Stanton per avere un accenno, ma era immobile, con l'atten-
zione concentrata sul signor Einstein. «Sapete, sono già stato qui una volta,» disse Einstein, «per vedere un altro presidente, Franklin Roosevelt. Non è stato un incontro felice, purtroppo. Allora lo sollecitai ad accelerare i tempi di sviluppo di quella che divenne la bomba atomica.» «Sì...» dissi, d'un tratto assalito dal timore che Einstein fosse lì per propormi qualche nuova arma ancora più terribile. Einstein, sentendo la mia preoccupazione, sorrise. «Lasci che la tranquillizzi, signor Presidente, che non sono qui per un motivo analogo. Credo che abbiamo tutte le armi che ci servono in questo momento, grazie.» «Sono assolutamente d'accordo.» «Ma sono qui con un grosso enigma. Vede, gli enigmi mi hanno sempre interessato, per esempio, il modo in cui sta assieme l'universo. Devo ammettere che questo enigma può essere persino più complesso.» Mi guardò. «Si è chiesto perché siamo qui, signor Presidente? Perché siamo... tornati?» «Non ho pensato quasi a nient'altro che a questo, signor Einstein.» Annuì, si infilò la pipa in bocca, e la tolse di nuovo. «Vorrei davvero aver portato una lavagna.» Presi un foglio di carta dalla mia scrivania e glielo porsi con una penna. «Grazie.» Iniziò a disegnare sulla carta, una approssimativa rappresentazione di quello che mi parve essere il nostro sole, col nostro pianeta e la luna in orbita attorno ad esso. «Questo, ovviamente, siamo noi,» disse indicando la terra. Fece un movimento circolare attorno al sole. «E questo, con gli altri pianeti, è il nostro sistema solare. E tutto il nostro sistema solare si muove attraverso lo spazio, attorno al cuore della nostra galassia, che noi chiamiamo la Via Lattea.» Mi guardò. «Capisco queste cose, signor Einstein.» «Bene.» Sorrise. «Mi rendo conto che ai suoi tempi molto di questo argomento era sconosciuto. Ma ogni tempo ha le sue incognite, è questo il bello della natura, eh?» Annuii, e sorrisi con lui. Riprese a disegnare in un altro angolo del foglio, tracciando un oggetto a forma di vortice e poi un cerchietto su un lato di questo, a circa due terzi della distanza dal centro. Poi disegnò una freccia dal cerchietto allo schizzo del nostro sistema solare. Indicò il vortice. «Allora, questa è la Via Lat-
tea, e questo,» continuò, seguendo a ritroso la freccia dal nostro sistema solare al cerchietto, «è il posto del nostro sistema solare nella Via Lattea.» Girò su di me la testa cespugliosa per assicurarsi che capissi, e io confermai, grattandomi il mento. «Sembra che siamo delle rape molto piccole in un grande giardino,» dissi. Rise. «Rape davvero molto piccole. Ci sono miliardi di miliardi di galassie proprio come la nostra Via Lattea, se vuole che le rape diventino ancora più piccole!» «Ha!» dissi. «Mio Dio, signor Einstein, riesco appena a farmi entrare in testa queste cose. Come fate a pensare così in grande? Non vi siete mai sentito come l'uomo vestito di un barile che passava tanto tempo a pensare da dimenticarsi dov'erano i suoi vestiti? E che disse, "Se non fossi stato così intelligente, non sarei così nudo."?» Einstein rise e si diede un'occhiata. «Per cominciare non sono tanto bravo a vestirmi, signor Lincoln. Ed è vero che spesso non abbiamo bisogno di pensare a queste cose per vivere una vita normale.» I suoi modi si fecero severi. «Ma temo che in questo frangente sia necessario.» Fissai il suo diagramma, cercando di comprenderne l'immensità. «Continuate, signore.» Einstein schizzò una fascia nebulosa che attraversava la Via Lattea, partendo dal centro fino a una delle estremità, passando dal cerchietto che rappresentava il nostro sistema solare. «Questa,» disse indicando la fascia, «è la nube nella quale ci troviamo attualmente.» Alzai le sopracciglia. «Tutto il nostro sistema planetario?» «Ogni cosa in un raggio di mezzo anno lu...» Si bloccò, sorrise. «Una bella distanza.» Guardai il foglio, mi grattai ancora il mento. Einstein proseguì. «L'ultima volta che siamo passati attraverso una nube è stato ventisei milioni di anni fa.» Fece una pausa. «Non è stato un caso se allora c'è stata un'estinzione della vita sulla terra. La prima grande estinzione di cui abbiamo delle prove è avvenuta alla fine dell'Era Permica, circa duecentoquaranta milioni di anni fa. Il novanta per cento di tutte le specie perì; l'estinzione di massa di varie specie terrestri creò i presupposti per la crescita dei dinosauri.» Si mise a disegnare altri minuscoli raggi di nube sulla scia della Via Lattea. «Ci sono state altre piccole estinzioni ogni ventisei milioni di anni circa. Una di queste fu responsabile dell'estinzione dei dinosauri. Ora siamo
stati in grado di rintracciare altre nubi lungo il nostro cammino attraverso la Via Lattea.» Mi raddrizzai di scatto. «Volete dire che una nube...?» «Sì. Crediamo che queste nubi siano state determinanti nel foggiare la vita sulla terra. Le particelle ad alta carica, come l'iridio e altre, contenute nella nube...» Alzai una mano. «Alt! Alta carica cosa?» Sorrise. «Questa è fisica e chimica, signor Presidente.» «Diciamo semplicemente che non sono bravo a indossare barili, signor Einstein!» Si mise a ridere, caricò la pipa e la accese. «Sa cosa volevo più di tutto quando sono... ritornato? Fumare questa pipa.» Gli battei una mano sulla schiena. «Bene, continuate pure.» Ritornammo al diagramma. «Per farla semplice, signor Presidente, ci sono... sostanze ignote nella nube che rendono possibile il ritorno sulla terra delle precedenti forme di vita.» «Così è questo che ci ha riportato indietro.» «Crediamo di sì.» Tornò al diagramma del sistema solare. «Sono successe cose meravigliose su tutti i pianeti. Su Marte è germogliata della vegetazione. Incredibilmente, data l'enorme pressione e il calore della superficie, abbiamo indicazioni di una massiccia crescita vegetale su Venere. Quel pianeta è diventato una specie di serra gigante, forse ricoperta di orchidee. Le nubi gassose di Giove adesso mantengono organismi aerei in quantità, probabilmente intelligenti. Titano, la luna di Saturno...» «Sicuramente opera dell'Onnipotente,» dissi meravigliato. Non mi contraddisse. «Può chiamare questa nube la Creazione stessa, signor Presidente. È meraviglioso, ma è anche denso di enigmi. Mi sono consultato con alcune delle menti più eccelse del mondo, all'Università di Princeton e altrove. Isaac Newton in persona ha lavorato al problema in Inghilterra, e Keplero in Germania. Quelli sono grandi uomini. Qui negli Stati Uniti, all'Università di Harvard, sta lavorando Hubble, che ha scoperto, a proposito, che alcune nebulose sono galassie indipendenti. Lui, io, e altri, crediamo che sia necessario dare immediatamente avvio al progetto di inviare un razzo ad alta velocità, possibilmente con equipaggio umano, lontano dalla terra, nella stessa direzione in cui procede il nostro sistema solare.» Lo osservai tracciare una linea a partire dal cerchietto, attraverso la nube e fuori di essa.
«Vede, signor Presidente,» disse Einstein aspirando brevi boccate dalla pipa e riempiendo l'aria di fumo fragrante, «nel giro di qualche mese l'intero sistema solare, inclusa la terra, uscirà dalla nube. E non abbiamo la minima idea di quello che accadrà allora.» La notte stessa, quando mi addormentai meditando le molte intriganti questioni sollevate dal dottor Einstein, afflitto contemporaneamente dal dolore per la perdita dei miei cari, e sentendomi triste e solo, ebbi un sogno, una visione, il segno che tanto avevo atteso. CAPITOLO UNDICESIMO LE MEMORIE DI PETER SUN 1 Alla fine dell'estate, quando i primi venti freddi cominciarono a soffiare dalle vette di Konzhakovski Kamen, ormai lontano dietro di noi, il ventre di Reesa presentava già i segni della gravidanza. Su mia insistenza il nostro procedere si fece più lento, sebbene Reesa fosse forte e mi desse dello sciocco. Da tempo il carro era stato abbandonato, rotto, sulle rocce in cima alla montagna. Avevamo montato il cavallo per centinaia di miglia, fino a quando non si era azzoppato, costringendomi ad abbatterlo, una volta e poi di nuovo. Vicino a Petropavlovsk avevamo trovato un autocarro che ci aveva portato a nord fino quasi a Noginski, prima di fermarsi. Ci lasciammo indietro la carcassa rumorosa e arrugginita, e ci caricammo sulle spalle tutto ciò che potemmo. La terra ci forniva il cibo, e la notte un tetto di stelle. Solo quando ci sentivamo sufficientemente al sicuro accendevamo un fuoco, anche se le temperature più fredde e le condizioni di Reesa rendevano necessario correre più rischi. Per settimane non vedemmo nessuno, umano o scheletro. In quel periodo eravamo assillati da una sorta di sogno, dalla fantasia che il mondo appartenesse a noi soli, sogno occasionalmente infranto dalla vista di un falco volteggiante in forma di scheletro, o dalle impronte di scheletri sul terreno. Di notte grilli e altri insetti notturni stridevano e cantavano, e nonostante sapessimo che quei suoni provenivano per lo più da bianchi piccoli carcami fantasma, la nostra fantasia ci concedeva di pensare che il
mondo fosse giusto. Per la prima volta dopo tanto tempo ero felice. Tutta la mia vita passata sembrava storia, ed esistevano solo mia moglie, il mio bambino in arrivo, e il cielo azzurro, la terra bruna e le stelle. La luna sorgeva e tramontava per Reesa e me, e mutava la sua forma col trascorrere delle settimane. Se mi perdevo in questo sogno ad occhi aperti, potevo credere che il mondo fosse tutto lì. Reesa fioriva. La sua carne pareva esplodere di vita umana, il suo colorito veniva acceso da ciò che le cresceva dentro come dal vento e dal freddo della notte. Non potevo immaginare il mondo, né l'universo, senza di lei. Quando finalmente arrivammo alle vaste pianure vulcaniche della piattaforma centrale siberiana, Reesa mi venne accanto, mi strinse la mano, e indicò lontano, a nord dell'altopiano. «Ecco, là è da dove viene il mio popolo,» disse. «Si racconta che la tribù venne costretta a fuggire verso est fino a restare senza terra, e che metà si stabilì sull'altopiano di Anadyrskoye, vicino al Mare di Bering, e l'altra metà attraversò lo stretto.» La guardai. «Vuoi dire verso il Nord-America?» Sorrise. «Sì. La storia della nostra tribù dice che tutta l'America proviene dal nostro seme. Gli Indiani Americani, lungo tutta l'America Centrale e Meridionale, i Maia e gli Aztechi, facevano tutti parte della nostra tribù perduta.» «È un'affermazione piuttosto ambiziosa, non credi?» le dissi. La sua espressione era assolutamente seria. «È vera.» Quella notte i dolori causati dal bimbo la tormentarono. Io rimasi sveglio, di guardia, badando al fuoco finché le passarono i crampi. Poi osservai Reesa dormire alla tenue luce del fuoco. In lontananza udii l'echeggiante muggito di un'animale, profondo come se venisse emesso dalla terra stessa. Quasi svegliai Reesa, ma la vista del suo sonno pacifico mi fece esitare. Mi accontentai di sentire il bambino che le scalciava in grembo, e restai seduto da solo per tutta la notte, col fucile sulle ginocchia, ascoltando i rumori dei ruggiti e chiedendomi cosa su questa o su qualsiasi altra terra potesse produrre un suono così tuonante. 2 Il giorno successivo, mentre l'alba illuminava il mondo, la mia domanda trovò risposta. Poco distante, sulla pianura sotto al nostro altopiano, appar-
ve lo scheletro gigantesco e roboante di un brontosauro, che gettò la testa all'indietro e lanciò un gemito, muovendosi fino a trovare una pozza fangosa e poco profonda. La testa allungata si piegò a bere, e si risollevò, sgocciolando fango, e muggì di nuovo. «Ha fame,» disse Reesa. Eravamo allo scoperto, e d'un tratto, davanti a tanta imponenza, mi sentii nudo e indifeso. Dietro a quel brontosauro ne venne un altro, e un altro ancora, finché non si formò un gruppo guidato da due colossi, che si diresse verso la pozza fangosa. I più grandi proteggevano i più piccoli che si chinavano a bere, levando acuti gemiti che si confondevano con i boati ruggenti dei più anziani. Ci dirigemmo in una stretta gola, allontanandoci da loro e lasciandoci le loro grida alle spalle. Seguimmo l'antico letto di un fiume. Attorno a noi, sul fondo del canyon, si aprivano i profanati crateri delle loro tombe. Giungemmo alle ripide pareti di un pozzo sviscerato, di quasi quaranta piedi di diametro e altrettanto profondo. «Non voglio vedere cosa è uscito da lì,» dissi. Mentre ci facevamo strada verso la parete del canyon, il grido rombante di una bestia mostruosa fendette l'aria. L'animale torreggiava sopra di noi come un edificio di almeno quattro piani, avanzando su due zampe tozze, agitando la coda d'ossa sul terreno, aprendo e chiudendo con uno scatto le mandibole spropositatamente grandi. Due minuscole appendici artigliate che gli servivano da braccia e da mani si stringevano nel vuoto. Girò bruscamente la testa, annusando l'aria, cercando. Attorno alle ossa c'era lo spettrale profilo di un tirannosauro, dalla pelle verde chiara come quella di una lucertola, e gli occhi gialli. Ci nascondemmo contro la parete del canyon. Il mostro ci oltrepassò emettendo un brontolio basso e sordo dal profondo della gola. Sembrò tastare nervosamente l'aria con le zampe anteriori, girando a scatti la testa, prima lontano da noi, poi tornando di nuovo. Nascosti nell'ombra, noi trattenevamo il respiro. Il mostro fece un passo in avanti, allontanandosi verso la pozza fangosa dove stavano bevendo i brontosauri, alcuni dei quali già si davano alla fuga, chiamando a raccolta i piccoli con grida acute. Il tirannosauro accelerò il passo. Nei suoi movimenti c'era qualcosa di orribilmente aggraziato. Le bianche ossa sembravano parti di una mostruosa macchina da distruzione, perfettamente sincronizzate e assemblate; l'osso scivolava sull'osso in morbide movenze danzanti.
Il tirannosauro caricò la pozza fangosa. I brontosauri si spostarono, goffi e pesanti. Un piccolo cadde e rimase indietro, gridando da fare pietà. Il tirannosauro abbassò gli occhi su di lui, avanzò, ringhiando possente, e spinse da parte il brontosauro per chinarsi a bere. Il tirannosauro aspirò l'acqua fangosa, e la risputò con rabbia. Gli occhi ambrati cercarono una vera pozza d'acqua. Il piccolo brontosauro cominciò ad allontanarsi, verso i più grandi che aspettavano che si riunisse al branco. Il tirannosauro alzò la testa infuriato, attraversò in una corsa feroce la pozza fangosa e si fermò a sovrastare il piccolo brontosauro. Urlando di rabbia, il tirannosauro piombò con le fauci sul brontosauro, lo strinse tra i denti e contemporaneamente lo afferrò con le zampe più piccole. Il brontosauro, strillando miserevolmente, si dissolse in una nuvola di polvere. Il tirannosauro artigliò l'aria, sollevò la testa, parve voler squarciare il cielo con un urlo di rabbia. Poi piegò la testa verso il basso, e caricò il branco di brontosauri che cercavano ancora di ritirarsi. In pochi istanti aveva aggredito quelli rimasti indietro, dilaniandoli con cattiveria, sferzando l'aria con la testa, mordendo e sbranando. Uno dopo l'altro i brontosauri si dissolsero in polvere. La rabbia del tirannosauro aumentò. Balzò in mezzo al branco, e attaccò, uno dopo l'altro, tutti i brontosauri. Presto rimase solo un grosso esemplare, che faceva scudo col proprio corpo enorme a due brontosauri più giovani. Urlando di rabbia, il mostro si sollevò in tutta la sua altezza e piombò su tutti e tre contemporaneamente, guardandoli poi sparire. Contro la roccia mi sfilai di tracolla il fucile, e controllai il caricatore. Il mostro girò di scatto la testa, guardò dritto verso di me. I nostri occhi rimasero incatenati. Il tirannosauro caricò. Io puntai, sparai, e lo mancai. Infuriata, la bestia si scagliò in avanti. Io spinsi Reesa dietro di me, puntai ancora. Il mostro era a venti iarde di distanza, e si avvicinava rapidamente, con gli artigli affilati ben aperti. Sparai. La mascella del mostro si spalancò, il proiettile vi passò attraverso, e nel mezzo di un ruggito spettrale il tirannosauro cadde in polvere. Da tutt'attorno giunsero altri rumori, altri dinosauri attirati dallo spettacolo dalle pianure circostanti. «Meglio che ce ne andiamo da qui,» dissi.
Seguimmo il perimetro della parete del canyon, trovammo un punto meno ripido e ci arrampicammo. In cima un vasto altopiano dolcemente ondulato si distendeva verso est. Il fondo del canyon era popolato di dinosauri. Bestie a quattro zampe, branchi di stegosauri e un solitario triceratopo combattevano per una pianta stentata. Scheletri di piccole creature su due zampe sfrecciavano di cespuglio in cespuglio. Non molto lontano un altro branco di brontosauri procedeva verso un remoto specchio di promettente acqua azzurra. Si udì un tonfo lontano, e un collo lungo e sinuoso si levò dall'acqua, guardò a destra e a sinistra, e si reimmerse. Qualcosa che sembrava un coccodrillo rachitico lottava con un'altra specie di rettile, che indietreggiò sulle zampe posteriori, si girò, e abbatté sul suo nemico la coda crestata. Lontano, una bestia enorme, la mostruosa versione di un brontosauro, se ne stava immobile, senza potersi o volersi muovere, e ruotava pigramente da una parte all'altra la relativamente piccola testa. Da dietro a noi venne un sibilo. Mi voltai e vidi una bestia grande come un uomo, una versione più piccola del tirannosauro, che ci guardava contraendo le zampe anteriori munite di artigli. Mentre la creatura caricava tentai di risollevare il fucile, ma mi fu addosso prima che potessi reagire, e lo colpii con il calcio del fucile. Scivolò verso il ciglio della gola, si contorse nell'aria incapace di mantenere l'equilibrio, e volò di sotto. Si schiantò sul fondo in uno sbuffo di polvere. «Meglio andare,» dissi. Ci allontanammo dalla pianura dei dinosauri, giù lungo il dolce pendio dell'altopiano, e ben presto i mostri furono solo un ricordo. 3 Quella notte Reesa non riuscì a dormire. Durante il nostro lento cammino verso nord la temperatura era scesa, e i nostri fuochi erano diventati più grandi. Quella notte non avevamo molta scelta. Eravamo circondati da pianure di roccia vulcanica. All'orizzonte si stagliava un piccolo villaggio, irraggiungibile fino al mattino. Scoprii un angusto recesso in un basso spuntone di roccia e accesi il fuoco davanti all'apertura. «Hai freddo?» chiesi a Reesa. Lei si rannicchiò contro di me, e mi avvolse nella sua stessa coperta. Il suo viso si stagliava alla luce del fuoco.
«Adesso no.» Alzò brevemente gli occhi alla luna piena che sorgeva a est, appena sopra l'orizzonte, e la sentii rabbrividire. «Si dice che succederà in una notte di luna piena,» disse. Io la guardai, e pensai di dirle di smettere di dire sciocchezze. Ma lei si voltò a guardarmi, con quel suo volto cupo e triste, e non dissi nulla. «Quella notte io morirò,» disse. Io mi sentii montare dentro la rabbia. «Non parlare in quel modo.» «È vero,» disse. «Succederà.» Io attizzai irosamente il fuoco con un bastone. «È colpa di quelle bestie che hai visto oggi?» dissi. «Sei stata così felice in queste settimane. Entrambi sappiamo che il mondo è cambiato. Non voglio più sentir parlare di... profezie.» Mi fece appoggiare la mano sul suo stomaco, e mi fece accarezzare piano dove si trovava il bambino. «Raccontami dell'altra tua vita, Kral Kishkin,» mi disse. «Cosa vuoi dire?» «Raccontami della tua vita come sicario.» Mi irrigidii accanto a lei. «Non ne ho mai parlato. Quella era un'altra persona, non ero io.» «Raccontami,» mi disse dolcemente, guardandomi negli occhi. Per la prima volta da settimane pensai alla mia vita. Quante volte avevo reinventato me stesso? Kral Kishkin e Peter Sun erano solo gli ultimi. Mi ritrovai a parlare, a smascherarmi per la prima volta in vita mia per quella donna che era la mia vita. Improvvisamente volli che mi conoscesse, volli confidarmi. «Sono nato a Prey Veng, in Kampuchea, dall'altra parte del Fiume Mekong, di fronte a Pnom Penh,» dissi. Sentii su di me i suoi dolci occhi, occhi che mi toglievano il veleno dall'anima. «Mi chiamarono Jayavaram, come un Re Angkor del dodicesimo secolo, Jayavaram Ottavo, che per tutta la durata del suo regno costruì ospedali e ricoveri. «Mio padre era un fattore, e sosteneva Lon Nol, ma il suo fratello minore, che viveva con noi, era un membro del Khmer Rosso. Mio padre non lo sapeva. Nel 1975, quando avevo sette anni, scoprii che mio zio si incontrava con i suoi amici comunisti, e mi fece giurare di mantenere il segreto. «Quando il Khmer Rosso prese Pnom Penh due mesi dopo, mio zio denunciò mio padre, assieme a mia madre e alle mie due sorelle. Vennero giustiziati, davanti ai miei occhi, mentre mio zio mi metteva un braccio attorno alle spalle. "Questo è nostro", disse, e con quelle parole io venni ri-
sparmiato. «Gli abitanti del mio villaggio venivano considerati appartenenti al ceto medio. Tutti coloro che non vennero giustiziati vennero mandati in una comunità rurale. «Per i successivi tre anni vidi morire tutti quelli che conoscevo. Tranne mio zio. «Quando ebbi dieci anni, i Vietnamiti invasero il paese. Attesi finché entrarono nella nostra comunità, poi presi il fucile che apparteneva a mio zio e cercai di sparargli mentre si alzava dal suo pagliericcio. I Vietnamiti mi fermarono, e trascinarono via mio zio. «Dissi loro che il mio nome era Ho Vei. Mi mandarono a Hanoi, e poi nella città di Ho Chi Minh, a studiare. Quando ritornai a Kampuchea, aiutai a braccare e giustiziare i membri del Khmer Rosso, e nel frattempo mi avvicinavo lentamente al confine thailandese. «Quand'ebbi quindici anni passai in Thailandia. Allora mi chiamavo Mongkut, come un re e uno statista tailandese che resistette al colonialismo nel diciannovesimo secolo. Raccontai ai Thailandesi che ero stato rapito e portato in Cambogia da bambino. «Studiai in Thailandia per due anni, poi andai in America. In America dissi di chiamarmi George, come Washington.» Sorrisi, e alla luce del fuoco Reesa ricambiò il mio sorriso. «Non mi credettero. Allora dissi che il mio nome era Peter Sun, un nome che avevo sentito ascoltando due uomini che parlavano tra di loro. Scoprii più tardi che parlavano di Peter Gunn, il poliziotto di un serial televisivo. Ma io divenni Peter Sun. «Pensai di essere cambiato. Studiai le opere di Gandhi e i Trascendentalisti. Per un poco vissi solitario, in una capanna nei boschi con un solo letto fuori dall'università che frequentavo a New York. «Poi apparve mio zio. Aveva vissuto come uno schiavo in Vietnam per sette anni. Anche lui era scappato, seguendo i miei passi in Thailandia come rifugiato. Adesso si faceva chiamare Carl Wong. Aveva detto agli Americani di essere Cinese, e che stava fuggendo dai comunisti, e l'avevano lasciato entrare. «Era povero, e non aveva un posto dove andare. Era vecchio, e tormentato. Gli diedi il mio letto. «Vivemmo in questo modo per un anno. Lui faceva dei lavoretti nella città vicina; io studiavo e andavo a scuola. La sera mi raccontava le tribolazioni che aveva passato, le torture subite dai Vietnamiti. Diceva che
adesso odiava i comunisti. Piangeva quando pensava a quello che aveva fatto ai miei genitori, alla mia famiglia. A volte si prostrava a terra e implorava il mio perdono. Io ascoltavo tutto ciò in silenzio. «Una sera, di ritorno dalle lezioni, comprai una pistola. Dissi all'impiegato del negozio che mi chiamavo George Wong. Tornai nei boschi e sparai a mio zio mentre dormiva. «Seppellii il suo corpo nel profondo dei boschi, e nessuno chiese mai di lui. «Lavorai duro, e studiai duro. Mi ritrovai in mezzo a un nascente movimento per la pace nel mondo. All'inizio non vidi l'ironia della situazione, ma le cose mi crebbero attorno, e divenni il centro dell'attenzione. «La mia vita precedente in Cambogia come sicario non mi creò complicazioni. Allora avevo fatto la cosa giusta. Dapprincipio mi dissi che quello che avevo fatto a mio zio era identico. «Ma più il tempo passava più mi rendevo conto che ciò che avevo fatto a mio zio era diverso. Ero diventato un mostro. Lui era venuto da me senza un soldo, pentito, e vecchio, e io l'avevo ammazzato.» Guardai Reesa alla luce sfavillante del fuoco. In quel momento la amavo più di quanto avessi mai amato chiunque altro nella mia vita. Volevo che purificasse quello che mi straziava dentro, e che mi avrebbe angosciato fino alla morte. Presi di tasca il foglietto spiegazzato sul quale avevo scritto il mio discorso. «Il giorno in cui arrivarono gli scheletri,» dissi ricordando quel tempo lontanissimo come se non fosse mai successo, «quando dovevo pronunciare il mio discorso davanti a tutti quei milioni di persone, stavo invece per denunciare me stesso. L'unico pensiero che mi avrebbe trattenuto era che sarebbe stato un atto di egoismo. Quella gente, in quel momento, aveva bisogno di me. Sarei stato un egoista a rifiutarmi di far parte dei loro sogni e delle loro speranze.» Riguardai il foglietto, poi lo misi via. «Così avrei pronunciato il mio discorso, con parole ispirate ad Abramo Lincoln. Ma pronunciandolo avrei indossato una maschera. «Pensavo che ormai, dopo quello che era successo, tutto ciò sembrasse irrilevante. Ma non è così.» «Oh, Kral Kishkin,» disse Reesa teneramente, posandomi una mano sul capo e facendomi riposare sulla sua spalla. «Reesa, io non so chi sono.»
Lei mi strinse, e per quanto poté alleviò il dolore che era dentro di me. Ma il dolore era sempre lì. E quella notte, al bagliore del fuoco nella fredda oscurità, con accanto la mia amorevole moglie e mio figlio nascituro, mi sentii solo come in tutta la vita non mi ero mai sentito. 4 Il giorno dopo Reesa si ammalò. Avevamo dormito assieme accanto al fuoco, ed eravamo stati caldi tutta la notte. Ma quando il sole lambì l'orizzonte la sentii agitarsi vicino a me, alzarsi, e allontanarsi a vomitare sotto la roccia dietro di noi. Ma era già successo molte altre volte, a causa del bambino. Quando non ritornò, mi voltai e la chiamai. «Reesa, stai bene?» Non ebbi risposta. Mi alzai e andai a cercarla, e la trovai svenuta vicino alla parete rocciosa. Era semicosciente. Le toccai la fronte. Bruciava di febbre. «Luna piena...» sussurrò. «Non dirlo.» La riportai accanto alle braci. Il mattino era gelido. Riattizzai il fuoco. Reesa riusciva appena a stare in piedi. Cominciò a tremare, poi si girò e vomitò ancora. Il tremore divenne incontrollabile. Per un'ora si agitò perdendo e riacquistando conoscenza. La febbre salì. Ad un certo punto i suoi occhi.si dilatarono. «Sasha!» gridò, fissando nel fuoco. «Sasha!» Chiuse gli occhi, borbottò qualcosa tra sé, e dormì, tremando per tutto il corpo. Per tutto il giorno e la notte restammo dove ci trovavamo. Tentai di nutrirla, ma non teneva giù niente. Spesso appoggiavo la mano sul suo ventre, per sentire il bambino, ed ero soddisfatto solo quando lo sentivo scalciare. Durante la notte si svegliò, fissò la luna che stava sorgendo, e gridò. Il mattino dopo stava leggermente meglio. «Reesa, riesci a muoverti?» «Io... non lo so.» Si era fatto persino più freddo. Le nubi si erano addensate a ovest. Temevo il brutto tempo. «Reesa, dobbiamo arrivare al villaggio,» dissi.
Lei vacillò, e mi guardò sforzandosi di mettermi a fuoco. «Sì...» Feci i bagagli, e caricai tutto sulle mie spalle, mi accertai che Reesa fosse più calda possibile, e partimmo. La nostra andatura era penosamente lenta. Ci riposavamo ogni cinque minuti, poi camminavamo solo per qualche iarda prima di fermarci di nuovo perché Reesa potesse riprendere fiato. Nel corso del giorno la febbre salì, poi diminuì. A mezzogiorno fece un piccolo pasto, e per la prima volta dall'inizio della malattia riuscì a trattenere il cibo. Il villaggio si fece più vicino, strisciando all'orizzonte, e finalmente si trovò ad appena un chilometro da noi. «Ci siamo,» dissi, indicandolo. «Sì...» Dietro di noi il tempo divenne minaccioso. Neri strati di nubi si levavano nel cielo e rotolavano verso di noi. Il sole balenò attraverso una cortina di nebbia e scomparve. Il giorno si oscurò. Un vento gelido ci soffiava alle spalle, incitandoci ad affrettarci. Infine entrammo nel paese. Rovine e macerie ovunque. Un trattore era impiantato nella facciata di un edificio. Vaste depressioni che crivellavano le strade risultarono essere, ad un'ispezione ravvicinata, impronte di dinosauri. Gli spigoli delle case erano stati divelti, le finestre spaccate, i muri sfondati. Un'automobile era stata gettata sul tetto piatto di un negozio. Trovai un negozio che aveva subito relativamente pochi danni. Una finestra era rotta, ma il tetto era intero, la porta aperta. Entrammo. Un tempo era un panificio. C'erano vetri ovunque. Le vetrinette da esposizione erano state sfondate, gli scaffali rotti, le credenze rovesciate. Un tenue odore dolciastro permeava ogni cosa. Una porta aperta sul retro del negozio portava a una stretta rampa di scale, e al secondo piano, dove c'erano gli alloggi, intatti. In una stanza c'era un letto singolo, con lenzuola e un cuscino, un tavolino di legno, una finestrella, e un crocifisso alla parete. Appoggiata alla parete opposta al letto c'era una stufa rotonda a legna. Aiutai Reesa a infilarsi a letto. Tirai indietro le coperte, la feci sdraiare, e la coprii. «Devi mangiare qualcosa di più, Reesa, per il bambino.» «Sì...» Si alzò a sedere, e le diedi un po' di cibo che avevamo, delle verdure in scatola e delle gallette. «Va tutto bene, Peter,» disse. Aveva l'aria stanca, ma sorrise debol-
mente. Tenne giù il cibo, e quando le toccai le tempie, la temperatura era scesa. «Dormi,» le dissi, baciandola. Mise giù la testa e subito si addormentò. Ritornai al piano di sotto e guardai fuori dalla finestra. Il cielo era quasi completamente nero e aveva cominciato a nevicare. Una brezza gelida soffiava sibilando dal vetro rotto. In un guardaroba nell'angolo del negozio trovai una scopa e un pesante parka. Scopai i vetri rotti in un angolo, e dalle macerie recuperai un paio di assi che erano state usate per gli scaffali. Una porta grezza portava a una cantina sudicia, dove però non c'era niente di utile, tranne alcuni vasi di conserve e sottaceto. Uscii dal negozio, infagottato nel parka del panettiere per ripararmi dalle sferzate della neve che aveva già cominciato a riempire le tracce dei dinosauri. Due negozi più in là c'era una ferramenta. Ritornai in fretta al panificio con martello e chiodi e altre assi di legno. Trascorsi l'ora successiva a sigillare la finestra del negozio, con la neve che mi vorticava attorno. Cominciai a sentire le mani intorpidite, ma alla fine riuscii a chiudere il negozio in faccia al brutto tempo. Fuori, sul retro, trovai una piccola catasta di legna, e ne raccolsi una bracciata. Salii le scale, caricai la stufa della camera da letto, e accesi il fuoco. Mentre la stanza si scaldava mi sedetti sulla sponda del letto, con la mano sul corpo coperto di Reesa, e rimasi a guardare la neve che cadeva fuori dalla finestrella. Fui sopraffatto da un'improvviso sfinimento. Mi sdraiai accanto a mia moglie, con la mano sul bimbo che le si muoveva in grembo, e dormii. 5 Quando mi svegliai era buio. Il bagliore rosato della stufa illuminava la stanza di una luce calda. La mia mano sul ventre di Reesa non sentiva alcun movimento. Il bambino aveva smesso di scalciare. Tirai indietro le coperte e scossi mia moglie. «Svegliati!» gridai. «Reesa, il bambino! Svegliati!» Si risvegliò da un sonno profondo. Le toccai la fronte. La febbre era passata. Quando aprì gli occhi, erano limpidi, e mi riconobbe. «Peter...»
«Il bambino!» Si scostò le ciocche di neri capelli sudati dal volto e si drizzò a sedere, con una mano già sul ventre. «Svelto, Peter,» disse. «Ascolta se lo senti.» Appoggiai l'orecchio al ventre e trattenni il respiro. Non c'era nulla: non il lieve battito del cuoricino, né il frenetico vibrare dei piccoli calci. «È...» disse Reesa. «Aspetta.» In quel momento, nel silenzio, sentii qualcosa tirare un colpo, muoversi, sentii il lontano, fievole mormorio di un minuscolo cuore. «L'ho sentito!» disse Reesa. Mi sdraiai accanto a lei. «Grazie a Dio.» La guardai, le accarezzai le guance fresche. «Stai meglio,» dissi. «Sì. Mi sento debole, ma...» «Resteremo tutto il tempo che sarà necessario. Sono certo che qui nel villaggio c'è del cibo. C'è della legna, e ogni altra cosa di cui abbiamo bisogno.» Le mostrai la finestra, gelata, coperta di neve. Reesa osservò la stanza. «Non mi ricordo nemmeno di essere arrivata qui.» La baciai. «Questa luna piena è passata.» «Sì...» Sorrise, chiuse gli occhi, e glieli baciai. Improvvisamente li spalancò e boccheggiò per il dolore. «Owwww...» «Cosa c'è?» Le sue mani corsero ad avvolgere il ventre. Si piegò in avanti, respirando a fatica. «Owwwwwww...» Appoggiai una mano. Il bambino sferrò un colpo violento contro di me. «È giusto che sia così?» Lei si aggrappò alla mia mano, ansimando. «C'è qualcosa... che non va.» Si abbandonò all'indietro, chiuse gli occhi e strinse i denti. «Mio Dio...» Divaricò le gambe, e vidi la sua pancia che si sollevava. «Peter, il bambino sta arrivando...» «Reesa, è troppo presto...» «Dentro! Mi sta facendo male dentro!» Inarcò la schiena. Il volto le si infiammò per il dolore. Trattenne il respiro e ansimò. «Peter, aiutami!» Scoprii il letto. La aiutai a superare lo spasmo successivo, le spinsi i cuscini dietro la schiena. Urlò, si inarcò, e spinse. Sotto la vidi dilatarsi, vidi la prima piccola chiazza bianca della testa.
Mi strinse la mano, si inarcò ancora, gridò. «Oh, Peter!» Apparve la testa del bambino, imbrattata di sangue. Mi diedi da fare per aiutarlo a uscire mentre Reesa si tendeva e spingeva ancora. «Oh Dio, mi sta facendo male!» Il bambino uscì per metà. Mi ritrassi. Era un perfetto piccolo scheletro, con le piccole mandibole che si aprivano e si chiudevano a scatti, e le manine che dilaniavano Reesa come artigli. «Reesa!» Lei abbassò lo sguardo, gridò, poi venne travolta da un ultimo spasmo delle contrazioni e il bambino venne spinto fuori, seguito da un fiotto di sangue e da un cordone ombelicale secco e contorto. Reesa non smetteva di perdere sangue. Il bambino giaceva lì, coperto di sangue, con le orbite oculari che fissavano cieche, le piccole mandibole che si muovevano a scatti. Il più vago dei sudari, i lineamenti di una creaturina umana raggrinzita, avvolgevano il piccolo scheletro. «Oh, Peter...» Il bambino agitò le manine tentando di artigliare l'aria, inarcò la schiena, e si dissolse in polvere davanti ai miei occhi, lasciando indietro l'avvizzito cordone. Reesa era pallida ed esangue. «Peter, il sangue...» Cercai di far cessare l'emorragia. In un fiotto uscì la placenta, seguita da un nuovo fiume di sangue. Le lenzuola, il letto, grondavano sangue. «Sto per morire, Peter...» «No!» Tese una mano debole e esangue e si aggrappò a me. «In pochi minuti finirà tutto.» «Non ti lascerò morire!» Mi trasse vicino a sé. Nei suoi occhi che si spegnevano vidi tutto l'amore di cui avevo sempre avuto bisogno. Con tutte e due le mani mi strinse e mi baciò. Mi guardò profondamente negli occhi e sorrise. «Kral Kishkin,» disse debolmente. «Era scritto; deve accadere.» La sua voce era ormai solo un leggero sussurro. «Ricorda che ti ho amato. Ci sarà un'altra, che vivrà con te, e tu devi continuare...» «Morirò qui con te!» protestai. «No!» I suoi occhi riacquistarono vita. Tentò di alzarsi, sempre stringendomi, poi ricadde contro i cuscini. «Tu mi hai fatto delle promesse. Devi mantenerle. Devi onorarle. C'è altro a cui pensare oltre a me e a te.
Kral Kishkin...» Chiuse gli occhi, ma continuò a stringermi. «Non ti lascerò morire!» Per un attimo riaprì gli occhi. «Fai ciò che devi.» Staccò una mano da me e indicò debolmente la stufa a legna. «Adesso, prima che sia troppo tardi. Prima che mi risvegli. Hai promesso, col tuo sangue...» «Non posso!» I suoi occhi, l'amore nei suoi occhi, mi seguì sciogliendomi dalla sua stretta mentre piangevo, fino alla stufa a legna. La guardai, e i suoi occhi mi fissavano sempre. «Adesso...» Piangendo di rabbia strappai il tubo di sfogo della stufa dal buco nel muro, lo tirai con furia e lo girai in modo che i vapori mortali scaricassero nella stanza. Con le lenzuola inzuppate di sangue otturai il buco che sfogava all'esterno, poi aprii lo sportello della stufa, la riempii di legna, e osservai il fuoco ergersi in tutto il suo vigore. Tornai da Reesa, e la guardai. «Ci deve essere un altro modo!» Allungò una mano, mi prese il braccio, e scosse lievemente la testa. Già mi sentivo stordito nella piccola stanza. Reesa mi tirò a sé e mi baciò, un bacio che avrei ricordato per sempre. «Addio, Kral Kishkin, marito mio,» sussurrò. «Credimi, scoprirai chi sei. Anche questo era scritto. Tu non hai portato maschere, ma vite. Adesso è ora che tu porti un'altra vita.» Mi lasciò andare, e chiuse gli occhi. Io uscii vacillando dalla stanza, furioso, e in preda all'ira mi sbattei la porta alle spalle. Mi precipitai giù dalle scale, aprii la porta del negozio con una spallata e corsi fuori nel biancore della neve, urlando la mia rabbia al cielo, deciso a non vivere. 6 Per giorni interi fui in uno stato di delirio. Mi lasciai il villaggio alle spalle, mi arrampicai sulle colline nella morsa della neve incessante. Vagai come un pazzo, caddi nei fossi scavati dal passaggio dei giganteschi dinosauri. Un giorno sentii in lontananza le loro grida ruggenti, e tentai di eguagliarli in rabbia e fragore. Battei le mani contro le rocce fino a farle sanguinare. Cacciai lo scheletro di un animale per miglia, e finalmente lo presi e lo ridussi in polvere con le mie mani, e presi a calci la polvere
spargendola verso i quattro punti cardinali, e cercando di farla penetrare nel terreno da cui era venuta. Quando la tempesta cessò, gridai contro il sole, finché tornarono le nubi, e ricominciò a cadere la neve. Alla fine, indebolito dalla fame, caddi in un fosso sotto una sporgenza rocciosa, e precipitai nel sonno dell'incoscienza. Sognai Reesa, e nei miei sogni avevamo trovato un mondo nuovo e caldo, e ci sedevamo in cima a una montagna mentre il sole sorgeva su di noi, e custodivamo tutta la terra, che era nostra. Era un nuovo Giardino dell'Eden. C'erano animali, elefanti e cervi e leoni, e tutti erano a coppie, e vivevano con noi, e la notte dormivano al nostro fianco. I frutti sugli alberi erano pieni, e sempre maturi. La sera, in cielo, splendeva sempre la nostra stella più cara; il sole durante il giorno danzava con le nubi gravide di pioggia, e quando pioveva, la pioggia era come argento, e bagnava i nostri corpi, e ci donava la vita. C'era un corso d'acqua nel nostro Eden, limpido come cristallo, e un'alta cascata colore del diamante, e i pesci erano colore delle arance e delle susine, e guizzavano appena sotto la superficie. E avevamo un figlio che cresceva alto e forte, e lavoravamo la terra con le nostre mani, e il mondo diventava fertile e generoso. E Reesa era matura come i frutti, e partoriva figli per popolare il mondo intero, e il mondo intero si dipartiva dal nostro Eden. In cielo udivamo la risata profonda e soddisfatta di Dio, che ci sorrideva e ci proclamava liberi dal peccato, e nel mondo non c'era altro che pace. Soltanto che quando mi girai a guardare Reesa, che accanto a me condivideva il mio sogno, non era Reesa, ma un'altra, una sconosciuta dalla pelle colore del caffè, la ragazza del sogno nel campo fuori Mosca, che apriva la bocca per parlare e diceva un'unica parola che non riuscivo a udire... Mi svegliai con un freddo lancinante che mi trafiggeva come un coltello. Non sentivo più le gambe. Per un attimo sentii di non poter respirare, e fui preso dal panico. Era tutto buio. Ricordai dove mi trovavo e allungai le mani, cercando di spingere via l'oscurità troppo opprimente, e le affondai in una pelliccia lunga e folta. Gridai. Credetti di avere perso la ragione. Battei i pugni contro la roccia sulla mia testa, dietro di me, nella frenesia di uscire da lì. La pelliccia davanti a me si mosse e si tirò indietro. Una forma lunga e pelosa strisciò fuori dal fosso, lasciando filtrare l'accecante luce del sole. L'improvvisa scomparsa del calore mi fece cominciare a tremare in modo pazzesco. Le mie gambe, che erano intorpidite, e non gelate, ripresero
vita. La vista mi si snebbiò. Nella luce splendente di un mondo coperto di neve, fermo a guardarmi con solennità, c'era la grigia, massiccia, sbadigliante figura di un lupo. Ci fissammo, e continuammo ad osservarci mentre io mi alzavo tremando dalla mia prigione. La temperatura esterna era scesa più in basso di quanto avevo sentito fino a quel momento. Sulla neve c'era una crosta gelata, e il respiro quasi si solidificava uscendo in sbuffi dalla bocca e dalle narici. Il lupo avanzò lentamente verso di me e si fermò al mio fianco. «Credo che tu mi abbia salvato la vita,» dissi. Affondai le mani gelate nel tepore del mantello dell'animale. Il lupo mi guardò, in attesa. «D'accordo,» dissi debolmente. Mi avvolsi nei pochi vestiti, e mi diressi verso il villaggio, col lupo che seguiva i miei passi. Per le strade c'erano quasi due piedi di neve. La parte superiore dei veicoli abbandonati era praticamente invisibile. Le vetrine rotte dei negozi erano state coperte da una facciata assurdamente allegra di ghiaccio e neve. Nel cielo azzurro il bagliore del sole che si rifletteva sulla superficie di ghiaccio era accecante. Esitai di fronte alla porta del panificio. Il lupo entrò davanti a me, e io lo seguii. Nella dispensa recuperai le conserve e i sottaceto. Ero tormentato da una fame quasi irragionevole, e li aprii avidamente. Rovesciai sul pavimento un vaso di frutta per il lupo, che iniziò a leccarla quasi senza annusare. Io mangiai due vasi di conserva e una mezza dozzina di grossi sottaceto, prima di fare una pausa per riprendere fiato. Nel negozio faceva freddo. Riempii il caminetto di legna, e mi fermai per un attimo, folgorato dal ricordo del mio ultimo atto compiuto con Reesa, caricare la stufa. Non guardai l'uscio che conduceva al piano superiore. Accesi il fuoco e mi rannicchiai lì vicino. Il lupo mi imitò, raggomitolandosi accanto a me col dorso rivolto alle fiamme. Quando il fuoco fu forte e vivace, scoprii di avere sonno, mi sdraiai sul nudo pavimento, vicino all'animale, e chiusi gli occhi. Quando mi svegliai, il lupo si era arrotolato ancora più vicino a me; ci scaldavamo reciprocamente, e il gelo che avevo sentito era scomparso. Avevo la pancia piena a metà, e per la prima volta da giorni il mio cervello non era ottenebrato. Mi alzai, mi stiracchiai, e disposi un altro pasto di conserve e sottaceto per me e per il lupo.
«Dobbiamo trovare un altro luogo in cui vivere,» dissi. Ripresi il parka del panettiere, e lo infilai, e assieme al lupo andai ad esplorare il resto del villaggio. Non trovammo un alloggio migliore del panificio finché non raggiungemmo la periferia del villaggio, dove scoprimmo un villino intatto. Era nascosto in una piazzetta e circondato da edifici a due piani, ed era perciò stato protetto dagli assalti degli scheletri e degli animali. Dovetti forzare la porta principale, e all'interno trovai un piccolo paradiso. Sulla mensola del camino c'erano ancora fotografie impolverate e delicati ninnoli di porcellana. Su un tavolino riccamente intagliato, sotto una lampada, c'era una serie di bambole con lo scialle, in legno smaltato, contenute l'una nell'altra. Il mobilio era povero ma dall'aspetto resistente. Dietro c'era una camera con un letto enorme che doveva essere molto caldo, a giudicare dalla trapunta fatta a mano. In cucina c'era una dispensa stipata di generi alimentari non deperibili, un cesto con delle patate ancora utilizzabili, un acquaio, un tavolo grezzo, e due sedie. Non c'era il televisore, ma c'era una radio, le cui batterie si esaurirono non appena la accesi, non prima però che riuscissi a sentire una voce che parlava Russo. Persino senza il fuoco acceso la casa sembrava calda, e una volta acceso il fuoco non c'era più nessun motivo di andarsene. 7 Il lupo ed io vivemmo così per i successivi cinque giorni. Il villaggio mi apparteneva. Sebbene evitassi il panificio, esplorai il resto dei negozi. Il lupo sembrava soddisfatto solo di poter stare con me, non chiedeva nulla, mangiava quando mangiavo io, dormiva quando dormivo io. Quando doveva fare i suoi bisogni se ne andava per il tempo necessario e poi tornava. Mi abituai ad accettare la sua presenza, proprio come lui aveva già accettato la mia. Trovai alcuni attrezzi e abiti per l'inverno, e un fucile Kolashnikov per sostituire l'altro. C'era un sacco di munizioni. Trovammo tutto questo in un'abitazione che era stata da poco divorata a metà dal fuoco. Ovviamente era appartenuta a un ufficiale comunista del luogo oppure a uno che trafficava sul mercato nero. Probabilmente entrambi, oppure il trafficante commerciava anche in documenti governativi, per lo più noiosi proclami del Comitato Centrale, poiché ne trovammo in notevole quantità, in una cassetta chiusa a chiave in soffitta. Sempre in soffitta trovammo anche degli
indumenti caldi, e un parka di ottima qualità un po' grande per me, che sostituì quello del panettiere, e una scorta di zucchero candito in stecche che era stata nascosta più accuratamente di tutto il resto. Altri edifici fornirono interessanti articoli. Quasi tutte le case avevano una scorta segreta di cibo, la maggior parte del quale, purtroppo, deperibile. Ma ogni tanto saltava fuori qualcosa di utile. In un villino maltenuto trovai una tenda di buona qualità, un radiatore a butano con cinque bidoni di carica che funzionava anche come fornello, coperte da campo, e utensili. In un capanno sul retro di una casa c'era persino una slitta con gli attacchi per i cani. Diedi un'occhiata al mio compagno e dissi: «Se solo ce ne fossero altri come te.» Lo sguardo da pari a pari che mi rivolse il lupo mi fece capire che se anche ce ne fosse stato un centinaio non avrebbe fatto nessuna differenza. Nessuno degli orgogliosi membri della sua specie avrebbe mai tirato una slitta. Verso la fine della settimana trovai ciò per cui avevo tanto pregato, nascosto meglio di qualunque altra cosa in città. Sotto una tela incerata, in fondo a un capannone sul retro della casa dove avevo trovato gli utensili da campeggio c'era un veicolo a motore per la locomozione sulla neve, quasi nuovo. Era evidente che era stato usato più per la rimozione della neve che per l'esplorazione. Con un po' di difficoltà riuscii a togliere l'aratro che gli era stato saldato davanti. Al secondo giro di chiavi si mise in moto. Aveva il serbatoio pieno a metà, e trovai due grandi fusti in fondo al capannone e tre bidoni da venti litri da riempire. Sotto gli occhi mitemente interessati del lupo feci uscire il veicolo sulla neve e guidai su e giù per la strada del villaggio, contento di sentire il vento freddo sulla faccia. 8 Programmai di partire il giorno dopo. Il gatto delle nevi, carico di generi vari e alimentari, era fermo fuori in attesa che il viaggio cominciasse. Quella sera nel villino, come avevo fatto ogni altra sera, mi sedetti in una comoda poltrona a provare la radio. Non ero riuscito a trovare altre batterie, ma ero riuscito ad afferrare alcuni brandelli di informazioni: che tutta la parte occidentale e centrale dell'Unione Sovietica era sotto il controllo degli scheletri, che ora si trovavano sotto il governo stabile di Nikita
Khrushchev. Khrushchev aveva assolutamente proibito il partito comunista, ed era impegnato nella formazione di una repubblica di stati sovrani. Appresi anche che l'esercito sovietico stava facendo pressioni verso est, spingendo verso di me gli ultimi resti dell'umanità, che intanto veniva circondata, assottigliata, distrutta; che la maggior parte dell'Europa e tutte le Americhe si erano stabilizzate e stavano ottenendo un successo analogo nell'eliminare l'umanità. Le notizie erano dirette e senza scopi propagandistici, la qual cosa mi portò a credere che Khrushchev stava davvero facendo quello che diceva. Trovai decisamente strano che la pace mondiale alla quale mi ero dedicato stesse prendendo piede sotto la sponsorizzazione di una razza dedita alla distruzione dell'umanità. Quella sera i miei venti secondi di notizie mi regalarono la conclusione di un notiziario e l'inizio di un programma di musica classica, che prometteva la Settima Sinfonia di Peter Ilich Tchaikovsky, eseguita dal vivo e con una nuovissima orchestrazione, da Sergey Rachmaninoff. Mentre la voce si spegneva assieme alle batterie, l'annunciatore auspicò la composizione di nuove opere di Brahms e Beethoven, e la possibilità della creazione di una nuova opera di Mozart; il giovane compositore stava completando il Requiem, che alla sua morte era stato portato a termine da quale un altro. Poi le batterie si esaurirono. Rimasi seduto in silenzio con la radio in grembo. Guardai il lupo, che mi fissava con quei suoi occhi ambrati tanto intelligenti. «Questo mondo ha in sé una bellezza terribile,» dissi. Il lupo mi fissava, impassibile. «Mi viene in mente che ti serve un nome,» dissi. «Perché non ti chiamo Jack, come Jack London? Pensi che andrebbe bene?» Il lupo sembrò gradirlo tanto quanto gradiva ogni cosa. Dopo avermi guardato spassionatamente, si girò, andò alla porta, e uscì. Io lo seguii. Mentre il lupo si liberava sul retro della casa io osservai il cielo illuminato da un quarto di luna. Le bianche distese attorno a me scintillavano come cristallo argenteo. L'aria era fredda e pulita. Sentivo in me un male così puro e profondo che mi lasciai sfuggire un singhiozzo. Anelavo a sentire accanto a me Reesa, la parte che mi mancava, accoccolata contro di me, a guardare tutto ciò assieme a me. Volevo vederla sorridere a quello spettacolo. Volevo la sua felicità, volevo sentire la gioia che sentiva lei nel vedere quel mondo meraviglioso. Lentamente mi avviai lungo la via principale verso il panificio.
