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PETER MAY SETTE NOTTI DI SANGUE (The Firemaker, 1999) Ai miei genitori «Non vi fate illusioni; non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato.» Lettera ai Galati 6,7 Prologo Le risate delle bambine risuonano quasi sinistre nella quiete del primo mattino, come un presagio di morte. I capelli neri lisci, tagliati alla maschietta e le camicette con i pizzi bianchi e rosa, le piccole corrono lungo i sentieri polverosi del parco Ritan nell'alba livida di Pechino. I loro scuri occhi a mandorla ardono del fuoco della giovinezza. Tanta vita e innocenza sono a un soffio da quel primo incontro con la morte che si sarebbe impresso per sempre nelle loro menti. La mamma ha detto alla baby-sitter, una ragazza di campagna, di accompagnare le gemelle al parco, prima dell'asilo: una passeggiata al fresco del mattino quando il sole non ha ancora acceso i colori e delineato le forme del giorno. Un uomo anziano con pantaloni e casacca tradizionali e i guanti bianchi pratica il taijiquan tra gli alberi: movimenti lenti e aggraziati, braccia tese, una gamba che si solleva lentamente. Esercita sul proprio corpo un autocontrollo che non ha mai esercitato sulla propria vita. Ma le bambine gli danno un'occhiata di sfuggita, attratte da suoni misteriosi in lontananza. Corrono eccitate e affannate, ignorando il richiamo della baby-sitter. Oltrepassano un gruppo di persone intente a leggere poesie tra gli alberi. Oltrepassano una panchina su cui due donne anziane, in ciabatte e cardigan grigio, osservano quella esplosione di energia incontenibile e scuotono tristemente la testa. Ai loro tempi, i piedi fasciati e sanguinanti avrebbero impedito loro di slanciarsi in simili corse sfrenate anche se ne avessero avuto il permesso. I suoni misteriosi, una sorta di musica sconosciuta, si fanno più forti a mano a mano che le bambine si avvicinano a un ampio spiazzo cinto da un
alto muro. Le piccole si fermano di colpo senza fiato, a bocca aperta per lo stupore. Molte coppie - giovani, gente di mezza età, anziani, funzionari pubblici, impiegati, ufficiali dell'esercito - sono riunite in una piccola folla eterogenea. Tutti i volti sono girati verso i gradini di un antico altare sacrificale posto al centro dello spiazzo. In cima ai gradini, dove una volta sgorgava il sangue delle vittime offerte al Sole, una giovane coppia vestita di nero muove con sicurezza i passi di un cha-cha-cha a tempo sulla musica diffusa da un vecchio grammofono gracchiante. I volti emanano una gioia inesprimibile e le bambine rimangono immobili ad ascoltare quella strana melodia, quei ritmi sconosciuti. Anche la baby-sitter, che finalmente è riuscita a raggiungerle, tutta affannata e rossa in viso, si ferma a osservare sbalordita i ballerini. La grande città è un luogo così strano e incomprensibile per lei. Non sarebbe mai dovuta venirci. All'altra estremità dello spiazzo, alcuni uomini, con gesti lenti e controllati, fendono l'aria con lunghe spade dalla lama d'argento nella grottesca parodia di un combattimento medievale. I ballerini li ignorano, ma la babysitter ha paura e spinge le bambine riluttanti lungo un altro sentiero, lontano dalla gente e dal rumore. Ma ecco un nuovo diversivo. Dal fogliame sale un filo di fumo che si diffonde in una densa nebbiolina azzurrognola. "Che strano odore," pensa la baby-sitter, "sembra carne alla griglia." Poi, scorgendo il bagliore delle fiamme attraverso i rami, un brutto presentimento la assale. Ma le bambine sono già corse avanti lungo un sentiero polveroso in mezzo agli alberi, sorde ai suoi richiami. La ragazza le rincorre superando, a sinistra, un padiglione ombroso a strapiombo sul lago da cui giunge il lamento di un violino a una sola corda. Alla fine giunge in cima alla salita, attraversa un folto di alberi e raggiunge le bambine in uno spiazzo; al centro, fiamme voraci si levano da una massa compatta. Le piccole si sono fermate e osservano incuriosite lo spettacolo. Anche la baby-sitter rimane immobile. Avverte un calore intenso al viso e si ripara gli occhi per proteggersi dal riverbero delle fiamme cercando di capire che cosa stia bruciando con tanta intensità. Al centro del falò qualcosa si muove, una forma vagamente umana in quella massa ardente. Il grido della bimba più vicina in qualche modo l'aiuta a mettere a fuoco l'immagine e, con un tuffo al cuore, la giovane vede una mano carbonizzata protendersi verso di lei. CAPITOLO PRIMO Lunedì pomeriggio
1 Sotto di lei, il mondo si inclinò e i raggi del sole, riflessi da migliaia di tessere di un immenso mosaico, mille frammenti di uno specchio in frantumi, l'abbagliarono. Il corpo le diceva che erano le due di notte e avrebbe dovuto riposare, mentre la mente l'avvertiva che era solo metà pomeriggio e l'ora del sonno era una lontana prospettiva. In ventun ore di viaggio non era riuscita a chiudere occhio. Anche se, a dire il vero, nelle ultime settimane dormire non era stato certo un sollievo per lei. Non sapeva che cosa fosse peggio: i rimpianti e i sensi di colpa che l'afferravano da sveglia o gli incubi che l'assalivano senza tregua durante il sonno. Il dolce oblio prodotto dal vodka tonic che aveva bevuto con piacere all'inizio del volo era svanito, lasciandole la bocca secca e un mal di testa latente. Diede un'occhiata alla dichiarazione sanitaria che teneva ancora stretta in mano... «Benvenuti in Cina. Per un domani migliore e più sano.» Aveva annullato con una riga decisa lo spazio riservato alle "malattie da dichiarare". Non aveva niente da dichiarare, tranne un cuore infranto e una vita distrutta e, per quanto ne sapeva, né l'uno né l'altra erano infettivi o contagiosi. Il mondo si inclinò di nuovo e lei vide che il mosaico luminoso che l'aveva abbagliata era un enorme specchio d'acqua suddiviso in innumerevoli riquadri irregolari, retaggio di una cultura antica di cinquemila anni. Dalla sua superficie affioravano verdi germogli di riso, nutrimento per un miliardo di bocche affamate. A nord, oltre la coltre nebbiosa, si stendeva la piana polverosa del deserto del Gobi. La hostess passò e spruzzò un disinfettante: le leggi cinesi, spiegò. Il comandante annunciò che entro quindici minuti sarebbero atterrati all'aeroporto di Pechino. A terra l'umidità era elevata e la temperatura di 35 gradi centigradi. 96 gradi Fahrenheit, pensò Margaret. Era una delle molte differenze a cui si sarebbe dovuta abituare nelle sei settimane successive. Chiuse gli occhi e allacciò la cintura per l'atterraggio. Tra tutti i possibili mezzi di fuga, perché aveva scelto proprio l'aereo?, si domandò. Odiava gli aerei.
L'autobus navetta stracarico, saturo dell'odore di corpi che non si lavavano da più di venti ore, si fermò traballando fuori dal terminal e scaricò i passeggeri nel pomeriggio afoso. Margaret si diresse rapidamente all'interno, in cerca del refrigerio dell'aria condizionata. Niente. Se possibile, dentro faceva ancora più caldo e l'aria era pesante e irrespirabile. Venne assalita dai colori, dai suoni e dagli odori della Cina. C'era gente ovunque, come se tutti i voli della giornata fossero arrivati insieme; i passeggeri lottavano per conquistarsi un posto nelle lunghe code davanti agli sportelli dell'ufficio immigrazione. Anche lì, nella sala d'aspetto dei voli internazionali, Margaret colse lo sguardo perplesso di tutti quegli occhi a mandorla che l'osservavano con la curiosità che si riserva a qualcosa di assolutamente insolito, esotico. Ed era proprio così: i capelli biondi, lunghi e mossi, le ricadevano morbidamente sulle spalle, aveva la pelle chiara e gli occhi azzurri. Il contrasto con i capelli nerissimi e gli occhi scuri di quella moltitudine di cinesi non avrebbe potuto essere più netto. Si sentì ancora più a disagio e trasse un profondo respiro. «Maggot Cambo! Maggot Cambo!» Una voce acuta si levò in mezzo alla confusione che regnava nella sala. Margaret vide una donna tarchiata di mezza età in uniforme farsi largo con decisione tra la folla tenendo alto un cartello su cui era scritto in lettere maiuscole e con grafia incerta «MAGRET CAMPELL». Le ci volle qualche istante per collegare quella scritta e il richiamo della donna alla propria persona. «Ehi, credo che lei stia cercando me!» urlò, tentando di sovrastare il frastuono. Improvvisamente si sentì molto stupida: certo che cercava lei! La donna tarchiata si girò e la squadrò attraverso un paio di occhiali dalle lenti spesse e dalla montatura di plastica. «Dottoressa Maggot Cambo?» «Margaret» corresse lei. «Margaret Campbell.» «Bene, mi dia il suo passaporto.» Margaret frugò nella borsa alla ricerca del documento, ma esitò prima di consegnarglielo. «Lei è...?» «Agente Li Li Peng.» Lo pronunciò Lily Ping. E si impettì per far risaltare meglio le tre stellette di agente scelto sulle spalline della camicia cachi a maniche corte. Il berretto verde con la greca gialla e lo stemma dorato rosso e blu del ministero della Pubblica sicurezza le stava troppo grande e le spingeva la frangetta sopra la montatura degli occhiali. «Il waiban mi ha incaricato di occuparmi di lei.» «Waiban?»
«L'ufficio Affari Esteri del suo danwei.» Erano cose che avrebbe dovuto sapere, Margaret ne era certa. E sicuramente si trovavano nel materiale informativo che le era stato dato. «Danwei?» Lily trattenne a stento l'irritazione. «La sua unità operativa all'Accademia.» «Oh, sì!» Margaret sentì di essersi dimostrata già fin troppo ignorante e consegnò il passaporto all'agente. Lily lo controllò rapidamente. «Bene, dopo che avrà sistemato la faccenda con l'ufficio immigrazione penseremo ai bagagli.» Una BMW grigio scuro era ferma in folle davanti alla porta del terminal. Appena si avvicinarono, il cofano posteriore si aprì e un'esile ragazza in uniforme schizzò fuori dal posto di guida e si diresse verso i bagagli di Margaret. Le due valigie erano grandi quasi quanto lei e faticò molto a sollevarle dal carrello. Margaret si avvicinò per aiutarla, ma Lily la spinse bruscamente sul sedile posteriore della macchina. «Ai bagagli penserà l'autista. Lei tenga chiusa la portiera per via dell'aria condizionata.» E, per rendere più chiaro il concetto, sbatté lo sportello. Margaret inspirò voluttuosamente l'aria gelida dell'abitacolo e si accomodò sul sedile. Ondate di stanchezza la travolsero. Desiderava un letto, e nient'altro. Lily si sistemò davanti, accanto all'autista. «Bene, adesso andiamo al quartier generale della polizia municipale di Pechino a prendere il signor Wade. Lui si scusa di non essere venuto, ma è molto occupato. Poi andremo subito all'Accademia di Polizia e incontreremo la professoressa Jiang. Okay? E stasera ci sarà un banchetto.» Margaret quasi sbottò in un'esclamazione di disappunto. La prospettiva di dormire si allontanava sempre di più, perdendosi in un futuro nebuloso. Le venne in mente la famosa poesia di Robert Frost... «e miglia da percorrere prima di dormire». Poi ripensò perplessa alle parole di Lily. Aveva proprio detto "banchetto"? La BMW sfrecciava sulla superstrada. Superò lo sbarramento della dogana dell'aeroporto e raggiunse rapidamente i sobborghi della città. Attraverso il vetro oscurato del finestrino, Margaret guardava con stupore la città che si apriva intorno a lei. Alti isolati di uffici, alberghi nuovi, centri commerciali, appartamenti eleganti. Dovunque, i tradizionali siheyuan a un piano con il tetto di tegole negli angusti hutong venivano demoliti per sottolineare il passaggio della Cina da paese "in via di sviluppo" a "grande
potenza mondiale". Qualsiasi cosa lei si fosse aspettata (e aveva solo vaghe idee in proposito) sicuramente non era questo. L'unico elemento "cinese" che riusciva a vedere erano gli ornamentali tetti a pagoda che incappucciavano i grattacieli. Da tempo gli enormi manifesti che esortavano i compagni a sostenere maggiori sforzi per la madrepatria erano stati sostituiti da gigantesche pubblicità di Sharp, Fuji e Volvo. Ora le masse venivano esortate al capitalismo. Oltrepassarono un McDonald's, un confuso turbinio di rosso e di giallo. Si sarebbe aspettata di vedere le strade invase da uomini in bicicletta vestiti con la caratteristica uniforme "alla Mao", ma le sue idee preconcette furono spazzate via dalle nuvole di monossido di carbonio prodotte dagli autobus, dai camion, dai taxi e dalle auto che intasavano le sei corsie della superstrada alla periferia orientale della città. "Proprio come a Chicago" pensò. Molto in stile "grande potenza mondiale". A parte le piste ciclabili. Quando si avvicinarono al centro della città e superarono il Grand Hotel Pechino e Wangfuijing Dajie, l'autista si portò sulla corsia esterna. Margaret vide in lontananza l'enorme porta decorata della Città Proibita, e il gigantesco ritratto di Mao che sorvegliava dall'alto piazza Tien-An-Men. Era quello lo sfondo di tutte le corrispondenze della CNN da Pechino, un'immagine della Cina che ormai le era divenuta familiare. Ricordò di aver visto alla televisione, nel 1989, quel ritratto sfigurato con la vernice rossa dagli studenti che dimostravano per la democrazia. All'epoca era anche lei una studentessa, alla facoltà di Medicina, ed era rimasta scossa dagli eventi sanguinosi di quella primavera. E adesso si trovava lì, dieci anni dopo. Si chiese quanto fossero cambiate le cose nel paese, e se lo fossero davvero. A un tratto l'auto svoltò a sinistra, accompagnata da un coro di clacson, e imboccò inaspettatamente un'ombrosa strada laterale dove le aiuole centrali e le file di robinie ai lati formavano una fresca tettoia verde. Sembrava di essere nel cuore di una città europea, con eleganti edifici vittoriani e di stile coloniale. Lily si girò per indicarle un alto muro sulla destra. «Ministero della Pubblica sicurezza. Fu sede dell'ambasciata britannica prima che il governo cinese la espellesse.» Più avanti, oltrepassati alcuni vecchi condomini di aspetto decisamente europeo, svoltarono di nuovo a sinistra in una via più stretta, Dong Jiaominxiang, quasi completamente oscurata dal fitto fogliame degli alberi. Un paio di biciclette avevano aperto le loro officine di riparazioni sul marciapiede, all'ombra. La strada era affollata di auto e biciclette. Sulla destra, un cancello si apriva su un grande e moderno edificio bianco in cima a una
rampa di scale sorvegliata da due leoni di pietra. Sopra il portone era appeso un enorme stemma rosso e oro. «Corte Suprema della Cina» spiegò Lily e Margaret ebbe appena il tempo di lanciare un'occhiata all'edificio prima che la macchina svoltasse a sinistra, fermandosi improvvisamente. Un urto e un forte clangore. L'autista alzò le mani in un gesto di disperazione precipitandosi fuori dall'auto. Margaret si sporse per vedere che cosa stesse succedendo. Si erano scontrati con un ciclista. Sentì l'autista sgridare con la sua voce acuta l'uomo che si rialzava lentamente, a quanto pareva illeso. Quando fu in piedi, vide che era un ufficiale di polizia sulla trentina. Aveva l'uniforme tutta sgualcita e impolverata e una brutta escoriazione sull'avambraccio, da cui scorreva un rivoletto di sangue. L'ufficiale si mise a squadrare dall'alto in basso la fragile autista, che improvvisamente tacque, facendosi ancora più piccola sotto lo sguardo inferocito dell'uomo. La ragazza si chinò a recuperare il berretto e glielo tese in segno di pace. L'uomo glielo strappò di mano: la pace era l'ultimo dei suoi pensieri. Riversò sulla ragazza un profluvio di improperi. Con un'esclamazione di disappunto, Lily si precipitò fuori dall'auto. Anche Margaret pensò che fosse arrivato il momento di intervenire e aprì la portiera. Lily raccolse da terra la bicicletta e rivolse le proprie scuse all'ufficiale. Lui sembrò sul punto di cominciare a prendersela con lei. «Che cosa sta succedendo, Lily? Questo tipo ha forse qualcosa contro le donne al volante?» chiese Margaret. I tre cinesi ammutolirono e la guardarono sbalorditi. Il giovane poliziotto la squadrò con freddezza. «Americana?» le chiese in perfetto inglese. «Sì.» «Allora perché non bada agli affari suoi?» chiese, quasi tremando per l'ira. «Era seduta dietro e non ha potuto vedere come sono andate le cose.» Margaret sentì il fiero carattere celtico dei suoi antenati ribollirle dentro. «Ah, sì? Be', se lei non fosse stato tanto occupato a guardare me, forse avrebbe visto dove andava.» Lily era inorridita. «Dottoressa Cambo!» Il poliziotto fissò Margaret per un secondo, poi strappò la bicicletta dalle mani di Lily, spazzò via la polvere dal berretto e se lo calcò con forza sui capelli a spazzola. Montò sul sellino e si allontanò pedalando furiosamente verso un edificio di mattoni rossi in stile europeo. Lily scosse la testa, chiaramente sconvolta. «Lei detto una cosa terribile, dottoressa Cambo.»
«Che cosa?» Margaret era stupita. «Gli ha fatto perdere lui sua mianzi.» «Che cosa gli ho fatto perdere?» «La faccia, lei gli ha fatto perdere la faccia. I cinesi si preoccupano molto della loro faccia» spiegò la donna poliziotto. «Con una faccia come la sua, non me ne stupisco affatto! E lei? Che mi dice della sua mianzi? Non doveva starsene lì e farsi insultare. Santo cielo, è di grado superiore!» «Superiore?» Lily era sbalordita. «No.» «Be', lui aveva solo due stellette...» Margaret le batté una mano sulla spalla «... mentre lei ne ha tre.» Lily scosse la testa. «Tre stellette, ma un gallone, mentre lui ne aveva tre. Lui è l'ispettore Li, investigatore capo della Prima Sezione della polizia municipale di Pechino.» Margaret fu presa alla sprovvista. «Un investigatore in uniforme?» «L'uniforme è insolita» Lily si era fatta molto seria. «Andava sicuramente a una riunione molto importante.» 2 Li entrò nel quartier generale del Dipartimento di Investigazione criminale e si diresse in fretta verso il bagno. Il sangue sul braccio si era impastato con la polvere della strada. Mise il braccio sotto il rubinetto e fece un salto indietro imprecando quando l'acqua gli schizzò la camicia verde chiaro. Si osservò nello specchio sopra il lavandino: era impolverato e in disordine, bagnato, sanguinante e sporco sulla fronte. Inoltre era stato gravemente leso nella dignità: aveva perso la faccia di fronte a due agenti di grado inferiore per colpa di una straniera. «Yangguizi!» Sputò quella parola contro la sua immagine riflessa dallo specchio. «Accidenti alla straniera!» Aveva passato due ore a spianare con il ferro da stiro ogni minima grinza della camicia e dei pantaloni, un'ora dal barbiere per farsi tagliare i capelli a spazzola, quindici minuti sotto la doccia per ripulirsi dal sudore e dalla polvere della giornata: tutto ciò per apparire in gran forma al colloquio forse più importante della sua carriera. Invece, aveva un aspetto orrendo e si sentiva malissimo. Si lavò con cura il viso e tamponò il sangue con alcune salviette di carta. Alla rabbia per l'incidente stava subentrando di nuovo l'agitazione che lo aveva dominato per tutta la mattina.
Quando si era liberato il posto di vicecaposezione, i suoi colleghi avevano subito pensato che sarebbe stato assegnato a lui. A soli trentatré anni, Li Yan era uno degli investigatori più esperti della Prima Sezione. Da quando era arrivato lì, subito dopo il diploma all'Accademia di Polizia dove era stato lo studente migliore del suo corso, aveva risolto un numero impressionante di casi di omicidio e di rapina. Lui stesso si sentiva pronto per occupare quel posto, ma non poteva farne domanda. La sua candidatura dipendeva dall'Ufficio Promozioni mentre la decisione finale sarebbe spettata al capo della polizia. A un certo punto, però, le ipotesi di un avvicendamento dall'interno erano state spazzate via dalle voci secondo cui, per quel posto, era stato raccomandato un collega del dipartimento di Shanghai. Non era stato possibile verificare la fondatezza di quelle dicerie e, finché non era stato convocato per un colloquio con il capo divisione, il commissario Hu Yisheng, Li non sapeva neppure se il suo nome fosse stato preso in considerazione durante il lungo iter burocratico. E nemmeno adesso aveva la minima idea di che cosa l'attendesse. Il suo diretto superiore, Chen Anming, gli aveva detto di presentarsi, ma non gli aveva dato ulteriori spiegazioni e Li temeva il peggio. Trasse un profondo respiro, si raddrizzò il berretto, si sistemò per l'ultima volta la camicia e uscì dal bagno, Il commissario Hu Yisheng, in maniche di camicia, era seduto su una poltrona di pelle dall'alto schienale su cui aveva sistemato con cura la giacca. Dietro di lui, una libreria con file di volumi rilegati, una bandiera cinese che pendeva fiacca nel clima afoso, fotografie e attestati incorniciati alle pareti. Chino sulla scrivania, il commissario era intento a scrivere con mano lenta e sicura su un grosso quaderno. La sua immagine era riflessa dal piano lucido della scrivania. Senza alzare gli occhi, fece cenno al giovane di sedersi. Li Yan abbassò lentamente la mano da un impeccabile, ancorché ignorato, saluto militare e si sedette a disagio sul bordo della sedia di fronte al commissario. Il silenzio era rotto solo dal lieve ronzio del ventilatore che sollevava il margine dei fogli impilati sulla scrivania e dal leggero graffiare della stilografica sul quaderno. Li si schiarì nervosamente la gola e il commissario alzò appena lo sguardo a quell'accenno di impazienza. Poi riprese a scrivere. "Devo rimanere calmo" si disse Li, ma subito sentì l'impulso di schiarirsi ancora la gola: era come se soffrisse per il prurito, ma non potesse grattarsi. Deglutì.
Dopo quella che a Li Yan sembrò un'eternità, Hu Yisheng rimise il cappuccio alla penna e chiuse il quaderno. Intrecciate le mani davanti a sé, si mise a osservare il suo interlocutore con sguardo pensieroso. «Allora, come sta suo zio?» Chiese infine. «Benissimo, commissario. Le manda i suoi saluti.» L'altro sorrise con affetto. «È veramente un uomo straordinario: ha sofferto moltissimo durante la cacciata della banda dei quattro.» «Lo so.» Non era la prima volta che Li Yan sentiva quella storia. «Il suo comportamento alla fine della Rivoluzione culturale è stato esemplare: non c'era rancore in lui. Dopo tutto quello che era successo, il vecchio Yifu voleva solo guardare avanti. Mi diceva sempre: "Non serve pensare a ciò che sarebbe potuto succedere, è stato un bene essere riusciti a rimettere insieme i pezzi dello specchio". E il nostro paese è riuscito a rientrare in carreggiata proprio grazie allo spirito e alla tempra di uomini come lui.» Li Yan annuì con un sorriso ed ebbe un improvviso presentimento. «Purtroppo ciò complica la faccenda,» aggiunse il commissario «sia per lei sia per noi. Sa benissimo che il Partito scoraggia il nepotismo in tutte le forme più insidiose.» Li Yan capì di essere stato scartato. Amava molto lo zio Yifu, l'uomo più dolce, leale e saggio che conoscesse. Ma era una figura leggendaria nella polizia di Pechino, anche adesso, cinque anni dopo essere andato in pensione. E purtroppo le leggende gettano ombre lunghe. «Lei ha il dovere di dimostrarsi migliore degli altri, mentre noi abbiamo il compito di esaminare il suo fascicolo con particolare severità.» Il commissario si appoggiò allo schienale della poltrona e trasse un profondo respiro. «Ma entrambi sappiamo fare bene il nostro lavoro, non è vero?» E nei suoi occhi passò un lampo di malizia. «Dalle otto di domani mattina lei è promosso al rango di ispettore capo della Terza Classe e alla posizione di vicecapo della Prima Sezione.» Un ampio sorriso rischiarò il volto del commissario che si alzò per stringere la mano dello sbalordito ufficiale. «Congratulazioni!» 3 La macchina si era fermata all'ombra di un albero, presso l'ingresso po-
steriore del quartier generale della polizia, nello stesso complesso in cui poco prima era entrato Li Yan. «Ecco il signor Wade.» Appisolatasi sul sedile posteriore Margaret russava leggermente, ma Lily finse di non essersene accorta. Si girò e aprì la portiera. Bob Wade entrò e si sistemò accanto all'americana: era un uomo molto alto e magro e si piegò quasi in due per entrare nell'auto. «Scusate, ragazze, se vi ho fatte aspettare.» Strinse vigorosamente la mano dell'americana. «Salve, lei dev'essere la dottoressa Campbell.» «Dammi pure del tu» disse lei. «Bene, Margaret, io sono Bob Wade. Santo cielo, fa un caldo tremendo qui dentro!» Tirò fuori un fazzoletto dall'aria poco pulita e si deterse il sudore che gli imperlava la fronte alta e sfuggente. «Lily si sta prendendo cura di te?» «Sì, è una vera perla.» La donna poliziotto le lanciò un'occhiata risentita e Bob, che pure aveva colto il tono sarcastico di Margaret, non disse nulla. Si sporse in avanti verso l'autista. «Shimei, che ne dici di filare a tutto gas verso l'università? Siamo un po' in ritardo.» Shimei innestò la retromarcia e uscì dal complesso. Mentre attraversavano il cancello, Margaret vide Li Yan lasciare l'edificio. Il suo atteggiamento era molto diverso, ora: camminava con passo deciso ed elastico e aveva un largo sorriso stampato in viso. Senza che lui se ne accorgesse, Margaret lo osservò. Aveva un portamento eretto ed era molto alto per gli standard cinesi. Sicuramente superava il metro e ottanta. La visiera del berretto calcato sui capelli a spazzola gettava un'ombra sul viso dagli zigomi alti e dalla mascella squadrata. Quando infine scomparve, Margaret concluse che era piuttosto brutto. «Devi essere distrutta.» Si girò e vide che Bob la stava osservando. L'uomo doveva avere cinquantacinque anni: proprio l'età che lei si sentiva in quel momento. Annuì. «Sono in giro da ventidue ore. Un inferno di giornata. E non è ancora finita!» «So bene come ci si sente. Fino a metà del Pacifico sei quasi alla fine della giornata, poi è di nuovo mattina.» Si chinò verso di lei, abbassando la voce. «Che cosa è successo con Lily?» «Be'...» Margaret non voleva raccontargli tutta la faccenda. «Solo un piccolo malinteso.»
«Non prendertela, non è cattiva. Come si dice, can che abbaia non morde. Durante la Rivoluzione culturale è stata una guardia rossa, è una compagna vecchio stampo. Ma oggi quel tipo di comunismo è passato di moda e lei è rimasta alla base della piramide. Non farà mai carriera, resterà sempre un agente a tre stellette.» Margaret si era sempre ripromessa di leggere qualcosa sulla Rivoluzione culturale. Ne aveva sentito parlare spesso, ma non aveva mai capito esattamente di che cosa si fosse trattato. Un periodo difficile per il paese. Decise di non fare sfoggio della propria ignoranza con Bob. «Allora, che cosa ti ha convinta a venire in Cina?» si informò lui. Non poteva certo confessargli la verità. Si limitò a scrollare le spalle. «Be'... questi luoghi mi hanno sempre affascinata, l'Oriente misterioso eccetera eccetera. Tenevo qualche lezione a Chicago presso l'Università dell'Illinois, quando una persona dell'Ufficio crimini internazionali...» «Dick Goldman.» «Proprio lui. Cercava qualcuno per un corso di Anatomopatologia legale di sei settimane all'Accademia di Polizia di Pechino e mi ha chiesto se mi interessasse. Pensai che sarebbe stato senz'altro meglio che correre dietro al carro dei pompieri per il medico legale della contea Cook. In giugno ci sono moltissimi incendi a Chicago.» Bob sorrise. «Ben presto scoprirai che in Cina le cose funzionano in modo molto diverso che a Chicago. Sono qui da quasi due anni e non sono ancora riuscito a far fotocopiare le dispense del mio corso.» «Stai scherzando?» «Hai mai sentito parlare delle "3 p"? Sono le tre qualità indispensabili per sopravvivere in questo paese: pazienza, pazienza e ancora pazienza. I cinesi hanno un modo tutto loro di comportarsi. Non voglio dire che siano migliori o peggiori di noi, ma solo diversi. E hanno una visione completamente diversa del mondo.» «In che senso?» «Be', per esempio, tu arrivi qui pensando: "Sono una cittadina americana, appartengo al paese più ricco e potente del mondo" e sei convinta che ciò ti renda in qualche modo superiore. Ma il più umile contadino che sgobba quindici ore al giorno nelle risaie ti guarderà dall'alto in basso. E sai perché? Perché lui è cinese, è un cittadino del Paese Centrale, come loro chiamano la Cina, che considerano il centro del mondo. Per loro, tutto il resto è periferico e inferiore, popolato solo da yangguizi, stranieri come te e me.»
«Ma questa è vera arroganza!» «Davvero? I cinesi filavano la seta già tremila anni fa. Forgiavano il ferro milleottocento anni prima che lo facessero gli europei. Hanno inventato la carta e stampavano libri secoli prima di Gutenberg. In confronto a loro, noi americani siamo solo un punto microscopico nel lungo cammino della storia.» Margaret si chiese quante volte Bob avesse già tenuto quella piccola lezione a professori americani a contratto. Probabilmente pensava di sembrare più informato e di far apparire la Cina più scoraggiante, e aveva proprio ragione. «Secondo te, qual è la principale differenza culturale tra noi e loro?» Lei scosse la testa, rivelando la propria totale ignoranza in materia. «I cinesi stimano e premiano le conquiste di gruppo, non quelle individuali. Amano il gioco di squadra e si aspettano che il singolo metta gli interessi della collettività al di sopra dei propri. Ed è un fatto notevole in un paese che ha quasi un miliardo e mezzo di abitanti. Penso che sia proprio per questo che hanno una storia lunga cinquemila anni.» Margaret ne aveva abbastanza di quelle pillole di cultura. «E adesso che si fa?» Bob divenne subito pratico ed efficiente. «Bene, ti mostriamo la tua sistemazione all'università, ti presentiamo alcune persone, poi potrai andare a cambiarti e rinfrescarti per il banchetto di stasera.» Le tornarono in mente le parole di Lily. «Quale banchetto?» «Il banchetto al famoso ristorante Quanjude: è una forma tradizionale di benvenuto. Non hai ricevuto l'opuscolo informativo dell'Ufficio crimini internazionali?» «Sì, certo.» Margaret non voleva ammettere di non averlo letto. Aveva avuto intenzione di farlo. Se le fosse stato possibile, lo avrebbe letto quella notte. «C'è una prassi molto rigida da rispettare in queste occasioni: un elenco di permessi e divieti. I cinesi sono un po' suscettibili, ma non preoccuparti, ti aiuterò a non commettere errori.» Margaret non sapeva se esserne contenta o meno. Come aveva appena constatato, Bob poteva essere piuttosto noioso. Erano diretti a est lungo una superstrada a sei corsie che passava attraverso un quartiere di grattacieli. La luce del sole al tramonto l'abbagliava filtrando attraverso la patina di polvere e di insetti sul parabrezza dell'auto. L'auto si spostò sulla destra e si infilò in una strada secondaria affollata di
persone in bicicletta, e poi svoltò a destra, in quella che sembrava una zona residenziale. «Siamo arrivati» annunciò Bob. «Davvero?» Margaret si guardò intorno sorpresa. La macchina sobbalzò attraversando un cortile pieno di buche e sollevò una nube di polvere, quindi passò attraverso un cancello sorvegliato da un poliziotto che scattò rigidamente sull'attenti nel caldo soffocante. Nessuno rispose al suo saluto. All'improvviso si trovarono in una strada privata bordata di alberi; a sinistra, dietro un'alta siepe, si stendeva un ampio campo da gioco. Si fermarono davanti a un imponente edificio bianco con il tetto a pagoda e alte colonne scure. Margaret uscì anchilosata dall'auto e quasi svenne per il caldo soffocante. Immersa nell'aria condizionata della BMW, si era dimenticata della temperatura esterna. Bob le indicò un edificio di venti piani al di là degli uffici dell'amministrazione. «Il personale vive lì.» «Ma quanta gente lavora in questa accademia?» «Circa un migliaio di persone.» Oltrepassarono una doppia porta e salirono una scalinata di marmo. All'interno faceva più fresco. «E gli studenti quanti sono?» «Circa tremila.» Margaret era sbalordita: un rapporto studenti-docenti di tre a uno era incredibile negli Stati Uniti. «È una specie di West Point della polizia. Prego, da questa parte.» Si avviarono lungo un corridoio anonimo. Margaret non sapeva che quell'accademia fosse tanto selettiva. Adesso si pentiva di non aver letto il materiale informativo. «Naturalmente,» proseguì lui, felice di far sfoggio di ciò che sapeva «a te interessano soprattutto il dipartimento di Anatomopatologia e quello di Medicina legale. Sono là in fondo, dietro i campi da gioco, accanto al Laboratorio della scientifica. Là dentro ci sono alcuni strumenti davvero sofisticati, incluse le apparecchiature più moderne per tutti i tipi di esami, tra cui il test del DNA. Giungono qui campioni da analizzare da tutta la Cina. Riescono perfino a prenderti le impronte auricolari, come fanno con quelle digitali... anche se non riesco a immaginarmi un criminale che lascia le impronte delle proprie orecchie sulla scena del delitto, a meno che non abbia percosso a morte la vittima con il proprio apparecchio acustico!» Bob rise di quella battuta, mentre Margaret la ignorò. Il sorriso dell'uomo si
spense. «Ma naturalmente, questo non è il mio campo.» «E qual è il tuo campo?» «I profili psicologici elaborati al computer. Sto aiutando i cinesi a mettere in piedi un sistema efficiente come quello dell'FBI. Eccoci arrivati.» Aprì la porta e introdusse Margaret in una stanza minuscola con una finestrella all'altezza del soffitto. Dentro c'erano due scrivanie affiancate, tre piccole sedie di plastica e uno schedario. Su una delle scrivanie erano posate tre scatole di cartone. «Questo è il tuo...» «...il mio cosa?» Margaret era allibita. «Il tuo ufficio! E considerati fortunata: qui lo spazio è un bene prezioso.» Mentre stava per replicare, entrarono due uomini e una donna di mezza età con l'uniforme di agente scelto della polizia. Sorrisero e si inchinarono. Margaret contraccambiò il saluto, e poi guardò Bob con aria interrogativa. «Ti presento i tuoi colleghi del Dipartimento di Investigazione criminale dell'università.» Poi disse qualcosa in cinese, e i tre si inchinarono di nuovo sorridendo. «Il professor Tian, il professor Bai e l'incantevole dottoressa Mu.» I cinesi strinsero la mano a Margaret e poi, uno alla volta, estrassero solennemente il loro biglietto da visita. Glielo mostrarono tenendolo tra il pollice e l'indice e rivolgendo verso di lei il lato scritto, con la traslitterazione dei loro nomi in inglese. Margaret prese i biglietti, frugò nella borsa alla ricerca dei propri e lì distribuì loro. «Ni hau.» Erano le uniche parole cinesi che conoscesse. «Dovevi porgere il tuo biglietto da visita come hai visto fare a loro» le spiegò Bob. «Davvero?» Era dispiaciuta, ma ormai era troppo tardi per rimediare. «Ma non hai letto il materiale informativo?» «Mi dispiace, me ne sono dimenticata.» Margaret sorrise di nuovo, i tre cinesi contraccambiarono il sorriso e uscirono, dopo aver preso dalla scrivania una scatola per ciascuno. L'americana si guardò attorno, affranta. «Non posso proprio lavorare per sei settimane in uno spazio così angusto.» «Che cosa c'è che non va?» «Che cosa c'è? Sembra una cella! Dopo una settimana di reclusione qui dentro, comincerò a sbattere la testa contro il muro.» «Be', se fossi in te, non lo direi a Tian, a Bai e a Mu.» «Perché?» «Credo che non si dimostrerebbero molto comprensivi. Probabilmente
cominciano già a non trovarti molto simpatica.» «Ma perché? Mi conoscono appena.» «Be', tanto per cominciare...» Bob sedette sul bordo della scrivania «probabilmente, in una settimana, tu guadagnerai più di loro in un anno. E poi hanno appena dovuto sloggiare per lasciarti questa stanza.» Margaret rimase a bocca aperta. «In ogni caso,» disse Bob alzandosi «è arrivato per te il momento di conoscere il professor Jiang. Andiamo, ti sta aspettando.» Il professor Jiang, un uomo corpulento sulla sessantina, sembrava essersi lustrato di fresco per quell'incontro. Aveva folti capelli striati di grigio accuratamente tagliati e indossava un'uniforme equivalente a quella di un commissario capo. Gli occhiali dalla montatura scura risultavano un po' troppo grandi per il suo viso. Quando Bob entrò con Margaret nella sala riunioni, si alzò. Nella stanza faceva fresco, e le tende erano state chiuse per non lasciar entrare il sole. L'una di fronte all'altra c'erano due file di sedie basse e comode, davanti alle quali era sistemato un tavolino con una bottiglia di acqua gelata. Quando i due americani entrarono, si alzarono anche un giovane uomo in uniforme e una graziosa ragazza sulla ventina che indossava un vestito color panna. Bob fece le presentazioni, prima in cinese, poi in inglese. «Margaret, ti presento il professor Jiang, direttore del dipartimento di Investigazione criminale, il tuo capo.» Una stretta di mano e un sorriso formale. «Questo è il suo assistente, Cao Min, che è qui per un po', a fare pratica dopo il diploma. Un autentico investigatore.» Cao le strinse solennemente la mano. «E questa è Veronica.» Bob sorrise. «Molte ragazze cinesi si scelgono un nome occidentale. Ora che ci penso, qual è il tuo vero nome, Veronica?» «Veronica va bene» rispose la ragazza con un sorriso, stringendo la mano a Margaret. Era molto esile e la sua mano infantile quasi scomparve in quella di Margaret. «Farò da interprete.» Si sedettero. Il professor Jiang, Cao e Bob da una parte, Margaret di fronte a loro, e Veronica accanto alla finestra. Margaret si sentiva a disagio, come se avesse dovuto sostenere un esame e, sorridendo garbatamente, aspettò che succedesse qualcosa. Il professor Jiang si sistemò sulla sedia e si rivolse a Margaret in cinese. Lei non sapeva bene come comportarsi; pur non capendo nulla di ciò che veniva detto, doveva fissare l'interlocutore con aria in qualche modo interessata. Il professore parlava con una
voce flautata e una cadenza quasi ipnotica. Margaret cominciò a dondolarsi avanti e indietro e, improvvisamente, si sentì sopraffare da un colpo di sonno. Continuò a sbattere le palpebre cercando di rimanere sveglia. A un certo punto, Jiang fece un piccolo sorriso e si appoggiò allo schienale della sedia in attesa della risposta. Margaret guardò Veronica e, dopo un attimo di silenzio, la ragazza cominciò a tradurre: «Dunque... il professore le dà il benvenuto all'Accademia di Polizia. È molto lieto che lei sia qui.» Margaret si aspettava che la traduzione proseguisse, ma Veronica aveva finito. Gli occhi di tutti erano puntati su di lei. Sorrise e disse, rivolta a Jiang: «Ehm... professore, il vostro invito a tenere un corso all'Accademia di Polizia è un grandissimo onore per me. Spero di essere all'altezza delle aspettative e di insegnare qualcosa di utile ai vostri studenti.» Bob le strizzò l'occhio in segno di incoraggiamento; ancora una volta Margaret provò l'impulso di prendere a pugni quel viso compiaciuto. Il professore riprese a parlare. «Il professor Jiang dice che lei porterà sicuramente molta luce nelle menti degli studenti» tradusse Veronica. Jiang si aspettava una risposta da Margaret, ma lei non sapeva più che cosa dire, così si limitò ad annuire sorridendo. A quanto pareva, era la cosa giusta da fare, perché il professore le rispose con un ampio sorriso. Alla fine prese la parola Cao, con un perfetto accento americano: «Allora ci vediamo domani mattina per esaminare il programma delle sue lezioni. Se le servono apparecchiature audiovisive o l'autorizzazione per accedere ai laboratori, posso occuparmene io». Margaret fu molto sollevata di poter tornare a comunicare in inglese. «Ottimo, ho portato molte diapositive e, se sarà possibile, penso che sarebbe utile per gli studenti assistere a un'autopsia.» «Ne parliamo domani» concluse Cao alzandosi in piedi, imitato da tutti gli altri. Margaret era impegnata nel rituale dei saluti, quando un colpo alla porta preannunciò l'ingresso di Lily. La donna indirizzò un cenno di saluto al professore, poi si rivolse all'americana. «Siamo pronti a condurla al suo appartamento, dottoressa Campbell.» «Albergo» la corresse Margaret. «Appartamento,» insistette Lily «qui vicino. Abbiamo alcuni appartamenti per i professori non sposati.» «No, no, io alloggerò al Friendship Hotel, non voglio un appartamento. L'ho già spiegato prima di partire e la stanza è già stata prenotata.»
Il volto di Lily si fece paonazzo. «L'Accademia di Polizia non può pagare una stanza d'albergo. Ai professori diamo appartamenti.» La capacità di sopportazione e la pazienza di Margaret erano giunte al limite, soprattutto dopo quasi ventiquattr'ore senza sonno. «Senta, la stanza è già stata prenotata, la pagherò di tasca mia. Faceva parte dell'accordo, okay?» Il professor Jiang, disorientato, cercava di capire quale fosse il motivo del battibecco tra le due donne. Bob intervenne e, con un sorriso, si rivolse a Lily in cinese tentando di rabbonirla. Poi, sempre con un sorriso, disse a Margaret: «È solo un piccolo equivoco, adesso sistemiamo tutto». Ma Lily sembrava tutt'altro che rabbonita. Lanciò un'occhiata furiosa all'americana, girò sui tacchi e uscì con passo deciso dalla stanza. Sempre sorridendo, Bob sospinse Margaret in corridoio. «Dio mio! A che gioco stai giocando?» Margaret era esasperata. «Che cos'ho fatto adesso? L'albergo è già prenotato, è tutto sistemato. Non voglio rientrare a casa, la sera, e dovermi rifare il letto e cucinare la cena.» «Certo, ma Lily non lo sapeva. Non puoi continuare a contraddire la gente.» «Non me lo dire, le ho fatto perdere la mianzi.» «Ma allora hai letto l'opuscolo informativo!» Margaret resistette a fatica alla tentazione di sferrargli un pugno. «Il fatto è,» proseguì lui «che i cinesi hanno mille modi per dire "no" senza pronunciare la parola. E dovrai cominciare a impararne qualcuno, se non vuoi che le sei settimane qui ti sembrino sei anni.» Margaret sospirò. «Sentiamo, che cosa avrei dovuto dire?» «Che eri molto grata all'università per averti offerto una sistemazione, ma che sfortunatamente avevi già prenotato una stanza al Friendship Hotel. Te l'ho già detto: qui le cose funzionano in un altro modo. E, se vuoi ottenere quello che desideri, devi cominciare a mettere da parte un po' di guanxi.» «Che cos'è?» «È il fondamento della società cinese. È come tra vecchi amici: io faccio un favore a te, tu fai un favore a me. E non farai certo un favore a nessuno facendogli perdere la faccia.» Margaret chinò la testa, umiliata. Improvvisamente, Bob la vide molto piccola e fragile e si pentì di essere stato duro con lei. «Senti, mi dispiace. Hai avuto una lunga giornata...»
«Due lunghe giornate» puntualizzò lei. «...e credo che tutta la faccenda ti sembri molto strana.» «Sì.» Margaret stava per scoppiare in lacrime; si accorse che stava battendo nervosamente il piede sul gradino. Anche Bob se ne accorse e il suo tono si addolcì. «Lily ti accompagnerà al Friendship. Fa' una doccia, cambiati, magari schiaccia un pisolino e stasera, al banchetto, lasciati andare e divertiti. Il cibo è ottimo e, per il resto, ti aiuterò io a non commettere errori, okay?» Margaret lo guardò con gratitudine e sorrise. «Va bene, grazie.» Ma la sicurezza da poco acquisita durò fino all'arrivo alla macchina. Quando vide il volto accigliato di Lily Ping, Margaret si sentì morire. 4 Il giovane addetto alla sicurezza salutò Li Yan all'entrata di servizio del lussuoso Jingtan Hotel su Jianguomennei Dajie. Il poliziotto entrò nella cucina a pianterreno e si guardò intorno in cerca di Yongli. Ma non ce n'era traccia tra gli aiuto cuochi che affettavano verdure, preparavano marinate, trinciavano polli e ungevano anatre da arrostire. Fermò una cameriera. «Dov'è Ma Yongli?» «Di là» rispose la ragazza accennando alla porta. Li Yan aprì uno spiraglio e vi infilò la testa. Yongli stava in piedi accanto ai fornelli dietro un bancone da lavoro. Il grembiule bianco pareva accentuare la statura imponente e la corporatura massiccia dell'uomo; sotto l'alto cappello da cuoco spuntava una faccia tonda dall'espressione seria. Teneva d'occhio l'arrivo dei primi avventori serali del Café Cina, aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, ma i suoi pensieri erano altrove. Era di turno alla postazione dove il menu del giorno veniva cucinato davanti ai clienti. Ma questi non erano ancora arrivati e, almeno per il momento, il cuoco non aveva niente da fare e la sua mente era libera di fantasticare. Li Yan l'osservò con affetto per qualche secondo, poi fece un breve fischio. L'altro girò la testa di scatto e, vedendo l'amico, si illuminò in volto. Si guardò rapidamente intorno per verificare se qualcuno dei suoi superiori lo stesse osservando, quindi si affrettò verso la porta sospingendo a forza Li dentro la cucina. «E allora? Com'è andata?» Li Yan si fece serio, chinò la testa e scrollò le spalle. «Il commissario mi ha detto che il Partito scoraggia il nepotismo nelle sue forme più insidiose...»
«Su, dai, mi stai prendendo in giro, vero?» Yongli era veramente preoccupato. Ma Li continuò in tono grave: «No, mi ha detto proprio così». Fece una breve pausa e poi un largo sorriso. «Ma ciò non gli ha impedito di darmi il posto.» «Bastardo!» Yongli cercò di afferrarlo, ma Li Yan si sottrasse alla presa. «Ehi!» urlò il cuoco rivolto ai presenti. Tutti alzarono la testa. «Il grande Li ha avuto la promozione!» Afferrò un paio di mestoli di acciaio e iniziò a battere con ritmo indiavolato su una batteria di pentole e padelle appese ai ganci. Si levò un "evviva" seguito da un applauso. Li Yan arrossì e scosse la testa imbarazzato, sentendosi un idiota. Yongli aveva raggiunto la fine della fila delle padelle. «Così, la prossima volta che la polizia beccherà qualcuno di noi, basterà dire: "Ma lo sa chi sono io? Sono un amico del grande Li Yan". E sarà subito rilasciato.» Yongli sorrise all'amico, gli si avvicinò, gli prese il viso tra le mani gigantesche e gli stampò un grosso bacio sulla fronte. «Congratulazioni, vecchio mio!» I due si abbracciarono, mentre tutti gli altri applaudivano. Li Yan e Ma Yongli erano amici fin dal giorno in cui si erano conosciuti all'accademia, quasi quindici anni prima. Due spiriti affini, che si erano trovati subito. Due mattacchioni, allora e adesso. Li Yan ci era rimasto malissimo quando l'amico aveva lasciato gli studi, l'ultimo anno di università. I suoi risultati scolastici erano peggiorati di pari passo con il suo crescente interesse per le donne, i bar dove si faceva il karaoke e uno stile di vita al di sopra delle sue possibilità. Qui stava la sostanziale differenza tra i due: Li era più propenso alla carriera che al divertimento, mentre Yongli puntava tutto sulla ricerca del piacere. Così aveva colto al volo l'opportunità di frequentare un corso per cuochi organizzato da una joint venture sinoamericana. «Lo stipendio è fantastico» aveva raccontato all'amico. Ed era vero, in confronto alla vita di pura sussistenza cui era costretto uno studente cinese. Anche dopo la recentissima promozione, Li Yan avrebbe guadagnato molto meno dell'amico. Yongli aveva frequentato anche un corso di inglese, aveva trascorso sei mesi in un albergo svizzero per imparare a cucinare e a presentare i piatti della tradizione europea, e tre mesi negli Stati Uniti per scoprire come cuocere le bistecche. Qui aveva imparato ad abbandonarsi del tutto alle proprie inclinazioni edonistiche tornando con un grande appetito per tutto ciò che era americano e otto centimetri di giro vita in più. Con il passare del tempo, Li Yan e Ma Yongli si erano allontanati e avevano
imboccato strade molto diverse, cosicché adesso la loro amicizia si fondava più sulle esperienze del passato che su quelle presenti. Ma restavano comunque legati da un profondo affetto. «Bene.» Il cuoco si tolse il berretto e lo gettò a un collega che l'afferrò al volo. «Stasera, si festeggia.» «Ma se stai lavorando.» Yongli gli fece l'occhiolino. «Avevo già organizzato tutto, in previsione di buone notizie. I ragazzi aspettano solo una mia chiamata: un tavolo è prenotato per noi al Quanjude.» «I ragazzi?» «La vecchia banda. Tutto come un tempo.» Per un attimo il suo sorriso si spense. «Ma Lotus non ci sarà, so che tu non approvi...» «Ehi, ascolta, non è che io disapprovi...» «Non stasera, amico, va bene?» Il momento di tensione era durato solo un attimo e forse a un estraneo sarebbe del tutto sfuggito. Yongli sorrise di nuovo. «Ci prenderemo una bella sbronza.» 5 Margaret fu sorpresa di non trovare nessuno al bar, a parte un uomo di mezza età, quasi calvo, seduto in un angolo e intento a bere uno scotch doppio sfogliando distrattamente l'«International Herald Tribune». Si sentiva meglio: aveva fatto una doccia, si era cambiata e poi si era lasciata cullare un po' dal lusso del Friendship Hotel. Costruito negli anni Cinquanta per ospitare "esperti" russi, il grande edificio di granito ricordava i giorni della difficile cooperazione tra la Cina e la Russia di Stalin: dappertutto ottone lucido e draghi di marmo bianco, tetti a pagoda di lucenti tegole verdi, sostenuti da pilastri rosso scuro. Margaret aveva indossato un fresco vestito di cotone e si era lavata i capelli, che ora le ricadevano sulle spalle in morbide onde dorate. Prima di lasciare la stanza si era guardata il viso dalla pelle chiara punteggiata di lentiggini, e si era truccata leggermente. Aveva notato le piccole rughe intorno agli occhi e le occhiaie profonde. E, come una pugnalata, le erano venuti in mente gli eventi degli ultimi diciotto mesi e l'effetto devastante che avevano avuto sulla sua vita. La grande stanchezza e il disorientamento prodotto dalle novità di quelle prime ore in Cina glieli avevano fatti dimenticare, ma adesso tornavano come il sapore sgradevole di un cibo
non digerito. Doveva bere qualcosa. Appoggiata al bancone, una cameriera chiacchierava con due giovani barman. Quando Margaret entrò, i tre tacquero. Lei si sistemò su uno sgabello e, senza neppure aprire il menu che il barman le porgeva, ordinò: «Un vodka tonic, con acqua e limone». A queste parole l'uomo seduto nell'angolo alzò la testa. Piegò il giornale, vuotò il bicchiere e si diresse verso il bancone. Era basso e corpulento. Quando si avvicinò, Margaret si girò a guardarlo. Aveva la pelle cascante e una pappagorgia che gli deformava il mento sfuggente; le guance carnose erano solcate da rughe profonde che si dipartivano dagli occhi gonfi e acquosi, iniettati di sangue. I radi capelli, disordinati, ispidi e quasi del tutto grigi, erano appiccicati al cranio con una brillantina dall'odore penetrante che fece arricciare il naso a Margaret. L'uomo aveva un sorriso sgradevole e l'alito che puzzava forte di alcol. «Lo metta sul mio conto» disse al barman con voce strascicata e un inconfondibile accento californiano. «Non si disturbi» intervenne Margaret, fredda, «No, insisto.» E, rivolto a uno dei barman: «Dammi un altro scotch». Poi si rivolse a Margaret: «Mi fa piacere sentire qualcuno parlare la mia lingua». «Davvero? Pensavo che qui si riunisse il jet set.» Lo aveva letto da qualche parte ed era stata una delle ragioni per cui aveva scelto quell'albergo. Dopo che i rapporti tra Russia e Cina si erano raffreddati e gli "esperti" sovietici se n'erano andati, il Friendship era diventato il rifugio di "esperti" di tutte le nazionalità e, di recente, un luogo di raccolta di ex fuoriusciti che preferivano l'inglese al cinese. «Una volta.» Nel tono dell'uomo c'era una sfumatura di amarezza. «Ma, sa come vanno le cose, un anno va di moda un posto, l'anno dopo un altro. E la bella gente se ne va.» Margaret notò un crescendo di rancore. «In realtà, non mi manca affatto; la bellezza può anche diventare un po' noiosa, non le pare?» Ma ciò che lei pensava non doveva interessargli, perché subito aggiunse: «Tutto quello che serve a un uomo è un rifornimento costante di whisky. E da questo angolino tranquillo il solitario bevitore può sempre osservare il ridicolo spettacolo dei nouveaux riches cinesi. A proposito, mi chiamo McCord, J.D. McCord». Margaret si sentì in dovere di stringergli la mano. Si aspettava una mano molle e umidiccia, invece trovò che aveva una forza quasi eccessiva; quel tocco freddo e asciutto ricordava un rettile. «E lei, come si chiama?» «Margaret Campbell.» La gentilezza dell'uomo l'aveva messa in trappola. E l'arrivo del vodka tonic chiuse defi-
nitivamente qualsiasi via di fuga. «Bene, Margaret Campbell, che cosa l'ha portata qui a Pechino?» Margaret bevve un lungo sorso del suo drink, e si sentì subito meglio. «Terrò un corso di sei settimane all'Accademia di Polizia.» «Davvero?» McCord sembrava impressionato. «E su quale argomento?» «Anatomopatologia.» «Caspita! Intende dire che lei, per mestiere, fa a pezzi la gente?» «Solo i morti.» «Allora sono al sicuro per adesso» replicò lui con un sorriso. Per un attimo, Margaret immaginò con voluttà e malizia di segargli il cranio e di vedere il suo stupido cervello di alcolizzato schizzare fuori e finire in una bacinella di lucido acciaio. Arrivò lo scotch ordinato e McCord ne bevve una generosa sorsata. «Se è appena arrivata, le serve qualcuno che le faccia da guida.» «Qualcuno come lei?» «Sì, sono qui da quasi sei anni e conosco bene il posto.» «Lei sta qui da sei anni?» Era sbalordita al pensiero che si potesse vivere per così tanto tempo in albergo. «Be', no, non vivo qui al Friendship, ci vengo solo a farmi un goccetto. La mia società mi fa alloggiare al Jingtan, dall'altra parte della città, ma quel maledetto posto è pieno di giapponesi che non sopporto. In realtà, sono qui a Pechino solo da due anni, prima stavo al Sud.» Scosse la testa, ricordando fatti spiacevoli. «Arrivare qui è stato come salire in paradiso dopo essere morto.» Si affrettò ad allungare un braccio come per fermarla. «Aspetti ad afferrare il bisturi, però, non sono ancora morto. Era solo una metafora.» «Una similitudine» lo corresse lei. «Fa lo stesso.» Vuotò il bicchiere. «Posso offrirle la cena?» «No, grazie.» «Guardi che non me la prendo se una donna fa la difficile con me: mi piace il sapore della conquista.» Margaret finì la vodka. Il calore inebriante del liquore le dava coraggio. «Non faccio la difficile, sono impegnata.» «Stasera o sempre?» «Stasera e sempre.» McCord rimase pensieroso per un istante, poi spinse il bicchiere ormai vuoto verso il barman. «Riempimelo. Ne vuole un altro?» Margaret scosse la testa. «Allora dove va di bello stasera, se è lecito?»
«A un banchetto.» «E siamo già in ritardo» intervenne Lily che era sopraggiunta senza farsi sentire. Per una volta Margaret fu felice di vederla. «Un banchetto, eh? Magari al Quanjude?» «Come fa a saperlo?» si sorprese l'americana. «Tutti, dal Presidente degli Stati Uniti all'ultima delle anatomopatologhe, ricevono lo stesso trattamento: anatra alla pechinese. Si diverta.» Alzò il bicchiere in un brindisi e trangugiò una lunga sorsata, mentre Lily guidava rapidamente Margaret verso la hall. «Lo conosce?» Le domandò con aria di disapprovazione. «No, l'ho incontrato poco fa. Chi è?» «McCord: tutti a Pechino lo conoscono. Lavora per il governo cinese, ha guanxi, amici potenti. E gli piace pagare le ragazze cinesi per... ciò che altre donne non vogliono dargli.» Lily appariva insolitamente imbarazzata. «Va con le prostitute?» Margaret era disgustata. «E noi non possiamo farci niente.» 6 Il ristorante Quanjude si trovava in Qianmen Dajie, a sud di piazza TienAn-Men. Era un centro commerciale affollato di negozi di ogni tipo, tutti ancora aperti. Le strade brulicavano di acquirenti dell'ultima ora o di lavoratori che, sulla strada del ritorno, si fermavano in uno dei tanti fast food di cibi occidentali o cinesi per mangiare qualcosa in fretta o portarsi a casa un pasto pronto. Dalla strada principale si dipartiva un dedalo di hutong, gremiti di bancarelle o chioschi illuminati da lanterne rosse, mentre le vetrine risplendevano di insegne al neon. La BMW si fece strada in mezzo al traffico, superò il fast food del Quanjude, noto per i suoi hamburger di anatra, e svoltò in un tunnel con le pareti tappezzate di foto dei potenti della Terra che si ingozzavano di anatra arrosto. Bob, visibilmente in ansia e con l'occhio all'orologio, le aspettava nel parcheggio, sotto le lanterne dell'ingresso. Appena Margaret scese dall'auto, la prese per un braccio e la guidò in fretta attraverso la porta girevole. «Siete in ritardo» le sibilò. «Be', non è colpa mia. È l'autista che mi prende e mi scarica.» «Okay, okay.» L'uomo si guardò intorno un po' imbarazzato. Il pianterreno del ristorante era affollato: tavole apparecchiate a perdita d'occhio, carrelli colmi di anatre arrosto fumanti e cuochi intenti a tagliarle. «Ora a-
scoltami, prima di raggiungere gli altri devo dirti alcune cose.» «Non ne dubitavo.» Per quanto fosse ancora stanchissima, si sentiva un po' meglio. La vodka stava facendo effetto. Bob ignorò il tono sarcastico. «Ti sistemeranno a destra di Jiang, il tuo ospite. Non sederti finché lui non ti indicherà il tuo posto. Poi il professore farà un brindisi di benvenuto, al quale tu risponderai con un brindisi in cui lo ringrazierai della sua generosità.» Margaret si sentiva una bambina cattiva, che veniva sgridata per le sue marachelle e istruita su come comportarsi in futuro. Il suo sguardo fu attratto da una vetrata che dava sulla cucina, dove le anatre venivano arrostite in enormi forni a legna. «Di solito, il pasto comprende quattro portate. Per le prime due lascerai che Jiang ti serva, poi gli dirai che puoi fare da sola. Sai usare le bacchette?» «Sì» rispose lei con un sospiro. «Bene, allora capovolgile e usa l'estremità pulita per servirti dai piatti da portata. Ah, è considerato disdicevole che le donne bevano troppo. Perciò limitati a sorseggiare quello che ti viene servito durante i brindisi e lascia il resto nel bicchiere, d'accordo?» Margaret annuì, senza ascoltare. Fissava una foto autografata di George Bush che addentava un boccone di anatra. Quando gli avevano chiesto l'autografo, lui aveva scarabocchiato il suo nome poi, ricordandosi che si imponeva anche un commento gentile, aveva aggiunto: «Pranzo superbo, grazie infinite». "Originale come sempre" pensò lei. «Un'altra cosa: non parlare di lavoro se non sono loro a proporre l'argomento. E non stupirti se ti fanno domande... personali.» «Che tipo di domande personali?» «Mah, quanto guadagni, quanto costa il tuo appartamento a Chicago, cose del genere.» «Ma non sono affari loro!» «Santo cielo, Margaret, non dirglielo. Se non vuoi rispondere, buttala sul ridere. Per esempio, puoi dire: "Ho promesso a mio padre di non dirlo a nessuno".» «Be', sicuramente si piegheranno in due per le risate!» Si sentiva la testa leggera e tutto aveva assunto una strana aria irreale. «Sarà meglio che andiamo.» Mentre Bob la conduceva verso le scale, Margaret notò un gruppo di sette od otto giovani seduti davanti ad alti boccali di birra. Dalla tavolata si levavano risate rauche e un denso fumo di sigaretta. Era strano, ma uno di quegli uomini aveva un aspetto vagamente familiare: viso non bello, ma-
scella squadrata e capelli a spazzola. Margaret incrociò lo sguardo dell'uomo e improvvisamente si ricordò: era il ciclista furibondo con cui si era scontrata nel pomeriggio. Con sua grande sorpresa, lui sorrise e fece un cenno di saluto con la mano. Bob contraccambiò il saluto e Margaret si rese conto che l'uomo non stava guardando lei. «Lo conosci?» gli chiese mentre salivano le scale. «Sì, si è diplomato parecchi anni prima che io arrivassi, ma ogni tanto viene a tenere qualche lezione. Si chiama Li Yan, è uno degli investigatori più promettenti della Prima Sezione.» «Della Prima Sezione?» «Sì, è una squadra anticrimine della polizia municipale che si occupa di reati gravi: omicidi, rapine a mano armata, e cose del genere. Perché, lo conosci?» «No, ma l'abbiamo urtato con la macchina mentre venivamo a prenderti.» In cima alle scale, Margaret si girò e guardò in direzione di Li Yan, ma lui era intento ad ascoltare una storiella raccontata ad alta voce da un ragazzone con la faccia tonda seduto accanto a lui. Dal tavolo si levarono sonore risate. Il piano superiore del ristorante era occupato da una galleria che si affacciava sui tavoli della sala sottostante. Dal soffitto pendevano lunghi lampadari verdi simili a lacrime. In fondo alla galleria, gli altri ospiti aspettavano il loro arrivo accanto a una grande tavola rotonda. C'erano i professori Jiang, Tian e Bai, la dottoressa Mu, Cao con i rispettivi compagni, e Veronica, che indossava lo stesso vestito del pomeriggio. Affrontarono il noioso rituale delle presentazioni formali. Il marito della dottoressa Mu, con i capelli lunghi che sfioravano il colletto della camicia e una rada barbetta a punta, sembrava del tutto fuori posto in quella compagnia di volti ben rasati e capelli appena tagliati. Le rivolse un caldo sorriso ed estrasse un pacchetto di sigarette, offrendogliene una. «Grazie, non fumo» rispose Margaret. «Be', le dispiace se fumo?» Bob sembrava teso. «Così si apre la via verso la tomba» osservò Margaret con un sorriso. «Scusi?» «Ho visto con i miei occhi i danni che il fumo provoca ai polmoni.» Un po' perplesso, l'uomo si accese ugualmente la sigaretta. Il professor Jiang prese la parola, e Veronica fu pronta a tradurre: «Il professor Jiang dice che potete accomodarvi».
Jiang rimase in piedi e indicò a Margaret il posto alla sua destra. Lei si sedette, seguita dagli altri. Per il momento, tutto stava andando come previsto. Arrivò un cameriere che mise accanto a ciascuno dei commensali una coppetta di porcellana piena di un liquore trasparente dall'odore penetrante. «È mao tai,» l'avvertì Bob «un distillato di sorgo fortissimo, quindi vacci piano.» Jiang alzò la coppetta e accompagnò il brindisi con un lungo discorso che Veronica rese con un sintetico: «Benvenuta a Pechino, benvenuta all'Accademia di Polizia». Tutti sollevarono le coppette dicendo: «Gan bei» e sorseggiarono il liquore che aveva un sapore orribile quanto l'odore. Margaret fece fatica a inghiottirlo, tanto bruciava. Poi si ricordò che toccava a lei, ora, proporre un brindisi: si disse onorata di trovarsi lì e ringraziò in particolare il professore per la sua generosità. Veronica tradusse, Jiang annuì, evidentemente soddisfatto e tutti alzarono di nuovo le coppette: «Gan bei». Questa volta solo gli uomini buttarono giù il liquore in un sol sorso mentre le donne si limitarono a inumidirsene le labbra. "Al diavolo!" pensò Margaret. "È molto più facile berlo tutto d'un fiato che sorseggiarlo." Rovesciò indietro la testa e svuotò la coppetta, riappoggiandola poi con decisione sul tavolo. Dapprima si sentì svenire e poi soffocare: i polmoni rifiutavano di inspirare l'aria. Tutti gli occhi erano puntati su di lei, che era diventata paonazza. Alla fine riuscì a respirare e cercò di sorridere, rassicurante. Aveva voglia di urlare per il dolore. Il marito della dottoressa Mu le rivolse un applauso e un sorriso malizioso. «Brava! Questo la porterà alla tomba.» La battuta la fece ridere. Gli altri commensali risero a loro volta. Tutti tranne Bob, ma Margaret evitò di guardare nella sua direzione. Ora che il bruciore si era un po' calmato, gli effetti del mao tai, sommati a quelli della vodka e alle ventiquattrore senza sonno, la facevano sentire euforica. Al momento di ordinare da bere, si fece portare una birra. Iniziarono a servire il cibo e il banchetto culminò con la preparazione di tre anatre, che vennero dapprima immerse in hoi sin e poi avvolte in una sottile pastella insieme a fettine di cipollotti, cetrioli e aglio crudo. Una vera delizia. I commensali chiesero educatamente a Margaret notizie del viaggio e della sistemazione in albergo. Lei fece alcune domande sulle rispettive famiglie e sulle loro case. Più birra e vino bevevano, più l'atmosfera si faceva informale e le domande diventavano personali. Piegandosi verso di lei attraverso il tavolo, Cao le chiese con aria confidenziale: «Ho sentito dire che, negli Stati Uniti, gli anatomopatologi sono piuttosto ben pagati».
Veronica tradusse per gli altri e Margaret rispose: «Tutto è relativo. Certo, in confronto con i salari cinesi, si direbbe di sì. Ma tenga presente che negli Stati Uniti la vita è molto più cara». «E lei quanto guadagna, dottoressa Campbell?» Insistette lui. Nonostante ciò che le aveva detto Bob, Margaret fu presa alla sprovvista da quella domanda così esplicita e personale. La dottoressa Mu fece un commento e tutti risero. Veronica tradusse: «La dottoressa ha detto: "In vino veritas"». "Bene," pensò Margaret "se proprio volete saperlo..." «Guadagno circa ottantacinquemila dollari all'anno.» Un silenzio assoluto calò su queste parole. A Margaret sembrò quasi di sentire le menti dei suoi ospiti arrovellarsi in rapidi calcoli. Sbarrarono gli occhi e restarono a bocca aperta, francamente sorpresi dalla ricchezza della yangguizi cui stavano offrendo la cena. Margaret si pentì di non aver optato per una risposta più diplomatica. Fu servito un gustoso consommé di anatra, seguito da un enorme piatto di riso fritto. Margaret terminò la birra e prese un po' di riso, mentre il marito della dottoressa Mu le domandava: «Così, lei è un'anatomopatologa, dottoressa Campbell». «Sì.» «E ha una particolare specializzazione?» «Sì, le vittime degli incendi.» Si guardò intorno: tutti gli sguardi erano rivolti verso di lei, in attesa che proseguisse. «Durante la specializzazione ho lavorato come assistente di uno degli anatomopatologi che furono chiamati a Waco, nel Texas, per identificare tutti quei cadaveri, quelli delle vittime dell'incendio. È lì che ho iniziato a occuparmi di questo settore. È strano, le prime volte che esegui un'autopsia su un cadavere carbonizzato, l'odore di carne umana bruciata ti rimane addosso per giorni interi. Ora però non ci faccio più caso.» Prese un boccone di riso e notò che invece tutti posavano le bacchette. Pallidissima, Veronica tradusse, poi si alzò di scatto. «Scusatemi» e corse verso il bagno. «Posso avere un'altra birra?» chiese Margaret al cameriere. «E io vorrei un altro scotch.» Tutte le teste si voltarono: McCord prese una sedia da un altro tavolo e si sedette vicino a Margaret. Si reggeva in piedi a fatica ed era paonazzo in viso. «Che coincidenza incontrarla qui! Signori, vi dispiace se mi fermo qui per un dii-ges-tivo?» Tutti lo fissarono impietriti. Cao si piegò a sussurrare qualcosa al profes-
sore, che appariva furibondo e fece un secco cenno di assenso. Bob lanciò un'occhiata dura a Margaret, ma lei fece finta di nulla. «Allora, Margaret Campbell, com'era la sua anatra alla pechinese?» chiese McCord piegandosi verso di lei. Cao girò intorno al tavolo e si chinò a sussurrare qualcosa all'orecchio del nuovo venuto, suscitandone la reazione indignata. «Santo cielo, lei è davvero poco ospitale!» Bob si alzò. «Forse ha bevuto un po' troppo, dottor McCord.» E lo prese per un braccio. «Ma chi è lei per dirmi quanto devo bere?» fece quello, divincolandosi. Margaret sfiorò il braccio di Bob. «Ma chi è?» «Pensavo che lo sapessi, lui sembra conoscerti benissimo.» «Ha cercato di rimorchiarmi in albergo.» «Glielo dico io chi sono.» McCord infilò la testa tra i due. «Sono quello che dà da mangiare a questo stramaledetto paese.» Cao scrollò le spalle sconsolato guardando Jiang, che annuì e gli fece segno di sedersi. Bob si rivolse a Margaret: «Il dottor McCord è stato il responsabile dello sviluppo del super riso cinese, probabilmente ne avrai sentito parlare. Questa coltura è stata introdotta circa tre anni fa e da allora la produzione è aumentata del... cinquanta per cento?». «Del cento per cento» lo corresse McCord. «Il riso è indistruttibile, inattaccabile dalle malattie, dai diserbanti e dagli insetti.» «E sarà senz'altro buonissimo» Margaret non riuscì a nascondere il proprio scetticismo. «Me lo dica lei: lo sta mangiando» disse McCord sorridendo mentre lei si serviva dalla scodella di riso che aveva davanti. «Allora forse dovrebbe prenderne un po' anche lei, per assorbire tutto l'alcol che ha in corpo.» «Lasci perdere questo argomento!» Arrivò la cameriera con il whisky per McCord e la birra per Margaret. Mentre lo guardava trangugiare avidamente il liquore, nonostante la stanchezza e lo stato di ebbrezza, Margaret sentì affiorare un vago ricordo, legato a cose che avrebbe preferito dimenticare. «Lei è il dottor McCord, James McCord.» «Proprio così.» «L'hanno buttata fuori dal... come si chiamava... dal Boyce Thompson Institute della Cornell University, più o meno sei anni fa.» «Bastardi!»
«Per aver effettuato esperimenti con piante geneticamente modificate senza l'autorizzazione dell'EPA. È andata così, vero?» L'uomo abbatté un pugno sul tavolo facendo sobbalzare i commensali. «Stupidi regolamenti! Vincolano la gente, impedendole di muoversi! Documenti, burocrazia, ... per ogni cosa ci vuole tanto di quel tempo che, quando si ottiene l'autorizzazione agli esperimenti, il resto del mondo è già passato allo stadio successivo!» Afferrò una ciotola di riso. «Questo riso avremmo potuto coltivarlo noi americani. E così pure il grano, e il mais, sfamando così l'intero pianeta. Invece è stato un paese del Terzo Mondo come la Cina ad avere l'idea.» I commensali cinesi che capivano l'inglese risultarono visibilmente offesi dalla definizione della Cina come "paese del Terzo Mondo". «Così sono stati i cinesi a finanziare le sue ricerche?» Margaret era incuriosita. «Santo cielo, no, le hanno solo facilitate. Sono stati i miei capi, quelli delle Grogan Industries, a mettere i soldi. Un investimento ad alto rischio da bravi capitalisti vecchio stile. Hanno fatto un accordo con la Cina. Strano, non le pare? Ma, mia cara, hanno centrato il bersaglio entrambi.» «Come?» «Ma è evidente! I cinesi rappresentano un quarto della popolazione mondiale e per la prima volta nella loro storia riescono a nutrirsi da soli. Anzi, oggi coltivano tanto riso che possono persino esportarlo.» «E le Grogan Industries?» «Detengono il brevetto su tutto il mio lavoro. L'anno prossimo lanceranno il mio riso in India e in Asia.» Margaret aveva sentito parlare delle Grogan Industries, una multinazionale statunitense che si occupava di biotecnologie e aveva una fama sinistra di sfruttamento spietato del mercato farmaceutico nel Terzo Mondo. «E saranno senz'altro i paesi più poveri, quelli che ne hanno più bisogno, gli ultimi ad avere il suo riso. Scommetto che la sua tecnologia ha un prezzo, vero dottor McCord?» «Ehi!» L'uomo alzò le mani in un gesto di autodifesa. «Non è mica colpa mia. L'unico obiettivo degli scienziati è lavorare al servizio dell'umanità.» Sorrise. «Più o meno. Ma è il denaro che fa girare il mondo.» «Sì, e sono i soldi e i dividendi a convincere i politici e i governi a non porre limiti sensati al lavoro di gente come lei.» Il tono appassionato di Margaret, che ora riemergeva insieme a ricordi dolorosi, era frutto di anni di discussioni e litigi.
La sua veemenza colse McCord di sorpresa. Gli altri commensali tacevano affascinati; l'offesa iniziale era stata dimenticata e ora prevaleva la curiosità di fronte allo spettacolo offerto da quei due yangguizi che si provocavano a vicenda. Quando Veronica tornò al tavolo, Bob si alzò e si allontanò con discrezione. «Limiti sensati? Che cos'hanno di sensato?» «Impediscono a ricercatori arroganti che si credono onnipotenti di immettere nell'ambiente sostanze ottenute attraverso manipolazioni genetiche di cui ignorano completamente gli effetti a lungo termine.» «Mi sembra che gli effetti, a lungo termine o di altro genere, siano evidenti: migliaia di persone che prima morivano di fame adesso possono sfamarsi.» «Ma a che prezzo? Come ha messo a punto questo super riso, dottor McCord? Inserendo geni insetticidi, antimicotici, antivirali?» McCord rimase dapprima colpito dalla competenza di Margaret in materia, poi si ricordò: «Ma certo! Lei è un medico. Be', mi fa piacere che il mio lavoro le interessi. La genetica, però, non è il suo campo. Lasci allora che le fornisca qualche spiegazione, nei termini per lei più chiari». Chiuse una mano a pugno e poi distese il mignolo. «Immaginiamo che il mio mignolo sia un virus.» Poi, sorridendo maliziosamente, aggiunse: «O, forse, lei preferisce pensare che il virus abbia un aspetto più familiare... per esempio un pene». Veronica arrossì violentemente, mentre Cao e il marito della dottoressa Mu abbassarono lo sguardo. «No, il mignolo va bene» lo interruppe Margaret. «Del resto, è probabile che il suo membro non sia tanto più grosso.» McCord sorrise. «Allora mi segua: il mignolo rappresenta un pene, che rappresenta un virus, che io infilo nel riso. Così va bene? Ora immagini che io infili un preservativo sul mio pene.» E fece scorrere sul mignolo il pollice e l'indice dell'altra mano. «È il rivestimento proteico del virus. Perché, in fin dei conti, che cos'è un virus se non un gene con un rivestimento proteico?» «Okay.» «Allora, a questo rivestimento proteico attacco i frammenti di gene che voglio introdurre nel riso, quelli che lo renderanno resistente alle malattie e agli insetti. Poi inserisco il virus nel riso come un pene nella vagina. Solo che, una volta che questo è dentro, il preservativo scivola via spedendo i frammenti del gene nei posti giusti, come gli spermatozoi nell'ovulo.» Soddisfatto, McCord si appoggiò allo schienale della sedia e vuotò il bic-
chiere. «Quindi lei ha contaminato tutto il raccolto di riso della Cina con un virus!» esclamò Margaret indignata. «Certo,» annuì lui contento «ma si tratta di un virus vegetale innocuo. Santo cielo, mangiamo continuamente cose di questo tipo. E un virus è il miglior veicolo per i geni perché, come lei sa benissimo, ha un solo scopo nella vita: riprodursi. Così, introduce il gene in tutte le cellule e il gioco è fatto! Abbiamo solo aiutato madre natura a migliorare il proprio lavoro.» «Non riesco a credere che abbia iniziato la produzione di una cosa del genere, che abbia pensato di "aiutare madre natura". Santo cielo, McCord, lei sta modificando il risultato di un miliardo di anni di evoluzione! Non immagina quale genere di mostruosità stia immettendo nell'ambiente!» «Dottor McCord!» Una vociona gioviale risuonò nella sala e una grossa mano calò sulla spalla dell'uomo. Margaret alzò lo sguardo e, stupita, vide Bob insieme a Li Yan e all'allegro commensale che era al suo tavolo nella sala sottostante. Era quest'ultimo ad apostrofare McCord con tanto calore. L'americano lo guardò, confuso. «Che cosa c'è? Chi diavolo è lei?» «Sono Ma Yongli, cuoco del Jingtan. Non si ricorda di me? Sono un vecchio amico di Lotus, che la sta aspettando in albergo» sorrise maliziosamente e gli fece l'occhiolino. «Davvero mi aspetta? Non lo sapevo.» «Dice che avevate un appuntamento.» «Davvero? Caspita, me ne ero dimenticato.» Yongli lo sollevò di peso dalla sedia. «Andiamo, le chiamerò un taxi: non vorrà far aspettare Lotus!» «No, certo!» E l'omone guidò McCord verso le scale. Bob strinse la mano a Li. «Grazie, Li Yan, mi ha fatto un favore.» «Nessun disturbo» rispose lui con un sorriso. Accennò un saluto al professor Jiang e scambiò qualche parola con lui. Fece un rapido cenno agli altri commensali, poi si soffermò a guardare Margaret. Il disprezzo generale di cui si sentiva oggetto le aveva fatto abbassare gli occhi e desiderare con tutto il cuore di non essere mai venuta in Cina. Quando rialzò lo sguardo, il poliziotto se ne era andato. Al tavolo la conversazione era ripresa a bassa voce. Bob le si sedette accanto. «Come inizio, non è stato dei migliori» le sibilò.
«Non l'ho invitato io.» «Ma non dovevi ingaggiare con lui una discussione tanto accesa.» «Sono stata costretta a farlo, perché nessuno di voi ha avuto il coraggio di mandarlo al diavolo.» «Ma non potevamo!» Bob stava per alzare la voce, ma si trattenne in tempo. «McCord ha relazioni ad alto livello, in questa città. Il suo progetto sul riso ha avuto l'appoggio di Pang Xiaosheng, ex ministro dell'Agricoltura e oggi membro del Politburo, un eroe nazionale. È stato Pang a convincere la dirigenza cinese a concludere l'affare con le Grogan e a trarne vantaggio. È il più quotato a diventare il prossimo leader della Repubblica Popolare. Non devi prendertela con gente del genere, Margaret.» Fuori era buio. Li Yan e Ma Yongli sostennero McCord, semisvenuto, lungo il tunnel che collegava il ristorante alla strada. Il traffico era intenso e le strade affollate, illuminate dalle insegne al neon e dai fari delle auto. Li cercò di fermare un taxi, ma la vettura era occupata e proseguì. «Sarà molto deluso quando scoprirà che Lotus non l'aspetta in albergo» disse poi sottovoce a Yongli. «Le farò una telefonata. Si prenderà cura di lui.» «Le chiederai davvero di farlo?» Li non capiva. «E perché no? È ubriaco, non credo che possa rappresentare una minaccia per lei. E poi lei sa come prenderlo.» Li scosse la testa: il rapporto dell'amico con Lotus restava un mistero per lui. Una Volvo nera con i finestrini oscurati si accostò al marciapiede tagliando la strada a un taxi cui Li aveva fatto cenno di fermarsi. Il tassista protestò suonando con forza il clacson ma poi decise che era meglio non discutere e ripartì con una sgommata. Dalla Volvo scese un corpulento autista in uniforme che prese in consegna l'ubriaco. «Accompagno io il dottor McCord.» «Lo riporta in albergo?» gli chiese Yongli, sconcertato dall'improvvisa comparsa della vettura. «No, ha un appuntamento.» Aprì lo sportello posteriore e caricò McCord in macchina senza tanti complimenti. «Ehi, ma io ho un appuntamento con Lotus!» protestò McCord, rendendosi improvvisamente conto che i suoi programmi erano cambiati senza che nessuno l'avesse consultato. Dopo aver chiuso la porta, l'autista si mise al volante, infilandosi silenziosamente nella corrente del traffico. «Un'auto governativa» osservò Yongli pensieroso. «Chissà dove lo por-
tano.» Li lo sapeva benissimo, tanto che non aveva avuto bisogno di chiederlo all'autista. CAPITOLO SECONDO Martedì mattina 1 Autobus e biciclette si facevano strada a fatica nel traffico caotico di Chaoyangmen Nandajie, una stretta arteria che tagliava da nord a sud la parte centro-orientale della città. Percorrendola verso nord, Li giunse nel cuore di Dongcheng, dove la Prima Sezione della polizia municipale di Pechino aveva il suo nuovo quartier generale. Si fermò all'angolo di Dongzhimennei. Mei Yuan lo apostrofò con il consueto: «Ciao, hai mangiato?». «Sì» rispose lui, come sempre. Lei cominciò a preparargli la colazione. Questo botta e risposta, che faceva parte di un rituale in uso tra gli abitanti di Pechino, non aveva nulla a che vedere con il cibo, ma era un'amichevole forma di saluto. Parcheggiata la bicicletta, Li Yan si fermò a guardare la donna al lavoro. Aveva un viso tondo e liscio e occhi a mandorla dallo sguardo birichino. I capelli scuri, leggermente striati di grigio sulle tempie, erano stretti in una treccia e avvolti in un fazzoletto verde. Quando sorrideva, e ciò accadeva spesso, sulle guance le comparivano delle profonde fossette. In quel momento era tutta concentrata nella preparazione del tan bing sulla piastra del suo piccolo chiosco a tre ruote. Quando ebbe finito, si mise a osservare soddisfatta l'uomo che addentava con voracità quella colazione saporita e fumante. «Ottima!» Il poliziotto si asciugò una goccia dall'angolo della bocca. «Se non vivessi con mio zio, ti sposerei.» Lei scoppiò in una sonora risata. «Ma potrei essere tua madre!» «Ma mia madre non sapeva preparare tan bing così buoni.» In realtà, sua madre non aveva mai preparato tan bing. E, se le cose fossero andate diversamente, neppure Mei Yuan li avrebbe preparati. Adesso sarebbe stata un professore universitario o un alto funzionario pubblico. Li Yan piegò la testa di lato per leggere il titolo del libro che la donna aveva ficcato dietro la sella del triciclo: le Meditationes di Cartesio. Osservò le
piccole mani paffute di Mei Yuan, segnate da microscopiche scottature, e si sentì partecipe del dolore della sua vita: una generazione rovinata dai dodici anni di follia della Rivoluzione culturale. Eppure, se anche Mei Yuan avesse avuto qualche rimpianto, il sorriso con le fossette e gli occhi birichini non lo lasciavano trasparire. Non le sfuggì l'occhiata di Li al suo libro. «Se vuoi, quando l'ho finito, te lo presto. Era un uomo straordinario» aggiunse sorridendo. «"Penso, dunque sono".» «Grazie, mi farebbe piacere. E, appena finito, te lo renderò subito.» Li Yan addentò un altro boccone di tan bing. «Allora, hai trovato la soluzione?» «La terza persona della fila deve essere stata la moglie. Hai cercato di farmi credere che fosse un uomo» rispose lei. «No, no, io non ho cercato di farti credere nulla. Sei stata tu a pensare che fosse un uomo. Solo quando hai abbandonato questa idea, hai capito chi fosse.» «Non molto ingegnoso, ma efficace» concluse lei, sempre sorridendo. «E tu, che cos'hai per me?» domandò Li Yan. «Due uomini. E qui non ci sono possibilità di equivoco. Il primo possiede tutti i libri del mondo e ciò gli permette di accedere alla fonte di ogni conoscenza. La conoscenza è potere, quindi è un uomo molto potente. Il secondo possiede solo due bastoni e ciò nonostante è più potente del primo. Perché?» Li ci rifletté un momento, poi desistette. «Dovrai aspettare domani mattina.» «Va bene.» Le strizzò l'occhio in segno d'intesa e poi sbirciò l'orologio che teneva in una taschina di cuoio appesa alla cintura. «Adesso devo andare.» Riprese la bicicletta e ripartì. La donna guardò con affetto l'alta figura di Li Yan addentrarsi nel traffico per attraversare Dongzhimennei. Le piaceva pensare che in qualche punto di quell'immenso paese, vivesse il figlio da cui era stata separata quasi trent'anni prima, quando le Guardie Rosse l'avevano trascinata al campo di lavoro. Ora doveva avere più o meno l'età di Li Yan e sperava con tutto il cuore che gli assomigliasse almeno un po'. Li Yan percorse la leggera salita fino all'angolo di Beixinqiao Santiao, dove, riparato dagli alberi, sorgeva l'edificio squadrato di mattoni che ospitava la Prima Sezione. Mentre pedalava, rifletté sull'indovinello di Mei Yuan. Due bastoni. Erano due bacchette? No. Perché avrebbero dovuto da-
re più potere all'uomo? Erano grossi bastoni con cui lui poteva colpire a morte? Se sì, perché gliene servivano due? Riflettere sul problema lo calmò un po'. Nel suo primo giorno da vicecaposezione si sentiva agitato e insicuro. Oltrepassò il garage dal tetto rosso e parcheggiò la bicicletta. Un agente in divisa stava scendendo le scale che portavano all'ingresso della Prima Sezione. Si fermò a salutarlo. «Ho sentito la buona notizia, Li Yan. Congratulazioni.» «A quanto pare, gli antenati mi proteggono.» Era importante mostrarsi sicuri di sé, far vedere di non prendere troppo sul serio la promozione. Entrò, svoltò a destra e salì al quarto piano. Tutti quelli che incrociò nel corridoio - una segretaria, un altro agente in divisa, un giovane investigatore - gli fecero i complimenti. La situazione stava diventando imbarazzante. Nella stanza degli investigatori c'erano solo due ufficiali, Qu e Gao, entrambi arrivati lì prima di lui, ma da quel giorno suoi subalterni. Qu gli fece l'occhiolino. «'Giorno, capo.» Pronunciò la parola "capo" con un tono ironico, ma al tempo stesso affettuoso e privo di rancore. Li Yan era benvoluto dagli altri investigatori. «Sei venuto a prendere la tua roba?» gli chiese Gao. «Non vedi l'ora di traslocare nel tuo nuovo ufficio, eh?» Che strano! Senza pensarci Li Yan si era istintivamente diretto alla sua vecchia postazione. Si guardò intorno con un'ombra di rimpianto: la stanza, stipata di scrivanie e schedari, aveva le pareti tappezzate di promemoria, manifesti e fotografie di scene di delitti passati e presenti. «Non preoccuparti» intervenne Qu. «Una delle ragazze raccoglierà tutta la tua roba in una scatola e te la porterà di là. A proposito, il capo vuole vederti.» Quando lo vide entrare, il caposezione Chen Anming si alzò e gli strinse la mano. «Ottimo, Li Yan, se lo è davvero meritato.» «Grazie, capo, è proprio quello che vado dicendo a tutti.» Ma Chen non rise della battuta. Si sedette pensieroso e si mise a frugare tra le carte. Originario della provincia di Hunan, era un uomo sulla sessantina, magro, con i capelli grigi, striati di giallo sulle tempie, un retaggio del suo inestirpabile vizio: il fumo. Il suo volto era perennemente atteggiato a un'espressione arcigna e si diceva che le dattilografe segnassero sul calendario i rari giorni in cui lo vedevano sorridere. «L'aspetta un esordio impegnativo: tre morti sospette, stanotte. Due sembrano proprio omicidi, mentre il terzo potrebbe essere un suicidio: un corpo carbonizzato rinvenuto, mentre ancora bruciava, nel parco Ritan. Accanto, una latta di benzina. A
quanto pare, si è cosparso di benzina, si è accovacciato tra gli alberi e si è dato fuoco: uno strano suicidio. Qian Yi è già sul posto. Sulla scena dei due presunti omicidi ho mandato Wu e Zhao. Farà meglio a dare un'occhiata al suicidio. Poi si faccia fare rapporto sugli altri due casi e mi dica che cosa ne pensa.» Centinaia di curiosi si erano radunati in riva al lago, in mezzo ai salici. La notizia si era propagata in fretta, come una violenta fiammata, nelle vie del vicino mercato. Un morto nel parco si preannunciava come uno spettacolo drammatico, una sorta di teatro di strada, che interrompeva la monotonia della vita quotidiana. La folla era tenuta sotto controllo da una sessantina di agenti in divisa. Inoltre, agenti in borghese erano sparpagliati tra i curiosi per ascoltare pettegolezzi e congetture e raccogliere anche il minimo indizio utile. Dall'altra parte del lago, dove molte persone si erano raccolte all'ombra del padiglione, il mormorio della folla era sovrastato dal lamento di un violino a una corda sola, che sembrava un inno funebre. Il resto del parco era deserto. A bordo della jeep blu che avanzava a sirene spiegate e con il lampeggiante in funzione, Li Yan si fece strada tra la folla. La gente si spostava a fatica e molte facce lo squadravano incuriosite, ma Li Yan non ci fece caso. Aveva ripreso fiducia in sé, era di nuovo nel suo territorio e stava facendo quello che gli riusciva meglio. La sua auto si fermò sulla riva nord del lago, in uno spiazzo recintato dalla polizia dove erano già parcheggiati altri veicoli, tra cui un'ambulanza e un furgone della scientifica. Appena uscì dalla jeep, un agente gli indicò un polveroso sentiero in salita che portava a un gruppetto di alberi. Giunto in cima, Li oltrepassò la linea tracciata per terra con il gesso per delimitare la scena del delitto e fu immediatamente investito da un acre odore di carne umana carbonizzata. Era un tanfo persistente, che gli sarebbe rimasto nelle narici per ore. Arricciò il naso e serrò con forza le mascelle per trattenere i conati di vomito. L'uomo bruciato (o era una donna?), una figura rigida e annerita, era accovacciato al centro dello spiazzo. Curiosamente, quel cadavere aveva poco di umano; sembrava l'opera astratta di uno scultore, appena abbozzata nell'ebano. Intorno erano sparsi i resti carbonizzati degli indumenti della vittima. Le foglie degli alberi vicini erano accartocciate per il forte calore. Illuminato da potenti riflettori, il cadavere veniva ora fotografato da diverse angolazioni. Due uomini della scientifica con i guanti bianchi perlustravano la zona
in cerca di tutto ciò che potesse far luce sull'accaduto. Dall'altra parte dello spiazzo, il dottor Wang Xing, medico legale del Centro studio del crimine di Pao Jü Hutong, stava parlando con Qian, il quale, quando vide arrivare Li Yan, gli si fece incontro avanzando con cautela lungo il perimetro dello spiazzo. «Congratulazioni per la promozione, capo» disse stringendogli la mano. Li Yan rispose con un lievissimo cenno della testa. «Qual è il responso del dottore?» «Be', per ora ci ha detto solo che si tratta di un individuo di sesso maschile. Se aveva la carta di identità, è andata distrutta.» «La causa della morte?» «La più evidente sono le ustioni ma, finché non verrà esaminato più attentamente, non lo si può affermare con certezza. L'autopsia di un cadavere in queste condizioni è un lavoro da specialisti: probabilmente dovranno mandarlo al laboratorio dell'università. L'identificazione potrebbe rappresentare un problema. Finora abbiamo trovato solo i resti di un accendino, un anello con sigillo carbonizzato e la fibbia di una cintura. Nessun oggetto presenta caratteristiche particolari.» «E la latta di benzina?» «Una normalissima latta. Stanno cercando di rilevare le impronte, se ce ne sono. Niente segni di lotta sul terreno, ma sarebbe difficile trovarne: è molto secco e duro, dato che non piove da settimane. Oh, abbiamo trovato anche questo...» Estrasse dalla tasca un sacchetto trasparente e gliene mostrò il contenuto. «Sembra che abbia fumato un'ultima sigaretta prima di cospargersi di benzina e di far scattare l'accendino.» Li Yan prese il sacchetto ed esaminò attentamente il mozzicone. La sigaretta era stata spenta prima che bruciasse del tutto e il nome della marca era ancora ben leggibile: Marlboro. «Come mai la cicca non è bruciata nell'incendio?» «Era lontana dal corpo: la scientifica l'ha trovata laggiù.» E indicò la parte occidentale dello spiazzo. Li Yan rimase un attimo soprappensiero. «Qualcuno ha visto quest'uomo arrivare?» «Per ora non si è fatto avanti nessuno. Stiamo cercando di identificare tutti quelli che si trovavano nel parco a partire da stamattina alle sei. Molti vengono qui tutti i giorni e qualcuno potrebbe avere visto un uomo che portava una latta, ma noi non siamo in grado di descriverglielo. Ho parlato con la bigliettaia, ma lei non ha ricordi particolari. Finché non sappiamo
chi è e magari ci procuriamo una foto...» Scrollò le spalle sconsolato. «Chi ha trovato il corpo?» «Una bambinaia, una giovane contadina della provincia dello Shanxi, e due bambine. Sono là nell'ambulanza. Quella che sta peggio è la ragazza, credo che abbiano dovuto darle un sedativo.» Quando entrò nell'ambulanza, Li Yan si stupì di constatare che le bambine erano gemelle. Erano molto graziose, avevano l'aria ancora innocente dell'infanzia, ed erano chiaramente inconsapevoli della loro fortuna. In Cina, infatti, a causa dell'introduzione della politica del figlio unico volta a contenere l'esplosione demografica, solo in rari casi un bambino poteva avere un fratello o una sorella. Le bambine guardarono Li Yan e non dissero nulla; la loro apparente tranquillità nascondeva il trauma dello spettacolo orrendo cui avevano assistito poco prima. Invece la loro baby-sitter singhiozzava piano premendosi un fazzoletto umido sulla bocca e succhiandone un angolino. «Ciao.» Li Yan si sedette di fronte alle gemelle. «Avevate già visto altre volte i ballerini?» Le bambine annuirono energicamente. «E quei signori che fanno roteare le spade nell'aria? Quelli mi fanno veramente paura.» Le gemelle fecero una risatina. «Venite al parco tutti i giorni?» «No» rispose una delle due. «Solo qualche volta» precisò l'altra. «Di solito con la mamma.» Osservandolo trattare con le gemelle, Qian pensò che Li ci sapeva fare con i bambini: era gentile e diretto e loro gli rispondevano volentieri. «Ma oggi eravate con la bambinaia, vero?» Le bambine annuirono. «Avete visto qualcuno laggiù, vicino al sentiero, prima di venire qui dove c'era il fuoco?» Questa volta le piccole negarono con decisione. «Nessuno che si stesse allontanando, magari passando intorno al lago?» Le bambine scossero di nuovo la testa. «Brave bambine, siete state bravissime. Non avete più voglia di stare qui, vero?» «No» risposero in coro. «Allora questo mio amico...» indicò Qian «dirà a un poliziotto gentile di comprarvi un gelato e poi di portarvi a casa dalla mamma. Va bene?» I due visini si illuminarono. «Sì!» «E potete scegliere i gusti che preferite.» Arruffò affettuosamente i capelli alle gemelle, che si affrettarono a seguire Qian. «Si calmi, è tutto a posto» disse poi rivolgendosi alla baby-sitter. Le si sedette accanto e le prese la mano: era piccola e paffuta, abituata ai lavori domestici, come rivelavano le callosità sul palmo. La ragazza non doveva avere più di sedici
o diciassette anni. «So che è difficile per lei... certamente non aveva mai visto niente del genere, prima.» Li Yan parlava con molta dolcezza e sentì un singulto scuotere il corpo della ragazza. «Ma abbiamo bisogno del suo aiuto, e sono sicuro che lei cercherà di darcelo.» La ragazza annuì con decisione. «Allora, mi racconti che cosa è successo. Non abbia fretta, faccia pure con calma.» «C'era quel fumo,» esordì lei con un filo di voce «le bambine correvano avanti per vedere che cosa fosse. Io continuavo a gridare loro di fermarsi, ma erano così eccitate.» «Così le ha seguite su per il sentiero.» «Sì.» «E il corpo stava ancora bruciando?» Gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime. «Era vivo, mi tendeva la mano per chiedermi aiuto.» Li Yan trovò il dottor Wang presso la riva del lago. Si era tolto i guanti e fumava in silenzio. Gli si sedette accanto e, senza dire una parola, accettò la sigaretta che l'altro gli offriva. «Allora, che cosa ne pensi?» chiese infine. Inspirò profondamente il fumo e lo espirò con forza dalle narici per cercare di eliminare l'odore nauseabondo di carne umana carbonizzata. «Penso che, a volte, non amo molto il mio lavoro» rispose Wang lanciandogli un'occhiata torva. «Sembra una specie di bizzarro rituale di suicidio. A un primo esame sommario non ho rilevato tracce di sangue né di lesioni precedenti all'azione del fuoco. Quindi, a meno che l'autopsia non mi smentisca, posso dire che probabilmente il tizio è morto per le ustioni.» «Una delle testimoni afferma che, quando l'hanno trovato, era ancora vivo.» "Mi tendeva la mano per chiedermi aiuto." La descrizione della bambinaia gli aveva impresso nella mente, in modo indelebile, quell'immagine raccapricciante. «Questo serve a fissare con sufficiente precisione l'ora della morte ed esclude lesioni precedenti alle ustioni» concluse Wang. «Adesso lo porto a Pao Jü Hutong, gli faccio un esame preliminare, e poi dovrei essere in grado di dirti qualcosa di più. Ma se vuoi un'autopsia completa...» «Certo.» «Allora dovrai mandarlo all'università, al Laboratorio della scientifica.» Il medico si alzò. «Ma prima dobbiamo metterlo in fretta nella cella frigorifera, per bloccarne la decomposizione.» Dopo che il cadavere fu rimosso e l'ambulanza e altre vetture della poli-
zia se ne furono andate, la folla iniziò a disperdersi. Li Yan invece si trattenne ancora un po'. Fece il giro del lago e salì sul promontorio roccioso all'altra estremità. Guardò in basso, verso il padiglione: adesso era deserto, a parte il vecchio che strimpellava il violino e una donna, forse la moglie, che intonava una melodia ossessiva con voce stridula. A sinistra c'era il sentiero che saliva tra gli alberi fino allo spiazzo in cui era stato trovato il corpo. Li Yan era ancora turbato dall'immagine descritta dalla giovane baby-sitter: quella mano che si protendeva dalla massa in fiamme. "Per chiedermi aiuto." Che morte orribile! Cercò di immaginare l'uomo mentre attraversava lentamente il parco (se aveva avuto il tempo di fumare una sigaretta, sicuramente non aveva avuto fretta), oltrepassava i ballerini, gli appassionati di taijiquan, le vecchiette che spettegolavano sulle panchine, portando una latta di benzina in una mano e un terribile proposito nel cuore. Quali tremendi eventi l'avevano spinto a compiere un atto tanto disperato? Lo immaginò mentre si accendeva l'ultima sigaretta e la fumava quasi tutta. Li Yan si accese a propria volta una sigaretta e si mise a osservare l'acqua verdastra e immobile del lago, in cui si riflettevano i salici. Si chiese come mai nessuno avesse visto l'uomo attraversare il parco. Possibile che fossero tutti così impegnati nelle loro attività da non notarlo? Nei locali sotterranei dell'alto edificio del Centro studio del crimine di Pao Jü Hutong, il dottor Wang fece una prima ispezione esterna del corpo. Il cadavere carbonizzato, sul tavolo anatomico, sembrava un Buddha caduto nella caratteristica posizione accovacciata. L'accorciamento dei muscoli prodotto dal calore gli aveva sollevato le braccia e serrato i pugni facendolo assomigliare a un pugile pronto a combattere a mani nude. Li Yan osservava da lontano. Si sentiva solo lo scricchiolio delle scarpe di gomma di Wang, mentre l'uomo si muoveva intorno al tavolo. Avvertiva ancora quell'odore nauseabondo. Con il volto protetto dalla mascherina, il medico legale lavorava con rapidità e precisione intorno al corpo, prendendo misure e annotando osservazioni. Aprì ed esaminò la bocca dalla muscolatura contratta; tra le labbra annerite sporgeva la punta carbonizzata della lingua. Infine Wang fece un cenno all'assistente, che avvolse il corpo in un pesante telo di plastica, lo legò con una corda di nylon e lo condusse via su un carrello. Dopo averlo infilato in un sacco, l'avrebbero portato dall'altra parte della città, al Laboratorio della scientifica. Wang andò nel suo studio e Li Yan lo seguì. Si accesero una sigaretta e il medico si lasciò cadere sulla sedia con un profondo sospiro.
