Narrativa dai Paesi del Sud
Orlanda Amarilis SONCENTE Racconti d'oltremare Guaraldi-Aiep MELTING POT
Storie di donne
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Narrativa dai Paesi del Sud
Orlanda Amarilis SONCENTE Racconti d'oltremare Guaraldi-Aiep MELTING POT
Storie di donne
Collana a cura di Eleonora Forlani Maria Teresa Palazzolo
I primi tre racconti fanno parte della raccolta CAIS DO SONDRE SALAMANSA . I successivi tre di O ILHEU DOS PASSAROS . Gli ultimi tre di A CASA DOS MASTROS .
TE
Per l'edizione italiana: Copyright 1995 by (c) AIEP EDITORE s..n.c. Via Gino Giacomini, 86/a - 47031 Repubblica di San Marino tel. 0549/992389 - 992590 fax 990398 (c) GUARALDI GU..FO. EDIZIONI s.r.l. Via Covignano, 302 - 47037 Rimini tel. 0541/752218 fax 752102 ISBN 88-86051-37-9 Prima edizione: 1995 Tutti i diritti riservati Progetto grafico: G.D.G. Repubblica di San Marino
Traduzione di Maria Teresa Palazzolo
INDICE Introduzione Cais-do-Sodré Rolando di sora Concha
Salamansa Luísa figlia di Nica Canal Gelado Xanda Jack-piè-di-capra Bico-de-lacre Maira da Luz Note Nomi e cose di Capo Verde
INTRODUZIONE Per la prima volta, nella storia della letteratura capoverdiana, una scrittrice delle isole di Capo Verde viene tradotta in italiano: Orlanda Amarilis, per ora sconosciuta al pubblico italiano, sarà a disposizione negli scaffali delle librerie con i suoi racconti dedicati alla vita delle donne nel nostro arcipelago di Capo Verde. La comparsa di Orlanda Amarilis non è casuale. Come per le altre scrittrici del così detto 'terzo mondo', la sua presenza in Italia è dovuta alla sensibilità e alla curiosità che spinge persone come Maria Teresa Palazzolo ad andare oltre i propri abituali confini culturali, a scoprire altre realtà umane, altre culture, trasmettendole attraverso la traduzione di alcuni racconti dell'autrice. Ho sempre avuto una grande stima per questa nostra scrittrice. I motivi sono principalmente due: il primo è dovuto al fatto che fra gli scrittori capoverdiani (a parte Antònio Aurèlio Gonçalves), Amarilis è l'unico autore che dedica la maggior parte dei suoi scritti alle donne delle nostre isole. Il secondo è dovuto alla profonda sensibilità che rivela nel descrivere il nostro ambiente culturale, fino nei minimi dettagli. Mi ha colpito in particolare il linguaggio che utilizza sia per narrare che per far parlare i suoi protagonisti. È un linguaggio ricchissimo, non confondibile con altre realtà, unico e specifico di quel preciso contesto culturale. Ho letto più volte certe pagine, quelle che mi evocano un passato lontano, ma ancora presente. Quelle che profondamente mi coinvolgono e mi trasportano all'interno della narrazione. Quelle che al momento della lettura mi rimettono in stretto contatto con la mia gente. Perché le protagoniste di Amarilis, fortemente caratterizzate, non sono inventate. Esistono, le ho conosciute, si incontrano ancora a Capo Verde. I nomi, i tempi, i colori, la disperazione, la superstizione, i rumori, i suoni, i canti, avvolti nella speranza di una vita migliore che sfocia nella scelta obbligata dell'emigrazione, sono tutti elementi che costituiscono le giornate di molte donne nelle nostre isole. Sono donne vitali, coraggiose, anche disperate ma mai vinte, esperienze di vita che
Orlanda Amarilis ha saputo cogliere con vivacità con una dose di umorismo, di ironia, tipicamente capoverdiani. La mia stima nei confronti della scrittrice, poi, si è rafforzata nel luglio 1990, quando ho incontrato Orlanda a Lisbona. Dopo pochi minuti mi sentivo con la sensazione di conoscerla da sempre. Una persona attenta, disponibile. Non mi ha affatto delusa. Spesso ci costruiamo un'immagine sproporzionata, mitizzata dei nostri scrittori preferiti. Ma non è questo il caso. Di quell'incontro conservo un bellissimo ricordo. In fine, confesso di essere molto felice, ed onorata, di poter fare la presentazione di questa edizione italiana. La mia felicità è aumentata anche dal mio essere una donna emigrata, che vive in questo paese da tanti anni, che cerca le occasioni per condividere con gli italiani la sua cultura (e quelle degli altri, quelle che sembrano tanto lontane e invece ci sono in effetti molto vicine). Dobbiamo essere grati ad Orlanda (e a Maria Teresa) per la preziosa opportunità che ci offrono, un'occasione per conoscerci e farci conoscere un po' di più. Parlo al plurale, perché sto pensando alla comunità capoverdiana che sarà felicissima di poter trovare in libreria un libro in italiano di una sua autrice. Immersi nella lettura, ci sentiremo nascere dentro un sentimento molto forte di orgoglio, personale e comunitario, perché la nostra immagine verrà rafforzata da questa immagine bella di Capo Verde. E questa immagine è donna ed è capoverdiana. Pensando che la maggior parte della nostra comunità è tuttora costituita da donne, questo libro diventa un omaggio ed un messaggio di incoraggiamento a tutte le capoverdiane, ma in particolare a quelle che oggi vivono in Italia. Grazie. Maria de Lourdes Jesus
- Davvero, per poco non la riconoscevo. Andresa cerca nella memoria la famiglia della tizia ferma di fronte a lei. Pare di quelli del sor Teofe, uno di S. Nicolau che gli studenti avevano soprannominato Benjamin Franklin. O sarà parente di António Pitra, fratello del Faia emigrato in Argentina tanto tempo fa? Cari miei, se incontrate persone venute come lei da quelle terre di inerzia e di fame, quasi sempre le associate all'una o all'altra famiglia. Se non le conoscete, beh, di sicuro avrete conosciuto il padre, o il cugino, o il fratello, o magari una vecchia zia famosa pasticcera, o almeno, forse, una delle domestiche della casa. E la conversazione, da questo nesso, si amplia, si dilata, in un dipanarsi calmo, indugiato, quasi sempre gustoso.
- Sa, la stavo guardando perché ho visto subito che era delle mie parti continuò Andresa guardando e sorridendo alla sagoma non molto in carne seduta accanto a lei. Pure questa sorrise. Un sorriso timido, tranquillo. Incoraggiata, Andresa si avventurò ancora: - È qui da molto?? - Sì, sono quasi due mesi. Non è molto, ma è già qualcosa. Andresa aggiusta la borsa sulle ginocchia, accarezza la chiusura di tartaruga con un gesto vago, senza capire perché ha attaccato discorso con quella tale. l'aveva conosciuta? Perché? Dove? Forse risaliva ai tempi delle tisane di fedagosa. Sto proprio vaneggiando. Se io sono Andresa Silva, Andresa figlia di Toi Silva della ditta Madeira? Sissignora, sono Andresa, nipote della sora Ana, figlia del sor Toi. Sì, sì. Ma perché continuare a chiacchierare? È ora che lo perda questo vizio. Il vizio di dar corda a qualsiasi sfaccendato del mio paese. Chiunque mi capiti davanti, non lo conosco e basta. Le sue unghie seguono la linea del fermaglio di tartaruga e lo sguardo si perde nel luccichio nero della borsa di vernice. - Be', se non ci fosse stata la malattia di papà, sarei ancora qui? Credo di no. A far che? Andresa batte le palpebre e si sorprende a rispondere. Allora sei tu, Andresa, a portare avanti questa conversazione insulsa. Avresti potuto evitarla, ma le conversazioni sono così. Hanno un filo, un cammino da percorrere. Quindi non ti stupire, una volta che ti ci sei avventurata. - Ah, suo padre è malato? - Papà è morto. Anche la voce morì in un soffio. - Scusi, non lo sapevo - si rammaricò Andresa. La signora cercò un fazzoletto nella borsetta e si soffiò il naso. Lo ripose, chiuse la borsetta e si mise a guardarsi la punta delle scarpe. - Lui non voleva assolutamente imbarcarsi, impossibile farglielo antrare in testa. Quando il dottor Santos gli ha consigliato di farsi vedere da uno specialista e ha suggerito di prendere la prima nave, ha fatto un baccano, Dio mio! Non partiva e non partiva! Alla fine si è messo a provocarci e ha fatto una guerra in casa! Ha parlato, ha parlato. Ha battuto il pugno sul tavolo ci ha avvertiti: nessuno lo comandava, era ancora un uomo e faceva di testa sua. È stato un problema convincerlo. Ha detto altre cose. Si è scalmanato, si è scalmanato, fino a restarsene tutto insonnolito sulla poltrona. Mi sembra di vederlo, la testa ripiegata sul mento, le mani abbandonate in grembo. Ogni tanto si svegliava, alzava la testa e apriva gli occhi per richiuderli subito e continuare a sonnecchiare. A ciondolare la testa. Poverino! Doveva avere indovinato. - Respirò lentamente. - Diceva sempre: se riesco a fare una scappatina a Lisbona, vado alla Estufa Fria, vado al Coliseu, e poi faccio un salto fino al Minho. Questa breve storia è già stata ripetuta innumerevoli volte. La signora sente il bisogno di raccontarla per sfogarsi, per trovare sollievo: Andresa nota il lutto stretto dalla conterranea. - Non ha retto al viaggio. Due giorni dopo che siamo arrivati, è morto all'Ospedale d'Oltremare. - Poverino, disse Andresa tanto per dire, come se la conversazione non dovesse finire lì. - Davvero. Non ha avuto fortuna. Tira fuori il fazzoletto dalla borsa e lo porta al naso un'altra volta.
- Davvero - era ancora la signora a sfogarsi. - Pensare tutta la vita di venire a Lisbona, pensare tutta la vita a questo viaggio e poi alla fine... Con gli occhi abbassati, Andresa sistema la gonna. Era salita, lasciandole scoperte le ginocchia ossute. - Non si ricorda di mio padre, vero? - No - confessa Andresa. - Veramente non mi ricordo molto bene di lui. Sa, fanno già quindici anni che sono venuta via dalla nostra terra. - Eh sì, eh sì. E assumendo un altro tono. - Mio padre era Simão Filili dell'Alto de Celerine. - Ah, suo padre era sor Simão Filili? Io credevo (stava mentendo) che lei fosse sua nipote. - Eravamo io e mia sorella Zinha, riposi in pace. Io sono la Tanha. Femmine eravamo solo due. - Mi ricordo molto bene della Zinha. Ero sicura che eravate cugine (altra piccola bugia per finire di ricostruire il ramo). Era carina. - Sì, poverina. Ora sì, Andresa ha trovato più o meno il bandolo della matassa e si sente a suo agio. Chi avrebbe potuto dimenticare l'uomo piccolino e scarno di quella casa rossa là, nell'Alto de Celerine? Solo chi non avesse mai sentito raccontare storie di spettri, storie di catene trascinate sulla strada della Pontinha, in notti di vento, dai sortilegi del demonio, o di cavalli al galoppo che attraversavano la morada sul far dell'alba. La gente parlava soltanto del rumore fragoroso degli zoccoli che raspavano l'acciottolato. Andavano a pregare sulla tomba del Re Vendido, si diceva. Sora Xenxa, vedova del sor João Sena, raccontava, e la voce le si velava di paura, di aver udito, una volta, una voce in mezzo al rimbombare del galoppo. l'aveva riconosciuta bene. Era sor Simão Filili a comandare: tira la briglia della bestia di mio padre. Miei speroni, miei bei speroni, miei finimenti, miei bei finimenti! Era la mala ora e sora Xenxa fu presa da un incubo, gente! Si calmò soltanto perché la figlia, svegliata dai lamenti della madre, le appioppò un buon paio di schiaffi. Andresa osserva la compaesana al suo fianco. Passerà attraverso questa vita senza che ci si accorga di lei. Guarda, curiosa, la faccia liscia della Tanha, ombreggiata da occhiaie scure, più scure del colore mulatto della sua faccia, che prestano agli occhi una malinconia nostalgica. Quanti anni avrà la Tanha? Una trentina? Ma no, deve averne una quarantina ben portati. Di sicuro. Lei andava al liceo si ricorda della Tanha, già grande, che faceva l'amore dalla finestra del primo piano con un ragazzo di Santo Antão, figlio di Pedro di sora Mari Barba. Non c'è dubbio, era un ubriacone incorreggibile. Prendeva certe sbornie da non reggersi in piedi. Sbornie da maltrattare tutti quanti. Cominciava a insultare, la madre di questo qui è così e cosà, il padre di quello là è questo e quest'altro, tu sei una figlia di madre nubile, quello non si è sposato con tua madre. Oh mamma mia! Chi gli passava vicino in quei momenti prendeva le sue. Anche tu sei un burino senza-scarpe. Sta calmo, siediti qui. La gente rideva ma scappava da quel ragazzo di Santo Antão. Ragazzo insolente sul serio! Ma lo sapete, a Santo Antão c'è una quantità di alcool e quei ragazzi si abituano a bere, e poi eccoli che non si vergognano di insultare ogni cristiano che va tranquillo per la sua strada. Spinta non sa bene da quale curiosità, si informò. - Lei è sola qui? Tanha alzò gli occhi, girò il viso verso Andresa ed ebbe un sorriso di confidenza, un sorriso della gente di quelle terre, se incontra persone conosciute, compaesani, vecchi amici.
- Be', ho qua mio fratello Júlio. Júlio è già medico, è sposato. Si è sposato con una ragazza di qui. Con una mondronga. Andresa si stupì: - Suo fratello è già laureato? Non lo sapevo. - Oh, sì - e Tanha sorrise soddisfatta. - Ha finito il corso circa quattro anni fa. Avrei potuto rimanere in casa di mio fratello, ma ho preferito stare dalle mie cugine, a Oeiras. Abbassando la voce confidò: - Le mondrongas sono sfacciate e in casa delle mie cugine mi sento più a mio agio. Andresa sorrise. Continuò a sorridere e a guardare la stazione vuota. Era una di quelle ore morte del pomeriggio, quando i treni trasportano mezza dozzina di passeggeri. Si disperdono nelle carrozze aspettano, pazienti, il momento della partenza. Un treno entrò in stazione e si fermò vicino a loro. Tanha si alzò e passò la mano sulla gonna. Stringeva con aria impacciata i guanti e la borsa. - Deve essere questo. - Penso di sì, - confermò Andresa, - ma non partirà prima di dieci minuti. - Sì, ma intanto vado. Così sto più tranquilla. Sorrideva un'altra volta. I capelli neri, ben tirati fermati da mollette le prestavano un'aria di sfinge. Andresa l'accompagnò un momento. - Sa, avrei potuto venire con lei. Abito a Caxias. Ma sto aspettando mio marito. Tacque. Nel fondo, irritata con sé stessa. Sono stata lì a dare spiegazioni. Continuerò così tutta la vita. Insomma, non vado con lei perché non ne ho voglia. Di chiacchiere basta e avanza. Con passo tranquillo entrò nel bar e chiese un caffè. Avrebbe dovuto aspettare mezz'ora per il prossimo treno. Sorbì il liquido caldo, aveva un buon sapore. Di nuovo in stazione, accese una sigaretta e occupò sulla panca il posto di poco prima. Si era in primavera, ma i pomeriggi perduravano grigi e assonnati. Per contro, la stazione vuota di treni sembrava più chiara. Non riusciva a capire perché si impediva di accompagnare la Tanha. Quanto ad aspettare il marito lo aspettava, ma non c'era problema. Poteva fare il percorso con la Tanha e togliersi la nostalgia ascoltando la parlata calma e gustosa di Soncente, il racconto delle novità. La sigaretta dimenticata tra le dita è diventata cenere. Da un po' di tempo in qua le accade questo. Vede un compaesano, sente il bisogno di parlargli, di stabilire un ponte che le ricordi la sua gente, la sua terra. Ma una volta entrata in contatto, comincia a invaderla il disincanto. Qualcosa molto in fondo glielo fa sentire. Non ha nessuna affinità con le persone di quindici anni prima. Non sono neppure le stesse. Le incontra qua e là, al Rossio, all'Estrela, sparpagliate per Lisbona, a Praça Camões la domenica mattina, al Conde Barrão, al Cais do Sodré. Fosse ancora vivo, sor Simão Filili continuerebbe ad essere di certo la stessa figura capace di alimentare la leggenda e di inculcare rispetto. Era di una razza! Tutti conoscevano sor Simão Filili. Sor Simão Escochóde (1), si dicevano all'orecchio i ragazzini. Un'inglese bionda, col bastone, si siede al suo fianco. Andresa getta lontano la sigaretta e incrocia le gambe. Aveva conosciuto sor Simão in un giorno di afa. Era andata nel pomeriggio soffocante a consegnargli un volume dell'opera storica "As Farpas",
prestato da suo padre, e l'aveva trovato seduto su una panca, sulla porta di casa, mentre, con un bastone, scavava e faceva righe per terra. Rinsecchito probabilmente a causa di molti stenti e fame, aveva un certo modo stentoreo di parlare. Spaventava chi non l'avesse mai sentito. Le parole gli rotolavano in bocca come ghiaia trascinata fino alla spiaggia da ondate selvagge. Uscivano, infine, libere, confuse, e sempre mirate. Parlava così perché era massone, si diceva. Era della massoneria, confermava il popolo, faceva magie come le fattucchiere. Gli mancava solo la coda nascosta sotto le sottane lunghe delle streghe di Tchada Além, la coda come quella delle scimmie della Travessa do Monte. Sora Chica Maçaroca, la strega dell'Achada, che quasi si poteva vedere la punta della coda strisciare nella polvere della strada. E le domestiche cullavano i bambini: sora Chica Maçaroca ta buli ta bai, ta buli ta bem (2). Bia Antónia, la vecchia domestica della casa, era lei che raccontava ad Andresa questa e altre fole. Dopo cena, Bia Antónia si sedeva su una cassa, vicino alla scala, sulla veranda sovrastante il cortile, tra due buffate della pipa sempre appesa all'angolo della bocca, la serva raccontava per filo per segno un'infinità di storie. Andresa, affacciata alla veranda, l'ascoltava distratta. Bia Antónia parlava e parlava, convinta. - La prima prova perché un uomo diventi maçonco è di attraversare scalzo un mare di spilli. Dicono, bambina, che sor Simão Filili ha superato questa prova come nessun altro. Stava attraversando il mare di spilli, quando ha udito un galoppo. Sembravano cavalli di gente selvaggia, tatapam, tatapam. Stringendo i denti, non ha voltato la faccia indietro, e i cavalli tatapam, tatapam. Sor Simão, frastornato, i panni strappati, la bava alla bocca, le mani ferite, non ha mai voltato la faccia indietro. Bia Antónia succhiava, la mano chiusa sul bruciare lento all'interno della pipa dimenticata all'angolo della bocca. - E poi? - domandava Andresa. La vecchia serva alzava gli occhi sporgenti verso Andresa e rispondeva: - Adesso, dicono che lui tutte le notti comanda una nave da guerra lì nella Pontinha. - Che razza di storia è questa, Bia Antónia? - Sissignora, è vero. Con le magie della massoneria lui fa apparire una nave da guerra quando batte la mezzanotte. Delle persone l'hanno già visto, tutto in uniforme bianca. Sora Xenxa abita proprio lì, sulla cima della Pontinha e lo sente tutta la santa notte. È uno strascicare di ferri ed è sor Simão che grida all'equipaggio la notte intera. - Ma la sora Xenxa l'ha visto? - Nossignora, la sora Xenxa è una buona cristiana. Si segna e dice le preghiere, uh, i maçoncos hanno un patto col diavolo. Ad Andresa piaceva molto ascoltare queste storie diffuse dalla bocca del popolo. E il popolo ci credeva moltissimo, al punto che sor Simão Filili era temuto e rispettato da un capo all'altro dell'isola. E il chiasso più grande ci fu il giorno della morte della Zinha. Nessuno lo dimenticò. l'avvenimento aveva riempito serate e veglie nelle case della morada per molti e molti giorni e da quella volta si erano convinti tutti. Era un massone per davvero. E il cerchio delle leggende intorno a sor Simão Filili si era allargato ancora. Zinha era ammalata da lunghi mesi di una malattia strana. La pelle le era diventata livida, di un colore che sembrava sporca. Il fidanzato laggiù in Guinea e la gente mormorava. Una malattia così non poteva venire che
da una fattura dell'amante negra di Bissau. Non lo sapevate? Quelli della Guinea fanno fatture per ogni cosa. E poi non era una novità. Si dava ormai per scontato che qualsiasi ragazzo scapolo rimediasse una ragazza e spesso uno o due figli prima di sposarsi con l'altra. Quanto alla Zinha, fattura o no, la verità era che stava male. Fattura o no, molte persone giovani a Soncente morivano tubercolose e se ancora bambine morivano di tifo, e se lattanti morivano con la diarrea. Allora, perché fare uscire di bocca tante sciocchezze? Si sussurrava a mezza bocca, e un giorno la notizia percorse le strade da cima a fondo non si sa come. Zinha aveva spedito al fidanzato un telegramma per rompere la promessa. Nessuno commentò il fatto, però la città approvò. Sissignora. Era l'unica via d'uscita per farla finita con il malocchio sull'ammalata. Questo non impedì, tuttavia, che la Zinha morisse di lì a poco, una mattina presto, il gallo non aveva cantato due volte. Tanha si era disperata molto, con attacchi di schiuma alla bocca e urli che la udivano i vicini, il padre non aveva acconsentito a chiamare il prete per dare alla sorella gli ultimi sacramenti e, intanto, nella morada se ne parlava già. Il funerale sarebbe stato religioso. Andresa ricorda questi avvenimenti e le sembra che non siano mai accaduti, tanto più che vi aveva assistito soltanto di lontano. Ancora una volta Bia Antónia, di notte, seduta come al solito sulla cassa accanto alla scala di accesso al cortile, racconta con tutti i particolari il resto di questa storia di sortilegi. - Ascolta bambina - la domestica succhia due volte il cannello della sua pipa semispenta - ascolta, quando il reverendo padre arrivò alla porta di sor Simão Filili non fu capace di entrare. Andresa continuava a guardare i rami della palma, lunghi, spioventi, che alla brezza tiepida della notte spazzavano la carrucola legata con corde di ricino a tre tronchi intrecciati sulla bocca del pozzo. - Quella casa è maledetta, bambina. Bia Antónia si gratta la testa sotto il fazzoletto per poi continuare sullo stesso tono: - Sor Simão Filili ha fatto rivestire la sala dove era la cassa e anche la porta di ingresso, tutto con foglie di palma, e ha aspettato il reverendo padre. Ah, anche un gran ramo sul petto ha messo, e ci ha anche incrociato sopra le braccia bene in croce. Il vento soffia più forte e Bia Antónia si avvolge meglio nel mantello a righe. Andresa lascia scivolare un piccolo sputo acquoso sulle pietre del cortile. - Quando il reverendo padre è arrivato là e ha visto tutto quell'apparato di massoneria, ha girato le spalle e non ha oltrepassato il vano della porta. Casa scomunicata! Dicono che la Tanha non ne può più di piangere. Sai, il funerale è passato dietro la chiesa. Oh, ma all'accompagno c'erano due chitarre e un violino a suonare mornas fino al cimitero. Appoggia le mani sulle ginocchia e, con sforzo, si alza dalla cassa su cui era seduta. Porta le mani ai fianchi e accenna a stiracchiarsi, sollevandosi sulle punte dei piedi scalzi. Qualche momento dopo aggiunge: - Tutti quanti hanno pianto ben bene al suo accompagno. È stata molto pianta la Zinha.. Andresa ricorda tutto questo con tale minuziosità, come se non si fosse mai staccata dalla Madre-Terra e avesse seguito le orme del sor Simão Filili, del Faia, di Antoninho Ligório, del Pitra. Di fianco a lei l'inglese bionda è ancora lì a dividere la stessa panchina.
Nella stazione vuota scorge il treno. Si alza e comincia a camminare. Giunta alla seconda carrozza, guarda dentro. Tanha, sguardo tranquillo, la faccia serena, in un angolo del sedile, come se dovessero ancora entrare lì nella stessa panca altre cinque persone, sorride ad Andresa. Povera Tanha! Vado con lei fino a Caxias.
ROLANDO DI SORA CONCHA
Ah, il baccano là fuori per quelle strade. Accorreva gente da tutte le parti, toccata da uno stesso vento che la radunava e la spingeva, la riuniva e la trascinava in gruppo, sempre di corsa e gridando. Vennero dal Lombo, da Monte Sossego, dalla Chã do Alacrim, da Fonte Cónego, le donne tenendosi il fazzoletto con la mano appiattita sulla sommità del capo, lasciando nella loro scia un lungo lamento. Bia Tuda, Djô, Toi Pirico, Mari Delaide, Dchilinha, Guida di sor Totone, e tutti voi snidati da Fonte Felipe, da Ribeira Bote, da tutti i canti della morada, perché tanta agitazione? Ragazzini entusiasmati dalla corsa seguivano le orme dei più grandi. La città era piccola, sissignori, ma lunga da attraversare. Si andavano aprendo finestre e facce assonnate interrogavano mute sul motivo di tutto quel trambusto che turbava la quiete del mattino. Avevano attraversato Praça Nova, rua da Papa Fria, altri erano discesi lungo rua da Serra per unirsi a loro in largo do Palácio. Eccoli infine nell'Alto do Pelourinho. Nessuno parlava. Gridavano solo e battevano i piedi scalzi sul selciato freddo delle strade. Affacciati alle verande o dietro le persiane semichiuse, gli abitanti della città seguivano il suono cupo di quello scalpiccio, come granturco che venisse pestato per la polenta di mezzogiorno. In piazza del Municipio si unì altra gente a quel popolino. Continuarono ancora per una strada stretta e sporca di polvere di carbone, fino a sboccare in largo da Salina. Lo spiazzo di terra rossiccia, delimitata ai lati da clubs, da case a due piani e da cocchi che sventolavano pigri dietro a un muro sporco, accolse serena i piedi nudi che la pestavano correndo. Non si udì più alcun grido. Il silenzio coprì la piazza, prolungandosi, propagandosi sulla ghiaia minuta, calda adesso. A passo ormai lento raggiunsero rabo-de-Salina. All'inizio della salita del monte allungano lo sguardo oltre il gruppo. I piedi si piantano nella terra secca e rossa, disseminata di minuscoli sassi. Come aveva potuto incastrarsi a quel modo il camioncino del sor Manê Virgil, così, dentro quella casa che era stata abitata fino a pochi giorni prima? Decine di paia d'occhi si posarono sul camioncino mezzo rovesciato. Un poco oltre, mosche ronzavano, in tutta tranquillità, non lontano da un corpo mezzo coperto da un telo. I piedi si allungavano tesi nei sandali, sporchi di sangue già secco.