Quando raggiunsi la porta del negozio il lupo era alcuni metri dietro di me, e il suo mantello splendeva argenteo alla luna. «Torno subito,» dissi. Entrai nel negozio e salii i gradini. Il lupo rimase indietro. Quando aprii la porta, la stanza odorava ancora di chiuso e mal ventilato. La stufa a legna era fredda, e il tubo era puntato all'interno della stanza come un dito accusatore. Aveva fatto il suo lavoro. Per un sorprendente attimo, mentre guardavo il letto, vidi la forma di Reesa, sdraiata, ma in realtà tutto ciò che c'era sulle lenzuola incrostate di sangue era polvere, la sua e quella del bambino. Mi avvicinai al letto, feci un fagotto delle lenzuola, e le portai da basso con me. Quando gli passai accanto, il lupo si mantenne a una discreta distanza, e mi seguì fino in cima a una collina che dominava gli spazi argentei e la città alle mie spalle. Spiegai le lenzuola e lasciai che la polvere volasse via nella notte oscura, solitaria, bellissima. «Questa notte appartiene a te, Reesa, e a nostro figlio,» dissi. La polvere si levò nel vento leggero, si sparse, e si posò a terra. Se chiudevo gli occhi potevo vedere Reesa e mio figlio, argentei nella luce lunare, che mi sorridevano. Quando riaprii gli occhi, erano spariti, ma erano ancora nel mio cuore, e ci sarebbero sempre stati. Improvvisamente mi sentii sgravato da una sorta di fardello. Per la prima volta mi accorsi che Reesa aveva avuto ragione. Tutte quelle maschere che avevo portato non erano state affatto maschere, ma vite. Io ero stato Jayavaram, e Ho Vei, e Mongkut, e Peter Sun, persino George Wong. Ero stato tutti loro, e tutti loro erano stati me. Io ero quello che ero, e non una serie di maschere teatrali. Se ero stato un patriota, e un sicario, uno studente e un attivista per la pace, e persino un assassino, quello era ciò che ero. Quei nomi erano tutti me stesso. Per la prima volta nella mia vita sapevo chi ero. «Io sono Kral Kishkin,» dissi alla notte, che adesso era Reesa e mio figlio. «Ecco chi sono. Non dimenticherò, e non mi tirerò indietro. Seguirò il cammino che si stende davanti a me, e vi ricorderò sempre, e sempre ricorderò chi sono. Tu mi hai donato questo. Tu mi hai donato me stesso.» Improvvisamente, così chiara che dovetti chiudere gli occhi, sorse di fronte a me la visione della ragazza dalla carnagione color caffè, che veniva a me attraverso un campo. Mi chiamava con un cenno, a est, e apriva
la bocca per parlare... E poi la visione scomparve. Attorno a me la notte d'argento era perfetta e silenziosa. Jack mi venne accanto, e lasciò che affondassi la mano nella sua pelliccia. «È tempo di andare,» dissi. Scendemmo dalla collina e tornammo al villino alla periferia del villaggio, e in quel momento, nella fredda notte d'argento, col lupo di nome Jack arrotolato e assopito sul sedile dietro a me, misi in moto il gatto delle nevi e mi lasciai quel luogo alle spalle, e mi diressi a est. CAPITOLO DODICESIMO L'ASSOLUTAMENTE MISERABILE ESISTENZA DI ROGER GARBAGE 1 Il Grande fottuto Bianco Nord. Voglio dire, sono stato in posti migliori. Tutti gli altri, ad essere sincero. La foresta è qualcosa che si guarda, e in cui si piscia prima di tornare nel mondo reale. Voglio dire, mi sta benissimo di salvare le regioni selvagge. Perché no? Non servono a nient'altro, giusto? Mi ricordo una canzone dei Vomits alla quale abbiamo lavorato per un certo periodo, che faceva più o meno così: Roba verde, verde, Ci si perde, perde, Roba verde, verde, Buona l'erba, l'erba, Roba verde, verde... D'accordo, non potevo pretendere una natura da Club Mediterrané, ma all'inferno. E a proposito di inferno, non è poi tanto male visto che Bobbie caro è stato tanto intelligente da portarsi dietro lo studio mobile. Da quando mi sono riagganciato ai Vomits per strada, siamo riusciti a mettere assieme qualche pezzo, mentre non ci nascondevamo tra gli alberi o ci tuffavamo al riparo per evitare il mitragliamento a bassa quota degli elicotteri Apache. Voglio dire, Bobbie dev'essersi cacciato in una brutta merda, giù in Ca-
lifornia. Non vuole parlarne, veramente non parla più di niente. Quell'uomo è pallido, anche per essere uno scheletro. Voglio dire, un giorno siamo qui, parcheggiati nella fottuta Grande Foresta Nonsocosa, un posto proprio da "Twin Peaks", l'estate sta finendo, merda d'orso alla mia sinistra, merda d'orso alla mia destra, alti alberi, aria pura che ti fa venire voglia di fumarti una stecca di sigarette tanto per bilanciare le cose, e io sono nello studio con Randy Pants e Brutus Johnson, e per la prima volta da quando la carovana ha lasciato la California stiamo facendo qualcosa di buono, ed ecco che l'Apache sfreccia rombando come un aereo acrobatico del cinema, e via con i proiettili, e il vecchio Randy se ne becca uno proprio nel collo, attraverso la fiancata dello studio mobile, mentre ha la bocca aperta e sta lanciando quel suo bellissimo do acuto. E... puff, quel bastardo diventa polvere e non c'è più. Io e Brutus smettiamo di fare quello che stiamo facendo e guardiamo la sedia da campeggio dov'era seduto Randy, e adesso c'è seduto solo un mucchietto di polvere, e non canta nessun do acuto. «Dagli una pulita, ti dispiace?» dice Brutus tuffandosi sotto il tavolino pieghevole con il registratore a due piste. E che sia dannato se una bella sfilza di proiettili non scoppietta nella parete dello studio proprio in quel momento, tat-tat-tat-tat, e esce dall'altra parte, lasciando due file di buchi alla stessa altezza. «C'è posto là sotto, Brute?» dico, ma mi caccia via. Comunque è piuttosto malconcio, ma lo è dall'inizio della Grande Carovana. In realtà lo sono tutti, l'intero gruppo di skel che si sono radunati a nord della California per questo Strano Viaggio verso la Libertà. Jimmy Klemp, l'illustre batterista dei Vomits, ci ha azzeccato quando ha detto, «Stiamo scappando per la nostra fottuta seconda vita, amico.» Randy Pants è sparito, non c'è più. Sento l'Apache che fa una curva a gomito, e poi ci mitraglia passandoci sopra per la terza volta. Fuori c'è un sacco di urla e strilli, e piccoli rumori, pffft, come quelli che fanno gli skel quando vanno in polvere. «Fai scivolare verso di me quell'erba, ti dispiace?» dice Brutus calmissimo, indicando il sacchettino di marijuana allo scoperto in mezzo al pavimento che è un pollice più vicino a me. «Fottiti,» dico io, e lui fa il broncio. D'un tratto il suo broncio diventa un ululato. «La mia chitarra!» La sua Stratocaster è tranquillamente appoggiata alla parete del camper
studio, ed ecco che il quarto giro di rondelle dall'elicottero si infila nella parete sei pollici alla sua sinistra, le attraversa dritto il collo, e finisce sei pollici alla sua destra. Tutti e due vediamo il collo che vacilla, e poi cade in avanti, rimbalzando appeso alle corde ancora attaccate. «Brutte notizie,» dico, scivolando fuori quel tanto da riuscire a tirare l'erba verso di me. «Ohhhhhhhhhhhhhhhh!» si lamenta Brutus. Per un istante sento il suo dolore, perché con quella chitarra ci si sarebbero potuti fare i soldi. «Hey, amico, c'è sempre la Fender.» «La Fender!» Sbuffa per il disgusto. Ma un momento dopo la Fender non c'è più, perché il quinto giro dell'Apache passa profondo e basso, proprio sopra le nostre zucche, e disegna una scacchiera nella custodia della riserva di Brutus, quella che usa quando vuole sembrare davvero sdolcinato o fare il tipo avventuroso. Sento il boing-boing delle corde che saltano, e so che non è rimasto molto. «Cosa diavolo faccio adesso?» geme Brutus. «Hey, non preoccuparti, ne troveremo un'altra. Il Canada è pieno di negozi di chitarre. Forse anche l'Alaska. Hey,» dico facendo schioccare le dita ma restando sempre appiccicato al pavimento del camper, «Big Moe non si è trasferito ad Anchorage dopo quella storia di droga nel settantatré?» I suoi occhi si illuminano un poco. «Yeah...» «Sono certo che è ancora lì. Bill Varley dei Frogs non l'ha incontrato lì un paio d'anni fa?» Brutus si sta riprendendo, adesso si sta rollando uno spinello. «Oooo, yeah...» «Questo risolve tutto,» dico. «Moe ti sistemerà con una nuova Strat. Intanto lavoreremo su quella acustica...» Ma ecco che l'Apache fa un ultimo giro, sparandomi un proiettile proprio davanti al naso, e dritto nella Gibson acustica di Brutus, facendole fare twong! Brutus sospira. «Tanto non avevamo il cantante,» dico. «Balle. Tu canterai,» dice Brutus, «e tra quattro giorni saremo ad Anchorage.»
L'erba dev'essere davvero potente, perché faccio segno di sì, e dico: «A me sembra una buona idea.» 2 E così divento il cantante dei Vomits. Fortunatamente gli altri ragazzi, Jimmy e Barney, sono scampati al raid dell'Apache e alla scaramuccia che è seguita, nella quale quella grassa puttana di Noren, la segretariabuttafuori di Bobbie, ha morso la polvere, ha-ha. Anche alcuni dei tizi che si sono aggregati a noi, tizi da litigate collettive, dei veri crucchi, se ne vanno, o perché cadono sui loro spadoni, o perché vengono riempiti di piombo dalle forze inadeguate che ci ha mandato contro l'autorità costituita. Ormai siamo a migliaia, e i ragazzi dell'Esercito degli Stati Uniti ci lasciano perdere perché non ci considerano una grande minaccia in questo momento, e gira voce che abbiano una grossa partita di umani all'ultimo stadio a cui pensare nello Stato di Washington. E così arriviamo ad Anchorage, e il negozio di Moe c'è ancora, anche se Moe ha l'aspetto di uno che è stato polverizzato, un bel mucchio dietro il banco, imperturbato, era un omone, e in cima al mucchio quel suo cappello australiano con la penna. Moe se n'è andato, ma le sue chitarre no, e Brutus se la sta godendo come se fosse la mattina di Natale, e ne sceglie quattro o cinque. Alla fine si accontenta di una Strat, una Nazionale acustica, e una vecchia Les Paul che trova nel retro, sotto una panca, che non è mai stata aperta. Niente male come sorpresa. Il vecchio mucchio di ossa quasi ci si mette a ballare sopra. La qual cosa, a essere onesti, è un bene, perché rende Brutus abbastanza galvanizzato da accettare una mia piccola idea, una stravagante pepita che mi è cresciuta in testa come un tarlo da un mese a questa parte, e che adesso voglio assolutamente realizzare: WOODSTOCK II! E... Brutus ne è talmente entusiasta che già l'idea si anima di vita propria. Persino Bobbie Zick, uomo dalla mente mondana, torna dal paese della politica al paese della musica, e ci si impegola. «Forse sarebbe la soluzione per radunare le truppe, vecchio mio,» dice sfregandosi il piccolo mento ossuto, da dietro la scrivania improvvisata sul camper. «Forse, già,» dico io, sorridendo. «Tutto perfettamente in segreto, naturalmente,» continua Bobbie. «C'è
un mucchio di teste da morto, froci, vecchi hippy, e roba del genere adesso in questa parte del mondo.» Quasi riesco a vedere il piccolo motore che gira nella testa di Bobbie caro. «Migliaia di più, immagino. Un esercito, quasi. Se dovessimo provvedere armi, droga, e alcool, e poi organizzare quella gente...» Bobbie sorride e mi dà una pacca sulla schiena. «Datti da fare, vecchio mio,» dice. Ci allontaniamo da quella conversazione sorridendo tutti e due. E così il Festival Musicale dell'Albero Solitario, così chiamato per via dell'unico alberello in mezzo alla vasta miniera abbandonata scelta per il grande raduno, parte in quarta, con al timone sapete benissimo chi. Ed è davvero stimolante, amici! Voglio dire, quelle colline sono piene di musicisti! Durante le settimane seguenti, di giorno batto boschi e colline con una scorta di skel, e di notte sgattaiolo via da solo, con la benedizione di Bobbie, per trovare quelli timidi, quelli rintanati nelle caverne, nelle miniere, sotto le rocce, come Richie Valens. L'ho trovato infilato in una cava coperta di sterpi, acquattato come una zecca, e circondato da pistole. Ho paura ad entrare là dentro, anche con una torcia. E a proposito di paura, avreste dovuto vedere Elvis quando mi è letteralmente rotolato addosso, giù dalla cima di una collina di cui si è impadronito. Lassù c'è un capanno, un letamaio, contenitori e scatolette di cibo vuoti dappertutto. Dietro c'è il furgone di un ristoratore schiantato contro un albero, coi portelloni aperti. «L'hai guidato fin quassù?» dico. «Puoi scommetterci: un uomo deve pur mangiare.» Mi guarda, e devo dire che è uno dei pochi skel che hanno un aspetto migliore se guardi solo le ossa: voglio dire, la forma che c'è attorno è una O grottesca, rotoli di grasso, sei menti come minimo, ha bisogno di un barbiere, le basette stanno per congiungersi sul collo. «A proposito...» biascica. «Cibo non ne ho. Ma...» Gli racconto di Mama Cass, rintanata a un miglio di distanza con i mucchi di prosciutto in scatola che le ho mandato, ha colto il cibo ma non credo che abbia colto la battuta, non che abbia tentato di fare delle avances, mi ricordo l'ultima volta che ci siamo visti - ed Elvis è mio. «E al concerto tutto esaurito, Elvis. Tutto quello che vuoi.» «Lustrini? Cibo a volontà?» Indica il retro aperto e vuoto del furgone, tristemente.
«Tutto quello che vuoi.» Mi stringe la mano. «Sono tuo, ragazzo.» Mentre mi allontano mi ferma. «Pensi che la vecchia Mama Cass sia il tipo da sposare?» E c'è di più. Jim Morrison finalmente ce la fa ad arrivare dalla Francia, ma è incoerente, grida solo «Hey, tu! Tu!» Non è capace di dirci come è arrivato qui. Bobbie lo rinchiude con delle casse di birra, e ben presto si mette a scrivere canzoni nuove. Il Re del Be-Bop colpisce ancora. Ma poi mi imbatto in un ostacolo, che per me non è un ostacolo, ma continuo a dimenticarmi che Bobbie è uno skel. «Niente umani,» dice. «Ma Bobbie, stiamo parlando di Bob Dylan!» Scuote la testa d'osso. «Non approverebbero.» «Stai scherzando?» «No.» E di nuovo vedo quello sguardo raccapricciante che hanno loro tutte le volte che degli umani gli girano attorno, il fuoco lento pronto a esplodere in violenza, lo sguardo che Bobbie e tutti gli altri hanno tenuto per tanto tempo sotto controllo con me. «Non... funziona.» «Ma Bobbie, in questa zona c'è un sacco di umani. Non solo musicisti. Di tutti i generi. Non crederesti alle storie che sento. Ci sono persino dei soldati.» Il suo interesse si risveglia. «Quanti?» «Forse venti, trentamila. Un altro esercito, Bobbie caro.» Adesso ce l'ho in pugno. Ci si sta gingillando veramente. Poi scuote la testa in fretta. «Non funzionerà mai.» «Da quello che sento, gli umani sono disperati. Potresti unirti a loro, allontanare il governo federale, e fare dell'Alaska una nazione separata. Rock and Roll Land.» «No.» «Un'alleanza uomini e ossi, Bobbie.» Sorrido. «Falla... a tempo determinato, se preferisci. Solo finché non ottieni quello che vuoi. Poi...» Guardo da un'altra parte e alzo le spalle. Bobbie sta sorridendo. «Sei un serpente davvero, Roger.» «Tu pensa a tenermi vivo, caro. Lasciami fare il mio mestiere.» «Potrebbe funzionare,» dice, e si sfrega il mento. «Certo. Non dimenticarti, alcool e droga funzionano su chiunque. A proposito...» Lancio un'occhiata alla sua tasca, dove si è abituato a tenere la busta. «Sicuro, Roger, sicuro.» Ghignando mi stende una pista di coca sulla sua
scrivania, e mi tiene persino la cannuccia. «Allora, cosa ne pensi dell'unione uomini e ossi?» dico appoggiandomi allo schienale. «Dico di sì.» risponde. «Datti da fare, vecchio mio.» «Ci puoi scommettere, vecchio mio,» dico, e scoppiamo a ridere. Così parlo a Dylan, che parla a Billy Joel, che parla ad altri due, che parlano ad altri cinque. E in men che non si dica vengo accolto in quell'organizzazione di tipi che si credono chissà chi, nascosti sulle colline, un'infinità di guardie, io bendato, poi dritto in piedi davanti a un tavolo con dietro una specie di Concilio dei Cinque. «Ci si può fidare?» chiede un tipo a un'estremità, uno che sembra Mitch Miller. «No,» dice la mia scorta, che sembra il capo, e poi mi accorgo che è Dan Quayle. «Ma è davvero una buona idea.» L'uscita è di uno di quelli dietro alla scrivania, una donna che non riconosco subito, e poi mi accorgo che è la moglie di Quayle. «Sì...» dice Quayle. «Posso dire qualcosa?» butto là. Tutti mi guardano, e aspettano. «Potete allearvi con loro, e poi potete fotterli!» Continuano a guardarmi. «Hey, voi siete in trentamila, giusto? I ragazzi di Bobbie Zick sono solo ventimila! Vi fate il concerto, poi li fate fuori, e vi prendete le loro armi e le loro provviste. E così avete più possibilità per combattere i federali! Voglio dire, Bobbie sta pensando di fare la stessa cosa. Voi lasciate che alla musica ci pensi io!» Si guardano l'un l'altro, e d'un tratto vedo quei sorrisi umani che non vedo da un po' di tempo, raccapriccianti come la versione skel, un ghigno collettivo. Me ne vado con contratti per quasi tutti i musicisti vivi del mondo, e nemmeno una di quelle stupide merdacce si è preoccupata di leggere la clausola che dice che sono miei anche se vengono convertiti. Voglio dire, non ci penso nemmeno a mettermi dalla parte degli umani, quegli stronzi non hanno nessuna possibilità. Cosa sono, stupido? 4
Non stupido, per l'esattezza, diciamo... sfortunato. Così quando la notte dopo sono fuori da solo, nel profondo dei boschi, in cerca di Muddy Waters, che si dice viva in una tenda lì vicino, il radar parte proprio mentre uno skel solitario esce dall'oscurità, e mi punta una Walther .44 di acciaio sbozzato alla testa. «Boo,» dice. «Hey, io sono dalla vostra...» «Lo so chi sei. Chiudi la bocca.» Sento il freddo acciaio sbozzato alla base del cranio, e chiudo la bocca. «Ecco cosa succederà,» dice lo skel. Io cerco di dargli un'occhiata, ma lui non me lo permette. Infila la bocca della canna in quella morbida nicchia sulla nuca, proprio sotto l'osso del collo. «Ascolta e basta.» Annuisco. «Il divertimento è finito. Siete riusciti a concentrare quasi tutti gli umani rimasti nel Nord America nelle dieci miglia quadrate che ci circondano. E nella stessa area ci sono anche tutti gli scheletri ribelli. Vogliamo liberarci dei due problemi in una volta sola.» «Sei un federale?» Spinge la canna della pistola ancora più a fondo. «Ugh,» dico io. «Ascolta e basta. Il Presidente non è disposto ad autorizzare un attacco con armi nucleari, come vorremmo noi. Così c'è solo un modo. E il modo è il vostro piccolo concerto. «Vogliamo che abbia luogo, proprio come avete programmato. Fateli andare su di giri, ubriacateli, fate quello che volete. Accertatevi solo che tutti vengano a quel concerto. Al resto ci pensiamo noi.» Mi affonda ancora di più la pistola nel collo. «Questo non è uno scherzo, Garber. Sì, conosciamo il tuo vero nome. Conosciamo un sacco di cose. E non fare sbagli, alla fine di tutto questo il governo uscirà vivo. E visto che anche tu vuoi uscirne vivo, fai quello che ti dico, e noi faremo in modo che tu ne venga fuori.» Mi mette qualcosa in tasca. «Qualcuno te lo chiederà al momento opportuno, e tu dovrai darglielo. Non voltarti, non aprire bocca. Ricorda solo quello che ti ho detto. Ti terremo d'occhio. Se fai casino, sei morto. Due volte. Se ti comporti bene, vai avanti a vivere, e a fare musica. Quella è la tua ricompensa. «Addio.» Alla fine mi colpisce con l'acciaio sbozzato della .44, spedendomi nel-
l'incoscienza. Quando mi risveglio, ovviamente, è sparito. Infilo la mano in tasca e tiro fuori il penny di Lincoln che mi ha dato. Solo che dove dovrebbe esserci Lincoln la superficie è liscia e lustra, come un piccolo specchietto rotondo di rame. Me lo rimetto in tasca. Trovo Muddy Waters, e torno al campo, il lavoro della notte è finito, faccio due cosette, e dormo come un bimbo, aiutato da tanta coca da stendere un elefante maschio, perché sono al punto in cui non voglio pensare più a niente. 5 TEMPO DI CONCERTO! Volete parlare del massimo? Parliamo del più grande mai esistito! Soltanto le vendite dell'album, dei CD, e delle cassette mi metteranno a posto per tutta la vita! E Bobbie è riuscito ad avere l'attrezzatura migliore, trafugata dalla California, gli amplificatori migliori, e gli altoparlanti, e tutto il resto. Sembra che per questo particolare giorno tutto il mondo da incubo sia scomparso, diavolo, in Alaska è autunno e il giorno sboccia luminoso e soleggiato, fresco e pimpante! All'alba stanno già riempiendo lo stadio, stendendo le coperte per terra attorno al palco, qualcuno ha delle sedie pieghevoli, ma la maggior parte sta celebrando. In tutta la mia vita non ho mai visto tanta droga. Mi presentano uno skel di nome Cha-cha, che da quando è stato convertito ha trascorso tutto il suo tempo ad alterarsi con le droghe più dannatamente stravolgenti che la terra abbia mai visto. LSD e cocktail di eroina e cocaina avvolti insieme come molecole di DNA. Piste di coca che durano mezze giornate. Una cosa che si chiama cavallo a dondolo, o schiocco di labbra, un'eroina sintetica che non lascia residui dopo che l'hai scaldata. Mescatel, dividetelo voi: vino e droga contemporaneamente! Wow! E non ho mai provato un'erba simile! Voglio dire, questa piantina si è appena svegliata ed è spuntata fuori dalla terra, tra le mie braccia! Sembra di fumare oro! E non parliamo di egocentrismo! Vogliono tutti un pezzetto del vecchio Rog, eccomi! Alle sette del mattino sono già in estasi. I Byrds sono qui, pronti ad aprire lo show alle sette e mezza, devono suonare «Eight Miles High» per prima, li imploro. Tutti d'amore e d'accordo, hanno risolto i loro diverbi, skel e umani nello stesso modo, solo un paio di scazzottate, come
ai vecchi tempi. Poi tocca agli Stones, la prima di due uscite per loro, seguiti da Janis Ian per i nostalgici e Chade Jeremy (beh, gliel'ho dovuto concedere, mi hanno implorato). Seguono Procol Harum e i Doors, ma Morrison è sparito. L'hanno trovato in un gabinetto, che piangeva, circondato da bottiglie vuote, ma ce la farà, dice. «Non aver paura di metterti in mostra,» gli dico io. «Okay!» grida lui con quel suo ringhio basso, e poi prende per il collo la bottiglia nuova che gli dò e se ne va in un angolo canticchiando «Riders on the Storm». Io so che mi sento bene. Sono nato per questo! Ancora nessun segno di elicotteri Apache, nessun giro di mitragliatrice nello stadio. A quanto ne so anche gli agenti federali sono dei fans del rock-and-roll. Dio, spero che sia così. Le sette in punto! Tempo di rock! Le ore sembrano fondersi le une nelle altre. Il Jefferson Airplane scivola davanti a un fondale azzurro con B.B. e Albert King. La Band si è presentata, un'altra scena e un tentato strangolamento di un umano da parte di uno skel. Ma Dylan ha accettato di suonare con loro prima di fare di testa sua, cioè un minifestival nel festival, tre ore con Van Morrison, Joni Mitchell, una replica virtuale de The Last Waltz. Poi Eric Clapton si arrampica sul palco, e tutti gli altri si confondono con lo sfondo, e gli lasciano fare il suo spettacolo per quasi un'ora. Va tutto bene fino alle tre, quando mi becco tre spaventi in una volta. Prima, penso di stare per morire per qualche cosa che Cha-cha mi ha iniettato, ma tutto finisce bene; poi sento il battere dell'elica di un elicottero, ma scopro che quello è solo uno degli uomini di Bobbie con la telecamera, incatenato al fondo di un vecchio Sikorski come una marionetta. Diritti video! Tutti riservati! Festival Musicale dell'Albero Solitario: il Film! Mio Dio, questa è la bellissima fine del mondo! La adoro! E poi il terzo spavento, che capita proprio nel momento più meraviglioso di tutti... LA RIUNIONE DEI BEATLES!!! Succede, proprio così. Disaccordo violento fino alla fine, Lennon che continua a parlottare tra Yoko e i ragazzi, addirittura Pete West che si presenta a reclamare il posto di Ringo Starr una volta per tutte. Meglio rimandare su la band di riserva di Clapton, non è contento ma lo pagano. E poi, improvvisamente, Lennon dice di sì.
Colgo l'immagine fugace di Yoko che se ne va, ma prima che sia passato molto tempo è di ritorno con i due piccoli Lennon, e sono tutti sul palco, Linda McCartney, la maggior parte dei Wings incluso Jimmy McCulloch, il chitarrista recentemente pianto morto, George Martin alle tastiere, persino il manager, Brian Epstein, che suona un tamburello. Mio Dio, non posso crederci! Getto a terra la mia scaletta, mi aggrappo alla persona più vicina, e mi metto a piangere. «Non può essere tutto vero!» dico. «Non sta succedendo veramente!» La persona, uno skel, che non ho mai visto prima ma porta al collo un nastrino rosso con la targhetta del personale, mi sostiene e dice: «Hai in tasca un penny di Lincoln, amico?» Io sollevo lo sguardo inorridito, è la voce dello skel nei boschi con la .44 di acciaio sbozzato. Sorride leggermente. «Non vorrai,» dico con voce inorridita. «Non puoi farlo adesso.» «È un momento buono come un altro. Hai quella monetina?» Mi frugo in tasca e tiro fuori il penny, e lo ficco in mano allo skel. Poi improvvisamente sento il lontano gemere dei motori a reazione e gli afferro la mano, stringendola forte. «Ti prego,» gli dico. «Qualsiasi altro momento ma non adesso. Quelli sono i Beatles!» Ed ecco che mentre lo dico, come per magica invocazione, gli scocciatori e quelli che non c'entrano niente hanno lasciato il palco a John, Paul, George e Ringo da soli, che stanno cominciando a intonare "Let It Be". Lo skel sta guardando il palco da sopra la mia spalla. C'è qualcosa in fondo a quei pozzi vuoti delle orbite oculari, una debolissima scintilla, un ricordo dei tempi in cui la Baia dei Porci era storia recente, quando il mondo era un luogo diverso, più dolce, più gentile, più innocente, quando... ah, 'fanculo, il tipo, grazie a Dio, è un fan dei Beatles. «Merda, hai ragione,» dice. Si fruga nella tasca della giacca, tira fuori un minuscolo walkie talkie, e alza l'antenna. «Operazione sei quarantaquattro. Qui è Antler. Aspettate. Ripeto, aspettate.» Sento i motori a reazione aumentare il gemito ed allontanarsi poi nell'etere. Lo sbirro mi guarda. «Chi c'è dopo?» Recupero la scaletta. «Ummm...» Scorro la lista, e c'è... Io.
«I» - deglutisco - «Vomits.» «Bene, colpiremo allora,» dice Antler, e comunica l'informazione col walkie talkie. «Ma io sono nei Vomits,» dico io, con voce stridula e fioca. Penso anche, cuore tenero che sono, a Brutus Johnson, Jimmy Klemp, e Barney Barnes, che stanno per ricevere la più grossa fregatura della loro vita. «Nessun problema,» dice Antler, che sta guardando i Beatles come se fosse ipnotizzato. «Ti diciamo noi quando, e ti tiriamo fuori.» Mi rivolge uno sguardo da zelota. «Ad ogni modo, puoi portarmi dietro le quinte a conoscere Lennon?» 6 E così la successiva ora e mezzo del mondo appartiene ai Beatles. Stanno accendendo fiammiferi nella miniera, stipati fino all'inverosimile, più di centomila tra umani e teste d'osso. Sono almeno il doppio di quello che pensavamo, la voce si è sparsa, sono venuti giù dagli alberi, sono risaliti lungo i profondi pozzi minerali, dovevano venire a far parte del più grande raduno di hippy della storia. Umani e ossi, l'inizio di una nuova era, nient'affatto, naturalmente. Verso la fine, mentre la chitarra di Harrison procede gemendo attraverso "While My Guitar Gently Weeps", un miscuglio di specie diverse sta piangendo, stringendo mani, donando baci. Persino Antler ha una lacrima nell'occhio mentre lo conduco dietro il palco ad aspettare che i quattro ragazzi escano. «Merda, era bellissimo,» dice, e poi tira fuori il walkie talkie e informa chiunque sia di tenersi pronto. «Quando ti dò l'okay,» dice a me, «preparati a pregare.» Mi spinge fuori sul palco, fuori dai piedi, perché John sta arrivando. «Ehm, signor Lennon?» dice Antler. E poi io mi trovo qua fuori con i Vomits. «Tu l'hai voluto, sei un genio.» Brutus Johnson mi sorride da dietro la sua Stratocaster, intanto che la sta accordando. Là fuori aspettano in centomila. «Fanne una di quelle nuove, che li sciocchiamo tutti, quei fottuti,» dice Jimmy Klemp, sistemando il pedale della grancassa. Dà un colpo al tamburo con la bacchetta. «Andiamo!» Andiamo. All'inizio la folla è tranquilla, è reduce dai Beatles, e nessuno riuscirà
mai a superarli. Inoltre, non sanno chi cazzo sono io. Posso assomigliare un poco a Randy Pants, com'era da umano, ma è chiaro che non sono Randy, e forse è un bene, ma forse è un male. La verità è che non sanno cosa cazzo pensare, così glielo diciamo noi: Hey voi! Lì seduti, Con le ossa sotto i vestiti... Hey voi! Che sorridete, Stridendo e scricchiolando quando vi muovete... Hey voi! Così bianchi NON VOLETE FARE ROCK FINO AD ESSERE STANCHI?! Brutus entra col più grande e più lungo assolo di chitarra della sua carriera. La canzone viene suonata ad un tempo brutalmente veloce, e Brutus, incredibilmente, lo tiene. È su tutto il palco, si butta in ginocchio, fa sapere a quelli là fuori che lui è il migliore, che Clapton finalmente può farsi da parte. E improvvisamente la folla è d'accordo. Ho la sensazione che là fuori c'era un sacco di fans dei Vomits, tanto per cominciare, almeno un sacco di fans di Brutus Johnson, ma d'un tratto tutto il mondo è d'accordo, e Johnson non lascia dubbi. Questo è il suo momento, il momento che tutti abbiamo aspettato per tre anni. Randy Pants non era i Vomits, Brutus Johnson era i Vomits, e adesso tutti lo sanno! Alla fine dell'assolo in centomila hanno dimenticato i Beatles, un fatto stupefacente, Jimmy Klemp sta sostenendo la fine dell'intermezzo di Brutus con colpi depravati e violenti, Barney Barnes strappa al suo basso vibrazioni profonde, come se fosse uscito suonandolo dal grembo di sua madre, e persino Antler e John Lennon hanno dimenticato i Beatles, e ci stanno guardando in rapito incanto. All'inizio penso che sia Lennon a darmi l'okay, ma mi accorgo con orrore che è Antler, col braccio attorno alle spalle di Lennon. «Noooooo!» grido nel microfono. Su in alto, sento il gemente avvicinarsi degli aerei. Poi l'intermezzo di Brutus finisce, e tocca a me cantare di nuovo: Hey voi! Seduti in questo mondo moderno,
Meglio una scheletrina e all'inferno! Hey voi! Portatevela a letto belli e brutti, Perché non siete ancora morti tutti! Yah! L'ultimo Yah! non fa parte della canzone, ma del mio panico, mentre il cielo su di me si apre come la bocca dell'inferno. Luci fiammeggianti, caccia, e elicotteri a volontà. Meglio pregare. Brutus può anche fregarsene, è preso nella frenesia finale con la sua chitarra, e il resto dei Vomits lo segue gioiosamente. Guardo giù dal palco in cerca di Antler, ma se n'è andato, assieme a Lennon, e adesso nel cielo ci sono degli altoparlanti enormi, che ci rombano addosso da piccoli dirigibili, soffocando il grande meraviglioso suono del nostro eccellente sistema sonoro: «Restate dove siete! Non muovetevi! Spareremo a chiunque si muova!» Non scherza; fino al bordo dello stadio, come gli Indiani nel film di Custer, sono apparsi carri armati, obici, e uomini con dei cannoni enormi. E ogni arma è puntata verso il basso. Come sardine in un barile. Uno squadrone di Angeli Azzurri effettua un passaggio a bassa quota, bloccando persino Brutus a metà accordo - frunk - e tutti assieme esplodono i razzi con perfetto tempismo. I razzi tracciano una linea verso l'orizzonte, e le scie si intrecciano l'una attorno all'altra come ballerine classiche, e poi, bum, esplodono a mezz'aria, facendo una bella luce, e accecando tutti per un momento. «Non muovetevi!» tuonano gli altoparlanti. «Cosa ca...» grida Barney Barnes, lasciando andare il basso e scappando dal palco; ma Antler è lì, con la sua fedele .44 Walther puntata. Piazza un proiettile in corpo a Barney, e Barney è polverizzato. «Merda,» dice Brutus, lasciando cadere a terra la sua Strat ma senza muoversi. Improvvisamente scoppia in lacrime. «Ce l'avevo appena fatta...» Poi luci e scoppi esplodono tutt'attorno a noi, e il fumo ci scende addosso dall'alto, dal bordo dello stadio, da ogni parte, e io sto cercando Antler, ma è sparito di nuovo, e io guardo in su. Meglio pregare, davvero! Ma ecco che ci sono: un cavo e un anello calati da uno Huey, e quasi mi arriva sulla testa prima che lo afferri. Immediatamente inverte la rotta e io mi sento sollevare al di sopra del fumo che si sta alzando sotto di me. «Hey, tu, bastardo!» mi urla dietro Jimmy Klemp, gettandomi una bac-
chetta. Ma è già avvolto nel fumo, e comincia a tossire. La bacchetta si leva vorticando fuori dal fumo, appena fuori dalla mia portata, poi cade sempre vorticando tra le nubi di fumo sotto ai miei piedi. «Bastardo...» E io vado su. E poi entro nella pancia metallica di uno Huey. E guardo giù. Tutto lo stadio è pieno di fumo color lampone, che si muove in volute come sopra un calderone. Ai bordi, delle figurine, skel e umani, cercano di arrampicarsi fuori, ma vengono spinte all'indietro o prese a pistolettate finché non si ritirano da sole. I soldati impegnati a spingere e sparare indossano maschere anti-gas. Lo Huey prende quota. Le figurine cominciano ad assomigliare a formiche che cercano di risalire una collina, ma già ce ne sono poche, lo stadio se le sta mangiando tutte. «Merda, e dopo di noi c'erano i Ramones,» dico. «Peccato davvero, vecchio mio,» dice la voce di Bobbie Zick alle mie spalle. Già, è lui, il vecchio Bobbie, avrei dovuto saperlo, comodamente seduto. Accanto a lui c'è Antler, e accanto a Antler c'è John Lennon, che guarda giù verso lo stadio con la bocca aperta per lo stupore. «È dannatamente incredibile,» dice Lennon. «E siete sicuri...?» «Sì, sì, John, nessun problema,» dice Antler. Sembra deluso. «Solo gas. Convertirà gli umani e metterà gli altri a dormire per un poco. Si risveglieranno con dei postumi notevoli.» Lennon ride. «Per Ringo non sarebbe la prima volta.» Bobbie mi sta sorridendo, e adesso anche Antler si rivolge a me con uno sguardo acido. «Come ti ho detto, noi volevamo usare armi nucleari, ma Lincoln ha detto di no,» continua Antler. «Non voleva lasciarci usare nemmeno un compressore d'aria. Che incapace. Se soltanto Bush non fosse andato a farsi polverizzare in quell'incendio di petrolio in Kuwait...» La sua indignazione non si placava. «Io gliel'avevo detto a Lincoln che una bomba ai neutroni in un mese avrebbe reso quella dannata area sicura per i picnic. Ma nemmeno quello ha accettato. Beh, forse fra un po'...» «Hai altri assi nella manica?» chiede Bobbie Zick, e io e Antler scoppiamo a ridere. «Il mio genere di incapace, quel Lincoln,» dice Lennon. Antler mi rivolge quell'occhiata rabbiosa da skel a umano. «Quel dan-
nato Lincoln. Non posso nemmeno convertire te.» Sorrido debolmente. «Oh, sì, vecchio mio,» dice Bobbie Zick, ridendo. «Sei ancora di considerevole utilità.» «Hai lavorato per tutto il tempo con i federali?» gli chiedo. Bobbie si stringe nelle spalle. «Solo da quando mi hai dato l'idea per questo festival musicale. Allora era già evidente che il nostro piccolo movimento ribelle non aveva alcuna possibilità di successo.» Sorride. «Meglio unirsi ai federali che essere sconfitti da loro.» Distende la mano verso le nubi di gas. «E tutti quegli umani erano il nostro piccolo regalo.» «Buon Natale!» dice Antler con uno sguardo d'intesa a Bobbie. Bobbie si mette a parlare col suo miglior accento inglese. «In fondo al cuore sono un buon Americano. La tua festicciola musicale ha fornito il perfetto sistema per incartare gli affari di tutti.» Sospira. «E da adesso in poi,» dice usando deliberatamente il suo vero e originale accento di Brooklyn, «temo che dovrò concentrarmi sulla faccenda della musica.» Bobbie Zick torna al suo accento inglese. «Mi dispiace, vecchio mio.» «Un Americano dannatamente buono, davvero.» Lennon ride sarcastico. «Abbastanza buono da lasciarti fondare la Lennon Records, eh?» dice Bobbie. «Due album dei Beatles, più gli sforzi solitari di tutti voi capelloni. Non male, eh, vecchio mio?» Lennon guarda fuori dal finestrino. «Cosa posso dire? Suppongo che tu non sia peggio degli altri. Siete tutti dei fottuti vermi, in fondo al cuore.» Bobbie scrolla le spalle. «She loves you, yeah, yeah, yeah.» «E io?» dico lasciando che dalla mia voce traspaia una nota di speranza. «Non c'è, diciamo, una possibilità per, ecco, Roger Records? Oppure, ehm, almeno, beh, che vengano incisi dei dischi dei Vomits? Voglio dire, ehm, potremmo sostituire facilmente Barney, e...» Bobbie scrolla ancora le spalle. «Spiacente, vecchio mio. Non è in mio potere.» Guarda Antler. «Washington ha altri progetti per te,» dice Antler, con un tono piatto e indecifrabile come i suoi occhi. Sorrido con un sorriso falso. «Uh... meraviglioso.» «Già, ce la siamo cavata tutti con poco, stavolta,» dice Bobbie Zick. «Qualcuno di noi,» dice Lennon. Bobbie e Antler si scambiano un'occhiata e scoppiano a ridere, mentre Lennon ed io continuiamo a guardare fuori dal finestrino, fissando lo stadio pieno di fumo lampone che si allontana sotto di noi.
7 E così... conosco il signor Lincoln dell'Illinois. Una bella emozione davvero. Voglio dire, quel tipo ne ha vissuta di storia. E dopo aver sentito come in Alaska si è rifiutato di polverizzare tutti quegli skel e umani che non volevano piegarsi alla sua volontà, beh, almeno per il momento è il mio genere d'osso. Ma ciò non lo rende immune da quella stessa raccapricciante voglia di uccidere che hanno anche gli altri skel. Solo che da quanto capisco il signor Lincoln ne è infastidito. Quando mi stringe la mano, c'è un temporaneo intoppo, una repulsione che lui supera consciamente. Lo vedo nelle orbite dei suoi occhi, sta lottando con se stesso per accettarmi invece di torcermi il collo. Ma quel tipo vince sempre, e la stretta di mano è calda, per essere quella di uno skel. «Signor Garber,» dice. «Ehm, signor Presidente.» «Sto per chiedervi di aiutarmi,» dice. «Ehm... certo.» «C'è del lavoro da fare. Dopo l'incidente di Anchorage siamo molto vicini alle mete che ci siamo prefissati.» Io so di essere un idiota, lui sa che sono un idiota, ma dannazione, quell'uomo ha classe. «Certo.» Il signor Lincoln procede spiegando quali sono quelle mete, sperando forse che non mi addormenti. Non dormo, ma non so nemmeno di cosa sta parlando. Un mucchio di parole su un mondo nuovo, pace per tutti, un paradiso con ordine e felicità per ognuno. Adesso lo vedo. Skel senza inferno. Ho voglia di raccontargli di Antler e Bobbie Zick, e di come quella sia solo la punta dell'iceberg. Non sa niente di quelli come me, perdiana? «Ed ecco perché, signor Garber, vorremmo portare a termine questo compito col minore spargimento di sangue possibile. Per il bene di tutti.» «Ehm... giusto,» dico. Improvvisamente si volta, intreccia le mani dietro la schiena, e cammina fino alla finestra dell'ufficio. Non c'è una bella vista là fuori, ormai è quasi inverno, freddo e ventoso, e gli alberi hanno perso le loro foglie come cavalli che si liberano del loro cavaliere. Sembra che il vecchio inverno sia pronto a partire. «Non sono uno sciocco, signor Garber,» dice il signor Lincoln.
La sua voce è così triste che all'improvviso ho una fottuta voglia di piangere, non scherzo. Per un istante penso al mio vecchio, la sua mano, i ceffoni, quel bastardo ubriacone. Dio, vorrei che quest'uomo fosse stato mio padre. Avrei fatto qualunque cosa per lui, senza bisogno di ceffoni. «Ho rinunciato a molto per questa causa. Io sono un uomo pratico, non un sognatore. Ogni momento che ho trascorso da sveglio è stato dedicato alla comprensione di quello che stava accadendo attorno a me. «Voglio che sappiate che sto cercando di fare la cosa migliore per tutti. Tutti, signor Garber, inclusi me e voi. Ero umano anch'io, tanto tempo fa. Io... ricordo vagamente le sensazioni che avevo, e capisco le differenze che regnano tra di noi. So di essere diverso adesso. Questo non mi piace, ma credo che ci sia uno scopo in tutto questo, signor Garber.» D'un tratto si volta a guardarmi, e io sto piangendo, cosa diavolo mi succede? È così triste, e così duro allo stesso tempo, che fa paura. È come... Dio, quasi. O Salomone. Già le sapevo tutte quelle cose della Bibbia, quand'ero bambino. Gesù, questo è deprimente. «Credo che in qualche modo voi sappiate cosa intendo,» continua il signor Lincoln. Mi gira ancora le spalle, preferisce la finestra. Non lo biasimo. Per quel tipo sono già pronto a farmela nei pantaloni, e a buttarmi a terra a confessare i miei peccati. Diavolo, sono sicuro che sa già quali sono. «In tutto questo c'è un posto anche per voi,» dice. «In cambio del vostro aiuto, verrete trattato con... rispetto. Mi hanno detto che vi piace la musica, Vi verrà garantita una posizione di un certo merito nell'ambiente, quando sarà tutto finito, e se vi comporterete bene. E vi dò la mia parola, non verrete convertito.» «Alle dipendenze di Bobbie Zick?» dico, improvvisamente redento. Lincoln si volta e mi guarda di traverso. «Il signor Zick è in prigione. E in prigione è anche l'uomo al quale era stata affidata la missione nella quale siete stato coinvolto ad Anchorage.» «Perché?» Il signor Lincoln mi guarda come se fosse sorpreso dalla domanda. «Fondamentalmente, signor Garber, nonostante protestassero lealtà nei confronti del governo degli Stati Uniti, stavano cercando di spodestarmi. L'uomo che avete conosciuto come Antler, e altri della CIA, hanno cercato di minare la mia autorità per mesi. Hanno organizzato un colpo di stato con un ex-presidente, hanno cercato di autorizzare l'uso di armi nucleari senza il mio permesso, e hanno cercato di utilizzare altri goffi metodi.» Si
infila una mano in tasca e mi mostra il penny con le sue fattezze cancellate. «Questa era una loro grezza forma di umorismo, signor Garber. Inutile dirlo, ho smantellato la CIA. Sinceramente non capisco a cosa mai potesse essere servita, innanzitutto.» Ho voglia di applaudire per quest'uomo. Mi sorride appena. «Oh, sì, signor Garber, in fondo sono un discreto politico. Ai miei tempi ho avuto a che fare con tipi come Salmon Chase e Stephen Douglas. Un serpente è sempre un serpente, signor Garber, e bisogna tenere un bastone a portata di mano. «Ora, signor Garber, ecco cosa vorrei che faceste...» Chiacchieriamo per un poco, il signor Lincoln e io. Mi dice cosa vuole, mi racconta di alcuni sogni che sta facendo, dei sogni strani di una ragazza umana di colore che sarà l'ultima donna di questo fottuto mondo. Mi sembra davvero strano, ma non posso permettermi di essere maleducato. Gli dico che posso farlo, perfetto, d'accordo, nessun problema. Per essere senza CIA, questo tipo sa un sacco di cose, poi mi stringe ancora la mano, e ha un bel controllo, perché stavolta non vedo nemmeno una traccia nei suoi occhi di quello sguardo da "Ti ammazzo, imbecille". Solo un lieve accenno di divertimento, perché entrambi sappiamo che può fidarsi di me tanto quanto riesce ad allargare le dita dei piedi. Ma è tutto a posto. Siamo entrambi mercanti di cavalli. Mi piace questo Presidente. E capiamo bene tutti e due che se non faccio quello che dice mi convertono in uno schiocco di dita, e mi ritrovo a scaldare una panca vicino a Bobbie Zick nella prigione federale. È un tipo in gamba, questo Lincoln. E poi succede una dannatissima cosa. Sto uscendo dall'incontro col signor Lincoln, e sto bighellonando in giro, e arrivo a un punto in cima alle scale fuori dall'Ufficio Ovale dove sembra che siano stati fatti dei danni. Così faccio un passo verso il ponteggio per dare un'occhiata. Solo che non c'è nessun ponteggio, e non c'è nemmeno un gradino, e d'un tratto sono appeso con le dita al bordo di un buco di marmo, e guardo giù da un'altezza niente male il duro pavimento più in basso. E le mie dita stanno scivolando. Mi vedo una poltiglia rossa, e poi risuscitare come scheletro. Solo che adesso non sembra così male. Riesco davvero a vedermi continuare a vivere in questo mondo di ossi, soprattutto con dei tipi come il signor Lincoln che dirigono la baracca. Così non mi importa nemmeno che le mie dita stanno scivolando, ve-
ramente le sto quasi aiutando, sollevandole ad una ad una e pensando alla vita nuova e meravigliosa che mi aspetta. «Geronimo!» sto per gridare. Ancora due dita da alzare, e lascio che scivolino... Solo che arriva il signor Lincoln, e torreggia sopra di me come l'albero di una nave. Mi afferra per le dita, poi per le mani, e mi solleva come se fossi un tronco d'albero che sta per scivolare lungo la corrente nella direzione sbagliata. E perdiana se è forte. «Non possiamo permettercelo, signor Garber,» dice in tono quasi da rimprovero. «Questo mi ricorda quel fattore con la gallina miope che non riusciva a trovare il cibo. Tutte le altre galline ingrassavano e finivano sulla tavola del fattore. Poi un giorno la gallina miope, pelle e ossa, entra chiocciando in cucina e salta nella padella per friggere. «Ma il fattore le dà un'occhiata, la tira fuori, e dice: "Credo che tu mi sia più utile così come sei!"» CAPITOLO TREDICESIMO IL DIARIO INTIMO DI CLAIRE ST. EVE 1 «Alzati,» mi ha detto Margaret Gray. Mi sono alzata dal materassino nella tenda di Margaret Gray e sono uscita per vedere altre duecento persone alzarsi dai loro grezzi letti per terra. «Al lavoro!» ha gridato Margaret Gray. «Come il Signore vi ordina, al lavoro!» E così un altro giorno è cominciato. Siamo da qualche parte nello Iowa occidentale, vicino al confine col Nebraska. Oggi, come gli altri giorni dell'ultima settimana, l'abbiamo trascorso in mezzo alle stoppie secche e spoglie del grano, raccogliendo le pannocchie perdute per il nostro pasto. Per averle abbiamo dovuto lottare contro scheletri di corvi. Io e gli altri ci siamo abituati a colpire i corvi con un bastone lungo e duro, e poi stiamo a guardarli mentre vanno in polvere. Ogni pannocchia ci fornisce pochi chicchi di grano commestibile, e all'ora di pranzo, dopo che il sole ha attraversato il cielo come un ferro rovente, ce n'è appena a sufficienza per fare una densa pappa di grano, che fatica a nutrire tutti. A pranzo, come sempre, conto le teste. Ieri ce n'erano duecentocinque.