«Ti manderò al più presto il rapporto preliminare. Comunque, la vittima è un maschio sulla cinquantina. Da quel poco che si può vedere esternamente, non aveva caratteristiche fisiche particolari. A parte la dentatura: si era fatto fare alcuni lavori odontoiatrici piuttosto costosi.» Li Yan aggrottò la fronte perplesso. Quello era un fatto piuttosto insolito: in Cina l'odontoiatria era ancora a un livello molto primitivo e i lavori di buona qualità erano davvero cari. Come se gli avesse letto nel pensiero, Wang commentò: «Di sicuro, quel tizio non era un semplice operaio, i soldi non gli mancavano. È probabile che avesse una buona posizione, quasi certamente era un membro del Partito. Se hai un'idea su chi potesse essere, avrai facilmente la conferma della sua identità consultando la cartella clinica del suo dentista». 2 Erano solo le dieci di mattina, ma il caldo era già opprimente. Un vento torrido soffiava lungo le strade coprendo di polvere le foglie, l'erba, le auto, gli edifici e la gente; finiva negli occhi, in bocca e nei polmoni e tutti tossivano e sputavano. Nel nuovo ufficio di Li Yan mancava l'aria, nonostante le finestre spalancate. Sulla scrivania erano appoggiati due scatoloni con tutte le sue cose. La stanza era priva di qualsiasi segno del precedente occupante: del vecchio vicecaposezione rimanevano solo le numerose bruciature di sigarette sul bordo della scrivania. E anche il suo ricordo era svanito: un uomo pedante e incolore, introverso ed enigmatico. Nonostante i molti anni di lavoro fianco a fianco, i colleghi sapevano pochissimo della sua vita privata. Aveva avuto una moglie, una figlia all'università Sun Yat-sen di Guangzhou ed era malato di cuore; negli ultimi mesi la sua faccia aveva assunto un colorito grigiastro. Li Yan estrasse un portacenere da uno degli scatoloni, si accese l'ennesima sigaretta e si mise a guardare fuori dalla finestra, pensieroso. Un colpo alla porta lo riscosse dai suoi pensieri. Si affacciò Mu. «Capo, ti stanno aspettando.» Li Yan si sentì percorrere da un lieve fremito di preoccupazione. Adesso che era il capo, i colleghi si aspettavano molto da lui. Era riuscito ad arrivare dove voleva e ora doveva dimostrarsi all'altezza del suo ruolo, non solo di fronte agli altri, ma anche a se stesso. Si infilò una penna nel taschino, prese un taccuino nuovo e uscì. Nella sala riunioni all'ultimo piano, dieci o dodici agenti stavano seduti intorno a un grande tavolo. Quasi tutti avevano la sigaretta accesa; il fumo
saliva in lente volute e veniva poi sospinto verso il basso dalle pale del grande ventilatore che giravano pigramente sopra le loro teste. Il tavolo era ingombro di carte, taccuini e portacenere che si andavano riempiendo rapidamente. Appena Li Yan mise piede nella stanza, scoppiò un breve applauso spontaneo. L'uomo arrossì e sorrise, schermendosi. Prese una sedia e rivolse un'occhiata in giro, a tutti quei volti in attesa. «Qualcuno ha una sigaretta?» Una dozzina di mani si sporse a offrirgli quanto richiesto. "Leccapiedi!" Li Yan si accese la sigaretta e inspirò una profonda boccata. «Dunque, sono appena tornato dal parco Ritan. Ho sentito il rapporto iniziale di Qian e del dottor Wang. Sembra proprio un suicidio, ma il cadavere è tanto malridotto che forse sarà difficile identificarlo. E, probabilmente, ci vorrà un bel po' di tempo: bisogna confrontare le denunce degli scomparsi con i dati raccolti finora. Secondo Wang, è un maschio sulla cinquantina che si è fatto fare lavori odontoiatrici piuttosto costosi. Qian coordinerà il lavoro di identificazione. Non possiamo assolutamente considerare il caso chiuso finché non conosciamo l'identità della vittima e magari anche il motivo del suo gesto. E dobbiamo cercare dei testimoni, qualcuno che l'abbia visto attraversare il parco. Buone notizie su questo fronte, Qian Yi?» «Non ancora, stiamo identificando i frequentatori abituali del parco, ma per ora non abbiamo nulla di concreto.» «Qualche idea?» Nessuno parlò. «Bene, allora passiamo all'accoltellamento del distretto Haidan. Wu è stato sul posto.» E alzò lo sguardo in direzione di Wu. Stravaccato sulla sedia, Wu masticava un chewing-gum. Era magro, sulla quarantina, con radi capelli pettinati all'indietro e sottili baffi spioventi sugli incisivi sporgenti. Aveva la pelle molto scura e una vera passione per gli occhiali da sole, che portava anche quando pioveva. Ora li faceva dondolare tra il pollice e l'indice della mano sinistra mentre nella destra aveva una sigaretta accesa. Indossava sempre blue-jeans, scarpe da tennis bianche e un corto giubbotto di tela. Teneva molto al suo aspetto, gli piaceva fare il poliziotto e i suoi modelli erano i detective dei film americani. «È un omicidio, non c'è dubbio. La vittima si chiamava Mao Mao, una nostra vecchia conoscenza, un piccolo spacciatore sui venticinque anni. Quand'era ancora minorenne, l'abbiamo messo dentro per furto e vandalismo.» «Che cos'è successo, una rissa?» chiese Li Yan. «Be', lo hanno pugnalato al cuore. Non ci sono, tuttavia, segni di lotta, ecchimosi né tagli sulle mani o sul volto. Secondo il medico legale, proba-
bilmente è stato aggredito alle spalle. L'autopsia dovrebbe confermarlo. Era prono, immerso nel suo sangue, in un luogo abbandonato dalle parti di Kunminghunan. L'ha trovato stamattina un operaio andando al lavoro. Il terreno è duro come il cemento. Non ci sono né impronte né macchie di sangue. In poche parole, non abbiamo niente. La scientifica sta facendo l'analisi delle impronte e delle fibre ma, secondo me, non troverà nulla. L'unico reperto rinvenuto sulla scena del delitto è un mozzicone di sigaretta che probabilmente non c'entra nulla.» Li Yan si fece subito più attento. Il suo istinto si era risvegliato. «Solo uno? Non ce n'erano altri, lì intorno?» «Noi non ne abbiamo trovati.» «Di che marca era?» «Americana, Marlboro credo. Perché?» «Strano, anche vicino al cadavere scoperto a Di'anmen abbiamo trovato un mozzicone di Marlboro» osservò Zhao. «Era un mozzicone di Marlboro anche quello rinvenuto al parco Ritan, vero, capo?» intervenne Qian. Li Yan annuì lentamente. Era una coincidenza davvero strana, se di una coincidenza si trattava. Tuttavia non bisognava trarne conclusioni premature. Intorno al tavolo si levò un mormorio di congetture. Li Yan chiese a Zhao di fare rapporto sul cadavere trovato a Di'anmen. Zhao, il più giovane della sezione, era un ragazzo di circa venticinque anni, di bell'aspetto. Compensava la relativa mancanza di esperienza con una grande dedizione al lavoro e molta attenzione ai dettagli. Nelle riunioni era sempre a disagio perché non riusciva a esprimersi bene in pubblico. Si trovava molto meglio nei colloqui a tu per tu. Arrossì violentemente e cominciò: «Aveva con sé la carta di identità, quindi sappiamo che era un operaio edile di Shanghai, probabilmente stagionale. Forse era appena arrivato a Pechino in cerca di lavoro, ma non conosciamo il suo indirizzo in città, né le sue eventuali conoscenze. Ho già mandato un fax al Dipartimento di Pubblica sicurezza di Shanghai per chiedere informazioni più dettagliate.» «Com'è morto?» «Gli hanno spezzato il collo.» «Non potrebbe essere caduto o avere avuto un incidente?» «No, non c'è alcun segno di trauma. È stato trovato in un siheyuan in demolizione di un hutong sgomberato circa un mese fa. Ma la scena del delitto è così pulita che deve essere stato ucciso altrove e poi trasportato
lì.» «Che cosa ti fa pensare che il mozzicone sia collegato alla vicenda?» «La sigaretta era stata fumata da poco e lì intorno, a meno di un metro dal corpo, non ce n'erano altre.» Li Yan si accese un'altra sigaretta e si appoggiò allo schienale soffiando pensieroso il fumo verso le pale del ventilatore. «Crede che esista davvero un nesso?» Il caposezione osservava con attenzione il suo nuovo vice. Ma Li Yan non voleva sbilanciarsi in una dichiarazione avventata e così rimase in silenzio, in piedi accanto alla finestra, a fumare una sigaretta offertagli dal capo. Quando gliel'aveva chiesta, Chen gli aveva risposto in modo secco, ma ironico: «Un uomo nella sua posizione dovrebbe cominciare a comperarsele, le sigarette». E ora osservava il suo vice con un interesse professionale: per quanto la sua esperienza e i suoi successi fossero fuori discussione, Li Yan era un tipo impulsivo e impaziente e Chen sperava che il tempo avrebbe contribuito a smussare questo aspetto del suo carattere. Forse d'ora in poi le maggiori responsabilità avrebbero mitigato la sua impulsività senza per altro togliergli l'istinto prezioso. «Il fatto è,» disse Li Yan serio «che non abbiamo motivo di dubitare che l'uomo del parco Ritan si sia suicidato. Se fosse possibile stabilire che nei due casi di omicidio l'ora del decesso è precedente a quella del suicidio e che il presunto suicida fumava Marlboro, si potrebbe ipotizzare che sia stato lui a uccidere gli altri due, per poi darsi fuoco.» Ma l'ipotesi gli sembrò così improbabile da strappargli un sorriso malizioso. Anche Chen rise: una risata profonda, rauca, da fumatore. "Se ti vedessero le dattilografe!" pensò Li Yan. «Un suicidio e due omicidi il primo giorno di lavoro,» osservò il capo, sempre ridendo «e lei li ha già risolti tutti e tre.» «Magari fosse così facile. Ma nei due omicidi c'è qualcosa che non va, capo. Nemmeno uno straccio di prova sulla scena del delitto, tranne i mozziconi. Uno che fa di tutto per non lasciare tracce può essere stato così sbadato da dimenticare in giro una cicca?» «Può darsi che l'assassino, o gli assassini, non siano stati così avveduti, ma solo fortunati.» «Mah...» Li Yan non sembrava convinto. «C'è qualcosa che non quadra. Se davvero esiste un nesso è... senz'altro molto strano.» Sospirò e scosse la cenere fuori dalla finestra. «La prima cosa da fare è cercare di identificare
il tizio del parco, ma ci vorrà un po'. E il medico legale non vuole fare l'autopsia; dice che le vittime degli incendi non sono la sua specialità. Secondo me, gli fa un po' schifo.» «Chi eseguirà l'autopsia, allora?» «Hanno mandato il corpo al Laboratorio della scientifica.» Chen rimase un attimo pensieroso, poi si mise a frugare tra le carte che ingombravano la scrivania. Alla fine tirò fuori una circolare della sezione visti del Dipartimento di Pubblica sicurezza e la scorse con interesse. «Si ricorda il corso di investigazione criminale cui ho partecipato quando ero a Chicago, l'anno scorso? Si dà il caso che l'anatomopatologo che l'ha tenuto si trovi attualmente a Pechino per un corso presso l'università.» «E allora?» «La sua specialità sono proprio le vittime degli incendi.» 3 L'incubo di Margaret era iniziato presto, verso le due del mattino, con un tremendo mal di testa, conseguenza della sbornia. Appena arrivata in camera, subito dopo il banchetto, era piombata in un sonno profondo, ma aveva dormito solo cinque ore. Alle due era già completamente sveglia, in preda a fitte lancinanti. Pensò che in quel momento a Chicago era primo pomeriggio. Aveva preso un paio di tranquillanti cercando di riprendere sonno, ma senza grossi risultati. Alle cinque era scesa al bar dell'albergo e aveva bevuto una tazza di caffè nero bollente accompagnata da un altro paio di tranquillanti. Così erano finalmente arrivate le sei. Si sentiva esausta e rintronata. Era giunta l'ora di prendere la bicicletta che aveva noleggiato e di avviarsi verso l'università. Se il giorno prima, guardandolo dal finestrino della BMW, il traffico l'aveva impressionata, ben presto si rese conto che non era niente rispetto a ciò che l'aspettava quella mattina. Le strade erano una bolgia infernale. E se, partendo di buon'ora, aveva sperato di evitare il peggio, si era sbagliata di grosso. Sembrava che tutti gli abitanti di quell'enorme città si fossero riversati contemporaneamente nelle strade. Agli incroci, ai semafori, nelle vie non esistevano regole, ma vigeva la legge del più forte. Nell'ora che impiegò per raggiungere l'università, Margaret imparò questo fondamentale principio. Nonostante il frastuono dei clacson (ben presto si rese conto che venivano suonati semplicemente per avvisare della presenza di un veicolo o di una manovra imminente) e i continui tagli
di strada, stranamente nessuno sembrava perdere la calma. In Cina, la nevrosi da traffico non esisteva. Margaret pensò che tutti gli automobilisti erano stati fino a poco tempo prima ciclisti, abituati a farsi strada con pazienza lungo piste ciclabili sovraffollate e quindi non pretendevano di avere la precedenza solo perché stavano al volante di un veicolo a quattro ruote. Quando alla fine giunse a destinazione, erano ormai le sette e dagli altoparlanti dell'edificio veniva diffusa una musica marziale a tutto volume. Quando Bob entrò nel suo ufficio dalle finestre chiuse, trovò Margaret con i gomiti appoggiati sulla scrivania e le mani sulle tempie. «Non dirmi che hai mal di testa!» Margaret avrebbe voluto fulminarlo con lo sguardo, ma Bob aveva una espressione del tutto innocente, priva del sarcasmo che aveva avvertito nel tono della sua voce. «Che cos'è questa stramaledetta musica?» «Se fossi in te, non la definirei così. È l'inno nazionale cinese, lo suonano tutte le mattine.» «Per fortuna alloggio in albergo!» «Hai provato con un paio di tranquillanti?» «Sono appena diventata la maggiore azionista della ditta che li produce.» Si chinò, raccolse lo zaino e lo posò sulla scrivania. «Senti, ieri hai detto che in due anni non sei ancora riuscito a far fotocopiare le dispense del tuo corso. Stavi scherzando, vero?» «Be', non del tutto. Era solo un esempio per farti capire che qui le cose non vanno sempre come vorresti. Ora le mie dispense sono state finalmente fotocopiate.» «Bene.» Margaret estrasse un libro dallo zaino. «Vorrei far fotocopiare la descrizione di un'autopsia.» Lasciò cadere il volume sulla scrivania. Bob lo prese in mano: Prove trascurate. La storta segreta delle indagini della polizia su O.J. Simpson. «Immagino che qui abbiano sentito parlare di O.J. Simpson» osservò lei. «Certo, hanno studiato bene il caso. Lo usano come esempio degli insuccessi del sistema giudiziario americano. Secondo te, hanno ragione?» «Non è stato il sistema giudiziario a fallire. Le indagini della polizia sono state condotte male e l'accusa si è dimostrata incompetente. L'onere della prova spettava a loro e quindi il fallimento deve essere imputato a loro. Meglio dieci colpevoli in libertà che un innocente condannato ingiustamente. La presunzione di innocenza è ancora il cardine del nostro sistema giudiziario.»
«Be', sì, i cinesi hanno appena introdotto questo principio e non credo che si siano ancora abituati all'idea.» «Che cosa???» «Quello che tu non hai ancora capito, Margaret,» spiegò Bob con tono saccente «è che, dal punto di vista culturale e storico, la società cinese e quella americana sono lontane anni luce. Non puoi venire qui e aspettarti di applicare i valori americani alla società cinese, o viceversa. Fin dai tempi di Confucio, i cinesi hanno sempre sottolineato che l'individuo deve mettere in secondo piano la propria ambizione a favore dell'armonia della società. Si dà più importanza ai diritti della società che a quelli dell'individuo. "L'unione fa la forza." Quest'idea e la sua pratica erano già presenti tremila anni prima dell'avvento dei comunisti.» «E i diritti dell'individuo di fronte alla legge?» «La Costituzione cinese riconosce molti diritti all'imputato. Ma qui i diritti del singolo si accompagnano alla sua responsabilità nei confronti della società. Non esistono diritti senza doveri, quindi c'è un conflitto intrinseco.» Nonostante la crescente antipatia che Margaret provava per Bob, i suoi discorsi la interessavano sempre di più. «Fammi un esempio.» «Bene. Secondo la legge cinese, un imputato ha il diritto di difendersi, ma anche il dovere di collaborare con la polizia e con il tribunale nella ricerca della verità. Il diritto di difendersi dovrebbe tradursi automaticamente nel diritto di tacere sotto interrogatorio e di proteggersi, com'è sancito in America dal quinto emendamento. Solo che, in Cina, l'imputato ha anche il dovere, nei confronti dello Stato e della società, di rispondere alle domande con sincerità anche se ciò può portare alla sua incriminazione.» «Ma è pazzesco!» «Davvero?» Bob si sedette sul bordo della scrivania. «In America siamo così ossessionati dall'idea di proteggere i diritti dell'individuo che qualche volta ci dimentichiamo dei diritti della società. I cinesi cercano perlomeno di farli convivere.» Sospirò e scosse la testa. «Il vero problema, qui, è che i diritti dell'imputato sono garantiti dalla Costituzione, ma spesso, nella pratica, vengono trascurati o addirittura calpestati. Tuttavia ci sono molte persone in gamba che si stanno dando da fare per cambiare questo stato di cose. E con successo. La situazione sta davvero migliorando.» Dopo il colloquio con Bob, per Margaret fu la volta della riunione con Cao. Lui fu gentilissimo, le fece grandi sorrisi dicendole che, di solito, usavano un proiettore per diapositive da 35 mm, ma che purtroppo, al mo-
mento, non era disponibile. In tal caso, rispose Margaret, anche lei con un ampio sorriso, le sue lezioni sarebbero risultate senz'altro più povere, essendo basate sulla presentazione di esempi tratti dalla realtà. Suggerì che, forse, si sarebbe potuto prendere in prestito un proiettore. Cao rispose che avrebbe fatto il possibile, ma dubitava di riuscirci. Certo, sarebbe stata un'ottima idea far assistere gli studenti a una vera autopsia, ma purtroppo, la cosa sarebbe stata un po' difficile da organizzare. Aggiunse che aveva messo in calendario tre lezioni alla settimana. Margaret scosse la testa tristemente facendo notare che purtroppo il materiale che aveva portato con sé sarebbe bastato solo per dodici lezioni. Tuttavia, se Cao fosse riuscito a organizzare la partecipazione degli studenti a un'autopsia, lei avrebbe fatto di tutto per preparare anche le altre sei ore di lezione. Dopo uno scambio di sorrisi forzati, Cao mise fine al colloquio dichiarando che avrebbe fatto del suo meglio. Dopo un periodo di relativa calma, un nuovo incubo si materializzò nelle sembianze di Lily Peng che, poco dopo le nove, si affacciò alla porta dell'ufficio di Margaret, scura in volto. «Ha tutto quello che le serve?» Margaret colse l'occasione al volo. «Be' a dire la verità, no. Mi manca il proiettore per le diapositive, per cui la maggior parte del materiale che ho portato è inutile. Non riesco a trovare da nessuna parte una fotocopiatrice...» «Ha bisogno di fotocopie? Provvedo io» disse Lily tendendo un braccio. «Oh...» Margaret fu presa alla sprovvista a quell'atteggiamento collaborativo. «Bene, me ne servono venti copie» e le porse il libro su O.J. Simpson. Lily l'afferrò e uscì di corsa lasciando a Margaret appena il tempo di aggiungere: «Da pagina 108 a pagina 111. E prima delle dieci: a quell'ora ho lezione». «Certo» rispose Lily e, senza voltarsi, sparì rapidamente nei meandri dell'edificio. Alle dieci meno un quarto, Margaret si mise a cercarla e la trovò che si dirigeva verso l'auditorio. La rincorse. «Lily! Lily!» Quando finalmente riuscì a raggiungerla, era paonazza e senza fiato. «Dove sono le mie fotocopie? Tra cinque minuti ho lezione.» «Oh, per le fotocopie ci vuole tempo, ora la ragazza è occupata.» E la donna proseguì per la sua strada. «Così non va, ne ho bisogno adesso. E mi serve anche il libro.» «Nel pomeriggio» disse Lily senza rallentare l'andatura. Margaret si fermò, stizzita. «Benissimo, me le farò da sola. Dov'è la fo-
tocopiatrice?» «Non c'è bisogno che faccia da sola, c'è una segretaria.» E scomparve nell'auditorio. Margaret restò di sasso. Avrebbe voluto urlare con quanto fiato aveva in gola. Il ronzio insistente della sveglia dell'orologio digitale le ricordò che, in quel momento, avrebbe dovuto trovarsi da tutt'altra parte. Tornò rapidamente in ufficio a prendere il materiale e corse verso l'edificio di mattoni rossi in cui si trovavano le aule. Quindici studenti, dodici maschi e tre femmine, l'attendevano seduti in silenzio quando lei entrò nell'aula, rossa in viso e tutta sudata. Cercò di darsi un contegno, fece un respiro profondo e un ampio sorriso, ma gli studenti rimasero impassibili. «Salve,» si sentiva sempre più insicura «mi chiamo Margaret Campbell, sono un'anatomopatologa e lavoro presso l'ufficio del medico legale della contea Cook a Chicago, nell'Ulinois. Avrei avuto l'intenzione, nelle prossime sei settimane, di illustrarvi dodici casi di omicidio avvenuti negli Stati Uniti. Purtroppo gran parte del materiale è costituito da diapositive e sembra che l'università non sia in grado di fornirmi un proiettore...» La voce le si strozzò in gola, quando, guardando in fondo all'aula, vide troneggiare su un tavolo un proiettore verso cui si erano indirizzati gli sguardi di tutti gli studenti. «Be', a quanto pare... sono riusciti a procurarmi quello che mi serviva. Se solo mi avessero avvertita, avrei portato con me le diapositive.» I muscoli delle guance cominciavano a dolerle per il prolungato sorriso forzato. «Vado subito a prenderle, torno tra cinque minuti.» Mentre correva verso il suo ufficio, pensò che un cinese avrebbe definito ciò che era successo in aula una gravissima "perdita di faccia". Ma lei non se ne sarebbe lasciata turbare: erano solo piccoli problemi di avvio da affrontare con calma e freddezza. Nel corridoio sfiorò Bob, che le sorrise allegro. «Mi hanno detto che Cao è riuscito a procurarti un proiettore.» «Avrebbe potuto anche dirmelo!» Urlò lei sbattendo la porta dell'ufficio. Più tardi mentre, nella penombra dell'aula, illustrava ai ragazzi le diapositive delle vittime della strage di Waco, pensò che sicuramente Bob e gli altri colleghi dell'università si stavano chiedendo che razza di isterica avevano mandato da Chicago. Si sentiva molto depressa, ma una vocina interiore le diceva che un giorno avrebbe riso di quei problemi. Per il momento, però, non ci riusciva proprio. Quando riaprì le tende dell'aula per far entrare la luce, notò che i suoi
quindici studenti erano pallidissimi. Una delle ragazze si alzò e corse alla toilette premendosi una mano sulla bocca. Margaret fece un mesto sorriso. «E pensate che queste sono solo foto. Se qualcuno di voi diventerà poliziotto, vedrà cose ben peggiori.» Cercò di sollecitare una discussione, ma nessuno degli studenti azzardò una domanda né espresse un parere. Alla fine della lezione, mentre i ragazzi lasciavano silenziosamente l'aula, si lasciò cadere sulla sedia con un profondo sospiro di sollievo. Un colpo alla porta le fece voltare la testa. Si sentì mancare vedendo entrare Bob. «Com'è andata?» «Lasciamo perdere.» «Non ce l'hanno con te: all'inizio sono sempre così.» «Che vuoi dire?» «Be', vediamo se indovino. Ti sono sembrati apatici, restii a rispondere alle domande e ancora più riluttanti a farle o a impegnarsi in una discussione. Gli studenti cinesi non sono abituati ai corsi interattivi, come quelli che si tengono negli Stati Uniti. Qui tendono a subire la lezione.» "È una sensazione che conosco bene" pensò lei amaramente. «La voce dell'insegnante è la voce dell'autorità» proseguì Bob, incurante dello sguardo astioso di Margaret. «La maggior parte degli studenti è convinta che esista una sola risposta giusta per ogni domanda, quindi si limita a imparare a memoria la materia di studio. Non sono abituati a discutere o a esprimere il loro punto di vista, ma sono certo che li conquisterai.» Lei lo guardò attentamente ma, com'era già capitato un'altra volta, non riuscì a trovare nell'espressione del viso traccia di quel sarcasmo che aveva avvertito nel suo tono. «In ogni caso, faresti meglio a tornare in ufficio: c'è un vecchio amico che ti aspetta.» Il caposezione Chen Anming si alzò dalla sedia e rivolse a Margaret uno dei suoi rari e caldi sorrisi. «Dottoressa Campbell, è un grandissimo piacere rivederla» e le strinse la mano con entusiasmo. Avrebbe faticato a riconoscerlo, se non avesse notato le striature giallastre di nicotina nella sua capigliatura e Bob non le avesse detto prima chi era. «Signor Chen,» rispose chinando leggermente la testa «il piacere è tutto mio.» «Si ricorda di me?» Se ne ricordava molto vagamente. Negli ultimi tre anni aveva avuto tantissimi studenti. «Certo, la ricordo bene.» Poi improvvisamente le venne in
mente il dipinto su carta appeso alla parete del suo studio, a casa. Gliel'aveva regalato lui, solennemente, l'ultimo giorno del corso, e Margaret lo aveva riguardato spesso e apprezzato: era un vecchio dal sorriso malizioso e dalla barbetta rada, accovacciato per terra con un paio di sandali in mano. «Mi ha regalato il dipinto del fantasma cinese.» «Non è un fantasma, in realtà, ma uno spirito benigno.» «Non sono mai riuscita a ricordarne il nome.» «Zhong Kui è una figura leggendaria.» Aveva passato tante ore in compagnia di quel vecchio e solo adesso veniva a conoscerne il nome. «Quando me l'ha regalato, non immaginavo il piacere che mi avrebbe procurato.» Ripensò alle lunghe e tetre notti in cui il sorriso di Zhong Kui era stato la sola cosa che le aveva impedito di impazzire e la sua presenza in casa la sola compagnia che riuscisse a sopportare. Era straordinario incontrare di nuovo il suo benefattore in una circostanza tanto insolita. Arrossì, sentendosi in colpa per non aver quasi riconosciuto Chen e per aver dimenticato come il dipinto fosse entrato in casa sua. «L'avrò sicuramente ringraziata quando me l'ha regalato, ma sono davvero felice di poterlo fare di nuovo.» «Mi perdoni, dottoressa» la interruppe Chen, imbarazzato. «So che è appena arrivata e deve essere molto impegnata... ma mi domandavo... potrei chiederle un favore personale molto speciale?» «Ma certo.» Margaret non riusciva a immaginare di che cosa potesse trattarsi. «Qualsiasi cosa.» «Vede, non è una cosa ufficiale, è solo un favore personale.» Margaret si rese conto che quello era un caso di guanxi: Chen le aveva fatto un regalo a Chicago e ora le chiedeva qualcosa in cambio. «Abbiamo un presunto suicida che non riusciamo a identificare. Si è dato fuoco e l'autopsia sembra un lavoro da specialisti: le ustioni sono davvero gravi.» «E lei vorrebbe che me ne occupassi io» concluse Margaret. «Sarò felicissima di esserle d'aiuto.» Chen si rilassò di colpo e sorrise di nuovo. Margaret però stava già pensando a come trarre vantaggio dal favore che le era stato appena chiesto. Vedeva profilarsi la possibilità, per i suoi studenti, di assistere a un'autopsia, e senza l'intervento di Cao. Magari non proprio l'autopsia dell'ustionato... Chen la prese sottobraccio e la condusse nel corridoio. «Sono davvero contento che lei abbia accettato di aiutarmi.»
Margaret rimase un po' perplessa. «Vuole che esegua l'autopsia subito?» «No, certo. Le voglio solo presentare il mio vice. In questo momento, è con il professor Jiang. Naturalmente ho già chiesto al professore il permesso di coinvolgerla in questo caso.» Margaret pensò che, con tutta probabilità, Jiang era stato ben felice di levarsela di torno per un po'. Infatti, quando giunsero da lui, il professore le rivolse un sorriso piuttosto freddo e poi chiese a Chen: «Allora?». «La dottoressa Campbell ha accettato.» Jiang sembrò sollevato. Chen si voltò verso un giovane seduto vicino alla finestra. «Il mio vice, Li Yan: è lui che si occupa del caso.» L'uomo si alzò e Margaret lo riconobbe subito. Li Yan faticava a tenere il passo con Chen, mentre si dirigevano alla macchina parcheggiata sotto gli alberi. Chen era furioso. «Che cosa significa "non è necessario"?» Li Yan cercò una spiegazione ragionevole. «Il medico del Laboratorio della scientifica non sarà affatto contento. Perderà la faccia se coinvolgiamo un'americana.» «Ma, quando gliene ho parlato, non la pensava proprio così.» «Non sapevo chi fosse.» «E che cos'ha contro quella donna? È un'esperta nel suo campo.» «Lo so, capo. È solo che...» «Non pensa che sarò io a perdere la faccia se improvvisamente le dico che abbiamo cambiato idea? Non se ne parla nemmeno. Gliel'ho chiesto e lei ha accettato. Punto e basta.» Si sistemò al posto di guida, chiuse la portiera, accese il motore e partì facendo stridere forte le gomme. 4 Il cielo era velato da un'abbacinante foschia. Margaret si infilò gli occhiali da sole cercando di rimettere a fuoco le immagini e arrancò dietro Lily nel lungo tragitto dall'amministrazione al massiccio edificio di quattro piani che ospitava il Laboratorio della scientifica. Per la prima volta dal suo arrivo era di buon umore. Ripensava con soddisfazione alla faccia sorpresa di Li Yan quando era entrata nell'ufficio di Jiang insieme a Chen. Lui le aveva stretto frettolosamente la mano, senza neppure guardarla e aveva parlato solo il minimo indispensabile per non sembrare scortese. Adesso l'aspettava con impazienza nella sala autoptica, con l'odore di di-
sinfettante e di formaldeide che gli pizzicavano il naso. Erano gli odori della sua professione, sentiti così spesso da essere divenuti ormai familiari, quasi confortanti. Ma questo solo per lei, non certo per il vicecaposezione Li. Nella stanza c'erano cinque tavoli di metallo, con gli scolatoi e i serbatoi perfettamente sistemati per raccogliere il sangue e gli altri liquidi organici che fuoriuscivano dai cadaveri durante la dissezione. Li Yan se ne stava in piedi accanto alla porta e scambiava qualche parola con un medico in camice bianco. Entrambi si girarono quando Margaret entrò insieme a Lily. «La dottoressa Campbell, il professor Xie.» Li Yan fece rapidamente le presentazioni. Sia la mano sia lo sguardo di Xie erano gelidi. Margaret capì subito che l'uomo riteneva di aver perso la faccia dovendo fare da assistente a una donna, e per di più americana. Margaret cominciava a familiarizzare con la psicologia dei cinesi. Per il momento, decise di non dare troppo a vedere la propria soddisfazione. Si rivolse a Lily. «Non c'è bisogno che lei rimanga.» «No, resto, nel caso in cui le serva qualcosa, dottoressa Campbell.» Era fermamente decisa a non perdersi quell'incontro tra Margaret e Li Yan, soprattutto dopo gli avvenimenti della sera prima. «Se ben ricordo,» riprese Margaret acida «lei aveva delle fotocopie da fare.» «Tutto sistemato» replicò Lily imperturbabile. «Dunque, lei non ha la minima idea dell'identità della vittima?» chiese Margaret rivolta a Li Yan. «No, bisognerà confrontare la sua cartella odontoiatrica con quella delle persone di cui è stata denunciata la scomparsa. Probabilmente ci vorrà qualche settimana.» «Qualche settimana?» ripeté Margaret sbalordita. «Il tempo non ha importanza. L'importante è giungere a un risultato» ribatté seccamente il poliziotto. «Negli Stati Uniti sono importanti entrambi.» «Lo so, ma in Cina siamo orgogliosi di fare le cose nel modo giusto.» Margaret si morse la lingua. Non sapeva più che cosa dire: forse i cinesi avevano studiato i più famosi casi giudiziari americani, mentre gli americani non sapevano nulla dei crimini avvenuti in Cina. «Una volta ho preso parte a un'indagine per omicidio durata oltre due anni» riprese Li Yan. «Era stata sterminata un'intera famiglia: madre, padre, figlio e nonno. La porta di casa era stata forzata e tutto faceva pensare
a una rapina notturna finita in tragedia. Dappertutto c'erano orme e impronte digitali. Ma il nostro registro nazionale delle impronte digitali non è ancora completo. Abbiamo dovuto rintracciare e interrogare quasi tremila lavoratori stagionali che erano passati nella zona in quel periodo.» «Come facevate a sapere che era stato un lavoratore stagionale?» «In Cina tutti rispettano la polizia, sanno che è loro dovere aiutarla. Se hanno un lavoro, il danwei dà loro la casa e paga le spese mediche. Il comitato di quartiere sa sempre se sono a casa o no. Possiamo contare su una rete capillare di informazioni sulla vita e i movimenti della gente. Noi la chiamiamo la "linea delle masse" ed essa rappresenta il motivo principale della bassa percentuale di crimini in Cina. La gente non commette un crimine quando sa che verrà scoperta e che, quando ciò accadrà, perderà tutto: lavoro, casa, cure mediche, pensione...» Scosse la testa e strisciò un piede sul pavimento. «Lo dicono tutti: la riforma economica cinese è un bene. Deng Xiaoping ha detto che essere ricchi è un fatto glorioso. Ma adesso che la ciotola di ferro si è rotta...» «La ciotola di ferro?» Lui sembrò seccato dell'interruzione. «È il nostro modo di chiamare il lavoro per la sussistenza. Dunque, adesso che la ciotola si è rotta, ci sono molti disoccupati. Molti lavoratori vanno in giro per il paese in cerca di occupazione. E, a mano a mano che questa popolazione itinerante cresce, cresce anche la criminalità.» Margaret annuì. Cominciava a capire come queste differenze fondamentali nella società potessero influenzare l'attività criminale. «Così vi siete messi sulle tracce dei tremila lavoratori itineranti.» «Ce n'erano undici di cui non si sapeva più niente: dovevamo rintracciarli uno per uno ed escluderli dalle indagini. E alla fine abbiamo trovato il nostro uomo.» «E ci avete messo due anni?» «Sì.» Margaret scosse la testa meravigliata. «Negli Stati Uniti non avremmo avuto né i mezzi né gli uomini per un'indagine così lunga. E, in ogni caso,» continuò con un sorriso amaro «nel frattempo avremmo avuto altre centinaia di omicidi.» «Lo so» rispose lui serio e Margaret si chiese se il suo tono avesse una sfumatura sarcastica. Il professor Xie guardò ostentatamente l'orologio e sospirò. «Be', vuole dare un'occhiata al cadavere?» domandò Li Yan a Margaret.
«Avete trovato effetti personali?» «Ma non vuole prima vedere il corpo?» «No, a volte si possono ricavare molte informazioni da quello che una persona indossava o portava con sé.» Xie disse qualcosa a uno degli assistenti e questi corse via per tornare da lì a poco con un sacchetto di plastica contenente i pochi effetti personali scampati al rogo. Furono posati su un tavolo, al quale tutti si avvicinarono. Lily si infilò tra due assistenti per vedere meglio. Se si aspettava uno spettacolo macabro, rimase delusa: c'erano solo una fibbia carbonizzata, un accendino e un anello con sigillo. Margaret prese in mano la fibbia e l'esaminò con attenzione: un semplice occhiello con una sottile linguetta metallica. La rimise sul tavolo e passò all'accendino, lo girò da tutte le parti e poi fece scattare il coperchio. L'interno era una massa annerita e informe: i meccanismi si erano fusi con la cassa, lo stoppino era completamente carbonizzato. Margaret chiese un paio di guanti di gomma, un panno di cotone e un detergente. Il professore, seccato, tradusse la sua richiesta a un assistente, che si precipitò fuori dalla stanza. Margaret continuò a esaminare l'accendino e Li Yan ne approfittò per osservarla con discrezione. Indossava jeans e un'abbondante T-shirt bianca infilata nei pantaloni, e calzava scarpe da tennis. Si meravigliò del colore e dell'aspetto setoso dei suoi capelli, che ricadevano in morbide onde sulle spalle. Ma il suo vero punto di forza erano gli occhi, di un azzurro incantevole, che sembravano illuminati da una luce interna. Per un attimo, lo sguardo di Margaret e il suo si incontrarono e Li Yan si volse dall'altra parte, imbarazzato. Quando tornò a guardarla, lei sembrava di nuovo assorbita dal lavoro sull'accendino e intenta a togliere lo strato di carbone con le dita chiare ed eleganti. Lo sguardo di Li Yan passò dalle mani alle braccia, coperte di lentiggini sotto la sottile peluria bionda. Notò che anche il naso e la fronte erano spruzzati di lentiggini. Margaret aveva un lieve tocco di mascara sulle ciglia e un velo di rossetto sulle labbra. Lo sguardo si abbassò sulla linea morbida del collo e Li Yan notò che non portava il reggiseno sotto la T-shirt di cotone. Con grande stupore e un po' di irritazione, si sentì trafiggere da una leggera fitta di desiderio. Quando l'assistente tornò, Margaret indossò i guanti di gomma e cominciò a sfregare l'accendino con il panno imbevuto di detergente, riuscendo a poco a poco a eliminare la pellicola carbonizzata. «Qui c'è una scritta.» Prese dalla borsa un paio di occhiali da lettura e cercò di decifrare le lette-
re. Rimase delusa: si trattava del marchio commerciale, ZIPPO, e sotto c'era scritto: "Bradford PA, Made in USA". «Be', niente di utile.» Si guardò intorno un po' a disagio, poi continuò a pulire l'accendino. «Qui c'è qualcos'altro.» Altri caratteri, molto leggeri, comparvero a mano a mano che ripuliva il margine inferiore del coperchio. Lo girò verso la luce. C'era scritto "ottone massiccio". Lasciò cadere rumorosamente l'accendino sul tavolo e passò all'anello. «Anello con sigillo: sembra una pietra dura e c'è un'incisione.» Ma, per quanto sfregasse la pietra con forza, questa restava nera, mentre la montatura cominciava a mostrare qualche traccia di argento brunito. «Potrebbe essere ebano.» Sollevò l'anello e lo girò per metterlo sotto la luce. «Ci sono un simbolo e una scritta.» Appena riuscì a leggere l'incisione alla luce, strizzando gli occhi, ebbe un tuffo al cuore. Esaminò con maggiore attenzione tutto l'anello. Era deformato dal calore, ma non completamente fuso. Forse la mano che lo indossava era appoggiata al terreno e quindi più protetta dalle fiamme. Si sforzò di decifrare che cosa fosse inciso sulla superficie interna dell'anello, dopo averla sfregata vigorosamente per qualche secondo. Si tolse gli occhiali, diede un'occhiata all'orologio e fece un rapido calcolo. «Accidenti!» Nell'alzare gli occhi si imbatté in una cerchia di volti che osservavano con curiosità e insolita pazienza. «C'è un telefono da cui possa chiamare gli Stati Uniti?» Li Yan guardò Xie e questi disse: «Venga nel mio ufficio». Mentre telefonava, Margaret si mise a osservare, attraverso una vetrata, le persone che l'aspettavano fuori. Xie era un uomo piccolo, quasi effeminato, sulla quarantina. Aveva la carnagione scura e i capelli neri come l'ebano pettinati all'indietro; l'attaccatura era così bassa che sembrava partire dal centro della fronte. Era appoggiato al bordo di una scrivania e pareva immerso in cupi pensieri. Anche Li Yan sembrava preoccupato. E fumava in continuazione, notò Margaret disgustata. Lily gli stava dicendo qualcosa, ma era evidente che lui non l'ascoltava. Un suono all'altro capo del filo distolse Margaret dalle sue riflessioni. Qualcuno stava rispondendo alla sua chiamata. «Ventitreesimo distretto» disse una voce femminile. «Il detective Hersch, per favore.» Li Yan guardò Margaret che, al di là della vetrata, parlava animatamente e di tanto in tanto rideva. Senz'altro conosceva bene il suo interlocutore. Poi la donna rimase in attesa, picchiettando la matita contro la superficie lucida della scrivania del professor Xie. Non riusciva a immaginare lo sco-
po di quella telefonata né che cosa Margaret avesse visto nell'anello. Lo teneva ancora in mano e, mentre aspettava, continuava a esaminarlo. Non riusciva a restare ferma, sembrava in preda a un'eccitazione quasi infantile. Notò che portava la fede e si sorprese a chiedersi incuriosito che tipo fosse suo marito. Li Yan era fermamente convinto che non si sarebbe mai sposato. Le poche relazioni sentimentali che aveva avuto all'università erano finite nel nulla e, da quando era arrivato alla Prima Sezione, non aveva più avuto tempo per quel genere di cose. Si sentiva ancora imbarazzato ripensando agli approcci maldestri della sua adolescenza con le coetanee di Wanxian, la sua cittadina natale nel Sichuan. Era stato un ragazzo bruttino, sempre troppo alto per la sua età e molto goffo. Le ragazze più esperte lo prendevano in giro, tormentandolo e deridendolo. Ma c'era stata anche una ragazza timida, diversa dalle altre. Come lui, non era una bellezza ma, come lui, era dolce e di carattere forte. Avevano passeggiato spesso lungo il canale nei tramonti estivi, prima che lui partisse per Pechino per frequentare l'università. La ragazza non voleva che lui facesse il poliziotto. Gli diceva che era fatto per imprese migliori e che aveva un'anima sensibile, che il suo posto non era tra i criminali della capitale, che era la famiglia a spingerlo in quella direzione, solo perché lo zio era un famoso poliziotto di Pechino. Ma Li Yan sapeva che, almeno in parte, le cose non stavano così. Dentro di sé sentiva di provare un odio costante contro tutte le forme di ingiustizia, le disuguaglianze, i soprusi. Una volta, a scuola, la rabbia di Li Yan era esplosa. Uno spaccone, il ragazzo più grosso della sua classe, stava tormentando senza pietà uno dei più piccoli, un ragazzino timido con una mano deforme di cui si vergognava moltissimo. Intorno ai due, come sempre succede, si erano radunati altri ragazzi, spaventati e insieme affascinati dal crudele spettacolo, ben contenti di non essere loro le vittime del prepotente. Li Yan si era fatto largo tra i ragazzi e aveva intimato al bullo di smetterla. Quello, che non era abituato a sentirsi sfidato, si era girato furibondo e gli aveva chiesto chi credesse di essere. «Sono Li Yan e, se non la pianti, ti spacco la testa.» Faceva sul serio, l'altro glielo lesse negli occhi. E ormai non poteva più fare marcia indietro senza perdere la faccia. Così fu costretto a spaccargli davvero la testa. Il bullo rimase in ospedale per quasi due settimane, mentre lui ricevette la visita del funzionario addetto alla delinquenza minorile e per poco non fu espulso dalla scuola. Ma nessuno prese più in giro il ragazzino con la mano deforme, almeno non in sua presenza. E da allora Li Yan non dovette
più fare a botte con nessuno. Dunque sapeva che la ragazza aveva torto: non era fatto per imprese migliori. Era fatto per diventare un poliziotto e quella era davvero la scelta più giusta per lui. Non si era mai pentito di essere venuto a Pechino. Avendo saputo poi che la ragazza con cui usciva si era sposata con il bullo, ne aveva sorriso, perché conosceva la debolezza di lui e la forza di lei e sapeva che lei gli avrebbe fatto fare tutto quello che voleva. Margaret annotò rapidamente qualcosa su un taccuino, poi annuì, sorrise e riagganciò. Prese il foglietto e lo consegnò a Li Yan con gli occhi che le brillavano. «Il suo uomo misterioso si chiama Chao Heng. È sicuro al novantanove per cento.» Li Yan lesse l'appunto. "Chao Heng, laurea in genetica microbica, Università del Wisconsin, 1972." Guardò Margaret sbalordito. «Ma come ha fatto a scoprirlo?» chiese il professor Xie. Margaret sollevò l'anello. «Negli Stati Uniti esiste una tradizione tra i laureati. Per ricordare la laurea, vengono venduti speciali anelli con lo stemma dell'università, in questo caso quella del Wisconsin. Può vederlo lei stesso. Anche se non ci fosse stato scritto sopra "Università del Wisconsin" l'avrei riconosciuto perché...» Li Yan vide un'ombra passare nei suoi occhi «... qualcuno che conoscevo molto bene si è laureato lì.» Fu solo un attimo, e Margaret ritornò subito padrona di sé. «Molto spesso all'interno si fanno incidere un nome, una data, le iniziali. In questo caso, se guarda attentamente, può vedere le iniziali, C. H., e la data, 1972.» Xie osservò l'incisione e passò l'anello a Li Yan. «Siamo stati fortunati, non si è fuso completamente nel rogo. Comunque, là sono le dieci e mezza di sera e non potevo certo chiamare l'università. Ho chiamato un amico della polizia di Chicago. Lui si è collegato a Internet, ha consultato l'elenco dei diplomati e dei laureati del Wisconsin e controllato le iniziali del laureati del '72. C'era un solo nome cinese con le iniziali C. H., Chao Heng, laureato in genetica microbica.» Li Yan strinse l'anello nel pugno poi lo restituì a Margaret con uno sguardo che tradiva ammirazione. Margaret arrossì di piacere. Si ricordò di una frase che aveva letto molto tempo prima. Era cinese. «Le donne reggono l'altra metà del cielo» buttò lì con studiata indifferenza. Li Yan sollevò un sopracciglio, sorpreso, e lei vide un lampo malizioso passargli negli occhi scuri. «Ah, cita Mao Tse-tung.» Lei annuì: ecco chi l'aveva pronunciata. «Naturalmente,» aggiunse Li «intendeva riferirsi alla
parte inferiore del cielo.» Per un attimo si fissarono senza batter ciglio, poi il viso di Li Yan si aprì in un largo sorriso, che contagiò anche Margaret, suo malgrado. Avrebbe, infatti, preferito sferrargli un pugno sul naso. «Professore, se lei permette, mi piacerebbe molto assisterla nell'autopsia» disse poi, rivolta a Xie. «Sono sicura di aver molto da imparare da un anatomopatologo esperto come lei.» «Con piacere» rispose lui, con un lieve inchino. 5 «Sono state rilevate estese ustioni di terzo e quarto grado, associate a diffuse ustioni di secondo grado. Porzioni di cuoio capelluto e la capigliatura risultano carbonizzati, con l'eccezione di una zona circoscritta, sulla parte sinistra del cranio, dove sono presenti alcune ciocche bruciacchiate di capelli neri, lisci, della lunghezza media di tre centimetri. I lineamenti del volto non sono riconoscibili. Il naso e l'orecchio destro sono mutilati. L'orecchio sinistro è rattrappito e carbonizzato. La dentatura è in buono stato di conservazione e presenta numerose otturazioni in amalgama e corone in porcellana. La mascella e la mandibola verranno conservate per futuri raffronti dentali. La pelle e i tessuti molli della guancia destra sono carbonizzati, si riscontra una frattura dello zigomo destro.» Lily aveva cercato di defilarsi, ma i suoi tentativi non erano andati a buon fine, e ora se ne stava tremante in fondo alla sala, accanto a Li Yan, e non osava alzare lo sguardo su Margaret che eseguiva l'esame preliminare del cadavere, dettando le proprie osservazioni in un microfono pendente dal soffitto. Più tardi sarebbero state trascritte e inserite nel rapporto sull'autopsia. Nell'esaminare le estremità del cadavere, Margaret trovò un frammento di materiale nero indurito, incrostato sul dorso del piede sinistro e lo mise da parte. «Sul dorso e sulla pianta del piede sinistro e sulla pianta del piede destro sono presenti i resti di quelle che apparentemente erano una scarpa di cuoio e una calza. La scarpa doveva essere provvista di stringhe. La pelle del dorso del piede sinistro è violacea e presenta alcune vescicole; inoltre si osserva il segno evidente di una puntura di ago nella zona della safena del piede.» Margaret spense il microfono e si rivolse a Li Yan. «A quanto pare, il nostro uomo era un tossicodipendente. Il dorso del piede è un posto classi-
co in cui iniettare la dose perché i segni sono facilmente occultabili. Possiamo averne la conferma con un test per la ricerca di residui di narcotici nei capillari polmonari. Gli esami ematologici ci consentiranno di identificare la sostanza iniettata.» «Abbiamo sangue e tessuti sufficienti per gli esami?» Il disgusto di Li Yan era palpabile. «Sì. Di solito preleviamo liquido dagli occhi e sangue dalle arterie femorali ma l'interno del cadavere dovrebbe essere rimasto abbastanza protetto dal fuoco, e quindi essersi conservato bene. A parte il combustibile usato per appiccare l'incendio, non c'era molto altro ad alimentare il rogo, e perciò è probabile che il corpo non abbia bruciato a lungo.» L'assistente girò il cadavere e Margaret riaccese il microfono: «La parte posteriore del tronco presenta un contorno esterno simmetrico. La pelle del dorso è carbonizzata e in più punti staccata in corrispondenza del latissimus dorsi. Non presenta segni di traumi contusivi o penetranti». Dopo aver girato di nuovo il corpo, gli assistenti sistemarono un blocco di gomma dello spessore di circa quindici centimetri sotto la zona mediana del torace. Margaret praticò un'incisione a Y sulla pelle, dalle spalle, all'estremità dello sterno e poi al centro dell'addome fino all'osso pubico. Incise la muscolatura del tronco per mettere a nudo la cavità. «Si osservano disseccazione e solidificazione diffuse dei tessuti molli delle pareti toracica e addominale. Tutti gli organi sono presenti e nella giusta posizione.» Il professor Xie aprì la gabbia toracica con il costotomo. Lo schiocco delle ossa echeggiò sinistramente nella stanza. Poi la parte anteriore della gabbia toracica venne rimossa. Margaret forò il sacco pericardico prelevando poche gocce di essudato per gli esami tossicologici. Xie infilò le mani nella cavità e sollevò il cuore in modo che la collega potesse recidere i vasi sanguigni per liberarlo. Il cuore fu poi pesato e messo da parte per essere ulteriormente dissezionato. Proseguirono metodicamente asportando i polmoni, lo stomaco, di cui aspirarono il contenuto maleodorante in previsione dell'esame successivo, il fegato, la milza, il pancreas, i reni. Tutto venne pesato e furono prelevati campioni di sangue, liquidi organici e bile. «Lo stomaco contiene 125 grammi di materiale alimentare dal colore grigio-bruno e dalla consistenza pastosa, parzialmente digerito. Non si osservano residui macroscopici di farmaci. Non c'è odore di etanolo.» Con mani agili e veloci, Margaret si mise a lavorare sull'intestino. L'odo-
re che emanava era quasi insopportabile. Li Yan e Lily fecero istintivamente qualche passo indietro e quasi trattennero il respiro. «L'intestino tenue e il crasso, esaminati per tutta la lunghezza, non presentano reperti macroscopicamente rilevanti.» Alla fine dell'esame, l'intestino fu gettato nel secchio dei rifiuti. Dalla vescica furono prelevati campioni di urina per l'esame tossicologico; Margaret passò quindi ad analizzare la prostata e i testicoli, prelevandone alcune parti. Fu la volta del collo. «Le strutture ossee e cartilaginee del collo sono intatte e non presentano traumi. La muscolatura mostra un'evidente solidificazione prodotta dal calore, ma non si osservano segni di emorragia nelle fasce muscolari o nei tessuti molli.» Quindi Margaret e il professor Xie si concentrarono sulla testa tenuta in posizione rialzata da un poggiatesta sistemato sotto il collo. Praticarono un'incisione posteriore, da un orecchio all'altro, e ribaltarono il cuoio capelluto sul viso mettendo a nudo la scatola cranica. Uno degli assistenti asportò la calotta cranica, dopo averla incisa con una sega circolare. Il cervello era bene in vista. Margaret aveva avvertito tutti di tenersi alla larga mentre l'assistente lavorava. «Cercate di non respirare questa roba. Secondo le ultime teorie, potrebbe trasmettere l'HIV e altri virus.» Esaminò il cranio. «Dall'esame del cuoio capelluto risulta evidente un'area emorragica di 2 centimetri per 3,2 in corrispondenza dell'osso parietale sinistro. Più in profondità si rileva la presenza di un'emorragia subdurale. Alla rimozione della dura, risulta chiaramente visibile una frattura dai contorni irregolari della lunghezza di 2,6 centimetri.» Margaret procedette quindi all'esame del cervello. «Le meningi presentano un buono stato di conservazione. Si nota una leggera contusione del lobo parietale sinistro con tracce di emorragia.» Margaret respirò profondamente e si rilassò. «Bene non c'è molto altro da fare, per ora, la preparazione degli organi per l'esame istologico richiederà un po' di tempo...» Xie la interruppe. «Se desidera, in un quarto d'ora possiamo esaminare sezioni fresche congelate.» «Avete un criostomo?» La donna non riuscì a nascondere la sua sorpresa. «Questa è una struttura molto moderna, dottoressa. Non siamo poi così indietro rispetto agli americani» rispose il professore con un sorriso. Il criostomo aveva più o meno le dimensioni di una piccola lavatrice,
con una manovella a destra e un oblò in alto per poterne osservare l'interno, che veniva mantenuto a -22 °C. Margaret fu ben contenta di lasciare che il professore dimostrasse la sua abilità e si mise a osservarlo preparare le sezioni di tessuto polmonare e della cute del piede sinistro. Nel corso degli anni, Li Yan aveva assistito a numerose autopsie, ma questa procedura era nuova per lui. Xie posò una sezione di tessuto polmonare congelato dello spessore di pochi micron e la appoggiò su un vetrino a temperatura ambiente. Il campione si sciolse subito. Il professore lo colorò con ematossilina ed eosina e lo passò alla dottoressa per l'esame microscopico. «Dall'esame microscopico di sezioni multiple dei polmoni risulta la presenza di granulomi e cellule giganti plurinucleate contenenti materiale visibile alla luce polarizzata.» Il procedimento fu ripetuto con i campioni di pelle prelevati dalle zone delle punture sul piede sinistro. Margaret sollevò sulla fronte gli occhiali protettivi. «Come sospettavo.» «Che cosa significa?» «Spesso gli eroinomani polverizzano tutti i narcotici che trovano e se li iniettano come se fosse eroina. Microscopiche particelle delle pillole restano così intrappolate nei capillari polmonari e nel tessuto circostante e vengono circondate da cellule infiammatorie. Ciò risulta chiaramente visibile nei polmoni di quest'uomo e anche nei fori sul piede.» «E questo che cosa ci dice?» «Che, probabilmente, era un eroinomane.» «E la causa della morte?» «Le ustioni.» «Ha parlato di una contusione, di emorragia, di frattura del cranio... Che cosa significa?» «Qualcuno l'ha colpito in testa con un oggetto smussato, abbastanza forte da tramortirlo.» «Non potrebbe essersi trattato di un colpo accidentale o autoinflitto?» chiese il poliziotto, sbalordito. «No, non credo. Con una lesione del genere non sarebbe stato in grado di camminare e poi di darsi fuoco. Se ho capito bene, è stato trovato nella posizione del loto, quindi non è caduto ferendosi alla testa dopo essersi dato fuoco. Secondo me, gli hanno dato un colpo in testa e poi gli hanno somministrato un sedativo... Sa che cosa significa Special K?» Di fronte all'espressione disorientata dell'uomo, Margaret sorrise. «Nelle strade è no-
ta con questo nome. Si tratta di un farmaco: la chetamina. Negli Stati Uniti si usava per indurre l'anestesia. Ha effetti collaterali allucinogeni piuttosto sgradevoli. Quando avremo i risultati degli esami ematologici, probabilmente scopriremo che gli hanno iniettato della chetamina o una dose molto elevata di eroina.» «Mi sta dicendo che non si è ucciso?» «Vuole scherzare? Quest'uomo è stato sicuramente assassinato.» CAPITOLO TERZO Martedì pomeriggio 1 Margaret infilò gli occhiali da sole, quasi accecata dal bagliore del sole così intensamente contrastante con la luce fredda della sala anatomica. Lily non era ancora riapparsa, dopo una precipitosa corsa alla toilette, e lei e Li Yan stavano in piedi l'una di fronte all'altro, stranamente riluttanti a lasciarsi. Condividere un'esperienza traumatica e rivelatrice come la dissezione del cadavere di un altro essere umano sembrava quasi aver creato un legame tra loro. Adesso avvertivano in modo ancora più intenso e condiviso la loro natura mortale. Margaret guardava la strada. «Ha lasciato la macchina davanti all'amministrazione?» «No, mi ha portato qui il capo. Prenderò un autobus.» «Un autobus? La polizia non può permettersi un taxi?» «Non mi dà fastidio prendere l'autobus» ribatté lui con un'alzata di spalle. «Con questo caldo? Gli autobus sono strapieni. Deve andare lontano?» «Dall'altra parte della città.» Finalmente comparve Lily, pallidissima. «Lily!» l'apostrofò Margaret, brusca. «Devo tornare alla Prima Sezione con il vicecapo Li.» Fece un gesto vago con la mano. «Problemi amministrativi. Non ho più bisogno di lei.» «Questo non è possibile, dottoressa» fu la secca replica. «Come fa a tornare all'università? Prendo la macchina e l'accompagno.» «Non ne dubitavo» fece Margaret con un sorriso mentre Lily si incamminava verso l'auto. Poi, rivolta a Li Yan: «Posso darle un passaggio?». Lui fece un sorrisetto malizioso. «No, grazie, non si disturbi.»
«La prego, oggi non ho altre lezioni e mi piacerebbe visitare il quartier generale della polizia di Pechino. Sono certa che il capo Chen non avrebbe obiezioni.» Durante il lungo attraversamento della città, Margaret ebbe modo di pentirsi del proprio slancio. Lily era seduta davanti, accanto all'autista, mentre lei sedeva dietro insieme a Li Yan, in un silenzio imbarazzante. Per evitare qualsiasi contatto fisico, avevano lasciato tanto spazio tra loro che ci sarebbe stata comodamente un'altra persona. Dopo l'iniezione di adrenalina della mattinata, Margaret sentiva che il suo corpo e il suo cervello avevano un bisogno disperato di sonno. Le si chiudevano gli occhi. Si rese conto che sarebbe dovuta tornare in albergo a dormire: dopotutto, al suo paese, quella era l'ora di andare a letto. Ragionando così, però, il suo orologio interno non si sarebbe mai abituato all'ora di Pechino! Li Yan si pentiva di aver accettato quel passaggio per ragioni del tutto diverse. Avrebbe dovuto condurre Margaret nel proprio ufficio e già si immaginava i sorrisetti maliziosi e i commenti a mezza voce dei colleghi. E sapeva che non sarebbe riuscito a mascherare l'imbarazzo, propenso com'era ad arrossire. Nello stesso tempo, però, pregustava l'opportunità di sfoggiare davanti a lei la posizione e l'autorità di cui godeva. Lungo la strada verso la Prima Sezione passarono davanti a un edificio imponente con il tradizionale tetto a pagoda e decorazioni a mosaico multicolori. I pilastri del cancello erano sormontati da leoni di pietra. «Che cos'è?» chiese Margaret. «L'albergo per i cinesi d'oltremare» rispose lui. «Intende dire che hanno alberghi riservati?» «Alcuni cinesi d'oltremare sono convinti di essere migliori di noi poveri cinesi di terraferma. Pensano che il denaro li renda migliori.» Li Yan non approvava i privilegi concessi a quei cinesi - alcuni dei quali di seconda o terza generazione - che tornavano da Singapore e dagli Stati Uniti per abbagliare i parenti poveri con le loro ricchezze e inondarli di regali. Era vero, d'altra parte, che per molti anni il denaro che avevano mandato a casa aveva fornito un contributo importante all'economia cinese. Adesso, però, le cose stavano cambiando. Dato il rapido mutamento del clima economico e politico, molti di questi cinesi espatriati tornavano in patria una volta per tutte. La Cina stava diventando un paese pieno di opportunità, un posto in cui fare fortuna. Quando passarono accanto al ristorante Arca di Noè, Li Yan vi gettò u-
n'occhiata, sperando che molti suoi colleghi si trovassero lì, così sarebbero stati in meno a ridere, al suo ingresso insieme all'americana. Ma il locale sembrava deserto. Li Yan sospirò. Se Margaret si era aspettata che la sede del quartier generale della Prima Sezione fosse un imponente edificio governativo, l'anonima costruzione di mattoni nascosta dagli alberi fu certo una delusione. Dopo averla fatta entrare da un ingresso laterale, Li Yan condusse Margaret e Lily all'ultimo piano e con grande imbarazzo trovò che la stanza era piena di colleghi seduti alle scrivanie e intenti a mangiare spaghetti o riso e a bere tè verde. C'era una strana atmosfera rarefatta. Quando Li Yan entrò, tutti zittirono, benché Margaret non avesse ancora varcato la soglia. Quando poi lei fece il suo ingresso nella stanza, la tensione latente si accentuò. Gli uomini se ne stavano immobili, chiaramente imbarazzati di fronte a quella donna che non conoscevano. Ma Li Yan era deciso a rimanere calmo. «Qian, abbiamo identificato la vittima del rogo. Si chiamava Chao Heng, si era laureato in America, all'Università del Wisconsin, nel 1972 in...» diede un'occhiata al foglietto che teneva in mano «...genetica microbica. Chissà di che cosa si tratta. Trova al più presto il suo indirizzo e tutto quello che è possibile sapere su di lui.» «Subito, capo» obbedì Qian e si preparò a fare una serie di telefonate. Ma rimase con il ricevitore a mezz'aria, intento a fissare, come tutti gli altri, il capo che apriva la porta del suo ufficio. Si udirono alcune risatine sommesse. Li Yan si bloccò. Davanti a lui stava una bizzarra figura di vecchio con i capelli lunghi e radi e una corta barbetta. Portava un vestito nero con casacca e pantaloni e sedeva a gambe incrociate sulla scrivania. Margaret allungò il collo per cercare di scoprire la causa dell'ilarità generale. «Ma che diavolo...» esclamò Li Yan mentre, dietro di lui, si alzava un coro di risate. Anche Lily era entrata nella stanza e osservava sbalordita il vecchio. «Chi è?» chiese infine Margaret, colpita dalla bizzarria della scena. «Non ne ho la minima idea» rispose Li Yan. E, rivolto al vecchio, gli chiese in cinese: «Le dispiace dirmi che cosa fa nel mio ufficio?». Altre risate. Emergendo da uno stato di profonda contemplazione, il vecchio sollevò su Li Yan il solenne viso rugoso «Feng shui negativo» disse. «Molto, molto negativo.» «Feng shui?» intervenne Margaret. «So che cos'è!»
«Davvero?» Li Yan si girò verso di lei, sbalordito. «Certo, è la mania dei ricchi borghesi americani che non sanno come passare il tempo. Una volta, una mia amica mi ha trascinata a un corso di feng shui. Sa, l'equilibrio tra yin e yang, il flusso del ch'i e tutto il resto... La spiritualità dell'architettura e dell'arredamento... Allora, lui chi è?» «Un esperto di feng shui, a quanto pare» rispose Li Yan a denti stretti. «E... che ci fa qui?» Lui la guardò, ma poi venne distratto dai colleghi che ridevano a crepapelle. Lanciò loro un'occhiata dura e le risate cessarono. «Che cosa fa nel mio ufficio?» chiese al vecchio. Ma conosceva già la risposta. Ciò nonostante, si sentì mancare quando il suo interlocutore rispose: «Suo zio Yifu mi ha chiesto di occuparmi del suo feng shui. È molto preoccupato di questo posto, e ha ragione. Qui il feng shui è molto, molto negativo». Wu sfiorò Margaret, nel passarle accanto per raggiungere Li Yan. Si tolse gli occhiali scuri. «Il capo vuole vederti.» «Che cosa c'è?» «Ha detto che saresti dovuto andare da lui appena arrivato. Forse anche lui è preoccupato del tuo... feng shui.» Non riuscì a rimanere serio e scoppiò a ridere. «Mi scusi» disse Li Yan a Margaret, e se ne andò. Bussò a una porta in fondo al corridoio ed entrò nell'ufficio di Chen. «Chiuda la porta» gli ordinò questi bruscamente e con aria seccata. «Che ci fa quel tizio nel suo ufficio?» «È un esperto di feng shui.» Li era disperato. «Lo so chi è.» Chen si sforzava di non alzare la voce. «Ma che cosa ci fa qui?» «L'ha mandato mio zio Yifu.» Il capo si appoggiò allo schienale della sedia. «Questo l'avevo immaginato anch'io» disse esasperato. «Mi dispiace, capo. Non avevo idea...» «Sa bene che la pratica del feng shui nelle istituzioni ufficiali è disapprovata. Si sbarazzi immediatamente di quell'uomo!» «Sì, capo.» Li Yan era già sulla soglia, ma si fermò. «A proposito, ricorda il suicida nel parco? È stato assassinato.» Quando tornò nella stanza degli investigatori, trovò Margaret impegnata in una conversazione che pareva animata. Lily faceva da interprete. Li Yan chiuse gli occhi e desiderò con tutte le sue forze di trovarsi altrove. «Ehi,
capo,» disse Wu «è proprio una ragazza in gamba. Ci sta spiegando come ha scoperto l'identità del cadavere del parco.» Margaret si girò verso la porta. «Ha proprio una bella squadra, vicecaposezione Li.» «Li Yan» la corresse lui. «Mi chiamo Li Yan.» Si sentì le guance avvampare. Era arrossito fino alla radice dei capelli. Si domandò che cos'altro gli sarebbe capitato, quel giorno, e si diresse nel suo ufficio. In piedi al centro della stanza, l'esperto di feng shui prendeva appunti. «Mi dispiace, ma deve andarsene.» «Lo so, devo pensare molto.» Indicò lo schedario appoggiato alla parete accanto alla porta. «Questo schedario non va bene qui, impedisce alla porta di aprirsi completamente. La porta deve aprirsi a 180 gradi. Negli spazi vuoti dietro le porte si raccoglie il ch'i negativo, e poi entrando non si riesce a vedere tutta la stanza.» Scosse la testa indicando la finestra. «La finestra è bloccata. Riduce la visuale. Limita le sue opportunità.» Diede un colpetto alla scrivania. «Lei scrive con la destra o con la sinistra?» «Con la sinistra, perché?» «Allora dobbiamo spostare la scrivania. La luce deve provenire dal lato opposto alla mano che si usa per scrivere. E qui ci vogliono anche dell'acqua e piante vive.» Indicò le piante appassite nei vasi polverosi sul davanzale. Erano appartenute al predecessore di Li Yan: dopo la morte del loro proprietario nessuno le aveva innaffiate e così erano morte anche loro. «Questo è un feng shui molto negativo. E dovremo pensare al colore delle pareti...» Li Yan prese gentilmente il vecchio per un braccio. «Sono soddisfattissimo del colore delle pareti. Adesso ora lei deve proprio andarsene.» «Domani torno con il progetto.» «Oh, non si preoccupi. Stasera parlerò con mio zio.» «Suo zio è un mio carissimo amico, gli devo molti favori.» «Non ne dubitavo.» Mentre Li Yan l'accompagnava in corridoio, il vecchio rivolse un'ultima occhiata in giro. «Feng shui negativo, molto, molto negativo.» Girandosi verso la sala, Li Yan vide che tutti, Margaret compresa, lo stavano osservando con un malcelato sorriso. «In ogni caso,» disse Margaret «è ora di andare a pranzo, che ne dice?» «Lei gli ha appena chiesto di portarla a pranzo» tradusse Lily ai presenti. Tutti aspettavano con evidente interesse la risposta di Li Yan. Era in trappola: quella donna aveva appena fatto un grosso favore al capo e quindi,
indirettamente, a lui. L'etichetta gli imponeva di contraccambiare il favore. Un pranzo, dopotutto, non era un prezzo così alto da pagare. Se si tralasciava il fatto che i colleghi lo avrebbero preso in giro per un bel pezzo. Diede un'occhiata all'orologio. «Non ho molto tempo ed è già un po' tardi» obiettò debolmente. Lily sussurrò la traduzione. «Su, capo,» intervenne Wu «il minimo che possa fare è offrire il pranzo alla signora.» «Solo una cosa veloce, va bene anche un hamburger» insistette Margaret. Li Yan si arrese: sapeva di non avere via di scampo e poi nella sua mente aveva preso forma un'idea maliziosa. «Be', conosco un posto.» «Dico all'autista di portare la macchina» Lily si diresse verso la porta. «Non serve» intervenne Li Yan. «Prenderemo una macchina del nostro parco auto. Ci ritroviamo qui tra un'ora.» E aprì la porta per far passare Margaret. Lily parve indispettita per quell'esclusione, ma non mosse obiezioni. «Bye bye» li salutò Wu. Margaret si fermò accanto alla porta. Cercò di ricordarsi qualcosa che aveva letto in aereo, nel manuale di frasi fatte. «Zai jian» disse infine, suscitando qualche risata, applausi e un coro di «bye bye». 2 Li Yan prese una delle jeep blu parcheggiate lungo la strada. Si diressero a sud e poi a ovest lungo la Dongzhimennei. Rimasero in silenzio per alcuni minuti. Lui pareva concentrato nella guida in mezzo al traffico, come sempre caotico. A un certo punto Margaret gli lanciò un'occhiata. «Dicevano che è stato suo zio a chiamare l'esperto di feng shui.» «Sì» tagliò corto lui. «E così oggi il feng shui non è molto praticato in Cina, vero?» «Viene praticato, ma non ufficialmente. In realtà, non ne so molto.» «È un peccato, perché l'ha inventato un cinese. Il corso che ho frequentato era tenuto da un esperto sinoamericano. Ci disse che quella filosofia derivava dalla pratica del taoismo, l'antica religione cinese.» «E che cosa ne sa un sinoamericano del taoismo?» chiese Li Yan. «A quanto pare, più di lei.» Li Yan sfogò il suo malumore suonando insistentemente il clacson contro un ciclista. «Taoismo,» spiegò «viene da tao, che significa "strada". Ci
insegna che tutti dobbiamo trovare il nostro posto nel corso naturale delle cose senza turbarne l'andamento. Quando accettiamo il nostro posto nel mondo, ci preoccupiamo delle conseguenze delle nostre azioni, perché a ogni azione corrisponde una reazione e tutto quello che facciamo ha una ricaduta sugli altri.» Sorpresa per quell'improvvisa e imprevista lezione, Margaret ripensò a quello che Bob aveva cercato di spiegarle: la sublimazione dell'individuo a favore del bene della collettività, la consapevolezza che nessuno è solo al mondo, ma si è tutti dipendenti gli uni dagli altri. Come se le avesse letto nel pensiero, lui proseguì: «Naturalmente non è solo una filosofia cinese, la troviamo espressa anche nel pensiero occidentale e nella poesia di John Donne. Certo, John Donne scriveva nell'Inghilterra del XVII secolo ma aveva sicuramente tratto ispirazione da filosofie cinesi molto più antiche». Margaret era sbalordita. «Ma all'Accademia di Polizia insegnano John Donne?» «No» rispose lui divertito. «Allora lo studiate a scuola?» «Me l'ha insegnato lo zio Yifu. Ha frequentato l'università americana di Pechino prima dell'avvento dei comunisti al potere, nel 1949. Dopo la laurea avrebbe avuto la possibilità di andare a Cambridge, ma restò qui per dare il suo contributo all'edificazione della nuova Cina.» Un velo di tristezza gli offuscò il viso. «Mio zio è stato l'incarnazione della filosofia del taoismo.» «E come ha contribuito all'edificazione della "nuova Cina"» chiese lei scettica. Li Yan non ci fece caso. Aveva la mente rivolta altrove, a un altro tempo. «Diventò poliziotto.» «Cosa?» «Era considerato un intellettuale e, in quel periodo, questo non era un bene. I liberi pensatori venivano guardati con sospetto. Così si arruolò come volontario nel corpo di polizia e fu mandato in Tibet.» «Un bel salto: dalla specializzazione a Cambridge alla polizia in Tibet!» «A quel tempo le cose andavano così. Insieme a sua moglie si mise in cammino dal Sichuan al Tibet.» «Ci andò a piedi?» «Allora le strade fino alle montagne del Tetto del mondo erano pochissime. Ci misero tre mesi.»
A Margaret sembrò un'impresa straordinaria. Le fece venire in mente l'intrepido viaggio dei pionieri verso ovest, attraverso gli Stati Uniti, all'inizio del XIX secolo. Ma il viaggio dello zio di Li Yan si era svolto meno di cinquanta anni prima. «Poi, nel 1960, lo trasferirono a Pechino. Quando andò in pensione, cinque anni fa, era commissario capo e dirigeva la polizia municipale. Da quando sono arrivato qui per frequentare l'università vivo con lui.» Li fermò la macchina all'angolo con Xichang'an Jie, davanti a un ristorante con il muro dipinto a strisce rosse e verdi e un tendone giallo. Una porta a due battenti con un tettuccio a pagoda coperto di tegole verdi portava a uno snack bar al primo piano. Il marciapiede era ingombro di biciclette parcheggiate, una accanto all'altra, sotto gli alberi. «Tianfu Douhua Zhuang» disse Li Yan. «Come, prego?» «È il nome del ristorante» spiegò Li Yan, cedendole il passo. «Tianfu, "terra dell'abbondanza", è il soprannome del Sichuan, la mia provincia natale, Douhua Zhuang significa "villaggio del tofu". Qui il cibo è ottimo.» Il primo piano era affollato di clienti ritardatari. Lungo le pareti, su mensole di vetro erano disposte ciotole di cibi già pronti. Una fila di persone era in paziente attesa di poter acquistare spaghetti da portare via. Li Yan accennò alle scale. «Al piano superiore c'è un vero ristorante con un menu completo, ma ormai è tardi per pranzare. Qui si possono avere solo spuntini, ma di ottima qualità. Le va bene?» «Sì.» Margaret era un po' disorientata da quella situazione, per lei insolita. «Ma scelga lei, per favore; non saprei proprio da dove cominciare.» «Bene. Le piacciono gli spaghetti?» Lei annuì. Lui ne prese due ciotole e le sistemò su un vassoio. Poi passarono in rassegna gli altri piatti pronti, ne scelsero alcuni accompagnati da salse piccanti. Infine presero due birre, pagarono e si sedettero all'estremità di un tavolo affollato. Appena presero posto, la conversazione degli altri commensali si spense e alcune facce incuriosite si volsero verso di loro. Dopo qualche istante, il chiacchiericcio riprese e i due poterono rientrare felicemente nel loro anonimato. «Allora...» Margaret era ansiosa di riprendere la conversazione interrotta in auto. «Abita ancora con suo zio e sua zia?» «Solo con mio zio, la zia è morta prima che io arrivassi qui. Praticamente non l'ho mai conosciuta. Lo zio Yifu non è mai riuscito a superare il dolore per la sua perdita.» Dopo aver osservato attentamente Li Yan, Margaret si servì dalle ciotole
come gli aveva visto fare. Il cibo era ottimo ma, dopo qualche minuto, la leggera sensazione di bruciore che sentiva in bocca si trasformò in un vero incendio. Respirava a fatica. «Santo cielo, ma è fortissimo!» Afferrò il bicchiere e ne vuotò metà in un sorso solo. Guardò Li Yan e lo vide sorridere lievemente. «Il cibo del Sichuan è piccante, ma è buono, no?» Margaret aveva la faccia paonazza e la fronte sudata. «Mi ha portato qui apposta, vero? Voleva che mi bruciassi la bocca.» L'espressione soddisfatta di Li Yan la fece infuriare. «Questa è la cucina tradizionale delle mie parti, pensavo che volesse assaggiarla. Non sapevo che avesse un palato tanto... sensibile.» «Li Yan, lei è un vero bastardo!» Lui avvertì un brivido di piacere sentendola pronunciare il suo nome. Margaret bevve un altro sorso di birra e l'uomo ebbe finalmente pietà di lei. «No, no, bere non serve a niente.» E le tolse di mano il bicchiere. Estrasse una bustina di zucchero da una tasca e gliela porse. «Questo funziona meglio.» «Lo zucchero?» «Sì, calma il bruciore.» Scettica, Margaret aprì la bustina e se ne versò in bocca il contenuto. Sciogliendosi, lo zucchero trasformò il bruciore in dolcezza: un vero miracolo. «Funziona!» Lui sorrise. «Piccante e dolce. Qui c'è l'equilibrio degli opposti, yin e yang, come nel feng shui.» «Pensavo che non sapesse nulla del feng shui.» «Ne conosco i principi, ma non la pratica.» Addentò un altro boccone di quel cibo piccante. «Ma come fa? Non le brucia?» «Ci sono abituato. E se ne mangia ancora un po' anche lei, scoprirà che non brucia poi tanto e riuscirà ad apprezzarne il sapore. Accompagni sempre un po' di spaghetti a ogni boccone.» «Dove ha imparato così bene l'inglese? A scuola?» «No. In realtà, a scuola studiamo l'inglese, ma è stato lo zio Yifu a insegnarmi a parlarlo bene. Lui sostiene che al mondo ci sono solo due lingue che vale la pena di sapere bene: il cinese e l'inglese.» Margaret vide che gli brillavano gli occhi, quando parlava dello zio. Con sua grande sorpresa, non notava più i lineamenti orientali di quel viso, non le appariva per nulla esotico. Era diventato un volto familiare,
conosciuto e neppure tanto brutto. Gli occhi avevano qualcosa di profondo e oscuramente attraente. «Ogni giorno mi insegnava dieci parole e un verbo, poi me li provava e mi faceva fare pratica. Al parco Yuyuantan c'è un posto, chiamato "l'angolo dell'inglese", dove i cinesi che parlano inglese si incontrano per fare un po' di pratica. Lo zio Yifu mi ci portava ogni domenica mattina e restavamo lì a parlare fino allo sfinimento. A volte, capitava qualche turista o uomo d'affari inglese o americano che aveva sentito parlare di quel posto e veniva a fare conversazione con noi. Erano occasioni davvero speciali perché potevamo domandare loro termini slang, parole colloquiali o anche parolacce, tutte cose che non si trovano sui libri. Lo zio Yifu dice sempre che si conosce bene una società solo quando si conoscono le parole che usa per bestemmiare.» «Suo zio avrebbe dovuto fare l'insegnante.» «Penso che gli sarebbe piaciuto. Non ha avuto figli e così ha insegnato a me tutto quello che un padre insegna al proprio figlio.» Li Yan sollevò la ciotola e si portò rapido gli spaghetti alla bocca aiutandosi con le bacchette. «Ma non ho imparato tutto da mio zio. Sono stato sei mesi a Hong Kong, dopo la sua restituzione alla Cina, e ho lavorato con un agente di polizia inglese molto in gamba che aveva deciso di fermarsi là. E questo ha contribuito a migliorare il mio inglese. Poi mi hanno mandato tre mesi negli Stati Uniti a seguire un corso di investigazione criminale, all'Università dell'Illinois a Chicago.» «Sta scherzando!» esclamò Margaret, scuotendo la testa. «Ho frequentato anch'io quel corso!» «Ma lei è un medico legale.» «Certo, è la mia specializzazione, ma ho seguito anche un corso di addestramento nell'uso delle armi al dipartimento di polizia di Chicago. Ero anche piuttosto brava, come tiratrice. Poi ho partecipato al corso di investigazione criminale perché... be' non c'è niente di male nel cercare di ampliare i propri orizzonti. Un anno dopo, ho insegnato medicina legale in quel corso; è lì che ho conosciuto il suo capo. È incredibile che noi due non ci siamo conosciuti prima.» «Il corso gliel'ha pagato il suo datore di lavoro?» «No, certo» Margaret sorrise a quel pensiero. «Ho dovuto prendere un permesso di tre mesi. A quel tempo me lo potevo permettere, mio marito lavorava.» «Ah!» Suo malgrado, Li Yan si sentì deluso dall'accenno di Margaret al
coniuge. Lo sguardo gli corse veloce alla fede, sulla mano sinistra. «È sposata da molto?» «Un sacco di tempo,» rispose lei con insolita amarezza «da quando avevo ventiquattro anni. Sono sette anni. Devo avere rotto uno specchio.» «Che cosa dice? Ha rotto uno specchio?» «È una sciocca superstizione di noi occidentali. Si dice che, se rompi uno specchio, avrai sette anni di disgrazie. In ogni caso, adesso non sono più sposata e quindi forse la mia sorte sta cambiando.» Lui si sentì inspiegabilmente sollevato. Ma era curioso. «Che cosa faceva suo marito?» «Oh, insegnava genetica alla Roosevelt University di Chicago. Era la sua grande passione o, almeno, così pensavo.» Li Yan percepì nella sua voce un profondo dolore, che lei cercava di nascondere. «Diceva sempre che la genetica poteva essere la nostra salvezza o la nostra rovina: stava a noi fare le scelte giuste.» «Nella vita bisogna fare sempre le scelte giuste.» «A quanto pare, alcuni di noi fanno invece sempre quelle sbagliate.» Improvvisamente Margaret si rese conto di aver parlato troppo e abbassò lo sguardo, imbarazzata. «Mi scusi, la mia squallida vita privata non le interessa di certo.» Cercò di buttarla sul ridere. «Sicuramente desidererà sapere come mai sono diventata un'esperta di "creature croccanti".» «Come prego?» «Un collega chiamava così gli ustionati: creature croccanti. Che cattivo gusto, eh? Ma questo umorismo macabro è solo uno strumento di difesa. Viviamo in un mondo malato e questo è il nostro modo malato di affrontarlo.» «Allora, come è diventata un'esperta di... "creature croccanti"?» Il suono sgradevole di quelle parole gli riportò alle narici gli odori nauseabondi della sala anatomica e gli fece arricciare il naso. Margaret sorrise del suo disgusto. «Be', penso che il mio interesse sia sorto mentre assistevo un medico legale a Waco. E poi, durante l'internato al Centro medico dell'università ho fatto molta esperienza: traumatizzati, ustionati in incidenti automobilistici, vittime di incendi domestici o di sciagure aeree e anche un paio di casi di gente che si era data fuoco, come si pensava avesse fatto quel tipo nel parco. Poi, quando ho cominciato a lavorare nell'ufficio del medico legale della contea di Cook, mi sono dedicata a questa specializzazione. La mia non è stata proprio una vocazione, ma non si finisce sempre per fare quello che si faceva all'inizio? E lei ha
sempre desiderato fare il poliziotto?» «Sì.» «Risposta piuttosto concisa» osservò lei ridendo. «Perché è venuta in Cina?» Sembrò che quella domanda avesse spento una luce dentro di lei. Margaret perse qualunque vivacità e il suo sguardo divenne opaco. «Be'... Ho avuto questa opportunità proprio nel momento in cui la cosa che desideravo di più era lasciare Chicago. Non volevo venire proprio in Cina: qualsiasi posto mi sarebbe andato bene.» Li Yan sentì di essersi addentrato in un territorio pericoloso: proseguire lungo quella strada sarebbe stato inutile e controproducente. Estrasse l'orologio dal taschino. «Posso vederlo?» Margaret si chinò verso di lui tendendo la mano. Era un orologio esagonale molto semplice, con una pesante cassa color peltro. Il taschino di cuoio era decorato con un'aquila. «È molto insolito. L'ha comperato negli Stati Uniti?» «No, a Hong Kong.» Lo rimise nel taschino. «Devo proprio tornare in ufficio.» «Certo.» Margaret finì gli spaghetti e la birra, poi uscirono sotto il sole del pomeriggio che dardeggiava impietoso. «Ho ancora la bocca in fiamme» disse lei. Lui la guidò lungo il marciapiede. «I cinesi sono un popolo molto pratico: dove c'è un ristorante di cucina Sichuan, c'è un gelataio poco distante.» Si fermarono fuori da un negozietto a una sola vetrina riparato da un tendone a strisce colorate. In lettere bianche su fondo blu c'era scritto "Gelateria Charley" e sotto "Joint venture sinoamericana". «Oddio! Non posso crederci!» esclamò Margaret ridendo. «Specializzata nel rinfrescare il palato ipersensibile degli americani.» Lei lo fulminò scherzosamente con lo sguardo e lui rise. Entrarono, scelsero due palline di gelato per ciascuno e si affrettarono verso la macchina con l'aria condizionata, prima che i gelati si sciogliessero. 3 Lily Peng era furiosa con tutti e due: erano in ritardo di oltre quaranta minuti. La sua rabbia era dovuta non tanto al ritardo quanto al fatto di essere stata esclusa. Come tutti nell'ufficio della Prima Sezione, era molto curiosa di sapere come fosse andato il pranzo. Ma gli investigatori avevano
parecchie cose da fare in attesa del ritorno della coppia. In quelle ore, nell'ufficio era transitata una lunga processione di abitanti dei bassifondi di Pechino: individui con la barba lunga in T-shirt sudicie e cappellini da baseball e ragazzoni dai capelli unti con vestiti da due lire erano stati condotti nella stanza degli interrogatori. Protettori e piccoli spacciatori che potevano aver avuto rapporti con l'uomo trovato pugnalato, quella mattina, nella discarica alla periferia occidentale della città. I telefoni non avevano mai smesso di squillare. Qian aveva fatto almeno venti telefonate e poi aveva mandato un agente a prendere una cartella clinica odontoiatrica da qualche parte in città e l'aveva fatta recapitare al Laboratorio della scientifica. Un fax proveniente dal laboratorio aveva suscitato un certo interesse, ma nessuno aveva condiviso con Lily quelle novità. Le conversazioni erano enigmatiche e prudenti. Lily stava guardando per l'ennesima volta l'orologio, quando finalmente Li Yan e Margaret entrarono nella stanza. Qualcuno alzò la testa e gettò un rapido sguardo incuriosito verso di loro, ma il lavoro aveva la precedenza. Ci sarebbe stato tempo più tardi per i commenti maliziosi. La rabbia di Lily crebbe ulteriormente quando Li e Margaret le passarono accanto senza neppure salutarla, diretti in ufficio. Nessuno dei due sorrise e nella sala si diffuse un'atmosfera strana e carica di tensione. Quando Qian li raggiunse, Li era già occupato al telefono. «Siamo qui, capo.» Li Yan riagganciò e, rivolto a Margaret: «Il capo arriverà tra un minuto. La ringrazia». «Bene» rispose lei con voce incolore. Qian consegnò a Li Yan il fax che era giunto dal laboratorio. «La cartella clinica del dentista conferma l'identità dell'uomo: è Chao Heng. Sembra che fosse un consulente scientifico del ministero dell'Agricoltura. Sei mesi fa è andato in pensione per motivi di salute. Viveva in un appartamento nel distretto di Chongwen.» Li Yan diede una rapida occhiata al rapporto. «Aveva ragione su entrambe le cose: l'identità della vittima e la somministrazione del sedativo» disse, rivolto a Margaret, e agitò il fax con i risultati del test: i livelli di chetamina nel sangue erano elevati. Margaret annuì indifferente. Se avesse continuato a collaborare al caso, si sarebbe dimostrata più interessata ma, poiché non era così, si sentiva demotivata e depressa. Qualcun altro avrebbe risolto l'omicidio che lei aveva scoperto. Non poteva più essere d'aiuto o, almeno, finora nessuno glielo aveva chiesto.
