WILLIAM SLOANE SELENA (To Walk The Night, 1937) Nota introduttiva William Sloane è lo pseudonimo di Milligan Sloane III,...
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WILLIAM SLOANE SELENA (To Walk The Night, 1937) Nota introduttiva William Sloane è lo pseudonimo di Milligan Sloane III, scrittore americano nato nel 1906 e morto nel 1974. Originario del Massachusetts, è stato editore oltre che scrittore e ha esordito nel 1937 con il presente romanzo. L'altra sua opera di rilievo è The Edge of Running Water, un libro del 1939 che Edward Dmytrik portò sullo schermo nel 1941 col titolo The Devil Commands, per l'interpretazione di Boris Karloff. The Edge of Running Water, che a quanto è dato sapere è anche l'ultima opera di narrativa firmata da Sloane, racconta la storia di uno scienziato che cerca di mettersi in contatto con lo spirito della moglie morta: i risultati, purtroppo, sono nefasti e l'orrore si abbatte sulla tranquilla comunità del Maine dove è ambientata la storia. Il New England, come si vede, oltre ad aver prodotto le streghe e i loro cacciatori, non è stato avaro di scrittori dell'orrore. To Walk the Night, il romanzo che presentiamo, non è inedito in Italia ma la precedente traduzione è ormai introvabile: ci è parso giusto perciò ripresentarlo, come omaggio a uno scrittore non affermato presso il grande pubblico ma le cui prove narrative sono considerate in America alla stregua di piccoli classici. Se il pubblico mostrerà di gradire questo, pubblicheremo in seguito anche l'altro libro di Sloane e cercheremo di approfondire le notizie che si hanno sul suo conto, oggi piuttosto scarse. Per il titolo italiano ci è sembrato opportuno usare il nome della spettrale eroina del romanzo: Selena, una delle creature veramente inquietanti della letteratura fantastica. Scritta nel 1937, l'anno della scomparsa di Lovecraft, la sua storia ha un mordente che non è facile creare partendo da uno spunto così allucinato e visionario, e che tuttavia rimane convincente sino alla fine. Ci auguriamo che la pubblicazione di Sloane venga accolta dai nostri lettori con l'interesse che merita questo romanziere degli anni Trenta, così vicino a noi per sensibilità e gusto ma soprattutto per autentica capacità di terrore... Giuseppe Lippi
SELENA E la mente da sola non è mai completa, ma ha bisogno del corpo per assumere un'anima. Struthers Burt Pack-Trìp: Suite Premessa La versione dei fatti che qui presentiamo è inevitabilmente arbitraria, per quanto si attenga al filo degli avvenimenti così come li abbiamo ricostruiti il dottor Lister e io una sera d'estate del 1936, seduti sulla terrazza della sua villa di Long Island. Ma in questa narrazione non ho cercato di riprodurre parola per parola la nostra conversazione: ciò avrebbe significato lasciare molte cose oscure per i lettori che non hanno conosciuto Selena, Jerry e tutti noi. Quindi mi sono concesso la libertà di aggiungere alcune descrizioni di personaggi e luoghi, cercando anche di far rivivere di quando in quando l'atmosfera arcana e persino terrificante che tanta parte ebbe nella mia vita nel periodo in cui si svolgevano queste vicende.. È improbabile, a mio parere, che questa storia possa destare grande interesse. Alla fin fine, riguarda persone i cui nomi, con una sola eccezione, sono sconosciuti al pubblico. Una di esse adesso è morta e un'altra vive solo nel senso puramente fisico del termine. Le prove che posso addurre a sostegno della veridicità di questo racconto sono quasi esclusivamente indirette, e psicologiche più che circostanziali. Con qualche esitazione ho inviato le bozze di questo libro ad Alan Parsons, che si è occupato del caso LeNormand sin dall'inizio. La lettera che ne ho avuto in risposta è confidenziale e non sono autorizzato a pubblicarla. Tuttavia, grazie ai suoi preziosi suggerimenti, la presentazione dei fatti è stata corretta in più punti e, almeno là dove si riferisce a dati ufficialmente registrati, il mio racconto è preciso. L'interpretazione che ne diamo è, s'intende, esclusivamente del dottor Lister e mia. Non posso dire con certezza che cosa possa averne pensato Parsons. Ma alcune settimane addietro, quando mi sono recato nel suo ufficio a New Zion per fare un ultimo controllo dei verbali, ho notato che la segretaria mi ha consegnato la pratica prendendola da un cassetto dello schedario sul quale era apposta la dicitura "Archiviati".
Non so se sia saggio rendere di pubblico dominio questa vicenda. Il dottor Lister e io abbiamo avuto molti dubbi. La nostra decisione è dovuta alla convinzione che non è mai opportuno nascondere la verità. Non ci aspettiamo che questa venga accettata immediatamente. Ci sono esperienze estranee alla vita quotidiana e che sono "condannate a camminare nella notte per un certo tempo" prima che la mente dell'uomo le riconosca per ciò che sono o le accantoni come frutto di fantasia. Berkeley M. Jones Long Island, 1954 1 Tarda sera La strada cominciò a scendere per il lungo declivio della scogliera. Il vecchio taxi superava goffamente le curve calandosi a fatica in quel pendio, e i pneumatici davano un suono aspro sulla ghiaia. Quel rumore mi disse, senza che dovessi aprire gli occhi, quanto eravamo vicini a casa. Solo un minuto ancora, semisdraiato nel rifugio di quella berlina in sfacelo, a lasciarmi trasportare senza sforzo e senza pensiero. Poi l'effetto anestetico del viaggio, del movimento del treno e dell'automobile, al quale mi ero completamente abbandonato, si sarebbe dissolto. Per quattromila chilometri e tre giorni avevo cercato di immaginare cosa avrei fatto quando le ruote sotto di me si fossero arrestate e fossi stato costretto a riscuotermi e agire. L'aria che entrava dal finestrino abbassato già era più pura, con un tocco frizzante dovuto al Long Island Sound. Mi sollevai a malincuore, addossandomi a un angolo del sedile posteriore, e guardai fuori. Eravamo a poche centinaia di metri dalla casa. Tra i fusti delle piante si intravvedeva uno scintillio d'acqua cupa, color acciaio brunito. Alcune lucciole cominciavano ad apparire tra gli allori sui due lati della strada e le betulle avevano assunto i riflessi del tramonto. Quasi arrivati. Avrei voluto dire all'autista che rallentasse, che non ero ancora pronto alla fine di quel viaggio. Invece mi raddrizzai la cravatta e diedi una sommaria spolverata alle scarpe. Superammo l'ultima curva lasciandoci gli alberi alle spalle. Il ben noto profilo della villa si stagliava nero contro il tratto del Sound apparso all'improvviso e non c'erano finestre illuminate sul lato verso l'entroterra.
Perfino la lampada sotto il portico esterno era sparita. Dopotutto non c'era alcun motivo perché fosse accesa per accogliermi. Ciò che ero venuto a riferire al padre di Jerry non richiedeva luci di benvenuto. Tutte le volte che mi ero recato lì, in precedenza, c'erano state finestre illuminate e una gioiosa smania nei miei pensieri. L'aspetto impassibile dell'edificio, quella sera, mi giunse grato perché non mi ricordava tanto le altre occasioni. L'auto si arrestò con uno stridio davanti alla porta d'ingresso. Thomas doveva essere in ascolto perché aprì subito. Una sottile lama di luce giallina piovve sul portico, interrotta dalla sua ombra oscillante mentre scendeva i due scalini dell'ingresso. Il suo modo di muoversi, con la rigida attenzione della persona anziana, mi colpì; non era così che lo ricordavo. La giacca da maggiordomo, fatta su misura dal sarto del dottor Lister, non gli andava più a pennello, e anche la curvatura delle spalle era cosa nuova. Il vederlo venirmi incontro rese tutto più reale e meno tollerabile. Un groppo mi strinse la gola e per qualche istante, mentre pagavo l'autista e prendevo il mio bagaglio dal taxi, non riuscii a dire niente. Avevo i muscoli intorpiditi, quasi incapaci di rispondere agli ordini, e sentii che mi sfuggiva un ansito mentre sollevavo la valigia. «Salve, Thomas.» E la mia voce era appannata, rauca. «Buona sera, signor Berkeley» rispose, pronunciando il mio nome con accento inglese. Anche nell'ombra del portico potevo notare quanto era teso e grigiastro in viso, occhi e bocca così ferreamente controllati da non tradire alcuna emozione. L'osservai attentamente, sconcertato; l'immagine che conservavo di Thomas apparteneva a un uomo completamente diverso, più giovane, più dritto, con occhi illuminati da una risata solo in parte frenata dalla dignità professionale. Thomas — il Thomas accanto al quale ero cresciuto — era solo casualmente un maggiordomo. Per me era un uomo alto, bruno, che sapeva manovrare una vela di fiocco come un marinaio e centrare con una rivoltella una lattina lanciata in aria. Era il nostro compagno d'infanzia, per Jerry e per me, quello che ci aveva insegnato a cavalcare, pescare e nuotare. Il Thomas che avevo in mente pareva non avere alcun legame con il vecchio stanco che stava reggendo la mia valigia con sforzo evidente. Mi chiesi se anche la mia faccia fosse mutata quanto la sua. Dimostravo vent'anni di più? Mentre attraversavamo il portico barcollai per un attimo. Avevo le gambe del tutto intorpidite e camminare richiedeva uno sforzo notevole. «Attento» sentii dire dalla voce di Thomas, alle mie spalle. «Non è niente.»
«Sì, signore. Certo.» L'atrio era freddo e vuoto. Quasi tutti i tappeti erano stati tolti per la stagione estiva e il pavimento di rovere scuro dava uno smorto brillio alla luce delle appliques. Sulla sinistra un'ampia scalinata dalla massiccia balaustra saliva incurvandosi e scomparendo nel buio, ma a destra l'atrio proseguiva attraversando tutta la villa fino a una larga porta a due battenti oltre la quale potevo intravvedere la distesa del Sound e il colore del tramonto. Come sempre, entrandovi, osservai tra me quanto fosse accogliente quella casa, con i suoi grandi mobili solidi e l'impressione di spazio che dava. A volte certe signore osservavano che somigliava a un circolo per soli uomini, ma la cosa non ci aveva mai disturbati. Ne apprezzavamo la dignità e l'impersonalità, e l'assenza di qualsiasi tocco femminile — nessuna donna vi abitava e non c'era motivo perché sembrasse altrimenti. Thomas accese la luce delle scale. «Le abbiamo preparato la sua stanza di sempre, signore» mormorò cominciando a portare lentamente di sopra la mia valigia. «Ma... non vuole vedermi subito?» osservai. «Il dottore si trova sulla terrazza, signor Berkeley. Ha pensato che avrebbe preferito rinfrescarsi e cambiarsi prima...» Lasciò in sospeso la frase, ma capii cosa intendeva. Era stato sul punto di dire "prima di andare a parlargli della morte di suo figlio". Seguii Thomas su per le scale, con passo greve e senza altre obiezioni. Sotto la mano sentivo la balaustra liscia e solida. Jerry e io, rammentavo, l'avevamo fatta tutta a scivoloni la prima sera che avevo messo piede in quella casa. Nulla era cambiato, tranne Thomas. La villa conservava il suo aspetto di stabilità e pace e, per quanto stordito dal dolore e dallo sfinimento, provai di nuovo l'antica sensazione di appartenervi. Percorremmo il corridoio del piano superiore fino a una porta ben nota. Thomas l'aprì e accese le luci. «Bentornato a casa» disse, e deglutì. Aveva ragione. Quell'ampia camera dal soffitto basso, con le finestre affacciate sull'acqua, la poltrona di pelle blu scuro, il grande letto di noce, il vecchio, enorme scrittoio in un angolo e i numerosi scaffali carichi di libri era la mia vera casa, molto più di tutte le stanze per gli ospiti in cui avevo dovuto alloggiare ogni volta che ero andato a trovare Grace e suo marito. Grace è mia madre: lei e il suo secondo marito, Fred Mallard, hanno vissuto negli ultimi quindici anni in tutta una serie di eleganti appartamenti arredati nel modo più teatrale, in cui non c'è mai stato un vero posto per me.
Così, quando tornavo a casa dal collegio e, in seguito, dall'università, mi limitavo a occupare la stanza degli ospiti ed ero anche trattato quasi come un ospite, salvo i rari attacchi di tenerezza materna che coglievano Grace. Quando Jerry e io eravamo diventati amici per la pelle, il dottor Lister mi aveva praticamente adottato come secondo figlio. Trascorrevo più tempo nella villa di Long Island che con mia madre, e lei era visibilmente sollevata per il fatto di non doversi occupare di me. Grace era molto grata, e non per ragioni del tutto egoistiche, al padre di Jerry, che si prendeva cura di me come di un figlio. Riconosceva infatti che lei e Fred non erano le persone adatte a occuparsi di ragazzi e sapeva che io avevo bisogno di un certo senso di sicurezza e stabilità che il suo modo di vivere non avrebbe mai potuto darmi. La stanza in cui entravo adesso era stata la mia fin dall'estate in cui Jerry e io stavamo per entrare all'università. Eravamo arrivati alla villa tutti eccitati e pieni di progetti per l'estate, e avevamo scoperto che il dottor Lister aveva ristrutturato due locali al piano superiore, ricavando tra essi una stanza da bagno in comune, e li aveva arredati appositamente per noi. Mostrandomi la mia aveva detto: «Questa è la tua camera. Qui puoi fare quello che vuoi a patto che la tenga in ordine. Quando non sarai qui nessun altro la userà». Io avevo balbettato qualche confusa parola di ringraziamento, interrotto dallo strillo di Jerry che entrava a precipizio dalla porta di comunicazione. «Ehi, Bark! Visto che schianto?» Ma per me era ben più di uno "schianto" — era ciò che avevo sempre desiderato: un posto sicuramente mio e che sarebbe rimasto tale per quanti appartamenti potesse cambiare Grace. E là ero cresciuto. Thomas cominciò a disfare la valigia. Anche questa era una cosa familiare; aveva compiuto gli stessi gesti almeno un centinaio di volte. Anche nello stordimento che mi annebbiava, lo vidi dare l'abituale occhiata di ispezione a ogni camicia e a ogni paio di calzini prima di riporti: abitudine che aveva preso quando si era reso conto dell'effetto che le lavanderie dei collegi hanno sui bottoni e sui tessuti. Nel silenzio tra noi non aleggiavano domande inespresse. Non si aspettava che dicessi qualcosa, che gli raccontassi quanto era accaduto. Come me, cercava di non pensare. Con gesti lenti e affaticati cominciai a spogliarmi. Quando lo guardai di nuovo aveva smesso di tirar fuori i miei indumenti e si teneva aggrappato al piede del letto, fissando l'interno della valigia e tremando un poco. Capii immediatamente che cosa aveva trovato e mi ac-
costai per prenderla. Era l'urna d'argento che Jerry e io, un'estate, avevamo scoperto in un negozio di antiquariato a Parigi, e che avevamo portato a casa perché ci piaceva più di qualsiasi altra cosa vista all'estero. Il metallo era freddo e pesante tra le mie mani e la curva ed argentea superficie rifletteva le luci e la stanza in una mobile mescolanza di immagini distorte. Per un attimo la detestai. Eppure era uno splendido oggetto, con una perfetta riproduzione della Vittoria Alata, alta quindici centimetri, sul coperchio, mentre le lunghe linee greche del vaso si affusolavano scendendo verso la base. Attraversai la stanza per posarla sul largo davanzale della finestra. La divinità si protendeva esultante verso il Sound scuro e gli ampi spazi del cielo serotino. Sotto i suoi piedi, nel cuore vuoto del vaso, c'erano due manciate di bianche ceneri cristalline. Thomas doveva aver compreso che avevo scelto la nostra urna d'argento per riporvi le ceneri di Jerry. «La lascerò qui finché non avremo preso una decisione» mormorai. «Sì, signore.» Riprese la sua opera. «Ha cenato, signor Berkeley?» «Ho mangiato qualcosa alla stazione. Non ho fame.» Annuì, richiuse la valigia e la mise nell'armadio. «Le preparo la doccia. La desidera ben calda?» «No, tiepida.» «Sì, è più consigliabile in questa stagione.» Scomparve nella stanza da bagno. Terminai di spogliarmi con gesti meccanici, quasi senza accorgermi di ciò che stavo facendo. Quando per diversi giorni non sì è dormito, se non saltuariamente, tutto comincia a sembrare irreale. La memoria mi accendeva nella mente immagini slegate e alcune erano più reali delle quattro pareti della stanza. Erano immagini che non volevo guardare, ma continuavano a presentarmisi in rapida successione, contro la mia volontà. Cosa sarebbe successo, mi domandai, se quella notte avessi cercato di prendere sonno? Quante di quelle scene sarei stato costretto a vedere e rivedere prima che si dissolvessero nell'oscurità? Per quanto sfinito, il pensiero di chiudere gli occhi mi sgomentava. La doccia mi fece bene. La sensazione dell'acqua che mi scorreva sulla pelle fu un piacere fisico sufficiente a impedirmi di pensare troppo, ed era un sollievo sentirmi di nuovo pulito dopo tre giorni in treno. Lo scroscio e il picchiettio dell'acqua fecero affiorare nella mia mente brani di canzoni: Avrò un appuntamento
con te... No, quella non andava bene. Non ci sarebbero stati altri appuntamenti per me e Jerry. Proviamo qualcosa di diverso: Morbida si adagia sulla fonte la luce trepidante della luna, e alta sopra il monte... "Alta sopra il monte"! Alta sopra la parete incombente di Cloud Mesa, con la bianca casa di mattoni nell'ombra accanto alla sorgente! Ecco un'altra cosa a cui non volevo ripensare. Non era il caso di cantare. Chiusi l'acqua e mi asciugai lentamente. Prima terminavo di prepararmi e prima dovevo affrontare il dottor Lister. Thomas aveva preparato sul letto un paio di pantaloni di flanella, una morbida camicia bianca e uno dei blazer che Jerry e io indossavamo quando ce ne stavamo seduti in terrazza a bere qualcosa contemplando l'acqua e la serata estiva. Lo facevamo spesso, quando non c'era un ballo al circolo e non avevamo voglia di andare a fare un giro in auto. Mi vestii, grato della linda freschezza di quegli indumenti, mi ravviai i capelli, misi in tasca la pipa, la borsa del tabacco e i fiammiferi, poi mi avviai lungo il corridoio. I piacevoli gesti consueti ai quali mi ero dedicato avevano reso tollerabile l'ultima mezz'ora, ma quel breve sollievo mi abbandonò quando arrivai a metà della scala. Adesso veniva il momento peggiore, e lo sapevo. Il padre di Jerry stava aspettandomi sulla terrazza, in attesa di ascoltare quanto avevo da riferirgli. Di questo non avevo paura: sapeva mantenersi calmo di fronte a qualsiasi cosa potesse accadergli. Non ho mai conosciuto nessuno che avesse la padronanza di sé del dottor Lister. Anche quando sarei arrivato a dirgli che suo figlio si era sparato, la sua corazza non si sarebbe incrinata. E poiché ero figlio suo quasi quanto lo era stato Jerry, il fatto che fossi proprio io a raccontargli come si erano svolti i fatti avrebbe reso la cosa più facile per entrambi. Ciò che mi spaventava, invece, era qualcosa di molto diverso. Il difficile non sarebbe stato esporre le circostanze della morte di Jerry. Ma dovevo riuscire a presentargliele in modo che lui non cominciasse a farsi domande; esporgliele così da far sembrare tutto naturale, mentre naturale non era affatto. In apparenza si trattava solo di una cosa tragicamente irragionevole e inesplicabile. L'idea del suicidio era estranea al temperamento di Jerry, e
il dottor Lister lo sapeva quanto me. La sua prima domanda sarebbe stata: perché? Mentre scendevo i gradini, mi chiedevo come avrei potuto rispondere a quell'interrogativo senza rivelargli almeno in parte gli elementi di cui ero venuto a conoscenza e che mi avevano condotto a certe conclusioni. E lì era il pericolo. Le cose che lui avrebbe chiesto di sapere non potevano essere esposte in termini di fatti concreti, di avvenimenti e personaggi che rientrassero in uno schema riconoscibile. Per la prima volta ammisi con me stesso che poteva esserci un legame tra alcuni piccoli, sconcertanti particolari del passato e la morte di Jerry. Non sapevo quale fosse il comune denominatore, ma ero certo di non volerlo scoprire. Già il solo ammetterne l'esistenza mi dava un senso di tensione ben noto. E si trattava di paura, compresi. La paura di un pensiero informe, nebuloso, inconsistente come un fantasma. Ma il dottor Lister non credeva nei fantasmi. E neppure io, quanto a questo. Dovevo riferirgli l'accaduto nel modo più concreto, come se quell'ombra annidata in fondo alla mia mente non esistesse. Tutto qui. Dovevo fare in modo che non sentisse, come invece sentivo io, che qualcosa di spaventoso si celava dietro quanto gli dicevo. Poteva essere pericoloso dargli la possibilità di cominciare a rivedere e analizzare elementi del passato che facessero intravvedere anche a lui un fantasma e lo inducessero a tornare indietro con il pensiero, a raccogliere e collegare piccoli episodi e sfumature, soppesandoli e mettendoli a confronto fino a formarsi un quadro completo. Le tessere del mosaico erano tutte presenti nel mio cervello, di questo ero convinto. Sentivo che se le avessi esaminate attentamente sarebbero andate a occupare il loro giusto posto ricostruendo il quadro completo della verità, e questo mi atterriva. La mia ragione respingeva l'idea di elucubrare ulteriormente sugli avvenimenti degli ultimi due anni, e scoprirne qualcosa di più. Ma il dottor Lister, una volta avviato su quella strada, non si sarebbe fermato. Sarebbe andato avanti a tutti i costi, fino a giungere al duro nocciolo della verità. Mi affiorarono alla memoria i terribili versi di Donne: Chi giungerà a compormi nel sudano non si ponga domande, non indaghi sulla sottile ciocca di capelli avvolta sul mio braccio; non ricerchi
spiegazioni al mistero... Dopo essere giunti a comporre Jerry nel sudario, con il nostro colloquio di quella sera, non avremmo dovuto indagare troppo a fondo. Era stato infelice, il suo matrimonio non si era rivelato ciò che lui sperava, e si era tolto la vita. Questi i nudi fatti. Se dietro di essi si celava qualcosa, meglio che restasse nell'ombra. Avrei raccontato la mia storia con prudenza, attenendomi alla verità per quanto possibile, ma tacendo alcune cose. Non sarebbe stato opportuno, ad esempio, dire che lei era presente nella stanza quando Jerry aveva estratto la pistola dal cassetto e... Ma ero anche esausto, non perfettamente lucido. Avrei dovuto essere molto cauto. La porta a due battenti in fondo all'atrio era ancora aperta. Uscii sulla terrazza. Al di sotto della balaustra il terreno scendeva in un lungo declivio erboso fino alla spiaggia e alle onde che si abbattevano sulla rena. Gli alberi che lo chiudevano sui due lati erano fitte macchie d'ombra nera contro il cielo. Adesso sopra il prato si scorgevano innumerevoli le fiammelle silenziose delle lucciole. L'aria era immobile. Quasi allo zenit la grande costellazione dello Scorpione si allargava in cielo, e vedendola rammentai un'altra volta in cui mi ero trovato sotto le stelle, e un altro odore ben diverso da quello dei fiori oltre la balaustra. Il padre di Jerry sedeva al tavolo da giardino, di ferro verniciato di bianco, alla mia destra. Su di esso si trovavano una candela posta in una lampada di vetro che la proteggeva dal vento, un'alta bottiglia di sherry e due bicchieri. Il bagliore della candela faceva spiccare il candore dei capelli e colmava d'ombra le orbite del dottor Lister. Non scorsi traccia di abbattimento in lui: sedeva eretto come sempre, un braccio appoggiato sul ripiano del tavolino, le dita abbronzate della mano da chirurgo chiuse attorno a un calice. Era sua abitudine, d'estate, verso la tarda serata, sedere lì fuori a sorseggiare sherry, come faceva adesso. C'era qualcosa di ammirevole in quel suo non aver fatto eccezione per quella sera, e quell'atto abituale mi diede forza. Avanzai sui lastroni di pietra del terrazzo e sedetti al tavolo di fronte a lui. «Ciao, Bark» e sorrise. «Ciao, papà.» Gli piaceva che lo chiamassi così. «Devi aver fatto un viaggio molto disagevole, con questo caldo» osservò mentre mi versava lo sherry. La sua mano, come la voce, era perfettamente ferma. Sollevai il bicchiere e attraverso il vino guardai la fiamma della candela.
«Sì.» Era uno sherry nobile, né secco né abboccato, di buon corpo. «Ottimo.» «Il migliore. Come ti senti?» «Stanco. Non sono riuscito a trovare un posto in aereo.» Mi fissò. «Possiamo parlare domattina. Non è necessario farlo subito.» «Grazie.» Lui non disse altro ma continuò a fissarmi in volto come cercando di leggervi qualcosa. Evitai il suo sguardo e aggiunsi: «Le ceneri sono qui, nell'urna d'argento. Ho pensato che così avrebbe voluto lui». «Molto affettuoso da parte tua.» Nel silenzio che aleggiava tra noi sentii i piccoli urti di un insetto contro il vetro della lampada e il lieve fruscio della risacca sulla spiaggia sotto di noi. Stava aspettando che parlassi e sapevo di dover dire qualcosa per aiutarlo e attenuare la tortura di quell'attesa. Ma non c'era nulla da dire salvo "Jerry è morto, ti ho portato le sue ceneri nell'urna d'argento". Avevo il cervello vuoto... vi sentivo solo l'eco spenta dei miei ultimi pensieri. «Non sforzarti, Bark. Stai qui a farmi compagnia per qualche minuto, poi ce ne andremo a dormire.» Feci un enorme sforzo di volontà. «È accaduto il giorno dopo il mio arrivo laggiù. La sera, un po' prima di quest'ora. Non ti ho detto tutto nel telegramma. Lui... si è sparato.» La sua reazione rispecchiò appieno il suo carattere. «È andata così, dunque. Mi chiedevo infatti di che genere di incidente potesse trattarsi.» «È andata così.» Rimase in silenzio per qualche istante. Quando riprese a parlare la voce era remota, distaccata. «Raccontami come è accaduto.» Ecco il punto pericoloso, pensai. Quanto avrei detto adesso poteva convincerlo o metterlo sulle tracce del mistero di cui assolutamente non volevo che subodorasse l'esistenza. «È andato nel suo studiolo. Dopo qualche minuto abbiamo sentito la detonazione. Era riverso sulla scrivania. La pistola era sul pavimento, accanto a lui. Non abbiamo potuto fare nulla per salvarlo.» «Abbiamo?» «Lei e io.» «Capisco.» Prese un sorso di sherry. «E non c'era una lettera, un biglietto? Non ha lasciato scritto nulla, per spiegare?» «No.» Non volevo che riflettesse su questo particolare, e continuai in fretta: «Ho caricato il corpo in auto e l'ho portato a Los Palos. Appena
sbrigate le formalità necessarie con l'impresa di pompe funebri e il medico legale, ho preso il primo treno». «E lei?» Ecco un'altra domanda che avrei voluto evitare. «Non lo so.» «Non è venuta a Los Palos con te?» «No.» «Non mi dirai che l'hai lasciata da sola laggiù?» Lo guardai dritto negli occhi e dissi: «Quando sono stato pronto a partire l'ho cercata, ma non era in casa». Era chiaramente perplesso, e mi accorsi che, in qualche modo indefinibile, il mio racconto cominciava a fargli nascere dei vaghi dubbi. «Allora non l'hai più rivista?» «No.» «Mi sembra strano. Molto strano conoscendoti, Bark.» Una pausa. «E non sai dove si trova, adesso?» «No.» «Ascolta, ragazzo mio,» mormorò infine «ho la sensazione che...» «Non c'è da avere sensazioni, papà. Non so dove fosse quando ho lasciato la casa, ma credo che fosse salita in cima alla mesa. Non sapevo quando sarebbe tornata e non potevo aspettarla. Se la caverà benissimo. Lo sceriffo ha fatto riportare indietro l'auto e quindi potrà andarsene quando vuole.» Stava fissando l'acqua, il suo nitido profilo abbronzato con il lungo naso sottile e il mento accentuato si stagliava nella notte. Ma riconobbi la sua espressione, la sicurezza dello sguardo, la calma determinazione della piega della bocca: era quella che assumeva quando doveva affrontare un intervento chirurgico impegnativo. «Bark,» riprese dopo un lungo silenzio «anche tu ti sei innamorato di Selena?» Era un'idea inverosimile e rimasi sbigottito. «Buon Dio, no!» «Però qualcosa ti spaventa. E mi stavo chiedendo se non si trattasse del fatto di amare la moglie di Jerry.» «Non ho mai provato nulla di simile per lei.» «Mi è anche venuto il pensiero che tu fossi preoccupato per Jerry. Che in qualche modo intuissi che sarebbe finita cosi. Sbagliavo?» Mi offriva l'occasione di dare una spiegazione razionale per lo sgomento che aveva intuito in me, e la colsi al volo. «Sì. Temevo qualcosa del genere.»
Distolse lo sguardo dalle acque cupe del Sound per fissarmi. «E allora perché sei ancora spaventato? Ormai è accaduto quello che tu temevi. Di che altro hai paura?» «Di niente» risposi, evitando i suoi occhi. «Ma sei fuggito da lei. E questo non lo capisco.» «Jerry mi aveva detto che saliva spesso in cima alla mesa, da sola, di notte. L'ho lasciata là perché mi è parsa la cosa migliore. Credo che lei volesse così.» «Capisco» annuì lui in tono tutt'altro che convinto. Poi, dopo un'altra pausa, a voce bassa e come tra sé: «Non riesco a credere che mio figlio abbia potuto uccidersi, anche se non era felice con sua moglie». Per la prima volta la voce gli tremò un poco. «Non pensarci.» Poi, sapendo quanto soffriva all'idea che Jerry non fosse l'uomo che aveva sempre ritenuto, aggiunsi d'impulso: «E devi convincerti che il suo non è stato un atto di vigliaccheria». «Il suicidio non è certo un gesto di coraggio.» A questo non potevo ribattere: in proposito aveva convinzioni ben radicate e, sarei stato pronto a giurarlo, condivise da Jerry con la stessa intensità. «Mi sarei aspettato almeno un rigo, da lui...» aggiunse lentamente come tra sé. Per un attimo il ferreo controllo del volto si allentò ed emerse tutto il suo strazio disperato. «No!» esclamai. «Non credere che non abbia pensato a te! Ma non ha avuto il tempo di...» Mi interruppi, sbigottito. «Ma allora non mi hai detto tutto!» «No, non tutto.» «È stato assassinato?» E, visto che non rispondevo, mi incalzò inesorabile. «Si è trattato di un delitto? È stata lei?» E in quelle parole c'era tutta la violenza dei suoi sentimenti, così rigorosamente dominati fino a quel momento. «No. Si è davvero sparato. Sotto i miei occhi.» «Ah» mormorò, di nuovo pacato. «Eri presente?» «Si.» «E c'era anche lei.» Un'affermazione, non una domanda. «Sì» ammisi, senza aggiungere altro. Mi fissò per un lungo istante. Quando riprese a parlare il tono era gentile. «Adesso mi racconterai ciò che è accaduto esattamente?» «A che servirebbe, papà? Potrebbe fare solo del male, e molto. L'unica cosa che conta sono i fatti, e quelli te li ho riferiti. Non ti nascondo nulla di veramente importante. Non farmi altre domande, per amor del cielo.»
Mi fissò in silenzio e, come spesso accadeva tra noi, capii a cosa stava pensando. Voleva che rammentassi i quindici anni che noi tre avevamo trascorsi uniti, e mi convincessi che dovevo dirgli tutto ciò che sapevo di quella vicenda. Era certo che, dopo tanti anni di amicizia, anni improntati alla più assoluta reciproca confidenza, che avevano creato tra noi un'infinità di legami indistruttibili, gli avrei detto tutto. Ma non sapeva a cosa si sarebbe trovato di fronte. A farmi tacere non era il desiderio di risparmiare a lui o a me altro dolore; era la paura, dovetti riconoscerlo, la paura di un qualcosa di intangibile, troppo sfuggente per poterlo esprimere in parole. Non sapevo neppure "cosa" esattamente mi spaventasse dover dire, ma sentivo che, come avessi cominciato a parlargliene, sarebbe diventata più definita e più orribile. L'istinto mi diceva che meno avessi dato forma a quell'ombra, meglio sarebbe stato per entrambi. E anche se, col mio silenzio, avessi perso la sua fiducia, guastando irreparabilmente un rapporto che per me aveva un grandissimo valore, quello sarebbe stato ancora il minore dei mali. Riempii la pipa, l'accesi, e non aprii bocca. A far crollare il mio fermo proposito fu una piccola cosa così banale e fortuita che non avrei saputo neppure prevederla. Il silenzio totale che ci circondava fu interrotto dal ticchettio degli unghioli di un cane sulle lastre di pietra della terrazza. Dietro il dottor Lister, nella tenue luce della candela, era comparsa una ben nota sagoma nera che avanzava verso di me con amichevole gravità, agitando la coda e rivelando un triangolo di lingua rosea. Boojum, il terrier di Jerry. Con dignitoso entusiasmo raggiunse la mia sedia, poi sollevò una zampa e me la posò sulla gamba, senza abbaiare; teneva la testa inclinata di lato e mi guardava con occhi lucenti. Mi parve di leggervi l'inevitabile domanda e la gola mi si chiuse. Passai una mano sul pelo ispido del suo muso e lo grattai dietro le orecchie. Lui uggiolò. Cercai di dire "Boojum!", ma non ci riuscii. Il dottor Lister si mosse sulla sedia. «No, non puoi far cosi, Bark. Non so cosa vuoi tenermi nascosto, ma non puoi evitare di dirmelo.» La mia fermezza venne meno. Jerry era stato il mio miglior amico; lasciare suo padre nella convinzione che si fosse sparato senza un motivo, in un momento di alterazione mentale, sarebbe stato ingiusto e sleale. Eppure, appena cominciai a parlare, provai quella specie di fitta improvvisa che ci coglie quando ci rendiamo conto di aver appena commesso uno sbaglio irreparabile. «C'è qualcosa dietro questa vicenda» cominciai. «Non so di che si tratta ma so che c'è.»
«Che genere di cosa?» «È proprio questo che non so. Ma Jerry l'aveva scoperto e subito dopo si è ucciso. Mi fa paura pensarci, anche adesso: non rientra nella normalità. Ed è legato a quella donna, e a LeNormand, e a un'infinità di piccoli episodi avvenuti negli ultimi due anni.» «Se può spiegare perché mio figlio si è ucciso, voglio che me ne parli. E se si tratta di far giustizia...» «No, non è questo.» «O di far vendetta...» e la sua voce si fece dura. Alzai lo sguardo verso il cielo sopra di noi, punteggiato di migliaia di stelle. «No, non puoi far vendetta» sospirai. «Ti dirò com'è andata.» Boojum rimase sdraiato ai miei piedi mentre raccontavo; il suo corpo vibrava leggermente, come un'auto con il motore al minimo, e ansava un poco. Il dottor Lister mi ascoltava, proteso in avanti, rigirando tra le lunghe dita il bicchiere con lo sherry color topazio. La notte era una volta che si chiudeva attorno a noi e inghiottiva le mie parole. Riferii esattamente tutti i fatti che avevano preceduto la morte di Jerry, e lui mi ascoltò senza rivelare traccia dello strazio che doveva provare. Solo il volto si fece più teso, rigido, e il calice tra le sue dita ruotò sempre più lentamente. Non tralasciai nulla, dal momento della mia partenza da New York, sul Century, al ritorno; omisi solo un particolare che non avrebbe significato nulla per nessuno eccetto che per me. Lo misi a parte perfino delle mie paure e dei pensieri che mi avevano assalito mentre, uscito dalla mia camera, scendevo le scale. «E non hai saputo dare una forma a questa cosa che ti spaventa?» chiese quando ebbi terminato. «No.» Prese un sorso di vino. «Forse, se ci riflettiamo insieme, se ne parliamo, riusciremo a capire.» «Non voglio più rifletterci.» «E allora continuerà ad avvelenarti la mente, e anche la mia. Mi chiederò sempre se non avresti potuto rivelarmi qualche altro elemento capace di... rendermi meno intollerabile la situazione.» «È che non voglio morire. Jerry ha voluto andare a fondo, e per questo adesso non è più tra noi.» Allungò un braccio per posare brevemente la mano sulla mia e mi chiese: «Secondo te qual è il significato della vita?». Per lui, e forse per me, era un quesito fondamentale. Il dottor Lister im-
perniava la sua esistenza sulla rettitudine, e mi aveva passato questo insegnamento. Rettitudine nello spirito, negli intenti, nei rapporti totalmente leali con le persone care. Per lui la vita aveva un significato solo se vissuta nel modo più consapevole; e, se non fosse riuscito a spiegarsi perché Jerry si era suicidato, avrebbe sempre sentito questa morte come una macchia sul suo onore. Una volta, durante una delle nostre frequenti discussioni a tre circa la vita, la morte, l'uomo, il tempo e altre analoghe questioni, si era rivolto a me dichiarando gravemente: «La sola colpa imperdonabile è la viltà». E adesso, ai suoi occhi, il suo unico figlio aveva compiuto un gesto vile e disonorevole, che minava le fondamenta della sua esistenza, che metteva in discussione e offendeva tutti i principi a cui aveva sempre fatto riferimento e che aveva inculcato al figlio. Adesso l'unica cosa che contava era indagare sui motivi del gesto di Jerry e accertarsi che, come gli suggeriva il suo intuito, dietro le apparenze si conservassero onore e coraggio. Per me non era altrettanto semplice. Per quanto volessi bene a Jerry e a suo padre più che a qualsiasi altro al mondo, io ero di tutt'altra razza. Per me non è essenziale sapere che tutte le azioni degli individui a cui sono legato si ispirano a onore e coraggio. Bisogna nascerci con una simile mentalità nobile e spartana; io invece avevo ereditato il temperamento semplice, cordiale, forse un po' superficiale della mia famiglia. Ma, al di là di tale retaggio e ben più immediato di esso, agiva su di me il ricordo dei due giorni e delle due notti trascorsi a Cloud Mesa. Avevo raccontato al , dottor Lister quanto era avvenuto laggiù, in forma molto simile a quella esposta in un successivo capitolo di questo libro, ma non avevo potuto comunicargli il tono stranamente teso della voce di Jerry — un tono che non gli avevo mai sentito, neppure nei momenti più difficili vissuti isieme — né descrivergli il tranquillo, impersonale rimpianto negli occhi di Selena. Mi domandai se in quel momento lei non si trovasse sulla sommità piatta dell'enorme mesa, a guardare le stelle dell'ovest. E se era lì, cosa provava? Non appena l'immaginai, laggiù, mi sentii invadere da una curiosa sensazione di allarme. Forse lei stava immaginando me, lì dov'ero, e le emanazioni della sua terribile intelligenza giungevano a sondare il mio cervello. Un brivido mi percorse la schiena. Non volevo che pensasse a me, in nessun modo. L'interrogativo del dottor Lister era ancora sospeso tra noi. Non avevo risposto. Se la vita aveva uno scopo, per me stava nei rapporti con le persone care, e se volevo aiutare quella a cui ero più legato dovevo riferire
quanto sapevo, mettendole davanti tutte le numerose tessere del mosaico. E poi quella paura indefinita che mi opprimeva avrebbe trovato un nome; ma non potevo neppure indovinare cosa sarebbe accaduto in seguito. «D'accordo» mi arresi, col cuore stretto dalla disperazione e dalla paura. «Ti racconterò anche il resto.» Sorrise. «Bene. Lo sapevo.» Prese una sigaretta, l'accese e riempì di nuovo i bicchieri. «Di qualsiasi cosa tu abbia paura, troveremo una spiegazione. Non c'è nulla che l'intelligenza umana, correttamente usata, non riesca ad afferrare.» «Oh, ti sbagli» ribattei, cercando di fargli sentire la mia profonda convinzione. «Se si tratta di ciò che penso, l'intelligenza potrà ben poco. Qui non c'è da risolvere un giallo o un problema deduttivo.» Sembrò perplesso. «Non so bene cosa intendi, ma penso di...» «No, non pensare; non ti servirà a nulla. E tanto meno ti servirà cercare di applicare a quanto ti dirò la logica o il ragionamento scientifico a cui sei abituato. Di una cosa sono certo: la risposta che stiamo cercando non appartiene alla realtà che conosciamo. Forse sta in sfere a noi ignote, o forse addirittura non esiste.» «Lo vedremo» disse a mezza voce. «Può darsi, ma non in termini logici. Già in precedenza abbiamo cercato di spiegarci la morte di LeNormand ricorrendo alla razionalità, e non ci siamo riusciti, lo sai bene. Adesso vuoi sapere perché tuo figlio si è tolta la vita, e questa è proprio l'unica cosa al mondo che io non vorrei mai scoprire. Ma per quel che posso, sono disposto a collaborare. Qualunque cosa sia, Jerry l'ha scoperta, e non grazie al ragionamento.» Mi lanciò un'occhiata interrogativa. «L'ha scoperta vivendoci accanto» spiegai brutalmente. «Oh.» Le sue dita si serrarono attorno allo stelo del bicchiere. «Allora tutto è cominciato con il loro matrimonio?» «No, prima.» Lui annuì. «Quando si sono conosciuti, allora.» «Il giorno precedente.» Cambiai posizione sulla sedia e riaccesi la pipa. «Il giorno in cui Jerry e io siamo andati a vedere la partita contro lo State. Quasi due anni fa.» E, mentre cominciavo a raccontare, mi sentii pervadere da un gelido senso di ineluttabilità. Quale che dovesse essere l'esito finale, ormai era inevitabile.
2 Weekend d'autunno «Qui mi pare che vada bene.» «Senz'altro» convenni. Jerry lasciò la strada asfaltata per imboccare un sentiero che si snodava tra fitte macchie di vegetazione spontanea. Pochi metri più avanti incontrammo un cartello malconcio: AL CIMITERO ADATH JESHURUN «Certo che sai trovare i posti più ameni per i picnic» commentai. Lui ebbe un sogghigno. «Almeno è tranquillo.» C'era una specie di radura che permetteva di girare la macchina per riprendere il viottolo: vi entrammo, poi lui spense il motore e tirò il freno a mano. «Ti va bene qui, o preferisci entrare a dare un'occhiata ai monumenti?» Scesi dall'auto con le gambe intorpidite. Era stato un viaggio lungo e faceva freddo. «Ci sono dei monumenti?» «Non chiederlo a me.» Mi consegnò la scatola dei tramezzini. Ce n'erano quattro, insieme a un paio di uova sode. Aprii il baule e li allineai sul ripiano interno. Jerry stava ancora frugando nello scomparto dietro il sedile e dopo qualche istante tirò fuori una mezza bottiglia di whisky, due o tre bottiglietta di White Rock e due bicchieri di carta. Li sistemai accanto ai tramezzini: il tutto faceva un bell'effetto. «Dovremmo fare una foto e mandarla a Esquire» suggerii. «Elegante picnic per neolaureati che tornano all'alma mater per assistere a una partita di football.» «Non ho nessuna voglia di mettermi a fare fotografie; desidero mangiare e bere, e subito.» Versò due buone dosi di whisky nei bicchieri e vi aggiunse un goccio di White Rock. «Accidenti, che freddo! Questo è proprio quel che ci vuole.» Accostammo i bicchieri. «Ai nostri» brindai. «E che la peste colga lo State.» Era un ottimo whisky che ci scaldò subito. Sedemmo sul paraurti posteriore e attaccammo i panini discutendo della nostra squadra tra un boccone e l'altro. Il crudo vento di novembre investiva i cespugli e li faceva frusciare con un rumore come di un topo rimasto
chiuso in una cassa da imballaggio. Anche con il sole di mezzogiorno si gelava, ma dopo un po' non ce ne accorgemmo più tanto, e una volta dato fondo al whisky ci sentimmo molto meglio. Cominciammo a parlare della partita: lo State era un osso duro, ma Mortenson, il nostro mediano destro, sarebbe stato sicuramente il migliore in campo e la nostra linea difensiva era di certo la più forte. Jerry era convinto che avremmo vinto con un vantaggio di almeno quattro mete; io non ne ero altrettanto sicuro. In ogni caso, sarebbe stata una grande partita. Dopo un po' cacciammo la bottiglia vuota, la scatola e le cartacce in un mucchio di rami secchi e risalimmo in macchina. «Salute gente» disse Jerry, rivolto al punto in cui il sentiero termina. «Peccato che non possiate venire con noi.» Fece compiere un rapido mezzo giro all'auto e puntammo verso la partita. Il whisky che avevamo in corpo ci faceva un effetto magnifico. Era una bellissima giornata. Tutto andava nel migliore dei modi. Cantavamo a squarciagola The Best Old Place of All e la strada scorreva sotto le ruote come un indistinto nastro grigio. Poco dopo scorgemmo le torri dell'università delineate contro il cielo. Brillo o no, amo quel posto e la vista di quegli aguzzi pinnacoli gotici che spuntano al di sopra degli alberi mi fa sempre venire un nodo alla gola. Nessuno di noi due era più stato lì da quando si era laureato, due anni prima, e probabilmente ci prese una certa malinconia. Poi ci trovammo in mezzo al traffico e in piena atmosfera di partita. Fummo costretti a lasciare l'auto a qualche centinaio di metri dallo stadio e quando arrivammo all'ingresso la camminata e l'aria frizzante avevano ridotto gli effetti del whisky a un piacevole senso di benessere. Al cancelletto girevole c'era la solita ressa. Ci imbattemmo in un ex compagno di studi, di cui neppure ricordavamo il nome, che parve assurdamente lieto di rivederci. Una volta dentro riuscimmo a superare un esercito di matricole decise a venderci programmi, cuscini e Dio sa che altro. Dall'interno dello stadio si riversava nei sottopassaggi lo strombettio smorzato delle bande, mentre davanti alle toilette delle signore l'inevitabile giovanotto con una coperta piegata sotto il braccio aspettava, martoriato dalla paura di perdere l'inizio della partita. Avanzammo lungo il nostro corridoio verso il ruggito sempre più assordante dei settantamila spettatori. E infine il campo da gioco, incredibilmente verde e attraversato dalle linee bianche, tracciate con precisione matematica, dove le due squadre stavano scaldandosi i muscoli.
Il dottor Lister si mosse un poco sulla sedia. «Lascia perdere tutti questi particolari, Bark, se non sono proprio necessari.» «Devo raccontarti esattamente com'è andata» risposi. «Fa tutto parte del quadro. Per arrivare a una risposta bisogna avere tutti gli elementi. E poi a quella partita è accaduto qualcosa che potrebbe essere significativo.» Annuì e aspirò una boccata di fumo. Io presi un sorso di sherry e continuai. Stava a noi tirare il calcio d'inizio. I nostri si erano schierati subito dietro la linea delle quaranta iarde. Facevano un magnifico effetto con le maglie grigio chiaro e i caschi dorati che scintillavano sotto il sole. Gli undici dello State, in rosso e nero, non erano altrettanto smaglianti ma di sicuro avevano un'aria solida... A tirare sarebbe stato Big Dan Hewitt, il nostro difensore sinistro; si sollevò sulla punta dei piedi e scattò. Appena toccò la palla, che si innalzò tracciando una lunga traiettoria, la formazione grigio-oro si lanciò in avanti. Il calcio d'inizio ha un qualcosa di indescrivibile ed esaltante. È come il sipario che si alza su una prima a teatro; come la pallina bianca della roulette che va a inserirsi nella casella; come svegliarsi la mattina di Natale, a dieci anni. Sotto la parabola della palla che rotolava in aria le due squadre si scontrarono confondendosi. I giocatori si dispersero sul prato. Il tiro stava finendo in zona morta: il giocatore dello State che lo intercettò non ebbe alcuna possibilità. I nostri Thompson e Ives gli piombarono addosso come una tonnellata di mattoni. Finì a terra, il pallone gli sgusciò dalle braccia e un grigio-oro ci piombò sopra. Dallo stadio si levò un ruggito. Jerry mi dava grandi pacche sulla schiena, io ricambiavo, e tutti e due ci sgolavamo. Avevo una fiaschetta in tasca: ne prendemmo un rapido sorso. I ragazzi si schierarono. Il pallone era sulla linea delle tredici iarde. Tentammo una discesa obliqua ma con poco successo, poi nell'azione successiva Mortenson partì sulla destra. Era un magnifico attaccante, sempre veloce, che correva con le ginocchia alte. Superò indenne la linea: neanche uno dello State riuscì a sfiorarlo. C'era un tale frastuono sul nostro lato del campo che non sentivo neanche la mia voce. «Gran Dio!» strepitò Jerry nel mio orecchio. «Roba da non crederci!» Anche se Jerry era stato ammesso nel gruppo degli studenti più brillanti del corso, il suo linguaggio in simili momenti era sempre poco accademi-
co. Mentre Hewitt trasformava la meta, io tirai fuori di nuovo la fiaschetta e ci facemmo un'altra buona sorsata per festeggiare. Il liquore era tiepido, ma non ci badammo. Il punteggio era 7 a 0 per noi, e la banda attaccò The Best Old Place of All mentre i ragazzi convergevano dal fondo del campo preparandosi a tirare di nuovo. Il ricevitore dello State non si lasciò sfuggire la palla una seconda volta. I rosso-neri erano indiavolati. Il loro schieramento caricava con furia taurina e i difensori si tuffavano selvaggiamente contro i nostri: a poco a poco il pallone avanzò lungo il campo fino a che le due linee si trovarono proprio sotto di noi. Jerry seguiva l'azione come ipnotizzato e in silenzio, salvo che per alcuni commenti tecnici borbottati a mezza bocca e alternati a imprecazioni. Anche lui aveva giocato, all'ultimo anno, e forse era troppo assorto nella partita per accorgersi di uno strano fenomeno che a me cominciò a fare una strana impressione. Agli spettatori stava accadendo qualcosa. Metro dopo metro la palla scendeva verso il fondo del campo; i nostri ce la stavano mettendo tutta. Le due formazioni si affrontavano con pari impeto e lo scontro si faceva sempre più violento. Quella lunga avanzata era stata seguita con un torrente di urla dal lato dello stadio occupato dai tifosi dello State, che a ogni nuova azione scattavano in piedi. Era uno spettacolo fantastico: le due linee tese l'una contro l'altra, la traiettoria fulminea del pallone mentre il centro lo sparava indietro, il duro impatto degli schieramenti che si scontravano e il cuneo rosso-nero che si sfaldava nel nostro muro difensivo. Solo una partita di football, forse, ma con una carica emotiva travolgente. E la folla la sentiva. Adesso il rumoreggiare dello stadio si andava a poco a poco attenuando. Perfino da dove ci trovavamo potevamo sentire la voce rauca e ansimante del quarterback che gridava i numeri dello schema di gioco e il rumore sordo del placcaggio. Non si alzavano quasi più urli e applausi. A un tratto mi accorsi che settantamila persone sedevano in silenzio, protese in avanti, saldate in un tutto unico. Provai un formicolio alla nuca avvertendo quell'enorme tensione tutta concentrata sulle due squadre, sulla partita che si svolgeva là in basso. Lo stadio era saturo di emozioni esplosive: speranza smaniosa di vittoria, disperata volontà di difesa. Non appena me ne resi conto, mi parve di poter quasi cogliere nell'aria il sapore di quell'atmosfera. Era più reale del leggero velo di fumo che si alzava dalle gradinate. E quando divenni più chiaramente consapevole dell'intensità di quel clima
psicologico, cominciai ad avvertire uno strano disagio. Mi chiedevo se accadeva qualcosa di analogo in occasione di un linciaggio, o di una rivoluzione. Mi sentivo circondato da una spaventosa carica di energia incontrollata, da un campo di forza appartenente a una dimensione diversa dalle tre che conosciamo. Forse a quella quarta dimensione che è il tempo, perché non ho idea di quanto sia durato quel fenomeno. Magari solo un paio di minuti, o forse non più di qualche secondo. In ogni modo si interruppe quando Stanwicz, il difensore dello State, sgusciò all'indietro e con un lungo passaggio fece arrivare il pallone dritto nelle mani della sua ala destra, che subito marcò il punto. Immediatamente quella tensione si allentò. L'altro lato dello stadio esplose in un tumulto di colori e di frastuono mentre attorno a noi regnava un umore cupo. Eppure, stranamente, mi sentii molto più sereno di quanto non lo fossi un minuto prima. Era un sollievo essere usciti da quella suspense, sapere che c'era andata male ed essermi liberato da quella sensazione opprimente. «Facciamoci un goccetto» propose Jerry. «Siamo sempre dei balordi con i passaggi in avanti. Non avevamo nessuno in difesa, laggiù.» Gli diedi la fiaschetta e dopo di lui ne presi un sorso a mia volta. Proprio in quel momento lo State perse l'occasione per andare a meta, e il punteggio tornò in nostro favore, 7 a 6. Jerry sorrise. Dopo aver avuto per tre anni Bart Wilmuth come allenatore, non era quel che si dice uno "sportivo" quando si trattava di football. Per lui quel che contava era vincere, e con il massimo scarto di punti. Niente gioco sleale o d'ostruzione, ma battersi con accanimento per tutta la partita e avere la vittoria in pugno al momento dello sparo di chiusura. E lasciamo senz'altro perdere gli applausi dovuti all'avversario che trasforma una meta. «Se Mortenson riesce a farcela di nuovo con lo schema trentadue,» osservò «si tratterà solo di vedere quanti punti riusciamo a segnare. Quelli dello State sono quasi spompati.» Ma Mortenson non ce la fece. Stemmo addosso ai rosso-neri per il resto della prima mezz'ora e anche per tutta la seconda, ma non riuscimmo mai a far arrivare il pallone in area di meta. Le due squadre si spostavano a valanga da una parte all'altra del campo e ci fu anche una buona dose di football gagliardo, ma in complesso fu una delusione dopo quel quarto d'ora iniziale. Io continuavo ad aspettare che si formasse di nuovo quell'intensa emozione che aveva saputo avvincere l'intero pubblico, invece un momento simile non si ripresentò più. Ottimo gioco, senza dubbio, ma rimase uno
spettacolo senza diventare niente di più. Quando ci fu lo sparo di chiusura il punteggio era ancora di 7 a 6. Prima della fine del secondo tempo, il sole era calato dietro Orchard Hill e nello stadio faceva un freddo pungente. Avevo i piedi gelati e neanche dar fondo alla fiaschetta ci aiutò. Non ci unimmo alla "danza del serpente". A nessuno dei due era mai importato nulla di conquistare un pezzo della porta avversaria e ci sentivamo decisamente depressi mentre ci facevamo faticosamente strada verso il sottopassaggio. Che i nostri ce l'avessero fatta ci lasciava quasi indifferenti, non sentivamo la minima esultanza per quella vittoria. Eravamo tutti e due silenziosi, e gli effetti dell'alcool erano ormai svaniti. Ho parlato parecchio delle nostre bevute, ma in realtà non eravamo mai stati sbronzi, e neanche vagamente alticci. Ci eravamo, sì, scolata una buona quantità di whisky, ma eravamo stati all'aperto per tutto il giorno e inoltre faceva freddo. Eravamo semplicemente stanchi e un po' intirizziti mentre aspettavamo che la folla defluisse. Alla fine riuscimmo a superare il cancello esterno. E così Jeremiah Lister e Berkeley M. Jones si trovarono davanti all'uscita dello stadio, che ormai si era quasi completamente svuotato. Era calato il buio e il cielo, eccetto che a ovest, era cosparso di stélle. Faceva un freddo siberiano. Ci avviammo in silenzio verso l'auto, ma a un certo punto Jerry disse qualcosa tra i denti e si fermò bruscamente in mezzo alla strada. «Be'?» chiesi. «Mi è venuta un'idea.» «No, grazie» dichiarai in tono deciso. «Ho già bevuto tutto il whisky che mi serve, per oggi.» Si mise a ridere. «Già. Ora che la tua fiaschetta è vuota.» «Che idea sarebbe, allora?» «Mi sembra un po' squallido, tornarcene a New York adesso. Sono due anni che manchiamo da qui.» Non aveva tutti i torti. «Potremmo fare un salto alla Loggia.» Così chiamavamo la sede della nostra associazione studentesca. «No. Andiamo a trovare LeNormand.» Non mi pareva il caso di far visita, proprio quella sera, ad uno scienziato di mezz'età, alquanto formale, come LeNormand. «Nelle condizioni in cui siamo ora?» domandai sorpreso. «Certo. È l'ideale dopo gli stravizi emotivi della partita. Buon Dio,» continuò sogghignando «non mi ero mai reso conto prima della faticaccia che fa il pubblico. Quando giochi ti slombi, ti spremi onesto sudore, ma quan-
do assisti a una partita come quella di oggi alla fine sei completamente stremato.» Ero ancora poco convinto. «Ma abbiamo il fiato che sa di whisky!» «Non se ne accorgerà. Fuma sempre quella sua pipa puzzolente. Ad ogni modo, non l'ho più rivisto da quando abbiamo lasciato l'università, ed è una persona molto a posto. L'antidoto perfetto all'orgia or ora vissuta.» Si volse dirigendosi verso il campus. Lo seguii. Jerry aveva sempre avuto simpatia per LeNormand. Era stato l'unico del nostro corso a iscriversi a meccanica celeste e aveva trascorso nottate intere all'osservatorio, a discutere con LeNormand di tutto quello che c'era dentro e sotto la volta celeste. LeNormand si era probabilmente sentito molto solo dopo essersi trasferito negli Stati Uniti. L'università era riuscita a strapparlo a un college inglese dove si era fatto un ottimo nome. Arrivato qui, aveva trovato un corpo studentesco ben poco interessato all'astronomia, e la nuova attrezzatura che gli era stata promessa non si era mai materializzata. Così se n'era rimasto un po' in disparte, svolgendo, suppongo, il lavoro di ricerca che gli consentiva il vecchio telescopio già presente — alquanto inadeguato — e aprendosi un poco solo con un paio di colleghi, e con Jerry. A quanto mi risulta non possedeva quella che si dice una vita mondana e in giro si diceva che, dopo sua madre, non avesse più rivolto la parola a una donna. Uno studioso profondamente intellettuale, chiuso, assorbito dal lavoro: così lo ricordavo. Eravamo all'ultimo anno quando aveva pubblicato un saggio intitolato Critica ai fondamenti del continuum spazio-tempo di Einstein, o un saggio con un titolo simile; non rammento bene, ma l'argomento era questo. Personalmente l'avevo trovato illeggibile: delle prime cinquanta parole solo ventotto mi erano comprensibili e in seguito scoprii che anche su una di queste mi sbagliavo. Jerry se l'era invece sorbito da cima a fondo e, aiutato dalle ponderose discussioni in merito con l'autore, alla fine sosteneva di averlo capito perfettamente. Forse non conta ai fini del nostro racconto, ma l'articolo scatenò su LeNormand critiche feroci. I suoi colleghi astronomi ne misero in dubbio tutto, dai dati matematici all'equilibrio mentale dell'autore. Se non avesse già avuto un nome piuttosto autorevole, a parere di Jerry gli avrebbero imposto di presentare le dimissioni dall'insegnamento. Quella tempesta di denigrazioni era cominciata una settimana dopo la pubblicazione del saggio, e Jerry era stato probabilmente l'unico sostenitore di LeNormand. Forse l'aveva fatto per puro senso di lealtà, ma con lui non si poteva mai sapere. Aveva la straordinaria capacità di arrivare subito
alla sostanza delle cose, al vero nocciolo, anche senza conoscere a fondo tutti i dati. E LeNormand infatti lo aveva sempre incoraggiato a scegliere matematica come specializzazione. In quel caso comunque erano loro due soli contro il resto del mondo, o almeno così la vedeva Jerry. Lui e LeNormand si lanciarono in una corrispondenza accesissima con gli astronomi di tutto il globo. Certe notti Jerry rientrava solo verso le tre o le quattro di mattina, ed era lui a battere a macchina tutte le lettere del professore. Ma la faccenda si chiuse molto prima che ci laureassimo. Ricordo che una sera Jerry tornò dall'osservatorio verso le undici. Io mi stupii: non contavo di vederlo prima del mattino. «Che succede? Tu e LeNormand siete rimasti a corto di sinonimi per dare dell'imbecille ai critici?» Buttò il cappello sulla sedia sotto la finestra e sedette alla sua scrivania. «Già.» «Non mi dirai che LeNormand riconosce di avere torto?» domandai incredulo. «No, accidenti.» Era seccato. «Solo non vuole più scrivere lettere. Dice che oltre che stupido potrebbe essere pericoloso.» «Pericoloso? Perché? Per la sua cattedra?» Scrollò il capo, perplesso. «No, non credo si tratti di questo.» «Allora ha paura dei colleghi. Immagino che gli astronomi possano trasformarsi in belve, se provocati.» «Smettila di fare l'idiota» scattò, irritato. Poi, dopo un breve silenzio: «È stata una bella disputa, però. Mi piacevano quelle sue lettere. Ha la capacità di dire le cose più perfide in modo del tutto astratto. E il buffo è...». Si interruppe. «Che cosa?» «Che ha ragione lui. L'ha sempre avuta.» «Allora forse sono riusciti a scuotere la sua fede.» La frecciata non parve toccarlo. «Forse.» Era soprappensiero. «Ma ti posso dire una cosa: ha sempre avuto una risposta precisa a tutto ciò che gli scrivevano, e gli altri non hanno mai saputo controbattere.» Attribuii la cosa al suo senso di lealtà. «Probabilmente si è stufato di tutta quella diatriba.» «Può darsi» mormorò. Poi passò a parlare d'altro. In seguito mi disse che LeNormand non era mai più tornato sull'argomento e lui non aveva osato farne cenno. Ma ci rimuginò sopra a lungo: quello che non riusciva a capi-
re erano le motivazioni di LeNormand. L'intera storia mi tornò alla memoria mentre arrancavamo verso il campus. Diedi un'occhiata a Jerry. «Immagino che tu voglia sapere com'è andata a finire la controversia LeNormand-Einstein» insinuai. Ebbe un'esitazione quasi impercettibile prima di rispondere, e capii di aver indovinato quel che gli passava per la testa. «Non saprei. Comunque non intendo chiederglielo come prima cosa.» «Senti, se voi due cervelloni avete intenzione di starvene alzati fino a chissà che ora a discutere di matematica, relatività o qualsiasi altro argomento del genere, io non ci vengo.» «Ma no, voglio solo salutarlo. Si è sempre comportato da amico, con me. Ed è un uomo molto solo.» Ero incerto. «Forse allora sarei di disturbo.» «Non essere stupido.» Ma in realtà lo fui, e lo dimostrai continuando a risalire la collina insieme a Jerry. Eravamo arrivati al campus ormai: le finestre degli alloggi degli studenti erano allegramente illuminate e ne provenivano rumori sospetti di bisboccia. I nostri aliti si condensavano in un leggero vapore bianco. Jerry camminava spedito, chiaramente ansioso di arrivare a destinazione e forse anche di sbrigare la cosa al più presto. I nostri passi risuonavano seccamente sulle lastre d'ardesia del sentiero. L'Osservatorio Eldridge si trova nella parte più alta del campus: un cubo sormontato da una cupola bianca tondeggiante. È una delle strutture più semplici che si possano immaginare, di due piani e con un paio di aule al pianoterra. La sala degli strumenti, come Jerry chiamava la sede vera e propria del telescopio, occupava tutto il piano superiore e su questa si innalzava la cupola. LeNormand se ne serviva anche come ufficio. C'era — ma perché continuo a parlarne al passato? Non tutto ciò che fa parte di questa storia è scomparso — c'è una sola porta d'accesso. E potevamo vederla in cima al sentiero che stavamo risalendo. «C'è» annunciò Jerry soddisfatto. «La lampada sopra l'ingresso è accesa.» Continuammo ad avanzare. C'è un vecchio detto: ogni passo che muoviamo ci avvicina alla tomba. La porta era chiusa. Jerry bussò un paio di volte, ma senza ottenere risposta. «È andato a casa per la cena» suggerii.