Ma oggi c'è stata una nascita, e due morti per sfinimento. Così il numero dovrebbe essere duecentoquattro. Lungo il nostro cammino raduniamo gli umani. Senza gli omicidi ormai avremmo raddoppiato il nostro numero. Ma se Margaret Gray non ottiene lealtà, e in fretta, i nuovi arrivati non sopravvivono. Le doppie esecuzioni sono diventate normali, e scontate, così come le spie, e le squadre di polizia di Margaret. Quando la polizia diventa troppo zelante, anch'essa è soggetta ai capricci di Margaret, e a una probabile morte. Quattro volte ho cercato di scappare, una volta quando eravamo ancora in Pennsylvania, e sono riuscita a fare trenta miglia, clandestina sul carro di un ignaro scheletro Amish. Per due giorni ho gustato il sapore della libertà, finché Margaret in persona mi ha trovata, con dieci guardie del corpo. Il contadino Amish è stato convertito in polvere, mentre pregava in ginocchio di aver salva la seconda vita. Margaret in persona ha dato l'ordine alla fucilazione. Io sono stata riportata indietro in catene. Sono rimasta incatenata per tre giorni, poi mi è stato permesso di tornare a lavorare con gli altri. Per lo più tutti mi evitano, e lavoro sola. Coloro che cercano di avvicinarsi a me, prima o poi scoprono che non è una buona idea, perché Margaret Gray comincia a pensare che si stia tramando una cospirazione. L'esecuzione non è mai molto lontana. «La bambina appartiene a Dio,» ha detto di me, e dato che pensa di essere l'agente di Dio, quello che in effetti intende dire è che io appartengo a lei. Penso continuamente a mia madre. Mi sento così sola che ho voglia di piangere. Eppure allo stesso tempo sento che mi sta accadendo qualcosa di speciale, proprio come diceva lei. Sento che dentro mi sto aprendo, proprio come un fiore. Margaret Gray mi odia, ma mi teme anche. Io sono diventata il fulcro della sua follia religiosa. In un certo senso mi venera, ma questo non mi esonera dagli abusi e dal lavoro. Margaret stessa ha detto che non mi verrà fatto del male, eppure non si è trattenuta dal battermi pubblicamente. Nei suoi occhi c'è una rabbia che non muore mai, e a volte mi guarda con un odio che mi fa inorridire. Ma sempre si controlla, mi chiama "prescelta", e non sento molto male. «A qualsiasi costo, tu verrai protetta,» dice, ma sento che odia dire quelle parole. In Pennsylvania siamo partiti in venti, e il nostro numero è aumentato
lungo il cammino. È come se ogni umano che incontriamo gravitasse naturalmente verso di noi. Margaret non ha bisogno di andare a cercarli; mentre attraversiamo una città in fiamme, abbandonata, retaggio del Generale Lee in marcia verso ovest, la porta di una cantina si apre cigolando, o una botola nascosta si solleva, e uno o due esseri umani emaciati strisciano fuori e si uniscono a noi. Qualcuno ci proclama suoi salvatori. Molti sono già impazziti, maturi per gli insegnamenti e le leggi di Margaret. Coloro che resistono vengono giustiziati. Non c'è dubbio che le gesta di Margaret sono geniali. Non è mai senza una radio. In ogni città prima di tutto facciamo incetta di radio e batterie. Poi ascolta con rabbiosa concentrazione i notiziari locali e nazionali, ormai tutti gestiti da scheletri, che involontariamente ci dicono come procedere. Lo schema della campagna governativa è stato ben presto chiaro. In tutto il paese gli umani vengono costretti e dirottati da sud e da nord verso la linea centrale che va da New York alla California. Da est Lee sta avanzando verso ovest, mentre gli ultimi resti vengono spinti verso il suo compatto esercito. Così Margaret si limita a tenerci indietro, e segue Lee da una certa distanza, raccogliendo i dispersi, e mantenendo il grosso della forza di Lee duecento miglia davanti a noi. Funziona. Incontriamo poca resistenza ed evitiamo quelle città che sono state velocemente ripopolate dagli scheletri. Quand'è possibile viaggiamo in autobus o con qualsiasi altro mezzo di trasporto, abbandonandoli quando veniamo individuati e nascondendoci sulle colline, disperdendoci e radunandoci di nuovo quando il pericolo è passato. La radio ci tiene costantemente informati sul nostro proprio progresso. E lentamente il nostro numero cresce. Anche se stasera, quando ho finito di contare le teste, ce n'erano soltanto duecentodue. Più tardi ho saputo che un uomo e una donna hanno cercato di scappare il mattino presto, e sono stati ripresi e doppiamente giustiziati. Stanotte Margaret Gray mi ha ordinato di stendere il mio pagliericcio nella sua tenda, mentre lei si sdraia rigidamente sul suo lettino. «Dormi,» mi ha ordinato. 2 Quando due giorni dopo siamo entrati nel Nebraska, Margaret ha deciso che poiché l'ultimo giorno d'estate era vicino, e la luna del raccolto era
prossima, ci sarebbe stata una celebrazione. «Per la gloria di Dio,» ha detto. È stata come una liberazione. Tutta la tensione delle ultime settimane, la paura e la pressione costanti, si sono incanalate nell'evento. Eravamo ancora nel paese del granturco, così abbiamo organizzato una festa del raccolto. I bambini hanno fatto i costumi con i gambi secchi del granturco, e le donne si sono infilate tra i capelli i fiori di granturco secchi. La luna del raccolto era due giorni dopo. La radio, come per assecondare i nostri desideri, ci ha informato che nel raggio di duecentocinquanta miglia non c'erano truppe. Davanti a noi Lee si stava dirigendo verso ovest a grande velocità. La città più vicina era a quaranta miglia. Il cielo, le colline, e le valli ricche di granturco erano solo per noi. Il giorno prima della luna del raccolto abbiamo trovato un porto in cui rifugiarci. Da una piccola altura ci siamo trovati di fronte grano non ancora raccolto a perdita d'occhio. «Un dono di Dio,» ha detto Margaret, levando la mano in segno di benedizione. I campi erano maturi. Non avevamo mai mangiato così bene. Quel giorno il raccolto è stato felice, con canti e montagne di granturco che si levavano come una benedizione al sole caldo. Non c'erano nemmeno gli scheletri dei corvi. A giorno inoltrato abbiamo visto una maestosa aquila reale che si librava nel cielo sopra di noi. Quando la luna piena si è levata la notte seguente, tutto era pronto. Margaret aveva decretato che potevamo accendere un bivacco. Abbiamo cantato e ballato, e poi abbiamo iniziato a mangiare: pane di granturco e biscotti di granturco e zuppa di granturco, e tutto in abbondanza. Ho sentito molti "lode a Dio" e "amen". I bambini correvano attorno al bivacco, gettandovi dentro dei bastoncini e guardandoli scoppiettare. Quando la luna è stata alta su di noi Margaret ci ha chiamati a sedere. Lei è rimasta in piedi vicino al fuoco, con me al suo fianco. La mano che mi stringeva il braccio affondava nella carne come un artiglio. Per tutto il giorno avevo sentito che dentro di lei si stava svolgendo una battaglia. La luna creava un alone attorno a noi, e le scintille crepitavano nell'aria. Quando Margaret finalmente ha parlato, era come se strappasse a forza le parole dalla sua anima. «Adesso posso dirvi, figli miei,» ha detto, con le dita che mi stringevano dolorosamente il braccio, «che stiamo andando verso il paradiso.»
Qualcuno in fondo ha gridato: «Amen!» «Stiamo andando verso il paradiso, ma vi dico che solo uno di noi lo vedrà. Perché Dio ha ordinato che il mondo venga purificato, è ripulito, in modo che il paradiso possa tornare sulla terra!» E ancora: «Amen!» «Questa figliola,» ha detto, quasi in un singhiozzo, spingendomi avanti perché tutti vedessero, «sarà la prescelta!» Si fece silenzio. Margaret riacquistò il controllo e gridò: «Anche se ci perderemo lungo il cammino, ci perderemo nella grazia di Dio, perché il Signore ci ha consentito di partecipare al Suo miracolo. E questa ragazza è il Suo miracolo! Anche se non parla, la sua vita parla in una moltitudine di linguaggi. Anche se a vederla sembra solo una ragazza, è una donna agli occhi di Dio. E Dio l'ha messa sulla terra per condurci tutti alla Sua luce.» «Amen!» E un altro: «Amen!» «Ascoltatemi!» ha detto ancora Margaret Gray. «Perché io ho avuto una visione dal Dio di tutti! E Dio ha detto che questa ragazza è la nostra salvezza!» «Amen! Amen!» «Anch'io ho avuto la visione!» ha gridato qualcuno. «Sì, il sogno!» «Amen!» «Ci dirigeremo a ovest,» ha detto Margaret, «e poi a nord! Chiunque si opporrà a noi verrà annientato! Perché Dio è il nostro protettore! E Dio nella mia visione mi ha mostrato il paradiso.» Mi ha guardato, con occhi colmi di furore, e ha sorriso, come una pazza. «E lì,» ha detto piano,» è dove questa figliola deve andare.» «Alleluia!» D'un tratto sono stata circondata da facce sconvolte, facce stravolte dalla fede. Sono stata sollevata sulle spalle, e mi hanno fatto ballare attorno al fuoco. Margaret osservava, covando una rabbia malcelata, ma permetteva che tutto questo continuasse. Tra le grida di «amen!» e «Dio sia lodato!» sono stata sollevata e tenuta in alto. Quando finalmente ho potuto, mi sono allontanata, e mi sono seduta lontano dal bagliore del fuoco. La celebrazione è continuata per quasi tutta la notte. È stato distribuito del liquore, che qualcuno aveva prodotto dal granturco, e stranamente Margaret non ne ha impedito la diffusione. Da sola, ho pensato a mia madre, e mi sono venute le lacrime agli occhi.
Non volendo più guardare, sono andata a sdraiarmi sul mio pagliericcio, ma non riuscivo a dormire. All'esterno i rumori dei festaioli si erano fatti più forti. Attraverso il lembo sollevato della tenda vedevo la luna scendere lentamente sull'orizzonte a occidente. Poi il lembo della tenda si è aperto, e contro l'oscurità ho visto stagliarsi il profilo di Margaret Gray, alta, feroce, rigida. Improvvisamente ho avuto paura. Ho fatto finta di dormire, ma la guardavo da sotto le palpebre socchiuse. L'argentea luna al tramonto dietro di lei faceva assomigliare i suoi capelli ribelli alla criniera di Medusa. Lo sguardo di malvagia follia, sempre presente nei suoi occhi, era come magnificato. Si è avvicinata lentamente al mio pagliericcio e si è chinata su di me, e mi ha fissato a lungo. Sentivo una sorta di elettricità fluire da lei, sentivo il suo odio. Vedevo le sue mani flettersi e torcersi, i muscoli irrigidirsi, le dita che anelavano a soffocare e strappare. Tuttavia non ha fatto nulla. Alla fine le è sfuggita un'esclamazione strozzata e sorda, di frustrazione. «Questo non è giusto!» ha sibilato. Sì è chinata più vicino, ha esitato, poi mi ha toccato la guancia con un dito lungo e secco. «E così Dio sceglie te, non me,» ha sussurrato, poi si è voltata, ed è uscita nella notte tra i festeggiamenti. Quella notte è nato il Silenzioso Esercito dell'Umanità. 3 Gli umani sembrano sapere dove siamo e arrivano da noi in folla. A gruppi di due o tre, mentre giriamo intorno a tutte le città della brulla prateria in Nebraska, e poi Wyoming, e Idaho, escono dai loro nascondigli, viaggiano talvolta per centinaia di miglia verso nord o verso sud, e si uniscono a noi. Sono quelli che gli scheletri hanno mancato, quelli in gamba o soltanto fortunati. Come una calamita li attiriamo a noi. Sorprende che gli scheletri non se ne siano accorti. È come se fossimo invisibili, tanto indietro rispetto agli eserciti degli scheletri che avanzano, che non riescono a vederci. Ma noi seguiamo la loro scia, e cresciamo. Mi sto abituando ad essere fissata dalla gente, e alla loro deferenza. Non sono più costretta a lavorare. Margaret non me l'ha mai proibito, ma quando cerco di prendere una vanga, o mi chino per raccogliere il grano o le patate, qualcun altro arriva, e senza parlare mi toglie il lavoro di mano.
Col tempo, e così lentamente che quasi non mi accorgo, hanno smesso di parlare attorno a me. Anche Margaret Gray ha smesso di parlarmi. Mi ha dato il suo lettino e si è messa a dormire sul pagliericcio per terra. Mentre dorme si lamenta e si gira e si rigira come se avesse la febbre. Talvolta durante la notte si risveglia, dopo questi sogni, e io la scopro a fissarmi, con occhi spalancati, sui quali le palpebre non battono, il volto madido di sudore. Il mattino, quando mi sveglio, lei è sempre sdraiata lì, con gli occhi aperti e fissi. Le passo accanto in fretta, per evitare il suo sguardo. Infine, quando perdo il conto, il nostro numero è arrivato a duemila. Ogni giorno ne arrivano altri. Quando raggiungiamo la periferia di Boise, Idaho, il numero viene quasi raddoppiato in un giorno, da un gruppo di circa milleottocento persone che si erano radunate per aspettarci. «Sapevamo che saresti venuta,» ha detto il loro capo, un uomo di colore di nome Coine, rivolto a me, e ignorando Margaret Gray. «Ti abbiamo sognata.» In silenzio, nutrendoci dalla terra, recuperando armi e mezzi di trasporto lungo il cammino, e indumenti per il freddo che si avvicina, ci spostiamo verso ovest. Il nuovo arrivato, Coine, è stato colonnello nell'aviazione, e presto diventa il comandante militare di Margaret Gray. Margaret è cambiata. All'inizio avrebbe fatto giustiziare Coine in quanto costituiva una minaccia. Adesso è disposta non solo ad ascoltare i suoi consigli, ma a conformarsi al suo volere. Trascorre il tempo nella sua tenda, o vagando da sola ai bordi dell'esercito. E mentre Margaret si ritira nell'ombra, l'esercito si raccoglie sotto Coine, e diventa più forte. Una notte nella tenda, mentre io fingevo di dormire, Coine e Margaret hanno iniziato a parlare. Coine è un uomo alto, dai lineamenti duri e occhi come pietre, ma non alza mai la voce. Il lucore di una lanterna illuminava e addolciva i suoi lineamenti, chino com'era su un tavolino da campo sul quale era distesa una cartina. «Arriverà il momento... qui,» diceva Coine indicando la cartina, «dove saranno vulnerabili. Da mesi abbiamo indicazioni che Lee farà una sosta sul confine tra la California e l'Oregon, e poi si dirigerà a nord. Prima che compiano la deviazione, è il momento di colpirli.»
Margaret Gray ha annuito lentamente, fissando la cartina. «Ho una dozzina di uomini che fanno al caso nostro,» ha proseguito Coine. «Quando tutto questo è cominciato erano di stanza a Omaha. Sanno come sfruttare le precedenze, e sono in grado di localizzare i codici.» Margaret Gray non parlava. «Capisci, vero?» ha detto Coine, esasperato. «Se riusciamo a sconfiggere Lee, abbiamo davvero una possibilità.» Si è passato una mano tra i capelli crespi. «Credo che sia l'ultima. Se solo potessimo colpire Washington...» Margaret l'ha guardato, e poi ha riportato gli occhi sulla cartina, facendo segno di sì. «Allora approvi?» ha detto Coine. Lei ha annuito ancora. «Bene.» Coine ha arrotolato la cartina e si è alzato. Da sotto le palpebre ho visto che mi guardava. «Strana ragazza,» ha detto. Anche Margaret mi stava guardando. «Sono stato nell'esercito per dieci anni, e poi in carica come sceriffo a Topeka, nel Kansas, per altri dieci. Pensavo di essere il più duro di tutti. Ma guardo quella ragazza...» Ha scosso la testa. «Mi fa sciogliere dentro. L'ho sognata, e così anche gli altri. Tutti quelli con cui parlo qui vanno avanti solo per lei. Lei è... non lo so. È come se sentissi che non è necessario parlare vicino a lei. E i sogni, le sensazioni, si stanno facendo più forti. Se lei non fosse qui...» Agitò la cartina arrotolata. «Beh, non credo che ci daremmo tanto da fare.» Margaret ha continuato a fissarmi, anche dopo che Coine è uscito dalla tenda e se n'è andato. 4 In breve il Colonnello Coine si è trovato da solo al comando del Silenzioso Esercito dell'Umanità. Non c'è stato nessun colpo di stato. Margaret Gray ha semplicemente lasciato ogni cosa a lui. È diventata uno spettro nel campo, la si vede emarginata, sempre da sola, avvolta in una coperta fin sopra la testa, che guarda il cielo. Le squadre di esecuzione e le spie sembrano essersi perdute nell'esercito di Coine. Coine è un bravo capo. Ha organizzato l'esercito in reparti di lavoro e
corpi di addestramento. Al comando ha messo degli uomini nuovi, per lo più i suoi. Il tempo sta diventando più freddo, ma grazie alla previdenza del Colonnello Coine abbiamo tutti indumenti caldi, cibo a volontà, e ripari dalla pioggia fredda che ha cominciato a spazzare le pianure. Ormai fiduciosi, marciamo soprattutto di giorno. Abbiamo tre elicotteri, pilotati da uomini provvisti di maschere da scheletri fatte apposta che sembrano vere da tre passi di distanza. Penso sempre molto a mia madre, ma sta diventando un vago ricordo, una tristezza che conservo in un angolo del mio cuore. E sento che sto cambiando ancora. A volte, quando guardo le mie mani, sento un pizzicore, e immagino quasi una luminescenza. Sono diventata più alta. In mezzo a tutto questo, in un tempo imprecisato, ho compiuto gli anni, sedici. Mi sento a mio agio nel silenzio degli altri attorno a me, sento che è giusto. Quando cammino per il campo i bambini mi seguono, e io gioco con loro. Nessuno mi evita, ma ho notato di essere oggetto di una specie di rispetto a cui mi sono abituata. Il nostro numero è salito a diecimila. Ognuno di noi ha un lavoro. C'è un reparto che cuoce il pane all'aperto, e altri che rammendano le coperte, che riparano gli autocarri, e che fanno la scorta di acqua fresca. Siamo come un alveare in movimento. Margaret ha abbandonato le sue radio, ma il Colonnello Coine le segue attentamente. Le frequenze a onde corte ci hanno detto che la battaglia nel resto del mondo si è essenzialmente conclusa. I Canadesi che si sono uniti a noi dal nord, Messicani, Peruviani e Nicaraguesi dal sud, ci hanno raccontato storie simili sulla conversione della razza umana. Coine quasi non consulta più Margaret Gray. Ha indossato un'uniforme dell'aviazione, aperta sul collo. Ormai è raro che faccia visita alla mia tenda, tranne quando sono da sola e crede che stia dormendo. Se ne sta sulla soglia, a fumare una sigaretta, e mi guarda. Con lui non provo la terribile paura che provo quando mi guarda Margaret. In un certo senso le sue visite mi sono di conforto, e sembra che siano di conforto anche a lui. Una sera, mentre Margaret era seduta su una collina poco lontano, avvolta nella sua muta coperta, a fissare il cielo stellato, Coine è venuto nella mia tenda. Si è fermato sulla soglia e ha fumato la sua sigaretta. Ma stavolta, invece di andarsene dopo averla finita, è entrato e ha richiuso il lembo dietro di sé. Ha esitato un momento, come per prendere una decisione.
Finalmente, quando ho aperto gli occhi e l'ho guardato, si è fatto avanti, ha tirato uno sgabello vicino al letto, e si è seduto. «Non dovrei disturbarti,» ha detto. Io l'ho guardato, ho sorriso, e d'un tratto ha sorriso anche lui. «Queste sono le prime parole che ti rivolgo da quando sono capitato qui. Non è stato per maleducazione.» Era lì seduto, e si fissava le mani. «Non ho mai più avuto la lingua così legata da quando ho chiesto a mia moglie di sposarmi vent'anni fa.» Ho aspettato. Infine ha sollevato lo sguardo. C'era dolore nei suoi occhi. L'uomo alto e diritto al comando, l'uomo che mostrava solo forza a coloro che gli obbedivano, si concedeva di essere debole. «Mi sento uno sciocco a fare questo.» Io ho teso una mano e l'ho posata sulle sue. «Avevo una figlia, e un figlio,» ha detto. «La mia bambina aveva solo quattordici anni. Li ho perduti tutti il giorno in cui tutto questo è cominciato.» Ho tenuto lamano sulle sue. I suoi occhi si sono fatti profondi e tormentati. «Per tutta la vita sono stato orgoglioso di fare la cosa giusta. Mi chiamavano Freccia Diritta. Ma che Dio mi aiuti, cosa ho dovuto fare alla mia famiglia!» Ha guardato a terra. «Quando sono tornato a casa dall'ufficio di sceriffo, tutti e tre erano stati convertiti. Hanno tentato di uccidermi! Mia moglie! I miei bambini! Dal giorno in cui è successo non ne ho mai parlato, e nemmeno ho osato pensarci. «Ma erano là quando ho aperto la porta di casa, che mi aspettavano in salotto, con... quell'aspetto. Avevo pregato che stessero bene, avevo implorato Dio che li risparmiasse, perché sapevo che avremmo potuto scappare, e nasconderci. «Quando sono entrato e li ho visti in quel modo, seduti in salotto, trasformati in ossa, sono stato tanto stupido da pensare che potessero essere ancora dalla nostra parte. Il tavolo in sala era apparecchiato per cena. C'era odore di bistecche che bruciavano sulla griglia. Mia moglie si è alzata - potevo vedere la sua ombra attorno a quello scheletro - e si è avvicinata al tavolo, e ha detto con calma: "Perché non vieni a mangiare, Sam?" «Allora ho chiuso la porta dietro di me e sono passato davanti ai bambini, che mi guardavano con quelle orbite vuote, e mia moglie, Janet, era in piedi accanto al tavolo, e ha allungato una mano verso il mio posto, e ha preso il coltello da carne vicino al mio piatto.
«Abbiamo ricevuto una visita oggi, di mia madre, dal cimitero,» ha detto, e poi si è lanciata su di me e ha cercato di affondarmi il coltello nel petto!» Si è coperto gli occhi con le mani, nel tentativo di scacciare l'immagine. «Io la sentivo tra le mie braccia! Sentivo la sua carne premere contro di me mentre quelle ossa si agitavano e cercavano di accoltellarmi! Poi mio figlio e mia figlia mi si sono aggrappati alle spalle e hanno cercato di farmi cadere. Oh, Dio, se chiudo gli occhi me li sento ancora addosso, sento il gelo, il contatto delle loro ossa attraverso la carne, proprio come se mi stessero chiedendo di portarli a cavalluccio. Erano mio figlio e mia figlia, ma stavano cercando di uccidermi!» Si è tolto le mani dagli occhi, e ha guardato nel vuoto. «Poi mio figlio, Jeremy, mi ha messo le braccia attorno al collo - Dio! - e ha cominciato a strozzarmi. «Ho cercato di scrollarmeli di dosso, di allontanarli. Mia moglie è riuscita a infilarmi in parte il coltello nel petto, e a farmi sanguinare. Mia figlia, Tracy, ha cercato di prendermi la pistola di ordinanza. L'ha tirata fuori dalla fondina, ma sono riuscito a gettarla dall'altra parte della stanza. Ho preso Jeremy per le braccia, me le sono staccate dal collo, e l'ho buttato a terra.» Di nuovo si è coperto gli occhi. «Ho visto la sua testa battere contro lo spigolo del tavolo. Ha aperto la bocca per gridare ed è sparito nel nulla!» Il Colonnello Coine si è alzato, ribaltando lo sgabello. Sempre con le mani davanti agli occhi si è messo a piangere. «Dio, come posso vivere con tutto questo!» Ha abbassato lo sguardo su di me, e il pianto si è acquietato. Ha raddrizzato lo sgabello e si è seduto di nuovo. «Ho spinto via mia moglie,» ha detto cupamente, «e lei ha lasciato cadere il coltello. Tracy l'ha raccolto e me l'ha piantato in una gamba. «In quel momento mi sono quasi lasciato uccidere. Janet era tornata al tavolo da pranzo, aveva preso un altro coltello, e si stava dirigendo vacillando verso di me. Tracy mi ha strappato il coltello dalla gamba, e ho sentito un dolore acuto e bruciante. Allora ho pensato di andare con loro. Ho pensato che se mi lasciavo uccidere, allora sarei stato con loro, e mi avrebbero amato ancora, come io ancora li amavo. «Ma invece io... noooooooo...» Ha riportato le mani al volto, si è coperto gli occhi, cercando di chiudere fuori i ricordi. Le nocche sono sbiancate quando ha affondato le dita nella
carne attorno alle orbite. «Oh, Cristo, come posso vivere così!» Ho messo entrambe le mani sulle sue. «Oh, Dio...» In un attimo la violenta ferocia aveva abbandonato le sue mani, e ha lasciato che si aprissero e gli ricadessero in grembo. «Io... li ho spinti lontano da me, e mi sono buttato dall'altra parte della stanza. Ho raccolto la mia pistola di ordinanza e l'ho alzata» - ha esitato, come sorpreso di stare davvero raccontando quelle cose - «e ho sparato a mia moglie e a mia figlia, e le ho guardate diventare polvere.» È rimasto seduto in silenzio. «L'ho detto. Ho detto quello che ho fatto. Non so che razza di uomo ero allora. Ma sono addirittura rimasto in quella casa, la notte. Fuori le strade erano popolate di scheletri e grida. Io sono restato in casa, e mi sono chiuso in cantina. Mi sono seduto in un angolo con la pistola sulle ginocchia e mi sono tappato le orecchie. Quando mi sono svegliato era giorno. C'è mancato poco che mi infilassi la canna in bocca e tirassi il grilletto. «Pochissimo... Sono stato barricato in cantina per due giorni. Nessuno mi ha infastidito. Per due giorni ho pianto e ho cercato di cancellare il ricordo di quello che avevo fatto. Alla fine del secondo giorno ero seduto nell'angolo, con le ginocchia al petto, la canna della pistola di ordinanza in bocca, e volevo tirare il grilletto. «Ma non l'ho fatto.» Mi ha guardato. «E quella notte, mentre dormivo, ti ho sognata. Eri lì, senza parlare, e nel sogno mi fissavi. E per qualche motivo la cosa mi ha fatto stare meglio. «E il mattino dopo non era più così tremendo. Ho scoperto che dopotutto riuscivo a vivere con me stesso. Ho aperto la porta della cantina e ho trovato pochi altri che erano sopravvissuti ai primi giorni. Siamo rimasti assieme, abbiamo lottato, ci siamo nascosti. Qualcuno è morto, ma piano piano il nostro numero è aumentato. «E per tutto il tempo tu eri nei miei sogni. Sentivo che in qualche modo mi stavi guidando, mi stavi mostrando dove andare. Ogni volta che andava male, e io volevo morire, tu eri lì nei miei sogni. I sogni si sono fatti più profondi, più dettagliati. Margaret ha avuto lo stesso genere di sogni, solo che lei li chiama visioni. Anche molti degli altri li hanno avuti. Io non so cosa siano.» Le sue lacrime si erano asciugate. Il suo volto era diventato di nuovo duro e spigoloso. Si è sporto in avanti e mi ha guardato dritto negli occhi. «Nei miei sogni tu mi conosci già. Devo dirti una cosa. Molto tempo fa,
prima che mi sposassi, quando sono entrato nell'aviazione, ho conosciuto una donna. Sono stato con lei solo una notte. Aveva diciassette anni, e io ne avevo solo diciannove. Si chiamava Beth. «Io sono tuo padre, Claire. Me l'hanno detto i miei sogni.» Aspettava una mia reazione. Ma io non reagivo. Qualcosa nelle profondità del mio essere, nel fiore che stava sbocciando, lo sapeva già. «Non ho mai saputo di te. Se l'avessi saputo, avrei fatto qualsiasi cosa per renderti felice.» Io ho sorriso. «Adesso i miei sogni mi hanno portato da te. Qualsiasi cosa siano, io so che sono giusti. Noi dobbiamo lottare per te. Se dovremo farlo, moriremo per te. I miei uomini hanno giurato tempo fa di fare quello è necessario, perché crediamo che adesso tu sia l'unica speranza del genere umano. Nei miei sogni ti ho vista viaggiare con Beth. Dev'essere stata una persona davvero speciale.» Io ho annuito, con le lacrime agli occhi. Lui ha riso brevemente, guardando la mia mano e se stesso in ginocchio. «Mi sento come un cavaliere con la sua regina!» Io ho sorriso. Lui si è alzato, e si è dato un contegno. Era di nuovo alto e duro. Si è fermato sulla soglie della tenda e ha parlato ancora. «Ho dovuto prendere delle decisioni molto difficili, Claire, e le ho prese. Inoltre, non mi fido completamente di Margaret Gray. Non so come reagirà davanti al mio piano. Da un po' si sta comportando in modo strano. Mi hanno detto che si è incontrata con quelli della sua vecchia squadra di esecuzione. Non mi piace, ma non c'è molto che io possa fare. Molta gente qui la seguirebbe ancora, temo. Se la arrestassi scoppierebbe un tumulto e l'esercito si dividerebbe.» Ha sorriso. «Il tuo papà sta cercando di eseguire un numero sulla fune di equilibrio, Claire. Terresti le dita incrociate per me?» Ho annuito. Il suo sorriso si è allargato. «Bene.» Ha aperto in fretta il lembo della tenda ed è uscito, dritto e rigido, a camminare nella notte. 5 Gli umani continuano a scendere dalle colline, dai loro rifugi scavati sottoterra, per unirsi al nostro esercito.
Quando abbiamo attraversato lo Snake River per entrare nell'Oregon, si sono riversati in noi come fiumi nel mare. Tutte le storie erano uguali. Si erano nascosti sulle loro montagne, nelle loro valli, vicino ai laghi e nei boschi, e quando avevano saputo che il momento era giunto, erano arrivati. Qualcuno ci aveva seguiti per un tratto, altri erano venuti via mare dall'Australia, erano atterrati nella Baia di San Francisco, e avevano proseguito a piedi verso est, evitando l'esercito di Lee. Ho sentito la storia di un aeroplano precipitato nel deserto della California, i cui quattordici passeggeri sopravvissuti si erano diretti a nord a piedi, con un solo cucchiaino d'acqua al giorno. Il Silenzioso Esercito dell'Umanità conta adesso cinquantamila persone. È stato fatto posto per tutti. Mio padre, Sam Coine, si muove con sicurezza e fiducia, mentre Margaret Gray si fa sempre più remota; se n'è andata dalla tenda, e adesso dorme da sola sotto il cielo, celando il volto sotto la coperta che le fa anche da cappuccio. I rapporti dei suoi incontri con le sue spie e la sua vecchia polizia, però, continuano. Durante una giornata piovosa e fredda ci siamo imbattuti in una compagnia di Lee, dispersa e rimasta indietro, una forza di trecento scheletri accampati vicino a Malheur Lake. Mio padre ha cercato di aggirarli, dirigendosi verso nord, ma siamo stati individuati da una pattuglia di perlustrazione. Mio padre ha agito con rapidità, mandando fuori cinquemila soldati. Prima di sera gli scheletri erano stati circondati e eliminati. Fortunatamente erano privi di apparecchio radio; era possibile che fossero disertori. Abbiamo aggiunto il loro equipaggiamento al nostro. Il giorno dopo, a mezzogiorno, sulle sponde del lago, mio padre ha annunciato i suoi piani. Era uscito il sole, ma già si sentiva nell'aria il primo inverno. Qualcuno aveva raccolto delle castagne, e il loro fragrante profumo si diffondeva tra l'assemblea. La brezza sollevava increspature sulla superficie del lago. Mio padre era in piedi dietro a un autocarro col portellone abbassato, con indosso la sua uniforme, e ha parlato al microfono. «Siamo molto prossimi a una grande battaglia, forse la più grande mai affrontata dall'umanità. Ma so che vi farete onore, perché questa battaglia può decidere se l'umanità vivrà o sparirà dalla faccia della terra.» Ha fatto una pausa. «Ho deciso,» ha proseguito, «di non utilizzare armi tattiche nucleari come previsto. Sarebbe un errore. Inoltre, ci lascerebbe un'eredità che il ge-
nere umano non vuole sopportare. E ancora,» ha aggiunto sorridendo, «non è necessario. «L'esercito del Generale Lee adesso è accampato duecento miglia a ovest, vicino a Grants Pass. Mi sembra ironico. È proprio lì che li impegneremo in una battaglia. «Il nostro servizio informazioni comunica che l'esercito rimarrà in quel luogo per altri tre giorni. All'alba del terzo giorno li attaccheremo con una forza di trentamila uomini. Non tenteremo di annientare l'esercito di Lee, ma lo terremo occupato mentre il resto di noi, inclusi altri diecimila soldati e tutti i civili, si dirigono a nord a velocità sostenuta, nello stato di Washington e poi fino a Vancouver. Dietro di loro alcuni reparti si staccheranno dalla formazione e terranno a bada il contingente di Lee eventualmente in grado di seguirci. «Con un po' di fortuna...» «No. Li bruceremo!» si è intromessa la voce di Margaret Gray. È apparsa di fianco all'autocarro e si è tirata indietro il cappuccio. Ha puntato un dito sottile contro mio padre. Aveva il volto emaciato, sciupato; la pelle rugosa era tirata, e faceva risaltare maggiormente la follia che le induriva gli occhi. Mio padre ha fatto un cenno perché la portassero via, ma quattro robusti soldati si sono arrampicati nel cassone dell'autocarro e hanno immobilizzato mio padre mentre veniva messo in catene. Margaret Gray è salita al posto di mio padre, che è stato fatto scendere, e gli ha sorriso malignamente. «Li bruceremo!» ha gridato Margaret alzando le mani. «L'ira del Signore cadrà su di loro dal cielo! È ora che questo falso profeta» - ha indicato mio padre, alto e silenzioso tra due guardie - «venga allontanato dalla nostra vista! Abbiamo i mezzi per far piovere morte su coloro che ci portano la morte, e li useremo!» Un gruppo di soldati lì davanti si è alzato e ha puntato le armi, e subito una fila di uomini è apparsa da dietro l'autocarro e si è unita ai ranghi di Margaret. «Uccideteli!» ha ordinato. Gli uomini di Margaret hanno sparato sulle truppe leali. «Due volte!» Mentre i soldati cominciavano a trasformarsi, i soldati di Margaret hanno sparato ancora, riducendoli in polvere. Sono apparsi altri uomini di Margaret, e ben presto hanno circondato
l'assemblea, dalla quale numerosi gruppi di soldati si sono alzati per unirsi a lei. Solo un piccolo contingente di soldati esitanti è rimasto indietro; costretti dalla forza delle armi dei loro compagni hanno accettato con riluttanza di unirsi a Margaret; quelli che si sono rifiutati sono stati uccisi, e uccisi di nuovo. «Questa è follia!» ha urlato mio padre. «Se le permettete di usare le armi nucleari, Lee vi seguirà a nord e vi eliminerà!» Margaret Gray si è rivolta a lui. «Bruceranno. E domattina tu brucerai.» Si è girata e ha puntato un dito contro di me. «E anche tu.» Ha levato le mani sulla folla ammutolita, e ha gridato: «Perché io sono la prescelta da Dio! Io sono colei che vi guiderà tutti alla Sua luce! Questa ragazza vi avrebbe condotto alla morte! I vostri sogni di lei sono falsi! Rinnegateli! Dio ha mandato a me una nuova visione! Io sono colei che vi salverà!» «Sì!» ha urlato qualcuno. «Amen!» Subito un boato di approvazione si è levato dalla folla, e l'ha travolta, e tra la frenetica adulazione che ai loro occhi meritava Margaret Gray, io e mio padre siamo stati portati via. 6 Quella notte, mentre festeggiamenti folli, selvaggi, ebbri, dilagavano tra il Silenzioso Esercito dell'Umanità, mio padre e io guardavamo costruire i roghi sui quali saremmo stati bruciati. Erano alti alberi eretti su grosse zattere, circondati da una piramide di legna secca e paglia. «Sono tutti pazzi,» ha detto mio padre. «Se si rendessero conto di cosa stanno facendo si fermerebbero immediatamente. Margaret Gray è una strega. Li condurrà dritti all'inferno.» Ci avevano legati a un albero, fianco a fianco. Non ci avevano dato da mangiare. Talvolta passava qualcuno che ci vomitava addosso insulti, qualcuno che solo un giorno prima aveva trattato me e mio padre con tanto rispetto. Adesso erano stati presi da una vera e propria febbre, una possessione dalla quale forse non si sarebbero svegliati. «Muori!» ha gridato un bambino. Era uno di quelli con i quali giocavo, un bambino dai capelli biondi e profondi occhi azzurri. Con la faccia contorta in una brutta smorfia ha raccolto una pietra, e l'ha lanciata, colpendomi a una guancia. Ho sentito un dolore bruciante.
«Muori, strega!» ha gridato una bambina di non più di cinque anni, gettando un'altra pietra. La nostra guardia, un omaccione di mezza età con la barba lunga di qualche giorno che continuava a grattarsi, mandò via i bambini a calci, ridendo. Appoggiato a un grande albero, ha cominciato a parlare, in tono pratico. «Io facevo questo per vivere. Penitenziario di Stato del Nevada.. Iniezione letale.» I suoi lineamenti erano grossolani, e camminava quasi come un'anatra. D'un tratto ci ha guardato, e nei suoi occhi non ho visto la follia che mi aspettavo. «Impari a conoscere,» ha detto, sfregandosi la barba, «chi è colpevole e chi no. La maggior parte è colpevole. Salta sempre fuori alla fine.» Ha riso, guardando lontano. «La fine.» Mio padre e io abbiamo guardato verso i roghi in costruzione, e la guardia ci ha imitati. «Li accenderò io, quelli, domani,» ha detto. «Veramente sono stati un'idea mia. Margaret Gray voleva qualcosa di... esotico.» È scoppiato a ridere. «Mi sono unito a quest'esercito giù nell'Illinois. Scommetto che non mi avete mai notato. Non mi sono messo troppo in mostra, non mi piace venire coinvolto. Ma per questo lavoro ho dovuto offrirmi volontario.» Ha riso di nuovo. «La verità è,» ha detto mentre la risata si smorzava, «che sono probabilmente l'unico uomo rimasto vivo che può tirarvi fuori da qui.» Mio padre e io l'abbiamo guardato. La sua faccia era assolutamente seria. «Oh, sì. Non sono l'unico. C'è una piccola banda, ha sentito quello che Margaret Gray aveva intenzione di fare. Zitta zitta è da settimane che sta rimettendo insieme la sua gente. Quel gruppetto è partito stamattina, prima dello scontro. Aspettano circa cinque miglia a nord di qui. Piuttosto ben equipaggiati, anche.» Ha guardato mio padre. «Gli ha insegnato bene, Colonnello.» «Ti ascolto,» ha detto mio padre. «Il fatto è,» ha continuato l'omone massaggiandosi il mento, «che se non agiamo bene, non farà un accidente di differenza. Potrei liberarvi adesso. Ma io sarei morto in venti minuti, e Margaret Gray vi darebbe la caccia. Vi manderebbe contro tutto l'esercito, se fosse necessario. Specialmente contro la ragazzina. Ha molta paura della ragazzina. «Per come la vedo io, Colonnello, quando Margaret Gray attaccherà Lee con le armi nucleari tra due giorni, Lee distruggerà il suo esercito dove si trova usando solo le forze aeree stanziate in California. Sono sicuro che lei ci aveva pensato, visto che la sua idea era di servirsi del grosso del nostro
esercito come diversivo mentre tutti gli altri si dirigevano a nord.» «È esatto,» ha confermato mio padre. L'omaccione ha sorriso. «Non sono così stupido. Riserva dell'esercito, quattordici anni. Bel modo di allontanarsi dal penitenziario durante i weekend. Ma Margaret Gray scoprirà che vaporizzare tutto quel gruppo di scheletri a Grants Pass significa firmare la propria condanna a morte, perché c'è un sacco di altri scheletri per equipaggiare quei bombardieri e spazzarla via dovunque si trovi, anche se cerca di scappare; allora sarà troppo tardi.» L'omaccione mi ha guardato in faccia. «Margaret Gray ha dimenticato lo scopo. Non è uccidere gli scheletri. È far arrivare questa ragazzina su a nord, dove deve andare.» Mio padre non ha detto nulla. «Come ho detto» - l'omaccione si è messo a ridere - «non sono così stupido. È solo che quasi tutta questa gente, qui, ha paura. Non vogliono morire, e i sogni dicono che moriranno. Preferiscono ascoltare una svitata come Margaret Gray, che dice loro quello che vogliono sentirsi dire. Io ho cominciato a sognare per conto mio, in Illinois. La tua ragazzina, qui, ha qualcosa di davvero speciale.» «Sì,» ha detto mio padre. L'omaccione si è dato una grattata alla corta barba. «Beh, comunque ecco cosa faremo. Domani io vi dò fuoco.» Si è avvicinato dondolando. «Solo che non bruciate. Montiamo un grande spettacolo, tutti applaudono, Margaret Gray pensa che siete morti, e tutti noi facciamo il nostro dovere. A proposito, io mi chiamo Earl.» Mi ha fissata ancora. «Sogni,» ha detto. 7 E così il mattino seguente, al fiammeggiante sorgere del sole, siamo stati bruciati al rogo. Ne hanno fatto un grande spettacolo. Earl aveva indossato una tunica e un cappuccio nero, e guardava dritto avanti a sé con espressione ottusa, mentre ci conduceva dal nostro albero alla spiaggia di Malheur Lake. Gli alti alberi delle nostre pire si levavano dritti, e le piattaforme aspettavano che venisse appiccato il fuoco per essere fatte scivolare in acqua rotolando sui tronchi. Margaret Gray guardava impassibile mentre ci conducevano alle zattere. Ci hanno fatto salire con delle scale fino in cima agli alberi, su una piramide di sterpi.
Earl mi ha seguita sulla scala, e mi ha legato le mani dietro la schiena con un nodo lento. «Guarda giù, svelta,» ha detto. Ho guardato giù, e ho visto che aveva aperto un buco che scendeva come un tunnel in mezzo agli sterpi, e un buco nella zattera sotto di essi. «Ricorda ciò che ti ho detto,» ha detto stringendomi una mano prima di scendere per ripetere l'operazione con mio padre. Quando ha finito si è tirato indietro. Margaret Gray è salita sulla mia pira e ha alzato le mani. Tutti hanno fatto silenzio. «Quest'oggi,» ha detto Margaret, «il nuovo genere umano inizia a germogliare!» Ha fatto un gesto verso di me. «Questa bambina, che per mano di quest'uomo,» - e il gesto ha incluso mio padre, legato in cima alla sua pira - «ci avrebbe condotti alla morte, ora scomparirà dalla nostra vista! Verranno bruciati! Le loro ossa verranno bruciate!» La sua voce si è levata in uno strillo. «Le mie visioni mi hanno detto che io vi guiderò alla vittoria e alla salvezza!» Le acclamazioni si sono estese dalla folla a tutto l'esercito, che ha sparato in aria con i fucili. Dal fondo, i cannoni rimbombavano in saluto. «Che brucino!» ha strillato Margaret Gray, scendendo dalla pira, mentre Earl vi saliva con una candela sottile accesa. L'ha avvicinata al fondo del mucchio di sterpi, e mi ha rivolto una breve occhiata. Poi è passato alla pira di mio padre, le ha dato fuoco, ed è saltato giù mentre i soldati avanzavano per spingere le pire sui rulli nel lago. La mia pira è stata spinta in acqua e si è allontanata pigramente dalla riva. Le fiamme lambivano tutta la base del legno, mandandomi su un'ondata di fumo. Quando il fumo si è diradato ho visto il bagnasciuga coperto di soldati acclamanti, e fra di loro Margaret Gray, con lo sguardo fisso e le braccia conserte. Earl era in piedi accanto a lei. Mentre il fumo mi investiva ancora, ho visto Earl che si allontanava tra la folla. Mio padre ha gridato: «Ricorda quello che ti ha detto!» Le fiamme crepitavano su per la pira, io ero avvolta da spirali di fumo. La spiaggia si è rimpicciolita e si è persa nella nebbia. Io ho controllato i nodi che mi legavano. Ho fatto scivolare una mano, e poi l'altra, fuori dalla corda. Con un calcio mi sono liberata della corda che mi legava i piedi, e sono rimasta attaccata all'albero, sostenuta dai bastoncini che formavano una specie di griglia sul buco. Il fumo mi faceva tossire.