- È morto? - chiese Toi Pirico gettando un'occhiata sotto il cencio, dove si nascondeva la faccia insanguinata di Rolando. Un ragazzo, fino a quel momento seduto lì su una pietra, si alzò e, le mani sui fianchi, rispose: - Dio non voglia. Guardò il mare di teste. Allungarono i colli aspettarono. Il ragazzo allora spiegò: - Il dottor Monteiro ha già ordinato di trasportarlo all'ospedale. Si avvicinarono, si strinsero, e finirono per spingersi gli uni addosso agli altri nell'ansia di vedere il corpo mutilato coperto con un telo ricavato da un sacco di farina Gold Meal. Gold Meal è una farina così bella bianca e così fina, gente. La mandano dall'America. Mandano anche farina di granturco. Con la farina di granturco facciamo fongos arrostiti sulla brace, facciamo frittelle impastate con banane mature, banane molli, banane prese al pelourinho nella bottega della sora Carlota e in altri posti dove si vende frutta. Noi prendiamo dagli alberi solo la frutta molto matura, bisogna capirci. Noi non rubiamo, nossignori. La prendiamo soltanto, la prendiamo soltanto di nascosto. È peccato prendere di nascosto una banana per ingannare la fame? Ah, ci mandano anche latte in polvere, strutto, panni. Dì, Jôna, a te non hanno mandato un costume per fare il bagno alla Matiota? Tutti volevano vedere e Candinha, a forza di spinte, era finita addosso a un carretto dell'immondinzia del Comune. Anche così, continuava a voler vedere e a spingere - sembrava una festa - e quando si guardò, si trovò riversa, senza difese, nell'impudicizia delle sue cosce in mostra, bene in mostra. - Che roba è questa, giovanotto? Chi l'avrà spinta così, a questo modo? Prepotenti, maleducati. Oh che rabbia! Si riaggiustò infuriata, senza essersi riavuta dalla sorpresa. Restò ferma un istante e si gettò d'improvviso sulla testa di Djula. Era la persona che le stava più vicino. La prese per un braccio e strappandole il fazzoletto sgargiante dalla testa, lo scagliò a terra con stizza. Sei tu che mi spingi. - Cercava ora di non lasciarsi sfuggire il ciuffo di capelli rossicci di Djula. Non crescevano mai i capelli rossicci di Djula e Candinha li stringeva con rabbia tra le dita ruvide. La sua pelle di dattero avvizzito acquistò lucentezza. Djula spalancò gli occhi per lo stupore perse il ritegno. Dei ragazzi cominciarono a ridere, scrollarono le spalle e si voltarono dall'altra parte. In un abbraccio muto, attorcigliate, rotolarono al suolo l'una stretta all'altra. Nessuno fece caso a quelle due matte spudorate. Sembravano cagne in calore. - Chi porterà questo poverino all'ospedale? - Ma guarda quelle lì! Ehi, matte che siete, cosa succede? Djula si alzò col sangue che le scorreva da un angolo della bocca. Si avvicinò e restando dietro all'assembramento sputò e diede un'occhiata. La testa ocre di terra, sporchi anche gli zigomi, si passò un'altra volta la mano sulla faccia. Sora Guida era arrivata dalla sua mescita vicino al sor Mocho, proprio lì nel Monte Sossego, e la stava osservando con riprovazione. l'apostrofò daccapo: - Ragazza mia, sei proprio fuori di testa. A quest'ora del mattino, quando uno non ha ancora fatto colazione, dove l'hai presa la forza per tanta sfacciataggine? Si girò di lato e parlò rivolta alle più vicine: - Queste ragazze di oggi non hanno giudizio. Vedete come mancano di rispetto?
Djula fu presa da una furia improvvisa e con le mani alla vita cominciò a gridare: - Voi qui non c'entrate niente, sora Guida. State dicendo che non ho giudizio. Cos'è che volete? Volete andare a prendere la cinghia per picchiarmi? Sì? Chi mi comanda sono mio padre e mia madre. Allora, cosa volete voi? Volete andare a prendere la cinghia? Sì? Svelta, allora, andate, andate! Per alcuni momenti il gruppo dimenticò Rolando di sora Concha investito nelle ore piccole dal camioncino del sor Manê Virgil. - Ragazza mia, sei proprio fuori di te. E male accompagnata. Sora Guida alzava e abbassva il dito puntato contro Djula e proseguì con voce lenta: - Se fossi tua madre, sissignora che andrei a prendere la cinghia. Ma siccome non sono tua madre - incrociò le braccia e le voltò la schiena tienti pure la tua maleducazione. Ansimando, Djula disse sottovoce a Djôzinha: - l'ho messa ko, caro mio. Djôzinha si girò, aprì le braccia e la guardò severo: - Siete matte, voi due, - buttò là - non avete rispetto per nessuno. Una disgrazia così e voi due senza nessun rispetto - le braccia semitese, i palmi rivolti in alto, con un cenno indicò i piedi sporchi del ferito. Due uomini sollevarono con cautela il corpo di Rolando figlio di Concha per metterlo su una barella improvvisata. - Veniva dalla parte dell'autista, vero? - Deve essere stato investito quando il camion ha perso il controllo nella discesa del monte. - Eh, sì. Ma anche scendere per una pendenza così forte senza catene, senza niente per trattenere le ruote! (3) Djôzinha si voltò verso il Toi. - Dammi una sigaretta. Non ce l'hai una sigaretta? Che bello dare una tirata! Ascolta, e l'autista? - Dicono che è scappato gridando. Che andava a buttarsi in mare. Sarà vero? - Come, non gli è andato dietro nessuno? Toi Pirico tastò la tasca posteriore. - Magari avessi una sigaretta, fosse pure una Falcão. Avevo due sigarettine - continuando l'ispezione nella tasca della camicia - ma anche alla mamma piace dare le sue tirate e quando non ha trinciato da mettere nella pipa, mi arraffa tutte le sigarette. La gente andò appresso in corteo accompagnando gli uomini che portavano la barella. - Ah, allora non gli è andato dietro nessuno? - si ricordò il Toi dopo un po'. - Dietro a chi? Ah, all'autista del sor Manê Virgil? Djô si stava stringendo la cintura ed esaminava i fori con attenzione. Scordò la domanda, perché rispose: - Farà un caldo oggi, ragazzo mio! Si era alzato il sole. Il giorno prometteva canicola e sor Totone si asciugava il sudore. Gli scorreva per la fronte e vicino alle orecchie. La barella pesava e gli uomini trascinavano i piedi con fatica. - È morto? - Chiese un'altra volta Toi Pirico apprestandosi ad aiutare gli altri. - Ha il peso di un morto. Sai, ha perso i sensi, - gli rispose Djô mentre metteva il fazzoletto tra la spalla indolenzita e l'asta di appoggio della barella. Il viale dell'ospedale appariva là in fondo, fiancheggiato da un muro basso pitturato di giallo. Gli alberelli a foglie perenni, piantati lungo il percorso, erano macchie sgraziate, appassite e mal cresciute per
mancanza d'acqua. Il suolo intorno, tanto era duro, sembrava terra battuta. Sulle scale dell'ospedale si fermarono. Le salirono lentamente e deposero il carico sulle piastrelle fredde dell'entrata. Il gruppo si apprestava ad accompagnare gli inservienti, ora occupati a passare Rolando in una barella dell'ospedale. Lì, di dove l'avevano tolto, una gran macchia rossa tingeva il telo. Il signor António, l'infermiere di turno, sbarrò loro il passo. - Capo, perché? Non possiamo passare? Il signor António non rispose. Con le mani dietro la schiena, continuò a sorvegliare il lavoro degli inservienti. Rolando fu portato al pronto soccorso e lo lasciarono lì in attesa del medico. Poco dopo, il dottor Monteiro, trafelato, passò in mezzo all'assembramento, in due salti salì i gradini dell'entrata e continuò per il corridoio. Al pronto soccorso finì di abbottonarsi il camice, scoprì la faccia di Rolando, gli aprì le palpebre abbassate, scosse la testa. - Io non sento niente, niente, signor dottore, perché tanto baccano? Il medico non gli rispose e Rolando si stupì. Dunque, il dottor Monteiro non gli dava nessuna importanza. Il dottore era di casa e si comportava come se lui fosse un poveraccio? - Sto bene, dottor Monteiro. Posso andare a casa con le mie gambe. Soltanto un peso, qui, mi fa questo nodo in gola. Il medico si girò verso gli inservienti e fece loro un cenno con la testa. Si curvarono, afferrarono la barella e la spinsero verso un corridoio. Rolando avrebbe voluto sbottonarsi la camicia. Si sarebbe di certo sentito sollevato. Come diavolo sono finito qui? Non ho più tanto caldo, sono leggero, leggero. Attraversarono, in quel momento, la veranda interna dell'ospedale. È buffo, non aveva mai fatto caso a quegli eucalipti. Rolando li vedeva mossi dal vento lieve del mattino. Le foglie mezzo disseccate dallo scirocco si strusciavano l'una all'altra diffondendo una melodia di cui non si era mai accorto prima. Da piccolo veniva spesso a giocare nel giardino dell'ospedale. Giardino era quell'aiuola lunga, con una mezza dozzina di iris. Dagli steli partivano fiori viola e bianchi. C'erano anche tre o quattro eucalipti coi rami che giocavano sul tetto della veranda. Spesso andava dietro l'ospedale a raccogliere datteri caduti, dolci come il miele. Un giorno, la sora Tuda, l'inserviente dell'ospedale, l'aveva sgridato: - Siete degli sporcaccioni. Non sapete che vicino a quelle piante buttano l'acqua delle medicazioni? Alla sora Tuda piaceva sempre parlare al plurale. Rolando aveva sputato per lo schifo e non aveva mai più mangiato datteri caduti, dolci come il miele, raccolti dietro l'ospedale. La brezza lo accarezzava e il suo corpo oscillava sulla barella. Le ruote emettevano un cigolio rugginoso che si sollevava nell'aria per spandersi oltre le porte aperte lungo la veranda. La gente aspettava all'entrata. Il sole era ormai alto e il giorno stava facendosi caldo. Toi Pirico Djô scesero le scalette dal lato del Lembo e andarono a farsi un bicchiere nell'osteria del Lela. Mani infilate nelle tasche dei pantaloni, spalle ritratte sul colletto aperto, passarono per un avvallamento, girarono intorno alla casa di Djula e, rasentando il
muro del grande cortile del sor Chico, fatta una mezza dozzina di passi, entrarono nell'osteria salendo un gradino di legno davanti alla porta. Prima di uscire, Djô comprò una manciata di noccioline. - È per ammazzare l'alcool - disse a Toi Pirico. Questi non si era ancora tolto di testa l'autista. - Ma nessuno, proprio nessuno gli è andato dietro? - chiese un'altra volta. - Dopo un buon bicchiere uno si sente più a posto, no? E con questo caldo un goccetto rinfresca sempre. Non so niente di questa storia dello chauffer - venne in mente a Djô d'improvviso. Erano ormai ritornati e si accostarono a un arbusto dalle foglie cuoriformi ingiallite. Djô si accendeva la sigaretta quando apparvero le figure in uniforme scura curve sulla barella e sora Chica ruppe in un grido acuto. Le donne salirono i gradini che le separavano dalla porta a larghi battenti e delle mani si protesero per togliere il lenzuolo. Sotto si nascondeva il corpo di Rolando figlio di Concha. Gli inservienti si fermarono e si misero davanti, impedendo loro di avvicinarsi. - No, non si può. Abbiate pazienza, ma non si può. Toi Pirico, sor Totone e altri due si fecero avanti e sollevarono il corpo di Rolando per metterlo di nuovo sulla barella dove il sangue si era incollato aveva formato una pellicola. Un lamento insieme triste e angosciato uscì dal petto della sora Guida, subito seguito dal coro dolente e cadenzato delle donne che facevano parte della compagnia. Rolando spiò le facce compunte di Toi e di sor Totone. Gli venne voglia di ridere, ma si trattenne. Non devo ridere in una circostanza come questa. Lo attraversò un fremito. Si gonfiava, si gonfiava. Uh, che bello poter ridere! Oh, mamma mia, scoppio dal ridere. Ahi, ahi, non posso ridere, sarebbe mancare di rispetto a questa gente. Cos'è che mi sembra il Toi? Lo guardò, birbone, di sottecchi. Un'altra volta quella sciocca voglia di ridere. Ridere dei due solchi profondi che scavavano le guance del Toi e gli scendevano dal naso al mento, del suo labbro grosso, pendente, dei suoi occhi striati di fili rossi. Eh, eh, Toi, ti piace farti un goccio, vero? Cercò di portare le mani alla testa, però non ci riuscì. Le sentì imprigionate. Ohi, allora un uomo non è più padrone delle sue mani? Il canto delle donne ora si sollevava, ora cadeva lungo e saltellante dalle ugole intonate. Lo portarono via. Indovinava facilmente per dove stavano passando. Vedeva tutto chiaro, nitido, tale e quale in una passeggiata spensierata, come gli accadeva, infinite volte, nella frescura del mattino. Passeggiate che si concludevano quasi sempre con una bella nuotata alla spiaggia della Matiota, lì, vicino alla Lajinha. Al ritorno, all'inizio di rua Machado, lo aspettava la voce della sora Chica, secca e stridula, una traversa più in là: ecco il latte! Latte da mettere nel caffè! Ecco il latte! Quante cose fino ad allora dimenticate venivano a galla senza che ne sapesse il perché. Nella piazzetta del liceo deposero la barella per riposarsi. La cantilena delle donne cessò per far luogo a un bisbigliare strascicato, che a poco a poco si trasformava in un fastidioso ronzio. Il corpo di Rolando restava rigido e non lo disturbavano né il sole né il caldo. Una leggera tristezza lo rabbuiò. La facciata rossa del liceo ferì per qualche istante i suoi occhi offuscati. Mi metto a piangere. Perché gente? Perché è l'ultimo anno di liceo? Bene, ne sarebbero venuti altri e
migliori. Già in luglio se la sarebbe filata per il continente. Oh, che bello imbarcarsi, andare via, liberarsi della prigione dell'isola dov'era sempre vissuto. Fuggire da quel sole cocente. Quel sole bruciava la gramigna sparsa per i pianori aridi e arrossava ancor più il terreno incolto di Chã de Alacrim, di Chã de Cemitério. Quel sole seccava i pozzi di acqua salamastra e dava il colore del caffè tostato alla sua pelle di meticcio. Ah, imbarcarsi. Evadere al di là del cerchio che cingeva e soffocava l'isola selvaggia. Si sentì sollevato di nuovo. La cantilena ricominciò bassa e cadenzata. I piedi scalzi degli uomini delle donne si sollevavano e posavano sul selciato. Questo rumore monotono cominciò a infastidirlo. Aveva l'impressione di sentir battere il granturco. Per passare il tempo girò la faccia dolorante verso sor Totone. - Sembrate stanco, sor Totone. La frase cadde trascinandosi. Ebbe l'impressione di non averla neppure pronunciata. Sor Totone continuò a guardare in avanti, ansando leggermente per controllare la stanchezza. Con le due mani sosteneva il bastone di legno d'arancio a cui ra fissato il telo sporco della barella. Uno stridio acuto lo fece sussultare. La barella oscillò, girò lentamente su di sé e lo stridio di prima gli attraversò tutto il corpo. Qualcuno lo afferra per le spalle e lo stringe con furia, con ansia e disperazione. - Così no, sora Concha, così no. - Udì proprio vicino all'orecchio. Le donne parlavano tutte insieme. Lacrime calde gli rigarono il volto. Lo sapeva sporco perché sora Concha glielo stava pulendo con un fazzoletto che si era tolta dal seno. Puliva e singhozzava. - Non piangere, mamma. Non è niente. Allora, mamma? Era un uomo maturo a parlare. Sentiva il nucleo della vita come se ne avesse colta tutta l'esperienza. Si sentiva capace di fare un discorso, gente. Un'improvvisa percezione di pericolo lo distolse dalle sue divagazioni. - È meglio portarlo sul letto.. Una confusione di voci, di ordini discordanti, lo fece poco a poco assopire. Bene, finalmente sono a casa. Non me ne ero neppure accorto. È stato così rapido il viaggio. Prima lo trovavo stancante il cammino di casa. La strada che saliva sempre, che saliva sempre, senza nessun orizzonte, tranne il suo limite inatteso ai piedi del monte, mi ha sempre dato una sensazione di inutilità, di non valerne la pena. Oggi però è stata una bellezza. È anche vero che mi hanno portato. È buffo, ho avuto la sensazione di essere venuto sempre dietro di me. Dopo tutto mi sono abbastanza divertito. Quel Liminha, non finiva mai la quinta classe. Per tutta la strada continuava a dire sciocchezze all'orecchio di Juju. A lei doveva piacere perché non girava neppure la testa quando lui le si avvicinava di più e le strusciava i seni col gomito. E Rosarinha, tempo fa nostra domestica e adesso ragazza di strada? Rosarinha è sempre stata una presuntuosa. Presuntuosa e ignorante. Si divertiva talmente a raccontarci in tutti i particolari storie di marinai e di stranieri passati per la sua camera, là nel Lombo, di sbornie smodate prese con loro, di alcuni scellini sfilati dalle tasche di un'inglese dopo averlo fatto dormire con mezza bottiglia di alcool. Per poco non ha gettato a terra sor Totone quando la compagnia si è fermata per riposarsi un po'. Mi è persino sembrato che mi si mettesse sopra, gente. Gli pulirono la faccia con un asciugamano umido, lo vestirono con altri panni e lo distesero.
Sora Concha sedette su una sedia vicino al letto. Le donne lì intorno lo sistemavano. Gli distesero le gambe, gli avvicinarono le braccia al corpo. Lo accarezzò una sensazione di serenità e di frescura. Non aveva voglia di parlare, desiderava soltanto stare così, con gli occhi chiusi perché nessuno lo disturbasse. - Avvicinagli di più le gambe - disse sor Totone in un sussurro. Sor Totone è gentile oggi. Mi sa che gatta ci cova! Sor Totone era il capo dei bidelli del liceo. Buon uomo, ma molto bisbetico. Lo minacciava ogni tanto con la presidenza se lo trovava nel corridoio a parlare con la Celina. Rolando si vendicava facendogli un gestaccio appena lui aveva voltato le spalle. Lo stesso canto di poco prima, di molte ore prima, si alzò nell'aria ferma. La madre continuava a passargli la mano sulla testa e a mormorare in sordina. Una specie di calma lo acquietò di nuovo. Nella casa, andavano e venivano agitati. Le porte erano accostate con religiosità, e i piedi scalzi sfioravano appena il pavimento sfregato con foglie di ricino. Lo scosse un ripetuto scricchiolio di scarpe. Gli pareva una barca nella bonaccia che si spostava in qua e in là. Dev'essere sor Jhon Santos. Fingerò di dormire. Sora Concha diede sfogo al dolore. - Ho capito, mamma, smettila con questa storia. Ho bisogno di riposare e tu non mi lasci tranquillo. Questa è prevaricazione, mamma. Sora Concha continuò a piangere abbracciata a sor Jhon Santos. Sor Totone, in attesa dietro a sor Jhon Santos, toccò leggermente il braccio della sora Concha: - Comare, da brava, prendete un brodino adesso. Sora Concha scosse la testa con sforzo. - No, comare Concha, non potete rimanere così, a stomaco vuoto. La domestica, dietro sor Jhon Santos, si era avvicinata al letto e aveva cominciato a sciorinare, chiacchierona: - Dona Morgada ha mandato un piatto di biscottini e due bottiglie di Porto. Dona Nené ha mandato una terrina di brodo, anche Dona Luz ha mandato del brodo. - Ho capito - gemette sora Concha - ho capito, chiudi quella bocca. Piangendo accorata, le mani giunte sulla testa, voltando la faccia da un lato, voltando la faccia dall'altro, sora Concha uscì dalla stanza. La domestica l'accompagnò e lo scricchiolio delle scarpe del sor Jhon Santos si dissolse nel silenzio che, d'improvviso, invase l'ambiente. Solo da chissà quanto tempo, Rolando prese il coraggio di fare un giretto per la casa. In pochi secondi raggiunse la sala da pranzo. C'era molta gente in quel locale. Parlavano basso. Scoprì Liminha in un angolo, su una sedia, molto vicino a Juju. Lei appoggiava le mani dalle dita lunghe, una sull'altra in grembo, e doveva stare esaminandosi le unghie anch'esse lunghe e ben curate. Liminha le stuzzicava le orecchie, distratto. Nessuno gli fece caso. In fondo, seduta su uno sgabello basso vicino a una conca d'acqua, Candinha tirava fuori svelta dei fiori che componeva in addobbi. Un rumorino lo fece sussultare. Tutti quanti si erano alzati ed erano corsi alla porta. Di dove si trovava, cercò di indovinare la ragione di quel cambiamento di scena. Un silenzio grigio oppresse quell'ambiente di ceri disciolti sul fondo dei candelieri. Una campana oscillò, distante, in rintocchi dolenti e forzati.
- Compermesso - chiese egli ansioso. Tanto ansioso che gli pareva di non poter respirare, non respirava proprio. Un urlo come di madre al momento doloroso del parto, lo scosse. - Compermesso, lasciatemi passare - implorò quasi con angoscia. Tremava tutto, preso da angoscia. I presenti si stringevano, volevano vedere. Nessuno gli badava, Signore! Raggiunse la porta della stanza, con quanta fatica! e la paura lo paralizzò. Un altro grido fendette il frastuono di fondo. In un impulso di coraggio varcò la soglia dell'uscio, fece due passi decisi e si fermò dietro la madre. Quando era piccolo tutto accadeva proprio come adesso. Dopo qualche birichinata andava zitto zitto a sedersi ai piedi della madre, sulla stuoia, vicino alla poltrona a dondolo su cui stava riposando. Lei alzava gli occhi dal libro e gli chiedeva: - Ne hai combinata una delle tue, Rolando? Lui abbassava la testa e metteva le dita tra i fili della stuoia. - Mamma! Mamma! Due persone la tenevano. Si alzò sulla punta dei piedi, guardò, e non capì quello che stava accadendo. Qualcosa di inconsueto lo percosse ed ebbe la sensazione di aver ricevuto un colpo sulla nuca. - Oh Signore! Oh Signore! - balbettò in un singhiozzo. La scena gli si svolgeva davanti e assorbiva quanti vi assistevano, attenti a che non sfuggisse loro il minimo dettaglio di questo finale di spettacolo, per poi poterne raccontare attorno al tavolo dopo cena, mentre la Dinha avrebbe chinato la testa per il sonno, col rosario tra le mani abbandonate in grembo. Sor Totone e sor Jhon Santos, frastornati dalle grida di sora Concha, lasciarono cadere il coperchio della cassa sul corpo teso di Rolando, proprio sul suo corpo, signori! E la sorpresa stupefatta di Rolando coincise con la disperazione di sora Concha, ed entrambi gridavano: - No, no, no.
SALAMANSA
Baltazar si gingilla per casa: passeggia da una stanza all'altra, rimane per un tempo infinito davanti alla porta della sala aperta sul giardino, si sfrega le mani o le tiene dietro la schiena, pensa, fantastica. Il gelsomino fiorito porta fino a lui un aroma colmo di ricordi. E l'anatra che lui e i compagni avevano rubato a donna Chica un carnevale di tanti anni prima, ed erano andati poi a nasconderla nel cortile della sorella? In quella notte di crudo chiaro di luna disteso sulle case basse della città, l'aria odorava dei gelsomini i cui petali si erano aperti durante la sera. Una volta era sgattaiolato da questa stessa porta per andare dalla Linda. Sì, Linda, una di rua do Cavoquinho. Si era messo un gelsomino all'occhiello, chiuso il portone piano piano, eccolo sulla strada battuta dal vento che spazzava la città. Linda era una ragazza di rua do Cavoquinho, non c'è dubbio. Ma aveva riempito le sue notti di ragazzo che si affacciava alla vita dei grandi.
Quando andava là, di solito era in compagnia. Júlio del cinema, Umberto e altri due o tre, e anche alcune sue colleghe, compagne di quella vita di stare con gli uni e con gli altri, marinai, ragazzi del liceo, gente sbarcata da terre lontane. Linda aveva avuto un uomo sposato, prima. Le pagava l'affitto della stanza e portava con sé amici per fare baldoria. Mangiavano riso al tonno con peperoncino o brodo di pesce con farina di manioca, oppure salsiccia fritta. Mangiavano, ridevano, bevevano. Questi bagordi, spesso, finivano a Salamansa, spiaggia meravigliosa, laggiù, all'altro capo dell'isola. Cenavano alla luce della luna e si sdraiavano sulla sabbia a contemplare la notte serena. Era una delle cose che lo rodevano dentro: non aver preso parte alle bisbocce di Salamansa. Linda suonava anche la chitarra e cantava. Oh, se cantava! la, la, la, ragazza basta con i capricci, la, la, la. Ormai non ricorda più. Erano tante le mornas sambas cantate in quella stanza fumosa per la lampada a petrolio sempre appoggiata sopra una latta vuota di sigarette capstain. La fiamma si stirava docile in una lingua di fumo e vacillava, incerta, in qua e in là, annerendo le bottiglie vuote. Si allineavano in ordine sul tavolo, lungo la parete male intonacata. Finì per lasciare l'uomo sposato. - Sai - gli aveva detto un giorno, mentre lui, la schiena sul letto di ferro, le braccia sotto la nuca, contava le travi del soffitto - sai, l'ho lasciato perché gli piaceva fare porcherie. In sottoveste, seduta in fondo al letto, si grattava la testa continuando sullo stesso tono. - A me, queste cose, piace farle come si deve. Porcherie non ne faccio. Accompagnò la frase con un volgere significativo degli occhi. Baltazar si sentì ricompensato. Lui, almeno, era decente. Ricompensato e orgoglioso che Linda si sfogasse con lui. Sedette sul letto e la tirò a sé. La testa di lei gli strusciò il ventre, facendogli il solletico. Baltazar non dimenticò mai quel giorno. Quell'imbrunire, d'altronde, segnò il vero inizio della relazione con Linda durata anni e anni e per essere precisi, ancora alcuni mesi dopo che si era sposato. All'inizio la cercava per puro piacere; poi per bisogno di possederla, di sentire il suo corpo tiepido e sottile, di riposare con la testa a contatto dei suoi seni duri. A volte sentiva sulle orecchie, sulle guance, l'umido del sudore che affiorava sulla sua pelle di creola e scorreva lungo il solco dei seni. A poco a poco aveva scoperto una cosa curiosa. Stava diventando signore del corpo di Linda. Corteggiava quella che sarebbe stata sua moglie, ma il desiderio lo spingeva verso Linda. Tutta la città mormorava, ma cosa poteva farci? In quel crepuscolo Linda gli aveva strusciato le labbra intorno all'ombelico e aveva sollevato il mento, mostrando i denti nella bocca socchiusa. Lui poteva distinguere bene, proprio bene, le sue gambe lunghe e liscie. Di peso, si lasciò cadere supino sul letto. Lì prese slancio per tirarla a sé. Ricorda che, in quel momento, un ragno correva veloce verso un capo della tela fissa a una delle travi del soffitto. La tela aveva tremato, gli occhi si erano abbassati e arrestati su una delle spalline della sottoveste di seta giapponese comperata gratis al negozio di Arã. Ecco, era riuscito a metterla in posizione di resa. Lei lo aveva pregato: - Smettila, su. Sentendosi forte per la supplica, il desiderio lo prese come se già fosse un uomo esperto. Respirò a fondo e la possedette come
si teme che un fiore ci si possa sfogliare tra le mani. Linda battè alcuni istanti le palpebre e le abbassò, ombreggiando con le ciglia calate il volto sereno e ardente. Baltazar continuò a contare i gelsomini già aperti. Che ne sarà stato di Linda? Una volta l'aveva picchiata. Si era incamminato in quella direzione dopo cena e aveva visto uscire dalla sua stanza alcuni ragazzi di Ponta-decais, di quelli che fanno contrabbando in mezzo alla baia. Li rasentò e, entrato nella stanza a pian terreno, gli si presentò la Linda seduta sul mortaio, i gomiti puntati sul tavolo. Il mento si appoggiava sul dorso delle mani, aveva l'aria assonnata. Una candela infilata nel collo di una bottiglia, mezzo consumata, rischiarava il tavolo e i bicchieri sparsi. Lo vide entrare, afferrò la bottiglia con un resto di liquido, la trascinò lentamente lungo il tavolo e, così seduta, la nascose dietro il mortaio, vicino al muro, accostata alla gamba del tavolo. Baltazar aveva capito. I ragazzi avevano portato alcool e Linda aveva preso una bella sbronza. Quegli occhi non lo ingannavano. Le si avvicinò, infuriato e geloso, e le diede un gran ceffone. Lei non reagì, ma quando provò a ripetere il gesto, si alzò adirata e, le mani sui fianchi, gliene disse di tutti i colori, terminando con: puzzi ancora di pipì! Barcollando, lo spinse verso la porta. Non riuscendo a metterlo in strada, si arrestò d'improvviso e gli voltò la schiena. Sollevato il vestito fino alla vita, si chinò mostrando il sedere formoso e, battendosi più volte le natiche col palmo della mano, cominciò a gridare. - È qui,, qui, qui, che tu mi comandi. Perso il controllo, ricorda ancora adesso di averla coperta di calci e infine la fuga, stanco e vinto. Nemmeno il vento che in strada gli fustigava il viso era riuscito a smorzare la rabbia da cui si sentiva posseduto in quel momento. Si ricorda di questi fatti e si scopre a desiderare il corpo di Linda come venti anni prima. Non aveva mai più saputo nulla di lei. Lasciò la sala, percorse il corridoio e raggiunse il cortile. Si fermò soltanto vicino alla cisterna. La domestica, presso la porta della cucina, lo guardò sorpresa. Come se non lo avesse visto, si defilò verso il fondo della cucina e continuò a osservarlo di lì. Deciso, entrò dietro di lei. - Antoninha, ti ricordi della Linda? - Quale Linda, signor dottore? - Linda, una che abitava in rua do Cavoquinho. Antoninha rise, un riso imbarazzato. Il riso gli ferì le orecchie. - Ohi, perché mi fa questa domanda, signor dottore? Piuttosto sconcertato, non indovinava dove Antoninha volesse andare a parare. - Vuole sapere proprio della Linda di rua do Cavoquinho? Baltazar restò zitto. Nessuno ignorava chi erano quelle ragazze di rua do Cavoquinho. Erano ragazze di cattiva reputazione. Lo erano, per lo meno, ai tempi della sua gioventù. Ragazze che tutti i venerdì andavano all'ospedale per il controllo. Tra l'uno e l'altro esame riempivano i giorni, se giorni si potevano chiamare le nottate di bagordi coi dipendenti della Shell, del Telegrafo, o gli ancheggiamenti della coladera a qualsiasi ora, per gli stranieri. Questi lasciavano qualche scellino ma non ci si faceva gran che. - Linda era la sorella più piccola di mio padre. - Come, siete parenti?