«No, spegne sempre la luce quando se ne va. È sicuramente dentro.» Picchiò ancora sull'uscio. Era freddo, lì, e noi ce ne stavamo fermi al buio, e tutto era immobile salvo una lieve brezza che frusciava tra gli alberi spogli. Rabbrividii. «Andiamocene. Andiamo a bere qualcosa.» Jerry scosse il capo e afferrò la maniglia. «Prima controlliamo che davvero non ci sia.» L'uscio si aprì ed entrammo senza rumore. Nello stretto vestibolo era accesa una nuda lampadina giallastra che non riusciva a illuminare del tutto neppure quello spazio angusto. Le porte delle aule a destra e a sinistra erano rettangoli neri spalancati sul buio. Il silenzio era assoluto. Sentii una contrazione allo stomaco. Era una di quelle occasioni in cui nell'inconscio si affaccia una paura irrazionale. Provo la stessa sensazione, per esempio, entrando in una casa deserta. «Ehi, LeNormand!» chiamò Jerry. La sua voce, per quanto non l'avesse alzata molto, risuonò forte nel piccolo ingresso. Nessuna risposta. O forse sì? Ripensandoci adesso, non ne sono più così sicuro. Forse da sopra venne un rumore lievissimo. Non riesco a farlo affiorare alla memoria, ma era come se qualcuno, al piano superiore, avesse cambiato posizione molto cautamente. O forse non c'è stato nulla. Due passi più avanti c'era l'asta di ferro attorno a cui si avvolgeva la spirale della scala a chiocciola dai gradini metallici. Quella che portava... che porta alla sala degli strumenti. La fissammo. «È tutto spento, di sopra» dissi. «Andiamo da qualche parte a farci un bicchierino e...» Jerry avanzò per sbirciare verso l'alto, dove la scala perforava il soffitto come un succhiello. «Secondo me c'è» mormorò in tono vagamente sconcertato. «Sciocchezze. Ti avrebbe sentito, eppure non ti ha risposto.» «Sì, ma mi pare di intravvedere una luce, lassù» insisté cocciuto. Allungai il collo oltre la sua spalla. Dapprima non riuscii a capire cosa intendeva, poi anch'io notai qualcosa: attraverso le griglie dei due ultimi scalini filtrava un chiarore palpitante, un tremolio luminoso. Sì, proprio così; non il brillio di una luce fissa, ma un fioco barbaglio che si ravvivava e poi tornava a indebolirsi. «Ehi, LeNormand!» gridò Jerry. Nulla. Non un suono. Solo quella luce che continuava a palpitare. «Al diavolo, io salgo» dichiarò Jerry.
Lo seguii su per quella scala elicoidale, tenendomi discosto appena quanto bastava per evitare di farmi colpire il naso dalle sue scarpe. Jerry saliva sempre più in fretta, come spinto da un'ansia crescente, e davanti a lui quel riverbero fluttuante diveniva sempre più intenso, finché vidi la sagoma scura di Jerry stagliarvisi contro. Superò gli ultimi scalini a due a due. «Vieni!» gridò voltandosi. «Sbrigati, per amor del cielo!» Entrammo nella sala degli strumenti quasi affiancati. LeNormand c'era. Sì, c'era senz'altro. 3 Le stelle sono fuoco Il dottor Lister mi interruppe: «Bark, ne abbiamo discusso tante volte, noi tre insieme...». «Sì» ammisi, riempiendo di nuovo la pipa, lentamente. «Ma sempre come di un fatto misterioso, di un problema di deduzione. Ho cominciato a chiedermi se ne abbiamo mai parlato, se l'abbiamo mai affrontato guardandolo da una differente angolazione.» Mi scrutò senza parlare. «Cioè... be', ancora non riesco a spiegarti cosa intendo. Ma vorrei esporre per l'ultima volta tutti i particolari di quel fatto in modo impersonale, come una cronaca. Le prove negative sono importanti quanto quelle positive. Ascoltami senza pensare alle numerose teorie che abbiamo elaborato e scartato in questi ultimi due anni. E ricorda...» sentii la mia voce diventare malferma «... che anche Jerry è morto, adesso.» Non disse ancora nulla, anche se mi parve che si fosse fatto un po' più pallido in viso. Intorno a noi la notte era nera; lo Scorpione si era spostato impercettibilmente verso l'orizzonte occidentale. Accesi un fiammifero e l'accostai al fornello della pipa; la fiamma guizzò e si contrasse mentre aspiravo. La sua luce palpitò e ondeggiò come quella nella sala degli strumenti dell'Osservatorio Eldridge, quella notte di due anni addietro quando Jerry e io vi eravamo entrati a precipizio. Era un locale circolare, di circa sei metri di diametro, sovrastato dalla cupola: una scodella capovolta in cui si apriva il largo spicchio lasciato dal pannello scorrevole, attraverso il quale ricordo che le stelle erano nitidamente visibili, quella sera. Tutto l'interno era di una tinta grigiastra, o comunque di un colore analogo che assorbiva la luce, e il pavimento era nu-
do. Il telescopio, montato su una base di cemento al centro della sala, si protendeva oltre l'apertura della cupola, probabilmente puntato su una stella lontana un migliaio di anni luce. Nel silenzio della stanza si percepiva un unico suono, quello del ticchettio del meccanismo a orologeria che faceva ruotare la cupola sopra di noi con un movimento che si adeguava con assoluta precisione alla rotazione della Terra sul suo asse. Tra noi e il telescopio c'era la scrivania di LeNormand, munita di una lampada a braccio flessibile che riversava sul tavolo un ristretto cerchio di luce. E, con lo schienale rivolto a noi, c'era una di quelle sedie a braccioli, di rovere verniciato, che le università acquistano a vagoni. E da quella sedia LeNormand ci guardava: le braccia abbandonate e la testa completamente rovesciata oltre la spalliera. Gli occhi sbarrati parevano fissarci, ma il volto era del tutto privo di espressione, come se dormisse. Naturalmente doveva essere già morto, eppure mi resta l'impressione che gli occhi si fossero mossi un'ultima volta mentre comparivamo sulla soglia. Lingue di fuoco gli risalivano dalla schiena diramandosi attorno alle spalle in tentacoli che lambivano la spalliera della sedia e percorrevano oscillando tutto il corpo; attorno al capo si sviluppava una grande aureola infuocata così che il volto pareva incorniciato da una viva corolla divampante. Non era il fuoco di un ceppo acceso, dal riverbero d'oro rossiccio. Non avevo mai visto nulla di simile: fiamme limpide, bianche, silenziose, che saettavano come lingue di serpenti e si intrecciavano simili a filamenti di alghe mosse da una corrente impetuosa avvolgendo nelle loro spire tutta la figura di LeNormand. Un fuoco parassita, apparentemente dotato di una sua propria vita, alimentato dal corpo dell'ospite che veniva divorato e consumato. Nell'attimo in cui ci arrestammo sulla soglia, paralizzati dall'orrore, e dall'incredulità, cogliemmo anche l'odore di ciò che quel fuoco stava bruciando: il fumo acre dei capelli arsi e un altro lezzo ancor più disgustoso. Diverse cose accaddero nei dieci secondi successivi. Ordinai alle mie gambe di portarmi via da quella stanza terrificante, di farmi fuggire giù per le scale, e invece mi portarono diritto verso LeNormand. E ricordo vagamente che mentre mi accostavo mi sfilavo freneticamente il cappotto. Jerry era scattato invece verso la parete accanto alle scale e con la coda dell'occhio lo vidi afferrare l'estintore. Quando fui più vicino la vampata di calore e il tanfo divennero quasi intollerabili. Con il cappotto allargato davanti a me mi buttai verso quel corpo incandescente abbandonato sulla sedia e crollammo a terra insieme.
Una lingua di fuoco mi sfiorò il volto. Poi allontanai con un calcio la sedia e avvolsi LeNormand nel cappotto. Un getto freddo mi colpì la nuca e mi sentii soffocare. «Allontanati» ordinò Jerry con voce ferma ma concitata. Rotolai di lato e mi rialzai a fatica. Adesso che le fiamme erano soffocate dal cappotto la stanza era quasi completamente buia. Jerry, in piedi a gambe divaricate, reggeva l'estintore con una mano e la bocchetta del breve tubo nell'altra. Un getto di liquido sibilante investì la massa nera abbandonata sul pavimento, traendone volute di fumo. Jerry scostò con un piede un lembo del cappotto e diresse il getto della sostanza chimica su ciò che vi era sotto. Non vidi altro. Mi lanciai giù per la scala con tutta la velocità che le gambe mi consentivano, ma avevo le ginocchia fiacche. Arrivai fuori appena in tempo. Quando i conati si furono esauriti risalii gli scalini, stremato. In bocca sentivo un gusto di bile e whisky, e mi restava ancora nelle nari il fetore dolciastro e acre della carne bruciata. Quando arrivai di sopra tutte le luci erano accese e la sala degli strumenti aveva un aspetto impersonale. Jerry aveva buttato anche il suo cappotto sopra il mio ma, a parte quella scura massa informe sul pavimento, la sedia rovesciata e la chiazza di liquido dell'estintore, il locale era quello di sempre. Superai gli ultimi due gradini afferrandomi alla ringhiera ed entrai. Jerry mi fissò, pallido in volto. Si passò la lingua sulle labbra, accennò a dire qualcosa, ma ci rinunciò. Io non riuscivo a pensare a nulla. La mia mente era impegnata soprattutto a imporre allo stomaco di restarsene al suo posto. Poi quel silenzio mi snervò e sentii che se non avessi fatto uscire la voce avrei avuto un altro attacco di vomito. «E... allora?» riuscii a dire. «Ti senti bene?» Non ne ero del tutto sicuro. «Sì. Sempre che non abbia perso qualche organo essenziale, giù da basso.» «Gesù, mi dispiace.» «È passata, adesso» mormorai. «E... lui? L'hai...?» Non sapevo come formulare la domanda. Jerry annuì. «Sì, l'ho guardato. È morto.» «Hai usato anche il tuo cappotto.» «Già, gli spuntavano le gambe» disse distogliendo lo sguardo. Notai che deglutiva.
Per un minuto buono non dicemmo altro. Poi cominciai a riflettere. «Che si fa, adesso?» Jerry mosse un paio di passi verso i due cappotti, poi si bloccò. «È quel che stavo chiedendomi anch'io.» «Bisognerà informare qualcuno.» Ebbe l'ombra di un sorriso. «Già. Ma chi, esattamente?» «Che vuoi dire?» «Be', c'è il preside di facoltà. E il rettore. E potremmo fare arrivare il medico dell'infermerà, l'impresa di pompe funebri. E la polizia, si intende.» A quest'ultima non avevo pensato, ma in realtà era perfettamente logico. Bisognava pur chiarire cosa aveva provocato la morte di LeNormand. Quel fuoco... «Secondo me dovremmo chiamare la polizia.» Jerry era d'accordo. Ma, comunque la si guardasse, la cosa riguardava in primo luogo l'università. I giornali si sarebbero buttati a pesce su quella notizia, mi fece notare, e quindi bisognava andarci con i piedi di piombo. Ne discutemmo un poco e alla fine stabilimmo che la cosa migliore sarebbe stata informare il rettore e lasciare che prendesse lui ogni ulteriore iniziativa. «Senti,» riprese Jerry, una volta giunti a quella decisione «vai tu a telefonare. Qui ci sono un paio di cose che vorrei esaminare.» Probabilmente si era accorto che ero ancora molto scosso. «Be', qui dentro non c'è proprio nulla che io abbia voglia di esaminare» dichiarai. E mi avviai giù. Proprio ai piedi della scala a chiocciola c'era un telefono, uno di quegli antiquati apparecchi a muro, alloggiati in una cassetta di legno. L'università disponeva di una linea interna. Afferrai la cornetta e dopo una certa attesa mi sentii rispondere da una voce annoiata di pivello. «Università.» «Passami il rettore Murray.» «Non posso disturbarlo. C'è la cena del consiglio di direzione, stasera.» Mi irritai. Il ragazzo era probabilmente una matricola che si trovava lì con una borsa di studio. «Sentimi bene, qui parla un vecchio riccone eccentrico che intende lasciare all'università un milione di dollari. E intendo parlare con Murray. Rintraccialo.» «Sissignore.»
Vari scatti e squilli, poi la voce melliflua e guardinga del rettore. «Qui il rettore Murray.» Nei miei quattro anni in quell'ateneo non avevo mai avuto occasione di parlargli e d'un tratto mi sentii nervoso. «Rettore Murray, sono Bark Jones, classe '32.» «Mi rincresce, signor Jones. In questo momento sono occupatissimo e non posso proprio...» «Si tratta di una cosa molto importante» lo interruppi. «Non sono ubriaco e questo non e uno stupido scherzo. Mi trovo all'osservatorio con Jerry Lister, mio compagno di corso. Si è verificato un grave incidente e secondo noi sarebbe meglio che lei venisse qui immediatamente.» Il tono della voce cambiò, perse una certa dose di morbidezza, si fece attento, sospettoso e leggermente perentorio. «Che genere di incidente?» Gli spiegai che il professor LeNormand era morto. Non mi credette. Dovetti insistere. «Signor Jones, se questo è...» «Le garantisco di no» tagliai corto. «Ne ha informato qualcun altro?» «No. Ci è parso che la cosa riguardasse anzitutto l'università. Per questo desideriamo che lei arrivi qui al più presto e decida in merito agli ultimi passi da compiere. Meglio che venga da solo. E davvero una brutta storia.» Era ancora poco convinto ma disse: «D'accordo. Sarò lì entro dieci minuti». Riagganciai e sedetti sull'ultimo gradino. Avevo le gambe molli, in bocca avevo ancora un sapore disgustoso e sentivo nelle orecchie un ronzio stridulo, continuo. «Ehi, Bark!» mi giunse dall'alto la voce di Jerry. «Arrivo» risposi, e mentre risalivo decisi di tenere il conto delle volte che avrei dovuto farmi quella dannata scala a chiocciola. Per ora ero arrivato a tre. Jerry aveva nuovamente spento le luci e trovato chissà dove un paio di sedie. Me ne indicò una offrendomi anche — e la cosa, per quanto inaspettata, mi fece piacere — una fiaschetta. «Se riesci a tenertelo nello stomaco, adesso, ti farà solo bene.» Ci riuscii. Si trattava di un ottimo whisky irlandese che doveva provenire dalla cantina di famiglia. Il fatto che bevessimo e chiacchierassimo, come racconto, può farci sembrare privi di sensibilità. E forse è vero. Ma, dopo uno shock come quello che avevamo appena ricevuto, le emozioni si
ritraggono in un angolo della mente e si assume, come autodifesa, una durezza superficiale per impedirci di scivolare nella follia. Ero ben lieto di poter bere qualcosa, e poiché non riuscivo a tollerare il silenzio che regnava, accusai Jerry di nascondermi qualcosa. «Siate preparati,» rispose «come dicono i boy-scout, che un tempo io frequentavo.» Poi cambiò atteggiamento e per qualche istante rimase con lo sguardo fisso a terra, come se stesse riflettendo su una decisione difficile. «Il rettore sta arrivando?» «Ha detto che sarà qui entro dieci minuti.» Annuì. «C'è un paio di cose di cui dobbiamo parlare prima che arrivi, Bark.» «Buon Dio. È una storia già abbastanza spaventosa, non ho nessuna voglia di discuterne. Che se ne occupi Murray.» «Già, neanche a me piace» commentò seccamente. «E inoltre LeNormand era mio amico.» «Scusami.» «Lascia perdere. Ci faranno un mucchio di domande, Bark. Prima il rettore, poi la polizia e infine, immagino, i giornalisti. Cosa gli diciamo?» «Be'... che siamo arrivati... verso le sei, mi pare... e abbiamo trovato LeNormand qui, sulla sua sedia, avvolto dalle fiamme e...» Mi fissò duramente. «Già. Siamo arrivati e abbiamo trovato LeNormand sulla sua sedia, la testa rovesciata all'indietro, che bruciava come un falò. E se raccontassero a te una storia del genere?» Messa così in realtà non era molto convincente. Gli interrogativi che fino ad allora mi ero sforzato di relegare in fondo alla mente cominciarono a farsi avanti. Che cosa aveva provocato quel fuoco? E come mai LeNormand se n'era rimasto lì seduto a lasciarsi bruciare vivo? Si era forse messo distrattamente in tasca la pipa ancora accesa e gli abiti si erano incendiati? In tal caso doveva essere morto nel giro di pochi istanti, perché nessuno se ne rimane tranquillamente seduto a lasciarsi divorare dalle fiamme. Un attacco cardiaco? Quella poteva essere una spiegazione. Jerry interruppe le mie riflessioni. «Mentre eri giù a telefonare io ho dato un'occhiata attorno. Non sarà facile spiegare un fatto simile, Bark. Anche tu l'hai visto, quando siamo entrati. Pensi che fosse già morto?» «Per forza.» «Ma sei convinto che lo fosse?» «No» dovetti ammettere. «Mi è parso che muovesse gli occhi, che ci
guardasse.» «Anche a me» annuì. «Ma poteva anche essere un effetto della luce delle fiamme.» E dopo una breve pausa: «Da' un'occhiata alla sedia. Non toccarla, però: potrebbero esserci delle impronte». Mi alzai lentamente per avvicinarmi alla sedia rovesciata. Dovetti ricorrere a tutta la mia forza di volontà per costringere le mie gambe ad avanzare, un passo dopo l'altro. Mi chinai, in modo da non includere altro nel mio campo visivo, e osservai la poltroncina rovesciata. La stanza era in penombra in quel momento, ma l'esigua luce della lampada da tavolo bastò a farmi capire cosa intendeva Jerry. Invece di essere annerita dal fuoco e semicarbonizzata, la sedia era quasi intatta. La parte superiore dello schienale mostrava qualche bolla nella vernice, ma nient'altro. Ripensai alla fiammata che mi aveva sfiorato il volto mentre mi precipitavo su LeNormand e non potei stabilire se l'avevo sentita calda o no. Doveva esserlo: il fuoco scotta sempre, eppure non riuscivo a rammentare. E la sedia non appariva minimamente bruciata. Mi voltai a guardare Jerry. «Ma è pazzesco!» «Ho dato un'occhiata anche a LeNormand» mormorò lui. «La sua schiena è letteralmente distrutta.» Lo stomaco minacciò di farmi un altro brutto scherzo. «Quanto a questo, mi fido della tua parola.» «Sai,» continuò calmo «sembrerà un delitto. Un omicidio. Compiuto con una fiamma ossidrica.» Mi allontanai dalla sedia e mi avvicinai a lui. «E noi saremo i testimoni principali?» «Testimoni, oppure...» «Oppure che?» «Indiziati.» «Assurdo» dichiarai. «Non sospetteranno mai di noi.» «L'unica via per uscire dall'osservatorio è la porta sul davanti. E l'abbiamo sempre avuta sott'occhio negli ultimi cinque minuti di strada, mentre venivamo qui. Hai visto nessuno uscirne?» «Era buio.» Mi lanciò un'occhiata depressa. «Sì, ma avremmo notato almeno un movimento se qualcuno fosse sgusciato fuori. A meno che la polizia non riesca a trovare un altro capro espiatorio, penso che saremo eletti tali all'unanimità. Qualcuno dev'essere pur stato.» Già, non aveva tutti i torti: potevano aspettarci brutti momenti.
«E se dicessimo di avere visto qualcuno — appena una sagoma indistinta — che usciva?» Non era d'accordo. Secondo lui mentire alla polizia non pagava mai. Tra me pensavo che poteva anche essersi trattato di una disgrazia o di suicidio, o di chissà che altro; ma in una cosa almeno Jerry aveva ragione: per un paio di giorni saremmo stati sotto le luci dei riflettori. Alla fine, stabilimmo che avremmo dato la nostra versione dei fatti senza togliere o aggiungere nulla. Durante questa discussione Jerry aveva continuato ad aggirarsi per la stanza esaminando tutto. Sulla scrivania c'erano una matita e vari fogli sparsi: si fermò per un poco a studiarli. A quel che potevo capire, si trattava di equazioni. Alla fine Jerry le ricopiò sul suo taccuino, pur continuando a borbottare che non avevano senso e non ci capiva nulla. La carta era del tipo che vendono a risme allo spaccio dell'università, e i bordi erano ingialliti, come se fossero vecchi. Adesso cominciavo ad essere completamente prostrato. Gambe e testa mi facevano male, mi sentivo sporco e stanchissimo, in bocca avevo un sapore orribile. «Ma quando si decide ad arrivare, Murray?» sbottai, irritato. «Voglio farmi una doccia e una buona dormita. Mi sento a pezzi.» Jerry ebbe un sogghigno. «E questo è ancora niente. Dimenticati pure la doccia e la dormita. Cerca piuttosto di stamparti nella memoria questo locale e tutto quel che c'è dentro. Ci torchieranno al punto da farci dimenticare come ci chiamiamo.» Aveva ragione e cercai di seguire il suo consiglio. Ma c'era ben poco da osservare e a me pareva di vivere un incubo, tutto cominciava a sembrarmi irreale. Mi chiesi se per caso non avevo un attacco di delirium tremens: magari era così che si manifestava. Forse con l'aiuto di un po' di sonno e di un buon medico mi sarei liberato da quell'allucinazione. Proprio in quel momento si udì uno stridio di pneumatici sulla ghiaia. «Ecco qui Murray. E adesso viene il bello» commentò Jerry. Ci avvicinammo alla scala a chiocciola: ci fu il rumore di una portiera che sbatteva e poi lo scatto secco della serratura. «Signor Jones?» rimbombò una voce vigorosa dal basso. «Qui di sopra, signore» risposi. Cominciò a salire con passi irritati e decisi. «Signor Jones, voglio sperare che l'incredibile discorso che mi ha fatto poco fa al telefono non...» Appena entrò nella sala le sue parole vennero bruscamente troncate dal
clima grave che vi si percepiva. Prima che riuscisse a riacquistare la completa padronanza di sé, sentii che aspirava percettibilmente, una sola volta, colpito dal tanfo che ancora aleggiava nell'aria. Sebbene non avesse scorto subito LeNormand, non disse nulla, non fece domande: si limitò a guardarsi attorno rapidamente. Dopo quella prima zaffata non gli restavano più dubbi. Murray e un bell'uomo, molto alto, dalla struttura atletica, con una faccia di granito e capelli grigio pietra. Ha modi seri più che solenni e non tradisce mai incertezze. Secondo me il suo peggior nemico è un carattere collerico che ha imparato a tenere a freno così rigidamente da dare l'impressione di essere del tutto privo di emotività. Io l'ho sempre visto più come un maggiore dei marines che come un educatore; e certe volte sospetto che lui stesso si veda così. Comunque non c'è dubbio che la sua ferrea determinazione, insieme alla sua capacità organizzativa, abbiano dato nuova linfa a tutto l'ateneo. Quella sera era in abito da società: marsina e cravatta bianca. «Laggiù» spiegò Jerry interrompendo il breve silenzio, e lanciò un'occhiata alla lunga forma scura sul pavimento. «Grazie. Lei è il signor Lister?» «Sì.» «Tra un attimo mi direte.» Attraversò la stanza con passo fermo e risoluto. Poi si piegò sulle ginocchia presso i nostri cappotti, allungò una mano per scostarli e io distolsi lo sguardo. Il congegno a orologeria della cupola continuava a ticchettare, al di là dell'apertura le stelle punteggiavano luminose il cielo e io potevo vedere il mio alito che quasi si condensava in quel locale gelido. Quando riabbassai gli occhi Murray stava rialzandosi. Tornò verso di noi guardandoci con viso del tutto inespressivo, ma giurerei che era un po' più pallido e che le sue labbra erano più contratte. «Avete scelto la strada più opportuna rivolgendovi a me» disse. «È proprio LeNormand. Ed è morto.» «Sarà meglio che ci ascolti, prima di prendere qualsiasi decisione» dichiarò Jerry. E, rapido e succinto, riferì l'accaduto. Quando ebbe terminato, Murray si rivolse a me. «Ha nulla da aggiungere, signor Jones?» «No, signore.» «Vi renderete conto, immagino, che così come la raccontate voi è una storia assolutamente incredibile. La vostra versione del ritrovamento del corpo di LeNormand è del tutto incompatibile con la natura e la gravità delle ustioni.» Il tono era un po' meno deciso. «Non ho mai visto un corpo
umano così...» fece una pausa... «è quasi incenerito!» Non trovai nulla da dire. E neppure Jerry. Ce ne restammo in silenzio, gli occhi fissi sul rettore. Murray parve deluso. «Immagino che siate andati alla partita, oggi pomeriggio» Annuimmo. «A meno che siate assolutamente fuori della norma, vi sarete fatti qualche bicchierino. Quanti?» Lo ragguagliai in merito e lui ascoltò senza apparente disapprovazione. «Ma non eravamo ubriachi, signore» conclusi. «Le cose sono andate esattamente come le abbiamo riferite Lister e io, in tutti i particolari.» Aggrottò la fronte. «Ma non è possibile. Comunque sia accaduto, nessuno se ne rimarrebbe seduto, immobile, mentre arde vivo...» Lasciò in sospeso la frase. «Salvo che fosse già morto» fece notare Jerry. «Un collasso cardiaco...» Il tono di Murray era scettico. «E che dire, d'altra parte, di quelle fiamme? Non ci trova nulla di insolito?» Dal tono, era chiaro che Jerry si aspettava una risposta affermativa. «Fumava sempre la pipa» osservai. «Magari se l'è messa in tasca quando non era ancora del tutto spenta, poi ha avuto un attacco, gli abiti hanno preso fuoco e...» Murray mi interruppe con un'occhiata. «Un abito di lana brucia senza fiamma, signor Jones, non si incendia in quel modo. Non potrebbe mai sviluppare una vampata simile, che doveva avere il calore di una fiamma ossidrica. Per questo vorrei assicurarmi che la vostra versione sia completa. Non avete trascurato nessun particolare? Non nascondete nulla?» «No» dichiarò seccamente Jerry. «È mio dovere informare la polizia» insisté Murray, «e ci sarà un'inchiesta. Sarete interrogati più e più volte, e la polizia sarà poco convinta, come d'altra parte lo sono io, dalla vostra versione dei fatti.» Jerry ebbe una risatina un po' secca. «Rettore Murray, ne abbiamo già discusso insieme. Ci siamo chiesti se non era opportuno mettere insieme una storia più plausibile da raccontare a lei e alla polizia, e abbiamo deciso di attenerci alla verità.» Un impulso idiota mi indusse ad aggiungere: «Integer vitae, scelerisque purus, lo sa bene, signore». Murray ebbe un mezzo sorriso. «Come restano impresse certe piccole
frasi studiate, vero, signor Jones? Ma non le consiglio di sfoderare simili citazioni con Hanlon, il capo della polizia. Al pari di Shakespeare, conosce poco il latino e ancor meno il greco.» Sembrava che Jerry avesse apprezzato la mia battuta. Forse gli pareva che fossi riuscito a scuotere un poco il gelo da corte marziale del rettore. Ma subito riportò la conversazione al punto cruciale domandando: «Ha visto la sedia, signore?». «No, certo che no» rispose Murray un po' impaziente, ma subito si avvicinò per osservarla, come avevo fatto io. Quando si raddrizzò rivolse un'occhiata incredula a Jerry. «E siete ancora decisi a sostenere che il professor LeNormand occupava questa sedia quando avete trovato il suo corpo in fiamme?» «Che altro potremmo fare?» Non seppe ribattere. Cominciò a esaminare con cura il locale, la fronte aggrottata, fissando i pochi mobili e il grosso telescopio con sguardo perplesso. Lo guardavamo, immobili, e quando tornò verso di noi Jerry commentò: «Nulla». «Già, nulla, signor Lister. Assolutamente nulla.» Avevo la sensazione che quella serata si protraesse all'infinito, che tutti quegli avvenimenti rallentassero via via la pendola del tempo fino al momento in cui l'intero creato si sarebbe arrestato. I minuti non trascorrevano: si allungavano come un enorme nastro elastico; il tempo aveva cessato di esistere, era solo un'illusione ottenuta con specchi manovrati, e la macchina che li azionava non funzionava più. I miei pensieri erano tanti e così confusi da cancellarsi a vicenda; ogni cellula del mio cervello sembrava avere una carica diversa. La situazione stava diventando intollerabile e sapevo che anche per Jerry era così. Era teso in volto e i suoi occhi grigi erano cupi come non li avevo mai visti. Capivo fino a che punto fosse nervoso dal modo in cui continuava a sfregare l'uno contro l'altro i palmi delle mani. «Ricordi anche tu quel suo gesto, papà.» «Sì, lo rammento bene.» «Lo faceva sempre prima del calcio di inizio, quando giocava a football.» «E quando si è sposato, prima della cerimonia.» Ripresi in fretta il mio racconto.
Murray invece conservava una perfetta padronanza di sé. Probabilmente stava chiedendosi se eravamo due assassini. E in che misura l'università avrebbe risentito di quell'avvenimento: si preoccupava dell'indesiderata pubblicità, della folla di curiosi che ben presto avrebbero sciamato nel campus, della difficoltà di conservare la calma tra i docenti e il corpo studentesco, e di mille altre cose. Ma stava prendendo le sue decisioni con tutta calma, quasi fosse semplice routine, come leggere l'ordine del giorno a una riunione del consiglio di direzione. «Vorrei potervi risparmiare almeno in parte ciò che vi attende nelle prossime ore» dichiarò infine. «Ma potete immaginare le difficoltà in cui mi trovo.» Gli assicurammo che capivamo benissimo. «La vostra versione dei fatti è talmente inverosimile che sono disposto a crederci. Non posso stabilire se si sia trattato di disgrazia o di delitto. Starà agli inquirenti appurarlo. Quindi devo mettermi immediatamente in contatto con la polizia e occuparmi anche di altre cose. Vi chiedo di impegnarvi sul vostro onore di ex allievi di questo istituto a non toccare nulla qui dentro mentre vado a telefonare.» E senza attendere una risposta si avviò giù per la scala a chiocciola lasciandoci soli. «"Giuro sul mio onore di gentiluomo"» citò Jerry a mezza voce «"che nel corso di quest'esame non ho dato né ricevuto aiuto".» Era la formula che ci facevano scrivere in fondo a ogni prova scritta d'esame. Ebbi una mezza risata. «Per lui siamo ancora dei laureandi.» Potevamo sentire la voce sonora di Murray che rimbombava nell'atrio del piano inferiore. Chiamò la polizia, l'ufficio del preside di facoltà, l'infermeria e diversi altri posti. Dopo un po' smettemmo di ascoltare. Forse persone di altro genere si sarebbero sentite emozionate nel trovarsi calate di colpo nel bel mezzo di una simile buriana, ma per noi la situazione non era affatto stimolante. Eravamo stanchi. La partita ci aveva svuotati di ogni emozione. L'effetto dell'alcool si era dileguato, e l'avventura non era per niente piacevole. Avevo ancora davanti agli occhi l'immagine del corpo di LeNormand, in quella posizione anomala, spaventosa, con quel fuoco parassita che lo divorava, e il guizzo dei suoi occhi quando eravamo entrati lì. Era terrificante. Il gelo che mi sentivo dentro, in quell'osservatorio, era dovuto a qualcosa di ben più freddo della rigida aria novembrina. Mi penetrava non solo nelle ossa ma nella mente. «Brutta faccenda» osservò Jerry. «Oh, be'» replicai, con un fiacco tentativo di fare dell'umorismo «per me
rientra nella perfetta normalità. Non mi fa né caldo né freddo.» «Ne sono convinto.» Non sorrideva. «Ma io non ho la tua tempra d'acciaio. E non mi piace per niente.» Quando usava quel tono non era il caso di fare dello spirito. Capii che aveva intuito qualcosa che a me era sfuggito, e che ne era allarmato. Dopo qualche momento mi spiegò di che si trattava. «Bark, ascolta» abbassò la voce. «Questo è sicuramente un omicidio. È troppo inverosimile perché possa trattarsi di disgrazia, di crisi cardiaca o cose del genere. E scommetto che l'autopsia mi darà ragione.» «Sono d'accordo.» Lui non aggiunse altro e così proseguii: «Ma è un delitto che non abbiamo commesso noi, anche se molti penseranno il contrario». Scrollò il capo. «Non ne sono convinto. Alla fin fine non abbiamo ombra di movente. Né siamo affetti da tendenze Krafft-Ebing. E in che modo poi l'avremmo commesso? No, credo che la stampa esiterà a presentarci, anche indirettamente, come indiziati.» «È la polizia che mi preoccupa, non la stampa.» «Ma ragiona: la polizia non troverà alcun elemento a nostro carico, perché non c'è proprio niente da trovare. Inoltre io sono uno dei pochi amici che LeNormand aveva, qui. Ci faranno domande su domande, certo, ma ben presto cominceranno a cercare altrove.» «Come fai a esserne così sicuro?» «LeNormand aveva un certo numero di nemici. E sai quanto me di chi si tratta.» Cercai di interrogare la mia memoria, ma non ne cavai nulla. «Proprio no.» «Non essere ottuso. Non ricordi tutte quelle lettere che battevo a macchina per lui? La disputa con Trimble, Pforzman, Stanward e tutti gli altri? Quello è il movente, ci giurerei.» Lo fissai, sbalordito. «Vorresti dire che quei guarda-stelle e scassa-atomi sarebbero pronti a farsi la pelle a vicenda per via della teoria spazio-tempo dì Einstein? Ma andiamo!» Ma Jerry non lo riteneva affatto impossibile. Dichiarò che si trattava di una questione vitale, fondamentale; che non avevo la più pallida idea dell'importanza della tesi di LeNormand; che questa tesi, qualora se ne fosse dimostrata l'esattezza, avrebbe fatto fare la figura dei somari a parecchi insigni tromboni. E quelli non erano certo disposti a farsi tagliare l'erba sotto i piedi senza muovere un dito. Secondo Jerry qualcuno di loro doveva es-
sere abbastanza fuori di sé da arrivare a uccidere LeNormand, e mi rammentò la violenza di quello scambio epistolare. Per me era un'idea inammissibile, e lo dissi. Gli domandai anche se aveva in mente qualcuno in particolare. «No.» «E allora lascia perdere. E per l'amor di Dio non tirar fuori questa bella trovata con la polizia. Sarebbero capaci di convocare all'istante Einstein e ripassarselo con un manganello di gomma. E quel povero diavolo è emigrato dalla Germania proprio per sottrarsi a cose del genere.» «D'accordo» rispose ridendo. «Ho intenzione di raccontare solo quanto abbiamo visto. Ma se dovesse saltar fuori quella vecchia controversia forse sarò costretto a parlare della mia teoria. E c'è almeno un elemento a sostenerla.» Capivo che parlava sul serio. «E quale?» domandai, ancora scettico. «Il fuoco.» «Ossia?» «Dev'essere stato provocato da un composto chimico... termite, magari, o qualcosa di analogo. Nessuna sostanza di uso comune avrebbe potuto bruciare carne e ossa così a fondo e così in fretta. Dammi retta, quello era un fuoco molto speciale, opera di uno scienziato.» Mi ci volle un po' per assimilare il concetto. Era plausibile, ma proprio non riuscivo a credere che qualcuno dei critici e avversari di LeNormand fosse arrivato a ucciderlo. La stragrande maggioranza degli scienziati, a dispetto di certi film, non è formata da folli geni assassini. E c'erano diversi altri elementi che rendevano inaccettabile quella teoria. «E se ho ragione» stava proseguendo Jerry «l'autopsia dovrebbe rivelare di che sostanza si è trattato.» «Ma... e la sedia?» obiettai. Mi pareva che non stessimo approdando a nulla. Lui rifletté per qualche istante. «Prima devono averlo stordito, poi cosparso con quella roba e sistemato sulla sedia. L'assassino deve aver appiccato il fuoco mentre noi salivamo la scala.» «Dopo di che se n'è versata un po' sui piedi ed è evaporato a sua volta.» Jerry accennò all'apertura della cupola. «Dev'essersene andato da quella parte.» Ma dal tono si capiva che non era del tutto convinto. E neppure io, ma non avevo ipotesi alternative da avanzare. Non trovammo altro da dire; in silenzio, ciascuno di noi cercava di elaborare una teoria, per quanto vaga,
che spiegasse i fatti e dimostrasse che non eravamo stati gli unici a entrare in quella gelida sala rotonda. Poco dopo sentimmo che Murray stava risalendo. Quando entrò ci alzammo: incredibile come riuscisse a farci sentire degli studentelli. «Sedetevi, prego. Dovete essere piuttosto stanchi.» Ubbidimmo. «Rimarrò qui con voi fino all'arrivo della polizia. E poi» qualcosa di diverso affiorò nella sua espressione, ma non avrei saputo dire se si trattava di tenerezza o pietà o qualcosa di più sottile «dovrò assumermi il triste compito di dare notizia di questa tragedia alla signora LeNormand.» «La signora LeNormand!» esclamò Jerry, incredulo e stupefatto. «Sì» confermò Murray, quasi tra sé. «Non sapeva che si era sposato?» «No... Non mi ha mai detto... Non ho visto annunci sui giornali... È proprio una...» Jerry si stava impappinando. «Sì, è stata una sorpresa per tutti» riconobbe Murray. «Credo che nessuno l'avesse previsto. Non era tipo da sposarsi.» «Santo cielo!» mormorai. «E quando è stato?» Il rettore aveva un'aria assorta, come se stesse riflettendo intensamente e rispondesse ai nostri interrogativi soltanto con una parte della mente. «Circa tre mesi fa. È comparso a un tè, in casa mia, e l'ha semplicemente presentata come sua moglie. La cosa ha fatto molto scalpore.» Potevo immaginarlo. Il microcosmo dell'università doveva avere ricevuto una bella scossa. L'ultima cosa che ci si sarebbe aspettati da LeNormand. Praticamente un caso di bigamia, considerando quanto era profondamente legato al suo lavoro, sua unica ragione di vita. Diverse volte Jerry aveva fatto commenti sul fatto che le donne non interessavano minimamente al suo professore. Non aveva neppure voluto una segretaria, e questo era uno dei motivi per cui Jerry sbrigava tante piccole cose per lui. Di certo non era abbastanza anziano da prendersi una sbandata senile, ed era ben addestrato alla vita ascetica che aveva scelto. Non riuscivo a capire come mai avesse sentito il bisogno di una moglie e, per quanto io fossi sorpreso, vedevo che Jerry era assolutamente esterrefatto. Fissava Murray come se si aspettasse di sentirgli dire che aveva solo scherzato. «Signor rettore,» chiese infine «potrebbe dirmi qualcosa di più? Chi è questa donna? Da dove è arrivata? Come mai LeNormand...?» Murray si accigliò. «Né io né nessun altro, per quanto ne so, sapremmo dirle di più. Nessuno l'aveva mai vista, prima. LeNormand ha dato l'annuncio quasi con indifferenza, almeno esteriormente, senza mai una parola
di spiegazione. Non siamo riusciti a cavargli nulla. Non abbiamo neanche potuto...» Si interruppe. «Ma la cosa non ha importanza» concluse. «No, no, invece» insisté Jerry. «Se LeNormand si è sposato... e io lo conoscevo bene, signore, ero suo amico... c'è sotto qualcosa di strano. Non riesco a immaginare cosa possa averlo indotto a rinunciare alla sua... libertà. Buon Dio, neanche la donna più bella del mondo...» «C'è chi la considera la donna più bella del mondo» mormorò lentamente il rettore, con volto inespressivo. 4 Interregno Da fuori venne uno stridio di freni. Poi diverse voci. «Ah, la polizia» osservò il rettore Murray. Mi parve di cogliere una nota di sollievo nella sua voce, come se fosse lieto di essere costretto a interrompere quella conversazione. E infatti erano i tutori dell'ordine, i rappresentanti della legge, che arrivavano sulla scena del delitto, se di delitto si trattava. Provai un brivido di emozione quando i loro passi cominciarono a risuonare sui gradini di metallo. C'era Hanlon, un piccoletto arzillo dai capelli bianchi e dallo sguardo penetrante, che manteneva nella parlata tagliente una traccia d'accento della natia Irlanda. Non l'avevo più visto dalla serata dei Fondatori, alla Loggia Zeta, quando alcuni tra noi avevano organizzato un piccolo falò di festeggiamento. Il nostro errore era stato venir meno all'antica tradizione che imponeva la scelta della cabina telefonica posta sul retro di una fattoria come pièce de résistance della pira. Quella notte, per cambiare, avevamo puntato sull'unica cabina telefonica della polizia presente nella cittadina; chi avrebbe immaginato che il capo sarebbe venuto a saperlo prima delle due del mattino? Quando ci scorse ci rivolse un rapido sorriso. «Salve, ragazzi» si limitò a dire. Dietro di lui c'era il giovane Pudge Applegate, unico figlio ed erede dell'antico contrabbandiere di alcolici di Collegeville, e attualmente anche genero di Hanlon. Pesava circa cento chili, per lo più distribuiti al di sotto del collo. Per quanto la sua uniforme avesse sempre l'aria di essergli stata lavata addosso un buon numero di giorni prima, non era grasso come può far pensare il suo soprannome. Se Hanlon era il cervello del corpo di polizia, Pudge ne rappresentava senz'altro la forza bruta.
Poi c'era Old Harry. Nessuno di noi ne aveva mai saputo il cognome. Era stato il censore dell'università fino a quando era arrivato troppo in là con gli anni e divenuto troppo filosofo per reprimere gli scherzi e le trovate maliziose delle ultime scapestrate generazioni. E a quel punto la polizia di Collegeville si era assicurata i suoi servigi. Non mi risulta che abbia mai proceduto a un arresto. Per un minuto buono tutti e tre, dopo aver salutato rispettosamente il rettore, si limitarono a guardarsi attorno in silenzio, esaminando il freddo locale circolare in penombra, la sagoma scura del corpo di LeNormand sul pavimento, e aspirando l'odore nauseabondo che ancora aleggiava là dentro. Infine Hanlon esaminò sommariamente il cadavere e tornò indietro per fare qualche domanda a Jerry e a me. Gli esponemmo brevemente quanto era successo e lui non ci fece altre domande. Devo dire a suo merito che capì subito di trovarsi di fronte a qualcosa che esulava dalla sua esperienza, a un caso sul serio difficile e ostico. Si affrettò a scrivere un messaggio per Parsons, il capo della squadra investigativa della contea, e lo affidò ad Harry, insieme a qualche istruzione bisbigliata, perché lo portasse a New Zion, il capoluogo. Per un attimo mi chiesi come mai non si servisse del telefono, poi mi resi conto che le centraliniste avrebbero divulgato immediatamente la notizia. Non toccò nulla e, dopo averci ascoltati, mandò Pudge di fuori, a far la guardia. Saputo da Murray che il dottor Nickerson, dell'infermeria, era stato chiamato, si limitò a sedersi fischiettando tra i denti. Il rettore se ne andò pochi minuti dopo, promettendo di tornare in seguito, e noi tre restammo lì in quella specie di antro. Il silenzio opprimente venne interrotto solo quando Hanlon smise per un attimo di fischiettare, fissò Jerry e me con i suoi freddi occhi azzurri e commentò: «A quanto pare non sapete tenervi lontani dal fuoco, ragazzi». Non sapevamo come prenderla, così non aprimmo bocca. Dopo qualche istante Hanlon sogghignò e riprese a zufolare. Il congegno della cupola continuava a ticchettare. Il tempo si dilatava. Non so quanti minuti fossero trascorsi quando arrivò il dottor Nickerson, ma la sua comparsa fu un sollievo. Rivolse un cenno del capo a Jerry, che probabilmente ricordava dai tempi delle partite di football, e si mise subito all'opera. Non gli ci volle molto. «Non lo sposti più del necessario, dottore» raccomandò Hanlon. «E non tocchi altro.» «Non l'ho spostato affatto» replicò il medico. Aprì la valigetta nera, ne prese un batuffolo di cotone che bagnò con il liquido di una bottiglietta e
se lo passò accuratamente sulle mani prima di rialzarsi. «Deceduto, naturalmente. Arso vivo, parrebbe. Le ustioni sono di estrema gravità: i muscoli del dorso e delle spalle appaiono quasi totalmente distrutti. La scapola sinistra è calcinata.» Richiuse la borsa e venne verso di noi. «Com'è successo?» Pareva che anche lui non riuscisse a capacitarsi, come me, Jerry e Murray. «Mai visto niente del genere.» Accennai a dire qualcosa ma Hanlon mi fermò con un cenno della mano. «Dottore, ha per caso idea di quel che potrebbe aver provocato bruciature del genere? Quel povero diavolo è mezzo arrostito.» Nickerson scrollò la testa. «Sembrerebbe quasi che gli abbiano puntato una fiamma ossidrica contro la schiena.» Hanlon lo prese in parola. «Allora doveva essere già morto, quando è stata usata su di lui, non è vero?» Ma il medico non volle sbottonarsi. «Non posso dirlo. Ci vorrà un'autopsia, naturalmente.» «Forse un attacco cardiaco...» tentò Jerry. «Non sono in grado di stabilire nulla. Ma LeNormand è venuto da me alcuni giorni fa per una visita generale di controllo, come faceva tutti gli anni. E martedì scorso era in perfetta salute.» «Ma guarda un po'.» Hanlon pareva deluso. «Dottore, quelle ustioni potrebbero essere state causate da un agente chimico?» «Un agente chimico? Ad esempio?» «Qualcosa come la termite.» Evidentemente era una possibilità nuova per Nickerson, che rifletté un istante. «Non saprei. Non so niente degli effetti di quella sostanza.» «Viene impiegata per le saldature» spiegò Jerry. «E hanno usato qualcosa del genere per la fabbricazione di bombe incendiarie. Insieme al napalm. È un miscuglio di alluminio granulare e ossido di ferro.» Nickerson si sfregò un orecchio, meditabondo. «Un'analisi chimica della materia calcinata e degli indumenti dovrebbe accertarlo. Però non ho notato scorie. Comunque è un'idea.» Hanlon lanciò una rapida occhiata a Jerry. «Ha una teoria, giovanotto?» «No. Neanche mezza. Ma qualcosa dev'essere pur stato.» «Non è possibile che si sia trattato di un incidente?» intervenni. «Potrebbe essersi messo in tasca la pipa ancora accesa.» Nickerson scosse il capo. «Direi proprio di no. Anche se fosse successa una cosa del genere e avesse avuto gli abiti inzuppati di benzina, credo che
non si sarebbero verificate ustioni così profonde.» Si rivolse al capo della polizia. «Desidera altro da me?» Hanlon si agitò un poco sulla sedia. «Be', forse sarebbe meglio aspettare l'arrivo di Parsons. È il capo della squadra investigativa della contea. Probabilmente porterà con sé il dottor Merritt, e magari voi due insieme potreste trovare una spiegazione.» «D'accordo» assentì Nickerson. Gli trovammo una sedia e lui si accomodò. Calò di nuovo il silenzio. Mi ero aspettato che Hanlon ci bersagliasse di domande cercando delle falle nella nostra versione dei fatti, nel tentativo di risolvere subito la faccenda. Invece non aprì bocca. Lì per lì la sua inerzia mi lasciò perplesso, e perfino un po' a disagio, poi mi venne in mente la ragione logica del suo comportamento. Collegeville appartiene, anima e corpo, all'università; Hanlon era abbastanza acuto da capire che quella storia avrebbe fatto scalpore, e che forse avrebbe addirittura suscitato uno scandalo: metterci mano significava andare a disturbare un grosso vespaio. Il suo modesto corpo di polizia non era in grado di affrontare una faccenda del genere, come non lo era lui. Perciò si teneva sul sicuro: era deciso a passare il caso, perfettamente intatto, a Parsons. Quelli della contea, quando arrivarono, parvero approvare la sua scelta. Parsons era un tipo tranquillo, flemmatico, un po' anonimo, ma sapeva il fatto suo. Affidò il cadavere a Merritt, il suo medico legale. Fece fotografare palmo a palmo tutto l'osservatorio. Fece rilevare tutte le impronte rimaste là dentro, e volle anche le nostre, quelle di Hanlon, di Nickerson e di Pudge. Mandò un agente all'abitazione del rettore per chiedergli se poteva ripresentarsi lì subito. Dopo aver ascoltato, separatamente, Jerry e me, prese nota del numero dei posti che avevamo occupato allo stadio e dei nomi delle persone da noi notate alla partita che avrebbero potuto confermare la nostra presenza. Passò in rassegna pavimento, pareti e ogni singolo mobile. Trascrisse sul taccuino anche la marca dell'estintore usato da Jerry. Ordinò a un agente di andare a esaminare il terreno all'esterno, sotto l'apertura della cupola. Ci fece raccontare tutto daccapo una seconda e poi una terza volta. Continuava a martellarci, spiegandoci pazientemente che la nostra versione dell'accaduto non era molto probabile, chiedendoci se proprio non avevamo nulla da aggiungere. Quando comparve Murray, rimase a confabulare a lungo con lui a bassa voce, annuendo di tanto in tanto e accennando più volte a noi e al punto in cui era stato il cadavere di LeNormand ormai rimosso. Dopo che il rettore se ne fu nuovamente andato, sali fino al-
l'apertura nella cupola e si fece raggiungere dall'esperto della scientifica. Passò in rassegna tutto: calmo, efficiente, impersonale. Questa procedura richiese parecchio tempo. Quando tornò a occuparsi di noi era circa mezzanotte. «Non desidero rendervi quest'esperienza più difficile di quanto sia già stata. Non intendo mettervi in stato di fermo, ma siete gli unici testimoni e le vostre deposizioni sono maledettamente inaccettabili. Finora comunque non ho trovato elementi che possano incriminarvi. Entro domattina avremo il referto dell'autopsia, e quindi ne sapremo di più. Avrò bisogno di sentire ancora la vostra versione dei fatti e quindi per stanotte siete pregati di trattenervi qui. Dove contate di alloggiare?» Jerry e io tirammo un sospiro. L'avevamo previsto. «Potremmo dormire alla Loggia, la sede della nostra associazione studentesca. La Zeta Kappa.» Hanlon annuì. Conosceva benissimo la Loggia, ovviamente. Parsons non parve gran che soddisfatto. «Là troveremo un letto e ci presteranno un rasoio e tutto ciò che può occorrerci» feci notare. «A quest'ora è impossibile trovare posto altrove.» Parsons era ancora dubbioso. «Be', non saprei.» Hanlon si schierò dalla nostra parte. «Ma sì, signor Parsons, i ragazzi hanno ragione. È l'unica soluzione sensata e domani saranno subito rintracciabili.» «D'accordo» cedette Parsons. «Manderò un agente domattina, quando avrò bisogno di voi. Non vi muovete dalla Loggia. Andate, adesso.» Mentre ci avviavamo giù per la scala a chiocciola, storditi, sentimmo che ordinava a Hanlon di organizzargli un incontro con il rettore e la signora LeNormand, e di usare una certa diplomazia. Perfino il grande Parsons era sensibile al potere del rettore dell'università e chiaramente non desiderava offendere alcuno. Una volta fuori, aspirammo a fondo l'aria gelida: camminare da soli attraverso il campus era quasi come uscire di prigione. Senza i cappotti avevamo freddo, ma quel senso di oppressione che aveva continuato a gravarci addosso, all'Osservatorio Eldridge, cominciò in parte a dissiparsi. Il ronzio che sentivo alle orecchie diminuì, e riuscivo anche a muovere meglio le gambe. «Piacevole cambiamento» osservò Jerry dopo un poco. Osservai che l'aria aveva un buon odore. Forse non era il commento più opportuno.