«Aspetta finché le fiamme salgono abbastanza in alto da sentirne il calore!» ha detto mio padre, con la voce strozzata dal fumo. Ho guardato giù. Il fuoco aveva già consumato mezza pira, passando da un legno scoppiettante all'altro. Sotto di me il buco era pieno di folate di fumo. Per un terribile attimo ho avuto la sensazione che il buco non ci fosse più, che quando avessi cercato di togliere i bastoncini, questi mi avrebbero bloccata lì, preda del fuoco. «Pronta!» ha tossito mio padre. Il fumo si è diradato di fronte a me. La spiaggia era lontana. Si sentivano le grida di «Brucia! Brucia!» Una lingua di fuoco mi ha lambito i piedi. «Adesso, Claire!» ha gridato mio padre. Ho lasciato andare l'albero dietro di me. Ho scalciato per allontanare i bastoncini, mi sono coperta la faccia con le mani, ho chiuso gli occhi, e mi sono lasciata cadere. Gli sterpi mi hanno graffiato le braccia e le gambe, il fumo mi faceva venire i conati di vomito. Per un istante mi sono sentita sospesa, poi l'acqua mi ha colpito, e sono affondata sotto la superficie del lago. Ho aperto gli occhi. La zattera beccheggiava sopra di me. Ho nuotato verso l'esterno e mi sono allontanata. I polmoni mi dolevano per la mancanza d'aria, e allora sono salita in superficie e ho tirato fuori la testa. Ero dietro la zattera, come dovevo, e la spiaggia era distante. Di fianco a me mio padre è salito in superficie, mi ha fatto un cenno, e si è immerso di nuovo. Io l'ho seguito. Abbiamo nuotato, lasciandoci la riva alle spalle, e ci siamo diretti verso quella opposta. 8 Siamo rimasti a guardare le nostre pire che bruciavano in mezzo al lago, al debole, lontano suono delle acclamazioni. Nere spirali di fumo si svolgevano nel cielo. I roghi bruciavano furiosamente, gli alberi erano avvolti nel fumo e nelle fiamme. «Proprio in questo momento dovremmo morire la seconda volta,» ha detto mio padre. «Tu stai bene, Claire?» Eravamo sdraiati sull'argine. Mio padre ha guardato se avevo tagli o abrasioni, ma avevo solo dei graffi sulle braccia, e niente di grave. Mio pa-
dre aveva uno squarcio in una gamba, e un livido dove aveva battuto contro lo spigolo del buco cadendo in acqua. A parte quello, era illeso. Mio padre si è alzato, e io l'ho seguito nei boschi, nel folto degli alberi, poco discosto dalla spiaggia, dove Earl ci aveva detto che avremmo trovato abiti, zaini pieni di cibo e provviste, e due sacchi a pelo. «Earl ha fatto bene il suo lavoro,» ha detto mio padre. Dopo essersi infilato lo zaino e avermi aiutato col mio, mio padre ha rivolto un ultimo sguardo all'Esercito dell'Umanità, dall'altra parte del lago. «Saranno distrutti, lo sai?» ha detto tristemente; poi ci siamo allontanati verso nord. Una pattuglia di scheletri, probabilmente un altro gruppo di disertori dell'esercito di Lee, ci ha attraversato la strada nel tardo pomeriggio. Tenevano sotto controllo una cittadina annidata tra due porzioni di foresta di pini, ed erano tutti evidentemente ubriachi. Una fila di auto era ferma all'entrata della città, e a due a due gli scheletri ubriachi stavano facendo le gare lungo l'unica via della città. Un semaforo costituiva la loro linea di partenza. Mentre guardavamo un Dodge Caravan e un Plymouth Voyager si sono disposti sulla linea di partenza in attesa che il semaforo diventasse verde. Quando è scattato, tra urla e risate, i due furgoni sono partiti, e hanno guadagnato lentamente velocità. All'estremità opposta della via, un mucchio di auto distrutte testimoniava delle gare già finite. I due automezzi erano appaiati, poi il Dodge è andato in testa. Improvvisamente il Voyager ha cominciato a sbandare, e ha picchiato contro la fiancata del Dodge. I due veicoli si sono separati. La portiera laterale scorrevole del Dodge si è aperta, e uno scheletro è volato fuori. Ha fatto una capriola, si è schiantato a terra, ed è andato in polvere. «Wow!» ridevano gli spettatori ubriachi. Il Voyager ha continuato con un ruggito. Il Dodge ha frenato bruscamente, colpendo e saltando il cordolo, e infilandosi nella vetrina di uno spaccio. Il Voyager ha oltrepassato la linea d'arrivo, e si è fermato con grande stridore di freni. Il guidatore è saltato giù, è salito sul tetto del furgone e ha alzato le mani in segno di vittoria. Il pubblico ha gridato, riso, e poi altre due auto, due station wagon, si sono fermate sulla linea di partenza. Abbiamo aggirato la città e abbiamo proseguito. Quella notte ci siamo fermati in un motel abbandonato, vicino a un'autostrada deserta. Le chiavi erano ordinatamente appese a un pannello di le-
gno nell'ufficio aperto. Abbiamo optato per la penultima stanza. Mio padre ha preso tutte le chiavi e le ha gettate in un cassetto, tranne la nostra. «Non sembra che ci sia stato qualcuno di recente, ma non voglio correre il rischio che vengano a controllare,» ha detto. È stato bello sdraiarsi in un vero letto. Mio padre ha provato ad accendere il televisore, ma funzionava un canale solo e stava trasmettendo dei cartoni animati. Più tardi, prima che ci addormentassimo, nel corso di un breve notiziario un annunciatore scheletro ha parlato di un servizio su un'imminente azione contro gli umani nel nord-ovest. «Si crede,» ha detto l'annunciatore, «che l'ultimo grosso esercito umano si stia radunando per la battaglia. Il Presidente Lincoln ha dichiarato che se la battaglia sarà vinta, allora la guerra può considerarsi effettivamente finita, tranne che per operazioni di rastrellamento in Alaska. E ora lo sport...» Mio padre ha spento il televisore, e abbiamo dormito. Il mattino dopo, di buon'ora, ci siamo incamminati. Nella cittadina successiva, due miglia a nord del motel, abbiamo trovato quello che cercavamo. In un salone di esposizione di Jeep, in parte danneggiato, con la vetrina sfondata, c'era una 4x4 col serbatoio pieno a metà. «Con questa possiamo restare lontano dalle strade,» ha detto mio padre. Le chiavi erano nella scrivania di un ufficetto sul davanti del salone. Siamo saliti e il motore è partito immediatamente. Mio padre ha sorriso e ha messo la prima. Siamo passati sui vetri rotti, attraverso la vetrina, e fuori sulla strada. Una pattuglia di scheletri si è fermata nella via di fronte a noi. Mio padre ha spento il motore. «Giù, Claire,» ha detto, spingendomi sotto il sedile e acquattandosi accanto a me. Abbiamo sentito i furgoni passare diretti verso est, per quella che mi è sembrata un'ora, e finalmente c'è stato silenzio. Abbiamo messo fuori la testa. L'ultimo furgone si stava allontanando. «Stanno andando da Margaret Gray...» ha cominciato a dire mio padre. Ho sentito un rumore. Quando mi sono girata, c'era un soldato scheletro, appena uscito da un negozio, con in mano una borsa piena di cibarie; si stava portando alla bocca un pacchetto di frittelle aperto. Si è fermato e mi ha guardato. Vicino a me, mio padre era svanito. Sono rimasta immobile, e l'ho guardato. Lentamente ha messo giù il cibo, e si è rialzato. Dietro di lui ho visto il suo furgone parcheggiato vicino al negozio. «Bene, bene,» ha detto. «Sono settimane che non vedo uno di voi.» Ha
portato la mano alla cintura. «Potrebbe anche tornare utile.» Mio padre è apparso alle sue spalle, e ha preso il soldato da dietro in una stretta mortale. In un attimo, dove prima c'era il soldato, adesso c'era un mucchietto di polvere. «Dobbiamo fare un po' più d'attenzione,» ha detto mio padre. Abbiamo guardato nel furgone del soldato, e abbiamo trovato un magazzino di armi. Mio padre ha preso fucili, un mortaio, un'arma anticarro, munizioni; ha caricato tutto sulla 4x4, e siamo partiti. A una stazione di rifornimento alla periferia della città abbiamo trovato quattro grosse taniche, le abbiamo riempite di carburante, e le abbiamo aggiunte alle nostre scorte. «E adesso andiamo nei boschi, Claire» ha detto mio padre, uscendo di strada. Guidare era difficoltoso, ma c'erano dei sentieri, e a volte anche strade sterrate che al paragone sembravano di liscio asfalto. Nel tardo pomeriggio siamo usciti dai boschi su un'alta cresta. Mio padre ha spento il motore e siamo scesi. In una valle sotto di noi c'era un enorme esercito di scheletri che stava smontando il campo. «Devono essere cinquantamila,» ha detto mio padre. Lunghi mezzi cassonati stavano uscendo dalla valle diretti a est, mentre il resto del campo veniva smantellato. Era uno spettacolo imponente, colonne di carri armati in moto, centinaia di autocarri, obici, cannoni. «Tutto si spiega,» ha detto mio padre. «Quel gruppo che abbiamo incontrato prima era l'avanguardia. Devono aver trovato Margaret Gray.» Sotto, dalla tenda più grande, una figura alta è uscita per sorvegliare la scena. Non eravamo vicini, ma il sudario delle sue fattezze mostrava una barba bianca, tagliata corta. «Quello è Lee,» ha detto mio padre. Uno squadrone di caccia è passato sopra di noi con un rombo di saluto, seguito da cinque elicotteri che fendevano l'aria. Lee li ha guardati, poi si è voltato a osservare la linea serpeggiante degli autocarri che si allontanava, ed è rientrato nella sua tenda. «Dobbiamo allontanarci il più possibile da qui, Claire,» ha detto mio padre. Siamo tornati alla nostra 4x4 e abbiamo svoltato verso nord. 9
Quella notte, duecento miglia più a nord, appena passato il Columbia River, nello stato di Washington, abbiamo trovato un altro motel. «Comincio ad abituarmi alle comodità, sai, Claire?» ha detto mio padre, sorridendo. Lì vicino c'era un'altra città abbandonata. Alla televisione Lincoln stava concludendo un incontro col suo gabinetto, un insensibile segretario alla guerra che si rifiutava di rispondere alle domande dei reporter. Mentre usciva dalla stanza Lincoln ha detto semplicemente: «Presto, Dio volendo, lo sapremo.» Dopodiché la stazione ha smesso di trasmettere. Ho dormito male, e mi sono svegliata nel mezzo della notte. Mio padre era seduto alla finestra, e guardava fuori. Aveva un'espressione così triste e solitaria che sono scesa dal letto, sono andata da lui e gli ho messo la mano sulla spalla. Lui si è girato verso di me. «È un mondo triste, questo, vero, Claire?» ha detto. Io ho annuito. Si è voltato ancora verso la finestra. D'un tratto, il mondo esterno si è acceso di un lampo accecante. Mio padre ha imprecato, mi ha messo una mano davanti agli occhi e mi ha gettato sul pavimento. Ho fatto appena in tempo a vederne il contorno: una nuvola enorme, che saliva e si allargava, e formava una spirale in cima, luminosa e brillante. Mio padre mi ha tenuta a terra, contando i secondi. Al venti c'è stata un'esplosione che ha fatto tremare i muri del motel. Un'ondata di tuono è passata come un terremoto sopra di noi. «Mio Dio, quella puttana l'ha fatto davvero,» ha detto mio padre. Dieci minuti dopo c'è stato un altro lampo accecante di luce. Di nuovo mio padre ha contato, e al venti c'è stata un'esplosione e un tremendo spostamento d'aria. «Sessanta miglia,» ha detto mio padre. «Grazie a Dio, possiamo vederlo e sentirlo, ma non ci farà del male.» Mezz'ora dopo ce n'è stato un terzo, poi silenzio. «Stai giù, Claire.» Mio padre è andato strisciando fino al televisore e l'ha acceso. L'immagine si è stabilizzata sulla scena ripresa da lontano da un elicottero, una nube che si allargava a forma di fungo, un paesaggio illuminato a giorno da una luce verde. Il fungo restava pigramente sospeso nell'aria. «...e questa terza esplosione» - diceva una voce frenetica al di sopra del
rumore dell'elicottero - «a dieci miglia, questa è arrivata proprio in mezzo al terzo reggimento di Lee, e l'ha annientato. Le prime due, come abbiamo detto, erano una troppo corta e l'altra troppo lunga. La prima ha distrutto la città abbandonata di Harvard, Oregon, la seconda ha colpito uno stabilimento e una zona industriale, vuoti per la notte. Si tratta di bombe da dieci megatoni, armi tattiche nucleari. Washington ritiene che gli umani abbiano potuto impossessarsi di tre, forse quattro o persino cinque di questi congegni. Sono stati trafugati dalle attrezzature di Rocky Flats, vicino a Omaha, due settimane fa. Fino a questo momento non si credeva che l'esercito umano avesse la forza lavoro, la capacità, o la volontà di usarli. Come abbiamo detto queste bombe sono di dieci...» L'immagine dall'elicottero ha subito un'oscillazione. La voce si è fatta più alta, addirittura più frenetica. «C'è... un'altra esplosione! Alla nostra destra! Gira la telecamera, gira la... mio Dio, guarda là!» La telecamera ha ruotato pazzamente e si è voltata proprio sulla luce dell'esplosione in atto. L'elicottero ha virato tra le grida del cameraman e del reporter. «Crediamo che... oh!» La luce si è intensificata. Fuori dal nostro motel il cielo ha lampeggiato, e il lampo è stato seguito venti secondi dopo da un boato. L'immagine del televisore è scomparsa per lasciare il posto a uno scheletro seduto alla scrivania del notiziario. «Abbiamo perso le immagini della quarta esplosione nucleare nel corso di questa grande battaglia.» Lo scheletro ha portato una mano all'orecchio, e ha ascoltato al ricevitore. «Passiamo la parola a Fox Madlin, dal Pentagono.» L'immagine è cambiata, uno scheletro ha guardato verso destra, e poi nella telecamera. «Qui è Fox Madlin. Il Generale Winfield Scott, comandante dei capi di Stato Maggiore riuniti, mi ha appena riferito che la quarta esplosione nucleare proveniva dall'interno del campo nemico. Si ritiene cioè che la quarta esplosione nucleare sia avvenuta all'interno dell'esercito umano, mentre stavano sparando il missile. Mi dicono che è una distinta possibilità, che se la testata è stata armata non correttamente, o se il missile è stato sparato non correttamente, la bomba nucleare può innescarsi al momento del lancio del missile. Se è così, allora sembrerebbe che la maggior parte, se non tutta, del cosiddetto Esercito dell'Umanità è stata... aspettate un momento...» Uno scheletro è apparso sulla scena accanto al giornalista. Il vago su-
dario mostrava una vecchia faccia cavernosa coperta da un imponente cappello militare del 1800. Fox Madlin si è rivolto alla telecamera. «Abbiamo qui con noi il Generale Scott...» «È finita,» ha detto il Generale Scott senza mezzi termini. «Ho informato il Presidente. L'Esercito dell'Umanità è stato completamente distrutto. C'è ancora un'operazione in Alaska da portare a termine, della quale però in questo momento non sono in grado di parlare, e poi...» L'immagine è cambiata ancora all'improvviso, ed è ritornata la voce del primo annunciatore. «Adesso abbiamo le immagini...» Sullo schermo le riprese da un elicottero, e la voce del reporter sull'elicottero, adesso meno frenetica. «Credo proprio che... sì, siamo in onda? Salve, sono Ralph Bagler, in volo sopra la zona della quarta esplosione.» Si è messo a ridere. «Devo dire che abbiamo avuto paura di diventare polvere, per qualche minuto.» Il cameraman stava riprendendo un vasto cratere circondato da un paesaggio familiare: le rive del Malheur Lake. Il cratere giungeva fino alla sponda del lago, e l'acqua stava creando nel cratere un altro lago più piccolo. «Credo che abbiamo delle riprese da terra.» L'immagine è cambiata ancora. Una telecamera a spalla riprendeva una fila di scheletri che venivano aiutati ad uscire dal ciglio di un grande buco: sullo sfondo ancora il Malheur Lake, coperto di macerie e polvere galleggianti. Un microfono è stato spinto davanti alla faccia dello scheletro più vicino. «Come ci si sente a essere convertiti?» chiede la voce di un giornalista. Lo scheletro sembrava sorpreso. «Eh? Oh, bene. Dopo essere stato fatto saltare in aria da una bomba atomica, qualsiasi altra cosa va bene.» Il giornalista ha ridacchiato. «Un po' violento, eh?» Lo scheletro si è stretto nelle spalle. «Adesso non importa. Abbiamo pensato noi ai bastardi che ci hanno messo in questo pasticcio.» «Cosa vuol dire?» Il microfono è stato spinto più vicino. Lo scheletro ha sorriso. «Una pazza e i suoi seguaci. Sono assolutamente sicuro che li abbiamo polverizzati tutti. Continuava a farneticare sulla rinascita dell'umanità e cose del genere.» Lo scheletro ha scosso la testa. «Non c'era altro da fare.» «Ha paura degli effetti a lungo termine delle radiazioni?»
Lo scheletro ha riso. «Quando sei già morto, cosa diavolo cambia?» «Va bene, grazie.» Il microfono si è spostato verso un altro scheletro che stava uscendo dal buco. «E lei cosa pensa, signora?» Mio padre ha spento il televisore. «È andata così,» ha detto tristemente. «Dormi un poco, Claire. Domattina continueremo verso nord.» Mi ha guardata andare a letto. «Buonanotte,» ha detto. Più tardi mi sono svegliata ancora, e ancora l'ho visto alla finestra, che fissava tristemente l'interminabile notte. 10 Il mattino, quando mi sono svegliata, ho creduto che la stanza fosse piena di fumo. Non riuscivo a vedere. I miei occhi registravano solo una luce vaga e indistinta. Quando mi sono seduta nel letto e mi sono sfregata gli occhi, la nebbia gradatamente è scomparsa, e ho visto. Mio padre era ancora seduto alla finestra, con la testa tra le mani. Ho pensato che dormisse. Invece, quando sono scesa dal letto, ha sollevato la testa e ha detto: «Sono cieco, Claire. Stanotte, è stata la prima esplosione. È successo circa tre ore fa. Ho aspettato per vedere se mi tornava la vista, ma non è stato così.» Mi ha guardato, senza vedermi. Io mi sono avvicinata e l'ho abbracciato. «I tuoi occhi sono a posto?» mi ha chiesto. Gli ho stretto la mano in risposta. «Bene. Adesso ti aspetta un arduo compito, Claire.» Abbiamo mangiato, bevuto un po' d'acqua, e fatto i bagagli. Fuori, sulla 4x4, mio padre ha cercato di insegnarmi a guidare, ma non sono stata capace, cambiare marcia era troppo difficile. «A piedi, allora,» ha detto mio padre. Siamo partiti, camminando nella corsia di emergenza dell'autostrada, e ci siamo diretti a nord. A mezzogiorno siamo stati oltrepassati da alcuni automezzi guidati da scheletri. Mio padre li ha sentiti prima di me, e ci siamo nascosti con facilità oltre il ciglio della strada. «È meglio che preghiamo per avere un po' di fortuna, Claire,» mi ha detto. Poco dopo si è avvicinata un'altra auto, da lontano. Di nuovo mio padre ha avvisato che dovevamo nasconderci. Ma l'auto si è fermata al bordo
della strada, dalla parte opposta. Ne è sceso un umano, canticchiando tra sé e guardandosi attorno con circospezione, e si è diretto contro l'argine per liberarsi. Ho stretto la mano di mio padre. «Cosa c'è?» mi ha chiesto. «Stringimi ancora la mano se è umano.» Gliel'ho stretta ancora. «Stammi vicino.» Siamo usciti dal fossato, e io ho guidato mio padre attraverso l'autostrada, dall'uomo che si stava tirando su la cerniera. L'uomo ha smesso di canticchiare, si è girato di scatto, e aveva in mano una pistola. «Che io sia...» ha detto. «Salve,» ha detto mio padre. «Noi siamo...» «Lo so io chi diavolo siete,» ha detto l'uomo sorridendo. «Siete i primi dannati umani che vedo da dieci giorni.» Mi ha fissato. «E ho visto te nei miei sogni.» Ha attraversato la strada e ha teso la mano. «Felice di...» Quando mio padre non gli ha teso la mano, si è fermato, aggrottando la fronte. «Cos'ha che non va?» mi ha chiesto. Io l'ho guardato. «Non ci vedo,» ha risposto mio padre. «E lei invece, che cos'ha?» «Lei non parla.» L'uomo si è voltato e si è diretto all'auto. «Aspetti!» ha gridato mio padre. L'uomo è salito e ha acceso il motore. Mio padre ha fatto alcuni passi di corsa, ha allungato le mani alla cieca. «Mi dispiace, non posso...» ha detto l'uomo. Ha portato l'auto in strada, ed è partito. Poi, d'un tratto, ha frenato facendo stridere i pneumatici. È sceso, si è fermato a guardare indietro verso di noi, e ha sorriso. «Cosa succede, non sapete accettare uno scherzo?» ha gridato infine. Mio padre e io abbiamo raggiunto l'auto e siamo saliti sul sedile posteriore, spostando pile di scatole di cartone nero e casse di campionari. Anche il sedile di fianco al guidatore era pieno di scatole, e scatole coprivano un telefono cellulare montato tra i sedili davanti. L'uomo è ripartito velocemente, e ha detto: «Scusate per lo scherzo. Non è stato molto divertente.» Ha guardato nello specchietto retrovisore e ha sorriso. «Non avrete
pensato che vi avrei lasciato lì, vero?» «Sì,» ha risposto mio padre. L'uomo ha riso. «Ha funzionato! Davvero, però, mi spiace. Vi ho giocato uno sporco scherzo. Ma non ho potuto farne a meno. Da mesi non faccio altro che scappare. Un tempo ero un commesso viaggiatore. Bigiotteria, ciondoli, articoli di moda, sciocchezze del genere. Washington, Oregon, Montana, Idaho, parte del Nevada, e il nord della California. Conosco ogni negozio di articoli di moda e ogni buco che vende ninnoli in un quinto degli Stati Uniti. Uno dei migliori negozi di scherzi è su a Seattle, sul fiume, nel mercato della sotterranea. Roba grande. Ne ha anche sempre comprata molta da me. Aprite una di quelle scatole là dietro, se volete, servitevi.» Ho sollevato un coperchio di cartone sottile, e ho iniziato ad aprirlo. «Uh-oh,» ha detto il guidatore. «Aspetta.» Ha rivolto uno sguardo feroce allo specchietto, ha sterzato bruscamente via dalla strada, e giù fino al fossato oltre la corsia di servizio. «State assolutamente fermi e zitti per qualche minuto. Vi sarei grato se abbassaste anche un pochino la testa.» Lui stesso si è abbassato sul sedile, e noi l'abbiamo imitato. Ho sentito un rombo e ho visto la parte superiore di tre automezzi sfrecciarci accanto sulla strada. «Ancora alcuni secondi, per favore,» ha detto il commesso viaggiatore. Ha contato fino a dieci, poi ha detto: «Tutto bene! Via libera!» Ha riacceso il motore e ha riportato l'auto in strada. Ho finito di aprire il coperchio della scatola. All'interno c'erano delle sezioni separate da divisori di cartone, scomparti contenenti sacchetti di cellofan, con dentro nasi rossi da clown, e nasi azzurri e neri. I nasi erano fatti di gommapiuma e avevano una fessura per poter essere infilati. «Avanti, continua a scavare!» ha detto il commesso viaggiatore dal sedile anteriore. Un'altra scatola conteneva scherzi e trucchi, fiori a spruzzo, cicalini a mano, gomme scoppiettanti. Un'altra era piena di bigiotteria di plastica per bambine, cavallini e ciondoli a forma di fiori; un'altra era una scatola di palloncini. «Roba buffa, eh?» ha detto il commesso viaggiatore, poi, ancora, ha detto: «Uh-oh,» e si è precipitato nel fossato. Noi ci siamo abbassati nei sedili. Quando il commesso è ritornato in strada, mio padre ha detto: «Perché prendi le autostrade?»
Il commesso viaggiatore ha guardato nello specchietto. «La risposta è semplice. Prima ho pensato fra me, le strade secondarie saranno più sicure. Ma non è così. Innanzitutto solo un idiota in questo momento percorrerebbe le strade principali. E nessuno ha tempo di badare a un idiota. Gli scheletri dell'esercito stanno rastrellando tutte le strade secondarie in cerca di gente come noi. Le prime settimane ne ho visti a centinaia catturati in quel modo. Secondo, adesso non ha più molta importanza, perché comunque di umani non ne sono rimasti quasi più. E terzo conosco ogni buco in cui nascondersi da qui a Vancouver, ogni posto di controllo della velocità della polizia, ogni strada che viene frequentata e da chi. È il mio lavoro.» «Dove stai pensando di andare?» Il commesso ha guardato nello specchietto. «Vi dispiace se ci chiamiamo per nome?» ha detto giovialmente. «Io sono Benny Sullivan. E voi...?» «Io mi chiamo Coine, e questa è Claire,» ha risposto mio padre. Il commesso ha annuito. «Piacere di conoscervi. Per rispondere alla tua domanda, sto andando a Coos Bay, dove c'è un vaporetto che mi aspetta per portarmi nel Canada del nord. Poi ho intenzione di andare a vivere nella zona più selvaggia che riesco a trovare, e non vedere mai più né un umano né uno scheletro.» «Puoi fidarti del vaporetto?» ha domandato mio padre. Sullivan ha sghignazzato. «Stai scherzando? Quella nave è pilotata dal mio più vecchio amico. Ha trasportato chincaglierie fin dal primo giorno da Taiwan, dalle Filippine, dal Giappone, durante i vecchi tempi quando si stavano tirando fuori dalla Seconda Guerra Mondiale e facevano un sacco di articoli, e radio, a basso costo. Vi parlo di quarant'anni fa. Diavolo, prima che quella nave trasportasse paccottiglia, caricava tabacco dal Camerun, tè da Ceylon, pelli da Vancouver. Conosce ogni porto dalla Turchia a Tijuana. Sa come superare tutte le guardie costiere del mondo, quelle che non sono state corrotte. Il capitano è un gran personaggio. Vi innamorerete.» «Come fai a sapere che questa persona non è uno scheletro?» «Lo so,» ha risposto Sullivan, convinto. «Come?» «Sei un tipo insistente, per essere un autostoppista, sai?» Ha sospirato. «È facile.» Ha allungato la mano, ha frugato sotto le scatole di cartone tra i sedili, e ha sollevato il ricevitore del telefono cellulare. «Quando parlate con gli scheletri, sono diversi da noi. All'inizio sem-
brano uguali, ma certe cose li mandano in bestia. Quando dite loro di essere umani, sbattono la testa contro il soffitto e cominciano a perdere bava dalla bocca. È come se volessero passare attraverso il filo e staccarti la testa dal collo.» Guidava con una mano sola, e con l'altra premeva alcuni tasti sul telefono. «State a vedere.» Si è sentito un ronzio, poi una voce tranquilla ha risposto. «Pronto.» «Jimmy, sei tu?» All'altro capo c'è stato silenzio, poi la voce, di un tono più bassa, ha detto: «Sullivan.» «Sì, Jimmy, sono io! Come ti vanno le vecchie ossa scricchiolanti, amico?» «Sei ancora...» «Sì, Jimmy, ancora umano. Ti piace il suono di questa parola... umano?» Dall'altro capo è venuto un suono soffocato. «.Dove sei!» «Oh, non posso proprio dirtelo, Jimmy. Ci vediamo.» «Ti uccide...» Sullivan ha riattaccato il telefono, interrompendo la voce furibonda. «Capite quello che dico?» ci ha detto il commesso viaggiatore. «Adesso, ascoltate questa telefonata.» Sullivan ha composto un altro numero, e ha aspettato che qualcuno rispondesse agli squilli. «Pronto?» ha detto una voce esitante. «Bert?» «Benny, sei tu?» ha detto una voce roca. «Puoi scommetterci, Bertie.» La voce roca ha riso. «Come te la passi, Benny?» «Proprio come piace a te.» La risata non era ancora cessata. «Allora ce la fai oppure no? Domani notte, o dovrò lasciarti a terra. E sai che non voglio farlo, Benny.» «Sì, lo so.» «Diavolo, in questo momento sono a cinque miglia dalla costa, ma questa settimana mi hanno abbordato solo due volte. Si stanno stancando di non trovare niente. A dirti la verità io mi sto stancando di nascondermi in quella stiva. Diavolo, Chub puzza come sempre.» Sullivan si è messo a ridere. «Chub! Come sta quel vecchio gorilla?» «Bene, proprio bene. Allora quando ci vediamo, ragazzo?» «Verso il tramonto, credo. Ti richiamo. E Bertie, spero che non ti di-
spiaccia, ma ho un paio di ospiti.» C'è stata una pausa. «Oh?» «Sono a posto, Bertie. Un tipo e sua figlia. Umani come quando sono nati.» «Beh, diavolo, portateli dietro. Possiamo sempre buttarli agli squali. O venderli, giusto? Ti ricordi Cancun, nel sessantotto?» Sullivan è scoppiato a ridere. «Ci vediamo domani, Bertie.» «Hai un appuntamento, ragazzo.» «Ciao.» «Ciao, Benny.» Sullivan ha riattaccato. «Capite cosa voglio dire?» ha chiesto. Mio padre è rimasto a lungo in silenzio. «Sei sicuro che vada tutto bene se veniamo anche noi?» Sullivan ha riso. «Avete sentito, no? Qual è il problema, non vi fidate di me? Pensate che voglia vendervi agli scheletri? O peggio? Aspettate di vedere il vaporetto di Bertie. È un casino! E aspettate di vedere Chub! Hoooeee! Se vi dicessi...» Ha guardato nello specchietto, ha sorriso e ha scrollato le spalle. «Hey, non preoccupatevi,» ha detto. «Potete fidarvi di me. Inoltre» - ha riso «non avete altra scelta.» 11 Sullivan prendeva un frastornante miscuglio di strade principali e secondarie; un momento andavamo a tutta velocità lungo un'autostrada deserta; il momento successivo faceva una brusca deviazione e rimbalzava su una carreggiata sconnessa appena degna di essere chiamata strada. Si è fermato solo una volta, a una stazione di servizio, in una landa arida e brulla; i pini allietavano i pendii delle colline vicine, ma la conca nella quale eravamo entrati sembrava piena di rocce e polvere. «La stazione di Bob Miller,» ha detto Sullivan con un'ombra di tristezza. Ha guardato oltre la sconsolata stazione di servizio. «Trent'anni fa tutti, a Millerton, appena sopra a quelle colline, si fermavano qui.» Ha indicato la cresta di un'altura gibbosa cosparsa di pini sotto il sole calante. «Hanno chiamato la città come uno dei parenti di Miller nel lontano milleottocento. Bob è stato il primo ad avere il carburante nella zona. Quello che è diventato un garage, allora era solo uno spaccio. È sempre stato un tipo solitario.»
Sullivan ha fatto benzina, percorrendo con lo sguardo la stazione polverosa. «Laggiù,» ha detto indicando due fosse scoperte a destra del garage. «Lì ha seppellito i suoi cani. Immagino che ci sia una fossa scoperta anche sul retro, dove è stata sepolta sua moglie, Mary. Non so, spero che stiano bene, ad ogni modo.» Ci ha guardati. «Capite cosa voglio dire? C'è... ancora una parte di loro che siamo noi. Erano noi prima, e anche se sono cambiati...» Ha scosso la testa, ha finito di riempire il serbatoio, ha rimesso a posto l'ugello e siamo ripartiti. Al cadere della notte, quando siamo arrivati, Coos Bay era avvolta nella nebbia. «Scommetto che siete affamati, eh?» ha detto Sullivan. «Abbiamo qualche minuto prima dell'appuntamento con Bertie. Conosco un posticino.» Ci ha portato in un ristorante, che un tempo doveva essere stato elegante. Ma adesso gli interni erano devastati, tavolini e sedie rotti e gettati ovunque, vetri in frantumi che ingombravano il pavimento. Alla parete erano appesi quadri di paesaggi sottomarini che con la luce soffusa dovevano apparire meravigliosi: ondeggianti ventagli di alghe, colline susseguenti di corallo alabastrino, branchi di guizzanti pesci luna. Adesso le pareti erano tutte macchiate, dietro il banco del bar c'erano bottiglie di whiskey rotte, e si sentiva un odore acre di muffa. «Diavolo,» ha esclamato Sullivan. «Mangeremo qualcosa più tardi, sul battello.» Abbiamo lasciato il ristorante, e Sullivan ha guidato in silenzio per le strade invase dalla nebbia. Poi si è fermato, e io aspettavo che proseguisse. La nebbia si contorceva attorno all'auto, e si spezzava in nuvole entrando dal parabrezza. Io cercavo di guardare, di scoprire dove ci trovavamo, di vedere a quale angolo ci eravamo fermati. «Ci siamo,» ha detto Sullivan. Ho aiutato mio padre a scendere dall'auto. «Sento l'odore dell'acqua,» ha detto. «Parlate a bassa voce,» si è raccomandato Sullivan. Ha infilato un braccio nell'auto e ha suonato il clacson, leggermente, due volte. Non abbiamo sentito nessuna risposta. Ha ripetuto il segnale, e allora abbiamo sentito due suoni bassi, ovattati, di un corno per la nebbia. «È in fondo al molo,» ha sussurrato Sullivan. Abbiamo preso i nostri bagagli dall'auto. Sullivan è andato al baule e ha preso una valigia malconcia. L'ha richiuso, ha guardato sul sedile davanti,
ha frugato tra le scatole dei campionari, ne ha scelta una, l'ha aperta, e ha tirato fuori un lungo serpente di gomma. «Bertie adora queste cose,» ha detto arrotolando il serpente e ficcandoselo in tasca. Ha guardato con malinconia il resto delle merci sull'auto. «Peccato...» Si è voltato lasciando le portiere aperte, e gettando a terra le chiavi dell'auto si è allontanato senza guardarsi indietro. Noi l'abbiamo seguito. D'un tratto sotto i piedi abbiamo sentito le tavole di un pontile, e il frangersi delle onde contro le rocce o i piloni del molo. Io guidavo mio padre, ma vedevo a malapena davanti a me. Improvvisamente Sullivan è scomparso nella nebbia. Io ho proseguito, a tentoni tra le volute della nebbia, guidando mio padre, e sono andata a sbattere contro la ringhiera che si interrompeva. Fuori dalla nebbia beccheggiava la prua di un battello, ormeggiato vicinissimo. Mi sono tirata indietro e ho urtato Sullivan. «Hey, fai piano! Puoi cadere in acqua!» Andando avanti mi sono attaccata al bordo del suo cappotto. Poi ho sentito canticchiare piano, e il mormorio si è avvicinato sempre più. «Fermo lì, amico,» ha detto una voce roca. Sullivan si è fermato. «Mi hai preso, Bertie.» «Stai fermo mentre ti dò una controllatina,» ha detto la voce roca. Improvvisamente, dalla nebbia è uscito lo scheletro di una mano che cercava di afferrare... «Mio Dio!» ha ansimato Sullivan, facendo un salto indietro, contro me e mio padre. «Ha-ha!» ha chiocciato la voce. «Te l'ho fatta, Sully! Dopo tutti questi anni finalmente te l'ho fatta!» Una figura massiccia è balzata fuori dalla nebbia verso di noi. Era una donna, di dimensioni notevoli, con un impermeabile di tela incerata nera col cappuccio tirato indietro sulla testa. Era umana, con una faccia larga, e i capelli tagliati corti. Ha alzato il braccio di plastica da scheletro che teneva in mano. «Me l'hai dato tu nell'ottantadue, non ti ricordi, Sully? Mi hai fatto morire di paura quando me l'hai messo nel letto, mentre stavo giocando a carte sul ponte. Sei salito a bordo con quella dannata cosa! Ha-ha! Ti ho ripagato bene, non credi?» Sullivan, che stava cominciando a riprendersi, ha fatto segno di sì e ha sorriso. «Mi hai ripagato davvero bene, Bertie.» Ha preso il serpente di gomma dalla tasca, l'ha guardato con occhi tristi, e l'ha gettato in acqua.
«Non mi prenderò nemmeno la briga di provare con questo, dopo quello che è successo.» «Ha-ha!» Sullivan ci ha presentati. «Questo è il Colonnello Coine, e questa è sua figlia Claire.» «Così...» Bertie ci ha osservati, e ha tenuto gli occhi fissi su di me. «È proprio lei, va bene.» «Cosa vuoi dire?» ha domandato mio padre. «L'ho sognata.» Bertie si è girata e si è confusa con la nebbia. «Andiamo, Sully, venite a bordo, tu e i tuoi amici.» Ci siamo avviati dietro di lei, e d'un tratto c'era una passerella, col corrimano di corde, che portava al solido ponte di una nave. In fondo alla passerella Bertie ci aspettava. Non appena siamo arrivati sul ponte ha smontato la passerella e l'ha tirata dentro, poi è sparita nella nebbia. L'abbiamo sentita salire dei gradini, chiudere una porta. Dopo un momento c'è stato un rumore forte, poi un sibilo, seguiti da un basso ronzio costante. La nave si è mossa. «Dite addio alla terraferma,» ha detto Sullivan fissando nella nebbia. 12 Siamo rimasti a lungo sul ponte, aspettando il ritorno di Bertie. Finalmente abbiamo sentito sbattere una porta, sempre nella nebbia, un grugnito, e rumore di passi che superavano un ostacolo. «Cosa diavolo ti succede, Sully! Non hai un briciolo di educazione!» Bertie è comparsa e ha proseguito, tornando nella nebbia. Sullivan, mio padre, e io, l'abbiamo seguita. Siamo passati su un ponte sudicio, attorno a rotoli di corda, uncini, un albero, e alla fine siamo arrivati alla stiva. Da qualche parte provenivano grugniti e squittii. Bertie ha preso la grossa porta, l'ha sollevata, e l'ha spinta indietro finché è caduta con un tonfo. «Andate giù!» ha detto. Ho scrutato nell'oscurità, ma non ho visto niente, ho solo sentito odore di umidità. «Sully, portali giù! Io arrivo subito.» E Bertie è sparita nella nebbia. Sullivan è sceso per primo, e noi l'abbiamo seguito, facendo i gradini con molta attenzione, mio padre dietro di me. Quando Sullivan è arrivato in fondo, ha tastato una parete e ha toccato un interruttore.
La luce ha illuminato un ambiente completamente diverso da quello che avevo immaginato. Eravamo in una cabina privata confortevole, anche se fredda, isolata da pannelli e tappeti. Alle pareti c'erano mappe nautiche e stampe di arte moderna. Alla parete di fronte, accanto a un piccolo mobile bar, era appoggiato un divano, che con un tavolino e delle poltroncine dall'aspetto comodo formava un piccolo salotto; in mezzo alla stanza, sotto un lampadario, c'era un biliardo con sei buche, pronto per il gioco. «Freddino qua sotto!» ha detto Sully, andando al termostato e girando la manopola. Immediatamente, con uno scatto, si è acceso il riscaldamento a serpentine elettriche dietro il rivestimento alla base delle pareti. Ho guidato mio padre al divano e ci siamo seduti. Da sopra è rimbombata la voce di Bertie. «Dagli qualcosa da bere e da mangiare, Sully! C'è della birra in frigo! Adesso scendo, devo controllare il pilota automatico!» Sullivan è andato dietro al bar, e ha tirato fuori due bottiglie di birra e una lattina di soda. «Colonnello, quando è stata l'ultima volta che hai bevuto una Carta Bianca?» Mio padre ha riso. «Non posso crederci. Il resto di questa stanza è comodo come il divano?» «Puoi scommetterci. A Bertie piacciono le sue cosucce. Se le è anche guadagnate.» Mio padre ha preso la birra ghiacciata e ne ha bevuto un po'. Poi ha scosso la testa. «E fresca, persino!» Sullivan era di nuovo dietro il bar, e stava tirando fuori dal frigo dei cibi freddi. Ben presto avevamo mangiato, più e meglio di quanto facessimo da giorni. Bertie si è unita a noi. «Dammi una di quelle Mexican Miller, ti dispiace, Sully?» Sullivan le ha dato una birra, e Bertie si è seduta su una poltroncina accanto al divano. Ha bevuto dalla bottiglia e ha espresso con un gorgoglio la propria soddisfazione. «L'investimento migliore che abbia mai fatto, trasportare questa roba da Azatlàn.» Ha sorriso. «Non sono più riuscita a fare l'ultima consegna a San Diego, animali per lo zoo e birra. Così se vi viene sete ne ho ancora duecento casse.» Mio padre ha riso di nuovo, un suono che sentivo per la prima volta da quando lo conoscevo. Bertie ha fissato la bottiglia. «Non sarebbe un brutto modo di attraver-
sare questo periodo, chiusi nella stiva con delle casse di birra fresca...» Mi ha guardato fissa. «E così tu sei la ragazza del sogno.» «Non parla,» ha detto Sully. «Non parla nemmeno nel mio sogno,» ha detto Bertie tenendomi gli occhi addosso. «Nel mio la trovavo sul ciglio della strada, proprio come è successo,» ha detto Sully. «Anch'io l'ho sognata,» ha detto mio padre. «Ho sognato che l'avrei trovata.» Bertie fece un solenne segno di assenso. «Siamo di fronte a un mistero. Quando ho iniziato ad avere questi sogni, circa una settimana dopo che sono saltati fuori gli scheletri, ho domandato in giro. Non ho mai avuto dei sogni simili, prima, sogni che si ripetono sempre uguali. Ho chiesto a Nate Sherman,» si è rivolta a Sully, che ha annuito, «e a Jimmy il Macedone, che abbiamo perso solo una settimana fa. Ho chiamato tutti quelli che mi venivano in mente. Quando sono andata da Pete il Greco - ti ricordi Pete il Greco, Sully?» Sullivan si è messo a ridere. «Me lo ricordo.» «Era uno scheletro quando sono arrivata, e ha cominciato a gridare e a sibilare come un serpente.» Sullivan ha scosso la testa. «Comunque, nessuno di quelli con cui ho parlato ha avuto questi sogni. Un paio, Charlie Franks per esempio, si ricordavano delle cose vaghe, una ragazza sullo sfondo dei sogni, e quando l'ho detto a Nate e a Jimmy, anche loro si sono ricordati la stessa cosa. Come qualcuno che guarda dal fondo di un sogno. Sully è stato l'unico che ha cominciato a fare dei sogni con dentro la ragazza, e i suoi erano persino più forti dei miei. Fino a un paio di giorni fa, quando i miei sono diventati ancora più forti.» «La notte prima che trovassi Claire e il Colonnello,» ha detto Sullivan, «mentre dormivo sul sedile posteriore della mia auto, mi sono svegliato, ed era come se lei fosse lì proprio davanti a me.» Bertie ha annuito. «L'altra notte mi sono sentita esattamente così. Come se fosse davanti a me.» Mi ha guardata di nuovo. «E adesso è qui.» Sullivan ha confermato: «Già.» «Credo che significhi che qualcuno è dalla nostra parte,» ha detto Bertie, facendo un cenno definitivo con la testa. «Io non so cosa significa,» ha detto Sullivan. «Ma sentivo che era la cosa giusta, prenderla e portarla qui.»
«Portarla a nord,» ha precisato Bertie. «Ecco cosa dovevo fare nel sogno, portarla a nord.» Sullivan ha confermato ancora. «Per tutto il tempo in cui combattevamo,» ha detto mio padre, «io sentivo che la cosa più importante era portare Claire in un certo posto. Persino quando la sognavo prima di trovarla, sapevo che dovevo portarla a ovest, attraverso il paese, e poi a nord.» Bertie e Sullivan mi guardavano, in attesa. Io non avevo niente da dare loro. Sapevo dentro che quello che era successo doveva succedere, ma loro mi guardavano come in attesa di un segno. Io non avevo segni da dare. «È un mistero,» ha ripetuto Bertie. Si è battuta le mani sulle ginocchia e si è alzata. «Bene, è ora di portare la cena a Chub.» Mi ha guardata. «Vuoi venire?» Mio padre ha esitato a lasciarmi. «Oh, lasciala andare,» l'ha convinto Sullivan ridendo. «Credo che pensassero che avessimo intenzione di gettarli fuori bordo, o venderli come schiavi bianchi.» Berti è scoppiata a ridere. «Siamo ancora in tempo! Andiamo,» mi ha detto. «Vieni a vedere Chub. Andrai pazza per lui, gli piacciono i giovani.» Ha guardato Sully, che si è messo a ridere, si è alzato, e è tornato dietro al bar. Ha stappato altre due Carta Bianca, e ne ha messa una in mano a mio padre. Poi si è abbassato e gli ha sussurrato qualcosa all'orecchio. «Chub è cosa?» Sully ha sussurrato qualcos'altro. «Puoi andare, Claire,» ha detto mio padre. «Ma stai attenta!» E si è messo a ridere con Sully e Bertie. Bertie mi ha fatto strada su per i gradini, e fuori di nuovo nella nebbia. «Stammi vicina, il ponte è scivoloso,» ha detto Bertie. Ci siamo addentrate in un mondo di cinguettii, versi, strida e ringhi, passando di fianco alle alte pareti metalliche della timoniera. Sono inciampata in un rotolo di corda, e Bertie mi ha preso e mi ha tenuto in equilibrio. «Devi abituarti a mantenere l'equilibrio a bordo di una nave, Claire,» mi ha detto. Attorno a noi si sentiva cinguettare, pigolare, squittire. Siamo passate molto vicino a una cassa con dei piccoli buchi e ho sentito un verso che sembrava il grugnito di un maiale. «Zitti, ragazzi!» ha gridato Bertie. «Chub si prenderà cura di voi domattina!»
Il rumore degli animali è aumentato, e Bertie si è messa a ridere. «Hanno mangiato un'ora fa e hanno già fame un'altra volta,» ha detto. Vicino alla poppa della nave c'era un'altra stiva. Bertie ha sollevato la botola e l'ha tirata indietro. «Stai attenta a scendere,» ha detto andando avanti per prima al buio. «Questi gradini sono alti.» Da sotto venivano dei brontolii. «Fai meno chiasso Chub, stiamo arrivando!» In fondo ai gradini Bertie mi ha fermato. «Resta qui.» Nell'oscurità si sentiva una televisione accesa, e vedevo un fioco tremolio color porpora in fondo alla stanza. Era girata in modo che riuscivo a vedere solo una parte dell'immagine: era un film della serie Guerre Stellari. Davanti al televisore, e all'ombra del tenue bagliore, c'era una grande poltrona dallo schienale alto rivolto verso di me. Dalla poltrona veniva un borbottio lamentoso. «Va bene, Chub, arriviamo! Tieni duro!» Bertie ha trovato l'interruttore e l'ha acceso. La stiva si è inondata di luce. L'occupante della poltrona si è girato a guardarci. «Chub! Ho portato un'amica!» ha detto Bertie. Un'enorme scimmia africana si è alzata dalla poltrona, mi ha guardato con quegli scuri occhi, solenni e intelligenti, e ha fatto un sorriso da un orecchio all'altro. «Gli piaci!» ha esclamato Bertie. È corsa avanti, ha stretto la scimmia in un abbraccio, e l'ha trascinata in un ballo attorno alla stanza. Chub l'ha assecondata giocosamente, ma continuava a voltare la testa per guardarmi. «Allora, cosa stai guardando?» ha chiesto Bertie, fermandosi davanti al televisore. «Ancora quella robaccia spaziale?» Chub ha distolto gli occhi da me e ha cominciato a fare dei grugniti eccitati in direzione dello schermo. «Lo so, lo so.» Bertie si è rivolta a me. «Ama la Principessa Leia. Crede di essere Hans Solo, o non so chi.» Si è girata verso la scimmia, e gli ha accarezzato la testa. «Non è vero, Chub?» Sullo schermo è riapparsa la Principessa Leia che guidava Skywalker e Wookie lungo un corridoio; Chub ha spinto da parte Bertie con gesti eccitati, si è riaccomodato in poltrona e si è rimesso a guardare il film. Bertie ha indicato la scimmia con la mano. «Tienilo d'occhio, vuoi? Vado a prendergli la cena.» Ha attraversato la stanza ed è sparita dietro una porta chiusa col catenaccio. Chub ha guardato me, poi la Principessa Leia sullo schermo, poi di nuovo me. Mi ha sorriso e mi ha preso una mano.
La stanza era simile alla cabina di Bertie, e quasi altrettanto ordinata: moquette sul pavimento, qualche stampa, per lo più poster di film tra cui uno enorme con la testa mascherata di Darth Vader sulle pareti a pannelli, una libreria alta fino al soffitto stipata di libri per bambini e videocassette, giocattoli, un pagliericcio, un tavolino a carrello. Quando la Principessa Leia è sparita dallo schermo, Chub ha cercato freneticamente intorno alla poltrona, ha trovato il telecomando del videoregistratore, e ha riavvolto il nastro per far ripetere la scena. «Ho trovato questo bestione alle Hawaii, su una delle isole più piccole,» ha detto Bertie ritornando con una bracciata di cibo, patatine, carne in scatola, sottaceto. Ha richiuso la porta della dispensa, ha messo il cibo sul tavolino e ha iniziato a prepararlo. «Era appena un cucciolo. Un asino di un produttore cinematografico l'aveva lasciato da solo per una settimana in una casa sulla spiaggia, e Chub l'ha fatta a pezzi. Io stavo passando a un miglio dalla costa, e ho visto quel buono a nulla sulla spiaggia che lo picchiava con un bastone. C'è mancato poco che gli sparassi, e comunque sono andata a riva con una scialuppa e l'ho costretto a vendermi Chub, che ormai è con me da quasi quindici anni. Uno spirito acuto. Sarebbe persino capace di pilotare il battello se fosse necessario. Ed è più pulito di qualunque altro compagno che mi sia mai portata a bordo.» Mi ha fatto vedere una porta in fondo alla stanza con una falce di luna intagliata. «Quello è il suo bagno. Fa tutti i suoi bisogni lì dentro, proprio come te e me, e guarda la televisione quando non lavora.» Ha terminato di preparare il cibo che Chub occhieggiava con interesse, e ha spostato il tavolino a carrello di fronte alla scimmia, che perso ogni interesse per me e per la televisione, ha cominciato a mangiare. «Per un poco sarà occupato,» ha detto Bertie. «E ad ogni modo è quasi ora che vada a dormire. Domani lo lascerò salire sul ponte, e potrai vederlo svolgere le sue faccende.» Siamo andate alle scale e le abbiamo salite. Ho dato un'ultima occhiata a Chub, che aveva smesso di mangiare per guardarmi meglio. Una volta sul ponte Bertie ha chiuso la botola e l'ha assicurata. La nebbia era ancora più fitta. Abbiamo raggiunto la parte centrale della nave, e Bertie ha iniziato a salire i gradini che portavano alla timoniera. «Vieni,» mi ha detto. «Devo controllare gli strumenti.» L'ho seguita in una stanza accogliente, calda, a forma di semicerchio, immersa nella luce verde e rossa degli strumenti. Ho guardato Bertie controllare gli strumenti, e fare una lieve correzione. «C'è il pilota automatico.
