ROBERT CRAIS SENZA PROTEZIONE (Indigo Slam, 1997) Dedicato con amore e ammirazione a Wayne Warga e Collin Wilcox, due uo...
35 downloads
1411 Views
914KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ROBERT CRAIS SENZA PROTEZIONE (Indigo Slam, 1997) Dedicato con amore e ammirazione a Wayne Warga e Collin Wilcox, due uomini di valore, sempre lungimiranti Seattle Alle 2.14 di quella notte, la notte in cui si lasciarono alle spalle la loro vita precedente per cominciarne un'altra, pareva che si fossero aperte improvvisamente le cateratte del cielo; una cascata d'acqua tambureggiava sulla casa e sferzava il furgone bianco con cui i poliziotti erano venuti a prenderli, fermo in attesa davanti alla veranda. Charles disse: «Vieni, Teri, guarda qui.» La sagoma di Charles, il fratello più piccolo di Teresa, si stagliava in controluce nel vano della finestra della loro casa, ora completamente al buio. Le luci della casa erano tutte spente perché i poliziotti avevano deciso così. Niente luci all'interno, avevano detto. Meglio usare solo candele e torce elettriche. Teresa, che tutti chiamavano semplicemente Teri, raggiunse il fratello e guardò insieme a lui fuori della finestra il furgone parcheggiato lungo il marciapiede. Un lampo rischiarò sinistramente la scena, illuminando con un gigantesco flash di luce giallastra il veicolo e le modeste villette di legno allineate lungo il viale del quartiere di Highland Park, nella parte occidentale di Seattle, una decina di chilometri a sud dello Space Needle. Il portello laterale e quelli posteriori erano aperti; un uomo, accovacciato dentro il vano di carico, stava sistemando degli scatoloni. Altri due uomini, appena ebbero terminato di parlare con il conducente, vennero verso la casa lungo il vialetto d'accesso. L'abbigliamento esterno, che li proteggeva contro la pioggia, era identico per tutti, con un cappello e un lungo impermeabile di tela cerata nera. Ma dal cielo scrosciava una cascata d'acqua, che li martellava come se fossero chiodi da ribattere dentro la terra. Teri pensò mestamente che tra qualche minuto la pioggia avrebbe inzuppato anche lei. Charles disse: «Guarda com'è grande quel camion. Perché non posso metterci anche la mia bici? Ci starebbe benissimo.»
Teri replicò: «Non è un camion, è un furgone, e quei signori ci hanno detto che possiamo portare solo gli scatoloni.» Charles aveva nove anni, tre meno di Teri, e non voleva privarsi della sua bicicletta. Nemmeno Teri avrebbe voluto lasciare le sue cose, ma i poliziotti avevano detto che potevano portare solo l'indispensabile. Quattro persone, due scatoloni a testa, facevano otto scatoloni in tutto. Il calcolo era semplice. «C'è un sacco di spazio.» «Ti prenderemo un'altra bicicletta, ha detto papà.» Charles reagì crucciato. «Io non voglio un'altra bici, voglio la mia.» Il primo uomo che emerse dalla pioggia battente ed entrò in casa sembrava alto due metri, e il suo compagno sembrava ancora più alto. La pioggia sgocciolava dai loro impermeabili sul pavimento in assi di legno, e il primo pensiero di Teri fu quello di dare una passata con un asciugamano, prima che il pavimento restasse macchiato, ma ovviamente gli asciugamani erano già imballati col resto, e comunque la cosa non aveva più importanza. Non avrebbe più rivisto quella casa. Il primo uomo le sorrise e disse: «Sono Peterson. Lui è Jasper.» Estrassero i loro tesserini di pelle con il distintivo argento e oro della polizia. I distintivi luccicarono alla luce delle candele. «Abbiamo quasi finito. Dov'è il vostro papà?» Teri aveva aiutato Winona a dire addio alla stanza che loro due condividevano quando erano arrivati i poliziotti, quindici minuti prima. Winona aveva sei anni, ed era la più piccola dei tre figli di Clark Hewitt. Teri aveva dovuto starle vicino mentre Winona girava per la stanza dicendo: "Addio, letto; addio, armadio; addio, comò". Letti armadi e comò non si potevano mettere dentro gli otto scatoloni. «È in bagno» rispose Teri. «Vuole che lo vada a chiamare?» Il padre di Teri aveva quella che lui stesso definiva una "debole costituzione". Questo significava che ogni volta che era nervoso andava in bagno, e quella sera era molto nervoso. L'uomo altissimo di nome Jasper alzò la voce, rivolto verso il bagno. «Ehi, Clark, datti una mossa, amico! Siamo pronti!» Peterson sorrise a Teri. «Voi siete pronti, ragazzi?» "Certo che siamo pronti" pensò Teri, non si vedeva? Si era occupata personalmente di Charles e Winona, e grazie al suo zelo erano pronti fin da un'ora prima di quella fissata per la partenza. «Winona!» chiamò. Winona accorse in soggiorno con un impermeabile rosa tipo Barbie e una valigetta per i giocattoli color fragola. La bimba aveva i capelli biondissimi raccolti sulla nuca con una molletta verde brillante. Teri sapeva
che dentro la valigetta c'erano le bambole preferite di Winona, perché aveva aiutato la sorellina a prepararsi. Charlie aveva lasciato lo zainetto blu che usava normalmente per andare a scuola, e un impermeabile giallo, pronti all'uso, uno accanto all'altro sul divano. Jasper esclamò di nuovo: «Ehi, Clark, andiamo! Stiamo affogando sotto l'acqua, lì fuori!» Si udì scrosciare lo sciacquone nel bagno, in fondo al corridoio oltre la cucina, e il padre di Teri raggiunse gli altri in soggiorno. Clark Hewitt era un uomo dall'aria smunta e nervosa, il cui sguardo pareva non fissarsi mai su nulla ed essere in perpetuo movimento. «Sono pronto.» «Qui non ci torneremo più, Clark. Sicuro di non avere dimenticato niente?» Clark scosse il capo. «Non mi pare.» «Ha chiuso tutto bene?» Clark aggrottò le sopracciglia sforzandosi di ricordare, e scambiò un'occhiata con Teri, che gli disse: «Ho chiuso la porta sul retro, le finestre e il garage. Domani verranno a staccare il gas, il telefono e l'elettricità.» Suo padre aveva avuto preventivamente dai poliziotti un elenco di cose da fare, e lei si era attenuta con scrupolo alle istruzioni. L'elenco era intitolato: Come effettuare un'evacuazione nel migliore dei modi. «Mi resta solo da spegnere le candele e poi possiamo andare.» Teri notò che Peterson la stava guardando e se ne chiese perplessa il motivo. Peterson scosse il capo, poi rivolse un cenno a Jasper. «Penso io alle candele, signorina. Jasper, caricali a bordo.» Clark si avviò verso la porta d'ingresso, ma Reed Jasper lo fermò. «Il suo impermeabile.» «Eh?» «Torni giù dalle nuvole, Clark. Piove a catinelle, là fuori.» Clark mormorò: «L'impermeabile? Ce l'avevo fino a un momento fa.» Guardò di nuovo Teri. «Vado a prenderlo» disse lei. Teri corse giù per il corridoio oltre la stanza che divideva insieme a Winona, fino alla camera da letto del padre. Soffiò sulle candele per spegnerle e rimase lì al buio, tendendo l'orecchio allo scroscio insistente della pioggia. Il soprabito di suo padre era sul letto dove l'aveva messo. Gliel'aveva lasciato bene in vista ai piedi del letto, ma lui era sempre così sbadato, sempre altrove con la testa. Teri prese l'impermeabile e se lo strinse contro, avvertendo l'odore della stoffa frammisto a quello ben noto di suo padre.
Forse lui era particolarmente distratto, in quei giorni, perché pensava a Salt Lake City, la città dov'erano diretti. Teri sapeva che suo padre aveva dei problemi con alcuni tipacci molto pericolosi che li volevano morti. Gli agenti federali erano lì per portarli a Salt Lake City, dove avrebbero dovuto cambiare nome, a titolo di precauzione. Avrebbero ricominciato daccapo, le aveva detto suo padre, e lui avrebbe trovato un nuovo lavoro; dopodiché tutto sarebbe andato a posto e non avrebbero avuto più niente da temere. Non sapeva chi fossero quei tipacci o perché ce l'avessero tanto con suo padre; apparentemente il motivo era che suo padre doveva deporre come testimone in tribunale. Per la verità lui aveva cercato di spiegarglielo, ma alla sua maniera, cioè impacciata e confusa. Come quando era morta sua madre. Teri aveva allora la stessa età di Winona, e lui le aveva detto che la sua mamma era andata su, nella casa celeste, per vedere Gesù, e poi aveva cominciato a farfugliare in modo praticamente incomprensibile. Solo quattro giorni più tardi era riuscita a sapere che sua madre, che faceva il turno di notte nella catena di rosticcerie della Great Northwest Food Store, era morta in un incidente stradale, investita da un automobilista ubriaco. Teri girò lo sguardo intorno. Quella prima era la stanza di sua madre; anche la casa era quella di sua madre, la casa dove lei aveva sempre vissuto. Nella stanza c'erano un armadio, due finestre affacciate sul vicolo posteriore, un grande letto a due piazze, una toletta e un comò. Sua madre aveva dormito in quello stesso letto, tenuto i suoi vestiti in quell'armadio, e si era pettinata guardandosi nello specchio di quella toletta. Aveva respirato l'aria di quella stanza e il suo calore aveva scaldato le lenzuola, facendone un rifugio sommamente confortevole per lei quand'era piccola. Ripensò con struggente nostalgia ad allora, quando sua madre l'accoglieva nel letto, le leggeva qualche favola o le cantava una tenera canzoncina. Chiuse gli occhi, cercando di ricreare con la fantasia quel calore e quella sensazione di pace, ma non ci riuscì. Ormai le era difficile pensare a lei come a un essere vivente; ricordava il suo viso solo attraverso le foto che la ritraevano... e adesso la separazione stava per diventare definitiva. "Addio, mamma." Teri si strinse contro il soprabito del padre; stava per lasciare la stanza quando sentì distintamente, nonostante il rumore della pioggia, un tonfo sordo, pesante, contro la parete posteriore della casa. Guardò attraverso la finestra, e fu allora che il signor Peterson entrò silenziosamente dalla porta. «Teri, sarà meglio che tu vada di là nell'ingresso, adesso. Subito» la sol-
lecitò, a voce bassa, con aria crucciata. «Ho visto qualcosa nel cortile posteriore.» Peterson la sospinse fuori dalla stanza, nel corridoio, dove stava arrivando un terzo agente, infagottato dentro un lungo impermeabile ancora sgocciolante. Era quello che aveva caricato le scatole sul furgone. Teri notò che stringeva nella destra una pistola, in posizione abbassata, lungo il fianco. Suo padre, Charles e Winona erano insieme al signor Jasper. Suo padre aveva un'espressione stravolta, con gli occhi letteralmente fuori delle orbite: da un momento all'altro potevano schizzargli fuori e cadere sul pavimento. Jasper si rivolse a Peterson. «Andiamo, Dan, sarà un falso allarme, vedrai.» Suo padre si aggrappò a un braccio di Jasper. «Avevate detto che non sapevano niente, se non sbaglio. Avevate detto che non correvamo rischi.» Jasper liberò il braccio dalla stretta di Clark Hewitt, mentre Peterson diceva: «Vado fuori a controllare. Voi intanto salite sul furgone.» Aveva un'aria allarmata. «Su, Jerry, sbrighiamoci!» Il terzo uomo, Jerry, tornò nell'ingresso e prese in braccio Winona. «Andiamo, piccola. Tu vieni con me.» Jasper disse in tono ansioso: «Vengo anch'io fuori a controllare insieme a te.» Ma Peterson lo sospinse verso la porta. «Portali sul furgone. Vai!» Jasper disse: «Probabilmente non c'è motivo di preoccuparsi.» Il piccolo Charles chiese anche lui: «Che succede?» Si udì in quel momento un fracasso in cucina, come se stessero forzando la porta posteriore. Allora Peterson li spinse tutti verso l'uscita, gridando: «Portali fuori, Jasper! Forza!» Teri sentì suo padre gemere, una sorta di mugolio infantile che ebbe l'effetto di fare scoppiare a piangere Winona. Jerry si slanciò fuori in strada, reggendo di peso con un braccio Winona e trascinando con l'altra mano il papà di Teri, mentre gridava qualcosa che Teri non riuscì a capire. Jasper esclamò: «Oh, merda!» e si caricò in spalla il piccolo Charles come se fosse il sacco dei panni da portare in lavanderia. Afferrò Teri per un braccio, stringendolo forte al punto da farle male, come se lo volesse stritolare, e la trascinò fuori sotto la pioggia battente, mentre Peterson, alle sue spalle, nel retro della casa gridava: «Siamo agenti federali!» L'esclamazione fu seguita da tre cupi boati in rapida successione. Teri fu sicura che non erano dei semplici tuoni, quelli che aveva sentito.
Un diluvio d'acqua si abbatté sulle spalle di Teri e le inzuppò le gambe rimbalzando sul marciapiede, mentre correvano verso il furgone. Scalciando come un matto, Charles gridò: «Non ho il mio impermeabile! L'ho lasciato dentro!» L'agente che era al volante aveva abbassato il finestrino, incurante della pioggia, e si guardava attorno preoccupato, mentre Jerry spingeva dentro il furgone prima Winona e poi Clark attraverso il portello laterale. Il motore del veicolo si ridestò rombando. Jasper corse verso la coda del furgone e spinse Teri all'interno. Clark era già a bordo e stringeva a sé Winona, rannicchiato in un angolo tra le scatole e il posto di guida. Winona piangeva ancora, e il suo papà ansimava, sempre più stravolto. Nonostante la pioggia scrosciante, si udirono distintamente altri due boati che venivano dalla casa. Il conducente si voltò verso di loro e gridò: «Che diavolo succede?» Jerry tirò fuori da sotto il sedile anteriore un corto fucile a pompa con la canna brunita. «Vado a dare una mano a Dan. Portali via di qui!» Brandendo a sua volta una pistola, Jasper cercò di seguirlo. «Vengo anch'io!» Ma Jerry lo risospinse indietro sul furgone. «Tu pensa a portare via di qui questa gente, maledizione! Subito!» Richiuse di scatto il portello in faccia a Jasper, mentre il conducente gridava: «Che è successo? Dov'è Peterson?» Jasper parve combattuto, ma poi rispose: «Pensa a guidare. Tiraci fuori di qui.» Si slanciò oltre gli scatoloni di cartone verso il finestrino posteriore del furgone, imprecando esasperato. «Sempre casini! Sempre qualche maledetto casino!» Il furgone scattò in avanti staccandosi dal marciapiede, facendo slittare le ruote sull'asfalto bagnato. Il conducente gridò qualcosa dentro una specie di ricetrasmittente, mentre Jasper continuava a imprecare e il padre di Teri scoppiava in lacrime come Winona, imitato dal piccolo Charles. Teri ebbe l'impressione che pure l'agente federale Jasper fosse sul punto di piangere, ma non poteva esserne sicura, perché stava voltato dall'altra parte, per guardare dal finestrino posteriore del veicolo. Teri aveva anche lei gli occhi rossi, ma molto fermamente si disse: "No, non devi piangere". E non pianse. Ricacciò le lacrime e ritrovò la calma. Si sentiva fradicia sotto l'impermeabile, ma poi si accorse che il pavimento del vano di carico era tutto bagnato per la pioggia che era entrata poco prima, quando i portelli erano aperti. Gli otto scatoloni di cartone che cu-
stodivano tutto quel che restava della loro vita erano fradici. Suo padre esclamò: «Che cos'è successo laggiù? Avevate detto che non correvamo rischi, che nessuno ne avrebbe saputo niente!» Jasper si volse indietro. Aveva anche lui un'aria sconvolta. «Non lo so. In qualche modo l'hanno saputo!» «Bene, magnifico! È incredibile!» Gridava come un ossesso. «Adesso ci ammazzeranno tutti!» Jasper si rimise a guardare la strada dal finestrino posteriore. «Non vi ammazzeranno.» «Questo è ciò che mi avevate detto anche prima!» urlò istericamente suo padre. Jasper si voltò di nuovo e lo squadrò severamente. «Peterson è ancora lì, signor Hewitt.» Teri guardò il fratellino e la sorellina che piangevano insieme a suo padre, stretti l'uno all'altro sul pavimento del furgone, e allora decise cosa doveva fare. Strisciò in mezzo agli scatoloni umidi e si riunì alla propria famiglia. Trovò un posticino per sé tra Winona e suo padre, scrutando gli occhi spaventati di lui. Era pallido e tirato, e un ciuffo scomposto di capelli sottili che l'acqua gli aveva appiccicato sulla fronte gli dava un'aria ancor più smarrita. «Non avere paura» gli disse. Clark Hewitt gemette e Teri lo sentì tremare. Era luglio, la pioggia era relativamente calda, ma forse non era per il freddo che suo padre tremava. Teri disse: «Finché ti starò vicino, nessuno potrà farti del male. Te lo prometto.» Clark Hewitt annuì, ma evitò di incrociare il suo sguardo. Lei lo tenne stretto, e poco alla volta lui smise di tremare. Il furgone si allontanò a tutta velocità nella pioggia e nell'oscurità della notte. 1 Tre anni dopo - Los Angeles C'era la festa delle piante, quel giorno a Los Angeles. In questa occasione io prendo sempre tutte le piante che ho in ufficio per fargli prendere un po' d'aria sul mio balconcino con vista panoramica della città; le ripulisco, le annaffio e le concimo, dopodiché passo il resto del pomeriggio a chiedermi perché le mie piante sono sempre molto più gialle che verdi. Un mio amico che se ne intende mi disse una volta che davo loro troppa acqua, co-
sì dimezzai la razione consueta. Quando cominciarono ad appassire oltre che a ingiallire, un altro amico mi convinse che le annaffiavo ancora troppo, e così dimezzai di nuovo la dose. Ma le mie povere piante morirono. Ne comprai delle altre e da allora in poi smisi di chiedere consigli agli amici. Le piante gialle saranno sempre la mia dannazione. Ero impegnato in questa mesta riflessione quando Lucy Chenier disse: «Non credo che potrò liberarmi così presto, Elvis. Mi dispiace, ma temo che non potremo vederci prima di stasera.» Stavo conversando con Lucilie Chenier dal mio balcone, attraverso un nuovo telefono senza filo, mentre continuavo a fare giardinaggio. La temperatura era ideale, intorno ai venticinque gradi, l'aria era pulita, purificata da una fresca brezza che si incanalava lungo il Santa Monica Boulevard ed entrava attraverso la portafinestra del mio ufficio. Cindy, la donna che lavorava nell'ufficio accanto al mio, mi vide sul balcone e accennò un saluto con la mano. Cindy portava un candido camiciotto stretto in vita da una cintura sopra una gonna lunga con spacco, tipo sarong. La mia tenuta, piuttosto sportiva, era composta da un paio di jeans Gap, una camicia di seta Tommy Bahama e una fondina ascellare Bianchi per il mio revolver Dan Wesson calibro 38. La fondina era nuova, e la stavo indossando lì nel mio ufficio solo per ammorbidire le cinghie di pelle. Lucy disse ancora: «Tracy vuole farmi conoscere il vicepresidente del settore commerciale, ma è impegnato con il reparto vendite fino alle cinque.» Tracy era Tracy Mannos, il direttore della stazione locale della rete televisiva KROK. Lucy Chenier faceva attualmente l'avvocatessa a Baton Rouge, Louisiana, ma era in trattative con la KROK per andare a lavorare a Los Angeles. Aveva preventivato di trattenersi tre giorni, per discutere della sua eventuale assunzione e contrattare nei dettagli il trattamento economico. Quella era la sera dell'ultimo giorno, l'indomani avrebbe dovuto tornare al suo paesello. Avevamo concordato di trascorrere insieme il pomeriggio al mercato messicano di Olvera Street, nel nucleo originario del centro storico di Los Angeles, un luogo ideale per passeggiare piacevolmente mano nella mano. «Non preoccuparti, Lucy. Fai pure con comodo» dissi. Lei non aveva ancora deciso se accettare l'offerta di lavoro della KROK, ma io mi auguravo con tutto il cuore che la trattativa andasse in porto. «Sicuro?» «Sicuro. Ti va bene se passo a prenderti alle sei? Potremmo cenare presto al Border Grill e poi tornare a casa e fare i bagagli.» Il Border Grill era
il locale preferito di Lucy. «Sei un angelo, amore mio. Grazie.» «Oppure potrei venire lì e minacciare con la mia pistola tutti quei VIP per convincerli a sloggiare. Che ne dici?» «Giusto, ma temo che questo possa compromettere la trattativa che ho in corso.» «Voi avvocati. Pensate sempre solo ai soldi.» Stavo raccontando a Lucy delle mie povere piante ingiallite quando la porta del mio ufficio si aprì e si presentarono davanti a me tre ragazzini. Coprii il microfono con una mano e intimai: «Toglietevi dai piedi.» La più grande dei tre era una ragazza pallida con lunghi capelli castani e un paio di occhialetti ovali. Giudicai a occhio che avesse quindici anni, ma poteva averne anche un paio di più. Nella sua scia era entrato un ragazzino più piccolo che si trascinava dietro una bimba ancora più piccina. Il ragazzo aveva dei pantaloni corti esageratamente larghi e un paio di scarpe da ginnastica Air Nike ai piedi. Aveva un'espressione circospetta. La bimba portava una maglietta con una decorazione ispirata alla serie televisiva XFiles. «Aiuto, mi hanno invaso l'ufficio» dissi. Lucy disse a sua volta: «Tracy è arrivato. Devo andare, adesso.» La ragazza più grandicella venne verso la portafinestra del balcone e mi apostrofò: «È lei il signor Cole?» Alzai un dito facendo cenno di tacere e lei annuì, con aria paziente. «Lucy, anche se fai tardi non importa. Prenditi pure tutto il tempo che serve.» «Sei davvero un tesoro.» «Lo so.» «Sarò lì davanti al portone alle sei.» Mi mandò dei bacetti attraverso il telefono e io ricambiai. La ragazza nel mio ufficio fece finta di non sentire, ma il marmocchio dietro di lei mormorò qualcosa all'orecchio della più piccolina, che si mise a ridacchiare. Non avrei mai detto che un giorno mi sarei messo a mandare bacini per telefono, ma da quando avevo conosciuto Lucy mi capitava di fare le cose più strane. Il tipo di cose che si fanno solo quando si è innamorati. Quando spensi il radiotelefono la ragazza stava guardando con aria pensosa le mie piante. «Quando ingialliscono significa che hanno preso troppo sole.» Si sentivano tutti dei grandi esperti, a quanto pareva. «Ha provato con i cactus? Resistono a tutto.»
«Grazie per il consiglio.» Riportai il telefonino nel mio ufficio, seguito dalla ragazza. La bimba più piccina si era sistemata sul divano, ma il marmocchio stava ispezionando le foto in cornice e la collezione di pupazzetti del Grillo Parlante che tengo sulla mia scrivania. Guardava in giro con aria schifata, ficcanasando dappertutto e muovendosi con un'andatura ingobbita. Fui tentato di dirgli di raddrizzare le spalle. «Allora, ragazzi, qual è il problema?» domandai. «Che vi serve?» Forse erano lì per vendere abbonamenti a qualche rivista. La ragazza più grandicella chiese a sua volta: «Lei è Elvis Cole, l'investigatore privato?» «Sì.» Il marmocchio guardò la rivoltella Dan Wesson nella fondina, poi posò gli occhi sul mio orologio a forma di Pinocchio appeso al muro sopra lo schedario. L'orologio ha gli occhi che si muovono a destra e a sinistra scandendo i secondi ed è un oggetto davvero affascinante. La ragazza disse: «Nel suo annuncio sulle Pagine Gialle c'è scritto che lei è specializzato nel ritrovare le persone scomparse.» «Esatto. E questa settimana sto facendo un'offerta promozionale. Posso scovarvi due persone al prezzo di una.» Forse la ragazza stava facendo una ricerca per la scuola sul tema: Una giornata nella vita del più grande detective del mondo. Mi guardò impassibile. «Sto scherzando. Noi investigatori privati siamo famosi per il nostro senso dell'umorismo.» «Oh.» Il marmocchio fece un colpetto di tosse, bofonchiando qualcosa. Ma non era vera tosse. Ero un modo discreto per darmi dello stronzo. La bimbetta ridacchiò di nuovo. Lo fissai severamente. «Allora?» Il marmocchio ritornò serio e si avvicinò daccapo alla mia scrivania. Aveva un'aria furtiva come se volesse rubacchiare qualcosa. «Vieni via di lì.» «Non ho fatto niente.» La ragazza disse: «Charles.» Il tono era quello di uno stanco ammonimento. Non doveva essere facile tenere a bada un tipetto di quel genere. «Cavolo.» Il piccolo Charles tornò imbronciato verso lo schedario, lanciando un'altra occhiata alla mia Dan Wesson. «Cos'è quella pistola?» «È una rivoltella Dan Wesson calibro trentotto.» «Quanti uomini hai ammazzato?»
«Stavo pensando giusto adesso di aggiungere un'altra tacca sul calcio.» Quella più grandicella ammonì di nuovo: «Charles, per favore.» Poi, rivolta a me: «Signor Cole, mi chiamo Teresa Haines. Questo è Charles, mio fratello, e questa è mia sorella Winona. Sono undici giorni che non abbiamo più notizie di mio padre e vorremmo che lei ci aiutasse a ritrovarlo.» La guardai negli occhi. Forse era uno scherzo, ma la sua espressione suggeriva il contrario. Guardai il fratello, poi la sorellina, e mi parve di capire che non scherzavano nemmeno loro. Charles mi stava studiando con la coda dell'occhio, chiaramente ansioso di vedere come avrei reagito. Winona mi fissava speranzosa anche lei con gli occhioni spalancati. No, non era uno scherzo. Andai dietro la scrivania, poi ci ripensai e mi sistemai in una delle due poltrone di pelle contigue al divano. Cercai di apparire il più informale e amichevole possibile. «Quanti anni ha, signorina Haines?» «Quindici, tra due mesi saranno sedici. Charles ne ha dodici e Winona nove. Nostro padre viaggia spesso per lavoro, siamo abituati ad arrangiarci da soli, ma non era mai stato via tanto tempo prima d'ora, e siamo preoccupati.» Charles tossicchiò di nuovo, mormorando: «S...nzo.» Ma stavolta era chiaro che ce l'aveva con quell'assenteista del suo genitore, non con me. Annuii. «Che lavoro fa vostro padre?» «Lavora nel ramo della stampa.» «Ah-ah. E la vostra mamma dov'è?» «È morta cinque anni fa, in un incidente stradale.» «Un deficiente di automobilista ubriaco» commentò a bassa voce il piccolo Charles, che stava fissando con aria crucciata la foto in cornice di Lucy Chenier sulla mia scrivania. Poi passò a esaminare, direi quasi ad annusare, il mio telefono a forma di Mickey Mouse. «Insomma, vostro padre manca da casa da undici giorni, non si è più fatto vivo e non sapete se e quando intende tornare.» «Esatto.» «Sapete dov'è andato?» Charles sogghignò sprezzante. «Se sapevamo dov'era andato non c'era bisogno di cercarlo, no?» Lo fulminai con un'occhiata, ma evitai di fare commenti. «Mi dica, signorina Haines, perché ha scelto proprio me?» «So che ha lavorato nel caso di omicidio che riguardava Teddy Martin.» Theodore Martin era un riccone che aveva ucciso la moglie. Ero stato assunto dagli avvocati del suo collegio difensivo perché dessi una mano al
loro cliente, ma non era andata nel modo in cui Teddy sperava. Avevano parlato di me e di questa faccenda su una televisione locale, e anche sulla rivista "Times". «Sono andata in biblioteca a leggermi gli articoli su di lei, e poi ho trovato il suo annuncio sulle Pagine Gialle.» Se l'è cavata in modo ammirevole, direi. La mia amica Patty Bell era un'assistente sociale, lavorava per la contea. Mi dissi che lei era sicuramente la più adatta per occuparsi di quei ragazzi. Teri Haines prese una busta dalla tasca posteriore dei pantaloni modello salopette e me la mostrò. «Ho scritto qui il nome, la data di nascita di mio padre, il suo aspetto fisico e altre cose che possono servire per identificarlo.» Posò la busta sul tavolino tra il divano e la poltrona dov'ero seduto. «Può aiutarci a ritrovarlo?» Guardai la busta, ma la lasciai lì dov'era. Erano le due e un quarto del pomeriggio di un giorno feriale, mi dissi, e quei tre non erano a scuola. Forse era il caso di chiamare un tenente della polizia di Los Angeles, mio amico. Forse lui sapeva cosa conveniva fare in casi del genere. Teresa Haines si sporse verso di me, e mi parve invecchiata di colpo, come se invece di quindici anni ne avesse trenta. «So cosa sta pensando. Sta pensando che siamo solo dei ragazzini. Ma abbiamo i soldi necessari, possiamo pagarla.» Tirò fuori dalla tasca della pettorina uno sdrucito portafoglio rosso e mi mise davanti un fascio di banconote da venti e cinquanta dollari spesso abbastanza da arrestare una pallottola calibro 9 Parabellum. Dovevano essere almeno duemila dollari. Forse anche tre. «Vede? Basta che mi dica quanto vuole. Non faccio questione di prezzo.» Charles intervenne: «Cavolo, Teri, se gli dici così quello ci spenna vivi!» Adesso aveva spostato di nuovo il suo interesse dal telefono a forma di Mickey Mouse alla collezione di pupazzetti del Grillo Parlante. Mi chiesi se non era il caso di ammanettarlo lì vicino al divano, per tenerlo sotto controllo. Teri mi stava fissando intanto con aria interrogativa. «Allora?» «Dove avete preso tutti questi soldi?» «Ce li ha lasciati nostro padre. Dovevano servire per mantenerci in sua assenza.» Teresa Haines aveva un'aria pulita e ordinata, con i suo lunghi capelli castani sciolti sulle spalle. Il visetto triangolare era a forma di cuore, e su una guancia le erano spuntati un paio di brufoletti, dovuti all'acne giovanile, ma chiaramente non era di questo che si preoccupava. Sembrava ben nutrita e in buona salute, come pure il fratellino e la sorellina. Chissà,
magari si era inventata tutto, magari era davvero uno scherzo, sia pure di genere insolito. «E non vi è venuto in mente di rivolgervi alla polizia?» domandai. «Oh, no» replicò con decisione Teresa. «Se mio padre fosse sparito, io lo farei.» Lei scosse energicamente la testa. «È il loro compito occuparsi di queste cose» dissi. «E non fanno pagare niente. La mia tariffa in genere è di duemila dollari.» Charles esclamò: «Che ladro!» Sobbalzò, mentre lo diceva, facendo cadere una piccola foto in cornice e rovesciando tre pupazzetti del Grillo Parlante. Fuggì istintivamente verso la porta. «Non ho fatto niente, cavolo.» Teresa mi guardò in modo determinato. «Non vogliamo coinvolgere la polizia, signor Cole.» Notai che si sforzava di restare calma, ma che la cosa le costava un evidente sforzo. «Se vostro padre è sparito e non vi ha dato più notizie di sé da undici giorni, è bene che chiamiate la polizia. Vi aiuteranno. Non dovete aver paura di loro.» Cercavo di essere rassicurante. «Vorranno essere sicuri che voi tre stiate bene e che non corriate rischi, tutto qui. Forse è meglio che li chiami io stesso.» Allargai le mani e sorrisi, per fare intendere che non c'era niente di cui preoccuparsi. Tutto sotto controllo. Ma la ragazza non abboccò. Un lampo deluso e allarmato brillò nei suoi occhi. Deglutì a fatica, impaurita. Teresa Haines si alzò lentamente, imitata da Winona. «Il suo annuncio diceva "massima riservatezza".» Il tono era di accusa. Charles aggiunse: «Non farà un cavolo.» Ebbi l'impressione che avessero già discusso della cosa mentre venivano da me, e che lui volesse sottolineare che aveva avuto ragione a criticare l'idea della sorella. «Sentite, siete ancora troppo piccoli per stare da soli.» Sottolineare in quel modo il mio ruolo di unico adulto della situazione mi fece sentire in realtà più piccolo. Teresa Haines rimise i soldi nel portafoglio e il portafoglio di nuovo nella tasca della pettorina. Si riprese anche la busta con i dati per l'identificazione di suo padre. «Mi scusi se l'ho disturbata.» «Andiamo, Teresa. Questo è l'unico modo giusto di procedere.» Charles tossicchiò, facendomi il verso sottovoce: «Oh, sì, devi credermi...» Uno scalpiccio affrettato e i tre ragazzini evacuarono il mio ufficio senza curarsi nemmeno di chiudere la porta.
Controllai con un'occhiata la mia scrivania. Dalla mia collezione di Grilli Parlanti era anche sparito un pupazzetto. La radio di Cindy (mi giungeva l'eco attraverso la portafinestra che dava sul balcone) stava trasmettendo una canzone dei Red Hot Chili Peppers: Music is my Aeroplane. Sbuffai dagli angoli della bocca. «Be', razza di deficiente, pensi di lasciarli andare così, semplicemente?» mormorai tra me, o forse fu il Pinocchio in forma di orologio appeso al muro. Mi infilai la giacca per coprire la Dan Wesson, scesi di corsa i quattro piani fino all'atrio e mi catapultai in strada giusto in tempo per veder partire il terzetto a bordo di una Saturn verde metallizzato. In California bisogna avere almeno sedici anni per guidare un'automobile, ma Teresa guidava la stesso. La cosa non mi sorprese. Tornai di corsa nell'atrio, scesi nel parcheggio sotterraneo dell'edificio, presi la mia macchina e uscii a razzo, sperando di riacciuffare quei tre. Mancò poco che finissi travolto da un camion con l'insegna di una pescheria mentre uscivo dal parcheggio, e il camionista si attaccò furente al clacson. Ero così ansioso di rintracciare la Saturn in mezzo al traffico che non feci caso al tizio che mi stava pedinando, almeno per il momento. 2 La Saturn verde oltrepassò la stazione dello sceriffo in West Hollywood, quindi deviò verso sud e poi ancora verso est, imboccando Melrose Avenue. Bloccare i ragazzi tagliando loro la strada o sparando alle ruote era fuori questione, e del resto per il momento non correvano pericoli, perché Teresa Haines sembrava una guidatrice provetta, nonostante l'età. Oltre tutto, se anche li avessi fermati, non potevo certo catturarli con la pistola in pugno e portarli alla centrale di polizia contro la loro volontà. Quando passammo davanti alla Fairfax High School erano appena finite le lezioni, e i marciapiedi erano pieni di ragazzi che camminavano con lo zaino in spalla o sfrecciavano sui loro skateboard, nonché di ragazze che sfoggiavano i loro ombelichi ornati di anellini secondo la moda del momento. Erano più o meno coetanei di Teri, solo che loro erano a scuola e lei no. Charles si sporse dal finestrino dal lato del passeggero e rivolse un gestaccio di scherno a un gruppetto di studenti in attesa alla fermata dell'autobus. Tre ragazzi risposero ricambiandolo di uguale moneta, e uno
lanciò addirittura quella che mi parve una lattina vuota di Coca, colpendo una ruota posteriore della Saturn. Teri sfilò davanti alle boutique di stile ipermoderno e ai negozi di fumetti di Melrose Avenue, superò tre o quattro gruppetti di immigrati dai tratti asiatici e svoltò in una stradina laterale ingombra di auto parcheggiate, fiancheggiata da modeste villette con decorazioni di stucco. Alcune di quelle auto appartenevano probabilmente ai padroni di casa, ma senza dubbio erano soprattutto di gente che veniva a fare acquisti nella zona. Mi fermai all'angolo e guardai dentro la stradina. La Saturn proseguì ancora per un isolato e mezzo, poi svoltò nel vialetto d'accesso di un bungalow tinto di giallo con il tetto di tegole rosso-arancio e con una singola palma ornamentale in mezzo al piccolo giardino antistante. I tre ragazzi scesero dall'auto e sparirono all'interno della casa. Ritirata strategica in territorio amico dopo l'incontro andato a vuoto con il detective. Passai lentamente davanti alla casa, proseguii fino all'isolato successivo finché trovai un buco per parcheggiare, quindi tornai indietro a piedi. Dall'interno della casa nessun rumore sospetto: niente grida, né musica ad alto volume, né fumo dalle finestre o dal tetto che facesse temere un incendio. Chissà, forse Charles era svenuto. Rimasi lì sul marciapiede di fronte alla casa, riflettendo sul da farsi. Quando mi ero lanciato al loro inseguimento sapevo esattamente quel che volevo fare: scoprire dove abitavano e poi chiamare uno dei miei amici poliziotti perché mandassero qualche specialista della sezione che si occupava di assistere i minori. Semplicissimo. Solo che vedendo quella villetta ben tenuta e in ordine, al pari dell'auto e dei ragazzi stessi, le mie certezze cominciarono a vacillare. Forse i piccoli Haines non avevano bisogno di niente, e chiamando la polizia avrei ottenuto solo di spaventarli a morte. Tuttavia, fino a quel momento avevo visto solo l'esterno della casa. Chissà, dentro poteva essere piena di topi, squallida e ammuffita. C'era solo un modo per saperlo. Quando sei roso dal dubbio e vuoi togliertelo, non devi fare altro che ficcare il naso un po' in giro. Passando accanto alla Saturn parcheggiata nel vialetto andai fino alla casa, poi mi arrampicai sopra il cassone che copriva l'allacciamento esterno alle condutture del gas e diedi un'occhiata dalla finestra all'interno della cucina. Non vidi i ragazzi, ma la cucina mi parve pulita e ordinata. Niente topi né mosche, niente pile di piatti sporchi. Mi accostai alla finestra successiva, affacciandomi cauto sopra il davanzale, e potei osservare una piccola sala da pranzo comunicante con il soggiorno. Mi venne in mente che
quella piccola peste di Charles poteva sorprendermi a spiare dalla finestra e tirarmi un mattone in fronte, ma questi sono rischi inevitabili quando si è un investigatore privato di prima categoria quale io sono. Chi non risica non rosica. La televisione era accesa e Charles e Winona stavano guardando un programma denominato Il fluire delle ere. Tutto era tranquillo. Come la cucina, il soggiorno era in perfetto ordine, tirato a lucido. Undici giorni senza un adulto, e non c'era niente fuori posto. Tornai indietro lungo la strada e mi rimisi in macchina. Rimasi lì per un po', tenendo d'occhio la casa, cercando di apparire distaccato e disinvolto, per evitare che qualche vicino potesse innervosirsi e chiamare la polizia. Un uomo di colore su una Chrysler LeBaron grigia mi passò vicino. Sorrisi e gli rivolsi un cenno di saluto, ma lui distolse lo sguardo. Forse la mia aria non era abbastanza distaccata e disinvolta. Due ore e dieci minuti più tardi misi in moto e partii per andare a prendere Lucy Chenier. Non ero sicuro che fosse opportuno lasciare i ragazzi lì da soli, ma non mi sembrava indicato nemmeno lasciarli in balia degli assistenti sociali, che li avrebbero sicuramente dati in affido a qualche famiglia estranea. Certo, probabilmente avrebbero corso meno rischi se li avessero dati in affido, ma avevo l'impressione che riuscissero a cavarsela benissimo da soli. Forse la cosa più sensata da fare era di togliere il mio annuncio dalle Pagine Gialle. La sede della KROK era in Olympic Boulevard, oltre il Doheny Drive, alle pendici meridionali delle Beverly Hills. Un moderno palazzo tutto acciaio e vetro, in una zona piena di drogherie di un certo tono, di lussuosi condomini e di esclusive palestre per mantenere la forma fisica. La Twentieth Century-Fox non è lontana, e così pure Century City. Olympic Boulevard era intasata di traffico, a quell'ora, e l'addetto che parcheggiava le auto dei clienti della palestra di fronte alla sede della KROK doveva affannarsi per smistare il flusso di agenti teatrali, avvocati e funzionari degli studi cinematografici, ansiosi di scaricare con il sollevamento pesi e le flessioni la tensione di una giornata passata a raccontare frottole. Davanti alla palestra, quattro elegantoni con abiti di Versace sembravano contemplare con aria estasiata il portone della sede della KROK; solo che non stavano ammirando l'edificio, ma Lucy Chenier. Lucilie Chenier è alta un metro e settanta, con capelli rosso tiziano, occhi verdi, e con quel genere di abbronzatura ambrata tipica di chi passa molto tempo all'aria aperta. In effetti era un'ex campionessa di tennis che aveva frequentato la Louisiana State University beneficiando di una borsa di studio per meriti
sportivi, e che giocava regolarmente per tenersi in allenamento. Il suo portamento e il modo in cui i muscoli guizzavano sotto la pelle provavano che era una donna sportiva e in salute. Accostai al marciapiede e non potei impedirmi di sorridere quando lei salì in macchina accanto a me. Fui tentato di sbeffeggiare i tre elegantoni dall'altra parte della strada mostrando loro la lingua, ma mi trattenni. Lucy avrebbe potuto giudicarlo un gesto da immaturo. «Allora, hai accettato il lavoro?» «Non ancora, ma devo dire mi hanno fatto un'offerta molto interessante.» I suoi occhi verdi erano spettacolosi. Due laghi smeraldini di cui era impossibile scorgere il fondo. «Quanto interessante?» Il sorriso che le increspava le labbra si accentuò. «Molto, molto interessante.» Si sporse sopra il cambio per darmi un bacio, che io restituii. «Hai prenotato al Border Grill?» «Sì.» «Magnifico!» Si allungò soddisfatta sul sedile. «Possiamo cenare, poi io farò le valigie, e dopo avremo il resto della serata per bere champagne e fare quel che più ci aggrada.» Le sorrisi, sentendo crescere un grande calore tra di noi. "Quel che più ci aggrada..." Lucy mi raccontò i particolari del suo colloquio di lavoro mentre marciavamo verso Santa Monica, e io le parlai a mia volta di Teresa Haines. Le dissi anche di Charles e di Winona, e di come li avevo seguiti fino a casa. Lei mi ascoltò attenta e una sorta di solco verticale le si disegnò sulla fronte crucciata. «Sono undici giorni che stanno lì da soli abbandonati a se stessi?» chiese conferma. «Già.» «Senza la supervisione di un adulto?» «Proprio così.» Il solco in mezzo alla fronte si approfondì. «E tu hai spiato dalle finestre dentro casa?» «Sembrava tutto in perfetto ordine.» Lucy si agitò inquieta sul sedile, facendomi quasi pensare che volesse sgusciare fuori dalla cintura di sicurezza. Scosse il capo, congiunse le mani e disse: «L'apparenza non basta. Sarà meglio tornare indietro.» «Eh?» feci io. «Tornare indietro. Per dare un'occhiata a quella casa ed essere sicuri.» Feci una conversione a U e tornai indietro. Quando si mettono in moto
gli ormoni connessi con il senso materno è meglio non interferire. Venti minuti più tardi, imboccammo la trasversale di Melrose Avenue e rividi la casa dei tre ragazzi. Tutto sembrava tranquillo come la prima volta, e la Saturn verde era ancora parcheggiata nel vialetto d'accesso. Almeno non erano in giro a guidare spericolatamente. «Non corrono alcun pericolo.» Il detective professionista aveva espresso la sua sentenza. «Fermati.» Parcheggiammo nel vialetto dietro la Saturn, andammo alla porta d'ingresso e suonammo il campanello. Charles aprì senza chiedere prima chi era, e quando ci vide fece tanto d'occhi e cercò di sbatterci la porta in faccia. «Scappate! Sono venuti a portarci via!» Spinsi il battente vincendo la resistenza del marmocchio ed entrai, seguito da Lucy. Sembrò quasi che stessimo giocando, io che spingevo e Charles che sbuffava spingendo in senso opposto, ma scivolando inesorabilmente sulle piastrelle del pavimento. «Calmati» dissi. «Nessuno vi vuole portare via.» Teresa Haines intervenne. «Smettila, Charles.» Lo disse una sola volta, in tono imperativo, e lui obbedì. Teresa e Winona erano in soggiorno. La televisione era spenta, e ne dedussi che non dovevano essere dei ragazzi teledipendenti. Winona si teneva prudentemente alle spalle di Teresa, che appariva calma e perfettamente padrona della situazione. Non stava guardando me; guardava Lucy. Le dissi: «Volevamo essere sicuri che voi ragazzi stavate bene.» Charles replicò: «Abbiamo già detto che non abbiamo bisogno di nulla. Questi ci vogliono mandare a stare a casa di chissà chi!» Teresa attraversò il soggiorno e tese la mano a Lucy. «Io mi chiamo Teresa Haines. E lei?» Lucy le strinse mano. «Lucilie Chenier. Sono un'amica del signor Cole.» Nella casa aleggiava un vago odore di salsa di pomodoro e di aglio. Teri disse: «Siete del servizio adozioni?» Lucy le rispose con un sorriso amichevole e rilassato. «Assolutamente no. Io non abito nemmeno a Los Angeles. Sono qui solo di passaggio.» Lasciò andare la mano di Teresa, e continuando a sorridere si diresse decisa verso la cucina. «Il signor Cole mi ha detto che siete qui da soli da oltre una settimana, e che non avete più notizie di vostro padre...» «Sono sicura che tornerà presto.» Lucy annuì. «Ne sono sicura anch'io. Ti dispiace se do un'occhiata in giro?» Il suo sorriso era caldo e rassicurante.
Charles disse: «Ce l'avete un mandato di perquisizione? Dovete avere un mandato di perquisizione, se volete guardare in giro!» Ci stava guardando severamente dalla porta, con la mano ancora sul pomolo della maniglia, come se fosse pronto ad aprirla e a darsela a gambe se appena facevamo una mossa sbagliata. «Se serve a tranquillizzarvi...» rispose Teri ignorando il fratellino. Lucy si inoltrò nella parte più interna della casa. Teresa si volse verso di me, reclinando il capo da un lato con aria interrogativa. «È una mamma, ed era preoccupata come lo sarebbe per suo figlio, se sapesse che è da solo» spiegai. «Ci ha ripensato? Ha deciso di aiutarci?» «Volevo essere sicuro che qui da voi era tutto a posto.» «E così ci ha seguito.» «Certo.» Messo sulla graticola da una ragazzina. «Volevo vedere in che condizioni vivevate. E inoltre Charles ha rubato un pupazzetto dal mio ufficio.» Charles insorse: «Non ho fatto niente!» Agitò esasperato le braccia e fece mostra di strapparsi i capelli. «Perché se la prendono sempre tutti con me?» Una scena drammatica, da attore consumato. «Charles» lo ammonì Teri, guardandolo severamente. «Su, tira fuori il malloppo» dissi, stendendo una mano verso il marmocchio. Lui cavò di tasca il pupazzetto del Grillo Parlante e venne da me a capo chino, pronto a svignarsela se avessi cercato di allungargli una sberla. Mi mise in mano il pupazzetto, e batté in ritirata. Guardai il Grillo Parlante, poi lo lanciai verso di lui. «Prendi, puoi tenertelo.» Charles parve sorpreso. Teresa disse: «Non doveva farlo.» «Lo so.» «Mi dispiace.» Scossi la testa. «Sono cose che capitano.» Lei sospirò. «Adesso ha visto che stiamo bene.» «Sembra che tutto sia sotto controllo.» «Perciò non c'è bisogno di rivolgersi alla polizia.» Fissai lo sguardo nei suoi occhi calmi, solo che adesso non erano più così calmi. Un lampo impaurito brillava dietro i suoi occhiali. «Tu lo sapevi come rischiava di andare a finire, quando ti sei rivolta a me, ma ci sei venuta lo stesso. Devi essere molto preoccupata per tuo padre.»
Il lampo di paura brillò più forte, poi si ricompose e i suoi occhi tornarono calmi. Si era imposta di controllarsi e c'era riuscita. Una ragazzina di un genere davvero speciale. «Certo che sono preoccupata» disse. «È mio padre.» Lucy tornò in soggiorno e si diresse verso la cucina. «La tua stanza è uno specchio. Teresa. La dividi con Winona?» «Sì, signora.» Con il suo solito amabile sorriso, Lucy osservò: «Quella di Charles, invece, è un disastro.» «Lo so. Non sono ancora riuscita a fargli capire che deve rifarsi il letto.» Lucy rise. «So come vanno queste cose. Ho un figlio di otto anni che è fatto allo stesso modo.» Charles commentò con un colpetto di tosse, e le sue labbra formularono distintamente la parola "puttana". «Ehi» dissi, richiamandolo all'ordine. Lui se la svignò in sala da pranzo per allontanarsi da me il più possibile, mise il pupazzetto sul tavolo e finse di giocarci. Sentii Lucy aprire il frigorifero e il forno, e quindi la porta della dispensa. Era in corso un'accurata ispezione, un'ispezione che aveva un'impronta molto femminile. Tra Lucy e Teresa era scattata una sorta di intesa, e io riuscii solo a capire che ne ero escluso. «Cosa mangiate di solito, tu e i tuoi fratellini?» chiesi alla ragazza. «Penso io a fare da mangiare per tutti.» Winona intervenne: «E io le do una mano a cucinare.» Lucy tornò dalla cucina, sorridendo a Winona. «Scommetto che sei una brava cuoca, tesoro.» «So fare gli spaghetti.» «Il mio piatto preferito. Avete mangiato spaghetti, a colazione?» Winona rise. «No, abbiamo mangiato fiocchi d'avena.» Lucy sorrise di nuovo a Winona, poi scambiò un'occhiata con me e mi fece un cenno di assenso. «Ci sono scorte sufficienti in dispensa?» le chiesi. «Sì.» Teresa intervenne in tono risentito. «Faccio la spesa e cucino per tutti anche quando papà è a casa. Che problema c'è?» «Volevamo toglierci questo dubbio, tutto qui. A vedervi sembrate in ottima forma.» Teresa mi guardò speranzosa. «Allora non farà venire quelli del Servizio
Adozioni?» Aggrottai le sopracciglia. «Siete minorenni. Non potete vivere qui da soli.» Lucy mi venne vicino, mi prese il braccio e lo strinse. Forte. Rivolse un altro sorriso rassicurante a Teresa. «Per ora non li chiamerà, ma dobbiamo valutare bene cosa fare.» Guardai Lucy severamente. «Dobbiamo? Siamo soci, adesso?» Lei mi strinse il braccio più forte. «Ma per adesso non devi preoccuparti di questo, Teri. Lui adesso farà tutto il possibile per rintracciare tuo padre.» «Davvero?» chiesi. Lucy rivolse a me il suo amabile sorriso d'incoraggiamento. «Certo. Non puoi sottrarti.» «Mmm...» mormorai. Lucy si rivolse di nuovo a Teresa. «Avete già cenato?» «Stavo giusto per mettermi a cucinare.» «E noi stavamo giusto per andare in un bel ristorante. Perché non venite con noi?» disse allora Lucy con il suo caldo sorriso. E strattonandomi il braccio mi chiese: «Non ti sembra una buona idea?» «Mmm...» Winona disse: «Io voglio spaghetti.» Telefonai al Border Grill e domandai se potevano metterci a disposizione un tavolo per cinque. Potevano. Andammo a cena tutti e cinque, io, Lucy, Teresa, Winona e Charles. Dovemmo usare la Saturn dei ragazzi. Winona prese posto a tavola tra me e Lucy; Charles tirò uno scampo alla griglia contro la cameriera, cercò di rubare un macinapepe e fece il bis con il dolce. Il conto finale fu di centottantadue dollari e cinquanta centesimi. Mmm... 3 Il mattino seguente portai Lucy al LAX, l'aeroporto internazionale di Los Angeles, e attesi insieme a lei vicino al cancello d'imbarco. Quando fu il momento di salire a bordo ci tenemmo abbracciati, poi lei scomparve oltre il cancello. Andai su alla vetrata panoramica sopra la pista e guardai l'aeroplano dove lei era salita, cercando di non dare a vedere quanto ero depresso.
Un vecchio gentiluomo con un bastone da passeggio si affacciò alla vetrata accanto a me, scuotendo mestamente la testa. «Gente che va, gente che viene...» Scosse di nuovo il capo. «Io non dico mai addio.» «Gli addii non sono mai piacevoli, senza dubbio.» «Sono definitivi. Dire addio significa auspicare disastri.» Lo guardai. «Definitivi? In che senso?» «I grandi uccelli arrivano, se ne vanno, e non si sa mai quello che può capitare.» Sospirò. «Speriamo che nessuno abbia messo una bomba.» Lo squadrai con maggiore attenzione. «Ci conosciamo, per caso?» Si strinse nelle spalle. «Mi sembra di averla già vista, qui all'aeroporto.» Era un uomo curvo per gli anni, con un'avanzata calvizie, pantaloni ampi e informi da vecchio. Scrollò di nuovo le spalle. «Chissà, è possibile. Ci passo la vita, qui, per accompagnare chi parte e salutare chi arriva. Ma non dico mai addio.» «Ah, ne sono certo.» Mi diede una leggera pacca sulle spalle e sorrise. Un sorriso dolce, da vecchio saggio. «È qui che sbaglia, giovanotto. La sola cosa certa è la morte.» Mi prese un braccio e aggiunse in tono confidenziale: «Spero che non le abbia detto addio. Per il suo bene.» Magnifico. Lo lasciai lì davanti alla vetrata, tornai giù al parcheggio, mi misi in macchina e presi Sepulveda Boulevard in direzione nord, oltrepassando il centro della città, con il distacco e la scioltezza che si conviene a un bravo detective che si immerge di nuovo nella realtà consueta di una normale giornata di lavoro. Sentivo già la mancanza di Lucy, ed ero infelice per questo, ma anche eccitato e speranzoso. Lei mi aveva fatto capire che avrebbe probabilmente accettato la proposta della KROK, e in questo caso si sarebbe trasferita a Los Angeles insieme a Ben, suo figlio, e allora avrei potuto vederla tutti i giorni. Quel pensiero mi fece sorridere, alleviando la mia infelicità. Il sole appena sorto brillava nel cielo, l'aria era tiepida e una foschia tra il rosso e l'arancione velava l'aria a est oltre le Baldwin Hills. Il tempo perfetto per filare con la capote abbassata sulla mia convertibile, nonostante lo smog che si andava addensando in concomitanza con l'ora di punta. Proseguii verso nord lungo Sepulveda Boulevard fino a Washington Boulevard, poi presi a est oltre i vecchi studi cinematografici della MGM. Ero dalle parti di La Ciniega quando notai una Chrysler LeBaron grigia che viaggiava sopra la linea bianca, tre veicoli dietro di me. Continuò a
marciare sopra la mezzeria per qualche istante, senza cambiare corsia, come si fa in genere quando si vuol tenere d'occhio qualcosa davanti a sé, prima di rimettersi in scia di chi lo precedeva. Mi domandai se era la stessa LeBaron che avevo visto davanti alla casa di Teri Haines, ma poi mi dissi che non era possibile. Avevo visto anch'io troppi polizieschi alla televisione, probabilmente. Quindici minuti più tardi parcheggiai dietro la Saturn di Teri Haines e andai alla porta d'ingresso. Avevo temuto di trovare solo delle rovine fumanti, al posto della casa, ma constatai l'infondatezza di tali timori. Chissà, forse Charles era fuori combattimento per un po', dopo l'indigestione che aveva fatto la sera prima. "Oh, andiamo, Cole. È solo un bambino." Certo, come no. Scommetto che dicevano lo stesso anche di Attila, quando era piccolo. Mi venne ad aprire Teresa. Era in jeans, scarpette da ginnastica rosa e maglietta extralarge. «Dove sono Charles e Winona?» le chiesi. «Li ho portati a scuola.» Restai interdetto. Lei dovette accorgersi della mia sorpresa. «Charles frequenta la prima media e Winona la terza elementare. Non crederà mica che li lascerei crescere ignoranti?» «Immagino di no.» Rimesso in riga da una ragazzina di quindici anni. La casa era pulita e in ordine come il giorno prima, solo che adesso era anche silenziosa. Si sentivano solo lo sciabordare cupo di una lavatrice in funzione da qualche parte oltre la cucina e i rumori della strada che filtravano attraverso le finestre. Teresa mi fece entrare e si mise al mio fianco guidandomi in soggiorno. Mi parve cauta. «Vuole un caffè? Faccio sempre il caffè prima di accompagnarli a scuola.» Una tazzona fumante stava sul tavolino posata su una copia della rivista Seventeen. «E tu?» «Ho la mia tazza.» «Parlavo della scuola.» Si sedette sul bracciolo del divano, tenendosi un ginocchio con le mani intrecciate. Era appollaiata in modo così precario che pensai potesse scivolare da un momento all'altro. «Ci siamo trasferiti spesso da una città all'altra, e mi sono stancata di essere sempre l'ultima arrivata, così ho fatto l'esame per prendere il diploma da privatista, l'anno scorso, quando eravamo in Arizona. Non vado più a scuola.» «Ah.» Increspò le labbra in una smorfia impaziente. «Mi scusi, ma lei crede che parlare di me possa servire in qualche modo a ritrovare mio padre?»
«Tutto può servire. Per esempio mi hai appena detto che prima stavate in Arizona, cosa che fino a un momento fa non sapevo. Chissà, magari lui è andato proprio da quelle parti.» Arrossì dietro i suoi occhiali. Evidentemente non piaceva nemmeno a lei essere colta in fallo. «Se devo trovare tuo padre, ho bisogno di individuare una pista, come diciamo noi investigatori. Questo significa che dovrò farti un sacco di domande, e che tu dovrai dirmi tutto quello che sai, sperando che questo ci permetta di approdare da qualche parte. Capito?» Annuì con il capo, ma era chiaro che la cosa non era di suo gradimento. Tirai fuori la penna e mi preparai a prendere qualche appunto. «Parlami di lui.» Suo padre, mi disse, si chiamava Clark Rudy Haines. Aveva trentanove anni, era alto uno e settantacinque e pesava circa settantacinque chili. I capelli, quei pochi che gli restavano in testa, erano castano chiaro, gli occhi nocciola. Portava gli occhiali. Mi descrisse com'erano fatti gli occhiali, poi bevve un po' di caffè e tacque, fissandomi. Dissi: «Okay.» «Okay cosa?» «Non mi basta.» Parve in imbarazzo, come se non potesse immaginare altro di interessante da dirmi. O come se si fosse improvvisamente convinta che rivolgersi a me non era stata una buona idea, e si stesse già pentendo di aver messo piede nel mio ufficio. Battei la penna sul taccuino. «Hai detto che era uno stampatore. Parlami di questo.» «Sì.» Mi disse che suo padre era un tecnico specializzato nella stampa in offset, e che avevano lasciato Tucson per Los Angeles perché aveva accettato un'offerta di lavoro della Enright Quality Printing di Culver City. Dopo però l'avevano licenziato, e ultimamente stava cercando ansiosamente un altro lavoro. A questo punto Teresa si azzittì di nuovo, fissandomi con quella sua aria interrogativa. «Insomma, tu credi che sia partito per andare in cerca di un lavoro?» «Sì.» «L'aveva mai fatto, prima?» «Non si era mai assentato per tanto tempo.» Spiegò che gli stampatori erano spesso costretti a fare vita nomade perché le ditte li assumevano quando avevano bisogno di far fronte a qualche grosso ordinativo e li li-
cenziavano di nuovo appena avevano assolto i loro obblighi contrattuali. Mi disse che quando suo padre si trovava a spasso doveva essere disposto a trasferirsi dovunque avessero bisogno di lui, e che per questo motivo avevano dovuto cambiare spesso casa. «Ha una donna?» Mi guardò sorpresa. «Ci spostiamo troppo spesso da una città all'altra per queste cose.» «Amici?» Aggrottò le sopracciglia, riflettendo. «Non credo che abbia nemmeno amici, da queste parti. Forse a Tucson.» Pensai al diploma che Teresa aveva preso da privatista. Al fatto che non le piaceva essere sempre l'ultima arrivata della classe. «E tu?» «Io cosa?» «Hai amici?» Bevve un altro sorso di caffè, restando muta. Probabilmente i continui trasferimenti creavano qualche difficoltà anche a lei. «Tuo padre beve?» «Se beve troppo, cioè? No, non ha mai avuto problemi di questo genere.» «Gioca d'azzardo?» «No.» «Mai avuto problemi mentali?» «Assolutamente no.» Il suo visetto da quindicenne si indurì, mentre serrava nervosamente la tazza di caffè tra le mani. «Perché mi fa tutte queste domande?» «Perché in genere nessuno lascia i figli così, senza un motivo.» «Lo dice come se ci avesse abbandonato di proposito.» La guardai in faccia, e per qualche istante nessuno dei due parlò. La lavatrice avviò un altro ciclo di lavaggio e il rumore cambiò. «Se n'è andato altre volte, ma è sempre tornato» disse lei scuotendo la testa. «Ci sono troppi stampatori e troppo pochi posti di lavoro. Quando si viene a sapere di qualche occasione bisogna rincorrerla e prenderla al volo.» Parve offesa dalla mia supposizione. «La mia paura, piuttosto, è che possa aver avuto qualche incidente. E se gli fosse venuta un'amnesia?» Tracciai un circoletto attorno al nome della Enright Printing sul mio taccuino. «Okay. Parlerò con quelli della Enright e chiederò loro se sanno qualcosa. A proposito, avrò bisogno di una foto di tuo padre.» Aggrottò di nuovo le sopracciglia. «Non credo di averne.»
«Tutti hanno in casa delle foto.» Si morse il labbro inferiore. «No, non credo proprio.» «Be', non ho bisogno di una foto in posa, mi basta anche un'istantanea.» Avevo un amico con una figlia di quindici anni. Ebbene, questa figlia aveva tonnellate di foto del gatto di casa, dei suoi amici, dei gemellini più piccoli, di lei stessa in vacanza o a scuola. Scatole intere di quella roba. Teresa scosse ancora il capo. «Le macchine fotografiche non sono il nostro forte, temo.» Misi via il taccuino e mi alzai. «Okay, andiamo a dare un'occhiata nella stanza di tuo padre.» Fece una faccia scandalizzata. «Non credo che gli piacerebbe sapere che siamo andati a ficcanasare tra le sue cose.» «Quando si ingaggia un investigatore privato, si ingaggia un ficcanaso. Per ritrovare qualcuno che se ne è andato senza dire dove andava, bisogna ficcare il naso dappertutto. È il succo del mio mestiere.» L'idea non le andava a genio, era chiaro, ma mi disse di seguirla, facendomi strada lungo un breve corridoio, fino a una camera da letto sul retro della casa. Era una stanzetta senza pretese, arredata semplicemente con un letto a due piazze, un cassettone e un comodino. Non c'erano foto sul comodino o sulla cassettiera, ma c'erano grandi ritratti dei tre bambini, disegnati a mano libera e fissati al muro con delle puntine. I ritratti erano eseguiti su carta pesante con pennarelli colorati, e sembravano essere stati strappati da un album da disegno. Erano firmati CH. «Capperi che belli! Li ha fatti tuo padre?» «Sì.» «È davvero un artista.» I ritratti erano quasi fotografici, nel loro realismo. «Già.» Quando aprii il cassetto superiore della cassettiera Teresa si irrigidì, ma non disse nulla. Guardai dentro tutti gli altri. Trovai diverse paia di magliette, mutande, calze e poco altro. C'era un armadio, ma anche lì non c'era granché, solo un giaccone sportivo, due paia di pantaloni leggeri e un impermeabile. «Tu che dici, pensi che abbia messo in valigia il necessario per un lungo viaggio?» Teresa si affacciò cauta dalla porta dell'armadio, come se potesse saltare fuori all'improvviso qualcosa di minaccioso, e scosse la testa. «Be', io so che aveva due giacconi; e mancano altre due paia di pantaloni.» «Quindi significa che ha portato via qualcosa.»
«Immagino di sì.» Mi soffermai pensoso lì al centro della stanza, cercando di farmi venire un'idea. «Hai qualche foto di tua madre?» Se c'era una foto di sua madre, forse Clark vi era ritratto insieme a lei. Fece cenno di no. «Non credo.» Santo cielo. Non avevo mai visto una casa senza nemmeno una foto, prima di allora. «Okay. Lascia perdere le foto. Dov'è che tuo padre tiene le ricevute della carta di credito, i rendiconti della banca e altre cose del genere?» «Non usiamo le carte di credito.» La fissai allibito. «Paghiamo tutto in contanti. Quando non si può spendere più di tanto, i contanti sono il modo migliore di gestire i propri soldi.» Lo disse con molta sicurezza. «Niente foto, niente carte di credito.» Niente su cui basarsi. «Abbiamo un conto corrente e un libretto di risparmio, però. Vuole vedere quelli?» «Quelli e le bollette del telefono.» Mi guardò di nuovo con aria sospettosa. «Perché vuol vedere le bollette?» «Nelle bollette sono indicate le telefonate interurbane che avete fatto o che qualcuno può aver fatto addebitandole al destinatario, cioè a voi. Capisci?» Cominciava a venirmi il mal di testa. Quella ragazza pretendeva che trovassi suo padre senza fornirmi la minima traccia. Forse credeva che potessi farlo per via telepatica. Ma alla fine disse, sia pure a malincuore: «Va bene.» «Sai dove sono queste carte?» «Certo che lo so.» Sembrava offesa. Pensavo che avrebbe tirato fuori i documenti lì dalla camera di suo padre, o magari da qualche mobile della cucina. Invece mi portò nella sua stanza. Due letti gemelli erano addossati a due muri contigui. Vidi un piccolo esercito di animali di peluche su uno di essi, poster di David Duchovny, Dean Cain e Gillian Anderson sopra l'altro letto. Anche qui niente foto, né di Teri né della sua famiglia. «Chi è la fan di Duchovny?» Teri avvampò e nascose la faccia dentro l'armadio. Senza dubbio avevo colpito nel segno. Riapparve con una scatola da scarpe chiusa da un grosso elastico. Mise la scatola sul letto vuoto e cominciò a tirare fuori fasci di carte tenuti insieme con fermagli metallici. Maneggiava quelle carte con grande sicu-
rezza, come se fosse abituata a farlo. Le chiesi: «Ci sono anche le bollette del telefono?» «Sì.» In mezzo ai documenti contabili c'era anche un grosso fascio di banconote, anche più grosso di quello che aveva portato da me in ufficio. Mi vide posare gli occhi sui soldi, si rabbuiò e li fece sparire dentro una tasca. Non si sa mai. In un punto lontano della casa echeggiò una suoneria. Teri disse: «È la lavatrice. Devo mettere la roba nella macchina per asciugare.» «Okay.» I documenti relativi al conto corrente e al libretto di risparmio erano di una filiale di Tucson, Arizona, della First Western Bank. Sul libretto di risparmio risultavano accreditati poco più di mille dollari e non risultavano versamenti o prelievi di grossa consistenza. Il saldo del conto corrente ammontava a 861,47 dollari e l'ultimo versamento era stato effettuato giusto poco prima della loro partenza da Tucson per Los Angeles. Le varie voci di spesa erano specificate con una grafia femminile precisa e arrotondata, che sembrava quella di Teri. Misi da un canto la documentazione della banca e passai a esaminare le bollette telefoniche. Poiché risiedevano a Los Angeles da quattro mesi e mezzo, le bollette erano solo quattro; la maggior parte delle chiamate interessavano la rete metropolitana di Los Angeles e oltre la metà di esse erano chiamate per il sobborgo di Culver City. Le telefonate risultavano essere state più frequenti nel primo mese. Forse le aveva fatte il padrone di casa quando ancora cercava un lavoro. O forse no. C'erano anche due chiamate per Tucson e cinque per Seattle, due delle quali particolarmente lunghe e tre di queste erano state effettuate nell'ultimo mese. Quando Teri tornò, le chiesi: «Chi c'è a Seattle?» Mi fissò perplessa, come se non riuscisse a capire il senso della mia domanda. «Ci sono cinque chiamate per Seattle, qui, tre delle quali nell'ultimo mese e due di esse risultano essere molto lunghe.» Fece una smorfia imbronciata. «A Seattle c'è la mia mamma.» «È lì che è sepolta?» Cenno di assenso. «Tuo padre potrebbe avere degli amici, da quelle parti?» «Ne dubito.» Si aggiustò gli occhiali sul naso. «Non ci piaceva molto quel posto. Sono sicura che non tornerebbe mai laggiù.» «Vedremo.» «Sicurissima.»