«Povero diavolo» mormorò Jerry. «Che morte atroce. Spero proprio che acciuffino quel maledetto che...» «E così sia.» «E si era sposato, pensa un po'. Sposato. Ma che gli è passato per la testa, secondo te, Bark? Proprio lui, che alle donne pensava quanto l'eunuco capo dell'harem del sultano. LeNormand era puro cervello. Perché fare una cosa del genere?» «Murray ha detto che si tratta della donna più bella del mondo.» «Non esattamente. Ha detto che alcuni la considerano tale. E pensa alla Regina.» "La Regina" era il soprannome della moglie del rettore. Riconoscemmo che Murray poteva non essere buon giudice in proposito, ma non riuscimmo ad avanzare un'ipotesi convincente sul motivo per cui LeNormand si era sposato. Secondo Jerry, se si trattava di una donna bella anche solo la metà di quanto sosteneva Murray, il movente poteva essere appunto lei, e questo pensiero parve tranquillizzarlo parecchio. «Bark,» concluse «finché c'è la possibilità che ci sia di mezzo questa donna non farò cenno alla disputa scatenata da quell'articolo di LeNormand. Preferisco non tirarla fuori e probabilmente non c'entra affatto. La cosa migliore è rispondere a tutte le domande senza aggiungere niente di nostro.» «Io sono d'accordo, ma la cosa dipende da te. Sei tu quello che sa tutto della famigerata controversia.» «Non parliamone più» tagliò corto, e continuammo a camminare in silenzio, nel buio. Poco dopo arrivammo alla Loggia. I ragazzi stavano facendo baldoria e la vittoria sullo State veniva adeguatamente festeggiata. Salimmo i gradini d'accesso e suonammo il campanello, percorsi dai brividi. Venne ad aprirci un matricolino a cui fornimmo i nostri nomi. Buzz Clark, il presidente, venne ad accoglierci nell'ingresso dimostrandoci la massima cordialità, ma ormai avrebbe accolto a braccia aperte anche un esattore delle tasse. Ci propose di appendere i cappelli e partecipare alla bicchierata. Declinammo l'invito chiedendo se c'erano invece un paio di letti a disposizione. Ci domandò gravemente dov'erano le signore e noi gli suggerimmo di andare al diavolo. Andammo avanti per un po' su questo tono. Buzz ordinò al neofita di portarci da bere, ma rifiutammo. «Gran Dio» commentò alla fine. «Si perde in fretta la grinta non appena usciti da qui.» Ammettemmo che non eravamo più gli stessi di un tempo spiegando che per due vetusti ruderi come noi l'unica soluzione ormai era andarcene a
dormire. E così si decise a scortarci di sopra e ci fece passare in una stanza libera. Non ricordo di essermi spogliato e coricato. Interruppi il racconto e ripresi a setacciare le sabbie della memoria, nella speranza e nel timore di essermi lasciato sfuggire qualche piccolo particolare, una sfumatura, una fugace sensazione che potesse offrire la risposta. Ma non trovai nulla. «Sì, è andata così» mormorai lentamente. «Ti ho raccontato tutto, papà.» Il dottor Lister si chinò in avanti, gli avambracci sul tavolo, fissando il brillio di topazio che la candela accendeva nella bottiglia di sherry. «Sì credo anch'io. Abbiamo riesaminato l'accaduto decine di volte, noi tre. E Parsons è un ottimo poliziotto. Non c'è nulla su cui basarsi, non un indizio concreto, nulla, solo cose inverosimili.» E a mezza voce ripeté: «Inverosimili». «C'è una spiegazione,» affermai «ma anche questa è inverosimile, credo.» «Perché lo dici?» «So che Jerry ha scoperto la risposta, e subito dopo si è ucciso.» Ebbe un gesto d'impazienza. «Perché? Perché aveva paura di rivelarla? Non è da Jerry.» «No, non credo che si trattasse di questo. Ho la sensazione che abbia fatto ciò che ha fatto... (l'arma sollevata, la detonazione secca, assordante, che echeggiava in quella stanza a ovest)... perché aveva paura che noi, o chiunque altro, scoprisse la risposta. Temeva di farsi sfuggire la verità, una verità a cui non dovevamo arrivare.» Riempì nuovamente i bicchieri. «Sei troppo stanco per andare avanti? Vuoi che rimandiamo a domani? Devono essere quasi le undici ormai.» «No. Non sono troppo stanco. Non voglio chiudere gli occhi.» La mattina seguente ci svegliammo verso le nove. Mi accorsi con una certa sorpresa che mi sentivo molto meglio dopo essermi fatto la barba con il rasoio di Buzz, dopo la doccia e una buona colazione. L'alcool che avevamo bevuto non ci aveva lasciato postumi e, per quanto mi sentissi un po' debole e con le gambe fiacche, mi accorsi di essere pronto ad affrontare tutto ciò che ci avrebbe riserbato quella giornata. Anche Jerry era meno teso e preoccupato. Passammo nella biblioteca a leggere i giornali del mattino: non vi trovammo cenno alla morte di LeNormand; evidentemente la
notizia era arrivata troppo tardi, almeno per le edizioni extracittadine. C'era invece il resoconto della partita del giorno prima. Al solito, la cronaca la presentava come una vittoria morale dello State, ma dopotutto la stampa non ha mai nutrito simpatia per i nostri e neanche quell'atteggiamento prevenuto poteva alterare il fatto che il punteggio era stato in nostro favore. Nel servizio di Bill Bonham, sul Record, c'era un paragrafo che ancora ricordo e che confermava la sensazione da me avuta durante quel quarto d'ora iniziale: Nei primi quindici minuti lo State ha segnato a sua volta rivelando un gioco di notevolissima potenza. I ragazzi di Brunswick sono riusciti a far avanzare a fondo il pallone e, con una serie di mischie combattutissime e di fughe in avanti, sono arrivati alla linea delle dodici iarde dove Stanwicz ha tirato dritto tra le braccia di Moroney perché segnasse. Tutto lo svolgersi di questa azione ha lasciato il pubblico con il fiato sospeso e, verso la fine, nel grande stadio si sarebbe potuto sentir cadere uno spillo... "Verso la fine si sarebbe potuto sentir cadere uno spillo." Proprio così. E mi fece riprovare quel curioso senso di tensione, quella carica di emozioni e passioni umane che avevo colto con tanta intensità il pomeriggio precedente. Parsons ci mandò a prelevare quando avevamo terminato di leggere i quotidiani. A quanto pareva aveva trasferito la sua base operativa poiché l'auto si fermò davanti al municipio, stile finto gotico — a Collegeville tutte le costruzioni si sforzano di adeguarsi allo stile dell'università — e venimmo scortati nell'ala destra dell'edificio, dove si trova il comando di polizia. Con mia sorpresa, anche Murray e il dottor Nickerson erano lì. Parsons sedeva a un lungo tavolo ingombro di carte: era grigiastro in volto e chiaramente esausto, ma riuscì a rivolgerci un mezzo sorriso. «Accomodatevi, ragazzi. Niente di ufficiale, desidero solo rivolgervi qualche altra domanda.» Murray si schiarì la voce, con grande autorevolezza. «Sono convinto, signori, che non richiederete la presenza di un avvocato a questo incontro. Cionondimeno, se desiderate assistenza legale, ne avete pieno diritto.» «Non mi sembra il caso» rispose Jerry mentre sedevamo. «Dica pure, signor Parsons.»
«Mentre vi dirigevate verso l'osservatorio, potevate vedere chiaramente l'ingresso?» «Sì, anche se era buio, naturalmente, ed era accesa solo la lampada esterna; inoltre non osservavamo la porta con particolare attenzione.» «Ma siete ancora sicuri che nessuno ne sia uscito mentre vi avvicinavate.» Jerry ebbe una piccola esitazione. «Noi non abbiamo visto nessuno. Ed è probabile che, mentre camminavamo, l'uno o l'altro di noi due l'abbia sempre tenuta d'occhio.» «Quindi credete che, dal momento in cui siete arrivati in vista dell'osservatorio, nessuno avrebbe potuto lasciarlo senza essere notato da voi?» Parsons pareva rivolgersi a me. «Be',» risposi «non dall'ingresso. Ma sarebbe stato possibile allontanarsene attraverso l'apertura nella cupola.» «Escluso» dichiarò Parsons cupamente. «Su quel lato dell'edificio c'è una grande aiuola e nessuno avrebbe potuto prendere quella strada senza lasciare tracce. E non ce ne sono.» D'un tratto Jerry si irrigidì e si protese in avanti. «C'è un modo in cui una persona avrebbe potuto lasciare l'edificio senza che noi ce ne accorgessimo.» Murray parve stupito ma Parsons sorrise. «A-ha!» e dopo una pausa: «Dunque, signor Lister?». «Di chiunque si sia trattato, avrebbe potuto sgattaiolare giù per la scala quando ci ha sentiti arrivare, e poi nascondersi in una delle aule. Erano buie e non abbiamo guardato all'interno. Poi, mentre salivamo, può essere sgusciato fuori.» Parsons era molto compiaciuto. «Lei ha senz'altro la testa sulle spalle. Che ne dice, signor Jones?» «Be', non vedo perché non possa essere andata così» ammisi, perplesso. «Ma non ne è convinto. Come mai?» «Ecco,» cercavo le parole per tradurre una sensazione quasi impalpabile «quando siamo entrati nel vestibolo ho dato un'occhiata ai due usci aperti delle aule. Poteva esserci qualcuno, là dentro, ma a me non è parso. Dava come l'impressione di una casa disabitata.» Detta così pareva una sciocchezza anche a me, ma Parsons mi rivolse un cenno d'incoraggiamento. «Sì, conosco quella sensazione. Capita anche a me, e me ne fido. Ma in questo caso» continuò lanciandoci un'occhiata meditabonda «siamo costretti a concludere che questo è il modo in cui l'assassino è riuscito a fug-
gire.» «L'assassino» ripeté Jerry. «Allora è certo che si tratta di un delitto?» «Non c'è traccia di lesioni organiche che facciano pensare altrimenti» affermò il dottor Nickerson. «Avete cercato residui di sostanze chimiche?» domandò Jerry con ansia. «Naturale. Per il momento non possiamo escluderle con sicurezza,» (ma nel suo tono c'era una buona dose di sicurezza) «comunque io non ho individuato tracce di composti chimici. Ho fatto analisi specifiche per la termite...» e qui ci sorrise «... e sono praticamente convinto che non è stato impiegato niente di simile. Bisognerà aspettare gli esiti di laboratorio, si intende.» «E così la sua teoria va in fumo» osservò Parsons, quasi soddisfatto. «E adesso, giovanotto,» riprese lanciando un'occhiata penetrante a Jerry «da quanto ha affermato ieri notte e da quanto ho potuto appurare, lei era buon amico del professore. Giusto?» «Sì, direi di sì. Forse addirittura il suo miglior amico, qui.» Notai che a queste parole Murray aveva aggrottato la fronte. «Che mi dice allora dei suoi nemici?» Nel tono brusco di Parsons affiorava una nota quasi supplichevole. «C'era qualcuno che lo odiava, per quanto le risulta?» «No, che io sappia.» «Non è al corrente di eventuali discordie personali?» Jerry sfregò i palmi delle mani l'uno contro l'altro. «Be', in effetti ha avuto una sorta di disputa con certi astronomi e scienziati. Ma l'ha interrotta di sua volontà. Ha ceduto le armi, in un certo senso.» «Ah. E di che si trattava?» «Il professor LeNormand aveva scritto un saggio intitolato Critica ai fondamenti del continuum spazio-tempo di Einstein. E alcuni suoi colleghi di altre università o fondazioni gliel'avevano molto contestato.» «E per questo c'era stato uno scontro?» Parsons era un po' deluso. «Non si trattava di uno scontro. Era piuttosto una discussione scientifica.» «È stato più di due anni fa» intervenne elegantemente Murray. «Sono assolutamente sicuro che la faccenda fosse ormai argomento chiuso. Tutti noi abbiamo apprezzato moltissimo quel saggio, ma restava la sensazione che LeNormand si fosse un po' troppo... distaccato dal mondo ben concreto dei dati scientifici.» Parsons annuì. «È il genere di movente in cui neanch'io ho mai creduto.»
Tacque per diversi minuti, come cercando di trovare altre domande importanti. Infine prese due cartelline contenenti dei fogli dattiloscritti e ce le consegnò. «Queste sono le trascrizioni delle vostre dichiarazioni. Leggetele, prima di firmare.» Le leggemmo con attenzione. La mia, almeno, conteneva esattamente quello che avevo detto e che, per quanto mi risultava, corrispondeva all'assoluta verità. La sottoscrissi e Jerry fece altrettanto con la sua. Parsons riprese i fogli, controllò le firme e prese nota del nostro indirizzo di New York. «Bene, per il momento credo che non ci sia altro. Le vostre versioni concordano e non vedo motivo per trattenervi. Se doveste partire o cambiare indirizzo, avvertitemi.» Ci impegnammo a farlo. «E un'altra cosa. Fossi in voi non parlerei con nessuno di questa faccenda. Consultate un legale, se volete, ma evitate i giornalisti.» «Sono certo che si comporteranno con la massima discrezione, per tutelare il buon nome dell'università» affermò Murray rivolto a Parsons, ma lanciandoci un'occhiata tempestosa. Promettemmo ancora una volta di fare i bravi. Parsons si alzò per stringerci la mano. «Potete andare, adesso. Grazie per l'aiuto che ci avete fornito.» Avevo il sospetto che fosse una commedia a tutto beneficio del rettore, ma per noi andava benissimo. La cosa avrebbe potuto essere molto più sgradevole e di certo eravamo stati trattati con la massima considerazione. Uscimmo sentendoci enormemente sollevati, e sul marciapiede ci fermammo per decidere la prossima mossa. Poi mi sentii toccare un braccio: Murray. «Facciamo un tratto di strada insieme» propose. «C'è una cosa che vorrei chiedere a entrambi.» Un po' stupiti ci avviammo verso il campus. «Se possiamo fare qualcosa...» cominciò Jerry. «Mi rendo conto molto bene che per voi è stata un'esperienza atroce» il tono di Murray era molto prudente. «Posso immaginare che desideriate solo lavarvi le mani di tutta questa faccenda, ma sono costretto a chiedervi di prestarmi aiuto per un'altra cosa ancora.» Pausa. «A proposito, nel trattare con la polizia vi siete comportati da veri gentiluomini e leali ex allievi dell'università.» Venendo da Murray, equivaleva a una lode sperticata: «Grazie» rispose Jerry. «Naturalmente, se possiamo esserle utili ancora
in qualcosa, ne saremo lieti.» «Molto bene.» Il rettore ci fece svoltare a destra, in Santvoord Street. «Ieri sera, e di nuovo stamani, quando ho parlato con la signora LeNormand...» fece una breve pausa per permetterci di comprendere appieno che uomo forte e nobile, capace di affrontare impavido anche i compiti più dolorosi, egli fosse... «ecco, lei ha manifestato un vivo desiderio di conoscervi. Naturalmente desidera ringraziarvi per il coraggio e l'intelligenza che avete dimostrati la scorsa notte.» Nulla al mondo mi attirava meno, in quel momento, della prospettiva di incontrare la vedova di LeNormand. Mi pareva molto meglio non farle conoscere appieno l'orrore della tragedia permettendole di parlare con noi. Non ne sarebbe venuto nulla di positivo e probabilmente ci sarebbe stata una scena penosa. Tuttavia ci sono obblighi a cui non ci si può sottrarre, in certe circostanze. Forse Murray intuì quel che mi passava per la mente perché aggiunse: «Le ho consigliato di risparmiarsi uno strazio ulteriore, assicurandole che voi avreste compreso benissimo se lei avesse preferito non vedervi. Ma la signora ha insistito molto perché vi conducessi da lei, e ho dovuto acconsentire. Vi troverete di fronte a una donna controllata, priva di isterismi». «D'accordo,» annuì Jerry dopo qualche istante «non vedo comunque come potremmo rifiutarci.» «Grazie.» Proseguimmo in silenzio e poco oltre piegammo in Camden Piace e quindi risalimmo il vialetto d'accesso della modesta villetta bianca dove aveva abitato LeNormand. Murray sollevò il batacchio e lo lasciò ricadere tre volte contro l'uscio. 5 Bellezza per le ceneri Jerry mi disse in seguito che il soggiorno di LeNormand, dove ci fece passare una domestica dagli occhi arrossati, non era minimamente cambiato da come lo ricordava. Era una stanza quadrata, con due finestre che davano sulla strada e una affacciata sul piccolo giardino posto accanto alla casa; vi si accedeva dall'anticamera attraverso una grande porta a doppio battente. C'erano due poltrone Morris dal rivestimento sbiadito, un divano sformato ricoperto di cretonne, diverse lampade a stelo del tipo che si trovava allo spaccio, per le stanze degli studenti, una piccola libreria di mo-
gano, bruttarella, con antine di vetro; e alle pareti tre o quattro dipinti, evidentemente non scelti dalla facoltà di Belle Arti. Sul tavolo centrale, ingombro di riviste, c'erano due posacenere sporchi. Insomma, era una stanza da scapolo, l'abitazione di un uomo che non si curava molto dell'estetica. Ciò che mi sbalordì fu l'assoluta assenza del tocco femminile. Le mogli, e in particolare le sposine fresche, in genere muovono un attacco immediato, anche se superficiale, al disordine e alla trasandatezza dell'alloggio da scapolo del consorte. Si affrettano a mettere tende nuove, a disporre vasi di fiori e altre piccole cose che di solito definiscono "note di colore tanto per ravvivare un poco l'ambiente". Ma lì non vedevo nulla del genere. Il locale doveva essere esattamente come prima che LeNormand si sposasse. Nell'aria si coglieva un leggero odore di tabacco, e in uno dei posacenere notai una vecchia pipa annerita il cui cannello mostrava i segni dei denti. Quella vista mi infastidì: sarebbe stato più opportuno farla sparire. Murray, Jerry e io ce ne restammo là senza saper bene che fare. Io avevo voglia di fumare; mi domandai se potevo farlo, date le circostanze, e decisi di no. Jerry fissava quasi con apprensione l'uscio spalancato; a un certo punto si infilò le mani in tasca, ma subito le tirò fuori. Senza un motivo al mondo cominciò a echeggiarmi nella testa il motivo di Deep in the Heart of Texas e mi trattenni giusto in tempo dal fischiettarlo. Murray esaminava, come se fosse un capolavoro, una mezzatinta che rappresentava un vecchio mulino illuminato dalla luna. Dopo un po' sentimmo dei passi per le scale e capimmo che doveva essere lei. Era un'andatura lenta, irregolare, con un che di apatico. Ma soprattutto mi parve pesante, sgraziata, come se non si curasse del modo in cui posava i piedi. Poi entrò nel soggiorno. L'immaginazione dell'uomo è una strana cosa. Murray aveva detto che alcuni avrebbero potuto considerare la signora LeNormand la donna più bella del mondo e io avevo cercato di crearmi mentalmente l'immagine della dèa a cui, se fossi stato Paride, avrei assegnato la mela d'oro. Non assomigliava minimamente al personaggio che mi ero costruito. La prima cosa che mi colpi fu il fatto che si vestiva in modo atroce: l'unico aggettivo che mi venne in mente per descrivere il suo aspetto fu "sciatta". Indossava una gonna scura, di ruvido tweed, di pessimo taglio e con l'orlo tutto sbilenco, e un golf di lana, di colore anonimo, a mezza manica. Le calze non si addicevano al colore della gonna e le scarpe erano delle Oxford relativamente nuove ma tutte graffiate sulle punte. Nell'insieme, il
suo aspetto corrispondeva esattamente a quel che avrei potuto prevedere per la moglie di LeNormand, ma io mi ero aspettato una donna stupenda. La mia prima reazione fu di sollievo. Grace, con la sua filosofia di vita frivola e volubile, mi aveva reso diffidente nei confronti delle belle donne, e la descrizione che Murray ci aveva fatto della signora LeNormand mi aveva innervosito. Ma quella creatura...! Sarebbe stato facilissimo cavarmela con qualche banale frase di condoglianze e congedarmi alla svelta. Guardandola meglio però mi accorsi con autentico sbalordimento che mi sbagliavo completamente. Quegli abiti non le si adattavano affatto. Era impossibile immaginarla vestita con abiti moderni così come non si può pensare alla Vittoria Alata in calzoncini da tennis. Era molto alta, quasi un metro e ottanta; né snella né troppo robusta. I capelli, raccolti sulla nuca, avevano il colore del sole d'inverno e gli occhi ben distanziati sotto le sopracciglia diritte erano di un intenso viola-azzurro. Sotto quegli indumenti incongrui si indovinava un fisico perfettamente proporzionato, che possedeva quell'unità di struttura, quell'assoluta armonia che i grandi scultori sono a volte riusciti a raffigurare. Il corpo, le mani dalle dita ben modellate e il volto emanavano una forza e una bellezza perfettamente fuse. Non ho ancora parlato del suo viso. In quel momento, salvo che per un particolare, non lo trovai splendido come lo scoprii in seguito, frequentandola spesso. I lineamenti erano nitidamente disegnati in una composizione così superba, dall'ampia fronte alla linea pura del mento e della mascella, da farmi pensare a un'astrazione, o a un'opera d'arte consapevole che esprimeva non la bellezza di una donna particolare ma l'essenza del volto femminile. Non recava tracce di trucco e la pelle era così chiara che sembrava rilucere come argento nell'ombra della soglia. Le labbra erano appena rosate ma spiccavano quasi vivide nel pallore luminoso del viso. Era il volto di Pallade Atena, eppure non c'era nulla della dèa in lei. Mancava qualcosa. Mentre avanzava verso di noi mi chiesi che cosa fosse. La sua espressione non era disperata né sconvolta, né era possibile definirla in alcun altro modo: sembrava priva di vita, del tutto assente. Mi aspettavo quasi che strascicasse i piedi. Ci guardò appena, entrando nel soggiorno, e i suoi occhi erano remoti, come se non ci fosse niente che meritasse la loro attenzione. La descrizione più aderente che posso darne è che somigliava a quei mendicanti che vagano per le strade della città, del tutto indifferenti alla vita perché non hanno più nulla da sperarne. Non c'era tragedia, dolore o paura in lei. Era solo indifferente.
Senza rendercene conto ci eravamo schierati quasi in fila e, quando si fermò di fronte a noi, pensai per un attimo che non si fosse accorta della nostra presenza. I suoi occhi, in ogni caso, non fissavano nessuno dei tre. Murray tossicchiò e fece un mezzo inchino. «Signora LeNormand, posso presentarle il signor Lister e il signor Jones?» Ci inchinammo a nostra volta, mormorando qualche parola banale. Passò lo sguardo dall'uno all'altro ma non ci tese la mano né ci invitò ad accomodarci. Durante tutto quel breve, inverosimile colloquio, che non mi sentirei di definire incontro o visita, non fece nulla di quanto ci si sarebbe potuto aspettare da una donna nella sua situazione. L'occhiata che mi rivolse al momento della presentazione era vuota, priva di espressione: avrei potuto essere un oggetto qualsiasi. Quando parlò notai che la sua voce si accordava a tutto il resto: aveva un'inflessione morbida, una piacevole sonorità, era ben controllata, ma anche lì mancava qualcosa. Un certo calore, qualche piccola imperfezione nel tono o nell'accento che la rendesse vera, viva. «Desidero ringraziarvi per quanto avete fatto per mio marito» esordì. E non si coglieva alcuna emozione dietro queste poche parole. Già allora quella frase mi sorprese: sembrava che fosse stata composta come una dichiarazione ufficiale, secondo quanto lei riteneva che fosse opportuno dire in tale circostanza. E "mio marito"! Perché non aveva detto "Walter"? Non sarebbe stato più naturale usare il nome? Avvertii in quell'espressione qualcosa che decisamente non mi piacque. Lanciai una rapida occhiata a Jerry per capire la sua reazione a quella donna e a quanto aveva appena detto. Lui stava mormorando qualcosa come "spiacenti di non essere arrivati prima, così da poter fare davvero qualcosa", ma la sua espressione e il suo tono mi colpirono. Avevo trascorso con lui troppi anni per non sapere quando era spontaneo e quando no, e quello era un modo di fare che, decisamente, non gli conoscevo. Era sulla difensiva, e non per via del disagio della situazione: era come se avvertisse un pericolo. In quel momento non avrei saputo dirlo con questa precisione, ma aveva l'atteggiamento di chi, cenando alla tavola dei Borgia, ha appena colto il gusto aspro del veleno nel vino ma cerca di nascondere ciò che prova. Lei se ne accorse, di questo sono convinto, e per un istante esitò, guardandolo. Poi aggiunse: «Molto gentile da parte vostra essere venuti da me. Il rettore Murray mi ha parlato del vostro coraggio». Continuò a fissarlo finché Jerry non cominciò ad arrossire. E, mentre la
osservavo, vidi il suo volto trasformarsi. L'espressione assente dello sguardo cominciò a svanire lasciando posto a un certo interesse. Parve riprendersi, uscendo dallo stordimento che la pervadeva, e tornare alla realtà del presente. La cosa mi lasciò sbalordito e non mi piacque molto. Esaminava Jerry con un distacco tutt'altro che benevolo. Qualunque cosa fosse quella che stava destandosi in lei, ebbe su di me uno strano effetto: desideravo fare un passo indietro, tenermi a distanza di sicurezza finché non avessi capito meglio di che si trattava. Ma dopotutto non era diretta a me. Jerry pareva imbarazzato ma non infastidito quanto me da quello sguardo. Anzi, lo ricambiò. «Sì,» continuò «una vera dimostrazione di coraggio. Da parte di entrambi.» Lo aggiunse come per cortesia. Ci schermimmo dicendo che non meritavamo alcuna lode. In realtà non c'era stato nulla di coraggioso in quanto avevamo fatto, o almeno a me in quel momento non sembrava. Ma forse mi sbagliavo, e aveva ragione lei. Per lei tutto quell'episodio poteva assumere un significato completamente diverso. Si rivolse direttamente a me. «Era già morto quando l'avete trovato?» Tutta quella conversazione era così anomala che la domanda mi prese alla sprovvista. Rividi l'ultimo guizzo degli occhi di LeNormand ed ebbi una breve esitazione. «Sì» intervenne Jerry in fretta, deciso. «Desidero assicurarle, signora LeNormand, che era assolutamente sereno in volto. Sono certo che non ha avuto un'agonia dolorosa. I... i particolari sono orribili, lo so, ma io ho l'impressione che sia deceduto senza soffrire.» «È un conforto» mormorò lei, cauta. E dopo qualche istante, sempre fissando Jerry, riprese: «Non riesco a spiegarmi la sua morte. Non ne vedo la causa». «Cerchi di non pensarci» intervenne Murray. «Sì, non dovrei. Lo capisco» rispose. «Non giudicate strane le mie domande; le risposte potrebbero aiutarmi a smettere di pormi interrogativi angosciosi.» «Se c'è altro che possiamo dirle...» mormorò Jerry. Si rivolse di nuovo a lui con un'espressione stranamente infervorata. «Le sembrerà una domanda sciocca, signor Lister, ma... non ha lasciato nulla di scritto, un appunto per spiegare ciò che gli è successo?» Jerry scosse il capo. «Nulla, signora LeNormand. E sono convinto che non sapesse di dover morire.»
«No, certo. Ma a volte, quando doveva lavorare tutta la notte al telescopio, mi mandava un biglietto, per avvertirmi. E vorrei sapere se c'era un messaggio del genere.» Una leggera brezza si era levata e gli alberi frusciavano nell'oscurità. Sotto la luce delle stelle la superficie della baia fremeva di piccole onde che avanzavano leggere verso di noi così che il Sound pareva quasi un fiume che scorresse dall'invisibile riversandosi sulla spiaggia. L'illusione di una corrente era così perfetta che dovetti rammentare a me stesso che non c'era un corso d'acqua ma solo l'eterna, immutabile distesa del mare. «Naturalmente,» dissi al dottor Lister «posso ripetere, almeno approssimativamente, le parole che abbiamo detto, ma non ricostruire tutta la conversazione. Le espressioni, i gesti, il tono e il timbro delle voci, nel racconto vanno perduti.» Mi aveva ascoltato con intensa concentrazione. «Certo, lo capisco... Nessuno di voi due mi aveva mai raccontato ciò che era stato detto la prima volta che l'avete incontrata.» «Strano come si tenda subito, in simili circostanze, ad accettare il significato apparente delle cose. Quando disse a Jerry: "Le sembrerà una domanda sciocca, signor Lister", tutti e due, credo, abbiamo accettato la sua valutazione di quanto stava per dire. Adesso invece non mi sembra affatto una domanda normale. E la faccenda dei biglietti che LeNormand le mandava... ti sembra plausibile?» «No.» «Vedi, sono proprio queste le cose che ho cominciato a collegare. Piccoli particolari che però, riuniti, formano un'immagine reale.» Lui annuì. «Credi che lei già sapesse...?» Non terminò la domanda. Nessuno degli interrogativi che mi ero posto più e più volte era mai stato formulato interamente. «Al momento della morte di LeNormand» gli rammentai «lei si trovava a casa. C'era ancora la cuoca, occupata a rigovernare, e l'ha vista là, seduta nel soggiorno, almeno tre volte in quella mezz'ora. Non può essere stata lei... fisicamente impossibile.» Per un lungo minuto tacque, riflettendo. «Forse era una cosa organizzata con un complice.» Dal suo tono era evidente che la risposta gli si presentava chiara quanto a me. «Non ci guadagnava nulla dalla morte di LeNormand. Che motivo c'era per una simile macchinazione?»
Assentì di nuovo. Credo che cominciasse a perdere un po' di fiducia nell'efficacia dell'analisi razionale. Quella domanda a proposito del messaggio mi aveva lasciato di stucco. Da quanto Jerry mi aveva detto di LeNormand mi ero convinto che, una volta al lavoro, non fosse capace di pensare ad altro. L'idea che si mettesse a scrivere: "Tesoro, non posso rientrare per cena. Non aspettarmi alzata. Mi tratterrò qui fino a tardi", era grottesca. «No, nessun biglietto» sbottai a dire. «Abbiamo dato un'occhiata alle sue carte, e c'erano solo delle equazioni.» «Ah, equazioni» ripeté, e dal tono non pareva delusa. Poi, dopo un momento: «Ossia solo appunti di lavoro?». «Sì» confermò Murray. «Simboli matematici impiegati per esprimere la correlazione tra i dati.» «Grazie.» La sua voce era ancora del tutto impersonale. «Mi farebbe piacere avere quei fogli, le ultime cose che ha scritto.» Un desiderio abbastanza naturale, eppure mi sorprese un poco. «Temo che dovranno restare in mano alla polizia, almeno per qualche tempo» osservò Murray col tono che si usa per spiegare le cose a un bambino. «Sì, certo. Capisco.» «Non so dirle quanto siamo costernati, Bark e io, signora LeNormand» dichiarò Jerry. «Ero molto amico di suo marito. Se c'è qualcosa che possiamo fare per lei, ci consideri a sua disposizione.» Lo fissò gravemente per diversi secondi. «Grazie. Molto gentile. Se avrò bisogno di aiuto mi rivolgerò senz'altro a lei.» Nella pausa imbarazzata che seguì, Murray si schiarì la voce. «Signora LeNormand, se desidera che mi metta in contatto con qualcuno della famiglia sua o di suo marito... magari, ehm, per organizzare la sua partenza, sarò ben lieto di...» Per la prima volta sembrò incerta. «Non so nulla della famiglia del professor LeNormand... non mi ha mai parlato di parenti... Non so cosa si debba fare in questi casi.» Eravamo tutti molto stupiti, credo, ma Murray si riprese subito. «Capisco» mormorò. «Vedrò se riesco a rintracciare qualcuno. Senza dubbio in Inghilterra... E la sua famiglia?» «Non ho nessuno da avvertire» rispose scuotendo il capo. «Nessuno?» Adesso, nonostante l'abituale padronanza di sé, il rettore era
apertamente incredulo. «Proprio nessuno» confermò lei con un accenno di sorriso. «Capisco.» Ma era chiaro che non capiva affatto e che lei era riuscita a sconcertarlo, a ostacolarne i piani, anche se in quel momento non mi era chiaro in che modo. «Avrò bisogno di qualche giorno per riflettere» continuò lei «e poi, se permette, mi consulterò con lei per prendere la decisione più opportuna.» «Certo. Conti pure su di me.» La voce di Murray suonò dura. «Vi prego,» riprese lei scrutandoci «non angosciatevi troppo, e non preoccupatevi per me. In qualche modo ce la farò. E cercate di dimenticare questo tragico avvenimento. Per tutti noi sarà meglio non pensarci troppo. Lasciamo che se ne occupi la polizia. Grazie ancora di essere venuti.» Era un discorso incredibile per una donna nella sua situazione. Senza attendere risposta si volse, uscì e si avviò su per le scale. Notai che ora si muoveva con grazia squisita e sotto i brutti indumenti che la infagottavano il suo corpo era quello di una statua che miracolosamente avesse preso vita. Per qualche istante ce ne restammo lì fermi, a seguirla con lo sguardo. L'eco dei suoi passi si spense sul pianerottolo del piano superiore. «Ma guarda un po'!» Nella voce ancora incredula di Murray affiorò per un istante l'irritazione; ma subito la nascose continuando: «Visto che non possiamo fare nulla per la signora LeNormand...». Ce ne andammo subito. Io fui l'ultimo a varcare la soglia e per un attimo ebbi la sensazione che ci fosse qualcosa alle mie spalle. Lo scatto della serratura che si richiudeva fu un sollievo. Fuori, sul marciapiede davanti alla casa, Murray ci salutò ringraziandoci di averlo accompagnato e promise di tenerci al corrente dello sviluppo delle indagini. Di nuovo, con fare paterno, ci esortò a non far parola con nessuno dell'accaduto, dopo di che se ne andò, le spalle ben erette, andatura perentoria e decisa. In silenzio, lo guardammo allontanarsi. «E adesso?» chiesi dopo un breve silenzio. «Andiamo a vedere se l'auto è ancora dove l'abbiamo lasciata,» propose Jerry «quindi ce la filiamo da questo posto.» Mentre ci avviavamo in direzione dello stadio, lui si volse a lanciare un'ultima breve occhiata alla casa. Era una domenica fredda e limpida. Il sole novembrino, mentre attraversavamo il campus, delineava nitidamente ogni ramo d'albero, ogni particolare degli edifici. Dalla campana della cappella giungevano bronzei rintocchi e la ghiaia scricchiolava sotto i nostri passi.
Senza il cappotto avvertivo il morso dell'aria pungente, ma ero troppo preso dai miei pensieri per farci gran caso. Continuavo a riesaminare mentalmente il colloquio con la signora LeNormand e provavo un crescente senso di disagio. È impossibile prevedere le reazioni degli altri di fronte alla tragedia, e mi rendevo conto che, per quanto l'atteggiamento e le parole della signora LeNormand non fossero stati quelli che potevo aspettarmi da una vedova straziata dal dolore, non avevo il diritto di trovarci qualcosa di strano o di innaturale. Ma in quell'incontro c'era qualcosa che mi sfuggiva, che non mi riusciva di definire, ma che sicuramente non mi piaceva. La rivedevo mentre scendeva le scale, ripensavo al suo modo di guardarci e soprattutto di fissare Jerry mentre parlava, e a quella sua particolarissima bellezza. Cercavo di immaginarla accanto a LeNormand, entrambi innamorati, a dividere il medesimo letto. E mi era impossibile. Non si adattava a simili situazioni così come il suo splendore fisico era incompatibile con lo squallido abbigliamento che indossava. Riflettei a lungo su quegli indumenti. Mi pareva che se fossi riuscito a capirli avrei anche appreso qualcosa su di lei. «Jerry» cominciai, esitante. E mi interruppi. «Sì.» «I suoi vestiti. Li hai notati?» «No.» Colsi una vaga nota di rimprovero, ma non ci badai. «Be', erano orribili. Trasandati, malfatti, privi di gusto, roba che puoi vedere addosso solo a una vecchia bibliotecaria inacidita.» Mi fissò aggrottando la fronte. «Non capisco cosa stai cercando di dire.» «Mi stavo solo chiedendo come mai si veste così» spiegai con una certa cautela. «Buon Dio, cosa ti aspettavi?» replicò lui sbalordito. «Alta moda parigina quando il corpo di suo marito non è ancora freddo...?» Lasciò in sospeso la fine della frase. «Ma no, ascolta: quello che aveva addosso era per forza roba che già aveva. E non riesco a capacitarmi che una donna simile possa accettare di mettere una gonna, un golf e delle scarpe come quelle.» Si accorse che parlavo sul serio. «Be', non ho prestato particolare attenzione ai suoi abiti, ma se dici che offendevano il tuo senso estetico ti prendo in parola.» Fece una breve pausa e continuò, come tra sé: «Per quanto, se tu possedessi un senso estetico... va bene, dimmi: cos'hai in mente?». «Be', ecco» ripresi ostinatamente, pur sentendomi un po' stupido, «mi chiedevo solo se è stato LeNormand a comperarglieli.»
«È possibile. E con ciò?» «Per dirne una, da quel che mi hai raccontato tu e dall'opinione che mi sono fatta di LeNormand per le poche volte che l'ho incontrato, non mi è mai parso il tipo che potesse andare ad acquistare abiti femminili, nemmeno per sua moglie.» Jerry sorrise. «In questo hai perfettamente ragione. Ma ciò dimostra solo che con tutta probabilità non è stato lui a sceglierli.» Tentai un'altra strada. «È una donna molto bella, e le belle donne sanno sempre di esserlo e non si vestono in modo da nascondere la cosa.» «Non la nascondeva affatto.» «Maledizione, fai apposta a non capire. Quegli indumenti erano tutti sbagliati, non avrebbe nemmeno dovuto averli nell'armadio. Per dirne una, è troppo intelligente...» Ma sicuro, ecco il punto cruciale! Come mai non c'ero arrivato prima? Era troppo intelligente. Troppo. Nonostante quella sua strana, incredibile bellezza, erano state le sue qualità intellettive che mi avevano soprattutto colpito. Di colpo compresi che né il modo in cui ci aveva interrogati, né la precisione calcolata di tutto ciò che aveva detto dopo i primi momenti nascevano dal dolore o dalla solitudine. Aveva voluto appurare qualcosa da noi, e aveva ottenuto lo scopo. E forse si trattava di più cose. Ad ogni modo era riuscita, con fredda determinazione, a farci dire ciò che le interessava, e io ero stato tanto idiota da non sospettarlo neppure. Sentii che il mio cervello cominciava a lavorare più in fretta. Se era così, che significava? La prima conclusione cui giunsi fu deludente. Né la sua bellezza né l'aura di mistero che la circondava erano necessari per spiegare quel matrimonio con LeNormand. Il professore aveva incontrato una persona di livello intellettuale pari al suo: si trattava di una donna, e di conseguenza l'aveva sposata. Forse anche lei era rimasta stupita e felice di trovare, in un mondo di piccola gente con piccoli pensieri confusi, un individuo delle sue stesse capacità mentali. E il fatto stesso che LeNormand fosse un uomo così solitario, così poco bisognoso di contatto con il prossimo, doveva avere reso forte e profondo il rapporto tra loro. Era naturale che si fossero sposati, così come, dovevo riconoscerlo, era naturale che lei non attribuisse la minima importanza al vestiario. Forse era inevitabile che avesse reagito alla notizia della morte di lui in modo puramente cerebrale, distaccato. Le qualità che avevano in comune probabilmente toglievano significato ai fatti importanti per la gente comune, che per loro diventavano futilità. Persone con una mente così ben strutturata e limpida potevano mostrare solo un at-
teggiamento stoico e controllato. Cominciai a pensare che forse avevo visto qualcosa di inspiegabile là dove non c'era alcun mistero. «Non capisco cosa c'entri l'intelligenza di una donna con il suo modo di vestire» stava dicendo Jerry. «D'accordo, lasciamo perdere» replicai, un po' seccato. «Era una mezza idea, ma forse non vale tanto.» «Inoltre,» proseguì Jerry «non c'è da stupirsi che LeNormand l'abbia sposata. Murray aveva ragione. È effettivamente la donna più bella del mondo.» «E anche una delle più intelligenti.» «Può darsi.» Non pareva particolarmente interessato. «Risparmiati la scena» ribattei, con un tono un po' piccato. «Ho ben visto come la guardavi quando ha cominciato a farci il controinterrogatorio.» «Che diavolo stai dicendo?» «Senti,» gli dissi con il tono di chi deve spiegare proprio tutto «quando ha cominciato a farci tutte quelle domande, stavi in guardia, sulle tue. Mentalmente, intendo. In quel momento hai colto qualcosa a cui io sono arrivato solo un attimo fa.» «Per amor del cielo, Bark!» Il tono era aspro, ma subito dopo si controllò e mi rivolse un mezzo sogghigno. «D'accordo, non si può nascondere niente a un amico di sempre. Be'...» si interruppe, meditabondo, prima di continuare, «... hai quasi ragione. Lo riconosco, qualcosa mi è passato per la mente. Se continui a studiare ancora un poco la sfera di cristallo della mia personalità dovresti arrivarci per conto tuo.» Lo disse amichevolmente, ma sotto sotto restava pur sempre una certa condiscendenza. Proseguimmo in silenzio, io parecchio seccato e lui apparentemente immerso in pensieri che non includevano me e la mia irritazione. La macchina era ancora al suo posto, solitaria come un monumento nel posteggio deserto. Salimmo a bordo e partimmo alla volta di New York senza dirci altro. Faceva un gran freddo e ci fermammo solo una volta per concederci qualche sorsata dalla fiaschetta di Jerry. Per tutto il tragitto di ritorno provai una sensazione di vuoto interiore, la depressione che viene addosso la domenica, dovuta immagino alla fatica nervosa. Magari un paio di bicchierini avrebbero cancellato quel senso di cupo presentimento che mi invadeva, ma non lo credo. Una parte della mia mente doveva avere capito, pur senza esprimerlo chiaramente, che il dado del futuro era tratto e che Jerry e io eravamo ormai avviati su strade diver-
se da quella seguita insieme fino ad allora. 6 Fase di transizione C'è di buono che il lunedì riesce, se non altro, a impedire di pensare. Quando arrivai alla mia scrivania, la mattina dopo il nostro ritorno a New York, mi trovai davanti a un cumulo di pratiche in sospeso. Riuscii a smaltire l'ultima solo alle sei di pomeriggio e quando mi avviai verso il nostro appartamento nel Greenwich Village avevo in mente unicamente il lavoro dell'indomani e un crescente entusiasmo all'idea di una doccia e di un aperitivo tranquillo. I giornali avevano pubblicato articoli molto drammatici, ma nessuno aveva fatto il nome mio e di Jerry, e solo un paio avevano accennato al fatto che il cadavere era stato rinvenuto da "due giovani laureati dell'istituto". Per lo più i cronisti sembravano aver concluso che sarebbe stato più efficace attribuire a Murray la scoperta di quanto era accaduto a LeNormand, e così il rettore si era visto riversare addosso una buona dose di sgradita pubblicità. Ero ben contento di lasciargliela tutta, ed estremamente grato a lui e a Parsons per non aver fatto i nostri nomi con la stampa. Jerry aveva acceso il fuoco nel caminetto e lo shaker era già pronto sul tavolino davanti al divano. Mi feci un bicchierino prima della doccia e un altro dopo. Già mi sentivo molto meglio. Poi andai in cucina a preparare la cena: quella settimana toccava a me far da mangiare e a Jerry lavare i piatti. Cenammo di buon appetito ma senza chiacchierare molto, e dopo lo lasciai a rigovernare. Il suo unico commento fu che quando ero ai fornelli riuscivo a usare tutto l'armamentario di cucina. Prima che lui ricomparisse nel soggiorno scoprii una cosa che mi diede un profondo disagio. La ribalta dello scrittoio era abbassata e sul ripiano c'era una lettera non ultimata, in cui riconobbi la grafia di Jerry. Involontariamente mi cadde l'occhio sulle prime parole. "Mia cara signora LeNormand..." Mi fece uno strano effetto leggere quel nome e, anche se lì per lì mi dissi che forse anch'io avrei dovuto scriverle un biglietto di condoglianze, più ci riflettevo più una lettera da parte mia o sua mi pareva fuori luogo. Forse a Jerry era venuto in mente qualcosa che intendeva farle sapere, ma ne dubitavo. L'unica altra spiegazione era che avesse semplicemente sentito il desiderio di scriverle, e il significato di ciò non mi era del tutto chiaro.
Poco dopo lui rientrò dalla cucina, sedette allo scrittoio e riprese a scrivere senza neppure lanciarmi un'occhiata. Io cercavo di leggere, ma lo scricchiolio della penna mi distraeva. «Se stai scrivendo a papà» dissi «digli che il suo whisky irlandese mi ha salvato la vita.» Non alzò lo sguardo. «D'accordo» mormorò senza interrompersi. Io accesi la radio, sentendomi molto meschino. «Per l'amor del cielo,» sbottò Jerry «spegni quell'accidenti. Non riesco a pensare con tutto questo baccano.» Girai la manopola e mi sedetti su un'altra poltrona, irrequieto. Trovo irritante che qualcuno scriva una lettera nella stanza in cui mi trovo: mi viene una gran voglia di farlo smettere, e in quel caso più che mai. Dopo qualche minuto Jerry si alzò, andò a prendere un volume dalla libreria, gli diede un'occhiata e lo portò allo scrittoio. Uno sciocco impulso mi spinse a dire: «L'ho veduta soltanto passare e già so di amarla...» «Maledizione!» Jerry si voltò di scatto. «Sei venuto a ficcare il naso?» «Non ne ho bisogno» replicai. «Ricordi, quando eravamo al secondo anno? Hai sfruttato metà del Golden Treasury di Palgrave per quella dolce fanciulla di Poughkeepsie. So riconoscere i sintomi.» Era pallido. Mi fissò per qualche istante e mi chiesi se stesse contando fino a dieci prima di parlare. «E non ho la tua approvazione?» chiese educatamente. A quel punto dovevo scegliere. Potevo provocarlo al punto da scatenare una lite — ed era molto meno doloroso e lesivo passare attraverso un mangano che azzuffarsi con Jerry inferocito — o lasciar cadere la cosa con un commento qualsiasi, e la tensione si sarebbe allentata. Con questa seconda strada c'era l'inconveniente che a volte restava un rancore latente e tutto considerato mi chiedevo se non sarebbe stato meglio subire un'energica ripassata da Jerry e farlo sfogare e placare per quanto la cosa potesse risultare sgradevole per me. «Se vuoi saperlo,» ribattei col mio tono più tagliente «ho letto senza volere la prima riga. Non avresti dovuto lasciare lì il foglio. E no, non approvo.» Dalla sua espressione, dal modo in cui socchiuse gli occhi, capii che era pronto a passare ai fatti e d'un tratto ebbi la sensazione che non sarebbe stato uno di quegli scontri subito esplosi e subito dimenticati che avevamo
avuto in precedenza. «Comunque mi sono comportato in modo abominevole» aggiunsi «e chiedo scusa.» Depose lentamente la penna e venne ad accomodarsi sul divano. Non sapevo cosa gli passasse per la mente. «Che tu approvi o no, non ha molta importanza» mormorò, in tono quasi interrogativo. Riconobbi che era verissimo. Per un poco rimase a guardare il soffitto. «So a cosa stai pensando» riprese poi. «Potremmo arrivare alla rissa se... se lo volessimo. E i litigi tra fratelli sono sempre i peggiori perché di fatto equivalgono a guerre civili.» Non potevo respingere quel rametto d'ulivo. «Maledizione, non ho nessuna voglia di litigare.» Cercai le parole adatte per esprimere con sufficiente chiarezza quel che provavo. «Direi che sono più che altro preoccupato. I lunedì sono sempre odiosi.» Annuì, poi mi fissò. «Perché ti preoccupa il fatto che le scriva?» Non sapevo spiegarglielo esattamente. «È solo che lei... non so come dirlo. Non è il tuo tipo, ecco.» Si abbandonò contro lo schienale del divano ridendo, e continuò fino a farmi venire i nervi. «Buon Dio, Bark! Probabilmente se domani il principale mi mandasse in municipio, e tu venissi a saperlo, ti convinceresti che sono andato a chiedere una licenza di matrimonio!» «Che idiota.» «Sì, certo c'è un idiota: tu.» Smise di ridere e continuò In tono triste: «Le scrivevo per chiederle quando ci sarà il funerale. Mi sembra che sarebbe doveroso per me partecipare, non credi?». Mi sentii avvampare. «Oh, tutte le mie scuse.» Poi, in tono meno sarcastico: «Non ci avevo pensato. Sono proprio un idiota». «Non parliamone più.» Tornò alla scrivania, terminò la lettera in un paio di minuti e uscì subito per impostarla. Tornò con un giornale della sera e leggemmo le ultime notizie sul caso. A quanto pareva nessuno aveva scoperto niente, nessuno aveva rilasciato dichiarazioni e l'unico elemento nuovo era una fotografia della signora LeNormand: anche in quella riproduzione scadente i suoi straordinari lineamenti scultorei emergevano netti. Ci coricammo presto perché eravamo stanchi e anche perché nessuno dei due voleva rischiare altri battibecchi. Ma mentre scivolavo nel dormiveglia qualcosa mi si ripresentò alla mente. «Ehi, Jerry» mormorai, nel buio della camera.
«Sì?» «A che diavolo ti serviva un libro di poesie se dovevi solo chiederle la data del funerale?» «Va' a quel paese.» Invece mi abbandonai al sonno. «Non mi avevi mai raccontato questo episodio» commentò accendendo una sigaretta. «Non ne vado particolarmente fiero.» «Allora me lo riferisci per una ragione precisa.» «Sì» confermai, e lasciai passare qualche istante. La notte era luminosa attorno a noi. "Chiarore delle stelle" è una bellissima espressione che indica la luminosità e al tempo stesso l'oscurità di una limpida notte illune. Questo chiarore, però, non è dovuto se non in minima parte al brillio degli astri. Jerry una volta mi aveva spiegato che il campo gravitazionale del nostro pianeta piega attorno alla curvatura terrestre i fasci di energia emessi dal sole e fa sì che gli strati superiori dell'atmosfera, di notte, abbiano una fioca rifrazione luminosa per via delle molecole che questi raggi colpiscono e sollecitano. L'estremità della sigaretta divenne incandescente. «E la ragione sarebbe...» «Spiegare quello che provava, già allora. Jerry non è mai stato così... sfuggente... salvo quando si trattava di lei. Fin dall'inizio, capisci, ha avuto un atteggiamento differente. Doveva avere intuito che c'era qualcosa di diverso, di strano... Mi rendo conto di non essere molto chiaro.» «No, ti capisco» mormorò, voltandosi a guardare il Sound. Il funerale ebbe luogo il giovedì. Jerry chiese l'intera giornata di permesso, io invece mi limitai a mandare dei fiori e rimasi in città. Non desiderava che l'accompagnassi, lo sapevo, e non c'era un vero motivo per farlo. Più volte, in quella giornata, provai per qualche istante una sensazione di disagio, ma quando cercai di chiarirmela non seppi stabilirne il motivo. A un certo punto mi scoprii a desiderare di essere andato alle esequie. Quando tornai a casa Jerry era già rientrato. Era stanco, taciturno, e cupo nell'abito scuro con la cravatta nera. Tentai per un po' di fargli raccontare come era andata, ma capii che non aveva voglia di parlare, e quel silenzio andava benissimo anche a me. Quando si è vissuto a stretto contatto per tanti anni, come era successo a noi, il rapporto diventa una specie di matrimonio e si arriva spesso a momenti in cui è più agevole tacere sempli-
cemente. E il nostro era un silenzio amichevole. Dopo cena Jerry si versò da bere e mi lanciò un'occhiata. «L'hanno seppellito al cimitero di Clear Brook.» «Oh» mormorai. Rigirò il bicchiere tra le dita. «Ho dato disposizioni io, per la lapide. Me l'ha chiesto lei.» Fece una pausa fissando il whisky color ambra. «E mi ha chiesto anche di consigliarla sull'iscrizione da farvi incidere.» Non sapevo proprio cosa rispondere. Mi pareva coerente con l'atteggiamento della signora, quando ci eravamo presentati da lei quella domenica mattina. «Ho consigliato di far incidere solo il nome, la data di nascita e di morte, e S.T.T.L.» aggiunse lentamente. Trasalii. «Come mai?» «LeNormand non era animato da autentica fede religiosa... Era uno scienziato. E mi sono ricordato di una cosa che tu avevi detto una volta: questa era l'iscrizione abituale dei romani.» Ero davvero frastornato. Perché poi la signora LeNormand si era rivolta a Jerry per questi dettagli? Un attimo prima mi era parso naturale, in quanto si accordava con il suo comportamento quando l'avevamo incontrata, ma adesso mi pareva che l'unico elemento comprensibile in quei due episodi fosse il loro comune denominatore, la stranezza. Non era possibile capirli in termini comuni, umani. "S.T.T.L." Ricordai l'iscrizione di una pietra tombale sulla Via Appia, una lapide che una matrona romana aveva fatto erigere per il marito, T. Sulpicius Arva. Anche quella, come tante altre, recava quelle iniziali, e rammentavo di averne spiegato il significato a Jerry: Sit tibi terra levis. «Che la terra ti sia leggera» mormorai tra me. «Sì» annuì Jerry. E, dopo un momento: «Lui non era un vero credente, e questo vale anche per lei, ritengo». «Sì, posso capirlo,» osservai incuriosito «ma non era neppure un pagano; e neanche lei, immagino, per quanto abbia tutto l'aspetto di una scultura di Prassitele.» Parve un poco imbarazzato. «Be', forse non era la cosa più indicata, ma l'ho vista così orgogliosa, ferma, padrona di sé... che mi è parsa un'antica matrona romana, e da qui l'associazione di idee. Mi è sembrato molto adatto, ad ogni modo.» «Oh» mormorai di nuovo. Dunque ciò che io avevo letto come freddezza intellettuale dovuta a distacco emotivo nella reazione della signora Le-
Normand di fronte alla morte atroce del marito, agli occhi di Jerry era stata una stoica dimostrazione di forza d'animo. Be', probabilmente aveva ragione. Cominciai a vederla sotto una nuova luce e perfino a cancellare in parte l'ostilità nata in quel primo incontro. Forse non ero stato del tutto equanime. «Ma certo, è stata un'ottima idea!» esclamai. «Non avevo capito subito, ma ora è tutto chiaro.» Poi feci un'altra domanda. «Chi era presente?» Fissò il bicchiere e solo dopo una lunga pausa rispose: «Solo lei, io, Murray e il vecchio professor Lassiter, della facoltà di Matematica». Aveva un tono addolorato. «E ben pochi fiori. Un vero squallore. Ci sono rimasto male per lei.» «E cosa farà, adesso?» D'un tratto mi sentii preso da una grande curiosità. Quale altra sistemazione poteva trovarsi una donna come la signora LeNormand? Aveva dichiarato a Murray e a Parsons di non avere alcun parente, quindi non aveva una casa a cui tornare. Continuare ad abitare lì a Collegeville, date le circostanze, le sarebbe risultato pressoché intollerabile, anche se con la sua strana bellezza... Troncai subito quel pensiero. Senza guardarmi, Jerry rispose: «Le ho consigliato di andar via. Non può restare là, Bark, sarebbe un vero inferno. Ha bisogno di trasferirsi in un posto dove le sia possibile rifarsi una vita, dimenticare quanto è successo, stringere nuove amicizie, trovare nuovi interessi. Non sembra anche a te l'unica soluzione?». C'era una chiara nota di supplica nella sua voce e adesso mi fissava con aria un po' di sfida e un po' di preghiera. Naturalmente, capii immediatamente cos'altro le aveva detto: le aveva suggerito di venire a New York. Affrontai la rivelazione con tutta l'onestà possibile; a livello inconscio dovevo aver intuito fin dall'inizio l'effetto che quella donna poteva avere su Jerry e che, qualunque fosse la mia opinione su di lei, non era possibile sottrarsi all'inevitabile esito finale. Così come fin dall'inizio di una tragedia greca si capisce che gli dèi riservano un enorme carico di dolore ai protagonisti, adesso sapevo con certezza che se Jerry e la signora LeNormand si fossero innamorati non poteva esserci un lieto fine. Al di là di un certo punto la cosa non doveva più riguardarmi e l'istinto mi diceva chiaramente che quel punto era già stato superato. Per quanto drammatica potesse essere la conclusione, ormai non avevo più modo di intervenire. «Be',» osservai con tutta la noncuranza possibile. «New York sarebbe la scelta più indicata.» Annuì, quasi con gratitudine. «È appunto ciò che le ho fatto notare io.»