Stanotte non dovremmo passare vicino a nulla. Ho messo tanti campanelli d'allarme attorno a questa bagnarola che scatterebbero se qualcuno si avvicinasse entro cinque miglia.» Improvvisamente stanca, ho sbadigliato. «Qualcuno ha bisogno di una buona notte di sonno. Ti accompagno in una cuccetta di sotto, bambina.» Mi ha circondato le spalle con un braccio, e mi ha guidata fuori dalla timoniera, nella nebbia, e giù per i gradini. Davanti alla porta della stiva si è fermata. «Immagino che ormai laggiù siano sulla strada del benessere e della sbronza. Buon per loro. Mi farò raccontare le loro storie più tardi. Scommetto che se la sono passata brutta tutti e due. E scommetto anche tu.» Ho annuito, assonnata. «Voglio solo dirti una cosa, tra te e me. Sai tenere un segreto?» Io l'ho guardata, e ho sentito una fiducia calda e improvvisa. Ho sorriso e ho fatto cenno di sì. «Bene. Volevo solo parlarti di quei sogni che ho fatto.» Dopo una pausa ha continuato. «Una cosa da nulla, ma non voglio che gli altri si preoccupino. Nel sogno c'eravamo io e te e tuo padre e Sully. Naturalmente allora Sully era l'unico che conoscessi. Ma adesso siamo tutti qui. Eravamo su questo battello, e tu mi guardavi, e io sapevo che stavo per morire. «La cosa più strana è che come succedeva era giusto, non avevo paura, niente. Come se dovesse essere così. Tu mi guardavi, e io sapevo che Sully e io e tuo padre eravamo praticamente gli ultimi esseri umani rimasti sulla terra. E che noi tre stavamo per morire. E quando ti ho vista salire a bordo, era come se il sogno si avverasse. Tu mi hai guardata, e io ho saputo che stavo per morire. Non so perché ma la cosa non mi ha infastidito.» Ha scosso la testa. «Pensavo solo di dirtelo. Non ho paura, e non ho intenzione di arrendermi senza lottare, ma per qualche motivo tutto questo sembra giusto. Finché tu sei salva, tutto andrà per il meglio.» Mi ha posato una mano sulla spalla e ha aperto la botola, mentre la nebbia ci vorticava attorno come nei sogni. «Tempo di andare a dormire, bambina.» 13 Il mattino dopo la nebbia si è alzata, e Chub è salito sul ponte. «Cosa te ne pare della mia bagnarola?» ha chiesto Bertie allegramente. «È un po' lenta, ma non c'è fretta. L'ho chiamata Arca perché a quanto pare
porto sempre una coppia di tutto, incluse le attrezzature elettriche. Capite?» L'Arca, che era vivacemente dipinta di rosso e di verde, e non era la chiatta tetra e sudicia che mi ero aspettata, era inverosimilmente carica, di gabbie, casse di legno, grossi rotoli di corda e catene. Ogni spazio libero sul ponte era occupato da animali in gabbia. Chub girava facendo capriole, controllava le corde, le strattonava per assicurarsi che fossero ben strette. Quando ne ha trovata una che si era allentata, ha emesso un ringhio sonoro e eccitato, e Bertie si è affrettata a stringerla. «D'accordo!» ha gridato Bertie. «Ora di pranzo!» Subito tutti gli animali sul ponte hanno iniziato a strillare e parlottare. Alcune casse addirittura dondolavano per l'eccitazione. Chub, che aveva già fatto colazione da basso, è corso alla botola aperta della dispensa, mentre Bertie scendeva e da sotto gli passava il cibo. «Va bene, Chub, fai il tuo dovere!» Chub divideva e distribuiva il cibo. «Lo amano!» ha esclamato Bertie. Il livello del rumore era assordante, ma è diminuito gradatamente, mano a mano che ogni gabbia e cassa riceveva l'adeguato pasto. Ben presto l'Arca è diventata quasi silenziosa. «Ah, pace,» ha sospirato Bertie. «Non durerà più di cinque minuti, ma è un tempo che vale la pena aspettare.» In effetti dopo meno di cinque minuti il silenzio era ormai finito, ma non l'espressione di beatitudine di Bertie. Ho aiutato lei e Chub a pulire alcune gabbie, e ho visto i lucenti uccelli, e le volpi, e tutti gli altri animali, e tutti erano felici. C'erano persino due leoni. Alla fine si era fatta ora di pranzo anche per noi umani; siamo scesi sottocoperta, e Chub si è ritirato nel suo alloggio a guardare un film. «Voi, spacconi, avete già ricominciato a bere?» ha urlato Bertie di buonumore a mio padre e a Sully, seduti sul divano con una bottiglia di birra già aperta. «Ti cedo il posto, ragazza,» ha detto Sully, alzandosi per portare una birra a Bertie. Bertie si è seduta al posto lasciato libero da Sully, sospirando di soddisfazione. «Questa è la vita.» «Sì, è vero,» ha confermato Sully. «Non so voi, ma io potrei restare su questa nave per sempre,» ha detto mio padre. «Se riesci a sopportare l'odore!» ha detto Sully.
«Hah!» ha detto Bertie. «A proposito di odore! Non pensate agli animali, siete voi tre che avete bisogno di cambiarvi d'abito. Più tardi dovremo far passare il contenuto della stiva, per vedere se riusciamo a trovare qualcuno di quei completi da turisti Hawaiani che stavo portando a San Francisco.» Quelle parole hanno gettato un'ombra su tutta la compagnia. «Chissà com'è San Francisco adesso?» ha detto Sully. «Le ho girato attorno circa una settimana fa in questa confusione. La Transamerica Pyramid era distrutta, ma Ghiardelli Square sembrava completamente intatta. Sembrava... che tutto procedesse come al solito.» Sully ha sorriso debolmente. «Hai sempre detto che era una città di morti, Bertie!» «Ha!» «Davvero, era una grande città,» ha detto Sully. Bertie si è alzata, portandosi la birra fino alla libreria, e ha acceso la radio. «Potremmo anche vedere cosa sta succedendo nel mondo.» Dalla radio ha parlato una voce che faceva la pubblicità di un chewing gum. «Cosa diavolo ci fanno col chewing gum?» ha detto Bertie. «Lo masticano,» ha risposto Sully. «Sembra che quei bastardi abbiano tutto sotto controllo, non credete?» «Un mondo diverso...» ha detto Bertie. Lo spot è finito, e un annunciatore ha ripreso: «E ora una rapida scorsa alle notizie più importanti: la Casa Bianca ha annunciato oggi che dopo essersi consultata con i capi di Stato stranieri, può affermare con certezza che non è rimasto più di un pugno di umani. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha ripreso gli incontri due settimane fa, concorda con la dichiarazione. Il Presidente Lincoln, nel frattempo, è stato impegnato in incontri a porte chiuse con la NASA e i maggiori scienziati, per discutere di un'imminente lancio nello spazio. Siamo stati informati dell'allestimento di una missione con equipaggio definita "molto rischiosa". I membri della NASA dicono che verrà presto stabilita la data del lancio. «Altre notizie: Mark Twain ha provocato una certa agitazione nei circoli culturali chiamando la morte accidentale di Hemingway per annegamento la scorsa settimana "un giorno fortuito per la Letteratura Americana", e una "non grave perdita". Twain, che ha espresso tali commenti dalla sua casa nel Connecticut, dove vive con la moglie e le figlie, e dove si dice che stia lavorando al seguito di Huckleberry Finn, ha continuato: "Quello stu-
pido è riuscito a badare a se stesso solo la prima volta, e questa volta la Provvidenza è stata tanto gentile da tendere una mano". Hemingway è stato strappato dalla sedia sul ponte di poppa della sua barca martedì scorso, quando un pliosauro ha strappato l'esca da marlin dalla sua lenza da pesca a traina. Hemingway si era vantato con gli amici a bordo di non aver bisogno di assicurarsi con le cinghie alla sedia. «Sport: la World Series verrà giocata quest'anno, anche se con un po' di ritardo. Il Commissario per il Baseball Mountain Landis ha annunciato che il campionato inizierà il quattordici novembre...» Bertie ha spento la radio. «Ci troveranno, Bertie?» ha domandato mio padre. Lei ha riportato la birra al divano, e si è seduta senza parlare. «So io la risposta,» ha detto Sully. «Sully ed io stavamo parlando, appena prima che voi entraste,» ha continuato mio padre. «Abbiamo avuto tutti e due un sogno molto interessante ieri notte.» Bertie ha spostato lo sguardo da uno all'altro. «Anch'io ho fatto un sogno...» ha detto lentamente. «E c'erano dei nuovi particolari.» «Sì...» ha confermato mio padre. «Quando pensate che sarà?» ha chiesto Bertie. Mio padre ha guardato davanti a sé con occhi che non vedevano. «Un giorno, forse due.» «Sì, mi sembra corretto,» ha detto Sully. Bertie si è alzata, ha raccolto le bottiglie vuote e le ha sostituite con altre fresche. «Bevete, amici. Dobbiamo fare dei piani.» «Claire, ti dispiace lasciarci soli?» ha detto mio padre. «Vai di sopra a dare un'occhiata a Chub, cara,» ha detto Bertie mettendomi una mano sulle spalle. Io mi sono alzata e sono uscita. 14 Né mio padre, né Bertie, né Sully mi hanno detto quello che hanno discusso durante la loro riunione. Ma quello stesso pomeriggio Bertie mi ha portato nella dispensa di Chub e ha acceso la luce all'interno. Era uno sgabuzzino, profondo quattro o cinque piedi, con scaffali pieni di pacchetti di patatine, carne in scatola, scatole di tonno formato comunità, e altri generi alimentari. Fuori nella cabina Chub stava guardando Il Ritorno dello Jedi,
e di tanto in tanto sollevava lo sguardo su di noi. «Qui c'è quello che devi sapere,» ha detto Bertie. Ha infilato la mano sotto il quarto scaffale dall'alto. «Guarda qua sotto.» Io mi sono abbassata e ho visto un minuscolo interruttore. «Sposta questo,» ha detto Bertie, «e osserva quello che succede.» Ho girato l'interruttore. La parete destra dello sgabuzzino si è spostata all'indietro e di lato, lasciando uscire una zaffata di aria umida. Bertie è entrata nell'apertura, ha tastato all'interno, e ha girato un altro interruttore, illuminando una piccola stanza. Sul pavimento c'erano dei giacigli di legno, un paio di coperte ripiegate, e una cassa per sedersi. La parete di fondo era l'interno dello scafo metallico dell'Arca. «Non è molto, ma è sicuro se serve,» ha detto Bertie. «Ho nascosto Chub qui dentro un paio di volte, quando la Guardia Costiera ha deciso che non potevo tenere un gorilla a bordo. Specie in via di estinzione, eccetera. La maggior parte dei ragazzi della Guardia Costiera era d'accordo, ma uno stitico del porto di Los Angeles aveva deciso di andare per via legale. Non ha mai trovato Chub qui dentro. E ha anche perso le elezioni.» Avevamo dato uno sguardo a Chub, all'esterno, che ci ha guardato e ha fatto un sorriso smagliante. «Ho dovuto nascondermi qui dentro anch'io nell'ottantasei, quando sono stata abbordata dai pirati.» Ha notato la mia espressione stupita. «Oh, sì, cose simili esistono ancora. Adesso hanno motoscafi ad alta tecnologia, sonar, un sacco di armi. Mi avrebbero ucciso se mi avessero trovato. Invece, si sono limitati a prendere ogni scatola e ogni animale che hanno trovato a bordo. Hanno rubato anche la collezione di videocassette di Chub.» Chub ha fatto un grugnito di protesta. «Così ascoltami bene. Quando e se le cose qui attorno cominciano a precipitare, tu corri in questa stanza.» Mi ha mostrato l'interruttore alla parete, e come aprire e chiudere la porta. «E non preoccuparti di tuo padre, di Sully, e di me. Saremo qui dentro con te, se potremo.» Abbiamo lasciato la stanza segreta. Chub si stava agitando sulla poltrona. Ancora una volta la Principessa Leia era apparsa sullo schermo. Bertie ha scosso la testa, e ha dato una pacca affettuosa a Chub mentre gli passavamo accanto. La scimmia le ha sorriso, ha sorriso a me, ed è ritornata a guardare la televisione, mugolando di piacere. «Dannata scimmia,» ha detto Bertie. 15
Il giorno dopo piovigginava, ma la navigazione procedeva senza problemi. «Noi ci troviamo circa... qui,» stava dicendo Bertie, indicando un punto sulla carta nella sua cabina. «Diretti a ovest della Queen Charlotte Island. Buon vecchio Canada. Adesso ci sarà un sacco di scheletri di alci che scorazzano quassù. Una volta ho avuto un alce a bordo. Più stupido di una mucca. E non ho mai visto tanto sterco in tutta la vita! Comunque,» ha continuato tracciando una linea col dito verso ovest, fino a raggiungere un sottile arcipelago con le isole allineate in fuori come perline dal fondo dell'Alaska, «queste sono le Aleutine, e queste,» ha detto isolando una parte delle perline, «Sono le Fox Islands. È lì che giriamo verso nord, e da lì questa nave può andare da sola, dritto su per lo Stretto di Bering fino alla Penisola Seward. Proprio a nord di Nome, ad ovest di questa piccola protuberanza,» ha indicato la parte più orientale dell'Alaska continentale, «ecco dove stiamo andando.» Ha spostato il dito sull'acqua tra i due continenti dell'Asia e del Nordamerica, dove c'era una macchiolina di terra. «Eccola, l'isoletta di Diomede. Proprio in mezzo allo Stretto di Bering. Proprio nel centro sputato tra Ovest e Est.» Sully, mio padre e Bertie stavano guardando me, e Bertie ha parlato ancora. «Questo è quello che dicono i sogni, Claire. E lì è dove dovresti andare. Hai una vaga idea del perché?» Io ho fatto segno di no con la testa. «Bene,» ha detto Bertie, «comunque sia, ti porteremo là.» Nella stanza è scattato un segnale d'allarme. Su tutta la nave i campanelli suonavano, e gli animali emettevano serie infinite di versi. «Uh-oh,» ha detto Bertie. «Sembra che stiamo per ricevere visite. Questo è l'allarme delle cinque miglia. Andiamo a vedere con che cosa abbiamo a che fare.» Il ponte era illuminato da un altro splendido giorno, il vento era calmo, il fumo delle ciminiere dell'Arca si levava dritto verso l'alto e poi si disperdeva dietro di noi mentre sbuffando navigavamo verso nord. Il cielo era intensamente azzurro, l'aria frizzante odorava di acque pulite e profonde. Bertie ha scrutato il cielo col binocolo, poi ha percorso i quattro orizzonti del mare. I campanelli continuavano a suonare. «Meglio salire sul ponte di comando. La faccenda non mi piace per niente. Non vedo un accidente.» Siamo saliti dietro a lei; tutti assieme nella timoniera si stava un po'
stretti. Bertie si è messa a studiare i suoi strumenti. Di notte gli schermi verdi riempivano la timoniera di una luce misteriosa, ma a mezzogiorno, per la splendente luce del sole che riempiva le alte vetrate, Bertie doveva avvicinarsi parecchio, riparandosi gli occhi, per poterli vedere. «Diavolo,» ha esclamato socchiudendo gli occhi. «Niente nell'aria o sulla superficie. È sotto di noi, ma è piuttosto pìccolo.» Ha toccato un interruttore. I campanelli d'allarme hanno subito taciuto, lasciando solo le strida degli animali come avvertimento. «Se dovessi tirare a indovinare, direi che potremmo avere la compagnia di un piccolo balenottero azzurro - diavolo! Non è una balena. Adesso so cos'è!» Come ha finito di parlare una slanciata forma metallica è emersa di fronte alla prora. La sgocciolante finestrella della torretta di comando mostrava la faccia di uno scheletro. La macchina si è inclinata all'indietro nell'acqua, e ha sollevato due bracci meccanici con delle pinze artigliate alle estremità. L'intera macchina si è poi immersa. «Tutti sul ponte! Sully, sai dove sono i cannoni! Portami quella cosa superficie-superficie e un paio di bombe di profondità! Se non l'affondiamo subito ci aprirà una falla nello scafo!» Mentre parlava l'Arca ha rollato debolmente, e si è sentito un tonfo sordo alla fiancata destra. «Muoviti, Sully!» Sully era già sceso dal ponte di comando, e stava facendo i gradini a due alla volta. Si è precipitato attraverso il ponte, quando è risuonato un altro colpo. «Quella cosa viene da San Diego,» ha detto freneticamente Bertie. «È un sottomarino di ricerca di nome Granchio. Io c'ero quando una volta la Marina ha fatto una dimostrazione. Non è provvisto di siluri, non ne ha bisogno per fare danni. Ha aperto uno squarcio grande come la vostra faccia nella fiancata di una nave e l'ha affondata in cinque minuti.» Ancora un tonfo alla nostra fiancata. L'Arca si è piegata leggermente a sinistra prima di ritrovare l'equilibrio. Abbiamo seguito Bertie fuori dalla timoniera e giù sul ponte. Sporgendoci dal parapetto di destra potevamo appena distinguere la cupola del sottomarino sotto il pelo dell'acqua. Sully è ritornato portando un lungo tubo poco maneggevole e un sacco di tela, e li ha appoggiati sul ponte. Bertie ha cominciato a lavorare al tubo, caricandolo e controllandolo.
«Dobbiamo allontanare quella dannata cosa dalla nave prima di poter usare questo,» ha detto Bertie. Sully ha frugato nel sacco e ha tirato fuori due granate a mano. «Le bombe di profondità dei poveri,» ha detto Bertie, afferrandone una. Si è sporta dal parapetto, ha tirato l'anello e ha contato fino a tre, poi l'ha lasciata cadere discosto dalla nave. La granata ha colpito l'acqua ed è esplosa. Subito il sottomarino si è immerso sparendo alla vista, senza subire danni. «Maledizione!» Pochi momenti dopo c'è stato un altro botto all'altra fiancata dell'Arca. Chub è salito sul ponte, ha guardato incuriosito dalla botola e si è arrampicato fuori, dirigendosi alle gabbie vicine per cercare di calmare gli animali innervositi. «Se solo potessi vedere,» si lamentava mio padre. Siamo andati dall'altra parte della nave e abbiamo guardato oltre il parapetto. Lì c'era il sottomarino giallo, appena sotto la superficie, attaccato allo scafo. «Se fa un buco in quel punto rovinerà la birra nella stiva,» ha detto Sully sorridendo. Si è arrampicato in cima al parapetto. «Non posso permetterglielo.» «Sully, scendi di lì!» ha gridato Bertie. «Se deve andarci qualcuno, ci andrò io. Quella cosa ha un timone dietro, tra la coda e l'elica. Spacca il timone, e non andrà da nessuna parte. Ma come...» Sully era già oltre il parapetto, con due granate a forma di ananas strette una in ogni mano. «Devo salvare quella birra!» ha detto. «Sully!» Bertie ha cercato di fermarlo, ma il commesso viaggiatore si è lasciato cadere in acqua. «Oh, Signore,» ha detto Bertie. Sully è scomparso sotto le onde. L'abbiamo visto cadere accanto alla torretta del sottomarino, e scivolare indietro, afferrarsi con una mano alla coda e sparire alla nostra vista sotto la macchina. Di nuovo il sottomarino ha colpito la fiancata dell'Arca, e la nave è stata percorsa da un tremito. «Ha aperto una breccia nella stiva davanti,» ha detto Bertie. Si è allontanata lungo il parapetto ed è tornata con un salvagente legato a un lungo rotolo di corda. «Se Sully torna su, gettategli questo.» Con riluttanza si è staccata dal parapetto ed è corsa al boccaporto di prua. «Devo vedere se il danno è grave, e sigillarlo se posso,» ha detto scendendo nella stiva.
Un momento dopo c'è stata un'esplosione, e uno zampillo d'acqua si è levato dalla parte posteriore del sottomarino. Quando l'acqua si è calmata, il sottomarino si era spostato in fuori e indietro, e il motore emetteva un violento ronzio. Una forma umana è risalita in superficie. «Credo di averlo preso!» ha urlato Sully. Con l'aiuto di mio padre ho sollevato il salvagente oltre il parapetto e l'ho gettato in acqua davanti a Sully, che l'ha afferrato. Sotto di lui il Granchio si è alzato, e mentre Sully si aggrappava al salvagente uno dei bracci del sottomarino si è aperto in una torsione e l'ha stretto alla vita. Sully ha urlato. La torretta del sottomarino è uscita per un istante dall'acqua. Dietro il vetro la testa di uno scheletro guardava Sully ghignando. Sully si è attaccato al salvagente e ha cercato di liberarsi dal braccio, e noi abbiamo tirato forte la corda. Bertie è ritornata portando una bracciata di fucili e li ha buttati sul ponte. Ha guardato giù dal parapetto e ha chiamato: «Sully!» La pinza si è stretta attorno alla vita di Sully, che ha inarcato la schiena con un lamento e ha lasciato andare il salvagente. Il sangue gli è sgorgato dalla pancia in acqua. L'artiglio si è chiuso di più, Sully ci ha guardati, ha sollevato le braccia e ha spalancato la bocca, poi le braccia sono ricadute senza vita. L'artiglio l'ha tenuto sollevato a metà fuori dall'acqua, e quando si è trasformato in scheletro, e la carne si è dissolta, e in lui è ritornato il fremito della vita, si è chiuso di nuovo. Inarcandosi un'ultima volta con un urlo straziante, Sully è diventato polvere ed è precipitato tra le onde. «Sully...» ha chiamato Bertie. L'artiglio vuoto del sottomarino si è mosso nell'acqua. Dalla parte posteriore si levava sempre uno stridore metallico. La macchina è andata a sbattere contro la fiancata dell'Arca, è rimbalzata via, ed ha sbattuto di nuovo. Con rabbia Bertie ha tirato fuori una granata a mano dal sacco, e ha tirato l'anello. «Affondate, bastardi,» ha detto lasciando cadere l'esplosivo sul sottomarino. Lo scoppio ha frantumato il vetro della torretta, e l'acqua si è riversata nell'apertura. La macchina si è allontanata dall'Arca, rovesciandosi quasi su se stessa. Dopo pochi attimi ha alzato il muso e si è abbassata tra le onde, ronzando rumorosamente.
«Povero Sully,» ha detto Bertie girandosi dall'altra parte. «La falla era in un compartimento che sono riuscita a isolare.» Ha sorriso con aria triste. «È lì che c'era la Carta Bianca. La pezza non durerà per sempre. Imbarcheremo lentamente acqua, ma ci porterà dove dobbiamo andare.» Il sottomarino è sparito alla vista, e il ronzio è stato zittito dalle onde. Distaccata dalla macchina ho visto la forma di uno scheletro che nuotava verso la prua dell'Arca, e l'ho indicata. «Sono riusciti a tirarsi fuori, maledizione,» ha detto Bertie. A poppa della nave i versi degli animali hanno ripreso, e abbiamo sentito un colpo di pistola. «Svelti, andate avanti,» ci ha detto Bertie. Ha messo un fucile in mano a mio padre e ne ha preso uno per sé. «Dobbiamo allontanarli da poppa, per poter entrare nello sgabuzzino nella dispensa di Chub.» Anch'io ho preso un fucile. Uno sparo è risuonato alto sulla nostra testa. Ci siamo diretti verso la prua. «Quel sottomarino tiene due posti, se non sbaglio,» ha detto Bertie. In mezzo alla nave è apparso uno scheletro armato che si spostava da una cassa all'altra. Bertie ha preso la mira e ha sparato. Lo scheletro ha gridato, ha sollevato le mani, ed è esploso in polvere. «E uno.» Una voce ha chiamato: «Claire? Colonnello Coine?» Ha fatto una pausa e poi ha detto: «Vi ricordate di me? Il vostro giustiziere?» Era la voce dell'uomo di nome Earl, l'uomo che aveva aiutato me e mio padre a scappare da Margaret Gray. «Naturale che vi ricordate di me,» ha continuato Earl. «Avete ammazzato solo il pilota del sottomarino. Era un... uomo in gamba.» Earl ha riso. «A proposito, aveva ragione, Colonnello, su quella battaglia. Ma tutto è andato per il meglio. È sorprendente come le cose sembrino diverse dopo essere stati convertiti. Mi sono sentito malissimo per quello che ho fatto, per avervi lasciati scappare in quel modo.» «Fatelo parlare,» ha sussurrato Bertie. «Io lo prendo alle spalle.» E si è allontanata. «Perché non vieni con me, Claire?» ha proseguito Earl. «C'è un'enorme quantità di gente interessata a te. Credimi, sei una specie di celebrità.» Nel punto dove c'era stato il pilota ho visto uno scheletro fare capolino e subito tirarsi indietro. «Hanno mandato solo voi?» ha chiesto mio padre.
«Colonnello Coine! Che piacere sentirla! Per rispondere alla sua domanda, sì, siamo solo noi. È stata dura convincerli a lasciarci provare. A quanto pare il Presidente Lincoln crede che sia una perdita di tempo cercare di trovare Claire in questo modo.» La sua voce era ragionevole, pacata. «Se vi arrendete, vi prometto che incontrerete Lincoln, non sarebbe emozionante?» «Sì, in effetti,» ha detto mio padre. «Se solo...» È risuonato uno sparo, e nello spazio tra le due casse ho visto lo scheletro svanire in polvere. «È tutto a posto!» ha gridato Bertie. «È finita!» Quando l'abbiamo raggiunta stava prendendo a calci il mucchietto di polvere che era stato Earl. «Povero Sully,» stava dicendo. «Propongo di bere le ultime Carta Bianca fresche nella mia cabina, alla sua salute. Era un tipo dannatamente in gamba. Credo anche che dobbiamo fare un piccolo festeggiamento, visto che, almeno nel nostro caso, i sogni non si sono avverati.» 16 «Voglio che tu stia qua dentro tutte le notti finché non saremo arrivati all'isoletta di Diomede,» mi ha detto Bertie in piedi sulla soglia dello sgabuzzino segreto nella cabina di Chub mentre sistemavo le coperte sul letto. «Quell'Earl potrebbe aver mentito quando ha detto che il Granchio era l'unica nave che hanno mandato al nostro inseguimento. Come minimo il Granchio potrebbe aver comunicato via radio la nostra posizione. Potrebbero essercene in giro altri che ci stanno dando la caccia.» Mi sono infilata a letto. Dietro a Bertie vedevo la sagoma di Chub nella sua poltrona, e la faccia contenta ombreggiata dal bagliore azzurrognolo della televisione. Si sentiva la colonna sonora di Guerre Stellari. «'Notte, bambina,» mi ha detto Bertie. Mi sono sollevata e l'ho baciata sulla guancia. Bertie è tornata con passo pesante nella cabina di Chub. Mentre chiudeva dietro di sé la porta dello sgabuzzino l'ho sentita dire: «Andiamo, Chub, sul ponte. Puoi guardare quelle scempiaggini più tardi. Devi badare a un paio di quelle creaturine. Domani attraversiamo lo Stretto!» La porta si è chiusa. Ho dormito.
Quando mi sono svegliata avevo la precisa sensazione di aver dormito solo pochi minuti, eppure l'aria era differente. Ogni cosa sembrava diversa. Mi sono alzata dal letto e ho aperto la porta. La cabina di Chub era vuota, e il nastro di Guerre Stellari continuava a girare. Ho salito le scale fino sul ponte. Era tutto tranquillo. Il cielo era pieno di stelle, e una leggera nebbiolina era calata sulla superficie del mare, creando un'atmosfera da sogno. Ho pensato di essere sciocca, e mi sono girata per ritornare giù in cabina. «Non è così male, Claire.» Mi sono rigirata e ho visto lo scheletro di Bertie. Le sue ossa riportavano i segni di un taglio alla base del collo. Accanto a lei c'era lo scheletro di Margaret Gray, che irradiava una debole luce verdognola nell'oscurità. «Sì, io,» ha detto Margaret Gray. Ha alzato le mani, una delle quali stringeva un lungo coltello, al cielo. «Il Signore mi salverà! Ed ecco, io risorgerò in paradiso!» «Quel sottomarino aveva tre passeggeri,» mi ha spiegato Bertie. «Ma come ti dicevo, Claire, non è così ma...» «Questo ti piacerà ancora di più,» ha detto ferocemente Margaret Gray, vibrando col coltello un fendente nel collo di Bertie. «Oh...» Con un gemito, portandosi le mani alla gola, Bertie è diventata polvere. «Tuo padre lo stesso,» ha detto Margaret. Ha gettato indietro la testa e ha urlato: «La vendetta è mia!», poi è avanzata verso di me. Io sono scappata lungo la passerella giù nella cabina di sotto, sono corsa allo sgabuzzino segreto, ho aperto la porta, sono entrata, ho richiuso la porta e mi sono acquattata al buio. La porta della stanza si è aperta, e lì c'era Margaret Gray, con le ossa che palpitavano di un nauseabondo color limone. «Non penserai che la tua grassa amica Bertie non mi abbia parlato del tuo nascondiglio, bambina?» La sua mano si è stretta sull'impugnatura del coltello, e Margaret ha fatto un passo nella stanza. «Spero che il bagliore delle mie ossa non ti infastidisca. Stare a cinquemila piedi da un'esplosione nucleare ti avrebbe ridotto allo stesso modo. Adesso vedremo chi è la prescelta,» ha sibilato Margaret. Alle sue spalle il volume della televisione è stato soffocato da un urlo animalesco rabbioso e roboante. Margaret si è voltata di scatto e ha visto Chub furioso e imponente dietro di lei.
«Abominio!» Ha abbassato il coltello, ma la scimmia le ha afferrato il braccio e ha stretto. Margaret ha lasciato cadere il coltello con un grido, e tutti e due si sono spostati nella cabina di Chub. Margaret è riuscita a liberarsi e si è tuffata per recuperare il coltello, ma la scimmia, grugnendo di rabbia, l'ha afferrata mentre tentava inutilmente di afferrare l'arma, l'ha sollevata sopra la testa; Margaret è stata girata contro la parete opposta, e si è trovata a guardare dritto l'enorme poster di Chub con la testa di Darth Vader. «Noooo!» ha strillato Margaret allungando le mani e cercando di fare una torsione a mezz'aria mentre Chub la scagliava contro il poster. Il collo le si è piegato a un angolo innaturale, e si è dissolta in polvere. Chub è venuto da me, e mi ha guardato con quei suoi occhi tristi e intelligenti. Esitante, ha teso una mano e ha grugnito con dolcezza. Alla televisione era riapparsa la Principessa Leia. Ho gridato, e ho lasciato che Chub mi abbracciasse. Più tardi, quella notte, abbiamo raccolto i resti di Bertie, e quelli di mio padre, e siamo andati al parapetto a poppa della nave, a guardare i fili di nebbia che giocavano sulle onde del mare. Prima Chub ha disperso la polvere di Bertie, e poi io ho lasciato andare quella di mio padre. Siamo rimasti a guardare la polvere che volava via, si disperdeva, e spariva. La nave avanzava, e si lasciava indietro le ceneri. Chub è andato alla timoniera, e io sono restata lì, a guardare le onde e la nebbia che si sfilacciava. Durante la notte Chub ha guidato la nave oltre le Aleutine, e io ho visto scivolare via le loro distanti e indistinte coste. Per tutto il giorno seguente Chub è rimasto al timone e ha governato la nave. All'orizzonte orientale si profilava la massiccia costa dell'Alaska. Quella sera, mentre scendeva uno splendido tramonto, e ogni animale a bordo iniziava a stridere e strillare per l'eccitazione, ho visto apparire e crescere davanti ai nostri occhi il poggio boscoso dell'isoletta di Diomede. E ho pianto, perché qualcosa nel seme aperto del mio cuore in boccio mi diceva che ero a casa. CAPITOLO QUATTORDICESIMO LE MEMORIE DI PETER SUN
1 Freddo. Non potevo ricordare un momento in cui non avessi avuto freddo. Ormai sembrava naturale: le mani erano sempre fredde, le dita si muovevano sempre come ghiaccioli scricchiolanti, i piedi non erano mai altro che insensibili e di piombo. Il torpore era naturale. Nel profondo del mio essere forse poteva esserci stato un angolo che avesse ospitato del calore, ma non riuscivo a convincermene. Se mi avessero detto che ero stato tramutato in ghiaccio e neve, allo stesso modo che un albero si pietrifica e diventa sasso, ci avrei creduto. Ma non potevo credere che in me scorresse ancora del sangue. Se non fosse stato per il lupo che avevo chiamato Jack, sarei morto il primo giorno. Non solo mi offriva protezione dal freddo di notte, era anche intelligente, e mi guidava, nel bianco mondo innevato, alle formazioni naturali che garantivano la migliore difesa dal vento mortale e dalle tempeste di neve. Era la mia guida e il mio insegnante. Quando iniziai a montare la tenda al termine del primo giorno, lui si sedette e osservò con aria critica. Quand'ebbi finito si alzò con calma, trotterellò a un angolo, e si appoggiò col proprio corpo alla corda tesa. Immediatamente il picchetto saltò fuori dal terreno. Io lo guardai sbuffando, frustrato, e poi mi misi a ridere. «Va bene, e come devo fare?» Jack si sedette e mi guardò pacificamente, con la lingua che gli penzolava tra i denti. Provai di nuovo, e di nuovo Jack divelse il picchetto dal terreno con estrema facilità. «Andiamo, Jack, fammi vedere come si fa!» Il lupo si sedette e si limitò a fissarmi. Io rimisi il picchetto nel terreno, più in fretta e in profondità che potei. Stavolta quando Jack si mosse per levarlo, lo fermai e gli dissi: «No!» Lui mi guardò, poi si voltò e si allontanò. Io finii il lavoro, e misi al riparo tutta la nostra attrezzatura, stendendo le coperte come pavimento. Dopo aver tribolato un poco col radiatore, finalmente riuscii a metterlo in funzione, e produsse un piccolo alone di calore all'interno della tenda. Orgoglioso di me stesso cominciai a togliermi i primi strati di vestiti, lasciando che il calore mi facesse sudare. Jack venne all'apertura della tenda, e mi guardò scettico.
«Su, entra!» gli dissi, ma si rifiutò. «Non ti piace nemmeno il radiatore? Non vuoi stare al caldo?» Il lupo mi fissò, inespressivo. Il forte vento fece tremare la tenda, ma i picchetti tennero. «Ha! Che il diavolo ti porti, allora,» dissi volgendogli le spalle. Mangiai un pasto di fagioli caldi, misi il radiatore al minimo, poi mi avvolsi in uno dei sacchi a pelo e mi addormentai. Mi svegliai con Jack che mi scuoteva col muso. Aprii gli occhi e sulle palpebre sentii i fiocchi di neve. Mi sedetti, semicongelato, e mi strinsi le braccia attorno al corpo. Il sacco a pelo era coperto di neve che era stata sciolta dal radiatore e si era poi solidificata in ghiaccio. «Cristo!» Il cielo era pieno di stelle, e un quarto di luna illuminava il mondo di una luce argentea. La tenda era volata via, strappata dal terreno dal vento freddo. Ogni cosa attorno a me era coperta da uno strato di ghiaccio spolverato di neve. Trovai i miei indumenti esterni, ne scossi via la neve, li infilai, e chiusi le cerniere. Dentro erano freddi. Il lupo si girò e si allontanò da me trotterellando. «Dannazione! E adesso cosa c'è?» Tremando mi alzai e lo seguii. La tenda era a mezzo miglio di distanza, appallottolata e arrotolata in una fessura che aveva fermato la sua scivolata sul ghiaccio. Era dura ghiacciata, e dovetti tirarla via a forza e spiegarla come se fosse una lastra di metallo contorto. I picchetti erano introvabili. «Non è stata una grossa perdita, eh, Jack?» gli dissi. Era impossibile rizzare di nuovo la tenda quella notte. Jack trotterellò attorno alla parete della nostra fessura, si sdraiò in un punto dove il vento non arrivava, e si mise a dormire. Io presi il mio sacco a pelo e mi sdraiai accanto a lui. Silenziosamente il lupo avvicinò il suo corpo al mio, coprendomi per metà. In breve mi scaldai, e caddi addormentato. 2 Il giorno dopo facemmo quasi un centinaio di miglia. Le nuvole si alzarono un poco, e con esse il vento. Il nevischio danzava e turbinava come un derviscio. Non attraversammo nessuna città. Il mondo era un interminabile len-
zuolo bianco. A volte Jack stava sul gatto delle nevi con me, altre volte improvvisamente balzava giù per sfrecciare avanti sulla neve. Succedeva che nel corso di queste gite lo perdessi di vista in un nebbioso turbinare di nuvole, ma sempre poi lasciava che lo raggiungessi. «Perlustrazione, eh?» Con la lingua penzoloni saltava di nuovo sul gatto delle nevi, mentre rallentavo per farlo salire, e si raggomitolava dietro. Alla fine della giornata ancora una volta tentai di rizzare la tenda. Durante il viaggio l'avevo lasciata appesa dietro, e il vento e il sole l'avevano ammorbidita al punto da poterla piegare e riporre. Quando fu il momento di usarla ancora, era abbastanza maneggevole. Di nuovo Jack mi guardò con aria critica. Mi aveva fatto fermare vicino a un'altra sporgenza rocciosa. Ero riuscito a scalzare un paio di grosse pietre e cercai di usarle come pesi per fissare gli angoli della tenda. Quando Jack si diresse a un angolo che avevo zavorrato in quel modo, lo fermai e gridai: «D'accordo, ho capito!» mi misi le mani sui fianchi. «Cosa devo fare?» Il lupo andò al gatto delle nevi e ficcò il muso nell'attrezzatura che avevo caricato dietro. La sollevai e vi frugai in mezzo, ma non vidi niente che potesse essermi utile. Jack toccò con la zampa la punta di qualcosa di lungo che sporgeva. Lo spinsi indietro e scoprii un fascio di picchetti lunghi. «È così, allora?» Il lupo si girò e trotterellò fino alla tenda. Io lo seguii ridendo, con i picchetti. Iniziai a martellarne uno in un angolo, diritto, e ancora una volta Jack mi fermò. Spinse il picchetto col muso e con la zampa, cercando di tirarlo indietro. «Inclinato, giusto?» Tolsi il picchetto, lo inclinai opposto alla tenda, e lo piantai di nuovo. Jack lasciò che finissi il lavoro. «Vuoi controllare?» dissi, tirandomi indietro, e aspettando che provasse a divellere i picchetti. Invece si diresse al lembo della tenda, lo scostò, e entrò. «Che lupo incredibile,» dissi scuotendo la testa. Scoppiai a ridere e seguii Jack nella tenda. Quando fece obiezione al mio voler accendere il radiatore, scelsi un compromesso. Lo portai fuori, cucinai un pasto caldo per entrambi, poi lo ricaricai sul gatto delle nevi. La coperta per pavimento me la lasciò tenere. Non protestò quando accesi per un poco la lampada, giusto per diradare un
poco le tenebre, e quando infine la spensi e mi sdraiai per dormire Jack si raggomitolò contro di me. Quella notte, completamente al riparo dal vento, con accanto il caldo corpo dell'animale, dormii profondamente, e al mattino stavo così comodo che non volevo alzarmi. 3 Il giorno seguente il nevischio aumentò. A metà mattina le nuvole grigie si erano scurite e ingrossate di neve, e il vento si era fatto pungente. Jack mi fece fermare prima che la tempesta si sfogasse nel pieno della sua violenza. Io pregavo che ci fosse una città lì vicino, e quando Jack andò molto avanti in una delle sue missioni di perlustrazione pensai che l'avesse trovata. Invece, quando lo raggiunsi, semplicemente si rifiutò di salire sul gatto delle nevi e mi costrinse a fermarmi. «Andiamo, su, ancora un pezzetto, forse più avanti c'è un rifugio.» Lui mi guardò con quei suoi occhi calmi. «Va bene, dannazione.» Accesi il motore e seguii lentamente Jack che si era voltato e stava trotterellando via nel nebbioso candore. Ebbi appena il tempo sufficiente per montare la tenda nell'incavo di una roccia sporgente prima che la tempesta esplodesse in tutta la sua forza, in un modo che non avevo mai visto prima. L'aria stessa divenne bianca, la neve cadde a lenzuola, interi pollici per volta. Strisciai nella tenda, e Jack mi seguì. Tirai indietro il cappuccio del parka e iniziai a togliermi i guanti per poter aprire una scatola di fagioli. Ma Jack chiuse la bocca sul mio guanto, impedendomelo. «Cosa, niente cibo?» Attese che rimettessi il cappuccio e col muso mi fece capire di sistemarmi per dormire, in posizione raccolta. «Ho capito bene, Jack? Dormiamo finché non è finito?» In risposta sentii il suo corpo forte e pesante raggomitolarsi contro il mio, e lo sentii emettere un profondo sospiro di rilassamento. Ben presto si addormentò. Nonostante fossi stanco, il sonno non venne così in fretta. Giacqui fissando un lato della tenda, ascoltando il vorticante sibilo dei fiocchi di neve sul tessuto. Dall'ombra della luce esterna vedevo che la neve vi si stava ammucchiando contro. Il mondo era pervaso da un suono dolce e sibilante.
Tentai di ricordare quello che mi era successo. Oltre al freddo, ricordavo poco. Il volto di Reesa mi apparve alla mente. Per un istante la vidi distintamente sorridere, sentii la curva del suo corpo contro di me. Ma già stava svanendo dalla memoria. Mi spaventava averla dimenticata così facilmente. «Io sono Kral Kishkin?» chiesi a me stesso. Il nome di Peter Sun, e tutti gli altri, sembravano non avere alcun significato. Sì, tu sei Kral Kishkin. E poi d'un tratto mi addormentai, e proprio al culmine della coscienza, mentre precipitavo nel sonno, ecco il sogno della ragazza dalla carnagione scura, così vera che potevo quasi toccarla, potevo quasi sentire il profumo dei fiori nel prato attorno a lei. Alle sue spalle, stagliata contro il cielo, c'era una nave inclinata, e quando aprì la bocca per parlare venne circondata da grida di animali e uccelli... 4 Secondo i confusi mutamenti del cielo da chiaro a scuro, grazie ai quali potevo calcolare il passaggio dal giorno alla notte e ancora al giorno, la tempesta durò tre giorni. Il primo giorno Jack non volle lasciarmi alzare, e non ebbi difficoltà ad obbedirgli. Avevo un'acuta consapevolezza del freddo, e sapevo che se avessi lasciato il caldo cantuccio che io e il lupo avevamo creato, anche solo per un istante, il freddo mi avrebbe pervaso e non sarebbe più scomparso. Quando passarono i primi morsi della fame, restare dove mi trovavo divenne più semplice. Osservavo i cambiamenti di luce dalla parte superiore della tenda. Ogni cosa si tramutò in un sogno vivente, il tempo sembrava sospeso. Scoprii che la mia mente era in grado di modellare il tempo, se volevo, di far sembrare che il giorno passasse più rapidamente, di sospendersi nel continuum. Dopo il giorno veniva la notte, e poi di nuovo il giorno, e tutto era come minuti per la mia coscienza intorpidita. Ma verso la fine del secondo giorno la fame non poté più essere ignorata. Il lupo mi permise di sedermi. Immediatamente desiderai sdraiarmi di nuovo, e ritrovare quel luogo di calore. Con le tremanti mani guantate afferrai una scatola di fagioli, e cercai di aprire il coperchio. Ci volle molto tempo, ma finalmente, tremando di freddo, rovesciai un po' di fagioli freddi davanti a Jack e mi accovacciai scosso dai brividi a mangiare il resto. Nella mia mente sorse la visione di un tè, e non volle
abbandonarmi. Pronto a subire l'ira di Jack accesi il radiatore al minimo, godendo del luminoso calore che emanava, e sciolsi un po' di neve. Con mia grande sorpresa il lupo ignorò le mie azioni e accettò una ciotola di acqua fumante quando gliela misi davanti. Per me feci una tazza di tè, e mi sedetti a gambe incrociate, sorseggiandolo furiosamente, dondolando avanti e indietro, borbottando fra me. Quando si fu raffreddata Jack bevve la sua acqua, poi mi fissò finché non spensi il radiatore. «Sei un d-d-d-duro padrone, J-J-J-Jack,» balbettai. Il lupo mi guardò con calma, e si arrotolò per dormire ancora. Io lo imitai. Il mattino dopo la tempesta cessò. Ero così sintonizzato col suono sibilante della neve che sferzava la tenda, che quando tacque ne fui subito consapevole. Tentai di alzarmi, ma il lupo ringhiò, un ringhio basso di gola, e me lo impedì. A metà pomeriggio Jack mi consentì di alzarmi. La punta della tenda era inanellata da una luce splendente. Dall'altezza della neve contro la tenda, ne erano caduti quasi due piedi. Più di due piedi. Il nostro piccolo incavo ci aveva protetti da tutto, eccezion fatta per la neve che si era introdotta a forza. Senza quella protezione il gatto delle nevi sarebbe stato sepolto, invece passai solo un'ora e mezzo a liberarlo dalla neve. Oltre il nostro rifugio il resto del mondo era scomparso. Nel cielo azzurro non c'era una nuvola. La terra era una pianura di biancore. Persino le valli e le colline che avevamo oltrepassato nel nostro viaggio erano state cancellate dalla neve che tutto copriva. Verso est il nostro cammino era una distesa di eternità incolore, senza interruzioni nel paesaggio, né rifugi dal biancore. Jack trotterellò a breve distanza, si fermò, e si liberò. Poi tornò e mi spinse verso il gatto delle nevi, e si diresse a est finché fu solo un puntino nel bianco immenso. «Il capo sei tu,» borbottai, e levai il campo. 5 Percorremmo altre duecento miglia su quel piatto nulla. Finalmente, dove la linea della tempesta aveva tagliato verso nord, la neve cominciò ad assottigliarsi. Il mondo era ancora bianco in modo accecante, ma adesso le
cime delle colline e degli alberi erano visibili. Alla nostra sinistra si levarono le montagne, e scomparvero alle nostre spalle. Quella terra era aspra ma non altrettanto selvaggia, e ricominciai ad avere pensieri di umanità. Una volta, e solo una, vedemmo traccia di altra vita intelligente. Un pallone solitario, rosso e verde, passò alto su di noi, e la sua forma era una fantastica intrusione nell'azzurro e nel bianco che erano diventati il mio mondo. Era silenzioso, e troppo alto per poter distinguere chiunque nel cesto. Jack si accertò che ci nascondessimo all'ombra di una conifera, finché l'apparizione si fu spostata in un silenzioso tragitto sulla linea dell'orizzonte. Per il resto della giornata pensai al pallone, desiderai che si levasse nuovamente davanti ai miei occhi, portando un collegamento, colorato seppure tenue, col resto del mondo. Anche Jack sembrò consapevole dell'apparizione, e ci mantenne in prossimità di riparo e rifugio. Quattro giorni passarono. Il clima si riscaldò percettibilmente, da un freddo che intorpidiva le ossa a un gelo sopportabile. Anche il vento si era sedato. Di notte dormire era quasi pacifico. Tuttavia Jack sembrava inquieto, i suoi viaggi di perlustrazione si facevano sempre più lunghi. Una volta, quando non ritornò dopo quasi un giorno, pensai di averlo perduto. Fu allora che venni assalito da una vera e propria disperazione. Il pensiero di percorrere da solo quella bianca desolazione era ripugnante. Ero giunto a contare su quell'animale come ben altro che una guida. Temevo che senza di lui, senza quel legame col mondo dei vivi, avrei potuto impazzire. Ma ritornò. Non l'avevo mai visto tanto agitato. Nonostante stesse scendendo la notte, ringhiò e mi spinse finché non accettai di smontare il campo e ripartire. Il raggio dei fanali tagliava di netto l'oscurità calante. Jack me lo fece spegnere, e proseguimmo alla luce di una luna quasi piena. «Non capisco perché non potevamo aspettare domattina,» dissi, ma nella mia voce c'era solo un lieve rimprovero. In quel momento, felice com'ero di rivederlo, avrei provato a seguirlo fin sulla luna. Viaggiammo per ore. Se Jack aveva fatto tutta quella strada da solo, era davvero una creatura notevole, e a quanto pareva l'aveva fatta. Quando deviavo dal cammino che lui voleva che seguissi, ringhiava e mi spingeva col muso verso destra o verso sinistra, dove inevitabilmente trovavo le orme di Jack a guidarmi sulla neve, che illuminavo per un istante con i fanali.
Dopo metà della notte e altre cinquanta miglia, una città sorse di fronte a noi come una maestosa visione. Jack si sedette sulle zampe posteriori e ululò. Era una vista meravigliosa, e mentre ci avvicinavamo divenne ancora più meravigliosa. I minareti si levavano da una distesa piatta e bianca a perdita d'occhio. La neve turbinava per le strade, vergini e immacolate, tranne che per le impronte delle zampe di Jack. I fantastici colori alla luce della luna, l'arancio, il rosso, l'azzurro, erano belli da togliere il fiato. Ogni edificio era sormontato da una coloratissima torre a spirale. Le finestre scintillavano di vetri come gemme, tagliati in complicati disegni. La città sembrava uscita da un racconto delle Mille e Una Notte. Seguimmo le impronte di Jack lungo la via principale. Gli edifici presentavano alcuni danni. Il silenzio era quasi totale. Le porte dei negozi erano spalancate. La brezza fischiava attraverso una fessura aperta nella finestra di una chiesa riccamente ornata. Jack gettò indietro la testa e ululò ancora. In risposta giunse l'accenno di un lamento, che echeggiò sussurrando lungo le vie e nei vicoli. Di nuovo Jack ululò, e di nuovo gli rispose quel grido spettrale. Jack mi guardò solennemente. «Che cos'è?» chiesi. «Chi sta chiamando?» Jack mi fece segno di proseguire. Attraversammo vie silenziose, e la nostra scia sfregiava le strade come un intruso. I negozi si diradarono, trasformati come d'incanto in file di case vivacemente dipinte. Le finestre erano esagonali, a forma di diamante, ottagonali, dipinte, coi bordi smaltati, chiuse da vetri rosa e gialli. Mi fermai e misi in folle. Jack ululò ancora, e il lamento rispose, vicinissimo, alla nostra sinistra. Spensi il motore. Jack saltò giù dal gatto delle nevi e trotterellò davanti a me. Io lo seguii, prendendo la lanterna e un fucile. La porta della penultima casa a sinistra era socchiusa, e dall'interno proveniva quel grido inumano. Jack sembrava tranquillo; aprì la porta col muso ed entrò. Io accesi la lanterna. L'interno sembrava uscito da un libro di fiabe, con i mobili intagliati disposti in bell'ordine. Una sedia dall'aspetto curioso era stata tirata in mezzo alla stanza. Su di essa c'erano delle corde, e una delle corde era legata attorno al grilletto di un fucile da caccia.
