WILLIAM M. VALTOS SEPOLTA VIVA (Resurrection, 1988) Alla mamma, che sempre ci osserva... 1 Erano le scarpe sbagliate per...
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WILLIAM M. VALTOS SEPOLTA VIVA (Resurrection, 1988) Alla mamma, che sempre ci osserva... 1 Erano le scarpe sbagliate per un cimitero. Il fango misto all'erba ormai marcia si attaccava alle suole, inzuppando così il costosissimo cuoio italiano e raffreddandole i piedi. Avrebbe dovuto mettersi qualcosa di più pratico, ad esempio scarpe senza tacchi. O meglio ancora gli stivali. Anche le Reebok da jogging sarebbero andate bene, pensò mentre si faceva strada fra le pietre tombali piena di incertezze. Con cautela cercò di non calpestare le tombe più antiche, in parte per scaramanzia, ma anche per il timore che il terreno franasse sotto il suo peso. L'aria odorava di foglie marce e di funghi. Nonostante l'impermeabile, l'umidità del vento autunnale le faceva venire i brividi. Si voltò per assicurarsi che la BMW fosse ancora dove l'aveva posteggiata, in cima alla strada asfaltata, sotto il pennone della bandiera e la copia in marmo della Pietà di Michelangelo a grandezza naturale. Il motore ronzava sommessamente emettendo un filo sottile di vapore evanescente. La portiera era ancora aperta, esattamente come l'aveva lasciata lei, pronta ad accogliere il suo ritorno nella protezione e nella comodità dell'ingegneria tedesca. C'erano voluti otto anni alla professoressa associata Katherine Roshak per decidersi ad avventurarsi nel viaggio di due ore da New York al cimitero. Otto anni dal mattino in cui aveva seguito la processione sulla collina al seguito del carro funebre di sua madre. Era stato durante il funerale che Katherine aveva iniziato a convincersi che sua madre fosse ancora viva. Non aveva mai permesso agli impresari delle pompe funebri di pronunciare termini come «cadavere» o «deceduta» o, il suo preferito, «i resti». In quel modo era riuscita a mantenere l'illusione che sua madre, in realtà, non fosse morta, ma solo addormentata. Un'innocua illusione. Un'illusione durata otto anni che le aveva permesso di eliminare il senso di colpa e di relegare il dolore in uno dei recessi più lontani della mente. Fino a quattro giorni prima. Il giorno del suo ventottesimo compleanno.
In quell'occasione sua madre aveva fatto la sua prima apparizione a New York. E, tutt'a un tratto, l'innocua illusione si era trasformata in confusione e paura. Dopo tutti quegli anni di autoconvinzione, la professoressa Roshak era tornata alla ricerca della verità. Ricordava solo vagamente l'ubicazione della tomba. Il posto che cercava doveva trovarsi nella parte opposta del cimitero, ai piedi di un dosso lungo il recinto sul retro, lontano dalla BMW. Otto anni prima, quella zona era ancora vuota. Oggi, era colma di pietre tombali, croci, lapidi, bandiere della Legione Americana e altre insegne funebri. Era un punto del cimitero piuttosto trascurato. L'erba era lunga e incolta attorno alle tombe. I roseti selvatici lungo il recinto erano rinsecchiti per l'inverno, ma i pochi crisantemi erano in fiore e i petali carnosi gialli e porpora soffocavano le piante di plastica ormai sbiadite. Avvicinandosi all'ultima fila di tombe lungo il recinto di ferro arrugginito, che impediva ai rampicanti affamati di divorarsi la staccionata, Katherine iniziò la ricerca della lapide di famiglia. Ciò che vide non fece che confermare le sue paure. Senza nemmeno controllare il nome, sapeva che quella era la tomba di sua madre. La porzione di terreno sotto la quale sua madre doveva aver trascorso gli ultimi otto anni, il sedicente luogo dell'eterno riposo che Katherine aveva visto solo una volta prima di allora, nel giorno del funerale; era un'apertura che stonava con le tombe vicine. Deglutì a fatica, cercando di rimangiarsi la sensazione di terrore che le rendeva difficile il respiro. Si rifiutò di mettersi a urlare per il timore di risvegliare qualche essere sconosciuto e invisibile. Incredibile, pensò. Doveva essere la mente che le giocava qualche brutto scherzo, come quando aveva visto sua madre. Nella speranza di scacciare quell'immagine, chiuse gli occhi e scosse la testa. Ma la scena non cambiò. La tomba continuava a restare aperta a metà, come se qualcosa fosse uscito da sotto e la terra circostante fosse sprofondata nella cavità ormai vuota. Nella fossa c'era un groviglio di fango misto a erba. Nell'apertura erano evidenti segni neri di bruciatura. Katherine arretrò. Lentamente. Con cautela. Terrorizzata di distogliere lo sguardo dalla tomba profanata. Si sarebbe aspettata di notare qualche movimento, qualche spostamento del terreno che stesse a indicare una possi-
bile vita sotterranea. Poi le emozioni la costrinsero a precipitarsi nel rifugio della macchina. Il fango le si attaccava alle scarpe, cercando di ostacolarla. Le pietre tombali diventarono un guanto di marmo pronto a chiudersi per fermare la sua corsa. Scivolando e annaspando, raggiunse la sicurezza della BMW ancora in moto. Grazie al cielo. Per prima cosa, controlla il sedile posteriore. Nessuno. Grazie al cielo. Chiudi la portiera, blocca la chiusura, e via. Il ruggito del motore a iniezione aveva un suono confortante. Nella fretta di andarsene, le ruote anteriori slittarono di lato, nel fango. Lamentandosi, i pneumatici affondavano sempre di più nel terreno bagnato. Presa dal panico, schiacciò a tavoletta il pedale dell'acceleratore. Il motore ruggiva. Il cruscotto aveva tutte le luci rosse accese, segno che ogni funzione della macchina era stata spinta alla massima potenza. Si augurò che i copertoni non esplodessero per il calore e lo sforzo. Non avrebbe mai abbandonato la macchina. La BMW sobbalzò in avanti, poi tornò indietro, continuando a lamentarsi. Infine Katherine riuscì a liberarsi dalla presa del fango, strusciò contro lo stipite della Pietà e sterzò bruscamente per riprendere il controllo del veicolo. Stridendo sull'asfalto, la BMW uscì di corsa dal cimitero e iniziò a ridiscendere la collina in direzione della cittadina di Dickson. In qualità di esperta di psicopatologia, sapeva benissimo quello che le stava succedendo. Era la classica reazione «o combatti o la fuga». L'inspiegabile le aveva procurato una scarica elettrica a livello cerebrale: una serie di neuroni era stata liberata alla ricerca della possibile risposta nascosta nelle sinapsi del lobo temporale. Non trovandone, i neurotrasmettitori avevano inviato un messaggio di allarme a tutto il sistema nervoso. Il focus ceruleus nel tronco cerebrale aveva espulso la noradrenalina, stimolando il battito cardiaco e ordinando alle ghiandole surrenali di pompare una dose più potente di adrenalina nelle vene. Le secrezioni neurochimiche continuavano a farla tremare anche dopo aver raggiunto l'apparente sicurezza. Calmati, si disse. Per evitare di farsi sopraffare dall'isteria, avrebbe dovuto riacquistare il controllo delle emozioni. Una donna con le sue cognizioni avrebbe dovuto sapere come affrontare una situazione del genere. Calma. Questa era la cosa più importante. Respira lentamente. Tendi i muscoli dello stomaco e riconduci il sangue alle sue funzioni viscerali. Così va meglio. Gradualmente il battito cardiaco tornò alla normalità. La logica imponeva un'attestazione con testimoni per provare che la
tomba era vuota. Questo era il primo passo. E anche il più semplice. Sarebbe stato molto più complicato convincere la gente che, dopo otto anni dal suo suicidio, mamma era uscita dalla tomba per andarla a cercare a New York. Sarebbe apparso incredibile. Ma più ci pensava, più il cuore accelerava i battiti. 2 La discussione si interruppe al suo ingresso nella stazione di polizia. Due uomini si voltarono a guardarla. Nessuno dei due portava la divisa. Quello appoggiato alla parete aveva tutta l'aria di essere felice di quella interruzione. Aveva la barba lunga di un giorno e uno sguardo spiritato negli occhi infossati. Il viso del suo compagno era ancora rosso di collera. Florido e tracagnotto, l'uomo rasentava la quarantina. Indossava un giubbotto di pelle aperto sulla fondina della pistola appesa alla cintura dei pantaloni che gli stritolava un generoso salvagente di grasso. Si presentò come il capo della polizia. Gli raccontò la sua storia. Alla fine, il capo scatenò i rimasugli di collera contro di lei. «Ma che cosa c'è stasera, luna piena?» esclamò. «Non si aspetterà che le creda, vero?» «La tomba è vuota», insisté Katherine. «Ne sono sicura. Voglio che venga riaperta.» «Ma se sa già che è vuota, perché vuole farla riaprire?» Sta cercando di farmi passare per scema, pensò lei. «Voglio un'attestazione», spiegò. «Testimoni estranei. Lei capisce la necessità di una verifica esterna in casi come questi.» Il capo le voltò le spalle. Si slacciò la cintura per sistemarsi la camicia nei pantaloni. «Chi ha parlato di un caso? Non è stato commesso alcun reato. Lei è a conoscenza di qualche reato?» «In pratica no», ammise lei. «Ma mi aspetto che lei conduca le indagini per scoprire che cosa sta succedendo.» Il capo mise un pettinino nero sotto lo zampillo della fontanella. Piegò le ginocchia per abbassarsi al livello dello specchio appeso alla parete e restò in silenzio finché non ebbe finito di rimettersi in piega i capelli con il pettine inumidito.
«A noi interessano solo i reati, signora. Non andiamo alla ricerca di strane storie come il National Enquirer. Noi ci limitiamo a scovare i cattivi che violano la legge.» Si girò e si esibì in un sorriso pratico. «E poi non sono di servizio stasera. È arrivata con tre minuti di ritardo.» Katherine arretrò di un passo per bloccare l'ingresso. «Insomma, signora», sbottò il capo. «Non è stato commesso alcun reato. Non si è ferito nessuno. Non è stato inoltrato alcun esposto.» «Allora presento un esposto ufficiale. Se mi dà il modulo lo compilo immediatamente.» Il capo lanciò un'occhiata all'orologio. «Non ho tempo da perdere con i giochi, signora. Devo andare.» «Ha detto di aver bisogno di un esposto. Sono pronta a farlo. Ho intenzione di fare un esposto ufficiale.» «Per quale reato? Deve pur esserci un reato! Anche se credessi alla sua storia, la resurrezione non costituisce un reato. Un miracolo, forse, ma di certo non un reato.» «E che cosa mi dice della profanazione di tombe?» Il capo soffocò una risatina. «Non si può considerare un reato e lei lo sa bene.» «Ho intenzione di inoltrare un esposto ufficiale. Lei deve investigare.» Katherine si rifiutava di spostarsi dall'ingresso. Restò ad aspettare che prendesse una decisione. Il capo cercò di scoraggiarla con uno sguardo di fuoco, ma lei non batté ciglio. Alla fine, sospirando per l'esasperazione, il capo indicò l'uomo appoggiato alla parete. «Non è gran che, ma è il meglio che le posso offrire, signora. Prenderà nota del suo esposto e verrà con lei al cimitero.» Per tutta la durata della conversazione, l'uomo appoggiato alla parete non si era mosso. Si era limitato a fissare Katherine con occhi scuri e stanchi. Occhi troppo vecchi per quel viso, pensò Katherine. «Dominic, ricomponiti e saluta la signora.» Dominic non si mosse. Udì appena l'ordine del capo. La stava studiando con il suo sguardo da vecchio. Le pupille si erano ritirate da tempo nel rifugio delle cavità, sotto le ciglia. Dalla loro protezione, era come se la volessero memorizzare, trapassando i costosi abiti che indossava per indovinare la sua figura: il seno, il corpo snello e le gambe che le conferivano un'aria quasi mascolina. Era un corpo ancora in attesa dell'uomo che lo facesse sbocciare. Non hai abbastanza carne, le diceva sempre sua madre.
Non troverai mai un uomo, se non metti su qualche chilo. Ma da sua madre aveva ereditato gli zigomi alti e la pallida bellezza, che le permettevano di essere sicura di sé. Sollevò il mento e restituì uno sguardo di sfida. «A Dominic non spiace andare al cimitero di sera», spiegò il capo. «Ci passa talmente tanto tempo da conoscere per nome ogni becchino. Non ho ragione, Dom?» Doveva avere trent'anni, più o meno la stessa età dei professori della sua facoltà. Ma, al posto del solito fisico scarno e flessuoso, il suo corpo era potente e dotato di spalle da sollevatore di pesi. Appena nascosta da un cespuglio di barba, la bocca gli conferiva un'espressione crudele. La osservava con un silenzioso interesse. «È un agente?» domandò Katherine. «Purtroppo sì», rispose il capo. «Ho presentato il suo caso davanti al consiglio comunale, ma, finché non prendono provvedimenti, continuerà a riscuotere il suo salario.» Il capo si avvicinò alla porta mentre Katherine continuava a esaminare l'uomo scuro di capelli che non accennava a muoversi. «Va benissimo per il suo esposto. Dominic Delaserra. È un nome italiano. Delaserra. Si addice molto alla sua storia. Dominic Delaserra accompagnerà al cimitero la signora venuta da New York a caccia di fantasmi. Be', mi spiace di non poter venire con voi», concluse il capo con una risatina soffocata. Rimasti da soli, Dominic si decise a parlare. «Io non credo nei fantasmi», esordì con voce piatta e insensibile. «Una volta credevo a questa roba, ai fantasmi, ai santi e all'acqua benedetta, ma adesso no.» «Come si inoltra un esposto?» domandò lei. «Non c'è bisogno di nessun esposto. Il capo voleva solo metterle i bastoni fra le ruote. L'accompagnerò al cimitero, se è questo che desidera.» Si mosse verso la porta. Vedendola arretrare, le sorrise. «Ha paura di me, vero?» le chiese. Katherine non rispose. Fuori stava diventando buio. L'accompagnò all'auto di pattuglia posteggiata dietro la sua BMW. «Non dia peso a quello che dice il capo. Nemmeno quando parla di me. Non c'è niente di strano nel mio nome. Delaserra è un nome italiano come un altro: ad esempio, Vinci o Spaghetti.»
Quando le aprì la portiera per farla salire, Katherine ebbe un'altra esitazione. «Potremmo aspettare fino a domani», propose. «Ormai si sta facendo tardi.» «Ho una torcia», le rispose. «Potremmo risolvere la questione una volta per tutte, così potrà fare sonni tranquilli.» Cadeva una leggera pioggerellina, sufficiente per dover azionare i tergicristallo. «Non andiamo a chiamare nessuno?» «Chi?» «Qualcuno che possa aprire la tomba.» «Ci limiteremo a dare un'occhiata. Con tutta probabilità esiste una spiegazione molto semplice.» «Ne dubito», rispose lei, rannicchiandosi il più lontano possibile dal suo sedile. Prese nota che, sulla portiera del passeggero, non esistevano maniglie d'apertura. «Lei è davvero una professoressa?» le chiese. «Voi non credete mai a niente, eh?» «Be', ha una BMW e indossa abiti costosi. Non sapevo che i professori guadagnassero tanto.» «Ho ereditato e sono entrata in possesso della somma a ventotto anni. Perché non ci sono maniglie su questa portiera?» «Le abbiamo tolte per non rischiare che i prigionieri scappino. Sa, non l'avrei mai presa per una professoressa la prima volta che l'ho vista.» «Che cosa si aspettava? Una donna con il kilt e la cornamusa?» «Non mi prenda in giro. Ne ho già abbastanza di come mi tratta il capo.» «Mi scusi.» Le ultime luci del giorno stavano svanendo all'orizzonte, mentre svoltavano in direzione del cimitero in cima alla collina. «Che cosa insegna?» «Psicopatologia.» «Be', questo proprio non me lo sarei mai immaginato. Avrei pensato a storia dell'arte, musica o a qualcosa del genere.» «Perché sono una donna?» «Non iniziamo con i soliti discorsi da femminista. È solo che non ha l'aria di una che lavora con i matti. In genere queste cose si capiscono. Ne vedo spesso nel mio lavoro. La sua professione segna il volto. Lei non ha un viso duro.»
«Non ho a che fare con persone disturbate psicologicamente, mi limito a tenere qualche lezione. Non sono psichiatra. Sono un professore associato.» «Non ho bisogno di psichiatri. Tra baristi e preti ho tutto l'aiuto di cui ho bisogno. Non vorrei lasciarle l'impressione di sottovalutarla, ma non ho bisogno di psichiatri.» «Si consideri fortunato», rispose Katherine. «Per quanto mi riguarda, io non ci metterei la mano sul fuoco.» «Con tutta probabilità esiste una spiegazione molto semplice.» «Ne dubito.» «Forse si è immaginata tutto.» «Crede che soffra di allucinazioni?» «Non intendevo dire questo. Volevo solo dire che forse si lascia prendere troppo dall'immaginazione, va alla ricerca di risposte complicate per problemi che non esistono. La vita è molto più semplice se si cercano le risposte più facili. In genere succede sempre qualcosa. Questo è il modo di ragionare di un poliziotto. È come riparare una macchina. Bisogna cercare la soluzione più semplice prima di smontare il motore.» «La risposta più facile è che mamma non è più nella sua tomba. È tornata fuori e cammina per le strade.» «Lei può restare in macchina», le propose. «C'è molto fango tra le tombe.» «No. Voglio venire anch'io.» La verità era che aveva paura di restare in macchina, ma non l'avrebbe mai ammesso. Dominic andò a prendere un ombrello dal baule e la fece andare avanti. I tacchi di Katherine sprofondarono nel fango e lei inciampò, ma Dominic la sorresse, circondandola con un braccio. Con un unico colpo potente, la sollevò quasi da terra. Continuò a tenerla stretta per tutto il cammino. Katherine si sentiva protetta. Ormai erano usciti dalla portata dei fari dell'auto. Dominic sfilò la torcia e le illuminò il cammino. Lui non ne aveva bisogno: aveva l'aria di conoscere molto bene quel terreno. Alla fine dell'ultima fila, Katherine si fermò. «È là», sussurrò. Il fascio di luce fluttuò sulla fila di pietre tombali bagnate dalla pioggia, finché non trovò il punto in cui il terreno si abbassava. Dominic si avvicinò con cautela alla tomba. «Be'?» mormorò lei. «Adesso mi crede?»
Lui si abbassò a toccare il margine della tomba e a tastare il punto in cui la terra aveva ceduto. Tenendo l'ombrello, Katherine aspettava che finisse l'esame. «È recente», fu il suo commento sommesso. «La terra è ancora friabile.» Dominic si rialzò e riprese in mano l'ombrello. «Con tutta probabilità la bara è sprofondata», continuò. «Succede dopo qualche tempo, specialmente se è piovuto molto come negli ultimi anni. La bara si deteriora e viene risucchiata dalla terra.» «Ma c'era un cassone che proteggeva la bara», ribatté lei. «L'ho pagato apposta per conservarla meglio.» «Forse aveva una chiusura difettosa. Deve essere per questo motivo che la terra si è assestata tanto. Non ho mai visto una tomba sprofondare così fino ad ora.» «Voglio che la tomba sia riaperta», disse lei. «Non vorrà davvero vedere quello che c'è là sotto! Farò in modo che il becchino vi sistemi dell'altra terra e magari qualche zolla per livellare il terreno. Sono sicuro che farebbe piacere anche a sua madre. Perché disturbare i morti?» «Voglio che la tomba sia riaperta», ripeté. «Non è così facile. Bisogna avere l'autorizzazione della parrocchia. E poi bisogna farsi fare un certificato dal distretto sanitario della contea.» «Voglio che si apra», insisté. Dominic continuò a fissare la tomba. «È inquietante anche per lei», notò Katherine. «Glielo si legge in faccia.» «Per me? No.» Scosse il capo. «Stavo pensando a un'altra cosa.» «Si può aprire questa sera?» «È solo una tomba che si è assestata. Perché non vuole lasciar perdere? Vada in chiesa a dire qualche preghiera. Forse farebbe piacere anche a sua madre. E le servirà per calmarsi.» Una folata di vento gelido riversò la pioggia contro i loro visi. «Non riuscirò a dormire se non apriamo la tomba.» «Le ripeto che non c'è niente da vedere. Lasciamo che i morti riposino in pace.» «La bara è vuota», insisté lei. «Ho visto mia madre. Non è più nella tomba.» «Sta solo cercando di convincersi che sia ancora viva», le spiegò Dominic. «Perché non accetta la sua morte e non la fa finita? Succede. Dopo ot-
to anni, è una cosa che si può accettare.» «Lei sarebbe in grado di sistemare tutto per aprire la tomba stasera, se solo volesse.» «Signora, lo sa quello che sta domandando? Perché non può aspettare almeno fino a domani?» «La pagherò. Pagherò tutto. Ma voglio che sia fatto stanotte stessa. Perché perdere altro tempo?» Quando poi le torce furono sistemate attorno alla tomba, Katherine cominciò ad avere qualche ripensamento. Le luci assorbivano il colore dei visi degli uomini che Dominic era riuscito a radunare. Li conosceva tutti per nome. Non avevano fatto salti di gioia all'idea di essere chiamati a lavorare sotto la pioggia e al buio, ma Dominic aveva promesso loro il triplo della paga sindacale. Rimasero in attesa di ordini prima di apprestarsi ad assolvere al loro macabro dovere. Attorno al cerchio illuminato, le altre tombe stavano a guardare silenziose quello che stava succedendo alla loro vicina. «Ci metteremo un sacco di tempo con questi badili», commentò uno scavatore. «Potremmo cavarcela in venti minuti con una macchina.» «Non voglio disturbare chi si trova là sotto», rispose Dominic. «Cerchiamo di lavorare come si deve.» Scattò una serie di polaroid da diverse angolazioni prima di dare il via ai lavori. «Serve solo per la pratica», spiegò a Katherine. «Scattiamo sempre qualche fotografia. Potrebbero tornare utili.» Smise di piovere, ma la temperatura si abbassò di colpo. Era già mezzanotte passata. La tensione e la fatica le facevano bruciare gli occhi. Si sentiva i piedi freddi e bagnati. Le tremavano le gambe a ogni pungente raffica di vento. I lavori di scavo continuarono. Una volta superato il primo strato di terra fangoso, gli scavatori procedettero con più facilità. A un metro di profondità, un badile toccò un cuscino bianco di seta. Katherine non volle toccarlo quando venne consegnato a Dominic perché potesse esaminarlo. Dopo di che gli operai smisero di parlare e alla fine rinvennero una lastra di cemento sul fondo. Dominic li avvertì di fare attenzione, ma gli scavatori avevano già capito di essere arrivati al cassone. Lo scavo venne portato a termine lentamente. Per evitare di danneggiare qualcosa, spazzavano via la terra prima di conficcare la pala di metallo. E, gradualmente, venne a galla la sagoma del cassone a volta. Il coperchio era appoggiato a lato della tomba. Procedendo
con le mosse prudenti degli archeologi, fecero riaffiorare anche la bara. Giaceva in un angolo sotto la volta. Il coperchio della bara era aperto. Con molta attenzione, gli uomini tastarono il terreno con i badili, alla ricerca del corpo. Dopo un lavoro esasperante di scavo, si fermarono. «Qui non c'è niente, Dom. Non c'è nemmeno un frammento del corpo. La bara è vuota. Nella bara non c'è niente.» La bara venne accuratamente ripulita dagli scavatori che lavoravano nel fango. Il rivestimento interno di seta bianca dove sua madre aveva riposato per otto anni era sporco di terra. Katherine provò uno strano senso di sollievo vedendo la bara vuota. Almeno, adesso era sicura di non soffrire di allucinazioni. «Proprio come temevo», esclamò Dominic. Si frugò nelle tasche per sfilare un pacchetto accartocciato di Camel. «Che cosa succede?» domandò Katherine. «Profanatori di tombe.» «Come?» «Profanatori di tombe. Forse miravano ai gioielli.» Katherine scosse il capo incredula. «So che cosa sta pensando», disse Dominic. «Sta pensando che mi sbagliavo quando parlavo di un assestamento della tomba e adesso pensa che mi stia ancora sbagliando con questa storia. Ma l'unica spiegazione logica sono i profanatori di tombe. Rimarrebbe sbalordita se sapesse quello che la gente è pronta a fare per il denaro.» «Mia madre non aveva gioielli quando è stata seppellita. L'impresario delle pompe funebri mi ha persino restituito la sua fede nuziale.» «Forse i ladri non lo sapevano. Si aspettavano di trovare un anello di diamanti, un girocollo di perle. Sarebbe stato sufficiente anche questo. Mi ha detto che sua madre le ha lasciato molto denaro in eredità. La gente chiacchiera e si fa strane idee.» Sulla tomba aperta aleggiava uno strano odore di zolfo e di marcio. Uno degli scavatori si portò un fazzoletto al naso. Dominic estrasse una sigaretta dal pacchetto, l'accese e tirò una lenta e profonda boccata. «C'è uno strano odore, Dominic» disse uno degli uomini. «C'è da aspettarselo dopo otto anni.» «No. È qualcos'altro. È come se ci fosse stato un incendio. Sembra puzza di bruciato.» «È la tua immaginazione», lo liquidò Dominic. «No. Ho aperto abbastanza tombe per sapere che odore hanno. Questa è
diversa.» «Sparirà presto», concluse Dominic. «Ha solo bisogno di prendere un po' d'aria.» Anche Katherine si portò un fazzoletto al naso, respirando la fragranza del suo profumo per annullare il fetore che esalava dalla tomba. «Andiamocene», disse infine Dominic arretrando dalla fossa. «La esamineremo domattina presto, quando l'odore sarà evaporato completamente. Però vorrei che uno di voi restasse sul posto. Solo per tenere d'occhio la situazione.» «È stata in questo posto per otto anni», ribatté Katherine sommessamente. «Se qualcuno avesse voluto profanare la sua bara, l'avrebbe fatto da tempo. E poi, dov'è il corpo?» «Maledizione, questo non lo so. So solo che non può essere uscita da sola dalla tomba. Sulla volta c'era un coperchio di cemento che pesa centinaia di chili, per non parlare della tonnellata di terra che lo ricopriva. Ha visto anche lei quanto c'è voluto per effettuare lo scavo. Nessuno, e meno che mai una donna, potrebbe uscire da quella tomba da solo.» S'interruppe di colpo. «Ma che cosa sto dicendo? Questo è impossibile. I morti non resuscitano. Deve trattarsi per forza di ladri.» «E allora come si spiega il fatto che l'ho vista per le strade di New York?» Dominic gettò il mozzicone di sigaretta oltre il recinto. «Non lo so. È lei l'insegnante di psicologia, non io.» Le torce si spensero, la tomba aperta sprofondò nell'oscurità come il resto del cimitero. Altri fasci di luce si mossero contemporaneamente in varie direzioni per illuminare il cammino. Katherine era troppo stanca per mettersi a discutere. Sentì il braccio di Dominic che la sorreggeva mentre tornavano verso la macchina della polizia. Lui non aveva bisogno di luce per sapere dove metteva i piedi. L'auto era calda e asciutta, un rifugio accogliente. Katherine lasciò andare la testa all'indietro e chiuse gli occhi. Voleva solo dormire. Dormire e dimenticare i terribili eventi degli ultimi giorni. Se solo fosse riuscita ad addormentarsi per poi risvegliarsi in una realtà completamente diversa... Ma l'immagine della tomba aperta e del viso di sua madre l'avrebbero impedito. «Non abbiamo risolto i suoi problemi, vero?» domandò Dominic. Adesso il tono di voce si era addolcito, facendosi più comprensivo.
«No. Anzi, credo che abbiamo peggiorato la situazione. Pensavo che, vedendo la tomba, la realtà delle cose mi avrebbe aiutato ad affrontare la situazione. Ma adesso sono anche più spaventata di prima. Mi aspetto di vederla da un momento all'altro, affacciata a una finestra, ferma all'angolo di una strada. Non so più che cosa fare. So solo che si sta aggirando per la città.» Le strade di Dickson erano deserte. Le vecchie case di legno buie. Mancava solo un'ora all'alba. Un gatto emaciato venne investito dai fari della macchina; gli occhi verdi lampeggiarono immobili fino all'ultimo momento, quasi volessero sfidare l'auto a passargli sopra prima di decidersi a spiccare agilmente un salto di lato. «L'aiuterebbe parlarne?» le domandò. «Pensavo non credesse nella psicoterapia.» «Faccia finta che io sia un barista. Le voglio offrire un drink. Ne avrebbe veramente bisogno.» «Ma sono le quattro del mattino. È tutto chiuso.» Ma l'idea l'attirava. Forse le sarebbe servito per dimenticare. «Andiamo da Eddie Elbows. Per me sarà disposto a riaprire.» Eddie Elbows era un uomo sui trentacinque anni, con capelli dorati e fluenti e una peluria color pesca sulla faccia. Un bell'uomo con un sorriso aperto. Aveva un'unica imperfezione. Gli mancavano gli avambracci. Le mani e le dita erano impeccabili, normali sotto tutti gli aspetti, ma i polsi erano attaccati direttamente ai gomiti e gli oscillavano sulle costole, quando camminava. «Ha avuto una malformazione dovuta al talidomide», le sussurrò Dominic mentre seguivano Eddie all'interno del bar. L'handicap non influiva minimamente sull'abilità di barista di Eddie. Prese due bicchieri e in uno versò un Canadian Club. Afferrò l'altro per il manico e lo riempì di birra alla spina. Cogliendo lo sguardo di Katherine sulle sue mani, le sorrise e le strizzò l'occhio. Evidentemente quell'attenzione gli faceva piacere. «E lei che cosa desidera, signorina?» «Un bicchiere di vino bianco.» «Versale un goccio di whisky», ordinò Dominic. «Ne ha bisogno.» Katherine non ribatté. «E adesso mi racconti quando ha visto sua madre per la prima volta.» «È stato lunedì.» «Di questa settimana?»
Katherine annuì, sorseggiando un goccio di whisky che le bruciò l'esofago, scendendo verso lo stomaco. Dopo tutte quelle ore di freddo, avvertì una piacevole sensazione. Tossì prima di riuscire a continuare. «Era il giorno del mio ventottesimo compleanno. Ero da Bloomingdale e stavo scendendo dal piano principale con la scala mobile. Lei era in piedi alla base delle scale e guardava verso di me.» Al solo ricordo, Katherine si sentì percorrere dai brividi e bevve un altro sorso di whisky. Questa volta non tossì. «Era come vivere uno dei miei soliti sogni. Io scendevo e lei mi stava aspettando in basso. Ma non sorrideva. Questo mi ha preoccupato. Era come se fosse arrabbiata con me. A metà discesa, è sparita tra la folla. Ho cercato di seguirla, ma ormai se n'era andata. Ho pensato alla possibilità di averla scambiata con qualcun altro, sa, con qualcuno che le somigliasse, e ho cercato di dimenticare.» «Ma poi l'ha rivista?» «Esatto. È stato mercoledì sera. Stavo tenendo la mia solita lezione serale. L'argomento verteva sui casi di schizofrenia nei gemelli monozigoti e sull'analogia con le malattie mentali.» «Sembra una cosa complicata.» «Non poi così come appare. Essendo un agente, potrebbe interessarle, perché si parla del genere di disordini mentali che spesso conducono al crimine. Sulla base dei primi studi effettuati in Germania nel 1929, continuati poi in Svezia, in Inghilterra e in Norvegia, è stato dimostrato che i gemelli monozigoti soffrono di una percentuale concorde di disturbi tipici della mania depressiva e della schizofrenia acuta.» «Che cosa sono i gemelli monozigoti?» «Sono i gemelli perfettamente identici. Significa che sono stati generati dallo stesso ovulo, che hanno gli stessi geni, Io stesso sesso e lo stesso aspetto. Al contrario dei normali gemelli, sono un'unica persona a livello genetico.» «Ma perché hanno problemi mentali?» «Alcuni pensano che i gemelli identici tendano a essere più deboli, più piccoli e leggermente meno intelligenti dei singoli. La mia teoria si basa sul legame mentale unico che esiste fra i gemelli monozigoti. Alcuni studi hanno dimostrato che in alcune coppie di questi gemelli esistono strane forme di comunicazione, per cui uno sa sempre quello che pensa l'altro.» «Intende dire che sono telepatici?» «Forse. Tenga presente che anche i cervelli sono identici. Molto spesso
condividono le stesse malattie. La morte di uno dei due può provocare la morte dell'altro attraverso un'inspiegabile forma di trauma per solidarietà. È ovvio pensare che condividano anche le stesse malattie mentali. In alcuni casi, il legame tra i gemelli è talmente stretto da diventare patologico. Si fanno chiamare con lo stesso nome e si comportano come fossero tutt'uno.» «Che strano», commentò Dominic. «Il termine più appropriato è 'anormale'», lo corresse. «Ma è molto raro. È una vita che studio il comportamento dei gemelli monozigoti, ma ancora non sono riuscita a trovare un caso di grave deviazione.» «Sembra delusa.» Katherine sorrise a quella dimostrazione di ingenuità. Era evidente che non capiva l'ambiente accademico. «Non si diventa famosi a studiare le persone normali», gli spiegò. «Comunque non in questo campo. Sono le aberrazioni che fanno pubblicità. Più spettacolare è l'aberrazione, più pubblicità si ottiene.» «Esattamente come per la polizia», commentò lui. Se la stava cavando bene nel farla parlare, pensò. Si mise a osservare la scena riflessa sullo specchio dietro il bancone del bar. Era uno specchio vecchio, con la cornice tutta annerita. Ai suoi piedi faceva bella mostra di sé una fila di bottiglie di whisky. La luce soffusa del bar addolciva il viso di Dominic, conferendogli un'espressione più amichevole. Notò che anche lui la stava osservando nello specchio. Gli interessava davvero quello che stava raccontando? Oppure stava solo facendo il suo lavoro? Bevve un altro sorso di whisky. Non ha importanza, pensò. Aveva bisogno di parlare con qualcuno. «Ho iniziato i miei studi dieci anni fa, quando ancora non ero laureata. Avevamo tenuto sotto controllo alcuni soggetti nell'ambito della scuola, del lavoro, del matrimonio, delle malattie e persino delle abitudini. Ho fatto la tesi sulla ricerca e sono rimasta nell'ambiente.» «Buon per lei», commentò lui. «All'inizio era noioso. Avevano solo bisogno di qualcuno che curasse i dettagli. Quattro interviste all'anno a dei gemelli sono un lavoro ripetitivo. Ma con qualcuno di loro ho stretto amicizia, soprattutto con i più riservati come i gemelli D. Non li conosco per nome, ma siamo riusciti a creare un buon rapporto.» «Come mai non li conosce per nome?» chiese sorpreso. «Era una delle condizioni per partecipare alla ricerca. Volevano mante-
nere l'incognita, non volevano essere trattati come animali da laboratorio. Sono persone. Si parlava di un sacco di argomenti. Ci siamo raccontati molte cose a vicenda.» «Ma non è pericoloso far sapere a estranei qualcosa sul proprio conto?» «Adesso sì che parla come un agente.» «Be', sono un agente.» «E io sono una psicologa. E questo è il mio lavoro. Devo concedere un po' di confidenza per guadagnarmi la loro fiducia. È l'unico modo per ottenere informazioni e per rendere la ricerca meno fumosa del solito. Faccio di tutto per non perdere le tracce dei gemelli. Sono molto carini. Mi hanno addirittura spedito un biglietto di condoglianze quando è morta mia madre.» «E non c'era l'indirizzo del mittente?» domandò Dominic. Gli fece una smorfia in risposta. «Ha detto di aver visto sua madre in classe», riprese Dominic, tornando all'argomento principale. «L'ho vista davvero», ripeté Katherine. «È rimasta per qualche minuto ferma sulla porta. All'inizio pensavo fosse uno studente che era venuto a curiosare. A volte vengono a vedere se c'è in corso qualche lezione più facile del solito prima di decidere di iscriversi.» «Non sapevo che facessero cose di questo genere. Pensavo che l'università fosse una cosa seria.» Katherine sorrise. «L'università è come il resto del mondo. Ci sono sempre persone che cercano i metodi più semplici.» «E questo è da rimproverare, ne deduco.» Gli sorrise. Con lui riusciva a rilassarsi. Il whisky sta cominciando ad avere effetto, pensò. O forse era solo merito della tensione, della fatica, del fatto di essere seduta nella privacy di un bar chiuso al pubblico in compagnia di un uomo che non aveva mai visto prima. «E poi che cos'è successo?» domandò Dominic. «È scomparsa di nuovo?» Katherine ordinò un altro drink. Eddie scattò in piedi dalla sedia, gesticolò con i moncherini, rifiutò i soldi di Dominic e tornò al suo posto in un angolo della stanza, nascondendo alla vista di tutti le braccia malformate. «È entrata nell'aula ed è andata a sedersi nell'ultima fila, vicino alla porta. Era ancora arrabbiata, come la prima volta. Non capivo perché.» Katherine bevve una lunga sorsata di whisky, aspettò che le riscaldasse
lo stomaco e riprese a parlare. «La sua rabbia si poteva quasi toccare. Aveva uno sguardo intenso. Era sempre più difficile sostenere la situazione. Dopo tutti quegli anni, era tornata a vivere e, tutt'a un tratto, me la trovavo di fronte. Sapevo che era impossibile, eppure era là e mi stava guardando.» «Che aspetto aveva? Era diversa da come la ricordava lei?» Katherine cercò di concentrarsi sul ricordo, ma la fatica le aveva rallentato le funzioni. «Era uguale al momento del funerale. Come avrebbe potuto essere diversamente? La logica non avrebbe retto se fosse sembrata più giovane di vent'anni.» «Che cosa intende dire con questo?» domandò Dominic. Katherine chiuse gli occhi, nel tentativo di ricordare dettagli che avrebbe preferito dimenticare. «Mi ero arrabbiata con l'impresario delle pompe funebri per il modo in cui l'avevano ricomposta.» «Che impresa era?» «Una del posto. È rimasta nella camera ardente per un paio di giorni. Credo si chiamasse Kuranda o qualcosa di simile.» «Kuranda, esatto. Il vecchio o il figlio?» «Il vecchio.» «Peccato», commentò Dominic. «Ormai il vecchio Kuranda non c'è più. È andato in pensione un anno fa. Adesso è il figlio che porta avanti il lavoro.» «Be', chiunque fosse, non mi è piaciuto il modo in cui l'avevano sistemata. Le avevano fatto le sopracciglia troppo folte e le labbra fine. Sembrava cattiva.» «Succede. I morti cambiano spesso fisionomia. Specialmente le donne.» Si interruppe per assaporare una lunga sorsata di birra. La sua voce suonava distante. «Se è un estraneo che li trucca, è naturale che cambino aspetto.» «Avevo dato all'impresario alcune fotografie di mia madre. Avrebbero dovuto fare più attenzione. Non me le ha nemmeno restituite. Ho scritto al signor Kuranda, ma lui ha risposto di non saperne niente di fotografie. L'uomo che si era occupato di mia madre non lavorava più per lui.» «Allora non è stato Kuranda?» «No. Aveva un assistente, un ragazzo appena uscito da scuola. Ricordo che si dava un gran da fare. Sapeva dire le cose giuste per mettermi a mio
agio.» «Si ricorda il nome?» Katherine non riuscì a ricordare. «Okay, torniamo a sua madre. Ha detto che era uguale al momento del funerale. Non aveva niente di particolare? Dopotutto, doveva essere ormai morta da otto anni.» «Aveva i capelli un po' in disordine. Mia madre era il tipo di donna sempre perfettamente pettinata. Ma quella sera all'università era scarmigliata e aveva la pelle grigiastra, quasi nera.» Il bicchiere di Katherine era vuoto, ma Eddie non glielo riempì una terza volta. A lei andava bene anche così. Cominciava ad avere qualche problema nel ricordare. Fortunatamente. Stava per addormentarsi sul bancone del bar. «Che abiti indossava?» chiese Dominic. «Niente di strano?» «No. Un vestito azzurro.» «A me sembra strano. Un abito azzurro dovrebbe spiccare in un'aula universitaria.» «Non aveva niente di particolare. Era lo stesso che aveva indosso al momento del funerale. Ricordo che era di chiffon. L'aveva comprato lei, l'aveva avvolto in un sacchetto di plastica e riposto nell'armadio perché fosse pronto al momento del trapasso. Non le avevo creduto. Non mi sarei mai aspettata che morisse in quel modo. Però è successo.» Chiuse gli occhi, stanca di pensare e ricordare. Era bello chiudere gli occhi e distogliere la mente dall'immagine di sua madre. Quando si svegliò, non era più nel bar. Aveva paura di fare qualsiasi mossa, tirò un lungo respiro e rimase in ascolto. C'era qualcuno con lei. Dal piano di sotto proveniva il brusio di voci sommesse. Ma era il respiro vicino a lei che la spaventava. Si trovava su un letto. Mosse le gambe e si accorse di essere nuda. Si agitò e, a quel punto, una voce parlò. «Ha dormito molto», le disse. Katherine cercò di localizzare la voce nell'oscurità. Dalla parte opposta, qualcuno si alzò. Sentì il rumore dei passi che si avvicinavano. «È meglio che si alzi, adesso», le disse l'uomo. La stanza venne improvvisamente inondata di luce, quando le tende vennero scostate. Katherine emise un gemito per l'improvviso bagliore. Le faceva male la testa. Quando gli occhi si furono abituati alla luce, riuscì a
scorgere Eddie Elbows in piedi accanto alla finestra. Le sorrideva. «Sono quasi le dieci.» «Sono stata qui tutta la notte?» gli chiese. «Dominic mi ha chiesto di starle vicino. Non voleva che restasse da sola. Ha detto che vede strane cose.» Eddie attraversò la stanza e si abbassò quel tanto che bastava per afferrare la maniglia della porta con uno dei suoi moncherini. «Bisogna far entrare un po' d'aria in questa stanza», disse aprendo la porta. I rumori del bar si fecero sempre più chiari: le scariche elettriche dei flipper, una partita di calcio in televisione, stralci di conversazione. Suonava tutto anche troppo normale. «Dove sono i miei vestiti?» chiese. «Erano sporchi e bagnati. Pensavo li volesse rinfrescare e li ho mandati alla lavanderia di fronte. Saranno subito pronti.» Katherine si strinse nelle lenzuola. «Non si preoccupi, non ho visto niente», cercò di tranquillizzarla. «Eravamo al buio e non era mia intenzione importunarla. Dominic pensava che potesse avere qualche incubo, invece ha dormito profondamente, vero?» I postumi dell'alcol la stordirono quando tentò di annuire con il capo. Si sentiva la gola inaridita. Le labbra erano secche e incrostate. Aveva bisogno di andare in bagno, ma si vergognava di farlo. «Forse è stato il letto a conciliarle il sonno. Quello è un materasso di Dormibene, sa? Il migliore. Settecento dollari, incluse le molle elastiche e tutto il resto. Ma mia moglie dice che ne è valsa la pena. Lei prende sempre i materassi migliori e le lenzuola più belle. Non c'è niente di più importante di una bella dormita secondo lei.» Eddie le allungò un morbido accappatoio di cotone rosa con il colletto ricamato a mano. Troppo vistoso per i suoi gusti, ma Katherine sapeva che era costato un patrimonio. «Adesso è alla clinica Mayo», le spiegò. «Ci va ogni anno per farsi fare un checkup. Rimane un paio di settimane. Dovrebbe arrivare da un giorno all'altro.» La camera era arredata con gusto femminile, in stile francese con mobili decorati color beige. Sul legno erano state dipinte le venature. La cassettiera era piena di bottigliette di profumo sigillate con la cera per evitare che i preziosi liquidi evaporassero. La carta da parati era una fantasia a fiori gialli. Anche il termosifone era verniciato di giallo. Accanto, un enorme
secchio d'acqua aspettava per chissà quale misterioso scopo. Era la stanza di una persona singola. Evidentemente la moglie di Eddie dormiva per conto suo sul materasso di Dormibene. «Potrei portarle la colazione», le propose Eddie. «Le piacciono le uova alla Benedict? Ho anche del prosciutto affumicato senza cotenna e senza ossa, salsicce, cereali, qualsiasi cosa. Cucino sempre io per Phyllis. Lei preferisce mangiare, io invece mi diverto in cucina.» «Dov'è Dominic?» «Potrei aprire un barattolo di sardine spagnole in salsa piccante.» «Solo un bicchiere di succo di pomodoro. Non vado matta per la colazione. Dov'è Dominic?» «È difficile prevedere i suoi spostamenti. Potrebbe essere al cimitero. Dice che è un posto tranquillo, dove si può pensare. Molti pensano che sia pazzo.» Si fermò sulla soglia e si voltò a guardarla con espressione canzonatoria. «Lei è una psichiatra. Per lei è pazzo?» «A me sembra un bravo ragazzo. Abbastanza normale. Forse un po' distaccato, ma niente di patologico.» «È quello che dico anch'io. Un po' distaccato. Ma non c'è niente di male, non è d'accordo?» «Comunque è strano che vada sempre al cimitero.» «Come fa a saperlo?» «Ho già sentito dire da altri che ci passa molto tempo.» «Non sempre», la corresse Eddie. «Ci va solo ogni tanto. È il caso che vada a prenderle il succo di pomodoro.» Al suo ritorno, Katherine si era già lavata e pettinata, si era messa il rossetto e si sentiva molto meglio. Il mal di testa si stava dissolvendo. «Perché è così attirato dal cimitero?» gli chiese, riprendendo la conversazione come se Eddie non si fosse mai assentato dalla stanza. «Lei ha detto che è normale», te ricordò Eddie. «Vorrei solo cercare di capirlo. È un suo amico, no?» Eddie annuì e le allungò il succo di pomodoro. «Dominic mi ha sempre tenuto sotto la sua ala protettrice. Vede questi moncherini? La gente mi ha sempre preso in giro. Forse erano tutte battutine innocue, ma è facile immaginare quello che pensano gli altri. Dominic si è sempre comportato diversamente. Mi ha persino insegnato a giocare a bowling, ci crede? Non si direbbe mai che uno con queste braccia sappia tirare la palla. Non solo, ho imparato a tirarla davvero bene. L'ho sostituito
in squadra, quando se n'è andato. Sono diventato un campione.» «È per questo che ha accettato di riaprire il bar, stanotte?» «Farei qualsiasi cosa per Dominic.» «È per questo che mi ha permesso di restare?» «Senza fare domande.» «Se è così bravo, come mai il suo capo lo considera un pazzo?» Eddie scosse il capo in segno di frustrazione. «È che non parla con la gente. Con lui si arrabbiano tutti.» «Con me ha parlato.» «Sono rimasto sorpreso, infatti, quando vi ho visto ieri sera. Era molto che non parlava in quel modo. Evidentemente lei lo interessa. Forse lei gli va a genio.» «Forse gli interesso solo perché volevo andare al cimitero.» Rimpianse subito di averlo detto. Eddie le lanciò un'occhiata di disapprovazione. «Lei sa che ha qualche problema e questo modo di parlare non lo aiuterà di certo. Vogliono cacciarlo dalla polizia. E, visto com'è fatto, non riuscirà a trovare nient'altro da fare.» «Ma che problemi ha, Eddie?» «Lei è una vera psichiatra?» «Non esercito, se è questo che vuole sapere, ma sono laureata in psicopatologia.» Restò ad aspettare che Eddie decidesse di fidarsi di lei. «Allora forse lo può aiutare», disse infine Eddie. «Non riesce a riprendersi e non so che fine farà.» «Speravo che fosse lui ad aiutarmi», commentò lei. «Non il contrario. Evidentemente mi sono messa nelle mani sbagliate.» «Adesso, non pensi così», la esortò Eddie. «Nemmeno il capo le è stato d'aiuto, no? Dominic, invece, si è interessato al suo problema. Quando inizia un lavoro, non si ferma nemmeno per dormire. Non si ferma davanti a niente. Prima deve finire. Vedrà. Ma dipende se riuscirà a distogliere la mente da ciò che lo disturba.» «E che cosa sarebbe? Non fa che fare allusioni, però non arriva mai al punto.» «Non so se sono nella posizione di parlarne. Potrebbe non fargli piacere.» «Vuole che chieda a lui direttamente?» «No, no, la prego. Sarebbe un'offesa troppo grave per lui.»
Katherine aspettò che prendesse una decisione. Perché la stava studiando? Era alla ricerca di qualche segnale che gli indicasse la sua affidabilità? In questo caso, ci mise molto a decidersi. Quando infine iniziò a parlare, le parole gli uscirono lente, con lunghe pause fra una frase e l'altra. Non aveva l'aria di divertirsi a parlare di un'altra persona. «È iniziato tutto con sua moglie», esordì Eddie. «Si chiamava Cara. Non era come mia moglie. Lei era un vero zuccherino. Era talmente pallida da doverle toccare il viso per assicurarsi che fosse reale. Aveva dei capelli neri talmente fini che, oh Dio, bastava soffiare per scompigliarla tutta. Era il tipo di donna che ispira senso di protezione a tutti. Era laureata, come lei. Avrebbe potuto fare carriera, ma a lei non importava altro che suo marito. Dopo il matrimonio non abbiamo più visto Dominic, a eccezione che nell'orario di lavoro. Ogni minuto di tempo libero che aveva lo trascorreva con Cara. E non si poteva dargli torto. Non era certo il rapporto che c'è tra Phyllis e me. Era molto più profondo. Ha addirittura abbandonato la squadra di bowling per lei. Noi lo prendevamo in giro per questo, ma lui era felice, per cui gli andava bene così. Non aveva più bisogno di amici. Oh, non che li rinnegasse, solo che non aveva più bisogno di nessuno, con Cara al suo fianco.» Al ricordo della donna, Eddie abbassò la voce. «È morta otto mesi fa. Tumore alla spina dorsale. Non c'è stato niente da fare. Dominic l'ha assistita fino alla morte. È rimasto seduto in ospedale a stringerle la mano per due mesi di seguito. Non tornava nemmeno a casa. Restava al suo fianco, senza parlare, e le stringeva la mano, mentre lei, a poco a poco, se ne andava.» Eddie s'interruppe e deglutì. Si fermò a guardare fuori della finestra. Imbarazzata, Katherine fissava per terra. Quando riprese a parlare, sembrava arrabbiato. «Lei sa che cosa si prova ad avere un tumore che ti sta divorando la spina dorsale? Non poteva nemmeno morire sdraiata. Doveva rimanere distesa di pancia. Per impedirle di urlare, l'hanno imbottita di morfina e di chissà quali altre sostanze. È stata drogata e ha trascorso le ultime tre settimane in stato di coma. Temevano che, se si fosse risvegliata, il dolore l'avrebbe fatta impazzire. Ma lui è rimasto al suo fianco. Ha sofferto con lei.» Sulle guance avevano iniziato a scendergli lacrime e non fece niente per nasconderle. «Adesso continua a recarsi alla sua tomba. Dice che lo aiuta a pensare.
Dice che lì è un posto tranquillo e silenzioso. Non dirà mai quello che pensa ma scommetto che ha sempre in mente Cara. Non lo posso biasimare, ma adesso deve riprendersi.» «Dolore non risolto», diagnosticò lei. «Eh?» Si voltò di scatto, come se fosse sorpreso della sua presenza. «Dolore non risolto», ripeté. «Il secondo dei cinque stadi del dolore esposti da Kubler-Ross.» «E che cosa significa?» «Il fatto che non sia andato oltre al secondo stadio indica una sindrome di dolore patologico.» Le parole le uscivano senza la minima difficoltà, risultato delle numerose letture sull'argomento. «Questo dovrebbe spiegare il distacco dalla comunicazione emotiva con gli altri. È incapace di trasferire le sue esigenze emotive su un'altra persona. Finché continua così il distacco intensificherà la sua ansia di separazione.» «Lei sa tutte queste cose?» domandò Eddie ammirato. Katherine ridimensionò il complimento. «Non è difficile impararle. È diverso metterle in pratica. Come ho già detto, io mi limito a tenere lezioni universitarie. Non esercito la professione di psichiatra.» «Però potrebbe aiutarlo.» «Ne dubito. In questo momento rinnego persino me stessa.» Notando la sua espressione di sorpresa, cercò di spiegarsi. «Questo è il primo stadio. Rifiuto di accettare la morte di una persona. Per otto anni mi sono rifiutata di ammettere che mia madre era... morta. Non ho nemmeno usato questa parola fino a ieri.» «Ma lei è una professoressa», esclamò lui incredulo. Katherine alzò le spalle. «Questo non significa che io sia perfetta. Bisogna viverle certe cose. Mi trovavo a mio agio a pensare che fosse ancora viva. Sono molto simile a Dominic. Ho solo trovato un modo diverso per digerire la situazione. Poi ho visto mia madre. L'ho vista davvero, Eddie. E adesso non so più come fare.» Rabbrividì al pensiero. «Ho paura. Perché sta facendo tutto questo?» Da lontano proveniva il suono di una sirena. «Un incendio», commentò Eddie. Alzò un moncherino per invitarla a stare in silenzio perché potesse contare il numero delle sirene.
«È in centro. Allarme di primo grado», le annunciò. «Si capisce dal numero delle sirene.» Al piano di sotto squillò il telefono. Quando tornò da lei, aveva un'espressione abbattuta. «Stanno mandando un'auto della polizia a prelevarla.» «Dominic?» «No. Non mi hanno lasciato parlare con lui. L'incendio è alla stazione di polizia e il capo la vuole vedere immediatamente. Non mi hanno voluto spiegare il motivo.» 3 Al termine dei loro sforzi, i vigili del fuoco si trattennero alla stazione di polizia pronti a intervenire nuovamente, in caso di necessità. Ma ormai non c'era più niente che potesse bruciare. Al centro dell'attenzione generale, immersa in una pozza di schiuma bianca, c'era la carcassa annerita della BMW di Katherine. Quarantanovemila dollari, pensò lei. I pneumatici erano stati carbonizzati ed erano rimasti solo i cerchioni. Il tettuccio si era deformato per il calore. I sedili e le imbottiture erano stati ridotti a un ammasso contorto di molle e di supporti metallici. Nell'aria persisteva l'odore dell'incendio. Aveva fatto meno di seimila chilometri, pensò ancora. Il capo della polizia si precipitò fuori. Aveva il viso rosso per la collera. «Lo sapevo che non avrei mai dovuto lasciarvi andare via insieme ieri sera!» sbraitò. Sbalordita, Katherine tentò di capire che cosa gli avesse potuto dare tanto fastidio. Dopotutto quella non era la sua macchina. «Non doveva lasciare qui la sua macchina. La stazione di polizia non è un parcheggio. Possiamo considerarci fortunati se sono riusciti a circoscrivere l'incendio.» C'era odore di zolfo nell'aria, stranamente familiare. «E adesso dovremo ripavimentare il vialetto. Il maledetto asfalto si è sciolto completamente.» «Dov'è Dominic?» domandò lei. «Dominic? Ah! Per quanto ne so, è stato lui ad appiccare il fuoco. La macchina è rimasta tranquilla al suo posto finché non è arrivato lui. Poi è esplosa come se niente fosse. E non creda di citarci per danni perché è in-
dicato chiaramente che questa non è una zona di parcheggio. Non avrebbe dovuto lasciarla qui.» Katherine guardò alle spalle dell'infuriatissimo capo della polizia. Alla finestra del secondo piano, scorse Dominic che stava osservando la scena. Il capo si girò per seguire il suo sguardo. «Non chieda aiuto a lui. È un fallito. Da questo momento è espulso. Avrei dovuto farlo da mesi, mi sarei risparmiato un sacco di guai. Ecco che cosa succede quando si cerca di essere gentili. Ma adesso è finita. È espulso.» Si voltò verso Katherine. «Se ne deve andare anche lei. Non mi piace che di notte si vada a scavare nel cimitero senza il mio permesso. Le consiglio di tornare a New York, dove si è inventata la sua bella storia. L'assicurazione risponderà per l'auto e sarà meglio che risponda anche per il mio vialetto.» «Sono venuta fin qui per sapere di mia madre», ribatté Katherine. «Lei si basa su quello che ha visto a New York. Qui ha trovato solo una tomba vuota.» «Quella tomba vuota è la prova che sta succedendo qualcosa di strano.» «La prova? La prova di che cosa? Questo non prova un bel niente, eccetto il fatto che Dominic ha aperto la tomba senza autorizzazione. Ha infranto le leggi sanitarie della contea, le ordinanze cittadine e i precetti della chiesa. Lo sospendo immediatamente senza nemmeno aspettare l'udienza del consiglio comunale. Ho tutte le giustificazioni che mi servono. E a lei consiglio di andarsene subito dalla città, prima che io trovi qualche accusa contro di lei.» Dominic restò affacciato alla finestra del secondo piano. «Non è colpa di Dominic», rispose lei. «È colpa mia. Sono stata io a insistere perché la tomba venisse aperta.» «Non ha importanza. Non avrebbe dovuto farlo senza autorizzazione. E voglio anche il suo indirizzo per mandarle il conto dei becchini che dovranno rifare il lavoro. Noi non risponderemo di nessuna spesa.» «E la mia macchina?» «E la sua macchina? Di quella se ne occuperà l'assicurazione.» «Non è strano che un'auto posteggiata all'esterno di una stazione di polizia prenda fuoco così?» La faccia del capo divenne viola. «Non avrebbe dovuto lasciarla qui. Questo non è un parcheggio.»