«Bene.» Insomma, mi stava dicendo che era inutile che perdessi tempo a cercare in quella direzione. Raccolsi in un unico fascio le bollette del telefono, le piegai e me le misi in tasca. Teri mi parve di nuovo poco soddisfatta. Le restituii il resto dei documenti contabili. «Okay, cercherò di rintracciare tuo padre, ma prima dobbiamo mettere le cose bene in chiaro, noi due.» Mi guardò con aria diffidente e sospettosa. «Non dirò alle autorità che qui ci sono tre minorenni che vivono da soli, almeno finché vedrò che riuscite a cavarvela ugualmente. Chissà, tuo padre potrebbe tornare a casa spontaneamente oggi stesso. Potrei riuscire a trovarlo alla svelta, oppure no. Per il momento mi sembra che non abbiate bisogno di niente, ma se dovessi in qualsiasi momento decidere, per il vostro bene, che è meglio avvertire la polizia, lo farò. Siamo intesi su questo punto?» Non si scompose affatto. «Potrebbe almeno dirlo prima a me, se lo farà?» «Non ti dirò niente se penserò che tu possa approfittarne per dartela a gambe.» Questo le piacque ancor meno. «Lascerò le cose come stanno, per adesso, ma voglio essere chiaro. O così o niente.» Mi guardò per un po', poi guardò le carte. «Ha finito con queste?» Annuii. Prese il libretto degli assegni, lo unì con una graffetta agli estratti conto della banca e alle matrici dei vecchi libretti e rimise il tutto nella scatola da scarpe. Fece lo stesso con le bollette del gas e dell'elettricità e con il piccolo fascio di ricevute scritte di suo pugno per gli acquisti in contanti. E aveva solo quindici anni. «Da quanto tempo ti occupi tu di pagare i conti?» Comprese al volo dove volevo andare a parare e anche stavolta reagì risentita. «Mio padre è molto buono con noi. Ci vuole un gran bene. Non è colpa sua se nostra madre è morta. Non è colpa sua se ci sono certi problemi.» «Certo.» «Qualcuno deve pure occuparsi di Charles e Winona. Qualcuno deve mandare avanti la casa.» Feci un cenno di assenso. «Qualcuno deve tenere insieme questa famiglia.» Mi aspettavo che avesse i lucciconi agli occhi mentre faceva quell'af-
fermazione, invece i suoi occhi erano asciutti. Lo sguardo era limpido e penetrante come sempre, dietro gli occhiali. Determinato. Finì di sistemare le sue carte nella scatola, la chiuse con il coperchio e sigillò il tutto con il grosso elastico. Il suo sguardo deciso si posò di nuovo su di me, mentre cavava di tasca il fascio di banconote. «Non abbiamo ancora sistemato la faccenda del suo onorario.» «Lascia perdere.» I suoi occhi si indurirono. «Quanto?» Restammo qualche istante in silenzio, poi dissi con un sospiro: «Cento dollari possono bastare.» «Prima, nel suo ufficio, aveva detto duemila» fece lei, guardandomi sospettosa. «Non è un lavoro così impegnativo come avevo pensato in un primo momento. Cento subito e altri cento quando l'avrò trovato.» Sfilò due biglietti da cento e me li diede. «Prenda tutto subito. Vorrei la ricevuta.» Le diedi la ricevuta e me ne andai, mettendomi in cerca di suo padre. 4 Telefonai all'ufficio informazioni per avere l'indirizzo della Enright, poi lasciai Teresa Haines sola con il suo caffè e i panni da lavare e mi diressi a sud lungo La Cienega verso Culver City. Avrei voluto dirle di non avventurarsi in giro in macchina, di stare attenta quando andava a fare la spesa, ma non lo feci. Viveva in quel modo già da parecchio e sapevo che non mi avrebbe dato retta, perché quel che le avrei detto sarebbe servito più a me che a lei. È in questo modo che noi adulti parliamo spesso ai bambini. Sappiamo che non ci staranno a sentire, ma gli teniamo lo stesso le nostre piccole prediche, tanto per lavarci la coscienza. La sede della Enright Quality Printing era in un edificio industriale a due piani, poco lontano dal Washington Boulevard, a tre isolati dalla Sony Pictures. Mentre andavo lì mi ero figurato che fosse un luogo di lavoro modesto, poco più che un centro per le fotocopie, ma mi sbagliavo. La Enright era una grossa ditta con schiere di impiegati, uffici direttivi e le stampatrici che andavano ventiquattr'ore al giorno, insomma un fornitore in grande scala di materiale sia per i privati sia per il governo. L'edificio occupava quasi un intero isolato e la parte che non era edificata era un lindo parcheggio per i clienti e un'area di carico per i grossi camion che andavano e
venivano in continuazione. Lasciai la macchina nel parcheggio, varcai l'ingresso principale ed entrai in una saletta d'attesa. Una parete della sala era occupata da un grosso scaffale di metallo pieno di dépliant, riviste e manuali, vale a dire il tipo di materiale che la Enright produceva comunemente. C'erano delle sedie per i visitatori in attesa e un bancone dietro di cui stava un'impiegata. Le mostrai il mio biglietto da visita e le chiesi: «Posso parlare con uno dei responsabili?» Guardò il biglietto come se fosse scritto in un'altra lingua e scosse il capo. «Mi dispiace, non stampiamo biglietti da visita.» Mi ripresi il cartoncino. «Non voglio stampare biglietti da visita. Vorrei parlare con quello che dirige la baracca, possibilmente.» Mi guardò diffidente, socchiudendo le palpebre. «Vuol dire il signor Livermore?» «Lui è il capo, qui?» «Sì.» «Allora è con lui che voglio parlare.» «Ha un appuntamento?» «No.» «Può darsi che sia occupato.» «Proviamo.» Alle volte la pazienza può dare i suoi frutti. Parlò attraverso l'apparecchio telefonico sul bancone e qualche minuto più tardi un ometto rinsecchito che sembrava avere cent'anni uscì dalla porta che dava accesso agli uffici e mi squadrò severamente. «Ha bisogno di stampare qualcosa?» «No. Volevo chiederle qualche informazione su un vostro ex dipendente.» Gli porsi il biglietto da visita e quando lui lo esaminò aggrottò ancor più le sopracciglia. «Che schifo di lavoro. Dovrebbe farsi dare indietro i soldi.» Mi restituì il cartoncino, che mi rimisi in tasca. Ero lì per fargli delle domande, non per sentirlo discettare sulla qualità della stampa dei miei biglietti da visita. «Lei è della polizia?» «Sono un investigatore privato. Come dice il mio biglietto.» Fece un gesto seccato. «Non l'ho nemmeno letto fino in fondo. Quando vedo un lavoro fatto così male, non ne sopporto nemmeno la vista.» Un osso duro. «Senta se lei vuole parlare con me parliamo pure, ma dovrà farlo camminando. C'è troppa gente che batte la fiacca, qui e tocca a me dar-
gli la sveglia...» «Non ho niente in contrario.» Accelerando il passo per tenergli dietro, lo seguii lungo un corridoio fino a un vasto ambiente pieno di macchinari per la stampa. Sembrava proprio ansioso di dare la sveglia, come diceva lui, a quelli che battevano la fiacca. Chissà, forse ci prendeva anche gusto. Il capannone che ospitava i macchinari era dotato di aria condizionata ed era illuminato a giorno da batterie di lampade al neon. Stagnava nell'aria un odore di carta surriscaldata. Macchine simili ai grossi computer a valvole dell'era della guerra fredda erano in piena attività e riempivano l'ambiente di fragori discordi, mentre gli operai e le operaie al lavoro controllavano il processo di stampa e di rilegatura. Il rumore era assordante e gli operai portavano quasi tutti delle cuffie protettive, anche se qualcuno ne faceva a meno. Rimasi colpito dal fatto che quasi tutti fumavano tranquillamente, nonostante il pericolo. Una donna con una sigaretta che le penzolava da un angolo della bocca portava una maglietta con la scritta MANGIA MERDA E PROFUMA LA TUA GIORNATA. Ne dedussi che in quel genere di lavoro non si badava molto alle forme. «Sto cercando di rintracciare un impiegato che voi avete licenziato tre settimane fa, un certo Clark Haines.» Livermore fece di nuovo un gesto seccato. «Lo abbiamo buttato fuori.» «Lo so. Mi chiedevo se ha un'idea di dove possa essere, adesso.» «All'obitorio. Provi lì. Quegli stronzi di tossici finiscono tutti all'obitorio.» «Tossico?» esclamai. Rimasi lì a bocca aperta, come un allocco. Livermore si fermò talmente di colpo che rischiai di finirgli addosso. Fulminò con un'occhiataccia due operai che stavano vicino a una grossa macchina per la stampa in offset e batté in modo ostentato un dito sul vetro dell'orologio. «Allora, credete di stare qui in vacanza? Non vi pago per chiacchierare! Abbiamo del lavoro da portare a termine!» I due operai si affrettarono verso i rispettivi posti di lavoro. Livermore si rimise in caccia. Tanta gente a cui dare la sveglia e così poco tempo per farlo. Gli chiesi: «Mi sta dicendo che Clark Haines è un drogato?» «Quel tipo è stato una frana fin dal primo giorno: correva continuamente al cesso, con i sudori freddi, si dava sempre ammalato. Ho capito subito che c'era qualcosa che non andava e così ho cominciato a tenere gli occhi aperti, capito?» Stirò la pelle della parte inferiore dell'orbita destra con un gesto eloquente, mostrandomi il reticolo di venuzze rosse della sclera. «Li
ho sorpresi in uno dei furgoni, Haines e un altro tizio.» Infilzò l'aria con un dito teso. «Bum, li ho sbattuti subito fuori. La mia soglia di tolleranza è zero, per questo genere di stronzate.» Non sapevo che dire. Non riuscivo a crederci, ma la vita è spesso piena di contraddizioni. «Dopo di allora non ha più avuto notizie di Clark?» «No. Perché avrei dovuto?» «Che so, magari per le referenze. Ha detto ai suoi bambini che stava cercando un altro lavoro.» «Intendiamoci, come stampatore è bravissimo, niente da dire, ma resta il fatto che assumere un tossico non è mai un buon affare.» Livermore si diresse deciso verso un tipo bassottello che sembrava di origine messicana, impegnato a infilare dei fascicoli in una macchina per rilegare. Prese in mano uno di quei fascicoli, lo sfogliò e scosse la testa disgustato. «È un vero schifo. Bisogna ristampare tutto daccapo.» Guardai incuriosito sopra la sua spalla. L'impaginazione e la stampa mi sembrarono perfette. «A me pare tutto a posto.» Mi sventolò quelle pagine sotto il naso. «Andiamo, non le vede queste macchioline? I neri non sono uniformi. Vede le parti più chiare, qui?» «No.» Gettò le pagine in un grosso fusto cilindrico di plastica e guardò con aria minacciosa l'operaio che sembrava un messicano. «Ristampate tutto. Questa roba è una merda.» Evidentemente sapevo poco del mestiere dello stampatore. Il messicano scrollò le spalle come per dire che non erano fatti suoi e fermò la macchina rilegatrice. Livermore si rimise in marcia attraverso il capannone. Io dissi: «Chi era l'uomo insieme a Haines?» «Uno degli autisti. Un altro drogato del cavolo, ma da lui c'era da aspettarselo. Quello ce l'aveva scritto in faccia che era uno stronzo.» «Come si chiamava?» «Trevor Michaels. Tra i due, è probabile che fosse Michaels quello che forniva la roba all'altro.» «Ha chiamato la polizia?» «No. Ehi, ci ho pensato, certo, ma hanno fatto un tale casino, mettendosi a piangere e a implorare... Michaels è fuori in liberà vigilata, capito? Avrei potuto metterlo nei guai facilmente, ma ho pensato: che diavolo, a me bastava che si togliesse dai piedi.» «Crede che potrei avere il suo indirizzo?»
Livermore fece un gesto come per congedarmi e accelerò il passo. «Torni su nei nostri uffici e chieda di Colleen. Le dica che ho dato l'okay perché lei possa avere tutto quello che le serve.» Colleen non si fece pregare. Trevor Michaels abitava al secondo piano di un condominio non lontano dalla Santa Monica Freeway, a meno di dieci isolati da Culver City. Arrivai lì poco prima delle undici, ma lui non era a casa. Rintracciai la donna a cui era affidata la custodia e la gestione del condominio, al pianoterra, le dissi che avevo bisogno di parlare con il signor Michaels di un prestito che aveva chiesto alla mia società finanziaria e le chiesi se sapeva quando sarebbe tornato. Non lo sapeva, ma fu lieta di dirmi che Michaels lavorava nel nuovo magazzino specializzato della BestCo Electronics che aveva aperto da poco i battenti lì nei pressi e che forse avrei potuto trovarlo lì. Mi sorrise quando lo disse e io sorrisi a mia volta. In tutta la West Coast non troverete un investigatore privato più professionale del sottoscritto. Cinque minuti più tardi ero nel parcheggio della BestCo, dove lasciai la macchina, avviandomi verso l'ingresso. La BestCo è uno di quegli enormi magazzini discount specializzato in elettrodomestici e appena varcai la porta tre venditori in giacca sportiva mi circondarono con fare mieloso, ansiosi di dimostrarmi che i prezzi lì da loro erano veramente imbattibili. «Sto cercando Trevor Michaels» dissi. Due di loro non sapevano nemmeno chi fosse, ma il terzo mi disse che Michaels lavorava nel reparto Grande schermo. Mi diressi da quella parte. Trevor Michaels stava bevendo un caffè da una tazza di plastica, mentre un cliente dai tratti mediorientali stava contrattando con lui un acquisto. Intorno a loro occhieggiavano almeno una trentina di televisori maxischermo e su tutti gli schermi danzava la stessa immagine di Arnold Schwarzenegger, impegnato a catapultare un avversario fuori da una finestra. Riconoscere Michaels fu semplice, perché portava appuntato al bavero un tesserino di identificazione dov'era scritto il suo nome di battesimo, TREVOR. Il cliente dai tratti mediorientali stava dicendo che aveva trovato altrove un televisore come quello che lui voleva in vendita a un prezzo inferiore, ma che se la BestCo gli avesse fatto un'identica offerta, più uno sconto del cinque per cento per il pagamento in contanti, più la consegna gratis e una clausola di garanzia biennale comprensiva dell'assistenza, avrebbe acquistato il televisore da loro. Michaels gli disse che se poteva dimostrargli che qualcuno faceva un prezzo inferiore gli avrebbe fatto uno sconto ulteriore del due per cento, ma non sembrava ansioso di vendergli il
televisore. Sembrava più interessato alle spettacolari imprese di Schwarzenegger. Michaels era un tipo con un po' di ciccia di troppo, sulla trentina, il sedere pesante e l'attaccatura dei capelli sulla fronte ormai molto distante dalle sopracciglia. Aveva una carnagione pallida e occhi acquosi che sembravano guardare sempre altrove. Il suo sguardo assente mi fece sospettare che cominciasse a essere in crisi d'astinenza e che non vedesse l'ora di farsi un altro buco, ma solo perché Livermore mi aveva detto prima che era un drogato. A vederlo, non sembrava tale. D'altra parte, nella vita reale, i drogati talmente conciati da essere riconoscibili a prima vista sono solo una minoranza. Michaels si volse verso di me, mi vide e allora gli rivolsi un cenno, indicando un Mitsubishi da cinquantadue pollici. «Quando ha un momento, vorrei comprare quest'apparecchio da lei.» Annuì. «Non mi interessano gli sconti» aggiunsi. Michaels mi dedicò subito tutta la sua attenzione, piantando in asso il cliente dai tratti mediorientali. «In contanti, signore, o con un accredito?» Il mediorientale se l'ebbe a male e stava per protestare, ma intervenne subito un altro venditore, mettendosi a sua disposizione. «Lei ha un ufficio?» domandai. Michaels sorrise, dimostrando che quell'idea gli appariva ingenua. «Le scartoffie possiamo sbrigarle qui alla cassa.» Abbassai la voce, dicendogli all'orecchio: «Le scartoffie non servono. Voglio chiederle di Clark Haines.» Rimase raggelato come se qualcuno avesse azionato la funzione di fermo immagine. Lanciò un'occhiata alla bionda che stava alla cassa. Poi girò intorno lo sguardo sugli altri venditori e sui clienti, umettandosi nervosamente le labbra. Abbozzò quello che voleva essere un sorriso innocente. «Mi dispiace. Non conosco nessuno che si chiama così.» «Andiamo, Trevor. Non è mia intenzione crearle dei fastidi. Voglio solo qualche informazione riguardo a Clark Haines. È chiaro?» Si umettò di nuovo le labbra. Intorno a noi, tanti piccoli Schwarzenegger stavano riempiendo di piombo dei farabutti senza volto, mentre il mondo intero sembrava esplodergli attorno. Dissi: «Quell'Arnold è proprio forte, vero? Si caccia in mezzo alle situazioni più pericolose e ne esce sempre senza un graffio, come se tutto gli scivolasse addosso.» Mi rivolsi a Michaels con un sorriso e conclusi: «Peccato che non possiamo farci scivolare tutto ad-
dosso anche noi, eh?» Lui annuì, con un'aria istupidita, come se non riuscisse a decidere fino a che punto poteva arrischiarsi a parlare con il sottoscritto. Parlare poteva essere pericoloso, ma non farlo poteva esserlo ancora di più. «Non sono della polizia, Trevor. Sto cercando Clark e so che tu lo conosci. So che vi siete conosciuti quando lavoravate tutti e due alla Enright. So che sei in libertà vigilata per narcotici e che hai venduto stupefacenti a Clark almeno una volta.» Allargai le mani con fare conciliante. «Dimmi di lui e non mi vedrai mai più.» «Certo.» Continuò a guardarsi intorno e a leccarsi le labbra, mentre fissava con aria assente Arnold Schwarzenegger. Ma Arnold non venne in suo soccorso. «Clark è sparito dalla circolazione e io sto cercando di rintracciarlo.» «Non so dove sia.» «Non raccontarmi frottole, Trevor. Scommetto che se ti tiro giù i calzini o ti arrotolo le maniche, salteranno fuori delle punture d'ago. Scommetto che se frugo in giro a casa tua, ci trovo della droga. Se cerchi di prendermi per il naso, faccio venire qui subito un paio di poliziotti amici miei. Basta una telefonata perché ti tolgano la libertà vigilata e ti sbattano di nuovo in galera.» «Non dico frottole. Giuro davanti a Dio che non so dove sia.» «Si rivolgeva sempre a te per comprare la roba?» Scosse il capo. «Solo un paio di volte. O tre, al massimo quattro.» «Cosa comprava?» «Bustine di eroina da dieci dollari.» Gesù... «Quand'è l'ultima volta che l'hai visto?» Scosse di nuovo il capo e si strinse nelle spalle, come se gli fosse difficile rammentarsene. «È venuto da me un paio di settimane fa. Ha detto che doveva andare via per qualche giorno e che voleva comprarne abbastanza per non restare a secco.» «Ha detto dove andava?» Scosse il capo per la terza volta. Un uomo di mezz'età che doveva essere il responsabile del reparto aveva cominciato a tenerci d'occhio. Michaels lo vide e la cosa non gli piacque. «Pensaci bene, Trevor» insistetti. «Clark non ha fatto nessun nome, di qualcuno o di qualche posto? Il nome di una donna, per caso?» Niente. «Senta, è successo due settimane fa. Dopo di allora non l'ho più
sentito, okay? Lo giuro davanti a Dio.» Il caporeparto si avvicinò, cercando di sentire quel che dicevamo. Michaels si sporse verso di me. «Senta, io qui rischio di giocarmi il posto e di avere grane a non finire con la polizia. La prego.» Lasciai Trevor Michaels in mezzo a quel mare di Arnold Schwarzenegger che riempivano i teleschermi e me ne tornai in ufficio. La giornata era limpida, ma l'aria era appiccicosa e il sole picchiava troppo. Pensai a Teresa, a Charles e a Winona, riflettendo mestamente che il loro papà, quello che io stavo tentando di trovare, non era lo stesso papà che Teri stava cercando. Purtroppo capita spesso di scoprire che non conosciamo nemmeno le persone che ci stanno più vicine e che più amiamo. 5 Erano le due del pomeriggio quando imboccai la tortuosa strada in salita che portava su al Laurel Canyon e alla rustica casa dove abitavo, lungo la Woodrow Wilson Drive, in cima alle alture sopra Hollywood. La strada per arrivare fin lì è lunghetta, ma ho scoperto che più ci si arrampica tra i boschi e le rupi scoscese, lasciandosi dietro la città e più si è capaci di lasciarsi alle spalle anche il fragore e lo stress della vita moderna. È una ricetta che funziona quasi sempre, ma non sempre. Funziona ancor meno quando si sta pensando a tre ragazzini il cui padre è sparito e che disgraziatamente risulta essere un drogato. Parcheggiai l'auto in garage, disattivai l'allarme ed entrai in casa passando dalla cucina. La casa era fresca e silenziosa e conservava ancora l'odore di Lucy, almeno così mi parve. Ma forse era solo un'illusione causata dalla nostalgia. «C'è nessuno?» esclamai. Nessuna risposta. Divido la mia casa con un grosso gatto nero con le orecchie tutte sciupate e una bella testa piatta che lui porta reclinata da un lato da quando fu colpito di striscio da una pallottola calibro ventidue. Credo che quella brutta esperienza lo abbia reso particolarmente scorbutico. Difatti non è un gatto molto socievole, tanto che quando Lucy era venuta su da me gli aveva soffiato contro due volte e se l'era svignata fuori attraverso il suo sportellino nella parte bassa della porta, senza farsi più vedere. Ci aveva visti partire via insieme, quella mattina, perciò mi dissi che doveva essere rientrato a casa, nel frattempo, sapendo che non c'erano più estranei. Invece tardava a farsi vedere. Ma lui è fatto così, è un gatto che tiene il broncio.
Presi una Evian dal frigorifero, ne bevvi un po', poi misi le bollette telefoniche di Clark Haines sul ripiano della cucina e le esaminai una per una. Trevor Michaels aveva detto che Clark era in viaggio e sulle bollette erano registrate chiamate per Tucson e Seattle, ma la faccenda della droga complicava parecchio le cose. Un sacco di gente muore per overdose, o ci rimette la pelle frequentando l'ambiente poco raccomandabile degli spacciatori e perciò dovevo mettere in conto la possibilità che il viaggio di Clark Haines fosse finito davvero all'obitorio. Passai la mezz'ora successiva a interpellare per telefono il pronto soccorso di tutti gli ospedali della Contea di Los Angeles, per sapere se un certo Clark Haines, con certe caratteristiche fisiche, era finito lì da loro, vivo o morto. La risposta fu ovunque negativa. Meno male. Scampato pericolo. Continuando a esaminare le bollette, mi soffermai sulle cinque chiamate per Tucson e sulle sei per Seattle. Nel giro di quattro mesi, c'erano state anche ottantasei conversazioni nell'area metropolitana. Due delle cinque telefonate per Tucson avevano lo stesso destinatario, gli altri tre erano tutti uno diverso dall'altro. Le sei per Seattle riguardavano solo due numeri, uno dei quali era stato chiamato due volte, l'altro quattro volte. Una delle quattro era particolarmente lunga, ben cinquantaquattro minuti. Chiamai per primo il numero di Tucson e una donna mi rispose: «Desert Traslochi e Magazzini.» Le chiesi se Clark Haines era lì, o se sapeva come potevo rintracciarlo. Mi disse che non conosceva nessuno che si chiamasse così. Probabilmente Clark si era rivolto a loro per trasferirsi da Tucson a Los Angeles e lei non ricordava più il nome del loro cliente. Una donna di nome Rosemary Teal rispose alla chiamata successiva. Le domandai se Clark era lì e mi disse che lui si era trasferito, precisandomi che era la sua vicina di casa. Le chiesi se aveva avuto sue notizie dopo che se n'era andato e lei confermò che lo aveva sentito una sola volta. Disse che l'aveva cercata per chiederle di controllare se si era ricordato di chiudere il rubinetto del gas. Poiché la donna insisteva perché le dicessi chi ero, riattaccai. "Chiudere il rubinetto del gas." Il drogato nel ruolo di vicino premuroso. Chiamai allora anche i numeri di Seattle. Quando parlai col primo numero, udii una giovane voce femminile: «New World Printing.» Chiesi anche a lei notizie di Clark Haines e mi disse che nessuno con quel nome lavorava lì. Digitai il secondo numero e al terzo squillo mi rispose la voce rauca di un uomo: «Pronto?»
«Pronto, vorrei parlare con Clark, è possibile?» Usai un tono confidenziale, disinvolto. La voce disse: «Chi parla?» Sospettoso. «Trevor Michaels. Clark mi ha detto che stava venendo lì e mi ha dato il suo numero.» «Penso che abbia sbagliato.» «Sono sicuro di averlo ricopiato giusto. Stiamo parlando di Clark Haines, okay? Clark mi ha detto che avrei potuto trovarlo a questo numero o che comunque lei mi avrebbe saputo dire come potevo rintracciarlo.» «Non conosco nessuno con quel nome.» L'uomo interruppe bruscamente la conversazione, ma il suo tono non mi aveva convinto minimamente. Chiamai una mia amica che lavora alla compagnia telefonica, le diedi il prefisso e il numero e le chiesi di dirmi a chi era intestato l'apparecchio. Quaranta secondi più tardi lei tornò all'apparecchio. «Risulta intestato a un certo Wilson Brownell. Vuoi anche l'indirizzo?» «Certo.» Annotai l'indirizzo, poi riagganciai e mi misi a pensare ai duecento dollari di compenso che avevo preteso da Teresa Haines. Wilson Brownell conosceva di certo Clark e in circostanze normali sarebbe stato il passo successivo dell'indagine. Un biglietto per Seattle e una camera in albergo costituivano una spesa normale; quel che non era normale era avere una cliente di quindici anni. Teresa, Charles e Winona erano tre minorenni abbandonati a se stessi dal padre, disoccupato, tossicomane e con un curriculum professionale ormai pieno di macchie, un padre che probabilmente li aveva abbandonati di proposito. Non era da escludere che non intendesse più tornare, o che fosse addirittura già morto e la cosa più saggia da fare sarebbe stata quella di chiamare la polizia e lasciare che ci pensassero loro. Se fossi andato a Seattle, ben difficilmente avrei potuto farmi rimborsare la spesa. Solo che avevo promesso a Teresa Haines che mi sarei dato da fare per rintracciare suo padre e mi seccava lasciare inesplorata la pista di Wilson Brownell. Sollevai di nuovo la cornetta e formai un altro numero. Subito dopo il primo squillo, una voce maschile disse: «Pike.» Joe Pike è il mio socio nell'agenzia investigativa. «Sto cercando un certo Clark Haines e credo che sia andato a Seattle. Ha tre bambini e vorrei che tu li tenessi d'occhio mentre sarò via.» Pike non rispose. «Joe?» feci.
Sembrava quasi che fosse caduta la linea. «Stanno bene, ma non mi va l'idea che non abbiano un adulto a cui rivolgersi in caso di necessità.» Pike disse: «Tre bambini.» «Voglio solo essere sicuro che non daranno fuoco alla casa.» Di nuovo silenzio. Stavo ancora aspettando che dicesse qualcosa quando il gatto entrò dallo sportellino a lui riservato e soffiò così forte che Joe Pike mi chiese: «È il tuo gatto?» Il gatto trotterellò in soggiorno e soffiò di nuovo. Infuriato. Andò dal soggiorno fino in cucina e poi tornò indietro fino all'ingresso. Si mosse in fretta, facendo un paio di brusche fermate per annusare in giro e per soffiare ancora, innervosito. «Ti richiamo tra poco» dissi a Joe. Misi giù la cornetta e guardai il gatto. «Ehi, amico, stai bene?» Socchiuse gli occhi, ma non venne da me. Mi sedetti sul pavimento della cucina, stesi la mano e finalmente lui venne. Aveva il pelo caldo e arruffato e avrebbe avuto bisogno di un buon bagno. Lo carezzai sulla schiena, poi gli tastai le costole, le anche e le zampe. Avevo paura che qualcuno gli avesse sparato di nuovo addosso, o che fosse finito sotto le grinfie di un coyote, ma grazie al cielo sembrava non avere niente di rotto. «Che hai che non va?» gli domandai. Sgusciò via e scomparve oltre lo sportellino nella porta esterna della cucina. Fu allora che vidi le macchie di sangue. Tre macchie rosse sul pavimento, vicino allo stipite della porta: due più piccole in parte sovrapposte e una terza un po' più grossa, lì accanto. Entrando in casa ci ero passato sopra senza accorgermene. «Per la miseria» mormorai. Passai un dito sulla goccia più grossa e sentii che era appiccicosa, ancora fresca. Chissà, forse il mio gatto aveva catturato uno scoiattolo o un topo di campagna; ma non vidi intorno tracce di pelo o di sporco che potesse confermare quell'ipotesi. Era già capitato altre volte che mi portasse in casa le sue prede, lasciandole su in soffitta, così andai su a controllare. Niente. Tornai dabbasso e diedi un'occhiata in giro in soggiorno, in sala da pranzo e nella dispensa, ma anche lì non c'era niente. Cominciai a sentirmi drizzare i capelli in testa per la tensione. Controllai porte e finestre, tornai di nuovo di sopra e ricominciai a setacciare ogni angolo della casa. Tenevo le pistole chiuse a chiave nel cassetto del comodino, insieme alle munizioni.
Il fucile normale e quello a pompa stavano al sicuro dentro un armadio. I miei orologi, l'oro, i soldi e le carte di credito erano al solito posto e nessuno ci aveva messo le mani sopra, apparentemente. Ma l'apparenza inganna, a volte. Per esempio, ero sicurissimo di aver lasciato i vestiti appesi nell'armadio addossati al lato destro, mentre adesso erano distribuiti regolarmente lungo la sbarra e qualcuno o qualcosa aveva smosso la polvere sugli scaffali superiori della libreria. O forse era solo un'impressione. Non mancava niente, ma avvertivo che le cose non erano esattamente come le avevo lasciate e cresceva in me il sospetto che qualcuno si fosse introdotto in casa, e non per rubare. Discesi il pendio sul fianco della casa per andare a controllare la scatola del sistema antifurto. C'erano dei graffi evidenti sulla testa delle viti, graffi recenti. Evidentemente, qualcuno aveva messo fuori uso il sistema d'allarme ed era entrato in casa dalla cucina. Il gatto doveva averlo assalito e graffiato mentre stava uscendo, perché sembrava che avesse già avesse completato la perquisizione. «Sento una forte puzza di bruciato» mormorai. Il gatto era ancora in caccia intorno alla casa e continuava a soffiare, innervosito. È un animale cocciuto e la furia non gli sbollisce tanto facilmente. «Ehi, vieni qui.» Tornò da me manifestando ancora un'evidente tensione. Lo presi in braccio e lo tenni stretto. «Sono contento che non hai niente di rotto.» Si divincolò e lo lasciai andare. Se un cane avesse cercato di infastidirlo adesso, nervoso com'era, avrebbe avuto sicuramente la peggio. Tornai dentro casa e richiamai Joe. «Qualcuno mi ha perquisito la casa.» «C'entra la faccenda del padre che è sparito?» Riflettei prima di rispondere. «Non so che motivo avrebbero avuto di farlo, ma non posso escluderlo.» «Forse dovrei sorvegliare te, invece di quei ragazzi.» «Forse.» Gli diedi l'indirizzo. «Vediamoci lì, ti presento ai ragazzi. Domani mattina presto prenderò un aereo per Seattle.» «Come vuoi.» Pike chiuse la comunicazione e io rimasi al centro della cucina, tendendo l'orecchio nel silenzio. Qualcuno era entrato in casa mia e la cosa mi faceva sentire a disagio, oltraggiato e infuriato. Presi dalla fondina la mia Dan Wesson, la posai sul ripiano della cucina e incrociai le braccia sul petto. «Vediamo se ha il coraggio di ripresentarsi.»
Fare il duro aiuta, a volte, ma non sempre e quella sera nemmeno la pistola valse a dissipare la mia sensazione di vulnerabilità e di incertezza. Le armi da sole non bastano. Spensi le luci, chiusi a chiave la casa e riattivai l'allarme. Non era servito a molto, in precedenza, ma si fa quel che si può. Mi misi in macchina e tornai giù in città per andare da Teri Haines. 6 Erano passate da poco le sei, quella sera, quando suonai il campanello e Charles aprì la porta. La spalancò come aveva fatto la prima volta, senza preoccuparsi di chi poteva trovarsi di fronte. «Dovresti sempre chiedere prima chi è» gli dissi. Lui mi mostrò un coltellaccio a serramanico con una lama lunga una trentina di centimetri. «Non c'è bisogno di chiedere, se si è pronti.» A volte non resta che scuotere sconsolati il capo. Quel giorno Charles portava le sue vistose scarpe da ginnastica, i pantaloncini mostruosamente larghi e informi e una maglietta con l'immagine di Wolverine, un eroe dei fumetti, che gli scendeva quasi fino alle ginocchia. Teresa apparve dietro di lui. «L'ha trovato?» chiese speranzosa. «No. Ma ho avuto un paio di idee. Posso entrare per parlarne un po'?» Aleggiava dentro la casa un buon odorino di origano e di salsa di pomodoro. Winona sedeva alla tavola della sala da pranzo, apparecchiata anche per Charles e Teresa. Avevo interrotto la loro cena. Spaghetti di nuovo. Forse era il solo piatto che Teresa sapeva preparare. «Il profumo è invitante.» Mi ero calato totalmente nel ruolo della persona affabile e gentile. «Abbiamo appena finito, ma è avanzato qualcosa, se vuole favorire.» «Grazie, ma non ho fame.» «Prima vorrei sparecchiare.» «Prego, fate pure.» Mi diressi verso il soggiorno e mi sistemai sul divano. Per sedermi dovetti spostare un libro con il timbro della biblioteca municipale. Era Her Pilgrim Soul, di Brennert. Winona si alzò da tavola, mise le posate sul piatto e portò piatto e bicchiere in cucina. Teresa prese anche lei le sue cose e Charles fece altrettanto, senza che ci fosse bisogno di sollecitarlo. Ognuno sapeva quel che doveva fare e lo portava a termine con una sorta di interiorizzata autodisciplina. Sparecchiarono e portarono tutto in cucina, poi Teresa e Charles tornarono per raccogliere le briciole e pulire il piano del tavolo con uno strac-
cio umido. Come avevano fatto già migliaia di altre volte e avrebbero continuato a fare, come fosse ormai una seconda natura. Un rito quotidiano. Li guardai, chiedendomi quali segreti familiari celasse quell'apparente normalità. Teresa voleva che trovassi suo padre, ma l'uomo che stavo cercando non sembrava essere lo stesso che lei conosceva. E l'uomo che avrei finito per trovare probabilmente sarebbe stato ancora diverso. Capita spesso, quando si fa il mio lavoro. Appena la tavola fu sparecchiata, Teresa mi venne vicino, prese posto sull'ampia poltrona e mi fece un sorriso. «Vuole un caffè?» «No, grazie.» «Se cambia idea, non faccia complimenti.» Una perfetta padrona di casa, che riceveva con cortesia l'uomo che aveva assunto. «Allora, cos'ha scoperto?» Sentii l'acqua scorrere in cucina. Quella sera toccava a Winona lavare i piatti. «Tuo padre ti ha mai parlato di un certo Trevor Michaels?» Scosse il capo. «No, non mi pare.» «E di Wilson Brownell?» Mi guardò pensosa, come se quel nome facesse risuonare un campanello nella sua testa, ma poi fece cenno di no. Charles uscì dalla sala da pranzo e si appoggiò a un muro poco lontano da noi. «Trevor Michaels lavorava con vostro padre. Ha visto vostro padre un paio di settimane fa e lui gli ha detto che aveva intenzione di partire per un viaggio, senza dire però dove andava. Più o meno contemporaneamente, vostro padre faceva sei telefonate interurbane a Seattle e parlava con questo Wilson Brownell. Due di queste conversazioni sono state particolarmente lunghe.» Quando menzionai Seattle, Teri e Charles si scambiarono un'occhiata e il piccolo incrociò le braccia sul petto. «Ho chiamato Brownell al telefono, ma lui ha negato di conoscere vostro padre. Io credo che mi abbia mentito e che vostro padre sia invece andato a Seattle proprio per vederlo.» Non feci alcun cenno alla droga, o al motivo per cui Clark era stato licenziato dalla Enright. Teresa parve innervosita. «Perché deve andare a Seattle?» «L'ho già detto.» La sua espressione si rabbuiò. Parve sul punto di obiettare qualcosa, ma si trattenne, come se il desiderio di ritrovare il padre prevalesse su qualsiasi altra considerazione. «Okay. Credo che ci vorranno degli altri soldi, allora.» La prevenni, alzando una mano. «Lascia stare i soldi. Mi farò rimborsare
da lui quando l'avrò ritrovato.» Anche Charles aveva un'aria incupita. La mia idea di andare a Seattle non piaceva nemmeno a lui, forse ancor meno di quanto piacesse a Teresa. Lei disse: «Quanto tempo starà via?» «Due giorni, forse tre. A meno che non trovi subito qualche traccia interessante.» I due ragazzi mi stavano fissando intenti, con i loro occhioni spalancati. «Vi farò sapere dove potete trovarmi, in caso di necessità, ma ho chiesto comunque al mio socio di darmi una mano. Si chiama Joe Pike e si metterà a vostra disposizione, se ne avrete bisogno.» Charles assunse un'espressione scettica. «Di cosa dovremmo aver bisogno? Non siamo mica dei bambocci.» «No, ma dormirò più tranquillo sapendo che c'è qualcuno che può aiutarvi, okay?» In quel momento suonò il campanello alla porta d'ingresso. Charles mise mano al coltello e andò ad aprire. «Chiedi chi è» gli dissi. Charles spalancò la porta e la figura di Joe Pike si stagliò sulla soglia, immobile. Pike è alto un metro e ottantacinque, atletico, capelli castani tagliati corti e una faccia assolutamente impenetrabile per chi non lo conosce più che bene. Sulle braccia muscolose da culturista, con le vene in rilievo, all'altezza dei deltoidi, ha due tatuaggi, due frecce rosse con la punta rivolta in avanti. Era vestito con una maglietta grigia da ginnastica a maniche corte, jeans Levi's blu e aveva un paio di occhiali da pilota inforcato sul naso, con lenti scurissime che nascondevano gli occhi. Gli occhiali da pilota si chinarono leggermente nella direzione di Charles. Charles lasciò cadere il coltello e gridò: «"Scappate!"» Cercò di richiudere la porta, ma Pike la bloccò senza sforzo e la spalancò di nuovo, vincendo la sua resistenza. «Tranquillo, Charles» dissi. «È Joe Pike, il mio socio.» Il ragazzino continuò a spingere la porta con tutte le sue forze, ringhiando sommessamente. Teresa sibilò: «"Charles!"» Charles mollò la porta e corse ansimando oltre Winona, per rifugiarsi in cucina. Winona rimase dov'era, sulla soglia della cucina, con le mani insaponate e sgocciolanti, tirando su con il naso come se fosse sul punto di scoppiare in lacrime. Teresa andò da lei. «È tutto a posto, tesoro. È un amico.» Poi guardò verso di me, scuotendo la testa. «Possiamo badare da soli a noi stessi. Non
abbiamo bisogno di una baby-sitter.» Charles, intanto, fece capolino da dietro la porta. Joe Pike guardò il coltello sul pavimento, poi i ragazzi e infine me. «Baby-sitter?» Allargai le braccia. «Non deve venire qui a stare da voi. Sarà solo pronto a darvi una mano. Se avrete bisogno di qualcosa, potrete rivolgervi a lui.» Guardai Joe. «Giusto?» Il capo di Joe si volse verso di me, inquadrandomi con le lenti scure degli occhiali. Ebbi l'impressione che fosse divertito, ma con uno come lui non si sa mai. Teresa si mantenne inflessibile. «Non abbiamo bisogno di niente. Ce la caviamo benissimo.» «Senti» dissi. «Non posso lasciare voi ragazzi qui da soli. Joe si limiterà a passare di qui una volta o due, per controllare. Non voglio discussioni su questo punto. O così o niente.» Teresa non parve gradire l'idea, ma io non le stavo lasciando molta scelta. «Insomma non posso farci niente, è così?» Pareva offesa. «No.» Charles smise di tenere d'occhio Joe e si fece avanti, sopravanzando Winona. «Fammi vedere la tua pistola.» Pike raccolse da terra il coltello, lo fece roteare in aria e lo riprese al volo dalla parte della lama. Guardò Charles e Charles corse a nascondersi dietro Winona. Pike gli si avvicinò e gli porse il coltello. Dalla parte del manico. «Mettilo via, prima che qualcuno possa farsi male.» Charles prese il coltello e sparì in cucina. Pike si volse verso Teresa. «Piacere di fare la sua conoscenza, signorina Haines. Io sono Joe.» Le tese la mano e lei gliela strinse. Mi parve di vederla arrossire. Winona invece sorrise. «Io mi chiamo Winona.» Pike mi lanciò un'occhiata. «Vai pure e fai quello che devi fare. Non abbiamo più bisogno di te.» Impareggiabile Joe. Se lo conosci non puoi fare a meno di volergli bene. Li lasciai lì nella luce porporina del crepuscolo e me ne tornai a casa. Mi avvicinai alla mia abitazione con un sospetto che non mi capita spesso di provare. Le tre gocce di sangue erano ancora lì sullo sportellino per il gatto e quando fui dentro casa continuai a sentirmi oppresso da una sensazione di estraneità. Il gatto scivolò dentro attraverso lo sportello, annusò le tre gocce di sangue, poi attraversò rapido il pavimento della cucina e
andò a sistemarsi vicino alla sua scodella. Gli diedi una scatoletta di tonno della Star Kist, poi aprii la portafinestra scorrevole che dava sulla terrazza. L'aria era fresca e profumata di salvia selvatica. Misi un compact-disc di Jimmy Buffett sul lettore, mi versai un bicchiere di Cuervo Gold, ne bevvi un paio di sorsi, uscii nel giardino accanto alla casa e spiccai un grosso limoncello dall'albero che avevo piantato io stesso due anni prima. Il limoncello si sposa perfettamente con il Cuervo. La mia casa era stata violata e dovevo decidere se quel fatto poteva mutare il mio stato d'animo verso quello che consideravo il mio rifugio. Il significato di un evento dipende dall'importanza che gli si dà. Passai le due ore successive a fare pulizia nei bagni e in cucina e a dare una sciacquata ai pavimenti. Gettai via il mio vecchio spazzolino da denti e ne presi uno nuovo, misi anche a lavare le lenzuola, le federe e gli asciugamani. Presi piatti e posate dalla credenza e le misi nella lavastoviglie, dopodiché passai l'aspirapolvere sul divano, sulle poltrone e sui tappeti. Spesi il resto della serata a rendere tutto di nuovo immacolato e a bere e solo quando ebbi finito, ben oltre la mezzanotte, riuscii a sentirmi riconciliato con la mia casa. Feci le valigie e dormii saporitamente, cullato dalle note di Jimmy Buffett, che continuava a cantare in sottofondo i tramonti caraibici, le gesta dei pirati e a descrivere un mondo dove le ragazzine quindicenni non dovevano avere sulle spalle il peso di tutta la famiglia. Il mattino successivo partii per Seattle. 7 Seattle è una delle città che amo di più. Spesso penso che se non vivessi a Los Angeles, mi piacerebbe trasferirmi lì. Laddove il cielo sopra Los Angeles dà l'impressione di essere un fondale privo di profondità, indefinito, quello di Seattle è ridisegnato di continuo e animato dal passaggio delle nuvole, sicché sembra essere una cosa viva, che respira e avvolge la città con un manto che la protegge dagli sbalzi eccessivi di temperatura, producendo frequenti piogge che ripuliscono l'aria, irrigano la terra e rendono più vivace il carattere degli abitanti. A Seattle si può gustare il miglior caffè di tutta l'America, curiosare in alcune delle librerie più fornite, pescare salmoni, sia nella varietà argentata sia in quella dalla bocca nera; a tali vantaggi, fino a tempi recenti, si sommavano i prezzi degli immobili relativamente bassi rispetto a quelli della California Meridionale, un fattore
che ha spinto schiere di californiani a trasferirsi da queste parti. Una mia amica che abitava nell'Orange County, per esempio, ha venduto la sua casa e con il ricavato ne ha comprata una molto più bella in riva al mare, sulla Bainbridge Island. Saldato in contanti il prezzo, ha messo quel che avanzava in fondi comuni d'investimento e ne ha ricavato una rendita sufficiente a permetterle di dedicarsi ai suoi amati acquarelli e alla pesca dei molluschi. Anzi, sono talmente tanti i californiani che hanno fatto come la mia amica, che ormai i prezzi degli immobili nell'area urbana di Seattle sono andati alle stelle e molti cittadini nati e cresciuti lassù non possono più permettersi di vivere nella loro città. Questo ha creato un certo risentimento e così, quando mi capita di andare da quelle parti, per non farmi guardare storto dico che sono dell'Oregon. Presi a noleggio una Ford Mustang della compagnia Sea-Tac, munendomi anche di una mappa stradale e mi misi sulla Highway 509, dirigendomi a nord verso la Elliot Bay e un ristorante specializzato nei piatti di pesce che sorge all'ombra dello Space Needle. Pranzai lì, consumando un sandwich con pâté di granchi, accompagnato da patatine fritte e infuso ghiacciato di mango, poi chiesi a un poliziotto addetto al traffico la strada per raggiungere l'indirizzo dove speravo di trovare Wilson Brownell. Chissà, se la fortuna mi assisteva, potevo trovarlo in compagnia di Clark e magari tornare in giornata a Los Angeles senza bisogno di pernottare in albergo. Brownell stava oltre la Duwamish Waterway, nella parte più vecchia e occidentale della città, denominata White Center, abitata prevalentemente dalla classe operaia. Era un quartiere di strade strette, vecchi condomini e modeste villette di legno che sorgevano intorno a una grossa acciaieria. Nelle vicinanze dell'acciaieria si vedevano molte facce magre e cupe di giovani che parevano aspettare di essere assunti. Al pianoterra del palazzo dove abitava Brownell c'erano un negozio di abiti usati, una carpenteria metallica che rifiniva oggetti d'uso navale e un videonoleggio sulla cui insegna campeggiava la scritta Extreme Video. Nelle vetrine del videonoleggio occhieggiavano alcuni poster dove degli aguzzini dagli occhi a mandorla infierivano su povere cinesine legate come salami. Extreme, appunto. Mancai due volte il portone dove abitava Brownell, la prima perché non vidi il numero, la seconda perché non riuscivo a trovare un buco dove parcheggiare. Girai lì intorno per una ventina di minuti finché riuscii finalmente a lasciare la macchina in sosta vietata, davanti a un idrante, a sei
isolati di distanza. Un buon investigatore privato dev'essere flessibile. Tre giovanotti in maglietta scolavano oziosamente birra davanti al negozio di videonoleggio quando arrivai lì. Uno di loro aveva in testa un berrettino con la scritta Seattle Mariner e tutti portavano scarponcini pesanti e jeans arrotolati in fondo. Una scala protetta da una porta di rete metallica priva di serratura era stata ricavata in un angolo del palazzo, subito dopo la carpenteria. C'era un targhetta con una serie di nomi, nell'ingresso ai piedi della scala e alcune cassette per la posta con i nomi degli inquilini e il numero dell'appartamento; ma il nome di Brownell non c'era e quelli segnati accanto alle cassette erano talmente stinti da risultare illeggibili. Mi rivolsi ai giovanotti che oziavano davanti all'ingresso. «Qualcuno di voi conosce Wilson Brownell?» Quello con il berretto disse: «Certo. Bazzica sempre da queste parti.» «E sapete qual è il suo appartamento?» «Il B, ne sono sicuro. Al primo piano.» Visto come sono amichevoli gli abitanti di Seattle? Salii al primo piano facendo due gradini alla volta e mi inoltrai nel corridoio in cerca dall'appartamento contrassegnato dalla lettera B. Lo trovai, ma la porta d'ingresso dell'appartamento di fronte era aperta e una vecchietta con i capelli grigi tutti scarmigliati mi guardò diffidente dalla poltrona dov'era seduta. Aveva in mano un telecomando della TV grande quanto uno sfollagente della polizia e stava guardando il canale che trasmette le cronache dal Parlamento. Le sorrisi rivolgendole un saluto. Lei socchiuse gli occhi lanciandomi un'occhiata ancora più diffidente. Non potei percepire nulla dall'interno dell'appartamento di Brownell. Niente radio, né televisione, né furtivi parlottii al di là della porta. Sentivo solo le cronache dal Parlamento e i rumori che venivano dalla strada. Era un vecchio palazzo senz'aria condizionata, motivo per cui tutti gli inquilini tenevano le finestre spalancate. Bussai e poiché non rispondeva nessuno, mi attaccai al campanello. La donna disse: «È al lavoro, tonto che sei.» Disse proprio così: "tonto che sei". «Siamo giusto a metà della giornata, un uomo che si rispetti a quest'ora è al lavoro.» Così dicendo mi guardò in modo espressivo, come per dire che avrei dovuto esserci anch'io. Avrà avuto settanta, forse ottant'anni, con una pelle incartapecorita color ocra e i capelli ricci sale e pepe, dritti sul cranio come potrebbe averli la moglie di Frankenstein. Portava una vestaglietta di cotone, aveva i piedi infilati in un paio di ciabatte sdrucite e puntava contro di me il telecoman-
do, forse sperando di farmi sparire. «Perdoni il disturbo.» Sfoderai il mio sorriso più rassicurante, quello che diceva: "Sono un bravo ragazzo, onesto e rispettoso delle leggi", dopodiché guardai ostentamente l'orologio. «Avrei giurato che mi aveva detto di venire qui alle due.» Mancavano sei minuti alle due. «Non sa a che ora dovrebbe rientrare?» Eccomi lì, il più grande detective del mondo impegnato a infinocchiare una povera vecchietta. L'espressione della donna si addolcì un tantino, mentre agitava il telecomando. Le voci dei parlamentari a congresso si azzittirono. «Non prima delle cinque e mezzo, sei meno un quarto, all'incirca.» «Caspita, è molto più tardi di quanto avessi preventivato.» Scossi il capo, sforzandomi di apparire deluso e preoccupato. «Ero venuto a trovare un nostro vecchio amico comune che si è trasferito da poco qui in città. Chissà, magari l'ha visto anche lei, qualche volta, qui in giro.» Per quel che ne sapevo, Clark poteva essere dentro la casa, steso sul divano, che dormiva profondamente. Si butta la lenza e si spera di tirare su qualcosa. La vecchietta mi rispose in tono petulante. «Non lo so. Io non mi interesso dei fatti degli altri.» «Certo.» «La gente va e viene. Sono solo una povera vecchia e vivo qui da sola; è già tanto se qualcuno si degna di dirmi buon giorno.» Riattivò l'audio del televisore, mentre io analizzavo gli odori che impregnavano l'atmosfera del palazzo, un misto di pipì di gatto e di rape. «Be', è un po' più basso di me, magro, con gli occhiali, pochi capelli in testa.» La donna aumentò il volume, agitando il telecomando. «La gente va e viene.» Annuii, mostrandomi comprensivo: il signor "Certo-capisco". Poi mi diedi una manata sulla fronte, come se mi fossi appena accorto che ero un gran cretino. «Vuoi vedere che l'appuntamento non era qui, ma dove lavora? Scommetto che dovevamo vederci lì e poi andare via insieme... Certo!» Il più grande detective del mondo che si mostra un povero, fallibile essere umano, per suscitare simpatia. Ma la vecchietta aggrottò le sopracciglia senza smettere di guardare la TV, tolse di nuovo l'audio e disse: «Che storia del cavolo.» «Mi scusi?» Sul suo viso grinzoso comparve un sorrisetto sprezzante, come per dire che non gliela davo a bere. «Se vuole sapere qualcosa, perché non lo chie-
de chiaramente? Non c'è bisogno di inventarsi queste cavolate dei vecchi amici che si devono incontrare. Che fesso!» Sorrisi di nuovo, un sorriso che era un'implicita ammissione che avevo accusato il colpo. «Mi scusi.» Smascherato dalla moglie di Frankenstein. Scrollò leggermente le spalle, come per dire che non era importante. «Ci ha provato, va bene, solo che non poteva stare in piedi. Una persona come lei non potrebbe mai essere amico di un buzzurro come Wilson Brownell.» Evidentemente la vecchia non aveva molta simpatia per il suo vicino di casa. «Come stanno veramente le cose?» «L'amico di Brownell mi deve seicento dollari.» Ridacchiò, scuotendo la testa. «Dovevo immaginarlo. Si va a finire sempre lì, vero?» «Già.» Tutto gira intorno al denaro, a questo mondo. «E che mi dice di questo tizio che le ho descritto? L'ha visto in giro, per caso?» Si strinse di nuovo nelle spalle, ma mi parve sincera. «Non è che fosse una gran descrizione, giovanotto. Potrebbe essere chiunque.» «Ha ragione. Può dirmi allora dove lavora Brownell?» «In una stamperia, credo, ma non ricordo come si chiama.» «La New Word Printing?» «Forse.» Era l'altro numero di Seattle chiamato da Clark. «Non dirà a Brownell che sono stato qui, vero?» La vecchia mi volse le spalle e si rimise a guardare la televisione. «Forse che quel figlio di buona donna ha mai fatto qualcosa per me?» No, era chiaro: lei e Brownell non andavano proprio d'accordo. Ridiscesi le scale, uscii in strada e diedi un'occhiata all'edificio. Due dei ragazzi di prima se n'erano andati, ma quello con il berretto della Mariner sedeva su uno sgabello di legno all'ingresso del negozio di videonoleggio, con una rivista di auto aperta tra le mani. La vecchia abitava proprio sopra la carpenteria, la sua casa aveva le finestre verso la strada; di conseguenza quella di Brownell doveva essere affacciata sul retro. Girai intorno all'isolato e mi affacciai nel vicolo di servizio lungo il lato posteriore dell'edificio. Una sgangherata scala antincendio saliva da quel lato verso il tetto, come una ragnatela metallica. Contai le finestre e individuai dov'erano le finestre di Brownell. C'erano tantissime finestre. Alcune avevano sul davanzale delle piante in vaso, altre avevano fuori dei panni ad asciugare. Su un pianerottolo della scala antincendio c'era un triciclo. Le finestre di Brownell sembravano chiuse. Usai un secchio della spazzatura per raggiungere e abbassare l'ultimo
tratto della scala antincendio, andai su ed entrai nell'appartamento di Wilson Brownell attraverso la finestra dell'area pranzo. Bisognerebbe sempre sigillare bene le finestre, anche in una città amichevole come Seattle. Clark Haines non stava dormendo sul divano, come avevo sperato. La casa era silenziosa e c'era aria di chiuso, impregnata di odore di caffè e Jiffy-Pop. L'area pranzo comunicava direttamente con il soggiorno. Sulla destra c'era un cucinino. Oltre il cucinino una porta che probabilmente dava nella camera da letto. Un divano ricoperto di vinile e una poltrona spaiata occupavano un angolo del soggiorno davanti a un Sony Trinitron e a un videoregistratore. Un tavolino era inserito tra il divano e la poltrona. L'area pranzo era arredata con una rustica tavola in legno di pino, tre sedie e degli scaffali di tipo economico dell'Ikea, dov'erano posate un paio di piante, un pesciolino rosso nella sua vaschetta e alcune foto in cornice di una donna afroamericana con un bel sorriso. La donna sembrava giovane, ma la foto doveva essere vecchia e probabilmente a quest'ora era invecchiata anche la donna. Appesi al muro c'erano dei ritratti disegnati a mano della donna, di un realismo impressionante, quasi fotografico. Erano firmati "Wilson", però lo stile e la tecnica erano identici a quelli dei ritratti che Clark Haines aveva fatto dei propri figli. Si spera sempre di trovare quel che si dava per scontato: un sacco a pelo e dei cuscini sul divano, una valigia, un biglietto attaccato sul frigo con su scritto "appuntamento con Clark alle cinque", qualcosa che possa indicare la presenza di un ospite venuto da fuori città, oppure che possa servire a rintracciarlo. Nada. Nel frigorifero c'era un pacco di birre da sei e negli armadi abbastanza alcol per dissetare un convegno di venditori porta a porta di libri, ma questo non escludeva a priori che Brownell avesse ospiti. O forse era solo un ubriacone. Esaminai le riviste sugli scaffali e vidi che erano solo cataloghi commerciali di attrezzature per i processi di stampa, riviste specializzate e brochures di aziende del ramo, tutte sul medesimo argomento. Le pagine contrassegnate da orecchie sugli angoli riguardavano tutte dei fornitori di carta e di inchiostro in Europa e Asia. Quattro dei cataloghi avevano avevano ancora la targhetta con l'indirizzo del destinatario, che era sempre Wilson Brownell. L'argomento principale nella maggior parte delle riviste sembrava essere la "Microscansione digitale per la produzione di matrici ultradettagliate". Quasiasi cosa questo significasse. Certo, se uno fa di mestiere lo stampatore, è logico che sia interessato a tutto quello che riguarda il suo lavoro. Diedi una rapida occhiata nel bagno, poi andai in camera da letto. Non
trovai alcuna traccia di Clark Haines nemmeno lì. Addossato al muro c'era un letto a due piazze rifatto con cura; il resto dell'arredamento era costituito da un cassettone, una toletta e un tavolo da disegno. Guardai in bagno. Un solo spazzolino da denti, un solo asciugamano, niente bagagli o lenzuola di scorta. Sul cassettone e sulla toletta altre fotografie della stessa donna afroamericana di prima, solo che stavolta era ritratta in compagnia di un uomo, anche lui di colore. Wilson Brownell. Un disegno non finito era fissato con nastro adesivo sul tavolo da disegno, un disegno a penna e inchiostro, tracciato con linee molto fini, che riproduceva con sorprendente esattezza il panorama della città di Seattle. Wilson Brownell sarà anche stato un ubriacone, ma era anche un artista estremamente dotato e mi chiesi se era lui che aveva addestrato Clark. Forse Clark era venuto lì per avere delle lezioni di disegno. Frugai dentro il comodino e la cassettiera e stavo guardando nella toletta quando notai una piccola foto scattata con una Kodak a sviluppo istantaneo infilata nel bordo inferiore dello specchio della toletta, seminascosta dietro altre fotografie della donna. Era un'immagine a colori di due coppie in posa su un molo davanti al mare: una coppia era costituita da Brownell e dalla donna di colore, l'altra da due bianchi apparentemente molto più giovani. La donna bianca aveva dei capelli castani ondulati, la carnagione chiara e un paio di occhiali da vista. Era la copia esatta, in versione adulta, di Teresa Haines. Sorrideva verso l'obiettivo e si teneva mano nella mano con un tipo magro abbondantemente stempiato. Presi la foto e la rigirai. Sul retro qualcuno aveva scritto: "Io e Edna, Clark e Rachel Hewitt, 1986". Osservai di nuovo la foto. La donna doveva essere la madre di Teri e l'uomo era Clark, senza dubbio. Ma qui era indicato con un cognome diverso: non più Haines, ma "Hewitt". Intascai la foto, mi accertai di aver lasciato tutto il resto come l'avevo trovato, uscii di nuovo dalla finestra, girai attorno al palazzo e rientrai dall'ingresso principale, salendo ancora una volta al primo piano. La porta dell'appartamento dove abitava la vecchietta era sempre aperta e lei stava agitando il telecomando come prima, puntandolo rabbiosamente contro il televisore. Anch'io, credo, se guardassi tutto il giorno le cronache parlamentari, sarei piuttosto rabbioso. «Un'altra cosa» dissi. Serrò le palpebre guardandomi sospettosa e tolse l'audio della TV. Le mostrai la foto e stavolta non mi diedi la pena di sorridere. «È questo uno di quelli che frequentano la casa?»
Osservò l'instantanea, poi alzò gli occhi verso di me. «Le deve dare dei soldi, vero?» «Tutti mi devono soldi, purtroppo. Sono generoso per natura.» Mi tese la mano, fregando espressivamente il pollice e l'indice. «Che ne dice di essere un po' generoso anche con me?» Le diedi un frusciante biglietto da venti dollari. «È passato di qui una settimana fa, credo fosse giovedì della settimana scorsa. È rimasto un paio di giorni, poi è partito. Avrebbe dovuto sentire che gazzarra che faceva.» «In che senso?» Il suo viso avvizzito si contrasse in una smorfia disgustata, agitando il telecomando. «Non faceva altro che piangere e lamentarsi, tutto il tempo. Non so cosa stessero facendo, lì dentro» disse accennando alla porta dell'appartamento di Brownell. «Dopo non l'ho più visto.» «Grazie della collaborazione.» Si rimise a guardare le cronache parlamentari, facendo sparire in tasca i venti dollari. «Di niente.» Non c'è che dire, tutto gira attorno al denaro, a questo mondo. 8 La New World Printing era a est del canale denominato Duwamish Waterway, tra il sobborgo di Georgetown e l'aeroporto privato della Boeing, in una zona di vecchi capannoni industriali costruiti quando i mattoni e il ferro costavano poco. Nella facciata dell'edificio era ricavato un moderno ingresso con le porte di vetro. Avrei potuto entrare nell'atrio e chiedere all'impiegata dietro il bancone di avvertire il signor Brownell che il signor Cole voleva vederlo. Ma a giudicare dallo scarso spirito di cooperazione che Brownell aveva già dimostrato quando l'avevo rintracciato da Los Angeles per telefono, dubitavo che volesse incontrarmi e comunque il preannuncio del mio arrivo sarebbe servito solo a confermarlo nel proposito di fare scena muta. Non era questo che volevo. So per esperienza che invece, quando qualcuno si trova di fronte un visitatore inatteso sul proprio posto di lavoro, pur di evitare spiacevoli scenate e di togliersi rapidamente dall'imbarazzo, diventa molto più loquace. Per un professionista del mio livello, investigare non è un lavoro, è un'arte. Parcheggiai lungo il marciapiede, mi avventurai nel piazzale di carico e scarico di fianco all'edificio e interpellai due tizi che stavano manovrando
pericolosamente un carrello pieno di scatoloni, un carico di almeno cinque tonnellate di carta che si apprestavano a trasferire sul cassone di un grosso camion. «Ehi, sapete dove posso trovare Wilson Brownell?» Quello più giovane sembrava un pirata, per via dei baffoni, di un vistoso orecchino e del fazzolettone legato in cima al cranio; mi indicò l'interno del capannone e disse: «Sì. Giù in fondo al magazzino, superato il bancone, oltre la porta interna.» Attraversai un magazzino smisurato, passando in mezzo a cataste enormi di scatoloni pieni di materiale a stampa pronto per la consegna. Presi in braccio due scatoloni e mi avviai verso l'interno del capannone con un'aria decisa, come se fossi un qualsiasi dipendente impegnato a fare il proprio lavoro. Al bancone dell'ufficio consegne un tipo pelato con il ventre prominente e due occhietti malevoli stava parlando con un uomo più giovane, dal pomo d'Adamo molto prominente. Il tipo pelato aveva il petto e le braccia magre, ma aveva una pancetta che sporgeva in fuori come se qualcuno gli avesse infilato una palla da bowling dentro le braghe. Mi squadrò con gli occhi socchiusi, quasi stesse cercando di ricordare chi fossi, ma prima che potesse dire qualcosa ero già oltre la porta interna, composta da due semplici pannelli oscillanti di plastica pesante. Mi ritrovai immerso nel fragore dei macchinari che giravano a pieno ritmo sotto il controllo degli addetti. Un'operaia mi passò accanto con un carrello. Le feci un bel sorriso e chiesi: «Wilson Brownell?» Indicò un punto del capannone e vidi Brownell accanto a una grossa macchina insieme ad altre persone, un giovanotto in maglietta e jeans e un uomo attempato in giacca e cravatta. Una grossa piastra metallica era stata rimossa dal fianco della macchina, mettendo in vista tutte la meccanica interna. Wilson Brownell era sulla sessantina, più alto di quanto avessi potuto supporre dalle foto che aveva a casa. Era vestito con una camicia a scacchi e pantaloni beige e aveva un paio di occhiali dalla spessa montatura nera. Una figura vagamente professorale. Con l'aiuto di una penna, stava indicando qualcosa all'interno della macchina. Il tipo in giacca e cravatta se ne stava lì accanto con le braccia incrociate sul petto, il viso contratto in una smorfia contrariata. Brownell smise infine di indicare e il tipo in giacca e cravatta se ne andò, con le braccia ancora conserte. Brownell disse qualcosa al giovanotto e il giovanotto si stese sul pavimento e cominciò ad armeggiare dentro la macchina. Mi avvicinai e dissi: «Signor Brownell?»
«Sì?» Brownell posò su di me i suoi umidi occhi color nocciola. Standogli vicino si avvertiva l'odore dell'alcool. Doveva essere una sua caratteristica costante. Voltai la schiena al giovanotto che lavorava dentro la macchina, in modo che non potesse sentirmi. «Mi chiamo Elvis Cole. Le ho telefonato due volte per chiederle di un certo Clark Haines.» Brownell scosse il capo. «Non conosco nessuno con questo nome.» «E non conosce nemmeno Clark Hewitt?» Brownell lanciò un'occhiata all'apprendista lì vicino e si umettò nervosamente le labbra. «Lei non dovrebbe essere qui.» Guardò oltre le mie spalle verso la porta in fondo al capannone. «Com'è che l'hanno lasciata entrare?» «Andiamo, signor Brownell. So che Clark l'ha chiamata sei volte al telefono da Los Angeles, perché ho visto la sua bolletta del telefono. So che è stato a casa sua.» Brownell non faceva solo scena muta; sembrava anche impaurito. Lo rassicurai: «Non è mia intenzione causare dei fastidi, né a lei, né a Clark. Il fatto è che se n'è andato da casa undici giorni fa, lasciando da soli i suoi bambini, che non possono fare a meno della sua presenza. Se non torna, sarà necessario prendere provvedimenti.» Elvis Cole, il detective degli anni Novanta, il detective che fa appello ai sentimenti. «Io non so niente. Non so di cosa lei stia parlando.» Scosse la testa e una zaffata di alcol più forte raggiunse le mie narici. «Santo cielo» dissi. «Quei ragazzini sono lì da soli. Voglio solo sapere se Clark pensa di tornare oppure no.» Brownell reagì come se avessi detto che volevo ammazzarlo. Alzò le mani con il palmo aperto verso di me, in un gesto d'impotenza, continuando a scuotere il capo. «Non ci vuole molto a capire, Wilson» dissi, tornando alla carica. «Se non trovo Clark, sarò costretto a rivolgermi al servizio di assistenza sociale, che gli toglierà la patria potestà. È chiaro, no?» L'avrei preso a schiaffi. Avrei voluto afferrarlo per le orecchie e scuoterlo. «Clark dovrà rinunciare ai suoi figli, se non riesco a rintracciarlo in fretta e a parlargli e la colpa sarà anche sua.» Speravo che facendolo sentire corresponsabile si sarebbe convinto a collaborare. Wilson Brownell guardò oltre me, spalancando gli occhi con aria allarmata. Il tipo pelato con il ventre prominente come una palla da bowling ci stava scrutando sospettoso dalla porta in fondo al capannone. L'espressione di Brownell si indurì. Mi venne vicino e sibilò: «Mi faccia il favore, se ne
vada. L'aiuterei, se potessi, ma non posso. Non c'è altro da dire.» Fece per allontanarsi ma io lo tallonai, «Non c'è altro da dire? Come sarebbe? Non ha sentito quel che le ho detto dei bambini?» «Non posso aiutarla, glielo ripeto» ribadì Wilson Bfownell a voce abbastanza alta, stavolta, tanto che il giovane apprendista si affacciò dallo sportello della macchina e guardò verso di noi. Adesso c'erano due uomini erano insieme al tipo pelato, vicino alla porta. Due uomini attempati, con i capelli grigi e la pelle del viso cotta dalle intemperie e che parevano due ex picchiatori ormai appesantiti dagli anni e dalla mancanza di allenamento. Il tipo pelato mi indicò, uno di quelli che erano con lui disse qualcosa, poi il pelato venne nella nostra direzione. Brownell mi afferrò per una spalla come si potrebbe afferrare un salvagente. «Mi stia a sentire, maledizione» sussurrò rauco, con tono imperioso. «Non dica una parola di Clark. Eviti accuratamente anche solo di nominarlo, se vuole uscire vivo di qui.» Subito dopo, uscì all'improvviso in una risata e mi batté la mano sulla spalla, come se gli avessi raccontato una storiella buffissima, da sganasciarsi dal ridere. «Di' a Lisa che trovare compagnia non è mai stato un problema per me, tante grazie! Se dovessi avere bisogno di lei, la chiamerò.» Lo disse così forte che dovettero sentirlo fino in Canada. Lo guardai sconcertato. Il tipo calvo ci raggiunse, lasciando vicino alla porta i due ex picchiatori, che ci osservavano interessati. Il tipo calvo disse: «Non so chi sia questo signore. È entrato senza dire niente a nessuno.» Brownell, sempre tenendomi una mano sulla spalla, tornò lentamente serio. «Mi dispiace, Donnie. Sapevo che doveva passare di qui, avrei dovuto dirtelo. È un mio amico.» Guardai prima Brownell, poi Donnie, poi ancora Brownell, chiedendomi in che razza di pasticcio mi ero cacciato. Brownell scrollò il capo, come per dire: "mai visto niente di più assurdo". «Sono tre mesi che una certa signora cerca di agganciarmi attraverso questo suo amico. E sono tre mesi che continuo a ripetere che nessuna donna potrà mai farmi dimenticare la mia Edna.» Donnie mi guardò diffidente con i suoi piccoli occhi da furetto. «Be', lei è muto o cosa? Non ha niente da dire?» Brownell mi teneva anche lui gli occhi puntati addosso, penetranti come raggi laser. «No» risposi, scuotendo la testa. Donnie prese infine una decisione. Si voltò verso i due gorilla rimasti
vicino alla porta e fece un cenno negativo con il capo. I due si eclissarono. «Da te non me l'aspettavo.» Brownell rispose: «Scusami, Donnie. Per la miseria...» Gli occhi del pelato tornarono su di me, ridotte a sottili fessure e un sorriso ancora più sottile gli piegò gli angoli della bocca. «Andiamo, l'accompagno fuori.» Seguii il pelato fuori dell'edificio, risalii in macchina e me ne andai in un bar della catena Seattle's Best Coffee, dove mi sedetti a un tavolo, con una grande confusione in testa come mi capita non di rado, dopo avere ordinato un caffè con doppia panna speciale priva di grassi. Ero volato a Seattle ben sapendo che Wilson Brownell sarebbe stato un osso duro, ma non immaginavo niente del genere. Brownell sembrava letteralmente terrorizzato anche solo all'idea di nominare Clark. Avevo avuto l'impressione che avesse paura non solo di me, ma perfino dei colleghi di lavoro. Forse aveva i suoi buoni motivi, o forse gli era andato in fumo il cervello e soffriva di qualche forma piuttosto grave di paranoia. Il mondo è pieno di tipi del genere. Potevo restare lì seduto a fare congetture, ma ne avrei ricavato solo congetture, appunto. Avevo bisogno di fare qualche altra domanda a Wilson Brownell e avevo solo due possibilità: tornare a razzo nella New World Printing e costringerlo a parlare sotto la minaccia della pistola, oppure aspettarlo all'uscita dal lavoro. La vecchia dirimpettaia di Wilson aveva detto che di solito tornava a casa tra le cinque e mezzo e le sei meno un quarto, il che mi faceva supporre che lasciasse la fabbrica tra le cinque e le cinque e un quarto. Adesso erano le 14.43: avevo due ore e venti minuti da riempire e così decisi di andare a dare un'occhiata alla tomba di Rachel Hewitt. Se Clark era andata a visitarla, forse aveva lasciato dei fiori, su quei fiori poteva esserci il nome del fiorista e il fiorista poteva magari mettermi sulla pista giusta. Un sacco di se e di forse, ma è proprio di questo che è fatto il mio lavoro. Quelli del bar mi lasciarono consultare le loro Pagine Gialle. Nell'area metropolitana di Seattle, Mercer Island e Bellevue, erano elencati dodici cimiteri. Mi segnai i numeri su un tovagliolo di carta, mi feci cambiare dei biglietti da tre dollari in monete da un quarto e mi attaccai al telefono. Negli elenchi dei primi quattro cimiteri con cui parlai non risultava nessuna Rachel Hewitt, ma quando chiamai il quinto cimitero una donna mi disse: «Sì, abbiamo una Rachel Hewitt tra i nostri "clienti".» Clienti... «La conosceva, per caso?»