In un angolo della stanza c'era un grande cesto intrecciato di forti ramoscelli. Jack ululò, e l'ululato risuonò nella piccola stanza come un verso inumano. Mi avvicinai al cesto. In esso, vivo a malapena, c'era un lupo. Mi chinai ad osservarlo da vicino. Era una femmina, spaventosamente magra, le cui costole si alzavano e si abbassavano come un mantice. Mi guardava con gli stessi occhi calmi di Jack, con la lingua penzoloni. Tornai al gatto delle nevi. In un attimo avevo scaldato l'acqua, e stavo versando il liquido caldo nella bocca della lupa, mentre Jack mi sedeva accanto e non gli sfuggiva nulla. Tentai anche di nutrirla, ma l'animale non riuscì a tenere giù i fagioli. Nella stufa a legna accesi un piccolo fuoco, e presto fummo caldi e comodi. «Come è successo, Jack?» Il lupo mi guardò con solennità, poi si avvicinò al tavolo vicino alla sedia con le corde. Sul tavolo c'era un taccuino, e lo presi. Non trovai nulla che riportasse il nome del padrone di casa, ma doveva essere stato un uomo importante. Sul taccuino era registrato il giorno in cui, a caccia sulle colline circostanti, aveva scoperto i resti di un massacro. A quanto pareva altri cacciatori si erano imbattuti in un branco di lupi e li avevano ammazzati quasi tutti. Gli unici vivi erano due cuccioli, Jack, che l'uomo aveva chiamato Chee-na, e una femmina, che aveva chiamato Rasee. Le parole significavano "luce" e "nuvole". Entrambi gli animali erano feriti. L'uomo li aveva portati a casa, e li aveva curati fino a guarirli. Dapprima i suoi vicini avevano pensato che fosse pazzo. C'era stato persino un moto di protesta per impedirgli di tenere le bestie. Ma quando Chee-na aveva salvato una ragazza che stava per essere uccisa da un leone di montagna, l'opinione dei cittadini era cambiata. Chee-na e Ra-see erano diventati celebrità locali, coccolati e rispettati. Il taccuino era pieno di storie di Chee-na e Ra-see. Il tono si faceva più tetro quando cominciava il tempo degli scheletri. L'uomo, e quasi tutta la città, avevano tenuto a bada l'invasore per giorni. Gli scheletri erano stati isolati, e molti erano stati uccisi. Poi un uomo del luogo, che era superstizioso, si era messo in testa che gli scheletri non dovevano essere fermati; si era suicidato, era diventato uno scheletro, e aveva aperto la città al nemico.
La maggior parte degli abitanti della città era stata uccisa, il resto era fuggito. Solo il padrone dei lupi e pochi altri avevano resistito. Per un poco erano stati lasciati in pace. Poi erano venuti a sapere che la guardia imperiale locale, ormai tutti scheletri, aveva ricevuto ordine di passare a tappeto ogni città e ogni villaggio, e di eliminare ogni opposizione residua. Era solo questione di tempo. Durante la prima incursione degli scheletri Ra-see era stata ferita, e si era ammalata. Lo scritto successivo era datato quattro settimane prima. Raccontava di come Chee-na una notte fosse scappato. L'arrivo degli scheletri era previsto numeroso entro pochi giorni. Il villaggio aveva ricevuto la visita di un pallone da ricognizione, rosso e verde, che volava molto alto e diffondeva volantini che ordinavano di deporre le armi e farsi convertire. L'ultima pagina spiegava come il padrone dei lupi non si sarebbe lasciato convertire. Aveva collegato a una sedia un aggeggio che l'avrebbe ucciso due volte, risparmiandogli così l'umiliazione di piegarsi alla volontà degli scheletri. La sedia in mezzo alla stanza, coperta di polvere, legata con le corde al grilletto del fucile, raccontava il resto della storia. Misi giù il taccuino. Jack era seduto vicino alla stufa a legna, vigile, con gli occhi fissi sul cesto. La lupa dormiva. Mi strofinai gli occhi, portai una sedia vicino al fuoco, e mi sedetti, guardando le fiamme. Verso l'alba mi addormentai, ma Jack era sempre sveglio, attento, quando chiusi gli occhi alla luce bassa della luna che brillava dalle finestre. 6 In due giorni Ra-see recuperò le forze. Un giorno ancora e cominciò a camminare. Il terzo giorno tenne giù i fagioli, assieme a un brodo di manzo che avevo fatto con dei dadi trovati nella credenza del villino. Io stesso mi sentivo meglio. Le notti nel villino erano calde e confortevoli, le giornate sopportabili. Esplorai la città. Quasi tutto il cibo era stato portato via. C'erano dispense con cracker e frutta secca, in quantità tale che un uomo che aveva mangiato fagioli per una settimana si sentiva un Re. C'era anche della benzina, e potei ripristinare le mie riserve quasi esaurite. Non avevo fretta di partire. Ma il mattino del quarto giorno Jack mi fece
capire che era ora di muoversi. «Dovremmo restare ancora un paio di giorni, Jack. Non credo che Rasee sia pronta a viaggiare. Io non sono pronto a mettermi in viaggio.» Guardai oltre i confini della nostra magica città, l'ondulata distesa bianca. Jack ringhiò. «Mi dispiace, amico. Stavolta decido io. Restiamo.» Mi allontanai da lui, vagamente apprensivo per non aver ascoltato i suoi capricci. Ma intanto la mia riluttanza ad andarmene superava la mia riluttanza a restare. Jack rimase dov'era, guardando silenzioso le distanti pianure ondulate coperte di neve. Quella sera lo ritrovai lì, che fissava sempre il cielo, sotto le stelle. «Jack, questo è ridicolo. Vieni dentro, adesso.» Tentai di tirarlo, ma resistette, con calma e fermezza. Quando insistei, mi ringhiò contro dal profondo della gola. Infine mi arresi e tornai al calore della stufa a legna, e alle cure di Ra-see. 7 Il mattino, Jack si era riunito a noi. Giaceva raggomitolato accanto a Rasee, che durante la notte aveva lasciato il suo cesto. Jack mi guardava con aria impenetrabile. Quando Ra-see si alzò, era ritta sulle forti zampe, e io ero disposto a dichiararla guarita. «Vedi, Jack? Una notte in più non ha guastato.» Quando aprii la porta della nostra casa, venni accolto da un altro giorno luminoso. «E questo cos'è?» La bellezza della giornata, e lo splendore degli edifici e dei minareti variopinti che mi circondavano, erano inquinati da migliaia di volantini che ricoprivano la terra e le case; erano annidati sui pendii dei tetti, facevano capolino dai canali di scolo, coloravano le strade. Mi chinai e ne raccolsi uno. In alto c'era un teschio ghignante, sotto c'era un messaggio in molte lingue: Cinese, Russo, Inglese, Francese, Italiano, decine d'altre, molte delle quali non riconobbi. Quando trovai la mia lingua d'origine, il Cambogiano, finalmente i miei occhi si fermarono a leggere. Era un messaggio semplice, diretto e raggelante: UMANITÀ! LA TUA CAUSA È PERDUTA! MA TI ASPETTIAMO PER ACCOGLIERTI A BRACCIA APERTE! LA MORTE E LA RI-
SURREZIONE SONO IL TUO FUTURO! GUARDA IN CIELO! LA TUA SALVEZZA VERRÀ A PRENDERTI! Immaginavo perfettamente quel solitario pallone, che volava alto sopra di noi nella notte, un puntino contro il cielo terso, illuminato dalla luna e trapunto di stelle, e Jack silenzioso testimone che seguiva con gli occhi il percorso del pallone, mentre i volantini scendevano fluttuanti come fiocchi di neve. Gettai a terra il volantino e entrai in casa. «Jack, avevi ragione,» dissi, ma Jack non diede alcun segno di compiacimento. Si limitò a passarmi davanti e a uscire, si diresse al gatto delle nevi e si fermò lì vicino. «D'accordo, Jack.» Dieci minuti dopo stavamo uscendo dalla città magica, senza guardarci alle spalle. 8 Verso est, e lentamente verso nord. In due giorni avevamo attraversato il fiume Anabar. In altri due giorni di rapida andatura l'Olenek e il Lena. L'Anabar era gelato, e anche l'Olenek, e li attraversammo facilmente. Ma il Lena, un corso d'acqua ampio e rapido, era una confusione di banchi di ghiaccio galleggianti, e fummo costretti a dirigerci a nord per trovare un ponte. Le giornate erano fredde e limpide, e così anche le notti. Ma l'inverno aveva allentato la sua morsa in quella regione, e in alcuni punti una chiazza verde o marrone faceva capolino sui pendii delle colline. All'inizio Rasee viaggiava con me, avvolta nelle coperte. Verso la fine di quella settimana cominciò a camminare, avventurandosi in una breve missione esplorativa col suo compagno. La loro compagnia mi mancava, sebbene non si allontanassero per molto tempo. Di notte Jack e io guardavamo assieme il cielo. La catena del Verkhoyansk si levò davanti a noi, una sequela di montagne basse e massicce. Persino nella mia inesperienza sapevo che valicarle sarebbe stato difficile. Guadammo un corso d'acqua coperto da un sottile strato di ghiaccio, che si ruppe sotto il peso del mio stivale. Sotto, l'acqua precipitava e gorgogliava. «Dovremo muoverci lentamente, Jack,» dissi, e le mie parole servivano più a me che al lupo, che non ne aveva bisogno. Aveva preso l'abitudine di
procedere un centinaio di iarde davanti a noi, indicandoci la strada per inoltrarsi sulle montagne. Salendo la neve aumentava, e aumentava il freddo, ma ancora l'equilibrio tra gelo e disgelo era precario. Soprattutto temevo un falso ponte di ghiaccio. Una volta, quando il nostro cammino sembrava ormai deciso, Jack tornò indietro per dissuadermi dall'avanzare su una striscia di ghiaccio e neve apparentemente sicura. A confermare il suo intuito, la neve crollò in banchi scricchiolanti, rivelando un abisso profondo. Lo ringraziai affondando una mano nella sua pelliccia e accarezzandogli la schiena. Accettò il complimento senza fermarsi, e si allontanò per tracciare un nuovo sentiero. Ma venne un giorno in cui la nostra fortuna e l'abilità di Jack vennero meno. Neppure Jack avrebbe potuto evitare la nostra disgrazia. Una tempesta improvvisa si levò tra le montagne, lasciò cadere un pollice di neve e durante la notte scemò cancellando le tracce del nostro passaggio. Poi il sole si fece caldo e sciolse la neve. Quel pomeriggio la temperatura scese improvvisamente com'era salita, e continuò a scendere. Il mattino dopo il nostro sentiero era coperto da uno strato di ghiaccio. Stavamo percorrendo una linea retta attraverso la profonda fenditura che divideva due picchi, ma ci trovammo di fronte a una salita. Il sentiero pianeggiante ci aveva ingannati. Ad ogni passo la zampa anteriore di Jack rompeva la crosta di ghiaccio per incontrare il vero sentiero più sotto. Ad un certo punto il ghiaccio si incrinò, e Jack affondò fino al collo. Dovette fare forza sulle zampe posteriori per liberarsi, e mentre si tirava indietro la lastra di ghiaccio che sosteneva il gatto delle nevi si staccò. Ciò che era stato liscio e solido si incrinò e si ruppe. Lanciai un grido. Il gatto delle nevi traballò e si piegò minacciosamente a destra. Io venni quasi sbalzato fuori; Ra-see assisteva impotente poco lontano. Il gatto delle nevi rimase immobile per due secondi, poi con un boato l'area di fronte a me crollò, e la parte anteriore del mezzo cingolato affondò, si raddrizzò per un istante e si inclinò bruscamente in avanti. Io strinsi forte il volante, con la paura persino di respirare. Sotto di me si apriva un abisso profondo almeno duecento piedi. Il gatto delle nevi si piegò cigolando in avanti, si fermò. Il blocco di ghiaccio che fino a un momento prima aveva contribuito a sostenere il peso del mezzo cingolato scivolò via nell'abisso, e lo guardai ruzzolare e in-
frangersi contro le pareti della rupe di ghiaccio. Rimasi immobile, incapace di muovermi. Trattenni il fiato, il gatto delle nevi scivolò in avanti e poi si arrestò, con i pattini posteriori affondati nella neve. Poi, sempre molto lentamente, il peso lo trascinò in avanti e verso il basso. Guardai Jack, paralizzato sul bordo dell'abisso, che mi fissava, e presi in fretta una decisione. Mi girai e cominciai a gettare le nostre scorte di cibo giù dal gatto delle nevi, più rapidamente che potei. Poi la tenda. Ormai dovevo sollevare i nostri averi oltre il ciglio dell'abisso. Il gatto delle nevi scivolò ancora di un paio di pollici, e dovetti alzarmi in piedi sul sedile per raggiungere il bordo del precipizio, ma le mie mani non trovarono nessun appiglio sul ghiaccio scivoloso. Sotto di me il gatto delle nevi si abbassò ancora stridendo, e scivolò verso il basso. Freneticamente mi arrampicai sullo schienale del sedile e affondai le mani nel ghiaccio e nella neve mentre i piedi perdevano l'appoggio. Sentii qualcosa di duro, un picco sporgente, e mi aggrappai ad esso mentre il gatto delle nevi cadeva. Guardai e mi mancò il fiato. L'abisso si era ingrandito, e adesso stavo guardando in un crepaccio quasi senza fondo, e il gatto delle nevi precipitava e si schiantava contro le pareti di roccia ghiacciate, sparendo in un attimo fra turbini di neve. Chiusi gli occhi e li riaprii su Jack, che si era avvicinato a me sul ciglio del crepaccio. Senza un suono aprì la bocca, piantò le zampe posteriori nella neve, si abbassò e prese la mia manica tra i denti. «Va bene, Jack,» sussurrai, «d'accordo, ci provo.» Mi tirai su. Tentai di sostenermi con i piedi alla parete rocciosa, ma non c'era nessuna parete rocciosa, solo neve, che si sbriciolava ad ogni tentativo, lasciandomi appeso nel vuoto allo spuntone di una rupe. Ringhiando per lo sforzo, Jack mi trattenne per la manica. Chiusi gli occhi, respirai a fondo e mi tirai su. Quasi ce la feci, riuscii a sollevare un braccio oltre il bordo, poi ripresi a scivolare giù. Apparve Ra-see, chiuse i denti sull'altra mia manica e mi trattenne dov'ero. Mi riposai un secondo, poi, facendo leva sul braccio teso, mi issai portando oltre il bordo anche la manica tenuta da Jack. Scalciai nel vuoto, trovai la rupe e la strinsi con le ginocchia, riuscendo finalmente ad arrampicarmi fuori dall'abisso. Strisciai in avanti, allontanandomi dal precipizio, e giacqui supino, ansante, a guardare il cielo. Poi vidi i due lupi fermi a rispettosa distanza, che mi fissavano impassibili.
«Venite qui,» dissi. Li presi tra le braccia, e strofinai la faccia contro i loro musi. Risi, col. corpo ancora tremante per la vicinanza della morte, e gridai, e sentii la mia voce echeggiare tra le cavità delle gole: «Sono vivo!» 9 Eravamo a piedi. Avevo salvato la tenda, ma non i lunghi picchetti che Jack mi aveva così pazientemente insegnato a usare. Avevo una coperta, ma il radiatore era perduto. Avevo un'arma, una pistola, con solo sei cartucce, e metà delle nostre provviste di cibo, abbastanza forse per una settimana. Con un'imprecazione irrazionale mi accorsi che erano tutti fagioli. Tuttavia, con Jack che mi guardava senza nemmeno un'ombra di smarrimento, mi riuscì difficile essere adirato a lungo. «Ce l'abbiamo fatta finora,» dissi, «e ce la faremo fino in fondo.» Quella notte non fu penosa come avevo temuto. Un ruscello di montagna ci portò acqua fresca, e inspiegabilmente i fagioli avevano un buon sapore. Non c'era vento, e rizzai la tenda con facilità, senza obiezioni da parte di Jack, nell'incavo tra due pareti, con pietre che ancoravano gli angoli. La temperatura si era scaldata di nuovo percettibilmente, e avevamo quasi oltrepassato le montagne. Ancora pochi giorni, e con un po' di fortuna avremmo potuto trovare una città o un villaggio sul versante opposto, e rifornire le nostre scorte. Forse avremmo persino potuto trovare una altro gatto delle nevi. Quella notte dormii profondamente come nelle settimane precedenti. Il mattino mi svegliai e scoprii che Jack e la sua compagna se n'erano andati. Supposi che fossero andati avanti in perlustrazione, e cominciai a preparare la colazione. Prometteva di essere un altro giorno limpido, con appena l'accenno di un cumulo di nubi per rompere il bellissimo tedio del cielo. Avevo sete, e andai al ruscello a bere. Immersi la mano a coppa nell'acqua e la portai alla bocca. «Umano! Fermati, per favore!» Per un attimo pensai di sognare, pensai che la voce fosse solo una mia fantasia. «Umano!» Lentamente mi alzai e mi girai, con l'acqua che sgocciolava dalla mano ancora a coppa. «Sì, tu! Benvenuto nel mondo!» Mi trovai di fronte a uno scheletro, ma l'angolatura della luce del mat-
tino mi mostrava il profilo di un Orientale magro e sottile, dalle lunghe mani. Indossava abiti di una luminosità abbagliante, e restai sorpreso per le sfumature dei colori. Era come se indossasse un arcobaleno. «Tu mi ammiri! Per favore non farlo! Nessun uomo merita ammirazione!» La sua voce era esile e acuta, ma forte. Si inchinò. «Io sono Yu Fon, dell'undicesimo secolo A.C.» Tese le mani, con i palmi rivolti verso l'alto. «E tu?» disse. «Io sono...» non conclusi. «Non importa. Sei chi sei. Seguimi.» Si girò e si allontanò. «Se cerchi la fuga, non sprecare energia. So dove ti trovi. Ritornerei, semplicemente. E non puoi nemmeno uccidermi.» Non lo seguii, ma girai attorno alla formazione rocciosa dalla quale si era avvicinato. Dall'altra parte, su una piccola piana rocciosa, c'era il pallone rosso e verde che io e Jack avevamo visto. Era legato a un picchetto infisso nel terreno, e beccheggiava pigramente a pochi piedi da terra. Il cesto era di giunchi colorati fittamente intrecciati a formare immagini: dei soli, una luna sorridente, una nuvola impenetrabile sopra un mare ondoso. Le immagini erano separate da minuscoli disegni dello stesso pallone, con dovizia di particolari. «Le cose tu puoi ammirare, in quanto risultato dell'opera delle nostre mani, e provenienti da Dio.» Yu Fon era in cima alla formazione rocciosa nella quale l'avevo visto sparire. Mi voltai e corsi verso la tenda. «La fuga è uno spreco di energia!» Mi guardai indietro, ma non era più lì. Respirando affannosamente, corsi nella tenda, frugai tra ciò che restava delle provviste e trovai la pistola. Uscii, e vidi Yu Fon che mi aspettava fuori dalla tenda. Si inchinò. «Umano.» Mirai, e sparai. Risuonò uno scatto a vuoto. «Mi sono preso la libertà,» disse Yu Fon. Aprì la mano, e sul palmo c'erano le cartucce. Con un grido mi gettai su di lui, ma mi evitò facilmente. Quando mi girai per fronteggiarlo, non era dove l'avevo visto andare, ma dalla parte opposta, in piedi davanti alla tenda. «Vuoi seguirmi, adesso?» disse. «Il pallone aspetta!» Urlai un'imprecazione, e lo attaccai di nuovo, ma quando cercai di af-
ferrarlo non era più lì. «Il movimento è elusivo!» disse. Girai in tondo, senza trovarlo. Dopo un poco lo vidi in cima alla formazione rocciosa. Si voltò e iniziò a scendere dall'altra parte, verso il pallone. «Aspetterò!» disse. Io smontai in fretta il campo, mi misi lo zaino in spalla, e mi allontanai dal pallone, mettendo un miglio buono tra me e il luogo dove mi ero accampato. Guardai indietro e vidi che il pallone non era più ormeggiato al suo posto. Ansiosamente controllai il cielo, ma non ne vidi alcuna traccia. Ripresi a camminare. A mezzogiorno mi aspettavo di ritrovare Jack e la sua compagna, ma non si fecero vivi. Mi venne in mente che Yu Fon poteva aver fatto loro del male, e d'un tratto desiderai di vedere ancora lo scheletro, e di strangolarlo a morte se necessario per farmi dire cosa aveva fatto ai miei compagni. Quel giorno e quella notte furono solitali. Rizzai la tenda sotto uno spuntone di roccia, e osservai l'acqua, sgocciolante durante il giorno, tramutarsi in incerti ghiaccioli al freddo della notte. Mangiai, pensando che presto il mio cibo sarebbe finito. La notte attesi di udire l'ululato dei lupi, ma non sentii nulla. Il mattino dopo, il terreno attorno al campo era coperto dai volantini di Yu Fon: UMANITÀ! LA TUA CAUSA È PERDUTA! MA TI ASPETTIAMO PER ACCOGLIERTI A BRACCIA APERTE! LA MORTE E LA RESURREZIONE SONO IL TUO FUTURO! GUARDA IN CIELO! LA TUA SALVEZZA VERRÀ A PRENDERTI! Feci a pezzi quello che tenevo in mano e lo gettai a terra. «Villano!» disse la voce di Yu Fon. Guardai in cima allo spuntone di roccia, ed era lì, col suo pallone ormeggiato a trenta piedi dietro di lui. «Vieni! Abbiamo perso abbastanza tempo a terra. I cieli attendono!» disse, e si voltò verso il pallone. Mi arrampicai sullo spuntone di roccia e gli corsi dietro. «Cos'hai fatto ai miei lupi!» Evitò con facilità i miei attacchi, lasciandomi senza fiato. «Io non mi preoccuperei dei lupi,» disse Yu Fon. «I lupi vengono da Dio. Provvedono a loro stessi, in cielo o in terra.» «Li hai uccisi?» gridai. Di nuovo tentai di afferrarlo, e di nuovo afferrai solo aria. Quando mi arresi, si trovava una iarda alla mia destra, con le
braccia conserte. «È ora,» disse, e si incamminò verso il pallone. Io corsi via da lui, feci fagotto, e ripresi il cammino. Andò avanti così per quattro giorni, durante i quali feci poca strada, preoccupato per Jack e Ra-see, ed esaurii le mie scorte. La tenda si impigliò in una roccia, si strappò e divenne inutilizzabile. Dormii per terra. La sera del quarto giorno mangiai l'ultima scatola di fagioli, e cominciai a sentire i crampi allo stomaco. Yu Fon atterrò col suo pallone a un centinaio di iarde da me, eclissando la luna. Guardai la figura sottile del suo scheletro uscire dal cesto, ormeggiare il pallone, e risalire. «Non volerò con te!» gridai, e scappai da lui nell'oscurità mitigata dalla luna. Il giorno dopo trovai un cespuglio di bacche e alcune radici simili a delle rape, ma le bacche si rivelarono non commestibili, e trascorsi un giorno intero piegato in due dal dolore. I crampi non passarono fino a sera. Durante il mio malessere ebbi delle visioni, vidi il pallone che ballava nel cielo sopra la mia testa, facendo giravolte e passi di danza, con Yu Fon che con una bacchetta gettava nel cielo colori che si mischiavano e vorticavano tra le rade nubi. Quella notte, mentre cercavo di prendere sonno, sentii Yu Fon che mi sussurrava all'orecchio: «Vieni, è ora!» Aprii gli occhi. Stava già ritornando verso il pallone. Guardai ciò che avevo, ciò che avrei ottenuto. Non avevo niente. Il mio cibo era finito, il mio rifugio non c'era più, i miei compagni se n'erano andati. Non sarei sopravvissuto da solo in quel territorio sconosciuto, con i suoi cibi sconosciuti. All'orizzonte non erano apparsi né città né villaggi. Avrei potuto vagare per giorni, o per settimane, e alla fine sarei impazzito. Vacillai fino al pallone di Yu Fon e guardai nel cesto. «Ti chiedi,» disse Yu Fon nel buio, «se ti ucciderò.» «Sì.» «Ti chiedi se ti trasformerò in una creatura come me, perché farlo è nella mia natura.» «Sì.» «Il tempo lo dirà,» rispose. Salii nel cesto, e sentii la morbidezza dei cuscini e della paglia sul fondo. Yu Fon mollò gli ormeggi e il pallone si alzò, baciando le nuvole e la
dolcezza delle tenebre celesti. Yu Fon cantò, una tenera melodia cinese che mi rammentava l'infanzia, tanto tempo prima in Cambogia, e mi abbandonai al torpore del sonno. 10 Mi risvegliai ancora umano. La luce del giorno era forte. Sopra di me vidi l'apertura nel pallone per il passaggio dell'aria calda, e sotto il compressore di metallo a gas. La mano scheletrica di Yu Fon si tese verso la leva, e un sibilo possente di fuoco sprizzò su nel pallone, che si alzò visibilmente e parve sbattere contro il cielo. Mi sedetti. Il cesto era grande, delle dimensioni di una piccola stanza. Lungo il perimetro c'erano delle sedie, e da una parte c'era un tavolino coperto di strumenti e mappe arrotolate. Lì vicino c'era una scatola smaltata di nero, dipinta di giallo con stelle e falci di luna, e accanto a quella c'era un'altra scatola, e di fianco c'erano mucchi di volantini. Sul pavimento, tra i cuscini, erano sparsi dei libri. «Dormito bene?» disse Yu Fon. «Sì.» «Bene! "La mente stanca anela al sonno, ma la mente riposata anela alla conoscenza".» Sorrise lievemente. «È una cosa che ho detto io tremila anni fa!» Il mio stomaco brontolava. «E allo stesso modo,» disse, «lo stomaco affamato anela al cibo.» Aprì la scatola vicino a quella smaltata, e tirò fuori delle verdure e un pacchetto di cracker, che divise dandomi la parte più abbondante. Dopo aver rivolto al cibo un'occhiata sospettosa, la fame sopraffece la diffidenza, e mangiai. «Adesso anche lo stomaco è felice!» Mi alzai e sentii il cesto ondeggiare leggermente. Guardai oltre la fiancata, e vidi il mondo scivolare via, come una trapunta su cui fiumi e ruscelli tagliavano la terra verde, bruna, e bianca in pezze e strisce. «Vengo dal sud, dove sono nato,» disse Yu Fon. «Dalla provincia di Qinghai, come si chiama adesso. Abbiamo laghi bellissimi, non tanti come Xizang Zizhaqu, ma più gradevoli alla vista. Io sono nato nei pressi di un lago, e sono cresciuto nuotandoci dentro. Più tardi, con i miei palloni, ho imparato a nuotare nel cielo.» Lo guardai. «Perché non hai cercato di uccidermi?»
«Uccidere non è la parola giusta,» disse. «Ho meditato profondamente e a lungo, e nella mia mente questa conoscenza è serena. Convertire, che denota cambiamento, e non morte, è un termine più corretto.» Sbuffai. «Uccidere è la parola giusta.» «Non credo,» disse. «Ma possiamo discuterne. Se fossimo entrambi umani, e io ti colpissi, tu andresti in un altro luogo, e sarebbe omicidio. Ma se ti colpissi adesso, non andresti in un altro luogo. Resteresti qui. Solo la tua carne si dissolverebbe. Avresti un nuovo aspetto, forse, ma saresti ancora qui.» «Quanti ne hai uccisi?» chiesi. «Ho letto il tuo volantino. Quanti ne hai abbattuti?» «Come ho detto...» «Convertimi, allora!» dissi, irritato dalla pacatezza della sua voce. «Ah.» Mi guardò. «Migliaia. Ma solo quand'erano pronti, e me lo chiedevano.» «Cosa!» «Tanto tempo fa, nella mia prima vita, decisi di vivere in pace e tranquillità. Per un certo periodo fui un mago. La mia epoca, come tutte le epoche, era travagliata. Gli uomini tentavano di trarre profitto da altri uomini, e uccidevano altri uomini per i loro averi. Questo, decisi, non era giusto. Io bramavo una vita di contemplazione, e così partii dalla mia provincia, diretto a nord, dove avevo sentito dire che vivevano uomini di contemplazione. Li trovai nel paese che voi adesso chiamate Mongolia. Atterrai lì col mio pallone, e vissi tra di loro, e imparai a pensare. Presto ripartii, non desiderando più di stare tra gli uomini, e continuai a vivere nel cielo da solo, più vicino a Dio. Lì i miei pensieri erano più sereni, più puri. «Ma ahimè, un giorno il mio pallone si schiantò a terra, e io rimasi ucciso. Così si conclusero i miei giorni di contemplazione! «E invece no! Improvvisamente mi sono ritrovato di nuovo su questa terra! «Il mio solo dovere, decisi, era di riprendere a pensare in modo puro. Così sono ripartito con questo nuovo pallone, fatto in quest'epoca, e ho cercato di svelare i misteri di questa nuova esistenza.» Sbuffai ancora. «E cos'hai scoperto?» «Molto. Non tutto. Ho scoperto in me un desiderio innato di distruggere gli umani. Quando mi sono svegliato, e sono uscito da sottoterra, ero vicino a una strada. Sulla strada camminava un ragazzo con un bastone in spalla, legato al quale c'era un involto con dentro del cibo. Ho sentito un ir-
refrenabile impulso a colpirlo. L'ho fronteggiato, e ho levato il pugno su di lui, pronto a colpire. Questo all'inizio mi ha sgomentato e inquietato. Mai prima avevo albergato il desiderio di fare del male. Ho visto quest'impulso in tutti quelli come me, e ho pensato che ci dovesse essere una ragione, e per il bene. La natura di un essere è la natura stessa, e la sua vera natura è sempre per il bene. «Ma non ho colpito il ragazzo. Invece gli ho chiesto se desiderasse essere colpito. Ha gridato di no, ed è scappato. «Nel corso di quei primi giorni, e delle prime settimane, nella confusione che mi circondava, ho meditato profondamente e a lungo su questo mio impulso. Tutt'attorno a me gli altri indulgevano in esso senza ritegno. Quello, ho pensato, era sbagliato, nonostante l'impulso stesso dovesse scaturire dal giusto. «Infine mi sono schierato con un condottiero del quinto secolo A.C., che trionfava nella sua Nazione. Mi ha preso con sé come mago di corte, e ha iniziato a chiedermi i miei pensieri. Ho studiato molti libri, antichi e moderni, e l'ho messo a conoscenza dei miei pensieri. Mi considerava un saggio. Eoi ha esaudito il mio desiderio di avere un pallone, per poter diffondere il mio pensiero in tutta la Cina. «Ed ecco qui ciò che ho imparato, quello che tanto affascinava il condottiero, tanto da permettermi di diffondere la mia parola. Per trovarmi qui adesso devo essere arrivato da un altro luogo, un luogo che, sinceramente, non ricordo. E questo è valido per tutti quelli come me. «Sono andato in quel luogo quando il mio pallone è precipitato nell'undicesimo secolo A.C. Forse non è logico che per arrivare in un luogo, bisogna essere partiti da un altro luogo? Ovviamente ci deve essere una ragione per cui io mi trovo qui adesso. E se è nella mia natura voler...» «Basta,» dissi, annoiato dai suoi ragionamenti. Pensavo solo a Reesa, e a mio figlio, e a tutti quelli che avevo visto massacrare dall'inizio di quella follia. Il tentativo di Yu Fon di giustificarla mi irritava e mi intimoriva. «Forse più tardi...» «Non voglio più sentire le tue sciocchezze,» dissi. «Basta che non mi uccidi, o non mi converti, mentre sono con te.» «Farlo senza il tuo consenso sarebbe peccaminoso!» «E allora non commettere peccati.» Mi rivolsi alla vista che scorreva sotto di me, e mi persi nella sua bellezza, e quando più tardi Yu Fon aprì la scatola smaltata di nero, e fece delle magie per me, e sparse colori tra le nuvole che attraversavamo, come
aveva fatto quando credevo di avere avuto delle visioni, non protestai. Più tardi ancora, alla luce arancione del sole morente, Yu Fon si ritirò in contemplazione a leggere, come notai con una risata beffarda, un libro che io avevo letto al college, Moby Dick. «L'eterna lotta tra il bene e il male percorre ogni epoca e cultura,» disse notando il mio interesse. E ancora più tardi, quando la luce scemò e lui ripose il suo libro, e si appoggiò a riposare il teschio contro il fianco del pallone, e chiuse gli occhi, prima che io chiudessi i miei, lo guardai per un momento quasi con affetto, sapendo che una parte di lui, forte e vitale, voleva distruggermi, ma che un'altra parte, più umana, la sua mente e il suo intelletto, non gliel'avrebbe permesso. Quella notte dormii più profondamente di quanto fossi riuscito a fare dall'inizio della follia, e sognai ancora la ragazza dalla carnagione scura e la grande nave inclinata. 11 Il giorno seguente, mentre scivolavamo su un banco di nubi sottili che facevano sembrare la terra rannicchiata sotto una coperta da neonato, mi venne in mente che Yu Fon non aveva più distribuito volantini. «Non ce n'è bisogno,» disse. «Perché?» «In questa zona non ci sono più umani. Non ce ne sono più in tutta la Cina e in tutta la Russia. Non ce ne sono più nemmeno in America, in Europa e in Australia, in quanto a questo.» La rivelazione mi colpì come una cannonata. «Il genere umano è scomparso?» Scosse la testa. «Sono rimasti in pochi. Gli Americani, una razza piena di inventiva, hanno perfezionato una macchina volante per trovare i superstiti. Presto...» «Presto sarà la fine,» dissi. Yu Fon mi guardò con calma. «Dove mi stai portando?» chiesi. «Dove ci porta il fato,» rispose enigmaticamente. Più tardi gli chiesi: «Yu Fon, hai sentito parlare di Kral Kishkin?» «Tutte le razze hanno sentito parlare di Kral Kishkin, in una forma o nell'altra. In Cina lo chiamavamo Fo Yin, Colui Che Ricomincia.»
«Mi hai chiesto chi sono.» «Sì.» «Io sono Kral Kishkin.» «Ah.» «Cosa significa?» Non disse nulla, e tacque per tutto il giorno, badando al suo pallone, leggendo, preparando un pasto per entrambi. Trascorse il resto del tempo perso nei suoi pensieri, con la schiena appoggiata contro il cesto. Quando gli parlavo si portava un dito alle labbra, pregandomi di fare silenzio. Nel tardo pomeriggio le sue labbra si distesero in un vago sorriso, e d'un tratto si mise a cantare, il dolce canto cinese che avevo sentito la prima notte in pallone. Mi sorrise. «Tutto è chiaro!» disse. Chiuse gli occhi e cantò per un'ora. Mentre il sole scendeva nella foschia studiò le sue carte, apportò delle correzioni, e buttò giù un sacchetto di sabbia perché salissimo più in alto. Poi mi chiamò al suo fianco, vicino al becco a gas. «Devi imparare qualcosa,» disse. «Quando il pallone atterra, devi tenere la mano su questa leva. Stai leggero e pronto! Prova!» «Perché?» «È necessario!» Mi ritrassi leggermente al suo tocco freddo e spettrale quando mi prese la mano e me la fece appoggiare sulla leva del becco a gas, guidandomi con poche parole precise nell'apprendimento dell'uso. «Bene!» Mi insegnò a usare i sacchetti di sabbia, a misurare il vento, a variare la direzione del pallone e usare le correnti. «Ancora, bene!» Poi si sedette, posò il teschio contro la parete del cesto, e cantò soddisfatto, e la voce sottile si levò al di sopra delle nubi mentre la notte discendeva su di noi. 12 Il mattino dopo mi svegliai, raggomitolato sul fondo del cesto, e vidi Yu Fon sopra di me che mi fissava. Ebbi un improvviso timore di quelle orbite senza fondo, dell'impietoso ghigno di quelle mandibole, e solo quando riuscii a scorgere il vago e diafano profilo delle sue fattezze umane, vidi che non si trattava di un mostro. «È ora,» disse.
Osservai il suo volto calmo, cercando la rabbia furiosa che preannunciava la sua resa agli istinti, e il suo tentativo di convertirmi. Ma invece si rialzò e andò al bordo del cesto, da dove si mise ad osservare l'orizzonte a settentrione. Mi avvicinai a lui. «I venti sono buoni!» disse. «Avrai pochi problemi. Tu sei affamato!» mi mostrò il tavolino, sul quale c'era un pasto preparato per una persona sola. Mi posò brevemente una mano sulla spalla. Senza una parola salì sul bordo del cesto e saltò giù. Sconvolto vidi i suoi abiti fluttuare e aprirsi come un paracadute, facendolo girare sul dorso. «Perché l'hai fatto?» gridai. Tese le mani, allontanandosi verso la bellissima terra, e sorrise con quel suo sorriso calmo. «Perché?» gridai ancora. «Quando si visita un luogo,» mi gridò in risposta, e la sua voce mi giunse fioca, «poi si ritorna sempre a casa!» «Non parlare per enigmi! Dimmi perché!» «Vola verso il tuo destino...!» disse in un sussurro che subito si perse. «Yu Fon!» Ma ormai era scomparso, giù tra le nubi, giù sulla terra rattoppata, e io ero solo, e già sentivo la sua mancanza. 13 Yu Fon aveva ragione; i venti erano buoni. L'unico mio errore di navigazione mi portò più vicino alla terra, ma invece di dispiacermene, la assaporai, ne osservai gli alberi, studiai i riflessi del pallone nei laghi freddi e scintillanti. Sotto di me il mondo era come una pellicola che si srotolava. Quando il sole oltrepassò lo zenit apparve uno stormo stridente di scheletri di gabbiani. Fissarono il pallone, e pensai che potessero attaccarmi. Mi preparai con una carta arrotolata per allontanarli, ma erano solo in cerca di cibo, e quando non gliene offrii volarono via. Mi resi conto in seguito che erano forieri d'acqua, quando vidi l'orizzonte distendersi in un alternarsi di rocce e ghiaccio che mi veniva rapidamente incontro. Osservai la costa che si avvicinava. «Jack!»
Su un alto sperone di roccia c'erano Jack e la sua compagna che guardavano il pallone spostarsi lentamente. «Jack!» lo chiamai. Il lupo buttò indietro la testa e ululò, imitato un momento dopo dalla sua compagna. Tentai disperatamente di seguire le istruzioni di Yu Fon per la discesa. La sottile spiaggia sabbiosa sotto la scogliera si avvicinò. Io stavo perdendo quota, ma troppo lentamente, e mi sarei trovato sull'acqua prima di atterrare. Mi guardai indietro. I due lupi stavano scendendo dalla scogliera verso la spiaggia. L'acqua si avvicinava. Poi, d'un tratto, bloccato dalla scogliera, il vento cessò, e io precipitai in un atterraggio un po' brusco a poche iarde dalle onde. Saltai fuori dal cesto portando tra le braccia il rotolo di corda da ormeggio, e cercai di assicurare il pallone. Invece il vento riprese, e il pallone si sollevò verso l'alto, lasciandomi disperatamente attaccato alla corda tesa per impedire che il pallone si allontanasse senza di me. Jack e Ra-see corsero lungo la spiaggia verso di me, e io diedi uno strattone violento alla corda. Il pallone toccò di nuovo terra. «Jack! Svelto! Salta dentro!» Indicai il pallone, e mi chinai offrendo a Jack la mia schiena come punto di appoggio. Lo sentii saltare su di me, seguito da Ra-see, e balzare nel cesto. Un'improvvisa folata di vento sollevò il pallone sull'acqua, e il pallone mi trascinò, attaccato alla corda di ormeggio, si alzò e poi ricadde, tuffandomi tra le onde. Spostando una mano dopo l'altra, mi arrampicai fino al cesto, e mi issai oltre il bordo. Subito mi diressi alla leva del gas, e sparai un getto infuocato nell'apertura del pallone. Ci alzammo, e sotto l'acqua parve ritirarsi. Dietro di noi la terra si allontanò, e poi scomparve, e noi continuammo a volare verso est. Il mondo, improvvisamente, era fatto d'acqua. 14 Fu Jack, di guardia ritto su una sedia, con la lingua penzoloni e la pelliccia arruffata dal vento, che avvistò per primo l'isola e la nave. Ra-see, che aveva sofferto per il viaggio, giaceva arrotolata sulla parte più morbida
del cesto, e dormiva. Sia lei che Jack mostravano evidenti segni di aver partecipato a più di una battaglia, con bestie, probabilmente scheletri, che potevo solo immaginare. Nessuno dei due, comunque, aveva riportato brutte ferite. Il famelico appetito di Ra-see aveva contribuito parecchio a rassicurarmi sulla sua buona salute. Avevo appena controllato, e l'avevo dichiarata guarita, e mi stavo alzando per raggiungere Jack al timone quando il lupo si mise a ululare. Gli andai accanto e fissai l'orizzonte, ma vidi solo una striscia di foschia bassa che si stendeva sull'acqua. Presto però la foschia si delineò e crebbe, arrotondandosi nel profilo costiero di un'isola. Jack ululò di nuovo. Appena visibile ai miei occhi c'era la forma allungata di una nave tirata in secco, la nave che avevo visto nei miei sogni. «Jack!» esclamai. Iniziò la nostra discesa, e l'isola si ingrandì. Sembrava un vero paradiso, un folto intensamente verde di alberi circondati da una bianca spiaggia sabbiosa. Un promontorio roccioso si levava alla lontana estremità, offrendo alla vista un'alta cascata che brillava come un nastro di cristallo e precipitava in un limpido specchio d'acqua. Ci abbassammo ancora, e la nave divenne nitida. Impressa sulla prua c'era la parola Arca. Era leggermente inclinata, proprio come nel sogno, e sembrava che fosse stata trascinata a riva fin dove poteva arrivare. Sulla fiancata si apriva una falla frastagliata. Ben presto ci saremmo lasciati l'acqua alle spalle, e ci saremmo ritrovati sopra la spiaggia. Vidi accanto alla nave una figura pelosa che indicava con gesti agitati nella nostra direzione, e poi spariva dietro la nave. Riapparve un momento dopo e puntò qualcosa contro di noi. Quando mi accorsi che si trattava di un fucile, partì un colpo. Il pallone ebbe un sobbalzo e cominciò a scendere. Stavamo perdendo rapidamente quota. Vennero sparati altri colpi. Accesi il getto di gas, ma non riuscì a tenerci in aria, e andammo alla deriva sull'acqua. Il pallone vacillò e si accasciò, e cademmo in acqua. Il cesto si ribaltò e vidi Jack affiancarsi a Ra-see, e nuotare assieme a lei verso la spiaggia. Io andai sotto. Quando tornai in superficie individuai la spiaggia a circa duecento iarde di distanza. Mi misi a nuotare. I due lupi erano davanti a me. Mentre mi avvicinavo alla riva, prima una gamba, e poi l'altra, vennero afferrate dai crampi. D'un tratto fui come una pietra, e boccheggiando per un ultimo respiro affondai, incapace di muovere le gambe.
Tentai di risalire a forza di braccia. I polmoni avevano bisogno d'aria. Risalii un poco, e vidi la luce riflettersi sull'acqua pochi piedi sopra di me, ma sapevo che non ce l'avrei fatta, e cominciai ad affondare di nuovo mentre i polmoni stavano per arrendersi. Poi sentii Jack sotto di me, che mi spingeva verso l'alto, e la mie braccia riacquistarono vita. Con Jack che mi sosteneva le gambe riuscii a muovere le braccia e a raggiungere la superficie, con i polmoni che minacciavano di scoppiare. Sputai l'acqua che avevo in bocca e inalai ossigeno, e sentii che stavo per perdere i sensi. Jack mi rimase accanto, finché le mie gambe, pesanti come piombo, toccarono il fondo. L'acqua si abbassò gradatamente, e barcollai fino sulla spiaggia, tentando di riprendere fiato, e lì crollai. Qualcuno si ergeva sopra di me. Sentii un grugnito. Cercai disperatamente di restare cosciente, ma di colpo persi i sensi. Quando mi svegliai, ero stato rivoltato sul dorso, e fissavo la lunga canna di un fucile stretto da una scimmia molto arrabbiata. Girai la testa e vidi il profilo della nave tirata in secco, e davanti ad essa c'era la donna dalla carnagione scura dei miei sogni. La donna avanzò di un passo verso di me, e la scimmia si inquietò parecchio. Lei si avvicinò in fretta, tranquillizzò la scimmia, e la allontanò. Si inginocchiò accanto a me, senza parlare, e mi guardò negli occhi. Aveva un aspetto giovane e fresco, come una rosa appena sbocciata. «Io sono Kral Kishkin,» dissi. Lei annuì, allungò un dito esitante, e mi toccò il viso. E improvvisamente entrambi sapemmo ogni cosa. CAPITOLO QUINDICESIMO LA DISGUSTOSAMENTE SQUALLIDA, QUASI MA NON DEL TUTTO REDENTA ESISTENZA DI ROGER GARBAGE 1 Su nel cielo, Osso mondo io volo! Ora è vero, Io non sono più solo! Sempre mi dicevano, che scheletro sei,
E adesso non rispondo più che sono fatti miei. Perché siamo tutti oh-oh-oh-oh-oh-oh-oh-oh-oh-oh-OSSI! Ripetere l'ultima riga, un bel rullare di batteria, magari coinvolgere il pubblico, fargli battere le mani di scheletri a tempo. Grande pezzo, se lo dico io. Forse sono fatto apposta per scrivere canzoni, chi lo sa? L'ho anche cantata per il signor Lincoln, al telefono sull'aereo, ma non ha fatto un gran commento. Voglio dire, quel tipo deve farne di strada per arrivare al rock and roll, giusto? E con tutta questa crisi di umani, e il resto, immagino che possiamo dargli un po' di tempo. Per ora, come gli ho detto, può lasciare il rock and roll al sottoscritto. Yeah! Voglio dire, la vita è questa, o cosa? A ventimila piedi d'altezza, un jumbo jet enorme, fusoliera imbottita dalla cabina alla coda con ogni genere di strane antenne e apparecchiature radio. Il primo giorno ho detto al pilota, anche se è uno di quei tipi da Servizio Segreto che non riderebbe nemmeno se sua suocera scivolasse su una buccia di banana, gli ho detto che quello che ci serve è un motto per l'aereo. «Cosa ne dici di "Noi li troviamo, poi ve li passiamo"?» Ha continuato a guardare il cielo fuori dal vetro. Ho cercato di inventarne un altro. «E cosa ne dici invece di "Convertiamo il mondo"?» Stavolta mi ha buttato fuori a calci, dicendo, «Torna a lavorare,» e ha chiuso a chiave la porta della cabina. «Un altro Capitan Bob!» ho borbottato. Ma non sono tutti così rigidi. Un tipo, che di nome fa Paul Piper, ma io lo chiamo Pipeman, anche se non ci ho ancora sniffato assieme - diciamocelo in faccia, questi sono tutti federali, e mi tremano le ossa dalla paura che uno di loro inciampi in una delle mie cannucce o in qualcosa di peggio, e che mi butti fuori da un portellone, o che lo dica al signor Lincoln - comunque, Pipeman ha l'aria di uno a cui la roba potrebbe piacere. Piuttosto strano, a giudicare dal sudario che porta: inagrissimo e cazzuto, con quegli occhiali neri che ti fanno venire voglia di buttarli per terra e saltarci sopra, ma è decisamente fuori di testa. E gli piace il rock and roll, perché la prima cosa che ha fatto quando siamo partiti il primo giorno è stato di surriscaldare l'impianto stereo. D'un tratto abbiamo sentito duecento watt di un CD dei R.E.M. che tuonavano nella pancia del mostro, e Capitan Bob che ruggiva contro di noi in fondo al corridoio, urlando a Pipeman «Abbassa quella merda!»