Li Yan lanciò un paio di rapide occhiate nella sua direzione e la vide intenta a guardare fuori dalla finestra, pensierosa. L'evidente disinteresse di Margaret lo infastidiva. «Grazie, ne parliamo dopo» disse, restituendo il fax a Qian. Sulla porta, l'agente si imbatté nel caposezione. Chen strinse con calore la mano a Margaret. «Dottoressa Campbell, le sono veramente grato del suo aiuto. Ci è stato davvero prezioso, vero Li Yan?» «Sì.» «E il mio vice si è preso cura di lei?» «Sì, mi ha portata a pranzo in un ristorante del Sichuan. Ho ancora la bocca in fiamme.» «È stato un vero piacere per me» fu il laconico commento di Li. Chen scoppiò in una sonora risata, destando stupore fra gli investigatori che si trovavano nella stanza vicina. Accompagnò Margaret fuori dall'ufficio, seguito da Lily, sempre imbronciata. «Venga, l'accompagno alla macchina. Nel pomeriggio telefonerò al professor Jiang per ringraziarlo personalmente di averci prestato il suo prezioso talento.» Margaret si girò un attimo e scorse Li Yan impegnato a discutere con i colleghi. Molto probabilmente non l'avrebbe più rivisto. Un paio di teppisti dall'aria tetra furono spinti nella stanza per essere identificati prima dell'interrogatorio. «Stamattina abbiamo raccolto una quindicina di deposizioni di gente che conosceva Mao Mao» riferì Wu al suo capo. «Davvero un bel campionario: spacciatori, papponi, prostitute! Mao Mao non era certo uno stinco di santo e nessuno verserà una lacrima per lui, neppure i suoi. Quando abbiamo detto alla madre che fine aveva fatto, ha sputato commentando: "Che liberazione!".» In piedi accanto alla finestra, Li Yan guardava la strada. Scorse Margaret entrare nella BMW. "Che liberazione!" Le parole della madre di Mao Mao corrispondevano perfettamente ai suoi pensieri. Prima di chiudere la portiera, la donna guardò su. Accidenti! Forse l'aveva visto. Fece un rapido passo indietro sentendosi uno sciocco. Che assurdità! Si concentrò su quel che Wu gli stava riferendo. «Sicuramente era nel giro della droga, ma non faceva parte delle alte sfere, del "cerchio d'oro". Era solo una delle tante mosche attratte dal letame.» Il cosiddetto "cerchio d'oro" era il giro degli spacciatori che sovrintendevano il traffico della droga a Pechino. Avevano le mani pulite e un alibi sempre pronto, riuscivano a non farsi incriminare mai e si arricchivano vendendo la morte.
«Naturalmente,» proseguì Wu «tutti dichiarano di non saperne nulla. E, sai che ti dico, capo? Secondo me è la verità. Ormai ho un certo fiuto in queste cose.» Li Yan annuì, pensieroso. «Portami il fascicolo di Ago: gli darò un'occhiata stasera.» Ago era il soprannome dell'uomo a cui, come era noto a tutti, faceva capo il traffico dell'eroina che si svolgeva per le strade. Ma tra ciò che si sapeva e ciò che si riusciva a provare c'era una notevole differenza. L'uomo era protetto da una solida rete di omertà, un fenomeno pressoché sconosciuto nella società cinese. «Bene, capo. E ti farò avere, al più presto, anche tutte le deposizioni battute a macchina» Wu fece per andarsene. «A proposito... fumava? Mao, intendo.» «Veramente non lo so, capo.» «Allora cerca di scoprirlo.» Li Yan fece cenno a Zhao di seguirlo in ufficio. Faceva un caldo soffocante; cercò di aprire un po' di più la finestra, ma l'uomo del feng shui aveva ragione: era bloccata. «Qualche novità sul nostro lavoratore stagionale?» chiese. «Sì, da Shanghai ci hanno confermato la sua identità.» Zhao consultò scrupolosamente il suo taccuino. «Guo Jingbo, trentacinque anni, divorziato. Nessun precedente penale, nessuna affiliazione a organizzazioni criminali. Faceva l'edile. Circa sei settimane fa, concluso l'incarico in un cantiere di Shanghai, aveva detto agli amici che sarebbe andato a Pechino in cerca di un nuovo lavoro. Ma si è registrato al Dipartimento di Pubblica sicurezza solo quattro settimane fa, quindi ci sono due settimane in cui non sappiamo dove fosse.» «E poi l'ha trovato?» «Che cosa?» «Il lavoro!» esclamò Li irritato. «Non deve essersi dato molto da fare: non c'è traccia di domande di lavoro.» «Aveva amici, qui a Pechino?» «Per quanto ne sappiamo, no. Abitava in un ostello nella zona nord, certo non un posto dove si desideri rimanere a lungo. Nessuno sapeva chi fosse né che cosa facesse.» «Fumava?» «Sì, aveva macchie di nicotina sulle dita, fiammiferi e un pacchetto di sigarette mezzo vuoto in tasca.» «Di che marca?»
«Cinesi.» Li Yan imprecò. Non avevano indizi da cui partire. Poi sospirò. «Rintracciamo tutti i lavoratori stagionali che si sono registrati in città nelle ultime sei settimane.» «Lo stiamo già facendo, capo.» Zhao aveva un'aria soddisfatta. «Ma ci vorrà un bel po' per interrogarli tutti.» «Perché?» «Sono circa millecinquecento.» «E allora non perdere tempo. Va', datti da fare.» Uscito Zhao, si affacciò Wu. «Ho appena parlato con un paio di amici di Mao Mao. Dicono che non fumava, quindi quel mozzicone non è suo.» «Grazie.» Li Yan si alzò, chiuse la porta e si lasciò cadere sulla sedia reclinabile che si mise a scricchiolare e a cigolare sinistramente. Congiunse le mani davanti a sé, come per pregare, e chiuse gli occhi. La prima immagine che gli venne in mente fu Margaret sorridente, seduta di fronte a lui al ristorante del Sichuan. La respinse con stizza e si ritrovò ai margini dello spiazzo del parco Ritan a osservare la figura carbonizzata, seduta a gambe incrociate sotto gli alberi. Riusciva a visualizzare i propri pensieri come se fossero immagini tridimensionali. La prima parola che gli passò davanti fu: "Perché?". Una messa in scena così elaborata. Un omicidio in un luogo pubblico inscenato per sembrare, almeno apparentemente, una sorta di suicidio rituale. Li Yan si mise nei panni dell'assassino e cercò di immaginarsi le difficoltà che aveva dovuto superare. In un altro luogo, forse nell'abitazione della vittima, egli aveva colpito Chao Heng alla testa con una violenza tale da fargli perdere i sensi, ma senza ucciderlo. Poi gli aveva somministrato la chetamina, iniettandogliela nel piede. Se tutto questo era avvenuto a casa della vittima, l'assassino aveva avuto poi il problema di trasportare il corpo nel parco senza dare nell'occhio e quindi inscenare il rogo finale. E doveva, pertanto, aver agito nell'oscurità e molto prima dell'orario di apertura del parco, ed essere rimasto poi acquattato nello spiazzo, accanto a Chao privo di sensi finché i primi frequentatori mattutini del parco non avevano iniziato le loro consuete attività. Lo spiazzo era riparato, ma il rischio di essere scoperti era alto. Un'altra immagine si materializzò nella mente di Li Yan: il mozzicone di sigaretta. Se l'assassino era un fumatore ed era rimasto due o tre ore in attesa dell'apertura del parco, perché c'era un solo mozzicone? In una situazione così stressante doveva aver fumato almeno quattro o cinque sigarette
o forse di più. Archiviò la parola "mozzicone" in un angolo della mente, accanto a "perché?". L'assassino aveva sistemato Chao, sempre semincosciente e quindi docilissimo, nella posizione del loto, l'aveva cosparso di benzina e gli aveva dato fuoco. A quel punto, il rischio di essere scoperto era diventato altissimo. Se n'era andato passando tra gli alberi, lontano dal sentiero da cui, qualche minuto dopo, erano giunte le bambine che avevano fatto la terribile scoperta. Quindi, quando il corpo era stato trovato, l'assassino si trovava ancora nel parco. Qualcuno doveva averlo visto, ci doveva essere un testimone. Sistemò la parola "testimone" vicino a "perché?" e a "mozzicone" e poi riportò "perché?" al centro della sua visione mentale. Ma perché qualcuno aveva agito in un modo così complicato e pericoloso per inscenare un suicidio? E perché una persona tanto meticolosa era stata poi così sbadata da lasciare un mozzicone di sigaretta sulla scena del delitto? Portò "mozzicone" al centro, accanto a "perché?", e lasciò vagare la mente verso "testimone", alla periferia del suo campo visivo mentale. Anche se l'uomo era stato molto attento, qualcuno doveva averlo visto. Aprì gli occhi. «Qian!» chiamò. L'uomo comparve subito sulla porta. «Sì, capo.» «A che punto sei con l'elenco dei frequentatori abituali del parco?» «È quasi pronto.» «Be', lavora più in fretta. E incomincia gli interrogatori: sicuramente qualcuno ha visto l'assassino. Era ancora nel parco quando le bambine hanno scoperto il corpo. Dobbiamo sbrigarci, finché i ricordi sono freschi. Metti all'opera quanti più ragazzi puoi.» «Okay, capo» rispose Qian. «Qualcuno è già stato a casa di Chao?» «Solo gli agenti, per mettere i sigilli.» Qian lanciò un'occhiata all'orologio. «La scientifica dovrebbe essere là fra mezz'ora.» «Bene, appena hai sistemato la faccenda degli interrogatori, andiamoci anche noi. Voglio dare un'occhiata a quel posto.» Qian annuì e scomparve. Li Yan si alzò e si avvicinò alla finestra con le mani nelle tasche. Si concentrò sulle immagini mentali di poco prima. La soluzione stava nel "perché?", ma non sapeva come arrivarci. A disturbarlo erano i mozziconi, sia quello trovato nel parco, sia quelli rinvenuti sulla scena degli altri due delitti. Improvvisamente gli venne un'idea. Alzò il ricevitore, compose un numero e attese con impazienza. Qualcuno rispose all'altro capo del filo. «Dottor Wang? Può fare una cosa per me...?»
4 L'appartamento in cui era vissuto Chao Heng si trovava nel distretto di Chongwen, nella parte sudorientale della città. Faceva parte di uno stabile alto, recente, e circondato da un alto muro. Ogni appartamento era provvisto di un terrazzo chiuso da una vetrata, come una piccola veranda che ciascuno utilizzava per gli scopi più diversi: c'era chi ci coltivava verdure e piante ornamentali in vaso, e c'era chi ci stendeva la biancheria. Qian parcheggiò la jeep all'interno dello stabile, vicino a un'auto bianca e blu della polizia e al furgone della scientifica. Sedute al riparo di grandi ombrelloni, alcune anziane signore li osservarono con sguardi opachi pieni di curiosità. Alcuni bambini giocavano a pallone sotto il sole, facendo riecheggiare le loro grida nel cortile. Decine di biciclette erano parcheggiate, in file ordinate, all'ombra degli alberi. Provenendo dalla luce abbagliante dell'esterno, l'ingresso polveroso dell'edificio apparve un po' tetro. Su uno sgabello dentro l'ascensore, le cui porte erano aperte, era seduto un uomo magrissimo con la pelle scura avvizzita. Indossava un paio di logori calzoncini blu e una maglietta sudicia, fumava una sigaretta nazionale dall'odore acre e aveva sparsi intorno a sé cenere e mozziconi. Il caldo era soffocante. Quando vide avvicinarsi Li Yan e Qian sputò e si alzò. «Chi cercate?» Li Yan gli mostrò il tesserino marrone del Dipartimento di Pubblica sicurezza con la sua foto. «Polizia municipale di Pechino, dipartimento di Investigazione criminale.» «Oh, siete venuti a vedere l'appartamento di Chao Heng.» Si fece da parte per lasciarli entrare. «Su ci sono già alcuni dei vostri.» Chiuse le porte e premette il pulsante del quinto piano. L'ascensore iniziò la sua lenta ascesa, cigolando. «Usano tutti l'ascensore?» gli chiese Li Yan. «Non sempre. Di notte, quando l'ascensore è fermo, gli inquilini passano dal cancello, di cui hanno le chiavi.» «Tutti gli accessi alle scale sono chiusi da cancelli?» L'uomo annuì. «E gli ospiti come fanno?» «Devono prendere l'ascensore.» «E quando è fermo?» «A quell'ora non viene mai nessuno.» «E se per caso venisse?»
«La persona da cui vuole andare deve esserne avvertita, in modo da poter scendere e aprire il cancello delle scale.» «Quindi lei vede tutti quelli che entrano ed escono.» «Sì.» Li Yan e Qian si scambiarono un'occhiata. Era probabile che quell'uomo avesse visto l'assassino. «Chao Heng ha ricevuto molte visite di recente?» chiese Li Yan. Il vecchio fece una smorfia di disgusto. «Chao Heng riceveva sempre molte visite, ragazzini e yangguizi.» «Ragazzini?» Qian era sconcertato.«Che cosa intende per ragazzini?» «Ragazzini!» ripeté il vecchio stizzito. «Di quindici, sedici, diciassette anni... Dovreste mettere al fresco uomini del genere.» Qian appariva piuttosto scosso. «E anche stranieri, ha detto. Che tipo di stranieri?» intervenne il capo. «Americani, credo. Non parlavano cinese.» «E altri visitatori cinesi?» «Oh, ricconi con grosse macchine. Chao era un pezzo grosso del ministero dell'Agricoltura.» L'ascensore si fermò al quinto piano con un sobbalzo. «E la notte scorsa? Ha ricevuto visite, ieri sera?» Il vecchio aprì le porte. «Da un paio di settimane non vedeva nessuno.» «Magari è andato fuori, ieri sera.» «Mentre ero in servizio io, no. Nell'ultimo mese non è quasi mai uscito. Chao Heng non stava bene.» Uscirono dall'ascensore. «Deve venire alla centrale per una deposizione dettagliata. Può trovare qualcuno che la sostituisca?» chiese Li rivolto al vecchio. «Certo, ci penserà il comitato di quartiere.» Un agente in divisa era di guardia fuori dall'appartamento di Chao Heng. Dentro, due uomini della scientifica in guanti bianchi e soprascarpe stavano passando al setaccio la casa, centimetro per centimetro. Il condizionatore era spento e l'aria era torrida e irrespirabile. Li Yan e Qian indossarono a loro volta guanti e soprascarpe. Gli uomini della scientifica li salutarono con un cenno. «Non toccate niente se non è assolutamente necessario» li ammonì uno di loro. Per gli standard cinesi, quello era un appartamento grande per essere abitato da una sola persona. Era costituito da un'anticamera, due camere da letto, un bagno, una piccola cucina, una zona pranzo e un soggiorno che si
affacciava sul terrazzo verandato. Dava un'idea dell'elevata condizione sociale di Chao Heng. I due investigatori passarono da una camera all'altra osservando e prendendo mentalmente nota di tutto. Li Yan annusò l'aria: oltre alla puzza di fumo stantio, avvertì un insolito e sgradevole odore di antisettico, forse un disinfettante o un medicinale. In cucina, l'odore era sovrastato dal tanfo di rifiuti in decomposizione proveniente dalla pattumiera. Il lavello era pieno di piatti sporchi, i piani di lavoro erano luridi e disseminati di residui di cibo. C'era anche un portacenere stracolmo. Li Yan prese un mozzicone: Marlboro. Il frigorifero era quasi vuoto: a parte una confezione di tofu, c'erano solo sei bottiglie di birra e una di vino rosso della California, forse un regalo o il ricordo di un viaggio all'estero. In ogni caso, insolita. Li Yan osservò l'etichetta: Ernst e Julio Gallo, Cabernet Sauvignon. Sicuramente Chao Heng non doveva essere un intenditore: il vino rosso non va tenuto in frigo. La dispensa era piena: spaghetti, funghi, frutta e verdura in scatola, un grosso pacco di farina, vasetti di semi di loto e altro. «Forse era vegetariano?» suggerì Qian. «Può darsi.» Li Yan passò in rassegna i vasetti, le lattine e le varie confezioni di cibo della dispensa: non trovò né carne né derivati. Mancava anche qualcos'altro, qualcosa che spiccava proprio per la sua assenza. Ci mise un po' a capire di che cosa si trattasse. «Non c'è riso.» «Forse l'aveva finito.» «Può darsi.» Passarono al bagno. Come in cucina, anche qui regnava il caos più completo: il ripiano sopra il lavandino era ingombro di tubetti di dentifricio vuoti, creme e pomate. Lo specchio era schizzato di sapone e di schiuma da barba. Nel lavandino orlato di sporcizia c'era un rasoio sporco di sangue. Asciugamani usati erano buttati sul bordo della vasca, anch'essa sporca. Li Yan si tolse un guanto e sfiorò un asciugamano: era leggermente umido. Qian aprì un armadietto e una valanga di confezioni di medicinali cadde a terra. Li Yan si chinò a dare un'occhiata: farmaci occidentali dai nomi strani ed esotici, e una serie di preparati della medicina tradizionale cinese e di erboristeria. «Era un maniaco salutista o un ipocondriaco» fu il commento di Qian. «Oppure era malato, come diceva il vecchio dell'ascensore.» Entrarono in una delle due camere. Là quelli della scientifica avevano trovato il set personale di Chao: siringa ipodermica, cucchiaino, un pezzo
di corda di nylon e una bustina piena di polverina bianca, tutto dentro una scatoletta di metallo ammaccata e opaca, segnata dal tempo e dall'usura. Era molto strano che Chao non l'avesse con sé quando l'avevano trovato. C'erano specchi su tutte le pareti. Il letto era sfatto e il piano del comò traboccava di creme, ciprie, rossetti, accessori per il trucco degli occhi, profumi, lozioni e pozioni di ogni tipo. Qian li guardò con disgusto. «Sembra la camera di una prostituta» osservò. A conferma delle sue parole, quando aprì l'armadio si trovò di fronte a una sfilata di vestaglie di seta rosse e nere ricamate a mano con draghi e farfalle. I cassetti erano pieni di pigiami di seta, biancheria intima da uomo dall'aspetto esotico, cinghie e perizomi. C'erano anche reggicalze e calze di nylon, scarpe con tacchi altissimi e un frustino a tre code. «Quel tizio era veramente malato. Dio solo sa che cosa succedeva qui, con tutti quei ragazzini.» Lasciarono l'addetto della scientifica a rilevare impronte digitali e passarono alla seconda camera da letto che, in confronto alla prima, era pulita e ordinata. Il letto era fatto e non sembrava essere stato usato recentemente. Le lenzuola erano pulite. L'armadio conteneva abiti scuri, camicie bianche stirate e, nel ripiano inferiore, una fila di lucide scarpe marroni e nere. Due stanze, due immagini totalmente diverse dello stesso uomo. Li Yan si chiese quale fosse il vero Chao Heng. E quante persone conoscessero il suo segreto. Forse si sarebbe potuta cogliere una terza immagine di Chao nel soggiorno, comodo ed elegante, arredato con gusto, con mobili cinesi laccati tradizionali, molti dei quali antichi. C'erano tavoli con inserti di madreperla, paraventi dipinti a mano che dividevano la stanza, sete ricamate drappeggiate sui divani bassi. Su tre pareti erano appesi dipinti originali su carta, mentre la quarta reggeva una libreria traboccante di libri, dal pavimento al soffitto. C'erano volumi di ogni tipo, in cinese e in inglese. Classici di narrativa in entrambe le lingue e poi un'intera collezione di testi scientifici. Non mancavano neppure i manuali di medicina. «Ma chi può leggere tutti questi libri?» chiese Qian sbalordito. Li Yan ne prese uno a caso e ne osservò il dorso. «A quanto pare, Chao Heng» rispose rimettendolo a posto. Sul lato opposto della stanza c'era un acquario illuminato: pesci tropicali dai colori vivaci nuotavano zigzagando su un fondo marino accuratamente riprodotto. Una colonna di bolle d'aria risaliva regolarmente in superficie da un ossigenatore. Accanto, su un tavolino, erano posate varie confezioni di mangime. Li Yan ne aprì una: era piena a metà. Prese un pizzico di
mangime e lo sparse sull'acqua osservando i pesci ingoiarlo pigramente mentre affondava adagio. Uscì sul terrazzo: era esposto a nord, quindi non era più caldo del resto della casa. C'erano due comode poltrone e un tavolino su cui erano posati una bottiglia di birra vuota, un portacenere con una mezza dozzina di mozziconi e un pacchetto di Marlboro. Li Yan prese il pacchetto: c'erano ancora almeno dieci sigarette. Lo rimise sul tavolo. Sul vetro scuro della bottiglia erano chiaramente visibili parecchie ditate. Era strano come le persone si lasciassero dietro tracce che tendevano a permanere anche dopo la loro morte. L'appartamento era senz'altro pieno dei segni lasciati dalle dita di Chao su tutto ciò che aveva toccato, come pure di capelli nello scarico del lavandino e della vasca o impigliati nei pettini e nelle spazzole. Frammenti di pelle secca sottili come polvere si erano staccati nel corso degli anni depositandosi come nevischio tra le fibre della moquette, nel letto e sulle superfici non spolverate. L'odore dell'uomo esalava dalla stoffa degli abiti appesi nell'armadio. La sua personalità era riflessa nello stile di vita, nei vestiti, nei mobili e nei libri che leggeva. Erano tutti indizi che parlavano non tanto dell'omicidio, quanto dell'uomo. E conoscere quell'uomo era importante per sapere chi l'aveva ucciso. Dal terrazzo, Li Yan guardò giù. Vedeva le tre vetture della polizia e il cancello di entrata. Chiuse gli occhi e cercò di immaginare l'assassino attraversare lo spazio tra l'ingresso dello stabile e il vicino parcheggio portando in spalla il corpo inerte di Chao: era una distanza di circa quattro metri e mezzo. Aprì gli occhi e cercò di mettere a fuoco i lampioni: erano pochi e molto distanziati. Gli alberi, inoltre, proiettavano lunghe ombre scure. Ma sopra la porta d'ingresso c'era sicuramente una luce che avrebbe illuminato quei quattro metri, rendendoli il tratto più pericoloso dell'intero tragitto dall'appartamento al parco. E quell'uomo l'aveva percorso dopo aver fatto cinque piani di scale e aver aperto e chiuso il cancello. Era non solo molto determinato, ma anche forte e in forma. «Qian!» «Sì, capo.» «Scendi al pianterreno e controlla se la lampadina sopra la porta funziona. Già che ci sei, guarda anche se il cancello delle scale è chiuso.» L'altro indugiò un attimo, in attesa di una spiegazione, ma Li Yan tacque. «Bene» disse, allora, e uscì. Li Yan rimase pensieroso per qualche minuto, cercando di immaginarsi la scena. Poi tornò dentro e lo sguardo gli cadde nuovamente sulla libreria.
Mentre passava in rassegna le copertine multicolori, ripensò all'indovinello di Mei Yuan. "Due uomini. Il primo possiede tutti i libri del mondo e ciò gli permette di accedere alla fonte di ogni conoscenza. La conoscenza è potere, quindi è un uomo molto potente. Il secondo possiede solo due bastoni, e ciò nonostante è più potente del primo. Perché?" Improvvisamente capì e sorrise. Che strana coincidenza. Forse Mei Yuan aveva poteri soprannaturali. La sua attenzione fu attirata da una lucina rossa che lampeggiava dall'altra parte della stanza. Si avvicinò a un mobiletto con un ripiano su cui c'era un mini impianto hi-fi con sintonizzatore e lettore di cassette e di CD. Si chinò a osservare la fila di spie verdi e rosse e il display digitale su cui era scritto il numero 9. «Ragazzi, avete toccato l'hi-fi?» domandò a quelli della scientifica. «Io no.» «Neanch'io.» Li Yan alzò gli occhi. Qian era tornato, un po' affannato. «Capo, qualcuno ha rubato la lampadina: è sparita. Il vecchio dell'ascensore dice che ieri sera, quando ha finito il suo turno, c'era e funzionava. Dimenticavo: il cancello è chiuso.» «Te ne intendi di impianti hi-fi?» «Spendo i miei soldi in altre cose e comunque non avrei il tempo di usare lo stereo. Perché?» «Chao ha lasciato acceso il suo. Il lettore di CD è in pausa, la spia lampeggia ancora. Vuoi sentire che cosa ascoltava quando l'ha chiamato il suo assassino?» «Come sai che l'assassino è venuto qui?» «Solo una supposizione fondata» rispose lui premendo il tasto Play. Nella stanza si diffusero le note di una melodia poco familiare. Li Yan prese in mano la custodia del CD. «Un'opera occidentale» commentò, leggendo la copertina. «Sansone e Dalila di Saint-Saens.» Prese il libretto che era allegato al CD e lesse: «Brano nove: "Mon coeur s'ouvre a ta voix"». E poi ancora: «"Sansone, l'eroe degli ebrei ridotti in schiavitù dai filistei, sa che deve resistere alle lusinghe della tentatrice Dalila. Ma la sua determinazione crolla quando la donna lo seduce con questa canzone d'amore. Sansone cede e lascia che Dalila scopra il segreto della sua forza e gli tagli i capelli, rendendolo inoffensivo"». E Chao a che cosa aveva ceduto, consegnandosi inerme nelle mani del suo assassino? Alla lusinga della droga o alla predilezione per i ragazzini?
La voce del soprano si alzava in crescendo sensuali. «Allora?» Qian era impaziente e dovette urlare per sovrastare la musica. «Su che cosa basi la tua supposizione?» «Su molte cose: la prima è che, quasi certamente, Chao Heng era qui, la notte scorsa.» «Come fai a dirlo?» «L'asciugamano sul bordo della vasca è ancora umido. Ha dato da mangiare ai pesci, probabilmente tardi perché adesso non hanno molta fame. Ha lasciato le sigarette sul tavolo del terrazzo e il kit da tossico in camera da letto. Fumatori e tossici non lasciano mai in giro queste cose, a meno che non vi siano costretti. Non ha preso l'ascensore. Tra gli oggetti trovati sul corpo non c'era la chiave: come ha fatto a richiudere il cancello delle scale?» Riattraversò la stanza e tornò sul terrazzo. «Era seduto qui ad ascoltare Dalila che seduce Sansone e a sorseggiare una birra presa dal frigo. Probabilmente si trovava qui da un po', a giudicare dal numero di cicche nel portacenere e dal punto in cui era arrivata l'opera. Era tardi, forse l'una o le due, e nello stabile dormivano tutti. L'ascensore era fermo da un pezzo. Chao aspettava l'arrivo di qualcuno in macchina: forse una consegna di eroina, forse un ragazzino. Quando ha visto i fari, si è alzato, ha messo in pausa il lettore di CD, ha preso la chiave ed è sceso ad aprire il cancello. Doveva essere molto buio perché l'assassino aveva tolto la lampadina sopra la porta. Forse per questo Chao non ha capito subito che il visitatore non era la persona che aspettava. Chiunque fosse, probabilmente aveva una pistola, con cui ha costretto la sua vittima a risalire in casa. Una volta arrivati, l'ha colpito sulla testa con un oggetto smussato, forse il calcio della pistola, e gli ha iniettato la chetamina. Ha aspettato - forse anche per un'ora - per essere sicuro che nessuno l'avesse visto, poi ha trasportato sulle spalle o trascinato lungo le scale la sua vittima e ha richiuso il cancello dietro di sé. Protetto dall'oscurità (ricordati che aveva tolto la lampadina sopra la porta), ha portato Chao al parcheggio ed è andato al parco Ritan. Il resto te lo immagini da solo.» A quel punto dell'opera, Sansone aveva ceduto completamente al fascino di Dalila. Qian si lasciò sfuggire un fischio di ammirazione. «Complimenti, capo. Ma come sai che l'assassino agiva da solo?» «In realtà, non lo so.» «Se fossero stati in due, le cose sarebbero state più facili.» «Sì, ma c'è qualcosa... qualcosa di individuale, quasi di eccentrico in tut-
to questo. Sembra l'opera di una mente contorta.» Uno degli uomini della scientifica li chiamò dall'anticamera. In ginocchio, era intento a grattare con delicatezza la moquette, fuori dalla porta della cucina. «Macchie di sangue, abbastanza fresche, a quanto pare. L'analisi spettroscopica ci dirà a quando risalgono.» Qian guardò il capo con evidente rispetto. «Se è sangue di Chao, avevi proprio ragione. Il fatto è che non ci fa avvicinare di un passo all'assassino.» «Tutto quello che riusciamo a scoprire ci avvicina all'assassino. È ora di andare a parlare con il comitato di quartiere.» 5 Liu Xinxin, presidentessa del comitato di quartiere, era una donna sulla sessantina, piccola, nervosa e molto magra e viveva in un appartamento al pianterreno dello stesso stabile in cui abitava Chao Heng. I capelli grigi stretti in una coda, il viso dai lineamenti delicati, la donna indossava un grembiule sopra una camicia grigia e un paio di pantaloni neri sformati e piuttosto corti e aveva le mani bianche di farina. Nell'atto di scostarsi dal viso una ciocca ribelle si sporcò la fronte. Fece entrare i due uomini in cucina dove stava preparando delle frittelle. «Siete venuti nel momento sbagliato: mio marito, mio figlio e mia nuora stanno per rincasare.» «Non è mai il momento giusto per parlare di morte» commentò Li Yan. Da un'altra stanza giunse un forte rumore, seguito da uno scroscio di risate e due bambini di circa tre anni irruppero in cucina strillando e rincorrendosi. «I miei nipoti» disse Liu Xinxin, affrettandosi a spiegare il legame di parentela che li univa. «Il più grande è figlio di mia figlia, che è morta di parto. Mio genero non riusciva a superare il trauma per la sua morte né a occuparsi del bambino, così mio figlio e mia nuora l'hanno adottato.» Si pulì le mani nel grembiule e se lo tolse. «Dunque... il signor Chao non piaceva molto a nessuno. Prego, per di qua.» Li fece accomodare in un soggiorno affollato di mobili, lungo una parete del quale erano allineate alcune gabbie di cinguettanti uccellini gialli e bianchi insieme a un pianoforte verticale. Li Yan e Qian accettarono il tè verde che la donna offrì loro. Da qualche parte, i bambini battevano senza tregua su una vecchia latta, facendo un fracasso che superava di poco quello prodotto dal cinguettio incessante degli uccellini. «Ha detto che Chao non piaceva molto a nessuno» esordì Li
Yan cercando di sovrastare il frastuono. «Soprattutto perché nessuno lo conosceva. Il ministero dell'Agricoltura possiede molti appartamenti in questo stabile, ma Chao non ha mai frequentato le famiglie degli altri funzionari. E con noi era... come posso dire?... altezzoso. Si sentiva superiore. Se lo incontravi per strada e lo salutavi, girava la testa dall'altra parte. Non sorrideva mai e non salutava nessuno. Secondo me, era un uomo molto triste.» «Perché?» Li Yan bevve un sorso di tè. Era ottimo. «Un uomo che non sorride mai deve per forza essere triste. E i suoi occhi... erano così pieni di dolore, come se portasse un peso insostenibile. Naturalmente, il signor Dai, l'addetto all'ascensore, lo conosceva meglio. È un membro del mio comitato e spesso ci capitava di parlare di Chao.» Poi si corresse: «Quando dico che Dai lo "conosceva", intendo che era quello che lo vedeva più spesso. Come vi ho detto, nessuno lo conosceva veramente». «E la sua famiglia? Che cosa sa del suo ambiente familiare?» «Solo le informazioni che ci ha fornito quando è venuto a vivere qui.» «Cioè, quanto tempo fa?» «Due anni, circa. Prima di trasferirsi a Pechino aveva lavorato alcuni anni al sud, vicino a Guilin, nel Guangxi. Ma negli ultimi sei mesi non è andato molto al lavoro; credo che non stesse bene.» Si chinò in avanti e, in tono confidenziale, mormorò: «Sembra che fosse divorziato e avesse una nuova famiglia, al sud». Poi aggiunse: «Sapete, gli piacevano i ragazzini». Li Yan trattenne a stento un sorriso immaginando le conversazioni tra Liu Xinxin, Dai e gli altri membri del comitato sul viavai notturno nell'appartamento di Chao. Nessuno di loro, però, aveva mai osato dirgli nulla, intimiditi com'erano dalla posizione privilegiata di quell'uomo nel Partito e nello Stato. Il consulente scientifico di un ministero era un uomo potente e influente, e andava trattato con i guanti. Li Yan finì il tè e si alzò. «Bene, grazie, Liu Xinxin. Ci è stata di grande aiuto.» Qian si alzò a sua volta. «Gradite un'altra tazza di té?» Ora la donna sembrava riluttante a lasciarli andare. «Non vogliamo farle perdere altro tempo, i suoi familiari stanno per arrivare...» «Oh... non subito. Se volete, vi suono una delle mie canzoni.» «Davvero, non abbiamo tempo» rispose Li Yan cercando di non ferire la sensibilità della donna. «Una sola» insistette lei dirigendosi al pianoforte e accomodandosi sullo
sgabello. Li Yan e Qian si scambiarono un'occhiata: non avevano via di scampo. «Va bene.» «Accompagnatemi: io canterò le strofe, voi il ritornello.» Li Yan si sentiva oltremodo imbarazzato, ed era contento di non avere testimoni. Già si immaginava i commenti dei colleghi! Perlomeno, poteva fidarsi di Qian: era imbarazzato quanto lui e non avrebbe certo fatto la spia. Solo allora si accorse che i nipotini di Liu Xinxin e, di lì a poco, anche i loro genitori, appena rincasati, li stavano osservando stupiti sulla soglia della stanza. Chiuse gli occhi e si sentì morire. Lasciarono l'appartamento di Liu Xinxin in fretta e salirono in macchina. Rimasero un attimo in silenzio, poi Li Yan scoppiò a ridere. La sua risata era così contagiosa che di lì a qualche secondo anche la maschera impassibile di Qian si sgretolò e si trovarono entrambi piegati in due dalle risate. Tutto l'imbarazzo di poco prima era scomparso. Un leggero picchiettio contro il finestrino li fece girare: era un giovane in uniforme. Qian abbassò il finestrino. «Sì?» «Sono l'agente Wang addetto al censimento» disse il giovane osservando con aria di disapprovazione i due che sghignazzavano. «Ecco il mio distintivo. Dovevate venire da me, prima di interrogare un membro di questo comitato di quartiere.» «Non si preoccupi, Wang. Eravamo qui solo per una lezione di canto.» E i due scoppiarono nuovamente a ridere. Il giovane, paonazzo in volto e infuriato d'ira, fece un balzo indietro quando Qian ingranò la marcia e partì a gran velocità e li guardò allontanarsi furibondo. Alla Prima Sezione continuava la processione di persone chiamate a rilasciare la loro testimonianza. C'era gente di ogni tipo: lavoratori stagionali appena arrivati a Pechino, piccoli spacciatori e frequentatori abituali del parco Ritan, tra cui impiegati pubblici, operai, casalinghe e un vero esercito di pensionati. Dalla sede del dipartimento investigativo avevano mandato altri uomini per dare una mano negli interrogatori. Qian trovò a fatica lo spazio per parcheggiare la jeep e dovettero farsi largo a forza tra la gente per arrivare alla porta. Dentro, la situazione non era migliore: per le scale si snodava una lunga coda di persone. A ogni piano erano state organizzate stanze per gli interrogatori. I verbali ve-
nivano poi trascritti dalle dattilografe che battevano a macchina senza sosta. Entrando in ufficio, Li Yan vide che il lavoro procedeva alacremente. Sulla scrivania c'era una pila di deposizioni già raccolte. C'erano anche il rapporto del medico legale sull'autopsia di Chao, un riassunto del curriculum dell'uomo, comprendente gli studi e la carriera al ministero dell'Agricoltura, e vari rapporti della scientifica sulle tre scene del delitto. Li Yan estrasse dal mucchio il fascicolo su Ago che aveva chiesto a Wu. Il peso di tutte quelle scartoffie già l'opprimeva: ci sarebbero volute settimane per leggere tutto. Una giovane impiegata giunse con l'ennesima pila di deposizioni: fu la goccia che fece traboccare il vaso. «Basta! Basta deposizioni sulla scrivania!» esclamò Li Yan, cercando di bloccarla. La ragazza rimase interdetta e si guardò attorno sconsolata. «Allora dove le metto?» «Là, sotto la finestra. Le separi in tre mucchi, uno per ciascun caso. Sulla scrivania voglio solo le carte che ho chiesto io, chiaro?» L'impiegata annuì e fece quanto le era stato detto. Ora che la scrivania aveva assunto un aspetto più ordinato, Li Yan selezionò i fascicoli che voleva tenere a portata di mano. Diede un'occhiata al rapporto sull'autopsia e, senza volerlo, gli venne in mente Margaret Campbell. Pensieri frammentari, spezzoni di frasi, e immagini: la fede al dito, le lentiggini, la morbida curva dei seni sotto la T-shirt bianca. Contrariato, Li Yan lasciò perdere il rapporto sull'autopsia e si concentrò su quelli della scientifica: niente di nuovo. Qualche novità, però, sarebbe emersa dall'analisi del sangue trovato nell'appartamento di Chao, così come da ciò che aveva chiesto al dottor Wang. Ma entrambi i responsi sarebbero arrivati solo l'indomani. L'idea di dover aspettare lo irritò, fatto insolito per lui, che aveva fama di uomo paziente. Ma l'istinto gli diceva che, in quel caso, la rapidità era importante. L'abituale vaglio puntiglioso delle informazioni, la lenta costruzione, un piano dopo l'altro, di un castello di prove raccolte con cura non costituivano l'approccio giusto. E tuttavia così l'esperienza gli aveva insegnato a procedere. Pensieroso, esaminò i tre rapporti della scientifica. Le uniche prove raccolte sulla scena di ciascun delitto erano i mozziconi di Marlboro. Chao fumava proprio quella marca e ciò l'aveva colpito fin da quando aveva visto le cicche e il pacchetto di sigarette nel suo appartamento. Era possibile che la cicca trovata nel parco, vicino al corpo, fosse stata fumata dalla vittima, l'ultimo desiderio concessogli dal suo assassino. In tal caso, nulla avrebbe collegato quel delitto agli altri due: si sarebbe trattato solo di una
coincidenza. Ma Li Yan non amava le coincidenze. E, comunque, Chao era stato drogato e il pacchetto di Marlboro era rimasto nell'appartamento. Quindi, se avesse voluto fumare, avrebbe dovuto farsi dare una sigaretta dal suo assassino, che avrebbe dovuto essere a propria volta un fumatore di Marlboro. Un'altra coincidenza. Troppe coincidenze. Li Yan tamburellò impaziente le dita sulla scrivania. Non sapeva come sarebbe riuscito ad aspettare quelle risposte fino all'indomani. Un'altra infornata di deposizioni fu distribuita nei diversi mucchi sotto la finestra. Attraverso la porta aperta, Li Yan vide che la stanza dei colleglli brulicava ancora di un'intensa attività. Prese il fascicolo su Chao e gli diede un'occhiata: conteneva alcuni dettagli interessanti. L'uomo era nato a Nanchang, nella provincia dello Jiangsu, nel 1948, un anno prima della fondazione della Repubblica Popolare. Il padre era un professore di inglese, la madre un quadro del Partito. Era arrivato a Pechino nel 1966, l'anno in cui era nato Li Yan, e si era iscritto alla Facoltà di Agraria proprio mentre nel paese infuriava la Rivoluzione culturale. Dopo due anni del corso di Agronomia e Scienze Alimentari fu denunciato da compagni divenuti Guardie Rosse e costretto ad abbandonare gli studi. Probabilmente, i compagni di università avevano schernito Chao perché era debole, omosessuale o solo confuso sulla propria identità sessuale. Così fu mandato in campagna per essere rieducato. A quel punto, si apriva un vuoto di circa un anno. Nel rapporto non si diceva dove fosse stato mandato di preciso. Grazie a un colpo di fortuna o alle buone relazioni della madre, a un certo punto Chao ricomparve negli Stati Uniti, studente all'Università del Wisconsin. Laureatosi nel 1972 in genetica microbica, era rimasto all'estero per un altro anno a frequentare un dottorato in biotecnologie. Poi aveva vinto una borsa di studio al Boyce Thompson Institute della Cornell University, dove era rimasto fino al 1980, quando ritornò in Cina per insegnare proprio nell'università che era stato costretto ad abbandonare dodici anni prima. Si era sposato giovanissimo, ma aveva divorziato dopo tre anni di matrimonio, durante i quali era comunque riuscito ad avere una figlia. Si chiese perché avesse sentito il bisogno di sposarsi. Date le sue tendenze sessuali, infatti, il matrimonio era destinato a un sicuro fallimento. Comunque, i suoi gusti particolari, dichiarati o meno, non gli avevano impedito di far carriera. Aveva svolto un ruolo di primo piano nell'organizzazione dell'importante laboratorio di Biotecnologie Agricole della Facoltà di Agraria di Pechino, con il patrocinio del ministero dell'Agricoltura.
Inoltre, per dieci anni aveva diretto progetti sul campo a Pechino, presso la stazione sperimentale di Changping nel distretto di Hui Long Guan e poi nella regione agricola ad alto sviluppo tecnologico di Zhuozhou. Per quasi quattro anni aveva lavorato a un progetto di ricerca non meglio specificato vicino a Guilin, poi nel 1996 era stato trasferito a Pechino e nominato consulente tecnico speciale del ministero dell'Agricoltura finché non era stato costretto a ritirarsi dall'attività, sei mesi prima, per motivi di salute. Li Yan chiuse il fascicolo. Una vita intera riassunta in pochi sintetici paragrafi, che non gli rivelavano nulla dell'uomo, dell'ambizione che lo aveva animato, dei motivi che l'avevano portato all'eroina e a rovinarsi la salute, delle ragioni per cui era stato ucciso. Sperava di saperne di più l'indomani, facendo visita al danwei di Chao al ministero dell'Agricoltura. Domani, domani, domani, tutto domani! Prese il fascicolo su Ago. La pista della droga, se lo sentiva, gli avrebbe consentito di stabilire il primo nesso tra almeno due dei delitti. Il capo Chen si preannunciò con un leggero colpo alla porta. «C'è un caos tremendo, lì fuori!» Scorse le pile di deposizioni accatastate sotto la finestra. «Tutto ciò potrebbe tenerci occupati per intere settimane.» «O mesi» aggiunse cupo Li Yan. «Come stanno andando le cose?» «Lentamente. Potrò essere più preciso domani mattina, quando avremo i risultati di alcuni test della scientifica. Per ora stiamo ancora cercando la prima tessera del mosaico.» «Bene, ho buone notizie per lei. Visto il buon esito dell'autopsia condotta stamattina, il professor Jiang ci ha offerto i servizi della dottoressa Campbell per tutto il tempo in cui rimarrà qui a Pechino. Naturalmente, purché ciò non interferisca con le sue lezioni all'università.» «Il professore è molto gentile, ma davvero non ce n'è bisogno» commentò Li Yan. «Ma ho già accettato a suo nome. Ho detto al professore che la dottoressa potrà effettuare le altre due autopsie domani mattina.» Li Yan serrò la mascella imponendosi di restare calmo. «Be', non doveva farlo, capo. Ho già chiesto al professor Xie di eseguire le autopsie. Questa è un'indagine cinese, di cui la dottoressa non sa nulla. Il suo aiuto non ci serve.» Chen stava per ricordare al suo vice chi era il capo, ma ne incrociò lo sguardo duro e decise di lasciar perdere. Li Yan aveva un'aria molto decisa e Chen ricordò di essersi già imposto su di lui un'altra volta, sempre sullo
stesso argomento. Forse doveva lasciargli la libertà di fare le cose a modo suo. Sospirò. «Bene, dirò al professore che avevamo già preso altri accordi. Anche se gli siamo veramente grati di averci offerto i servigi della dottoressa, non ne abbiamo più bisogno.» E, dopo una pausa: «Ma se lo fa per motivi personali, creda a me, è molto stupido a permettere che influiscano sulla sua condotta professionale». Uscito il capo, Li Yan rimase a fissare il vuoto. In cuor suo, desiderava accettare l'offerta di Jiang, ma sapeva benissimo che, se lo avesse fatto, la vicenda avrebbe rischiato di farsi troppo personale, influenzando la sua capacità di valutazione. Quella donna aveva risvegliato in lui sentimenti da anni soffocati a favore della carriera. Non voleva assolutamente che adesso tornassero a dominarlo. Aprì il fascicolo su Ago e si mise a fissare la foto del suo vecchio nemico. 6 Bastò il lieve cigolio della porta a destarla. Aprì gli occhi e sollevò la testa; il cuscino era stranamente duro e rigido. Aveva il braccio destro addormentato e il collo bloccato. Attraverso gli occhi velati dal sonno vide l'immagine indistinta di un uomo che si avvicinava. Che cosa ci faceva un uomo nella sua camera? Si alzò di scatto, sbattendo forte le palpebre, con il cuore che le martellava nel petto e subito si accorse che non era a letto. Per un istante fu presa dal panico: ma dov'era? Poi si ricordò: si era addormentata alla scrivania con la testa appoggiata sul braccio, che ora si stava dolorosamente risvegliando. «Tutto bene?» le chiese Bob. «Sì, scusami. Credo di essermi addormentata. Non ho dormito molto, la notte scorsa.» La notte scorsa? E quando era stata? Si sentiva del tutto disorientata. Come il sangue che tornava dolorosamente a circolarle nel braccio, così il ricordo delle ultime ventiquattr'ore rifluiva nella sua mente accompagnato da un'infinità di dolori: agli occhi, alle tempie, al collo. Si ricordò dell'autopsia, del pranzo con il poliziotto e della sua successiva depressione. Poi il professor Jiang l'aveva convocata per chiederle se sarebbe stata disposta a eseguire altre due autopsie e a prestare la sua consulenza nelle indagini del vicecaposezione Li. Questi pensieri la risvegliarono completamente. Ricordò di essersi scusata con il professor Tian, il professor Bai e la dottoressa Mu per averli
privati del loro ufficio e di essersi magnanimamente offerta di restituirglielo. Dopotutto, adesso lei avrebbe dovuto assistere la Prima Sezione nelle indagini sugli omicidi e non avrebbe passato molto tempo all'università. La prospettiva di tornare a lavorare con Li Yan la eccitava. «Ma dove preparerà le lezioni?» le aveva domandato la dottoressa Mu, tradotta da Veronica. «In albergo. Ho molto spazio, l'aria condizionata, il telefono e, al piano inferiore, un ufficio con tutto ciò che mi può servire: fotocopiatrice, fax, posta elettronica.» I tre l'avevano sicuramente giudicata un po' matta, ma erano stati contenti di riappropriarsi dell'ufficio e non avevano fatto obiezioni. «Saresti dovuta tornare in albergo» le disse Bob. Margaret scosse la testa come per schiarirsi le idee, ma il movimento le produsse un dolore acutissimo: era come se qualcuno avesse voluto spaccarle il cranio in due. Si massaggiò le tempie. «Lo so, avevo proprio intenzione di farlo. Devo avere appoggiato la testa sulla scrivania per un minuto e poi... sono crollata. Che ore sono?» «Le quattro e mezza. Il professor Jiang vuole parlarti un momento.» «Ancora? E che cosa vuole, adesso?» Quando entrò nell'ufficio, il professore le fece un sorriso imbarazzato. Veronica, seduta composta con le mani in grembo, rivolse a Margaret uno sguardo circospetto. Jiang fece cenno a Margaret di accomodarsi e parlò con tono grave per qualche minuto. Quand'ebbe finito, si appoggiò allo schienale e ascoltò l'interprete tradurre le sue parole. «Il professore riferisce che il caposezione Chen lo ha chiamato dicendosi spiacente, ma il vicecaposezione pensa che lei... come dire?... sia superflua nell'indagine.» Veronica si rilassò, soddisfatta della traduzione senza rendersi conto che le parole che aveva appena pronunciato avevano colpito Margaret con la violenza di uno schiaffo. CAPITOLO QUARTO Martedì sera 1 A Pechino la gente si fa tagliare i capelli a qualsiasi ora del giorno e della notte. Così, alle sei di sera, le donne in camice e copricapo bianco erano ancora all'opera fuori dai cancelli del parco Yuyuantan, su Sanlihi Lu. Ap-
pena un cliente si alzava, un altro prendeva subito il suo posto. Il marciapiede era coperto di ciocche di capelli neri che i barbieri spazzavano via con cura, appena terminato il lavoro. Il parco era affollato: flussi di persone entravano e uscivano passando sotto l'arco d'ingresso per unirsi a gruppi di danzatori, prima di rincasare, o prendere una boccata d'aria dopo le molte ore trascorse al lavoro. Il traffico del tardo pomeriggio era, come al solito, caotico. Li Yan oltrepassò i barbieri al lavoro e, pedalando sulla sua bicicletta, si diresse verso una zona ombrosa che lungo sentieri lastricati portava fino al fiume. Là i rumori del traffico giungevano attutiti e l'aria era rinfrescata dalla presenza degli alberi. Dall'acqua soffiava una leggera brezza che agitava il fogliame. Trovò suo zio seduto a un tavolino di pietra e pronto a sferrare il colpo di grazia. L'avversario aveva compiuto un errore fatale e il vecchio Yifu fu implacabile. «Jiang jun!» gridò, felice del successo della manovra a tenaglia che lo aveva portato allo scacco matto. Il suo avversario, sorpreso, si grattò la testa rasata. «Non so perché continuo a giocare con te, vecchio Yifu, non riuscirò mai a batterti.» «Vincerai quando la smetterai di perdere» rispose l'altro sorridendo, poi alzò gli occhi e vide il nipote. «Li Yan!» Si alzò e gli strinse vigorosamente la mano. «Com'è andato il tuo primo giorno?» «Solo tre omicidi, zio» rispose lui con un sorriso mesto. L'avversario del vecchio si alzò e si congedò. «Vado a mangiare. Tutte queste emozioni mi hanno messo appetito.» «Zai jian» disse il vecchio Yifu senza staccare gli occhi dal nipote. «Stai scherzando?» «Purtroppo, no.» Li Yan si sedette sullo sgabello rimasto libero. «Tre omicidi, in diverse parti della città, ma collegati tra loro.» Yifu gli si sedette di fronte, dimostrandosi interessato e preoccupato dalla notizia. «Facciamo una partita, mi spiegherai tutto mentre giochiamo.» «È tardi, zio. Dobbiamo andare a mangiare.» «Possiamo mangiare dopo. Prima raccontami.» Dispose sulla scacchiera le pedine, semplici dischi di legno con incisi ideogrammi rossi e neri. «Poi mangeremo.» Li Yan scosse la testa e lo guardò con affetto. Lo zio voleva conoscere tutti i dettagli e sapeva che il nipote era ansioso di raccontarglieli. Si mise a osservarlo: aveva una folta capigliatura insolitamente ricciuta e appena striata di grigio e portava occhiali con la montatura quadrata di tartaruga.
Aveva le sopracciglia sollevate in una espressione di perenne stupore e, quasi sempre, un sorriso che gli scavava solchi profondi sulle guance. Il suo abbigliamento abituale prevedeva una camicia a maniche corte a disegni multicolori e comodi pantaloni che ricadevano morbidi sui sandali aperti. Portava sempre con sé una piccola borsa a tracolla contenente un vasetto di tè verde, gli scacchi, un mazzo di carte, un libro e il giornale. «Tocca a te muovere» e gli fece un cenno impaziente con la mano. Li Yan spostò una pedina. «Bene, adesso racconta.» Ma, prima dell'indagine sugli omicidi, Li Yan aveva altri argomenti in agenda. «Oggi nel mio ufficio è venuto uno strano tipo.» «Davvero?» Lo zio sembrava tutto concentrato sulla mossa successiva. «Un esperto di feng shui.» «Ah!» Yifu sembrò sollevato. «Ha detto che era un tuo amico.» «Mmm» il vecchio finse di non aver sentito. «Tocca a te, sta' attento.» «Ha detto che l'avevi mandato tu.» «Be', certo.» «L'hai mandato tu?» «Sennò perché l'avrebbe detto?» Li Yan sospirò. «Ascolta, zio Yifu, io non ho niente contro il feng shui...» «Lo spero bene!» Il vecchio era indignato. «In realtà, sono sicuro che molti dei suoi principi si basino su verità fondamentali e abbiano una grande utilità pratica.» «Ma certo, pratica e spirituale. Dài, muovi!» Li Yan mosse un'altra pedina. «Solo che... be', lo sai anche tu, le autorità non sono molto favorevoli al feng shui, almeno ufficialmente.» «Sciocchezze! Oggi nessun architetto degno di questo nome progetta un edificio, anche un edificio statale, senza prima consultare un esperto di feng shui.» «Be', può darsi... ma il capo non vuole un esperto di feng shui in ufficio e me l'ha detto con molta chiarezza.» «Chen?» disse Yifu con tono di scherno. «Quell'uomo non capisce nulla. Me ne occuperò io.» «Non è solo questo, zio Yifu...» La voce di Li Yan si incrinò. Aveva appena bruciato il suo argomento vincente. Come faceva a dirgli che la cosa era molto imbarazzante per lui? E che i colleghi si facevano grasse risate alle sue spalle? Inoltre, non voleva che Yifu si mettesse a discutere con
Chen. Era come quando un genitore solleva questioni con un insegnante del figlio. Il capo si sarebbe offeso e se la sarebbe presa con lui. «Voglio dire, Chen posso affrontarlo da solo... è che...» Il vecchio mangiò una pedina al nipote. «È che cosa...?» «È che adesso ho troppo da fare per occuparmi anche di queste faccende.» «Non preoccuparti, farò in modo che l'esperto non intralci il tuo lavoro. Con un'indagine su tre omicidi, devi lasciare che il tuo ch'i fluisca liberamente.» Li Yan si arrese; non poteva spuntarla senza offendere lo zio e avrebbe preferito morire piuttosto che farlo. Però, qualche volta il vecchio era proprio un tipo difficile. Fece una mossa sbadata e Yifu fu pronto ad approfittarne. «Santo cielo, Li Yan, non riuscirai mai a battermi, se sei così distratto!» «Come posso stare attento con un triplice omicidio da risolvere?» «Gli scacchi liberano la mente e affinano l'intelletto. Dopo la partita avrai le idee molto più chiare. Dài, tocca a te.» Li Yan sospirò e si mise a studiare la scacchiera. «Oggi è arrivata una lettera di tuo padre: tua sorella è incinta» disse il vecchio, aggiungendo con voce cupa: «Di nuovo». Il nipote, sgomento, alzò gli occhi dal gioco. «Non vorrà tenere il bambino, vero?» Il solo pensiero lo faceva inorridire. Sua sorella Xiao Ling era ancora più testarda di lui; quando si metteva in testa una cosa, non c'era verso di dissuaderla. Aveva già una bellissima bambina di quattro anni con un sorriso ammaliante e impertinente che le scavava due fossette sulle guance e le faceva brillare gli occhi. Era sposata con un coltivatore di riso e abitava vicino alla cittadina di Zigong, nella provincia del Sichuan. Vivevano con i genitori di lui e la terra dava loro di che vivere senza problemi. Ma volevano un maschio, come tutti, perché valeva molto più di una femmina. La politica del figlio unico, però, permetteva a ogni coppia di avere un figlio solo. E se Xiao Ling insisteva per avere il bambino, i prossimi mesi sarebbero stati durissimi per lei. Dapprima il comitato di villaggio avrebbe mandato qualcuno a cercare di convincerla a interrompere la gravidanza. Poi sarebbero venuti i quadri del Partito che, esercitando forti pressioni psicologiche, avrebbero cercato di indurla ad abortire. Gestanti particolarmente testarde erano state addirittura sottoposte a un aborto forzato, di solito con la complicità dei familiari. La nascita di un secondo figlio comportava infatti multe salate, che la maggior parte della gente non
era in grado di pagare. La famiglia poteva anche essere penalizzata con la perdita dell'istruzione gratuita, dell'assistenza sanitaria, della casa, della pensione. Le pressioni che venivano esercitate potevano diventare intollerabili. Il vecchio annuì con aria triste. «Tua sorella è una ragazza difficile. È decisa ad andare avanti.» «Mio padre le ha parlato?» «Sì, certo, ma lei non lo ascolta.» «E suo marito che cosa dice?» Li Yan non aveva mai avuto simpatia per il cognato. Come molti fratelli, pensava che non esistesse un uomo adatto alla sorella. «Non gli dispiacerebbe affatto avere un maschio. Ha preso una posizione neutrale: né con tua sorella, né contro di lei.» «Bastardo! Ma Xiao Ling non mi ascolterà di certo! L'unico a cui potrebbe dare retta sei tu.» «È quello che pensa anche tuo padre.» «E tu, che cosa farai?» «Andrò a parlarle, ma non le dirò che cosa deve fare. La politica del figlio unico è un male necessario. Deve prendere la decisione da sola, valutando ciò che è meglio, non solo per lei, né solo per la Cina, ma per entrambe. E, a volte, non è una scelta facile.» Rimasero in silenzio per un po': sembravano studiare la scacchiera, ma avevano la testa altrove. Alla fine, il vecchio batté le mani per spezzare quell'atmosfera trasognata. «Adesso tocca a te.» Li Yan sbatté le palpebre e fece una mossa che lasciò Yifu perplesso: non riusciva a capirne la logica e temeva una trappola. «Raccontami dei tuoi omicidi.» Li Yan gli raccontò dell'uomo arso vivo nel parco, del piccolo spacciatore gettato nella discarica, dell'operaio edile trovato con il collo spezzato in un siheyuan in demolizione. «E qual è il nesso fra i tre?» chiese lo zio. Li Yan gli parlò dei mozziconi. Il vecchio aggrottò la fronte, perplesso. «Mah.. non mi sembra molto solido. Puoi dimostrare che sono stati fumati dalla stessa persona?» «Non ancora.» «Mmm...» «Che significa?» chiese il nipote. «Significa mmm...» Il vecchio mangiò un'altra pedina al nipote. «Forse i mozziconi rappresentano un nesso fra i tre casi. Ma, concentrandoti troppo su questo, possono sfuggirti altri legami.»
Allora Li Yan gli parlò della droga e della sua intenzione di parlare con Ago, il giorno dopo. «Mmm...» «E adesso che cosa significa?» chiese il nipote, impaziente. «La droga collega solo l'uomo arso vivo nel parco e quello accoltellato, vero?» «Certo, ma può esserci un legame del genere anche con l'operaio edile.» «Ma tu non lo sai.» «Ancora no» rispose Li Yan, esasperato. «Stiamo interrogando tutti i lavoratori stagionali che si sono registrati a Pechino nelle ultime sei settimane. E fermiamo tutti i piccoli spacciatori e i tossici. Se c'è un nesso, salterà fuori.» «Certo.» Yifu catturò l'alfiere. «Ma se non c'è, avrete perso sei mesi e vi troverete al punto di partenza.» «Ma che cosa dici? Secondo te, interrogare quella gente è tempo perso?» «Oh, no, dovete interrogarli. Nel lavoro investigativo, la diligenza è una dote preziosissima. "Quando il contadino è instancabile, la terra è fertile".» Li Yan cominciava a non poterne più della saggezza dello zio. «Jiang!» Aveva messo sotto scacco il re dello zio. «Il fatto è,» proseguì Yifu, imperturbabile «che, come disse una volta Thomas Alva Edison: "Il genio è per l'uno per cento ispirazione e per il novantanove per cento traspirazione". Ma tutto il sudore del mondo non ti porterà da nessuna parte senza quella scintilla di ispirazione.» Bloccò la manovra del nipote sulla scacchiera con una mossa inattesa. «Jiang si le!» Li Yan guardò incredulo il suo re: era in trappola. Scacco matto. Si appoggiò indietro a braccia conserte. Evidentemente non si era concentrato nel gioco. «E l'ispirazione dove dovrei cercarla?» «Dentro di te, nelle cose che sai.» Yifu fece una pausa, pensieroso. «Descrivimi come ha agito l'assassino nell'appartamento di Chao Heng e poi nel parco.» Li Yan gli fece un resoconto completo, ricapitolando pensieri, indizi, scoperte e intuizioni. Il CD ancora in pausa nel lettore, il sangue sulla moquette. L'assassino che portava il corpo giù per le scale e poi fuori, nell'oscurità da lui stesso creata svitando la lampadina dell'ingresso. E l'audace omicidio in piena luce, nel parco. L'assassino che si allontana con noncuranza mentre il corpo della vittima, ancora in preda alle fiamme, sta per essere scoperto. «E tutto questo che cosa ci dice sull'assassino? Che è un uomo intelli-
gente e che ha pianificato ed eseguito l'omicidio da vero professionista. Se le cose fossero andate secondo i suoi piani, non avreste mai scoperto che quell'uomo era stato ucciso. L'omicida non poteva certo immaginare che l'autopsia sarebbe stata effettuata da una anatomopatologa americana, esperta di vittime degli incendi. Nonostante i progressi finora compiuti, noi cinesi siamo ancora molto indietro in questo. La maggior parte dei nostri medici legali si sarebbe limitata a classificare la frattura cranica come una frattura prodotta dal calore. Inoltre pochissimi di loro hanno un'esperienza di droghe tale da portarli a ipotizzare l'uso di un sedativo, la... chetamina, in un eroinomane.» Si fermò, in attesa di un segno di assenso da parte del nipote. «Vuoi dire che l'assassino era un professionista?» In Cina i killer professionisti erano una razza molto rara. «Qui a Pechino?» «Be', probabilmente è arrivato da Hong Kong... "un paese, due sistemi di vita"» rispose Yifu con un sorriso ironico. «Magari è stato assoldato dalla mafia cinese. Passiamo agli altri due omicidi. Nessun indizio sulla scena del delitto. Uno è stato ucciso con una coltellata al cuore, all'altro è stato spezzato l'osso del collo. Questi non sono delitti casuali, Li Yan.» Il nipote si fece attento, cercando di cogliere il senso di tutta la faccenda. «Se i delitti sono opera di un professionista, questo stabilisce un nesso tra i mozziconi di sigaretta.» Scosse la testa, perplesso. «Ma perché? Perché qualcuno dovrebbe incaricare un killer di uccidere un consulente del ministero dell'Agricoltura in pensione, uno spacciatore da due soldi e un operaio edile disoccupato di Shanghai?» «Bene, adesso ti stai facendo la domanda giusta. Questa è la vera domanda ma, prima di poter dare una risposta, ci sono molte altre domande meno importanti a cui devi rispondere. E questo ci riporta ai mozziconi, senza i quali non avresti mai pensato a un collegamento tra i casi. Ma allora, perché questa disattenzione da parte di un professionista tanto attento a tutti gli altri dettagli? C'è qualcosa che non quadra. È su questo che dobbiamo concentrarci.» Li Yan si rese conto di aver fatto, in qualche modo, lo stesso ragionamento, che però lo zio, meno coinvolto emotivamente nella vicenda, aveva saputo focalizzare meglio. Guardò pensieroso la scacchiera, un campo di battaglia, il teatro della sua vergognosa sconfitta. Il vecchio Yifu aveva ragione: si trattava di mettere a fuoco il problema. Lo zio aveva iniziato a raccogliere le pedine e a riporle nella scatola. «Allora, questa dottoressa americana continua ad aiutarvi?»
«No!» Li Yan si accorse subito di essere stato troppo secco e impulsivo nella risposta. La cosa non sfuggì al vecchio Yifu. «E lei che non vuole più aiutarvi?» «No... Sì... Non so. Il professor Jiang si è detto disponibile a lasciarla collaborare con noi.» «E tu cos'hai risposto?» «Che non mi serve» rispose Li Yan, evitando lo sguardo del vecchio. «Allora sei proprio uno sciocco.» «Ma non abbiamo bisogno di un'americana che ci insegni il nostro lavoro!» «No, ma tu devi avere un vantaggio sull'assassino. E l'esperienza di quella donna ti dà proprio il vantaggio di cui hai bisogno.» Il vecchio Yifu infilò la scatola con le pedine e la scacchiera nella borsa e si alzò un po' a fatica. «È ora di andare a mangiare.» 2 Tutti gli attrezzi da cucina di Ma Yongli erano disposti ordinatamente sul piano d'acciaio e si riflettevano sulla sua superficie lucente. Uno a uno, l'uomo li passò nell'affilatrice per tre, quattro, cinque volte finché le lame non brillarono, taglienti come rasoi. Lanciò un'occhiata all'amico seduto di fronte a lui su un altro piano di lavoro, con le gambe penzoloni. «Su con la vita, amico mio! Non potrà succedere mai.» «E invece succederà» ribatté l'altro, sconsolato. «A meno che io non muoia prima di domani mattina.» «Mi sembra una buona scusa per andare a ubriacarsi fino alla morte. Almeno moriremo felici.» Yongli si grattò la testa poi, con un sorriso malizioso. «Ma che dico... felici? Per te sarebbe la prima volta.» Li Yan gli fece una smorfia. Era venuto a trovare l'amico alla fine del turno di lavoro. Tutti i pasti erano già stati cucinati, serviti e mangiati. Il cuoco di notte, che si sarebbe occupato delle esigenze dei pochi clienti del caffè aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, era uscito a fumarsi una sigaretta. Le cucine erano deserte e buie; l'unica zona illuminata era quella dove Yongli stava affilando i suoi arnesi. «Vediamo un po' se indovino: il tuo malumore ha a che fare con lo zio.» «Ma certo!» «Santo cielo, ragazzo mio, va' fuori, fatti una donna, vivi la tua vita! Il vecchio Yifu è un simpatico vecchietto, ma non puoi passare il resto della
vita insieme a lui. Mi sorprende che, a quest'ora, non ti abbia ancora messo a letto e rimboccato le coperte.» «In effetti, dovrei essere già a letto» commentò cupo Li Yan. «Lo vedi!» lo apostrofò Yongli avvicinandoglisi. «Pensi già come lui. Andare a letto? Accidenti, ragazzo mio, sono solo le dieci e mezza, la notte è ancora giovane. E tu stai diventando un vecchietto.» «Domani devo alzarmi alle sei, ho tre casi di omicidio da risolvere. E so già che non riuscirò a dormire.» «Ah, così sei venuto a consultare il dottor Ma Yongli, famoso dispensatore di buoni consigli agli insonni.» Li Yan gli gettò contro il primo oggetto che gli capitò tra le mani, un barattolo. Yongli l'afferrò e sorrise. «Così va un po' meglio. Su, un po' di spirito, un po' di vita, vecchio mio!» Si sedette accanto all'amico. «Allora cos'ha fatto Yifu, questa volta?» «Il primo giorno di lavoro, entro nel mio nuovo ufficio e ci trovo un esperto di feng shui seduto a gambe incrociate sulla scrivania.» «Stai scherzando! E l'ha mandato lo zio Yifu?» «Sì, per equilibrare yin e yang e far fluire meglio il ch'i.» Yongli scoppiò in una sonora risata battendo le mani, prima sulle cosce e poi sul piano di lavoro. «Sì, sì, grazie tante. È proprio la reazione che hanno avuto tutti i miei colleghi» commentò Li Yan, abbattuto. «E ti stupisci?» «No, ma quando ti capita che il tuo capo ti ordini di sbarazzarti dell'esperto di feng shui e che tuo zio, invece, si proponga di mettere in riga il tuo capo, credimi, non ti diverti affatto!» Sempre sghignazzando, Yongli gli diede una gomitata. «Ma sì che ti diverti! Non arrabbiarti, Li. Tu prendi la vita troppo sul serio.» «Quando per vivere devi occuparti della morte, allora prendi la vita sul serio» ribatté Li Yan seccato. Yongli lo guardò scuotendo tristemente la testa. «Sei proprio un caso disperato.» Ma Li Yan era immerso nei suoi pensieri. «E poi c'è mia sorella: è di nuovo incinta e fermamente decisa a portare avanti la gravidanza. Domani, infine, dovrò perdere la faccia con il capo e con una presuntuosa dottoressa americana convinta di essere migliore di noi.» «Frena, frena, corri troppo per me. Di che cosa stai parlando?» «Chen ha chiesto a un'anatomopatologa americana di effettuare un'au-
topsia per uno dei miei casi. Lui l'aveva conosciuta a Chicago, durante un corso e adesso che lei è qui per tenere alcune lezioni all'università le ha chiesto questo favore personale.» «Fin qui niente di strano.» «L'autopsia è stata un successo, così l'università ci ha offerto i servizi della dottoressa per il resto della sua permanenza qui, ma io ho rifiutato.» «Perché?» «È un po' complicato da spiegare.» «Pensi che lei abbia fatto un buon lavoro?» «Sì, certo.» «E allora qual è il problema?» «Santo cielo, sembri proprio mio zio!» «Ah, adesso hai toccato il cuore del problema: tuo zio pensa che dovresti accettare l'offerta.» «Ma io ho già rifiutato.» «Quindi, se farai marcia indietro e dirai che hai cambiato idea...» «Perderò la faccia» concluse Li Yan. «E se non lo farai?» «Lo zio si offenderà.» «E Dio non voglia che ciò accada.» «Senti, lo zio è sempre stato buono con me. Tutto quello che ho ottenuto nella vita lo devo a lui. Non farò mai niente che possa ferirlo.» Yongli alzò le mani in un gesto di difesa. «Okay, okay. Tu vuoi bene al caro vecchietto, ma ciò non toglie che lui ti faccia impazzire.» L'ira di Li Yan svanì con la stessa rapidità con cui era divampata. «No, infatti.» Restarono in silenzio per un minuto buono, poi il cuoco riprese: «Dunque, questa dottoressa americana... è una virago, vero?» «Non proprio.» «È vecchia?» «Non esattamente.» Un'ombra di sospetto iniziò a insinuarsi nella mente di Yongli. «Be' se non è una virago e neppure vecchia... allora è giovane e carina?» «Sì, più o meno.» «Più o meno giovane, o più o meno carina?» «Più o meno tutte e due le cose. È la yangguizi che abbiamo visto al banchetto in cui si è imbucato McCord, ieri sera, al Quanjude.» «Ah!»
«Che cosa significa "Ah!"?» «Adesso comincio a capire.» «A capire?» «Il tuo uccello ha cominciato a manifestare un certo interesse per lei, ma il tuo cervello l'ha subito bloccato.» «Palle!» «Davvero? Ti conosco, Li Yan, ti conosco da tanti anni. Non vuoi impegnarti in una relazione, anche solo sessuale, per paura che possa interferire con i tuoi grandiosi piani di carriera. Prima c'era l'università, adesso c'è il lavoro.» Yongli balzò giù dal tavolo con un salto. «Sai di che cosa hai bisogno?» «No, ma sono sicuro che me lo dirai tu.» «Devi scopare di più.» Yongli si tolse il cappello da cuoco, buttandolo sul tavolo, e si slacciò il grembiule. «Su, ora vieni con me.» «Dove?» «Allo Xanadu Karaoke Club.» «Che cosa? Tu ti diverti a farmi arrabbiare!» «No, è un posto nuovo, dalle parti di Xidan, aperto dalle otto di sera alle otto di mattina. La bumba costa poco, ci sono femmine a vagoni e non c'è solo il karaoke. Suonano anche dal vivo...» Esitò un attimo, poi aggiunse: «Adesso ci canta Lotus». Vide Li Yan farsi scuro in volto. «E non cominciare a farmi la predica, d'accordo?» «Per amor del cielo, Ma Yongli, è una prostituta, una puttana!» «Attento a quello che dici o ti stacco quella testa di cazzo!» Lo sguardo di Yongli era minaccioso, la sua voce poco più di un sussurro. Li Yan cercò di addolcire il tono. «Non riesco proprio a capire come fai ad andare con lei sapendo che è stata con altri.» «L'amo, d'accordo? È un delitto? E, comunque, adesso è cambiata: sta facendo carriera come cantante.» «Sì, certo.» Li Yan scese dal piano di lavoro. «Però penso che rinuncerò alla serata. Non è certo una buona pubblicità per me farmi vedere in compagnia di una nota prostituta.» «Puoi smettere di fare il poliziotto, almeno per qualche minuto?» «No, non posso smettere perché sono un poliziotto.» «Davvero?» Yongli gli si avvicinò, minaccioso. «Ma puoi smettere benissimo di essere mio amico, vero? Quando vuoi tu, quando la mia ragazza non ti piace, non è così? Be' allora sai cosa ti dico? Vaffanculo!» E si allontanò a grandi passi verso la porta.
Li Yan rimase immobile a guardarlo con il cuore in tumulto. «Ma Yongli!» L'altro sembrò non averlo sentito. «Ma Yongli!» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Il cuoco si fermò davanti alla porta e si girò, livido in volto. «Che vuoi?» Si fissarono per un attimo, poi Li Yan disse: «Hai vinto tu». Quando arrivarono allo Xanadu, il litigio era già acqua passata. Oppure i due fingevano di averlo dimenticato. Quello era l'ultimo posto al mondo dove Li Yan avrebbe voluto trovarsi, ma cercava di essere un buon amico per Yongli proprio come era un buon poliziotto. A volte non era facile essere né l'uno né l'altro. C'era la fila per entrare e dovettero aspettare quasi venti minuti. Fumarono, osservarono la vita che scorreva per la strada e chiacchierarono del più e del meno. Ragazzi dall'aria imbronciata lanciavano sguardi libidinosi a ragazze in minigonna e Wonderbra che ostentavano la loro sessualità con una disinvoltura che, in Occidente, le avrebbe rapidamente messe nei guai. Li Yan si sentì vecchio e del tutto estraneo a quel mondo. Alla fine Yongli riuscì ad attirare l'attenzione di un buttafuori che conosceva, e così poterono finalmente entrare. L'ingresso costava dieci yuan e comprendeva una consumazione. Un segno circolare rosso dall'aspetto indecifrabile fu stampato loro sul dorso della mano destra. Passarono attraverso il guardaroba e si diressero al bancone del bar, che occupava un'intera parete. Buona parte della sala era occupata da tavolini e sedie e affollata di giovani che bevevano e fumavano. Dalla parte opposta rispetto a loro c'erano un palcoscenico con un microfono, altoparlanti e uno schermo per il karaoke. Un ragazzo foruncoloso con una folta massa di capelli ispidi spioventi sugli occhi stava cantando una canzone pop taiwanese ma nessuno lo ascoltava. Una scala di legno conduceva a una galleria anch'essa affollata che correva su tre lati della sala. Il frastuono era assordante. Si fecero largo fino al bancone, Yongli mostrò i biglietti e ordinarono due boccali da mezzo litro di birra. Mentre la sorseggiava, Li Yan si guardò intorno, chiedendosi dove tutti quei ragazzi prendessero i soldi per frequentare un locale non certo economico come lo Xanadu. «Cerchiamo un tavolo?» gli urlò nell'orecchio l'amico. Li Yan annuì e lo seguì su per le scale. Ma Yongli saliva i gradini a due a due. Arrivato al piano superiore, si mise a parlare con una cameriera. La ragazza rise forte e, da come lo fissava, era chiaro che lo trovava attraente. Lui sorrise, la prese per la vita e le fece l'occhiolino; lei arrossì. Era tutto
facile per Ma Yongli. Come gli accadeva spesso, Li Yan si chiese che cosa le donne trovassero in lui. Non era certo bello, ma i suoi occhi e il suo sorriso avevano qualcosa di speciale, un lampo di malizia. Avrebbe potuto avere tutte le donne che avesse voluto, e invece si era innamorato di una come Lotus. La cameriera li guidò in fondo alla galleria, poi si fermò a parlare con un gruppo di ragazzi seduti a un tavolo. Quelli lanciarono un'occhiata a Yongli, fecero spallucce e si alzarono di malavoglia, portandosi dietro i bicchieri. La cameriera chiamò con un cenno Yongli, gli rivolse un caloroso sorriso, pulì il tavolo sistemando al centro un portacenere pulito. «Quando volete il rifornimento, fatemi un fischio.» «Puoi scommetterci.» Ma Yongli le sorrise e le fece di nuovo l'occhiolino, lei arrossì di piacere e si allontanò veloce tra i tavoli. Yongli prese una sigaretta e ne gettò un'altra a Li. «Essere conosciuti aiuta.» «Non è questione di essere conosciuti. A te basta sorridere e metà delle donne di Pechino ti cade ai piedi» commentò Li Yan, accendendo la propria sigaretta e quella dell'amico. «È vero, ma il fatto che Lotus si esibisca regolarmente qui non guasta.» La musica cessò e Li Yan provò un enorme sollievo, come se la testa avesse smesso di rimbombargli. Non dovevano più strillare per farsi sentire. «Allora, quando canta?» Yongli guardò l'orologio. «Tra circa mezz'ora. È accompagnata da un tipo alle tastiere e da un altro alla chitarra. Hanno anche uno di quei sintetizzatori che riproduce il suono di un'orchestra di cinquanta elementi. Sono bravi.» Li Yan non aveva mai avuto molto tempo per la musica e non riusciva a immaginare cosa l'amico intendesse per "essere bravi". Il fatto che un posto come quello fosse un luogo abituale per l'amico e del tutto estraneo per lui gli fece capire quanto si fossero allontanate le loro strade, negli ultimi anni. Li Yan beveva osservando la gente che gli stava intorno parlare animatamente, eccitata dall'alcol e da chissà cos'altro... «Ciao.» Una voce femminile lo riportò alla realtà. Si girò: Yongli stava abbracciando la sottile figura di Lotus. Il suo grande corpo sembrava avvolgerla completamente e lei lo guardava e gli sorrideva con affetto. Lui si chinò a baciarla e la prese per mano. «Ti ricordi di Li Yan?» Lui si alzò e strinse la mano alla ragazza, imbarazzato. «Ma certo» rispose Lotus, sorridendogli come a un vecchio amico. Indossava un abito di
seta verde, lungo e aderente, con profondi spacchi laterali dalle caviglie alla vita, e un top che lasciava scoperte le braccia e nascondeva pudicamente le spalle e il collo con un alto colletto rigido. Nonostante il trucco pesante Lotus appariva una splendida ragazza. Lei colse subito l'ammirazione nello sguardo di Li Yan. «È il mio abito di scena» disse poi, come per scusarsi. Vicino a lei, Yongli sembrava quasi insicuro. Aveva perso tutta la sua baldanza e il sorriso da seduttore. «Vado a prenderti da bere» e le avvicinò una sedia. «Qualcosa di leggero» si raccomandò lei sedendosi. «Non voglio confondermi quando canto.» Rivolse un caldo sorriso a Li Yan. Yongli si guardò intorno, alla ricerca della cameriera, ma non riuscì a trovarla. Era stranamente agitato. «Dov'è andata quella maledetta ragazza? Torno tra un minuto.» «Non c'è fretta, sono in buone mani.» Lotus non staccava gli occhi da Li. Yongli, intanto, si diresse verso le scale. «Hai una sigaretta?» chiese e Li Yan notò che aveva un forte accento pechinese. Le porse un pacchetto, lei prese una sigaretta e l'accese. Aspirò profondamente, gettò indietro la testa e soffiò il fumo verso il soffitto. Poi abbassò di nuovo lo sguardo. «Non ti piaccio molto, eh?» Lui fu preso alla sprovvista da tanta franchezza. L'aveva incontrata solo un paio di volte, prima di allora, ed era stato gentile, non aveva lasciato trasparire la sua disapprovazione. Forse Yongli le aveva riferito l'opinione che aveva di lei o forse Lotus sapeva per istinto quale potesse essere il giudizio di un poliziotto. Dunque, sarebbe stato inutile, da parte sua, fingere. «No» ammise in tono neutro. Impassibile, la ragazza continuò a fissarlo. «Ma se non mi conosci neanche.» «So quello che fai, so chi sei: questo mi basta.» Quando Yongli l'aveva conosciuta, Lotus lavorava negli alberghi per stranieri e taceva un mucchio di soldi procurando piacere a ricchi uomini d'affari con un debole per le ragazze asiatiche. Era assidua del Jingtan quando Yongli ci era arrivato come cuoco, l'anno prima, e lui si era subito innamorato di lei. «Chi ero» precisò lei, calma. «Quello che facevo.» «D'accordo» proseguì Li Yan, gelido. «Allora vuoi farmi credere che quello che guadagni qui come cantante ti permette di mantenere lo stesso tenore di vita di prima? È quello che racconti a Ma Yongli?» Lotus si piegò in avanti e schiacciò la sigaretta nel portacenere. «Come
osi giudicarmi?! Non sai niente di me, non conosci la vita che ho fatto, lo schifo che ho dovuto sopportare. Faccio quello che posso per sopravvivere. E non sempre sono contenta di me, ma a Yongli continuo a piacere. Non mi ha mai giudicata. Mi tratta come nessuno mi ha mai trattata finora, come una principessa. E non sono molte le ragazze che possono sentirsi così.» Si appoggiò di nuovo allo schienale, e trasse un profondo respiro. Poi riprese, più calma: «E se pensi che io non vada bene per lui o che non lo ami, be', ti sbagli. Non ho mai amato tanto nessun altro. E non farò mai nulla per ferirlo». Con una leggera fitta di rimorso, Li Yan sentì in quelle parole un'eco dei suoi sentimenti nei confronti dello zio, delle frasi appassionate con cui l'aveva difeso solo un'ora prima di fronte all'amico. In Lotus avvertiva la stessa passione e, nei suoi occhi, leggeva la stessa sincerità. Annuì. «Neanch'io voglio fargli del male.» «Spremuta d'arancia con ghiaccio, va bene?» Yongli mise il bicchiere davanti alla ragazza e si sedette. «Scusa se ci ho messo tanto.» «La spremuta va benissimo.» Lei gli sorrise e bevve un lungo sorso della bibita. «Mi dispiace, amore, ma ora devo proprio andare a prepararmi.» «Va bene.» Si chinò a sfiorarle la bocca con un bacio. «Buona fortuna.» «Grazie.» Poi, rivolta a Li: «Ci vediamo dopo?». «Non lo so, domani mattina devo alzarmi presto.» «Allora, alla prossima volta.» Fece una leggera carezza a Yongli e se ne andò passando con eleganza tra i tavoli. Lui la guardò allontanarsi con uno sguardo trasognato, poi tornò bruscamente in sé e si rivolse all'amico. «Di che cosa avete parlato?» C'era un fondo di ansia nella sua voce. «Di te.» «Un argomento piuttosto noioso.» «Già, ce ne siamo resi conto anche noi, così abbiamo smesso.» «Non avrai intenzione di andare a nanna presto, vero?» «Invece sì.» Yongli scosse la testa, contrariato. «Sai, hai proprio bisogno di scopare un po'.» «Me l'hai già detto.» «Dico sul serio. E questa tua dottoressa americana giovane e attraente sembra proprio adatta a scaldarti un po' il sangue.» Li Yan sorrise. «Ma lascia perdere! È una yangguizi.» «E allora?» Yongli gli diede un pugno scherzoso sul braccio. «Se vuoi, puoi sfoderare tutto il tuo fascino. E farla cadere fulminata ai tuoi piedi.»
3 Margaret imprecò contro Li Yan tra sé e sé. Era un bastardo privo di fascino, uno sciovinista arrogante! Le porte dell'ascensore si chiusero e lei premette il pulsante del pianterreno. Guardò la propria immagine riflessa sulla parete di ottone lucente: non si era neanche truccata. Si era infilata i jeans, una T-shirt e un paio di sandali ed era uscita in fretta dalla stanza. Non riusciva a togliersi Li Yan dalla mente: l'ostilità iniziale, l'accettazione forzata della sua competenza professionale, il calore che le aveva dimostrato durante il pranzo e la freddezza che ne era seguita, e infine il rifiuto ad accettare ancora il suo aiuto. Margaret si disse che andava bene così. Se non la volevano, peggio per loro! Non aveva tempo per gli improvvisi mutamenti di umore e i preconcetti di un rigido poliziotto cinese che ce l'aveva con gli stranieri. Che termine aveva usato Bob...? Yangguizi. Proprio così, diavolo di una straniera! Quella era xenofobia pura e semplice! Era tutta la sera che questi pensieri le frullavano per la testa. Provava rabbia e desiderio di vendetta e continuava a rimuginare quello che gli avrebbe detto se solo Li Yan le fosse capitato a tiro. Poi le venne in mente un momento, durante il pranzo, in cui lui le aveva sorriso, con gli occhi scuri pieni di malizia, la voce morbida, quell'inglese con tutti gli accenti sbagliati. Scoprire in lui qualcosa di attraente la faceva infuriare. Si ricordò dell'umiliazione che aveva provato quando era stata convocata dal professor Jiang per la seconda volta. E la sua ira riesplose. La hall dell'albergo era deserta. Margaret l'attraversò, oltrepassò la reception e scese al bar. Ai tavoli erano sedute almeno dieci persone, che bevevano l'ultimo bicchiere della serata chiacchierando amabilmente. Margaret lanciò loro un'occhiata di sfuggita, si appollaiò su uno sgabello presso il bancone e ordinò un vodka tonic con limone e ghiaccio. Il barman la servì immediatamente. Lei bevve una lunga sorsata e sentì l'alcol fare subito effetto portandole una fresca ondata di sollievo. Iniziò a rilassarsi, prese una manciata di noccioline e si guardò intorno. Dall'altra parte della sala, una coppia di giovani cinesi si sbaciucchiava teneramente. Un gruppo di rumorosi uomini d'affari giapponesi tracannava grossi bicchieri di whisky. Un uomo basso di mezza età... Con un tuffo al cuore riconobbe McCord. Era seduto scompostamente a un tavolo d'angolo e aveva un aspetto piuttosto disordinato. Le ciocche di capelli unticci, non più appiccicate al cranio con
la brillantina, gli ricadevano sulla fronte imperlata di sudore. Il viso aveva il colore e l'aspetto dell'argilla, gli occhi da ubriaco erano iniettati di sangue. Teneva in mano, in precario equilibrio, un bicchiere di scotch mezzo vuoto e borbottava qualcosa tra sé. «È qui da molto?» chiese Margaret al barman. «Sì, da un bel po'.» Margaret bevve un altro sorso del suo drink e si diresse a passi decisi verso il tavolo dell'uomo. «Le dispiace se mi siedo?» E si accomodò senza aspettare la risposta. McCord si risvegliò dal torpore e la fissò sbalordito e, sulle prime, quasi spaventato. «Che vuole?» grugnì aguzzando la vista e chinandosi verso di lei nella penombra della sala. Evidentemente non l'aveva riconosciuta. «Sono Margaret Campbell, la dottoressa Margaret Campbell. Ha rovinato il mio banchetto di benvenuto, si ricorda? Volevo solo dirle grazie, grazie mille.» Lui fece una smorfia e vuotò il bicchiere. «Ma perché non se ne va al diavolo?» Si alzò malfermo sulle gambe e uscì sbandando dal bar. Lei rimase un attimo immobile. "Ben fatto!" si disse, poi si appoggiò allo schienale sentendosi improvvisamente stanchissima. Mentre beveva gli ultimi sorsi del suo drink, scorse il «China Daily», il quotidiano in lingua inglese, buttato accanto alla sedia prima occupata da McCord. Diede un'occhiata ai titoli: negli Stati Uniti, la Camera dei Rappresentanti aveva approvato la decisione del presidente di continuare a garantire alla Cina lo status di nazione favorita dal punto di vista commerciale. Era stata completata la posa di tremila chilometri di cavi a fibre ottiche fino al Tibet. C'era anche un articolo sull'aumento del venti per cento dell'esportazione di riso dalla Cina nel resto del mondo. Nessuno di quei titoli risvegliò il suo interesse. Pensò che era giunta l'ora di andare a dormire. Dormire, forse sognare... Passò dal bancone del bar per saldare il conto. Arrivata in camera, si liberò con un calcio dei sandali e si spogliò in fretta. Si guardò nello specchio: sotto la cruda luce elettrica, la sua pelle candida aveva assunto una sfumatura azzurra. Non riusciva a riconoscersi nell'esile e fragile ragazza che la fissava dallo specchio. Lei era un medico legale, una professionista testarda, aveva più di trent'anni, aveva girato parecchio e visto molte cose. Quella che la stava guardando dallo specchio invece era una bambina, una bambina duramente colpita dalla vita, che si nascondeva dietro il lavoro, la rabbia e le barriere che riusciva a innalzare.
Ma lì, completamente nuda e sola in una camera d'albergo, a migliaia di chilometri da casa, non poteva erigere barriere per nascondersi da se stessa. Improvvisamente si ricordò perché era venuta in Cina e fu sopraffatta da un'ondata di autocommiserazione e da una sensazione di profonda solitudine. L'aria condizionata le fece venire la pelle d'oca. Si buttò sul letto e si avvolse nelle lenzuola, rannicchiandosi in posizione fetale. Pianse disperatamente finché non si addormentò. 4 Quando Li Yan oltrepassò il negozio di frutta e verdura chiuso che si trovava all'ingresso dello stabile, Zhengyi Dajie era buia e deserta. L'aria notturna umida e appiccicosa era mossa da una leggerissima brezza che faceva frusciare le foglie sopra la sua testa. Salutò con un cenno il guardiano notturno nella guardiola. I palazzi di dodici piani si stagliavano, uno dopo l'altro, contro lo sfondo del cielo nero come la pece. Una coltre di foschia e pulviscolo impediva di vedere le stelle. Parcheggiò la bicicletta, la chiuse con il lucchetto ed entrò nel palazzo in cui viveva con lo zio: appartamenti di pregio riservati ad alti funzionari ministeriali e a ufficiali superiori della polizia. Era tardi e l'ascensore era fermo. Aprì il cancello delle scale e salì le due rampe fino all'appartamento. Sebbene le orecchie gli ronzassero ancora per il frastuono della musica del club e si sentisse rintronato, appena aprì la porta udì subito il sonoro russare del vecchio Yifu in camera da letto. Passò dalla cucina, prese una bottiglia d'acqua gelata nel frigorifero e bevve avidamente per sciacquarsi la bocca del cattivo sapore delle sigarette e della birra. Poi andò in camera e rimase seduto sul letto per almeno un quarto d'ora pensando al giorno appena trascorso e a quello che lo aspettava. Era stanco, ma non aveva sonno. La testa gli scoppiava e lo stomaco gli bruciava. Si sporse in avanti e aprì il primo cassetto del comò di legno scuro. Sotto un mucchio di biancheria pulita trovò quello che cercava: una fondina da portare a tracolla. Non l'aveva mai più indossata dopo la prima volta. Aveva regolato le fibbie in modo che le cinghie di morbido cuoio bruno si adattassero bene alla spalla e tenessero saldamente a posto la fondina. Era stato un regalo del suo maestro di Chicago, un poliziotto che dedicava parte del suo tempo all'insegnamento. L'aveva preso in simpatia e gli aveva permesso di accompagnarlo sull'auto di pattuglia in alcuni turni di notte.