«Oh, santo cielo, no.» «Mi ha risposto subito, senza nemmeno bisogno di controllare.» «Oh, be', si dà il caso che abbia già controllato quel nome giusto una settimana fa per un altro signore. Lunedì scorso, credo... Sì, giusto, era proprio lunedì.» «Sempre per telefono, o questo signore si è presentato di persona?» «È venuto qui.» Gli descrissi Clark. «Era un tipo così?» «Oh, no. Niente del genere. Era alto e biondo, con i capelli corti.» Mi feci indicare la strada e riagganciai. Diciotto minuti più tardi varcavo i cancelli del Restheaven Views Cemetery, parcheggiando l'auto davanti agli uffici. La donna con cui avevo parlato era una dolce signora di mezz'età, la signora Lawrence. Mi fece vedere una grande mappa e mi disse come dovevo fare per trovare il punto del cimitero dove riposavano le spoglie di Rachel Hewitt. Le chiesi: «L'uomo che è stato qui lunedì... ha detto chi era?» «Oh, immagino che fosse un amico o un parente. Come lei.» La lapide di Rachel Hewitt era sul fianco di una verdeggiante collinetta nell'angolo più occidentale del cimitero, un punto da cui si godeva una magnifica vista del Lake Washington. Lasciai l'auto all'ombra di un sicomoro e mi incamminai verso nord, contando le lapidi. Quella di Rachel era la quinta, ma non trovai fiori. Forse era da parecchio che Clark non andava a trovarla, o se c'era andato si era dimenticato di portare i fiori. «Be', accidenti» mormorai. Niente fiori, niente pista. Tre auto erano parcheggiate sotto di me alla base della collinetta e potevo vedere delle persone venute a visitare le tombe dei loro cari, alcune sedute sull'erba, altre in piedi, un signore anziano accomodato su una sedia pieghevole che si era portato da casa. Sopra di me, in cima al colle, due cappelle funebri gemelle godevano quella che era sicuramente la vista migliore del lago. Degli alberi montavano la sentinella attorno alle cappelle e un paio di veicoli erano parcheggiati all'ombra del boschetto: un vecchio camioncino beige e una lussuosa Lexus nera. C'era qualcuno seduto dentro la Lexus, ma la macchina era così lontana che non riuscii a distinguere gli occupanti. Vidi brillare qualcosa e mi dissi che probabilmente stavano ammirando il panorama attraverso un binocolo. Si godevano un'altra bella giornata in compagnia dei defunti. Spolverai la foto sulla lapide e la confrontai con quella che avevo preso
a casa di Wilson Brownell, notando di nuovo che Teri e sua madre si somigliavano moltissimo. Misi via la foto e guardai il lago cercando di non farmi prendere dallo sconforto. Non era piacevole pensare che ero andato fin lì in aereo a mie spese per finire senza lo straccio di un indizio accanto a una tomba. Non avevo perso tutte le speranze di trovare Clark, ma ben difficilmente avrei potuto riuscirci in un ragionevole lasso di tempo e intanto dovevo fare qualcosa per quei ragazzi. Ovviamente, anche se avessi trovato Clark, sarei stato probabilmente costretto a rivolgermi ugualmente al servizio di assistenza sociale. Una figura come quella di Clark non rappresentava di certo il padre ideale. Rachel forse non sarebbe stata d'accordo, ma secondo me avrebbe dovuto scegliere un padre migliore per i suoi figli. Lasciai il cimitero e mi diressi a sud seguendo la sponda del lago. Era un splendido pomeriggio e il lago era piatto come una tavola. Lungo le sue rive c'era gente che filava sui pattini, altri prendevano il sole in costume da bagno e nessuno di loro sembrava affranto come me dopo la visita alla tomba di una morta che non conoscevo. Presi verso ovest all'altezza di Seward Park e mi fermai a un semaforo rosso accanto a una Toyota verde con una donna al volante. Le sorrisi e lei mi restituì il sorriso. Un sorriso amichevole. Poi guardai nello specchietto retrovisore e vidi una Lexus nera, due veicoli dietro di me. Pareva la stessa che avevo notato prima su al mausoleo, ma non potei averne la certezza perché non la vedevo chiaramente. Dissi tra i denti: «Andiamo, Cole, stai scherzando. Prima a Los Angeles e adesso a Seattle?» La donna sulla Toyota verde mi stava guardando. Distolsi lo sguardo, imbarazzato. Mi dissi ancora: «Controllati, Cole. Non vedi che hai cominciato a parlare da solo?» Le lanciai un'altra occhiata e la vidi mettere la sicura allo sportello. Il semaforo divenne verde e la Lexus mi venne dietro, ma due isolati più in là rallentai e quella mi superò. Al volante c'era un tipo biondo con i capelli tagliati cortissimi e accanto a lui un omaccione dai capelli castani grande e grosso come un grizzly. Nessuno dei due mi degnò di un'occhiata. «Hai visto?» dissi forte. «Non era niente.» La donna sulla Toyota verde mi superò a sua volta. Velocemente. Parcheggiai a un isolato e mezzo di distanza dalla New World Printing, quando mancavano diciotto minuti alle cinque. Alle cinque in punto i dipendenti cominciarono a sciamare fuori dai cancelli, sia a piedi che in macchina; sei minuti più tardi Wilson Brownell uscì dal parcheggio a bor-
do di una piccola Plymouth gialla a due volumi. Lo lasciai andare avanti per la distanza di un isolato e mi misi nella sua scia. Si diresse a ovest dall'altra parte del canale, andando dritto fino a casa sua e parcheggiò lungo il marciapiede giusto davanti alle finestre della vecchia dirimpettaia. Mi infilai in un vicolo, un isolato e mezzo più in là e spiai le sue mosse, immaginando che entrasse nel palazzo dove abitava, ma non lo fece. Chiuse a chiave gli sportelli dell'auto e si allontanò a piedi verso nord, sparendo oltre l'angolo. Lasciai la mia Mustang lì dove si trovava, all'imboccatura del vicolo e mi affrettai nella direzione dove Brownell si era eclissato. Mi affacciai oltre l'angolo in tempo per vederlo entrare in un locale. L'insegna diceva Lou's Bar. Aveva la casa piena di birra e di bottiglie di superalcolici, ma evidentemente voleva mandare subito giù un paio di bicchieri, prima di cominciare a bere seriamente e con comodo nella sua abitazione. O forse preferiva semplicemente un po' di compagnia. Quando entrai vidi Wilson Brownell osservare il barista mentre versava della vodka Popov in un bicchiere pieno di cubetti di ghiaccio. Aspettai che il barista avesse finito e andai a sedermi accanto a Brownell. C'erano due donne sedute a un tavolino più in là e tre clienti di sesso maschile sugli sgabelli davanti al bancone, ma il terzo cliente stava immobile, accasciato con la faccia sul piano di legno. Brownell mi vide e mormorò: «Gesù!» Non mi scomposi. «No, non sono lui, ma ci confondono spesso.» «Non ho niente da dirle.» Fece per andarsene, ma gli schiacciai un piede sotto lo sgabello e premetti con forza su una spalla, premendogli un pollice nell'incavo alla base del collo. Non mi piace usare le maniere forti, ma ero disposto a tutto pur di scovare Clark Hewitt e di riportarlo a casa dai suoi figli. Nessuno nel bar parve fare caso a noi. «Ohi ohi» gemette Brownell. «Calmati e io ti lascio andare. Se cerchi di alzarti, ti stendo.» Si assestò di nuovo sullo sgabello e io allentai la pressione. Quando lo lasciai andare, ingollò una sorsata di Popov, bofonchiando: «Accidenti che male.» Tirai fuori il portafoglio e gli mostrai la mia licenza. «Una ragazzina di quindici anni mi ha detto di chiamarsi Teresa Haines e mi ha dato duecento dollari perché l'aiutassi a ritrovare suo padre.» Brownell scosse il capo e mandò giù un altro sorso di vodka. «Sono venuto qui a mie spese a causa di Teresa, che come ho scoperto in seguito si chiama in realtà Hewitt. Lei e i suoi due fratellini sono stati abbandonati dal padre, a quanto pare.» Un'altra sorsata.
«Ho scoperto poi che Clark Haines, che si chiama Hewitt anche lui, è un drogato. Che è venuto a Seattle, che è passato dalla casa di un suo vecchio amico, un certo Brownell, ma che questo Brownell se ne infischia di quei ragazzini minorenni e non vuole aiutarmi a trovare il loro padre.» Mi rimisi in tasca il portafoglio, poi presi la foto dov'erano ritratti Brownell e Clark insieme alle loro mogli e la posai sul bancone del bar. La foto si era un po' stropicciata dentro la mia tasca. Brownell la guardò, serrando la mascella. «Lei è entrato in casa mia.» «Sì.» Protese un altro po' la mascella, poi prese la foto e la intascò. Bevve dell'altra vodka e notai che gli tremava la mano. «Lei non sa niente di niente di questa storia» mormorò con tono distante. «So che Clark era lì da lei.» Scosse il capo. «Lei si è cacciato in una faccenda di cui non sa un accidente. Se fosse furbo, se ne tornerebbe dritto a casa.» «Mi spieghi come stanno le cose e io sarò lieto di farlo.» Scosse di nuovo il capo e cercò di sollevare il bicchiere con la vodka, ma la mano gli tremava troppo. Non credo che tremasse per colpa dell'alcool. «Non posso aiutarla e non ho niente da dirle.» Sbatté forte le palpebre, come per ricacciare indietro delle lacrime. «Io voglio un gran bene a Clark, capito? Ma ho le mani legate. Non so dov'è andato e lei farebbe bene a non chiederlo. Mi dispiace per i suoi bambini, ma non posso proprio farci niente. Niente di niente.» La mano gli tremò così forte che un po' di vodka si versò sul bancone. «Santo cielo, Brownell. Che diavolo c'è che le fa tanta paura?» La porta del bar si aprì ed entrò il biondo che avevo visto prima al volante della Lexus. Era alto quasi un metro e novanta, con le spalle larghe, la faccia da duro e glaciali occhi azzurri che ti trapassavano da parte a parte. Si scostò dalla soglia per far entrare il suo amico, che aveva bisogno di molto spazio a disposizione, data la mole. Era ancora più alto, poco meno di due metri, con grandi spalle spioventi, ventre prominente e andatura ondeggiante da campione di sollevamento pesi. Il biondo era vestito con un giubbotto blu, maglietta gialla e jeans, mentre il suo amico era abbigliato in modo vistoso con un camiciotto da pirata, pantaloncini ampi e informi e scarpe da ginnastica del tipo alto sopra la caviglia. Il colosso aveva un sorriso ebete e stava succhiando un lecca-lecca giallo. Il biondo disse: «Willie.» Wilson Brownell esclamò: «Oh, merda!» Lasciò di scatto il suo sgabel-
lo, rovesciandolo, e se la svignò attraverso la porta posteriore del bar. Sparito. Il barista non lo degnò di un'occhiata. Le donne nemmeno. Il tipo che dormiva con la testa appoggiata al bancone continuò a ronfare. Il biondo e il suo amico si avvicinarono a me. «Tu vieni con noi.» La pronuncia del biondo era straniera, un po' artificiosa come quella di Arnold Schwarzenegger. Solo che il suo accento era russo. «Con chi?» Il mio tono beffardo avrebbe dovuto gelarli. Il pesista infilò la mano sotto il camiciotto ed estrasse una SIG automatica. «Vieni con noi o ti piantiamo una pallottola in corpo.» Lo disse parlando normalmente, infischiandosene di chi poteva sentirlo. Un altro russo, a giudicare dall'accento. «Mi avete seguito da Los Angeles?» domandai. Il pesista mi diede uno spintone e fu come incassare un calcio da un mulo. «Chiudi il becco. Cammina.» Chiusi il becco. Camminai. Forse Wilson Brownell aveva ragione, dopotutto. Forse mi ero cacciato in un pasticcio molto più grosso di quanto avessi mai immaginato e adesso era troppo tardi per tirarsi indietro. Bella cosa avere un intuito così sviluppato, vero? 9 Il biondo tenne aperta la porta mentre il pesista mi trascinava fuori e quindi si accodò a noi. L'omaccione teneva la pistola in evidenza, bassa lungo il fianco, senza fare nulla per nasconderla. Una donna con due bambini uscì da un panettiere sul marciapiede opposto, vide l'arma, agguantò i figli e si affrettò a rientrare nel negozio. Dissi: «Non lo sai che la legge proibisce di andare in giro con il cannone spianato?» L'omaccione rispose: «Siamo in America. In America si può fare tutto quel che si vuole.» «Io lo metterei via, se fossi in te. I poliziotti saranno qui da un momento all'altro.» Forse potevo indurlo a lasciarmi andare. Agitò con noncuranza la pistola, come se fosse un'estensione della mano. «Che vengano pure.» Niente da fare. «Chi siete?» Il biondo scosse il capo. «Nessuno.» «Dove stiamo andando?» «A prendere la macchina.» Molto divertente.
La Lexus nera era parcheggiata davanti a un idrante in fondo all'isolato. Al mattino mi ero imbarcato su un aereo per venire a Seattle a cercare il padre di tre bambini. Un lavoretto facile facile, in teoria; ed eccomi ora sequestrato da due pazzi sconosciuti di origine russa. Ero anche disposto a camminare per un tratto con quei due, ma non avevo nessuna voglia di salire in macchina. In ogni sequestro che si rispetti le indagini si concentrano attorno a due scenari: quello iniziale, in cui la vittima viene caricata a forza su un'auto e quello finale, ovvero il luogo dove viene rinvenuto il cadavere. Il pesista non sembrava troppo attento, ma il biondo teneva la situazione sotto controllo. Scrutava attentamente i negozi, i vicoli e i tetti intorno, muovendo i suoi glaciali occhi azzurri senza fretta, da vero esperto. Mi chiesi cosa si aspettava di vedere e dove aveva imparato a comportarsi in modo così professionale. «Afghanistan» azzardai. Gli occhi azzurri del biondo non smisero di scrutare in giro. L'altro, il gigante sollevatore di pesi, disse: «Da. Alexei era uno Spetsnaz. Lo sai cosa sono gli Spetsnaz, vero?» Alexei fulminò il suo compare con i suoi occhi di ghiaccio, mormorando qualcosa in russo. Il pesista aggrottò le sopracciglia e parve innervosito. Probabilmente la fredda determinazione di Alexei intimoriva anche lui. «Certo che lo so.» Il corpo degli Spetsnaz era per l'ex Armata Rossa il corrispondente delle nostre Forze Speciali, o peggio, delle ss di Hitler. Fanatici pretoriani del regime che non si tiravano indietro nemmeno di fronte ai più efferati delitti. «Gli Spetsnaz sono una specialità austriaca, simile ai tortelli» risposi. Alexei annuì, saettando i suoi occhi azzurri per un istante nella mia direzione e accennando un sorrisetto. «Da» confermò. «Una specie di piccolo tortello.» Mi chiesi quanti ragazzi afghani avevano visto quel sorrisetto prima di morire. Il pesista stava camminando dietro di me, ma Alexei mi si piazzò di fianco, estrasse una Glock semiautomatica e me la puntò contro con una perfetta impugnatura da combattimento, a due mani. Disse: «In macchina è più sicuro, amico.» Mi arresi ai suoi argomenti, mostrandogli le mani aperte e salimmo tutti a bordo. Con tanti saluti alle mie speranze di tentare una fuga. Mi fecero sedere davanti accanto al posto di guida. Alexei si mise al volante e il gigante si piazzò alle mie spalle sul sedile posteriore. Quando si
sedette, la macchina oscillò sotto il suo peso. Steroidi. Partimmo e l'omaccione si sporse in avanti per inserire un CD nell'autoradio. James Brown cominciò a urlare che si sentiva al settimo cielo e il pesista mi chiese, agitando la testa al ritmo con la musica: «Ti piace James Brown, il re del soul?» Lo guardai sconcertato. Alexei lo guardò. «Abbassa, Dimitri.» Dimitri abbassò il volume, ma non molto. Accompagnava la musica con lievi movimenti delle mani, facendo finta di ballare e voltandosi alternativamente a destra e a sinistra, come se non volesse perdersi nulla del panorama. «A me piace da morire, quasi quanto il Big Mac. Ti piace il Big Mac?» Guardai Alexei, ma Alexei era impegnato nella guida. «Preferisco il Burger King» dissi. Dimitri parve contrariato dalla mia risposta. «Ma non ha la salsa speciale!» Parlò in russo con Alexei. Alexei scosse la testa, con aria irritata. «No. Non ha la salsa speciale.» «Ma voi siete veri o finti?» domandai allora. «Come sarebbe?» fece Dimitri, il pesista. Alexei mi mise sotto al naso la sua Glock. «Questa è vera. Vuoi che te lo provi?» «No.» «Allora tieni la bocca chiusa.» Ahimè. Cominciò a cadere una pioggerellina leggera e Alexei mise in funzione il tergicristallo. Prendemmo l'Alaskan Way Viaduct traversando la Elliot Bay ed entrando nel sobborgo di Ballard, poi ci dirigemmo verso la baia e arrivammo davanti a un magazzino nella zona vecchia del porto, all'estremità di uno dei moli. Il magazzino, come il molo, era vecchio e malandato, con grandi portoni rugginosi che scorrevano su binari e la vernice tutta scrostata che accentuava il senso di abbandono. Dimitri scese a terra, aprì il portone, ed entrammo all'interno, parcheggiando la nostra Lexus tra una Ferrari 328 GTX da duecentomila dollari e una Mercedes SL convertibile da ottantamila dollari. A volte le apparenze ingannano. Il magazzino era una grande caverna in penombra dove stagnava odore di pesce, di umido e di olio per motori marini. Le lame di luce che spiovevano dai lucernari e dalle fessure nelle pareti di metallo ondulato facevano risplendere i granelli di polvere in sospensione e le gocce d'acqua che ca-
devano dal tetto. All'estremità opposta del capannone un gruppo di scaricatori di porto stavano spostando delle casse con dei muletti meccanici. Gli scaricatori proseguirono nel loro lavoro ignorandoci ostentatamente. Alexei suonò il clacson due volte, poi spense il motore e mi disse di scendere. Una fila di piccoli uffici era allestita lungo un fianco del magazzino; al suono del clacson la porta dell'ultimo ufficio si aprì e un tipo tracagnotto con una sigaretta infilata tra le labbra ci invitò con un cenno a raggiungerlo. Eravamo attesi. Varcata la porta, ci ritrovammo in uno squallido ufficio dove si faceva fatica a distinguere qualcosa e a orientarsi, illuminato com'era solo da una lampada da tavolo piazzata in un angolo sopra uno schedario. Tre uomini stavano attorno a una scrivania in legno di quercia che era probabilmente già vecchia negli anni Trenta: due avevano una cinquantina d'anni, il terzo era un po' più giovane. Il più giovane era quello che ci aveva invitati a entrare. Avevo sperato di trovare lì anche Clark, ma non c'era. Al centro della stanza c'era una sedia pieghevole vuota. Il tipo tracagnotto me la indicò parlando in russo. Alexei disse: «È per te.» «Preferisco stare in piedi, grazie.» Alexei guardò verso Dimitri, che stava alle mie spalle. Subito dopo udii un botto assordante come quello di un mortaio. Mi afflosciai facendo un mezzo giro su me stesso e posando un ginocchio a terra. Ed ecco che venni sistemato di peso sulla sedia. Alexei si sporse verso di me. «Basta scherzi, adesso» disse in tono pacato e distaccato. «Quello era solo uno schiaffetto, capito? Se Dimitri avesse voluto darti un pugno, ti avrebbe fatto secco.» «Certo.» Mi parve di vedere la sua faccia inclinarsi in modo strano prima da un lato poi dall'altro e fui sul punto di vomitare. Entrò un quarto uomo, un po' più basso e grasso dei suoi compagni, o almeno così mi parve, perché avevo la vista annebbiata. Era sulla cinquantina, con capelli ricci e grigi che incorniciavano un viso florido e una camicia blu aperta sul collo che lasciava in vista i peli incanutiti del petto irsuto. Aveva in mano un bicchiere di carta della McDonald pieno di qualche bevanda frizzante. Un grosso bicchiere della McDonald. Probabilmente proveniva dallo stesso fast-food dove Dimitri si procurava i suoi amati Big Mac. Quando entrò il nuovo venuto, gli altri si alzarono mormorando rispettosamente parole di saluto. Il nuovo venuto disse qualche altra cosa in russo e Alexei gli consegnò il mio portafoglio. L'uomo posò il bicchierone di carta e si sedette sul bordo della scrivania esaminando il contenuto del por-
tafoglio. Stava decidendo il mio destino, senza dubbio. Mossi il capo cercando di riscuotermi dalla botta di prima. Il senso di disorientamento stava cessando, ma avevo ancora la cartilagine intorno all'orecchio tumida e calda. Intanto, il nuovo venuto aveva finito e gettò il portafoglio in un canto per terra. L'espressione del suo sguardo esprimeva un misto di stanchezza, freddezza e indifferenza. Proprio quello che ci voleva nella mia situazione, bloccato su quella sedia sotto la minaccia delle manacce del gorilla russo da due quintali che mi stava alle spalle. L'uomo disse: «Sono Andrei Markov.» «Mi fa piacere.» Il suo accento inglese era perfetto. «Dov'è Clark Hewitt?» Quella domanda echeggiò come un campanello in una stanza vuota. Clark doveva essere al centro di una storia piuttosto intricata, mi dissi. «Non lo so.» Markov fece un cenno con il capo e le dita d'acciaio di Dimitri mi serrarono una spalla come una morsa. Alexei mi colpì l'altro orecchio con la Glock e un dolore lancinante mi stordì del tutto. Certe giornate gira proprio storta. Sarebbe meglio non alzarsi nemmeno dal letto. «Chi è questo Clark Hewitt e perché è così importante?» domandai, cercando di fare l'ingenuo. «Dimmi dov'è o ti ammazzo» disse Markov per tutta risposta. «Non lo so.» Avevo le orecchie che ronzavano e gli occhi che lacrimavano. Scossi il capo per cercare di far cessare il ronzio nelle orecchie, ma ottenni solo di peggiorare le cose. Un altro cenno e stavolta Alexei mi diede una botta sul collo con il calcio della Glock. Dimitri mosse un passo indietro per evitare che gli vomitassi addosso. Mormorai: «Non ho mai visto questo Clark Hewitt e non so dove sia. Non so niente di lui.» Markov disse qualcosa in russo ad Alexei, che rispose nella stessa lingua, quindi Markov si rivolse di nuovo a me. «Non raccontare frottole. Hai chiesto in giro di lui. Sei stato a visitare la tomba di sua moglie.» «Il suo nome è venuto fuori nel corso di un'indagine che sto svolgendo e così ho fatto un salto qui per vedere se riuscivo a saperne qualcosa di più.» «Che indagine?» «Sono sulle tracce di un importatore di droga di San Francisco. Prima di sparire ha detto che doveva venire a Seattle per rifornirsi da un certo Clark
Hewitt. È per questo che sono qui.» Saper mentire è un'arte. Markov rimase un altro po' a fissarmi, riflettendo su quel che gli avevo detto, se doveva credermi oppure no e sulla fine che meritavo eventualmente di fare. La canna della Glock incombeva minacciosa a pochi centimetri dal mio orecchio sinistro. Mi chiesi se sarebbe stato possibile deviarla all'ultimo istante verso Dimitri e guadagnare una decina di secondi di vita. O una ventina, nel migliore dei casi. Echeggiò in distanza l'abbaiare furioso di un cane. Mi parve di capire che stava venendo verso di noi. «Non so chi sia questo Hewitt» ripetei. «E non so chi siate voi. Che diavolo sta succedendo qui?» Squillò il telefono, l'uomo alla destra di Markov sollevò la cornetta e rimase in ascolto senza parlare. Quindi rimise giù la cornetta e disse qualcosa a Markov, che mosse gli occhi vagamente allarmato. Stava succedendo qualcosa di inatteso nel magazzino. Il cane abbaiava sempre più vicino, adesso e si udivano anche voci di uomini che si muovevano lì intorno. Markov fece un altro cenno con la mano e disse qualcosa in russo. La Glock sparì d'incanto e Alexei si allontanò da me, mentre i latrati furiosi risuonavano direttamente dietro la porta. Un uomo in giacca e cravatta entrò nell'ufficio, esibendo un tesserino di riconoscimento. «Polizia federale» annunciò l'uomo. Era molto alto e il vestito gli cadeva perfettamente addosso. Guardò verso di me, poi venne avanti e piazzò minacciosamente un dito sul petto di Dimitri. «Fatti da parte, ciccione.» Dimitri interrogò Markov con un'occhiata e Markov annuì. Dimitri si fece da parte. Il tipo in giacca e cravatta mi chiese: «Sta bene?» «Le sembra che io stia bene?» «Le procureremo un po' di ghiaccio.» Poi, rivolto a Markov, aggiunse: «Sono l'agente speciale Reed Jasper, della polizia federale degli Stati Uniti. Gli altri sono agenti della polizia doganale. Hanno portato delle carte di cui vorrebbero discutere qui con voi.» Un aitante agente in assetto da guerriglia urbana si era intanto piazzato fuori della porta. Brandiva una mitraglietta Browning 9 mm e insieme a lui c'era il cane, che pareva ansioso di lanciarsi dentro l'ufficio e di azzannare qualcuno. Era un animale grosso e muscoloso, forse un incrocio tra un pastore tedesco e un akita. Dietro l'agente e il suo cane, altri uomini si muovevano verso di noi attraverso il magazzino. Andrei Markov fece un gesto rassegnato. «Sono sempre felice di coope-
rare con le autorità, agente speciale.» «Io mi chiamo Cole» intervenni. «Sono un investigatore privato di Los Angeles. Questi signori mi hanno portato qui contro la mia volontà e mi hanno aggredito. Vorrei sporgere una formale denuncia.» Jasper mise via il tesserino di riconoscimento, raccolse da terra il mio portafoglio e mi aiutò ad alzarmi dalla sedia mentre entrava l'agente con il cane. Da quel momento in poi Jasper si disinteressò dei russi e dedicò a me tutte le sue attenzioni, come se fosse venuto lì solo per me. «Se la caverà» mi rassicurò. «Ho detto che voglio sporgere formale denuncia.» «Certo.» Mi accompagnò fuori dell'ufficio. Nel magazzino c'erano una decina di agenti federali. Due erano anch'essi in assetto da guerriglia urbana, con un cane al guinzaglio, mentre gli altri portavano semplici giubbotti blu impermeabili senza maniche con la scritta POLICE - U.S. CUSTOMS. Jasper mi scortò oltre loro senza dire una parola e quindi fuori dal magazzino, nella pioggia. Forse Jasper avrebbe potuto finalmente spiegarmi cosa stava succedendo, perché Clark Hewitt era così importante, perché mi avevano sequestrato e perché era mancato un pelo che Andrei Markov ordinasse di farmi saltare le cervella. «Caspita, sono davvero felice di vedervi.» «Non so se lo sarà anche dopo» ammonì Jasper. «Che diavolo significa?» Un altro agente in giubbotto blu ci stava aspettando vicino a un'anonima macchina di servizio. «È lui il tizio?» chiese, vedendomi. «Sì» confermò Jasper, lanciandogli il mio portafoglio. Il collega di Jasper lo intascò senza nemmeno guardarlo, girò attorno alla macchina e si installò al volante. Sul suo giubbotto blu campeggiava la scritta AGENTE FEDERALE. Dissi: «Vi dispiacerebbe spiegarmi che cosa sta succedendo?» Era diventato un ritornello, ormai, ma nessuno sembrava disposto a fornirmi una qualsiasi risposta. Jasper mi spinse contro il veicolo, mi mise le mani dietro la schiena e mi ammanettò. «Sei in arresto, stronzo. Se conosci qualche bravo avvocato, farai bene a chiamarlo.» Wilson Brownell aveva ragione. Mi ero cacciato in un ginepraio pazzesco e ora non sapevo più come venirne fuori. 10
La pioggia cominciò a martellare più forte sul tetto della nostra auto, mentre percorrevamo le strade di Seattle diretti a sud-est, per raggiungere il Federal Court Building. Jasper scambiò sottovoce un paio di battute con il suo collega al volante, ma nessuno si degnò di parlare con me. Il nome di quello al volante era Lemming. Dopo quei tipacci russi, ci si mettevano adesso anche gli agenti federali. Chissà che altro mi aspettava. La pioggia cessò solo quando ci infilammo nel parcheggio sotterraneo, sul retro dell'edificio. Non ci preoccupammo di trovare un posto libero; Lemming fermò la macchina davanti all'ascensore, dove un agente di colore calvo ci stava aspettando, tenendo la porta aperta per noi. Aveva appuntato sul petto un tesserino di plastica dove c'era scritto: SCULLY, WILLIAM P. «È lui?» chiese, indicandomi. «Sì.» Entrò nell'ascensore e aprì le porte. «Portate su questo stronzo.» Mi scortarono al sesto piano, poi lungo un corridoio del palazzo, marciando a passo di carica, come se fossi un candidato presidenziale che aveva ricevuto delle minacce di morte. Varcammo una porta su cui era scritto UNITED STATES MARSHALS ed entrammo in una sala con cinque o sei scrivanie, dove c'era un capannello di altri agenti che stavano conversando attorno a uno dei tavoli. Scully prese del ghiaccio dal frigorifero vicino alla macchinetta del caffè, mi tolse le manette e mi disse di mettermi il ghiaccio sull'occhio. «Portatelo al fresco.» «Ho bisogno di cure mediche. Che ne dice di chiamare il pronto soccorso?» «Tenga il ghiaccio sopra l'occhio. Se la caverà.» Mi portarono in una stanzetta con un tavolo, quattro sedie e nessuna finestra. Lemming mi indicò una sedia e mi disse: «Si sieda.» «E l'avvocato?» «Si sieda.» Mi sedetti. Jasper prese posto davanti a me dall'altra parte del tavolo, ma Scully e Lemming rimasero in piedi. Scully sussurrò qualcosa a Lemming, che uscì. Jasper disse: «Per prima cosa, voglio che lei sappia che l'abbiamo trattenuta per interrogarla. Non è nostra intenzione incriminarla, per il momento, ma ci riserviamo la possibilità di farlo in seguito.» «Interrogarmi su che cosa?» «L'assassinio di un agente federale.» «Cosa?»
«Perché sta cercando Clark Hewitt?» domandò Scully. Lo guardai. Prima Markov e adesso questi. I miei occhi andarono dall'uno all'altro, mentre tardavo a raccapezzarmi. A loro volta i due agenti mi fissarono come farebbe un falco con un povero topolino prima di spiegare le ali e di piombare sulla sua preda. Dissi: «Scusatemi, non ho afferrato bene il nome.» Scully ammonì: «Senti, non fare lo stronzo. Noi domandiamo, tu rispondi.» «È così che si fa, Scully?» «Sì. È così che si fa.» Avevo un occhio tutto gonfio e arrossato. Ci misi sopra il ghiaccio. Jasper disse: «Per chi lavora?» «L'ho già detto a Markov. E le mie risposte non sono piaciute nemmeno a lui.» «Poverino.» Scully chiese: «Come ha conosciuto Markov?» «Non lo conoscevo. Due tizi mi hanno prelevato in mezzo alla strada e mi hanno portato da lui.» Scully scambiò un'occhiata con Jasper, che disse: «Alexei Dobcek e Dimitri Sautin.» Scully si volse di nuovo verso di me. «Perché?» «Perché volevano farmi le stesse domande che mi state facendo voi.» «Che cosa gli ha detto?» «Le stesse cose che sto dicendo a voi.» «Sarebbe più facile se decidesse di collaborare.» «Sarei pronto a farlo se vi deciderete a spiegarmi cosa succede.» Cominciavo a essere stufo e alzai involontariamente la voce. Mi faceva male tutto, la schiena, la faccia, l'orecchio e il ghiaccio sull'occhio si era ormai squagliato. Non ci capivo più niente e questo mi faceva sentire uno stupido. Ero andato fin lì a mie spese per trovare un padre che aveva abbandonato i suoi figli, ma adesso niente sembrava essere più come avrebbe dovuto essere e anche questo mi faceva sentire uno stupido. Misi quel che restava del ghiaccio sul tavolo e mi alzai in piedi. «Se volete incriminarmi per qualcosa, accomodatevi pure. Ma se volete trattenermi, voglio un avvocato.» «Si sieda.» Guardai Scully. «No, Scully, non attacca.» Jasper si sporse sopra il tavolo verso di me e abbaiò un ordine secco:
«Sieda su quella maledetta sedia!» «Dovrete farmi sedere per forza e sarà meno facile di quanto credete.» La mia voce era pacata. Ero orgoglioso del mio autocontrollo. Jasper fece per slanciarsi contro di me, ma Scully lo fermò. «Reed» lo richiamò. Jasper sbuffava come un toro infuriato. Sbuffavo anch'io, ma ero stanco di essere sballottato da tutte le parti e di essere tenuto all'oscuro. C'era sotto qualcosa e tutti sembravano esserne al corrente tranne me. Ne intravedevo solo dei frammenti e quel poco che riuscivo a vedere non mi andava a genio, ma mi sarebbe piaciuto ricomporre il quadro complessivo. Forse era tempo di cominciare a giocare duro. Forse potevo telefonare a Charles per farmi suggerire un modo per fare uscire definitivamente fuori dai gangheri i miei avversari. O forse sarei riuscito a mettere a segno due o tre buoni colpi prima che Jasper riuscisse a mettermi a sedere e prima che una mezza dozzina di agenti facesse irruzione dalla porta e mi impacchettasse. Forse ne valeva la pena. Scully mi stava fissando da un'ora, o almeno così mi parve, quando la porta si aprì e Lemming andò a dirgli qualcosa all'orecchio. Lui ascoltò senza parlare, poi annuì e la tensione sembrò allentarsi un poco. «Un attimo» disse. Batté una mano sulla spalla di Jasper e quindi uscirono tutti e due insieme a Lemming. Quanto a me, cominciavo a sentirmi più tranquillo. Probabilmente, nel giro di mezzo minuto mi avrebbero sbattuto in galera, ma ci si sente sempre meglio quando si riesce a tenere testa a chi vorrebbe metterti sotto i piedi. Tre minuti più tardi Scully e Jasper tornarono senza Lemming. Jasper aveva in mano una busta gialla e Scully aveva portato due bicchieri di plastica pieni di caffè e un sacchetto con dell'altro ghiaccio. Scully mi lanciò il ghiaccio, poi mi mise davanti un caffè posandolo sul tavolino. Bevve un sorso del suo. «L'abbiamo strapazzata un po' troppo, e questo è stato un errore.» Mi indicò la busta. «Abbiamo ricevuto informazioni via fax su di lei dai nostri colleghi di Los Angeles. Lei è un tipo a posto, a quanto pare, Cole. Perciò penso che sia il caso di fare un passo indietro e di ricominciare daccapo.» «Sono tutt'orecchi.» Mi misi il ghiaccio dove la Glock di Alexei aveva lasciato il segno. Scully disse: «Andrei Markov sta cercando Clark Hewitt per ammazzarlo. Noi invece lo cerchiamo per proteggerlo. Questa è la differenza tra noi
e Markov.» Lo guardai senza rispondere. L'investigatore di grande esperienza che fa il duro. O forse ero solo l'investigatore che faceva il risentito. «Mi lasci indovinare: Clark Hewitt ha fatto qualche lavoretto per Markov, in precedenza, ma poi ha fatto la spia alla polizia e adesso è un testimone sottoposto a programma di protezione.» Jasper sorrise, ma era un sorriso amaro. «Che altro sa?» «Non so niente, Jasper, ma è facile indovinare. Markov vuole Hewitt e anche voi. Non fate parte né della polizia vera e propria, né del fisco, né dell'FBI. Siete agenti della polizia giudiziaria federale e il compito principale della polizia giudiziaria federale è quello di proteggere i cosiddetti pentiti.» Spostai il fagottino pieno di ghiaccio dall'occhio verso l'orecchio, appoggiandomi allo schienale della sedia. «E dato che non sapete dove si trova Clark, mi pare evidente che ve lo siete lasciati scappare.» L'espressione di Reed Jasper si rabbuiò. «Non ce lo siamo fatti scappare, maledizione. Se n'è andato di sua volontà. Nessuno può essere obbligato a sottostare a un programma di protezione contro la propria volontà. Se uno vuole, può decidere di uscire in qualsiasi momento.» Scully chiese: «Le è sembrato che Markov avesse qualche idea su dove sia adesso Clark, o sulla sua eventuale nuova identità?» «No. Sperava che potessi dirglielo io.» «Com'è arrivato fino a lei?» «Aveva messo qualcuno a sorvegliare la tomba di Rachel Hewitt.» Scully fece un fischio sommesso. «Santo cielo, dopo tre anni non si è ancora rassegnato.» Scosse il capo. «Quando quel russo l'ha giurata a qualcuno, non lo molla più.» «Chi è Markov?» domandai. Jasper disse: «Markov è un pezzo grosso della mafia ucraina. È venuto qui qualche anno fa con suo fratello Vasily. Vasily era il boss. Si sono messi in affari, ingrandendosi rapidamente e una delle loro attività più lucrose era stampare dollari falsi che poi rispedivano in patria, in Ucraina, dove venivano spacciati sul mercato nero.» Feci un cenno di assenso. Clark lo stampatore. Clark l'artista. «Clark era un falsario.» Scully annuì. «Insomma, cos'è successo tra Clark e Markov?» «Vasily pensava che Clark avesse costituito in segreto un gruzzoletto sottraendo una parte del denaro contraffatto. Clark venne a sapere che Va-
sily voleva fargli la festa e allora chiese aiuto a noi.» «E in cambio della vostra protezione promise di testimoniare contro i suoi complici russi.» «Non aveva molta scelta. Quando i Markov si mettono in testa di eliminare qualcuno vanno fino in fondo.» «Ed era vero che Clark si teneva una parte dei dollari falsi?» Jasper si strinse nelle spalle. «È possibile. Sta di fatto che, a causa di Clark, Vasily dovrà farsi da dodici a vent'anni nel carcere speciale di Mercer Island e Andrei ha giurato che passerà il resto della sua vita a dare la caccia a Clark e ai suoi familiari. E sta tenendo fede al giuramento. Sono passati tre anni e c'erano ancora i suoi uomini a sorvegliare quella tomba. Logicamente, quando ha saputo che era andato lì, ha pensato di rintracciare Clark attraverso di lei.» Magnifico. «Se Clark ha accettato di sottoporsi al programma, com'è che l'avete perso di vista?» Jasper mi fissò per un attimo, poi si umettò le labbra e distolse lo sguardo. Scully fece una smorfia, come se gli si fosse seccata la bocca. «La notte che andammo a prelevare Clark le cose andarono storte. Era notte fonda, pioveva a dirotto, dovevamo trasferire lui e i suoi figli in una casa sicura, prima di trovargli una sistemazione definitiva altrove. Gli dicemmo che poteva stare tranquillo. Che non correva alcun rischio.» «E invece i rischi c'erano» dissi, fissandolo. Jasper serrò crucciato le palpebre e mi guardò a sua volta in faccia. «In qualche modo Markov e i suoi uomini erano al corrente delle nostre mosse. Avevamo già caricato ogni cosa sul furgone, mancavano solo cinque minuti alla partenza quando ci attaccarono di sorpresa.» Si interruppe, fissando un punto nel vuoto alle mie spalle, come se stesse rivivendo la scena di quella notte. «C'era un mio collega, insieme a me. Si chiamava Dan Peterson. Lo ammazzarono.» Scully disse: «Prendi un po' d'acqua, Reed.» Jasper scosse il capo. Dissi: «Ma non siete mai riusciti a incriminare Markov per la sparatoria di quella notte.» Jasper sospirò e mi fissò di nuovo. «Peterson mi ordinò di portare via dalla zona di pericolo Clark e i suoi figli e fu quello che feci. Lui rimase. Non potei vedere quel che accadde in seguito e ancora adesso non lo so di sicuro. Su nostra richiesta intervenne la polizia di stato. Trovarono Dan
dentro la casa. L'avevano colpito fuori, nel cortile posteriore, ma era riuscito a trascinarsi all'interno.» Scosse ancora una volta il capo. «Non siamo mai riusciti a dare un nome e un volto preciso all'assassino, ma il mandante era Markov, senza dubbio.» Fece un gesto sconsolato. «Tutto andò storto, quella notte. Non sarebbe mai dovuto succedere.» Scully soggiunse: «Gli trovammo una nuova sistemazione in un'altra città, ma Clark non si fidò più di noi, dopo di allora. Cambiò nome subito dopo il cambio di residenza e sparì insieme ai suoi bambini.» Si strinse di nuovo nelle spalle. «Era suo diritto farlo, ovviamente. Nessuno può essere obbligato a sottoporsi a un programma di protezione contro la propria volontà.» Jasper fece un gesto con la mano, come per spazzare via quei pensieri e si erse nella figura. Ogni poliziotto che si rispetti deve sapere sempre prendere le distanze dai propri sentimenti. «Ed ecco che si presenta lei a chiedere di Clark Hewitt.» Scully annuì. «Un tizio da Los Angeles.» Guardai Jasper, poi Scully e non potei fare a meno di pensare a Teri, Charles e Wìnona, in attesa che il loro papà tornasse a casa. Mi chiesi se erano totalmente all'oscuro di quella storia e mi dissi che dovevano pur sapere qualcosa. Il che spiegava perché non fossero entusiasti della mia idea di andare a Seattle. Dovevano avere davvero una grande paura di non rivedere più vivo il loro genitore, per correre il rischio che io mettessi il naso nei loro affari riservati. Mi chiesi cos'avevano provato, quella notte di tre anni prima, e che genere di vita doveva essere la loro, piena di segreti e di bugie. I segreti non restano mai tali a lungo, giusto? Per quanti sforzi si facciano. Nemmeno quando ne va di mezzo la vita. Guardai Scully dritto negli occhi e allargai le braccia con un gesto impotente. «Non so dove sia Clark, o dove siano i suoi bambini. Non so niente di lui.» L'espressione di Jasper dimostrava chiaramente che non mi credeva. E nemmeno Scully. «Senta, Cole, non siamo più tenuti ad assicurargli protezione, ma sentiamo, per così dire, di dovergli qualcosa. Non so se mi spiego.» Sfoggiando il mio sorriso più innocente, dissi: «Amico mio, questo è uno dei più grossi equivoci che si siano mai visti.» Gli raccontai esattamente la stessa storia che avevo raccontato a Andrei Markov. «Sono venuto qui per indagare su un giro di droga in cui è coinvolto anche questo tizio che si chiama Clark Hewitt. Stavo solo seguendo una pista collegata a que-
sto nome, ma non ho mai saputo che il Clark Hewitt che io sto cercando avesse qualcosa a che fare con questi falsari russi.» Sorrisi ancora di più, lasciando intendere che quel pasticcio mi sembrava solo frutto di un'assurda coincidenza. «Quello che mi dite è del tutto nuovo per me.» Scully annuì, ma era chiaro che non lo avevo affatto convinto. «Per chi lavora?» domandò. «Non posso dirglielo e lei lo sa. Come dice il mio biglietto da visita, garantisco ai miei clienti la massima riservatezza.» «Si tratta di una faccenda importante, Cole. Clark è in grave pericolo. E anche quei ragazzini.» Scossi il capo. Erano in grave pericolo anche tre anni prima. Scully disse: «Resto convinto che lei sappia qualcosa. Penso che Clark abbia lasciato qualche traccia della sua presenza a Los Angeles e se lo penso io, c'è da scommettere che lo pensa anche Markov.» «Sarei lieto di darvi una mano, se potessi» risposi, continuando a fare l'ingenuo. L'agente speciale Reed Jasper mi fissò severamente, annuì e si alzò in piedi. Non mi credeva nemmeno lui, era ovvio, ma non poteva farci niente. «Certo, come no.» «Posso andare?» Scully aprì la porta. «Si tolga dai piedi.» Erano le 23.22 quando uscii sotto una pioggia battente dalla corte di giustizia federale. La pioggia, come l'aria, era tiepida, ma stavolta mi parve qualcosa di opprimente, piuttosto che un benefico mezzo per ripulire l'aria. Probabilmente dipendeva dal mio stato d'animo. Il mondo era cambiato. Capita spesso, lo so, eppure ogni volta si viene presi alla sprovvista e a volte si resta addirittura sgomenti. Bisogna farci il callo. Ero venuto a Seattle per trovare un uomo di nome Clark Haines, ma ormai trovarlo non sembrava più così importante. Quel che importava erano quei poveri bambini, soli in casa e braccati da una banda di mafiosi russi che li volevano morti. 11 Il mattino seguente la mia guancia sinistra era livida e bluastra nel punto dove Alexei Dobcek mi aveva colpito. Ero rimasto alzato per buona parte della notte, cercando di tenermi il ghiaccio sulla guancia, ma il ghiaccio
era stato troppo poco e tardivo, così ero imbronciato e sfiduciato, anche se questo non dipendeva dal ghiaccio. Feci le valigie, riportai la macchina a nolo alla Sea-Tac e mi imbarcai sull'aereo. Una hostess bionda sulla trentina mi sorrise con aria comprensiva e mi chiese: «Sbaglio o abbiamo la luna per traverso?» Feci una smorfia. Si mise le mani sui fianchi e mi ammonì: «Fare le boccacce non serve.» Queste hostess sono davvero incredibili. Presi posto accanto a un ciccione con i capelli a spazzola e gli occhiali così spessi che i suoi occhi sembravano nuotare ingranditi come pesci dentro una boccia di vetro. Mi sorrise anche lui, ma non restituii il sorriso. Duro. Mi misi a braccia conserte, aggrottai la fronte e cominciai a pensare a Teri, Winona e Charles, mentre salivamo sopra il manto di nuvole che copre in permanenza il nordovest degli Stati Uniti, entrando in una zona di cielo terso e luminosissimo che si stendeva dal confine meridionale dello stato di Washington fino all'estremità della Baha Peninsula e al Mar di Cortez. Mi chiesi se non era il caso di sporgere in fuori il labbro inferiore, per sottolineare ancora meglio il mio stato d'animo. Ero volato a Seattle per risolvere un caso banale, per trovare un padre scomparso e invece avevo scoperto che Clark Haines era in realtà Clark Hewitt, che era un drogato, un criminale, già sottoposto a un programma di protezione federale per i cosiddetti collaboratori di giustizia e che era ricercato attivamente sia dalla mafia russa dalle agenzie investigative federali. Scoperte del genere non sono consolanti e lo era ancora meno il pensiero che se la mafia russa cercava Clark, probabilmente cercava anche i suoi figli. Per quel che ne sapevo, Clark Hewitt era morto e non sarebbe più tornato e comunque, se era ancora vivo, si sarebbe ben guardato dal farsi vedere ancora in giro. Mi dissi che forse era il caso di dare i bambini in affido a qualche famiglia, senza rivelare la loro vera identità, ma questa soluzione sembrava lasciarli per certi versi ancora più vulnerabili ed esposti. La cosa più logica restava sempre quella di portarli alla polizia, dichiarando il loro vero nome e lasciare che fossero Jasper e Scully a sbrogliarsela. Charles, Winona e Teri sarebbero finiti ugualmente affidati a dei genitori adottivi, solo che in questo modo un sacco di gente avrebbe saputo chi erano e dov'erano e più la cosa era risaputa, più grande era la possibilità che giungesse all'orecchio di Markov. Questo era un altro problema intricato e tutti questi problemi non face-
vano che peggiorare il mio stato d'animo. Forse era tempo di cambiare mestiere, di cercarmi un'occupazione di tutto riposo. Che so, andare a caccia di leoni, o recuperare il relitto del Titanic dal fondo dell'oceano. La hostess tornò da me: «Si sente meglio, adesso?» La guardai in faccia e sospirai. «Si vede così tanto?» «Vuole che le porti una bella tazza di tè?» «Sì, grazie. Volentieri.» Mi portò il tè, in un bicchiere di plastica, con un sorriso rassicurante. Due ore e cinquanta minuti più tardi scendemmo attraverso un cielo terso, alto come una cattedrale e poi più giù attraverso una leggera foschia arancione, in quella terra meravigliosa che è la California Meridionale. Non sapevo ancora bene quel che volevo fare, ma adesso accettavo più di buon grado l'idea di non saperlo. La hostess mi salutò mentre uscivo. «Mi sembra che lei stia molto meglio.» «Sono venuto a patti con la mia incertezza.» «A volte è la cosa migliore che si possa fare.» Immagino che si acquisisca un certo grado di saggezza quando si passa la vita volando a oltre diecimila metri d'altezza. Mi congedai da lei con un ossequioso baciamano, poi andai a riprendere la mia auto dal parcheggio per le soste prolungate e partii verso la città e la casa di Teresa Hewitt. Erano le tre passate quando arrivai e questo significava che anche Charles e Winona dovevano essere a casa. Avrei preferito parlare con Teri da solo, ma così va il mondo. "Dimmi, Winona cara, sai cos'è una famiglia adottiva?" Lasciai la macchina davanti al marciapiede dall'altra parte della strada, andai fino alla porta d'ingresso e suonai il campanello. Joe Pike doveva essere appostato nei pressi, anche se non vedevo né lui né la sua jeep e così gli rivolsi ugualmente un cenno di saluto. Pike è uno che non ama dare nell'occhio. La Saturn era al solito posto nel vialetto e mi aspettavo che Charles spalancasse la porta, facendo la stessa scenetta di sempre, ma stavolta non fu lui che venne ad aprire. Mi trovai invece davanti un uomo con pochi e incanutiti capelli in testa, più basso di me di cinque o sei centimetri, braccia magre e occhiali sul naso. «Non è facile trovarla, signor Hewitt» gli dissi. Clark Hewitt abbozzò un sorriso con aria confusa. «Mi dispiace, ma mi chiamo Haines. Quello è un nome che non uso più.» Lo disse come se il fattore segretezza non avesse più importanza per lui, o come se l'avesse di-
menticato. Era più rotondetto rispetto alla foto con sua moglie Rachel e i coniugi Brownell e aveva un aspetto complessivamente più trasandato. Portava una camicia di cotone un po' troppo ampia per la sua misura e dei pantaloni tipo grandi magazzini, con un paio di ciabatte scalcagnate ai piedi. Winona lo raggiunse alle spalle, gli abbracciò festosa le gambe e guardò in su verso di me. «Ciao, Elvis. Il nostro papà è tornato!» «Ciao, Winona. Lo vedo.» Fece ballare davanti ai miei occhi uno di quei piccoli e brutti pupazzi che piacciono tanto ai bambini. Un nanetto deforme dall'aria dispettosa con i capelli rossi. «Vedi cosa mi ha portato il mio papà?» Annuii. «È un portachiavi.» Clark Hewitt le rivolse un sorriso affettuoso, carezzandole la testa. «Perché lei ha la sempre la chiave che arriva dritto al mio cuore.» Winona fece un risolino compiaciuto, mentre io avrei voluto dare una botta in testa al suo paparino. Clark guardò di nuovo verso di me. «Lei dev'essere l'investigatore. La prego, si accomodi.» L'investigatore... Dentro la casa c'era un buon odore di caffè appena fatto e di biscottini di pasta frolla appena sfornati e infatti mentre noi entravamo Teresa uscì dalla cucina con un vassoio pieno di biscotti. Charles fece capolino anche lui dal corridoio che portava nelle camere da letto, sfuggente e sospettoso come sempre, con le mani sprofondate nelle tasche. Non sembrava contento e restò rintanato nel fondo della casa. Teri disse: «Le ho lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica. Papà è tornato a casa giusto stamattina.» «Sono appena tornato anch'io. Non ho avuto il tempo di ascoltare i messaggi arrivati in mia assenza.» Clark Hewitt si mise comodo sulla sua poltrona. Io rimasi in piedi. «È stato via?» «A Seattle. Probabilmente non ci siamo incontrati per un soffio.» «Ah, Seattle è una bellissima città, ma sono anni che non vado più da quelle parti.» Mi indicò i biscotti. «Teri li ha appena tolti dal forno, signor Cole. Vuole assaggiarli?» Teri disse: «Con uvetta e gocce di cioccolata.» Porse il piatto al padre, che si sporse ad annusare. «Ah, i miei preferiti!» Clark sorrise a Teri e Teri sorrise a lui. Winona sorrise beata a tutti quanti. Charles rimase a occhieggiare dal corridoio, ma lui era fatto così. Forse quella non era casa Hewitt, mi dissi. Forse il mio aereo non era atter-
rato a Los Angeles, ma era saltato chissà come in un'altra dimensione, in una realtà parallela e quella era una famiglia ideale, serena e felice come quelle che si vedono in certe serie televisive. Rimasi in piedi, senza prendere i biscotti. «Clark, io e lei dobbiamo parlare.» Scelse un biscotto bello grosso e lo addentò, comodamente sprofondato in poltrona. «Mmm...» «Clark.» Winona si appollaiò vicino a noi sul bracciolo del divano e Teresa sistemò il piatto con i biscotti sul tavolino davanti a suo padre. «Vieni fuori, Charles e mangia un biscotto insieme a papà.» Charles tossicchiò alla sua maniera, bofonchiando: «'Fanculo.» Teresa sbiancò di rabbia e lo riprese, con voce tagliente: «Charles!» Charles tossì di nuovo e se la svignò giù per il corridoio, sbattendo la porta dietro di sé. Anche se il paparino era di nuovo a casa, non tutti rientravano nel quadretto di perfetta serenità familiare. Clark continuò a masticare soddisfatto il biscotto come non avesse sentito. Forse lui viveva in un mondo e i figli in un altro, due mondi che si incontravano solo occasionalmente. «Mi dispiace che i bambini le abbiano dato tutto questo disturbo, signor Cole, ma è colpa mia se si sono preoccupati in questo modo. Mi è capitata un'importante occasione di lavoro e sono dovuto partire così in fretta che non ho potuto passare da casa per spiegare la situazione.» «Così in fretta da lasciare tre figli minorenni abbandonati a loro stessi.» Nessuno aveva menzionato il mio occhio nero. Nessuno aveva chiesto come me l'ero fatto. Guardò il piatto per scegliere un altro biscotto. «Be', ho cercato di telefonare, ma ho sempre chiamato all'ora sbagliata.» Teresa intervenne: «Ha telefonato durante il giorno, quand'ero fuori.» «A me avevi detto che non uscivi mai di casa.» Aggrottò le sopracciglia. «Be', per andare al mercato e per prendere i miei fratellini. Lo sa.» Clark si impadronì di un secondo biscotto. «Forse avrei dovuto provare più spesso, ma ero molto preso.» Winona disse: «Saremo ricchi. Ci compreremo una casa, un sacco di videogiochi e un televisore grandissimo.» Clark ridacchiò. «Be', non so se riusciremo proprio a comprarci una casa, ma sicuramente ce la passeremo bene. Puoi scommetterci.» Abbracciò
affettuosamente Winona e sorrise a Teri, ma lei non lo stava guardando. Stava guardando me. Clark disse: «La fortuna sta per girare in nostro favore. Era ora. Stamperò documenti per un gruppo di investitori internazionali, sulla base di un contratto a lungo termine. Un contratto significa reddito sicuro. Basta con i lavoretti stagionali. Basta doversi trasferire ogni pochi mesi.» Accarezzò Winona che si mise a ridere contenta. «Potremo pensare davvero a comprare una casa, sistemarci definitivamente da qualche parte e smetterla di fare gli zingari. Non male, vero, Teri?» Teri annuì senza guardarlo. «Sì. Sarà bello stare fissi in un posto.» Winona fece ballare il suo pupazzo. «Potrò avere una stanza tutta mia? Voglio una stanza tutta mia!» Clark rise. «Be', vedremo.» Guardai Teri e Teri guardò me. Le sue labbra erano una linea sottile e sbatté nervosamente le palpebre, mentre diceva anche lei: «Vedremo, vedremo.» Come se avessero detto quelle stesse cose infinite volte e sapesse dentro di sé che erano solo parole, che i soldi non sarebbero mai arrivati e che avrebbero continuato a peregrinare da un posto all'altro. Poi parve riportare sotto controllo il battito nervoso delle palpebre e mi fissò: «Vuole una tazza di caffè?» «Clark, potrebbe venire un attimo fuori con me, per favore?» chiesi io. Lui rispose in modo incongruo: «È dura mandare avanti una famiglia da soli, ma i miei ragazzi mi danno davvero un grande aiuto. La loro mamma sarebbe fiera di loro.» Chissà, forse non mi aveva sentito. Forse aveva la testa così piena di meravigliosi piani per il futuro, o dei grossi affari che diceva di avere in vista, da non aver fatto caso alle mie parole. O forse era sotto l'effetto di qualche droga. Mi sporsi, pronunciando un nome vicino al suo orecchio: «Markov.» Gli occhi di Clark parvero mettere a fuoco la realtà per la prima volta. Si alzò in piedi. «Bene, ragazzi, sono sicuro che il signor Cole è molto occupato, perciò adesso lo accompagno alla sua auto. Forza, salutatelo.» Teri e Winona mi salutarono e Clark mi seguì fuori sul vialetto. La temperatura si era alzata, nel frattempo, il sole brillava caldo e l'erba nel giardino antistante era tutta ingiallita e disseccata. Una massiccia donna ispanica passò davanti alla casa diretta verso Melrose Boulevard. Portava un sacchetto per la spesa in una mano e usava l'altra per ripararsi gli occhi dal sole. Non ci degnò della minima attenzione. Dissi: «Clark, so chi era e cosa faceva. Sono stato a Seattle. Ho parlato con Wilson Brownell e con un agente della polizia giudiziaria federale di
nome Reed Jasper. Ho parlato anche con Andrei Markov. Non ho detto a Jasper dove lei abita e il suo nome attuale, anche se penso che farebbe bene a mettersi in contatto con lui.» Clark Hewitt cominciò a scuotere la testa prima ancora che finissi di parlare. «Non posso farlo. Non voglio avere niente a che fare con quella gente.» «I Markov sospettano che ci sia qualche collegamento tra noi due, sanno che io sono di Los Angeles e questo significa che potrebbero venire a dare un'occhiata da queste parti. Non sto dicendo che sono già fuori della porta, ma i rischi non mancano. L'aiuto di Jasper potrebbe esserle utile.» Clark alzò un mano come se gli stessi parlando di un posto formidabile per comprare pneumatici scontati e lui volesse ribattere che conosceva un posto anche migliore, un posto segreto che conosceva solo lui. «Grazie, ma non ho bisogno di niente. Molto presto ce ne andremo da qui.» «Prima se ne andrà e meglio sarà, Clark. Se non ha i soldi per il trasloco, chiami Jasper. Sarà felice di aiutarla. E anch'io.» Lui scosse la testa. «Non è mica sotto effetto di qualcosa, eh?» lo incalzai. Mi guardò smarrito, sbattendo le palpebre e facendo un vigoroso cenno di diniego. «Oh, no. Io non faccio certe cose.» Mi uscì dal petto un lungo sospiro. Avrei voluto gridargli di piantarla di raccontare frottole, ma Winona e Teri ci stavano osservando dalla porta d'ingresso. «So perché ha perso il lavoro alla Enright Printing. Ho parlato con Trevor Michaels.» Non rispose. Era pallido, con segni scuri sotto gli occhi e appariva stanco. Il suo sguardo era triste e mi parve sul punto di scoppiare a piangere. «Lo racconterà in giro?» «Certo che no.» Come se fossimo dei ragazzini. Lui sbatté di nuovo le palpebre, con i lucciconi agli occhi. «Non dica niente, la prego.» Mi stava scoppiando un gran mal di testa e l'indolenzimento, specie dove avevo preso la botta, ora si estendeva fino al collo. «I suoi figli sono all'oscuro della cosa?» Si strinse nelle spalle. «Sanno chi era e perché era costretto a cambiare continuamente casa?» Un'altra scrollata di spalle. «Qualcosa devono sapere, Clark. È successo solo tre anni fa. Lei gli ha anche cambiato nome, in seguito a quell'episodio.»
Guardò in terra. Non c'era modo di fargli ammettere niente. Charles apparve alla finestra, tirò fuori la lingua e ci fece un gestaccio alzando il dito medio di entrambe le mani. Ebbi l'impressione che ce l'avesse più con suo padre che con me. «Ho degli amici negli uffici della contea e in un paio di posti privati che potrebbero aiutarla. Lei ha i suoi figli a cui pensare.» Clark guardò Teri e Winona. Rivolse loro un sorriso rassicurante, come se stessimo parlando del tempo. «Possiamo cavarcela da soli. Tutto andrà a posto molto presto. Non li lascerò più.» Presi un biglietto da visita e ci scrissi sopra un numero. «Voglio che lei chiami questo numero e che parli con una donna che si chiama Carol Hillegas. Se non vuole sottoporsi a un programma di disintossicazione dovrò rivolgermi al servizio di assistenza sociale perché si occupi dei suoi figli. Dico sul serio. Sono stato abbastanza chiaro?» Clark prese il biglietto da visita, ma non lo guardò nemmeno. «Capisco. Non li lascerò mai più da soli.» «Clark.» «Tutto andrà a posto. Chiamerò questa persona e le prometto che non accadrà più.» Si cacciò una mano in tasca e ne cavò un enorme fascio di dollari. «Voglio scusarmi per i fastidi che le ho causato e ringraziarla di nuovo per essersi preso cura dei miei figli. Penso che abbia diritto a una testimonianza della mia gratitudine.» Lo guardai severamente. Armeggiò goffamente con le banconote, sfilando un pacchetto di biglietti da cento anche più grosso di quello che avevo visto in mano a Teri. «È il meno che possa fare.» In quel momento Teri vide Charles sporgersi dalla finestra e fare gestacci e lo riprese. Lui agitò le dita in segno di dileggio in modo ancora più sfacciato e cominciò a urlare. Teri sparì dalla porta, riapparve nel vano della finestra e agguantò il fratellino per un braccio. Lui si divincolò con uno spintone e fuggì e lei gli corse dietro. Anche lei stava gridando, adesso. Winona era invece rimasta sorridente e ignara sulla porta, da dove ci faceva ciao con la manina. La luce inondava il suo piccolo viso. Dissi: «Mi basta che chiami quel dannato numero.» Clark Hewitt stava ancora trafficando con il suo fascio di banconote quando attraversai la strada, salii in macchina e ripartii. 12
Quattordici minuti dopo aver lasciato gli Hewitt, mi inoltrai fra i boschi lungo la Woodrow Wilson Drive, poi imboccai la stradina che portava a casa mia e scorsi parcheggiata lì davanti il fuoristrada di Joe Pike. Pike stava appoggiato con la schiena al portello posteriore, immobile come un albero, come la casa stessa, o la montagna. Misi la mia Corvette in garage e gli andai incontro, dirigendomi verso la porta della cucina. Pike disse: «Che bell'occhio che hai.» Niente "ciao", "ehi", o "come stai?". «Te l'ha fatto Clark?» Si può sempre contare sugli amici, vedete? «Da quanto tempo sei qui?» «Ho lasciato la mia posizione quando tu e Haines siete usciti dalla casa.» Visto? Aveva seguito tutta la scena. Non gli sfugge mai niente. Lo feci entrare, posai la mia sacca di viaggio sul ripiano della credenza, tirai fuori dal frigo due lattine di birra, gliene diedi una e bevvi una lunga sorsata dalla mia. Aprii il rubinetto della cucina e mi sciacquai la faccia. Finii di scolare la mia birra e feci un profondo sospiro. Avevo chiuso le tende, quand'ero partito e la casa era in penombra, con l'aria ferma che sapeva di chiuso. La penombra e la quiete erano proprio quel che mi ci voleva. Con l'oscurità era più facile dimenticare l'esistenza di tre ragazzini braccati dalla mafia russa, insieme al loro padre drogato. Forse era per questo che Pike non si toglieva mai i suoi occhiali scuri. Filtrare preventivamente la visione della realtà aiuta a vivere più tranquilli. Pike disse: «Che cosa ti rode?» «Il nome di quell'uomo non è Haines, ma Hewitt e non è un qualsiasi drogato come se ne vedono tanti. È un cosiddetto pentito, braccato dalla mafia russa e sembra non rendersi conto del pericolo che corre e che fa correre ai suoi figli.» Pike annuì. «Che c'è di strano?» Non si sa mai se Pike faccia sul serio oppure no. Spalancai le finestre, poi guardai in giro per vedere se qualcuno si era di nuovo introdotto in casa durante la mia assenza. Mentre guardavo, gli raccontai di Wilson Brownell, di Reed Jasper e di quello che Jasper mi aveva detto riguardo a Clark. Descrissi quello che era successo con i fratelli Markov e come avevo rimediato il mio occhio nero. Quando gli dissi dei Markov, Pike mosse di una frazione di micron la testa, girandola nella mia direzione. «Quel tizio era davvero uno Spetsnaz?» «Questo è ciò che ha detto.»
«La gente dice tante cose.» L'argomento aveva chiaramente destato in lui un certo interesse. «È il nuovo ordine mondiale, Joe. Pari opportunità anche nel campo del crimine.» Pike andò alle porte scorrevoli che davano sulla terrazza e guardò fuori. Spalancò i vetri, lasciando entrare l'aria rarefatta della montagna. «Una bella rogna» sentenziò. «Puoi dirlo forte.» «Anche se hai negato di conoscerlo, i russi sanno che attraverso di te possono arrivare a Clark. Ce li troveremo presto tra i piedi.» «E quello che ho detto a Clark. Gli ho detto di lasciare la città o di rivolgersi agli agenti federali. Sono ancora pronti ad aiutarlo.» «Lo farà?» «Non lo so. Gli ho detto di chiamare Carol Hillegas. Non potrà essere di nessun aiuto per i suoi figli finché non tornerà pulito, ma chi può dire cosa farà?» Uscimmo sulla terrazza e ci affacciamo dalla ringhiera guardando giù nel canyon sottostante. «Parlare a Clark è come parlare al televisore. Non si rende conto delle conseguenze che possono avere i suoi atti.» Pike incrociò le braccia sul petto. «Per giunta, mi ha detto che non aveva più bisogno di noi.» Gli angoli della bocca di Pike si piegarono in un abbozzo di sorriso. Il mio socio non sorride mai; accennare un vago sorriso è il massimo di cui è capace. «Licenziati?» «Be', sì.» Un altro vago sorriso. «Quanto abbiamo incassato?» «Duecento, meno il costo del biglietto aereo e l'albergo. Direi che siamo sotto di circa trecento dollari.» Pike finì la sua birra. «Ma abbiamo accumulato punteggio per gli sconti destinati ai clienti più assidui delle linee aeree» aggiunsi. «Chi ti ha perquisito la casa, secondo te? I federali o i russi?» Ci pensai, poi scossi il capo. «Se i russi tenevano già sotto controllo Clark, non si sarebbero dati il disturbo di sequestrarmi a Seattle e i federali avrebbero semplicemente bussato alla porta. Per giunta, credo di essere stato pedinato da un tipo su una LeBaron grigia e sono quasi sicuro che ha cominciato a seguirmi prima ancora che quei ragazzi si presentassero nel mio ufficio.» Gli descrissi l'uomo di colore che avevo visto alla guida della LeBaron.
«Quindi potresti essere ancora nel mirino di qualcuno.» «Può darsi.» Un pensiero incoraggiante, senza dubbio. «Vuoi cenare con me?» «No.» Pike seguì per qualche istante con gli occhi un'auto che correva lungo la strada in fondo al canyon. Poi se ne andò, senza dire più nulla. Nemmeno un saluto. Se ne andò e basta. Finii la mia birra, accartocciai la lattina e la gettai nell'apposito sacchetto. Riciclaggio. Disfeci il mio bagaglio, misi in funzione la lavatrice e mi aggirai per la casa. Mi sentivo vuoto e inappagato, come se ci fosse ancora tanto da fare ma non sapessi ancora da dove cominciare. Forse ero semplicemente stufo. Clark era tornato a casa, i bambini non erano più soli e lui avrebbe fatto il cavolo che voleva. Un altro trasloco, oppure sarebbe rimasto dov'era; avrebbe chiamato Carol Hillegas, oppure no; avrebbe chiesto aiuto a Jasper, oppure no. E non c'era un accidente che io potessi fare, se non andare da lui, piazzargli la canna della pistola vicino alla tempia e fargli un'offerta che non poteva rifiutare. Questa è la vita in una società libera. Aprii un'altra lattina di birra, poi chiamai Lucy Chenier nel suo ufficio. «Qui è l'uomo più eccezionale che ci sia al mondo, che vorrebbe parlare con la signora Chenier.» L'assistente di Lucy, Darlene, rise. «Vedo che dopo la qualifica del più grande detective del mondo è salito ancora di grado.» «L'uno comprende l'altro, ovviamente.» «Solo quando parliamo di lei, signor Cole.» Non si può fare a meno di amare una come Darlene. «Mi dispiace, ma la signora Chenier non c'è, in questo momento.» Mancava poco alle sei, giù a Baton Rouge. Di norma Lucy si tratteneva in ufficio fino alle sei, tranne quando suo figlio Ben era impegnato in una partita di calcio. «Dice che la trovo, se la chiamo a casa?» «Tentar non nuoce, immagino.» Conclusi la mia scherzosa conversazione con Darlene, quindi provai a chiamare Lucy a casa. Rispose al primo squillo esclamando: «Ciao, David!» «David?» «Oh, sei tu.» «Forse è meglio riagganciare e ricominciare questa conversazione daccapo.»
Lucy rise. «David è David Shapiro, vale a dire il più esperto avvocato che ci sia a New Orleans nel settore dell'informazione, ed è anche la persona che cura i miei interessi nei riguardi della KROK.» «Vuoi dire che ti hanno fatto già un'offerta?» «La trattativa è ufficialmente in corso, sì.» Un sorriso esultante affiorò sulle mie labbra, a quell'annuncio. «Lucilie, è fantastico!» «Per ora abbiamo solo una loro offerta esplorativa; dobbiamo controbattere, ma non siamo tanto lontani, Elvis. Credo davvero che sia possibile trovare una base d'intesa, che la cosa sia fattibile.» Il tono della sua voce era vibrante d'energia e d'eccitazione. «David pensa che potrebbe andare in porto per la fine della prossima settimana. Dopo si tratta solo di aspettare che Ben finisca l'anno scolastico, per organizzare il trasloco.» Mancavano meno di sei settimane al termine della scuola di Ben. «Per la KROK non è un problema aspettare?» «Per niente. Mi hanno anche proposto un agente immobiliare di loro fiducia per trovare una nuova casa.» Parlammo a lungo, gradatamente la tensione di prima si allentò e la mia casa mi parve di nuovo tale, un ambiente caldo e protettivo, non più un luogo che era stato invaso e dissacrato da qualche sconosciuto. Sentii sbattere lo sportellino nel pannello inferiore della porta e il gatto entrò, venendo a strusciarsi e a ronfare contro la mia gamba. Forse avvertiva anche lui il cambiamento che era intervenuto. Lucy mi chiese dei piccoli Hewitt e mi ascoltò attenta mentre le raccontavo del mio viaggio a Seattle e dei fatti spiacevoli che avevo appreso riguardo al loro padre. Alla fine mi chiese: «Ti sei preso la briga di andare su fino a Seattle per cercarlo?» «La mamma degli scemi è sempre incinta, Lucilie.» Sospirò e mi parve di vederla sorridere. Me la immaginai sprofondata sulla comoda poltrona del suo soggiorno. Immaginai Ben accanto a lei, circondato da fumetti dell'Incredibile Hulk, che guardava alla televisione un telefilm della serie Babylon 5. Mi parve di sentire aleggiare il profumino di alloro e di olio di sassofrasso della zuppa marinara di gombo che sobolliva in cucina per la cena, nella tranquilla e confortevole casa di Lucy, giù in Louisiana. Esattamente il tipo di casa che Teri, Charles e Winona non avevano. O forse avevo bevuto troppa birra e quelli erano solo pii desideri. Lucy disse: «Tu non sei scemo, tontolone mio. Sei l'uomo che amo.»