- Sì, siamo parenti. Era per davvero sorella di papà. È mia zia.. Aggiunse dopo un breve silenzio. - E cosa ne è stato? - Di mia zia Linda? È andata a S..Tomè. Antoninha raspa con un ferro nel fornello del focolare. - Anch'io, un giorno o l'altro vado a S.Tomè. Non l'ascoltava più. Questa gente di S.Vicente andava tutta a S.Tomè. Perché, se la vita delle donne laggiù era quella di partorire figli degli stagionali angolani, e per giunta, nelle piantagioni, dovevano subire quei figli di puttana dei caporali? - Perché vuoi andare a S.Tomè? - si sorprese a chiedere alla domestica. Non stai bene qui nel tuo paese, Antoninha? - Sto bene, sì, signor dottore. Ma ho un figlio voglio dargli un po' d'istruzione. Lo sa, questa nostra terra è disgraziata. Antoninha sciorina le sue preoccupazioni in un monocorde strascicare di parole. - Il padre di mio figlio mi ha lasciata. Mio figlio passa i giorni a Ponta-da praia e a Rabo-da-salina, a fare il vagabondo, a consumare le strade. Non rispetta più mia mamma. Del resto ormai lei è vecchia e non può stargli dietro. Devo andare a S.Tomè per dare un po' d'istruzione a mio figlio. Scaccia col piede una gallina che, la testa ritta attenta, è entrata, sfacciata, in cucina. Baltazar, sulla porta, abbraccia l'ampio cortile dove i polli becchettano qua e là. Era venuto a S.Vicente per qualche tempo, ma aveva già una gran voglia di tornarsene via. La sorella passava i giorni a lagnarsi per la pioggia latitante da due stagioni, i poveri avevano cominciato la fuga per S.Tomè, i suoi coetanei o erano emigrati in America o si erano lasciati andare a quell'apatia di Mindelo, impotenti a lottare contro il vento diabolico che spingeva l'acqua da altre parti. Cosa lo tratteneva lì? Niente, niente. - Devo tornare a casa mia a S.Paulo, là, vicino al Cais do Sodrè. La recriminazione gli sfugge senza che se ne accorga. Antoninha, accoccolata, sistema il cesto sotto il focolare alto fatto di pietra e di cemento. Controlla nel fornello una patata che aveva messo lì ad arrostire, sotto la cenere calda. Restando accoccolata, girò il busto e si stupì: - Ma come, signor dottore, parla da solo? Il vento entrava nel cortile a folate, ravvolgeva la polvere scavandola a imbuto, come buche del catumbebê. Perché gli era venuta in mente Linda? Erano ormai passati tanti anni su questo legame gettato dietro le spalle dopo alcune scenate con la moglie. Aveva smesso con lei definitivamente quando si era imbarcato per il continente. Quanti anni! Si era laureato, aveva figli grandi, era diventato un buon padre di famiglia e volete saperlo? Sarebbe capace di fare qualche sciocchezza se incontrasse la Linda di nuovo. Linda camminava scalza, i calcagni ben lisci, sempre sfregati con sassi di mare. Non li aveva screpolati come molte donne che camminano scalze, proprio no. E fumava con un'eleganza, signori. Le gambe accavallate, si appoggiava al tavolo scorticato della stanza dove riceveva gli amici e dove andava a letto con loro o con altri, soffiando il fumo con la stessa disinvoltura che avrebbe trovato più tardi nelle frequentatrici delle sale da tè, là sulla salita del Chiado. L'aveva sconcertato a volte, con una cert'aria mascolina adottata negli ultimi tempi. Usciva in strada con la sigaretta in bocca e andava in giro, sempre con la sigaretta in bocca, a scandalizzare tutta la città, i
piedi ben sfregati con sassi di mare, il fazzoletto rosa legato con un nodo in cima alla testa, il vestito di seta giapponese che le disegnava il corpo nei punti giusti. - Amiamoci - diceva - godiamo. E concludeva la frase rizzando, arrogante, il capo. Baltazar camminò tra i pezzetti di legna sparsi per il cortile e si fermò vicino alla cisterna. Dal fondo della cucina un canticchiare basso accelera il ritmo. La coladera scorre dalla bocca di Antoninha e lo invade come una carezza, poi lo culla, lo stordisce - ah! Quanto è straordinaria la nostra terra! -trasportandolo sulla sabbia di Salamansa dove andrà a rotolarsi e a baciare la spuma del mare. Antoninha, dimentica delle sue preoccupazioni, gorgheggia con gusto: "m'ba' pâ Salamansa oh, sô sabe m'bá rolá na areia oh, sô sabe oh menima colá na mi pa' m'podê brincá ma bô... (4) Oh, Salamansa, spiaggia dalle onde libere chiassose come ragazze tentatrici nel giorno di San Giovanni. Oh, Salamansa, di pesce fritto nei piatti coperti in fondo ai panieri e cartocci di popcorn che la zia preparava in paiuoli posti su brace mista a sabbia. Sabbia di Salamansa. Linda che si rotola nella sabbia. Lascia il cortile, passa per lo sgabuzzino del retro e sparisce nelle stanze della grande casa.
LUÍSA FIGLIA DI NICA
"Il mare batteva violento contro gli scogli dell'Isolotto-degli-Uccelli e grondava mieloso per i dirupi". - Tu hai la mania di nascondere il nome delle malattie. Anton è venuto da Santo Antão così ammalato, così magro, così giallo, e tutti sanno solo dire che ha dei sassi nel fegato. Tre giorni disteso su quello sdraio del corridoio con dolori tremendi e senza la forza di parlare, e tu che nascondi, nascondi. Luísa litigava con la madre. Sembrava sconvolta. Liti e liti. - Questa tua fissazione mamma. Hai fatto venire Anton qui in casa, e va a finire che diventiamo tubercolose anche noi due, qua dentro. Nica, madre di Luísa, non riusciva a dire due parole di fila. La figlia non gliene dava la possibilità. Nica non era Nica. Era un automa dietro la figlia, a cercare di spiegarle, ma Luísa non la lasciava parlare. - Dio mio, Luísa - riuscì ad articolare impappinandosi. Sembrava una terza persona in scena. - Questi discorsi di gente tubercolosa, questi discorsi di sassi nel fegato. Dio mio, Luísa. - Hai la mania di nascondere la malattie, mamma. Antonio è tubercoloso, te l'ho detto. Va a vederlo, va! Va a vedere la sua bocca sempre aperta per bere l'aria! E indicava la porta del corridoio. Questo dialogo si svolgeva in cortile. - Ah,mamma, Dio non voglia che Anton senta questi discorsi. Luísa si calmò d'improvviso senza motivo. - Poverino, anche se stesse per morire,
gli dovremmo parlare in modo diverso, no? Che migliorerà, che passerà, non è così, mamma? Luísa aprì il cancelletto ed entrò nel corridoio. A metà corridoio si fermò vicino allo sdraio. - Domani ti porto all'ospedale, ti porto dal dottor Augusto, hai sentito, Anton? Dal cortile la voce della madre arrivò fino a lei. - Luísa, figlia mia, smettila con questi discorsi. Per amor di Dio, smettila con questi discorsi. Uscirono di casa ancora presto, per evitare il sole a picco sulla testa. Camminavano un pochino subito si fermavano per riposare. Camminavano un altro pochino e tornavano a fermarsi. Anton si lamentava e metteva la mano nel punto del fegato. Era lì il dolore. - Sta tranquillo Anton, vedrai che non è niente. Nica era rimasta sulla porta a guardare la figlia che si allontanava. Qualcuno l'aveva vista tirare Luísa verso casa. Alla fine la lasciò. Cominciò a sfregarsi la faccia con le mani. Sfregò, sfregò, avreste detto che si voleva tirar via la pelle del viso tanto sfregava. Quando svoltò l'angolo di rua dos Descobrimentos si fermarono un'altra volta. Luísa vide Nuna affacciata alla finestra. Ah gente, mi ero dimenticata del ballo di questa sera. Che testa, che testa, eravamo d'accordo che avrei procurato un costume di carnevale per lei. E dovevo trovare delle calze bianche per me. E adesso Anton. - Camminiamo più in fretta, sì? Così arriviamo all'ospedale che la visita è già finita. Luísa alzò gli occhi e allungò lo sguardo fino alla finestra di Nuna. Non c'era più. Aveva tirato a sé sbarrato le persiane. Anton cominciò a camminare più in fretta, ma dovette fermarsi. - Scusami, Luísa, non ce la faccio a camminare. Il male non mi dà pace. Mi fermo un po'. - Sciocchezze, Anton. Cammina, prova e vedrai. Oh, gente. In questo paese non c'è nessun aiuto per un disgraziato. Né una macchina, né una barella, neppure due assi per portare una creatura all'ospedale. Può benissimo morire per strada. Anton sudava. La camicia appiccicata al corpo, la testa umida, la faccia spenta. Passando davanti alla finestra della Nuna, Luísa spiò tra i listelli delle persiane verde scuro. Erano chiusi anche i vetri e non potè distinguere niente oltre la penombra che avvolgeva la stanza. - Hai portato il berretto, Anton? Il sole sta facendosi caldo, devi coprirti la testa. Anton tirò fuori il berretto dalla giacca di tela rustica. - C'è un'aria afosa! Pioverà. Mise il berretto e si fermò. - Pioverà. Si guardò intorno. - Pioverà. - Quale pioggia, Anton. Tu non conosci il caldo di Soncente. Questo caldo viene dallo scirocco. Si alzerà un vento soffocante nel pomeriggio! Ci farà screpolare e bruciare le labbra, se non mettiamo vaselina intorno alla bocca. E verso sera il vento soffierà più forte. Vedrai che roba, la terra entra per le fessure delle finestre; panni, carte, spazzatura scappano via dai cortili insieme al vento; lui li avvolge scappa per queste strade come bambini che giocano a rincorrersi. A Paul non è così, Anton? - No, da noi a Paul, quando fa molto caldo e viene un tempo così, un po' strano, è sicuro che avremo la pioggia.
Luísa fece un sospiro. Mi è ventuto in mente a chi posso chiedere le calze bianche. Nair può prestarmi le calze del matrimonio. Voglio mascherarmi da arlecchino mericano. Cappello alto, giacca di satin nero senza maniche, short a quadri bianchi e neri, pettorina plissettata di organdis bianco, calze bianche, scarpe basse nere, un bastone. E guanti bianchi. No, chiamerò in un altro modo la mia maschera. Ecco, ho trovato. La chiamerò, negro quando ha i quattrini. - Andiamo Anton, dobbiamo sbrigarci. Egli respirava con difficoltà, (o non respirava?) in maniera affannata. - Sono così stanco, Luísa. Non ce la faccio. È ancora molto lontano? - Appoggiati al mio braccio. Adesso camminiamo con calma, senza fretta. La vedi quella donna là, seduta sulla porta di Dona Angélica? Quando le passiamo davanti non dire niente. Né buon giorno, né buona fortuna, né niente. È un po' fuori di testa ma è tranquilla. Luísa contava i passi. Sette,otto,devo ancora cucire i quadrati di satin bianco sopra gli short. E comprare borotalco da spargere nella sala da ballo. Il braccio di Anton pesava sul suo. - Quella donna sta di traverso sul marciapiede, Luísa. Non passeremo mica sopra di lei, eh? Una sensazione di freddo le attraversò il corpo. Debole, senza forza, come potrà scendere il marciapiede per evitare la donna? La stessa debolezza Luísa la sente dentro di sé. - Non ti preoccupare. Vedrai che passeremo, sì che passeremo. Trascinano le scarpe sulle pietre col passo di chi non è capace di camminare. Luísa si fermò vicino alla donna. Questa si alzò aprì le braccia. Luísa si decise, protese le mani e la allontanò. - Compermesso, sora Ninha. La strada è fatta perché la gente ci passi. - Chi ha detto il contrario? La strada è per camminare, la porta è per passare, la casa è per abitare. E io mi sposo e mi metto una corona di ortica. - Va bene, sora Ninha. Compermesso. Prima di proseguire Luísa arricciò il naso e storse la bocca. - Avete un odorino di sporco, sora Ninha. È perché vi trascinate lì per terra. Siete una persona adulta, potreste avere più giudizio. E se vi cambiaste la biancheria di sotto? La sora Ninha si appoggiò alla porta e scosse la sottana con la mano, poi la sottana di sotto, sfregò i piedi uno sull'altro. Anton cominciò a tossire. Si teneva il petto con le due mani. Luísa era pentita di averlo portato senza l'aiuto di nessuno, senza avvisare il dottor Augusto. Non ce la fa. Anche così, con più di metà strada ancora da fare, non rinuncerò. Ohi, Dio ce ne liberi. Tornare indietro! Manco per sogno. Tornare indietro è tornare indietro. Manco per il cavolo. - Andiamo Anton. Solo un altro pochino. Anton non aveva colore. La faccia era diventata grigia. Fece l'atto di piegarsi. Si siede, gente. E adesso? Luísa guardò i due capi della strada. Si appoggiò al muro della casa del signor Inácio, e tenne stretto il braccio di Anton infilato sotto il suo. Le case in stile pombalino, tutte avevano le persiane chiuse. Al primo piano, di fronte, si poteva vedere sora Joaninha seduta sulla veranda in una poltrona di vimini. Stava prendendo il fresco del primo mattino. Sora Joaninha si raddrizzò sulla poltrona, appoggiò il mento sul parapetto
della veranda guardò in strada. Poi riprese la posizione di poco prima, mani in grembo, occhi immoti, spirito tranquillo. Sora Ninha si era seduta sulla soglia della porta. La sottana abbassata sulle gambe un po' discoste per via del caldo, una mano sotto il mento, guardò Luísa così, dal basso. - Stai appoggiata al muro in un modo. Sembri una ragazza di strada. La mano di Anton si fece leggera sul suo braccio. Luísa si sentì libera e potè indicare col dito la vecchia. - Dicono che siete fuori di testa. Che siete matta. Ma quando volete insultare un uomo o una donna non siete più matta, vero? Sora Ninha fece una risatina bassa, come una campanella. - Allora sono fuori di testa, vero? Allora, se una creatura di Dio si appoggia sola come te, così al muro, è o non è una ragazza di strada? Di primo mattino appoggiata al muro, cari miei, o una è un po' tocca oppure è una ragazza di strada.. O no? Luísa sentì in gran caldo in tutto il corpo. Il sangue le salì alla testa. - Sola? Non avete gli occhi nella faccia, sora Ninha? - Sola, sissignore. Non vuoi essere ragazza di strada ma è come se lo fossi. E allora? La campanella del suo riso suonò e tremolò un'altra volta. Sora Ninha è matta da legare. Meglio non dar corda a questa conversazione senza capo né coda. Malgrado il fuoco per tutto il corpo, come un'ondata di sangue che volesse uscirle di bocca, Luísa doveva risolvere il suo problema e quello di Anton. Egli aveva tolto il braccio da quello di lei. - Su, Anton, andiamo. Sora Ninha è matta e a ribattere si perde solo tempo e pazienza. Girò la faccia verso di lui. Oh, che stranezza! - Ohi, Anton, dove sei andato? Non può essere. Anton non avrebbe mai potuto andarsene di qui. Non riesce a fare due passi di seguito. Non ce la faceva neppure ad arrivare in fondo alla strada. Mancano ancora diverse centinaia di metri. Non può essere. Luísa fece una corsa fino all'incrocio, scrutò rua de Lisboa. Dio mio, questa è opera di stregoneria. Non ci capisco niente. O sono diventata matta? Affrettò il passo fino alle vicinanze del Palazzo. Anton non poteva essere passato per la piazza del Palazzo. Le venne voglia di mettersi a gridare, a urlare per radunare gente. Il suo cuore era un tamburo. Digrignò i denti e ritornò nella strada di sotto. Camminava adagio, gli occhi a casaccio. Entrò nel mercato, salì le scale e rimase lì, davanti alla macelleria. - Oh gente, oh gente, questa è opera di stregoneria! Soltanto un suono. Le parole non uscivano dalla bocca secca e senza colore. Scese le scale del mercato facendo i gradini a due a due. Tante mosche nel mercato. Tante mosche sulle banane, le guaiave, i manghi. Mosche che gironzolavano sui sacchi aperti di patate dolci, sui mucchietti di manioca, sulle cime dei pezzi di canna da zucchero. Giunta sulla strada, non sapeva più da che parte andare. Dietro di lei rimase il vociare alto delle donne, il ronzio pigro del mercato dove un bambino rubava arance e chiedeva qualche spicciolo per un dolcetto di cocco. Camminò, camminò. Tagliò per vicoli e strade. Non era più Mindelo, la sua terra. Non erano più le strade della morada, di signorinette che passeggiavano, con infradito di pelle di serpente della Guinea e vestiti
di satin comperati al negozio degli indiani. Dove ragazzini vendevano di contrabbando sigarette Gold Flake, vassoi di alluminio, cioccolata dei piroscafi, margarina dell'Argentina, carne del Nord così saporita e persino cuscini rubati a bordo di navi norvegesi, svedesi. Dove i barattoli di conserva e i formaggi olandesi? Che terra è questa dove si vedono solo gramigna e certe pietrone, e lei scivola attraverso un imbuto talmente stretto che neppure un bruco ci potrebbe passare? Un vento la spinge fuori dalla sua terra, per uno spazio di bufere, di sassi, di vulcani morti, di mulinelli di polvere. Si tappò il naso con le due mani camminò a capo chino, il corpo ad arco, contro la tempesta senza pioggia, senza tuoni o lampi. E questo sgretolarsi di rocce sfatte in pietrame sempre dietro di lei. E lei sempre in fuga e le pietre a balzi, in tragitti precisi e fragorosi. Sono passi di canelinha. Canelinha è talmente leggera, talmente un corpo unico di gambe braccia capelli, un tutto canelinha, tibia o perone, è lo stesso, è sempre canelinha. Luísa faceva lunghi passi nell'aria, le gambe, distanziate tra loro da un allenamento olimpionico, toccavano il suolo con precisione. Poteva competere con canelinha. Ogni passo misurava un giorno. La bufera si calmò, era un'esalazione di caldaia, un'esalazione di olio di curcas. Strinse il naso di nuovo. Una schiuma di olio dilagò davanti a lei. Cominciò a raccogliere semi di curcas. Saltavano salti di canelinha e lei li afferrava e li infilava via via in una punta. Poi li lasciava cadere lungo la strada e gli avvicinava un fiammifero. Ripetè questa operazione un centinaio di volte, cioè cento canelinhas di volte. Ogni canelinha dovrebbe avere la misura di un nastro color ruggine. Illuminava via via la superficie e scivolava in punta di piedi. Provò un ballo e rise forte. Camminò, slittò, scivolò carponi. Attraversando colline di schiuma, sempre in punta di piedi sulla cima di ogni cucuzzolo, scalò onde di olio di curcas molli tiepide, afferrandosi a rami di zucca come ragni grigi tra la cosificazione della vita senza vita. Non arrivava più al termine della giornata e aveva oramai perso il conto del tempo. Sentì lontano, là dall'altro lato, l'eco della risata di quando aveva provato il ballo, questo ballo di canelinha, della risata che viaggiava nel tempo e la cercava un'altra volta. Il bravo figliolo torna a casa, pensò. Hai capito Luísa? Io-Luísa, tuLuísa, lascia perdere le risate senza fine e sbrigati. Mi sbrigo. Io-tuLuísa andiamo. Va e entra. Luísa corse, corse. Udì la tromba e corse di più. Volò. Arrivare in tempo prima che i portoni si chiudano. La tromba suonava più vicino, i portoni, eccoli. Al morire dell'ultimo suono di tromba, i portoni si chiuderanno per sempre. State bene attenti, per sempre. Volava Luísa, i capelli sciolti, scoperti i seni vergini, capaci di allattare quante migliaia di figli fossero venuti. La tromba esalò l'ultimo arpeggio in agonia. I portoni si chiusero senza fretta. Luísa gridò (ululò?) e si gettò contro i battenti dove picchiò cento volte con tutta la forza dei pugni. Scivolò, le mani scesero lungo la superficie del portone e si lasciò allora andare nel mare di schiuma della curcas calda. Il mare batteva violento contro gli scogli dell'Isolotto-degli-Ucelli e grondava mieloso per i dirupi. La madre la sollevò da terra, rigida, le labbra viola, la bava negli angoli feriti della bocca. Non si svegliava più. La chiamò per nome, la scosse. Luísa, Luísa, Luísa.
La trascinò per il cortile fino alla porta del corridoio. Diede un sospiro di sollievo. Per fortuna nessuno aveva fatto caso a Luísa caduta sulla porta di casa. Meno male. A Soncente si divertono a inventare cose, subito sarebbero cominciati i pettegolezzi basati su niente, storie di innamorati, aborti, fantasie a non finire e il nome di una ragazza giovane sporcato senza alcun motivo. Nica non sa contare le notti in bianco al capezzale della figlia. E lei senza svegliarsi. Dieci, venti, cento anni? Nica ha perso il conto. Tatóia si insospettì del silenzio della casa di Nica e le battè alla finestra. Nica aprì uno spiraglio. Teneva un panno ripiegato sulla fronte, annodato dietro la testa. - Ho un mal di testa, Tatóia. Non riesco neppure ad aprire gli occhi. Gli occhi di Nica sembravano due borse rugose. - Ah Nica, sorella mia, questo è un ragno che ti ha pisciato sulla palpebra. Lasciami vedere. Apri questa palpebra, chiudila. Adesso scoppia. Apri, chiudi. È stato un ragno, è stato. Non hai dell'acqua purificata? Se non ce l'hai te ne porto una bottiglietta. Questa settimana ne ho fatto purificare quasi cinque litri. Nica teneva la testa appoggiata alle persiane semiaperte e ascoltava con gli occhi chiusi. Tatóia parlava, ah quanto parlava! - Preferisco l'acqua purificata dal sor Henrique. È un bravo medium e attira soltanto influssi buoni. Nei giorni di sedute di pulizia psichica, porto sempre acqua da purificare. Dopo ti porterò un po' di quell'acqua per fare gli impacchi sulle palpebre. Si sgonfieranno in un baleno. Nica tossì. - Allora, Nica, non ho visto la Luísa. Non c'è? Nica fu presa dal panico. Tremava senza sosta. - Nica, sorella mia, sei agitata. Tatóia si diede a fare supposizioni. Queste ragazze di oggi cominciano a far l'amore, cominciano a uscir di notte, dopo sono aborti o un neonato tra le braccia. - Su, Nica, non ti agitare. - Entra Tatóia, entra. Ti apro la porta. Nica chiuse le persiane, chiuse i vetri e andò a togliere il catenaccio dalla porta. - Entra, vieni a vedere la Luísa. Le è capitato qualcosa l'altro ieri mattina e fino a oggi non si è ancora svegliata. Chiuse la porta e si mosse verso l'interno della casa a fianco di Tatóia. - Lasciami fare il segno della croce. Padre, Figlio, Spirito Santo. Dio scampi e liberi! Tatóia era perplessa e non che esagerasse. Si tratterà di un aborto? O sarà stata sedotta? Nica la condusse nella camera di Luísa. Il letto appoggiato alla parete, Luísa tutta coperta, la testa sotto una coltre di cotone. In un angolo, una macchina da cucire a manovella sopra un tavolo. Una finestra dava su un cortile abbandonato. - Sta così da non so quanti giorni! Non mangia, si lamenta tutto il tempo. Le ho infilato qualche cucchiaiata di brodo giù per la gola, ma lei sputa tutto, spezza il cucchiaio con i denti, si dimena, un inferno. - Non hai chiamato il dottore, Nica? Seduta su una sedia, le dita delle mani intrecciate, i pollici che ruotano uno dietro l'altro. Tatóia, di fronte a lei, segue con molta attenzione tutto quanto l'amica le sta raccontando. - Con questo mal di testa, non ho potuto pensare a nient'altro. È una cosa diversa, non è malattia per dottori. Quando l'ho trovata caduta sulla porta di casa, da alcuni giorni andava facendo discorsi strani. Il più delle volte mi lasciavo prendere anch'io da quei discorsi. Sapevo che era tutta un'invenzione, ma stavo a quei discorsi. - Che specie di discorsi? Ah, la mia ansia di sapere. Tatóia, sta calma, abbi pazienza. Non stare lì a sollevare e abbassare il tuo petto piatto.