Per Li Yan era stata un'esperienza straordinaria, ancorché terribile, che gli aveva aperto gli occhi su una cultura del crimine e sui mezzi usati per combatterla assolutamente sconosciuti in Cina. Gli sbirri erano tanto spietati e implacabili quanto i piccoli delinquenti, i rapinatori e i papponi, i tossici e le prostitute con cui avevano a che fare. Un po' scosso, pensò che quel mondo doveva essere molto familiare a Margaret. Si chiese come fosse possibile sopportare un contatto prolungato con tutto quel male senza subire danni permanenti. Rivide la morbida pelle del suo braccio, coperta di lentiggini, i seni che premevano delicatamente contro il cotone sottile della maglietta... Quanto sarebbe riuscita a sopravvivere nel verminaio che brulicava sotto la civilizzata Chicago? Dopo quanto tempo il guscio che si era costruita per proteggersi l'avrebbe avvolta del tutto, rendendola irrimediabilmente cinica e dura come gli sbirri con cui lui aveva trascorso quelle notti? Tornò silenziosamente nell'anticamera e aprì la porta della camera dello zio. Yifu russava sonoramente: per svegliarlo ci sarebbero volute le cannonate. Guardandone il viso appoggiato sul cuscino, Li Yan provò un'ondata d'affetto per quel vecchio. Rimase un attimo soprappensiero, poi si fece coraggio. Lo zio non l'avrebbe mai saputo e ciò che non sapeva non poteva fargli male. Si chinò e aprì l'ultimo cassetto del comò. In fondo a destra Yifu teneva da anni una scatola da scarpe. Li Yan la prese e l'aprì: dentro, accuratamente avvolte in un panno, c'erano la vecchia pistola di ordinanza che lo zio aveva usato in Tibet e una scatola di pallottole. Aveva maneggiato quell'arma solo durante l'addestramento - aveva raccontato una volta a Li Yan - e non l'aveva mai puntata contro un altro essere umano. Li Yan sapeva bene che, fra tutte le qualità che poteva aver ereditato dallo zio, non c'erano né il temperamento equilibrato, né il senso di pietà. In lui covavano una rabbia e una violenza costantemente domate. Ma l'indomani avrebbe allentato un po' il controllo, prendendo una via che né lo zio né i suoi superiori avrebbero approvato. Tolse la pistola dalla scatola e la fece scivolare nella fondina, sotto l'ascella. Ci entrava alla perfezione: sembrava che pistola e fondina fossero state fatte l'una per l'altra. Si fece scivolare in tasca sei pallottole. Richiuse silenziosamente la scatola e la rimise sul fondo del cassetto. Appena si raddrizzò, Yifu si girò e rimase per un attimo silenzioso. Li Yan trattenne il respiro, ma poi il vecchio riprese a russare sonoramente, ignaro della presenza del nipote. Li Yan uscì dalla stanza senza fare rumore e richiuse piano la porta.
CAPITOLO QUINTO Mercoledì mattina 1 All'inizio era solo un bagliore distante. Poi, a mano a mano che si avvicinava, vide lingue di fuoco lambire l'oscurità. Aguzzò la vista per cercare di capire che cosa fosse quella massa scura in mezzo alle fiamme. Improvvisamente vide protendersi verso di lui una mano, asciugata dal calore, nera e rigida come una tenaglia, e poi una bocca spalancata in un grido muto e occhi che si scioglievano implorando aiuto. E, in un attimo di orrore totale, si rese conto che stava guardando se stesso. Li Yan si alzò a sedere di colpo, sbattendo le palpebre nell'oscurità. Aveva la fronte imperlata di sudore freddo e il respiro affannoso. La sveglia sul comodino segnava le due. Si sdraiò di nuovo, cercando di cancellare dalla mente quell'immagine terribile. "Una mano protesa per chiedere aiuto" aveva detto la baby-sitter. Ma quali tortuosi percorsi dell'inconscio lo avevano portato a trasformarsi in una torcia umana? Cercò di dominare l'affanno e, a poco a poco, sentì il battito del cuore rallentare e tornare normale. Chiuse gli occhi cercando di non pensare a nulla. Rimase in uno stato di dormiveglia agitato fino alle cinque, quando suonò la sveglia. Si alzò con un senso di sollievo. Il cielo era chiaro, ma il sole non aveva ancora dissipato la leggera foschia mattutina, l'aria era piacevolmente fresca. Pedalò verso est e poi a nord entrando nel distretto di Dongcheng. Era troppo presto per Mei Yuan, che non era al solito angolo della Dongzhimennei, così non fece colazione. Fuori dal quartier generale della Prima Sezione si erano già radunati i primi testimoni della giornata. «Ehi, Li Yan, come sei elegante oggi» commentò un collega incontrato in corridoio. «Vai a un colloquio?» Li Yan indossava un vestito di cotone blu scuro e pantaloni con eleganti pinces in vita, una fresca camicia bianca aperta sul collo e un paio di scarpe nere lucide. «È il mio abito da lavoro.» «Peccato che il capo non ci abbia mai tenuto molto» aggiunse l'altro. Chen indossava sempre un paio di pantaloni grigi, tutti sformati e consumati, una camicia grigio chiaro o blu e un logoro giubbotto color crema senza maniche. L'assoluta mancanza di eleganza, comunque, non aveva in-
fluito sulla sua carriera. In ufficio, Li Yan si preparò una caraffa di tè verde e iniziò a sfogliare i fascicoli che si erano accumulati sulla sua scrivania. Sotto la finestra, le pile delle deposizioni erano paurosamente cresciute e, per ogni delitto, i colleghi avevano fatto una selezione delle più importanti per lui. Si accese una sigaretta e si immerse nel noioso esame delle dichiarazioni e delle testimonianze di spacciatori e truffatori di mezza tacca, di operai provenienti da tutta la Cina e di frequentatori abituali del parco Ritan. Alle sette, dopo tre tazze di tè e cinque sigarette, non aveva fatto alcun progresso. La stanza era piena di fumo e la temperatura era notevolmente salita: il sole filtrava dalla finestra disegnando lunghe strisce dorate sul pavimento. Nella stanza accanto, gli investigatori del turno di giorno avevano cominciato alacremente il lavoro. L'ennesimo collega che bussò alla porta con un'informazione e un commento sul suo vestito fu investito da una valanga di insulti. Per mezz'ora, Li Yan non fu più disturbato. Gli piaceva quell'ora del mattino, lo aiutava a pensare e, talvolta, a ripensare alle riflessioni fatte il giorno prima. Spesso il nuovo giorno creava il giusto distacco e favoriva una visione diversa degli eventi. Telefonò al Laboratorio della scientifica e si sentì rispondere che, per i risultati, ci sarebbe voluta ancora qualche ora. Alle sette e un quarto bussarono ancora alla porta. Li Yan sollevò la testa, pronto ad aggredire il malcapitato che aveva osato disturbare le sue riflessioni. Ma tenne a freno qualunque reazione, non appena vide che si trattava di Chen, poco propenso al sorriso come al solito. «Buongiorno, Li Yan.» Appena notò il vestito del suo vice, si bloccò perplesso. «Non avrà mica un colloquio per un altro lavoro?» «No, capo. Ho solo pensato che, data la mia nuova posizione, fosse meglio darmi una ripulita.» Chen bofonchiò, con aria indifferente: «Novità?». «Nessuno sa niente. Nessuno ha visto niente. Nessuno ha sentito niente. Appena la scientifica mi manda i risultati dei test, glieli faccio avere.» Il capo apri la porta per andarsene. «Oh, a proposito...» aggiunse Li Yan e Chen si fermò. «Ho riconsiderato l'offerta dell'università di mettere a nostra disposizione la dottoressa americana» buttò lì con il tono più casuale possibile. «Davvero?» rispose il capo e lo fissò un attimo, pensieroso. «Ne ha per caso parlato con il vecchio Yifu?» «Be'... gliene ho accennato.»
«Mmm... e lui ha ritenuto che fosse una buona idea.» «Be'... ha pensato che l'esperienza della dottoressa potrebbe esserci preziosa.» «Capisco. Peccato che lei sia incline ad ascoltare i consigli di suo zio più che i miei.» «Se questo fosse stato il suo consiglio, capo, non lo avrei certo ignorato» protestò Li Yan. Chen brontolò. La cosa gli bruciava. «Prima le diciamo che la vogliamo, e subito dopo che non la vogliamo più. Poi le diciamo che abbiamo cambiato idea e, in fin dei conti, la vogliamo ancora. Può darsi che adesso sarà la dottoressa americana a non volerci.» «Possiamo sperare» borbottò sottovoce. «Cos'ha detto?» «Ho detto che possiamo sperare che accetti.» Chen si stava avviando alla porta, quando si fermò e si voltò. «Quasi me ne dimenticavo: il viceprocuratore generale Zeng vuole vederla.» «Vuole vedere me?» si sorprese Li Yan. «Sì, proprio così.» «E come mai?» «Non ne ho la minima idea. Ma quando un alto magistrato chiama, bisogna correre. Ha appuntamento alle nove, nel suo ufficio in Procura.» Uscì, ma subito riaprì la porta e infilò dentro la testa. «Se non la conoscessi bene, sospetterei che lo sapesse già, visto che si è messo l'abito buono.» E richiuse la porta. Li Yan si domandò che cosa potesse mai volere da lui il viceprocuratore generale. I procuratori erano tra i magistrati più potenti del sistema giudiziario cinese. Era il procuratore del popolo a emettere, su richiesta della polizia, i mandati di cattura. Inoltre, l'ufficio del procuratore esaminava le prove raccolte dalla polizia e stabiliva se erano sufficienti a portare in giudizio l'accusato. I procuratori, poi, svolgevano anche la funzione di pubblico ministero. In casi particolarmente delicati, riguardanti questioni di Stato, corruzione, frode o abusi della polizia, l'ufficio del procuratore del popolo aveva la facoltà di condurre direttamente le indagini. Era abbastanza raro che un investigatore venisse convocato da un viceprocuratore generale per motivi estranei a un'indagine in corso. La cosa procurava a Li Yan una sensazione di disagio. Due soldati con i fucili a tracolla stavano ritti sull'attenti ai lati dell'ingresso principale della Procura. Li Yan parcheggiò la jeep e attraversò il
cancello sentendosi sempre più agitato. L'ufficio del procuratore si trovava in un moderno edificio di tre piani non lontano dal quartier generale della polizia. L'appuntamento era per le nove, ma Li Yan dovette attendere quasi venti minuti prima che una segretaria lo venisse a prendere e l'accompagnasse al piano superiore, dal viceprocuratore generale. «Avanti!» disse Zeng da dentro e la segretaria aprì la porta per far entrare Li Yan. Zeng si alzò: era alto e magro, con i capelli grigio ferro pettinati all'indietro e un viso lungo su cui spiccavano gli occhiali rotondi dalla montatura metallica. Era in maniche di camicia. Gli strinse la mano. «Congratulazioni per la promozione, vicecaposezione Li.» «Onorato di conoscerla, viceprocuratore generale Zeng.» «Prego, si accomodi» e gli indicò una poltroncina di cuoio nella quale Li Yan si sedette a disagio. Le pale di un ventilatore giravano pigramente muovendo l'aria calda. «È il suo secondo giorno di lavoro, vero?» Li Yan annuì. «Ha avuto una partenza movimentata.» «Tre omicidi in una notte... un po' come a New York.» Non sapeva che cosa dire, così non aggiunse altro. Zeng si avvicinò alla finestra e abbassò le veneziane. «Così va meglio. Non sopporto troppa luce, qui dentro. A Pechino, l'autunno è la stagione migliore, non le pare? Non fa troppo caldo e poi c'è una luce così morbida.» «Sì.» «Lei è del Sichuan.» Li Yan non sapeva se si trattasse di una domanda o di una constatazione. «Una bella provincia, di cui però non riesco a sopportare la cucina: troppo piccante per i miei gusti. E lei che cosa mi dice?» Li Yan non sapeva che cosa rispondere. «Non so.» «Che cosa non sa?» «I suoi gusti, signor viceprocuratore generale.» «Ma io le chiedevo dei suoi gusti. Le piacciono tutti quei piatti piccanti?» «Moltissimo.» «Be', suppongo che si sia abituato a mangiarli fin da piccolo. Non dev'essere facile.» Di nuovo Li Yan si sentì perduto. Zeng saltava di palo in frasca, e sembrava che volesse tendergli una trappola. «Che cosa non deve essere facile?» «Seguire le orme di un uomo famoso come suo zio al dipartimento di polizia. È difficile cercare di reggere il confronto. Per lei è un problema?»
chiese il magistrato, fissandolo. «No. Seguire le orme dello zio Yifu è un onore e un privilegio per me.» Si sentiva molto a disagio. Ma dove voleva andare a parare quell'uomo? Zeng tornò a sedersi, appoggiò un gomito sulla scrivania e si mise a osservare pensieroso il suo interlocutore. «Non posso dire di approvare il ricorso a un medico americano per effettuare autopsie sulle vittime di omicidi avvenuti qui a Pechino. Oltre a tutte le altre considerazioni, c'è anche il fatto che quando il caso arriverà in tribunale, la persona in questione sarà già tornata negli Stati Uniti.» Ecco dove voleva andare a parare! Per un attimo, Li Yan si domandò come facesse a sapere già che quello di Chao Heng fosse un caso di omicidio e non di suicidio. In fin dei conti, però, non si trattava di un segreto e poi Zeng era un viceprocuratore generale. «L'esperienza della dottoressa ci è stata preziosa per stabilire che quello che sembrava un suicidio era in realtà un omicidio. Il responsabile dell'autopsia, in ogni caso, era il professor Xie e lui sarà presente quando, come spero, porteremo l'assassino in giudizio.» Si accorse che Zeng stava per fare un commento e aggiunse rapidamente: «Naturalmente, la dottoressa americana ci ha prestato la sua collaborazione in via non ufficiale, come favore personale al caposezione Chen». «Sì, me l'hanno detto. E mi hanno detto anche che l'università le ha offerto la collaborazione della dottoressa per il resto delle indagini e lei l'ha rifiutata.» "È davvero aggiornatissimo" pensò Li. «Si, è vero.» «Ottimo. Penso che non sarebbe stata una buona politica lasciar credere a un'americana che potesse insegnarci il mestiere.» «Peccato.» Li Yan aveva cominciato a stare al gioco. «Stamattina ho cambiato idea e, alla fine, ho accettato l'offerta.» «Perché?» chiese Zeng contrariato. «Dopo averne parlato con mio zio... mi sono reso conto che rifiutare una collaborazione tanto qualificata solo perché la dottoressa è americana sarebbe stato meschino e gretto. Almeno, questa è l'opinione di Yifu, ma se lei non è d'accordo...» «Santo cielo, chi sono io per mettermi contro il parere di suo zio?» Zeng era visibilmente seccato. Era chiaro che avrebbe voluto continuare la discussione ma che aveva preferito non farlo. «Forse ora capisco perché non è stato difficile per lei seguire le orme di suo zio» aggiunse guardandolo con ammirazione.
«Devo fare ancora molta strada prima di essere all'altezza di Yifu, viceprocuratore generale.» Il magistrato si dondolò lentamente avanti e indietro sulla sedia guardando pensieroso il soffitto. Tirò fuori un pacchetto di sigarette e, senza offrirne a Li Yan, se ne accese una. Poi si piegò in avanti appoggiando i gomiti alla scrivania: aveva preso una decisione. «Vorrei che ogni giorno lei mi facesse avere un rapporto scritto sul caso. Chao Heng era un uomo molto importante, uno scienziato e un consulente del governo. Il suo omicidio è un affare serio. Desidero che ogni sera lei rediga personalmente il rapporto, in modo che sia la prima cosa che trovo sulla mia scrivania la mattina dopo. Chiaro?» Li Yan annuì. «È tutto.» Zeng tirò verso di sé un fascicolo e l'aprì. Il colloquio era finito. 2 Era una fortuna che il corridoio fosse così lungo, pensò Bob. Altrimenti, una volta arrivata alla fine, Margaret sarebbe stata costretta a girarsi e a tornare indietro. Sembrava infatti che fosse decisa a sfogare la sua ira camminando a passi lunghi e rapidi. Bob faceva fatica a starle dietro. «Prima dicono che vogliono il mio aiuto, poi quello stronzo del signor vicecaposezione Li decide che sono superflua. Hai capito? Superflua!» «Sono sicuro che si è trattato di un errore nella traduzione, Margaret. Certamente Li Yan non intendeva dire questo.» «Ma davvero? Be' qualsiasi cosa intendesse ieri sera, stamattina ha già cambiato idea. Forse si è svegliato e si è reso conto di essere un incapace. A quanto pare, io non sarei più "superflua" e loro sarebbero "felicissimi" di accettare il mio aiuto... come se glielo offrissi! Loro chiedono aiuto a me, poi mi dicono che sono superflua.» Bob pensò che la scelta della parola "superflua" era stata davvero sfortunata. Una grave mancanza di tatto. Doveva assolutamente dire a Veronica di fare più attenzione. Purtroppo, per quanto riguardava Margaret, ormai il danno era fatto. L'aveva presa veramente male. «Che cosa farai?» «Non lo so. Vorrei proprio dirgli di arrangiarsi.» «Ma questo non gioverebbe certo ai rapporti tra Cina e America.» «Al diavolo i rapporti tra Cina e America!» «Sai bene,» continuò Bob, ormai quasi senza fiato «che la maggior parte dei tuoi colleghi americani darebbe il braccio destro per poter collaborare a un'indagine per omicidio a Pechino.»
«Santo cielo, Bob, hai mai sentito parlare di anatomopatologi con un braccio solo?» «Hai capito che cosa voglio dire» ribatté lui paziente, mentre lei gli lanciava un sorrisetto malizioso, che l'irritò ancora di più. «Questa esperienza farà una gran bella figura nel tuo curriculum, non credi?» Margaret si fermò di scatto, cogliendo Bob di sorpresa. «Per amor del cielo, Margaret!» Le brillavano gli occhi: aveva avuto un'idea. «Bene, se accetto, dovranno certo pagare un prezzo e io guadagnerò un bel po' di punti, non ti pare?» 3 Erano già due ore che Li Yan si trovava chiuso in riunione con gli investigatori impegnati nelle indagini sui tre omicidi. Nella stanza aleggiava una densa nube di fumo e gli animi erano depressi. Dagli interrogatori, dalle dichiarazioni e dalle testimonianze non erano emerse prove tali da aiutarli a fare un po' di luce su almeno uno dei delitti. I poliziotti avevano perlustrato il parco Ritan fin dalla mattina presto e avevano interrogato tutte le persone che incontravano, cercando di indurle a ricordare e di raccogliere qualsiasi, anche piccola, informazione. Niente. Per ora conoscevano l'identità delle tre vittime, ma non avevano individuato né il movente né alcun legame tra i delitti, a parte un collegamento molto esile tra Chao Heng e Mao Mao, rappresentato dalla droga. Non avevano potuto stabilire, tuttavia, se i due uomini si conoscessero. Wu suggerì di fermare Ago per interrogarlo. Sapeva che Li Yan aveva chiesto il suo fascicolo. Non si aspettava la risata generale che accolse la sua proposta e ci rimase piuttosto male. «Che cosa c'è da ridere?» «Ago non ci dirà niente» rispose Zhao sbalordito dalla proposta del collega. «Se dicesse di sapere qualcosa del vizio di Chao Heng o dell'attività di Mao Mao confermerebbe implicitamente di essere nel giro della droga!» «E, dato che sono cinque anni che cerchiamo inutilmente di incastrarlo con questa accusa,» aggiunse Qian «difficilmente ci verrà incontro di buon grado, non ti pare?» «Soprattutto perché non abbiamo nulla contro di lui, nessuna arma di ricatto» disse Zhao. Wu guardò Li Yan, mortificato dalla derisione dei colleghi. «Era solo un'idea, che mi è venuta perché il capo ha chiesto il suo fascicolo...» si
giustificò, aspettandosi un intervento di Li Yan a sua difesa. «Sono d'accordo con gli altri» commentò questi. «Sarebbe inutile portare qui Ago. Ma se Maometto non va alla montagna...» Sorrise di fronte alla perplessità generale. «So che di giorno frequenta l'Hard Rock Café, è il suo... ufficio.» «Vai a trovarlo?» chiese sorpreso Qian. «Se riusciamo a convincerlo a parlare con noi, naturalmente in modo non ufficiale... risparmieremo un bel po' di tempo e di fatica.» «Ma perché dovrebbe parlare con noi?» chiese Wu. «Perché sono io a chiederglielo» rispose Li Yan. Calò il silenzio. Ognuno cercava di dare un'interpretazione alle parole del capo. Sapevano che tra lui e Ago c'era una vecchia storia. Tre anni prima, Li Yan aveva ottenuto un mandato di cattura contro Ago, ma poi il suo unico testimone era finito sotto un autobus in Wangfujing Dajie. Era stato impossibile dimostrare che non si era trattato di un incidente e così Ago era tornato in libertà. In passato, tipi come lui sarebbero stati "convinti" a confessare i loro crimini e avrebbero ricevuto la giusta punizione. Ma i tempi erano cambiati e l'azione della polizia e dell'intero sistema giudiziario veniva tenuta strettamente sotto controllo. Così, il consueto metodo di esercitare pressioni sociali sull'individuo attraverso il suo ambiente di lavoro non serviva con liberi professionisti come Ago, che affermava che le sue entrate provenivano dalle bancarelle del mercato coperto di Liulichangxi. La riunione si concluse nella stessa atmosfera cupa in cui era iniziata. Oltre a proseguire con gli interrogatori e a raccogliere le dichiarazioni di potenziali testimoni, nessuno propose nuove azioni. 4 Li Yan parcheggiò davanti alla porta del Laboratorio della scientifica ed entrò. Fuori dall'ufficio del professor Xie trovò Lily Peng, pallidissima, che sfogliava nervosamente una rivista scientifica. «La dottoressa Campbell è dentro?» Lily accennò con il pollice alla sala anatomica. «È lì dentro, da ore.» «Oggi non assiste allo spettacolo?» le chiese lui con un sorrisetto. «Non c'è posto.» «Che cosa vuole dire?» «Giudichi lei.» E la donna tornò alla sua rivista.
Attraverso la porta a doppio battente, Li Yan entrò nella sala. Quindici studenti in camice verde e mascherina erano radunati intorno al cadavere dissezionato dell'operaio edile di Shanghai. Il volto di alcuni di loro era dello stesso colore dei camici. Due assistenti sistemavano il cadavere mentre Margaret spiegava. «Come vedete... gli organi che avevo buttato nel secchio vengono inseriti di nuovo nella cavità toracica e gli assistenti suturano la mia incisione con spago cerato. La calotta cranica viene rimessa a posto, il cuoio capelluto risistemato e ricucito. Poi il corpo verrà pulito, lavato, asciugato e infilato in un sacco prima di essere riportato nella cella frigorifera. Non so che cosa accada qui da voi, ma negli Stati Uniti un addetto alle pompe funebri prende in consegna il cadavere, lo riempie di una sostanza conservante, lo veste e lo trucca in modo che possa essere disteso nella bara ed esposto davanti ai parenti e agli amici prima del funerale.» «In questo caso,» intervenne il professor Xie «il corpo sarà mandato a Shanghai, restituito alla famiglia e subito cremato. In Cina quasi nessuno può permettersi un servizio di pompe funebri.» «È un vero peccato,» continuò Margaret, rivolta agli studenti «che ieri non abbiate potuto assistere all'autopsia dell'uomo bruciato vivo, era un caso molto interessante. Il professor Xie ha usato un criostato, uno strumento modernissimo, molto utile per accelerare l'esame dei campioni. Sapete tutti che cos'è un criostato?» Nessuno rispose. «In sostanza, è un apparecchio che permette di congelare rapidamente i campioni di tessuto per poterli così sezionare ed esaminare al microscopio. Si usa soprattutto durante gli interventi chirurgici e permette di fare diagnosi in tempo reale prima di proseguire l'intervento.» Si girò per indicare alcuni campioni di tessuti prelevati dai diversi organi. «Ci vogliono almeno sei ore per preparare questi campioni con il più tradizionale metodo dell'inclusione in paraffina o cera, che permette di dividerli in sezioni sottilissime, ma stabili. Usando il criostato, le sezioni possono essere scongelate ed esaminate rapidamente e non vengono alterate dal processo di preparazione.» Guardando oltre il gruppo degli studenti, Margaret scorse Li Yan. «Ah, vedo che c'è il vicecaposezione Li Yan. È arrivato giusto in tempo.» Si rivolse agli studenti: «Sapete, è un tipo un po' impressionabile» mormorò loro in tono confidenziale. Si udirono alcune risatine divertite e, con suo grande disappunto, Li Yan si rese conto di essere arrossito. Margaret si rivolse nuovamente a lui. «Mi sono permessa di chiedere al professor Xie di far assistere la mia classe al-
la seconda autopsia della mattinata e lui è stato ben contento di darmi il permesso. Sono convinta che questo tipo di esperienza sia importante per gli studenti, non le pare?» «Certo» rispose Li Yan asciutto. «E mentre faceva sfoggio della sua bravura con gli studenti, ha per caso capito quale sia stata la causa della morte di quest'uomo?» Altre risatine soffocate tra gli studenti. Anche se l'inglese non fosse stato la loro seconda lingua, avrebbero comunque percepito subito l'atmosfera di ostilità tra la loro insegnante e il poliziotto. «Quest'uomo è morto per una disarticolazione atlanto-occipitale, cioè per il distacco del cranio dalla prima vertebra del collo» rispose Margaret perfettamente calma. «La prima vertebra, su cui poggia la testa, si chiama atlante. Gli anatomisti ci sapevano fare nella scelta dei nomi, non le pare?» Li Yan non sorrise. «In ogni modo,» proseguì lei, senza farci troppo caso «questa vertebra è unita in due punti all'osso occipitale, che si trova alla base del cranio. Quando le due ossa si staccano, probabilmente producendo un doppio schiocco, il midollo spinale viene reciso dal margine del foramen magnum, attraverso il quale entra nel cranio. La morte deve essere stata istantanea, un fatto molto raro. Nella maggior parte dei casi, compreso quello dell'autopsia precedente - una coltellata inferta al cuore - la morte sopravviene dopo un paio di minuti.» Si era tolta gli occhiali protettivi e ora ci giocherellava. «Questa particolare lesione è molto frequente negli incidenti stradali. In questo caso, l'assenza di altri traumi rilevanti indica però che, molto probabilmente, la vittima non si trovava in una macchina.» Sorrise nuovamente e di nuovo si accorse che nessuno condivideva il suo senso dell'umorismo. Sospirò e proseguì: «In base all'assenza di impronte di dita sul collo o sul volto dell'uomo, direi che l'aggressore l'ha afferrato mettendogli un braccio sulla fronte e l'altro dietro, alla base del collo, e poi ha esercitato una forte torsione della testa verso l'alto e poi in avanti, provocando lo scivolamento del foramen magnum sulla parte superiore della colonna vertebrale e la rescissione del midollo spinale. Una rottura così netta, in assenza di altri traumi gravi, fa pensare che l'assassino fosse piuttosto esperto». Le parole di Margaret misero i presenti a disagio. «Nell'autopsia precedente...» attaccò di nuovo e, dopo aver lanciato un'occhiata all'orologio, commentò: «Santo cielo, come vola il tempo quando ci si diverte!». Tutti la fissavano impassibili. «Come dicevo... nell'autopsia effettuata prima di questa, la vittima è stata uccisa con una coltellata
al cuore. Ritengo che sia stata aggredita da dietro e tenuta saldamente con un braccio intorno al collo. Poi, con la mano libera, l'aggressore ha inferto il colpo spingendo il coltello in dentro e verso l'alto. La lama era lunga poco più di venti centimetri: è penetrata alla base dello sterno, recidendo parzialmente sia il ventricolo destro sia quello sinistro. La direzione da cui è venuto il colpo non è chiara, quindi non sono in grado di precisare se l'assassino fosse mancino o usasse la destra: questo accade solo nei film. Posso però affermare che infliggere un solo colpo mortale in questo modo richiede una notevole abilità.» Fece una pausa per osservare l'effetto delle sue parole. «A mio giudizio, signor Li Yan, i due omicidi sembrano esecuzioni messe in atto da un professionista molto esperto.» L'uditorio si fece ancora più silenzioso. Li Yan era pensieroso. "Vuoi dire che l'assassino era un professionista?" aveva chiesto al vecchio Yifu. "Magari è stato assoldato dalla mafia cinese" aveva risposto lo zio. "Questi non sono delitti casuali, Li Yan." «Posso farle una domanda?» gli chiese Margaret. «Dica pure.» «Che cosa le fa pensare che tra l'uomo dell'autopsia di ieri e quelli che abbiamo visto oggi ci sia un legame?» «E che cosa le fa credere che io ne sia convinto?» «Oggi non mi avrebbe chiesto di eseguire queste autopsie se non avesse ritenuto che i tre casi fossero collegati.» Li Yan annuì. Il ragionamento non faceva una grinza. Gli studenti tacevano, in attesa. «Non credo che siano questioni da discutere davanti al suo uditorio.» Si levò un brontolio diffuso. «Forse ha ragione» ammise Margaret. Si rivolse agli studenti delusi, che iniziavano già a sentirsi coinvolti nella faccenda. «Consegnate i camici e le mascherine agli assistenti del professore, ci vediamo domani mattina in aula.» Mentre i ragazzi uscivano in fila indiana, Margaret, Li Yan e il professor Xie si allontanarono dal tavolo dell'autopsia. «Sulla scena di ogni delitto c'era un mozzicone di sigaretta della stessa marca» disse il poliziotto. «Quale?» «Marlboro.» «Oh, sì» commentò lei. «Marlboro Country, dove i cowboy cavalcano con le bombole di ossigeno sulla schiena per poter respirare.» E, dopo una breve pausa: «A quanto pare, c'è un sacco di gente che fuma, in questo paese. Non sapete che fa male?».
«Le compagnie americane del tabacco devono essersi dimenticate di dircelo» replicò duro Li Yan. «Be', secondo lei, avrebbero dovuto? Voglio dire, per loro è un grosso affare. Se inondano la Cina di sigarette, fanno guadagnare un sacco di soldi ai loro azionisti americani, proprio quelli che hanno smesso di fumare da anni perché nuoce alla salute.» «C'era un solo mozzicone in ogni posto?» domandò il professor Xie. Li Yan annuì. «E lei pensa che possa essere stato lo stesso assassino a fumare una sigaretta della stessa marca su ogni scena del delitto e a lasciare il mozzicone in modo che noi lo trovassimo?» chiese Margaret, dubbiosa. «Secondo lei, un professionista tanto meticoloso nell'esecuzione degli omicidi sarebbe stato così sbadato da dimenticare un mozzicone di sigaretta? Mi sembra molto improbabile.» Li Yan scrollò le spalle. «Forse lei ha ragione, ma questo non cambia il fatto che i mozziconi c'erano.» «Avete attrezzature per il test del DNA?» domandò Margaret a Xie. «Certamente.» «Se ci sono tracce di saliva,» disse lei, rivolta a Li Yan «possiamo confrontare il DNA dei tre mozziconi e sapere subito se il fumatore era lo stesso.» «Ho mandato ieri i mozziconi al laboratorio: dovremmo avere i risultati nel pomeriggio» ribatté lui. Margaret lo fissò per un attimo, poi sorrise sarcastica. «Ah, vedo che vuole insegnare al gatto ad arrampicarsi.» Rise vedendo le loro facce disorientate, poi scosse la testa. «Scusate, sono stata una sciocca, ma voi mi avete ridimensionata.» Di nuovo un silenzio imbarazzato. Il sorriso di Margaret si spense. «Quindi, l'unico nesso tra gli omicidi sono i mozziconi?» «No, c'è lo stile dei tre delitti, che sembrano tutti opera di un professionista, fatto molto raro in Cina. E poi c'è la droga. Come sa, Chao Heng era un eroinomane e Mao Mao, quello della prima autopsia di oggi, era uno spacciatore di mezza tacca.» «Era anche un tossicomane» aggiunse Xie. «Aveva buchi di siringa sul braccio sinistro» precisò Margaret. «C'è qualcos'altro che dovrei sapere?» chiese Li Yan. «Niente di importante. Avrà il rapporto domani, quando avremo esaminato le sezioni dei campioni.» Margaret guardò il professore in cerca di
una conferma e lui annuì. La donna iniziò a togliersi il camice. «È meglio che vada a lavarmi e a cambiarmi.» «Vi prego di scusarmi» disse il professore e si allontanò per andare a parlare con gli assistenti. «Devo andare dall'altra parte della città per seguire questa pista della droga» esordì Li Yan esitante, accorgendosi di essere un po' arrossito. «Forse le farebbe piacere accompagnarmi.» Margaret fu presa alla sprovvista. «Perché?» chiese un po' sospettosa. «L'uomo che sto cercando controlla il traffico della droga a Pechino. È soprannominato Ago.» Lei lo guardò sbalordita. «Be' se sapete chi è, perché non l'avete messo dentro o sotto due metri di terra? Non è così che si fanno le cose, qui?» «Solo se abbiamo le prove» rispose Li Yan, trattenendo l'irritazione. «Contrariamente a quanto si crede, non andiamo in giro a sparare alle persone solo perché sospettiamo che siano colpevoli. Ma almeno, una volta che sono state condannate, una pallottola in testa è meglio di dieci anni nel braccio della morte, a perdere speranza e salute per poi friggere comunque sulla sedia elettrica. Mi pare una definizione di tortura degna di Amnesty International.» «L'ultima moda sembra l'iniezione letale» tagliò corto Margaret cercando di metter fine all'argomento. Non voleva essere coinvolta in una discussione sulla pena capitale. «Immagino, dunque, che non abbiate niente di concreto contro questo tipo, questo "Ago".» «No, non l'abbiamo.» «E allora perché vuole portarmi con lei?» Margaret desiderava moltissimo accompagnarlo, ma non voleva farglielo capire. «Non desidero portarla... per un motivo particolare» rispose lui in tono indifferente. Non voleva sembrarle troppo ansioso, ma, nello stesso tempo, non voleva scoraggiarla. «Pensavo che avrebbe potuto imparare qualcosa.» «Ma davvero!» esclamò lei sfilandosi i guanti. «Per esempio, come si fa a impiegare due anni per risolvere un caso di omicidio?» CAPITOLO SESTO Mercoledì pomeriggio 1
Quando le comunicarono che non avevano più bisogno di lei Lily si indispettì. Guardò torva Li Yan e Margaret lasciare l'università sulla jeep della polizia e si avviò tutta impettita verso l'amministrazione, meditando vendetta. Dopo lo scambio di battute pungenti avvenuto poco prima nella sala anatomica, Li Yan si era fatto freddo e distaccato. Margaret si chiese se fosse una reazione alla sua battuta sul fatto che ci volessero due anni per risolvere un caso di omicidio o solo la replica dell'improvviso mutamento di umore cui aveva assistito il giorno prima. Nonostante fosse stato lui a domandarle di accompagnarlo, sembrava che la sua presenza lo infastidisse. In un silenzio imbarazzante si diressero verso est attraverso il traffico del tardo pomeriggio lungo Xuanwumen Xidajie, un groviglio di superstrade a sei corsie che segnavano il confine della città interna. A un certo punto, Margaret sbottò seccata: «Guardi, se non mi vuole tra i piedi, basta che me lo dica. Si fermi, così torno all'università in taxi». «Ma che cosa sta dicendo?» Lui parve perplesso, ma non si fermò. «Sto dicendo che è evidente che ogni minuto che deve passare in mia compagnia le pesa. Forse lei non lo sa, ma non è stata una mia idea farmi coinvolgere in tutta questa faccenda. Non sono stata io a offrirle il mio aiuto, ma lei a chiedermelo!» «Non io, il mio capo.» «E non le dà fastidio che il suo capo abbia pensato di avvalersi dell'aiuto di una straniera?» «Io non ho bisogno del suo aiuto» disse, lanciandole un'occhiata furibonda. «No? E senza di me quanto avrebbe impiegato a identificare Chao Heng?» «L'avremmo identificato in tempo» ribatté lui con tono fermo e controllato. «Sì, fra sei settimane. E, nel frattempo, probabilmente avreste continuato a pensare a un suicidio. Allora, vuole farmi scendere o no?» Lui proseguì senza rallentare. «Sa, quello che non capisco è, prima di tutto, perché è venuta qui.» Sapeva che, su questo terreno, lei era molto vulnerabile. «Non sono affari suoi!» «Voglio dire, quando sono andato negli Stati Uniti, ho passato vari mesi a documentarmi sulla Costituzione americana, sul sistema giudiziario, sulla cultura... Ah ah!» Rise forte. «Se è possibile usare le parole "americano"
e "cultura' nello stesso contesto.» Margaret lo fulminò con un'occhiata. «Invece lei decide di venire in Cina e che cosa fa? Niente. Non si prepara, non sa niente del nostro sistema giudiziario, della nostra storia, della nostra cultura, niente di niente. È in questo paese da soli cinque minuti e già pontifica per la strada sull'atteggiamento degli uomini riguardo alle donne al volante. Va in un ristorante e si mette a litigare offendendo i suoi ospiti che hanno speso un sacco di soldi per offrirle un banchetto di benvenuto.» «Di benvenuto?» Margaret esplose. «Da quando sono arrivata in questo stramaledetto paese, tutti continuano a dirmi che cosa devo evitare di fare o di dire per non urtare la vostra delicata suscettibilità. Sa una cosa? Dovreste essere meno formali e raggiungere il resto del mondo in quello che sarà il xxi secolo.» Fece un gesto con la mano per impedire una replica. «E non mi parli dei vostri cinquemila anni di storia! Ho già sentito la lezione: avete inventato la carta, la stampa...» «...la balestra, gli ombrelli, il sismografo, il motore a vapore, circa mille anni prima che gli europei ci pensassero.» «Gesù» supplicò lei. «Mi risparmi tutto questo, la prego.» Ma ormai lui era scatenato. «E l'America che cosa ha dato al mondo? Hamburger e hot dog?» «Abbiamo inventato la lampadina elettrica, il modo di produrre l'elettricità su larga scala, il grammofono, il cinema» ribatté lei, punta sul vivo. «Abbiamo mandato il primo uomo sulla Luna, inventato il microchip e il personal computer e sviluppato le tecnologie che permettono alla gente di comunicare in tutto il mondo in frazioni di secondo. Tutto quello che avete fatto voi l'avete fatto nel passato e potete solo guardarvi indietro. Noi invece facciamo tutto adesso.» Li Yan avvampò di rabbia e strinse con forza le mani intorno al volante. «Ma davvero? E adesso che cosa state facendo?» Alzò una mano per impedirle di rispondere. «Aspetti, glielo dirò io. Correte avanti e indietro per il pianeta come bulletti prepotenti. Vi siete autoproclamati poliziotti del mondo e dite a tutti noi come dobbiamo vivere e comportarci. E, se non ci inginocchiamo e ci sottomettiamo al vostro codice morale, ci date un bel pugno sul naso. Predicate la libertà e la democrazia, ma praticate la discriminazione politica e razziale.» «Ma senti chi parla! I paladini della difesa dei diritti umani!» Li Yan svoltò bruscamente a sinistra, strombazzando e guidando come un pazzo. Oltrepassarono il mausoleo di Mao e la grande spianata di piazza Tien-An-Men e si diressero verso Donchang'an Jie. Margaret cercò di im-
maginarsi i carri armati che avanzavano per le strade e la piazza gremita di studenti. Ricordava chiaramente le immagini che avevano fatto il giro del mondo: lo studente fermo davanti al carro armato che cercava di non farlo avanzare e l'autista che tentava di passargli accanto senza urtarlo. Quante lacrime amare dovevano essere state versate, insieme al sangue! Scosse la testa. «È stupido. Stiamo facendo proprio quello che porta la gente alla guerra: discutere delle differenze. E invece sono proprio le differenze a renderci... così umani, così unici.» Li Yan taceva. «Dove stiamo andando?» chiese Margaret, anche per spezzare il silenzio. Voleva che lui parlasse, che dicesse qualcosa. «All'Hard Rock Café» rispose Li Yan, senza aggiungere altro. L'atmosfera tra loro restò cupa. L'Hard Rock Café era accanto alle Landmark Towers, oltre Dongsanhuan Beilu. Margaret seguì Li Yan su per gli scalini rossi e neri, passarono sotto una grande stella rossa a cinque punte che sovrastava la scritta: «Vietate le droghe e le armi atomiche». Era più di un quarto d'ora che i due non si rivolgevano la parola. Il locale era affollato e l'atmosfera vivace. Il personale, in camicia verde smeraldo e jeans neri, serviva il pranzo a giovani del jet set pechinese e a un gruppetto di turisti e di stranieri residenti nella capitale. Li Yan disse qualcosa a una giovane e graziosa cameriera, la quale annuì, indicandogli un séparé all'altro angolo della sala. Li Yan vi si diresse, seguito da Margaret, che depressa e contrariata si stava domandando che cosa ci facesse lei in quel posto. Quando furono vicini al séparé, osservò i quattro giovani che lo occupavano: indossavano abiti costosi, e avevano un ottimo taglio di capelli e le mani ben curate. Erano diversi da tutti i cinesi che aveva visto fino ad allora: trasudavano ricchezza. All'arrivo di Li Yan, sulla loro conversazione calò il gelo e uno di loro interruppe bruscamente una telefonata sul cellulare. L'uomo seduto nell'angolo più lontano sorrise mostrando denti forti da predatore. Margaret notò che non era così giovane come le era sembrato a prima vista; doveva avere circa trentacinque anni. La sua sicurezza e l'atteggiamento deferente degli altri tre indicavano chiaramente che Ago era lui. Poteva darsi che spacciasse droga, ma non sembrava proprio il tipo da farne uso. «Bene, bene» esordì, sempre sorridendo. «Guarda chi c'è: il signor Li Yan, il nostro caro poliziotto della porta accanto. Ho sentito dire che ti sei fatto promuovere. Congratulazioni.» Gli tese la mano, ma Li Yan l'ignorò. «Ho bisogno di parlarti.»
«Ma davvero?» Ago lanciò un'occhiata a Margaret. «E questa chi è, la tua ragazza?» «È un'osservatrice americana.» «Un'osservatrice?» chiese, con un'espressione di sorpresa esagerata. «E che cos'è venuta a osservare? Il modo in cui i poliziotti di Pechino infastidiscono i cittadini innocenti?» «No, è qui per osservare quanto i cittadini innocenti siano ansiosi di collaborare con la polizia.» «Sa il cinese?» chiese, guardando Margaret con diffidenza. «No.» «Ehi, bella signora, vuoi scopare?» disse allora in cinese rivolto a Margaret. «Parlava con me?» chiese Margaret confusa a Li Yan. «Sì» rispose Ago passando all'inglese. «Le ho chiesto come sta.» «Ti devo parlare per qualche minuto» intervenne Li Yan ignorando quello scambio di battute. «Allora parla.» «In privato.» «Dove?» si informò Ago. «Nella jeep: è qui dietro, nel parcheggio.» Ago esitò. «Non hai niente da nascondere, vero?» continuò Li Yan. «Quindi non devi preoccuparti. Mi serve solo una piccola informazione.» Ago rifletté un momento, poi si pulì la bocca con il tovagliolo e si alzò. «Solo dieci minuti, ho molto da fare.» «Che succede?» chiese Margaret a Li Yan, sottovoce. «Stiamo solo andando a fare quattro chiacchiere» rispose lui con un tono di voce che la preoccupò. Anche il suo sguardo era insolitamente freddo e duro. La jeep era nel parcheggio del Landmark Towers Hotel. Margaret si sedette dietro, Ago davanti. Li Yan mise in moto. «Ehi!» protestò Ago. «Non mi avevi detto che saremmo andati a fare un giro!» «Solo una passeggiatina» disse Li Yan, imperturbabile. «Così potremo parlare meglio.» «Ma dove andiamo?» «In un posto tranquillo dove nessuno ci disturberà. So bene quanto tu ci tenga al tuo buon nome. Non vorrai farti vedere in giro con uno sbirro, vero?» «Fermati subito e fammi scendere!» Ago cominciò ad allarmarsi. «Non
era nei patti!» Li Yan svoltò verso sud sulla Dongdoqiao. «Ti stai dimostrando assai poco collaborativo con la polizia. Non vorrai dare un'impressione sbagliata alla nostra osservatrice americana!» «Al diavolo la vostra osservatrice americana! Fammi scendere!» Cercò di aprire la portiera, ma Li Yan l'aveva bloccata. «Che succede?» chiese allora Margaret, piuttosto preoccupata. «Niente, solo una normale violazione dei diritti umani» rispose Li Yan. Svoltò bruscamente a destra e varcò un cancello che immetteva in un vasto terreno su cui incombeva il gigantesco Stadio dei Lavoratori. Alcune camionette, piene di soldati in tuta mimetica per un'esercitazione, passarono loro accanto. Li Yan fermò la jeep in prossimità di una delle rampe di accesso allo stadio. Spense il motore e disattivò la chiusura centralizzata delle portiere. «Scendi» ordinò ad Ago. Ago saltò fuori dalla jeep. «Che cazzo hai in mente?» Li Yan girò intorno al cofano dell'auto e afferrò l'uomo per il bavero. «Che sta facendo?» gli chiese Margaret allarmata. Li Yan trascinò l'uomo riluttante su per la rampa. Ago si guardò intorno disperato in cerca di un essere umano: una persona, un testimone. Ma non c'era nessuno, tranne Margaret che arrancava dietro di loro, imprecando contro Li Yan. Li Yan sospinse Ago. Margaret li seguì. Nei giorni in cui giocava la nazionale di calcio, su quelle gradinate, adesso vuote, sedevano sessantamila tifosi che inneggiavano a gran voce alla loro squadra. Ora, invece, il silenzio era irreale e i passi di Li Yan e Ago echeggiavano sinistri nell'enorme catino dello stadio. Margaret avvertì una sensazione di gelo sul collo. «Li!» chiamò ma l'uomo non le prestò ascolto; teneva Ago stretto per il bavero della camicia, quasi soffocandolo. Il trafficante di droga, di solito gelido e sicuro di sé, sembrava adesso un bambino piagnucolante. Con la mano libera, Li Yan estrasse un grosso revolver dalla fondina sotto l'ascella e lo puntò contro la fronte di Ago. Aveva il volto pallido e tirato, gli occhi scurissimi. Margaret li raggiunse correndo. «La smetta!» sibilò. Ago le rivolse un'occhiata terrorizzata. Margaret avrebbe potuto essere un'alleata, una testimone in grado di trattenere quel pazzo. Ma Li Yan la ignorò. «Parlami di Chao Heng e di Mao Mao.» Per un attimo, sul viso del trafficante di droga il terrore lasciò il posto allo sbalordimento più totale. «Ma che cosa dici?» «Sai benissimo che tutto quello che mi dirai resterà tra noi. La donna
non capisce il cinese e io non posso usare contro di te informazioni estorte con la violenza. Quindi, fa' un favore a tutti e due e dimmi quello che voglio sapere.» «Ma non so di che cosa parli!» Li Yan fece un profondo sospiro. «Bene, allora dovrò ricorrere alle maniere forti.» «Che cosa?» Ago era in preda al panico. Il poliziotto lo fece voltare e lo costrinse a inginocchiarsi. «A che gioco vuoi giocare? Non la passerai liscia!» Ago cercò di alzarsi, ma Li Yan lo spinse di nuovo a terra. «Aiuto!» gridò a Margaret, in inglese. Lei se ne stava in disparte, respirava affannosamente e aveva gli occhi fiammeggianti di paura e di rabbia: paura per quello che poteva accadere, rabbia per essersi fatta portare in quel luogo. «Non voglio assolutamente essere coinvolta in tutto questo.» «Non si preoccupi, non lo sarà.» La donna si guardò intorno. Non vedeva vie di scampo; la porta da cui erano entrati si era richiusa. «Se fa del male a quest'uomo, testimonierò contro di lei.» «Davvero? Lui traffica in miseria e morte. Lui ha rovinato migliaia, forse decine di migliaia di vite umane e lei vuole testimoniare contro di me?» «Perché mi ha portata qui?» «Per guardare» rispose lui, fissandola intensamente. Ago stava cercando di allontanarsi strisciando furtivamente, quando Li Yan se ne accorse e tornò a concentrarsi su di lui. «Non muoverti! Voglio darti ancora una possibilità, forse più di una.» Fece scattare il tamburo della pistola e tolse i proiettili, lasciandone uno solo. «Facciamo un gioco inventato dai nostri vicini russi.» Rimise a posto il tamburo. «Dio santo!» Margaret si spostò verso il centro del campo e voltò loro le spalle. Non aveva la forza per fermarlo, ma per nulla al mondo avrebbe guardato quello spettacolo. Ago la seguì con lo sguardo, in preda a una disperazione crescente. Quella donna non avrebbe fatto niente per lui. Il poliziotto lo fece inginocchiare e gli appoggiò la pistola contro la nuca. Sentiva la punta fredda e dura della canna contro la pelle. «Bene, ti farò la stessa domanda di poco fa» sibilò Li. «Non so di che cosa parli, te l'ho detto.» Ago ebbe il presentimento che il poliziotto non avrebbe premuto il grilletto. Non in presenza dell'americana. Era evidente che tra i due c'era un certo attrito. Ma poi sentì il movi-
mento della pistola che si preparava a sparare e, quasi contemporaneamente, un fiotto caldo di urina gli bagnò le cosce. Margaret avvertì lo scatto del revolver, e si girò incredula a guardare Li Yan. Dentro di sé era convinta che non avrebbe sparato. «Gesù!» «Parlami di Chao Heng!» ripeté Li. «Te l'ho detto...» iniziò a piagnucolare Ago. Crac! La pistola era pronta a sparare di nuovo. «Li Yan, per amor del cielo!» gridò Margaret. «Parla!» disse Li Yan con voce dura, ma controllata, poi sbatté le palpebre e scosse la testa, mentre un rivolo di sudore gli scendeva dalla fronte. Ago sentì di nuovo la pistola scattare. «Va bene, va bene!» «Sono tutt'orecchi.» «Chao Heng era un tipo conosciuto: frequentava i club della città cercando di rimorchiare i ragazzini. Più erano giovani, meglio era, lo sapevano tutti.» Ago balbettava, impaurito come un bambino. «Non lo conoscevo personalmente, solo di vista. La roba la prendeva da un certo Liang Daozu.» «Uno dei tuoi?» «Io non ho nessuno» urlò e sentì la canna del revolver premergli contro il collo. «D'accordo, uno dei miei.» «E che mi dici di Mao Mao?» «Che cosa vuoi sapere?» «Era legato a Chao Heng?» «Non lo so.» Di nuovo la canna del revolver gli affondò nella nuca. «Accidenti! Non sapevo neanche che si conoscessero! Mao Mao era uno spacciatore di mezza tacca, non frequentava lo stesso giro di uno come Chao Heng.» «O come te?» «O come me, sì. Merda, io non vado a spacciare per le strade, non l'ho mai fatto. Lo fanno solo i tossici e i perdenti come Mao Mao.» «Può darsi che a Mao Mao piacessero i ragazzini come a Chao?» «Che io sappia, no.» E non lo sapeva nessuno. Li Yan aveva letto le deposizioni dei parenti e degli amici dello spacciatore assassinato. Da qualche parte, Mao Mao aveva avuto una moglie e un figlio e tutta una serie di amanti. Li Yan sentì che l'adrenalina stava a poco a poco lasciando il posto alla delusione. Inginocchiato davanti a lui c'era Ago, pronto a confessare qualunque cosa. Le sue parole, tuttavia, non solo non potevano essere usate contro di lui, ma
non erano neppure utili alle indagini. Tirò indietro il grilletto. «Cazzo, ma che fai! Ti ho detto quello che volevi sapere» imprecò Ago. Li Yan lo buttò a terra e quello rimase immobile e incredulo, paralizzato dalla paura. Li Yan allungò il braccio puntandogli la pistola in faccia. «Li!» Margaret aveva fatto un passo verso di lui, pensando che fosse tutto finito. Li Yan azionò il revolver una volta, due, tre. Ago urlò: un lungo grido angosciato. «E così fanno sei» disse Margaret, sentendo il suo cuore fermarsi. Ago rivolse uno sguardo incredulo a Li Yan, che allungò il braccio sinistro verso Margaret e aprì la mano. Nel palmo aveva sei pallottole. «La rapidità della mano inganna l'occhio» commentò cupo. Margaret chiuse gli occhi. Avrebbe voluto prenderlo a pugni, calci, morsi. «Bastardo!» Il poliziotto la ignorò, infilò il revolver nella fondina e mise i proiettili in tasca. Si chinò e aiutò Ago a rialzarsi. «Penso proprio che oggi tu abbia perso un po' la faccia.» Ago non fiatò. «La prossima volta che vai allo stadio, spero che ti ficchino davvero una pallottola nel cranio e che con un po' di fortuna, ti porti via tutta la faccia.» Mollò la presa e Ago ricadde sulle ginocchia. Li Yan guardò disgustato la macchia di urina sui pantaloni dell'uomo. «Ti avrei dato un passaggio, ma non voglio che mi sporchi la jeep. E poi forse vorrai cambiarti prima di tornare dai tuoi.» Ago gli lanciò un'occhiata carica di odio. Avrebbe voluto ucciderlo. 2 «Mi riporti subito all'università!» intimò Margaret, furiosa. «Certo» acconsentì Li Yan. Restarono per un po' in silenzio. «Aveva pianificato tutto, vero?» chiese lei, non riuscendo a trattenere l'ira. Lui scrollò le spalle. «E qualcuno allo stadio sapeva che stavamo arrivando.» «Ho i miei contatti» disse Li. «È stata una cazzata, una vera cazzata. Non ho mai visto niente del genere.» «Strano, è un trucchetto che ho imparato da un paio di poliziotti di Chicago! L'avevano messo in scena apposta per me. Un piccolo spacciatore che sapeva qualcosa di un pesce più grosso. L'hanno spaventato a morte e lui ha spifferato tutto.»
Margaret lo fulminò con lo sguardo. «Non è una giustificazione, né per loro, né per lei.» «Perlomeno ho risparmiato ai miei collaboratori settimane di lavoro alla ricerca di un collegamento che non esiste.» «Come fa a saperlo?» «Se ci fosse stato un legame tra Chao Heng e Mao Mao sulla droga, Ago l'avrebbe saputo. Non so perché, ma mi è sembrato sincero.» Le lanciò una rapida occhiata. «Non verserei troppe lacrime su quell'uomo, si riprenderà.» «Non me ne frega nulla di Ago. È la posizione in cui mi ha messa allo stadio. Se avessi saputo che nella pistola non c'erano proiettili...» «Avrebbe approvato?» «No di certo.» «Per questo non gliel'ho detto. Non ero nemmeno sicuro che sarei riuscito a farla venire nello stadio.» «Oh, adesso dovrei sentirmi onorata? Gesù!» Batté i pugni sul cruscotto. «Ma perché mi ha portata?» «Era così pronta a credere alla violazione dei diritti umani in Cina che ho pensato le facesse bene vederne un esempio pratico, così come ci è stato trasmesso dagli americani.» «Non confondiamo i diritti umani con i diritti civili! Quella che ha visto compiere dai poliziotti in America è violazione dei diritti civili di quel ragazzo. I due poliziotti hanno infranto la legge. Posso inoltre assicurarle che quella non è una pratica comune.» «Neanche in Cina.» «Ma davvero? Cioè in Cina non avvengono violazioni dei diritti civili o umani?» «Non sotto i miei occhi.» «Quindi, oggi era la prima volta che lei faceva una cosa del genere?» «Sì.» «Come no!» Li Yan scorse l'espressione dubbiosa sul volto di Margaret. «Lo giuro, era la prima volta.» Il suo sguardo era sincero e Margaret ne fu sconcertata. «Come uomo, sarei stato ben felice di uccidere Ago; come poliziotto, considero un'azione del genere contraria ai miei principi. Mio zio si vergognerebbe di me. Direbbe che la forza e l'equilibrio del sistema giudiziario sono la misura di una civiltà, e avrebbe ragione. E non mi avrebbe dato ragione se gli avessi spiegato che non potevamo permetterci di sprecare set-
timane, mesi, forse anni per cercare l'assassino. Avrebbe risposto che la mia intuizione doveva essere confermata dal lavoro in vestigativo.» Nonostante tutto, Margaret era incuriosita. «Quale intuizione?» «Se lo sapessi, forse oggi non avrei dovuto recitare quella scena. C'è qualcosa... qualcosa di strano in questi omicidi. In ciò che già sappiamo c'è qualcosa che mi sfugge, che mi tormenta, ma che non sono ancora riuscito ad afferrare. Così ho preso quella scorciatoia illegale perché ho la vaga sensazione che non possiamo permetterci di perdere tempo.» «Pensa che l'assassino possa uccidere ancora?» «Non lo so.» Erano fermi a un semaforo. Li Yan si girò a guardarla e vide l'ombra del dubbio sul suo viso. «Non ha mai avuto un'intuizione, una sensazione che non è riuscita a spiegare?» Margaret aveva un nodo in gola, che le impediva di parlare. Ricordava come aveva lottato contro il suo istinto, abbandonandosi a una fiducia cieca in Michael, una fiducia che andava al di là di qualsiasi ragionevole aspettativa. Ora le riusciva difficile capirne il perché. Avrebbe dovuto saperlo. Distolse lo sguardo e annuì. «Sì, e purtroppo non l'ho seguita.» Strinse i pugni con tanta forza che le nocche sbiancarono. Oltrepassarono Wangfujing Dajie, imboccarono Wusi Dajie, e raggiunsero Jingshanquan. L'auto davanti a loro frenò improvvisamente per evitare un bambino, sbandò urtando contro la fiancata di un filobus, finì di traverso nella corsia opposta e si fermò su una pista ciclabile. Dall'ingorgo si levò un coro di clacson, la strada si trasformò in un campo di battaglia. Miracolosamente illeso, il bambino che aveva provocato l'incidente scappò via lungo il marciapiede. Le persone che erano state sbalzate dalle loro biciclette si rialzarono tutte impolverate esaminando tristemente le ruote bucate e i telai deformati, si misero a imprecare contro gli automobilisti o a litigare tra loro. Sul frastuono dei clacson e lo strepito delle voci e dei motori ingolfati a un certo punto si levò l'urlo ripetuto di una donna. Dopo aver piazzato la jeep di traverso sulla strada e sistemato il lampeggiante rosso sul tetto, Li Yan fece una chiamata urgente con la radio. Margaret era incolume, anche se piuttosto scossa. Uscì dalla jeep e si mise a correre tra i veicoli e le persone che continuavano a litigare sulla strada. Intorno all'auto che aveva provocato l'incidente si era raccolta una piccola folla. La donna continuava a urlare; dalla folla si levò un coro di voci iste-
riche. L'americana vide i resti contorti di una bicicletta sotto la ruota anteriore della macchina e una donna intrappolata in quel groviglio. Aveva una ferita alla gamba sinistra da cui il sangue sgorgava a fiotti. Li Yan fece capolino alle spalle di Margaret. «Se non fermiamo rapidamente l'emorragia, morirà» gridò la ragazza. «Dobbiamo assolutamente tirarla fuori di lì.» Li Yan assunse il controllo della situazione, impartendo velocemente comandi ad alcuni uomini che si erano fatti avanti. Riuscirono a sollevare la macchina. Margaret afferrò la donna sotto le ascelle e la tirò verso di sé. Le sue grida si erano fatte sempre più deboli. C'era sangue dappertutto. «L'ambulanza sta arrivando» disse Li Yan. «Non c'è tempo! La tenga giù!» gli urlò Margaret. E, sotto gli sguardi stupiti del poliziotto e dei presenti, cercò di fermare l'emorragia. La donna si dibatteva e urlava cercando di liberarsi di Margaret. «Per amor del cielo, la tenga ferma! Ha l'arteria femorale recisa e questo è l'unico modo per cercare di bloccare l'emorragia.» Li Yan si era accovacciato accanto alla testa della donna e le teneva con forza le braccia. Le prese la testa in grembo e cercò di calmarla e rassicurarla, parlandole con dolcezza. La donna abbandonò ogni resistenza, si rilassò e cominciò a piangere. Margaret era riuscita a fermare l'emorragia, ma la donna aveva perduto molto sangue. Era sulla quarantina, aveva una corporatura massiccia e il volto dai lineamenti appiattiti delle contadine. Il vestito blu di cotone stampato era inzuppato di sangue e il nastro che le tratteneva i capelli si era sciolto. Si udì in lontananza il suono delle sirene. Qualche minuto più tardi, alcuni paramedici si fecero largo tra la folla con una barella e Margaret lasciò loro campo libero. Per ordine dei vigili che cercavano di riportare il traffico alla normalità, la folla iniziò lentamente a disperdersi. Li Yan prese delicatamente Margaret per un braccio e la guidò verso la jeep. Aveva macchie di sangue dappertutto. «Devo andarmi a cambiare.» «L'accompagno in albergo» disse Li avviando la jeep. 3 «L'aspetto qui.» Li Yan aveva parcheggiato nello spiazzo antistante l'ingresso dell'albergo. «Non sia ridicolo» disse Margaret, saltando fuori dalla jeep. «Salga con me. Deve darsi una lavata, ha le mani e la faccia piene di sangue.»
Li Yan si guardò le mani e constatò che effettivamente erano macchiate di sangue rappreso, come pure i pantaloni e la giacca. Scese controvoglia dalla jeep e seguì Margaret. La stanza in cui alloggiava era tranquilla e lussuosa, arredata in tinte chiare, nelle quali risaltava violento il colore sanguigno della testiera di seta del letto. Un ambiente del tutto privo di personalità e anonimo. Margaret buttò la borsa sul letto. «Faccio una rapida doccia e mi cambio, poi le cedo il bagno.» Prese il telecomando e accese il televisore. «Così non si annoierà» e sorrise. La CNN stava trasmettendo un servizio sull'inondazione che aveva colpito improvvisamente la parte settentrionale della California. Li Yan udì il rumore dell'acqua che scorreva nella doccia. Si mise a girellare per la stanza, su un tavolino c'erano accessori per il trucco e creme, una mappa di Pechino e una guida. Gli cadde l'occhio su un dizionario tascabile di cinese e si mise a sfogliarlo, fermandosi qua e là, a caso. Poi prese in mano una spazzola e ne tolse alcuni capelli dorati impigliati tra le setole: erano morbidissimi e sottili. Li annusò poi, d'impulso, se li avvolse intorno all'indice formando un ricciolo che infilò con cautela tra le pagine di un piccolo notes che teneva nel taschino. Lo scrosciare dell'acqua nella doccia cessò e la porta del bagno si aprì leggermente, con un lieve cigolio. Guardando nello specchio sopra il cassettone Li Yan vide, attraverso lo spiraglio, un asciugamano giallo chiaro appoggiato sopra la tenda della doccia, e poi il corpo nudo di Margaret, magro, candido e tentatore. I seni sodi si muovevano leggermente mentre lei si strofinava con l'asciugamano. Li Yan distolse subito lo sguardo e arrossì, sentendosi in colpa per averla spiata. Ma, di lì a un attimo, i suoi occhi tornarono a cercarla e catturarono una fuggevole visione delle natiche rosee, simili a due mezze pesche, e dei muscoli sodi delle cosce. Seguendo con lo sguardo la linea inarcata della schiena fino alle spalle ben disegnate, vide che lei aveva girato la testa e stava osservando nello specchio il riflesso di lui che la guardava. Abbassò immediatamente gli occhi, imbarazzato come un bambino colto a spiare la sorella mentre si spoglia. Il cuore gli martellava nel petto e le mani gli tremavano. Che dirle? Come scusarsi? Quando risollevò lo sguardo, si accorse che Margaret si era spostata ed era uscita dal suo campo visivo. Ma non aveva chiuso la porta. Pensò che, forse, non le dispiaceva che lui la guardasse. Sapeva che lui poteva vederla e forse lo desiderava. Si avvicinò alla finestra cercando di analizzare i suoi sentimenti, così confusi e ambigui. Margaret era irritante, arrogante... ma molto attraente. Lo man-
dava in bestia e al tempo stesso lo stimolava. Alcune volte aveva voglia di prenderla a schiaffi, altre volte invece desiderava toccarla, sentire la morbidezza della sua pelle candida, far scorrere la mano attraverso i capelli di seta e sentire le sue labbra morbide contro le sue. Ma, più di tutto, l'attraevano i suoi occhi azzurri provocanti. Decise di non dire nulla, di fare finta di niente. Quando uscì dal bagno, Margaret indossava un vestito di cotone giallo, senza maniche, con la scollatura quadrata e la vita alta. Calzava sandali color crema con il tacco basso, che accentuavano la curva dolce dei polpacci. Le lentiggini risaltavano sulla pelle leggermente arrossata. Stava strofinando i capelli bagnati con un asciugamano e teneva la testa inclinata da un lato. A Li Yan sembrò bellissima, in quel momento. «È tutto suo» disse Margaret indicandogli il bagno, come se non fosse successo nulla. «Come farà per i vestiti?» «Dovrò passare da casa a cambiarmi» rispose lui entrando nel bagno per sciacquarsi le mani e la faccia. Poi, mentre si dirigevano in macchina a casa sua, le domandò se quel pomeriggio dovesse fare lezione. «No, devo solo preparare quella di domani. Anche se, a dire il vero, non ce ne sarebbe bisogno, visto che ormai la so a memoria. Perché me lo chiede?» Lui sembrava imbarazzato. «Le farebbe piacere venire in ufficio con me? Dovrebbero esserci i risultati del test del DNA sui mozziconi di sigaretta e dell'analisi del sangue trovato sulla moquette dell'appartamento di Chao Heng.» «Il suo sangue?» domandò Margaret incuriosita. «È proprio quello che stiamo cercando di scoprire.» Lei rimase un attimo pensierosa. «Sì, mi piacerebbe» dichiarò e, dopo una pausa, aggiunse: «Mi parli del sangue che avete trovato nell'appartamento». Lui le raccontò del lettore di CD in pausa, della bottiglia vuota sul terrazzo, dei mozziconi nel portacenere, della lampadina mancante sopra la porta d'ingresso dello stabile. Le fece un quadro degli eventi di quella notte, così come lui se li immaginava: Chao Heng era stato costretto a tornare nel suo appartamento sotto la minaccia di una pistola, poi era stato colpito alla testa e narcotizzato. La macchia di sangue trovata sulla moquette apparteneva senz'altro a lui e le analisi avrebbero dimostrato che risaliva a dodici-quattordici ore prima. L'assassino aveva portato giù per le scale il
suo corpo svenuto, e si era chiuso la porta alle spalle. Poi si era diretto al parco, aveva aspettato tra gli alberi e infine aveva dato fuoco a Chao e se n'era andato indisturbato qualche secondo prima del ritrovamento del corpo ancora avvolto dalle fiamme. Margaret l'ascoltò in silenzio. «Non avevo mai riflettuto sul piano messo in atto dall'assassino, non così in dettaglio. Nel mio lavoro si è così concentrati sui particolari della morte che si finisce per dedicare scarsa attenzione al movente.» Tacque un attimo, pensierosa. «A pensarci bene, è davvero strano che l'assassino si sia dato tutto quel daffare. Dopotutto, come suicidio non è risultato particolarmente convincente.» Si interruppe ancora. «È sicuro che ci sia un nesso fra i tre omicidi?» «No.» «Voglio dire, sono tutti opera di un professionista, ma gli altri due sono semplici, senza complicazioni, quasi casuali. Invece l'assassinio di Chao Heng è... strano e ritualistico e, se le sue supposizioni sono esatte, è stato minuziosamente pianificato ed eseguito. Ha escluso che il legame possa essere la droga, no?» Lui annuì. «Quindi, l'unico nesso è rappresentato dai mozziconi di sigaretta. È una cosa molto bizzarra. C'è qualcosa che non va, proprio non va.» Per un istante capì l'ossessione di quell'uomo ed ebbe anche lei una sensazione vaga ed effimera che avrebbe potuto chiamare istinto, una sensazione che la lasciò incerta e a disagio, ma incuriosita. «Mi parli di Chao Heng.» Mentre percorrevano Chang'an Jie, lui le riassunse il contenuto del fascicolo sulla vittima. «È andato in pensione per motivi di salute? Che cos'aveva?» «Non lo so. Il suo armadietto del bagno era pieno di medicine.» Li Yan svoltò in Zhengyi Dajie e parcheggiò davanti allo stabile in cui abitava. «Sarò di ritorno in cinque minuti.» Margaret lo guardò allontanarsi e, per la prima volta, ne notò i fianchi stretti, le spalle ampie e la forma piacevolmente squadrata della testa. Da come si muoveva, con i muscoli tonici e tesi, si capiva che era in forma. Di solito, il corpo era l'ultima cosa che l'attraesse in un uomo. Erano gli occhi a colpirla, finestre dell'anima rivelatrici della personalità di un individuo. Le piacevano gli uomini intellettuali, dotati di senso dell'umorismo. Certo, anche la mascolinità era importante, ma il tipo macho l'aveva delusa. Li Yan era lunatico, sempre sulla difensiva e permaloso, ma i suoi occhi le dicevano che, se solo fosse riuscita ad avvicinarlo, sicuramente le sarebbe piaciuto. Non c'erano dubbi sulla sua mascolinità, ma era anche molto sen-
sibile, forse troppo, come rivelavano i suoi frequenti rossori. Senza dubbio, questo aspetto del suo carattere lo imbarazzava, mentre lei lo trovava adorabile. Il senso di colpa che gli aveva letto in viso quando l'aveva sorpreso a osservarla in bagno l'aveva divertita. Ma, a un certo punto, aveva sentito qualcosa, una strana sensazione di desiderio. La stessa che si stava risvegliando adesso. Si sentì avvampare. Inspirò profondamente e chiuse gli occhi. Non doveva assolutamente succedere! Non era fuggita da Chicago, dalla vecchia Margaret, da una vita che andava a rotoli solo per cadere ai piedi di un dannato poliziotto cinese attaccabrighe, gravemente malato di xenofobia. Cercò di concentrare l'attenzione sui delitti, immaginandosi l'appartamento di Chao che Li Yan le aveva appena descritto. Se l'uomo bruciato vivo nel parco era la chiave dei tre omicidi, avrebbero dovuto esserci indizi importanti nel suo modo di vivere, nel suo lavoro, nella sua casa. L'improvviso aprirsi della portiera dell'auto interruppe queste riflessioni. Li Yan indossava una camicia bianca a maniche corte, aperta sul collo, pantaloni neri ben stirati e lucide scarpe marroni. «Molto elegante» commentò Margaret. «Chi le stira la roba? Suo zio?» «Me la stiro da solo» rispose Li Yan arrossendo, e mascherò l'imbarazzo trafficando con la cintura di sicurezza e avviando il motore. Margaret lo guardò, in preda a sentimenti contrastanti. Decisamente, quell'uomo la esasperava. 4 Il quartier generale della Prima Sezione era ancora affollato di gente convocata per testimoniare. Gli uffici ribollivano del calore pomeridiano. I corridoi erano pieni di persone sedute o accovacciate per terra con la schiena appoggiata al muro. Il fumo delle sigarette aleggiava pesante nell'aria immobile formando una nebbiolina. Tutti, a cominciare dagli agenti di polizia, erano irritabili ed esausti. L'afa aveva inumidito perfino i fogli infilati nelle macchine per scrivere. A mano a mano che salivano le scale verso l'ultimo piano, Li Yan e Margaret sentivano la temperatura aumentare e, quando entrarono nella stanza degli investigatori, lui aveva la camicia incollata alla schiena. Al suo arrivo, i colleghi alzarono la testa di scatto e lo guardarono incuriositi, Li Yan sentì un tuffo al cuore. La porta del suo ufficio era socchiusa e la stanza sembrava brillare, come se fosse stata invasa dalla luce sola-
re, anche se lui sapeva che le finestre erano rivolte a nord-est e i raggi del sole filtravano, obliqui, solo di prima mattina. Quando aprì la porta, i colleghi allungarono il collo per vedere l'espressione del suo viso. L'ufficio era irriconoscibile: tutti i mobili erano stati tolti e su un tavolo in un angolo era stato collocato un grande acquario pieno di pesci dorati. Sul davanzale erano sistemati vasi di fiori in boccio e un piccolo albero allungava i rami carichi di foglie carnose verso il centro dell'ufficio. La scrivania adesso si trovava di fronte alla porta, con il lato sinistro rivolto alla finestra. Lo schedario, che prima stava dietro la porta, era stato spostato nell'angolo più lontano. Il pavimento era coperto di teli macchiati di vernice e, in cima a una scala, un imbianchino dipingeva di giallo brillante le pareti che un tempo erano state beige, ma ultimamente erano diventate grigie per il fumo e gli anni. La finestra, non più bloccata, era spalancata, sicuramente per fare uscire l'odore della vernice, pensò il poliziotto, furioso. L'esperto di feng shui del giorno prima anche adesso era seduto a gambe incrociate sulla scrivania in mezzo ai fascicoli di Li Yan ed esaminava un grande foglio aperto davanti a sé. «Molto meglio! Le piace?» chiese sorridendo, poi gli mostrò il foglio. «Il mio piano: feng shui molto buono.» Indicò le pareti. «Giallo, il colore del sole, il colore della vita. Eleva lo spirito e stimola il ch'i. Si sentirà bene, lavorerà meglio.» Sorrise mettendo in mostra i denti guasti. «I suoi uomini sono bravissimi, spostano i mobili molto, molto in fretta.» Li Yan era sbalordito. «Lei ha usato i miei ragazzi per spostare il mobilio?» Sentiva, alle sue spalle, le risate irrefrenabili dei colleghi. Guardò l'acquario e la selva di piante. «Chi pagherà tutto questo?» «Suo zio mi ha detto: non badi a spese. Le vuole molto bene.» Li Yan era sul punto di esplodere. Fulminò con un'occhiata l'imbianchino che seguiva attento la conversazione. «Fuori!» gli intimò. «Ma non ho ancora finito» protestò quello. «Non importa. Togli i tuoi teli dal mio pavimento, prendi i tuoi barattoli e la tua scala e vattene. Questo è un ufficio e io sono nel pieno di un'indagine per omicidio.» «Ma non potrò fare i ritocchi» protestò l'uomo, ma poi si accorse dello sguardo feroce di Li Yan. «Va bene, va bene, me ne vado» e, così dicendo, chiuse la scala e iniziò a raccogliere la sua roba. Li Yan prese l'esperto di feng shui per un braccio e lo fece scendere dalla scrivania. «Dica allo zio che lo ringrazio moltissimo, ma adesso devo lavorare e quindi lei se ne deve andare» disse, trattenendo a fatica la sua ira.
«Farò venire qui l'imbianchino alla fine della settimana» rispose l'esperto di feng shui. «Adesso se ne vada!» «D'accordo.» Si guardò attorno nella stanza e annuì soddisfatto. «Ora lei si sentirà molto meglio.» Margaret sorrideva sulla soglia dell'ufficio. Pur non avendo capito una sola parola, aveva seguito perfettamente la scena. L'imbianchino sbatacchiò la scala, sollevò la latta di colore e corse fuori dietro all'esperto di feng shui. Li Yan fulminò i colleghi che si erano raccolti sulla porta. «Che cosa c'è da guardare?» «Niente, capo» rispose per tutti Wu e guardò la stanza con aria di approvazione. «Grande miglioramento» commentò, scatenando l'ilarità generale. «Fuori!» ordinò Li Yan scuotendo la testa e reprimendo a fatica un sorriso. Alla fine, era riuscito a cogliere anche lui, e suo malgrado, il lato buffo della faccenda. «E se fate qualche cazzata, dò il vostro indirizzo all'esperto di feng shui.» E sbatté la porta. «Così è davvero molto meglio. O, almeno, lo sarebbe se avesse consentito all'imbianchino di finire il suo lavoro» fu il commento di Margaret. «Adesso non cominci anche lei!» Il suo sguardo fu attratto dai verbali accatastati sotto la finestra: sembravano ancora più numerosi. La scrivania era di nuovo ingombra di fascicoli e fogli. «Guarda che montagna di carta! A furia di leggere, prima della fine delle indagini, sarò diventato cieco.» Qualcuno bussò alla porta. «Che c'è?» urlò. Qian infilò dentro la testa. «Perdonami, capo. Ti ho portato i rapporti preliminari della scientifica: sono arrivati per fax circa un'ora fa.» Li Yan gli strappò di mano i fogli e si mise a leggere i risultati dei test del DNA e dell'analisi del sangue trovato nell'appartamento della vittima. Guardò Margaret. «Il sangue sulla moquette era proprio di Chao. E sembra risalire a un periodo compreso tra la notte di lunedì e la mattina di martedì.» «Questo conferma la sua ipotesi.» Lui annuì e riprese a leggere il fax. «Il DNA delle tracce di saliva sulle tre sigarette coincide» disse, reprimendo a stento l'eccitazione. «Gesù! I delitti sono stati commessi dalla stessa persona!» Margaret era seduta alla scrivania di Li Yan. La stanza degli investigatori era vuota: erano tutti in sala riunioni a fare il punto sulle indagini. Osservò le pareti dipinte di fresco e sorrise. Lo zio Yifu era proprio un tipo
testardo. Si chiese se immaginasse quanto il suo atteggiamento imbarazzava il nipote. Da quel poco che sapeva di lui, concluse che sì, doveva immaginarlo. Lo sguardo le cadde sui fax appoggiati sulla scrivania, e lei si chiese come facessero i cinesi a decifrare quegli ideogrammi così strani e complicati. Poi chiuse gli occhi per un attimo, sentendosi in un abisso oscuro. Li riaprì subito, o almeno così le parve. Non si era resa conto di quanto fosse stanca. Il suo cervello non si era ancora regolato sull'ora di Pechino. Guardò l'orologio e le venne un colpo: erano passati venti minuti. Sbatté le palpebre e cercò di concentrarsi su qualcosa: i mozziconi. Sulla scrivania c'era un pacchetto di sigarette; lo prese e ne tolse una. Il tabacco aveva un aroma forte, amaro, come di caffè tostato. Esaminò il leggero disegno sul filtro color sughero e, poco sopra, il nome della marca, in rosso su fondo bianco. Una sola cicca su ogni scena del delitto. Fumata dallo stesso uomo. Che cosa c'era di strano in tutto questo? Be' era evidente: nessun professionista sarebbe stato tanto sbadato. E tuttavia quegli omicidi erano opera di un professionista. Improvvisamente ebbe un'intuizione e si riscosse, con il cuore che le martellava nel petto. Non ci era arrivata prima solo perché era così ovvio! Dall'esterno le arrivò il suono di varie voci: gli uomini tornavano dalla riunione. Li Yan comparve sulla porta. «Ho appena avuto un'intuizione» esordì lei. «Ha fame?» le chiese lui, come se non l'avesse sentita. Margaret si accorse che le brontolava lo stomaco. «Sì. Ascolti, è importante.» «Bene. È da stamattina che non mangio niente. Prendiamo qualcosa al chiosco all'angolo. Poi devo andare al ministero dell'Agricoltura. Se vuole venire...» «Certo che vengo! Li Yan... mi vuole ascoltare o no?» «Ne parliamo per strada.» Le tenne aperta la porta ma, mentre si girava, la catena dell'orologio si impigliò nella maniglia e si ruppe. «Accidenti!» Lei guardò la catena. «Si è solo rotto un anello, si può aggiustare.» «Dopo.» Li Yan si sfilò l'orologio dal taschino e lo lasciò cadere nel primo cassetto della scrivania. «Vorrà dire che mi terrà informato lei sull'ora» aggiunse. Mentre percorrevano il corridoio Margaret faticava a stargli dietro. Li Yan sembrava di nuovo pieno di energia e determinazione. «Ho deciso di smetterla di perdere tempo cercando nessi inesistenti con il mondo della
droga. Così non dovrò più leggere scartoffie.» «Li Yan... I mozziconi...» «E allora?» Erano arrivati alle scale. «Credo di sapere perché ne è stato lasciato uno su ogni scena del delitto.» Lui si fermò di colpo. «Perché?» «L'assassino voleva che voi li trovaste. Voleva farvi pensare a un collegamento.» «Ma perché?» «Non lo so. Se lo sapessimo, non ci troveremmo a questo punto. Ma ha senz'altro più senso che pensare che un tipo così attento e preciso si sia rivelato poi tanto sbadato in questo piccolo particolare.» Li Yan si mise a riflettere. Era in piedi sulle scale, un gradino sotto di lei e Margaret notò che avevano gli occhi alla stessa altezza. Lui, però, non la guardava, perso com'era nei suoi pensieri. Così lei poté osservarlo con calma: quei lineamenti che, in un primo tempo, le erano risultati sgradevoli, ora le sembravano forti e decisi. Il naso pronunciato, la bocca ben disegnata, le sopracciglia folte, gli occhi a mandorla di un marrone caldo e intenso. Aveva la mascella decisa con una fossetta sul mento, e la forma squadrata della testa era evidenziata dal taglio a spazzola dei capelli. La pelle, leggermente bruna, era liscia, a parte le piccole rughe che gli si formavano intorno agli occhi e alla bocca quando rideva. Li Yan si rese conto di essere osservato e rimase per un attimo a fissarla, poi distolse lo sguardo, imbarazzato. «È un'ipotesi interessante, ma non ci fa fare progressi.» Si girò e riprese a scendere le scale. Lei gli tenne dietro, affannata. «Sì, invece. Se l'assassino voleva indurci a fare quel collegamento, avrà sicuramente un motivo.» «Certo, ma conoscerlo non ci serve. Sono altre le informazioni di cui abbiamo bisogno.» «"Be', Margaret, grazie mille per l'informazione. Ci è stata davvero utile"» sbottò lei, seccata. Il tono sarcastico e la lingua tagliente di Margaret gli erano ormai diventate familiari. Decise di fare finta di niente. «Certo» replicò ignorando il tono di Margaret. E sorrise, dentro di sé, al sospiro di esasperazione di lei. Forse stava imparando a prenderla per il verso giusto. Mei Yuan sedeva su uno sgabello vicino al suo trabiccolo all'angolo di
Dongzhimennei. Non c'era un gran giro d'affari ma la donna era contenta lo stesso: aveva più tempo per leggere. Aveva quasi finito le Meditationes. Vide Li Yan che si avvicinava e gli fece un ampio sorriso. «Ehi, Li Yan, hai mangiato?» «Sì, ho mangiato, Mei Yuan, ma ho fame.» «Bene, ti farò un tan bing.» Accese il gas sotto la piastra e guardò Margaret. «Due?» «Due» confermò lui e poi aggiunse, in inglese: «Mei Yuan, ti presento la dottoressa Margaret Campbell, un medico legale statunitense». «Piacere.» La donna le tese una mano grassoccia. «È qui per lavoro o in vacanza?» Margaret si stupì del perfetto inglese di quella che aveva l'aspetto di una contadina. «Tengo un corso all'Accademia di Polizia» rispose. «Ed esercita la professione medica o insegna?» «Esercito la professione. L'insegnamento mi occupa solo occasionalmente. Lei parla un ottimo inglese.» «Grazie. Purtroppo, ormai ho pochissime occasioni per esercitarmi. Sono, come suol dirsi, un po' arrugginita.» «No, mi creda.» E Margaret rivolse un'occhiata incuriosita a Li Yan per avere qualche dettaglio in più. «Mei Yuan si è laureata in Arte e Letteratura all'Università di Pechino verso la fine degli anni Cinquanta» le spiegò. «Ma la vita mi ha portata su una strada diversa dalla carriera accademica» aggiunse Mei Yuan. «Ho trascorso molto tempo in campagna, nell'Hunan. Sono tornata a Pechino solo qualche anno fa, dopo la morte di mio marito.» Poi, rivolta al poliziotto: «Stamattina non ti ho visto». «Era troppo presto, non c'eri ancora.» «Ho pensato che magari il mio enigma era troppo difficile e volevi evitarmi.» «Ma no, l'ho risolto ieri pomeriggio» rispose lui ridendo. «Risolto?» chiese Margaret. «Mei Yuan e io facciamo un gioco» le spiegò lui in tono divertito. «Ogni giorno io mi fermo qui a fare colazione, andando al lavoro. Mei Yuan mi propone un problema o un enigma e io ho tempo fino al giorno dopo per risolverlo. Se la mia risposta è giusta, gliene sottopongo uno io. Un gioco di intelligenza.» «Un gioco di scemenza, per gente che non ha di meglio da fare a quell'ora del mattino» rise Mei Yuan.
«Allora, qual era l'enigma di ieri?» domandò Margaret curiosa. «Due uomini. Il primo possiede tutti i libri e ciò gli permette di accedere alla fonte di ogni conoscenza. La conoscenza è potere, quindi è un uomo molto potente. Il secondo possiede solo due bastoni, e ciò nonostante è più potente dell'altro. Perché?» chiese il poliziotto. Margaret rifletté un attimo. «Ma è facile!» «Certo» commentò Li Yan, scettico. «Da noi si usa dire "Non ha nemmeno due monete da sfregare tra loro" quando si vuole indicare una persona molto povera. Ma se hai due bastoni da sfregare, puoi accendere il fuoco. E quindi puoi bruciare i libri distruggendo il patrimonio di conoscenza che contengono. Se togli la conoscenza, togli il potere.» «Bravissima!» Mei Yuan batté le mani felice. Li Yan era sbalordito e, suo malgrado, ammirato. «Io ci ho messo tutto il giorno a risolverlo.» L'americana sorrise e, mentre l'altra donna preparava i tan bing, le domandò cosa stesse leggendo. «Le Meditationes.» «Di Cartesio?» Margaret era decisamente sconcertata. «Sì, l'ha letto?» «No, e forse avrei dovuto farlo. Ma non si può leggere tutto.» «Se potessi,» disse Mei Yuan «passerei il resto della mia vita a leggere.» Li Yan ripensò ai libri che tappezzavano le pareti della casa di Chao Heng e si domandò se li avesse letti tutti. Margaret addentò il suo tan bing e lo assaporò piano piano. «Mmm... è buonissimo. Ma non mi brucerà la gola, vero?» «No, è solo un po' piccante per via del chili» rise Li Yan. Mei Yuan tese un tan bing a Li. «Allora, che cos'hai per me oggi?» Li Yan aveva la bocca piena; si scusò con un'alzata di spalle. «Non ho avuto il tempo di pensarci, ho un'indagine importante per le mani.» La donna lo minacciò scherzosamente con un dito. «Non è una buona scusa.» «E va bene» si arrese lui. «Che ne dici di questo? Un uomo commette tre omicidi perfetti nella stessa notte. I delitti non hanno alcun collegamento, né tra loro né con il loro autore. Ma, accanto a ogni vittima, l'assassino lascia di proposito un indizio che indica che tutte e tre le vittime sono state uccise dalla stessa persona. Perché?» «Ma non è leale!» protestò Margaret.
Mei Yuan la guardò incuriosita. «Lei conosce già la risposta?» «No.» «Allora dev'essere molto difficile.» Rifletté un momento. «Che indizio lascia?» «Un mozzicone di sigaretta. Sa benissimo che sulla carta rimarranno tracce di saliva e la polizia scoprirà che il DNA della saliva è lo stesso su tutti e tre i mozziconi.» Mei Yuan guardò prima Li Yan e poi Margaret «È successo davvero?» «Purtroppo, sì.» «Allora ci rifletterò e domani ti dirò quello che ho pensato.» «Spero di conoscere anch'io la risposta domani, così potrò dirti se hai ragione o no.» Più tardi, mentre si dirigevano verso nord in mezzo al traffico caotico di biciclette e autobus della stretta Chaoyangmen Nanxiojie, Margaret gli chiese: «Come mai una donna del genere vende cibo all'angolo della strada?». «La Rivoluzione culturale ha rovinato la vita a molti, e lei è fra loro.» Margaret scosse la testa esasperata. «Ma che cos'è stata esattamente la Rivoluzione culturale?» E subito si sentì imbarazzata per la sua ignoranza. «So che dovrei saperlo, ma è avvenuta tanto tempo fa e in un luogo così lontano... dall'America.» Gli scoccò un'occhiata. «Gesù, non mi ero resa conto di quanto ignorassi il resto del mondo finché non sono venuta qui!» Li Yan la guardò e rimase un attimo pensieroso. «Ha presente quella sensazione, che si prova da giovani, di non avere alcun controllo sulla propria vita e di dipendere dalle decisioni degli adulti? e di pensare che, quando si sarà abbastanza grandi da cambiare questo stato di cose, si sarà ormai troppo vecchi per godersi la vita? Be', la Rivoluzione culturale ha capovolto questa situazione: ha dato ai giovani il potere di cambiare le cose finché erano giovani.» Rabbrividì nonostante il calore, sopraffatto da un'ondata di ricordi della sua infanzia. «I giovani venivano a Pechino da tutta la Cina per diventare Guardie Rosse e sfilare di fronte a Mao in piazza Tien-An-Men. Per loro, lui era il sole rosso nei loro cuori. In realtà, erano solo bambini indisciplinati, pazzi scatenati. Attaccavano la gente perché si consideravano "intellettuali". Potevano entrare in casa tua e comandare la tua famiglia. Potevano "criticarti" e costringerti a scrivere saggi di autocritica, o a partecipare a "sessioni di lotta", altrimenti venivi picchiato per puro divertimento. Molti furono imprigionati o mandati nei campi di lavoro, altri uccisi. E quelli che li
ammazzavano non venivano puniti perché il sistema giudiziario si era disgregato e la maggior parte dei poliziotti era in prigione o a rieducarsi attraverso il lavoro in campagna.» Margaret cercò di immaginarsi la situazione. «Diedero libero sfogo ai peggiori istinti della natura umana. Lei sa quanto possono essere crudeli i bambini. Nella mia scuola, alle elementari, il maestro venne obbligato da alcuni degli alunni più grandi a sedersi di fronte a noi con un cappello da somaro in testa e a ripetere: "Sono un demone femmina". Per un po', la cosa ti sembra divertente. Ma quando il tuo maestro viene trovato ucciso di botte nella mensa della scuola, cominci a spaventarti davvero. La situazione sfuggì totalmente di mano, anche ai quadri estremisti del Partito che avevano messo in moto tutta la faccenda e pensavano di poterla usare per i loro fini personali. Molti dirigenti del paese furono epurati, anche Deng Xiaoping. Alla fine si dovette ricorrere all'esercito per riportare un certo ordine. Ma la faccenda è durata ben dodici anni, dodici anni di pura follia. Io sono nato l'anno prima che iniziasse. Quando tutto è finito avevo tredici anni e la mia famiglia era stata distrutta.» Margaret era sconvolta. «Che significa "distrutta"?» «I miei genitori erano stati mandati nei campi di lavoro. Qualcuno li aveva denunciati come reazionari perché erano persone istruite. Mia madre morì lì e mio padre uscì a pezzi da quell'esperienza. Lo zio Yifu, che faceva il poliziotto a Pechino, fu denunciato e passò tre anni in prigione.» «Non lo sapevo, glielo giuro, non ne avevo la minima idea» disse Margaret. «Che cos'è successo a Mei Yuan?» chiese poi. «È stata mandata in un campo di lavoro nell'Hunan e ha dovuto fare la contadina. Ma, da un certo punto di vista, è stata fortunata.» «Fortunata?» «Non è stata separata dal marito, come è accaduto ad altre» spiegò Li Yan e subito dopo si incupì. «Che cosa c'è?» chiese Margaret, accorgendosi di quel cambiamento d'umore. «A dire la verità, non è stata poi tanto fortunata.» La voce gli si strozzò. «Le hanno portato via il bambino e non l'ha più rivisto.» Un'enorme statua di marmo del presidente Mao, con un braccio teso in segno di benvenuto, torreggiava all'interno del complesso del ministero dell'Agricoltura in Hepinglidong Dajie. Il ministero era un enorme edificio
di cemento protetto da una cancellata. L'agente di guardia sulla strada osservava torvo una folla di scolari che, con i loro insegnanti, avevano sistemato un lungo tavolo sul marciapiede e avevano cominciato a fermare i passanti per chiedere di firmare una petizione a sostegno di qualcosa che aveva a che fare con la tutela della natura. Li Yan evitò i ragazzini, superò la guardia e parcheggiò la jeep all'interno del complesso, all'ombra di un grande albero. «È meglio che lei mi aspetti qui. Non è opportuno che entri in un edificio governativo.» «Va bene.» Margaret lo guardò allontanarsi e si mise a riflettere sulla Rivoluzione culturale, su quello che poteva significare, per un bambino, essere allontanato dai genitori e crescere in un mondo in cui tutte le norme della convivenza civile erano state sconvolte. Quella era stata la vita di Li Yan fino a tredici anni... Si accorse che stava per appisolarsi. Allora scese dalla jeep e si avviò verso i bambini, fuori sul marciapiede, per capire quale causa stessero perorando: stavano raccogliendo un milione di firme a sostegno di un movimento internazionale per salvare il mondo dalla desertificazione. Margaret venne quasi subito assediata da alcune ragazzine vocianti, che la presero per mano. La trascinarono verso il tavolo dove un insegnante le porse sorridendo una penna rossa. "Ma sì!" pensò lei. Era una causa abbastanza giusta e così firmò. Poi, mentre ritornava verso il cancello, un taxi si fermò lì vicino e ne emerse una figura familiare. Sudato e affannato, McCord stava chino sul finestrino e pagava l'autista. Quando l'auto ripartì e lui si girò verso l'edificio del ministero, Margaret gli si avvicinò. «Be', buongiorno!» McCord si girò, sbalordito, e la guardò con occhi da coniglio terrorizzato. Quando vide chi era, si rilassò. «Che diavolo ci fa lei qui?» chiese con un ghigno. «Stavo per rivolgerle la stessa domanda.» «Io ci lavoro qui, ricorda?» «Certo. Lo sa che lei è stato molto maleducato con me, ieri sera al bar?» L'uomo la guardò senza capire. «Ma probabilmente nemmeno se lo ricorda.» «Allora, che cosa ci fa lei qui?» insistette lui. «Oh, niente di importante. Contribuire con la mia esperienza alla lotta contro il crimine in Cina potrebbe essere una buona definizione della mia attività attuale.» Lui aggrottò la fronte perplesso. «Ho eseguito l'autopsia sulla vittima di un omicidio che lavorava qui.»