«E lei cos'ha detto?» «Mi è parsa d'accordo. Ha risposto che non ha ancora fatto progetti, ma che se decidesse di venire qui me lo farà sapere.» Tacque per un momento, assorto. Forse anche lui guardava al futuro e soppesava la situazione. Poi sorrise, come se gli fosse venuto in mente qualcosa di piacevole. «E quando verrà dovremo organizzarci per distrarla, farla divertire.» «Certo» convenni, pur con una riserva mentale: non sarei stato io a svagarla, ma non avrebbe mai sentito la mia mancanza finché avesse avuto accanto Jerry. Poi la conversazione si arenò. Nessuno dei due riusciva a trovare il modo di avviarla nuovamente, ma capivo che Jerry voleva dire ancora qualcosa e non riusciva a trovare le parole adatte. Presi altri due sorsi di whisky meditabondo. «Senti,» riprese infine «lo so che lo troverai assurdo, e forse è così. Ma a dirti la verità stavo chiedendomi se Grace...» Si interruppe, fissandomi. Non riuscivo a capire come mai gli venisse in mente mia madre, in quelle circostanze. Grace è una donna assolutamente deliziosa, sotto un certo aspetto. E magari sotto diversi aspetti. Anzi, è senz'altro una donna meravigliosa, che però non è nata per fare la madre. È briosa, affascinante, ancor oggi non dimostra più di trent'anni, balla magnificamente, si veste con eleganza impeccabile, ha un talento notevole per l'arredamento di una casa, legge molti più libri di quanto si potrebbe immaginare, e conduce accanto a Fred Mallard quella che per lei è l'esistenza ideale. Lui a ventun anni ha ereditato circa un milione di dollari e con molta saggezza si è allontanato dai più ardui cimenti della vita. Insieme fanno lunghi viaggi per l'America e l'Europa, ballano, bevono, fanno l'amore... sono una coppia disgustosamente innamorata... ogni anno cambiano appartamento solo per il gusto di divertirsi a metter su una nuova abitazione, collezionano piccole opere d'arte e sono i perfetti, piacevolissimi rappresentanti della classe agiata. In tutto ciò che fanno rivelano una fantasiosa vitalità che ha tutte le caratteristiche della gioventù ma che non si rivela mai invadente. La domanda lasciata in sospeso da Jerry mi aveva colto di sorpresa. Loro due erano sempre andati magnificamente d'accordo... in parte perché Grace era molto grata al padre di Jerry che mi aveva in pratica adottato sollevandola così dal problema del piccolo Berkeley Jones, evidentemente un impiccio nella sua brillante vita con Fred. Jerry, lo sapevo, le era sempre stato affezionato e negli ultimi tempi, ossia da quando era diventato abbastanza adulto da poterla apprezzare, credo che lei avesse cominciato
ad affascinarlo. Dopotutto, nel suo genere, è una donna perfetta e irresistibile e Jerry, verso il quale si sentiva indirettamente in debito e di cui non era in nessun modo responsabile, era diventato un suo protégé. Lei cercava di sollecitarne un certo senso estetico regalandogli piccole chinoiserie o magari, a Natale, una vestaglia un po' troppo ricercata; e con questi doni perseguiva, ne sono convinto, una campagna destinata a smussarne i gusti solidamente maschili. Ma come si collocava mia madre, mi chiedevo adesso, nell'idea che Jerry stava cercando di comunicarmi? Impossibile che pensasse a uno chaperon. Decisi di andare per le spicce. «Che c'entra Grace? Non capisco cosa...» «Sì, lo so,» mi interruppe in fretta «ma lei... la signora LeNormand... non conosce nessuno qui in città, e pensavo che forse Grace...» Di colpo trovai la cosa sommamente comica e sbottai in una risata, forse un po' troppo sonora e protratta. «Jerry, per amor del cielo!» riuscii a boccheggiare infine. «Grace non è certo la persona adatta. Non in questo momento, per lo meno!» Già mi vedevo Grace che organizzava austere riunioni di intellettuali che potessero dare il giusto varo sociale alla recente vedova di un professore universitario. Jerry accolse la mia reazione un po' irritato e un po' imbarazzato. «Certe volte, Bark, mi pare che sottovaluti tua madre.» «Ma no, non la sottovaluto affatto. Ma cosa potrebbe fare, in questo caso?» Ebbe una piccola esitazione. «Potrebbe discorrere con lei e, be',» il tono si fece un po' aggressivo «spiegarle certe cose.» «Spiegarle che?» Non capivo a cosa mirasse. «Quali cose?» Arrossì e distolse lo sguardo. «Come pettinarsi, ad esempio, e dove andare a scegliersi gli abiti, tutte quelle faccende da donne insomma.» Mi venne ancora da ridere, ma mi trattenni. Era una di quelle conversazioni che in apparenza possono sembrare sciocche e assurde, ma mi rendevo conto che sotto sotto stavamo giungendo a una chiarificazione, e sarebbe stato molto facile dire una parola sbagliata e con questa chiudere una porta che con tutta probabilità era meglio lasciare aperta. Cominciai ad avvedermi, inoltre, che Jerry aveva un'idea ben precisa e che l'aveva elaborata abbastanza da formarsi un piano strategico. Stavo ancora chiedendomi a cosa mirasse esattamente quando lui si alzò per dirigersi in cucina con il bicchiere vuoto in mano. «Capisci,» riprese voltandomi le spalle in modo che non potessi guardar-
lo in faccia né avere modo di ribattere «ho riflettuto su certi tuoi commenti di domenica, e sì, devo riconoscere che si veste in modo atroce.» Sparì oltre la porta della cucina. Riempii lentamente la pipa e cercai di stabilire a che punto eravamo giunti. Una cosa era chiara: non c'era niente di ipotetico nel trasferimento a New York della signora LeNormand. Doveva essere una cosa ormai ben stabilita, altrimenti Jerry non avrebbe già cominciato a far conto su Grace per trasformarla in una donna elegante. Ma questo mi mise di fronte a un'altra idea che, ad un'analisi più attenta, non mi risultava molto gradita: non era stato difficile convincere la signora LeNormand a trasferirsi a New York. O ci aveva già pensato lei, oppure Jerry era riuscito a persuaderla senza incontrare grandi ostacoli. A quanto potevo capire, non c'era ragione per cui lei non dovesse venire a stare in città, ma di certo non ce n'era nessuna per cui fosse indispensabile la sua presenza qui. Salvo... salvo che l'unico motivo per cui lei decise un simile spostamento fosse Jerry e il fugace contatto che aveva avuto con lui. E forse quello era un motivo più valido di quanto mi piacesse ammettere. L'intera situazione non mi appariva ben chiara, anzi mi rendeva inquieto e mi dava una sensazione di ansiosa incertezza, che però non era in relazione col passato. Con ciò voglio dire che non stavo pensando alla morte di LeNormand, all'orrore del suo corpo divorato dalle fiamme su quella sedia, sotto la grigia cupola dell'osservatorio. La mia apprensione si riferiva piuttosto al futuro. La fine di LeNormand era qualcosa che restava in ogni caso inspiegabile. Già allora ero convinto che la polizia non ne sarebbe venuta a capo a meno che non ne avesse appurato la causa, e mi domandavo se la signora LeNormand non la conoscesse. Se così era, non doveva averne fatto parola con nessuno perché, almeno stando ai giornali, le indagini fino ad allora non erano giunte a nulla. Dunque era evidente che sarebbe venuta a New York, altrimenti Jerry non avrebbe mai tirato in ballo Grace e il suo possibile compito di "civilizzatrice". Per qualche istante lasciai che la mia mente immaginasse il probabile esito di un simile esperimento e il tracollo ultimo dei briosi, superficiali tentativi della povera Grace (buona parte dei suoi tentativi erano briosi e superficiali, anche se di solito efficaci) di trasformare in un gioiello perfetto... cosa? Una delle più belle donne del mondo. Grace, a mio parere, si sarebbe trovata di fronte a un compito superiore alle sue forze e non sarebbe riuscita a ottenere nulla. Solo in seguito mi sarei reso conto di quanto mi fossi sbagliato, sotto questo aspetto.
Jerry rientrò dalla cucina. «Senti,» attaccai subito «smettiamola di menare il can per l'aia e veniamo al dunque. Quando arriva a New York la signora LeNormand?» «Domani.» Stava per sfuggirmi un "sant'Iddio", ma riuscii a trattenermi. Lo stupore durò solo un istante, ma un gelido senso di apprensione rimase con me tutta la notte. Tutto stava accadendo troppo in fretta, troppo precipitosamente. Dall'ambito delle cose inattese e gradevoli eravamo passati in una sfera in cui gli avvenimenti risultavano così inusitati che il loro effetto cumulativo diventava terrificante. 7 Dettagli significativi Ho sempre avuto l'impressione, ripensando alle settimane intercorse tra l'arrivo di Selena LeNormand a New York e il suo matrimonio con Jerry, che in quel periodo non fosse accaduto nulla di importante. Eppure tanti piccoli dettagli sono forse più significativi di quanto mi sia parso lì per lì. Adesso sono convinto che il mio stato psicologico mi abbia reso cieco a parecchie cose che una persona più sensibile avrebbe colto e sommato. Jerry era innamorato. Per lui Selena era l'unica donna al mondo e, esaminando la splendida bellezza di lei, lo si poteva comprendere. Senza dubbio vi sono innumerevoli motivi più validi della bellezza per amare una persona, ma non mi risulta che una bella donna non abbia mai fatto innamorare di sé un uomo. Se fin dal nostro primo incontro non avessi provato nei suoi confronti una strana avversione sfumata di diffidenza, sono certo che anch'io me ne sarei innamorato. C'erano momenti in cui, soprattutto dopo che Grace ebbe risolto la questione del vestiario, solo a guardarla mi si mozzava il fiato. Fin dall'inizio fu evidente che era attratta da Jerry. Quando li vedevo insieme non riuscivo a stabilire se lo amava, ma ricordando la trasformazione del suo volto la prima volta che l'aveva guardato, nella villetta di LeNormand a Collegeville, non ho mai dubitato che Jerry avesse su di lei un effetto profondo, anche se non me ne era ben chiara la natura. Sono convinto che fin da allora avesse deciso di sposarlo. Uno dei motivi di questa mia persuasione è che non si è mai minimamente interessata ad altri uomini e, giudicandola in base alle altre donne, come facevo a quei tempi, avevo concluso che doveva essere innamorata
di Jerry. Adesso invece ritengo che volesse sposarlo per due diverse ragioni. La prima era che lui poteva darle qualcosa che nessun altro sarebbe stato in grado di offrirle. Quando erano insieme gli si affidava completamente, come a un connazionale incontrato in terra straniera. E questo era abbastanza naturale se si tiene presente che Jerry era stato praticamente l'unico amico di LeNormand. La seconda ragione, per quanto possa sembrare perfino ridicolo dirlo in modo così melodrammatico, era che l'idea di non sposarlo la spaventava. Jerry rappresentava la miglior alternativa che avesse e lui poteva capirla, così penso adesso, più di chiunque altro. E proprio in questo risiedeva, per entrambi, il pericolo più grave. Naturalmente adesso vedo il loro rapporto in modo molto più chiaro e definito di quanto non mi risultasse allora. Le settimane in cui la loro relazione sentimentale, se così vogliamo chiamarla, andò evolvendosi furono per me molto difficili. Mi era impossibile provare simpatia per Selena, e Jerry se ne rendeva conto. Questo rendeva tesi e disagevoli i nostri rapporti, eppure non riuscivamo a parlarne apertamente. Io dovevo mostrarmi lieto della sua felicità, e facevo fatica, mi sentivo un ipocrita. Gli unici a rendersi conto di come stavano le cose credo che fossero i nostri familiari, ma con loro non potevo parlare perché sarei apparso meschino ed egoista se avessi manifestato i miei dubbi sul conto di Selena. Più volte ebbi la tentazione di confidarmi con Grace, ma c'era di mezzo la mia lealtà nei confronti di Jerry. La soluzione che trovai non fu forse la più saggia possibile: mi immersi nel lavoro e per il resto mi limitavo a dormire, mangiare e bere. E bevevo parecchio. Mi sforzavo in tutti i modi di nascondere la mia infelicità e mantenere un comportamento accettabile. Cercavo di pensare il meno possibile. Il risultato fu che, tra l'alcool e quel volontario vuoto mentale, non riuscii a cogliere il vero significato di diversi episodi. Il primo si verificò pochi giorni dopo l'arrivo di Selena LeNormand a New York. Aderendo alla richiesta di Jerry, avevo presentato il problema a Grace. Mia madre è, a suo modo, una persona molto acuta e, quando le esposi la situazione spiegando cosa le si chiedeva, credo che abbia percepito il mio stato d'animo e so che si era preparata a qualcosa di straordinario. Jerry e io eravamo andati a trovarla in quel paradiso dell'arredatore all'ultima moda in cui lei e Fred abitavano. Le pareti del soggiorno erano in parte verde foglia, in parte di un azzurro indaco. Divano e poltrone erano rivestiti di un tessuto color argento opaco, e in una nicchia a un'estremità del locale c'era un pezzo di Brancusi dalla linea affusolata che, grazie a u-
n'illuminazione indiretta, dava l'impressione di una stella al tramonto. Era un locale splendido, pareva quasi un allestimento teatrale e tutti e due restammo a bocca aperta. Si erano trasferiti lì solo da un mese e, per quanto fossimo abituati agli appartamenti di Grace, questo ci fece colpo ancor più degli altri. «Be', mia cara,» commentai «questa è senz'altro una delle tue più nobili imprese.» «Sì, non è male, vero?» osservò sorridendomi. «Ci sono sempre piaciute queste tinte e ci proponevamo prima o poi di adottarle per una stanza.» Jerry si guardava attorno con aria di divertito interesse; osservò il Brancusi ed ebbe un breve sorriso, poi sedette un po' esitante a un'estremità dell'enorme divano. Grace colse la sua occhiata. «Spero che tu approvi, Jeremiah» disse col tono della signora che, a un tavolo di bridge, chiacchiera per nascondere l'impasse che vuole tentare. Lui accennò alla nicchia. «Bello quell'affare. Mi piace.» Grace rimase un po' sconcertata: evidentemente si aspettava una reazione polemica, e Jerry invece mostrava di apprezzare proprio l'oggetto che rappresentava il massimo dell'audacia. Ma subito si riprese. «Sapevo che avrebbe incontrato i tuoi gusti, tesoro.» «È quasi matematica pura» aggiunse Jerry, e quello era il massimo degli elogi, venendo da lui. Grace si accomodò a sua volta, con gesto un po' brusco forse, all'altra estremità del divano e accese una sigaretta... per fortuna non di quelle sue speciali, d'importazione... e annunciò: «La tua amica ha telefonato pochi minuti fa. Ha una bellissima voce». «Vero?» rispose lui in tono indifferente. Grace gli rivolse un rapido sorriso e accavallò le gambe. «Il povero Fred ha dovuto uscire, stasera. C'è in ballo non so cosa al Brook Club.» «Una bicchierata, probabilmente» insinuai io. Ma loro non raccolsero. «Ad ogni modo credo che per una sera possiamo fare a meno di lui» concluse Grace. Evidentemente non intendeva lasciar passare inosservata la cosa: si era volutamente liberata di Fred per quell'occasione, ma voleva che Jerry se ne rendesse conto e apprezzasse. Lui, cosa abbastanza insolita, reagì alla bottarella. «Grazie» disse, compito. Mi misi a ridere e Grace ebbe una smorfia di finta irritazione. «La signora ha detto che stava per arrivare» aggiunse poi.
«Ti sono molto grato» mormorò Jerry, un po' a disagio. «Sciocchezze. Sono lusingatissima invece: due tributi al mio buon gusto, da te, in una settimana!» Accennò con la sigaretta al Brancusi. «Ma ti confesso» riprese facendosi seria «che non sono del tutto tranquilla per quest'altra faccenda, Jerry.» Lui la guardò, calmo. «Lo so. Ti sono venuti degli ' scrupoli. Pensi che forse dovresti informare mio padre.» «Santo cielo, no!» Sembrava davvero trasecolata. «Non si tratta di questo. Ma...» ebbe un lieve sospiro, così ben dosato che non riuscii a capire se fosse voluto o no «... non mi sembra opportuno che, giovane come sei, cominci a pensare con tanta serietà al tuo futuro, al matrimonio. È lo sbaglio che ho commesso io e adesso mi rendo conto che avrei dovuto aspettare, e concedermi ancora qualche anno di vita spensierata.» «Ci ho già riflettuto» dichiarò cocciutamente lui. «E sei deciso a seguire questa strada irragionevole?» Grace lo guardò inarcando un sopracciglio. «Sì» confermò Jerry. «E va bene. D'accordo. Farò la mia parte... per quel che posso. Adesso raccontami qualcosa di questa ragazza. Bark è un disastro quando si tratta di descrivere le persone.» Mi ero sforzato di fornirle un'immagine particolareggiata, anche se non entusiasta, di Selena. La mia prevenzione era in parte affiorata e Grace, artigiana coscienziosa, voleva avere i particolari direttamente dall'ideatore. Proprio in quel momento squillò il campanello e Grace si alzò per andare ad aprire. Jerry, seduto sul divano, cominciò a sfregarsi i palmi delle mani fissando la moquette grigio perla. Io mi alzai, incerto, ficcandomi le mani in tasca, e dopo un attimo anche Jerry si levò in piedi accostandosi al caminetto. Sentimmo la voce briosa di Grace che diceva qualcosa come "mia cara, che piacere conoscerla" e la voce sommessa, perfettamente modulata di Selena che rispondeva. Poi comparvero nel soggiorno e rivedendola sentii un brivido giù per la schiena. Alta, — superava Grace di tutta la testa — avanzava verso di noi con il passo lungo e sciolto di certe contadine italiane. Studiai il suo volto chiedendomi come mai non riuscisse a piacermi e cercando di cogliere nella sua espressione qualcosa che mi permettesse di definire quello che provavo. Ma non scorsi nulla, o quasi nulla. Mi parve che la bocca fosse deliberatamente piegata in un sorriso, e gli occhi circospetti. Con un solo sguardo, me ne accorsi, aveva colto tutti i particolari della stanza, ma non
ebbe alcuna reazione visibile. Questa volta indossava un vestito da sera nero, e il candore argenteo delle braccia, delle spalle e della gola era indimenticabile. Ma l'abito era spaventoso. Vidi Grace serrare brevemente le labbra mentre lo osservava. Tanto per cominciare era un capo da pochi soldi e un po' troppo corto per lei. Ma, soprattutto, era estremamente volgare: tutto coperto di grossi lustrini neri, con una scollatura troppo profonda, e non le si addiceva affatto. Per di più portava in vita una specie di cintura a treccia dorata, chiusa sul davanti da una massiccia fibbia in cui era inserito un pezzo di vetro rosso che, se fosse stato quel che voleva imitare, sarebbe valso un piccolo patrimonio. Questa volta osservai meglio le sue mani. Le dita erano lunghe, ben modellate, e davano l'impressione di possedere una grandissima forza. Mani bellissime ma, per quanto scrupolosamente pulite, per nulla curate. Le unghie erano corte, prive di smalto. Ci accomodammo e Grace rivolse a tutti noi un sorriso rassicurante. Jerry e io sbirciavamo di sottecchi Selena, anche se, sospetto, con espressione molto diversa. Grace guardava Jerry come se non se la sentisse di ispezionare a sua volta l'ospite. «Una stanza molto interessante» commentò Selena. E a giudicare dal tono avrei detto che intendesse quelle parole nel loro significato letterale: quella stanza la interessava. «Sono lieta che le piaccia.» «Grace,» intervenni io senza gran tatto «ci sa fare con gli arredamenti. Ogni anno cambia casa solo per il gusto di realizzare nuove idee.» Ricordo ancora il tono fatuo della mia voce mentre tiravo fuori quella brillante uscita. Con mio stupore, Selena si rivolse a me. «Le cose nuove sono sempre un'avventura.» Grace ebbe un piccolo sussulto di compiaciuta sorpresa, ma l'osservazione successiva mandò in fumo le sue speranze. Selena si era girata e contemplava il Brancusi, che si trovava ad almeno sei metri da noi. Splendeva nella sua nicchia: un cilindro di lucido ottone che si assottigliava alle due estremità: una forma rigorosamente simmetrica. «Ah!» La voce di Selena era piena di autentico rammarico. «Peccato che non sia perfetto.» Jerry e Grace si agitarono. «Ma come...» prese a dire mia madre. «Che
cosa...?» domandò contemporaneamente Jerry. Mi parve l'occasione migliore che potessi avere e non me la lasciai sfuggire. «Se fosse perfetto non sarebbe bello» le feci notare prontamente. A me quell'oggetto pareva una semplice forma geometrica, lo ammetto, ma dovevo scoprire come lei reagiva a un'aggressione. Jerry si accigliò come se non approvasse le mie parole, ma Selena si volse verso di me con quello che mi parve autentico interesse. «Allora secondo lei è bello» disse col tono di chi fa un'osservazione incontrovertibile. Grace ebbe una risata disinvolta, e probabilmente sincera, si alzò e mi fece un cenno. «Bark e io andiamo a preparare gli aperitivi. Ho bisogno di aiuto per il ghiaccio, è sempre una dura lotta tirarlo fuori.» Una scusa banale e non all'altezza di Grace, ma qualcosa ci voleva. Lasciammo soli Selena e Jerry. Quando arrivammo nell'avancucina Grace si appoggiò alla credenza e mi chiese fissandomi: «Quanti anni ha quella donna?». Era una cosa che non mi ero mai domandato. La riesaminai mentalmente: era senz'altro giovane. Ma che età hanno le ragazze greche nei bassorilievi del Partenone? «Oh,» risposi a caso «una ventina, direi.» «Davvero?» Mi accorsi che era sorpresa. «Non ti è abbastanza simpatica da spingerti all'indulgenza,» osservò poi con un sorriso «ma io le darei almeno trentacinque anni.» Trentacinque! Non riuscivo a crederci, ma Grace era sempre molto sagace nel valutare le donne. Mentre passavo le due vaschette del ghiaccio sotto il getto dell'acqua, passai di nuovo al vaglio l'immagine di Selena. Grace mi osservava con vivo interesse. «Non è possibile» dichiarai infine. «Non ha neanche una ruga in faccia.» Grace annuì. «Sì, tesoro. Ma gli occhi.» «Che hanno i suoi occhi?» «Be',» rispose lentamente «non sono gli occhi di una. ragazza che ha recentemente perso il marito in circostanze spaventose. Anzi, non sono affatto gli occhi di una ragazza.» «D'accordo. Non sono gli occhi di una ragazza.» «Sei sempre il solito» sbuffò lei. «Non capisco come faccio ad avere un figlio così ottuso. Tuo padre era una persona amabilissima.» Finalmente anche gli ultimi riottosi cubetti di ghiaccio cedettero, e mentre li passavo nel secchiello ripresi con finta indifferenza: «Ancora non mi hai spiegato come mai i suoi occhi ti dicono che ha trentacinque anni».
Grace alzò le spalle. «A te bisogna sempre spiegare tutto. Osservali bene, la prossima volta. Sono saggi, freddi e saggi.» Per qualche istante non aggiunse altro, poi mi posò una mano sulla spalla. «Non è il tipo che apprezzo di più, Bark, ma riconosco che è molto bella. Farò del mio meglio per amor tuo e di Jerry.» Mi aveva sempre irritato quando si esprimeva in quel modo; era quasi una posa in lei, come tutto ciò che diceva e faceva. La fissai con durezza. «Stammi a sentire...» ma mi interruppi. «Lo so, lo so, non metterti a fare i capricci, adesso. Non mi è molto simpatica, come non lo è a te del resto, ma...» mi guardò con occhi fermi in cui si scorgeva però un certo scintillio affettuoso «tutti e due dobbiamo molto a Jerry, e io ho intenzione di accontentarlo. E comunque ormai ha preso la sua decisione.» Oltrepassò la porta con il vassoio dei bicchieri lasciando che la seguissi con il secchiello del ghiaccio. Il resto della serata si trascinò stancamente. Io cercai di stabilire se Selena potesse davvero avere gli anni che le attribuiva mia madre, ma non ci riuscii. La conversazione era faticosa, irreale; Grace faceva del suo meglio per ravvivarla, ma in un modo o nell'altro tutti gli argomenti proposti cadevano nel vuoto. Accennò all'ultima commedia di Noel Coward, ma pareva che Selena non ne avesse mai sentito parlare. Io tentai con il football e la letteratura, ma Selena non rivelò il minimo interesse. Se Jerry fosse stato tipo da tradire il proprio imbarazzo, quella sarebbe stata la volta buona; e io lo conoscevo abbastanza da sapere che era profondamente a disagio. Assecondava avidamente i tentativi di Grace, e tutti e tre bevemmo parecchio senza rendercene conto. Quanto a Selena, mi ero chiesto che effetto potesse farle l'alcool. Assaggiò il suo whisky e soda, quasi con curiosità, senza manifestare né piacere né disgusto. In seguito, quando noi ce n'eravamo scolati già un paio, bevve circa la metà del suo primo bicchiere. Subito dopo lo depose sul tavolo dandogli una breve occhiata che mi parve di stupore, e per tutto il resto della serata non lo toccò più. Grace superò se stessa. Con l'abilità e il tatto di un fotografo che riesce a mettere in posa un gruppetto di bambini riottosi, seppe portare il discorso sulla moda invernale e domandò a Selena che ne pensava di certi nuovi cappelli. Selena rifletté per qualche istante. «Non credo di averli notati» rispose infine. «Ma, mia cara,» esclamò prontamente Grace «non è possibile! Sono assolutamente l'ideale per lei. Se permette l'accompagno dalla modista che
disegna tutti i miei cappelli. E fa solo creazioni esclusive.» Jerry arrivò subito di rincalzo. «Sai, credo che Grace abbia proprio ragione. Ti starebbero deliziosamente.» Selena gli lanciò un rapido sguardo e nei suoi occhi c'era, se non calore, quanto meno una certa animazione. Poi si rivolse a Grace. «Molto gentile da parte sua, signora Mallard. Le sarei davvero grata se volesse aiutarmi. Temo di non essermi mai curata molto del vestiario.» Di fronte a una simile dichiarazione non c'era molto da dire. Jerry arrossì un poco e io fissai un angolo della stanza cercando di mantenermi impassibile. Grace fece finta di nulla ma quel che disse poi aveva, secondo me, uno scopo ben preciso e una vena di perfidia. «Ma naturale,» osservò in tono comprensivo «alla sua età può anche non preoccuparsene. Ma quando si arriva alla mia...» Selena l'osservò per qualche momento; io quasi mi aspettavo che chiedesse a Grace quanti anni avesse e cominciai a sperare che la terra mi inghiottisse. Invece sorrise. «Deve scusarmi. Purtroppo non sono ancora abituata a...» e si interruppe bruscamente. Era la prima volta che le sentivo lasciare a mezzo una frase e l'effetto fu curiosamente piacevole. La sensazione di disagio che mi aveva procurato fin dall'inizio si allentò un poco. Grace si addolcì immediatamente e si mise a chiacchierare del più e del meno; così la serata procedette. Prima che ci congedassimo, le due signore si diedero appuntamento per l'indomani e io capii che la trasformazione di Selena era ormai garantita. Quando Grace si fosse messa all'opera, non avrebbe abbandonato la partita fino a che non l'avesse vinta. Jerry, chiaramente soddisfatto che lo scopo recondito di quella serata fosse stato raggiunto, lanciò un'occhiata di gratitudine a mia madre. Ma, una volta fissato quell'incontro, era evidentemente desideroso di andarsene e così ancor prima delle dieci salutammo Grace. Ci fermammo sotto il portone d'ingresso del palazzo. «Accompagno io Selena a casa, non ti scomodare, Bark. E grazie di tutto. Tua madre è una delle mie più care amiche e ci tenevo a farle conoscere Selena.» «Anche a lei ha sicuramente fatto piacere» mormorai un po' goffamente, e poi: «Lascio accesa la luce in soggiorno e non metto il catenaccio». Mi rivolsi a Selena, ferma sul bordo del marciapiede, nella fioca luce artificiale di una strada di New York, di notte. Alta, eretta e bellissima, tanto da farmi sentire un nodo in gola; e la detestavo, e avevo paura di lei. «Buonanotte, signora LeNormand.»
Volevo aggiungere che ci saremmo rivisti, o un'altra frase qualsiasi, tanto per spezzare la tensione di quel momento, ma non riuscii a dir altro. Mi guardò ed ebbi la sensazione che tutto ciò che pensavo e provavo mi si leggesse chiaramente in faccia. Mi tese la mano. Era fresca, e la stretta decisa. «Buonanotte, signor Jones. Penso che ci rivedremo presto. Sua madre è stata molto gentile e mi sarà di grande aiuto, ne sono certa.» Un taxi si accostò al marciapiede e loro due vi salirono. I rossi fanalini di coda si allontanarono nella via deserta. Io rimasi fermo dov'ero ripensando a quelle sue ultime parole. Aveva colto e messo in luce il vero obiettivo di quella serata con schiettezza sconcertante. «Solo inezie, come vedi» dissi al dottor Lister. «Magari non significano nulla.» Riempì nuovamente i nostri bicchieri; la bottiglia era già per buona parte vuota ma noi non risentivamo dell'effetto dello sherry. Bere era un rituale tra gentiluomini. Forse attutiva la singolarità di quella nostra conversazione e la facilitava. Presi il mio calice e sorseggiai lentamente. «In ciò che mi racconti» commentò meditabondo «vi sono molte cose che ho sempre desiderato sapere. Non possiamo ancora determinare se sono importanti o no.» «Abbiamo discusso tante volte degli elementi più rilevanti... la morte di LeNormand, il matrimonio di Jerry e Selena. La risposta va ricercata, se mai riusciremo a trovarla, negli episodi secondari, nelle sfumature.» «Sì,» convenne «hai ragione. Continua, se non sei troppo stanco.» Non ero stanco: avevo ormai superato la fase in cui si avverte lo sfinimento. Ma avevo paura. Già mi si andava delineando nella mente il genere di storia che avrei dovuto raccontare, e quel che riuscivo a intravvedervi andava oltre i limiti della ragione. La trasformazione di Selena, nelle due settimane che seguirono, fu strabiliante. Era chiaro che stava lasciandosi risolutamente alle spalle il passato, che non intendeva portare il lutto né materialmente né metaforicamente. Il fatto che fosse disposta a recarsi con Jerry dappertutto, a così breve distanza dalla morte di LeNormand, mi sorprese, anche se ero più imbarazzato per lui che critico nei confronti di Selena. Quanto a Grace, non faceva commenti, almeno con me, ma riplasmò Selena da capo a piedi, ed era straordinario vedere la sua bellezza venire alla luce giorno dopo giorno; al-
l'inizio il suo modo di vestire mi aveva sempre dato un fastidio profondo, adesso invece non si notava più ciò che indossava. Si riusciva a vedere solo lei. Le innovazioni di Grace ebbero un altro curioso effetto. Aveva condotto Selena dal suo parrucchiere personale e questi aveva compiuto un lavoro magistrale. Anche un leggero trucco e l'opera della manicure avevano apportato un sottile cambiamento. Ma c'erano altre cose. Ho già accennato alla sua andatura, a lunghi passi sciolti. Questi a poco a poco si accorciarono e, per quanto non perdesse affatto grazia, il suo modo di camminare e di muoversi divenne molto più simile a quello tipicamente femminile. Dapprima non gesticolava mai mentre parlava; ora cominciò pian piano ad accompagnare le sue osservazioni con un cenno della mano o un piccolo movimento della bellissima testa. Guardandola, una sera, mi accorsi che c'era qualcosa di familiare nel suo nuovo modo di muoversi; capii quasi subito che erano i gesti di Grace, perfettamente imitati e usati proprio nelle stesse circostanze. Perfino il suo modo di camminare... La mia iniziale sensazione, che cioè Selena fosse una statua diventata cosa viva, a poco a poco si dissolse. Non la vedevo più come una specie di inquietante Galatea e, per quanto la mia intima diffidenza nei suoi confronti non si smussasse, mi scoprii a discorrere con lei con sempre maggior naturalezza, come con una donna qualsiasi e anzi, a considerarla non solo una donna ma la futura moglie di Jerry. A quel punto non c'erano più simulazioni tra me e lui. Jerry non mi diede mai un annuncio formale, ma ad un certo punto ci trovammo» a discutere su quale potesse essere la data più prossima e più decorosa per le nozze. Quando, come succedeva a volte, uscivo a trascorrere una serata con loro, facevo piccoli accenni scherzosi, più o meno velati, al loro imminente matrimonio, e questo mi rassicurava sul fatto che stavo prendendo la cosa molto bene. Jerry accettava le mie osservazioni per quel che apparivano, ma ci fu almeno un'occasione in cui Selena, dopo una mia battuta in proposito, mi guardò gravemente e osservò: «Sei una persona generosa, Bark». Ebbi la decenza di vergognarmi dì me stesso. Una sera, all'inizio di dicembre, decidemmo di andare a teatro. Era una di quelle serate di primo inverno, quali ne capitano ogni tanto a New York, tiepide e profumate come a maggio e che quasi non richiedono il soprabito. Bevemmo due o tre bicchierini a casa nostra... o meglio, li bevemmo Jerry e io mentre Selena si limitava a mangiare qualche tartina. Dopo quel primo whisky, da Grace, non l'avevo mai più vista toccare alcolici.
Quando uscimmo decidemmo di fare quattro passi a piedi prima di prendere un taxi. La sera era dolce e noi ci avviammo a passo tranquillo, chiacchierando, lungo le strade fiancheggiate da vecchie costruzioni di arenaria e mattoni. Mi sentivo molto disteso. A un tratto una ragazzina discese i gradini d'ingresso di una casa poco avanti a noi, e si avviò lungo la strada, precedendoci. Quanto accadde poi è cosa da nulla, eppure mi turbò profondamente e, così come molte altre, illustra quell'aspetto di Selena che raggelava i miei occasionali sforzi per farmela piacere. La ragazzina doveva avere circa sedici anni: indossava un abito da ballo, scarpe a tacco alto e un mantello da sera chiaramente nuovissimo. Jerry e io l'osservavamo, quasi distratti, e giungemmo contemporaneamente alla stessa conclusione: era evidentemente la prima volta che si metteva un "vero" abito da sera e i tacchi alti. Camminava molto dignitosamente, senza guardarsi attorno; da tutto il suo atteggiamento — il passo controllato, l'attenzione con cui posava a terra i piedi chiusi nelle scarpine argentate — era chiaro che si sentiva non solo molto adulta, ma una vera signora, anzi addirittura una diva. Però quando arrivammo a un tratto di strada un po' più buia il suo modo di camminare cambiò improvvisamente: passò sul bordo del marciapiede e cominciò a percorrerlo quasi di corsa, con brevi passetti irregolari, le braccia allargate per tenersi in equilibrio. Poi riattraversò il marciapiede, sempre correndo, e sparì su per i gradini di un'altra casa. Dall'interno giungeva una musica da ballo trasmessa dalla radio. Jerry e io ci guardammo sogghignando e poi scoppiammo a ridere. Eravamo molto divertiti, non c'era bisogno di commenti. «Grandioso!» si limitò a dire lui. Selena passò lo sguardo dall'uno all'altro per un momento. Stavamo ancora ridacchiando. «Ma cosa c'è di buffo?» Le diedi un'occhiata, ma sembrava perfettamente seria. «Quella ragazzina» spiegai. «Oh.» E poi: «Ma che c'era da ridere? La conoscete?». «No, no. Ma indossava il suo primo abito da sera, e si dava un gran contegno, e poi non ha resistito alla tentazione di camminare lungo il bordo del marciapiede, come i bambini.» «E come fai a sapere che quello era il suo primo abito da sera?» «Santo cielo,» esclamò Jerry «anche tu sei stata una ragazzina, no?» Fu la sera in cui ricevetti la lettera di Parsons. Quella volta Jerry e io rientrammo insieme dopo aver accompagnato Selena al suo albergo. L'addetto all'ascensore me la consegnò mentre salivamo e non appena vidi il
timbro di Collegeville me l'infilai in tasca. Non avevo idea di chi potesse scrivermi da laggiù, ma ebbi improvvisamente la sensazione che si trattasse di qualcosa di sgradevole, e il fatto che fosse un espresso dimostrava che era importante. La misi sul cassettone e aspettai finché non fui in pigiama. Jerry lanciò un paio di occhiate alla busta, ma non aprì bocca. Poi fu pronto ad andare a letto e a quel punto non mi restava che aprirla e leggere. L'indirizzo scritto a macchina non mi suggeriva nulla. Stracciai la busta. Eg. Sig. Jones, certo la stupirà che io comunichi con lei in questa forma, ma dato che non si tratta di cosa strettamente ufficiale, preferisco scriverle. Desidero chiederle un favore: le sarebbe possibile venire qui a Collegeville un giorno di questa settimana? Come probabilmente immagina sto ancora lavorando al caso che ben conosce e desidererei avere la sua collaborazione. C'è un interrogativo a cui ritengo che lei possa rispondere, e poiché desidero che la cosa resti tra noi la prego di venire solo. Salvo sua comunicazione contraria, attendo il suo arrivo qui il 9 p.v., con il treno delle 11. Mi troverà al Comando di Polizia. Cordialmente suo Alan L. Parsons Capo della Squadra Investigativa Jerry, che mi aveva tenuto d'occhio mentre leggevo, quando ebbi terminato chiese: «È morto qualcuno che ti ha lasciato erede di un milione di dollari?». «No» risposi con finta indifferenza. «Solo una faccenda di cui dovrò occuparmi in questi giorni.» Ma rimasi sveglio a lungo, riflettendo. Mi dispiaceva molto mentire con Jerry, nascondergli qualcosa, ma ancor più inquietante era la conclusione cui ero giunto: Parsons doveva avere scoperto qualcosa, magari un indizio. E se desiderava che mi recassi da lui da solo, ciò significava che questo nuovo elemento doveva riguardare Jerry. O forse me. Magari era venuto a sapere che era Jerry a scrivere a macchina tutte quelle lettere di LeNormand destinate agli altri astronomi, e voleva consultarmi in proposito, privatamente. Ma non mi pareva del tutto logico. Esaminai tutte le possibilità che mi vennero in mente. Ebbi persino la tentazione di svegliare Jerry e
raccontargli tutto, ma poi capii che non ne avevo il diritto. «Ehi, Bark» la sua voce mi giunse nel buio, dall'altro lato della camera. «Stai dormendo?» «No. Che c'è?» «Volevo dirti una cosa. Selena e io ci sposiamo il mese prossimo. Avremmo deciso per il dodici.» «Oh, magnifico. Sei un uomo fortunato.» Speravo che il mio tono fosse convincente. «Voglio chiedere a papà di farmi da testimone, naturalmente, e sarà una cerimonia molto intima.» «Certo.» «Ci sarai anche tu, spero.» «S'intende.» 8 Interrogativi senza risposta Quello delle undici è un treno comodo: percorre il tratto New YorkCollegeville in meno di due ore. Seduto nella carrozza fumatori, osservavo i chilometri scorrere al di là del finestrino e cercavo di mettere a fuoco qualcosa che era accaduto la sera prima. Dopo aver ricevuto la lettera di Parsons, avevo chiesto in ufficio una giornata di permesso, per il nove. Me l'avevano accordata senza fare domande. Poi mi era venuto in mente che, dato che il nove non avrei dovuto presentarmi al lavoro, la sera dell'otto sarebbe stata ideale per uscire a divertirci un po'. Così l'avevo proposto a Jerry, Selena e Grace. Anche se indirettamente, ero in debito verso Grace, e poi volevo dimostrare a Jerry che non nutrivo alcun rancore ed essere il primo a festeggiare la data fissata per le nozze. Tutti e tre avevano accolto con piacere l'idea e avevamo stabilito di ritrovarci a casa nostra alle sette. Mentre ci vestivamo, Jerry e io ci concedemmo un paio di cocktail, tanto per assicurarci che non erano avvelenati. Poco dopo arrivò Grace, in abito rosso scuro dalla gonna ampia, con sandali dorati. Aveva cambiato pettinatura ed era splendida. Appena la vidi capii che era decisa a non sembrare la madre di chicchessia. Forse, sotto sotto, voleva anche mostrarsi degna rivale di Selena, e se così era, aveva saputo scegliere il tono giusto. Erano tanto diverse che a nessuno sarebbe venuto in mente di metterle a confronto.
Di colpo l'apprezzai moltissimo, ero felice di vederla e i miei sentimenti erano addirittura poco filiali. Quando la baciai mi accorsi che aveva un nuovo profumo. «In tutta sincerità, potresti anche farmi venire il complesso d'Edipo!» Si mise a ridere e osservò: «Fred ti considera un essere abbietto perché non hai invitato anche lui». «Ma questa non è la sua sera al club?» «Sì, ma non aveva molta voglia di andarci.» «Ci credo, dopo averti vista vestita così.» Si accostò al vassoio e ne prese un cocktail, poi si girò a mezzo rivolgendomi un sorriso malizioso. «Che fantasia ti ritrovi!» Replicai che non occorreva nessuna fantasia, in quel caso, e facemmo un piccolo brindisi. Toccava a Jerry occuparsi della cucina, quella settimana, ed era di là a preparare qualche stuzzichino. Tra i miei precedenti cocktail, l'affascinante presenza di Grace e la convinzione che proponendo quella serata stavo facendo qualcosa di simpatico, una volta tanto, cominciai a sentirmi di ottimo umore. «A proposito,» domandai «che profumo ti sei messa? È delizioso.» «Santo cielo, come sei galante tesoro mio. Si chiama Adieu Sagesse.» «Dovresti regalarne una bottiglia a Selena.» Mi mostrò la punta della lingua facendo "miaaau" come un gattino lamentoso ed entrambi scoppiammo a ridere. Jerry comparve con il vassoio delle tartine e disse a Grace che era travolgente. Bevemmo di nuovo tutti e tre, poi Jerry annunciò che lui e Selena si sarebbero sposati il dodici di gennaio. Grace lo fissò scrollando il capo, incredula. «Jeremiah, da piccolo eri il ragazzino più timido che abbia mai incontrato. E adesso addirittura ti butti a capofitto nel matrimonio. Intendi sposarla come si usa solitamente o conti di arrivare in groppa a un candido destriero, prenderla tra le braccia e galoppar via?» Jerry arrossì. «Grace, spero non sia questa l'opinione che hai di me.» «No, certo che no. Sono felicissima, naturalmente. Selena è la donna più bella che abbia mai visto e tu sei fortunato. Anche lei, del resto.» Lui si colorì di nuovo. «Ti prego, non farmi arrossire.» «Ma lo fai in modo così carino.» «Sei proprio impossibile, Grace» rise lui. «Non proprio, ma ormai è difficile che cambi. Devi accettarmi come sono.» Poi si fece seria. «E sono anche abbastanza sciocca da andare a tocca-
re tasti delicati, Jerry. L'hai detto a tuo padre?» «Sì, gli ho telefonato ieri sera.» «E come l'ha presa?» Jerry parve un po' a disagio. «Ha detto che ne avremmo parlato questo fine settimana: ci ha invitati ad andare a trovarlo.» Grace si mise a ridere. «Il famoso riserbo dei Lister si estende alle linee telefoniche! Be', non hai da preoccuparti. Lascia fare a Selena.» Suonò il campanello d'ingresso: era lei. Grace ebbe un sorriso compiaciuto osservandola, e intuii che stava congratulandosi con se stessa per l'abito di Selena. E ne aveva tutte le ragioni: era un capolavoro. Di un verde argentato, come quello delle foglie di pioppo, e di taglio così semplice e austero da sembrare quasi ostentato. Jerry la fissava con adorazione e non potevo dargli torto. Dopo i saluti proposi un brindisi alle future nozze. Selena, al solito, non bevve e rimase a guardare con un lieve sorriso noi tre che toccavamo i bicchieri. Ma fu un momento molto lieto, più di qualsiasi altro abbia mai trascorso con Selena prima e dopo di allora. Al dito portava un anello: uno smeraldo quadrato che ardeva di luce verde. Uno di quei gioielli che si vedono esposti, in splendido isolamento, nelle vetrine di Tiffany. Ci furono molte esclamazioni ammirate. «Santo cielo, mia cara,» osservò Grace «se qualcuno dei miei corteggiatori mi avesse offerto un simile anello di fidanzamento, l'avrei sposato a tutti i costi all'istante, per timore che potesse sfuggirmi.» Selena parve contenta «Jerry deve aver fatto una spesa folle.» «Sì» ammise lui, «e ne sono stato felicissimo!» Ma io guardavo quello smeraldo senza trovare nulla da dire. Vi coglievo una nota definitiva che appannava, per me, la serenità della serata. Dopo un ultimo cocktail uscimmo. Mentre camminavamo alla ricerca di un taxi, Selena e io ci trovammo affiancati, dietro a Grace e a Jerry. Dopo qualche metro lei mi si rivolse osservando, senza preamboli: «Tu non sei contento che Jerry e io ci sposiamo.» «No, non è vero.» «Ti prego, Bark. Sii sincero.» «Be', ti dirò allora che mi sembra una cosa un po' precipitosa.» «Vuoi dire che non dovremmo sposarci così presto?» «Infatti.» «Jerry ha detto che parecchi l'avrebbero pensata così. Ma perché, poi?» Volsi il capo a guardarla nella penombra della strada, chiedendomi se mi
stesse prendendo in giro. Invece pareva del tutto seria, le labbra ferme, lo sguardo diretto. «Be', di solito si lascia trascorrere un po' di tempo in più.» «Sì, lo so. Ma perché?» insisté. Citai l'Amleto, atto I, ma non capì, o finse di non capire, a cosa mi riferissi. Messo alle strette spiegai che secondo l'opinione comune occorreva un po' più di un paio di mesi per dimenticare il primo marito e innamorarsi di un altro. «Oh» mormorò. «Non me n'ero resa conto. Certe volte è difficile capire cosa c'è dietro le vostre idee.» Era un'osservazione stranissima, e non seppi come prenderla, ma prima che potessi chiederle una delucidazione lei proseguì: «Secondo me non c'è niente di male in questo matrimonio, anche se avviene così presto. Capisci, io non sono mai stata innamorata di LeNormand». La cosa cominciava a sfuggirmi. Dichiarai che le decisioni sue e di Jerry riguardavano solo loro. «Sì,» annuì «ma io voglio che tu capisca. Sei il miglior amico di Jerry.» «E in quanto tale desidero solo vederlo felice.» Per fortuna un taxi si accostò al marciapiede ponendo fine a quell'assurda conversazione. Ero irritato con Selena che affrontava una situazione così delicata e complessa parlandone con tanta franchezza. Mi infastidiva che fosse riuscita a mettermi sulla difensiva e decisi che meno mi esponevo a quelle sue domande così dirette meglio sarebbe andata la serata. Fu dopo cena, una cena squisita che si protrasse fino alle dieci passate, che accadde l'episodio più incredibile. Avevamo bevuto abbastanza, noi tre almeno, da non aver voglia di concludere subito la serata. Era troppo tardi per il teatro e così decidemmo che la cosa migliore era andare a ballare. Dopo molte discussioni tra Grace e me optammo per il Barney's. È un posticino simpatico, nella zona della Cinquantacinquesima, ma ciò che più apprezzavo era che la musica non era mai assordante, e il proprietario era del parere che, per divertirsi, i clienti non hanno necessariamente bisogno di comici che sciorinino battute triviali o di spogliarelliste. Non che io sia avverso a spettacoli di questo genere, ma istintivamente volevo festeggiare quella particolare occasione nel modo più garbato e corretto. E Barney, ne ero convinto, ci avrebbe offerto uno spettacolo piacevole. C'era un'ottima orchestrina. Non avevo mai ballato con Selena, prima di allora, ma fin dal primo istante capii che sarebbe stata un'esperienza memorabile. Mi aspettavo che fosse un duro cimento: troppa tensione tra noi,
e un antagonismo di cui entrambi eravamo consapevoli; inoltre era davvero molto alta. Invece ballava come nessun'altra. Dimenticai tutto, e non riuscii più neppure a considerarla una donna. Mi pareva di tenere tra le braccia la forma mobile della musica stessa. Il ritmo profondo, insistente, sembrava destare risonanze in ogni muscolo del suo corpo, che pareva assolutamente senza peso. Ci muovevamo sulla pista come se avessimo fatto parte della melodia. Ricordo d'aver pensato che per la prima volta capivo come il ballo fosse una forma d'arte. Le persone sedute ai tavoli tutt'attorno ci seguivano con lo sguardo. Io non sono un ballerino eccezionale, tutt'altro, eppure quando il brano terminò ci furono alcuni applausi e mi accorsi che eravamo rimasti quasi soli sulla pista. Inoltre mi resi conto con stupore che non avevamo mai scambiato parola. La riaccompagnai al tavolo dove Jerry e Grace stavano chiacchierando. «Accidenti, la tua ragazza sa ballare sul serio!» esclamai. Jerry annuì. «È un'esperienza, vero?» «È una musica abbastanza semplice» mormorò Selena con un sorriso. Sedetti e ripresi il mio whisky. Il modo di ballare di Selena non si adattava al personaggio che conoscevo. Ripensai al suo goffo abbigliamento, la prima volta che l'avevo vista; alla gelida formalità di tante sue frasi. Il contrasto con il fluido ritmo del suo corpo, che poco prima avevo tenuto tra le braccia, era sconcertante. Ne accennai poco dopo a Grace, mentre Jerry e Selena erano sulla pista. Lei li osservò per qualche istante ad occhi socchiusi, sorridendo tra sé. «Non si può mai dire» mormorò poi. Feci un paio di giri di ballo con Grace e poi tu mezzanotte. La sala si oscurò parzialmente e Barney in persona, accompagnato dalla luce di un riflettore che evidenziava il suo volto tondo e roseo da cherubino, avanzò fino al centro della pista sollevando una mano per chiedere attenzione. «Signore, signori e gente venuta da fuori città» esordì, e poi annunciò che quella sera aveva in serbo per noi un'attrazione speciale, un "prestigiatore e mago" egiziano il cui nome — il nome d'arte quanto meno — era Galli-Galli. Dopo qualche inevitabile gioco di parole in proposito, Barney spiegò che, dopo la sua esibizione, Galli-Galli sarebbe passato tra i tavoli per fare alcuni giochi di prestigio con le carte. Stava a noi, sempre che ci riuscissimo, scoprire il trucco. Barney si ritirò, ci fu un lungo rullo di tamburi e nuovi riflettori si accesero. Tra tanto sfolgorio comparve un ometto dalla pelle olivastra e dalla faccia vizza. Portava un turbante e un caffettano a righe bianche e verdi
con lunghe maniche ampie. Per prima cosa rivolse inchini elaborati in ogni direzione osservando il pubblico con due grandi occhi neri malinconici. Poi esclamò "Galli-Galli!" con voce acuta, compiaciuta, e cominciò a lanciare in aria un incredibile numero di palline colorate che estraeva, suppongo, dalle maniche, in un gioco di destrezza molto piacevole. Le palline con le loro traiettorie formavano motivi e figure varie, e alla fine le fece svanire di colpo così com'erano comparse. Ci furono applausi scroscianti e lui sorrise, deliziato. La sua stessa abilità, nei giochi che seguirono, pareva esilararlo, e ripeteva continuamente "Galli-Galli!" con una sorta di entusiasmo infantile. Selena lo osservava, impassibile. Solo un paio di volte, di fronte a manipolazioni particolarmente abili o inspiegabili, ebbe un leggero sorriso, ma niente di più, e dopo un poco parve annoiarsi e non prestò più alcuna attenzione allo spettacolo. Grace invece ne era affascinata e le sfuggivano continuamente degli "oh!" incantati. Quando le luci della sala si riaccesero, Jerry e io applaudimmo con foga gridando: «Bis!». L'ometto si inchinò più volte nella nostra direzione; poi venne direttamente al nostro tavolo. Guardandolo da vicino risultava ancor più vecchio di quanto apparisse sotto i riflettori, e non c'era dubbio che fosse egiziano. Mi piacque subito. «Galli-Galli fa giochi di carte» annunciò estraendone un mazzo. «Volete?» Accettammo senz'altro e lui ci chiese di esaminare le carte, ancora chiuse nell'involucro. Lo aprimmo, esaminammo le carte a una a una, su entrambi i lati. Era un normalissimo mazzo da poker e pareva perfettamente in ordine, così gli dicemmo di procedere. Eseguì alcuni giochi di prestigio, facendole sparire e ricomparire, ma per lo più li conoscevo già. Forse ne sapeva fare altri anche più interessanti, ma non potemmo appurarlo perché Selena fece la cosa più inesplicabile che abbia mai fatto in mia presenza. Accadde durante uno dei giochi di prestigio. Galli-Galli mi aveva consegnato le carte chiedendomi di mescolarle, e io avevo eseguito. Poi mi aveva detto di sceglierne mentalmente una, ma senza separarla dalle altre. Io avevo pensato al quattro di picche e poi, seguendo le istruzioni, avevo fatto tagliare il mazzo da Grace e quindi l'avevo consegnato a Jerry, che aveva disposto le carte a ventaglio sul tavolo, coperte. «Allora;» riprese Galli-Galli guardandomi con occhi sorridenti «saprebbe indicare la carta a cui ha pensato?» Non ne avevo la più pallida idea. «No.»
«E lei?» domandò a Grace. «Neanche parlarne.» «E lei?» Selena parve stupita dalla domanda. «Certo» rispose. Allungò una mano e voltò il quattro di picche. Per un attimo sul volto di Galli-Galli si disegnò un'espressione incredula. Anch'io ero rimasto a bocca aperta. Poi il piccolo egiziano si ricompose. «Giusto?» mi chiese. «Assolutamente sì.» Lui fece un profondo inchino, rivolto più a Selena che a noi altri, raccolse le carte, si inchinò di nuovo e si allontanò. Lo seguimmo con lo sguardo e poi ci voltammo tutti insieme verso Selena. Pareva confusa. «Tesoro, ti spiace spiegarci come hai fatto?» chiese Jerry. «Santo cielo, Selena,» intervenne Grace «bisogna che facciamo subito coppia a bridge.» Lei scosse il capo. «Senti,» osservai «non puoi lasciarci con la curiosità addosso. Come ci sei riuscita?» Ma non volle dirlo. Prima rifiutò di dare qualsiasi spiegazione, poi dichiarò che era stato semplicemente un caso fortunato. Già in quel momento non ne fui molto convinto e il giorno dopo, sul treno che mi portava a Collegeville, la cosa mi pareva assolutamente incredibile. Lei non aveva mai toccato le carte, io non avevo detto a nessuno a quale carta avevo pensato. Continuavo a tornare con la mente a quella scena al Barney's, senza trovare una spiegazione. Se era stato un puro caso, le probabilità di indovinare erano una su cinquantadue, e lei non aveva avuto la minima incertezza nel rigirare quella carta. Ma soprattutto mi aveva colpito il suo atteggiamento tranquillo, quasi indifferente. Come se lo considerasse un giochetto da bambini. Fuori del finestrino cominciarono a delinearsi paesaggi e cittadine ben note. Mancavano ormai pochi chilometri a Collegeville e tornai col pensiero a Parsons e al motivo per cui mi aveva chiesto quell'incontro. Forse aveva fatto qualche passo avanti nel caso LeNormand, anche se sui giornali non era comparso nulla che potesse suggerirlo. Ad ogni modo doveva trattarsi di cosa più o meno ufficiosa, altrimenti mi avrebbe convocato in altra forma. In base ai pochi elementi che avevo in mano potevo concludere che non era arrivato a nulla di concreto.