«Okay, mamma,» dico io, e Pipeman sorride come una pecorella, e abbassa il volume finché Capitan Bob torna nella sua cabina. Poi lo fiondiamo ancora a manetta. È allora che arrivo a un pelo dal dividere con lui la mia roba, quando Pipeman mi dice che ha imparato tutto in una stanza così dentro nel Pentagono che si sentiva la pressione scoppiettare nelle orecchie. «Lavoravamo su ogni genere di cosucce prima che Lincoln facesse saltare la società. Quel tipo odiava la segretezza, ma di sicuro gli piacevano i giocattoli,» dice ghignando. «Piccoli laser in grado di bruciarti le palle degli occhi, lasciando il resto morbido e fresco come il culo di un bambino. Sarebbe stata una cosa niente male sul campo di battaglia; se quei fottuti sono ciechi, non possono combattere, giusto?» «Uh, giusto,» dico io. «Ce n'era un altro che ti faceva venire il mal di testa, delle belle botte, attraverso un muro di cemento spesso quattro piedi. Niente male. Voglio dire, questa cosa che stiamo usando qui,» dice dando una pacca affettuosa al nostro trova-umani come se fosse una specie di cagnolino, «è solo la variante di un aggeggio che abbiamo progettato per individuare chi fa consumo di droghe. È poco più di un termosensore ipersensibile, okay? Nel modo in cui l'avevamo sintonizzato originariamente, rivelava se facevi uso di droghe. Il metabolismo corporeo impazzisce se l'hai imbottito, per esempio, di cocaina. E lui se ne accorge. Ora noi ci siamo limitati a sintonizzarlo sul metabolismo umano generale, che è diverso dal nostro, e bum! Come pescare pesci in un barile!» Non sta scherzando. Quel coso stana gli umani come zecche dalla schiena di un cane. Una passatina al volo dello schema a griglia che Pipeman ha programmato nel suo giocattolo, e quelli che sembravano uffici deserti, cantine vuote, vie abbandonate dalla gente, diventano la mappa perfetta di tutti gli umani nascosti. Abbiamo trovato un tizio a quattrocento piedi sottoterra, che si sbavava addosso in una miniera di antracite, e rideva per come era riuscito a fottere gli skel. Uh-uh. Ma torniamo alla droga, mi giro verso Pipeman mentre mi racconta tutte queste cose, cerco di mantenere un sorriso sincero e dico, «Uhm, voglio dire, questo aggeggio non può più individuare le droghe, vero?» «No. A meno che io non lo voglia.» E poi, con mio proverbiale orrore, Pipeman schiaccia dei tasti, cantando la mia ultima canzone mentre lo fa, «Osso mondo io volo!» e poi si volta verso di me col suo ghigno da pecora e dice, «Ecco. Adesso è sintonizzato per la coca.» E maliziosamente, gi-
rando un sensore nella mia direzione: «Adesso se dovessi provarlo su di te...» «Hey!» dico allontanando da me il sensore mentre Pipeman si mette a ridere come uno stupido. «Stavo solo scherzando, Rog,» dice mettendo via il sensore e inserendo i codici originali nel Grande Skel; e ancora una volta non capisco se questo è l'umorismo di Pipeman, o l'umorismo degli skel, o se il luccicore in fondo alle orbite è il desiderio eternamente presente negli ossi di trasformare tutto quello che è umano in un costume di Halloween. «Solo scherzando.» «Uh, va bene,» dico rigirando la mia poltrona verso la consolle, e la caccia agli umani sulla terraferma, ventimila miglia più sotto, continua. 2 Con una rapidità sorprendente. In quattro settimane abbiamo coperto tutti gli Stati Uniti continentali. Altre quattro settimane e l'Europa è pulita, e anche l'Australia. Poi tocca al Sud America. Quella mi piace, perché atterriamo a Rio, che è un po' di tempo che non la vedo, e che mi sembra esattamente la stessa di sempre. A Rio si conclude sempre un sacco di contratti discografici. La grande città degli accordi. Voglio dire, quaggiù erano sempre vestiti da carnevale, e cosa cambia se invece di indossare costumi da scheletro indossano proprio lo scheletro? Sono sempre tutti pazzi e ubriachi. Persino Pipeman si lascia coinvolgere nell'eterno Martedì Grasso, completo di cappelli con la frutta e intontimento da sbronze. Solo Capitan Bob sembra impassibile, anche se una sera lo spio dopo che gli è arrivato un messaggio in codice, che naturalmente Pipeman ha decifrato per nostro personale divertimento, un messaggio da Stanton, il guerrafondaio del signor Lincoln. Il messaggio risplende di lodi per la nostra piccola missione. Parla anche di me, TENETE LA CENA AL CALDO, dice il messaggio, e io so già che il mio nome in codice è CENA, perciò significa che non stanno programmando di convertirmi, almeno non ancora. E quella stessa sera, ecco che vedo Capitan Bob non con una, bensì con due scheletrine sottobraccio, tutte e due con le gambe fino a qui, se ti sforzi e guardi il contorno e non le ossa. Niente male. Ha addirittura una Carta Bianca in mano, la vecchia canaglia, e strizza solennemente l'occhio a me e a Pipeman quando ci passa davanti per strada. Abbiamo capito, Capitan Bob, il tuo segreto è al sicuro con noi, a meno che non possiamo usarlo contro di te.
E proprio a Rio, quella stessa sera, vedo spuntare un commercio che sembra stia diventando popolare ovunque, e che, francamente, mi fa venire la pelle d'oca. È Pipeman che si imbatte per primo nel negozio, perché è più ubriaco di quanto io sia mai stato, e sta cercando di attaccar briga. Ho già dovuto tenerlo fuori da due risse, il che è buffo, perché è lui che dovrebbe proteggere me. Si è sparsa la voce che io non devo essere toccato, ma ciò non ha impedito a qualche hombre di cercare di fare impressione sulla sua chiquita d'osso facendo a pezzi l'unico essere umano del distretto a mani nude. Voglio dire, lo spasso è spasso. Ma riusciamo sempre a venirne fuori, non so come, perché si comincia con l'ostilità con la O maiuscola nei miei confronti e si finisce sempre con Pipeman che cerca di rubare la donna a qualche hombre, e me che devo trascinarlo in un vicolo prima che venga polverizzato. Pipeman sembra avere una volontà di polvere. Così quando passiamo davanti a quel negozietto con tutta la folla attorno, Pipe naturalmente crede che si tratti di un'altra rissa. Ci si fionda in mezzo, e io dietro, gridando: «Lasciateli a me! Lasciateli a me!» Ma non c'è nessuna rissa, solo un negozio con una clientela numerosa. Città da brivido. Voglio dire, avrei dovuto voltarmi e scappare via dritto. Ma tutta la faccenda aveva un fascino morboso. Nemmeno Ricki Scum, l'ultimo (immagino) e grande (dicono) e (definitivamente) non rimpianto cantante dei Pustule è mai sceso tanto in basso. Scaffali su scaffali di pezzi umani. E voglio dire pezzi. Sto parlando di teste, e non tutterimpicciolite, e arti di ogni genere. Vasi e vasi sugli scaffali fino al soffitto, e tutti ordinatamente etichettati. Le orecchie devono essere di moda quest'anno, perché c'è una donna con un costume sudario davvero sontuoso che sa di soldi, forse Tahoe, o almeno Beverly Hills, che sta battagliando con un'altra donna per un vaso con dentro un organo umano dell'udito. Galleggia nell'alcool, come una specie di piccola sogliola. «Cos'è?» dico. «Un orecchio famoso,» dice un hombre vicino a me, che d'un tratto mi sta fissando come se fossi un'aragosta al microscopio di quinto grado. «Guarda il piccolo morso sul lobo. Si dice che sia appartenuto a Van Gogh.» Un risolino. Conosco quel suono, il suono di un mercante. «Non è il primo di quel genere che hanno venduto questa settimana. Le donne credono che se riportano l'orecchio a Van Gogh, che si dice abiti a Bruxelles, le dipingerà, rendendole immortali.» Mi volto a guardare questo skel, che è più basso di me, ma la cosa non
mi fa sentire meglio, per via di come mi sta fissando. «Mai pensato di vendere?» dice. «Eh?» Improvvisamente mi pizzica un braccio. Un assaggio, immagino. «Un articolo completo, potrei farti un buon prezzo davvero. Ti tengo intero, naturalmente.» «Davvero io non...» dico, sapendo che sono sbiancato, indietreggiando come un granchio dal tipo che mi segue attraverso la folla, con una bramosia evidente e crescente. Dietro a lui ci sono due gorilla, che vedo adesso e che gli sono attaccati in modo molto muscoloso. E poi il Roger-radar parte, a pieno ritmo, e io so che sono nei guai. Non che lo faccia apposta, ma ci pensa Pipeman per me. Si sarebbe azzuffato comunque, nelle condizioni in cui era, solo che il suo tempismo è stato perfetto. Mentre guarda le due donne che litigano per l'orecchio, in un incanto da ubriaco, Pipeman decide improvvisamente che deve averlo lui. Quindi fa un balzo, che per caso taglia la strada che passa tra me e il proprietario del negozio, e in quattro secondi il negozio è un bailamme di pugni di scheletro che volano e colorite imprecazioni brasiliane. Ne veniamo fuori, ma non so come. A un certo punto mi ritrovo faccia a faccia con uno dei gorilla, che mi mette una mano d'osso sorprendentemente grande e gentile sulla testa e comincia a sollevarmi da terra. «Non fargli del male!» grida il piccoletto dall'interno del negozio, dove una delle donne, rimasta a bocca asciutta nell'affare dell'orecchio, lo sta picchiando violentemente con la borsetta. «Raoul! Non torcergli nemmeno un capello!» Che è quasi l'unica cosa che Raoul mi sta torcendo, visto che mi ha preso per i capelli a spazzola. «Hai sentito, Raoul?» grido, ma ecco che Pipeman fa irruzione sulla scena. «Hai sentito quell'uomo?» grida Pipeman, infilandosi tra Raoul e me e rialzandosi ondeggiando. Raoul mi lascia andare al secondo pugno e rivolge la sua attenzione da gorilla su Pipeman, che mi ha preso per un braccio. «Via!» grida. Ci facciamo strada tra la folla verso la porta d'entrata. Pipeman cuneo vivente, e i suoi pugni incazzati, ci fanno arrivare fino alla porta prima che fuori la folla di skel curiosi ci blocchi la strada. Pipeman si ferma, spalanca la bocca, e grida: «Conga!» Ed ecco come riusciamo a scappare. D'un tratto Pipeman è dietro di me, con le mani sui miei fianchi, dondolando a una melodia inesistente, but-
tando in fuori i piedi prima da una parte e poi dall'altra. E questa folla, nessuna folla, almeno non a Rio e non con tutta quella follia e tutto quell'alcool in corpo, può resistere. Si stanno tutti allineando dietro di lui, e subito stiamo ballando e serpeggiando per la via, mentre arrivano le auto della polizia, con le sirene accese, solo per aggiungere alla fila gli sbirri brasiliani! E poi compare la vera musica, che sorge dalle strade, uno-due-trequattro-uno-cha, uno-due-tre-quattro-uno-cha, e noi che serpeggiamo per tutta la città, io in testa, con gli skel che mi ficcano Carta Bianca in una mano, e rum e Coca nell'altra. E io ho un grande successo, sono la celebrità della notte, yeah! e via con la conga per tutta Rio, migliaia e poi milioni di skel dietro di me, e Pipeman che agita un dito in aria, uno-due-trequattro-uno-cha, musica dappertutto, chitarre, e mi mettono in mano le marimbas, cha-cha-boom, cha-cha-boom! e poi la Filarmonica, che salta fuori dall'Opera, con tutti gli strumenti, e si mette a ballare per strada, e si unisce alla nostra pazza fila, tutta la città di Rio, che a proposito sembra che non sia stata nemmeno toccata, voglio dire qui hanno sempre fatto festa, e dubito che si siano accorti della differenza quando sono arrivati gli ossi, tutti skel in vista, e scopro più tardi che hanno diramato la notizia che in Brasile, e in tutto il Sud America, non ci sono più umani, e la rivelazione ha solo aumentato la frenesia del Martedì Grasso, la festa più grande di tutte, e io in testa! Vengo a sapere in seguito, da una fonte inattendibile di nome Pipeman, che Capitan Bob è stato visto proprio in fondo alla fila, con tutte e due le sue pupe d'osso, una cosa per la quale darei un sacco di dineros per vedere in fotografia, ma ahimè. 3 La nostra missione continua. Dopo Rio ci sono altri paesi, altre griglie. Siamo l'aspirapolvere del mondo degli scheletri, perché è questo che sta diventando la terra. Voliamo su ogni pollice quadrato della Cina. Devo confessarlo, lì non ci siamo divertiti. Voglio dire, prima c'erano miliardi di Cinesi, adesso ci sono miliardi di scheletri cinesi. Se c'è una differenza, io non la vedo. Beijing è un disastro, è stata quasi tutta distrutta. Credo che ce l'abbiano ancora con noi per quella faccenda di Nixon. Il cibo puzza. Voglio dire, ho mangiato cibo cinese migliore al Rodeo Drive alle tre del mattino. Non posso dire che mi dispiace andarmene. Anche Pipeman qui è po-
co socievole, hanno cominciato a proibire la birra, hanno bisogno del grano per dar da mangiare alla gente o a qualche beone. Il Canada è un po' meglio. Fa freddo, è inverno inoltrato, ma qui giocano sempre a hockey, e c'è un tappo di birra ad ogni passo. A Pipeman piace davvero molto. Si trova anche una ragazza, e la cosa mi fa sentire un po' solo, perché che io sia dannato se ho intenzione di uscire con una di queste scheletrine. Ho davvero nostalgia della vecchia Rita. Ben presto sono così arrapato che se ne accorge persino Capitan Bob. Ci fermeremo una settimana a Calgary, mentre mettono a punto il motore dell'aereo. Quando Pipeman decifra illegalmente il messaggio successivo di Stanton a Capitan Bob, in mezzo a tutte le lodi e le belle notizie c'è un bell'enigma: METTETE LA CENA SUL FUOCO. Pipeman sorride e mi da una pacca sulla schiena. «Sembra che per una volta mi abbiano ascoltato, Rog,» dice. «Cosa?» «Non preoccuparti, Rog, non preoccuparti. Diciamo soltanto che il capitano e io abbiamo avuto una piccola idea.» Quella sera, mentre Pipeman si prepara per la sua escursione notturna in città, mi invita a cena. «Sei sicuro?» dico io. «Nessuna intromissione,» dice. Continua a fischiettare, mentre si tira a lucido. Io mi dico, e che diavolo, ci vado, e mi vesto anch'io. Pulisco i vecchi stivali, liscio la vecchia zazzera, spazzolo i vecchi denti. Dopo aver mangiato con Pipeman e la sua tipa posso sempre infilarmi in un bar e bere Canadian finché le pupille non rotolano dentro la testa. Soltanto che quando arriviamo al ristorante, la ragazza di Pipeman, Maureen, non è da sola. La prima cosa che noto è una squadra di sicurezza a tutte le porte, gran sfoggio di muscoli con pistole e denti stretti. La seconda cosa che noto è che seduta al tavolo vicino alla magra e ossuta Maureen, con un'aria da coniglio spaventato, c'è una... donna umana. «Cosa?» «Buon Natale, Rog!» grida Pipeman. «E felice compleanno! E allegra Giornata della Marmotta, e fottuto Quattro di Luglio!» Sono imbambolato. Sono stato in volo tanto tempo con gli skel, ho avuto a che fare solo con skel, sono mesi che non vedo un'altra faccia umana, a parte la mia adorata tutte le mattine allo specchio, e lei è bellissima! «Vieni a conoscere l'ultima donna umana del Canada!» dice Pipeman come presentazione. Poi tira fuori un foglietto di tasca e dice: «Il suo nome
è... Adelaide Moore. Ultima di...» Pipeman qui si interrompe e scoppia a ridere, travolto dal proprio senso dell'umorismo. «Edmonton.» Si gira verso di me. «E questo, Adelaide, è il nostro Roger Garber, alias rock promoter di prima classe, cantante, e autore di canzoni, Roger Garbage!» I begli occhi della bella ragazza lanciano fiamme. Io balbetto, «Uh, hi.» Lei mi sputa addosso, e mi centra proprio in faccia. Pipeman ride e si siede. «Grande inizio! Cameriere!» chiama, e subito arrivano due skel che si inchinano e strisciano, sento che c'è il lungo braccio del governo, date loro tutto quello che vogliono, prendetevi cura di loro, sono tipi importanti, mi raccomando, belli. Adesso capisco i gorilla alle uscite. «Ascolta,» dico alla ragazza, ma lei mi sputa addosso ancora, uno sputo sulla giacca di pelle. Quando mi siedo, però, lei cerca di cavarmi gli occhi con le unghie. «Hey!» la riprende Pipeman, e stavolta non ride. Mi irrita, quello si sta esibendo per la sua ragazza, e gioca a fare il federale. In un baleno due gorilla sono al nostro fianco, pronti al cipiglio di Pipeman, che guarda Adelaide e dice: «La nostra piccola chiacchierata non significa nulla?» Lei è come una tigre al guinzaglio, e la furia divampa in quegli occhi verdi, in quei bellissimi, profondi occhi verdi. Ma rimane al suo posto, e si appoggia allo schienale. È ovvio che preferirebbe lottare con chiunque qui dentro, me o gli skel, chiunque in cui piantare le unghie. «Brava ragazza,» dice Pipeman, rimandando a posto i gorilla. «Mangiamo!» dice brillantemente, sempre esibendosi per quella sua adorante, imbranata, sottospecie di ragazza. Il cameriere porta il menu. Pipeman mi guarda di nascosto mentre lo apro. Non lo deludo, i miei occhi quasi schizzano dalle orbite. Carne sulla lista! Fagiano, Tartare, bistecche, cosciotto di agnello, carne! Guardo Pipeman incredulo. Si rivolge a tutto il tavolo con la sua esibizione di magnanimità: «Tutto quello che c'è sul menu è disponibile!» «Come...?» Pipeman sorride. «Anteguerra,» dice. «Ben conservata. Tutta surgelata, naturalmente. Ma posso assicurarti che il petto di fagiano è eccellente.» Guarda la sua ragazza, Maureen, e le fa l'occhiolino. In quel momento ho voglia di polverizzarlo. Adelaide ha dato uno sguardo al menu, mostrando un'ombra della mia
stessa sorpresa, poi l'ha chiuso e l'ha rimesso sul tavolo. Il cameriere è tornato e aspetta. «Rog?» dice Pipeman, recitando la parte dell'ospite untuoso. Io guardo Adelaide. «Um, io, um...» «Al diavolo!» grida allegramente Pipeman. «Filet mignon per tutti! E casse di Dom Perignon!» La sua ragazza, Maureen, si scioglie in un risolino deliziato. Ancora una volta mi immagino con le mani attorno al collo di Pipeman, che gli dò una bella stretta e lo guardo che scompare in uno sbuffo di talco... Lo champagne, la prima di molte bottiglie, arriva immediatamente. Pipeman leva il bicchiere ancora prima che il cameriere abbia finito di riempire il mio. «Un brindisi!» dice. «All'amore!» Guarda me e Adelaide, e poi Maureen, che ride scioccamente, e lo giuro, arrossisce. Sollevo fiaccamente il bicchiere, ma d'un tratto mi sento proprio a disagio. È una sensazione che non conosco, e non mi piace. Non è come quel gong che sento quando il vecchio Rog è nei guai. È qualcosa, oserei dire, di più profondo e inquietante. Voglio dire, mi trovo qui in un locale pieno di skel, in questo mondo pieno di skel, con l'unica donna umana ancora viva in tutto il Canada, e d'un tratto non ne sono felice. Voglio dire, questa festa non è davvero per Adelaide e me, o per il genere umano, vero? Voglio dire, non è per festeggiare noi, sapete? Stiamo parlando di spolpare la carne fino all'osso. Cosa ca... «Bevete!» ci ordina quasi Pipeman. Sta scoppiettando di stupidità imbecille e amore adolescenziale. «Salute,» dico in modo poco convincente, alzando il bicchiere. Guardo Adelaide, e lei mi sta guardando con attenzione, con i verdi occhi a fessura. Cerco di sorriderle, ma mi rendo conto di quanto sembri disgustoso. Improvvisamente anche lei alza il bicchiere e lo vuota in fretta, poi mi guarda ancora e mi rivolge un sorrisetto estremamente cinico, e molto astuto. 4 E così la cena continua. E continua. Pipeman si premura di spiegarci come tutto sia meraviglioso, e raro, dagli asparagi - «Sapete, quei campi di asparagi in California sono stati devastati per diverso tempo, è stato duro
prendere quei babbei, sembra che molti Indiani fossero sepolti in quei solchi, ma ho fatto uno sforzo eccezionale per portare qui stasera questo raro vegetale, per questa eccezionale occasione» - al dessert - «Ve lo dico io, quasi tutti i macchinari per la produzione del sorbetto sono stati distrutti durante i primi giorni di guerra, ma ho preso accordi eccezionali perché venisse costruito un nuovo macchinario, in modo che noi potessimo avere questa meraviglia al limone per questa serata davvero eccezionale.» Ho voglia di dirglielo io quanto è stata eccezionale, che non ho mangiato un dannatissimo boccone. È ancora tutto lì sul mio piatto, mentre uno scheletro cameriere leccapiedi dopo l'altro me lo mettono con delicatezza davanti e dopo otto minuti me lo riportano via. Il mio stomaco è tutto un groviglio. Davvero non riesco a capire perché, non sono gli ormoni, con quella rossa mozzafiato seduta a un metro da me, non è il cibo troppo elaborato. Quello che voglio davvero fare è spararmi un vassoio di coca su per il naso e dimenticare tutta la faccenda. Magari mettere su un nastro degli Stones, uno di quelli della prima London Records, e andarmene in giro a parlare da solo. Soltanto questo. Ma Adelaide la Rossa sembra che adesso si diverta un mucchio. D'un tratto non solo ha appetito, ma ha anche una bocca, e sta ingurgitando ogni cosa che vede, e bevendo tutto quello che le mettono di fronte. Smetto di contare dopo quattro bicchieri di champagne, e adesso stiamo parlando del qui presente Dom, che naturalmente Pipeman ci ha detto essere estremamente difficile da trovare adesso, perché molte casse di quelle in commercio sono state o spaccate o più probabilmente bevute da umani dispettosi, e molti vigneti sono stati arati dagli skel risorgenti, oppure devastati dalla Guerra. Bla-bla-bla. E parla, parla, ma io sono stupito da questa donna umana, che mi ha conquistato non solo l'inguine ma anche il cuore, e adesso sembra ubriaca fradicia, e unisce il bicchiere a quello della sciocca Maureen, che ha smesso di rivolgere a lei e a me quello sguardo tipico da skel che vorrebbe ammazzarci, mentre il suo livello alcoolico è salito alle stelle. Non capisco! Si stanno divertendo tutti tranne me! Io, il Re dei Party! «Andiamo, Rog! Andiamo!» Mi rimprovera Pipeman. E io ci provo, ci provo davvero, ma è proprio il modo in cui Adelaide continua a guardarmi, con quel sorrisetto brusco, per tutto il tempo in cui mette in scena il meraviglioso atto da party-girl. Improvvisamente ho voglia di vomitare. E non sto scherzando. Mi alzo da tavola, borbotto una specie di scuse, e
barcollo via, notando che Pipeman fa cenno ai gorilla che è tutto okay prima che mi lascino passare. Mi butto contro la porta del bagno degli uomini e arrivo appena in tempo al lavandino prima che venga su tutto quello che non ho nello stomaco, perché non ho mangiato. È quasi tutta bile. Ed eccomi lì, chino sul lavandino come uno scolaretto con la nausea, desiderando di essere in qualsiasi altro posto al mondo. Desiderando di vedermi davanti agli occhi la faccia di chiunque, ma non quella della rossa là fuori, che sento ridere con quella risata sonora e falsa mentre Pipeman finisce di raccontare una delle sue stupide storie da federale ex agente della CIA... Voglio dire, Gesù, questa è una brutta notizia per me, il Re dei Party. Non riesco nemmeno a tirare un po' di coca su per il naso; quando la prendo e la guardo, ancora nella busta, mi viene voglia di vomitare di nuovo, e subito esaudisco il mio desiderio. Riesco a malapena a rimettermi la roba in tasca, senza guardare che vola dappertutto. Polvere, proprio come d'un tratto vorrei vedere tutti quegli skel: polvere... «Hey, Rog!» arriva rombando in quello stesso istante la voce di Pipeman dalle porte oscillanti. E sta entrando, lo stecchino, e mi mette il braccio gelido attorno alle spalle. «Hey, Rog, allora, qual è il problema?» «Lasciami... solo,» sputacchio. Dev'essere il tono della mia voce, o forse non ci bada, perché indietreggia vacillando, ridacchia, e dice, «Okay, okay, tanto abbiamo finito qui per stasera, ce ne andiamo, è tempo di camera d'albergo.» Ed esce fischiettando. Quando mi passo la manica davanti alla bocca e lo seguo, tutti si stanno alzando da tavola e si preparano per andarsene. Adelaide sta aspettando me. La sua espressione non è cambiata. Potrebbe aver buttato giù un gallone di Dom Perignon, ed essersi succhiata tre piante di ortica dopo cena, ma è sobria come una volpe, e lo sappiamo tutti e due. «Vieni, zuccherino,» mugola prendendomi per un braccio mentre io traballo fino da lei. Ed eccoci fuori nella notte, e nella limousine bianca noleggiata da Pipeman, sui sedili posteriori, dove Pipeman e la sua scheletrina stanno già ridacchiando e palpandosi reciprocamente. Io mi siedo, a testa bassa, e inesplicabilmente Adelaide comincia ad accarezzarmi la nuca con le sue dita morbide, affondando appena un po' troppo le unghie, a graffiarmi solo un poco, finché arriviamo, dopo minuti che sembrano ore, all'Hotel Maurice,
il più bello di tutta Calgary, un castello con tanto di torri illuminato nella notte, e uno splendido lampadario di cristallo nell'ingresso. Scendiamo dalla limousine e ci incamminiamo sulla passatoia rossa, con tutti quegli scheletri aiuto-cameriere in uniforme rossa e nera che si inchinano in quella luce abbagliante, e passiamo davanti al banco della reception, e entriamo nel lucido ascensore di ottone, grande come una camera da letto, con un corrimano di mogano tutt'attorno, e su fino a non so che piano, e fuori. Pipeman e Maureen, già mezzo svestiti e sghignazzanti come studentelli idioti sul sedile posteriore di una Chevrolet, ci augurano una ridacchiante buonanotte. Poi Adelaide e io ci troviamo nella nostra suite e la porta si chiude. «E adesso,» dice Adelaide, e non mugola affatto. È come se avesse aspettato tutta la sera per dirlo in questo modo, e di sicuro l'ha fatto. Tutto quello che posso fare è crollare sul pavimento e gemere, domandandomi ancora cosa diavolo ho che non va, e cos'ha il mio cervello. «Mi hai drogato?» chiedo. «No.» «Mi ha drogato qualcun altro?» «Alzati, verme.» Mi sollevo in ginocchio, nella posizione più appropriata per implorare, e la guardo. Vedo gli occhi fiammeggianti, e la volpe ridiventata tigre. «Oh, Gesù,» dico spostando gli occhi sulla moquette con la voglia di vomitare ancora. Lei ride. Quando rialzo gli occhi, vedo, quasi con sollievo, che è riuscita a nascondere un'arma, un tagliacarte, o uno stiletto. Non riesco a spiegarlo, ma tutto ciò che desidero che faccia adesso è tagliarmi a pezzettini e far smettere questo dolore lancinante. «Davvero non lo sai?» dice. «Eh?» «Davvero non ti rendi conto di quanto sei spregevole, di quello che hai fatto.» «Cosa? Chi? Io?» La guardo attraverso le improvvise lacrime - da dove diavolo vengono? e vedo che solleva un piede all'indietro e mi molla un calcio. Vedo effettivamente il piede che si avvicina alla mia faccia come in un cartone animato. Quasi con piacere sento il dolore dell'impatto fisico spazzare via l'altro male. Cado giù, e piango.
«Gesù...» «Non ti aiuterà, bastardo,» dice. «Forse non hai sentito, ma c'è persino stata una setta che lo cercava, per vedere se sarebbe ritornato in vita come tutti gli altri. Naturalmente avrebbe solo provato che non era Dio, giusto? Non l'hanno trovato. Dopodiché alla setta hanno aderito più membri che mai. Non lo trovi comico?» Provo a sollevarmi un poco, e mi molla un altro calcio, quel piede da cartone animato che diventa sempre più grande man mano che si avvicina alla mia faccia. Credo che mi sia sfuggito un grugnito di piacere. «Lascia che ti parli di me,» dice. Non ho mai sentito una persona con tanto veleno nella voce, nemmeno Carl Peters alla Roundabout Records quando strapazzava Randy Pants e Brutus Johnson dopo che erano stati beccati con due belle ragazze nubili che, incidentalmente, gli avevo procurato io, ed era saltato fuori che avevano tredici anni, un fatto che minacciava di stroncare la loro carriera. «Sei pronto?» Io mi tiro su sui gomiti, vorrei un altro calcio. Misericordiosamente arriva. «Sì,» dico con la bocca impastata di sangue. «Bene. È una storia semplice. Ce n'erano molte altre, miliardi di altre storie proprio come questa. Ero cinquanta piedi sottoterra, in una camera blindata del Tesoro Canadese, quando il tuo meraviglioso aeroplano mi ha trovato. Cinque mesi fa avevo un marito nella commissione per il Commercio, una bella casa e due bambini. Ti lascio immaginare cosa ne è stato di tutto questo quando sono arrivati gli scheletri. Ho raggiunto la camera blindata con altre tre persone. Eravamo in contatto con altri sotterranei, e stavamo facendo dei piani per un'azione di guerriglia. Avevamo già fatto saltare in aria un paio delle loro banche, stavamo facendo progressi. Secondo i nostri calcoli, due settimane fa c'erano ancora migliaia di umani in questa provincia, e forse cinquantamila in tutto il Canada. Più che abbastanza per continuare a combattere. «Poi è successa una strana cosa. Ad uno ad uno dai sotterranei sono scomparsi i contatti, e quelli con cui eravamo in comunicazione. Come pedine del domino, e le pedine cadevano in fila. E poi c'è stato solo silenzio, finché due giorni fa i soldati scheletri hanno bussato alla nostra porta, e l'hanno fatta esplodere. «Due delle tre persone che erano con me hanno commesso un vero suicidio, come lo chiamava il movimento clandestino che l'ha ideato. Si tratta di una doppia dose di cianuro che uccide una volta, e poi uccide una seconda volta. Il terzo è stato convertito sul posto e ha rivelato ai soldati do-
v'ero nascosta. «Gli ci è voluto del tempo per trovarmi, ma questa mattina mi hanno preso, e trascinato fuori dal mio nascondiglio. Stavo per prendere il cianuro, quando mi hanno detto che mi avrebbero messo in ordine per incontrare un uomo molto importante, un umano, che aveva fatto tanto per loro, e che adesso aveva una missione importantissima, e aveva bisogno di essere confortato.» Mi molla un altro calcio. Io resto a terra, e piango. «Ho cercato solo...» «Hai cercato solo cosa?» mi grida. Poi si butta sul pavimento vicino a me, stringendo lo stiletto al punto che le sbiancano le nocche, e me lo mette davanti alla faccia, e con l'altra mano mi scuote per i capelli a spazzola. «Io... oh, Gesù,» mi lamento, «ho cercato solo di sopravvivere...» Bussano alla porta. Sento la voce di Pipeman, leggermente preoccupata nonostante l'allegria. «Tutto bene lì dentro, Rog?» Tiro su col naso, faccio un bel respiro, e dico, più normalmente che posso: «Va tutto bene, Pipeman.» Un momento di silenzio, poi ride. «Okay, amico,» dice. «Non fare niente che non farei anch'io!» Se n'è andato, e io guardo Adelaide, china su di me, che mi fissa con cattiveria. «Cosa devi fare per loro?» «Non lo so...» «Cos'è questa "missione importantissima"?» «Ha qualcosa a che fare con una visione avuta da Lincoln, qualcosa a che fare con gli ultimi umani.» La mano si stringe molto forte sullo stiletto. L'altra mi tira molto forte i capelli. Scopre i denti, delle belle cosine diritte, incapsulate e bianchissime, e una capsula sembra troppo lunga. Ho la folle idea che avrebbe avuto successo nel business della musica, due chiacchiere, un paio di bicchieri, tiro fuori il contratto, e firma i documenti per un anticipo incredibilmente basso, la tipa ha il carattere che ci vuole... E poi la porta si spalanca verso l'interno, mostrando l'enorme stivale di un gorilla di Pipeman. In due balzano nella stanza stile commando e riempiono Adelaide di pallottole. Adelaide lascia andare lo stiletto e barcolla all'indietro, e la lama cadendo sulla moquette mi sfiora la gola. Adelaide sta mordendo qualcosa, mi guarda negli occhi, e io so cosa contiene quella capsula leggermente diversa che ha in bocca. Continua a fissarmi, mentre i proiettili la fanno piegare in due, e poi ecco che fa effetto il cianuro. Cade, e il lieve sorriso diretto a me cade con lei. Il suo corpo si inarca e resta
immobile, poi si inarca di nuovo, e va in polvere. «Dannazione,» dice un gorilla. Pipeman entra a lunghi passi nella stanza, spinge da parte i gorilla. Indossa un'elegante vestaglia di seta. Abbassa gli occhi sul mucchietto di polvere, e anche lui dice, «Dannazione.» Si gira verso un gorilla. «Fate salire la donna delle pulizie.» Poi mi guarda. «Stai bene, Rog?» Io lo guardo, e sento ancora il sapore del sangue, e mi passo un dito sulla striscia dove lo stiletto di Adelaide ha tagliato una fettina di collo, ma non esce nemmeno un po' di liquido rosso. Lo guardo ancora, alzo le spalle, e dico, «Dannazione.» 5 E prima ancora di rendercene conto, dopo pochi giorni di riposo per riprenderci, siamo di nuovo in cielo. Solo che adesso le cose sono diverse. Prima di tutto con Pipeman, la cui scheletrìna, Maureen, l'ha lasciato per un gorilla; non solo, si è beccato una sfuriata per il casino in cui mi ha cacciato, e adesso è di corvé. Devo riconoscere che mi diverte vedere il suo aspetto da cane bastonato mentre pulisce il gabinetto, e serve la cena a Capitan Bob e a me, e a tutti gli altri. Soprattutto sono contento che gli abbiano ordinato di non rivolgermi la parola. Ho paura che se dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, aprirei il primo finestrino dell'aereo con i vetri tripli e lo butterei fuori. E secondo, le cose sono cambiate anche per me. Non sono fissato, né altro, un paio di giorni a letto senza Adelaide lì a fissarmi hanno risolto tutto, non ho più incubi che riguardano lei. Voglio dire, non so ancora cosa mi ha preso, per volere che mi uccidesse in quel modo. Dovrei andare da uno strizzacervelli. Coca e Carta Bianca aiutano. Adesso passo la maggior parte del tempo rinchiuso. Avere il cervello in pappa fa volare le giornate. A Capitan Bob non sembra che importi. Ha fatto insonorizzare tutta la cabina in fondo all'aereo quando sono state effettuate le riparazioni, e adesso posso sentire l'impianto stereo di Pipeman col volume alto quanto mi pare. Il Capitano è stato tanto gentile da tappezzarmi un'intera parete di CD, ogni genere dal jazz al metal, un piccolo gesto, dice con una solenne strizzatina d'occhio, per quella conga giù a Rio. Ah, la lealtà. Ma in me c'è ancora qualcosa che non va, perché niente - né la musica, né la droga, né l'alcool - riesce a farmi venire voglia di far casino. Voglio dire, gli scienziati dicono che anche un vegetale, come quello che ho cer-
cato di diventare io, ha dei sentimenti, giusto? Credo di sentirmi... solo. È questo il punto? Che con tutta questa umanità che è stata estirpata dalla terra strato dopo strato, ho nostalgia del genere umano? Non ha proprio senso. Voglio dire, cos'ha mai fatto il genere umano per me, o per chiunque altro, a parte pisciarci addosso? Milioni di anni di evoluzione; e il prodotto finale è un ebete a due gambe che raccoglie il primo bastone un po' lungo che gli capita e lo usa per ridurre l'ebete più vicino in una poltiglia sanguinolenta. E sento la mancanza di quell'ebete? Vaffanculo. Metto su un altro CD, il primo che mi viene sotto mano. Chiudo gli occhi, mi bevo un goccio di Carta Bianca, sbatto quel disco nel lettore, alzo il volume, e chi se ne frega. Sento la chitarra nervosa di Brutus Johnson avrebbe dovuto essere famoso, che attacca la canzone dei Vomits "Picchiami", l'antidoto perfetto. Con un po' di fortuna, non appena questo ingaggio aereo sarà finito, tornerò a lavorare con i Vomits, che secondo le ultime notizie stanno facendo il giro dei bar di Vancouver, e sono ancora arrabbiati con me per quella storia dell'Albero Solitario. Ma quando vedranno il contratto che ho pronto per loro si faranno vivi. In un attimo sto saltellando per questo universo insonorizzato, e rimbalzo sulle pareti come una palla della Spaulding, urlando e strillando e sperimentando virtuosismi con una chitarra fatta d'aria, mentre là davanti spediscono quei raggi cazzuti giù sulla terra, e scovano gli ultimi umani di Nome, Alaska, gli ultimi di tutto il mondo per quello che ne so, perché mi hanno detto che prestissimo, per la verità prima della fine della settimana, ce ne saranno solo tre, contali, tre, esseri umani rimasti in tutto il fottuto mondo: Picchiami! Yeah baby baby baby Picchiami! Coraggio dai avanti forza Picchiami! Hey papi papi papi Picchiami... 6 E così, quattro giorni dopo, prima del previsto, è tempo di «Missione
Impossibile". Mi sento come Peter Graves prima di far partire il nastro. Solo che invece del nastro io ho Capitan Bob, e lui purtroppo non scompare in uno sbuffo di fumo quando la storia è finita. Sarà sempre un pisciatoio, dritto come un fuso, una freccia della giustizia americana, pronto ad andare ovunque, a infilare la testa in ogni buco. Adesso però ha lasciato il comando a Capitan Bob Jr., e mi sta dicendo, finalmente, qual è la mia parte in questa faccenda. «Sono laggiù sull'isola, da qualche parte!» grida. Ha insistito perché tenessimo il piccolo, storico incontro nella cabina dalla quale sono stato fino a questo momento esiliato. Per fortuna. Qui dentro il gemito dei reattori è rumoroso da maledetto, e noto con sorpresa che affondiamo fino alle ginocchia nei sacchetti vuoti degli snack: palline soffiate al formaggio, sfogliatine di grano e patate di ogni foggia e consistenza, ciambelline salate. Bene, bene, forse dopotutto Capitan Bob non è così fuso. Adesso so perché non mi voleva qui dentro, avrebbe rovinato la sua immagine. «Quello che devi fare!» grida Capitan Bob, alzando la voce mentre Capitan Bob Jr. fa gemere ancora più forte i motori eseguendo una virata stretta; lo stiamo facendo da ore, inclinandoci e virando, e girando in tondo su quell'isoletta là sotto, e ad ogni giro passiamo sopra alla nave tirata in secco, e al pallone lacero e sgonfio legato lì vicino, e io mi sento stordito, e mi sta venendo il mal d'aria. «Quello che devi fare è andare immediatamente sotto coperta! Ti lanceremo dalla parte opposta dell'isola! Quando entri in contatto, raggiungi un luogo elevato e avvisaci con questa radio!» Mi dà una cosa lunga e sottile, e cerca di farmi vedere come devo legarmela al fianco sotto la camicia, ma riesco a recepire solo una parola tra tutte quelle che ha detto. «Hai detto "lanciare"?» «Sì! È l'unico modo! Non possiamo certo atterrare in acqua! E per portarti sulla terraferma, e poi di nuovo qui, con una barca, ci vorrebbero giorni! Vogliono che venga fatto così!» «Così niente, fratello,» dico, ma mi ha già stretto le spalle in una presa alla John Wayne, con due mani e gli occhi fissi nei miei. Mi faccio forza per non tremare, per concentrarmi sul sudario di Capitan Bob, e sul cappello di Capitan Bob, e non sulle orbite oculari da scheletro che sono sotto la visiera. «Tu andrai laggiù, col paracadute o senza!» dice. «Scegli! Ti butto fuori io!» Guardo quegli occhi, sento quella stretta, e gli credo.
Due ore dopo sono nella pancia del meraviglioso aereo, con Pipeman che striscia e si inchina a Capitan Bob, pulisce davanti al portellone con la scopa, apre il portellone, e nell'intento per poco cade fuori. Nel frattempo Capitan Bob mi sta spiegando, con molta foga, come si atterra col paracadute dopo essere saltato giù da un grosso jet. Almeno qui riesco a sentirlo, anche se quello che dice non mi piace molto. «Non devi fare niente!» dice. «Il paracadute si aprirà da solo, quando avrò attaccato la cordicella a quell'anello!» Mi mostra un grande anello vicino alla parte superiore del portellone. «Atterrerai sulla sabbia, ma cerca di piegare le ginocchia, per ammortizzare l'impatto in posizione molleggiata! Attenuerà la caduta!» Si aspetta che confermi che ho capito tutto, ma io non so fare altro che guardare fuori dal portellone quell'isoletta sulla quale stiamo volando, e ho voglia di vomitare. «Capito?» dice Capitan Bob. Stiamo ritornando sulla spiaggia, e io voglio solo continuare a girare, così non devo più saltare. «Non capisco,» dico. «Cosa!» «Perché non li convertono, e basta?» «È così che vuole il Presidente. Arriverà domani, in persona!» «Ancora non capisco.» Si sente un bip e la voce di Capitan Bob Jr. si diffonde dall'interfono e si perde nel rumore dei reattori. «Siamo sul bersaglio, Capitano!» «Ricevuto!» dice Capitan Bob, e poi a me: «Ora di andare, soldato.» «Soldato i miei coglioni,» dico. Sono talmente fatto di coca e di alcool che è uno shock totale scoprire di avere ancora tanta paura da aver bisogno di svuotare la vescica. «Fottetevi.» «È il tuo grande giorno, figliolo!» Senza aggiungere una parola, con una mossa così semplice che sono costretto ad ammirare, Capitan Bob, che mantiene le sue promesse, attacca il cavo di spiegamento all'anello, mi solleva come un sacco di patate e mi lancia fuori nel... NULLA! Oh, Dio, penso, alla fine è giunta l'ora di morire. Ma non sto pensando molto, trascorro invece il mio tempo urlando e facendo capriole. Mi giro sulla schiena e improvvisamente mi stabilizzo, e vedo il portellone che si allontana da me, una lunga corda sottile come un cordone ombelicale, e la
faccia da furetto di Pipeman nell'apertura del portellone. «Ci vediamo, Rog! Figlio di puttana!» Me ne vado con una giravolta, a faccia in giù. Ormai sono sicuro che il paracadute non si aprirà, perché l'isola si è ancorata sotto di me come il duro fondo del pozzo di un ascensore, e io sto cadendo verso di esso. «Oh, Gesù, sto per morire!» Ma poi sento uno strattone brusco, sento per un istante come se Capitan Bob mi avesse tirato con violenza dentro l'aeroplano, e fosse lì a battermi una mano sulla spalla e a dirmi, «Stavo solo scherzando, figliolo!», ma invece mi raddrizzo nella classica posizione di lancio, e guardo in su verso la bianca corolla di un paracadute. Più su vedo la pancia dell'aereo che risale e si allontana. Chi l'avrebbe mai detto! E non mi sono nemmeno sporcato. Sotto di me il terreno mi viene incontro in fretta. Ma adesso penso di potercela fare. C'è un gruppetto di alberi che non mi piace molto, ma scivola via, lasciando il posto a una striscia di spiaggia bella grossa. Scendo con un sibilo proprio nel mezzo. Al diavolo il capitano e la sua testina piena di muscoli. Avrei dovuto ascoltarlo, perché tengo le gambe rigide come assi da stiro e sento la gamba sulla quale atterro contrarsi un po'. Se c'è qualcuno sull'isola, non può fare a meno di sentire il mio strillo da donnicciola. Un momento dopo sto strisciando sulla sabbia in preda al dolore, sicuro che la mia gamba si è spezzata in due. Quel bastardo di Capitan Bob. Voglio polverizzarlo, mischiare quello che resta con dell'acqua, farne una statuetta uguale a lui, e fracassarlo un'altra volta. Ma no, la gamba non è rotta. Solo un po' strappata alla caviglia, posso persino alzarmi e camminare come Walter Brennan in "Un Dollaro d'Onore". Ed è quello che faccio. Sono a metà strada dagli alberi, e mi avvicino a ogni genere di versi animali, quando la radio sotto la mia camicia si accende, e l'altoparlante mi parla dritto contro le costole, facendomi un dannato solletico e facendomi sbellicare dalle risate. La radio continua a parlare, e io adesso sono per terra, che non riesco a respirare, e sto cercando di staccare la dannata radio dalle strisce adesive per non morire dal ridere. «S-sì?» riesco finalmente ad ansimare, strappando la radio dal fianco e portandola alla bocca. «Tutto sotto controllo, laggiù?» dice la voce fusa di Capitan Bob.
«S-sì, tutto a posto.» «Bene! Chiamaci quando stabilisci un contatto! Chiudo!» Senza dire né grazie né arrivederci, o aspettare che esprima tutte le tenerezze che sento nel cuore, la radio tace. Proprio perché lo desidero ardentemente, premo il pulsante di chiamata, e quando Capitan Bob, immediatamente, risponde ansioso, «Cosa succede, soldato?», io gli dico, «Fottiti.» 7 Sotto la luna, Sarai sincero? Perché se no, Ti castrerò! Sotto la lu-u-u-na (wop-wop-wop-wop) Mi dovrai baciare! (wop-wop-wop-wop) O farò un'incisione (wop-wop-wop-wop) Intorno al tuo pisellone! (wop-wop-wop... wop!) Grande canzone, grande gruppo di ragazze, le Joylettes, 1979 circa. Ah, quelli erano giorni. Punk-rock. E anch'io mi sento grande, il vecchio Rog è tornato, forse è la vicinanza degli umani su quest'isola, o la lontananza da tutti quegli skel. Ma chi diavolo se ne frega del perché? Penso che in realtà fosse la lontananza da quello che mi fa davvero impazzire, la musica. Ah, il mio lavoro come agente segreto è quasi finito, poi via di nuovo con ì gruppi, a mettere insieme qualche nuovo numero, scrivere qualche canzone, fare un po' di promozione, il casino, le pupe, le sbronze, la droga - yeah! Ah, questi pensieri sono come una boccata di aria fresca. La vecchia Adelaide ormai non è altro che il ricordo di un brutto viaggio sotto l'effetto di un acido. So io cosa è meglio, e cosa è meglio per Roger. Non scherzo. Cominciamo a toglierci dai piedi questo evento marginale, e poi vivrò gratis vita natural durante e dopo sulle code del frac del signor Lincoln. Perché quello che non capiscono gli skel è che sarò l'unico essere umano in tutto il mondo, l'unico gatto con due vite] Fantastico. Come avere un doppione di riserva nei pantaloni. Splen-di-do. E questi umani non c'è voluto molto per trovarli. Voglio dire, hanno si-
stemato quest'isola come un circo. Animali, animali veri, dappertutto, e un gorilla dal quale intendo stare alla larga. Una palla di pelo dall'aria cattiva. I due umani, Lui e Lei, ovunque vanno si portano dietro due lupi, e anche diversi pappagalli e gazzelle e roditori che sguazzano e saltellano attorno. Lui e Lei. Non riesco proprio a capire, Lei sembra appena maggiorenne, e Lui è un Orientale, un tipo magro e duro, vagamente familiare. Si girano attorno come se camminassero sui gusci delle uova. Una parte di me vuole conoscere la loro storia; al resto di me, che è il novantanove per cento, non importa un fico. Ho chiamato per radio, e li ho tenuti d'occhio tutto il pomeriggio, e quando è scesa la notte hanno acceso un fuoco e fatto qualcosa da mangiare. Adesso Lei sta riordinando. Vera roba da Due Cuori e Una Capanna. L'Orientale è andato a prendere dell'altra legna, o a farne un goccio, ma è il gorilla che tengo d'occhio mentre mangio la mia cena, splendide razioni da federali in carta oleata. Un altro motivo per voler rivedere Capitan Bob & Co. Il gorilla è stupefacente. È quasi umano, porta i piatti al pentolone d'acqua che hanno preparato, attizza il fuoco con dei bastoncini, balla intorno a Lei come se fosse una specie di regina, e Lei lo tratta con regale deferenza. Guardo con invidia lo scimmione che raccoglie un po' del profumatissimo stufato di verdure avanzato in un recipiente per farci litigare gli altri animali. Ne avrei mangiato volentieri un po' anch'io... «Salve,» mi dice una voce vicino all'orecchio. Avrei dovuto saperlo che mi sarebbe arrivato alle spalle. Avrebbero dovuto essere ciechi e sordi tutti e due per non vedere l'aeroplano, il mio paracadute, o sentirmi strillare quando sono atterrato. Davvero di classe, da parte loro, contare sulla mia stupidità. Mi giro e rivolgo all'Orientale il Rog-ghigno brevettato. «Salve a te.» Si siede accanto a me, con fare nient'affatto minaccioso, ma ho la sensazione che mi spezzerebbe in due se facessi qualche sciocchezza. La scimmia e la donna adesso ci stanno guardando. «Ti va di unirti a noi?» dice con calma, in modo per quanto possibile amichevole. «Puoi scommetterci!» dico alzandomi. Si alza anche lui, con la mano tesa. «Forse mi conosci come Peter Sun.» Peter Sun! Adesso so perché mi sembrava familiare. Gli stringo energicamente la mano. «Hey, tu sei il tipo che ha organizzato quella storia a Mosca! Tutti quei gruppi, il Giorno della Pace, tutto quanto! Io sono Roger
Garbage, della Roundabout Records, abbiamo cercato di inserire nello show uno dei nostri gruppi, i Vomits, ma ci avete detto che accettavate solo numeri folcloristici, e che pagavate solo il trasporto. Brutta idea, amico...» Annuisce distratto, come se si sforzasse di ricordare. «Già,» dice. È vero, è vero, è stato un sacco di tempo fa, ne è passata di vodka sotto i ponti, e sono molto colpito dal tipo. Ha realizzato una Woodstock comunista, grande colpo per l'Ovest, il rock and roll e tutto il resto. Si avvia verso il campo, e io lo seguo zoppicando. «Sembra che sia rotta,» dice Pete, accennando alla mia gamba gonfia, e allungando una mano per aiutarmi. «No, è solo una botta,» dico accettando lo stesso l'aiuto. Una corsa gratis è sempre una corsa gratis. «Mi sono fatto male giocando a minigolf.» Lei mi sta aspettando. Senza dirmi una parola mi mette in mano un piatto di stufato di verdure. A quanto pare sapeva fin dall'inizio che sarei arrivato. Borbotto un grazie e attacco a mangiare, e intanto chiacchiero con loro due, ottenendo risposte cortesi da Pete Sun e nessuna risposta dalla pupa. Quei due sono seduti vicini, ma non così vicini, se capite cosa voglio dire. Alla fine, dopo che ho rivolto un'osservazione intelligente a Lei, e aspetto una risposta ma Lei continua a fissarmi senza parlare, il vecchio Pete appoggia per un istante la mano sul ginocchio di Lei, lo toglie immediatamente, e dice: «Claire non parla.» «Oh, va bene, mi dispiace. Hey,» aggiungo, «Però lo stufato era ottimo.» Pete sorride assente, e mi lascia finire. Voglio dire, è come se non ci fossi. Attorno a quei due c'è una specie di ribollimento, tre sono una folla, sapete? Va bene se ci sono, va bene se non ci sono. La scimmia sembra non gradirmi molto, e la faccenda mi rende un po' triste, perché in un numero potrebbe fare scalpore, forse si potrebbe anche insegnargli a tenere il tempo con un tamburello. Vi ricordate le Nuove Scimmie? Hey, perché no? Così finisco il mio stufato, e naturalmente il vecchio Pete è stato molto gentile a lasciarmi mangiare e chiacchierare. Nell'aria c'è una domanda ovvia per tutti noi, e finalmente, dopo aver bevuto una tazza di vero caffè fatto da Lei, il vecchio Pete fa la domanda, anche se in un modo stranamente calmo. «Posso chiederti perché ti trovi qui?» «Io? Io, uh...»