McCord si fermò di colpo. «Ha eseguito lei l'autopsia su Chao Heng?» «Sì, perché, lo conosceva?» L'uomo estrasse un fazzoletto sudicio e si asciugò il viso, evitando di guardarla. «Ho lavorato con lui per cinque anni! Era un vero pazzo.» Poi le rivolse uno sguardo piuttosto strano. «Ho sentito dire che si è suicidato.» Ripensò a quello che Li Yan le aveva detto di Chao Heng, Margaret scoprì un particolare che prima le era sfuggito. «Aspetti un attimo. Dopo l'anno di specializzazione nel Wisconsin, Chao è stato per sette anni al Boyce Thompson Institute della Cornell University. Non è forse il posto da cui lei è stato cacciato?» «Non mi hanno "cacciato" da nessun posto.» «Lei conosceva Chao Heng già prima di venire qui in Cina.» «E allora? Non è un crimine.» McCord si strofinò vigorosamente il viso con il fazzoletto. «Non vorrà insinuare che io abbia qualcosa a che fare con l'omicidio?» «No, certo. Lei non riuscirebbe neanche a tenere in mano un fiammifero e ad accenderlo.» Sulla bocca dell'uomo tornò il ghigno di poco prima. «Ma perché non se ne va al diavolo?» «Vuol sapere una cosa? Non vedo alcuna ragione per farlo.» McCord la fissò per un attimo, pensieroso, poi si girò senza dire una parola e si affrettò verso l'edificio principale. Passò accanto a Li Yan senza riconoscerlo. Il poliziotto uscì e raggiunse Margaret. «Stavate rinsaldando una vecchia amicizia?» «Lo sa? Quell'uomo mi fa davvero incazzare.» «Neanche lui sembrava molto contento di vederla.» Si avviarono verso la jeep. «Sapeva che lui e Chao Heng lavoravano insieme al progetto del super riso cinese?» «Me l'ha appena detto... be', non esplicitamente. Ma penso che si riferisse proprio a questo. Ha saputo qualcosa di nuovo, lì dentro?» «Non molto più di quello che sapevamo già; solo che Chao era responsabile del progetto di sviluppo del super riso. A quanto pare, è stato lui a suggerire di coinvolgere McCord nella ricerca. Devono essersi conosciuti negli Stati Uniti.» «Sì, erano stati tutti e due al Boyce Thompson Institute. Me ne sono ricordata poco fa.» Li Yan si mise al volante e accese il motore. «La tecnologia del super riso è stata messa a punto prevalentemente nella regione di Zhuozhou. Poi
hanno effettuato gli esperimenti sul campo per diversi anni vicino a Guilin, nello Guangxi. Prima di tornare a Pechino come consulente del ministero dell'Agricoltura, Chao si trovava appunto lì.» Margaret rimase un attimo pensierosa. «Posso dare un'occhiata all'appartamento di Chao?» «L'ho già perlustrato io da cima a fondo.» «Lo so... solo un'occhiata.» Lo fissò. «La prego, mi dica di sì.» L'uomo non riuscì a resistere al fascino di quegli occhi azzurri. «Che ore sono?» «Quasi le quattro.» «Va bene. Prima passo alla stazione a prendere i biglietti per lo zio, poi andiamo a casa di Chao.» CAPITOLO SETTIMO Mercoledì sera 1 Le auto dirette verso sud sulla seconda circonvallazione procedevano in colonna, avanzando lente nella foschia del tardo pomeriggio, densa di umidità e di inquinamento. Li Yan prese un pacchetto di sigarette dal vano portaoggetti. «Le dispiace se fumo?» Margaret guardò disgustata le sigarette. «Veramente, sì.» Poi si addolcì. «Be', se apre il finestrino...» «Ma così si vanifica l'effetto dell'aria condizionata.» Ripose il pacchetto. «Lo sa, in Cina viene considerato poco educato rifiutare a qualcuno il permesso di fumare.» «E allora perché me l'ha chiesto?» «Per educazione.» «Be', negli Stati Uniti viene considerato poco educato far respirare agli altri il fumo della propria sigaretta.» «Sono molte le cose su cui non ci troviamo d'accordo, vero?» «Be', c'è tempo per migliorare.» Li Yan suonò il clacson e tagliò la strada a un taxi, guadagnando un paio di posizioni. «Allora che cos'è successo quella sera?» «Quale sera?» «La sera del banchetto.» «Intende, con McCord?» Lui annuì. «È un tizio veramente repellente.»
«Ma allora perché l'ha invitato?» «Che cosa? Ma che dice?» «Pensavo che lo conoscesse.» «Ha cercato di rimorchiarmi al bar dell'albergo. Non l'avevo mai visto prima. Quando ha saputo che io e Lily andavamo a un banchetto di benvenuto, ci ha raggiunte.» Era indignata. «Oh, Gesù!» «Ma poi ha litigato con lui.» «Non ho litigato, ho solo messo in discussione il suo lavoro.» «Ma è uno scienziato!» «È un esperto di biotecnologie. Manipola il corredo genetico degli alimenti e poi si aspetta che noi li mangiamo.» «Ha diretto il programma di sviluppo del super riso. Che cosa c'è di sbagliato? Nutre milioni di persone affamate.» «Certo, questo è l'argomento che usano i ricercatori» e a questo punto si fermò, pensando fosse meglio andare per gradi. «Sa che cos'è l'ingegneria genetica?» Li Yan scrollò le spalle, riluttante ad ammettere la sua ignoranza. «Credo di no.» «E sa perché? Molti scienziati pensano che la gente comune sia troppo stupida per capire. In realtà, è semplicissimo, ma loro non vogliono spiegarcelo perché possiamo spaventarci.» «Lei conosce bene l'argomento, vero?» «Oh, sì» rispose Margaret con amarezza. «Ci ho convissuto per quasi sette anni.» E ricordò la grande passione di suo marito Michael, una passione che aveva condiviso anche lei, contagiata dal suo impegno e dal suo entusiasmo. Stranamente, mentre tutti i suoi sentimenti per lui si erano inariditi e spenti, quella passione era sopravvissuta. Li Yan scorse sul suo viso la stessa tristezza che vi aveva visto il giorno prima al ristorante del Sichuan e si ricordò che il marito di Margaret insegnava genetica. Evidentemente, anche adesso aveva toccato lo stesso tasto sbagliato. «E allora mi spieghi come stanno le cose» la esortò. «Sa cos'è il DNA?» «Più o meno.» «È semplicemente un codice, una sequenza di geni che determina la natura di tutti gli esseri viventi: la loro sostanza, le loro caratteristiche. Supponiamo che lei coltivi pomodori e che vengano tutti distrutti da un certo tipo di bruco. Che cosa fa?» «Non lo so... uccido i bruchi con un pesticida.»
«Questo è quello che si fa da anni. Il problema è che il pesticida contamina gli alimenti e l'ambiente, e inoltre costa. Ma un giorno lei scopre che tra le patate che coltiva c'è una qualità che non viene mai attaccata dal bruco. E scopre che la spiegazione sta nel codice genetico della patata, in quanto contiene un gene che produce una sostanza velenosa per il bruco. Quindi, dice a questo punto il nostro simpatico ingegnere genetico, ecco la soluzione del problema dei pomodori! Si prende il gene che produce la sostanza velenosa nella patata e lo si inserisce nel DNA del pomodoro. Ecco fatto: si ottiene un pomodoro che i bruchi evitano come la peste.» «Sembra un'idea piuttosto geniale.» «Certo, ma rifletta un momento. I suoi pomodori hanno un altro problema: maturano troppo in fretta. Appena raccolti, confezionati e spediti al mercato, cominciano già ad andare a male. Allora arriva l'ingegnere genetico, adesso suo grande amico, e dice di aver identificato, nel DNA dei pomodori, il gene che li fa avvizzire e andare a male. Lui può togliere quel gene, modificarlo e rimetterlo a posto, in modo che i pomodori maturino più tardi sulla pianta e rimangano freschi per settimane o addirittura mesi. Problema risolto.» Il traffico era bloccato. Li Yan si piegò in avanti sul volante e la guardò. «Pensavo volesse convincermi che l'ingegneria genetica fosse una cosa negativa.» «Be', intendo dire che l'idea in sé ha dei pregi, ma che, per come viene applicata attualmente, potrebbe risultare disastrosa.» «E come?» «Be', si pensa di avere appena creato un pomodoro perfetto: non viene attaccato dai bruchi, si conserva a lungo sugli scaffali dei negozi e permette di risparmiare una fortuna perché non si devono più acquistare pesticidi. Ma anche la tecnologia ha i suoi costi. La società da cui dipende l'ingegnere genetico ha speso miliardi per la ricerca e lo sviluppo e scarica questi costi su di te. E non sono costi una tantum perché il DNA modificato non si trasmette nei semi e così lei deve ricomprarli ogni anno. Poi scopre che, nel pomodoro, la sostanza velenosa della patata, innocua per l'uomo, si è combinata con un'altra sostanza creando qualcosa a cui sono allergiche migliaia di persone, alcune anche in modo grave, fino a morire. E poi il gene modificato ha sì rallentato il processo di maturazione e di invecchiamento dei pomodori, ma ne ha rovinato il sapore. Così, anche se i clienti non sono allergici ai suoi pomodori, il loro sapore non piace. E lei è rovinato.»
Margaret sorrise nel vedere l'espressione sempre più stupita di Li Yan. «Ma non è ancora finita. Per trasferire questi geni, i genetisti hanno usato un marker, cioè un altro gene che non ha niente a che fare né con la patata né con il pomodoro e permette di verificare presto e facilmente i risultati del trasferimento di altri geni. Ma il marker è stato prelevato da un batterio che è appena risultato resistente a un antibiotico molto usato per curare alcune malattie mortali dell'uomo. E, allora, cosa succede? Chi mangia i suddetti pomodori non muore per la reazione allergica, ma diventa resistente ad alcuni antibiotici e muore per malattie perfettamente curabili.» Li Yan la fissò incredulo. «Ma il pomodoro verrà senz'altro testato, no? Saranno individuati i problemi e la coltivazione verrà interrotta.» Alle loro spalle risuonò un coro di clacson: la coda delle auto era avanzata, ma lui non se n'era accorto. Accelerò bruscamente e la jeep fece un balzo avanti. «Lei la pensa così, vero? Ma le società che hanno finanziato la ricerca e lo sviluppo vogliono avere un ritorno del loro investimento. E gli scienziati che vi hanno lavorato sono tanto arroganti da pensare che una tecnologia relativamente recente possa sostituire un equilibrio ecologico raggiunto dalla natura nei millenni. Quindi sono ben felici di ignorare o negare l'evidenza. Intendo dire, abbiamo già avuto una soia geneticamente modificata che provocava gravi reazioni allergiche. Poi è stata la volta di un batterio manipolato in modo da produrre grandi quantità di un integratore alimentare che, negli Stati Uniti, ha causato la morte di trentasette persone e l'invalidità permanente di altre millecinquecento. Colture che hanno subito modificazioni genetiche per diventare resistenti ai diserbanti e agli insetticidi possono trasmettere, mediante impollinazione crociata, questa resistenza creando delle "super erbacce" che soffocano le colture invadendo tutto il terreno a disposizione. E poi, sa che c'è...?» Arricciò il naso per il disgusto. «Adesso prendono alcuni geni anche dagli animali e dai pesci e li inseriscono nelle piante: patate contenenti geni di gallina per aumentarne la resistenza alle malattie, ottime se sei vegetariano. Pomodori contenenti geni di sogliola (ci crederebbe?) per cercare di ridurre i danni della conservazione in frigorifero. In alcune colture hanno usato addirittura il gene che produce il veleno dello scorpione per creare un insetticida naturale.» «In Cina è una prelibatezza» la interruppe Li Yan. «Che cosa?» domandò lei, sconcertata. «Lo scorpione: si frigge e si mangia a scopo terapeutico.»
«Sta scherzando!» «No,» replicò lui molto serio «ma non glielo consiglio: sa di sterco.» «Sì, e posso immaginare che sapore darebbero al mio porridge i geni delle tossine» commentò Margaret. Poi si fece seria. «E questa è solo la punta dell'iceberg, Li Yan. Attraverso l'introduzione di colture geneticamente modificate, gli scienziati stanno liberando nell'ambiente grandi quantità di batteri e di virus. E non hanno la minima idea dei possibili effetti a lungo termine di questa operazione. Probabilmente nel giro di dieci anni non ci sarà un solo alimento che non sia stato trasformato e nessuno potrà farci niente.» Respirò profondamente. «E lo sa qual è il motivo di tutto ciò?» «Quale?» Margaret fece una pausa a effetto. «I soldi: tutta la ricerca scientifica è motivata dal profitto. Alla fine del millennio, la ricerca biotecnologica aveva un valore di circa cento miliardi di dollari. Dicono che è per il bene dell'umanità, per nutrire milioni di persone nel mondo. Ma non hanno la minima prova che, alla lunga, questa tecnologia possa diventare meno costosa o più produttiva. Quando hanno incontrato difficoltà a causa delle normative vigenti negli Stati Uniti, le grandi società biochimiche non hanno fatto altro che trasferire i loro progetti in altri paesi, come la Cina, in cui le norme che regolamentano l'introduzione di colture geneticamente modificate sono meno restrittive o addirittura assenti. E sa una cosa interessante? Quando una di queste società sviluppa una coltura resistente a un certo diserbante, indovini chi fabbrica il diserbante?» «Proprio quella società?» «Giusto. E, invece di ridurre la quantità di diserbante con cui inquiniamo il pianeta, saremo costretti a usarne sempre di più perché la coltura è resistente a esso.» Innervosita, Margaret si batté la coscia con una mano. «Dio mio, è una cosa che mi fa andare in bestia! E quei maledetti scienziati! Filantropi? Neanche per sogno! Farebbero qualsiasi cosa per continuare a ricevere i finanziamenti delle società biochimiche in modo da continuare a credersi padreterni. E non dia retta alla storiella che le nuove colture riducono i costi e aumentano i raccolti per nutrire il Terzo Mondo affamato. Ricorda il coltivatore di pomodori, che ogni anno deve comprare i semi nuovi? Be', anche i contadini dei paesi poveri dovranno fare la stessa cosa. E da chi li compreranno? Naturalmente dalle società biochimiche, che ne controllano
anche il prezzo.» Li Yan scosse la testa, confuso. «Questo è un po' troppo per me. Voglio dire, so solo che, tre anni fa, qui hanno introdotto il super riso e il raccolto è raddoppiato. Oggi, in Cina più nessuno muore di fame. E, per la prima volta, siamo anche esportatori di generi alimentari in altri paesi.» Margaret scrollò le spalle, esasperata. Si domandò a che cosa servisse metterci tutta quella passione: tanto non poteva farci nulla. Sospirò. «Come le ho detto, la tecnologia ha senz'altro i suoi lati positivi. Sono gli effetti sul lungo periodo a preoccuparmi, le conseguenze imprevedibili che ricadranno sui nostri figli e sui figli dei nostri figli.» Li Yan frenò di colpo. Il traffico si era bloccato di nuovo. «Che ore sono?» «Quasi le quattro e mezza.» «Di questo passo resteremo qui tutta la giornata.» Aprì il finestrino, appoggiò sul tetto il lampeggiante rosso e accese la sirena. «Si tenga forte!» Si mise a zigzagare tra le auto per farsi strada nell'ingorgo. Imboccò la pista ciclabile e accelerò costringendo le persone in bicicletta a scostarsi terrorizzate per non essere travolte. Lanciò una rapida occhiata a Margaret. «Adesso che il finestrino è aperto, posso fumare una sigaretta? Dopo tutto quello che mi ha raccontato, non può farmi più male che mangiare.» «Non ci conti! Non immagina neanche che razza di geni mettono nelle piante del tabacco.» 2 L'ampio piazzale davanti alla stazione ferroviaria di Pechino era affollato di pendolari, Era l'ora di punta. Due moderne torri dell'orologio gemelle, separate da un gigantesco display digitale, si innalzavano sopra la grande scalinata che portava all'ingresso principale. Là i bagagli dovevano passare attraverso le apparecchiature a raggi X sotto l'occhio attento di poliziotti armati. Li Yan salì sul marciapiede con le ruote anteriori dell'auto, scambiando furiosi colpi di clacson con autobus e taxi. Spenta la sirena e ritirato il lampeggiante, era tornato un anonimo cittadino su una jeep. Due ragazze che spazzavano con vecchie scope di saggina imprecarono a gran voce quando la macchina le costrinse a spostarsi. Non dovevano avere più di diciassette o diciotto anni e indossavano tute blu sformate e magliette bianche. Avevano parte del volto coperta da un fazzoletto azzur-
ro per proteggersi dalla polvere. Carrelli rossi motorizzati per il trasporto dei bagagli si facevano largo tra la folla. Gruppi di viaggiatori sedevano pazienti sulle scale circondati da montagne di valigie. Margaret accompagnò Li Yan alla biglietteria, nell'ala ovest della stazione. Lunghe code di persone erano in attesa agli sportelli allineati lungo la parete di fondo. Sopra ogni sportello erano indicate le destinazioni, in cinese. "Chissà come fanno i turisti stranieri a raccapezzarsi" si chiese lei. Dall'altoparlante, una voce femminile nasale annunciava arrivi e partenze. Li Yan si mise in coda cominciando a battere i piedi per l'impazienza. «Dove deve andare suo zio?» gli chiese Margaret, tanto per dire qualcosa. «Nel Sichuan» rispose lui soprappensiero. «La sua famiglia era originaria di lì, vero?» «Sì, va a Wanxian a trovare mio padre e poi a Zigong per parlare con mia sorella.» Qualcosa, nel modo in cui pronunciò l'ultima frase, la incuriosì. «C'è qualche problema?» «È incinta.» «E questo rappresenta un problema?» «Fa troppe domande.» «Sono una gran ficcanaso, lo sa.» Li Yan sospirò. «Il fatto è che lei ha già un figlio.» La vide aggrottare le sopracciglia, perplessa. «Ha mai sentito parlare della politica del figlio unico?» «Ah, sì» rispose Margaret e ricordò di essersi sempre chiesta come le autorità cinesi riuscissero a far rispettare una politica del genere. «E cosa succede se metti al mondo un altro figlio?» «Quando uno si sposa, gli viene chiesto di firmare la cosiddetta "lettera di intenti" con cui prende pubblicamente l'impegno di avere un figlio solo. In cambio, riceve aiuti economici e sociali: la precedenza nell'istruzione e nell'assistenza sanitaria per il bambino, un aumento di salario, un alloggio migliore. Inoltre le autorità esercitano una forte pressione perché si faccia sterilizzare. Se però uno mette al mondo più di un figlio, perde tutti i benefici e, a volte, anche la casa.» Scosse lentamente la testa, preoccupato. «E, durante la seconda gravidanza, vengono esercitate pressioni, psicologiche e talvolta anche fisiche, per convincere la donna ad abortire. In un modo o
nell'altro, le conseguenze possono essere terribili.» Margaret provò a immaginarsi il governo americano nell'atto di imporre ai cittadini il controllo sul numero dei figli, ma non ci riuscì proprio. Nello stesso tempo, sapeva benissimo quali disastrose conseguenze poteva avere una crescita demografica incontrollata in un paese in cui già viveva un quarto della popolazione mondiale: fame e rovina economica. Era un dilemma terribile. «E sua sorella vuole tenere il bambino?» Lui annuì. «Ma lei e il marito non hanno firmato la "lettera di intenti"?» «Sì.» «E allora perché è tanto decisa ad avere un altro bambino?» «Il primo figlio è una femmina.» «E allora? Che cosa c'è di male? Qualcuno dice che le femmine sono molto meglio dei maschi. E, secondo la mia modesta opinione, non ha affatto torto.» «Non in Cina.» «Sta scherzando! E perché?» Ma si accorse che lui era serio. «Be', non è facile da spiegare» rispose Li Yan con un gesto sconsolato. «È legato al confucianesimo e all'antica credenza dei cinesi nel culto degli antenati. Ma forse si tratta soprattutto di un motivo pratico. Per tradizione, quando un figlio si sposa, porta la moglie a vivere con i suoi genitori e, quando questi invecchiano, sono i due giovani a occuparsi di loro. Ma se hai solo una figlia, lei andrà a vivere con i suoceri e nessuno rimarrà a prendersi cura di te quando sarai vecchio.» «Ma se tutti avranno un figlio, unico e maschio, alla fine non ci saranno più donne per partorire le successive generazioni di bambini.» Li Yan scrollò le spalle. «Io posso solo dirle come stanno le cose. Gli orfanotrofi sono pieni di bambine abbandonate.» «E così lo zio cercherà di convincere sua sorella a non tenere il bambino.» «Non so che cosa le dirà, forse non lo sa neppure lui. Comunque, è l'unica persona cui lei dia retta.» Allungò il collo per controllare la lunghezza della fila: non era avanzata neanche di un centimetro. «Così non va.» Estrasse il tesserino di riconoscimento e si diresse con passo deciso allo sportello. "Alcuni sono più uguali di altri" pensò Margaret con amarezza. Li Yan la raggiunse di lì a poco e insieme uscirono nel piazzale affollato. «Mi dispiace, ma devo portare subito il biglietto allo zio» disse lui. «Il
treno parte tra poco più di tre ore.» «Quanto sta via?» «Torna domani sera.» «Una visita breve.» «Dirà a mia sorella quello che deve dirle e poi tornerà. In fin dei conti, la decisione spetta solo a lei.» Salirono sulla jeep. «Che cosa pensa che farà?» domandò, guardandolo fisso. «Non sarebbe dovuta rimanere incinta.» «Non le ho chiesto questo.» Li Yan la fissò molto serio. «La questione non mi riguarda. Ho già abbastanza problemi per conto mio.» E Margaret capì che per lui il capitolo era chiuso 3 Li Yan e Margaret camminavano nella luce del crepuscolo. «Nel parco c'è un lago, il lago di giada, in cui la gente va a nuotare. D'inverno gela e allora viene usato per pattinare, ma in un punto viene fatto un foro nel ghiaccio per permettere a chi vuole di immergersi nell'acqua gelata. Mio zio lo fa tutte le mattine» le spiegò lui. Margaret rabbrividì al solo pensiero. Lui le appoggiò una mano sul braccio per indurla a fermarsi. Lei si girò sorpresa, poi vide che fissava un uomo anziano con i capelli ondulati. In piedi all'ombra l'uomo fece roteare lentamente una spada sopra la testa, poi l'abbassò con un movimento ampio e lento e la puntò contro il terreno. Poi, facendo perno su un piede, piegò l'altra gamba avvicinandola al torace e si girò, sollevando la spada prima davanti a sé, poi a destra e riappoggiando il piede a terra con forza. Infine puntò la spada contro di loro, li squadrò con occhi ardenti e fieri, quindi si rilassò e sorrise. «Li Yan, hai il biglietto?» «Il treno parte alle otto» rispose Li Yan, porgendo allo zio ciò che gli aveva chiesto. Yifu lanciò un'occhiata a Margaret, alle spalle di Li. «Lei deve essere la dottoressa Campbell» l'apostrofò in un inglese praticamente privo di accento. Posò la spada e le tese la mano. «Molto lieto di conoscerla.» Margaret gli strinse la mano. «Mio zio Yifu» intervenne Li. «Ho sentito parlare molto di lei... signor...» Non sapeva come rivolgersi
a lui. «Mi chiami vecchio Yifu. Quando uno arriva alla mia età, ti chiamano "vecchio" in segno di rispetto.» Margaret rise. «Non sarà facile, per me. Negli Stati Uniti, la parola "vecchio" ha una connotazione leggermente negativa.» Lo zio la prese sotto braccio e la condusse verso il tavolino di pietra su cui era posata la scacchiera già pronta per il gioco. «Be', ma in Cina essere vecchi significa essere venerati. L'età avanzata è sinonimo di saggezza.» Sorrise. «Si sieda, prego.» Le indicò una sedia pieghevole di tela. «Naturalmente, a un'età così avanzata, io dovrei essere molto saggio. E, naturalmente, tutti pensano che sia così.» Appoggiò la spada per terra, si sedette e si piegò verso Margaret con aria confidenziale. «Se riuscissi a ricordare tutto quello che sapevo, sarei davvero molto saggio.» Sospirò tristemente. «Il problema è che le cose che dimentico sono più di quelle che riesco a ricordare.» Un lampo attraversò il suo sguardo. «È per questo che sto ancora cercando di ampliare il mio vocabolario di inglese: mi aiuta a riempire gli spazi lasciati vuoti da tutto quello che ho dimenticato.» «Be', certamente non ha dimenticato come incantare una signora.» Margaret gli sorrise. Tra loro si era subito instaurato un rapporto cordiale. «Bah! A questa età non mi serve molto.» Sollevò un sopracciglio indicando il nipote. «Se solo lui avesse ereditato un po' di questa arte. Ma ha preso dal padre: è lento negli affari di cuore. Quanti anni hai adesso, Li Yan?» chiese, rivolto al nipote. «Ma lo sai, zio» rispose lui, imbarazzatissimo. Yifu si girò di nuovo verso Margaret, guardandola con espressione maliziosa. «Trentatré anni ed è ancora scapolo. E non ha nemmeno la fidanzata.» Margaret trattenne a stento un sorriso, divertita dall'evidente imbarazzo del poliziotto. «Sono lieto che Li Yan abbia finalmente seguito il mio consiglio» proseguì lo zio. «Quale?» chiese lei. «Zio, dovresti andare a casa a preparare la tua roba per il viaggio» intervenne Li Yan. Yifu lo ignorò. «Quello di chiederle di aiutarlo nelle indagini.» Li Yan sarebbe voluto sprofondare. Margaret lo guardò con aria interrogativa. «Ah, allora l'idea è stata sua» esclamò, poi, rivolta a Yifu. «Be'... diciamo che l'ho incoraggiato.» Il vecchio fece un ampio sorriso.
«Adesso capisco perché non ci è voluto troppo a convincerlo. Non mi aveva detto che lei era così attraente.» «Forse non lo pensa.» «Be', allora non arrossirebbe così.» Li Yan era sempre più imbarazzato. Sospirò e guardò altrove, verso gli alberi, serrando le mascelle. Margaret si stava divertendo moltissimo. «Sa giocare a scacchi?» le domandò Yifu. «Zio, non c'è tempo, sono quasi le cinque e mezza.» «Ma sì che ho tempo.» «Questo gioco mi sembra un po' diverso dagli scacchi che conosco io» fece lei guardando la scacchiera. «Ma no, è molto simile: invece dei pezzi con le figure, noi giochiamo con questi dischi di legno. Su ogni disco c'è un ideogramma che indica il personaggio.» «Ma Margaret non conosce gli ideogrammi, zio. Una volta che avrà iniziato a spostare i pezzi, non si ricorderà più i personaggi.» «Non credo che sarà un problema» replicò lei piccata. «Ho un'ottima memoria visiva.» «Bene, bene.» Il vecchio batté le mani tutto contento e iniziò a illustrarle la scacchiera e le regole. Margaret avrebbe giocato con i pezzi rossi, Yifu con quelli neri. Con un sospiro di rassegnazione, Li Yan si appoggiò al tronco di un albero e incrociò le braccia sul petto. «Com'è il tuo ufficio?» gli chiese lo zio mentre lei faceva la prima mossa. «Carino.» «Carino? Solo carino? L'esperto di feng shui mi ha fatto vedere il progetto e mi è sembrato ottimo. Là dentro lavorerai bene.» «Sì, certo. Grazie, zio.» Yifu lanciò un sorriso malizioso a Margaret. «Avverto un'ombra di scetticismo nelle sue parole: è convinto che lo zio sia un vecchio sciocco superstizioso.» «Allora lo sciocco è lui. Feng shui o no, mi sembra che i cambiamenti fossero del tutto giustificati.» «Naturalmente» disse Yifu, facendo la sua mossa. «Tocca a lei. Sono sempre stato un grande ammiratore degli americani. Come i cinesi, siete anche voi molto pratici. Ma siete anche sognatori che cercano di realizzare i loro sogni e questo atteggiamento non è molto pratico. Credo però che sia un bene avere dei sogni nella vita: è un obiettivo, qualcosa su cui concen-
trare i propri sforzi.» «Ma non è un concetto un po' troppo "individualista" per un sistema comunista?» Margaret spostò una pedina. «Non deve lasciarsi prendere dalla cattiva abitudine degli americani di essere intolleranti nei confronti delle idee degli altri, dottoressa Campbell. Bisogna sempre essere pragmatici. Da giovane ero un comunista convinto, ora mi definirei un liberale. Tutti ci evolviamo.» «Chi ha detto: "Se non sei marxista a venti anni, non hai cuore, se non sei conservatore a sessanta, non hai cervello"?» «È la prima volta che la sento: è un'osservazione molto intelligente.» «Non so da dove venga.» «Le parole non sono importanti quando il significato è chiaro. E una verità è una verità, chiunque l'abbia detta.» Li Yan sospirò profondamente per manifestare la sua impazienza, ma i due lo ignorarono. «Scacco matto» esultò Margaret. Il vecchio incassò la sconfitta con una rapida alzata di spalle e un sorriso sincero. «Congratulazioni! In molti anni è la prima volta che perdo. Può essere soddisfatta di sé. Spero che avremo l'occasione di fare altre partite.» «Volentieri.» «Se solo mio nipote fosse un valido avversario...» «Se avessi avuto un maestro migliore...» rispose Li Yan, punto sul vivo. «Le regole si possono insegnare a tutti» continuò lo zio «ma uno deve poi applicarle con intelligenza.» Cominciò a riporre i pezzi nella vecchia scatola di cartone. «Non posso perdere tempo a discutere con te: devo prendere il treno e non voglio far tardi.» Strizzò l'occhio a Margaret. 4 L'agente di guardia alla porta li fece entrare nell'appartamento di Chao Heng. Li Yan notò che c'era lo stesso odore penetrante di disinfettante della prima volta. Si diressero verso il soggiorno. «Che cosa cerca?» domandò a Margaret. Lei scosse la testa. «In realtà, non lo so. Come lei, ho la sensazione che la chiave dei tre omicidi sia Chao Heng. Non so come gli altri due delitti siano collegati, ma mi sembrano... casuali. Deve esserci sfuggito qualcosa. Forse è qualcosa che già sappiamo, o, almeno, dovremmo sapere, sulla vittima e magari si trova in questo appartamento.»
Li Yan sembrava distratto e di malumore. Margaret sapeva fin troppo bene come, talvolta, fosse difficile concentrarsi sul lavoro quando si era preoccupati da problemi personali. Toccava a lei rimettere in funzione il cervello di Li. «Allora pensa che Chao fosse seduto fuori, sul terrazzo, e aspettasse qualcuno che gli aveva telefonato...» Lui annuì. Sul tavolino c'erano ancora la bottiglia di birra e il portacenere con le cicche. «E dov'è il lettore di CD?» Li Yan attraversò la stanza fino all'impianto hi-fi e vide che i ragazzi della scientifica avevano dimenticato di spegnerlo. «Può rimettere il brano che stava ascoltando?» Lui azionò l'avanti veloce fino al brano numero nove e poi premette il tasto Play. Mentre la musica si diffondeva nella stanza, Margaret si avvicinò alla libreria e sfiorò con un dito la fila di libri dai titoli familiari. Agenti infettivi del DNA vegetale, Valutazione del rischio in ingegneria genetica, Virologia vegetale. Erano tutti volumi presenti anche nella biblioteca di Michael, a casa. Gli stessi che ventiquattro ore prima erano risultati così estranei a Li Yan. Margaret infilò le mani nelle tasche del vestito e andò sul terrazzo. Guardò la bottiglia di birra vuota e il pacchetto di sigarette e si chiese come Chao le avesse accese, poi si ricordò dell'accendino trovato sul cadavere. E qualcosa cominciò a farsi strada nella sua testa. Si girò in cerca del poliziotto, ma non lo vide. Tornò in anticamera e lo chiamò. «Sono qui» rispose lui dalla cucina. «L'indovinello di Mei Yuan» gli disse appena lo raggiunse. «Che cosa c'entra?» chiese lui, guardandola senza capire. Margaret scosse la testa, frustrata perché non riusciva a spiegarsi. «È solo un processo mentale: mi segua.» Cercò le parole adatte: «L'uomo con i due bastoni. Per bruciare i libri doveva avere un motivo, non le pare?». «Voleva distruggerli.» «Esatto. Così, chi possedeva i libri non avrebbe avuto accesso al loro contenuto.» «E allora?» «Allora perché hanno dato fuoco a Chao Heng?» «Per farlo sembrare un suicidio.» «No, questo è secondario. Una volta ho fatto un'autopsia sul cadavere ustionato di una donna apparentemente rimasta vittima di un incidente stradale. Invece aveva una pallottola in corpo, ed era quella la causa della morte. L'assassino le aveva sparato, l'aveva messa nella macchina, aveva appiccato fuoco all'auto e l'aveva fatta finire fuori strada. Aveva cercato
così di mascherare l'omicidio. Aveva sperato che la prova del suo crimine andasse distrutta nell'incendio.» Si passò le mani tra i capelli. «Mi segue?» Li Yan ci pensò un momento. «Pensa che l'assassino abbia cercato di distruggere delle prove? Ma prove di che cosa? Chao non è stato ucciso con un colpo di arma da fuoco, pugnalato o picchiato a morte. Gli hanno dato un colpo in testa e poi iniettato un sedativo. Se lo scopo era cercare di nascondere tutto questo bruciandolo, l'operazione non ha avuto molto successo, non crede?» La mente di Margaret lavorava a pieno ritmo ma, purtroppo, a vuoto. «Ha ragione» fu costretta ad ammettere. Per un attimo aveva afferrato qualcosa di prezioso e sfuggente e poi l'aveva perduto di nuovo. E adesso era come un volto intravisto per un attimo, nascosto da qualche parte nella memoria, a cui non si riesce a dare un nome. «Accidenti, non lo so proprio!» esclamò scoraggiata. «Ma qui c'è qualcosa. Perché non mi fa vedere il resto della casa? Perché non mi ripete come, secondo lei, si sono svolti i fatti?» «A che scopo?» «Per guardarli da un altro punto di vista. Io posso vedere in un modo diverso una cosa che lei ha già visto, oppure lei può vedere diversamente la stessa cosa, la seconda volta.» Li Yan non ne era convinto ma abbozzò. «Va bene.» Così fecero ripartire il CD un'altra volta e uscirono sul terrazzo. Margaret si sedette sulla sedia da cui si godeva la vista dello stabile. Pensò che la notte in cui Chao si era trovato seduto lì, lei si stava agitando insonne nel suo letto. Era successo meno di quarantotto ore prima. Quando lei era arrivata in Cina, quell'uomo era ancora vivo. «Deve aver visto le luci dell'auto che arrivava» suggerì Li. «L'ascensore era fuori servizio, quindi deve essere sceso per far entrare il suo ospite.» «Facciamolo anche noi.» Attraversarono il soggiorno e Li Yan mise in pausa il lettore di CD. «Torniamo tra cinque minuti» disse all'agente in anticamera. Scesero i cinque piani di scale. Il cancello era chiuso. «Non ha la chiave?» chiese Margaret irritata. «No, l'assassino deve essersela portata via quando se ne è andato con Chao.» «E si è chiuso il cancello alle spalle?» Non sapeva perché, ma le sembrava improbabile. «Forse. Ieri, quando siamo arrivati, era chiuso. Ma può essere stato an-
che uno degli altri inquilini che magari l'aveva trovato aperto.» Allungarono il collo ma la tromba dell'ascensore impediva di vedere l'atrio e l'ingresso della casa. «Così Chao non avrebbe potuto vedere il visitatore finché non fosse giunto al cancello» disse Margaret. «Non l'ha visto attraversare l'atrio e quindi non si è allarmato se non era la persona che si aspettava.» «Continui, forse qui ho commesso un errore» disse Li Yan improvvisamente. «Ho supposto che Chao aspettasse un'altra persona e non conoscesse il suo assassino. Ma se lo conosceva - magari era un fornitore di droga o uno che gli procurava i ragazzini - allora l'assassino non avrebbe dovuto scoprire subito le sue carte.» «E se lo conosceva, probabilmente l'ha invitato a salire» aggiunse lei. «Quindi non è stato costretto a salire le scale sotto la minaccia della pistola.» Il poliziotto cominciava a pensare che, forse, questo esercizio poteva rivelarsi utile. Quante volte lo zio gli aveva detto che le risposte stavano quasi sempre nei dettagli. Tornarono sopra e si fermarono vicino alla macchia di sangue sulla moquette. «L'assassino non ha perso tempo a fare conversazione con Chao» osservò Margaret. «Deve averlo colpito subito, appena entrato in casa. Le dimensioni della contusione e della frattura confermano la sua ipotesi che abbia usato il calcio della pistola. E subito dopo gli ha iniettato la chetamina. Non poteva sapere quanto sarebbe rimasto svenuto. Gli ha tolto la scarpa sinistra e la calza e ha iniettato il sedativo nella vena del piede che Chao usava abitualmente per drogarsi. Quindi conosceva bene la vittima o aveva assunto su di lui informazioni molto dettagliate. Infine gli ha rimesso la calza e la scarpa. E poi?» «È rimasto ad aspettare.» «Perché?» «Era più sicuro attendere l'alba qui, piuttosto che nel parco.» «D'accordo, ma doveva trovarsi nel parco con la sua vittima al sorgere del sole.» «È vero che l'ora più buia della notte è poco prima dell'alba?» le chiese lui. «Mi sembra di sì. E ho avuto modo di sperimentarlo, nelle ultime due notti.» Rifletté per un attimo. «Allora è uscito con Chao fra le tre e le quattro. In tempo per portarlo nel parco protetto dall'oscurità e arrivare all'ora dell'apertura. Come ha fatto a portarlo per le scale?» «Probabilmente se lo è caricato sulle spalle.»
«Per cinque piani? Deve essere un tipo atletico. Ma procediamo con ordine. Ha passato circa due ore nell'appartamento. Non ha lasciato proprio nessuna traccia? Si è preparato un caffè, è andato in bagno, ha fumato una sigaretta?» Li Yan scrollò le spalle. «Penso che portasse i guanti. Non si è fatto un caffè e non ha fumato perché è un professionista. Se è andato in bagno, ormai è tardi per trovarne traccia.» «Vorrei comunque dare un'occhiata in giro» disse Margaret. Per un quarto d'ora setacciarono l'appartamento, stanza per stanza, senza trovare nulla, alla fine arrivarono al bagno. Era sporco come ricordava lui: tubetti di creme e pomate mezzi vuoti, il rasoio sporco di sangue, lo specchio sopra il lavandino tutto macchiato. Gli asciugamani usati buttati sul bordo della vasca adesso erano asciutti. Margaret aprì l'armadietto. «Gesù!» Cominciò a tirare fuori i tubetti e i flaconi di pillole. Guardò Li Yan. «Sa che cosa significa tutta questa roba?» «Che era malato.» «Può ben dirlo.» Gli buttò un flacone. «Epivir, noto anche come 3TC. È un inibitore della transcriptasi inversa. Sa che cos'è?» «Non ne ho la minima idea.» «La transcriptasi inversa è un enzima che favorisce la replicazione del DNA.» Scosse uno dei tubetti. «Crixivan, un inibitore della proteasi, un altro enzima coinvolto nella replicazione virale.» Prese un altro flacone. «AZT. In Occidente è difficile non averne sentito almeno parlare.» Li Yan brancolava nel buio. «Prese insieme, queste tre sostanze formano la cosiddetta terapia farmacologica tripla, che serve a combattere l'AIDS. Impediscono la replicazione del virus.» E, dopo una breve pausa: «A quanto pare, il nostro amico aveva l'AIDS». Quando lasciarono l'appartamento, l'uomo dell'ascensore li osservò con curiosità, seccato perché non capiva una parola di quello che dicevano. Li Yan aveva accettato l'ipotesi di Margaret che Chao fosse stato bruciato per cercare di nascondere qualcosa. «Crede che gli abbia dato fuoco per cercare di nascondere che aveva l'AIDS?» le domandò. «Se così fosse, non avrebbero certo fatto un buon lavoro. Il cadavere avrebbe dovuto essere completamente carbonizzato perché non potessimo prelevare campioni di sangue o di tessuti per verificare questa ipotesi. In ogni caso, se non c'è un motivo particolare, di solito non si esegue il test dell'AIDS durante un'autopsia. E poi hanno lasciato tutte le medicine nel-
l'armadietto del bagno, un indizio importante. Ma, soprattutto, perché? Perché qualcuno avrebbe avuto l'interesse di nascondere il fatto che Chao Heng avesse l'AIDS?» A Li Yan non venivano in mente motivi validi. Ripeté ciò che Margaret aveva appena detto e aggrottò la fronte. «Perché parla al plurale quando siamo pressoché sicuri che l'assassino abbia agito da solo?» «Perché era un killer prezzolato. Su questo siamo d'accordo, no? Quindi non aveva niente di personale contro le sue vittime. Erano altri a volerle morte. E sarebbe utile per noi sapere perché.» Li Yan pensò che quella era una delle differenze principali tra l'approccio americano e quello cinese: gli americani sottolineavano di più il movente mentre i cinesi preferivano costruire il castello delle prove mattone su mattone finché non era solido. Il movente non era la chiave per trovare la risposta ma la risposta stessa. Forse, lavorando insieme, potevano combinare i lati positivi di entrambi i metodi. Andarono avanti e indietro per l'atrio, riesaminarono la lampada sopra la porta e rifecero il cammino dell'assassino fino all'auto, che era stata parcheggiata dove adesso si trovava la jeep di Li Yan. Margaret notò che, di notte, i rami degli alberi coprivano la luce dei lampioni. Senza la lampadina sopra l'ingresso, l'assassino aveva potuto trasportare la vittima per tutto il tragitto nella completa oscurità. «Possiamo andare al parco? Seguiremo le tracce di questo tizio fino al punto in cui ha dato fuoco al povero Chao.» «Comincia a provare simpatia per quell'uomo?» Lei fece un gesto di indifferenza. «Probabilmente non era una gran brava persona. Ma stava morendo di AIDS e qualcuno l'ha bruciato vivo. Forse non si meritava di finire così... Allora, mi porta al parco?» «D'accordo.» Appena Li Yan entrò nella jeep, il segnale di chiamata della radio si mise in funzione. Margaret lo vide aggrottare la fronte preoccupato mentre ascoltava il messaggio. «Dobbiamo tornare al quartier generale. Il capo vuole vedermi con urgenza.» «Perché?» «Non lo so, non me l'hanno detto.» 5 All'ultimo piano della Prima Sezione l'atmosfera era densa di fumo e di tensione. Margaret aveva visto Shimei, la sua autista, seduta nella BMW
nella strada sottostante. E Lily la stava aspettando comodamente sprofondata in un angolo della stanza degli investigatori con un sorrisetto soddisfatto dipinto sul viso. Li Yan non l'aveva neppure notata; era rimasto colpito dall'atmosfera che era calata nella stanza al suo ingresso: imbarazzata e piena di ansiosa attesa. I colleghi alzarono lo sguardo dalle scrivanie con un'espressione cupa. «Che diavolo sta succedendo?» chiese lui. «Dal capo c'è Ago con una specie di avvocato» rispose Wu. «Il capo vuole vederti immediatamente.» Li Yan rimase impassibile, annuì e si diresse a passo svelto nell'ufficio di Chen. Margaret guardò Lily con aria interrogativa. «Ma che sta succedendo?» «Il vicecaposezione Li è in un bel guaio» rispose quella tutta allegra. «Sono venuta a prenderla.» «Be', allora può aspettare ancora un po'.» Ago e il suo avvocato stavano seduti in comode sedie accanto alla finestra. L'avvocato, sulla trentina, apparteneva a quella razza di giovanotti rampanti che si arricchivano sfruttando le recenti modifiche del sistema giudiziario cinese che consentivano agli accusati di avere un rappresentante legale in una fase iniziale dei procedimenti. Vanitoso e sicuro di sé, indossava un vestito elegante e aveva un taglio di capelli alla moda e costoso. Ago rivolse a Li Yan uno sguardo pieno di odio. Il capo sedeva alla scrivania, scuro in volto. Li Yan fece un cenno di saluto ai due. «Voleva vedermi, capo?» «Sono state mosse gravi accuse contro di lei da quest'uomo e dal suo rappresentante legale» disse gravemente Chen, senza invitare il suo vice a sedersi. Li Yan sollevò le sopracciglia, sorpreso. «Quali accuse?» «Ha costretto il mio cliente a recarsi con lei allo stadio. Poi ha infilato una pallottola nel tamburo di un revolver, gliel'ha puntato alla testa e ha premuto più volte il grilletto per fargli dire quello che voleva sapere» rispose l'avvocato. Li Yan rise. «Un revolver, sta scherzando? Capo, sa bene che da tempo non usiamo revolver ma pistole semiautomatiche che ci vengono consegnate sotto il suo controllo personale.» L'espressione di Chen si fece più distesa. «E quale informazione gli avrei estorto che un onesto cittadino non avrebbe fornito di propria spontanea volontà?» «Bastardo!» sibilò Ago, ma l'avvocato gli appoggiò una mano sul brac-
cio per trattenerlo. «Ma lei è andato allo stadio?» domandò Chen al suo vice. «Sì, certo, ma non ho esercitato alcuna coercizione. Sono andato all'Hard Rock Café e ho chiesto se potevamo scambiare due parole. Ci saranno duecento persone che possono testimoniare che quest'uomo è uscito dal locale con me di sua spontanea volontà. Siamo andati allo stadio per avere un po' di tranquillità perché Ago non aveva troppa voglia di farsi vedere in pubblico con uno sbirro.» Ago lo fulminò con lo sguardo. «C'era anche un testimone» disse l'avvocato. «Un testimone?» domandò Li Yan perplesso. «Oh, intende un "osservatore"; la dottoressa Campbell è un medico legale americano che ci sta aiutando nelle indagini su un caso.» «Adesso dov'è?» chiese il capo. «Nel mio ufficio.» Per la prima volta Li Yan sembrava a disagio. Chen sollevò il ricevitore e chiese che accompagnassero Margaret da lui. Aspettarono in un silenzio carico di tensione. Un colpo alla porta annunciò l'arrivo della ragazza. Quando entrò e vide Ago, si sentì svenire. «Tutti qui parlano inglese?» chiese il capo. L'avvocato annuì. Allora Chen si rivolse alla donna. «Dottoressa Campbell, sono molto spiacente di doverla coinvolgere in questa faccenda. Questi signori hanno avanzato un'accusa molto grave riguardante la condotta del vicecaposezione Li Yan e probabilmente lei può aiutarci a capire come sono andate le cose.» Margaret si sentì avvampare, rivolse un'occhiata a Li, ma lui evitò accuratamente il suo sguardo. «D'accordo.» «Conosce questo signore?» chiese Chen indicando Ago. «Certo. Il vicecaposezione Li gli ha parlato stamattina.» «Dove?» «Ci siamo incontrati all'Hard Rock Café e...» Esitò per una frazione di secondo «...siamo andati in macchina a uno stadio, di cui non so il nome.» Guardò ancora Li, ma lui rimase impassibile. «E che cos'è successo?» «Siamo entrati.» «E poi?» «Non lo so, parlavano in cinese, non so che cosa dicessero.» Fino a quel momento aveva detto la verità. Chen inspirò profondamente. «Li Yan è accusato di avere puntato un revolver con un proiettile alla testa di quest'uomo e di avere premuto ripetu-
tamente il grilletto. È la verità?» Un'altra esitazione che sembrò durare un'eternità. «Non che io abbia visto» rispose infine la donna. Dopotutto, era vero, almeno in parte: lei si era girata per non vedere. Ci fu un lungo silenzio. Margaret sentiva delle voci distanti in un altro piano del palazzo, lo strepito lontano del traffico e il coro di clacson che saliva da Dongzhimennei Dajie. Ago guardò l'avvocato: il suo inglese non era all'altezza dello scambio di battute. Ma quello sedeva impettito e taceva. Chen si piegò verso il trafficante di droga. «Togli il tuo maledetto culo di qui prima che ti incrimini per calunnia contro un ufficiale di polizia.» Li Yan era sbalordito: era la prima volta che sentiva il capo esprimersi in quel modo. Mentre l'avvocato lo faceva alzare e lo spingeva riluttante fuori dalla stanza, Ago rivolse uno sguardo carico d'odio a Margaret. I due uscirono. Ci fu un altro lungo silenzio. Chen guardò minacciosamente il suo vice e, in cinese, gli chiese: «Che cosa sta succedendo, Li?». «Non lo so» fece quello con un'alzata di spalle. «Noi non ci comportiamo così.» «No, certo.» Chen si rivolse allora a Margaret, in inglese: «Grazie, dottoressa Campbell, ci è stata di grande aiuto». E poi di nuovo al suo vice, in cinese: «Se la cosa si ripete, la caccio». Appena Li Yan e Margaret furono in corridoio, lei gli disse: «Devo parlarle». Si preannunciava una bufera. Lui sospirò. «Non possiamo aspettare?». «No, devo parlarle subito!» Entrarono nella stanza degli investigatori: tutti si girarono verso di loro in ansiosa attesa. Margaret puntò con decisione all'ufficio di Li. Il suo viso non prometteva niente di buono. Con aria riluttante e grande disappunto dei colleghi, lui la seguì chiudendosi la porta alle spalle. «Bastardo! Per questo mi ha portato con sé, stamattina: perché io mentissi a suo favore!» Era fuori di sé. Lui scrollò le spalle con aria innocente. «Ma come facevo a sapere che avrebbe mentito per me?» Lei lo fissò furente: avrebbe voluto prenderlo a pugni e calci. «A proposito, perché l'ha fatto?» chiese lui con aria innocente. Margaret volse lo sguardo altrove e cercò di calmarsi e riprendere il dominio di sé. «Bella domanda, me lo sono chiesta anch'io. Forse...» Prese un
po' di fiato «... forse non volevo che suo zio si vergognasse di lei». Un pensiero improvviso, e Margaret lo fulminò. «Per questo mi ha portato da lui oggi pomeriggio? Voleva farmelo conoscere in modo che, trovandolo simpatico, facessi di tutto per non vederlo disonorato dal comportamento del nipote?» «No, certo.» «Sono stata proprio una stupida a non capire il motivo per cui stamattina mi ha portata allo stadio. Voleva un testimone, una persona credibile. Sapeva che non l'avrei tradita, indipendentemente da quanto disapprovassi quello che aveva fatto.» Attese inutilmente una qualsiasi reazione da parte di lui. «Non è così?» Li Yan non sapeva che cosa dire. Margaret lo fissò per qualche minuto, poi scoppiò a ridere. Lui la fissò sbalordito. «Che cosa c'è di tanto divertente?» «Lei. No, non lei, io. Pensavo che lei fosse un tipo timido e sensibile.» «Ma lo sono» protestò lui sorridendo. «Lei,» e gli puntò contro un dito «è un bastardo, egoista, insensibile, freddo e calcolatore! E sarà meglio che mi offra la cena, sto morendo di fame!» Erano passate le sette e mezza quando la BMW si diresse a sud, costeggiando il lato occidentale di piazza Tien-An-Men. Nel cielo del tardo pomeriggio si addensavano grosse nubi minacciose. La luce aveva un curioso colore rosato, come se il mondo fosse coperto da una pellicola colorata. L'aria era opprimente, l'afa quasi insopportabile. Un vento infuocato investiva la folla sulla piazza, spingendo gli aquiloni in alto, nel cielo grigio. Anche nell'auto l'atmosfera era opprimente. Lily era chiaramente seccata di non essere stata messa al corrente di quanto era accaduto nell'ufficio di Chen. Ed era ancora meno contenta di essere stata esclusa dall'appuntamento che Margaret e Li Yan avevano preso per quella sera. Margaret cominciava a non poterne più di quella donna e i loro ultimi scambi di battute erano stati tesi e stizziti. Non capiva se Lily avesse l'ordine di sorvegliarla o se fosse invadente e ficcanaso per natura. Una terza possibilità era che fosse gelosa, che avesse mire segrete nei confronti di Li Yan. Qualunque fosse la verità, Margaret non vedeva l'ora di liberarsi di lei. Svoltarono in Qianmen Xidajie e passarono dall'università per recuperare la bicicletta di Margaret. Shimei, l'autista, le aveva assicurato che avrebbero potuto infilarla nel bagagliaio.
Lily aveva insistito per riportare Margaret in albergo e lei non era dell'umore di discutere. Inoltre, doveva passare al Laboratorio della scientifica per chiedere a Xie di far eseguire altri test sul sangue di Chao e stabilire se avesse l'AIDS. Poi, via in albergo: un'altra rapida doccia, un veloce cambio di abito e un taxi per andare all'appuntamento con Li Yan in Wangfujing Dajie. A questo pensiero, si sentì percorsa da un brivido di eccitazione. Ora i suoi sentimenti verso di lui erano tremendamente confusi. Ma, per la prima volta dopo molti mesi, sentiva la sua mente lavorare a pieno ritmo e i sensi acuirsi: si sentiva di nuovo viva. CAPITOLO OTTAVO Mercoledì sera 1 Il cielo era scuro e minaccioso e l'afa soffocante. La camicia di Li Yan, la terza di quel giorno, era già tutta inzuppata di sudore. Arrivando alla libreria per stranieri di Wangfujing Dajie dalla stazione aveva visto l'ora e la temperatura: erano le 20.10 e c'erano 37 °C. Quella sera, il cielo sarebbe stato certamente illuminato a giorno dai fulmini e percorso dal rombo dei tuoni e un diluvio sarebbe sceso sulla città. Una pioggia bollente e torrenziale avrebbe spazzato via la polvere delle ultime settimane. Poi l'aria sarebbe diventata più fresca e respirabile. Un taxi accostò al marciapiede e ne scese Margaret. Il fatto di vederla mise subito Li Yan di buonumore. Si era truccata un po': le labbra erano di un rosso caldo e l'azzurro degli occhi era accentuato dall'ombretto scuro. Indossava un paio di comodi pantaloni di cotone, una camicetta di seta a maniche corte e un paio di scarpe da tennis bianche. La profonda scollatura lasciava intravedere i seni e ne metteva in risalto la pienezza. I capelli ricadevano in morbide onde sulle spalle. Gli corse incontro con un sorriso affettuoso e, per un attimo, lui pensò che avrebbe alzato la testa e l'avrebbe baciato. A quell'idea, provò un misto di paura e di piacere. Ma lei si limitò a salutarlo. «Salve.» «Salve» rispose lui, improvvisamente imbarazzato. Accidenti, era veramente bella! Margaret lo prese sottobraccio. «Dove mi porta?» «Qui vicino.» Si incamminarono verso nord, lungo la strada.
Wangfujing Dajie era la principale via commerciale di Pechino, costellata di grandi magazzini, boutique, studi fotografici, gioiellerie. Tutti i negozi erano ancora aperti. I marciapiedi brulicavano di persone che entravano e uscivano dai fast food; filobus, taxi, auto private e biciclette affollavano la strada. Lungo quasi tutto il lato est della via erano in corso lavori edili. «Qui sotto stanno costruendo una strada sotterranea lunga trecento metri, su tre livelli.» «Perché?» «Per metterci altri negozi. I cinesi non riescono a spendere abbastanza in fretta i loro soldi. Comunque, questa strada è sempre stata un posto da ricchi; il suo nome deriva dalle residenze principesche che erano state costruite qui all'epoca della dinastia Ming e dai loro pozzi di acqua dolce.» Improvvisamente, Margaret sentì un forte odore di cibo affumicato diffondersi nell'aria afosa. «Mmm, che profumino!» Li Yan sorrise. Svoltarono e la donna si fermò stupefatta a osservare la scena che le si parava davanti. «Il mercato serale di Dong'anmen» spiegò lui. Verso nord si stendeva a perdita d'occhio una fila di bancarelle di generi alimentari, davanti alle quali si accalcavano centinaia di persone che passavano rapidamente dall'una all'altra comprando un piatto qui, uno spiedino là, uova strapazzate, spaghetti. Sotto dozzine di tendoni a righe sistemati uno di fianco all'altro sotto gli alberi, su bracieri all'aperto erano sistemati giganteschi wok in cui venivano fritti cibi di ogni sorta. Sulle piastre di cottura sibilavano enormi bollitori di rame dai quali si levavano dense nuvole di vapore: scaldavano l'acqua che, versata da lunghi beccucci incurvati, serviva a preparare una densa e dolce pasta di mandorle. Li Yan guidò Margaret attraverso la folla, davanti alle bancarelle traboccanti di carne e verdura arrostita, pesci interi, piccole quaglie alla griglia infilate negli spiedi. Dozzine di cuochi in camici e berretti bianchi sudavano su tini esalanti vapore, estraendone rastrelliere di bambù sulle quali erano distesi fagottini di pasta ripieni di carni saporite o di loto dolce. Riso, spaghetti e zuppe venivano serviti in ciotole che poi venivano gettate in appositi bidoni ai lati della strada. Ma quello era un luogo non solo per mangiare, ma anche per chiacchierare sotto le lanterne appese agli alberi. I cuochi invitarono a gran voce Margaret e Li Yan a provare le loro specialità. «Tre yuan alla volta» disse lui. «Prenda quello che vuole, basta indicarlo con il dito.» Presero ciotole di riso e satay arrosto con un'ottima salsa piccante di ara-
chidi, uova fritte in pastella, spaghetti e verdure sottaceto. Tra una pietanza e l'altra si rinfrescarono la bocca con tocchetti di anguria infilzati su stecchini. Assaggiarono poi spiedini di maiale marinato, spiedini di manzo fritti con semi di sesamo e soia, cubetti di ananas rivestiti di semi e appena scottati e dolci di pasta di mandorle. «Basta, Basta! Non ce la faccio più!» Margaret protestò ridendo. «Mi porti via di qui, sto scoppiando.» Era impossibile guardare tutto quel ben di Dio senza desiderare di assaggiare ogni cosa. «Ha gli occhi più grandi della bocca» scherzò lui, allegro. «Se non sto attenta, non riuscirò più a entrare nei vestiti.» E lo prese con naturalezza sottobraccio. Voltandosi, sfregò il seno contro il suo avambraccio e avvertì un leggero fremito nell'intimo. Sapeva che lui se n'era accorto perché lo sentì irrigidirsi. Gli lasciò il braccio e si scostarono un po', imbarazzati e a disagio, incamminandosi lentamente. Lei fece un rapido calcolo: per tutto quel cibo, Li Yan aveva speso circa venticinque yuan, poco più di tre dollari. Poi, con una fitta di rimorso, ricordò quanto poco guadagnassero i cinesi rispetto agli occidentali. Decise che, la volta successiva, avrebbe offerto lei. Passeggiarono pigramente in mezzo alla folla dirigendosi verso la Città Proibita. Margaret gli riprese il braccio e lo guardò. Ma come aveva fatto a trovarlo brutto? «Com'è che non si è sposato?» Senza cambiare il ritmo del passo e continuando a guardare avanti, lui rispose: «In Cina, la gente viene incoraggiata a non sposarsi giovane». Lei lo guardò, scettica. «Ed è per questo che lei non si è sposato?» «No, non ho mai incontrato nessuna donna che desiderassi sposare.» Era arrossito. «I poliziotti sono tutti uguali, in ogni parte del mondo. Il loro non è un lavoro, è una missione.» Fino a un paio d'ore prima, Li Yan pensava che ciò valesse anche per lui. Aveva avuto come modello lo zio: vedovo, solo, era riuscito ad arrivare dove voleva. Non aveva mai conosciuto sua zia, non riusciva neanche a immaginare il vecchio Yifu con lei. Aveva però sempre saputo quanto la moglie gli mancasse. Ma quel giorno, nel parco con Margaret, il vecchio aveva rivelato di sé più di quello che aveva detto al nipote in dodici anni. E, per la prima volta, si era reso conto che in tutti quegli anni il lavoro, il successo erano stati per Yifu solo un modo di riempire il vuoto lasciato dalla morte della moglie. Lo zio avrebbe scambiato volentieri tutto quello che aveva per poter passare anche solo altri cinque preziosi minuti insieme
a lei. Adesso Li Yan si chiedeva che cosa fosse a sostenere lui. Se nella sua vita c'era un vuoto, c'era da sempre. Non ricordava di aver mai condiviso la vita con una persona amata. Non sapeva neppure che cosa fosse l'amore. Era stato separato dai genitori quando era ancora molto piccolo, l'avevano strappato a sua madre e non l'aveva più rivista. Ora capiva che, per lui, il lavoro non era un modo di vivere, ma un'alternativa alla vita. Margaret vide un'ombra di tristezza sul volto di Li: i suoi occhi scuri divennero profondi e languidi, quasi dolenti. «Uno yuan per i suoi pensieri.» «Eh?» La guardò disorientato. «A che cosa sta pensando?» Si distolse dalle sue riflessioni e si costrinse a sorridere. «Non ne vale la pena.» E, cambiando argomento: «Ha sete?». «Moltissima.» «Allora andiamo a prendere un tè, conosco un posto.» La libreria Sanwei si trovava in una stradina laterale di Fuxingmennei Dajie. Era una via buia e silenziosa, grandi alberi frondosi oscuravano la luce dei lampioni e attutivano lo strepito del traffico del viale. Hutong bui racchiudevano un labirinto di siheyuan polverosi e in rovina. La gente del quartiere aveva lasciato gli spazi angusti e irrespirabili delle minuscole case e si era riversata sui marciapiedi a bere tè e a chiacchierare pigramente. Gli uomini giocavano a scacchi mentre i bambini si rincorrevano sui marciapiedi, esaurendo le ultime energie e la pazienza delle madri nell'afa notturna. Alla fine di Wangfujing Dajie, Li Yan e Margaret avevano preso l'autobus numero 4. Era stata un'esperienza nuova, per lei: c'erano solo posti in piedi e si era ritrovata schiacciata tra la gente e circondata da facce curiose che la fissavano con manifesto stupore. Gli yangguizi non prendevano mai l'autobus e questa poi era davvero strana, con quei capelli biondi e gli occhi azzurri. Un bambino, saldamente aggrappato alla madre non le aveva staccato gli occhi di dosso per tutto il viaggio. Non erano riusciti a scendere alla fermata di Fuxingmennei Dajie ed erano dovuti tornare indietro a piedi, superando Radio Pechino e Telecom Pechino e arrivando, attraverso un sottopassaggio pedonale, sul lato sud della strada, oscuro e in rovina. La libreria Sanwei, che significava "tre sapori", come le aveva spiegato Li Yan, aveva una vetrina anonima e un'entrata buia dietro a una fermata d'autobus. Un cartello appoggiato al muro esterno annunciava l'esibizione di una jazz band il giovedì sera. A Marga-
ret sembrò un luogo improbabile per bere il tè. «È qui? Andiamo a bere una tazza di tè in una libreria? E se veniamo domani, c'è un concerto di jazz?» «La sala da tè è al piano superiore» spiegò Li Yan sorridendo. La condusse in un piccolo atrio. La libreria era al piano inferiore, al di là di una porta a vetri: file e file di scaffali su cui erano allineate migliaia di libri e commessi che ciondolavano nei corridoi. In quel momento non c'erano molti clienti. Margaret e Li Yan salirono una rampa di scale e si ritrovarono in un altro mondo. Davanti a loro si apriva una stanza che sembrava calata in un'altra epoca: tranquilla e silenziosa, elegante e avvolta dalla penombra, appartata e irreale, era una vera oasi rispetto alla strada desolata e afosa che avevano appena lasciato. Sull'alto soffitto giravano pigre le pale dei ventilatori facendo muovere le lanterne di carta appese sopra i tavoli e le sedie di legno scuro laccato. Lungo una parete correva uno stretto corridoio delimitato da un basso muro e da alte colonne mentre lungo l'altra erano disposti alcuni paraventi di legno intagliato che creavano dei séparé. Dappertutto c'erano vasi di piante in fiore, e fiori freschi sui tavoli. Alle pareti erano appesi dipinti cinesi tradizionali e moderni. Li accolse una cameriera che li guidò a un tavolo posto in un séparé. Il locale era vuoto. Il frastuono del traffico era un lontano ricordo e l'aria condizionata disperdeva l'afa notturna. La ragazza accese una candela sul tavolo e porse loro il menu. Margaret si sentiva intimidita, e quasi non osava parlare ad alta voce. «È sorprendente, non si direbbe mai che qui ci sia un posto del genere.» «È frequentato da artisti, scrittori e musicisti. Alla fine della settimana è molto affollato e di solito suonano, ma negli altri giorni è un posto tranquillo.» I suoi occhi che riflettevano la luce tremolante delle candele sembravano carboni ardenti. «Che cosa vuole bere?» «Tè.» Ordinarono e la ragazza portò un vassoio di stuzzichini. Margaret scelse semi di girasole tostati. Il tè fu servito in tazze di porcellana a disegni multicolori posate su piccoli piatti fondi e protette da coperchi. Dopo aver versato l'acqua bollente su un pizzico di foglie verdi poste sul fondo delle tazze la cameriera si allontanò. Li Yan rimise il coperchio sulle tazze. «Meglio aspettare qualche minuto.» Rimasero silenziosi per un po'. Il loro non era un silenzio teso, né imbarazzato, ma calmo e tranquillo: era come se le parole fossero inutili. Li
Yan osservò le mani di Margaret, meravigliandosi del colore roseo della pelle sotto le unghie, della delicatezza di quelle dita che maneggiavano gli strumenti per le autopsie, che sezionavano i cadaveri per svelare i misteri della morte. «Che cosa l'ha convinta a fare il medico?» le chiese a un tratto, quasi senza volerlo. E subito si pentì, temendo di averla offesa con il suo tono. Ma lei si limitò a sorridere. «Perché? È una cosa tanto tremenda?» «Scusi, non volevo...» rispose lui a bassa voce scuotendo la testa. «Sa, quando diceva agli studenti che ero impressionato dalle autopsie, aveva ragione.» Margaret lo fissò sorpresa. «Ma vi avrà assistito decine di volte!» «È vero, e ogni volta mi è venuto da vomitare.» «Poveretto» commentò lei con un sorriso. «Non riesco proprio a immaginare come uno possa voler fare un mestiere del genere. Aprire i cadaveri. Oppure gli esseri viventi... in effetti, questo è forse anche peggio: le malattie e il cancro, la gente che muore.» «È proprio questa la ragione che mi ha spinta: la gente che moriva sotto i ferri. È molto più facile avere a che fare con i morti, a loro non ci si affeziona.» Tolse il coperchio alla tazza e sorseggiò il tè. Era ancora molto caldo, e tuttavia deliziosamente rinfrescante. «Ero convinta che la medicina fosse una vocazione, un'idea con cui si nasce, ma adesso sono più cinica. La maggior parte dei medici che conosco esercita la professione per i soldi. Ho sempre desiderato fare il medico, fin da quando ero piccola: aiutare la gente, salvare vite umane, lenire il dolore. Ma non è così: non ci sono mai abbastanza soldi né tempo. Quando ti laurei, pensi di sapere tutto, poi scopri che non sai proprio nulla. Qualsiasi cosa tu faccia, non è mai abbastanza. Quando lavoravo al pronto soccorso del Centro medico dell'università, avevo quasi tutti i giorni pazienti che morivano: vittime di accoltellamenti o aggressioni, poveracci estratti dai rottami delle auto, ragazzini investiti dalle macchine, suicidi, gente mutilata di braccia oppure ustionata dalla testa ai piedi, in modo così grave da perdere la sensibilità. Se ne stavano lì, ti parlavano e tu sapevi che non ce l'avrebbero fatta, entro un paio d'ore sarebbero morti. Si parla di pazienti traumatizzati, ma molto spesso i medici lo sono altrettanto. C'è un limite a quello che un essere umano può sopportare prima di diventare una specie di automa. I morti? I morti ormai sono morti. Il corpo è solo un involucro e io posso essere fredda e distaccata e preoccuparmi dei dettagli clinici dell'autopsia
perché, chiunque fosse, quella persona adesso non c'è più.» Il tè si stava raffreddando. Margaret ne bevve una lunga sorsata e sgranocchiò qualche seme di girasole. «Forse i medici sono un po' come i poliziotti» intervenne Li Yan. «Nessuna vita privata.» Lei gli scoccò una rapida occhiata, poi distolse in fretta lo sguardo. «Ha ragione, nessuna vita privata decente.» Li Yan si fece coraggio e si avventurò in quel territorio sconosciuto e potenzialmente insidioso cui già altre volte si era accostato. «È per questo che avete divorziato, lei e suo marito?» Margaret lo fissò diritto negli occhi. «Ma non abbiamo divorziato.» Lui rimase sorpreso, confuso e deluso. «Ma ha detto che non eravate più...» «È morto» lo interruppe lei con semplicità. «Oh!» Lui si rese conto di trovarsi su un terreno minato. «Mi dispiace.» «Non si scusi, a me non dispiace.» Ma la sua voce era tesa e incrinata. Cercò di dominarsi e rimase in silenzio per qualche istante, osservandosi le mani. «Michael era un bell'uomo» riprese poi. «Tutte le ragazze lo trovavano fantastico e, quando ci siamo fidanzati, le mie amiche mi considerarono fortunata. E lo pensavo anch'io. Ma cosa puoi capire a ventiquattro anni?» Fece un profondo respiro. «Aveva qualche anno più di me, e io lo ammiravo. Era così intelligente e appassionato, soprattutto del suo lavoro! Si metteva contro le istituzioni, assumeva posizioni anticonvenzionali e diceva sempre quello che pensava, anche a scapito della sua carriera. Per questo era finito a insegnare al Roosevelt anche se poteva mirare più in alto. Io lo ammiravo per i suoi principi.» Al ricordo, sorrise tristemente. «All'inizio rimanevamo svegli fino a tardi a discutere, fumavamo erba, bevevamo birra e cercavamo di cambiare il mondo, come fanno gli adolescenti. In effetti, eravamo solo ragazzini un po' cresciuti. Ma poi la vita iniziò a prendere il sopravvento, almeno per me. Sa com'è: cominci a lavorare, sei l'ultimo arrivato. Ti fanno lavorare a tutte le ore e tu accetti perché vuoi fare carriera. Michael voleva dei figli, io no, almeno per il momento. Avevo ancora molte cose da fare, e non volevo rinunciarvi per la maternità. Avrei avuto tempo per quella in seguito, almeno così pensavo. Così forse è stata colpa mia se lui ha cominciato a interessarsi alle altre donne. In realtà penso che l'avesse sempre fatto, ma io l'ho saputo solo quando è venuto fuori al processo.» Si interruppe. Perché gli stava raccon-
tando quei particolari? Le parole le uscivano di bocca. Alzò lo sguardo e vide i suoi occhi fissi su di lei, profondi, scuri e pieni di comprensione. Poi, per un istante, guardò la cameriera ciondolare pigramente tra i tavoli, sistemando una sedia che probabilmente aveva già sistemato una dozzina di volte o spolverando un tavolo. «Avrei dovuto saperlo fin dai tempi dell'università» proseguì. «C'è sempre un professore, magari più giovane degli altri, che tutte le ragazze trovano attraente. E, per un semestre, o magari un anno, una studentessa ha una relazione appassionata con lui. "Abbiamo tante cose in comune" dice alle altre. "È così intelligente, maturo, esperto." Alla fine dell'anno, la ragazza prosegue per la sua strada e, l'anno dopo, il professore avvia una nuova relazione appassionata con un'altra studentessa che, con occhi splendenti, trova che lui è così intelligente, maturo, esperto.» Sorrise amaramente. «Michael era un tipo così: ogni anno, una nuova studentessa o magari anche un paio. E rimanevano svegli fino a tardi a fumare erba, bere birra e cercare di cambiare il mondo. Mentre io lavoravo novantacinque ore alla settimana come medico interno, facendomi il culo per la carriera.» I suoi occhi iniziarono a riempirsi di lacrime e fu presa dal panico: si sarebbe messa a piangere e non voleva. Sbatté le palpebre furiosamente e un paio di gocce caddero sul piano laccato del tavolo. Bevve avidamente tutto il tè. Senza una parola, Li Yan le riempì di nuovo la tazza e lei sentì la sua mano sulla propria, ferma, asciutta e piena di calore. Lo guardò cercando coraggiosamente di sorridere. «Scusi, non volevo... Non avrei mai dovuto iniziare» sospirò. «Non si preoccupi. Se vuole, prosegua. Altrimenti, lasci perdere.» Margaret ritrasse la mano, prese un fazzoletto dalla borsa e si asciugò gli occhi, inspirando profondamente un paio di volte per calmarsi. «La prima volta che ebbi qualche sospetto fu quando la polizia venne ad arrestarlo.» Ricordava chiaramente quella notte. «Allora lavoravo all'ufficio del medico legale della contea di Cook. Quella sera rincasai tardi, ma Michael era ancora sveglio. Aveva fumato parecchi spinelli ed era molto strano. C'era stato un omicidio nel campus, nel dormitorio degli studenti. Una sua allieva, una diciannovenne, era stata violentata e picchiata a morte; ne avevamo parlato il giorno prima. Sembrava molto scosso. Io crollai addormentata sul divano e mi svegliò la polizia che bussava alla porta. Erano le sei della mattina. Non riuscivo a capire bene che cosa stesse accadendo. Gli lessero i suoi diritti, lo ammanettarono e lo portarono via. Continuava a ripetere: "Non sono stato io, Mags, non sono stato io".»
Margaret lanciò un'occhiata a Li e lui colse nel suo sguardo una sfumatura di vergogna. «E io gli credetti. O, almeno, volli credergli. Il processo fu un incubo. Naturalmente si dichiarò innocente, ma le prove legali e il risultato del test del DNA erano schiaccianti. L'accusa affermò che aveva bevuto e aveva reagito con violenza quando la ragazza lo aveva respinto. Era abituato a ottenere quello che voleva con le studentesse giovani, carine e influenzabili che gli cadevano ai piedi, anno dopo anno. Al banco dei testimoni si avvicendò una lunga processione di ragazze che descrissero in dettaglio i loro rapporti con mio marito.» Si fermò un attimo per riprendere il controllo. «Io sapevo che tutto quello che dicevano era vero: Michael era proprio così. Ero furibonda con me stessa per non essermene accorta. Non avevo difficoltà a credere a ciò che dicevano di lui, quello che non riuscivo a credere era che fosse un assassino. I parenti, gli amici, tutti erano della mia stessa opinione: Michael era stato un mascalzone, certo, ma un assassino? No, non lui. Non il mio caro, dolce e intelligente Michael, con tutte le sue grandi idee democratiche e le sue preoccupazioni per il bene dell'umanità. Quindi feci tutto il possibile per cercare di invalidare le prove contro di lui: il sangue, lo sperma, le fibre raccolte sulla scena del delitto. Erano prove inquinate, tutte quante. Sostenni che la polizia aveva fatto un lavoro poco accurato. I suoi avvocati fecero molto, ma non bastò. Michael non era O.J. Simpson, non poteva permettersi i migliori avvocati. Il processo durò tre settimane e dovemmo pagare tutto fino all'ultimo centesimo, perdemmo l'automobile e la casa. Io andai ad abitare da un'amica.» Fece una lunga pausa, assorta nei suoi pensieri. «La giuria lo dichiarò colpevole e lo condannò a morte. E lui continuava a ripetere: "Non sono stato io, Mags. Devi credermi, non sono stato io". Così cominciai a farmi prestare i soldi per avviare la procedura di appello. Ma le cose non andavano bene e, ogni volta che andavo a trovarlo, era sempre più depresso. Poi una notte ricevetti una telefonata: si era impiccato nella sua cella. Era morto, era tutto finito e io ero ancora convinta che fosse innocente, vittima di un terribile errore giudiziario. Era quello che dicevano anche i miei genitori e gli amici. Mi hanno sostenuta moltissimo. Ho pianto per quasi dodici ore, finché sono stata così male da non sentire più nulla. Il giorno dopo ricevetti una lettera, me la infilarono sotto la porta. Era la sua calligrafia, la riconobbi subito. Era come se fosse tornato dal regno dei morti: non mi ero ancora abituata all'idea che non ci fosse più. La lettera non diceva molto.» Si morse un labbro. «"Cara Mags, mi dispiace moltis-
simo, ma non posso continuare a vivere con questo peso. Non volevo ucciderla, credimi. Ti ho sempre amata, Mikey."» Grosse lacrime scorrevano sulle guance di Margaret. «Non poteva vivere con quel peso ma, accidenti a lui, ha obbligato me a viverci! Era come se me ne avesse scaricata addosso tutta la responsabilità. Aveva ucciso quella ragazza: l'aveva violentata e poi picchiata fino a fracassarle il cranio. Mi aveva mentito su tutto, perché non poteva mentirmi un'ultima volta?» Si premette il pugno contro la bocca e si morse le nocche. Lui si chinò avanti, le prese delicatamente la mano e la tenne tra le sue mentre lei singhiozzava. Le lacrime cadevano sul tavolo in pesanti gocce, luccicando alla luce tremula della candela. Passò del tempo prima che potesse riprendere a parlare. Il fazzoletto era zuppo, gli occhi rossi e gonfi, le guance chiazzate di rosso. «Non l'avevo detto a nessuno, prima. Della lettera, intendo. Era più facile continuare a lasciare che tutti credessero a quella bugia o, almeno, non insinuare dubbi in loro.» «Si sente meglio adesso che me lo ha detto?» le chiese lui, gentile. «Forse le sembrerà impossibile,» e fece un mezzo sorriso tra le lacrime «ma sono mesi che non mi sento così bene.» Margaret non sapeva perché glielo avesse detto. Forse perché era un estraneo, lontanissimo dalla sua vita, dalla sua casa, dai suoi amici e dai suoi parenti. Di lì a poche settimane sarebbe salita su un aereo, avrebbe riattraversato il Pacifico e non l'avrebbe più rivisto. O perché si sentiva così vicina a lui, attratta da quegli occhi scuri e profondi e dalla sensibilità che rivelavano. Ma forse semplicemente perché sentiva il bisogno di dirlo a qualcuno, a qualsiasi persona. Il peso del senso di colpa, del dolore e della confusione era diventato eccessivo, non riusciva più a sostenerlo. E già si sentiva più leggera. Ma era contenta di averlo detto a Li Yan e, in quel momento, lo sentì vicino come non le era capitato con nessuno da anni. Anche Li Yan si domandò perché Margaret si fosse confidata proprio con lui. Quasi lo spaventava essere il confidente di qualcosa di tanto personale, di condividere così profondamente il dolore di un'altra persona. Ma si sentiva anche un privilegiato: Margaret gli era apparsa molto vulnerabile, rivelando un'enorme fiducia in lui, anche se di lì a poche settimane avrebbe preso un aereo e sarebbe uscita per sempre dalla sua esistenza. Nei suoi trentatré anni non si era mai sentito tanto attratto da qualcuno come da lei. Aveva quasi paura di parlare, di fare qualcosa che potesse rovinare quel momento magico. La mano di Margaret stretta nella sua gli sembrava piccolissima. Fece scorrere leggermente il pollice sulle vene azzurrine del
dorso e sentì il sangue pulsare. Voleva stringerla a sé, sentire la vita e il calore del suo corpo, e proteggerla. Ma non fece nulla, non disse nulla. Dopo un po' lei fece un breve sospiro, ritrasse la mano e si mise alla ricerca di un altro fazzoletto nella borsa. Non lo trovò. «Avrò un aspetto orribile.» «Non più del solito.» Sul viso di Margaret tornò il sorriso, ma lacrimoso e triste. «Devo assolutamente bere qualcosa di più forte del tè.» 2 La notte buia era carica della strana atmosfera di attesa che precede lo scatenarsi di un acquazzone. La gente si affollava ancora sui marciapiedi e sotto gli alberi, ma tutto era più tranquillo: i bambini si erano acciambellati in braccio alle madri, le partite di carte erano meno animate. Gli uomini fumavano in silenzio, il vento torrido di poco prima si era calmato e dalle sigarette si alzavano pigre colonne di fumo. Pulviscolo e umidità aleggiavano nell'aria, resa azzurrognola dalla luce dei proiettori di un cantiere al di là del viale. Sembrava che tutto e tutti aspettassero la pioggia. Li Yan e Margaret si avviarono lentamente verso est oltrepassando botteghe di barbiere vivacemente illuminate e negozietti di scarpe e biancheria intima, che proiettavano grandi rettangoli luminosi nell'oscurità. Dalle finestre aperte sui vicoli proveniva l'acciottolio delle stoviglie lavate nelle cucine dei ristoranti. Li Yan teneva Margaret per mano e lei era felice, confortata dal calore e dalla forza che emanava. «Conosco un bar, a Xidan, dove possiamo bere qualcosa» disse lui. Camminavano in silenzio: lui con la mente occupata dalle recenti confidenze di lei, lei completamente svuotata e felice di non pensare a nulla, di non provare finalmente più rimpianto, tristezza o dolore. Passarono davanti a una bottega dove riparavano scarpe e duplicavano chiavi; la vetrina dava su un piccolo laboratorio in cui un vecchio con una tuta unta sudava su una forma da scarpe. Accanto alla macchina per duplicare le chiavi erano allineate lunghe file ordinate di matrici. Margaret si fermò sfilando la mano da quella di Li. Lui la guardò e vide che osservava attentamente attraverso la vetrina, con il volto concentrato. Cercò di capire che cosa stesse osservando, ma vedeva solo il vecchio al lavoro e le file di matrici. «Che cosa c'è?» I suoi occhi adesso non erano più velati di tristezza ma scintillavano alla
luce della vetrina. «La chiave, la chiave del cancello delle scale. L'assassino deve averla usata per aprire il cancello. Poi forse l'ha richiuso dietro di sé, ma questo non ha importanza. Quello che importa è che non l'ha lasciata nella serratura e non l'ha buttata per terra. Deve essersela messa in tasca.» Li Yan rimase totalmente disorientato. «Ehi, aspetta un attimo! Di che cosa stai parlando?» «Possiamo andare al parco?» «Adesso?» «Sì, adesso.» «Ma è buio pesto. E poi sarà chiuso.» «Questo non ha impedito all'assassino di entrare.» Ora gli occhi di Margaret ardevano di una strana intensità. «Ti prego, Li Yan, potrebbe essere importante.» Mentre tornavano in taxi alla Prima Sezione per prendere una macchina e una torcia, Margaret rimase in silenzio. Forse si sbagliava, ma voleva che lui ripercorresse i passi dell'assassino sulla scena del delitto. Così avrebbe capito se la sua ipotesi aveva senso. Lui non si oppose. Percorsero le strade deserte del quartiere delle ambasciate intorno al parco Ritan. La luce dei lampioni era smorzata dagli alberi. I cancelli del parco affacciati su Guanghua Lu, di giorno piena di vita e affollata di venditori ambulanti di ogni genere, erano chiusi e minacciosi. Il parco era immerso nell'oscurità. «È una pazzia, non possiamo aspettare domani mattina?» «No.» Margaret scese dalla jeep e si mise a scavalcare il cancello. «Suvvia, non è difficile. E porta con te la torcia.» Lui ubbidì con un sospiro. Chissà se l'avrebbe assecondata se, solo un'ora prima, lei non gli avesse fatto quella confessione o non avesse suscitato in lui sentimenti così intensi... Non ne aveva la minima idea, non si era mai sentito così. Scavalcò facilmente il cancello e si lasciò cadere dall'altra parte, vicino a Margaret. Un viale lungo e diritto, fiancheggiato da alberi e panchine, si perdeva verso nord nell'oscurità. Quando si addentrarono nel parco, allontanandosi dalle luci della strada, lui accese la torcia per guidarla, attraverso il labirinto di sentieri, verso il lago. Il parco, di giorno così aperto e ospitale, inondato dalla luce del sole e pieno di persone in cerca di solitudine e relax, appariva stranamente minaccioso nell'oscurità: il tramestio degli animali notturni nel sottobosco, il
cupo richiamo di un gufo, il tonfo di qualcosa nell'acqua quando si avvicinarono al lago. L'aria calda della notte era invasa dal dolce profumo dei pini, i rami dei salici ricadevano flosci e inerti, sfiorando pigramente con le foglie il pelo dell'acqua immobile. La torcia illuminò il ponte che conduceva al padiglione, bianco nell'acqua nera. «Da questa parte.» Li Yan la prese per mano e la guidò lungo la riva orientale del lago fino al sentiero polveroso che conduceva allo spiazzo dove, meno di quarantotto ore prima, le gemelle e la baby-sitter erano incappate nel rogo del corpo di Chao Heng. Un nastro giallo era stato teso per tenere lontani i curiosi. Li Yan lo scavalcò ed entrò insieme a Margaret nello spiazzo. La scena del delitto era delimitata da una linea tracciata con il gesso che riluceva bianca al bagliore della torcia. Al centro dello spiazzo era rimasta una zona carbonizzata, ma all'odore di bruciato si era già sostituito l'aroma penetrante degli abeti e delle robinie. Quel luogo era carico di desolazione e di mistero e appariva monocromo nella fredda luce della torcia elettrica. Improvvisamente il cielo fu squarciato da un fulmine, seguito da vicino dal rombo di un tuono. Iniziarono a cadere le prime grosse gocce di pioggia, che scavarono minuscoli crateri nella polvere. «Sarà meglio che ci sbrighiamo, o ci bagneremo fino al midollo» sollecitò Li Yan. Ma Margaret non lo ascoltava. Si muoveva con circospezione nello spiazzo, guardando fra i rami dei cespugli che lo circondavano e alla fine si fermò di fronte al sentiero opposto a quello da cui erano venuti. Li la seguiva illuminando il terreno con la torcia. «Indossava i guanti, vero?» domandò lei. «Non ha lasciato impronte, né nell'appartamento, né sulla latta di benzina. Quindi deve averli indossati.» «Okay. Dunque, ha portato qui Chao al buio, si è seduto, ha fumato una sigaretta e ha aspettato che facesse chiaro. Quando hanno trovato il corpo in fiamme le bambine...?» «Verso le sei e mezza.» «Il parco era aperto da circa mezz'ora. Ha cosparso di benzina la vittima e ha acceso un fiammifero. Voleva che il corpo fosse trovato mentre ardeva ancora. Perché? Forse per un macabro effetto teatrale o per creare un diversivo e potersi allontanare indisturbato.» Margaret si girò. «L'assassino se l'è filata da questa parte, attraverso il sottobosco, dato che nessuno l'ha visto allontanarsi lungo il sentiero da cui sono arrivate le gemelle.» E si inoltrò tra i cespugli e gli arbusti; Li si affrettò a seguirla. «Poi è sbucato
su un sentiero da qualche parte, là in fondo» proseguì indicando vagamente con la mano nell'oscurità. La pioggia cadeva a grosse gocce, con scarsa intensità. Un altro lampo e un tuono, questa volta più vicini. «Ma non poteva andarsene senza essere notato se indossava i guanti, soprattutto in una mattina d'estate calda e afosa. Avrebbe potuto infilarseli in tasca ma, mettiamo che qualcosa sia andato storto e lo abbiano fermato...» Continuò ad avanzare nel sottobosco, sempre seguita da Li Yan. «Per uno scherzo del destino, l'allarme viene dato prima di quanto lui avesse previsto. Al cancello c'è uno sbirro che ferma tutti quelli che escono. L'assassino non vuole che lo trovino con un paio di guanti in tasca, sporchi di benzina o magari di sangue. Allora li butta via, lontano, da qualche parte nel sottobosco.» Mimò il gesto. «Così non avrebbe avuto importanza se li avessero trovati; non avrebbero potuto certo collegarli a lui. Ma poi si ricorda una cosa: accidenti! gli è rimasta in tasca la chiave del cancello delle scale dell'appartamento di Chao! Se lo avessero fermato, quella sì avrebbe potuto collegarlo alla vittima. È un'ipotesi molto remota, ma questo è un tipo che non vuole correre rischi. Ha lasciato la pistola in macchina. È molto meticoloso, un vero professionista. E scopre un punto debole. Così, dopo i guanti, butta via anche la chiave. Nessuno la troverà mai, anzi, nessuno si sognerà neppure di cercarla. E comunque nessuno capirà che cos'è. È solo una chiave. E così non si preoccupa del fatto che sta lasciando le sue impronte sulla chiave, dato che non indossa più i guanti.» Alla luce della torcia, il viso di Margaret brillava per l'eccitazione. La mente di Li Yan lavorava a pieno ritmo cercando di seguire il filo del ragionamento di lei. Chiuse gli occhi per un attimo cercando di visualizzare la scena. Un uomo si allontanava attraverso il sottobosco, togliendosi i guanti. Poi li buttava il più lontano possibile, ma improvvisamente si fermava, ricordandosi della chiave. La tirava fuori di tasca, la guardava un momento pensieroso, poi si girava e la gettava nella direzione opposta a quella dei guanti. Infine correva via, lontano dal crepitio delle fiamme e dal fumo. Li Yan riaprì gli occhi e, per un attimo, intorno a lui si fece giorno, un tuono scoppiò proprio sopra la sua testa e la pioggia cominciò a cadere a scrosci, abbattendosi violenta sulle foglie e trasformando la polvere in fango. Il lampo aveva illuminato il viso di Margaret come il flash di una macchina fotografica e l'immagine era rimasta impressa negli occhi di Li che ora sbatteva le palpebre cercando di riabituarsi all'oscurità notturna. «Magari non è successo affatto così,» riprese Margaret «ma è una possibilità, che ne dici? E allora i guanti e la chiave sono ancora qui, nascosti da
qualche parte.» Doveva urlare per sovrastare il fragore della pioggia. «Secondo te, vale la pena di provare?» «Usava la destra o era mancino?» «Chi?» chiese lei sorpresa. «L'assassino. Sei in grado di stabilirlo dall'angolazione del colpo sulla testa di Chao?» «No, non con certezza. Ma se vogliamo affidarci alla legge delle probabilità, dovrebbe aver usato la destra. Perché?» «Potrebbe influire sulla direzione in cui ha gettato i guanti e la chiave.» «Allora la mia ipotesi ti sembra plausibile?» «Sì.» Margaret sorrise felice e lui avvertì improvvisamente l'impulso di baciarla, di prenderle il viso tra le mani e di appoggiare le labbra sulle sue. Ora la pioggia le scorreva sul viso a rivoli e i capelli erano tutti appiccicati. La camicetta di seta aderiva al contorno dei seni; i capezzoli, sporgenti e puntiti, premevano contro la morbida seta bagnata. Anche quella volta non indossava il reggiseno. «Ci mettiamo a cercare?» «Ma sta piovendo!» obiettò lui, ridendo incredulo. «E poi dovrei organizzare una ricerca ufficiale.» «Ormai siamo bagnati e, prima di mettere in moto mezza polizia di Pechino, è meglio giustificare la richiesta trovando almeno un guanto.» Frugò nella borsa. «Da qualche parte devo avere un portachiavi con la torcia. Tu va' a destra, io andrò a sinistra. Se non troviamo niente entro dieci minuti, puoi chiamare i rinforzi.» E, prima che lui avesse il tempo di obiettare, Margaret era sparita nella boscaglia, puntando una piccola torcia davanti a sé. Li Yan scosse la testa, lei era perfettamente a suo agio, si trovava nel suo elemento. Sembrava che il fatto di avergli raccontato la sua storia nella sala da tè l'avesse scaricata di un peso enorme. Non aveva avuto bisogno di bere, si era già ripresa da sola. E si chiese che cosa ci facesse lui lì, inzuppato fino al midollo, al buio a frugare in mezzo ai cespugli alla ricerca di qualcosa che probabilmente non c'era, il parto di due menti sovreccitate in una notte carica di emotività. Si mise a frugare, tra i cespugli, esaminando il terreno con la torcia. Non pioveva da parecchio tempo e il terreno era così indurito che non assorbiva subito l'acqua. La pioggia ristagnava in larghe pozze che riempivano gli avvallamenti e le depressioni del terreno. Un altro lampo accecante illuminò il parco, riflesso dai rami e dalle foglie lucide. Per un attimo gli sembrò
di scorgere una figura balenare tra gli alberi, rapidissima, come pochi fotogrammi di un film in bianco e nero. Aveva perso l'orientamento. Pensò che si trattasse di Margaret. La chiamò, ma il fragore della pioggia era tale che non riuscì a sentire se lei gli avesse risposto. Scosse la testa, cercò di asciugarsi gli occhi e si spinse avanti facendo oscillare il fascio luminoso della torcia a destra e a sinistra. Cercò di guardare l'ora ma non trovò l'orologio, e allora si ricordò che la catena si era rotta proprio quel giorno. Dovevano essere almeno dieci minuti che brancolava nel buio, bagnato fradicio. Si girò chiedendosi da che parte andare per tornare nello spiazzo. La torcia illuminò brevemente una piccola sagoma scura che pendeva dai rami di un cespuglio: sembrava un uccello morto. Lo raggiunse e, quando cercò di afferrarlo, quello cadde al suolo. Li Yan si chinò e lo illuminò: era un guanto di pelle tutto fradicio. «Ehi! Margaret, ne ho trovato uno.» Sentì i passi di lei avvicinarsi da dietro. Si girò e ricevette un pugno violentissimo in pieno volto. Il colpo gli fece perdere l'equilibrio e lui cadde in ginocchio, sbattendo le palpebre bagnate di pioggia e di sangue. La torcia rotolò nei cespugli. Un'ombra scura si chinò su di lui. E un altro pugno si abbatté sul suo viso. E poi un altro e un altro ancora: pugni violentissimi, terribili. Il suo aggressore era forte e velocissimo. Li Yan si rese conto di non potersi difendere. «Li Yan?» La voce di Margaret sovrastava il sonoro tambureggiare della pioggia sulle foglie. «Li Yan, dove sei?» Il pugno rimase a mezz'aria incerto per un secondo, poi si aprì e le dita ghermirono con forza il guanto. Questa volta il lampo e il tuono furono quasi simultanei, un rombo assordante proprio sopra la testa. E per un brevissimo attimo, Li e il suo aggressore rimasero immobilizzati nella cruda luce azzurrognola, fissandosi negli occhi. Poi tutto ripiombò nel buio e l'uomo scomparve tra i cespugli in un crepitio di rami spezzati. «Santo cielo, Li Yan, ma dove sei?» Lui si rimise faticosamente in piedi. La luce della piccola torcia di Margaret gli illuminò il viso. «Oh, mio Dio! Ma che ti è successo?» 3 I riflettori montati sui pali tra gli alberi facevano risaltare nettamente il lago e il padiglione. La luce intermittente dei lampeggiatori delle auto della polizia e dell'ambulanza si rifletteva sulle increspature dell'acqua. Il crepitio delle radio riempiva l'aria; la pioggia era cessata. Li Yan sedeva di
traverso sul sedile della jeep mentre un medico cercava di medicargli le ferite sul volto: aveva un labbro spaccato, il naso sanguinante (e rotto, pensò Margaret), una guancia gonfia e graffiata e un taglio sopra il sopracciglio sinistro che avrebbe richiesto un paio di punti. Sulla riva del lago, Margaret osservava Qian organizzare gli agenti in gruppi e suddividere il territorio in settori in cui sarebbe stata effettuata una ricerca a tappeto centimetro per centimetro. Guardò l'ora: erano le undici e trentacinque. Faceva più fresco, dopo la pioggia, e una leggera brezza muoveva le foglie. I suoi vestiti e i capelli erano quasi asciutti. Il terreno, riarso dopo settimane di siccità, aveva assorbito tutta l'acqua piovana ed era difficile credere che, meno di un'ora prima, si fosse scatenato un autentico diluvio. Margaret guardò Li e sentì una fitta di colpa. Non sarebbe successo niente, se lui non l'avesse accontentata nella ricerca dei guanti sotto una pioggia scrosciante. Qian si staccò dai gruppi impegnati nella ricerca e raggiunse Li Yan, non appena il medico ebbe finito il suo lavoro. Guardò con aria mesta la sua faccia malconcia. «Ti ha conciato proprio bene, capo.» «Avresti dovuto vedere come io gli ho conciato la mano» rispose lui cupo. «Vedo che non hai perso il senso dell'umorismo» replicò Qian sogghignando; Li Yan lo fulminò con lo sguardo e subito si fece serio. «Ma perché ti ha aggredito?» «Ho trovato uno dei guanti.» «E cosa ci faceva lui qui? Era tornato a cercare i suoi guanti?» «Non lo so, forse. O magari ci aveva seguiti. Una cosa è certa: quando ci ha visti frugare nella boscaglia ha capito subito che cosa cercavamo. E adesso ha un guanto, o forse tutti e due, e magari anche la chiave, se l'aveva gettata qui.» «Ma, capo, perché non hai chiamato rinforzi, invece di metterti a frugare nel buio e sotto la pioggia da solo?» Lanciò un'occhiata a Margaret. «Be', quasi da solo.» Tornò a guardare il capo, ma questi gli fece un cenno di ammonimento che lo indusse a desistere dal proseguire sull'argomento. «Ho organizzato i ragazzi» indicò con un cenno della testa gli agenti e poi si allontanò impartendo comandi a gran voce. Li Yan si accese una sigaretta e guardò Margaret avvicinarsi. «Non dirmi che fumare nuoce alla mia salute; non può certo farmi più male che starti vicino.» Fece un sorriso triste che si trasformò in una smorfia di dolore. «Sulla fronte dovrebbero stamparti l'avviso: "Nuoce gravemente alla
salute".» La battuta ebbe l'unico effetto di far sentire Margaret sempre più in colpa. «Mi dispiace, so che è tutta colpa mia.» «Non sei stata tu a uccidere tre persone e poi ad aggredire un ufficiale di polizia in un parco. Come può essere colpa tua?» «Prima di tutto, tu non saresti venuto qui. E sicuramente non ti saresti messo a frugare nei cespugli sotto la pioggia per cercare un ago in un pagliaio.» «Ma l'ago l'ho trovato. Almeno, ne avevo trovato uno.» «E poi l'hai perso di nuovo.» Li Yan guardò Margaret preoccupato. «Che cosa pensi che ci facesse qui? Il tipo che mi ha aggredito, intendo.» «Cercava la stessa cosa che cercavamo noi.» «Ma perché non l'ha fatto ieri notte?» Lei ci pensò su un po', aggrottò la fronte e lo guardò, a sua volta preoccupata. «Pensi che ci abbia seguiti?» Lui non rispose. «Se è così, allora ci sta sorvegliando» riprese lei. Rabbrividì. «Mi viene la pelle d'oca. Ma perché lo fa?» «Non lo so, forse vuole controllare i nostri progressi. Se ci avviciniamo troppo a lui o alla verità, interviene. Come ha fatto poco fa.» Margaret rabbrividì di nuovo e si guardò intorno, oltre il cono di luce proiettato dai riflettori, chiedendosi se là, nell'oscurità, quell'uomo li stesse ancora osservando. «Lo hai visto in faccia?» «Solo per un attimo, alla luce di un lampo.» Aveva ancora impresso nella mente quel viso pallido, azzurrognolo come quello di un cadavere, con i lineamenti alterati dalla paura e... dall'ira. Sì, era proprio ira. Ma perché era tanto arrabbiato? Magari ce l'aveva con se stesso per aver commesso l'errore dei guanti? «Saresti in grado di riconoscerlo?» «Non lo so, era un vero demone. Era come vedere la faccia della morte, non sembrava un essere umano.» Scosse la testa. «È difficile da spiegare.» E, in quel momento, lei si rese conto che Li Yan aveva temuto di morire. Era stato colto di sorpresa e inchiodato al suolo da un pugno d'acciaio. Nel fango, abbagliato e inerme, con l'aggressore che incombeva su di lui, aveva pensato che sarebbe stato ucciso. Che cosa aveva fermato l'aggressore? Era stata solo la sua voce, che chiamava Li nella pioggia? Ma che cosa avrebbe potuto fare, lei? Quell'uomo avrebbe potuto ucciderla facilmente. Per essere un killer professionista, si comportava in un modo molto strano:
seguiva l'impulso, non aveva pianificato niente. Aveva risposto all'impulso del momento, cercando di correggere o nascondere un errore compiuto quasi quarantotto ore prima. Forse la sua voce l'aveva semplicemente riportato alla realtà e lui si era ritirato nel buio della notte a leccarsi le ferite. Proprio questo sembrava, infatti un animale ferito. Un killer professionista che aveva compiuto un solo piccolo errore e poi aveva cercato di rimediare. Ma questo l'aveva reso molto pericoloso. Un agente portò alcuni indumenti puliti presi nell'appartamento di Li Yan: jeans e scarpe da tennis e una camicia bianca. L'uomo si cambiò nel retro della jeep. «Dovrei riportarti in albergo» disse a Margaret. «Sto bene, adesso sono asciutta.» Si passò le dita tra i capelli per districare la massa di riccioli. «E poi non riuscirei a dormire per l'ansia di sapere se avete trovato qualcosa.» Iniziava a domandarsi se sarebbe mai riuscita a dormire. «Secondo te, quanto ci metteranno?» Li Yan scese dalla jeep e guardò in direzione del pendio, dove i potenti riflettori avevano trasformato la notte in giorno. Gruppi di agenti si aprivano la strada attraverso i cespugli, centimetro per centimetro, chiamandosi a gran voce. «Non è un'area molto vasta; ci vorranno forse un paio d'ore. Se non troveremo niente, lasceremo di guardia alcuni agenti armati e domani torneremo con nuove forze fresche per estendere la zona delle ricerche.» Era contento che Margaret avesse deciso di rimanere; desiderava starle vicino e, dopo quanto era accaduto quella notte, era preoccupato per lei. Temeva occhi che li osservavano, li seguivano inosservati. L'indagine era diventata pericolosa e l'indomani avrebbe dovuto impedire a Margaret di occuparsene. Mentre stava per accendersi l'ennesima sigaretta, udì un grido in cima al pendio e vide un giovane agente emergere dal sottobosco reggendo un guanto con un paio di pinze di plastica. Dunque l'assassino non aveva trovato tutti e due i guanti! Li Yan provò una fugace soddisfazione. L'agente lasciò cadere il guanto in un sacchetto di plastica per le prove che Qian sigillò e porse al capo. «Lo riconosci?» «Non lo so, l'altro l'ho visto solo per pochi secondi.» L'osservò con attenzione: era un normale guanto di pelle marrone con una fodera di cotone pettinato, ancora bagnato di pioggia, ma ormai quasi asciutto e indurito. Alle spalle di Li comparve Margaret. «Posso dargli un'occhiata?» Glielo porse e lei lo esaminò da vicino. «Ecco, qui» e distese l'etichetta che si era arricciata. Aguzzò la vista per osservarla meglio sotto la luce. «"Made in Hong Kong." E qui, nella parte interna del pollice...» Gli fece osservare
una macchiolina scura. «Potrebbe essere sangue.» Rivoltò il guanto. «Non è stato usato molto.» «Come fai a saperlo?» «Con l'uso la pelle si distende prendendo la forma della mano. Questo sembra essere stato acquistato da poco. Guarda qui: le cuciture non sono tirate, probabilmente è stato comprato apposta per questo lavoro.» «A Hong Kong?» «È stato fabbricato là. È un articolo costoso, probabilmente non sono molti i posti dove se ne vendono di simili, qui in Cina. Forse non li vende nessuno; ma questo dovresti saperlo meglio di me.» Li Yan annuì pensieroso. Prese il sacchetto e lo restituì a Qian. I due si scambiarono qualche parola. Margaret lo raggiunse giù per il sentiero, fino alla jeep. «Che c'è adesso?» «Il guanto verrà portato subito al laboratorio della scientifica. Aspetteremo per vedere se trovano la chiave.» Si accese una sigaretta e lanciò a Margaret uno sguardo di ammirazione. «Avevi ragione sui guanti, speriamo che tu l'abbia anche sulla chiave.» Era quasi mezzanotte e mezza quando arrivò il grido che aspettavano. La chiave si era annidata tra le radici di un piccolo arbusto, a una decina di metri dal punto in cui avevano trovato il guanto. Li Yan, eccitato, l'osservò dentro il sacchetto di plastica, che gli era stato portato dal trionfante Qian in un tripudio di riflettori. Se la fortuna era dalla loro parte, quella poteva essere la chiave di qualcosa di ben più importante del cancello delle scale di Chao Heng. Si girò e vide Margaret fissare la chiave con occhi scintillanti. Provò l'impulso di baciarla: lui non avrebbe mai avuto l'intuizione che li aveva portati a quel rinvenimento. Lei aveva seguito il suo stesso percorso mentale visualizzando le cose nello stesso modo. Ma poi aveva fatto un salto di immaginazione, un salto folle e inverosimile nel buio. Tanto inverosimile che, anche se avesse avuto la stessa intuizione, probabilmente lui l'avrebbe scartata. Forse Margaret aveva meno paura di sbagliare. Per Margaret, il viaggio fino al Centro studio del Crimine di Pao Ju Hutong fu una rivelazione, un'occasione per vedere la vita di strada della vera Pechino, che si nascondeva dietro le facciate e i cartelloni pubblicitari della nuova Cina. Anche a quell'ora di notte, le strade erano animatissime. Dopo la pioggia, la gente era uscita dalle case calde come forni e si era riversata nella relativa frescura degli hutong. La jeep procedeva dietro il
furgone della scientifica e i fari dei due veicoli spaziavano sugli stretti vicoli e sui siheyuan cogliendo fuggevoli immagini di famiglie riunite a cenare intorno a tavoli allestiti sui marciapiedi, di un uomo stravaccato in poltrona davanti alla tremolante luce azzurrina di un televisore, di giocatori di carte cui veniva servita la cena attraverso finestre aperte da cui la luce si riversava sull'asfalto, di persone in bicicletta vacillanti alla luce dei fari dei veicoli che li sorpassavano. Attraverso il finestrino, Margaret guardava i volti che le passavano accanto veloci e che la osservavano a loro volta con sguardi indifferenti, ostili o incuriositi. Pensò che gli abitanti di Pechino dovevano avere un'autentica fissazione per il taglio dei capelli: da ogni parte, infatti, si vedevano barbieri ancora all'opera. Guardò l'orologio: era quasi l'una di notte. Adesso bisognava assolutamente fare qualcosa per il viso di Li: era tutto gonfio intorno all'occhio sinistro e l'ecchimosi era diventata blu. Ma i suoi occhi erano vivaci e penetranti e ardevano con una fiera intensità: non vedeva l'ora di mettere le mani sul suo uomo. Lasciarono la jeep sulla strada e salirono di corsa la rampa, attraversarono i cancelli aperti e passarono davanti alle guardie armate, per poi addentrarsi nel dedalo dei laboratori di anatomia patologica di Pao Ju Hutong. «Dammi solo qualche minuto, Li» disse il funzionario capo della scientifica. Aspettarono in un ufficio al pianterreno; Li Yan si sedette sul bordo di una scrivania con le gambe ciondoloni, impaziente. Margaret ricordò quello che le aveva detto Bob: le tre "p": pazienza, pazienza e pazienza. "Le tre qualità che è indispensabile possedere per sopravvivere in questo paese." Li sembrava averle perse tutte. Gli esaminò il volto. «Qui devono avere un po' di amamelide.» «Di che cosa?» «Riduce il gonfiore ed evita che, domani mattina, la tua faccia sia completamente blu.» Margaret scambiò qualche parola con un assistente di laboratorio che tornò, di lì a qualche minuto, con un flacone di un liquido trasparente e alcuni tamponi di cotone. Margaret intrise di liquido un tampone e disse a Li di appoggiarselo sul viso. Lui non fece obiezioni, poi con la mano libera, estrasse una sigaretta dal pacchetto e l'accese. Aveva tirato una sola boccata quando il funzionario capo della scientifica entrò nella stanza, rosso per lo sforzo e senza fiato. La fretta di Li sembrava aver contagiato anche lui. «Un'impronta dell'indice, ma tutta strisciata, inutilizzabile.» «Merda!»