Questi son discorsi di spiriti, son discorsi di morti-vivi, di stregoneria, di diavoli. Niente domande. Sbrigati Tatóia, torna a casa, questo posto dev'essere stregato, non riscaldare questa sedia di paglia dove stai seduta. Gli spiriti possono possedere anche te. Nica cominciò a singhiozzare. - Ah gente, lei parlava solo di Anton. Anton di sopra, Anton di sotto, quando io provavo a dire qualcosa, interrompeva immediatamente il discorso. Litigava con me, Tatóia. Non c'era verso di ragionare. Sono stati giorni giorni di insulti. Ma io lo sapevo, Tatóia, e lo sai anche tu, Anton, il nostro cugino di Santo Antão, là, della Ribeira do Paul, è morto tanto tempo fa, la Luísa non era ancora nemmeno nata. - Dio mio, Nica, Dio mio. Questa casa è stregata. Adesso vado, Nica, adesso mando un'ambasciata al signor Henrique. Dovete fare pulizia psichica se no voi, qui dentro, diventate matte del tutto. E lei, Nica, ha bisogno di una buona dose di bastonate, Nica. La stanza si oscurò. Oppure tu, Tatóia, sei diventata cieca all'improvviso? Frammenti di terra tirati contro la parete si sfacevano spargendosi sul pavimento. Il copriletto era tutto inzaccherato. Sembravano schizzi di fango. Nica afferrò la figlia e la scosse. Luísa era tutta una convulsione e un digrignare di denti. Tatóia fuggì lungo il corridoio battendosi il petto e chiamandosi, Tatóia, Tatóia! Frammenti di fango le cadevano addosso. Alla larga i cattivi influssi. Le mani battono il petto con vigore, Tatóia, Tatóia, Tatóia! (fosse mai che gli spiriti si impossessassero anche di lei), la voce accompagna questa isteria. Carnevale 1977
CANAL GELADO "Dì, Ludja, e l'Isolotto-degli-Ucelli? È sempre allo stesso posto??" Quel giorno non era la prima volta. Attraversò il Canal Gelado per raggiungere più in fretta rua de Praça Nova. Cocciutaggine di bambina, perché quasi nessuno faceva uso del passaggio stretto, ricettacolo di malattie, pipì e penuria di catchupa, passaggio utilizzato soltanto degli abitanti del Canal. Quando tornavano dal lavoro della Compagnia del Carbone, entravano dalla parte di sotto. A quei tempi tutti camminavano scalzi, adulti e bambini, e tracce di polvere di carbone della Compagnia striavano i vestiti rammendati, vestiti da lavoro. Verso sera uscivano dal lato di sopra, più ampio e arieggiato, andavano a farsi un bicchiere o a mangiare uno zabaione alla mescita del Freita. Uomini e ragazzi si allineavano lungo il bancone di tavole. Altri restavano raggruppati in un angolo o appoggiati a una catasta di sacchi di arachidi nell'altro angolo. Arachidi tostate e un buon bicchiere, dolce di arachidi e ponce, cartocci di arachidi da mangiare sul far della sera camminando verso la Pontinha o tranquillamente seduti sulle panchine di Praça Nova. All'angolo col Canal si potevano comperare dolce di zucchero, dolce di
latte, e croccante di arachidi. Arachidi grosse, arachidi buone, arachidi della Guinea. La settimana scorsa sono andata a tener compagnia alla Ludja. - È buffo mi ha detto - gli uomini della nostra terra camminano ancora scalzi, alcuni si vestono solo la domenica con panni arrivati dall'Olanda. Ma il Canal Gelado è scomparso. - Ah sì, come? - Sai, era roba degli inglesi. Hanno sbarrato le uscite di quel pozzo di tubercolosi. Sora Quinha si affacciò sull'uscio e sollevò la mano alla fronte, sopra il fazzoletto, per mitigare il bagliore del sole, così caldo quel giorno. Tirò su la testa come volesse affrontare l'afa. - Ah, figliolo, quella bambina oggi è già passata di qui tre volte. È figlia di gente perbene e va in giro da queste parti. Di sicuro è scappata di casa e ha voglia di spassarsela. Sora Quinha rientrò in casa e accostò la porta. Le case del Canal Gelado erano tutte uguali. Una stanza a pianterreno e un cortiletto. Lì cucinavano e si lavavano. Le case si estendevano da un lato solo di quel condotto d'aria, fiancheggiate da un muro dell'altezza di un pianterreno. Dall'altro lato del muro c'era un gran cortile dietro ad altre case dell'altro angolo della via. Sora Quinha scese due gradini all'interno della casa e andò a sedersi sopra una cassa vicino alla branda del Lela. - Lela, vuoi un goccino di tisana di buccia d'arancia? Djodja è arrivato ieri da S. Nicolau e ci porterà una bottiglia di sciroppo di crescione per la tua tosse. Lela non rispose. Non si girò neppure. Sdraiato sulla branda, la sua barbona era nera e crespa e il testone di capelli lasciava vedere soltanto un pezzettino di orecchio. Ludja mi ha dato altre notizie. - Sai, quel rione è stato demolito completamente, hanno scoperchiato tutte le case. Se andassi là adesso, vedresti soltanto muri. - Alla vista, non farà una gran differenza, ho azzardato, dando un morso al mio toast. Ludja mi ha tolto la parola. - Be', differenza ce n è molta. Vacci nella stagione calda, ragazza. Vedrai case nuove, alte, il quartiere olandese, il quartiere. Nel silenzio pomeridiano il mio masticare sembrava prendersi gioco delle parole di Ludja. Il toast era proprio buono e scrocchiava tra i denti. Sora Quinha si alzò e aprì la porta. - Chi è? Ah, sei tu bambina? No, no, di cimbrão non ce n è, il cimbrão è finito. Solo domani. Domani sì, viene la nave di Ribeira da Barca e me ne arrivano un due sacchi. No, bambina, non ho del cimbrão oggi. Va per la tua strada, grazie. Lela riuscì a distinguere solo la voce della sora Quinha. - Chi è, mamma? La sora Quinha chiuse la porta e tornò a sedersi sulla cassa. Si era appena seduta che si alzò e andò a cercare la scopa senza manico, fatta di paglia di non so cosa, e cominciò a spazzare. - Potevi prendere un pochino di tisana di buccia d'arancia adesso, Lela! - Si tirò il fazzoletto sulla fronte. - Quella bambina oggi è già passata di qui tre volte, nel Canal Gelado. A chiedere se le vendo cimbrão. Testarda. Io che le mostro il sacco vuoto, lì sulla panca, e lei che insiste. Andò a prendere un boccale appeso a un chiodo sopra un orcio, lo riempì d'acqua e spruzzò il suolo per poter continuare a spazzare.
Col pavimento di terra battuta, per spazzare prima bisogna spruzzare, se no è un polverone, gente! Le case saranno state una quindicina lungo il Canal. Tutto il rione, d'altronde, era fatto di quelle case di una stanza e un piccolo cortile. Case degli scaricatori di carbone della compagnia inglese Miller's and Son. Di fronte il rione dava su rua da Praça Nova e aveva un aspetto più decente. Cominciava con la casa della sora Chiquinha, la casa del dottor Roque, la chiesa inglese. Svoltato l'angolo, la strada di lì in avanti saliva. Era la Travessa de Cadamosto. In casa dello zio Pedro si entrava da un cortile dove c'erano capre, piccioni e galline. Quante volte lo zio Pedro non insisteva col sig. Miller perché gli aprisse una porta dove c'era la finestra. Almeno, chi veniva a trovarlo, smetteva di entrare dal cortile. Dal primo piano si poteva vedere la proprietà del prete inglese. Ogni tanto, dando un'occhiatina, lo vedevamo prendere bagni di sole nudo come un verme. Un giorno scoprimmo una cosa divertente. Facevamo dei gridolini, ui, ui, ui, e restavamo buoni buoni. Il prete inglese, in mezzo al cortile, le mani a nascondere il sesso pallido, i capelli radi al vento, si dava da fare per scoprire l'autore dello scherzo al di là della finestra del primo piano sempre chiusa. Altre volte facevamo brr, brr, brr. Sora Quinha portò la tisana in una tazza di alluminio. - Bevi, Lela, bevi. Lela voleva stare tranquillo, col suo male nel petto. Fosse stato un brodo caldo! Tisana di buccia d'arancia! Sputò in terra di fianco alla branda, afferrò un bastone e fece sparire lo sputo nel pavimento di terra, sfregandolo avanti e indietro. Dello sputo rimase appena una macchia umida accanto alla branda. La casa del prete inglese, quella di Dona Chiquinha, quella del Dottor Roque e altre ancora lungo la strada, come quella di Dona Marta, l'ufficio della Wilson and Company, ecc.ecc. erano la riserva della gente-bianca. Gente del circolo, del gioco della canasta, del mah-jong. Mandinha uscì dal Canal e proseguì lungo la casa del Dottor Roque. Andava alla scuola di Dona Daluz. Le piaceva passare per il canale e osservare le case. Tutte avevano una porta e una finestra. Le porte o erano aperte a metà o accostate come quella della sora Quinha. Per entrare si scendevano due gradini all'interno della casa. Una o due brande, un tavolo appoggiato alla parete, una panca o due, un orcio d'acqua nell'angolo, coperto con un piatto di smalto e sopra un boccale. A Mandinha piaceva guardare vedere il Lela rannicchiato sulla branda con un panno sopra, mosche a zig-zag, sora Quinha seduta su una cassa in attesa di clienti. Vicino al tavolo alcuni sacchi di cimbrão e di tamarindo. Un boccale piccolo di cimbrão un soldo, quattro tamarindi un soldo. Sora Quinha mise a posto la scopa e andò a sedersi sulla cassa. Lela tossì, sputò in terra e rimase sul fianco a lamentarsi piano. Ogni tanto sentiva che gli mancava l'aria. Doveva mettersi a sedere sulla branda. La madre gli sfregava la schiena o gli dava una cucchiaiata di acqua zucchero. - Quando starai meglio andrai a Santo Antão a cambiare aria, figliolo. - Ludja, che nè stato della sora Quinha? - Oh, è morta parecchio tempo fa. Il pomeriggio e la nostra conversazione languivano.
- Sono molto contenta di esserti venuta a trovare, Ludja. Devi venire a casa mia. Vieni una domenica. Ti faccio un cuscus caldo da prendere con caffè di Fogo. Nell'ascensore ho messo un po' di cipria e ho passato la saliva sulle sopracciglia. Il clima si era rinfrescato. l'aria fredda della sera mi ha ricordato lo sbocco d'aria del Canal Gelado. Mandinha era passata altre quattro volte per il canale di ghiaia e piscio, nel giro di pochi giorni. Una delle volte aveva sentito gridare nella casa della sora Quinha. Si appoggiò al muro e aspettò. - Gesù, Giuseppe, Maria, aiutatemi voi. Dalla porta di sotto uscì Mari Tuda seguita da Joana. Frettolose. Entrarono in casa del Lela. - Non dovete angustiarvi sora Quinha - diceva sora Joana. - Mettiamoci a pregare. Sora Quinha piangeva con le mani sulla testa. - Ha mangiato un uovo al tegamino adesso adesso. Sono andata a prenderlo nel nido che la gallina l'aveva appena fatto. - È stato l'uovo a fargli venire questa debolezza -sussurrò Mari Tuda. Mandinha rimase appoggiata al muro, la testa tesa all'ascolto. Non si sentì più nulla. Una mano le toccò la spalla. Mandinha si scostò restando appoggiata al muro. Quello sfacciato senza scarpe, mettere la sua mano sporca sulla mia spalla! Voltò la faccia e mise la lingua tra i denti di sopra e il labbro superiore. Strinse gli occhi con forza. - Stai prendendomi in giro, bambina. Mi stai facendo le boccacce. Sono un adulto e sono una persona rispettabile. Oltre tutto, i bambini non fanno le boccacce agli adulti. Mandinha prese la cartella da terra, la mise sulla spalla. - Io non la conosco, io non parlo con gente scalza. - Gente scalza ma seria. Tua madre e tuo padre ti mandano a scuola e tu vieni qui nel Canal Gelado. - Mio padre no, perché mio padre è morto. Io vengo a comperare cimbrão nella casa della sora Quinha. - Va a scuola, bambina, Lela della sora Quinha è tubercoloso, va a finire che ti prendi qualche malattia di petto anche tu. Per molti giorni non fece la strada del canale. Passava lontano, un'occhiatina e camminava dritto davanti a sé verso la scuola di Dona Daluz. Quando Mandinha rientrò, c'era Bia in casa. Seduta ai piedi della zia, stava facendo retine da vendere. - Oh, Mandinha, hai i denti tutti gialli. Devi sfregarli come si deve. Zia, Mandinha è una sporcacciona. Non si lava i denti come si deve. Mandinha si stizzì e tirò la cartella in mezzo alla stanza. - Sporca sei tu, zozza sei tu. Credi di piacere al Toi, ma lui fila con l'Emidia, fila con la Bleca e fila con la Dorotea. Ti sta bene, ti sta bene. Bia l'afferrò per un braccio. - Ti dò due schiaffi, ficcanaso. Stai sempre in strada, per questo sei così maleducata. Parla di cose della tua età e non t'impicciare della mia vita. La madre di Mandinha si dondolava dolcemente sulla sedia a dondolo. Tutto in lei era dolce. Il parlare, il camminare, i gesti. Posò il romanzo in grembo, aperto e voltato all'in giù. - Bia, non si minaccia nessuno con gli schiaffi. La faccia di un uomo, di qualsiasi persona è sacra. È l'ultimo posto dove si picchia una persona. - Zia, non vedi com'è maleducata? Parla solo di cose da adulti. - Si girò verso la cugina. - Tiè tiè, corna a te fortuna a me.
Mandinha, agitata, andava in qua e in là e parlava. - È vero, è vero. Dicono che Toi ti ha fatto una cosa, ta, ta, ta. - Lo vedi, zia? - Bia cominciò a piangere. - Mandinha passa sempre per il Canal Gelado, è lì che impara a mancare di rispetto. Passa di lì tutti i giorni, per questo è una maleducata. E insolente. Oh, zia, guarda come tiene le mani sui fianchi. Sembra una di Ponta-da-Praia. - Nel Canal Gelado, Mandinha? Non ti vergogni? Andare da quelle parti come una poco di buono, eh? - Oh, mamma, vado là soltanto per comprare cimbrão in casa della sora Quinha. E poi è molto tempo che non ci vado più. Bia è una bugiarda. Bugiarda io? Impicciona che non sei altro. Te l'ho già detto, ti do due schiaffi come si deve se ti immischi nella mia vita. - Sì, sì, è che ce l'hai con me. Perché ho messo in piazza i tuoi segreti. - Sta zitta, Mandinha - ordinò la madre. - Sta zitta e va a fare merenda. La madre di Mandinha prese il romanzo e lo voltò. Cominciò a dondolarsi in avanti e indietro sulla sedia a dondolo, con quella sua speciale dolcezza. Posò il romanzo di nuovo. - Ascolta, Bia, vedi questo romanzo? È molto bello. Ma nella vita a volte ci sono delle sorprese. Bisogna tenere gli occhi aperti, Bia. La vita è vita. La vita non è un romanzo. Bia piangeva un'altra volta. - La vita è come una macchina. Deve essere guidata molto bene, se no andiamo giù per la scarpata. Mi ascolti, Bia? - Oh, zia, Mandinha è sempre stata così. Solo perché le ho detto quella cosa dei denti ha cominciato a inventare storie. Si pulì il naso col dorso della mano e stette lì a guardare per terra. Lo sgabello su cui sedeva era basso. Appoggiò il mento sulle ginocchia e rimase così un bel pezzo. La madre di Mandinha chiuse il libro e continuò a dondolarsi. Bia tirò su col naso. - Va a casa, Bia. È già tardi.. Dì a tua mamma di venire a parlare con me domani. A domani. Prendi un dolce di cocco da quella scatola col coperchio. Quella lì, quella azzurra. E va dritta per la tua strada. Si alzò e prese il mazzo delle chiavi da sopra il cassettone. Mandinha che beveva il caffè e sgranocchiava la torta di miele, appena sentì la porta che si chiudeva, andò zitta zitta a nascondersi in sala dietro il pianoforte. Il giorno seguente, quando uscì di casa, detto fatto: adesso vado a comprare un soldo di cimbrão in casa della sora Quinha. Ed entro per vedere il Lela. Lela è tubercoloso ma non m'importa. Vado a vedere la sua barbona e il suo testone di capelli. E poi racconterò a scuola in che modo il suo petto diventa teso come una vescica di maiale quando gli prende l'attacco di tosse. E racconterò anche quante volte ha sputato sangue vicino alla branda. Lo racconterò alla Guigui, lo racconterò all'Augusta e alla Géna. Sicuro. Tenne la cartella in modo da poterne frugare il fondo. Aveva una monetina guadagnata nell'ultimo fine settimana; gliel aveva data lo zio facedole promettere di parlare soltanto portoghese e poche volte il creolo. Tutte le settimane si ripeteva lo stesso rituale. Guadagnava una monetina e prometteva di parlare sempre portoghese fino alla fine del contratto. Mise di nuovo la cartella in spalla. La madre le aveva dato due pacche sul sedere quando l'aveva trovata dietro il piano. - Prendi, così impari a non parlare di cose più grandi di te.
Mandinha battè i piedi sgarbata, e la madre gliene diede un'altra Prendi, così impari a non essere insolente. Un bambino è un bambino. Ludja mi ha telefonato la mattina presto. Era tornata dal viaggio la vigilia, di notte. - Vengo a tenerti compagnia oggi, ti va? Era domenica e io potevo mettere a bagno del cuscus in tempo per la merenda. - Ho novità da São Vicente. Ho pensato spesso a te. - A me, Ludja? - Non te lo immagini. Quando andavo alla Pracinha da Igreja a trovare la mia madrina, passavo sempre dalle parti del Canal Gelado. - Ah sì, Ludja? Raccontami. Però, non Pracinha da Igreja. Dicono che adesso si chiama Praça Amilcar Cabral. - Sì, adesso è Praça Amilcar Cabral. I nomi delle strade sono stati cambiati tutti. Anche il Canal Gelado ora non è più il Canal Gelado. Lo hanno coperto con delle case. Da un lato è via Kwame N'Kruma, dall'altro è viale, viale, adesso non mi ricordo il nome. - Dì, Ludja, e l'Isolotto-degli-Ucelli? È sempre allo stesso posto? - Sempre, sissignora. E più imponente che mai. Rise. Udivo il fruscio del suo riso. Ma ho voluto rammentarlo un'altra volta. - Imponente nella sua piccolezza, ma imponente. Ludja riattaccò non senza avere aggiunto che Soncente è la cosa più bella del mondo. l'avrei attesa per la merenda. Cuscus, caffelatte, miele di canna, burro e formaggio fresco. Mandinha svoltò all'angolo della rua Senador Vera-Cruz, passò sull'altro marciapiede e continuò a camminare. Dal Canal Gelado veniva un ronzio. All'entrata del Canal si fermò. Non c'era anima viva a vendere dolce di zucchero, dolce di cocco o croccante di arachidi. La porta della sora Quinha era spalancata, la finestra aperta. Dall'imposta fino a terra ci saranno stati al massimo due palmi. Si avvicinò alla finestra, si affacciò e mise le mani sotto il mento. I sandali rigarono il selciato. Restò con le gambe tese, quasi stesse per scivolare dentro la casa. Lì c'erano alcune persone, un ragazzetto seduto su una panca, sora Quinha sulla cassa vicino alla branda del Lela. Siccome non riusciva a distinguere bene dentro quella stanza di terra battuta, con tegole senza soffitto e travi da un lato all'altro delle pareti, si sollevò e addirittura entrò per la finestra. Si mise vicino alla sora Quinha. Lela era disteso sulla branda, in completo nero, gli occhi chiusi, un fazzoletto passato sotto il mento e legato sulla testa. Sora Quinha si lamentava forte. - Oh Lela, stai così zitto oggi! Oh Lela, ti piaceva tanto parlare e oggi non dici niente, ah mamma mia. Sora Quinha tacque e si soffiò il naso. Sora Joana intonò la lamentazione. - Oh Lela, oh madre mia! Se incontri Jon Chica di Sor Raul e Rosa Maria portagli il nostro ricordo. E anche Junzim di sor Bento che ha le sue ossa là alla Tabuga e Tita della sora Ana, portagli il nostro ricordo. Oh, oh, oh, ci manca talmente chi è nella terra per sempre. Mandinha ebbe pena del Lela, così magro nei vestiti larghi della cerimonia funebre. Joana confabulava sottovoce con Tuda. Poi si allontanò. Andava a chiedere delle scarpe e un lenzuolo alle porte della morada. Lela era scalzo e doveva essere avvolto in un lenzuolo prima di andare sotto terra. Fino al cimitero lo avrebbero portato nella cassa della chiesa, la cassa per morti poveri. Ma la cassa doveva essere restituita al parroco perché
potesse ancora servire a tutti gli altri poveretti senza denaro. Era la cassa della chiesa. Cassa per morti poveri. Ana disse piano all'orecchio di Tuda: - Sora Quinha piange il suo morto con molto sentimento, non vi pare, sora Tuda? Sora Quinha si lamentava scuotendo la testa. - Oh, Lela, non prenderai più il caffè nella tua tazza, oh Lela. Non entrerai più da questa porta, non siederai più sulla tua panca vicino alla finestra, oh mamma mia! Mandinha seguiva attentamente i puntolini scuri sulla faccia del Lela. Gli scendevano lungo la testa gli si spargevano per la faccia. Si chinò per veder meglio. Pose le mani sulla spalla della sora Quinha. Non riusciva neppure a crederci. Ohi! Ih! Lela aveva la faccia coperta di pidocchi. Mandinha si sorprese a parlare. - Sora Quinha, Lela è pieno di pidocchi sulla faccia, non vede, sora Quinha? La donna si girò sulla cassa e alzò il viso verso Mandinha. Sora Quinha era ben vecchia, pensò Mandinha. Povera sora Quinha. Così vecchia e senza nessuno. Senza figlio, senza marito, senza nessuno. Sora Quinha le tolse la mano dalla spalla. E pianse forte, molto forte. E pianse forte, sissignori. - Oh bambina, va a scuoooola. Fa sveeelta. È taaardi. - Si prese la testa e pianse ancor più forte. - Voi, allontanatemi questa bambina da qui, ah gente mia, ah mamma mia! Mandinha prese la cartella e uscì. Vergognosa. Non attraversò il Canal Gelado. Tornò indietro, salì la piccola rampa e raggiunse la strada. Camminò lungo il marciapiede e quando arrivò al lampione si mise a correre. Continuò rasentando il muro del telegrafo tinteggiato di color mattone. La mano aperta scivolava sul muro. A un certo punto le venne in mente di guardare il palmo della mano. Era color mattone come il muro. La pulì con l'altra e cominciò a correre a zoppa-galletto. La sua voce aspra, voce dei suoi nove anni compiuti, intonava o meglio stonava. Più cantava, più aspra era la sua voce sottile ondeggiante. A zoppa-galletto continuò per la strada di sopra, il cammino della scuola di Dona Daluz.
XANDA "Potessi trovarmi ancora sull'Isolotto-degli-Ucelli!"
Girò il viso e cominciò a ridere piano. Si coprì la bocca, mordicchiò il dorso delle mani. La risata si prolungava in leggere scosse delle spalle. - Sei matta sul serio. Seduta sul bordo del letto Faninha sorrideva. La sorella rideva ancora scuotendo le spalle. d'un tratto cadde supina sul letto, piegò la gambe, le afferrò in un abbraccio e fece una capriola. Faninha, contagiata, si aprì al riso. - Mi hai fatto venir voglia di ridere. Non so perché stai ridendo, Xanda, ma ho voglia di ridere anch'io. Gli occhi pieni di lacrime, il riso che le muore in gola, Faninha tiene ancora la bocca semiaperta.
- Se non lo sai non importa, perché non ti riguarda. Basta che lo sappia io. Faninha non riesce mai a prevedere il momento in cui la sorella giunge al punto di rottura e sfugge alle regole. Talmente in fretta passa da un modo di fare amichevole a un livello di provocazione che non si spiega. A conferma, Xanda lanciò un elenco di insulti. - Ignorante, stupida, somara. Esci dalla mia stanza ficcanaso. Capelli crespi! La sorella si alzò e gridò con voce incontrollata. - Mammà, Xanda mi ha chiamata capelli crespi. Gli occhi sgranati, Faninha non trova una risposta adeguata. Sei fissata Xanda, sei fissata. Tu sei bianca coi capelli biondi. E allora, e allora? Xanda le rispose vincente. - Allora io sono bianca e tu sei una negretta coi capelli rossicci. Sono più bella di te. - Mammà, oh mammà, Xanda dice che sono negra. La madre, tra i due fuochi, non sapeva se doveva dare a entrambe due schiaffi come si deve o far loro una bella predica. - Smettetela con questi urli. Sei un impertinente, Xanda. Non si può stare in pace, qui in casa, quando voi la mattina non avete scuola. Risentita, Faninha accusava la sorella. - Non sono io a gridare, mammà. È Xanda che tutti i giorni combina pasticci, mammà. Combina pasticci al liceo, combina pasticci sulla strada di casa, combina pasticci dappertutto. - Sta zitta Faninha. - È vero, mammà. l'altro ieri mentre camminavamo per strada, dietro la casa di Ti Fefa, camminavamo in silenzio ed ecco che sono sbucati fuori quei due mondrongos. Dicono che sono piducas, lo sapevi mammà? - Piducas, adesso! Pides, corresse Xanda mostrando la lingua alla sorella e facendo una boccaccia. Questa volta Faninha quasi piangeva. - Guarda, mammà, Xanda sta facendomi le boccacce. - Io no, io no. La madre prese Xanda per un braccio e la scosse. Calmati bambina, calmati. Si girò verso Faninha. - E poi? - E poi, camminavamo così, in silenzio e quando siamo arrivate proprio di fronte a loro, Xanda si è messa le mani sui fianchi e ha fatto così, mammà, ah, ah, ah, e un'altra volta, ah, ah, ah, proprio in faccia a quei pides. - E poi? - Poi basta. La madre pensò un po'. Pensò ancora un pochino. La voce le uscì fuori rauca. Tu non vuoi seguire i miei consigli, Xanda. Sei sfacciata, non mi dai retta, ma un giorno o l'altro ti capita qualcosa, poi mi darai ragione. Alzò la voce. - E smettila di chiamare negra tua sorella. Voi siete sorelle di padre e di madre, smettila di chiamarla negra, hai sentito? Hai sentito o no? Voi due siete sorelle. Xanda, tranquilla, di fronte allo specchio del cassettone si depilava le sopracciglia con una pinzetta. La madre si accostò al cassettone e le parlò sotto il naso. - Hai sentito o no? E smettila di fare questo lavoro. Non hai ancora l'età per queste cose. Dammi quella pinzetta. - Oh mammà, mi serve per la lezione del professor Graça. Mi segna assente se non porto la pinzetta. Mammà uscì dalla stanza. I passi continuarono lungo il corridoio e, più oltre, il battere dei tacchi sugli scalini tra i due piani andò a morire quasi all'entrata del tinello.