«Grazie, Lucy.» Parlammo per un'ora buona, condividendo la nostra eccitazione e i nostri amorosi progetti. Prima di riagganciare, Lucy promise di chiamarmi a intervalli regolari per aggiornarmi sulle trattative con la KROK, io mi impegnai a inviarle la sezione degli annunci economici del "Los Angeles Times" relativa alle compravendite e locazioni di immobili e infine ci scambiammo una lunga serie di baci affettuosi. A volte sono così sentimentale e sdolcinato da esserne imbarazzato io stesso. Uscii sul terrazzo con quel che restava della mia birra e rimasi ad ascoltare la brezza che faceva stormire le foglie e il fruscio lontano delle auto lungo la strada in fondo al canyon, i due unici rumori che turbavano il silenzio della mia casa. Il gatto mi raggiunse e si accucciò accanto a me. «Lucy sarà qui presto» gli dissi. «Ti abituerai alla sua presenza.» Mi strofinò la testa contro una gamba. Non era stata una giornata così brutta, dopotutto. 13 Mi svegliai il mattino dopo dicendomi che forse era il caso di prendermi una giornata di riposo, per distendere un po' i nervi. Dopotutto, ero ufficialmente disoccupato e dopo la batosta che avevo preso da quei russi su a Seattle una sosta non fa mai male. Teri, Charles e Winona non erano più affidati alla mia responsabilità, avevo provveduto a mettere sull'avviso Clark e quindi non restava altro da fare. Ritratto di un investigatore privato a spasso, con un sacco di tempo libero a disposizione. Essere disoccupati può anche presentare dei vantaggi. Diedi da mangiare al gatto, poi cominciai i miei soliti quaranta minuti di esercizi di tae kwon do, l'arte marziale tailandese simile al karate, sotto il caldo sole del mattino, mentre cercavo di decidere il da farsi. Potevo andare con Joe Pike a correre lungo la Pacific Coast Highway, o fare un giro in macchina fino all'Antelope Valley per prendere un po' di pesche direttamente dai contadini della zona, o ancora poltrire tutto il giorno in terrazza, mangiando panini con carne di cervo e leggendo l'ultimo romanzo di Dean Koontz. Erano tutti ottimi modi di passare la giornata, ma quando furono le nove, dopo che mi fui sbarbato e fatto la doccia, scesi giù dalla mia montagna verso la biblioteca pubblica di Beverly Hills, per vedere se potevo sapere qualcosa di più sul conto dei fratelli Markov e sui veri motivi per cui avevano giurato di fare la festa a Clark.
Stare con le mani in mano a volte è meno facile di quanto sembri. La Beverly Hills Library è una delle biblioteche più belle della città. È pulita e ordinata, in uno stile spagnolo che la rende ancora più gradevole, giusto nel cuore di Beverly Hills, tra il Beverly Hills Police Department e il Beverly Hills City Hall. Una donna dalla figura slanciata e dai capelli tagliati corti mi mostrò come usare il loro servizio di ricerca on-line e mi aiutò a collegarmi con gli archivi elettronici del "Seattle Times". Scaricai tutti gli articoli sui fratelli Markov che riuscii a trovare, quelli sul processo e la successiva sentenza a carico di Vasily e quando ebbe finito di stampare il tutto mi ritrovai con un malloppo di ben ottantasei pagine. Cos'è un giorno in spiaggia, quando si può passare il tempo molto più piacevolmente informandosi sulle malefatte della mafia russa? La biblioteca era affollata, quella mattina, non c'era nemmeno un tavolo libero, così presi posto a uno dove c'erano già due ragazze che sembravano matricole dell'UCLA. Accennai un sorriso di saluto, quando mi sedetti e loro ricambiarono con un altro sorriso. Una delle due era alta e bionda, con le unghie smaltate di blu e i capelli corti e spessi. L'altra era una brunetta piccolina che a giudicare dall'aspetto sembrava d'origine iraniana. Aveva le unghie smaltate di nero. La bionda mormorò qualcosa all'orecchio dell'amica e tutt'e due ridacchiarono. Dissi: «Niente risatine.» La bionda mi guardò corrucciata. «Nessuno le ha rivolto la parola.» «Questo è vero, lo riconosco.» Il primo titolo diceva: CAPOBANDA INCRIMINATO PER 39 CAPI D'ACCUSA. La vicenda era in pratica quella che aveva raccontato Reed Jasper: Vasily Markov dirigeva un'organizzazione di emigrati russi sospettata da tempo di essere implicata in traffico di soldi falsi, estorsioni, rapine, omicidi, ma che era stata smascherata solo grazie a un "pentito" che lavorava nel settore della contraffazione. Il "pentito" era Clark Hewitt. La ragazza bionda e la sua amica ridacchiarono di nuovo, ma quando le guardai finsero di studiare. Negli articoli del quotidiano Hewitt era descritto come un professionista della stampa in offset che era stato costretto dai Markov a produrre dollari contraffatti da esportare nell'ex Unione Sovietica. Nessun accenno alla famiglia di Clark, né al fatto che i Markov sospettavano che Clark avesse intascato una parte dei soldi e che avevano deciso per questo di fargli la festa. Salvo qualche dettaglio minore, non c'era niente di nuovo o di rivelatore nelle prime settantaquattro pagine delle ottantasei complessive e ormai cominciavo a chiedermi se non avrei fatto meglio a leggere invece il ro-
manzo di Koontz. Altri mormorii, altre risatine. Alzai di scatto lo sguardo. «Prese in castagna.» La bionda spalancò i suoi occhioni con aria innocente. «E allora, adesso cosa vorrebbe farci?» Arrossii e continuai a spulciare le mie carte. Stuzzicare le ragazze può essere una faccenda pericolosa. Specie quando la tua donna sta per venire ad abitare nella tua stessa città. La bionda si sporse verso di me, guardando incuriosita la documentazione che stavo consultando. «Perché ti interessi tanto a dei criminali?» «Devo scrivere la mia tesina di fine trimestre.» «Non stai scrivendo nessuna tesina.» «Hai ragione. Lavoro negli archivi della polizia e sto per arrestarvi per stuzzicamento illegale.» «Sei tu che hai cominciato» disse l'amica. Tre pagine più tardi trovai un pezzo che non parlava di Markov, anche se il titolo diceva CASO MARKOV: SOLO L'ULTIMO DI UNA LUNGA SERIE. Era un articolo di spalla sul giro dei soldi falsi negli stati del Pacifico Nordoccidentale, ma il protagonista principale non era Clark Hewitt. Sobbalzai istintivamente sulla sedia e lessi il nome due volte, la seconda addirittura a voce alta: «Wilson Brownell.» «Che hai detto?» fece la bionda, alzando gli occhi verso di me. Alzai una mano, per far intendere che non ce l'avevo con lei e mi rimisi a leggere. L'articolo dipingeva Brownell come "il maestro dei falsari di Seattle" e come una figura chiave del giro durante gli anni Sessanta fino all'inizio degli anni Settanta. Si diceva anche che aveva messo a punto un processo di invecchiamento della carta con il caffè e che grazie a questo stratagemma il denaro da lui contraffatto era quasi indistinguibile da quello vero. Si stimava che Brownell fosse riuscito a spacciare quasi dieci milioni di dollari falsi prima di essere pizzicato, in seguito a un maldestro tentativo di procurarsi la stessa carta usata dalla zecca di Stato da un fornitore di carta filigranata europeo che era in realtà un agente del servizio antifalsari del ministero del Tesoro. L'articolo terminava dicendo che Brownell era stato condannato a vent'anni di galera, che era stato rimesso in libertà provvisoria dopo averne scontati solo otto e che attualmente si riteneva che vivesse a Seattle, anche se non era stato possibile rintracciarlo. Mi raddrizzai appoggiandomi allo schienale dalla sedia, incrociai le
braccia sul petto e rimasi a fissare le carte che avevo davanti. La bionda mi guardò perplessa: «Tutto bene?» Scossi il capo, tornai al computer e cercai negli archivi elettronici se esisteva altro materiale che riguardava Brownell, ma non trovai niente. Era una vicenda troppo vecchia. Ringraziai la bibliotecaria per il suo aiuto, salutai le due stuzzicanti matricole dell'UCLA, poi tornai in macchina in ufficio e telefonai alla sezione di North Hollywood della polizia metropolitana. La voce di una donna mi rispose al terzo squillo. «Polizia di North Hollywood.» «Lou Poitras, per favore.» «Chi lo desidera?» «Il più grande investigatore del mondo.» Rise: «Mi dispiace, amico. I più grandi siamo noi.» Da un po' di tempo in qua, questi poliziotti si sono montati davvero la testa. «Allora gli dica che sono il capo dell'FBI.» Rise di nuovo e mi disse di restare in linea. Rimasi in attesa per una quarantina di secondi, poi sentii la voce di Lou Poitras. «Sei tu, Cole, ci scommetto. Nessun altro avrebbe il fegato di spararle così grosse.» «Ciao, Lou. Ho bisogno di notizie sul conto di un certo Wilson Brownell. Hai tempo di fare una piccola ricerca per mio conto?» «No.» Mi chiuse il telefono in faccia. Non ho mai incontrato un poliziotto a cui non piacesse darsi arie da duro. Mi attaccai di nuovo al telefono e mi rispose da capo la donna di prima. «Stavolta lo avverta che non tollero altri affronti.» «Sicuro che non vuole parlare con me?» fece lei. «Forse posso esserle più utile io.» «Preferirei di certo parlare con lei, ma Poitras mi deve dei soldi e non può farla franca così facilmente.» «Un attimo.» Poitras venne all'apparecchio dieci secondi più tardi. Aveva un tono stanco: «Mannaggia, immagino che dovrò darti retta, se non voglio avere il telefono occupato per il resto della giornata. Beverly si è innamorata di te.» Udii in sottofondo Beverly che insorgeva: «Santo cielo, sergente, non doveva dirglielo!» «Come si chiama quel tizio?» fece Poitras. Glielo dissi. Lou Poitras è un sergente-ispettore della North Hollywood
Division, sposato, con tre bambini, il più piccolo dei quali è mio figlioccio. Da quando lo conosco, si allena regolarmente sollevando pesi sei giorni la settimana, ed è una montagna di muscoli grande e grossa quanto una Lincoln Continental. E sono sicuro che, se si impegnasse, solleverebbe anche quella. Poitras disse: «Sai, non credo che i contribuenti sarebbero contenti di sapere che devono pagare anche per finanziare le tue ricerche.» «Almeno io posso presentare in cambio qualche risultato.» Poitras non rispose. «Scusami, Lou. Stavo solo scherzando.» A volte i poliziotti sono suscettibili. «Brownell ha passato un po' di tempo al fresco, ma adesso è fuori. Ho bisogno di sapere se sta rigando dritto o se i federali sospettano che sia ancora implicato in qualcosa.» «Tu pensi che lo sia?» «Se lo sapessi non avrei bisogno di scocciare gli amici per scucire qualche informazione a sbafo, no?» «A sbafo? Aspetta che ti presenti il conto.» Impagabile, il mio amico Lou. Disse: «Ti richiamo tra un po'.» E mise giù. Mi allungai sulla mia poltroncina con i piedi sulla scrivania e mi misi a pensare a Wilson Brownell e a Clark Hewitt e a cosa poteva avere spinto Clark a rischiare di tornare a Seattle, dov'era attivamente ricercato dalla mafia russa e dalla polizia giudiziaria federale. Brownell e Clark non erano legati solo dall'amicizia, evidentemente. Era logico immaginare che fosse stato Brownell a insegnare il mestiere di falsario a Clark e che fosse proprio per questo che Clark era entrato in contatto con i Markov. Se Clark aveva sfidato la sorte tornando a Seattle per vedere Brownell, doveva essere perché Brownell conosceva o aveva qualcosa di cui lui aveva bisogno e ciò portava a supporre che le sue speranze fossero legate al progetto di rimettersi a fare il falsario. Sarà anche stato un pasticcione, ma non avrebbe mai rischiato di finire in bocca ai russi solo per andare a salutare un vecchio amico. Forse Brownell voleva rientrare nel giro insieme a lui. Presi due dei biglietti da cento dollari che Teresa mi aveva dato e li esaminai attentamente. Erano vecchie banconote, logore per l'uso, perfettamente regolari, in apparenza. Le strofinai sotto le dita, per vedere se l'inchiostro si stingeva e le guardai in trasparenza davanti alla luce, per controllare la carta. Non notai niente di sospetto, ma non ero un esperto. Le misi via e mi allungai di nuovo sulla poltroncina. In quel momento,
due uomini entrarono inaspettatamente nel mio ufficio. Uno era un nero, alto, vestito correttamente di blu, con il cranio lucido, rasato a zero e una smorfia poco rassicurante sul viso. L'altro avrebbe potuto posare per un servizio fotografico sul prototipo ideale di top manager. Doveva essere vicino alla quarantina, aveva un fisico aitante, una folta capigliatura castana pettinata con cura e indossava un completo di stile classico della Brooks Brothers. Sorrisi quando vidi l'uomo di colore, perché era lo stesso che avevo notato a bordo della LeBaron grigia davanti alla casa di Teri Hewitt. Sorrisi ancora di più quando vidi che aveva la mano sinistra fasciata e continuai a sorridere quando estrassi da sotto la giacca la mia rivoltella Dan Wesson e la puntai contro i due intrusi. Il bianco disse: «Quella può metterla via.» Aveva un lieve accento del Sud e non pareva preoccuparsi molto della pistola. «Dipende da voi. E da quanto tempo ci metterà la polizia ad arrivare.» Il nero chiuse la porta e ci si appoggiò contro. Ne dedussi che voleva impedirmi di scappare. Il bianco girò intorno lo sguardo nell'ufficio. Esaminò i miei pupazzetti, l'orologio a forma di Pinocchio e la foto in cornice di Lucy Chenier. Soprattutto la foto di Lucy. Dissi: «Niente di quello che vede è in vendita. Vi dispiace spiegarmi perché siete entrati in questo modo a casa mia, o devo cominciare a sparare?» Il bianco distolse gli occhi dalla foto di Lucy e mi squadrò da capo a piedi. Dissi ancora: «Amico, ho avuto un paio di giornatacce, ultimamente e sono alquanto nervoso.» Sorrise, come se rendermi nervoso fosse proprio quello che voleva. «Lui è il mio assistente, il signor Epps. E io sono Richard Chenier. L'ex marito di Lucy.» Guardai alternativamente l'uno e l'altro, senza dissimulare la mia sorpresa. Altro che mafiosi russi. Altro che agenti federali. Richard Chenier disse: «La pistola?» Allora mi ricordai che avevo ancora l'arma spianata e la misi via. «Prima o poi dovevamo conoscerci e così ho deciso di prendere l'iniziativa e di presentarmi direttamente.» Non mi tese la mano e me ne astenni anch'io. «Non mi sembra il modo più amichevole di presentarsi.» Richard annuì. «Può darsi.» No, decisamente l'intento di quella visita non sembrava amichevole.
«Mi dica una cosa, Richard. Il suo assistente, il signor Epps, ha per caso l'abitudine di seguire tutti gli uomini che Lucy ha la ventura di conoscere?» «No. Solo l'uomo che vorrebbe indurla a trasferirsi a duemila miglia di distanza. Portando con sé anche mio figlio.» «Richard...» cominciai a dire. Alzò una mano e si accomodò su una delle poltrone di fronte alla mia scrivania. «Mio figlio la trova simpatico e così volevo vedere che tipo di persona era. Potrà capirmi, immagino.» «Posso capire che voglia conoscermi. Ma ingaggiare qualcuno per perquisire la mia casa è un po' troppo.» Richard fece un gesto difensivo, mostrando il palmo delle mani aperte. «Oh, non ho ingaggiato il signor Epps per lei. Lavora per la mia compagnia. Ci occupiamo di petrolio a livello internazionale.» «Uhm.» Forse sperava di impressionarmi. «È molto bravo, nel suo campo e mi ha detto che lei è un tipo a posto. Affidabile. Stimato dal punto di vista professionale. Tutto questo.» «Sono felice di aver superato l'esame.» «Mi ha detto anche che lei è un uomo di modesta levatura. Un giocatore di secondo piano in un gioco insignificante, si potrebbe dire, molto al di sotto di ciò che vorrei per mia moglie e per mio figlio. Comprende il mio punto di vista?» Rimasi a fissarlo per qualche istante, poi lanciai un'occhiata all'orologio in forma di Pinocchio. Mi alzai, sospirando: «Okay, Richard. Abbiamo fatto conoscenza. Molto piacere. Adesso mi spiace, ma non posso dedicarle altro tempo.» Non si mosse. Nemmeno Epps. «Tuttavia, non dubito che lei sia una persona ragionevole, perciò ho deciso di venire qui e di spiegarle chiaramente come stanno le cose, in modo che lei possa capire.» «Gliel'ho chiesto gentilmente, Richard, ma, mi creda, non sono obbligato a essere gentile.» Epps parve sul punto di scattare in avanti. Lo fissai freddamente. «Bada, Epps, resterai lì incredulo, quando ti capiterà e forse non avrai nemmeno il tempo di pentirti.» Il mio monito parve fare effetto. Richard alzò ancora difensivamente le mani e sorrise. «Non sono qui per minacciarla. Senta, io amo questa donna e amo mio figlio. Quel che lei non capisce è che Lucy mi ama ancora. Dobbiamo solo appianare qualche problema e dopo sono sicuro che anche Lucy se ne renderà conto.» «Addio, Richard.» Basta con i convenevoli. Basta con le civili discus-
sioni tra uomini moderni privi di prevenzioni. Mi sentivo già prudere le mani. Restò fermo dov'era. «Vorrei solo che lei si chiedesse cos'è meglio per Lucy. So di questo nuovo lavoro, ma sarebbe molto meglio se restasse a Baton Rouge e sarebbe molto meglio soprattutto per Ben. Spero che lei sia il tipo di uomo capace di mettere al primo posto il loro bene. Se l'amasse sul serio, direbbe a Lucy di restare a casa.» Ci credeva veramente. Guardai Epps, ma per lui evidentemente l'una o l'altra cosa faceva lo stesso. Scossi il capo incredulo. «Io dovrei dire a Lucy di stare a casa?» Richard sorrise, come un insegnante compiaciuto di vedere che finalmente anche il suo allievo meno dotato riesce a capire qualche cosa. «Esatto.» Forse era per questo che il loro matrimonio era fallito. «Richard, c'è un fatto di cui lei evidentemente non si rende conto. Non spetta né a me né a lei di decidere. L'unica che può farlo è Lucy.» Si rabbuiò, come se fosse profondamente deluso dal mio rifiuto di capire. «Io l'amo e vorrei averla qui con me, ma non posso costringerla a venire, né a restare. È la sua vita, sta a lei decidere. È chiaro?» Chenier parve ancora più crucciato. «Se si desidera veramente una cosa c'è sempre un modo per ottenerla» ribatté. «È così che io mi guadagno da vivere.» Lo fissai perplesso, cercando di immaginarmi come potevano vivere insieme lui e Lucy, ma non ci riuscii. Chenier lanciò un'occhiata a Epps e si alzò. Epps aprì la porta. Richard disse: «Non crederà che io sia disposto a lasciarli andare via così, eh?» «Secondo me non può farci niente.» «Resterà sorpreso.» Mi sorrise e la cosa non mi piacque. Quel tipo non mi piaceva. Richard Chenier uscì dal mio ufficio senza voltarsi. Epps mi guardò, sogghignando e si accinse a uscire anche lui. «Ehi, Epps.» Si voltò di nuovo, sempre sogghignando. «Un bel gattaccio, eh?» Tornò di colpo serio, uscì e chiuse la porta facendola sbattere. Rimasi a fissare la porta per un pezzo dopo che se ne furono andati, scuotendo il capo, ancora incredulo.
«Lieto di avere fatto la tua conoscenza, Richard.» 14 Guardai dalla finestra Richard Chenier e Epps che andavano via in macchina, poi tornai alla mia scrivania e guardai il telefono a forma di Topolino, pensando di chiamare Lucy, ma cosa potevo dirle? "Tuo marito è passato di qui per dirmi che ti ama?" No. "Richard ha ingaggiato un tizio per introdursi senza permesso a casa mia?" Chiacchiere a vanvera. Guardai l'orologio in forma di Pinocchio e lo interrogai tra il serio e il faceto: «Non è un bel caso?» Pinocchio mosse gli occhi a destra e a sinistra, ma non disse nulla. Lui non si compromette mai. Cercai di pensare ai Markov. Tirai fuori i due biglietti da cento dollari, li esaminai di nuovo, ma continuavo a vedere sulle banconote l'immagine di Richard, invece di quella di Benjamin Franklin. «Santo Iddio, Cole, smettila. Devi pensare a Clark. Non ti distrarre.» Che razza di individuo è uno che ingaggia qualcuno per perquisire di nascosto la casa dell'amico della sua ex moglie? "Smettila!" Sapevo attraverso Lucy che Richard Chenier era un avvocato dello studio legale Benton, Meyers & Dane e sapevo anche che si era laureato in legge all'Università della Louisiana, dove anche Lucy aveva studiato, ma questo era tutto quello che sapevo e non me ne ero mai dato molto pensiero. E adesso lui si era introdotto in casa mia e nel mio ufficio con aria bellicosa e minacciosa, sulla qual cosa potevo anche sorvolare, ma dichiarando per giunta che non aveva nessuna intenzione di permettere a Lucy di lasciare Baton Rouge, il che era assolutamente intollerabile. Quali che fossero le possibili conseguenze. Decisi che se non potevo smettere di pensare all'ex marito di Lucy, la cosa più intelligente da fare era di prendere il toro per le corna. Avevo conosciuto Lucy quand'ero andato giù in Louisiana per un'indagine, l'anno prima e mentre ero lì a Baton Rouge avevamo fatto la conoscenza di un paio di poliziotti sia della polizia di stato sia di quella locale. Li chiamai, dicendo loro quel che sapevo di Richard e Epps, chiedendo se mi potevano fornire dati più precisi su di loro. Mi dissero che avrebbero richiamato in giornata. Mentre loro lavoravano sul caso, chiamai anche Joe Pike. «Clark è anda-
to a Seattle per vedere un certo Wilson Brownell. Brownell è un abilissimo falsario. Ha insegnato il mestiere a Clark e io credo che Clark sia tornato su da lui perché vuole rientrare nel giro.» «Si è già rimesso a stampare soldi falsi?» «Ho avuto da lui due biglietti da cento dollari che mi danno da pensare e forse questo spiega perché Clark non vuole parlare con Jasper. Se ha in mente qualcosa, è probabile che abbia paura di tradirsi in qualche modo e lui vuole che la faccenda vada in porto.» Pike non aveva detto ancora niente, per il momento, come se stesse riflettendo. «C'è una che conosco all'ufficio del Tesoro, giù in città, una certa Marsha Fields. Potrei chiamarla stasera, per vedere se può riceverti domani ed esaminare quelle banconote.» «Okay.» «Che c'è?» disse ancora. Come se avesse avvertito qualcosa nel tono della mia voce. «Il tizio che mi ha perquisito la casa si chiama Epps. È lo stesso che avevo visto a bordo della LeBaron e lavora per l'ex marito di Lucy. Hanno appena lasciato il mio ufficio.» Altro silenzio. «Vuoi che faccia qualcosa?» «Si potrebbe accopparlo, ma forse è meglio rimandare.» Pike riagganciò. A volte il silenzio è più eloquente di tante parole. Restai per un po' a guardare il telefono, poi chiamai la segreteria dell'Università della Louisiana. Successivamente interpellai per telefono anche lo studio legale Benton, Meyers & Dane, spacciandomi per un potenziale cliente e sei minuti dopo quel colloquio mi richiamò il primo dei miei amici poliziotti. In questo modo, un'ora e ventisette minuti dopo che Richard Chenier aveva lasciato il mio ufficio, venivo informato che quand'era all'università aveva giocato come mediano nella squadra di football delle matricole finché una botta al ginocchio non aveva messo fine alla sua carriera di sportivo. Si era allora trastullato con l'attività politica all'interno del campus, poi aveva conseguito una laurea prestigiosa summa con laude e infine si era candidato senza successo a una borsa di studio Rhodes di perfezionamento presso l'Università di Oxford. Mai avuto guai con la giustizia. Un curriculum impressionante, senza dubbio. Avevo anche appreso che era socio a pieno titolo dello studio legale BM&D, specializzato in diritto societario; al momento, tuttavia, era assente dall'ufficio (per forza, era venuto nel mio) e non sarebbe tornato prima della settimana seguente. Quanto a Lawrence Epps, era un ex agente della
polizia di stato della Louisiana e lavorava attualmente come investigatore per conto dello studio legale BM&D. Era stato arrestato quattro volte, tre per aggressione e aveva scontato una volta una pena detentiva per percosse aggravate. Uno di questi arresti era stato motivato dal fatto che aveva picchiato selvaggiamente la prima moglie. Magnifico. Al termine di quella ricerca, quando infine me ne tornai verso casa, cominciai a vedere le cose sotto una luce meno fosca. Richard continuava a non piacermi, ma tutto sommato sembrava essere un tipo a posto: chissà, forse anch'io nei suoi panni avrei dato i numeri all'idea di perdere di vista il mio unico figlio. Se Lucy l'aveva sposato, quell'uomo doveva pur avere dei lati positivi. Certo, poi lei aveva chiesto il divorzio; i lati negativi, infatti, come anch'io avevo avuto modo di constatare, erano nettamente prevalenti. Quando tornai a casa, quella sera, trovai il gatto accucciato accanto alla sua scodella in cucina. Mentre preparavo la cena, chiesi anche il suo parere: «Tu, al mio posto, cosa faresti?» Il gatto socchiuse gli occhi, si acciambellò e si leccò l'ano. I gatti non amano complicarsi la vita. Joe Pike mi chiamò alle nove del mattino seguente, dicendo che l'agente speciale Marsha Fields dell'US. Secret Service mi aspettava in ufficio. Consumai una ricca colazione a base di uova sode e focaccine lievitate all'inglese, quindi mi feci una bella doccia, mi rivestii e mi misi in strada per raggiungere l'ufficio decentrato del ministero del Tesoro. L'ufficio era al diciassettesimo piano del Roybal Federal Building nel centro di Los Angeles, tra il Parker Center della polizia metropolitana da un lato e il riformatorio federale metropolitano dall'altro. L'unione fa la forza, per i nostri poliziotti. Lasciai la macchina nel parcheggio sotterraneo, salii in ascensore su nell'atrio e diedi il mio nome a un colosso di sorvegliante grande come un armadio, dopo aver superato il controllo attraverso un apposito metal detector. Quindi presi un altro ascensore e raggiunsi il diciassettesimo piano. Quando uscii dall'ascensore, trovai ad aspettarmi una donna alta, dal fisico atletico, i capelli rossi tagliati alla maschietta, vestita con un elegante tailleur pantalone blu marino. «Il signor Cole? Sono Marsha Fields. Joe Pike mi ha telefonato per chiedermi se potevo esaminare delle banconote in suo possesso.» Mi rivolse un affabile sorriso, stringendomi con decisione la mano. «Esatto.» Sorrisi con uguale calore e cercai di riprendermi la mano. Ma
lei non la mollò. «E com'è venuto in possesso di queste banconote?» Poiché non voleva lasciar andare la mia mano, cominciai a chiedermi se non dovevo stare in guardia: se il denaro era falso e le mie spiegazioni non fossero risultate convincenti, forse mi avrebbe messo direttamente un paio di braccialetti ai polsi e consegnato all'agenzia statale per la lotta contro la criminalità finanziaria. «Ho cambiato un assegno in un negozio a Hollywood.» Continuò a tenermi la mano e a sorridermi per altro po', poi si ritrasse e smise di sorridere. «Be', venga con me e vediamo queste banconote.» La seguii lungo un anonimo corridoio, superando una serie di funzionari che ignorarono la mia presenza. La segretezza va sempre di pari passo con la riservatezza. «Joe mi ha detto che voi due lavorate insieme» disse Marsha. «Esatto. Io e lui siamo soci.» «Joe è un tipo molto interessante.» «Oh, sì.» «Ci siamo conosciuti quando lavorava per la polizia di Los Angeles. Eravamo buoni amici.» Annuii. Ebbi l'impressione che l'argomento Joe le stesse particolarmente a cuore. «Amici intimi.» La guardai. «Joe mi ha parlato molto bene di lei.» La sua espressione perse ogni traccia di diffidenza e si illuminò. «Immagino che sia sposato, adesso.» Quel discorso aveva chiare implicazioni amorose, o quanto meno c'era sotto un grosso trasporto dei sensi. «Non ancora. Ma c'è sempre speranza.» Lei arrossì, mentre entravamo in un piccolo laboratorio non dissimile da un gabinetto medico, dove stagnava odore di nafta. Un bancone con il piano di formica nera stava addossato contro una parete e sopra di esso c'erano uno scaffale pieno di bottigliette e tre pannelli di vetro retroilluminati. Nel bancone era inserito un lavello d'acciaio, accanto al quale vidi una grossa lente d'ingrandimento montata su un piedistallo e un microscopio bioculare. Insomma, era un laboratorio scientificamente attrezzato per la moderna lotta al crimine. Qualcuno aveva fissato al muro con nastro adesivo, sopra il bancone, dei ritagli di giornale con le foto del presidente, del vicepresidente, del presidente della Camera dei deputati e aveva usato un pennarello per bollare i
tre con altrettanti nomignoli beffardi: Manny, Moe e Curley. Qualcun altro aveva ritoccato la faccia del presidente con un trucco da clown e aveva scritto sotto: "Saresti disposto a farti ammazzare per questo pagliaccio?". Al pari dei poliziotti, anche gli agenti del Secret Service contro la criminalità economica e le falsificazioni amano fare sfoggio di atteggiamenti anticonformisti e un po' ribaldi. Marsha Fields disse: «Mi fa vedere quelle banconote?» Le diedi i due biglietti da cento. Ne mise da parte uno e cominciò l'esame dell'altro. Lo rigirò varie volte, lo piegò, lo sfregò, quindi scrutò di nuovo la faccia superiore. Sistemò le banconote sui ripiani di vetro illuminati per osservarle in trasparenza, poi prese la lente d'ingrandimento e ispezionò di nuovo le due facce dei biglietti di banca. Fece schioccare espressivamente la lingua. «Eh, sì, sono proprio dei falsi.» «Soldi fasulli.» Clark, che cosa mi combini? «Proprio così. Ma non sono delle volgari falsificazioni. Sono ben fatti.» «Come fa a dirlo?» Mi mostrò una banconota sotto la lente d'ingrandimento, indicando un punto con l'aiuto di una penna biro. «Guardi i fregi lungo il bordo. Vede queste linee verticali dietro il ritratto di Franklin e i raggi intorno al sigillo del Tesoro? Tutte queste linee dovrebbero essere nitide e senza interruzioni.» Guardai i particolari che lei mi indicava e constatai che le linee non erano come avrebbero dovuto essere. In certi punti le linee parallele erano confuse, in altre erano segmentate invece che continue. «Sì, vedo.» «I soldi veri sono stampati per mezzo di matrici in rilievo, che consentono di tracciare delle linee perfettamente nitide. Queste banconote invece sono stampate con matrici offset. Il falsario fotografa i soldi veri e ricava la matrice dalla foto, ma in questo modo si perde a ogni passaggio un po' di precisione nei particolari, soprattutto a livello delle linee più sottili. Vede?» Mi guardò con aria interrogativa e io mi affrettai a fare segno di sì con la testa. «Certo.» Bisogna sforzarsi di apparire svegli, se si vuol evitare di fare la figura dei cretini. «Un altro indizio rivelatore è la carta. Quella dei soldi veri è ricavata da una pasta a base di cotone prodotto dalla Crane Paper Mill di Dalton, Massachusetts. Vede queste righine rosse e blu?» Mi mostrò le fibre sottilissime rosse e blu che caratterizzano i dollari degli Stati Uniti. Non mancavano nemmeno nelle due banconote fasulle.
«Certo. Credevo che non ci fossero, sui soldi falsi.» Marsha annuì compiaciuta, non solo con me, ma anche, apparentemente, con i falsari che avevano sfornato quelle banconote. «Infatti non ci sono nemmeno qui, nonostante le apparenze.» «Eppure le vedo.» «No, crede solo di vederle.» Prese una bottiglietta e versò una goccia di qualcosa su una banconota, ma non successe niente. Aggrottò le sopracciglia, prese un'altra bottiglietta e versò di nuovo una goccia di un'altra sostanza. Stavolta quello che sembrava un sottile filamento di colore rosso si dissolse e lei sorrise. «Nei veri biglietti di banca ci sono delle fibre di rayon rosse e blu frammiste alla pasta di cotone e lino della carta.» Spiegazzò tra le dita un angolo della banconota e sentenziò: «Questa è un'ottima carta a base di lino, prodotta probabilmente da una cartiera europea, ma le fibre rosse e blu sono solo stampate sulla superficie della carta, attraverso due passaggi distinti successivi.» Sorrideva trionfante, adesso. «No, non è roba corrente. Qualcuno, qui, si è impegnato a fondo e bisogna riconoscere che ha fatto un ottimo lavoro.» «Quanto tempo fa sono state stampate queste banconote, secondo lei?» Se Clark era rientrato nel giro dei soldi falsi, supponevo, quei due biglietti di banca facevano probabilmente parte della sua produzione più recente. «Oh, devono essere vecchie di almeno otto o dieci anni, direi.» Spense la luce del ripiano retroilluminato, ma non mi restituì i soldi. «Mi dispiace per lei, ma ci ha rimesso duecento dollari.» «Così va il mondo.» Incrociò le braccia sul petto e annuì. «Posso sapere dove ha trovato veramente quelle banconote?» «Gliel'ho detto.» Sorrise di nuovo, alzandosi in piedi. «Certo.» «Vuole proprio trattenere il malloppo?» «È la prassi. Può presentare in qualsiasi banca una richiesta di risarcimento attraverso un apposito modulo del nostro ufficio.» «Grazie.» «Dica a Joe di farsi vivo, di tanto in tanto.» Uscii attraversando di nuovo i controlli all'ingresso, recuperai la mia auto nel parcheggio sotterraneo e mi rimisi in strada tornando verso il mio ufficio. Dunque Clark e i suoi figli si mantenevano con banconote false. Ecco perché pagavano tutto in contanti. Se avessero cercato di depositare i loro soldi in banca, avrebbero rischiato di essere smascherati. Le poche
centinaia di dollari che avevano sul conto corrente erano probabilmente i soli quattrini veri che possedevano, ma forse Teri era all'oscuro della cosa, forse non sapeva che suo padre era un falsario. Certo, il fatto che Clark mantenesse la famiglia pagando i conti con valuta contraffatta non significava automaticamente che fosse tornato a fare il falsario o che intendesse farlo in futuro. Era logico supporre, invece, che i soldi falsi che spacciava fossero quelli che aveva sottratto ai Markov. Mi diressi verso la Hollywood Freeway. Il traffico intenso del centro procedeva a rilento, anche a causa di una serie di cantieri stradali in funzione. Avevo appena superato tre rallentamenti e bruciato un semaforo che stava per diventare rosso quando alle mie spalle scoppiò un concerto rabbioso di centinaia di clacson. Guardai attraverso lo specchietto retrovisore e compresi il motivo di quel fracasso e di quell'eccitazione: una lucida Camaro ultimo modello, beige metallizzata, aveva invaso la corsia opposta cercando di superare la colonna di auto che procedeva a passo d'uomo dietro di me. Al volante c'era un tipo biondo con i capelli a spazzola. Accanto a lui sedeva un omaccione che sembrava l'Incredibile Hulk. Alexei Dobcek e Dimitri Sautin. Per la prima volta da quando Richard Chenier era entrato nel mio ufficio, mi fu facile smettere di pensare a lui. Erano arrivati i russi. 15 Era quasi l'ora di pranzo, nel centro di Los Angeles e c'erano forse ottantamila persone che affollavano i marciapiedi e le strade intorno a noi, attraversando gli incroci con il rosso e creando paurosi intasamenti. Per i pedoni di New York ignorare i semafori equivale a sfidare la morte, ma quelli di Los Angeles hanno diritto assoluto di precedenza e così le auto si ammassano lungo i marciapiedi, in corrispondenza delle corsie laterali per la svolta continua, come detriti nei canali di scolo dopo una pioggia intensa. Dobcek non c'era abituato; a Seattle nessuno si sogna di passare con il rosso. I due russi non riuscirono ad avvicinarsi; si accontentarono di non perdermi di vista. Probabilmente avevano cominciato a pedinarmi quando avevo lasciato l'ufficio. Speravano che li portassi a casa di Clark. Procedetti lentamente verso nord, lasciandomi seguire, poi passai sotto l'autostrada urbana e raggiunsi Sunset Boulevard, infilandomi infine nel parcheggio di un centro commerciale. Sfoggiai la massima noncuranza.
Come se fosse un problema da niente. Dobcek e Sautin accostarono al marciapiede davanti a un negozio di alimentari, cercando di non dare nell'occhio. Difficile farlo quando si è dei bestioni di un quintale e mezzo. Chiamai Joe Pike da un telefono pubblico vicino a un fioraio. «Dobcek e Sautin mi stanno alle costole su una Camaro beige e non mi mollano più.» «Sparagli.» Pike non ama le complicazioni. Come il mio gatto. «Pensavo piuttosto di prendere tempo e di portarli in giro per un po'. Probabilmente hanno cominciato a seguirmi quando ho lasciato l'ufficio e sperano che io li possa portare da Clark.» Pike grugnì. «O forse aspettano l'occasione di darti un'altra bella battuta.» «Be', c'è anche questa possibilità, certo.» Gli dissi dov'ero e cosa volevo. «Cerca di restare vivo finché arrivo lì.» Sempre incoraggiante. Finsi di parlare per altri cinque minuti, entrai dal fioraio per perdere un altro po' di tempo, poi salii di nuovo in macchina e ripartii verso nord lungo Sunset Boulevard, assicurandomi che Dobcek e Sautin continuassero a seguirmi un semaforo dopo l'altro. Quando raggiunsi Elysian Park Avenue presi verso il Dodger Stadium, attraversando un quartiere di villette residenziali abbarbicate lungo le pendici delle colline, fino alla località nota come Chavez Ravine. Il traffico in quella zona era molto più rado. Temetti che Dobcek potesse interrompere il pedinamento per non scoprirsi, ma non lo fece. Chavez Ravine è una vasta spianata di forma più o meno circolare, bordata da modeste alture che nascondono la vista dello stadio dalla parte bassa della città. Il Dodger Stadium sorge al centro della spianata come una sorta di veicolo spaziale appoggiato sulla sua rampa di lancio. Manca solo un grosso robot scintillante e si potrebbe pensare di essere sul set cinematografico di un film di fantascienza. Se si passa da quelle parti in primavera, nel tardo pomeriggio, un'ora prima della partita, ci si trova imbottigliati in mezzo a decine di migliaia di veicoli. Ma adesso era mezzogiorno, i Dodgers giocavano fuori casa e la zona era del tutto deserta. Un luogo ideale per una conversazione appartata o per un delitto. Le strade intorno si arrampicano tortuose fino alla spianata e una serie di cartelli stradali indirizzano verso lo stadio, o verso l'Elysian Park e altri luoghi ameni poco distanti. Seguendo i cartelli, superai una fila di palme che si ergevano dritte come sentinelle e raggiunsi la biglietteria, acceleran-
do improvvisamente l'andatura per staccare un po' i russi. Contavo che Dobcek avrebbe cercato di tenermi dietro ma senza esagerare, per non dare troppo nell'occhio. Dopotutto, se anche mi avesse perso di vista, poteva sempre tornare al mio ufficio e restare appostato lì in attesa del mio ritorno. Ma poiché era di certo convinto che stavo andando da Clark, in qualche casa sicura dove lo tenevo nascosto insieme ai ragazzini, doveva anche essere piuttosto riluttante a mollare la presa. Accelerai ancora su per la salita fino alla svolta che portava alla biglietteria, ma quando arrivai lì tirai dritto senza svoltare. Mi inoltrai in un prato e mi nascosi dietro un boschetto di querce. Non aveva più piovuto da parecchie settimane e il terreno era compatto quasi come l'asfalto della strada. Quaranta secondi più tardi anche la Camaro superò il cancello d'ingresso. Quando vidi accendersi le luci di stop, uscii dal mio nascondiglio e andai a piazzarmi davanti al cancello, sbarrando il passo ai miei inseguitori. Dal lato opposto la strada era ugualmente sbarrata da Pike. Appoggiato al cofano del suo veicolo, Pike teneva spianato minacciosamente un fucile automatico Beretta calibro dodici caricato a pallettoni. Scesi dalla mia Corvette, mi avvicinai alla Camaro dei miei avversari e mi presentai a loro con un sorriso beffardo dipinto sulle labbra. «Ah, il baseball... lo sport più amato dagli americani.» Dobcek aveva ancora le mani appoggiate al volante. Annuì. «Complimenti» disse. «Benvenuti a Los Angeles, ragazzi. Adesso giù dalla macchina, con le mani bene in vista.» Dobcek scese per primo. Quando scese anche Dimitri Sautin, la Camaro oscillò visibilmente. «Le armi» dissi. Pike girò attorno alla jeep Wagoner, tenendo sempre i due russi sotto mira con il fucile. Dobcek sfilò la Glock dalla fondina sotto l'ascella sinistra e me la porse. La gettai dentro la mia Corvette. «Forza, anche tu» intimai, rivolto a Dimitri. Sautin scosse il capo. «No.» Dobcek lo ammonì: «Dimitri...» Sautin disse: «Che se la prendano da soli, se ne sono capaci.» Abbassò la mani e sogghignò, guardando Pike con aria di sfida. Era una quindicina di centimetri più alto di Pike e più pesante di lui almeno di una cinquantina di chili. Pike avvertì: «Peggio per te.»
«Ha!» fece Sautin. Stava ancora sogghignando quando Pike lo colpì a una tempia con un fulmineo calcio volante. Sautin mosse un passo di lato, fece una faccia sorpresa, ma non andò giù. Pike lo colpì di nuovo e stavolta Sautin barcollò. I suoi occhi si inumidirono, gli tremò il labbro inferiore e cominciò a piagnucolare silenziosamente. «La pistola» ordinò Pike. Dimitri Sautin consegnò la sua SIG. La presi e la gettai in macchina vicino alla Glock. Dobcek sorrise. Era la prima volta che lo vedevo sorridere: un sorriso malvagio, raggelante. Gli occhi gli brillarono, mentre fissava Joe Pike come un avvoltoio pronto a lanciarsi sulla sua preda. Perquisii i due russi, requisii i loro portafogli e ordinai loro di allontanarsi dall'auto. Obbedirono. Perquisii anche la loro auto e scovai i documenti rilasciati dall'autonoleggio, dai quali risultava che erano arrivati all'aeroporto LAX di Los Angeles quella mattina. Tolsi le chiavi dal quadro e guardai nel bagagliaio, dove trovai due sacche da viaggio. Frugai anche lì, ma contenevano solo biancheria di ricambio e oggetti da toletta. Trasferii anche le sacche a bordo della mia Corvette. Asciugandosi il naso, Dimitri Sautin gemette: «Ma non potremo cambiarci.» «Quella del delinquente è una vita dura.» Guardai dentro i loro portafogli, non trovai niente di interessante e li gettai in macchina accanto alle pistole. «Markov sarà sicuramente colpito, quando gli racconterete questa storia.» «Col cavolo che glielo diremo. Non siamo mica scemi» osservò Sautin. «Taci, imbecille» gli intimò Dobcek, senza smettere di tenere d'occhio Pike. «Ve l'ho già detto una volta, su a Seattle» intervenni. «Non conosco questo Clark Hewitt e non so dove sia. State solo perdendo tempo.» «Da» rispose Dobcek, in tono scettico. «Se siete furbi, vi conviene tornare da dove siete venuti. La prossima volta che mi capitate tra i piedi, non sarò così indulgente. Vi faccio fuori senza pensarci due volte.» Dobcek abbozzò di nuovo un sorriso malevolo. Pike disse: «E se non dovesse farlo lui, ci penserò io.» Dobcek tornò di colpo serio. «Vedete quel piccolo edificio laggiù, ai piedi della collina?» Non potevano non vederlo. «Cominciate a camminare da quella parte.»
Sautin si avviò verso l'edificio della biglietteria, ma Dobcek rimase dov'era. Guardò Pike e annuì. «Stavolta vi è andata bene, ma ci vedremo di nuovo, okay?» Accennò da capo un sorriso increspando gli angoli della bocca, come per dire: "Ve la farò pagare, non mi sfuggirete". Pike commentò sottovoce: «Comunisti.» Dobcek fece un cenno di assenso e seguì Sautin. Li seguimmo con gli occhi mentre si allontanavano, poi Pike disse: «Sei bravo a raccontare panzane. Peccato che non ti abbiano creduto.» «Sì, ma ci servirà a guadagnare abbastanza tempo per mettere sull'avviso Clark. L'ho già avvertito che sarebbero venuti. Ora sono qui e bisogna che Clark faccia qualcosa. Volente o nolente, deve darsi una mossa.» Pike andò verso la sua macchina e tornò con un coltello da caccia dalla lama lunga una ventina di centimetri. Girò attorno alla Camaro e squarciò tutti e quattro i pneumatici. Un modo per guadagnare un altro po' di tempo. «A proposito» dissi. Mi guardò con aria interrogativa. «Quei due biglietti da cento erano falsi.» Pike annuì. «La tua amica Marsha Fields se li è tenuti.» Un altro cenno d'assenso. «Significa che adesso siamo sotto di cinquecento dollari.» Si strinse nelle spalle e tornò alla sua auto. «La vita dei criminali è una vita dura. L'hai detto tu.» Mi rimisi in macchina e andai ad avvertire Clark Hewitt. 16 Venti minuti più tardi imboccai la trasversale di Melrose Avenue e vidi la Saturn verde. Parcheggiai dietro l'auto degli Hewitt, andai alla porta e suonai il campanello per tre volte. Pensavo già che si fossero messi tutti d'accordo per fingersi assenti quando Teri mi venne ad aprire. Non mi sorrise e non parve affatto contenta di vedermi. Socchiuse la porta solo di quel tanto che serviva a guardare fuori e disse freddamente: «Oh, salve.» «Oh, sono anch'io molto felice di rivederti.» Rimase impassibile. «Ho bisogno di parlare con tuo padre.» «Non è in casa.»
Guardai la Saturn. «È uscito per andare a fare un po' di acquisti.» Mi avvicinai alla porta in modo che non potesse richiudermela in faccia. «Okay, aspetterò.» Rimase immobile dov'era, senza lasciarmi entrare. «Potrebbe stare via parecchio.» «Non importa. Quando si fanno i soldi a palate come me, il tempo non è un problema.» Udii un fragore alle sue spalle, come quello di un bisonte lanciato al galoppo e Charles si affacciò dallo spiraglio della porta. «Oh, è lui» disse, immusonito. «Allora, posso entrare o volete tenermi qui fuori per chissà quanto?» Charles diede di gomito a Teri e gli sussurrò, con voce non così bassa perché non potessi sentire: «Digli di andare a farsi fottere.» Protestai: «Charles, per carità!» Teri si fece da parte e spalancò la porta. «Oh, al diavolo!» esclamò il bambino, fuggendo di nuovo in camera sua e sbattendo la porta della stanza dietro di sé. Entrai in soggiorno, aprii un po' le tende e mi sistemai sul divano, in modo da tenere d'occhio la strada. Se i russi non erano arrivati lì fino a quel momento, dubitavo che potessero comparire adesso, ma non si sa mai. Chissà, nel caso potevo sempre rifilargli quella peste di Charles. «Dov'è Winona?» domandai. «Nella sua stanza.» Il televisore era spento e Winona non era uscita per vedere chi era arrivato. L'odore di biscotti in forno o appena sfornati non c'era più. Guardai Teri e Teri guardò me, in quella strana quiete che regnava nella casa. «Che silenzio» osservai. Mi sembrò più piccola di come la ricordavo, più smunta e stanca. Profonde occhiaie circondavano i suoi occhi. «Cos'è che andato a comprare il tuo papà?» «Vestiti.» Rimasi lì seduto, mentre il disagio di Teri appariva sempre più evidente e anche i più piccoli rumori sembravano giungere ingigantiti al mio orecchio. Tamburellai con le dita sul bracciolo della poltrona e quel flebile suono mi parve un rumore di tuono. Quando sospirai, fu come udire il soffio del Ghibli attraverso il deserto. «Se ne è andato di nuovo, è così?» Teri abbassò gli occhi.
«Da quanto tempo?» Lei non rispose e io mi chiesi quanto ci avrebbero messo ad arrivare fin lì i due russi. Forse non sarebbero stati quei due, ma altri, ancora più temibili. «Da quanto tempo se ne è andato, Teri?» «Da ieri mattina» rispose con un filo di voce. «Non ha preso la Saturn.» «È andato a piedi in Melrose Avenue. Ha detto che sarebbe passato qualcuno a prenderlo.» «E non ti ha detto chi?» Scosse il capo. «Ti ha detto dove andava, o quando pensava di tornare?» Avrei voluto torcermi la testa sul collo fino a spezzarmelo, per togliermi definitivamente il macigno che mi pesava sul cuore. Teri scosse di nuovo il capo in segno di diniego. Suo padre non le aveva detto niente, ovviamente. «Non si è più fatto sentire, dopo? Nemmeno una telefonata?» «No.» Tirai un profondo sospiro. I russi erano atterrati a Los Angeles e Clark era sparito. Di nuovo. Forse sarebbe tornato a casa quella sera stessa per l'ora di cena, forse no. Forse Dobcek e Sautin non erano i soli russi che gli davano la caccia e forse a quest'ora avevano già nelle loro mani la preda, anche se la cosa mi sembrava improbabile. Chissà, magari in quello stesso momento Clark era nell'ufficio della polizia giudiziaria federale, per chiedere di essere riammesso al programma di protezione. Ma anche quest'ipotesi mi sembrava poco realistica. In ogni caso, non potevo più lasciare soli quei ragazzi. «Hai un bicchiere di carta?» domandai. Quando ebbi il bicchiere di carta mi scusai, andai in cucina, bevvi un po' d'acqua e tornai in soggiorno. Teri non si era mossa e la quiete nella casa mi parve ancora più irreale. Mi chiesi quante volte era già successo. Forse più spesso di quanto immaginassi. Dissi: «Tu e io dobbiamo parlare.» «Tornerà presto» rispose lei, cercando di sembrare ottimista. «Torna sempre.» «Spero che tu abbia ragione.» Mi sedetti accanto a lei e le parlai a bassa voce. Volevo che fosse la prima a saperlo, prima di Charles e Winona. «Dobbiamo parlare di una faccenda poco piacevole. Non so fino a che punto tu sia informata, o se hai almeno indovinato come stanno veramente le cose. Comunque, non posso fare a meno di parlartene.» «Riguardo a Seattle.» Era un'affermazione. Come se sapesse quel che
stava per venire e ne avesse paura. «Seattle, sì.» Teri ricordava la notte in cui aveva dovuto lasciare quella città insieme ai suoi cari, gli uomini che li avevano portati via su un anonimo furgone beige sotto un furioso temporale e quei boati simili a rumori di tuono. Ricordava i grigi edifici governativi, l'aereo su cui si erano imbarcati e sapeva che si erano trasferiti a Salt Lake City perché c'erano quegli uomini cattivi che davano la caccia a suo padre, anche se non sapeva perché. Le spiegai come stavano le cose. Lo feci a malincuore, odiandomi per questo, ma lei doveva sapere. «Tuo padre stampava soldi falsi per conto di un certo Vasily Markov. Markov ha poi cercato di far ammazzare tuo padre e allora lui è andato dalla polizia, chiedendo protezione e accettando in cambio di testimoniare in tribunale per farlo incastrare insieme ai suoi complici. È quello che si definisce un "pentito". Sai cos'è, vero?» Fece una piccola smorfia imbronciata. «Non sono una stupida.» «Tuo padre aveva imparato il mestiere di falsario da un uomo che si chiama Wilson Brownell, su a Seattle. Gli uomini di Markov tenevano d'occhio Brownell e hanno cominciato a sospettare qualcosa. Si sono messi a sorvegliare Brownell e anche il cimitero dov'è sepolta tua madre. È proprio lì che mi hanno visto, vicino alla sua tomba.» La smorfia imbronciata si dissolse. «Lei è andato a vedere la tomba di mia madre?» «Gli uomini che danno la caccia a tuo padre sono arrivati qui a Los Angeles. Hanno già rintracciato me perché sospettano che sappia dove abitate e questo significa che continueranno a starmi alle costole finché troveranno anche tuo padre. Lo capisci questo?» «Sì.» Il suo viso era totalmente inespressivo. «È gente pericolosa, e io non posso andarmene lasciandovi qui soli. Non se ne parla nemmeno.» Mi guardò negli occhi, ma parve non vedermi e sospirò debolmente. Non era difficile indovinare quel che stava pensando. Sentii uno scricchiolio venire dal corridoio. Probabilmente era Charles, che ci stava ascoltando di nascosto. «E mio padre?» «Credo che abbia ricominciato a stampare soldi falsi, anche se non ne sono sicuro. Ma scommetto che è per questo che è andato su a Seattle a trovare Brownell.» Non ebbi il coraggio di affrontare anche l'argomento droga. Teri socchiuse gli occhi, mosse le labbra, ma non riuscii ad afferrare
quel che diceva. Sbatté ripetutamente le palpebre e immaginai che si stesse sforzando di ricacciare le lacrime. «Non è facile, lo so» dissi, cercando di avere un tono dolce e comprensivo. Lei stava accasciata, con i gomiti sulle ginocchia, le braccia incrociate, le labbra piegate in una smorfia triste. Mormorò qualcosa, ma un nodo le chiudeva la gola e non riuscii a sentirla. «Che dici, Teri? Non ti capisco.» Ripeté: «È proprio una frana.» Non ebbi la forza di replicare. «Combina sempre dei disastri. La nostra vita è un disastro, ed è tutta colpa sua.» Sbatté ancora le palpebre, mentre gli si inumidivano gli occhi. «Ho cercato di far andare le cose un po' meglio, ma invece va sempre peggio. Ce l'ho messa tutta...» Le lacrime cominciarono a sgorgare in modo irrefrenabile, rigandole le guance, scendendo giù fino agli angoli della bocca. Le posai una mano sulla spalla, strinsi un po' e dovetti farmi forza per non mettermi a piangere anch'io. «Teri.» Sentii di nuovo uno scricchiolio nel corridoio e una porta si chiuse. Teri disse: «La prego, non permetta che gli facciano del male.» Per quello che ne sapevo, suo padre a quell'ora poteva essere già spacciato. «Per aiutarlo non c'è che un modo» dissi. «Devo trovarlo prima che lo trovino loro, capito?» Si asciugò gli occhi con il polso, poi sospirò. Non aveva perso del tutto il controllo e adesso stava già superando la crisi. Mi dissi che doveva aver fatto negli anni un sacco di pratica. «Ma non posso farlo con voi qui. O mi rivolgo ai federali e vi affido a loro, o venite con me. In un modo o nell'altro, non potete restare qui.» Si asciugò di nuovo gli occhi, cancellando ogni traccia di lacrime. Come se non ci fossero mai state. «Dove pensa di portarci?» «A casa mia, per il momento, ma dovremo trovare un posto più sicuro. Non è difficile scoprire dove abito e i russi potrebbero arrivare anche lì.» «E il mio papà?» «Lo cercherò quando voi sarete al sicuro.» «Ma lui tornerà.» «Allora lo aspetterò qui, ma prima devo portarvi in un luogo sicuro.» Accasciata com'era, seduta sul bordo del divano, mi sembrava ancora più piccola, adesso. Si aggiustò gli occhiali, annuì e si alzò in piedi.
«Okay.» Così, semplicemente. «Sarà meglio che vada a prendere Charles e Winona.» La mammina quindicenne, di nuovo. La personcina con la testa sulle spalle che si prende cura della sua famiglia. Andammo fino alle stanze dei ragazzi in fondo al corridoio. Entrambe le porte erano chiuse. Bussai a tutt'e due. «Charles. Winona. Venite fuori.» La porta di Winona si aprì silenziosamente e la piccina uscì in corridoio. La voce di Charles giunse invece soffocata da dietro la porta della sua stanza. «'fanculo!» Aveva sentito tutto, senza dubbio. Teri disse: «Charles, staremo via per qualche giorno. Dobbiamo fare le valigie.» Mi rivolsi con un sorriso rassicurante a Winona. «Ciao, bella.» «Ciao.» Mi sorrise a sua volta, ma era incerta. Era la prima volta che la vedevo così seria. Anch'io, al suo posto, con un papà che appariva e scompariva di continuo, sarei stato incerto. Il piccolo portachiavi a forma di mostriciattolo era allacciato alla sua cintura. Se non poteva avere a fianco il suo paparino, poteva almeno stringersi al cuore il suo nanetto deforme. Dissi: «Teri, perché non aiuti Winona con le sue cose? Intanto io parlo con Charles.» Charles gridò: «Io non vengo!» Teri disse: «Andiamo, Winona. Aiutami a fare le valigie e io aiuterò te.» Andarono nella loro stanza e bussai alla porta di Charles. «Forza, amico.» «'fanculo!» Bussai di nuovo, quindi aprii la porta e quando lo feci lui cercò di impedirmelo spingendo con tutte le sue forze dall'altra parte e gridando: «'fanculo! Vattene via! 'fanculo!» Era tutto rosso in faccia per lo sforzo, piangeva e io mi sentii uno stronzo. Spalancai del tutto la porta, vincendo la resistenza di Charles dall'altra parte, che continuava a strillare e singhiozzare con la gola chiusa dal muco, il petto minuscolo ansimante. Entrai, infine e lui mi caricò a testa bassa, prendendomi a cazzotti, sputandomi addosso e gridandomi di andarmene. Allora lo strinsi a me, tenendolo fermo e dopo un po' le sue grida e le sue proteste si tramutarono in singhiozzi disperati. La stanza era spoglia, c'erano solo un letto e una cassettiera, senza nessuno di quei poster, giocattoli e altre cose che ci si aspetterebbe di vedere nella camera di un ragazzino dodicenne. Forse Charles non pensava di viverci ancora abbastanza a lungo per preoccuparsene. «È tutto okay, ragazzo» dissi. «Spero che non torni mai più!»
Continuai a tenerlo stretto. «Vorrei che morisse!» Lo strinsi ancora di più. Teri disse: «Charles?» Era comparsa sulla soglia. «Va tutto bene» la rassicurai. Charles e io restammo così ancora per un pezzo e quando lui finì di singhiozzare pensai di lasciarlo andare, ma allora fu lui ad aggrapparsi a me, con le braccia avvinte al mio petto, la faccia affondata sul mio stomaco. Le sue lacrime mi avevano ormai inzuppato la camicia. «È tutto okay, ragazzo.» Lo ripetei cinque o sei volte. O forse di più. Lasciai che si stringesse a me per qualche altro istante poi gli dissi di mettere in valigia quanto bastava per un paio di notti. Gli dissi anche che saremmo andati a casa mia e che appena fossero stati al sicuro avrei cercato di trovare il loro papà. Charles si girò senza guardarmi, si asciugò il naso con il dorso della mano e andò a prendere le sue cose. «'fanculo» ripeté. L'avrei ammazzato volentieri io, quel Clark, se non ci pensavano prima i russi. 17 Telefonai a Joe Pike mentre i ragazzi facevano le valigie. «Clark se n'è andato» dissi. «Di nuovo.» Pike rimase per un istante silenzioso. Poi disse semplicemente: «Devi portare i ragazzi da qualche altra parte.» «Esatto. Li porterò a casa mia, ma non voglio che passino lì anche la notte. Sautin e Dobcek potrebbero arrivare in qualsiasi momento.» «Okay.» «Credi di potermi indicare una casa sicura?» Pike conosceva un sacco di gente e mi aveva già fatto favori dello stesso genere. Una volta una casa abbandonata nel sobborgo di Bel Air, una volta una roulotte Airstream in mezzo al deserto vicino alla base Edwards dell'Air Force. Non ero mai riuscito a capire se era lui il responsabile di quelle facilitazioni e lui del resto non me ne aveva mai voluto parlare, giudicando che non ne valesse la pena. «Lasciami fare qualche telefonata. Ci vediamo più tardi da te.» Quando riappesi, Teri, Winona e Charles erano pronti a partire. Immagino che non avessero granché da mettere nelle loro valigie, o forse la lunga pratica aveva permesso loro di fare così in fretta.
Chiudemmo a chiave la casa, sistemammo i loro bagagli dietro i sedili e partimmo tutti e quattro verso il Laurel Canyon, con i ragazzi stipati tutti e tre accanto a me sul sedile per il passeggero. Teri aveva proposto di andare con la Saturn di suo padre, ma io avevo detto di no. Non ero preoccupato che potesse avere un incidente; temevo piuttosto che dovunque stessimo andando lei tentasse semplicemente di cambiare strada. Charles disse: «Mi sento tutto appiccicaticcio.» «Porta pazienza» disse Teri. Viaggiai a velocità moderata, perché nessuno aveva allacciato la cintura di sicurezza. Elvis Cole, il quasi parente adottivo, costretto a guardarsi alle spalle per schivare il pericolo di essere intercettato dai killer della mafia russa. Teri e Charles erano silenziosi, ma dopo un po' Winona cominciò a chiacchierare e a manifestare il suo entusiasmo per la mia macchina scoperta. Avevo abbassato la capote e il vento ci scompigliava allegramente i capelli e lei disse che le sembrava di partecipare a una parata. Charles aveva temporaneamente smesso di essere pestifero e Teri sembrava persa nei suoi pensieri. Ognuno viveva quell'esperienza a modo suo, evidentemente. Ben presto ci lasciammo alle spalle la città inoltrandoci tra i boschi e poco più tardi concludemmo il nostro giro fermando la macchina nel garage. Winona chiese: «Questa è la tua casa?» «Sì.» «Sembra una tenda indiana.» «Ha il tetto spiovente, sì. Come le case di montagna.» Charles scese dall'auto, scrutando i boschi intorno. «Ci sono orsi?» «Niente orsi. Solo qualche coyote e qualche serpente a sonagli.» Guardò la spianata dove sorgeva la casa e fece una faccia scura. «Cos'è quest'odore?» Winona ridacchiò. «Charles ha fatto una puzza.» Teri disse: «Sii educata.» «Sono gli alberi di eucalipto.» Glieli indicai. «Il sole spacca la corteccia e la resina ha lo stesso odore del collutorio che usi la sera per lavarti i denti.» Entrammo dalla cucina e di là passammo in soggiorno. Dissi ai ragazzi di lasciare i loro bagagli sulle scale, mentre aprivo le tende e le grandi porte-finestra che davano sulla terrazza per lasciar entrare l'aria e ascoltavo i messaggi registrati dalla segreteria telefonica. Uno era di Lucy, che mi diceva di richiamarla. Teri notò: «È la voce della signora Chenier?»
«Sì.» Il mio sorriso le aveva forse anticipato la risposta. «E non la richiama?» «Lo farò appena ci saremo un po' sistemati. Voi ragazzi potete uscire fuori sul terrazzo, se volete, ma non vi sporgete dalla ringhiera. Oppure, se volete, potete giocare qui fuori sul pendio; solo fate attenzione ai serpenti.» Il predicozzo del bravo capo scout. Rimasero sulla porta, guardando la terrazza e il pendio, ma nessuno si azzardò a uscire. I serpenti. «Nel frigo troverete un po' di bibite fresche, latte e acqua minerale. Servitevi pure. Quando avremo finito di disfare i bagagli, vi preparerò qualcosa da mangiare.» Teri disse: «Non deve disturbarsi a cucinare per noi.» Non era uscita sul terrazzo. Era lì in soggiorno, a braccia conserte, ai piedi delle scale. «E perché no? Ma tu puoi darmi una mano, se vuoi. Faremo un bel polpettone, okay?» I tre ragazzi si guardarono, stringendosi nelle spalle, poi Teri disse: «Va benissimo. Grazie.» Charles guardò curioso verso la cima delle scale. «Che c'è lassù?» «Le mie stanze. Venite, vi faccio vedere.» Mostrai loro il bagno al pianoterra e quindi li portai di sopra. Charles e Winona curiosarono nelle stanze, ma Teri si affacciò dalla ringhiera guardando il soggiorno, l'area pranzo e la vetrata che dava direttamente sul canyon. Osservò la finestra triangolare in fondo alla casa, nell'angolo formato tra i due tetti spioventi. Osservò il mio letto, l'armadio a muro e di nuovo il soggiorno, giù in basso. «Vive qui da solo?» «Sì. Solo con il mio gatto.» Sfiorò con le dita la ringhiera, lanciando un'altra occhiata intorno. «Bello.» «Grazie.» Ai miei occhi quella casa non aveva niente di straordinario, ma mi resi conto che a quelli di Teri poteva apparire come una realtà del tutto nuova. Nella sua vita non aveva conosciuto altro che una serie di alloggi temporanei, case in affitto ammobiliate da chissà chi con mobili provenienti da chissà dove: solo un posto dove stare finché suo padre decideva che era tempo di ripartire, durevole quanto può esserlo un giornale quotidiano. Mostrai loro il bagno al piano di sopra e quindi scendemmo di nuovo dabbasso. Quando tornammo giù, trovammo Joe Pike che attendeva in silenzio sulla porta d'ingresso. Se ne stava lì tranquillo, semplicemente. Charles uscì in un'esclamazione di sorpresa: «Accidenti, mi hai fatto
paura!» «Sì» disse Pike. Charles si affrettò a uscire sul terrazzo. Probabilmente Joe gli faceva anche più paura dei serpenti. Dissi: «Farò da mangiare tra un minuto. Ma prima dobbiamo parlare. Charles, torna dentro.» Obbedì e i tre ragazzi mi guardarono con aria interrogativa. Charles continuò anche a lanciare occhiate diffidenti verso Joe. «Domani voglio andare a cercare vostro padre, ma per farlo ho bisogno di qualche indizio. Vi ha detto niente mentre era ancora a casa?» Si scambiarono un'occhiata e scossero la testa. Teri disse: «Non nel senso che intende lei.» «Niente che possa far capire dove aveva intenzione di andare?» Winona rispose volenterosa: «Ha detto che presto dovevamo andare a stare da un'altra parte. E che avremmo avuto uno di quei nuovi televisori grandissimi.» Magnifico. Teri intervenne: «Ha fatto diverse telefonate.» «Nessuno ha sentito cosa diceva?» Scossero la testa di nuovo, ma i cenni di diniego di Charles non mi parvero convincenti. «Charles?» «Non ho fatto niente.» «No. Ma potresti aver sentito qualcosa.» Gemette, poi scrollò le spalle. «Ha detto qualcosa riguardo a uno che doveva vedere.» «Ha fatto qualche nome?» «Ray...» «Ha detto proprio Ray, come Raymond? Sicuro?» Altra scrollata di spalle. Pike chiese a sua volta: «O era Tre, come l'abbreviazione di Trevor?» Charles fece una smorfia perplessa, ma stavolta non scrollò le spalle. «Sì, forse era quello.» Pike scosse il capo e uscì sul terrazzo. Mostrai ai ragazzi la mia collezione di videocassette, dicendo loro di sceglierne una. Winona selezionò Independence Day. Li lasciai trafficare con la televisione e andai a mettere un chilo di carne trita di tacchino nel forno a microonde. Ero sul punto di andare a parlare con Pike, sul terrazzo, quando Lucy Chenier chiamò di nuovo. «Stavo giusto per telefonarti» dis-
si. «Allora, hai concluso l'affare?» Ci fu un grande silenzio all'altro capo del filo. «Non sono così sicura che ci sia un affare da concludere.» Rimasi lì, col telefono in mano. Winona e Charles stavano già assorti davanti al televisore, dove si vedevano delle grandi navi spaziali di forma ovoidale che entravano nell'atmosfera, ma Teri stava tenendo d'occhio me. Dissi: «Come sarebbe, non vogliono più darti il lavoro?» Pike mi lanciò anche lui un'occhiata incuriosita dal terrazzo. «Dio, avevo davvero bisogno di parlare con te, Elvis.» La voce di Lucy era stranamente spenta. Strinsi istintivamente la cornetta contro l'orecchio. «Lucy?» «Quando David li ha sentiti di nuovo, hanno offerto inopinatamente condizioni molto inferiori a quelle che avevano prospettato in un primo momento. Hanno ritoccato al ribasso tutti i punti del contratto e hanno detto che stavano riconsiderando l'ammontare del mio stipendio.» «Forse si tratta solo di una tattica negoziale.» «David non lo crede. Ha condotto centinaia di trattative analoghe e dice che è come se non fossero più così convinti dell'opportunità di assumermi.» Mi appoggiai al ripiano della cucina e aggrottai le sopracciglia. «Forse dovresti chiamare Tracy Mannos.» «L'ho fatto. Non ha risposto alla mia telefonata.» Ero sempre più perplesso. Ripensai a quando Richard era entrato nel mio ufficio per avvertirmi che non avrebbe permesso a Lucy di partire. Riconsiderai tutta la situazione e scossi il capo. "Stai diventando paranoico, Cole." «Non capisco, Elvis. Mi sembra un voltafaccia inspiegabile.» Forse ero paranoico, ma anche i paranoici possono avere dei nemici. «Richard è venuto da me. Silenzio.» «Ha ingaggiato un tizio di nome Epps per pedinarci, quando sei venuta qui.» Gli dissi che Epps mi aveva anche perquisito la casa e che dopo Richard era venuto nel mio ufficio. Lucy si schiarì la gola. «È venuto lì da te?» «Ieri.» «E non mi hai avvertita.» Non era una domanda, ma un'affermazione. Pane al pane e vino al vino. «Non hai pensato che valesse la pena di parlarmene.» «Ho fatto male, eh?»