«Non ha risposto alla mia domanda», insisté lei reagendo alla sua furia. Non intendeva farsi intimidire. «Ascolti, signora, in questa città le domande le faccio io, non lei.» «Però non sa come sia iniziato l'incendio vero?» Alla finestra, Dominic scosse il capo prima di ritirarsi fra le ombre. Il suo segnale, se di segnale si poteva parlare, era arrivato troppo tardi. Il capo si voltò di scatto e ordinò a un agente di accompagnarla alla stazione di polizia di Scranton. Non le permisero di chiamare l'università, né l'avvocato. L'agente rimase con lei alla stazione dei Greyhound fino all'ora della partenza dell'ultimo autobus. La vide salire e le ordinò di non tornare mai più indietro. Katherine trascorse gran parte del viaggio cercando di trovare una spiegazione razionale per quello che le stava succedendo. Soffriva di allucinazioni? Forse era lei che desiderava far tornare in vita sua madre. Forse, dopo otto anni di negazione della morte, il senso della realtà aveva subito un'alterazione. Ma la tomba era vuota. Questo era un fatto. Persino la polizia l'aveva ammesso. Una tomba vuota. Che sua madre fosse resuscitata? Non ne avrebbe potuto parlare all'università. Un discorso del genere da parte di un associato di psicopatologia non avrebbe fatto una buona impressione. E la polizia di New York non l'avrebbe certo aiutata più del funzionario che l'aveva appena cacciata dalla città di Dickson. Giunta a New York, la collera di Katherine aveva già lasciato posto alla rassegnazione. Non avrebbe trovato nessuno disposto a crederle. Non avrebbe potuto chiedere aiuto a nessuno. Era sola. Aveva paura di prendere la metropolitana. Paura di vedere quella faccia morta in mezzo alla folla. Ma c'era anche la possibilità di intravedere il viso di sua madre sul marciapiede, a un incrocio o da un'auto. Per tutto il tragitto in taxi fino alla Upper West Side, tenne gli occhi chiusi. Fu con sollievo che tornò nel bozzolo del suo palazzo. La guardia giurata all'ingresso alzò lo sguardo dai monitor in bianco e nero. Annuì e premette il pulsante per farla entrare nell'atrio. Sugli schermi silenziosi dei monitor scorrevano scorci di lavanderie, di seminterrato, di ascensori, di garage e di corridoi. La guardia le sorrise in cenno di saluto. Nessuno poteva entrare senza passare il controllo elettronico. Ormai era
al sicuro. Sola, sì. Ma al sicuro. L'appartamento era caldo e stagnante, impregnato di aria stantia. Un odore familiare: con tutta probabilità era solo l'inceneritore del caseggiato che mescolava i suoi fumi all'aria chiusa di casa. Sembrava l'odore di un camino pieno di ceneri carbonizzate. Doveva esporre una lamentela all'amministratore del condominio. Per il prezzo che pagava, poteva pretendere aria pulita. Ma l'avrebbero liquidata dando la colpa al palazzo accanto, pensò poi. Accese l'impianto di aria condizionata per ripulire l'ambiente. Le grate cominciarono subito a immettere nell'appartamento una folata d'aria fresca sibilante. Accese la televisione. Non che volesse vedere niente di particolare; intendeva solo avere la compagnia di voci umane. Riprese poi il solito rituale: eliminazione delle scarpe, caffettiera sul fornello, rimozione dei vestiti e la comodità dell'accappatoio morbido e confortevole. La solita routine servì a farle dimenticare gli ultimi due giorni. Dal congelatore prese una delle innumerevoli cene surgelate, la infilò nel forno a microonde dove sarebbe stata cotta da raggi invisibili e magici, senza nemmeno l'aiuto del calore. Era una cena come tante altre. Katherine era abituata a mangiare da sola. Questa sera l'aspettava un'aragosta, duecentosettantacinque calorie, tempo di cottura quindici minuti. Era il primo pasto da quella mattina, dopo che aveva lasciato Eddie. Forse era per questo motivo che le era venuto il mal di testa. Un paio di aspirine e un bel bagno caldo l'avrebbero rimessa in sesto. La porta del bagno era incastrata. Iniziò a spingerla con violenza. Girò il pomello ripetutamente, infine si gettò contro la porta con tutto il peso del corpo. Una volta. Due volte. Al terzo tentativo, riuscì ad aprirla e tutt'a un tratto si ritrovò nella causa del puzzo che aveva permeato l'appartamento. Katherine lanciò un urlo di orrore. Il bagno era ricoperto di macchie nere di combustione, lasciate da chissà quale creatura infernale; il pesante odore di zolfo mescolato con il puzzo rancido dell'incendio soffocato dal suo stesso fumo. Il fetore rimasto imbottigliato in uno spazio tanto limitato le colmò la bocca di amaro. Respirando a stento, diede un'occhiata all'orrore che la circondava. La tendina di plastica della doccia si era completamente raggrinzita all'interno della vasca. Gli asciugamani giacevano in un ordinato mucchietto di ceneri grigia-
stre. I sostegni di plastica si erano liquefatti e le bolle si erano congelate là dove si erano formate. Ogni superficie verniciata era devastata dalle vesciche e dalle ustioni. Le bottigliette e i tubetti nell'armadietto per i medicinali erano scoppiati. Il contenuto gocciolava ovunque da sotto lo specchio, crepato e annerito, su cui era stato scritto un messaggio. Riconobbe la calligrafia a zampa di gallina di sua madre. Alla ricerca di ossigeno, Katherine iniziò a singhiozzare. Si precipitò in camera da letto chiudendo la porta a chiave. Ci vollero altri venti minuti prima che la polizia e i vigili del fuoco rispondessero alla sua chiamata carica di isteria. La prima ad arrivare fu la polizia. Il detective Arnold Russo, con la faccia butterata, i baffi e la piazza in testa, esaminò la porta d'ingresso alla ricerca di qualche segno di scasso. Katherine si rifiutò di entrare in bagno. Il detective si lasciò scappare un fischio alla vista del locale carbonizzato. «Questo è un lavoro per l'antincendi. Per i vigili del fuoco, insomma. Noi non possiamo fare niente con gli incendi.» «Ho chiamato la polizia per chiedere protezione.» Russo scarabocchiò qualcosa sul taccuino. «Che genere di protezione? È stata minacciata?» «L'incendio è un avvertimento», rispose lei. «Avrei potuto essere in casa.» «Questo è vero», ribatté Russo. «Se non fa più attenzione, potrebbe finire male.» «Io non ho niente a che fare con l'incidente. Non ero nemmeno in casa quando è scoppiato l'incendio. L'ho scoperto quando sono rientrata questa sera.» «Deve aver lasciato acceso qualche cosa. Forse l'asciugacapelli.» Katherine non trattenne più la collera. «L'asciugacapelli è in camera da letto. Si guardi attorno. Non ci sono prese di corrente, là dentro. Niente che possa aver provocato un incendio. Io non fumo. In casa non c'è nemmeno una scatola di fiammiferi.» Russo si guardò intorno e si strinse nelle spalle. Non aveva l'aria troppo preoccupata. «Forse è colpa dell'impianto elettrico.» «Lei non capisce», sbottò lei. «Non c'è niente qui dentro che possa provocare un incendio. Non può essere stato un corto circuito o niente del genere.» Il detective cercò di soffocare un ghigno.
«Intende dire che allora è iniziato... da solo?» «No. È di origine soprannaturale.» Il sorriso gli illuminò apertamente il viso. «Intende dire che l'incendio è stato provocato dagli spiriti?» «Avrà modo di vedere da sé. Non c'è altra spiegazione. Ne sono sicura. È servito come avvertimento.» Il detective Russo le suggerì di tornare in camera da letto a riposarsi finché non fossero arrivati i vigili del fuoco. Il responsabile della squadra antincendi era il capitano Edward O'Grady, un ometto dai capelli rossi e il collo segnato da una cicatrice lunga e lucida. Le sopracciglia erano state bruciate in occasione di chissà quale incendio colossale. L'attrezzatura degli esperti occupava tre enormi valigie nere. Dopo aver fotografato la scena, iniziarono l'analisi della situazione. Gli agenti restarono a osservare incuriositi. Katherine restò in camera da letto, troppo nervosa per avvicinarsi a qualcuno. Un'ora dopo, il capitano O'Grady uscì dal bagno. Si lasciò alle spalle gli uomini occupati a rimettere in ordine l'attrezzatura. «Allora, qual è il verdetto?» domandò Russo. Il capitano O'Grady scosse il capo. «Dev'essere stata un'unica fiammata. Le bruciature sono tutte in superficie provocate dal calore. Abbiamo prelevato qualche campione di legno, ma nessuna delle bruciature ha superato il millimetro di profondità. In genere, in questi casi, c'è sempre un agente accelerante, come la benzina, la nafta o qualche altra sostanza chimica di natura specifica. Il tipo di materiale che possa provocare fiammate improvvise. Solitamente è semplice rilevarne le tracce. Ma qui non siamo riusciti a trovare presenza di sostanze chimiche.» «Dov'è iniziato?» «Non si può dire. In realtà, non è bruciato niente a eccezione degli asciugamani. È tutto carbonizzato. Le superfici danneggiate indicano che si trattava di un'evidente sorgente di calore elevatissimo. Occorre un'intensità incredibile di calore per penetrare nell'armadietto dei medicinali e far esplodere i flaconi. Non siamo riusciti a trovare tracce dell'eventuale causa. Nessun punto del bagno ha subito più danni degli altri. Non ci sono parti più danneggiate di altre.» «Non sapete stabilire la causa?» domandò Russo. «Per il momento no. Abbiamo prelevato i campioni di legno, di cenere e frammenti di vernice. Li analizzeremo, ma ho la sensazione che non riusci-
remo a scoprire gran che.» Poi si voltò verso Katherine. «Chi ha scritto quelle parole sullo specchio?» le domandò. «Mia madre.» «Sua madre? E dov'è?» «È stata seppellita otto anni fa.» Il capitano venne colto da un attacco di tosse. «Non penso di aver capito bene», le disse. «Dov'è?» Katherine si sforzò di mantenere un tono di voce fermo. Non voleva lasciare l'impressione di aver perso il controllo. «È stata seppellita otto anni fa», ripeté. «Ma adesso non è più nella tomba. Non so dove sia.» Il capitano O'Grady lanciò un'occhiata in direzione di Russo, che alzò le braccia in segno di rassegnazione. «È una professoressa di psicologia», disse, come se fosse sufficiente a spiegare tutto. «Spero che non ci stia prendendo in giro», l'avvertì O'Grady con improvviso tono sospetto. «Un incendio di queste proporzioni poteva anche propagarsi per il resto del palazzo. Avrebbe potuto mettere in pericolo la vita di molte persone.» «Non sono stata io», rispose Katherine. «Sono stata fuori città negli ultimi due giorni. Posso provarlo. Ci sono i testimoni. Sono rientrata stasera e ho trovato questo... questa manifestazione inspiegabile.» Lo guardò direttamente negli occhi, quasi volesse sfidarlo a mettere in dubbio le sue parole. «Non è riuscito a trovare una spiegazione, vero?» «Non ancora», rispose. «Ma se riesco a catalogare il tipo di incendio e se scopro che lei ha qualcosa a che fare con l'incidente, la accuserò di aver appiccato un incendio doloso, signora. Non m'interessa sapere dove si trovava o quanti testimoni possa convocare: io la accuserò lo stesso.» Fece cenno agli agenti di prendere le valigie. «Non so quale sia il suo gioco, se l'assicurazione o la pubblicità, ma farò di tutto perché la storia si fermi qui.» Russo si trattenne ancora per qualche minuto. Katherine non si mosse. Continuò a restare seduta sul letto con le ginocchia rannicchiate contro il petto e le braccia attorno alle caviglie in atteggiamento protettivo, quasi fetale. Quando l'uomo si decise a parlare, il suo tono di voce si addolcì. «Che genere di protezione desidera avere?»
«Ha visto anche lei quello che sta succedendo», rispose Katherine. «Non è facile ottenere protezione. Dovrà presentare una richiesta ufficiale, dovrà protocollarla al distretto e, se viene approvata, verrà poi ratificata dal commissario. Potrei farle avere i moduli. Ma dovrà essere molto specifica sul motivo per cui richiede la protezione.» «E sarebbe una perdita di tempo, vero?» «Sarebbe obbligata a scrivere il nome della persona di cui sospetta.» «E così mi crederebbero una pazza, vero?» «Non sarebbe la prima volta che qualcuno afferma di aver visto un fantasma a New York.» Katherine si sfregò il mento contro un ginocchio. Il suo tono di voce era basso, quasi un sussurro. «È la mamma», insisté. «È tutta opera sua.» «Io mi occupo di reati, di atti di violenza e di omicidi», commentò Russo. «Questo esula dal mio campo d'azione. Non so trattare con i fantasmi.» «Ha intenzione di abbandonarmi? E se mia madre dovesse tornare?» «Vuole la mia opinione?» E, dal momento che Katherine non rispose, Russo continuò a parlare. «Io non starei qui se fossi in lei. Perché non va a farsi una bella vacanza? Nei Caraibi, in Messico. Cambi ambiente. Si distragga.» Si avviò alla porta. «Se si fa sopraffare, farà solo del male a se stessa.» Sulla soglia si fermò e si voltò. «E basta incendi», aggiunse. «Se quel O'Grady dovesse tornare, l'arresterebbe di sicuro.» Sempre rannicchiata, Katherine non si mosse dal letto. Si mise a fissare la porta del bagno. Invisibile da quella posizione, ma chiarissimo nella sua mente, ripensò al messaggio lasciato sullo specchio. Tre parole. Erano state scarabocchiate sul vetro carbonizzato con agghiacciante chiarezza. Nessuno può aiutare. Che significato avevano? Era una minaccia? Un avvertimento? O una macabra richiesta d'aiuto? 4
Nessuno può aiutare. Le stesse parole di otto anni prima. All'epoca era una studentessa dell'università di New York. Era venerdì sera: l'11 aprile. Erano andati a chiamarla in biblioteca e l'avevano accompagnata in una stanza dove l'attendeva un prete. Padre John Ritter. Non lo conosceva. Non l'aveva mai visto prima di allora e non l'avrebbe più rivisto nemmeno in seguito. Evidentemente avevano pensato che fosse meglio farglielo sapere da un prete piuttosto che da una voce senza corpo al telefono, o da qualcuno dell'amministrazione universitaria. La veste nera del prete cattolico l'aveva innervosita anche prima che aprisse bocca. Per il timore di guardarlo negli occhi aveva focalizzato l'attenzione sul collettino bianco che gli fasciava il collo. Forse era un bravo prete, però non aveva conosciuto la mamma e non poteva certo capire quello che era successo. Sapeva soltanto che la polizia l'aveva ritrovata nel bagno di un motel in Pennsylvania. L'avevano informata dell'incendio e del messaggio scarabocchiato sullo specchio. Che significato poteva avere? Le era sembrato tutto talmente irreale che nemmeno si era messa a piangere. Aveva provato una strana sensazione, molto vicina al senso di colpa. La mattina dopo, in Pennsylvania, si era rifiutata di andare con la polizia sul luogo del ritrovamento. Si era anche rifiutata di vedere sua madre finché non fosse stata ricomposta dall'impresario delle pompe funebri. E quando poi era andata a visitarla, non era riuscita a credere che fosse morta asfissiata. Come aveva detto l'impresario, stava solo riposando. Dormiva. Ma adesso si era risvegliata. Forse non era mai morta. Ma perché era tornata dopo tutti quegli anni? Perché era arrabbiata? Il vortice di quesiti rimase senza risposta nella mente di Katherine. Fu il suono del telefono che, alla fine, la scosse dai pensieri. Le gambe le si erano irrigidite dopo essere rimaste intrappolate per ore nella stessa posizione. Si era fatto giorno. «Katherine? Hai una voce strana. Come stai?» Si sentì subito meglio al suono della voce di Dominic. Cercò di mantenersi calma mentre gli raccontava dell'incendio, ma, nonostante gli sforzi, non poté fare a meno di tremare. «Dominic ho paura. Perché mi sta facendo questo?»
«Non ho risposte. So solo che sei in pericolo. Non so nemmeno se posso aiutarti.» «Ma mi devi aiutare. Non posso parlare con nessuno. Pensano tutti che sia stata io a provocare l'incendio.» «Adesso calmati, Katherine. Se vuoi che ti aiuti, devi seguire le mie istruzioni. Lo farai?» «D'accordo. Spiegami che cosa intendi farmi fare.» «Ho intenzione di venirti a prendere. Ho intenzione di riportarti a Dickson dove posso cercare di proteggerti.» «Cercare? Intendi dire che non sei sicuro di riuscirci?» «Katherine, ascolta. Non voglio che tu stia in quell'appartamento da sola. Voglio che scendi nell'ingresso del palazzo. C'è un portiere, no?» «Sì.» «Voglio che resti con lui e che mi aspetti. Non uscire in strada. Non avvicinarti nemmeno alla porta. Siediti nell'ingresso in un punto dove la guardia ti possa vedere. Io arrivo il più velocemente possibile.» «Ma da Dickson ci metterai due ore. Vuoi che resti nell'ingresso per tutto questo tempo?» «Ascoltami bene. Finché resti sola, sei in pericolo. Te lo spiegherò quando arrivo. Ma per ora, non voglio che rimani in quell'appartamento. Non cambiarti nemmeno. Non sprecare tempo a rimetterti a posto i capelli. Scendi subito nell'ingresso e aspettami là. Hai capito bene?» «Sì.» «E allora obbedisci.» Lasciò le mani sulla cornetta del telefono come se la voce di Dominic potesse assicurarle chissà quale protezione. Avrebbe voluto continuare a parlargli per chiedergli che cosa stava succedendo, per farsi promettere il suo aiuto. Ma non avrebbe fatto altro che ripetere l'ordine di abbandonare immediatamente l'appartamento. Non voleva staccarsi dal telefono nemmeno al suono fastidioso della linea interrotta. Che cosa sapeva? Perché non gliel'aveva spiegato? E perché non era rimasto sorpreso quando gli aveva raccontato dell'incendio? Ogni quesito ne provocava subito un altro. Il suo atteggiamento misterioso l'aveva innervosita. Ma non poteva fare altro che obbedire agli ordini.
Scese nell'ingresso con indosso l'accappatoio senza nemmeno truccarsi. La guardia di sicurezza era troppo stanca per sorprendersi del comportamento degli inquilini, per cercare di essere gentile. «Lei abita nell'appartamento che ha preso fuoco, giusto?» le domandò. «Giusto.» «La polizia mi ha interrogato sul suo conto, ma io ho risposto che doveva essere fuori città quando è successo l'incidente.» «Grazie.» «Credo che avessero in mente di addossare la responsabilità su di lei.» «Forse ha ragione.» «Qui all'angolo spacciano droga, ma questo alla polizia non interessa. Non hanno alcun diritto di entrare nel mio palazzo ad accusare le gente per bene.» «Sono d'accordo.» «Be', da me non otterranno informazioni. Su questo può contarci.» Nel corso dell'attesa, l'atteggiamento socievole della guardia di sicurezza venne sostituito gradualmente dall'irritazione di fronte alla riluttanza di parlare di Katherine. Dominic arrivò a bordo di una Buick Riviera che un tempo doveva essere stata molto elegante. L'auto sgangherata era ricoperta da macchie di ruggine, ammaccature e sbucciature non tanto per l'età, quanto per l'incuria. Dominic non aveva un aspetto molto migliore. Dal viso, era chiaro che aveva passato la notte in bianco. Dallo sguardo traspariva il luccichio di demoni mentali al lavoro. Salirono nell'appartamento. Ma quali demoni mentali? si domandò Katherine quando, davanti al bagno carbonizzato, l'aveva visto sorridere. Questa volta non c'era bisogno di Polaroid. Stava memorizzando la scena mentalmente, facendo scorrere le dita sulle superfici raggrinzite. «Che cos'ha detto la polizia?» domandò. «Che non possono fare niente.» «E i vigili del fuoco?» «Pensano che sia stata io. Mi hanno minacciato di arresto.» «Tipico da parte della polizia di New York», commentò. «Dovrebbero andare ad arrestare i criminali invece di minacciare i tipi come te.» «È quello che dice anche la guardia di sicurezza in portineria.» «È un trucco per scaricarsi la responsabilità. Spaventano la gente perché, la prossima volta, ci pensi due volte prima di richiamarli.» Fece scorrere le dita sul messaggio sullo specchio.
«Che cosa significa?» domandò. «Chi l'ha scritto?» «Dev'essere stata la mamma. È un suo messaggio. Forse sta chiedendo aiuto.» «O forse è un avvertimento.» «Ho pensato anche a questo.» Rabbrividì al pensiero. «Assomiglia alla sua calligrafia?» «È identica. È come un messaggio scritto da lei e ingrandito. La sua scrittura tendeva verso sinistra. Cercava sempre qualche giustificazione per questo particolare.» «Nessuno può aiutare. Hai già visto questo messaggio, vero?» Katherine s'irrigidì mentre Dominic la fissava intensamente negli occhi con sguardo cupo e annoiato, alla ricerca di un segno di debolezza. «L'hai visto in un altro bagno. In quello dove tua madre è stata trovata morta otto anni fa in Pennsylvania.» «No», rispose in un sussurro. «Forse non l'hai visto con i tuoi occhi. Forse hai visto solo le fotogafie.» «Ti prego, no.» «Perché non mi avevi detto che tua madre si è suicidata?» «Basta.» «Sono andato al distretto sanitario della contea ieri. Tua madre è morta asfissiata. Ma lei non deve essersene nemmeno accorta grazie ai sonniferi che aveva ingerito. Ho letto il rapporto del coroner. Perché non me l'avevi detto?» «Perché non ci ho mai voluto credere. Mia madre non si sarebbe mai tolta la vita. Non aveva mai mostrato tendenze suicide.» «È tutto scritto nel rapporto del coroner. È morta, Katherine, morta. Perché non lo vuoi accettare?» Parlava con dolcezza, con il tono che in genere gli uomini riservano per i momenti in cui condividono un dolore con un'altra persona. Katherine pensò alle difficoltà che anche Dominic aveva dovuto affrontare. «Lo so che stai cercando di aiutarmi», riprese lei. «Ma sono troppo sconvolta per parlarne in questo momento.» Dominic annuì con il capo e tornò a esaminare la stanza, scalfendo il legno del rivestimento con il tronchesino per le unghie. «Le fiamme sono rimaste in superficie», commentò. «Dev'essere stato un incendio forte, ma rapido. Altrimenti avrebbe bruciato anche in profondità.» «È quello che hanno detto anche i vigili del fuoco.»
Dominic si voltò e andò a guardare sotto il lavandino. Emise un grugnito e poi si spostò verso la tazza del water. «Non hanno rilevato niente di strano?» domandò. «Hanno detto più o meno quello che dici tu. Incendio violento, di breve durata. Hanno cercato tracce di sostanze chimiche o residui di benzina, ma non sono riusciti a trovare niente.» «E allora non conoscono la causa?» Katherine scosse il capo. «Io ho detto che è stata la mamma.» «Non avresti dovuto farlo.» «Lo so. Adesso sospettano di me.» «Tu non hai fatto proprio niente. Hai solo una fervida immaginazione. E poi pensi troppo. Sei esageratamente complicata.» «Intendi dire che mi sono inventata io tutto quanto?» domandò agitando una mano in direzione delle pareti annerite. «Che è tutto frutto della mia immaginazione? È questo quello che pensi?» Dominic si alzò con un sorriso stampato in volto. Si ripulì dalle ragnatele che aveva raccolto per terra e smise di interessarsi al bagno. «No, non ti sei immaginata niente», rispose. «Forza, vestiti e usciamo di qui.» «Devo fare le valigie.» «Torneremo dopo che avremo visitato un cimitero. Devo chiedere alla polizia dov'è possibile trovarne uno.» Katherine rabbrividì al solo pensiero di andare in un altro cimitero, ma obbedì. Uscire con Dominic era senz'altro meglio che rimanere da sola in casa. Dirigendosi verso la stazione di polizia, dovettero rallentare a causa delle macchine parcheggiate in seconda fila che riducevano la strada principale a un'unica corsia di marcia. Sul marciapiede, oltre alla fila di macchine posteggiate, c'erano mucchi di sacchi di rifiuti appoggiati contro le facciate dei palazzi. «E questa dovrebbe essere una delle zone migliori, eh?» esclamò Dominic. «È la Upper East Side», ribatté lei. «Anche se non è Park Avenue, gli affitti sono altissimi.» «Non posso crederci.» E arricciò il naso in segno di disgusto. «È come vivere in una discarica, a parte che, in questo caso, figurano bei palazzi. Ci sono rifiuti dappertutto. Guarda.» «Pensi che Dickson sia migliore?»
«Be', è molto più pulita.» Si fermarono a metà isolato in attesa che l'incrocio si liberasse della fiumana di macchine dirette verso il centro. Il semaforo continuava a diventare verde, ma l'incrocio restava bloccato da un autobus e da una serie di taxi che si rifiutavano di lasciare libero il passaggio. Le macchine in coda intonarono un concerto di clacson. Dominic stava osservando una donna che portava a passeggio il cane. «E quella è una newyorkese in carriera?» domandò. «Quella signora con la pelliccia di visone? Quanto pensi che paghi di affitto?» «Se abita da queste parti, paga almeno mille dollari al mese.» «E non è moltissimo, vero?» commentò. «Ho letto che in questa città si arriva a pagare la stessa cifra anche per un semplice buco nella parete.» «Tutti vogliono vivere a Manhattan», spiegò Katherine. «C'è scarsezza di case e arriva gente da tutte le parti del mondo. Gente di successo.» Sottolineò la parola "successo": stava improvvisamente adottando un atteggiamento difensivo. «Allora paga mille dollari al mese», ripeté Dominic. «Ha uno splendido aspetto, abita in un posto dove la gente di tutto il mondo vorrebbe abitare, però è costretta a tenersi in casa un pastore tedesco di quaranta chili per la sua sicurezza, deve nutrirlo tutti i giorni e deve fargli fare la passeggiatina due volte al giorno, quando invece preferirebbe starsene a casa a guardare la televisione.» «Ma che cosa c'entra? C'è un sacco di gente che ha un cane.» «Già, però quella donna deve uscire con i guanti di plastica per raccogliere la merda del suo cane due volte al giorno. Tutto perché ha paura di vivere in un appartamento da mille dollari al mese senza un cane da guardia.» «Come sei cinico.» «Cinico? No, sono realista.» Infine, l'incrocio si liberò e il traffico riprese a scorrere. Riuscirono a raggiungere l'angolo della strada prima che il semaforo tornasse nuovamente rosso. «Questa città ha perso il controllo», disse Dominic. «C'è troppa gente. C'è troppa sporcizia. È incredibile quello che si deve fare per vivere in questo posto.» «Parli come mia madre. Cercava sempre di convincermi a tornare a Dickson.» «E aveva ragione.»
«Forse se l'avessi fatto...» Katherine si interruppe e scosse il capo. «No, non sarebbe andata diversamente.» Dominic posteggiò in divieto di sosta fra due auto della polizia. «Guarda l'edificio dall'altra parte della strada», le disse. Il palazzo che stava indicando copriva l'intera lunghezza dell'isolato. Quaranta piani di mattoni fuligginosi intervallati da piccole finestrelle. «Là dentro forse ci sta metà della popolazione di Dickson, ma è come una prigione. Tutti passano dallo stesso posto di controllo dell'ingresso, prendono lo stesso ascensore e pregano il Signore che nessuno faccia irruzione nel loro appartamento quando non sono in casa. Sono troppo diffidenti per stringere amicizia.» «Sono felici», ribatté Katherine. «A molti piace l'anonimato dei grandi condomini.» «E se succede qualcosa? Che cosa fanno? Cinquemila stranieri si strapperanno i capelli di dosso nel tentativo di scappare in caso di incendio. Senza parlare dei feriti. Non è giusto permettere che tante persone vivano nello stesso posto.» «Sei nervoso? Ci sono troppe case per i tuoi gusti?» «Tu mi credi un campagnolo, vero? Be', non m'interessa. L'importante è che abbia sempre la possibilità di fare marcia indietro e uscire da questo posto per tornare dove la gente vive in modo normale. In case dove sia possibile conoscersi.» Katherine stava per rispondergli, ma si rese conto solo in quel momento che, nella città dove aveva abitato per la maggior parte della sua vita, l'unica persona su cui poteva contare veramente era un ex agente di polizia della Pennsylvania dagli occhi scuri e le parole amare, chiaro segno di problemi psicologici. Decise di lasciarlo parlare. «Per esempio, prendi la guardia di sicurezza del tuo palazzo», continuò Dominic. «Non sarebbe in grado di proteggere sua madre in una città come questa. Dici che le persone più importanti del mondo vengono qui. Be', forse anche i criminali più pericolosi. I più pazzi. E la sai una cosa? Questo non interessa a nessuno. In questa città si può fare di tutto e passarla sempre liscia.» Entrando nella stazione di polizia abbassò il tono di voce. «Ascolta la gente che ci riceverà. Non gliene importa niente di noi. Ci liquiderà il più velocemente possibile. Forse non controllerà nemmeno che io sia veramente un collega di Dickson. Questa città è schiacciata dalla gente e dai problemi. È per questo motivo che la polizia non si preoccupa più molto di dare la caccia ai cattivi. Le prigioni sono piene, i tribunali so-
no pieni e gli agenti hanno troppo da fare a compilare moduli d'ufficio. Se riescono a catturare qualcuno è solo un caso. Guarda e vedrai.» Dominic chiese del tenente Orestes Coleman. L'agente dell'ingresso affollatissimo indicò il cubicolo alle spalle degli uffici. Il tenente Coleman era un uomo di colore alto con una lanuggine argentata al posto dei capelli e la barba riccia. Dominic gli strinse la mano e presentò Katherine come una detective della polizia di Dickson, strizzandole l'occhio di nascosto. «È stato lei a chiedere delle tombe?» gli chiese Coleman. «Ecco la pratica e la cartina. Verrei anch'io con voi, ma non ho proprio tempo da perdere.» «Troppo lavoro, eh?» «Le ore del giorno sono troppo poche.» «Capisco», rispose Dominic sfogliando la pratica. «E i parenti più stretti? Mi aveva detto che avrebbe controllato anche loro.» «Sì, devo aver detto così. Ma per il momento non ho niente di più di quanto non le abbia già detto per telefono.» Coleman rispose a una chiamata, si sprecò in qualche commento e poi coprì il ricevitore con una mano. «Tutto quello che c'è è nella pratica. Tre suicidi e una donna rinchiusa in casa di cura per il trauma dei corpi sottratti, almeno credo. Se dovesse aver bisogno di qualcos'altro, mi chiami pure. Adesso devo dar retta a questo signore al telefono.» Sventolò le mani per invitarli ad andarsene. Dando una rapida occhiata alla pratica, Dominic le fece strada fuori della stazione di polizia. «Scommetto che non è nemmeno andato a controllare al cimitero», commentò Dominic. «Secondo questa pratica, è stato il coroner a effettuare le ispezioni. Forse sul posto riusciremo a trovare qualcuno che ne sappia qualcosa di più.» «Devo venirci anch'io al cimitero?» chiese Katherine. «Ti dà fastidio?» «Sì, l'idea mi spaventa.» «Il cimitero è il posto più sicuro. Là sono tutti morti. Non possono fare del male. Correresti più pericoli attraversando una strada.» Gli si incresparono le labbra in uno strano sorriso. Le tornarono in mente le parole che aveva usato il capo della polizia per descrivere Dominic. Imboccò la Cinquantasettesima Strada dal basso: gli ingorghi dell'ora di
punta si erano ormai dissolti, ma i lavori di restauro a una struttura fatiscente bloccavano la strada, costringendo il traffico in una corsia sovraffollata. «Come hai imparato a girare così bene la città?» domandò. «Ci venivo sempre con mia moglie per il periodo natalizio», rispose tra il frastuono delle macchine che li circondavano. «Le piaceva venire a vedere le luci di Park Avenue e le vetrine dei grandi magazzini. Andavamo sempre a osservare i pattinatori a Rockefeller Center e ad ascoltare le campane di St. Patrick. Comprava sempre profumi da Lord and Taylor e regali per i nipoti da Macy's.» «Pensavo non ti piacesse New York.» «A quei tempi era diverso. O forse era solo merito di Cara. Vedevo tutto attraverso i suoi occhi e mi appariva più bello. Adesso vedo solo lo schifo.» Finalmente riuscirono a liberarsi dall'ingorgo e sbucarono nella zona industriale con le strade intasate di camion. Ci volle mezz'ora per coprire i sette chilometri di strada fino al St. Mark's Cemetery. Katherine l'aveva già visto centinaia di volte dall'alto della Long Island Expressway. Non sapeva come si chiamava: era solo uno dei tanti posti sconosciuti di New York privi di significato per chi non avesse qualche motivo per frequentarli. Ma la vista del St. Mark's dalla Long Island Expressway a bordo di un'auto che viaggia a settanta chilometri orari era decisamente diversa da quella di cui si gode, entrando direttamente dai cancelli in ferro battuto. Il vialetto si stendeva lungo le file stipate di monumenti, che coprivano ogni centimetro quadrato di terreno possibile. Sembrava una fattoria silenziosa fatta di marmo che seguiva la sagoma della terra, acro dopo acro, fino alla superstrada che sfrecciava in lontananza. Qui, i monumenti erano molto più elaborati di quelli della Pennsylvania. Sospesi sopra il vialetto, c'erano angeli freddati in volo. Su un poggio faceva bella mostra di sé il Tempio di Diana in scala ridotta. Obelischi, statue, crocefissi e lastre di pietra erano allineati in base all'ordine eterno delle file sotterranee di bare. Fra la giungla di marmo, l'unico sollievo veniva offerto dagli alberi isolati e senza foglie ai quali venivano potate le radici per evitare che andassero ad aggrapparsi alle lapidi vicine. Trovarono la casupola del guardiano davanti al quale Dominic sventolò la pratica della polizia per fugare ogni sospetto del vecchio. Come credenziali fu sufficiente. «È successo un'altra volta», li informò il vecchio. «Deve essere successo
la notte scorsa. Il funzionario del coroner non si è ancora fatto vivo. A quelli non gliene importa niente.» Salirono a bordo del furgoncino del guardiano. Ci vollero altri cinque minuti di strada per raggiungere la tomba. «Questa è la quinta», commentò il guardiano. Furtivamente si fece il segno della croce, senza preoccuparsi di farsi vedere da estranei. La tomba era sorprendentemente simile a quella di Dickson: affossata, nel centro si vedeva un'apertura. Sulle tombe vicine c'erano mucchietti di erba mista a fango come se fossero stati eruttati dalla terra, gettati da chissà quale strana forza. «Succede sempre di notte», spiegò il guardiano. «Sempre di notte, poi la mattina i corpi non ci sono più. Non si riesce a dormire in pace nemmeno da morti.» «Non ha mai visto nessuno?» domandò Dominic. «Non ha sentito niente?» «Ci sono quarantamila tombe qui. Il cimitero ha cinque chilometri quadrati di terreno. Non c'è modo di tenere sotto controllo ogni singola tomba. Non è nemmeno possibile pagare qualcuno perché rimanga nel cimitero durante la notte. Dopo il primo caso, avevano aumentato la sorveglianza, ma gli agenti rimanevano tutta la notte nel capanno degli attrezzi a bere e a guardare la televisione. E allora hanno sospeso i turni. Una perdita di denaro, nient'altro.» Dominic si mise a osservare la terra sparsa sulle tombe adiacenti. Scattò le Polaroid di routine, mentre Katherine guardava sbalordita da quello che aveva appena appreso. «Ne deduco che tutt'e cinque le bare sono vuote», commentò Dominic. «Questa è la quinta», gli ricordò il guardiano. «Sono sicuro per quanto riguarda le prime quattro, perché le ho viste con i miei occhi. Erano completamente vuote. Si vedeva solo qualche macchia sul rivestimento interno, nei punti in cui i corpi avevano iniziato a decomporsi. Tutto qui. Penso che anche per questa la situazione sia la stessa.» Katherine rabbrividì alla descrizione. «Il tenente Coleman ha detto che dev'essere tutta colpa di profanatori di tombe. Lei che cosa ne pensa?» domandò Dominic. Il guardiano rifletté a lungo prima di rispondere. «Sono tutte ipotesi. Non so che cosa stia succedendo.» «Non ha qualche altra idea?» «La polizia non si sta occupando del caso. Hanno solo voglia di chiudere
la faccenda. Se guardassero meglio, avrebbero un'idea diversa.» Katherine si sentì percorrere da un brivido agghiacciante. Aveva la sensazione di essere osservata. «Lei non pensa che si tratti di una normale profanazione di tombe?» chiese Dominic. «Non dico questo. Lei ha frequentato i cimiteri quanto me, deve aver visto un sacco di stranezze. Una volta, i matti li rinchiudevano nei manicomi, ma ormai li lasciano vagabondare per la città. Evidentemente vogliono risparmiare denaro. Ne ho avuti qui un paio per aiutarmi a scavare le fosse, ma non è stato facile.» «Che cosa intende dire, quando dice che la polizia non ha seguito bene il caso?» «Be', se venissero qui, vedrebbero le persone che si fanno vedere dopo che le tombe si svuotano.» «Per esempio?» «Oh, persone diverse! A volte le vedove. I figli. I padri. O i partner.» Dominic stava sfiorando il profilo della tomba nel punto in cui l'erba era stata strappata. «È ovvio che vengano», ribatté. «La polizia li avverte quando il corpo sparisce.» «Non la polizia. È il cimitero che li informa. La polizia non ha niente a che vedere con questo. Vede, la legge dice che ogni appezzamento di terreno appartiene al cimitero. Gli eredi godono del diritto di servitù. È questo che pagano quando comperano il posto per la tomba. Non acquistano la terra. E sono gli eredi che vengono contattati.» «E allora vengono a vedere la tomba per controllare di persona. Che cosa c'è di strano in tutto questo?» «Be', arrivano prima della notifica. E come se già sapessero che la tomba è stata ritrovata vuota.» 5 La sensazione che qualcuno li osservasse non voleva sparire. Katherine si voltò per dare un'occhiata alla zona del cimitero alle sue spalle, ma non vide altro che uno scoiattolino grigio che sgattaiolava tra le file di tombe nella speranza di trovare rifugio in un albero prima di essere catturato da qualcuno. Ma da chi? «Le dirò un'altra cosa», proseguì il guardiano. «Ne ho viste di persone
che sono venute a visitare i propri morti nel corso di tutti questi anni. Ormai ho perso il conto. Piangono, parlano sommessamente sulle tombe, portano mazzi di fiori, a volte fissano il vuoto. Ma in questi casi, sono diversi. Questi erano spaventati.» «Forse erano solo sconvolti», azzardò Dominic. «Dopotutto erano state aperte le tombe dei loro cari. Dev'essere una notizia abbastanza sconvolgente.» «So riconoscere una persona spaventata», insisté il vecchio. «Tremavano, gliel'assicuro. Avevano l'aria di aspettarsi che qualcuno li toccasse sulla spalla da un momento all'altro. Mi sono avvicinato a una signora e quasi è svenuta per lo spavento.» «Come se avesse visto un fantasma?» «Non è una battuta», rispose il guardiano. «Non deve dimenticare quello che hanno passato queste persone. La morte di una persona cara provoca sempre un enorme dolore. Ma poi, tutt'a un tratto, il cadavere sparisce. È ovvio che si spaventino.» Da un punto indeterminato di Long Island arrivò una folata di vento che, con sé, portò l'odore salmastro delle secche lasciate dalla marea, trascinando sulle tombe le foglie secche delle querce. Il rumore delle foglie che cadevano per terra assomigliava al fruscio furtivo di una persona. Katherine non intendeva più ascoltare le storie del vecchio. «Possiamo andare adesso?» domandò. Dominic alzò una mano. Non voleva essere interrotto. «Lei sapeva che quattro di quelle persone si erano suicidate?» Il guardiano spalancò gli occhi, distolse lo sguardo e prese a calci una zolla che finì in una fossa. «Che Dio accolga le loro anime», commentò con un filo di voce. «Evidentemente è per questo motivo che hanno smesso di venire al cimitero. Adesso mi spiego.» Il vecchio fissò un punto nel vuoto del cimitero. Katherine tremava silenziosamente. Le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere rumorosamente sul suo impermeabile, producendo un ticchettio attutito. «Non sono sorpreso», esclamò infine il guardiano. «Ma è orribile che una persona arrivi a tanto. Specialmente se ha paura dei morti.» La pioggia divenne più insistente e Katherine si alzò il bavero, accostandosi a Dominic per usare il suo corpo come protezione contro il vento. «Dovrei rimettere a posto questa tomba», aggiunse il guardiano, «ma ormai piove e non credo che i funzionari del coroner verranno oggi.»
Al capanno degli attrezzi, Dominic scarabocchiò il proprio nome e indirizzo su un pezzo di carta che allungò al vecchio. «Mi faccia un favore», gli disse. «Se si fa vedere qualcuno per quella tomba, può chiedergli di mettersi in contatto con me? O, se non altro, prenda i loro nomi e mi chiami di persona.» Il guardiano studiò il pezzetto di carta. «È un numero interurbano», commentò. «Può telefonare a mio carico.» «Ma da dove venite voi?» «Dalla Pennsylvania.» «E che cosa vi importa di quello che succede qui?» Sentendosi improvvisamente coinvolto, il vecchio si stava facendo sospettoso. «Avete parenti seppelliti qui?» Dominic si frugò in tasca alla ricerca del portafogli. «Abbiamo un caso uguale al vostro dalle nostre parti», gli spiegò. «Cadaveri che spariscono dalle tombe. Vogliamo controllare se esiste un collegamento.» Sul retro del capanno degli attrezzi c'era una piccola finestra. Aspettando che Dominic finisse di parlare con il guardiano, Katherine vi si diresse. Non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di essere osservata. Il vento scaraventava le gocce di pioggia contro il vetro sporco di terra. Studiò attentamente le tombe alla ricerca di qualche movimento. C'era qualcuno là fuori? Oppure era solo la stanchezza che le stava giocando un brutto tiro? Che fossero i primi sintomi di una paranoia incipiente? Sapeva bene che iniziava sempre così. All'inizio qualche vago sospetto. Le spirali del dubbio. Sensazioni insidiose. Affioravano sempre nella mente per prendere progessivamente la forma coerente e razionale di pensieri del tutto realistici. Erano tutti concetti ingannevoli: le maschere della realtà. Faceva tutto parte di chissà quale assurdo disegno paranoico? Era impossibile rispondere perché le illusioni esistevano solo nella mente senza influire minimamente sulle funzioni intellettive. Freud aveva dimostrato che i paranoici erano capaci di un comportamento assolutamente coerente, senza peraltro smettere di difendere le proprie illusioni. Esattamente come stava succedendo a lei in quel momento, mentre si staccava dalla finestra. «C'è qualcuno là fuori», disse. Illusione o realtà, ormai ne era convinta.
I due uomini sospesero la conversazione e la raggiunsero. La pioggia aveva sciolto la terra sul vetro trasformandola in fanghiglia grigiastra che rendeva difficile la vista del cimitero. Dominic andò alla porta e, dopo qualche minuto, scosse il capo. «Io non vedo niente», disse. «Forse è solo colpa della pioggia.» «I cimiteri fanno questi scherzi ogni tanto», commentò il guardiano. «Suggestionano la mente e la gente vede cose che non esistono. È tutto talmente tranquillo che spesso ci si domanda se per caso i cadaveri seppelliti da chissà quanti anni non possano udire i nostri passi in superficie.» Katherine rimase in silenzio finché non salirono in macchina per tornare a Manhattan. «Adesso ho capito perché mi hai telefonato stamattina», gli disse. «Pensi di aver capito veramente?» «Non volevi lasciarmi da sola. Avevi paura che mi suicidassi, com'è successo agli altri.» «Questa è una delle ragioni», ammise lui. Katherine conosceva una scorciatoia per il Queensboro Bridge, ma lasciò che ripercorresse la stessa strada di prima. «Pensavi che non fossi in grado di affrontare la situazione», continuò. «Ma non devi preoccuparti per me. Sono una psicologa, ricordi?» Ridacchiò sommessamente con un'espressione sarcastica. «E questo dovrebbe fornirti la protezione di cui hai bisogno?» le domandò lui. «Pensi di essere immune? Be', tutti hanno una parte di pazzia, inclusi professori e psichiatri.» «Tu non sai niente di psichiatria.» «Ne so abbastanza per dire che è una perdita di tempo. Gli psichiatri non fanno altro che ascoltare.» «Se ne frequentassi qualcuno, non avresti i problemi che hai.» Non fece in tempo a pronunciare quelle parole che già se le sarebbe rimangiate. «Tu pensi che io sia pazzo?» «Non ho detto questo.» «Non mi conosci bene. Non sai quello che ho dovuto passare.» «So tutto di tua moglie», gli disse con tono gentile. Non aveva voglia di litigare con lui. «Tu non sai niente di Cara. Nessuno sa. Parlano tutti, ma nessuno sa veramente com'è stato. Nemmeno com'è stata la sua fine.» «Raccontami. Forse posso aiutarti.»
«Tu aiutarmi?» Scoppiò a ridere. «Tu hai più problemi di me. Almeno io riesco ad ammettere che Cara è morta. È morta e sepolta e so che non tornerà mai più indietro. Tu invece sei convinta che tua madre sia ancora in vita.» «La tomba è vuota», ribatté con voce piatta. «L'hai vista anche tu.» «Questo significa solo che il corpo è sparito. Non significa necessariamente che è viva.» «L'ho anche vista due volte.» «Ho pensato anche a questo. Dopo la morte di Cara, non facevo che sentire il suo profumo, udire la sua voce. Ero pronto a giurare che fosse lei. Mi svegliavo di notte e pensavo di trovarla al mio fianco. Era solo la mente che mi giocava brutti scherzi. Volevo che fosse con me e la mia mente fingeva che fosse così. Era solo l'eco di Cara. È quello che succede anche a te.» «E che cosa mi dici di tutte queste tombe aperte? Queste riesci a spiegarle?» «Non ancora», rispose lui. «Non ancora.» Paranoia, pensò. Aveva appena finito di difendere quella che poteva benissimo essere un'illusione. I palazzi di Manhattan si profilarono sull'altro lato dell'East River, colonne di marmo bianco che andavano a bussare alle nuvole scure. Percorsero le strade della città in direzione di casa. Ci vollero pochi minuti per fare le valigie. Non voleva restare in quell'appartamento un minuto più del necessario. Raggiunsero il George Washington Bridge prima dell'ora di punta pomeridiana. La pioggia si mescolava con l'acqua tiepida dell'Hudson provocando un sottile strato di nebbia che andava a coprire la base delle New Jersey Palisades. «Senti, mi dispiace», esclamò infine. «So di sembrare ingrata, ma sono molto stressata.» «Lascia perdere», grugnì lui. «Vorrei ringraziarti per essere venuto ad aiutarmi. Quando ho sentito la tua voce per telefono è stato un vero sollievo. Non so che cos'avrei fatto altrimenti.» «Fa parte del mio lavoro», disse lui. «Ma ormai non hai più un lavoro. Sei stato licenziato. È per questo che non hai mostrato il distintivo al tenente Coleman e al guardiano del cimitero. Non sei più un agente di polizia. Tutto per colpa mia.»
«Il fatto di non avere più un distintivo non cambia la situazione. Mi hai visto al lavoro. Sono riuscito a ottenere le informazioni che volevo anche senza. Posso comunque svolgere il mio lavoro.» «Ma ormai non hai nessun posto», ripeté lei. «Sei stato licenziato. E non sei più un poliziotto.» «Continui a chiamarmi poliziotto. Non ero un agente. Ero un detective.» «Scusa.» «È l'unico lavoro che so fare. E me la cavavo anche piuttosto bene.» «Te la cavi ancora bene», commentò lei. «Hai appena scoperto altri casi di tombe aperte.» «Questo è stato facile.» «Però tu sei stato veloce. Me ne sono andata da Dickson solo ieri e già stamattina hai scoperto qualcosa di nuovo.» «È stato facile. Una cosa strana come questa deve succedere per forza anche a New York, se può capitare in qualsiasi altro posto. Si dice sempre che a New York c'è tutto. Be', io ho pensato che ci fossero anche più morti che altrove e allora ho chiamato la Centrale e ho fatto centro.» Si lasciarono alle spalle l'ultimo dei sobborghi newyorkesi e fecero ingresso in Pennsylvania, passando dai massicci cancelli del Delaware Water Gap. Davanti a loro, le cime delle Pocono Mountains erano nascoste dalle nubi pesanti di pioggia. «E non ti spaventa quello che hai appena saputo?» gli chiese. «Le tombe vuote? No. Questo non mi preoccupa. Quello che mi dà da pensare sono i quattro morti in seguito alla scoperta delle tombe.» «Non puoi continuare a fingere di essere un detective. Puoi bluffare a New York, ma a Dickson ti conoscono tutti.» «Ho sempre qualche amico.» «Tra cui non c'è il capo della polizia, a quanto ho capito. Potresti cacciarti nei guai, aiutandomi.» «Non può impedirmi di fare qualche domanda», rispose Dominic in tono di sfida. «Tutti hanno il diritto di fare domande.» «Mi ha cacciato dalla città», gli ricordò. «Non sarà felice di rivedermi.» «Non può fare niente. Conosco la legge quanto lui. Non gli permetterò di infastidirti. E poi non puoi restare a New York. Hai visto anche tu che in quel posto la polizia non s'interessa a nessun caso. Voglio che resti in un luogo dove sia possibile tenerti d'occhio.» La strada s'inerpicava sulle montagne, conducendoli nei luoghi di villeggiatura tipici delle lune di miele, verso gli chalet di montagna e le piste da
sci tracciate sui versanti dei pendii. Gradualmente, gli alberi venivano cancellati dall'insistenza di nuvole plumbee. Dominic accese i fari e rallentò. Ben presto, anche la strada sparì, inghiottita dalla nebbia. «Non ti dispiace restare da Eddie, vero?» «Non penso di avere alternative.» «Non ci sono alberghi a Dickson.» «Va bene così, non preoccuparti. All'inizio mi aveva spaventato per il suo aspetto, ma poi mi sono abituata.» «Con Eddie succede sempre così. Deve sempre sopportare un sacco di stronzate per via delle sue mani. Ma ormai si è abituato. È da ammirare, invece. Porta avanti bene il bar e conduce una vita decorosa. Molte persone con le mani normali non riuscirebbero a fare altrettanto.» «E sa anche giocare a bowling. È un vero campione.» «Ti ha detto anche questo?» «È davvero incredibile come riesca a superare il suo handicap. Deve essere molto appassionato di bowling.» «Non è un grande giocatore», lo ridimensionò Dominic. «Dice a tutti che sa giocare bene, ma è mediocre. Lo tengono nella squadra solo perché offre sempre da bere a tutti dopo le partite.» «Sei cattivo.» «No. Sono sincero. Come puoi pensare che uno senza braccia possa giocare bene a bowling? Ci vuole una buona dose di controllo per lanciare la palla come si deve. Occorre il perfetto controllo dell'avambraccio e del polso. Per questo Eddie non potrà mai diventare un buon giocatore. Non ha mai fatto più di trentacinque punti. Non è quello che si chiama un campione.» «Allora esagera. Ma che male c'è? Continuo ad ammirarlo anche solo perché ci prova. Ci vuole coraggio per esporsi ai pericoli del ridicolo.» «Ti ha preso in giro con una delle sue storielle e tu l'hai bevuta. Adesso però cerchi di difenderlo. Sei veramente un'ingenua.» Rispose alla sua schiettezza con il silenzio. L'unico rumore dell'auto era quello prodotto dai tergicristalli. Il loro movimento automatico ebbe un effetto ipnotico su Katherine che dovette lottare per tenere gli occhi aperti. Con tutta quella nebbia grigia, non c'era nessun punto di riferimento su cui concentrarsi. Non aveva voglia di guardare Dominic. Per quanta riconoscenza potesse avere nei suoi confronti, c'era sempre qualcosa in quell'uomo che la spaventava. Non capiva perché avesse improvvisamente preso interesse nei suoi problemi. Non era più un
agente di polizia. Soffriva di una forma di distacco dalla realtà. Questo era evidente, però aveva iniziato a parlare molto liberamente. E, riportandola a Dickson, rischiava di accollarsi altri guai. Era buio, quando raggiunsero la Lackawanna Valley. Le luci della città sottostante erano numerose al centro, ma si diradavano sui versanti delle colline. La nebbia adagiata sulle cime delle montagne faceva da baldacchino contro il quale si rifletteva il bagliore delle luci. «Per quanto tempo dovrò restare?» gli chiese. «Non lo so», rispose stancamente lui. «Per tutto il tempo necessario a chiarire la situazione.» «Non puoi arrestare nessuno che resusciti dalla propria tomba.» «Io non credo nei fantasmi», ribatté lui. «Te l'ho già detto una volta. E, comunque, non avrei più la possibilità di arrestare qualcuno.» «È un caso soprannaturale, Dominic. Che tu lo voglia ammettere o no. Mia madre può fare quello che vuole e tu non puoi controllarla.» Iniziarono a discendere la collina che costeggiava Scranton, oltrepassarono una serie di insegne verdi e rosse, un incrocio e si immisero nella strada a due corsie che serviva da vialone principale di Dickson. «Le tue intenzioni sono buone, ma non puoi controllare una situazione come questa», ripeté Katherine. «Anch'io sono convinto che ci sia qualcosa... qualcuno che si aggira là fuori. Ma non credo che sia tua madre. Non può essere. Lei è morta, da otto anni. Ho intenzione di scoprire che cosa si nasconde dietro questa storia delle tombe vuote e i quattro suicidi. Non so che cosa possa essere, ma lo scoprirò.» Dominic andò a parcheggiare davanti alle finestre illuminate di rosso del Valley Inn. Prese i bagagli e si diresse verso il retro. «Non ha senso far sapere subito al capo che sei arrivata», le spiegò. Premette un pulsante sotto il davanzale della finestra della cucina. All'interno risuonò un cicalino che chiamò immediatamente Eddie alla porta. «È l'ingresso della domenica», spiegò Dominic. «Quello che si usa anche di notte.» Eddie Elbows la prese per mano e la condusse all'interno. «Sono contento che sia tornata», la salutò con un ampio sorriso. Salirono le scale di servizio. Katherine captò uno scorcio del bar affollato, mentre passavano dalla porta che dava sulla sala principale. Qualche cliente si voltò a guardare. «Ho tolto dall'armadio qualche vestito di Phyllis così ha più spazio», le
disse Eddie. Il letto era stato rimboccato e le lenzuola riportavano ancora le pieghe della confezione in cui erano state vendute. «Le ho portato di sopra anche un televisore, nel caso si annoiasse», continuò. «È molto piccolo, però è a colori.» Le accese il televisore per dimostrarle quanto le aveva appena detto. «Le porto da mangiare», aggiunse. «Starà morendo di fame.» «Non ho fame», rispose lei guardandosi attorno. «Non faccia complimenti», insisté Eddie. «C'è un sacco di cibo da basso. Durante i weekend inserisco nel menù sandwich al prosciutto e salsicce all'aglio, quindi non è un problema. C'è anche l'insalata di patate e di cavolo. Sa già dove si trova il bagno, quindi, dopo che si sarà rinfrescata, scenda pure in cucina. La aspetto.» Eddie se ne andò e Katherine si sedette sul letto dove tastò dolcemente le lenzuola nuove e morbide. Dalla porta aperta filtravano i rumori dei videogiochi e il suono cavo delle palline del biliardo che si scontravano. Di tanto in tanto, dal bar si levava qualche strillo. «Com'è rumoroso», esclamò. «È così tutte le sere?» «Solo al fine settimana», rispose Dominic. «Faranno rumore fino a mezzanotte. Poi la gente si sposta nel bar di Scranton.» «Spero di riuscire a dormire.» «Se non altro sarai circondata dalla gente. È meglio che stare da sola in una stanza d'albergo.» «Posso scendere al bar?» domandò. «Non starai parlando sul serio? È un circolo di ubriaconi.» «E allora posso uscire a fare una passeggiata?» «Qui starai più al sicuro.» «Abiti lontano?» domandò. «A tre chilometri da qui, ma tu sarai protetta. Eddie tiene un fucile da caccia dietro il bancone e, nel caso, io faccio in fretta ad arrivare.» «Che cosa pensi di dimostrare tenendomi qui dentro?» domandò. «Queste sono tutte manifestazioni soprannaturali. Vanno oltre il controllo umano. Non c'è niente da fare.» Lui era in piedi vicino alla finestra, in posizione tale da poter guardar fuori senza essere notato. Il suo viso venne improvvisamente illuminato da un sorriso. «Non potrai fare niente», ripeté lei, nel tentativo di attirare la sua attenzione.