A Xanda venne voglia di picchiare la sorella. Questa, avendo indovinato subito le sue intenzioni, si era arrampicata in cima al baule, era saltata sul cornicione e si era nascosta di fianco alla finestra, sul tetto. Di lì si scorgeva la strada coi marciapiedi di cemento bianco, lastricata di pietre tagliate in forme irregolari. Prese per passatempo il viavai nella cucina del sig. Ribeiro, proprio davanti ai suoi occhi. Adelaide andava e veniva. Portò un cesto di frutta. Prese alcune arance belle tonde con la buccia verde e le lavò in un catino smaltato. Lavò anche alcuni manghi maturi, già di fine stagione, ma gialli e duri. Li pulì e li sistemò in una fruttiera a piedistallo. Sul piatto superiore di vetro colorato e intagliato, dispose guaiave fresche. Andò dentro. Tornò con un mazzo di rose e alcuni ramoscelli verdi. Riempì d'acqua la fioriera della fruttiera e vi sistemò i fiori. Alcuni petali di rosa si sparpagliarono sul tavolo della cucina. Sora Antoninha Cuoca fece con la mano un gesto lento e li allontanò. Adelaide prese le rose e le portò in sala da pranzo. Sora Antoninha era sempre allo stesso posto, vicino al tavolo. Stava tritando la cipolla. Un'altra volta Adelaide. Adesso portava un vassoio con fette di pane raffermo. Alzò gli occhi e scoprì Faninha sul tetto. Un sorriso splendente abbellì il viso piccolo e quadrato dell'Adelaide. Faninha mise un dito sulle labbra per chiederle silenzio e le dispiacque di non avere i capelli neri lisci dell'Adelaide. Adelaide sparì dalla sua vista. Stava mettendo il vassoio nel forno. Adesso la vedeva di spalle. Quando si voltò, si era infilata il grembiule bianco stirato. Continuò a sorridere a Faninha. Xanda salì sul baule e non vide la sorella, ma riuscì a scoprirla per il sorriso di Adelaide. Piegò le braccia e l'afferrò per la caviglia. Adesso ti ho presa. - Lasciami. Sdraiata sul tetto, Faninha doveva rassegnarsi. Non vi era pericolo che cadesse. Lungo il cornicione un muricciolo di due palmi di altezza, a protezione dell'acqua piovana, accompagnava la grondaia. - Lasciami - ripetè Faninha. Appoggiata al tavolo della cucina, sora Antoninha alzò la testa, si girò e si avvicinò alla finestra. Teneva in mano il coltello. - Ehi, tu, lasciala. Tu sei pericolosa figlia mia. Alla fine perde l'equilibrio e rimane schiacciata sulla strada. Xanda lasciò la sorella e con quella sua speciale prerogativa di insolentire la gente, cominciò a canticchiare. Sora Antoninha con gli occhi pelati con gli occhi bucati le pulci nei piedi. Mammà discese le scale, attraversò il tinello andò ad affacciarsi alla finestra. Per distrarsi. Dietro le persiane socchiuse si sentiva la calma prolungata e grigia del mattino. Fu allora che udì la voce stridula della sora Antoninha. Aprì le persiane, vide in alto il corpo abbarbicato sopra il parapetto. - In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Faninha, Xanda, smettetela con questi scherzi. E tu, Faninha, scendi di lì. E tu Xanda, sei un'impertinente; avete sentito? Rimase ad osservare. All'angolo comparve un poliziotto. Si fermò un momento a guardare. Mammà si accorse di lui. Questo ragazzo sembra un burino di quelli che non hanno mai portato le scarpe. Sti burini di S. Nicolau sono tutti nella polizia.
Si avvicinò ciondolando, piano piano. Mammà lo osservava. Mette i piedi uno dopo l'altro appoggiandosi sul calcagno. Talloni-di-pulci, cafoni. Non sanno camminare, sembra che cerchino l'appoggio giusto, ora su un piede, ora sull'altro. Si fermò vicino alla finestra. - Signora. - Ohi! mi sono quasi spaventata. Cos'è che vuoi? - Signora ho una lettera dell'amministratore da consegnare, ma io non sono di qui, non conosco questi posti. A mammà il cuore batté un colpo dritto in testa. - Aspetta, vado a prendere gli occhiali, torno subito. In camera prese gli occhiali da sotto il cuscino. Un rosario rimase impigliato nella catenella d'oro degli occhiali. Lo sciolse, baciò la croce e mise il rosario un'altra volta sotto il cuscino. Quando tornò in sala da pranzo l'ombra del poliziotto era scomparsa dalla finestra. Bene, pazienza. Chiunque può dargli informazioni. Si affacciò di nuovo tenendo le persiane socchiuse, molto vicine al viso. Più in là, accanto alla Ditta Marçal, Leocádia chiaccherava dentro il negozio. Come gesticolava. Le braccia non si fermavano. Si piegava tutta. E rideva, rideva. Il vento spingeva in strada il riso della Leocádia. La domestica, un po' discosta, un cesto infilato nel braccio, sorrideva e si accomodava sulla testa il fazzoletto con la mano libera. Il vento le tirava via il fazzoletto e lei tornava a sistemarlo. Eccola che viene. La domestica accompagna la padrona e tiene un bambino per mano. Senza fretta, una dietro l'altra, Leocádia che ancheggia sulle gambe lunghe e magre. - Ehi Leocádia, come stai? - Oh, non ti avevo neppure vista così dietro le persiane. Eh, vengo dal mercato del pesce. Quanto pesce al mercato, ragazza mia, tonnetti, naselli, triglie, sogliole. Quanta grazia di Dio! Guarda questi due naselli, guarda. Indica dentro il cesto. - Vedessi quanta gente al mercato! Si rivolge alla domestica. - Va, comincia a andare. Io resto a fare quattro chiacchiere. Questo tonnetto è da stufare. Mettici un pochino di manioca, hai capito? E i due naselli, fagli due tagli e riempili di sale nella pancia, anche ben bene in mezzo ai tagli. Poi attaccali a quel chiodo vicino alla porta della dispensa. Dove prendiamo il caffè per la colazione. Mettigli sotto un piatto per raccogliere la scolatura del sale. Come, Bia, non sai salare il pesce? Non hai mai salato pesce in vita tua, Bia? Allora va, quando vengo ti faccio vedere come si fa. Va Bia, fa presto. Bia, Bia, riempi l'orciolo per avere acqua fresca all'ora di pranzo, hai capito? Quel giorno il sole era talmente mite che non disturbava. Anche a Mammà piaceva chiacchierare un pochino prima di pranzo. Leocádia aprì l'ombrellino e si appoggiò al parapetto della finestra. - Dì, Leocádia, chi è quel bambino lì dietro di te? Leocádia prese il bambino per il braccio e se lo mise davanti. -Su, Jerónino, saluta Mammà, su. Questo bambino l'ho mandato a prendere a S. Nicolau. Lo alleverò. È una compagnia avere in casa un bambino, non ti pare? - Ha un'aria furba, Leocádia. l'hai portato al mercato? Gli occhi di Jerónino si mangiavano tutto intorno a lui. - Sì, sì, mi viene dietro dappertutto. Mammà si mise più comoda alla finestra. - Hai fatto bene. - Sistemò il cuscino sotto i gomiti. - Un bambino tiene compagnia. È meglio allevare un bambino che un gattino. Però lo sai, all'estero i bambini non vanno per negozi, stanno a scuola. Se non frequentano la scuola le guardie vanno a cercarli a casa, non lo sapevi Leocádia?
- Lo so da un mucchio di tempo, ma lo sai anche tu - prese l'aria di chi la sa lunga - l'estero è l'estero e Soncente è Soncente. E noi - rise di gusto e le mani parlavano per lei - noi siamo qui a Soncente. Non abbiamo bisogno di nessuna moda straniera qui a Soncente. Lo so già, mi dirai che i nostri compaesani ci mandano i soldi dall'estero. So già tutto. Ma i soldi dall'estero sono una cosa e le mode dall'estero un'altra, hai capito? Jerónino, divertito, tirò fuori una fionda dalla tasca, una fionda per prendere passeri, cercò un sassolino e la caricò. La ruotò con precisione fino a che le corde si tesero. Lasciò una delle estremità e il sasso si liberò e nessuno lo vide più. Soltanto un rumore di esplosione al suo contatto col selciato, lì, più in là, più lontano ancora. Il poliziotto ritornò. Questa volta veniva dal lato di sopra. Per di là c'era la chiesa nuova, mai finita e il pianoro marrone e pietroso. Il pianoro si prolungava e raggiungeva i monti aspri e nudi. A mezza costa si vedeva un filo di pietre serpeggianti che lastricavano la strada per la spiaggia di João d'Évora. A un certo punto la strada scompariva in una curva e sbucava dall'altro lato del monte per cominciare la discesa a picco verso la spiaggia. Finta spiaggia, a pochissime persone piaceva andare alla spiaggia di João d'Évora. Ci saranno ancora, sugli scogli, le tracce dei segni lasciati dai tedeschi prima dell'ultima guerra? I tedeschi erano arrivati con una grande nave da guerra, erano sbarcati e avevano marciato verso João d'Évora. Erano tornati la sera, avevano riempito le strade col loro passo dell'oca e la gente gli era andata dietro saltellando. Nei giorni successivi si erano sparpagliati per la città e avevano visitato le famiglie della morada in compagnia degli alunni del liceo. Avevano suonato marce sul pianoforte di Mammà e promesso cioccolato per il giorno dopo. Quando corse la notizia dei segni di vernice bianca sugli scogli della spiaggia di João d'Évora, la gente di Soncente sussultò, il popolo si spaventò. Tutte quelle righe potevano anche portare disgrazia. Andarono a parlare con l'amministratore, ma questi alzò le spalle, mise le mani nelle tasche dei pantaloni ed entrò nel suo ufficio. - Mucchio di ignoranti. Accidenti! Accidenti! Ma i tedeschi hanno segnato i monti da cima a fondo con smalto bianco. Per cosa quelle righe e quelle lettere? Per cosa? L'amministratore non voleva preoccupazioni, quello che voleva era la bella vita, la vita del Circolo, whisky di sera, gin-tonic prima di pranzo, baldorie. Il popolo che faceva la fame, ragazze che davano il loro corpo sotto gli occhi di tutti, marinai tedeschi che sporcavano di tinta le loro rocce, i loro scogli in riva al mare. Era troppo! Accidenti, signor amministratore, accidenti perché? Il poliziotto si fermò di nuovo vicino alla finestra. - Signora, - Dio mio, giovanotto, mi hai spaventata un'altra volta. Cos'è che vuoi adesso? - Signora alla fine era per lei questa lettera. l'ha mandata il signor amministratore. Leocádia prese la lettera e la osservò. - Bella lettera. Sei importante, Mammà, ricevi persino lettere dai mondrongos. - Dà qui. Non mi piace ricevere lettere da certa gente. Bene, giovanotto, grazie. Va pure per la tua strada. - Signora, il signor amministratore mi ha detto di aspettare lei e sua figlia, una ragazza bianca coi capelli fini.
Mammà sussultò.- Senti, giovanotto, dì al signor amministratore che io esco dalla mia casa solo dopo aver fatto il bagno. E per di più conosco bene la strada per l'amministrazione. Va, va e non dimenticarti di questa commissione, hai capito? Leocádia si rese conto che non era il caso di chiedere più niente. Le chiamate all'amministrazione portano impicci. Neppure mammà aggiunse parola. E non si è ancora detto tutto. Leocádia si divertiva a scovare pettegolezzi, prendeva e portava. Come lei, soltanto sora Mari Canda, un'altra pettegola di quelle parti, ancor più famosa. Faceva litigare le persone e finiva per restarsene sempre fuori, sempre lontano. Mammà chiuse la persiana e rimase lì in piedi, vicino alla finestra. Stava facendosi coraggio per aprire la busta timbrata. Non era necessario essere furbi per indovinare. Xanda era impertinente, si era messa a ridere in faccia ai pides. Lasciò le chiavi sul tavolo, attraversò il tinello incominciò, gradino dopo gradino, a salire la scala per il primo piano. Quando arrivarono, entrarono direttamente dalla porta dell'amministrazione. Mammà si vide di fronte alla scrivania dell'amministratore. Sulla parete, il ritratto di tutte le pareti e uffici pubblici. A quel punto la sua presenza si svuotò e il brusio delle parole la cullava, l'avvolgeva e ormai non sapeva più quali erano le sue, quali del mondrongo seduto proprio lì, alla scrivania. Le si confondevano in fondo alla mente, andavano, tornavano, le scivolavano lungo le membra narcotizzate. Rispetto, funzionari, prigione, giudizio, logica, ordine, patria, Portogallo continentale, Portogallo ultramarino, galera, galera, galera. Mammà si tenne la fronte con le due mani. Sentiva il pulsare delle vene e il dolore dell'anima le fece luccicare gli occhi. - Signor amministratore - tagliò corto Xanda perentoria - se sono funzionari non lo so. Dicono che sono piducas. E se ho riso è perché mi è parso buffo. - Piducas? Che storia è questa? Si raddrizzò sulla sedia. Che storia era questa di piducas? Questa mania della gentaglia di inventare nomi e divertirsi a far ridere. Xanda si eccitò. Le importava assai di tutto il resto! l'amministratore andava osservando la ragazzetta già cresciuta, lì vicino alla madre, decisa, le risposte sulla punta della lingua. Mammà era sull'orlo di un attacco epilettico. Chi aveva ordinato a Xanda di intervenire così nel discorso? - Come lei non lo sapeva? Tutta la gente dice che quelli sono piducas. O pidocas. O piduquinhas. Non lo sapeva? Il riso sbarazzino sulla bocca di Xanda lo coinvolse. Recuperò la serenità e alzò le spalle. Accese la sigaretta. - Bene, ho altri problemi più urgenti da risolvere. Domani mandi qui sua figlia alle dieci in punto. Ha sentito? È esentata dal venire anche lei. Domani concluderemo questa porcheria. Mammà si avvicinò a Xanda e le diede un pizzicotto. Impicciona. Sulla strada di casa sgridò la figlia. - Un'altra volta, se ti intrometti nei discorsi dei grandi senza essere interrogata, ti dò uno schiaffo chiunque sia presente. Mentre i grandi parlano, i bambini stanno zitti. Questa è mancanza di rispetto. - Allora, perché lui ha detto che sono funzionari dell'amministrazione? È una bugia, perché loro sono piducas. E io non posso ridere quando ne ho voglia, no? Bisogna chiedere il permesso anche per ridere, eh? Io non
sono né da più né da meno di un qualsiasi mondrongo, mammà. Allora, mammà, vuoi essere lo zerbino di questi mondrongos? - Chiudi il becco, Xanda. Il giorno seguente e i successivi Xanda dovette andare all'amministrazione. Il caso sembrava ormai chiuso. Mammà si tranquillizzò. Ma le cose si erano ingarbugliate per Xanda. Soltanto Faninha l'aveva indovinato, di lontano aveva intravisto i meandri di quel pasticcio. Xanda si era messa con l'amministratore. Ci si era messa di brutto. Era stata chiusa la storia dei pides e la Xanda si profumava tutte le sere e usciva alla chetichella. Anche Mammà ebbe un presentimento, ma a questo mondo accadono cose, signori miei, che si pagano con interessi e capitale. Questa era una. Xanda si dava un sacco di arie, era sgarbata con la madre, mostrava la lingua alla sorella, rompeva le scatole a tutti, lì in casa. E così una sera, sedute tutte e tre sulla veranda di dietro, annunciò il suo viaggio a Lisbona. Prima cominciò a chiacchierare delle domestiche, che Rosa non portava le mutande, che si lavava sempre i piedi sull'orlo del pozzo e si sfregava i denti con polvere di carbone - lo vedi, mammà, Rosa si è fatta troppo sfacciata, fa attenzione alla Rosa mammà! - Una gran sceneggiata, specialità della Xanda, proprio soltanto sua. - Figliola, ancora non sei maggiorenne, dove vuoi andare figliola? - Non ti preoccupare, mammà, mi hanno già promesso un lavoro. Ho scritto alla sora Mari Canda, ha già una stanza per me. Vado a lavorare e continuo la scuola. Finisco il liceo, poi faccio qualche corso, hai capito, mammà? Tutto questo racconto sarebbe finito così, se non fosse che un giorno Ildo incontrò la Xanda vicino a un incrocio, a Lisbona. Si incontrarono a un incrocio così uguale a uno o due incroci di Soncente. Si svolta l'angolo ed è una strada con gente, macchine, eccetera. Al di qua dell'angolo è la quiete, è la voglia di abbracciare chi non si vede da molto tempo. Ildo la guardava dalla testa ai piedi. Era ben aggiustata. E bella. - Xanda, come va la vita? - Oh, non c'è male. Sembrava che desiderasse liberarsi della sua presenza. - Aspetta, ragazza, stai lavorando? Xanda ammutolì un istante, ma restò impassibile. Ben truccata, i capelli a posto, l'impermeabile col bavero alzato, che tratteneva con la mano. Il collo eretto, la testa all'indietro. - Senti Ildo, ho un po' fretta. Vado a mangiare qualcosa, ho tempi molto stretti. Ciao. Lì Ildo pensò un pochino e le prese le mani. - Ascolta Xanda, non mi imbrogli, Xanda. - Lasciami Ildo, non sei capace di parlare senza tenere stretta una persona? - Stava guardando di sguincio l'altro lato della strada. - Non ti lascio, nossignora - Ildo le si avvicinò di più. - Ascolta, matta che sei, credi che non si sappia della tua vita? Tutti a Soncente parlano di te. Tuquinha è venuto apposta a cercarmi alla facoltà per dirmelo. - Lasciami. - Ascolta, la gente sa tutto quanto della tua vita. Abbassò la voce e continuò. - Mi stai ascoltando, Xanda? Nessuno può più salvarti adesso. Continua pure per la tua strada. Pidoca! Spia! Ildo rimase contrariato da quel diverbio. Sarebbe stato meglio non avere mai incontrato la Xanda. Era sempre stata una matta, figlia di due cugini, perché aveva guastato l'amicizia? Avrebbe forse potuto trovare qualche via d'uscita al momento delle riunioni della "Cultivar". Insomma.
Parecchio tempo dopo, in casa del Tuta entrò quella ragazza alta, l'impermeabile col bavero alzato, gli occhiali scuri, un berretto calzato fino alle orecchie. - Cosa? Xanda? - Ildo abbassò la testa, appoggiò il mento alla mano, i gomiti sulle ginocchia. Guardò di lato verso la Lincoln. - Lincoln - abbassò la voce - Xanda è nella Pide. Cos'è venuta a fare qui? - Xanda? Tranquillizzati, giovane, lei è Mari Perpétua. Hai le traveggole, giovane. Xanda se ne è andata da più di sei mesi. È fuggita a Dakar.. Ildo si ricordò di quella strada tanto simile ad alcune strade di Soncente dove l'aveva incontrata, faceva quasi un anno ora. - A Dakar? A far che? - Stai fuori dal mondo, tu. Xanda è uscita dalla casa di sora Mari Canda senza dare spiegazioni a nessuno. Veramente è stato un affar serio dopo, perché sono comparsi lì alcuni poliziotti in borghese, hanno preso sora Mari Canda, hanno dato una scarica di botte alle figlie e, per giunta, hanno anche pestato la sora Leocádia. - Sora Leocádia? Sora Leocádia aveva qualcosa a che fare con questa storia? - Non so bene. A raccontarmelo è stata la Tchutcha. Sora Leocádia era venuta a passare un po' di tempo a Lisbona e stava in casa di sora Mari Canda. l'hanno menata dappertutto le hanno spaccato i denti davanti. Sora Leocádia? Sora Leocádia pettegola e attaccabrighe che si divertiva a mettere i segreti in piazza? Era un' allocca, però mai a Soncente, a un qualsiasi cristiano sarebbe venuto in mente, gli sarebbe passato per la testa di toccare la sora Leocádia neppure con un dito. A Soncente la gente sa rispettare gli anziani. - Se l'è presa talmente. Ha voluto tornarsene subito al nostro paese. Vuoi sentire il pezzo che ha fatto? Il giorno della partenza, quando stava per entrare nell'aereo - qui Lincoln cominciò a ridacchiare e finì di raccontare la storia tra i singulti - si è seduta per terra là all'aeroporto, ha fatto una croce col sedere, così, e ha detto: in questa terra mai più! Si voltò verso Mari Perpétua. - Sei molto silenziosa oggi, Mari Perpétua. - Aspetta, Lincoln, spiegami ancora una cosa. E il figlio di Xanda? - In casa di una donna di Boa Vista. Lo alleverà ne farà un uomo, ha detto lei. Tuta finì di spegnere la sigaretta. Battè un pugno sul tavolo. Si era spazientito. - Uffa, questa conversazione è stantia. Vuoi anche sapere se Mammà ha mandato a prendere quel bambino o se ha intenzione di fare qualcosa per lui? Sì? Senti, ragazzo, se vuoi informazioni va a Campo de Ourique. Là ci sono tutti i compaesani. Sono là coi loro balli, la balera, i loro arzigogoli. Su, va a chiedere al Nené, d'accordo? Nené di Djinjon sa della vita di tutti quelli di Soncente. Pure lui abita a Campo de Ourique, non è vero Lincoln? Lincoln si defilò. - Senti Ildo, io non mi impiccio di petegolezzi. Ascolta bene. Io non so se Xanda è scappata a Dakar, non so se ha avuto o no un figlio, non so di quelli di Capo Verde a Campo de Ourique. Io non c'entro niente con questi discorsi. d'accordo? -Fece una piccola pausa. Andiamo Mari Perpétua, andiamo al cinema. Hai voglia di venire al cinema con me? Ildo si scocciò. Era venuto per questo appuntamento e aveva finito per rovinare tutto a causa di Xanda. Lei era strana, matta, tutto quanto.
Voleva soltanto sapere cosa ne era stato. Tanta fatica per rimediare questo appuntamento e finire così, a questo modo. Afferrò l'impermeabile e si alzò in piedi. - Bene, vado, ciao. Aprì la porta e fu subito in strada. Voleva stare solo. Non parlare con nessuno fino a dimenticare i discorsi di quel pomeriggio. Oh gente, potessi stare fra la terra e il mare e sentire il cielo azzurro sopra di me. Potessi trovarmi ancora sull'Isolotto-degli-Uccelli!
JACK-PIE'-DI-CAPRA "Jack-piè-di-capra, bimbo bello della sua mamma. Piangeva molto da piccolo. Un giorno la domestica gli torse un piede con rabbia. E allora Jack gridò per lunghe settimane. Quando cominciò a camminare, la madre si accorse della sua gamba sinistra più corta dell'altra. Pianse tanto quanto Jack aveva pianto prima, passò e ripassò le mani sulla carne rosata del bambino. E venne meno sulla stuoia su cui il bambino giocava. Gli occhi molto azzurri del bimbo, le pupille dilatate, la fissavano, riversa sul fianco, pallida, ma non compresero".
Mattino di un lunedì, risveglio di un giorno da morire dal caldo, afa in agguato, luce incerta nell'aria di polvere portata dal Sahara, che si altera in nebbia traditrice e opaca dalle parti dell'aereoporto di S.Pedro e trasforma in talpe gli aerei delle rotte interne. Nhôse avrebbe intimorito chi non lo conoscesse, con i suoi quasi due metri che ostruivano la porta. Tirò il catenaccio del vecchio portone di mogano si fermò sulla soglia per respirare. Paziente esercizio l'entrata per le narici dell'aria tiepida, che usciva con sibilo lento e sottile dalla bocca semiaperta. Combatteva l'asma con questi lunghi respiri, durante i giorni iellati di clima soffocante. Spinse gli occhi oltre i battenti ancora da aprire, verso la quiete della morada satura di monotonia. Un taxi dall'altro lato del marciapiede. Prima di muoversi e gettare sguardo e corpo lungo la strada sorda allo strascicato scivolare delle ruote di ferro del carretto della spazzatura, portò il fazzoletto al naso e frenò uno starnuto. Passi rilassati, mani libere da fogli o cartelle, non portava neppure, come certe volte, pacchetti da consegnare a qualche amico in viaggio tra un'isola l'altra. Quando ritornava dall'ufficio dopo una giornata trascorsa a meravigliarsi di aver combinato poco o niente, faceva un salto in farmacia per una chiacchierata con Agostinho nella dolcezza di fine serata. La cerchia della chiaccherata era assai ristretta. Nhôse era uno dei privilegiati. Una volta, padrone della farmacia era stato il signor Nicola, inglese, padrone anche del Bon Marché. Il signor Nicola aveva passato la farmacia al signor William se n era andato in un giorno di Pasqua, non senza avere prima trasformato il Bon Marché in casa da tè, proprio tè e cioccolato caldo alle cinque e mezza di tutti i pomeriggi, e anche in luogo di
incontro e chiacchiere di sfaccendati al calare del giorno. Pure Mathews del telegrafo faceva parte della cerchia, benché molto più giovane degli altri del gruppo. Col suo parlare e ridere correttamente in creolo, condendo col creolo la bella vita di Barlavento, Mathews era il più popolare. Lungo il serpeggiante cammino per lo Step, le ragazze salutavano Mathews, dinoccolato, che a grandi falcate scendeva tra le pietre rotolanti del sentiero. Agitavano le mani, le braccia, e chiedevano gridando, di lontano, se non sarebbe passato più tardi per sedersi a cavalcioni di una pietra sulla porta di casa. Arrossendo, faceva cenni, sorrideva. Sul finire di una serata di agosto, sarebbe salito sul deck di un piroscafo per tornare in Galles, il paese dov'era nato. Il signor William rimase ancora. La casa da tè si riempiva di furieri e ufficiali della spedizione. Le divise grigie, i berretti di sbieco, la stanza bianca di facce bianche. Il mio club, farneticava il signor William, uno dei suoi pensieri flemmatici, bianchi, raggelati. Un bel giorno se ne andò anche lui. E lasciò la farmacia ad Agostinho. Se ne andò il signor William, perché oramai non c'erano più mine, la guerra era finita, i soldati avevano cominciato a disertare e Soncente non era più Soncente. La farmacia è ancora lì e Agostinho, occhi piccini e furbi, si diverte giorno dopo giorno a lanciare motti di spirito cogliendo, dietro le lenti rotonde leggere, gli effetti comici delle sue battute nell'atteso sorriso degli amici. Essi erano Nhôse in primo luogo, poi Lelona, Djunga Santos, Siminhas, Alexandrino, Jonas e anche il sor Salema, povero e strambo, accattone e col posto fisso all'estremità sud-ovest del palco della Praça Nova dove, rannicchiato col cappello a tese larghe che gli copriva le orecchie, dormiva le sue notti da anni e anni. Era stato adottato dal gruppo per il suo humor pungente sottile. Infieriva contro l'uno o l'altro di loro, li sorprendeva con trovate inedite, scimmiottava il più innocuo cittadino, insomma, era uno spettacolo per quell'ora serale. Lo accettavano perché era una delle pietre miliari della vecchia Mindelo in via di dissolvimento sotto l'alluvione dei nuovi tempi. Della Mindelo di B. Leza, di Jorge Cornetim, dello Skofield, del dottor Roque. Della Mindelo in cui c'era stata l'Italcable, la Western Telegraph, l'export di arance del signor Branco. Chi nella città non aveva canticchiato o fischiettato "Quem tem sê fidja descascal na laranja ? ( 5) l'avranno oramai dimenticata tutti la morna delle ragazze di fuori morada in cammino per lo stabilimento, come avranno dimenticato il magazzino di carbone e olio per i piroscafi ancorati al largo del Porto Grande. Ah! i piroscafi che cercano altri porti, altra gente, altri mondi, in sogni attinti sfogliando riviste americane e dell'Argentina. Comparsita di ancheggiamenti, rumba negra sinuosa, sigari avana catena d'oro con orologio sul panciotto dei big bosses. Della Mindelo che riceveva a braccia aperte ebrei tedeschi in piena guerra del trentanove/quarantacinque. Dimenticati i glaucomi, le diarree e le astenie dei soldati, accantonando la febbre tifoide endemica nel paese, si cominciò a parlare con paura di Tarrafal, si continuò a parlarne coccolando prigionieri e deportati politici, facendoli sposare alle proprie figlie e seppellendoli con lo stesso cuore straziato con cui si seppellirebbe un paesano. Mindelo di balli di prostitute, di ragazze gettate in mezzo al mondo.