«Calma, abbiamo anche un pollice.» Mostrò un foglio di carta con un ingrandimento dell'impronta. «È quasi perfetta e non appartiene a Chao.» 4 Quando Li Yan e Margaret uscirono su Pao Ju Hutong, erano le due passate. L'aria si era fatta più fresca e respirabile. Per la prima volta dal suo arrivo, lei riuscì a vedere le stelle nel cielo. Era stanca, ma non aveva sonno; si sentiva stranamente eccitata. Il guanto e la chiave erano stati un passo avanti importante. Un agente, mandato a casa di Chao, aveva confermato che la chiave era proprio quella del cancello delle scale. Un esame attento del guanto aveva rivelato la presenza di una macchiolina di sangue sulla fodera, in corrispondenza della punta del medio. Forse era dovuta a un piccolo taglio o a una pellicina strappata. C'era sangue abbastanza da consentire il confronto del DNA con quello della saliva trovata sui mozziconi di sigaretta. L'esame sarebbe stato effettuato la mattina dopo al Laboratorio della scientifica, insieme al confronto tra la macchia di sangue sul guanto e i campioni prelevati dal cadavere di Chao Heng. Se entrambi i test fossero risultati positivi, il proprietario dei guanti poteva essere sicuramente messo in relazione con l'assassinio di Chao e con gli altri due delitti. L'impronta del pollice sulla chiave era stata inviata per fax a Hong Kong. Era possibile (ma tutt'altro che sicuro) che entro la mattinata potessero conoscere l'identità dell'assassino. Nonostante avesse avuto la peggio nell'aggressione, Li si sentiva euforico. Si teneva ancora premuto sulla faccia il tampone imbevuto di amamelide. «Fammi vedere un pò»' gli disse Margaret mentre tornavano alla jeep. Gli scostò la mano dal viso sollevandosi in punta di piedi per controllare l'ecchimosi da vicino. Sentiva il suo respiro caldo sulla guancia. Lui la guardò, ma lei era tutta concentrata sulle ferite. «Il gonfiore è già diminuito. Domani mattina sarai abbastanza a posto.» Ma l'accenno alla mattina dopo ebbe l'unico effetto di deprimere Li Yan. Avrebbe dovuto dirle che non poteva più aiutarlo nelle indagini. Era troppo pericoloso e i suoi superiori non l'avrebbero permesso. Sapeva che lei avrebbe reagito con rabbia e dolore. Dopotutto, senza il suo aiuto non sarebbe arrivato così vicino alla soluzione del caso. La guardò ancora: appariva distesa, entusiasta e felice. Quella notte Margaret aveva esorcizzato i fantasmi del suo passato, con-
fidandogli il suo dolore. E domani... Li Yan chiuse gli occhi e sospirò. Avrebbe voluto che quella notte non finisse mai. «Perché questo sospiro?» domandò lei ridendo. «Dovresti essere soddisfatto di te.» Si sforzò di sorriderle. «Sono soddisfatto di noi due: formiamo una bella squadra.» «Certo, io penso e tu prendi i pugni. In questo sei davvero un campione.» Lui rise e fece il gesto di sferrarle un pugno scherzoso. E, quando lei alzò il braccio per parare il colpo, glielo afferrò, l'attirò a sé e la spinse contro la fiancata della jeep. Restarono immobili pregustando quell'attimo che aspettavano da tutta la notte. Ma l'incanto si spezzò quando lei sorrise, accennando in direzione delle due guardie armate ai lati del cancello. «Non vorremo certo dare spettacolo.» Li Yan guardò sconsolato le guardie. «Vuoi che ti riporti al Friendship?» «Stavi per offrirmi da bere, prima che una certa persona avesse l'idea pazzesca di andare a gironzolare per il parco Ritan al buio e sotto la pioggia. Credi che quel bar sarà ancora aperto?» «A quest'ora, no. Ma conosco un altro posto.» A quell'ora del mattino, davanti allo Xanadu non c'era fila. Li aveva temuto che fosse chiuso, invece c'era ancora un viavai costante di persone. Gruppi di ragazzotti si attardavano sul marciapiede fumando e chiacchierando; guardarono con vaga curiosità Li e la yangguizi che si facevano largo in mezzo a loro. Davanti al buttafuori, Li tirò fuori il portafoglio, ma gli fecero cenno di entrare. Dentro, la musica era sempre altissima, ma meno martellante, probabilmente a causa dell'ora tarda. Margaret lo afferrò per il braccio e gli urlò nell'orecchio: «Non pensavo che frequentassi locali del genere». «Infatti non li frequento, ma tu volevi bere e questo è praticamente l'unico posto della città in cui sia possibile farlo a quest'ora.» La condusse verso il bancone del bar. La maggior parte dei tavoli a pianterreno era ancora occupata e, attraverso la spessa nuvola di fumo che aleggiava nel locale, lui vide che, nella galleria, la situazione non era diversa. «Che cosa prendi?» «Vodka tonic con ghiaccio e limone, ma offro io.» Margaret estrasse alcune banconote. «No, no.» «Sì, invece. Mi hai offerto la cena, io ti offro da bere.»
«No.» «Pensavo che credessi nella parità. In Cina le donne reggono l'altra metà del cielo: non l'ha forse detto Mao?» E gli mise i soldi in mano. «Io pago e tu vai a prendere da bere. Ti aspetto al tavolo da cui si stanno alzando quelle persone.» E si diresse svelta verso il tavolo per prenderne possesso. Si sedette rapidamente, due ragazze e un giovane imbronciato che stavano ai piedi della scala la guardarono risentiti e se ne andarono. Margaret diede un'occhiata intorno e si accorse di aver suscitato una certa agitazione. A quanto pareva, era l'unica occidentale presente e, probabilmente, la sola che avesse mai messo piede lì. Quello non sembrava proprio il tipo di locale incluso negli itinerari turistici. Dai tavoli intorno, tutti si erano girati verso di lei e la squadravano apertamente e senza ombra di imbarazzo. Lei sorrise. Allora divennero improvvisamente imbarazzatissimi e le restituirono timidamente il sorriso, come bambini scontrosi. Sul palco, una splendida ragazza in un abito sexy di seta con spacchi vertiginosi sui fianchi cantava una canzone lamentosa accompagnata da un chitarrista e da un tastierista al sintetizzatore. L'accompagnamento era passabile, ma la cantante era un vero strazio. Margaret la osservava con un misto di disgusto e di imbarazzo. Non aveva il minimo talento, ma nessuno sembrava accorgersene o tantomeno preoccuparsene. Arrivò Li Yan con la vodka e un bicchiere di brandy. Margaret accennò al palco. «Bella, ma canta da cani.» «È la ragazza del mio migliore amico.» La vodka le andò di traverso. «Stai scherzando!» «Non preoccuparti, non piace molto neanche a me.» «Davvero è la ragazza del tuo migliore amico?» Lui annuì. «Ma è lei a non piacerti o il suo modo di cantare?» «Tutti e due.» «Ma perché quella ragazza non ti piace?» «È una prostituta, lui ne è pazzo e finirà per soffrire.» Margaret guardò la ragazza con occhi diversi. «Ma è bellissima, che bisogno ha di vendersi?» «Hai sentito come canta» rispose Li Yan. «E comunque, non batte sul marciapiede: si svolge tutto con discrezione, al di là della porta di camere di alberghi di prima categoria per stranieri. Probabilmente guadagna un sacco di soldi. Una ragazza così sfrutta l'unica dote che ha, finché ce l'ha.» La guardò: teneva gli occhi chiusi come se rivivesse una triste fantasia e cantava con tutta l'anima le strofe banali di una ballata popolare taiwanese.
Si domandò quale accordo avesse stipulato con l'impresario che le permetteva di cantare lì, sottraendosi per un po' alla vita sordida di agganciare e compiacere uomini d'affari stranieri sessualmente frustrati. Era quasi dispiaciuto per lei; quando gli aveva detto che amava Ma Yongli, lui le aveva creduto. "Mi tratta come nessuno mi ha mai trattata finora, come una principessa." Quello che Li detestava era l'effetto che lei aveva su di lui, trasformandolo da giovane galletto pieno di fiducia in sé, dotato di un malizioso, anche se un po' infantile, senso dell'umorismo, in un leccapiedi pieno di smancerie, di insicurezze e di dubbi. Qualcosa diceva a Ma Yongli che Lotus era troppo per lui; non riusciva a credere di essere stato tanto fortunato né che la sua fortuna potesse durare. Era proprio patetico e Li Yan odiava vederlo in quello stato e ne incolpava Lotus, mentre, forse, la colpa era solo di Ma Yongli. «Bene, bene, bene. Vedo che hai seguito il mio consiglio e ti sei trovato una donna.» Li Yan si girò e vide il faccione tondo e sorridente di Ma Yongli torreggiare su di lui. Ma il sorriso svanì di colpo. «In nome del cielo, ma che cosa ti è successo? Non dirmi che lei ti picchia già.» «Ho avuto la peggio in una discussione con uno cattivo.» «Dev'essere stato proprio un gran bastardo per avere la meglio su di te.» «Mi ha preso alla sprovvista.» Margaret seguì quello scambio di battute con interesse. Immaginava senza sforzo l'argomento della conversazione. Per un attimo era rimasta perplessa; c'era qualcosa di familiare nel viso di quell'omone. Poi si ricordò: lui era insieme a Li la prima sera, al ristorante dell'anatra laccata. L'affetto che legava i due uomini era evidente. Yongli si girò sorridendo verso Margaret che gli sorrise a sua volta, contagiata da quel volto allegro e da quegli occhi ridenti. «Allora, non mi presenti?» chiese l'uomo all'amico in un inglese dal forte accento americano. «Ma Yongli, ti presento la dottoressa Campbell.» Ma Yongli le prese la mano e ne sfiorò il dorso con le labbra. «Enchanté, madame. È francese, l'ho imparato in Svizzera.» «Lo so. Et moi: je suis enchanté aussi à faire vôtre connaissance, monsieur.» «Ehi!» Yongli alzò le mani in segno di resa. «Io mi fermo a Je suis enchanté, madame! Nessuno mi aveva mai risposto, prima.» Rise. «Sono veramente impressionato.» Poi si chinò su di lei con aria confidenziale. «In realtà, conosco un'altra frase, ma non si può pronunciare in una compagnia di persone educate. E Li Yan è ipersensibile. Tra l'altro, per lui è già passa-
ta da un pezzo l'ora di andare a nanna.» «Lo so, è colpa mia: gli sto facendo fare tardi. Ma lo zio non c'è e quindi non avrà problemi.» «Oh!» Yongli rivolse un'occhiata furba all'amico. «Quando il topo non c'è, i gatti ballano.» «È il contrario, Ma Yongli» lo corresse Li Yan. «Ah, confondo sempre i gatti con i topi. Che cosa beve?» Margaret sollevò il bicchiere; era quasi vuoto. «Vodka tonic.» «Brandy per te, scommetto» e Yongli indicò il bicchiere dell'amico. Poi, rivolto a Margaret: «Dobbiamo festeggiare: è così tanto che non vedo il grande Li con una donna, che cominciavo a sospettare che fosse gay. Torno tra un minuto». «Non dargli retta, è un cretino» disse Li sorridendo un po' imbarazzato. «È simpatico.» Li provò una fitta di gelosia. «Probabilmente lo trovi carino, come la maggior parte delle donne.» «No, ma è un tipo attraente. Che cosa ci faceva in Svizzera?» «Un corso per diventare cuoco. È stato anche negli Stati Uniti.» «Oh, sa anche cucinare? Questo sì che lo rende molto attraente.» Si era accorta subito dello sguardo seccato di Li Yan ed era contenta di constatare che era geloso. Se solo avesse saputo che, almeno per lei, Yongli era molto meno attraente di lui! Margaret iniziava a rilassarsi; l'alcol scioglieva la tensione di quella notte e le andava rapidamente alla testa. Forse era colpa della stanchezza: nelle ultime settantadue ore aveva dormito ben poco. Yongli tornò con i bicchieri e si sedette davanti a una birra. «Allora,» si rivolse a Margaret «ha affettato qualche persona interessante, ultimamente?» «Oh, solo un uomo bruciato vivo, uno accoltellato e uno con l'osso del collo rotto. Vuole sentire anche i dettagli cruenti?» «No, grazie» rispose Yongli con decisione. «Questo è il mio problema: le uniche persone interessanti con cui sia entrata davvero in intimità sono morte. Appena scoprono quello che faccio per vivere, i vivi fuggono a gambe levate. Pensano che sia interessata solo al loro corpo.» «Con i miei organi, può giocare quando vuole» rise Yongli. «Mi interessa di più il cervello, negli uomini» commentò Margaret. «Di solito, il rumore della sega che taglia il cranio li scoraggia.»
«Ehi» Yongli alzò le mani e sorrise scuotendo la testa. «Non sarò il prossimo, vero?» «No.» Margaret alzò il bicchiere. «Alla salute!» Brindarono. A Li era piaciuto il modo in cui Margaret aveva tenuto testa a Yongli. Di solito, le battute del suo amico erano troppo rapide per la gente. E le donne preferivano ridere piuttosto che replicare. Margaret lo guardò al di sopra del bicchiere e si fissarono per qualche secondo. Quando Lotus finì di cantare e ringraziò il pubblico, qua e là si levò qualche applauso. Margaret si chiese se gli spettatori apprezzassero la sua prestazione canora o fossero semplicemente felici che avesse smesso di cantare. La ragazza si avvicinò al loro tavolo, rossa in viso e un po' affannata. Yongli balzò immediatamente in piedi e le avvicinò una sedia. «Vado a prenderti qualcosa da bere. Che cosa vuoi?» «Un po' di vino bianco.» Lotus aveva imparato ad apprezzare il vino durante i numerosi pasti nei ristoranti degli alberghi di lusso. Guardò Margaret con un'aria di attesa, aspettando di esserle presentata. «Lotus, questa è un'amica di Li Yan...» disse Ma Yongli in inglese. «Margaret» precisò l'americana. La ragazza le strinse la mano. «Molto felice di conoscerti.» «Lotus parla male l'inglese» spiegò Yongli, con aria di scusa. «Il suo inglese è certo migliore del mio cinese» replicò Margaret. La ragazza si sedette e Yongli si diresse al bar. Era chiaramente incuriosita da Margaret e desiderava piacerle. «Ti piace come canto?» In altre circostanze, Margaret avrebbe risposto in modo ambiguo, magari con sarcasmo o con un pizzico di crudeltà. Ma in quella domanda c'era tanta innocenza che non poté fare altro che mentire apertamente. «Moltissimo.» Lotus ne fu molto contenta. «Grazie.» Allungò una mano e toccò i capelli di Margaret come se fossero d'oro. «Hai capelli molto belli.» E fissò il viso dell'altra senza alcun imbarazzo. «E i tuoi occhi sono così azzurri. Tu sei una bellissima donna.» «Grazie.» «Bukeqi.» Margaret aggrottò le sopracciglia, perplessa. «Significa "benvenuta"» tradusse Li. Lotus prese la mano dell'americana e fece scorrere leggermente le dita sull'avambraccio. «Non ho mai visto una pelle così bianca. Molti punti di bellezza.»
«Lentiggini» rise Margaret. «Quando ero piccola le odiavo, mi sembravano brutte.» «No, no, sono molto belle.» Poi, rivolta a Li: «Tu sei molto fortunato». Lui arrossì. «Oh, no, noi non... Margaret è solo una collega di lavoro.» «Che cosa state dicendo?» chiese l'americana, stupita che si fosse messo improvvisamente a parlare in cinese. «Solo che siamo semplicemente colleghi di lavoro.» Arrossì: l'arrivo di Lotus l'aveva decisamente scombussolato. «Tu sei un poliziotto?» chiese Lotus a Margaret, incredula. «No, sono dottore.» «Ah, tu curi la sua faccia?» «Più o meno.» E sorrise guardando il volto ammaccato di Li. Yongli tornò con due bottiglie di champagne in un secchiello pieno di ghiaccio e quattro bicchieri. Lotus ebbe un sussulto di piacere, dimenticando di parlare in inglese. «Champagne! Come mai, amore?» «Dobbiamo festeggiare.» «Che cosa?» «Oh, sono le tre di mattina e il grande Li non è ancora sotto le coperte. E poi è in giro per la città con una donna...» «Piantala!» «È un dottore» protestò Lotus. Yongli si piegò in avanti con aria confidenziale. «È quello che dice a noi poveri sciocchi. In realtà, per vivere fa a pezzi i morti.» Lotus guardò Margaret, scioccata. L'americana intervenne: «Ma che succede? Qualcuno può parlare in inglese, per favore?». «Ma Yongli sta solo facendo lo scemo» le spiegò Li. «Non è vero.» L'omone stappò una bottiglia e iniziò a riempire i bicchieri; la schiuma dello champagne traboccò sul tavolo. «Sto solo proponendo un brindisi.» Si sedette accanto a Lotus e alzò il bicchiere gocciolante. «Alle due donne più belle dello Xanadu. Forse di tutta Pechino. Forse di tutta la Cina.» Margaret si guardò intorno. «A che tavolo è seduta l'altra?» Lotus rise, le appoggiò una mano sul braccio e le spiegò, come se fosse una bambina un po' ritardata. «Intende me e te.» "È ingiusto giudicare l'intelligenza di una persona dalle poche parole che conosce della tua lingua" pensò Margaret. E accolse benevolmente il piacere infantile di Lotus per averle spiegato come stavano le cose. Forse Lotus si chiedeva come una persona così stupida potesse fare il medico.
«Oh!» sorrise alzando il bicchiere. «Allora brindo a questo.» Finita la prima bottiglia, Yongli stappò la seconda e Margaret iniziò a perdere il filo della conversazione. Lo champagne, sommato alla vodka e alla mancanza di sonno, aveva iniziato a far girare lentamente il locale intorno a lei. Le sembrava che tutti ridessero molto, anche Li che, per quanto ne sapeva, non era un tipo incline al riso. Non aveva la minima idea di quello che diceva. Probabilmente rispondeva a innumerevoli domande stupide sull'America, sul denaro, su... non sapeva che cosa. Ogni volta che alzava il bicchiere, sembrava che si fosse riempito per miracolo. C'era forse una terza bottiglia, sul tavolo? Molto tempo dopo (o, almeno così le parve), Lotus la teneva per un braccio; pensò che stessero andando alla toilette. C'era un gradino molto alto e quasi cadde. Lontano, da qualche parte, sentì la voce di Li; le sembrava che la chiamasse. Non farlo, diceva. Ma fare cosa? Per spirito di contraddizione, si sentì ancora più determinata. Improvvisamente molte luci potenti le colpirono il viso e le ferirono gli occhi. Tutte le facce erano rivolte verso di lei. Sentì uno scroscio, come di acqua corrente, poi si rese conto che erano applausi. Lotus le mise in mano una cosa pesante, cilindrica, con una pallina coperta di rete a una estremità. «Che cos'è?» chiese e sentì la sua voce rimbombare in tutto il locale. Ancora scrosci. Lotus la fece voltare verso sinistra; vide uno schermo azzurro con alcune parole scritte in bianco. Yesterday... Il suono di una chitarra acustica, poi la voce di Lotus. «Tu canta.» Ma lei non ci riusciva e perse la prima riga, che cantò Lotus. Now it look a though they here to stay... Vedeva solo il viso di Michael, udiva solo la sua voce. "Non sono stato io, Mags". E sentì lacrime ardenti scorrerle sulle guance mentre la grottesca storpiatura della canzone dei Beatles fatta da Lotus si faceva largo nella sua mente; ogni parola era come uno schiaffo. Si era convinta che tutto quel dolore fosse ormai finito, ma sembrava che Michael volesse continuare a farla soffrire per tutta la vita. Adesso la prendeva tra le braccia e le parlava dolcemente all'orecchio, ma lei non riusciva a capire. L'aiutò a scendere l'alto gradino e l'allontanò dall'acqua che scrosciava. Si sentì l'aria fresca sul viso e si girò a guardarlo aspettando stancamente le sue proteste di innocenza, ma non era Michael. Ma certo che si ricordava di essere in Cina, che Michael era morto e che questi parlavano un'altra lingua! «Dove la porti, Li?» Neanche Yongli si poteva definire precisamente sobrio. «A casa mia.»
«Hai bisogno di aiuto?» gli chiese Lotus. «Sì, grazie.» L'odore del fumo e l'aroma intenso del caffè furono le prime sensazioni che la colpirono. Poi, con molta lentezza, la stanza iniziò a prendere forma intorno a lei; per aspetto e dimensioni, era simile al soggiorno di Chao Heng. Attraverso i pannelli di vetro che chiudevano il terrazzino all'altra estremità della camera vedeva le cime degli alberi oscillare lente al vento; le foglie riflettevano la luce dei lampioni. Nella stanza c'era pochissima luce, solo una lampadina da qualche parte, in un angolo lontano. Cercò di capire dove si trovava: era su un divano, mezza seduta, mezza sdraiata con la testa girata di lato. Sentendo un movimento accanto a sé, si girò e vide Lotus inginocchiata accanto a lei con una tazza fumante di caffè; cercava di fargliene bere un po'. Ma quell'aroma intenso ebbe un effetto sgradevole sul suo stomaco. «Bagno» disse domandandosi vagamente se la sua voce esprimesse l'urgenza che sentiva dentro. Sembrava di sì perché diverse mani l'aiutarono rapidamente a mettersi in piedi. E non era facile mantenere l'equilibrio in quella stanza piena di luce accecante, riflessa dalle piastrelle bianche. La sensazione sgradevole nello stomaco affiorò rapidamente e Margaret dovette piegarsi sulle ginocchia e afferrare qualcosa di duro e di bianco, con la bocca e la gola invase da un orribile bruciore. Poi fu di nuovo in piedi, qualcuno le spruzzò dell'acqua fredda sul viso e infine le luci del mondo si spensero intorno a lei. Li Yan, un po' malfermo, stava accanto alla porta di ingresso. Yongli gli fece l'occhiolino. «Arrivederci, vecchio mio. Dille che è stata tutta colpa mia, non avrei dovuto comprare tutto quello champagne.» «L'ha fatta sentire molto triste» intervenne Lotus. «Forse nella sua vita c'è una grande tragedia.» «Forse.» Lotus si sporse in avanti e gli diede un bacio sulla guancia; Li si sentì in colpa per tutte le cose cattive che aveva detto e pensato di lei. Senza Lotus, non avrebbe saputo cavarsela, quella notte. «Grazie.» Lotus gli strinse la mano; desiderava moltissimo piacergli. «Arrivederci.» Li Yan chiuse la porta e tornò nella camera dello zio. Nella semioscurità, vide che Margaret si era scoperta. Lotus l'aveva spogliata e, tornando in soggiorno, aveva commentato: «Ha proprio un bel seno, vorrei averlo io». Era davvero bello il suo seno: turgido, candido, con piccoli capezzoli rosso
scuro. Margaret teneva un braccio piegato sul petto. La coperta le si era arrotolata intorno a una gamba, lasciando completamente nuda l'altra. Si ricordò di averla vista riflessa nello specchio nella camera dell'albergo. Lei aveva voluto che lui la guardasse. E adesso Li Yan provava lo stesso desiderio doloroso di allora. Si sedette sul bordo del letto e le osservò il viso, pallido e sereno, non turbato, almeno in quel momento, da un passato infelice e da un futuro incerto. Ne percorse delicatamente i contorni con un dito. In un tempo tanto breve, quella donna aveva provocato moltissimi cambiamenti in lui, nel modo in cui vedeva se stesso, il lavoro, lo zio. Era come se, prima, lui fosse addormentato e lei l'avesse risvegliato con il tocco delicato delle dita. Prima non voleva vivere, ma adesso aveva cambiato idea. Si chinò, la baciò sulla fronte e sistemò il lenzuolo in modo che fosse coperta. Uscendo dalla stanza, chiuse la porta con delicatezza e rimase alcuni minuti nel corridoio a occhi chiusi, respirando piano. Sentiva il sangue fluirgli nelle vene. Sentiva il catarro raspare i suoi polmoni di fumatore. Sentiva il ticchettio dell'orologio in soggiorno. Sentiva la vita scivolargli tra le dita come se fosse stata sabbia. Chiuse il pugno come per trattenerla. Era troppo preziosa per lasciarla scorrere via. CAPITOLO NONO Giovedì mattina 1 Sentiva qualcosa di caldo sopra di lei, una sorta di termocoperta, praticamente priva di peso. L'aria era torrida e Margaret respirava a fatica. Cercò di aprire gli occhi ma la luce intensa e un dolore lancinante le trafissero il cervello costringendola a richiuderli immediatamente con un gemito. Riprovò di lì a un po', adagio, un millimetro per volta, dolorosamente, finché il mondo non ricomparve davanti a lei. Aveva ancora le pupille dilatate e le immagini erano sfocate. Lottando contro le fitte cercò di metterle a fuoco e così si rese conto che la termocoperta era in realtà un raggio di luce che, attraverso la finestra, le colpiva la pelle. Il suo cervello lavorava con la stessa lentezza degli occhi, per cui le ci vollero diversi minuti prima di riuscire a realizzare di essere completamente nuda. Balzò a sedere con il cuore in gola e subito provò una fitta lancinante alle tempie. Se le massaggiò con forza chiudendo gli occhi e, quando li riaprì, si guardò intorno. Dove si trovava? Chi l'aveva spogliata? E che fine avevano fatto i suoi ve-
stiti? Alla parete sopra il cassettone erano appese alcune fotografie incorniciate. Una giovane coppia, con il tradizionale vestito cinese e berretto militare blu, sorrideva alla macchina fotografica. Un gruppo di famiglia, comprendente un ragazzino di circa dodici anni e una bambina un po' più piccola; il maschietto aveva qualcosa di vagamente familiare. Un'altra coppia; anzi, no, la stessa della prima foto, solo più vecchia; la donna guardava l'uomo e gli sorrideva con affetto mentre lui fissava l'obiettivo. Indossava l'uniforme verde della polizia e Margaret capì immediatamente che era il vecchio Yifu. Poco sopra era appeso un fotoritratto vecchio stile della donna: la moglie, pensò Margaret. Aveva le labbra atteggiate a un sorriso dolcissimo, gli occhi scuri e sereni e un fare semplice che tradiva la sua bellezza interiore. Dunque quella era la stanza dello zio Yifu. Che cosa era successo quella notte? Si ricordava solo di essere stata allo Xanadu: champagne e risate. Nient'altro. Le sembrò di essere tornata ai tempi dell'università e delle sbronze tra studenti. Solo che adesso era più vecchia di dieci anni e molto meno capace di affrontare la situazione. Vide i suoi indumenti piegati ordinatamente su una sedia. Si alzò in piedi barcollando e si rivestì lentamente. Da qualche parte, sentì qualcuno muoversi: il rumore di un bollitore posato sul fornello, lo sbatacchiare di stoviglie di terracotta. Si diresse nell'anticamera e, trovata aperta la porta di un piccolo bagno, vi entrò, si guardò nello specchio e subito si pentì di averlo fatto: la sua faccia sembrava d'argilla. Si rinfrescò il viso con l'acqua tiepida, cercando di fargli riprendere un po' di colore. Poi si sciacquò la bocca, cercando di eliminare l'alito cattivo e la sensazione di avere la lingua impastata. Si affacciò sulla porta della cucina con gli occhi ancora annebbiati e vide Li Yan che preparava il tè. Rimase scioccata dal suo aspetto: se possibile, era addirittura peggiore del suo. Le ferite al labbro, sulla guancia e sul sopracciglio erano incrostate di sangue rappreso. L'amamelide aveva attenuato il gonfiore e l'ecchimosi aveva assunto un colore giallastro. In un giorno o due sarebbe scomparsa completamente ma, per il momento, risaltava orribilmente su quel viso così pallido. Li Yan le lanciò un'occhiata timida. «Tè?» Lei mosse la testa in segno di assenso, ma subito se ne pentì perché fu trafitta da un dolore martellante alle tempie. «Che cosa...» Esitò, timorosa. «Che cos'è successo stanotte?» «Abbiamo tutti bevuto troppo.»
«Questo l'avevo capito. E poi?» «Be', tu hai pensato bene di esibirti in un karaoke.» «Stai scherzando! Non... non sarò mica salita sul palco a cantare?» «No, ha cantato Lotus e tu ti sei lasciata andare un po'.» Margaret chiuse gli occhi per la vergogna e l'incredulità. «E così siamo venuti qui» concluse lui. «Noi chi?» «Noi quattro. Ma Yongli ha pensato che un po' di caffè forte potesse farti sentire meglio. Purtroppo, ha avuto l'effetto opposto.» «Oh, Dio, ho vomitato?» Li Yan annuì. Margaret sarebbe voluta sprofondare. «Mi dispiace tanto.» «Va tutto bene. Lotus si è presa cura di te» la rassicurò lui con un sorriso. «È ancora qui?» «No, lei e Ma Yongli se ne sono andati dopo circa un'ora.» Le porse una tazza di tè verde. Lei sorseggiò la bevanda bollente e aromatica e si sentì un po' meglio. Non osava guardarlo negli occhi. «Noi...? Io...?» Poi rinunciò ai giri di parole. «Chi mi ha spogliato?» chiese. «È stata Lotus a metterti a letto, prima di andarsene.» Margaret si sentì molto sollevata. Non per il fatto che non fosse successo nulla tra loro, ma perché, trovandosi lei in quello stato, sarebbe stato sprecato. Al di là del forte imbarazzo e dei postumi della sbornia, provava per lui gli stessi sentimenti della sera prima. Desiderava che Li Yan la prendesse tra le braccia per confortarla e rassicurarla. Ma, nella fredda luce del giorno, erano entrambi imbarazzati e incerti su come comportarsi. Non avevano ancora la familiarità di chi ha condiviso momenti di grande intimità e ha confessato i propri sentimenti più segreti non solo a se stesso, ma anche all'altro. Margaret bevve un altro sorso di tè e si guardò intorno, cercando qualcosa. Li Yan le porse la borsetta. «Cerchi questa?» «Sì.» L'aprì, prese due pastiglie e le inghiottì insieme al tè. Di lì a venti minuti avrebbe cominciato a sentirsi meglio. Guardò l'orologio: le nove e mezza. «Santo cielo! È così tardi? Ho una lezione alle nove!» «Avevi una lezione alle nove» la corresse lui. «Vuoi che ti chiami un taxi?» Li Yan guardò il taxi allontanarsi nel traffico. Sentiva ancora il calore di un rapido bacio di Margaret bruciargli sulla guancia. Chissà quando l'a-
vrebbe rivista e, soprattutto, se l'avrebbe rivista. Sapeva bene che avrebbe avuto dei fastidi per averla portata a casa sua. Il poliziotto di guardia aveva senz'altro già fatto rapporto, quella mattina. Ma non avrebbe potuto lasciarla in albergo in quello stato ed era ancora preoccupato della sua incolumità. Se il suo aggressore della notte scorsa li stava pedinando, sapeva dove Margaret era alloggiata. Osservò la strada sottostante e le auto parcheggiate a spina di pesce sul marciapiede, all'ombra degli alberi. Gruppi di agenti stavano uscendo dall'Accademia, dall'altra parte della strada; i vigili avevano bloccato il traffico per farli passare. Donne con carrozzine passeggiavano sull'isola pedonale che faceva da spartitraffico. Sulle panchine sedevano alcuni vecchi con lo sguardo perso in lontananza e la sigaretta in bocca. Si chiese se in mezzo a quella gente si nascondesse qualcuno intento a spiarlo. Quel pensiero lo mise molto a disagio. La pioggia della notte aveva spazzato via un po' di polvere e di afa e l'aria era più fresca. Li Yan pedalava lungo la via che lo portava al lavoro. Il cielo era finalmente azzurro, anziché del solito colore grigiastro, e il sole caldo. Pensava a Margaret ed era preoccupato. Era rimasta delusa che, quella notte, non fosse successo niente tra loro? A lui era parsa sollevata. Era strano il fatto che lei sembrasse sempre sul punto di entrare in intimità con lui, come se lo conoscesse bene, come se fossero amanti da tempo. Spesso l'aveva quasi toccato o baciato ma, all'ultimo momento, si era ritratta come se si fosse resa improvvisamente conto che, dopotutto, lui era un estraneo. O, forse, l'abitudine all'intimità acquisita negli anni di convivenza con il marito era difficile da perdere e, in realtà, quell'atteggiamento non aveva nulla a che fare con Li Yan. All'angolo di Dongzhimennei salutò Mei Yuan senza fermarsi. «Scusa, stamattina non ho proprio tempo.» Lei si alzò dallo sgabello per contraccambiare il saluto e gli lece cenno di fermarsi. Ma lui si era già immesso nel traffico che attraversava la strada principale. «Più tardi!» le gridò allontanandosi. I corridoi della Prima Sezione erano ancora affollati di cittadini in attesa di essere interrogati sull'operaio stagionale di Shanghai o su quello che avevano visto, due giorni prima, al parco Ritan. La stanza degli investigatori era pressoché deserta; c'era solo Qian che stava scrivendo il rapporto sugli eventi della notte prima al parco. Sembrava agitato e fece un cenno a Li Yan, indicandogli l'ufficio. «Il capo ti sta aspettando.» Li si fece coraggio ed entrò nella stanza con aria sicura. «Buongiorno, capo. Grandi progressi, questa notte.»
Chen, seduto alla scrivania, stava sfogliando pigramente una pila di rapporti. Alzò gli occhi e chiese, cupo: «Nella sua vita professionale o in quella personale?». «Che cosa intende?» «Suvvia, Li Yan!» Il capo batté un colpo sulla scrivania. «Sappiamo tutti e due che la dottoressa Campbell ha trascorso la notte nel suo appartamento. In nome di Dio, ma che sta facendo?» «Aveva bevuto troppo, capo. Non si sentiva bene, così le ho detto che poteva fermarsi da me: tutto qui. Ha dormito nella stanza del vecchio Yifu.» «Maledizione! Quella donna è una straniera e lei è un pubblico ufficiale.» «Il mio rapporto con la dottoressa Campbell è esclusivamente professionale, capo» protestò Li. «Allora è il caso che lei smetta di portarsi il lavoro a casa.» Chen si alzò, furibondo. «Ha idea delle possibili ripercussioni di tutto ciò? Ho già ricevuto una chiamata dall'università: stanno considerando la possibilità di rispedire immediatamente a casa la dottoressa. Mi sento responsabile: dopotutto, sono stato io a chiedere il suo aiuto. E io me la prendo con lei, non con quella donna; è lei che dovrebbe sapere come ci si comporta.» Li chinò la testa, non sapeva che cosa dire. «Mi dispiace, capo, pensavo di fare la cosa giusta. Dopo l'aggressione di stanotte, pensavo che potesse essere in pericolo.» Ma Chen era furibondo. «Di stanotte parleremo dopo» tagliò corto. «Dovrò avviare un'azione disciplinare nei suoi confronti. Soprattutto perché tutta questa storia arriva dopo la querela ufficiale contro di lei, ieri.» «Se parla di Ago...» «Non offenda la mia intelligenza cercando di negare. E, quanto alla scorsa notte, se lei avesse seguito la procedura corretta, non sarebbe stato aggredito, e non avrebbe messo in pericolo la dottoressa Campbell.» Si girò verso la finestra con un gesto esasperato. «Per amor di Dio, Li, non sono neanche tre giorni che fa questo lavoro. Pensavo che l'avesse capito: qui si fa un lavoro di squadra. E il suo compito è guidare la squadra, e non condurre una crociata individuale, sparando a destra e a manca come un... piedipiatti americano. E se non lo capisce, farò in modo che lei finisca a dirigere il traffico in piazza Tien-An-Men. Chiaro?» «Come?» «Ha capito?»
«Sì, capo.» Chen fece un profondo respiro per calmarsi. «Nonostante tutto, ieri ha fatto proprio un bel lavoro: il guanto, la chiave e l'impronta.» «Il merito è solo in parte mio, capo» ribatté Li Yan. «È stata un'idea della dottoressa Campbell.» Chen lo guardò con stupore. «Ha anche formulato l'ipotesi che Chao potesse avere l'AIDS per via delle medicine trovate a casa sua. Ieri abbiamo richiesto altri test sul sangue per ottenere la conferma di questa ipotesi. I risultati dovrebbe essere disponibili più tardi.» «A quanto pare, la dottoressa Campbell si è data molto da fare,» commentò Chen con una sfumatura di sarcasmo nella voce «ma sembra anche che abbia avuto ragione.» Sospirò, prese un fascicolo dalla scrivania e lo porse a Li. «Questo è arrivato dieci minuti fa per fax dalla polizia di Hong Kong.» Li Yan lo aprì e si trovò di fronte l'uomo che gli aveva distrutto la faccia, la notte prima. Un brivido gli percorse la schiena. 2 Margaret scese dal taxi davanti all'edificio dell'amministrazione dell'università. Aveva smesso di correre, ormai non aveva più senso. L'orario della sua lezione era già passato. Prima di andare in università, si era fermata in albergo, aveva fatto una doccia, si era cambiata, aveva preso con sé alcuni appunti. Aveva i capelli ancora umidi e si era truccata un po' più pesantemente per cercare di nascondere i segni degli eccessi della notte precedente. Le faceva ancora male la testa e aveva lo stomaco sottosopra. Mentre saliva di corsa la scalinata di marmo, sentì i passi leggeri di qualcuno che scendeva. Alzò gli occhi: era Lily Peng. «Salve» la salutò, un po' affannata. «Sa dov'è Bob...?» Ma la donna fece finta di non aver sentito e tirò dritto senza dire una parola. Margaret ci rimase male: anche se poco loquaci, di solito i cinesi erano cortesi. Andò nel suo ex ufficio. C'era solo la dottoressa Mu. «Sa per caso dov'è Bob?» La dottoressa la guardò sbalordita come se fosse un mostro a due teste. "Ma certo," si ricordò allora Margaret "non parla inglese!" «B-o-b» ripeté allora lentamente, scandendo ciascuna lettera. Si sentiva molto ridicola. «Non importa.» E si incamminò verso l'ufficio del professor Jiang. Stava per bussare quando la porta si aprì e fu quasi travolta da Veronica. «Oh, salve,» le disse «sto cercando Bob.» L'interprete la squadrò freddamente. «Lui sta facendo lezione.» E se ne andò senza aggiungere altro.
Margaret cominciava ad avere un brutto presentimento. Si sentiva la testa pesante. Sospirò, scese le scale, uscì e si diresse alle aule. Trovò Bob intento a riordinare gli appunti dopo la lezione. Quando lei entrò, alzò lo sguardo, poi tornò alle sue carte. «Mi sorprende che ti sia presa il disturbo di venire» l'apostrofò guardando ostentatamente l'orologio. «Sei in ritardo solo di due ore per la tua lezione.» «Accidenti, mi dispiace, Bob. Non mi sono svegliata.» «Non "ti sei"... o non "vi siete"...?» «Come?» chiese lei arrossendo. «Be', suppongo che tu non sia tornata in albergo a dormire, dopo aver passato la notte a casa del vicecaposezione Li. Non sarebbe più corretto dire che tutti e due non vi siete svegliati in tempo? Insieme, nel suo appartamento?» L'iniziale imbarazzo di Margaret si stava trasformando molto rapidamente in rabbia. Come faceva Bob a sapere dove lei aveva passato la notte? «Penso che sarebbe più corretto dire che non sono affari tuoi.» Bob lasciò cadere gli appunti sulla scrivania e si girò a guardarla, livido in volto. «Be', io invece penso che sarebbe molto scorretto dirlo, considerando che, all'ultimo momento, ho dovuto tenere la lezione al posto tuo e poi ho passato mezz'ora dal professor Jiang inventando scuse per te.» «Che cosa...? Tutti sanno dove ho trascorso la notte?» «Certo.» «E come?» Margaret non poteva crederci. «Lily Peng.» «Vuoi dire che quella stronza ci ha spiati?» «Non prendertela con lei, fa solo il suo lavoro.» «Santo cielo, ma in questo paese è un crimine passare la notte a casa di qualcuno?» «Be', in realtà, sì» rispose lui duro. «In Cina, dovunque si vada e ogni volta che si cambia indirizzo bisogna notificarlo al Dipartimento di Pubblica sicurezza. E, dal punto di vista legale, chi prende una camera in albergo deve attenersi alla stessa regola. Tu non hai trascorso la notte in albergo quindi hai infranto la legge. Lily ha riferito alla polizia dove ti trovavi, loro l'hanno riferito al tuo danwei, qui all'università. Il professor Jiang e tutto il personale di questo dipartimento si sentono disonorati dalla tua condotta. Considerano oltraggioso il tuo comportamento e io sono d'accordo con loro.» «Al diavolo!» Margaret si mise le mani sui fianchi e alzò gli occhi al
cielo, incredula. «Non può essere vero!» «Ti sbagli, questa è la Cina. E ti assicuro che è tutto verissimo. Pensavo che avessi letto il materiale informativo prima di venire qui.» Margaret evitò il suo sguardo. «Ti ho detto che l'avevo ricevuto, non che l'avevo letto. D'accordo, mi dispiace. Ma io sono venuta qui solo per tenere qualche lezione e lasciarmi alle spalle una situazione di merda. Non sapevo che il Grande Fratello mi avrebbe spiata.» «Non è il Grande Fratello a tenerti d'occhio, qui, è la gente: il vicino, il fattorino dell'albergo, l'uomo dell'ascensore, il comitato di quartiere, l'ufficiale addetto al censimento, l'unità di lavoro. Naturalmente, sapresti tutte queste cose se...» «...se avessi letto il materiale informativo» tagliò corto lei. «Be', mi fa piacere che tu la prenda tanto allegramente. Ti posso assicurare che l'OICJ non la prenderà così. Hanno impiegato parecchi anni per stabilire buoni rapporti con la Cina, e forse tu hai rovinato tutto in una sola notte.» «Una notte di passione, intendi?» chiese lei amaramente. «Questo è ciò che pensate tutti, vero? Be' forse ti interesserà sapere che non è successo nulla: io ho dormito in una stanza, lui in un'altra.» «Non me ne potrebbe importare di meno» replicò Bob. «E se pensi che sia questo il problema, ti sbagli di grosso.» «E allora qual è il problema?» Margaret stava per esplodere. «Il problema è che tu hai abusato dell'ospitalità dei cinesi.» Le puntò contro un dito accusatore. «Da quando sei arrivata, non hai dimostrato il minimo riguardo né interesse per questo paese e per la sua cultura. Pensavo che aiutare Li Yan nelle indagini potesse essere un buon modo per stabilire un contatto. E invece è stato un disastro.» Evidentemente, Bob ignorava il prezioso contributo che lei aveva fornito alle indagini nelle ultime ore. Margaret si chiese se il fatto di saperlo avrebbe cambiato qualcosa e concluse che, nello stato d'animo in cui si trovava Bob, probabilmente non sarebbe servito a niente. «Per le prossime cinque settimane,» proseguì Bob «ti suggerisco di stare alla larga da quel poliziotto e dalle sue indagini. E dovrai stare lontana anche dal professor Jiang. Questa promessa è stato l'unico mezzo per convincerlo a non rispedirti negli Stati Uniti con il primo aereo.» «Ma davvero? Be', sai che cosa ti dico? Non dovevi prenderti il disturbo.» Gli lanciò addosso i fogli degli appunti che aveva con sé. «Me ne vado.»
3 Da Hong Kong erano arrivate altre informazioni: l'uomo che aveva ripetutamente preso a pugni Li Yan e che ora lo fissava dal fax posato sulla scrivania si chiamava Johnny Ren. La sua lunga fedina penale comprendeva molti reati, dal furto allo stupro, all'aggressione, compiuti a partire dai dodici anni. "Davvero un bel soggetto" pensò Li. Adesso aveva trent'anni ed erano più di otto che non finiva in prigione. Ma la polizia di Hong Kong non credeva affatto che avesse deciso di cambiare vita. Era passato sotto la protezione di una gang della mafia cinese, che operava fuori da Kowloon e si sospettava un suo coinvolgimento in almeno una dozzina di regolamenti di conti tra bande rivali all'inizio degli anni Novanta. Secondo gli informatori, ora faceva il "meccanico", cioè il killer su commissione. Ma non c'erano prove. Ufficialmente, le sue entrate derivavano da una catena di ristoranti di cui era socio. Aveva un tenore di vita elevato, un appartamento costoso vicino all'ippodromo di Hong Kong e una barca nel porto turistico, guidava una Mercedes Sport e una Toyota Landcruiser, vestiva Versace e fumava sigarette americane (Li Yan ne conosceva bene la marca). Alla polizia di Hong Kong avevano fatto proprio un bel lavoro su Johnny Ren. Adesso, però, lui non era rintracciabile e non lo si vedeva in giro da diverse settimane. Qian bussò e si affacciò sulla porta. «Ci sono tutti, capo.» «Hai fatto fotocopiare il materiale?» «Sì, lo stanno distribuendo adesso nella sala riunioni.» «Bene, arrivo subito.» Raccolse le carte e si alzò. Chiuse gli occhi per un attimo respirando profondamente, e vide il volto di Johnny Ren come gli era apparso la notte prima nel parco. Era impresso a fuoco nella sua mente: alterato dall'ira e determinato, chino su di lui e tanto vicino da permettersi di sentirne il fiato pesante da fumatore incallito. Ma nel parco, la freddezza e l'autocontrollo da professionista del crimine imparati negli anni avevano completamente abbandonato Johnny Ren. Aveva tentato di ucciderlo. Avrebbe continuato a colpirlo fino a fracassargli le ossa e a ridurgli in poltiglia il cervello: gliel'aveva letto negli occhi. Johnny Ren aveva commesso un errore e perciò lui doveva morire. Li Yan aprì gli occhi: era in un bagno di sudore. Non si era mai imbattuto in un individuo tanto mostruosamente malvagio e voleva a tutti i costi catturarlo e impedirgli di nuocere ancora. Si girò verso la porta e vide Ma
Yongli entrare di corsa: aveva un aspetto strano, smarrito, come di un animale braccato. Li Yan fu sorpreso da quella visita inconsueta. «Che cosa ci fai qui?» L'amico era pallidissimo e aveva profonde occhiaie scure. «Mi serve il tuo aiuto, Li.» Aveva il tono supplichevole di un bambino che sa che quello che sta per chiedere gli sarà negato. «Che c'è? Sei nei guai?» Li Yan non l'aveva mai visto in quello stato. «Si tratta di Lotus.» Li ebbe un tuffo al cuore. Doveva immaginarlo. Yongli era in grado di affrontare qualsiasi difficoltà e imprevisto della vita, ma Lotus... «Che cos'è successo?» «L'hanno arrestata.» Un po' affannato, Qian fece capolino nell'ufficio e accennò con una smorfia al corridoio. «Il grande capo ha deciso di unirsi al gruppo. E comincia a essere un po' impaziente.» «Arrivo» gli rispose. «Senti,» disse poi a Ma Yongli «devi avere pazienza. Adesso ho una riunione.» «Stamattina, quando abbiamo lasciato casa tua, siamo tornati allo Xanadu» proseguì Ma Yongli, come se non avesse sentito. «Poco prima delle cinque hanno fatto una retata e ci hanno portati tutti alla centrale.» «Ma Yongli, adesso non ho tempo.» E si avviò alla porta, seguito dall'amico. «Hanno trovato della droga nella borsetta di Lotus: eroina. Lei dice che non sa come sia finita lì.» «Si dice sempre così» commentò Li Yan spazientito. Tutte le sue previsioni più fosche su Lotus si erano avverate. Svoltò nel corridoio, sempre con l'amico alle calcagna. «Io le credo, Li Yan. Non è nel giro della droga, non lo è mai stata. Ma l'hanno arrestata e potrebbe rimanere dentro per anni. Dannazione, la gente viene giustiziata per molto meno!» Il poliziotto si fermò fuori dalla sala riunioni e si girò verso l'amico. «Ascolta, fin dall'inizio ti avevo detto che quella donna ti avrebbe procurato solo guai. Che cosa vuoi che faccia? Devo risolvere un triplice caso di omicidio e lì dentro ci sono i miei colleghi che mi stanno aspettando. E tu vuoi che lasci perdere tutto e cerchi di tirare fuori di galera una puttana beccata con una borsa piena di polverina bianca?» Si pentì subito di quelle parole. Il volto pallido di Ma Yongli si fece paonazzo e gli occhi divennero freddi come il ghiaccio. «Qualunque cosa tu pensi di Lotus, sono io che ti
chiedo aiuto. Pensavo fossimo amici, Li Yan, ma forse la mia era solo una stupida illusione.» «Su, non fare così» lo pregò Li. «È stata arrestata dai colleghi di un'altra sezione. Io non ho nessuna influenza...» «Così, non farai nulla?» La porta della sala riunioni si aprì e Chen sporse la testa fuori. «Vicecaposezione Li,» lo apostrofò scandendo le parole «ho un'altra riunione tra trenta minuti.» «Arrivo, capo, solo due secondi.» «Intende secondi terrestri, o che cosa?» E richiuse la porta senza attendere la risposta. Li Yan sospirò. «Senti, Ma Yongli, vedrò quello che posso fare, d'accordo?» L'amico lo guardò, piuttosto scettico. «Sì, sapevo che lo avresti detto. Tutto pur di liberarti di me.» «Dammi solo un po' di tempo. Ti prometto che farò quello che posso.» Ora, negli occhi di Yongli, al dolore si era mescolato il disprezzo. «Sì, campa cavallo.» E si allontanò a passi rapidi per il corridoio. Li Yan si sentiva un verme: chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro. L'amico meritava un trattamento migliore. E ripensò a Lotus e a come si era comportata bene con Margaret, la notte prima. Avrebbe fatto qualche indagine, appena possibile. Si girò ed entrò nella sala riunioni. Seduti intorno al tavolo, lo aspettavano una dozzina di investigatori e il caposezione. Su di loro aleggiava una nuvola di fumo, nero come l'umore di Chen. «Scusi se l'ho fatta aspettare» esordì Li Yan. Si sedette e si accese una sigaretta. «Avete tutti una copia del materiale arrivato da Hong Kong?» Prese il fax con la foto di Johnny Ren. «Guardate bene questo volto: è il nostro uomo. Aspetto una conferma definitiva della scientifica verso l'ora di pranzo, ma non ho dubbi. È molto in gamba e pericoloso. E si trova qui a Pechino o, almeno, ci si trovava la notte scorsa.» Si passò tristemente la mano sull'ecchimosi. «Domani mattina la sua faccia deve campeggiare sui quotidiani di tutta la Cina. Voglio vederla in tutti i telegiornali di tutte le stazioni televisive. Speditela per fax a ogni commissariato, stazione ferroviaria, posto di frontiera. Quest'uomo è armato e pericoloso. Occorre informare la polizia di confine, i vigili e l'esercito. Non potrà spostarsi da un posto a un altro senza essere riconosciuto da qualcuno. Dobbiamo controllare tutti gli alberghi, gli ostelli e le pensioni della città: dovrà pure dormire da qualche parte! Sicuramente qualcuno l'ha vi-
sto, qualcuno sa dov'è. Può essere solo questione di tempo. Qian, tu coordinerai l'operazione.» Wu si appoggiò allo schienale della sedia, tenendo nella mano una sigaretta accesa. Si era tolto gli occhiali da sole e masticava con aria meditabonda l'immancabile chewing-gum. «Capo, non abbiamo ancora chiarito il movente di questo tipo.» «I soldi» rispose Li Yan. «È un professionista. Probabilmente si considera un ragazzo povero che ha fatto fortuna. Non sappiamo, tuttavia, chi gli ha dato questo incarico e perché. E, quando lo prenderemo, non credo proprio che lui ce lo dirà.» «Così, nel frattempo, continuiamo a cercare un collegamento fra le tre vittime?» «Sì, a meno che tu non abbia un'idea migliore. Ci sono novità su questo fronte?» Tutti scossero la testa. «Bene, continuiamo con gli interrogatori. Ma c'è un elemento nuovo che potrebbe essere importante: forse Chao aveva l'AIDS. Aspetto per oggi la conferma del test sul sangue. Sappiamo che aveva un debole per i ragazzini. Fino a ieri pomeriggio ci siamo concentrati su un possibile collegamento tra Chao e Mao Mao per via della droga. Ora, grazie all'aiuto del nostro caro amico Ago, possiamo escludere questa possibilità.» Tutti i presenti guardarono Chen, ma lui rimase impassibile. «Può darsi che il legame sia l'omosessualità. Qualcuno che ha contratto l'AIDS e vuole vendicarsi. So che non abbiamo sospetti di omosessualità per quanto riguarda lo spacciatore né per quanto riguarda l'operaio stagionale, ma non abbiamo neppure fatto indagini in questa direzione. Farò eseguire il test dell'AIDS su campioni di sangue prelevati da entrambi i cadaveri. Zhao, dobbiamo cominciare a identificare i ragazzi che frequentavano abitualmente la casa di Chao. E, se aveva un fornitore, dobbiamo sapere chi era e interrogarlo d'urgenza.» «Lo faccio subito, capo.» Zhao prese un appunto. «Bene. Qualcuno ha altre ipotesi, idee, domande?» Wu soffiò pigramente una boccata di fumo verso il ventilatore e la guardò disperdersi nell'aria. «Sì, io avrei una domanda. La graziosa dottoressa americana collabora ancora con noi?» I colleghi soffocarono a stento una risata. «Lo sai, capo, non è giusto che te la tenga tutta per te. Anche noi potremmo trarre beneficio dalla sua esperienza.» Rimase impassibile, come se avesse fatto una domanda seria. Chen era livido. «Credo che ti farebbe bene passare un paio d'anni a dirigere il traffico in piazza Tien-An-Men» rispose Li. Nella sala scoppiaro-
no fragorose risate. «Possiamo metterci d'accordo sul tuo trasferimento.» Altre risate. Li guardò il capo: sul suo viso era comparsa l'ombra di un sorriso. «E, tornando alla tua domanda, Wu, la dottoressa Campbell non ci aiuterà più nell'inchiesta.» Chiuse il fascicolo. «È tutto, per ora. Altre domande? Bene, allora diamoci da fare, vediamo di acciuffare Johnny Ren. Un'ultima cosa» aggiunse Li Yan. «Portate meno carte possibile nel mio ufficio, ragazzi. Solo le cose essenziali, per piacere. Quelle che ci sono bastano a tenermi occupato per i prossimi cinque anni.» I poliziotti sciamarono fuori. Chen si avvicinò a Li Yan e gli sfiorò la spalla. «Mi tenga informato sugli sviluppi.» Quando furono usciti tutti, Li Yan si sedette di nuovo per un momento; si sentiva stranamente malinconico. Raccolse il fascicolo dal tavolo e si costrinse ad alzarsi: si sentiva completamente privo di forze. "Forse sono solo i postumi della sbornia" si disse. Percorse lentamente il corridoio. Anche se aveva scherzato sul riferimento di Wu a Margaret, non poteva nascondersi la realtà: adesso che lei non avrebbe più partecipato alle indagini, non aveva alcun motivo di vederla. Almeno, non ufficialmente. Gli impegni di lavoro, del resto, gli avrebbero lasciato ben poco tempo libero, nel prossimo futuro. Tra meno di cinque settimane lei sarebbe partita e probabilmente non l'avrebbe più rivista, quindi era inutile cercare di iniziare una relazione di qualsiasi tipo nelle poche ore che avrebbero potuto trascorrere insieme, di tanto in tanto. E, se non potevano parlare delle indagini, che cosa mai avrebbero potuto dirsi? Non sembravano avere molto in comune. In realtà, era una pazzia avere anche solo pensato che, tra loro, potesse nascere un rapporto serio. Era meglio troncare adesso. Ma, per quanto se lo ripetesse con grande convinzione, continuava a rimanere perplesso. Il pensiero che Margaret fosse già uscita per sempre dalla sua vita lo deprimeva. Il corridoio brulicava di attività: investigatori, segretarie, testimoni e telefoni che squillavano in continuazione. Da qualche parte, giungevano il ronzio di una fotocopiatrice in piena attività e il fischio penetrante di un fax che sputava immagini. Mentre si avvicinava alla stanza degli investigatori, Li Yan fu urtato da un uomo che gli fece cadere di mano il fascicolo e poi si allontanò rapidamente senza una parola di scusa. Il poliziotto si chinò brontolando a raccogliere le carte che si erano sparpagliate per terra. Aveva gettato solo una rapidissima occhiata al viso di quel tipo, pallido, teso e determinato a evitare il suo sguardo. Si girò a guardare la figura che si allontanava velocemente lungo il corridoio e un ricordo gli affiorò nella mente: il viso dell'uomo che lo aveva appena urtato!
«Ehi! Ferma! Fermate quell'uomo!» Molte facce si girarono, stupite, ma l'uomo, che era ormai arrivato alla fine del corridoio, si mise a correre e raggiunse le scale. Li Yan si rialzò e partì a razzo mentre le carte volteggiavano nell'aria dietro di lui. Qualcuno gli attraversò la strada e venne urtato con violenza e buttato contro la parete. «Pista! Maledizione, toglietevi di mezzo!» La gente si scostava rapidamente. Sulla porta dell'ufficio fecero capolino i colleghi. «Ma che diavolo succede?» urlò una voce. Li Yan raggiunse le scale e senti i passi di Johnny Ren al piano di sotto. Colse, in una serie di brevi flash, un lembo del vestito di Versace, un taglio di capelli costoso, un viso che lo guardava di sfuggita. Fece i gradini due alla volta, urlando a tutti di togliersi di mezzo. «Ma che sta accadendo, Li?» chiese qualcuno a gran voce. Doveva essere Chen, ma non era il momento di fermarsi per appurarlo. Arrivò, ormai senza fiato, in fondo alle scale e il calore del giorno che entrava dalla porta lo colpì come un pugno. Il contrasto tra l'interno buio e freddo e l'esterno assolato e torrido lo lasciò un attimo disorientato. Alzò una mano per schermarsi gli occhi dal sole e si guardò intorno. Non c'era traccia di Johnny Ren. Da destra giunse il clangore di un bidone dell'immondizia rovesciato. Si diresse da quella parte oltrepassando il garage della polizia con il suo tetto rosso e girò in un vicoletto alle spalle di Chaoyangmen Nanxiaojie. In fondo alla strada vide l'uomo delle Marlboro che correva a perdifiato. Il bidone stava ancora rotolando dopo aver riversato fuori tutto il suo contenuto maleodorante. Li Yan lo schivò e si lanciò per il vicolo dietro a Johnny Ren. Lo vide svoltare a destra, in un dedalo di hutong fatti di cadenti case di mattoni grigi. Quando raggiunse la fine del vicolo, l'uomo non era più in vista, ma si udivano i suoi passi echeggiare contro i muri. Li Yan sentiva i polmoni scoppiargli nel petto e, per la prima volta nella sua vita, si pentì di essere un fumatore. La sua unica consolazione era che anche Johnny Ren fumava e soffriva nello stesso modo. Li Yan correva adesso con meno slancio. La testa gli pulsava. Girò l'angolo e si scontrò con un giovane che pedalava con aria distratta. Inciampando nella ruota anteriore della bici, perse l'equilibrio e cadde, atterrando sul ciclista, un ragazzino di dodici o tredici anni, che si mise a strillare per il dolore contorcendosi freneticamente per cercare di liberarsi dal peso di quell'individuo che sembrava essergli piombato addosso dal cielo. Li Yan si rimise in piedi barcollando e bestemmiando. Perdeva sangue da un gomito e aveva i pantaloni strappati all'altezza del ginocchio. Il ra-
gazzino continuava a urlare. «Tutto bene, figliolo?» gli chiese lui, afferrandolo per le spalle. Ma l'unica preoccupazione del ragazzo era la bicicletta. «Guarda cos'hai fatto alla mia bici, scemo!» La ruota anteriore si era tutta deformata. Li Yan trasse un sospiro di sollievo. La ruota poteva essere riparata o sostituita. «Sono un funzionario di polizia» disse ansimando. «Va' alla stazione qui dietro e aspettami là.» E riprese a correre. «Raccontalo a un altro!» gli gridò dietro il ragazzo. «Maledetto cretino!» Li Yan giunse a un incrocio, cinquanta metri più avanti. Si fermò per riprendere fiato e guardò a destra e a sinistra: nessuno. Oltre al suo respiro affannoso, sentiva solo il rombo distante del traffico su Dongzhimennei. Girò a destra, attraversò un passaggio ad arco che dava su alcuni siheyuan in rovina. All'ingresso di uno di essi trovò un'anziana donna che spazzava con una scopa di saggina. Le mostrò il distintivo. «Polizia. Ha visto un uomo con un vestito scuro? Deve essere passato di qui.» «No, non ho visto nessuno, solo dei bambini, circa dieci minuti fa.» Li Yan si girò e tornò indietro. La strada era trafficata e nessuno gli prestò attenzione. Si fermò, esausto e sudato, e ancora una volta si guardò intorno: Johnny Ren era scomparso. «Ma siete tutti ciechi?» Tornato in ufficio, Li Yan se la prese con i colleghi. «Venite da una riunione dove non si è fatto che parlare di quell'uomo, avete tutti la sua foto nel vostro dossier e non lo vedete uscire dal mio ufficio?» I presenti rimasero in silenzio, sbigottiti. Per tutto l'edificio si rincorrevano voci e ipotesi. Appena arrivato, Li Yan si era fermato da Chen e gli aveva chiesto di mettere delle guardie armate ai vari ingressi e di identificare coloro che entravano e uscivano. «Non riesco a credere all'audacia di questo tipo, capo. Siamo nella sala riunioni a discutere sul modo di acciuffarlo e lui viene qui con la massima freddezza e si mette a frugare con calma nel mio ufficio.» «Manca qualcosa?» «Non lo so, devo esaminare i documenti sulla scrivania.» Nessuno degli investigatori ricordava se Ren avesse in mano qualcosa, quando era uscito dall'ufficio di Li. «Pensavamo che fosse uno dell'amministrazione» si giustificò Wu. «Nessuno gli ha fatto caso.» Li Yan entrò nel suo ufficio sbattendo la porta e si fermò un attimo in
piedi. Si guardò intorno a disagio: quella stanza era stata in un certo senso sporcata, violata dall'intrusione di Johnny Ren. Doveva essere un uomo molto sicuro di sé o un pazzo: probabilmente, era entrambe le cose. In ogni caso, aveva il più assoluto disprezzo per la polizia. Questo era certo. Si sedette e frugò tra le carte. Per quel che riusciva a vedere, non mancava niente ma negli ultimi due giorni si erano accumulati così tanti fascicoli che non sapeva con precisione che cosa ci fosse e che cosa no. Tutto sembrava al solito posto. Le pile di documenti sotto la finestra sembravano uguali a prima. Aprì i cassetti: penne, notes, la rubrica telefonica, fermagli, la cucitrice, vecchi rapporti del suo predecessore che non aveva ancora buttato via, un pacchetto di chewing-gum, qualche lettera. Apparentemente non era stato toccato nulla. Ma che cosa cercava Johnny Ren? E perché aveva corso il rischio di entrare proprio nella tana del leone? Che motivo poteva avere avuto? Un timido bussare alla porta annunciò Zhao. Sembrava nervoso. «Scusa se ti disturbo, capo. Mentre eri fuori, ha chiamato l'ufficio del viceprocuratore generale. Chiede perché il rapporto di stamattina non conteneva gli eventi di questa notte al parco Ritan.» «Merda!» Come diavolo faceva il viceprocuratore generale Zeng a esserne già informato? All'una di notte, non aveva avuto voglia di modificare il rapporto sugli sviluppi delle indagini, e adesso pagava cara quella sua pigrizia. Andò alla porta. «Qian! Hai steso il rapporto su questa notte?» «Ho appena finito, capo.» «Benissimo, fallo battere a macchina e poi portare all'ufficio del procuratore municipale. Ti preparo la lettera di accompagnamento.» Bestemmiò tra sé, sbatté la porta e si lasciò cadere sulla sedia. Stava per prendere il notes, ma si fermò. Se avesse chiamato il Laboratorio della scientifica, avrebbe potuto conoscere i risultati del test dell'AIDS. Allegandoli al rapporto, avrebbe ammorbidito un po' la posizione del viceprocuratore generale. Sollevò il ricevitore e chiese al centralinista di passargli il professor Xie. Mentre aspettava, ripercorse mentalmente l'iter delle indagini: avevano escluso il legame della droga fra i tre delitti ma, se Chao aveva l'AIDS, ci poteva essere un nesso rappresentato dall'omosessualità. Avevano identificato l'assassino con certezza pressoché assoluta: Johnny Ren, un killer al soldo della mafia che veniva da Hong Kong e si aggirava libero per le strade di Pechino. «Pronto.» La voce all'altro capo del filo lo strappò ai suoi pensieri.
«Professor Xie? Sono il vicecaposezione Li. Mi può dare un'idea di quanto ci vorrà per il risultato del test dell'AIDS?» «Quale test, vicecaposezione Li?» «Quello sul sangue di Chao: l'ha chiesto ieri la dottoressa Campbell.» «Non a me.» «Non capisco, mi ha detto di averle parlato ieri, poco dopo le sette.» «No, mi dispiace. E purtroppo il test non è più possibile. Il corpo di Chao è stato cremato stamattina, insieme a tutti i campioni.» «Che cosa?» Li non credeva alle proprie orecchie. «Ma quel cadavere era una prova! Non si possono distruggere le prove in un'indagine per omicidio!» Una lunga pausa all'altro capo del filo. Quando finalmente parlò, Xie aveva uno strano tono. «Ma io pensavo che la famiglia non fosse interessata a riavere il corpo.» «Lasci perdere: il corpo di Chao doveva rimanere proprietà del popolo cinese fino a nuovo ordine.» «Il mio dipartimento ha ricevuto l'autorizzazione a consegnare il cadavere per la cremazione.» «Da chi?» «Mi dispiace, vicecaposezione, devo andare. Sto effettuando un'autopsia.» E riagganciò. Li Yan rimase con il ricevitore in mano per alcuni minuti, prima di riagganciare. La faccenda era davvero strana. Portò istintivamente la mano alla cintura, alla ricerca dell'orologio. Non lo trovò. «Accidenti!» Si ricordò di averne rotto la catena il giorno prima. Dove l'aveva messo? Ah sì, nel primo cassetto a destra. Lo aprì: l'orologio non c'era. Rovistò sul fondo: non c'era proprio. Frugò rapidamente negli altri cassetti: non c'era neanche lì. Non ne aveva notato l'assenza, prima, quando aveva esaminato i cassetti per verificare se mancasse qualcosa, perché non si ricordava che fosse lì. Fu percorso da un brivido: per qualche misterioso motivo l'aveva preso Johnny Ren. 4 Margaret pedalava senza pensare, cupa e determinata, lasciando che la città le scorresse accanto, diretta a nord attraverso un intrico di strade caotiche. Era accaldata, stanca, arrabbiata e ferita, e pensare le faceva male. Se riusciva a mantenere sgombra la mente, poteva dominare le sensazioni e
fuggire se non altro temporaneamente. Ma non poteva scappare dalla Cina, almeno per il momento. Il suo aereo sarebbe partito solo la mattina dopo. Mentre attraversava il campus per prendere un taxi che la riportasse in albergo dopo lo scambio di vedute con Bob, aveva incontrato Lily che, al solo vederla arrivare, era arrossita, suo malgrado. Margaret era andata subito al dunque, facendo ricorso a un turpiloquio che avrebbe fatto arrossire sua madre e avrebbe messo in serio imbarazzo perfino suo padre. Ma la soddisfazione che aveva tratto da quello sfogo era stata di breve durata. Tornata in albergo, si era buttata sul letto e aveva pianto per quasi un'ora. Una doccia bollente non aveva alleviato il feroce mal di testa che l'attanagliava. Con una telefonata alla compagnia aerea era riuscita a prenotare il volo di ritorno per la mattina seguente. Avrebbe dovuto pagare un notevole sovrapprezzo, le aveva detto la hostess. Ma a Margaret non importava. Ora, con una mappa e una guida nel cestino della bicicletta, cercava una via di fuga dalla città, l'opportunità di stare un po' sola e di riflettere su se stessa senza essere disturbata. Oltrepassò gli uffici della Apple Computers, tossendo per i gas di scarico sputacchiati da un camion. Pedalava da più di mezz'ora e sembrava non essersi allontanata molto dal punto di partenza. Dopo altri venti minuti, destreggiandosi tra affollati mercati di strada e file di ciclisti dell'ora di pranzo, giunse a un grande incrocio di strade e scorse i cancelli del parco Yuanmingyuan. Lasciò la bicicletta presso il cancello e seguì i sentieri tracciati dalle autorità municipali. Oltrepassò un laghetto, dove miseri pedalò decorati con draghi rossi ondeggiavano sul pelo dell'acqua, e alcuni banchetti di souvenir da poco prezzo, dietro ai quali ragazze dal pesante trucco chiacchieravano pigramente. A ogni svolta, vecchi altoparlanti appesi ai lampioni o a pali di legno diffondevano gracchianti nenie cinesi. I luoghi storici erano affollati e, seguendo le indicazioni della mappa, Margaret si allontanò dalle vie battute dai turisti ritrovandosi in un sentiero alberato che attraversava il cuore del parco. Finalmente lontana dalla gente, rallentò e si fermò all'ombra di alcune betulle alte e sottili, nei pressi di uno stagno salmastro dalle cui acque immobili e scure facevano capolino le verdi piantine di riso. Pensò a McCord e al suo super riso che avrebbe nutrito milioni di bocche affamate. Era ridicolo! Che cosa importava, a gente come McCord, di tutti quegli affamati? Pensò a Chao e al suo rapporto con McCord risalente al tempo in cui avevano frequentato il Boyce Thompson Institute. Quell'incontro casuale aveva portato McCord in Cina e dato il via allo sviluppo del super riso e alla nomina di Chao a consulente del ministero dell'Agri-
coltura. E la morte di Chao aveva portato lei lì, in quel parco, a osservare tristemente il riso geneticamente modificato da loro che spuntava da quell'acqua scura e stagnante. Tutti questi pensieri le occupavano la mente, cancellando l'unica cosa a cui non voleva pensare: Li Yan. Se a lei avevano dato una bella lavata di capo per aver passato la notte a casa sua, chissà quale tempesta si era abbattuta su di lui! Li Yan sapeva bene che la sua azione avrebbe avuto conseguenze assai più spiacevoli per lui che per lei. Dopotutto, lei era solo una stupida americana che non conosceva le regole, mentre lui era cinese e tutore dell'ordine. Ma allora perché l'aveva portata nel suo appartamento, quando poteva limitarsi a lasciarla in albergo? La risposta la spaventava. Aveva paura di pensare che lui potesse provare, nei suoi confronti, gli stessi sentimenti che lei provava per lui. Ma lei che cosa sentiva per Li? Che cosa poteva sentire a così breve distanza dalla morte di Michael? Non c'era il rischio che si stesse buttando tra le braccia del primo che le dimostrava un po' di interesse, che stesse cercando semplicemente di riempire il vuoto lasciato dalla morte del marito? Non era in grado di dirlo. Era stanca di analizzare i propri sentimenti, di cercare di classificarli. Sapeva solo che si sentiva male al pensiero che non avrebbe più rivisto Li Yan. Una volta tornata in albergo, avrebbe avuto appena il tempo di fare i bagagli, mangiare e dormire. E il giorno dopo sarebbe partita. Sarebbe tornata a Chicago e alla vita ipocrita che si era lasciata alle spalle quattro giorni prima. Ma erano davvero passati solo quattro giorni? A lei erano sembrati una vita. Le sembrava di conoscere Li Yan da sempre. Ripensò alle ore trascorse con lui in quel breve periodo, a quanto spesso aveva desiderato toccarlo o baciarlo dolcemente, con affetto. Le erano sembrati gesti così naturali che aveva fatto fatica a trattenersi. Adesso però quei piccoli giochi intellettuali e quelle fantasie erano finiti. Che futuro avrebbero potuto avere insieme? Qualche notte di passione clandestina, uno sfogo alle frustrazioni sessuali. E poi addio. Lei non aveva un futuro in Cina; lui non ce l'aveva fuori dalla Cina. E allora perché si sentiva così? Perché tanta angoscia per una relazione che non c'era stata né avrebbe potuto esserci? Raccolse un sasso e lo scagliò al centro dello stagno spaventando le rane che si tuffarono nell'acqua dalle foglie di ninfea. Aveva proprio combinato un gran pasticcio. Era venuta in Cina per fuggire, ma si era trovata del tutto impreparata a ciò che le sarebbe successo, né era stata capace di colmare il divario culturale con quel paese. Aveva trovato un uomo che le piaceva,
ma nel luogo e nel momento sbagliato. E, in ogni caso, non era pronta per avviare un'altra relazione. Sorrise tristemente. Si alzò. "Non pensarci" si disse. "Domani mattina prendi un taxi, vai all'aeroporto e sali sull'aereo. Una volta in volo, puoi ricominciare a pensare alla tua vita. Non guardarti indietro. Almeno, finché non sei abbastanza lontana da vedere le cose nella giusta prospettiva." Si consolò pensando che la maggiore difficoltà che ora l'aspettava era il viaggio di ritorno in bicicletta all'albergo. CAPITOLO DECIMO Giovedì pomeriggio 1 Margaret si concentrò sul movimento regolare delle sue gambe, sui ciclisti che le sfrecciavano accanto rivolgendole fugaci sguardi curiosi, sugli automobilisti che sembravano intenzionati a buttarla sull'asfalto o assordarla con i clacson. Catturò immagini e suoni di quella strana città come scene di un film girato da un'auto in movimento. Con una fitta di rimpianto, Margaret si rese conto che Pechino le sarebbe mancata. Era una di quelle città che entravano nella pelle, se ci si rimaneva abbastanza: era così viva! "Non pensarci!" Era il consiglio che si era data e che aveva deciso di seguire. Raggiunse l'albergo da nord, e sistemò la bicicletta nel parcheggio. Sentì un clacson, ma non vi fece caso: gli automobilisti di Pechino suonavano in continuazione. Ancora il clacson, due colpi brevi, insistenti, e uno più lungo. Si girò, una jeep blu frenò dietro di lei e poi le si accostò. Quando riconobbe Li Yan al volante, ebbe un tuffo al cuore. Lui abbassò il finestrino, spense il motore e la guardò con apprensione. La sua faccia malconcia sembrava leggermente migliorata. «Ti ho cercata all'università e mi hanno detto che stai per partire.» «Sì, ho l'aereo domani mattina alle nove e mezza.» Margaret gli sembrò fredda e distante. Desiderava chiederle perché aveva deciso di andarsene, ma non ne aveva il coraggio. «Volevo solo controllare una cosa con te, a proposito del test dell'AIDS.» La delusione di Margaret si trasformò in rabbia. «Scusa, ma non mi interessa. Non sono più coinvolta nelle indagini e non mi importa di sapere se Chao è risultato positivo o negativo.»
«Be', anche se lo volessi, non potrei dirtelo... dato che non hai mai richiesto l'esame» controbatté Li Yan, ferito dal tono di Margaret. «Che cosa?» Lo squadrò piena di indignazione. «Me l'ha detto il professor Xie.» «Ma è ridicolo! Gli ho parlato ieri sera, prima di tornare qui a cambiarmi.» «Gli hai chiesto di sottoporre un campione del sangue di Chao al test?» «Certo.» «Lui dice di no.» «È un maledetto bugiardo!» «Vuoi dirglielo tu stessa?» «Certo.» Salì sulla jeep, sbattendo la portiera, e si girò verso Li. «E tu gli credi?» «No.» Lo fissò per qualche istante. «Ma che cosa sta succedendo, Li Yan?» «Qualcuno non vuole che il sangue di Chao sia sottoposto al test dell'AIDS.» «Il professor Xie?» Margaret stentava a crederlo. «Sì, ma solo dietro istruzioni di qualcun altro.» «Di chi?» «Non ne ho la minima idea.» «Perché?» «Non so neanche questo.» «Ma è assurdo, tu sei della polizia. Come fanno a impedirti di far eseguire il test?» «Distruggendo il cadavere e tutti i campioni di sangue e tessuti.» «Stai scherzando!» «Stamattina è finito tutto nell'inceneritore.» Margaret non riusciva a crederci. «Ma non è possibile! Negli Stati Uniti, tutti i campioni prelevati per le prove tossicologiche di solito vengono congelati e conservati per un anno. Per cinque anni, nei casi di omicidio.» «Neanche in Cina è pratica abituale distruggere le prove. In questo caso, sembra che l'autorizzazione alla cremazione derivi da un "errore amministrativo". Xie ha impiegato tutta la mattinata per rintracciare la causa dell'errore. Gli hanno fatto vedere il modulo: sembra che un impiegato abbia scritto il nome sbagliato.» «E tu ci credi?» «No.» Li Yan chiuse gli occhi e respirò profondamente, cercando di te-
nere a freno l'ira. «Qualcuno si è dato molto da fare per cancellare le tracce. Ma c'è un punto debole... Tu.» «lo?» «Tu hai richiesto il test dell'AIDS a Xie ieri sera, molto tempo prima che ricevesse l'ordine di distruggere il cadavere e i campioni.» «Ma se lui nega...» «Per questo vorrei che, prima di partire, tu rilasciassi una dichiarazione giurata, So che abbiamo solo la tua parola contro la sua...» «No, aspetta, c'era anche un testimone.» «Chi?» «Lily Peng: ha insistito per entrare con me nello studio del professore.» Li si mise a riflettere. «Bene, allora posso usare te e Lily Peng per spaventarlo. A volte, i topi spaventati squittiscono. Sei sempre decisa a venire dal professore?» Margaret esitò. Sarebbe stato fin troppo facile dire di sì, farsi coinvolgere di nuovo, lasciarsi dominare da quelle emozioni che nelle ultime ore aveva tentato di contrastare. «Non credo che l'università sarebbe d'accordo» rispose senza troppa convinzione. «Questo non ha niente a che fare con l'università. Tu sei una testimone.» «Dunque... non ho scelta, è questo che vuoi dire?» «Esattamente.» «Allora non ho proprio scelta, vero?» Chiese con un'ombra di sorriso. «No, non hai proprio scelta» le rispose lui sorridendo. Impiegarono meno di un quarto d'ora a raggiungere il Laboratorio della scientifica. Per i primi cinque minuti, restarono in silenzio. Margaret si era subito pentita della sua decisione. Sapeva benissimo che avrebbe potuto rifiutare di farsi coinvolgere e che lui non l'avrebbe obbligata. Era stata una sciocca. Che cosa ne avrebbe ricavato, se non altri guai e angosce? Non era cambiato nulla: sarebbe comunque partita, la mattina dopo, con il volo delle nove e mezza. Non avrebbe più rivisto Li, non sarebbe più tornata in Cina. Che cosa le importava dell'omicidio di Chao Heng, di uno spacciatore e di un operaio disoccupato di Shanghai? Di sapere che qualcuno stava cercando di boicottare le indagini di Li Yan? Che cosa le importava? «Grazie all'impronta siamo risaliti all'assassino» le disse Li Yan. Improvvisamente Margaret si rese conto che le importava. Non sapeva perché, ma era così. «Chi è?» «Un killer al soldo della mafia, come aveva detto mio zio fin dall'inizio.