«Ho già fatto qualcosa», rispose lui senza voltarsi. «Non capisco.» «Ti ho portato qui», spiegò. Il suo sorriso la mise a disagio. «E sta già funzionando», aggiunse. «Funziona prima di quanto mi fossi immaginato.» «Di che cosa stai parlando?» «Delle tue sedicenti manifestazioni soprannaturali. Qualsiasi cosa sia, ti ha seguita da New York.» Katherine si precipitò alla finestra. Dominic la trattenne, impedendole di farsi vedere. Dal telaio della finestra fissato malamente, filtrava una corrente d'aria gelata. Fuori, il vento stava prosciugando i rimasugli d'acqua dalle strade. Il tempo era cambiato. «Guarda fra quei palazzi dall'altra parte della strada», le indicò. «Non vedo niente.» «Tra le ombre. Aspetta che gli occhi si abituino al buio. Poi vedrai.» Il punto che aveva indicato era un passaggio stretto fra una casa bianca e un negozio di elettrodomestici. Come tutti i palazzi della strada principale, erano separati da pochi metri di spazio. Katherine fissò nel buio finché le ombre cominciarono ad assumere forme più distinte. Quello che all'inizio era sembrato un nero impenetrabile, iniziò a diventare grigio sfumato ma la massa continuava a restare indistinguibile. «Che cosa c'è?» chiese. «C'è una sagoma fra quei palazzi.» «Ne sei sicuro?» domandò. «Non riesco a vedere con questo buio.» «Continua a guardare. Guarda! Hai visto che si è mossa?» «Non ne sono sicura.» «Ecco. La vedi adesso?» I fari di una macchina di passaggio illuminarono brevemente le ombre. La sagoma si ritrasse immediatamente per nascondersi. Katherine si protese per vedere meglio.» «Mamma!» urlò. Dominic cercò di tirarla indietro. «Mamma!» La figura dall'altra parte della strada si ritrasse nell'ombra. Tremando di fronte alla finestra, Katherine cercò disperatamente di distinguere meglio i lineamenti della sagoma. «Non lasciare questa stanza», le ordinò Dominic. «Chiuditi dentro a
chiave. Non voglio che scendi al bar, non voglio che vai in bagno né in corridoio. Devi restare qui e non aprire a nessuno al di fuori di me o di Eddie. Hai capito?» Katherine annuì, incapace di parlare. «Ti mando Eddie perché ti tenga compagnia.» Dalla finestra, vide Dominic che correva sull'altro lato della strada. Il fascio di luce della sua torcia si fermò nel punto in cui era stata avvistata la figura. La luce poi sparì fra le case, ricomparendo qua e là. Restò alla finestra a osservare per un'altra ora e si staccò solo per andare ad aprire a Eddie. Entrò trasportando un vassoio con un piatto colmo di fette di prosciutto, un altro di fette di pane di segale, una ciotola di insalata di cavolo, un barattolo di senape e una bottiglia di vino. Katherine tornò velocemente alla finestra. La torcia di Dominic non era più visibile. «Ha bisogno di mangiare», le disse Eddie. «Dominic mi ha detto che non avete messo niente sotto i denti da questa mattina.» Appoggiò il vassoio su un tavolino pieghevole e prese una sedia per accomodarsi. Poi fece cenno a Katherine di andare a sedersi sul letto. «Non è obbligato a restare», gli disse lei. «Me la cavo anche da sola.» «Dominic mi ha chiesto di restare», le rispose Eddie. Con i moncherini, riuscì a stappare la bottiglia nel modo più esperto che avesse mai visto. Le porse il tappo e le versò un goccio di vino perché potesse assaggiarlo. «È così che si fa nei posti eleganti», le spiegò. «Io non lo faccio mai nel bar, perché penserebbero tutti che voglio fare lo snob.» Per non deluderlo, Katherine ne bevve un goccio e annuì in segno di approvazione. «È un Pinot Nero Sebastiani», aggiunse lui, riempiendo i due bicchieri. Era difficile trattenersi al profumo invitante del prosciutto. La sua fragranza era affumicata. Era genuino, non come il prosciutto sottovuoto a cui era abituata a New York. «Domani le porterò qualcosa di meglio», riprese lui. «Questo è solo quello che servo al bar.» «Non ho bisogno di niente di particolare», lo rassicurò lei. «Ma lei viene da New York, è una professoressa e, sicuramente, è abituata a mangiar bene. Non mi capita spesso di stare con persone in grado di apprezzare piatti raffinati. Vuole ancora un po' di vino?» E le riempì il bicchiere prima che potesse rispondere. «Con mia moglie via, non mi è rimasto nessuno per cui cucinare. Io sono un grande cuoco, ma se devo la-
vorare solo per me, non inizio nemmeno. Ci vuole troppo tempo per preparare una cena per una persona sola.» Katherine non si era accorta di quanto fosse affamata. Dopo aver sbocconcellato il prosciutto qua e là, si convinse a prepararsi un generoso sandwich. L'affettato era tenero, il pane di segale saporito e la senape piccante. Il Pinot nero era il metodo migliore per sciacquare via tutto. «Sua moglie è fortunata ad avere un marito che sa cucinare bene come lei», commentò. Sembrava compiaciuto da come stava gustando le sue pietanze. «Sono io il fortunato», commentò. «Phyllis è una donna meravigliosa, la più bella della città. Ha classe, molta classe. Lo si nota subito appena entra in una stanza. Lo si vede dal suo portamento, capisce?» Si appoggiò allo schienale della sedia e sorrise. «La gente è invidiosa. Non si sanno spiegare come abbia fatto ad attirare una donna come Phyllis. Mi prendono in giro tutti per le braccia, ma a Phyllis questo non importa. Per niente.» Parlando con Eddie, Katherine si dimenticò temporaneamente della figura che aveva visto per strada. «Deve amarla davvero», disse Katherine. Per un istante, pensò di aver visto delle lacrime negli occhi di Eddie. L'uomo poi scolò il bicchiere. «Lo penso anch'io», rispose lui. «Il nostro è un matrimonio davvero meraviglioso.» Al rumore dei passi di Dominic che risalivano le scale, balzò in piedi. Quella reazione colse di sorpresa Katherine. «Devo tornare al bar», le disse. «Se desidera qualcos'altro batta sul termosifone con quel martello di legno. È il segnale che usava sempre anche Phyllis. Da basso si sente chiaramente, grazie al tubo che passa esattamente dietro il bancone del bar.» I pantaloni di Dominic erano sporchi di erba bagnata, le scarpe impantanate. Respirava a fatica per lo sforzo della corsa che aveva appena fatto. «L'hai trovata?» gli domandò Katherine. Dominic scosse il capo. «Ma era lei, vero?» «È difficile dirlo», rispose attraversando la stanza. Aveva con sé una borsa di plastica trasparente. «C'erano delle orme», aggiunse. «Scarpe di donna, ma poi le ho perse.» Le allungò qualcosa che teneva nella borsa.
«Ti dice niente?» le chiese. Katherine perse improvvisamente l'appetito. «È il rosario della mamma», rispose. 6 Dentro la borsa c'era un vecchio rosario composto da grani di legno nero infilati in una catena d'argento. La figura sul crocifisso era parzialmente consumata in seguito all'uso fatto negli anni. Le tornò in mente la vita tascorsa insieme con la mamma. La messa della domenica mattina. Il pesce del venerdì. Il mercoledì delle ceneri. Tutti riti che la mamma seguiva scrupolosamente. Il paradiso, l'inferno e il diavolo. Il diavolo era qualcosa di reale per lei, ricordò Katherine. Era sempre in attesa dietro l'angolo, pronto a compiere le sue malvagità. L'unica salvezza erano l'angelo custode e la preghiera. La cosa migliore era dire il rosario. Ogni sera, le dava la sicurezza di aver adempiuto agli ultimi riti prima di dormire. Ma a quanto pareva per la mamma non era stato così. I Cinque Misteri Gloriosi del rosario erano quelli che preferiva. Il primo era la resurrezione dalla tomba. Era questo quello che stava succedendo? «L'ho trovato per terra tra le case.» «Quel rosario era suo da quando era bambina», spiegò Katherine. «L'avevamo seppellito con lei. Lo vedo ancora tra le sue mani quando era distesa nella bara.» Si rifiutò di toccare la borsa. «Che cosa vuole da me?» chiese Katherine con un filo di voce. «Perché fa questo?» Le spalle smisero di tremare. Dominic si sedette sul letto, la cinse con un braccio e l'attirò verso di sé, senza incontrare resistenza. «Perché?» ripeté. «Che cosa vuole da me?» «Cerca di calmarti», disse Dominic. «Non può trattarsi di tua madre. Tua madre è morta.» «Eppure è in giro, Dominic. L'hai vista anche tu.» «Io ho visto una figura nell'ombra. Poteva essere chiunque.» «Hai detto che si trattava di una donna. Quale donna potrebbe osservarmi, se non lei?» «Non lo so.» «Hai anche trovato il suo rosario. Me lo sai spiegare tutto questo?» «No.»
«Allora, perché non vuoi ammettere che si tratta di lei?» «Perché è impossibile.» Katherine si scansò. Non era disposta ad accettare i suoi tentativi di consolazione. «Io ho studiato parapsicologia», disse. «Ed esistono centinaia di casi ampiamente documentati di morti che comunicano con i vivi.» «Non dirmi che ci credi davvero!» esclamò lui. «Ormai non so più a che cosa credere», rispose. «Non so che cosa mi stia succedendo. Non mi fido più di ciò che vedo.» Lui l'abbracciò di nuovo. Lei cercò di resistergli, ma Dominic l'attirò a sé. Cominciò a cullarla, come quando un genitore cerca di consolare un bambino. «Che cosa vuole, Dominic? Se solo sapessi che cosa vuole da me, lo farei! Farei qualsiasi cosa perché lei potesse riposare in pace.» «Non devi permettere a te stessa di pensare in questi termini», le disse. «Non devi cedere. Ci deve essere una spiegazione logica.» Katherine sospirò. «Magari ci fosse.» «Devi accettare il fatto che è morta. È il primo passo», le disse Dominic in tono gentile. «Quando avrai accettato questo, ti convincerai anche che non può più tornare.» «Parli come uno psicologo.» «Anch'io ho dovuto convincermene quando è morta Cara.» «Lo dicono anche i libri di testo, ma nella realtà le cose sono più difficili.» «No», ribatté lui. «Era più facile fingere che fosse ancora viva. All'inizio anch'io la pensavo così. Di notte, restavo nel letto sveglio, ad aspettare e a pregare di sentirla infilarsi sotto le coperte. Oppure, quando tornavo a casa dal lavoro, la chiamavo per vedere se rispondeva. Facevo cose che ormai mi sembrano stupide, ma a quei tempi non potevo farne a meno.» «E come sei riuscito a superare la situazione?» Smise di cullarla. «Non sono sicuro di averla superata completamente. Non ancora. Ci sono volte in cui il desiderio di rivederla entrare dalla porta è talmente forte che mi metto a piangere.» La sua voce si incrinò pronunciando l'ultima parola. Katherine non osò guardarlo, per paura di esporsi al suo dolore. «L'amo tanto», proseguì lui, «anche se so che è morta e che non tornerà mai più. L'amo ancora. Oh, Dio, come l'amo!»
Il corpo di Dominic venne scosso da singhiozzi violenti. Katherine l'abbracciò stringendolo più forte che poteva, nel tentativo di consolarlo. «Non riesco a trattenermi», disse fra i singhiozzi. «Scusami, non ce la faccio.» Katherine continuò a stringerlo mentre lui piangeva per la perdita della moglie. Non le venne in mente nulla da dirgli che potesse calmarlo. Tenendolo fra le braccia, Katherine riusciva a sentire il dolore che scuoteva il corpo dell'uomo al punto di farlo suo. Le lacrime erosero l'ultimo briciolo di controllo che Katherine aveva ancora sulle proprie emozioni. Fu come se un muro dentro di lei si stesse sciogliendo. Sentì lacrime calde salirle agli occhi e a un tratto si ritrovò a piangere insieme con lui. Per la prima volta in otto anni, piangeva per sua madre. Lacrime di dolore e paura, lacrime di angoscia e colpa si confusero e insieme lavarono la sua mente. E con loro, si riversarono le emozioni a lungo represse. «È stata colpa mia», singhiozzò lei. «Se fossi rimasta con lei, non si sarebbe ammazzata.» Udì le sue parole di conforto, ma continuò ad autoaccusarsi. «L'ho abbandonata», si lamentò Katherine. «Non l'ho aiutata nel momento del bisogno. E adesso farei qualsiasi cosa per rimediare.» Dominic le offrì un fazzoletto già bagnato delle sue lacrime. Katherine si soffiò il naso e si asciugò gli occhi. Si riempì poi i polmoni di aria espirando profondamente. Dominic si alzò e tornò alla finestra. «Si sta facendo tardi», commentò. «Non mi va di lasciarti qui da sola.» «Non è un problema. Adesso mi sento meglio.» Si asciugò le ultime tracce di pianto intorno agli occhi con il palmo della mano. «Piangere aiuta», le disse lui con tono gentile. «Ma non mi riferivo a questo. Sono preoccupato per la tua sicurezza. Forse non avrei dovuto portarti qui.» «Ma io sono felice che tu l'abbia fatto.» Assunse un'aria allegra per far sembrare la frase più sincera. «Non so se ho fatto bene», ripeté Dominic scuotendo il capo. «Qui sei in pericolo, più di quanto mi immaginassi. Succede tutto più in fretta del previsto.» «Che cosa intendi dire?» Lui continuò a fissare fuori della finestra. Dall'espressione non si capiva
se aveva visto qualcosa in particolare. «Ti ho fatto venir via da New York perché quelle manifestazioni, come le chiami, sembrano seguirti, ma non mi aspettavo che si ripresentassero così in fretta.» Non vedendo nulla in particolare, si scostò dalla finestra. Sul suo volto era tornata la solita espressione seria. Aveva ripreso il controllo di se stesso. Era impossibile immaginare che solo qualche istante prima stesse piangendo fra le sue braccia. «Quella figura dall'altra parte della strada», disse lui. «È comparsa pochi minuti dopo il nostro arrivo. Nessuno sapeva che saremmo venuti qui.» «Non c'è una risposta», commentò Katherine. «So che ti rifiuti di crederlo, ma stai cercando una spiegazione che non esiste.» Fu con stupore che lo vide estrarre una piccola pistola da sotto l'ascella. Era tutto il giorno che la teneva nascosta sotto la giacca. Non se n'era accorta nemmeno quando l'aveva abbracciato. «È la mia pistola», spiegò senza esitazioni. «Mi hanno tolto la Magnum 357 che usavo quando ero nella polizia.» Fece scattare il tamburo nero, estrasse i proiettili dalla punta ricoperta di rame, lo rimise in posizione e le offrì la pistola dalla parte del calcio. «Prova a tenerla in mano. È scarica. Vedi come te la senti. Ha un'impugnatura piccola, per cui dovrebbe andare abbastanza bene.» Katherine si ritrasse. «Mi avevi detto che Eddie ha un fucile.» «Che non esiterà a usare nel caso fosse necessario. Non devi preoccuparti. Questa servirà ad avere una maggiore protezione. Non si sa mai.» Continuava a porgerle la pistola. «Non ho una gran simpatia per le armi», ammise Katherine. «È per proteggerti, Katherine. Prendila.» «Preferisco di no», disse nascondendo le mani dietro la schiena. «D'accordo, non prenderla. Osserva attentamente, basta premere il grilletto, così.» La pistola emise uno scatto secco. «Sarà meglio usare due mani. Troverai un po' difficile premere il grilletto perché bisogna far ruotare il tamburo e allo stesso tempo far tornare indietro il cane.» «Non ho nessuna intenzione di imparare a usare una pistola.» «Non c'è nemmeno bisogno di puntare», proseguì lui. «Basta aspettare che siano più o meno alla mia distanza e bang! il gioco è fatto. Se la impu-
gni con tutte e due le mani, ti sarà più facile attutire il rinculo e sparare un altro colpo.» Dominic prese i proiettili d'ottone che riflettevano la luce. A mano a mano che li inseriva nel tamburo, producevano un suono attutito. «Hai a disposizione sei colpi. È inutile che ti dia altri proiettili, tanto non sai come ricaricarla.» «Forse non mi hai sentito», gli disse. «Ti ho sentito. Non hai una grande simpatia per le armi.» Chiuse il tamburo e mise la pistola sul comodino. «Te la metto qui, in modo che sia a portata di mano. Se questo può farti sentire meglio, ricordati che puoi anche non toccarla finché non ce ne sarà bisogno.» «Secondo te, sarei capace di puntare una pistola su mia madre? Ma andiamo, non essere assurdo!» «Nel caso fosse tua madre, nel caso fossi sicura che la persona che ti insegue è proprio lei, allora non sparare», replicò. «Ma in caso contrario, questi proiettili hanno la punta piatta sulla quale è stata limata una X. Sono stati ideati in modo da appiattirsi ed esplodere subito dopo l'impatto. Sono capaci di fermare qualsiasi cosa.» Fece una pausa. «Qualsiasi cosa, viva o morta.» Katherine fissò la pistola, il piccolo foro della canna mozza in grado di sputare frammenti di metallo mortali. «Non la userò mai.» «Quando avrai abbastanza paura, la userai. Te lo garantisco. Metterai da parte la logica e la razionalità e ti precipiterai a prendere la pistola.» «Ne dubito.» «Vedi, è proprio qui che ti sbagli. Io so come reagisce la gente in situazioni del genere. Lo so meglio di te, nonostante tutte le tue conoscenze di psicologia e di comportamento. Lo so perché io non studio i libri, ma la gente. E non spreco il mio tempo ascoltando ciò che dicono gli altri. Preferisco osservare quello che fanno. Ti ho osservata. Sei una donna in gamba. Ma adesso sei sotto stress e permetti alla tua immaginazione di avere il sopravvento su di te. Dovresti tornare alla realtà.» «E secondo te, quella pistola è la realtà?» «Non riuscirei a chiudere occhio se ti lasciassi senza protezione. La pistola resta qui. Se non dovrai usarla, tanto meglio, ma se dovessi averne bisogno, almeno ce l'hai. Non hai niente da perdere.» Forse ha ragione, pensò Katherine. Perché fare tante storie?
«Hai ragione quando dici che sono sotto stress, Dominic. È strano, conosco i sintomi, le cause psicologiche e la descrizione clinica. Sta per venirmi un esaurimento nervoso, lo so, e non posso fare nulla per evitarlo. Forse farei meglio ad andare in ospedale, come la moglie di Eddie.» «Come chi?» «La moglie di Eddie.» «Chi ti ha detto che è sposato?» «Me l'ha detto lui. Mi ha raccontato tutto di lei. Deve essere una donna meravigliosa e lui la ama molto.» «Mi vuoi prendere in giro?» «Ma che cosa dici?» «Eddie non è sposato. Non lo è mai stato.» «Mi ha detto che si chiama Phyllis. Mi ha detto che è una bella donna.» «Per essere un tipo istruito, sei molto ingenua. L'unica Phyllis che abitava da queste parti era una ragazza che lavorava al bar. Era tutt'altro che bella. Per essere sinceri, era orrenda. Aveva i denti sporgenti e il mento sfuggente. Ma non era la moglie di Eddie. Anzi, lei lo prendeva continuamente in giro.» «Mi ha detto che è ricoverata alla Clinica Mayo per un controllo.» «Eddie ti ha raccontato un'altra storia. La Phyllis che conoscevo è fuggita con un tizio cliente del bar. Un perfetto sconosciuto. Aveva sostituito Eddie al bar quel pomeriggio mentre lui era andato a smaltire una sbornia. È entrato un tizio che guidava un camion carico di mobili, ha ordinato una birra e ha chiesto indicazioni per raggiungere la I-80. Era diretto in California. Phyllis si è offerta di indicargli la strada di persona. Si è tolta il grembiule e, da quel momento, non l'ha più vista nessuno. Non ha nemmeno mandato una cartolina a Eddie. Per quanto ne so io, è in California.» Katherine si guardò attorno con un'espressione perplessa. «Ma i vestiti e tutto il resto? Ci sono profumi nel cassetto e abiti da donna nell'armadio.» Dominic sembrava essersi pentito di quello che aveva detto. «Quell'uomo si sente solo e si è costruito un mondo di sogni. Tu dovresti capirlo, dal momento che insegni psicologia. Non fa del male a nessuno. Si inventa qualche storia per sentirsi meglio. Non è che racconti bugie, perlomeno, lui non è convinto di questo. Racconta semplicemente tutto nel modo in cui gli piacerebbe fossero andate le cose. Non possiamo fargliene una colpa.» «No, infatti», rispose lei.
Comunque, la scoperta la infastidì. Era la seconda volta che Eddie la ingannava. Perché? Per Eddie era un'estranea. Non aveva motivo di mentirle. A meno che non intendesse farsi grande ai suoi occhi. Ma avrebbe dovuto sapere che Dominic le avrebbe raccontato la verità prima o poi. «So a che cosa stai pensando», le disse Dominic. «Pensi che non ti fidi più di lui e che hai paura a restare in questo posto. Probabilmente quella pistola ha un'aria più amichevole adesso, vero?» Non voleva ammettere che aveva ragione, quindi non rispose. «Non preoccuparti per Eddie. È pronto a rischiare la vita per proteggerti. Basta non credere a tutto quello che racconta di sé.» E tu, Dominic? Che cosa posso pensare di te? Posso fidarmi? Due giorni prima manifestava la sintomatologia tipica dello psicopatico: instabilità emotiva, sguardo allucinato tipico di chi soffre di insonnia. Eppure aveva abbandonato il rifugio di Dickson per andarla a prendere a New York. Aveva ottenuto con estrema facilità di sapere ciò che voleva dal tenente Coleman e dal custode del cimitero. Aveva mostrato di aver fiducia in se stesso ed era scomparsa l'apatia che aveva caratterizzato il loro primo incontro. L'unico segno di conflitto emotivo era stato quello di poco prima, quando era scoppiato in lacrime. Non lo si poteva biasimare per aver pianto al ricordo della moglie. Che si fosse trattato di una miracolosa inversione di rotta? Di un improvviso miglioramento dello stato depressivo in cui si trovava? Oppure era un segno di demenza precoce, dell'improvviso e a volte pericoloso cambiamento di personalità dello schizofrenico? Katherine fissò la pistola che le aveva lasciato: era un minaccioso oggetto di metallo la cui forma emanava uno strano fascino. C'era qualcosa in quella pistola che l'attirava. Il metallo freddo, l'impugnatura con un disegno a scacchi, centinaia di piccoli denti che affondavano nel palmo della mano. Il rivestimento grigio-azzurro era talmente consunto da rivelare il metallo lucente intorno al grilletto. Quella pistola era stata usata parecchio. La infastidiva l'idea di non sapere dell'esistenza di quell'arma finché non era stato lui a mostrargliela. Quali altri segreti le nascondeva? Impaurita da quei pensieri, appoggiò una sedia sotto la maniglia della porta. Se qualcuno avesse voluto entrare, la sedia non gliel'avrebbe impedito, ma, se non altro, avrebbe fatto abbastanza rumore da svegliarla. Nonostante la sua poca convinzione, mise la pistola sotto il cuscino e si addormentò con le dita a contatto con l'arma.
Si svegliò il mattino con il profumo della prima colazione. Il forte aroma di caffè si mescolava con l'odore dolciastro di uova e pancetta. Eddie Elbows era nella stanza ad apparecchiare il tavolo. Con gli occhi semichiusi, osservò i suoi movimenti. Eddie aprì un tavolino pieghevole. Con un movimento rotatorio del quale era evidentemente compiaciuto, aprì una tovaglia pulita lasciandola cadere in giusta posizione sul tavolo e poi la lisciò con gesti esperti; avrebbe potuto essere il cameriere di un qualsiasi ristorante di lusso se non fosse stato per la particolarità delle braccia. Apparecchiò il tavolo con le posate d'argento, sistemò i piatti e aggiunse un piccolo vaso con una rosa. Infine si voltò e le sorrise. «La colazione è servita, professoressa.» «Come ha fatto a entrare?» gli chiese. «Avevo messo una sedia davanti alla porta.» «Io non ho visto nessuna sedia», disse Eddie. «Non volevo svegliarla prima che fosse pronta la colazione. Ho preparato uova alla Benedict per lei e uova e pancetta per me.» Il cibo aveva un aspetto invitante, ma Katherine rimase avvolta nelle lenzuola. «La porta era chiusa a chiave», insisté. «Ho un secondo paio di chiavi per tutte le stanze.» «Avrebbe dovuto bussare.» «Come le ho detto, non volevo svegliarla. Coraggio, venga a mangiare.» La sedia che aveva messo contro la porta la sera precedente si trovava ora vicino al letto, a pochi centimetri di distanza. A portata di mano. Forse Eddie era rimasto nella stanza tutta la notte, come il giorno prima, pensò. Da quanto tempo la stava osservando? Probabilmente l'aveva anche toccata. Quella stanza non le sembrava più tanto sicura. Invece di essere un rifugio, cominciava ad apparirle come una trappola. Eddie prese posto a tavola. «Si raffredderà tutto», la invitò. «Venga, mangiamo.» Katherine rimase irrigidita sotto le lenzuola. «È entrato stanotte?» «Sono entrato solo qualche minuto fa», rispose lui. «Ho pensato di portarle la colazione. Non volevo farla arrabbiare. Se l'è presa?» Katherine fece scivolare la mano sotto il cuscino per prendere la pistola. «Non le va di mangiare assieme a me, vero?» disse Eddie. La pistola era sparita. Eddie le sorrise. «Probabilmente preferisce mangiare da sola. È questo
che vuole?» Katherine annuì e lo osservò mentre, con il piatto in mano, si dirigeva verso la porta. «Mi chiami quando ha finito», le disse. Rimasta sola, Katherine scattò fuori dal letto e tastò il materasso. Sotto il cuscino, dove prima c'era la pistola, trovò una macchia di grasso. Rovesciò le lenzuola. Niente. La pistola non era né sotto il letto né sul comodino. Era sparita. L'unica prova della sua presenza era quella macchia di grasso. «Le conviene mangiare», urlò Eddie. «Altrimenti si raffredda tutto.» Era sicura che la stesse osservando da qualche spioncino segreto. Decise di metterlo alla prova. Benché la paura le avesse tolto l'appetito, bevve una tazza di caffè. Le uova alla Benedict erano cucinate alla perfezione. I tuorli erano morbidi, la pelle ferma, e le brioches croccanti. Ruppe i tuorli e guardò il liquido rossastro che si spargeva sul piatto. Scostò il vassoio e tornò a letto. «Ha finito?» gridò Eddie con notevole tempismo. Katherine si guardò attorno domandandosi da dove la stesse osservando. «Posso entrare?» urlò di nuovo. «Così porto via i piatti.» Dal momento che non rispondeva, Eddie scostò la porta e fece capolino. «Va tutto bene?» domandò. «Non è arrabbiata con me, vero?» Senza proferire parola, Katherine prese il beauty e si diresse nel bagno. Si applicò il mascara con le mani che tremavano. Si sentiva esposta, osservata, violata. Effettuò le operazioni del trucco il più velocemente possibile. Quando tornò nella stanza, la colazione e il tavolo pieghevole non c'erano più. Il letto era stato rifatto. Osservandolo attentamente, notò che le lenzuola erano state cambiate. «Ho pensato che avrebbe gradito delle lenzuola pulite», si giustificò Eddie alle sue spalle. Era vicino. Talmente vicino che Katherine poteva sentire sul collo il suo alito caldo. «A Phyllis piace avere lenzuola pulite ogni giorno», spiegò. «Sono abituato a cambiare le lenzuola tutti i giorni.» Katherine si spostò, nel tentativo di creare una distanza di sicurezza fra loro. «È ancora arrabbiata con me?» le chiese sorpreso. «Perché? Io cerco solo di essere gentile. Dominic vuole che mi prenda cura di lei.» «So benissimo badare a me stessa», rispose.
«Non intendevo in questo senso», ribatté lui. «Volevo dire che Dominic mi ha ordinato di trattarla bene.» Si voltò per guardarlo in faccia. «Che fine ha fatto la pistola, Eddie?» «Quale pistola?» «Sa benissimo di che cosa parlo. Dove ha messo la pistola?» Scrutò il suo volto alla ricerca di un segnale che lo tradisse, di un tremolio dell'occhio o di una contrazione delle labbra. Ma Eddie rimase impassibile e alzò i moncherini per indicare che non riusciva a capire. «Non so di che cosa stia parlando. Sotto il bancone del bar tengo un fucile. Si riferisce a quello?» «Ieri sera, quando sono andata a dormire, c'era una pistola sotto il cuscino e stamattina è scomparsa. Lei è l'unica persona che è entrata in questa stanza. Dove l'ha nascosta?» «Forse l'ha messa lei in un altro posto senza accorgersene. Ha guardato in giro?» «Non faccia il furbo, Eddie. Stanotte è entrato nella stanza e deve averla portata via mentre dormivo.» «Io sono entrato solo per portarle la colazione. Forse la pistola non c'è mai stata. Forse se l'è solo immaginata. Ieri era molto stanca.» «La pistola appartiene a Dominic. Me l'ha data per maggiore sicurezza. E quando verrà qui, vorrà sapere che fine ha fatto.» Un'espressione turbata si accese sul volto di Eddie ma scomparve così rapidamente che Katherine non capì se si trattava di senso di colpa o di paura. «La pistola di Dominic, eh? Sarà meglio ritrovarla o andrà su tutte le furie. Ha controllato sotto il letto?» Eddie si inginocchiò e alzò il copriletto per guardare meglio. Lei restò immobile a osservare il suo improvviso interessamento. «Tanto lo sa che non è lì sotto», commentò lei. «Ha guardato nell'armadio?» Scattò in piedi e schizzò attraverso la stanza. «Forse ce l'ha lasciata quando ha disfatto la valigia.» «È inutile cercarla nell'armadio. La pistola non è lì e lei lo sa bene.» Eddie si voltò con un'espressione addolorata dipinta sul volto. I suoi occhi scrutarono la stanza alla ricerca di altri nascondigli. «Non è giusto accusarmi di aver preso la pistola di Dominic. Io con lei cerco di essere gentile, professoressa, ecco perché non l'ho svegliata quando sono entrato. L'ho fatto solo per gentilezza.»
Così non otterrò nulla, pensò Katherine. Decise di dare a Eddie la possibilità di restituirle la pistola senza dover ammettere di averla presa. «Ora esco a fare quattro passi e quando torno mi aspetto di ritrovare la pistola. Ci siamo capiti?» Eddie indietreggiò verso la porta scuotendo il capo. «Oh, no, lei non può uscire, professoressa. Mi spiace, ma non può.» Katherine prese il cappotto. «E lei non può tenermi qui», ribatté lei. Eddie le bloccava il passaggio. «No, professoressa. Lei deve rimanere in questa stanza. Dominic mi ha detto che non deve farsi vedere in giro. È troppo pericoloso.» «Decido io quello che è o che non è pericoloso», sbottò lei. «E comincio a pensare che sia più pericoloso restare qui dentro.» Infilando le braccia nelle maniche del cappotto, si girò per darsi un'occhiata allo specchio. Troppo tardi. Prima ancora di voltarsi, udì la porta che si chiudeva e la chiave che girava nella serratura dall'esterno. «Eddie!» urlò. «Deve restare qui», le rispose attraverso la porta. «Non posso farla uscire.» Katherine si precipitò alla porta e cominciò a picchiare con i pugni. «Mi faccia uscire, Eddie! Non ha nessun diritto di trattarmi così!» «Mi dispiace», si scusò lui ad alta voce. «Ma ho degli ordini da seguire. Lei deve rimanere in questa stanza, dove io posso tenerla d'occhio.» Katherine continuò a picchiare fino a farsi male. Scaraventò la sedia contro la porta, continuò a colpirla, finché le gambe della sedia non si ruppero. La porta tremava, ma resisteva ai colpi. «Rompere i mobili non le servirà a nulla», l'avvertì Eddie quando si accorse che aveva smesso di picchiare. «Comunque non può uscire. Quindi perché non si calma?» «Mi faccia uscire di qui», urlò lei. «Dovrà aspettare che torni Dominic. Lui è l'unico che può farla uscire.» «Tutto questo è illegale!» Era una frase sciocca, ma non le era venuto in mente nient'altro. «Così non fa che peggiorare le cose, professoressa. Si rilassi. Lei non va da nessuna parte.» Esausta per lo sforzo, Katherine si accasciò per terra. Raccolse una gamba della sedia e la scagliò contro il muro. In trappola.
Si guardò intorno. Non c'era telefono. Fuori della finestra il davanzale era collegato al tetto attiguo. Cercò di sollevare il vetro, ma non intendeva muoversi. Provò a utilizzare la gamba della sedia come leva, ma il telaio curvo della finestra si rifiutava di cedere. Era bloccato in un angolo del serramento. Bloccato da qualcuno che aveva accuratamente chiuso la finestra nella maniera sbagliata. Frustrata, si lasciò cadere sul letto. Non le rimaneva altro che aspettare. Fissare il soffitto. E pensare. Pensare a quanto fosse stata stupida a permettere che l'attirassero in quel posto. Chiuse gli occhi nel tentativo di cancellare le immagini dei suoi aguzzini. Un barista deforme con un labile senso della realtà. La stava osservando dallo spioncino? Si nascose sotto le lenzuola. Non poteva far altro che aspettare che un potenziale schizofrenico venisse a liberarla. La stanza era calda pervia del sole pomeridiano quando la voce di Dominic la svegliò. «Katherine, va tutto bene?» Lei non rispose. Picchiò contro la porta urlandole di aprire. Poi si udì una voce debole che si rivolgeva a Dominic. La chiave scivolò nella serratura con precisione metallica. La porta si aprì rivelando Dominic e Eddie. Dominic, rasato di fresco e con i capelli pettinati, indossava un cappotto sportivo di tweed al posto del vecchio giubbotto con la zip. Era un bell'uomo, se non fosse stato per gli occhi infossati e spaventati. Ma rasarsi e cambiare vestito non era sufficiente per nascondere ciò che Katherine riusciva a scorgere comunque. L'insonnia. L'ansia. La depressione. La demenza. Mentre lui si avvicinava al letto, Katherine si tirò indietro. «Che cosa c'è?» le domandò. Katherine si avvolse nelle lenzuola. «Perché mi hai fatto questo?» gli chiese. «Ma che cosa stai dicendo?» Katherine guardò la stanza. La sedia rotta non c'era più. Al suo posto ce n'era un'altra. Il cappotto era stato rimesso nell'armadio. Non c'erapiù traccia della confusione precedente. Le scarpe erano allineate con ordine vicino al letto.
«Io non mi sono tolta le scarpe», disse. «Che cosa?» «Non mi sono tolta le scarpe.» «Ti senti bene?» Scattò in piedi in modo che il letto restasse fra lei e gli altri due. Quando Dominic fece per andarle incontro, indietreggiò. «Di che cos'hai paura?» «Non avvicinarti.» Si trovò chiusa in un angolo. Eddie restò vicino alla porta a osservarla. Dominic si fermò e tese le mani come per dimostrarle che non aveva cattive intenzioni. «Devi aver fatto un brutto sogno, Katherine. Non voglio farti del male.» La sua voce era rassicurante. «Dimmi che cos'è successo.» «Ieri mi hai dato la pistola, nel caso avessi avuto bisogno di difendermi. Mi hai detto che ero in pericolo.» «Esatto.» «Be', ora la pistola non c'è più. Era sotto il cuscino prima che mi addormentassi e quando mi sono svegliata era scomparsa.» Gli occhi di Dominic si oscurarono. Di paura, pensò lei. Ma fu troppo breve perché potesse esserne sicura. «Deve averla presa Eddie», suggerì Katherine. «È entrato in questa stanza mentre dormivo ed era qui quando mi sono svegliata. Non so perché l'abbia fatto, comunque Eddie ha la tua pistola.» Katherine guardò verso la porta. Eddie era scomparso. Dominic aggrottò la fronte. «Eddie non farebbe mai una cosa del genere. Si comporta in modo strano, ma non sarebbe mai capace di rubare.» «È un bugiardo patologico che vive in un mondo di fantasia. Ha la personalità di uno psicopatico e il furto sarebbe più che naturale per lui. Mi spaventa.» «Eddie è innocuo», le assicurò lui. «Racconta cose bizzarre, ma non sarebbe mai capace di fare del male. Hai guardato bene in giro? Forse hai messo la pistola in qualche posto senza accorgertene.» «È esattamente ciò che ha detto Eddie. Sono certa che ce l'ha lui.» Dominic fece il giro della stanza, controllò nell'armadio, aprì i cassetti, rivoltò le lenzuola. «Ho già guardato anch'io», disse Katherine. Dominic si fermò vicino alla finestra.
«Non solo ha rubato la pistola», proseguì Katherine, «mi ha anche chiusa a chiave in camera. Non mi ha permesso di uscire.» «Mi spiace, ma la colpa è mia. Gli ho detto io di non farti uscire, che era pericoloso.» Dominic fece scorrere le dita lungo il telaio della finestra. Cercò di sollevarla ma era ancora bloccata. «Non mi va che entri in camera mentre sto dormendo. Se proietta le sue fantasie su di me, potrebbe diventare pericoloso.» Dominic colpì con il pugno la parte superiore del telaio, smuovendo il legno curvo. Spalancò la finestra con un leggero sforzo. L'aria fredda inondò la stanza. «A volte Eddie si fa prendere la mano, ma non ha intenzioni cattive. Devi abituarti ai suoi modi di fare.» Sporse la testa fuori della finestra respirando profondamente l'aria del pomeriggio. «Non voglio abituarmi ai suoi modi di fare», protestò lei. «Voglio tornare a New York.» Dominic tornò a guardare nella stanza. «Non posso permettertelo», rispose. Katherine sentì il bisogno di urlare, ma così facendo avrebbe mostrato a tutti che stava perdendo il controllo di sé. Cercò di mantenere ferma e calma la voce. «Non hai nessun diritto di trattenermi qui. Voglio tornare a New York.» «Sto cercando di proteggerti», le spiegò lui. «Qui o a New York è la stessa cosa», rispose. «Sai che cos'è successo l'ultima volta che ci sei andata.» «Non tornerò nel mio appartamento. Andrò in un albergo. E il mattino dopo prenderò un volo per Portorico. Nessuno saprà dove sono.» «È un rischio troppo grande. Non posso permettertelo.» «Non sto chiedendo il tuo permesso.» «Non posso lasciarti andare, Katherine. Se sarà necessario, ti tratterrò con la forza.» Si piazzò fra lei e la porta. Le braccia penzolavano lungo i fianchi pronte a intervenire a qualsiasi mossa. Katherine cercò di farlo ragionare. «Ormai non sei più un poliziotto. Non hai nessuna autorità per tenermi in questo posto.» «Hai ragione. Ti chiedo di restare, perché io possa proteggerti. Ma se tenti di andartene, te lo impedirò.»
Era diviso fra due atteggiamenti opposti: a volte le sue parole erano supplichevoli, a volte minacciose. «Se il capo della polizia sapesse che cosa stai facendo, ti arresterebbe», lo avvertì lei. Dominic annuì. «Non aspetta altro.» «E tu rischieresti tanto solo per proteggermi?» Dominic annuì di nuovo. «Mi stai nascondendo qualcosa», disse Katherine. Lui non rispose e Katherine gli girò intorno. Ormai non cercava più ài sbarrarle la strada. «È per questo che non sei venuto stamattina», disse lei. «Hai scoperto qualcosa che non vuoi riferirmi.» Dominic non rispose. «Di che cosa si tratta? Che cosa mi stai nascondendo?» I suoi occhi stavano studiando quelli di Katherine. «Non penso che tu debba saperlo.» «Prova. Ormai sono grande.» Lui infilò la mano nella tasca della giacca alla ricerca delle sigarette. Ne prese una e la raddrizzò con cura e con movimenti leggeri. Fissò Katherine mentre se l'accendeva. Rispose solo dopo aver inspirato una lunga boccata e dopo aver buttato fuori il fumo. «Quel vecchio custode del cimitero di New York», iniziò. «Mi ha telefonato stamattina.» Dominic fece un altro tiro dalla sigaretta. E ancora un altro; ogni lenta inalazione di fumo veniva seguita da una leggera esalazione. «Hanno trovato la vedova dell'uomo il cui cadavere era scomparso dalla tomba. Il custode l'ha trovata stamattina, andando al lavoro. Indossava abito e velo neri, come se stesse andando a un funerale.» La guardò fisso. Katherine si accorse che voleva osservare la sua reazione a quelle informazioni. «Si è impiccata a un albero vicino alla tomba aperta. Pare che fosse morta da circa sei ore.» 7 Lo choc le tolse il respiro. Improvvisamente venne colta dalle vertigini e la testa prese a girarle. Dominic si precipitò a sorreggeria e l'accompagnò al letto.
«Un altro suicidio?» gli chiese. «Questo è quello che si dice.» Seduta sul letto, iniziò a respirare profondamente nel tentativo di calmarsi. Si aggrappò alla mano di Dominic alla ricerca di un sostegno. «Non li trovi strani tutti questi suicidi?» «La polizia di New York dice di no. Il tenente Coleman mi ha riferito che hanno una media di quindici suicidi al giorno. La maggior parte si verifica di notte e i corpi vengono ritrovati di mattina. Questo era il decimo della mattinata. La polizia non ne è rimasta scossa. L'unico a essere rimasto sconvolto è il guardiano. Non gli va l'idea che la gente vada a suicidarsi nel suo cimitero.» «E la polizia non inizierà le indagini?» «Dicono che è una perdita di tempo. Metteranno comunque in stato d'allerta le pattuglie di servizio nella zona del cimitero. Credono di riuscire a spaventare i trafugatori di tombe con la loro presenza.» Katherine scosse il capo. «Non otterranno un bel niente in questo modo», esclamò. «Non sarà certo un'auto della polizia a mettere fine alla situazione. Nemmeno le forze armate al completo riuscirebbero a fare qualcosa.» «Tu sei sempre convinta della tesi soprannaturale, vero?» disse lui. «Morti che resuscitano e cose del genere.» Dominic fumò la sigaretta fino a bruciarsi le dita. «Personalmente, nutro qualche sospetto sull'ipotesi dei suicidi», proseguì lui. «A Dickson si verificano un paio di suicidi all'anno e sempre da parte di persone da cui ci si aspetta un'eventualità del genere. Si potrebbe addirittura fare una lista di cinque o sei nomi con la sicurezza che almeno uno di loro, nel corso dei prossimi dodici mesi, caccerà la testa in un forno a gas.» «Sei molto sicuro di te stesso», commentò lei irritata dal tono distaccato che usava parlando di morte. «Ne ho visti molti. Ne ho visti tanti di impiccati e non è una bella scena trovarsi di fronte a un paio di occhi sporgenti. Ne ho visti morti con l'ossido di carbonio e così è un po' meglio perché la pelle assume una sana sfumatura rosata. Ovviamente, le macchine più recenti hanno un contenuto più alto di biossido di zolfo nello scarico, quindi la pelle rimane pallida. Poi ci sono i suicidi impulsivi: quelli che sterzano improvvisamente l'auto fuori di strada contro un palo di cemento. Evidentemente questi hanno troppa fretta per tornare a casa e chiudersi in garage. O forse preferiscono
così per l'indennità dell'assicurazione, chi lo sa? I modi sono diversi. Anche i motivi sono diversi. È per questo che nutro sospetti su questi cinque suicidi. Non ho mai visto due persone ammazzarsi per lo stesso motivo, figuriamoci cinque. Non può essere una coincidenza, è quasi impossibile.» «Avevano tutti qualcosa in comune», disse Katherine. «Hanno subito tutti un'esperienza traumatica. Questo genere di situazione può far scattare reazioni depressive acute.» Stava per ammettere anche il suo stato di depressione, ma poi cambiò idea. «Sono stati sopraffatti dal dolore della morte dei loro cari», aggiunse Katherine. «Ci vuole molto tempo per riuscire a superarlo. Quando hanno scoperto che i corpi erano spariti, non sono più riusciti a sopportare la situazione. Uno choc di queste proporzioni, lo stravolgimento del classico concetto di dolore e l'improvvisa confusione potrebbero essere fattori sufficienti per far perdere la ragione a chiunque.» «Stai dicendo che è stata la paura a spingerli al suicidio?» «Questa è una spiegazione semplice di ciò che potrebbe essere accaduto. Ma la mente umana è troppo complicata per esserne sicuri. Anche se la ragione sembra la stessa, con tutta probabilità c'è una differenza minima in ognuno di loro. Per alcuni, potrebbe essere stato il desiderio di raggiungere la persona cara. Ci sono persone che non ce la fanno ad andare avanti senza il proprio compagno.» S'interruppe, rendendosi conto che stava rischiando pericolosamente di descrivere i sintomi di Dominic. La sigaretta era finita e lui decise di buttarla nel bicchiere che c'era sulla cassettiera. Il mozzicone sfrigolò nell'acqua, assumendo una colorazione marrone. «È un portacenere», le spiegò Dominic. «A Eddie non piace che si fumi qui dentro. Ha una paura cane degli incendi. Tiene bicchieri d'acqua in ogni stanza, al posto dei normali portaceneri. Dice che sono più sicuri.» «Ho notato il secchio d'acqua vicino al termosifone.» «È stato il primo in città a comperare i rilevatori di fumo. Li ha installati in tutta la casa, persino negli armadi.» «Deve aver avuto qualche brutta esperienza», commentò lei. «Sua madre è bruciata viva in un incendio quando era incinta. Pensa che questo sia il motivo per cui è nato senza avambracci.» «Non è il genere di incidente che potrebbe influire sul feto. Inoltre, non sei stato tu a dirmi che è affetto da malformazioni causate da talidomide?»
Dominic si strinse nelle spalle. «Eddie crede quello che gli pare.» «È disturbato psicologicamente», commentò Katherine. «Sta cercando di crearsi una realtà tutta sua.» «E tu che cosa stai facendo? Stai cercando di convincermi che quelle tombe sono vuote perché i morti ritornano in vita.» «Non c'è altra spiegazione», rispose lei. «Io ho altre spiegazioni, ma non le accetteresti mai.» «Sono sicura di quello che ho visto», insisté Katherine. «I morti non ritornano, per quanto lo si possa desiderare, per quanto si possa pregare Iddio di riportarli in vita.» S'interruppe, come se avesse paura di sbilanciarsi troppo. Con la velocità con cui era sopraggiunta, la collera che gli aveva devastato la mente si dissolse. Il viso e la voce si addolcirono. «Vuoi la realtà della morte?» le domandò. «Te la farò vedere io. Ti farò vedere perché tua madre non potrà mai tornare in vita.» L'accompagnò alle pompe funebri Kuranda. Il posto si trovava sulla via principale, a metà strada fra il Valley Inn e la vecchia carrettiera di mattoni che conduceva alla chiesa dell'Apparizione di Maria. Katherine riconobbe immediatamente la casa in cui sua madre era rimasta per i classici tre giorni prima di essere condotta al cimitero. La parte più vecchia del palazzo era rivestita d'arenaria. Senza alcun criterio architettonico, era stata aggiunta un'ampia struttura con raccordi in alluminio bianco. Era qui che si svolgeva la maggior parte delle attività funebri: le visite al feretro, intese come catarsi psicologica per i parenti. L'edificio era separato dalle case adiacenti da un parcheggio d'asfalto sufficientemente ampio. Accanto alle doppie porte, attraverso le quali venivano trasportate le bare, c'era il furgoncino di un fiorista. «Lo so che mia madre è stata seppellita», commentò Katherine. «L'impresario delle pompe funebri non riuscirà a cambiare il fatto che l'ho vista.» Dominic annuì in cenno di saluto al fiorista. All'interno, l'ingresso si apriva in un'ampia reception arredata con sedie di velluto e riviste per gli ospiti prima di intravedere una seconda serie di porte. Più avanti, una fila di sedie era stata sistemata di fronte a una composizione floreale che decorava una bara d'oro e bianca. Dall'estremità faceva capolino la fronte di una donna. L'aria era permeata dal profumo di rose fresche e di gladioli. «Sono contento che sia venuto presto», disse Walter Kuranda. Parlava sommessamente, come se avesse paura di disturbare la salma.
«Come vede anche lei c'è una funzione in corso. È la prima visita serale e la famiglia arriverà da un momento all'altro.» Li invitò a entrare in un'altra stanza, più piccola, arredata con un divano e due poltrone. Sul tavolo era stato disposto un pacchetto di sali. «Questa è la sala dell'afflizione», spiegò. «Qui si può parlare.» Walter Kuranda era un ometto tutto lustro. La pelle della testa calva splendeva di luce e lo smalto trasparente sulle unghie brillava. Da dietro un paio di occhiali dorati, lampeggiavano due occhi azzurri. Indossava un completo di mohair nero traslucido che lo faceva apparire più magro. Avrebbe potuto essere un ricco banchiere, se non fosse stato per il perenne sorriso stampato sul viso. «Dominic mi ha raccontato che soffre di visioni della sua povera madre», attaccò. «Non sono visioni», lo corresse Katherine. «L'ho vista tre volte la settimana scorsa.» «Il dolore può avere strani effetti, signorina Roshak. In qualità di professoressa di psicologia dovrebbe capirlo anche da sola.» «Sono passati otto anni dalla sua sepoltura»v, riprese Katherine. «Non l'ho mai vista per tutto questo tempo. È successo solo la settimana scorsa.» «A volte il desiderio di rivedere i nostri cari perdura, resta latente, pronto a emergere quando andiamo a visitare i luoghi familiari. Questa è la prima volta che torna a Dickson dal funerale?» Si sporse in avanti e le si avvicinò tanto da sfiorarla. Con tutta probabilità è la tecnica che imparano alla scuola di arte funebre, nel corso delle lezioni di psicologia del lutto, pensò. Sicuro di sé, le afferrò il braccio. Il contatto. Nei momenti di depressione, il contatto fisico può rivelarsi la terapia più efficace. Lo dice anche Kubler-Ross, ricordò. Ed era vero. Non cercò di sottrarsi. Era un tocco rilassante. «Sono venuta qui perché l'ho vista a New York», spiegò. «So tutto sulle illusioni e le allucinazioni. So come funziona la mente e so anche quello che sta cercando di fare in questo momento. Glielo garantisco. Era mia madre. Ci sono prove che lo dimostrano.» L'impresario inarcò le sopracciglia incredulo. «Ma è impossibile, signorina Roshak. Non potrebbe mai succedere una cosa del genere.» «Non è più nella bara», insisté Katherine. L'impresario si voltò verso Dominic che annuiva in segno di conferma. «Non è più nella bara», ripeté Katherine. «È in giro. Abbiamo trovato il
suo rosario sulla strada di fronte alla casa in cui alloggio.» Walter Kuranda tolse la mano dal suo braccio. Il sorriso perenne s'incrinò leggermente. «Non mi starà accusando di aver seppellito il corpo sbagliato? Perché se questa è un'accusa di negligenza professionale, posso esibire la documentazione necessaria. Ho controllato subito dopo la chiamata di Dominic.» «Si calmi, Walter», lo tranquillizzò Dominic. «Non la stiamo accusando di niente. È solo convinta che sua madre si aggiri per le strade della città.» «È esattamente come era nella bara», aggiunse Katherine. «Capito?» disse Dominic. «È convinta di vedere sua madre. L'ho portata qui perché lei le possa dimostrare che è impossibile. Non sa quello che succede alla salma prima della sepoltura.» L'impresario delle pompe funebri si fece passare una mano sulla bocca in un gesto inconscio di comunicazione muta. «Non parlo di certe cose con i parenti dei deceduti. Non è nella mia etica.» «Lo so che non le piace spiegare quello che succede dietro le quinte», insisté Dominic. «Ma in questo caso potrebbe servire. Deve capire perché è impossibile.» «Ma abbiamo una prova», protestò Katherine. «Non è solo la mia parola. C'è il rosario e l'incendio nel mio appartamento...» «Perché non lascia che sua madre riposi in pace?» le domandò l'impresario. «Perché non torna a New York e lascia perdere tutta questa storia? Forse pregare potrebbe servirle. A volte quando pensiamo ai defunti è perché sono loro a chiederci di pregare per le loro anime. Vada in chiesa a pregare per sua madre.» «Non gli hai detto degli altri cadaveri scomparsi?» chiese Katherine, rivolgendosi a Dominic. L'impresario si lasciò sfuggire un gemito. «Credo che lei abbia visto troppi film dell'orrore, professoressa. Prima sua madre e adesso altri cadaveri scomparsi. Questo succede solo a Hollywood. Alle persone come me che hanno a che fare con la morte quotidianamente, non piace che i cimiteri vengano utilizzati per spaventare la gente con qualche brivido da strapazzo.» «È vero che mancano altri cadaveri», confermò Dominic. «Ci sono cinque tombe vuote a New York. I corpi sono scomparsi, esattamente come quello di sua madre.» Il sorriso stampato sparì definitivamente. Senza, Walter Kuranda sem-
brava più vecchio e meno sicuro di sé. Non era più il confidente, il dispensatore di conforto e di frasi trite e ritrite per i parenti che nemmeno stavano ad ascoltare le sue parole. Era solo uno dei tanti uomini d'affari di mezza età che, improvvisamente, aveva scoperto che nel suo lavoro poteva anche esserci qualche aspetto inquietante. «Non mi aveva detto questo», rispose. «Non volevo parlarne per telefono», si giustificò Dominic. «È successo di recente?» «Più o meno nello stesso periodo della scomparsa di sua madre.» «Ci deve essere una spiegazione logica!» esclamò l'impresario. «Ne sono sicuro anch'io», concordò Dominic. «È per questo che desidero che spieghi a Katherine quello che succede a un corpo prima di essere sepolto e perché è impossibile che veda ancora sua madre.» «Non credo che alla signorina Roshak faccia piacere sapere queste cose.» «Penso che debba saperle. Solo così può convincersene. Sono tre giorni che ci provo e non sono ancora riuscito a farle cambiare idea.» «Va contro tutti i miei principi.» «Lo consideri un favore, Walter.» «Va anche contro tutti i principi della scienza mortuaria.» «Potrei spiegarglielo da solo, ma non riuscirei a fare un'esposizione esatta.» «D'accordo, ma non ritenetemi responsabile di qualsiasi trauma si possa verificare in seguito. Ha capito, signorina Roshak?» Si trasferirono nella Stanza dell'Eterno Riposo. Era già arrivata una persona a visitare la defunta: un vecchio, forse il marito della donna dal profilo gelido. Stava seduto a fissare il cadavere con le spalle ritte e le gambe rigide. Dall'esterno proveniva il rumore di portiere che si aprivano e si chiudevano in continuazione. «Dobbiamo sbrigarci», s'affrettò a dire l'impresario. «Oggi c'è la prima notte di veglia e, in genere, è la più complessa. Dovrò essere presente, nel caso qualcuno si lasci andare.» Al piano di sotto, passarono di fronte all'esposizione di bare, ognuna di colore diverso con campioni dei vari rivestimenti di seta a dimostrazione delle opzioni possibili. Contro la parete era stata appoggiata una lettiga nera coperta da una striscia di carta bianca immacolata. Walter li accompagnò in un'altra sala dalle luci accecanti colma di at-
trezzature in acciaio inossidabile. Faceva freddo. La sala sapeva di disinfettante. «Sembra una sala operatoria, non trovate?» La voce di Walter rimbalzò sulle pareti della stanza. La luce conferiva al vestito lucido un'iridescenza che fluttuava a ogni passo. «È stata ristrutturata cinque anni fa», spiegò. «Abbiamo cambiato l'attrezzatura, rifatto il pavimento e le celle frigorifere. Hanno dovuto potenziare il contatore della luce e sono stato costretto a chiedere un secondo mutuo. Ma penso che, essendo questo il mio lavoro, valga la pena fare qualche investimento.» Il pavimento era rivestito in piastrelle di ceramica facili da pulire. A Katherine ricordavano il pavimento di un ristorante. In bacheche di vetro era stato disposto un assortimento di pinze, bisturi e altri arnesi medici. Incastonata in una delle pareti c'era una porta d'acciaio inossidabile molto simile a quelle che in genere chiudono le celle frigorifere. «Questa è la stanza in cui prepariamo le salme», spiegò. «L'accesso è permesso solo agli addetti ai lavori: i dottori, il personale medico e, naturalmente, i nostri assistenti. Come potete vedere, l'ambienteè asettico. Dopo l'uso, ogni attrezzo viene accuratamente sterilizzato. Operiamo in assenza completa di germi per proteggere la nostra salute e quella di chi entra in contatto con i defunti.» Fece un giro per la stanza, indicando l'attrezzatura per la sterilizzazione e i massicci rubinetti di metallo. «Non mi capita spesso di mostrare tutto questo agli estranei. Nessuno se n'è mai curato.» In un angolo era stata appoggiata un'apparecchiatura molto simile a un'aspirapolvere industriale con un lungo tubo di metallo flessibile. All'estremità, il tubo si stringeva in un'apertura non più grande di un filo di paglia. «Mi piace pensare di essere il medico della morte. Nel momento in cui la medicina ufficiale finisce di occuparsi di un paziente, allora subentro io. I miei metodi sono professionali e accurati tanto quelli ufficiali. L'unica differenza, naturalmente, consiste nel fatto che il mio paziente è deceduto.» Al centro della stanza, direttamente sotto la lampada, c'erano due tavoli inclinati in acciaio inossidabile lunghi un paio di metri. Ogni lastra era ornata da un canale di scolo che sfociava in un imbuto appoggiato su un grande contenitore di plastica. Walter s'infilò un paio di guanti di gomma trasparenti.
«Il corpo viene sempre trattato con i guanti.» Si avvicinò ai tavoli. «Anche dopo la ristrutturazione, ho tenuto i tavoli di prima. Ormai non se ne trovano più in acciaio inossidabile. Oggigiorno vendono solo l'acciaio leggero e vogliono farti credere che la qualità sia la stessa.» Fece scorrere la mano sulla superficie levigata, sbirciando la sua immagine riflessa nel metallo. «Tutto inizia da qui, da queste lastre. La salma viene distesa e denudata. Esaminiamo il corpo alla ricerca di tagli, ferite o segni di puntura. A questo punto, in genere, il corpo è già rigido per il rigor mortis. È necessario massaggiarlo per ammorbidirlo e lavorare con più facilità alla ricomposizione. La chiesa cattolica impone che le mani vengano incrociate sul petto o unite in preghiera.» La mente di Katherine venne attraversata dall'immagine fugace delle mani della madre, pallide e venate, avvolte dal rosario nero. «Ci sono alcuni lavoretti da sbrigare prima di dare il via al processo d'imbalsamazione». Da un cassetto prese due oggetti di plastica: due piccoli semicerchi dentellati. Li sollevò all'altezza degli occhi. «Queste sono cuffie oculari. Vengono inserite sotto le palpebre e cementate perché gli occhi rimangano chiusi mantenendo la forma naturale.» Da un secondo cassetto prelevò una spoletta di filo. «Questo è filo chirurgico», spiegò. «È uguale a quello che usano i dentisti per suturare le gengive. Potrei anche usare del semplice filo di rame. Nessuno si accorgerebbe della differenza. Ma io sì e preferisco lavorare con materiale di prima qualità.» Staccò qualche centimetro del filo d'argento. Era dello stesso spessore della montatura d'oro degli occhiali. Poi lo sollevò contro la luce. «Questo filo ci aiuta a conferire un'espressione pacifica ai defunti. Trapaniamo la mandibola, infiliamo il filo e lo stringiamo finché le mascelle vengono sigillate e le labbra combaciano perfettamente. Dipende dal grado di estetica che si vuole raggiungere. Gli uomini stanno meglio con le mascelle ben strette. In questo modo assumono un'espressione ferma e risoluta. Per le donne lasciamo un paio di millimetri di spazio. Le labbra, in questo modo, mantengono un'espressione più gentile. Il filo in eccesso viene tagliato e le estremità vengono incastrate fra i denti.» Dominic si sedette su una sedia. Era impallidito. «Si sente bene?» s'informò Walter.