L'ansia per il matrimonio di Jerry, con quello strano istinto a dirmi che era un grave errore, aveva occupato tutta la mia mente. Per un'intera settimana non avevo più pensato al delitto LeNormand se non casualmente. Ero convinto che fosse un mistero insolubile e i ricordi che ne avevo erano talmente atroci che li avevo relegati in un lontano recesso della mente cercando di dimenticarli. E tuttavia era parte integrante della mia vita quotidiana e di quasi tutti i miei atti. Solo la sera prima mi ero trovato in un night club, accanto alla vedova di LeNormand, quasi senza rendermi conto di quanto poco tempo fosse trascorso dalla morte di suo marito. Nelle settimane immediatamente successive erano accadute tante cose e mi pareva che avessimo trovato il suo corpo divorato dalle fiamme un anno prima invece che appena un mese prima. Jerry, riflettei, non aveva allontanato da sé quell'esperienza come avevo fatto io. Diverse volte, rientrando a casa, l'avevo trovato alla scrivania, circondato da fogli spiegazzati coperti di cifre e simboli che mi erano parsi simili a quelli rimasti sul tavolo di LeNormand all'osservatorio. Una volta, nel cestino della carta straccia, avevo visto una piantina del pianterreno dell'osservatorio, probabilmente tracciata a memoria; e si era anche servito della guida telefonica dell'università, perché una mattina l'avevo notata sullo scrittoio. Mi ero chiesto perché ci tenesse tanto ad andare a fondo a quella faccenda e la risposta ovvia era che tutto ciò che riguardava Selena era di grande importanza per lui. Ma non riuscivo ad accettare quest'idea. Da un punto di vista psicologico mi sarebbe parso più normale che lui cercasse di pensare il meno possibile al passato e si sforzasse di porre, mentalmente, la maggiore distanza possibile tra passato e presente. La vista della Armitage Tower che si profilava al di sopra degli alberi, più avanti, accentuò la tensione che era andata via via crescendo in me. Qualsiasi cosa mi attendesse nelle prossime ore, mi spaventava. Quando il treno giunse in stazione e si fermò, ne scesi sentendo la bocca arida e le ginocchia malferme: chiari sintomi di un nervosismo molto vicino alla paura. 9 Interrogatorio Raggiunsi il municipio in taxi e ne risalii i gradini con il cuore che mi martellava in petto. Parsons era nello stesso ufficio in cui ci aveva ricevuto la volta precedente, seduto al medesimo lungo tavolo. Aveva davanti a sé
una specie di grosso registro nero e un cumulo di fogli. Teneva tra i denti un mozzicone di sigaro e prendeva rapidi appunti su un taccuino con decisi tratti di matita. Aveva un'aria molto efficiente. Quando varcai la soglia alzò gli occhi per un attimo, accennò un breve saluto e borbottò, senza togliersi il sigaro di bocca. «Si accomodi. Sono subito da lei.» Era senza dubbio molto indaffarato. Per un attimo pensai che volesse darmi il tempo di calmare il mio nervosismo e la mia ansia, ma, osservandone le forti dita tozze che passavano in rassegna i fogli che aveva dinanzi e i rapidi sguardi con cui li confrontava con i suoi appunti, capii che era concentratissimo, e forse addirittura eccitato. Aveva trovato qualcosa, o almeno gli pareva. Riempii la pipa e l'accesi mettendocela tutta per non far tremare il fiammifero che tenevo tra le dita, poi mi addossai allo schienale. Alla fine Parsons si raddrizzò, trasse dal taschino un paio di sigari, ne spinse uno verso di me e poi, notando la mia pipa, lo riprese. Dopo aver acceso il suo, soffiò due o tre anelli di fumo verso il soffitto, spinse indietro la sedia, mise i piedi sulla scrivania e mi fissò. «Intendiamoci, signor Jones,» dichiarò anzitutto «non ha motivo di stare sulle spine, qui si tratta solo di una chiacchierata tra noi due. Niente di ufficiale.» «Non sto sulle spine.» «Bene.» Tacque per qualche istante. «Immagino che lei e il signor Lister abbiate ripensato parecchio a questa faccenda nelle ultime settimane.» «Certo, s'intende.» «E mi dica: vi sono venute nuove idee dall'ultima volta che ci siamo visti?» Ero un po' stupito da tale domanda e mi chiesi dove volesse andare a parare. «No» replicai. «Almeno non a me.» «A lei no» ripeté. «E al signor Lister?» «Non saprei dirglielo.» E di fronte al suo silenzio aggiunsi: «Non ne abbiamo discusso molto». «Posso capirlo» annuì osservandomi meditabondo. «Signor Jones,» riprese poi «voglio essere molto franco con lei. E la cosa deve restare tra noi.» «Non ne farò parola.» «Molto bene.» E quindi, in tono deciso: «Neppure con il signor Lister... o con la signora LeNormand». Annuii.
«Il fatto è che non ho compiuto il minimo passo avanti in questa storia. Non ne so più di quanto ne sapessi quattro settimane fa, se si esclude il fatto che ho verificato le deposizioni di tutti gli interessati e non fanno una grinza. Non ho alcun elemento, neanche un'ombra di indizio a partire dal quale procedere. Non sono riuscito a individuare nessun estraneo che si trovasse nel campus quella notte.» Si interruppe e sorrise. «E quando la polizia comincia a cercare l'individuo misterioso è segno che brancola nel buio.» Era un discorso senz'altro disarmante. Mi aveva già dalla sua, di qualunque cosa si trattasse. «Vede,» continuò «quando mi trovo arenato come adesso, privo di fatti concreti su cui lavorare... gli indizi, se così vogliamo definirli... io cerco di affrontare la cosa da un altro punto di vista. Ossia studio la personalità degli individui implicati. Indago cioè sull'aspetto psicologico, e sul movente.» Mi fissò intensamente ma, per quanto a quel punto fossi disposto a esporgli tutte le mie idee, avevo il cervello vuoto e credo che la mia faccia lo rivelasse. «Il movente» riprese «di solito è facilmente individuabile. Prima il denaro, sicuramente, e poi una presenza femminile. Ce ne sono altri, come l'odio e il desiderio di vendetta, ma è raro imbattervisi salvo che ci sia di mezzo uno psicopatico.» Ci pensai su per qualche istante. «Be', direi che nessuno di questi possa essere chiamato in causa, nel caso LeNormand.» Annuì. «Il movente denaro è escluso. LeNormand disponeva solo del suo stipendio e di un'assicurazione sulla vita per un ammontare di cinquemila dollari. A quanto risulta non aveva suscitato rivalità professionali. Così sono arrivato alla conclusione che il movente debba ruotare intorno a una donna.» Cominciai a intuire a che mirava e mi sentii le mani umidicce. «E l'unica donna implicata» proseguì inesorabile «è la signora LeNormand.» Non aprii bocca e così dopo una breve pausa lui mi chiese: «Che opinione ha della signora?». Mi ci volle qualche istante prima di riuscire a rispondere. «Non è semplice spiegarlo. È un personaggio che esula dalla norma. È intelligente, riservata, con idee precise...» Mi fermai, a corto di parole. Parsons aspirò una lunga boccata dal suo sigaro. «Signor Jones, lei usa espressioni abbastanza insolite considerando che è un giovanotto che parla di una bella donna. "Intelligente", "riservata", "con idee precise". Direi che
la signora LeNormand non le va molto a genio. Giusto?» «Sì» ammisi. Tolse i piedi dal tavolo e si protese in avanti. «Ciò che le chiederò adesso potrebbe facilmente venir frainteso, ma prima voglio assicurarle che la ritengo una persona a posto. Lei mi è simpatico e forse riesco a intuire almeno in parte la situazione in cui si trova. E lei mi sembra... ecco... perfettamente normale. Per cui non legga nella mia domanda sottintesi che non vogliono esserci.» «D'accordo. Chieda pure.» «La signora non le è simpatica, e lo dichiara. È certo che non ci sia sotto una forma di gelosia?» Lì per lì arrossii, poi sbottai a ridere. «Mette le cose in un modo... D'accordo, chiariamo la faccenda: Jerry e io siamo cresciuti insieme. Abbiamo vissuto fianco a fianco per dieci anni, inseparabili, e adesso...» Mi interruppi accorgendomi che stavo dicendo troppo. Ma lui parve non farci gran caso. «E adesso questo stretto legame minaccia di venire reciso, e da una persona che lei non apprezza. È così?» «Più o meno» ammisi. «Bene, è stato sincero. E ritengo che in caso contrario me ne sarei accorto.» Batté un dito sui fogli che aveva di fronte. «Ho qui un rapporto completo su quanto voi tre avete fatto da quando vi siete allontanati da Collegeville.» Mi lanciò un'occhiata penetrante. «Sono un poliziotto. Ho bisogno di sapere certe cose, quindi non si offenda.» «Non sono offeso.» Ma mi infuriava sapere che eravamo stati controllati in tutte quelle settimane, da quando LeNormand era morto. «Bene» assentì, ma era chiaro che non credeva minimamente alla mia affermazione. «Il punto, adesso, è questo: lei non è geloso della signora LeNormand, però non nutre simpatia per lei. Il signor Lister, per contro, ne è innamorato.» Mi limitai a guardarlo. Parsons era tranquillo, distaccato, sicuro di sé, quasi si credesse il Padreterno. Cominciai ad arrabbiarmi sul serio. «Queste non sono certo cose che la riguardano...» cominciai. «Ragioni, signor Jones: naturale che mi riguardano. Io sono pagato dallo Stato per scoprire chi ha ucciso il professor LeNormand e, perdiana, ci riuscirò anche a costo di calpestare i sentimenti più delicati di chicchessia.» Aveva ragione lui, s'intende. E mi sforzai di calmarmi. «Chiedo scusa» dissi. «È vero, Jerry è innamorato della signora LeNormand e, se ha segui-
to tutte le nostre mosse, lei l'ha già sicuramente appurato.» Ebbe un mezzo sorriso, come se qualcosa nelle mie parole l'avesse divertito. «Ciò che voglio capire è come mai a lei non va a genio la signora LeNormand. È una cosa che, francamente, mi interessa molto più del motivo per cui il signor Lister ne è innamorato. E spero che possa spiegarmelo.» «Be', non so se mi è possibile.» Naturalmente avrei potuto rispondergli subito: "Selena non mi piace perché mi fa paura", ma non gli avrei chiarito nulla. Non era chiaro neppure a me. Così risposi: «La cosa più aderente al vero che posso dirle è che non me ne fido». Questo parve interessarlo molto. Mi osservò con attenzione e poi mormorò: «Non se ne fida. Sa dirmi perché? O in quali occasioni le nasce questo senso di diffidenza, o cosa fa per suscitarglielo?». Era la domanda che mi ponevo da alcune settimane. Se fossi riuscito a spiegare in modo per me soddisfacente da cosa derivava la mia prevenzione nei confronti di Selena, tutto mi sarebbe diventato molto più facile. Alla base dell'angoscia degli ultimi tempi c'era proprio il fatto che non sapevo individuare l'elemento per cui la detestavo... o ne avevo paura. Forse quell'interrogativo di Parsons, così preciso, avrebbe dissolto in parte la mia confusione. «È una domanda molto difficile» presi a dire. «Ci ho riflettuto per giorni e giorni e non sono riuscito a individuare niente di preciso. Non mi nasce in occasioni particolari né solo in determinate circostanze. A volte fa domande stranissime. Se anche possiede un senso dell'umorismo, non ha niente in comune con il nostro. La trovo distaccata, distante.» Mi fissava con la massima attenzione annuendo a ogni mia frase. «Se dovessi descriverla,» continuai «direi che sembra una straniera, ha l'atteggiamento di certi tedeschi che si trovavano qui durante la guerra. Come se non volesse far sapere che non è americana.» D'un tratto mi parve di dire cose superflue. «Ma dopotutto lei le ha parlato e quindi avrà notato ciò che intendo.» «Sì, l'ho notato, ma non so come definirlo esattamente. Speravo che lei potesse aiutarmi.» «Questo è il massimo che posso dirle.» Tacque per un poco rigirandosi il sigaro in bocca e guardando fuori dalla finestra. «Dice che le fa l'effetto di una straniera.» E, visto che non aggiungevo niente, continuò: «Bene, signor Jones, potrebbe esserlo effettivamente?». La domanda mi sorprese. «Non ne ho idea. È lei che deve saperlo. Non
vi procurate sempre tutti i dati essenziali delle persone implicate, in casi del genere? La provenienza, l'età, se ci sono stati casi di turbe mentali in famiglia e così via?» Lui continuò a guardare oltre il vetro della finestra. «Sì, di solito. Ma non questa volta.» «Vuol dire che non l'ha interrogata in proposito? Poco mancava che Jerry e io dovessimo fornirvi anche l'elenco dei denti che ci hanno otturato!» «Certo, le abbiamo fatto tutte le domande possibili.» Era corrucciato. «Decine di volte. Si è limitata a dichiarare di non avere parenti né vicini né lontani. Non ci ha voluto fornire neppure il suo cognome da nubile.» «E, ben s'intende, non ve la siete sentita di infierire su una povera vedova» commentai col mio tono più sarcastico. «Stia a sentire,» e dalla sua occhiata dura capii che non aveva gradito la frecciata «questo caso è dinamite. Posso spingermi solo fino a un certo punto, ma se lo oltrepasso mi metto contro l'intera università. Cosa pretende? Che la trascini qui al comando per sottoporla a un interrogatorio di terzo grado? Nel giro di una settimana l'intero corpo di polizia si ritroverebbe a spasso.» «D'accordo, ho detto una sciocchezza.» «Già. Ma lasciamo perdere. Forse lei potrà dire a noi poveri poliziotti insipienti qualcosa di utile. Chi è la signora e da dove viene?» «Non lo so.» Trasse un sospiro. «Allora dovrò chiederle un'altra cosa che magari la farà arrabbiare. Può appurarlo?» «Se non ha voluto dirlo a voi, non credo che lo racconterà a me.» «Non ci siamo capiti. Il signor Lister è innamorato di lei, e quindi è la persona che meglio di chiunque altro può scoprire certi particolari.» «Non pretenderà che mi faccia raccontare simili faccende dal mio miglior amico per poi venire a riferirle a voi?» «Immaginavo che l'avrebbe presa così» brontolò. «Ma usi il cervello, signor Jones. Io ho bisogno di queste informazioni, e il modo in cui me le procuro non ha nessuna importanza se la signora è estranea al fatto. E se non lo fosse, lei potrebbe accettare tranquillamente che il suo miglior amico si leghi a questa donna?» «No» riconobbi. «Ma non me la sento ugualmente di fare la spia. E inoltre escluderei che Jerry ne sappia qualcosa. Almeno, non me ne ha mai fatto parola.»
«Dunque lui pure è all'oscuro.» Il tono di Parsons non pareva sorpreso. «Bene, bene, bene!» «Ma, anche se la signora LeNormand si rifiuta di rispondere alle vostre domande, avrete pur modo di scoprire con altri sistemi...» «Oh, naturale...» il tono era suadente, «... secondo lei dovremmo lavorare su piccoli indizi come le etichette sulla biancheria e roba analoga?» Era più o meno quel che avevo in mente. «Be',» continuò «se ciò la può consolare siamo risaliti all'origine dei suoi indumenti.» «E cosa avete ottenuto?» Unì il pollice e l'indice a formare lo zero. «Un bel niente. Ma non siamo lenti e ottusi come molti credono, signor Jones. Abbiamo accertato diverse cose. Magari in seguito gliene parlerò, ma adesso vorrei cercare di affrontare la faccenda da un'altra angolazione.» «Se posso esserle utile...» dissi con umiltà. «Mi diceva poco fa che trova qualcosa di strano nella signora LeNormand, come se fosse una straniera. Poniamo che invece non lo sia: da quale ceto sociale potrebbe provenire, secondo lei?» «Dico, si è studiato Karl Marx?» Parsons sorrise. «Be', ne ho letto qualcosa, in effetti... ci sono parecchi dannati rossi nel nostro paese. E alcuni proprio qui all'università.» Abbassò lo sguardo sui suoi appunti. «Vedo qui che un certo Berkeley Jones è stato iscritto alla sezione universitaria dell'"Americans for Democratic Action". Due anni fa. Ha superato questa fase?» «In parte» ammisi. «Già, ci vuole tempo.» Pareva abbastanza soddisfatto del punto segnato a suo favore. «Ma questo non ha importanza. Quel che vorrei sapere è: a suo parere la signora LeNormand proviene da una famiglia, diciamo, proletaria, borghese... o di capitalisti parassiti?» «Non me lo sono mai chiesto.» Quella domanda mi lasciava perplesso, come tutto ciò che riguardava Selena. Nulla in lei pareva rientrare negli schemi convenzionali. «Ha un'intelligenza ben strutturata, quindi farei l'ipotesi che venga da una famiglia di liberi professionisti. Il padre poteva essere avvocato, o medico o anche un docente universitario.» Subito mi pentii di quell'accenno che poteva indirizzare Parsons sulla strada di quella vecchia controversia di LeNormand con i suoi colleghi scienziati. Dopo di che anche Jerry sarebbe stato tirato in ballo e ne sarebbe venuto fuori un gran pasticcio. Ma evidentemente lui aveva altro per la testa.
«... e quando le ho detto che sono arrivato a un punto morto dicevo sul serio, signor Jones. Non so che pesci prendere. Tutte le direzioni che imbocchiamo ci conducono ad un vicolo cieco, e l'unica vaga luce che si profila... Forse sarà opportuno che gliene parli e poi le rifarò certe domande. Magari, quando si sarà reso conto dei sospetti che comincio a nutrire, potrà darmi un aiuto maggiore.» Stava riordinando in pile ordinate i fogli e le cartellette che aveva dinanzi. Accese un altro sigaro e si appoggiò al tavolo, proteso verso di me. Tradiva una specie di incertezza, come se dubitasse della saggezza della sua decisione. E probabilmente aveva ragione. Nei mesi successivi, in cui fui costretto a tenere sempre presente il suo racconto e le sue deduzioni, ho desiderato mille volte che avesse invece ritenuto preferibile non dirmi nulla. Eppure, anche se non me ne avesse mai fatto parola, l'esito ultimo non sarebbe stato diverso. Arenato come si trovava, non aveva scelta, immagino. «Le dicevo poco fa» cominciò «che ci siamo ridotti a controllare la presenza qui al campus di un estraneo, un misterioso sconosciuto, così l'ho definito, la sera del delitto. In questa direzione, niente. Così ho pensato di battere altre strade, la più ovvia era quella dei pettegolezzi, delle voci che corrono. Ma non è emerso alcun pettegolezzo sul conto di LeNormand e di sua moglie, a parte le solite comari che si chiedevano chi fosse la signora, come mai lui avesse sposato lei, perché lei avesse sposato lui e così via. In base alla mia esperienza, signor Jones, un omicidio non avviene mai così, di punto in bianco. Voglio dire con ciò che a ben cercare si scopre un'infinità di particolari, chiamiamoli piccoli segni premonitori, che lo precedono. E di solito sono minuzie che si riesce a cogliere tenendo le orecchie ben aperte. Ma, come ho detto, non giravano veri e propri pettegolezzi. Nessuno ha mai pensato che ci fossero dissapori tra i due: è difficile credere che tra una donna come quella e un uomo come LeNormand non siano mai sorte difficoltà, ma non ho trovato neanche una malalingua pronta a insinuare che la signora se la intendesse con qualcun altro. E così questa strada è finita in niente. A volte, sempre in base alla mia esperienza, alcuni elementi che preludono a un delitto risalgono addietro nel tempo, e magari finiscono negli archivi della polizia.» Apri il grosso registro nero che aveva di fronte. «Quindi Hanlon e io abbiamo esaminato, ripercorrendo gli ultimi mesi, i casi che si sono verificati.» E qui trasse un sospiro. «A quanto sembra, fare il poliziotto in questa cittadina è faccenda di tutto riposo. Non abbiamo trovato niente che offrisse uno spunto fino a quando non abbiamo esaminato il mese di agosto. E lì ci siamo imbattuti in una storia che forse
non significa proprio nulla, a parte il fatto che il caso è ancora aperto e c'è di mezzo una donna.» Non riuscivo assolutamente a farmi un'idea di quel che avesse in mente, però capivo che si stava arrivando a qualcosa che aveva risvegliato la sua attenzione. «All'inizio di agosto,» controllò il registro «il sette, per l'esattezza, in questa città è scomparsa una persona, e si tratta di una ragazza.» Si interruppe cominciando a giocherellare con la matita. Pareva esitante, come se cercasse il modo di mettermi a parte del punto essenziale senza raccontarmi proprio tutto. Alla fine premette con forza la matita contro il taccuino e riprese: «E va bene, le dirò esattamente come sono andate le cose perché è l'unico modo per avere da lei l'elemento che mi occorre. Ma le chiedo di non interrompermi, e desidero la sua parola d'onore di gentiluomo che quanto le dirò resterà tra noi. Non dovrà fame parola con nessuno, d'accordo?». Gli diedi la mia parola d'onore. Mantenerla è stato il compito più arduo che mai abbia affrontato in vita mia. Parsons sembrava assorto e ancora un po' incerto, ma alla fine riprese: «Come dicevo, il sette di agosto, verso le otto di sera, un certo Jamison, Stewart Jamison, si è fermato alla stazione di servizio Sunoco, qui a Collegeville, per fare rifornimento di benzina. Era a bordo di un vecchio furgoncino Ford, molto malandato, di quelli tipici di certe fattorie. Con lui c'erano la moglie e la figlia. Ed è stata appunto la figlia a scomparire». Fece una pausa ed eliminò un filo di tabacco dal sigaro. «Sarà bene che le parli della ragazza. Si chiamava Luella, Luella Jamison. I Jamison abitano in un paesino della Carolina del Sud, e mi scusi se non ne specifico il nome. Possiedono una piccola fattoria, e sono poveri in canna. Hanlon dice che l'auto è un trabiccolo che sta insieme per miracolo e quando ha parlato con i due ha notato che avevano abiti frusti e rattoppati. Ma nonostante ciò avevano l'aria di gente per bene. Puliti, educati. Tutti e due, dice Hanlon, erano alti e di bell'aspetto, ma lo ha colpito il fatto che erano un po' troppo anziani per avere una figlia di vent'anni appena. Lui doveva essere sulla settantina, la moglie non molto più giovane. Questo è tutto quanto posso dirle di loro... ho qui delle fotografie che poi le mostrerò. Ma devo aggiungere una cosa: la figlia era una minorata psichica.» Questo mi colpì. Fino a quel momento non avevo saputo cosa pensare del racconto di Parsons ed ero riuscito solo a chiedermi quale legame potesse avere con LeNormand, Jerry e me. Le sue ultime parole non mi ave-
vano certo aiutato a capire; ma poi d'un tratto, un attimo dopo averle sentite, mi accadde qualcosa. Posso descrivere la sensazione solo come il rumore di una porta che si richiude, ma già mentre l'avvertivo ne smarrii l'origine. Per un attimo brevissimo tutto parve quadrare e poi di nuovo si confuse. «Ecco come sono andate le cose» continuò Parsons. «La signora Jamison è scesa dal furgoncino, e ne ha fatto scendere la figlia, per andare alla toilette. In quel momento il signor Jamison stava controllando la pressione dei pneumatici. Sa come sono i gabinetti delle stazioni di servizio... ci si arriva girando attorno a una graticciata che forma un angolo abbastanza stretto. Il gabinetto delle signore, alla Sunoco, è molto piccolo, appena sufficiente per una sola persona alla volta. Così la signora Jamison si è occupata prima di Luella, poi l'ha ricondotta fuori, le ha posato le mani sulla graticciata e le ha detto di restarsene lì. Poi è entrata a sua volta. Quando è uscita la ragazza era scomparsa senza lasciare traccia; nessuno l'aveva vista allontanarsi. Era ormai quasi notte e la ragazza indossava un soprabito scuro. Il signor Jamison e Jack, il benzinaio, erano stati sempre chini a controllare le gomme. Hanlon non è riuscito a trovare nessuno che avesse visto la ragazza. «Sarà bene che la metta al corrente di quanto Hanlon e io abbiamo appurato sul conto di Luella: idiota dalla nascita, solo verso i sei anni aveva imparato a camminare e non è mai stata capace di vestirsi o di mangiare per conto suo. Inoltre non era neppure in grado di parlare. "Emetteva solo deboli suoni ogni tanto", mi ha riferito sua madre. Nessun medico, dalle loro parti, era in grado di fare qualcosa per lei e, come si può immaginare, per i Jamison era un dolore enorme, dal momento che Luella era la loro unica figlia, nata quando ormai erano in età matura. Quando si erano sposati la signora Jamison aveva passato i quaranta e non prevedevano affatto di poter avere dei figli. La nascita di Luella li aveva dapprima riempiti di gioia esultante; poi, quando hanno visto come stavano le cose, si sono rassegnati alla volontà di Dio e hanno fatto tutto il possibile per la piccola. Non è stato granché, data la loro situazione economica, però le si sono dedicati moltissimo e non hanno mai rinunciato alla speranza di trovare prima o poi un medico in grado di intervenire in modo più o meno risolutivo. Non la sentivano come un greve fardello, almeno questa è l'impressione che ho ricavato parlando con loro. La ragazza non andava soggetta a crisi violente né a cose di questo genere: faceva sempre quel che le veniva detto, bastava che capisse la richiesta. Come in quel caso appunto, aspettare
lì, ferma, appoggiata al graticcio. E non dovevano stare in pensiero se capitava che tutti e due si allontanavano per un poco lasciandola sola alla fattoria: la sistemavano in poltrona, nella sua stanza, e poi chiudevano la porta a chiave. Mangiava a tavola con loro e la madre l'imboccava. Facevano per lei tutto il possibile ed è chiaro che le volevano un bene enorme. Adesso nel loro soggiorno c'è appesa una sua grande fotografia... «Le racconto tutto ciò per darle un'idea di queste persone, e devo dire che io le stimo molto. Tutt'e due di solida discendenza anglosassone. I genitori di lui erano inglesi, fatto di cui va orgoglioso pur senza ostentare la cosa. Mi ha raccontato che il suo bisnonno era un noto scienziato, un matematico o qualcosa del genere. Ha un paio di libri scritti da lui, più di cent'anni fa.» Parsons ebbe un piccolo sorriso. «Erano così contenti di vedere qualcuno... mi hanno fatto fare il giro di tutta la casa. Forse mi sto rammollendo, ma sono convinto che quei due non avrebbero mai inscenato una finta scomparsa, neppure se non avessero voluto bene alla figlia, e sono pronto a scommettere il mio ultimo dollaro che l'adoravano davvero.» Guardò di nuovo oltre la finestra. «Faceva stringere il cuore vedere la madre piangere parlando di Luella. «Be', c'è stato tempo fa quel periodo molto positivo per l'agricoltura, ne hanno parlato anche i giornali, e i Jamison hanno raccolto qualche frutto. Dapprima hanno risparmiato, poi hanno deciso di impiegare quei soldi per Luella. Hanno scritto a diversi specialisti del nord esponendo il caso della figlia. Quasi tutti hanno risposto che non vedevano possibilità concrete di risultati positivi. Uno solo rispose che, se potevano portarla da lui, l'avrebbe visitata, chiedendo un onorario minimo. Poi, se avesse visto che c'era modo di fare qualche tentativo, si sarebbero messi d'accordo per dei pagamenti dilazionati. Ed era anche un ottimo medico,» precisò Parsons «sono andato a controllare.» Prese una cartelletta e l'aprì. Conteneva alcune fotografie: all'improvviso sentii il bisogno di guardarle e allungai una mano. «Tra un attimo» disse lui. «Non c'è molto altro da raccontare, quanto ai fatti concreti. La ragazza non è più ricomparsa. È molto difficile immaginare quel che le e successo. Se anche fosse caduta nel lago, il cadavere sarebbe riemerso. Ad ogni modo Hanlon l'ha fatto dragare quasi tutto. Per qualche tempo ho pensato che potesse essere stata caricata da un'auto di passaggio, ma non risulta. Un'eventualità del genere potrebbe far nascere molte altre ipotesi che non sto ad approfondire ora, ma sono praticamente certo che non sia andata così. Per dirne una: la polizia di stato aveva isti-
tuito un blocco stradale, per un controllo di patenti, a due o tre chilometri dalla stazione di servizio e di sicuro un'auto con a bordo una ragazza chiaramente ritardata di mente, a cui un tizio avesse dato un passaggio senza rendersi conto di come stessero le cose, non sarebbe passata inosservata. Adesso, guardi bene questa foto.» Era l'ingrandimento di un'istantanea: si vedeva la parte anteriore di una fattoria; in primo piano un tratto di vialetto bordato da pietre dipinte di bianco, dietro la costruzione piccola, rivestita di legno, con una veranda che correva lungo le facciate. Le assi avevano chiaramente bisogno di una nuova mano di vernice e nel complesso la casa aveva un'aria molto povera, però appariva in ordine, pulita, curata. La veranda era in buono stato e le tendine alle finestre arricciate con garbo. Sotto il portichetto c'erano due persone accomodate su sedie a dondolo. Una era una donna sulla sessantina, magra, quasi scarna; i radi capelli erano raccolti sulla sommità del capo in una pettinatura antiquata che lasciava scoperte le orecchie. Indossava un abito-grembiule un po' scolorito e vecchi stivaletti abbottonati. In grembo teneva quello che sembrava un cestino da cucito. La seconda figura attirò immediatamente la mia attenzione: lì per lì quasi non badai agli altri elementi della foto. Si trattava di una ragazza: Luella, certo, seduta accanto alla madre. Ma, mentre la signora Jamison guardava direttamente l'obiettivo, gli occhi della ragazza erano vacui, spersi verso un punto lontano. Le labbra erano socchiuse, il corpo abbandonato sulla sedia, le braccia pendevano di lato e in una mano reggeva qualcosa che non seppi identificare subito, ma poi mi avvidi che era una bambola di pezza. La teneva con dita inerti, senza badarvi affatto. Anche se non mi fosse stato detto che era un'idiota, l'avrei capito al primo sguardo. Era spenta, vuota. Ne esaminai a lungo il volto: i lineamenti erano regolari; gli occhi ben distanziati, come quelli di Selena. I capelli sembravano più scuri, ma il portico era in ombra. Lo feci notare a Parsons ma lui replicò che il colore dei capelli era una delle cose meno definitive di questo mondo. Mi mostrò diverse altre foto, persino un ingrandimento sfocato del viso di Luella Jamison. Tuttora mi ripugna ripensarci. Le studiai tutte con molta attenzione. Ricordo che avevo il cuore in gola e facevo fatica a respirare. Infine Parsons ruppe il silenzio. «Che ne pensa, lasciando da parte per un momento il colore dei capelli?» «Dio, non saprei. È inconcepibile che possa trattarsi di Selena. Così, in modo generico, direi che le somiglia abbastanza, ma non so come risulte-
rebbe il suo viso senza un'intelligenza a dargli vita... Lei riesce a immaginarlo?» Parve deluso. «No, in questo ha ragione. Ma, in linea di massima, signor Jones, potrebbe affermare che è impossibile che si tratti della signora LeNormand?» «No, non potrei. Ma i capelli avrebbero dovuto essere schiariti, e io so con assoluta certezza che quelli della signora LeNormand non sono ossigenati. E questa ragazza dovrebbe possedere ben più dell'intelligenza media per avvicinarsi a lei anche solo lontanamente.» «Già» mormorò. E, dopo una pausa, di nuovo: «Già». «Non capisco,» sbottai infine «lei ha sicuramente altri elementi su cui lavorare. Le impronte digitali, ad esempio.» Sorrise. «Potrebbe diventare un buon poliziotto, lei. Ho quelle della signora LeNormand, certo. Ma non quelle di Luella Jamison, e non ho modo di procurarmele. La signora Jamison è una donna di casa fin troppo scrupolosa: una volta alla settimana ripuliva da cima a fondo la stanza di Luella, e quando è tornata a casa, col cuore a pezzi, l'ha di nuovo riordinata e spolverata perché fosse pronta ad accoglierla. Abbiamo rilevato alcune impronte, ma confuse. Le uniche chiaramente identificabili erano quelle dei signori Jamison. E una ragazza in quelle condizioni» aggiunse «tocca ben pochi oggetti, come può immaginare.» «No, non capisco dove vuole arrivare. Lei si è recato sul luogo e ha dedicato molto tempo e molte energie al caso di questa Luella Jamison. Da quel che mi dice sembra convinto che abbia qualche legame con la signora LeNormand, o che addirittura possa essere la signora LeNormand. Lei però la conosce. Sa che è intelligente. Sa come si esprime, come si comporta. E sa anche, o dovrebbe sapere,» aggiunsi ripensando ai rapporti che aveva ricevuto circa i nostri movimenti a New York «che balla molto bene.» «Oh, sicuro» replicò tranquillissimo. «So che balla bene. Va a ballare un mese dopo che suo marito è stato ucciso.» Notò il mio sussulto. «Non ne faccio colpa alcuna al signor Lister: egli sente il bisogno di distrarla, inoltre ne è innamorato, desidera ballare con lei e quindi è una buona idea portarla in un locale notturno.» Fece un piccolo cenno con la mano e la cenere del sigaro cadde sulla scrivania. «Oh, accidenti. E so anche che parla, e senza la minima traccia di accento del sud per di più. Ma nel suo modo di esprimersi c'è qualcosa che non mi convince, e mi riferisco a ciò che non dice.» Gli chiesi di spiegarsi.
«Le sto tenendo una vera conferenza, quest'oggi» osservò. «Lei, con i suoi trascorsi universitari, probabilmente c'è abituato. Ma cercherò di essere più chiaro, signor Jones. Anche i docenti parlano come comuni esseri umani... ossia, quando non fanno lezione si esprimono in un modo che rivela parecchio del loro passato, se li si ascolta con attenzione. I piccoli intercalari, le espressioni caratteristiche. E i gesti, certo, e la mimica. Con gli anni ci si forma un linguaggio nostro, come lo stile individuale di uno scrittore, direi. Ed è sempre diverso da persona a persona. Credo che mi capisca.» Capivo, certo, e sapevo che era proprio l'assenza di questa caratteristica nel modo di esprimersi di Selena, soprattutto in occasione dei nostri primi incontri, che mi aveva colpito. Era innaturale. «Sì» annuii. «E la signora LeNormand parla come se stesse leggendo un libro.» D'un tratto ricordai, con un brivido di disagio, che tale definizione avrebbe potuto applicarsi anche a Walter LeNormand. «Anche LeNormand, in genere» mormorai. «O almeno così mi è parso le poche volte che l'ho incontrato. Aveva un eloquio molto rigoroso per ciò che riguardava la scelta dei vocaboli.» «Hmmm» borbottò Parsons. Non sembrava particolarmente interessato. Seguì un silenzio protratto. Io riflettevo intensamente e giunsi alla conclusione che l'idea di Parsons era pazzesca. Come era possibile che Luella Jamison si fosse sottratta al controllo dei genitori e che si fosse trasformata in un personaggio come Selena LeNormand? Sottoposi l'interrogativo a Parsons. «Lo so, è praticamente impossibile. Se la sua forma di minorazione mentale fosse stata dovuta a un qualche osso che comprimeva il cervello, e in seguito a chissà cosa questo si fosse sistemato restituendola alla normalità... ma è un'evenienza poco probabile, e non ho trovato alcun medico che accetti questa possibilità...» «No, certo» pontificai. L'osservazione sembrò irritarlo. Mi fissò per un istante, poi disse: «Bene, allora prenda in considerazione quest'altro dato: Luella Jamison è scomparsa la sera del sette agosto. Il nove di agosto, alle dieci e mezza di mattina, Joe Peters, impiegato all'anagrafe di New Zion, ha rilasciato una licenza matrimoniale intestata a un certo Walter R. LeNormand, cittadino britannico, e a una certa Selena Smith. Smith!» ripeté in tono sprezzante. «Selena Smith, di Lafayette, Oklahoma. Anni ventuno. E non esiste una
cittadina che si chiami Lafayette, in Oklahoma». 10 Cras amet qui numquam amavit «Capisce che razza di storia ho per le mani, signor Jones?» La voce di Parsons era concitata, e masticava rabbiosamente il suo sigaro. «Nessun elemento su cui poter lavorare, solo una mezza idea che si regge a stento, e ogni volta che ci penso mi viene il dubbio che ormai per me sia ora di andare in pensione.» Non aveva tutti i torti. Sapeva in pratica tutto quel che sapevo io, salvo un particolare a cui io stesso mi sforzavo di non pensare: di lì a un mese, o poco più, Jerry avrebbe sposato quella donna, chiunque potesse essere. E appena mi venne in mente quest'idea, mi resi conto di un'altra cosa che di colpo mi riempì d'angoscia: adesso ero al corrente di una possibile spiegazione della provenienza di Selena, e con Parsons mi ero impegnato a non farne parola con anima viva, neppure con Jerry. Mi spaventava l'idea di dovermi tenere dentro quel segreto, e di ripensare a Luella Jamison ogni volta che avrei guardato Selena, senza aver modo di sapere quale fosse la verità. «Naturalmente,» stava dicendo Parsons «ho cercato di appurare se il professor LeNormand fosse stato visto insieme a quella che poi è diventata sua moglie in un periodo antecedente il sette di agosto. Ma a quanto risulta nessuno l'ha mai incontrata prima del nove. LeNormand non si è mai allontanato da qui salvo una volta, ed è stato il dieci di quel mese. Ha ritirato la sua auto dal garage verso le sette e si è diretto a nord lungo la Route 72. Non so dove sia andato o cosa abbia fatto, e non sono riuscito a scoprirlo. È rientrato poi in serata.» «Si sono sposati a New Zion?» «No. Li ha uniti in matrimonio un certo Willets, giudice di pace, che vive lungo la strada a pedaggio di Collegeville, a circa otto chilometri da New Zion.» Emise uno sbuffo di fumo e riprese: «Delle volte mi chiedo proprio come fa certa gente a ottenere simili incarichi: dovrebbero almeno saper leggere e scrivere. Questo Willets non va molto più in là e scrive con una lentezza esasperante. Ma la sua deposizione, almeno per un particolare, concorda con quella di Joe, dell'ufficio anagrafe. La sera del nove pioveva; tutti e due rammentano che la signora LeNormand era senza cappello e indossava un vecchio impermeabile che le andava troppo lungo di mani-
che. Secondo Joe si trattava di un impermeabile da uomo. E nel guardaroba di LeNormand, quando abbiamo ispezionato la casa, c'era appunto un affare del genere». «E la cuoca?» domandai. «Bessie! Buon Dio, che personaggio! Ha chiacchierato più di tutti gli altri messi insieme. Il guaio è che se n'è rimasta a Hampton, presso certi cugini, fino al quindici. LeNormand le aveva dato due settimane di ferie a partire dall'inizio di agosto. E, quando è tornata, la signora LeNormand era già lì, e la casa era in un disordine spaventoso, a sentir lei. Sempre che significhi qualcosa.» Nessuno dei due parlò per un bel pezzo; Parsons mi osservava con un sorriso, aspettando che dicessi qualcosa. Lo fissai a mia volta cercando di trovare una spiegazione a quanto mi aveva raccontato. Non la trovai. Pareva non esserci legame alcuno tra le due serie di avvenimenti. «Signor Parsons,» dissi infine «non immaginavo che un poliziotto potesse essere così esplicito. Mi spiace, ma non vedo proprio come io possa esserle d'aiuto nel trarre delle conclusioni da tutto ciò.» «Accidenti,» replicò senza perdere il sorriso «non ci sono segreti in questa faccenda, e lei sta facendo tutto quel che può. Non ho indiziati perché è assodato che nessuna delle persone implicate si trovava nelle vicinanze dell'osservatorio quando LeNormand è stato ucciso. Si, c'eravate voi due, ma non riesco ad immaginare un motivo al mondo per cui uno di voi abbia avuto interesse a fare una cosa del genere. E credo senz'altro al rettore Murray il quale esclude che foste al corrente dell'esistenza della signora LeNormand prima di quella sera.» «Infatti non lo sapevamo» confermai. Il sorriso mutò un poco. «Naturalmente se emergesse che lei o il giovane Lister l'avevate conosciuta prima che sposasse LeNormand...» «Be',» osservai «naturalmente non posso dimostrare che questo non è avvenuto, ma quanto meno gli elementi psicologici lo escludono.» «Sì,» convenne «lo riconosco. Ma adesso cerchi di pensarci bene ancora una volta: la signora LeNormand non ha mai fatto un accenno qualsiasi che possa collegarsi al suo passato, o spiegare da dove viene?» «No. Però ho notato che non parla mai di cose avvenute prima... prima di quest'ultimo mese.» Sembrò deluso. «Non ha neppure mai fatto nomi di persone che conosce, di posti dov'è stata?» «No, che io ricordi.»
«Be', la pregherei di prestare particolare attenzione a eventuali particolari del genere, e di riferirmeli.» L'idea non mi piaceva molto. «Ma dopotutto» presi a dire «non è che possa...» «Mettiamolo ben in chiaro,» mi interruppe Parsons togliendosi il sigaro di bocca e fissandomi senza più sorridere «io non sospetto affatto della signora. Non risulta che ci fossero attriti tra lei e LeNormand. Nel momento in cui suo marito è morto, stando alla testimonianza di Bessie, lei era in casa, e nessuno l'ha notata lungo le strade che portano dalla sua abitazione all'osservatorio. No, non avrebbe avuto la possibilità materiale di ucciderlo. Ma è avvolta da una sorta di mistero che non riesco a penetrare. Se ci riuscissi, saprei automaticamente chi ha ucciso il professor LeNormand. E vorrei farle notare, amico mio, che se si dovesse scoprire nel suo passato un elemento tale da giustificare questo omicidio, sarà molto meglio informarne subito il signor Jeremiah Lister, altrimenti c'è il rischio che un giorno o l'altro finisca bruciato vivo. Questo è uno dei motivi per cui chiedo la sua collaborazione.» Aveva ragione, certo. Promisi di riferirgli tutto quello che avessi potuto scoprire e lui mi ringraziò, alzandosi. Capii che intendeva congedarmi, ma avevo ancora una domanda da fargli. «Signor Parsons, lei ha accennato ai diversi motivi per cui LeNormand può essere stato ucciso...» «Fermo restando» intervenne in fretta «che non ho idea del perché in realtà sia stato ucciso. O di chi l'abbia ucciso.» «Sì. Ma sa come è stato ucciso?» Aggrottò la fronte. «Sì e no. Metà della facoltà di scienza ci ha lavorato su e l'opinione generale è che sia morto a causa di ustioni...» «Bella scoperta!» «... di ustioni non causate da fuoco o da sostanze chimiche, ma da particolari radiazioni.» «Radiazioni?» «Già. Mi hanno spiegato che nei laboratori di fisica, sezione esperimenti riservati, riescono a produrre bruciature del genere, anche se di entità molto inferiore. Hanno anche esaminato con un contatore Geiger la sedia su cui si trovava LeNormand, senza però rilevare nulla. Dopo di che ho rinunciato a richiedere un'esumazione del cadavere. Uno dei docenti mi ha riferito che in un laboratorio dotato di apparecchi più potenti si potrebbero ottenere risultati molto più evidenti.»
«Per l'amor di Dio,» esclamai «non l'invidio proprio: ci mancava solo la possibilità di radiazioni atomiche.» Si strinse nelle spalle. «Come per tutto ciò che riguarda questo caso, non ci sono prove concrete in un senso o nell'altro. Di qualsiasi cosa si trattasse, non ha lasciato tracce che si possano analizzare, nulla su cui lavorare. Non ho, in campo scientifico, una competenza che mi consenta di approfondire questa possibilità, e quindi mi serve solo a farmi una vaga idea di quale tipo di individuo possa essere l'assassino.» «Forse da qualche parte della Carolina del Sud c'è un inventore pazzo che conosceva i Jamison e...» Mi strinse cordialmente la mano. «Arrivederci, signor Jones. È stato molto gentile a venire fin qui.» Mi stava sospingendo verso la porta con cortese fermezza. «Mi terrò in contatto con lei. Mi informi, se viene a sapere qualcosa. E per amor del cielo» a questo punto ero già oltre la soglia «non tiri fuori altre ipotesi come quella dell'inventore pazzo» avevo cominciato a scendere i gradini della scalinata d'ingresso, «non la condurranno a nulla. Sono arrivato a prenderle in considerazione perfino io, si figuri un po'.» Gli rivolsi un ultimo saluto attraverso la porta a molla e mi avviai verso la stazione, ridacchiando. Nonostante tutto quell'uomo mi era simpatico. Ripensando al nostro colloquio mi accorsi che mi aveva manovrato con molta abilità, ma non era riuscito a farmi dire che Jerry e Selena si sarebbero sposati di lì a un mese. E a questo pensiero mi assalì un senso di disperazione. Una stella cadente attraversò il cielo, simile a una goccia di luce, e svanì nell'oscurità che sovrastava il Sound. Il volto del dottor Lister aveva assunto un'espressione che mi era nuova: fredda e guardinga, come quella di chi aspetta l'alba del giorno della sua esecuzione. Lo sguardo era fisso sulla fiamma giallognola della candela... tanto simile a quell'opera di Brancusi che Grace aveva nel suo appartamento. «Come vedi vengo meno alla promessa fatta a Parsons. Ti riferisco una cosa che mi è stata detta in via assolutamente confidenziale, ma credo che, se fosse qui, lui approverebbe.» Le sue labbra si mossero lentamente. «Sì, sì, ne sono convinto. Posso capire cos'è stato per te vivere con questo segreto. Mi spiace che ci siano state quelle settimane in cui... in cui non siamo riusciti a capirci.»
«Non ha più importanza.» «Per me sì» dichiarò con forza. «Non sono stato saggio come avrei dovuto.» «Non avevi modo di sapere. Non parliamone più.» Annuì lentamente, e dopo qualche istante chiese: «Sei poi riuscito a scoprire se era... è... Luella Jamison!». Quella domanda parve riecheggiare nella notte che ci racchiudeva come due falene in una goccia di acqua cupa. Mi passai la lingua sulle labbra. «Sì. Credo di sì.» Nel mese che seguì, la vita di Berkeley Jones, a New York, fu un vero e proprio inferno. Non riuscivo a concentrarmi sul lavoro: per fortuna era il periodo delle festività natalizie e tutto andava un po' a rilento, così la cosa non fu particolarmente notata. Non riuscivo a mangiare e dormivo pochissimo. Ero quasi sempre stordito dal bere e di certo risultavo molto sgradevole per chi mi era vicino. Grace, dopo una brutta serata a casa sua in cui piantai una stupida, lacrimosa tragedia circa l'imminente matrimonio di Jerry, disse che ero disgustoso e dovevo farmi vedere da un medico di sua conoscenza. Mi fissò un appuntamento e scoprii che si trattava di uno psicanalista. Il dottor Lister fu più intelligente: dopo avermi visto scolare tre whisky nel giro di un quarto d'ora, disse che il mio entusiasmo era encomiabile ma che se non riducevo le dosi avrei presto cominciato a svegliarmi tutte le mattine con dei mal di capo spaventosi. Mi spiegò cosa succedeva agli organi interni degli alcolizzati e concluse che gli sarebbe dispiaciuto dovermi operare, un giorno o l'altro. Poi volle sapere se dormivo bene e io risposi che avevo rinunciato al sonno in quanto lo consideravo uno spreco di tempo. Mi preparò una ricetta e in un momento di lucidità la presentai al farmacista. Dopo di che per diverse notti riuscii a dormire normalmente, ma poi le compresse si esaurirono e io non ebbi il coraggio di farmi fare un'altra ricetta. Jerry faceva del suo meglio per arginare la situazione. Sapeva benissimo che non era la mia avversione per Selena o il dispiacere per la nostra imminente separazione a spingermi ad agire in quel modo. Ma non capiva perché mi rifiutassi di uscire con loro due, ogni tanto; perché evitassi persino di andare a cena da Grace quando ci sarebbe stata anche Selena. (Lui non aveva stampato nella mente il volto di Luella Jamison, stolido, vacuo, dai lineamenti in parte così familiari da darmi la nausea; non era, come me, costretto a metterlo a confronto con quello di Selena ogni volta che la ve-
deva.) Era paziente, affettuoso, più volte mi aiutò a coricarmi, mi faceva ramanzine e teneva un'abbondante scorta di bottiglie in casa in modo che non andassi a sbronzarmi altrove, dove non poteva tenermi d'occhio. Ma c'erano momenti in cui anche la sua pazienza si esauriva e una volta esplose: «Ma Cristo, Bark, tira fuori quel che ti rode e togliti il peso dallo stomaco, oppure piantala di ridurti tutte le sere in quello stato!». Ma non parlai, né con lui né con altri. L'alcool non mi rende ciarliero e riuscii a tenere la faccenda per me. Dissi a Jerry che se anche non capiva cosa diavolo avessi in corpo non doveva preoccuparsi. Prima o poi mi sarebbe passata, assicurai. «Buon Dio, lo spero proprio. Non ti ho mai visto ridotto così.» «C'è sempre da imparare.» Si mordicchiò un labbro e per un attimo mi chiesi se ci saremmo azzuffati. Quasi quasi mi avrebbe fatto piacere. Invece si limitò a scrollare il capo. «Non so cosa tu abbia in testa e vorrei che me ne parlassi. Sarebbe meglio per entrambi.» «Lascia perdere, non ho proprio niente. E comunque tu non c'entri affatto.» «Non è vero che non hai niente. E dato che non vuoi parlarmene, ritengo che ci sia di mezzo Selena.» «Sei matto.» «Proprio no. Dammi retta, stupido che non sei altro, non preoccuparti di ferire i miei sentimenti. Su, vuota il sacco. Prometto di non arrabbiarmi.» Ero tentato. Sarebbe stato un sollievo tirar fuori tutta la storia. Per certi versi aveva il diritto di esserne al corrente, nonostante la promessa che avevo fatto a Parsons. Lui stava per sposare Selena, e se in quella donna c'era qualcosa che non andava, se il suo passato nascondeva qualcosa di inaccettabile, era giusto che qualcuno lo mettesse in guardia. Stavo quasi per raccontargli la faccenda di, Luella Jamison, ma cosa avrei ottenuto? Jerry era innamorato di Selena. Nulla di quanto potevo dirgli gli avrebbe impedito di sposarla. Metterlo a parte di quello che sapevo avrebbe semplicemente avvelenato la sua felicità senza alterare minimamente il corso degli eventi. Jerry non era tipo da cambiare idea, una volta giunto a una decisione. Cosi mi limitai a dire: «Stai facendo di un sassolino una montagna. È solo che sto bevendo un po' troppo, con tutte le conseguenze del caso». «A te Selena non piace, Bark. Me ne rendo conto e non posso farci nulla. Ma neanche prima ti era simpatica, e non ti comportavi come adesso. Eri di ottimo umore la sera che siamo andati al Barney's. Cos'è accaduto di
nuovo, ultimamente, da cambiare così radicalmente il tuo atteggiamento?» «Nulla.» «Non c'è stato uno scontro tra voi due, vero?» «Santo cielo, no. Senti, smettila di angustiarti.» «Maledizione, lei non nutre alcuna avversione per te. Anzi ti trova molto in gamba, lo sai?» "Ah, mi trova in gamba, eh?" pensai. "Ma neanche per idea. Sa benissimo qual è la mia opinione su di lei. Se riesce a individuare in un batter d'occhio il quattro di picche in un mazzo di cinquantadue carte, può tranquillamente leggermi nella mente e sapere come la giudico." Ma mi limitai a dire: «Che bellezza». Lui girò sui tacchi dirigendosi alla porta. «Certe volte mi fai saltare i nervi.» Mi sentii più depresso che mai e uscii a bere qualcosa, ma il liquore aveva un gusto sgradevole, come tutto del resto in quel periodo. Mi detestavo e ordinai un altro bicchierino mentre mi dicevo che ero un verme e riflettevo su quanto Selena somigliasse certe volte a Luella Jamison. Proprio quel giorno andai a comperare il regalo di nozze. Non dovevo essere più sobrio di quanto lo fossi in media quel mese perché puntai su un'edizione di lusso dell'Enciclopedia Britannica. Lì per lì mi parve un'idea spiritosa. "Jerry e Selena," mi dissi "le due menti eccelse. Possono starsene seduti davanti al caminetto, lui a leggersi il volume EXTR-GAMB e lei quello JERE-LIBE, e sarà una deliziosa seratina domestica." Poi mi vergognai di me stesso e acquistai un acquarello di Marin che avevo sempre desiderato, ma ero così al verde che dovetti chiedere un prestito a Grace. Lei mi fece promettere che non avrei speso quei soldi in bevute. Anche per Jerry fu un periodo critico. Tutto il suo parentado si era coalizzato nel riprovare quel matrimonio rendendogli la vita molto difficile. Tutti protestarono e cercarono di dissuaderlo, singolarmente o in gruppo. E il più accanito fu lo zio Horatio Delavan, un ometto che tirava continuamente in ballo citazioni dalla Bibbia; una sera si presentò a casa nostra all'improvviso. Jerry andò ad aprire la porta. «Salve, zio Horatio.» «Buonasera, Jeremiah. Desidererei scambiare qualche parola con te.» Jerry chiaramente non prevedeva che si sarebbe limitato a qualche parola, ma ricacciò la risposta che gli era salita alle labbra e lo invitò ad accomodarsi. Io mi ritirai in camera da letto, però non chiusi la porta.
«Jeremiah,» riprese la voce di zio Horatio col tono di un vicedirettore di banca che convoca un piccolo correntista per comunicargli che è andato in rosso «non intendo menare il can per l'aia. Desidero discutere del tuo... umh... precipitoso matrimonio con questa donna.» «Del mio matrimonio con la signora LeNormand, zio Horatio. Ti prego di tenerne presente il nome. Sarà opportuno.» «Benissimo. Con questa signora LeNormand. Tua zia Mabel e io siamo molto inquieti, ragazzo, davvero molto inquieti.» La voce di Jerry aveva un tono calmo che non faceva presagire nulla di buono. «Me ne rincresce, zio Horry. Non ritengo che vi sia motivo di essere inquieti.» «Forse no. Ma tua zia Mabel e io siamo davvero convinti che non stai agendo con l'opportuna prudenza.» Si schiarì la voce e il tono divenne mellifluo. «Dopotutto le convenzioni sociali hanno alla base solide ragioni. E l'usanza richiede di lasciare trascorrere più tempo tra... umh... la conclusione di un matrimonio e l'inizio di un nuovo legame.» «Non vedo proprio alcuna buona ragione per cui non dobbiamo sposarci il mese prossimo.» «Le convenzioni, Jeremiah. E c'è di mezzo un delitto. Entrambi vi siete implicati, anche se del tutto innocenti, certo. Ma la gente parlerà.» «Che parli quanto vuole. Non me ne importa un accidente.» Zio Horatio parve risentirsi. «Attento, ragazzo mio, non è il caso di ricorrere a simili espressioni. Discutiamone da gentiluomini.» «Non c'è proprio niente da discutere. Ritengo che questa decisione riguardi esclusivamente me, zio. Mio padre e io ci siamo perfettamente intesi e a mio parere questa è l'unica cosa che conta.» «Certo, se tuo padre...» «Papà desidera che la cerimonia abbia luogo nella sua villa di Long Island. Ti sembra una dimostrazione sufficiente della sua approvazione?» La voce di Jerry si faceva sempre più bassa e risoluta, segno inequivocabile di una collera crescente. Rispose ancora ad alcune domande, riguardanti il credo religioso di Selena, in un tono che avrebbe dovuto mettere in guardia lo zio. Ma questi non era mai stato famoso per la sensibilità agli stati d'animo altrui. Quando venne a sapere che Selena non era legata ad alcuna chiesa cominciò a manifestare il suo sdegno tirando fuori una buona dose di citazioni dal Vecchio Testamento. Il succo della filippica era che un membro della famiglia che si fosse congiunto in matrimonio con un miscredente non avrebbe avuto bisogno di fiamme ossidriche nell'aldilà.