Il DNA della macchia di sangue all'interno del guanto corrisponde a quello della saliva sui mozziconi delle sigarette. Non c'è dubbio: è lui, si chiama Johnny Ren. E stamattina è venuto nel mio ufficio e mi ha rubato l'orologio dal cassetto della scrivania.» «Che cosa? Ma perché?» «Non lo so.» Li era chiaramente scosso. «Ci ha seguiti, ha controllato i nostri progressi. Stanotte mi ha quasi ucciso e oggi mi ha lanciato un messaggio: "Posso fare quello che voglio e voi non potete impedirmelo".» «Secondo te, ha rubato l'orologio a scopo dimostrativo?» «Forse, non lo so, magari è solo un pazzo bastardo. Ma se pensa che non lo acciufferemo, si sbaglia. Domani mattina la sua faccia sarà nota quasi quanto quella di Mao.» Restarono per un attimo in silenzio. La mente di Margaret lavorava a pieno ritmo. «Ma non può essere stato lui a impedire l'esecuzione del test dell'AIDS. Secondo te, aveva il potere per farlo?» «No, deve essere stato il suo mandante o qualcun altro.» «Comunque si tratta di una persona con molti agganci. Corrompere un medico legale e far distruggere delle prove non è una cosa da nulla.» Li Yan annuì gravemente, poi si girò a guardarla. Erano fermi a un semaforo. «Comincio a provare una brutta sensazione. A quanto pare, la tua ipotesi che Chao sia stato bruciato nel tentativo di nascondere qualcosa non è poi tanto infondata. Hanno solo sbagliato nel valutare il danno che il fuoco avrebbe provocato.» Quando arrivarono al Centro, Xie stava effettuando un'autopsia. Appena entrarono, alzò gli occhi e Margaret lo vide arrossire dietro la mascherina. Il suo sguardo tradiva il panico. E tuttavia il professore rimase impassibile, si tolse la mascherina e chiese agli assistenti di uscire per qualche minuto. Li Yan aspettò che si chiudessero la porta alle spalle. «Professor Xie, continua a sostenere che ieri sera la dottoressa Campbell non le ha chiesto di far eseguire il test dell'AIDS su un campione del sangue di Chao Heng?» Lui fece un sorrisetto nervoso e rivolse un'occhiata a Margaret. «No, certo che no. La dottoressa Campbell me l'avrà chiesto sicuramente. Ma, come sapete, il mio inglese, forse, non è all'altezza...» «Ma lei non ha avuto alcun problema con l'inglese durante le tre autopsie, professore» intervenne Margaret. «E ieri sera non ho avuto l'impressione che lei avesse frainteso in qualche modo la mia richiesta. Sono sicura che l'agente Lily Peng lo potrà confermare.»
Xie impallidì visibilmente. «Lei è in un grosso guaio, professore» disse Li Yan. «Cercare di distruggere od occultare le prove di un crimine equivale a essere complice di un assassinio.» «Vicecaposezione, io non c'entro» si giustificò il professore, parlando in cinese a bassa voce. «Faccio solo quello che mi ordinano, niente di più, niente di meno. Non so assolutamente che cosa stia accadendo. Ma, se cerca di coinvolgermi in questo caso, le posso assicurare che sarà lei a finire in un grosso guaio.» Margaret vide che la mano che reggeva il bisturi tremava. «Mi sta forse minacciando, professore?» Il tono di Li Yan era pacato e fermo. «No, le sto solo dicendo come stanno le cose. E sono cose che né io, né lei possiamo controllare.» «Vedremo.» Li Yan si girò bruscamente e si diresse verso la porta cogliendo Margaret di sorpresa. Lei non era riuscita a capire neanche una parola di quello che si erano detti anche se aveva colto un tono inequivocabilmente ostile. Guardò Xie con aria interrogativa; dopotutto, avevano effettuato insieme tre autopsie e ciò aveva creato un certo legame tra loro. Il professore le rispose con un'alzata di spalle quasi impercettibile e con un'aria di scusa. L'americana sospirò e seguì Li Yan mentre lasciava l'edificio. «Che cosa vi siete detti?» gli chiese. «Mi ha dato un avvertimento.» «Cioè ti ha minacciato?» «No, mi ha avvertito» rispose lui con un sorriso triste. «Non puoi arrestarlo per avere ostacolato un'indagine della polizia?» Margaret scosse la testa. «La nostra legge non lo prevede.» «E che cosa succede, se qualcuno rifiuta di collaborare?» Lui sorrise, sinceramente divertito dalla sua ingenuità. «Nessuno si rifiuta di collaborare con la polizia, in Cina.» A Margaret ci volle qualche istante per capire. «Ma non è quello che ha appena fatto il professore?» Il sorriso di Li si spense. «Lui non si è rifiutato di collaborare, ha mentito.» «E adesso dov'è?» In piedi dietro alla scrivania, con lo sguardo acceso di rabbia, Chen stava raccogliendo le sue carte e le stava infilando in una bor-
sa. «Nel mio ufficio.» «Lei è proprio uno sciocco, Li Yan. Le avevo detto che non avrebbe più dovuto coinvolgerla nelle indagini.» «È una testimone, e io sto raccogliendo la sua deposizione.» «Per dimostrare che cosa? che l'inglese del professor Xie è tutt'altro che perfetto? Per amor del cielo, quale motivo avrebbe Xie per distruggere deliberatamente delle prove o non eseguire i test sul sangue?» «Nessuno.» «E allora?» «Qualcuno gliel'ha ordinato.» La risata di Chen suonò falsa e quasi sinistra. «Oh, è così? Adesso pensa a una cospirazione? La dottoressa Campbell si sta rivelando un gravissimo errore.» Girò intorno alla scrivania e prese la giacca appesa a un gancio sulla porta. «Questo non c'entra niente con la dottoressa.» «Ha ragione, non c'entra. Questa è un'indagine della Prima Sezione del dipartimento di investigazione criminale della polizia municipale di Pechino.» Si infilò rabbiosamente la giacca. «Il fatto è che qualcuno ha cercato di impedirci di eseguire i test sul sangue di Chao, capo.» «Be', se è così, mi sembra che ci siano riusciti, non le pare?» Guardò l'orologio. «Senta, ho una riunione dal procuratore generale e sto facendo tardi.» Davanti alla porta si fermò e fulminò Li Yan con lo sguardo. «Desidera, forse, che comunichi la sua teoria sulla cospirazione al viceprocuratore Zeng? A quanto pare, collaborate molto strettamente a questo caso.» Li Yan lo seguì in corridoio fingendo di non cogliere il suo tono sarcastico. «Capo, secondo me, la chiave di tutto era in qualcosa che gli esami avrebbero rivelato.» «Allora trovi un'altra chiave; c'è sempre un'altra porta da cui entrare.» Chen lanciò un'altra occhiata all'orologio. «E, per amor del cielo, lasci perdere quell'americana. Mi hanno detto che si è dimessa dal suo incarico all'università.» «Ha prenotato un volo per domani mattina.» «Bene, si assicuri che lo prenda.» Li si fermò e guardò Chen allontanarsi, quindi attraversò la stanza degli investigatori e, ignorando gli sguardi incuriositi dei colleghi, entrò nel suo ufficio. Sbatté la porta dietro di sé. Margaret era seduta alla scrivania e si
dondolava lentamente avanti e indietro sulla sedia. «Fa un certo effetto pensare che è stato qui» disse. Aveva preso una copia della foto di Johnny Ren. «È lui, vero? Non è affatto come me l'immaginavo.» «E come pensavi che fosse?» «Non un cinese, non so perché. Mi rendo conto che doveva essere un cinese, ma è diverso da come l'avevo immaginato.» Esaminò di nuovo la foto. «Ha gli occhi cattivi, privi di luce, opachi.» Sollevò lo sguardo. «Che cos'ha detto Chen?» «Non crede alla teoria della cospirazione.» «Sei sorpreso?» «In realtà, no. Pensa che la storia raccontata da Xie sia assolutamente plausibile.» «E allora a che punto siamo?» «A che punto sono io: devo cercare di acciuffare Johnny Ren. E tu devi prendere l'aereo per gli Stati Uniti.» La guardò, per poi distogliere subito gli occhi, improvvisamente imbarazzato. Andò alla finestra. Rimasero in silenzio per un tempo che sembrò interminabile. «Naturalmente c'è un altro modo per ricostruire la vicenda clinica di Chao» disse Margaret. «Che cosa vuoi dire?» «Be', deve aver avuto un medico. Chi altri avrebbe potuto prescrivergli tutte quelle medicine?» Li Yan scosse la testa incredulo. Era così ovvio... perché non ci era arrivato prima? Poi sorrise tra sé. «Che c'è di tanto divertente?» «Il vecchio Chen: è un maledetto bastardo, ma non è stupido. Quando gli ho detto che il sangue di Chao era la chiave del suo assassinio, mi ha risposto: "Allora trovi un'altra chiave. C'è sempre un'altra porta da cui entrare".» «Mi permetterai di aiutarti ad aprirla?» Margaret sollevò un sopracciglio con aria maliziosa. «Ma tu devi prendere l'aereo.» «Possono accadere molte cose in...» guardò l'orologio «...diciassette ore e mezza.» 2
Li Yan svoltò in Beijingzhan Dajie; davanti a loro si innalzavano le torri gemelle della stazione ferroviaria dove il vecchio Yifu sarebbe arrivato, di lì a poche ore, di ritorno dal Sichuan. Li aveva fatto un lungo giro fino a Chongwenmen per evitare il traffico che, sul secondo anello, era bloccato nel solito ingorgo pomeridiano. Alla fine si era fatto coraggio e le aveva chiesto come mai avesse deciso di lasciare l'università. E lei gli aveva raccontato tutto: la lezione mancata, l'atteggiamento di Jiang e degli altri, lo scontro con Bob. «Mi dispiace tanto, Margaret» le aveva detto, scuotendo la testa. «E perché? Non è colpa tua.» «Se ti avessi riportata in albergo invece che a casa mia, tutto questo non sarebbe successo.» «E se io non mi fossi sbronzata... Be' in ogni caso, la colpa è tutta di quella stronza di Lily Peng. È stata lei a fare la spia.» «Se non fosse stata lei, sarebbe stato qualcun altro: il poliziotto di guardia a casa mia, il personale dell'albergo... Ma non era il caso di andarsene.» Margaret sospirò. «Sì, invece. Penso che sia stato l'atteggiamento bacchettone di Bob a spingermi a prendere questa decisione, ma la crisi covava fin dal giorno del mio arrivo. Non sarei mai dovuta venire qui, Li Yan. Io volevo sfuggire al casino della mia vita e non avevo realmente intenzione di vedere la Cina. Bob aveva ragione: non mi sono interessata di questo paese, non mi sono documentata. Sono arrivata armata di tutto il bagaglio della vecchia, paranoica propaganda americana sulla Cina e sul comunismo e la mente piena di pregiudizi.» Lo guardò e gli sorrise con aria di scusa. «Se non ti avessi incontrato, se tu non mi avessi stimolato costringendomi ad aprire gli occhi e la mente, probabilmente avrei passato le mie sei settimane qui come uno zombie e questo paese non avrebbe lasciato nessuna traccia su di me. Sarei tornata a casa esattamente come ero partita. E avrei avuto di fronte la stessa vita vuota. Ma questi quattro giorni mi hanno cambiata. Domani, quella che scenderà dall'aereo, a Chicago, sarà una Margaret diversa. E cercherò di iniziare una nuova vita.» Si osservò le mani. «Vorrei solo...» ma non riuscì a finire la frase e scrollò le spalle, sconsolata. «Allora, perché mi hai portata a casa tua?» Li continuò a guardare avanti mentre girava intorno alla stazione, svoltando verso est all'incrocio che immetteva in Chongwenmen Dong Dajie. Voleva dirle che aveva bisogno di starle vicino, che non voleva lasciarla, che la sua presenza, il suo profumo in casa valevano qualsiasi punizione dei suoi superiori. Ma disse solo: «Con Johnny Ren in libertà, ero preoc-
cupato per la tua sicurezza». «Oh» Margaret si sentì un po' delusa. «E l'hai detto al tuo capo?» «Sì, e non ne è rimasto affatto impressionato.» «Sai che cosa mi fa infuriare di più in tutta questa faccenda? Ho passato una notte a casa tua in modo del tutto innocente, ma nessuno mi crede. C'è qualcosa di libidinoso in tutti loro.» «Be', quando la gente ti crede colpevole, tanto vale prendersi il gusto di esserlo davvero» sorrise lui. «Che gusto?» chiese lei fissandolo incuriosita. Ma Li Yan continuò a guardare fisso davanti a sé. «Purtroppo non lo sapremo mai.» Dopo un attimo, la guardò, ma questa volta era lei ad aver distolto gli occhi e così non poté cogliere la sua reazione. Il cuore di Margaret batteva all'impazzata. Lui era veramente dispiaciuto che non avessero dormito insieme? Certo, come al solito, si esprimeva in modo ambiguo, anche se, nello stesso tempo, insolitamente diretto. Avrebbe voluto prendergli il viso tra le mani e chiedergli di spiegarsi, di esprimere i suoi sentimenti. Ma si rese conto che nemmeno lei aveva espresso i suoi. Perché era tanto difficile? Lo sapeva: per paura, paura di impegnarsi in un rapporto senza futuro, soprattutto quando era ancora bruciante il ricordo della sua ultima relazione; paura, da parte di lui, di iniziare qualsiasi tipo di rapporto. Era stato assorbito dalla carriera per così tanto tempo che si era certamente dimenticato come si stesse con una donna. Lasciarono Xihuashi Dajie ed entrarono nello stabile in cui aveva abitato Chao. Li Yan parcheggiò la jeep all'ombra degli alberi e Margaret lo seguì fino alla porta dell'appartamento della presidentessa Liu Xinxin, al pianterreno. La donna aprì con cautela, osservando Li per un attimo prima di riconoscerlo. «Investigatore Li Yan!» esclamò infine, poi guardò incuriosita la straniera. «Presidentessa Liu, le presento la dottoressa Campbell, un medico legale americano che mi sta aiutando nelle indagini. Lei parla inglese?» Il viso di Liu Xinxin si illuminò. «Oh, sì. Ma adesso sono un po' arrugginita. Non faccio molta pratica.» Tese la mano a Margaret. «Molto lieta di conoscerla, dottoressa Campbell.» «Piacere» fece l'altra stringendole la mano. «Entrate, prego.» Guidò Li e Margaret in soggiorno. Accovacciati sul pavimento, i nipotini giocavano con una rozza locomotiva di legno dipinta a mano. Fissarono Margaret imbambolati e pieni di soggezione. «Un po' di
tè?» domandò Liu Xinxin. «Molto gentile, ma purtroppo oggi non abbiamo tempo» rispose Li, temendo di essere coinvolto in un'altra esibizione canora. «Sa chi fosse il medico di Chao Heng?» «Ah!» Liu Xinxin agitò la mano con aria infastidita. «Che uomo strano, quel Chao. Era uno scienziato, uno che aveva studiato in Occidente.» E fece un cenno a Margaret come per dire: "Lei che è occidentale dovrebbe saperlo bene". «Tutto molto moderno. Hi-fi costoso. Lettore CD. Telefono cordless. Ma non amava la medicina moderna. Amava la medicina tradizionale cinese, a base di erbe. Lui andava a Tongrengtang.» «Che cos'è?» chiese Margaret rivolta a Li. «È una farmacia di prodotti di medicina tradizionale cinese» rispose lui. «Il tipo di posto in cui una radice di ginseng vecchia di cinquanta anni ti costa un anno di stipendio.» Poi, rivolgendosi a Liu Xinxin chiese: «Dov'è?». «In Dazhalan Jie.» «Non capisco» intervenne l'americana. «Andava in una farmacia invece che da un medico?» «In quel posto ci sono anche medici, di solito in pensione, che arrotondano così le loro entrate» le spiegò lui. «E prescrivono rimedi erboristici?» «Medicina cinese tradizionale» precisò Liu Xinxin. «Medicina molto buona. Guarisce in fretta.» «Be', in un posto del genere sicuramente non gli hanno dato gli inibitori della transcriptasi inversa e della proteasi» commentò Margaret. Dazhalan Jie era un labirinto di mercati all'aperto e di negozietti curiosi infilati in angusti hutong medievali nella parte sud di Qianmen. Li Yan e Margaret si fecero strada attraverso una folla di persone intente a comprare. Altoparlanti appesi a ogni angolo diffondevano una musica martellante. Bandiere decorate con ideogrammi gialli e rossi sventolavano sopra la testa dei passanti. «Durante la dinastia Ming,» le spiegò lui «qui c'erano grandi barriere che impedivano l'accesso alla parte interna della città di notte. Dazhalan significa letteralmente "grande barriera". Nella Pechino imperiale, il centro della città doveva essere sgombro da negozi e teatri, che, pertanto, vennero sistemati qui, appena fuori dalla barriera. Questo era il posto giusto in cui trascorrere una notte allegra.» Passarono davanti a un emporio molto antico che vendeva salse e sotta-
ceti, a un ristorante che offriva spuntini imperiali, a un negozio che, da oltre un secolo, trattava sete, lane e pellicce. «Questo era il quartiere a luci rosse, poi nel 1949, i comunisti chiusero i bordelli e mandarono le ragazze a lavorare nelle fabbriche.» Improvvisamente si ricordò di Lotus e della promessa fatta a Yongli. Imprecò sottovoce. In quel momento non poteva fare proprio niente. Sotto un baldacchino colorato e graziosamente decorato, leoni di marmo bianco in gabbie di ferro lavorato sorvegliavano l'ingresso della farmacia di medicina tradizionale Tongrengtang, fornitrice di preparazioni erboristiche fin dal 1669. I leoni non avevano trattenuto diverse persone dallo sgattaiolare all'ombra del baldacchino per schiacciare un pisolino sulle fresche lastre di marmo. Li e Margaret oltrepassarono un uomo che russava sonoramente e spinsero la porta a vetri, entrando nel negozio deliziosamente fresco. L'ambiente era molto diverso da quello che Margaret si era immaginato. Pensando, infatti, alla medicina tradizionale cinese a base di erbe, si sarebbe aspettata un negozio buio e cadente, illuminato da sottili lame di luce che filtravano attraverso vecchie imposte di legno, e un vecchio con una lunga e rada barba bianca dietro un bancone su cui erano disposte innumerevoli file di vasi e flaconi di pillole e lozioni esotiche. Invece entrò in un locale grande, luminoso e moderno. Una balaustra sostenuta da pilastri rossi e oro si affacciava sul negozio, dove le lozioni e le pillole erano conservate in normalissime confezioni di cartone dentro vetrine illuminate. Dal soffitto pendevano, appesi a lunghi nastri gialli, enormi paralumi di vetro con scene della Cina imperiale. Tuttavia, le preparazioni medicinali in vendita superavano l'immaginazione più fervida: ippocampi e oloturie secchi, ossa di tigre, corna di rinoceronte e vino di serpente. C'erano rimedi per qualsiasi malanno, dalla paura all'encefalite, o almeno così si diceva. Dentro la farmacia si snodava una lunga fila di persone in paziente attesa di essere ricevute da un uomo anziano dal viso smunto all'interno di una cabina sulla sinistra. L'anziano medico era evidentemente lento nel dispensare i suoi consigli e Li non aveva intenzione di attendere il proprio turno. Si fece largo fino in fondo alla coda mostrando il tesserino. Margaret gli teneva dietro, suscitando sguardi incuriositi e anche risentiti. Nessuno, tuttavia, sollevò obiezioni. Entrarono nella cabina proprio mentre ne emergeva una ragazza di vent'anni, pallida e cosparsa di macchie in viso, che teneva stretta una prescrizione e aveva un'aria chiaramente preoccupata.
Il vecchio medico osservò a lungo il tesserino di Li, poi lo scrutò in viso e infine invitò lui e Margaret a sedersi. Rivolse una fuggevole occhiata alla ragazza. «Che cosa posso fare per lei, investigatore Li?» «Mi interesso a uno dei suoi pazienti, Chao Heng.» Il medico accennò con la testa a Margaret. «Lei chi è?» «Un medico americano, un medico legale che ci sta aiutando in un'indagine.» Il vecchio si rivolse a Margaret con interesse. «Dove ha studiato?» le domandò in un perfetto inglese. «All'Università dell'Illinois» rispose lei, stupita. «Ah, io ho frequentato per un certo tempo la Davis Medical School dell'Università della California per un progetto di ricerca sul cancro renale insieme al mio grande amico, il dottor Hibbard Williams. È uno specialista di nefrologia. Lo conosce?» «No, mi dispiace.» Margaret era perplessa. «Pensavo che lei praticasse la medicina tradizionale cinese.» «Ho studiato sia medicina tradizionale cinese sia la medicina occidentale. Entrambe hanno molto da insegnare. Qual è la sua specialità?» «Le vittime degli incendi.» Il medico fece una smorfia di disgusto. «Sgradevole.» «Chao Heng era un suo paziente?» lo interruppe Li Yan. «Sì.» «Ho saputo che da qualche tempo non stava bene.» «Gli è successo qualcosa?» «È stato assassinato.» «Ah!» Il medico non sembrò toccato da quella notizia. «Sfortunato, ma sarebbe morto comunque presto.» «Di che cosa?» chiese Margaret. «Non ne ho idea. Ho cercato di curare i suoi disturbi per circa sei mesi, ma nessun rimediò è risultato efficace. Alla fine gli ho suggerito di andare da un mio ex collega all'ospedale di Pechino a Dahua Lu. Lui non ne era molto convinto, aveva una grande fiducia nei rimedi tradizionali. Ma io non potevo fare nient'altro per lui.» «Che disturbi aveva?» Margaret era curiosa. «Ne aveva parecchi» rispose il vecchio medico scuotendo la testa. «Spossatezza, diarrea e spesso la febbre. Presentava episodi ricorrenti di mughetto e una tosse incessante. A un certo punto gli si gonfiarono i linfonodi inguinali e ascellari. Negli ultimi tempi era molto dimagrito. In alcuni
casi rispondeva alla terapia, almeno temporaneamente, ma poi i disturbi ricomparivano.» Margaret era perplessa. «Tutti i sintomi che ha citato possono essere indicatori di HIV. È mai stato sottoposto al test dell'AIDS?» «Credo di sì, all'ospedale di Pechino. Deve essere stato più o meno l'ultima volta che lo vidi.» «E...» «E cosa?» rispose il vecchio. «Il test risultò positivo?» «Oh, no.» Il vecchio si grattò il mento. «Il signor Chao non aveva l'AIDS.» 3 Li Yan parcheggiò la jeep all'ombra degli alberi all'estremità orientale di Dong Jiaominxiang, vicino all'entrata posteriore del quartier generale della polizia municipale, dove lui e Margaret si erano incontrati la prima volta, il lunedì precedente. Lei guardò l'edificio di mattoni rossi e l'ingresso ad arco che immetteva nel complesso. Erano davvero passati solo tre giorni dal loro primo incontro? «È qui che ci siamo incontrati, o meglio scontrati, la prima volta.» E gli sorrise. «Sì.» Li Yan sorrise a propria volta, ricordando quanto si fosse arrabbiato. «Stavo andando a un colloquio per questo posto. Avevo passato tutta la mattina a stirare la divisa in modo da apparire al meglio. E invece alla fine ero tutto impolverato, avevo un graffio sul gomito e la camicia bagnata perché avevo cercato di smacchiarla con l'acqua.» Margaret rise: ecco perché si era così infuriato, quella volta! «Comunque, il posto l'hai avuto. Devono averti giudicato un vero uomo d'azione.» «Il posto l'avrei avuto in ogni caso. Per mia fortuna, comunque, non hanno cambiato idea quando hanno visto lo stato in cui ero.» Margaret gli sfiorò il graffio sul braccio e a Li Yan sembrò che le sue dita scottassero. «Ci mette molto a guarire» osservò lei. «Quello è un graffio recente.» «Oh! Un'altra ragazza ti ha fatto cadere dalla bici?» «È una lunga storia» rispose lui sorridendo. «Allora non raccontarmela, non abbiamo molto tempo.» L'aveva detto per scherzo, ma subito si resero conto entrambi che era la verità; l'imminente partenza di Margaret portava con sé un dolore sconosciuto.
Camminarono in silenzio all'ombra degli alberi e poi svoltarono a sinistra in Dahua Lu. Era una lunga via fiancheggiata a est da grandi alberi che ombreggiavano l'ingresso del parco Dongdan. L'ospedale di Pechino, un insieme di bassi edifici moderni di colore bianco, disposti lungo il lato occidentale era protetto da alte inferriate. Nella strada c'era un viavai continuo di infermieri in uniforme e ogni tanto arrivava o partiva qualche ambulanza. Li si fece indicare da un guardiano in uniforme l'edificio dell'amministrazione e, raggiuntolo, parlò per alcuni minuti con un'impiegata, che li indirizzò in una sala d'aspetto al terzo piano dove rimasero in paziente attesa. La stanza era arredata con bassi divani color cachi accostati alle pareti e tavolini dal piano di vetro: uno standard di tutte le sale d'aspetto cinesi. Dopo dieci minuti arrivò un funzionario addetto all'accoglienza che strinse loro la mano, porse a Li il proprio biglietto da visita e domandò educatamente che cosa desiderassero. Margaret osservò quello scambio rituale di convenevoli in cinese cercando di fare appello alle famose tre "p". Il dialogo le sembrò interminabile. Quando il funzionario uscì, chiese a Li che cosa stava accadendo. «È andato a organizzare un incontro con il funzionario dell'amministrazione e a ordinare del tè.» «Del tè?» «Forse ci vorrà un po'.» In effetti, bevvero varie tazze di tè e attesero altri venti minuti prima che arrivasse il funzionario dell'amministrazione. Il funzionario che li aveva accolti fece le presentazioni. Ci fu un altro rituale scambio di strette di mano e di biglietti da visita, poi tutti si sedettero, Li e Margaret da una parte, il comitato di accoglienza dall'altra. Ci fu uno scambio di occhiate incuriosite, ma nessuno fece commenti. Durante il colloquio tra il poliziotto e il funzionario dell'amministrazione, che seguì ai convenevoli, Margaret rimase seduta in silenzio. La conversazione fu breve. Li era visibilmente impallidito, poi il funzionario si alzò facendo capire che l'incontro era terminato. Dopo le strette di mano rituali, Li Yan e Margaret furono riaccompagnati al pianterreno. Margaret non vedeva l'ora di poter sapere che cosa si fossero detti, ma dovette aspettare finché non furono espletate alcune formalità al banco della reception. Li si incamminò lungo Dahua Lu a passo rapido e con le mani affondate nelle tasche. Per stargli dietro, Margaret era costretta quasi a correre. «Insomma, che cosa ti hanno detto?» Non stava nella pelle dalla curiosità ed era infuriata per il silenzio di Li Yan, immerso in cupi pensieri che non vo-
leva condividere con lei. Raggiunsero la jeep e salirono. «Santo cielo, Li Yan!» «Hai fame?» chiese lui. «Che cosa?» «Mi andrebbe un tan bing. È tutto il giorno che non mangio.» «Anch'io, ma vorrei sapere che cosa ti hanno detto all'ospedale.» «A quest'ora Mei Yuan è ancora all'angolo della Dongzhimennei.» Mise in moto la jeep e partì in direzione nord, attraversando Dahua Lu e puntando a est verso Jianguomennei. «A quanto pare, Chao è stato sottoposto a una serie infinita di esami» esordì lui, rievocando la breve conversazione con il funzionario dell'amministrazione dell'ospedale. «Ma alcuni risultati non sono mai tornati dal laboratorio e poi la sua cartella clinica è stata prelevata dall'ospedale di Pechino e trasferita all'ospedale militare 301.» Margaret rimase in attesa del seguito, ma lui non disse altro. «Che cos'è l'ospedale militare 301?» chiese allora. «È un ospedale di massima sicurezza per personaggi di rango. Vengono curati gli alti funzionari del governo e dell'amministrazione. Durante la sua ultima malattia, Deng Xiaoping è stato curato lì.» «Ma Chao non era un personaggio di rango.» «No.» «Allora come mai è stato curato lì?» «Non lo so. Per me, è una cosa che non ha senso.» Margaret rifletté un attimo. «Avrebbe potuto essere ricoverato lì se fosse stato raccomandato da qualcuno molto in alto, non ti pare? Diciamo, un alto funzionario del governo o dell'amministrazione.» Li Yan annuì e lei cominciò a farsi una ragione della reticenza del suo interlocutore. «Tutta questa faccenda inizia a farmi paura» disse sentendo improvvisamente un nodo allo stomaco. «È tutto il giorno che questa sgradevole sensazione mi perseguita» riprese Li sospirando profondamente. «E non riesco a liberarmene.» Premette forte sul clacson mentre la jeep avanzava a zig-zag tra le biciclette e il traffico di Chaoyangmen Nanxiaojie Dajie. Li Yan era più abituato a percorrere quella strada come ciclista che come automobilista. «Ma riuscirai ad avere la sua cartella clinica, vero?» «Non lo so. Trattare con un'istituzione del genere esula dalla mia esperienza e forse anche dalla mia giurisdizione.» «Negli Stati Uniti ci saremmo procurati un mandato.» «Ma qui siamo in Cina, non negli Stati Uniti.»
«Però mi hai detto che qui nessuno si rifiuta di collaborare con la polizia.» «Naturalmente chiederò la cartella clinica.» «E se non te la danno?» «Dovranno fornirmi un buon motivo.» Il suo tono era deciso, ma lui si sentiva come un nuotatore che stesse cercando affannosamente di raggiungere una riva lontana. «Bene» disse Margaret. «Proviamo a riflettere un po'. Ci troviamo di fronte a qualcuno con un grande potere e una notevole influenza, qualcuno che ha agganci tali da far ricoverare Chao in un ospedale di massima sicurezza. Forse è la stessa persona che ha pagato Johnny Ren per uccidere e ora sta cercando di impedirti di scoprirne il motivo. Ma costui non è onnipotente né tanto meno infallibile, tant'è vero che ha commesso errori. Per esempio, ha fatto un gran casino per cancellare delle prove, se Chao era davvero una prova. Evidentemente ha pensato che, bruciando il corpo, avrebbe distrutto quello che c'era nel suo sangue e che non voleva venisse scoperto. Ma non ci è riuscito. Poi è stato molto goffo nel cercare di impedirci di eseguire il test dell'AlDS. Santo cielo, spedire all'inceneritore il corpo e tutti i campioni tessutali! Un errore burocratico? È una scusa che non sta in piedi e che crollerà subito, se ti dai da fare.» «Ma Chao non aveva l'AIDS: adesso lo sappiamo. E allora perché cercare di impedirci di eseguire il test?» «Avremmo potuto trovare qualcos'altro.» «Ma cosa?» Margaret scosse la testa, frustrata. «Questo proprio non lo so.» «E gli altri due omicidi? I test del DNA dimostrano che tutti e tre gli uomini sono stati uccisi da Ren. Ma qual è il legame?» A Li stava venendo un tremendo mal di testa. Più andavano in profondità, più le acque si facevano torbide. «Non lo so» ripeté lei. Cominciava a rendersi conto che, in realtà, ne sapevano molto poco. «So solo che qualcuno ha tenuto sotto controllo, mossa dopo mossa, le nostre indagini, qualcuno che conosceva perfettamente i tuoi spostamenti e le implicazioni di tutto quello che hai fatto.» «Che cosa te lo fa pensare?» «Come ha fatto Johnny Ren a sapere chi conduceva le indagini? O chi pedinare? Come poteva conoscere i risultati dell'autopsia o sapere che avevi chiesto un test dell'AIDS? Al di fuori del dipartimento, chi sa queste cose?»
«Nessuno» rispose lui aggressivo. Non poteva credere che lei ipotizzasse il coinvolgimento di qualcuno della Prima Sezione. Poi un pensiero gli fece gelare il sangue. «Tranne...» non osava neppure dirlo. «Tranne chi?» Ma lui non rispose. «Tranne chi, Li Yan?» «Il viceprocuratore generale Zeng.» «E chi è?» «I procuratori sono una sorta di giudici istruttori. Decidono se portare un caso in tribunale. Zeng mi ha chiesto di inviargli ogni giorno un rapporto dettagliato sui progressi delle indagini. Apparentemente, sapeva già molte cose: mi è sembrato strano ma, dopotutto, lui è un viceprocuratore generale. Non avevo mai riflettuto seriamente su questo particolare.» Margaret fece un piccolo fischio. «Be', comunque questo ci dice qualcosa.» «Che cosa?» «Il nostro uomo è abbastanza potente da manovrare un viceprocuratore.» Lo guardò con aria preoccupata. «È ciò fa di lui un avversario molto temibile.» «Grazie per l'incoraggiamento!» ribatté lui secco. Lei sorrise e pensò che, almeno, riuscivano ancora a riderci sopra. Ma il suo sorriso svanì quando, ricordò che, l'indomani mattina, avrebbe preso un aereo e lui avrebbe dovuto affrontare il caso da solo. Non voleva lasciarlo, voleva che lui prendesse l'aereo insieme a lei e che potessero buttarsi alle spalle tutta quella vicenda. Il gioco non era più un gioco, era diventato qualcosa di oscuro e spaventoso. Li Yan svoltò a destra in Dongzhimennei Dajie e frenò in prossimità del carrettino di Mei Yuan. Appena lo vide, la donna si alzò dallo sgabello. Fece un ampio sorriso a Margaret. «Oggi sei un po' in ritardo per la colazione.» «No, sono in anticipo su quella di domani mattina.» Margaret guardò l'orologio: erano quasi le sei. «Due tan bing. È stata una lunga giornata» aggiunse lui. «Davvero» confermò Mei Yuan, mettendosi all'opera. «Sono ore che ti aspetto, ho una soluzione per il tuo enigma.» Li e Margaret si scambiarono uno sguardo incuriosito. «Quello sui tre omicidi e i mozziconi?» chiese Margaret. Mei Yuan annuì. «Hai detto che ha lasciato apposta un mozzicone accanto a ogni cadavere perché sapeva che l'avresti trovato e sottoposto al test del DNA.»
«È vero, ma perché?» «Mi sembrava così ovvio che pensavo di non aver capito bene.» Margaret era incuriosita. «E che cosa pensava?» Mei Yuan scosse le spalle. «Vuole farti credere che gli omicidi siano collegati, mentre non c'è alcun legame tra loro.» Li Yan aggrottò la fronte, perplesso. «Ma perché l'avrebbe fatto?» «Aspetta un attimo!» intervenne Margaret. «Una volta mi hai detto che avete effettuato centinaia di interrogatori per individuare un uomo che aveva trucidato un'intera famiglia nel corso di una rapina. Quanto tempo ci avete messo?» «Due anni.» «E quanto ci metterai a rintracciare tutti gli operai stagionali di Shanghai, i piccoli spacciatori e i ragazzi che se la fanno con i gay?» Li Yan cominciava a capire. «Abbastanza da continuare a scavare per mesi nel posto sbagliato alla ricerca di un legame che non esiste. Dio mio!» Era così semplice ma chiunque conoscesse il modus operandi della polizia cinese sapeva che avrebbe seguito un processo meticoloso e ininterrotto di raccolta di informazioni per mesi, e forse addirittura anni. «L'unico legame tra i delitti è che non esiste alcun legame» concluse Li Yan. Era una rivelazione. Abbracciò forte la donna e Margaret provò una fitta di gelosia. «Ma come hai fatto ad arrivarci, Mei Yuan?» Le lodi e l'attenzione di Li l'avevano fatta arrossire. «Forse perché non ho dovuto pensarci.» CAPITOLO UNDICESIMO Giovedì sera 1 La luce rossastra del tramonto si rifrangeva nell'aria afosa che aleggiava come un velo sulla città. Le luci della capitale brillavano nel crepuscolo. Lunghe file di fanalini rossi si snodavano in tutte le direzioni e in lontananza si udiva il brontolio dei motori. In quel momento, pensò Margaret, c'erano persone che si affollavano intorno alle bancarelle del mercato serale di Dong'anmen mangiando allegramente, libere e felici alla fine di una giornata di lavoro. Come avrebbe voluto esserci anche lei! Erano entrati nel parco Jingshan, il parco della Montagna del Panorama,
dal cancello sud, più o meno di fronte al punto in cui era avvenuto l'incidente della donna sbalzata dalla bicicletta, alla quale Margaret aveva bloccato l'emorragia. La gente stava uscendo a frotte: il parco avrebbe chiuso di lì a un'ora. Seguirono un sentiero serpeggiante tra gli alberi che portava fino al padiglione sulla sommità della Montagna del Panorama. A metà strada, si erano uniti alla piccola folla intenta a osservare una donna molto anziana che vestita con la tradizionale casacca cinese e i pantaloni neri, eseguiva incredibili contorsioni distesa su un tappetino. La folla guardava ammirata quelle evoluzioni trattenendo il respiro, e alla fine applaudì. La vecchia signora rimase impassibile, ma era visibilmente orgogliosa di poter esibire l'elasticità dei suoi muscoli e delle sue articolazioni. Margaret pensò che dovesse avere ottant'anni. Quando lo raggiunsero, il padiglione era deserto. Aveva un tetto ricurvo di tegole di ceramica arancione sostenuto da colonne marroni e oro; la freddezza del marmo era attenuata dalla morbida luce del sole al tramonto. Da quel punto si poteva godere un panorama a 360 gradi della città sottostante. Lo spettacolo lasciò Margaret senza fiato. Li Yan si sedette sui gradini guardando, verso sud, la simmetria dei tetti della Città Proibita e la vasta spianata di piazza Tien-An-Men. Gli piaceva venire in quel posto nel tardo pomeriggio, quando tutto era tranquillo e poteva vedere la città rianimarsi con il calare della notte. Era il luogo più tranquillo di Pechino; lì si riusciva a pensare liberamente e con chiarezza. Margaret gli si sedette accanto: le sue braccia sfioravano quelle di lui, sentiva il calore del suo corpo e inspirava il suo odore forte di muschio e di terra. Rimasero a lungo in silenzio. Tutt'intorno, nella luce del sole morente, volteggiavano le rondini e, tra gli alberi, il frinire delle cicale si faceva sempre più intenso. «Ho paura, Margaret» disse infine Li. Lei piegò la testa e osservò il suo profilo, che si stagliava deciso e forte. «Di che cosa?» «Se lo sapessi, non avrei paura. Ho un brutto presentimento, siamo in pericolo.» «Ma perché?» «Sappiamo troppe cose.» Lei sospirò, frustrata. «Ma se non sappiamo quasi nulla! Che cosa sappiamo, secondo te?» «Sappiamo che qualcuno con un grande potere e immensi privilegi e con
qualcosa da nascondere ha fatto uccidere Chao Heng. È stato assoldato un killer professionista, che ha ucciso altri due innocenti al solo scopo di confonderci le idee. Inoltre, è in corso una cospirazione per sviare le indagini, che vede coinvolto uno dei massimi tutori della legge del paese. Sappiamo poi che l'assassino si aggira per Pechino e spia i nostri progressi.» E, dopo una pausa: «Secondo me, sappiamo fin troppo» concluse. Lei rabbrividì, nonostante il caldo. Per la prima volta percepiva la paura di lui e la condivideva. «Che cosa pensi che accadrà? Cercheranno di ucciderci?» Il solo pensiero di un'eventualità del genere la sconvolgeva. Fino ad allora Margaret non aveva neanche lontanamente immaginato che potessero essere davvero in pericolo. «Non lo so. Ci temono per ciò che abbiamo già scoperto o, secondo loro, scopriremo. Sono individui spietati: qualunque sia il loro segreto, per proteggerlo hanno già ucciso tre persone. Se vale tre vite umane, può valerne altre tre, trenta o trecento. A questo punto, chi può dirlo?» Rimasero in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri. Margaret fece scivolare il braccio sotto quello di Li Yan e si strinse a lui in cerca di conforto. L'oscurità tra gli alberi sotto di loro si faceva sempre più fitta, misteriosa e spaventosa. Margaret si sentiva circondata, isolata. Quel luogo, prima così pieno di pace, ora le appariva minaccioso. Fuori di lì, in mezzo alle luci della città, la gente continuava a vivere, mangiare, fare l'amore, ridere, dormire. Negli butong le famiglie erano raccolte davanti a sfarfallanti schermi televisivi azzurrognoli, e mangiavano dolci, bevevano birra e ridevano assistendo a trasmissioni divertenti. Tutte cose che né lei né lui potevano fare. Tutto era così vicino, ma al di fuori della sua portata... Aveva visto il film di Bertolucci e ora capiva l'isolamento dell'ultimo imperatore Puyi, segregato dal resto del mondo dietro le mura della Città Proibita che ora si stendevano sotto di lei nella semioscurità. La normalità era a un passo, e tuttavia irraggiungibile. Lasciò vagare lo sguardo verso occidente, dove l'ultima luce del sole si rifletteva su un lago lungo e stretto. Si domandò che cosa fosse. Ignorava che ci fosse un ampio specchio d'acqua al centro della città. «Che cos'è quello? Non ricordo di averlo notato, dalla strada.» «È Zhongnanhai, la nuova Città Proibita. Lì vivono e lavorano i nostri capi. Non l'hai mai vista perché è protetta da alte mura, proprio come la vecchia Città Proibita.» Margaret guardò lo scuro lago proibito e si chiese se, da qualche parte lungo le sue rive, nelle case protette dagli alberi, si trovassero le risposte
alle loro domande. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa sulla spalla di Li. Erano seduti lì da quasi un'ora. Il sole era finalmente tramontato dietro le colline purpuree e le stelle punteggiavano il cielo nero come l'inchiostro. Li Yan aveva fumato molte sigarette e, nell'ultima mezz'ora, non aveva quasi aperto bocca. Margaret teneva sempre il braccio infilato sotto il suo e la testa appoggiata alla sua spalla. Ora l'oscurità non le sembrava più tanto minacciosa. «C'è un'altra cosa che mi spaventa» disse infine lui. «Che cosa?» chiese lei dopo un po'. Lui deglutì e si girò a guardarla negli occhi. «Perderti.» Margaret si sentì invadere da un'ondata di calore e da un tremito di paura e piacere insieme. Capiva quanto fosse importante, per lui, quel momento; era finalmente riuscito a esprimere le sue emozioni. Finché li manteniamo segreti e nascosti, i nostri sentimenti più intimi non possono nuocerci né possono ritorcersi contro di noi. Non possiamo essere rifiutati né derisi. Ma quando li esprimiamo, diventiamo vulnerabili. Una volta pronunciate, le parole non possono più essere ritirate. Margaret si sentiva la bocca asciutta e la gola chiusa. «Neanch'io voglio perderti.» La sua voce suonò rauca, quasi un sussurro. Ora anche lei era uscita allo scoperto. Erano entrambi ugualmente vulnerabili. Li Yan le sfiorò il viso, poi infilò le dita tra i riccioli biondi e morbidi come seta e le accarezzò la testa. Margaret si appoggiò delicatamente a lui e chiuse gli occhi quando sentì le sue labbra sfiorarla. Una volta. Due volte. Aprì la bocca per accogliere la sua, morbida, calda e odorosa di fumo. Si abbracciarono e il primo timido bacio lasciò il posto a una passione intensa, quasi disperata. Si staccarono per un attimo, senza fiato, divorandosi con occhi irrequieti. Poi si baciarono di nuovo, con violenza. Si strinsero appassionatamente e Li sentì il contatto con i capezzoli duri di Margaret, mentre lei sentiva il suo pene eretto premerle contro l'inguine. E desiderava farlo entrare e tenerlo dentro di sé. Lo scricchiolio di un rametto spezzato interruppe il coro delle cicale. La passione cedette subito il posto alla paura. Li e Margaret si staccarono e lui balzò in piedi. Abbagliato dalla luce di una torcia, alzò un braccio per ripararsi gli occhi. «Che c'è?» Il fascio di luce si abbassò e un vecchio avanzò con passo incerto verso di loro. Illuminò brevemente Margaret poi, rivolto a Li, disse: «Il parco chiude
tra cinque minuti». Mentre scendevano lungo il sentiero in mezzo agli alberi, Margaret fece scivolare la mano in quella di Li. Era calda e protettiva e stringeva delicatamente la sua. Al cancello, i guardiani aspettavano impazienti che loro uscissero per chiudere; nell'osservarli mentre si allontanavano ammiccarono alla luce cruda dei lampioni di Jingshan Qianjie. Il traffico era intenso, i marciapiedi affollati di gente che faceva la consueta passeggiata serale e di gruppi di adolescenti che vagabondavano senza meta. Nonostante l'animazione della strada, Li e Margaret si sentirono subito vulnerabili. Lui la prese per un braccio e le fece attraversare rapidamente la strada, scansando i veicoli in arrivo, in mezzo a un coro di clacson. Raggiunsero rapidamente il marciapiede e svoltarono verso sud inoltrandosi nella buia tranquillità di Beichang, dove avevano parcheggiato la jeep. Si fermarono accanto all'auto e, quasi senza rendersene conto, cominciarono a baciarsi con la passione e il desiderio di poco prima nel parco. Quando si staccarono, lei alzò il viso e lo fissò ansiosamente negli occhi. «Li Yan, che cosa faremo?» Era una domanda che ne conteneva molte altre. E lui non conosceva la risposta. Il suo unico pensiero era di mettere Margaret al sicuro, mentre decideva il da farsi. «Ti riporto in albergo.» «Non voglio lasciarti.» «È solo per qualche ora.» «Non voglio lasciarti» ripeté lei, lo baciò e poi rise tra sé e sé scuotendo la testa. «Mi sento come una ragazzina. Voglio assolutamente fare l'amore con te. Ma non abbiamo un posto dove andare. Non possiamo andare né da me né da te.» «Che ne dici del sedile posteriore dell'auto?» Lei rise. «Non oserei mai, probabilmente Lily Peng è nascosta nel bagagliaio.» Ma il suo sorriso si spense subito; sapevano entrambi che nessuna battuta poteva allontanare il momento in cui avrebbero dovuto affrontare la realtà: per loro non c'era futuro. Margaret temeva che, se avesse lasciato Li Yan, non l'avrebbe più rivisto. Le sarebbe scivolato di mano scomparendo nella notte. Aprì la portiera della jeep. «Che cosa farai?» domandò ansiosa. «Voglio stare un po' da solo a riflettere. Poi chiederò consiglio a mio zio. Tornerà stasera.» 2
Li Yan la guardò attraversare di corsa lo spiazzo davanti al Friendship Hotel e salire i gradini dell'ingresso. Sentiva ancora sulle labbra il suo sapore. Aveva la gola chiusa e gli occhi che bruciavano. Sapeva che non l'avrebbe più rivista e la cosa lo addolorava più del previsto. Ma era indispensabile che lei rimanesse lì, lontana da lui, fino alla mattina dopo, quando l'aereo l'avrebbe riportata a casa, in salvo. Le forze del male, coalizzate contro di lui, si sarebbero accontentate di vederla andare via e avrebbero così potuto concentrarsi su di lui, proprio come lui voleva concentrarsi nella battaglia contro di loro. Aveva davanti a sé una strada difficile. Accese il motore e partì bruscamente, facendo stridere le gomme. Margaret si girò e vide la jeep allontanarsi a gran velocità. Le risuonavano ancora in testa le raccomandazioni di Li: "Va' subito nella tua stanza. Chiudi a chiave la porta. Non aprire a nessuno, neanche alla cameriera. Aspetta la mia telefonata. Se non ti chiamo, domani mattina prendi un taxi, vai in aeroporto e sali sull'aereo". Sapeva che lui non l'avrebbe chiamata; era convinto che lei fosse al sicuro solo se gli stava lontana, se lasciava il paese. Ma lei non aveva alcuna intenzione di partire, il suo visto era valido ancora per cinque settimane. Per lui provava sentimenti che da lungo tempo non provava per un uomo e, dopo tutto quello che aveva passato, non voleva assolutamente rinunciare a qualche settimana di felicità. In fondo, pensò che di lì a un giorno, una settimana o un anno avrebbe potuto essere morta. E allora perché starsene al sicuro per vivere una vita inutile? L'anno appena trascorso le aveva insegnato che doveva prendere al volo le cose buone che la vita le offriva perché il giorno dopo poteva darsi che o loro o lei stessa non ci fossero più. Attraversò la hall e si avvicinò al banco della reception per prendere la chiave. «Margaret!» Si girò, sorpresa, e vide Bob venirle rapidamente incontro. L'aveva aspettata per tutto quel tempo con impazienza. Non fu una piacevole sorpresa per Margaret. «Ma che cosa vuoi?» gli chiese salendo di corsa la breve rampa di scale che portava all'ascensore. Le corse dietro. «Ero preoccupato per te. Santo cielo, Margaret, dove sei stata? Questo pomeriggio la polizia è venuta all'università a cercarti.» «Ma che cosa stai dicendo?»
«Dicono che hai prenotato il primo volo in partenza per gli Stati Uniti, domani.» «Non è detto» rispose lei tagliente. «Stamattina, dopo il nostro battibecco, ho fatto la prenotazione, ma ora ho cambiato idea.» Bob la guardò confuso. «Ma non puoi farlo.» «Posso fare quello che voglio!» rispose lei premendo il pulsante dell'ascensore. «Non senza il visto.» «Il mio visto è valido per altre cinque settimane.» «Questo è il problema: adesso non lo è più. Le persone che sono venute all'università erano dell'ufficio visti: il tuo visto è valido solo fino alla partenza del volo, domani mattina.» Le porte dell'ascensore si aprirono. Margaret guardò Bob sbalordita. «Ma non possono farmi questo!» «Certo che possono.» Bob le appoggiò una mano sulla spalla. «Ma che ti succede?» Lei si scrollò la sua mano di dosso. «Non sono affari tuoi.» Trattenne a fatica le lacrime, si infilò nell'ascensore e premette il pulsante del suo piano. Quando le porte si chiusero, gli occhi le si riempirono di lacrime e profondi singhiozzi le squassarono il petto. Non era giusto. Come potevano obbligarla ad andarsene? Che diritto avevano? Ma sapeva che non poteva opporsi. Corse singhiozzando nella sua camera, passando accanto a due inservienti che la guardarono sbalorditi. Si chiuse dentro a chiave, sedette sul bordo del letto e lasciò che le lacrime le inondassero le guance. Era sopraffatta da un senso di impotenza, si sentiva come una bambina in balia dei capricci di un mondo di adulti che esercitavano un potere assoluto su di lei. Squillò il telefono. Rimase interdetta: non poteva essere Li Yan. Lo lasciò suonare un paio di volte, in preda a una paura crescente, poi sollevò il ricevitore. «Pronto?» «Dottoressa Campbell?» Un accento americano, una voce stranamente familiare. «Chi è?» «Sono il dottor McCord.» Provò un enorme sollievo. «McCord? Ma che cosa vuole?» «Devo vederla.» «Se lo scordi.» La paura lasciò il posto alla rabbia. «Mi ha mandata al
diavolo due volte, ricorda? Perché dovrei vederla?» «So perché è stato ucciso Chao Heng, e potrei essere la prossima vittima.» Margaret rimase senza fiato. Nella voce dell'uomo si avvertivano distintamente la paura e una strana disperazione. «Ci vediamo sotto, al bar.» «No» ribatté lui brusco. «È in vista. Prenda un taxi e vada al parco Tiantan, al Tempio del Cielo. Ci vediamo all'ingresso orientale.» «No, aspetti un momento...» La paura si stava di nuovo impadronendo di lei. «Per amor del cielo, stia attenta a non farsi seguire» disse lui, senza lasciarla finire. «Ci vediamo tra mezz'ora.» Riagganciò. Nel silenzio totale della camera, Margaret poteva sentire il suo cuore battere forte. Li Yan seguì la corrente di traffico lungo Fuxingmennei Dajie dirigendosi verso la Porta della Pace Celeste. La strada era illuminata su entrambi i lati dagli edifici sfolgoranti di luci. La gente si era riversata nelle strade per sfuggire alla calura soffocante delle case e i marciapiedi erano affollati. Da qualche parte, Johnny Ren lo stava spiando, in attesa di ricevere istruzioni. Ma da chi? Il viceprocuratore generale Zeng non avrebbe dormito la notte per paura che lui, Li Yan, potesse sospettare il suo coinvolgimento nella faccenda. Da qualche parte, in un luogo oscuro e nascosto in cui risiedeva il potere, uno o più mandanti tremavano per la paura che la verità venisse a galla. Ma che cosa poteva scoprire, lui? Gli sembrava di non sapere proprio nulla. Qualunque cosa lui sapesse, qualunque cosa loro pensassero che lui sapesse, si sentiva lontanissimo dalla verità. Come poteva indagare su un viceprocuratore generale senza la più piccola prova? Chi l'avrebbe autorizzato? E chi altri poteva essere coinvolto in quella faccenda? Il suo capo? No, Chen no. Ma allora perché aveva tagliato corto, quando gli aveva detto che, secondo lui, il cadavere di Chao era stato eliminato deliberatamente e che Xie era complice della distruzione dei campioni di sangue e tessuti? Ma che cosa volevano impedirgli a tutti i costi di scoprire e chi ci avrebbe perso di più, se la verità fosse stata scoperta? Doveva consigliarsi con lo zio; il vecchio l'avrebbe ascoltato con calma. Si sarebbe fidato dell'istinto del nipote, ma avrebbe visto le cose da un altro punto di vista. La sua pluriennale esperienza nella polizia, la conoscenza del sistema giudiziario, la capacità di ragionare con calma e vagliare prove apparentemente contrastanti gli sarebbero stati preziosi. Ora più che mai, Li aveva bisogno del suo aiuto.
Superò la Porta della Pace Celeste. Il ritratto di Mao osservava con sguardo serio la folla in piazza Tien-An-Men e il proprio mausoleo, una severa figura paterna che ora tutti ricordavano con affetto. I suoi eccessi e i suoi errori erano stati ormai perdonati e dimenticati. Oltrepassò il ministero della Pubblica sicurezza, svoltò a destra, nella tranquillità ombrosa di Zhengyi Dajie, e all'improvviso frenò: all'imbocco della strada, fuori dai cancelli del complesso di appartamenti dove abitava con lo zio scorse i lampeggiatori blu e rossi di alcuni veicoli della polizia e di un'ambulanza. La strada era stata chiusa e sul marciapiede c'era un viavai di agenti in uniforme. Ebbe un conato di vomito e sentì la fronte imperlarsi di sudore. Fece rapidamente retromarcia fermandosi dietro l'ambulanza. Quando balzò fuori dall'auto, gli agenti si voltarono sorpresi. «Che cos'è successo?» «C'è stato un omicidio.» Lui guardò in su e vide tutte le luci nel suo appartamento accese e alcune sagome muoversi al di là dei vetri delle finestre. Si mise a correre. «Non può salire!» L'agente cercò di fermarlo, ma lui lo respinse con forza. «Quella è casa mia!» Non c'era ombra della guardia di servizio all'ingresso dell'edificio, ma l'atrio brulicava di agenti. Fece i gradini a due a due. Dietro di lui, qualcuno disse: «È Li Yan, meglio avvisare via radio quelli di sopra». Anche il pianerottolo era affollato di agenti. La porta dell'appartamento era spalancata. C'erano luci accese dappertutto e un viavai di agenti in uniforme e in borghese e gli uomini della scientifica in guanti bianchi. Conosceva quasi tutti e tutti lo fissarono, immobili come catturati nel fotogramma di un film. C'era un silenzio spaventoso, rotto solo dallo sporadico gracchiare di un walkie-talkie. Si fece largo tra i poliziotti ed entrò nell'appartamento. Nessuno parlò, nessuno si mosse. Si affacciò sulla porta del soggiorno: c'era un caos indescrivibile, mobili rovesciati, il televisore per terra. La paura gli serrò la gola. Si diresse verso il bagno, dove si erano concentrati gli uomini. Wu gli sbarrò la strada. Era pallido e sconvolto e aveva lo sguardo stralunato. «Che cos'è successo, Wu?» chiese Li Yan con un filo di voce. L'altro non rispose e si limitò a farsi da parte. E così Li Yan vide le piastrelle bianche chiazzate di sangue e il vecchio Yifu nella vasca, trafitto con la sua spada cerimoniale. Gliel'avevano spinta nel corpo con tale violenza che, dopo averlo trapassato da parte a parte, aveva bucato la plastica della vasca conficcandosi nelle assi del pavimento. Lo shock fu tale che Li
Yan iniziò a tremare e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Guardò Wu. «Ha lottato come un leone» disse il collega. Li aveva voglia di urlare, di prendere a pugni e a calci quei volti e quelle pareti. Voleva fare male, più male possibile, a tutto e a tutti. "Ha lottato come un leone." Ma quella era la lotta di Li, non del vecchio Yifu. Perché l'avevano fatto? Qual era lo scopo di uccidere suo zio? Wu si spostò, a disagio. «Capo, ho un mandato di arresto per te, emesso dall'ufficio del procuratore municipale.» Li sapeva che era tutto un sogno, un incubo da cui prima o poi si sarebbe svegliato. «Un mandato?» La sua voce suonò strana perfino a lui. «Per l'assassinio di Li Li Peng.» Non poteva accettare quella nuova, imprevista svolta del suo sogno. «Lily?» sentì che la sua voce ripeteva. «È stata trovata nel suo appartamento con il cranio sfondato» spiegò Wu, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Mi dispiace, ma sei sospettato anche degli omicidi di tuo zio e dell'agente di guardia dello stabile.» Li guardò il cadavere di Yifu e i suoi occhi privi di vita che fissavano il soffitto. «Pensi davvero che sia stato io?» Adesso aveva il respiro affannoso e temeva di perdere il controllo. Il filo che lo teneva ancorato alla realtà si era fatto sottilissimo. Ma quando si sarebbe finalmente svegliato? «A dire la verità, Li Yan,» disse Wu imbarazzato «non ho creduto neanche per un attimo che possa essere stato tu. Nessuno di noi lo crede, ma abbiamo delle prove e dobbiamo seguire le procedure.» «Quali prove?» Si sentiva quasi soffocare dall'ira. Gli sembrava di essere paralizzato, letteralmente incollato al pavimento. Wu fece un cenno a uno degli agenti della scientifica, il quale gli porse un sacchetto contenente l'orologio di Li: la custodia di pelle era tutta nera di sangue. «È stato trovato nell'appartamento di Lily, vicino al cadavere.» Li Yan lo guardò sbalordito. «Me l'hanno rubato stamattina dalla scrivania, quando eravamo in riunione e Johnny Ren è entrato nel mio ufficio!» «Tu sei l'unico a sostenere che si trattasse di Johnny Ren. Noi abbiamo visto solo un uomo. Nessuno l'ha riconosciuto. E poi lui, che motivo avrebbe avuto per uccidere Lily?» Li Yan conosceva la risposta: Lily era stata presente quando Margaret aveva richiesto il test dell'AIDS sul sangue di Chao. «Ma perché avrei dovuto uccidere Lily?» Gli sembrava impossibile di dover fare una simile domanda.
«Aveva fatto la spia alla polizia sulla notte trascorsa dalla dottoressa Campbell nel tuo appartamento. Almeno, questo è quello che si dice.» Se la situazione non fosse stata tanto inverosimile, sarebbe scoppiato in una sonora risata. «Quindi, l'avrei uccisa perché mi ha messo nei guai con il capo?» Wu allungò la mano per farsi dare un altro sacchetto di plastica contenente un fazzoletto insanguinato. «Nell'angolo è ricamato il nome di Lily: era in camera tua.» Fece un rapido gesto per bloccare eventuali proteste di Li. «Prima che tu dica altro, devo confessarti che sono sbalordito quanto te di tutta questa faccenda. Ma devo portarti al fresco.» «Fammi vedere il mandato di arresto.» «Che cosa?» chiese Wu, preso alla sprovvista. «Fammi vedere il mandato di arresto.» Con un sospiro, l'agente lo estrasse dalla tasca. Li Yan lo aprì e guardò subito la firma. «Il viceprocuratore generale Zeng!» Lanciò un'occhiata al collega e gli restituì il mandato. «È il nostro uomo: vuole mettermi nei guai.» «Che cosa?» Wu era palesemente sconcertato e Li si rese conto di come tutto suonasse ridicolo. Lo avevano sistemato proprio per bene: volevano metterlo fuori gioco screditando lui e le sue indagini. Volevano coinvolgere la Prima Sezione in uno scandalo e in un sordido omicidio per distogliere l'attenzione da Chao Heng. Non importava se, alla fine, Li sarebbe stato scagionato. Si guardò intorno: gli agenti lo osservavano come se fosse pazzo. Guardò lo zio, desiderando abbracciarlo e chiedergli perdono. Era sul punto di piangere, ma si trattenne. Che cosa gli aveva sempre detto il vecchio Yifu? "L'azione è sempre meglio dell'inerzia. Guida, anziché farti guidare." Si girò e si diresse nella camera del vecchio. «Che diavolo fai?» gridò Wu correndogli dietro. L'ultimo cassetto del comò era mezzo aperto, come se lo zio avesse cercato invano di prendere la pistola. Li Yan l'aveva lasciata carica: la notte prima aveva pensato di rimettere a posto i proiettili, ma poi, con Margaret in casa, se n'era dimenticato. Il revolver era ancora lì, avvolto nel panno dentro la vecchia scatola da scarpe, in fondo al cassetto. La sua mano aderì perfettamente all'impugnatura. Wu era dietro di lui. «Vieni, devo portarti alla Prima Sezione.» Li Yan si girò, l'afferrò per il colletto e gli appoggiò la canna della pistola contro la tempia. «Adesso io me ne vado, e tu verrai con me.» «Non essere sciocco, lo sappiamo tutti e due che non mi sparerai.»
Ma lo sguardo di Li era freddo, cupo e determinato. «Se pensi che possa aver compiuto azioni del genere... allora puoi credere che sia capace di farti saltare le cervella. Se vuoi provare, accomodati!» L'altro rifletté per una frazione di secondo. «Ti credo sulla parola.» «Allora di' a tutti di allontanarsi.» «L'avete sentito? Fuori di qui!» urlò Wu. Nessuno si mosse. «Subito!» Lentamente, gli agenti e gli uomini della scientifica uscirono dall'appartamento riversandosi sul pianerottolo. Li fece girare Wu, gli puntò il revolver contro la nuca e lo spinse avanti. Andarono nell'altra camera da letto. «Prendi la mia fondina dal primo cassetto» ordinò Li. «E tienila stretta.» Fuori dall'appartamento, il gruppo degli agenti si divise per lasciarli passare. «Non fate scherzi, non fate gli eroi» raccomandò Wu. «A casa, ho una moglie e un figlio che mi aspettano.» «Ne sei proprio sicuro?» chiese Li sarcastico. Wu sorrise tristemente. «D'accordo, non è vero, siamo separati. Ma non è un buon motivo per uccidermi.» Li lo spinse giù per le scale, un gradino alla volta. «Quindi, secondo te, non ho bisogno di un movente per sparare.» «Dai,» implorò l'altro «faccio solo il mio dovere. Al mio posto, tu faresti lo stesso. Non credo che queste accuse reggeranno. Ma in questo modo non fai che peggiorare la situazione.» «Be', sicuramente non posso contare su di te per migliorarla.» E premette più forte la canna del revolver contro la nuca del collega. «Va bene, va bene, come vuoi.» Arrivati al pianterreno, oltrepassarono gli agenti che li osservavano immobili in assoluto silenzio e uscirono nella notte afosa. A voce bassa, Wu continuava a pregare tutti di stare calmi. Gli agenti che si trovavano sulla strada li guardarono allibiti. «Va tutto bene, ragazzi, non fate scherzi. Lasciamolo andare via» disse Wu mentre Li Yan lo spingeva verso la jeep. Li afferrò la sua fondina e fece cenno a Wu di allontanarsi, sempre puntandogli contro il revolver. Aprì la portiera della macchina, entrò e accese il motore; poi guardò Wu diritto in faccia. «Non sono stato io.» L'altro alzò le mani in un gesto di resa. «Ehi, non discuto. Ma adesso vattene.» Li Yan gettò la fondina e il revolver sul sedile del passeggero e avviò l'auto sollevando nuvole di polvere, ingranò la prima e portò la jeep sulla carreggiata opposta dirigendosi a nord, verso le luci brillanti di Chang'an
est. L'unica immagine che vedeva erano gli occhi senza vita del vecchio Yifu che fissavano il soffitto. "Ha lottato come un leone" gli aveva detto Wu. Lo sapeva bene: il vecchio aveva sicuramente venduto cara la pelle. Adesso il viso di Li era inondato di lacrime. Poi ebbe un tuffo al cuore: se avevano ucciso Lily solo perché era presente quando Margaret aveva richiesto gli esami del sangue, allora avrebbero ucciso anche lei. 3 Il taxi lasciò Margaret in Tiantandonglu, fuori da uno degli ingressi che conducevano al Tempio del Cielo. Ma quella strada non aveva nulla di celeste: era in rifacimento e priva di lampioni. I marciapiedi erano invasi da cumuli di spazzatura e rifiuti di ogni tipo. In lontananza, oltre la pista ciclabile deserta, si udiva il rombo del traffico. Al di là, file di squallidi condomini proiettavano una pallida luce sull'asfalto. Più in là, nuovi edifici dall'aria esotica, costruiti su modelli tradizionali cinesi, sfavillanti di luci, si stagliavano netti contro il cielo notturno. Un altro mondo. Oltre la cancellata, il parco si stendeva sinistro nell'oscurità. Margaret rabbrividì nonostante il caldo. Il luogo era deserto, lei si sentiva vulnerabile e rimpiangeva di esserci venuta. Non vedeva traccia di McCord. Andò al cancello e scrutò attraverso le sbarre. C'era la luna e, quando gli occhi si abituarono a quella scarsa luminosità vide, al di là di un secondo cancello, un viale fiancheggiato da una lunga fila di cipressi che portava a un grande tempio con tre cupole. Sentì sul braccio il tocco di qualcosa freddo e viscido come una serpe e lanciò un urlo. Si girò con il cuore in gola: era McCord. «Santo cielo! Ma deve proprio strisciarmi vicino in questo modo?» «Ssst.» L'uomo si mise un dito sulle labbra. «Venga.» Spinse il cancello. «Presto.» Vide la fronte di McCord imperlata di sudore, sentì il suo alito puzzolente di alcol e la sua paura quasi tangibile. L'uomo si guardò dietro le spalle terrorizzato, poi richiuse il cancello. Si avviò imprecando verso il secondo cancello, seguito da Margaret. «Dove stiamo andando?» «Nel parco. Se non ci hanno seguiti, lì saremo al sicuro.» Il cancelletto vicino alla biglietteria non era chiuso. McCord lo tenne aperto per lei e poi la condusse rapidamente nel viale dei cipressi, lontano dalla zona illuminata. A mano a mano che le sue pupille si dilatavano per
adattarsi all'oscurità, Margaret vide emergere le ombre disegnate dalla luce lunare che inondava il parco mentre le luci della città sullo sfondo si affievolivano. «Per amor del cielo, McCord, qualsiasi cosa mi debba dire, me la dica ora.» «Quando saremo sul viale,» sussurrò lui affannato «là è più sicuro.» Il viale era un lungo camminamento coperto che si snodava per centinaia di metri verso il tempio. Margaret e McCord si diressero verso un grande albero e salirono per una rampa di scalini fino all'estremità orientale. McCord appariva sollevato. «È completamente buio, qui siamo al sicuro.» Da lì potevano vedere, alla luce della luna, il parco attorno e chiunque si avvicinasse. Ma l'uomo non riusciva a stare fermo e a parlare in modo coerente. Era nervoso e irrequieto, sembrava prossimo a una crisi di nervi. Continuava ad andare su e giù per il viale, agitato, passando dietro ai baracchini chiusi adibiti di giorno alla vendita dei souvenir per i turisti. Ma poi rallentò il passo e si mise a camminare pensieroso, con le mani affondate nelle tasche. Lanciò un'occhiata nervosa a Margaret che gli teneva dietro nel suo continuo andirivieni. Sentiva che lei stava perdendo la pazienza. «Mi serve il uso aiuto» disse infine, apparentemente con grande sforzo. «Per cosa?» «Deve venire con me all'ambasciata americana. Quelli non vogliono più avere niente a che fare con me.» Fece un sorriso amaro. «Penso di aver bruciato tutti i ponti con gli Stati Uniti, ma a lei crederanno.» «A quale proposito?» «A proposito del fatto che stanno cercando di uccidermi.» «Ma chi sta cercando di ucciderla?» chiese Margaret perplessa. «Gli stessi che hanno ucciso Chao Heng e gli altri. Fanno di tutto per insabbiare la faccenda.» Estrasse un fazzoletto e si asciugò il collo e la fronte. Adesso il suo respiro si era fatto affannoso. «Ma Dio solo sa a che cosa servirà tutto questo. Moriranno anche loro, come tutti gli altri.» C'era qualcosa di veramente sinistro nel modo in cui parlava con tanta disinvoltura della morte e Margaret rabbrividì. McCord la guardò, ma subito abbassò gli occhi. «Non ne sapevo niente, glielo giuro su Dio. Almeno fino all'altra sera al ristorante. Mi hanno mandato a prendere con la macchina e mi hanno portato a Zhongnanhai. Sa che cos'è?» «La nuova Città Proibita.» «Sì, ci vivono i pezzi grossi.» Estrasse una sigaretta dal pacchetto e l'accese, aspirando avidamente e tossendo subito dopo. «Al diavolo, qualche
anno fa avevo smesso di fumare, ma da un po' ho ripreso!». Aspirò un'altra boccata. «Chao stava per divulgare tutta la faccenda; ormai non aveva più niente da perdere.» Margaret scosse la testa: McCord parlava in modo incoerente. «Non so di che cosa stia parlando.» «Pang Xiaosheng» spiegò lui puntandole contro la sigaretta. «Ne ha sentito parlare?» «Vagamente.» Margaret cercò di ricordare: Bob doveva averle raccontato qualcosa. «È il ministro dell'Agricoltura e ha sostenuto la ricerca sul super riso.» «Ex ministro dell'Agricoltura» la corresse McCord. «E futuro leader della Cina.» Sorrise tristemente. «O, almeno, così pensava lui.» La donna stava perdendo la pazienza. «Sta dicendo cose senza senso, McCord.» «Per favore,» la pregò lui, con un ghigno sgradevole sul viso «mi chiami dottore o solo signore. Non sono il tipo che fa cerimonie.» «Senta... O mi dice subito di che cosa si tratta o me ne vado.» «Ehi, calma!» Scrollò la cenere della sigaretta per terra. «Adesso ci arrivo.» Erano giunti alla fine del viale: attraverso una porta ad arco, una scalinata lastricata conduceva al tempio. Uno strano sorriso si diffuse sul viso di McCord. «Gesù, lo sa dove siamo?» «In un parco?» McCord ignorò il tono sarcastico. «Non ci avevo mai pensato: è veramente buffo. Venga a vedere.» Si avviò su per la salita. Margaret lo seguì riluttante, sentendosi sempre più frustrata. McCord si diresse verso il tempio illuminato dalla luna. Buttò via la sigaretta provocando una pioggia di scintille rosse sul marmo. Nella grandiosità del tempio, sembrava improvvisamente minuscolo. Aprì le braccia a mo' di ali e si girò a fissarla con un sorriso da pazzo. «Mi sento purificato dalla luce celeste. Benvenuta nel Tempio della Preghiera per un buon raccolto.» Si girò di nuovo e alzò la testa ad ammirare il vasto tempio incombente su di lui. Scoppiò in una sonora risata. «Il Figlio del Cielo veniva qui due volte all'anno per pregare, la prima il quindicesimo giorno del primo mese lunare per chiedere un buon raccolto.» Si rivolse nuovamente verso Margaret, sempre ridendo come un idiota. Lei vide che aveva gli occhi bagnati di lacrime. «E poi, ancora, il giorno del solstizio d'inverno per ringraziare della grazia ricevuta.» Improvvisamente il sorriso scomparve. «Ma Pang Xiaosheng non doveva pregare per il buon raccolto, c'ero io a produrglielo.» Scosse la testa. «E
certo non ringrazierà per la grazia ricevuta» concluse con amarezza. Margaret era impietrita e guardava attonita quello spettacolo terribile e triste, una tragedia recitata su un antico palcoscenico, un bizzarro copione interpretato da un grottesco pagliaccio. «Mi vuole spiegare che cos'è successo, dottor McCord?» gli domandò infine. L'uomo appariva esausto, minuscolo e insignificante all'ombra del Tempio della Preghiera per un buon raccolto. «È stato Chao Heng a organizzare il programma di ricerca sul super riso per il ministero dell'Agricoltura. Era l'uomo di Pang. Ed è stato sempre lui a coinvolgermi nel progetto. Hanno fatto un accordo con le Grogan Industries per cui lavoravo e che furono ben contente di metterci il denaro perché Pang aveva fretta e loro avrebbero avuto le mani libere. Non ci sarebbe stata nessuna interferenza, come invece avrebbe potuto accadere negli Stati Uniti, con gli organismi governativi. Avrebbero potuto mettere in pratica le loro teorie su larga scala. Se la cosa avesse avuto successo, le Grogan Industries avrebbero ottenuto il brevetto del super riso e quindi la possibilità di venderlo in tutto il mondo. Un affare di miliardi, miliardi di miliardi. E i cinesi? Be', loro si sarebbero finalmente potuti sfamare e Pang avrebbe potuto proclamarsi il leader capace di traghettare il paese nel terzo millennio. E io? Io sarei stato il creatore del super riso. E lo sono stato.» Si allontanò parlando a se stesso. «Gesù, era così bello! Un chicco di riso inattaccabile dagli insetti, dalle malattie o dai funghi, indistruttibile. Un raccolto con una resa del cento per cento.» «Ma come ha fatto?» Si girò con gli occhi che gli brillavano. «Come ho fatto? È stato facile, così semplice da essere praticamente perfetto. Ho preso un gene della tossina del colera, sa, quella che rende letale questa malattia, e l'ho introdotto nel riso.» «Ma è una pazzia!» Margaret lo fissò inorridita. McCord scosse la testa, ridendo della sua sorpresa. «No, nient'affatto. La tossina del colera uccideva tutto: insetti, batteri, virus, funghi.» «E la gente?» «Be', qui sta il bello. Basta cuocere la tossina per renderla innocua e il riso ha lo stesso sapore di sempre. Ma la cosa più intelligente è stato il modo in cui l'ho introdotta nel riso: un metodo davvero geniale, modernissimo. Ma gliel'ho già spiegato.» Le mostrò il mignolo. «Si ricorda?» «Oh, sì» rispose lei freddamente. «Il suo pisellino.» «Dunque, ho preso il gene della tossina del colera, l'ho fissato a un virus
amico e l'ho mandato a moltiplicarsi nel DNA del riso.» «Un virus amico?» chiese Margaret con una sfumatura di scetticismo. L'uomo si fece scuro in volto. «Certo, il virus del mosaico del cavolfiore, quello che provoca tutti quei disegni sulle foglie. Lo mangiamo da migliaia di anni e non ci ha mai fatto male.» «Allora lei ha pensato che fosse una buona idea dar da mangiare alla gente i geni della tossina del colera e il virus del cavolfiore, quando pensava di mangiare riso?» «Funzionava. Ed era del tutto innocuo.» Nel suo tentativo di difesa, McCord divenne quasi aggressivo. «Abbiamo fatto numerosi esperimenti sul campo, nel sud del paese. Gli scienziati del gruppo di ricerca l'hanno mangiato per un anno prima di divulgare la notizia. La resa era incredibile e il sapore ottimo.» Adesso era lui a essere sarcastico. «E la tossina del colera o il virus del mosaico non hanno certo ucciso nessuno.» Si accese un'altra sigaretta. «Così, tre anni fa l'abbiamo lanciato in tutta la Cina. I risultati sono stati eccezionali, dottoressa Campbell, veramente fenomenali: un aumento della resa dei raccolti pari al cento per cento. Niente più fame.» «E parecchi profitti.» «E perché no? Ci metti il denaro, corri il rischio e la ricompensa è tua.» «Ma perché ho la sensazione che, da qualche parte nel nostro futuro, ci sia un "piccolo" problema?» McCord le lanciò un'occhiata acida e aspirò un paio di profonde boccate dalla sigaretta. «Non sapevo che, quasi un anno fa, Chao si fosse ammalato. All'inizio pensavano che avesse l'AIDS; come sa, aveva un debole per i ragazzi.» Arricciò il naso, disgustato. «Lo curarono, ma non era AIDS e allora cominciarono a preoccuparsi. Pang lo fece ricoverare all'ospedale militare 301.» Aveva lo sguardo fisso a terra e respirava a fatica. «Era un maledetto nuovissimo virus, un retrovirus, che rimane inattivo nel cervello per almeno cinque anni. Non ti accorgi della sua presenza. Poi, senza alcun motivo apparente, decide che vuole farti fuori. Così, comincia ad attaccare i globuli bianchi e finisce per fotterti completamente il sistema immunitario. Un po' come l'AIDS, ma peggio. Inoltre, è più difficile da individuare perché muta molto rapidamente.» Alzò gli occhi e fissò Margaret nella cui mente la verità si stava facendo faticosamente strada. «Oh, Dio mio! È dentro il riso.» Si sentì accapponare la pelle. Gli occhi di McCord erano di nuovo lucidi. «In qualche modo, in qualche punto, il nostro piccolo virus innocente del mosaico del cavolfiore si è
ricombinato con un altro virus, probabilmente anch'esso innocuo, presente da qualche parte nell'ambiente in cui sono stati effettuati i test.» Si interruppe per riprendere fiato, adesso ansimava. «E c'è stata una mutazione: un terzo virus, questa volta letale. Lo chiamano RXV, il virus X del riso. Si è inserito nel corredo genetico del riso. Non sapevamo che fosse lì.» Ci fu un lungo silenzio mentre Margaret metteva a fuoco il significato delle parole di McCord. Sentiva il sangue pulsarle sulle tempie, in gola, alla bocca dello stomaco. Ebbe un conato di vomito. «Vuol dire che è ancora lì? Dentro il riso?» L'uomo annuì. «Nel riso che la gente coltiva e mangia?» Lui annuì di nuovo. «E chi mangia il riso si prende o si è già preso questo virus... questo RXV?» Lui alzò per un momento gli occhi da terra e guardò gli alberi. Gli tremava la voce. «Naturalmente, si manifesterà solo tra un paio d'anni circa. Chao ha mangiato il riso molto tempo prima che la sua coltivazione su larga scala prendesse il via.» Margaret non riusciva a capacitarsi di quello che l'uomo le stava raccontando. «Ma si tratta di più di un miliardo di persone!» Lui fece spallucce. «Anche di più: il super riso viene esportato in tutto il mondo. E, una volta che il virus si è diffuso, chi può sapere come si trasmette? Stiamo parlando di metà della popolazione mondiale, forse anche di più.» In quel momento, Margaret comprese la tremenda verità: anche lei aveva mangiato il riso. Per un istante non riuscì a crederci; c'era stato sicuramente un errore, doveva esserci una soluzione. Non poteva morire solo perché aveva mangiato un po' di riso. Era come quando aveva saputo della morte di Michael: non poteva accettarlo, le sembrava impossibile. Si girò verso McCord; la sua paura si era trasformata in rabbia e poi in furore. «Maledetti bastardi!» La sua voce riecheggiò nella notte afosa profumata di pino. «Bastardi! Avete pensato di poter rifare in tre anni ciò che la natura ha prodotto in tre miliardi di anni. Vi siete creduti onnipotenti!» McCord indietreggiò e rimase a lungo silenzioso. «La cosa divertente è che io non mangio riso da quando ero ragazzo: sono allergico» aggiunse infine. Margaret era combattuta tra la rabbia e la disperazione. Avrebbe voluto avventarsi su di lui, prenderlo a pugni e a calci, graffiargli la faccia. Ma la disperazione la privava di tutte le forze. Rimase immobile e disperata, schiacciata dal peso di quanto aveva appena saputo: aveva mangiato un veleno e non c'era alcun rimedio. Prima di lei avrebbe visto morire due mi-
liardi di persone, forse di più, e non avrebbe potuto farci niente. Gli occhi le si riempirono di lacrime, deformando la figura dell'uomo che le stava davanti. «Ma perché si affannano tanto per nascondere la faccenda?» chiese disperata. «Perché?» «Perché sono stupidi e spaventati. Le Grogan Industries hanno pensato che, se riusciranno a far passare sotto silenzio la cosa, avranno ancora due anni per cercare una cura prima che la cosa diventi di dominio pubblico.» «Ma sono pazzi!» «È quello che ho detto anch'io. Santo cielo, nel mondo stanno cercando una cura contro l'AIDS da quasi venti anni e voi pensate di trovare una cura contro l'RXV in due anni?» Sul suo volto comparve un ghigno di scherno. «Ma Pang Xiaosheng ha proseguito su questa strada, più che altro perché non ha scelta. Appena il governo cinese scoprirà che cosa ha fatto, sarà un uomo morto. E Chao... be' lui stava già per morire e voleva spifferare tutto. Così le Grogan Industries hanno assoldato un killer di Hong Kong, un assassino pagato dalla mafia cinese, pressoché inafferrabile in Cina. Lui si è sbarazzato di Chao e ha pensato di cancellare le prove dandogli fuoco. Poi è arrivata lei, ha iniziato a ispezionare il cadavere e a richiedere esami del sangue. La faccenda gli stava sfuggendo di mano...» Nonostante Margaret fosse sconvolta da emozioni fortissime, riceveva dal proprio cervello deboli segnali di allarme. Si fermò un attimo a riflettere, cercando di mettere a fuoco la questione. Fissò McCord, che rimase sconcertato. «Che cazzo sta guardando?» «A quest'ora di notte i cancelli del parco dovrebbero essere ben chiusi, vero?» Ora la mente di Margaret lavorava rapida. Il suo sguardo si posò sul cancello che avevano attraversato arrivando dal viale. «Anche questo avrebbe dovuto essere chiuso, vero?» chiese indicandolo. Non sarebbe sopravvissuta per cinque anni, forse neppure per cinque minuti. Si avvicinò a McCord. «Lei non voleva affatto che l'accompagnassi all'ambasciata americana.» Come aveva fatto a essere così stupida? «Bastardo! Mi ha imbrogliata! Ecco perché mi sta raccontando tutta la faccenda; non importa se so tutto, tanto mi ucciderà.» L'uomo fece un passo verso di lei. «Mi hanno costretto!» La mascella gli tremava, lo sguardo era cupo e terrorizzato. «Mi hanno ordinato di portarla qui. Non avevo altra scelta: o lei o io. E lei morirà comunque.» «Tutti moriremo, prima o poi» ribatté lei amaramente. McCord le si avvicinò di un altro passo. «Stia lontano!» urlò lei indietreggiando.
«Ehi, non sarò io a farla fuori.» Sembrava scosso all'idea che lei potesse considerarlo capace di una cosa del genere. «In vita mia non ho mai fatto male a una mosca.» «No, certo. Ha solo infettato metà della popolazione mondiale con un virus letale.» «Andiamo!» proseguì l'uomo, avanzando mentre lei arretrava. «Non l'ho fatto apposta, è stato un incidente.» E si guardò rapidamente attorno, in attesa. «Mi dispiace, va bene?» Ma Margaret non l'ascoltava più. Lanciò un'occhiata dietro di lui, sicura di aver intravisto qualcosa muoversi nell'ombra dietro il tempio. McCord cadde in avanti mentre un rumore sordo squarciava il silenzio della notte. Si aggrappò a Margaret trascinandola per terra e finendole sopra. Qualcosa di duro rotolò sul lastricato e la donna sentì qualcosa di umido, caldo e appiccicoso bagnarle le mani: era sangue. Avrebbe voluto urlare, ma non riusciva a respirare. Sgusciò a fatica da sotto il peso morto dell'uomo e cercò di rialzarsi, ma scivolò sulla macchia scura che si allargava sulle pietre. Cadde di nuovo e si trovò faccia a faccia con gli occhi spalancati di McCord. Aveva un'espressione di assoluta sorpresa congelata sul viso. Questa volta Margaret urlò, quasi senza accorgersene; il grido le sembrò venire da qualche parte, molto lontano. Strisciando carponi si allontanò dal cadavere e urtò con una mano la cosa dura e fredda che era rotolata rumorosamente a terra quando l'uomo era crollato. Era una piccola pistola. L'afferrò e si mise in ginocchio. Vide una figura venirle incontro uscendo dall'ombra del tempio. Sollevò la pistola a braccio teso, chiuse gli occhi e fece fuoco una, due, tre volte in quella direzione. Quando riaprì gli occhi, non c'era nessuno. Si alzò in piedi, infilò il revolver nei pantaloni e cominciò a correre. Raggiunse il cancello alla fine del viale, temendo sempre di ricevere una pallottola nella schiena. Ma non successe nulla. Nel buio del viale si sentì momentaneamente al sicuro. Si fermò, cercando di riprendere fiato, e si guardò alle spalle. Non vedeva nulla, ma non aveva intenzione di rimanere lì ad aspettare. Si girò e riprese a correre, con le gambe sempre più deboli e cedevoli. Sentiva l'aria che le bruciava i polmoni e il rumore dei suoi piedi sulla pietra. Si girò a guardare, al di sopra della spalla. Le sembrò di scorgere una figura muoversi tra le ombre degli alberi, a circa cento metri da lei. Emise un piccolo grido di disperazione e quasi ruzzolò dai gradini alla fine del viale. Sentì, dietro di lei, un rumore di passi da qualche parte nell'oscurità e riprese immediatamente a correre. Più che correre barcollava, respirando a
fatica, trafitta da un tremendo dolore al fianco. L'aroma pungente dei pini nell'aria calda della notte quasi la stordiva, come una droga che le togliesse la volontà di lottare per la propria vita. Sarebbe stato così facile arrendersi e sdraiarsi aspettando la morte. Ma ora a spingerla c'era qualcosa più forte della paura, più forte della rabbia. Aveva una ragione per vivere, un segreto da rivelare. Raggiunse uno dei cancelli, che adesso era chiuso. Si afferrò alle sbarre sentendosi svenire; aveva il viso inondato di lacrime di disperazione. Il cancello era alto circa due metri; non avrebbe mai avuto la forza di aggrapparsi con le braccia e scavalcarlo. Era sicura di sentire dei passi avvicinarsi rapidamente lungo il viale, ma non osava girarsi a guardare. Scossa da profondi singhiozzi, appoggiò prima un piede poi l'altro sui cardini e si spinse in alto, slanciandosi dall'altra parte e atterrando rumorosamente, lunga distesa sull'asfalto. Sentì un dolore tremendo a un ginocchio e un rivolo di sangue scorrerle lungo una gamba. Voltandosi, vide una figura avvicinarsi di corsa tra le file di cipressi. Era a cinquanta, sessanta metri. Questa visione bastò a farla balzare in piedi. Percorse zoppicando i dieci metri che la separavano dal cancello esterno: era chiuso anche quello. Non sapeva dove avrebbe trovato la forza per scavalcarlo. Fece un balzo afferrandosi alla sbarra superiore. Alla luce proveniente dall'altro lato della strada, vide che aveva le mani insanguinate. I piedi scivolavano alla ricerca di un solido appiglio, ma i cardini erano troppo piccoli. "Dai! Dai!" si incitò. Alla fine riuscì a trovare un punto d'appoggio che le bastò per issarsi e scavalcare il cancello ricadendo sul marciapiede. Non perse tempo: si rialzò immediatamente in piedi e attraversò zoppicando la pista ciclabile deserta per raggiungere la strada. Vide un taxi, una di quelle piccole monovolume soprannominate "panino" perché avevano l'aspetto di due fette di pane. Si sbracciò per farsi vedere, la macchina si fermò anche se l'autista non si astenne dal manifestare tutta la sua irritazione con un colpo di clacson. Ignorando gli improperi dell'uomo, Margaret aprì la portiera e salì. L'uomo la guardò sbalordito: una bionda yangguizi insanguinata, con la faccia sporca e rigata di lacrime. «Friendship Hotel! Friendship Hotel!» urlò Margaret. Avendo notato la pistola infilata nei jeans della ragazza, il tassista decise che era più saggio non discutere. Ingranò la marcia e accelerò dirigendosi verso nord, verso le luci della città. 4
Quando il taxi giunse in prossimità dell'albergo, la crisi isterica di Margaret era passata, lasciando il posto a una profonda depressione. Si sentiva intorpidita, nel fisico e nella mente. Adesso che la paura l'aveva abbandonata era divorata da una rabbia oscura e silenziosa. Voleva giustizia, vendetta, voleva denunciare le Grogan Industries, Pang Xiaosheng e i loro complici in quella folle avventura. Disprezzava il loro bel mondo nuovo, costruito con l'ingegneria genetica, un mondo che la condannava a morte e minacciava la sopravvivenza stessa dell'umanità. Disprezzava la loro sete di denaro e di potere, la crudele arroganza degli scienziati che avevano usato il genere umano come cavia in un mondo trasformato in un enorme laboratorio. E, soprattutto, disprezzava la loro viltà di fronte al fallimento totale. A quanto pareva, non c'erano limiti alle bassezze a cui erano disposti a ricorrere per nascondere la loro colpa, per sfuggire alle responsabilità. In quel momento, lei era l'unica a reggere la torcia che poteva far luce sulla loro colpevolezza e loro avrebbero fatto tutto ciò che era in loro potere per eliminarla. Ma lei non era scoraggiata né impaurita. Era già morta, non avrebbero certo potuto ucciderla un'altra volta. E, quanto a lei, il peggio che poteva capitarle era fallire. Fece fermare il taxi a circa cento metri dall'albergo e mise alcune banconote in mano all'autista. Il denaro era sicuramente troppo, ma il tassista non disse nulla. Desiderava solo che quella donna uscisse dal suo taxi per correre al Dipartimento di Pubblica sicurezza a denunciare di essere stato costretto a caricare una straniera, pazza furiosa, armata e insanguinata. Un fatto del genere non accadeva certo tutti i giorni, a Pechino! Si accese una sigaretta, tirò ansiosamente alcune boccate e si allontanò in fretta guardando nello specchietto retrovisore Margaret che si allontanava. Margaret si fermò qualche secondo a riflettere sul da farsi. Era troppo presto perché ci fosse già qualcuno ad attenderla in albergo. Tuttavia, se si fosse presentata a chiedere la chiave della sua camera in quello stato, il personale avrebbe subito chiamato la polizia, probabilmente in contemporanea con il tassista che per tutto il tragitto non l'aveva persa d'occhio un istante, attraverso lo specchietto retrovisore. Desiderava, però, cambiarsi e prendere il passaporto. Si apprestò ad andare a bussare furiosamente al portone dell'ambasciata americana e voleva essere identificata senza difficoltà. Pensò a Li: chissà che cosa gli era successo, che cosa gli aveva consigliato lo zio. E si sentì male al pensiero che gli rimanevano solo due anni
prima che il virus del riso iniziasse a ucciderlo. E non solo lui, ma tutti, in quel paese, e altri milioni di persone nel mondo. Chissà come avrebbero fatto gli ospedali e i medici a fronteggiare la situazione; non ci sarebbero riusciti. Era un incubo che non riusciva a immaginare e, tantomeno, a comprendere. Guardò il traffico, la gente in bicicletta sulla strada, la luce alle finestre degli appartamenti. Tutta quella gente non sapeva di avere già in sé il germe della propria distruzione. Avvertì il peso quasi insostenibile di quella consapevolezza gravare su di lei. Desiderava disperatamente condividerlo con qualcuno. Ma con chi? Lei non poteva dire parole di conforto, né offrire una possibilità di speranza. Il segreto che voleva condividere con gli altri era l'annuncio della loro morte. Lacrime amare le bruciavano il viso; si girò verso l'albergo e si diresse decisa verso l'ingresso. Mentre raggiungeva la scalinata d'accesso, dall'oscurità emerse una figura che le si parò davanti e sussurrò il suo nome. Quasi svenne dalla paura. L'uomo avanzò, il viso illuminato dalla luce di un lampione lontano: era Ma Yongli. Chiaramente sconvolto dall'aspetto di Margaret, la fissò sbalordito a bocca aperta. «Che cosa ti è successo? Stai bene?» «Sì, sto bene.» Trattenne a fatica l'impulso di gettarsi tra le sue braccia piangendo a calde lacrime. «Devo andare a cambiarmi e prendere il passaporto.» La sua mente sembrava capace di formulare un solo pensiero per volta. Qualsiasi deviazione da questo percorso avrebbe permesso ad altri pensieri di prendere il sopravvento. Il tono della sua voce risultò innaturale e formale. Margaret si sentiva appesa a un filo molto sottile. «Devo andare all'ambasciata americana. Sai dov'è?» gli chiese. «Non puoi entrare in albergo, la polizia ti sta aspettando.» Lei aggrottò la fronte, confusa. Le sembrava di essere ubriaca; il mondo le girava intorno in modo incontrollabile. «Ma come possono essere già qui?» «Sono accadute parecchie cose» bisbigliò lui. «Cose terribili. Li mi ha mandato a cercarti.» La prese per un braccio. «Ti porto da lui.» Margaret si lasciò condurre lontano dall'albergo, nell'oscurità. Svoltarono in una via laterale, dove era parcheggiata una vecchia e malandata Honda. Yongli le aprì la portiera e lei vi si sedette come un automa. Riusciva a pensare solo che anche lui aveva nel suo corpo il virus e che anche lui sarebbe morto prematuramente. Piangeva silenziosamente nel buio. E pensare che c'erano tante cose per cui vivere!