«Sto bene. Non si preoccupi per me.» «Forse dovrei smettere», suggerì Walter anche se, con il tono di voce, era chiaro che preferiva continuare. «Vada avanti», lo invitò Dominic con un cenno della mano. «Voglio che Katherine venga informata di tutto.» Walter appoggiò sul tavolo un carrello pieno di attrezzi. All'improvviso nella sua mano apparve un bisturi. Lo fece roteare sotto la lampada e la punta affilata riflesse i bagliori di luce. «Occorre un approfondito studio di anatomia umana per trattare con i morti. Qualcuno ci chiama parachirurghi. Io ho studiato al Jefferson College di arti funebri a Columbia, nel Missouri. È piuttosto lontano da Dickson, ma l'idea è stata di mio padre. Voleva che imparassi le tecniche più sofisticate. Il Jefferson è l'Harvard della scienza funebre.» Ascoltandolo, Katherine s'immaginò la madre distesa sulla lastra di metallo, nuda e inerme, con le mascelle tenute insieme dal filo d'argento. Sua madre portava la dentiera. Chissà se le era stata asportata prima d'inserire il filo? Walter Kuranda si sfilò la giacca e si arrotolò le maniche della camicia. Era evidente che si stava divertendo un mondo. «Fingiamo che sul tavolo ci sia un corpo», propose. Dominic divenne sempre più pallido. Fissava per terra. «Il processo d'imbalsamazione si divide in due fasi», continuò Walter. «La prima è la più conosciuta: l'imbalsamazione delle arterie. Questo implica l'eliminazione del sangue e l'immissione dei fluidi di conservazione.» Sollevò il bisturi e lo abbassò con un colpo secco al centro del corpo immaginario. «Io parto a incidere dai genitali. Ogni parachirurgo ha i suoi punti di drenaggio e d'immissione preferiti. Ci sono tre scelte possibili nei punti d'incrocio fra le arterie e le vene principali. In genere io miro all'intersezione fra l'arteria e la vena femorali, nella zona dei genitali. Altri preferiscono l'arteria ascellare che s'incrocia con la vena succlavia, o anche la vena giugulare che, nel collo, incontra la carotide.» Parlava indicando ogni punto. «È di estrema importanza drenare il corpo il più velocemente possibile dopo la morte, perché è il sangue che provoca la sfigurazione e la perdita di colore della salma. Con una buona dose di pratica, un parachirurgo riesce a effettuare le incisioni necessarie, mutilando il corpo solo lo stretto indispensabile. L'arteria e la vena vengono staccate dai tessuti circostanti e
strette da pezzi di corda. Io uso solo filo chirurgico. I vasi sanguigni vengono stretti a entrambe le estremità al termine del procedimento d'imbalsamazione.» Attaccò un ago di acciaio cavo all'interno al tubo di metallo flessibile. «Questo è un ago di immissione. Penetra nelle arterie e spinge il fluido d'imbalsamazione fino al cuore.» Accanto all'ago appoggiò un altro strumento: un oggetto oblungo con un foro a un'estremità e un'apertura più larga all'altra. Era delle dimensioni giuste per arrivare al canale di scolo attorno al tavolo. «Questo è uno strumento di drenaggio. Viene inserito nella vena. Come ho già detto, tutto viene sterilizzato esattamente come in ospedale.» Schiacciò un pedale e accese la pompa che emise un suono ritmico e costante. «La macchina simula il pompaggio cardiaco. In genere viene regolata su una pressione di media entità. In questo modo il sangue viene spinto all'esterno e confluisce nei canali di scolo sul tavolo. Per una persona di media statura sono necessari dai sedici ai diciannove litri di liquido per imbalsamazione. In sostanza il composto è formaldeide profumata in grado di prevenire l'odore della morte.» Fece una pausa e, per la prima volta, mostrò di provare disgusto per quello che stava per dire. «L'odore della morte. Ecco una cosa a cui non mi sono mai abituato. Lo sento appena metto piede nella stanza del morto, anche se il decesso è sopravvenuto da poco. Ma quando il liquido entra nel corpo, l'odore sparisce.» Katherine stava fissando il bordo del tavolo, nel punto del canale di raccolta del sangue. Ripensò a sua madre sdraiata sul tavolo, al suo corpo che veniva lentamente drenato e alle migliaia di corpi che, prima di lei, erano stati svuotati sulla stessa lastra di metallo freddo. «Il fluido per l'imbalsamazione scorre nelle arterie, riempie il cuore, entra nelle vene, nei capillari e in ogni singola cellula, ripercorrendo lo stesso tracciato del sangue che va gradualmente a sostituire. Il fluido può assumere qualsiasi colorazione. Non si deve far altro che mescolare il fluido con la tintura richiesta. In genere si cerca di regolare il liquido sulla base delle caratteristiche dell'individuo. Quando escono dall'ospedale, i defunti sono spesso molto pallidi. Le famiglie richiedono un colorito più naturale. È affascinante assistere al cambio di colore della salma, quando il fluido ridona il rosa alle guance.»
Dominic si tolse il fazzoletto di tasca, si soffiò il naso, ma con tutta probabilità stava trattenendo le lacrime. Walter Kuranda non sembrava accorgersi di nulla. «La seconda fase è l'imbalsamazione delle cavità.» Andò a prendere l'apparecchio che assomigliava a un aspirapolvere. All'estremità del tubo di metallo attaccò un altro tubicino più piccolo. «Questo è un tre quarti. Si effettua una piccola incisione sotto il plesso solare per permetterne l'introduzione. Il tre quarti è collegato alla pompa d'aspirazione per eliminare il sangue e i liquidi presenti nelle viscere e nella cavità toracica. Se il defunto ha un'emorragia interna, si dovrà pompare una quantità significativa di sangue. Quando la cavità è stata completamente ripulita, si inietta un concentrato di formalina molto più potente di quello che viene inserito nelle vene. È una procedura disinfettante, perché la cavità intestinale è piena di microorganismi. Si possono verificare situazioni imbarazzanti se la cavità non viene trattata con cura.» Ormai il tavolo in acciaio inossidabile aveva assunto l'aspetto di una tavola operatoria vera e propria, ricoperta da strumenti e attorniata da tubicini. Walter Kuranda alzò lo sguardo e sorrise. «Ci sono domande?» Dominic scosse il capo. «Allora questo è tutto. Poi laviamo la salma, copriamo le incisioni con piccole applicazioni di plastica, rivestiamo il defunto e lo trucchiamo. L'intero processo richiede circa tre ore di lavoro.» Si tolse i guanti con un colpo secco e li gettò nel cestino di metallo. «Io trovo che sia tutto molto disgustoso!» esclamò Katherine. «Perché è necessario questo lavoro? Se l'avessi saputo prima, non avrei permesso che tutto questo fosse fatto a mia madre.» Sentì la mano di Dominic stringerle delicatamente il braccio. «Mi dispiace, Walter», si scusò. «Non avrei mai dovuto portarla qui.» «Lasci perdere», rispose l'impresario. «Non deve scusarsi per lei. Sono abituato a questo genere di reazioni, soprattutto dalle associazioni per la tutela dei consumatori e dalla commissione per il commercio federale. Non si rendono conto dell'enorme contributo che diamo all'igiene pubblica. Una serie di studi ha dimostrato che l'imbalsamazione è fondamentale per eliminare i batteri patogeni che potrebbero sopravvivere per anni anche sottoterra. Sono abituato alle critiche e riesco a ignorarle, perché so che vengo male interpretato.» «Lei ha drenato mia madre e l'ha riempita di coloranti e sostanze chimi-
che. Non avrei mai immaginato che l'imbalsamazione potesse essere tanto primitiva.» Dominic la spinse fuori della stanza. Ripercorsero insieme l'esposizione di bare in direzione delle scale. «Mi dispiace di averti costretto ad assistere a una dimostrazione del genere», le disse, «ma volevo che ti rendessi conto che tua madre è morta. Il suo corpo non è più nella tomba, ma è pieno di formaldeide. Non è assolutamente possibile che si aggiri per le strade della città.» «E allora come spieghi il fatto che io la veda?» «Non lo spiego», rispose Dominic. «L'hai vista anche tu. Hai persino trovato il suo rosario.» «Ma non è possibile», aggiunse Walter Kuranda con un'ombra d'impazienza. Li condusse in cucina. La stanza dell'eterno riposo era già piena di parenti. «Ho fatto tutto il possibile per aiutarla. Adesso devo proprio andare da questa famiglia. Mi stanno aspettando.» «Chi ha ricomposto sua madre?» chiese Dominic. «È stato lei a imbalsamarla?» Kuranda lanciò una rapida occhiata in direzione di Katherine. «Non sono stato io. Se è stata commessa qualche mancanza nel funerale di sua madre, non è colpa mia. Otto anni fa ero ancora alla scuola di arte funeraria. Non ero nemmeno in città.» Dalla tasca sfilò alcuni foglietti scritti a matita. «Immaginavo che me l'avreste chiesto, per questo sono andato a controllare in archivio. È stato prima che mio padre andasse in pensione. Adesso abita a Fort Lauderdale. Potete telefonargli, se volete, ma i documenti sono tutti qui.» Si sistemò gli occhiali sul naso e sbirciò sui foglietti di carta. «Il procedimento d'imbalsamazione è stato effettuato da un apprendista. Si chiamava Effenbeck. David Effenbeck. Un bell'uomo: capelli biondi, con parenti tedeschi, a detta di mio padre. Non l'ho conosciuto bene, ma mio padre sosteneva che aveva un vero talento. Sono molti i giovani che prima o poi lasciano perdere. Una volta anch'io non lo sopportavo, ma evidentemente Effenbeck si è sempre divertito.» «Ha idea dove sia adesso?» «È rimasto qui per un breve periodo. Papà avrebbe preferito che restasse. Diceva che era l'assistente più bravo che gli fosse mai capitato. Era anche
un esperto truccatore. E questo è fondamentale, perché l'aspetto è l'unica cosa che permette alla famiglia di giudicare se il lavoro sia stato fatto bene oppure no. Se la salma non si presenta bene, pensano che l'impresario di pompe funebri sia un incapace. Non conoscono gli altri procedimenti.» «Con mia madre non ha fatto un buon lavoro. Non era venuta bene.» Katherine aveva ancora un'ombra di risentimento nella voce, a otto anni di distanza. Walter si strinse nelle spalle, senza dare l'impressione di preoccuparsi molto della critica. «Forse è stata colpa della fotografia. Se la ricostruzione del cadavere viene effettuata da qualcuno che non ha conosciuto personalmente il defunto in vita, dobbiamo basarci solo sulle foto. Se sono sfocate o se la posa non è delle migliori, potrebbero nascere dei problemi. Sicuramente non è stata colpa delle capacità di Effenbeck. Sapeva ricostruire magnificamente i morti. Ho trascorso un'estate intera a osservare il suo operato.» «Non ho mai nemmeno riavuto le fotogafie.» «Be', succede. Se si rivogliono le fotografie, bisogna fare richiesta esplicita.» Katherine fu sul punto di intavolare una discussione, ma Dominic preferì intervenire. «Non ha il suo codice fiscale? Così potrei rintracciarlo.» «Ma questo è illegale, mi sembra.» «Non è illegale fornire un codice fiscale. Del resto, il problema è soltanto mio. Ho le mie conoscenze negli enti pubblici.» «Ci vorrà un bel po' per ritrovare quel numero. Devo far scorrere tutti i registri e quelli di otto anni fa sono stati sicuramente archiviati. Gli unici registri che teniamo sempre a portata di mano sono quelli relativi ai funerali. Però so quale scuola d'arte funeraria ha frequentato, se può essere d'aiuto.» Si illuminò all'idea di essersi ricordato di un dettaglio che poteva rivelarsi importante. «Era a Knoxville, nel Tennessee. Me lo ricordo perché era sempre molto misterioso a questo proposito. E quando la gente cerca di nascondere qualcosa non fa che alimentare la curiosità degli altri.» Dalle porte della cucina filtrava il brusio dei parenti e degli amici intervenuti a dare l'ultimo saluto al defunto. «Devo proprio scappare», ripeté l'impresario. «Ho un impegno nei confronti di questa famiglia. Mi stanno aspettando.» «Perché era tanto misterioso? Perché avrebbe voluto nascondere dove era andato a scuola?»
«Non saprei», rispose Walter. «Era un tipo molto misterioso. Faceva sempre telefonate interurbane a carico del destinatario anche se papà gli aveva offerto di chiamare direttamente facendo registrare la telefonata. Era come se non volesse farci sapere chi chiamava.» Ormai impaziente, si lisciò la giacca, si aggiustò la cravatta e si sistemò i pochi capelli. «Perché se n'è andato?» insisté Dominic. «È stato suo padre a licenziarlo?» «Certo che no. Gli ho già detto qual era l'opinione di papà. Non abbiamo mai saputo perché se ne fosse andato. Una mattina è sparito e basta. Del resto non aveva nient'altro che una valigia. Indossava sempre lo stesso vestito nero e una camicia bianca. Forse aveva un ricambio, ma niente di più. Non ha lasciato tracce quando è partito. È come se non fosse mai stato qui. In tutta sincerità, se sapessi dove trovarlo, andrei ad assumerlo domattina stessa. Mi renderebbe la vita molto più semplice.» «Quanto tempo dopo il funerale Roshak se n'è andato?» domandò Dominic. Le ultime luci del pomeriggio si stavano gradualmente eclissando. La cucina stava per sprofondare nell'oscurità, ma nessuno si mosse per andare ad accendere la luce. Katherine notò che gli occhi dell'ometto si stringevano con aria sospettosa. «Che cosa sta insinuando?» domandò. «Sta cercando di dire che c'è qualcosa di losco? Che qualcuno ha infranto la legge? Le leggi sanitarie? È così?» «Sto solo facendo qualche domanda.» «Mio padre non l'avrebbe mai permesso. Gli impresari funebri ci tengono alla propria reputazione e papà era molto orgoglioso di quella che era riuscito a costruirsi. Io sono la terza generazione dell'impresa.» «Quando se n'è andato?» perseverò Dominic. «Insomma, non sono obbligato a rispondere alle sue domande», tagliò corto Walter. Si avviò alla porta per dirigersi verso l'ingresso. «Lei non fa più parte della polizia. Lo sanno tutti in città che è stato licenziato.» Lanciò un'occhiata di fuoco in direzione di Katherine, indicando che sapeva bene di chi fosse la colpa. Katherine rispose al suo sguardo con disprezzo malamente simulato. «Se n'è andato dopo il funerale Roshak?» ripeté Dominic. «Io la considero un amico, Dominic. Lo so che non ha la vita facile dalla morte di sua moglie. Ed è per questo che le ho dedicato parte del mio tem-
po. Ma adesso ho davvero molto da fare.» Appoggiò la mano sul pomello della porta. «Se risponde alla mia domanda, me ne andrò.» «D'accordo. Quello è stato il suo ultimo funerale prima di andarsene. E allora? Quella donna era morta. E poi sono passati otto anni. Anche se ha commesso qualche errore, è troppo tardi per riparlarne oggi. La legge sulla prescrizione dà un limite di sette anni, quindi non si può più accusare nessuno. Desiderate altro? Devo andare ad accendere le candele nella stanza dell'eterno riposo.» «Parla come un avvocato, Walter.» Scrollò le spalle prima di uscire dalla cucina. «Con i tempi che corrono, tutti devono saper fare l'avvocato. C'è troppa gente che cerca di rubare i soldi degli altri. Bisogna proteggersi da soli, Dominic.» Uscirono dalla porta del retro, non volendo ripercorrere la strada di prima che li avrebbe fatti passare davanti ai parenti della salma. Katherine aspirò una profonda boccata d'aria fresca nella speranza di eliminare il sapore di formaldeide e di fiori dal palato. La giornata autunnale stava volgendo rapidamente al termine. Le colline che sovrastavano le vallate assumevano una colorazione nerastra. «Questa è stata la tua versione della terapia d'urto, vero?» «Mi dispiace», si scusò lui. «Forse avrei dovuto evitare di portarti in questo posto.» «Se hai pensato di convincermi della morte di mia madre causandomi uno choc, ti sei sbagliato di grosso.» «Ho visto. Non ti scomponi molto. Hai solo paura.» «È sempre stato così», rispose Katherine. «Ho cercato di provare qualche emozione al suo funerale, ma non ci sono riuscita. Non abbiamo mai avuto un legame emotivo e, da quando la mamma è morta, l'ho sempre rimpianto. Persino adesso provo sensi di colpa.» «Non è colpa tua», la consolò Dominic mettendo in moto l'auto. Katherine si abbandonò contro il sedile. Le sarebbe piaciuto dormire e dimenticarsi di tutto. Ma aveva paura di quello che l'aspettava al risveglio. «Ricordo l'apprendista di cui ha parlato. Quell'Effenbeck. Pensavo che fosse lui l'impresario delle pompe funebri. Non ricordo che il padre di Walter fosse presente in quell'occasione.» «Il padre di Walter era alcolizzato», le spiegò. «È per questo che avevano sempre bisogno di un apprendista pronto a prendere il suo posto, quan-
do non ce la faceva a presentarsi in pubblico. Adesso l'hanno ricoverato in una casa di riposo in Florida. Sua madre vive a un isolato di distanza e lo va a trovare tutti i giorni.» Andarono al Mid-Valley per prendere un caffè. Dopo la lezione d'imbalsamazione, Dominic aveva perso l'appetito. Katherine invece ordinò un'insalata e un toast. «Se avessi saputo quello che fanno in quel posto non avrei mai fatto imbalsamare Cara», commentò Dominic. «Se non altro, sanno consolare bene. A me aveva fatto piacere parlare con qualcuno, dal momento che a Dickson non conoscevo nessuno. Quell'apprendista è rimasto seduto per ore insieme con me ad ascoltare i miei lamenti e a cercare di risollevarmi lo spirito. Diceva le cose più giuste per aiutarmi a stare meglio. Era come se mi conoscesse da tempo.» «Tua madre non aveva parenti da queste parti?» «No.» Katherine abbassò lo sguardo sulla tazzina di caffè e mescolò vorticosamente il liquido marrone. «Mia madre era figlia unica. Lo stesso vale per i suoi genitori. Pensava di essere sola al mondo. Quando si è sposata, si è rifiutata di avere più di un figlio. Diceva che avrebbe interrotto la tradizione e avrebbe portato sfortuna.» «E tuo padre che cosa ne pensava?» «Ha divorziato. Non so se questa sia stata la ragione. A quel tempo avevo solo tre anni. Dovresti mangiare qualcosa, Dominic.» La cameriera le servì l'insalata: una porzione di lattuga ricoperta da strisce di prosciutto e formaggio. «Non ho fame», rispose lui. «Non ho più molto appetito.» Si sfilò di tasca il solito pacchetto accartocciato di sigarette. «Non fumo più nemmeno molto. Una volta arrivavo al pacchetto e mezzo al giorno. Adesso sono sceso a un paio di sigarette. Le ultime del pacchetto fanno in tempo a diventare secche. Tu, invece, dovresti mangiare qualcosa di più sostanzioso. Staresti meglio con qualche chilo in più addosso.» Ordinò dell'altro caffè per tutti e due. «Dopo il divorzio, mio padre ha fatto fortuna nel mercato immobiliare nel periodo in cui i prezzi delle case di New York sono decollati. Allora possedeva metà del Flatiron Building, stando a quello che diceva mia madre. È anche stato uno dei primi a trasformare i magazzini di Soho in abitazioni. Ma non ha mai dato un solo centesimo a mia madre, che non mi
permetteva di andarlo a trovare. Faccio fatica a ricordarmelo.» «È adesso dov'è?» «È morto nel 1978 nell'incidente aereo del DC-10 di Chicago.» Aspettò in silenzio che la cameriera finisse di versare il caffè. Dominic si accese una sigaretta e sbuffò il fumo di lato per evitare che le finisse in faccia. «Mia madre non mi ha permesso di andare nemmeno al suo funerale. Da parte sua, era la negazione più totale. La repressione completa di ogni emozione. Non mi ha nemmeno fatto vedere la sua foto sulla pagina dei necrologi del New York Times. L'ho rivista solo qualche anno dopo, consultando i microfilm.» Mentre l'ascoltava Dominic la scrutò. Fumava e l'analizzava dall'altra parte del tavolo di formica. «Sembra Le mie confessioni», esclamò Katherine, ridendo imbarazzata. «Serve parlarne. Per me funziona.» «Be', è evidente che hai amato molto tua moglie. Ma mia madre e io non abbiamo mai imparato a diventare intime. Non c'è mai stato un legame materno. Nella migliore delle ipotesi, era solo difficile andare d'accordo. Ma, dopo l'incidente aereo di mio padre è peggiorata. Non le aveva lasciato niente in eredità. Nemmeno un centesimo.» «E che cosa ne è stato di tutti i soldi che aveva fatto nel mercato immobiliare?» Katherine stava spiluccando una strisciolina di prosciutto. «Vuoi un po' d'insalata?» gli offrì. «Io non la mangio tutta.» Lui fece cenno di lasciar perdere. «Quella è stata la sua possibilità di pareggiare i conti con mia madre. Ha lasciato tutto a me. Deve aver immaginato che lei avrebbe cercato di appropriarsi dei soldi e allora ha trovato il modo di tenerli fuori dalla sua portata. Ha investito tutto in titoli che sarebbero scaduti solo dopo la morte di mia madre o al giorno del mio ventottesimo compleanno. Non ti sto a specificare l'entità del fondo, ma solo gli interessi annui raggiungevano i settantamila dollari.» Dominic si fece sfuggire un fischio. «Ecco perché ti puoi permettere una BMW e un bell'appartamento!» Katherine annuì e attaccò il toast. Aveva più fame del previsto. «Questo deve aver veramente fatto incazzare tua madre.» «Se l'è presa davvero male. Ritrovandosi sempre solo a pensare ai soldi, deve essere impazzita.»
Allungò il piatto verso Dominic. «Dovresti davvero buttar giù qualcosa nello stomaco. Non hai toccato cibo da stamattina.» Dominic si arrese. Era bello vederlo mangiare. Finì il toast in soli due bocconi. Katherine ne ordinò un altro e restò a guardare mentre lui lo divorava lasciandone una parte per lei. «Te l'avevo detto che ti saresti sentito meglio mangiando.» Dominic si pulì la bocca e sorrise. Per un istante lei pensò di aver visto qualcosa nei suoi occhi, un calore che non aveva mai notato prima. «Non è stata colpa tua quello che è successo a tua madre», la consolò. «Chi si trova nella tua situazione, si sente quasi sempre responsabile.» «Nel mio inconscio, credo di aver studiato psicologia per questo: desideravo capire mia madre.» «E ti è servito?» Pagò il conto e lasciò un dollaro di mancia. «Ho imparato tutti i termini scientifici. Sono in grado di tenere una lezione di Suscettibilità Psicopatica in un corso di Relazioni Simbiotiche Anormali. So tutto di psicosi, di neurosi e delle ultime tendenze psicodinamiche.» «Ma hai passato gli ultimi otto anni nella convinzione che tua madre fosse ancora viva. Come lo definirebbero gli psicologi questo atteggiamento?» Aprì la porta per farla uscire. L'aria umida e fredda della sera preannunciava l'arrivo dell'inverno. Le poche auto che sfrecciavano davanti alla tavola calda avevano i finestrini ben chiusi, dirette verso casa per sfuggire alla notte. Katherine alzò lo sguardo verso le colline nerastre che si ergevano sopra la città. Le strade che s'inerpicavano verso la cima erano marcate da fasci di luci fluttuanti. Oltre l'ultima striscia di luce c'era il cimitero. «È lassù adesso», esclamò. «Lo sento.» «Sai che è impossibile», ribatté lui. «Non continuare a torturarti.» Le aprì la portiera, ma Katherine preferì non salire. «Mi sta seguendo», disse. «Non so che cosa voglia, ma mi segue.» Iniziò a tremare. «Non puoi fare niente?» «Sto facendo tutto il possibile. Sono andato da medici, da patologi, nell'ufficio del coroner al distretto sanitario. Siamo appena usciti dall'impresa funebre che ha organizzato i funerali di tua madre. Ho persino prelevato qualche campione del rivestimento della bara e li ho fatti analizzare da un
microbiologo. Tutti confermano che tua madre è morta otto anni fa. Il cadavere si stava già decomponendo nella bara.» Katherine sollevò lo sguardo sul cimitero. «Per qualche motivo è tornata. Non avrà pace finché non avrà fatto ciò per cui è tornata. Mia madre è sempre stata così.» «Adesso mi stai facendo venire i brividi.» «Allora fa qualcosa per aiutarmi. Non hai fatto altro che dimostrare che è morta. Però continuo a non crederci. L'unico modo per convincermi è trovare il suo corpo.» Socchiuse gli occhi cercando di penetrare l'oscurità che ricopriva la collina dove si trovava il cimitero. «Credi che non l'abbia cercato?» Dominic aveva un tono rabbioso. «Ma non posso andare alle stazioni televisive di tutto il paese a raccontare che c'è in giro una morta che cammina. Si prenderebbero gioco di me, com'è successo con il capo della polizia.» Oltre l'ultima striscia di luci, si notava un bagliore fluttuare nell'oscurità. «C'è una luce nel cimitero, Dominic. Guarda!» Lui si avvicinò a Katherine e guardò in direzione del cimitero. Era un piccolo lumicino. All'inizio Katherine aveva pensato che fosse la luce di una casa, ma, mentre parlavano, si era accorta che si muoveva, eclissandosi dietro gli alberi e tornando luminosa quando passava da spiazzi liberi. Restarono in silenzio a guardare, tanto vicini da percepire il calore dei propri corpi. Infine la luce si fermò ma non si spense. «Forse è solo un bambino che gioca», suggerì Dominic. «Voglio andare a vedere, Dominic. Se è mia madre, voglio vederla, parlarle.» «Potrebbe essere un pazzo. Una volta c'era un tipo che si tingeva di blu e andava a passeggiare nudo nel cimitero, appiccando fuoco alle tombe dei bambini.» «Hai paura di investigare?» gli domandò. La domanda lo colse di sorpresa. Si voltò a guardarla. Dovette aspettare qualche secondo prima di rispondere. «Ho paura per te», rispose infine. «Ci andrò da solo, ma tu dovrai aspettare qui. Non voglio che ti esponga a qualche pericolo.» «E dove credi che starei al sicuro?» «In chiesa.» La chiesa dell'Apparizione di Maria era l'edificio più alto di Dickson, un
monumento in onore dei minatori polacchi che si erano stabiliti da quelle parti all'inizio del secolo. Di notte, la gigantesca struttura in mattoni, affiancata da una coppia di guglie altissime, era illuminata dalle torce. Katherine conosceva quella chiesa. Era la stessa dove era stata celebrata la messa del funerale di sua madre otto anni prima. «Dentro ci sarà qualche vecchietta che recita i vespri. Voglio che tu rimanga là dentro finché non torno. Ci vorranno dieci minuti. Quindici al massimo.» «Preferirei venire con te.» «Starai più al sicuro in chiesa. Nessuno ti darà fastidio là dentro. E già che ci sei, puoi anche dire qualche preghiera per tua madre.» Era la prima volta che Katherine entrava in chiesa dal funerale di sua madre. L'odore delle candele permeava l'aria stantia e a Katherine tornarono in mente le chiese che frequentava quando era bambina. Con un gesto automatico, allungò il braccio in direzione dell'angelo di gesso che sorreggeva l'acquasantiera. Sfiorò l'acqua con un dito e si fece il segno della croce, prima di passare per il vestibolo. La chiesa era debolmente illuminata dalle candele. Davanti a ognuno degli altari secondari c'erano rastrelliere colme di candele votive. Lungo le pareti laterali, fra statue di santi e confessionali, erano situati ceri giganteschi che irradiavano una luce più potente. Nel centro, appesa alla volta completamente rivestita da affreschi tenebrosi, pendeva un'unica candela protetta da una gabbia di vetro rosso: la Luce Eterna. L'ambiente le fece scattare i ricordi di altre chiese, di altri tempi. Si sentì come a casa propria. Prima di andare a sedersi su una delle panche più arretrate, s'inginocchiò ad un banco. Come aveva previsto Dominic, c'erano poche persone in chiesa. Quattro perpetue con il velo nella prima fila stavano recitando il rosario. Un uomo e una donna erano inginocchiati nella fila accanto. Fra le panchine si aggirava una suora impegnata a sistemare i libri dei salmi e i messali. Katherine si mise a osservare la suora che veleggiava leggera da una panca all'altra. Si sorprese alla vista della striscia inamidata di lino bianco che le circondava il viso. Da quello che aveva letto in giro, pensava che ormai le monache si vestissero normalmente, che si truccassero, esattamente come ogni altra donna. Forse solo a New York, pensò. Nelle città più piccole, evidentemente, la religione cattolica veniva ancora praticata secondo i vecchi criteri. Quando la suora ebbe finito il suo compito, Katherine si accorse di esse-
re rimasta sola nella chiesa. La coppia di fianco se n'era andata e le vecchiette avevano finito il rosario ed erano tornate a casa. Controllò l'ora. Erano trascorsi dieci minuti. Dominic sarebbe arrivato da un momento all'altro. Non c'era fretta. In chiesa si stava comodi al caldo. A scuola aveva imparato che uno dei poteri della religione è mettere le persone a proprio agio. La fede fornisce conforto a chi ha problemi. Nella panca alle sue spalle s'infilò qualcuno. Non era più sola. Alzò lo sguardo verso il crocefisso dell'altare, tornando con il pensiero alle messe domenicali che aveva frequentato con le compagne di scuola. Erano sempre alla ricerca di un modo per chiacchierare senza essere notate dalle suore. È stato molto tempo fa, pensò. Da allora erano cambiate molte cose. Alle sue spalle, si udiva il respiro pesante del nuovo arrivato. Una brutta asma, pensò. Era il classico sibilo che i polmoni emettono quando devono lottare per respirare. Controllò nuovamente l'ora. Dominic se n'era andato da quindici minuti. Cominciò a sfogliare un libro di salmi per distogliere il pensiero. Nella penombra della chiesa, riuscì a distinguere solo i titoli dei canti. La maggior parte erano in polacco, indice che la quarta e la quinta generazione di immigrati volevano mantenere ben salde le proprie origini. Lentamente, il profumo di incenso lasciò il posto a un nuovo odore. Un odore poco adatto a una chiesa. Un puzzo tremendo di zolfo e di sporco. Si fece più intenso nell'atmosfera chiusa della chiesa, avvolgendola completamente finché non dovette coprirsi la bocca per evitare di respirarlo. Aveva paura di girarsi. Aveva paura di vedere chi occupava la panchina dietro alla sua. Con l'aiuto di un fazzoletto riuscì a sottrarsi in parte al puzzo. Ma il suono strozzato del respiro si fece più forte. Iniziò a pregare che Dominic tornasse a salvarla dall'essere che si era infilato dietro di lei. È tutto nella mia mente, pensò. Isteria incipiente. Ma aveva paura di girare la testa e affrontare la realtà. Quando le giunse la voce, restò senza fiato. Non aveva niente di umano. 8
Era un suono gutturale e stridulo emesso da una gola strozzata dal dolore per lo sforzo di formulare ogni singola parola. «Kathy...» Aveva capito. Non aveva bisogno di voltarsi. Riconoscendo quella voce si sentì percorrere da un brivido. Le parole si prolungavano al rallentatore, colmando gli spazi fra una e l'altra con penosi sospiri. «Nessuno... può... aiutare...» Colta dalle vertigini, Katherine si aggrappò al banco per evitare di cadere. Era lo stesso messaggio dello specchio. La puzza aumentava. I sospiri continuavano. Il suono del respiro era sordo come se l'aria venisse emessa da un passaggio rimasto inutilizzato a lungo. Katherine venne colta da un'ondata di nausea che le lasciò in bocca un sapore amaro di bile. «Guardami...» Nonostante ogni singola cellula di Katherine le stesse ordinando di non voltarsi, non seppe resistere. Si sentì invadere da una forza più immensa della razionalità. Il suo corpo si mosse obbedendo alla voce, si girò lentamente per affrontare la realtà di ciò che fino a quel momento aveva visto solo a distanza. Fino ad allora aveva beneficiato del dubbio. L'unico modo di sapere la verità era di voltarsi ad affrontarla. Ciò che vide la fece vomitare nel fazzoletto. «Kathy...» Era sua madre. Putrefatta. I capelli striati di fango. Il viso piatto da un lato e gonfio dall'altro. La pelle grigiastra scorticata. Vomitò di nuovo. Era sua madre. Non com'era da viva. Non era la mamma che discuteva con lei, che si lamentava sempre di suo padre, che l'accompagnava in chiesa da piccola, che stava a guardare film alla televisione fino alle quattro del mattino. Quella era la mamma della bara. La sua mamma era morta, riconobbe Katherine. Morta, ma tornata fra i vivi.
La sua bocca penzolava con la lingua apparentemente incapace di muoversi. Da un lato della bocca le sporgeva un filo di acciaio inossidabile. L'estremità baluginava alla luce delle candele. Le parole uscivano a fatica da una bocca che aveva esalato il suo ultimo respiro molto tempo prima. Eccola, adesso, con i muscoli rinsecchiti, le labbra annerite, maleodorante, mentre provava a respirare ancora. Katherine avrebbe voluto gridare, ma a differenza della figura che le stava di fronte, non riuscì a emettere alcun suono. Era tanto se riusciva a respirare. Il cuore le batteva forte. Le vene le pulsavano impetuosamente in testa. Mentre sua madre cercava di formare le parole a stento, la mascella le cadde e la testa s'irrigidì. «Nessuno... può... aiutare...» Aveva gli occhi appannati e lattiginosi, le orecchie raggrinzite. Indossava lo stesso vestito azzurro con il quale era stata sepolta. Le spalle erano imbrattate di fango. Le maniche strappate, con brandelli di stoffa appiccicati alla pelle degli avambracci. Dopo otto anni dall'ultima volta che l'aveva fissata in occasione delle lunghe ore di veglia funebre, dopo essere stata vicina alla sua bara in quella stessa chiesa, mentre il prete intonava le preghiere conclusive, Katherine si trovò nuovamente di fronte a sua madre. Un corpo con il puzzo della morte addosso e la carne malamente attaccata alle ossa. «Tu... devi... fare...» Stava succedendo davvero o stava diventando pazza? «... quello... che... dico...» «Sì, mamma», sussurrò Katherine. Paragonata a quella della figura che si trovava di fronte a lei, la sua voce suonava debole e spaventata. «Sì, sì, sì», ripeté in continuazione finché scoppiò in un pianto dirotto. Le lacrime che non era riuscita a versare al funerale, le uscirono ora, a otto anni di distanza. Otto anni di emozioni represse spazzati via in un momento. Pianse fino all'esaurimento, finché non le restò che singhiozzare, quando anche le lacrime furono finite. Una mano le toccò la spalla. Cominciò a tremare. Tenne gli occhi chiusi, terrorizzata. «Katherine, che cosa c'è che non va?»
Al suono di quella voce, quasi svenne per il sollievo. «Sei arrivato, Dominic. La mamma è qui.» Gli prese la mano e la strinse forte, tirandolo nel banco vicino a lei. «Dov'è? A parte noi, qui non c'è nessuno. Ma che cos'è questo odore?» «Era dietro di me. Mi ha parlato. Era lei, Dominic.» «Ne sei sicura? È buio qui dentro. Forse era qualcuno che le assomigliava.» «No. Era lei. Mi ha parlato, ti dico. È stato orribile. Aveva ancora il filo in bocca, quello che l'impresario delle pompe funebri ci ha mostrato oggi. E i suoi occhi...» Riprese a tremare. Dominic le abbracciò le spalle e l'attirò a sé. «Dominic, aiutami», piagnucolò. «Raccontami, Katherine», la invitò dolcemente. Le accarezzò i capelli finché smise di tremare. Le prese il fazzoletto sporco di vomito e lo gettò sul pavimento, sotto l'inginocchiatoio. «Qualsiasi cosa sia», aggiunse, «raccontami quello che è successo.» Mentre lui la stringeva e la cullava dolcemente, Katherine provò a spiegare quello che era accaduto. Alla fine del racconto, non capiva se Dominic sarebbe stato disposto a crederle. «È successo davvero», insisté. «Era dietro di te? Ne sei sicura?» «Non mi credi, vero?» Senza rispondere, lui si alzò per esaminare la panchina alle sue spalle. Passò la mano sul sedile di quercia, sollevò l'inginocchiatoio e controllò il pavimento. «Tu pensi che io sia isterica.» Dominic la lasciò da sola e ripercorse la navata fino al portico della chiesa. Katherine udì i battenti del portone aprirsi e richiudersi. Ripercorrendo attentamente i propri passi, Dominic tornò da lei. «C'è del fango sul sedile», annunciò. «Ma nella navata e sotto il portico non ci sono impronte o tracce di sporco, però sul sedile sì.» «Questo prova che è stata qui», concluse Katherine. «C'è un brandello di tessuto impigliato nel bordo del bancone.» Le mostrò un frammento di chiffon azzurro. «È un pezzo del vestito con cui l'hanno sepolta», spiegò Katherine. Dominic sollevò la stoffa per esaminarla più chiaramente alla luce delle
candele. «Ora abbiamo qualcosa su cui lavorare», esclamò. «Forse adesso riusciamo a scoprire cosa significa questa faccenda.» «Continui a non credermi?» «Credo che qualcuno sia stato qui, certo. Non capisco perché ci sia del fango sul sedile e non nella navata. Probabilmente mi dirai che tua madre è apparsa solo sulla panca, ma io non la bevo la storia dei morti viventi.» «Ma è evidente. Questa è una prova, no?» Dalla rastrelliera del banco prese alcune buste per l'elemosina e in una depositò il pezzo di tessuto. Dal sedile raschiò un po' di fango e lo infilò in un'altra. «Non proprio», rispose. «Questo prova solo che qualcuno è stato seduto qui. Dal momento che il fango non si è seccato, questo significa che è stato poco tempo fa.» «Mentre eri al cimitero», precisò lei. «Che strana coincidenza, non trovi? Una luce nel cimitero che sparisce quando mi metto a inseguirla e tu che vedi tua madre mentre io sono occupato ad acchiappare lucciole.» «Ma nessuno sapeva che sarei venuta qui. Non lo sapevo nemmeno io. È stata una tua idea.» Dominic aggrottò le sopracciglia. «È vero», ammise. «Non riesco a spiegarmelo. Ma perché io incominci a credere che si tratti di tua madre, dovremo dimostrare che questo tessuto provenga davvero dall'abito con cui è stata sepolta e che questo fango provenga dalla sua tomba.» La lasciò da sola mentre andava a cercare le luci. L'illuminazione della chiesa era rudimentale e formava strani giochi d'ombre in tutto l'ambiente. Katherine aspettò che Dominic finisse di perlustrare. Lo vide guardare dietro l'altare, sparire attraverso una porta nascosta in un intricato intarsio di legno e riapparire alle spalle dell'altare laterale. Esaminò la navata della chiesa e controllò ogni singolo banco. Aprì i confessionali e s'infilò negli angusti spazi dietro alle statue di San Francesco, Santa Teresa, la Beata Vergine e Gesù Bambino. Katherine udì il suono sordo dei suoi passi che oltrepassavano la galleria del coro. A un certo punto inciampò in una sedia e il frastuono riecheggiò per tutta la chiesa vuota. Lo udì risalire le scale, verso il campanile e poi giù, nel seminterrato. Non trovò nulla.
Lo sapeva fin dall'inizio. «Non riuscirai a trovare mia madre, a meno che non sia lei a volerlo. Questo è un caso soprannaturale.» «Be', può darsi», ammise Dominic. «Ma non c'è niente di soprannaturale in quelle tracce di fango e in quel tessuto.» Vennero interrotti da qualcuno che bussava alla porta laterale. «Come osate chiudere questa porta?» esclamò il sacerdote quando Dominic andò ad aprirgli. Guardò Katherine che era ancora seduta al banco. «Che cosa sta succedendo qui dentro?» La sua voce rimbombava per tutta la chiesa, la collera riecheggiava per i banchi vuoti. Era un uomo tarchiato, con un torace potente sviluppato da anni di prediche. Indossava una giacca nera con la chiusura lampo e un colletto bianco da prete. Dominic si spostò e lo fece entrare. Il prete si avviò verso Katherine con andatura pesante. Aveva un viso florido: da vicino si vedevano le minuscole venuzze rosse che gli decoravano il naso bulboso. Aveva l'alito che sapeva di vino. «Che cosa fa qui, signorina?» Prima che Katherine potesse rispondere, intervenne Dominic: «Padre Malloy, questa è Katherine Roshak. È una professoressa universitaria di New York». «Ho fatto una domanda alla signorina, Dominic.» Il sacerdote teneva lo sguardo fisso su Katherine. Lei cercò di pensare a come spiegare l'accaduto, a qualche modo razionale di raccontarlo che non la facesse passare per pazza. «Non vede che è sconvolta, padre?», continuò Dominic. «Vedo che ha pianto. Voglio sapere perché. E perché le luci sono accese e le porte sbarrate?» «È stata aggredita», rispose Dominic. Katherine abbassò gli occhi. «Aggredita? In chiesa?» Il prete era incredulo. «Succede», continuò Dominic. «L'ho lasciata qui una mezz'oretta fa e quando sono tornato era in preda all'isteria. Qualcuno si è infilato nella panca dietro di lei e l'ha aggredita.» Si abbassò e prese il fazzoletto per mostrarlo al prete. «Era così spaventata che ha persino vomitato, padre.» «Mi guardi, signorina», le ordinò lui. «È vero?» Non fidandosi della sua voce Katherine annuì. Era vero, tutto vero.
«È stata anche ferita?» chiese padre Malloy. La sua voce era più gentile. Katherine scosse il capo. «È ancora sconvolta, padre. Meno male che sono arrivato in tempo.» «È terribile non essere più al sicuro nemmeno in chiesa», commentò padre Malloy. «Suppongo che ora aprirete un'indagine.» «Non credo che sarà necessario, padre. Ho già perlustrato la chiesa. Chiunque sia stato, se n'è già andato e credo che la signorina Roshak non voglia farsi alcuna pubblicità.» «La ringrazio, Dominic. Non sarebbe bene per la chiesa se la storia venisse divulgata. Spaventerebbe solo i parrocchiani.» Dominic porse la mano a Katherine che si alzò lentamente, ancora timorosa di affrontare il prete. «Mi dispiace terribilmente per quanto è successo, signorina; non voglio che questo metta in cattiva luce la nostra chiesa. È solo che il mondo in cui viviamo è cambiato moltissimo. Con tutta probabilità è l'influenza del demonio.» «Non si preoccupi, padre. Non ne parleremo con nessuno. Inoltre non c'è alcun bisogno che la polizia ne venga informata.» «Capisco, Dominic. Si può fidare di me. Se non dirà niente lei, non lo farò nemmeno io.» «Grazie, padre.» A metà strada su per la collina che conduceva al cimitero, Dominic spense i fari. Oltrepassò poi lentamente i cancelli, spingendosi fino alla cima da dove potevano godere della vista di quasi tutto il camposanto. «Che cosa hai in mente di fare, adesso?» chiese lei. «Niente. Solo aspettare.» «Aspettare che cosa?» «Non lo so. Vediamo che cosa succede.» «Vuoi aspettare che torni quella luce, vero?» Si portò un dito alle labbra. «Ssst. Le voci si sentono.» Dominic abbassò il finestrino quel tanto che bastava per far entrare aria fresca nella macchina ed evitare che si appannassero i vetri. Si udiva solo il morbido fruscio delle foglie a ogni folata di vento. «Non funzionerà», commentò Katherine. Lui non rispose. La luna venne oscurata da nubi gigantesche. Katherine dovette abituare
gli occhi al buio prima di riuscire a scorgere le sagome delle tombe all'interno del recinto. «È una perdita di tempo», sussurrò. Dal punto in cui si erano fermati, si vedeva la distesa di luci disseminate nella vallata sottostante. In lontananza, le luci di Scranton riflettevano un debole chiarore sulle nuvole basse. «Non vedo ancora niente», mormorò Katherine. «Abbi pazienza.» «Che tipo di luce era?» «Era una luce e basta. Si trovava sopra la tomba di tua madre ed è sparita oltre la cancellata quando l'ho seguita.» «Com'era? Fluttuava? Di che colore era?» Dominic alzò il finestrino. «Era solo una luce, Katherine. Adesso sta calma. Se continui a parlare, possiamo anche andarcene.» Dopo essersi assicurato che sarebbe finalmente stata zitta, riabbassò il finestrino. Aspettarono per quasi un'ora. Nella quiete della notte, Katherine non faceva che immaginare movimenti fra le tombe. Più guardava, più aveva l'impressione che cambiassero posizione. Tra i cespugli vicino alla macchina, ci fu un rumore. Katherine si drizzò a sedere mentre un brivido di paura la metteva in un improvviso stato d'allerta. Dominic le prese la mano. «A cuccia», le sussurrò. Katherine si riappoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. La tensione le stava facendo venire il mal di testa. Era sul punto di assopirsi quando sentì Dominic aumentare la stretta della mano. Aprì gli occhi immediatamente. Dall'altra parte del cimitero, parzialmente nascosto dagli alberi e dalle tombe, era visibile un pallido bagliore. Non riusciva a scorgere la fonte della luce, che evidentemente si celava nella zona della tomba di sua madre. «Ascolta», sussurrò Dominic. Katherine tese le orecchie fino al punto di sentire il suo stesso sangue che le scorreva nelle vene. «Che cos'è?» «Credo di aver sentito un rumore. Come qualcosa che graffia.» Katherine continuò ad ascoltare, ma non sentì nulla. «Forse è meglio che tu resti qui», propose lui. «Tieni le portiere bloccate
e sarai al sicuro.» Katherine si avvicinò al suo sedile. «Sarò più al sicuro con te», rispose. «Non illuderti», ribatté lui. In quel momento le venne in mente che la pistola era stata sottratta. Era disarmato. Ma non avrebbe fatto alcuna differenza. Una pistola non avrebbe avuto alcun effetto sulla mamma. Lo seguì silenziosamente oltre i cancelli. Si tennero all'esterno del lastricato, camminando sull'erba per nascondere le impronte. La luce davanti a loro non si muoveva. Prima di raggiungere il dosso, Dominic si fermò. Adesso riusciva a udirlo anche lei. Era un rumore attutito, di terra smossa. Forse qualcuno stava scavando, ma non si udiva il rumore del badile. Era più simile al graffiare di un animale. Mentre ascoltavano, il rumore cessò. Il bagliore scomparve. Dominic imprecò sommessamente. Accese la torcia e si precipitò giù per la discesa. Katherine cercò di tenere il passo ma perse una scarpa nel terreno cedevole. Dominic si fermò e fece scorrere il fascio di luce lungo il recinto del cimitero. «È sparita un'altra volta», esclamò deluso. La luce della torcia si rifletteva sulle pietre tombali di marmo lucido rivelando scarni ramoscelli privi di foglie dei cespugli che fuoriuscivano dal recinto di ferro battuto. «Era già successo», borbottò. Portò il raggio di luce sulla tomba di sua madre, rivelando così un tumulo di terra. «L'hanno fatta riempire di nuovo», spiegò Dominic. «Il capo della polizia non vuole che si sappia in giro.» Si lasciò sfuggire un fischio mentre si avvicinava alla tomba. Katherine si tolse l'altra scarpa e continuò a piedi nudi. Si trovarono di fronte a una strana scena: zolle di terra erano sparpagliate alla rinfusa attorno alle tombe vicine, schizzi di fango fresco erano andati ad appiccicarsi contro le lapidi. C'era terra dappertutto. La causa di quel disastro era la fossa di sua madre riempita di recente. Nella terra fresca era stato scavato un buco di circa mezzo metro. Dominic si era già inginocchiato per esaminarlo da vicino. «Ci sono segni di dita», annunciò. «Qualcuno ha scavato con le mani.»
«La mamma», rispose lei affannosamente. «È stata la mamma.» Sul terreno si vedevano tracce di scarpe femminili. «Impossibile», sussurrò lui. «Non può essere in due luoghi contemporaneamente.» «È come se volesse tornare nella fossa», commentò Katherine. Si abbassò e cercò di far combaciare i suoi polpastrelli alle impronte sul terreno. Dominic la tirò indietro. «Ecco quello che sta cercando di fare», ripeté lei. «Non avrebbero dovuto riempirle la fossa.» Mentalmente immaginava sua madre impegnata a graffiare e a scavare freneticamente fra la terra, a buttarla rabbiosamente intorno, nel tentativo disperato di tornare. Tornare a che cosa? «Non ha senso», disse Dominic. «Non deve necessariamente avere un senso», ribatté Katherine, ancora stordita dalla scoperta. «Il modo in cui mi ha lasciato otto anni fa non aveva alcun senso, quindi perché dovrebbe averne uno adesso?» «Smettila di torturarti», le bisbigliò lui dolcemente. Si sentì circondare dalle sue braccia che intendevano rassicurarla, conferirle un po' della propria forza. «Non prendertela così.» «Dovrebbero riscavare ancora la tomba. Dovrebbero lasciarla aperta.» «Ma se è uscita dalla tomba, perché adesso vuole tornarci? Non capisco.» «Forse è per questo motivo che mi è apparsa in chiesa. Forse è questo che sta cercando di chiedermi. Infatti sembrava sul punto di chiedermi qualcosa.» «Non crederai a tutto questo, vero?» «Io credo a quello che ho visto. E sento che si sta aggirando qui intorno, senza farsi vedere.» Si guardò intorno cercando di vedere oltre il fascio di luce della torcia. «Non dire così.» «Non può rientrare nella tomba. Devi fargliela aprire di nuovo.» «Non farò proprio niente», rispose Dominic. «Non finché non avrò esaminato qualche campione di terra.» Dal perimetro della tomba prelevò dei campioni di fango e li mise nelle buste che aveva portato dalla chiesa. Aspettando che finisse, Katherine continuò a esaminare il cimitero con la torcia. Pensò di aver scorto un movimento dall'altra parte del recinto, ma non poteva esserne sicura. «Non dovremmo riferirlo alla polizia?»
«E perché? Non è stato commesso alcun crimine.» Le prese di mano la torcia e l'aiutò a cercare la scarpa che aveva perso. «Non saprei», disse Katherine. «Ho l'impressione che stia per succedere qualcosa di terribile.» All'improvviso alzò lo sguardo. Restarono entrambi in ascolto, come se avessero udito qualcosa fra i cespugli. «Coraggio, usciamo di qui», sussurrò lui. «Sono stato spesso in questo cimitero, ma è la prima volta che ho paura.» Andarono ai laboratori di medicina legale di Scranton. L'edificio quadrato assomigliava a un bunker privo di finestre. Sulla porta principale era montata una piccola telecamera. Un'insegna avvertiva che l'edificio era sotto sorveglianza elettronica. L'uomo che aprì la porta indossava un camice bianco troppo stretto che riusciva a malapena a contenere la sua voluminosa corporatura. «Che cosa c'è di così importante da costringermi ad aprire il sabato sera?» domandò a Dominic. Senza aspettare la risposta si rivolse a Katherine. «Lei è la professoressa, quella di cui mi ha parlato Dominic. È di New York, vero?» Li fece entrare nell'edificio, chiuse la porta a chiave e applicò la traversa di metallo. «Anch'io sono stato sul punto di andare all'Università di New York, ai tempi in cui pensavo di studiare legge. Avrei voluto fare l'avvocato. Da quello che ho visto nelle aule giudiziarie, e ne ho viste di tutti i colori, sono sicuro che potrei fare meglio del settantacinque per cento degli avvocati che ci sono in giro. Professoressa di psicologia, vero? Io sono Johnny Henzes.» La mano di Katherine sparì nell'enorme stretta dell'uomo. Assomigliava a un orso; aveva una voce rombante e profonda e il dorso delle mani era ricoperto da folte chiazze di peli. «Dominic si è dimenticato come si presentano le persone», continuò. «Interessante la psicologia. Non ha mai una risposta precisa. Il contrario del mio lavoro. Qui tutto è basato sulle leggi della scienza: la fisica, la biologia, l'anatomia, sono i fondamenti di tutte le mie affermazioni.» Li condusse per un lungo corridoio, costeggiato da porte con cartelli di avvertimento «Pericolo batteriologico» e «Radiazioni». L'intero edificio era bene illuminato, ma non si vedevano altre persone. «Quando sono qui da solo, tengo tutte le luci accese», spiegò. «È un'abitudine che ho dall'infanzia. Lei saprà spiegarsi il motivo.»
Le mensole e i banconi del suo laboratorio erano ingombri di vasi e scatole. Un forte odore di disinfettante punse il naso di Katherine. Due enormi microscopi riposavano sotto custodie di plastica. Alle pareti c'erano tabelle, diagrammi e il poster di un gatto impegnato a fare ginnastica. A un angolo, un frigorifero di acciaio inossidabile ronzava sommessamente. La stanza adiacente, al confronto, appariva quasi sterile. Era illuminata da una debole luce blu. All'interno si trovava un cilindro a più livelli con quattro manopole nere sporgenti. Sotto, c'era l'attrezzatura fotografica. Di lato, un quadro di controllo pieno di pulsanti, misuratori, quadranti. Due schermi televisivi attendevano silenziosi. «Il mio microscopio elettronico», presentò Henzes. «Avete mai visto niente di più bello? «Per prima cosa dovremmo essiccare i campioni. Devono essere perfettamente asciutti perché il microscopio funziona sottovuoto. Non deve penetrare la più piccola traccia di umidità o rovinerebbe l'apparecchiatura.» Dominic gli porse le buste. Henzes grattò una piccola quantità di fango da ognuna di esse, le ordinò sui vetrini e le mise in un piccolo forno. «Mentre aspettiamo, vi mostro che cosa sa fare questo portento. Sto lavorando su quei campioni che mi hai portato l'altro giorno, Dominic. Posso mostrarglieli, vero?» Senza aspettare la risposta, si rivolse a Katherine. «Provengono dalla bara di sua madre. Non se ne abbia a male, sono campioni scientifici e servono solo ad aiutarmi a scoprire la verità.» Con un atteggiamento disinvolto diede un colpetto a un interruttore e girò una manopola sul pannello di controllo. Su uno degli schermi ambrati, apparve un'immagine. «Guardi. Sa che cos'è?» Katherine scosse la testa. «Coraggio, provi a indovinare. Tu che cosa ne dici, Dominic? Sai che cos'è?» «Sembra un filo o un pezzo di spago», rispose Katherine. «Sì, sembra un filo», ridacchiò Henzes. «Ma è un capello. Un capello umano, ingrandito un migliaio di volte. Guardate, si riescono persino a vedere i solchi.» Affascinata, Katherine guardò più da vicino l'immagine. «Proviene dal cuscino della bara di sua madre», spiegò Henzes. Katherine si allontanò dallo schermo. Improvvisamente l'immagine le parve grottesca. «Come ho detto, è un campione scientifico», continuò velocemente
Henzes. «Non se la prenda. Ho scoperto che si tingeva i capelli. Possiamo esserne sicuri grazie al microscopio a fibre ottiche, non a questo. Questo mostra solo la struttura fisica dei campioni. Possiamo ingrandire fino a quarantamila volte.» Spense il monitor e prese un pacco di foto istantanee. «Queste le ho fatte io con la mia macchina fotografica. Una Polaroid. Ci sono altri oggetti provenienti dalla cassa. Guardi questi frammenti di pelle. Naturalmente hanno otto anni, quindi mostrano un certo stadio di decomposizione.» «A lui piace parlare», spiegò Dominic. «Ma questa non è un'aula giudiziaria, Johnny. Non devi raccontarle tutti i particolari.» «Senza i particolari, non ci sarebbe riconoscimento. Non si può dire molto sui frammenti di pelle normali, perché tendono tutti ad assomigliarsi. I miei non sarebbero molto diversi dai tuoi. Sono il grado di decomposizione e gli altri dettagli a renderli unici. Lo vedremo quando esamineremo il rosario. Si ha sempre bisogno di un numero sufficiente di particolari per avere un termine di paragone valido in un'aula giudiziaria. Ho già fatto queste analisi prima d'ora e ho sempre vinto le cause.» «Noi non andremo in giudizio», ribatté Dominic. «Stiamo cercando solo informazioni plausibili.» «Le informazioni che trarrai dalle analisi che ho fatto finora ti sorprenderanno.» «Allora passiamo ai risultati, okay?» Henzes tolse il primo campione di fango dal forno, lo introdusse sullo schermo di proiezione, effettuò una serie di rettifiche e schiacciò un pulsante sul quadro. Sul monitor apparve un'immagine ambrata. Quelli che erano stati minuscoli granelli di fango sul vetrino, diventarono complesse strutture crivellate di fori e cunicoli. «Affascinante, non trovate?» commentò Henzes. «Molti pensano che la terra sia morta priva di vita, inerte. Invece brulica di vita. Ed è splendida. Guardate questi cristalli di carbone. Qui, nella Lackawanna Valley il suolo è ricco di carbone. Questo genere di formazioni cristalline si trovano praticamente ovunque, incluso nel pulviscolo che respirate. Quindi questo campione non ci dice molto, a parte il fatto che proviene da un raggio di ottanta chilometri circa.» Premette un bottone per attivare la Polaroid. Dopo aver tolto la fotografia del campione, regolò una delle manopole nere. Katherine vide l'immagine sullo schermo cambiare, focalizzandosi in
una zona superiore del campione. Un pulsante del quadro ingrandì l'immagine. «Ora stiamo ingrandendo mille volte. A questo punto si comincia a vedere la materia organica mischiata ai minerali. Queste strutture simili a ragni sono rizobi: batteri comuni, ma quasi unici in questa valle. Vengono trovati più spesso all'interno di fattorie o giardini, in prossimità delle leguminose: fagioli, piselli e via dicendo. Trasformano l'azoto dell'aria in composti di azoto per le piante. In sostanza, sembrano tutti uguali. Ma quando si trovano rizobi in un suolo carbonifero, il campo comincia a restringersi. Se si trovano due quantità uguali in campioni diversi, si può dire che i campioni con tutta probabilità provengono dallo stesso luogo.» «Quindi hai avuto un riscontro», commentò Dominic. «Ho detto probabilmente. Per quanto, quello che vi ho mostrato non reggerebbe mai in un'aula di tribunale. Un buon avvocato mi straccerebbe se cercassi di basare un caso sui cristalli di carbone e sui rizobi.» «Che cosa sono quei minuscoli filamenti?» domandò Katherine. «Sembrano fibre.» «Ah, lei ha l'occhio dello scienziato, professoressa.» Premette un bottone sul quadro ed effettuò una ripresa più da vicino finché i filamenti non colmarono lo schermo. «Questa è la soluzione che cerchiamo. Sono actinomiceti, microorganismi che hanno come funzione principale la decomposizione della materia organica. Sono creature viventi che decompongono le foglie e le radici... qualsiasi cosa che un tempo era in vita. Quando si rivolta la terra e si scava un buco, non è l'odore del terreno, che si sente, sono gli actinomiceti al lavoro.» Katherine cercò di non pensare all'odore della tomba. «Come grandezza stanno a metà fra i batteri e i funghi. Sono affamati come lupi. Mangiano qualsiasi cosa organica si trovi nel terreno. Come risultato ci forniscono la descrizione di quello che avviene sottoterra. Il livello di decomposizione della materia organica, se può essere confrontata in due campioni diversi, è un elemento chiave per dimostrare che un frammento di fango proviene esattamente dallo stesso luogo di un altro. Potrei dire perfino a quale profondità si trovava se avessi un campione da confrontare proveniente da una profondità minore.» Scattò un'altra fotografia, tolse un vetrino, ne mise un altro e scattò un'altra foto. Allineò le stampe una di fianco all'altra. «Più o meno mi sembrano uguali», commentò Dominic.