Nhôse scorse il taxi di Norberto di sor Jon Bilbau e riflettè un momento. Bene, oggi vado in ufficio in taxi. Tanto per cambiare. Appena salito in macchina, notò l'aria seriosa dell'autista. Non pareva nella sua forma migliore. Ma poiché conosceva i suoi dopo sbornia del lunedì, ritenne si trattasse semplicemente di uno dei tanti. - Allora, Norberto, stai poco bene? - No, signore, ma ci sono ore in cui un cristiano non dovrebbe scendere in strada. Nhôse si raschiò la gola. - Eh, sì. Sto peggio che poco bene. Ho la iella signor Nhôse. Non gli rispose. Sul sedile posteriore, si appoggiò meglio e posò gli occhiali scuri accanto a sé. Passavano per la vecchia spianata, piazza vedova del passato, affacciata sulla spiaggia dove, nei tempi andati, i bambini dragavano carbone. C'era stata una balaustra appoggiata su basse colonne circolari, scanalate. Al centro una grande aquila, uccellone pronto a volare dalle rocce alte su cui era stato sistemato. Nella piazzetta, otto panchine. Verdi. Arrivare fino alla spianata aiutava la digestione dopo la catchupa. Carminha, Bia, Djù masticavano parole indolenti camminando verso la piazza, non riusciva neppure a essere un giardino, e, di ritorno, sostavano quasi sempre sulla porta della sora Vivi che si godeva il fresco della sera su una sedia a dondolo, su giù, su e giù, e i figli lì vicino che giocavano alla settimana sul marciapiede di cemento. La spianata è sparita. È una strada. Semplicemente. O meglio, è uno slargo tra la vecchia strada del sor Mateusinho, protettore di nipoti e parenti poveri, con casa attaccata a quella del signor Nascimento della fabbrica di tonno in scatola, e il basso edificio dai muri spessi dove c'era la dogana. l'uccellone sulle rocce ha l'aria di essere stato scacciato. - Davvero, signor Nhôse, ieri sera circa alle dieci mi sono capitati due clienti, due giapponesi, quelli che hanno gli occhi con una riga in mezzo, lo sa? Dunque, quei due tipi hanno continuato per tutta la strada a darmi pizzicotti fini fini, dolevano come punture di spillo. Lei non se lo può immaginare la tortura che è stata! - E non ti sei lamentato, Norberto? - No, signor Nhôse, non ho detto ahi. Con questi giap meglio non averci a che fare. Chieda a chi vuole. Hanno sempre qualche sorpresa in tasca. Sono specialisti di karatè, signor Nhôse. Nhôse rise, rise di gusto. - Ma potevi fermare la macchina, caspita. - È proprio quello che ho fatto, signor Nhôse. Ho fermato la macchina, sono saltato in mezzo alla strada e ho sparato due colpi in aria. - E loro? - Voce sorpresa, ma divertito dalla storia. - Loro? sono scappati. E non mi hanno pagato, lo sa? E adesso il capo della polizia mi ha parlato di una querela. Che io vado in giro a disturbare la quiete della morada. Le sembra giusto? Stavano arrivando in largo da Salina. Le stelle a cinque punte, una volta ne avevano sei, formavano aiuole dove spuntavano piante. Norberto frenò d'improvviso. - Cosa c'è adesso? - chiese Nhôse appoggiandosi meglio. Norberto tirò fuori dalla tasca della camicia un foglio piegato e glielo tese. Così. - Signor Nhôse, vorrei che mi desse un'occhiatina a questo foglio. -Tese la mano dietro di sé, tra il pollice e l'indice un foglio tutto spiegazzato, e non c'è dubbio, anche un po' sporco.. - Vorrei che mi correggesse gli errori. È una denuncia, ma mi piacerebbe che risultasse in buon portoghese, capisce, signor Nhôse?
Norberto che argomentava, si spiegava, e Nhôse che leggeva il foglio. Ma intanto lo ascoltava. Quando ebbe finito di leggere, continuò per un po' a guardare senza vedere e a pensare. Come sarà venuto in mente a Norberto di cacciarsi in un tale pasticcio, un garbuglio di quelli in cui non si riesce mai a capire chi è il colpevole? Chi sarà stato a gettargli polvere negli occhi? - Dì, Norberto, ci hai pensato da solo o è stato qualche amico a metterti fantasie in testa? Rilesse il foglio. - Ma chi ti ha aiutato a scrivere tutte queste cose? Fece la domanda tanto per fare. E continuava a passare la mano sul foglio. Pensava ancora. Non gli era mai passato per la mente. Indipendenti, il popolo sembrava contento, e adesso questa. La settimana passata si era parlato di certa gente a causa del mais e non so cos'altro, con la minaccia di chiedere aiuto ai compaesani d'America. È stato quando qualcuno più accorto li ha consigliati: andate a parlare col compagno Barreto. Si tratta di una tempesta in un bicchier d'acqua. Ricevuti ascoltati, hanno parlato a lungo col compagno Barreto. Han finito per buttar giù un piano, abbozzato lì per lì, e hanno discusso come metterlo in pratica. Mentre il compagno Barreto faceva con quattro di loro un'attendibile programmazione, gli altri seguivano con grande attenzione i numeri allineati in colonne; il grafico condensava tutte le idee del compagno Barreto. Il foglio protocollo disteso a quel modo di fronte a tutti loro. Lì non c'erano segreti, si poteva arrivare alla conclusione che tutti i compagni erano persone con la testa sulle spalle. A tal punto che tutti quanti hanno avuto vergogna del baccano fatto sulla porta dell'ufficio. - Senti compagno, noi siamo qui... E tutti si sono voltati per ascoltare. Era tempo che qualcuno parlasse, aggiungendo altre argomentazioni ai discorsi blandi fatti dal gruppo, perché questa faccenda del mais era molto seria. Il mais era catchupa e catchupa voleva dire sfamarsi nella casa di ognuno di loro. - Noi siamo qui perché siamo capifamiglia con responsabilità. Alcuni di noi hanno in casa la moglie puerpera, altri hanno figli che succhiano ancora il latte, oltre ai cinque o sei che ognuno di noi deve crescere. Ma abbiamo anche cervello per capire. Il compagno Barreto è un uomo serio e un uomo con la testa sulle spalle. Il compagno Barreto ci prende in considerazione come non ci è mai capitato con nessun mondrongo. Ci sta spiegando tutto qui, su questo foglio. Qui è tutto bello chiaro, come acqua di sorgente. Perciò deve saperlo, non è che ci piacesse stare qui oggi, in questo momento. Tutta questa storia sono soltanto pettegolezzi, compagno Barreto. l'avevo ben detto all'Umberto e lì, al Pitra e anche al Dajaina. È vero o no? Su, ditelo voi. Io gliel avevo detto, perché era stata una voce a soffiarmelo all'orecchio e a darmi un colpo al cuore. Abbiamo fatto un passo falso venendo qui. E sai perché, compagno Barreto? Se siamo qui a quest'ora, è per i pettegolezzi e le chiacchiere di Jackpiè-di-capra. È un po' di tempo che ci sta dietro perché veniamo a chiedere il granturco e questo e quest'altro. Ma adesso capisco. Jackpiè-di-capra vuol mettere fratelli contro fratelli. Sicuro. Con questo non ho più niente da dire. Grazie. Scusa. Un fitto silenzio avvolse la stanza. Sulle facce di tutti si leggeva la riprovazione. Serafim aveva fatto male a tirar fuori quei discorsi su Jack-piè-di-capra. Jack era sempre stato un ribelle, questa volta li aveva influenzati, non c'è dubbio, ma era un fratello.
Il compagno Barreto sorvolò il gruppo con lo sguardo. Si vide costretto a fare alcune considerazioni. Parlò dell'indipendenza, della lotta da portare avanti giorno dopo giorno. Era necessario condurre la barca in porto con l'aiuto di tutti. Parlò della bonaccia in mare, quando i battelli non riescono ad andare né avanti né indietro e a bordo tutti hanno la nausea. O di quando soffia il vento all'alba e gli alberi maestri si spezzano anche tra le mani di marinai esperti. - Non si tratta soltanto di essere bravi naviganti - continuò il compagno Barreto dobbiamo anche conoscere le astuzie del mare in tempo di bonaccia. O quando il vento soffia forte e vuole strapparci le vele, indifferente allo sforzo di valorosi e anziani uomini di mare. Era un po' stanco. Approfittando della pausa per appoggiarsi al bordo della scrivania, concluse: - Bene, non parliamo più della storia di Jack. Lo sappiamo tutti, Jack è sempre stato uno scombinato. Eravamo compagni al liceo, abbiamo passato dei bei momenti insieme e mi immagino che abbia voluto mettervi alla prova. Non vedete? Non è neppure venuto con voi! Parlate con lui, ditegli che siete stati qui, raccontategli tutto e poi vedrete se alla fine non vi riderà in faccia. Ma aspettate un momento, dite a Jack che scherzi del genere non si ripetano. Possono costargli caro. Tanto più che adesso qui facciamo sul serio, non è tempo di scherzare. Non stiamo facendo chiacchiere. Umberto lo aveva raccontato al signor Nhôse. Tutto tutto, senza tralasciare una virgola. - Ho letto una gran determinazione nel pallore rabbioso della faccia del compagno Barreto. Signor Nhôse, lo sapeva che ha fatto un corso in Germania? Nhôse continuava a tenere gli occhi sul foglio. Lo rilesse. - Sei stato tu a redigere questo documento? Norberto si eccitò. Mamma mia, dunque il signor Nhôse aveva chiamato quel foglio documento, quella mezza dozzina di parole scritte su un pezzo di carta, scribacchiate così, sulle ginocchia? Lui, Norberto, figlio di Jon Bilbau sapeva redigere, proprio così. Il signor Nhôse aveva detto: redigere un documento. È proprio così, io Norberto, io so redigere un documento. - Be', non l'ho scritto io, cioè, io l'ho scritto ma ho chiesto un parere. Nhôse continuava a guardare il foglio. Lo leggeva per la terza volta. - Senti un po', c'è qualche erroretto, sì sì, ma è colpa del creolo. Per esempio, ci sono qui alcune cose che non sono corrette. Qui dice: ma però. Non va bene. C'è qualche altra cosetta. Insomma. Norberto lo ascoltava con attenzione. Si vedeva seduto sui banchi del liceo dove non era mai stato, mentre assisteva ad una lezione di professori come, ad esempio, il figlio del signor Nhôse. Il figlio del signor Nhôse somigliava al padre. Ecco qua come il vecchio, con due tratti di penna, gli correggeva il documento. Documento, aveva detto, sissignori. Si sentì alunno del liceo. Si vide a far ginnastica alla spalliera, a tener l'equilibrio sulla sbarra, o a salire con le braccia il quadro svedese. O ancora a far prove per le serate o per la rappresentazione di fine anno nell'aula di disegno. Oppure a partecipare con gli altri a gite di studio alla Ribeira de Julião o al panificio. Se fosse andato al liceo non si sarebbe mai dimenticato di portare con sé la borsa da riempire di biscotti al panificio, biscotti di mais, panini all'olio, o anche di mandorle verdi raccolte nell'orto del signor Antonio Sapateiro, calzolaio venuto dal Minho a fare scarpe per la gente della morada.
Nhôse tirò fuori la penna e cominciò a correggere. Cancellò, scrisse sopra, tagliò parole, fece sostituzioni. Appoggiato allo schienale del sedile posteriore, sollevò gli occhiali e toccò la spalla dell'autista. Sei un bravo ragazzo, è per questo che ti dò un consiglio. Se vuoi imparare devi leggere molto, hai capito? E se vuoi scrivere come si deve, devi leggere buoni libri. Si vedeva davanti l'uno o l'altro dei suoi figli quando erano piccoli e dava loro consigli, li mandava alla biblioteca comunale a prendere libri in prestito. - Per cominciare leggi opere brasiliane. Ti piaceranno. Sembrano storie nostre, di qui, della nostra terra. Quando ci avrai preso gusto, comincia a leggere scrittori portoghesi. Per imparare, per imparare. Il petto di Norberto scoppiava. Il signor Nhôse lo teneva in considerazione, se no non gli avrebbe parlato così, da pari a pari. Sul sedile era rimasto il foglio scarabocchiato, frasi tagliate, altre nuove, virgole qua e là, in fin dei conti saranno state in tutto meno di mezza dozzina di parole, o meglio, di frasi prima abborracciate. Nel mezzo foglio protocollo un po' sgualcito, Nhôse aveva messo tutto l'impegno di uno che aveva potuto studiare, finire le scuole. Aveva corretto tutte le c e le q, per non parlare di altri particolari. Il foglio era rimasto sul sedile, non se ne sarebbe ricordato mai più. Norberto afferrò il foglio e lo sollevò pian piano, assaporando ogni parola, ogni virgola. Nella sua stanza, all'imbrunire, lo mostrò a Chico. Aveva bussato invano a tutte le porte della città. Non era riuscito a trovare un'anima buona che gli battesse il testo a macchina. - Sono arrivato a una conclusione, Chico. Sono tutti fetenti. Perché non vogliono fare questo piacere a un cristiano, eh? Ascolta Chico, io pago. Io pago, mi senti? Chico si grattava il mento, imbarazzato. - Dì su, Norberto, perché questa denuncia? Dimmi una cosa: chi va a esporsi con un foglio che ha per capolista te, Norberto, figlio di Jon Bilbau? - E perché no? Sarei da meno di un qualsiasi lisbonese qui, di Soncente? - Non è questo, Norberto, non sei da meno. Ma cerca di capire, ragazzo, tuo padre era sì o no sor Jon Bilbau? E oltretutto, scusa se te lo dico, Jon Bilbau era contrabbandiere là nella baia. Faceva i suoi affarucci con l'alcool, allungava le mani sui barattoli di conserva dei battelli, eccetera, eccetera. Una volta è stato deportato all'isola di Sal, lo sai, non è vero? Pensaci su, ragazzo, tu sei uno che non ha studiato, ma capisci, no? Norberto rimase seduto sulla cassa dov'era stato fino a quel momento, i gomiti sulle cosce, le mani che sfregavano le gambe tranquillamente rilassate. Chino in avanti, alzò la testa quasi sorridendo. - La vedi la mia mano, vero? Alzò la mano verso il naso dell'amico. - E adesso, se chiudo questa mano così, vedi, vedi o no, figlio di puttana? Si alzò e accostò i pugni chiusi alla bocca di Chico. Questi sedette sul bordo della branda, spinto da Norberto. - Io non dico due volte la stessa cosa, Chico. Se alzo questa mano è per spaccarti quei quattro denti che ti escono di bocca, hai sentito sacco di merda che sei? Chico lo allontanò, fifone, spaventato, e salì sulla branda gridando: Ohi, Nhonhô, vieni a salvare tuo figlio, ohi, Nhonhô, Norberto di Jon Bilbau vuol far fuori tuo figlio. Oh gente, aiutatemi! La sora Rosinha del sor Jul Gilberto affacciata da metà porta per vedere le rare ombre della strada accogliere il fresco della sera, Noca su una sedia, dall'altro lato del marciapiede, la sora Bleca che scambiava
chiacchiere con le vicine. Noca teneva in grembo un cartoccino di cimbrão e ne tirava fuori le bacche, le metteva in bocca una alla volta, avvolgeva il frutto piccolo e secco tra la lingua e il palato poco dopo lanciava con un soffio il nocciolo rugoso in mezzo alla strada. - Non sente, sora Rosinha? Norberto è sbronzo un'altra volta. Quel ragazzo è incorreggibile. Sputò un nocciolo e mise in bocca un altro cimbrão. La sora Rosinha rimase un po' così, con la testa girata, ad ascoltare. Il vento si alzò con un rombo sordo. La voce di Chico venne col vento. Ohi, Nhonhô, vieni a salvare tuo figlio! La sora Rosinha aprì il chiavistello della mezza porta e uscì in strada. In un istante fu alla casa di Norberto. Ne usciva poco dopo con Chico davanti a sé. - Non ti vergogni, giovanotto, grande e grosso come sei, a gridare e chiamare tuo padre? Norberto apparve sulla porta. - Un giorno o l'altro lego questo sacco di merda e vado a buttarlo nella fossa, ha sentito sora Rosinha? A Mindelo non c'erano fognature e, di notte, secchi di escrementi venivano trasportati sulla testa dalle donne che poi li vuotavano dalla breve banchina costruita a questo scopo. In fondo alla banchina, in una fossa chiusa a metà, venivano svuotati in mare i secchi delle nove, così chiamati perché soltanto dopo quest'ora cominciava la processione delle donne addette a questo lavoro. La sora Rosinha si fermò e si voltò. - Senti, giovanotto, quando sei su di giri, sai soltanto dire porcherie. Tuo padre poteva essere quel che si vuole, però era un uomo a posto. Non ho mai sentito parolacce sulla sua bocca. Pace all'anima sua. Comperavo da lui conserva, formaggio olandese, carne in scatola, mi senti? Ma non l'ho mai sentito abbassarsi a dire porcherie. Norberto chiuse i battenti della porta sbattendoli con tutte le forze. Quando lei si girò, Chico, a lunghi passi, aveva già quasi svoltato per Rua de Serra. La sora Rosinha entrò, chiuse la mezza porta, poi gli sportelli. Prima di coricarsi avrebbe cenato con una tisana di belgata e due gallette di granoturco. Norberto si svegliò prestissimo, il gallo della sora Rosinha non aveva neppure cominciato a cantare. l'alba doveva essere vicina. Si rigirò nella branda restò ad ascoltare i rumori. Un talantalan ripetuto si avvolgeva nell'aria. Era il carretto della spazzatura del sor Leopoldino. Cominciava di primo mattino a spazzare le strade. Ammucchiava l'immondizia con una scopa di rami di cocco su una pala enorme proseguiva, talantalan, lungo tutta la strada. Mise le gambe fuori dalla branda e sedette. Si stiracchiò. Si alzò, aprì la porta e uscì in cortile. Sopra un sedile di pietra un catino smaltato. Si lavò la faccia, le ascelle e tolse da un buco nella parete una scatolina in cui teneva la polvere di carbone. Si sfregò i denti e ripose la scatola nello stesso posto. Appoggiò il piede su di una pietra e cominciò a lavarlo. Poi l'altro piede. Versò l'acqua rimasta sulle gambe senza peli per rinfrescarle. Prese i sandali da sopra il muretto di cinta, se li mise e rientrò in casa. Sparse vaselina sui capelli, infilò in testa una vecchia calza per fissare la pettinatura e sedette in attesa. Fumava, soffiava il fumo in quella quiete. Bene. Si mise la camicia buona, gettò a casaccio la vecchia calza e uscì.
In macchina sentì il suo documento nella tasca dei pantaloni. Doveva farlo mettere in bella, oppure copiarlo da sé a caratteri ben chiari. Avrebbe raccolto le firme. Perché lui doveva essere da meno di tutti gli altri? Siamo tutti uguali adesso. Chico si è messo a parlare di mio padre, di Jon Bilbau deportato nell'isola di Sal tanto tempo fa. Tutto per colpa di qualche barattolo di tinta per battelli. Era forse peccato? Insolente. Sfacciato. Il capo metteva il naso dappertutto e, con la sua indiscrezione, aveva scoperto i barattoli nel fondo di una lancia, sotto dei sacchi di tela. Jon Bilbau stava facendo la siesta accanto alla banchina, lì nello spiazzo, quando erano comparsi due poliziotti per portarlo alla capitaneria. Il capitano di porto era addirittura un paesano, sapeva che traffici doveva fare un povero cristo per mettere insieme qualche soldo. Ma adesso è cambiato tutto. Non è come ai tempi di papà. Dobbiamo denunciare le vergogne, anche se sono di qualcuno del governo. Adesso è così, ha detto il compagno segretario. Due giorni dopo aveva il foglio in bella copia. Avrebbe cominciato a raccogliere le firme. Nell'ufficio del signor Hipolito gli diedero una strapazzata. - Di un po', Norberto, credi che mi metta a firmare addirittura un foglio uscito dalle tue mani? Chi sei tu per venire da me con questa storia? Anche perché qui ci sono cose di cui dubito molto. E poi io firmo soltanto fogli di persone della mia condizione, hai capito? Vattene da qui, va via. Vatti a pulire il culo col vetro prima di comparire qui un'altra volta, capito? Non si perse d'animo, ma cominciò a pensare alle parole del signor Hipolito. Dunque il compagno segretario dice che siamo tutti uguali e il signor Hipolito mi ha appena detto che non sono della sua condizione! Oltre una settimana e ancora non aveva raccolto una sola firma. Accanto a un lampione, nei pressi del quartiere olandese, tirò fuori il foglio mezzo spiegazzato e cominciò a leggerlo. La luce smorta non aiutava molto, ma poiché sapeva il discorso a memoria, lo leggeva più nella mente che nel foglio. Così pensava e leggeva, appoggiato, una gamba piegata e il piede contro il palo; era completamente assorto quando un ragazzetto dall'aria sfrontata, comparendo da dietro, gli tolse il foglio dalle mani. Cominciò poi a leggerlo in tono alto ed enfatico. Il riso dilagava sulle facce dei compagni, camicia sbottonata, mani nascoste nelle tasche dei jeans, dissimulati dalle ombre dei muri. - Ehi, giovani, ascoltate. Noi sottoscritti, nel pieno uso dei nostri diritti, Norberto, passata la sorpresa, diede un passo per strappargli il foglio. Un ragazzo magrolino gli fece lo sgambetto e Norberto perse l'equilibrio. - Calma lì, eh. Ci occuperemo noi di questo, a modo nostro. Siamo trotskisti, lo sappiamo noi come si fanno queste cose. Va per la tua strada, va a lavorare. E giudizio, acqua in bocca, se no ti denunciamo. Si allontanarono fischiettando e ciondolando. Non ebbe coraggio di inseguirli. Quello più alto lo conosceva. Era figlio di Tuca Tubarão (6). Era venuto sei mesi prima da Lisbona, un sei o sette mesi. Era un fissato, un fanatico. E anche l'altro era stato a Lisbona a studiare; tutte le occasioni erano buone perché dicesse: sono un politicizzato. Sai cosa vuol dire? Se non lo sai cerca di saperlo. Io non insegno agli analfabeti. Norberto nutriva solo una speranza, di arrivare a dare un ceffone a ciascuno di loro.