Di nuovo silenzio. Pike eTeri mi stavano ancora guardando. Poi Pike scosse il capo e distolse lo sguardo. A volte capita che qualunque cosa fai, sbagli. «Ho pensato di chiamarti, ma poi mi sono detto che non sarebbe stato bello. Mi sembrava che fosse più una questione tra me e Richard, che non valesse la pena di tirare dentro anche te.» «Oh, certo. Una roba tra uomini.» Che figura da fesso. «Non può accettare l'idea che tu e Ben ve ne andiate e ha esagerato con la faccenda di Epps, ma non posso credere che possa aver interferito anche con la trattativa che avevi in corso con la KROK.» «Tu non lo conosci, Elvis. Questo è proprio tipico di uno come lui, invece.» La sentii ansimare, in preda a una grande tensione. Non le avevo mai chiesto del suo precedente matrimonio, di cosa l'aveva spinta a divorziare e non volevo cominciare adesso. Mi disse ancora: «Credo che farei meglio a venire lì.» «Parla con Tracy, prima. Sarebbe meglio che sapessi come stanno veramente le cose, prima di prendere qualsiasi iniziativa, perché se ti fossi sbagliata, non ci faresti una bella figura.» Lucy rimase in silenzio per qualche istante, poi disse: «Elvis, mi dispiace davvero.» «Non hai niente da rimproverarti.» Agganciò senza dire altro. Rimasi lì nella mia cucina, con l'orecchio al telefono, ad ascoltare il segnale di libero, poi chiusi anch'io e raggiunsi Pike sul terrazzo. La giornata era ormai al termine e il cielo a est era coperto da una foschia alimentata da un denso fumo grigiastro. Doveva esserci un incendio, da qualche parte. Pike mi guardò. «Allora?» Lo misi a parte degli ultimi sviluppi. Ascoltò senza fare commenti, poi disse: «Te l'avevo detto che facevi meglio ad accopparlo.» Sempre prodigo di utili consigli. «Non capisco proprio, ma non si sa mai. Cosa potrebbe avere a che fare uno della Louisiana con una stazione televisiva di Los Angeles?» Pike si mise a braccia conserte e si appoggiò con la schiena alla ringhiera del terrazzo. Rialzò leggermente il capo, come se la faccenda fosse poco chiara anche a lui. Potevo vedere lo schermo della televisione riflesso nei suoi occhiali. «Prima i russi, adesso questo. Sei assediato da un'infinità di problemi.» «Sì, ma sono anche pieno di risorse.» Annuì. «Attento a non perdere la concentrazione. Se pensi al problema
sbagliato nel momento sbagliato sei fritto.» «Grazie.» «Potrei andarci di mezzo anch'io, o quei ragazzini.» Capito che tipo è? «Hai a disposizione un posto sicuro?» gli chiesi. «Uno, sì, a Studio City. Tre camere da letto, ammobiliato, c'è anche il telefono. Possiamo usarlo per tutto il tempo che vogliamo.» Mi diede l'indirizzo. «Buona cosa. Pensavo di passare la notte a casa di Clark. Se i russi non l'hanno già acciuffato, potrebbe tornare. Magari è già lì.» Pike increspò gli angoli della bocca accennando un sorrisetto. «Come no.» «Be', i miracoli possono sempre accadere.» Pike si congedò dicendomi che andava a fare un po' di spesa per approvvigionare la casa sicura e che sarebbe tornato al più presto. Andai in cucina a preparare la cena. Avevo una mezza lattuga in frigo, un paio di pomidori e un altro po' di verdura fresca, utili per fare una bella insalata. Potevo aggiungerci magari cinque o sei patate cotte al forno insieme al polpettone di tacchino. Stavo giusto radunando tutto il necessario quando Teri entrò in cucina chiedendomi: «Posso aiutare?» «Certo.» Le dissi cosa volevo fare, le mostrai il tagliere e i coltelli e le diedi una piccola cipolla e due carote da affettare. «A che servono le carote?» si informò. «Per il polpettone.» Mi guardò perplessa. «Ci metteremo anche un po' di uvetta, insieme a salsa di soia e magari anche dei piselli.» «A Winona non piacciono i piselli.» «Okay, niente piselli.» Cominciò con la cipolla. Io mi misi all'opera con le patate. Teri tagliò con mano esperta la cipolla in cubetti regolari, mentre Charles e Winona guardavano la distruzione della Terra da parte degli alieni. Per due volte alzai gli occhi verso Teri e per due volte la sorpresi a guardarmi. Sorrisi entrambe le volte e lei si affrettò a distogliere lo sguardo. Dopo la seconda volta, mi chiese: «Come fate a essere fidanzati, se Lucy vive in Louisiana?» «Il destino ci ha fatti incontrare, anche se viviamo lontani.» Evidentemente aveva ascoltato la mia conversazione.
«Frequenta anche altre donne?» «No. Prima sì, ma poi ho scoperto che non facevo che pensare a Lucy e così ho smesso.» «E lei frequenta altri uomini?» «No.» «Come lo sa?» La guardai severamente. «Le hanno offerto un lavoro a Los Angeles e può darsi che venga a stare qui... se si mette d'accordo sulle condizioni economiche.» E sempre che glielo vogliano ancora dare, quel benedetto lavoro... «E se non potesse trasferirsi?» domandò, senza smettere di affettare. «Ci penseremo a tempo debito» risposi, affettando a mia volta con maggiore lena. Questa ragazzina era peggio di Joe Pike. Quando Teri ebbe finito con le carote, le aggiunsi al tacchino, poi mischiammo il tutto con l'uvetta, la salsa di soia e un paio di uova. Lasciai a Teri l'incombenza di impastare il polpettone mentre tiravo fuori una teglia. Mettemmo il polpettone nella teglia e lo contornammo con le patate. Le patate però non erano abbastanza per tutti, così aggiunsi una confezione di patate già pelate in scatola e spruzzai il tutto con un po' di paprica. Portai la temperatura del forno a 200° C e regolai il timer su un'ora. Teri disse: «Mi dispiace per quello che è successo a casa nostra.» «Che vuoi dire?» Parve imbarazzata. «Quando mi sono messa a piangere.» Ricordavo di averla vista con gli occhi lucidi. Di aver visto scorrere qualche lacrima. Ma ricordavo anche che si era ricomposta di colpo, con un autocontrollo degno di un agente dei corpi speciali antiterrorismo con vent'anni di esperienza sulle spalle. Dissi: «Non hai niente di cui scusarti.» Scosse il capo. «Non posso permettermi certe debolezze.» «Hai quindici anni. Se piangi un po' non può farti che bene.» Abbassò lo sguardo. «Hanno solo me. Se cedo anch'io, chi penserà a Winona e Charles?» «E tu?» replicai, guardandola negli occhi. «Chi hai tu?» Le sue labbra si incresparono in una smorfia mesta. Quando parlò, la sua voce era così fievole che stentai a sentirla. «Non ho nessuno.» Scossi la testa. «No, questo non è vero. Hai me.» Mi guardò perplessa e rialzò fieramente il capo. «Oh, certo.» Ciò detto, uscì dalla cucina e salì al piano superiore. «E adesso che gli ha preso?» mormorai.
Lì da solo in cucina, aprii una lattina di birra e rimasi a fissare pensoso il forno. In soggiorno echeggiavano intanto le esplosioni dei razzi degli alieni, accompagnati dalle risate divertite di Winona. La cucina mi parve decisamente più sicura. Charles, invece, si aggirava inquieto per il soggiorno, come se fosse disturbato da qualche pensiero. «Che c'è?» gli chiesi. «Niente.» Bevvi un altro sorso di birra. Controllai l'ora al mio orologio, chiedendomi quando sarebbe tornato Pike. Il mestiere del baby-sitter era più stressante di quanto avessi immaginato. Charles si affacciò cauto sulla soglia. «Non volevo.» «Non volevi cosa?» Aveva le mani sprofondate nelle tasche ed era tutto rosso in viso. «Non dicevo sul serio quando ho detto che era meglio se moriva.» Lo guardai e feci un cenno di assenso con aria comprensiva. «Lo so, Charles. Non ti preoccupare.» Lui tornò in soggiorno, io rimasi in cucina. Joe Pike rientrò quaranta minuti più tardi e poco dopo il timer del forno si mise a suonare. Joe e Winona mangiarono. Gli altri non avevano molto appetito. Dopo avere sparecchiato mi misi in macchina e tornai a casa dei ragazzi per aspettare Clark Hewitt. 18 La Saturn era sempre dove l'avevamo lasciata. Casa Hewitt era la sola villetta della strada, insieme a un'altra, che apparisse buia e silenziosa. Passai lì davanti una volta, per sicurezza, andai a parcheggiare l'auto oltre l'angolo e tornai indietro. L'aria della sera era fresca e i rumori del traffico giungevano smorzati dalla vicina Melrose Avenue, frammisti alle chiacchiere dei passanti che facevano la loro passeggiata serale. Attesi che si allontanassero un paio di signore che erano uscite per portare a spasso il cane, percorsi in fretta il vialetto d'accesso ed entrai nella casa usando le chiavi di Teri. Le luci erano spente e le lasciai com'erano. Volevo perquisire di nuovo la casa, ma non a rischio di mettere in allarme Clark o magari i russi che passavano lì davanti in macchina. Mi tolsi la giacca e la fondina, lasciai la mia Dan Wesson a portata di mano e mi sprofondai sul divano.
Dopo un po' mi addormentai, ma i rumori per me insoliti della casa mi ridestarono ripetutamente dal mio sonno leggero e un paio di volte mi alzai e andai a controllare che quei rumori non fossero prodotti da Clark o dai mafiosi russi. A parte questo, la notte passò senza incidenti e a poco a poco il cielo cominciò a schiarirsi preannunciando l'alba. Clark Hewitt non era tornato. Verso le sei e un quarto del mattino seguente la luce divenne sufficiente e mi dissi che era ora di mettermi al lavoro. Perquisii la casa in modo più approfondito di come avevo potuto farlo quando c'era Teri, rivoltando il letto di Clark, controllando anche le cuciture del materasso e il lenzuolo che copriva le molle. Quindi tirai fuori tutti i cassetti del comò e della cassettiera, per vedere se c'era qualcosa nascosto all'interno, fissato magari con del nastro adesivo. Non sapevo cosa stavo cercando e in realtà non speravo nemmeno di trovare granché, ma non si sa mai. Appena avessero aperto gli uffici della compagnia dei telefoni contavo di fare un salto lì per esaminare i tabulati con le telefonate che Clark aveva effettuato quand'era tornato; nel frattempo, perquisire la casa era l'unico modo per non restare con le mani in mano e per fingere di essere ancora un detective. Frugai dentro l'armadio di Clark, controllando le tasche di camicie, giacche e pantaloni, guardando anche dentro le scarpe. Il suo guardaroba era piuttosto limitato e mi sbrigai in fretta. Esaminai il bagno, poi daccapo la cucina e infine le stanze dei ragazzi e il soggiorno. Alle otto e un quarto avevo ormai guardato dappertutto, senza trovare niente. Tornai in cucina, individuai una confezione di caffè liofilizzato e me ne feci una tazza con l'acqua calda del rubinetto. Se non altro ero riuscito a trovare il caffè. Stavo sorseggiando il caffè, chiedendomi se non era il caso di telefonare a Tracy Mannos, quando notai una botola nel soffitto del corridoio. Non l'avevo vista prima perché la corda che doveva servire ad aprirla verso il basso era stata tagliata e anche perché generalmente le case della California Meridionale non hanno un solaio vero e proprio, a causa del caldo. Al massimo si può trovare un angusto sottotetto. Andai in corridoio e diedi un'occhiata alla porta. Doveva essere stata ridipinta almeno un centinaio di volte, ma mi parve abbastanza solida per l'uso che ne volevo fare. Anzi, a giudicare dalle ditate che si potevano osservare sui bordi, era già stata usata per lo stesso scopo. Forse ero ancora in tempo a trovare qualcosa di più interessante del caffè. Smontai la porta dai cardini, la poggiai sopra un paio di sedie della sala
da pranzo, aprii la botola facendo scendere la scala flessibile e andai su, affacciandomi nel sottotetto. Erano le otto e mezzo del mattino e c'erano già almeno quaranta gradi, là sopra. Tornai in cucina per prendere una torcia elettrica, poi mi tolsi la camicia ed entrai nel sottotetto. Tre metri più in là, nel buio, c'era una forma scura e tozza. Mi inoltrai carponi verso quella forma e trovai un borsone militare, di quelli che si vendono nei negozi di residuati, stranamente pulito e privo di polvere, come se fosse stato appena messo lì. Lo aprii, ci guardai dentro e vidi che era pieno di mazzette di biglietti da cento dollari, avvolte da apposite fascette. «Bene!» esclamai. Basta girare abbastanza tempo per una casa vuota e nessun segreto resterà tale. Tirai giù il borsone dal suo nascondiglio, andai ad aprirlo con comodo sul pavimento del soggiorno e contai il denaro. C'erano più di ventitremila dollari, in biglietti da cento perfettamente invecchiati e identici a quelli che mi aveva confiscato l'agente speciale Marsha Fields. I soldi dei Markov. Quelli con cui gli Hewitt si erano mantenuti negli ultimi tre anni, spacciabili con facilità ovunque, a patto di non sventolarli sotto il naso di un cassiere di banca o di un agente speciale del ministero del Tesoro. «Bene!» esclamai di nuovo. Insieme alle mazzette di dollari c'erano cinque o sei cataloghi di materiali e macchine per la stampa in offset, tutti con l'etichetta che indicava come destinatario Wilson Brownell, al suo indirizzo di Seattle, nello Stato di Washington. Clark aveva certamente ricominciato a stampare soldi falsi, forse con l'aiuto di Brownell. Forse erano soci. Erano le nove e due minuti quando rimisi i soldi nella sacca e la sacca nel suo nascondiglio sotto il tetto. Mi tenni i cataloghi. Mi ero fatto un'idea ben precisa sull'identità della persona che Clark aveva chiamato al telefono e dopo che ebbi sistemato la sacca interpellai la mia amica alla compagnia dei telefoni e la pregai, per maggior sicurezza, di controllare chi erano le persone che Clark aveva chiamato negli ultimi tre giorni. Non ci volle molto. La mia amica mi disse che erano state effettuate tre telefonate a due destinatari diversi. Una delle conversazioni era durata ben ventisei minuti, con un utente della rete metropolitana di Seattle, tale Wilson Brownell. Gli altri due numeri corrispondevano a un certo Trevor Michaels, un utente della rete di Los Angeles. Charles aveva avuto ragione su questo particolare. Se avessi continuato a tenere d'occhio la sua casa abbastanza a lungo,
Clark si sarebbe rifatto vivo, prima o poi. I soldi erano ancora lì e anche i suoi figli, per quel che lui ne sapeva. Ma considerando le abitudini del soggetto, rischiavo di aspettare parecchio. Dato che Clark aveva telefonato a Trevor Michaels, era logico supporre che volesse incontrarsi con lui e di conseguenza era probabile che fosse andato giù a Culver City. I drogati possono stare a lungo lontano da casa, ma non possono mai stare troppo lontani dal loro spacciatore di fiducia. Di conseguenza, era possibile che Trevor sapesse qualcosa. Forse si stavano facendo insieme in quello stesso momento. Mi lavai, chiusi la casa e mi misi in macchina diretto a sud verso Culver City e la BestCo. Quando arrivai lì, chiesi di Trevor a un venditore di origine pakistana di nome Rashid, ma Rashid mi rispose che quello era proprio il giorno libero di Trevor. Magnifico. Raggiunsi il suo appartamento giù a Overland, aspettandomi di fare un buco nell'acqua, ma giusto mentre svoltavo nella strada dove abitava incrociai Michaels al volante di un'Acura grigio scuro. La fortuna vale sempre molto di più della bravura. Feci una conversione a U e tornai indietro seguendo l'Acura, sperando che la mia fortuna tenesse e che Trevor potesse portarmi da Clark. Invece no. Si inoltrò nel parco pubblico di Culver City e parcheggiò accanto a un vecchio, sgangherato furgone Dodge vicino al quale due giovinastri con i capelli lunghi stavano facendo una serie di evoluzioni sui loro skateboard. I due erano a torso nudo, con i muscoli in evidenza e indossavano solo pantaloncini ampi e informi e scarpe da ginnastica alte di caviglia, come piacciono ai teppisti. Quando Trevor scese dall'auto, i giovinastri sospesero le loro evoluzioni e andarono ad aprire lo sportello laterale del furgone. Michaels aprì a sua volta il coperchio del bagagliaio e i due si affrettarono a trasbordare sul furgone dei lettori di compact-disc Sony, nuovi di pacca, ancora nelle loro scatole originali, quasi certamente rubate alla BestCo. Trevor chiuse il bagagliaio, poi tutti salirono sul furgone. Il veicolo rimase fermo dov'era, con il motore spento e le tendine chiuse ai finestrini. Un perfetto rifugio mobile per i drogati del quartiere. Parcheggiai in fondo all'isolato, poi tornai cautamente fino al furgone, tendendo l'orecchio. Niente. Fuori nel parcheggio, due donne stavano portando a spasso i loro bambini sul passeggino, altri due giovanotti se ne stavano a torso nudo per prendere il sole, più in là sei ragazzi latinoamericani giocavano a pallone e qui nel parcheggio Trevor Michaels stava acquistando partite di droga. Scene di vita quotidiana in una grande città. Tirai fuori la mia Dan Wesson, lasciai che le due signore con i passeggi-
ni si allontanassero, poi spalancai di colpo il portello scorrevole del furgone, gridando: «Polizia!» Trevor Michaels e i due giovinastri accanto a lui, acciambellati sul pavimento metallico del furgone, stavano dividendo i soldi e i sacchetti di eroina da cinque dollari in mezzo ai lettori di CD. Rimasero tutti e tre come raggelati, fissando con gli occhi fuori delle orbite la canna del revolver. In mezzo a loro c'era un mucchietto di logore banconote da cento e mi chiesi se per caso Trevor aveva ricevuto quei soldi da Clark. Uno dei giovinastri esclamò: «Oh, merda!» Trevor Michaels disse: «Ah, sei tu.» Abbassai la pistola. «Ottimo lavoro, agente Michaels. Non avremmo potuto fare niente senza di te.» I due giovinastri guardarono Trevor. Trevor Michaels aprì la bocca, la richiuse e guardò verso di loro. «Non sono un piedipiatti.» Il più grande dei due ragazzi gli lanciò un'occhiataccia. «Stronzo.» Michaels disse: «Ehi. Non credete a queste balle.» Tirai giù Michaels dal furgone. «Penso che ci si possa mettere d'accordo con questi ragazzi, no?» Lo strattonai più forte, chiusi di scatto il portello e lo portai via. Il motore si mise in moto con un ruggito e il furgone partì di scatto facendo fumare i pneumatici. Michaels disse: «Sei pazzo? Lo sai cosa mi hai fatto?» «Sono ragazzi, Trevor. Non avrai mica paura di un paio di sbarbatelli?» Aveva gli occhi dilatati e il viso imperlato di sudore freddo. «Gesù, ti ha proprio dato di volta il cervello.» Mi avviai verso la mia macchina, tirandomelo dietro. «Dimmi una cosa. Credi che la BestCo ti farebbe incriminare se sapessero che gli svuoti il negozio per procurarti la droga?» Michaels si morse il labbro inferiore, fissando muto il furgone che si allontanava come se fosse l'ultimo autobus per la salvezza e lo avesse perso. Mentre fuggiva verso l'altro capo del parco, il giovinastro al volante si sporse a gridare qualcosa, facendoci un gestaccio. Charles tra cinque anni avrebbe potuto diventare come quel teppista, riflettei. «Allora, parlami di Clark Haines» dissi. Lui lo conosceva come Haines, non come Hewitt. Michaels aveva ancora gli occhi fissi sul furgone che si allontanava. Lo scossi strattonandogli il braccio. «Svegliati, Trevor.» Mi guardò smarrito. «Era tutto quello che possedevo. Mi hanno preso i
soldi, mi hanno preso la merce. Cosa faccio, adesso?» Lo strattonai di nuovo, più forte. «Preferisci vedertela con me o con la BestCo?» Trevor Michaels si umettò le labbra, fissando il furgone sempre più lontano. «Dio santo, daccapo con questa storia? Non so dove sia Clark.» Un altro strattone. «Ti ha chiamato al telefono, Trevor. Due volte.» Finalmente mi guardò, con un'espressione stanca e confusa. Non ho mai visto un drogato che non lo fosse. «Be', sì. È venuto da me ieri sera a comprare un paio di dosi.» Un altro strattone. «Andiamo, Trevor. Clark ha qualche progetto in mente e due misere dosi non potevano bastargli.» «Ha comprato otto dosi, okay? Tutte quelle che avevo.» Fece una smorfia come se avesse qualche rimpianto, in proposito. «Gli ho fatto un ottimo prezzo.» Otto dosi erano parecchie. Quante bastavano per affrontare un lungo viaggio. Forse voleva tornare su a Seattle. «Ti ha detto perché aveva bisogno di tutta quella roba?» «Ha detto che doveva andare via per qualche giorno.» «E ti ha detto anche dove andava?» Pensavo a Seattle. E pensai di nuovo a Wilson Brownell. «Long Beach.» Lo guardai diffidente. «Ha detto che andava a Long Beach?» Fece di nuovo la smorfia di prima. «Be', non ha detto proprio così, ma mi ha chiesto se conoscevo qualche spacciatore di fiducia giù a Long Beach. Mi sembra logico, no?» Long Beach. «E gli hai indicato qualcuno?» Michaels aggrottò le sopracciglia. «Diavolo, non conosco nessuno a Long Beach.» Cominciò a tremare. «Mi hai davvero inguaiato con quei due.» Agitò le mani con aria esasperata. «E adesso che faccio, me lo dici? Che faccio?» Stava piagnucolando quando lo lasciai. Tornai in macchina al mio ufficio. Volevo ancora chiamare Tracy Mannos, ma prima dovevo cercare di parlare con Brownell, per chiedergli di spiegarmi la faccenda di Long Beach. Forse era il caso di chiamare anche Teri, magari sapeva qualcosa. Alle undici e un quarto lasciai l'auto nel parcheggio sotterraneo, salii i quattro piani fino al mio ufficio e lo trovai invaso dai poliziotti. Reed Jasper si era installato dietro la mia scrivania, mentre altri tre tizi
che non avevo mai visto prima stavano frugando dentro i miei archivi. C'erano carte sparse in giro sul pavimento e tutto era stato messo sottosopra. Jasper sorrise quando mi vide. «Bene, bene, bene. Proprio l'uomo che aspettavamo.» Guardai Jasper, gli altri che erano con lui, poi di nuovo Jasper. I suoi compari erano omaccioni con gli abiti tutti stazzonati e delle facce anonime. Agenti federali, senza dubbio. «Che diavolo sta facendo, Jasper?» «Cerco di rintracciare Clark Hewitt, amico mio.» Prese un pezzo di carta accuratamente ripiegato dalla tasca interna della giacca e lo depose sul piano della scrivania. «Un regolare mandato di perquisizione e di sequestro, debitamente firmato dalle autorità federali.» Si allungò sulla mia poltroncina e incrociò le braccia sul petto. «Al suo posto, chiamerei un avvocato.» Gli altri tre mi stavano fissando e un brivido freddo mi corse improvvisamente per la schiena. «Perché?» «Wilson Brownell è stato trovato morto, ieri pomeriggio. L'hanno torturato fino a farlo morire. Credo che Clark Hewitt possa essere coinvolto in qualche modo. E credo che lei gli abbia tenuto bordone.» 19 Dissi: «Se avessi voluto ristrutturare il mio ufficio, non avrei chiamato i funzionari del governo.» «Questi sono gli agenti Warren e Pigozzi dell'ufficio di Los Angeles della polizia giudiziaria federale e lui è Stansfield, agente speciale dell'FBI.» Warren era un nero. Pigozzi aveva una zazzera color pel di carota e Stansfield aveva la faccia che pareva butterata dal vaiolo. «Siamo qui perché crediamo che lei sappia qualcosa di Clark Hewitt, sotto questo nome o sotto un altro.» Mi sprofondai sul divano e lo guardai perplesso. «Non abbiamo già chiarito questa storia a Seattle?» Warren intervenne: «Ribadisco il mio invito a interpellare il suo avvocato di fiducia.» «Perché?» «Perché tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei.» «Non ho niente da nascondere» dissi, in tono tranquillo e fiducioso. «Tranne la mia irritazione per come mi avete buttato all'aria l'ufficio.» Warren riprese a frugare nei miei schedari, indifferente alle mie critiche.
Jasper scosse il capo. «Non la capisco, Cole. Lei mi sta nascondendo quello che sa, mi ci gioco la camicia. Quello che non capisco è chi glielo fa fare.» Non dissi nulla. Come potevo spiegargli l'impegno che mi ero assunto con una ragazzina quindicenne? «I suoi amici della banda Markov sono qui in città» disse ancora Jasper, tornando alla carica. «Se non si sono ancora fatti vivi, lo faranno presto.» «Mi auguro che siano un po' più garbati di voi.» L'agente Pigozzi, quello con i capelli rossi, si volse a guardarmi mentre stava frugando negli schedari e poi fece cadere sei o sette fascicoli a terra, di proposito, per provocarmi. Il pavimento era ormai pieno dei fogli con i miei appunti, i miei conti e i miei rapporti. «Questo è davvero poco carino.» Jasper guardò il suo collega, aggrottando la fronte. «Santo cielo, Leo.» «Forse così gli passa la voglia di fare lo spiritoso.» «Complimenti, Leo» dissi io. «Immagino che si eserciti a fare il duro davanti allo specchio, è così?» Leo abbozzò un sogghigno. «Vedremo chi riderà quando avrà bisogno di farsi rinnovare la licenza.» «Oh, sono senza fiato per la paura.» Leo lasciò cadere altre carte a terra. Jasper disse: «Andiamo, ragazzi, questo non è un terzo grado.» Poi si alzò dalla mia poltrona dietro la scrivania, con aria di grande padronanza, come se non fosse il mio ufficio, ma il suo. «Senta, Cole, vorrei da lei solo un po' di cooperazione.» «Non si direbbe, dal vostro atteggiamento.» «Clark Hewitt è nei guai fino al collo e anche i suoi figli. Ha già avuto modo di incontrare Markov a quattr'occhi e quindi sa di cosa parlo.» Cercai di assumere un'aria distaccata. «Il mio socio ci ha rimesso la pelle per salvare quella di Clark Hewitt. Non penserà che adesso potremmo permettere che gli accada qualcosa di male?» Feci la faccia di quello che non sapeva nemmeno di cosa stessimo parlando, ma sapevo che aveva ragione. Sapevo anche che se Clark si era rimesso a fare il falsario gli agenti federali lo avrebbero sbattuto in galera senza pensarci due volte e che questo avrebbe sicuramente fatto molto piacere ai Markov. Se stava in prigione, infatti, avrebbero saputo esattamente dove trovarlo.
Jasper mi rivolse un cenno, sollecitandomi a uscire con lui sul balcone. «Parliamo qui fuori, Cole. I miei uomini potranno lavorare meglio, senza averci tra i piedi.» Uscii con lui, a malincuore. Una densa foschia biancastra aveva invaso il cielo, nascondendo alla vista le Channel Islands. Si intravedeva a malapena la distesa dell'oceano. Contemplai la foschia che ammantava il panorama, respirando l'aria salmastra che veniva dal mare. «Mi avete perquisito anche la casa?» domandai. «Prima di venire qui, certo.» «Trovato niente?» Jasper sorrise. «No, lo sa bene e sa anche che non troveremo niente nemmeno qui, ma non potevamo trascurare di dare un'occhiata.» «Magnifico. Questo mi fa sentire molto meglio.» Jasper si mise a braccia conserte, appoggiandosi con la schiena alla ringhiera del balcone. Portava degli occhialetti tondi scuri e un anonimo vestito grigio, più adatto al clima di Seattle che a quello della California Meridionale; il suo aspetto pareva fatto apposta per dichiarare ai quattro venti che era un agente federale. Disse: «Mi rincresce, ma continuo a pensare che lei sappia molto di più di quello che vuole dire.» «Chi, io?» «Ho chiesto in giro di lei: mi hanno detto che stava cercando un tizio e che quando lei cerca qualcuno finisce sempre per scovarlo. Non riesco proprio a capire perché si voglia cacciare nei guai.» «Quelli con cui ha parlato potrebbero sbagliarsi.» «Può darsi» disse, con un cenno d'assenso. «O forse il vero problema è che non accetto le prepotenze, da parte di nessuno.» Rise. «Mi hanno detto anche questo.» Tornò serio, incrociando di nuovo le braccia sul petto. «So che Clark Hewitt è stato a Seattle. So da testimoni oculari che un uomo che rispondeva alle caratteristiche fisiche di Hewitt è stato visto insieme a Wilson Brownell, suo ex socio e vero maestro nell'arte di stampare soldi falsi. Scommetto che sapeva anche questo.» «Ho visto Brownell quando sono andato a Seattle. Non sapeva niente.» «Lo spero proprio, per il bene di Clark.» Jasper restò per qualche attimo a guardare i suoi uomini che lavoravano all'interno. Warren, l'agente di colore, aveva scoperto l'orologio a forma di Pinocchio e lo stava fissando sospettoso. Diede di gomito al collega con i capelli rossi e tutti due guardarono quell'insolito oggetto. Jasper disse: «Brownell è stato torturato a mor-
te con un ferro da stiro. Ho portato delle foto. Le vuole vedere?» Scossi il capo. «Può scommetterci, Cole. Qualsiasi cosa Brownell sapesse, adesso lo sanno anche i Markov. Se Brownell conosceva il nome con cui adesso Clark si fa chiamare, o un indirizzo, o un numero telefonico, il gioco è fatto. Capisce quel che voglio dire?» «Capisco, Jasper.» Tirai un sospiro, guardando a sud verso l'isola di Catalina. Cercai di vedere attraverso la foschia, ma riuscii a intravedere solo vagamente la sagoma dell'isola. «Non so dove sia Clark.» L'agente con la faccia butterata dal vaiolo si affacciò dalla porta-finestra. «Jasper» chiamò. Jasper rientrò e tutti e quattro si radunarono attorno alla mia scrivania, confabulando tra di loro, mentre l'agente dai capelli rossi stava appoggiato con una mano alla schiena del collega butterato. Non bastavano i russi che mi davano la caccia, non bastava avere il fiato dei federali sul collo; adesso mi tormentava anche il pensiero che forse Brownell sapeva esattamente dove Clark si nascondeva e quel che stava facendo e che forse a quest'ora Dobcek e Sautin avevano già tra le mani la loro preda. In tal caso, né io né Jasper potevamo farci niente e mi dissi che forse era meglio allontanare da me una prospettiva così scoraggiante. Quel che importava, adesso, erano i ragazzi e loro erano al sicuro. Forse Clark era ancora libero e se l'avessi trovato prima dei russi, potevo ancora fare qualcosa per portarlo in salvo. Magari perfino convincerlo ad andare da Jasper, senza rischiare per questo di finire in galera. Sempre che fosse ancora vivo. Warren, l'agente di colore, strinse la mano di Jasper e uscì dal mio ufficio. Il pel di carota, Pigozzi, indicò a Stansfield, il collega butterato, l'orologio a forma di Pinocchio. Ma Stansfield scosse la testa, scettico. Jasper tornò fuori sul balcone. «Vi siete divertiti abbastanza?» chiesi. «Non creda di averla fatta franca. L'ha scampata solo per oggi.» Mi diede un biglietto da visita. «Alloggio al Marriott, giù in centro. Ho scritto qui il numero della mia stanza. Se prende la decisione giusta, mi faccia una telefonata.» «Certo.» La decisione giusta. Guardò la foschia che gravava sulla città e scosse la testa. «Come fate a respirare quest'aria schifosa?» «Ci rafforza, Jasper. Tra tutti gli americani, gli abitanti di Los Angeles sono quelli con i polmoni più resistenti.» Assentì, più a se stesso, probabilmente, che a me. «Certo, come no.» So-
spirò, mandando giù anche lui una boccata di quell'ariaccia e si diresse verso la portafinestra. «Conosco Clark Hewitt sin da quando è venuto da noi la prima volta, a implorare che lo salvassimo dai Markov e posso assicurarle che quel tipo non è ciò che sembra.» Lo fissai impassibile. «Sembra una povera vittima, ma non lo è.» Mi sorrise, ma era un sorriso mesto. «Qualunque cosa lei pensi di lui, le garantisco una cosa: è molto diverso da quello che sembra.» Reed Jasper allargò le braccia e mi fissò con aria severa, come se mi avesse appena dato la Stele di Rosetta e adesso stesse a me decidere cosa farne. Poi tornò nel mio ufficio, lo attraversò e uscì. L'agente dai capelli rossi e quello butterato uscirono insieme a lui, senza curarsi di chiudere la porta. Restai sul balcone finché li vidi uscire dal palazzo e salire su due anonime berline governative blu scuro e immettersi nel traffico intenso del Santa Monica Boulevard. A quel punto rientrai, chiusi la porta esterna e cominciai a raccogliere le mie carte da terra. Mi ci volle quasi un'ora per rimettere tutto a posto, perché fortunatamente i miei archivi non contenevano granché. Mi parve che non mancasse nulla, anche se uno dei Grilli Parlanti di ceramica era caduto dalla scrivania e si era rotto. Gettai via i cocci. Quando le carte furono di nuovo nei loro fascicoli e i fascicoli nei loro schedari, aprii una bottiglietta di Budweiser e mi sedetti, allungando i piedi. «Clark, spero proprio che ne valga la pena» mormorai. In quel momento squillò il telefono e mi affrettai a rispondere, cercando di assumere il tono della persona più spensierata di questo mondo. In realtà ero lì con la coda tra le gambe, a scolare birra, come si conviene a un detective che rischia di perdere la licenza, cioè la sua sola fonte di sostentamento, per colpa del governo degli Stati Uniti. «Elvis Cole, agenzia investigativa, indagini professionali a prezzi stracciati.» «Sei ubriaco?» chiese la voce di Tracy Mannos all'altro capo del filo. «Non ancora.» «Be', piantala. Puoi venire da me?» Alzai gli occhi verso l'orologio-Pinocchio. «Adesso?» Pensai a Pike e a quei ragazzi che adesso erano nella casa sicura. Pensai se valeva la pena di seguire la traccia che portava a Long Beach. «Hai scoperto qualcosa riguardo alla trattativa di Lucy?» «Preferirei parlartene di persona, qui alla KROK.» «Perché lì?»
Il suo tono suonò irritato. «Smettila di fare lo stupido e precipitati qui.» Poi riagganciò. Chiusi l'ufficio, poi mi misi in macchina e raggiunsi senza fretta la sede della KROK per vedere Tracy Mannos. Nessuno mi seguì. O almeno così mi parve. 20 La sede della KROK Television, Power Channel 8 ("Notizie personalizzate da noi a voi," recitava lo slogan), era in un grosso edificio di mattoni e acciaio poco distante dalla Western Avenue, nella parte più orientale di Hollywood. Lasciai la macchina nel piccolo parcheggio protetto contiguo al palazzo e trovai Tracy ad aspettarmi nell'atrio. Non avevo immaginato che potesse venirmi incontro, ma lei era lì, impaziente di vedermi, apparentemente. «Intuisco che hai scoperto qualcosa» dissi. «Parliamo nel mio ufficio.» Tracy Mannos era una donna alta e attraente sulla cinquantina. I suoi capelli, che mostravano qualche filo grigio, erano tagliati corti e il suo portamento era quello eretto, deciso, tipico della donna in carriera. Io e Lucy l'avevamo conosciuta quando lavoravo attorno al caso dell'assassinio di Theodore Martin e in quell'occasione Tracy aveva avuto modo di apprezzare la competenza di Lucy, al punto da suggerire ai suoi superiori di assumerla nel ruolo di commentatrice ufficiale della rete in materia legale. Tracy mi condusse oltre una pesante porta di vetro blindato e in fondo a un corridoio lucido di marmi praticamente deserto, data l'ora. «Stuart Greenberg è il nostro responsabile dell'amministrazione. Gli ho chiesto notizie sulla trattativa in corso per assumere Lucy e mi ha detto che era tutto regolare. Che non c'era niente di cui preoccuparsi.» «Hai chiesto al signor Greenberg se conosce per caso il signor Chenier?» Intanto eravamo entrati nell'ufficio di Tracy, un ambiente ultramoderno corredato da confortevoli poltrone e un'elaborata scrivania. Alle pareti erano appese le foto di un uomo e di tre bambini. Tracy si insediò dietro la scrivania e mi sorrise. «Una stazione televisiva è un luogo molto sensibile alle pressioni di carattere politico, Elvis. La gente qui è molto suscettibile e se gli guardi la schiena potrai notare le cicatrici delle coltellate a tradimento.» Annuii. «Insomma, mi stai dicendo che non potevi azzardarti a fargli una domanda così diretta.»
«Dobbiamo stare molto attenti a non pestare i piedi dei pezzi grossi.» Annuii di nuovo. «Nonostante questo, sono riuscita a raccogliere un'informazione preziosa, mentre ero nell'ufficio di Stuart.» «Ah.» Me l'aspettavo. Avevo colto infatti una lampo ferocemente compiaciuto, nel suo sguardo. «Stuart ha cominciato la sua carriera a Houston, nella sede principale dello studio legale Benton, Meyers e Dane.» Lo stesso di cui era socio Richard. «Guarda guarda.» La rete di complicità tra vecchi sodali si era messa all'opera. «Sì, ma questo non prova niente. Greenberg è pur sempre il responsabile amministrativo e nessuno può ficcare il naso nel modo in cui gestisce il suo settore di competenza.» Poi il lampo nello sguardo divenne ancora più evidente. «A meno che non saltasse fuori che ha contravvenuto in modo palese all'etica professionale.» «Come nel caso, per esempio, che abbia aiutato un ex marito a boicottare la carriera dell'ex moglie?» «Esatto. Ma la questione potrebbe diventare ancora più grossa, tale da non permettere alla nostra azienda di restare indifferente.» Allargò le braccia. «Dopotutto, se il boicottaggio fosse provato, Lucy potrebbe farci causa.» «Sempre che riuscisse a provare che è stata boicottata.» «Sì. Ma in casi come questi è molto difficile, a volte impossibile, portare le prove.» «Mmm» mormorai. Tracy Mannos si sporse verso di me, con aria combattiva. «Riconosciuta questa difficoltà, bisogna dire che a volte è sufficiente avere in mano qualcosa che possa passare come prova. In fin dei conti, qui in America siamo molto sensibili a certi argomenti. Anche solo il sospetto di aver operato una discriminazione in base al sesso potrebbe nuocere molto all'immagine pubblica di una stazione televisiva come la nostra. Ebbene, quando sono passata nell'ufficio di Stuart, ho avuto la netta impressione che sia accaduto qualcosa del genere.» «In che senso?» «Sei tu il detective.» Era piuttosto laconica, ma mi parve chiaro che doveva avere un'idea ben precisa del genere di sopruso che era stato perpetrato e di dove potevo tro-
varne le prove. Dissi: «E quest'impressione l'hai avuta proprio mentre eri nel suo ufficio?» «Diciamo piuttosto mentre lasciavo l'ufficio e stavo salutando la sua segretaria.» «E a quest'ora il signor Greenberg dovrebbe aver concluso la sua giornata di lavoro?» Sorrise come potrebbe fare una maestra che vede il suo alunno più asino fare finalmente qualche progresso. «Non ne sono sicura. In genere, torna a casa molto prima di quest'ora, ma oggi potrebbe aver deciso di fare gli straordinari.» «Credo che andrò a parlargli.» Tracy si rilassò, appoggiandosi soddisfatta allo schienale della poltrona. «Vacci. Credo che la tua visita si rivelerà illuminante.» Mi spiegò come dovevo fare per raggiungere l'ufficio di Stuart Greenberg e io mi misi in cerca, attraversando i corridoi deserti degli uffici amministrativi. I piani inferiori della stazione televisiva brulicavano di attività in vista delle trasmissioni della sera, ma negli uffici ai piani più altri c'erano ormai solo le donne delle pulizie. Nessuno mi chiese chi ero o cosa stavo facendo. Stuart Greenberg aveva un bell'ufficio d'angolo, pieno di diplomi, ritratti familiari e piante molto più verdi delle mie, ma non ebbi bisogno di entrare lì. Avevo ascoltato attentamente le parole di Tracy e avevo capito che gli indizi che mi interessavano non si trovavano nell'ufficio del responsabile amministrativo, ma in quello contiguo della sua segretaria. Il registro delle chiamate effettuate o ricevute da Greenberg era lì sulla scrivania della segretaria, accanto al telefono. Rivolsi un cenno di saluto alle donne delle pulizie, poi mi sedetti, esaminai a ritroso le pagine e trovai esattamente quel che Tracy Mannos mi aveva preannunciato. Tre giorni prima Richard Chenier aveva chiamato due volte Stuart Greenberg. Non c'era niente che potesse indicare il contenuto delle conversazioni, ma come aveva suggerito la stessa Tracy, non era necessario che ci fosse. Portai il registro a una macchina per le fotocopie, copiai la pagina incriminata che riportava le telefonate di Richard, rimisi il registro al suo posto e lasciai l'edificio, mettendomi in macchina per tornare a casa. Il mio gatto si era disteso davanti alla porta del garage quando arrivai a destinazione. Aveva un orecchio su, l'altro giù e teneva la testa inclinata da un lato. Sembrava nervoso e scontento e non si mosse neanche quando gli arrivai quasi addosso con le ruote anteriori. Dovetti lasciare la macchina in
strada. «Quest'ultima settimana è stata davvero terribile, eh?» dissi. Mi ignorò. Magnifico. Snobbato dal mio gatto. Entrai come al solito dalla cucina e feci un giro d'ispezione nella casa per vedere cos'avevano combinato i federali. Quattro cassetti erano stati svuotati per terra, altri erano stati lasciati aperti e sul tavolo della cucina c'erano tre lattine di birra vuote. Questi piedipiatti. Apparentemente avevano frugato soprattutto in cucina e in camera da letto, ma il disordine era meno caotico di quello che avevano lasciato in ufficio. Probabilmente Jasper aveva detto ai suoi uomini di prendersela comoda. O forse avevano passato il tempo soprattutto a bere birra. Riempii una scodella di cibo per il gatto, poi chiamai Joe giù alla casa sicura. Il telefono squillò due volte e fu Charles a rispondere. «Non vogliamo niente» sbraitò, e mi chiuse il telefono in faccia. Tirai un profondo sospiro, stropicciandomi incredulo gli occhi. Chiamai di nuovo. Stavolta fu Joe a rispondere, al primo squillo. «I ragazzi possono sentirci?» «No.» Gli dissi di Reed Jasper, che i federali mi avevano perquisito la casa e l'ufficio e che Wilson Brownell era stato trovato morto. «Questi russi fanno sul serio» commentò Pike. «Puoi dirlo forte.» Gli raccontai anche dei soldi e dei cataloghi che avevo trovato nel sottotetto a casa di Clark. «Dobbiamo presumere che siano riusciti a farsi dire da Brownell tutto quello che sapeva, compreso l'indirizzo di Clark e il fatto che adesso si fa chiamare Haines. Credo che per ora non corriamo rischi, almeno finché giriamo alla larga dalla casa di Clark.» «Dove sei adesso?» Glielo dissi. «E se lui tornasse?» Avevo già preso in considerazione questo problema e le implicazioni non mi piacevano, ma non c'era molto da scegliere. Potevamo appostarci dentro o intorno all'abitazione di Clark e aspettare, ma era sicuramente più proficuo prendere noi l'iniziativa, limitandoci a controllarla periodicamente. Dissi a Joe che dovevo fare qualche altra telefonata e che probabilmente non sarei arrivato lì da lui prima del mattino seguente. «Oltre tutto, ho ricevuto la visita prima del tirapiedi di Richard e poi dei federali. I prossimi a farsi vivi potrebbero essere i russi. Un'occasione d'oro per piazzargli una pallottola in testa.»
«Certo, bisogna approfittare di tutte le occasioni per divertirsi un po'.» Riagganciai e chiamai Lucy a casa sua in Louisiana. Rispose immediatamente, come se fosse appollaiata a mo' di rapace accanto all'apparecchio. «Sono io» dissi. «Aspetta, cambio telefono.» Aspettai. Forse c'era Ben, vicino a lei. Quanto tornò all'apparecchio le dissi della mia conversazione con Tracy Mannos e quel che avevo trovato nel registro delle telefonate nell'ufficio di Greenberg. Quando ebbi finito il mio resoconto, dichiarò: «Vengo subito lì.» «Forse è meglio se parli con Tracy, prima. Lei conosce i tuoi problemi e penso che sappia quel che c'è da fare. Inoltre, per ora le prove in nostro possesso non sono così decisive.» Per la verità il registro delle telefonate non provava proprio niente, ma non volevo sembrare disfattista. Lucy rimase in silenzio per un po', poi disse: «Non posso stare senza fare niente. Richard non ha il diritto di sfruttare la sua influenza per rovinarmi la vita. Se non reagisco e gli sforzi di Tracy restano senza esito, mi sentirò anche peggio di come mi sento adesso.» Non risposi. «Sono fuori di me dalla rabbia, ma sono sempre una professionista con la testa sulle spalle. Adesso che so con cos'ho a che fare. So anche che possiamo vincere, senza il minimo dubbio. Sono solo due stronzi, compari di vecchia data, che si sono messo d'accordo per rimettere in riga quella che ai loro occhi è solo una povera donnetta.» Più o meno quello che aveva detto Tracy. «Be', hanno scelto la donnetta sbagliata.» Rimase muta per un istante e immaginai che stesse riflettendo. «Non mi importa di quello che Richard ti ha detto, ma te lo assicuro: non è per Ben che lo fa. Richard è sempre stato del tutto assente come padre, fin dal primo giorno e continua a esserlo. È per me che si agita tanto e per ribadire il suo potere. Ecco perché ho divorziato da quel figlio di puttana.» Era davvero infuriata. «È uno stronzo arrogante, pieno di sé e se pensa di potermi fare uno scherzo del genere, giuro che gli faccio un altro buco nel culo e ci ficco dentro quella sua testaccia.» Ehi, che temperamento! «Lucy?» dissi. «Che c'è?» fece lei, con voce ancora alterata dalla rabbia. «Calmati. Se no ti prende un coccolone.» Restò in silenzio per qualche secondo, poi scoppiò a ridere. «Oh. Sono davvero fuori di me.»
«Meno male che non sono io l'oggetto della tua furia.» «No, non ce l'ho con te, Elvis. Non potrei mai.» Rise di nuovo e fui lieto di sentirla ridere. Di sentire che era ancora così forte. «Devo venire lì e fare quello che c'è da fare, anche a costo di peggiorare le cose. Anche se dovesse costarmi il lavoro. Lo capisci, vero?» «Certo.» Le dissi della casa sicura dove avevo messo i ragazzi e le diedi il numero di telefono di lì. Le raccomandai di comunicare a Joe con quale volo sarebbe arrivata. Mi rispose che l'avrebbe fatto e quando riagganciai dissi forte: «Richard, preparati a essere fatto a pezzi.» Mi ci volle un po' più di un'ora per rimettere a posto la casa. Se fossi stato una persona più accomodante, forse avrei potuto anche compiacermi dell'efficienza con cui i federali avevano setacciato ogni angolino. In fin dei conti, noi contribuenti paghiamo per avere dei servizi efficienti. 21 Il mattino seguente feci una deviazione di una ventina di chilometri attraverso il Laurel Canyon prima di raggiungere Studio City, per individuare eventuali inseguitori. Se non potevo guidare spericolatamente per seminare i russi e i federali, forse sarebbe bastato il caotico traffico dell'ora di punta intorno a Los Angeles a ottenere lo stesso scopo. L'appartamento che Pike aveva prescelto come casa sicura stava nell'angolo posteriore di una palazzina circondata da un giardino a due livelli, poco lontano dal Coldwater Canyon Boulevard, vicino allo Studio City Park. Era un classico edificio in stile ranch, come si usava alla fine degli anni Cinquanta, tutto legno e mattoni di tonalità scura, con alti pini allineati intorno alle aeree verdi e lungo i marciapiedi e con un parcheggio per i condomini sul retro. Gli ignari residenti di quel signorile condominio non si sarebbero mai sognati di sospettare che i loro nuovi vicini di casa erano braccati da feroci killer venuti apposta giù da Seattle. Lasciai la mia auto parcheggiata lungo il marciapiede, presi con me i cataloghi che avevo trovato nella sacca militare di Clark Hewitt e mi aggirai nel cortile esterno della casa finché trovai la porta giusta. Erano le nove e dieci quando suonai il campanello. La voce soffocata di Charles risuonò immediatamente dietro la porta, come se fosse appostato lì in attesa. «Vai via.» «Charles» dissi. Bel modo di cominciare la giornata.
La porta si aprì e mi trovai di fronte Pike, con la sua solita espressione impassibile. Gli rivolsi un affabile sorriso. «Salve, Joe, scommetto che hai passato una serata molto divertente.» Charles mi spiò dalla porta della cucina, dove si era rifugiato. «Scherzavo» disse. Pike volse il capo dalla sua parte e il bambino scappò dalla cucina verso il soggiorno. Eh, sì, doveva essere stata una serata proprio divertente. Dall'ingresso si passava oltre la cucina e dopo aver attraversato il soggiorno, si arrivava ai piedi della scala che portava al secondo piano. L'appartamento era ampio, spazioso e riccamente ammobiliato, come se il proprietario si fosse assentato da poco solo per un breve viaggio. Il soggiorno era pieno di piante verdissime e floridissime, diversamente dalle mie. Forse dovevo rivolgermi al padrone di casa per farmi dare qualche consiglio. Mi rivolsi a Pike con un'espressione compiaciuta. «Bello. Molto meglio della roulotte Airstream dell'altra volta.» Pike scrollò le spalle, come per dire che per lui l'una o l'altra soluzione non facevano molta differenza. Teri e Winona erano sedute al tavolo da pranzo e Charles si era piazzato davanti alla televisione. Guardava una di quelle lezioni di ginnastica che trasmettono al mattino. Stavano insegnando degli ottimi esercizi per i muscoli adduttori delle cosce. Winona disse: «Hai trovato il nostro papà?» Erano tutti lavati, vestiti e in attesa che il detective si desse da fare per ritrovare in giornata il loro povero paparino. «Non ancora, dolcezza. Ma ho trovato una buona traccia.» La speranza è tutto. Teri disse. «Vuoi fare colazione? Io e Joe abbiamo preparato frittelle al formaggio.» «No, grazie. Ho mangiato prima di andare via da casa.» Parve delusa. «C'è del caffè fresco.» Le dissi di versarmene una tazza, l'assaggiai e feci un cenno di approvazione. «Buono.» Teri sorrise compiaciuta. Joe disse: «Andiamo di sopra a parlare.» Seguii Pike su per le scale portandomi dietro il caffè e ci appartammo in una delle tre camere da letto. Era stata arredata come un piccolo ufficio casalingo, con una scrivania, un telefono e il fax, ma non c'era niente intorno che indicasse l'identità del padrone di casa. Forse era Pike. Per quel che ne sapevo, Pike poteva essere padrone di mezza Los Angeles. «Che cos'hai
trovato?» «Ventimila dollari in biglietti da cento contraffatti e anche questi.» Gli mostrai i cataloghi. Diverse pagine erano state contrassegnate con orecchie sugli angoli, per richiamare una serie di articoli di particolare interesse, come per esempio due tipi di lastre tipografiche per la stampa in offset prodotte da una ditta finlandese, uno scanner digitale ad altissima precisione della Hitachi commercializzato da un'altra ditta di New York che vendeva anche per posta, un supercomputer Apple da quattromila dollari offerto da una società di Los Angeles insieme a un software professionale per piattaforma grafica che costava quasi quanto il computer, un aggeggio definito "regolatore bilaterale", di una ditta di Londra specializzata in attrezzature per stampatori, una taglierina per carta di tipo industriale venduta dalla stessa ditta, scorte di inchiostro oleoso di vari colori, vale a dire sessanta litri rispettivamente di indaco N° 7 e arancio canyon N° 9, più quantità minori di verde foresta N° 2, rosso classico N° 42, nero, celeste chiaro N° 12 e giallo AB1, prodotti da tre diverse fabbriche di inchiostro, due europee e una con sede nel Maryland. Pike commentò: «Si è rimesso a stampare, non c'è dubbio.» «Sì, ma che cosa?» I biglietti da cento dollari sono verdi e neri. «Che se ne fa dei colori indaco e arancio?» Pike tirò fuori il portafoglio e pescò una banconota da cento. I soldi girano. «Forse li vuole mischiare per ottenere delle sfumature diverse di nero. O forse per riprodurre le fibre antifalsario incorporate nella filigrana.» «Credo che sarà meglio portare questo materiale dalla tua amica Marsha Fields e farci dire cosa ne pensa.» Pike mise via la banconota. «I nuovi biglietti da cento sono troppo difficili da copiare. Probabilmente si propone di falsificare quelli della vecchia serie.» «Probabilmente?» Pike sfogliò di nuovo i cataloghi. «Questa roba vale almeno quarantamila dollari. Mi domando dove prende i soldi per il materiale.» Me lo chiedevo anch'io, infatti. Non poteva certo pagare in contanti spedendo per posta i suoi centoni contraffatti e non poteva nemmeno rischiare di farsi identificare pagando tramite banca con assegni circolari o con qualche carta di credito. «Se ha ordinato questa roba» dissi «a quest'ora gliela staranno mandando. Forse potremo trovare Clark lì dove ha fatto spedire la merce.» Le ditte americane hanno generalmente un numero verde per telefonare
all'ufficio ordini, così presi la palla al balzo e chiamai per prima la società di Los Angeles che vendeva computer. Mi rispose la voce giovanile di una ragazza dall'accento latinoamericano. «Buongiorno dalla Cyber-World! C'è qualche nostro articolo che le interessa ordinare?» Allegra e premurosa. «Vi ho fatto un ordine un paio di giorni fa, ma la macchina non è ancora arrivata» dissi con il tono del cliente qualsiasi di una qualsiasi giornata di lavoro. «Oh, cerchiamo di rimediare subito!» Il cliente ha sempre ragione. «Il suo nome, per favore.» «Clark Haines.» Attesi un paio di secondi, poi aggiunsi: «Oh, senta, è stata la mia segretaria a fare materialmente l'ordine. Può darsi che abbia usato invece il nome della mia ditta, Clark Hewitt. Sa com'è...» Il trucchetto era un po' debole, ma si fa quel che si può. La ragazza disse: «Ahi ahi, qui non risulta nessun ordine, sotto nessuno dei due nomi. Potrebbe essere un altro ancora?» La ringraziai e riattaccai. Chiamai altre tre ditte, ma nessuna aveva ricevuto ordini a nome di Clark Haines, o Hewitt. Quando misi giù il telefono, dissi: «Mannaggia.» «Forse non ha ancora effettuato gli ordini. Forse deve ancora farli.» «Forse.» Ripensai a Clark che telefonava a Wilson Brownell, alle loro numerose conversazioni telefoniche e al fatto che Clark aveva sfidato il pericolo dei russi per andare a trovare il compare. Chiamai il grande magazzino di elettronica a New York presentandomi come un cliente e ripetendo la stessa storiella che avevo già raccontando alle altre quattro ditte, solo che stavolta non diedi il nome di Clark Hewitt ma quello di Wilson Brownell. L'impiegata controllò rapidamente la lista degli ordini e mi confermò: «Oh, sì, ho qui davanti i suoi dati.» Mi rivolsi a Pike facendo un gesto di trionfo con il pollice alzato. L'impiegata disse ancora: «Il suo scanner non arriverà lì da lei prima di domani. È conforme alla sua richiesta, giusto?» «Io lo volevo per oggi.» «Mi dispiace, signore. La persona che ha preso il suo ordine dev'essersi confusa.» «Be', allora, dato che ci siamo, controlliamo anche la destinazione. Non vorrei che finisse nel posto sbagliato.» «Sissignore. Il destinatario è il "Pacific Rim Weekly Journal", secondo
quello che indica la lettera di vettura aera. Volo numero cinque della United Airlines, consegna presso lo scalo merci del LAX.» Mi annotai i dati. «Per domani?» «Sissignore. È scritto qui sul modulo.» Riagganciai, chiamai l'ufficio informazioni della compagnia dei telefoni e chiesi il numero della redazione del "Pacific Rim Weekly Journal". La centralinista disse: «Mi dispiace, signore. Il nome non figura nell'elenco degli abbonati di Los Angeles.» «Provi in quello della rete periferica.» «Mi spiace. Anche lì niente.» Mi venne in mente Trevor Michaels. «Provi con la rete di Long Beach.» «Ci siamo, stavolta» disse infine la centralinista, dandomi l'indirizzo e il numero di telefono. «Evviva» commentai. «Come ha detto?» «Niente, signorina. Grazie.» Formai il numero e mi rispose una donna con un forte accento asiatico. «"Journal."» «Vorrei parlare con Clark, per favore.» La donna mi chiuse il telefono in faccia. Guardai Pike. «Credo che stavolta siamo sulla pista giusta.» Pike rimase a vegliare sui piccoli Hewitt e io mi feci la lunga tirata in macchina verso Long Beach, seguendo la Hollywood Freeway fino a Harbor Freeway e proseguendo a sud per circa un'ora prima di prendere a est lungo la San Diego Freeway. Quando raggiunsi la strada statale 710, mi diressi di nuovo a sud seguendo il Los Angeles River fino all'oceano. Il centro di Long Beach è formato da un nucleo di grattacieli moderni che svettano in mezzo alle basse costruzioni più vecchie, bar a due piani con decorazioni a stucco, modeste villette allineate lungo gli ampi viali divisi da aiuole spartitraffico ombreggiate dai palmizi, che creano un'atmosfera da piccola città marina. Sarebbe stato un bel posto dove portare Teri, Charles e Winona a mangiare un bel gelato e a passeggiare nel sole dalle parti del Belmont Pier, per guardare i traghetti che facevano avanti e indietro da Catalina Island; solo che perfino una bella passeggiata sul molo può perdere ogni attrattiva quando si pensa che in quello stesso momento il proprio padre potrebbe essere torturato con un ferro da stiro. Un'altra volta, forse. Presi a est costeggiando la riva del mare lungo Ocean Boulevard, poi svoltai verso nord e proseguii lungo Redondo Avenue, mentre l'abitato in-
torno perdeva il carattere pittoresco della città di mare, trasformandosi in un'anonima zona residenziale per la classe media e poi in una periferia sempre più misera, piena di latinoamericani e infine di asiatici immigrati di recente, ancora più disagiati. La sede del "Pacific Rim Weekly Journal" era in una traversa a un paio di isolati di distanza da Redondo Avenue, dentro un piccolo edificio commerciale a tre piani, incuneata tra un ristorantino vietnamita e una lavanderia a gettoni piena di piccole donne asiatiche che sembravano vietnamite o cambogiane. Girai attorno all'isolato un paio di volte, poi parcheggiai un isolato più a sud e tornai a piedi su fino al "Journal" e al ristorante. Vidi due persone nell'ufficio del "Journal" ma nessuno dei due era Clark Hewitt. Non erano ancora le undici e il ristorante era vuoto, fatta eccezione per una vecchia donna vietnamita impegnata ad avvolgere forchette e cucchiai dentro i bianchi tovaglioli di cotone pesante. Stava preparando i tavoli per l'ora di pranzo. Le sorrisi. «Avete qualcosa da mangiare che si possa portare via?» Mi diede un menu con le specialità da asporto. «È in anticipo.» «Non c'è niente di pronto?» Scosse la testa. «Oh, no. Può ordinare quello che vuole.» Chiesi un fritto di riso con calamari e miele e le dissi che avrei aspettato fuori sul marciapiede. Mi disse che per lei andava benissimo. Sostai lì davanti con in mano il piccolo menu, cercando di dare l'impressione che non avevo niente in mente se non il cibo e tenendo d'occhio nel contempo l'ufficio del "Journal" nella porta accanto. Una donna asiatica sulla cinquantina sedeva dietro una pesante scrivania di legno, parlando al telefono. Alle sue spalle, i muri erano rivestiti di pannelli di sughero tappezzati di un'infinità di bigliettini, fotografie e quelli che sembravano dei manifesti stampati per pubblicizzare qualche evento che interessava la comunità locale. Un paio di sedie sgangherate stavano nella parte anteriore dell'ufficio e di fronte a quella della donna c'era una seconda scrivania, occupata da un giovanotto asiatico sulla ventina. Il giovane indossava una maglietta della Cal Tech, una salopette mimetica di tipo militare con un disegno a strisce tipo tigre e scarpe da ginnastica con la caviglia imbottita, portate senza calze. Se ne stava con i piedi allungati sulla scrivania, sprofondato nella lettura di un libro in edizione economica. Un divisorio nascondeva la parte posteriore dello stanzone. Chissà, forse c'era Clark, dietro quel divisorio. Forse dovevo fare irruzione lì dentro con la pistola spianata, gridando: «A-a, ti ho beccato!» Avrei fatto un'impressione notevole,
se davvero si nascondeva lì dietro. Il giovane si accorse che lo stavo guardando. Sorrisi e presi una copia del "Journal" da una cassetta di rete metallica legata alla parete esterna dell'edificio, cercando di spacciarmi per un tizio qualsiasi che non sapeva come passare il tempo mentre aspettava che il ristorante gli servisse quel che aveva ordinato. Il giornale era un tabloid scritto in lingua vietnamita, pieno di articoli che non ero in grado di leggere e di foto di profughi che appartenevano verosimilmente alla comunità locale. La qualità della stampa era molto scarsa e mi chiesi se gli editori avessero assunto Clark per dare al loro giornale una veste più professionale. «Conosce il vietnamita?» Il giovanotto si era affacciato sulla soglia dell'ufficio. All'interno, la donna stava ancora telefonando, ma adesso mi stava osservando anche lei. Scossi il capo, rimettendo al suo posto il giornale. «No, sto solo aspettando che mi diano da mangiare al ristorante qui accanto. Semplice curiosità.» Sogghignò. «Lo prenda pure, se vuole. È gratis. Ottimo per foderare la gabbia degli uccellini.» Il tono voleva essere amichevole. Tornai indietro, oltrepassai il ristorante e mi affacciai in un vicoletto, per vedere se c'era un'uscita posteriore. Uno dei vantaggi di essere così vicini all'oceano è che non fa mai così caldo da rendere indispensabile l'uso dell'aria condizionata. La temperatura era ideale, attorno ai venticinque gradi e come avevo immaginato quelli che lavoravano al "Journal" si erano accontentati di aprire la porta sul retro per facilitare il ricambio dell'aria. Lanciai un'occhiata furtiva all'interno. Di Clark non c'era traccia. Mi accostai alla porta, tendendo l'orecchio e quindi mi arrischiai a entrare. Una stampante laser della Apple ronzava su una piccola scrivania accanto a un'altra porta che comunicava con il bagno. Scorte di carta e altro materiale per ufficio erano accatastate su scaffalature metalliche di tipo industriale. C'era anche una macchinetta per il caffè che aveva l'aria piuttosto logora. Ma nulla faceva pensare che lì dentro si potessero stampare soldi falsi. Tra l'altro, non vidi nessuno degli articoli che Clark aveva evidenziato nei suoi cataloghi. Scivolai fuori, girai daccapo attorno all'edificio e stavolta entrai nell'ufficio del "Journal". Il giovanotto era di nuovo immerso nella lettura del suo libro e la donna di mezz'età alzò gli occhi dal suo computer e li puntò verso di me. Il giovane sorrise, ma la donna no. Dissi: «Mi chiamo Elvis Cole e sto cercando Clark Hewitt.» Posai il mio biglietto da visita sulla scrivania del giovane vietnamita. «La sua vita è in
pericolo e io sto cercando di aiutarlo. Sto cercando di aiutare anche i suoi figli.» A volte l'onestà è la miglior politica. Il sorriso del giovane svanì e la donna disse qualcosa in vietnamita. Il giovane le rispose, sempre nella loro lingua incomprensibile. «Potrei capire qualcosa anch'io?» dissi. Lui mi guardò per un paio di istanti e poi scosse la testa. «Non so di cosa parla» Lo sapeva benissimo, invece, era evidente. Vidi chiaramente che lo sapeva e che era seccato che lo sapessi anch'io e che avessi osato ficcare il naso in quella faccenda. Guardai la donna, ma lei distolse lo sguardo. Istantaneamente. Dissi: «Ho una Corvette convertibile del 1966 parcheggiata in fondo all'isolato. È gialla. Aspetterò lì.» Andai nel ristorante, pagai il cibo, poi tornai alla mia auto, alzai la capote per ripararmi la testa dal sole e mi sistemai dietro il volante. Il riso fritto con calamari era eccellente, ma non avevo molto appetito. Venti minuti più tardi il giovanotto con la maglietta della Cal Tech uscì in strada, mi diede un'occhiata e tornò dentro. Dopo altri sedici minuti una Mercedes 500 berlina girò attorno all'isolato un paio di volte, con due asiatici sulla cinquantina a bordo. Annotai il numero di targa. Circa otto minuti più tardi, una spider Ferrari rossa apparve in fondo alla strada e venne a fermarsi pochi metri davanti a me. Chiunque fossero, dovevano essere pieni di grana. La Ferrari era guidata da un altro asiatico, molto giovane, all'apparenza; ma accanto a lui, nel posto riservato al tiratore scelto, per così dire, c'era un tipo più anziano e sicuramente più esperto. Tutti e due, al pari dei loro amici sulla Mercedes, sfoggiavano costosi completi di taglio italiano. Presi nota anche della targa della Ferrari. I due sulla Ferrari mi tennero d'occhio per un po', parlottando tra loro, poi quello più giovane abbassò il finestrino e si avvicinò con la macchina accanto a me, per parlarmi. «Clark Hewitt» dissi semplicemente. Il giovane scosse la testa. «Non so chi sia» rispose, in buon inglese privo della minima inflessione straniera. Doveva essere nato e cresciuto in America. «Io credo invece che lo sappiate.» Il giovane parve innervosito, mentre quello più anziano rimase imperturbabile. Il giovane disse: «Mia madre lavora al giornale e lei l'ha spaventata. Le devo chiedere di andarsene.» Il giornale doveva essere un affare di famiglia, evidentemente, ma non bastava di certo a spiegare come avessero
fatti i soldi per comprare la Ferrari. «Siete voi i padroni del giornale?» «Se ne vada, sarà meglio.» Mi sistemai ancor più comodo sul sedile. «Prima devo vedere Clark Hewitt.» Quello più anziano disse qualcosa e il giovane scosse il capo. «Mai sentito nominare.» «Benissimo.» Incrociai le braccia sul petto e chiusi gli occhi, come se volessi fare un sonnellino. L'uomo più anziano mormorò qualcosa e il giovane chiese: «È della polizia?» «Clark sa chi sono. Ho dato a tua madre il mio biglietto da visita.» Quello più anziano si sporse anche lui verso di me. «Se non te ne vai, dovremo chiamare noi la polizia.» «Fate pure. Possiamo parlare con loro di Clark e degli affari che ha in corso con il vostro giornale.» L'espressione di quello più giovane si indurì, poi disse qualcosa al suo compare. «Non te ne vuoi andare?» «No.» «Grosso errore» fece il giovane con un sogghigno. Ingranò la prima e partì a razzo, facendo stridere e fumare i pneumatici, come doveva aver visto fare nei film. Si tolse di torno anche la Mercedes. Rimasi in attesa. Avevo trovato il "Pacific Rim Weekly Journal" e avevo trovato delle persone che chiaramente conoscevano Clark Hewitt. Avevo fatto enormi progressi ed ero fiero di me stesso. Elvis Cole, l'astuto segugio. Novanta secondi dopo che la Ferrari era sparita rombando in fondo alla via, tre uomini uscirono dal vicolo e vennero verso di me. Mi squadrarono in modo poco rassicurante, con aria inespressiva. Portavano tutti e tre soprabiti lunghi fino al ginocchio e camminavano con le mani sprofondate nelle tasche. Quando giunsero alla mia altezza, quello in mezzo aprì le falde del soprabito rivelando la canna brunita di un fucile Benelli, simile a quello usato dai reparti antisommossa. «Indovina cosa farai, adesso» mi disse. «Me ne vado?» Annuì. «Dite a Clark che tornerò.»
Avviai il motore e partii. L'onestà può essere la politica migliore, ma tagliare la corda al momento giusto è una misura tattica indispensabile, a volte. 22 Tornai sul lungomare, parcheggiai vicino al Belmont Pier e chiamai Lou Poitras da un telefono pubblico accanto alla biglietteria delle barche che portano i turisti a vedere le balene. «Amico, adesso te ne stai approfittando un po' troppo» mi fece. «Che buffo, è proprio quello che mi ha detto anche tua moglie.» Poitras sospirò. «Forza, dimmi cosa ti serve.» A volte basta una battuta scherzosa per vincere la resistenza dell'interlocutore più ostico. Gli diedi i due numeri di targa, gli chiesi se mi poteva rintracciare i proprietari e rimasi in attesa, mentre consultava il suo computer. Ci vollero meno di venti secondi. «La Mercedes è intestata a un certo Nguyen Dak, di Seal Beach.» Seal Beach è una delle zone residenziali più esclusive lungo la costa meridionale. «E la Ferrari?» «A un tizio di nome Walter Tran. Abita giù a Newport Beach.» Un altro posto per gente piena di soldi. «Nessuno dei due ha precedenti penali?» domandai. «Il proprietario della Ferrari si è beccato un paio di multe per eccesso di velocità, ma non risulta nient'altro. Puoi spiegarmi cos'hai in ballo?» «No.» Chiusi la conversazione, andai a comprarmi una lattina di tè freddo da un carrettino che vendeva hot-dog e rimasi a fissare la baia. Il mare era azzurro e trasparente e la sagoma dell'isola di Catalina si stagliava nitida all'orizzonte, una cinquantina di chilometri più in là. Una ragazza in pantaloncini succinti e reggiseno del bikini blu mi passò accanto sui suoi pattini Rollerblade lungo la pista ciclabile. Seguii con lo sguardo le sue agili movenze, ma senza soffermarmi sui particolari. L'investigatore impegnato a riflettere. Non avevo mai sentito parlare di Nguyen Dak o di Walter Tran, ma questo non significava nulla. Nella California Meridionale il crimine prosperava anche su base multietnica, parallelamente alla crescente diversità degli abitanti, ed era impossibile tenersi aggiornati. Non avevo mai sentito parlare nemmeno del "Pacific Rim Weekly Journal", ma ero pronto a scommettere che tra quelli che conoscevo c'era qualcuno che era perfettamente informato a questo riguardo.