Henzes sorrise e scosse la testa. «Sarai anche stato un bravo poliziotto, ma non sei certo uno scienziato. Più o meno uguali non è sufficiente. Guarda qui.» Prese una copia del primo gruppo di fotografie. «Questa combacia perfettamente», assentì Katherine. «Mai visto niente di più identico», ne convenne Henzes. «Questo significa che il campione prelevato dal banco della chiesa è lo stesso di quello della tomba?» domandò Dominic. «Di più», rispose Henzes. «Posso affermare che il campione si trovava nella tomba, non sopra. Esattamente vicino alla bara. Guardate il livello di decomposizione degli actinomiceti. Questo campione è stato prelevato a una profondità di due metri circa. Chiunque abbiate visto in chiesa è stato nella fossa.» «Non saltiamo subito a una conclusione di questo genere», si raccomandò Dominic. «Ci sono altre analisi da fare, no?» «Ci sono le analisi della composizione chimica del suolo, la serie dei pH basici e almeno un'altra decina di esami. Ma basandomi su quello che vedo adesso, non ci saranno contraddizioni nei risultati. Questi due campioni sono identici. Vengono tutti e due dallo stesso luogo, a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro. Sono pronto a testimoniarlo anche in tribunale.» «Vorrei che facessi anche le altre analisi, giusto per essere sicuri», lo invitò Dominic. «Ma io conosco già la risposta. Gli altri test sono semplicemente di conferma.» Henzes collocò i campioni di terreno in due grandi buste gialle, dove segnò le analisi che dovevano essere ancora effettuate. «Dovrete aspettare fino a lunedì, per quelle, quando il personale sarà al completo.» «Non le puoi fare adesso?» «È sabato sera, Dominic. Ti ho già fatto un favore venendo qui. Inoltre, chi pagherà? Tu non fai più parte della polizia.» Senza aspettare risposta, ridacchiò. «Oh, al diavolo. Vai a prendere un tabellone. Lo useremo per annotare le varie prove.» «Il tuo problema è che pensi di essere Quincy. Hai visto troppi telefilm alla televisione», borbottò Dominic lasciando la stanza. «È bello sentire che si lamenta ancora», disse Henzes. «Dalla morte di Cara non si è più interessato a nessun caso. Lei ha una buona influenza su di lui, professoressa.»
Prima che Katherine potesse ribattere, Dominic tornò portando il tabellone. Henzes puntò con gli spilli le due fotografie scattate al microscopio alla sommità del pannello di sughero. «Ho già analizzato i campioni che hai portato l'altro giorno. C'era una donna nella bara. Una donna anziana, sulla sessantina.» «Questo lo sappiamo già», commentò Dominic con un sospiro. «Te l'ho detto quando ti ho portato i campioni.» «Ah, ma non ne avevi la prova. Mancava il corpo. Non eri nemmeno sicuro che ci fosse un corpo nella bara, tanto per cominciare. Eri piuttosto scettico su tutta la storia, se ben ricordo.» Dominic si sentì a disagio. «È stato due giorni fa», si giustificò. «In ogni caso, il materiale che hai portato dimostra che si trattava di una donna sulla sessantina morta da più di cinque anni. Aveva capelli grigi tinti di castano. Le piaceva mangiare pesce, banane, e cibi fritti.» «Era la madre di Katherine», gli ricordò Dominic. «Naturalmente. Mi dispiace, professoressa. Ma avevo ragione sul pesce, le banane e sui fritti? È risultato dall'analisi del contenuto di proteine dei capelli prelevati dal rivestimento interno della cassa. In questo modo avevano dimostrato che Napoleone era morto per avvelenamento da arsenico, dopo aver esaminato le proteine contenute in un capello vecchio di centocinquant'anni.» «Continuiamo con le analisi», esortò Dominic. «Se fosse importante saperlo, potrei anche dire la marca della tintura per capelli che usava.» «Non m'interessa.» Henzes scrollò le spalle. «Sarebbe sufficiente un'analisi comparativa allo spettrometro. Non si può mai sapere. I dettagli. Si costruiscono interi casi sui dettagli.» Con pinzette da chirurgo estrasse un filo dal pezzo di tessuto che Dominic aveva recuperato sul banco della chiesa. «Alcuni fili del rivestimento della bara sono già stati controllati. Fibra sintetica, blu, con una trama crespata che starebbe a indicare tessuto di chiffon. Questo sembra molto simile, ma assicuriamocene.» Regolò il microscopio finché le fibre si stagliarono perfettamente a fuoco sul monitor. Tenendo in mano una foto per il confronto, aumentò il livello d'ingrandimento finché entrambi i fili furono della stessa grandezza. «Come ho già detto, il riscontro è perfetto. Le coincidenze continuano. La persona in chiesa indossava gli stessi abiti della persona nella bara. Pre-
sumo che ne vogliate una foto, vero?» «Scattala.» Le istantanee a confronto furono appese al tabellone sotto i campioni di fango. Henzes grattò il rimanente pezzetto di stoffa con un coltellino, producendo una minuscola pallina di garza. La posò su un vetrino e la picchiettò leggermente. «Non starnutite», li avvertì. «Soffiereste via la prova.» «È solo polvere», commentò Katherine. «Che cosa spera di trovarci?» «Ci dirà dove è stato questo pezzettino di stoffa. Ogni ambiente ha le sue caratteristiche. Non mi riferisco solo all'inquinamento, anche se potrebbe essere molto utile nel fornire qualche prova. Un'alta concentrazione di idrocarburi o nafta può dimostrare che un indumento è stato indossato in una raffineria di petrolio, ad esempio. Nel nostro caso cerchiamo di dare una collocazione nella bara. Procederemo cercando fibre del rivestimento interno di seta, possibilmente cristallizzazioni di formaldeide e, come ho già detto, frammenti di pelle. Una persona sana perde circa cinquanta milioni di cellule al giorno. Una persona morta ne perde di meno, perché non gode più della riproduzione cellulare. Ma è sufficiente per proseguire.» Le mostrò una microfotografia. «Ecco quello che stiamo cercando. Questa è una foto della polvere che abbiamo trovato sul fondo della cassa. C'è un frammento di pelle nel mezzo.» Assomigliava a un frammento di cuoio logoro e rotondo, circondato da un groviglio di fibre ingrandite e altri oggetti. «È mischiato a capelli, un po' di chiffon, filamenti di seta. La seta ha una forma appiattita, irregolare, mentre il chiffon è sintetico, quindi più uniforme. Quelle strutture cristalline sono cosmetici. Quel frammento nel mezzo è più traslucido di quanto ci si possa aspettare. È di una persona anziana.» «È di mia madre», sussurrò Katherine. «Non ho detto questo», la corresse Henzes. «Per essere precisi è un campione proveniente dal corpo che si trovava in quella bara negli ultimi otto anni. Il mio lavoro è solo quello di stabilire se il tessuto che avete trovato in chiesa proviene dalla stessa bara. Spetta a qualcun altro stabilire a chi apparteneva il cadavere della cassa.» «Presumiamo che fosse di sua madre, d'accordo?» propose Dominic. Aveva un tono di voce irritato. «Questo non è affar mio», ribatté Henzes tornando al suo microscopio
per esaminare il campione. Regolò le manopole fino a raggiungere il livello di diffrazione che gli avrebbe permesso di confrontare le prime fotografie. L'immagine che apparve sul monitor era un fitto agglomerato di forme rotonde e piatte e fili di fibre e di capelli. Henzes regolò nuovamente il microscopio e l'immagine si restrinse su un dettaglio del campione. Regolò la posizione finché la stoffa coriacea si trovò al centro dello schermo. «Credo che ci sia un riscontro», annunciò. Dominic mormorò qualcosa sommessamente. Henzes continuò a studiare l'immagine sullo schermo. «Coincidono», ripeté. «È incredibile.» «Ti stai basando su quel frammento di pelle?» domandò Dominio «Lo sai che come prova non reggerebbe in un'aula.» «Be', è come il resto», rispose Henzes. «Anche una singola scaglia di pelle, se si considera la grandezza microscopica, potrebbe fornire a un avvocato un elemento possibile da attaccare. Ma guarda la forma. Sulla sinistra si vedono due capelli grigi, tinti di castano. Potrei dimostrare che quella tintura è della stessa marca di quella usata nel campione della cassa. Mi basterebbe mezz'ora di tempo. A destra, c'è una fibra sintetica ondulata proveniente dal tessuto stesso. Identica al campione precedente. Alcuni cristalli di formaldeide, fibre di seta bianca a filo ritorto che combaciano con il rivestimento della cassa. Se guardate più da vicino, potete addirittura vedere il punto in cui il matophagoides farinae, un acaro, ha rosicchiato i bordi del frammento di pelle, esattamente come nel campione precedente.» Si alzò e incrociò le braccia. «In questo campione, sono in grado di trovare almeno trenta valori corrispondenti. Se fosse solo una scaglia, direi di no, non reggerebbe di fronte a un buon avvocato, ma con trenta analogie non c'è pericolo che mi sbagli.» «Allora era mia madre in chiesa. Era lei. L'ha dimostrato.» «Io continuo a dire che è impossibile», insisté Dominic. «Volete vedere le foto che ho scattato al rosario?» propose Henzes. Con degli spilli fissò al tabellone le fotografie dei campioni di polvere. Senza fare commenti, aggiunse un'altra copia. «È quasi la stessa», disse Katherine. «Riesco a vedere lo stesso tipo di fibre, di scaglie di pelle, persino i cristalli di polvere.» «Bene, adesso sa che cosa cercare», dichiarò Henzes. «Combacia perfettamente. Ha tutte le caratteristiche che abbiamo rilevato nella bara.» «Da dove proviene il campione?» chiese Dominic.
«L'ho preso dai grani del rosario che mi hai portato tu.» 9 «Ormai è sicuro, era mia madre», esclamò Katherine. «Tutto lo dimostra.» Henzes alzò le mani in segno di protesta. «Non tocca a me trarre questo genere di conclusioni. Io mi limito ad analizzare le prove. Non ho fatto altro che mettere a confronto i vari campioni. Se verrò citato a testimoniare, posso giurare solo che i campioni prelevati dalla chiesa e dal rosario provengono dalla bara di sua madre, dove il corpo di una donna d'età avanzata si è decomposto nel corso degli anni. Non posso produrre alcuna prova a dimostrazione che sua madre fosse veramente in chiesa, perché io non c'ero. Sarei troppo approssimativo.» «Un'ultima domanda, Johnny», intervenne Dominic. «Non potrebbe essere la messinscena di qualcuno che vuol farle credere che sua madre è ancora in vita?» «Ti riferisci a un camuffamento di prove?» «Sì. È possibile?» «No. Stiamo parlando di una prova invisibile a occhio nudo. È inconcepibile anche solo pensare che sia stato possibile raccogliere e conservare una prova del genere, ammesso che qualcuno fosse a conoscenza della sua esistenza. Persino per me sarebbe impossibile realizzare un duplicato della matrice. Sarebbe come duplicare la polvere, Dominic. Polvere!» Tornando a Dickson, l'espressione di Dominic si fece preoccupata. Katherine fissava fuori del finestrino mentre le strade e i veicoli sfrecciavano sotto i suoi occhi. Si aspettava di avvistare una figura vestita di chiffon azzurro da un momento all'altro. Solo quando raggiunsero il viale principale illuminato di Dickson, Dominic si decise a parlare. «Potrei fare in modo che appostino una guardia fuori casa tua per stasera», le propose. La strada che passava davanti al Valley Inn era inondata dal riflesso rossastro della luce al neon. Lungo il marciapiede erano posteggiate alcune auto. Dall'ingresso filtrava il rumore tipico del sabato sera. «E a che cosa servirebbe?» incalzò Katherine. «Ci troviamo di fronte a un caso soprannaturale.» «Se ti riferisci ai fantasmi, ti sbagli», perseverò lui. «I fantasmi non si lasciano prove tangibili alle spalle.»
L'accompagnò alla porta sul retro. «Non mi vergogno a entrare dal davanti, Dominic. Non c'è bisogno che mi dedichi tutte queste attenzioni.» «Meno persone sanno che ti trovi qui, più facile sarà proteggerti.» «Ma come hai intenzione di proteggermi? Mia madre non ha paura di te.» «Forse no. Ma allora, perché sceglie di farsi vedere solo quando io non sono nei paraggi?» Prima di aprire la porta, Eddie sollevò una listarella della veneziana per sbirciare chi stava arrivando. «Andiamo, Eddie, che problema c'è?» sbraitò Dominic. Eddie aprì la porta quel tanto che bastava per farli sgattaiolare all'interno. «Dominic, come sono contento che siate tornati. Dovete venire subito di sopra con me.» Richiuse velocemente la porta a chiave. Il chiasso proveniente dal bar rendeva impossibile capire quello che stava dicendo. «Non l'ho detto a nessuno, Dominic. Pensavo che desiderassi la riservatezza più assoluta. Non so cosa stia succedendo. È tutto molto strano.» «Calmati Eddie. Raccontami quello che è successo.» «Sapevo che non ti avrebbe fatto piacere se avessi toccato qualche cosa, per cui ho lasciato tutto al suo posto, così come l'ho trovato io.» Salì per primo le scale buie, dirigendosi verso la camera di Katherine. «Ero salito per dare una controllata alla stanza, perché mi era sembrato di sentire un rumore. Non ci crederai mai, Dominic. Lo senti questo odore?» Si bloccò fuori della stanza. «Arriva fin qui», proseguì coprendosi il naso con un fazzoletto. «Sembra che là dentro ci sia un animale morto.» Dominic si portò una mano alla bocca e aprì la porta. Il fetore li avvolse, come se fosse stato in agguato ad aspettare che qualcuno osasse entrare nella stanza. Dominic iniziò a tossire e arretrò. Prese il fazzoletto e aspettò che l'aria si facesse più respirabile. Katherine conosceva già quell'odore. Era più forte di quello che aveva sentito in chiesa, ma aveva lo stesso aroma dolciastro della carne decomposta, con un tocco pungente di zolfo. Fu la prima a entrare, aspettandosi di trovare sua madre. La stanza era vuota.
Le coperte del letto erano state tirate indietro. Katherine si avvicinò. Sul lenzuolo c'era qualcosa. «Volevo aprire le finestre per cambiare l'aria», spiegò Eddie da dietro il fazzoletto. «Però ho pensato che vi sarebbe interessato sentire di persona questa puzza. Non avrei saputo come descriverla.» «Hai fatto bene», si congratulò Dominic. Katherine cercò di distinguere la forma sul lenzuolo. «Che cosa pensi che sia questo odore?» chiese Eddie. «Sembra che si aggiri un morto, ma la stanza è vuota.» «È solo un odore», rispose Dominic. «Una puzza, tutto qui. Forse è qualche tubatura di scarico intasata.» «In bagno non c'è puzza e nemmeno da basso. È solo qui dentro. Non riesco a capire.» «Se apri la finestra se ne andrà», suggerì Dominic. Katherine osservò la sagoma, senza capire che senso avesse. «Non ho nemmeno toccato il letto», riprese Eddie. «È così che l'ho trovato.» Aspettava in piedi vicino alla porta, terrorizzato a entrare. «Cosa pensi che sia?» domandò a Katherine. «Sembra un'ombra», rispose lei. Andò a sfiorare l'impronta sul lenzuolo. Era una sagoma marrone e ruvida al tatto. Sotto le dita si sgretolava. Dominic si abbassò per studiarla meglio. «È una bruciatura», esclamò sorpreso. «È una bruciatura a forma di persona.» «È come se si fosse sdraiato qualcuno», mormorò Eddie. Era evidente che aveva paura, da come parlava sommessamente. «Si vedono la forma delle gambe, della testa e delle spalle.» Katherine seguì la descrizione che stava facendo. «Però non ci sono le braccia», constatò. Katherine toccò la testa della figura sul lenzuolo. «Il corpo è intero», riprese Dominic. «Ma le braccia dove sono finite?» «Le teneva incrociate sul petto», bofonchiò Katherine. «Era così anche nella bara.» Appena visibili, leggermente più annerite del resto della figura nel punto in cui le braccia erano incrociate, c'erano due bruciature più profonde. «Voi due dicevate che succedono strane cose», disse Eddie. «Io non so a
cosa vi stavate riferendo, ma questo è sicuramente molto strano.» «Mia madre è stata qui», sentenziò Katherine. «Si è sdraiata su questo letto.» «La porta era chiusa a chiave», protestò Eddie. «Non può essere entrata in questa stanza.» «Questo è sicuro», intervenne Dominic. «Sua madre è morta e sepolta da otto anni. Non può essere entrata qui.» «Oh madre di Dio, Cristo!» si lasciò sfuggire Eddie. «Come ho potuto farmi coinvolgere in questa storia? Mi avevi detto che non ci sarebbero state complicazioni. Che cosa sta succedendo?» «Non preoccuparti», lo rassicurò Dominic. «Non è niente che ti riguardi.» Si guardò attorno. «Quei rilevatori di fumo funzionano?» Ce n'era uno sopra la porta e uno sul termosifone. «Certo, li controllo tutte le settimane. Non avrebbe alcun senso avere dei rilevatori di fumo se non funzionassero.» Dominic salì su una sedia e accese un fiammifero vicino al rilevatore vicino al letto. Il calore del fiammifero non provocò alcun effetto. «Il calore non lo fa scattare», spiegò Eddie. «Funziona solo con il fumo. Soffia sul fiammifero e vedrai.» Seguì il consiglio di Eddie e il sottile ricciolo di fumo fece scattare l'allarme che iniziò a ululare finché il fumo non si dissolse. Eddie allungò il bicchiere d'acqua che serviva da portacenere. «Gli incendi lenti sono i più letali», spiegò. «È per questo che ho piazzato due rilevatori come questi in ogni stanza. Non ho intenzione di restare intrappolato.» Ripose il bicchiere sul comodino. «L'allarme non è scattato quando il letto è stato bruciato?» domandò Dominic. «Se fosse scattato l'avrei sentito. Si sente anche dal bar. Sai, quando ho comprato questi aggeggi, ho effettuato tutte le prove necessarie per stabilire fino a che distanza fosse possibile udirli. Non servirebbe a nulla avere degli allarmi se poi non si sentono.» Grugnì mentre cercava di aprire la finestra. «Questa finestra s'incastra sempre quando non viene chiusa bene!» esclamò. Non riuscendo a raggiungere l'altezza giusta con i moncherini, dovette farsi da parte e lasciare che fosse Dominic ad aprirla al posto suo. Nella stanza fece irruzione l'aria della notte che spazzò via parte dell'odore.
«Avevo sentito qualche rumore», raccontò, «ma pensavo che fosse la professoressa. Se ho udito i movimenti, avrei dovuto sentire anche i rilevatori di fumo, non ti pare?» «Quant'era alta tua madre?» domandò Dominic a Katherine. «Un metro e sessanta. Perché?» «Hai un metro, Eddie?» «Stai perdendo tempo», commentò lei. «La figura è sicuramente un metro e sessanta.» Eddie sparì nella stanza mentre Dominic proseguiva nell'analisi della sagoma. Fece passare la mano sul lenzuolo, tastando la differenza fra la zona bruciata e quella rimasta intatta. «Voglio solo controllare», le spiegò. «Mi piace sempre assicurarmi di tutto.» Rabbrividendo alla corrente d'aria, Katherine lo studiò mentre osservava il lenzuolo da angolazioni diverse, come se si aspettasse di trovare qualche indizio, qualche segno in grado di spiegare quello che era successo. «Sono riuscito a trovare solo questo», disse Eddie sulla soglia. Fra le mani stringeva un metro sproporzionato. Entrando, riprese ad annusare l'aria. «Meno male che l'odore sta sparendo», esclamò. «Temevo di dover chiudere il bar, se fosse arrivato anche giù. Non si può servire da bere con una puzza come questa.» Katherine osservò Dominic mentre prendeva le misure della figura sul lenzuolo. Il suo silenzio confermò le dimensioni previste. «Forse sta cercando di comunicarmi qualcosa», azzardò Katherine. «Che genere di messaggio?» l'apostrofò Dominic. «Se sul lenzuolo c'è la sagoma bruciata di un corpo, che cosa può significare?» «È come la Sacra Sindone», suggerì Eddie. «Non avete mai visto qualche fotografia? Hanno invitato gli scienziati da tutte le parti del mondo per esaminarla, ma nessuno è mai riuscito a trovare una spiegazione.» «Sta cercando di comunicare qualcosa», s'incaponì Katherine, facendo scorrere la mano sul lenzuolo. «Lo sento.» Si drizzò in piedi e rabbrividì per il freddo della corrente che entrava dalla finestra. «Morirò», gemette. «Non dire queste cose», la rimproverò lui. «È questo che sta cercando di dirmi. Non è la sua immagine quella sul lenzuolo. Io sono alta come lei. Potrei essere io quella sagoma. Sta cercando di dirmi che devo morire.»
«Non devi elucubrare in questo modo. Stai iniziando a immaginare cose che non esistono.» «Mi sto immaginando anche questo lenzuolo? È stata qui, Dominic. È stata qui per una ragione specifica. Mi vuole avvertire.» Nella stanza fece irruzione una folata d'aria gelata. Dominic andò a chiudere la finestra. «Non voglio che tu dorma da sola questa sera», disse. «Ti cerco un'altra sistemazione. Un posto dove potrai stare al sicuro.» «Al sicuro?» Scoppiò a ridere solo al pensiero. «Al sicuro da che cosa? Da mia madre? Non riuscirai a fermarla. Può andare dove vuole.» «Se non sa dove trovarti, sarai al sicuro.» «Io dormirò qui. Su questo letto. Così vuole anche lei.» Dpminic si avvicinò a Katherine. «È troppo pericoloso», insisté. «Senti, per prima cosa è stata tua l'idea di farmi stare qui. Dicevi che volevi trovare mia madre. Mi hai usata come esca. Bene, adesso è qui e io intendo restare dove lei vuole che io rimanga.» «Nonvoglio altri guai», esclamò Eddie alle sue spalle. «Questo aspetto non faceva parte dell'accordo quando ho accettato di ospitarla, Dominic.» «Tu non c'entri, Eddie. Te lo già detto prima», ripeté Dominic. Katherine stava rispondendo al suo sguardo senza abbassare gli occhi. «Sei una testarda», ribadì. «Insisti sempre perché tutto si faccia a modo tuo.» «Sono qui per mia madre. Voglio sapere perché è tornata dalla tomba.» «Non è tua madre. Non più. È solo un cadavere rimasto sottoterra per otto anni. È solo carne in via di decomposizione.» «Non dire così!» urlò. «Non parlare così!» «Carne in via di decomposizione, nient'altro. Ecco perché puzza così quando la vedi. Non è umana. Non è più tua madre, lo vuoi capire?» «Invece sì! Sì! L'ho vista!» Katherine cercò di voltarsi, ma venne bloccata dalla presa di Dominic che la costrinse a guardarlo in faccia. Le strinse il polso con tale violenza da farle perdere sensibilità alle dita. «Sono già morte cinque donne», le ricordò. «Vuoi essere la prossima?» «Se è questo quello che vuole, sì.» «Non lo permetterò!» sbraitò lui. «Non ti lascerò morire!» «Non hai nessun diritto di impedirmi di vedere mia madre!» La lasciò andare con la stessa velocità con cui l'aveva afferrata. Per poco
Katherine non cadde all'indietro. «Scusami», si schermì. Katherine si sfregò i punti arrossati dove lui l'aveva stretta. «Sto solo cercando di proteggerti», mormorò Dominic. Sembrava provare vergogna a guardarla in faccia. «Scusa», ripeté. Katherine non sapeva più che cosa dire. Si limitò a osservarlo mentre toglieva le lenzuola dal letto. «Non puoi dormire qui», le spiegò. «Non su una prova. E poi avresti solo incubi!» Sfilò il lenzuolo con molta cura, facendo attenzione a non strappare la parte bruciata, quindi lo piegò con delicatezza. Le dava fastidio che si portasse via quel lenzuolo. Da qualche parte dentro di sé, aveva provato lo strano impulso di dormire su quella sagoma, di sdraiarsi nella stessa posizione di sua madre. Ma si trattenne dal parlare, terrorizzata di fargli sapere quello che provava, imbarazzata di ammettere perfino a se stessa la bizzarra attrazione che quel lenzuolo esercitava su di lei. Ma, per quanto pienamente consapevole, non riusciva a togliersi quell'idea dalla testa. Dominic fece scorrere la mano sul materasso. «Qui non ci sono segni», notò sbalordito. «Avrei giurato che le bruciature penetrassero sotto uno strato sottile come il lenzuolo. Ma il materasso è intatto.» Si voltò verso Eddie. «Ti dispiace se prendo il lenzuolo? Lo voglio portare da Henzes.» «Fa' pure, ne ho altri. Phyllis ha comprato tante lenzuola che ne ho ancora un sacco ancora nuove.» «Farò appostare una guardia fuori della porta», l'informò Dominic. «Credo di poterlo chiedere come favore personale a Bednarek.» «Non ho bisogno di nessuna guardia», reagì Katherine, ritrovando il dono della parola. Voleva solo restare da sola. Era stanca di discutere, stanca di cercare di convincere Dominic. «Però io mi sentirei meglio», protestò lui. «Se non la vuoi, per me va bene. Ma io una guardia la metto lo stesso. Spero solo che non ce ne sia bisogno.» Fece un giro per la stanza, controllò l'armadio, le finestre, i cardini della porta. Arrivò persino a controllare sotto il letto. Era ridicolo e forse se ne rese conto anche lui. «Non si sa mai», si giustificò con una scrollata di spalle.
Soddisfatto della sicurezza della stanza, chiese a Eddie di chiamare Bednarek alla stazione di polizia. «Resto io fuori della porta finché lui non arriva», la rassicurò Dominic. «Sei molto sicuro di te stesso, vero? Pensi di poter influire su quello che sta succedendo.» «Posso sempre provare», rispose lui. «E non le controlli le serrature? È l'unica cosa che hai dimenticato!» Dominic scoppiò a ridere e portò una sedia in corridoio. «Non voglio che la porta venga chiusa a chiave. Se dovessimo udire qualche movimento e fossimo costretti a entrare, non è il caso di perdere tempo ad abbattere una porta. Fosse per me la terrei socchiusa, ma se ci tieni alla tua intimità, fa' pure.» Fortunatamente, il fetore non era penetrato nell'armadio dove teneva la camicia da notte. Dopo essersi tolta il trucco e essersi fatta una doccia, tornò in stanza e si accorse che Eddie le aveva già rifatto il letto. Una splendida sensazione quella di sdraiarsi su lenzuola di cotone fresche di bucato. Nonostante l'atteggiamento sfrontato che aveva tenuto di fronte a Dominic, Katherine era terrorizzata al pensiero della nottata che l'attendeva. Passò molto tempo prima che riuscisse a chiudere gli occhi. Anche sapendo che all'esterno c'era una guardia pronta a proteggerla, non riusciva a prendere sonno. Non faceva che svegliarsi e appisolarsi in continuazione. Le successe anche di saltare sul letto tremante, sicura che ci fosse qualcuno nella stanza. Restò in ascolto fino a udire solo il sibilo dello sforzo a cui aveva sottoposto le orecchie, nel tentativo di rilevare un rumore esterno. Poi urlò nel sonno. L'agente che aveva sostituito Dominic fece irruzione nella stanza con la pistola pronta a sparare e accese le luci. Il falso allarme la fece sentire una stupida, ma anche al sicuro. Nonostante la sua convinzione che nessuno potesse evitare le apparizioni di sua madre, era confortata dall'idea di avere vicino un altro essere umano che le vigilasse il sonno. Quando infine le prime ombre grigiastre dell'alba iniziarono a filtrare dalla veneziana, Katherine sprofondò in un sonno senza fondo. Mentre stava per lasciare la fase del dormiveglia e immergersi nel sonno, si accorse della porta che si apriva. Udì il rumore di passi che si avvicinavano sommessamente al letto. Ma si sentiva le palpebre troppo pesanti per aprirle. Scivolò nel sonno consapevole della presenza di qualcuno, ma incapace di reagire.
Fu il clacson di un'auto o il verso di un cane o l'urlo di un bambino o chissà quale altro rumore tipicamente mattutino a risvegliarla. La stanza era ancora immersa nell'oscurità grazie alla veneziana che bloccava la luce del sole all'esterno. Accanto al letto, tra le ombre, c'era una sagoma. Le tornarono in mente i rumori che aveva sentito poco prima di addormentarsi. Si mise a fissare la sagoma, l'espressione sorridente che s'intravedeva a malapena sul suo viso. «Da quanto tempo è qui?» chiese Katherine a Eddie. «Non da molto. Sarà un'ora.» «Non c'è più la guardia?» «Sì è addormentata. Dorme da ore.» «Che cosa vuole da me? Perché continua a venire in questa stanza?» «Non voglio farle del male. Volevo solo guardarla. È così bella quando dorme. Potrei stare a guardarla per ore. Non volevo spaventarla.» «È tremendo svegliarsi e trovare qualcuno che ti fissa.» «Quando dorme è l'unica occasione che ho di osservarla senza vergognarmi troppo del mio aspetto.» Gli tremava la voce. Katherine distolse lo sguardo, imbarazzata e si tirò il lenzuolo fin sotto il mento, come se il tessuto avesse chissà quale particolarità di protezione. «Visto?» esclamò Eddie con una punta d'amarezza nella voce. «Si vede quello che prova. Lei non ha paura di trovarmi qui, ma ha paura del mio aspetto. Ed è tutta colpa delle braccia, vero?» Cercò di non guardargli le braccia, i moncherini che gli penzolavano dalle spalle come se fosse stato tagliato a pezzi e poi ricucito malamente, dimenticando di inserire due pezzi fondamentali. Ma non poteva fare a meno di fissarlo. I suoi studi di psicologia non l'avevano preparata ad affrontare una situazione come quella. Non era un caso da studiare, non era uno studente impegnato nella descrizione particolareggiata di deviazioni psicologiche in attesa di un voto. Stava assistendo a un sintomo di paranoia pronto a manifestarsi. Senza aver fatto niente per incoraggiarlo, era diventata l'oggetto del suo desiderio, il centro delle sue fissazioni, il punto focale su cui poteva proiettare tutte le sue fantasie. «Sarebbe meglio che se ne andasse, adesso», propose. «Non le farò del male. Voglio solo proteggerla, tenerla al sicuro, come ho fatto con Phyllis.»
«C'è già qualcuno che mi protegge.» «Infatti. C'è una guardia fuori della porta, ma non sta facendo un buon lavoro. Io sono riuscito a entrare senza che se ne accorgesse. Una donna sola come lei merita una protezione migliore. Si vede subito che si sente sola da come guarda Dominic. Anch'io sono solo. Perché non mi permette di aiutarla?» «Rinchiudendomi in camera come ha fatto ieri?» «Quello è stato uno sbaglio. Avrei dovuto essere più gentile. Le donne cercano sempre la gentilezza, o mi sbaglio?» Spostandosi con cautela, controllando ogni possibile mossa, scivolò verso il lato più lontano del letto. Ormai è fuori portata, ma con un balzo riuscirebbe comunque ad afferrarmi, pensò Katherine. «Si vede che ha paura. Non mi piace vederle quell'espressione sul viso. Mi fa venire in mente Phyllis.» Ormai era sufficientemente lontana. Scivolò fuori dal letto avvolgendosi il lenzuolo intorno al corpo. «Avevo cercato di aiutare Phyllis, di prendermi cura di lei, perché pensavo che fosse diversa. Poi ho scoperto che riusciva a nascondere le sue emozioni meglio di chiunque altro. Mi ha preso in giro davanti ad amici e clienti. Ecco perché me ne sono liberato.» Il tono di voce si appiattì mentre lo sguardo si perdeva nel vuoto. La classica espressione della paranoia omicida a sfondo sessuale descritta da Krafft-Ebing, rifletté. Si sentì invadere da un'ondata di panico. «Quando Phyllis ha portato qui il camionista, in questa stessa stanza che le avevo preparato con tanta cura, non ci ho visto più. Sapevo che dovevo liberami di lei. Mi sono fatto trovare qui, su questo stesso letto, dove non aveva fatto che prendermi in giro.» Scoppiò in una risata, scuotendo la testa al ricordo. «Tutti pensano che se ne sia andata dalla città insieme con quel camionista, ma non è mai uscita da qui.» Si alzò e iniziò a passeggiare intorno al letto. Appoggiata alla finestra, Katherine diede uno strattone alla veneziana, facendola alzare di scatto. La stanza venne inondata dalla luce del sole. Eddie alzò una mano per proteggersi gli occhi dall'improvviso bagliore. I rumori risvegliarono Bednarek che irruppe nella stanza con la pistola in pugno. Notando che si trattava solo di Eddie, abbassò subito la guardia, ma lo sguardo rimase in allerta, come se fosse in attesa di una sorpresa da un momento all'altro.
«Ho sentito un rumore», spiegò guardandoli entrambi. Katherine emise un profondo sospiro. «Va tutto bene», lo rassicurò. Poi si voltò a guardare Eddie che si era bloccato di fianco al letto. Lui riprese a sorridere, assumendo nuovamente la sua espressione amichevole. Alla luce del sole, non appariva più così minaccioso. «Va tutto bene», ripeté. «Eddie è venuto a chiedermi cosa desidero per colazione.» L'agente Bednarek sembrava sospettoso. «Come hai fatto a entrare?» chiese a Eddie. «Stavi dormendo, Benny e non ho voluto svegliarti.» «Non ho chiuso occhio per tutta la notte. Non potevi passare senza che ti vedessi.» Diede un'occhiata alla stanza. «C'è un'altra entrata?» «Devi esserti appisolato», insisté Eddie. «Succede. Non c'è niente di cui vergognarsi.» «Ti ho appena detto che sono sempre stato sveglio.» Bednarek fece un giro per la stanza alla ricerca di qualche pannello mobile che servisse come via d'accesso. Controllò perfino nell'armadio. «Non ti preoccupare», lo rassicurò Eddie. «Non lo dirò a Dominic.» «Giuro di non essermi addormentato. Non riesco proprio a capire come hai fatto a entrare.» Katherine lo osservò mentre picchiettava nelle pareti interne dell'armadio, ma alla fine dovette cedere, rassegnato. «Forse hai ragione», ammise. «Forse ho chiuso gli occhi per qualche minuto.» «Succede», lo consolò Eddie. «Non lo diremo a nessuno, vero?» Si voltò verso Katherine che stava già annuendo in silenzio. «Mi occuperò di lei più tardi, professoressa», disse Eddie prima di sparire dalla stanza. Era quasi mezzogiorno quando Dominic fece il suo ingresso. Katherine si era vestita e stava guardando fuori della finestra quando lo vide parcheggiare la sua auto arrugginita. Lo udì discutere con Bednarek a proposito del compenso per la notte di guardia. Quando infine lui entrò, esibì un sorriso forzato, al quale Katherine rispose affettuosamente, per farsi perdonare la discussione del giorno prima. «Non sono riuscito a ottenere niente da Henzes ieri sera», le spiegò scusandosi per il ritardo. «Ho dovuto aspettare fino a questa mattina.» «Fai sempre così?» domandò lei. «Obblighi sempre gli altri a lavorare di notte?»
«Henzes si sente importante quando viene chiamato d'urgenza mentre è seduto al tavolo di qualche ristorante di lusso. Secondo Bednarek, hai avuto qualche problema con Eddie.» Scrollò le spalle: «No». «È un po' strano, ma è fondamentalmente innocuo. Se dovesse causarti problemi, fammelo sapere.» Katherine cambiò subito argomento. «Henzes ha scoperto qualcosa?» «Non molto. Le lenzuola erano di cotone e poliestere. Nuove di pacca, dice. Non sono mai state lavate. Le bruciature sono rimaste in superficie. Che bel maglione hai oggi.» «Grazie.» La professoressa di psicologia che c'era in lei stava notando mentalmente che cominciava a nutrire interesse per ciò che lo circondava. Poteva essere un segno di ripresa dal distacco manifestato di solito. La sua parte femminile ne rimase lusingata. Era un maglione irlandese fatto a mano, uno dei suoi preferiti. L'aveva scelto per risollevarsi lo spirito. «Visto che abbiamo fatto la pace, che ne diresti di una gita con me?» «Dove?» «Nella tua città preferita. A New York. Devo incontrare qualcuno. Dovresti portarti dietro le chiavi.» Uscirono dalla porta del retro con gioia di Katherine che, in questo modo, non fu obbligata a incontrare Eddie. Non era ancora sicura di poter riferire a Dominic ciò che Eddie le aveva confessato. Doveva prima affrontare la questione dell'etica professionale. Si diressero sulla Statale 81, immergendosi nella nebbia dei Poconos. «Secondo Henzes, è stata una sorgente di calore forte ma breve, a provocare quella sagoma sul lenzuolo.» «È quello che anche i vigili del fuoco hanno detto a proposito del mio bagno. Una sorgente di calore forte ma breve.» «Henzes sostiene che non può provenire da un oggetto a contatto del letto. Se si deposita qualcosa di incandescente sul lenzuolo, brucia tutto, trapassando anche dall'altra parte a causa della pressione de! peso. Inoltre, le lenzuola erano così nuove da riportare ancora i segni della piegatura della confezione; se un peso qualsiasi capace di irradiare calore si fosse depositato in superficie, le pieghe sarebbero dovute sparire.» La strada venne inghiottita dalla nebbia. Dominic accese i fari: guidava
con prudenza facendo attenzione alle macchine che potevano materializzarsi davanti ai loro occhi. Di tanto in tanto, dovette rasentare il ciglio, per evitare le auto che incrociava in mezzo alla strada. «Questo prova che si tratta di un messaggio, no?» chiese lei. «Questo prova solo quello che ho detto. Ogni altra considerazione è pura speculazione.» «Non ci sono altre risposte, vero?» «Non per il momento.» «E allora è come ho detto ieri. È da intendersi come un messaggio. Mia madre sta cercando di comunicare con me.» «Potrei anche essere d'accordo. Quella sagoma deve avere un motivo. Ma questo non significa che vi sia implicata una connotazione di genere soprannaturale.» «Come spieghi il fatto che fosse della mia stessa statura?» «Non lo spiego.» «E come potrebbero entrare in quella stanza altre persone senza che Eddie se ne accorga? Si suppone che la porta sia chiusa a chiave.» «Stai cercando di dirmi che tua madre... come si dice, si è materializzata? Materializzata nella stanza?» «Non c'è altra spiegazione», concluse lei. L'umidità della nebbia si condensò sul finestrino, imbrattando i lati di acqua e rendendo più faticosa la vista. Procedevano lentamente, strisciando lungo la linea bianca che delimitava la strada. «Io preferisco le spiegazioni più semplici», si difese Dominic. «Tu sostieni che tua madre se ne va in giro a fare tutte queste cose. Pensi sia una specie di zombie che cerca di mettersi in contatto con te. Be', io non credo agli zombie. Esistono solo al cinema.» «Ma non è solo mia madre. Che cosa mi dici delle tombe vuote che ci sono a New York?» «Non so che collegamento ci sia tra quello che è successo a New York e quello che si sta verificando a Dickson. Ma anche se tua madre avesse avuto il potere di uscir fuori dalla tomba in cui è stata seppellita, non potrà mai materializzarsi in una camera da letto chiusa a chiave.» «Però è successo. La sagoma sul lenzuolo è sua.» «Henzes non ha trovato nient'altro che una sagoma su quel lenzuolo. Nient'altro. Solo normalissima polvere. Se il cadavere di tua madre avesse toccato quel lenzuolo. Henzes avrebbe dovuto rilevare qualche traccia esattamente come è successo per i campioni prelevati dalla chiesa e dalla
bara. Hai visto come lavora. Eppure non ha trovato altro che segni di bruciature.» «E tu non hai spiegazioni per questo?» «No. Non ancora.» «Non mi hai mai creduto. Ti rifiuti di accettare ogni frammento di prova che riusciamo a trovare. Quando non trovi una spiegazione, ti comporti come se non fosse successo niente. Sei un maestro della negazione della realtà.» «Non propinarmi le tue teorie psicologiche!» «Perché? Ti senti inferiore?» «Stai scherzando. Sei tu quella che crede nei fantasmi, non io.» «Perché non vuoi accettare che tutto questo sia successo veramente?» «E perché ti piace sempre discutere? È difficile intavolare un discorso con te senza scivolare nel litigio. Qual è il problema?» Katherine si lasciò andare pesantemente contro il sedile. «Scusami», bofonchiò. Davanti a loro il Delaware River Bridge emerse dalla nebbia. La segnaletica sull'asfalto avvertì Dominic che era ora di rallentare. Lungo il fiume la nebbia era anche più fitta. Ne passò di tempo prima che riprendessero a parlare. «Non so perché discuto sempre. A volte vorrei cambiare carattere. Conosco la psicologia, ma non conosco le persone. Quando guardo le altre donne, mi accorgo che hanno mariti, amanti e amici. Io no. Credi che sia perché discuto troppo?» «Tutti hanno amici», rispose Dominic. «Persino Eddie.» «Io no. Le uniche persone che conosco sono i miei colleghi di lavoro. In questo senso penso proprio di essere la figlia di mia madre.» Scoppiò a ridere di se stessa con amarezza. «Non è del tutto vero, Katherine», la consolò Dominic. «Con me ce l'hai fatta. Non farei tutto questo se tu non mi piacessi.» Katherine emise un sospiro e scosse il capo. Avrebbe voluto credergli. Ma sapeva anche troppo bene dai suoi studi di psicologia che un rapporto sostitutivo era il mezzo più ovvio per superare il senso di malinconia. «Chi è che devi incontrare a New York?» domandò, sforzandosi di cambiare argomento. «Angelo Brescia, un impresario di pompe funebri. Ho scoperto che i cadaveri scomparsi di New York sono stati seppelliti da lui.»
10 L'impresa di pompe funebri Brescia aveva sede in una stradina schiacciata fra i muraglioni grigi degli edifici municipali di New York e gli ampi negozi di una Chinatown troppo affollata. Era una delle ultime imprese italiane rimaste nella zona dopo che Little Italy si era ristretta verso nord. «Le vecchie famiglie se ne stanno andando», spiegò Angelo Brescia. «I più giovani si trasferiscono nel New Jersey e a Long Island, dove si vive meglio.» Angelo Brescia doveva aver perso molti chili di recente: la pelle del viso gli penzolava flaccida in borse flosce sotto il mento. Il vecchio vestito marrone gli cascava sulle spalle e in vita ballava in modo evidente. Solo le scarpe con la punta all'insù calzavano a pennello. «I pochi vecchi rimasti sono passati tutti di qui», proseguì. «Volevano essere seppelliti da qualcuno che conoscesse la famiglia. È sempre una faccenda personale, capite?» L'interno dell'edificio era buio. Le finestre che davano sulla strada erano rivestite di plastica blu e rossa che conferiva all'interno un'atmosfera ecclesiastica. L'ambiente sapeva di cera. Il soffitto era annerito dalla fuliggine di anni di candele bruciate. «I vecchi stanno morendo tutti e i giovani si sparpagliano per il paese. Oh, mi conoscono ancora tutti e sono gentili quando tornano a trovare i loro vecchi, ma hanno un modo tutto particolare. Non hanno nessuna voglia di farsi tutta quella strada dal New Jersey solo per venire a un funerale.» Era difficile stabilire che colore avessero avuto un tempo i tappeti. Accanto all'ingresso della stanza dell'eterno riposo c'era una statua di Cristo che si indicava il cuore sanguinante. Katherine notò con sollievo che la stanza era deserta. L'impresario li invitò nel suo ufficio: un cubicolo privo di finestre e arredato con sedie di cuoio e una scrivania di quercia. L'aria era permeata del puzzo stantio di sigari. «Sto cercando di tener duro per un paio d'anni ancora», aggiunse. «Dovrebbero essere sufficienti. Il palazzo aumenta di valore ogni anno che passa. È l'ultimo ancora in buono stato nel quartiere di Chinatown. Non ci si può allargare verso ovest perché ci sono i palazzi del governo. Con tutti i soldi che arrivano da Hong Kong potrei ricavare tre milioni di dollari, sempre che riesca a tener duro per altri due anni.» L'imbottitura della sedia emise un sospiro quando Brescia vi si lasciò
sprofondare. Poi l'impresario incrociò le mani sulla scrivania e iniziò a scrutare Dominic. «Lei è italiano, vero?» gli chiese. «Di seconda generazione», rispose Dominic. «Mio nonno era di Palermo.» «Ah, siciliano, eh?» «Sì.» «Io sono napoletano.» «Gli italiani del Mezzogiorno sono tutti fratelli, vero?» replicò Dominic. «Certo», ne convenne Brescia. Dopo aver grugnito il riconoscimento di Dominic come conterraneo, Brescia tornò al motivo della loro presenza lì. «Che brutto affare il furto dei cadaveri!» esclamò. «Perché pensa che vengano sottratti?» Il vecchio sospirò, scuotendo la testa. «Questa città è popolata di pazzi», sentenziò, «sono più numerosi che in qualsiasi altro paese del mondo. Siamo pieni di drogati con il cervello cotto, di adoratori di Satana, di gente che taglierebbe le zampe al proprio gatto solo per vederlo strisciare. E sono tutti per la strada, perché nessuno li rinchiude.» «I cinque corpi scomparsi sono stati seppelliti da lei, giusto?» Angelo Brescia annuì con il capo. «È terribile. Se ne parla in giro. Ai vecchi non fa piacere, loro pensano che sia colpa mia. Sa, sono morte due persone a Little Italy la settimana scorsa. Avrei dovuto organizzare io i funerali, ma si sono rivolti a un'altra impresa sulla Quattordicesima Strada. I vecchi sono superstiziosi.» «Conosceva le famiglie delle persone che ha seppellito?» «Certo che le conoscevo. Fa parte del mio lavoro conoscere la gente. Fare l'impresario di pompe funebri è come fare il politico. Bisogna conoscere tutti e andare d'accordo con la gente. Più si sa della loro storia personale, più sostegno si può fornire in caso di qualche decesso.» «Mi racconti qualcosa delle famiglie coinvolte», lo invitò Dominic. «È questa la vera tragedia», rispose Brescia. «Ci sono pazzi che riaprono le tombe, ma il vero dramma è quello che fanno le povere vedove che rimangono.» «Che cosa intende dire?» «Lei sa quanto siano superstiziosi i vecchi. Vengono in America portandosi dietro tutte le credenze del proprio paese: il malocchio, i presagi, le ossessioni. Credono a tutto.»
Katherine si agitò sulla sedia a disagio. «Questo lo posso capire», concesse Dominic. «La sparizione di un cadavere può sconvolgere chiunque.» «Non è solo la sparizione di un cadavere», sottolineò Brescia. «Gira la voce che i cadaveri tornino in vita a tormentare i cari rimasti. A far pagare toro i peccati commessi.» Katherine era sul punto di dire qualcosa, ma un movimento impercettibile degli occhi di Dominic le consigliò di restare in silenzio. «Com'è iniziata questa voce?» chiese in tono casuale. «Qualsiasi vecchia che resti sola nel suo appartamento piena di paura di essere scippata, violentata o assassinata, è ossessionata dal pensiero del marito morto scomparso dalla tomba. Il cervello si corrode. Le persone che non hanno nient'altro a cui pensare, si concentrano inevitabilmente sulla morte. Vanno in chiesa ogni domenica con il vestito nero e il velo. Poi si sente dire che la vecchia va in giro a raccontare di aver visto il marito. Basta poco, poi la mente galoppa.» «Suicidio?» chiese Dominic. «L'ultimo è stato due giorni fa. La signora Cinaglia si è impiccata nel cimitero. E non mi hanno nemmeno permesso di seppellirla. Mi sono offerto di fare il lavoro gratis per ristabilire la mia reputazione, ma la famiglia non mi ha nemmeno permesso di toccarla.» «Ne ho sentito parlare. Si è impiccata sulla tomba vuota», commentò Dominic. «Non avrà anche lei intenzione di incolparmi come fanno i vecchi?» lo accusò Brescia. «Io non sono superstizioso», negò Dominic. «E lei?» insinuò Brescia, indicando Katherine, senza guardarla. «Non è una giornalista, vero? Se la cosa finisce sui giornali, sarò costretto a chiudere e vendere tutto.» «No», lo tranquillizzò. «I giornalisti mi piacciono non più di quanto li possa sopportare lei. Le ho già detto per telefono che in Pennsylvania abbiamo un caso del genere. Pensavo potesse esserci d'aiuto.» «Be', io avvertirei gli eredi di stare attenti. Sono loro che devono preoccuparsi, non i morti.» «Ma lei ha detto che i cadaveri sono stati avvistati», l'interruppe Katherine, incapace di tenere la bocca chiusa ancora a lungo. «Sono solo le chiacchiere di persone vecchie e sole», rispose l'impresario. «Storie assurde di cadaveri che tornano in vita.»
«Nessuno ha chiamato la polizia?» «Sta scherzando? Questa è Little Italy. Nessuno vuole la polizia da queste parti. Nemmeno io. Mi accuserebbero subito di sottrazione di cadaveri. I nostri vecchi seppelliscono ancora i nostri cari con le fedi nuziali e i gioielli, come facevano gli antichi egizi. Vogliono sempre assicurarsi che ci sia ancora tutto prima di sigillare la bara.» «Ma nemmeno i parenti più stretti hanno mai avvertito la polizia?» «Non saprei. E in ogni caso che cosa potrebbe fare la polizia? Con tutta la criminalità che devono affrontare in questa città, non perderanno mai tempo a tenere per mano una vecchietta che sostiene di aver visto un fantasma.» «Conosco questo atteggiamento», commentò Katherine. Angelo Brescia la guardò con improvviso sospetto. Si allontanò dalla scrivania come se volesse aumentare la distanza. «Lei è coinvolta, vero?» l'apostrofò. «Il caso di cui stavate parlando riguarda un suo parente, o sbaglio?» Si voltò verso Dominic, agitato. «Perché l'ha portata qui? Volete forse insinuare che ho qualcosa a che fare con il vostro caso? Non ho mai visto questa donna prima d'ora.» Improvvisamente nervoso, prese un sigaro dal cassetto. Nell'accenderlo, gli tremava la mano. «È stato lei a dire che gli eredi devono fare attenzione», ribatté Dominic. «È per questo che l'ho portata qui con me.» «Lei dice di aver visto un fantasma.» «Non è un fantasma», rispose Katherine. «È davvero mia madre. Abbiamo le prove. Prove tangibili che sono già state prese in esame da persone qualificate.» Con una serie di boccate veloci, l'impresario riempì la stanza di fumo. Katherine cercò di reprimere un colpo di tosse. Il fumo le irritava la gola e il palato. «Non posso crederci», esclamò Angelo Brescia da dietro la cortina di fumo. «Sono tutte superstizioni. Vanno contro ogni singola legge della fisica. Io sono religioso, sapete? Ma quando finisco di lavorare su un corpo, non posso credere che tornerà in vita fino al momento del Giudizio Universale. E anche allora sarà molto difficile.» Diede un colpetto al sigaro sul portacenere per rimuovere la cenere dalla punta. «Conosciamo tutti i dettagli», lo interruppe Katherine, rifiutandosi di a-
scoltare nuovamente i macabri particolari della imbalsamazione. «È lei che si occupa della sistemazione delle salme?» incalzò Dominic. Brescia continuò a sbuffare fumo nella stanza. Katherine giunse alla conclusione che fosse un meccanismo di difesa, un modo per mettere velocemente fine alle conversazioni spiacevoli. «E questo che cosa c'entra? Che importanza può avere chi sistema le salme? Sono morte. In archivio ho le copie dei certificati di morte. Volete vederli?» «No, non ce n'è bisogno. Volevo solo sapere se si occupa lei personalmente delle salme.» «Questa è una parte del lavoro di cui non mi sono mai curato molto. Non so se capite...» Picchiettò nuovamente il sigaro sull'orlo del portacenere plasmando la punta a cono. «Dopo un po' di tempo, molti riescono ad abituarsi, ma io no. È per questo che ho sempre avuto un assistente, appena ho potuto permettermelo. Erano loro che si occupavano di questo aspetto, mentre io curavo il lavoro amministrativo e le vendite.» «Allora lei non lavora sui cadaveri?» «Non ho toccato nessuno di quelli scomparsi. Ho effettuato un controllo in archivio. Se si trovasse qualcosa di sbagliato nella preparazione delle salme, non è colpa mia. Ma non si può spiegare questo concetto ai vecchi.» «Immagino», ne convenne Dominic. «Posso parlare con il suo assistente?» «Oh. Sono tre anni che se n'è andato. I giovani sono proprio impazienti. Se il lavoro rallenta se ne vanno subito. Non è come ai vecchi tempi, sa?» «Niente è come ai vecchi tempi», concordò Dominic. «Sa dove posso trovarlo?» L'impresario si appoggiò allo schienale della sedia, apparentemente compiaciuto di aver allontanato i sospetti da sé. «Cercate un'impresa di pompe funebri affollata», rispose. «Se ne trovate una a New York, con tutta probabilità troverete anche lui.» «Che cosa vuole dire?» «Sto scherzando.» Brescia sorrideva. «Lo prendevo sempre in giro perché sembrava felicissimo di lavorare sui morti stecchiti. Ops, mi perdoni, signora, ma quel ragazzo adorava veramente maneggiare i cadaveri. Era un artista della carne, ecco che cos'era. Era in grado di rimettere insieme i morti investiti in metropolitana così bene che sembrava dormissero.»
Fece una pausa ricordando. «Si era fatto vivo una decina di anni fa, forse undici, con il suo diploma di perito in arte funebre preso dalle parti di Knoxville, nel Tennessee, credo. A quei tempi fui contento di incontrarlo, perché c'era una media di due funerali al giorno. Questo settore va a momenti, sa? Capitano tre o quattro anni di seguito in cui sembra che le persone non facciano altro che morire, poi si blocca tutto. Non ci si spiega la causa, però funziona così. Forse ha qualcosa a che vedere con i cicli atmosferici. Non saprei.» Tirò un'ennesima boccata al sigaro, sbuffando il fumo lentamente. Sembrava rilassato. Il fumo stava facendo effetto, mescolato ai ricordi di tempi fiorenti. «Comunque, quando si è fatto vivo, era proprio nel momento più cruciale di uno di quei cicli atmosferici, se così si può dire. Si è rivelato il miglior truccatore che avessi mai avuto. Insomma, era abituato a scattare fotografie alle salme prima e dopo la cura, come se fosse stato un chirurgo plastico. Avevo intenzione di spedirne qualcuna al Sunnyside and Service tanto ero orgoglioso del suo lavoro. Ma non me l'ha permesso. Teneva le foto per il suo album. Evidentemente se ne serviva per trovare lavoro in seguito. E non posso biasimarlo per questo. È come un curriculum, capite? Il corpo viene seppellito e non resta niente da mostrare in occasione di eventuali colloqui di lavoro.» Per un istante si dimenticò del sigaro, preso com'era dai ricordi. «I vecchi vanno pazzi per il trucco. Vogliono sempre che la moglie appaia più giovane, invece gli uomini devono apparire più forti. Alcune donne muoiono di cancro e sono tutte raggrinzite dalle rughe del dolore. I parenti vogliono celare il dolore.» Katherine lanciò una rapida occhiata in direzione di Dominic. Era impassibile. Se i commenti di Brescia gli avevano dato fastidio, non lo dava a vedere. «Quando ha cominciato a spargersi la voce su come venivano ricomposti bene i nostri cadaveri, gli affari si sono raddoppiati. Arrivavano persino ordini da famiglie che non conoscevo. Tutti parlavano della bellezza delle nostre salme.» Scoppiò a ridere sommessamente. «Persino io. Non riuscivo quasi a crederci. Ma poi, quando le famiglie più giovani hanno iniziato a trasferirsi, gli affari hanno subito un calo. Per quanto fossimo bravi a trattare le salme e per quante feste e matrimoni abbia frequentato per le pubbliche relazioni, non restava più niente da fare. Era solo una questione geografica: la città si stava modificando, ecco il motivo.»
Il calore scomparve dalla sua voce. «E allora sono iniziati i tempi duri», continuò. «Il lavoro è diminuito e dall'oggi al domani il ragazzo se n'è andato. Sparito. Non ha nemmeno aspettato di riscuotere l'ultimo stipendio. Ho pensato che fosse strano. Ma immagino che abbia preferito spostarsi da qualche parte dove il lavoro non gli manchi. Era un vero appassionato del mestiere.» «E non ha idea dove possa essere andato?» L'impresario scosse il capo e riprese il sigaro. È tornato a nascondersi dietro alla sua cortina di fumo, pensò Katherine. «No. Non so più niente di lui. Tanto per cominciare, non so nemmeno come abbia fatto ad arrivare fin qui e perché abbia deciso di venire a lavorare per me, figuriamoci se so dove può essere andato a finire. Se n'è andato così com'è arrivato. Tutto qui.» «Ma avrà un nome, un codice fiscale, una traccia a cui risalire, no?» «Non vedo come potrei aiutarla. Quelle persone sono morte. Il ragazzo ha fatto in modo di renderle presentabili per il loro ultimo viaggio. E allora? Questo è il suo lavoro: truccare i morti per renderli decenti. È per questo che la gente si rivolge alle pompe funebri.» «Non si può mai sapere», commentò Dominic. «Forse è successo qualcosa nel procedimento d'imbalsamazione.» Angelo Brescia scoppiò a ridere. La pelle che gli penzolava dal mento cominciò a sussultare. «Ma lei crede che sia un film? Sta cercando qualche zombie? Le garantisco che è un gruppo di criminali che sottrae le salme dai cimiteri.» «Probabilmente ha ragione», concordò Dominic, «però non è stato lei a preparare le salme.» «E allora?» «La stessa cosa si è verificata in Pennsylvania. Nemmeno l'impresario di pompe funebri della nostra città ha effettuato il lavoro sul cadavere che è tornato in vita.» «Il cadavere che è tornato in vita? Pensavo che la polizia si basasse solo sui fatti, non sulle dicerie.» «Ci sono le prove», intervenne Katherine. «Anch'io la penso come lei», si intromise Dominic. «Ci sono campioni di terreno, particelle di pelle, capelli, frammenti di tessuto, persino impronte. Tutto coincide con i campioni prelevati dalla cassa. Katherine sostiene di aver visto sua madre. E potremmo provare anche questo.» «Non a me. Non riuscirete a convincermi. Io non credo ai fantasmi. Se
aveste visto tanti morti come me, non ci credereste nemmeno voi. Quella è solo carne morta. Carne morta e basta. Come gli hamburger che si acquistano dal macellaio. Quando lo spirito o l'anima o la forza vitale, o come diavolo voglia chiamarla, si spegne, il corpo diventa solo un mucchio di ossa ricoperte di carne priva di vita. Assume persino un altro odore.» Iniziò a sbuffare fumo con più furia di prima e venne avvolto da una nuvola scura. Fumava senza respirare, emettendo cirri di fumo brevi ma intensi. «Non ho mai saputo sopportare quell'odore», ripeté. «È per questo che ho cominciato a fumare questi sigari. Mi riempiono il naso. Non mi piace nemmeno il profumo dei fiori. Non capisco nemmeno perché mi ostini a lavorare in questo settore. Non vedo l'ora di riuscire a vendere tutto. Non è solo per via dei morti con cui si ha a che fare, ma anche per colpa dei vecchi. Si vedono solo persone anziane con cui occorre essere gentili, altrimenti il lavoro scappa. Ecco perché non andrò a trascorrere la mia vecchiaia in Florida. Ci sono troppi vecchi.» «L'impresario funebre della Pennsylvania ci ha detto che l'assistente di otto anni fa si chiamava Effenbeck.» Il nome colse Brescia nel bel mezzo di una boccata di fumo. Si bloccò, iniziò a tossire, sputò, cercò di riprendere fiato, ma diventò sempre più paonazzo, soffocato com'era dal sigaro. Con gli occhi sporgenti, si puntellò alla scrivania. Dominic balzò in piedi e andò a battergli una mano sulla schiena. La forza dei colpi fece urtare l'impresario contro lo spigolo della scrivania. Con uno sforzo incredibile, riuscì a inalare una boccata d'ossigeno. Si appoggiò nuovamente allo schienale, sventolando una mano per comunicare che si stava riprendendo. Dominic raccolse il sigaro da terra e lo spense prima ancora di depositarlo nel posacenere. Katherine andò ad aprire la finestra dalla quale filtrarono i rumori della strada mescolati a un filo di aria fresca. Brescia continuava a inalare piccole boccate d'aria. La faccia riacquistò il suo colore naturale. «Si sente bene?» s'informò Dominic. Prima di rispondere, Brescia tirò un'altra boccata. «Non può essere lo stesso», latrò. «Deve essere qualcun altro con lo stesso nome.» «Che cosa intende dire?»