Il foglio, di mano in mano, passò a tutti quelli della nuova banda; gli interessava. Buona occasione per fare chiasso, per mettersi in mostra. E poi il testo aveva un suo peso, convinceva. Raccolsero le firme di tutti gli sfaccendati di Soncente. Di studenti che avevano la mania di cogliere ogni pretesto per mettersi in mostra. Una sera abbordarono Jack-piè-di-capra. - Metti la tua firma qui, Jack. Jack prese il foglio, lo lesse e lo rilesse, riconoscendo qua e là la sua mano, poche frasi, ma sue. - Dove avete trovato questo mezzo foglio bisunto? - Dove l'abbiamo trovato? Guarda un po ! Questa petizione è nostra. Guarda un po'. - Allora io non firmo niente. - Ahi ahi, Jack-piè-dicapra, ahi ahi, è così? - Io non sono Jack. Sono Joaquim Pereira Barbosa. E quanto a firmare, firmo soltanto quando e dove voglio io. Voltò la schiena e se ne andò, impuntandosi col piede, abbassando la spalla. Andò direttamente a casa del Bilai. Lo incontrò con quattro compagni, intorno a un tavolo, a chiacchierare. - Entra, su, siediti su quella panca. Jack-piè-di-capra rimase in attesa. Loro zitti, non dicevano niente, anch'essi in attesa. Diffidavano di Jack, aveva istigato la gente in quella storia del mais dell'altroieri. - Vuoi un cicchetto, Jack? Jack intanto li guardava così, da sopra gli occhiali, e tamburellava con le dita sul tavolo. - Dite un po', chi di voi sa di un foglio schifoso che sta andando in giro nelle mani di certi mascalzoni, di certi lisbonesi della banda di Craca? Bilai si arrabbiò. - Su Jack, non far finta di niente. Ammetti che quel foglio è opera tua. l'hai messo nelle mani di Norberto di Jon Bilbau e adesso vieni qui a prenderci per fessi. - Che storia è questa, Bilai, che storia è questa? - Smetti di fare l'ipocrita. Norberto di Jon Bilbau l'ha addirittura fatto correggere dal signor Nhôse. l'ha corretto con la sua presunzione di sapere il portoghese meglio di chiunque altro. Vanità! - E concluse la frase con un lungo fischio, la faccia alzata verso il soffitto, dove gechi piccoli e rosati si nascondevano fra le travi. - Eh sì, eh sì! Jack era sbalordito. Infine capì. Aveva dato a Norberto un spunto, questi aveva allineato le frasi ed era corso a chiedere aiuto al primo che gli era capitato davanti. - Allora dirò a tutti che è stato il signor Nhôse a scrivere quel foglio. E adesso? Lanciò la sfida con un sorriso raggiante. - Adesso è molto semplice, gli ribatté Chico dall'altro lato del tavolo, senza agitarsi. È inutile cavillare. Questa volta non hai scappatoie. C'è modo che tu vada a finire in prigione. E non credere di coinvolgere il signor Nhôse nelle tue esibizioni. Il signor Nhôse non c'entra niente con questo imbroglio. Jack non rispose e continuò a tamburellare sul tavolo. Gli brulicavano in testa idee contraddittorie. Continuò a guardare il tavolo, una macchia marrone di caffè, i ragazzi di fronte a lui. Chico aprì un cassetto all'estremità del tavolo e tirò fuori un mazzo di carte. Le mischiò e cominciò a darle. Appartato, Jack seguiva il passaggio delle carte di mano in mano, l'apertura del gioco, lo sguardo attento dei compari. In fin dei conti, lui aveva soltanto abbellito le frasi su richiesta di Norberto. Tanto era un anarchico. Non aveva impegni con nessuno. Lo lasciassero suonare il piano e fare le sue composizioni. Tastò la
cassetta del secondo andamento di Beethoven nella tasca dei pantaloni. l'avrebbe ascoltato per la ventesima volta. Sognava un arrangiamento per piano, qualcosa di inedito, un classico creolo. Lo lasciassero in pace. Sul lato B le ouvertures, incisione dell'orchestra sinfonica di Boston. Gliel aveva mandato il cugino Xavier dall'America. Prometeo, Fidelio, Leonora. Ambiva soltanto a suonare, a comporre. Lontano il tempo del liceo. Non aveva neppure potuto continuare gli studi. Chi glieli avrebbe pagati? Il padre no. La matrigna non lo sopportava, il padre l'aveva buttato in strada perché andava in giro sempre sciamannato, i capelli in disordine. Si sentiva un emarginato. Qui in questa stanzetta, in compagnia di Chico, pure qui era un emarginato. I compagni del Liceo, dove saranno? Lela, Firmino, Pelópidas, Mário Ferro e molti altri si sono trapiantati a Lisbona. Ce n erano di nuovi, ma non erano dei suoi tempi, non erano stati complici nel combinare schiocchezze insieme in notti di luna. Quasi non li conosceva, a parte le giratine in piazza la domenica sera. Anche quando stava con loro si sentiva un emarginato. Chico mischiò di nuovo. Altra partita. Le carte cadevano leggere sul tavolo. - Briscola - segnalò Sidónio - Briscola un'altra volta. Ho vinto. E le carte scivolavano sul tavolo. A fine partita, Sidónio cominciò a contare. - Cappotto. Facciamo la rivincita. Anche Chico era preoccupato. Giocava senza interesse. Questi giovani fanno cose assurde, vogliono essere rivoluzionari e riescono solo a intorbidare le acque. Era capace di andare a cercare il compagno Barreto e raccontargli anche questa. Forse era rischioso, ma avrebbe tentato. Non dovevano assolutamente mischiare il nome del signor Nhôse ai pasticci della marmaglia. Dov'era il rispetto dovuto ai più vecchi? Chiedere consiglio al dottor Chantre? No, il dottor Chantre divagava troppo. Massoneria, Marx, Engels, oh mamma mia, la conversazione avrebbe occupato una serata intera, seduti in riva al mare, mentre le onde si rompevano sulla spiaggia e la spuma lasciava semicerchi sulla sabbia grossa di João d'Évora. Il mare trasformato in un ammasso di onde, una dietro l'altra. Talmente in fretta quel mare traditore che giocava ai nostri piedi sulla lunga spiaggia, si trasformava in un cavallo imbizzarrito capace di dare a casaccio un'infinità di calci. E intanto il mare portava via con sé sassi rotondi e neri e li riportava poi sulla battigia. No, il dottor Chantre era una brava persona, ma non aiutava a risolvere problemi pratici. Un sognatore, un filosofo. Nelle lezioni di filosofia raccontava storie di marinai delle Americhe, di uomini del Lazzaretto. In quelle di francese invocava Mallarmé, Balzac. Dissertava sul mantello creato da Rodin per dissimulare il busto corto nella scultura di Balzac. Chico preferirebbe che parlasse loro di Heinrich Böll,di Cortázar o dell'Emperor of the Sea di Obi Egbuna. - Gioca, Chico. Stai nelle nuvole o cosa? Chico scelse la carta e la mise sul tavolo. - Sidónio, questa è l'ultima partita. Ho da fare. Può prendere il mio posto Jack. Sentendo il suo nome Jack si svegliò. - Andate a quel paese. Ho da fare anch'io. Credete per caso ch'io sia un vagabondo? Chico si alzò. Deciso. Si rivolse a Jack. - Hai rinunciato a chiedere quella borsa di studio? Non volevi andare in un conservatorio all'estero? Detto questo si sentì sollevato. Prima di tutto bisognava mandare quell'irresponsabile all'estero, a studiare, a far qualcosa. Dopo, si sarebbe risolto anche il resto. l'intuizione l'ebbe in quell'istante. Il compagno Barreto avrebbe dato a Jack la borsa di studio. Perché non
doveva dargliela? Jack era un fratello. E quanto al resto, si trattava di una tempesta in un bicchiere d'acqua. Si alzò e uscì dalla porta. Camminava quasi di corsa. Svoltando l'angolo di rua de Serra si scontrò con Nhôse. Pazientemente, in capo alla strada, un po' ansante, era alle prese con uno dei suoi attacchi d'asma. Respirava a fatica. - Ah, ragazzo, dove vai con tanta furia? Stavi per buttarmi a terra. Lo prese per un braccio. - Il mondo non finirà oggi, Chico. Calma ragazzo, calma! Sorrise al vecchio Nhôse e continuò per la sua strada. Chico abitava con la zia Aurinha in una casa attaccata a quella del signor Siminha. Si infilò nella sua stanza e si coricò, senza cenare. Il giorno seguente sarebbe senz'altro andato a parlare col compagno Barreto. Dovevano dare un indirizzo alla vita di Jack. E si addormentò come se avesse passato la giornata a spingere carri zeppi di sacchi di mais. La sveglia non fece in tempo a suonare. La zia entrò nella stanza, gli occhi stralunati, che non erano ancora le sei; il gallo del cortile non aveva neppure cantato, aveva appena cominciato a scuotere le ali. Nel pollaio le galline infilavano il becco sotto le ali per sonecchiare finché si fosse fatto giorno. - Chico, svegliati figliolo. È stato qui in casa proprio adesso il signor Nhôse. Ha detto che andava a chiamare Agostinho della farmacia perché Jack si è impiccato nel solaio della nonna. - Sì figliolo. Che disgrazia! Il signor Siminha è uscito di casa poco fa. Dev'essere andato da quelle parti. Ho visto anche passare il taxi di quel cretino di Norberto di Jon Bilbau. Portava con sé il Djunga Ribeiro, il Jonas e il Nena. Che disgrazia. E ho visto l'Alexandrino attraversare la piazzetta del liceo. È stato lì lì per cadere. È che non li fanno mai accomodare quei gradini. Chico saltò dal letto. Si inginocchiò e si mise a dar pugni sul materasso, sul cuscino. Nascose la faccia tra le lenzuola. E pianse.
BICO-DE-LACRE "Bico-de-lacre, uccellino conosciuto a Santiago come passeretta. Bico-delacre, sortilegio pari a quello di qualsiasi totem a cui ci si aggrappi. Anche l'infanzia trasfigurata di un bambino ha il suo sortilegio. Vila de Ribeira de João, Lombinho, Passagem, Calejão, Campinho e tanti altri luoghi, e ancora figure carismatiche come il canonico Bouças o il dottor Elmano o una istituzione come il seminario, vengono nobilitate dal tempo. E se la creatività prende a riferimento l'insieme di circostanze e di luoghi che si richiamano alla "storia", ciò esprime l'omaggio di chi ha amato quei luoghi ed è in essi vissuto, seppure di passaggio".
Chiquinha finì di sistemare le tre pietre per il focolare improvvisato, quasi in mezzo al cortile. Sterco secco di asino, fogli vecchi e qualche legno sistemati tra le tre pietre di granito avrebbero dato la prima fiammata per la marmellata di guaiava. Affacciati alla larga e lunga veranda sopra il cortile, davamo un'occhiata, poi correvamo via giravamo attorno al tavolo su cui si faceva colazione e scendevamo le scale fino
alla porta della cucina quasi in fondo al cortile. Da quel lato veniva un odorino di caffè fresco e di cuscus appena preparato. Isabel lasciò sul tavolo un grande bollitore pieno di latte di mucca. - Venite a mangiare, bambini! Voltavamo le spalle alla cucina e, attraversata una parte del cortile dove una volta c'era un cancello di ferro, percorrevamo un secondo spazio, cortile anche quello, e raggiungevamo la strada passando sotto la veranda che lì formava un angolo retto. Da quel lato c'era una scala larga, leggermente incurvata, tutta di pietra. Sorreggeva lungo i gradini vasi di iris dai fiori bianchi, altri viola. Questi stessi vasi ci proteggevano da cadute sulle pietre del cortile durante le nostre scorribande. Rampicanti coprivano il muro di un quattro metri di altezza. Dalla parte della strada sarà stato un metro o poco più, perché la casa della nonna era nella discesa per la fontanella. Sembrava una fossa profonda qui, da questo lato. Una era la scala degli ospiti, l'altra della servitù. Il retro era la parte più fastosa della casa. Al primo piano le sei finestre con ampie vetrate riflettevano il luccichio del sole di tutto l'anno. Dalla stanza della zia o da un'altra qualsiasi potevamo scorgere un altarino dove per tutto un mese si cantavano le litanie alla Madonna del Rosario. Verso sera, le candele sull'altarino tremolavano illuminando le case, e le foglie del ricino si allungavano in ombre fin sulla cima del monte. Le voci delle donne si propagavano per le case del declivio mentre le dita segnavano sui grani del rosario la fine di ogni ave-maria. La nenia, come coro di préfiche, si spandeva nella notte. Piangevano per i mariti che non avevano mai avuto. Sotto la veranda c'erano la dispensa e la stanza delle domestiche. Questi due spazi occupavano tutto il pianterreno della casa. Come mi piaceva seguire la zia quando andava in dispensa. Tirava fuori le chiavi dalla tasca al sicuro sulla sottoveste e armeggiava col lucchetto. Quindi entrava e io appiccicata a lei fino ad abituarmi al buio. La cuoca restava sulla porta e la zia veniva apprestando i viveri per la giornata. Versava due misure di mais. Una da sgusciare per la catchupa, un'altra da macinare per la polenta. La cuoca teneva il paniere sul fianco e osservava. Un recipiente pieno di grani cinerini di caffè sistemato sul mais. Tostare il caffè, aspirarne l'aroma dopo macinato, dava più piacere che berlo. Anche un sacchetto di farina di manioca da dorare con lardo fritto avrebbe contribuito al pasto. La polenta si mangiava col latte dopo il pranzo, la catchupa sarebbe stata la cena. Io piangevo, non volevo la polenta. Mi piaceva molto alzarmi presto e fuggire di casa. Io e mia sorella scendevamo in strada, correvamo, correvamo lungo la Ribeira de João, asciutta in quell'epoca, arrivavamo alla proprietà del canonico Bouças. Potevamo mangiare manghi dal sottile gusto di trementina, raccogliere banane e guaiave mature. Il contadino ci raccomandava sempre di non dimenticarci di chiudere il saliscendi del cancello quando ce ne fossimo andate. Una mattina tornai a casa col mal di pancia. La nonna brontolò perché ero uscita scalza, disse che le coliche venivano dal freddo della terra indurita dalla brina. Io sapevo che era per la scorpacciata di guaiave ma rimasi zitta. Das Dores mi sfregò la pancia con olio di curcas caldo e mi coricò su una stuoia nell'angolo della veranda. Di lì a poco eravamo già fuori a correre, scendendo da una scala, attraversando il cortile e salendo dall'altra.
La mia giornata cominciava in maniera molto sgradevole. Subito a colazione dovevo prendere olio di gattuccio. Il gattuccio è un pesce che pescano al largo di Preguiça, forse nel mare di Boa Vista, non so. Io odiavo quell'appiccicoso nauseabondo olio di gattuccio. Piangevo, sputavo e la zia chiamava il mio fratello più piccolo. - Su Dani, fa vedere a tua sorella che non fai storie per bere l'olio di gattuccio. Lui metteva il cucchiaio in bocca e inghiottiva il liquido in un sorso. Quando la zia dovette andare a Preguiça per ricevere la benedizione della madrina che arrivava quel giorno, ci fu il caos in casa. Si alzarono tutti alle cinque e mezza del mattino per i preparativi della partenza di mia zia. Lei fece il bagno in acqua fresca, mise le scarpe con la fibbia e indossò un vestito con gale nello scollo, nell'incavo delle maniche e in fondo alla gonna, corta per quei tempi. Parlava forte, che la madrina veniva dall'America e le avrebbe portato molte collane. Das Dores mi disse all'orecchio: la madrina ero lo zio Virgilio, il fratello più giovane di papà, ma per cresimarla doveva essere madrina non padrino. Forse per avermi vista parlare sottovoce con Das Dores la zia si rammentò, dovevo prendere l'olio di gattuccio. Cominciai a piangere e a sfregare la schiena contro il muro. Volevo prima vederla salire sulla Zagaia, l'asina pazza che tirava calci. Su, Das Dores, disse la zia, va a prendere l'olio di gattuccio. Scappai per le scale e uscii in strada. Accanto al cancello c'era la Zagaia, che si appoggiava su una zampa, si appoggiava sull'altra e agitava la coda per scacciare le mosche. Le avevano messo sul dorso una copertina ripiegata, sopra la sella di legno e, su di questa, un piccolo cuscino. Questo assetto doveva dar fastidio all'asina e si scuoteva facendo col muso uno strano rumore. Das Dores apparve con la bottiglia dell'olio che la zia già stava uscendo. Mi trovarono accoccolata vicino al muro, che guardavo in un modo, come se volessi esaminare la pancia dell'asina. La zia mi sgridò non vedi che può darti un calcio in bocca, bambina? Cominciai a correre di nuovo giù per la strada in discesa e quando mi presero, sapevo soltanto dimenarmi stretta tra le braccia forti di Das Dores. Vedevo la zia in cima alla salita con la bottiglia in una mano e il cucchiaio nell'altra che gesticolava, gesticolava. - Dona Dadinha ha fretta, deve andare a chiedere la benedizione alla madrina - cercava di spiegarmi - ma io mi dimenavo di più, ancor più tentavo di liberarmi dal suo abbraccio. La zia diceva a mio fratello: - Fa vedere Dani, fa vedere come prendi l'olio di gattuccio. Das Dores riempì il cucchiaio e lo mise in bocca a mio fratello, tornò a riempirlo e io ingoiai quel liquido vischioso e scuro. La zia salì sulla Zagaia aiutata da José Julia. Lui afferrò la cavezza e cominciò a tirare l'asina. Lei resistette, puntando le zampe posteriori, e José Julia la scrollò dandole uno strattone. La zia rovinò sul collo della giumenta a cui si aggrappò con quanta forza aveva. A quel punto l'asina cominciò a tirar calci e io e Dani battevamo le mani allegri e emozionati. Fino a Preguiça c'erano non meno di sette chilometri. La zia avrebbe dondolato parecchio sopra quell'asina. Prima di chiudere la bottiglia, Das Dores la odorò e fece una smorfia. Cominciò allora a gridare verso il cortile interno. Io e Dani eravamo ancora seduti sulle pietre accanto alla porta. Mi spaventai sul serio quando vidi la nonna uscir fuori di lì a poco, ansante, le mani tra i capelli, con uno strepito da assordare. Madonna santa, diceva, avete
preso l'olio di curcas! Oh, Isabel, Das Dores. Portate i bambini dal signor Teodoro. La cugina Lurdes stava dietro i vetri della sua casa. Ci guardava, agitava le mani, ma non si era accorta di quanto stava accadendo. È successa una disgrazia, disse la nonna rivolta alla cugina Lurdes. Das Dores si è sbagliata, ha scambiato le bottiglie. Che tremenda disgrazia! La cugina Lurdes non capiva un'acca. Portava la mano al petto, alla gola e faceva dei cenni. Io capii: non poteva aprire le finestre perché aveva l'angina le doleva anche il petto. Isabel ci portò per mano attraverso le strade della cittadina. Arrivammo alla casa del signor Teodoro, allungammo lo sguardo fino alle finestre sopra la nostra testa. Era affacciato a una di queste, maniche corte, camicia col collo aperto, la camicia così ben stirata, quel colore azzurro così bello che ci entrava negli occhi, e noi che guardavamo a quel modo verso di lui. Stava prendendo il fresco del primo mattino e rimase calmo anche di fronte all'agitazione di Isabel che gesticolava e diceva che avevamo preso l'olio di curcas invece dell'olio di gattuccio. Andate a casa, andate, disse lui. Dite alla nonna che metta a bollire sul fuoco una gallina e vi dia il brodo senza nient'altro, capito? Se ci saranno novità, venite a chiamarmi in farmacia, d'accordo? Vedevo il suo mezzo busto alla finestra, in piedi, le mani sul parapetto, un po' chino per parlare con noi là sotto. Ehi, Isabel, disse ancora, vieni di sopra che devo darti qualche altra spiegazione. Quando tornammo, nonna ci aspettava seduta sulla scala degli iris. Oh, figli miei, venite qua, piangeva. Cos'ha detto il signor Teodoro? Das Dores si era ammutolita. Non le avevo più sentito dire un ahi da quando la zia era partita su quella Zagaia pazza. Isabel si mise le mani sui fianchi. Signora, il signor Teodoro ha detto di mettere sul fuoco brodo di gallina, senza riso, senza pasta, senza niente. Se vomitano il brodo non deve spaventarsi, gli dà subito dell'altro brodo. E così via. Nonna ci prese per mano e ci mise a letto. Io salii in piedi sul materasso e cominciai a piagnucolare. Non mi sdraio su questo letto, ci sono le cimici. Nonna sedette al capezzale e mi tenne stretta. Su, su, come non vuoi sdraiarti, è il tuo letto questo. Ci sono le cimici, frignai, ma lasciandomi cadere sui cuscini. Così in fretta come mi ero sdraiata, mi vidi di nuovo ritta sul materasso a pestare i piedi sgambettando. Non mi piace l'odore di questo cuscino, mi dà il voltastomaco. Nonna, paziente come sempre, mi spiegava. Questo odore è del petrolio che Isabel ha dato alla rete del letto per uccidere le cimici. Vomitai sul copriletto e stavo lì, tutta spaventata, a guardare la nonna. Non è niente, mi tranquillizzò. Cambiamo le lenzuola, non è niente. Das Dores arrivò dalla cucina con due tazze di brodo. Quando la zia tornò da Preguiça, portava i pacchetti dei regali alla rinfusa e, appoggiato tutto sul tavolo della veranda, corse nella stanza dove avevamo passato la giornata a vomitare e bere brodo di gallina. Io dovevo sentirmi meglio perché stavo seduta sul letto, avevo sollevato un capo del materasso ed ero tutta intenta a cercar di scoprire le cimici nella rete. Mio fratello sembrava tramortito e sonnecchiava nell'altro letto. La notizia dello scambio di bottiglie di olio di gattuccio con olio di curcas era arrivata a Preguiça intorno alle due del pomeriggio. Qualcuno l'aveva recata a bordo del rimorchiatore su cui la zia stava mangiando panini e bevendo limonata con la madrina. Zio Virgilio avrebbe continuato
il viaggio per Santiago dove il nonno lo aspettava per dargli la benedizione. L'aveva aiutata a portare i regali sulla lancia mentre le diceva: se li trovi debolucci dagli una cup of coffee. Don't forget, dagli una cup of coffee. Quando ci vide, la zia cominciò a urlare che le portassero del caffè forte perché il Dani stava per morire. Egli aprì gli occhi e ripetè: sto per morire zia. La Madonna non lo permetterà, non morirai, disse lei. E gli accostava la tazza da cui lui beveva a piccoli sorsi. Il caffè gli fece bene e non vomitò più. La zia si tranquillizzò perché il papà ci aveva affidati alle sue cure dopo la morte della mamma, alcuni mesi prima. Rimanemmo a letto altri due giorni e quando mi alzai, ero piena di risentimento perché lo zio Virgilio aveva mandato regali solo per mia sorella e per il Dani e non si era ricordato di me. Seduta su una valigia di cartone guardavo mia sorella giocare con la macchina da cucire, con la bambola, con tegami padelle. Nonna stava preparando le guaiave per la marmellata. Le altre, già pronte, si erano inacidite il giorno del nostro avvelenamento, recriminava. E per tutta la giornata continuò a ripetere la stessa cosa. Affacciata alla balaustra, ne vedevo l'orlo della gonna. Di sicuro era appoggiata a un tavolino sotto la veranda e stava schiacciando le guaiave e le passava via via in un colino sistemato su una terrina. A quella polpa rosata avrebbe aggiunto zucchero l'avrebbe poi messa sul fuoco in una casseruola di rame. Sarebbe stato lavoro di un giorno intero, lei su uno sgabello a mescolare la marmellata con un cucchiaio di legno dal manico lungo, la marmellata a sobbalzare nella casseruola e Isabel ad alimentare il fuoco con dei legnetti di quando in quando. Era il periodo dei grandi lavori. Sopra il forno c'erano banane sbucciate che seccavano al sole su di un vassoio. Mentre caschi verdi venivano appesi nella dispensa. Una volta maturi, oh che merenda perfetta con farina di manioca. Zia sarebbe andata al Lombo Pelado per assistere alla preparazione della farina di manioca per il consumo dell'anno successivo. Si raccoglieva la manioca, veniva grattugiata, tostata e poi conservata in grandi sacchi nella dispensa della nonna. Quello che più mi piacque fu il giorno della macellazione. Un fuoco enorme abbrustoliva le setole del maiale e gli uomini finivano di rasparle via con un grande coltello. Dopo, le frattaglie a pranzo e il sanguinaccio a cena. Il giorno seguente, lo sciogliersi del lardo per lo strutto. I ciccioli crepitavano tra i denti. Le salsicce venivano appese al camino, come pure gli altri insaccati. Si salavano carne e pancetta. Venivano messe dentro tinozze nella dispensa grossi pezzi di lombo erano arrostiti e conservati in barattoli di strutto. Tutto questo affaccendarsi mi ricordava il Natale a S. Vicente. Ma qui era diverso, si trattava infatti di riempire la dispensa per l'avvicinarsi della stagione delle piogge. Si era in agosto, ci alzavamo alle sei del mattino per andare a nuotare nel deposito d'acqua del dottor Elmano, mangiavamo manghi araças accanto agli alberi. Verso sera passeggiavamo lungo la strada del Caleijão. Fu durante una di queste passeggiate che comiciai a sentire le fitte alle spalle. Avevo difficoltà a respirare, ma anche così correvamo a zoppa-galletto e facevamo a chi arrivava prima. Continuai a questo modo per alcuni giorni finché la zia, vedendomi tutta curva, tutta piegata su me stessa, mi portò una mattina presto dal dottor Elmano. Ricordo solo una cosa: dopo una mezza dozzina
di ventose sulla schiena, non sentii mai più mancanza d'aria o un qualsiasi altro dolore. Continuavamo la nostra vita di vacanza, a recarci nell'orto del canonico Bouças, a fare il bagno nel deposito d'acqua del dottor Elmano. Un giorno spinsi mia sorella nell'acqua e non fosse stato per il Liberio sarebbe affogata. Da quel giorno ci proibirono di andare da sole e finirono i bagni nel deposito. Io ero cativa, mi dicevano. Cominciai a fantasticare. Ogni occasione era buona per ribadirlo. Era una lagna continua. Vedevo occhi che mi scrutavano da ogni parte e giorno dopo giorno cominciai a trasformarmi esteriormente. Ignoro se si accorgessero di ciò che mi stava accadendo. I miei denti lentamente crebbero, lentamente uscirono dalla bocca quasi arrivarono al mento. Gli occhi cominciarono a stringersi , alla fine, c'erano solo due minuscoli orifizi attraverso i quali le mie pupille ansiose osservavano il viavai di chi entrava in casa o scendeva in strada. Le orecchie nessuno le vedeva e meno male. I capelli le nascondevano e non volevo più le trecce per proteggermi dagli sguardi degli altri. Erano cresciute, le mie orecchie, e avevano cominciato ad arrotolarsi. Mi impedivano di udire e io distinguevo appena i suoni o qualsiasi cosa mi venisse detta. Quando andavo al bagno non volevo assolutamente nessuno con me. Che non se lo sognassero, la nonna, la zia, Isabel, Das Dores o Chiquinha quello che mi stava minacciando. Il peggio, il peggio. Un codino di pelle aveva cominciato a spuntare in fondo al coccige. Cresceva ogni giorno un pochino e stava già cercando di affacciarsi oltre l'orlo del vestito. Pensai allora di chiedere alla zia di abbassare gli orli dei miei vestiti in modo da coprirmi le ginocchia. Come rise. Odora ancora di latte, disse e sedette su di uno sgabello vicino alla finestra della cucina in mezzo a tutto quel fumo della legna. Tutti i pomeriggi scendeva le scale che portavano in cucina e si svagava chiacchierando con le domestiche. Isabel le dava un pezzetto di tabacco ritorto, lei ne metteva un briciolo in bocca e lo masticava, lo masticava. Chiacchierava, masticava e sputava dietro la panca. Si sarebbe trovata il fidanzato, aveva detto a una di loro. Ho riflettuto e ho pensato che a masticar tabacco a quel modo non avrebbe mai trovato qualcuno che la volesse. Con la stessa rapidità con cui mi venne questo pensiero, i miei capelli crebbero, crebbero e sopportavo oramai a mala pena il loro peso sulle spalle, sulla schiena. Sentivo il calore di tutto quel vello che mi avvolgeva. La testa mi pendeva e cominciai a sbavarmi tutta. Mi allontanai dalla cucina piano piano, senza rumore e sparii di lì. Continuai a girare per casa, a far cattiverie a mia sorella, a rompere tutti i giocattoli. Nessuno sembrava farmi caso. Non mi infastidivano neppure più per fare il bagno o mangiare come si deve. Entravo uscivo quando volevo, e nessuno mi faceva storie neppure per andare a messa la domenica. Un sabato vidi un funerale uscire dalla chiesa, o meglio, dalla cattedrale. Decisi di andare alla Tabuga. Non ero mai stata al cimitero della Tabuga, conoscevo soltanto le improvvisazioni cantate da Di Deus quando terminava: oh Tabuga, oh Tabuga! cadeva con grandi risate sul sofà, abbracciato alla chitarra. Dunque andai là insieme a quel mucchio di gente. Il prete raccomandò l'anima del morto, le persone piansero e, curvandosi, tesero le mani verso il suolo. Ognuno afferrò un pugno di terra e la gettò sulla cassa in fondo alla buca.