Tornai al telefono pubblico e chiamai un mio amico giornalista di nome Eddie Ditko. Eddie è vecchio, malandato e bilioso, ma è un tipo ameno. «Per la miseria, mi stavo strozzando. Prova a diventare vecchio come me e vedrai che anche bere un goccio d'acqua diventa una faccenda seria.» Capito il tipo? «Mai sentito parlare del "Pacific Rim Weeklv Journal"?» Un accesso di tosse gli impedì di parlare. «Eddie?» Non la finiva più di tossire. «Gesù, questa tosse mi sta uccidendo.» «Vuol dire che adesso riattacco e chiamo la Croce Rossa.» La tosse andava sempre peggio. «Al diavolo la Croce Rossa. Ti metterebbero in lista d'attesa, puoi scommetterci.» Fece un verso come se stesse vomitando e poco alla volta riuscì a superare la crisi. «Cristo, ho tirato fuori una specie di palla di peli.» «Questo avrei fatto volentieri a meno di saperlo.» «Be', facci il callo. Ti accorgerai anche tu cosa vuol dire diventare vecchio.» «Stavamo parlando del "Pacific Rim Weekly Journal".» A volte il mio amico ha bisogno di essere sollecitato. «Sì, sì, sì. Porta un po' di pazienza e lasciami vedere cos'abbiamo.» Stava consultando attraverso il suo computer la banca dati dell'"Examiner". «Vedi anche se hai qualcosa su Nguyen Dak e Walter Tran, già che ci sei.» «Cristo, sei incontentabile.» Lo sentii raschiarsi la gola e sputare. Confortante. «Ecco qua. È un organo di propaganda per i nazionalisti vietnamiti che vorrebbero riprendere possesso del proprio paese. Il nucleo speciale antiterrorismo della polizia di Los Angeles li ha messi sulla lista di quelli che bisogna tenere d'occhio.» La procace ragazza sui pattini mi passò di nuovo davanti tornando nella direzione da cui era venuta. «Terroristi politici?» chiesi. «Hai presente i fuorusciti cubani che si sono insediati nella Florida Meridionale e che sognano di rovesciare Castro? È la stessa cosa. Il "Pacific Rim Weekly Journal" raccoglie fondi ed esercita pressioni sui politici per scoraggiare il processo di normalizzazione con i comunisti. Chiedono che sia rovesciato il governo comunista del Vietnam e questo in base alle nostre leggi si chiama terrorismo, perciò la polizia di Los Angeles è costretta a buttare via i soldi per sorvegliarli.»
«In che senso butta via i soldi?» Un altro accesso di tosse. Si raschiò la gola e sputò di nuovo. «Cristo, stavolta c'erano veramente dei peli.» «Perché è uno spreco di soldi, secondo te?» «Un paio d'anni fa abbiamo fatto un pezzo su questa gente che è stato pubblicato nell'inserto che distribuiamo allegato al giornale nella Contea di Orange. Dak e Tran e alcuni dei loro amici sovvenzionano il "Pacific Rim", ma non è con quello che si guadagnano da vivere. Sono dei miliardari che hanno costruito da soli la propria fortuna. Dak ha cominciato facendo il lavapiatti, finché è riuscito a mettere insieme i soldi per aprire un ristorantino tipico. Poco alla volta ha costruito una catena di ristoranti vietnamiti, che ha inglobato poi una serie di centri commerciali. Tran invece ha comprato una ditta di pulizia specializzata nel lavaggio di tappeti e moquette degli uffici dopo l'orario di chiusura e adesso ha seicento dipendenti.» Pensai al Tran che avevo visto al volante della Ferrari. «È ancora giovanissimo.» «No. Evidentemente ti riferisci al figlio, Walter Junior. Walter Senior dev'essere sulla sessantina, ormai. Sono partiti con le pezze al culo e adesso partecipano anche loro al grande sogno americano, come si suol dire.» «Solo che sono sospettati di attività terroristiche.» «Be', certo non sono venuti qui solo per gustare le arance della California. Hanno lasciato il Vietnam per scappare dai comunisti e non vedono l'ora che i rossi se ne vadano per poter tornare a casa.» «Grazie, Eddie.» Riattaccai e seguii con lo sguardo la ragazza sui pattini, chiedendomi fino a che punto erano credibili le figure di questi immigrati arricchiti senza precedenti penali che volevano solo tornare nel loro paese. Bravi cittadini rispettosi delle leggi che stampavano un giornaletto locale e che avevano preso alle loro dipendenze un ex falsario. Forse non riuscivano a raggranellare abbastanza soldi attraverso i loro centri commerciali, le loro imprese di pulizie e le collette tra i compatrioti con le stesse vedute politiche e così avevano pensato di estendere le loro attività anche nel campo dell'illegalità. L'industria del crimine è in fin dei conti il settore dell'economia americana in più rapida espansione. Feci un'ultima telefonata, stavolta a Joe Pike. «Hai parlato con Lucy?» «Sì.» Lucy gli aveva comunicato il volo con cui sarebbe arrivata e Joe mi passò l'informazione. Aveva prenotato un posto su un aereo della Delta
Airlines in partenza da New Orleans. L'atterraggio era previsto tra poco meno di due ore e Lucy si augurava che potessi andare a prenderla. Si era accordata con Tracy per andare a stare da lei e pertanto, se non avessi fatto a tempo, potevo rintracciarla più tardi a casa di Tracy. «Stanno bene i ragazzi?» Pike chiuse il telefono senza rispondermi. Immagino che una prolungata convivenza con Charles farebbe perdere le staffe anche a un santo. Ripresi l'autostrada e tornai verso nord alla volta dell'aeroporto, controllando ogni tanto nello specchietto se ero seguito dai russi, dagli agenti federali o da quei vietnamiti armati di fucili Benelli. Se fossero spuntati tutti insieme contemporaneamente avrebbero fatto una baraonda infernale. Cominciai a sorridere quasi mio malgrado, mentre procedevo a rilento nel traffico intenso. La situazione mi appariva sotto una luce più rosea, adesso. Clark era sempre più vicino, ormai, stavo per riabbracciare Lucy e negli ultimi tre giorni nessuno mi aveva preso a botte o a schioppettate. La felicità è una faccenda soggettiva e io mi sentivo stranamente felice. Forse dovevo farlo scrivere anche sul mio biglietto da visita: ELVIS COLE, INVESTIGATORE FELICE. Lo ero ancora quando Lucy Chenier sbucò dalla passerella telescopica dell'aeroporto, mi vide e aprì le braccia. Portava un tailleur antracite e una sacca da viaggio. Non mi sorrise, ma era lo stesso. Io sorrisi per tutti e due. Mentre stavamo abbracciati avvertii la tensione che le irrigidiva la schiena e le spalle, ma anche la grande forza che spirava dalla sua persona. Le sussurrai con la faccia affondata nei capelli: «Sono felice di rivederti. Sia pure per un motivo sgradevole come questo.» I suoi capelli profumavano di pesca. Mi strinse più forte e un tizio corpulento e pelato ci guardò storto perché stavamo bloccando il passaggio. «Vuoi che ti porti da Tracy?» «Prima vorrei stare un po' con te. C'è qualcosa di cui dobbiamo parlare.» Il suo atteggiamento era freddo e controllato e io mi dissi che doveva essere lo stesso di quand'era impegnata in tribunale: l'atteggiamento di una donna che quando faceva sul serio si concentrava totalmente sull'obiettivo, come aveva dovuto fare per laurearsi contando solo su una borsa di studio per meriti tennistici. «Okay. Hai bagagli?» «Solo questa borsa.» Lasciò che gliela portassi e mi seguì verso la macchina senza dire più nulla. Sì, mi dissi, era totalmente concentrata. Pronta a
vendere cara la pelle. O forse invece era solo impaurita. Quando fummo in viaggio sull'autostrada, mi prese la mano e la tenne in grembo, stringendola tra le sue, come se temesse di perdere quel contatto. «Ben sa come stanno le cose?» le chiesi. Il suo sguardo era fisso oltre il parabrezza, come se guardasse le luci degli stop delle macchine davanti a noi, ma senza vederle veramente. «No. Non gli ho mai parlato dei dissapori tra me e Richard. Ho pensato che fosse giusto così.» Annuii. «Non voglio coinvolgerlo.» «Certo.» Mi guardò. «Non voglio coinvolgere nemmeno te.» La guardai a mia volta. Una donna alla guida di una Jaguar nera mi tagliò la strada e mi costrinse a una brusca frenata. «Lucy, sono totalmente con te comunque. Ti amo, ti voglio aiutare e farò tutto quello che posso.» Un vago sorriso increspò le sue labbra. Un sorriso così evanescente che era quasi impossibile vederlo. Mi disse: «Lo so, ma devo pensarci da sola.» Non dissi niente. «È importante per me che tu capisca che non sono egoista. Questa faccenda non riguarda Ben.» «D'accordo.» «Quando abbiamo divorziato, non ho posto nessun limite a Richard per vedere nostro figlio. Ma lui ha continuato a infischiarsene. Quando Ben andava a passare il fine settimana dal padre, o durante le vacanze estive, Richard usciva per i fatti suoi. Prendeva una baby-sitter o lo lasciava dalla nonna. Quello che sta succedendo adesso non c'entra niente con Ben, riguarda solo me. La verità è che Richard pretende ancora di controllare la mia vita, perciò non pensare che io sia una donna orribile che vuole rubare il figlio al padre.» Mi guardò negli occhi e per un attimo un dolore incontenibile parve incrinare il suo atteggiamento composto. «Non è mia la colpa di quello che succede.» «Lucy, non l'ho mai pensato.» Mi aveva fatto quel discorso tutto d'un fiato, come se avesse continuato a pensarci durante il viaggio in aereo. Senza dubbio lo aveva fatto. «E non hai bisogno di darmi spiegazioni su di te o sul tuo precedente matrimonio.» Guardò le nostre mani, avvinte sul suo grembo. «Lo so che vuoi aiutarmi. Mi sei già stato di grande aiuto e te ne sono grata, ma a questo punto
devo sbrigarmela da sola.» Mi strinse ancora la mano e quando mi volsi verso di lei ebbi l'impressione che si stesse facendo forza per non piangere. «Non posso far dipendere la mia vita da un rapporto a tre. Non sarebbe giusto verso di te e nemmeno verso me stessa. Richard è stato un mio sbaglio e tocca a me rimediare.» Non seppi cosa dire. «Quello che capita adesso riguarda solo me e Richard, solo noi due. È meglio che sia così. Capisci?» «No.» Il suo viso si rabbuiò. «È solo una prova di forza, da parte sua. Ma deve sapere che non può pretendere di controllarmi o di intimidirmi.» La sua espressione divenne ancora più cupa. «E devo saperlo anch'io.» La guardai. Non la riconoscevo più: sembrava sull'orlo di una crisi di nervi. Ma non era sempre stata così e probabilmente aveva bisogno di qualcuno che glielo ricordasse. «Potrei sparargli con la mia pistola. Così il problema sarebbe risolto.» Sorrise e stavolta sorrise con calore. «Lo so, ma allora saresti tu a salvarmi, non sarei io a salvare me stessa. Devo farlo per me.» «Okay.» «Voglio essere la salvatrice e non quella che si fa trarre in salvo.» «Insomma, non mi vuoi con te lì alla KROK.» Mi serrò di nuovo la mano. «No, non puoi venire.» Ci restai un po' male, ma cercai di non darlo a vedere. «Ci saremo solo io e Richard, in campo. Gli farò vedere i sorci verdi, a lui e a quel fetente del suo amico e vedrai che ci penserà due volte prima di riprovarci.» La guardai e mi dissi che era la donna più bella che avessi mai visto. «Posso accopparlo dopo, almeno?» Sorrise, dandomi un buffetto sulla mano. «Vedremo.» Era qualcosa per cui valeva la pena di vivere. «Quando devi incontrare quelli della KROK?» «Tracy mi ha fissato un appuntamento per domani pomeriggio.» L'indomani doveva anche arrivare all'aeroporto lo scanner ordinato a nome di Wilson Brownell. Io e Pike saremmo stati lì ad attenderlo. Avremmo seguito lo scanner fino alla sua destinazione finale, sperando che ci portasse da Clark. «A quell'ora sarò impegnato con il lavoro.» Mi strinse ancora la mano. «Certo, amore mio. È giusto così.» E stringendomi la mano più forte, aggiunse: «Ti amerò sempre.»
Proseguimmo in silenzio lungo il Sepulveda Pass fino a Studio City e da lì raggiungemmo la casa sicura dove ci aspettavano Pike e i ragazzi. 23 L'appartamento di Studio City profumava di rosmarino e di pollo al forno. Joe e Teri erano in cucina, Winona e Charles stavano invece nel soggiorno, ma la televisione era spenta. Probabilmente Pike aveva deciso che si erano già rimbambiti fin troppo davanti a quell'aggeggio. «Ehi, che odorino invitante» esclamai. Winona ci venne incontro dal soggiorno, con aria gioiosa. «Teri ha fatto il pollo. Ciao, Lucy.» «Ciao, tesoro.» Charles si limitò a borbottare un saluto da lontano. Teri non disse nulla, seminascosta com'era dietro una selva di pentole. Lucy entrò in cucina e l'abbracciò. «Coma va, cara?» «Bene.» Compita ma distante, come se fosse troppo impegnata con i fornelli. Lucy disse: «Il profumo è fantastico. Pollo al rosmarino?» «Sì.» Lucy tornò da me prendendomi la mano. Teri parve rabbuiarsi, ma poi si rivolse a me con un caldo sorriso, come se Lucy non fosse presente. «Te ne ho messo un po' da parte, Elvis.» Il suo sorriso si raffreddò guardando Lucy e aggiunse: «Ma non credo che basti per due.» La guardai interdetto. Lucy disse: «Oh, non fa niente. Sarà meglio che chiami Tracy per dirle di venire a prendermi.» «Ti accompagno io.» Lucy sorrise e guardandola notai che stava trattenendo un sorriso ancora più accentuato. «No. Eravamo d'accordo che avremmo discusso la tattica migliore per l'incontro di domani, durante la cena. Ha detto che mi avrebbe portata fuori da qualche parte.» Lanciai un'altra occhiata a Teri, poi mostrai a Lucy dov'era il telefono in soggiorno. Si sedette sul bordo del divano per fare la telefonata. Teri mi sorrise con calore dalla cucina. «Non ci vorrà molto per scaldare il pollo. Quando vuoi mangiare?» «Dopo.» Che gli era preso a quella ragazzina? Teri si rimise al lavoro in cucina, spostando rumorosamente pentole e
padelle. «Comincio subito. Poi puoi mangiare quando vuoi.» La piccola donna di casa piena di premure, felice come un'ape industriosa. «Ti porto una birra?» «No.» Winona disse: «Non l'hai ancora trovato, il nostro papà?» «Non ancora, no.» Charles occhieggiò nella direzione di Lucy, poi si avvicinò, allungando il collo. Stava cercando di guardare sotto le gonne, senza dubbio. «Charles» dissi. Se la svignò. «Non ho fatto niente.» Aveva ripreso, come il suo solito, a giocare a guardie e ladri con il sottoscritto. Lucy parlò con Tracy, poi mi chiese di indicare a Tracy la strada per arrivare fin lì. Lo feci e Lucy riattaccò. «Dice che sarà qui tra una mezz'oretta.» Pike mi diede di gomito, accennando con lo sguardo verso la sommità delle scale. «Dobbiamo parlare.» Charles se la prese a male. «Perché dovete andare di sopra? Perché non parlate chiaro qui davanti a noi?» Teri intervenne: «Elvis sa quello che fa. Lascialo in pace.» Poi tornò verso la cucina, rivolgendosi freddamente a Lucy: «La avvertirò appena arriva la sua amica.» Guardai Lucy, poi Teri, poi ancora Lucy. Colsi un lampo divertito negli occhi di Lucy, mentre mi sospingeva su per le scale. Quando fummo di sopra e la porta fu chiusa, dissi: «Che cos'hai da ridere?» Il sorriso di Lucy si accentuò. «Non lo sai?» «Che cosa?» Il tonto di mamma. Lucy guardò Pike e Pike piegò gli angoli della bocca. «Che cosa?» ripetei. «È cotta marcia di te, stupidino.» Gli angoli della bocca di Pike si piegarono di nuovo. Se la ridevano tutti. Tutti tranne me. Lucy disse: «Pensaci. Ha sempre dovuto fare la donnina di casa. Non ha mai avuto una figura paterna che si prendesse cura di lei, prima d'ora. Prima che arrivassi tu.» «Magnifico.» «E poi sei carino.» Lucy mi diede una spintarella scherzosa, sempre più divertita, al contrario di me. «Io non posso certo darle torto, no?»
Pike intervenne: «Dimmi di quel giornale.» Gli raccontai della mia ispezione al "Pacific Rim Weekly Journal", mentre stavamo lì accoccolati sul pavimento e io tenevo Lucy per mano. Gli dissi della Ferrari e dei tipacci armati di fucile e quel che avevo saputo da Eddie Ditko sul conto di Dak e Tran. Il semplice fatto di avere Lucy accanto a me mi faceva sentire di ottimo umore e mi chiesi se mi sarei sentito così quando avremmo potuto stare sempre insieme. Terminai il mio resoconto e Lucy commentò: «Da quello che hai detto, non mi sembrano dei terroristi.» Mi strinsi nelle spalle. «No e non sono nemmeno dei criminali, almeno in senso stretto, ma sta di fatto che hanno ingaggiato un falsario e tre dei loro mi hanno messo sotto il naso la canna di un fucile.» Pike annuì. La parte del mio racconto in cui compariva il fucile era quella che gli era piaciuta di più. Lucy disse: «Cosa pensi di fare?» «Lo scanner arriva al LAX domani mattina. Io dico che dovremmo andare lì, per controllare chi ritira il pacco e incollarci alle sue calcagna, sperando che ci porti da Clark.» Lucy serrò la bocca e scosse il capo. «Questa faccenda si è spinta troppo in là, non si tratta più semplicemente di rintracciare un padre sparito da casa. Penso che dovresti rivolgerti alla polizia.» «Se vado alla polizia, Clark finisce in galera.» «Forse gli starebbe bene.» «Non lo faccio per Clark. Lo faccio per questi ragazzi. Clark non è propriamente un padre ideale, ma se lo arrestano, i Markov sapranno dove trovarlo quando vorranno farlo fuori. Se riesco a scovarlo prima che faccia qualche sciocchezza, forse potrò anche spaventarlo e fare in modo che diventi un po' più ragionevole.» Non parve convinta. «E poi l'ho promesso a Teri.» Sospirò. «Tutte le mie amiche scelgono un dottore o un ingegnere, quando si innamorano di qualcuno. Io invece sono andata a cascare con un emulo di Batman.» Pike disse: «È per via della mantellina. Le donne vanno pazze per la mantellina.» Qualcuno bussò forte alla porta e subito dopo la voce di Charles gridò: «È arrivata una signora!» Lo disse così forte che probabilmente lo sentirono in tutto il condominio.
«È Tracy» disse Lucy. Ci guardammo. Le strinsi forte la mano, quasi temendo oscuramente che se l'avessi lasciata, ognuno se ne sarebbe andato per la propria strada, e che una volta che l'avessi persa di vista, non sarei stato più capace di ritrovarla. «Vorrei che tu potessi restare.» «Lo so. Lo vorrei anch'io.» Tornammo tutti e tre dabbasso, Tracy stava sulla soglia di casa, con un'espressione stanca ma determinata. Abbracciai di nuovo Lucy, l'abbracciò anche Pike e poi se ne andarono. «Accidenti» borbottai. «La tua cena è pronta» annunciò Teri con un largo sorriso. La guardai, guardai Charles e Winona sul divano, incantati davanti alla televisione. «Forse ho trovato una traccia che potrebbe portarmi da tuo padre, ma per seguirla avrò bisogno dell'aiuto di Joe. Sarete in grado, voi ragazzi, di cavarvela da soli, domani?» Teri aveva riempito un piatto di riso, pollo e quelli che sembravano pomodori cotti in padella. Lo servì in tavola, apparecchiando con cura il mio posto. «Certo, sciocchino.» Sciocchino? «Siamo già stati undici giorni da soli, no?» Annuii e mi sedetti al mio posto. Teri disse: «Ti porto la birra, adesso?» «La prendo da solo.» Feci per alzarmi, ma lei mi trattenne posandomi una mano su una spalla. Con forza. «Sono già in piedi.» Prese la birra, l'aprì e la mise in tavola accanto al piatto. «Grazie» dissi. Sorrise e prese posto accanto a me. «Non hai bisogno di farmi compagnia.» «Mi fa piacere.» Pike scosse il capo e se ne andò al piano di sopra. Disgustato, immagino. Guardai Teri. Lei mi guardò a sua volta. «È buono?» Feci un cenno di assenso. «Molto.» Sbatté le palpebre e sospirò. Mio Dio. 24 Io e Pike partimmo per il LAX il mattino seguente di buon'ora, uscendo di casa quando il sole arrossava il cielo a oriente. A quell'ora, l'aria era an-
cora fresca e quieta; il traffico diretto a sud era scorrevole, nonostante i numerosi pendolari che venivano giù dalla Simi o dalla Antelope Valley, diretti verso l'area metropolitana di Los Angeles. «Come due tizi qualsiasi che vanno al lavoro» osservai. «Certo» disse Pike. Il fucile Beretta automatico era posato sul pavimento dell'abitacolo dietro i nostri sedili. Io avevo la mia Dan Wesson e lui aveva la sua Python, e forse un missile balistico nascosto da qualche parte. Due tizi qualsiasi. Lasciammo la San Diego Freeway all'uscita di Howard Hughes Parkway, superammo Westchester e arrivammo al LAX. Lo scanner doveva essere lì alle nove e, stando a quel che mi aveva detto lo spedizioniere a New York, potevo ritirarlo presso lo SPD, l'ufficio consegna piccoli pacchi nella medesima area in cui venivano riconsegnati i bagagli. Essendo infatti un pacco relativamente piccolo, sarebbe stato avviato con il nastro trasportatore insieme agli altri bagagli verso l'area di riconsegna, dove sarebbe stato prelevato da un impiegato della United Airlines e da questi affidato allo SPD. Lo SPD l'avrebbe custodito in attesa che venisse qualcuno del "Journal" a ritirarlo. Quella persona poteva essere Clark, ma più probabilmente sarebbe stato uno sconosciuto, che avremmo dovuto cercare di identificare e di seguire. Lasciammo la macchina di Pike nel parcheggio davanti al terminal dei voli in arrivo, il più vicino possibile all'area di riconsegna dei bagagli e ci presentammo allo SPD. Un'attraente donna di colore stava dietro il bancone dell'ufficio, impegnata a sistemare una serie di pacchi per un uomo vestito con l'uniforme grigia di un corriere espresso. «Mi scusi» dissi. «Può dirmi dov'è che viene riconsegnato il bagaglio dei passeggeri del volo cinque della United?» «Dovrebbe essere il nastro trasportatore numero quattro. Ma l'aereo non arriva prima delle nove. Siete terribilmente in anticipo.» Le sorrisi. «Sto aspettando mia moglie e sento molto la sua mancanza.» Mia moglie. «Oh, è molto romantico.» Il flusso dei passeggeri andava crescendo nel terminal, in concomitanza con i voli transcontinentali del primo mattino che venivano da New York, Miami, o Chicago. Alle otto e mezzo io e Pike ci separammo, appostandoci in modo da poter tenere d'occhio tutti gli ingressi, nel caso che comparisse il nostro amico Clark. Non venne. Un gruppetto di seguaci della setta Hari Krishna suonava ritmicamente dei piccoli sonagli e offriva le
proprie pubblicazioni in cambio di denaro. Si mossero da uno all'altro finché arrivarono a Pike e subito dopo li vidi dileguarsi in fretta. Mossi da un forte istinto di sopravvivenza, probabilmente. Esattamente alle nove il monitor del terminal degli arrivi indicò che il volo numero cinque era atterrato e pochi minuti più tardi il nastro trasportatore si mise in movimento e i bagagli cominciarono ad arrivare giù per la rampa. Il quarto collo era una scatola di cartone bianca con una vistosa etichetta gialla incollata sopra, dov'erano riportati i dati del destinatario. Pike passò accanto al nastro trasportatore, osservò la scatola e tornò da me. «"Pacific Rim Weekly Journal"» confermò. Venti minuti più tardi, quasi tutti i passeggeri del volo si erano allontanati con i loro bagagli. Apparve l'attraente donna di colore e portò la scatola nell'ufficio SPD. «Tieni sempre d'occhio la scatola, non la gente» dissi a Pike. Una serie di persone entrarono e uscirono dallo SPD, ma nessuno aveva la scatola bianca. Aspettammo un altro po'. Pike disse: «Forse li hai spaventati.» Il mio socio non era mai parco di incoraggiamenti. Alle 10.16 eravamo ancora lì in attesa, quando un tipo dai tratti orientali entrò nell'ufficio per reclamare la scatola bianca con l'etichetta gialla. «Ci siamo» dissi a Pike. Seguimmo l'uomo fino a un anonimo furgone bianco e di lì fuori dall'aeroporto lungo la San Diego Freeway, in direzione sud. Ci volle quasi un'ora e quarantacinque minuti per raggiungere Long Beach, ma il conducente del furgone bianco procedeva senza fretta e noi regolammo di conseguenza la nostra andatura. Pike disse: «Io lavoro a tariffa oraria, lo sai.» Cinico senza cuore. Il furgone bianco lasciò l'autostrada all'altezza dell'uscita per il Long Beach Municipal Airport, poi prese verso nord lungo il fianco occidentale dell'aeroporto, fino a un complesso di edifici industriali e qui entrò in un parcheggio tra due enormi e moderni capannoni, simili a magazzini. I magazzini erano beige, assolutamente anonimi, senza insegne o scritte che potessero identificare i proprietari. Oltrepassammo la struttura più vicina, poi tornammo indietro, lentamente e vedemmo il nostro amico entrare con la scatola bianca nell'edificio più a nord. Dissi: «Scommetti che c'è anche Clark, lì dentro?» Pike scosse il capo. «Potremmo entrare con le armi in pugno e portarlo
fuori.» Con uno come lui non si sa mai se sta scherzando o se dice sul serio. Altri edifici simili erano allineati lungo la strada, in maggioranza sembravano occupati da grossisti di tappeti o di elettrodomestici, o da officine meccaniche. Parcheggiammo dall'altra parte della via e tornammo ai piedi sui nostri passi, separandoci. Pike girò attorno al lato settentrionale dell'edificio, io andai direttamente verso il parcheggio antistante l'entrata. La struttura era divisa in due sezioni, con gli uffici nella parte anteriore; quella posteriore aveva invece tre grosse saracinesche per l'ingresso dei camion a intervalli regolari lungo il lato prospiciente il parcheggio, che era privo di finestre. Lo scenario perfetto per un delitto senza testimoni. L'ingresso per i dipendenti sul lato anteriore era serrato da una pesante porta metallica. L'uomo con la scatola era entrato da un ingresso secondario laterale, ma anche quello era chiuso. In effetti, tutte le porte erano chiuse. Per quel che ne sapevamo, lì dentro potevano anche esserci nascosti dei marziani. Avevo appena raggiunto una fila di cassonetti per la spazzatura sul retro dell'edificio quando la porta si aprì e l'uomo che aveva portato la scatola uscì insieme ad altri tre tizi. Si diressero tutti e quattro verso il furgone, ridendo e scherzando tra di loro. Uno dei tre che erano appena comparsi non lo avevo mai visto, ma gli altri due facevano parte del terzetto che mi aveva minacciato fuori della redazione del "Journal". Pike mi raggiunse silenzioso giusto in quel momento e insieme guardammo i quattro salire a bordo del furgone e allontanarsi. «I due di mezzo erano quelli che mi hanno affrontato ieri vicino al giornale» dissi. Lui si strinse nelle spalle, come se per lui fosse indifferente. «Visto niente dall'altro lato dell'edificio?» domandai. «Due porte, chiuse tutte e due. Niente finestre.» «Sono sicuro che c'è anche Clark, lì dentro. Potrebbero esserci altre persone, ma dato che quattro se ne sono appena andate via, forse è il momento migliore per tentare un colpo di mano.» «Possiamo sempre chiamare la polizia, semplicemente.» Gli lanciai un'occhiataccia. «Scherzavo.» Poi mi guardò con aria interrogativa. «E se Clark non volesse venire via con noi?» Guardai la porta. «Verrà, a costo di puntargli la pistola contro una tempia. Poi torneremo insieme a lui dai ragazzi e decideremo insieme la prossima mossa.» Lo dissi forse più per me che per Pike. «Verrà, non ho il minimo dubbio.»
«Ottimista» commentò lui. Tirammo fuori le nostre pistole, tenendole lungo il fianco con la canna puntata verso il basso e ci dirigemmo verso la porta laterale. Varcata la soglia, vedemmo un lungo corridoio disadorno che puzzava di cloro. Il corridoio aveva anche una diramazione a sinistra. Pike mi lanciò un'occhiata e io gli feci cenno che volevo andare diritto. Superammo una serie di piccoli uffici vuoti e quando arrivammo in fondo al corridoio facemmo una sosta, tendendo l'orecchio. Niente rumori, ma l'odore di cloro era sempre più forte. Pike sussurrò: «La faccenda mi puzza.» «Forse usano il cloro per sciogliere i cadaveri nell'acido.» «No, l'acido serve per incidere le lastre litografiche.» Inutile chiedersi come sapesse queste cose. Socchiudemmo la porta ed entrammo in un grande ambiente alto due piani, illuminato dalla luce di una serie di lampade al neon. Una macchina litografica stava al centro della sala, circondata da lunghi tavoli da rosticceria, dov'erano stati allineati scatoloni di inchiostro blu indaco, serbatoi di acido e materiali vari per la stampa. Un computer Power Mac a colonna era in funzione, ma sullo schermo del monitor scorrevano solo le immagini di graziosi gattini che si rincorrevano lentamente, mentre il computer era in posizione di attesa. Lo scanner era ancora nella sua scatola e la scatola sul pavimento accanto al Macintosh. Una fotocopiatrice a colori era sistemata su un lato della stampatrice litografica e tre essiccatrici a caricamento frontale erano allineate lungo la parte di fondo. L'odore di inchiostro a base oleosa era così forte da togliere il respiro. Dissi: «Clark sta per mettersi di nuovo a stampare, ormai è chiaro.» «Già, ma cosa?» disse Pike. Mi indicò con un cenno del capo una fila di casse di legno accatastate su dei banconi accanto alla porta. C'erano delle scritte impresse sulle casse, ma i caratteri non erano quelli consueti. Erano caratteri cirillici. «È scritto in russo» disse Pike. La cassa in cima alla catasta era stata aperta e lasciava intravedere dei blocchi di carta avvolti dentro un involucro di plastica bianca protettiva. Uno dei blocchi era stato tagliato, rivelando la carta all'interno. La misura dei fogli era all'incirca cinquanta per settanta centimetri e sembrava carta di lino di alta qualità che aveva in filigrana delle fibre di sicurezza di colore arancio vivo. «I nostri soldi non hanno quelle fibre arancione.» Pike si mosse verso uno dei tavoli.
«Vogliono stampare soldi russi, secondo te?» Pike raggiunse il tavolo. «Né russi, né nostri» rispose. Mi mostrò quello che sembrava una foto in negativo di una serie di banconote. Mi avvicinai e vidi che non erano dollari. Il valore facciale era di 50.000 e il personaggio raffigurato non era George Washington, o Franklin, o Lenin. Era Ho Chi Minh. La bocca di Pike si piegò in una smorfia. «Vogliono stampare soldi vietnamiti.» Misi giù il negativo. «Dobbiamo ancora trovare Clark.» Tornammo sui nostri passi lungo il corridoio fino all'ingresso, superammo altri uffici deserti e arrivammo in una specie di ingresso. Svoltando a destra incontrammo ancora uffici e passando davanti a uno di essi notai un lettino da campo addossato a una parete, con un sacco a pelo buttato sopra il lettino. «È qui.» Entrammo. «Immagino che abbiano deciso di tenerlo qui fino al termine del lavoro.» Clark aveva soggiornato in quella stanza, senza dubbio, ma adesso non c'era. Sul pavimento, accanto al lettino, vidi una sacca da viaggio e un tavolo con una sedia pieghevole sistemati contro la parete opposta. Sul tavolo c'erano una radiolina, pochi articoli da toletta e un paio di riviste tecniche che trattavano di metodi di stampa. Vidi sul pavimento anche un paio di lattine di Diet Coke, insieme a dei sacchetti della catena di fast-food, insieme a una grossa boccetta di Maalox e una stecca quasi finita di cicche al gusto di ciliegia. Nella stanza stagnava un odore sgradevole di sudore e di altri umori corporei poco piacevoli. Una candela, una scatola di fiammiferi e un singolo tubo di gomma elastica stavano in bella evidenza sul tavolo. Gli strumenti tipici degli eroinomani. «Accidenti» esclamai. «Sta' a a vedere che quel figlio di puttana è andato a procurasi altra droga.» Pike disse: «Elvis.» Stava accanto al sacco a pelo e aveva in mano una busta spiegazzata. Sperai che fosse una traccia per trovare Clark, ma non era così. La busta recava l'indirizzo di Clark Haines, a Tucson e anche quello del mittente, il Centro Clinico di Tucson. La data del timbro postale risaliva a circa tre mesi prima, poco prima che la famiglia Hewitt lasciasse Tucson per Los Angeles. Mi corse un brivido per la schiena quando presi in mano la lettera contenuta nella busta e mi sentii raggelare ancora di più quando la lessi. In quella lettera una certa dottoressa Barbara Stevenson, oncologa, si rivolgeva a uno dei suoi pazienti, il signor Clark Haines, confermando che i
risultati dei test indicavano la presenza di un tumore maligno ormai esteso e irreversibile a carico dell'intestino. La lettera faceva riferimento a un trattamento in corso che il signor Haines aveva sospeso in modo unilaterale, rendendosi irreperibile. La dottoressa se ne rammaricava, pur comprendendo che a volte gli ammalati di cancro hanno difficoltà ad accettare il loro stato e assicurava che in base alla sua esperienza un trattamento appropriato poteva prolungare e migliorare la vita degli ammalati, anche di quelli in fase terminale come il signor Haines. Il Centro Clinico di Tucson aveva premurosamente accluso alla lettera anche un opuscolo intitolato Come vivere con il vostro cancro. Pensai che Jasper aveva ragione: Clark Hewitt non era quello che sembrava essere. «Ha ancora poco da vivere» dissi. «Già.» Fu allora che un tipo dall'aria poco rassicurante entrò dalla porta spianando un AK-47 e dicendo: «Anche voi.» 25 Era un tipo di mezz'età con una faccia dura e spigolosa che sembrava tagliata con l'accetta. Agitò il suo Kalashnikov e disse: «Mani sulla testa, con le dita intrecciate.» Aveva un forte accento straniero, ma si esprimeva in modo comprensibile. Lo avvertii: «L'edificio è circondato dagli uomini del Secret Service. Metti giù quel mitra, se ci tieni alla pelle.» «Intrecciate le dita.» Probabilmente il mio tentativo non era molto divertente, dal suo punto di vista. Arretrò leggermente verso il corridoio e Pike fece un passo verso destra. La sua reazione alla mossa di Pike fu fulminea: si mise a gambe larghe, semiflesse, con il calcio dell'AK contro la spalla, gomito destro verso l'alto a novanta gradi, gomito sinistro piegato giusto sotto il caricatore del fucile d'assalto, la sommità del calcio appoggiato alla guancia, in un perfetto assetto da commando. Un'azione sciolta e immediata, da vero esperto, come se fosse cresciuto con quel fucile in mano e sapesse esattamente come andava maneggiato. «Joe» ammonii. Pike si bloccò. L'uomo con il fucile d'assalto gridò qualcosa ai suoi amici lungo il corridoio, senza distogliere gli occhi da noi. Si spalancò una porta e accorse nella stanza Walter Tran Junior, eccitato e sudato, con le sue scarpe costo-
se che scivolavano sul pavimento di linoleum. Quando mi vide, fece tanto d'occhi. «Merda!» Si frugò sotto la giacca dell'elegante vestito e tirò fuori una piccola SIG 380 cromata, brandendola contro di noi. «Calmati, Walter» dissi. «Tanto ormai non possiamo scappare da nessuna parte.» Armeggiò ancora con la pistola e mostrando scarsa perizia la puntò inavvertitamente, dopo aver tolto la sicura, contro l'uomo con l'AK, che reagì inviperito, abbaiando qualcosa in vietnamita e strappandogli l'arma dalle mani. «Altrimenti sei capace di ammazzarti da solo» concluse nella nostra lingua. «Walter, cerca di ragionare» dissi allora. Walter Junior mi indicò. «Questo l'ho già visto giù al giornale. L'altro tizio non lo conosco.» Pike etichettato sbrigativamente come "l'altro tizio"... L'uomo con l'AK socchiuse gli occhi, guardandoci con aria minacciosa e diffidente. «Ha detto che erano del Secret Service.» «Merda» commentò di nuovo Walter Junior, tornando di corsa nel corridoio. «Scherzavo. Siamo investigatori privati.» L'uomo con l'AK scrollò le spalle, come se per lui fosse indifferente. La porta si spalancò di nuovo e Walter Junior tornò, scivolando si nuovo sulle suole di cuoio e fermandosi in equilibrio precario davanti alla porta. Dietro di lui comparvero Nguyen Dak e due di quelli che mi avevano minacciato con un fucile da caccia davanti al "Journal". «Potremmo vendere i biglietti. Mi sento come un animale dentro una gabbia dello zoo.» Ma i miei tentativi di fare dell'umorismo non avevano molto successo, quel giorno. Nguyen Dak indossava uno stupendo completo di lana che doveva costare almeno tremila dollari. Mi squadrò severamente. «Le avevamo detto di stare alla larga.» «Clark Hewitt ha tre bambini, che adesso sono sotto la mia custodia. Una banda di russi sono venuti giù da Seattle con l'intenzione di scovare Clark e di ammazzarlo. Questo significa che stanno cercando anche i suoi bambini.» «Avrebbe dovuto darmi retta.» Quel che gli avevo appena detto non aveva nessuna importanza per lui, evidentemente. «Siamo venuti qui perché siamo stati ingaggiati dai figli di Hewitt per rintracciare il loro papà. Quello che state stampando non ci interessa.» Lui, però, non sembrava interessato ai miei discorsi, purtroppo.
Ci fecero mettere faccia a terra sul pavimento, con le mani intrecciate dietro la testa, poi ci perquisirono come se cercassero un microfono o una trasmittente. Probabilmente era proprio così. Dak fece piazzare i due gorilla che erano arrivati insieme a lui nei due angoli della stanza verso la porta, in modo che potessero tenerci sotto tiro senza rischiare di spararsi a vicenda. L'uomo con l'AK ci sequestrò le pistole e i portafogli, consegnandoli a Dak, poi ci legò le mani dietro la schiena con del filo elettrico. Notai che Dak si rivolgeva a lui chiamandolo Mon. Quando fummo ben legati, ci fecero sedere su due delle sedie pieghevoli che stavano nella stanza. «Che giornataccia» commentai. Dak fece un gesto e uno dei suoi gorilla mi mollò un cazzotto sopra un orecchio. No, decisamente non apprezzavano il mio senso dell'humour. Dak guardò dentro il mio portafoglio, poi in quello di Pike e infine li restituì a Mon, l'uomo con l'AK. «Investigatori privati.» «Ve l'avevo detto.» «A lui avevate detto che eravate del Secret Service.» «Scherzo malriuscito.» Dak mi scrutò, ancora diffidente. «Siamo venuti qui per trovare Clark Hewitt» ribadii. «Sappiamo che lavora per voi e sappiamo che è stato qui.» Dak si accese una Marlboro e mi guardò attraverso il fumo. Mon disse qualcosa in vietnamita, ma Dak non rispose. «Abbiamo un problema» disse. «L'avevo immaginato.» «Per chi lavorate, realmente?» «Per i figli di Hewitt.» Altra boccata dalla sigaretta, altro fumo. «Per me siete dell'FBI.» «Se fosse vero, il vostro problema sarebbe ancora più grosso di quanto pensate» risposi con una scrollata di spalle. Era chiaro che se ne rendeva conto e che la faccenda non gli andava a genio. «Se siamo agenti federali, questo vuol dire che i nostri colleghi sanno dove siamo. E se sanno dove siamo e ci ammazzate, anche voi siete spacciati.» Dak serrò la mascella e agitò verso di me la sigaretta. «Le avevo detto di stare alla larga e lei non mi ha dato retta. Si è introdotto nella nostra proprietà e ha visto cose che non avrebbe dovuto vedere.» «Non mi importa un fico di quello che state stampando, o di perché lo fate, o di quello che volete fare. Sono qui solo perché Clark e i suoi figli
sono in pericolo.» Mon ripeté i suoi inviti a diffidare, stavolta più forte e Dak gli rispose alzando la voce anche lui, mentre gli altri vietnamiti andavano con lo sguardo dall'uno all'altro, incerti: sembrava che stessero assistendo a una partita di tennis. Probabilmente Mon stava dicendo che bisognava farci fuori lì sul posto, organizzando poi qualche messa in scena per convincere i poliziotti che non ne sapevano niente. Stavano ancora discutendo quando sopraggiunse Clark Hewitt insieme a Walter Senior e a un altro giovanotto. Clark era vestito sommariamente con una camiciola di cotone e pantaloni sformati sopra un paio di scarpette da ginnastica di tela tutte sdrucite e aveva il classico sguardo appannato e torbido di chi si era appena fatto. Clark ci vide e mormorò: «Oh, santo cielo.» Negli occhi di Dak brillò un lampo irato, mentre gettava via la sigaretta. «Portatelo via di qui.» Il giovanotto prese Clark per un braccio e cominciò a tirarlo verso il corridoio. «I russi sono a Los Angeles, Clark» mi affrettai a dire, prima che lo portassero via. «Ho messo al sicuro i tuoi bambini, per adesso, ma sono sempre in pericolo.» Clark allora si divincolò e tornò nella stanza. «Dove sono?» «A casa di un mio amico.» Dak sollecitò di nuovo il giovanotto a fare quel che gli aveva ordinato, ma quando il giovane afferrò il braccio di Clark, quello gli si rivoltò contro, gridando: «Mollami, accidenti!» Mi rivolsi di nuovo a Dak. «Ho in custodia i suoi bambini, maledizione. Dei killer sono venuti giù da Seattle apposta per cercarlo. È vero, lui lo sa.» E aggiunsi, guardando Clark: «I russi hanno ammazzato Wilson Brownell e questo significa che adesso sanno tutto quel che sapeva lui.» Clark fece una smorfia addolorata. «Hanno ammazzato Wil?» Mon sbraitò di nuovo e stavolta si fece avanti in mezzo agli altri puntandoci addosso il suo AK. Ma Clark lo affrontò e lo spinse via, gridando con forza: «No!» I due Walter, Junior e Senior e gli altri vietnamiti si affollarono attorno a lui e Dak gli mollò un paio di ceffoni. Clark non si diede per vinto. Reagì prendendo a pugni Dak e anche se i suoi colpi avevano ben poca forza, continuò finché i due Walter lo presero ciascuno per un braccio e un terzo vietnamita lo bloccò definitivamente cinturandolo al collo. Clark era davvero un tipo pieno di sorprese. Pike disse: «La pagherete cara.» I tre uomini trascinarono Clark, togliendolo di mezzo e Dak ci indicò e
diede un ordine secco: «Che muoiano.» Clark protestò: «Se li ammazzate non stamperò mai i vostri stramaledetti dong» Il dong era la banconota in corso nel Vietnam. Con espressione incupita e minacciosa, Dak prese Clark per un braccio e gli diede uno scossone. «Hai accettato di stampare il denaro e lo farai!» «Col cavolo!» replicò Clark, con foga tale che qualche gocciolina di sputo raggiunse la camicia di Dak. Mon era stufo di tutte quelle chiacchiere. Si fece avanti e ci si parò davanti, sbraitando in vietnamita. Ma Dak lo bloccò afferrandolo da dietro. «No!» gridò in tono secco. Dak, Mon e gli altri due vietnamiti più anziani si strattonarono a vicenda, gridando e io credetti di capire qual era il motivo del dissidio. Erano rivoluzionari, ma erano anche uomini d'affari con famiglie, proprietà e interessi che erano a serio rischio, se fossero stati scoperti. Stavano gridando che dovevamo essere eliminati, ed era chiaro che volevano farlo. Pike, accanto a me, entrò in tensione, pronto a scattare e ad approfittare di un attimo di disattenzione dei nostri avversari, per avventarsi su quello più vicino nella speranza di fargli cadere l'arma e di fare più danni possibile, nonostante avesse le mani ancora legate dietro la schiena. Bella fine che stavamo per fare. La fine dei polli. Mi rivolsi a Clark. «Ormai i russi sanno tutto quello sapeva Brownell. Hanno il tuo indirizzo e il tuo numero di telefono e quindi sanno da dove cominciare per cercare di scovarti. E se sono riuscito a trovarti io, possono riuscirci facilmente anche loro.» Nonostante il chiasso, Clark riuscì a sentirmi e annuì. Un velo di sudore freddo gli imperlava il viso. Era pallido, sembrava in preda a una crisi di nausea e mi dissi che nonostante la droga il male che lo stava divorando doveva essere molto doloroso. «I tuoi figli sono al sicuro, ma non può durare. Devi deciderti: o chiedi di essere riammesso al programma di protezione, o lasci la città al più presto.» Clark guardò me, poi guardò i vietnamiti, restando a lungo incerto. «Ho bisogno di questi soldi.» Mi chiesi quanto avevano promesso di dargli. «Già, ma a che ti serviranno, dopo che avranno ammazzato i tuoi ragazzi?» Le urla dei nostri carcerieri diventarono sempre più stridule, finché Dak tolse di mano l'AK a Mon che insisteva per eliminarci e lo usò per sospingere Clark verso la porta, gridando: «Adesso abbiamo le macchine, abbia-
mo le macchine! Vai a stampare i soldi!» Ma Clark si rifiutò di obbedire. Afferrò a sua volta la canna del fucile e disse: «Non vado da nessuna parte. Se li ammazzate, non stamperò niente.» Dak ansimava. Intervenne un altro vietnamita, cercando di impadronirsi dell'AK, ma Dak lo bloccò con un ordine secco in vietnamita. Adesso ansimavano tutti come mantici. Clark era pallido, stravolto, al punto che temetti che stesse per svenire, ma trovò la forza di reagire e afferrò Dak per il bavero della giacca, dandogli uno scossone. «I miei figli sono in pericolo e quei due si stanno prendendo cura di loro.» Poi, guardò verso di me. «Se vi lasciano andare non parlerete, vero?» «Non parleremo.» «E non farete niente per impedirmi di stampare i dong?» «Clark, se ci lasciano andare, faremo tutto quello che possiamo per aiutarti.» Volevo che Clark Hewitt ottenesse il compenso pattuito. L'altro vietnamita gridò qualcosa e Dak spianò il fucile, gridando anche lui e in mezzo a tutto quel chiasso mi parve impossibile che qualcuno potesse raccapezzarsi. Temetti che Dak stesse per sparare, falciando Clark, me e Pike con una raffica di pallottole calibro 7.62, ma improvvisamente le urla cessarono e Dak sbraitò un'imprecazione in vietnamita, guardandomi con un'espressione di infinita stanchezza. «Va bene» disse. Quindi ordinò di liberarci. Fu come se il mio cuore ricominciasse a pulsare dopo una lunga interruzione. 26 Quello che si chiamava Mon la prese molto male. Saltò intorno, sbraitando e agitando il suo AK finché Nguyen Dak gli mollò uno schiaffo e lo disarmò. Subito anche gli altri si misero a gridare e questionare, ma alla fine Dak riuscì a riportare la calma. «Finiamola con questa storia e pensiamo a stampare i dong.» «Quanto tempo ci vorrà per stampare i dong?» domandai. Clark aggrottò le sopracciglia. «Be', devo solo finire di preparare le matrici, dopodiché basteranno un paio di giorni.» «Quanto, in totale, dall'inizio alla fine?» «Tre giorni.»
«Okay. I tuoi figli potranno stare fin quando avrai finito di stampare i dong. Intanto deciderai quello che vuoi fare.» Speravo di riuscire a portare i ragazzi via da Los Angeles e di approfittare di quei tre giorni per convincere Clark a farsi reintegrare nel programma di protezione insieme ai figli. Dak e i suoi uomini avrebbero pensato a metterlo al riparo dai russi finché restava lì impegnato con il lavoro. «Quando avrai i tuoi soldi potrai partire direttamente da qui senza tornare giù a Los Angeles. E i russi resteranno con un palmo di naso» dissi. L'idea piacque a Clark. «Per me va bene, direi» rispose. Quindi, rivolto a Dak, aggiunse: «Dobbiamo andare a prendere i miei figli, giù a Los Angeles.» Dak scosse il capo. «Assolutamente no. Prima stampi i soldi, poi fai quello che vuoi.» «Santo cielo, Dak» intervenni. «I ragazzi sono in pericolo finché restano a Los Angeles. E anche lui.» Dak guardò freddamente Clark. «Hai accettato di stampare i dong. Abbiamo comprato le stampatrici e i materiali. Abbiamo investito un sacco di soldi in questa faccenda.» Clark non si lasciò impressionare. «Farò il lavoro, come ho detto. Lo farò quando tornerò.» Dak scosse di nuovo la testa, duro. «Niente dong, niente soldi.» «Stamperò i dong. Voglio solo i miei figli.» Dak indicò me e Pike. «Tu resti qui a stampare. Loro vanno a prendere i tuoi figli.» Clark reagì con una smorfia imbronciata e di colpo notai quanto era simile al piccolo Charles. Cocciuto come suo figlio. «No» disse. «Sono il loro padre e vado io a prenderli.» Cercai di dargli man forte. «Sono qui vicino, a Studio City, santo cielo. Non è mica su Marte.» Dak si mise le mani sui fianchi, indeciso. «Stiamo parlando di tre ore in tutto, tra andare e tornare.» «No.» Tentai un'ultima carta. «Sentite, se temete che Clark non torni, perché non venite con noi?» Pike mi guardò storto. Dak si appartò per discutere con gli altri vietnamiti. Stavolta non ebbero bisogno di accapigliarsi, di gridare, o di puntarci le armi addosso. Forse cominciavano ad abituarsi all'idea. Alla fine Dak tornò e disse: «D'accor-
do. Andiamo a prenderli.» Pike sospirò. «Adesso dice "andiamo", come se fossimo tutti sulla stessa barca.» Dak si rivolse a Pike. «Abbiamo fatto un grosso investimento, qui, che non varrà più niente se lui non torna. Lo terremo d'occhio per evitare brutte sorprese.» Pike scosse la testa, fissando scettico il pavimento. «Allora, Clark, te la senti?» Era pallido e sudato e mi chiesi quanto tempo poteva resistere ancora prima di crollare. Avrebbe dovuto farsi ricoverare in un ospedale. Clark Hewitt reagì con irritazione. «Sto bene. Lasciatemi solo prendere la mia sacca.» La droga di cui aveva bisogno per tirare avanti era lì dentro. Mi fecero disegnare una mappa schematica del percorso da seguire per raggiungere la casa sicura e quindi partimmo. Mon venne insieme a noi sul fuoristrada di Pike, mentre Dak e i due Walter ci seguivano sulla Mercedes di Dak. Gli altri rimasero di guardia nell'edificio. Non capii da chi dovessero guardarsi, ma la prudenza non è mai troppa, come si sa. Mon sembrava risentito e scocciato e ritenne opportuno farci sapere che aveva una pistola infilata nella cintura dei pantaloni. Nonostante la sua età non proprio verdissima, era un tipo combattivo, un vero osso duro. Guidammo in silenzio per i primi venti minuti. Ogni tanto guardavo nello specchietto per tenere d'occhio Clark, ma lui se ne stava lì con aria assente, fissando senza vederlo il paesaggio intorno. «Clark, perché non hai detto a nessuno che eri ammalato di cancro?» Continuò a fissare fuori del finestrino. «Come fate a saperlo?» «Abbiamo trovato la lettera del Centro Clinico di Tucson.» «L'avete detto a Teri?» «Come potrei dirle una cosa del genere?» «La droga ti serve per il dolore» disse Pike. Clark guardò Pike. Era la prima volta che distoglieva gli occhi dal panorama. «Non ho l'assicurazione per le spese sanitarie e non posso permettermi di comprare le medicine contro il dolore che mi hanno prescritto. Gli spacciatori comprano e vendono la loro merce in contanti; è difficile che versino i soldi in banca e questo mi ha permesso di usare i soldi falsi.» Lo guardai di nuovo attraverso lo specchietto. Aveva il viso imperlato di sudore freddo, era pallido e sembrava in preda alla nausea. «Fa effetto, almeno?» «Sempre meno.»
«Quando hai cominciato?» chiese Pike. Clark si girò di nuovo verso il finestrino, quasi fosse imbarazzato. «Da qualche mese» rispose, con una scrollata di spalle. Come se non avesse altro modo di fare fronte a quella dannata situazione. Scrollare le spalle e stringere i denti. «È per questo che hai accettato di stampare quei soldi?» «Non ho niente da parte. Sono senza assicurazione sanitaria. Dovevo fare qualcosa per i miei figli e questo è ciò che ho trovato. L'unica cosa che so fare è stampare.» «Certo.» «Io stampo i dong falsi e Dak mi pagherà con soldi veri che potrò mettere in banca. Abbastanza perché i miei figli possano crescere senza problemi e finire di studiare. Magari anche per andare al college.» Fece un cenno d'assenso, mentre lo diceva, come se lo dicesse perché aveva bisogno di confortarsi con quella speranza, pensando che tutto sarebbe andato a posto, che ai suoi figli non sarebbe mancato niente. Mi venne quasi da piangere. «Non hai dei parenti che possano prendersi cura di loro?» «Io e mia moglie eravamo tutti e due figli unici. I nostri genitori sono morti.» Si strinse di nuovo nelle spalle. «Non hanno nessuno tranne me.» Guardò verso di me attraverso lo specchietto. «Voglio che tu sappia quanto apprezzo quello che hai fatto. Sei un gran brav'uomo.» Mi sforzai di tenere gli occhi fissi sulla strada. «Quando mi pagheranno mi sdebiterò.» Feci un cenno d'assenso, continuando a guardare la strada. Procedemmo rapidamente nel traffico del tardo pomeriggio e avremmo fatto ancora più in fretta se la Mercedes non avesse continuato a restare indietro, rischiando di perderci di vista. Alla ottava volta, dissi: «Perché va così piano, quello lì?» «Dak non vuole superare il limite di velocità» spiegò Mon. «È pronto ad ammazzarci per difendere la sua rivoluzione, ma si preoccupa di non violare il limite di velocità!» «Dak vuole essere un buon americano.» Con la coda dell'occhio vidi Pike scuotere la testa. Clark disse: «Questi non sono criminali. Sono rivoluzionari.» «Che falsificano dong, certo.» «Si sono messi in testa che se riusciranno a spacciare un sacco di soldi falsi in Vietnam, potranno destabilizzare il governo comunista e spingere il loro paese verso la democrazia.»
«Patrioti» commentò Pike. Clark scrollò di nuovo le spalle. «È il loro paese. Vogliono tornarci.» La stessa cosa che aveva detto Eddie Ditko. Chiesi a Clark se voleva passare prima da casa sua, ma lui disse di no. Mi informai se dovevamo fermarci in un drugstore per comprare qualcosa, ma disse ancora di no. Voleva solo riprendere con sé i suoi figli e tornare nella stamperia clandestina per finire il suo lavoro. La sua voce aveva un tono stanco. «Ho un amico dottore, Clark.» «Non mi serve.» Come se volesse solo stendersi e dormire il più a lungo possibile. Mi concentrai sulla guida, facendo cenno a Dak di sbrigarsi. Lui non sembrò apprezzare il mio invito, ma finché mantenni una velocità moderata riuscì a tenermi dietro. La marea del traffico dell'ora di punta ci colse mentre stavamo attraversando Hollywood, costringendoci a rallentare parecchio, ma una ventina di minuti più tardi riuscimmo infine a superare il Cahuenga Pass e ad arrivare in vista dell'uscita per Studio City. Quando lasciai l'autostrada all'altezza del Coldwater Canyon, Clark parve rianimarsi e si drizzò sul sedile. Mi chiesi come faceva a vivere con i dolori che lo affliggevano e cosa doveva costargli tirare avanti iniettandosi droga nelle vene. Oh, sì, Clark era una persona ben diversa da quel che appariva a prima vista. «Siamo vicini?» si informò. «Sì.» Due minuti dopo parcheggiai accanto al marciapiede in un punto che lasciava abbastanza spazio per la Mercedes di Dak e scendemmo tutti e quattro dalla Jeep Wagoneer di Pike, guardando Dak che faceva manovra e usciva dall'auto anche lui. Dak agitò il pollice indicando il condominio e Mon disse: «Andiamo.» Clark si mise in cammino con sufficiente disinvoltura, anche se ogni tanto faceva una leggera smorfia di dolore. Arrivammo davanti alla porta dell'appartamento, bussai due volte e attesi che Teri aprisse la porta. Doveva essere una lieta sorpresa, per lei, ma non andò così. Teri aprì la porta quando bussai per la terza volta e subito compresi che era successo qualcosa. «Teri...» Sgranò gli occhi quando vide Clark. «Papà!» «Ciao, cara» disse lui.
«Che cos'è successo, Teri?» domandai. I suoi occhi si riempirono di lacrime mentre buttava le braccia al collo di suo padre. «Charles è scappato.» 27 Mon corse indietro verso la Mercedes, mentre noialtri entravamo in casa, Clark tenendo un braccio intorno alle spalle di Teri. Winona gridò di gioia e saltò giù dal divano quando lo vide. Si slanciò verso di lui abbracciandogli la vita. Ebbi l'impressione che non fosse troppo preoccupata per la sorte di Charles; o forse era troppo contenta di rivedere suo padre per pensare ad altro, in quel momento. «Da quanto tempo se n'è andato?» «Da prima di pranzo» rispose Teri asciugandosi il naso. Adesso erano le tre passate. «E non sai dove può essere andato?» «No.» Si asciugò anche gli occhi. «Ha detto che voleva dare un'occhiata intorno alla casa. Ha detto che sarebbe tornato presto, ma è sparito.» L'abbracciai, cercando di confortarla. «Va bene, stai tranquilla. Lo troveremo.» Charles poteva essere andato ovunque, pensai. Mon tornò insieme a Dak e ai due Walter e nessuno dei quattro pareva contento di quella novità. Formarono un gruppetto, restando fermi davanti alla porta d'ingresso. Dak sembrava il più arrabbiato di tutti. «Che altro c'è, adesso?» mi domandò. «Il figlio di Clark è sparito.» Mi lanciò un'occhiataccia, come se stessi cercando di prenderlo per il naso. «Non possiamo andarcene così. Prima dobbiamo trovarlo.» Dak sembrò ancora più infuriato. «Aveva detto che ci saremmo sbrigati in fretta. Che si trattava solo di venire qui, prenderli e tornare indietro.» Teri aveva smesso di singhiozzare e stava guardando perplessa Dak e i suoi compari. «Chi sono queste persone?» domandò. Clark disse: «Sono i miei datori di lavoro, cara.» Come se fosse regolarmente impiegato presso una seria ditta di fama internazionale e gli avessero offerto le più allettanti condizioni di lavoro, compresa una buona pensione. «Non possiamo mica lavarcene le mani, no?» obiettai, rivolto a Dak. Lui mi passò davanti inoltrandosi nel soggiorno e si lasciò andare pesantemente sul divano, scuotendo la testa. Walter Senior e Walter Junior pre-
sero posto accanto a lui. Mon rimase in piedi vicino al tavolino, guardando Dak con un sorrisetto che sottintendeva un rimprovero. Parlottarono tra di loro, poi Dak sospirò, rassegnato. «Descriveteci il ragazzo e vi daremo una mano a cercarlo.» Teri spiegò che Charles portava pantaloncini di taglia abbondante e la sua maglietta preferita raffigurava Wolverine, il personaggio dei fumetti. Dopo qualche istante i quattro vietnamiti lasciarono la casa, ma prima Dak mi disse che sarebbero stati di ritorno nel giro di mezz'ora. I rivoluzionari partirono così per la loro missione ricognitiva. «Charles ha portato via qualcosa, quando se ne è andato?» chiesi ancora a Teri. «No.» «Winona, tu ne sai niente?» Winona scosse il capo senza guardarmi. «Non ha per caso detto che andava nel parco o in qualche sala giochi?» I russi non sapevano dov'eravamo e non avevano motivo di venire lì a Studio City e quindi mi sentivo relativamente sicuro, a quel riguardo. Lo Studio City Park era ad appena un isolato di distanza e un paio di isolati più in là c'erano due magazzini che vendevano merce a prezzi fortemente scontati. In quel genere di magazzini ci sono sempre molti videogiochi e fumetti, del genere che piacciono ai ragazzini. Un posto ideale per uno come Charles, se aveva voglia di passare qualche ora divertente. Teri mi disse di no e Winona scosse di nuovo il capo. Io e Pike ci dividemmo i compiti. Io andai a perlustrare il parco, scendendo dall'auto e spingendomi fino al centro sociale e ai giardinetti dove sono solite riunirsi le mamme del quartiere con i loro bambini. Ne trovai cinque o sei che guardavano i loro marmocchi giocare nella buca di sabbia, ma nessuna di loro aveva visto un ragazzino che rispondesse alla descrizione di Charles. Otto giovani stavano giocando a pallacanestro, ma nemmeno loro avevano visto Charles. Girai per le strade lì intorno, mi fermai nel mercato locale e nei due magazzini discount, descrivendo Charles a tutti quelli che incontravo, ma sempre senza risultato. Trentotto minuti dopo l'inizio di quella ricerca tornai a casa, dove trovai ad aspettarmi i vietnamiti e Joe Pike. Tutti a mani vuote. Quando gli dissi che anch'io avevo fatto un buco nell'acqua, Nguyen Dak si nascose la faccia tra le mani. Stavamo accumulando un intoppo dietro l'altro. «Non l'avete trovato?» si informò Teri. «Non ancora. Ma lo troveremo.» Forse, mi dissi, Charles aveva incontra-
to lì intorno un altro ragazzino ed era andato a casa sua, magari per misurarsi con lui in qualche videogioco. Probabilmente era ancora lì che giocava. Espressi a Clark quella mia ipotesi. «Potresti tornare con le ragazzine e Dak giù a Long Beach, mentre io aspetto qui. Appena Charles si fa vivo, lo prendo e vi raggiungo.» Dak si alzò in piedi. «Ottima idea» convenne, sorridendo forse per la prima volta da quando l'avevo visto. Clark rifletté, ma non parve convinto. «Mah, non lo so...» «Cosa c'è a Long Beach?» chiese allora Teri. Avvertii una certa tensione nella sua voce. Doveva essere arcistufa di tutti quegli spostamenti. Di dover sempre andare da qualche altra parte. «E lì che lavoro, cara» le spiegò Clark. Winona parve a disagio. «Io voglio andare a casa.» Clark mi guardò perplesso. Feci cenno di no. «Se avete bisogno di qualcosa a casa, passeremo io e Joe a prenderla appena possibile. Voi è meglio che andiate giù a Long Beach.» Winona, sempre più a disagio, cominciò a giocherellare con un laccio della scarpa. «Io credo che dovremmo andare a casa, prima.» La guardai. La guardò anche Teri. «Winona, sai qualcosa che non ci hai detto?» «No» rispose lei, serrando la mascella. Sentii i muscoli delle spalle e del collo che si mettevano in tensione, mentre un pensiero poco piacevole mi attraversava il cervello. Un pensiero addirittura terrorizzante. Tornai alla carica: «Winona, Charles ti ha detto qualcosa?» Scosse la testa. «Ti ha detto per caso che voleva andare a casa?» Giocherellò di nuovo con il laccio della scarpa, senza alzare gli occhi, finché venne via un pezzetto di gomma. «Charles ha detto che mi prendeva a botte se lo dicevo.» Charles, sempre lui. Joe disse: «Ah, birboncella...» Winona gli lanciò un'occhiata. Joe stava appoggiato con la schiena alla parete, a braccia conserte, imperscrutabile dietro i suoi occhiali scuri e mi dissi che doveva sembrare un gigante agli occhi di una bimbetta come Winona. «Ti proteggo io» dissi. Winona si decise infine a parlare, sia pure a malincuore. «Ha detto che secondo lui era da scemi stare qui ad aspettare, perché tutti sapevano che
papà sarebbe andato a casa. Ha detto che andava ad aspettarlo lì.» «Oh, mio Dio!» esclamò Clark. Winona disse: «Ha voluto la mia chiave.» Il piccolo portachiavi a forma di nanetto dispettoso. Walter Tran Senior guardò suo figlio e annuì. «I figli sono sempre fonte di un'infinità di preoccupazioni.» Io e Pike ci scambiammo un'occhiata sconsolata. I russi sapevano dove abitava Clark. «La vostra casa è molto lontana da qui. Charles sa come arrivarci?» «Charles sa orientarsi come un piccione viaggiatore. Magnifico.» Se il bambino era diretto a casa, era probabile che attraversasse il Laurel Canyon per scendere nella parte bassa della città. Andando a piedi ci voleva un sacco di tempo e teoricamente doveva essere ancora per strada, ma Charles era sicuramente abbastanza sveglio per chiedere un passaggio. Se gliel'avevano dato, a quell'ora poteva essere già arrivato a destinazione. Il guaio era che potevano essere arrivati lì anche i russi. Formai il numero di casa Hewitt e attesi pazientemente il quindicesimo squillo a vuoto prima di mettere giù. Nessuna risposta. Teri disse: «Forse è troppo spaventato per rispondere.» «Certo» confermai. Personalmente, ci credevo poco, ma mi attaccai a quella speranza. Se Charles era lì, avrebbe risposto senz'altro, se non altro per dire qualcosa di spiritoso. «Okay. Vado laggiù a vedere se c'è.» Clark e Teri dissero all'unisono: «Vengo anch'io.» «No. State qui e preparatevi. Se Charles è lì, appena saremo tornati si parte.» Dak congiunse le mani come per pregare. Mon sogghignò, come per dire: "Oh, certo". Lasciai Pike insieme a loro e mi misi in viaggio lungo la strada che pensavo Charles avesse seguito, procedendo lentamente per dare un'occhiata ai negozi, ai parchi e alla gente che stava attorno ai telefoni pubblici o alle fermate dell'autobus. Ispezionai i parcheggi di tutti i centri commerciali che incontrai, guardando dentro le sale giochi, le stazioni della metropolitana, i grandi magazzini. Charles non era apparentemente in nessuno di quei luoghi e poco alla volta scesi verso la parte bassa della città, raggiungendo Melrose Avenue e la modesta villetta che la famiglia Hewitt considerava temporaneamente come la propria casa. Mi ci vollero quasi due ore per arrivare a destinazione e quando fui lì guardai attentamente intorno per vedere se era parcheggiata nei pressi la
Camaro beige dei russi. Non la vidi e mi sentii un po' più tranquillo. Parcheggiai dietro la Saturn, andai alla porta d'ingresso e stavo giusto per infilare la chiave nella toppa quando qualcuno aprì dall'interno. Pensai che fosse Charles, ma mi sbagliavo. Alexei Dobcek stava lì a fissarmi con i suoi occhi azzurri e insondabili, puntandomi contro la sua pistola. «Sapevamo che uno di voi stronzi si sarebbe fatto vivo, prima o poi.» Dovevano aver parcheggiato la Camaro fuori vista, qualche isolato più in là. 28 Dobcek si fece da parte e mi fece cenno di entrare. Il silenzio all'interno e l'aria tiepida che sapeva di stantio erano quelli tipici di una casa rimasta per qualche tempo disabitata. «Dov'è Charles?» dissi. Dobcek sorrise. «Credi per caso che potremmo tenerlo qui, legato, dentro il bagno?» Mi sventolò davanti agli occhi il portachiavi di Winona, quello che Clark le aveva portato da Seattle, lo stesso che lei poi aveva dato al fratellino. «Guai a voi se avete anche solo torto un capello al ragazzo, Dobcek.» Lui sorrise di nuovo, beffardo. Era inutile che facessi il duro, diceva quel sogghigno, tanto io ho il ragazzo. Sautin era in soggiorno, seduto sulla poltrona di Clark, che guardava il canale dei consigli di cucina, dopo aver tolto l'audio. Le Too Hot Tamales, due note presentatrici di ricette messicane, ridevano e scherzavano tra loro, nel più totale silenzio e Sautin le guardava con un sorriso ebete dipinto sulle labbra. Aveva un occhio e il lato della faccia tutto gonfio e violaceo, nel punto dove Joe l'aveva colpito con un calcio. Dobcek disse: «Non ti vergogni per come ci hai mentito, dicendoci che non sapevi niente di questa gente?» «Certo. Non ci dormo la notte.» La casa era stata letteralmente rivoltata da cima a fondo. I cassetti erano stati svuotati sul pavimento, i piatti fracassati, i mobili del soggiorno rovesciati e fatti a pezzi. Avevano ribaltato perfino il tavolo del soggiorno, che stava lì con le gambe puntate verso il soffitto, come un quadrupede stecchito. Probabilmente stavano perquisendo la casa quand'era spuntato Charles. Mi chiesi se aveva cercato di opporre resistenza. Giurai dentro di me che l'avrebbero pagata cara, se gli avevano fatto del male. «Dov'è il ragazzino?» domandai. «Al sicuro da qualche parte.»