«Mi dovete scusare per l'attacco di tosse, ma la coincidenza è tale che mi ha tolto il respiro.» Dovette fare un'altra pausa prima di continuare. Respirava ancora a fatica. «Effenbeck. È il nome che mi ha colto di sorpresa. Ha detto che il nome dell'assistente dell'impresario in Pennsylvania era Effenbeck?» «Esatto», confermò Dominic. «Mi ha veramente colto di sorpresa.» «Qual è il problema?» Istintivamente, l'impresario afferrò il sigaro. Anche se non era più acceso, se lo ficcò in bocca. Sembrava avere un effetto calmante su di lui. «Anche il ragazzo che lavorava per me si chiamava Effenbeck», spiegò Brescia. «È lui», dichiarò Katherine. «È la stessa persona.» Si sentì percorrere da un brivido. Non sapeva dire se per l'improvvisa corrente d'aria che soffiava dalla finestra o se per il nome dell'assistente appena menzionato. «Non può essere lo stesso», obiettò Brescia. «L'Effenbeck che ha lavorato per me era biondo, con una buffa pettinatura, quel tipo di taglio come se gli fosse stato fatto con una scodella in testa. Aveva gli occhi blu, ed era alto più o meno come lei, signora.» Katherine si voltò a guardare Dominic. Aveva la faccia immobile in una maschera impassibile. Perché non mostrava sorpresa? «Effenbeck non è un nome comune», commentò. «Per questo sono rimasto colpito», continuò l'impresario. «Per un istante ho pensato che stessimo parlando della stessa persona. Ma deve trattarsi di un altro, vero?» «Non ha il suo codice fiscale?» chiese Dominic. Continuando a respirare a fatica, Brescia si appoggiò con una mano alla scrivania per alzarsi in piedi e voltarsi verso la scaffalatura di legno. Mentre si abbassava sui cassetti, emise un grugnito. Fece scorrere una serie di documenti e alla fine trovò la cartelletta gialla. All'interno c'era un modulo compilato. Con una mano tremante la passò a Dominic. Avendo compiuto il proprio dovere con grande sforzo, si lasciò sprofondare sulla sedia e riprese a respirare profondamente. Katherine temeva che gli venisse un attacco cardiaco. Una reazione psicosomatica. Come sempre, quando si sentiva confuso, l'espressione di Dominic era
impenetrabile. «È lui, vero?» chiese Katherine. Dominic confrontò il codice fiscale con quello che Walter Kuranda gli aveva fornito per telefono. Era sbalordito. «È lui», mormorò ancora Katherine. «Ma che cosa ha a che vedere con lui mia madre?» «I numeri corrispondono», spiegò Dominic. «Il codice fiscale è lo stesso. Ma non possono essere la stessa persona.» «E perché no?» «Secondo le date, avrebbe dovuto lavorare a New York e in Pennsylvania nello stesso momento.» «Questo è impossibile», interruppe l'impresario, apparentemente sollevato che ci fosse una possibilità per scartare quell'eventualità. «Lavorava sei, sette giorni alla settimana. Quello è stato uno dei periodi più pieni che mi sia mai capitato di avere. Vi ho già detto che era un gran lavoratore. Non staccava mai un minuto.» «Però corrisponde tutto», protestò Dominic. «Il nome, la descrizione, il codice fiscale e persino la scuola di arti funebri. Anche l'altro Effenbeck ha frequentato a Knoxville.» «Non capisco», esclamò Brescia. «Ma non poteva trovarsi in due posti diversi nello stesso momento.» «Non ha una fotografia?» Brescia scosse la testa. «Non ho niente. Niente di più del materiale che c'è in archivio. Mi chiedeva sempre di incassargli l'assegno, non lo firmava nemmeno. Non ho la sua firma, solo il modulo.» «Ha detto che scattava sempre qualche fotografia prima e dopo il lavoro «Non mi ha mai permesso di prendere le sue foto. E non ne ho altre. Come vi ho già detto gli servivano per l'album.» «Non può aiutarmi nemmeno con l'indirizzo della scuola di Knoxville?» «Ma certo. Ho un prontuario dei centri di arti funebri.» Fece una giravolta sulla sedia e prese un volume rosso dallo scaffale. «È vecchio», si scusò mentre sfogliava le pagine. «Non mi tengo più aggiornato come un tempo.» Infine trovò la pagina che stava cercando. «Quella scuola esiste da più di un secolo. L'indirizzo non può essere cambiato.» Scrisse i dati su un foglietto di carta. «Con questo non mi sono procurato dei guai, vero?» sperò. «Ne ho già
abbastanza dei miei. Non vorrei che le autorità statali mi ritirassero la licenza.» Dominic non aveva risposte sicure a questo interrogativo. Brescia si strinse nelle spalle rassegnato. «E sia!» esclamò infine. «I problemi mi spingeranno a prendere una decisione. Sarebbe ora che mi ritirassi dagli affari. L'unico funerale che ho avuto nelle ultime tre settimane è stato quello di un ragazzo morto di AIDS. Non conoscevo neppure la famiglia. Non l'aveva accettato nessuno. Sono stato pagato di più per i rischi che il lavoro comportava. I cinesi hanno i loro riti. Quindi, senza più italiani, sono finito. A meno che non mi voglia specializzare in vittime dell'AIDS.» Iniziò a passeggiare per la stanza. «Tanto per cominciare, non so nemmeno perché ho scelto questo settore. Dicevo sempre a mio padre che non mi piaceva. Quando arriverà la mia ora, ho già lasciato disposizioni perché mi cremino. Non voglio che mi riempiano il corpo di sostanze chimiche.» «Mi spiace per lui», commentò Katherine mentre cercavano di farsi largo tra il traffico in direzione del centro città. Nei pressi delle Nazioni Unite, il traffico era bloccato, quindi consigliò a Dominic di svoltare nella Quarantaduesima Strada e percorrere la Madison Avenue. Dal modo in cui Dominic reagiva al traffico, si capiva chiaramente che l'incontro con Brescia l'aveva impressionato. L'atteggiamento calmo e distaccato che Katherine aveva osservato la settimana prima, aveva lasciato il posto alle imprecazioni dirette agli autobus e ai taxi che gli sbarravano continuamente il passaggio. Arrivarono all'indirizzo di Katherine e Dominic parcheggiò in sosta vietata davanti all'ingresso. La guardia di sicurezza li osservò da dietro le vetrate. Li fece attendere mentre finiva una conversazione telefonica. Poi, con casualità, senza fare niente per mascherare l'atteggiamento disinteressato, premette il pulsante di apertura e li fece entrare. «Troppo impegnato, vero?» constatò sarcastico Dominic. «Quello non è un parcheggio», gli rispose la guardia. «Non ha visto il cartello?» «Non c'è niente per me dalla società elettrica?» «Se l'auto rimane parcheggiata per più di cinque minuti, chiamerò il carro attrezzi. Sarà qui nel giro di dieci minuti.» Senza preavviso, Dominic si sporse sul bancone e afferrò l'uomo per il colletto. Lo trascinò verso di sé, come se fosse un manichino. Con la mano
sinistra, immobilizzò il braccio della guardia sul banco, impedendogli di afferrare lo sfollagente. L'azione venne effettuata con la stessa casualità con cui si saluta un vecchio amico. «Ti ho fatto una domanda e non intendo ripeterla.» «Aggressione. Questa è un'aggressione», esclamò la guardia. «Chiamo la polizia. Sporgerò denuncia. Può starne certo.» «Io sono la polizia», inveì Dominic. «Sto lavorando a un caso e tu stai ostacolando il corso della giustizia.» «Non mi ha mostrato il tesserino di riconoscimento.» «Non sono obbligato. Devi fidarti della mia parola.» «Non mi fido. Io chiamo la polizia. Le consiglio di non farmi male, altrimenti ne dovrà passare delle belle.» «Lo sai che cosa ti risponderà la polizia di New York?» Dal momento che non fiatava, Dominic scrollò la guardia per il colletto. «Ti chiederanno testimoni e tu non ne hai, testa di cazzo. Io invece sì. Questa signora sosterrà che sei stato tu ad aggredirmi nel momento in cui ho fatto il mio ingresso nel palazzo. Vuoi che sporga lagnanza presso l'amministrazione dello stabile?» La guardia fissò Katherine che annuiva in cenno d'assenso. Per quanto colpita dall'improvviso attacco di collera di Dominic, non le restava altro da fare. «D'accordo, sono stati qui questa mattina», rispose la guardia. «La busta è nel cassetto in alto.» Dominic fece cenno a Katherine di andare a prendere la busta. «Che cos'è?» gli chiese lei. Dominic lasciò la guardia che ricadde sul bancone con un tonfo. «Tieni il becco chiuso su quanto è successo», gli consigliò. «Altrimenti tornerò a romperti il muso.» La guardia non rispose. Dominic aprì la busta e si lasciò sfuggire un fischio. «Se la fanno pagare bene l'energia elettrica in questa città», esclamò. «Che cos'è?» ripeté stolidamente Katherine. «È una bolletta della luce», rispose Dominic. Piegò la busta e se l'infilò in tasca. La guardia si stava massaggiando il collo e guardava Dominic con rabbia repressa mentre usciva in compagnia di Katherine. Quando raggiunsero il George Washington Bridge, era ormai l'ora di punta. Una corsia era stata bloccata per lavori in corso. Ci vollero due ore
per raggiungere l'Harlem River Drive e la Statale 80 che conduceva nel New Jersey. La nebbia che aveva bloccato il New Jersey per una settimana si stava infittendo sempre di più, alimentata dal fumo dei falò di foglie bruciate. Nemmeno la luce giallognola dei fendinebbia di Dominic servì a molto. Approfittò dunque delle luci di posizione di un rimorchio per farsi strada fra le colline in direzione del Delaware River. Quando il camion svoltò verso Easton, si ritrovarono da soli ad affrontare la strada di montagna. L'autostrada a più corsie eliminò la preoccupazione del traffico in direzione opposta, ma continuava a essere molto difficile mantenere la carreggiata. Davanti ai loro occhi la nebbia assumeva forme mutevoli. Katherine ripensò a quando, da bambina, stava a osservare le nuvole e il modo in cui si ricomponevano e si riplasmavano in continuazione. In alcuni punti, la nebbia era talmente fitta da assumere una consistenza quasi umana. Ma era solo uno scherzo dell'immaginazione. L'occhio invia impulsi al cervello, dove il nervo oftalmico riesce a scovare modelli tra i gruppi più casuali d'informazioni visive e cerca di conferirgli una composizione più razionale possibile. Katherine cercò di ignorare ciò che gli occhi pensavano di vedere. Ma era più difficile ignorare ciò che le orecchie avevano udito. «È una sfida alla logica, non trovi?» domandò. «Non mi sarei aspettato la coincidenza di Effenbeck», rispose lui. Scartò bruscamente per evitare un auto. «È per questo che hai perso la pazienza con la guardia di sicurezza? Non avresti dovuto prendertela con lui.» «Stavo iniziando a credere di capire qualche cosa, quando mi sono imbattuto in un'ennesima circostanza inspiegabile. «È per questo che vai cercando risposte logiche.» «E quali altre risposte logiche potrei cercare?» «Il paranormale. Il soprannaturale. Esiste qualcosa che non è possibile spiegare.» «Deve essere una coincidenza», insisté caparbio lui. «Due persone che hanno lo stesso nome.» «Effenbeck non è un nome comune», sottolineò lei. «In alcune parti del paese sì. Gli olandesi della Pennsylvania hanno molti nomi di origine tedesca. Kutztown dista solo un'ottantina di chilometri.» «La descrizione fisica è la stessa», infierì Katherine.
«C'è molta gente che si assomiglia.» «Ma la scuola di Knoxville sarebbe una terza coincidenza?» «Però non è impossibile.» «E che cosa mi dici del codice fiscale?» «Questo è un controllo che posso effettuare presso la mia conoscenza infiltrata all'Ufficio Registri.» «Sei il classico caso di negazione della realtà», concluse lei. «Dentro di te sai bene che sono la stessa persona, ma ti rifiuti di ammetterlo perché non si addice al tuo concetto di realtà.» «Una persona non può stare in due posti diversi nello stesso momento», sentenziò. «Se stai cercando di dirmi che sono pazzo a pensarlo, hai ragione.» «Ci troviamo davanti a qualcosa che sfida le leggi della natura. Stavi cercando un collegamento e l'hai trovato. Ma adesso ti rifiuti di accettarlo nonostante l'evidenza.» «Non sono nient'altro che pezzi di carta», ribatté lui. «Solo nomi e numeri su pezzi di carta. Non costituiscono una prova.» «Hai avuto la testimonianza di due persone diverse. Entrambe hanno affermato che lo stesso uomo ha lavorato per loro nello stesso periodo di tempo.» «Potrebbero essersi sbagliati.» «Perché sei così ostinato, Dominic? Perché non vuoi accettare la realtà?» «Perché va contro ogni mio principio. Dal tuo arrivo è successo sempre qualcosa di inspiegabile. La fossa vuota. L'auto in fiamme. L'incendio in bagno. Le apparizioni. E adesso questo. Un uomo capace di essere in due posti diversi nello stesso momento. E non per un giorno soltanto, ma per anni. Va contro ogni legge della natura, della logica, contro la mia capacità di discernimento.» Improvvisamente Katherine capì il motivo del suo rifiuto, la ragione per cui liquidava ogni sua spiegazione. La causa per cui era incapace di accettare ciò che affermava di vedere. «Hai paura, vero?» insinuò. «Paura?» esclamò lui, ridendo. «Di che cosa dovrei aver paura, dei fantasmi? Degli zombie? Questa roba lasciala ai film. Queste cose non succedono nella realtà. Ci deve essere una spiegazione logica.» «Altrimenti?» «C'è sempre una spiegazione», perseverò lui. «Dammi retta. Mi sono già capitati casi bizzarri. Mai così, devo ammetterlo, ma c'è una spiegazione
per tutto.» «Non lo risolverai mai se non accetti la realtà.» «Che cosa c'è da risolvere?» sbottò colmo di frustrazione. «Che reato è stato commesso? Un cadavere trafugato? Non è grave. Ti terrorizzano? Nemmeno questo è un reato. Sono cinque giorni e due viaggi a New York che ci sto lavorando. E per che cosa? Forse gli agenti di New York hanno ragione a non sprecare tempo con i vandali dei cimiteri.» «C'entra Cara in tutto questo, vero?» «Non coinvolgerla in questa faccenda. Non hai alcun diritto di parlare di lei. Che riposi in pace.» «Hai paura che possa tornare anche lei, vero? Vuoi dimostrare che mia madre non è tornata dalla tomba perché così sei sicuro che nemmeno tua moglie potrà farlo.» «Cara è morta. Lei non tornerà.» «Ti senti in colpa per la sua morte, vero? Te lo si legge in faccia. Che cosa ti preoccupa?» «Eccola ricompensa per essere stato gentile», sbottò. «Io cerco di aiutarti e tu non fai che insultarmi.» «Scusami», borbottò Katherine. «Non posso farne a meno. È la psicologa che alberga in me. Non faccio che analizzare.» Dominic teneva lo sguardo fisso davanti a sé, mentre la mascella gli tremava per la rabbia. «Già, be', puoi iniziare ad analizzare anche te stessa perché sono stanco di proteggerti. Ti lascerò da Eddie e puoi iniziare a risolvere i tuoi problemi da sola.» Ripercorsero in silenzio la strada sui Poconos. Un turbine di pioggia aveva eliminato parte della nebbia. Katherine avrebbe voluto scusarsi, ma aveva paura di riaprire il discorso. Aveva riconosciuto i sintomi: ostilità, attacchi improvvisi di rabbia, l'impersonificazione del ruolo della vittima e un ulteriore tentativo di distacco. Quella era la tipica soppressione del senso di colpa. Ma quale colpa? «So quello che stai facendo», commentò lui all'improvviso. «Stai cercando di analizzarmi e di capire che cos'abbia di sbagliato. Ma dovresti pensare ai tuoi problemi, non ai miei. Io ho pianto per mia moglie. Le ho dato il bacio dell'addio quando ha esalato l'ultimo respiro. Ho pregato, ho sofferto, non mi sono ripreso che dopo parecchi mesi. Ogni giorno trascorrevo ore e ore al cimitero. Ecco perché pensano che sia matto. Ma per me non c'è più. È morta e non tornerà mai più in vita. Ne sono sicuro.»
Gli s'incrinò la voce. Katherine si accorse delle lacrime che gli stavano spuntando agli angoli degli occhi mentre deglutiva nel tentativo di mantenere il controllo delle proprie emozioni. «Tu invece non hai mai sofferto», continuò. «Sei ancora confusa. Sei una professoressa di psicologia e non sai nemmeno come affrontare la morte. Il problema è tuo. Ecco perché credi che tua madre sia risorta. Non l'hai mai fatta morire.» Era quasi mezzanotte quando arrivarono a Dickson. In quanto era arrabbiato, Dominic la fece passare dall'ingresso principale del bar. Gli ultimi clienti stavano ciondolando ancora sopra i rispettivi drink. Eddie non era in vista. Il barista li informò che era salito al piano di sopra qualche ora prima. «Forse doveva pulire qualcosa», spiegò. «Sapete com'è fatto Eddie.» Dominic salì le scale a due gradini per volta. Quando anche Katherine raggiunse il piano di sopra, Dominic aveva già spalancato tutte le porte del corridoio eccetto quella della sua stanza. Bussò alla porta. Non ci fu risposta. «Non ricordo di averla chiusa a chiave», mormorò Katherine frugando nella borsa alla ricerca della chiave. La stanza era immersa nell'oscurità e nel silenzio più assoluto. «Eddie?» chiamò Dominic. Nessuno si mosse nella stanza. Katherine si sentì percorrere da un cattivo presagio. Nella stanza c'era qualcuno, ne era certa. L'atmosfera era permeata da un odore dolciastro. Le tornò in mente quello che i due impresari delle pompe funebri avevano detto. Non era un odore deciso, soltanto un sentore. Era sicura che fosse l'odore della morte. 11 Eddy Elbows giaceva disteso sul letto con i moncherini aggrovigliati disperatamente fra le lenzuola. Aveva il corpo completamente gonfio; in alcuni punti la pelle era scoppiata e la faccia e le braccia erano del colore nerastro tipico delle ustioni di secondo grado. Il suo corpo irradiava calore nella zona del letto. «In nome di Dio che cosa gli è successo?» sussurrò Dominic sgomento. Allungò il braccio per andare a tastare la giugulare di Eddie, ma dovette
ritrarre la mano e strofinarsi le dita. «Sembra che sia stato in un forno», esclamò. Si sfregò le dita tra le lenzuola. Guardandolo più da vicino, Katherine notò i liquidi corporali che iniziavano a incrostarsi sulla pelle di Eddie. Non era semplice sudore, ma liquidi interni fuoriusciti dai pori a causa dell'intenso calore del corpo. «Che riposi in pace», commentò Dominic, facendosi velocemente il segno della croce. Katherine si ritrovò a fissare le dita di Eddie dilatate dal calore. «È come se fosse stato cotto vivo», biascicò Dominic. Katherine si portò una mano al naso per non sentire il tanfo che il corpo cominciava a emanare. Un odore penetrante e denso. «La mamma», sussurrò. «La mamma è stata qui.» A parte il corpo riverso sul Ietto, il resto della stanza non era stato minimamente toccato. Nessuna traccia di bruciature. Persino il bicchiere d'acqua che Eddie usava come portacenere si trovava ancora sulla cassettiera, sebbene avesse gocce di condensa ai lati. Dominic alzò il bicchiere, lo guardò per un momento, poi controllò il secchio d'acqua che Eddie teneva vicino al termosifone. «Era destinato a me», disse Katherine. «Non sappiamo nemmeno che cosa è successo. Figurati se possiamo sapere a chi era destinato.» «È un'altra manifestazione. L'incendio nel bagno, l'auto in fiamme, le lenzuola bruciate e adesso questo. Quattro manifestazioni di calore, tutte dirette contro di me.» «Non dire così quando arriverà la polizia», l'ammonì lui. «Vista la considerazione che il capo ha nei nostri confronti, ti spedirà immediatamente al reparto di psichiatria dell'ospedale di stato. Non sarebbe carino per una professoressa di psicologia, ti pare?» Katherine seguì il suo consiglio e quando arrivò Bednarek restò silenziosa. Il capo stava rientrando da una gita sul lago Wallenpaupack, a circa un'ora di strada, spiegò. Nel frattempo Bednarek controllò la stanza, interrogò Dominic circa la scoperta del corpo e scattò alcune Polaroid. Quando arrivò il funzionario del coroner rimase sbalordito. «Deve essere successo da qualche altra parte», commentò. «Non può essere stato qui. Non in una stanza come questa.» «È successo tutto qui», lo contraddisse Dominic. «La porta era chiusa a chiave. Non ci sono segni di sfregamento sul tappeto e il bar da basso era
pieno di avventizi, senza contare le persone che stavano nel retro. Ci sono tre testimoni che hanno visto Eddie salire in camera. Non avrebbe potuto essere stato portato via per essere ucciso e poi riportato indietro. Non avrebbe avuto alcun senso. Oltretutto sarebbe stato impossibile trasportare un corpo in mezzo a tutte le persone che stavano al piano di sotto.» L'ufficiale del coroner sollevò un sopracciglio. Aveva gli occhi lattiginosi, come quelli di un pesce cotto al vapore. Katherine cercò di ricacciare i conati di vomito. «Nemmeno questo ha molto senso», protestò il funzionario. «Sembra che sia stato cotto vivo.» «La temperatura corporea era di centoventi gradi quando sono arrivato», spiegò Bednarek. L'ufficiale alzò lo sguardo meravigliato. «Gli ho messo un termometro in bocca», lo illuminò. «Ho pensato che le avrebbe fatto piacere saperlo. Deve essere successo tutto poco prima che arrivassi.» «Molto bene, Bednarek», si congratulò una voce familiare alle loro spalle. Era Johnny Henzes, del laboratorio di medicina legale di Scranton. Con la sua massiccia corporatura riempiva quasi completamente l'apertura della porta. Indossava un impermeabile di una misura troppo piccolo, un vestito blu scuro, camicia bianca e cravatta a righe azzurre. Sembrava fosse stato interrotto nel mezzo di un'azione importante. Henzes salutò Katherine e Dominic con un cenno del capo entrando nella stanza con passo strascicato. «La morte cerebrale sopraggiunge a centododici gradi circa», iniziò a spiegare. «Avendo raggiunto la temperatura terminale, la domanda che mi porrei è perché l'abbiano spinta in maniera spropositata per raggiungere l'obiettivo.» «Sono contento che sia arrivato», lo salutò Dominic. Henzes strinse la mano al funzionario del coroner che non sembrava altrettanto soddisfatto di vederlo, poi andò a studiare il corpo. «Centoventi gradi, dice? Quanto tempo fa?» «Mezz'ora circa», rispose Bednarek. «Questo collocherebbe l'ora della morte a un'ora o due prima», ipotizzò Henzes. «Gli squarci del tessuto epidermico sono dovuti alla dilatazione delle cellule epiteliali, che starebbe a indicare una temperatura corporea di almeno centoquaranta gradi. Dal momento che il raffreddamento è stato lento, la temperatura deve essere stata raggiunta un bel po' di tempo fa.»
Toccò la carne rossastra. «È ancora calda», osservò. «Hai ragione a sostenere che è morto qui, Dominic. Tiene stretto il lenzuolo nello stesso modo che noi definiamo 'la presa del morto'. Ha agguantato le lenzuola in un punto d'agonia e ha stretto le dita così forte che sono rimaste in quella posizione per il rigor mortis.» Si alzò e scosse la testa. «È stata una morte lenta. È molto meno doloroso morire per congelamento che per ustioni.» «Non ci sono segni di lotta», fece notare Dominic. «Probabilmente è stato colto di sorpresa», azzardò Henzes. «Probabilmente non ha capito quello che stava succedendo. Se percepiamo un rialzo di temperatura nel corpo, alla nostra età, la prima cosa che ci passa per la mente è un attacco cardiaco. I sintomi sono gli stessi. Sensazione di calore, respiro corto, sudorazione. Probabilmente lui non aveva idea finché il dolore non è diventato troppo forte.» «Ma che cosa può averlo causato?» s'informò Dominic. «Che cosa può far salire la temperatura corporea di un uomo senza che lui ne intuisca la causa?» Henzes si strinse nelle spalle. «Una fonte inspiegabile ne è la causa. Ecco che cosa direi se mi citaste al banco dei testimoni in questo momento. Se ho la fortuna di assistere all'autopsia, potrei scoprire qualcosa di più su come il corpo umano reagisce al calore, ma penso che nemmeno questo riuscirebbe a spiegarmi com'è successo. Guardatevi intorno, niente nella stanza sembra essere stato esposto alla stessa dose massiccia di calore che ha ucciso il vostro amico.» «C'è un'altra cosa», aggiunse il funzionario del coroner. «Un raffreddamento lento del corpo starebbe a indicare che non esistono solo bruciature superficiali. L'alta temperatura dovrebbe essere penetrata anche fra gli organi interni vitali.» «È vero», ammise Henzes, rivolgendosi a Dominic. «Significa che questo corpo è stato cotto completamente.» «E questo è del tutto impossibile», concluse il funzionario. «Come si può riscaldare un corpo in questo modo senza lasciare segni di bruciatura sulle lenzuola?» Katherine trattenne il respiro. «Ieri c'erano segni di bruciatura», annunciò. «Esatto», annuì Henzes, «Bruciature ieri ma niente corpo. Un corpo bru-
ciato oggi e nessuna bruciatura sulle lenzuola. È troppo per me.» «Però è successo», sottolineò Dominic. «E deve esserci per forza una spiegazione.» Il corpo continuava a emanare calore mescolato all'odore dolciastro della carne morta. «È un avvertimento», insisté Katherine. Si voltarono verso di lei. Dominic scosse il capo, raccomandandole di stare in silenzio. «È una manifestazione soprannaturale», aggiunse. «Non esiste alcuna spiegazione umana. La mamma è tornata dal mondo dei morti per vendicarsi di me.» Emise un sospiro profondo e sofferto che si tramutò in un rantolo in gola. «Nessuno può aiutare», mormorò Katherine. «È quello che mi ha detto: nessuno può aiutare.» Dominic cercò di prenderla fra le braccia, ma lei si scostò. «Pensavo di averle detto di tornare a New York», dichiarò una voce alle loro spalle. Era il capo di ritorno dalla sua gita. Indossava una tuta mimetica sporca e scolorita, piena di fango alle ginocchia. Non pareva contento di essere stato richiamato. Ricordando l'avvertimento di Dominic, Katherine si zittì. Il capo della polizia brontolò e si diresse verso il letto. «Che tipo di problemi abbiamo qui, Bednarek?» domandò fissando il corpo gonfio. «Sembra un omicidio, capo.» «Non può chiamarlo un omicidio», lo corresse Henzes. «Non finché non riesce a spiegare il modo in cui è sopraggiunta la morte.» «Lei ha detto che è morto per il calore.» «Ma non sappiamo dire come è stato applicato il calore.» «Quindi è un probabile omicidio», concluse Bednarek. «Per il momento si tratta di una morte per cause non naturali», precisò Henzes. «Decideremo noi quello che è», disse il capo. «In ogni caso, chi l'ha invitata qui, Henzes? Abbiamo già chi rappresenta l'ufficio del coroner.» «Mi ha mandato a chiamare Dominic.» «Allora farà meglio a mandare la parcella a lui. Noi non paghiamo i servizi che non richiediamo.» Si rivolse al funzionario del coroner. Questi si schiarì la voce prima di
rispondere. «La probabile causa della morte è il calore. Il corpo ha raggiunto la temperatura di centoquaranta gradi circa. Normalmente la morte cerebrale sopravviene a centodieci gradi. In sostanza il ragazzo è stato cotto vivo.» «E come?» chiese il capo. «Non lo so. Non ci sono segni visibili di bruciatura. Niente che denoti che è stato ucciso da qualche altra parte e poi riportato qui.» «Che ne dice della corrente elettrica? Non potrebbe essere stato fulminato?» «Non ha nessun segno di bruciature. Almeno nessuno visibile a occhio umano. Forse scopriremo qualcosa di più con l'autopsia.» Il capo si voltò dall'altra parte e aggrottò le sopracciglia. «Comincia a puzzare. Qualcuno apra la finestra e portiamo il corpo fuori di qui», ordinò il capo. Il funzionario fece cenno a due uomini che aspettavano nel corridoio. Aprirono una barella e la portarono all'altezza del letto. S'infilarono dei guanti di gomma per non toccare i liquidi del corpo gonfio mentre trasferivano Eddie sulla barella. Bednarek lottava con la finestra, bloccata come al solito. Dovette batterla con la punta dello sfollagente per disincastrarla e permettere all'aria fresca di purificare la stanza. «Cos'hai a che fare tu con tutto questo?» s'informò il capo, rivolto a Dominic. «Era un mio amico», fu la risposta. «Non hai risposto alla mia domanda.» «Non eravamo in città quando è successo», continuò Dominic. «Siamo stati a New York, oggi. L'abbiamo trovato così quando siamo tornati.» «Quanto tempo fa?» «Circa un'ora fa.» «E per prima cosa avete chiamato Bednarek?» «Esatto. E lui ha chiamato l'ufficio del coroner.» «Suppongo possiate dimostrare che eravate a New York quando è successo, vero?» «Non mi crede sulla parola?» «Non scherzare, Dominic. Non sono dell'umore giusto per una delle tue discussioni. È morto un uomo e ti sto chiedendo se puoi provare dov'eri.» «Sì. Siamo andati a trovare Angelo Brescia, un impresario di pompe funebri di Manhattan. Siamo rimasti con lui per più di un'ora. Può chiamare
e controllare.» Il capo rivolse la sua attenzione su Katherine. «La ragazza era con te?» «Per tutto il tempo. Dopo che abbiamo lasciato Brescia, ci siamo fermati nel suo appartamento a prendere una busta.» «Qualcuno vi ha visto?» «La guardia dell'ingresso.» «Mi avevano già dato queste informazioni, capo», s'intromise Bednarek. «Ho tutti i numeri telefonici e gli indirizzi.» Il comandante brontolò un verso. «Controlleremo senz'altro», disse a Dominic. «Ti porterei immediatamente dentro come sospetto, ma il tuo amico Henzes ha ragione. Ancora non è un caso di omicidio.» Dominic prese una sigaretta dal solito pacchetto spiegazzato che usava da quando l'aveva conosciuto. Non era un fumatore nel senso normale del termine. Si serviva delle sigarette solo quando era perplesso, quando voleva prendere tempo e permettere alla mente di classificare gli eventi. Per un istante ignorò il capo mentre estraeva con cura una delle sigarette. L'accese, tirò una lunga boccata e sbuffò lentamente il fumo. «Così adesso abbiamo finalmente un reato», esclamò. «Hai tutta l'aria di non desiderare altro», rispose il capo con voce sospetta. Dominic tirò un'altra boccata prima di rispondere. «Fino ad ora tutto quello che avevamo era una tomba vuota, un'auto bruciata, niente di natura criminale vera e propria. Ma adesso abbiamo un morto.» «Non è omicidio. Non ancora», gli ricordò il capo. «Però è morto. In modo inspiegabile. È peggio di un semplice assassinio», gli fece notare Dominic. «Se fosse stato pugnalato, o ucciso con un'arma da fuoco, o strangolato, almeno sapreste dire com'è successo.» «Lo scopriremo. È solo questione di tempo. L'autopsia ci dirà di più», ribatté il capo. «Un uomo è cotto vivo in una stanza senza traccia di lotta e lei pensa che un'autopsia la potrà aiutare?» Sorrideva. Aveva tutta l'aria di prenderli in giro, pensò Katherine. «Abbiamo una donna che sostiene di aver visto sua madre resuscitata dalla tomba», aggiunse Dominic. «Nessuno vuole prenderla sul serio perché anche questo è contro ogni spiegazione logica.» Diede un altro tiro alla sigaretta. La stanza era sprofondata nel silenzio.
Tutti lo stavano guardando. «Bene, anche la morte di Eddie è contro ogni spiegazione logica. Però è un assassinio. Proprio così. Che sia stato ucciso da qualcuno vivo o morto, non cambia il fatto che è un assassinio.» «Se è un omicidio, lo risolveremo», lo rassicurò il capo. «E come ha in mente di fare? Non avete nemmeno idea di che cosa dovete affrontare.» «E tu invece sì?» incalzò Bednarek. «Vuoi raccontarci storie di apparizioni come la professoressa? Siete tutti e due della stessa pasta», concluse. Il capo appoggiò una mano sul braccio di Bednarek per zittirlo. «Se hai qualche informazione sulla morte di Eddie, è meglio che me la riferisca. Non sei più un agente di polizia, adesso, ricordatelo. Occultare le prove è un reato.» «Non ho nient'altro che una teoria. È una teoria non è una prova. Se non ci arresta, noi ce ne andiamo.» Si rivolse a Katherine. «Dovrai venire a stare da me. Non ti permetterebbero di rimanere qui anche se lo volessi, perché è stato commesso un delitto. È probabile anche che non ti lascino prendere i tuoi vestiti. Il capo potrebbe pensare che stai sottraendo le prove.» Dopo alcune discussioni lasciarono uscire Katherine con una valigetta di vestiti sufficienti per due giorni. «Non credo che dovrei venire a stare da te», gli disse quando furono in auto. «È per la nostra sicurezza», continuò. «Lo so che ci stai provando, Dominic, ma non c'è niente che tu possa fare. Mia madre cerca me. È arrabbiata con me. Quello che ha fatto a Eddie è solo un avvertimento. Tu sarai il prossimo se non mi permetti di affrontarla da sola.» «Non posso farlo. Troveremo un modo per combattere insieme.» «Non dovresti essere coinvolto nei miei problemi.» «Lo sono già.» «C'è un termine psicoanalitico per quello che stai facendo. Si chiama transfert. Penso che tu mi stia confondendo con Cara. Stai trasferendo i tuoi sentimenti e le tue emozioni su di me.» «Il tuo problema è che psicanalizzi tutto eccetto te stessa. Perché continui a combattermi quando io sto cercando di aiutarti?» «Non lo so», si schermì. Si appoggiò al sedile della macchina. «Credevo di sapere tutto, ma ora non sono nemmeno più sicura di essere sana di
mente.» «Bene, allora siamo in due», la consolò Dominic. «Il capo crede che siamo entrambi pazzi. E forse è per questo che mi piaci. Abbiamo qualcosa in comune.» A queste parole, scoppiò a ridere. «Dovevo fermarmi in un posto prima di tornare a casa», annunciò Dominic. «Spero che non ii dispiaccia.» Si fermò di fronte a una chiesa buia in una viuzza laterale nella città di Olyphant. «Vuoi pregare a quest'ora? Non puoi aspettare fino a domani?» «Non voglio pregare. Voglio parlare.» «A quest'ora? È mezzanotte passata, Dominic.» «I preti non hanno orari d'ufficio.» Sedeva nell'auto guardando la chiesa, come cercasse di raccogliere il coraggio. I larghi gradini di granito della chiesa scomparivano nell'oscurità fra enormi colonne che ne sostenevano il tetto. Era una chiesa più vecchia di quella di Dickson. Di fianco c'era la canonica. Una pallida luce illuminava un'unica finestra laterale. «Ho chiamato padre Ambrose prima di chiamare Henzes», la mise al corrente Dominic. «Mi ha assicurato che sarebbe rimasto alzato per noi.» «Bene. Se parlare con un prete ti fa sentire meglio, forse è il caso di farlo. È una catarsi, vero?» «Non imbottirmi ancora di psicologia. Avremmo dovuto parlare di tua madre con un prete fin dall'inizio.» «Padre Malloy di Dickson non è stato di grande aiuto.» «È ancora giovane, ancora legato alla politica, alle procedure e alle apparenze. Per un sacerdote ci vogliono trenta o quarant'anni di tempo per non farsi più condizionare. Padre Ambrose è della vecchia guardia. Gira ancora per i cimiteri come facevano i preti immigrati. Prega sulle tombe ogni giorno. Agli altri preti questo non piace. Lo chiamano il "prete del cimitero" e cercano di farlo passare per arteriosclerotico. Ma l'ufficio del vescovo non può rimuoverlo dalla carica, perché i vecchi della valle chiamano sempre lui per i loro riti. Non si fidano dei preti più giovani. Sanno che non pregheranno per loro dopo la sepoltura. Loro si fidano solo di padre Ambrose.» «Ho l'impressione che ci creda anche tu.» «Se non fosse stato per lui, non mi sarei mai ripreso dalla morte di Cara.
Nelle prime due settimane, dormivo al cimitero, sul prato vicino alla tomba. Padre Ambrose mi ha trovato una mattina mentre faceva i suoi giri. Quella notte è tornato ed è rimasto con me a parlare della morte e del suo vero significato, del significato spirituale.» «È questo ha risolto il dolore della separazione, semplicemente parlandone?» Dominic emise un lungo sospiro esprimendo la sua delusione. «Parli come un libro stampato. Cerchi sempre di trasformare tutto nelle solite parole che utilizzi per le tue lezioni.» «È un classico approccio psicologico», rispose Katherine in propria difesa. «Sarà anche un sacerdote, ma si serve di tecniche psicologiche.» «Ti sto parlando di un prete che va da solo tutti i giorni al cimitero a pregare per i morti. S'inginocchia sull'erba e prega sui cadaveri che non lo possono vedere e che non potranno mai pagare per i suoi uffizi divini. Questa non è psichiatria, è religione. E quando mette l'olio sulle palpebre di un uomo di novant'anni che sta morendo perché i suoi reni hanno ceduto e il suo corpo si sta riempiendo d'urina, quella non è psichiatria. È religione! Stiamo parlando di un sacerdote che crede che i morti siano rimessi a Dio e il suo lavoro sia intercedere per loro. Quindi non insultarlo parlando a getto continuo di stronzate psicologiche di fronte a lui.» Una donna minuta con l'accento polacco li salutò sulla porta. Li condusse lungo un corridoio rivestito di legno scuro, un lavoro degli artigiani immigrati che avevano costruito la chiesa e la canonica. Dominic bussò sommessamente alla porta. «Avanti», invitò una voce dall'interno. La sola illuminazione della stanza era una lampada da tavolo a forma di farfalla accanto a una poltrona di pelle rossa. Rischiarava a malapena la stanza colma di scaffali che riempivano le pareti da terra al soffitto. Nella penombra s'intravedevano pile di libri sparsi sul pavimento. Nel centro luminoso del raggio della lampada sedeva il sacerdote. Dalla larghezza delle spalle sotto la tunica nera si capiva che doveva essere stato molto robusto. Ora teneva la testa piegata in avanti per effetto dell'osteoporosi. Alla base del collo era visibile una gobbetta. L'età aveva prosciugato il corpo dei muscoli, lasciando solo uno spesso strato di pelle tesa sulle ossa del viso. I capelli e le sopracciglia, ancora folte, erano di un bianco lucente. Li guardò con gli occhi scuri ancora limpidi. Salutò con un cenno del capo senza alzarsi dalla poltrona. «Padre Ambrose, questa è la professoressa Roshak, la donna di cui le ho
parlato.» Senza sorridere, il sacerdote le studiò il viso. «È cattolica battezzata?» domandò senza preavviso. Aveva un tono aggressivo che la colse di sorpresa. «È importante?» Sentì che Dominic le toccava il braccio per tenerla calma. Padre Ambrose sorrise alla risposta e scartò ogni ulteriore spiegazione. «Solo un cattolico si esprimerebbe così. La maggior parte degli altri ha paura di noi.» «Ha passato brutti momenti, padre», spiegò Dominic. «È solo una questione d'informazione», sorrise padre Ambrose. «Mi piace sempre sapere a che religione appartengono le persone.» In grembo del prete giaceva un libro aperto. Notando l'interesse di Katherine, glielo allungò. Il testo era stampato fittamente in una lingua che sembrava latino. «La Summa Contra Gentiles di Tommaso d'Aquino», lo presentò. «In versione originale. È meglio leggere il testo originale per la chiarezza e la precisione dei significati, piuttosto che fare affidamento sulla traduzione di qualcun altro.» «Mi spiace di doverla disturbare così tardi, padre», si scusò Dominio. «Non è un disturbo», rispose padre Ambrose. «Non dormo più molto. Quando si arriva alla mia età, il corpo richiede meno sonno. Lo trovo un vantaggio. Mi lascia più tempo per la meditazione e la preghiera, poiché la morte si avvicina.» Chiuse il libro ancora aperto sul tavolo accanto a lui. «Che cosa posso fare, Dominic?» «Per prima cosa devo dirle che non sono più un agente di polizia. Sono stato licenziato.» «Una ragione di più per aiutarti.» «La ringrazio, padre. Devo farle alcune domande su un delitto che è appena stato commesso.» «Non sono un detective.» «Ma c'è qualcosa che potrebbe esserci d'aiuto che solo lei può sapere, padre.» «Spero che non mi chiediate informazioni provenienti da una confessione. Conosci l'inviolabilità del sacramento della confessione.» Dominic scosse il capo. «No, no, padre. Non è niente del genere. Però è qualcosa che ha a che fare con la religione. Almeno, credo.»
Il sacerdote inarcò le sopracciglia bianche in segno di sorpresa. «Stai indagando su un prete?» «Vorrei che fosse così semplice», rispose Dominic. «È facile seguire i movimenti di un prete.» Mentre parlava, Dominic studiava i titoli dei libri più vecchi disposti sugli scaffali. «Credo che abbia a che fare con la fede e con alcune delle cose che lei passa tanto tempo a studiare. Vedo che ha un sacco di libri sull'occulto.» Lesse ad alta voce alcuni dei titoli. «La Bibbia satanica, Idolatria del demonio, Rituali magici. Non è strano per un prete leggere libri simili?» Padre Ambrose sorrise. «È meglio conoscere il nemico per combatterlo.» «Lei crede a tutto questo?» «Se si crede in Dio, allora bisogna necessariamente credere che esista anche un demonio», rispose il padre. «Che cosa pensa delle apparizioni, padre? Lei crede alle apparizioni?» «Io credo nella vita dopo la morte.» Dominic si alzò di scatto sul divano di fronte al prete e si protese in avanti, con lo sguardo deciso come quello del prete. «Intendo gli spiriti dei morti, padre. Morti viventi che escono dalle proprie tombe per perseguitare i vivi.» Padre Ambrose s'irrigidì. I suoi occhi si contrassero. «Parli sul serio, vero?» domandò. «Sì. Ho già discusso con alcuni impresari funebri, altri agenti della polizia e con Johnny Henzes del laboratorio di medicina legale. Nessuno ha una spiegazione. Per questo lo chiedo a lei, padre. Può un morto uscire dalla tomba?» Il prete si appoggiò allo schienale. «Stai parlando di due concetti diversi, Dominic. Uno spettro sarebbe considerato un'apparizione, lo spirito o l'anima disincarnata di una persona morta. La letteratura popolare racconta che passano attraverso le pareti, appaiono e scompaiono senza lasciare traccia. Un corpo morto che esce dalla tomba è tutta un'altra cosa. Le spoglie mortali sono materia fisica e soggiaciono alle leggi della natura come un corpo vivo, quindi alla forza di gravità, alla visibilità, all'impermeabilità, alla corruttibilità e a tutto il resto.» Fece una pausa, chiaramente riluttante a continuare. «C'entra Cara in tutta questa storia?» chiese poi. Si fece il segno della
croce nel pronunciare il nome della donna. «Possa riposare in pace», mormorò. «No», rispose Dominic. «Almeno spero di no. Per me è importante sapere se lei crede che un morto possa resuscitare.» «Certo che ci credo. La resurrezione dei morti è un dogma fondamentale della religione cristiana. La base intera della nostra religione poggia sulla resurrezione di Cristo.» «Sì, lo so, padre. E so tutto sui morti che risorgono nel giorno del Giudizio Universale.» «Il Libro dell'Apocalisse», citò il prete. «Ma adesso? Oggi?» domandò Dominic. «È possibile che qualcuno resusciti oggi? Che il suo corpo esca dalla tomba?» La voce del prete si fece più calda. «Non prima del giorno del Giudizio. I segni di avvertimento dell'imminenza della fine del mondo sono descritti molto chiaramente nella Bibbia. Non li ho ancora visti. Almeno non tutti.» «Ma allora è vero?» domandò Katherine. «Lei crede veramente nei morti che risorgono?» «Come potrei dubitarne e comunque restare un sacerdote? La resurrezione di un corpo è testimoniata dalla dottrina degli apostoli, dalla professione di fede del Concilio di Nicea-Costantinopoli, dal credo di Atanasio, dal IV Concilio Lateranense, dal II Concilio di Lione, dal Benedictus Deus di Costantino e riaffermato dal Concilio Vaticano II nella sua costituzine dogmatica della Chiesa e più recentemente dalla lettera vaticana su alcune questioni riguardanti l'escatologia.» Fece una pausa e sorrise. «Sembrate sorpresi», aggiunse. «Prendo il mio sacerdozio molto sul serio. Poiché la mia morte si avvicina sono ancora più interessato all'escatologia, che è il ramo della teologia che tratta la fine del mondo. La maggior parte dei sacerdoti più giovani credono sia morboso da parte mia. Ma dopotutto la nostra religione non è altro che una preparazione alla morte.» «E lei crede che il corpo in carne e ossa di un morto possa risorgere dalla tomba?» «Per rispondere a questo ho paura che dovremo inoltrarci in una discussione semantica. Gli effettivi meccanismi della resurrezione non hanno ancora una risposta. Le citazioni delle Sacre Scritture vacillano quando si prende una posizione. Per ogni riferimento in Giovanni o nell'Apocalisse sui morti che odono il suono delle trombe e resuscitano, ci sono altre letture come nei Corinzi dove è scritto che il corpo fisico è sepolto e il corpo
spirituale risorge. Se voi vi riferite in termini fisiologici al corpo come le spoglie che giacciono nella cassa, la carne corruttibile, allora la teologia moderna avrebbe molti problemi con questo concetto. Ma se pensate al corpo come al soma, nella sua descrizione letterale del Nuovo Testamento e lo definite come l'intera storia personale di un individuo, il suo io, il suo essere peculiare, allora anche i teologi più radicali aderirebbero a questa tesi.» Dominic tirò fuori un'altra sigaretta. «Le dà fastidio se fumo, padre?» Era la prima volta che chiedeva il permesso a qualcuno di fumare. «Io ho smesso, ma mi piace ancora l'odore del tabacco», rispose padre Ambrose. Dominic lisciò la sigaretta prima di accenderla. «Speravo di avere una risposta che mi aiutasse», si lamentò, dopo aver emesso lentamente la prima boccata di fumo. «Sono venuto qui da lei perché immaginavo fosse un vero esperto in questo genere di cose.» «Mi dispiace non potervi essere di maggiore aiuto, ma temo che non avremo una vera risposta finché non sarà il momento giusto. Fino ad allora non possiamo far altro che discutere sul significato delle parole.» Katherine intuiva cosa stesse pensando Dominic. Evidentemente anche padre Ambrose lo sapeva e rimase ad attendere che Dominic continuasse a parlare. «All'inizio non ci credevo, padre», confessò. «Quando Katherine è arrivata a Dickson a dire che sua madre era resuscitata dalla tomba, non le volevo credere.» Fece un'altra interruzione, mentre il prete aspettava pazientemente. «Guardi, immagino che se sua madre fosse veramente tornata dai morti, allora Cara...» S'interruppe e cercò di nascondere le proprie emozioni con un'altra boccata. Tossì. Quando si schiarì la gola, spense la sigaretta. «Non sapevo proprio come comportarmi, padre. Alla fine desideravo che lei... pensavo che fosse meglio per lei... volevo solo che smettesse di soffrire.» Tirò un profondo sospiro e si voltò dall'altra parte. «Penso che l'avesse capito anche lei. Lo sentivo. Non riuscivo a nasconderle niente. Da quel momento mi sono sentito in colpa. Quando Cara è morta, sapevo quello che stavo pensando. Ne sono sicuro.» Si sedette nuovamente sul divano e si avvicinò a padre Ambrose, abbassando la voce, come se fosse nel confessionale. «È peccato, padre? Desiderare che qualcuno muoia quando soffre tanto?
Volere che tutto sia finito così che nessuno debba più soffrire?» Il sacerdote si abbassò e prese le mani di Dominic nelle sue. «Tu non hai niente a che fare con la sua morte, Dominic. Solo il Signore decide quando i nostri giorni sulla Terra sono finiti. Cara sa quanto tu l'hai amata. Sono sicuro che ti sta guardando in questo momento anche con più amore di quando era in vita. Non hai niente da temere da Cara, o dal Signore, Dominic. Sei stato un buon marito. Le sei stato vicino e le hai dato tutto il tuo amore finché l'ultimo respiro ha abbandonato il suo corpo. E anche dopo che è stata sepolta.» Strinse le mani di Dominic fra le sue. «È ora che ti lasci tutto alle spalle. È ora che riabbracci la vita. Buttati alle spalle il senso di colpa. Cara non vorrebbe che ti torturassi ancora.» Continuarono a tenersi per mano, guardandosi negli occhi. Katherine si sentiva un'intrusa. Dominic abbassò la testa e padre Ambrose gli posò la mano sul capo accarezzandogli dolcemente i capelli, nel modo in cui un adulto consolerebbe un bambino. Quando Dominic alzò la testa, l'angoscia ossessionata se n'era andata dai suoi occhi. «Grazie padre», ringraziò. Katherine rabbrividì davanti alla scena a cui aveva assistito. Ciò che aveva visto non era descritto da nessun trattato classico di psicoterapia. C'erano voluti meno di pochi minuti e il senso di colpa di Dominic era sparito. Padre Ambrose si rivolse a Kaherine. «E adesso mi racconti di sua madre», disse. «Lei crede sia resuscitata dai morti?» «L'ho vista a New York la settimana scorsa», rispose Katherine. «Due volte. La prima volta ho pensato che fosse un errore. Ma quando è venuta in una delle aule dove tenevo le lezioni, ho capito che non potevo più sbagliarmi. Ecco perché sono tornata qui. Per far visita alla sua tomba.» «Era mai stata al cimitero prima?» «No», rispose Katherine imbarazzata. «L'unica volta che ho visto la sua tomba è stato il giorno del suo funerale, circa otto anni fa.» Si aspettava che il prete facesse un gesto di disapprovazione, ma padre Ambrose rimase imperturbabile. «La tomba era sottosopra. Sembrava che fosse stata riaperta. E allora sono andata alla polizia.» «Non le credevo», s'intromise Dominic. «Ma quando ho fatto aprire la tomba, la bara era vuota.» Porse a padre Ambrose le fotografie che aveva scattato al cimitero la
prima notte. «La bara era aperta e vuota.» «Sei certo che fosse stata sepolta correttamente?» «Ho parlato con l'impresario delle pompe funebri e con il prete che ha ufficiato al funerale. Il corpo era presente quando hanno sigillato la cassa. Abbiamo prelevato alcuni campioni dalla bara vuota e li abbiamo fatti analizzare al laboratorio di medicina legale di Scranton. Le analisi indicano che il corpo di una donna è stato nella bara per diversi anni. La salma aveva già raggiunto un certo livello di decomposizione.» Padre Ambrose restituì le foto a Dominic. «Sono sorpreso che non ne abbia sentito parlare, padre. Non gliel'hanno detto i seppellitori?» «Sono passate alcune settimane dal mio ultimo giro al cimitero, Dominic. Il cuore mi dà dei disturbi e il medico non vuole che lo metta sotto sforzo andandomene a passeggio per quelle colline.» «Mi spiace», sospirò Dominic. «Comunque, questa non è l'unica tomba svuotata. Ne abbiamo trovate altre. Cinque in un cimitero di New York. Con tutta probabilità ce ne sono altre di cui non conosciamo l'esistenza.» «Potrebbe essere un atto di vandalismo», suggerì il prete. «Con la crescita d'interesse per l'occulto e il satanismo, i cimiteri e le chiese sono diventati il bersaglio di ogni genere di rito.» «Ci hanno riferito che ci sono persone che hanno avvistato i cadaveri delle altre tombe vuote. Esattamente come Katherine.» «Potrebbero essere allucinazioni», incalzò il padre. «Ci credono perché vogliono crederci. Sai come succedono queste cose, Dominic. Ci sei passato anche tu. La gente vede quello che vuole vedere. Sono sicuro che analizzando bene la situazione, saresti d'accordo con me.» «Quelle persone sono tutte morte, padre. Tutti quelli che affermavano di aver visto un cadavere, sono morti. Si sono suicidati, secondo la polizia di New York.» Padre Ambrose rimase a bocca aperta e recitò sommessamente una preghiera. «Raccontagli delle manifestazioni», lo incitò Katherine. Il sacerdote alzò lo sguardo con improvviso interesse. Dominic sembrava a disagio quando iniziò a spiegare quello che era successo. «Sono accadute una serie di strane circostanze, da quando abbiamo riaperto la tomba.» «Manifestazioni?» chiese il prete scandendo bene la parola.