Il pianto alto e triste aprì crepe profonde e irregolari nel muro bianco del cimitero. Le donne si dolevano per il morto e per la pioggia. Nuvole grigie si accumulavano dalle parti del Cachaço, ma non portavano acqua. Gli uomini si scopersero e reggevano i cappelli tra le mani incrociate dietro la schiena. Allora mi allontanai e mi misi a leggere quello che dicevano le croci, ben dritte sopra ogni tomba. La lana dei capelli mi copriva la faccia, gli occhi, le spalle. Mi fermai vicino a una lapide piatta con una croce alta su cui c'erano diversi nomi, uno dietro l'altro. Scostai i capelli con le mani e sentii le enormi unghie contorte impigliarsi nell'intrico della criniera di fuoco. Volevo riuscire a distinguere bene, malgrado i miei occhi mi negassero questa possibilità. Le unghie impigliate, la testa china in avanti, caddi sulle ginocchia. Trattenni il respiro. Le lettere ben disegnate, i nomi e cognomi molto precisi. Quello del nonno prima di tutti, poi quello della nonna, della zia, più o meno cinque o sei nomi e, alla fine, il mio. Sbarrai gli occhi, ma i due buchini tra le palpebre non si allargarono neppure per questo. Ero fuori di me. Come avevano osato scrivere lì il mio nome? Uscii di corsa dal cimitero, il codino di pelle che mi batteva sulle gambe, imboccando la strada. Giurai che non vi avrei mai più messo piede. Il sole si nascondeva in fondo alla piana e il rosso del cielo bruciava la sera che scolorava. Cominciai ad intonare un inno mai imparato, dato che mai lo avevo ascoltato! Non sentivo più e i miei occhi erano immersi nella foschia, oramai non dovevo più badare a dove mettere i piedi. I suoni cadevano in fondo alle orecchie come tuoni. Saranno stati un migliaio di tamburi scatenati quelli che mi punivano nel più profondo del mio io. Un uccellino grigioazzuro, dal becco rosso, trillava in quel crepuscolo. Era un cinguettio agile, intermittente. Piegai la testa indietro, le guance scoperte, i denti che mi arrivavano al petto, quelle setole irsute gettate sulle spalle che mi pungevano. Lo riconobbi. l'uccellino era un bico-de-lacre. Inciampai e mi sedetti sopra una pietra. Adesso che a casa nessuno mi aspettava, non avevo fretta. Mi alzai di nuovo. Caddi. Le gambe non mi soccorrevano perché non avevo più piedi. Due blocchi di piombo mi fissavano al suolo, tenuti da due chiodi ben conficcati nella terra secca della piana. Allora scoppiai a piangere. Le mie lacrime, minuscole palline di vetro multicolore, mi cadevano in grembo e si sparpagliavano sulla terra secca e sfarinata. Cominciai a raccoglierle ma si moltiplicavano e mi esplodevano nelle mani ferite, trasformate in rospi viscidi. La notte mi crollò addosso. Il bico-delacre trillò ancora due volte (ora sentivo bene) e tacque.
MAIRA DA LUZ "Se per caso avessero chiesto a Maira da Luz quali erano le sue aspirazioni per il futuro, avrebbe risposto: - Voglio essere medico. Voglio mettermi un camice bianco come quello della dottoressa Maria Francisca. Farò costruire un ospedale nuovo e una maternità.
Nell'ospedale ci saranno raggi X e ultravioletti; e onde corte. E si cambieranno tutti i giorni le lenzuola dei malati. In sala operatoria avrò un buon anestesista e le migliori infermiere. E nessun malato mi morirà tra le mani per mancanza di cure o negligenza. Questi erano i sogni di Maira da Luz". Con l'entrata al liceo, una nuova alba era sorta nella vita di Maira da Luz. Si era lavata, si era preparata, si era profumata ed era uscita presto per il suo primo giorno di scuola. Andò presto non tanto perché fosse il primo giorno, quanto per sfuggire allo schieramento con cui i ragazzi accoglievano i novellini. Scivolò nell'atrio, diede un'occhiata da in cima alle scale ed eccola nel cortile interno. Prima di scendere i gradini, abbracciò soddisfatta lo spazio lungo e rettangolare. Che bello, sono già al liceo. Sono studentessa di liceo. Respirò l'aria secca del mattino tiepido di ottobre e attraversò l'area pavimentata a grandi lastre di cemento. Arrivata dall'altra parte, saltò due gradini e girò a sinistra fino ai bagni delle ragazze. Questa zona era simpatica. Un rifugio, una specie di recesso racchiuso tra i due lati dell'estremità del cortile. Gli ordini del preside si potevano riassumere in un'unica frase: metà dell'area apparteneva ai ragazzi, l'altra metà alle ragazze. Rimase per un po' appoggiata alla porta dell'anticamera dei bagni. Da un lato una scala con sei gradini in legno con una veranda d'angolo portava a tre aule, le uniche unite alla segreteria. Un'acacia adulta ombreggiava e rinfrescava questo canto della veranda. Una recinzione di cemento intorno all'acacia serviva da sedile durante gli intervalli. Le ragazze si riunivano lì e chiacchieravano a piccoli gruppi. Altre otto aule, più la grande aula di disegno, la palestra, i gabinetti di chimica e scienze naturali e la biblioteca, che serviva anche da sala di riunione degli insegnanti, erano distribuite tra i due corpi dell'edificio in mezzo ai quali si inseriva il grande cortile. La lunga veranda del primo piano, larga come non se n erano mai viste, rinfrescava le aule. Non c'erano gradini se non quelli tra le colonne che la sostenevano. Erano tre o quattro al massimo i gradini, saliti i quali si attraversava un arco e si raggiungeva la larga scala per il piano superiore. Arrivò in cima e fece un salto in cortile. Tornò a salire e fece un altro salto. Marta, col grembiule pieghettato, il fazzoletto rosa legato sulla testa con un nodino, era seduta in un angolo. Maira da Luz non la vedeva da dietro le colonne. - Avete già incominciato. Avete già incominciato. Mettiti calma, su! Non si sorprese e finse di non aver udito. Il cugino, di terzo anno, era solito raccontare a casa episodi che riguardavano Marta. Marta è cattiva, pensò. Portava le ragazzine in presidenza tenendole per un braccio, dava loro gomitate e non le lasciava giocare alla settimana. Cattiva! Nell'aria salì lo strepito dei ragazzi che accoglievano i novellini. Applausi alle ragazze, scappellotti ai ragazzi. E lo strepito riempiva il cortile, si smorzava al suolo, si sfaceva nell'aria sino alla finestra a cui era appesa la campanella. Il signor Ludjero si affacciò alla finestra dal parapetto di ferro battuto, sembrava un balconcino, afferrò la corda e suonò il primo
rintocco dell'entrata. Erano tre rintocchi, a cui ne seguivano altri cinque nel giro di qualche minuto. I ragazzini invasero il cortile correndo e il gruppo dietro di loro, a dare scappellotti. - Fuori di qui burino. Manel Manos Suini, un giovanottone di S. Nicolau, di ultimo anno, rimproverò il ragazzaccio. - Puoi dare scappellotti, calci, ceffoni, quello che vuoi. Meno che insultare. Il ragazzaccio si mise a ridere. E la combriccola lo assecondò. Avevano formato un gruppetto. - Manos Suini è fissato. Non fa amicizia. Quando è venuto da S. Nicolau era un burino anche lui. Adesso ci scimmiotta. Manel Manos Suini infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, irrigidì il collo. La camicia buona gli si tese sul petto sotto la giacca di tussor panna. I ragazzi se ne andarono. Sor Ludjero suonò cinque rintocchi cadenzati. Non passò loro neppure per la testa di fare una qualsiasi replica a Manel Manos Suini. Ne avevano paura. Lì no. Erano già stati in casa della sora Bia, dove alloggiava, e conoscevano la soffitta dove lui e altri cinque avevano due stanze con tre letti in ogni stanza. L'ingresso della soffitta era un vano dove c'era un sofà malandato, un cassettone con cose vecchie e un sacco di sabbia appeso a una trave. Avevano assistito a un pomeriggio di allenamento di box, il sacco che oscillava in qua e in là, e nelle loro teste era rimasta fissa una cosa. Con Manel Manos Suini meglio averci a che fare solo di lontano. Una piccola dimostrazione l'aveva data sulla testa di uno di loro. - Sentitemi bene, se uno di voi non sta al suo posto, io faccio così. Aveva messo il pugno chiuso sulla zazzera del Julinho di Boavista, cugino del Jorge Filantropo e l'aveva costretto ad accovacciarsi. - E adesso, fuori, se no vi prendo a ceffoni! Julinho neppure aprì bocca. Sopra i suoi occhi sbarrati vedeva soltanto la manona pesante del Manel Manos Suini che schiacciava tabacco sulla sua testa. Marta si avvicinò a Maira da Luz e le mise una mano sulla spalla. - Tu lì, tieni la bocca chiusa e va in classe. Sei della sezione A o della B? Maira da Luz strinse i quaderni. Un altro giorno, più familiarizzata con l'ambiente, volle far figura con le nuove amiche. Scelse un vestito di crepe-georgette rosso. Gliel aveva regalato la madrina nelle vacanze trascorse a Praia. Una sarta portoghese di via del Corvo gliel aveva confezionato con molti bottoncini sul corpetto con graziose pieghe da un lato. Dandosi un po' di arie si mise a sedere sotto l'acacia. Marta la vide e si avvicinò. - Sei molto scicchettosa. - E fingendo di esaminare il tessuto del vestito le diede un pizzicotto. - Bestia! - gridò Maira da Luz. - Attenzione! Attenzione! - l'avvertì Marta - qui dentro niente insulti. Non passare il segno, se no ti porto in presidenza. Maira da Luz tirò fuori la lingua e cambiò posto voltandole le spalle. Il vestito non aveva raggiunto l'effetto desiderato e, un po' disillusa, entrò in aula per la sua prima lezione di francese. Nell'intervallo la Cesarina, sua compagna di banco, cominciò a chiacchierare di vestiti. Rimase di malumore. - Mamma mi ha fatto fare sette vestiti -diceva Cesarina. Tutti di cotone. Uno per ogni giorno. Mamma ha detto che per il liceo dobbiamo usare solo vestiti di cotone. Andò a chiacchierare con altre compagne. La Cesarina non le piaceva. l'aveva conosciuta il primo giorno di scuola, trovandosela di fianco come
compagna di banco. Comprò un croccante di arachidi dalla sora Djodja, l'altra bidella del liceo. Finito di mangiare si unì al gruppo che giocava alla settimana. Al dottor Duarte non piaceva dare voti alti. Preferiva i numeri dal sei in giù. Le lezioni aride e monotone facevano sbadigliare la classe. Quel giorno lei ebbe fortuna. Il dottor Duarte spiegò, spiegò per un sacco di tempo e la classe fu colta di sorpresa da una domanda. Tutti abbassarono la testa. Luciano rimase così, guardando di lato. Era il capo-classe godeva di una certa impunità. Ma non moriva di amore per le lezioni di scienze. Non ebbe fortuna perché il professore lo interpellò. - Allora, Luciano? La voce forte del dottor Duarte li spaventò. Maira da Luz si alzò timorosa ed esitò: - Soluto di glucosio. La classe si girò verso il banco in cui stava seduta. Di fianco, la Cesarina che si grattava la testa con una matita. Gli occhiali del dottor Duarte scintillarono alcuni istanti controluce. All'uscita, due ragazzine di Santo Antão le chiesero di scambiare libri con loro. - Di giovedì - suggerì Maira da Luz. Cominciò a godere di una certa popolarità. Era stata la prima ad affrontare il dottor Duarte con una risposta corretta. Ciò aveva la sua importanza perché la fama di severità e sadismo del dottor Duarte era radicata in tutto il liceo. Quell'invidiosa della Cesarina le rese la vita difficile nella seconda parte dell'anno. Scoprì lo scambio di libri con le compagne di Santo Antão e cercò di ricattare. - Voi lì parlate di morosi. Vado a dirlo a tua mamma. Questo discorso intrigò Maira da Luz. E le vennero in testa pensieri conflittuali. Poteva trovarsi un moroso. Doveva essere una bella cosa. Non sapeva come procedere, ma si sarebbe trovata un moroso. Passavano i giorni. Se la vita è fatta di gioie e di contrarietà, le gioie svaniscono, ma i dispiaceri, benché dimenticati, lasciano talvolta segni, cicatrici. Il primo turbamento, non proprio un dispiacere, fu passeggero. Ma la segnò. Fu quando un mattino arrivò al liceo e non potè entrare. Picchiò una, due volte. Niente. Andò a cercare una pietra e se ne servì come di un battente. Qualcuno si affacciò alla veranda della sala dei professori. - Che maniera di bussare è questa? Allungò il collo, gettò indietro la testa. E chi vide? Quello sfacciato del bidello, il Sebastião, sulla veranda dei professori. - Il tuo posto è qui giù. Sulla porta. Lo dirò al signor Ludjero che stai nella sala dei professori. Vedrai. Aveva sempre la risposta sulla punta della lingua. Sebastião non le rispose. Rientrò chiuse la porta a vetri. Arrivarono altri studenti. Si avvicinò e si trovò circondata dai compagni, ragazzi. Di Praia e soprattutto di S.Vicente. Questi erano in maggioranza. Di lì in avanti cominciò a scegliersi i suoi amici migliori, tutti dell'altro sesso. Il liceo era stato chiuso, seppe allora, per ordine degli uffici centrali della metropoli. Maira da Luz si stupì. Ascoltò i discorsi dei ragazzi, i commenti. C'era stata una denuncia di qualcuno parecchio ambiguo e non capì. Tornò a casa, tranquilla, i libri sotto il braccio. Di notte, quando si mise a letto, vide tutto più chiaro. Ebbe i brividi perché la sua vita si sarebbe fermata. Sarebbe ridiventata una ragazza comune, una ragazza qualunque, senza istruzione. I genitori non avevano
le possibilità di mandarla alla metropoli a continuare gli studi. Ma neppure una lacrima le spuntò dagli occhi. Non era portata al pianto. Superato infine questo contrattempo, perché il liceo riaprì una settimana dopo con un nuovo nome, viveva preoccupata, con una specie di terrore che arrivassero a chiudere il liceo un'altra volta. Era stata una punizione per il dottor Duarte perché, in un giorno di commemorazione di date, aveva affermato: la moglie di Don João I, l'altera Dona Filipa, aveva educato i figli, uomini di una generazione illustre, da autentica inglese qual era. Aveva tessuto elogi sull'educazione inglese e sul popolo inglese. La veemenza delle affermazioni, il calore delle parole, l'ammirazione per lo sport nella vecchia Albione: il tennis, il calcio, il criquet, il golf. - Io pratico il golf, il più sano degli sport! Allontanato dall'insegnamento e dall'ospedale dove faceva ambulatorio, questo avvertimento serviva per tutti. Non era il caso di fare i furbi. Al centro dell'intrigo stava un mondrongo anch'egli professore al liceo. Più tardi Maira da Luz sarebbe giunta a una conclusione: questi era stato,a Capo Verde, il primo delatore politico della polizia coloniale in borghese. Le dispiacque di aver perduto il professore di scienze. Si era abituata ai suoi modi bruschi, alle sue lezioni poco accattivanti. In maggio accadde la cosa più bella della sua vita. Una gita scolastica a Ribeira da Vinha. Non aveva mai fatto una gita così. Partirono presto, a piedi, fino all'orto del signor Raimundo. Si erano sparpagliati dappertutto, cercando l'ombra sotto gli arbusti. Nel pomeriggio si erano riuniti per scherzi e giochi. Il mondrongo delatore aveva ordinato una sporta di panini al panificio della chã do Cemiterio e su un grande tavolo, lì in casa del signor Raimundo e aiutato da due delle alunne più anziane, stava imburrando i panini e li distribuiva via via. Maira da Luz lo vedeva da dove si era appollaiata, appoggiato al tavolo, mentre spalmava il pane, silenzioso, solitario. Gli altri professori, sotto un albero mal cresciuto ma con un'ampia chioma, su sgabelli e sedie, si erano sparpagliati a caso. Maira da Luz si avvicinò perché le piaceva ascoltare i discorsi dei grandi. Stette lì a giocare con una corda, a saltare, a incrociare le braccia, a gettare i piedi in avanti, indietro, come aveva imparato nelle lezioni di ginnastica. Stanca, sedette su una pietra a mangiare il resto del panino lasciato sul muricciolo. Alla fine era riuscita a capire una cosa: i professori parlavano col delatore solo lo stretto necessario. Per questo lui si era rifugiato a distribuire panini agli alunni. Quando arrivò a casa, distrutta, i piedi doloranti, cenò appena, si chinò sul tavolo dove si addormentò profondamente. Il giorno dopo la madre la interrogò sulla gita, se le era piaciuta. Ebbe difficoltà a rispondere. Non era abituata a dialogare con la madre, le pareva strano, era una sorpresa. Infine si aprì: - Sai, mamma quei ragazzini hanno rovinato tutte le aiuole dell'orto. Strappavano certe piantine di cavolo giovani giovani, andavano in giro correndo e pestando tutto. Molte cose le stavano accadendo, per lei tutte novità. Una mattina, con altri quattro, andò alla Ribeira de Julião a cacciare farfalle per la scatola degli insetti. Si divertirono a correre con una rete cacciafarfalle tra le mani alzate. Sfuggivano, ma il gruppo non rinunciava. Non ne prese nessuna, tuttavia tornò a casa felice. Scoprì sorpresa: le piaceva la vita all'aria aperta, al sole, al caldo.
Fu per questo e forse per altre ragioni, che dopo aver imparato a nuotare nella Ribeira do Paul dove era stata a trascorrere le vacanze, approfittava di tutte le occasioni per andare a nuotare nello step. Sola, in compagnia, comunque fosse. Stava finendo l'anno barcamenandosi. Il liceo non le pareva più così bello. Le poche novità, quando cominciavano ad arrivare i ragazzi della Guinea per gli esami di fine anno, portavano una certa animazione nella città quieta. Da Praia venivano pure alcune ragazze. Era bello. Il liceo, tuttavia, dopo che aveva cambiato nome, non le era parso mai più lo stesso. Prima era il liceo Centrale Infante Don Henrique. Provava un segreto piacere a incollare etichette con un così bel nome su tutti i suoi quaderni. Anche perché Henrique era uno degli uomini della generazione illustre. Liceo Gil Eanes. Chi era Gil Eanes, infine? Chi lo sa! In quarta classe Dona Amélia parlava loro solo di Afonso Henriques, Don João II e poco più. Insegnava solo quello che la commissione di esame avrebbe chiesto. Dona Amélia era una strega, indovinava. La casa a poco a poco si svuotò. Il fratello viveva a Coimbra dov'era andato a continuare gli studi. Lo zio Edoardo era emigrato e il padre era morto una sera di vecchiaia. Aveva ottantadue anni e la madre appena quaranta, una ragazzina. L'anno seguente non potè iscriversi. La madre non aveva pensione per sopravvivere, niente. Soffrivano quasi la fame in casa. Mangiavano gallette con acqua e caffè ribollito la mattina, schiacciavano il mais per la polenta a mezzogiorno e tornavano a mangiare una galletta quando annottava. Nella parte alta del mercato, nella bottega del signor Abílio, andavano accumulando debiti in attesa di ricevere qualche soldo dallo zio Edoardo. Camminava scalza in casa per non consumare le suole delle scarpe. La madre era amareggiata. A Coimbra il figlio si dava ai bagordi e, come se non bastasse, si era messo a bere. Per giunta, aveva ricevuto una lettera in cui le dava una notizia assurda: pensava di sposarsi. Non disse nulla a Maira da Luz. Stava uscendo di casa e s'imbattè nella Cesarina. Anche fuori dalla scuola continuava a non piacerle. Da una discussione interrotta durante la lezione di portoghese, il loro rapporto era peggiorato. Uscendo di classe la Cesarina l'aveva punzecchiata. Tua madre ti ha messo nome Maira, credeva che saresti diventata una star! Maira è un nome da star, non lo sapevi? Povera star! Sei una stella cadente. Vipera. Non le parlò mai più. Contrariata dall'incontro, Maira restò sulla porta. Cesarina era eccitata. Tutta gale, i capelli unti con l'olio di ricino, l'mollette ben fermate dietro le orecchie. - Ehi, Maira, buongiorno! - Maira non le rispose. - Oggi comincio a lavorare in Comune. Zio Chico mi ha trovato un posto nel suo ufficio. Scriverò a macchina. - Il riso di Cesarina la sfidava. Maira rimase lì a guardare in direzione delle case lungo la via. Cesarina continuò per la sua strada senza voltarsi, dimenandosi, facendo ondeggiare la gonna in qua e in là. Ferma sulla porta, guardandola allontanarsi, Maira da Luz prese la prima decisione della sua vita. Cesarina in fondo le aveva dato un lume. Si occupò di tutto in segreto. Preparò i documenti, parlò con l'uno, con l'altro. Procurò un padrino che l'aiutasse. Dovette farsi rilasciare certa documentazione anche dal liceo, certificato di buona condotta e tutto il resto, secondo quanto le avevano richiesto. Chiese denaro in prestito a una venditrice del mercato. Questa aveva le sue preoccupazioni
perché aiutava molto i nipoti. Fu un contratto tra le due. Le avrebbe pagato un tanto al mese appena avesse trovato lavoro. Quando arrivò a casa trovò una lettera. Una raccomandata venuta da Praia. La madre era già stata alla posta, l'aveva ritirata e aveva letto la lettera. Chi poteva aver scritto una raccomandata a sua figlia!? Agitando il foglio in aria, l'espressione aperta, la madre la strinse contro di sé. - Maira, figlia mia, hai un lavoro. Vai a insegnare a Tarrafal di Monte Trigo. Piangeva. Maira da Luz si lasciò abbracciare. Senza nessuna gioia. Non le era mai passato per la testa di dover lasciare Mindelo, la sua amata Mindelo. E, per di più, per fare l'insegnante. Che ne aveva fatto dei suoi sogni di bambina? Chi, infine, le aveva tracciato il destino? Un'ombra sottile e sgraziata si distese sul selciato. Crebbe e si allungò. Poi, una figura si sovrappose all'ombra, mentre la chiazza si avvicinava alla casa. Maira riconobbe i passi pesanti della Cesarina, sgraziata nel camminare, amica di malefatte. Spiò attraverso le persiane e, ritrattasi per la paura nel nucleo dell'io, non riuscì a sollevare gli occhi dagli infradito di pelle fine dell'intrusa, appostata sulla porta semiaperta. Entrò senza bussare. La sorpresa più grande fu per Maira di scoprire certi piedi enormi che quasi la schiacciavano e una voce che si abbatteva su di lei, la voce della Cesarina. Era entrata e urlava rivolta alla madre della vecchia compagna di banco. - Buon giorno Dona Eufemia. Non c'è la Maira? - Ma sono qui. Non mi vedi Cesarina? Non udì la propria voce. Neppure di grillo, neppure di formica era. Con suono che in nessun luogo si sarebbe potuto udire, gridò ancora: sono qui, Cesarina! Sono io! Si curvò la Cesarina matta sulla macchia marrone che si spostava nell'angolo della finestra. Si trascinava la macchia lasciando una bava negli interstizi tra le tavole del pavimento. - Dona Eufemia, ha visto, ha visto lì? Guardi quel coso, quell'insetto schifoso. Puntò il dito teso. Sembra una cimice dei campi, no? La donna, pelle e ossa, tesa per l'emozione, strinse gli occhi e anch'essa si chinò! - Non riesce a vederla, Dona Eufemia? Sembra di quelle cimici puzzolenti. - Disse e storse la bocca in una smorfia. E la macchia si trascinava. - Ebbene io, Dona Eufemia - scosse la testa e il nastro verde tremò. Ma solo il nastro perché i capelli erano ispidi e fitti. - Ebbene, io con gli insetti faccio così. Sollevò il piede e schiacciò la macchia marrone. Uno schiocco si alzò nell'aria. Dona Eufemia spalancò gli occhi, si lasciò sfuggire un suono roco e breve e stramazzò sul pavimento di tavole sfregate e lavate con foglie di ricino. E così sigillarono la casa perché Dona Eufemia impazzì e Maira da Luz era sparita senza lasciare traccia.
NOTE (1) zoppo. (2) Sora Chica Maçaroca verrà e se ne andrà, verrà e se ne andrà. (3) Sistema in uso una volta per permettere agli automezzi di percorrere strade molto ripide.
(4) Sono andato a Salamansa/ ah, che bello.../ mi sono rotolato nella sabbia/ ah, che bello/ avvinghiati a me, ragazza/ perché possa giocare con te... (5) Chi ha una figlia a sbucciar melarance? (6) Pescecane.
NOMI E COSE DI CAPO VERDE ALTO DE CELERINE, DO PELORINHO: quartieri di Mindelo, capoluogo dell'isola di São Vincente. ARAÇAS: frutto tropicale. "AS FARPAS : opera in 15 volumi di Ramalho Ortigão, in cui l'autore attacca la società portoghese di fine ottocento. BARLAVENTO: posizione delle isole dell'arcipelago situate a nord. BELGATA: pianta tropicale. CANELINHA: osso della gamba in forma di fantasma: un piccolo fantasma che, di notte, salta e balla. CATCHUPA: il piatto nazionale capoverdiano a base di mais, arricchito, secondo le possibilità, con fagioli, altri legumi, carne, verdure. CATUMBEMBÊ: insetto che vive nella terra farinosa delle zone aride. Scava piccole buche in fondo alle quali si nasconde. COLADERA: danza capoverdiana. "CULTIVAR : associazione studentesca di opposizione alla dittatura, che diede vita a una rivista sospesa dalla censura al terzo numero. CURCAS: la pianta africana jatropha curcas, dai cui semi si ricava un olio usato sia come antidolorifico che per alimentare le lampade. Per l'illuminazione, la popolazione povera di Capo Verde usa anche semplicemente i semi infilati in una punta di ferro. Semi e olio di curcas vengono pure usati nei rituali magici. FEDAGOSA: erba tropicale velenosa che nei periodi di carestia, non trovando altro, la gente utilizzava, finendo per morire avvelenata. FILIPA: inglese, moglie del re di Portogallo João I, è la madre di Enrico il Navigatore, vissuto tra il 1394 e il 1460. FONGOS: palline di farina di mais impastate con acqua, cotte su brace di legna. INFANTE Don ENRIQUE: Enrico il Navigatore. MAÇONCO: massone in creolo. MONDRONGO (plurale mondrongos): così venivano chiamati i portoghesi all'epoca della colonizzazione. Sembra che il significato sia "porco bianco". MORADA: il centro storico di Mindelo, capoluogo dell'isola di S.Vincente. PIDE: la polizia politica negli anni della dittatura in Portogallo e, per analogia, ogni poliziotto che ne faceva parte. Piducas, pidocas, ecc. sono deformazioni popolari dello stesso termine. PULCI-AI-PIEDI: in gergo vengono chiamati pulci certi piccolissimi insetti presenti nel terreno delle zone tropicali, che si infilano sotto le unghie e la pelle dei piedi e sono molto difficili da eliminare. Naturalmente, ne è più facilmente affetto chi cammina scalzo. SONCENTE: il nome dell'isola di São Vincente in creolo. La lingua comunemente parlata a Capo Verde è un creolo -con differenze tra isola e isola - formatosi dalla mescolanza del portoghese con le diverse lingue africane degli schiavi deportati nell'arcipelago. TARRAFAL: antica fortezza che il governo portoghese, durante gli anni della dittatura, aveva adibito a carcere per i detenuti politici.
DELLASTESSACOLLANA: Camara Laye "Un bambino nero" - Guinea Álvaro B. Marques "La nave arenata" - Mozambico Lya Luft "L'ala sinistra dell'angelo" - Brasile Javier Gurriaràn "Con l'aiuto del vento" - Guatemala Tierno Monénembo "Le radici della pietra" - Guinea Edilberto Coutinho "Maracanã addio" - Brasile L. Dadina, M. N'Diaye "Griot Fulêr" - Senegal Mariella Mehr "Steinzeit" - Svizzera Azouz Begag "L isola di Siloo" Algeria Wanda Ramos "Percorsi" - Angola