«Dove?» Per tutta risposta Dobcek mi infilò una mano sotto la giacca per sfilarmi la Dan Wesson. Commise l'errore di avvicinarsi troppo, durante quella manovra. Gli presi la pistola con la sinistra e gliela strappai di mano e quasi contemporaneamente si ritrovò la rivoltella puntata sotto il naso. «Il ragazzo» intimai. Dobcek fece di nuovo quel suo sorriso da squalo. «Dimitri, avresti dovuto vedere quello che ha fatto. È stato davvero in gamba.» «Da.» Dimitri Sautin stava ancora guardando le Too Hot Tamales. Armai il cane del revolver con il pollice. Il sogghigno da pescecane di Dobcek si allargò ancora di più. «E dopo che fine farebbe il ragazzo?» Allungai lo sguardo oltre il mirino della pistola, fissandolo negli occhi. Sautin disse: «Da, il ragazzo.» Ma rimase fermo dov'era. «Quella che abbiamo qui è una classica situazione di stallo» osservò Dobcek. «Io ho Clark e voi avete il figlio di Clark» dovetti convenire. «Già. Metti via la pistola e vediamo di metterci d'accordo.» Sospirai, feci un passo indietro e abbassai la mia rivoltella. Dobcek tese la mano verso di me e io gli restituii la sua arma. Una bella SIG P226 nuova di zecca. Automatica, facile da maneggiare. Poiché io e Pike gli avevamo da poco sequestrato l'altra pistola, mi chiesi dove si era procurato questa. «Prendo una cosa dalla tasca, okay?» mi avvertì. «Fai pure.» Tirò fuori un cartoncino dello Sheraton-Universal Hotel. «Noi stiamo lì. Il ragazzo no, ma noi sì.» Charles doveva essere già nelle mani di Markov, mi dissi. «Tu chiedi a Clark se vuole rivedere suo figlio, poi mi dai un colpo di telefono e discutiamo i termini dell'accordo.» «Il ragazzo in cambio di Clark.» «Giusto.» Disse qualcosa in russo a Sautin che si alzò e venne verso di noi. Il livido era davvero grosso e sperai che gli facesse tanto male per quanto era grosso. Dobcek mi strizzò l'occhio e poi i due se ne andarono. Rimasi lì solo, immobile, per un bel pezzo, guardando le Hot Tamales e riflettendo. Le Hot Tamales stavano preparando un pepatissimo piatto con acciughe e tequila, ridendo allegramente. Si divertivano sul serio, apparentemente e io avrei voluto potere ridere con loro, invece avevo il cuore stretto da una morsa di ghiaccio, dentro quella casa devastata da un paio di
killer russi che avevano sequestrato un ragazzino. No, non potevo farmi prendere dal panico. Il panico uccide. Mi sentivo come un giocoliere impegnato a fare roteare nell'aria un numero pazzesco di clave, al limite delle capacità umane. Okay, Cole, allenta la tensione. «Addio, ragazze» dissi e spensi le Tamales. La casa era stata buttata per aria perché Dobcek e Sautin cercavano una traccia per arrivare fino a Clark. Poi era comparso Charles, ignaro e il piccolo valeva molto di più di una traccia qualsiasi. Era il biglietto vincente, quello che permetteva di incassare il primo premio. Andai nel corridoio, alzai gli occhi verso la botola nel soffitto e vidi che non era stata toccata. L'aprii, tirai giù la scaletta flessibile e andai su nel sottotetto. La sacca con i soldi era dove l'avevo lasciata e mi venne i mente che magari poteva tornarmi utile. Non sapevo ancora bene come, ma non si sa mai. La portai giù, richiusi la botola e lasciai la casa, rimettendomi in macchina per tornare a Studio City. Guidai lentamente, pensando a Markov e a Clark, a quel che stava più a cuore a ciascuno dei due e poco alla volta cominciai a rimettere insieme le tessere del mosaico e a intravedere una possibile soluzione. Quando tornai nella casa sicura, Joe, Clark e Teri stavano intorno al tavolo della sala da pranzo e i vietnamiti erano ancora riuniti tutti insieme in soggiorno. Winona e Walter Junior stavano guardando alla televisione un programma sugli animali selvaggi. Tutti i presenti si volsero ansiosamente verso di me, mentre Teri e Clark chiedevano insieme, sovrapponendo le loro voci: «L'hai trovato?» «Nella casa c'erano Dobcek e Sautin. Hanno preso Charles.» Clark barcollò e si aggrappò allo schienale di una sedia. Teri mi guardò perplessa. «Chi sono Dobcek e Sautin?» «Lavorano per l'uomo che vuol eliminare tuo padre» spiegò Pike. «E quello cos'è?» chiese ancora Teri, guardando la sacca di stile militare. Non risposi. Mi rivolsi invece a Clark. «Charles sta bene, ma dobbiamo parlare di questa faccenda.» Lui fissò a sua volta la sacca. Teri disse: «È quella la causa di tutto, vero? I soldi falsi di quell'uomo.» La voce gli uscì incrinata dalla tensione. Clark disse: «Porta Winona di sopra, per favore.» Teri non si mosse. «Teri, ti prego.» «"Non trattarmi come una bambina!"» Fu un grido esasperato che colse
Clark di sorpresa. «Sono sempre io che devo badare a Charles! Gli faccio da mamma molto di più di quanto tu gli abbia mai fatto da padre! Perché non ce la porti tu Winona di sopra?» Sentendola gridare, Winona si mise a piangere e Clark rimase lì sconvolto come doveva esserlo stato il giorno in cui gli avevano annunciato che era ammalato di cancro. Un'altra mazzata. Dak distolse lo sguardo, imbarazzato. Intervenni. «Teri» mormorai. «Quello che è successo non è colpa tua.» Lei allora si alzò e si rifugiò tra le mie braccia, gemendo e farfugliando qualcosa che non riuscii a capire. Forse stava dicendo: «Non voglio piangere. Non voglio piangere.» Le carezzai i capelli, la tenni stretta e dopo un po' lei si staccò, prese con sé Winona e salì al piano di sopra. Clark rimase con gli occhi fissi a terra. «Clark.» Guardò verso di me. «Sì?» Gli riferii quello che Dobcek aveva detto. Il padre in cambio del figlio. Mentre gli esponevo la situazione, lui cominciò a torcersi le mani in modo sempre più frenetico e quando ebbi finito disse: «Be', allora non resta che chiamarli.» «Quelli ti vogliono morto, amico» lo ammonì Pike. «Hanno preso Charles.» Clark era terreo in volto. «Non posso permettere che gli facciano del male.» Mon disse qualcosa a Dak in vietnamita. Probabilmente stavano vedendo crollare i loro sogni rivoluzionari. «Non permetteremo mai che capiti qualcosa di male a Charles» intervenni. «Ma scambiare te con tuo figlio non servirebbe a niente. Quando avranno in mano anche te si guarderanno bene dal liberare Charles. Vi ammazzeranno tutti e due, perché è il solo modo che hanno per sperare di farla franca.» Clark scosse la testa. «Che vuoi dire?» «Pensaci, Clark. Quelli vogliono farti la pelle. Se ci riescono e qualcuno resta vivo, chi potrà impedire a Charles o a me o a un altro di andare dalla polizia?» Serrò le labbra in una smorfia tesa. «Che facciamo, allora?» Mon mormorò di nuovo qualcosa e Nguyen Dak intervenne: «Facciamo in modo che cambino idea, che ti vogliano vivo, invece che morto.» Guardai Dak e mi parve cupamente immerso nei suoi pensieri, pericoloso come non mai. Doveva essere la stessa faccia che aveva quand'era in
Vietnam, molti anni prima. La faccia di chi è impegnato in una guerra. «Sì» disse Pike, esprimendo la sua approvazione alla proposta. Dak convenne anche lui. «I russi vogliono vendicarsi, ma forse possiamo indurli a rinunciare alla vendetta facendo leva sulla loro avidità. In genere funziona sempre, con i criminali.» «Ci darà una mano?» gli chiesi. «Voglio quei dong. E farò tutto il necessario perché siano stampati come programmato.» Nei suoi occhi passò un lampo determinato e mi parve che un vago sorriso gli increspasse le labbra. «I russi» disse Mon. Pike piegò gli angoli della bocca nel suo modo caratteristico, notando anche lui il positivo cambiamento che si era prodotto nell'atteggiamento dei vietnamiti. Gli irriducibili nemici di un tempo si fronteggiavano di nuovo. I russi avevano a suo tempo appoggiato il Vietnam del Nord contro Nguyen Dak e quelli che come lui combattevano Ho Chi Minh. Il regime comunista di Hanoi era ancor oggi sostenuto dai russi. Erano di nuovo schierati su fronti contrapposti, in una guerra che i vietnamiti dovevano vincere a ogni costo, se volevano tornare in patria. Toccai con la punta del piede la sacca militare. «Sono di Markov, questi soldi?» Clark confermò con un cenno del capo. «Markov capirà che sono i suoi? Capirà che sono falsi?» Clark prese dalla sacca un fascio di banconote, facendo frusciare i biglietti tra le dita. «Non potrà capire che sono i suoi, ma capirà che sono falsi. Ha degli esperti che lavorano per lui.» «Che hai in mente?» mi chiese Pike. «Markov si è fatto dire da Brownell tutto quello che sapeva. Quindi sa che Clark si è rimesso a stampare, ma non sa cosa. Sa anche che Clark è un vero professionista nel suo campo, ma come reagirebbe se scoprisse che è diventato ancora più bravo?» Clark scosse il capo perplesso. «Non capisco.» «E se trovassimo il modo di pagare un riscatto, per convincerli a risparmiare la vita di Clark?» «Pagarli? Con che cosa?» «Soldi falsi.» Clark obiettò: «Ma si accorgeranno subito che sono falsi. Markov non sa che farsene dei soldi falsi, ne ha già quanti ne vuole.» «Non come quelli che noi gli daremo. Come reagirebbe se fossero così
buoni da essere assolutamente indistinguibili da quelli buoni? Se non potesse riconoscere la differenza nemmeno un ispettore di banca?» Pike annuì. «Come i superdollari falsi prodotti in Iran.» Correva la voce che l'Iran avesse messo in circolazione biglietti da cento dollari praticamente identici agli originali. «Esatto.» Guardai Clark. «Markov sa che sei bravo. Che cosa farebbe se sapesse che sei bravo come gli iraniani?» Clark scosse il capo, scettico. «Ma io non posso fare niente del genere. Gli iraniani usano delle stampatrici svizzere con matrici uguali a quelle che usa la zecca americana. Usano anche la stessa carta.» Scosse di nuovo la testa. «Non sono in grado di duplicare la carta e non ho una stampatrice di quel tipo. È roba che costa milioni di dollari.» Chiarii il succo della mia idea: «Basta fare vedere a Markov qualche migliaio di dollari veri, dicendogli che sono falsi. Gli diremo di esaminarli con calma, di fare tutti gli esami che vuole. E gli prometteremo di dargliene altri cinque milioni, di quel tipo.» «Ma quando gli daremo quelli falsi se ne accorgerà» obiettò Clark. «Capirà subito che non sono gli stessi.» «Lo so, Clark. È per questo che dovremo fare intervenire anche la polizia.» Clark mormorò rassegnato: «Okay.» Walter Tran Junior invece uscì in un'esclamazione soffocata e Mon sbiancò in viso a quell'idea. «Perché la polizia?» chiese Dak. «Avremo bisogno della polizia per mettere Markov in condizione di non nuocere. Lui riceve i soldi, ci restituisce Charles e i federali fanno irruzione, arrestandolo per i soldi falsi e per il rapimento del ragazzo.» Guardai di nuovo Clark. «Se permettiamo ai federali di incastrare Markov, forse accetteranno in cambio di lasciarvi stampare i dong..» Clark mi fissò incredulo. «In questo modo tu potrai avere ancora il compenso che Dak ti ha promesso.» Annuì. «Per i tuoi figli.» Clark parve fissare lo sguardo nel vuoto, come se cominciasse a intravedere una luce lontana al termine di un tunnel. Nguyen Dak incrociò le braccia sul petto, sempre con la sua aria determinata e minacciosa, ma adesso anche più riflessiva. Forse stava pensando ai suoi figli. O forse si stava solo chiedendo come poteva venirne fuori
senza perdere tutto quello per cui aveva lavorato. «Potrei chiamare Dobcek e fissare un incontro» dissi. «Ma abbiamo ancora bisogno dei soldi veri. Qualche migliaio di dollari in biglietti da cento che probabilmente non rivedremo più. Servono per convincere Markov. Chissà, magari sarà anche necessario distruggerli, per fargli credere che sono proprio falsi.» Clark alzò gli occhi al cielo, sospirando. «Oh, magnifico. E dove li andiamo a prenderli?» «Ci penso io» disse allora Nguyen Dak. Ci scambiammo un'occhiata, siglando una muta intesa. «Molto bene» dissi. Mon mi pareva contento anche lui all'idea di regolare i conti con i russi. 29 Dak fece un paio di telefonate per procurarsi il denaro. Sistemata questa faccenda, io chiamai Dobcek e gli dissi che secondo me potevamo metterci d'accordo, ma che avremmo dovuto discuterne. Non parlai di denaro, ma suggerii l'idea che Clark era disposto a consegnarsi in cambio del ragazzo. Insomma, feci del mio meglio perché abboccassero i russi, prospettando qualcosa di allettante, sperando di prenderli all'amo al momento giusto. Dobcek disse: «Tu porta qui il padre.» «D'accordo. E tu porta il ragazzo.» Secondo gli schemi classici. Sentii qualcuno che parlava in sottofondo, vicino a Dobcek. Quindi lui disse: «Non è il momento di discutere dei dettagli, adesso. Dammi il tuo numero di telefono.» «Perché?» «Il nostro amico ti chiamerà, così ti metterai d'accordo direttamente con lui.» Il nostro amico. Si riferiva a Markov. Gli diedi il numero di telefono. Disse ancora: «Ti chiamerà domani mattina alle nove. Tieniti pronto ad agire immediatamente. Capito?» «Dobcek, io capisco sempre tutto al volo. Ricordatelo.» «Da.» «E sono uno che non perdona. Guai a voi se fate del male al ragazzo.» Fece una risata beffarda e riattaccò. Clark, Joe e i vietnamiti mi guardarono con aria interrogativa. «Concorderemo il luogo e l'ora domani mattina alle nove. Avremo i soldi per allora?»
Dak rispose: «Ventimila dollari in biglietti da cento saranno qui entro poche ore.» Pike annuì. «Sei un vero galantuomo, Dak.» Stavo andando al piano di sopra per vedere Teri quando squillò il telefono. Rispose Pike, che tese verso di me la cornetta del telefono. «Lucy.» «Che cos'è successo?» Mi balzò il cuore in petto. Peggio di quando mi ero trovato alle prese con i russi. Peggio di quando Mon mi aveva puntato addosso l'AK. Pike stava lì con la cornetta del telefono in mano, in attesa. Mi affrettai ad andare a rispondere. «Lucy?» esclamai. «Abbiamo vinto.» Quelle semplici due parole mi abbassarono di colpo l'eccesso di adrenalina che avevo nel sangue. «Elvis, è andato tutto a posto. Abbiamo vinto.» «Hai avuto il lavoro?» «Sì.» Pike mi stava osservando incuriosito. Gli feci un cenno eloquente di conferma e lui mi appoggiò una mano sulla spalla e la strinse, condividendo la mia gioia. «Abbiamo ancora un po' di tempo. Vai da lei» mi disse. Guardai Clark, incerto. Guardai verso il piano di sopra. Pike disse: «Su, vai, non ti preoccupare.» Tracy Mannos abitava in una villetta moderna in una strada elegante non lontano da Roscomore Drive, in cima alla collina di Bel Air. Erano quasi le dieci quando arrivai lì, ma Lucy e Tracy stavano già festeggiando, eccitate, la loro vittoria, con una bottiglia di Mumm Cordon Rouge Brut. Venne ad aprirmi Tracy e Lucy per poco non la travolse per correre ad abbracciarmi. Restammo lì stretti, sorridenti e Tracy commentò divertita: «Vi avverto che se vedo che cominciate a togliervi i vestiti chiamo la polizia.» Lucy scoppiò a ridere, io pure e fu come se qualcuno o qualcosa avesse tolto un tappo e un oceano di tensione si fosse improvvisamente prosciugato. «Quanto tempo puoi restare?» si informò Lucy. Mi sciolsi dall'abbraccio e forse il mio sorriso si appannò un poco. «Non molto.» Le dissi dei soldi. Le dissi quello che cercavamo di fare. «Non so quanto tempo ci vorrà. Nei prossimi due giorni credo che sarò molto impegnato.» Mi prese una mano tra le sue e la strinse. «Capisco. E io domani devo tornare da Ben.» Come due navi che si incrociano viaggiando su rotte diverse. È il prezzo che bisogna pagare quando si è adulti e responsabili. «Sì, ma tornerai.»
Lucy tornò a sorridere. «Puoi scommetterci le chiappe, bel maschione.» «Raccontatemi com'è andata.» Lo fecero, integrando il resoconto dei dati di fatto con quello che supponevano si fosse svolto dietro le quinte. La sostanza era semplice, come spesso accade in questi casi. Anche se la vicenda lasciava un po' di amaro in bocca. Il ruolo che Stuart Greenberg vi aveva avuto risultava ridimensionato. Non si era prestato a tenere bordone al suo vecchio compagno come avevamo sospettato. In realtà, quando Richard aveva saputo che la KROK aveva offerto un lavoro a Lucy, aveva usato la sua posizione presso la B,M&D per influenzare la società che controllava la KROK, mettendo in giro la voce che Lucy era poco diligente sul lavoro. Quando la società controllante, preoccupata che la KROK stesse per assumere una persona poco affidabile, aveva esternato i suoi dubbi a Stuart Greenberg, Greenberg aveva chiesto da chi lo avessero saputo e loro gli avevano detto di mettersi in contatto con la fonte, tale Richard Chenier, stimato socio dello studio legale Benton, Meyers & Dane. Greenberg, dunque, aveva solo reagito alla voce messa in giro da Richard. Tracy disse: «Quando Stuart ha capito quel che era successo, ha passato il resto del tempo a chiedere scusa.» A volte non resta che scuotere la testa. «E così sei stata assunta?» Lucy sorrise. «Siamo rimasti d'accordo che avremmo trovato un'intesa. Stuart ha promesso che avrebbe chiamato David Shapiro e che avrebbe cercato di concludere la trattativa al più presto.» Tracy si sporse verso di me, rassicurandomi: «Il lavoro è suo, non ci piove.» «E Richard?» domandai. Il sorriso di Lucy svanì, lasciando apparire di nuovo l'espressione dura e determinata di quando faceva sul serio. «Ho telefonato al suo ufficio e ho parlato anche con il suo capo.» «Secondo me dovrebbe fargli causa, a quel figlio di buona donna» osservò Tracy. Lucy serrò le labbra in una smorfia tesa. Forse stava pensando a Ben. Forse si chiedeva fino a che punto si poteva portare avanti una guerra come quella quando rischiava di andarci di mezzo suo figlio. «Sì, certo. Vedremo.» Poi parve scacciare quel pensiero fastidioso, mentre mi serrava di nuovo la mano tra le sue. «Volevo dirti grazie.» «Non ho fatto niente.» «Proprio per questo. Hai capito che dovevo vincere questa battaglia da
sola. Ti conosco. E so che non dev'essere stato facile, per te.» Scrollai le spalle con aria noncurante. «Non troppo. Mi hai detto che potevo sempre accopparlo più tardi.» «Oh, sì. Credo di averlo detto.» Lucy guardò Tracy, che sorrise. Le due donne comunicarono tra di loro senza bisogno di parlare. Tracy mi baciò su una guancia e mi passò la bottiglia di Brut. Non ce n'era rimasto molto. «Stammi bene, mia cara» disse, allontanandosi e lasciandoci soli. «Le hai fatto capire che era il momento di togliere il disturbo?» domandai. «Sì.» «Brava.» Io e Lucy restammo lì nel soggiorno di Tracy, tenendoci per mano. Era tardi, sempre di più, ma non volevo andarmene. «Vorrei che potessi restare, Elvis» disse Lucy. «Lo so.» Mi scrutò attentamente, poi mi sfiorò la faccia. Il livido che avevo rimediato a Seattle era ormai quasi scomparso. «Mi metterò al più presto in cerca di una casa adatta. Appena Ben avrà finito la scuola, ci trasferiremo.» Annuii. «Guai a te se non mi aspetti.» Annuii di nuovo. «Sii prudente, domani, mi raccomando.» «Io sono la prudenza fatta persona.» «Non è vero. Ma sarebbe meglio che lo fosse.» «Sarò qui ad aspettarti, Lucy. Hai la mia parola.» Mi baciò la mano e restammo insieme un altro po', dopodiché tornai a Studio City. 30 Rientrai nella casa sicura qualche minuto dopo l'una, quella notte e appena varcai la soglia mi trovai di fronte Mon con la pistola puntata. Mon si strinse nelle spalle, quando gli dissi in tono ironico: «La prudenza non è mai troppa, vero?» Walter Junior dormiva steso sul pavimento. Dak e Walter Senior giocavano a carte, seduti al tavolo del soggiorno. Clark stava seduto accanto a
loro. «Sono arrivati i soldi?» Dak rispose senza alzare gli occhi dalle sue carte. «Arriveranno presto.» «Dov'è Pike?» «Se n'è andato, senza dire dove» rispose Mon. «Non mi piace» aggiunse, sospettoso. «È un tipo poco loquace. Non è il caso di preoccuparsi.» La pelle di Clark era pallida e imperlata di sudore e guardando meglio notai che gli tremavano le mani. «Clark?» Scosse la testa. «Dove sono le bambine?» «Dormono.» Mi sedetti al tavolo, restando lì in attesa insieme a loro. Dover aspettare è spesso la cosa peggiore. All'1.40, qualcuno bussò sommessamente alla porta e consegnò a Dak una sacca da viaggio contenente ventimila dollari in biglietti da cento nuovi di zecca. Veri biglietti di banca, stampati dalla Zecca di Stato su carta prodotta dalla Crane Paper Mill di Dalton, Massachusetts. Chissà, forse Dak se li era conservati sotto il materasso per le situazioni d'emergenza. Clark obiettò subito che erano troppo nuovi e allora li mise in una grossa busta di plastica a chiusura ermetica insieme a duecentocinquanta grammi di caffè macinato e a mezzo chilo di fagioli secchi, mettendo infine il tutto nell'asciugatrice. Il processo non avrebbe danneggiato il denaro, spiegò, ma lo avrebbe colorato uniformemente dandogli un'apparenza in tutto simile a quella dei biglietti di banca logorati dall'uso. Joe Pike tornò poco dopo le quattro. Diede a Clark una fialetta marroncina piena di pillole e si appartò confabulando insieme a lui in un angolo in ombra del soggiorno. Clark esaminò la fialetta, restò per un po' a fissare Pike con aria incerta e infine andò in bagno. Ricomparve poco dopo e mi parve che stesse molto meglio. Nessuno di noi andò a letto, quella notte; dormicchiammo a intervalli, nervosamente, come i gatti, appollaiati sul divano, su qualche poltrona, o per terra, aspettando l'alba. Il mattino seguente, prestissimo, Teri scese dabbasso, si destreggiò in mezzo agli uomini dormienti e si stese anche lei rannicchiandosi vicino a suo padre. Andrei Markov chiamò alle nove del mattino seguente, puntualmente, come Dobcek aveva preannunciato. «Ci vediamo sul lungomare di Venice, tra un'ora esatta.»
«Fammi parlare con il ragazzo.» Markov mi passò Charles e io lo rassicurai, dicendogli che sarebbe andato tutto a posto. Gli raccomandai di stare calmo, perché io e Joe lo avremmo riportato a casa. Markov si riappropriò del telefono prima che avessi finito. «Hai presente la libreria che c'è lì?» «Sì.» La libreria si chiamava Small World Books. «Dovrete aspettare sul prato lì di fronte.» Guardai Clark. «Sei pronto?» «Certo. Charles è mio figlio.» «Allora andiamo.» Dak accettò di restare lì con Teri e Winona mentre io mi recavo all'incontro insieme a Joe e Clark. Ci andammo con il fuoristrada di Joe, guidato da lui. Sul pavimento davanti alla panchetta posteriore vidi due custodie di forma allungata che non c'erano il giorno prima. Forse era per questo che Joe si era allontanato, la sera precedente. Ci immettemmo sulla freeway per Santa Monica, poi prendemmo a sud lungo l'Ocean Boulevard, restando silenziosi per tutto il tragitto fino al sobborgo di Venice, in riva al mare. Pike si fermò in una stradina laterale e chiese: «Come sei rimasto d'accordo?» «Hanno detto che io e Clark dobbiamo aspettare sul prato davanti alla libreria. Si faranno vivi. Dovrebbero avere con loro il ragazzo, ma non ci scommetterei.» Clark si sporse ansiosamente dal sedile posteriore. Teneva in grembo la sacca con i soldi, come uno scolaro terrebbe il cestino della colazione. «Perché non porteranno Charles?» «Diranno che il ragazzo è in una macchina lì vicino e forse ci sarà davvero, ma forse no. Non vengono per trattare, Clark. Quelli vengono per farci fuori. Tienilo a mente.» «Oh.» «Diranno che Charles è da qualche altra parte per convincerci a seguirli in un posto appartato di loro scelta. Un posto adatto per ammazzarci senza testimoni. La scena del delitto, in gergo poliziesco.» «Un termine asettico per una faccenda molto sgradevole, in realtà.» «La sostanza non cambia» commentò Pike, scrollando le spalle. «Ma come faremo a farci consegnare Charles?» «Gli mostreremo i soldi. Tu devi cercare di mantenere la calma e di convincerli che quei soldi sono opera tua e che puoi stamparne degli altri. Questo è molto importante, Clark. Te la senti?»
Lui annuì. «Oh, certo.» Oh, certo. «Markov ti vuole morto, ma se crederà di poter ottenere qualcosa da te prima di farti fuori, può darsi che cambi idea.» «E se non lo facesse?» «Allora dovrò ammazzarlo» disse Pike. Quando fummo a due isolati dalla libreria, Pike scese dall'auto e si infilò in un vicoletto, senza dire una parola, sparendo dalla scena. Aveva con sé una di quelle custodie oblunghe. «Dove va?» mi chiese Clark. «A controllare che non possano farci fuori a tradimento mentre siamo lì ad aspettarli.» «Potrebbero fare davvero una cosa del genere?» A volte l'unica risposta possibile è scuotere in modo ambiguo la testa. Mi misi al volante della Jeep, ed esattamente alle 9.42 la lasciai parcheggiata in sosta vietata vicinissimo alla zona pedonale del lungomare, al centro di Venice. «Andiamo.» Guidai Clark lungo una stradina che portava al lungomare e da lì fino alla libreria. Era una giornata di sole, sul mare c'era una leggera foschia, ma la temperatura si manteneva fresca al punto giusto. Il lungomare era già pieno di gente che passeggiava su e giù instancabile, i negozi offrivano tatuaggi e occhiali da sole ai molti turisti attirati in quel luogo dall'animazione che notoriamente vi regnava. La brezza marina faceva ondeggiare le chiome degli altri palmizi. Schiere di appassionati di jogging, di esperti pattinatori, di fanatici culturisti sia maschi che femmine, tutti abbronzatissimi, si muovevano in mezzo alla folla con studiata indifferenza. «Dov'è Joe?» chiese Clark. «Non si farà vedere e non guardare intorno per cercarlo. I russi potrebbero insospettirsi.» Si affrettò a obbedire, guardando dritto davanti a sé. «Tu li vedi?» mi chiese ancora, preoccupato. «No, ma probabilmente ci stanno già tenendo d'occhio.» «Oh.» La libreria aveva appena aperto i battenti e la padrona del negozio, una donna bruna con gli occhiali, stava mettendo fuori degli espositori metallici per le riviste. Sospinsi Clark all'interno e gli dissi di aspettarmi lì con la sacca, facendo finta di guardare le riviste e di seguire i miei movimenti attraverso la vetrina. Gli dissi di non uscire finché non gli avessi fatto cenno di raggiungermi. La padrona del negozio ci guardò sospettosa. Immagino che al suo posto anch'io avrei fatto altrettanto.
Tornai fuori e mi piazzai in mezzo al prato ad aspettare. Tre vagabondi erano stesi lì accanto, uno dei quali aveva con sé un cagnolino alquanto grassottello. Quello con il cane mi chiese: «Hai qualche spicciolo da darmi?» «No, mi dispiace.» «Non essere tirchio. Mi servono per il cane.» Feci cenno di no con la testa. «Non ho spiccioli.» Il vagabondo si rivolse con una smorfia al suo compare. «Tirchiaccio.» Mi guardai in giro scrutando destra e sinistra il lungomare, la spiaggia alle mie spalle, i parcheggi e le stradine trasversali, cercando di non dare troppo nell'occhio, anche se ero lì pronto a mettere mano alla pistola per salvare la vita di Clark Hewitt, oltre che la mia. Osservai il cagnolino cicciottello. «Non gli farebbe male fare un po' d'esercizio» dissi. Il vagabondo si risentì. «Non sono cavoli tuoi.» Fine della conversazione. Erano le dieci e sei minuti quando Alexei Dobcek sbucò dal parcheggio della libreria e venne dritto verso di me come se ci fossimo noi soli, in riva al mare. «Dov'è il ragazzo?» gli domandai. «Qui vicino. Andiamo a prendere Clark e ve lo farò vedere.» Sollevai la borsa che avevo in mano. «Abbiamo avuto un'idea che ci sembra migliore.» Dobcek guardò diffidente la sacca, poi oltre me, a destra e a sinistra, come temendo che potesse sbucare all'improvviso qualcuno. Quindi sogghignò minaccioso, quasi sfidandomi a fare una cosa del genere. «Sappiamo che Clark è dentro la libreria. Bada, non è il momento di fare fesserie.» Posai la sacca davanti ai suoi piedi. «Dagli un'occhiata.» Abbassò gli occhi sulla sacca, ma la lasciò dov'era. Il vagabondo guardò anche lui la mia sacca, incuriosito. Dobcek disse: «Markov è qui vicino con il ragazzo. Avevamo fatto un accordo, giusto?» «Guardaci dentro. Non morde mica.» «Posso guardare io?» intervenne il vagabondo. Dobcek lo gelò con i suoi occhi di ghiaccio. «Il tuo botolo schifoso farà una brutta fine, se non ti levi subito di torno.» Il vagabondo si affrettò a prendere in braccio il cane e a togliere il disturbo. «Rifiuto della società» disse Dobcek, guardandolo andare via. Davvero un cuor d'oro, il mio amico russo. Si volse di nuovo verso di me, poi si accoccolò e aprì la sacca. Ficcò
dentro una mano, tastò le banconote, poi chiuse la lampo e si rialzò. «Allora?» «È il nuovo progetto di Clark. Porta questa roba a Markov, digli di dargli un'occhiata e che se vuole possiamo cambiare i termini del nostro accordo.» Dobcek mi squadrò, scuotendo scettico il capo. «In che senso?» «Fagli vedere i soldi. Aspetterò qui, insieme a Clark. Quando Markov vorrà parlarci, ci troverà sempre qui. Digli che i soldi sono solo un campione.» Mi venne vicino con aria minacciosa. «Attento, o non vedrai più il ragazzo.» Lanciò un'altra occhiata malevola verso la libreria e se ne andò con la sacca. Mi guardai intorno, osservando le coppiette che facevano colazione nel ristorantino vicino alla libreria e mi dissi che ci avrei portato volentieri Lucy, appena possibile. Potevamo sederci anche noi a un tavolo all'aperto, dopo una visita alla libreria e restare a guardare i personaggi eccentrici che erano soliti pavoneggiarsi sul lungomare. Leggendo un po', mangiando un po'. Sarebbe stato bello, sempre che riuscissi a sopravvivere nei prossimi dieci minuti. Dobcek riapparve di lì a poco tra le bancarelle e stavolta era accompagnato da Sautin, Andrei Markov e un altro che non avevo mai visto. La borsa era adesso in mano al quarto uomo, che era vestito semplicemente con un paio di jeans e una maglietta verde. Markov, invece, sembrava uno di quei guitti che si esibiscono a Las Vegas, con la sua vistosa giacca sportiva di raion traslucido, la catena e i braccialetti d'oro. Una ragazza in bikini verde che passava di lì correndo sui pattini lo guardò e si mise a ridere. Probabilmente non era quello l'effetto che Markov si proponeva di ottenere, con il suo sfoggio di eleganza kitsch. Quando mi arrivarono davanti, Markov indicò con un cenno della mano la sacca. «Non mi piace quando qualcuno pretende all'ultimo momento di cambiare i miei piani.» «Allora perché non te se sei andato, togliendo di mezzo il ragazzo, come avevi minacciato?» «Non è detto che non lo faccia. Forse toglierò di mezzo anche te e Clark.» Sorrise guardando la libreria, quindi mi indicò di nuovo la borsa. «Perché mi hai fatto vedere questa roba?» «L'ha stampata Clark. Ne potrebbe stampare ancora, anche per te, se
metti da parte l'idea di eliminare lui e il ragazzo. Abbiamo pensato che ti poteva interessare al punto da dimenticare quello che è successo a Seattle, mettendoci definitivamente una pietra sopra, come si suol dire.» Ci siamo, pensai, o la va o la spacca. Se non riuscivamo a convincerlo che si trattava di soldi falsi sarebbero stati guai. Il quarto uomo posò per terra la sacca e tirò fuori uno dei biglietti da cento. Fece schioccare la carta tra le dita e mi guardò sogghignando. «E questo sarebbe falso?» Fece schioccare di nuovo la banconota. «Chi vuoi prendere in giro?» Non era russo. A giudicare dall'accento, doveva essere della Georgia o della Florida e la sua presenza complicava le cose. Sembrava esperto in materia di processi di stampa e di falsificazioni e poteva sbugiardare autorevolmente Clark. «E tu chi diavolo sei?» domandai. «Lui dice che state cercando di prenderci per il naso» intervenne Markov. Mi rivolsi a lui sfoggiando un sorriso serafico. «Se non ti interessa, non fa niente.» Il vagabondo con il cane si era spostato dieci metri più in là davanti a una bancarella che vendeva cianfrusaglie di origine africana. Lo chiamai: «Ehi, tu. Tu con il cane!» Quando guardò verso di me, chiusi la sacca e gliela lanciai. «Fai festa anche tu.» Poi mi girai di nuovo verso Markov, allargando le braccia. «Peggio per te, Andrei. Noi ne abbiamo un altro paio di milioni, di questa roba.» Dieci metri più in là, il vagabondo guardò dentro la sacca ed esclamò: «Che mi venga un colpo! Gesù è tornato!» Markov sospirò e fece un cenno quasi impercettibile con il capo. «Dobcek» disse. Dobcek corse verso il vagabondo e gli strappò di mano la sacca. Il vagabondo cercò di opporre resistenza, ma Dobcek lo fece desistere mollandogli un cazzotto in fronte. Continuai a sorridere, come se la cosa non mi riguardasse, dissimulando la voglia che avevo di mettere mano alla pistola e di fare secco Dobcek. E dissimulando il fatto che mi sentivo un verme per come lo avevo aizzato contro quel poveraccio. Il quarto uomo parve offeso che Markov potesse dubitare della sua parola: «Signor Markov, se questi soldi sono quello che lui dice, sono proprio curioso di sapere com'è possibile.» «Clark è nella libreria» dissi. «Se gli dà il suo lasciapassare, può venire qui a spiegarvi come ha fatto.» «Da.»
Feci cenno a Clark di uscire dalla libreria. Quando ci raggiunse rimase qualche passo dietro di me, con le mani in tasca. I suoi occhi, feriti dal sole, erano ridotti a due fessure sottili. «Hai proprio una brutta cera» gli disse Markov. «Salve, signor Markov» disse Clark. Il quarto uomo toccò la sacca con la punta della scarpa. «Questi sono stampati con matrici incise, non in offset. Con la carta della zecca.» Scosse la testa. «E tu dici che sono opera tua? A chi vuoi darla a bere?» Clark mi guardò incerto, sbattendo le palpebre e io gli rivolsi un sorriso d'incoraggiamento. «Il signore, qui, dice che sei un imbroglione. Vuole sapere come hai fatto.» Incrociai le braccia sul petto, in modo che la mia mano destra fosse vicina all'impugnatura del revolver, augurandomi che Pike tenesse sotto mira Dobcek, perché io volevo sparare per primo a Sautin. Prima Sautin, poi Markov e infine il quarto uomo, sempre che qualcuno non sparasse prima a me. Calcolai che nel giro di una ventina di secondi poteva scatenarsi il finimondo. Ma il guaio era che se anche fossimo riusciti a salvare la pelle, Charles era spacciato. E tutto per colpa di quel presuntuoso rompiscatole esperto di processi di stampa che aveva accompagnato Markov. Clark mi guardò di nuovo con aria smarrita e io gli feci: «Diglielo, Clark.» Deglutì a fatica, poi prese una banconota dalla sacca, la fece schioccare tra le dita come aveva già fatto il rompiscatole e si rivolse a Markov con un sorriso. «Certo che è carta della zecca. Questo suono magnifico non si può falsificare.» Fece schioccare ancora una volta il foglio da cento, quindi lo levò in alto. «Erano biglietti da un dollaro, prima del trattamento.» Il rompiscatole aggrottò perplesso le sopracciglia. Clark proseguì: «Veri dollari americani stampati con vera carta della zecca.» Porse il biglietto a Markov, che lo prese. «Solo che erano biglietti da un dollaro. Li ho lavati, Andrei. Ho sciolto l'inchiostro originale, li ho lavati e li ho ristampati trasformandoli in biglietti da cento.» Il suo sorriso si accentuò, sempre più trionfante. «Non si immaginano nemmeno le meraviglie che la tecnica moderna consente di fare al giorno d'oggi.» Il rompiscatole prese una banconota dalla sacca e si mise a esaminarla, sempre più perplesso. «Ho scolorito quattrocento chili di carta e mi sono procurato una stampatrice calcografica» riprese Clark. «Piuttosto vecchiotta, ma è una stampatrice svizzera originale utilizzata da una ditta francese fino all'anno scor-
so, quando ha chiuso i battenti.» E quindi precisò: «Be', non è mia, per la verità, ma di certa gente che conosco. Stampo per loro così come prima stampavo per voi.» Intanto io guardavo Clark, sempre più impressionato e ammirato. Markov disse: «E pensi di tenerti una parte dei soldi anche stavolta?» «Se sarò costretto» rispose Clark, tenendo testa al russo. «E dove hai preso i cliché?» chiese il rompiscatole. «Li ho ricavati con lo scanner da una serie di biglietti da cento perfetti, da collezionista, stampati tra l'80 e l'85. Ho usato un digitalizzatore ad alta densità per ottenere delle linee il più possibile nitide, poi ho usato l'immagine digitale per creare un negativo fotografico e il negativo per incidere con l'acido i cliché.» Sventolò la banconota che aveva in mano verso il rompiscatole. «La gradazione di colore non è precisissima, come vedi, ma penso che sia difficile fare meglio.» Il rompiscatole scrutò la banconota e annuì, tutto serio. «Sì, è un po' scura.» Temeva che Clark gli facesse fare una figuraccia davanti a Markov. Markov li guardò parlare, capendoci quanto poteva capirci il resto di noi, immagino, ma mi parve che stesse abboccando e non avevo bisogno di altro. Dissi: «Non importa se il colore non è perfetto. Quello che importa è che sono banconote di qualità superiore, capaci di ingannare cassieri di banca, poliziotti e perfino il nucleo speciale antifalsificazioni. Clark può stamparcene altre. Voi prendete i soldi, gli restituite il figlio, dopodiché potranno andarsene liberi tutti e due.» Markov mi guardò accigliato. Probabilmente stava pensando al suo fratello maggiore chiuso in prigione. «E quando avrà finito con il lavoro che sta facendo adesso» soggiunsi «forse potrete rimettervi in società come una volta.» Lo sguardo di Markov passò da me a Clark, poi ancora a me e di nuovo a Clark. «Quanta ne hai, di questa carta?» «Quattrocento chili.» «E quando sarà finita, potrai averne dell'altra?» Clark si strinse nelle spalle. «Forse sì, forse no. La cosa più difficile è stata procurare gli agenti chimici. Non voglio nasconderti la verità.» Markov annuì, pensoso, poi scambiò un'occhiata con il rompiscatole, che scrollò a sua volte le spalle. «È roba buona, Andrei. La migliore che abbia mai visto.» Presi la sacca e la porsi a Markov. «Ecco. Prendila. Se hai dei dubbi, prova a spacciarla e chiediti se ti potrebbe fare comodo.»
Andrei Markov prese la sacca ma non ci guardò dentro, accantonando apparentemente i suoi dubbi. «Cinque milioni» disse. Guardai Clark. «Puoi stamparne altri cinque milioni?» «Oh, certo» rispose Charles. «Non c'è problema.» Sorrisi a Markov. «Che ne dici di lasciar andare il ragazzo, come segno di buona volontà?» «Non diciamo fesserie. Avrete il ragazzo quando io avrò i soldi.» Annuii. «E dopo, Clark e la sua famiglia non avranno più niente da temere? Li lascerete in pace?» «Certo.» «Chiamerò Dobcek allo stesso numero quando saremo pronti a consegnare i soldi.» Andrei Markov fece un cenno di assenso, quindi si congedò insieme agli altri tre. Presi Clark sottobraccio e mi allontanai insieme a lui nella direzione opposta. «Te la sei cavata benissimo, Clark» dissi. «Riavrai tuo figlio.» Lui non rispose. Quando passammo davanti alla libreria mise un ginocchio a terra e vomitò. Attesi che finisse, poi lo aiutai a rialzarsi. Adesso non restava che ottenere la collaborazione della polizia. 31 Joe Pike riapparve vicino alla sua vettura cinque minuti dopo di noi, con la custodia che conteneva il fucile. «Ci ha seguito nessuno?» gli chiesi. Fece cenno di no. «Com'è andata?» Aiutai Clark a salire di dietro e gli diedi una pacca amichevole su una coscia. «Bravo. Sei stato davvero in gamba.» Clark sorrise, ma era stanco e debole e due isolati più in giù si sporse dal finestrino e ricominciò a vomitare. Andammo direttamente nel mio ufficio per fare le telefonate necessarie. Probabilmente i federali mi avevano messo sotto controllo i telefoni, ma la cosa non mi preoccupava, dato che erano proprio loro che volevo chiamare. Lasciammo l'auto nel posto riservato davanti al marciapiede e salimmo con l'ascensore al quattordicesimo piano. In genere preferivo salire a piedi, ma non potevo farlo adesso, con Clark in quelle condizioni. Entrammo nel mio ufficio e andai ad aprire la portafinestra, per far entrare un po' d'aria. «Qualcosa da bere?» «Sì.»
«Se hai bisogno del bagno, è in fondo al corridoio.» «Grazie.» Clark si sedette sul divano, guardando incuriosito l'orologio a forma di Pinocchio. Tirai un po' il fiato, ripassando dentro di me quel che mi premeva dire, quindi chiamai Marsha Fields. Quando mi passarono la comunicazione, le chiesi: «Sa niente di un certo Andrei Markov, un esponente della mafia russa che opera a Seattle?» «No. Dovrei conoscerlo?» «Markov e la sua banda sono sicuramente schedati nella vostra banca dati. Un agente della polizia giudiziaria federale di nome Jasper è venuto qui a Los Angeles per dargli la caccia. Posso richiamarla tra cinque minuti pregandola di controllare nel frattempo i dati del vostro archivio?» «Certamente.» Riagganciai e mi accinsi ad attendere. Pike, affacciato alla portafinestra, lasciava vagare lo sguardo sul panorama della città. Clark stava allungato sul divano, con le mani intrecciate in grembo, ancora un po' scombussolato. Cercò di distrarsi osservando il Pinocchio appeso al muro e i pupazzetti sulla mia scrivania. «Il tuo ufficio è un po' diverso da come l'avevo immaginato. È piuttosto sorprendente» disse infine con un sorriso. «Anche tu sei sorprendente.» Ci scambiammo un'occhiata significativa. «Grazie di nuovo per tutto quanto» disse. Si umettò le labbra come se stesse per aggiungere qualcosa, ma poi tacque. Lasciai a Marsha Fields dieci minuti di tempo, poi la richiamai. «Oh, be', questo suo Markov è davvero un bel tipetto.» «Con un forte eufemismo, lo si può anche definire così.» «Da quel che ho capito, Jasper è venuto per rintracciare un falsario che aveva chiesto protezione alla polizia per testimoniare contro il fratello di Markov.» Marsha Fields si era data molto da fare in quei dieci minuti. «Sono in grado di farvi incastrare Markov per possesso di soldi falsi e per sequestro di persona.» «Chi avrebbe sequestrato?» «Ha rapito il figlio dodicenne di Hewitt.» «Capperi.» Rimase muta per una decina di secondi. «Questo Clark Hewitt ha ripreso a stampare soldi falsi?» In soli dieci minuti aveva ricostruito tutto il quadro della situazione. «Gli uomini di Markov hanno assassinato un poveraccio di nome Wilson Brownell quattro giorni fa, a Seattle. Stanno usando il ragazzo per cercare di stanare Hewitt e appena lo avranno tra le mani lo faranno fuori insieme
a tutta la famiglia. Allora, volete incastrare Markov oppure no?» «E Hewitt cosa vorrebbe in cambio?» «Hewitt si offre di testimoniare in tribunale, come ha già fatto a Seattle, per aiutarvi a mettere Markov in gabbia e voi in cambio vi impegnate a non indagare sul resto delle sue attività e a lasciarlo tranquillo.» «Nessuno potrebbe accettare delle condizioni come queste.» «Prendere o lasciare.» La sentii respirare pensosa all'altro capo del filo. Decisi di incoraggiarla. «Quello che vi posso dire, intanto, è questo: Clark Hewitt non sta stampando soldi americani e le sue attività non comportano altri crimini che abbiano una qualche rilevanza civile o penale. È qualcosa che non potrà più ripetersi e vi garantisco che non dovrete più occuparvi di lui.» «Come lo sa?» «Sta morendo di cancro allo stomaco.» Le mie parole non provocarono reazioni da parte di Clark. Ormai doveva essersi assuefatto all'idea. Marsha trasse un profondo sospiro. «Come fa a sapere che è vero?» «Potete farlo esaminare da un dottore di vostra fiducia, se volete.» Lei esitò. «Andiamo, Marsha. Voi potrete mettere in gabbia Markov e i suoi accoliti, azzerando forse tutte le sue attività. Decidete se vi conviene o no. Tutto quello che voglio da voi è che lasciate in pace Clark Hewitt, quando sarà tutto finito.» «Dove posso trovarla?» Le diedi il mio numero e lei mi disse che mi avrebbe richiamato entro un'ora. Lo fece dopo soli quaranta minuti. «Nessuno può prendere impegni di alcun genere, per il momento, ma siamo disposti a parlarne. Può venire anche Hewitt?» «No.» «Adesso non faccia l'ostinato.» «Verrà dopo che avrete accettato le mie condizioni, non prima.» «Nel mio ufficio a mezzogiorno.» Telefonammo a Dak e gli preannunciai che stavamo per tornare. Pike mi accompagnò fino alla mia auto, poi lui e Clark proseguirono fino alla casa sicura, mentre io mi dirigevo verso il Royal Building. Arrivai a destinazione tre minuti dopo mezzogiorno. Reed Jasper era lì ad attendermi con il suo collega dai capelli rossi della polizia giudiziaria di Los Angeles e insieme a un altro tipo aitante, quasi calvo e con dei piccoli occhiali squadrati, di nome Lance Minelli. Minelli era il capo di Marsha al nucleo antifalsi-
ficazioni. L'ultima persona presente era una donna di colore, con un fisico solido e i capelli color sale e pepe, in rappresentanza della procura generale. Indossava un tailleur verde scuro, si presentò come Emily Thornton e dall'atteggiamento rispettoso degli altri compresi che era lei ad avere in pugno la situazione. «Chi non muore si rivede, eh, Jasper?» dissi. Jasper mi accolse freddamente, senza stringermi la mano, al pari del suo collega. «Lo sapevo che aveva qualcosa in ballo con Hewitt. Il mio fiuto non mi ingannava.» Emily Thornton si schiarì la gola e prese posto al tavolo, imitata dagli altri. «L'agente speciale Fields ci ha detto che lei è in grado di fornirci delle informazioni su un certo Andrei Markov.» «L'agente vi ha spiegato di cosa si trattava?» Jasper disse: «Cosa c'è da spiegare? Non può essere che un imbroglio.» Emily Thornton lo guardò severamente, inarcando le sopracciglia. «Lei è qui su nostro invito, se non sbaglio, vero?» Jasper si incupì ma non osò ribattere. Questa Thornton cominciava a piacermi, pensai. La rappresentante della procura generale si rivolse di nuovo a me e aggiunse: «La signorina Fields mi ha descritto la situazione, ma vorrei che lo facesse anche lei.» Esposi di nuovo la faccenda, dicendole che potevo aiutarli a incriminare Andrei Markov per possesso e spaccio di dollari americani falsi e per un delitto ancora più grave come il rapimento di un minore. Dissi ancora che Clark Hewitt si offriva quale testimone d'accusa per entrambi i crimini. Emily Thornton mi ascoltò in silenzio sino alla fine e quindi mi chiese: «Chi è il minore?» «Il figlio dodicenne di Hewitt.» Annotò qualcosa su un taccuino. «Hewitt continua a fare il falsario anche adesso?» «Posso dirle solo che adesso è qui nell'area di Los Angeles.» Il collega di Jasper, quello con i capelli rossi, non ce la fece più: «Oh e noi lo stiamo a sentire?» Si appoggiò con i gomiti sul tavolo e fece una smorfia indignata verso Minelli. «Gesù, Lance. Digli di andare a farsi fottere.» Lo sguardo severo della Thornton si volse verso di lui. «Vuole portarci un po' di caffè, per favore?» L'agente dai capelli rossi la guardò a sua volta, incerto. Emily Thornton ripeté: «Caffè per tutti, con zucchero e un po' di panna, per chi la vuole.»
Il collega di Jasper diventò rosso quasi come i suoi capelli, poi abbozzò un sorriso forzato, come se la Thornton non avesse capito bene con chi aveva a che fare e volesse rimetterla al suo posto. Infine sibilò: «Se vuole il caffè, signora, penso che dovrebbe rivolgersi a qualcun altro.» La Thornton non reagì, ma Lance Minelli intervenne con un secco invito: «Se ne vada, per favore.» Il tono era pacato, l'espressione impassibile. L'agente aprì la bocca, la richiuse, poi uscì dalla stanza, richiudendo la porta dietro di sé, senza fare il minimo rumore. Quello che non aveva capito con chi aveva a che fare era lui, evidentemente. Chiuso l'incidente, la Thornton fece una piccola smorfia con le labbra, battendo sul piano del tavolo con un'unghia perfettamente smaltata. «A mio parere, il signor Hewitt dovrebbe ricorrere al nostro aiuto in ogni caso, se vuol salvare suo figlio.» «Lo salveremo con o senza il vostro aiuto, signora Thornton. Ma certo, il vostro intervento renderebbe le cose più semplici.» Piegò gli angoli della bocca in un sorriso quasi impercettibile. «Lei ha avuto una parte importante nel caso di Ida Leigh Washington, vero?» «Sì, signora.» Ida Leigh Washington era una donna che avevo aiutato qualche anno prima. Avevo portato le prove che suo figlio era stato assassinato da un piccolo gruppo di poliziotti corrotti e poi l'avevo aiutata a farsi indennizzare dall'amministrazione cittadina. Il sorriso della Thornton si accentuò per un istante, prima di sparire. «Sì, immagino che riuscirebbe comunque a salvare quel ragazzo.» Batté di nuovo l'unghia sul tavolo. «Quali sono le sue richieste?» «Clark Hewitt sta morendo di cancro allo stomaco. In questo momento è impegnato in un'attività che gli serve per mettere insieme un po' di soldi da lasciare ai suoi figli quando lui non ci sarà più. Vorrei che potesse ottenere il suo obiettivo senza impedimenti da parte della polizia o dell'autorità giudiziaria.» Emily Thornton scosse il capo. «Non posso accettare questo genere di condizioni.» «Allora non se ne fa niente.» Jasper disse: «E se sbattessimo in galera anche te, direttamente?» «Sulla base di quali accuse?» Jasper fece la faccia scura e Minelli scrollò le spalle con aria noncurante. «Qualcosa lo troviamo, non è difficile.» «Allora accomodatevi, se così vi piace.» Marsha Fields si informò: «Che sta facendo Hewitt adesso?»
Risposi rivolgendomi a Emily Thornton. «Non sta stampando dollari americani, o qualche altro tipo di banconota negoziabile qui da noi negli Stati Uniti. Non sta commettendo frodi, o delitti di qualsiasi genere per cui possa essere incriminato.» Feci una pausa significativa e conclusi: «Se pensate che possiamo trovare un'intesa, non serve che chiediate o sappiate nient'altro.» Emily Thornton annuì. «Se ne sapessimo di più, rischieremmo di fornire la nostra implicita approvazione e ci si potrebbe quanto meno accusare di aver creato prove artefatte.» «Certo. Noi vogliamo mettere Markov in condizione di non nuocere e voi potete aiutarci in questo senso. È per questo che sono qui. Potrei liberare il ragazzo anche da solo, ma ci saranno meno rischi se voi mi darete una mano. Anche questo è importante. Ma devo avvertirvi che andrò per la mia strada comunque, con o senza la vostra partecipazione. Se accettate la mia proposta, potrete mettere le mani su Markov e acquisire il merito di tutta l'operazione.» Mi appoggiai allo schienale e rimasi in attesa. Lance Minelli disse: «Come dovrebbe funzionare la cosa?» «Markov riceverà una grossa somma di dollari americani contraffatti come riscatto per il ragazzo. Appena saprò il luogo e l'ora in cui dovrà avvenire lo scambio ve lo farò sapere e voi potrete intervenire arrestandolo per possesso di soldi falsi. Poi Hewitt deporrà contro di lui in tribunale per il rapimento.» Marsha Fields si dondolò leggermente sulla sedia, guardando verso di me e il suo atteggiamento mi fece capire che la mia idea le piaceva. Disse: «Sa una cosa? Più soldi Markov avrà con sé, più tempo potremo tenerlo al fresco.» Tutti guardarono verso di lei. «Se lo pizzicassimo, diciamo, con un milione di dollari, potremmo incriminarlo per fabbricazione, oltre che per spaccio, di biglietti falsi. Un milione di dollari farebbe proprio al caso nostro.» Emily Thornton osservò: «Siamo pericolosamente vicini a un caso di creazione artificiale di prove a carico, agente speciale.» Marsha Fields assunse un'espressione innocente. «Oh, non stavo suggerendo niente. Stavo solo pensando ad alta voce.» Lance Minelli non poté trattenere un sorriso. Reed Jasper disse: «Markov è responsabile della morte di un agente della polizia giudiziaria federale. Quattordici casi irrisolti di omicidio commessi nell'area di Seattle sono stati commessi molto probabilmente da lui o dalla sua banda. Sono disposto a fare qualsiasi cosa per metterlo in gab-
bia.» Magnifico, Jasper era lanciato, mi dissi. Poi però si sporse in avanti e agitò un pollice, indicandomi. «Ma quel che più mi interessa è la sicurezza di Hewitt e io non mi fido per niente di questo qui. Se dobbiamo andare fino in fondo con questa faccenda, è necessario che ci sia uno di noi, sul posto, per evitare brutte sorprese e io mi offro volontario.» Lo guardai crucciato. «Come sarebbe, sul posto?» Minelli si rivolse alla Thornton. «Concordo sull'idea di avere lì qualcuno, Emily. Vorrei essere sicuro che Hewitt non se la svigni appena riavuto suo figlio.» Scosse il capo e guardò verso di me. «Non credo minimamente a questa storia del cancro.» Marsha Fields annuì. «D'accordo. L'idea mi è piaciuta subito, ma mi piacerebbe anche essere informata sugli sviluppi, anche se noi del Secret Service ci terremo fuori.» «È deciso, allora» concluse Emily Thornton. «Un momento» protestai. «Ci sono altre persone coinvolte insieme a me e loro potrebbero non essere d'accordo per niente.» Emily Thornton si alzò in piedi. «Dovranno adattarsi. Penso che la cosa si possa fare, ma solo se avremo uno dei nostri all'interno per mantenere un certo controllo della situazione.» Mi tese la mano. «Questa è la nostra proposta definitiva e adesso sta a lei decidere se prendere o lasciare.» Rimasi a fissarla per un tempo che mi parve eterno, poi strinsi la mano che lei mi offriva. «Va bene, accetto.» «Ne ero sicura» disse con un sorriso. Quella donna sapeva il fatto suo. 32 La Thornton e Minelli andarono via per primi. Ringraziai Marsha Fields e dissi a Jasper che l'avrai richiamato subito dopo essermi consultato con Clark e gli altri. «Aspetterò qui che mi diate notizie» disse Jasper. «Potrebbe volerci un po'.» «Non ho altri impegni, al momento» rispose, con una scrollata di spalle. Tornai a Studio City e raggiunsi la casa sicura quando mancavano sei minuti alle tre. Joe Pike stava davanti a un pino sul vialetto d'accesso. «Fatto?» «Fatto. Hanno accettato, ma un federale dovrà venire con noi. Jasper.» «A Dak non piacerà.»
«Non abbiamo scelta e nemmeno lui. Si sono impegnati a chiudere un occhio su eventuali reati connessi.» La mascella di Pike si mosse impercettibilmente. «Ma sapranno tutto lo stesso.» «Sì. Lo sapranno. Pronto ad andare?» «Sempre.» Entrammo e spiegammo il piano a Clark e agli altri. Quando dissi che doveva venire con noi anche Jasper, Dak fece un suono sibilante e insorse insieme a Mon e Walter Senior. «No, no, no, no! Sapranno tutto di noi» esclamarono all'unisono, come se l'avessero concordato prima. Walter Junior dormiva ancora sul pavimento. «Smettetela di lamentarvi e statemi a sentire. I federali hanno promesso di non toccarvi. Jasper verrà solo per assicurarsi che non li vogliamo imbrogliare. Si sono impegnati a non svolgere indagini su di voi e a non interferire in nessun modo con quello che sta facendo Clark.» Mon disse: «Non posso crederci.» Si passò ripetutamente la mano tra i capelli, tirandoli e strappando ciuffi di capelli grigi. «Saremo rovinati.» Con tanti saluti al fervore rivoluzionario. «Statemi a sentire» dissi. «A loro interessano solo Clark e Markov. Se non vi fidate, andate giù al magazzino e portate via tutto quello che potrebbe permettergli di risalire fino a voi. Lasciate solo quel che serve a Clark per stampare i soldi.» Mon si stava ancora strappando i capelli, ma Dak annuì. «E i dong?» chiese. «Quando avremo sistemato Markov, vi riporteremo Clark e potrà stampare anche i vostri dong.» «Rischiamo di finire tutti in galera.» «Questo lo sapevate fin da quando avete sfidato la legge per mettervi in questo affare, ma adesso i rischi per voi sono minori di prima. Prima, se la faccenda fosse arrivata all'orecchio della polizia, potevano davvero sbattervi al fresco per un pezzo. Adesso, invece, guarderanno da un'altra parte e non vorranno nemmeno sapere come vi chiamate.» Intervenne Walter Senior: «E lei dice che possiamo fidarci?» «Sì.» Mon cominciò a dire qualcosa in vietnamita, ma Dak scosse la testa, rispondendogli nella stessa lingua. Venti secondi più tardi se n'erano andati. Guardai in faccia Clark. «Per te è lo stesso stampare dollari?» «Oh, certo.» Come se fossero bruscolini.
«Quanto tempo ti ci vorrà per sfornare un milione di dollari?» Aggrottò le sopracciglia. «Markov ha detto cinque.» «Questo è ciò che ha detto lui, ma non è quello che otterrà. A noi basta un milione per farlo marcire in galera. Un milione è il numero magico.» Clark annuì. «Tre o quattro giorni.» «Questi soldi li stai stampando per liberare Charles. Devi fare più in fretta.» «Il fatto è che la carta che ho e gli inchiostri non sono quelli giusti.» «Ma Markov avrà appena il tempo di dargli un'occhiata e un istante dopo gli metteranno le manette ai polsi, mentre Marsha Fields gli leggerà i suoi diritti.» Clark pensò un altro po' e infine guardò il suo orologio. «Be', so dove possiamo procurarci della carta più adatta allo scopo. In questo modo si farebbe prima. E poi avremo bisogno di qualcosa per portare i dollari quando avremo finito di stamparli.» «Quanto spazio occupano cinque milioni?» chiese Pike. «Più o meno cinque valigie di misura standard, tipo Samsonite. Dovrebbero bastare.» La voce dell'esperienza. «Okay. Le procuro io.» «Allora, Clark, quanto ci vorrà?» Un'altra breve riflessione. «Domani a mezzogiorno.» Lo guardai incredulo. «Puoi stampare un milione di dollari entro mezzogiorno di domani?» «Be', non sarà certo uno dei miei lavori migliori.» Usai il telefono della cucina per chiamare Dobcek allo Sheraton. «Da?» «I vostri soldi saranno pronti per domani pomeriggio.» «Cinque milioni di dollari.» «Certo. Cinque milioni. Vi va bene se ci incontriamo al Griffith Park?» Rise. «Fatevi vivi di nuovo quando avete i soldi. Vi dirò io dove e quando.» «Come preferite.» Riagganciai. «Siamo d'accordo di fare tutto domani pomeriggio. Dovremo sbrigarci.» Clark prese la fialetta di pillole e andò in bagno, ma stavolta portò con sé anche la sua sacca. Il dolore doveva essere peggiorato. Andai su nell'ufficio al secondo piano per parlare con Teri e Winona. Winona stava colorando un disegno e Teri l'aiutava, ma alzò gli occhi quando entrai nella stanza. «Come va, qui da voi?»
«Bene» rispose Teri restando impassibile. «Dovremo lasciarti qui insieme a Winona. Possiamo stare tranquilli?» «Certo.» Dal suo tono traspariva l'irritazione per quell'esclusione. E forse per qualche altra cosa. «Il frigo è pieno di roba da mangiare e qui all'angolo c'è un mercato.» Presi quaranta dollari dal portafoglio e li posai sulla scrivania. «Qui ci sono un po' di soldi.» Teri evitò di guardare il denaro. «Com'è andata con la sua amica?» Si riferiva a Lucy. Mi sedetti sul pavimento accanto a lei. Winona stava disegnando il nanetto del suo portachiavi. Mi parve che il nanetto avesse un'aria un po' triste. «È andato tutto a posto. La faccenda è sistemata.» «Sono contenta per voi.» Il tono però era gelido come se stessimo dentro una cella frigorifera. Lei però parve rendersene conto e arrossì. Si aggiustò gli occhiali sul naso e distolse lo sguardo. «Mi dispiace. Sono stata un po' stupida.» Le misi un braccio attorno alle spalle e cercai di confortarla. Era come se i suoi quindici anni fossero diventati di colpo quaranta e la cosa non era certo piacevole. «E io sono stato troppo duro.» «Devi volerle molto bene.» «Sì.» «Preferiresti essere con lei, in questo momento, vero?» «È vero. Ma mi sono impegnato a sistemare questa faccenda per voi, per tuo padre e per Charles.» Pike bussò discretamente contro lo stipite della porta. «Clark è pronto.» Annuii, poi guardai di nuovo Teri. Aveva gli occhi umidi e infilò una mano sotto gli occhiali per asciugarseli. «Anch'io ti voglio molto bene.» Lo disse con voce così bassa che riuscii appena a sentirla. «Oh, ecco» disse in quel momento Winona, completando il disegno. Sorrisi a Teresa Hewitt. «Ti voglio bene anch'io. Ma Lucy è la mia donna.» «Posso abbracciarti, per favore?» «Certo.» Mi abbracciò forte e disse: «Abbi cura di mio padre, mi raccomando. E salva il mio fratellino.» «Sono qui per questo, Teri.» Tornai giù da Clark insieme a Joe. Decidemmo che io e Clark saremmo andati a procurarci la carta, mentre Pike passava a prendere Jasper e le va-
ligie. Chiamai Reed Jasper nell'ufficio di Marsha Fields. «Ci siamo. Jasper è lì?» Jasper venne subito all'apparecchio. «Siamo pronti?» disse. «Joe passerà a prenderla tra quaranta minuti.» «Ho una macchina. Basta che mi diciate dove devo andare.» «Joe passerà a prenderla. Se preferisce venire con la sua macchina, può seguirlo.» Riattaccai prima che potesse replicare e andammo a stampare il denaro. 33 Clark fece un giro di telefonate a vari fornitori di carta finché ne trovò uno che aveva il tipo che lui voleva. «È un misto cotone di buona qualità, dovrebbe andare bene.» Pareva che stesse parlando di lenzuola. «Te l'ho già detto, Clark, non devono essere perfetti. È sufficiente che passino un esame superficiale.» «Be', ma deve comunque sembrare un serio tentativo di fabbricare soldi falsi, giusto?» «Sì.» «Be', in questo modo nessuno potrà confonderli con quelli usciti dalla Zecca di Stato, ma nemmeno con quelli del Monopoli.» Ci andava di mezzo il suo orgoglio professionale, evidentemente. La ditta con cui si era messo in contatto per procurarsi la carta stava in un piccolo edificio di mattoni in Yucca Street, a Hollywood, un isolato più a nord dell'Hollywood Boulevard. Avevano già pronte due scatole per noi, più o meno della misura di quelle che si usano per i traslochi. A vederle, non sembrava che potessero contenere granché, ma le scatole erano pesanti. Entrai insieme a Clark perché dovevo pagare la carta. Con la mia carta di credito. Sistemate le scatole nel piccolo vano dietro ai sedili, notai: «Sei sicuro che basti?» Clark aveva detto che il milione di dollari avrebbe riempito cinque valigie di misura standard e invece due scatole bastavano a contenere tutta la carta necessaria. «È per via dell'aria. Le risme di carta uscite dalla fabbrica sono compresse strettamente. Quando i fogli saranno stampati, tagliati e riuniti in mazzette, prenderanno più spazio.» «Ah.» Facemmo il tragitto fino al magazzino di Long Beach nell'ora di mag-
gior traffico, in mezzo ai pendolari che tornavano alla sera dal lavoro, arrancando e ci vollero quasi tre ore per arrivare a destinazione. Per la maggior parte del tempo, Clark parve sonnecchiare tranquillo. Il cielo a est si tinse di rosso porpora, passando gradualmente al nero, mentre il sole tramontava dall'altra parte alla nostra destra. Entrammo nel parcheggio accanto al magazzino poco prima delle otto, quella sera, mentre un grosso Boeing 747 dell'Air Korea decollava dalla pista con un rombo di tuono. Il parcheggio era deserto, fatta eccezione per una Pontiac bianca che apparteneva probabilmente a qualche dipendente della ditta che stava nell'edificio accanto al nostro. Dak e i suoi avevano già sgombrato il campo, ma il parcheggio era illuminato e una singola luce brillava sopra la porta d'ingresso del magazzino. «Clark» chiamai. Clark aprì gli occhi. «Siamo arrivati.» Annuì. «Abbiamo molto da fare.» Usai la chiave che mi aveva dato Dak per aprire la porta. Avevano lasciato qualche luce accesa all'interno, ma non tutte e l'atmosfera di quel luogo deserto e silenzioso mi fece correre un brivido per la schiena. Tirai fuori la mia Dan Wesson e la tenni pronta con la canna puntata in basso lungo la gamba, ma non c'era nessuno appostato dietro la porta, nel corridoio o nello stanzone dove c'era la stampatrice. Non immaginavo di trovare nessuno, ma con la pistola in mano mi sentivo molto più tranquillo. Il mio ciucciotto calibro 38. Clark accese le luci al neon delle plafoniere sul soffitto, inondando l'interno del capannone di una chiara luce azzurrina. Guardò quel che Dak e i suoi uomini avevano lasciato sul tavolo e diede corrente alla stampatrice litografica e all'apparecchiatura per fabbricare le matrici collegata al computer Macintosh. «Posso aiutare in qualche modo?» domandai. «Accendi la radio.» Accesi la radio e mi misi in un angolo cercando di non impicciare. Ero davvero di grande aiuto, in quella situazione. Le casse piene di carta venuta dalla Russia non c'erano più, così come le matrici dei dong e la maggior parte delle scorte di inchiostro. «Si sono portati via quasi tutto l'inchiostro» osservai. Clark continuò tranquillamente a trafficare con le macchine senza nemmeno alzare gli occhi. «Ci servono solo il nero e il verde. Dak sapeva cosa ci doveva lasciare.» E aggiunse: «Puoi portare la carta.»
Uscii e andai prendere le due scatole. Non inciampai nemmeno una volta. Pike e Jasper arrivarono quarantacinque minuti dopo di noi. Bussarono alla porta, quindi entrarono portando le valigie. Insieme a loro c'era un terzo uomo, un afroamericano con i capelli tagliati corti. Clark stava collegando lo scanner al Macintosh quando Jasper fece il suo ingresso. «Salve, signor Jasper.» Reed Jasper sorrise. «Caspita, Clark, non è stato facile scovarti.» Guardai incuriosito il terzo uomo. Indossava un vestito blu scuro e si stava guardando intorno per rendersi conto della situazione. «Chi è lei?» gli chiesi. «Claude Billings, del Servizio Segreto.» Masticava gomma americana. «Credevo che dovesse venire solo Jasper.» Billings gonfiò un palloncino grande come un pompelmo, tirando dritto verso la stampatrice litografica. «Bisognava garantire che la faccenda fosse in buone mani, le migliori possibili.» Doveva essere davvero del Secret Service, considerata la sua boria. Jasper e Pike posarono le valigie sui tavoli lì intorno, poi Jasper andò incontro a Clark e gli strinse la mano. Clark parve imbarazzato. Jasper si mise le mani sui fianchi, osservando la stampatrice e lo scanner collegato al computer per fabbricare le matrici. «Be', non posso darti torto per essertela data a gambe dopo quella notte, ma avresti fatto meglio ad affidarti ancora a noi. Incidenti simili a quello non si sarebbero più ripetuti.» Clark rispose semplicemente: «Mi dispiace per il suo amico.» Si riferiva a Peterson. «Oh, be'...» Jasper esaminò da vicino la stampatrice sfiorandola con le dita. Billings intanto si tolse la giacca, la ripiegò e la posò su uno dei tavoli. «Ho saputo del suo ragazzo. Mi dispiace.» Clark smise per un attimo di trafficare con i macchinari. «Stavolta cercheremo di fare un po' meglio» promise Jasper, con un sorriso che voleva essere incoraggiante. Clark tornò al suo Macintosh, passando sotto lo scanner una banconota da cento dollari. Lo guardai incuriosito e Billings si avvicinò anche lui per vedere come procedeva. Clark riprodusse in forma digitale prima il recto, con l'immagine di Beniamino Franklin e poi il verso, quella dov'è raffigurata l'Independence Hall. Quando ebbe finito, osservò le immagini sullo schermo del computer, allargandole e suddividendo le immagini in varie sezioni. «Che cosa stai facendo?» domandai.