«È un termine suo», puntualizzò Dominic. «È una professoressa. Le piacciono le parole stravaganti.» «Mi riferisco a una manifestazione nel senso soprannaturale del termine», spiegò Katherine. «Nessuno sa dire come siano successe, quindi devono essere manifestazioni provenienti da qualche forza sconosciuta.» Padre Ambrose aggrottò le sopracciglia, manifestando chiaramente di non apprezzare il suo riferimento al soprannaturale. «In qualsiasi modo vogliate chiamarle, sono cominciate subito dopo che abbiamo aperto la tomba», proseguì Dominic. «Mentre eravamo al cimitero la sua auto era rimasta parcheggiata di fronte al comando di polizia. Il mattino dopo è andata in fiamme senza alcun motivo apparente.» «Era un'auto nuova, parcheggiata di fronte alla stazione di polizia», ripeté Katherine per enfatizzare il concetto. «Non era nemmeno in moto quando è scoppiato l'incendio.» «E quando mi hanno buttato fuori dal corpo di polizia», perseverò Dominic, «il capo ha addossato la responsabilità su di me.» «Quando sono tornata nel mio appartamento di New York, ho trovato il bagno bruciato. Completamente carbonizzato.» «I vigili del fuoco hanno constatato che la causa doveva essere stata una fonte di calore straordinariamente intensa per causare un danno simile e, tuttavia, non c'era nessuna traccia dell'origine dell'incendio. Se non sbaglio, non c'erano fonti infiammabili per causare un simile disastro. Nessuno è riuscito a spiegarlo.» «Deve essere un segno di mia madre», s'intromise Katherine. «Sullo specchio c'era un messaggio scritto con una calligrafia che sembrava la sua. Diceva: 'Nessuno può aiutare'. Era lo stesso messaggio che avevano trovato otto anni fa.» «Sua madre si è suicidata», spiegò Dominic. «L'hanno trovata nel bagno di un motel dell'autostrada vicino a un drive-in. Aveva scritto le stesse parole sullo specchio prima di suicidarsi.» «Che cosa significano?» chiese Katherine. «Forse vuole che preghi per lei», suggerì padre Amorose. «Quando sono andata nella chiesa di Dickson, c'era anche la mamma.» Nell'oscurità della stanza, gli occhi del sacerdote assunsero un'intensità quasi ipnotica. «È certa che non si trattasse di un' allucinazione?» «È quello che pensavo anch'io», rispose Dominic. «Ma sul banco della chiesa c'erano frammenti di fango e di tessuto. Combaciavano perfetta-
mente con i campioni che avevamo prelevato dalla bara di sua madre.» «Che altro?» si spazientì il padre. «Quali altre manifestazioni?» «C'era una sagoma bruciacchiata sulle lenzuola del letto di Katherine. Non c'erano altre tracce di fuoco. Il rilevatore di fumo non era scattato, ma il lenzuolo era chiaramente bruciacchiato.» «E lei pensa che fosse la sagoma di sua madre?» domandò padre Ambrose. «Non lo so. Poteva essere mia madre come potevo essere io. Siamo alte uguali.» Si rivolse a Dominic. «Non gli hai raccontato del rosario.» «Scusa, me ne ero dimenticato. Credevo di aver visto una figura sull'altro lato della strada, dalla finestra di Katherine. Alloggiava in una camera del Valley Inn. Quando sono andato a controllare, ho trovato il rosario con il quale era stata sepolta sua madre.» «Era lo stesso», confermò Katherine. «Doveva essere lei che mi voleva controllare dalla strada.» «Che altro?» rintuzzò padre Ambrose, desideroso di sapere sempre di più. «Deve esserci qualcos'altro, altrimenti non sareste venuti qui a quest'ora di notte. Conosco troppo bene Dominic.» Dominic emise un profondo respiro. Per prima cosa si voltò verso Katherine, come se cercasse da lei un aiuto psicologico. «È così grave?» domandò il prete. Dominic annuì. Esalò lentamente il respiro. «Di che si tratta?» «Qualche ora fa, Eddie Elbows è stato assassinato.» «Che Dio accolga la sua anima», recitò padre Ambrose facendosi il segno della croce. Pregò in silenzio per qualche istante. Dominic chiuse gli occhi e si unì a lui in preghiera. Incerta sul da farsi, Katherine abbassò il capo e cercò di ricordarsi qualche preghiera. «Perché pensate che la morte di Eddie sia collegata alla tomba vuota?» «Per il modo in cui è stato ucciso. Non ho mai visto niente di simile, padre. Eppure di morti ne ho visti tanti. L'abbiamo trovato sul letto nella stanza di Katherine. La temperatura corporea era talmente alta che ha cotto nel suo stesso sangue.» «Mio Dio!» esclamò pade Amorose. «Siete sicuri che non si possa trattare di un incidente?» «Padre, non so nemmeno come avrebbe potuto succedere se fosse stato programmato, figuriamoci un incidente. Eddie è stato cotto vivo. E nien-
t'altro nella stanza è stato toccato o bruciato.» Ambrose si rivolse a Katherine. «Quando ha visto sua madre in chiesa, com'era? Era avvolta da un bagliore?» «Non ci ho fatto caso. Ero così spaventata del suo aspetto dopo tutti quegli anni nella bara che non ho notato niente. Non lo dimenticherò mai, padre.» Il prete chiuse gli occhi. Aggrottò le sopracciglia, come se stesse cercando di rispolverare qualche fatto che lo aiutasse a comprendere l'enigma che gli avevano presentato. «Qualche vecchio documento parla del calore della corruzione», sussurrò. Katherine si accigliò al ricordo dell'odore. Riusciva quasi a sentire ancora nelle narici il puzzo della putrefazione mescolato a qualcos'altro, a qualcosa di estraneo. «Puzzava», ricordò. «Era terribile. Ho vomitato.» «C'era uno strano odore nella stanza quando sono bruciate le lenzuola», aggiunse Dominic. «Abbiamo dovuto aprire la finestra.» «Era anche nella tomba», disse Katherine. «Un odore opprimente, uguale agli altri.» Padre Ambrose s'irrigidì sulla sedia e ne afferrò saldamente i braccioli con le mani. Quando iniziò a parlare, gli tremava la voce. «C'era odore di zolfo? Odore di bruciato? Avete sentito quello mescolato all'odore di putrefazione?» Spaventata dall'improvvisa reazione del prete, Katherine arretrò di un passo. «Sì», ammise. «E questo è molto strano. Sembrava che qualcosa stesse bruciando.» Padre Ambrose si alzò lentamente dalla sedia, gli occhi spalancati, come se avesse intuito qualcosa che non era mai stato detto. Torreggiava su Katherine, sorprendentemente alto. Per un momento sembrò ignorare la loro presenza. «La puzza del demonio», annunciò con un sospiro rauco. «Quello che avete sentito è il fuoco dell'inferno. Il demonio è tra di noi.» 12 «Ma sta scherzando», balbettò Dominic. Padre Ambrose si voltò. I suoi occhi avevano acquistato in vitalità, brillavano di una luce intensa davanti alla quale Katherine provò l'impulso di
scostarsi. «È il diavolo», ripeté padre Ambrose in tono sommesso, per paura di essere ascoltato da altri. Nervosamente guardò da una parte all'altra con occhi colmi di terrore. «Annuncia sempre la sua presenza con il fuoco. Tutte le manifestazioni che avete descritto coinvolgono il calore, le fiamme, il fuoco. Se ne serve per evocare paura in coloro che non credono nella sua esistenza.» «Ma in chiesa ho visto mia madre», insisté Katherine. «Sant'Atanasio ha parlato della facilità con cui il diavolo riesce ad apparire e assumere le sembianze di chiunque. Ma non riesce a nascondere il fetore del fuoco e della corruzione, per quanto si possa modificare.» Frugò fra gli scaffali finché trovò un vecchio tomo rilegato in pelle. «Mi dica, l'apparizione emetteva suoni, rumori?» «Mi ha parlato», rispose Katherine. «Ha detto le stesse parole che aveva scritto sullo specchio: 'Nessuno può aiutare'.» Fece scorrere le pagine finché trovò il riferimento che andava cercando. «Com'era la voce?» le domandò. «Se la ricorda?» Katherine chiuse gli occhi e cercò di ricostruire i dettagli agghiaccianti. «Non era la voce di mia madre. Non era la voce che ricordavo. È difficile spiegare. È come se fosse stata bloccata da qualche ostacolo.» Padre Ambrose richiuse di colpo il libro. «Esatto!» esclamò trionfante. «Sì, è il demonio. Nel De Praestigiis Daemonum è descritta la sua voce nello stesso modo.» Sventolò il libro. «Sostiene che la voce del diavolo è gutturale, soffocata, sembra quasi che provenga da dietro una maschera.» «Proprio così!» s'infervorò Katherine. «Era così anche la sua. Sorda e soffocata, sembrava provenire da chissà dove, come se non appartenesse al suo viso.» «Calma», li interruppe Dominic. «Cerchiamo di non farci prendere dall'entusiasmo. Sono venuto qui perché non riuscivo ad accettare l'idea che un morto possa tornare in vita. E adesso iniziate a parlare di diavoli. Vi riferite ai diavoli della Bibbia?» «Il Diavolo, Belzebù, Satana, Lucifero, comunque vogliate chiamarlo. Chi altri riuscirebbe a far ribollire il sangue di un uomo?» Dominic trasse un profondo sospiro. Non intendeva mettersi a discutere con padre Ambrose. «Potrebbe esistere un'altra spiegazione», si limitò a dire. «È questa l'unica spiegazione», insisté padre Ambrose. «Altrimenti per-
ché le tombe vengono aperte? Perché i cadaveri spariscono e poi ricompaiono? Lei ha qualche altra spiegazione per manifestazioni di questo genere?» «Non ho prove, se è questo che vuol sapere.» «Se è vero, se è il Diavolo», intervenne Katherine prima che Dominic potesse continuare, «perché se la prende con me?» Padre Ambrose continuava a guardarsi attorno, come se si aspettasse di vedere il diavolo da un momento all'altro comparire fra le ombre della stanza. «Satana è una creatura d'indicibile furbizia», spiegò il prete. «Nutre un odio maligno e infinito nei confronti del genere umano. Per questo motivo dubito che se la stia prendendo soltanto con lei. La letteratura sull'argomento sostiene che è in grado di celare i suoi piani più perniciosi con incredibili artifici e travestimenti. Forse lei fa casualmente parte di uno dei suoi schemi più maligni.» Dominic si sprecò in un ulteriore tentativo di dissuadere padre Ambrose dalle sue credenze. «Padre, non vorrei sbagliarmi, ma tutte queste storie sul diavolo non sono state ritratte dal Concilio Vaticano?» «Non sei aggiornato, Dominic. Il papa in persona ha fatto un recente riferimento alla presenza invisibile di un oscuro nemico, il Diavolo, parlandone come un essere umano, come una terribile realtà. Il diavolo è sempre stato fra noi. Persino i teologi più sofisticati attribuiscono l'operato di Hitler all'influenza diabolica. Ne parlano senza mezzi termini, come un esempio dell'abilità di Satana di insinuarsi nelle nostre menti. Se credi in Dio, devi credere anche nel Diavolo.» Dominic decise di rinunciare. «Mi sono rifiutato di avere a che fare con la mafia, figuriamoci con il diavolo!» si arrese Dominic. «Che cosa dovremmo fare in questo caso? Come si combatte il diavolo?» «Esistono centinaia di superstizioni e storie che hanno a che fare con il diavolo. Ci sono leggende di persone che sono riuscite a sconfiggerlo appellandosi alla sua vanità, offrendogli la propria anima, o perfino intrappolandolo negli specchi. Ma è difficile separare la tradizione dalla realtà.» «Allora non c'è niente da fare?» domandò Katherine. «I poteri del diavolo sono secondi solo a quelli di Dio. L'unico modo per sconfiggere il diavolo è allearsi con il Signore. Bisogna circondarsi della forza di Dio. Occorre pregare, evitando di aprire la mente a Satana.» «Non me la cavo molto bene con le preghiere», si rammaricò Katherine.
«Satana sta cercando di penetrare la sua mente. È questo lo scopo delle sue apparizioni. Ne sono convinto. Quando si insinua nella mente, allora, e solo allora, riesce a elaborare i suoi poteri. Se si concentra la mente su Dio, sull'amore per gli altri, si ottiene la protezione necessaria.» Aprì un cassetto della scrivania e ne tolse due pacchetti, ognuno dei quali conteneva due rettangoli di tessuto, collegati da due strisce rosse. Ognuno dei due rettangoli rappresentava una immagine religiosa sulla parte anteriore e una preghiera sulla parte posteriore. «Sono scapolari», spiegò padre Ambrose. Con uno avvolse le spalle di Katherine. «Offrono un certo grado di protezione.» Dominic stava per infilarsi il suo scapolare in tasca, ma il prete insistè perché se lo mettesse intorno al collo. Li accompagnò lungo un corridoio verso una camera buia. L'unica fonte di luce era fornita da una candela. Era la canonica, la stanza di preghiera privata dei preti. C'erano quattro inginocchiatoi di due posti ciascuno. Obbedendo alle indicazioni di padre Ambrose, Dominic e Katherine s'inginocchiarono e chinarono il capo davanti al piccolo altare. Padre Ambrose si trattenne qualche minuto a pregare con loro prima di lasciarli definitivamente da soli. Katherine si voltò verso Dominic che si strinse nelle spalle, facendole chiaramente intendere di essere sbalordito almeno quanto lei. Quando il prete tornò, portava con sé un bacile d'argento. Intinse le dita nell'acqua e li spruzzò. Katherine percepì le gocce fredde sulla fronte e restò ad ascoltare padre Ambrose che recitava preghiere in latino. Alla fine le pose una mano sul capo e la benedì. Ripeté gli stessi movimenti per Dominic. «Spero che la mia benedizione vi sia d'aiuto», concluse. «È la benedizione di un vecchio prete, ma spero che abbia un certo peso davanti al Signore.» «Ne sono convinto, padre», lo rassicurò Dominic, nel tentativo di fare piacere al prete. «Sono sicuro che il Signore la conosce molto bene.» Padre Ambrose rispose con un sorriso. «Me lo auguro. Perché penso che l'incontrerò molto presto.» Poi li riaccompagnò per il corridoio fino al portone principale. «Un ultimo avvertimento», disse. «Sarebbe saggio da parte sua, Dominic, restarle vicino. Una mente solitaria è facile preda del diavolo.» «Tu ci credi?» chiese Katherine quando furono nuovamente in macchina. «Per un minuto ho iniziato a credere all'esistenza del diavolo.»
«Padre Ambrose è fatto così», rispose Dominic. «Prende molto sul serio la religione.» «A me non è parso molto verosimile», ridacchiò nervosamente. «Il diavolo. L'ha persino chiamato Belzebù. Non so da quanto non ho più sentito quel nome.» Ma Dominic non stava ridendo. «Se non ci credi, togliti lo scapolare.» Katherine si toccò il tessuto che le avvolgeva il collo. «Non gli hai raccontato di Effenbeck», commentò. «Perché?» «Non avrebbe fatto altro che confermare la sua teoria del diavolo», rispose Dominic. «Davanti alla storia di una persona che lavora in due città diverse nello stesso momento, avrebbe commentato che si tratta di opera diabolica.» «Ah, ah, allora nemmeno tu ci credi.» «Per dire la verità, sono venuto qui perché non volevo credere alle tue teorie. Pensavo che lui sarebbe stato capace di provocare qualche frattura nelle tue convinzioni. Pensavo che sarebbe scoppiato a ridere alla menzione di un caso di resurrezione. Non ero preparato a una storia simile.» «Dopo tutto quello che è successo, ancora non vuoi arrenderti, vero?» Si fermarono al semaforo dall'altra parte dell'Olyphant Bridge. Era l'una di notte inoltrata. Non c'erano altre macchine per strada, ma Dominic restò ad aspettare diligentemente che il semaforo diventasse verde. «Nemmeno tu hai l'aria di aver creduto alle sue parole», sottolineò Dominic. «Io non sono religiosa», si schermì. «Però hai ancora addosso lo scapolare.» «Non può far male», ribatté lei. «Be', su un punto non posso che essere d'accordo con lui. Non devo lasciarti da sola. Che sia il diavolo, tua madre o il mostro della laguna, non intendo perderti di vista finché questa storia non sarà perfettamente chiarita.» Katherine avrebbe voluto dirgli che quello era sicuramente l'aspetto più piacevole dell'intera faccenda; avrebbe voluto comunicargli la sua riconoscenza per l'aiuto che le stava offrendo, spiegargli il piacere che provava nel saperlo al suo fianco, pronto a proteggerla e a prendersi cura di lei. Avrebbe voluto confidargli che iniziava a provare qualcosa per lui e ammettere che la sua presenza stava colmando il vuoto che sentiva dalla morte di suo padre. Ma, naturalmente, tenne la bocca chiusa.
Il momento passò irrimediabilmente, e si diressero in silenzio verso la casa di Dominic. Si fermarono davanti a una piccola casetta a due piani, completa di veranda. Era identica a quelle che avevano oltrepassato nel corso del viaggio di ritorno. Erano state costruite tutte dalla società di minatori che abitavano nella vallata all'inizio del secolo, le spiegò Dominic. Le stanze erano stretti cubicoli ingombri di mobili e aria stantia. Dall'ingresso si accedeva direttamente al salotto. Con il suo divano e i tavolini laterali, il tappeto a uncinetto e le tendine di pizzo, la sala aveva tutta l'aria di essere inutilizzata da tempo. Sul tavolino del salotto davanti al divano Katherine notò la fotografia incorniciata di una donna in vestito da sposa. Evidentemente Dominic si limitava a vivere nel tinello. Su una delle sedie giacevano impilati giornali e riviste. Sul tavolo erano sparpagliati piatti sporchi e lattine di birra. Sulla televisione c'era un portacenere che chiedeva di essere svuotato con urgenza. La stanza era permeata dall'odore di fumo. Katherine si sfilò il cappotto, aprì la finestra e si apprestò a pulire il tavolo. «Lascia perdere», la fermò Dominic. «Pulisco io. Tu sei l'ospite.» «Vai a prendermi una spugna e porta via questo posacenere», ribatté lei. Gli allungò anche una lattina di birra semivuota perché la svuotasse nel lavandino. «Ma lo sai che ore sono?» le fece notare lui. «Che ne dici di aspettare fino a domattina?» «Quando scendo in cucina per fare colazione, voglio trovare un ambiente pulito», rispose lei. «Non ti ho portato qui per farti cucinare», le disse mentre le passava la spugna. «Insomma, sei mia ospite.» Katherine afferrò la spugna senza degnarlo di uno sguardo e iniziò a sfregare i cerchi lasciati dalle lattine sul tavolo. «Con tutto quello che stai facendo per me, il minimo che possa fare è cucinare», lo zittì lei. «E comunque io faccio lo stesso colazione.» «Lo fai solo per tentare di distrarti», la rimproverò. Dal momento che Katherine non rispondeva, decise di voltarle le spalle e tornare in cucina. Katherine sorrise al suono dell'acqua che scorreva nel lavandino e dello sferragliare delle posate. Quando ebbe finito in tinello, lo raggiunse in cucina per aiutarlo ad asciugare i piatti che aveva lavato. Le faccende domestiche si rivelarono un'ottima terapia. La stupidità di quei
lavori era molto più piacevole che dover parlare dei propri problemi. E poi c'era qualcos'altro. Le risultò naturalissimo lavorare con lui in cucina. Era strano pensare a chissà quante volte l'aveva fatto in passato con Cara. Una cena, magari con la televisione accesa, e poi via, a lavare i piatti in compagnia prima di andare a letto. Naturalmente lei non sarebbe andata a letto con lui, però si era affidata alla sua protezione. In quel preciso istante stava recitando la parte della dolce metà. Non solo, le piaceva anche. Analizzando la situazione, visto il suo bisogno psicologico di trovare una relazione sostitutiva e la crescente dipendenza di Katherine, il momento era carico di dinamite emotiva. Non cercò di allontanarsi. Fu una luce blu rotante a mandare in frantumi il momento. Dominic restò agghiacciato a quella vista. Era la luce a intermittenza che annunciava la presenza della polizia. Erano in due: il capo e Bednarek. Doveva trattarsi di una questione importante se il capo si era scomodato a un'ora come quella, pensò Katherine. Dalla soglia del tinello restò a guardare e ad ascoltare. «Temo che siamo costretti ad arrestarti, Dominic», gli annunciò Bednarek con una sfumatura di piacere nella voce. «Leggigli i suoi diritti», ordinò il capo. «Conosco i miei diritti», s'intromise Dominic. «Ma ve l'ho già detto, io ero a New York quando Eddie è stato ucciso. Non potete accusarmi di questo. Ho un testimone.» «Temo di no, Dom», rispose Bednarek. «Angelo Brescia è morto», dichiarò il capo. «È rimasto vittima di un incendio che deve essere più o meno iniziato all'ora in cui sostieni di essere stato da lui.» «Brescia è morto? Ne siete sicuri?» «Hanno trovato il corpo un'ora fa», rispose Bednarek. «Dal momento che non riuscivamo a metterci in contatto telefonico con lui ci siamo rivolti alla compagnia dei telefoni che ci ha informato dell'incendio. Abbiamo parlato con il tenente Coleman della polizia di New York. Per lui si tratta di un incendio doloso.» Katherine rimase senza parole. Ne parlavano con semplicità e distacco. Poche parole per segnare la fine di una vita. Il vecchio con il vestito marrone cascante e una passione sfrenata per i sigari, non si sarebbe mai rinchiuso in un ufficio per gustarsi l'aroma della sua droga preferita di sua spontanea volontà. Che cosa stava
succedendo? Quale terribile motivo stava spingendo sua madre a compiere atti simili? «E così sei diventato il sospetto numero uno», concluse il capo. «Sei stata l'ultima persona a vedere Angelo Brescia vivo e la prima a trovare Eddie Elbows morto. Se non teniamo conto della tua amica qui presente.» Fece un cenno in direzione di Katherine che, per istinto, si sottrasse al suo sguardo. «E così fanno due persone morte in un giorno solo», sottolineò il capo. «È stata una giornata un po' indaffarata.» «Queste sono accuse pazzesche», ribatté Dominic. «Non avete altro che coincidenze, ma nessuna prova.» «Troveremo le prove», giurò il capo. «Troveremo le prove mentre sei dentro.» «Conosco la legge bene almeno quanto lei», si difese Dominic. «Non può arrestarmi semplicemente perché ho ritrovato un cadavere.» «Ti portiamo al fresco, Dominic», perseverò il capo. «Ci spiace interrompere la seratina che ti eri programmato con la tua amichetta, ma ti portiamo dentro.» «Sotto quale accusa?» «Per esserti spacciato illegalmente per un agente e per aggressione. La guardia di sicurezza che hai maltrattato a New York dice che ha tutte le intenzioni di darti una bella lezione. Anche il tenente Coleman è incazzato.» «Non ho mai sostenuto di fare ancora parte della polizia con Coleman.» «Siamo già in possesso di due capi d'accusa», ribadì il capo con evidente soddisfazione nella voce. «Ti tratteniamo in base a un'imputazione da parte di un altro stato finché sarà richiesta l'estradizione. I procedimenti burocratici richiederanno almeno una settimana di tempo. E per quel momento saremo riusciti a trovare le prove che ci servono relative ai due omicidi. Non vorrei dirlo, Dominic, ma avresti dovuto seguire i miei consigli. E questo vale anche per la tua amica.» «Non avete niente contro di lei. Non coinvolgetela.» Continuava a proteggerla. «Non posso risparmiarle le accuse di omicidio», insinuò il capo. «È arrivata da New York con la sua storia della madre che resuscita dalla tomba. Lo sai che cosa penso? Penso che sia stata tutta una copertura. In questo modo può sempre fare appello all'infermità mentale.» Dominic cercò di avventarsi sul capo ma Bednarek s'intromise bloccan-
dogli la strada. «Non peggiorare la situazione, Dom.» «Ma non capisci?» chiese il capo ignorando la rabbia che devastava il volto di Dominic. «Ti ha portato fino a New York e adesso quel tizio è morto. Ti ha riportato a Dickson e tu che cosa hai scoperto? Un altro cadavere. Per ora non ho intenzione di interrogarla a proposito di Brescia finché non si riesce a montare un'accusa. Ma quando tornerò a riprenderla, metteremo sicuramente tutto a verbale. Nessuna dichiarazione inammissibile.» «E che cosa mi dice a proposito delle tombe vuote di New York?» chiese Katherine. «Il tenente Coleman gliene ha parlato?» Il capo le sorrise. «Per quanto ne so io, lei già sapeva di quelle tombe fin da quando è arrivata a Dickson. Anzi, forse sono proprio state loro a suggerirle l'idea. Lei è professoressa di psicologia, se ben ricordo. Forse questa volta si è sopravvalutata.» Sembrava che avesse una risposta pronta per tutto. «E io che cosa dovrei fare? Aspettare di essere arrestata?» «Non può fare altrimenti, professoressa. Lei è testimone oculare di un caso in corso d'indagini. Se cerca di abbandonare la città, verrà arrestata. Potrei ottenere un ordine dal tribunale per costringerla a rimanere, ma questo richiederebbe un ulteriore procedimento burocratico. Credo che abbia afferrato il messaggio, o no?» «Potrebbe essere pericoloso farla restare da sola», lo ammonì Dominic. «C'è qualcuno che si diverte ad ammazzare la gente. Lei potrebbe essere la prossima.» «Vuoi ricominciare un'altra volta con le tue storie di fantasmi?» «Siamo appena venuti via da padre Ambrose», disse Katherine. «Forse dovrebbe parlare con lui se non vuole credere a noi.» Il capo scoppiò in una fragorosa risata. «Un altro degli amici di Dominic appassionato di cimiteri. Sono anni che tentano di convincerlo ad andare in pensione. È uno dei tanti che vede fantasmi a ogni angolo.» «Il minimo che può fare è ordinare a Bednarek di restare a sorvegliare la casa per questa notte.» «È l'unico agente in servizio. Se lo tolgo dalla pattuglia, mi tocca chiamare Panko o Babinsky. E non è certo l'ora più adatta. In ogni caso, che cosa c'è da sorvegliare?» «C'è qualcuno che si diverte ad andare in giro ad ammazzare la gente», ripeté Dominic. «È alle costole di Katherine.»
«Tu ci stai provando, Dominic», concluse il capo, «ma per come la penso io, sto per sbattere un uomo in galera e stasera non ci saranno altri problemi.» Notando il turbamento che indugiava sul viso di Dominic, Katherine gli si avvicinò e gli sfiorò il braccio, poi lo baciò sulla guancia. «Andrà tutto bene», lo rassicurò. «Sono solo poche ore. Per prima cosa, domattina, ti trovo un avvocato che ti faccia uscire di prigione.» Misero le manette ai polsi di Dominic e l'accompagnarono all'auto di pattuglia. Katherine restò a guardare dalla veranda. Prima di salire sul sedile posteriore, lui si voltò per lanciarle un'ultima occhiata. Katherine lo salutò con la mano, sentendosi stupida e immatura, ma desiderava solo regalargli un gesto d'affetto che potesse ricordarsi. Bednarek spinse Dominic nella macchina con una leggera pressione sulla testa. Katherine restò a guardare finché le luci blu rotanti non furono sparite oltre l'angolo. Si ritrovò da sola. Per la prima volta dall'incendio del bagno nel suo appartamento. Ciò che provò in quel momento era più che paura, più che una semplice sensazione di vulnerabilità, più che il solito sospetto di essere osservata. Era un incredibile senso di vuoto. L'unica persona che aveva dimostrato di preoccuparsi per lei se n'era andata. Un agente di polizia disturbato psicologicamente (perché continuava a pensarla in quei termini?), l'unica protezione di cui poteva godere, era stato portato lontano da lei. Ex agente, per colpa sua. Nel silenzio della casa si rese gradualmente conto che la solitudine era più forte della paura. Portò la sua valigia in camera da letto. La prima porta di fronte alla scala. Era una stanza in stile coloniale con tappezzeria a fiori e un gigantesco letto a due piazze con colonne di quercia che troneggiava nel centro. Il letto era sfatto, esattamente come era stato lasciato da Dominic quella mattina. Il piumone era rivoltato e il cuscino aveva ancora l'incavo dove era stata appoggiata la sua testa per tutta la notte. Su una sedia c'era la camicia bianca che aveva indossato il giorno prima. Dal pomolo della porta penzolava il pigiama e la stanza era impregnata del suo profumo. Un profumo penetrante e maschile. Katherine lo respirò profondamente gustandosi quel momento d'intimità.
Sapeva di aver invaso la sua privacy. Con tutta probabilità lei doveva dormire nella stanza accanto. Ma, una volta entrata, non era più capace di uscire. Là dentro si sentiva al sicuro, protetta dai simboli della virilità di Dominic come se fossero amuleti capaci di tenere alla larga chissà quali esseri maligni. In una cornice d'argento accanto al letto c'era una foto di Cara e Dominic di fronte alla casa. Era una fotografia in bianco e nero: Dominic era più robusto, più felice, con le guance che scoppiavano in un ampio sorriso. Indossava una camicia bianca senza cravatta, il colletto sbottonato, le maniche risvoltate e un paio di calzoni neri. Sorrise alla vista di quell'immagine ammuffita e fuori moda. Accanto a lui Cara appariva vulnerabile, quasi vergognosa, nel modo in cui si nascondeva fra le sue braccia. Persino a quei tempi era protettivo. Eddie aveva avuto ragione a proposito della bellezza di Cara. Capelli neri, pelle pallida, naso aquilino e una boccuccia a rosa sopra un mento perfetto. Istintivamente, Katherine si portò una mano sul viso. Cara era la classica bellezza italiana. Era chiaramente innamorata di Dominic. Si capiva persino guardando la fotografia. Era per come si sfioravano i corpi o per il modo in cui si sorridevamo? Ripulì la cornice d'argento e la ripose con delicatezza sul comodino. Sapeva di comportarsi in modo nevrotico, ma la combinazione della solitudine, mista alla paura, sopraffece le sue inibizioni. Inoltre desiderava disperatamente sentirsi vicino a Dominic. Appoggiò lo scapolare sulla cassettiera. Al posto della camicia da notte s'infilò il suo pigiama stropicciato e permeato dell'odore del suo corpo. Rabbrividì. Sarò nevrotica, pensò, ma sto sicuramente provando piacere. Dovette rimboccarsi le maniche e stringere la vita per muoversi più liberamente. Il letto era molto più spazioso di quello che aveva nel suo appartamento di New York. Era un letto a due piazze e Katherine cercò di immaginarsi come avrebbe reagito Dominic se fosse stato al suo fianco in quel momento. L'ultima cosa che vide prima di spegnere la luce, fu Dominic che le sorrideva dalla fotografia. Rispose a quel sorriso e si lasciò andare nell'impronta che aveva lasciato sul cuscino. Ma non riuscì a dormire. Appena la luce svanì, tornò la paura. Le tenebre frugarono tutte le sue piacevoli fantasie. Restò distesa con gli occhi spalancati. Riusciva a mala-
pena a distinguere il soffitto. Nel silenzio assoluto, tese le orecchie: il rumore della caldaia, gli orifizi dell'aria calda che si allargavano e si contraevano, un cane dal giardino accanto che abbaiava, tutto contribuiva a impedirle di dormire. Si aspettava che qualcosa apparisse nella stanza da un momento all'altro. La mente vagava dagli strani avvertimenti di padre Ambrose alle visioni agghiaccianti dell'ultima settimana: le scene al cimitero, i tavoli luccicanti dell'impresario funebre, la bocca di sua madre tesa nello sforzo di parlare. Lentamente, si convinse di percepire il puzzo di decomposizione anche nella stanza di Dominic. Ormai lo conosceva bene. Il fetore di putridume mescolato all'odore di zolfo. E qualcos'altro. Che cosa aveva detto padre Ambrose? Puzza d'incendio, ecco che cos'era. Iniziò debole e Katherine pensò fosse colpa solo della sua immaginazione. Ma poi divenne sempre più forte, rendendole difficile il respiro. Non si stava sbagliando. Quell'odore le riempì il naso, la bocca e i polmoni. Sentiva di dover vomitare, ma la paura era più forte della nausea. Si portò il lenzuolo alla bocca e restò ad aspettare. Era troppo terrorizzata per muoversi. Non poteva scappare. Non poteva far altro che aspettare che la porta della stanza si aprisse. Lentamente, con costanza, il pomello della porta iniziò a girare. La luce del corridoio illuminò il triangolo della porta aperta. Abituata all'oscurità, Katherine riuscì subito a distinguere la sagoma sulla soglia. La mamma. Era la mamma. Ferma sulla soglia con il suo lungo vestito funebre. «Katherine...» Il suo era un lamento d'aiuto. 13 Il tono di voce era forzato e cavernoso. Sembrava che provenisse da un punto al di là del suo viso. Esattamente come aveva descritto padre Amorose: sembrava arrivare da dietro una maschera. Attorno ai suoi piedi, appena visibile in controluce, sembrava che ci fosse una nuvola, una specie di nebbia, pronta a introdursi nella stanza. L'odore stava assumendo proporzioni grottesche.
Katherine piagnucolava per la paura e addentò il lenzuolo che si era portata alla bocca. La sagoma iniziò a muoversi all'interno della stanza con andatura rigida. La luce proveniente dall'esterno era sufficiente per riconoscere il viso che si stava parando di fronte a Katherine. Perché non aveva seguito il consiglio di padre Ambrose? Lo scapolare si trovava sulla cassettiera fuori portata e sua madre si stava avvicinando sempre di più. «Non farmi male», pregò Katherine con voce tremante. «Ti prego, non farmi male.» «Nessuno... può... aiutare...» Aveva ancora la voce affannata, come se ogni parola le costasse uno sforzo sovrumano. Ogni sillaba veniva accompagnata da sibili d'aria come se passassero attraverso cunicoli rimasti inutilizzati da tempo. Katherine si rannicchiò sotto il lenzuolo, nella speranza che potesse proteggeria. Si fece il segno della croce e cominciò a recitare preghiere che pensava di aver dimenticato da tempo. «Padre Nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo Nome, venga il Tuo Regno, sia fatta la Tua Volontà...» Cominciarono a sgorgarle lacrime dagli occhi mentre osservava atterrita la sagoma che si avvicinava sempre di più. La pelle pendeva squarciata sulla guancia, colpita da chissà quale oggetto. Non usciva nemmeno una goccia di sangue. Gli occhi erano grigi e opachi. Inanimati. Ciechi. «... come in cielo, così in terra. Dacci oggi il nostro...» «Le preghiere... non... servono...» «... pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri...» Una mano la sfiorò e lei si lasciò sfuggire un urlo. Quel braccio non si piegava e le dita erano rigide e distorte. Le preghiere non l'avevano fermata. Lo scapolare non l'aveva fermata. Nemmeno la benedizione di padre Ambrose l'aveva fermata. «Ti prego, mamma», piagnucolò. «Vattene!» «Non... posso...» Di nuovo quel respiro pesante. Alla debole luce della stanza, Katherine non riusciva a vedere le labbra muoversi. Il filo che le sporgeva dalla bocca scintillava minaccioso. «Non farmi male», gemette Katherine. Strisciò nel letto per allontanarsi il più possibile, dimenticandosi della
puzza a mano a mano che sua madre si avvicinava. «Nessuno... può... aiutare...» Le parole venivano pronunciate senza alcun collegamento. Era un suono angosciante. Ogni sillaba sembrava che venisse strappata da una gola inutilizzata e arrugginita. «... ma... tu... sì...» Katherine emise un gemito e iniziò a singhiozzare. Si appoggiò alla testata del letto, sempre avvolta nel lenzuolo, finché non ebbe più possibilità di movimento. «Voglio... tornare... indietro...» Katherine iniziò a tremare senza più alcun controllo. «... aiutami...» «Oh, mamma, ti prego, Signore, non può essere vero.» Katherine era sull'orlo di un attacco isterico. Voltò il viso verso la testata del letto e scoppiò a piangere. Non riusciva più a guardare quell'ammasso di carne decomposta. Nel frattempo la sagoma alle sue spalle si stava avvicinando. «Aiutami...» sussurrò la voce. «Certo, mamma, certo. Dimmi solo come.» Le parole le uscirono con fretta incontrollata. «Distruggilo...» «Sì, sì, lo farò», rispose Katherine bramosa di accettare tutto in quel momento di panico totale. «Il... denaro...» «Sì, il denaro.» «Distruggilo...» «Sì, certo, ho capito. Distruggerò il denaro.» Ormai Katherine singhiozzava apertamente, sempre con il viso sprofondato nella testata del letto, quasi stesse cercando il modo di fuggire attraverso la parete da quella creatura che non osava nemmeno più chiamare mamma. «Brucialo... il male... distruggilo...» «Sì, sì, i soldi fanno male, ma quali?» «Male... il papà... ha... lasciato... soldi cattivi...» «Sì, li brucerò, li distruggerò, farò qualsiasi cosa tu dica.» «Bruciali... nella... mia... fossa...» «Nella tua fossa, brucerò il denaro nella tua fossa.» «All'ora... della... mia... morte...»
Katherine continuò a piagnucolare. Avrebbe fatto di tutto, letteralmente di tutto per mettere fine a quell'incubo. «Allora... potrò... riposare...» Quelle furono le ultime parole che udì. Restò in ascolto, ma gli unici rumori della stanza erano i suoi singhiozzi tormentati. Restò rintanata contro la testata e pianse fino a esaurire le lacrime. Quando infine riaprì gli occhi, la sagoma se n'era andata. La porta della stanza era ancora aperta. Dal piano di sotto non provenivano rumori. Il cane del giardino accanto aveva smesso di abbaiare. Avvolta dal silenzio, Katherine si accorse della puzza che era rimasta. Sparita la paura, venne sopraffatta dal disgusto. Lo stomaco iniziò a rivoltarsi, la bile a risalirle lentamente nell'esofago. Nel vomitare, venne scossa da violenti conati. Vomitò una, due volte riempiendo le lenzuola del letto. Strisciò fuori dal disastro e si sdraiò sul pavimento nudo finché non sentì di aver recuperato le forze. Il silenzio divenne presto minaccioso. Il terrore la relegò in un angolo della stanza, stretta dietro la cassettiera. Si aspettava che la figura ricomparisse da un momento all'altro. Era in trappola. Era troppo terrorizzata per restare da sola in quella casa, ma non osava nemmeno avventurarsi fuori di notte. Non le restava altro che nascondersi. Aveva paura di muoversi, paura di uscire allo scoperto della luce del corridoio. Paura di quello che poteva attenderla ai piedi delle scale. A ogni minimo rumore sobbalzava. Ogni scricchiolio del legno assumeva le sembianze di un passo. Il vento all'esterno sembrava un respiro affannoso. Il rumore della caldaia era un lamento. Rannicchiata nel suo nascondiglio, la professoressa di psicologia sapeva bene quello che le stava succedendo. Iperansia, iperagitazione, ipersensibilità: erano i classici sintomi dell'isteria. Si sforzò di riprendere il controllo della mente, superando l'irrazionalità della paura. Se avesse permesso il sopraggiungere dei sintomi, il risultato sarebbe stato il collasso finale. Doveva concentrarsi su qualcos'altro. Doveva trovare il modo di sconvolgere il nucleo del sistema nervoso, distruggere le sue fissazioni, e tornare a una normale elaborazione di pensieri. Ma come? Come si può applicare una terapia su se stessi quando ci si accorge che la razionalità ti sta lentamente abbandonando?
Doveva sbrigarsi. Percepì il corpo che iniziava a scuotersi sotto l'effetto di disordini psicogenetici. Sapeva di non essere lontana dal crollo totale. Dolore. Dolore fisico. Era l'unico modo per riuscire a superare la burrasca della mente. Sollevò la manica del pigiama madido di sudore e tastò il braccio alla ricerca del punto più tenero e sensibile. Ne trovò uno sotto il gomito, nella parte interna del braccio, in cui la pelle è liscia e priva di peli. Alzò il braccio e se lo morsicò. La prima ondata di dolore non fu sufficiente. Dovette morsicare più a fondo perché il dolore si facesse largo fra i pensieri della mente. Morse forte fino a staccarsi la carne con i denti. Poi assaporò il sapore dolciastro e tiepido del suo stesso sangue. Si sentì avvolgere dalla fitta acuta e bruciante della morsicata. Lasciandosi andare contro il muro, gemette di dolore e si strizzò il braccio per bloccare il flusso di sangue. Ormai non pensava ad altro che alle pulsazioni del braccio. Il danno provocato ai tessuti si stava trasformando in impulsi nervosi che, attraverso i canali neurali, raggiunsero la corteccia cerebrale dove i segnali arrivavano con un'intensità tale da superare la capacità dell'ipotalamo, evitando così che il sistema limbico continuasse a generare iperemotività. Il dolore concesse tempo alla sua mente di rimettersi insieme. Ripreso il controllo delle funzioni cerebrali, si alzò e andò ad accendere la luce della stanza. Non c'era più niente da temere. Ormai provava solo dolore e vergogna. Il letto era devastato dai risultati del suo attacco di nausea. Sarebbe stato difficile spiegare tutto a Dominic. Premendosi il braccio ferito contro il corpo, tolse le lenzuola dal letto e le ammucchiò in un angolo. Lavorò con metodo. Si pulì il braccio e fece la doccia, sforzandosi di sopportare l'acqua fredda fino a tremare. Arrivò persino a domandarsi se tutti quegli choc fisici a cui si era forzatamente sottoposta sarebbero serviti davvero a qualcosa, o se fossero solo una dimostrazione di una strana forma di paranoia. Ma alla fine, si sentì rinfrancata. Non aveva mai avuto la mente tanto libera negli ultimi giorni. Sapeva con esattezza che cosa fare. Padre Ambrose non era d'accordo. «Non le servirà collaborare con il diavolo», commentò quando Katheri-
ne ebbe finito di spiegare ciò che aveva in mente. Il vecchio prete era circondato da una nuova pila di libri. Alcuni titoli erano in latino, altri in francese e altri ancora in lingue sconosciute. «Ho effettuato qualche ricerca dopo la sua chiamata», le annunciò. «Non sono riuscito a trovare nulla che indichi un interesse di Satana nei confronti di beni materiali: se ne serve sempre per tentare gli altri. Forse i soldi gli servono per qualche altro piano più macabro. Io suggerisco di lasciar perdere.» «Io voglio solo un posto sicuro dove poter dormire. Devo tornare a New York, domani. Non voglio mettermi in viaggio a quest'ora e affrontare le montagne al buio.» Padre Ambrose chiuse il libro e lo appoggiò sulla scrivania. Si sfregò gli occhi nel tentativo di spazzare via la stanchezza della notte trascorsa su vecchi libri e antichi idiomi. «Ma si rende conto di quello che ha in mente di fare?» le chiese senza nemmeno guardarla. «Delle conseguenze che potrebbe causare? Non si trova di fronte a una normale richiesta. In tutta la storia di ipotetici contatti di Satana con l'uomo, in tutti i libri dell'occulto non si è mai fatta menzione di una richiesta di denaro. Lui ha sempre offerto denaro, salute, bellezza e celebrità. Perché è venuto a chiederle qualcosa che sa produrre anche da sé?» «Lei diceva di avere una stanza da offrirmi, padre.» «Se obbedisce alla sua richiesta, se fa come lui ha chiesto, questo sarà il primo passo verso l'asservimento ai suoi poteri.» Sotto lo sguardo del prete, Katherine si agitò nervosamente. «È stata una lunga notte, padre.» «È così che agisce, sa? È tutto documentato, per quanto sia possibile documentare certe cose. Inizia con semplici richieste. In realtà sono solo tentativi, perché non può costringere subito l'uomo a obbedire ai suoi voleri. L'uomo deve accettare di compiere ogni azione di sua spontanea volontà. Ma una volta iniziato, è difficile fermarsi.» «Sono veramente stanchissima», ripeté lei. Padre Ambrose emise un sospiro e si alzò dalla sedia per chiamare a rapporto la governante. «Lei non mi crede, vero? Con tutti questi discorsi sui diavoli, penserà che sono solo un vecchio pazzo, esattamente come la maggior parte della gente.» «Voglio solo riposare un po', padre.»
Cercò di suonare il più gentile possibile, sforzandosi di non urtare la sensibilità del vecchio. «Lei non mi crede», ripeté lui con un sorriso. «Però c'è qualcosa, forse una vocina nel suo intimo che le ha detto che, venendo qui, sarebbe stata al sicuro.» «Non volevo restare in quella casa da sola. Pensavo fosse più sicuro stare con qualcuno. E lei è l'unica persona che conosco da queste parti. Ecco perché sono venuta qui.» Padre Amorose allungò le braccia ossute, prive di muscoli. «Mi guardi, Katherine. Ho ottantadue anni. Crede che potrei proteggerla? Ormai sono solo capace di leggere e di pregare.» «E allora preghi per me, padre, domani ne avrò bisogno.» Abbassò le spalle in segno di sconfitta. Poi sprofondò nuovamente nella sedia. «Forse non sono nemmeno più capace di pregare», sospirò. «Non riesco nemmeno a farle capire il pericolo che sta correndo.» Sulla soglia apparve la governante. Era troppo minuta per aiutare Katherine a trasportare la sua valigia. «Che cosa è successo a Dominic?» s'informò padre Ambrose. «Non verrà con lei?» «Non farebbe che cercare di fermarmi», rispose lei. «E ho paura che a lui darei ascolto.» «Ha intenzione di lasciarlo in prigione?» chiese il prete con tono di disapprovazione. «Dopo tutto quello che ha fatto per lei?» Katherine sollevò la valigia da terra. Non intendeva permettere a padre Ambrose di farle cambiare idea. «Finché resterà in prigione, starà al sicuro. Voglio mettere fine a tutta questa storia prima che lui si faccia del male.» «Si sta illudendo, Katherine. Il diavolo non si farà tappare la bocca tanto facilmente.» Katherine ebbe un'esitazione sulla porta, mentre la governante la stava aspettando nel corridoio. «Mi prometta che non dirà niente di tutto questo a Dominic», lo scongiurò. «Conosco Dominic dai tempi in cui faceva il chierichetto.» «Non le sto chiedendo di mentirgli. Le sto solo chiedendo di darmi tempo fino a domani sera prima di andare a raccontargli tutta la storia.» «Vorrei tanto poterle offrire protezione. Forse potrei accompagnarla.»
«Con tutto il rispetto, padre, la sua protezione non mi ha saputo aiutare nemmeno in casa di Dominic.» Riprese la valigia e si diresse fuori della stanza. «Forse sì», le rispose il prete alle spalle. «Dopo tutto è ancora viva.» Katherine si affrettò a seguire la governante su per le scale. Trascorse il resto della notte in una stanzetta vuota, a eccezione di una branda, una cassettiera e un crocefisso appeso alla parete. La stanza era rudemente illuminata da una semplice lampadina che penzolava dal soffitto. La finestra era un piccolo rettangolo di vetro alto sulla parete. Era troppo ridotta perché potesse penetrare qualcuno. Nella pace di quel luogo, Katherine riuscì ad addormentarsi profondamente per la prima volta dall'inizio delle apparizioni. Come una guardiana di tutto rispetto, la governante fece ritorno la mattina seguente, bussando alla porta finché Katherine non si decise ad aprirle. Si trattenne fuori del bagno in attesa che Katherine terminasse di fare la doccia e di asciugarsi i capelli. Osservò impassibile Katherine che si applicava la matita agli occhi, il fard e il rossetto. Infine, quando si fu vestita, l'accompagnò al piano di sotto per fare colazione. Era evidente che la donna era ben determinata a non permetterle di vagabondare da sola per i corridoi dell'ala dei preti. Al tavolo della colazione erano già seduti tre sacerdoti. Il più giovane alzò lo sguardo, sbalordito dalla sua presenza. Il più anziano, probabilmente il pastore, aggrottò le sopracciglia in segno di disapprovazione. Il terzo cercò di ignorarla. Si era preparata ad affrontare New York, non una colazione in compagnia di tre cupi preti. Ebbe un'esitazione all'entrata, più imbarazzata di loro. «Non c'è padre Ambrose?» Il prete più giovane rimise la risposta al pastore. «Non fa più colazione», rispose il vecchio. La sua voce aveva la tipica risonanza sepolcrale dell'uomo che passa la vita a pregare. Però non aveva l'aria di riuscire bene nei discorsi più quotidiani. La governante sistemò un piatto per Katherine insieme a un bicchiere di succo d'arancia e a una tazza di caffè. Katherine si accomodò in compagnia dei tre uomini vestiti di nero. Si sentiva fuori posto, come una donna vissuta vestita di rosso fra tre preti pallidi per colpa degli anni trascorsi nelle chiese e negli ospedali. «Dorme ancora?» «Non dorme più molto», rispose il pastore.
I preti facevano molta attenzione a non alzare lo sguardo dai propri piatti. «Ormai il suo posto dovrebbe essere in una casa di riposo, non nella canonica», aggiunse il giovane. «Sono anni che ripetono le stesse cose sul mio conto», esclamò padre Ambrose facendo il suo ingresso. Katherine si alzò per andare ad aiutare il vecchio prete che però declinò l'offerta. Automaticamente, la governante gli servì una tazza di caffè. «Di tutte le case di riposo che ho visto, le peggiori in assoluto sono quelle per i preti», commentò. «Basta guardare quanto è triste qua dentro. Perché dovrei andare in una casa di riposo dove ci sono solo preti vecchi come me?» Katherine gustò in silenzio le sue uova con pancetta, non intendendo farsi coinvolgere in quella che aveva tutta l'aria di essere una discussione di lunga data. «Non ho intenzione di morire su una sedia a rotelle», dichiarò padre Ambrose. «Sono come un vecchio cavallo. Voglio morire al galoppo. Oppure di fronte a un altare...» Fece una pausa per permettere al pastore di scuotere il capo in segno di disapprovazione. «... oppure svolgendo il compito del Signore per aiutare chi ha bisogno di me.» «Ormai è troppo vecchio per qualsiasi ruolo», commentò il pastore. «Perché non lo vuole ammettere? Non può fare altro che leggere e pregare. Lo dice anche lei. E questo lo può fare tanto qui quanto in una casa di riposo qualsiasi.» «Ma in questo modo abbandonerei tutte le persone che hanno bisogno di me.» Il pastore terminò di fare colazione e allungò il piatto vuoto alla governante. Poi si picchiettò dolcemente la bocca con un tovagliolo. «Qual è la gente che ha bisogno di lei?» domandò. «Lei si sopravvaluta, padre Ambrose. La parrocchia esisteva anche prima del suo arrivo e continuerà a esistere anche dopo la sua partenza.» «Questa è la differenza che c'è tra noi», asserì padre Ambrose. «A lei interessa la parrocchia, a me la gente.» Il pastore gettò sul tavolo il tovagliolo in un gesto d'irritazione. «E immagino che permettere a una donna di trascorrere la notte in canonica faccia parte del suo modo di interessarsi alla gente, vero?»
Katherine abbassò lo sguardo sul suo piatto, imbarazzata per la piega che aveva preso la conversazione. «È del tutto inappropriato che una donna sola rimanga nella canonica per la notte», disapprovò il pastore. La governante si era fermata vicino alla porta aperta della cucina ed era in grado di ascoltare i discorsi. «Ma non aveva nessun altro posto in cui andare», si giustificò padre Ambrose. «Questo non è un albergo», replicò il pastore. «Mette in cattiva luce la parrocchia», s'intromise il prete più giovane. «Esatto», rincarò il pastore. «Il vescovo non la prenderà molto bene.» Si alzò, seguito dagli altri due compagni di tavola che lasciarono la colazione a metà pur di attenersi all'esempio del loro pastore. Quando se ne furono andati, Katherine si scusò con padre Ambrose. «Non avrei dovuto venire qui», si rimproverò. «Sembra che sia una portatrice di guai, ovunque vada.» Il vecchio prete fece cenno di non voler sentire scuse. «Le apparenze, ecco quello di cui si occupano veramente», commentò. Scolò la tazza di caffè e l'allungò per farsela riempire nuovamente. Mantenendo un'espressione impassibile, la governante si avvicinò con il bricco del caffè rimasto, ma ignorò la tazza di Katherine. «Oggi i preti sono cambiati», riprese padre Ambrose. «Forse è perché sono cresciuti durante il Vietnam, non saprei, ma s'interessano più di politica o degli affari esteri, o della figura che ha fatto il vescovo in occasione della sua ultima apparizione televisiva.» Assunse un'espressione amareggiata e bevve il suo caffè. «Forse è più eccitante così che restarsene seduti in un buio confessionale per ore e ore ad ascoltare i problemi della gente. Non la chiamano più nemmeno confessione. Adesso è solo una "riconciliazione". Non hanno più voglia di parlare dei peccati, tantomeno del diavolo. Non sarebbero mai in grado di capire ciò che le sta succedendo, Katherine. Le consiglierebbero di andare a farsi visitare da uno psichiatra.» Si lasciò sfuggire un lungo sospiro. Alla luce del giorno, con le spalle ormai cascanti, appariva fragile e sfinito. «Ridono dei libri che leggo», aggiunse. «Per loro, il diavolo è un concetto teologico, qualcosa di cui discutere in astratto. Ma io ho trascorso la mia vita a lottare contro Satana e i suoi atti malvagi. Darei qualsiasi cosa per confrontarmi con lui prima di morire. Qualsiasi cosa.»
La voce del vecchio divenne più roca. Con quella poca forza che gli era rimasta nei muscoli, strinse la mano di Katherine. Da sotto le folte ciglia bianche, gli occhi scuri iniziarono a luccicare. «Io voglio aiutarla, Katherine. Voglio aiutarla a vendicarsi di Satana. Arriverà il momento in cui anche lei avrà bisogno di me. Il momento in cui penserà di aver perduto ogni speranza. Non si arrenda.» La stava guardando intensamente; sembrava fissare un punto indefinito della sua mente, come se volesse costringerla a ricordare le sue parole. «E quando arriverà quel momento, dovrà chiamarmi. Per quanto impossibile le può sembrare, io sarò al suo fianco. Le dò la mia parola di prete. Ovunque sia, io la sentirò.» Stordita da tanta veemenza, Katherine respirò profondamente prima di parlare. Mise una mano sulla sua e disse: «Lo farò, padre. Prometto che lo farò». Dalla canonica telefonò alla City Trust. Per evitare che il pastore avesse altri motivi per muovere critiche contro padre Amorose, fece una chiamata a carico del destinatario. Herman Braithwaite si scandalizzò. «Non può liquidare un fondo fiduciario di queste proporzioni senza preavviso», le disse con il suo accento di Boston. «Deve firmare alcuni moduli, ci sono le formalità da seguire. E poi ci sono le restrizioni.» «Ogni restrizione è venuta a cadere il giorno del mio ventottesimo compleanno, Herman. Lo sa bene anche lei.» «Anche se sta parlando sul serio, una normale liquidazione di un patrimonio richiede sempre un certo periodo di tempo. Per massimizzare la resa, non si ributtano mai i titoli sul mercato nel giro di poco tempo. Bisogna aspettare.» «Voglio vendere tutto e convertire in contanti.» «Già le conseguenze fiscali sono sproporzionate. Suo padre ha costituito il fondo fiduciario in un'epoca in cui il mercato azionario era molto più basso di quello odierno. Solo le azioni IBM sono passate da ventidue a trentacinque punti e rendono il doppio. Devo insistere affinché parli con il suo consulente fiscale.» «Andranno bene banconote da cento dollari.» Braithwaite iniziò a parlare più freneticamente assumendo un tono difensivo. «Credo di avere fatto bene i suoi interessi gestendo il suo patrimonio,
Katherine. Il tasso di resa annuo ha una media di...» Fece una pausa durante la quale Katherine udì il ticchettio di una tastiera di computer. «... negli ultimi cinque anni, ha raggiunto una media del ventisei per cento, cinque punti in più dell'aumento annuo medio di Dow Jones e sette punti in più di Standard and Poor's. Non riuscirà mai a superare questo rendimento presso nessuna società fiduciaria. Siamo una delle società finanziarie più ad alto livello.» «Non deve giustificarsi, Herman, non intendo spostare i fondi in un'altra società. E comunque, per fare questo, non avrei bisogno dei contanti.» «E allora, perché ha bisogno di tutti questi soldi? Sarei un irresponsabile se non la consigliassi di non avere tutta questa fretta. Un terzo circa del suo fondo è investito in buoni municipali per godere di benefici fiscali. Con i tassi d'interesse che hanno raggiunto, i buoni vengono venduti sotto costo. Subirà perdite gigantesche se li vende in questo momento.» «Sarò nel suo ufficio fra due ore circa. E avrò bisogno dei contanti.» «Anche nell'ipotesi che si possa chiudere tutto, è praticamente impossibile convertire l'intero patrimonio in contanti. Il tempo di liquidazione delle transazioni azionarie, richiede cinque giorni lavorativi. Questo significa che i soldi non saranno a sua disposizione che dopo una settimana dalla vendita delle azioni.» «È troppo tardi. Ho bisogno dei soldi oggi.» «Mi dispiace, Katherine. Avrebbe dovuto avvertirci con maggior anticipo e forse sarebbe stato possibile organizzare qualcosa. Che ne dice di passare di qui comunque a discuterne di persona?» «Lei non capisce, Herman. È di fondamentale importanza che io abbia quei soldi in giornata. Ne va della mia vita.» «Si sente bene, Katherine? Ha una voce strana. Da dove sta chiamando?» «Dalla Pennsylvania. Non posso spiegarle niente, ma devo avere quei soldi oggi stesso.» «Se si trova nei pasticci, potrebbe rivolgersi alla polizia. Intendo dire, se è tanto grave... be', francamente, io nutrirei qualche sospetto davanti a qualsiasi tipo d'affare che deve essere concluso in contanti.» «Sono stata alla polizia», rispose lei in tono di preghiera. «Non possono fare niente. Ho bisogno di quei soldi, Herman.» «Lei sa di quanti soldi stiamo parlando? Si rende conto che nel corso di questa conversazione non ha mai chiesto una sola volta il valore totale del
fondo fiduciario?» «Non m'interessa. Insomma, be', sì, m'interessa. Ma io voglio solo i soldi che mi ha lasciato in eredità mio padre, qualsiasi sia il loro valore odierno.» «Stiamo parlando di 2.831.542 dollari al valore attuale.» La cifra l'ammutolì. «Cosa?» domandò debolmente. «Già. Il tasso di crescita è stato del ventisei per cento negli ultimi cinque anni. Naturalmente, ci sono stati anni in cui abbiamo subito qualche perdita, ma era il periodo della recessione, durante il quale ogni investimento perdeva di valore.» «Non sapevo che fosse così tanto.» «Be', tanto per cominciare non se n'era mai interessata. Sarebbero anche di più, se non le spedissimo gli assegni degli interessi e se non avessimo attinto dal capitale per pagare la BMW e l'appartamento di New York. A proposito, come va la macchina? Questo è il primo viaggio lungo che fa.» «Be', in realtà ho già avuto un piccolo incidente.» «Davvero?» «Niente di preoccupante», si affrettò ad aggiungere, non intendendo sollevare ulteriori sospetti. «Se ne occuperà l'assicurazione.» «Non è rimasta ferita, voglio sperare.» «No, non è niente di grave.» «Bene, bene.» «Tornando ai soldi, Herman...» «Ci sono dei problemi nel raccogliere tanti contanti in un così breve lasso di tempo, Katherine. Però ho pensato a qualcosa.» Aveva perso il tono difensivo di prima. Riprese a calcolare. Katherine attese di udire la proposta. «Quanto ho detto è tutto vero», riprese. «Insomma, non riusciremo mai a convertire tutto il patrimonio in contanti in meno di tre giorni di tempo. È così che vanno le cose. Naturalmente, dando per scontata la perdita sui buoni municipali. Liquidando oggi... vediamo che cosa dice il computer... ridurremmo il netto di circa quarantaduemila dollari, limitando il valore finale a duemilionisettecentonovantamila. Naturalmente c'è da tener conto delle commissioni...» Naturalmente, pensò Katherine. «Non è un modo molto ortodosso di liquidare un fondo, ma voglio tener conto del fatto che abbiamo gestito il suo conto per diversi anni e che suo padre è stato un cliente importante...»
Questo significa che avete guadagnato tanti bei soldini per diversi anni, pensò Katherine. «E, come dice lei, se non intende trasferire i fondi in un'altra società finanziaria... è la verità, no?» «Certo che è la verità.» «Bene, allora, tutto sommato, credo di avere una soluzione che possa risolvere il suo bisogno immediato di contanti. Potremmo fornirle un prestito ponte, garantito dal patrimonio, con gli interessi scontati in anticipo. Calcoleremo gli interessi per una settimana e li dedurremo dall'importo totale. È molto semplice e lei potrà avere i soldi oggi stesso.» Non potrebbe mai lasciarmi andare via senza dare un'ultima rosicchiata al fondo, considerò Katherine. «Perché vuole caricare gli interessi di una settimana?» domandò. «Ha detto che la liquidazione può essere effettuata in tre giorni.» «Tecnicamente basterebbero tre giorni, ma in genere i fondi vengono sempre ritardati per un motivo o l'altro, poi bisogna tener conto della valuta degli assegni. Dal momento che lei intende chiudere il conto, dobbiamo cercare di proteggerci ipotizzando l'eventualità peggiore. Se la liquidazione viene effettuata in tre giorni, le accrediteremo il conguaglio. Non credo debba preoccuparsi per questo.» «E qual è il tasso d'interesse?» Sapeva di non avere molte possibilità. Era solo curiosa di sapere fino a che punto intendevano guadagnare sulle sue spalle. «Date le circostanze, direi che il ventidue per cento va bene, no?» «Non sono nella posizione di mettermi a discutere, giusto?» «Naturalmente, ci sarà anche una piccola parcella speciale perché dovremo spedire tutti i documenti.» «Naturalmente.» «Del resto lei vuole i contanti oggi. Se non fosse per questo, non ci sarebbero tutte queste spese.» Riusciva quasi a vedere il suo sorriso dall'altro capo del filo. Sorrideva alle cifre che comparivano sul terminale video del computer. Be', che importanza aveva? Alle quattro e trentadue i soldi sarebbero andati distrutti comunque. All'ora della morte di sua madre. In effetti, non le restava molto tempo. Due ore per andare a New York, due ore per tornare e un'altra ora per districarsi nel traffico della città. Le restavano solo altre due ore per firmare tutti i documenti e sbrigare il resto delle commissioni che aveva programmato.