Non ho idea di quanto avrebbe potuto continuare su quella strada ma, dopo una frase particolarmente arroventata, Jerry lo interruppe. «Attento, zio Horry. Non dire cose di cui in seguito potresti pentirti.» Sentii la sedia raschiare il pavimento mentre si alzava. Dopo di che dallo zio Horry venne solo qualche parola farfugliata e qualche momento dopo Jerry disse in tono gelidamente impersonale: «Meglio sposarsi che bruciare all'inferno». E fu la conclusione di quell'episodio. Lo zio Horry se ne andò traboccante di sdegno. Quando la porta d'ingresso venne rinchiusa, e con una certa violenza, io riemersi. «Be',» osservai «a quanto sembra lo zio Horry è dalla parte dei giusti.» Mi lanciò un'occhiata di fuoco, poi sorrise. «È innocuo, certo. Solo che mi dà ai nervi.» «Ma senti, perché non li metti a tacere tutti quanti? Rimanda le nozze di qualche mese e quelli si daranno una calmata.» «Anche tu? Maledizione, Bark, non c'è proprio nessuno di voi che mi lasci in pace. Neanche Grace. Ieri sera mi ha telefonato chiamandomi "mio giovane, impetuoso Lochinvar" e piacevolezze analoghe. Ma cosa pretendono da me? Che me ne stia tranquillo lasciando Selena a vivere in un albergo, sola, senza amici, senza nulla da fare, a tormentarsi? Con l'incubo di quella tragedia ad assediarla giorno e notte? Anche se non era innamorata di LeNormand, è pur sempre un ricordo orribile.» Mi guardò con aria supplichevole. «Cerca di renderti conto. Non so neppure di quanto denaro disponga. Magari proprio ora si sta chiedendo come potrà cavarsela. Accidenti, Bark, io desidero aver cura di lei. Io la amo e lei mi ama, e perché diavolo dovremmo aspettare mesi e mesi solo perché così esige l'usanza?» Si mise a camminare avanti e indietro. «Senti, Bark, forse a tuo parere è tutta una mia fantasia. Ma non è così. Io non voglio aspettare, ma sarei disposto a farlo se lei me lo chiedesse.» Solo dopo un istante capii il significato implicito di queste parole. «Dunque è lei che vuole questo matrimonio tra un mese?» «Sì. E ne capisco anche il motivo. Non è tipo che faccia amicizia con il primo venuto. Non ha amici a parte te e Grace. E me, s'intende.» E quello in realtà, mi dissi, era il calcolo più ottimista. Sapevo che Grace aveva presentato Selena ad alcune persone del suo giro di conoscenze ma, data la sua recente vedovanza e il fatto che non parlava il loro stesso linguaggio, non avevano legato; così potevo immaginare che trascorresse molte lunghe ore di solitudine nella sua camera d'albergo in attesa della se-
ra e del momento in cui avrebbe potuto ritrovarsi con Jerry. Questo pensiero non mi suscitò particolare commiserazione perché non mi era mai sembrata una persona che avesse bisogno di amicizie. «Certo,» risposi cautamente «non dev'essere una vita allegra, la sua. E mi rendo conto che non avrebbe potuto restare a Collegeville.» Mi fissò negli occhi. «Quando ci siamo fidanzati, Bark... e non lo racconterei a nessun altro... mi ha detto: "Sposami al più presto, Jerry. Ho bisogno di te". Così abbiamo deciso per gennaio. Le ho spiegato come l'avrebbero presa i miei familiari, ma per lei non aveva importanza, e neanche per me.» Sì, riconobbi tra me, pareva davvero aver bisogno di lui, in un modo oscuro che non riuscivo a definire. Fin dal primo momento che si erano visti, nella villetta di LeNormand, a Collegeville, avevo avvertito l'attrazione che provava per Jerry. E se così stavano le cose, se lei lo aveva pregato di sposarla al più presto, dovevo ammettere che Jerry stava agendo nel modo migliore anche se avrei trovato più corretto da parte di Selena pensare a lui oltre che a se stessa. «Al diavolo, non lasciarti impastoiare da quella gente. Probabilmente hai ragione tu, e papà è d'accordo: questa è la cosa che conta veramente.» «Sì,» mormorò lui soprappensiero «papà è d'accordo.» Io non feci commenti e Jerry parve riflettere per qualche istante. «Selena si è comportata in maniera meravigliosa con lui. Siamo andati a trovarlo quel fine settimana, dopo la serata trascorsa tutti insieme, ricordi? E già nelle primissime ore è riuscita a conquistarlo. Pensavo che potessero nascere degli attriti, e invece no. Dopo che gli ho comunicato le nostre intenzioni, loro due sono passati nella biblioteca, hanno chiacchierato per un po' e quando ne è uscito lui mi ha dato la sua benedizione, per così dire.» Il dottor Lister cambiò posizione, prese una sigaretta e l'accese. Al riverbero del fiammifero il suo viso appariva composto. «Sì» confermò nel tono imparziale di chi non si difende né si loda. «Ho detto a Jerry di fare come desiderava. Non avrei potuto impedire quel matrimonio e volevo fargli sentire che ero dalla sua qualsiasi passo avesse deciso di compiere. Voglio raccontarti ciò che è accaduto in biblioteca.» «Ci siamo recati là dopo cena» cominciò. «Le spiegai che desideravo avere un piccolo colloquio con lei prima che le cose venissero stabilite in modo definitivo. Ci sedemmo davanti al caminetto e io cercavo di scegliere le parole con estrema cura. Era una donna bellissima, lo vedevo, ma a
parte questo mi rendevo conto di sapere ben poco di lei. Così cominciai a parlarle di Jerry, e di ciò che rappresentava per me. Le spiegai che ero costretto ad allevarlo da solo e che se in seguito avesse scoperto dei difetti nel suo carattere non doveva giudicarmi troppo severamente. «"Naturale che abbia dei difetti, dottor Lister," osservò "come tutti gli esseri umani, del resto. È cosa già scontata, non mi preoccupa." «Mi parve una reazione piuttosto fredda e mi dissi che non avevo saputo creare l'atmosfera che desideravo per il nostro colloquio. Le spiegai allora che Jerry non aveva bisogno del mio consenso per le sue scelte, quali che fossero, ma che gli volevo molto bene e desideravo vederlo felice. Le parlai anche della nostra famiglia, dei valori etici a cui ci atteniamo con orgoglio, sebbene si distacchino un poco dalla norma. Le feci capire che, se lei avesse sposato Jerry, si sarebbe unita non solo a mio figlio ma a tutta la famiglia Lister, di cui Jerry faceva parte integrante. «Mi aspettavo che mi dicesse qualcosa di sé e invece non aprì bocca. Così alla fine le chiesi, con il maggior tatto possibile, se le dispiaceva raccontarmi qualcosa dei suoi precedenti e dirmi quale fosse la sua provenienza.» Trasse una lunga boccata dalla sigaretta fissando meditabondo la terrazza. Sentivo che stava cercando di chiarirsi qualcosa che lo lasciava ancora perplesso. «Non replicò subito. Mentre attendevo che parlasse ebbi l'impressione, Bark, di aver detto qualcosa che l'avesse offesa, ma non mi ci soffermai molto perché non mi pareva di aver esulato dall'ambito di una più che legittima richiesta di informazioni. «Infine trasse un sospiro. "Lei ha senz'altro tutti i motivi per farmi simili domande, dottor Lister, ma mi è molto difficile rispondere." «Mi parve che cercasse di eludere il nocciolo della questione e mi scusai se avevo detto qualcosa che l'aveva turbata. «"No," disse "non si tratta di questo. Fose, se le spiego ciò che intendo, capirà perché non posso dirle di più." Ebbi la netta sensazione che quanto mi avrebbe raccontato sarebbe stato tutto quello che avrei potuto ottenere da lei. "Walter LeNormand a suo tempo mi ha salvato, dottor Lister. Un uomo che a lei sarebbe piaciuto, ritengo. E suo figlio ne era amico sincero. Ma devo dirle che io non ne sono mai stata innamorata, per quanto lo apprezzassi e lo stimassi. Mi ha accolta nella sua casa e mi ha sposata, in un momento in cui ero sola e avevo bisogno di sostegno. Adesso è morto e nessuno sa come o per quale motivo. Ma quando ci siamo sposati il mio
passato si è chiuso. Per me è stata una nuova vita, una nuova esistenza che lui mi ha offerto e che ha forgiato per me. Nei miei precedenti non c'è nulla di cui lei debba angustiarsi o preoccuparsi. Jerry mi ama per ciò che sono, non per ciò che ero prima. Desidero che anche per lei sia così. Cercherò in tutti i modi di essere una buona moglie per suo figlio, farò del mio meglio per lui." «Tacque per qualche istante; poi proseguì: "In un certo senso anche Jerry mi ha salvata. In seguito alla morte di mio marito io non sapevo che fare. Mi trovavo nuovamente sola in un mondo ostile. Jerry mi ha trasformato la situazione senza farmi domanda alcuna. La prego, mi consideri semplicemente Selena LeNormand, e nulla di più. Desidero essere apprezzata da lei per ciò che sono, non per quello che sono stata". Si interruppe per fissarmi a lungo. "Le posso assicurare che, in base ai vostri criteri morali, non c'è nulla di disonorevole nel mio passato e che i miei sono assolutamente alla pari con voi." «Alla conclusione di questo discorso, Bark, non sapevo più cosa dire. Sentivo che non mi avrebbe detto altro, per quante domande le potessi fare. Tutto ciò che ha detto, come te lo sto riferendo, era un modo cortese e sfuggente per farmi capire che non intendeva raccontarmi nulla sul suo conto. Ma durante tutto quel nostro colloquio nella biblioteca avvertii un profondo rispetto per lei. Emergeva una forte personalità dalle sue parole e dal modo in cui le pronunciava. «Mi chiesi se fosse opportuno o meno approfondire. Se c'era un mistero nel suo passato, sentivo che dovevo conoscerlo. Ma al tempo stesso era fondamentale per me fare in modo da non assumere una posizione di opposizione rispetto a quel matrimonio. Mi puoi capire, vero?» «Sì,» risposi «capisco bene come ti sentissi in difficoltà.» Il suo racconto mi aveva interessato, ma fin dall'inizio avevo compreso che lui non sapeva più di quanto sapessi io. Eppure, se solo se ne fosse reso conto, là, nella sua biblioteca, aveva avuto l'unica possibilità che mai si fosse presentata a qualcuno di noi di salvare la vita di Jerry. Non potevo fargliene una colpa. Se avesse saputo qual era la posta in gioco, avrebbe usato le sue carte in modo ben diverso. «Mi è parso più saggio non insistere» proseguì. «Mi sono limitato a chiederle se, secondo lei, dal suo passato potesse sorgere qualche pericolo per lei e per Jerry quando ormai sarebbe stato troppo tardi. «Si è protesa in avanti sulla poltrona e ha detto: "No, no, gliel'assicuro. Non accadrà mai nulla del genere".
«Poi parlammo d'altro. Cominciavo a provare una grande ammirazione per lei come persona. Mi dava un'impressione di solidissima forza interiore, e non c'erano dubbi circa la sua intelligenza. Jerry, mi convinsi, aveva fatto una scelta oculata: sarebbe stata un'esperienza straordinaria vivere al fianco di una donna come Selena. Guardavo senza apprensione al loro futuro insieme. Lei era all'altezza di mio figlio, indiscutibilmente. Se avessi dovuto scegliere tra una ragazza qualsiasi, per quanto proveniente da una famiglia rispettabilissima, e la strana donna che avevo di fronte... non avrei avuto esitazioni. «Solo una volta mi nacquero dei dubbi. Stavamo parlando del loro futuro e, benché non volessi intromettermi in quelle che potevano essere le decisioni sue e di Jerry, accennai alla gioia che mi dava il pensiero del loro matrimonio e dissi qualcosa circa le mie speranze che avessero dei bambini. «"No," dichiarò lei con forza "questo è da escludere." Forse notò nella mia espressione una certa sorpresa o delusione, perché dopo un attimo aggiunse: "Non subito, almeno". «Provai un senso di acuto imbarazzo; evidentemente ero andato a toccare un tasto molto delicato. Mi affrettai a dire che non volevo crearle problemi ma speravo che nulla impedisse loro di crearsi una vera famiglia, quando si sarebbero sentiti pronti. «Allora mi rivolse il sorriso più caldo, più affettuoso che abbia mai scorto in lei. "Oh, no" rispose, e nella sua voce c'era una nota di autentica speranza. "Certo che desidero dei figli, un giorno o l'altro."» Poi tacque e mi resi conto che non poteva aggiungere altro per la soluzione del problema che avevamo di fronte. I minuti scorrevano via e io ripresi il mio racconto. Nulla di quanto gli avevo sentito dire dava una maggiore consistenza alla forma priva di ombra che mi assillava. Eppure, al tempo stesso, nulla di quanto mi aveva detto pareva in contrasto con il delinearsi sempre più preciso del suo contorno. Jerry e io andammo alla villa di Long Island diversi giorni prima del matrimonio. C'era anche Grace e un paio di zii e zie di Jerry. Un'atmosfera molto tranquilla, certo, e sebbene tutti avessimo qualche riserva, probabilmente io ero l'unico a nutrire un'autentica avversione nei confronti di Selena. Lei, devo ammetterlo, si comportò in maniera perfetta. La prima sera, il dottor Lister le mostrò tutti i suoi libri più preziosi: il Sir Thomas Brown
che aveva scoperto in un negozietto di Tokio e che aveva acquistato per pochi yen perché il proprietario lo considerava un qualsiasi libro inglese; le edizioni speciali di Melville a cui teneva tanto; la copia numerata di Endymion e la raccolta di trattati arabi di matematica. Selena studiò uno di questi ultimi per una decina di minuti, ricordo, pur confessando di non sapere una parola di arabo. E tuttavia, quando lo restituì, osservò con un sorriso che si trattava di un testo interessante. Lui commentò ridendo che era la prima donna a considerarlo tale, e che poteva tornare a esaminarlo quando avesse voluto. La sua bellezza era come una candela che illuminava tutta la casa. Dovunque andasse, pareva portare con sé una sorta di radiosità ed era commovente vedere come Jerry la seguisse sempre con gli occhi. Eppure non li vidi mai scambiarsi tenerezze. Una volta, entrando in quella che abbiamo sempre chiamato la stanza in più, un piccolo locale attiguo alla biblioteca e che in teoria avrebbe dovuto servire a una segretaria, li trovai seduti sul vecchio divano di pelle. Jerry non la teneva tra le braccia, ma stava baciandole una mano e Selena ne osservava il capo chino con uno sguardo limpido, quasi stupito, e con quel particolare sorriso dei bambini quando non si sentono ben sicuri di sé. Mi ritirai subito, scusandomi, ma mi sentivo rasserenato. Formavano una splendida coppia, e forse Selena aveva davvero un cuore. Più tardi la trovai in biblioteca, sola, di nuovo intenta a esaminare alcuni libri del dottor Lister. Indossava un maglione pesante, beige, una gonna di lana verde scuro, e nessun gioiello tranne l'anello con lo smeraldo quadrato che le aveva regalato Jerry. Domandai se disturbavo. «No, certo, Bark» rispose deponendo il libro. Mi accomodai nella mia poltrona preferita, vicino al caminetto. Guardandola, incontrando quei suoi occhi straordinari che mi osservavano, provai un certo imbarazzo. «Selena» mormorai. «Sì?» «Desidero scusarmi per quanto è successo nell'ultimo mese. Temo di essermi comportato abbastanza male.» «Ma no, non è il caso.» «Ma mi dispiace ugualmente. Senti... Jerry è un ragazzo molto a posto, merita tutto il meglio. Trattalo bene.» Continuò a fissarmi. «È ciò che desidero» dichiarò infine. E poi: «Cosa vorresti che facessi?». Evitai il suo sguardo. «Oh, be', sai cosa intendo. Dagli una possibilità.»
«No,» replicò «non capisco. Non mi comporto come dovrei?» Sentii che la conversazione cominciava a sfuggirmi di mano e cominciai a pensare che avevo detto delle sciocchezze. «Ma no, certo. Ti comporti benissimo. Non far caso a me, forse sono un po' stordito.» Poi, con stupida intensità: «Se non capisci quel che intendo, in un certo senso va a tuo merito; ma voglio solo dirti questo: ricorda che Jerry è la persona migliore che mai potrai incontrare, e c'è un solo modo di comportarsi con lui, cioè con sincerità e onestà». Stavo per aggiungere: "E se tu sei Luella Jamison, per amor del cielo diglielo", ma non mi azzardai. Mi ascoltò senza muoversi e senza mutare espressione, poi si alzò e mi venne vicino, fissandomi, e io cominciai a pentirmi delle mie parole. Forse dipendeva dalla calma impersonale del suo volto, ma di nuovo sentii sfiorare la soglia della mia coscienza da quel brivido di paura che lei sembrava capace di provocarmi. Mi posò una mano sulla spalla. «Bark, mi sforzerò in tutti i modi di fare come desideri, con tutta la volontà e l'intelligenza di cui sono capace. Questo ti tranquillizza?» «Sì.» «Tu speri che io renda felice Jerry,» continuò con calma «ma ti assicuro che io me lo auguro mille volte più di te. Però devi cercare di cambiare il tuo atteggiamento nei miei confronti.» «Non ho nessun particolare atteggiamento.» «Sì, invece. Ce l'hai sempre avuta con me. Non me la prendo perché è una cosa naturale, immagino. Ma oltre a questo tu diffidi di me: non farlo. Dimentica tutto ciò che hai pensato sul mio conto. Jerry e io abbiamo in comune più cose di quanto immagini, e andrà tutto bene tra noi se non ci saranno interferenze.» Dopo di che uscì senza voltarsi. Per lungo tempo rimasi in poltrona, guardando i fiocchi di neve che turbinavano al di là della finestra. Forse era quello spettacolo a darmi il senso di gelo che mi invadeva, ma credo piuttosto che fosse dovuto alla consapevolezza che, qualunque fosse l'elemento che mi era intollerabile in Selena... e ancora non riuscivo a definirlo con esattezza... non avevo la possibilità di resisterle. Da lei emanava un'indefinibile forza profonda. Il suo non era stato un rimprovero, che d'altronde avrei perfettamente meritato, ma un avvertimento, e così preciso da atterrirmi. Eppure, ricostruendo quell'episodio, riascoltando mentalmente le sue parole, mi accorgo che avevano un significato ulteriore, che in quel momento non seppi cogliere.
Poco dopo chiesi a Thomas di portarmi da bere e continuai a starmene là, davanti al caminetto. Poi arrivò Grace, sempre affascinante e piena di entusiasmo, che manifestò la sua disapprovazione. «Che fai? Rimugini cupamente e bevi?» «Già.» «Su, allegro. Domani è il gran giorno... poi vedrai che ti passa tutto.» «Ma certo.» Si accomodò sulla poltrona su cui era stata seduta Selena. «Ancora non ti sei rassegnato, a quanto vedo.» Mi alzai e la baciai sulla guancia. «Ti prego, lasciami prendere fiato, tesoro. Sono un perfetto idiota, lo so, ma la cosa dà fastidio a me esattamente come a tutti voi.» «Credo che tu stia rovinando questo periodo a Jerry» osservò in tono serio. «È il tuo comportamento che riprovo.» «E non i miei motivi?» «Mi offri una sigaretta, per favore? Grazie.» Emise una lunga boccata di fumo che nascose la sua espressione. «No. Credo che i tuoi motivi siano perfettamente giusti.» Provai un impeto di gratitudine. Dunque c'era almeno una persona che non mi giudicava un perfetto imbecille. «Mi togli un peso dallo stomaco. Cominciavo a domandarmi se stavo diventando pazzo.» Allargò le mani in gesto di ironica rassegnazione. «Selena è una splendida donna, ma...» non terminò la frase. «Ma?» insistei. Si alzò avvicinandosi e mi fece alzare. «Ma ancora non so quanti anni abbia.» Mi prese sottobraccio e uscimmo insieme. Grace aveva senza dubbio dei momenti di grande intuizione. La mattina del dodici smise di nevicare e comparve il sole. In casa fervevano i preparativi per gli addobbi e il resto, così Jerry, Selena e io andammo a divertirci con la slitta. C'è un lungo pendio che inizia un po' sopra la casa e scende fino alla riva del Sound. Un paio di tratti sono abbastanza ripidi: Jerry e io li avevamo affrontati per anni, ma non mi ero mai del tutto abituato al brusco dislivello proprio all'altezza della terrazza, là dove la slitta vola letteralmente in aria e ci si sente in caduta libera nei pochi attimi prima che i pattini atterrino nuovamente sulla discesa sottostante. La grande slitta ci accolse tutti e tre e devo dire che Selena non batté mai
ciglio. A un certo punto mi voltai a guardarla, seduta dietro di me, e notai un'espressione esultante sul suo viso. Più tardi rientrammo e Thomas ci servì un rum bollente, davanti al caminetto. Ce ne stemmo lì a ridere e chiacchierare, Jerry e Selena si tenevano per mano. Poi venne l'ora di pranzo, poi fu il dopo pranzo, e subito giunse l'ora di salire a cambiarci. Il soffitto della mia camera brillava per il riverbero del sole sulla neve. Mentre mi vestivo mi concessi un bicchiere. Felice la sposa su cui il sole splende e maledizione a quel bottone del colletto. Venne l'ora di scendere e di attaccarmi un sorriso sul viso mentre uscivo dalla porta della stanza. Grazie al cielo non fu un matrimonio sovraffollato: meno eravamo, meglio era. La marcia nuziale fu quella del Lohengrin perché Jerry aveva voluto offrire la cerimonia più convenzionale e sentimentale alla donna amata le cui prime nozze erano state celebrate davanti a un giudice di pace chiamato Willets. «Ecco giunge la sposa»... avanzava da sola, e così supremamente bella nell'abito scelto da Grace che quasi mi mancò il fiato. Un tessuto grigio argento, lucente come metallo, morbido come velluto, e una sottile coroncina di fiori attorno al capo. Mughetti provenienti dalla serra, probabilmente... I suoi occhi erano fulgidi e freddi, remoti come le stelle, come accesi da una luce interiore. Il viso era immoto, più che mai simile a quello di una statua che avesse preso vita. «Dov'è lo sposo?»... Jerry in marsina, fermo davanti al tavolo dell'atrio, ora trasformato in altare, pallido, teso e deciso in volto, come quando si schierava sul campo prima del calcio di inizio e si assestava il sottogola del casco... Il rapido sorriso che rivolse alla sposa mentre il pastore recitava le formule di rito. Il sì, pronunciato da entrambi con voce ferma e bassa... «E se qualcuno dei presenti ha giusto motivo»... e io pensavo di conoscere un giusto motivo... «o taccia per sempre»... Va bene, tacerò per sempre. Jerry baciava Selena, adesso sua moglie. Tutti baciavano la sposa... Le tue labbra sono fredde, Selena... Sì, una bellissima cerimonia... Gradirei un'altra coppa di champagne, Thomas... Già, come passa il tempo. Sembra giusto ieri che noi... I due che salgono di sopra a cambiarsi. Oh, non c'è fretta. La nave salperà solo tra alcune ore... No, non credo che sia un segreto. Vanno alle Bermuda... Grazie, Thomas. Uno champagne davvero ottimo... Eccoli che ricompaiono. Dagli una pacca sulle spalle mentre varca la porta. «A presto, ragazzo.» «Arrivederci, Bark. Tra sei settimane.»
«Sicuro.» Il rumore di un pezzo delle catene da neve che batte ritmicamente sul terreno, sotto il parafango posteriore sinistro. Maledizione, volevo aggiustarlo prima della partenza... champagne... No, papà, sto bene. Questa roba è innocua... chiacchierare... champagne... scusi, cosa stavo dicendo?... altro champagne... (e forse dovrei confidarle, cara signora, che il mio miglior amico si è appena congiunto in matrimonio con una donna che probabilmente era una ritardata mentale fino a sei mesi fa? Come la prenderebbe, mi chiedo?)... solo un altro ancora, Thomas. Sì, sto benissimo... Certo, ora salgo di sopra... solo un po' brillo, niente di più... aspetta, Thomas, reggimi un attimo così riesco a infilarmi il pigiama... Dio, che notte incredibile! La neve sotto il chiaro di luna... Felice lo sposo su cui splende la luna... Buon Dio, ma davvero la stanza mi gira tutt'attorno. Quella è la costellazione di Orione... me la ricordo... accidenti a tutti i ricordi... 11 Un telegramma Nelle due settimane successive mi sforzai soprattutto di rimettermi in sesto, ed era ora. Avevo continuato a bere per tanto tempo che la mano mi tremava ogni volta che sollevvo un bicchiere, e diverse mattine fui costretto ad andare dal barbiere, perché non osavo arrischiarmi a radermi da solo. In ufficio il lavoro si era andato accumulando, ma riuscii a smaltirlo in un modo o nell'altro. Anzi, ero ben contento di avere molto da fare perché così riuscivo a non pensare e a non soffrire di solitudine, e in un paio di casi me la cavai tanto bene che mi diedero un aumento di stipendio. Sotto certi aspetti era una vita molto soddisfacente. Sull'altro piatto della bilancia c'era invece il fatto che a quel punto tra il dottor Lister e me si era verificata una specie di frattura. Il mio comportamento prima e dopo il matrimonio (e mi ero ubriacato sul serio: Thomas mi raccontò in seguito che avevo detto cose che nessuno dei presenti avrebbe mai dimenticato) era stato imperdonabile e il dottor Lister dichiarò nel modo più esplicito che si vergognava di me e trovava inaccettabile la mia condotta. Di conseguenza mi ritrovai più isolato di quanto mi fossi mai sentito prima e passai una decina di giorni molto difficili. Rientrare la sera nell'appartamento deserto con la prospettiva di lunghe ore di solitudine mi deprimeva profondamente, e inoltre facevo uno sforzo continuo per te-
nermi lontano dal whisky. Spesso mi chiedevo se il matrimonio tra Selena e Jerry non fosse diventato per me una specie di ossessione patologica. Mi pareva che ci fosse qualcosa di morboso nel senso di diffidenza che provavo ogni volta che pensavo a lei. Dopotutto non avevo concrete giustificazioni, a parte il fatto che la morte di LeNormand era stata orribile e che proprio per via di quell'orrore lei e Jerry si erano conosciuti e in breve tempo sposati. La fine di LeNormand, quale ne fosse la causa, non era certo un'eventualità che potessi contemplare serenamente per Jerry, e restavano troppi misteri irrisolti in Selena e nel destino che aveva colpito il suo primo marito. Forse c'è gente che può vivere tranquilla sulle pendici di un vulcano, ma io non ho un simile temperamento. Mentre Jerry e Selena erano ancora lontani, in viaggio di nozze, mi trovai un appartamentino di due locali, a poca distanza. Avevano deciso di abitare nel nostro alloggio da scapoli, almeno inizialmente, e dedicai parecchio tempo a prepararlo per il loro ritorno. Ero deciso a farglielo trovare in ordine impeccabile, e ci riuscii: ripiani e cassetti rivestiti con carta nuova, ogni cosa sistemata al suo posto, i regali di nozze spacchettati e messi negli armadi, perfino i quadri alle pareti. Appesi il mio Marin sopra il caminetto, dove faceva un ottimo effetto. La litografia del Buon Pastore, dono dello zio Horatio — un oggetto davvero orribile — trovò posto nell'ingresso dove, se necessario, avrebbe potuto intenerire il cuore degli esattori e affrettare il congedo degli ospiti. Devo ammettere che c'era una punta di egoismo in tutto ciò. Volevo che soprattutto Selena si sentisse in debito nei miei confronti; mi ritenevo un animo nobile, a ricacciare i miei sentimenti personali per pensare al benessere e alla serenità della coppia. Una forma di esibizionismo, ma andava a loro vantaggio e quindi era innocua. Non ho ancora accennato alla lettera di Jerry. Era concisa e impersonale come sempre, ma leggendo tra le righe si capiva che era felice. "Il tempo è magnifico, con un sole splendente. E dovresti vedere che notti di luna." E cose analoghe. Solo una volta accennava a Selena. "So che l'apprezzerai quando la conoscerai meglio. Ti manda i suoi saluti." Be', poteva anche darsi. Comunque era una lettera abbastanza insignificante, salvo il post scriptum: "Hai avuto notizie da Parsons? Ci sono stati nuovi sviluppi? I giornali di qui danno soprattutto notizie locali". Per quanto ne sapevo, le indagini non erano approdate a nulla. Non avevo più visto Parsons, ma una volta il dottor Lister si era recato a New Zion
e al ritorno — era una gelida serata di febbraio — era passato dal mio nuovo appartamentino e avevamo bevuto insieme qualcosa. Mi aveva spiegato dove era stato. «Hai saputo qualche novità, da Parsons?» chiesi. Scrollò il capo. «No. Credo che sia ancora al punto di partenza.» Io non ne ero tanto convinto. Tanto per dirne una si era imbattuto nella faccenda di Luella Jamison; naturalmente non aveva alcuna attinenza con il caso LeNormand, ma le coincidenze erano curiose. Cercai di sondarlo. Volevo scoprire se Parsons aveva fatto qualche accenno a Luella parlando con lui. «Su cosa sta lavorando, adesso?» «Non ne ho idea.» E, un po' imbarazzato, continuò: «Gli avevo scritto, per informarlo del fidanzamento di Jerry». «Oh,» mormorai «non lo sapevo.» «Be', era naturale. Volevo accertarmi che le autorità inquirenti non sospettassero di Selena.» Annuii. «Parsons mi aveva risposto che capiva benissimo la ragione della mia lettera. Mi assicurava che fino a quel momento erano praticamente certi che la signora LeNormand non fosse implicata nella cosa. Aveva un solidissimo alibi personale e non c'erano elementi a indicare che fosse complice o istigatrice del delitto.» Ebbe un sorrisetto amaro. «Ma neppure c'erano prove che non lo fosse, aveva aggiunto.» «La normale prudenza della polizia» feci notare. «Già, l'ho pensato anch'io. Ma oggi mi sono recato da lui per sapere se era emerso qualcosa che potesse riguardarci. E pare proprio di no.» «Ringraziamo il cielo.» Riunì la punta delle dita, fissandole. «Non credo che la polizia arriverà mai a risolvere il caso.» «Lo penso anch'io.» «E me ne dispiace molto. Saremmo tutti più tranquilli se questa storia venisse chiarita.» Quanto a questo, avevo le mie riserve. Tutto dipendeva da quale era la verità. «Ne convengo.» «Tu e Jerry non avete nascosto nulla che possa venir fuori in seguito?» Lo domandò quasi in tono di scusa. «Non abbiamo nascosto proprio niente.» «Bene. Credo che la cosa migliore sia non pensarci più fino a quando la polizia non avrà trovato qualcosa di nuovo.»
«Sono perfettamente d'accordo.» Per un poco chiacchierammo d'altro e poi lui se ne andò. Io mi sentii avvilitissimo: ci eravamo parlati come conoscenti casuali. La Empress giunse in porto un mercoledì pomeriggio e io andai ad accogliere la coppia allo sbarco. Anche il dottor Lister avrebbe voluto esserci, ma all'ultimo momento ne fu impedito da un intervento operatorio urgente. Jerry era in grandissima forma, sprizzava felicità ed era chiaramente orgoglioso della splendida moglie. Selena non mi parve molto cambiata, e di certo la sua bellezza non era minimamente offuscata. La gente, perfino nell'irritante confusione della dogana, si voltava a guardarla e a un certo punto due ragazzine la fermarono per chiederle un autografo. Evidentemente ai loro occhi una donna così bella poteva essere solo una diva del cinema, e rimasero molto deluse quando spiegai che era la moglie del mio amico e non un personaggio noto. Dopo però mi chiesi se era davvero la verità. Infatti una di loro osservò: «Ci scusi, signore, ma la mia amica e io eravamo certe di averla vista al cinema o sui giornali...». Sul taxi che ci portava in città, Jerry mi consegnò una pipa che aveva comperato per me alle Bermude: ne fui davvero contento. Mi fecero sedere tra loro e si dimostrarono così cordiali e affettuosi, Jerry in particolare, da farmi nascere il sospetto che mi considerassero un bambino difficile, da trattare con particolare riguardo. Ma nel complesso tutto andò nel modo più simpatico e li lasciai sulla soglia di casa loro, molto soddisfatto di averla preparata al meglio: dovevano solo entrare e cominciare ad abitarvi. Avevo perfino ordinato al lattaio di riprendere le consegne. I mesi che seguirono furono abbastanza positivi. Jerry doveva aver raccontato ai suoi parenti quanto avevo fatto per la loro abitazione e quelli ricominciarono a trattarmi da essere umano. Ma, soprattutto, papà e io eravamo tornati a quell'antica familiarità e confidenza che tanto significava per entrambi. Mi recai diverse volte a Long Island, e spesso quando Selena e Jerry non c'erano. In tali occasioni papà e io, per tacito accordo, non parlavamo mai di loro. Avevo sperato di arrivare a provare simpatia per Selena, conoscendola meglio, ma non ci riuscii anche se per certi versi cominciai ad ammirarla. Possedeva un tranquillo autocontrollo che rendeva impossibile uno scontro aperto, e una modestia quasi incredibile riguardo alla propria bellezza, virtù molto rara, almeno a quanto mi risulta. Col trascorrere del tempo mi divenne più agevole stare in sua compagnia perché avevo definitivamente
escluso l'idea che potesse essere Luella Jamison. Era troppo colta, possedeva una mente troppo logica e penetrante, troppo ricca di nozioni sugli argomenti più astratti, per poter mai essere stata un'idiota. Osservandola giunsi alla conclusione che doveva avere fatto studi molto lunghi e approfonditi: solo così poteva giustificarsi la sua capacità di discutere, con Jerry e il dottor Lister, di astronomia, matematica o archeologia. E questo poteva spiegare anche la sua strana, quasi goffa insensibilità ai pregiudizi e alle peculiarità altrui. Quale che fosse la sua provenienza, era stata educata in un ambiente di obiettiva razionalità, e i suoi interessi si estendevano a campi di solito estranei alla maggioranza delle donne. Poi mi tornava alla mente come ballava, e non ne ero più così certo. Quando veniva alla villa trascorreva parecchio tempo in biblioteca, a leggere libri sui soggetti più disparati. Jerry e io insistevamo perché venisse a fare un giro in auto con noi, o a giocare a ping-pong nel seminterrato, oppure a volte, nelle belle giornate, a uscire in barca a vela. Di rado si lasciava muovere, ma quando accettava era sempre all'altezza della situazione. Ricordo una burrascosa mattina di marzo: eravamo fuori al largo e stava lei al timone. Il Sound era spazzato da un ventaccio che lo prendeva d'infilata e piegava la barca al punto che l'acqua sfiorava il bordo di sottovento. Selena se ne stava là, i capelli agitati dal vento che le arrossava il volto, a osservare calmissima quello spumeggiare minaccioso. All'ultimo momento, quando ormai ero convinto che avremmo imbarcato acqua, senza batter ciglio diede un colpo di barra e ci raddrizzammo. Aveva coraggio e nervi saldi, senz'altro, ma fui ben lieto di darle il cambio al timone: preferisco mantenere sempre un certo margine di sicurezza. Questi aspetti del suo carattere erano senza dubbio ammirevoli, ma, oltre che ammirarla, non si poteva far altro con Selena. Non aveva mai imparato quelle semplici, reciproche concessioni che facilitano i rapporti umani. Era in grado di parlare di molti argomenti, ma pareva incapace di condurre una conversazione, ed è una conversazione amabilmente punteggiata da scambi scherzosi a rendere piacevole un incontro. Nel suo modo di esprimersi non c'erano mai allusioni, accenni ad avvenimenti precedenti; non diceva mai cose un po' sciocche. Ogni sua frase era o un'affermazione o una domanda. Di rado rideva, ma possedeva un suo tacito senso dell'umorismo. A volte le scoprivo un sorriso silenzioso, quasi segreto, e intuivo che qualcosa la stava divertendo. Non mi è facile trovare esempi per ciò che vorrei descrivere, ma ricordo una sera in cui eravamo tutti riuniti in biblioteca. Dopo un po' ci eravamo messi a giocare a bridge, senza grande impegno.
C'era anche Grace, quel fine settimana; Jerry e io eravamo in coppia contro lei e Selena. Selena era la più eccezionale giocatrice in cui mi sia mai imbattuto. Non commetteva mai errori e se a volte un'impasse le andava male notavo che rivelava sempre, proprio in queste occasioni, quel suo piccolo sorriso misterioso. Dopo un paio d'ore ci stancammo e decidemmo di smettere. Grace, che aveva segnato i punti, non ebbe difficoltà a sommare quelli di Jerry e miei, ma le cifre nella colonna delle due signore erano da capogiro. Grace cominciò a scorrerle con la matita, accigliata, mentre Jerry e io dichiaravamo ridendo che ci consideravamo senz'altro battuti. D'un tratto Selena allungò un braccio, sfilò il blocchetto da sotto il naso di Grace, diede una rapida occhiata e annunciò: Tremilaottocentosessanta». Jerry lo prese a sua volta, sotto lo sguardo attonito di Grace, e dopo un minuto annunciò: «Esatto», con una nota di sbigottita ammirazione nella voce. Jerry era velocissimo nei calcoli, il che faceva di lui un elemento prezioso per il suo ufficio di ricerche statistiche, e credo che la rapidità di Selena l'avesse punto nel vivo. «Una vera macchina calcolatrice» commentò. Lei si limitò a un piccolo sorriso impersonale. Fu nell'estate, pochi mesi dopo quella partita a bridge, che Selena mi rivelò un altro aspetto della sua personalità, e in seguito ci avrei ripensato spesso. Un giorno, se non sbaglio in agosto, Jerry fu impegnato a lungo con il torneo di tennis organizzato dal nostro club. Il giorno prima mi aveva eliminato, con mio grande sollievo perché faceva troppo caldo per simili imprese. Spinto a chissà quale impulso, proposi a Selena una gita in auto fino a Montauk. Lei accettò di buon grado, anche se non mi pareva che l'idea l'entusiasmasse. Per un'ora circa viaggiammo senza scambiare parola. Ogni tanto le lanciavo un'occhiata: sedeva tranquilla al mio fianco, perfetta nell'abito blu scuro di linea semplice, quasi austera, e il cappello di paglia naturale circondato da un nastro bianco. Solo guardarla mi dava un senso di freschezza, quasi di distensione. Era come se avessimo stabilito una tregua, ed ero fermamente deciso a non violarla. A un certo punto, in apparenza senza rivolgersi direttamente a me osservò: «Credo che Jerry sia molto felice». «Si,» annuii «perché non dovrebbe esserlo?» Voleva essere una galanteria, naturalmente, ma non la prese come tale. «Tu non prevedevi che potesse essere felice dopo avermi sposata.»
«Sciocchezze» protestai, ma osservai tra me che sarebbe stato arduo mantenere un certo livello di cortesia se avesse continuato su quel tono. Era di una franchezza esasperante. «Niente affatto. Stai pensando che sono irritante. Ma io desidero semplicemente sapere se hai suggerimenti da darmi.» «Suggerimenti?» «Rammenti quella volta, prima che Jerry e io ci sposassimo, quando mi hai raccomandato di essere buona con lui?» Quell'accenno mi mise un po' a disagio, ma dovetti annuire. «Be',» riprese «io ho fatto il possibile. Ci sono riuscita, secondo te?» «Sì.» Mi fissò con quei suoi inquietanti occhi viola. «Sai, non sono abituata a persone come te e il dottor Lister e Jerry. Forse qualche volta commetto degli errori.» «Sì,» mormorai, sentendo che il discorso andava facendosi sempre più strano «da un certo punto di vista, li fai. Secondo me dovresti cercare di essere più distesa.» Trasse un sospiro. «È che non so bene come si faccia.» Dal tono era chiaro che si proponeva di esaminare attentamente la cosa e imparare la tecnica. «Ad ogni modo lasciamo perdere le osservazioni personali. Tu sei tu e io sono io, e la cosa finisce qui.» «D'accordo» mormorò, con quel suo strano sorriso. «Dimmi,» ripresi dopo una pausa «ti piace questa zona?» Mi guardò, sorpresa. «Come mai questa domanda?» Io l'avevo chiesto solo per avviare una qualsiasi conversazione, ma la sua risposta mi fece d'un tratto scattare qualcosa nella mente. «Oh, semplice curiosità. Per certe persone, ad esempio, la California è il paradiso in terra. Ho un cugino per il quale in pratica esiste solo lo stato del Maine. Tutti hanno una loro regione preferita.» «Long Island è un posto soddisfacente, non trovi?» «Sì. O quanto meno la costa settentrionale. Ma mi piacciono anche certe terre del sud... la Carolina e la Georgia. Ci sei mai stata?» «No. E non credo che mi piacerebbero. Jerry ha delle amiche che vengono dal sud, ma a me sembrano poco intelligenti, e hanno nomi doppi come Mary Lou e Sue Ellen. Li trovo sciocchi.» «Be', non hai tutti i torti.» E mentalmente aggiunsi che una piccola dose di fascino del sud non avrebbe certo guastato in lei. Inoltre ero irritato per-
ché non ero riuscito a strapparle qualche particolare sul suo passato e sul suo luogo di provenienza. Mi guardò sorridendo. «Come sei strano, Bark. Mi fai una domanda ma in realtà vuoi trovare la risposta a un'altra, vero?» Era seccante veder scoprire il proprio gioco con tanta precisione. «Come fai a sapere sempre cosa sto pensando?» «Lo riveli apertamente.» «In che modo?» «Vediamo» mormorò, e fece una pausa. «Poniamo che qualcuno entri in una stanza e dica a voce alta qualcosa... anche se fosse solo, non si potrebbe affermare che tiene i suoi pensieri per sé, no?» «Sì, ma...» «È quello che fa la tua mente, Bark.» «Vuoi dire che sai leggermi nel pensiero?» L'idea mi atterriva e mi imbarazzava al tempo stesso. Sorrise. «Non nel senso che intendi tu. Ma tutti riescono a cogliere parte dei pensieri delle persone che hanno attorno, questo già lo sai.» «Non sono proprio...» cominciai, esitante. «Tutti voi parlate in modo incompleto» continuò. «Prova ad ascoltare attentamente un dialogo: la vera conversazione non consiste esclusivamente nelle parole. Queste sono semplici accenni a ciò che si intende comunicare, e tutto il resto passa direttamente da una mente all'altra. L'avrai pure notato.» È strano, pensai tra me, ma forse in parte ha ragione. E ad alta voce: «Quindi io ti fornisco indizi per arrivare a ciò che non dico, oltre che a ciò che dico?». «Naturalmente.» «Mmm.» La sua teoria mi pareva assurda e decisi di metterla alla prova. «Va bene, cosa sto pensando in questo momento?» Si mise a ridere. «Ferma l'auto. Ti darò una dimostrazione.» Mi accostai al ciglio della strada. «Sei scettico, vero? Bene, appoggiati allo schienale e ascolta.» Ubbidii e attesi. Selena non sorrideva più, ma non avevo l'impressione che fosse completamente seria. Ebbi l'improvvisa, sgradevole sensazione che stesse divertendosi alle mie spalle. Dopo qualche istante sentii che voleva che facessi qualcosa. Lì per lì non capii cosa, e la guardai perplesso. Lei non fumava, certo, ma mi venne ugualmente l'idea di offrirle una sigaretta. Il silenzio tra noi mi riempiva di disagio. Trassi di tasca il portasiga-
rette e gliel'offrii. «Gradisci?» Subito la tensione tra noi si ruppe. «Rimetti in moto» rispose. «Sai bene che non fumo mai, Bark.» «Senti... mi spieghi questa storia?» «Ti ho semplicemente chiesto col pensiero una sigaretta» rispose calmissima. «E tu me l'hai offerta.» Niente di più. Continuai a rifletterci mentre continuavo a guidare, ma non riuscii a giungere ad alcuna conclusione. «Un bel giochetto» commentai a un certo punto. «Sì.» «Spero che tu non faccia tiri del genere al tuo povero consorte indifeso.» «Oh, Jerry è molto diverso da te» replicò disinvolta. E dovetti accontentarmi. Facemmo un pic-nic nei pressi del faro, e restammo a guardare le onde e fu tutto molto piacevole salvo alcuni minuti in cui, in seguito a un mio banalissimo commento circa il livello dell'acqua che pareva più alto del solito, Selena volle spiegarmi tutta la teoria sulle maree di quadratura ed equinoziali. Ero troppo insonnolito e sazio di panini imbottiti e birra per badarci più che tanto, ma mi infastidiva che lei sapesse tutto su simili argomenti. Un poco di ingenua ignoranza, conclusi, era un fattore di grande rilievo nel fascino femminile. Durante il viaggio di ritorno, nel pomeriggio, osservai tra me che non avevo mai trascorso una giornata con qualcuno apprendendo così poco sul suo conto. È irritante, inevitabilmente, trovarsi di fronte a un individuo, uomo o donna, che non ci apra il minimo spiraglio sulla sua personalità. La mia riserva di chiacchiere futili si era esaurita e io stavo semplicemente guidando senza particolari pensieri, concentrato sulla strada e sulle altre auto, quando accadde una cosa molto strana: Selena d'un tratto si piegò in avanti e tirò il freno a mano. Subito l'auto prese a slittare, i pneumatici stridettero sull'asfalto e io dovetti mettercela tutta per evitare che ci ribaltassimo. Mentre lottavo con il volante, un'auto gialla carica di studentelli uscì a razzo da una trasversale, proprio davanti a noi, per infilarsi sulla strada principale. Devono averci mancato di pochi centimetri. Riabbassai il freno a mano e proseguii, ma mi sentivo correre addosso rivoletti di sudore. Non me l'ero mai vista così brutta in vita mia e sicuramente l'immediato gesto di Selena ci aveva salvati da uno scontro micidiale. Subito dopo mi venne in mente che la secondaria da cui l'auto gialla proveniva era completamen-
te nascosta da un muretto e da una fila di alberi. Non avrei assolutamente avuto modo di prevedere la comparsa dell'auto. «Buon Dio!» ansimai lanciando un'occhiata a Selena, seduta perfettamente calma al mio fianco. «Grazie! C'è mancato proprio poco. Sento ancora gli angeli cantare.» Annuì. «Non potevi vedere chi arrivava da quella trasversale.» «No. Pivelli dell'accidenti... i genitori non dovrebbero mettergli in mano un'auto.» Lei non rispose e solo allora mi venne in mente la domanda logica: «Ma tu come facevi a sapere che sarebbero sbucati da là?». «Un... come lo chiama Jerry?... un sesto senso.» E sorrise. «Be', continua a tenerlo in funzione!» Ma mi pareva che avesse agito con eccezionale prontezza e decisione per essere stata mossa solo dall'intuito. Avrei dovuto esserle grato, e per un certo verso lo ero senz'altro. Per un altro invece quell'episodio conteneva il seme dell'irritazione e del disagio che Selena riusciva sempre a suscitarmi. Come aveva potuto sapere che stava arrivando quell'auto? Un paio di giorni più tardi tornai sul posto per esaminarlo ben bene: non c'era la minima possibilità di scorgere qualcosa al di là del muro e degli alberi. L'unica spiegazione era una sorta di chiaroveggenza. Un'intuizione del genere non poteva essere dovuta al semplice caso. I mesi successivi defluirono l'uno nell'altro senza che accadesse nulla di significativo agli effetti di questa vicenda. Il mio lavoro procedeva in modo soddisfacente e io di conseguenza mi ci impegnavo molto. Quell'inverno vidi Jerry e Selena meno di quanto mi sarei aspettato e, quando ci trovavamo, capivo che Jerry era felice e un po' sorpreso degli sviluppi della mia carriera. Quanto a lui, il lavoro di statistica che stava svolgendo non gli interessava particolarmente, anche se so che lo svolgeva nel modo migliore. In varie occasioni mi confidò che per lo più lo annoiava e che cercava di stare in ufficio il meno possibile, tanto che mi chiedevo se non stesse battendo la fiacca, il che certo non sarebbe stato da lui, o se avesse altre cose a cui dedicare il tempo libero. E una sera lo scoprii. Una domenica lui, Selena, papà e Grace vennero a casa mia per una piccola cena fredda. Mi faceva piacere invitare un paio di volte al mese, in un clima molto familiare, senza cerimonie, le persone a cui ero più affezionato. Questo forse, almeno in parte, era dovuto al fatto che cominciavo a guadagnare abbastanza e desideravo spendere un po' dei miei introiti per le persone che tanto avevano fatto per me, in particolare per papà. La dome-
nica era il giorno più comodo per me, e Grace fu ben lieta di accettare visto che Fred si trovava in Florida, impegnato in non so quale torneo di golf. In quella particolare occasione Jerry e Selena arrivarono presto. I cocktail non erano ancora pronti e io mi trovavo in maniche di camicia, ma Jerry era così evidentemente emozionato ed entusiasta che certi dettagli non contavano. Aveva sotto il braccio qualcosa e dopo i primi saluti me lo offerse con un'espressione ricercata: «Per te, Bark. Con gli omaggi dell'autore». E sorrise. Si trattava di una piccola, esile pubblicazione dalla copertina grigia, con un titolo lunghissimo e altisonante. Una rivista di matematica. Scorsi rapidamente l'indice e individuai il nome di Jeremiah Lister. «Mi venga un colpo!» esclamai voltandone le pagine per arrivare al suo articolo. «Ma è un miracolo!» «Puoi ben dirlo» confermò esultante. «Questa oscura pubblicazione dall'aria dimessa ospita solo i nomi più affermati. E sono riuscito a superarne le austere barriere.» «Be', questa sì che è una sorpresa» commentai scorrendo rapidamente il suo pezzo. «E io sono solo a metà del mio romanzo. Mi hai senz'altro battuto sul tempo.» Il saggio di Jerry occupava solo due pagine e per quel che riuscivo a cavarci avrebbe anche potuto essere scritto in sanscrito. C'era una breve presentazione vergata dal cervellone che dirigeva la rivista e in cui la monografia di Jerry veniva definita "sagace", "originale", "quanto mai stimolante". Dopo aver esaminato il testo per alcuni secondi, osservai alquanto disorientato: «Scommetto che qui ti ha dato una mano Selena». «No,» intervenne lei, prendendo evidentemente sul serio la mia battuta, «non l'ho aiutato affatto.» «Direi proprio di no» aggiunse lui. «Fin dall'inizio si è dichiarata contraria alla cosa. Ha sempre ripetuto che era una perdita di tempo, ma io mi sono incaponito ugualmente. È un campo che mi interessa molto.» «E, come dichiarava quell'opera immortale che è la grammatica francese di Fraser e Squair su cui studiavamo a suo tempo, chacun à son gout.» Ero davvero compiaciuto. Jerry era senz'altro un ragazzo in gamba. «Che significa?» domandò Selena. «Ognuno ha la sua personale follia» tradussi liberamente. Ebbe un'espressione sorpresa. «Ma qui non c'è nessuna follia. L'articolo di Jerry è assolutamente corretto.»
«Stavo facendo dello spirito. La traduzione esatta è "ognuno ha i suoi gusti".» «Oh.» «Non sforzarti di leggerlo, Bark» intervenne Jerry. «Sistemalo semplicemente nel tuo scaffale delle prime edizioni. Un giorno o l'altro diventerà materiale da amatori.» «Non me lo sogno neanche,» ribattei «io sono un autentico intellettuale, è risaputo. Lo lascerò in bella mostra sul tavolino del soggiorno in modo da far colpo sugli ospiti.» «Vuol dire che nel giro di una settimana sarà tutto cosparso degli anelli lasciati dai bicchieri di whisky» commentò Jerry ridendo. Portai la rivista verso la libreria. «Allora vuol dire che lo piazzerò accanto alla Gertrude Stein che Grace mi ha regalato a Natale. Messi insieme serviranno a rammentarmi che ci sono parecchie cose che non riuscirò mai a capire.» Selena mi seguì. «Chi è Gertrude Stein?» chiese interessata. «Una matematica?» «Non proprio» precisai. «Ecco qui. Dai un'occhiata.» E le porsi il volume. L'aprì e ne scorse le prime pagine. «E c'è gente che capisce questa roba?» domandò. «Be', c'è gente che lo sostiene.» Si diresse al divano e sedette continuando a esaminare il libro. Io andai ad appendere i loro soprabiti e cominciai a preparare i cocktail. Dopo qualche minuto Selena si alzò e andò a rimettere Gertrude Stein al suo posto. «Non ha il minimo significato» dichiarò. «Non dovresti metterci accanto il saggio di Jerry.» «Era solo uno scherzo.» «Non badargli, tesoro» consigliò Jerry accomodandosi in poltrona. «Sta solo cercando di evitare che mi monti la testa.» Versai i cocktail, che non erano affatto male, poi arrivò Grace e facemmo un altro giro. Le mostrai il saggio di Jerry. Ne lesse alcune righe, accigliata. «Santo cielo, Jeremiah, non capisco come trovi il tempo per roba del genere, con una moglie come Selena.» Jerry si colorì un poco e rise. «È l'impiego alla Howard e Neurath, Ricerche Statistiche, quello a cui non voglio più dedicare il mio tempo. Tanto che alla fine della settimana prossima lo lascio.» «Sul serio?» Ero stupito, pur sapendo che il lavoro in ufficio non lo en-
tusiasmava affatto. «Sì.» confermò. «Ho deciso che quello che davvero voglio fare è insegnare.» Mi pareva un'ottima idea e lo dissi. «Prima però devo ottenere il dottorato. E questo significa preparare una tesi.» «Magnifico» commentai. «Non riesco a pensare a nulla di più disgustoso del dover scrivere una tesi, ma tu sei il tipo che ci prova gusto.» «Grazie. Ci vorrà almeno un anno di lavoro, però. Selena e io avremmo intenzione di trasferirci in quella proprietà che papà ha nell'ovest.» Mi ricordai che i Lister avevano una specie di casa in Arizona o nel New Mexico, dove comunque né papà né Jerry, per quel che ne sapevo, avevano mai messo piede. L'avevano ereditata da un pittore, o qualcosa del genere, ma non ne avevano mai fatto nulla. «Ma non è un posto sperduto in mezzo al deserto?» osservai. «Sì. Ma molto tranquillo e potrò lavorare in santa pace. E non soffriremo di solitudine» aggiunse lanciando un'occhiata affettuosa a Selena. «E tu lasci che questo giovane pazzoide faccia di te un'anacoreta, Selena?» domandò Grace. «Io non prenderei in considerazione la cosa neanche per un minuto!» «Lei non ha obiezioni» disse Jerry. «No» confermò lei. «Non vedo motivo per cui non dovremmo andarci. Solo preferirei che Jerry non preparasse la tesi che ha in mente.» Si rivolse a me. «Non può insegnare senza scrivere niente?» «Ecco, vedi, non puoi ottenere una cattedra in una buona università senza avere un dottorato. E per arrivarci devi presentare una tesi, come dice Jerry.» «Capisco» mormorò lei con voce sottile in cui, stranamente, vibrava il disappunto. Non ne capivo la ragione, ma dopotutto lei era una donna incomprensibile. Partirono poche settimane più tardi e andammo tutti a salutarli alla stazione. Quando il treno uscì dall'oscurità cavernosa della Grand Central lasciandoci lì sulla banchina, io provai uno strano senso di tristezza e di cupa premonizione. Jerry e io avevamo già preso strade diverse che ci avevano separati, ma questa volta mi pareva che qualcosa fosse finito per sempre. Ci scrivevamo, naturalmente, ogni tanto. Le lettere di Jerry recavano il timbro di Los Palos e dapprima arrivavano con frequenza settimanale, poi gradualmente si diradarono, e così le mie. A quanto pareva Selena era con-
tenta di quell'esistenza isolata, ma in uno degli ultimi messaggi colsi una nota che non seppi analizzare. "A Selena questa regione piace [mi scrisse in giugno] e, una volta superato il senso di desolazione, di certo è un panorama grandioso e impressionante. Io lavoro molto e con ottimi risultati, solo che sono fin troppe le cose che vorrei approfondire. Dalla finestra del mio studio si scorgono almeno ottanta chilometri di deserto: sarebbe facilissimo perdercisi e nessuno ti ritroverebbe mai. Selena fa lunghe passeggiate e a volte sto in pensiero all'idea che non torni prima che scenda il buio, ma immagino sappia quel che fa. Credo che questo posto ti piacerebbe moltissimo Bark; perché non vieni a trovarci, un giorno o l'altro?" Risposi dicendo che mi sarebbe piaciuto, ma che in quel momento ero presissimo dal lavoro e dubitavo di potermi concedere anche solo una settimana di vacanza. Quella sua lettera però mi aveva lasciato una sensazione sgradevole: era come se desiderasse che io andassi là e fosse troppo orgoglioso per chiedermelo apertamente. Poi, ripensandoci, conclusi che si era trattato solo di un momento di solitudine, e non ci pensai più. Un mese dopo, alle nove di sera, sentii suonare alla porta. Un fattorino della Western Union. Il telegramma diceva: PREGOTI VENIRE SUBITO ATTENDO TUO ARRIVO LOS PALOS MARTEDÌ MATTINA COL LIMITED JERRY Mi venne un colpo. Chiesi un permesso in ufficio e il giorno dopo presi il Century. Papà mi accompagnò alla stazione. «Fammi sapere subito se si tratta di qualcosa di grave» mi raccomandò. «Senz'altro.» Tutti e due ci chiedevamo perché Jerry avesse telegrafato solo a me, e cosa potesse essere accaduto, ma non eravamo certi di potergli far arrivare in tempo un nostro telegramma. A Cloud Mesa non c'era telefono e secondo il dottor Lister era troppo lontana da Los Palos perché Jerry potesse recarvisi tutti i giorni. Mentre il treno si avviava scorsi il suo volto preoccupato che mi guardava al di là del finestrino. Gli rivolsi un sorriso che speravo rassicurante e quindi mi abbandonai contro lo schienale. Qualcosa mi diceva che quanto mi attendeva era strettamente legato a tutti gli strani eventi di quell'ultimo anno e mezzo. Gli scambi risuonavano sotto le ruote e il treno cominciò ad acquistare velocità infilando la galleria sotto Park Avenue.
12 Conversazione Los Palos sorge lungo un tratto della linea ferroviaria. Nella cruda luce del mattino si delineava con nitidezza quasi surrealistica. Scesi dal vagone letto, semiaddormentato, e mi guardai attorno senza alcun piacere. Solo una delle allineate costruzioni malandate che scorgevo al di là della strada era di mattoni, le altre erano di legno: fessurato, scolorito dal sole, bisognoso di una mano di vernice; una truce infilata di botteghe, bar, rimesse e trattorie. L'esistenza di quel paese pareva del tutto ingiustificata. Al di là della strada e dei binari un'immane distesa brulla si allungava per chilometri e chilometri senza una chiazza di verde, o il cubo solitario di una casetta a interromperla. Neppure una recinzione. Faceva tutt'altro che freddo, eppure ebbi un brivido contemplando il vuoto sconfinato di quel deserto, e mi volsi nuovamente a guardare Los Palos. Alla mia destra le squallide facciate delle case allineate lungo la Main Street si concludevano con una sgargiante stazione di servizio tutta bianca e rossa; sulla sinistra, all'altra estremità, c'era la sua gemella, altrettanto vistosa, gialla e viola, a indicare dove l'abitato terminava e iniziava il deserto. La stazione era una cadente costruzione rivestita di assi, priva persino dei dubbi ornamenti delle volute a traforo tipiche della sua epoca. Subito dietro, torreggiante sul piccolo centro, il serbatoio dell'acqua. Los Palos era insomma una di quelle cittadine, sorte in mezzo al deserto all'epoca della costruzione della ferrovia, che erano rimaste precariamente in vita finché il bestiame alimentato dal magro pascolo disponibile aveva mantenuto un suo valore di mercato, e che avevano cominciato a morire lentamente quando l'allevamento aveva smesso di rendere. Già sembrava ormai quasi inghiottita dallo sterminato niente che l'attorniava, come una vecchia nave da carico che colasse a picco lentamente, lontanissima da qualsiasi approdo, in un vasto mare in bonaccia. La trovavo deprimente. Se questo era l'unico contatto di Jerry con il resto del mondo, Cloud Mesa era di sicuro un luogo solitario. Volsi lo sguardo verso ovest e, sebbene scorgessi un baluardo di alture spoglie, lontanissime, non riuscii a individuare nulla che corrispondesse alle sue descrizioni. Sulla banchina c'era solo un ometto striminzito, vestito di blu, che immaginai fosse il capostazione. Mi guardò per qualche momento, senza curiosità, poi rientrò. La Main Street era deserta, i negozi erano tutti chiusi.