«Abbiamo visto l'aeroplano. Ho un binocolo, e al portellone ho visto gli scheletri con te.» «Uh.» «Ho visto anche la tua radio.» Preferirei che gridasse, si infuriasse, facesse il pazzo, e invece mi guarda con quella fottuta faccia calma. «Io, um, beh...» Faccio spallucce. «Ti hanno mandato giù per trovarci?» E poi lo butto fuori, e non so nemmeno io perché: «Voi siete gli ultimi.» Lui guarda a terra e dice, così piano che quasi non lo sento. «Sì.» «Hey, niente di male.» Cerco di essere allegro, ma di colpo mi riassalgono i ricordi di quella notte con Adelaide, tutti quei dubbi che ho avuto, il fottuto dolore. Pete Sun mi guarda e sorride appena. «Vuoi dire che noi tre siamo gli ultimi.» «Uhhhh...» Ha ragione, ovviamente. «Cos'hai intenzione di fare?» mi chiede, indicando la radio sotto la mia camicia. «Uh, beh... non lo so.» Non lo sopporto. La donna mi sta guardando con quegli occhi da cucciolo, e io non riesco a pensare. Mi alzo, rovesciando il poco caffè rimasto, borbotto delle scuse e me ne vado barcollando. La testa mi gira come una trottola. Cosa diavolo mi succede? Perché non posso pensare chiaramente? Ritorno incespicando su per la collina, via dal campo, zoppicando sulla mia gamba finché non sono ben dentro nella boscaglia. Alla fine mi fermo a sbattere la testa contro un albero, ma non serve. Ancora non riesco a mettere i miei pensieri in fila uno dietro l'altro. Di fronte a me c'è la faccia di Adelaide, che si beffa di me con quel suo sorriso. Adesso mi rendo conto che il suo sguardo era solo una versione più cinica di quelli di Peter Sun e della sua ragazza. Giuda. Ecco, l'ho detto. Continuo a zoppicare su per la collina. Gesù, la gamba fa davvero male. Penso a tutti quei vecchi film, Jeffrey Hunter, Max von Sydow nella parte di Gesù, quello sguardo duro e pietoso sulle loro facce quando dicono a Giuda di fare ciò che deve. Cos'hai intenzione di fare? mi ha chiesto il vecchio Pete, e aveva la stessa espressione. Mi fermo a sbattere la testa contro un altro albero, ma il dolore è sempre lì dentro, spesso e vibrante, e senza nessuna intenzione di andarsene. Con-
tinuo a salire. Improvvisamente la notte si apre su di me, un manto di stelle, non mi ero accorto di quanto fosse buio là dentro. Sono davvero in alto, mi accorgo che sono arrivato proprio in cima alla grande collina dell'isola, e il vento freddo mi sferza la pelle, e sento il suono dell'acqua corrente poco lontano. Gesù, il cielo è bellissimo. Proseguo, inciampando, mi lascio gli alberi alle spalle, sotto i piedi adesso ho la rocce. Il suono dell'acqua diventa più forte, sento gli spruzzi delle rapide, che in faccia accentuano la sensazione di freddo. Ed ecco che d'un tratto sono in vetta alla cascata dell'isola. Sotto la luce delle stelle è stupenda, è come se nelle profondità dell'abisso precipitassero diamanti. Tiro fuori la coca, poi la rimetto in tasca. Non mi serve, non voglio coca stavolta. Gesù, per la prima volta da mesi sono lucido, né coca né alcool, e sto vedendo qualcosa che mi piace. Davvero sorprendente. Cos'hai intenzione di fare? Adesso è facile. Non sono Giuda. Di colpo la faccia di Adelaide mi sta sorridendo davvero, il dolore è scomparso, e tutto è chiaro. In nessun modo ho intenzione di lasciare che l'umanità venga spazzata via dalla faccia della terra. Non se posso evitarlo. Ho ancora un paio di risorse, posso tenere a bada gli skel per un poco, e inventare qualcosa. Non sono per niente Giuda, per niente. Non io. La mia radio fa un bip. Deve essere il momento del controllo. Adesso lo faccio, d'accordo. Farò ballare a questi ossi il mio ballo. Vecchio Roger Garbage, il fautore, l'uomo che ha salvato l'umanità! Eccomi, fratelli, sono io. Mi sazio ancora una volta della scena che mi circonda. Mi sento umano. Lascio che la bellezza di tutto ciò mi pervada la vera pelle, e i veri occhi, e lascio che la sensazione dell'acqua mi spruzzi la vera faccia e le vere mani. La radio fa un altro discreto bip, segnalandomi di farmi sentire, di tradire la razza umana, di essere Giuda. Spiacente di deludervi, ossi. Ho già in testa un piano, lo sto cucinando, farò in modo che Capitan Bob, e Stanton e il signor Lincoln e il vecchio Pipeman e tutti gli altri cerchino Pete Sun e sua moglie per mesi. Smetterò di tirare coca, e di bere. La faccia di Adelaide è davanti a me, e mi manda dei baci. C'è anche il mio vecchio, con la mano alzata ferma a mandarmi un bacio anche lui, con un'espressione di perplesso orgoglio sui lineamenti da ubriacone, che dice, «Forse dopotutto non sei una merdaccia senza valore...»
Roger Garbage, salvatore dell'umanità, campione del mondo! Heh-heeh. «Dannazione, Garber, fatti sentire!» gracchia la radio, rinunciando al bip discreto in cambio delle grida di Capitan Bob impregnate del ronzio dei reattori. Infilo la mano sotto la camicia e tiro fuori la radio, e ficco il dito sul pulsante di chiamata. «Oh, yeah, voi f...» Mi cede la gamba, e con un grugnito cado in avanti, scivolo sul ciglio delle rocce e nella cascata, mentre il Roger-radar emette l'ululato più forte che ho mai sentito. E mi vedo volare giù, e sento gli spruzzi freddi sulla faccia. Solo a tre quarti del tragitto verso il basso, mentre la superficie rocciosa si alza verso di me, mi rendo conto di cosa è successo e di cosa sta per succedere. Mi resta appena tempo sufficiente per buttare fuori un bell'urlo acuto. Poi mi schianto sulle rocce, con violenza, a testa in giù, e mi spiaccico proprio in mezzo a una grossa roccia piatta. Resto morto stecchito per circa cinque secondi, come la dissolvenza in un film. E poi... Rieccomi! Roger è tornatooooooo! Quante storie per tutta questa faccenda. Hey, osso non è male. Onestamente non posso dire di sentirmi molto diverso. Mi accorgo di una cosa, mentre mi metto comodo sulla mia roccia piatta, e cioè che il vecchio Pete aveva ragione, la mia gamba era rotta, una piccola frattura semplice visibile sotto il polpaccio. Oh, bene. Adesso funziona benissimo. Ho un pensiero improvviso, orribile, infilo una tremante mano di scheletro in tasca... Alleluia! La roba c'è ancora. Ne stendo una bella pista qui sulla roccia e me la sniffo. Ahhh. La radio, ancora fissata al mio fianco, salvata dal corpo che ha fatto da cuscinetto nella caduta, sta gracchiando ancora. È la voce di Capitan Bob che grida: «Dio ti maledica, Garber! Rispondi, soldato!» La tiro fuori. Esito un secondo prima di premere il pulsante per la chiamata di ritorno. Alzo gli occhi alla sommità della cascata, sulla sporgenza dalla quale ho appena fatto il volo del cigno. Scuoto la testa, domandandomi innanzitutto cosa diavolo ci facevo là sopra. «Merda, amico, devo essere impazzito.»
Cos'hai intenzione di fare? La risposta è facile, fratello. Ridendo, con la coca che mi batte in testa proprio nel momento in cui io batto il pulsante della radio, interrompo lo sbraitare di Capitan Bob, e mi sento più che mai come il vecchio Rog. «Hey, ragazzi, Lui e Lei sono pronti per il raccolto! Il vecchio Rog è in pista! È tempo di festeggiare! Il soufflé degli ultimi umani è pronto! Tutti a tavola! Sono pronto, andiamo! Tempo di estinzione! Ya-hoo! «VENITE A FARE UNA POLTIGLIA DI QUESTI BABBEI!» CAPITOLO SEDICESIMO DALLA SECONDA VITA DI ABRAMO LINCOLN 1 I miei sogni usavano spaventare Mary. Mi manca, a volte terribilmente. So che era fastidiosa, con le sue inquietudini e tutto il resto, ma lei era ciò che avevo, e il proverbio dice, «L'acqua non ti manca finché il pozzo non è asciutto.» Beh, temo che il mio pozzo in quei giorni sia arrivato all'osso. Le mie tristi meditazioni mi erano sfuggite di mano, al punto che infastidivano persino me. So che è una considerazione molto analitica, ma devo confessare che l'interesse e il piacere provati in quella settimana mi erano venuti in gran parte dallo studio della cosiddetta scienza della mente. Sebbene debba riconoscere di non essere molto d'accordo con quel Freud, che avevo conosciuto poche settimane prima a Washington, penso che fosse sulla strada giusta. Sembra che io sia un soggetto maniaco-depressivo. Diamine, se è così che chiamano un meditatore, allora sono colpevole. Un dottore che si chiamava Linus Pauling, piuttosto rinomato nella sua professione, suggerì in televisione che mi dessero una specie di droga per sollevarmi il morale. Chiamai quel dottore al telefono, e gli dissi che non esisteva nessuna pillola in grado di sollevare il mio problema. «L'unica pillola,» dissi, «è la fine di questa guerra.» «Ma signor Presidente,» disse lui, «la guerra sta andando bene!» «Le guerre non vanno mai bene,» risposi. E poi non potei resistere, e ripetei uno dei detti più comici mai sentiti, di un giocatore di baseball americano di nome Yogi Berra, che mi ricorda uno dei miei comici favoriti,
Thomas Hood: «Non è finita, signor Pauling, finché non è finita.» Il fatto è che era quasi finita. Ma trovavo che il tormento incombeva su di me più grande che mai, perché i dubbi ancora mi assillavano. Avevamo convertito quasi tutti gli esseri umani sulla terra, e tuttavia non sentivo che quell'immane compito fosse concluso. Sembrava che fosse solo il secondo atto. «Sciocchezze,» mi diceva Stanton. Devo ringraziare l'Onnipotente per Stanton, che ha dimostrato di essere un indispensabile, spietato segretario alla guerra. Anche migliore di quanto lo era stato la prima volta. Ogni volta che facevo un cenno, lui era lì, duro come una roccia, che perseverava. «Preferiamo forse uno stato di perpetua guerra civile?» gli piaceva dire, servendosi della mia argomentazione più persuasiva. «C'è forse un'alternativa?» No, dovevo rispondere, e tuttora sembra che non ci fossero alternative, e per questo Stanton si opponeva vigorosamente ad ogni azione basata sul mio sogno. «Stupidaggini!» mi ruggì contro quando per la prima volta lo misi a parte dell'idea. «Convertiteli tutti, e più in fretta possibile! Altrimenti non potrà esserci unità!» «E tuttavia,» ribattei, «Questi sogni non li ho avuti solo io. Abbiamo la testimonianza di numerosi umani che dicono di essere stati guidati dalla visione di questa giovane donna umana.» «Guidati a cosa?» Stanton infuriava per l'Ufficio Ovale, con i capelli dritti per la rabbia, tirandosi la barba. Sembrava pronto a colpire qualcuno, forse me. «Sembrate l'orso che non riesce ad arrivare al vaso del miele,» gli dissi incapace di trattenermi dal sorridere ai suoi gesti grotteschi. «Ripeto,» disse, «guidati a cosa? Al nostro abbraccio! Sono stati tutti convertiti. Anche se questa... ragazza esiste, cosa significa? Io dico che anche lei dev'essere convertita. E allora questo conflitto finirà!» «Sono d'accordo con voi,» dissi con fermezza, «ma vorrei farlo a modo mio.» «Mandando quello sciocco...» Fece un'imitazione piuttosto ridicola della strana pettinatura del signor Garber, tenendosi i capelli dritti sulla testa con le mani. «Quello sciocco umano...» «Sento che è giusto.» «Ma...» «Nel mio sogno io incontro questa donna, l'ultima donna dell'umanità, e
l'uomo che è con lei.» «E poi?» «Non lo so. So soltanto che è significativo. Non vi ricordate il sogno che facevo ogni volta prima di una vittoria, nell'altra guerra? La nave fantasma che si avvicinava alla spiaggia indistinta? Si rivelò significativo, o no?» «Se ricordo correttamente, lo aveste la notte prima del vostro assassinio,» rispose cocciutamente. Aggrottò la fronte. «Più aspettiamo...» In quel momento entrarono Eddie e Willie che giocavano a umani e scheletri. Eddie inseguiva Willie intorno alla mia scrivania, gridando: «Prendi questo, canaglia, e questo...» Eddie si fermò un secondo a salutare Stanton. «Tenente Lincoln a rapporto, signore!» Guardai Stanton, sorrisi, e mi strinsi nelle spalle. «Signor Presidente, siete impossibile.» Stanton uscì come una furia, borbottando, e la faccenda fu decisa. 2 E così, mentre le settimane passavano, e il primo inverno diventava inverno inoltrato, e l'aviazione usava la sua macchina meravigliosa per trovare ciò che restava dell'umanità e cercare la ragazza, i miei sogni si fecero più distinti e numerosi. Erano sempre uguali. Io dovevo incontrare la giovane donna e il suo compagno su un'isola. Un sentimento di tepore mi avvolgeva sempre quando lo facevo, e poi mi svegliavo. Assieme alle conversioni delle ultime vestigia dell'umanità il mondo acquistò un certo equilibrio. Ma contemporaneamente si aggiunse un senso di incertezza, di aspettativa. Era come se tutta la nostra razza di scheletri stesse trattenendo il respiro. Persino Stanton, che aveva respinto l'idea con disprezzo, dovette ammettere che nonostante la convinzione che io fossi nel torto, anche lui sentiva una sorta di nervosismo riguardo al futuro. Un giorno, mentre la prima neve di marzo si stava sciogliendo fuori dalla finestra del mio ufficio e i boccioli di ciliege di Washington stavano cercando di sbocciare, scoprii finalmente l'origine di tanto nervosismo. Potevo vedere Willie in giro per i terreni sul suo adorato pony, gesticolare all'uomo del Servizio Segreto che teneva le redini del cavallo, per dirgli di farlo andare più in fretta. Sentii un rumore dietro di me. Girai sulla poltrona e vidi Eddie entrare nella stanza con un libro illustrato che gli penzolava da una mano.
«Volete leggere per me, signore?» disse, facendo il saluto militare. «Certo, Tenente,» dissi togliendo la mia lunga gamba dal bracciolo della poltrona e facendogli posto sulle ginocchia. Eddie prese il suo libro e si sedette. Ma notai in lui un forte cruccio. «Qualcosa ti ha lasciato dentro il pungiglione, Tenente?» dissi. Scrollò le spalle. «Hai nostalgia di tua madre?» «Un po'.» «Qualcosa di più?» Fece segno di sì con la testa. «Hmm, cosa potrebbe essere?» Di nuovo scrollò le spalle. «Capisco. Mi ricorda di quell'uomo che aveva perso la lingua, ne hai mai sentito parlare?» Mi accorsi di aver risvegliato il suo interesse, così continuai, cullando mio figlio in grembo in una posizione più confortevole. «Pensavo che potesse essere una storia che faceva al caso tuo. Dicono che una volta c'era quest'uomo, che sentì uno dire a un altro: "Il gatto ti ha mangiato la lingua?" Decise così di vedere di cosa si trattasse. Il povero sciocco prese un gatto, e un'ascia. Mise giù il gatto, tirò fuori bene la lingua e la appoggiò su un ceppo, e se la mozzò via di netto! Cominciò a urlare a squarciagola, e a saltare su e giù, solo che nessuno poteva sentirlo! E per aggiungere la beffa al danno, il gatto scappò via con la sua lingua! «Allora disse fra sé: "Adesso so di cosa stava parlando quell'uomo, e non è affatto piacevole!" «Si mise all'inseguimento del gatto, gli strappò la lingua di bocca, e corse dal dottore, che gliela ricucì. Ma quel dottore era un po' corto di vista, e non aveva mai cucito una lingua a nessuno, e gliela mise sottosopra! «Da allora in poi, quell'uomo parlò a rovescio, o non parlò affatto!» Eddie mi guardò con aria scettica, ma sorrideva, ed era ciò che volevo. «Adesso vuoi dirmi cosa ti rode, a rovescio o diritto?» Chinò la testa e annuì. «Voglio sapere dove andiamo.» «Cosa vuoi dire?» «Voglio sapere dove andiamo quando... andiamo.» «Ah.» Improvvisamente colsi il significato delle sue parole. «Vuoi dire, dove è andata la mamma?» Annuì. «E dove siamo andati noi... la prima volta.» «Capisco.» Mi diedi una grattatina alla barba. «Questa, Tenente, è la
questione più difficile di tutte.» I suoi occhi erano spalancati e schietti come possono essere solo quelli di un bambino. «Perché?» «Dunque, alcuni scienziati pensano che questa nube nella quale ci troviamo abbia stimolato una specie di - come l'hanno chiamata? - anima genetica dalle tracce delle nostre ossa rimaste nel luogo della sepoltura, e che da queste particelle genetiche siamo stati poi generati noi. Io stesso non riesco a capacitarmene. Per come me lo immagino io, dobbiamo essere arrivati da qualche parte per tornare qui. Ora, se questo è vero, si tratta di una splendida notizia, perché significa che non importa come, si può fare.» «Vuoi dire che rivedremo la mamma?» Mi grattai forte il mento. «Beh, questo preferisco pensare che sia un segreto. Io stesso non ricordo il luogo dove siamo stati, e non ho ancora incontrato nessuno sano di mente che si ricordi, ma devo dedurre che se esiste, dev'essere un bel posto. Credo che ce ne ricorderemmo se non lo fosse, e non avremmo nessuna fretta di ritornarci.» Gli rivolsi un'occhiata. «E tu cosa ne pensi?» Il mio figlioletto mi appoggiò la testa al petto, spezzandomi quasi il cuore, e lo sentii tremare. «Ho paura, papà.» «Hey, piccola canaglia, non c'è niente di cui aver paura!» «Ma ce l'ho. Vi ho sentito parlare a quegli uomini degli astronauti che stavate mandando a vedere cosa succede quando la terra esce dalla nube. Voi diceste che non sapevate cosa sarebbe successo. Non mi è piaciuto andarmene quell'altra volta. Mi ricordo di essere stato male, e mi lamentavo...» E improvvisamente il mio figliolo stava piagnucolando, e mi abbracciava più stretto di una conchiglia attaccata a una nave. E io, Presidente degli Stati Uniti, cosiddetto eroe per aver concluso vittoriosamente una guerra e per aver riequilibrato le sorti del mio paese e del resto del mondo, mi sentii impotente come non mai, incapace com'ero di dire a un ragazzino che nel mondo tutto andava bene. Lo lasciai piangere un poco. A dire la verità avevo voglia di piagnucolare un po' anch'io. Poi scostai Eddie da me, con un'ombra di severità, e gli dissi, guardandolo negli occhi: «Tenente, tuo papà sta cercando di risolvere la faccenda. Questo lo credi, vero?» Si asciugò le lacrime e annuì. «E credi che se non ci riesco io, non può riuscirci nessuno, giusto?» «S-s-sì, papà.»
«Bene, allora è tutto a posto?» «Sì, papà.» «Perfetto. E adesso occupiamoci di affari più importanti.» Presi il libro che aveva portato con sé, un libro dello stravagante dottor Seuss, e iniziai a leggere, con grande sfoggio recitativo nelle parti comiche e drammatiche. Quando Eddie se ne andò, era come se nulla l'avesse mai turbato. Uscì a passo di marcia come un piccolo soldato per raggiungere suo fratello, col quale si azzuffò energicamente per un giocattolo nemmeno un'ora dopo la nostra piccola discussione molto seria, che io, naturalmente, non avevo dimenticato. 3 Non era passata una settimana dall'incidente, che Stanton mi comunicò che la ricerca della giovane dei miei sogni era concentrata in una zona dell'Alaska, e che il nostro esperimento spaziale stava per concludersi. Mi suggerì di andare in California per essere pronto per entrambi gli eventi. Sembrava una buona idea, così accettai. Avevo cominciato a lavorare a un discorso. Il viaggio su Air Force One mi avrebbe concesso il tempo di continuare. Inoltre il professor Einstein mi aveva invitato all'osservatorio di Monte Palomar, cosa che aspettavo con ansia. Eddie e Willie mi implorarono di lasciarli venire, e alla fine accondiscesi al loro desiderio. Non appena fummo in aria presero immediatamente il controllo dell'aereo, con grande dolore del pilota e dell'equipaggio. Erano proprio dei furfanti, e se non fossi stato abituato al loro comportamento credo che non sarei riuscito a concludere nulla. Pensai che avrebbero distratto il povero Stanton, ma lavorai parecchio al mio discorso, e quando mostrai la brutta copia al Segretario alla Guerra, questi ne approvò il contenuto. «È molto bello, signor Presidente,» disse. «Ho alcuni dubbi riguardo a questo discorso,» dissi io. «Ma penso che ce ne sarà bisogno.» «Oh, non ne dubito, signor Presidente,» disse Stanton, e fece una pausa per guardare fuori dal finestrino. «È meraviglioso poter volare come un uccello, però, non credete?» Ridacchiai. «Al proposito nutro sentimenti contrastanti. Temo di essere sempre in ansiosa aspettativa che tutto questo macchinario così pesante si sfracelli a terra. Mi hanno detto che ha il peso di due navi corazzate come
il Monitor. Vi ricordate come pesava, vero? Com'è possibile che una cosa così massiccia possa sollevarsi in aria?» Stanton si girò dal finestrino. «Per il vostro discorso, sarebbe appropriato che lo pronunciaste quando la ragazza è stata trovata e impiccata.» «Sarà un'occasione storica.» «Esatto.» Feci un profondo cenno col capo. «Non. sono ancora convinto di avere in mano tutta la storia.» Stanton sorrise. «Ancora i vostri sogni? Ma effettivamente è abbastanza un mistero come tutto si sia risolto così in fretta, non credete?» «Sì, è piuttosto... strano.» Eddie stava inseguendo Willie lungo il passaggio centrale, e un uomo del Servizio Segreto dall'aria stanca cercava di stargli dietro. «Devo dire però,» disse Stanton, «che mai nemmeno per un istante ho pensato che stavamo adottando le misure sbagliate.» «Una volta cominciato, nemmeno io. Anche se desideravo poter vedere cosa avremmo trovato in fondo al cammino!» Stanton annuì, e si voltò di nuovo verso il finestrino. «Non sono mai stato uomo di molti dubbi, ma se penso al nostro piccolo esperimento spaziale, sarebbe tragico se la guerra fosse stata inutile.» «Questo,» dissi con un sospiro profondo, «è qualcosa che non sono disposto a credere. Perciò dò tanta importanza alla giovane donna umana. Sento che qualcuno - qualcosa - ci ha guidato, e continuerà a guidarci, in questo cammino.» «Spero che abbiate ragione, signor Presidente. E le vostre osservazioni saranno perfette quando la ragazza sarà convertita.» Guardai con lui fuori dal finestrino, il mondo splendido che si stendeva sotto di noi, prima di ritornare al mio discorso. 4 Il tempo che trascorsi a Monte Palomar col Professor Einstein fu eccezionalmente gradevole. Mi ricevette al crepuscolo. Cacciammo il Servizio Segreto, lasciandolo a guardia del perimetro della cupola, e chiudemmo a chiave la porta dell'osservatorio dietro di noi. Lo strapazzato uomo del Servizio Segreto che badava a Eddie e Willie era ancora a Disneyland con loro. Stanton era nei paraggi, e controllava la situazione militare per poterci avvisare in caso di notizie.
«Sono felice che sia venuto, Presidente,» disse Einstein mentre salivamo le scale verso la stanza del telescopio. «Non sarei mancato per nulla al mondo,» dissi io. «Sapete, ai miei tempi avevo una discreta passione per le stelle. Di tanto in tanto andavo all'osservatorio di Washington per studiarle. Certo allora non avevano dei giocattoli così meravigliosi per guardarle!» «Vero,» confermò Einstein. Ci fermammo tutti e due ad ammirare il cilindro grosso e pesante puntato attraverso la fessura aperta nella cupola sopra di noi, fessura affollata di stelle. «Prima dell'inquinamento atmosferico, questo era l'osservatorio migliore del mondo!» disse Einstein precedendomi nella cabina di osservazione che ci avrebbe sollevati fino alle lenti oculari. Salimmo lentamente, e vidi le stelle avvicinarsi. «Meraviglioso,» dissi. «Mi hanno detto che ha avuto dei sogni,» disse Einstein. Consultò un orologio dal fondo bianco appeso sopra la porta dalla quale eravamo entrati. Godevo tanto della sua compagnia perché non era solo intelligente, ma possedeva un notevole senso dell'umorismo. Le rughe agli angoli degli occhi si infittivano quando faceva del sarcasmo. «Sì,» dissi ridacchiando, «quelli che mi stanno attorno ritengono che sia uno sciocco a farci affidamento.» Einstein mi rispose gravemente. «Io credo che loro siano degli sciocchi. Quei sogni potrebbero essere un mezzo di comunicazione, lo sa? Esiste da sempre una scuola di pensiero che sostiene che i sogni sono messaggi da un altro regno fisico, o universo, e che la mente dormiente è semplicemente un ricevitore sintonizzato per intercettare quei messaggi. Penso che in questo caso sarebbe pazzesco non dare credito a tale teoria.» «Credo che abbiate ragione, Professore.» «Inoltre,» ridacchiò, «li ho avuti anch'io!» Risi con lui, e in quel momento la cabina si fermò. Ci trovavamo davanti a uno strumento con attaccate due lenti oculari, una per Einstein e una per me che lo scienziato adeguò alla mia altezza. «Dia un'occhiata, signor Presidente.» Mi guardò avvicinare gli occhi allo strumento. Una profonda, fitta, magnifica distesa di stelle, come milioni di minuscoli diamanti, occupava lo spazio visivo della lente, su uno sfondo nero come velluto. «Sapete, professore, mi sono domandato spesso come tutte quelle stelle siano arrivate lassù. So di sembrare ingenuo, dato che voi stesso avete cercato di risolvere la stessa questione, ma credo che il mio pensare alla
Provvidenza sia dovuto in parte anche a ciò. Quand'ero più giovane non ci davo molta importanza, perché ero occupato con altre cose, ma guardare le stelle mi faceva meditare. Era troppo bello, troppo immenso, per mettersi improvvisamente a esistere tutto da solo.» «Capisco esattamente cosa vuole dire, signor Presidente. È la stessa domanda che mi ha portato a chiedermi come tutto sia arrivato dov'è, e perché fa quello che fa. Volevo vedere come Dio mette in atto i suoi trucchi!» «Adoravo gli spettacoli di magia! C'era un uomo, si chiamava Herman il Mago, che venne alla Casa Bianca. Lo costrinsi a eseguire tutti i suoi trucchi lentamente, per poter vedere come venivano fatti. Anche la mamma si distraeva! Non riusciva a capire perché volessi conoscere il segreto che stava dietro la magia!» «Penso che sia tutto ciò che io o lei davvero vogliamo, signor Presidente, dare un'occhiata a com'è fatto. Forse toglierebbe un po' di mistero alla vita, ma toglierebbe di certo tanta paura!» «Sono assolutamente d'accordo con voi, Professore.» Mentre ero perso nell'ammirazione del panorama, il telefono nella cabina squillò, e Einstein sollevò il ricevitore. «È per voi, signor Presidente.» Presi la cornetta, e mentre Einstein spostava il telescopio in un'altra direzione io parlai con Stanton. «Li hanno trovati!» disse Stanton. «Bene,» risposi. «Un'isoletta al largo dell'Alaska. Entro domani sarà sotto il nostro controllo.» «Grazie, signor Stanton.» Riappesi. «Sembra che il palcoscenico sia stato allestito per la rappresentazione dell'Atto Terzo della nostra piccola commedia,» dissi a Einstein. «Gli ultimi umani sono stati trovati?» «Sì.» Einstein aveva tirato fuori la sua pipa e la stava caricando col tabacco. «Bene, forse stanotte avremo un'anteprima sull'epilogo.» Fece un cenno verso la lente ottica, e io ci guardai dentro. Circondata dalle stelle, c'era un'intensa chiazza luminosa. «Quello è il vostro uomo?» «Sì,» rispose Einstein. «Ed è molto coraggioso, anche. C'è voluto parecchio perché la NASA e i Sovietici organizzassero la missione. Ma non era l'unico a voler andare, stavano litigando per decidere. Il nostro Grissom lo desiderava ardentemente, ma alla fine, hanno lasciato che la spuntasse
Gagarin, dato che era stato il primo uomo nello spazio.» «I primi saranno gli ultimi, eh?» dissi guardando Einstein. I suoi occhi si strinsero in un accavallarsi di rughe. Di nuovo Einstein consultò l'orologio sulla porta d'entrata. «Aspetto una telefonata tra poco. Pensavo che potesse essere istruttivo osservare dal vivo mentre succedeva.» Si girò verso la lente oculare, e io feci lo stesso. Osservai con attenzione. C'era un punto luminoso, ed era sempre un punto luminoso. Einstein si allontanò dalla sua lente, guardò ancora l'orologio, e annunciò. «È successo.» «È fuori dalla nube?» «In questo istante. E la terra ne uscirà domani.» «Che io sia dannato se ho visto qualche differenza in quella chiazza di luce, quando è successo.» «Dovremo aspettare...» Proprio allora suonò il telefono. Devo ammettere che il cuore mi balzò in gola. Einstein rispose, e disse una volta, e poi ancora, «Capisco.» Attendevo con ansia il risultato, e quand'ebbe lentamente riappeso il telefono, e si fu fermato ad accendere la pipa, mi mise al corrente. «Hmmm,» fu il mio commento. «Una volta ho affermato che Dio non gioca a dadi,» disse Einstein. «No, ma sicuramente gioca a scacchi, non credete?» Di nuovo le rughe agli angoli degli occhi si infittirono. «Sicuramente. Forse ci aspetta un altro sogno, eh?» «Forse.» Indugiammo ancora qualche minuto a guardare le stelle, e a osservare il loro posto nell'universo. Poi ritornai nel mio alloggio e tolsi il discorso dal cappello, lo lessi lentamente e a fondo, ancora non convinto che le parole fossero quelle giuste. Alla fine mi arresi, e mi addormentai. Quella notte, come in risposta a una preghiera, sognai sia il mio vecchio sogno della nave che si avvicina alla riva invisibile, che il sogno nuovo della giovane dalla carnagione scura che veniva da me. Solo che adesso io ero sulla nave, e vedevo la riva, e d'un tratto seppi chi era la ragazza, cosa stava per accadere, e cosa avrei dovuto fare. 5
E così, finalmente, iniziò il giorno più importante nella storia della vita sulla terra. Avevo trascorso le ultime ore della notte in una lunga limousine, sfrecciando in mezzo a una carovana di automobili che trasportavano Stanton e gli altri verso nord, a Seattle, Washington, dove una nave della marina aspettava per portarmi in mare. Facemmo una breve deviazione allo Zoo di Seattle, concessami solo dopo un'infinità di ordini presidenziali e con Stanton che alla fine gettò in aria le mani e sbottò dicendo, «Sogni!» Eddie e Willie dormirono sull'auto accanto a me, e Eddie si mosse nel sonno per rannicchiarsi con la testa sul mio grembo. Willie si era ficcato nell'angolo opposto, contro la portiera, ma riuscii a tirarmelo vicino, e restai a fissare le luci che scorrevano via nella notte insonne. All'alba raggiungemmo il cantiere navale di Seattle. Scesi dalla limousine, mi stiracchiai, e percorsi la passerella fino al ponte della nave. Era lunga e snella, coperta di torrette e cadetti sull'attenti. Il sole sorgeva sulla promessa di uno splendido mattino. «Benvenuto a bordo, signore,» mi disse l'Ammiraglio John Paul Jones. Respinsi con un cenno il suo saluto e gli battei una mano sulla spalla. «Non è il caso che facciate il saluto, Ammiraglio,» dissi. «Portatemi solo su quell'isola per le tre di oggi pomeriggio.» «Sarà fatto, signor Presidente!» Eddie e Willie mi passarono davanti di corsa, pronti a fare opera di devastazione sulla nave. L'Ammiraglio Jones si limitò a sorridere, e in breve ci trovammo diretti da ovest a nord ad alta velocità, verso l'isoletta di Diomede, con cinque cacciatorpediniere in coda. «Pensate che serviranno?» risi, indicando a Stanton la scia delle navi. Stanton mi rivolse uno sguardo corrucciato. Ridendo mi girai per sentire in faccia gli spruzzi di acqua salata, e per vedere le onde che si frangevano al nostro passaggio. Raggiungemmo l'isola prima di mezzogiorno. Gettammo l'ancora a una certa distanza, in vista di una nave tirata in secco. Il mare era calmo. Un'avanguardia di uomini armati toccò terra davanti a noi, e mi chiesi perché mai facessero tanto chiasso attorno alla faccenda. I due umani che stavamo cercando, in compagnia di un Roger Garber molto cambiato, ci stavano aspettando tranquillamente sulla spiaggia. «Non si sa mai,» grugnì Stanton, e temo di averlo infastidito ancora con la mia risata. Eddie e Willie, nel breve tempo trascorso a bordo, avevano quasi completamente distrutto la nave dell'ammiraglio, e avevano fatto del loro me-
glio per colare a fondo la scialuppa che ci aveva portato a riva. Finalmente, a pochi metri da terra, l'ammiraglio concesse loro di arrotolarsi i pantaloni e li fece scendere oltre la fiancata perché potessero sguazzare fino a riva. «Guardate, papà, umani!» disse Eddie, bloccandosi di colpo, con l'acqua che gli lambiva ancora le caviglie. Indicò il giovane e la giovane che, fianco a fianco, guardavano con calma il nostro gruppo. Accanto a loro c'era una splendida coppia di lupi, che ci fissavano senza sbilanciarsi. Con le ossa che scricchiolavano scesi dalla scialuppa e abbassai il dito di Eddie con la mano. «Non è educato segnare a dito,» dissi. Poi, reprimendo come sempre la comprensibile repulsione che abbiamo per questi umani, tesi la mano e dissi: «Salute a voi.» Il giovane fece un passo avanti. «Salve, signor Presidente. Il mio nome è Kral Kishkin.» Prese la mia mano in una stretta sorprendentemente calda. «È un vero piacere conoscerla.» Mi presentò la giovane donna accanto a lui. «Questa è Claire St. Eve.» «Sì,» dissi prendendo la mano della giovane, il cui viso sembrava illuminato da dentro. Mi rivolsi alla nostra spia, il signor Garber, e dissi: «Bene, vedo che avete deciso di unirvi a noi!» Sorrise timidamente e disse: «Beh, uh, già, un incidente, ma spero che siamo sempre d'accordo...» «Buon lavoro, signor Garber. Sono certo che troveremo una soluzione.» Eddie e Willie stavano girando attorno allo scafo della nave in secco, tirandosi addosso sabbia, e i lupi si erano seduti a osservare i loro movimenti. Dietro di me un esercito di tecnici stava scaricando dalle altre scialuppe le attrezzature televisive, un riflettore parabolico per le trasmissioni via satellite, telecamere, luci. «Promette di essere una giornata intensa,» dissi. «Sì, infatti, signor Presidente,» disse Kral Kishkin. «Posso mostrarle la nostra casa?» Risalimmo la spiaggia, e mi mostrò l'incantevole casetta di legno che aveva costruito assieme a Claire, annidata in una grotta, circondata da cascate, sorgenti, e una lussureggiante vegetazione. L'aria era piena dei versi degli animali. Quando entrammo nella casetta vidi una forma enorme e pelosa su una poltrona, che guardava lo schermo di un televisore. Un apparecchio video era collegato a un generatore portatile. Quando ci avvicinammo, la forma si stiracchiò e si alzò, e una grossa scimmia mi guardò solennemente.
«Credo proprio di aver finalmente trovato mio fratello!» dissi ridendo, ricordando il soprannome che mi avevano dato durante le mie campagne. Con sorpresa vidi la scimmia avanzare verso di me e prendermi la mano. Gettai indietro la testa e risi ancora più forte. «Credo che sappia cosa abbiamo per lui!» Mi girai a parlare con un uomo del Servizio Segreto, che annuì e ritornò alla nave. «Questo è certamente un luogo accogliente,» dissi. «Grazie,» rispose Kral Kishkin. Rimirai la giovane signora. Era esattamente come l'avevo sognata, anche se di persona la sua aurea era addirittura più forte. Nonostante non parlasse, sentivo che stava dicendo un'infinità di cose. «Notevole,» dissi. L'uomo del Servizio Segreto ritornò con la sorpresa. La grande scimmia si era riaccomodata in poltrona davanti al film che stava guardando. Sullo schermo una ragazza vestita come una principessa stava sparando con una specie di pistola spaziale. Quando l'agente del Servizio Segreto entrò tirandosi dietro una scimmia femmina, il mio amico in poltrona alzò lo sguardo, si girò di nuovo verso lo schermo, poi balzò su, mandando il televisore a gambe all'aria e strillando come un matto. La femmina, naturalmente, lo prese davvero per matto, ma lo scimmione si riprese rapidamente. Ben presto i due si erano allontanati a chiacchierare in un angolo della casetta, come se al mondo non esistesse nient'altro. «Vogliamo uscire?» proposi. Controllai l'orologio, vidi che c'era ancora un sacco di tempo prima delle quattro, e decisi di approfittarne. Facemmo il giro dell'isola. Lasciammo Stanton, il signor Garber, quelli della televisione, l'ammiraglio e i suoi uomini sulla spiaggia. Era come essere in un altro mondo. La primavera era sbocciata ovunque, e piante enormi, quasi tropicali, levavano le lussureggianti infiorescenze al cielo. L'aria era fragrante di ossigeno, e mi ricordava le primavere della mia infanzia, quando avevo ancora tutto il mondo davanti. Ci sedemmo su una roccia piatta in fondo alla cascata più alta dell'isola, e apparecchiammo per pranzo. Eddie e Willie, con i pantaloni ancora arrotolati, sguazzavano nell'acqua. «Signor Kishkin,» dissi al giovane, «mi hanno informato sul lavoro che avete fatto, e devo dire che approvo pienamente. Vorrei adesso spiegarvi, se posso, il motivo per cui ho preso le decisioni che ho preso negli ultimi mesi.»
«Signor Presidente,» ribatté il giovane, «io comprendo. Ci sono stati dei momenti, le scorse settimane, e i mesi addietro, in cui non comprendevo, e odiavo tutti voi per quello che stavate facendo. Ma ora so che avete fatto ciò che credevate giusto. So che nelle vostre azioni non c'era cattiveria.» «È molto bello ciò che dite, signor Kishkin.» «È vero.» Annuii. «È il massacro che mi è sempre pesato addosso, insopportabilmente.» «Ma adesso ne conosciamo il significato, vero, signor Presidente?» Gli rivolsi un sorriso, piano piano. «Sì, lo conosciamo. Suppongo che abbiamo avuto entrambi lo stesso sogno. Posso dirvi quello che ho in mente?» «Prego, signor Presidente.» Consumammo il nostro pranzo, e gli esposi il mio piano. Alla fine gli spiegai la mia difficoltà col discorso che avevo scritto. «Ora è decisamente poco appropriato,» dissi. «Forse posso aiutarla, signor Presidente.» Tirò fuori un foglietto piegato in più parti dal fondo della tasca e me lo porse. «Queste sono parole che scrissi molto tempo fa, basate sulle sue stesse parole.» Spiegai il foglietto e lessi. Alle piegature era così consumato che le parole erano quasi illeggibili. «Sarei orgoglioso di usare queste parole, signor Kishkin,» dissi, e mi vennero le lacrime agli occhi. Attraverso le lacrime vidi Kral Kishkin e la giovane donna che sorridevano. Era tempo di ritornare. Ancora una volta ammirai la rigogliosità del luogo, i verdi germogli, le strida degli animali. Quando uscimmo dalla vegetazione sulla spiaggia vidi un tecnico della televisione chino su un'oca viva come per farle del male, e lo cacciai in malo modo. «Ho conosciuto tanta gente meravigliosa!» dissi senza rivolgermi a nessuno in particolare, poi mi girai verso Kral Kishkin e Claire St. Eve. «Siete pronti?» La giovane annuì. Kral Kishkin disse: «Sì.» «D'accordo, allora.» Avanzammo sulla spiaggia, verso gli alti patiboli che vi erano stati eretti. 6
Si accesero i riflettori della televisione, e per un attimo mi accecarono, privandomi della bella giornata, del cielo azzurro, delle cime ondeggianti degli alberi. Annaspai in cerca del mio cappello, lo tolsi, sempre a tastoni trovai il foglietto di carta che vi avevo riposto, e mi rimisi il cappello. Poi gli occhi si abituarono al bagliore, e guardai le telecamere, come mi era stato insegnato, e finsi che fossero i miei vecchi amici di Springfield. «Amici,» cominciai. Sulle piattaforme dei patiboli alle mie spalle Kral Kishkin e Claire St. Eve aspettavano, con i cappi annodati attorno al collo. Le telecamere ruotarono per inquadrarli, e poi ritornarono su di me. «In questo memorabile giorno,» dissi, «io vi dò il benvenuto. Molti giorni e settimane sono trascorsi nel perseguire la nostra causa. Sono stati momenti lunghi e difficili, con grandi patimenti per noi, e per i nostri fratelli umani. «Ora questi tempi duri sono passati. La guerra è finita.» Abbassai lo sguardo sul foglietto del signor Kishkin e parlai lentamente. «In ogni uomo guerra e pace sono unite. Ogni uomo è un campo di battaglia. E una nazione, un mondo, siano essi floridi o in rovina, sono la somma di queste battaglie. Se un uomo, se molti uomini, scelgono di farsi guerra, allora certo la guerra si diffonderà nel mondo. Ma se gli uomini vincono la battaglia interiore e scelgono la pace, allora certo esiste una speranza per questo, o un altro, mondo. «Come ogni uomo è un campo di battaglia, così ogni nazione. E se le molte nazioni che sono gli uomini scelgono la pace, allora anche il mondo sceglierà la pace.» Ripiegai il foglietto di Kral Kishkin e lo riposi. Guardai l'orologio. Mancavano due minuti alle quattro. «Queste parole non sono mie. Appartengono al giovane alle mie spalle. Egli ha cercato di rendere migliore il suo proprio mondo.» Feci un cenno a Kral Kishkin e Claire St. Eve. Si tolsero i cappi dal collo, scesero dai patiboli, e vennero accanto a me. «Signor Presidente!» gridò Stanton. «Va tutto bene,» dissi, sorridendo al Segretario della Guerra. Guardai ancora l'orologio. Un minuto alle quattro. «Oggi,» dissi alle telecamere, «abbiamo raggiunto il nostro scopo, perché, amici miei, il nostro dovere su questa terra è compiuto. In meno di sessanta secondi la terra si lascerà indietro la nube che ci ha portati qui. Tutti noi, tutta la nostra razza, scomparirà da questo mondo.
«Ma noi non ci estingueremo! Perché questo è un giorno di gioia, per noi scheletri e per gli umani. Questa non è un'apocalissi, ma una nascita. «Molto tempo fa, all'inizio dell'era umana sulla terra, c'erano un uomo e una donna. E da essi crebbe il genere umano, finché guerra e corruzione ci attirarono addosso una grande alluvione. Noè, sulla sua Arca, ricominciò da capo. «Di nuovo, guerra e corruzione hanno colmato la terra. Secondo non so quale Maggiore Potenza, fisica o spirituale, è di nuovo tempo di un nuovo inizio. Ecco perché siamo stati rimandati sulla terra, ecco qual era il nostro compito. Lasciamo dietro di noi un nuovo Adamo e una nuova Eva, perché ricomincino da capo sulla terra. Il resto del genere umano è andato avanti. «Ogni uomo va nel suo prossimo mondo. Per coloro che sono pieni di corruzione non sarà un mondo facile, perché ci sarà la resa dei conti. Ma per gli altri sarà...» Al mio orologio mancavano ancora venti secondi. Eddie e Willie corsero da me. Li abbracciai forte. Già sentivo sopraggiungere in me un cambiamento, sentivo indebolirsi la mia essenza in questo mondo. Eddie disse: «Ho paura, papà.» «Non averne, piccolo furfante!» Mi sentii tirare, come per il recedere della marea. Attorno a me, quelli come me stavano diventando polvere. D'un tratto i miei occhi non riuscirono più a distinguere la lontana cascata, il luminoso cielo azzurro. Vedevo un altro cielo, un altro colore, altra vegetazione che mi attendeva, sempre più distinta e familiare. I ricordi di questo mondo fluirono attraverso di me. «Mamma!» gridò Eddie, sciogliendosi dal mio abbraccio per correre avanti. Anche Roger Garbage corse avanti, urlando. «Carl! Sei davvero tu? Possiamo parlare? Hey, che caldo qua dentro.» «Paradiso!» gridai io pieno di gioia. Vidi davanti a me Kral Kishkin e Claire St. Eve. Poi si dissolsero, finché ai miei occhi furono visibili solo le loro ossa. Mi guardai, e il mio corpo era intero. E lì, attorno a me, c'era il mio mondo... «Addio, amici!» gridai a Kral Kishkin e Claire St. Eve. Vidi i loro fantasmi salutare, e scomparire; e io ero a casa! CAPITOLO DICIASSETTESIMO
IL DIARIO INTIMO DI CLAIRE ST. EVE Sta tornando l'inverno. La primavera e l'estate sono stati buoni. La terra ha provveduto a noi. La prossima primavera semineremo anche più di quest'anno. Gli animali hanno figliato in quantità, tanto che c'è un po' di carne da mangiare. Ma abbiamo sempre molta cura del bestiame a cui noi stessi dobbiamo badare. Chub ci ha fatto una sorpresa. Durante l'estate è scomparso con la sua compagna. Nonostante abbiamo cercato per tutta l'isola, siamo stati incapaci di trovarlo. Temendo di averlo perso, l'ho pianto. Ma presto altri pensieri mi hanno occupato la mente. Il suo ricordo era distante, e grato, e sempre l'avrei conservato. Poi un mattino presto Kral mi ha svegliato per dirmi che aveva avvistato un'imbarcazione. Mi sono alzata in fretta e sono andata con lui sulla spiaggia. Con trepidazione abbiamo visto avvicinarsi la sagoma gialla di un gommone. Kral, sempre prudente, aveva un fucile. L'imbarcazione si è diretta verso di noi. Prima ancora che giungesse a terra, ho visto Chub gesticolare dalla prua. Con lui c'era la sua compagna, che avevamo chiamato Leia. Era gravida. Si erano allontanati da soli, secondo un'esigenza evidentemente insopprimibile della loro cultura. E adesso erano tornati. Secondo il computo di queste cose, il cucciolo dovrebbe nascere all'inizio del prossimo anno. Il freddo ha cominciato a soffiare ai primi di ottobre, ma alla fine dell'estate Kral e io avevamo già costruito una solida capanna di pesanti tronchi. La legna per il fuoco è tanta e già accatastata. Kral ha smantellato l'Arca: riscaldamento a olio, una stufa, qualsiasi cosa ci possa servire. Chub e la sua compagna continuano a fare uso della collezione di videocassette. La prossima primavera Kral progetta di riparare l'Arca. Dice che in un anno riempiremo questo posto di animali, e sarà tempo di andare altrove. Già i lupi sono irrequieti, e hanno portato a crescere la loro cucciolata nella parte più lontana dell'isoletta di Diomede. Kral va a trovarli spesso. Ultimamente Kral è diventato pensieroso. So che sta aspettando. Tra di noi c'è comprensione, e so che comincia ad essere impaziente. Vorrebbe fare il mondo in una notte. È duro per lui, lo so. Quando è così lavora con le proprie mani, e cerca di distrarsi costruendo più conigliere di quante i conigli avranno mai bisogno, alimentatori per gli uccelli, recinti nella parte
orientale per la riserva destinata ai leoni. Adesso lo guardo dall'alto di questa collina coltivata tra la nostra casa e la fertile vallata dove sta seminando il frumento invernale. Ogni tanto ferma il forte bue che tira l'aratro per guardarmi e farmi un cenno di saluto. Infine, quando il sole cala verso il tramonto, mette giù i suoi attrezzi e ripercorre la lunga salita su per la collina, attraverso il campo di fiori tardivi, per venire da me. «Qualcosa che non va?» chiede con espressione preoccupata. La carnagione giallognola è abbronzata dal sole e dalla vita all'aperto. I muscoli sono duri e forti. Scuoto la testa. «Perché sei qui? Perché mi guardi in quel modo?» Io sorrido. Non riesco a smettere. Qualcosa si sta gonfiando dentro di me. Adesso, in questo istante, mi sento completa. Il fiore che sono io è sbocciato. Dolcemente gli prendo la mano callosa, e me la poso sul ventre. È perplesso. Ma dopo un breve istante la comprensione si fa strada in lui, e le sue labbra si distendono in un ampio sorriso. «Vuoi dire... in primavera...?» Il suo viso è pervaso da una gioia perfetta. Già so che sarà un maschio, e sarà seguito da molti altri, maschi e femmine. Nel corso delle generazioni, i nostri figli popoleranno la terra. Senza timori vivranno vite buone. Kral e io gli insegneremo. Prendo la mano di Kral nella mia, guardo sorridendo il suo viso radioso, schiudo le labbra, e finalmente dico: «Sì.» FINE