«Sei sicura di stare bene?» Ma Yongli le sfiorò un braccio. «Sì.» La osservò a lungo al buio, poi avviò il motore e partì guidando con prudenza nella notte. La Honda avanzò lentamente nel labirinto di hutong cadenti illuminando con i fari la vita delle strade secondarie: giochi di carte, pranzi di famiglia, gruppi di persone sedute tranquillamente a parlare e a fumare. Si trovavano nella zona settentrionale della città. Margaret non sapeva dove e non le importava saperlo. Da più di dieci minuti si erano lasciati alle spalle le luci sfolgoranti della strada principale. Ma Yongli svoltò a sinistra e poi a destra e si ritrovarono in un vicolo lungo e stretto in leggera pendenza. Il fondo stradale era sconnesso e pieno di buche. A intervalli di alcune centinaia di metri, sulle pareti cadenti di mattoni erano tracciati grandi ideogrammi bianchi racchiusi in cerchi. «Ma dove siamo? Che cos'è questo posto?» chiese alla fine Margaret, incuriosita. «Il distretto Xicheng. Tutti questi hutong sono destinati alla demolizione per far posto a nuove case per gli operai.» In fondo al vicolo l'auto urtò contro il bordo del marciapiede. Yongli disse a Margaret di scendere, poi scese a sua volta dall'auto, la prese per il braccio e la condusse in un altro vicolo deserto, guardandosi continuamente alle spalle per accertarsi che nessuno li seguisse. In attesa della demolizione, il quartiere era stato evacuato e adesso era deserto. Svoltarono ed entrarono in un cortile ingombro di spazzatura. Era buio pesto e dovettero procedere con cautela. Tutte le finestre erano sprangate con assi e nell'aria aleggiava un tanfo di verdura marcia e di fognatura. Yongli allontanò con un calcio un vecchio passeggino rotto e bussò leggermente a una porta di legno senza maniglia. Rispose una voce femminile. Yongli sussurrò qualcosa e la porta si aprì cigolando. Lotus li fissava, pallida e spaventata. Anche senza trucco era davvero molto graziosa. Vide lo stato in cui si trovava Margaret e li invitò a entrare. «Presto, venite.» Yongli spinse delicatamente dentro Margaret e Lotus la prese per mano, guidandola nell'interno buio. «Stai bene?» le chiese. L'altra annuì con un cenno della testa, ma nell'oscurità Lotus non poteva vederla. La condusse in una minuscola camera sul retro. Nell'angolo più lontano ardeva una candela, che faceva danzare ombre tremolanti sulle pareti. Margaret sentì Yongli chiudere la porta. Li Yan era seduto su una brandina con la schiena appoggiata alla parete
e le ginocchia piegate contro il petto e fumava una sigaretta. Margaret si accorse che aveva pianto e che aveva un aspetto orribile. Lui restò di sasso vedendo il sangue sui jeans e sulla maglietta di lei, gettò via la sigaretta, balzò in piedi e la raggiunse. Le appoggiò le mani sulle spalle. «Mio Dio, Margaret, che cosa ti è accaduto?» Lei lo guardò, leggendo la preoccupazione nei suoi occhi e sentì il calore delle sue mani sulle spalle. «Non è sangue mio» spiegò con una voce piatta che sembrava appartenere a un'altra. «È di McCord, l'hanno ucciso.» Lo vide corrugare la fronte, poi la sua vista si offuscò e le lacrime cominciarono a rigarle le guance. Le gambe le cedettero e sentì le braccia di lui cingerla, sollevarla e portarla rapidamente fino alla brandina nella penombra. La fece distendere e le asciugò delicatamente il viso. Il suo volto era vicinissimo a lei. Dietro, Lotus e Yongli la osservavano, come presenze incorporee nell'ombra. «Posso fare qualcosa?» chiese Lotus in cinese. «Credo di no. Abbiamo una bella provvista di acqua. Sarà meglio che andiate» rispose Li. Yongli allontanò delicatamente Lotus. «Su, andiamo.» «Non mi va di lasciare Margaret in questo stato.» «È in buone mani» rispose Yongli e, rivolto all'amico: «Torneremo alle prime luci dell'alba. Se non ci vedi arrivare, vuol dire che ci hanno beccati». L'altro annuì cupo. «Grazie.» Si girò e scambiò con l'amico uno sguardo che valeva più di mille parole. «Le porterò dei vestiti puliti» promise Lotus e si lasciò condurre per mano nell'altra stanza e poi fuori, nel cortile. Quando sentì la porta chiudersi alle loro spalle, Li si volse verso Margaret, ma lei aveva chiuso gli occhi e si era addormentata. Quando emerse dall'oscuro abisso di un sonno senza sogni in cui era precipitata, Margaret si ritrovò acciambellata sulla brandina. Seduto sul bordo, Li fumava l'ennesima sigaretta. Nell'angolo della stanza ardeva ancora la candela. Quando si sollevò sul gomito, lui si girò. «Quanto ho dormito?» «Direi un'ora; non so che ora sia.» Lei guardò l'orologio nella semioscurità. «È da poco passata l'una.» Si mise seduta stropicciandosi gli occhi. Lui le si avvicinò e la cinse con un braccio, lei gli appoggiò la testa sulla spalla. «Ma perché siamo qui? Che cos'è successo?»
Li Yan era teso e inspirò profondamente, a fatica. «Mi hanno incastrato, Margaret. E io ci sono cascato in pieno, non me ne sono neppure accorto.» Lei sollevò la testa e lo fissò. Li aveva gli occhi umidi e abbassò lo sguardo. «Hanno ucciso Lily e mio zio...» Margaret fece un piccolo grido di orrore. «O Dio, no...!» Perché ammazzare quel simpatico vecchio? «Ma perché l'hanno ucciso?» Il volto di Li era rigato di lacrime. «Per far ricadere la colpa su di me.» Sospirò, frustrato. «Come se io avessi potuto compiere un atto del genere!» Si volse verso di lei. «Non so perché l'abbiano ucciso, Margaret. Ma io sento che è stata colpa mia, che ho fatto qualcosa di sbagliato. Forse, se mi fossi comportato diversamente, adesso lo zio Yifu sarebbe ancora vivo. Non so che cosa li abbia spinti a uccidere un vecchio, solo per screditarmi e bloccare le mie indagini. Se solo riuscissi a capire a che cosa ci siamo avvicinati troppo, forse lo saprei.» La sua profonda disperazione spezzava il cuore. Margaret abbassò la testa e si mise a fissare il pavimento. Non voleva più confidargli il suo segreto, riversare su di lui tutto quel dolore, quell'orrore e quella disperazione. L'avrebbe tenuto chiuso in sé. Sperava di svegliarsi, una mattina, e di scoprire che era stato solo un sogno. Ma sapeva che non era un sogno. E sapeva che doveva assolutamente dirglielo. Alzò lo sguardo e gli asciugò le lacrime. «Io lo so. So chi è stato e perché.» CAPITOLO DODICESIMO Venerdì 1 Li Yan sedeva e fissava l'oscurità assoluta; le candele si erano tutte consumate, lasciando nell'aria un acre odore di cera. Si ricordò che, da bambino, aveva paura del buio, di tutti i fantasmi e i mostri che la sua immaginazione infantile pensava fossero in agguato. Una volta cresciuto, aveva smesso di temere l'oscurità perché sapeva che i veri mostri si annidavano dentro gli uomini: la paura e la presunzione, l'avidità e la malvagità. E adesso qualcuno li aveva lasciati uscire, ed essi erano scivolati fuori silenziosi aggirandosi per il mondo come moderni dinosauri, divorando e distruggendo tutto quello che incontravano. Erano lì, da qualche parte, e gli stavano dando la caccia. E non vivevano più nel buio, come i mostri della sua infanzia: lavoravano negli uffici e vivevano nelle case, avevano mogli,
mariti, fratelli, sorelle, figli, controllavano e manipolavano la vita di chi stava loro intorno, sfruttavano i deboli, facevano morire di fame gli affamati, rubavano il premio del lavoro altrui. E si ritenevano onnipotenti. Il suo odio nei loro confronti era temperato solo dal dolore per i suoi cari. Il vecchio Yifu: morto. Il padre, la sorella, la nipotina, il nipote non ancora nato: tutti condannati a morte. Margaret. Sentiva il suo respiro leggero e regolare. Adesso dormiva, ma anche lei era condannata a morte. Pensò al suo paese, a tutta quella gente con speranze e aspirazioni, voglia di vivere e amare. Cinquemila anni di storia li avevano portati in questo vicolo cieco. Avrebbe voluto gridare, far crollare la casa addosso a quei mostri, farli a pezzi a mani nude. Ma non si mosse, non disse una parola. I morti non si difendono, aveva pensato una volta. Ma lui, che era già morto, avrebbe lottato con tutte le forze, fino all'ultimo respiro, fino all'ultimo secondo di vita. Aveva parlato con Margaret per quasi due ore prima che lei cedesse finalmente alla profonda stanchezza, lasciandolo solo a riflettere sulla terribile realtà. Paura, rabbia, autocommiserazione, e poi di nuovo rabbia lo avevano sommerso a ondate e si erano alla fine ritirati lasciandolo esausto e disperato. Lei l'aveva convinto che l'unica cosa da fare era raggiungere l'ambasciata americana. Lì avrebbero potuto rivelare al mondo tutta quella orribile storia. Era l'unico modo per fermare le Grogan Industries e Pang Xiaosheng e tutti coloro di cui avevano comprato il silenzio. A lui sembrava una vittoria inutile. Per rivelare la verità ai suoi concittadini, doveva nascondersi da loro, mettendosi sotto la protezione di una potenza straniera. Si sentiva un traditore, ma non vedeva altra soluzione. Era screditato e in disgrazia, ricercato dai suoi stessi colleghi e da un killer professionista deciso a uccidere la donna che amava. Si bloccò di colpo: la donna che amava? Accese un fiammifero e guardò Margaret che dormiva accanto a lui. Sembrava assolutamente in pace. Ma come poteva amarla? Come poteva amare una donna che conosceva solo da pochi giorni, e che apparteneva a un'altra razza e a un'altra cultura? Il fiammifero si consumò, bruciandogli le dita; lo lasciò cadere. Ma l'immagine di Margaret gli restò impressa nella mente. Allungò un braccio per toccarla e immaginò di sfiorarle leggermente con le dita le labbra piene. Non era mai stato innamorato prima, e non sapeva se quello fosse amore. Sapeva solo che non aveva mai provato un sentimento del genere per nessuna. Si distese sul fianco accanto a lei e l'attirò a sé delicatamente per non svegliarla. L'abbracciò cercando di proteggerla, affondò il viso nei suoi ca-
pelli e ne aspirò il profumo. Non sapeva come si chiamasse il sentimento che provava per lei, ma "amore" gli sembrava una buona definizione. E, per la prima volta dopo tante ore, si sentì libero dal suo tormento. Sarebbe stato contento di morire lì, in quel momento, tenendola tra le braccia. Ma fu sopraffatto dal sonno. La morte era una soluzione troppo semplice. Margaret si svegliò di colpo e si sollevò dalla brandina appoggiandosi su un gomito. Li Yan era in piedi accanto alla finestra e scrutava attraverso le fenditure delle assi che vi erano inchiodate sopra. Un fumo azzurrognolo si alzava in lente volute dalla sigaretta. Si sentiva stranamente riposata. Per quanto suonasse strano, dal giorno del suo arrivo in Cina era la prima volta che dormiva veramente bene. Sentendola muoversi, Li si girò. Lei non sapeva che lui aveva passato la notte, o almeno quel poco che aveva dormito, abbracciato a lei. Com'era bella, assonnata e confusa, non ancora completamente sveglia! Adesso gli era rimasta solo lei e non doveva abbandonarla, come aveva fatto con lo zio. «Che cosa c'è?» gli chiese Margaret, preoccupata dal suo sguardo. «Yongli e Lotus sono qui» rispose lui, sentendo bussare leggermente e andò nell'altra stanza ad aprire. Lei si mise a sedere sulla brandina, ormai completamente sveglia. Lotus entrò con una grossa borsa che lasciò cadere sul pavimento sollevando una nuvola di polvere. «Ti ho portato vestiti e il necessario per lavarti.» L'aprì e tirò fuori una grande ciotola di metallo e una tanica di acqua da cinque litri. Appoggiò tutto sulla branda accanto a Margaret, riempì la ciotola d'acqua, poi le tese un beauty case contenente un sapone e una pezzuola da viso, un tubetto di dentifricio e uno spazzolino da denti. «Lavati e poi vestiti.» Tirò fuori dalla borsa un vestito di cotone azzurro con la scollatura a "V" e la cintura in vita. Margaret l'aveva visto indosso a molte ragazze, per strada. «Penso che a te vada bene. Per me è troppo grande.» Margaret sorrise: sarebbe andato benissimo. Lotus era davvero minuta; accanto a lei, si sentiva gigantesca. Margaret si tolse i vestiti macchiati di sangue. Le ci vollero parecchie ciotole d'acqua per staccare il sangue ormai incrostato dalle mani, dalle braccia e dal collo. Poi si lavò la faccia e l'asciugò con un piccolo asciugamano ruvido. Lotus la guardava con ammirazione. «Tu hai un seno molto bello. Io non ho seno» aggiunse tristemente. Margaret sorrise. «Sei bella così, Lotus.»
La ragazza abbassò gli occhi imbarazzata e arrossì di piacere. «Xie Xie.» «Bukeqi» rispose Margaret. Lotus spalancò gli occhi per la sorpresa e sorrise. «Tu parli bene il cinese.» Il vestito azzurro era quasi perfetto per Margaret. Dalla borsa Lotus estrasse anche alcune paia di sandali. «Te li prestano mia cugina e sua madre. Ci sono varie misure: spero che una ti vada bene.» Un paio di sandali aperti color crema erano della misura giusta; la pelle era morbida e comoda. C'era anche una borsetta di pelle dello stesso colore con una lunga tracolla, in cui Lotus aveva messo alcuni accessori da trucco e un piccolo flacone spray di acqua di Colonia. «Le belle signore devono essere belle sempre.» Margaret l'appoggiò sul letto accanto ai vestiti che si era tolta e scorse la piccola pistola di McCord tra le pieghe della coperta. D'impulso, la mise nella borsetta. Si rivolse di nuovo a Lotus e le strinse la mano con gratitudine. «Grazie, Lotus. Non so come potrò sdebitarmi.» «Oh, niente, tu sei mia amica.» E mentre si abbracciavano, sentirono delle voci alterate provenire da fuori. I due uomini stavano discutendo. Un istante dopo, Li Yan entrò nella stanza, seguito dall'amico. «Ma Yongli non vuole portarci all'ambasciata.» Era rosso in viso. Margaret fissò l'uomo sorpresa. «Perché?» «È troppo pericoloso» rispose Ma Yongli. «Qual è il primo posto in cui si aspettano di trovarvi? L'ambasciata americana. Saranno là ad aspettarvi.» Margaret lanciò un'occhiata ansiosa a Li Yan. «Probabilmente ha ragione lui.» Lui annuì con riluttanza. Margaret si rivolse di nuovo a Ma Yongli. «Però dobbiamo fare almeno un tentativo, Ma Yongli, non possiamo rimanere qui per sempre. Se non è possibile raggiungere l'ambasciata, cercheremo un'altra soluzione.» «Su, tesoro, non è difficile» intervenne Lotus rivolta a Ma Yongli. «Li Yan e Margaret possono restare in macchina. Noi passiamo davanti all'ambasciata e vediamo se c'è la polizia. Dopo le nove, nessuno ci noterà: c'è sempre un sacco di gente in fila per il visto.» L'uomo esitò un attimo, poi annuì con aria poco convinta. A lei non poteva rifiutare niente. «Potete spiegarmi?» chiese Margaret. «Noi rimarremo in macchina» le spiegò Li Yan. «Loro controlleranno le
strade intorno.» Il viaggio fino al quartiere delle ambasciate fu carico di tensione. Li e Margaret se ne stavano accucciati sui sedili posteriori della vecchia Honda, con un cappello di paglia ben calcato in testa. Li Yan aveva indossato una giacca leggera sopra la camicia per nascondere la fondina con il revolver del vecchio Yifu. Lotus sedeva davanti accanto a Yongli, e cercava di calmarlo parlandogli. Lui era agitato e nervoso e guidava male; su Jianguomennei Dajie quasi si scontrò con un autobus sotto gli occhi di un vigile. «Calmati, tesoro» lo esortò Lotus appoggiandogli una mano sul braccio. Lui inspirò profondamente cercando di rilassarsi e le fece un mezzo sorriso. Il caldo era soffocante e il sole picchiava attraverso i finestrini dell'auto mentre si dirigevano verso est. Margaret cercò la mano di Li e la tenne stretta. Rimasero in silenzio. Sui grandi viali la presenza della polizia era massiccia; autopattuglie bianche e azzurre e agenti in uniforme verde. Margaret guardò di sottecchi Li. «Hai raccontato tutto a Ma Yongli?» gli bisbigliò. «No, non sapevo come fare.» È tremendo dover dire a qualcuno che morirà. Ora lei si sentiva in colpa ricordando il sollievo che aveva provato, quella notte, dopo aver rivelato il suo terribile segreto a Li. All'incrocio con la Dongdoqiao, Yongli svoltò a sinistra, facendo un'inversione a U e finendo nella pista ciclabile, e lì parcheggiò. Quando si girò verso di loro, aveva la faccia madida di sudore. «Voi aspettate qui. Noi ci avviciniamo all'ambasciata e vediamo che aria tira.» Li Yan scosse la testa. «No, seduti qui in macchina attireremmo troppo l'attenzione.» Guardò fuori dal finestrino. «Vi aspettiamo lì.» Indicò il Deli France Café, imitazione di un bistrot. Li e Margaret guardarono Ma Yongli e Lotus allontanarsi lungo il mercato affollato della Via della Seta sgomitando per farsi strada tra i commercianti intraprendenti e i turisti dell'Est in cerca di buoni affari. Era una strada stretta, affollata di bancarelle su entrambi i lati. Indumenti di seta colorata e ricami dorati, erano appesi alle grucce e ai tramezzi, grandi pezze di stoffa venivano vendute intere o a metratura. I commercianti fumavano, gridavano e sputavano per terra. Così affollata e rumorosa, quella strada rappresentava un approccio ideale all'ambasciata americana. All'al-
tro capo della via, che sfociava in una strada più ampia fiancheggiata dagli alberi, iniziava la coda che ogni giorno si snodava davanti all'ufficio visti. Li Yan prese Margaret per mano ed entrarono nel Deli France Café, ordinarono due cappuccini e attesero in silenzio. Dopo soli venti minuti, che a loro però sembrarono un'eternità, Ma Yongli e Lotus furono di ritorno. Si sedettero e Ma Yongli scosse la testa. «Il posto brulica di sbirri, Li Yan. Non riusciresti a fare nemmeno cento metri.» «Ha ragione,» aggiunse Lotus «sono dappertutto e ti stanno cercando.» Margaret non ebbe bisogno della traduzione per capire quello che dicevano. Era quello che, dentro di sé, si aspettava, e tuttavia rimase delusa. Si sentì invadere da una tremenda disperazione. «E adesso che cosa facciamo?» «Ci sto pensando» le rispose Yongli in inglese. «Il confine internazionale più vicino è quello con la Mongolia. C'è un treno per Datong, la stazione non è tanto lontana. Il confine è lungo migliaia di chilometri. Non potranno sorvegliarlo tutto.» 2 Yongli si assentò per quattro ore per comprare i biglietti. Quando tornò, aveva il volto pallido e un'espressione grave. «Sbirri dappertutto» disse a Li Yan. «E la tua foto in ogni angolo della stazione.» Scosse le spalle affranto. Era quello che prevedevano. Non c'era altro da dire. Lotus aveva bollito il riso su un fornelletto attaccato a una bombola a gas. Ne aveva preparato quattro scodelle ma, con sua grande sorpresa e delusione, sia Li Yan sia Margaret lo rifiutarono. Divorarono invece buona parte della frutta che Yongli aveva comprato per il viaggio. Margaret osservò in un silenzio pieno di disperazione i due amici mangiare il riso con i bastoncini. Lanciò un'occhiata piena di angoscia a Li, che però aveva distolto lo sguardo. Non sarebbe servito a niente dire loro di non mangiare, ormai il danno era fatto. E tuttavia Margaret non riusciva a pensare ad altro che ai geni della tossina del colera, al virus del mosaico del cavolfiore e all'RXV e tutto ciò che era finito nel corredo genetico del riso. Fu presa dalla nausea. Mangiarono in un silenzio carico di tensione, ciascuno immerso nei propri pensieri, poi Yongli prese una mappa che aveva comprato e la distese sulla brandina. Ci buttò sopra i biglietti del treno. «Tre biglietti. Il treno
parte da Pechino poco dopo mezzanotte e arriva a Datong domani mattina alle sette e un quarto.» Ne seguì con il dito il percorso e indicò il punto dove si trovava la città, al confine tra la provincia dello Shanxi e la Mongolia. «Durante il giorno rimarrete nascosti mentre io cercherò un mezzo di trasporto. Partiremo appena farà buio e attraverseremo la Mongolia Interna durante la notte. Dovremmo raggiungere il confine prima dell'alba. Vi lascerò lì, riporterò indietro il veicolo e tornerò a Pechino. Nessuno saprà mai dove siete finiti.» Margaret osservò la carta con un triste presentimento. Anche se fossero riusciti ad attraversare il confine senza intoppi, poi avrebbero dovuto compiere un viaggio lungo e difficile attraverso un territorio montuoso fino a Ulan Bator. Erano senza passaporto, avevano pochissimi soldi e, se fossero riusciti ad arrivare a destinazione, avrebbero dovuto poi chiedere asilo politico presso un'ambasciata occidentale. Sarebbe stata un'avventura disperata. «Non arriveremo mai a Ulan Bator a piedi» obiettò. «Che ne dici di prendere il treno?» replicò Li. «Ma certo, com'è che non ci avevo pensato?» ribatté lei. E l'uomo notò che ora assomigliava di più alla donna che aveva conosciuto e amato. «E se ci fermano, senza passaporti?» Li scrollò le spalle. «Be', ci arresteranno. Hai un'idea migliore?» Margaret non ce l'aveva. «Lascia che andiamo Li Yan e io, Ma Yongli.» disse poi. «Non c'è bisogno che tu corra il rischio, possiamo raggiungere il confine da soli.» Ma Yongli scosse la testa. «No, non potete. Su tutti i muri sono affissi manifesti con la faccia di Li Yan e la sua foto viene trasmessa in tutti i canali della televisione. Per lui sarebbe pressoché impossibile noleggiare un'auto senza essere riconosciuto, perfino a Datong. Inoltre la polizia sta cercando due persone, non tre. Con me sarete più sicuri.» Si girò e sorrise a Lotus. «Lei telefonerà al ristorante e dirà che sono malato. Tornerò in due giorni, nessuno si accorgerà che sono andato via.» Sorrise. Adesso era anche lui tornato quello di una volta. «È semplice.» Il resto della giornata trascorse lento e afoso nello spazio angusto della casa abbandonata. Fuori, il cielo si fece plumbeo, l'aria stranamente purpurea, il caldo e l'afa aumentarono e da oriente cominciò a spirare un vento caldissimo che faceva tremare le assi della finestra. Era in arrivo una tempesta e l'atmosfera, già carica di elettricità, si fece opprimente. Margaret continuava a dormire e svegliarsi, acciambellata sulla brandi-
na. Una volta, aprendo gli occhi, vide Lotus e Yongli che bisbigliavano accovacciati nell'angolo più lontano della stanza. Li Yan era in piedi accanto alla finestra, e spiava nervosamente attraverso le assi di legno. Durante un altro breve risveglio, notò che Lotus se n'era andata. Yongli sedeva appoggiato al muro con gli occhi chiusi e fumava. Li Yan era sempre immobile vicino alla finestra. Sognò la sua infanzia, le lunghe vacanze estive trascorse a casa dei nonni, nel New England. La granita di limone fatta in casa con il ghiaccio tritato e bevuta all'ombra dei grandi castagni sulla riva del lago. Si vide in braccio al nonno, un vecchio forte e abbronzato, con i baffi d'argento che risaltavano sul viso color cuoio. Il fratello pescava in fondo al vecchio molo di legno. A un tratto era scomparso: sentiva la sua voce chiedere aiuto e lo vedeva dibattersi freneticamente nell'acqua. Ma quei rumori sembravano lontanissimi e nessuno vi prestava attenzione. Lei correva dai genitori e dal nonno, gridando: "Jake è in pericolo, sta affogando". Ma loro erano più interessati a un grosso cesto da picnic di vimini appoggiato sull'erba. Il nonno dormiva sulla sdraio. Margaret lo scuoteva per un braccio, ma lui non si muoveva. Lo scuoteva, gridava, strillava, finché la testa del vecchio ricadeva verso di lei e il logoro cappello di paglia rotolava lungo il pendio. Aveva gli occhi aperti, ma senza vita; da una narice gli scorreva un rivoletto di sangue. Margaret apriva la bocca per urlare, ma non emetteva alcun suono. E improvvisamente pioveva, grosse gocce pesanti che ferivano la pelle; un gruppo di uomini in impermeabile nero stava tirando fuori dall'acqua Jake. Anche lui aveva gli occhi aperti, un po' di fango verdastro gli colava da una narice, come il rivoletto di sangue dal naso del nonno. Aveva la bocca aperta e un grosso pesce dagli occhi a palla lottava per uscirne. Si svegliò di colpo con il cuore in gola. La pioggia sferzava il tetto di tegole rotte della casa abbandonata. Fuori era buio; la fiamma tremolante di una candela gettava ogni tanto un po' di luce sulle ombre della stanza. Li aveva abbandonato la sua postazione vicino alla finestra e ora sedeva sul bordo della brandina. Yongli era sempre appoggiato al muro a fumare. Lotus, accovacciata sul pavimento, sistemava cibo e indumenti in una sacca da viaggio di pelle. Quando Margaret si mise seduta, alzò gli occhi verso di lei. «Tutto okay?» domandò preoccupata. Margaret annuì e si asciugò un velo di sudore dalle sopracciglia. «Solo
un brutto sogno.» La ragazza si alzò e si sedette sulla brandina accanto a lei. Teneva qualcosa di nero, morbido e lucente. «Questa è per te. Mettitela stanotte.» Era una parrucca di capelli neri lunghi fino alle spalle e con la frangetta squadrata. «Me l'ha data un'amica attrice di teatro. Va bene, no?» Margaret si raccolse i capelli e provò la parrucca: era stretta, scomoda. Prese dalla borsetta uno specchietto da trucco scheggiato e si osservò alla luce della candela. Il contrasto tra la sua pelle pallida e lentigginosa e quella capigliatura corvina era impressionante. «Sono ridicola.» «No, nasconderemo i tuoi occhi rotondi con il trucco e copriremo le tue lentiggini con la cipria. Sembrerai una ragazza cinese.» Margaret rivolse un'occhiata a Li Yan, che fece spallucce. «Farà buio. Sul treno le luci saranno basse.» Lotus lo guardò, esitando un istante. «Li Yan... non ho ancora avuto l'occasione di ringraziarti.» «Di che cosa? Sei tu che ci stai aiutando» rispose lui, sorpreso. «Di avermi tirato fuori di cella.» L'uomo non capiva. «Quale cella?» Dal buio, dall'altra parte della stanza arrivò la voce di Ma Yongli. «È stata arrestata, ricordi? Sono venuto a chiederti aiuto. E tu mi hai risposto che avresti visto che cosa potevi fare.» Nella sua voce c'era una sfumatura di rimprovero. Ora Li si ricordava e fu assalito dal senso di colpa. «Mi dispiace, non ho avuto l'occasione di fare qualcosa.» La ragazza era perplessa. «Ma mi hanno lasciata andare; hanno detto che c'era stato un errore. Pensavo...» «Ma c'era stato davvero un errore, vero?» intervenne Ma Yongli. Lotus fissò Li diritto negli occhi. Per lei era importante che il poliziotto le credesse. «Hanno detto che c'era dell'eroina, nella mia borsa. Ma non ho mai preso eroina in vita mia, Li Yan. Lo giuro.» Li Yan si sentiva a disagio, imbarazzato. «Allora, come ha detto Ma Yongli, deve proprio esserci stato un errore. Forse quella non era la tua borsa.» «Che c'è?» chiese Margaret, disorientata perché i tre stavano parlando cinese. Avvertiva una certa tensione nel loro tono di voce. «Niente di importante, solo una vecchia storia» tagliò corto Li. «Adesso dobbiamo guardare avanti, non indietro.» Si rivolgeva più a Lotus e a
Yongli che a Margaret. Un tremendo fracasso, fuori, li sorprese tutti. Li Yan balzò in piedi e spense subito la candela. L'oscurità che calò su di loro era quasi palpabile, sembrava di poterla toccare. Gli unici rumori erano il ticchettio della pioggia sul tetto e il vento che faceva sbatacchiare le assi della finestra. Margaret udì qualcuno strisciare silenziosamente sul pavimento e raggiungere l'altra stanza. Sentiva vicino a sé il respiro affannoso di Lotus. Le prese la mano e gliela strinse. La ragazza si aggrappò a lei con forza. La porta si aprì cigolando e una debolissima luce grigiastra diede nuovamente forma alla stanza. Margaret vide Yongli chinarsi a raccogliere un'asse e impugnarla come una clava. Poi la porta sbatté e sprofondarono di nuovo in quell'oscurità spaventosa. Lo sfregamento di un fiammifero, una minuscola esplosione e un lampo di luce nel buio: Li Yan tornò proteggendo con la mano la fiammella. «Tegole cadute dal tetto» spiegò e si chinò a riaccendere la candela. Fino a quel momento nessuno si era reso conto di avere i nervi così tesi. Yongli lasciò cadere l'asse e diede un'occhiata all'orologio. «In ogni caso, è ora di andare.» 3 La pioggia continuava a cadere fitta. Sulle strade bagnate e lucenti si riflettevano tutti i colori della città notturna. In lontananza rombavano i tuoni, inframmezzati dai lampi e fulmini. Se possibile, la presenza della polizia sembrava maggiore del giorno prima. Li Yan sapeva che la polizia si aspettava di arrestarlo in fretta e, dietro la forte pressione di personaggi di grosso calibro, avrebbe intensificato le ricerche. Il fatto di essere riuscito, almeno per il momento, a sfuggire alla cattura gli dava una cupa soddisfazione; pensava infatti a come questo fatto avrebbe gettato nel panico Pang, Zeng e la direzione delle Grogan Industries. Tuttavia, il timore di venire smascherati li avrebbe resi ancora più pericolosi, come tigri ferite. Per il momento, Yongli e Margaret avrebbero corso il rischio maggiore alla stazione. Tutti i binari dei treni in partenza sarebbero stati posti sotto stretto controllo. Per un attimo si domandò dove si trovasse Johnny Ren. Ora che sapeva chi gli aveva dato quell'incarico di morte, capiva come mai potesse muoversi tanto liberamente senza essere scoperto. Senza dubbio si era già da tempo messo al sicuro da qualche parte, fuori dalla portata della polizia.
Parcheggiarono l'auto a un paio di isolati dalla stazione e, protetti dagli impermeabili e riparati da ombrelli neri, si immersero nel traffico notturno, ormai piuttosto ridotto. L'atrio della stazione era deserto. Alcuni viaggiatori in attesa di un taxi si erano rifugiati sotto le pensiline degli autobus e i tendoni dei chioschi che, di giorno, vendevano frutta, verdura e bevande ai passeggeri assetati. All'ingresso principale si era formata una lunga coda: controllo dei bagagli ai raggi X e controllo dei documenti dei passeggeri. «Non riusciremo mai a passare» mormorò Ma Yongli mentre si avvicinavano alla coda. «Se ci controllano i documenti...» Ma Lotus era più decisa. «L'hai detto anche tu, Ma Yongli. Cercano Li Yan e una yangguizi, non due coppie di cinesi.» Diede un'occhiata a Margaret che aveva annodato un fazzoletto impermeabile sulla parrucca. Il trucco era approssimativo e pesante ma, con quella luce fioca, sarebbe potuta passare senz'altro per una cinese. I baffi e la barba posticci di Li erano convincenti. Lotus sperava solo che la tesa del cappello e l'ombrello bastassero a proteggerli dalla pioggia: probabilmente la colla non avrebbe tenuto, con tutta quell'umidità. Altri viaggiatori si misero in coda dietro di loro e i quattro avanzarono lentamente verso il controllo dei bagagli. La pioggia sferzante, che toglieva a tutti la voglia di chiacchierare, rendeva meno scrupolosi gli agenti di controllo, da lunghe ore sotto l'acqua. Diedero un'occhiata frettolosa ai documenti di una giovane coppia davanti a loro e poi accennarono a Li e agli altri di passare senza neppure guardarli. Yongli prese il borsone ed entrarono nella stazione. Era pallido e tremante, ma appariva molto sollevato. Non si girò a guardare alle sue spalle, ma corse avanti verso il cancello e lo aprì per dirigersi al binario. Il treno era lì, pronto a partire. Il marciapiede si andava riempiendo di passeggeri alla ricerca del loro scompartimento, di amici e parenti che, tra baci e abbracci, auguravano buon viaggio, di bambini che agitavano le manine per salutare zie e zii o i genitori in partenza, tutti sotto lo sguardo attento e severo di un'addetta al controllo dei biglietti. Li Yan riconobbe subito il tipo: formale, burocratica, inflessibile. Esaminò i loro biglietti e, con un brusco cenno della mano, li invitò a entrare. Sul marciapiede Lotus strinse Ma Yongli in un lungo abbraccio, lo baciò e gli prese il viso tra le mani. Lo pregò di fare attenzione e di tornare da lei sano e salvo. Lui era sull'orlo delle lacrime. «Farei qualsiasi cosa per te, Lotus,» le sussurrò «qualunque. Ti amo.» Lotus baciò Li Yan su una guancia e gli raccomandò di badare al suo uomo. Poi strinse Margaret in un abbraccio lungo e disperato. «Buona for-
tuna» le disse. Quando i tre salirono sul treno, la ragazza si morse le labbra per non scoppiare a piangere. Yongli si sporse a baciarla di nuovo. Il treno fischiò, lei si voltò e corse via prima che chiudessero il cancello. Lui la guardò allontanarsi con gli occhi velati di pianto. Alla fine si girò e raggiunse Li Yan e Margaret che cercavano i loro posti facendosi largo nell'affollato scompartimento di seconda classe. Gli altri viaggiatori, bagnati e stipati in ogni angolo, aprivano cestini di cibo e thermos di tè e si sistemavano preparandosi al lungo viaggio. Margaret sentì qualcuno schiarirsi rumorosamente la gola e poi sputare sul pavimento. Rabbrividì di disgusto, ma non osò guardare; teneva la testa bassa e il viso nascosto dalla parrucca nera. Pregò che nessuno le rivolgesse la parola e trasalì quando Li Yan le bisbigliò: «Se vuoi dormire, appoggiati alla mia spalla». Lei annuì e lui la circondò con un braccio, passandosi poi una mano sulla barba posticcia per accertarsi che fosse ancora al suo posto e gettando infine un'occhiata a Yongli. Ma quest'ultimo, appoggiato al finestrino, sembrava perduto in un mondo tutto suo. Un altro fischio, un lampo di luce davanti a loro, e il treno sussultando e gemendo cominciò lentamente a uscire dalla stazione, scricchiolando e ruggendo mano a mano che acquistava velocità. Quando si furono lasciati la stazione alle spalle, Margaret piegò un po' la testa per guardare fuori dal finestrino, nel punto che Yongli aveva pulito dal vapore che lo appannava. La pioggia picchiava forte contro il vetro, le luci della città scorrevano formando strisce tremolanti e irregolari sul finestrino. Per un attimo, un lampo illuminò la linea dell'orizzonte. Meno di una settimana prima lei era arrivata a Pechino nella calura di un lunedì pomeriggio sperando di sfuggire per sei settimane a una vita che non le sembrava degna di essere vissuta. Ora, solo cinque giorni dopo, lasciava quella città nel buio e sotto la pioggia, come una fuggitiva che difende una vita divenuta ancora più preziosa dopo aver conosciuto la condanna a morte che la minacciava. Si strinse a Li Yan. Non cercava più di analizzare i propri sentimenti: voleva solo stare con lui. Aveva sì perso molto, ma aveva comunque trovato una cosa preziosa, qualcosa per cui valeva la pena vivere, anche una vita breve come quella che aveva davanti. CAPITOLO TREDICESIMO Sabato 1
All'alba una coltre di smog giallastro aleggiava sull'orizzonte di ciminiere e alti edifici. La foschia del mattino si mescolava al fumo del carbone e alla polvere portata dal deserto formando una miscela sulfurea nell'aria. Quando il treno entrò rombando e sferragliando nella città industriale di Datong, Margaret si svegliò da uno stato di sopore irrequieto e vide che stava ancora rannicchiata contro la spalla di Li, circondata dal suo braccio, protetta e sicura. Lo scompartimento era avvolto da una densa nuvola di fumo e la gente cominciava a raccogliere le proprie cose tossendo e sbuffando. Il pavimento, cosparso di bucce d'arancia e cartocci di cibo vuoti, era tutto appiccicoso per gli sputi. Yongli stava ancora appoggiato al finestrino rigato di pioggia e teneva lo sguardo fisso in lontananza, senza vedere. Margaret allungò una mano e toccò il braccio di Li, che si girò e rispose a fatica al suo caldo sorriso. Appena il treno si arrestò con forti vibrazioni, lui balzò in piedi accennando con la testa alla porta. Margaret e Yongli lo seguirono in corridoio e poi giù dal treno, sul marciapiede, dove la marea di passeggeri li sospinse verso il controllo dei biglietti e poi nell'atrio affollato. A testa bassa, passarono rapidamente davanti a due poliziotti di pattuglia e uscirono in strada. La città si stava preparando a una nuova giornata. Le strade erano piene di gente già al lavoro, nella foschia mattutina: venditori ambulanti sistemavano la loro merce, fabbri battevano con i martelli, riparatori di biciclette sistemavano i raggi delle ruote. C'era un viavai di veicoli che si intravedevano appena nella foschia. Gli edifici apparivano inconsistenti e spettrali, come le persone, fantasmi che vagavano sui marciapiedi. Il clima era più fresco e asciutto che a Pechino e l'impressione era quella di trovarsi in un paese e in un'epoca diversi. "Così doveva essere Chicago negli anni Trenta" pensò Margaret. Anche le auto di fabbricazione cinese sembravano antiquate, provenienti da un altro secolo. Non si sarebbe affatto stupita di vedere gangster in impermeabile nero e lobbia, pronti a imbracciare il mitra. Furono superati da una squadra di operai con la divisa delle ferrovie. Li Yan toccò Yongli sulla spalla per risvegliarlo dalle sue fantasticherie. «Andiamo.» Parlava con l'autorità di chi sapeva che cosa fare. «Dove?» domandò lei. «Non lo so, da qualche parte, al riparo da occhi indiscreti.» E seguirono gli operai tenendosi a una certa distanza. Passarono attraverso un grande cancello di ferro che si apriva in un alto muro e si ritrovarono, in mezzo a
un intrico di binari che andavano in tutte le direzioni. Luci rosse e verdi lampeggiavano nella foschia e, di tanto in tanto, si udiva lo stridore del ferro sul ferro quando le rotaie si spostavano negli scambi. Persero di vista gli operai e continuarono ad attraversare le rotaie diretti verso un gruppo di capannoni abbandonati. In quel punto tra le traversine crescevano alte le erbacce. Davanti alle baracche c'era una lunga fila di vecchie carrozze ferroviarie in disuso. Li si issò su una di esse e ne aprì la porta con un calcio. All'interno ristagnava un forte odore di muffa e di umido. Anche Margaret salì, con l'aiuto di Yongli, e percorse il corridoio. Era un vecchio vagone letto con scompartimenti di cuccette su due livelli, ormai prive di tutte le comodità che potevano aver avuto nel passato. Ma il vagone era abbastanza pulito, nonostante l'odore di muffa, e offriva un buon riparo contro la furia degli elementi ed era quasi asciutto. Li Yan aprì la porta di uno scompartimento e gettò uno sguardo dentro. «Questo andrà bene.» Protetti dai capannoni da una parte e con la vista della città dall'altra, avrebbero potuto tenere d'occhio chiunque si fosse avvicinato. Gettato il borsone su una cuccetta, Li Yan si sedette e si accese una sigaretta staccandosi con calma la barba e i baffi finti. Margaret si avvicinò al finestrino per guardare fuori, attraverso il vetro polveroso. Il sole stava sorgendo all'orizzonte, dissipando la foschia mattutina. Si tolse la parrucca e, con un senso di sollievo, scrollò la testa lasciando liberi i capelli sulle spalle. Yongli rimase sulla porta. «Vado a cercare un mezzo di trasporto. Forse ci vorrà un po'.» Li Yan annuì e gli gettò un pacco di banconote legate con un elastico. «Vedi se riesci a trovare anche delle sigarette.» L'altro si girò per andarsene, ma l'amico lo richiamò. «Grazie, Ma Yongli,» e, dopo un attimo di esitazione «scusa, mi sono sbagliato su Lotus.» Turbato, Ma Yongli distolse lo sguardo. «Sì, ti sei proprio sbagliato.» E, senza dire altro, uscì. Margaret e Li Yan sentirono i suoi passi allontanarsi nel corridoio e poi videro la sua figura alta e massiccia avanzare dondolando tra le rotaie e infine scomparire nella nebbia senza voltarsi indietro. «Sembra molto depresso» commentò Margaret. Li Yan aspirò una profonda boccata. «Ma Yongli è un tipo estroverso, a volte sembra perfino un po' matto. Ha momenti di esaltazione incontrollabile e terribili crisi di depressione, ma gli passerà. Adesso devo cercare di dormire: stanotte non ho chiuso occhio. Per te va bene?» Margaret annuì. Li si acciambellò sulla cuccetta e, in pochi minuti, si addormentò profondamente. Lei osservò la sua faccia serena nel sonno, i
muscoli completamente rilassati. Sembrava così innocente, quasi infantile; avrebbe voluto stringerlo tra le braccia, confortarlo e proteggerlo. Distolse rapidamente lo sguardo; gli occhi le si erano riempiti di lacrime. Non doveva pensarci, non aveva senso rimpiangere quello che non era successo. Sarebbero morti comunque, prima o poi. Il fatto di morire non importava. Ciò che importava era vivere, e vivere in un certo modo. Doveva cercare di ricordarselo sempre. Si liberò con un calcio dei sandali e si distese accanto a Li, aderendo alle curve del suo corpo, circondandolo con le braccia e sentendo il suo calore diffondersi in lei. Stranamente, per la prima volta dopo molti anni si sentiva davvero felice, quasi euforica. Si lasciò scivolare in un mondo di sogni in cui tutto era possibile, e dove, anche nei momenti più neri, c'era sempre un barlume di luce. E si rese conto di amarlo. Li emerse lentamente dal sonno, come un tuffatore dalle profondità dell'acqua; increspando la superficie, circondato da bolle leggere, e tornando alla coscienza, alla luce e al calore intensi del sole dopo la strana oscurità sottomarina di un sonno profondo e senza incubi. A poco a poco percepì la morbidezza del corpo di Margaret che lo avvolgeva, si girò piano, per non disturbarla, e si ritrovò con il viso vicinissimo a quello di lei. Il suo respiro era lento e regolare. Dio mio, come era bella! La linea delicata del naso, l'arco delle sopracciglia, il mento piccolo, le labbra piene e ben disegnate, lo spruzzo di lentiggini sul naso. Le scostò delicatamente una ciocca di capelli dalla fronte. Sentiva il suo alito caldo sulla pelle. Si chinò per baciarla, ma scorse un guizzo delle palpebre. Chiuse gli occhi proprio mentre lei li apriva. Margaret vide Li che dormiva con il viso a pochi centimetri dal suo, la testa leggermente piegata come se stesse per baciarla. Quando ricordò il suo ultimo pensiero prima di sprofondare nel sonno, sentì uno strano dolore. Si allungò in avanti per baciarlo, ma scorse un guizzo delle palpebre, e chiuse gli occhi proprio mentre lui li apriva. Li Yan sorrise vedendo che Margaret aveva gli occhi chiusi. Dopo un attimo, lei li riaprì e gli sorrise. Allora la baciò dolcemente, sentendo la delicata cedevolezza di quelle labbra contro le sue. E lei rispose aprendo la bocca con desiderio. Ora si sentivano attratti l'uno verso l'altra da qualcosa che andava oltre la passione o il piacere. Oltre il tempo: non avevano fretta, volevano assaporare con calma ogni attimo. Filtrando attraverso il finestrino sudicio della carrozza abbandonata, il sole avvolgeva di luce e calo-
re i loro corpi che si muovevano insieme, uniti dall'amore e dalla tristezza, dall'affinità e dalla morte. I seni di Margaret gli riempirono le mani e poi la bocca, sentì la sua pelle dolce sulla lingua. Lei sentiva i muscoli possenti della sua schiena, gli afferrò le natiche sode e l'attirò dentro di lei. Era così bello che non voleva lasciarlo andare. E lui riempì il suo corpo, muovendosi lento dentro di lei al ritmo dei loro cuori. Lei ansimò, quasi un sospiro. Era un piacere che assomigliava molto al dolore, al limite della resistenza. Le dita di Margaret affondarono nella schiena di Li, cercando di trattenerlo, di attirarlo più profondamente dentro di lei fino a consumarlo, finché lui esplose e lei fu percorsa da successive ondate di piacere che risvegliarono sensazioni annebbiate da anni di indifferenza. Un insieme inestricabile di movimenti e sensazioni che privavano il cervello della capacità di pensare, immergendolo in un completo abbandono. Ora niente importava e niente sarebbe mai più importato. Giacquero nudi, ansimanti e sudati, uno nelle braccia dell'altra mentre il sole riscaldava i loro corpi. Per dieci, forse quindici minuti, non parlarono. Non volevano rompere quell'incantesimo, turbare quel momento magico, tornare da quell'euforia senza tempo alla realtà gravida di pericoli. Alla fine si staccarono e Li si accese una sigaretta sbuffando il fumo verso il soffitto, già tutto scuro di nicotina. «Abbiamo qualche speranza?» Margaret piegò la testa per guardarlo. Poteva dirgli che forse avrebbero trovato in tempo una cura, che l'RXV sarebbe stato molto più facile da sconfiggere dell'HIV, ma non le sembrava probabile. E poi, perché alimentare false speranze? Ma si bloccò, con un tuffo al cuore. Cerca una speranza e la troverai; al mondo non esiste un posto senza un raggio di sole. Aveva accolto passivamente la cupa disperazione di McCord, ma ora rivisse la scena che si era svolta su quel maestoso palcoscenico di marmo illuminato dalla luna e, per la prima volta, scorse una luce. E Li Yan vide quella luce negli occhi di lei. Le aveva chiesto un filo di speranza senza pensare di poterlo ottenere e ora scorgeva l'effetto imprevisto di quella sua richiesta. «Che c'è?» Lei si tirò su a sedere. «Perché l'hanno ucciso?» «Chi?» «McCord. Era dalla loro parte, era uno di loro.» Lo fissò con gli occhi scintillanti, illuminati dalla luce della rivelazione. «Si era lasciato prendere dal panico, questo è il vero motivo. Era una mina vagante. Non riusciva a vedere quello che invece vedevano loro: mettere a tacere la cosa aveva una sua utilità. Gli ho anche chiesto perché si preoccupassero tanto di nascon-
dere la verità. Secondo lui, sono solo degli stupidi. Ma non è così; non si darebbero tanto da fare senza uno scopo. E, se sono convinti che c'è una speranza, allora deve esserci davvero.» «Non capisco.» Margaret ripensò alle parole di McCord all'ombra del Tempio della Preghiera per un buon raccolto. "Gli scienziati del gruppo di ricerca l'hanno mangiato per un anno prima di divulgare la notizia." E poi: "La tossina del colera o il virus del mosaico non hanno certo ucciso nessuno". «Tutti i ricercatori hanno mangiato il riso, cinque anni fa. Ma, per quanto ne sappiamo, solo Chao stava per morire.» In quella grande eccitazione, per un attimo la colpì il pensiero che non c'era maggiore follia che illudersi. Ma questa non era una falsa speranza, ne era sicura. «Forse non tutti quelli che mangiano il riso contraggono il virus. E non tutti quelli che contraggono il virus muoiono. E magari, con le enormi risorse di cui dispongono, quelli delle Grogan Industries pensano veramente che si possa trovare una cura. Altrimenti, perché cercano di guadagnare tempo?» Si sentiva come un condannato a morte a cui, all'ultimo momento, avessero comunicato il rinvio dell'esecuzione. La sua morte era rimandata, forse solo temporaneamente, ma non era più inevitabile. «Pensi che non moriremo?» «Ma certo che moriremo! Tutti moriremo, ma forse, dico forse, non per colpa dell'RXV.» E, insieme alla speranza, in Margaret si riaccese la rabbia. «Per questo il mondo deve conoscere la verità. Non possiamo lasciare la faccenda nelle mani delle Grogan Industries.» Gettò indietro la testa e sbuffò, esasperata. «E sai qual è la cosa veramente paradossale? Il profitto, che è stato la spinta principale per lo sviluppo del super riso, porterà alla scoperta della cura. Non si fanno i soldi trovando la cura per una malattia sconosciuta e fuori moda, ma immagina quanto renderà il fatto di poter debellare un virus che minaccia la vita di metà della popolazione mondiale!» Margaret fissò Li Yan cercando sul suo volto un segno di partecipazione alla sua eccitazione, alle sue speranze. Li Yan, però, sembrava lontanissimo, ma alla fine tornò al presente e la guardò. «Le Grogan, Pang e tutti gli altri non devono farla franca.» E rivide l'immagine dello zio Yifu trafitto dalla spada. «No» approvò lei. Lui la fissò per qualche minuto. «Ti amo, signora americana.» Le sembrò che il cuore le fosse finito in gola. «Anch'io ti amo, uomo cinese» gli sussurrò.
E si abbracciarono a lungo sulla cuccetta del vagone letto abbandonato di quella città industriale del nord della Cina, contemplando per la prima volta la speranza di un futuro insieme. 2 Yongli tornò nel tardo pomeriggio. Li e Margaret avevano mangiato parte della frutta che Lotus aveva messo nel borsone e poi avevano parlato a lungo. Lei gli aveva raccontato la sua infanzia nell'Illinois settentrionale, le estati nel New England, quel giorno in cui il nonno aveva avuto l'ictus e il fratello era annegato nel lago. Lui le aveva parlato della sua infanzia nel Sichuan, degli orrori di diventare adulto durante la Rivoluzione culturale, della perdita della madre. Avevano tante cose da raccontarsi e non sapevano quanto tempo restasse loro. Videro Yongli correre sui binari arrugginiti, guardandosi intorno con circospezione, seguito dalla sua ombra allungata. Lo sentirono salire sul treno e poi avanzare nel corridoio a passi pesanti. Quando raggiunse lo scompartimento, era affannato e tutto sudato. «È stato molto più difficile del previsto, ma mi sono procurato un mezzo di trasporto.» Estrasse dalla tasca alcuni pacchetti di sigarette e li buttò su una cuccetta. Margaret gli offrì dell'acqua minerale e lui la bevve avidamente. Si pulì la bocca con la manica e si lasciò cadere sulla cuccetta. «Mi è costato un occhio della testa. Non è un granché, ma dovrebbe farcela. Devo andarlo a prendere stasera, dopo le dieci.» Le dieci sembravano lontanissime. Il pomeriggio si trascinò faticosamente, venne la sera e le dieci erano ancora un traguardo distante. Il ritorno di Yongli aveva interrotto le confidenze tra Li e Margaret. Lei guardava spesso il cuoco, seduto in un angolo a fumare. Sicuramente Yongli si rendeva conto che la sua presenza costituiva un freno per loro. Era tetro e chiuso in sé, così diverso dal giovane brillante di quella notte allo Xanadu, quando aveva ingaggiato con lei un duello verbale a base di battute fulminanti. Ma, nonostante Margaret e Li avessero deciso che, tutto sommato, esisteva qualche speranza, lui sembrava sprofondato in una cupa depressione. E la foschia che avvolse Datong al calare del sole pareva riflettere lo stato d'animo generale. Due ore prima avevano visto gli operai della mattina di ritorno da qualche reparto, a nord, diretti verso casa, dove certo li aspettavano un pasto caldo, un bicchiere di birra e una serata rilassante davanti al televisore. Era ormai calata l'oscurità e si vedeva solo la debole
luminescenza dei lampioni lontani. Poco dopo le nove e mezza, Yongli si alzò. «Vado a prendere il nostro veicolo. Ci vediamo tra mezz'ora fuori dal cancello.» E, senza dire altro, scomparve rapido nell'oscurità. Margaret guardò Li preoccupata. «Starà bene?» «Non lo so.» Di solito non c'era modo di farlo tacere o di interrompere le sue battute scherzose. Ma, a dire il vero, ora non c'era molto da dire, né da scherzare. Se li avessero presi, Yongli avrebbe potuto essere condannato a morte. Molto probabilmente, a Pechino lo stavano cercando; tutti sapevano che era un grande amico di Li. Tuttavia Li Yan era sconcertato dall'atteggiamento di Yongli, molto strano per lui. Guardò Margaret. «Detesto lasciare un amico nei pasticci.» Poco dopo le dieci scesero dal vagone e si incamminarono con prudenza lungo i binari. Sentirono in lontananza un treno in arrivo e ne videro le nuvole di vapore e il fumo. Un fischio ripetuto lacerò l'oscurità. Li prese per il braccio Margaret e la condusse in fretta in un piccolo spiazzo tra gli scambi; si accovacciarono mentre il treno passava e si dirigeva in stazione. Poi attraversarono correndo i binari e raggiunsero il grande cancello di ferro. Li Yan gettò un'occhiata sulla strada. Era silenziosa, eccezion fatta per lo sporadico passaggio di qualche camion. Una leggera nebbia aleggiava intorno ai lampioni e l'aria si era fatta più umida e fredda. «Aspetteremo al riparo del muro» disse Li. Si acquattarono e scrutarono la strada attraverso il cancello mezzo aperto. Alle dieci e mezza, ancora nessun segno di Yongli. Li e Margaret cominciarono a innervosirsi. «E se l'avessero preso? Non potremmo saperlo e staremmo qui ad aspettare inutilmente. E se parla...» Margaret era nervosa. «Non parlerà» l'interruppe lui deciso, ma era preoccupato, e lei avvertiva la tensione nella sua voce. Passarono altri dieci minuti. Le luci di un veicolo si avvicinarono lentamente lungo il marciapiede. Li Yan e Margaret si appiattirono ulteriormente contro il muro e, mentre il mezzo si avvicinava e il fascio di luce si spostava, Li Yan si sporse per dargli un'occhiata. Si ritrasse immediatamente. «La polizia!» Quando il rumore del motore si allontanò, Li arrischiò un'altra occhiata. Era un'autopattuglia che percorreva lentamente la strada. «Pensi che stiano cercando noi?» sussurrò Margaret. «No, se sapessero che siamo qui, andrebbero a colpo sicuro.»
Dopo altri dieci lunghissimi minuti, un vecchio furgone avanzò sferragliando nella loro direzione e si fermò davanti al cancello con un forte stridore di freni. Attraverso il finestrino aperto, Yongli fece loro segno di salire. Li prese Margaret per mano; attraversarono di corsa il marciapiede e si sedettero a bordo del veicolo. «Ma dove diavolo sei stato finora?» L'altro fece un gesto sconsolato. «Non c'era un goccio di benzina. Il tipo mi ha svenato per vendermene una tanica e abbiamo dovuto fare una deviazione per andarla a prendere. Ho altre taniche, dietro. Siamo d'accordo che se mi beccano, lui dirà che il furgone gliel'hanno rubato.» Ingranò rumorosamente la prima e il veicolo si allontanò sobbalzando dal marciapiede. «Tutto bene?» chiese Margaret ansiosa. «Solo un piccolo problema di carburante» la rassicurò Li. Yongli estrasse la mappa da sotto la camicia e la porse all'amico. «Guidami tu.» Accesa la luce di cortesia, Li Yan diede una rapida occhiata alla vecchia mappa. «C'è solo una strada: quella per Erhlien.» «Allora controlla che andiamo nella direzione giusta.» In Yongli l'umore nero aveva lasciato il posto a una forte agitazione. Era nervosissimo, quasi isterico. Lanciò un pacchetto di sigarette a Margaret. «Accendimene una.» Lei lo passò a Li, che accese due sigarette e ne porse una all'amico. Il guidatore ingranò la quarta e il furgone accelerò, dirigendosi verso nord parallelamente alla linea ferroviaria, verso le ampie distese della Mongolia Interna e i territori settentrionali del deserto del Gobi. Con un certo sollievo, si lasciarono alle spalle le luci della città. La strada passava in mezzo alle colline che segnavano il limite estremo della provincia dello Shanxi, e fiancheggiava i resti di un enorme muro diroccato che si stendeva, apparentemente senza fine, verso est e verso ovest. «La Grande Muraglia» spiegò Li a Margaret. Ma non sembrava poi tanto imponente in quel punto, dove l'avevano lasciata andare in rovina ed era poco più di un mucchio di pietre. La strada costeggiò la Grande Muraglia per un tratto, poi piegò di nuovo verso nord lasciandosi alle spalle le colline e penetrando in vaste distese aperte. 3 Quasi cinquecento chilometri li separavano dal confine con la Mongolia, un tempo chiamata Mongolia Esterna per le sue relazioni con il Paese Cen-
trale. Avevano previsto di metterci poco più di sei ore: Yongli li avrebbe lasciati il più vicino possibile al confine, che avrebbero attraversato con il favore del buio. Ma non avevano considerato l'eventualità della foratura di uno pneumatico dopo sole tre ore di viaggio né l'assenza del cric sul furgone. Innervosito, Yongli cominciò a prendere a calci la ruota. Avrebbe dovuto controllare l'attrezzatura del furgone prima di partire. C'era una chiave per svitare i bulloni, ma nulla per sollevare il veicolo e togliere la ruota. La ruota di scorta c'era, intatta e ben gonfia. Il furgone stava tutto inclinato a sinistra sulla strada. La luce della luna scintillava in lontananza sopra la sterminata distesa delle praterie. L'unico rumore era il sibilo del vento che muoveva l'erba, accarezzava la pelle e portava con sé il dolce profumo dei fiori selvatici. Come un'immensa cupola, l'ampio cielo nero era trapunto di stelle; la luna era un luminoso globo argenteo. Davanti e dietro di loro, la strada si snodava a perdita d'occhio. Erano appiedati, totalmente allo scoperto, senza un posto in cui andare o nascondersi. Yongli era fuori di sé dalla rabbia e se la prendeva con se stesso. «È una situazione disperata, è tutta colpa mia» ripeteva. Margaret cominciava a non poterne più di lui. Li effettuò un'ispezione del veicolo guardando ovunque: sotto i sedili, dentro il cofano (nel caso in cui il cric fosse fissato all'interno del vano motore), sotto il portellone posteriore. Ma non trovò nulla. Si mise a fumare pensieroso, seduto sul ciglio della strada, con lo sguardo perso in lontananza. Da quando avevano forato, aveva detto poche parole. Margaret ebbe un'idea. «Dov'è la linea ferroviaria? L'abbiamo costeggiata per quasi tutto il viaggio.» «Là.» Li Yan indicò a destra, ma lei non riuscì a vedere nulla. «Magari ci sono delle vecchie traversine o dei pezzi di rotaia che potremmo usare per sollevare il furgone.» Li Yan balzò in piedi. «Hai ragione.» E, rivolto a Yongli: «Tu va' a sud, noi andremo a nord. Se non trovi niente entro un'ora, torna indietro». Yongli annuì incamminandosi lentamente verso la linea ferroviaria. «Tu resti qui?» chiese Li Yan a Margaret. «No, vengo con te» rispose lei. Si avviarono di corsa lungo la ferrovia, ma quasi subito la loro andatura si ridusse a una camminata rapida. Margaret faticava a stare dietro al suo compagno sul terreno irregolare. Non parlavano molto per non sprecare il
fiato. In un'ora percorsero più di dieci chilometri, ma non trovarono nulla. Erano scoraggiati: avevano già perso molto tempo e ne avrebbero perso altro per tornare indietro. Sapevano bene che, se non fossero riusciti a riparare il furgone prima che facesse giorno, sarebbero stati certamente notati e denunciati. E poi sarebbe stata solo questione di ore prima che la polizia li prendesse. Li Yan si girò, avvilito, e si avviò nella direzione da cui erano venuti. Margaret l'afferrò per un braccio e lo fece fermare. Rimasero per un istante a guardarsi negli occhi, uniti dalla stessa disperazione. Poi lui l'attirò a sé e l'abbracciò. Si baciarono: un bacio lungo e disperato, colmo di passione e di sofferenza, che li lasciò pieni di un desiderio che non potevano soddisfare. Non lì, non in quel momento. Giunti al furgone, trovarono Yongli rabbioso e frustrato. «Dove diavolo siete stati? Ho trovato un'intera catasta di traversine a circa un chilometro e mezzo da qui, lungo la ferrovia. Sono tornato di corsa indietro urlando per avvisarvi.» «Mi dispiace, non ti abbiamo sentito» si scusò Li Yan. «Accidenti! Abbiamo sprecato quasi due ore!» «Be', non sprechiamone ancora» disse Li Yan, seccato. Sicuramente era una sfortuna ma, in fin dei conti, non era colpa di nessuno e l'atteggiamento di Yongli cominciava a dargli sui nervi. Corsero verso il punto in cui si trovavano le traversine e lungo la strada Li ragguagliò Margaret sull'accaduto. Quando giunsero a destinazione, il poliziotto osservò la catasta. «Ci servono due traversine: una, messa per il lungo tra le ruote, servirà da punto di appoggio per l'altra.» «Sono troppo pesanti per un uomo solo» intervenne Yongli. «Ci ho già provato. Dovremo fare due viaggi.» Ci volle un'altra mezz'ora per portare le due traversine al furgone. Margaret si sentiva del tutto inutile. Quando i due uomini andarono a prendere la seconda traversina, rimase accanto al veicolo e cercò di allentare i bulloni. Era più difficile di quanto pensasse: erano avvitati con forza. Il primo mezzo giro dei bulloni, accompagnato da un acuto stridore, le sembrò una grande conquista. Quando i due tornarono con l'altra traversina, Margaret era riuscita ad allentare tutti i bulloni, a sbucciarsi una gamba ed era fradicia di sudore. Ma non si lamentò. Il resto dell'operazione si rivelò piuttosto semplice. La seconda traversina fu sistemata perpendicolarmente alla prima, con l'estremità più vicina appoggiata in corrispondenza del punto di attacco del cric. Li e Margaret
fecero leva con tutto il loro peso sull'altra estremità riuscendo a sollevare la parte posteriore del furgone di diversi centimetri, mentre Yongli sfilava la gomma bucata e la sostituiva con quella di scorta. Abbassarono il furgone e Yongli finì di stringere i bulloni. Avevano perso più di tre ore e a oriente si cominciava a vedere il primo chiarore dell'alba. Yongli sembrava sull'orlo di una crisi di panico. «Andiamo!» gridò saltando al posto di guida, ma Li restò dov'era, ansante, con la faccia tutta sporca e sudata. «Quando raggiungeremo il confine sarà ormai pieno giorno. Dobbiamo cercare un posto in cui nasconderci in attesa della notte.» «Merda!» Yongli diede un calcio alla ruota, frustrato. CAPITOLO QUATTORDICESIMO Domenica 1 Il sole sorse sull'orizzonte lontano. Quell'alba nel deserto era di una bellezza strana e desolata; la luce del sole tingeva di giallo l'erba ondeggiante al vento, che scompigliava i lunghi steli come una mano invisibile. Il furgone procedeva sferragliando verso nord, sollevando una nuvola di polvere fine. La strada tagliava le alte praterie, diritta e senza curve, puntando verso le montagne e i deserti della Mongolia. In tutta la notte non avevano incrociato altri veicoli. Attraversarono due piccoli villaggi: linde casette di mattoni e aiuole ordinate, strade fiancheggiate da giovani alberi. Non c'erano segni di vita, ma era ancora presto: non erano nemmeno le sei. Un'ora dopo iniziarono a profilarsi gli alti edifici di una cittadina. Ora il sole era alto in cielo e dentro il furgone cominciava a fare caldo. Li Yan dormiva, appoggiato alla portiera, Margaret sedeva tra i due uomini con lo sguardo fisso in lontananza, persa in una nebbia indistinta di pensieri, ricordi e rimpianti. Yongli prese la mappa dal cruscotto e le diede un'occhiata. Quella città doveva essere Erhlien, a un paio di chilometri dal confine. Yongli tirò un sospiro di sollievo: avevano aumentato la velocità e il loro ritardo si era ridotto a due ore. «Possiamo fermarci?» chiese Margaret, quando furono più vicini al centro abitato. «Perché?»
«Devo andare in bagno.» Per la prima volta in quasi tre giorni l'uomo rise, sinceramente divertito. «Ma non è il momento di farsi il bagno.» Anche lei rise. «Devo andare in gabinetto.» Si toccò la pancia con aria afflitta. «Ho i crampi, probabilmente per tutta la frutta che abbiamo mangiato ieri. Mi fermerei anche sul ciglio della strada, ma non vedo cespugli.» Era un po' imbarazzata. «Va bene, cercherò un posto dove fermarmi.» Quando entrarono a Erhlien, Li dormiva ancora. Era una cittadina linda e pulita, con l'ufficio postale, un grande albergo, una fabbrica di camicie, un grande capannone ferroviario e file di basse case di mattoni con tetti di tegole. La popolazione era già intenta alle faccende quotidiane; visi squadrati di mongoli, con gli zigomi alti e la pelle abbronzata e tesa come cuoio. Un gruppo di operai stava dipingendo uno steccato; quando il furgone si fermò davanti all'albergo si interruppero osservandoli incuriositi. «Là dovresti trovare quello che ti serve.» Yongli scese per far uscire Margaret senza disturbare Li. Alcuni scolari, con le facce pulite e le camicie immacolate, restarono a bocca aperta vedendo quella yangguizi bionda con gli occhi azzurri attraversare la strada ed entrare nell'albergo. Dalla strada si levò un mormorio di eccitazione. Yongli guardò l'amico addormentato nella cabina, esitò un istante, poi rientrò nel furgone. Qualche minuto dopo, Margaret riemerse dall'albergo sistemandosi la borsa a tracolla. Sulla strada si era raccolta una piccola folla; la voce dell'arrivo di una straniera si era diffusa rapidamente. Di solito, l'unico evento che interrompeva la monotonia della vita della cittadina era l'arrivo, due volte al giorno, del treno dalla Mongolia. Invece questo era un evento rarissimo, da non perdere assolutamente. Altre persone giunsero correndo dalla strada per unirsi alla folla in attesa di dare un'occhiata a quella grande novità. Margaret si fermò sui gradini, presa alla sprovvista; non sapeva che cosa fare. Sorrise nervosa, ma i volti che la fissavano erano impassibili. «Ni hau» disse e, con suo grande stupore, quelle parole furono accolte da un applauso spontaneo. Svegliatosi di colpo, Li si mise a sedere sbattendo rapidamente le palpebre e cercando di capire dove fosse. «Che diavolo sta succedendo?» «Aveva bisogno di un bagno.». Li Yan aggrottò le sopracciglia, confuso. «Di un gabinetto» precisò Yongli. Li guardò la folla. «Santo cielo! È proprio l'ultima cosa di cui abbiamo
bisogno!» Margaret attraversò la strada di corsa e Yongli scese dal furgone per farla entrare. «Ma che diavolo fai?» l'aggredì Li. Quelle parole colpirono Margaret come uno schiaffo. «Dovevo andare al gabinetto» si difese, ferita dal tono di Li Yan. «E, secondo te, quanto tempo ci vorrà prima che la polizia venga a sapere che in albergo è entrata una straniera bionda? Adesso sanno dove siamo. Non possiamo aspettare la notte: dobbiamo attraversare il confine al più presto.» Margaret sedeva silenziosa e rossa in viso; ferita da quei rimproveri, cercava una giustificazione. Yongli intervenne in sua difesa. «Lasciala stare. Avrebbe creato molto più scompiglio accovacciandosi sul ciglio della strada.» Gli buttò la mappa. «La strada principale attraversa il confine un paio di chilometri a nord di qui. Dovrebbe esserci una specie di posto di confine, ma se prendiamo la strada secondaria verso ovest...» la indicò con il dito «...probabilmente possiamo avvicinarci abbastanza al confine e valutare la situazione prima di tentare di attraversarlo.» Li Yan esaminò il percorso indicato dall'amico; gli sembrava ragionevole. «Va bene.» Mentre uscivano dalla cittadina, diretti a ovest su una strada che era poco più di un sentiero sterrato, Li lanciò un'occhiata a Margaret: voleva scusarsi, ma non sapeva come fare. Lei evitò il suo sguardo con decisione; si sentiva in colpa, si vergognava di sé ed era furiosa con se stessa per averli messi in pericolo in modo tanto irresponsabile. Sentì la mano di Li cercare la sua e darle una leggera stretta. Gliela strinse; avrebbe voluto baciarlo, stringerlo e chiedergli perdono, ma non lo fece. Rimase ferma al suo posto guardando davanti a sé, attraverso il parabrezza, l'immenso nulla che si stendeva davanti a loro. Si erano lasciati Erhlien alle spalle, in una foschia scintillante. La polvere sollevata dal furgone, spinta dal vento, riduceva la visibilità. Yongli si accese una sigaretta e lei notò che gli tremavano le mani. «Tutto bene?» gli chiese. «Certo» rispose lui, senza guardarla. Era pallido come uno spettro. Improvvisamente, in mezzo al polverone della strada, si intravide una sagoma scura. «Che cavolo è?» Li si raddrizzò e Yongli schiacciò il pedale del freno; il furgone sbandò e infine si fermò. Il motore si spense e calò un silenzio quasi magico, interrotto solo dal vento che soffiava tra l'erba. Sedevano immobili senza parlare; la nuvola di polvere si diradò e videro una Merce-
des nera, davanti a loro, a circa venti metri. Dentro c'era un uomo solo e il suo profilo si stagliava contro l'immensità del cielo. «Chi è?» chiese Margaret sottovoce, come se l'occupante dell'altro veicolo potesse sentirla. «Non lo so.» Ma Li ebbe un terribile presentimento: conosceva quell'uomo. Yongli gettò via la sigaretta con dita tremanti. Dopo un minuto passato a fissarsi reciprocamente senza una parola né un movimento, il conducente della Mercedes aprì la portiera e scese. Non riuscivano ancora a distinguere i lineamenti del suo volto. Indossava un vestito scuro, la camicia bianca e la cravatta e si incamminò verso il furgone con molta calma. Li, con i muscoli tesi allo spasimo, guardava attraverso il parabrezza polveroso cercando di dare un nome al volto dell'uomo che si avvicinava. «Merda!» sibilò a un tratto. «Che cosa?» Ora Margaret era terrorizzata. «È Johnny Ren.» L'uomo si fermò come se avesse sentito, estrasse un pacchetto di Marlboro e si accese una sigaretta. Poi riprese a camminare mentre il vento portava lontano il fumo. Li Yan frugò sotto la giacca in cerca del revolver dello zio. Si sentì gelare il sangue: l'arma non c'era, la fondina era vuota. Si girò lentamente e vide Yongli puntargliela contro. Margaret sedeva impietrita in mezzo a loro, senza osare il minimo movimento. Non capiva che cosa stesse accadendo, né perché. «Dicevano che l'avrebbero uccisa.» Una lacrima scorreva solitaria sulla guancia di Yongli. Desiderava con tutte le sue forze che l'amico lo capisse, che comprendesse la sua giustificazione. «Avevi detto che l'avresti aiutata, ma sapevo che non era vero, e avevo ragione. Sono venuti da me quel giorno. Avevo solo due possibilità: Lotus o te. Se non avessi accettato, lei sarebbe ancora dentro, chissà dove. E, tra una settimana o un mese, le avrebbero conficcato una pallottola nel cranio.» Li Yan avrebbe dovuto capire, non avrebbe potuto fare altro. «Non avevo scelta: io l'amo.» Adesso il volto di Yongli era rigato di lacrime. «Perdonami, Li Yan.» Johnny Ren si accostò al furgone e puntò la pistola contro Li Yan. «Esci!» Aveva un grosso cerotto rosa sulla fronte. Era nervoso e aveva gli occhi cerchiati e guardinghi. Li rivide la faccia che incombeva su di lui nel parco, sotto la pioggia, quegli occhi freddi, il pugno di acciaio che aveva colpito tante volte la sua faccia. E così avevano vinto. Si sentì nauseato:
perché tutti quei morti? Per rimandare l'esecuzione dei dirigenti terrorizzati delle Grogan Industries, per Pang e per la sua sconfinata ambizione. Forse anche per cercare una cura che potesse toglierli dai pasticci. Scese dal furgone sulla strada polverosa, sopraffatto da una cupa disperazione al pensiero che nessuno avrebbe mai saputo ciò che aveva scoperto insieme a Margaret. Quegli uomini avidi e colpevoli sarebbero sfuggiti alla giustizia. Ren fece un cenno a Margaret con la pistola e anche lei scese. Li Yan sperava che almeno lei potesse andarsene senza dolore, aveva già sofferto abbastanza nella vita. La guardò, ma lei fissava Ren con occhi strani, selvaggi; l'azzurro chiaro dell'iride era di una freddezza quasi glaciale. Yongli passò davanti al furgone, la mano che teneva il revolver abbandonata lungo il fianco. Non riusciva a guardare l'amico negli occhi. Johnny Ren allungò una mano. «Dammi la pistola» gli ordinò senza distogliere gli occhi da Li. Ubbidiente, quello gliela mise in mano. Il killer la soppesò un attimo, come per misurarne il valore, poi alzò il cane, girò la testa e sparò due colpi al petto di Yongli. Li e Margaret rimasero impietriti. Qualche istante prima il viso di Yongli era bagnato di lacrime di dolore e colpa. Ora quelle lacrime si stavano asciugando nel vento che gli arruffava i capelli mentre giaceva morto nella polvere e una macchia di sangue si allargava intorno a lui. Johnny Ren spostò lo sguardo su Margaret, incontrando quegli occhi che non lo avevano lasciato un istante e rimase per un attimo sconcertato. Poi sorrise e diede un colpetto al cerotto sulla fronte. «Un colpo fortunato nell'oscurità: fortunato per me, sfortunato per te.» I suoi occhi si spostarono su Li. «Addio.» Li avvertì l'impatto fisico del colpo e guardò incredulo il rivolo di sangue scorrere dal piccolo foro comparso in mezzo alla fronte di Ren. Il killer aveva un'espressione di assoluta sorpresa mentre piegava le gambe e crollava con la faccia a terra. Li si girò e vide la pistola di McCord tremare nella mano di Margaret. Il vento continuava a soffiare, piegando l'erba alta e sussurrando instancabile attraverso quegli spazi vuoti. Sembrava l'unico suono del mondo. Margaret rimase a lungo in silenzio a fissare Li che perquisiva accuratamente la Mercedes alla ricerca di prove. Non sapeva assolutamente che cosa cercasse né perché. Sospettava che volesse tenersi occupato per non pensare al tradimento dell'amico, per cacciare il senso di colpa e il rimpianto. Non si erano scambiati una parola da quando lui le aveva delicatamente tolto di mano la pistola, l'aveva abbracciata e le aveva detto di a-
spettarlo nella cabina del furgone. Margaret aveva ubbidito senza pensarci, né fare domande. Non aveva mai fatto del male a un suo simile e lo shock era maggiore di quanto immaginasse. Adesso si sentiva intorpidita, ma sapeva che il dolore vero sarebbe venuto dopo. Li emerse dalla Mercedes tenendo in mano un oggetto scuro non molto più grande di un pacchetto di sigarette. Premette un tasto e rimase in ascolto. Margaret ci mise qualche istante a capire che cosa fosse; scese subito dal furgone e corse verso la macchina. Ansimando, strappò di mano a Li l'oggetto e controllò il display. «C'è il segnale.» «Sì, ma la batteria è quasi scarica.» «Chi chiamiamo?» E, in quel momento, vide il cavetto nella mano dell'uomo e, dietro di lui, sul sedile posteriore dell'auto, il computer di Johnny Ren. Restituì il telefono a Li e si sedette nell'auto, si sistemò il portatile sulle ginocchia e, dopo averlo aperto, attese alcuni lunghissimi istanti per il caricamento del sistema operativo, poi vide apparire sullo schermo le icone dei vari programmi. Quasi non osava guardare... ma eccola lì: l'icona di Internet Explorer! «Gesù...» Guardò la faccia perplessa di lui, che la osservava dal finestrino. «Non abbiamo bisogno di chiamare nessuno. Basta andare in rete; possiamo mettere tutta questa stramaledetta storia su Internet e tutto il mondo saprà delle Grogan Industries, di Pang e dell'RXV.» Li comprese subito le implicazioni di quelle parole e le chiese ansiosamente: «Ma tu sai come fare?». «Credo di sì.» Premette alcuni tasti e aprì un documento vuoto su cui scrivere l'intera storia. «È pazzesco» mormorò con un lampo di eccitazione nello sguardo. «Siamo lontanissimi da tutto e da tutti...» guardò la distesa infinita di erba, «... e possiamo parlare con tutti, nel mondo, con milioni di persone contemporaneamente.» Il computer emise un bip e Margaret si bloccò. Li mise la testa dentro l'abitacolo, preoccupato dalla delusione che le era comparsa sul volto. «C'è qualcosa che non va?» «Anche questa batteria è quasi scarica.» Un messaggio sullo schermo la informava che le rimanevano meno di quindici minuti di attività. «Ma come faccio a spiegare tutto in un quarto d'ora?» Iniziò a battere furiosamente sulla tastiera. Lui non poteva fare altro che guardare e aspettare, ansioso e frustrato. Girò intorno all'auto evitando di guardare verso il furgone. Non poteva pensare a Yongli e, tanto meno, vederne il corpo disteso a terra. Il ticchet-
tio incessante dei tasti del computer si mescolava al lieve gemito del vento. Attraverso il parabrezza osservava Margaret concentrata e tesa. Sentì il computer emettere un altro bip e scorse la disperazione della donna. «Gesù, abbiamo meno di cinque minuti! Devo andare in rete! Dammi il telefonino.» La sua voce era acuta e stridula. Lui girò rapidamente intorno all'auto e le tese il telefono. Margaret attivò rapidamente il collegamento a Internet. L'uomo guardò con soggezione le dita di Margaret scorrere rapide sui tasti, lo sguardo passare velocemente dalla tastiera allo schermo, le labbra di tanto in tanto distorte in una smorfia. A un certo punto Margaret lanciò un piccolo grido di disappunto: il computer si era spento. Si appoggiò contro il sedile e chiuse gli occhi. «Allora?» Li Yan non era sicuro di voler sentire la risposta. Margaret aprì lentamente gli occhi e lo guardò. «L'ho spedito ai siti web, nelle aree messaggi nelle varie bacheche elettroniche e agli indirizzi e-mail che mi ricordavo. Adesso sta facendo il giro del mondo, Li Yan. Non è più un segreto solo nostro.» Lo steccato che segnava il confine si stendeva a perdita d'occhio verso oriente e occidente. Al di là di esso, c'erano la Mongolia e, a qualche chilometro, la città di Dzamin Uüd, da cui sarebbe stato possibile prendere un treno per Ulan Bator. Margaret e Li Yan si fermarono su un leggero pendio e osservarono l'immensa distesa che li circondava. Insieme alla Mercedes, al furgone e ai cadaveri, si erano lasciati alle spalle l'euforia di essere riusciti a condividere il loro segreto con il mondo e adesso si trovavano davanti a un futuro di cupa incertezza. Li Yan guardò dietro di sé. Lontano, a sud, si stendeva la Cina in tutta la sua immensa diversità, la sua patria, il suo paese. In questi ultimi momenti, mentre si allontanavano, il suo cuore si faceva sempre più pesante di amaro rimpianto. Si sentiva osservato dagli occhi degli antenati, che lo fissavano attraverso cinque millenni. Aveva una responsabilità nei loro confronti, oltre che verso il suo paese e nei confronti del giuramento prestato quando era entrato nella polizia. Non poteva semplicemente andarsene. Margaret aveva raccontato la loro storia al mondo, ma lui aveva degli affari da sbrigare in Cina. Guardò Margaret: aveva il viso rigato di sudore e di lacrime, gli occhi affaticati dalla stanchezza e dalla visione della morte. Le appoggiò una mano sulla guancia: era fresca e liscia. Desiderò con tutto il cuore che le
cose fossero andate diversamente. Prese un pacco di banconote dalla tasca posteriore dei pantaloni e glielo mise in mano. «Accetteranno i dollari, li accettano dovunque.» E guardò, dietro di lei, le distese desolate della Mongolia. «Dzamin Uüd è a pochi chilometri. Ce la farai da sola?» Lei prese i dollari senza sorprendersi e annuì. Sapeva che non sarebbe andato a Ulan Bator con lei. Glielo aveva letto negli occhi, l'aveva sentito in quella carezza. E sapeva anche perché, lo capiva; al suo posto si sarebbe comportata nello stesso modo. «Ti amerò sempre» gli disse. Lui non riusciva a guardarla negli occhi. Come spiegarle quanto fosse difficile per lui? Le prese le mani e si costrinse a guardarla. «Anche se troveranno una cura, che razza di esistenza sarebbe la mia, in un paese straniero, in fuga dalla mia stessa gente?» «Lo so.» Cercò il suo sguardo per trovarvi comprensione, ma vi scorse solo il riflesso del proprio dolore. «Devo tornare indietro per difendere il mio nome, per dissipare le menzogne. Se non lo facessi, nessuno mi crederebbe.» «Lo so.» «Lo devo a mio zio, lo devo a me stesso.» Sapeva che cosa significasse perderla; era la cosa più difficile che gli fosse toccato fare nella vita. «Margaret...» «Va'» disse lei, mordendosi le labbra per non piangere. Rimasero un momento in silenzio, l'uno di fronte all'altra. Il vento gonfiava i loro vestiti e scompigliava i capelli di Margaret che scintillavano dorati al sole come un vessillo di libertà. Li Yan si chinò a baciarla e la strinse in un abbraccio lungo e disperato. Alla fine, si staccarono, un po' alla volta, dolorosamente. Lui si girò e, senza dire una parola, ritornò sui suoi passi in mezzo al mare di erba ondeggiante nel vento. In lontananza, vedeva due macchie scure, il furgone e la Mercedes, gli unici punti di interruzione della linea dell'orizzonte che tagliava l'immensità del cielo blu. Il suo amico e il suo nemico giacevano là, morti. Il suo amore era dietro di lui. Davanti a lui, solo incertezza. Si aspettava di sentire la voce di Margaret che lo chiamava: si sarebbe voltato e lei gli sarebbe corsa incontro per dirgli che lo avrebbe accompagnato. Ma Margaret non lo chiamò. Lui sapeva che, se si fosse girato, non avrebbe più avuto la forza di andarsene, di lasciarla sola ad affrontare uno scomodo viaggio attraverso un paese sconosciuto e ostile. Eppure, l'impul-
so di voltarsi era quasi irresistibile. Sapeva che lei era là, sul pendio, e lo guardava allontanarsi. Sbirciò al di sopra della spalla destra con un movimento del tutto involontario, solo un'ultima occhiata. Ma lei se ne era andata, lontana dalla vista, diretta verso lo steccato, risoluta, determinata a non mostrarsi debole. Poteva quasi vedere la sua mascella decisa. Poi senti un fischio ripetuto, si girò a sinistra e vide Margaret che camminava accanto a lui. «Ma pensavi davvero che ti avrei lasciato andare? Ho sempre desiderato vedere com'è fatta dentro una prigione cinese» gli disse sorridendo. Poi lo prese per un braccio, costringendolo a fermarsi. Si era fatta seria. «Qualsiasi cosa il futuro ci riservi, l'affronteremo insieme.» Epilogo REUTERS, DOMENICA 21 GIUGNO WASHINGTON, D.C. «MEDICO STATUNITENSE ANNUNCIA LA SCOPERTA DI UN NUOVO VIRUS» L'esistenza di un nuovo virus mortale che ha forse infettato metà della popolazione mondiale è stata rivelata la scorsa notte, su Internet, da un medico americano che lavora nella Repubblica Popolare Cinese. La dottoressa Margaret Campbell, un medico legale di Chicago, sostiene che questo virus, chiamato RXV, è comparso in seguito a una mutazione avvenuta durante lo sviluppo del super riso mediante tecniche di ingegneria genetica. Il nuovo riso, introdotto tre anni fa nella Repubblica Popolare Cinese, ha permesso di aumentare fino al cento per cento i raccolti e ha reso la Cina un importante paese esportatore. Il super riso è stato messo a punto, dopo cinque anni di ricerche, dalle Grogan Industries, una società avente sede negli Stati Uniti. Un portavoce delle Grogan Industries ha rifiutato di commentare la storia che è apparsa su una dozzina di siti Internet sabato a tarda notte. La società viene accusata di essere ricorsa addirittura all'omicidio per cercare di nascondere la scoperta del virus. La dottoressa Campbell, che descrive il virus come molto simile a quello dell'AIDS, ma più pericoloso, afferma che l'RXV viene ingerito insieme al riso e può restare silente nel corpo anche per cinque anni prima di attaccare e distruggere il sistema immunitario. Sostiene che il mondo potrebbe tro-
varsi a meno di due anni da una catastrofe senza precedenti nella storia dell'umanità. Finora non si sono registrate reazioni ufficiali da parte del governo di Pechino. REUTERS, MARTEDÌ 23 GIUGNO PECHINO, REPUBBLICA POPOLARE CINESE «ARRESTATO MEMBRO DEL POLITBURO» Oggi tra il personale diplomatico statunitense di stanza qui a Pechino sono circolate voci insistenti secondo cui Pang Xiaosheng, l'uomo nuovo che gli osservatori cinesi indicavano come il futuro leader della Repubblica Popolare Cinese, sarebbe stato arrestato con l'accusa di corruzione e omicidio. Si pensa che Pang, importante membro del Politburo, sia stato arrestato in seguito a un'indagine su ampia scala riguardante una serie di omicidi commessi recentemente nella capitale cinese. Tuttavia, le autorità hanno rifiutato di fare qualsiasi commento e da molte parti si ipotizza che il presunto arresto di Pang sia da collegarsi a quello di cinque funzionari della società internazionale di biotecnologie Grogan Industries che lavoravano a Pechino. Pang, ex ministro dell'Agricoltura, era uno dei principali sostenitori del progetto del super riso sviluppato in Cina con tecniche di ingegneria genetica dalle Grogan Industries negli anni Novanta. Le voci secondo cui il riso modificato geneticamente sia portatore di un virus letale che potrebbe aver infettato metà della popolazione mondiale hanno diffuso il panico in Cina e suscitato preoccupazione nella comunità internazionale. REUTERS, MARTEDÌ 23 GIUGNO PECHINO, REPUBBLICA POPOLARE CINESE «ALTO MAGISTRATO CINESE ACCUSATO DI CORRUZIONE» Il viceprocuratore generale Zeng Hsun, numero due del sistema giudiziario di Pechino, è stato arrestato oggi con l'accusa di corruzione. Zeng, che occupa una carica equivalente a quella di viceprocuratore distrettuale negli Stati Uniti, dovrà affrontare un processo a porte chiuse che
si terrà entro tre settimane e, se giudicato colpevole, verrà condannato a morte. Non è stata resa pubblica la natura delle accuse che gli sono state mosse. REUTERS, MERCOLEDÌ 24 GIUGNO PECHINO, REPUBBLICA POPOLARE CINESE «LA CINA SI APPELLA ALL'OMS» Il governo cinese si è appellato oggi all'Organizzazione Mondiale della Sanità chiedendo aiuto per affrontare la lotta contro l'RXV, il virus presente nel riso sottoposto a modificazioni genetiche che, secondo quanto sostengono alcuni, nei prossimi due-cinque anni potrebbe spazzare via metà della popolazione mondiale. Un'équipe internazionale di medici esperti organizzata dall'OMS nelle ultime quarantott'ore dovrebbe partire immediatamente per Pechino. Le autorità cinesi hanno garantito l'accesso senza alcuna restrizione ai risultati del lavoro di ricerca condotto nel paese durante lo sviluppo del cosiddetto super riso. Dato che il numero dei cinesi infettati dal virus supera il miliardo, lo studio e la messa a punto di una cura saranno una corsa contro il tempo. Si prevede che i primi sintomi della malattia letale possano comparire entro due anni. REUTERS, GIOVEDÌ 25 GIUGNO LOS ANGELES, CALIFORNIA «SOCIETÀ STATUNITENSE OFFRE UNA SPERANZA PER LA LOTTA CONTRO L'RXV» Oggi la società di biotecnologie Grogan Industries, con sede in California, ha annunciato un investimento di cento milioni di dollari nella ricerca di una cura contro l'infezione da RXV. L'annuncio viene a sole ventiquattr'ore dalla condanna e dalla presa di distanza della società nei confronti dei suoi funzionari operanti in Cina e attualmente agli arresti a Pechino in attesa di essere sottoposti a processo per omicidio. Un portavoce delle Grogan Industries ha affermato: «La società, pur de-
clinando qualunque responsabilità per le azioni illegali compiute da alcuni funzionari operanti all'estero, si sente, tuttavia, moralmente obbligata a guidare la ricerca di una cura contro l'RXV». «A tal fine siamo pronti a investire cento milioni di dollari» ha poi aggiunto. Le Grogan Industries, presso cui operano alcuni insigni genetisti e virologi, si dichiarano fiduciose di poter compiere progressi decisivi nella ricerca di una cura nei due anni che, secondo il parere della maggior parte degli esperti, mancano alla piena manifestazione del virus. Secondo esperti economici, la cura dell'infezione da RXV assicurerà profitti per diversi miliardi di dollari alla società che potrà brevettarla. Ringraziamenti Pur essendo un'opera di fantasia, questo romanzo ha un'ambientazione autentica e un tema del tutto verosimile. La sua stesura ha richiesto moltissime ricerche per le quali mi è stato preziosissimo l'aiuto di persone che mi hanno dedicato il loro tempo e le loro capacità con una generosità di cui sarò loro sempre grato. Desidero quindi ringraziare il dottor Richard H. Ward, professore di Criminologia e rettore associato presso la University of Illinois, Chicago; Joe Cummins, professore emerito di Genetica presso la University of Western Ontario; Zhenxiong "Joe" Zhou dell'Office of International Criminal Justice, Chicago; il professor Dai Yisheng, ex direttore del IV Istituto Cinese per la Formulazione della Strategia della Polizia di Pechino; il professor He Jiahong, dottore in Scienze giuridiche e professore di Legge presso la Scuola di legge dell'Università popolare della Cina; il professor Yijun Pi, vicedirettore dell'Istituto di sociologia legale e studio della delinquenza minorile presso l'Università cinese di Legge e Scienze politiche; il professor Wang Dazhong, direttore del Dipartimento di investigazione criminale dell'Università Popolare di Pubblica Sicurezza; il signor Chen Jun, segretario generale del centro di produzione orientale film e TV di Pechino; il commissario di polizia Wu He Ping, ministero di Pubblica sicurezza di Pechino; il dottor Steven C. Campman, anatomopatologo associato presso la Northern California Forensic Pathology; il dottor Robert D. Cardiff, professore di anatomopatologia presso la Davis School of Medicine dell'Università della California; Kevin Sinclair, scrittore e giornalista del «South China Morning Post»; Liu Xu e sua madre Shimei Jiang che sono state le mie guide instancabili a Pechino.
Non posso concludere l'elenco dei riconoscimenti senza citare Internet, che ha fornito il maggior contributo al mio lavoro. Senza la Rete, non avrei potuto contattare molte delle persone che mi hanno aiutato e consigliato. E non avrei neppure potuto accedere così rapidamente e liberamente alle informazioni di cui avevo bisogno per costruire un'ambientazione dettagliata e autentica per la mia storia. FINE