«Devo predisporre le matrici e per fare le matrici ho bisogno di un'immagine perfettamente definita. Per riprodurre le banconote della Federal Reserve, come questa, serviranno tre matrici. Una per il verso perché sul verso del biglietto è stampato con un colore verde uniforme e due per il recto perché la faccia anteriore è stampata in nero, ma i numeri di serie e il sigillo del Tesoro sono verdi, perciò ci vogliono due immagini separate.» «Oh.» Clark lasciò momentaneamente in sospeso quel che stava facendo e si rivolse a me e a Billings. «Dovete proprio stare qui a guardarmi?» «Mi spiace.» Billings e io ce ne tornammo verso il tavolo. Eravamo in cinque e c'erano solo due sedie, così mi sistemai sul tavolo, con le gambe acciambellate. Billings prese una delle sedie. Da quel momento in poi il tempo trascorse in modo insopportabilmente lento, come una melassa fredda attraverso un colino. Clark andò avanti a lavorare con lena instancabile, ma noialtri restammo lì a girarci i pollici. Pike si appartò in un angolo dello stanzone e fece un po' di yoga mettendosi dritto sulla testa. Feci qualche esercizio anch'io, ma mi venne sonno. Jasper passeggiava su e giù, mentre Billings faceva i palloncini con la gomma da masticare. A volte la lotta al crimine è la faccenda più barbosa che si possa immaginare. A un certo punto Jasper disse: «Io sto morendo di fame. C'è qualcun altro che ha fame?» «Io» risposi, all'unisono con Pike e Billings. «Ho visto un In-n-out Burger, lungo la strada, mentre venivo qui.» «Joe non mangia carne» avvertii. Jasper fece un'espressione corrucciata, come se fosse il più grande problema di questo mondo. Clark disse: «C'è un ristorante cinese, in questi paraggi.» «Per me va bene» fece Billings. Pike e Jasper andarono a rifornirsi nel ristorante cinese e quando tornarono, poco prima delle dieci, mangiammo. Tutti tranne Clark, che non smise di lavorare. Forse la droga gli toglieva l'appetito, o forse era l'ansia di liberare Charles. Quando Clark ottenne delle immagini separate perfettamente definite, ricavò da esse quelle in negativo e le replicò per mezzo del computer, componendo una griglia che gli avrebbe permesso di stampare venti biglietti per ogni passata. Ci vogliono mille biglietti da cento per fare un milione di
dollari, ma stampandone venti su ogni foglio, basta stampare solo cinquecento fogli. Certo, ogni foglio andava poi stampato tre volte, ma in questo modo l'intera operazione avrebbe portato via solo tre o quattro ore. L'importante era accelerare i preliminari necessari per passare alla fase di stampa. Quando ebbe ottenuto tre matrici in negativo, Clark le montò su un'apposita attrezzatura, che le convertì in immagini positive impresse a caldo su altrettanti fogli sottili di alluminio. Quindi mise a bagno i tre fogli di alluminio in un agente chimico, perché fossero pronti per essere inchiostrati. Impiegò circa sei ore per approntare le matrici definitive, un tempo interminabile per me, Pike, Jasper e Billings, che non potevamo fare assolutamente nulla, tranne spendere ogni tanto qualche parola di incoraggiamento. Lo In-n-out Burger era aperto ventiquattr'ore su ventiquattro e Jasper ci fece un salto per prendere qualcosa da bere, ma per il resto ce ne restammo lì a fare niente. Clark divenne di nuovo pallido, con la pelle imperlata di sudore freddo e due volte dovette fare una breve sosta per sedersi a riprendere fiato. «Perché non ti riposi un po', Clark?» gli dissi. «Forse ti farebbe bene uscire a prendere una boccata d'aria.» Scosse il capo. «Non ci vorrà molto.» L'aveva già detto altre volte e continuava a ripeterlo come un ritornello, senza che ci fosse bisogno di sollecitarlo. Jasper si aggirava intanto nervosamente nello stanzone, come un leone in gabbia, guardando Clark e scuotendo la testa. «Non c'è bisogno che siano perfetti, accidenti» disse infine. Clark smise di lavorare, lo guardò in faccia e Jasper riprese a camminare su e giù. Alle sei meno dieci del mattino uscii nel parcheggio, respirai l'aria fresca della notte e guardai verso est, avvistando le prime pallide strie rosa all'orizzonte, che annunciavano l'aurora ormai prossima. I lampioni che illuminavano il parcheggio era assediati da nugoli di moscerini che continuavano ad avventurarsi monotonamente contro i vetri che schermavano le lampade. Mi chiesi se non erano contenti che giungesse l'alba, così avrebbero potuto smettere di sbattere la testa contro le lampade dei lampioni. Gli uomini invece sono condannati a sbattere la testa sempre, a tutte le ore del giorno, finché non ci restano secchi. Clark aveva lavorato senza posa per tutta la notte, a dispetto dei suoi dolori che dovevano essere terribili, ma la sua frenesia, diversamente da quella dei moscerini, aveva un motivo: l'amore per suo figlio. Chissà, pensai,
forse anch'io avrei fatto lo stesso, al suo posto. E forse l'amore era l'antidolorifico più efficace. Quando tornai dentro, Clark stava ancora lavorando. Billings si era addormentato. Esattamente alle 7.53 Clark montò la matrice multipla del recto delle banconote sul cilindro della stampatrice litografica, caricando con inchiostro nero l'apposito serbatoio. Mi guardò e disse: «Penso che siamo pronti.» «Alla buon'ora!» esclamò Jasper. Pike era ancora nel suo angolo e faceva la verticale. Stava lì da chissà quanto, forse da ore. Billings si ridestò, fece un palloncino con la gomma da masticare e guardò Pike, perplesso. Doveva sembrargli un tipo molto strano. Clark disse: «Stamperemo prima qualche foglio di prova, prima, per vedere se va bene oppure no.» Gli portai una risma di carta. Questo mi fece sentire un po' meno inutile. Clark sistemò un po' di fogli nell'apposito alimentatore e ne stampò due. La grossa macchina si mise in moto ronzando e producendo un rumore secco quando il foglio uscì dal cilindro, che girava più velocemente di quanto avessi supposto. L'immagine venne fuori scura e sbavata. «Merda» borbottò Clark. Fece qualche aggiustamento con un piccolo cacciavite e stampò altri due fogli. A me sembravano perfetti, ma lui aggrottò di nuovo le sopracciglia con aria corrucciata. Jasper alzò gli occhi al cielo, esasperato. Clark regolò di nuovo la macchina, stampò per la terza volta due fogli, che a me sembravano identici a quelli di prima, ma stavolta parve compiaciuto. «Dovrebbe andare bene. Ora siamo davvero pronti a stampare.» Fu allora che Joe Pike disse: «Sentite niente?» «Che cosa?» fece Billings. Jasper proruppe: «Santo Iddio, stampiamo questi maledetti soldi e togliamo le tende.» Pike si avvicinò alla stampatrice, spinse un pulsante e la spense. Il cilindro smise di girare e il ronzio cessò. «Ci vorrà un po', adesso, per portarla di nuovo in temperatura» protestò Clark. «Cosa pensate di fare, adesso?» ringhiò Jasper. Pike portò un dito davanti alle labbra, tendendo l'orecchio e mise mano alla pistola. «Ho sentito qualcosa.» Forse era il cigolio del cardine di una porta, o il tonfo lontano di qualcu-
no che aveva sbattuto contro uno stipite o un muro. A tutta prima pensai che fossero Dak e i suoi uomini che erano venuti per controllarci, ma non era così e non ebbi il tempo di formulare altre ipotesi. Claude Billings si avvicinò in punta di piedi alla porta, si affacciò nel corridoio e fu allora che Alexei Dobcek gli sparò contro due pallottole che lo raggiunsero al petto. 34 Pike sospinse Clark al riparo dietro la stampatrice, mentre io correvo verso la porta, sparando tre colpi nel buio del corridoio, più una quarta pallottola che si stampò contro il muro. Dobcek gridò qualcosa in russo e batté in ritirata insieme a un suo complice verso l'uscita che portava al parcheggio. Sparai altri due colpi e trascinai Billings di nuovo dentro lo stanzone, ma era già morto. «Sono i russi!» esclamai. «Dobbiamo uscire di qui!» Intravidi altri uomini nel parcheggio e sentii dei rumori sordi che venivano dalla facciata dell'edificio. Jasper si chinò sul corpo di Billings. «Gesù Cristo, come diavolo ci hanno trovato? Quanti ne hai visti?» «Cinque. Forse di più. Stavano andando verso il davanti, quindi è probabile che sbuchino di lì.» «E i soldi?» chiese Clark. Pike lo aiutò a rimettersi in piedi. «Non se ne fa più niente.» «E Charles?» «Se riescono a toglierti di mezzo non avranno più bisogno di Charles.» Jasper diede una rapida occhiata nel corridoio che portava al parcheggio. La porta da quel lato era chiusa e sorvegliata di certo da un uomo armato all'esterno. Tutto il rumore veniva invece dall'altro corridoio, quello che portava verso l'ingresso sul lato anteriore. Jasper esclamò: «Merda, ci hanno incastrati.» «Di sopra» suggerì Pike, indicando il piano superiore. Sospinsi Clark verso la scaletta metallica, sollecitandolo a salire. «C'è una rampa di scale, in corrispondenza dell'ingresso principale, che porta su negli uffici. Se riusciamo ad arrivare negli uffici e loro restano al pianoterra, forse possiamo filarcela scendendo alle loro spalle.» Io, Clark e Jasper salimmo di corsa fino al ballatoio del primo piano che comunicava con gli uffici, mentre Pike tornava verso il corridoio e sparava
quattro colpi alla cieca, a scopo intimidatorio, prima di seguirci. Entrammo nell'atmosfera calda e stagnante degli uffici immersi nel buio, mentre da sotto giungeva l'eco lontana dello scalpiccio dei russi. Stavo già pensando che forse ce l'avremmo fatta quando ci si parò davanti, sbucando dietro un angolo del corridoio, un uomo tozzo con grossi baffoni. Quando ci vide, si riparò dietro l'angolo e diede l'allarme mettendosi a gridare. Spinsi indietro Jasper e Clark, sollecitandoli a tornare indietro e il tipo con i baffi si affacciò nel corridoio e sparò due colpi che raggiunsero il soffitto sopra la nostra testa. Risposi al fuoco e improvvisamente Alexei Dobcek attraversò il mio campo visivo, sparando a sua volta e rifugiandosi dentro una porta del corridoio. «Questi fanno sul serio» disse Jasper. Tornammo indietro fino al ballatoio e poi giù dalle scale nello stanzone del magazzino, mentre nello stesso momento Dimitri Sautin e il tipo con i baffi sbucavano sul ballatoio, sparando all'impazzata. Dimitri Sautin aveva addosso una maglietta di quelle che reclamizzano Disneyland, con lo slogan: IL LUOGO PIÙ GAIO DEL MONDO. «Joe» gridai, spingendo Clark verso l'attrezzatura per fabbricare le matrici. In quello stesso momento Joe Pike si girò di scatto e sparò un singolo colpo con la sua calibro 357, colpendo in pieno Sautin. Il tipo con i baffi cercò riparo tornando di corsa verso il corridoio; Sautin invece non poté imitarlo. Pesava almeno centocinquanta chili, ma la forza d'impatto del proiettile calibro 357 lo sbatté contro il muro e gli fece cadere la pistola di mano. Abbassò gli occhi per guardarsi il petto arrossato dal sangue che gli inzuppava la maglietta. Mormorò: «Alexei?» Poi precipitò a testa in giù oltre la ringhiera atterrando sul pavimento di cemento con un tonfo cupo, come un sacco di farina inzuppato d'acqua. Un tipo biondo si affacciò dalla porta del corridoio, sparò due colpi e si ritirò. La sparatoria cessò all'improvviso: ora nessuno gridava più e i soli suoni che udivo adesso erano i battiti del mio cuore e il rauco respiro di Dimitri Sautin. Tossì due volte e quindi cominciò a piagnucolare. Jasper intanto aveva trovato riparo sotto la scala. Dobcek disse in tono di sfida: «Io dico che siete in trappola. Voi che ne pensate?» La sua voce veniva dall'interno del corridoio al piano di sopra. «Pensavo che avessimo fatto un accordo.» «Da. E io penso che ci volevi fregare.» Guardai il portone di lamiera che serviva per fare entrare i camion. Era ad azionamento elettrico, con un grosso pulsante rosso per l'apertura e la
chiusura sulla parete a una decina di metri dal punto dove mi trovavo. Tutto quello che dovevo fare era arrivare di corsa fin lì, premere il pulsante e tornare indietro sperando di non farmi ammazzare lungo il tragitto. Dimitri Sautin si girò faticosamente su un fianco, ma non riuscì a fare nient'altro. Piagnucolava come un bambino, singhiozzando sommessamente. «Oh, mi fa male, Alexei» gemette. «Aiutami.» «Chiudi il becco, scemo» gli rispose Dobcek. I singhiozzi si trasformarono in una tosse catarrosa. Dobcek disse: «Voi ci date Hewitt e noi vi lasciamo vivere, okay?» Pike schioccò le dita per richiamare la mia attenzione e mi indicò il portone. Feci un cenno di assenso. Probabilmente avevano messo di guardia un uomo armato anche lì fuori, ma aprendolo avremmo almeno potuto vedere chi c'era. E se potevamo vedere chi c'era, potevamo tentare una sortita sparando all'impazzata. Pike ricaricò la Python, io feci altrettanto con la mia Dan Wesson. «Jasper, sei pronto?» gridai. «Certo.» «Joe.» Joe Pike uscì fuori da dietro l'attrezzatura per le matrici, sparando due colpi verso la porta del corridoio e altri tre verso il ballatoio. Contemporaneamente io abbandonai il mio riparo, corsi verso il portone e pigiai il grosso pulsante rosso. Cominciò ad aprirsi verso l'alto con un sussulto, Dobcek gridò qualcosa e all'improvviso i russi al piano di sopra e quelli nel corridoio si misero a sparare tutti insieme, preparandosi all'assalto finale. Una gragnuola di pallottole martellò il portone di lamiera facendo un fracasso d'inferno. Mi sforzai di stare più basso possibile e risposi al fuoco. Lo stanzone si riempì di fumo e di odore di polvere da sparo, mentre echeggiavano grida incomprensibili. Sentii Joe gridare: «Sono a secco!» Poi il rumore metallico del caricatore vuoto che cadeva a terra. Pike stava ricaricando la sua Python, io stavo facendo lo stesso con la mia Dan Wesson e i russi ne approfittarono per venire avanti sparando all'impazzata. Uno di loro trovò un riparo in posizione avanzata alla base della scala e un altro si preparava a raggiungerlo quando echeggiò inatteso il cupo bum-bum-bum di un fucile a pompa. Grida confuse giunsero dal parcheggio all'esterno e il portone si aprì finalmente a sufficienza, rivelando ai nostri occhi Mon e altri due che venivano avanti correndo da lato opposto della strada, mentre
una BMW piena di vietnamiti giungeva nel parcheggio facendo stridere i pneumatici. I tre uomini che accorrevano a piedi, armati di fucili a pompa di grosso calibro, si fermarono davanti alla facciata anteriore del magazzino e intercettarono due russi nel parcheggio. Uno dei russi, colpito, fu sbalzato contro la Pontiac, mentre l'altro riusciva a ripararsi dietro l'auto. I russi nel corridoio, intanto, gridavano, correvano e sparavano. Uno di loro doveva essersi affacciato dalla porta che dava sul parcheggio e doveva avere visto i vietnamiti. Dobcek gridò impartendo ai suoi altri ordini in russo, continuando a sparare contro di noi, ma all'improvviso gli spari cessarono e un precipitoso scalpiccio al piano di sopra ci fece capire che stavano battendo in ritirata. «Se ne vanno» disse Pike. «Stai giù. Clark, stai bene?» «Sì.» «Jasper?» «Che cavolo è successo, non ci capisco più niente!» Mon e un altro corsero dentro attraverso il portone puntando i fucili verso il ballatoio. Poi salirono la scala muovendosi come due esperti combattenti. «Dak deve aver lasciato qualcuno di guardia qui fuori, per controllarci. Questi erano dall'altra parte della strada e sono accorsi appena hanno sentito gli spari.» Sentimmo altri spari che venivano dalla parte anteriore dell'edificio e poi dalla strada e finalmente due auto fecero rombare i motori e partirono facendo stridere le gomme. La battaglia era finita. «Charles» disse Pike. Corsi vicino a Sautin, gli tolsi di mano la pistola con un calcio e lo scossi, afferrandolo per la maglietta. «Dov'è il ragazzo, Dimitri?» Dimitri Sautin stava rantolando. Mon e un altro tornarono di corsa nello stanzone, si guardarono intorno e si complimentarono a vicenda battendo il palmo della mano aperta, come due giocatori che avessero vinto un'importante partita. Scossi di nuovo Dimitri. «Maledizione, dov'è il ragazzo?» «Con Markov» mi rispose con un filo di voce. Lo scossi ancora. «E Markov dov'è?» Dimitri Sautin fece un suono gorgogliante, i suoi occhi si rovesciarono all'indietro e si afflosciò come un grosso sacco di centocinquanta chili, morto.
Gli battei sul petto, improvvisando una procedura di rianimazione, chiedendogli a gran voce di Charles, di dove Markov teneva il ragazzo, ma ormai era inutile. Jasper mi venne vicino. «Santo Iddio, Cole, è andato. Piantala.» Mon smise di felicitarsi con il suo collega e mi guardò con un gran sorriso, mentre Dak entrava dal portone. Mi parve spaventato. «Ci sono altre auto in giro?» Mon scosse il capo. «Erano solo due e se ne sono andate. Abbiamo beccato tre di loro!» «Ci penso io» intervenne Pike, uscendo di corsa all'aperto. Mi parai davanti a Mon e al suo compagno. «Attaccati al telefono e descrivi le loro auto alla polizia.» Mon spalancò gli occhi e mi puntò addosso il fucile, ma io lo afferrai, lo disarmai e lo colpii in faccia con la canna. «I poliziotti hanno detto che vi lasceranno stare, maledizione! Adesso vai al telefono e forse riusciremo a rintracciarli prima che ammazzino il ragazzo.» Mon mi guardò come se volesse uccidermi, ma Dak gli disse qualcosa in vietnamita e lui si affrettò a ubbidire. La maglietta di Sautin era intrisa di sangue e altro sangue colava giù dai pantaloni fino a terra, formando una pozza sempre più grande. Non ci badai. Girai il cadavere e gli rovesciai tutte le tasche, sperando di trovare qualcosa che mi indicasse dov'era Markov, ma non c'era niente. Avevo voglia di piangere, di prendere a calci quel corpo inerte, ma mi feci forza e uscii nel parcheggio per aiutare Pike. Pike aveva già in mano la soluzione. Si allontanò dal cadavere addossato alla Pontiac e mi mostrò una carta magnetica di un albergo, di quelle che servono come chiave elettronica per le stanze, annunciandomi: «Adesso sappiamo dove sono.» Era una carta magnetica del Disneyland Hotel. 35 Disneyland era a quindici minuti di strada. Usai il telefonino cellulare di Dak per chiamare Marsha Fields. Mi disse che si sarebbe messa in contatto con lo sceriffo della Contea di Orange e che avrebbe chiesto sia al Secret Service sia all'FBI di mandare gli agenti dei loro uffici locali presso il Disneyland Hotel. Mi raccomandò infine di non lasciare la scena del delitto. «Certo, Marsha» le assicurai. Appena misi giù la cornetta, Pike ammonì: «Se Dobcek racconta a Mar-
kov che è finita male, Markov ammazzerà il ragazzo per evitare che possa testimoniare contro di lui in un processo per sequestro di persona.» «Lo so. Guida tu.» Jasper non pareva molto convinto, ma venne anche lui, insieme a Clark e così ci stringemmo tutti e quattro sull'angusta Jeep di Pike. Partimmo a razzo prendendo la Garden Grove Freeway, proseguendo poi a est verso Anaheim. La Garden Grove era una bella strada quasi tutta rettilinea, ma a quell'ora del mattino era intasata di traffico e così ce la facemmo quasi tutta con due ruote oltre il ciglio della strada, con Pike che strombazzava, frenava di colpo e accelerava di nuovo appena vedeva un varco libero. «Vuoi proprio farci morire tutti?» protestò Reed Jasper. «Prendila allegramente, goditi il viaggio» gli rispose Pike. Lasciammo l'autostrada in corrispondenza dell'uscita di Harbor Boulevard, quindi puntammo a nord verso il parco e in breve tempo giungemmo in vista della montagna artificiale che imita il Monte Cervino, o Matterhorn, come lo chiamano gli svizzeri. Poco dopo eravamo davanti all'albergo. Un'autopattuglia della polizia locale della contea ci stava aspettando con gli sportelli aperti sotto la stazione della monorotaia. A bordo c'erano due aiutanti dello sceriffo, seduti con aria rilassata sui sedili anteriori. Uno era un tipo con i baffi, alto e ossuto, l'altra era una donna di colore, anche lei alta e slanciata. Jasper mostrò loro il suo tesserino di riconoscimento della polizia federale e l'uomo baffuto disse: «Ci hanno detto di aspettare qui quelli dell'FBI.» «Va bene.» Entrammo nell'albergo. Jasper si identificò di nuovo con l'impiegata della reception, le diede la carta magnetica e le chiese a quale stanza corrispondeva. Markov aveva preso quattro camere contigue al nono piano, una delle quali era in realtà un piccolo appartamento. Jasper disse: «Okay. Aspetteremo gli altri.» «Andiamo, Jasper» obiettai. «Se Markov se l'è già svignata con il ragazzo, stiamo solo perdendo tempo.» Jasper parve preoccupato. «Ma se è ancora lassù, sarà meglio presentarci in forze, a scanso di guai.» «Basta con gli indugi» dissentì Pike, avviandosi deciso verso l'interno dell'albergo. «Ah, al diavolo» gemette l'agente, andandogli dietro. Muovendoci in fretta attraversammo il giardino interno dove c'era la piscina, raggiungemmo l'ala posteriore del complesso e prendemmo l'ascen-
sore per salire al nono piano. Il corridoio era ingombro di carrelli degli addetti alle pulizie e dall'interno della suite di Markov veniva il ronzio acuto di un aspirapolvere. Ci affacciammo dalla porta, che era aperta e constatammo che Markov non c'era. Stavamo guardando in giro nelle quattro stanze che componevano l'appartamento, incerti sul da farsi, quando entrò una sorridente donna delle pulizie. «State cercando il signore con il bambino?» ci chiese. Ci voltammo tutti e quattro a guardarla, sorpresi. Notai che era bassottella e rotondetta, con un viso dai tipici tratti ispanici e mi dissi che forse era una dei tanti immigrati recenti dall'Ecuador. «Esatto» risposi. Sporse le labbra con un'espressione di rincrescimento. «Sono andati via solo pochi minuti fa. Hanno detto che andavano nel parco dei divertimenti. L'uomo ha detto che voleva fare un giro con l'otto volante.» «Il Matterhorn?» chiese Clark, crucciato. Pregammo la donna di descriverci com'erano vestiti, con la maggiore precisione possibile e dopo averla ringraziata tornammo giù nell'atrio. Notai che Clark ansimava, mentre passavamo di nuovo accanto alla piscina. «Tutto bene?» mi informai. «Bene, sì» rispose senza guardarmi. Intanto erano sopraggiunti altri due aiutanti dello sceriffo, insieme a un agente dell'FBI di nome Hendricks. Erano lì insieme al direttore dell'albergo e a un uomo alto e biondo di nome Bates, che si presentò come un dirigente del'servizio di sicurezza del parco dei divertimenti. Gli presentai Clark, dicendo: «Lui è il padre del ragazzo.» Hendricks e Bates rivolsero a Clark un cenno di saluto, poi Hendricks disse: «Credo che sia meglio se attende fuori, signore.» «Ma è mio figlio.» «La prego» disse fermamente ma cortesemente Hendricks. Clark uscì. Io e Jasper mettemmo al corrente gli altri della situazione e riferimmo infine quello che ci aveva detto la donna delle pulizie. Ci dissero che stavano arrivando altri agenti dell'FBI e del Secret Service, oltre ai poliziotti locali che prestavano servizio presso lo sceriffo della contea. Bates era un tipo calmo e competente e quando seppe quel che aveva detto la donna delle pulizie, annuì. «Se sono andati nel parco, si sono messi in trappola da soli. Possiamo fare sorvegliare tutte le uscite e aspettare semplicemente che vengano fuori.» Ci rivolse un cenno rassicurante, forse cercando di tranquillizzare anche se stesso. «Abbiamo già cooperato altre volte con le autorità locali. Sappiamo quel che dobbiamo fare.»
Io e Jasper ci consultammo con un'occhiata. Sembrava ragionevole. Era difficile immaginare che Markov potesse fare del male al bambino all'interno del parco, sotto gli occhi di tutti, anche nel caso che Dobcek giungesse nel frattempo per raccontargli com'era andata al magazzino. E dove avrebbe nascosto, poi, il corpo? Quindi non ci restava che aspettare che uscissero. In questo modo sarebbe stato possibile liberare Charles riducendo al minimo i rischi. Io e Pike ci congedammo con l'idea di concordare tra di noi gli ultimi dettagli e di andare ad avvisare Clark. Ma quando tornammo alla macchina, Clark non c'era. Non era nemmeno lì intorno, o nel salottino per i visitatori nell'atrio dell'albergo. «Avrà preso la monorotaia» disse Pike. «Per andare a riprendersi suo figlio.» Il convoglio della monorotaia stava lasciando giusto in quel momento la stazione. Corsi ad avvertire gli altri e tornai subito da Pike. Io e lui stavamo già salendo le scale della stazione quando uscirono dall'albergo anche Hendricks e Jasper. «Ehi, voi, dove state andando?» chiese Jasper. «Dov'è Clark?» Glielo dicemmo, spiegando che andavamo a cercarlo. «Accidenti, si era detto di aspettare» protestò Hendricks. «Stanno arrivando altri rinforzi.» «Clark è in giro a cercare suo figlio, Hendricks. Se Markov o Dobcek se lo trovano davanti, lo fanno fuori senza pensarci due volte. Poi potrebbero fare lo stesso anche con il ragazzino e così il disastro sarebbe completo.» Hendricks ci raggiunse di corsa in cima alle scale, seguito da Jasper, Bates e altri tre aiutanti dello sceriffo. Bates parlò con il sorvegliante per farci superare più in fretta il cancello e ci ritrovammo tutti sulla piattaforma in attesa del convoglio successivo. L'attesa durò solo due minuti, ma ci parve un'eternità. Quando arrivò la monorotaia Bates chiese ai passeggeri della prima vettura di cambiare vagone e di lasciarci soli. I suoi modi erano gentili e professionali, ma capii che era nervoso. Certe cose non dovrebbero succedere nel luogo più gaio del mondo. Quando i passeggeri furono tutti scesi, salimmo a bordo con piglio guerresco come un nucleo di incursori a bordo di un elicottero, mentre Bates parlava dentro il microfono di un walkie-talkie miniaturizzato. «Questa faccenda mi piace poco» mormorò poi. «Andrà tutto bene» lo rassicurò Hendricks. «Il capo dei sorveglianti ci verrà incontro alla stazione insieme ad alcuni dei nostri uomini.»
«Andrà tutto bene, maledizione» ripeté Hendricks, serrando la mascella come se avesse voglia di suonarle a qualcuno. A me, probabilmente. Il convoglio scivolò silenziosamente al di sopra del parcheggio, mentre io descrivevo ai poliziotti l'aspetto fisico di Markov, Dobcek, Clark e del piccolo Charles. Hendricks intervenne per ricordare che il nostro primo obiettivo era trovare Clark e portarlo fuori dal parco dei divertimenti prima che lui e i russi si potessero scontrare. Dopo avremmo dovuto rintracciare Markov e il ragazzo, ma senza disturbarli in nessun modo, limitandoci ad aspettare che uscissero dal parco. Bates parve sollevato, quando sentì questa seconda parte del discorso. Hendricks concluse: «Resteremo alla larga e interverremo solo quando saranno in un luogo sufficientemente sicuro per consentirci di neutralizzare i russi senza pericoli per il ragazzo.» Neutralizzare. Un eufemismo rassicurante. Quando arrivammo alla stazione di Tomorrowland della monorotaia ci venne incontro un piccolo esercito di sorveglianti con i loro walkie-talkie. Non avevano per nulla l'aria bonacciona dei personaggi disneyani, ma quella temibile di veri professionisti, gente che sapeva come trattare con i criminali. Hendricks ripeté daccapo le sue istruzioni e io descrissi di nuovo l'aspetto di Markov, Charles e Clark. I sorveglianti del parco dei divertimenti avrebbero preferito lasciare fuori dall'operazione me e Pike, ma eravamo i soli, oltre a Jasper, che avessero visto in faccia quelli che stavamo cercando. Hendricks disse: «Andiamo, date anche a loro dei walkie-talkie. Sono persone serie.» Così diedero anche a noi, sia pure a malincuore, dei walkie-talkie miniaturizzati, ma ci dissero di astenerci da qualsiasi iniziativa, se avessimo visto Markov. Di stare alla larga e di chiamarli. «D'accordo» risposi. Quando Bates scoprì che eravamo armati, diventò rosso in faccia e ci chiese di consegnargli le armi immediatamente. «Non ci penso nemmeno» fece Pike. Jasper intervenne per convincerlo. «Andiamo, questa è proprietà privata e stanno facendo del loro meglio per cooperare. Non vogliamo un'altra battaglia campale.» Hendricks levò gli occhi al cielo e sospirò e si rivolse a me: «Per carità, dategli le armi e vediamo di risolvere questo casino.» Io e Pike ci scambiammo un'occhiata. Scrollai le spalle, consegnai la mia Dan Wesson e Pike fece altrettanto con la sua Python. Il responsabile della sicurezza parve un po' più tranquillo, ma non troppo. Mi sa che gli
sarebbe piaciuto molto denunciarci per tentata strage. Ci diedero le radio, ci dissero che potevamo metterci in caccia e io e Pike scendemmo con la scala mobile nel parco dei divertimenti. I sorveglianti si divisero in vari gruppi e si misero all'opera anche loro, allontanandosi in direzioni diverse. Stavamo passando davanti a un carrettino che vendeva zucchero filato quando Pike disse: «Vieni.» Contemporaneamente si nascose dietro il carretto e fingendo di allacciarsi una scarpa tirò fuori una piccola SIG 380 dal suo nascondiglio, dentro la calza sinistra e me la diede. Sorrisi. «E tu?» domandai. «Ho qualcosa anche per me.» Sempre pronto a qualsiasi evenienza. Sgomitando in mezzo alla calca, superammo la Grotta del Sottomarino e proseguimmo verso l'otto volante del Matterhorn, facendo del nostro meglio per scrutare in viso le venti o trentamila persone che si muovevano lì intorno, oppressi dal pensiero che era impossibile controllare seriamente tutta quella gente e che forse eravamo passati accanto a Markov, Charles o Clark una dozzina di volte senza vederli. O magari erano andati in bagno proprio un attimo prima che noi gli giungessimo vicino. O ancora stavano facendo la fila per acquistare un hot dog o per effettuare un giro in sottomarino. Quando arrivammo davanti al Matterhorn ci dividemmo: Pike prese a sinistra, io andai a destra per fare il giro in senso inverso. Ma ci ritrovammo di lì a poco, dopo aver completato il percorso, senza aver trovato niente. Pike disse: «La donna delle pulizie ha detto che erano diretti qui.» «Sì, ma forse hanno già terminato il giro sull'otto volante, oppure sono ancora lassù in cima alla montagna. O magari hanno cambiato idea all'ultimo momento e hanno deciso di fare prima qualche altra cosa.» Tutte le ipotesi erano possibili. Pike annuì. «Resta qui vicino alla montagna, io seguirò la corrente principale fino al Fantasy Castle. Andrò al ponte levatoio e tornerò indietro.» Pike scomparve in mezzo alla folla mentre io proseguivo lungo il viale principale. Passai davanti a una bella ragazza che vendeva gelati alla banana e stavo superando un gruppetto di marinai inglesi quando Markov, Charles e una specie di gorilla dalla pelle cotta dalle intemperie sbucarono da dietro un chiosco che vendeva pellicole Kodak, allontanandosi dal punto dove mi trovavo. Il gorilla teneva una mano sulla spalla di Charles. Charles aveva un cappellino con le orecchie da Topolino, ma non mi parve
contento. Markov stava leccando un cono e aveva anche lui in testa un cappellino uguale a quello di Charles. Ricamato sul retro del cappello c'era il suo nome: ANDREI. Evidentemente, l'atmosfera magica di Disneyland non lasciava indifferenti nemmeno i delinquenti più incalliti. Mi nascosi dietro una coppia di visitatori corpulenti e tirai fuori il mio walkie-talkie. «Sono Cole. Li ho visti.» Mi rispose la voce di Hendricks. «Dove?» Stavo per dirglielo quando Dobcek, facendosi largo in mezzo a un gruppo di anziani turisti che parevano venuti in trasferta dalla Florida, gridò qualcosa in russo e mi sparò contro tre colpi in rapida successione. Intorno a me, una marea di almeno quarantamila persone ondeggiò paurosamente, come attraversata da una scarica elettrica. Le pallottole mi passarono sopra la testa, andando a stamparsi contro un pilone della monorotaia, mentre Dobcek correva accanto a Markov. Markov si era buttato a terra quando aveva sentito gli spari, ma adesso era già di nuovo in piedi e teneva Charles stretto a sé mentre ascoltava Dobcek. Usando il ragazzo come uno scudo, scappò a ritroso attraverso la folla in preda al panico. Mi affrettai a comunicare a Hendricks dove mi trovavo. «Non ti azzardare a cercare di fermarli» si raccomandò. «Faccia venire qui i suoi uomini, ma li avverta che Markov sta usando il bambino come uno scudo umano.» I russi corsero insieme a Charles verso Fantasyland e io li seguii, facendo una specie di radiocronaca a Hendricks attraverso il walkie-talkie, mentre cercavo di non perdere di vista Markov, restando però a distanza di sicurezza. Quando attraversarono il ponte levatoio del castello, non li vidi più. Avvertii Hendricks, accelerando il passo e appena ebbi superato il ponte me li ritrovai lì davanti, Markov e Charles, accanto a un'attrazione denominata il Fossato dei Rospi. Markov aveva il braccio sinistro intorno al collo di Charles e impugnava con la destra una piccola pistola. Dobcek era una decina di metri più indietro, ma non riuscii a scorgere il gorilla. «Sporco bugiardo» mi disse Markov. «Hai cercato di fregarmi.» Il mio obiettivo era quello di tenerli impegnati fin quando non fossero arrivati i poliziotti e i sorveglianti, per acciuffarli e tenere nel contempo lontana la gente. «Lascialo andare, Andrei. Il parco è circondato. Non puoi scappare.» «Resterai sorpreso» replicò lui, e fu allora che il gorilla spuntò da dietro un carrettino che vendeva bibite, mi puntò la sua pistola alla schiena e ringhiò: «Sei spacciato.»
In quello stesso momento Clark Hewitt uscì dalla fila in attesa per effettuare il giro in barca nel Fossato dei Rospi, gridando: «"Lascialo andare!"» L'improvvisa entrata in scena di Clark lasciò tutti di stucco. Markov scartò di lato, imitato da Dobcek e io approfittai di quell'attimo di sconcerto per girarmi di scatto e piazzare la mia Sig tra le costole del gorilla. Lasciai partire un singolo colpo, che produsse uno sparo soffocato, dato che la canna della pistola era a contatto diretto con i vestiti. Nello stesso istante echeggiò uno sparo molto più fragoroso e cupo. Andrei Markov fu sbattuto per terra dall'impatto della palla, mentre la folla ondeggiava in preda al panico, senza sapere dove andare, muovendosi in modo caotico come fiocchi di neve in mezzo a una tormenta. Joe Pike stava affacciato sopra di noi tra i merli del castello, con un fucile a canne mozze e il calcio accorciato. Dobcek sparò cinque colpi in rapida successione all'indirizzo di Pike, poi corse verso Markov. Io mi slanciai su Charles e Clark e li feci stendere a terra, gridando loro di restare immobili. Mi aspettavo che Pike sparasse di nuovo, ma non lo fece. Col cuore in gola, cercai di riprendere fiato, mentre Clark e il piccolo Charles singhiozzavano sotto di me e la gente in fuga ci calpestava con la grazia di una mandria di bisonti. Protessi padre e figlio con il mio corpo, mentre Clark diceva: «Sei salvo, Charlie. Sei salvo.» Lo ripeté all'infinito. Non avevo mai pensato a Charles con tanta tenerezza, prima di quel momento Mi guardai intorno finché vidi Pike, ancora lassù, tra i merli del castello, come una sorta di angelo vendicatore. «Dov'è Markov?» gli gridai. Lui scosse il capo. Markov e Dobcek erano spariti. 36 Hendricks e Jasper ci raggiunsero di corsa e gli agenti della polizia locale della Contea di Orange presidiarono la zona intorno. Hendricks chiese: «State tutti bene?» Clark annuì. Charles, abbracciato a suo padre, mugolò e si guardò intorno apprensivo, per vedere che fine aveva fatto il gorilla. «È morto, quello?» si informò. «Stanno bene, Hendricks. Markov, invece, è ferito.» Hendricks batté il pugno sul palmo dell'altra mano, con un sorriso soddisfatto. «Bene, allora non ci scappa più.»
Jasper tirò fuori un cellulare. «Ferito gravemente?» «Si è beccato una scarica di pallettoni nella spalla destra. Qui» disse Pike, toccandosi una spalla per mostrare il punto esatto. Jasper digitò un numero sul telefonino. «Okay. Da che parte sono scappati?» Pike glielo disse e Jasper fece un cenno di richiamo a Bates. Mentre Bates si avvicinava, Jasper disse: «Voglio che tu mi tenga informato, Cole, ma intanto volevo ringraziarti.» Mi tese una mano e mi aiutò ad alzarmi. «Sei stato ammirevole.» «Grazie.» «Dove ti posso rintracciare? Ho intenzione di venire da te più tardi, per parlare un altro po'.» Gli diedi il numero della casa sicura, poi lui e Bates si allontanarono, con Jasper che continuava a parlare attraverso il telefonino e Bates che dava le ultimi istruzioni ai suoi uomini. Ormai Markov era in trappola, avrebbero potuto acciuffarlo da un momento all'altro. Hendricks si mise davanti a me e Pike e ci fissò con aria crucciata. «Mi avete fatto credere che eravate disarmati.» Ci limitammo a tacere. «D'accordo, è andata bene lo stesso, direi» ammise lui con una scrollata di spalle. Lo presi da parte e gli chiesi: «Marsha Fields le ha spiegato la situazione?» Hendricks annuì. «Avremo bisogno di parlare con il padre per istruire il processo per sequestro di persona. Anche il ragazzo dovrà testimoniare.» «Lo so.» Lanciò un'occhiata verso Clark e Charles, dietro di me. Erano ancora accovacciati per terra, il piccolo rannicchiato in grembo al padre, che lo teneva stretto. Clark sembrava scosso e spaventato, molto di più di quanto lo fosse suo figlio, che stava facendo delle smorfie verso il gorilla morto, come per vendicarsi dello spavento che gli aveva provocato in precedenza. «Trattenetevi qui finché la faccenda non sarà sistemata. Non dovrebbe volerci molto.» «Certo.» «Potete aspettare in albergo, se preferite. Così il ragazzo potrà mangiare qualcosa, se ne ha voglia.» «D'accordo.» «Tornerò da voi appena avremo acciuffato il russo.» Sopraggiunsero altri due agenti dell'FBI, cinque o sei agenti della polizia
locale e il rappresentante del Secret Service. Tutti sorridevano compiaciuti, scambiandosi pacche sulle spalle, perché Markov sembrava ormai in trappola. Tutte le uscite erano sorvegliate, non poteva sfuggire. Uno poliziotto ci riaccompagnò in albergo, ma Charles protestò: «Voglio andare sui dischi volanti. Voglio andare sui sottomarini. Voglio salire sul Matterhorn...» Certe cose non cambiano mai. Chiamai Teri dall'atrio dell'albergo e le dissi che avevamo con noi Charles e che era tutto sistemato. Teri riferì la buona notizia a Winona e le sentii giubilare gridando di gioia e battendo le mani. Mi fece un gran piacere. Prendemmo degli hamburger al caffè dell'albergo e ci attardammo nell'atrio e intorno alla stazione della monorotaia per un paio d'ore, ma quando Hendricks finalmente ci raggiunse, ci comunicò che non avevano ancora preso né Markov né Dobcek. Pike disse: «Se vi serve una mano, vengo lì io.» Hendricks gli lanciò un'occhiata severa. «No, grazie, possiamo fare da soli.» Pike si strinse nelle spalle. «Vorrei riportare a casa il mio cliente e suo figlio, Hendricks» dissi. «Può trovarci lì più tardi, se ha bisogno delle loro deposizioni.» «Okay» borbottò lui, a malincuore. «S... onzo» bofonchiò Charles, mascherando l'insulto con un colpo di tosse. Hendricks lo fulminò con lo sguardo e se ne andò scuotendo la testa. Pike ci riportò fino al magazzino, dove avevo lasciato la mia auto. Gli agenti federali e quelli della polizia locale di Long Beach stavano ancora facendo i rilievi del caso, ma Dak e i suoi non c'erano più e così pure i cadaveri. Il portellone per i camion era aperto. Si intravedevano all'interno la stampatrice litografica, il computer e l'attrezzatura per produrre le matrici, ma nessuno se ne stava occupando, al momento. C'era anche Marsha Fields, insieme a un rappresentante della procura distrettuale e tutti e due stavano parlando con un paio di ispettori capo del Dipartimento di polizia di Long Beach. Quando Marsha Fields mi vide, si avvicinò, si presentò a Clark e Charles, quindi si rivolse a Joe con un sorriso: «Ciao, Joe.» Pike piegò gli angoli della bocca. Era chiaro che si conoscevano e molto bene. Lei continuò a fissarlo sorridente per qualche istante, poi si rivolse a Charles. «Oh, tu sei proprio un bel monello.»
Charles si fece rosso. Marsha disse ancora: «Signor Hewitt, eravamo molto ansiosi di parlare con lei.» Clark annuì. «Certo. Quando volete.» La presi da parte e le chiesi: «A che punto è la situazione?» Guardò tre agenti della polizia locale che scherzavano tra loro al capo opposto dell'area di parcheggio. Non eravamo riusciti ad arrestare Markov, né a incriminarlo come falsario e per giunta avevamo provocato una sparatoria sia a Long Beach sia a Disneyland, anche se avevamo fornito tutte le spiegazioni del caso sui morti che erano rimasti sul campo. Un piccolo esercito di poliziotti aveva visto l'attrezzatura per fabbricare i soldi falsi e ormai tutti sapevano a cosa serviva. Insomma, era un mezzo disastro, ma da parte mia non avevo ancora rinunciato all'idea che Charles ottenesse il compenso che gli era stato promesso e questo significava che gli doveva essere consentito di onorare il suo impegno con Dak. Espressi a Marsha le mie considerazioni. Lei, sempre guardando lontano, annuì. «Abbiamo fatto quell'accordo in buona fede e anche voi. Noi siamo ancora dell'idea che Clark dovrebbe deporre contro Markov in tribunale, per farlo incriminare di sequestro di persona.» Si volse infine verso di me. «Il nostro accordo resta valido. Dica a Clark che può completare quello che stava facendo, ma avverta chiunque sia dietro quest'operazione che se infrangono di nuovo la legge, la pagheranno cara. È chiaro?» «Chiarissimo.» Le tesi la mano e lei me la strinse. Le diedi il numero di telefono della casa sicura e Marsha disse che si sarebbe fatta viva appena avesse avuto qualche novità da comunicarci. La ringraziai. Stava per andarsene, poi si fermò e si girò verso di me, inarcando un sopracciglio. «Dong?» Sorrisi con un'espressione ammirata. Mi chiesi come aveva fatto a indovinare. Quando raggiunsi Pike e Clark per annunciare che potevamo tornare a casa, Charles disse che voleva venire in macchina insieme a me. Gli piaceva viaggiare sulla mia Corvette scoperta, disse. Faceva scena. Ci volle un'ora e trentacinque minuti per arrivare a Studio City e Charles parlò tutto il tempo di Marsha Fields, senza mai citare Markov. Non me la presi. Ne dedussi che si era ripreso perfettamente e che si era innamorato di Marsha. Arrivammo alla casa sicura una decina di minuti dopo Joe e Clark. Charles era deluso. «Non vale, ci hanno battuto» esclamò.
Quel ragazzino era davvero un bel tipo! Quando entrammo, Teri e Winona corsero ad abbracciare Charles, piangendo, ma stavolta per la gioia. Festeggiarono anche me, dopodiché mi rivolsi a Pike per sapere se Hendricks aveva dato notizie. Non aveva chiamato e la cosa mi impensierì. Se Markov e Dobcek erano riusciti a sfuggire dalla rete, eravamo punto e a capo. Andai nell'ufficio al piano di sopra e telefonai a Dak. Non fu contento di sentirmi, evidentemente, ma si sforzò di mantenere un tono cordiale. «Il ragazzo sta bene?» domandò. «Sì. E anche Clark. Ho parlato con Marsha Fields di questa faccenda e mi ha confermato che il nostro accordo è ancora valido.» «La polizia ci ha già fatto un sacco di domande.» «Le indagini non avranno seguito. Nessuno chiederà da dove viene la carta, o l'attrezzatura per la stampa.» «E i morti?» «Abbiamo già fornito tutte le spiegazioni necessarie: alcuni dipendenti del "Journal" hanno colto sul fatto dei ladri e quelli hanno messo mano alle armi. I vostri uomini hanno agito per legittima difesa.» Dak rimase silenzioso per qualche istante. «La Fields ha il potere di mettere tutto a tacere?» «Certo. Perché dietro di lei c'è il governo.» «Lei è un uomo di parola, signor Cole. Apprezzo molto questo fatto.» «Anch'io, sì. Ma il merito va soprattutto a Marsha Fields.» Gli dissi che Clark si sarebbe fatto vivo l'indomani per concordare come completare la stampa dei dong e chiusi la conversazione, restando a guardare il telefono nella stanza silenziosa. Sentivo le voci degli altri, dabbasso, ma lassù nell'ufficio c'era una confortante tranquillità. Non mi sentivo particolarmente nobile e non mi sembrava di aver vinto alcunché. Avevo solo avuto fortuna, pensai. C'era mancato poco che mi accoppassero. Charles e Clark se l'erano cavata per un pelo anche loro, ed ero stato costretto ad ammazzare degli uomini di cui non ricordavo nemmeno la faccia. Mi guardai le mani. Il sangue di Dimitri Sautin era ancora incrostato sotto le mie unghie. Fui scosso da un brivido e allora chiusi gli occhi aspettando che mi passasse; dopo andai in bagno e mi lavai le mani e le braccia. Due volte. Quando tornai giù, Teri disse: «Abbiamo deciso che bisogna festeggiare. Ordineremo pizza per tutti.» «Magnifico.» In quel momento squillò il telefono. Pensai che fosse Marsha Fields, ma
non era lei. Era Reed Jasper. «Avete saputo la novità?» «Quale novità?» «Li abbiamo acciuffati. Abbiamo catturato Dobcek e Markov mentre cercavano di svignarsela da un'uscita di servizio per il personale addetto alla manutenzione, sul lato nord del parco.» Coprii con la mano il microfono e annunciai a tutti che Markov era stato preso. Jasper sentì le nostre grida di giubilo. «Siete tutti riuniti?» domandò. «Certo. Stiamo festeggiando; poi credo che li riaccompagnerò a casa.» «Vorrei fare un salto lì da voi per parlare con Clark. Probabilmente riparto per Seattle domani stesso.» «Certo, Jasper. Buona idea.» Gli indicai la strada che doveva seguire. Terminato quel colloquio, ordinammo per telefono una pizza, mentre Joe e Winona andavano al vicino minimarket per prendere qualcosa da bere. Io mi offrii di preparare un'insalata. Gli Hewitt volevano tornare a casa, dopo la pizza e io mi dissi che era comprensibile. Dovevano avere una gran voglia di sentirsi di nuovo tutti in famiglia, dormire sotto lo stesso tetto senza doversi chiedere se qualcuno avrebbe fatto irruzione all'improvviso per ucciderli. Teri e Charles andarono di sopra per fare i bagagli. Clark sostò nel disimpegno, fuori della porta della cucina, guardandomi mentre affettavo l'aglio. «Dovresti dirglielo» gli suggerii. «E come faccio?» rispose, visibilmente imbarazzato. «Ci ho pensato tante volte, ma non so proprio da dove cominciare.» «Diglielo e basta, Clark. Siediti lì insieme a loro e digli che sei ammalato e che dovrai morire. Lascia che piangano e piangi con loro.» «Sono ancora così piccoli...» «Sono più grandi di quanto tu creda.» Presi i pomidoro e i cetrioli dal frigorifero. «Se non ti senti bene, perché non ti stendi un po' sul divano?» Guardò incerto il divano. «O preferisci darmi una mano?» «Eh?» Parve sorpreso. «Hai voglia di aiutarmi a preparare l'insalata?» Clark Hewitt mi guardò e finalmente si decise. «Certo.» Entrò in cucina. Gli dissi di lavare i pomidoro e i cetrioli e di affettarli. Si mise al lavoro dicendo: «Ho capito.» «Che cosa?» «Invece di stare lì sul divano a soffrire, posso aiutare a fare l'insalata.» Misi l'aglio in una scodella e aggiunsi dell'olio d'oliva. «Giusto.»
«Tanto, in un modo o nell'altro, devo morire lo stesso.» Annuii. Non c'era niente che non sapesse già. L'affare che aveva concluso con Dak lo provava. «Forse dovrei dirglielo stasera stessa.» «Mi sembra una buona idea. Se vuoi, posso sedermi anch'io insieme a te.» Ci pensò sopra, poi scosse la testa. «Grazie, ma credo di potere far da solo.» Buon per te, Clark. Stavamo condendo e mescolando l'insalata quando bussarono alla porta e Clark disse: «È la pizza.» Aprii, ma non era la pizza. Reed Jasper varcò la soglia e dietro di loro entrarono anche Dobcek e Markov. Dobcek mi puntò addosso la sua pistola, poi mi colpì in faccia con la canna per due volte, con forza, sbattendomi contro il muro. Clark mormorò: «Oh, mio Dio.» Allora Dobcek puntò l'arma anche contro di lui, portando il dito davanti alla bocca e intimandogli di fare silenzio, mentre mi sospingeva a ritroso verso il soggiorno. Markov gli venne dietro. Era pallido e tremante e si stava lì curvo con una giacca a vento appoggiata sulle spalle per coprire la ferita. Mi guardò come se volesse mangiarmi vivo, per assaporare il gusto del mio sangue ancora caldo. Distolsi lo sguardo da quegli occhi ferini e mi rivolsi a Jasper. «Sei un gran figlio di puttana.» Lui scrollò le spalle con aria noncurante. Aveva una pistola, ma la teneva bassa lungo la gamba. «È un modo come un altro per guadagnarsi da vivere.» Markov sorrise quando vide Clark. Si passò la lingua sulle labbra secche. Doveva essere disitratato per via di tutto il sangue che aveva perso. «Voglio ammazzarti con le mie mani, lurido verme.» Clark sbiancò, tremando visibilmente. «Risparmia i miei figli, loro non c'entrano» disse con un filo di voce. «Pike è di sopra» dissi. «Ha un mitra.» Jasper mi puntò addosso la pistola. «Chiudi il becco e siediti» intimò. Markov si lasciò andare pesantemente sul divano, mentre Dobcek si avviava verso le scale. «Come sei riuscito a farli uscire dal parco?» domandai, rivolto a Jasper. Lui guardò curioso dentro l'insalatiera e assaggiò un po' di cetriolo. «Non è stato facile, ma sono riuscito a trovare un paio di tute e così sono usciti travestiti da addetti alla manutenzione.»
Markov si assestò sul divano con aria sofferente. «Non dirgli niente» grugnì. «Che importa, a questo punto?» ribatté Jasper. «Non potrà raccontarlo a nessuno.» «Da quanto tempo sei al soldo di Markov, Jasper?» Lui assaggiò un altro dischetto di cetriolo. «È per questo che il tuo collega ci ha lasciato le penne, la notte in cui Clark fu trasferito, vero? Sono almeno tre anni che lavori per Markov, ed è costato la vita a un agente federale.» Jasper scrollò di nuovo le spalle, con la massima indifferenza. «Se non avesse cercato di fare l'eroe, non gli sarebbe successo niente.» Lo guardai, quindi guardai Markov. Da un momento all'altro potevano tornare Pike e Winona. Il minimarket era a soli due isolati di distanza. Cercai di ricordare se Pike aveva con sé un'arma oppure no. Io avevo lasciato la mia pistola nel portabagagli. «Hai perso un sacco di sangue, Markov. Potresti non farcela.» «Ce la farò. Prima ammazzerò quel bastardo, poi penserò a farmi curare come si deve.» Mi rivolsi a Jasper. «E gli lascerai ammazzare anche questi bambini?» «Certo. Perché no?» disse lui, con grande sfoggio di cinismo. Sentimmo un tonfo, al piano di sopra e poi la voce di Charles che strillava: «E smettila di spingere, deficiente!» Subito dopo, Charles e Teri scesero le scale con Dobcek dietro di loro. Dobcek teneva Charles per la collottola e Teri aveva un'aria indignata. Dobcek chiese: «Dov'è l'altro?» Chissà se si riferiva a Pike o a Winona. Jasper reagì irritato. «Chi se ne frega? Facciamo quello che dobbiamo fare e andiamocene di qui.» «Da» approvò Markov. In quello stesso momento, qualcuno bussò alla porta e Dobcek si affrettò a tappare la bocca a Charles e a puntare la pistola contro Clark. «Zitto!» intimò. Jasper andò alla porta, brandendo la sua pistola e Markov si alzò faticosamente in piedi, tenendo la sua arma bassa lungo il fianco. Pike e Winona avevano la chiave di casa, ma forse Pike aveva visto Markov e Dobcek mentre arrivavano. Forse avevano visto delle tracce di sangue lasciate da Markov davanti alla porta. O forse era solo il fattorino che portava la pizza. Jasper guardò attraverso lo spioncino, aggrottò le sopracciglia e mosse
un passo indietro. «Non vedo un cavolo.» Al posto di Pike, avrei fatto anch'io qualche trucchetto. Se era lui, forse aveva bussato solo per concentrare lì tutta l'attenzione e per entrare poi da un'altra parte. Guardai Teri, Charles e Dobcek, che aveva gli occhi fissi sulla porta e ansimava leggermente. Si faceva scudo con i ragazzi e teneva la canna della pistola a tre centimetri dalla testa di Charles. Mi alzai e dissi pacatamente: «Io mi arrenderei. Sono i poliziotti.» Dobcek puntò la pistola verso di me. «Chiudi il becco.» Markov agitò la sua arma verso Dobcek e sibilò: «Fallo stare zitto.» Qualcosa scricchiolò al piano di sopra e Dobcek guardò verso le scale, con aria incerta, come se non fosse sicuro di aver sentito bene. Adesso aveva la fronte imperlata di sudore. Alzai di proposito la voce. «Cos'è quest'odore, Dobcek? Te la sei fatta addosso per la fifa?» Lui mosse un passo verso di me, ma era ancora troppo vicino ai ragazzi. Volevo allontanarlo da loro e speravo di riuscirci sfidandolo. Certo, poteva anche decidere di spararmi... «Allora, fifoni, perché non aprite la porta, semplicemente e vedete chi è?» Mi mossi, avvicinandomi a Markov. «Cristo, volete che lo faccia io?» Markov sibilò di nuovo con rabbia, rivolto a Dobcek: «Falle tacere, maledizione!» Dobcek si staccò da Charles e Teri e mi puntò la pistola contro la testa, tappandomi la bocca e sogghignando in modo orribile, «Quando toccherà a te, ti farò morire molto lentamente, puoi contarci.» Guardai Teri, richiamando la sua attenzione e abbassai gli occhi verso il pavimento. Lei capì al volo e si buttò a terra, trascinando giù Charles. Tutta l'attenzione era ancora concentrata sulla porta, Markov si umettò le labbra secche e disse a Jasper: «Vai ad aprire.» Jasper spalancò la porta, ma non c'era nessuno, lì fuori, tranne il nanettoportachiavi di Winona, appeso sopra lo spioncino. Sembrava arrabbiato. «Che diavolo è?» esclamò Jasper, restando di sasso. Un'ombra si mosse in cima alle scale e Alexei Dobcek dovette accorgersene, perché lo sentii entrare in tensione per un decimo di secondo, prima che Pike facesse fuoco, trapassandogli la tempia con una pallottola e facendolo afflosciare come un sacco vuoto. Jasper reagì al fragore dell'esplosione, ma io mi ero già slanciato su Markov, tirandolo giù con una spallata e impossessandomi della sua pisto-
la. Feci fuoco contro Jasper tre volte, facendolo volare fuori dalla porta, sotto la piccola tettoia del portico. Sfogai contro di lui tutta la mia rabbia e lo spedii all'altro mondo. Quando mi girai di nuovo verso Markov, Joe Pike era già sopra di lui. Il russo giaceva sul pavimento, e ci guardava confuso, non riuscendo ancora a credere di aver subito un rovescio di fortuna così improvviso e totale. «C'è mancato poco» dissi. Pike scrollò le spalle con espressione totalmente impassibile. «Tutto calcolato.» Un tipo davvero impagabile. Gli Hewitt erano sani e salvi. Dissi: «Clark, perché non fai il tuo dovere di cittadino trattenendo il malfattore, mentre io chiamo la polizia?» Pike disse: «Li ho già chiamati. Stanno per arrivare.» Charles corse accanto a Markov e gli sferrò un calcio. «S... ronzo!» Pike dovette portarlo via di peso. La polizia non arrivò in tempo. A poco a poco il lampo da lupo famelico negli occhi di Andrei Markov si appannò sempre di più, per poi spegnersi del tutto. Morto dissanguato prima che giungessero i soccorsi. Pike uscì e portò dentro casa Winona. Le aveva detto di restare nascosta, dopo che aveva chiamato la polizia. Abbracciai la famiglia Hewitt felicemente riunita e dichiarai che stavolta era tutto finito per davvero. 37 Il cortile e il marciapiede erano pieni di poliziotti e di curiosi e in breve tempo giunse sulla scena del delitto anche una troupe della filiale locale dell'ABC per fare la telecronaca. I poliziotti incaricati delle indagini si mostrarono piuttosto nervosi per la presenza di ben tre cadaveri, specialmente quando accertarono che uno di essi era quello di un agente federale. Cercai Marsha Fields al telefono, ma era ancora al lavoro a Long Beach. Rintracciai infine Emily Thornton e dopo che lei ebbe parlato con il responsabile delle indagini, questi accettò senza discutere la mia versione dei fatti. Avere amici in alto loco è sempre un grosso vantaggio. Quando arrivò il fattorino con la pizza, Charles ne mangiò un po' e i poliziotti spazzolarono il resto. Nessun altro aveva fame. Allora il responsabile delle indagini disse a Clark che poteva andare, lui
venne da me e mi chiese se potevamo parlare un momento. Aveva un'aria imbarazzata. Ci appartammo in un angolo della casa. «Che si fa con Dak?» «Chiamalo al telefono stasera e mettiti d'accordo per domani. Probabilmente manderà un suo autista a prenderti. Quei dong gli servono proprio.» Lanciò un'occhiata ai suoi figli. Stavano tutti e tre sotto un pino lungo la strada. Clark mi disse ancora: «Be', potrebbero volerci un paio di giorni, per completare il lavoro. Ma non posso più lasciarli da soli.» Non potei fare a meno di sorridere, a quelle parole. «Chiamami, Clark. Possono stare con me.» Mi guardò incerto, poi tornò dai suoi e tutti e quattro salirono sulla Jeep di Joe, che li riaccompagnò a casa. Me ne andai anch'io un po' più tardi, fermandosi da Gelson per comprare un bel filetto di salmone, patate novelle e una confezione da sei lattine di birra Budweiser. Avrei preferito la Falstaff, ma non ne avevano. Chi si accontenta gode. Quando tornai a casa, accesi il mio barbecue, misi le patate nel forno e feci una doccia mentre si cuoceva la cena. Dopo chiamai Lucy. Erano le otto passate giù a Baton Rouge quando telefonai e lei mi rispose al secondo squillo. «Tutto fatto» annunciai. Mi chiese com'era andata, ovviamente e io glielo raccontai, facendo una specie di monologo per circa mezz'ora, mentre la carbonella nel barbecue si arrossava al punto giusto, irradiando il suo calore nell'aria fresca della sera. Stuart Greenberg era stato di parola e a distanza di appena un giorno dal suo incontro con Lucy, aveva concluso la trattativa con David Shapiro. Ormai era cosa certa, Lucy sarebbe venuta a lavorare a Los Angeles e niente e nessuno avrebbe potuto più separarci. Quando il barbecue fu pronto per cuocere il salmone, conclusi la mia conversazione, promettendole di mandarle le pagine del "Sunday" con gli annunci delle case in vendita o in affitto. «Ti amo, Elvis» disse lei. «Ti amo anch'io» risposi. Buonanotte, amore. Mi bastava parlare con lei per sentirmi al settimo cielo. Spennellai il salmone con salsa di soia, lo misi sulla griglia e in quel momento squillò il telefono. Pensai che fosse Lucy che mi richiamava, o Joe, o Clark, per dirmi quando dovevo andare a prendere i bambini, ma non era nessuno di loro. Una voce d'uomo dichiarò: «Non hai ancora vinto.»
Era Richard Chenier. Disse ancora: «Se credi che sia finita, ti sbagli.» E riagganciò. Rimasi lì a fissare il telefono. Sospirai profondamente, poi tornai alla griglia e rigirai il salmone. Fa presto a seccarsi, se non si sorveglia. Avrei potuto chiamare Lucy, immagino, ma anche stavolta non lo feci. Prima, poteva sembrare che volessi impicciarmi; adesso sarebbe servito solo a dare al suo ex marito più importanza di quanto meritasse. Bevvi la birra e mangiai il salmone, seduto sulla mia terrazza nell'aria liquida di quella notte serena, ascoltando i coyote che ululavano stagliati in cima alla montagna, sullo sfondo del cielo trapunto di stelle. Più tardi, quella notte, mi addormentai pensando che ero davvero fortunato che lei amasse me e nessun altro. Come aveva detto Pike, per accoppare il mio rivale c'era sempre tempo. 38 Quella stessa sera, Clark Hewitt disse ai suoi bambini che aveva un cancro e che gli restava poco da vivere. In seguito mi raccontò che Teri e Charles avevano reagito molto male, mentre Winona, con l'incoscienza tipica della sua età, era rimasta meno colpita. Mi dispiaceva per Teri, ma fui felice di sentire che per una volta aveva dato libero sfogo ai suoi sentimenti. Lo considerai un progresso. Il martedì della settimana seguente, Clark aveva già stampato cento milioni di dong per Nguyen Dak e per i suoi amici rivoluzionari. Il suo compenso fu di 250.000 dollari americani, tutti in biglietti da cento, nessuno dei quali contraffatto. Clark li controllò uno per uno, per accertarsene. Come si può immaginare, era molto sensibile al problema. Il governo federale esige che i cittadini paghino le tasse sul reddito, anche nel caso sia frutto di un'attività illegale come quella del falsario, ma Clark non aveva nessuna intenzione di dividere i suoi soldi con le autorità. I figli venivano prima del debito pubblico, dello stato sociale o del complesso militare-industriale. Fui d'accordo con lui. Chiamai una mia amica direttore di banca e chiesi la sua consulenza. Di norma, le banche sono obbligate a segnalare ogni transazione in contanti superiore ai diecimila dollari, ma io una volta avevo tirato fuori da grossi guai il marito della mia amica, per cui lei fu ben felice di restituirmi il favore. Aprì un conto fiduciario per i figli di Clark con me come esecutore testamentario e insieme
investimmo i soldi in prudenti acquisti di azioni e obbligazioni. Non ci fu bisogno di mandare nessun rapporto al governo. Clark si offrì di pagare il mio onorario, ma rifiutai. Gli restavano meno di quattro mesi da vivere e soppesando cautamente le poche opzioni possibili, decidemmo che i suoi ragazzi avrebbero dovuto frequentare una scuola dotata anche di convitto. Clark chiese se conoscevo qualche buona scuola e io dissi: «Perché non chiedi a Teri di occuparsene?» Seguì il mio consiglio e dopo qualche iniziale riluttanza, Teri si mise a scegliere una scuola con lo stesso zelo con cui aveva cercato un investigatore privato. Lei aveva già conseguito privatamente un diploma, ma frequentare una scuola permette di imparare molte più cose di quanto non si possa fare leggendo semplicemente dei libri. Il sabato successivo andammo tutti e cinque in una scuola denominata Rutgers Boarding Academy di Ojai, California, a un'ora e mezzo di macchina a nordovest di Los Angeles. Andammo con la loro Saturn. Clark sedeva davanti insieme a me, con Teri, Charles e Winona sul sedile posteriore. Charles disse: «Posso guidare io, al ritorno?» «Non essere stupido» gli rispose Teri. Teri rimase pensierosa lungo il tragitto. Era una bella, limpida giornata di sole e l'erba dei pascoli lungo la strada erano verde brillante grazie alle piogge primaverili. La Rutgers Academy era ai piedi delle montagne e quando varcammo i cancelli ci dirigemmo verso un complesso di edifici moderni. «È proprio carino, qui» osservò Clark «Sì» convenne Winona. Charles disse: «Si potrà anche andare a caccia con il fucile?» Teri si sporse in avanti tra i sedili anteriori, guardando gli edifici verso cui eravamo diretti. Diversamente dai suoi fratelli, si rendeva perfettamente conto che quella sarebbe stata la sua nuova casa negli anni a venire. «Che te ne pare?» le chiesi. «Hanno anche le stalle con i cavalli.» «Già.» Tre ragazze più o meno coetanee di Teri procedevano al passo in sella a dei roani lungo una pista. «Dovrebbero esserci anche dei campi da tennis e una piscina» continuò. «Sono sicuro che ci faranno vedere tutto.» Il direttore del convitto era un signore compito sulla cinquantina di nome Adamson. Gli avevo preannunciato per telefono il nostro arrivo e ci
aspettava per mostrarci il suo istituto. Non era da solo. Insieme a lui c'era una donna florida ma attraente, che si presentò come la signora Kennedy e c'erano anche due convittori sedicenni, Todd e Kimberly. Dopo le presentazioni di rito, la Kennedy disse: «Posso far vedere a Winona i cavalli? Tu che dici, Winona, ne hai voglia?» «Sì!» Kimberly era lì per accompagnare in giro Charles e Todd doveva fare lo stesso con Teri. Todd disse: «Posso dirti tutto quello che vuoi sapere riguardo a questo posto. Sono qui sin da quando avevo dieci anni.» Era un bel ragazzo che ricordava vagamente Robert Redford. I figli di Hewitt si allontanarono in direzioni diverse e il signor Adamson disse: «Noi insegniamo ai nostri ragazzi a essere solidali e disponibili con i propri compagni. I suoi figli sono in buone mani.» «Avrei un sacco di domande da farle» disse Clark. «Sono qui per questo, signor Hewitt. Prego, venga nel mio ufficio e parliamo con comodo.» Clark entrò insieme ad Adamson, ed entrai anch'io, ma non mi trattenni a lungo. Avevo già discusso la situazione di Clark con Adamson, concordando anche la retta e il resto. Quando Teri aveva suggerito quella scuola avevo controllato per mio conto se era un posto adatto oppure no. Non per niente sono il più grande detective del mondo. La Rutgers Boarding Academy non era solo un luogo ameno e sicuro, aveva anche un'ottima reputazione a livello didattico. Adamson era laureato in pedagogia, era sposato con tre figli e aveva vinto per due volte il titolo di Insegnante dell'anno, prima di diventare direttore al Rutgers. Il suo curriculum era impeccabile. Nessuno aveva mai avuto rimostranze da fare su come era gestito il convitto, sui suoi insegnanti e collaboratori. Lasciai Clark a colloquio con il direttore e uscii nel cortile, respirando a pieni polmoni l'aria fresca che veniva giù dai monti. Un gruppo di ragazzi, seduti in cerchio sotto una quercia che sembrava vecchia di almeno cinque secoli, ridevano e parlavano tra di loro. Coppie di genitori passeggiavano intorno insieme ai loro figli, o andavano e venivano dalle loro auto. Pensai che vedendomi avrebbero pensato che ero anch'io un genitore. Mi piaceva quel posto, ma non era questa la cosa più importante. Ciò che importava veramente era che Teri, Charles e Winona potessero trovarsi a loro agio in quell'ambiente. Non vidi in giro né Winona, né Charles, ma scorsi Teri che usciva dalle stalle insieme a Todd e si avvicinava alle tre ragazze a cavallo. Todd fece
le presentazioni. Le tre ragazze sorrisero a Teri e lei restituì il sorriso. Parlarono per qualche istante, poi le ragazze ripartirono a cavallo e Todd condusse Teri verso un gruppo di edifici dove dovevano esserci le classi. Le disse qualcosa e Teri rise. Todd rise anche lui e Teri gli diede di gomito. Poi risero assieme di nuovo. Sparirono dentro uno degli edifici. Poco più tardi ricomparvero e mi raggiunsero vicino alla mia auto. Todd disse: «Vuoi sapere nient'altro?» Teri rispose che per il momento era soddisfatta e lo ringraziò. «Non fare complimenti» disse il ragazzo sorridendo e mettendo in mostra delle profonde fossette. Io e Teri restammo accanto alla macchina, in attesa degli altri. «Allora, che ne dici?» le chiesi. «Mi sembra tutto okay» rispose lei, mordendosi il labbro inferiore. «Simpatico quel ragazzo, eh?» Arrossì e si aggiustò gli occhiali. «Verrai a visitarci?» Era un po' spaventata, si capiva. Al suo posto lo sarei stato anch'io. «Puoi scommetterci. Tutte le volte che vorrete.» Si mordicchiò di nuovo il labbro, poi mi tese la mano. Gliela strinsi e le dissi: «Ti troverai bene, Teri, vedrai. Sarà sempre tutto okay.» «Lo so.» Ringraziamenti L'autore è grato per l'inestimabile aiuto a numerose persone: Howard A. Daniel III della Southeast Asian Treasury per la consulenza in materia di valute estere e di tecniche di stampa delle banconote; Kregg P.J. Jorgenson per le informazioni su Seattle, sull'U.S. Customs Service e sull'ambiente del crimine negli Stati della costa americana nordoccidentale del Pacifico; Gerald Petievich, che mi ha aperto molte porte presso i servizi segreti americani e gli agenti che mi hanno fornito in forma anonima la loro esperienza specie in campo tecnologico. Eventuali errori contenuti nel testo sono da imputare solo all'autore. Un romanzo è frutto del lavoro comune di molte mani. Grazie a Patricia Crais, Lauren Crais, William Gleason e Andrea Malcolm, Jeffrey Liam Gleason, Carol e Wayne Topping, Aaron Priest, Norman Kurland, Robert Miller, Brian DeFiore, Lisa Kitei, Marcy Goot, Chris Murphy, Kim Dower, Samantha Miller, Jennifer Lang e soprattutto a Leslie Wells.
FINE