A Los Palos non c'era certamente nulla per cui valesse la pena di essere in piedi alle sei meno un quarto di mattina. Lasciai le mie due valigie in un punto in cui Jerry le avrebbe sicuramente notate se fosse arrivato prima del mio ritorno, e mi avviai alla ricerca di un locale dove poter fare colazione. Dopo qualche ricerca trovai una specie di tavola calda dove un cameriere non rasato mi mise insieme con esasperante lentezza una specie di prima colazione. La mia impazienza si rivelò del tutto ingiustificata: il caffè era una risciacquatura, la mela al forno doveva essere lì in attesa da chissà quanto e la pancetta sarebbe sembrata inaccettabile persino a un boy-scout alla sua prima esperienza. Chiesi se si poteva avere un uovo. «Non sono ancora arrivate» fu la risposta. E, dopo un silenzio protratto: «Fanno quattro dollari». Pagai e uscii. Nel frattempo la Main Street si era un po' animata: c'era un tale che spazzava il marciapiede davanti al saloon Tres Hermanos e, un po' più in là, un cagnetto che fiutava un palo del telefono. Un attimo prima che attraversassi la strada una Hudson polverosa passò a tutta velocità lasciandosi alle spalle Los Palos in pochi secondi. La guardai con invidia e tornai alla stazione. Non c'era neanche una sala d'aspetto, naturalmente, così sedetti sul carrello portabagagli e accesi la pipa. Il panorama meritava. Quando si è assuefatti agli orizzonti limitati di Long Island, o del New Jersey, o anche del nord dello stato di New York, ci vuole un po' per abituarsi alle vere dimensioni del paesaggio dell'ovest. La vetta più vicina della catena che si stendeva al di là del deserto distava probabilmente dal punto in cui mi trovavo quanto New York da Philadelphia. E non c'era nulla che si interponesse tra noi. Me ne rimasi lì facendo scorrere lo sguardo su quel territorio piatto e fingendo che il tempo passasse. Dopo un po' diedi un'occhiata all'orologio: le sei e cinque. Ero a Los Palos da meno di mezz'ora; mi venne da pensare che chiunque fosse capace di resistere per cinquant'anni in un luogo simile avrebbe potuto vivere cinque vite normali in qualsiasi altro posto. Sono osservazioni molto secondarie, certo, ma mi dava una strana sensazione di smarrimento starmene là, su quella banchina, a contemplare centinaia e centinaia di chilometri quadrati di deserto, sentendo dietro di me la morte vivente di Los Palos. Ero nervoso. Sentivo il sapore aspro e amaro del fumo della pipa e il cuore mi batteva più rapido del necessario. Inutile far congetture sui motivi per cui Jerry mi aveva chiesto di andare lì, ma il fatto stesso che mi avesse chiamato mi preoccupava. Quando ci eravamo salutati, a New York, mi ero aspettato che ci saremmo rivisti di rado,
occasionalmente. C'era stato qualcosa di definitivo in quella sua partenza. Jerry, questa fu la mia sensazione allora, faceva ormai parte del passato, non più del presente. E tutt'a un tratto mi aveva chiesto di raggiungerlo, a qualsiasi costo. Durante tutto il viaggio in treno mi ero chiesto se avesse bisogno della mia presenza per via di Selena, di un attrito creatosi tra loro. O forse quell'enorme desolazione... ma Jerry non era il tipo. Sapeva come la pensavo sul conto di sua moglie ed era orgoglioso, troppo orgoglioso per ammettere che si sentiva solo con lei o che io, proprio la persona che più di ogni altra sì era opposta al suo matrimonio, potessi aiutarlo in qualche modo. Jerry non aveva mai avuto bisogno di aiuto. Eppure, che altro poteva volere da me? Sapeva che intraprendere un simile viaggio mi avrebbe causato difficoltà... Rinunciai a pormi interrogativi, ma ugualmente restava in me un senso di inquietudine. Quei pensieri mi infastidivano. Forse nascevano solo dall'irritazione per essere costretto ad attendere in quel paesino negletto, senza poter fare nulla e con una colazione disgustosa nello stomaco. Los Palos non aveva nulla a che vedere con me, così come, viceversa, io le ero estraneo. Persino il mio abbigliamento risultava troppo elegante, incongruo, quasi ridicolo per quel posto. Cominciavo a sentirmi un pesce fuor d'acqua mentre continuavo a contemplare quel vasto territorio squallido. E definirlo così era un eufemismo... C'è, in greco, il vocabolo appropriato: meiosis. Laggiù non esisteva acqua, neanche una traccia di umidità se non, forse, all'interno di qualche cactus o nelle vene dei serpenti a sonagli. Lì non c'era assolutamente nulla, eccetto un lontanissimo, quasi invisibile pennacchio di polvere preceduto da un puntolino scuro. Per tre quarti d'ora rimasi a seguire quel labile segno che avanzava con penosa lentezza, ma molto prima che potessi riconoscervi l'auto di Jerry capii che si trattava di lui. Di tanto in tanto il sole si riverberava sul parabrezza rimandandomi piccoli vividi barbagli; a volte l'auto e la piccola nube di polvere che l'accompagnava venivano nascoste da oscuri avvallamenti del terreno, ma mentre terminavo di fumare la seconda pipata la macchina risalì l'ultima ondulazione al di là del serbatoio dell'acqua, oltrepassò i binari e giunse rombando fino alla stazione. La mia prima impressione fu che Jerry fosse in forma smagliante. Indossava una camicia bianca con il colletto aperto e le maniche rimboccate; volto, collo e braccia erano abbronzatissimi, e i capelli schiariti da! sole erano biondo oro. Scese dall'auto balzando sulla piattaforma e corse verso di me. Ebbi un momento di incerta sorpresa: non avevo mai visto Jerry
correre, eccetto che nel corso di una partita. Di solito mi veniva incontro con passo tranquillo, ma adesso mostrava un'animazione insolita e mi resi conto subito che era più che felice di rivedermi. E anche questo mi stupì. Ma non mi diede il tempo di riflettere. «Ehi, Bark!» «Ciao, Jerry.» «Scusa il ritardo ma ho forato a metà strada e ho perso un mucchio di tempo.» «Niente di grave. Così ho potuto dare un'occhiata a Los Palos.» Ebbe un sogghigno. «Fantastica, vero? Dovresti vederla il sabato sera. Certi negozi restano aperti fino alle otto e mezzo o alle nove.» Diede un'occhiata ai miei bagagli. «Roba tua?» «Be', è quanto è rimasto dopo che la folla si è smaltita, quindi tanto vale che me li raccatti.» «Sai, è un vero piacere rivederti.» Salimmo sull'auto. «Senti, vuoi prendere qualcosa prima che ci mettiamo in viaggio? È l'ultima occasione.» «Jerry, prima ce la squagliamo da qui, meglio è.» «Tienti saldo» consigliò, e partì con l'acceleratore a tavoletta. Ci allontanammo da Los Palos il più velocemente possibile e non mi girai certo a darle uno sguardo d'addio. Quando attraversammo i binari imboccando la strada che attraversava il deserto eravamo già a ottanta all'ora e, nonostante la stretta pista sabbiosa su cui ci trovavamo, mantenemmo tale velocità. La grossa Packard divorava le innumerevoli svolte, cunette e dossi della strada con una temerarietà da vertigine, e dopo una mezz'ora cominciai ad avvertire un certo disagio per la nostra velocità, che non accennava a diminuire: dopotutto, se ci fosse accaduto qualcosa, eravamo già a un'intera giornata di cammino dal centro più prossimo, e senza scorte d'acqua, e la catena montagnosa che si profilava davanti a noi non pareva affatto più vicina. Lanciai un'occhiata incerta a Jerry: sedeva tranquillo al volante affrontando le curve e le asperità del terreno con una sorta di prudente disinvoltura che mi ridiede in parte fiducia. «Non risparmiate certo i cavalli, voialtri rudi uomini del West» commentai. Mi diede una sbirciata. «Qui comincia a far caldo, dopo le otto del mattino» spiegò brevemente. In realtà il caldo iniziava a farsi sentire. Mi tolsi giacca, panciotto e cra-
vatta, voltandomi per sistemarli sul sedile posteriore e in questa manovra rischiai di venir sbalzato fuori. Poi riempii e accesi nuovamente la pipa cercando di distendere i nervi mentre affrontavamo i numerosi dossi senza mai rallentare. Dalla banchina della stazione il territorio su cui avanzavamo mi era parso abbastanza pianeggiante, ma adesso mi accorgevo che non era affatto così. E pareva non aver mai fine, anche se dopo un poco mi resi conto che le salite erano più frequenti delle discese e quindi ne dedussi che stavamo inoltrandoci nella regione delle alture. I monti dinanzi a noi cominciavano ad apparirmi meno spogli: intravvedevo degli alberi in alcune vallette, e ogni tanto attraversavamo una serie di alvei asciutti di torrenti in cui spuntavano piccoli cespugli secchi. Voltandomi scorsi Los Palos, ancora ben nitida nell'aria tersa del deserto, ma ridotta alle dimensioni di un'incisione cinese su avorio. Ogni tanto quell'immagine vibrava: la calura cominciava a sollevarsi dalla distesa di sabbia e nuda roccia. Gli aspri rilievi, i massi angolosi, l'andamento selvaggio e disordinato del terreno mi davano un senso di isolamento. L'uomo era estraneo a quella regione, che sembrava appartenere a un pianeta privo di aria che percorresse un'orbita più vicina al sole. Diedi un'altra occhiata a Jerry, ben contento di non trovarmi lì da solo, e notai sul suo viso qualcosa che prima mi era sfuggito. Per quanto abbronzato, il suo volto era più scarno, con la pelle tirata sugli zigomi, e agli angoli degli occhi c'erano piccole rughe che non gli conoscevo. Le labbra si erano come assottigliate, contratte in una piega nervosa. Doveva concentrare tutta la sua attenzione su quella strada maledetta, certo, data la velocità a cui procedevamo, ma neanche questo poteva giustificare completamente quell'espressione tesa. E avevo l'impressione che, per quanto fosse contento di avermi vicino, non pensasse molto a me. Qualcos'altro occupava la sua mente, e non avevo la più pallida idea di cosa fosse. Un po' dopo le otto la strada cominciò a piegare a sinistra e verso sud, e poco dopo viaggiavamo paralleli ai monti che si snodavano a ovest. Adesso stavamo chiaramente inoltrandoci nella zona più elevata. Dopo diversi chilometri giungemmo a un avvallamento delimitato su un fianco da una parete ripida che gettava una larga zona d'ombra. Jerry vi fermò l'auto e nell'improvviso silenzio sentii ribollire l'acqua nel radiatore. «Ci fermiamo qui per un poco, a rifiatare tutti quanti» mormorò scendendo. Facemmo qualche passo attorno e io osservai che c'era una gran solitudine.
«Sì. Ci vuole un po' per abituarcisi, ma poi si finisce cori l'amare questo posto.» «Può darsi.» Ebbe un sorriso. «Accidenti, dimenticavo. La nostra colazione.» Rovistò nel baule della macchina e ne trasse un thermos di caffè e parecchi tramezzini. Mi tornò alla mente un altro pic-nic... quanto tempo era trascorso?... che ci eravamo gustati seduti sul paraurti di un'altra auto. Speravo che questa volta... ma subito cancellai il pensiero. Il caffè era bollente e straordinariamente buono. «Direi che Selena fa il caffè meglio di tante mogli» commentai. Diede un calcetto a un ciottolo. «No, l'ho preparato io. Selena non si occupa della cucina.» «Allora, in questo caso, non è possibile fare le solite battute sulle sposine alle prese con i fornelli.» «No. La cucina le interessa pochissimo.» Ma dal tono capivo che non aveva detto tutto quel che aveva in mente. Mi domandai se fosse un modo per arrivare al punto. «Be',» commentai «almeno per quel che riguarda il caffè batti di parecchi punti le tavole calde di Los Palos.» «Buon Dio, non dirmi che ti sei infilato in un locale del genere!» «Per un ammontare di quattro dollari.» «Ti chiedo scusa. Avrei dovuto fermarmi prima, ma mi sono messo al volante e non ci ho pensato.» Terminai il mio secondo tramezzino. «Non preoccuparti. Mi sento ampiamente compensato.» «Peccato che non abbiamo del whisky a disposizione.» Dunque anche lui ricordava; ma preferii lasciar correre. «Oh, sai, ho praticamente rinunciato all'alcool. Sono diventato astemio, più o meno.» Tacque a lungo. «Mi fa piacere che tu stia facendo una così brillante carriera.» «Non arriverei a dir tanto, ma certo me la cavo molto meglio che nel recente passato. Jerry, devo chiederti scusa per parecchie cose. Mi sono comportato da imbecille.» Non mi guardò. «Avevi i tuoi motivi. E per molti versi erano più che validi.» «Però non c'era niente che mi giustificasse.» Si alzò e prese a camminare avanti e indietro di fronte a me, lo sguardo fisso a terra. «Senti, Bark. Prima che arriviamo a casa desidero parlarti, in
modo che tu sappia cosa aspettarti e perché ti ho mandato quel telegramma.» «D'accordo.» «In primo luogo, non farti l'idea che tra me e Selena ci sia qualcosa che non funziona. Io... be', ne sono innamorato ancor più di quando ci siamo sposati.» «Mi fa piacere. Siete senza dubbio una magnifica coppia.» «Grazie. Magari, per quel che ti dirò adesso, ti sembrerò un idiota. Vedi, da una parte sono felice come non lo sono mai stato, ma per altri versi... ecco, c'è qualcosa che non va, che mi preoccupa.» Si passò la lingua sulle labbra e continuò: «Tu non sei sposato e quindi non so bene come spiegarti. È che tra noi le cose arrivano fino a un certo punto, e poi basta». Stavo per dire qualcosa ma mi fermai, imbarazzato. «No. Non si tratta di quello... dal punto di vista sessuale non ci sono problemi. È una cosa che non so come definire, esattamente. Ma quando si è innamorati si desidera dare tutto all'altra persona. Il sesso è solo un aspetto di questo rapporto. Non so se mi spiego...» «Ti spieghi benissimo.» «E non solo vuoi offrire tutto, ma desideri avere tutto a tua volta. È uno scambio, per entrambi.» Citai: «"Il mio amato possiede il mio cuore, ed io il suo, reciprocamente ce li siamo donati"». «Proprio così. Dev'essere un fatto reciproco. È questo il punto.» «E non è così?» Si fermò di fronte a me. «Ho continuamente la sensazione che mi nasconda qualcosa. Talvolta è come se mi giudicasse troppo immaturo per farmelo sapere. E non riesco a capire di che si tratta, che cos'è quello che lei sa e io non so. C'è qualcosa che ci separa, ecco. E tuttavia mi ama, Bark.» Non potevo dargli una risposta confortante, né metterlo al corrente di quella storia incredibile che Parsons mi aveva raccontato, la storia di Luella Jamison. Ma grazie a Dio c'era una spiegazione più plausibile. «Da quel che dici mi fai pensare che abbia una specie di complesso materno. Ed è abbastanza naturale, in fondo. Non dimenticare che per te è il primo matrimonio, ma per lei è il secondo.» Riprese a camminare avanti e indietro, prendendo a calci le pietre. «No, non c'entra.» «Ma certo, invece.»
Scosse il capo. «Non è stata sposata per molto, e con LeNormand oltretutto. Quel primo matrimonio non conta.» Mi sentii assalito da una sgradevole premonizione. Non sapevo cosa mi aspettassi, ma quel che Jerry disse poi mi lasciò allibito. «Capisci,» riprese a bassa voce, senza guardarmi «era vergine, quando ci siamo sposati.» Dopo il primo attimo di sbigottimento la cosa non mi parve tanto strana, anzi ero quasi contento per lui. Poi capii cosa intendeva. Quel particolare gli rendeva ancor più difficile spiegare che cosa sentiva mancare tra loro due. A quel punto mi prese un senso di solitudine così intenso da sfiorare la paura. Ripensai con nostalgia alla sterilità riarsa di Los Palos. Lì, circondato da un enorme deserto privo di vita, stavo parlando con l'uomo che era stato, e che ancora era, il mio miglior amico, eppure se avessi avuto modo di allontanarmi da lui l'avrei fatto all'istante. Quell'improvvisa, violenta sensazione era immotivata, ma sapevo che non avrei dovuto trovarmi lì, che quella spaventosa ragnatela di circostanze che ci aveva imprigionati entrambi, trasformandoci, e a cui avevo creduto di essere sfuggito, stava nuovamente richiudendosi attorno a me. Guardai Jerry e il suo volto teso mi spaventò. Era cambiato, eravamo separati da un grande baratro di tempo non vissuto insieme, un periodo in cui ci eravamo modificati ed evoluti in direzioni diverse. Avevo paura non di lui ma di ciò che voleva da me. «Ti rendi conto quindi» stava dicendo «che non è questo il problema. Il nostro non è un matrimonio infelice, non farti idee sbagliate.» «Ma accidenti, io non mi sto facendo idee di nessun genere.» Mi guardò dritto negli occhi. «Devo cercare di farti capire che cosa mi angustia, e poi voglio che tu mi dica una cosa. Una cosa che sicuramente sai, per forza.» «D'accordo, ti dirò tutto quel che posso.» «Selena e io ci siamo sposati a pochissima distanza dalla morte di LeNormand» riprese in tono di obiettivo distacco; non capivo se rimpiangesse o meno la cosa. «Voialtri non approvavate. Una delle cose che tu e papà avete ripetuto in più occasioni era che avremmo dovuto conoscerci meglio. Ricordi?» «Sì.» «Perché avete tanto insistito?» Era una domanda a cui non volevo rispondere, così cercai di svicolare. «Probabilmente a tutti e due la cosa pareva un po' troppo affrettata per ga-
rantire la vostra felicità.» Parve deluso. «Immaginavo che questo fosse il motivo, per papà. Ma tu... avevo l'impressione che avessi in mente qualcosa di più preciso.» «No» dichiarai immediatamente. «Be',» riprese dopo una pausa «non avrebbe cambiato nulla.» Si interruppe come aspettandosi che ne convenissi, o forse dissentissi, non era chiaro. «Non capisco a cosa vuoi arrivare.» «Maledizione!» esplose. «Io di Selena non so più di quanto ne sapessi il giorno che ci siamo sposati.» La sua voce echeggiò nella barranca. Il suono delle sue parole parve dilatarsi, penetrare nel terreno e nella parete di roccia sotto cui ci trovavamo, vibrare nell'aria arroventata che ci circondava. Era trascorso un anno e mezzo dal loro matrimonio, e in tutti quei mesi lei non gli aveva mai detto chi era e da dove veniva. L'unica spiegazione possibile era nella storia che Parsons mi aveva riferito, la terribile ipotesi che Selena fosse Luella Jamison. Jerry mi scrutò attentamente; poi riprese: «Non so come spiegartelo. Sai, hai presente quei racconti in cui una piccola mania o abitudine del marito o della moglie assume proporzioni gigantesche agli occhi dell'altro e alla fine si arriva all'esplosione? Be', è quel che sta succedendo a me. E io ho paura dell'eventuale esplosione. Bark, lo sai che con me Selena parla sempre e solo del presente o del futuro?». Si interruppe brevemente contemplando il canalone e il deserto. «Non hai idea di quanto spesso la gente dica cose relative all'infanzia o comunque al passato. Si allude a persone conosciute, si ricordano episodi, si rammentano le cose viste. Lo facciamo tutti, quasi senza accorgercene. Ma non Selena.» «Tieni presente che ha avuto un brutto trauma; è naturale che non voglia tornare indietro col pensiero.» «No, Bark» sospirò. «Mi ha parlato abbastanza spesso di LeNormand. E in modo un po' strano. E anche di Collegeville, delle mogli dei docenti e così via. Ma mai un riferimento a cose precedenti a quel periodo.» La domanda che avevo in mente mi spaventava, ma sapevo che potevo farla adesso o mai più. «Non ha mai detto nulla neanche della sua famiglia?» Mi fissò con occhi duri e risoluti. «No. Mai. O meglio...» e si bloccò. «Be', sei tu che mi nascondi qualcosa, adesso. Allora non è grave come la presenti tu.»
«Una volta ha fatto un accenno alla sua famiglia» mormorò, e la voce era ancor più tesa. «O almeno penso che si trattasse della sua famiglia.» Fece una lunga pausa, poi: «È stato durante la nostra luna di miele alle Bermuda. Avevamo affittato una villetta. Una notte mi sono svegliato... il nostro letto era di fronte alla finestra e la luna piena inondava la stanza. E lei era li, addormentata, bellissima, perfetta, immersa nel chiaro di luna». Si inumidì le labbra e proseguì. «Lo sai quanto è bella, vero?» Annuii. «Ecco, non so dirti bene l'effetto che mi ha fatto stare lì a guardarla, ma mi sentivo cambiato; dopo qualche istante non ero più io, non sapevo più nulla, salvo che l'amavo enormemente. E alla fine mi sono chinato a baciarla e lei si è destata. Mi ha fissato per qualche istante e capivo che si chiedeva perché l'avessi svegliata. Poi ha avuto un piccolo sorriso come se sentisse quanto amore provavo dentro, e mi si è accostata. Ce ne siamo rimasti lì senza parlare, a guardare il prato e gli alberi e l'oceano lontano sotto la luna. Infine lei ha avuto un piccolo sospiro, o così mi è parso e ha bisbigliato qualcosa, come tra sé, ma io ho sentito.» Si interruppe di nuovo. Io non aprii bocca. «Ha detto...» e la voce di Jerry era bassa e titubante, «ha detto: "Questa è una cosa che i miei non conoscono".» «Gesù!» esclamai. Tutto mi sarei aspettato, ma non una frase del genere; non si adattava affatto a quanto mi aveva detto Parsons; Luella Jamison non avrebbe avuto alcun motivo di fare un simile commento. Jerry tirò un calcio ben mirato a una pietra facendola finire sull'altro lato del canalone, in pieno sole. «Questo è l'unico accenno che mai abbia fatto. Oh, le ho posto anche delle domande dirette, ma non mi ha mai raccontato nulla. Certe volte ride e dice che devo dimenticare che c'è stato un passato per lei. E io ho cercato spesso di indurla a dire qualcosa.» «E come ha reagito?» «Ti sembrerà sciocco, ma si è arrabbiata tanto che non ho più osato insistere.» «Pensi che abbia qualcosa sulla coscienza?» «Buon Dio, non lo so» rispose spazientito. «Sarei pronto a giurare che non ha nulla di cui vergognarsi, ma è il fatto di non sapere a tormentarmi. È il notare che non dice mai nulla del periodo precedente a Collegeville. È la sensazione che ci sia qualcosa che non è disposta a dividere con me, una parte di lei a cui mi nega accesso. E la cosa ha cominciato a spaventarmi. Poniamo anche che abbia un segreto inconfessabile... per me non cambie-
rebbe nulla, e lei lo sa. Poniamo che questa maledetta faccenda... il motivo per cui non vuole dirmi chi è... venga fuori un bel momento e mi colga di sorpresa. Sono arrivato al punto di aver paura che incontrasse gente estranea, persone che potessero appartenere al suo passato, quale che sia. Ecco una delle ragioni per cui ho voluto trasferirmi qui.» Non riuscii a trovare nulla da dire. «"Questa è una cosa che i miei non conoscono"» ripeté lentamente, quasi tra sé. Poi si rivolse a me. «Bark, sono convinto che tu sai qualcosa di Selena che io ignoro. Devi dirmi di che si tratta.» «Non essere sciocco,» risposi in fretta. «Come potrei? C'eri anche tu tutte le volte che l'ho vista, fin dalla morte di LeNormand.» «No. Non sei sincero con me. Ti conosco a fondo, Bark, e ho ripensato a tutto quel che è successo. Dopo essere tornato da Collegeville sei cambiato, per molti versi. Bevevi parecchio. Evitavi di frequentarci. Avevi un pensiero che ti tormentava, qualcosa che eri venuto a sapere. E le ipotesi sono due: o si tratta di un particolare che hai scoperto per conto tuo, quando sei andato a Collegeville, o e qualcosa che ti ha detto Parsons. E io devo saperlo. Mi giudicherai isterico o idiota, o completamente pazzo, ma devi assolutamente dirmelo.» Mi guardava fisso, con un'intensità tale da farmi sentire un nodo allo stomaco. Avevo dato la mia parola a Parsons. Potevo venir meno al mio impegno e raccontargli la faccenda di Luella Jamison, ma non vedevo come questo avrebbe potuto aiutarlo. Anzi, gli avrei solo fatto nascere un nuovo atroce dubbio. E, dopo aver vissuto l'esperienza di tenermi dentro la storia di quell'incredibile scomparsa con tutte le sue possibili implicazioni, sapevo bene che effetto poteva avere. No, di sicuro non gli avrei detto nulla. «Parsons era finito in un vicolo cieco» spiegai cautamente. «Mi ha detto che ci aveva fatto sorvegliare e che era al corrente di tutte le nostre mosse. E la cosa mi ha innervosito. Per questo agivo in modo un po' strano.» Non prese minimamente in considerazione le mie parole. «Dunque non vuoi dirmelo.» «Senti, l'unica cosa che so e di cui tu sei all'oscuro non ha nulla a che vedere con te o con Selena, se non molto indirettamente. Esserne al corrente non ti servirebbe a nulla e inoltre ho dato la mia parola a Parsons che non ne avrei parlato con nessuno. Lui me ne ha messo a parte perché voleva sapere se secondo me poteva avere qualche collegamento con il caso LeNormand. Io lo escludevo e gliel'ho detto. Tutto qui.» Scrollò il capo. «E va bene. So che non ti si può smuovere quando ti in-
testardisci. Ma voglio che mi prometta una cosa.» «Cioè?» «Ripensaci, dopo aver passato qualche giorno con noi; e decidi se è il caso di riferirmi questa faccenda. E dimmi anche se noti qualcosa che possa essermi utile.» «D'accordo. Ma ti avrei informato da un pezzo se mi fosse sembrato opportuno.» Risalimmo in auto senza dirci altro; poi, mentre avviava il motore, Jerry mormorò: «E Parsons non ha ancora scoperto chi ha ucciso LeNormand». «No.» E poi mi chiesi se aveva il dubbio che Selena potesse essere implicata in qualche modo nell'omicidio. «Comunque mi disse che, stando agli elementi che aveva in mano, escludeva una possibile colpevolezza di Selena, tua o mia.» Jerry riportò la macchina sulla pista. Poi: «Parsons è in gamba. Pensavo che sarebbe riuscito ad andare in fondo alla cosa». «Be', sai, non aveva niente su cui basarsi. Né indizi, né moventi, né testimoni.» Jerry, concentrato sulla guida, non distoglieva lo sguardo dalla strada. «C'erano quelle equazioni... ricordi quei fogli sul tavolo?» «Sì.» Non vedevo cosa potessero dimostrare. «Ma i numeri non parlano, figurati poi in un caso di omicidio.» Ebbe un breve sorriso. «Ci ho lavorato un po' su. Selena l'altro giorno è entrata nel mio studio e si è accorta che le stavo studiando. Sono stato tanto sciocco da dirle cosa stavo facendo e l'ha presa male.» «E come mai?» «Non so bene. Forse fa parte di tutto il resto... del suo non voler toccare il passato.» «Strano... ricordo che si interessava molto a quei trattati arabi di papà.» «Sì» convenne accigliandosi un poco, «conosce molto bene la matematica. Non ho idea di come l'abbia imparata. Da LeNormand, forse.» Dopo di che cominciò a fare troppo caldo per discorrere. L'auto procedeva, più o meno in direzione sudovest, lungo l'interminabile strada che portava a Cloud Mesa. Vi giungemmo poco prima delle undici. 13 Cloud Mesa Attorno a noi la notte stava rinfrescandosi. I puntolini luminosi delle
stelle si erano rimpiccioliti, le masse d'ombra degli alberi risultavano più dense e meno nette contro il cielo, l'acqua del Sound aveva riflessi più fievoli... "L'ora più buia"... Questo trito luogo comune mi venne in mente mentre mi rivolgevo al dottor Lister. «Tra poco sarà l'alba,» osservai «ma quella che viene adesso è la parte più importante della storia.» «Certo» convenne. «Non sei troppo stanco?» «Sono troppo stanco per fermarmi adesso.» «Ma possiamo interrompere, se vuoi. Non preoccuparti.» Lui non pareva affatto esausto. Eretto, come sempre, controllato, gli occhi fermi, fissi su di me. Mi bastava guardarlo per trovare forza. «Non riusciremmo mai a tornare a questo punto. Meglio andare fino in fondo.» «Sì.» Il suo tono era calmo, ma notai che batteva un dito contro il bordo del tavolo. Negli ultimi chilometri la strada fu sempre in salita. Dovevamo essere risaliti di almeno trecento metri. Poi aggirammo il fianco di un'altura e vidi Cloud Mesa. Mi trovavo di fronte a una specie di rompicapo geologico. Come forma era una delle tante mesas del sudovest, con le solite pendici ripide, coperte di frammenti di roccia, che verso l'alto mostrava massi spigolosi. Ma l'ampia distesa piatta della sommità si delineava netta come il piano di un tavolo e dalla parte della valle si alzava, brusca e improvvisa, dalla pianura desertica. La parte occidentale, invece, sembrava solo parzialmente separata dal baluardo di montagne che le stava dietro, e l'estremità a nord scendeva fino al fondo di una gola in cui la nostra auto si infilò. A mezza altezza, sul fianco settentrionale, scorgevo chiara e nitida la casetta quadrata che risplendeva bianca sotto il sole. Era stata fatta costruire da un certo Eberhardt, un pittore molto amico di papà, che si era trasferito li per dipingere oltre che per motivi di salute. Prima di morire aveva eseguito alcuni paesaggi della regione, un po' strani, dai colori violenti, che a me non erano mai piaciuti molto perché vi sentivo dentro una brutalità che non era possibile ignorare. Li aveva lasciati quasi tutti, insieme alla casa, al dottor Lister... per gratitudine, immagino. La villetta era rimasta disabitata fino al momento in cui vi erano entrati Jerry e Selena, e guardandola, ancora al di là della valle, provai un senso di oppressione. Mai mi era capitato di vedere un posto altrettanto isolato e sper-
duto in un ambiente così ostile. Jerry fermò la macchina davanti a una specie di baracca cadente che evidentemente serviva come garage, e scendemmo con le gambe un po' intorpidite. Tirò fuori le mie valige e ci dirigemmo verso la casa. Vista da vicino non appariva così sgradevole: tinteggiata di un tenue color crema, con le classiche persiane azzurre. Era anche più grande di quanto mi fosse sembrata al primo momento. Doveva esserci una sorgente sul retro, e ad ogni modo si scorgeva un tratto verdeggiante a indicare la presenza di acqua in quel territorio arido. Selena venne ad accoglierci sulla soglia; indossava un abito di lino giallo e sandali. La sua bellezza era immutata: il sole non le aveva abbronzato le gambe nude e le braccia; viso e capelli erano come li ricordavo: perfetti, statuari. In seguito mi accorsi che aveva ripreso quell'andatura a passi lunghi ed elastici che mi aveva colpito quando l'avevo conosciuta, prima che cominciasse a imitare Grace. «Ciao, Bark» disse tendendomi la mano. Ricambiai la stretta dichiarandomi lieto di rivederla. Una bugia, e credo che lo sapesse. «E dunque, Bark,» intervenne Jerry «benvenuto nella nostra umile casa.» Il suo tono mi parve forzato. Assicurai a entrambi che ero felice di trovarmi lì e quindi entrammo. All'interno regnava una fresca penombra; il pavimento era piastrellato e le spesse pareti di mattoni parevano conservare il refrigerio della notte anche nelle ore più calde del giorno. Il locale in cui passammo era evidentemente il soggiorno, con un grande camino sulla sinistra, verso est. L'arredamento era ridotto al minimo: diversi tappeti Navajo, una lunga panca a schienale alto davanti al focolare, un grande tavolo rustico e tre sedie. Jerry aprì una porta all'estremità opposta. «Ecco qui la tua stanza» annunciò portandovi il mio bagaglio. Era poco più di una cella da convento: un letto, un lavamano a treppiede e una finestra affacciata verso est. «Credo che ci sia tutto quello che occorre.» «Sicuro, è di gran lusso.» Ma, con un oscuro sollievo, già la sentivo come un rifugio. Quando mi fui rinfrescato e cambiato, Jerry mi mostrò il resto del villino. Accanto alla mia stanza c'era un piccolo studio tutto tappezzato di libri: lì lavorava lui. Più oltre c'era la loro ampia camera da l'etto, con una porta che si apriva verso ovest. La cucina era in un caseggiato annesso, appoggiato all'angolo sudoccidentale del villino.
Mi domandavo cosa ci fosse in quella casa a darmi un certo senso di disagio. L'interno era abbastanza accogliente, disposto con piacevole semplicità e funzionalità. Neppure i cinque o sei quadri di Eberhardt appesi alla parete potevano giustificare la mia inquietudine. Ma non appena uscii nuovamente all'esterno ne capii il motivo: sulla casa incombeva l'immenso mostro di roccia della mesa. Migliaia di tonnellate di terra e rupi a sovrastare la piccola costruzione. Una massa di proporzioni tali da farmi sentire niente più di una formica. Posso descrivere l'effetto che aveva su di me solo dicendo che mi sembrava che fosse un gigante che da un momento all'altro poteva venirci addosso, annientandoci. Jerry mi mostrò gli immediati dintorni, chiaramente compiaciuto, e io cominciai a dirmi che la mia prima reazione era stata assurda. Ma dietro il suo entusiasmo e il flusso ininterrotto di parole coglievo un certo sollievo per la mia presenza. Quanto si protraevano i silenzi tra quei due quando erano soli? E più tardi, nel pomeriggio, quando l'ombra azzurrina della mesa si allungò sulla casa immergendola in una luce crepuscolare, di nuovo quel senso di sgomento riapparve. Ci fermammo a guardare l'ombra piombare sul pendio al di sopra di noi e avanzare rapidamente verso la casa; poi io mi volsi per rientrare. «No, aspetta, Bark. Voglio farti vedere un'altra cosa.» Mi fece strada per alcuni metri su per il pendio e mi indicò quelli che parevano i resti di antichi gradini che partivano dalla sorgente e si inerpicavano per la parete della mesa. «Gli abitatori delle rupi. Chissà quanto tempo fa risiedevano qui, ma ancora oggi le loro scale sono agibili. Hai voglia di salire?» Capii che l'idea gli piaceva e accettai subito. Niente di veramente faticoso o pericoloso: i gradini erano alti ma in buono stato e, sebbene più volte ci fermassimo a tirare il fiato e a guardarci indietro, in meno di un quarto d'ora arrivammo sulla cima. Sotto di noi si allargava l'immensa distesa del deserto, d'oro brunito là dove ancora era colpita dal sole, viola-azzurro dove l'ombra dei monti a ovest l'invadeva man mano che il sole calava. Contemplando quella vasta onda di oscurità che si riversava sulla landa sterile sentii d'un tratto che il nostro pianeta è davvero una sfera, sospesa nell'infinità dello spazio, che gira sul suo asse con assoluta precisione e forza. Mi pareva quasi di sentire sotto di me il moto in direzione est della mesa. Dopo qualche momento ci voltammo per percorrerne la piatta sommità. Era molto spoglia, con pochi magri arbusti, e punteggiata qua e là da basse
prominenze che secondo Jerry dovevano essere i ruderi di antiche abitazioni. Più avanti si scorgeva un piccolo rilievo nel terreno e quando fummo più vicini mi accorsi che sopra c'era una lastra di pietra. Ci fermammo a osservare quella lastra segnata dalle intemperie, un blocco rozzamente tagliato dallo scalpello di uomini che erano ormai tornati polvere alla polvere da un migliaio di anni. Un altare, senza dubbio. «Al Dio sconosciuto» mormorai. Jerry lo fissò a lungo. «Sì,» disse infine «al Dio sconosciuto. Ma quelli che abitavano qui dovevano avergli dato un nome, immagino.» Certo era uno di quei "luoghi alti" che gli uomini dell'antichità, in Palestina come nel deserto americano, avevano sentito come sacri. Anche quando sul pianoro di quella mesa sorgevano abitazioni, quello doveva essere un luogo isolato dal resto del mondo, estraneo alle normali attività dell'uomo. E così l'uomo aveva scalpellato una pietra e l'aveva posta là dove sarebbe restata per secoli e secoli, il più vicino possibile al cielo, spazzata continuamente dai forti venti. Un altare, certo, e collocato in un luogo dove si sentiva che l'immensità dell'universo sfiorava la terra abitata dai mortali. Quella pietra era un simbolo, l'ammissione dell'esistenza di qualcosa troppo grande per potergli dare un nome, l'omaggio all'incommensurabile forza volitiva che aveva creato la terra e le stelle. Mi allontanai con riluttanza, desideroso di sottrarmi a quell'altezza e al vento che ci investiva. Attorno a noi regnava un tale vuoto che sentii l'improvviso, violento bisogno di un tetto, un focolare e quattro pareti a racchiudermi. Jerry si mostrò subito desideroso a sua volta di tornare indietro e discendemmo con prudente fretta quei gradini poco visibili nell'ombra. Quando arrivammo vicino alla casa, ci rendemmo conto che Selena doveva avere acceso il fuoco nel caminetto perché dalle finestre che scorgevamo sotto di noi trapelava un barbaglio arancione. Mentre noi due preparavamo la cena, Selena se ne rimase nel soggiorno a leggere. Sì, Jerry mi aveva spiegato che lei non si occupava della cucina, ma la cosa mi irritò ugualmente un poco. Mettemmo insieme un desinare molto semplice, però l'aria frizzante e quella breve ascensione mi avevano fatto nascere un appetito notevole. Noi due mangiammo abbondantemente, mentre Selena si limitava a giocherellare con quanto aveva nel piatto mandando giù appena qualche boccone. Non discorremmo molto, forse perché Jerry e io eravamo famelici, eppure pensai che quei due dovevano parlare ben poco tra loro; ma il cibo era ottimo e quel silenzio non mi disturbò. Alla fine scostammo le sedie dal tavolo e io accesi la pipa. Ero invaso da
un senso quasi di pace: per la prima volta mi sentivo disteso, a mio agio, e non un semplice ospite. Sorrisi a Selena. «Mi piace molto, sai? Sono contento di trovarmi qui.» Ricambiò il sorriso, quasi automaticamente. «È un posto gradevole, vero?» Jerry pareva deciso a mantenere viva la conversazione: cominciò a spiegarmi che li, tra il deserto e le montagne, la vita assumeva un'intensità diversa, come se si dilatasse, e che non appena mi fossi abituato al clima avremmo dovuto fare qualche gita attorno. Poi Selena mi chiese se avevo tutto quanto mi occorreva, nella mia stanza. Risposi che mi pareva di sì. «Penso che ti verrà sonno presto» osservò. «È l'effetto dell'aria del deserto.» Jerry intervenne in fretta dicendo che naturalmente potevo andare a coricarmi quando volevo, ma che gli sarebbe piaciuto fare una bella chiacchierata. Poi cominciò a radunare i piatti per portarli in cucina respingendo con decisione ogni mia offerta di aiuto. Selena tornò al suo posto davanti al caminetto e riprese il libro. A un certo punto, mentre Jerry eliminava le briciole dal tavolo, si volse a mezzo. «Hai intenzione di lavorare stasera, Jerry?» chiese. «Be', sai,» e aveva quasi un tono di scusa «sto per arrivare alla conclusione e contavo di andare avanti ancora un po'.» «Ma è inutile, tesoro, lo sai. Vorrei proprio che lasciassi perdere.» L'espressione di lui si fece corrucciata. «Senti, ognuno ha le sue manie, e poi è una cosa che mi affascina.» Si rivolse a me aggiungendo in fretta: «Sto svolgendo una ricerca matematica per la mia tesi. In effetti si basa su quell'intuizione di LeNormand, ma credo di aver trovato la strada per renderla accettabile. E in tal caso meriterà una pubblicazione». Di questo si trattava, dunque. Mi domandai perché Selena non fosse d'accordo: era evidente che la cosa l'irritava. Ma si limitò a dire: «È uno spreco di tempo». «Non prendertela tanto per certe mie iniziative, amor mio. Dopotutto sono innocue» osservò Jerry ridendo. Selena non replicò, ma nella luce mutevole del caminetto mi parve di veder passare sul suo volto un'espressione che non riuscii a definire. Comunque aveva un lume acceso alle spalle, e non potei esserne certo. Jerry, in cucina, rigovernava fischiettando tra sé, ma Selena continuò a
leggere senza mai sollevare il capo e io fumavo la pipa osservandola. E d'un tratto notai una cosa strana: lei stava piangendo. Non c'erano lacrime né singhiozzi, ma il volto era contratto e la mano che teneva abbandonata sulla panca era serrata convulsamente, le nocche sbiancate. Una donna che piange mi mette sempre in grave difficoltà, ma in Selena era ancor più intollerabile. Da una parte era una forma di debolezza che non mi riusciva di associare a lei, e dall'altra la nostra reciproca mancanza di simpatia mi impediva di riconoscere e affrontare la cosa. Così mi alzai, appoggiando un braccio alla mensola del caminetto, e continuai ad aspirare boccate di fumo dalla pipa contemplando le fiamme e fingendo di non accorgermi di quel che stava succedendo. Un leggero suono mi fece voltare. Selena si era alzata e, senza guardarmi o rivolgermi il minimo cenno, aveva varcato la porta d'ingresso richiudendola dietro di sé; nell'attimo in cui l'aveva aperta avevo potuto scorgere il cielo notturno, punteggiato di stelle, e il lontano profilo delle montagne a ovest. Una folata d'aria fredda attraversò la stanza e il fuoco ebbe un guizzo. Jerry si affacciò brevemente, quando sentì la porta richiudersi, ma tornò subito a sparire in cucina senza fare commenti. Si continuava a sentire il rumore dell'acqua che scorreva, ma non fischiettava più. Gli avvenimenti della vita non si presentano quasi mai, ritengo, come fatti eclatanti, di grande forza drammatica. La vita è costituita da una serie di piccole cose il cui significato dipende soprattutto dall'attenzione che vi si dedica. Io, ad esempio, non badai particolarmente ai fatti che avvennero quella sera, ma se l'avessi fatto vi avrei forse riconosciuto lo schema dell'ultimo atto della tragedia, là dove la vicenda è ormai completamente definita e c'è da attendere solo l'annientamento finale del protagonista. Adesso riesco ad afferrare il significato intrinseco di certi particolari, degli ultimi piccoli dettagli che hanno preceduto l'orrore di ciò che sarebbe avvenuto. Ma in quel momento pensai semplicemente che Selena fosse uscita per riacquistare il controllo di sé, che di lì a poco sarebbe rientrata, e che era imbarazzante trovarsi in una situazione del genere. Inoltre non riuscivo a superare lo stupore di fronte alla reazione di Selena: non mi pareva che ci fosse ragione di piangere, anche per una donna meno forte di lei. A rifletterci non trovavo motivo alcuno per cui lei dovesse piangere. C'era stato un disaccordo con Jerry, non un vero screzio. Dopo un po' andai a sedermi sulla panca, ma dovetti scostare il libro che Selena stava leggendo e così mi accorsi che era una vecchia edizione delle fiabe di Hans Christian Andersen, un volume che, ne avevo la certezza,
proveniva dalla raccolta di libri che Jerry teneva in camera sua, nella villa di Long Island. Lo raccolsi quasi distrattamente... lo aveva lasciato aperto e rovesciato... e cominciai a leggere: "...e quando calò la sera centinaia di lanterne multicolori vennero accese... i marinai ballavano sul ponte e allorché il giovane principe fece la sua comparsa più di cento fuochi d'artificio guizzarono verso il cielo." «Ehi, Bark!» La voce di Jerry, dalla cucina. «Sì?» «Scotch o drye?» «Scotch.» Comparve con un vassoio, bottiglia, caraffa d'acqua e due bicchieri. «Anche se hai deciso di non farti tentare dall'alcool, come sostieni, un bicchierino non guasta.» «Certamente no» convenni. «Sono senz'altro disposto a rinnovare per una volta le follie giovanili.» «Tu e i tuoi bei discorsi» commentò Jerry. «Personalmente bevo senza aver bisogno di un motivo preciso.» Versò due buone dosi di whisky liscio e ce lo godemmo seduti davanti al caminetto. «Uno scotch coi fiocchi, Jerry.» «Sì. È un piacere ritrovarsi.» «Alla nostra.» «Sì, al nostro incontro.» Riempì di nuovo i bicchieri e bevemmo più lentamente. Per un poco Jerry fissò il fuoco poi si volse a guardarmi, quasi impulsivamente. «Hai visto anche tu.» «No, accidenti. Non vedo proprio niente.» Mi fissò con sguardo scrutatore, come per capire se ero sincero. «È salita lassù.» «Lassù dove?» «In cima alla mesa.» «Gran Dio! Al buio? Ma può cadere, rompersi l'osso del collo!» La sua risposta giunse dopo qualche momento. «Non è mai successo.» «Vuoi dire che lo fa spesso?» domandai incredulo quando ebbi assimilato il significato di quelle parole. «Quasi tutte le sere.» «Dici sul serio?» «Certo che dico sul serio!» «Ma, Jerry, non ne vedo il motivo. Che ci va a fare?»
Fece rigirare il whisky nel bicchiere, guardandolo. «Vorrei saperlo. Giuro che vorrei proprio saperlo.» «Senti, deve pur esserci un motivo. Forse le piace starsene da sola a guardare le stelle e la luna da lassù.» Ma già mentre lo dicevo mi pareva una sciocchezza. «Forse.» Per un po' non disse altro e si versò ancora da bere. «Una volta l'ho seguita. E, anche con il chiaro di luna, mi ci è voluto parecchio per inerpicarmi fin lassù. Quando ci sono arrivato non sono riuscito a vederla benché la luna risplendesse. Certo, è un tavolato molto esteso... Dopo un po' l'ho chiamata, ma senza avere risposta.» Depose il bicchiere sul pavimento e prese una sigaretta. «Comunque deve avermi sentito perché la mattina dopo mi ha fatto una scenata: non dovevo riprovarci più, era troppo pericoloso.» «Santo cielo!» Stava frugandosi in tasca. «Hai da accendere?» Trovai una scatola di fiammiferi, ma ne erano rimasti ben pochi. «Tieni.» Accese la sigaretta ed emise una lunga boccata di fumo. «A questo punto non ci bado più.» Bevemmo ancora un poco e chiacchierammo piacevolmente dei tempi andati. Ricordo che due volte Jerry aggiunse legna al fuoco prima che ci ritirassimo nelle rispettive stanze. E quando spensi la luce ancora non avevo visto né sentito tornare Selena. Ma mi dissi che probabilmente era rientrata dalla porta che dava direttamente nella loro camera da letto. Il giorno dopo l'aria si era rinfrescata. Un vento tagliente veniva dalle montagne e mi stupii nel notare una massa di nubi grigie che attraversavano rapide il cielo. Dopo la prima colazione Jerry e io uscimmo per fare una gita su fino in cima all'altura dietro la mesa. Selena, che aveva fatto colazione con noi quasi senza aprir bocca, disse che non aveva voglia di camminare e non era una gran bella giornata, ma ci augurò buon divertimento. Non c'è molto da raccontare di quella passeggiata. Risalimmo per un buon tratto il fianco del monte e sedemmo a mangiare dei panini al riparo di una sporgenza della roccia. Poi io riempii la pipa e Jerry si infilò una sigaretta tra le labbra. Per qualche momento pensammo di essere senza fiammiferi, ma riuscì a trovare la scatola che gli avevo passato la sera prima e grazie a Dio con l'ultimo fiammifero avviai la pipa e da questa Jerry accese la sigaretta. Lanciai nel vento la scatola ormai vuota, e ne seguimmo distrattamente il volo. Se avessi saputo quel che riservava il futuro, a-
vrei prestato molta più attenzione a quella sua lunga caduta. Per un poco ce ne restammo lì a fumare, soddisfatti, e a contemplare il deserto. «Bark,» mormorò poi Jerry, lo sguardo fisso sul panorama «saresti disposto ora a dirmi quella cosa?» «Non posso» risposi in tutta onestà. «Non ti servirebbe affatto e non dimostrerebbe niente.» «Potrebbe rappresentare un indizio circa il colpevole della fine di LeNormand?» «No. È escluso.» «Va bene.» Poi tacque come riflettendo su ciò che voleva dire. «C'è una cosa di cui voglio parlarti e sapere la tua impressione. Posso?» «Ma certo.» «Sono giunto a concludere che se riuscissi a scoprire chi ha ucciso LeNormand e perché, saprei anche cos'è che mi separa da Selena» prese a dire, appoggiandosi alla rupe. «Ormai è parecchio che ci rifletto e sono quasi sicuro di avere individuato l'unico indizio.» «C'è voluto un bel po', eh?» Ma ero preoccupato. Non volevo tornare su quella vicenda. E soprattutto non volevo ripensare a quella sera nell'Osservatorio Eldridge. «No, non poi tanto. È un elemento che ho sempre avuto con me: le equazioni che si trovavano sulla scrivania di LeNormand. Stava lavorando su quelle quando è morto, ne sono convinto.» «Anche se fosse,» replicai spazientito «pochi tratti a matita su un foglio di carta di rado sono fatali.» «Dipende. Lo sono se si tratta di un ordine a un plotone di esecuzione. Senti, Bark, tu non hai idea dell'importanza della cosa su cui stava lavorando LeNormand. Un'idea assolutamente rivoluzionaria!» tacque per un secondo. «Ricordi qualcosa di matematica?» «Non molto.» «Be', cercherò di spiegartelo a parole, anche se non è facile. LeNormand era partito dagli studi di un certo Minkowski. Ne hai mai sentito parlare?» «Sembra un nome polacco.» «Può darsi, non lo so, ma era un grande matematico. LeNormand ne parlava sempre come se fosse l'unico che avrebbe potuto capire la sua idea. Ma LeNormand era arrivato molto più avanti di Minkowski.» Non ero molto interessato. «Minkowski! Perché questi matematici devono avere sempre dei nomi così strampalati?» «Lascia perdere. In passato si è scherzato anche sul tuo nome, e il mio
poi si presta a molti giochi di parole. Ma ora cerca di seguirmi. Minkowski si è dedicato, tra le altre cose, al problema del tempo. Molti ne parlano come di una quarta dimensione, e in un certo senso è così; tutte le cose tangibili hanno una lunghezza, una larghezza e una profondità, ed esistono anche nel tempo. Cioè hanno una durata. Se così non fosse non potremmo avvertirne l'esistenza, così come non ci riusciremmo se mancassero di una delle altre tre dimensioni.» «D'accordo. Fin qui ci siamo.» «Ma per certi versi quella del tempo non è come le altre dimensioni. Non puoi vedere la dimensione temporale di un qualsiasi oggetto. Puoi perfino non tenerla affatto in considerazione, come ha fatto Euclide, e combinare parecchie cose con le figure geometriche, almeno sulla carta. Questo Minkowski era arrivato a concludere che il tempo non era una normale caratteristica spaziale delle cose, ma che poteva diventarlo se moltiplicato per la radice quadrata di meno uno.» «Santo cielo, la radice quadrata di meno uno! Erano anni che non ci pensavo più. È della stessa famiglia di quell'altra cosa, l'ennesima potenza, e di quel curioso simbolo che indica l'infinito.» «Già.» Mi lanciò un'occhiata incuriosita. «La tua mente dev'essere un posto ben strano.» «Comodo, però.» «Sì. Be', LeNormand aveva elaborato una serie di equazioni che dimostrano la natura molteplice del tempo.» «Uhm?» «Ma certo. Non esiste un solo tempo, ce ne sono molti. E tutti se ne rendono conto, se ci pensi bene. Tante volte avrai sentito dire "come passa lentamente il tempo" oppure "il tempo volò via in un attimo". Quando parli dello scorrere del tempo, in realtà lo misuri con qualcosa, ossia con un altro tempo.» Avevo le idee confuse, ma sapevo che quando Jerry attaccava a spiegare qualcosa neanche il diavolo poteva farlo smettere, così rimasi lì ad aspettare il resto. «Per darti un'idea approssimativa del lavoro di LeNormand posso solo dirti che applicava il teorema di Minkowski al concetto della molteplicità del tempo, ossia tutta una serie di tempi che si accumulano all'infinito. So che non riesci a comprenderlo ed è una cosa che non posso spiegare neppure con un diagramma; ma puoi ben capire come tutti, da Einstein all'ultimo docente di matematica, ce l'avessero con lui per questo.»
«Buon Dio, non so come facessero a capirci qualcosa.» «E infatti non capivano. Be', questo è quanto posso dirti delle teorie di LeNormand, perché io stesso non sono certo di comprendere di più. Resta quell'ultima equazione, e ci sto lavorando sopra. Se riesco a decifrarla...» Si interruppe per qualche istante. «Comunque adesso sai perché secondo me LeNormand era arrivato a qualcosa di grosso. Ogni tanto mi accennava ai risultati che si potevano ottenere con l'applicazione di questa teoria. Una volta, ricordo, ha detto che, se fossimo riusciti a mantenere il controllo della nostra mente una volta morti e fuori del corpo, avremmo potuto viaggiare nel tempo. Osservava che a parecchi cristiani avrebbe fatto un gran bene tornare indietro a dare un'occhiata alla Crocifissione prima di sistemarsi nella pace eterna.» «Un pensiero davvero molto simpatico da portarsi appresso» osservai. «Oh be', forse non parlava proprio sul serio, o almeno non sempre.» Per alcuni minuti non ci dicemmo altro. Forse Jerry stava riflettendo. Io, per parte mia, sapevo che non sarei mai riuscito a capire quei suoi discorsi e quindi era inutile che mi spremessi le meningi. Così me ne stetti quieto. Dopo un poco lui riprese, con voce più bassa e grave. «LeNormand è stato ucciso da una sostanza chimica o da una qualche radiazione. Più probabilmente da una radiazione, anche se solo Dio sa da dove provenisse. E la causa scatenante deve essere stato il suo lavoro. Non c'era altro motivo per ucciderlo.» «C'era Selena.» «Sì. Selena. Selena che si rifiuta di dirmi chi era prima di conoscermi. Bark, per amor del cielo, sai dirmi perché dovrebbe continuare a tacere sul suo passato con tanta ostinazione, se non per il fatto che questo ricollegherebbe al delitto lei stessa o qualcuno che vuole proteggere?» La sua voce si era fatta intensa, urgente. «Senti, lascia perdere queste sciocchezze. Se questo ti può tranquillizzare, ti dirò che con Parsons si è parlato di tutt'altre cose.» «È un sollievo saperlo.» Si inumidì le labbra e continuò: «Ti ha detto se ha svolto indagini per appurare chi è Selena?». «Sì.» «E l'ha scoperto?» «No.» «Tu capisci cosa sono costretto a pensare, Bark? So che è un delitto commesso da uno scienziato. Sono convinto che Selena sa chi è stato. Per questo mantiene un rigoroso silenzio sul suo passato.»