Per esempio, passare da casa sua e convincere la guardia di sicurezza a ritirare le accuse contro Dominic. «Perché dovrei?» sbottò la guardia. Prese la sua richiesta come un insulto. Katherine si era fermata al suo palazzo prima di recarsi alla società finanziaria. La guardia di sicurezza lanciò lo sguardo oltre le vetrate in direzione della Riviera che aveva parcheggiato di fronte all'ingresso. Quando si fu assicurato definitivamente che Dominic non la stava aspettando all'esterno, tornò a occuparsi di lei. «È arrivato come una furia e mi ha maltrattato. Non intendo accettare un simile comportamento da nessuno. Non gliel'avrei mai fatta passare liscia se non si fosse presentato come agente di polizia. È stato questo a trattenermi.» «Che ne dice di lasciar perdere tutto?» propose lei. «Dopotutto non le ha fatto male.» «Non dovrebbero permettere a un tipo come quello di girare per le strade. Il capo della polizia che ha parlato con me mi ha detto che il suo amico si trovava già nei guai senza bisogno delle mie accuse. Ha parlato di un omicidio in Pennsylvania.» Capì subito che non avrebbe ottenuto molto di quel passo. «Quanto vuole?» offrì. «Che cosa intende dire?» «Non mi sembra un tipo vendicativo», gli disse nel tentativo di adularlo. «Lei cerca solo un po' di soddisfazione, o mi sbaglio?» «Sì, esatto. Soddisfazione.» Aveva l'aria di godersi quella parola. «Un modo per ottenere soddisfazione è vederlo in galera», continuò lei, «e questa l'ha già avuta. Un altro modo è essere pagato per il disturbo.» «Sta cercando di corrompermi?» «Sto solo cercando di farle ottenere un po' di soddisfazione», rispose lei. «Cinquecento dollari basterebbero a soddisfarla?» La guardò con improvviso interesse. «I soldi sono suoi oppure glieli ha dati lui?» «Non ha importanza», rispose lei. «Posso arrivare anche a mille, ma lei deve chiamare la Pennsylvania per dichiarare di voler ritirare l'accusa.» Sul viso della guardia si aprì un sorriso luminoso. «Lei mi pagherebbe per una semplice telefonata?» «È molto importante per me.»
«Le deve piacere davvero quel ragazzo per arrivare a offrire tanti soldi.» «È un grande amico. Sta cercando di aiutarmi.» La guardia di sicurezza inclinò leggermente la testa e la studiò attentamente. «Credo che sia ben più che un amico. Per un tipo come quello, posso capire che una donna perda la testa. È il classico macho a cui piace mettere in mostra la propria forza fisica.» «La prego», l'interruppe. «Ritirerà le sue accuse?» La guardia scrollò le spalle. «Al diavolo, perché no? Come dice lei, ho già ottenuto quello che desideravo. L'hanno portato al fresco e lui sa che è per colpa mia. Gli dica solo di non farsi più vedere da queste parti.» Katherine prese il libretto degli assegni. «Ehi, aspetti un minuto», la fermò la guardia di sicurezza. La voce si era fatta improvvisamente sospettosa. «Che cosa crede di fare? Sta cercando di incastrarmi, vero?» Katherine alzò lo sguardo. «Pensavo che ci fossimo messi d'accordo.» «Non mi sono messo d'accordo su nessun assegno. Sta cercando di tirarmi un brutto scherzo. Mi vuole far incassare l'assegno, poi informerà la polizia che sono stato io a estorcerle il denaro. Figuriamoci. Non voglio assegni. Solo contanti. Punto e basta. Fine della discussione.» «Non ho tutti questi contanti con me. Ma posso andarli a prendere. Tornerò fra un'ora.» «L'aspetterò.» «Un'ultima cosa», aggiunse lei. «Per il momento non voglio che faccia quella chiamata.» «Figuriamoci se telefono prima di aver incassato i soldi.» «Bene. Perché non voglio che lei ritiri le accuse fino a domattina. Prima devo sbrigare un paio di cosette.» «Vada a procurarsi i contanti e poi definiremo i dettagli.» In banca dovette firmare un modulo per il prestito ponte prima ancora che Herman le facesse vedere il denaro. «È ancora nei sotterranei», spiegò. «Non ci sentiamo sicuri a tenere in cassa una cifra del genere.» La stanza in cui l'avevano fatta accomodare aveva il soffitto alto, pannelli di legno scuro alle pareti ed era arredata con una decina di scrivanie di gusto classico, ognuna delle quali occupata da un impiegato vestito nello stesso stile conservatore di Herman. Nonostante fossero tutti vicepresidenti, secondo le targhette sulle rispettive scrivanie, nessuno aveva un ufficio
privato. Sulla stanza si affacciavano gli uffici per i clienti, in cui i vicepresidenti potevano discutere di affari privati finanziari con i beneficiari dei fondi. Herman l'accompagnò in uno dei piccoli uffici in cui erano già stati disposti i documenti: i soliti formulari che piacciono tanto alle banche, già compilati con il suo nome e la data. Ad alcuni dei documenti erano stati vistosamente depennati interi paragrafi. Ad altri ne erano stati aggiunti di supplementari. Il primo documento era lo scioglimento del fondo, che dovette sottoscrivere in due punti diversi su tre copie separate. Il secondo documento era l'autorizzazione a liquidare il patrimonio "sul mercato". «In situazioni normali non sarebbe necessario firmare questo», spiegò Herman. «In genere, richiediamo solo un'autorizzazione verbale. Ma in considerazione della perdita che subirà vendendo i buoni municipali e le altre azioni, hanno voluto che tutto fosse effettuato nel modo più ufficiale possibile.» «Capisco», rispose lei. Aveva un'aria deliziata quando la vide firmare senza ulteriori commenti. Deliziato ma sbalordito. «Non ha domande?» «Nessuna», rispose. «Quando posso avere i contanti?» Controllò le firme e sistemò i documenti in sequenza in una cartelletta blu. «Dopo ventotto anni qualche minuto non dovrebbe fare molta differenza», le rispose con un sorriso. Con tutta probabilità credeva di essere simpatico, ma Katherine cominciava a disprezzare i suoi modi di fare. «Ho un appuntamento in Pennsylvania alle quattro e mezzo», ribatté lei. «E ho davanti un viaggio di due ore.» «Abbia pazienza», la esortò. «Tutto deve essere effettuato correttamente, per la sicurezza di entrambi.» Aprì altri due formulari. Il primo era la fotocopia di una dichiarazione dattiloscritta. «Ha parlato con il suo consulente fiscale?» le chiese. «Sì», mentì lei, volendo evitare ulteriori ritardi. Diede un'occhiata all'orologio. Era già l'una e mezzo. «Allora le avrà già spiegato che sarà soggetta a una tassazione sul dena-
ro che sta distogliendo dal fondo.» Katherine annuì in silenzio. «Questa dichiarazione dice che l'abbiamo avvertita delle conseguenze fiscali, che si è consultata con un esperto e che ci solleva da ogni responsabilità.» Katherine firmò nel punto contrassegnato. «L'ultimo documento è l'atto di rinuncia. Senza questa firma dovremmo dedurre un ulteriore venti per cento al capitale e inoltrarlo alle imposte interne.» Firmò anche l'ultimo documento e glielo restituì. Sempre molto attento, controllò la firma prima di rimettere il pezzo di carta insieme con gli altri. Passò la cartelletta a una segretaria e le ordinò di avvertire i sotterranei. «Sono impaziente quanto lei», le disse con un sorriso. «A dire la verità non ho mai visto tanti soldi in contanti. Dico davvero. In genere io ho solo a che fare con i numeri sul computer. Dalla mia scrivania passano nove, dieci milioni al giorno, ma io vedo solo le cifre. Si finisce con il dimenticare che quelli sono soldi veri.» Dal momento che Katherine non parlava, sprofondò in un imbarazzato silenzio che durò fino all'arrivo di un funzionario magro accompagnato da due guardie. L'ometto smilzo ignorò Herman. Scrutò Katherine da dietro un paio di occhiali spessi come fondi di bottiglia che gli ingrandivano gli occhi a dismisura. «La signorina Katherine Roshak?» chiese. Percepì il bisogno di alzarsi per affrontare l'incontro ufficiale. «Sono io.» Lui depose sul tavolo un'enorme Samsonite marrone. Dopo aver fatto scattare le serrature laterali, sollevò il coperchio. All'interno tre file di banconote da cento dollari facevano bella mostra di sé, ognuna composta da dodici mucchi individuali. «Duemilionisettecentododicimilaottocentonovantadue dollari, come da lei richiesto.» Era incredibile. Aveva persino paura di toccarli, terrorizzata che le guardie potessero farsi avanti per fermarla. Sembrava una scena tratta dal telegiornale delle dieci, dove si vedono sempre retate della polizia negli ambienti della droga e valigie stracolme di bigliettoni. Braithwaite aveva ragione. Fino a quel momento, con tutte le
formalità, non avevano visto altro che numeri. Che significato potevano avere un paio di decimali in più qui e qualche virgola in meno là? Quella era tutta un'altra cosa. Quelli erano contanti. File interminabili di ritratti di Benjamin Franklin la stavano fissando dall'interno della valigia. Si percepiva addirittura il profumo dell'inchiostro. Quella era l'eredità di suo padre. I soldi che le avrebbero assicurato l'indipendenza finanziaria per il resto della vita. Viaggi. Vestiti. Una villa in campagna. Sicurezza. «Non so perché, ma pensavo che sarebbero stati di più», commentò Braithwaite quando si riprese dallo choc. «Mi sarei aspettato qualcosa di più voluminoso. È tutto qui?» «Se vuole qualcosa di più vistoso, si può costruire una torre piuttosto alta mettendo una mazzetta sopra l'altra», ribatté l'omuncolo. «Sono stati contati tre volte. Due volte dalla Zecca ufficiale. Non è facile riunire tante banconote da cento dollari in così breve tempo.» Afferrò una mazzetta di banconote. Un elastico teneva unite le banconote avvolte in una fascetta di carta. «Ogni mazzetta contiene diecimila dollari in biglietti da cento. Ce ne sono dieci per ogni mucchio e le file sono composte da nove mucchi. Le file sono tre più una parzialmente riempita. Resterò ad aspettare mentre le controlla.» «Va bene così», rispose Katherine. «Le credo sulla parola.» Dietro i fondi di bottiglia, gli occhi dell'omuncolo mostrarono sorpresa. Ma si riprese immediatamente. «È lei che deve decidere. Per noi è sufficiente che firmi la ricevuta.» Un altro modulo. Le due guardie la scortarono fino al parcheggio dall'altra parte della strada. Restarono con lei finché il denaro non venne chiuso a chiave nel baule, fra gli attrezzi sparpagliati di Dominic, i cavi per l'alimentazione della batteria e la ruota di scorta. Passò da casa per pagare la guardia di sicurezza con bigliettoni freschi da cento dollari e si fece promettere di chiamare in Pennsylvania il mattino seguente. Quando finalmente tornò a Dickson, erano quasi le quattro. Dominic balzò dalla brandina quando Bednarek la fece entrare nei sotterranei. Ebbe un momento d'esitazione quando si accorse che non era accompagnata. «Che cos'è successo all'avvocato che avresti dovuto procurarmi?» le chiese.
«Qui starai più al sicuro», rispose lei. «Non sono io quello che deve preoccuparsi.» «Lo so. Ma hai già fatto anche troppo. È ora che faccia la mia parte.» Lui infilò le braccia tra le sbarre. Katherine si avvicinò e gli toccò le mani. Dalla porta aperta Bednarek li stava osservando. «Katherine, non ce la farai mai da sola», si preoccupò. «Sono state coinvolte anche troppe persone» fu la sua risposta. Avrebbe voluto che l'attirasse contro le sbarre, che la stringesse forte contro il metallo per farle sentire tutta la sua forza. Ne avrebbe avuto bisogno in quel momento. Ma, come al solito, aveva paura di ammetterlo. Anzi, mantenne un tono di voce freddo e razionale. «Io vado a trovare mia madre», gli annunciò. «Katherine...» Era visibilmente angosciato e strinse la presa su di lei. «Non farlo.» «Ormai so cosa vuole, Dominic. Le ho parlato ieri notte.» «Stai commettendo un errore.» «Intendo sistemare la faccenda, così poi potrà riposare in pace.» «Katherine...» Il suo era un tono di supplica. «Quella non può essere tua madre.» «Abbiamo già discusso di questo. Solo mia madre potrebbe sapere certe cose. È lei. E adesso voglio sapere che cosa vuole da me.» «Katherine... ti stanno usando. Ancora non so bene come, ma ti stanno usando. È tutto un imbroglio. Deve essere tutto un imbroglio.» Decise di non raccontargli dei soldi. Avrebbe soltanto complicato le cose e lei aveva fretta di andarsene. «Andrà tutto bene», lo rassicurò. «Ho sistemato tutto perché le accuse contro di te vengano ritirate.» «Non voglio che ti faccia del male...» mormorò lui. «Quando verrai rilasciato sarà tutto finito», lo tranquillizzò lei. «Non voglio perdere anche te...» In quel preciso istante si sarebbe volentieri gettata al collo di Dominic, nonostante la presenza di Bednarek. Quell'uomo si trovava in prigione eppure continuava a pensare a lei. Aveva bisogno di lei tanto quanto lei aveva bisogno di lui. Ma quello non era il momento più adatto per lasciarsi andare ai romanticismi. Si allontanò. Aveva bisogno di essere forte per affrontare sua madre. E doveva essere
sola. Ormai poteva succederle di tutto, ma Dominic sarebbe stato al sicuro e la sua sicurezza era ciò che veramente le importava in quel momento. Avrebbe voluto dirglielo, ma non le venivano le parole. Dopo tutti quegli anni di rifiuto davanti alla morte di sua madre, si era costruita un muro interno che le impediva di esternare le sue emozioni. Le tremava la mascella, tanto era lo sforzo di proferire parola e di trattenere le lacrime. Si voltò terrorizzata di scoprirsi troppo, terrorizzata che le potesse dire qualcosa capace di fermarla per sempre. «Katherine...» la chiamò mentre si stava allontanando. Bednarek si spostò per permetterle di uscire dalla porta. «Katherine!» Bednarek richiuse la porta e tagliò fuori le sue urla. Si precipitò alla Riviera. Accecata dalle lacrime, rischiò di scontrarsi con un'altra auto mentre faceva retromarcia. Erano quasi le quattro e un quarto. Sua madre era morta alle quattro e trentadue. Sfrecciò attraverso la città, asciugandosi le lacrime dagli occhi. Oltrepassò il Valley Inn con l'entrata decorata da una corona funebre. Oltrepassò la chiesa dell'Apparizione di Maria e imboccò la salita che conduceva al cimitero. Entrando dai cancelli in ferro battuto rallentò. Il cimitero aveva tutta l'aria di essere deserto, come era sempre successo anche in occasione delle visite precedenti. Se qualcuno si recava dai propri morti, non lo faceva mai al calare della sera. Posteggiò l'auto lungo il vialetto lastricato, dietro la Pietà. Ormai conosceva bene quel paesaggio desolato. Le pietre tombali bianche, le lastre di marmo nero, le file di lapidi che seguivano l'andamento collinoso del terreno e che l'avrebbero condotta alla tomba di sua madre. La prima volta aveva lasciato l'auto in moto e la portiera spalancata. Sembrava che fosse passato tanto tempo. Come se fosse successo tutto a un'altra persona. Dal baule prese la Samsonite marrone. I due milioni di dollari raggruppati in strette mazzette la rendevano pesante come una valigia stipata di libri. Ancora una volta si accorse di avere indosso le scarpe sbagliate per un cimitero. Appena lasciò la striscia lastricata per imboccare il prato d'erba ormai marcia, cominciò a sprofondare con i tacchi. Per non parlare del peso della valigia che le rendeva doppiamente difficile il cammino. Ogni passo era un enorme sforzo. Dovette procedere molto lentamente fra le
tombe. Stava in allerta, pronta a captare ogni movimento. Ma le migliaia di lapidi costituivano un ottimo nascondiglio per chiunque. Annusò l'aria, ma l'unico odore percepibile era quello dei boschi circostanti che stavano perdendo le foglie. Controllò l'orologio. Erano le quattro e trentadue. L'ora della morte di sua madre. Quella era la dimostrazione finale che Dominic aveva avuto torto. Non poteva essere un imbroglio, perché il certificato di morte non aveva specificato l'ora esatta del decesso. Quella era semplicemente stata la deduzione di Katherine quando, al funerale di sua madre, le avevano restituito l'orologio rotto. Il vetrino si era rotto per l'impatto contro il pavimento quando sua madre era caduta per terra. Nemmeno la polizia se n'era accorta. L'ora della morte era un dettaglio che solo Katherine poteva sapere. E sua madre. Raggiunse l'ultima fila di tombe e si trovò di fronte a un mucchio di terra fresca che la stava aspettando. Si fermò per un istante e si sentì attraversare da un'ondata di paura. La tomba era stata riempita. Aveva avuto modo di constatarlo di persona quella sera insieme a Dominic. Ma adesso era aperta. Si guardò attorno. Nessuno in vista. L'unico rumore che si udiva era il battito del suo stesso cuore. Niente scoiattoli. Niente uccellini. Nemmeno il fruscio di una foglia smossa dal vento. Era un silenzio innaturale, come se persino la terra stesse trattenendo il respiro nell'attesa. Sempre più lentamente, si apprestò in direzione della tomba riaperta. A ogni passo l'apertura era sempre più visibile. Una fossa buia e silenziosa accanto al cumulo di terra. Ogni singola cellula del suo corpo avrebbe preferito fermarsi, voltare le spalle e correre il più velocemente possibile verso la macchina. La solita reazione: o combatti o scappi. Ma non si sarebbe fatta sopraffare questa volta. Cominciava a vedere anche l'interno della fossa. Riusci a distinguere la sagoma di una bara. Era ancora aperta? E che cosa ci sarebbe stato dentro? Dimenticando la paura, giunse sull'orlo della fossa e cercò di capire che
cosa fosse la strana sporgenza sulla bara. Dalla fossa risaliva un odore ormai familiare. Non era forte come ricordava, ed era mescolato a qualcos'altro. A un sentore dolciastro. Ricordava di aver già sentito quell'odore nella sala per l'imbalsamazione. Improvvisamente l'aria si fece più fredda. Talmente fredda che le congelò la pelle. Cercò di respirare, ma i polmoni avevano tutta l'aria di non voler funzionare. Si sentì bloccare il flusso sanguigno al cervello. Iniziò a oscillare sull'orlo della fossa, mentre la mente si rifiutava di accettare ciò che stava vedendo. Nella bara, nera per il processo di decomposizione, la stava aspettando sua madre. Era vestita solo in parte, più piccola e più magra di come se la ricordava. Piccola e vulnerabile. E completamente immobile. Katherine lasciò cadere a terra la valigia e cercò di capire la scena che le si presentava. Dalla fronte annerita di sua madre sbucavano peli grigi. Le guance erano infossate. Le labbra si erano scostate, rivelando i denti in un macabro ghigno. Fra l'erba si mosse qualcosa: spinta alle spalle, Katherine cadde nella fossa aperta. Cadde su sua madre. Il corpo disteso nella bara emise uno scricchiolio attutito sotto il suo peso. Le ossa ormai vecchie si stavano spezzando. Il rivestimento della bara servì da cuscino, ma Katherine sbatté la testa e rimase leggermente intontita. Fu vagamente cosciente dell'improvvisa oscurità. Il coperchio della bara era stato richiuso. Si sentì scivolare fra i meandri dell'incoscienza totale. Cercò di lottare, di mantenersi sveglia, ma il colpo che aveva ricevuto alla testa le aveva indebolito le forze. L'ultimo rumore che ricordò fu un suono simile alla grandine che batteva contro il coperchio della bara. Ancora. E ancora. Ma non era grandine, si accorse in un ultimo barlume di razionalità. Era terra che urtava contro la bara. La fossa stava per essere richiusa.
14 Non era possibile sapere per quanto tempo era rimasta svenuta. Al suo risveglio, si ritrovò avvolta dall'oscurità. Le narici le bruciavano per l'aria viziata. Sopra di lei, regnava il silenzio. Il rumore delle badilate si era fermato. Oppure lo strato di terreno era così spesso da attutire il rumore di terra che veniva gettato in superficie. Non poteva credere di essere rimasta intrappolata in una bara sottoterra. Sicuramente stava sognando. Si sarebbe risvegliata in una stanza scura e priva d'aria, ma certamente non in una bara, cercò di convincersi. Aveva paura di muoversi. Temeva che il minimo movimento la costringesse a toccare qualche oggetto capace di confermare ciò che la sua mente stava invece cercando di negare. L'aria stava diventando pesante. Respirare le risultava sempre più difficoltoso. Cominciava a dolerle anche la schiena a causa di qualcosa che le toglieva spazio vitale. Sicuramente si trattava di una coperta che le si era arrotolata addosso durante il sonno. Quando infine si mosse, sentì un osso che premeva contro le sue costole. Una coperta? Andiamo, Katherine, ammettilo. Non puoi più negare la realtà. È la mamma. Ed è morta. Morta sepolta, in stato di decomposizione, piena di formaldeide, con la carne che si stacca dalle ossa e che si trova nella bara con te. Non c'è più modo di uscire. Oh Dominic, padre Ambrose, Signore Iddio, aiutatemi, aiutatemi... «Aiuto!» urlò. «Aiuto! Aiuto! Aiuto!» Il suono della sua voce le rimbombò nelle orecchie, incapace di penetrare la bara di metallo e lo spesso strato di terra che la ricopriva. Picchiò contro il coperchio. Si graffiò i gomiti contro le ossa di sua madre sotto di lei. Nella bara non c'era molto spazio per muoversi. Cercò di sollevare il coperchio, ma non fece che premere sempre di più contro il corpo in decomposizione. Iniziò a piagnucolare. Grattò contro l'imbottitura della bara. Strappò il rivestimento di seta e tirò con forza l'ovatta che le cadde sul viso e in bocca. Sentì le unghie rompersi mentre strappava l'ultimo strato d'imbottitura e toccava il coperchio di metallo.
Pianse, urlò e graffiò finché sentì il calore del sangue che le colava sulle dita. Diventava sempre più difficile respirare. Batté con forza contro il metallo, rendendosi comunque conto dell'inutilità di ogni sua mossa. Picchiò, urlò e pianse finché il respiro divenne così affannoso da impedirle ogni ulteriore spreco di energia. Ecco come sarebbe finita, pensò. Avrebbe cercato disperatamente di respirare finché i polmoni non avessero ceduto impregnati dal terribile puzzo della carne in via di putrefazione. Era lo stesso modo in cui era morta la mamma. Soffocata in quel bagno pieno di fumo nella stanza di un albergo. Doveva essere stato un progetto della mamma fin dall'inizio. Loro due, insieme, morte. Era inutile continuare a combattere. La mamma era morta. E adesso toccava a lei. Padre Ambrose, mio Dio, aiutatemi! Lentamente, tastò la massa grumosa sotto di sé, finché trovò la mano di sua madre. La carne disidratata era fresca ed elastica al tatto. La strinse, come faceva quando era bambina. Il dolore ai polmoni aumentò. Le doleva la testa. Improvvisamente avvertì il sopraggiungere di un altro cambiamento dentro di sé. Il panico stava scomparendo. Al suo posto cominciava a diffondersi in lei un senso di calma crescente. Si sentì invadere da un'incredibile sensazione di pace. Era lucida, piena di energia, ed euforica. Era quello stato che Moody e Kubler-Ross avevano descritto nei loro libri sulle esperienze della pre-morte. Si sentì fluttuare nel buio, in fondo al quale brillava una luce. Tutte queste percezioni risvegliarono la sua curiosità professionale. Gli psicologi che tanto aveva ammirato avevano veramente capito il passaggio? Stava veramente trapassando ad altra vita? Oppure era solo la morte di una formazione reticolare? La mancanza di ossigeno le stava bloccando il sistema respiratorio. La diffusa rete di fibre cerebrali che controllavano le informazioni provenienti dai sensi era stata troncata, rallentando le risposte emotive. Negli ultimi momenti che ormai le rimanevano, pensò a Dominic. Negli ultimi attimi, prima di venire avvolta dalla luce dorata, avvertì il risvegliarsi della resistenza. Avrebbe voluto urlare, ma non ne aveva più la forza.
Non voleva abbandonare Dominic. Cercò disperatamente di resistere. La testa cominciò a rimbombare di strani rumori. Cominciò a tremare. E all'improvviso, la sensazione di euforia svanì. Si sentì trasportare in un'atmosfera completamente diversa. Faceva freddo. Sopra di lei soffiava un vento gelido. I polmoni si riempirono di una deliziosa e dolcissima sensazione che quasi le strappò un gemito dalle labbra. «Katherine?» Aprì gli occhi e guardò in alto verso la figura scura dietro la quale brillavano la luna e le stelle. La sagoma si piegò e fece scivolare una mano dietro la sua testa. Sollevandola, la strinse a sé. «Grazie a Dio», mormorò la voce. Katherine riconobbe quella voce. L'aria fresca la rianimò in un batter d'occhio. «Padre Ambrose...» mormorò mentre lui l'aiutava ad alzarsi. «Si sbrighi», l'incitò. «Dominic è in pericolo.» Chissà come era riuscito ad aprire la bara e a tirarla fuori. Era ancora troppo confusa per capire come ci fosse riuscito. Alla luce della luna, gli occhi del prete brillavano. Katherine guardò il gigantesco cumulo di terra e l'anziano prete che le stava di fronte. Sembrava più forte di quando l'aveva visto in canonica. La sua figura era eretta, non c'era traccia della deformazione causata dall'osteoporosi che ricordava di aver notato. «Vai da Dominic», le consigliò senza darle il tempo di fare le domande che aveva in mente. «All'impresa di pompe funebri», precisò prima che potesse trovare il tempo di aprire bocca. «La sua vita è in pericolo», concluse, prendendola per il braccio e spingendola verso la macchina. Katherine corse senza scarpe tra le file di tombe in direzione della macchina che la stava attendendo. Quando raggiunse la Riviera si accorse che padre Ambrose non era più con lei. Si voltò per cercarlo, ma non lo vide. La luna illuminava il cimitero di una luce pallida ma sufficiente per rendersi conto che fra le tombe tutto era tranquillo. La chiave era ancora nel cruscotto. Accese i fari, inondando la zona limitrofa con gli abbaglianti.
Padre Ambrose se n'era andato. Il cimitero era sprofondato nel silenzio. Ripensò alla valigia piena di soldi, che si trovava oltre la luce dei fari. Inserì la retromarcia e uscì dal cimitero. Non sarebbe mai tornata a quella tomba di notte. Se la mamma voleva distruggere il denaro, poteva farlo anche da sola. Altrimenti padre Ambrose glielo avrebbe restituito. Grazie al cielo c'era un padre Ambrose frequentatore di cimiteri. Nel parcheggio dell'impresa di pompe funebri Kuranda c'erano due macchine. Un vecchio carro funebre Cadillac con la targa di New York e un'auto con la targa personalizzata che doveva essere quella di Walter Kuranda. Katherine si sentì una stupida mentre attraversava a piedi scalzi il parcheggio. Le dita delle mani le facevano male e il sangue le aveva macchiato il vestito. Sentiva ancora intorno a sé l'odore del corpo in putrefazione di sua madre. Non sapeva chi avrebbe trovato all'interno dell'impresa di pompe funebri. Sarebbe stato imbarazzante farsi vedere in quelle condizioni, ma padre Ambrose aveva detto che Dominic era in pericolo. Sperava ardentemente che il vecchio si fosse sbagliato. Dominic avrebbe dovuto restare in prigione fino al mattino seguente. L'entrata laterale era chiusa a chiave. Si diresse verso il retro dell'edificio, dove c'era la cucina che l'avrebbe condotta nell'abitazione di Kuranda. Attraverso le tende intravide una luce che proveniva dalla stanza attigua. La porta della cucina era aperta. La socchiuse lentamente, pensando già a quale scusa presentare nel caso il proprietario l'avesse scoperta. Attraversò silenziosamente la cucina al buio. Dalla stanza accanto non proveniva alcun rumore. I piedi scalzi le permisero di scivolare silenziosamente fino al corridoio. Sempre molto lentamente, cercò di sbirciare dentro. La stanza era vuota. Una sedia era stata rovesciata. Una lampada giaceva per terra in mille pezzi. Il tappeto era appoggiato contro la parete, dall'altra parte della stanza, come se fosse servito per trascinare qualcosa. Oltre la porta, sapeva di trovare le scale che l'avrebbero condotta nella sala per l'imbalsamazione. Attraversò la stanza con passo felpato. Dal piano di sotto proveniva un rumore sordo, di gocce che cadevano. Katherine esitò in cima alle scale e allungò le orecchie per avvertire ogni minimo movimento.
Il suono che si udiva proveniva da un punto esattamente sotto di lei. Era un rumore acuto e metallico. Lo aveva già udito un'altra volta, quando Dominic le aveva fatto vedere come usare la pistola. «Girati», le ordinò una voce. «Molto lentamente.» Katherine obbedì. Si ritrovò di fronte a un uomo piccolo con gli occhi azzurri, le labbra avide e i capelli tagliati a caschetto. Teneva in mano la pistola di Dominic. Lo riconobbe immediatamente. «Non mi aspettavo di trovarla qui, professoressa Roshak.» «Ti ricordi di me?» «Ma certo», rispose David Effenbeck. «Ti ho consolato nel momento del dolore. Posso esserti d'aiuto anche adesso?» «Sto cercando Dominic Delaserra.» Fissò la pistola che l'uomo teneva in mano. L'ultima volta che l'aveva vista risaliva a quattro notti prima, quando l'aveva messa sotto il cuscino. Effenbeck increspò le labbra sottili in un sorriso forzato. «Sono felice di poterti aiutare. Dominic è venuto a cercarti. E adesso potete stare insieme.» Con la pistola le fece cenno di scendere le scale. Katherine oltrepassò il tappeto e si apprestò a obbedire, timorosa di quello che avrebbe trovato. Il suono di gocce che cadevano diventava sempre più forte. Effenbeck la seguì, mantenendo una distanza di sicurezza. Attraversarono la stanza dell'esposizione, in cui s'intravedevano solo le sagome delle bare vuote. Davanti a loro, la porta della sala dell'imbalsamazione era spalancata. Le luci inondavano l'entrata con un bagliore accecante. Il rumore di gocce che cadevano proveniva dall'interno. Non voleva vedere ciò che l'aspettava. Si voltò, disposta a supplicare Effenbeck. L'uomo sollevò la pistola e gliela puntò alla testa, ordinandole di proseguire. Quando raggiunse la porta, Katherine stava tremando. Appena vide la figura distesa sul tavolo dell'imbalsamazione, dovette aggrapparsi allo stipite per non cadere. Sul primo tavolo d'acciaio, tra i canali di scolo ancora sporchi del suo sangue, giaceva il corpo di Walter Kuranda. Era ridotto in condizioni pietose. Completamente drenato, sembrava che fosse stato parzialmente sgonfiato. Ai piedi del tavolo le ultime gocce di liquido rosso cadevano in un contenitore di plastica. Era quello il rumore che Katherine aveva udito dalle scale. Le mani gli erano state legate sopra la testa con un filo che passa-
va sopra la tavola e impediva al corpo di scivolare, terminando avvolto attorno alle caviglie dell'uomo. In quel modo avrebbe potuto muovere soltanto la testa. Sulla seconda tavola, nudo e legato nello stesso modo, giaceva Dominic. Aveva gli occhi chiusi. A differenza di Kuranda, il corpo di Dominic non era ancora circondato dal sangue. «È...?» balbettò Katherine senza terminare la frase. «Deceduto?» suggerì Effenbeck. «No, non ancora, ma la sua ora è vicina.» Dominic aprì gli occhi. Li sbatté, nel tentativo di mettere a fuoco le immagini. Katherine si mosse in direzione della tavola, ma Effenbeck le ordinò di fermarsi. «Avresti dovuto essere in prigione», gemette Katherine con gli occhi pieni di lacrime. «Al sicuro.» Dominic si inumidì le labbra prima di risponderle. Fu in quel momento che notò il gonfiore livido che aveva sulla guancia. Dominic non aveva ancora visto il corpo di Kuranda. Poi si voltò e annuì in direzione di Effenbeck. «È venuto lui a prendermi», spiegò Dominic. «Ha pagato la cauzione e mi ha detto che mi stavi aspettando.» «Ma non lo hai riconosciuto? È lui che ha imbalsamato mia madre. È lui che lavorava da Brescia a New York.» Dominic chiuse gli occhi. «Che stupido», sussurrò. «Come ho potuto essere così stupido?» Effenbeck costrinse Katherine ad andare all'altro lato della stanza, allontanandola il più possibile dal tavolo su cui era sdraiato Dominic. Obbedendo al suo comando, si ritrovò bloccata fra la sterilizzatrice e l'aspiratore. «E adesso tocca a me fare domande, professoressa», l'interruppe. «Perché sei ancora viva? Pensavo avresti raggiunto tua madre per l'eternità!» «Eri tu al cimitero», capì improvvisamente Katherine. «Sei stato tu a spingermi nella fossa!» «Io? Difficile. Come potrei essere in due posti contemporaneamente? A meno che non possegga poteri soprannaturali, naturalmente.» Emise una risatina acuta. Dominic cercò di liberarsi. Effenbeck lo guardò mentre si dimenava e scosse il capo. «Patetico, non trovi?» commentò. «Il corpo umano privo di vestiti è un
penoso spettacolo. Pensano tutti di essere speciali, forti e belli, ma senza vestiti, senza trucco, senza bellezza artificiale, non sono nient'altro che carne da prosciugare e anche senza vita il corpo rimane un'immagine patetica.» Rise di nuovo, come se si stesse divertendo. Katherine notò la risata isterica. Era un chiaro sintomo di schizofrenia. Date le circostanze e l'umorismo macabro, con tutta probabilità era un caso di ebefrenia. «Come hai fatto ad arrivare fin qui?» le chiese all'improvviso. «Come hai fatto a uscire dalla tomba?» «Allora eri tu», esclamò Katherine. «Sei stato tu a spingermi dentro!» Lui ridacchiò di nuovo. «Sì, sono stato io eppure non sono stato io», rispose. «Io sono sempre stato qua a prendermi cura dei tuoi amichetti. Però sono anche stato al cimitero a occuparmi di te. Fa parte dei miei poteri essere in due posti diversi contemporaneamente.» «Non capisco», mormorò Katherine. «È pazzo», s'intromise Dominic. «Non ci vuole uno psicologo per accorgersene.» «Non sono legato ai vostri limiti tipicamente umani», annunciò Effenbeck, ignorando l'insulto. «E allora perché hai bisogno di una pistola?» gli domandò Katherine, incuriosita dalla patologia del suo disordine mentale. «Perché ora sono in questo corpo, mentre sto per assumere un'altra forma.» «Quale?» «Presto avrò due spiriti, due corpi, due menti in un unico essere. I semplici esseri umani come te non lo capiranno mai.» Katherine si sentì gelare. Ripensò a padre Ambrose e ai suoi avvertimenti. Indossava ancora lo scapolare. Se lo sfilò e lo tenne bene in vista perché Effenbeck potesse vederlo. Non sortì alcun effetto. L'uomo si sedette, sghignazzando, ridendo come se stesse pensando a chissà quale barzelletta. «Per quanto tempo ci terrai qui?» chiese Katherine. «Finché arriva tua madre», rispose lui riprendendo a sghignazzare. «Mia madre è morta», affermò Katherine. Al piano di sopra sbatté una porta e si udì il rumore del chiavistello che girava nella serratura. Effenbeck continuava a sghignazzare. Quel rumore
non l'aveva disturbato. «Allora adesso pensi che sia morta?» la stuzzicò. «Dopo tutti quegli anni in cui cercavi di convincerti che stava solo riposando, in cui dicevi che si era solo addormentata.» «Come fai a saperlo?» gli chiese. «So tutto di te», rispose. «Non hai segreti per me.» «Sta cercando di darsi importanza», s'intromise Dominic. «Devi esserti sfogata con lui al funerale quando pensavi che ti stesse consolando. Probabilmente conosce la storia della tua vita.» La porta delle scale si chiuse dolcemente, ma abbastanza forte per essere udita da tutti. Subito dopo iniziò un rumore scricchiolante di passi. Katherine guardò la porta aperta alle spalle di Effenbeck. La sala dell'esposizione era buia. Le parve di veder muoversi qualcosa, ma non poteva esserne sicura. C'era qualcuno. Ma che cosa stava facendo? Perché esitava? «Ma come fa tua madre a essere morta se l'hai già vista per strada?» insinuò Effenbeck. Continuava a punzecchiarla. «Non lo so», rispose, «dev'essere stata un'illusione, un'allucinazione, con tutta probabilità indotta dallo stress.» «Questa è la spiegazione dal punto di vista psicologico», commentò Effenbeck. «Ma sei preparata ad affrontare la verità?» «La verità è che è morta», ripeté Katherine. «Ne sono sicura. Adesso riesco ad ammetterlo.» Effenbeck emise un'altra risatina isterica, buttando indietro la testa. Alle sue spalle si mosse qualcosa. Un movimento incerto, esitante. Una figura esile. Aspettava nell'ombra, obbligando Katherine a socchiudere gli occhi per cercare di distinguerne i lineamenti del viso. Udì Dominic sussultare. Dalla sua posizione riusciva a vedere quella figura. «Katherine...» Era la solita voce soffocata e roca come se fosse impedita dal dolore e dallo sforzo. Katherine sentì le gambe che le si piegavano. Si appoggiò alla sterilizzatrice per non perdere l'equilibrio. La figura entrò nella stanza. Era impossibile. Aveva lasciato sua madre nella bara del cimitero, un mucchio di ossa
fragili e carne tumefatta che aveva permeato i suoi vestiti di cattivo odore. «Tua madre non è morta», dichiarò Effenbeck. «Stava solo riposando.» Emise la risatina stridula di chi si diverte a vedere la paura sul volto degli altri. Katherine cominciò ad ansimare, non riusciva più a respirare. Aveva la vertigini. Il viso di sua madre era livido e cascava a pezzi. La pelle era tirata sui denti in un'espressione ripugnante che Katherine ricordava di aver visto nella bara. Il filo dell'imbalsamazione le usciva da un foro sulla guancia. «Katherine...» La figura procedette senza indugio verso Katherine. Dominic la osservava con la bocca spalancata per il terrore mentre gli passava accanto. «Nessuno... può... aiutare...» emise con voce soffocata. Una mano sottile e livida si alzò e andò a sfiorare la guancia di Katherine. Il fetore della carne era insopportabile. La stanza si annebbiò davanti agli occhi di Katherine che scivolò contro la sterilizzatrice. Il vetro si ruppe e, al di sopra di ogni rumore, udì una risata acuta e isterica che però non proveniva da Effenbeck, ma da qualcos'altro. Si risvegliò in una pozza di sangue. Cominciò a lamentarsi notando che decine di pezzi di vetro le si erano conficcati nelle braccia e nelle gambe. «Adesso ci credi?» chiese Effenbeck. Katherine si alzò barcollando. Effenbeck le fece segno con la pistola di tornare contro il muro. Katherine si tolse le schegge di vetro dalle braccia. Alcune erano lunghe come pugnali e le pendevano dal vestito dove si erano andate a conficcare. Era stata fortunata che nessuna scheggia le aveva reciso un'arteria o qualche altro punto vitale. Guardò inorridita sua madre che si portava una mano alla guancia, affondandola nel molle tessuto cutaneo. Si sfigurò, lacerandosi la guancia e strappandosi le labbra dalla bocca. Katherine sentì risalire un'ondata di nausea dall'esofago mentre guardava la pelle morta che andava a spiaccicarsi per terra. Non c'era sangue. Dopo otto anni di decomposizione, il tessuto aveva assunto la consistenza di una pasta collosa. Katherine distolse lo sguardo dalla pelle che giaceva ai suoi piedi e si appoggiò contro il muro. Non sentiva più i pezzi di vetro conficcati nelle braccia e sul vestito.
Presa da un attacco improvviso di frenesia, sua madre iniziò a strapparsi la pelle dal viso con entrambe le mani, staccandone enormi brandelli. I ciuffi di capelli grigi, ancora attaccati alla pelle, raggiunsero il mucchio disgustoso che giaceva per terra. Dalla gola di sua madre sgorgò una risata agghiacciante. Si strappò la pelle del mento e del naso. Sotto s'intravedeva una superficie candida e pulita. Katherine pensò che fosse il cranio. Era liscio e bianco a eccezione dei punti in cui la pelle tumefatta era rimasta attaccata. Sua madre continuò a strapparsi brandelli di pelle dal viso e dalla gola, sempre più velocemente e freneticamente. Lacerava, sfregava, scavava nella carne putrida e molliccia. Mentre il viso di sua madre scompariva sotto quell'attacco, da sotto emergeva un'altra faccia. Aveva i lineamenti delicati, labbra avide, occhi ravvicinati e un mento sfuggente. I capelli erano biondi, tagliati a caschetto. Katherine si ricordò dell'avvertimento di padre Ambrose. Il diavolo poteva assumere ogni forma, impadronirsi di qualsiasi fisionomia per assecondare i suoi disegni maligni. Katherine fissò quella che fino a pochi minuti prima era stata la faccia di sua madre. Ora era il viso di David Effenbeck. La testa del ragazzo aveva sostituito la testa di sua madre sul corpo che continuava a starle di fronte. La creatura stava sogghignando. Katherine si guardò attorno. David Effenbeck le puntava la pistola contro e continuava a ridacchiare. Doveva essere un'allucinazione. Chiuse gli occhi e scosse la testa nel tentativo di combattere le vertigini rifiutando le immagini che il nervo ottico le stava inviando al cervello. Quando riaprì gli occhi la testa di David Effenbeck aveva ancora due corpi. Le espressioni erano identiche. Su entrambi i visi il largo sorriso terminava in piccole fossette. Due paia di occhi azzurri la fissavano sotto lunghe ciglia. Entrambe le teste scoppiarono nuovamente a ridere all'unisono. Era una risata assurda, quasi isterica, tipicamente schizofrenica. Katherine li fissò incredula. La testa della figura che teneva la pistola cominciò a parlare. «Tua ma-
dre è morta...» L'altra testa finì la frase. «... oppure sta solo riposando?» Entrambe le teste s'inclinarono con un'espressione interrogativa in attesa di una risposta. Katherine non riusciva a trovare le parole. Era come se le due teste si muovessero all'unisono. «Se avessi trattato meglio tua madre...» iniziò la prima testa. «... forse sarebbe ancora viva», concluse la seconda. Entrambe le teste di David Effenbeck si accigliarono. «Per questo...» «... devi morire.» Tutti e due i David Effenbeck la guardavano con odio. Come se fossero guidati da un unico cervello, dagli stessi riflessi, entrambi iniziarono a inumidirsi le labbra nervosamente. 15 «Ecco come poteva essere in due posti contemporaneamente», scoprì Dominic. Invece di essere spaventato, provava quasi un senso di sollievo. «Sono gemelli», proseguì Dominic. «Due gemelli identici. È tutto molto semplice. Ecco come hanno potuto lavorare contemporaneamente per Kuranda e Brescia. Ecco perché riuscivano sempre ad anticiparci sia qui sia a New York.» Entrambe le teste si girarono verso di lui con un'identica espressione di sbigottimento. «Noi non siamo gemelli...» «... siamo la stessa persona...» «... in due corpi distinti.» «Ecco perché hanno ucciso Brescia», esclamò Dominic. «Ecco perché hanno ucciso Kuranda. Quando siamo andati a trovare Brescia, si sono accorti di quello che stavamo venendo a sapere. Gemelli identici, con lo stesso nome, lo stesso numero di codice fiscale. È l'unica spiegazione per cui una persona possa trovarsi in due posti diversi nello stesso momento. La risposta era semplice, però non sono riuscito a trovarla e ho cominciato a credere alla storia dei fantasmi.» Katherine fissò i due volti. Erano l'immagine speculare l'uno dell'altro. Gemelli monozigoti. Le loro reazioni di fronte alla spiegazione di Dominic era identica: entrambi emettevano lo stesso verso dal lato della bocca.
«Sei uno stupido...» «... ecco che cosa sei.» «Uno stupido...» «... proprio come tutti gli altri.» Il modo di parlare, la cadenza, persino i processi mentali erano gli stessi. Due gemelli veramente identici dotati di una portentosa abilità che permetteva a ognuno di loro di sapere che cosa stesse pensando l'altro. Dopo anni di studi e di lezioni sul parallelismo patologico nei gemelli monozigoti, quella era la prima volta che Katherine osservava da vicino una coppia di gemelli psicologicamente disturbati. E in quel momento si ricordò dove aveva udito quella voce. Si ricordò delle interviste e delle conversazioni telefoniche effettuate nel corso degli anni. «Sono i gemelli 'D'», esclamò con un filo di voce. «La 'D' sta per David. Li ho intervistati parlando con loro al telefono per anni.» «E devi aver parlato troppo di te stessa», aggiunse Dominic. «Quando hanno saputo dell'eredità, devono aver attirato tua madre in questo posto.» «Allora non si è suicidata. Sapevo che non l'avrebbe mai fatto.» «Hanno avuto pazienza», concluse Dominic. «Hanno alimentato il tuo senso di colpa per tutti questi anni. Hanno aspettato che compissi ventotto anni e poi hanno fatto leva sulla tua paura e sul tuo senso di colpa. Esattamente com'è successo per le altre persone di New York.» «Mi sento una stupida», esclamò Katherine. «Mi hanno fatto credere quello che volevano.» «Qualsiasi persona al tuo posto si sarebbe comportata allo stesso modo. La gente crede in ciò che vuole credere. Eri vulnerabile, tutto qui.» «Ma io sono una psicologa.» «Questo non ti rende diversa dagli altri.» «Avrei dovuto capire.» «Hanno ingannato tutti. Nemmeno io ci ero arrivato. E hanno ingannato anche Henzes con tutte le prove che sono state raccolte dalla tomba.» «Ma io so tutto sui gemelli monozigoti. Conosco tutta la letteratura al riguardo. Ho tenuto persino delle lezioni sui problemi mentali tipici di questi casi. Avrei dovuto pensarci.» Si fermò e le venne in mente la lezione in cui le era parso di vedere sua madre prendere posto in fondo all'aula. Era una lezione sui casi di schizofrenia nei gemelli monozigoti. C'era dell'odio sul suo volto, lo stesso odio che ora scorgeva sui visi dei gemelli.
«Ci trattavi come se fossimo degli animali da laboratorio...» «... ma in realtà eravamo noi a studiare te», le dissero. Il primo gemello restò in piedi all'altro lato della stanza, con la pistola in mano pronto a proteggere il fratello che smuoveva i vetri rotti dalla sterilizzatrice. Raccolse un bisturi e su entrambi i volti si accese un sorriso. «Sei stata un stupida, esattamente come il tuo amico...» «... che non ha mai sospettato nulla, nonostante fosse un poliziotto.» Ripulì il bisturi e avanzò in direzione di Dominic. Katherine non poteva fare nulla per aiutarlo. «È stato quando avete simulato l'incendio nel bagno di Katherine, che avete commesso il primo sbaglio», li attaccò Dominic. «Sapevo che era una messinscena, ma non mi era ancora del tutto chiaro.» «Tu non hai mai sospettato di nulla...» «... cerchi solo di prendere tempo per posticipare la tua morte.» Dominic lottò contro il cavo che lo tratteneva. Tutto inutile. L'avevano legato così stretto che riusciva a malapena a muovere le spalle. «Non è stato un incendio», spiegò Dominic. «Ecco perché i vigili del fuoco non sono riusciti a capire. Guardando sotto il lavandino ho notato delle ragnatele nel punto da cui partono le tubature. Se fosse stato un vero incendio si sarebbero bruciate. Immagino che abbiate usato uno sverniciatore industriale elettrico passandolo sulle pareti del bagno. Vi ci sarà voluto tutto il giorno, infatti la bolletta dell'elettricità è aumentata vertiginosamente.» «È stata un'operazione molto lunga», ammise il gemello con il bisturi. «Però ha funzionato. Quando si hanno due cervelli, è facile farla in barba alla gente comune.» «La gente ci faceva sentire strani, perché eravamo fuori del comune, diversi da tutti voi...» «... È per questo che siamo andati a lavorare in due città diverse, per essere accettati.» Abbassò il bisturi verso l'inguine di Dominic. Con una mano gli lisciò la pelle dell'interno della coscia. «Siete entrati nella stanza di Katherine dalla finestra. Fra l'altro sapevo che la finestra s'incastrava ogni mattina. E la puzza di bruciato, be', per ottenerla, basta utilizzare dei prodotti chimici. Ma come avete ucciso Eddie? In quell'occasione devo ammettere di essere rimasto sconcertato. Quando l'ho trovato c'è mancato poco che cominciassi a credere nel soprannaturale.»
Il gemello si fermò con la lama del bisturi appoggiata sulla coscia di Dominic. «Con Eddie è stato diverso...» «... abbiamo deciso di divertirci un po'.» «E voi lo chiamate divertimento?» esclamò Dominic. «Uccidere una persona indifesa come Eddie lo trovate divertente?» «Probabilmente adesso è più felice...» «... perché non deve più sopportare gli insulti.» «Noi capivamo la sua situazione...» «... più di chiunque altro.» Dominic tentò di allontanare le gambe dal bisturi. Era impossibile. Il gemello premette sulla carne cominciando a tagliare. Il liquido rosso scuro uscì dall'incisione ricoprendo la lama del bisturi. «Tu stai provando più dolore di lui...» «... Eddie ha solo percepito un piacevole calore.» Al ricordo di come si erano svolti i fatti, sorrisero all'unisono. «È stato più facile di quanto pensassimo...» «... abbiamo inventato il nostro raggio della morte.» «Abbiamo staccato il magnetron da un forno a microonde...» «... e attorno gli abbiamo applicato un riflettore...» «... e appena Eddie è entrato nella stanza, glielo abbiamo appoggiato contro la testa...» «Gli occhi cuociono in meno di venti secondi...» «... e la morte cerebrale sopraggiunge dopo solo due minuti.» «... Poi l'abbiamo steso sul letto e gli abbiamo puntato contro altri due magnetron.» Nella stanza riecheggiò una risata strana e acuta. «Lo abbiamo cotto a microonde...» «... proprio come si fa con un qualsiasi hot-dog.» Il gemello con il bisturi riprese a incidere la coscia di Dominic. Il corpo gli si piegò dal dolore, i muscoli si tesero, il volto si contorse. Si sforzò di non urlare. «Se ti rilassi, non sentirai poi tanto male», gli consigliò il gemello con il bisturi. «Bisogna incidere tutto il muscolo per raggiungere l'arteria femorale...» spiegò l'altro con la pistola. «... Così ti dissanguerai più alla svelta», continuò l'altro. Dominic si contorse, liberandosi per un momento dalla presa del gemel-
lo. «Come vedi cerco di eseguire un'incisione perfetta...» «... quando facciamo qualcosa, ci piace farla bene.» Con un abile movimento, conficcò il bisturi nella coscia di Dominic. Un urlo attraversò la stanza. Dominic inarcò la schiena dal dolore, mentre dal muscolo inciso sgorgava il sangue dell'arteria femorale, il cui flusso era ritmato dal battito cardiaco. In poco tempo il sangue ricoprì la parte inferiore del tavolo in acciaio inossidabile, defluendo nello scarico. Il gemello con il bisturi si tirò indietro per evitare gli schizzi di sangue di Dominic. «Oh...» «... è più divertente lavorare sui vivi.» Dominic lottò nel teatativo di fermare il flusso, strinse la coscia, si dimenò e si contorse con la frenesia disperata di chi sta per affrontare la morte. Il cavo che gli tratteneva le braccia tagliò la pelle fino a farla sanguinare. Ma era il flusso di sangue persistente dell'arteria femorale ad attirare l'attenzione dei gemelli. «Ancora tre minuti...» «... e poi sarai morto», dissero. «No!» urlò Katherine. «Vi prego, non uccidetelo! Vi ho già dato i soldi!» Fece per avvicinarsi al tavolo. Si udirono due spari che riecheggiarono per la stanza. Katherine si fermò. Il gemello le puntava la pistola al viso. Era troppo lontano perché Katherine potesse fare qualcosa. Il tavolo li divideva. I movimenti di Dominic si erano già rallentati. Il flusso vitale lo stava abbandonando e lei non poteva fare più nulla. La guardò, supplicandola di aiutarlo. Ma lei non poteva fare nulla. Altri due minuti e sarebbe morto dissanguato. Ancora un minuto e il danno probabilmente sarebbe stato irreversibile. «Per lui è finita...» «... ora non ci rimane che sistemare te.» Il gemello con il bisturi attraversò la stanza. Il fratello teneva la pistola puntata contro Katherine. Per quanto li riguardava Dominic era già morto. Ancora una volta risero entrambi. Era incredibile quanto fossero paralleli i loro pensieri e le loro emozioni. Gemelli monozigoti all'estrema poten-
za, rifletté Katherine. Avevano perfezionato a tal punto la loro dualità che lavoravano in totale armonia. «Ci occorre un coltello più grande...» «... per costringerti al suicidio», dissero. Protetto dalla pistola del fratello, il gemello si chinò davanti a Katherine per cercare un coltello fra i vetri rotti. Katherine gli fissò il collo, fissò l'incavo dove, sotto i capelli biondi, la pelle si faceva più morbida. Era l'unica possibilità che aveva. Cercò un pezzo di vetro lungo che le era rimastro intrappolato nella manica. D'un tratto, tutto le fu chiaro. Lo stress e la paura si erano accumulati nella sua mente a tal punto da provocarle un attacco di ipercinesi. La sua mente lavorava a un ritmo frenetico, le sinapsi emettevano gli impulsi elettrici fra i dendriti sempre più velocemente, tanto che le informazioni si muovevano con troppa rapidità perché i miliardi di neuroni potessero elaborarle. Di conseguenza, quanto accadeva nella stanza sembrò trasformarsi in un'illusione al rallentatore. I suoi sensi si erano amplificati fino a raggiungere la soglia della pazzia. Si concentrò sul gemello che le stava di fronte. Con la mano strinse il vetro così forte che si lacerò la pelle. Era necessario posizionare alla perfezione la parte tagliente del vetro per evitare che si frantumasse contro l'osso occipitale del cranio, senza provocare quindi nessun danno. In trance ipercinetica piantò la punta luccicante del vetro sotto la zona dell'atlante, nella piccola apertura tra le ossa temporali e l'osso occipitale del cranio. Lo sentì penetrare senza difficoltà nel midollo spinale. Prima ancora che raggiungesse il cervelletto, il centro di controllo di ogni movimento del corpo, la testa cominciò a crollare in avanti. Spinse la lama a fondo nella volta cranica, attraverso il cervelletto. È sufficiente un colpo per causare un coma irreversibile. Premette il vetro nel centro del midollo allungato come se stesse recidendo e riducendo a brandelli la vita di quell'uomo, finché il vomito che uscì dalla sua bocca esanime non le assicurò di aver sfondato la formazione reticolare. Pensando a sua madre e a quanto le avevano fatto, Katherine affondò con violenza il vetro tagliente finché non lo sentì spezzarsi contro l'osso frontale del cranio. Si guardò attorno e vide l'altro gemello anch'egli piegato in due dal dolo-
re. Esattamente come aveva sperato, lo vide crollare a terra come il fratello. Vite parallele, morti parallele. Scavalcò il gemello e corse da Dominic. Il sangue continuava a uscire dalla gamba. Premette il pollice nella ferita aperta per fermare il flusso. Dominic, avvertendo dolore, sbatté le palpebre. Katherine appoggiò la testa contro il suo petto per auscultare il battito cardiaco. Era lento e debole, ma c'era. «Sia ringraziato il cielo», mormorò Katherine, «sia ringraziato il cielo.» Gli baciò il petto nudo e sulle labbra si mescolarono il sale delle sue lacrime con quello del sudore di Dominic. Più tardi, dopo che gli infermieri gli ebbero somministrato del plasma facendolo riprendere dallo choc, Katherine gli si sedette accanto accarezzandogli la mano. «Non riesco ancora a crederci», esclamò sbigottito il capo della polizia. Osservò il coroner che esaminava il secondo gemello. «Sono casi documentati», spiegò Katherine. «Può andarli a controllare. Lo studio sui gemelli di Louisville, su quelli di Berlino, e gli studi sui casi di morte dei gemelli mormoni.» «Non può essere andata come lei sostiene.» «L'altro è morto per choc simpatetico. I gemelli monozigoti hanno la stessa frequenza cardiaca, le stesse onde cerebrali, le stesse reazioni emotive. Gli Effenbeck hanno spinto il legame alle estreme conseguenze. Si erano autoconvinti di essere un'unica persona con due cervelli staccati. Quindi non è una sorpresa che uno dei gemelli abbia avuto un arresto cardiaco in seguito allo choc della morte del fratello. A volte succede anche fra persone normali.» «Non mi riferivo a questo», precisò il capo. «Quello che non capisco è come lei abbia fatto a uscire da quella tomba.» «Gliel'ho detto. È stato padre Ambrose a farmi uscire. La fortuna ha voluto che stesse facendo un giro nel cimitero.» Il capo della polizia aggrottò le sopracciglia e scosse il capo. «Voi due avete una spiegazione per tutto. Forni a microonde, incendi inscenati, giustificazioni psicologiche per chiarire il caso dei gemelli e dei milioni di dollari. A essere sincero, mi riesce difficile crederci ma bisogna riconoscere che le prove indicano che avete ragione. I soldi sono alla stazione di polizia. Però non si aspetti che creda alla storia di come ha fatto a uscire dalla tomba.»
«Lo domandi a Padre Ambrose», insisté Katherine. «Non posso», le rispose. «È morto la notte scorsa nel sonno. Nel momento in cui secondo lei la stava tirando fuori dalla tomba era già morto da dodici ore.» Katherine rimase senza fiato e guardò Dominic in cerca d'aiuto. Anche lui aveva uno sguardo scettico. Katherine si voltò di nuovo verso il capo della polizia. «Le giuro che è stato lui. Mi ha tirato fuori dalla tomba. Vada al cimitero, sono sicura che troverà le sue impronte digitali sul badile. Ci deve pur essere una prova. Le dico che è successo così.» Il capo della polizia sospirò. «Mi sembra che la storia si stia ripetendo», disse. «Lei ha l'abitudine di vedere fantasmi, professoressa. Mettiamoci una pietra sopra.» Si allontanò per andare a parlare con il coroner. Katherine si voltò verso Dominic. «Non mi crede», si schermì. «Eppure padre Ambrose c'era davvero. L'ho visto. È stato lui a mandarmi da te.» La voce cominciò a tremarle. «Tu mi credi, vero, Dominic?» Dominic annuì e chiuse gli occhi. Katherine gli prese la mano e gliela strinse, sapendo in cuor suo che non l'avrebbe mai più abbandonato. FINE