«E avrebbe sposato LeNormand solo per tenerlo d'occhio?» Annuì, cupo. «Sì. Maledizione! Credi che mi faccia piacere sospettare che mia moglie sia implicata nella morte, e una morte spaventosa oltretutto, di un uomo che io tanto stimavo?» «Stai fabbricando un palazzo senza fondamenta.» «Sì, lo riconosco. Ma c'è un'altra cosa. A lei non piace affatto che io lavori su quelle equazioni di LeNormand. Non le va e cerca di impedirmelo. Ricordi ieri sera, quando ha osservato che era inutile? È l'aggettivo che usa quando vuol dire che una cosa è del tutto negativa. Forse è convinta che se vado avanti in quel che sto facendo mi capiterà la stessa cosa che è accaduta a lui.» Allora finalmente mi resi conto del tormento in cui stava vivendo; ma parlando gli avrei posto di fronte un'altra e parimenti orribile ipotesi, e cioè che Selena fosse Luella Jamison. Eppure adesso rimpiango di non avergli riferito il racconto di Parsons. «Bark, non vedi come tutto combacia? Selena ha un'intelligenza eccezionale; molte volte, con certe piccole osservazioni, mi dà l'impressione che ne sappia molto più di me circa il lavoro di LeNormand. Da dove le possono venire simili capacità intellettuali, una simile preparazione, se non da una famiglia di scienziati?» «Intelligenti si nasce, non si diventa.» «Può essere.» «Ad ogni modo è un'idea pazzesca. Non ha la minima consistenza ed è incongrua come un soggetto cinematografico. Di quale scienziato sospetteresti?» «Di nessuno in particolare. Ci sono almeno cinquanta grossi nomi che si vedrebbero la carriera rovinata dal lavoro di LeNormand.» «E tra questi c'è qualcuno di cui sia scomparsa la moglie o una figlia?» Mi fissò con occhi duri. «Ancora non lo so. Ma ho incaricato un'agenzia investigativa di fare indagini.» «Buon Dio!» «Bark, se non riesco a cancellare quest'orribile idea dalla mente, dovrò portarmela dentro per tutto il resto della mia vita.» 14 Il momento è venuto Poi ci alzammo e cominciammo la discesa di buon passo investiti dal
vento gelido. Più volte mi capitò di aver voglia di accendere la pipa, ma ormai non avevamo più fiammiferi e me ne lagnai con Jerry. Mi accorsi con sorpresa che la cosa lo preoccupava: era sicuro che quelli da noi usati fossero gli ultimi fiammiferi che c'erano in casa. Non riuscivo a crederci, ma lui era davvero in ansia. Insisté che, siccome era lui a occuparsi della spesa e del resto, sapeva benissimo se c'erano o no fiammiferi, e in quel caso era certissimo che fossero finiti. Non ci piaceva affatto la prospettiva di una serata con il caminetto spento e una cena fredda, e di un lungo viaggio fino in paese, il giorno dopo. Ma d'un tratto Jerry si fermò voltandosi a guardarmi con un sorriso. «Ho trovato la soluzione! Possiamo accendere un fuoco facendo scoccare una scintilla dalla batteria dell'auto. Perché non ci ho pensato subito?» E riprendemmo la discesa con animo più leggero. Jerry era anche in ansia all'idea di trovare Selena intirizzita dal freddo e ci affrettammo per quanto lo permettevano le mie gambe poco allenate e la rudezza delle raffiche di vento. Ma a una svolta del sentiero la casa ci apparve, a circa quattrocento metri. Appena la vedemmo ci arrestammo di botto. La finestra che scorgevamo, quella del soggiorno, era illuminata da un bagliore arancione, e da come vibrava e palpitava era evidente, anche a quella distanza, che poteva provenire solo dal caminetto. Ci rimasi quasi male. Probabilmente un istinto primitivo di sopravvivenza, o forse solo un residuo dei tempi dei boy scout, mi aveva fatto pregustare con un piacere quasi perverso quel rudimentale tentativo di ottenere il fuoco. Ora non sarebbe stato necessario, ci aveva pensato Selena. Jerry ebbe una reazione diversa. Per un poco fissò quella luminosità senza muoversi, senza aprir bocca, e il suo volto, dapprima incredulo, mutò assumendo un'espressione rigida, contratta, che non seppi analizzare. «Be',» osservai «non saremo costretti a strofinare pezzetti di legno o a ricorrere alla batteria, a quanto pare.» «No. Ha acceso il fuoco. Ha acceso il fuoco.» Sembrava perplesso e forse un po' a disagio. «Forse anche a lei è venuta in mente la batteria, o magari ha trovato dei fiammiferi.» «No. L'auto è ancora nella rimessa, e in casa non c'erano fiammiferi...» Lasciò la frase in sospeso, quasi con riluttanza. «Oh, be', ad ogni modo disponiamo di un fuoco. "Accetta i doni degli dèi".»
Mi guardò. «Come hai detto? Ah, sì, certo.» Tuttavia non stava pensando affatto alle mie parole. Mi precedette mentre ci dirigevamo alla casa, ma aveva rallentato l'andatura. Anzi, pareva che avanzasse per forza di inerzia. Se non ci fossimo trovati quasi al termine di un'escursione abbastanza lunga, avrei detto che stava semplicemente passeggiando. Ogni tanto rialzava la testa per guardare la casa, e ogni volta mi colpì la tensione del volto e l'espressione assente degli occhi. Quando entrammo nel soggiorno, nel caminetto divampava un grande fuoco scoppiettante: legna secca del deserto che bruciava rapidamente riducendosi subito in cenere. Selena era seduta sulla panca, a contemplare le fiamme che davano riflessi rosati ai suoi capelli biondissimi e al volto. «Salve» disse. «È stata una bella passeggiata?» «Sicuro,» risposi «ma tener dietro a questa specie di stambecco che e tuo marito non è impresa facile per un povero cittadino.» «È veloce, vero?» Mi accostai al caminetto volgendo la schiena alle fiamme perché il calore dissolvesse parte della stanchezza che mi si era accumulata nelle gambe. Jerry si era fermato dietro la panca, alle spalle di Selena; trasse di tasca il pacchetto delle sigarette e se ne mise una tra le labbra. «Mi faresti accendere, per favore, tesoro?», disse con un tono assolutamente indifferente. Quella donna sapeva pensare in fretta. Solo per un attimo la sua espressione mutò leggermente, poi si chinò a prendere dal fuoco un lungo stecco incandescente. «Ecco qui» disse accostandolo alla sigaretta. Jerry aspirò una lunga boccata, fissandola attraverso la fiamma. Poi: «Grazie» si limitò a dire. Lei gettò di nuovo il rametto nel fuoco e tornò a sedersi. «Eravamo preoccupati» ripresi. «Jerry era sicurissimo che non ci fossero più fiammiferi in casa, che avessimo consumato gli ultimi durante la gita. Ma evidentemente ce n'erano.» Jerry girò attorno alla panca e si accostò all'altro lato del caminetto, fissando sua moglie. «Già,» confermò, cercando inutilmente di avere un tono disinvolto «dove li hai trovati?» Selena alzò gli occhi verso di lui, e il suo volto aveva un'immobilità che non dimenticherò mai. «Ha importanza?» «No, non ha la minima importanza dove li hai trovati, ma se li hai trova-
ti.» Quelle parole mi risultarono incomprensibili, e tutt'ora non me le spiego, ma Selena capì perfettamente. E si alzò. «Non avresti dovuto dirlo.» Non c'era asprezza o collera nella sua voce, solo una stanchezza che mi parve sfiorasse la disperazione. Jerry la fissava con occhi così intensi, così pieni di orrore che di colpo mi resi conto che quella conversazione, per me del tutto oscura, aveva per lui un significato ben preciso e spaventoso. «Così stanno le cose, dunque. Era tanto che me lo chiedevo.» Lo guardò, calma. «Ho cercato di impedirtelo.» «Sì. Hai fatto di tutto. Gentile da parte tua.» Rovesciò il capo all'indietro scoppiando in una breve risata nervosa in cui si avvertiva la paura. «Sei stata molto... condiscendente, Selena.» «No,» replicò lei a voce bassissima «no, Jerry, non si trattava di condiscendenza.» Lui continuava a scrutarla, senza mai distogliere lo sguardo dal suo viso. Notai anche che tremava, che le mani abbandonate lungo i fianchi si contraevano, e le labbra, improvvisamente assottigliate e sbiancate, vibravano un poco. Se le inumidì. «L'avrei scoperto, prima o poi» disse infine. Lei non replicò. «E il momento è venuto.» «Sì» mormorò lei, e il tono era impersonale. Di colpo lui fu perfettamente padrone di sé. «Sai a cosa sto pensando?» «Naturalmente.» «Ho ragione?» Lei annuì gravemente. «Sai anche questo.» «Bene» mormorò Jerry, come fossero giunti a un accordo; poi si rivolse a me. «Bark, per te tutto ciò non ha senso, vero?» «No.» «Bene.» E c'era affetto nella sua voce. «Vorrei chiederti un favore.» «Certamente» annuii. Si scostò dal caminetto. «Desidero che porti un mio biglietto a papà. Lo scrivo subito... prima che me ne dimentichi.» Passò nello studio e io lo seguii un po' incerto. Non capivo quel che stava accadendo, ero frastornato e per qualche oscura ragione anche spaventato. Selena mi venne dietro, ma si fermò sulla soglia. Jerry era seduto alla scrivania. L'ultimo barlume grigio del tramonto entrava dalla finestra alle sue spalle diffondendo nella stanza una luce spenta e fredda. Quando entrai era già intento a scrivere con rapidi, frettolosi tratti
di penna, come se volesse terminare prima che la luce svanisse. Lo osservai per qualche istante, consapevole della presenza di Selena, chiara e radiosa nella penombra della porta dietro di me. Ma poco dopo, con gesto rapido e impaziente, Jerry appallottolò il foglio scagliandolo in un angolo della stanza. «Al diavolo» mormorò rivolgendomi un mezzo sorriso sarcastico. «Non ha tanta importanza, dopotutto.» Poi accadde tutto in un attimo. La rivoltella doveva trovarsi nel cassetto della scrivania, subito a portata di mano. Se la puntò alla tempia e tirò il grilletto. La detonazione in quella piccola stanza fu assordante. L'arma finì sul pavimento, presso la sedia. Le braccia di Jerry si abbandonarono sul piano della scrivania, e tra loro la sua testa. Per un istante, dopo l'esplosione, mi parve che i suoi occhi mi guardassero. Poi non riuscii più a vederli. Per un momento lunghissimo, un'incommensurabile sequenza di vuoto, rimasi là a fissarlo. Non so spiegare cosa provassi, forse nulla. L'unica sensazione era di aver cessato di vivere, e un terribile nodo alla gola. Mi resi conto che Selena mi oltrepassava. Si diresse alla scrivania, lentamente ma senza incertezze, e il suo volto era perfettamente calmo, il viso di un angelo che non conosce né dolore, né senso di perdita, né morte, né alcuno dei sentimenti che animano le creature umane. Appoggiò i palmi sul piano del tavolo e si piegò un poco per guardare Jerry, in silenzio; poi con una mano, quella sua mano lunga e bianca, dalle dita forti, gli sfiorò i capelli, con tanta leggerezza da non toccarli quasi. Pochi istanti dopo attraversò la stanza e si chinò a raccogliere il foglio accartocciato. Vidi che lo prendeva e poi usciva. Quindi udii il suono della porta d'ingresso che si apriva e si richiudeva. Naturalmente feci tutto quello che viene in mente di fare in simili casi. Era morto, certo, ma gli posai una mano sul cuore per esserne certo. La pelle era ancora tiepida, sotto la camicia. Un qualche impulso melodrammatico mi spinse ad avvolgere la rivoltella nel mio fazzoletto; in seguito mi rallegrai d'averlo fatto: mi risparmiò parecchi fastidi con lo sceriffo. Trasportai il cadavere nella mia stanza e l'adagiai sul letto; impensabile deporlo nella camera che aveva diviso con Selena. Chiudergli gli occhi fu la cosa più penosa. Poi passai nel soggiorno, riattizzai il fuoco e accesi le lampade. La bottiglia del whisky era in cucina; la trovai senza difficoltà, ma bevvi pochissimo. Non riuscivo a inghiottire. Non potevo far altro che attendere l'alba: non sarebbe stato possibile percorrere la lunga pista com-
plicata che portava a Los Palos al buio. Là seduto, dopo un poco cominciai a chiedermi se Selena sarebbe tornata. Tendevo l'orecchio in attesa di cogliere qualche rumore di fuori, ma c'era solo il silenzio, l'impetuoso sibilo del vento attorno alla casa, e lo scoppiettio del fuoco. Durante quell'interminabile notte non riuscii a pensare o a provare nulla. In realtà mi limitai, in un caos emotivo di solitudine, dolore e spavento, ad aspettare una delle due cose: il ritorno di Selena o le prime luci dell'alba. Dopo molto tempo la finestra a est cominciò a lasciar trapelare un'incerta luce grigia. Uscii subito per avviare l'auto. Fuori, nella penombra, il gigantesco profilo della mesa incombente sopra di me mi diede un brivido. Alzai lo sguardo verso la rozza fila di scalini, chiedendomi se lei stesse tornando, ma non scorsi traccia di Selena. Il motore partì senza difficoltà e portai la macchina davanti all'entrata della casa, il più vicino possibile. Poi rientrai lasciando il motore acceso: quel suono mi rassicurava. Sistemare Jerry sul sedile posteriore fu atroce, ma a quel punto ero come anestetizzato. Prima di andarmene spensi le luci e il fuoco, e lasciai la porta aperta nel caso che lei fosse rientrata. Poi suonai il clacson, più e più volte. Quel suono aspro e forte si perse nel deserto e me ne tornò un'eco dalla parete della mesa dietro e sopra di me. Lei non ricomparve. Innestai la marcia e mi avviai lentamente lungo la strada che portava al deserto e a Los Palos: centodieci chilometri. Il resto non ha grande importanza, anche se fu estremamente faticoso. Molto prima che avessi sbrigato tutte le formalità con lo sceriffo e l'impresa di pompe funebri, quella specie di insensibilità che mi aveva permesso di arrivare a Los Palos si era ormai dissolta. Non so come mai accettarono immediatamente la mia versione dell'accaduto, ma naturalmente c'era la rivoltella e i segni di bruciature alla tempia. Lo sceriffo tornò indietro con alcuni uomini per rintracciare Selena, senza trovarla, e mi disse poi che la casa era esattamente come l'avevo lasciata. Riuscì a farmi ammettere che Jerry non era completamente felice con sua moglie, e questo parve bastare a lui come al magistrato inquirente. Mi lasciarono subito libero. Non mi fu possibile prenotare un posto su un aereo e comunque l'aeroporto più vicino era a mezza giornata di viaggio, così mi limitai a prendere tre giorni dopo, il transcontinentale che passa da Los Palos la mattina. L'unica sosta l'ho fatta a casa mia, per mettere le ceneri di Jerry nell'urna d'argento. 15
Alba Quando ebbi terminato il racconto mi sentii sfinito, svuotato di ogni emozione. Giusto o sbagliato che fosse, avevo detto tutto. Ripensandoci, mi chiesi se in quella storia c'era qualcosa di più della registrazione di una mia morbosa ossessione nata dallo shock del ritrovamento di LeNormand e da un'inconscia gelosia nei confronti di Jerry, a cui uno psicanalista avrebbe potuto dare una definizione decisamente sgradevole. Gli episodi che a me erano risultati strani potevano sembrare naturali o fortuiti a una mente lucida e razionale come quella del dottor Lister. Non avevo potuto presentare alcuna prova concreta per avvalorare la mia istintiva convinzione: Selena era diversa da tutti noi e anche se in un modo che mi restava oscuro, era responsabile della morte di due uomini. Eppure, per quanto ridotto allo stremo, carico di infelicità, ebbi la fuggevole sensazione che restasse ancora qualcosa da dire o da fare. Era come se ci fosse un senso di immanenza nell'aria: la vicenda non era ancora giunta alla conclusione. Ignoravo quale potesse essere, ma la temevo. Il dottor Lister rimase a lungo in silenzio. Teneva le mani intrecciate davanti a sé, sul tavolo, e le fissava come se la linea delle sue stesse dita gli apparisse del tutto nuova. Ce ne stavamo lì, immobili. La notte che ci avvolgeva andava mutando; la grande costellazione dello Scorpione era bassa sull'orizzonte occidentale e l'oscurità assumeva a poco a poco una nebulosa, opaca sfumatura argentea. Di nuovo, come a Cloud Mesa, avvertii quasi fisicamente la rotazione del pianeta Terra, sospeso nello spazio. Quel puntolino della sua superficie che noi due occupavamo stava spostandosi verso il sole: la villa, gli alberi, l'ampia distesa del Sound, tutto il margine orientale del continente avanzava inesorabile verso la luce di un nuovo giorno. Si alzò, lontanissimo, il ruggito di un motore Diesel a violare il silenzio che ci attorniava. Alla fine il dottor Lister sciolse le dita e mi guardò pensoso. «Non hai altro da aggiungere?» «No.» Posò i palmi sul tavolo, si alzò e spense con un soffio il mozzicone di candela. «Quello che mi hai riferito non dimostra assolutamente nulla» osservò tornando a sedere. «Secondo te c'è un collegamento tra tutti i fatti che mi hai esposto?» Riflettei per qualche istante, cercando il modo di comunicargli le mie sensazioni. «Sì, ne sono convinto. So che c'è qualcosa dietro tutta questa
faccenda perché sono convinto che Jerry l'avesse scoperto. Per questo si è ucciso.» «E non sai di che si tratta?» «No, non lo so» risposi lentamente. Salvo che si riallaccia a Selena. Tutto si riporta a lei.» «È una strana donna,» convenne «lo riconosco. Ma a parte la sua personalità, che neppur io riesco a comprendere del tutto, lo confesso... non vedo nulla di ben definito che possa giustificare le tue impressioni.» «E la morte di LeNormand? Nessuno è riuscito a spiegarla, però è avvenuta. E l'episodio di Galli-Galli e le carte? A me sembra ben di più di un caso o una coincidenza. E quanto è accaduto durante quella gita a Montauk? E poi il fuoco, su a Cloud Mesa. Come ha fatto ad accenderlo?» Ma già mentre esponevo quegli interrogativi potevo immaginare le risposte che mi avrebbe dato. La morte di LeNormand restava un mistero inspiegabile. La polizia non era riuscita a scoprirne il colpevole, ma dopotutto molti delitti restano irrisolti. Quanto a Galli-Galli e al suo gioco di prestigio, la cosa era avvenuta in un locale notturno, dove io avevo bevuto la mia parte e probabilmente era stato facile farmi bere anche il trucco. La chiaroveggenza che avevo attribuito a Selena durante la gita a Montauk poteva ridursi in effetti a un'attenta osservazione dei piccoli gesti e delle espressioni dell'altro, e Selena era una donna di intelligenza eccezionale. Aveva tirato il freno a mano perché un qualche rumore o un breve riverbero del sole giunto dall'altra macchina l'aveva avvertita del pericolo. Quanto al fuoco acceso, a Cloud Mesa, poteva darsi che avesse semplicemente trovato un fiammifero. Non c'era nulla nel mio racconto che non potesse avere una spiegazione razionale. «Sì, riconosco che ci possono essere degli elementi inconsueti» osservò il dottor Lister. «Ma non vi trovo nulla di misterioso. Ognuno di essi può avere una risposta logica. Tutti, salvo la morte di LeNormand, si intende.» «E quella di Jerry» aggiunsi brutalmente. «Sì. Questa è la cosa più difficile da accettare, per me» rispose a bassa voce. «Ti prego, papà... prima di arrivare a concludere che sono affetto da una qualche turba mentale, cerca di riesaminare da un altro punto di vista tutto quello che è avvenuto. Se riesci a dimostrarmi che non c'è nulla di strano in tutti questi fatti, te ne sarò profondamente grato.» «D'accordo» mormorò accendendo una sigaretta. Poi mi guardò con tolleranza piena di comprensione. «Per il momento lasciamo da parte i detta-
gli secondari. Partiamo dalla morte di Jerry e LeNormand.» «Ci sono alcuni fattori in comune.» «Sì. Quali?» «Il più importante è che sono entrambi inspiegabili. E poi la presenza di Selena, di Jerry, e anche la mia direi, nelle immediate vicinanze in entrambi i casi.» «Nient'altro?» «Sì. Le equazioni di LeNormand. Rientrano sicuramente nel quadro.» ««D'accordo.» «E tutt'e due le volte c'era la presenza di un fuoco.» Annuì. «Possiamo eliminare alcuni fattori. Jerry, come me del resto, non ha avuto alcuna parte nell'eleménto fuoco. Resta Selena. Selena e le equazioni. Jerry stava lavorandoci sopra, a Cloud Mesa. Non dimenticarlo.» Si protese in avanti. «Continua.» Le tessere del mosaico stavano via via andando al loro posto nella mia mente, ma ancora non facevano intravvedere nulla di definito, e l'immagine che stava formandosi non era traducibile in parole ordinarie. «L'unica altra cosa di cui sono certo» ripresi fiaccamente «è che quando Jerry ha capito che Selena era riuscita chissà come ad accendere quel fuoco, gli è venuto subito in mente qualcos'altro. Ma non so bene di che si trattasse, e non so definirlo.» «Be',» osservò lui dopo una lunga pausa carica di tensione «la maggior parte delle cose che hai raccontato stanotte riguarda Selena. Vero o no?» «Sì.» «E ciò significa che, se vedi giusto, la risposta risiede in lei.» «Io ne sono convinto.» Non avevo ombra di dubbio in proposito. «Non può essere altrimenti. Se sapessimo chi è e da dove è venuta...» Non riuscii a completare la frase. «Luella Jamison?» «Tu che ne pensi?» Scrollò il capo. «Non vedo come sia possibile. Anche se quel suo ritardo mentale fosse stato dovuto a un fattore meccanico e non congenito, non avrebbe mai potuto risolversi così rapidamente.» Si girò a guardare l'acqua e aggiunse a bassa voce: «Ma capisco bene quel che hai dovuto portarti dentro, e non mi stupisce che...». Si interruppe bruscamente. «Non ti stupisce che per me sia diventata una fissazione, vuoi dire? Può darsi, non ne sono certo. Dimmi sinceramente cosa pensi di Selena. Tu
puoi valutarla senza essere influenzato dalle molte cose che mi hanno tormentato in tutti questi mesi.» Mi rispose solo dopo qualche istante, scegliendo con cura le parole. «Selena è la donna più intelligente e più bella che abbia mai incontrato.» Altra pausa. Poi continuò con voce alterata: «Non ero del tutto tranquillo all'idea che Jerry la sposasse. Mi pareva dura, non solo in apparenza, ma in tutto il suo modo di essere. L'ho osservata spesso, sperando di scoprire un gesto di tenerezza o di chiaro amore per Jerry. Ma non è mai accaduto. Era fredda, logica... forse l'aggettivo più adatto è "impersonale", e non ho mai avuto modo di sapere se con Jerry si rivelasse diversa. La cosa mi teneva in ansia. Ma fino a questa notte non ho mai pensato che ci fosse un aspetto sconosciuto della sua personalità». Ero sconcertato. Cosa gli avevo detto che lo inducesse a rivedere il suo giudizio su Selena? «Io mantengo la mia opinione sul suo conto» affermai. «Mi fa paura. È tutta cervello e niente cuore. Se n'è semplicemente rimasta lì, sapendo quel che stava per accadere, mentre Jerry...» «Sì, credo di capire quello che hai dentro. Ma ci sono due particolari. Hai detto che gli ha accarezzato i capelli dopo... dopo che...» «Al diavolo! Era stata al cinema e a teatro. Era un gesto che aveva appreso chissà dove, così come imitava Grace. E non significa molto.» «No, non molto. Ma c'è un'altra cosa che non può avere imparato. Mi hai detto che quella prima sera, quella del tuo arrivo, stava leggendo uno dei libri di Jerry. Ricordi? Uno dei suoi vecchi libri di fiabe.» Aveva individuato l'unico particolare che in realtà discordava completamente con la personalità di Selena. Tutti i suoi gesti, i suoi stati d'animo — se così si possono definire — rispondevano sempre a un qualche suo codice rigoroso, esclusivamente cerebrale. Ma certo non arrivavo a capire come mai si fosse messa a leggere Hans Christian Andersen. E leggendolo si era messa a piangere, silenziosamente, in completa solitudine. Come mai? Era incredibile. «Sì,» riconobbi «una cosa strana. Non riesco a spiegarmela.» «Io sì, forse» dichiarò. «E sono lieto che tu ne abbia parlato perché dimostra che voleva bene a Jerry.» Dalla mia espressione dovette intuire che non capivo: sorrise e continuò, col tono che usava nei suoi rari momenti di confidenza. «Tu non sei mai stato sposato e forse non puoi cogliere certe piccole cose. Ma per alcune donne, e la madre di Jerry era una di queste, il pensiero del marito da bambino, o da ragazzino, può essere molto commovente. Ritengo che con tutta probabilità sia la parte materna dell'istinto ses-
suale che assume un aspetto predominante, per un momento. Per questo Selena piangeva mentre leggeva il libro di Jerry, un libro che lui aveva avuto in mano da piccolo.» Sì, certo, era possibile. Né Grace né un'altra donna aveva mai avuto slanci di tenerezza verso di me, come figlio o come marito, quindi non potevo saperlo. Ma la mia sensazione immediata fu che il dottor Lister stesse sbagliando. Se qualcosa aveva potuto commuovere Selena fino alle lacrime, di sicuro non era il pensiero di Jerry da ragazzo. Avevo scorto nella sua espressione un'intensità e un'amarezza che ricordavo bene e che non si attagliavano a una simile ipotesi. Anzi, era quasi impossibile pensare che una qualsiasi lettura, e soprattutto una fiaba, potesse commuovere profondamente Selena. Ero pronto a scommettere che anche da piccola non era tipo da interessarsi molto alle favole, e l'idea che una persona così spaventosamente matura e con una simile intelligenza potesse addirittura piangere... No, non andava. Leggeva tutto ciò che le capitava per le mani, senza mai esserne veramente toccata. E se quella storia l'aveva commossa, doveva essere stato un puro caso. Inoltre le righe che avevo scorto sulla pagina a cui aveva lasciato aperto il libro non mi erano parse molto tristi. Di che si trattava? C'entravano lanterne accese e marinai che ballavano. Non mi veniva in mente altro. «Sto cercando di ricordare la fiaba che stava leggendo» dissi infine per spiegare il mio silenzio. «Ne ho lette solo poche righe... marinai che accendevano lumi su una nave o qualcosa del genere.» Lui annuì. «Sì, era una delle preferite di Jerry, quando aveva sette o otto anni. Gliela leggevo ad alta voce, dopo cena. È La Sirenetta.» Non me la ricordavo. «Oh» mormorai con indifferenza. «Be', non credo che abbia grande importanza.» «La Sirenetta è la più triste e la più bella di tutte le fiabe di Andersen. L'hai letta senz'altro. Non ricordi la storia della piccola sirena che abitava in fondo al mare? Un giorno è emersa in superficie e ha visto una nave, e a bordo della nave c'era un principe. Lei lo ha salvato dal naufragio portandolo fino a riva. E si è innamorata di lui.» Di colpo rammentai. «Oh, sì, certo» annuii, preso da un curioso senso di agitazione che non mi fermai ad analizzare. «E poi va da una strega per farsi trasformare in essere umano, no?» «Già, e la strega le muta in gambe la coda di pesce, ma a ogni passo le pare di camminare su delle punte di spade. Ma in cambio ha dovuto dare alla strega la sua lingua, e così non può più parlare. E ha accettato un patto:
se il principe non si innamorerà di lei, dovrà morire, ma priva dell'anima immortale degli uomini.» Distolse lo sguardo. «Jerry si commuoveva sempre quando si arrivava a quel punto.» Il resto della fiaba mi si ripresentò subito alla memoria. La sirenetta, dopo essersi dedicata completamente al principe, aveva dovuto assistere al matrimonio dell'amato con un'altra e la notte delle nozze si era gettata oltre il parapetto della nave su cui si trovavano i due sposi. Cadendo in mare, si era dissolta in spuma. Adesso ricordavo anche come mi ero sentito bruciare gli occhi di lacrime la prima volta che l'avevo letta. Forse era riuscita a commuovere anche Selena. Forse. Ma, nell'attimo in cui lo pensai, mi venne in mente un'altra spiegazione. Poteva darsi che avesse pianto perché la fiaba era bella e toccante... o perché rispondeva alla realtà. Era un'idea assurda e terribile, e cercai di cancellarla immediatamente. Rammentavo il volto di Jerry mentre fissava Selena là, seduta dinnanzi al fuoco che chissà come era riuscita ad accendere. Di certo c'erano stati orrore e incredulità nei suoi occhi. Era possibile che anche a lui si fosse presentato il sospetto che ora andava prendendo forma nella mia mente. In pochi istanti mi si ripresentarono tutte le immagini e i sentimenti che il mio io conscio aveva vissuto. Non controllavo più i miei pensieri, che ripercorrevano tutte le vicende che avevo appena terminato di esporre, senza riuscire a individuare neanche una prova tangibile che l'idea che stava dilatandosi e prendendo vita nel mio cervello fosse inaccettabile. Un'ondata di panico indescrivibile mi afferrò quando mi resi conto che forse ero giunto alla vera risposta. Non provavo alcun senso di trionfo all'idea di aver scoperto il segreto di Selena, della sua esistenza accanto a Jerry e tra noi. Mi sentivo invece affondare, soffocare in acque nere, fredde e paralizzanti come quelle dell'oceano artico in piena notte, che si richiudevano via via su di me riempiendomi di paura: un terrore totale che mi invadeva fisicamente, una forza carica di gelo e di morte che penetrava in ogni fibra del mio corpo e mi possedeva la mente. E la cosa più terribile era che non esisteva nulla di concreto a cui rifarmi. Nulla da cui fuggire o da affrontare. Un panico che emanava da un'idea nebulosa, da un'ipotesi solo in parte formata... La mia espressione doveva tradire ciò che provavo poiché il dottor Lister mi guardò allarmato. «Che c'è Bark? Che ti succede?» La sua voce mi giunse come lontanissima. Cercai di rispondere, ma non riuscivo a muovere le labbra e dovetti inumidirmele. «Un pensiero im-
provviso. Qualcosa che potrebbe spiegare Selena... almeno in parte.» «Ossia?» Avrei voluto dirglielo, ma avrebbe pensato che mi aveva dato di volta il cervello, lo sapevo. Non potevo spiegarlo in modo che risultasse credibile. «Ancora non saprei come tradurlo in parole ma... ecco, non credo che sia... normale.» L'incomprensione era stampata sul suo viso. «Non capisco. Non vorrai insinuare che è pazza?» «No, certo. È perfettamente equilibrata.» «E allora cosa ci sarebbe di anormale, in lei?» «Lei stessa» replicai, scandendo volutamente queste due parole. «È diversa, completamente diversa dai comuni mortali. Ha un'intelligenza molto più viva della norma, e anche fisicamente si differenzia parecchio. Ma ciò a cui mi riferisco non può trovare un paragone.» «E cioè sarebbe unica. Tu pensi che non ci sia un'altra persona al mondo come lei?» «Questo non lo so. Forse ne esistono altre come lei, ma in tal caso sono più abili, sanno nascondersi meglio tra noi.» Il pensiero che anche quella mia intuizione fosse esatta mi tolse il fiato. Bastava la possibilità di incontrare un'altra persona come Selena, o di vivere in un mondo dove esisteva un altro suo simile, a riempirmi di sgomento. Continuai rapidamente. «Ad ogni modo spero che sia la sola. Non vedi anche tu come sia radicalmente diversa da te, me, Grace e tutti quelli che conosciamo? È una differenza molto maggiore che se fosse priva di un braccio o di una gamba, o se avesse il viso deturpato da un grave incidente. Questi sarebbero aspetti puramente esteriori. No, è proprio la sua essenza intima che è diversa.» Scrollò il capo. «Non ho la più pallida idea di ciò che stai cercando di dire.» «Vediamo, cercherò di esprimermi in altro modo. Non hai mai avvertito una specie di mancanza in lei? Come se fosse in qualche modo incompleta?» «No. No, non mi pare.» «Tu stesso hai detto che la sentivi fredda. Mettiamola così: secondo me non ha un'anima.» Ebbe un piccolo gesto di impazienza. «Queste sono fantasie. Atteniamoci ai fatti.» «I fatti!» ripetei in tono aspro. «Ma abbiamo di fronte tutti i fatti che vogliamo! È un fatto o no che anche secondo te Selena è diversa da tutti gli
individui che hai mai conosciuto?» «Sì, questo posso ammetterlo.» «E in che cosa sta la differenza?» «Non esistono due personalità identiche.» «Stai eludendo la domanda.» «No,» dichiarò «non faccio niente del genere. Selena non è come te, né come me, né come nessun altro. Ma questo vale a sua volta anche per te, per me e per chiunque altro.» «Ma buon Dio,» sbottai disperato «non ti rendi conto che lei si differenzia in misura addirittura abnorme? Non vedi che ha una personalità a sé stante, con un divario molto più spiccato di quello che si coglie normalmente tra gli individui? Non ha mai fatto veramente parte del nostro mondo. È stata un'ospite, una persona di passaggio in tutte le circostanze e in tutti i luoghi in cui ho avuto modo di osservarla.» «Una persona di passaggio?» «Sì» confermai, percorso da un brivido di freddo che non era dovuto all'aria attorno a noi. «Non è mai stata altro.» «Direi che è il giusto modo di descrivere il suo atteggiamento» osservò meditabondo. «Non ci avevo mai pensato da quest'angolazione. Però, sì, si avverte qualcosa di... straniero, in lei.» «E poi ci sono anche le sue capacità intellettuali. Tu dici che è intelligente, ma in realtà è ben di più. O è un genio oppure...» Non me la sentivo di completare la frase. «Oppure?» insisté lui. «Oppure» e facevo fatica a tirare fuori le parole, «non fa parte del genere umano.» Il dottor Lister mi guardò fisso. «Parlo della sua mente, non del corpo.» «Non ti capisco assolutamente!» «Neanch'io capisco bene. Non so neppure cosa significhi. Ma ritengo che l'intelligenza di Selena non sia umana. Non ha nulla in comune con la nostra. La sua mente non è passata dalla primissima infanzia alla pubertà e poi all'adolescenza. Non è cresciuta grazie alle esperienze comuni a tutti noi. Non le è venuta per via genetica, come la tua o la mia, in cui si fondono tratti dei genitori e magari anche dei nonni e dei bisnonni. E neppure credo che sia stata formata dall'ambiente. Come sai meglio di me, papà, il cervello registra ogni attimo della nostra vita. Tutto ciò che ci è accaduto fa parte di noi, scritto in una pagina della nostra mente. Secondo me le pagine della mente di Selena non sono scritte in alcuna lingua a noi nota.
Almeno non fino a poco tempo fa. La prima annotazione leggibile per noi risalirebbe, ritengo, al sette agosto di due anni fa.» «Ossia quando Luella Jamison è scomparsa, a Collegeville?» «Sì.» Mi guardava come se non credesse alle proprie orecchie. «Insomma tu sei convinto che la mente di Selena abbia improvvisamente cominciato a funzionare quel giorno?» «No. A mio parere la sua mente è comparsa quel giorno» precisai. «Comparsa? E da dove?» Era chiaramente incredulo. Era la domanda che mi aspettavo e, se anche ne conoscevo la risposta — e avevo paura di pensare che potessi conoscerla — mi ripugnava e mi spaventava formularla: avrebbe comportato qualcosa di definitivo a cui preferivo sottrarmi. «Non so da dove. Da un mondo diverso, direi. Di più non so dire.» «Ma non puoi pensarlo seriamente! Non è concepibile... O forse vuoi intendere che è un'invasata?» «Sì, qualcosa del genere» assentii. «Assurdo. Non so neanche se un simile fenomeno esista davvero. Uno sdoppiamento della personalità, forse. Ma Selena non è certo una schizofrenica.» Questo era fuori discussione, naturalmente. «No, «convenni «ha una personalità perfettamente integra.» «Ma allora,» ribatté un po' spazientito «non vedo proprio come tu possa affermare...» «La sua mente è perfettamente integra,» ripetei interrompendolo «ma non appartiene al suo corpo. Lo abita semplicemente, se vuoi metterla così.» «Ma... è spaventoso» mormorò lentamente, e scosse il capo come per allontanare quell'idea. «Non posso credere che tu abbia ragione. Non ha alcuna base scientifica.» Mi strinsi nelle spalle. Non tutte le verità possono avere un fondamento scientifico. «E secondo te,» riprese in tono cauto «quale sarebbe la causa o lo scopo di questo... trasferimento mentale di Selena?» «Lo ignoro. Ma potremmo rifarci alla fiaba di Andersen. La sirenetta voleva un'anima. E credo sia ciò che anche Selena desidera.» Picchiò un pugno sul tavolo, «Cerchiamo di fare dei discorsi sensati. Non mi piacciono queste espressioni vaghe: cosa intendi esattamente per
"anima"?» «Ciò che intendono tutti: l'anima è quella parte di noi che non è corpo e neppure mente. È quanto lega le due cose, l'essenza del nostro essere.» Scrollò la testa. «Le emozioni... e mi pare che sia questo ciò che tu chiami "anima"... sono il risultato di determinate reazioni ghiandolari dovute a stimoli sensori.» «Non farmi discorsi da medico, papà. Sai benissimo che si tratta di una faccenda ben più complessa.» «Scusami.» Mi lanciò un'occhiata affettuosa, come attribuendo i miei discorsi alla stanchezza e a quanto avevo passato. «No,» dissi seccamente «non voglio che tu sia indulgente con me. Sei sul serio convinto di queste tiritere scientifiche? Ti spiegano davvero cose come l'arte, il senso religioso, l'amore? O il dolore? Questi elementi non sarebbero altro che il prodotto di reazioni ghiandolari?» «Non lo so.» E fu solo un bisbiglio. «Sì, invece. Sai benissimo che non lo sono. Non è possibile. Chiedilo a Selena, lei saprà dirtelo.» «Non sei molto coerente» rispose a bassa voce. «Forse se riuscissi a esporre questa tua idea con parole semplici riuscirei a seguirti.» Mi vergognai della mia brusca reazione. «Non volevo aggredirti, papà. Ma so di avere ragione. Diciamo così: Selena ha pianto leggendo la storia della sirenetta. Ha pianto perché vi ha scorto degli elementi molto simili alla sua esperienza personale. Anche lei appartiene a un mondo diverso, ecco perché si è tanto commossa.» «Certo,» riconobbe meditabondo «se hai visto giusto la cosa quadrerebbe.» Tacque per qualche momento, fissando il tavolo. «Ma è il tuo presupposto che non riesco ad accettare. È troppo carico di elementi misteriosi, e io ho un'impostazione mentale troppo scientifica, forse. Non riesco ad ammettere che Selena possa essere altro che una donna che si distacca dalla norma... un'avventuriera, se vuoi, o forse una straniera.» Avevo previsto questa sua reazione. «Mi auguro solo che tu abbia ragione. La mia ipotesi è... be', vorrei solo che non mi si fosse mai presentata. Ma spiegherebbe parecchie cose che tu invece non puoi giustificare.» «Continua, allora» mi sollecitò. «Almeno ti togli questo peso dal cuore.» «Tutto inizia la sera in cui Luella Jamison si trovava davanti alla toilette della stazione di servizio Sunoco, a Collegeville, con le mani appoggiate al graticcio. Prova a immaginarla: un corpo quasi inerte, praticamente vuoto di ogni barlume di intelligenza. Probabilmente le cellule cerebrali erano
sempre state presenti ma come isolate, prive di collegamenti. Nell'arco di tre o quattro minuti Luella Jamison scompare. E occorre una notevole intelligenza per riuscire in una cosa del genere con tanta rapidità e in modo così definitivo. Un'intelligenza almeno dieci volte superiore a quella che la ragazza aveva dimostrato fino ad allora, lo riconoscerai anche tu.» «Sì, lo ammetto.» «Da un momento all'altro il corpo di Luella ha acquisito un'intelligenza. Non so da dove le sia venuta, anche se ho un certo sospetto. Ad ogni modo si è diretta verso un preciso punto di Collegeville, come attratta da una calamita, ossia si è presentata direttamente a Walter LeNormand. In quel momento lui doveva trovarsi all'osservatorio, pronto a iniziare il suo lavoro. E Luella Jamison è arrivata da lui. Non so cosa sia accaduto tra loro, ma due giorni dopo si sono sposati. E Luella Jamison, che probabilmente non conosceva neppure il proprio nome, è diventata Selena LeNormand.» «D'accordo, questa è la tua ipotesi,» mi interruppe «ma come fai a sostenere che si è immediatamente presentata a LeNormand?» «Perché non c'è altro posto dove avrebbe potuto recarsi, e solo così Selena può aver fatto la sua comparsa. E perché Selena ha bisogno di avere accanto a sé un'intelligenza abbastanza fervida e acuta, come quella di LeNormand appunto, da permetterle di stabilire un contatto con gli esseri umani. La prima volta che l'abbiamo vista, subito dopo la morte del marito, era spenta, amorfa, fino al momento in cui ha stabilito il contatto con Jerry. Con la mente di Jerry: così simile alla sua da ridarle vitalità. Jerry e LeNormand possedevano lo stesso tipo di intelligenza, erano entrambi matematici. E se ben ricordi» aggiunsi «c'era almeno un genio matematico nella famiglia di Luella.» «Sì. Parsons l'aveva detto.» Via via che parlavo, mi convincevo sempre più di essere sulla strada giusta. A ogni parola sentivo emergere la verità, come un serpente che al sole di primavera emerge dal torpore invernale. Non combattevo più la paura perché dentro di me non v'era più spazio dove ricacciarla. Ogni angolo della mia mente era invaso dalla ripugnanza e dall'orrore. E il mio volto doveva rifletterlo perché il dottor Lister mi scrutava con attenzione professionale. Ma la cosa mi era indifferente. Volevo solo arrivare alla conclusione della mia teoria come se, comunicandogliela, potessi liberarmi in parte del gelido spavento che mi attanagliava. Luella Jamison si era diretta all'Osservatorio Eldridge perché sapeva che là si trovava LeNormand. O almeno sentiva che là era quel tipo di intelli-
genza. Con la sua forza intellettuale, parte integrante di lei, doveva esserle stato facile indurlo a sposarla. Non mi aveva forse spinto a offrirle una sigaretta quando sapevo benissimo che lei non fumava? Una piccola cosa, certo, ma in realtà avrebbe potuto fare di me quel che voleva, ed era in grado di guidare a piacimento anche un uomo della levatura di LeNormand. Così aveva vissuto al suo fianco, apprendendo i nostri usi, adattandosi a un ambiente sconosciuto, così come la sirenetta viveva tra i mortali quando aveva abbandonato il mare. «Ma non penserai che la mente di Selena provenga dall'oceano?» domandò il dottor Lister quando giunsi a questo punto della mia esposizione. «No. Non dall'oceano.» Le cose erano andate avanti per qualche mese. E poi LeNormand, che in quel periodo doveva essere vissuto in uno strano clima di sottomissione e magari di paura, si era rifugiato nel suo lavoro, nella sua grande teoria riguardante il rapporto spazio-tempo, e aveva cominciato a elaborare le sue equazioni. Doveva essere giunto alla grande scoperta proprio il pomeriggio della partita contro lo State. E, dopo aver compiuto quell'ultimo passo definitivo che gli poneva di fronte in tutta la sua chiarezza una verità incontrovertibile, doveva essersene rimasto lì a riflettere. Di certo Selena sapeva ciò che lui stava facendo, pur non essendo fisicamente presente. Ricordavo bene come tante volte, in passato, aveva saputo leggere nei miei pensieri, senza che me ne rendessi conto e cogliessi le possibili implicazioni della cosa. Doveva esserle stato ancor più facile sapere a cosa era giunto LeNormand, seguire l'intenso lavorio della sua mente, tutto imperniato su simboli matematici. Lei si trovava in casa, ma sapeva che era arrivato a scoprire una verità così nitida, così incontestabile da farle decidere che doveva morire. Il dottor Lister si schiarì la voce. «E perché LeNormand avrebbe dovuto, per il fatto di essere giunto a una scoperta in campo matematico, costituire un pericolo per lei?» Dal tono era chiaro che voleva mettermi di fronte all'assurdità delle mie affermazioni. «Questo non so dirtelo. Ma ricordi cos'ha detto Jerry? "Un'idea assolutamente rivoluzionaria!" Io posso solo supporre che la scoperta di LeNormand si collegasse in qualche modo a Selena.» «In chiave matematica?» «Sì» risposi lentamente. «Era la dimostrazione di quella che Jerry chiamava la molteplicità temporale. E doveva avere a che fare con lei.» «Ma con ciò vorresti dire che provava una forma di gelosia?»
«No. Credo che LeNormand avesse trovato il modo di dimostrare la sua teoria.» «Avrebbe potuto dimostrarla solo se fosse riuscito a viaggiare nel tempo, mentalmente, se non fisicamente.» «Sì.» «Ma è grottesco.» «A quanto pare Selena non la pensava così. Lo ha ucciso per impedirgli di fare il tentativo.» «È una follia» dichiarò recisamente. «Cosa poteva importargliene, a lei?» Lo fissai, cercando di trasmettergli la mia convinzione. «Perché non voleva che scoprisse da dove veniva.» «E quindi» mormorò esterrefatto «tu ritieni che lei... o la sua mente... abbia viaggiato attraverso il tempo?» «Sì.» «Secondo te viene dal passato o dal futuro?» «Non lo so. Forse non c'è nessuna differenza.» Il dottor Lister mi guardò con aperta commiserazione. «Bark, tu stai vaneggiando. Il cervello ti gioca dei brutti scherzi. Tutta questa tua costruzione non ha il minimo senso, non si regge su nulla.» «Sì, invece. C'è almeno un dato preciso, ossia quanto ha detto a Jerry quella notte alle Bermuda, mentre se ne stavano vicini sotto il chiarore della luna. Ha sussurrato. "Questa è una cosa che i miei non conoscono". Capisci, cominciava a scoprire un qualcosa che non c'era stato tra lei e LeNormand. La sua mente stava imparando dal corpo. E ci vogliono la mente e il corpo per fare l'anima. Vivendo con Jerry aveva scoperto un altro aspetto della vita degli esseri umani.» «E allora perché ha lasciato che si uccidesse?» «Ormai dovrebbe esserti chiaro: Jerry non ha mai smesso di porsi interrogativi sulla morte di LeNormand. E il profondo amore che nutriva per Selena lo rendeva ancor più ansioso di scoprire la soluzione di questo mistero. Era convinto che quelle equazioni fossero un elemento fondamentale, e possedeva doti matematiche eccezionali. Le ha studiate fino a che non ne ha colto il significato. E poi, quando si è trovato di fronte al fuoco acceso da Selena, di colpo ha ripensato a quello che ha ucciso LeNormand. E ha saputo perché LeNormand è morto, e come.» «Selena dunque sarebbe responsabile di entrambi i fuochi?» «Si.»
«E come avrebbe provocato quelle fiamme?» Ero sfinito e capivo che lui non riusciva a credermi. Non avevo saputo convincerlo. L'oscuro pensiero che mi ossessionava, il terrore che quasi mi sopraffaceva non esistevano, per lui. Inutile insistere. «Non ha importanza come. Non lo so. Me lo chiedi solo per assecondarmi. Non ti ho persuaso.» Allargò le mani in gesto di scusa. «Stai quasi per crollare, Bark. I pensieri si aggrovigliano quando si è esausti come lo sei tu.» E dopo una breve pausa: «In un certo senso vorrei poterti credere. Avere una qualsiasi spiegazione è sempre molto meglio che non averne alcuna» «Non questa spiegazione. In vita mia non ho mai avuto tanta paura come in questo momento.» Tentò un sorriso. «Ti sentirai meglio dopo una buona dormita. Ti darò qualcosa che ti aiuterà a rilassarti.» «Lo spero. Spero che tu ne abbia modo.» «Ma si, certo.» «Sì, se mi sbaglio. Ma se ho ragione, no.» «Perché no?» «Tieni presente quanto è accaduto alle altre due persone che sono giunte alla verità.» «E temi che, se hai ragione, la stessa cosa accadrà a noi?» «Se abbiamo scoperto come stanno le cose,» dichiarai cercando di mantenere ferma la voce «lei lo sa già. E verrà qui. È trascorsa una settimana da quando Jerry... Avrebbe potuto arrivare già da qualche giorno.» La fermezza della mia stessa voce mi spaventò. «Verrà, stanne certo. Ma non so dirti se ci ucciderà o no.» «No, non devi farti prendere da simili idee. Selena è solo una donna, per quanto insondabile. Quest'incubo che hai elaborato dentro di te si dissolverà. Hai subito un trauma, sei stanchissimo. Ora l'unica cosa da fare è salire di sopra a riposare.» «D'accordo. Non voglio stare a discutere. Spero che abbia ragione tu. Prenderò il sonnifero, o quel che è, e domani mi sarà passata. Ma voglio rimanere qui per altri cinque o dieci minuti: basteranno a dimostrarmi che Selena non intende ricomparire. Ha agito con grande rapidità, le altre due volte.» Restammo lì, in attesa. L'alba era immobile attorno a noi. Il dottor Lister mi guardava in silenzio, le mani intrecciate. Probabilmente stava riflettendo sulla cura migliore per rimettermi in sesto. Mi auguravo che per prima cosa riuscisse a esorcizzare quelle ondate di gelida angoscia che mi percor-
revano ad ogni battito del cuore. Quel momento di sospensione parve interminabile. Poi vidi che assumeva un'espressione risoluta. Stava per dire qualcosa, ma in quell'istante sentii un movimento ai miei piedi: Boojum. Uscì a passo rigido da sotto il tavolo e si volse a guardare l'angolo della villa, alle spalle del dottor Lister. Non ringhiò né agitò la coda. Dopo pochi secondi drizzò le orecchie. Noi due lo osservavamo e con la coda dell'occhio vidi un'ombra di incertezza disegnarsi sul volto del dottor Lister. Da dietro l'angolo della villa giunse un suono di passi. Il suo viso perse ogni traccia di colore, diventando grigiastro, vecchio, ma non spaventato. Le rughe attorno alla bocca si approfondirono mentre sollevava il capo e si girava sulla sedia. Selena avanzava verso di noi con quel suo lungo passo elastico. Anche se ormai sapevo che non apparteneva alla razza umana, che non era una mia simile, c'era in lei una magnificenza di cui neppure lo spavento o la ripugnanza potevano cancellare l'effetto. La paura in me si stemperò in un'attesa passiva. Si era giunti all'inevitabile conclusione della vicenda, e qualsiasi cosa succedesse, io non avevo modo di intervenire. Venne verso il tavolo e si fermò accanto ad esso, poggiandovi sopra la punta delle dita e guardandoci con sguardo impenetrabile. «Dunque ora sapete.» Mi guardò con occhi imperscrutabili. «Sì.» La mia voce risuonò perfettamente calma. Mi rivolse un mezzo sorriso. «Che strana persona sei, Bark. Credo che non arriverò mai a capirti. Mi odi, immagino.» «Ti temo» replicai. «Non è il caso» e la voce era fredda e impersonale. «Non accadrà nulla di male a te o al dottor Lister. Non ho intenzione di farvi morire. Quel poco che sapete non è un pericolo per me. Non potete dimostrare nulla, nessuno vi crederebbe.» Quel calmo atteggiamento dì convinta superiorità mi irritò, anche nel torpore che mi invadeva la mente. «Non mi riferivo a quest'eventualità.» Mi scrutò, meditabonda. «Allora mi temi per qualche altro motivo.» «Sì. Per ciò che sei.» Mi parve di scorgere nei suoi occhi un lampo doloroso. «Oh, già. Per te conta. Pur non sapendo chi sei tu stesso, così come non sai chi o cosa è un qualsiasi altro essere umano. Tu conosci me come conosci una qualunque altra persona. E forse di più. Ci siamo visti spesso. Una volta ti ho persino salvata la vita. Ma tu hai paura di me perché sono diversa.»
«Sì» ripetei. «Torna da dove sei venuta.» Passò una mano quasi incerta, sul piano del tavolo. «Non è così facile... Vivere qui mi ha cambiata. Perché odiarmi quando voi stessi non sapete da dove venite?» «Vattene. Anche se conosci le risposte a tutti i nostri interrogativi, Vattene. Tu non appartieni a questo mondo.» «Me ne rendo conto. Tornerò al mio.» Il dottor Lister scostò la sedia per fissarla. «Prima che te ne vada» e la voce era dura e piena di rancore «voglio chiederti una cosa.» Lei sollevò la mano, in un piccolo gesto di invito. «A quanto pare sai quello che Bark mi ha raccontato. Ha ragione?» Sul suo volto si disegnavano disprezzo e incomprensione. Selena lo fissò dritto negli occhi; nel modo in cui si teneva eretta e nei brevi attimi di silenzio che lasciò trascorrere prima di rispondere, potei avvertire tutta l'intensità della sua collera. «Pensate forse di essere gli unici abitanti degli spazi immensi dell'universo?» replicò infine. «Credete davvero di essere il prodotto massimo della creazione? Non vi è nulla di unico in voi.» Il tono era così fermo e freddamente convinto che persino il dottor Lister dovette distogliere lo sguardo, e parve rattrappirsi. «C'è forse una ragione vera per cui dovrei andarmene? Non sono di vostra proprietà, non avete alcun potere su di me. Si rende conto» aggiunse con una sfumatura di amara ironia «che quando la Terra avrà compiuto qualche altro giro attorno al sole, lei sarà già morto?» Lui rialzò il capo guardandola con aria di sfida. «Sì,» ribatté «e tu non sembri dare molto peso alla morte. Hai vissuto tra noi per due anni, e in questo periodo hai provocato la morte di due uomini, e ne parli come fosse un particolare da nulla.» Selena abbassò gli occhi. «So che per voi è cosa molto importante. Mi creda, non avevo alcuna intenzione di ucciderli.» «Non ti credo» dichiarò freddamente il dottor Lister. «La morte di Walter LeNormand è stata una pura disgrazia. Non volevo privarlo della vita, volevo solo impedire certe sue elaborazioni mentali, impedirgli di proseguire nelle sue ricerche. Sapevo cosa aveva scoperto e ciò a cui sarebbe arrivato se avesse continuato a ragionarci sopra. Dovevo fermarlo. Non posso spiegarvi a parole ciò che ho fatto, ma c'è un modo per usare le forze mentali, e io l'ho applicato. Le ho concentrate su di lui costringendolo a smettere di pensare, a perdere conoscenza. Il mio piano era di andare all'osservatorio e distruggere i suoi appunti. Ma ho dimenti-
cato una cosa.» «Cioè?» disse il dottor Lister con una punta di sarcasmo, come se la stesse compiacendo. «La partita di football. Migliaia di persone che vi assistevano, cariche di una tensione tale da formare un campo di energie mille volte superiore a quella di un fulmine. È stato quello a ucciderlo. Ha amplificato enormemente la forza degli impulsi che stavo trasmettendogli e che cosi l'hanno folgorato.» «Capisco.» La voce del dottore non tradiva minimamente ciò che stava pensando, ma quando riprese a parlare c'era nel suo tono un odio mortale che non gli avevo mai sentito. «Ma hai anche ucciso mio figlio.» Selena volse il capo per nascondergli il volto. «Jerry» mormorò, come se pronunciare quel nome le procurasse un dolore indicibile. «Sì, anche Jerry ha dovuto morire, e per causa mia. Ma non poteva accadere altrimenti. Aveva scoperto la verità. Crede che avrebbe potuto continuare a vivere, conoscendola?» Non ebbe replica e si rivolse a me. «Tu che pensi, Bark?» «No!» Tornò a guardare il dottor Lister. «La risposta di Bark è l'unica possibile. Ho cercato di fermarlo, non volevo che scoprisse come stavano le cose. Ma è arrivato ugualmente alla verità. Ed era molto più intelligente di tutti voi, col tempo avrebbe trovato il modo per farsi ascoltare dai suoi simili. E non potevo permetterlo.» Il dottore distolse gli occhi dal suo volto fissando il tavolo. «Maledetta!» «Prima di andarmene» riprese lei senza badare a quella parola «voglio dirvi ancora una cosa. Se potessi restare, se ci fosse ancora una ragione per cui rimanere, rimarrei.» Poi guardò me. «Anche la sirenetta ha dovuto andarsene perché non c'erano più speranze d'amore.» Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Addio, Bark. Ho amato molto il tuo amico.» Si girò di nuovo verso il dottor Lister e sollevò una mano come per toccarlo, con quello stesso gesto che le avevo visto compiere a Cloud Mesa, ma poi la ritrasse. «Ho amato davvero suo figlio. Lo ricordi sempre, dottore!» Con gesto rapido si sfilò dal dito i due anelli, quello con lo smeraldo quadrato e la sottile vera d'oro con cui Jerry l'aveva presa in moglie, e li depose sul tavolo, tra noi. Spiccavano, lucenti, sul piano di metallo verniciato. Non la vidi andar via, ma udii il suono dei suoi passi che si allontanavano lungo la terrazza e oltre l'angolo della villa. Quando raccolsi l'anello con lo smeraldo lo sentii ancora tiepido. «Chiunque sia» osservò il dottor Lister dopo una lunga pausa «sa come
fare un'uscita ad effetto.» Non aggiunse altro per un buon minuto. «Non c'è alcuna prova. È tutto inverosimile. Ha detto cose pazzesche, eppure... l'unico fatto reale è che Jerry è morto.» Si alzò e rientrammo insieme. Ci sono due cose da aggiungere a questa storia. Quando il villino di Cloud Mesa venne svuotato e chiuso, e tutto ciò che conteneva ci venne spedito, passai accuratamente in rassegna le carte di Jerry. Mancavano solo gli appunti per la sua tesi. Non ho mai scoperto che fine abbiano fatto, ma è facile immaginarlo. Luella Jamison è ricomparsa. L'ho saputo da Parsons. A quanto risulta una mattina suo padre, che si era alzato presto per recarsi in città, l'ha trovata ferma davanti al cancelletto. Si teneva aggrappata al recinto. Lui l'ha ricondotta in casa e lei è tornata alla vita di sempre. Parsons mi dice che i Jamison sono felicissimi di averla nuovamente con loro. FINE